Eretici italiani del Cinquecento 9788806162955, 8806162950

Delio Cantimori ha tracciato in questo libro una sorta di mappa degli eretici italiani del Cinquecento, ponendo l'a

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Eretici italiani del Cinquecento
 9788806162955, 8806162950

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Eretici italiani del Cinquecento di Delio Cantimori

Storia d’Italia Einaudi

Edizione di riferimento: Eretici italiani del Cinquecento in Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di Adriano Prosperi, Einaudi Editore, Torino 1992

Storia d’Italia Einaudi

II

Sommario Avvertenza

1

Prefazione all’edizione di Basilea (1949)

3

Prefazione all’edizione di Basilea. Redazione inedita Capitolo primo

9 14

Capitolosecondo

27

Capitolo terzo

39

Capitolo quarto

48

Capitolo quinto

55

Capitolo sesto

65

Capitolo settimo

84

Capitolo ottavo

95

Capitolo nono

115

Capitolo decimo

140

Capitolo undicesimo

147

Capitolo dodicesimo

168

Capitolo tredicesimo

185

Capitolo quattordicesimo

196

Capitolo quindicesimo

223

Capitolo sedicesimo

238

Capitolo diciassettesimo

259

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III

Capitolo diciottesimo

277

Capitolo diciannovesimo

302

Capitolo ventesimo

334

Capitolo ventunesimo

343

Capitolo ventiduesimo

366

Capitolo ventritreesimo

386

Capitolo ventiquattresimo

406

Capitolo venticinquesimo

419

Capitolo ventiseiesimo

453

Capitolo ventisettesimo

470

Capitolo ventottesimo

487

Capitolo ventinovesimo

500

Capitolo trentesimo

525

Capitolo trentunesimo

543

Capitolo trentaduesimo

564

Capitolo trentatreesimo

594

Capitolo trentaquattresimo

603

Capitolo trentacinquesimo

613

Capitolo trentaseiesimo

623

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IV

AVVERTENZA

Nel compiere queste ricerche che ora, pur consapevole della loro incompletezza, presento agli studiosi del nostro Cinquecento, sono partito da alcune pagine di due libri, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento di G. Gentile, e Movimenti religiosi e sètte ereticali nella società medievale italiana di G. Volpe; e ho tentato di ripropormi e di risolvere i problemi di storia della coscienza italiana ivi proposti o accennati. Ma in queste ricerche è continua, seppure non sempre esplicita, la discussione con altri libri, apparsi durante il corso di esse; con la Storia dell’Età Barocca e con il Caracciolo di B. Croce, con lo Stancaro e gli altri studi del Ruffini, coi Riformatori italiani del Church, con tutti gli studi dell’amico Casadei, che qui ringrazio anche per le comunicazioni di documenti e le indicazioni, e con il libro di F. Chabod, – che devo anche ringraziare per l’attenzione con la quale ha voluto seguire il mio lavoro –, sulla Storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Questo volume s’appoggia alla documentazione da me raccolta e pubblicata nella prima parte di Per la storia degli eretici italiani nel secolo XVI in Europa, nella collezione di «Studi e Documenti», della R. Accademia d’Italia (1937) sotto gli auspici di G. Volpe ed è anche una giustificazione di quella raccolta. Ringrazio qui di nuovo archivisti e bibliotecari delle varie città dove ho cercato quei testi e quei documenti e quelli che adopero qui; in ispecie il Dott. Forrer della Biblioteca Centrale di Zurigo e il Prof. Binz già direttore della Biblioteca Universitaria di Basilea; ringrazio anche di nuovo il Prof. St. Kot di Cracovia, studioso del movimento ereticale polacco che tanti rapporti ha con quello italiano. Indicazioni utilissime ho avuto dal Prof. Bainton della Yale University di

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New Haven, i cui studi su questi movimenti sono ben noti. Per l’inizio di queste ricerche, il Prof. E. Stähelin dell’Università di Basilea mi è stato guida generosa, che dopo tanto tempo mi è caro ringraziare. Ringrazio infine l’editore, la cui amichevole generosità ha permesso la pubblicazione del lavoro. Non insisto sui criteri del lavoro; credo solo opportuno ricordare che qui ho ripreso i miei studi precedenti sull’argomento, e spiegare il termine di eretici che uso nell’accezione di ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiastica, in quell’Europa del Cinquecento, che vide le eresie luterana, zwingliana e calvinista. Questa limitazione mi sembra corrispondere insieme alla realtà di quel gruppo di italiani che ho studiato, ribelli ad ogni chiesa ed iniziatori di un movimento che i capi protestanti hanno sempre considerato come dissolutore della loro opera, e ben distinto dalle «sètte» come dalle «chiese» protestanti studiate dal Troeltsch; e alla necessità di limitare la ricerca, distaccando, nel movimento italiano di riforma protestante, gli elementi piú originali mantenutisi indipendenti e tipicamente italiani anche in terra straniera, mentre tanti uomini, anche personalità spiccate, finivano coll’entrare e col fondersi nella storia del luteranesimo e del calvinismo. D.C. Roma, maggio 1939-XVII.

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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DI BASILEA (1949)

Queste ricerche di storia intellettuale del Cinquecento italiano ed europeo sono partite dal tentativo di risolvere e di riproporre i problemi di storia della coscienza degli italiani proposti e accennati nei libri Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, di G. Gentile, e Movimenti religiosi e sètte ereticali nella società medievale italiana, di G. Volpe. Il problema sorgeva nella mente di un giovane educato in ambiente di gente di scuola di tradizione e cultura mazziniana e repubblicana, cioè avversa al regime monarchico e alla tradizione cattolica, ambiente mosso però dal fermento del crocianesimo e soprattutto dell’idealismo gentiliano, allora al suo primo slancio di diffusione nelle scuole italiane. L’interpretazione sostanzialmente tradizionalistica che quegli scritti davano della storia del pensiero degli italiani riguardo ai problemi religiosi non riusciva soddisfacente; troppo lontana appariva anche dalla interpretazione del De Sanctis. Quando poi quel dubbio volle concretarsi e divenne ricerca, si trattò prima di storia delle idee e delle dottrine, e poi, per la necessità di procurarsi una informazione esatta e il piú possibile completa e definita sugli uomini che portavano quelle idee, la ricerca divenne, per archivi e biblioteche, ricerca della storia di gruppi di intellettuali italiani, umanisti di formazione, costretti ad abbandonare la patria e a continuare lontano da essa, in gran parte nella Svizzera ospitale, la loro opera. Attraverso questo lavoro, compiuto lentamente, anche durante una frequenza di due semestri presso l’Alma Mater Basiliensis, continuò la discussione interna con altre opere, apparse durante il suo corso: la Storia dell’Età Barocca e il Caracciolo di B. Croce, lo Stancaro e gli altri studi di F. Ruffini,

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i Riformatori italiani del Church, i vari studi di A. Casadei – ora purtroppo tolto agli studi e agli amici – e infine con il libro di F. Chabod sulla Storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V: discussione che verteva non solo sulla ricerca stessa, cioè sulla direzione nella quale occorresse cercare di portar luce, ma anche sul problema della «riforma religiosa» italiana, che, dal punto di vista di uno studioso di problemi storici, si puntualizzava nella storia dei tentativi italiani contemporanei al grande movimento della Riforma di Lutero, di Zwingli e di Calvino. Non è ora piccola soddisfazione per l’autore potere osservare quale importanza presentasse quel problema generale per Antonio Gramsci, come risulta dai suoi scritti di recente pubblicati (La questione meridionale; Lettere dal carcere; Il risorgimento). Un primo risultato di quelle ricerche fu una raccolta di testi e documenti pubblicati nella prima parte della raccolta Per la storia degli eretici italiani nel secolo XVI in Europa, pubblicata da E. Feist (ora E. Hirsch) e da me nel 1937 nella collezione di «Studi e Documenti» dell’Accademia d’Italia con l’aiuto e l’incoraggiamento di G. Volpe. Su quella documentazione, come su ricerche ulteriori a Dresda e a Zurigo si fondano in gran parte queste ricerche, che furono pubblicate nell’estate del 1939. Rileggendo ora il mio lavoro, ho dovuto constatare che nella esposizione vi è spesso una incongruenza; spesso la doppia preoccupazione dello storico delle idee e dello storico di un gruppo o di piú gruppi di uomini, o se si vuole, storico-filosofica e storico-sociale, ha portato a seguire due piani differenti nella esposizione e nella trattazione di quella storia; spesso la tentazione di lasciare i rapporti fra gli uomini e i gruppi di uomini, cosí difficili, per quelli, cosí facili, fra idee e dottrine, era troppo for-

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te! donde una certa alterna prevalenza di trattazione di storia teologica e di narrazione. Ho cercato di correggere e rivedere qualche svista nel testo, e ho aggiunto nelle note non solo completamenti bibliografici, ma anche varî particolari e varie notizie, che avrebbero potuto essere ancora aumentate se non ci fossero stati riguardi di spazio. Le prime ricerche scientifiche per questo lavoro sono cominciate a Basilea, le ultime sono state compiute a Zurigo nel 1938: e l’esperienza dell’insegnamento teologico ricevuto nell’università di Basilea, e lo studio della storia della riforma zurighese sono, per l’autore, inscindibili dalla sua opera, e con esse, il ricordo di tante e tanto care figure basileesi e zurighesi, fra le quali mi sia permesso ricordare con gratitudine soltanto un nome, quello della mite e cordiale signorina Anna Probst: era un’altra forma di vita religiosa riformata, quella che da lei si apprendeva, e che faceva spicco, per il forestiero, in mezzo alla severità degli amici e seguaci di Karl Barth. Ma oltre che alle persone alte e umili, e forse piú che ad esse, mi sia permesso di dire presentandomi al pubblico svizzero, che la mia gratitudine va proprio al complesso cittadino di Basilea e di Zurigo: alle antiche cattedrali, alle stradicciole della città antica, alle rive del Reno, e del lago, al Carlo Magno e al San Martino, cosí severi, e insieme cosí ospitali. Se lo spazio lo avesse permesso avrei voluto, presentandomi a un pubblico di lingua e cultura tedesca, discutere, rispondendo alle critiche di Gerhard Bitter, dopo tanto tempo, i criteri generali metodologici e storici di questo lavoro che avrebbe anche l’ambizione di accennare a una interpretazione generale del significato piú vasto della Riforma protestante nella storia della società europea. Ma forse sarà piú opportuno limitarsi a richiamare l’attenzione sul termine che nella edizione italiana dà il titolo al lavoro, e ne indica anche i limiti: eretici ita-

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liani del Cinquecento. Si tratta di eretici nel senso di individualisti religiosi su base umanistica, e di «ribelli ad ogni forma di comunione religiosa organizzata, ecclesiastica». Se per la Chiesa cattolica «eretici» erano i luterani, gli zwingliani, i calvinisti; e per questi ultimi a loro volta erano «eretici» i cattolici, gli schwenckfeldtiani, gli anabattisti, e cosí via, quegli umanisti italiani, invece erano «eretici» per tutti: cattolici, luterani, zwingliani, calvinisti, ed erano considerati spesso con sospetto anche dagli altri. Ribelli ad ogni chiesa, sfuggenti ad ogni confessio fidei, iniziatori di un movimento che i capi protestanti hanno sempre considerato come dissolutore della loro opera, che si è svolto al di fuori delle forme delle «sètte» come delle «chiese», ma che spesso ha permeato di sé queste e quelle, erano pur sempre umanisti italiani e improntati di spirito umanistico italiano: si può anzi dire che il Curione, i Sozzini, l’Aconcio, sono fra quelli che in forma piú diretta e immediata sviluppano fuori di patria, nel campo religioso, il contenuto piú originale e pieno di avvenire dell’umanesimo italiano col suo fine di educazione integrale dell’anima umana e di riabilitazione dello spirito umano come creatore della vita e della storia. In Italia il movimento degli umanisti rimasti in patria sarebbe sfociato invece nella Controriforma. So che questo termine di eretici non ha buona eco in lingua tedesca: ma è il termine esatto per quella particolare e piú feconda specie di umanisti e mi sia permesso di chiedere ospitalità per il nome, agli eredi e discendenti degli antichi tolleranti e pazienti ospiti di quegli uomini che tale nome pure ebbero dalle Chiese elvetiche. Il criterio usato per attribuire tale qualificazione ai vari uomini è quello indicato dal Croce: il giudizio delle Chiese o degli uomini dirigenti delle Chiese, cattolica e acattoliche, contemporanee. Ringrazio qui ancora archivisti e bibliotecari delle varie città dove ho cercato quei testi e quei documenti che

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adopero nel lavoro: in ispecie il Dott. Forrer della Biblioteca Centrale di Zurigo, il Prof. Binz, già direttore della Biblioteca Universitaria di Basilea; la direzione e il personale della Biblioteca Apostolica Vaticana, del British Museum, della Biblioteca Jagellonica di Cracovia, della Biblioteca del Trinity College di Dublino, della Biblioteca civica di Berna, della Biblioteca di Ste Geneviève di Parigi, delle Biblioteche Nazionali centrali di Roma e Firenze, della Alessandrina, della Casanatense e della Angelica di Roma. Ringrazio di nuovo il Prof. Stanislao Kot di Cracovia, l’amico prof. Roland H. Bainton della Yale University, il prof. Ernst Stähelin di Basilea che mi guidò agli inizi delle ricerche di storia della riforma svizzera1 . Ora debbo aggiungere il mio ringraziamento ad Augusto Campana e a Giorgio Spini, per tante e tante preziose indicazioni di ogni genere il primo, per le annotazioni nuove che in questa edizione sono aggiunte sul movimento nicodemitico il secondo. Un ringraziamento specialissimo debbo al Dr. Luchsinger il quale ha dedicato una competenza e una attenzione scrupolosa alla traduzione e alla revisione dell’apparato di note e citazioni; – ma quel che debbo all’amico Werner Kaegi non ha parole per essere detto bene e completamente. A lui debbo di avere questo onore di presentare il mio lavoro a un pubblico la cui severità di giudizio mi ispira rispetto, – ma che è pure quello che può meglio giudicare, volendo essere questo lavoro non solo ricerca di storia italiana ma di storia svizzera, e anche di storia del cosmopolitismo culturale europeo del Cinquecento; e poiché si lavora per comunicare qualcosa, a quanti piú uomini 1 Nella redazione manoscritta e nella copia dattiloscritta seguiva a questo punto una frase poi depennata: «Da alcune di queste persone la morte ci ha separato, da altre le vicende della lotta politica europea; ad altre, le stesse vicende ci hanno piuttosto ravvicinato» [N. d. C.].

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è possibile (che abbiano interesse a questa comunicazione), è agevole intendere, senza usare parole imbarazzanti, quanto profondamente si sia grati ad un amico che ci apre i polmoni a nuovo respiro e ci allarga l’orizzonte, togliendoci dal nostro chiuso. E con tale delicatezza, e finezza, ed elegante riserbo, da vero umanista2 . D.C. Roma, febbraio 1949

2 Nella traduzione tedesca, quest’ultima frase è stata omessa [N. d. C.].

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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DI BASILEA. REDAZIONE INEDITA

Queste ricerche sono nate dai problemi giovanili di uno studente liceale, maturato in una città di provincia, in ambiente di gente di scuola, dalle tradizioni mazziniane e repubblicane (cioè di opposizione), mosso però dai fermenti idealistici del crocianesimo e soprattutto dell’idealismo gentiliano nel suo primo slancio di diffusione nelle scuole italiane. Tutti allora parlavano di riforma e di rinnovamento in Italia: nei piú vari sensi e secondo le piú varie tendenze politiche e sociali. La lettura di Mazzini, del De Sanctis, dei Discorsi di religione del Gentile, e poi, durante gli entusiasmi giovanili per il Rinascimento burckhardtiano, degli scritti di Gentile su Giordano Bruno e infine di quelli di G. Volpe si concretarono in una serie di problemi che presero una prima forma dalla suggestione del Burckhardt (caso del Boscoli). La contemporanea esperienza filosofica neoidealistica, fece formulare il problema dapprima come problema di storia del pensiero filosofico: nel quadro delle discussioni dei rapporti fra Rinascimento e Riforma e di una tendenza a risolvere i problemi filosofici nella storia della civiltà, e di una accentuazione del carattere immanentistico del pensiero neoidealistico sotto l’influenza di G. Saitta, e poiché la ricerca della partecipazione italiana al grande movimento europeo di riforma e di rinnovamento (non soddisfatto dal primato rinascimentale italiano, benché animato allora ancora da un certo sentimento nazionalistico) non trovava risposta soddisfacente per chi non si accontentava di una storia intellettuale di genî, ma ne cercava istintivamente una di uomini, – la ricerca fu dapprima impostata come molti giovani in quel periodo volevano impostare il loro lavoro: a) partecipazione

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italiana, in posizione di primato a un grande movimento europeo; b) ricerca di precursori italiani del «pensiero moderno» e quindi lavoro tenuto sul piano esclusivo della storia del pensiero filosofico («origini italiane» del razionalismo, del problema metodologico nella filosofia, della idea della tolleranza e della libertà religiosa). Ma a un certo punto della ricerca sorgeva un problema di erudizione, di filologia nel senso lato, vichiano, della parola: rapporti fra idee ed idee se ne potevano stabilire tanti, e cosí facilmente, che alla fine sorgeva il sospetto della loro arbitrarietà; ma le vite degli uomini, le loro attività intellettuali, i rapporti fra uomini sembravano sempre meno chiari e precisi, e cosí insensibilmente si passò dallo studio dottrinario allo studio erudito3 , pensando però sempre di dare una base concreta a una ricerca d’ordine puramente filosofico o di storia della vita intellettuale filosofico-religiosa. Questa impostazione continuò per qualche tempo, benché durante i viaggi di studio e di ricerca, che ebbero come fuochi ideali e anche di fatto Basilea e Zurigo, centri dell’attività di quegli uomini che sono qui studiati, cominciassero le prime scosse a quella ingenua concezione di primato nazionalistico mentre dall’altra parte si chiariva il significato piú specificatamente nazionale, non nel senso di contenuto patriottico, ma nel senso della tradizione intellettuale e della definizione di un momento storico; e contemporaneamente, attraverso il contatto concreto con il mondo religioso protestante, nella silenziosa frequenza di un seminario e di lezioni di storia della Chiesa tenuto ancora nella vecchia università di Basilea, in aule dove aveva insegnato il Castellione e forse anche il Curione, dal Prof. Stähelin, sulla Institutio 3 Una prima redazione poi corretta, dava questo testo: «dalla ricerca di storia della filosofia si passò allo studio concreto. Le necessità di questo condussero a viaggi in biblioteche e archivi di Europa, che».

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di Calvino, e sul pensiero di Alessandro Vinet, le prime scosse alla ingenua concezione che da lontano ci si era potuta fare della religiosità protestante come religiosità filosofica; e infine, attraverso letture e studi e conversazioni in ambienti culturali aperti e liberi, si cominciasse a chiarire anche in altro senso la coscienza morale e politica, e si cominciasse a capire che la riforma, il rinnovamento morale, politico, sociale non era semplicemente rivoluzione in un cervello o in molti cervelli. Intanto, le ricerche proseguivano per qualche anno, con borse di studio del Ministero della pubblica istruzione italiano e poi, dopo un intervallo, dell’Accademia di Italia. La prima stesura del lavoro manteneva4 la impostazione filosofica, la ricerca di un momento importante dello svolgimento del pensiero italiano che sembrava meritevole di precisazione e di definizioni, accentuando però anche il momento razionalistico, critico, di «opposizione» alla azione della Controriforma in Italia. A questo punto, una discussione, in parte pubblica, in parte epistolare, col Croce, chiarí e portò a consapevolezza il carattere vero delle ricerche che fino allora non era apparso chiaro allo stesso autore; il quale giungeva a pensare alla storia della cultura5 perché sotto le proposizioni teologico-filosofiche era venuto ritrovando un movimento di un gruppo di uomini con una vita larga e vasta e ricca e uno spirito di critica e di attività... ma non andava piú in là. Questa discussione chiarí che si trattava non di storia del pensiero filosofico ma di storia delle dottrine e dei movimenti politici; qualche ricerca ulteriore fu compiuta in questo senso, ma soprattutto il lavoro fu riscritto e ricomposto da questo punto di vista (non senza, purtroppo, che il lettore possa ritrovar qua e là qualche «Con qualche», «con molte modifiche» canc. «Ma non andava piú in là, finché fu chiaro che si trattava» canc. 4

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traccia della primitiva impostazione). Fu un passaggio dalla «filosofia» alla «storia» che coincise con una critica della filosofia e un allontanamento dalla professione di essa e anche con un approfondimento della concezione della storia e della sua funzione e dei suoi elementi, del quale però c’è solo in questo lavoro una traccia generica, in qualche accentuazione del motivo desanctisiano della «opposizione» e nello apprezzamento e sottolineatura di caratteri «anabattistici» come quelli del lavoro manuale, dell’attesa della «Gerusalemme celeste», dell’uguaglianza, della comunità dei beni... Quando un amico svizzero mi propose la traduzione per una casa editrice svizzera di questo lavoro, il primo impulso fu quello di chieder tempo per riscriverlo in maniera piú degna. Ma vinse la riflessione che nessuno è buon giudice di se stesso e delle proprie fatiche. E con queste note, mi presento con una specie di curriculum come quello che si usa6 mettere in calce alle dissertazioni di laurea7 . Cosí il lavoro si è venuto configurando come una ricerca sulla attività e sulle idee di alcuni gruppi di intellettuali italiani8 , attratti dall’ideale di una maggiore serietà morale e religiosa, da ogni punto di vista considerata, venuti per questo ideale in lotta con le autorità dei loro paesi, e rifugiati nei liberi Cantoni, dove quell’ideale era stato realizzato da qualche anno. Spinti al radicalismo dalla preparazione intellettuale critica e filologica, dalla durezza chiusa della reazione opposta nelle loro città al movimento di riforma e di rinnovamento, dalla avversione ad ogni forma di intervento di autorità nella vita religiosa e spirituale, dalla stessa loro elementare conce«Nella vita universitaria» canc. «Del resto, il centro non solo ideale di questo lavoro è la Svizzera, Basilea, Zurigo, Berna. A Basilea e a Zurigo...» canc. 8 «di umanisti italiani» canc. 6

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zione dell’amor del prossimo, della semplice solidarietà e fraternità fra uomo e uomo, che dottrinalmente diventava poi accentuazione della caritas, quegli uomini appariranno irrequieti e pericolosi, si mescoleranno di fatto o dottrinalmente ai movimenti marginali della Riforma, nei quali sembrano riaffiorare vecchi fermenti di movimenti medievali: non saranno ospiti graditi, questi uomini, ai ricostruttori delle comunità cristiane riformate; questo fenomeno, già rilevato da Edgar Quinet, è spiegato dal fatto che la loro posizione critica deriva da discussioni e conclusioni piú valide in Italia che altrove: è una prima determinazione nazionale. Un altro carattere del pensiero di questi gruppi di italiani è quello sforzo di mantenere o rinnovare a ogni costo l’unità della (chiesa) cristiana che si era spezzata – sforzo e tendenza universalistica che non si poteva vedere da un punto di vista di storia delle controversie interconfessionali, ma da un punto di vista di storia degli intellettuali, politicamente, in senso lato, considerata: non si poteva vedere, perché si formulava attraverso il postulato di una riduzione estrema delle definizioni dogmatiche necessarie, di un rifiuto della teoria teologica in nome della pratica cristiana, – postulato allora orrendo per tutte le chiese costituite, e l’orrore non permetterà di vedere in esso il reale carattere universalistico e unitario di quel movimento. È un movimento che dura per due generazioni, poi si disperde in un movimento piú vasto, che avrà un nome d’origine italiana «socinianesimo», ma sostanza europea: polacchi, italiani, tedeschi, spagnoli, olandesi, inglesi, ungheresi, francesi. Ma in quelle due generazioni è la storia di una opposizione, piccola numericamente, ma forte di intelligenze e di passione religiosa, di spiriti di ribellione e di pietas intellettuale, non sorda alle aspirazioni di palingenesi sociale.

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CAPITOLO PRIMO

Umanesimo e problemi religiosi. Valla. Ficino e Pico. G. F. Pico, Adriano Castellesi e la critica all’apologia ficiniana della religione cristiana.

Ai primi del Cinquecento, in Italia, col ritorno umanistico alla letteratura cristiana patristica e a quella che allora si chiamava teologia «positiva»9 , dai motivi piú immediatamente religiosi e pratici, anche i problemi della teologia «scolastica», elaboranti attraverso concetti filosofici il pensiero religioso, cessavano di essere riservati pressocché esclusivamente al clero. Le dottrine della religione e della teologia divenivano problemi di vita prevalentemente intellettuale, tanto attraverso il trasformarsi della compagine del clero in senso laico e attraverso il diffondersi della nuova cultura anche nelle menti piú schiettamente religiose e legate alla tradizione, quanto attraverso la maggior partecipazione dei laici alla vita culturale, anche religiosa, teologica. Dopo il Savonarola, la tendenza dei laici a occuparsi di problemi religiosi assumeva una maggiore energia e un carattere particolare; l’interesse dell’umanesimo per i problemi religiosi non era solo di carattere filosofico generale, ma anche teologico ed etico-politico, volgendosi a problemi che fino a quel momento si solevano riservare al clero, regolare o secolare, a causa delle loro implicazioni pratiche. In questa forma consapevole e polemica il nuovo modo di affrontare i problemi tradizionali si era presenta9 Cfr. Ignazio di Loyola, Exercitia spiritualia, P. VII, Regulae aliquot, IIª (46). (Monumenta Ignatiana, Ser. II, Madrid 1919, pp. 554-55) «Doctrinam sacram plurimi facere, tum eam, quae positiva dici solet, tum quae scholastica...»

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to anzitutto nel Valla10 . Oltre che nelle opere piú note dell’umanista romano, accenni di polemica teologica ispirata a motivi filologici si trovano anche nelle Elegantiae, dove il Valla polemizza spesso anche contro filosofi come Boezio, introducendo nella cultura italiana il gusto della ermeneutica filologica, il desiderio di conoscere precisamente il significato delle parole, per non lasciarsi traviare da splendori di oratoria eloquenza o da pregiudizi, reverenze, tradizioni. Questo interesse per il significato preciso delle parole, dei nomi considerati nella loro storia e nella loro purezza di «latinità», proviene nel Valla dalla considerazione della giurisprudenza e della teologia alla luce delle lettere latine e dell’interesse filologico, il quale cosí si allarga a sua volta sorpassando il momento grammaticale, come mostra il polemizzare del Valla con giuristi e teologi. Il metodo ermeneutico giuridico e teologico, trasportato nel campo della cultura nuova, letteraria e filosofica, tutta compenetrata di preoccupazioni di rinnovamento morale, acquistava valore profondamente rivoluzionario. Poiché la precisione e la chiarezza delle parole e dell’intendimento del loro significato hanno importanza puramente tecnica, di purezza terminologica, quando rimangono limitate a problemi specifici e particolari, ma assumono importanza decisiva e fondamentale quando riguardano problemi universali, di idee. L’esigenza posta dal Valla era quella di portare all’espressione piena e precisa le esigenze morali della nuova società italiana che si sentiva aduggiata da formulazioni e tradizioni culturali ormai vuote di sostanza e ridotte in grande parte a schemi e convenzioni. L’esigenza del parlar chiaro, delle definizioni precise e non astruse, del tener conto del pieno e completo significato delle 10 Cfr. D. Cantimori, Atteggiamenti della vita culturale italiana nel sec. XVI di fronte alla Riforma, in «Rivista Storica Italiana», serie V, vol. I, 1936, pp. 42 sg.

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parole da usarsi non era che un aspetto della volontà di evitare ogni compromesso con la tradizione della quale si facevano scudo gli avversari, del radicalismo necessario ad ogni trasformazione che voglia avere valore universale, ma era anche esigenza del rinnovamento del pensiero attraverso la lingua. Ed è caratteristico come il Valla procedesse non sulla base dell’eloquenza, come erroneamente si suol dire seguendo uno schema tradizionale, ma sulla base del diritto e della teologia: che impegnavano i valori fondamentali della vita, i rapporti fra uomo e uomo e uomo e Dio. Nelle scuole, i metodi della critica razionale, astratta, cosí importanti altra volta, si isterilivano in vuoti formalismi; portando questi metodi nella cultura viva, il Valla fece loro riacquistare la originaria energia e il primitivo significato di istanza critica, e insieme la loro importanza per la vita politica, intesa non nel senso dei rapporti fra potentati, ma di lotta degli uomini per le istituzioni che debbono regolare la loro convivenza. Non è il caso di seguire l’importanza del Valla nella storia della critica filologica strettamente intesa, né in quella della filosofia; come anche basterà accennare alla riforma umanistica delle scuole giuridiche che fa capo appunto al Valla, e ricordare la forza dispiegata dal suo metodo nella polemica anticuriale11 . Nel campo della teologia e delle discussioni religiose questo metodo non ebbe eco immediata; la salda compagine della teologia delle scuole fu appena scalfita dal pericoloso attacco dell’umanista. Ma quando uomini di cultura umanistica volsero il loro interesse di laici, partecipi del moto della riforma religiosa ma sciolti, dopo il distacco dalla tradizione cattoli11 Cfr. D. Cantimori, Anabattismo e neoplatonismo nel XVI secolo in Italia, R. Accademia dei Lincei, Rendiconti della classe di scienze morali storiche e filologiche, serie VI, vol. XII, 1936, p. 559.

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ca, da preoccupazioni di ortodossia, all’esame delle questioni religiose, ricorsero ai criteri ermeneutici del Valla, anzi a motivi specifici della sua critica al linguaggio teologico boeziano12 , con lo stesso animo col quale al Valla si era rivolto Lutero sulla traccia di Ulrico von Hutten13 . E si può dire che gli eretici italiani del Cinquecento fossero condotti sulla strada che li doveva portare cosí lontano non solo dalla tradizione cattolica ma anche dalle esigenze religiose della Riforma, proprio dalla coscienza del valore che pei problemi che li agitavano aveva il nuovo consapevole linguaggio, il nuovo modo di studiare il significato delle parole per raggiungere la verità al di là di ogni altra preoccupazione. Un altro grande passo nel campo dei problemi della teologia e della religione cristiana aveva compiuto la cultura laica dell’umanesimo attraverso il circolo fiorentino del Ficino e del Pico e dei loro amici di tutta Italia. Già all’origine di questo movimento fiorentino si trovano esigenze di rinnovamento religioso assieme ad una costante preoccupazione politica14 ; il Ficino aveva spostate l’interesse religioso dei suoi studi dall’esigenza del rinnova12 L. Valla, Elegantiarum Latini sermonis, lib. VI, cap. XXXIV (Opera, Basilea 1543, p. 215); cf. infra, p. 56, nota 31; p. 230. 13 Cfr. H. Holborn, Ulrich von Hutten, Leipzig 1929, pp. 66 sg. e 121. 14 M. Heitzmann, Études sur l’Académie platonicienne à Florence, in «Bulletin de l’Académie polonaise de Cracovie», 1932, pp. 18 sgg. Quanto lo Heitzmann dice delle ragioni per le quali il Ficino ha abbandonato l’interesse etico-poetico per quello teologico-metafisico vale solo in parte. Certo il fallimento del repubblicanesimo savonaroliano vi ha avuto una parte. Ma dopo lo studio di Platonicus {P. O. Kristeller,} Per la biografia di Marsilio Ficino, in «Civiltà Moderna» X (1938), pp. 287 sgg., la influenza di sant’Antonino sul Ficino va considerata come una leggenda.

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mento e della riforma a quella della costruzione di una nuova apologetica della religione cristiana, e insieme l’interesse filosofico dal terreno morale e politico di un Bruni e di un Palmieri a quello speculativo e contemplativo15 . Ai primi del Cinquecento gli uni e gli altri interessi ritornavano nella forma originaria, colorendosi fortemente di. savonarolismo l’esigenza del rinnovamento religioso e di repubblicanesimo quella del rinnovamento sociale e politico16 . Ma anche negli scritti di Marsilio Ficino e in quelli di Pico della Mirandola si poteva raccogliere piú di un motivo atto a essere svolto nel senso di quella radicale rielaborazione dei principi della vita sociale e dei presupposti speculativi, filosofici come teologici, di essi, che era l’aspirazione degli eretici italiani, e che informa di sé tutte le loro dottrine. Non si tratta soltanto del fatto che Marsilio Ficino accanto alle meditazioni e costruzioni filosofico-religiose accentrate sull’inizio del quarto evangelo ci ha lasciato un commentario all’Epistola ai Romani, che affronta molti problemi, continuando fra l’altro quella critica al testo della Vulgata che era stata iniziata dal Valla17 , e avvicinandola a quel tipo di trattazione che doveva poco tempo dopo venir ripresa da Erasmo con tanto successo18 ; ma soprattutto dell’importanza che hanno avuto gli accenni e gli spunti di critica implicita e in15 H. Baron, La rinascita dell’etica statale romana nell’Umanesimo fiorentino del Quattrocento, in «Civiltà Moderna», VII (1935), pp. 21-49. 16 D. Cantimori, Rhetoric and Politics in Italian Humanism, in «Journal of the Warburg Institute», vol. I, 1937, pp. 83 sgg. 17 W. Dress, Die Mystik des Marsilio Ficino, Berlin-Leipzig 1929 (Arbeiten zur Kirchengeschichte, 14), p. 157. 18 J. Huizinga, Erasmus, trad. tedesca di W. Kaegi, 2ª ed., Basel 1936, pp. 70 sgg. [trad. it. Erasmo, Einaudi, Torino 1975].

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consapevole al dogma basilare della tradizione dottrinale del Cristianesimo, che si possono trovare nei trattati e nei commentari platonici del Ficino: gli accenni al dogma della Trinità. Non si va certo al di là del sospetto del problema, che non viene mai affrontato esplicitamente, almeno nelle opere del Ficino pubblicate da lui o comprese nell’edizione basileese delle opere; ma gli spunti alla riflessione sulla dottrina trinitaria e al confronto di essa con le concezioni della filosofia platonica e con la esigenza razionalistica che è diffusa nell’umanesimo non mancano certo nel Ficino19 . Un altro motivo del platonismo ficiniano e della filosofia del Pico, dovevano riprendere e rielaborare nella controversia religiosa contro il calvinismo e il luteranesimo gli eretici italiani: quello del valore religioso e cristiano della vita morale, formulantesi come discussione se i pagani di buona vita ed elevato pensiero fossero o meno ammessi alla salute eterna del cristiano20 . Questo motivo, che lo Zwingli aveva fatto proprio21 , e che era stato ogget19 Anabattismo e neoplatonismo cit., p. 542. Si può dire che la concezione positiva della Trinità del Ficino fosse, in sostanza, agostiniana (cfr. Dress, Die Mystik des Marsilio Ficino cit., p. 153). 20 Dalla elaborazione di queste discussioni in un concetto sorgerà poi l’idea della religione naturale. Cfr. A. Carlini, Herbert di Cherbury e la scuola di Cambridge, in Atti dell’Accademia dei Lincei, Rendiconti, serie V, vol. XXVI, 1917, pp. 273-356. 21 Ch. Sigwart, U. Zwingli, der Charakter seiner Tbeologie mit besonderer Rücksicht auf Picus von Mirandola, Stuttgart 1855, pp. 26 e 44. Per quanto riguarda questo problema, lo scritto del Sigwart conserva tutto il suo valore nonostante quanto dice il Guggisberg, Das Zwinglibild des Protestantismus im Wandel der Zeiten (Quellen und Abhandlungen zur Schweizerischen Reformationsgeschichte, VIII [XI delle «Quellen zur Schw. Reformationsgeschichte»]), Leipzig 1934. pp. 71 sgg. Cfr. anche R Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, IVer Bd., Ie Abt., che mette in rilievo i tratti medievali delle dottrine dello Zwingli

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to di esplicite discussioni fra i platonici fiorentini22 , poteva essere adoprato contro la dottrina calvinistica della predestinazione al male, e la dottrina della religione naturale che ne costituiva il presupposto poteva essere svolta ampiamente per affermare entro la riforma protestante quella rivalutazione dell’uomo, che pareva dovesse andarvi perduta23 . Chi ubbidisce all’imperativo della «virtus universalis» è riconosciuto, secondo il Ficino, come figlio di Dio, e riceverà salvezza e beatitudine. Onde la concezione della fede giustificante, che veniva svolta dai riformatori nel senso della grazia onnipotente fino a scavare un abisso fra Dio e uomo, in Ficino si integra, acquistando giuste proporzioni, col suo concetto della religione universale e naturale, che si articola nella «fides» e nella «justitia universalis»24 . Dallo stesso movimento fiorentino, tendente alla dimostrazione razionale e consentanea alla nuova cultura delle verità tradizionali della fede, procede una reazione fideistica, e quanto alle possibilità della filosofia, profondamente scettica: scettico infatti è il pensiero di Giovan Francesco Pico della Mirandola riguardo all’assunto del Ficino di fondare la fede cristiana sulla filosofia antica, platonica e aristotelica insieme25 . Il procedere del-

(pp. 372 sgg.), e rileva anch’egli l’importanza di questa particolare dottrina per il pensiero religioso del riformatore zurighese (p. 359). 22 P. O. Kristeller, Supplementum ficinianum, Firenze 1937, I, pp. 12 sgg. 23 Cfr. G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., Firenze 1925, p. 28. 24 Dress, Die Mystik des Marsilio Ficino cit., pp. 125 sgg. e 213. 25 Corsano, Il pensiero religioso italiano dall’umanesimo al giurisdizionalismo, Bari, 1937 pp. 60 sg., parla della «solita polemica antirazionalista»; io credo che si tratti di qualcosa di

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la filosofia e del pensiero umanistico cominciava a mostrare sotto il tentativo ficiniano il latente distacco dalla religione cristiana: quella troppa superbia dottrinale che uno dei capi della «Devotio Moderna» aveva trovato nel gruppo ficiniano26 , ora appariva chiaramente nel suo carattere pericoloso per la religiosità cristiana bisognosa di rinnovarsi e di riorganizzarsi. Per il Ficino si trattava di mostrare l’accordo fra la filosofia nella sua forma migliore, unica possibile dunque, e la forma migliore, unica possibile, di religione; e la filosofia veniva concepita dal Ficino come senz’altro eguale non solo alla parola di Dio nei Vangeli, la cui semplice predicazione non bastava per lui, ma alla religione in generale – e sia pure per decreto della Divina Provvidenza. Il fatto che i maggiori uomini dell’umanesimo, dal Valla al Ficino, si siano cosí intensamente occupati di problemi teologici, rappresenta lo sforzo compiuto da parte loro per non lasciare andare perduta la ricchezza spirituale tramandata dalla tradizione, anzi per rinvigorirla, pure combattendo contro i cristallizzati rappresentanti della tradizione stessa, contro un sistema di dottrine, di educazione, di organizzazione della vita morale e religiosa, che si trovava in piena decadenza di fronte ai propri principî, e che occorreva rinnovare: ma nonostante tutta la devozione e la intenzione apologetica del Ficino, la sua filosofia poteva ben finire, pensava G. F. Pico, in quel volere riformare «sacra per homines», che la tradizione della Chiesa ha costantemente opposto al riformare «homines per sacra».

piú, cioè di una reazione alla fede nella filosofia, in funzione del rinnovato sentimento cristiano di G. F. Pico, cosí bene messo in luce dal Corrano. 26 Hyma, The Christian Renaissance. A History of the «Devotio Moderna», Grand Rapids (Mich.) 1924, p. 200. È Wessel Gansfort, che nel suo viaggio in Italia intorno al 1474 visitò Firenze.

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Cosí, il Pico reagisce nettamente all’affermazione ficiniana che la incredulità e la empietà del suo tempo fosse troppo divulgata e sostenuta da troppo acuti ingegni, per potersi combattere «sola quadam simplici praedicatione fidei»27 , e che occorresse confermare la religione con l’autorità e con i metodi della filosofia. È il Pico che con la sua autorità determina la tendenza che al Concilio Lateranense finisce col prevalere, facendo condannare le interpretazioni filosofiche conducenti alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale, e ispirando i provvedimenti per la sorveglianza dei libri e dell’insegnamento28 . Caratteristico della cultura italiana e delle sue tendenze in quei primi anni del secolo è il fatto che due membri di quel Concilio votarono contro la emanazione della famosa bolla: non certo per avversione alla condanna in sé, ma per le ragioni di essa e per le ingiunzioni che la accompagnavano. Il vescovo di Bergamo29 voleva mantenuta la libertà di interpretazione e di discussione; il cardinale Caetano temeva che l’obbligo di dimostrare e sostenere la tesi ortodossa con argomenti filosofici potesse condurre a una indebita com27 Cfr. P. O. Kristeller, La posizione storica di Marsilio Ficino, in «Civiltà Moderna», V (1933), p. 444; e Anabattismo e neoplatonismo cit., p. 546. 28 Hefele-Hergenröther-Ledercq, Histoire des Conciles, d’après les documents originaux, Tome VIII, Première partie, Paris 1917, p. 420. 29 «Non placebat [episcopo], quod theologi imponerent philosophis disputantibus [...] tanquam de materia posita de mente Aristotelis, quam sibi imponit Averroes, licet secundum veritatem, talis opinio est falsa». Hardouin, Acta conciliorum et epistolae decretales ac constitutiones summorum pontificum, IX, Paris 1714, col. 1720.

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mistione di filosofia e teologia30 . Il Pico proponeva ormai solo la riforma dei costumi e della predicazione, e la riorganizzazione della disciplina ecclesiastica in senso savonaroliano; non la rivalutazione culturale e intellettuale della religione, ma la riaffermazione della tradizione ecclesiastica31 . Senza voler fare di questo spirito austero e rigidamente ortodosso un precursore di Montaigne, come han pensato lo Strowski e l’Imbart de La Tour32 , possiamo rilevare il suo antirazionalismo e il suo scetticismo antiintellettualistico, consapevole di non contraddire alla religione cristiana, e sboccante in un appello al ritorno alle sacre lettere, unica autorità vera e degna di fede. Questi motivi di scetticismo di fronte alle grandi speranze degli umanisti, e di ripiegamento su posizioni fideistiche, troveranno anch’essi la loro esplicazione manifesta portata all’estremo nel pensiero degli eretici italiani, che spesso passano dalle argomentazioni razionalistiche piú ardite alle posizioni mistiche e devozionali piú affini alla tradizione. Del resto il Pico non era affatto isolato in quella sua avversione ai tentativi di apologetica cristiana fondata sulla filosofia, come mostra anche il libro, piú volte ristampato, del famoso cardinale Adriano da Corneto sulla vera filosofia, che è la religione della scrittura e dei Padri33 . 30 Hefele-Hergenröther-Ledercq, Histoire des Conciles cit., p. 421; Pastor, Storia dei Papi, trad. it., vol. IV, 1, p. 533; Hardouin, Acta cit., Ibid. 31 Cfr. Corsano, Il pensiero religioso cit., p. 64 e nota. 32 F. Strowski, Montaigne, Paris 1931, pp. 125 sgg.; P. Imbart de La Tour, Les origines de la Réforme, II: L’église catholique, la crise et la renaissance, Paris 1909, pp. 568 sgg. 33 De vera philosophia ex quattuor doctoribus ecclesiae, Bononiae 1507. Cito dall’ediz. di Roma del 1514, a cura di Cipriano Beneti e ad uso degli studenti romani. Cfr. B. Gebhardt, Adrian von Corneto, Breslau 1886. Il Gebhardt pensa che que-

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Anche di quest’operetta l’Imbart de La Tour34 , ha dato una valutazione un po’ troppo alta, attribuendole un’importanza storica che il libro non ha avuto: poiché l’opera del Castellesi ha goduto al suo tempo d’una fama certo minore del suo autore, ed ha avuto solo qualche isolata e debole eco. La polemica antificiniana che il de La Tour vuol vedere nel De vera philosophia si riscontra tutt’al piú in alcune parole dell’editore: e non si tratta di un’opera di «dottrina», cioè di una esposizione ragionata, sia pure brevemente, di un qualunque pensiero, ma semplicemente di una ordinata raccolta di brevissimi testi di Padri e della Scrittura, nella quale l’opi-

sta operetta cosí religiosa e devota di uno dei cardinali piú politici e ricchi del Rinascimento, immischiato dalla cronaca nella morte di Alessandro VI, fosse vôlta contro la tendenza «paganeggiante» dell’umanesimo rappresentata da Paolo Cortese: ma non se ne vede la ragione specifica. Non criticamente fondata è anche l’opinione del Grimm (15 Essays 3. Folge, pp. 117, 122, in Gebhardt, Adrian von Corneto cit., p. 55), che pensa ad un modo di opposizione politica indiretta del cardinale contro l’umanesimo favorito da papa Leone X; ma il libretto è stato composto fra il 1492 e il 1507, periodo nel quale né il Castellesi era all’opposizione, né l’umanesimo di tipo platonico era ufficialmente favorito dalla Curia. Rimane, accanto e precedentemente allo scetticismo antifilosofico del Pico, questo antifilosofismo e antirazionalismo di un umanista, autore di diffusi scritti stilistici e grammaticali, amico del Bembo e di Egidio da Viterbo. Il De vera philosophia è stato ristampato a Colonia, nel 1540 (Hadriani cardinalis de vera philosophia libri IIII ex quatuor Ecclesiae doctoribus conscripti, varia eruditione et multa pietate referti, suae integratati, qua fieri potuit solertia, nunc primum restituti), e, con un accurato commento, a Roma nel 1775 (Hadriani Cardinalis S. Chrysogoni De Vera philosophia ex quattuor ecclesiae doctoribus libri quatuor...), a cura del Card. Passionei e sotto gli auspici di Pio VI. 34 Les origines de la Réforme, II cit., p. 567.

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nione dell’autore si rivela soltanto attraverso i titoli delle varie rubriche. Certo queste sono altamente caratteristiche d’una mentalità chiaramente avversa alla filosofia umanistica, come siamo avvezzi a pensarla, ficiniana, o, se si vuole, richiamantesi a Platone, ad Aristotele ritradotto e restituito nell’originale, o anche a Cicerone e agli Stoici; e avversa anche allo spirito critico di un Valla. «Christianos non esse qui Christo credendum negant nisi ratio reddita fuerit»35 ; «Non posse spiritualia ratione probari»36 ; «Eos qui ratione verum comprehendere volunt, similitudinibus rationum facillime decipi»37 ; «In philosophis non fuisse veram sapientiam»38 ; «Sufficitur orbi terrarum auctoritatem sacrae scripturae»39 . Anche qui dunque una esplicita tendenza al fideismo e insieme al ritorno alla Scrittura: a uno scritturalismo che per essere fondato sugli strumenti tradizionali non è meno annunciatore del valore della nuova tendenza erasmiana e della sua diffusione anche in Italia. Il pensiero del Castellesi non è contrario, come vorrebbe il de La Tour40 , alle dichiarazioni e alle prescrizioni del Concilio Lateranense V nella famosa sessione del 19 dicembre 1513, che vide la condanna delle dottrine sulla mortalità dell’anima umana individuale. La disposizione alla quale allude il de La Tour, infatti, non dice che sia proibito ritenere che la filosofia non abbia alcuna utilità, anzi sia dannosa, per la fede e per la dimostrazione delle verità cristiane: ma si limita a ingiungere ai filosofi, «in universitatibus studiorum generalium, et alibi 35

De vera philosophia, lib. I, cap. XIX, B IV.

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B IIII1 v (appoggiandosi a citazioni agostiniane).

B IIII3 v. Lib. IV, cap. LXX, I IIr. 39 Lib. I, cap. XXXII, C IIr. 40 Les origines de la Réforme, II cit., p. 568 nota. 37 38

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publice legentibus», di insegnare e dimostrare la dottrina cristiana a proposito delle tesi filosofiche ch’essi imprendano a discutere, in modo che la dottrina cristiana sia sempre presente agli uditori41 . Si aggiunge che ogni ecclesiastico che studi filosofia o poesia per un quinquennio deve dedicarsi per un certo tempo anche allo studio di discipline teologiche o di diritto canonico. Certo qui si presuppone che la filosofia possa servire a dimostrare le verità di fede, anzi, l’inciso «cum omnia solubilia existant» indica chiaramente, che ogni difficoltà filosofica su argomenti di fede può venire chiarita: ma questo non include la condanna di chi ritenga insufficiente la filosofia razionale e affermi di volersi attenere solo alla fede tradizionale. 41 «ut, cum Philosophorum principia aut conclusiones, in quibus a recta fide deviare noscuntur, auditoribus suis legerint seu explicaverint, quale hoc de immortalitate animae aut unitate et mundi aeternitate ac alia huiusmodi, teneantur eisdem veritatem religionis christianae omni conatu manifestam facere, et persuadendo pro posse dovere, ac omni studio huiusmodi Philosophorum argumenta, cum omnia solubilia existant, pro viribus excudere atque resolvere».

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CAPITOLO SECONDO

Il Concilio Lateranense V, e le speranze di riforma. La predicazione apocalittica di riforma e la crisi del Rinascimento.

Che al tempo del Concilio Lateranense cominciasse a prevalere la tendenza ad accentuare il momento della fede e della religiosità cristiana è provato, a parte l’influenza del savonaroliano Giovan Francesco Pico, dalla accentuazione conservatrice data alle sue disposizioni dai membri del Concilio provinciale fiorentino promulgato da Giulio de’ Medici per riprendere ed applicare nella città del Savonarola i decreti di riforma della Chiesa del Lateranense42 . Questo Concilio fiorentino non ha avuto grande eco nella storia politica né in quella religiosa di Firenze, benché sembri rientrare nel quadro generale della politica medicea di questo periodo, vôlta a cattivarsi gli animi dei fiorentini attraverso il soddisfacimento delle loro aspirazioni43 . Sotto tale riguardo, i decreti di questo Concilio sono piú specifici di quelli del Lateranense: non si proibiscono solo in genere alle «scholae puerorum» le opere pericolose per l’educazione morale, ma anche l’opera di Lucrezio44 , che benché accoppiata dal decreto alle opere lascive, difficilmente può es42 Hefele-Hergenröther-Leclercq, Histoire des Conciles cit., pp. 558 sgg.; Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XXXV, coll. 215 sgg. 43 Cfr. J. Nardi, Storia fiorentina, Firenze 1838-41, II, p. 86; C. Guasti, Documenti della congiura fatta contro il card. Giulio de’ Medici, in «Giornale storico degli Archivi toscani», T. III, pp. 121 sgg. 44 Mansi, Sacrorum Conciliorum cit., col. 270 (Il capitolo della rubrica: «De magistris, deque haereticis et Christi fidem scandalizantibus»).

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ser stata interdetta solo per qualche passo troppo esplicito; si deve pensare piuttosto ai motivi materialistici e alla critica alla religione che tanto spesso, e per tanto tempo, si andrà a cercare in Lucrezio, fino ai tempi del Vico45 . Cosí, nei riguardi delle discussioni filosofiche, il decreto lateranense viene inasprito in una proibizione esplicita e recisa di ogni discussione sui problemi dell’immortalità dell’anima, dell’anima universale, e via dicendo: la proibizione infatti interdice «philosophos et quoscunque alios legendo etiam disputative asserere conclusionem catholico dogmati contrariam»46 . Insieme a quelle che vedremo piú avanti, sono le idee che ritorneranno nel «Consilium de emendanda ecclesia» di un ventennio piú tardi. Un’altra proibizione il Concilio fiorentino del 1517 riprende dal Lateranense, applicandola a casi specificamente fiorentini: quella del libero e ispirato predicare, e quella del profetare vicino il tempo della grande trasformazione e del giorno del Giudizio47 . Proibizione esplicita e circostanziata, tanto piú grave perché proprio all’apertura del Lateranense il generale dell’Ordine Agostiniano, Egidio Canisio da Viterbo, tenendo il discorso inaugurale, aveva dichiarato d’aver predicato per vent’anni proprio l’avvento dei tempi profetati dall’Apocalisse48 , invocando il rinnovamento della 45 A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B. Vico, Bari 1935, pp. 12 sgg.; F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari 1932, p. 44. 46 Mansi, Sacrorum Conciliorum cit., col. 270 (è il terzo capitolo della rubrica succitata; il decreto lateranense sull’immortalità dell’anima ne costituisce il IV capitolo). 47 Hardouin, Acta cit., coll. 1806-7. 48 Hefele-Hergenröther-Leclercq, Histoire des Conciles cit., p. 344; Hardouin, Acta cit., vol. IX, col. 1576 B: «Joannis Apocalypsim de successu Ecclesiae universae ferme Italiae

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Chiesa49 . E non solo il Canisio, ma anche il cardinale Baldassarre del Rio50 aveva parlato al Lateranense di profezie annuncianti per l’anno millecinquecento o per gli anni ad esso vicini grandi apocalittici mutamenti: questa volta non si tratta di profezie dell’oratore stesso, ma insomma proprio in un discorso d’apertura di una importante sessione del Concilio, si ricorda la profezia corrente fra i maomettani sulla fine della loro religione e sulla loro conversione in massa al Cristianesimo51 . Certo, tutte queste profezie che vengono ricordate da prelati e porporati al Lateranense concludono nella constatazione che la pienezza dei temi è imminente, anzi, quasi presente; il che si vede, dice il Canisio, anche da segni negativi: quale malattia infatti piú frequente e piú sfrenata che la presente mania di parlare, di scrivere, di disputare contro la religione e contro la fede? Ma gran segno positivo della pienezza dei tempi (a parte l’applicazione del simbolo del leone al papa mediceo) era naturalmente per questi uomini la convocazione del concilio da parte di Giulio II e la sua prosecuzione da parte di Leone X: il Canisio riprende il detto biblico: «Viderunt oculi mei salutare sanctumque principium expectatae instaurationis»52 . E il decreto stesso del Concilio Laenarraverim, ac saepe numero affirmaverim, eos qui tunc audiebant, ingentes ecclesiae et agitationes et clades visuros, illiusque emendationem aliquando conspecturos». 49 Ibid.: «Modo adsis, orbis instaurator, divini parentis proles [...]: desque vim mihi dicendi...: ac denique collapsam religionem in veterem puritatem, in antiquam lucem, in nativum splendorem, atque in suos fontes revocandi». 50 Hefele-Hergenröther-Leclercq, Histoire des Conciles cit., p. 404; Hardouin, Collectio cit., IX, 1703 a. 51 Cfr. O. Raynaldi, Annales, ad annum 1509, n. XXXIIIXXXIV (Romae 1663, t. X). 52 Hardouin, Acta cit., vol. IX cit., 1576 C.

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teranense, pure interdicendo ogni profezia annunciante l’avvento dell’Anticristo, o determinante in modo preciso «tempus praefixum futurorum malorum» oppure «certum diem iudicii», non esclude che vi siano persone inspirate che abbian ricevuto rivelazioni divine. Anzi, insiste nel distinguere le ispirazioni schiette da quelle del «gregge dei menzogneri e dei contafavole», ma avoca alla Sede Apostolica il controllo preventivo di ogni visione, ispirazione e profezia, rimettendosi in caso d’urgenza – che vien dunque ammesso – all’ordinario locale. Dunque la proibizione cosí esplicita e particolareggiata, con la sua allusione al «gregge» dei profeti falsi e mendaci, mantiene la sua importanza e il suo significato, accresciuto anzi da quanto s’è rilevato sulla attività profetica del Canisio. Solo uno dei membri del Concilio, il vescovo d’Aquino, dette voto contrario a questo decreto, allegando «sibi placere..., quod praedicatores praedicent, secundum quod Spiritus eis spirat»53 . E non si trattava soltanto di predicatori savonaroliani, come il famoso fra’ Teodoro, che si spacciava per «papa angelico», predicando la «renovatione della Chiesa, e ne’ tempi nostri», o come il predicatore de’ fanciulli, Pietro Bernardo o fra’ Bernardino54 . Non eran tutti savonaroliani, o non soltanto savonaroliani quegli pseudoprofeti ed ambiziosi uomini, i quali «suis fictis vaticiniis, et praesumpta sanctae matris Ecclesiae renovatione, et futuri renovatoris promissione... populorum animos ab huius Apostolicae sedis reverentia paulatim avertere nituntur», come dice la Bolla di Leone X all’Arcivescovo di 53 Ibid, coll. 1806-7; la opposizione del vescovo d’Aquino, col. 1801 B. 54 G. Schnitzer, Savonarola, trad. it., II, Milano 1931, pp. 443, 444.

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Firenze concedente l’indulto per tutti i sospetti di eresia nel caso di Bernardo55 . Si tratta dell’espressione di un disagio religioso largamente diffuso nei ceti popolari come pure nelle classi piú colte, e che si manifesta in diversi luoghi con gli stessi caratteri di energia vaga e indeterminata. Non si può certo riportare al savonarolismo il procedere di quell’eremita senese che appare a Bologna nel 1517 «vestito di colore bigio con i piedi scalzi», facendosi chiamare «missus a Deo», predicando senza farsi annunciare dalle campane, discendendo dopo la predica a riposare fra il popolo, sulle panche di tutti, e non chiedendo altra elemosina «che quanto gli bastasse di vivere parcamente di giorno in giorno»56 : povertà dunque nel senso piú letterale, e accentuazione del dispregio per le differenze gerarchiche fra il comun popolo cristiano e il «messo da Dio». Questo atteggiamento fece acquistare al predicatore «l’aura populare, onde riusciva angusto il gran tempio al gran concorso della gente per udire la sua voce reputandolo un vero santo di Dio»57 . Del suo insegnamento il cronista dice poco: inveiva contro le «regole et instituti de’ frati osservanti, francescani o domenicani, dicendo che tali religiosi purché avessero voluto condurre vita apostolica con lui potevano uscire dalle religioni senza licenza de’ loro superiori né del Papa»58 : un avanzo delle dottrine degli «apostolici», come parrebbe indicare il nome che il predicatore dava al proprio tenor di vita? Certo un rozzo modo di accentuare il valore della condotta pratica, del55 D. Moreni, Continuazione delle Memorie istoriche dell’ambrosiana imperial Basilica di S. Lorenzo in Firenze, Firenze 1816, I, p. 513. Cfr. Schnitzer, Savonarola cit., II, p. 441. 56 A. Battistella, Il S. Officio e la riforma religiosa in Bologna (Bibl. Storica Bolognese, n. 9), Bologna 1905, p. 13. 57 Ibid., p. 14. 58 Ibid.

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la morale, al di sopra di organizzazioni e di forme fissate di vita religiosa. Ma quel che al cronista appare piú grave dello spregio dell’autorità del Papa e della gerarchia ecclesiastica, è la predica contro il Monte di Pietà59 . Non sappiamo se questo predicatore sia la stessa persona del frate Girolamo da Siena che s’incontra nello stesso torno di tempo a Milano, con i medesimi successi popolari, e che afferma «che niuno servava la regola sua»60 , e di quel «Hieronimo de Sena» che un altro cronista milanese ci presenta, «bello di persona et ancora de nobiltà assai», predicare alla «canaglia ignorante et femenesse» contro preti e frati, coltivando insieme una devozione fervente alla Madonna, al Crocefisso, al chiodo di Cristo61 . È probabile che i tre personaggi siano uno solo; ad ogni modo ebbero, od ebbe, gran successo, e la predicazione aveva sempre lo stesso bersaglio: preti e frati. Ibid. A. Prato, Storia di Milano, in «Archivio Storico Italiano», III, 1842, p. 358. Anche qui il Prato cita Dante (Par., XXII 73-74), non si capisce bene se interpretando o ripetendo il predicatore, che chiama «di nazione toscano», aggiungendo «ma era di parlare soave, et nella scrittura sacra credo fussi assai docto»; prima aveva detto che era «uomo seculare». Il Chabod, l. c. nota seguente, analizza la differenza fra i giudizi, dei due cronisti, anticlericale e favorevole in fondo al predicatore il Prato, favorevole al clero e al buon ordine il secondo. 61 Burigozzo, Cronaca di Milano, in «Archivio Storico Italiano», III, 1842, p. 431. Nel 1523 Clemente VII osservava che a Milano si contravveniva ai decreti del Lateranense, riferendosi probabilmente a un frate del convento di San Marco che, verso la fine del 1523, mise in agitazione i fedeli con le sue profezie e con le sue accuse al clero (Burigozzo, Cronaca cit., pp. 443-44). Cfr. F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano sotto il dominio di Carlo V. Note e documenti, Bologna 1938 (estratto dall’Annuario del R. Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e contemporanea, II-III, 1936 e 1937), p. 6 dell’estratto n. 3 e pp. 81 sgg. e nota. 59 60

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Nel 1516 viene imprigionato a Roma un frate Bonaventura che predicava di essere il pastore angelico annunciato dai profeti, eletto da Dio a salvatore del mondo e «universae humanitatis»62 . Il sommo di questa umanità era per il Bonaventura «Ecclesia Dei in Syon», e la Chiesa romana era una apostatica, abietta e maledetta meretrice. Era «la voce di eremiti e profeti, i quali apparendo d’improvviso, traevano gli animi di molti... verso visioni minacciose e apocalittiche di rovina e di disperazione». Queste voci religiose della crisi italiana non avevano in genere che rapporti molto lontani con il savonarolismo63 . Conversione degli infedeli, grandi rovine, rinnovamento della Chiesa, avvento di un’èra di pace e felicità, e il tutto prossimo, determinato verso la fine del pri62 Come diceva il titolo del suo libro, che era dedicato al Senato Veneto, e dove si scomunicava papa Leone X. Ad esso era prefissa una dedicatoria che cominciava: «Bonaventura ecclesiae Dei in Syon... pastor a Deo electus et angelicis manibus coronatus in salvationem mundi destinatus, universis Christi fidelibus salutem et apostolicam benedictionem...» Un altro degli argomenti della predicazione del Bonaventura era l’annuncio ch’egli avrebbe battezzato l’Imperatore dei Romani ed avrebbe operato una nuova traslazione dell’impero «... et translaturum Imperium Ecclesiae ad ecclesiam in Syon». Tutti i re cristiani devono prender le armi ed assisterlo; ma lo strumento della grande traslazione della Chiesa sarebbe stato il Re di Francia (perciò il Bonaventura si rivolge al Senato Veneto, che cessi di osteggiare la Francia e si tenga in buona amicizia con essa), «quoniam rex Franciae sit a Deo minister electus pro translatione ecclesiae Dei in Syon ad conversionem Turcarum ad fidem Christi». Höfler, Analecten zur Geschichte Deutschlands und Italiens, II: Italienische Zustände gegen Ende des 15. und im Anfange des 16. Jahrhunderts, in Abhandlungen der Hist. Klasse der K. Bayrischen Akad. der Wissensch., Bd. IV, München 1846, pp. 29 sgg. e 56 sg. 63 Chabod, Per la storia cit, pp. 82 sg. Vedi anche quanto dice il Chabod nello stesso luogo sulla crisi italiana e sul turbamento delle coscienze.

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mo trentennio del secolo: anche a Firenze correva e trovava di nuovo credito questa profezia che il Concilio fiorentino del 1517 condanna esplicitamente e particolareggiatamente, anche perché veniva ripresa e diffusa da varî temerari predicatori, che la proclamavano dal pulpito. La profezia di Francesco Meleto64 , che possiamo meglio conoscere perché fu diffusa a stampa in vari opuscoli che ci sono stati conservati, è una sintesi di tutti i sistemi di predicazione fondati sullo studio della storia sacra e sulla sua interpretazione allegorica, e insieme sui calcoli tendenti ad applicare al futuro i numeri simbolici dell’Apocalisse e del libro di Daniele: e dovette avere una eco molto forte, se l’Orlandini, che forse fu l’ispiratore della sua condanna, ne preparò anche una particolareggiata confutazione, rimasta però manoscritta.65 64 Schnitzer, Savonarola cit., p. 443; S. Bongi, Francesco da Meleto, un profeta fiorentino a’ tempi del Machiavelli, in «Archivio Storico Italiano», serie V, t. III (1889), pp. 62 sgg. Le opere del Meleto sono Convivio de’ segreti della scrittura santa, del 1516; Quadrivium temporum prophetatorum, del 1517, che è la piú importante, e riassume le altre; Enucleatio Psalmi XVIII, del 1517 (in appendice al Quadrivium). Lo Schnitzer (Savonarola cit., p. 443) trae dalla cronaca del Parenti la notizia che la decisione che le opere del Meleto dovevano ritenersi come ereticali, «insieme a un’opera in versi italiani di Matteo Palmieri» venne da Bologna. Si tratta della Città di vita, di imitazione dantesca {che era stata considerata eretica e bollata da diversi decenni}: R. Renier, Strambotti e sonetti dell’Altissimo, Torino 1886, Introd., p. XXIX, n. 2. Cfr. E. Frizzi, La città di vita poemetto inedito di M. Palmieri, in Propugnatore, XI, Parte I, 1878, pp. 140 sgg. {e spec. pp. 159 sgg. Libro del Poema chiamato città di vita Composto da Matteo Palmieri Florentino, Transcribed From the Laurentian MS XL 53... by Margaret Rooke (Smith College Studies in Modem Languages, vol. VIII, 1-4, vol. IX 1-4, Northampton-Paris 1926-1928), cfr. in particolare I, pp. VIII sgg.} Il Meleto fissa la data della riforma della Chiesa verso il 1527, non verso il 1517 come dice lo Schnitzer. 65 Cfr. Bongi, Francesco da Meleto cit., pp. 69-70.

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Questo figlio di mercante fiorentino-bolognese e di schiava russa traeva la sua ispirazione da conversazioni con ebrei e probabilmente maomettani, durante i suoi viaggi d’affari a Costantinopoli: infatti egli raccolse una profezia ebraica che annuncia la conversione degli ebrei per il 1517, e accennava anche alla prospettiva della conversione dei maomettani: profezie che erano diffuse in quel tempo probabilmente in tutto il bacino mediterraneo66 . Ma qui, unite e portate alla conclusione dell’imminente rinnovazione della Chiesa, e proprio mentre stava concludendosi il Concilio Lateranense, esse dovevano assumere aspetto eretico e pericoloso. Tanto piú a Firenze. Cosí si spiega la condanna, che anch’essa è preceduta da una dichiarazione generale di fede nelle profezie e nei vaticinî prospettanti lo sperato e auspicato ingrandimento della Chiesa apostolica e della fede cristiana, ma esclude dalle profezie e dai vaticini da accettarsi le opere del Meleto67 . Certo l’unione delle profezie sulla conversione degli ebrei e dei maomettani con quelle sul rinnovamento della Chiesa poteva condurre lontano, nonostante tutte le riserve e le dichiarazioni di sottomissione alle dottrine della Chiesa fatte dal Meleto, che prima di pubblicare la sua opera principale, il Quadrivium temporum prophetatorum, la voleva fare esaminare in manoscritto a Leone X, recandosi appositamente a Roma, come egli stesso racconta68 . Se infatti si unisce il pensiero del rinnovaCfr. supra, p. 24, nota 10. «quae plerosque sub huius praemissae amplificationis pietate in errorem atque haereses et schismata facile inducere possent, velut venenosa, impia, et in plerisque conclusionibus catholicae veritati inimica». L’Orlandini accusava il Meleto, «laicus et quidem idiota» di avere osato di sovvertire i tesori della Scrittura («ingentes scripturae thesauros evertere»). Mansi, Sacrorum Conciliorum cit., col. 273. 68 Quadrivium temporum prophetatorum, p. A, IIr. (Dedica). 66 67

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mento della Chiesa a quello della conversione universale, che il Meleto vede annunciata nel Salmo XVIII, si ha l’idea dell’avvento dell’età felice, della vita apostolica, e insieme della necessità di un nuova «conversione» anche dei cristiani, che se non ascolteranno la profezia saranno accomunati ai maomettani ed ebrei infedeli nel giudizio divino69 . E su questo punto il Meleto è incerto: insiste nell’annuncio di una salvazione universale, intendendo il versetto: «Non est qui se abscondat a calore eius», nel senso di una profezia riguardante tutto l’uman genere: «quandoquidem id pro universo humano genere patratum sit»70 ; ma, benché in un punto solo, limita questa affermazione annunciando la salvazione e il perdono universale solo per coloro che avran creduto71 . Oltre questa dottrina, pericolosa doveva apparire la mescolanza della esortazione alla guerra contro gli infedeli con l’annuncio della loro conversione generale, e insieme con quello dell’imminente riforma della Cristianità e dell’imminente giudizio universale con l’accompagnamento della venuta dell’anticristo72 . Inoltre il Meleto proponeva un complicato sistema di concordanze fra tutti i tipi di calcoli profetici, fondati sulla interpretazione e delimitazione delle epoche della Chiesa, come sulla esplicazione dei numeri simbolici, e concludeva alla grande trasformazione per 69 Ibid., p. g, IIIIr, «supra enarratum iudicium... non solum erit contra Maumethanos et Hebreos infideles, verum etiam contra perversos Christianum nomen habentes...» 70 Ibid., p. g, III 2r, cfr. cap. III, g, Iv. 71 Ibid., p. g, III, 2v. 72 Ibid., p. a 44 v; c. III, r e v; c. 44 r; f, ir (Via IV Cap. VI, fine): i maomettani si devono convertire al cattolicesimo: «Nullibi enim praeterquam in eo [domino jesu] vestra salus vita est. Nec vos obtenebret italicus fumus. Eius enim fumus ab abyssi puteo exit. Petra namque scandali facta est Italia; qui ceciderit super eam confringetur: et super quem ceciderit conteret eum...»

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l’anno 1527 o 1530. E qui urtava contro la esplicita proibizione del Lateranense. Nello scritto del Meleto non si trova ricordato il nome di Gioachino da Fiore, né si riscontra un filone di terminologia gioachimita: ma egli ricorda fra le divisioni della storia della Chiesa anche quella tripartita, insieme a quella bipartita e a quella in sette parti, oltre la tradizionale dei quattro imperi. Per il Meleto non ha importanza l’una piú che l’altra, poiché tutte gli sembra di poter far concordare nel suo annuncio73 . Le manifestazioni di inquietudine non mancavano dunque, nonostante le promesse del Concilio Lateranense e le speranze in esso riposte; e accanto alla insoddisfazione della cultura umanistica per le forme tradizionali della dottrina religiosa, accanto ai problemi filosofici e religiosi posti dal Ficino, dal Pico, dal Pomponazzi, c’era la stanchezza antiintellettualistica di molti, anche umanisti, e il torbido e vago aspettare degli incolti, accorrenti a sentire annunci di catastrofi imminenti, maledizioni contro il proprio paese «pietra dello scandalo», invettive contro monaci e preti. E che queste non fossero del tutto ingiustificate lo mostra la discussione svoltasi durante il Concilio Lateranense fra i vescovi e i rappresentanti degli ordini religiosi, che non negarono, ma si limitaro73 Ibid., p. A, IIv e sgg. Ecco la descrizione del «quinto sigillo», che corrisponde alla età dei predicatori, nella quale si trovava la chiesa al suo tempo, secondo il Meleto: «Statum autem hunc quintum merito praedicatorum dici posse arbitramur: quandoquidem in illis ipsorum christi fidelium omen fidem opinionemque repositam videamus: eiusque principium a beato Francisco atque Dominico exordia sumpsisse: ex maxima praedicantium quantitate ab eorum regulis et reliquis, a tempore illo ad diem hanc exuberante: quorum adventus circa vigesimum supra mille ducentos a domini nativitate anno fuisse dici potest: cum eo tempore quam maxime duo ipsi vixerint et floruerint» (a 43 a 43 v). {Per quanto riguarda le citazioni da Lucrezio e da Marsilio Ficino, cfr. Convivio de’secreti della scriptura sancta, a2va3r}.

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no a ritorcere le accuse fatte loro dai vescovi, fra le quali anche quella di perdonare perfino gli eretici74 . Il carattere di questa insoddisfazione e di questa attesa generale riguarda, da una parte, la cultura umanistica e i suoi rapporti con la tradizione dottrinale cattolica: si sente il bisogno di un ripiegamento, di un ritorno ai motivi originariamente cristiani anche per la cultura filosofica; si incomincia ad aver timore dello sviluppo della filosofia e del pensiero razionale. E questo momento si unisce al fermento mentale delle popolazioni, fuori della ristretta cerchia dell’umanesimo, attraverso la insoddisfazione per la situazione morale e per la corruzione dei costumi tanto nella società laica quanto in quella ecclesiastica. Nella incertezza delle coscienze l’anticlericalesimo dei predicatori vaganti, dei visionari, degli ispirati, trovava un facile appiglio di esaltazione, che il Concilio Lateranense non poté incanalare in una azione di riforma secondo i suoi decreti. 74 Hefele-Hergenröther-Leclercq, Histoire des Conciles cit., pp. 451 sgg.; i documenti della controversia in HefeleHergenröther, Conciliengeschichte, VIII, Freiburg im Breisgau 1887, app. C-D, pp. 813 sgg.

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CAPITOLO TERZO

La pseudoprofezia del Torquato e l’interesse umanistico per Lutero; il Cerretani e l’atteggiamento dei savonaroliani di fronte alle prime notizie della riforma luterana. Il Brucioli.

Un frutto interessante del profetismo che s’è visto cosí diffuso nei due primi decenni del secolo è la pseudoprofezia del Torquato, composta probabilmente nel 1527 e conosciuta in due edizioni latine del 1534 e del 1535, e in una tedesca pure del 153575 . In questo pronostico non si tratta, a vero dire, di una profezia ispirata, sorta sul75 De eversione Europae prognosticon D. Magistri Antonii Torquati, artium et medicinae Doctoris Ferrariensis, Clarissimique astrologi, ad Serenissimum Matthiam Regem Ungarorum anno Christi 1480 conscriptum, ab eodem anno usque ad 1538 durans, s.l. 1534. Cfr. D. Cantimori, Incontri italo-germanici nell’età della Riforma, in «Studi Germanici», III, 1938, pp. 65 sgg. {Su Torquato cfr. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia cioè notizie storiche e critiche, intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, vol. I, P. II, Arquato Antonio, Brescia 1773. Cfr. Gesamtkatalog der Wiegendrucke, II, in part. 701 sgg.; VII, in part. 692, e Copinger, op. cit., ma in particolare: Th. Accurti, Aliae editiones saeculi XV Pleraeque nondum descriptae. Annotationes ad opus cui titulus «Gesamtkatalog der Wiegendrucke», vol. I-IV, Firenze 1936, p. 15, n. 26: Iudicium eversionis Europe, Antonio Arquato astrologo excellentissimo: Carolus Drusianus: Odoardus Famiensis: Americus Polonus astrologi..., Hercules De Nanis, Bononiae c. a.1493. Dal «Iudicium» dei tre astrologi sulla profezia dell’Arquato, che da essi era ritenuto il loro maestro, risulta che Drusiano e gli altri due intendevano dare delle spiegazioni (astrologiche) piú esaustive a proposito di un Prognosticon che Arquato aveva mandato nel 1492 (o nel 1493) a Matthias Corvinus e anche ad altri principi. Il Prognosticon si riferiva all’incirca al 1507 e, prescindendo dalle oscillazioni temporali concerneva non solo la caduta del regno turco, ma l’intera Europa. Cito qui il passo riguardante la Chiesa che i tre astro-

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lo sfondo della insoddisfazione e della agitazione religiosa, ma piuttosto del prodotto di una mentalità astrologizzante, vólta piuttosto al vaticinio classico che alla profezia cristiana. E il fatto che si tratta di uno pseudovaticinio, composto post eventum76 , gli toglie ogni interesse in questo senso: si tratta anche di una mentalità nettamente anticlericale, come rivela la indicazione per la guerra dei contadini77 . Tuttavia il pronostico del Torquato ci mostra come persistesse nella società italiana l’attenzione per i vaticinî e per le profezie, anche se fittizie; ed alla stessa stregua delle profezie ispirate e dei vaticinî presumenti realmente di offrire una veridica previsione del futuro, esso ci indica correnti dell’opinione che altrimenti sfuggirebbero. Di Lutero si parla solo per gli anni 1526 e 1527, in occasione del vaticinio del Sacco di Roma: il che è conforme all’interesse prevalentemente politico del Torquato, come mostra anche l’introduzione a queste pagine: «Tempus est enim, ut ad Christicolas revertar, et de Ecclesiasticis Diis hominibusque universis cantum lugubre

logi traggono dal Prognosticon dell’Arquato: «... et quod dixisti ecclesia romana hostium armis bellisque contristabitur tristabuntur et cardinales ac prelati nonnulli expulsi, ac bonis privati ubi pontifex semel profugus erit: in quibus non solum externi hostes erunt verum etiam tutores ecclesie contra illam multis anxietatibus ac jacturis affectam... Quod autem dixeris veniet a septentrione heresiarcha magnus subvertendo populum contra vota apostolicae sedis cum magnorum principum septentrionalium auxilio et quod hipocrite multi tunc apparebunt querentes sibi exaltationem...»}. 76 J. Rohr, Die Prophetie im letzten Jahrhundert vor der Reformation, in «Histor. Jahrbuch», XIX, 1898, p. 447. 77 All’anno 1524, A ijjjv, «Ignobiles contra nobiles insurgent, sed prius haec labes in Ungaria nascetur, in qua viri Ecclesiastici plurimorum causa malorum fient».

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canam»78 . Poiché negli anni 1526 o 1527 la fortuna comincerà ad esser minacciosa per gli ecclesiastici, Roma sarà espugnata, Roma sarà preda dell’esercito dell’Imperatore romano, e molti vi saranno uccisi. Il Papa, dice lo pseudovate, o fuggirà o sarà fatto prigioniero. Saranno spogliati i cardinali e gli uomini di Chiesa, e saranno privati dei loro beni, e comincerà la rovina dei ricchi e potenti prelati. Il Torquato vede la causa di tutto questo, secondo l’annosa tradizione anticlericale, nelle ricchezze della Chiesa stessa, e nella sua potenza mondana. In punizione di essa, Iddio respingerà dalla sua grazia gli ecclesiastici, i prelati, i cardinali, e li percuoterà con terribili e crudelissimi flagelli, per aver abbandonato i pensieri religiosi ed essersi dati alle guerre; gli ecclesiastici saranno assaliti dunque anche dai cristiani, verranno dispersi e dovranno fuggire nei piú vari luoghi. Il Torquato non nasconde la sua soddisfazione, perché spera che da tante tribolazioni si svolga una purificazione della Chiesa e della cristianità. Perché in conseguenza della rovina orrenda del Sacco di Roma non solo i prelati e i cardinali, ma tutti i cristiani saranno disprezzati e vessati. Cosí, «ad pristinam paupertatem reducti sub spirituali fient potestate»79 : ma questo accenno alla «potestà spirituale» che dominerà il mondo cristiano viene svuotato di ogni significato mistico che potrebbe avere, perché il suo avvento viene concepito come punizione. Anche il Torquato ci indica la diffusione del profetismo, sia pure distaccando sdegnosamente la propria falsificazione dagli agitatori religiosi: «Tunc insurgent Hypocritae multi, et Pseudoprophetae, et pauci in veritate Christi ambulabunt»80 . Il Papa sarà ingannato dai propri inganni e da coloro stessi ch’egli voleva ingannare, Br. Br. 80 Bv. 78 79

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e non sopravviverà a lungo alla cattura o alla fuga. Le discordie per l’elezione del successore condurranno allo scisma e aumenteranno l’odio dei fedeli e degli infedeli pei cardinali. Gli ordini religiosi saranno tutti perturbati e sconvolti, specialmente quello dei Minori; la corruzione nel clero regolare e secolare sarà grande, non si potranno piú distinguere i virtuosi dagli ipocriti, «adeo ut veri boni Religiosi non valentes (sic) habitare cum malis ad montes tunc fugere cogentur». E qui indubbiamente si fa luce una posizione mentale analoga a quella dei predicatori senesi di Bologna e di Milano. Ed eccoci a Lutero: «Veniet a Septemtrione Haeresiarcha magnus subvertens populos contra vota Romanae Sedis, cum magnorum Principum Septentrionalium auxilio, qui faciet ingentia, et magna loquetur...» Fioriranno piú che mai gli ipocriti e gli ambiziosi cercatori di onori e dignità, creando una grande confusione che potrà cessare solo quando tutti gli Ecclesiastici ostinati nel male saranno uccisi, o saranno ricondotti alla vita religiosa da grandi tribolazioni, trasformando i cattivi costumi in buoni, distruggendo i riti pessimi e convertendoli in sante ed eque leggi e consuetudini e in riti pii. Dopo l’accenno a Lutero siamo ormai sul terreno delle speranze e delle aspirazioni, violente, come mostra l’augurio delle uccisioni o delle grandi tribolazioni degli ecclesiastici, ma sempre generiche. Si può solo notare che l’augurio delle trasformazioni di leggi, consuetudini e riti ci conduce già verso l’eresia, verso il distacco dalla tradizione, verso l’«immutare sacra per homines». Il vaticinio continua: «Ecclesiae statu renovabitur totus, et velut Sol oriens claro sereno formosus et decorus refulget in terra». In margine alla pagina contenente l’annuncio dei pseudoprofeti e poi di Lutero figura l’annotazione, che dovrebbe essere dell’editore del testo, dato che questi sia differente dall’autore: «An de Lutero hoc dixisse

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velit, an de aliis nescio»81 . Il che, se non è un accorgimento per soddisfare tanto le tendenze filoluterane che quelle antiluterane, mostra la incertezza dell’opinione di fronte alla personalità di Lutero, e alla importanza della sua opera. Ad ogni modo il mondo della cultura e quello della piú larga vita religiosa italiana sembrano prender piú larga notizia di Lutero e della sua riforma solo dopo il Sacco di Roma82 , che attira l’attenzione sull’importanza delle nuove idee, scuotendo la fiducia mistica nella intangibilità della Santa Sede la quale sembrava dover potere superare tutte le tempeste nonostante le malefatte e le debolezze umane. Infatti il Torquato pone la sua profezia dell’avvento di Lutero tutt’in un blocco con la profezia del Sacco di Roma: nella sua mente, come probabilmente nella mente dei piú larghi strati del popolo italiano, e anche delle generalità degli ecclesiastici e degli umanisti, Lutero era rimasto fino a quel momento un eresiarca grande, appoggiato da grandi principi, e forse anche un piú fortunato pseudoprofeta. Col Sacco di Roma invece egli diventa il rappresentante maggiore della giusta punizione divina per la corruzione della cristianità e degli Bv, ivi, B, ijr. L’interesse dei teologi era naturalmente cominciato da tempo, come attestano scritti come quello del Prierias, Dialogus de potestate Papae (1518) o quello del Caetano sulle indulgenze (composto nel 1518); ma questo non c’interessa qui. La controversia dei primi anni verte soprattutto su argomenti presentati in forma tradizionale (De potestate Papae, De authoritate summi pontificis); solo verso il 1530 l’interesse si sposta nel senso dei nuovi problemi benché già del 1525 sia l’Apologia de convenientia institutorum Romanae Ecclesiae cum Evangelica libertate di Fr. Silvester Ferrariensis (F. Lauchert, Die italienischen literarischen Gegner Luthers, Freiburg im Breisgau 1912, p. 270) e appaiono i primi scritti in lingua italiana. Questo risulta evidente anche solo dall’esame del sommario analitico del Lauchert stesso. 81

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ecclesiastici che la guidano, il provocatore, se non diretto, mediato, della trasformazione dei riti e delle leggi ecclesiastiche, l’avviatore, attraverso il flagello dell’eresia, della auspicata riforma. Certo, ai savonaroliani l’azione di Lutero era parsa fin da principio una conferma delle loro speranze, una risposta positiva alla loro attesa sostenuta dalla fede nelle profezie di riforma della Chiesa: «Questi, che l’intendono bene questa dottrina ed el computare e disaminare e’ tempi, che sottilmente e’ disegna, diranno, che questo anno del 1520 doveva essere le cose pronosticate da lui»83 , cioè dal Savonarola. Queste parole del Cerretani, che risalgono proprio al 1520, cioè alla data della prima diffusione delle notizie su Lutero e sulla sua azione, mostrano come fin da principio alcuni vedessero nel riformatore tedesco l’uomo annunciato, da ormai piú di due decenni, dal profeta ferrarese. Il Cerretani non si occupa ancora delle dottrine specifiche di Lutero, pur già determinate e chiarite nei loro fondamenti: per lui Lutero è «uomo prestantissimo per costumi, doctrina et religione» come si argomenta dai suoi scritti allora appena giunti a Roma. Le opinioni, che sono quelle degli scritti polemici, gli sembrano «molto proprie e conformi all’openione et vita della primitiva Chiesa militante»84 : ma l’elogio di Lutero si accompagna a quello di Erasmo e a quello del Reuchlin. Negli scritti di Lutero si vede ancora solo il ritorno alla Sacra Scrittura, com’era stato in tanti modi auspicato; o si spera ch’egli compia la riforma, della quale a Roma alcuni anni fa s’è tanto parla83 J. Schnitzer, Quellen und Forschungen zur Geschichte Savonarolas, III: Bartolomeo Cerretani, Storia fiorentina, Monaco 1906, p. 83. (Dalla Storia in Dialogo della mutazione di Firenze). Pubblicazioni del Seminario di Storia ecclesiastica di Monaco di Baviera, serie II, n. 5, III. 84 Ibid., p. 84.

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to, ma che poi s’è mostrata ispirata solo dall’amore dei beni temporali («Non avete voi a Roma una gran paura di questa renovatione della Chiesa per amore dei vostri beni temporali? –... Egli è vero, che da qualche anno in là se ne dubitò assai, ma hora se tu vedessi...»)85 . D’altra parte non si parla di rinnovamento della religione cristiana nella sua essenza, ma si pensa ch’essa sia invecchiata «non per sé, ma nella mente degli huomini»86 , e la polemica si volge contro la credenza filosofica nella eternità del mondo, e contro la convinzione naturalistica che il mondo «sia sempre stato, sia, ed habbia a essere con questa corrutione di tutte le forme e generatione, come sono corpi immobili, vigitativi, sensitivi et rationali, et che l’huomo habbia, per essere piú nobile dell’altre forme, a godere di tutte le altre, et che morto questo huomo sia finita ogni cosa per lui»87 . Anche l’avversario del Cerretani crede che «la Chiesa s’habbia a rinnovare,... perché l’è molto diversa da quella de’ primi cristiani», ma rifiuta Lutero solo perché condannato, ed è diffidente delle aspettazioni e delle speranze profetiche dei savonaroliani88 . A un certo momento il Cerretani fa dire a un interlocutore del dialogo dal quale riportiamo queste notizie: «E’ mi piace che ciascuno parli largo e col cuore aperto, perché e’ si trova meglio la verità...»89 . Insieme alla volontà di reagire alla decadenza della vita religiosa in senso cristiano, della devozione, della credenza nelle dottrine cristiane tradizionali, c’è l’altra esigenza, della liber85 Ibid., p. 91. È un evidente accenno al Lateranense V e alle speranze da esso destate, e cosí presto finite in nulla. 86 Ibid., p. 93. 87 Schnitzer, Quellen und Forschungen zur Geschichte Savonarolas cit. 88 Ibid., p. 95, cfr. nota 3. 89 Ibid., p. 96.

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tà di affermare e far valere la propria opinione sul modo di questa riforma, fondandosi sulla autorità della scrittura, ma senza curarsi di una gerarchia che piú non si stimava. In questo momento non era ancor chiaro in Italia come Lutero avrebbe mutato sostanzialmente la dottrina cristiana, l’essenza stessa della Chiesa, andando dallo scisma all’eresia; e la comunanza fra lui e il Savonarola, che poi la storia doveva svelare come negativa, era sentita piú forte e piú intima, in quell’aura apocalittica nella quale viveva lo spirito di Lutero e quello delle popolazioni in tante parti d’Italia, e specialmente quello dei savonaroliani90 . L’interesse dei laici italiani per Lutero, per quanto ne abbiamo notizia, era dunque, in questi primi momenti, generico, di carattere piú morale e politico, che dottrinale e vólto agli elementi specifici delle idee di Lutero. Anche l’interesse per i libri dei capi protestanti fu generico in coloro che cominciarono a procurarseli, e che vi cercavano la tradizionale polemica contro le degenerazioni degli ordini religiosi vedendo nelle nuove dottrine soprattutto nuovi argomenti. Cosí quel tipico rappresentante degli interessi della cultura italiana del secolo che fu il Brucioli si mostra nel 1528 piú anticlericale in senso moralistico, cioè convinto che le istituzioni ecclesiastiche dovessero venir riformate per togliere gli abusi e la corruzione, e che la sorveglianza della vita morale dovesse venire data alle autorità civili (comunali nella sua mente di repubblicano), che riformatore in senso preciso. Per il Brucioli, come per tanti savonaroliani, riforma politica, ritorno alla organizzazione comunale, e riforma 90 Sul rapporto Savonarola-Lutero e il modo come venne poi concepito nell’ambiente degli eretici italiani, cfr. Incontri cit., pp. 69 sgg.; Schnitzer, Savonarola cit., II, 744 sg., 944 sgg., ma vedi la recensione di F. Chabod, in «Leonardo», 11 (1931), pp. 417-18.

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religiosa, ritorno alla devozione antica e alla serietà religiosa, facevano tutt’uno: ma si trattava di opposizione al costituirsi del principato e alla indifferenza religiosa degli umanisti, piú che di idee nuove, o atte a incanalare e a guidare le nuove esigenze. Dell’umanesimo il Brucioli riprende soltanto il moralismo politico e l’idea dell’utilità dello studio delle lingue come «vagine della spada, cioè del verbo di Dio», per la preparazione di un sacerdozio colto e atto a spiegare la scrittura: ma non elabora questa idea sotto l’aspetto religioso come invece l’elabora sotto quello politico. Dalla Riforma e dall’esperienza fiorentina prende l’idea dell’intervento delle magistrature cittadine nella vita ecclesiastica e religiosa, ma in questo primo momento non fa propria neppure la dottrina della fiustificazione per la fede: «A volere che la repubblica in tutte le cose fiorisca, et si mantenga salva et potente, bisogna ch’ell’habbia i suoi cittadini dotti, sapienti, buoni, pieni di ragione et drittamente educati, et per le buone attioni accetti a Dio»91 . 91 Dialogi della morale philosophia, Venezia 1526, XXIX, r. Nel 1530 i fiorentini insorti contro i Medici scacceranno il Brucioli, che pure era stato uno dei piú noti fuorusciti antimedicei, perché «pizzicava, secondo che le brigate dicevano, d’eresia, ed era tenuto luterano» (B. Varchi, Opere, Milano s.d., p. 155 [Storia Fiorentina, lib. VIII, cap. 30]). Ma già lo storico fiorentino osservava che di certo si conoscevano solo manifestazioni del suo anticlericalesimo: «Cosa certa è, ch’egli era nemico a spada tratta de’ chierici, e speziaimente de’ frati, e gli oppugnava a viso scoperto...» Sembra che fosse diventato anche antisavonaroliano. I frati cosí attaccati, reagirono, e il Brucioli fu messo al bando per due anni: cosa che destò malcontento, «dicendosi ch’egli diceva vero, e che aveva mille ragioni a non voler che i frati... delle cose secolari ed in specialità di quelle degli Stati si travagliassero». Sul Brucioli, cfr. Bongi, Annuali di Gabriel Giolito de’ Ferrari, Roma 1888, vol. I, pp. 56 sgg.; E. Comba, I nostri protestanti, II: Durante la Riforma, Firenze 1897, pp. 115

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CAPITOLO QUARTO

La Riforma in Italia, e le sue tendenze teologiche.

Negli anni che vanno dalle prime notizie di Lutero in Italia alle prime avvertenze contro la diffusione dei libri protestanti nei conventi e fra i secolari (1524), al Sacco di Roma, alle prime notizie di pubblica predicazione della dottrina della giustificazione per la fede (1528) e della riforma, fino alla composizione dell’Actio in Pontifices Romanos del Paleario (1536), ai convegni del Valdés a Napoli, e alla fuga di Bernardino Ochino (1542), prendono il sopravvento i motivi della giustificazione per la fede, della riforma delle istituzioni ecclesiastiche e anche della dottrina dei Sacramenti, e della religione interiore valdesiana. Degli antichi motivi di critica umanistica, di tendenza filosofica a interpretare razionalmente la fede, di reazione tradizionalistica e antiintellettualistica a questa tendenza, di sentimento d’attesa per un rinnovamento radicale della Chiesa, di anticlericalesimo vôlto contro clero regolare e clero secolare, rimane vivace solo quest’ultimo, che anche nell’Actio del Paleario rivela il suo fondamento più etico-politico che religioso e dottrinale92 . Contro la indifferenza religiosa, cioè contro l’indifferenza per le discussioni dottrinali e per la teologia, come questa si presentava in uomini del tipo del Castellesi, aveva grande efficacia il pensiero del Valdés, che però accentuando il motivo della riforma interiore con-

sgg. {G. Spini, Tra Rinascimento e Riforma. Antonio Brucioli (Biblioteca di cultura, 17), Firenze s.d. (apparso nel 1940)}. 92 Cfr. G. Paladino, in Opuscoli e lettere di riformatori italiani del Cinquecento, II, 1927, p. 264.

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duceva a una religiosità puramente individuale o di piccoli gruppi, non adatta a produrre o a guidare un movimento largo e radicato in tutti i ceti della popolazione, come doveva essere un movimento di riforma generale. La soluzione dei problemi etici e religiosi non veniva cercata piú in quella scienza ecclesiastica di Dio, che aveva creato una organizzazione dottrinale, giuridica, disciplinare grandiosa, ma in quel momento aveva perduto la coerenza interiore con se stessa, e mancava di una salda base nelle coscienze, dal momento che la gerarchia contravveniva a quella legge che imponeva altrui, anziché sottoporlesi spontaneamente. L’interesse per le dottrine riformate proveniva in questa situazione da quanto in esse v’era di antiteologico, insieme antiintellettualistico e antitradizionalistico, onde potevano attirare mentalità filosofiche, mentalità politiche e mentalità religiose. Cosí, fra i riformatori italiani, alcuni presero a diffondere le dottrine valdesiane, altri quelle della confessione augustana, cioè del Melantone, altri ancora quelle zuingliane, mentre si faceva sempre più vivo quel movimento di «riforma cattolica», come sarà poi chiamato, che ha i suoi rappresentanti piú famosi nel Sadoleto e nel Contarini, e il suo documento piú notevole nel «Consilium de emendanda ecclesia» del 1538. Questo movimento, che si potrebbe forse riallacciare al Concilio Lateranense, doveva sboccare nella organizzazione, prima, dei tentativi di conciliazione, poi del Tridentino; il movimento valdesiano doveva esaurirsi nella pietà interiore e nella spiritualità individuale e mistica di una Giulia Gonzaga, o in quella riforma morale che solo a volte rasenta il protestantesimo, come l’opera del Soranzo, del Pole, del Priuli; infine il movimento di accettazione delle dottrine dell’Augustana o dell’Helvetica prior, attraverso una storia ancora in parte oscura, pur ottenendo una notevole diffusione, specialmente in Lombardia e nel Veneto, doveva o cessare sotto la repressione, o sboccare nella emi-

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grazione. E ci fu un largo movimento di emigrazione, che dura si può dire per tutto il Cinquecento, raggiungendo il suo massimo nel ventennio fra il 1540 e il 1560, ma continuò ancora a lungo, e a volte, come nel caso dei lucchesi e dei siciliani di Ginevra93 , raggiunse una particolare intensità. Ma gruppi protestanti italiani si ebbero anche a Londra94 , dove la chiesa riformata italiana finí per aggregarsi a quella olandese, a Lione, a Strasburgo95 , 93 Pascal, Da Lucca a Ginevra, in «Rivista Storica Italiana», LI (1934), serie IV, vol. V, pp. 482 sg.; La colonia messinese di Ginevra e il suo poeta Giulio Cesare Pascali, in «Bollettino della Società di Storia Valdese» (ora «Bollettino della Società di Studi Valdesi»), 1934, n. 62, pp. 118 sgg.; 1935, n. 63, pp. 36 sgg.; T. R Castiglione, Un poeta siciliano riformato: Giulio Cesare Pascali, in «Religio», XII (1936), pp. 38 sgg.; Il Rifugio calabrese a Ginevra nel XVI secolo, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», VI (1936), pp. 165 sgg., ma soprattutto B. Croce, Un calvinista italiano, il Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo, Bari, estr. da «La Critica», vol. XXXI, 1933, ora in Vite di avventure, di fede e di passione, Bari 1935. 94 F. De Schicklet, Les églises du refuge en Angleterre, Paris 1892, vol. I, pp. 36, 87, 117 ecc.; J. E. Cerisier, Le pasteur Nicolas Oltremare, Genève 1905; Kerkeraads Protocollen der nederduitsche Vluchtelingen-kerk te London 1560-63, ed. da A.A. van Schelven, Amsterdam 1921 (Werken uitgeven door het Historish Genootschap te Utrecht, serie III, vol. 43, Premessa; p. 68 (Acontius) e passim. 95 P. Reuss, Notes pour servir à l’histoire de l’Église française de Strasbourg, 1598-1794, Strasbourg 1880, introduzione.

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a Basilea96 , per non parlare del gruppo dei locarnesi di Zurigo97 , e anche a Cracovia98 . In generale, questi emigrati finivano col fondersi nella società locale, e solo a Ginevra la comunità italiana, piú forte, poté durare piú a lungo attraverso la conservazione della sua chiesa: ma altrove, come a Basilea e a Strasburgo, le chiese italiane furono di brevissima durata, e finirono per scomparire nelle chiese locali, mentre con la seconda generazione cominciavano a scomparire le differenze linguistiche e gli emigrati si fondevano coi loro ospiti. Questo avviene anche per uomini come il Vermigli e lo Zanchi99 , che conservano solo qualche traccia degli interessi e degli atteggiamenti della cultura italiana dalla quale pure provenivano (lo Zanchi polemizza ancora nel 1564 contro il Pomponazzi)100 : il che del resto è reso possibile dalla loro provenienza monastica, che indica, assieme al metodo dei loro scritti, cultura scolastica, solo superficialmente toccata dall’umanesimo e dal nuovo pensiero. Certo, il Vermigli e lo Zanchi, che sono i maggiori rappresentanti di quella parte dell’e96 G. Bonet-Maury, Des origines du christianisme unitaire chez les Auglais, Paris 1881, p. 132; Toniola, Coetus italicus qui Basileae colligitur, Basileae 1661. 97 F. Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno, Zürich 1836, I, II. 98 F. Ruffini, La Polonia del Cinquecento e le origini del socinianismo, in «La Cultura», XI (1932). 99 Sempre importante per il Vermigli sebbene antiquato, Fr. C. Schlosser, Leben des Theodor de Beza und des Peter Martyr Vermigli, Heidelberg 1809; C. Schmidt, Peter Martyr Vermigli. Leben und ausgewählte Schriften, Elberfeld 1858; G. B. Gallizioli, Memorie storiche e letterarie della vita di Gerolamo Zanchi, Bergamo 1781; C. Schmidt, G. Zanchi, in «Theologische Studien und Kritiken», XXV (1859), p. 325. 100 G. Zanchi, Opera, Ginevra 1613, vol. III: De Operibus Dei, pp. 555 sgg.

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migrazione italiana che si mosse, anzi si fermò, entro i limiti delle organizzazioni ecclesiastiche protestanti, rivelano le tendenze della cultura italiana di fronte a questi problemi soprattutto nell’avere fatto propria la piú umanistica appunto delle dottrine della Riforma: quella dello Zwingli, coi suoi elementi intellettualistici nella interpretazione devota della Scrittura, col suo originario erasmismo, e con la sua cultura cosí largamente umanistica e insieme patristica101 . Verso lo Zwingli ci si era orientati presto in Italia, come mostra la lettera di un prete anonimo, che risale probabilmente al 1528 ed è un documento interessante della psicologia del piccolo clero italiano che aderiva alla riforma, e mostra come l’adesione alla dottrina «sacramentaria» fosse accompagnata anche da una certa impazienza per le dispute teologiche che cominciavano in terre101 Cfr. O. Ritschl, Die reformierte Theologie des 16. und des 17. Jahrhunderts in ihrer Entstehung und Entwicklung, Göttingen 1926 (continuazione del III vol. della Dogmengeschichte des Protestantismus), pp. 26 sgg.; Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte cit., rivela i tratti tomistici nelle dottrine dello Zwingli; ma questo non toglie che il pensiero di questi fosse sostanzialmente umanistico, come si vede soprattutto nel De vera et falsa religione, che è la sua opera principale (Sämtliche Werke, nel Corpus Reformatorum, III). Cfr. W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al sec. XVIII, trad. it., Firenze 1927, I, pp. 83 sgg. Queste osservazioni del Dilthey mi sembrano conservare tutto il loro valore anche dopo le recenti ricerche di W. Köhler sulla biblioteca dello Zwingli e sulla sua formazione culturale (Die Geisteswelt U. Zwinglis, Zürich 1920) non solo perché anche il Köhler riconosce ]’importanza dell’Antichità per lo Zwingli, ma soprattutto perché se per le dottrine particolari sui punti obbligati della teologia lo Zwingli ricorre alla somma di Tommaso d’Aquino e a Duns Scoto, questo non riguarda il suo pensiero, che rimane sostanzialmente umanistico.

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no protestante102 . Procedendo nel tempo troviamo diffuse in Italia le dottrine calviniste e, in generale, quelle delle chiese svizzere, a preferenza delle luterane e melantoniane; a questo contribuiscono non solo la ragione geografica della vicinanza e degli stretti rapporti commerciali, non solo la decisione dei Valdesi di accettare le dottrine calviniste e il rianimarsi della loro attività, specie nell’Italia meridionale, non solo i caratteri umanistici generali, il radicalismo e la coerenza delle dottrine degli svizzeri, ma anche, per quanto riguarda i lucchesi e i fiorentini, lo sfondo sociale e politico della riforma svizzera, analogo a quello delle aspirazioni dei repubblicani toscani, come ci appaiono negli scritti del Brucioli e nella sua idealizzazione della vita politica103 . Ma, accanto alla ammirazione per Lutero, e per la energia della sua azione, accanto alla diffusione delle dottrine degli svizzeri, accanto alla predicazione valdesiana, spesso intrecciata con esse, ma chiaramente distinguibili, cominciano presto a diffondersi in Italia anche dottrine e fermenti di idee che non si richiamano ad alcuna delle chiese che avevano trovato in Germania e in Isvizzera l’appoggio delle autorità politiche, fossero i principi o i 102 J. H. Hottinger, Historia ecclesiastica Novi Testamenti, Tiguri 1651, vol. VI pp. 620 sgg. Cfr. Atteggiamenti cit., pp. 53 sg. Per la diffusione delle dottrine protestanti in Lombardia e le loro caratteristiche, si veda l’acuta e completa analisi del Chabod, Per la storia cit., parte II. 103 Un parallelismo di «origine e natura psicologica, fra i «protestanti» religiosi e gli «oppositori» politici è stato accennato dal Chabod, Per la storia cit., p. 85, nota. Le riserve che fa il Chabod mi sembrano aver valore solo per la diffusione del protestantesimo in Italia, in genere; per il gruppo eretico la continuità fra opposizione politica e opposizione religiosa può forse avere un maggiore significato, perché i due Sozzini sono senesi e, come Mino Celsi, il piú vecchio di essi è avverso ai Medici; il Pucci è fiorentino e savonaroliano; amico di F. Sozzini è lo storico antimediceo P. M. Bruto.

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liberi comuni, ma ad un movimento che veniva da tutti perseguitato dovunque affiorasse, a dottrine che destavano quasi sempre nelle menti orrore e sdegno, come sovvertitrici delle fondamenta stesse della società religiosa e di quella politica: l’anabattismo104 . Il movimento dell’anabattismo italiano presenta il carattere particolare di aver raccolto subito intorno a sé soprattutto uomini di bassi ceti sociali, e di aver subito accettato le dottrine estreme che nel campo teologico aveva cominciato a diffondere il Serveto, fondendo cosí motivi religiosi sociali, radicalismo teologico, tradizione umanistica e misticismo religioso in una comune tendenza a semplificare la dottrina cristiana fino all’estremo, e a conservarne in fondo solo i motivi etici, che verrà presto considerata come tipicamente «italiana» negli ambienti della riforma protestante. Anche l’anabattismo italiano, dopo un primo periodo di rigoglio, cede alla repressione, pur continuando a vivere occultamente per qualche tempo, fino alla fine del secolo105 ; anch’esso dà origine ad una emigrazione notevole, la quale è però piú di persone isolate che di larghi gruppi, e dà origine al movimento ereticale italiano del Cinquecento. 104 Sulla diffusione dell’anabattismo in Italia: C. Benrath, Geschichte der Reformation in Venedig, in Schriften des Vereins für Reformationsgeschicte, Vter Jahrgg. 18, Halle 1886, e Wiedertäufer im Venetianischen um die Mitte des XVI Jahrhunderts, in Theologische Studien und Kritiken, LVIII, Gotha 1885; Comba, I nostri protestanti cit., II, pp. 479 sgg. 105 Cfr., Atteggiamenti cit., pp. 66 sgg.

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CAPITOLO QUINTO

Anabattismo e antitrinitarismo.

Nelle dottrine degli eretici italiani del Cinquecento troviamo, intrecciate le une con le altre, idee antitrinitarie, concezioni neoplatoniche, dottrine anabattistiche, aspirazioni razionalistiche e morali di carattere umanistico. Speculazioni astruse dunque assieme a motivi etici e culturali e a formulazioni teologiche di esigenze religiose derivate da necessità sociali. Il nesso, che parrebbe a tutta prima non potersi trovare, fra le astratte speculazioni sulla Trinità e sulla scala mistica per arrivare alla contemplazione di Dio, e le spesso anche troppo concrete e radicali esigenze di rivolgimento istituzionale e sociale che si manifestavano attraverso l’affermata necessità di rinnovare il battesimo o di compierlo solo nell’età matura, sta nella speculazione cristologica, che da una parte investe il dogma trinitario, dall’altra le concezioni della Chiesa, della comunità cristiana, e della sua funzione. In questo momento usciamo già dalla Riforma protestante di Lutero e di Calvino. È ormai comunemente accettata la osservazione del Troeltsch sul carattere «reazionario» della prima riforma106 : non solo Lutero e Melantone, ma anche Calvino, intendevano appartenere alla Chiesa Cattolica e Apostolica, della quale si consideravano gli unici rappresentanti legittimi per averne purificata la dottrina, tenendo fermo incrollabilmente ai simboli della tradizione cristiana e al sacro dogma della Trinità. I mistici anelanti alla diretta fusione dell’anima con la divinità, gli avversari della Chiesa come istituzione giu106 E. Troeltsch, Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, Venezia 1929, pp. 25 sgg.

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ridica e organizzazione politica, i visionari e gli ispirati insofferenti di regole per la retta opinione, i razionalisti indocili di fronte all’autorità, erano stati tolti dall’isolamento che li faceva procedere isolatamente o per piccoli gruppi, e si avviavano pressoché tutti verso la riforma protestante, dalla quale alcuni sembravano sperare soddisfacimento alle loro speranze, mentre altri erano respinti verso di essa dal riordinamento disciplinare e dall’irrigidimento intellettuale della restaurazione cattolica. I tempi eroici della prima azione riformatrice erano trascorsi, le passioni erano meno calde ma piú aspre e mentre la Riforma cattolica si volgeva in Controriforma, in terra protestante si procedeva al consolidamento delle conquiste raggiunte, con una mentalità spesso analoga a quella della Controriforma stessa. Quegli uomini che avevano sperato di trovare nei paesi «evangelici» la realizzazione di sogni millenari o la possibilità di una vita intellettuale spregiudicata come quella dei tempi anteriori alla crisi si trovarono naturalmente dalla parte della Riforma; ma finirono per formare entro di essa un gruppo irrequieto e irresoluto, che ebbe in sostanza solo la funzione di critica interna della Riforma stessa e preparatrice dell’età dei lumi. Tale funzione derivava dalla necessità nella quale quegli uomini si trovarono di cercare di impedire che le possibilità elementari di indipendente ricerca della verità e di giudizio critico, che avevano cominciato ad affermarsi nel secolo precedente, andassero perdute nella decisa lotta fra Riforma e Controriforma. Il carattere morale e pratico di questo problema si sarebbe a poco a poco chiarito agli stessi eretici, i quali erano preoccupati di problemi religiosi e teologici, che per loro si accentuavano tutti nelle speculazioni sul concetto della Divinità e sul problema dell’essenza della religione cristiana. Ed era proprio qui che i problemi teologici s’incontravano con le torbide e ancora inconsapevoli

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aspirazioni dei ceti popolari. Teologicamente, il fenomeno si manifestava con il fiorire delle eresie antitrinitarie e cristologiche sullo sfondo dell’anabattismo. Le eresie antitrinitarie e cristologiche, tendenti ora in sostanza ad accentuare la umanità di Cristo, del quale si predica la imitazione, sovente letteralmente intesa, e a minare dogmaticamente il carattere sacro della gerarchia ecclesiastica fondato sulla divinità del suo fondatore, sono molto antiche nella storia della Chiesa: e anche l’uso del battesimo degli adulti (e di conseguenza del ribattesimo all’entrare nella comunità che il battesimo della Chiesa non riconosceva) è un fenomeno ben noto nella storia dell’eresia, e si trova ad esempio già presso Catari e Valdesi107 . La continuità fra le opinioni antitrinitarie del Medioevo e i motivi ereticali ad esse connessi e quelle delle sette eretiche del tempo della Riforma viene riconosciuta da studiosi lontani fra loro nel tempo e nella posizione storiografica come il Dunin-Borkowski e il Keller108 , che entrambi credono a influssi dei Valdesi e di correnti panteistiche. Accanto a questi influssi, nascosti, e a quelli gioachimitici e del panteismo filosofico delle scuole, rilevati dal Dunin-Borkowski109 , occorre ricordare, per l’eresia antitrinitaria e per i suoi motivi, la critica dissolvitrice del nominalismo, della scuola dei «moderni», che fu trattenuta a lungo entro i limiti dell’orto107 F. Tocco, L’eresia nel Medio Evo, Firenze 1888, p. 185; J. Guiraud, Histoire de l’Inquisition au Moyen Age, I, Paris 1935, p. 239. 108 St. Dunin-Borkowski, Quellenstudien zur Vorgeschichte der Unitarier des 16. jahrhunderts, in 75. Jahre Stella Matutina, Festschrift, Bd. I, Feldkirch, pp. 99 e 134; Untersuchungen zum Schrifttum der Unitarier vor Faust Socini, ibid., Bd. II, pp. 113 sgg.; L. Keller, Die Reformation and die älteren Reformparteien, Leipzig 1885, pp. 11 sgg., 333 sgg. 109 Untersuchungen cit., Bd. II, pp. 113 sgg.

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dossia, ma che col decadere dell’autorità della Chiesa nel Rinascimento era andata facendosi piú ardita110 . Ad ogni modo, nel Cinquecento troviamo all’origine e come punto d’incontro di tutte le tendenze ereticali, l’anabattismo; e non soltanto in quel senso generico onde veniva chiamato anabattista tutto quel che non poteva venir designato secondo regole fisse nel campo religioso111 , ma anche nel senso specifico di movimento 110 Il Dunin-Borkowski (Quellenstudien cit., pp.135-37) contesta questa interpretazione, che risale allo Harnack (Lehrbuch der Dogmengeschichte, Freiburg im Breisgau 1890, III, p. 659); ma il Bainton, New Documents of Early Protestant Rationalism in «Church History», VII, 1938, pp.186-87, dimostra esaurientemente la fondatezza della interpretazione harnackiana. 111 Cosí, in fondo, l’anabattismo è apparso ai contemporanei. Per esempio il controversista luterano J. Andreae, Drey and dreissig Predigten, von den fürnembsten Spaltungen in der christlichen Religion so sich zwischen den Baepstlichen, Lutherischen, Zwinglischen, Schwenckfeldern und Widerteuffern halten..., Tübingen 1568, parte IV (con numerazione autonoma), osserva: «gli anabattisti, che non sono tutti d’accordo sulla stessa opinione, ma per molte vie sono separati gli uni dagli altri, in parte per la dottrina, dalla quale alcuni hanno il nome,...» (p. 3); e rileva come primo carattere unitario la dottrina della giustificazione, fondata sulle opere cioè il carattere morale e pratico della loro religiosità (p. 4). Solo negli ultimi tempi la storiografia ha cominciato a distinguere piú accuratamente fra le varie correnti in corrispondenza alla maggiore importanza riconosciuta alle sètte e comunità ereticali per la storia del protestantesimo dopo e con l’opera famosa di E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen and Gruppen, Tübingen 1912. Ma le distinzioni fra spirituali, libertini, anabattisti in senso proprio, e via dicendo, e poi fra mennoniti, melchioriti, joristi, ecc. hanno importanza strettamente teologico-dottrinale, e non presentano utilità per la valutazione in sede storica del loro movimento che solo nell’insieme acquista valore storico. Anche il Lindeboom (vedi nota seguente) riunisce in un solo capitolo «De sociale ketters van den Hervormingstijd enthousiasten en anabaptisten», coi quali entusiasti (Schwarmgeister) e anabatti-

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radicale a carattere sociale e teologico insieme, che cioè manifestava il suo radicalismo ponendo la esigenza di una società cristiana assolutamente nuova, fondata non sulla trasmissione oggettiva dei carismi o dei ministerî divini, ma sulla volontà e sulla convinzione personale. Nell’anabattismo e nei movimenti che attorno ad esso presero vita, confluivano l’insoddisfazione dei ceti popolari e di menti radicali per il trasformarsi dell’impulso originario della riforma protestante, com’essi lo avevano inteso, da rivoluzionario in tutore dello stato territoriale assolutistico o cittadino e borghese; l’impulso speculativo, l’esigenza intellettuale dell’esame completo, della ricerca e della affermazione della verità qualunque essa sia; e infine il realismo razionalistico e prammatistico dell’umanesimo, tendente alla effettuazione pratica immediata delle idee e dei principi ritenuti giusti e veri, fiduciosa nelle possibilità individuali dell’uomo112 . Queste tendenze, riunite insieme, portavano a idee non piú semplicemente riformatrici, tendenti cioè consapevolmente a conservare e a rafforzare attraverso il rinnovamento l’organizzazione sociale ed ecclesiastica esistente, ma immediatamente innovatrici: idee che, sotto la pressione politica e sociale, si concretarono in movimenti rivoluzionari violenti, come quello di Münster, che furono duramente repressi113 .

sti noi uniamo anche gli uomini della «parola interiore» e dello Spirito Santo; salvo ad accennare alle particolari distinzioni e caratteristiche quando presentino utilità per le nostre ricerche. 112 J. Lindeboom, Stiefkinderen van het christendom, s’Gravenhage 1929, pp. 157 sgg., 165 sgg. (Sebastian Franck e Schwenckfeld), 191 sgg. (Denck, H. Niclaes, David Joris); 218 sgg. (Entusiasti e anabattisti); 252 sgg. (Castellione). 113 L’idea piú diffusa dell’anabattismo è rimasta per sempre quella che ne dà l’eco dell’azione degli anabattisti «rivoluzionati» e del loro tentativo di realizzazione immediata e violenta dei famosi postulati di comunismo solidaristico, utopistico e

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La trasformazione e la rivoluzione reali si dovevano svolgere gradualmente, per intrinseca dialettica storica, dall’azione e dall’opera delle chiese riformate positive appoggiantisi o alle città come Ginevra o ai principi territoriali come la casa di Sassonia, anche se immediatamente queste chiese apparivano tendenzialmente reazionarie, giungendo a durissime forme repressive contro quei movimenti che per il loro estremo radicalismo e utopismo, mettevano in pericolo, con le basi della società esistente, la riuscita stessa della riforma e l’affermazione delle sue fondamentali esigenze, proprio nell’atto di realizzarle immediatamente e integralmente.

cristiano. Gran parte della storiografia di questo movimento si può dividere in due sezioni: quella degli scrittori appartenenti alle grandi «confessioni», i quali riprendono sempre il motivo di Münster; e quella degli scrittori dell’anabattismo «tranquillo», che è quello che c’interessa, i quali hanno sempre cercato di distaccare la loro storia da quella degli altri, nel modo piú completo. Cosí alla indagine storica s’è mescolata la controversia teologico-politica, che è stata risvegliata negli ultimi decenni quando scrittoti socialisti hanno cercato di vedere «precursori» negli anabattisti del sec. XVI (K. Kautsky, Die Vorläufer des neueren Sozialismus, Stuttgart 1895, vol. I, P. 1, pp. 323 sgg.; da noi, I. Caracciolo, Bagliori di comunismo nella Riforma, Città di Castello 1921; G. Piscel, Il Regno degli anabattisti [Collezione di Storia, Religione e Filosofia «Doxa», n. 4], Roma, s.d.); provocando, direttamente o indirettamente molte confutazioni, specie da parte dei Mennoniti che sono sempre stati i maggiori rappresentanti dell’anabattismo «tranquillo» (per esempio B. Unruh, Die Revolution and das Täufertum, in Gedenkschrift zum 400 jährigen Jubiläum der Mennoniten oder Taufgesinnten 1525-1925, Ludwigshafen am Rhein 1925, pp. 47 sg.). Ma anche se è vero che l’anabattismo dopo Münster ha cambiato tono non si possono piú negare i rapporti fra gli uomini e le idee dell’anabattismo «rivoluzionario» e quelli del «tranquillo» (C. Krahn, Menno Simone, Karlsruhe im Breisgau 1936, p.10).

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Intanto, «anche quando la ribellione fu soffocata in fiumi di sangue, continuò pur sempre a fermentare un fuoco sinistro e minaccioso, rimase viva una continua diffidenza, una malcelata animosità contro le istituzioni ecclesiastiche positive. Ne derivava una tendenza a separarsi dalla Chiesa ufficiale, per formare una comunità purificata dalle fondamenta, perfetta nel senso apostolico, staccata da ogni cosa mondana, senza eccezione: autorità civile, giuramento, servizio militare. In genere doveva esserne escluso tutto ciò che potesse venir considerato come abuso anticristiano: anche il battesimo degli infanti, la posizione speciale degli ecclesiastici. Ecco i tratti fondamentali dell’anabattismo, che visse prima in forma piú violenta e poi in forma piú mite»114 . In questa seconda parte della sua storia, che si svolge oscuramente e difficilmente potrà esser chiarita nei suoi particolari per il segreto del quale si è avvolta fin da principio per difendersi dalla spietata persecuzione delle autorità religiose e politiche, l’anabattismo è stato come il punto d’incontro dei movimenti ereticali, dell’opposizione religiosa a quello che per spiriti piú semplici o menti piú conseguenti sembrava un tradimento, politico o dottrinale, dello spirito originario del movimento di riforma: degli entusiasti, dei visionari, degli uomini della parola interiore, degli ispirati, degli spirituali, o come altrimenti si sono chiamati i membri di quel mondo in fermento. Ed è sullo sfondo dell’anabattismo coi suoi motivi sociali che, ripiegatisi quei movimenti su se stessi e divenuti semplici sette e chiesuole, conventicole come allora si diceva, 114 F. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin vol. I: Michael Servet und seine Vorgänger, Heidelberg 1839, p. 7. Cfr. C. Hase, Kirchengeschichte, Leipzig 1896, IIIer Teil, Ie Abt., 2ª ed., p. 292. Le parole del vecchio scrittore svizzero nella loro semplicità servono meglio che le distinzioni teologiche troppo sottili.

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ne sorge una intensa vita di dottrine, elaboratrice di idee nuove e feconde. Vengono ora presi in esame quei punti della tradizione dogmatica speculativa cristiana che i filosofi avevano già qualche volta sfiorato, ma che ai primi riformatori, del tutto o prevalentemente vôlti alla pratica attuazione delle loro riforme e alla riorganizzazione delle loro chiese, erano apparsi immuni da corruzioni e da deviazioni, benché anche Lutero e Calvino, per letteralismo scritturale o per spirito polemico antiromano e antiscolastico, avessero guardato con una certa diffidenza, piú che alle sottigliezze speculative, alla non biblica terminologia del dogma trinitario115 . Il punto di partenza non sta in una preoccupazione razionalistica o astrattamente teorizzatrice, ma nella esigenza di comprendere a fondo e con tutte le sue conseguenze in senso morale il concetto, già diffuso e cosí efficace nei piú differenti strati della società, della «imitatio Christi». Dal motivo della «devotio moderna» ora si stacca la dottrina che tutta l’efficacia redentrice di Cristo consiste nella sua esemplarità; intesa non soltanto come conseguenza e derivazione secondaria dell’idea dell’«imitatio», ma come dottrina principale della vita religiosa, e quindi anche con valore esclusivo, questa dottrina doveva portar molto lontano. Perché tale concetto della esemplarità di Cristo avesse efficacia 115 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., vol. I, pp.12, 158 sg., E. Doumergue, J. Calvin, les hommes et les choses de son temps, vol. II, Lausanne 1902, pp. 219 sgg.; R N. Carew Hunt, Calvino, trad. it., Bari 1939, p. 61. Di un giudizio di Lutero si vantano ancora molto tardi i compilatori del volumetto: Fausti et Laelii Socini, item Ernesti Soneri tractatus aliquot theologici nunquam antehac in lucem editi; Eleutheropoli, Typis Godfridi Philadelphi, 1630-54. Cfr. M. Luther, Werke, ed. Weimar, vol. XLI, p. 270, 6; XLV, pp. 89, 19; XLVI, pp. 436, 5 sg., 30 sg.; Anabattismo e neoplatonismo cit., p. 635.

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reale occorreva concepire il Redentore soltanto come un purissimo ideale di umanità: il fiore dell’umanità, la cima piú alta di essa, su cui convergono i raggi della parola divina, ma puramente ed esclusivamente umano116 . Ed ecco speculazioni metafisiche: Dio viene concepito da uno dei primi anabattisti, il Denck117 , come fonte originaria di tutte le creature, che attraverso lo Spirito, cioè attraverso la sua stessa energia, ha prodotto da se stesso il Verbo. Ma il Verbo non è il Figliuol di Dio, il Logos della comune tradizione cristiana, ma l’insieme delle anime umane, l’anima dell’umanità: di conseguenza, il Verbo non ha avuto esistenza prima della creazione del mondo, ma ha avuto inizio nel tempo; e questo inizio coincide con l’inizio del genere umano. Scomparsa ogni deità di Cristo nei confronti del tutto divino genere umano, scompare ogni concetto di redenzione e di giustificazione per Cristo, con la conseguente riabilitazione della libera e meritoria volontà umana, capace di seguire l’esemplare perfetto della vita cristiana, Cristo stesso, imitabile, perché realmente uomo, dagli uomini figli di Dio. Da questo punto di vista, il contrassegno del vero cristiano era la sua condotta religiosa, che si riduceva alle sue opere. Lo Zwingli vedeva chiaramente come tali dottrine negassero in pieno le idee fondamentali della Riforma: «Christum negatis, quum ad operum fiduciam reducitis»118 . Da questa dottrina veniva anche di116 «Gesú Cristo di Nazareth ci redime solo se noi seguiamo le sue orme; chi pensa altrimenti, ne fa un idolo», dice il Denck nel 1527 (in Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., p. 96). Le esposizioni, le citazioni e i riassunti dei Dunin-Borkowski sostituiscono i testi originali, che non mi è stato sempre possibile consultare. Del resto il Denck, che qui viene preso come esempio per tutti, non ebbe rapporti diretti con gli italiani. 117 Ibid., pp. 95 sg. 118 In Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 20 nota 2. Sul Denck e sugli altri antitrinitari

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rettamente la svalutazione della Scrittura in pro’ del verbo interiore, dell’intima ispirazione. Di fronte a questa ogni esteriorità perdeva valore: né la predicazione, né la parola scritta, né i sacramenti avevano piú alcun valore. Il battesimo diveniva quasi un adiaforon. Tutti dovevano poter essere cristiani, cioè veramente uomini, e salvi: «Fructum autem alium non requiro [...] quam ut quamplurimi corde et ore Deum et Patrem Domini nostri J. Christi glorificarent, sive circumcisi, sive baptizati, sive neutrum» dice uno di loro119 . Il peccato originale, la cui esasperata coscienza ha tanta importanza e per Lutero e per Calvino, perde per questi uomini dell’«anabattismo» popolare tedesco ogni significato, come è ovvio: «Ille noster Campanus, – scrive il Melantone, – hunc attulit magnum acervum impiorum dogmatum... Disputat Christum non esse Deum; Spiritum Sanctum non esse Deum; peccatum originale nomen inane esse. Denique nihil non transformat in Philosophiam»120 .

«spirituali» tedeschi e svizzeri, cfr., oltre il Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., e il Lindeboom, Stiefkinderen cit., (pp. 193-201), Rufus M. Jones, Spiritual Reformers in the XVIth and the XVIIth Centuries, 2ª ed., London 1928, pp. 39-45. 119 Oecolampadii et Zwinglii Epistolae, Basileae 1536, fol. 197v. 120 Melanchtonis Opera, ed. Bretschneider, II (Corpus Reformatorum, 2), coll. 33 sg.

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CAPITOLO SESTO

Il Serveto e la sua dottrina nei suoi rapporti con l’umanesimo e con l’eresia italiana.

Come accade dove c’è una sia pur relativa libertà di discussione, a Venezia s’era presto giunti dall’interesse genericamente religioso per le nuove dottrine ad una analisi piú particolare dei problemi che in esse erano impliciti; e la preparazione filosofica, patavina o fiorentina, diffusa nella cultura italiana, aveva ben disposto gli animi alla discussione piú ardita dei principi stessi del Cristianesimo, e a rinnovare radicalmente. L’avviamento a questa critica avanzata vien dato dagli scritti del medico e filosofo spagnolo Michele Serveto, che si diffondono nel Veneto subito dopo la loro pubblicazione, e inducono gli ambienti melantoniani a scrivere al Senato veneto per porlo sull’avviso121 ; si sperava allora di ottenere il favore se non la tolleranza della Serenissima, e non si voleva che le dottrine del luteranesimo venissero confuse con quelle cosí estreme e negatrici, che arrivavano a porre in dubbio il mistero stesso della Trinità. Oltre la lettera pseudo-melantoniana del 1538 non abbiamo testimonianze precise della diffusione delle prime due opere del Serveto in Italia, poiché gli scritti degli eretici italiani che rivelano lettura e uso delle opere del Serveto sono di periodo posteriore all’inizio dell’esilio. Ma la lettera pseudo-melantoniana, con la sua preoccupazione di impedire la diffusione degli scritti del Serveto, della cui lettura in Venezia probabilmente i tedeschi 121

Melanchtonis Opera, ed. Bretschneider, vol. III, pp. 745

sgg.

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erano stati informati dall’Altieri122 , ci basta per potere affermare che le idee del Serveto si diffondevano nel Veneto, tanto piú che le riunioni di anabattisti nel Veneto si trovano anche anni dopo a discutere conclusioni e tesi antitrinitarie, e anche altrove si ponevano in dubbio la Trinità e l’Incarnazione. Probabilmente non tutti coloro che discutevano questi argomenti, terribili ad affrontarsi per un cristiano specie se posti non sul piano dell’ipotesi filosofica, ma su quello della dottrina religiosa per il rafforzamento della fede, conoscevano le opere del Serveto; ma le idee in esse contenute, le tesi e le formule principali erano certo conosciute: il dogma trinitario esser costruzione «filosofica», cioè intellettualistica ed ecclesiastica, cioè in funzione della supremazia della gerarchia romana; Cristo inferiore al Padre, e ad ogni modo non identico, onde ingiustificata l’interpretazione tradizionale degli attributi del Pontefice vicario di Cristo; doversi portare all’estremo la critica delle dottrine tradizionali. Quando già il fatto stesso di affrontare certi problemi è tenuto in sospetto dalle autorità, la conoscenza delle idee di chi se li pone, del modo con cui vengono posti e delle conclusioni che se ne traggono, è sempre generica, e per la difficoltà di procurarsi libri e scritti, e per la tensione polemica che toglie l’interesse spassionato della ricerca, poiché l’importante sembra stare in limine, nel semplice e negativo scrollare le condizioni che paralizzano ogni sano e aperto svolgimento di quegli interessi. Poiché gli scritti del Serveto vennero subito ricercati e distrutti dalle autorità ecclesiastiche protestanti, e poiché i principi in essi esposti non trovarono eco e non furono elaborati fuor che nell’ambiente degli eretici italiani, a buon diritto il Morse Wilbur ha potuto affermare 122 Cfr. Comba, I nostri protestanti cit., pp. 186 sgg. La supposizione che fosse l’Altieri ad avvertire gli ambienti melantoniani è mia. Sul Serveto vedi piú avanti.

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che la loro importanza storica consiste quasi unicamente nella influenza da essi esercitata sugli italiani123 ; tanto piú che ancor meno diffusa fu l’opera maggiore del Serveto, la Christianismi Restitutio, perché ricercata e disfrutta ancor prima che ne fossero vendute le primissime copie124 . Dato questo fatto, e dato il carattere dell’influenza esercitata da quegli scritti, interessa vederne, piú che le dottrine teologiche particolari nelle loro differenze e nelle loro sfumature, la tendenza generale di pensiero; e ci si può servire tanto del primo scritto, che il Serveto poi rifiutò perché immaturo («tanquam a parvulo parvulis scripta»), quanto del secondo125 . L’intenzione del Serveto è dichiarata esplicitamente fin dal principio del De Trinitatis erroribus libri septem: «Quam plurimos cerno, qui parum aut nihil homini tribuunt, et verum Christum oblivioni penitus tradunt: quibus ego ad memoriam, quis sit ille Christus, reducere curabo»126 . Dunque attraverso la dottrina che Cristo sia vero Dio, non per identità di natura col Padre, ma per comunicazione della natura divina a lui da parte del Padre – ma soprattutto vero uomo, il Serveto vuol porre in rilievo la umanità di Cristo, in reazione alle speculazioni scolastiche, ch’egli conosce, sulla divinità di 123 E. M. Wilbur, The Two Treatises of Servetus on the Trinity (Harvard Theological Studies, XVI, Cambridge (Mass.) 1932), pp. XVII-XVIII. «De Trinitatis erroribus libri septem» (Hagenau), 1531; «Dialogorum de Trinitate libri duo. De justitia regni Christi, capitula quatuor» (Hagenau), 1532. 124 Carew Hunt, Calvino cit., pp. 202-3. Roland H. Bainton, The present state of Servetus studies in «The Journal of Modem History», IV (1932) pp. 77 sgg. {Cfr. adesso: E. M. Wilbur, A History of Unitarianism, Socinianism and its Antecedents, Cambridge (Mass.) 1947. pp. 49-75 e 113-49}. 125 Uso le copie esistenti presso la Biblioteca Angelica di Roma (antica segnatura I, 1, 45, 46; nuova, Rari, I, 1, 7, 8). 126 De Trinitatis erroribus, p. 1r.

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esso. «His igitur cavillationibus reiectis, syncero pectore verum Christum, et eum totum divinitate plenum agnoscimus»127 . Si tratta insomma di un uomo divinizzato (attraverso il divino e misterioso processo della concezione virginale) poiché Dio può comunicare all’uomo la «deitatis plenitudo», e dargli il nome superiore a tutti gli altri nomi, cioè conferirgli la qualità suprema; la qualità di Dio: «Si enim de Moyse concedimus quod factus est Deus Pharaonis, multo fortius et excellentiori longe modo factus est Christus Thomae et omnium nostrum Deus, dominus et magister»128 . Certamente questo processo di deificazione è singolare ed unico, per quanto riguarda Cristo; ma non per ciò si può negare, secondo il Serveto, che si tratti di un processo onde un uomo viene deificato, e che in Cristo si debba veder soprattutto questo uomo. «Cum Christo latius erit privilegium, ut non modo filius Dei, sed etiam dicatur et sit Deus poster, nam dignus est agrius qui occisus est, accipere divinitatem, scilicet accipere potentiam, divitias, sapientiam, fortitudinem, honorem, gloriam, et benedictionem»129 . Qui si rivela già il concetto servetiano della divinità, dell’essenza di Dio, che per lui è energia, attività, potenza infinita e continuamente operante. E la divinità, anzi, la «deità» conferita da Dio all’uomo in Cristo non diminuisce per nulla la potenza di Dio, come si potrebbe obiettare: «Quod autem Deus homini aliquid det, hoc non est detrimentum Dei, sed exaltatio hominis: nec est mutatio in Deo, sed in homine...»130 . Dunque Cristo si è dichiarato da se stesso «Deum non natura, sed specie, non per naturam, sed per gratiam»131 . Ibid., p. 11r. Ibid., p. 11v. 129 Ibid. 130 Ibid., p. 12r. 131 Ibid., p, 12v.

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Il Serveto è consapevole della possibilità che la sua dottrina venga accusata, per ragioni polemiche, di rinnovare la eresia ariana: e da questa si distacca nettamente, dichiarando che Ario, «Christi gloriae incapacissimus, novam creaturam homine excellentiorem introduxit»132 , mentre a lui, Serveto, preme soprattutto di fare intendere le possibilità divine dell’uomo, attraverso Cristo. La interpretazione del Verbo è coerente a queste premesse: il Verbo è l’eterno consiglio di Dio, una certa disposizione o dispensazione divina «qua placitum est ei arcanum voluntatis suae nobis revelare»133 . Questo è «quod erat»; ma dopoché Iddio, elevando e santificando l’uomo Cristo, lo ha fatto Dio, e il Verbo è divenuto carne, cioè una vuota forma (persona) è divenuta una sostanza reale (res), e dall’ombra si è passati alla luce, quel che prima era la «persona Filii»134 , cioè la vuota forma, ora è lo stesso Gesú Cristo reale, «qui est verus realis et naturalis filius Dei, nec est nunc in Deo alla hypostasis seu facies nisi homo ipse Christus, nam vertente se ipsa, cessat personalis repraesentatio»135 . Sullo Spirito il Serveto sembra dapprima incerto, ed elenca tutte le interpretazioni possibili, per mostrare la insostenibilità della dottrina tradizionale136 . Ma poi constata che nelle scritture si parla frequentemente del Padre e del figlio, ma non si fa menzione dello Spirito Santo, «nisi ubi est sermo de agendo, quasi per quandam accidentalem praedicationem, quod est notatu dignum, quasi spiritus sanctus non rem aliquam separatam, sed Dei agitationem, energiam quandam seu inspirationem Ibid., p. Ibid., p. 134 Ibid., p. 135 Ibid., p. 136 Ibid., p.

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13v. 48v. 93v. 92v. 22r.

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virtutis Dei designet»137 . Per il Serveto lo Spirito Santo è dunque l’ispirazione divina, la energia divina operante in noi, e in quanto operante in noi138 . Alla accentuazione esplicita della umanità di Cristo (che non giunge però alla identificazione di Cristo coi profeti, anzi polemizza contro di essa), corrisponde una accentuazione delle possibilità d’innalzarsi a Dio, da questi concesse all’uomo. «Ex hoc quod credimus eum esse filium Dei, et nos filii Dei efficimur»139 . Di qui la particolare concezione, mistica, della fede: «Nos ergo revelata facie gloriam domini, id est faciem Christi, illuminato spiritus speculo in nobis ipsis speculamur et repraesentamur, quia ipsemet illuminatus spiritus noster est speculum ubi ea gloria relucet. Et spiritu transformamur ad eandem imaginem, idest ad similitudinem gloriae domini. Per illuminationem enim transformatur spiritus noster, simili modo sicut facies Moysi, et sicut facies Christi transformata est»140 . L’effetto di questa fede illuminata in Cristo è l’obbedienza attiva ai suoi precetti, la quale ci fa «filii Dei», e in essa sta il compendio di tutto l’Evangelo: «sic dilexit Deus filium suum, ut hoc unicum de fide in Chistum praeceptum sit loco univerIbid., p. 28v. Cfr. Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., pp. 127 sgg. Cfr. anche il breve riassunto del pensiero servetiano nel Carew Hunt, Calvino cit., p. 200. 139 De Trinitatis erroribus, p. 83r. 140 Dialogorum de Trinitate libri duo, 1533, Er. Questo passo, che non è isolato, indica il rapporto del Serveto con le dottrine degli Alumbrados. Cfr. l’accenno di M. Bataillon, Erasme et l’Espagne, Paris 1937, p. 462; anche il Bataillon dà maggiore importanza al lato positivo (carità) della dottrina servetiana che a quello critico. 137 138

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sae legis subrogatum et longe maior in eius observatione utilitas»141 . Dunque, il Serveto intende che il dogma della Trinità, come gli altri dogmi, e come in genere la Scrittura, vada interpretato storicamente, non nel senso che si possa parlare di un processo storico della divinità, ma nel senso che l’idea della Trinità va interpretata in una maniera prima della venuta di Cristo e in un’altra maniera dopo la sua venuta: e su questo concetto il Serveto polemizza contro la concezione tradizionale. Al compimento della seconda epoca, e alla consumazione dei tempi, quando Cristo restituirà al padre il suo regno, nel quale oggi noi viviamo, cesserà la dispensazione di Cristo, e cesserà pure la funzione dell’idea trinitaria anche nella forma rinnovata, cristocentrica, che il Serveto propone142 . Questa la concezione positiva del Serveto che è stata trascurata in genere dagli studiosi, preoccupati soprattutto della critica alla interpretazione tradizionale del dogma trinitario. Non si tratta dunque della negazione di questo importantissimo dogma e del mancato intendimento del suo valore speculativo, ma dello spostamento della interpretazione di esso, dal motivo teocentrico fino ad allora dominante, al motivo cristocentrico. L’accentuazione di quest’ultimo motivo corrisponde alla tendenza teologica di Lutero, di Melantone, dell’Ecolampadio, dello Zwingli, e specialmente di Calvino; ma si può riscontrare anche nella devozione savonaroliana e nella religiosità valdesiana; con essa dunque il Serveto si pone nel quadro generale della tendenza teologica della Rifor ma, come riformatore dottrinale: e allo stesso tempo per il radicalismo dottrinale si stacca consapevolmente da Lutero contro il quale polemizza, non accettandone il concetto fondamentale della fede. «Loquor semper, 141 142

De Trinitatis erroribus, p. 82v. Ibid., p. 81v.

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– egli dice infatti parlando della fede e dei suoi effetti di rigenerazione, – non de fide Lutherana, sed de fide Christi, quae sola iustificat; illa est ostium per quod intrantes purificamur, ut sic mondati in agro Domini digne laborantes talentum lucremur, universa evangelii fides Christi personam respicit, scilicet ut ei credamus, et in eo tota sit nostra fiducia...»143 . Il breve sommario che abbiamo dato del pensiero del Serveto nel suo insieme ci permette di proporre una interpretazione della posizione storica di questo strano scrittore, tale da comprendere le interpretazioni finora proposte, e da risolverne le difficoltà. Lo Harnack infatti aveva osservato gli elementi nominalistici del pensiero del Serveto nella sua critica alla Trinità: e su questa linea si sono posti gli studiosi americani, come il Bainton, che ha anche dimostrato analiticamente sia per le opere minori del primo periodo, che per la Restitutio, la quantità e la qualità delle cognizioni di filosofia scolastica possedute dal Serveto144 . Cosí l’idea dello Harnack, che in Serveto si facesse luce, nella caduta dei vincoli tradizionali provocata dalla riforma, la tendenza razionalistica del nominalismo, ha trovato una conferma contro la polemica del Dunin-Borkowski, il quale a sua volta nega ogni rapporto del pensiero del Serveto e degli antitrinitari in generale, fra i quali in cosí gran numero e di tanta importanza sono gli eretici italiani, con il nominalismo, nella sua specificazione di terminiamo o in generale. Ma tanto gli uni che gli altri vedono nel pensiero del Serveto e degli antitrinitari una manifestazione di razionalismo intellettualistico, e in questo senso è giustificata la riluttanza del Dunin-Borkowski ad ammettere una analogia fra questa tendenza e il volontarismo religioso e non raIbid., p. 96r. Cfr. supra, p. 44, nota 5 {e Church History cit., IX, 1940, p. 270}. 143 144

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zionalistico del nominalismo e dello scotismo. L’elenco delle citazioni scolastiche del Serveto, riprese poi da uno dei principali eretici italiani, il Biandrata, perde molto della sua efficacia probativa, per quanto riguarda il Serveto stesso e il suo pensiero, se si riflette alla incertezza e alla immaturità dell’opera nella quale soprattutto quelle citazioni ricorrono, che è la prima del Serveto, da lui stesso considerata di scarso valore. Di fronte alle polemiche che in essa si trovano contro dottrine (come la «communicatio idiomatum») del tutto differenti da quello che il Serveto crede di vedervi, si potrebbe pensare al frutto della riflessione sui problemi religiosi e speculativi del Cristianesimo da parte di una mente che ad essi si avvicinasse quasi con sorpresa mista ad eccitamento intellettuale per la novità con la quale le apparivano i problemi stessi. Nell’interesse per questi problemi rinnovato dalla Riforma, nell’ardore della scoperta, è un pullulare di idee che sembrano nuove, un criticare rapido di dottrine non precisamente intese, un sistemare il nuovo fervore religioso nei concetti filosofici ad esso precedenti, un cercare conforti di autorità alla propria interpretazione, un riflettere e insistere su di essa. Infatti se nelle due operette del Serveto che abbiam preso in considerazione, oltre le citazioni di Roberto Holcot, di Pierre d’Ailly, di Giovanni Duns Scoto, ecc., troviamo molti passi scritturali e un particolare sistema interpretativo, quel che ci interessa sono però soprattutto la citazione di Gioachino da Fiore e dell’argomento polemico che la Trinità metafisicamente intesa si trasforma in quaternità, la polemica contro i filosofi, e un notevole insistere sul pensiero di Tertulliano. Il Serveto polemizza con i filosofi nominalisti che cita, e polemizza con essi come contro i platonici e contro gli aristotelici, perché avrebbero portato sofismi filosofici e pretese metafisiche, motivi «intellettualistici» possiam dire con terminologia moderna, nel pensiero cristia-

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no, cosí chiaro ed evidente nella Scrittura. Questa chiarezza ed evidenza della Scrittura e la inutilità della filosofia al viver cristiano era un concetto che aveva i suoi precedenti nelle idee del Pico e del Castellesi, dei «fratelli della vita comune» e degli «alumbrados». Ma umanistico e filologico è l’atteggiamento del Serveto: «Duae pestes gravissimae, Aristotelis fermentum, et hebraicae linguae ignorantia christianos Christo privarunt»145 . Cosí, erasmiano è il tipo di interpretazione del λóγoς , come sermo, vox, nel senso letterale della parola146 , contro l’interpretazione metafisica (che per il Serveto vale fino alla venuta di Cristo, e con essa perde il valore, poiché si entra nella seconda dispensazione)147 . Al Valla invece ci conduce il sistema interpretativo del Serveto, che è fondato su una logica grammaticale, filologica, analoga a quella abbozzata nel primo libro delle Dialecticae Disputationes, con la sua insistenza sulle «res» di fronte alle astruse astrazioni «sofistiche» degli aristotelici148 , 145

De Trinitatis erroribus, p. 111v.

Ibid., p. 47r e passim. È nota la polemica che Erasmo dovette sostenere con lo Zúñiga (Stunica) per la sua traduzione del Nuovo Testamento e specialmente, fra l’altro, per la traduzione di λoγ óς con sermo invece che con verbum. (Cfr. Bataillon, Erasme cit., pp. 98 sgg., dove però non si parla di sermo e λoγ óς . Apologia ad Jac. Stunicam, in Erasmi Opera, ed. Leclercq, IX, coll. 304-5). Questa traduzione del termine cosí greve di significati fu ripresa dal Castellione e in genere dagli eretici italiani. Il Bataillon (p. 462, nota 2) rileva che il Setveto cita espressamente Erasmo una volta sola, nella Christianismi Restitutio, e dissentendo. 147 De Trinitatis erroribus, p. 21r, cfr. anche p. 23v. 148 Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., p. 133, mette in rilievo l’importanza della logica tentata dal Serveto, ma senza riavvicinarla a quella del Valla. Il Serveto si riavvicina espressamente ad Aristotele nell’esaltazione dell’attività efficiente: «Ultra omnia... operationem ipsam superesse novit Aristoteles, et 146

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e con l’uso delle determinazioni grammaticali come determinazioni logiche, cioè categorie. Il Serveto, per far valere il suo concetto di Cristo, afferma che finalmente con esso si ha non piú una «persona» astratta, ma una «res», una sostanza reale: il che si può comprendere solo al lume della dialettica del Valla; cosí pure corrisponde al pensiero del Valla il modo di criticare le interpretazioni degli avversari, con l’avversione alla moltiplicazione delle «res separatae»149 . Questo ultimo argomento, preso a sé, non è specifico del Valla, come anche si può riportare a motivi generali la contrapposizione delle «res» ai concetti astrusi; ma è specifico del Valla l’unire questi motivi con il motivo filologico, onde solo la purezza dell’eloquio garantisce il rigore del pensiero. E proprio in questo senso procede il Serveto, il quale mostra anche di identificare il «dici proprie» con l’«esse», proprio nel senso del Valla150 . Il Serveto adopra questo sistema dialettico per sostenere il suo concetto della divinità come potenza ed energia infinita, articolantesi nelle varie forme della Trinità, e svolgentesi nella storia del pensiero umano nei suoi rapporti con quello divino. Anche l’idea del logos come «eloquium seu vox dei», come «oraculum, vox, sermo, eloquium Dei», se dal punto di vista filologico ed esegetico si può far risalire ad Erasmo, per il contenuto filosofico, onde il pensiero divino (logos) diventa lingua, at-

eam tanquam finem ultra alios ultimum, qui et alios praesupponat, rette constituit, ne dormientes homines felicitatem nobis jactent» (Dialogorum libri duo, F. 4r). 149 De Trinitatis erroribus, p. 47v. 150 Ibid., p. 85v. A proposito dello Spirito Santo, il Serveto dice nel testo, a un certo punto: «Extra hominem non dicitur proprie spiritus sanctus»: in margine, allo stesso punto, invece di «non dicitur proprie» si ha, caratteristicamente, «nihil est»: «Extra hominem nihil est spiritus sanctus».

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tività pratica, manifestazione della energia divina procedente nella parola, va riportata al Valla, e al suo concetto dell’eloquenza151 . Era ovvio, e ci sembra consentaneo anche alla posizione psicologica del Serveto che abbiamo proposto come congettura, che il giovane dotto spagnolo, nel suo nuovo fervore per lo studio della parola, cioè del pensiero, di Dio e in cerca di sussidî alla costruzione di quella nuova interpretazione che confusamente intravvedeva, si volgesse a Tertulliano, che da pochissimi anni era conosciuto nelle sue opere oltre l’Apologetico, ed era stato raccomandato da Beato Renano proprio per il valore della sua latinità, per la sua lingua pura da intrusioni e sovrastrutture filosofiche, scolastiche152 . Sul modo col quale il giovane spagnolo dovette leggere il suo Tertulliano ci può dare qualche chiarimento l’osservare che l’accusa fatta dal Serveto ad Ario, di aver provocato con la sua eresia la filosofia scolastica e la terminologia trinitaria, è tolta di peso dalla Admonitio ad lectorem del Renano. Nel materialismo dell’apologeta africano il Serveto trovava un valido sostegno alla sua concezione energistica, che doveva svolgersi poi in panteistica, di Dio, e soprattutto una conferma del valore dei propri dubbi sulla concezione tradizionale della Trinità: conferma tanto piú importante per lui, in quanto non solo fondata 151 Ibid., p. 47r; L. Vallae Elegantiarum linguae latinae libri sex. De reciprocatione sui et suus, libellus eiusdem, ad veterum denuo codicum fidem ab Joanne Raenerio emendata omnia, Gryphius, Lugduni 1540, pp., 7, 8 e 9 della prefazione; sull’importanza della lingua per la comprensione della filosofia ecc.; G. Toffanin, Storia dell’Umanesimo, Napoli, s.d., ma 1932, pp. 164 sgg., nota il valore di questa prefazione, ma ne rileva solo le espressioni più generali, «politiche» e «nazionali». 152 Opera Q. Septimi Florentis Tertulliani... per Beatum Rhenanum Selestatiensem e tenebris eruta, Basileae 1521, Dedicatoria a St. Turz, vescovo di Olmütz.

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sull’autorità dell’antico scrittore, ma anche sulla purezza linguistica della sua latinità, secondo la dottrina del Valla. L’avversione per la filosofia, aristotelica come platonica, e la concezione della divinità come processo continuo di attività, come energia e potenza manifestantesi nella parola e nella ispirazione divina dell’uomo, congiunte con i dubbi linguistici e concettuali sulla formulazione filosofica della Trinità, dovevano condurre il Serveto a riprendere del pensiero gioachimita, ch’egli conosceva probabilmente solo dalla condanna inserita nelle decretali153 , il motivo antitrinitario, e la concezione delle tre dispensazioni divine svolgentisi quanto all’uomo nel tempo. Anche il pensiero di Gioacchino154 sulla Trinità è affine, come ha mostrato il Buonaiuti, a quello di Tertulliano. La critica alla concezione tradizionale della Trinità non è dunque fatta per spirito di critica razionalistica, ma per fervore d’entusiasmo religioso, e nello sforzo di accentuare l’esigenza cristocentrica della teologia, corrispondente alla esigenza generale dell’umanesimo e del suo pensiero, vôlto a intendere i valori umani. L’eco del153 De Trinitatis erroribus, p. 39r, cita espressamente «Decretalis, tap. Damnamus, de Summa Trin.» (H. Denzinger e J. B. Umberg, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum, ed. 18-20, Friburgi 1932; n. 431, p. 201). 154 Cfr. E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore, I tempi, la vita, il messaggio, Roma 1931, pp. 207 sgg. Cfr. anche F. Foberti, Gioacchino da Fiore, Nuovi studi critici sulla mistica e la religiosità in Calabria (Biblioteca storica Sansoni, IX), Firenze 1934, p. 91, per una opinione differente da quella del Buonaiuti che qui seguiamo. De Trinitatis erroribus, p. 35r: «Somnia quantumcunque velis, dirige oculos ad phantasmata, et reperies quod trinitas non est intelligibilis sine tribus phantasmatibus... Immo qusternitatem intelletto colis, licet verbo neges. Nam quatuor habes simulachra, et quartum est circa essentiam phantasma...» Sul concetto di «dispensazione», Ibid., p. 48r, in riferimento espresso a Tertulliano.

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la concezione gioachimita della storia della cristianità si unisce alla passione riformatrice per affrontare il pensiero scolastico nella discussione del dogma più importante della tradizione che si voleva rinnovare, e per liberare anche questo dagli elementi sofistici introdottivi dall’eresia e poi accumulatisi nel corso dei secoli per opera della «filosofia», che s’era intrusa nel pensiero cristiano sulle tracce dell’eresia. Certo, il Serveto, mentre attende l’avvento prossimo, imminente, del «regnum Christi», nel quale cesserà completamente la funzione del dogma della Trinità, crede nell’eternità, cioè nell’atemporalità di questo regno: «Unum et idem est regnum Christi, quod est, et futurum est, et omnes prophetiae, quae gloriam resurrectionis respiciunt, etiam nunc sunt impletae in iustificatis per gloriam spiritus dati»155 . Anche per Gioacchino, il terzo regno era già venuto per pochi eletti: ma nel pensiero del Serveto, accanto a questa idea, c’è l’idea della giustificazione per la fede operante e per l’obbedienza a Cristo, che è del tutto affine al pensiero del Valdés156 . La conclusione dei Dialogi («... nec cum istis, nec cum illis, in omnibus consentio, aut dissentio. Omnes mihi videntur habere partem veritatis et partem erroris, et qui155 Dialogorum, D 3v; sul prossimo avvento del «regno», ivi, 52 v e De Trinitatis erroribus, pp. 81v-82r: «Item, quia tunc omnis regnandi ratio cessabit, abolebitur omnis principatus et potestas, omne spiritus sancti ministerium cessabit, non indigebimus advocato nec conciliatore, sed erit Deus omnia in omnibus, et sic tunc cessabit Trinitatis oeconomia. Tertullianus etiam cessaturam dicit Trinitatem, quod nota sicut et nunc aliter est Trinitas quam fuerit olim...» 156 G. Di Valdés, Alfabeto cristiano, dialogo con Giulia Gonzaga, Introduzione, note e appendici di B. Croce, Bari 1938, pp. 34-35; E. Cione, J. de Valdés, La sua vita e il suo pensiero religioso, Bari 1938, salvo un breve accenno a p. 88, non si ferma su questo atteggiamento del pensiero del Valdés.

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libet alterius errorem dispicit, et nemo suum videt»)157 , col suo eclettismo di fronte alle discussioni teologiche e la conseguente convinzione che solo una libera discussione avrebbe condotto alla verità, era consentanea al carattere della cultura religiosa umanistica di tipo erasmiano, come si manifesterà nei tentativi d’accordo del Contarini, nell’atteggiamento di un Sadoleto, e nella tendenza generale degli eretici italiani emigrati. Ma nello scritto del Serveto appariva anche un’altra dottrina che doveva avere una notevole efficacia anche al di fuori della ristretta cerchia degli eretici umanisti e filosoficamente colti: la dottrina della carità superiore alla fede, che si ritrova tale e quale nel Ficino158 . Su questa differenza fra la fede, anche quella che il Serveto contrappone alla fede passiva e chiama rigenerante, e la carità differenza che si risolve in una superiorità della carità il Serveto insiste particolarmente, in un capitolo apposito del trattatello De Iustificatione, aggiunto ai dialoghi del 1532. «Fides est ostium, charitas est perfectio»: la fede sembra essere per Serveto un atto momentaneo, l’illuminazione che porta con sé la rigenerazione, mentre la carità è in certo senso l’attività stessa della fede, che conduce alla operosità, all’esercizio continuo delle virtú cristiane, conferendo quella capacità di sacrificio e quell’ardore, al quale la fede può aprire so157 Dialogorum, penultima pagina; il Serveto aggiunge, riprendendo il motivo umanistico ed erasmiano della conciliazione cosí diffuso fra gli italiani, e chiedendo per tutti quella possibilità di parola che ormai era scomparsa: «Facile autem esset omnia dijudicare, si liceret cum pace omnibus in ecclesia loqui, ut omnes prophetare contenderent, et priorum prophetarum spiritus sequentibus prophetis subijcerentur, ut illis loquentibus, si quid eis fuerit revelatum, priores tacerent...: sed nostrates de honore certant. Perdat dominus omnes ecclesiae tyrannos». 158 Cfr. Dress, Die Mystik des M. Ficino cit., p. 206.

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lo la strada. Solo la carità è virtú realmente spirituale, e il regno futuro, il regno dello spirito, sarà anche il regno della carità: «Charitas naturaliter symbolizat cum regno futuro, ubi nihil erit nisi charitas»159 . Essa dunque fa tutt’uno con quella vita eterna che noi possiamo avere in noi attualmente, vivendola ora in ispirito, mentre alla consumazione dei tempi la vivremo in carne ed ossa. Il Serveto arriva a dire che chi non sente in sé questa vita spirituale, è ancora pagano: «paganismum adhuc agit»160 . Benché il Serveto cerchi di dare valore alle opere, di contro alla dottrina luterana, e in un senso analogo a quello del Valdés, segue la ispirazione generale della riforma, affermando che il passaggio dalla carne allo spirito (l’ingresso nel regno di Cristo per mezzo della cognizione e della fede, al quale segue il vivere in esso regno per mezzo della carità), avviene senza partecipazione dell’uomo. «Omnino debet fieri patre trahente, et illuminante, et ex mera gratia, quos vult, vocante et iustificante, quia non est currentis nec volentis, sed Dei miserentis»161 : la rigenerazione in ispirito è un fatto della misericordia divina, non della volontà umana. Su questa misericordia diviF 5r, F 51 v: «Per fidem datur spiritus ad ea omnia illuminans, et nos charitate inflammans, ut tunc bonis operibus undique fluamus»; F 2v: «In aedificando corpus Christi in nobis, charitas habet energiam supremam, nam sicut nos per officia charitatis unius membri in alterum magis et magis in unum corpus aedificamur, ita Christi corpus magis et magis per eandem charitatem in nobis facit incrementum». 160 Dialogorum, D 3v: «Aeternam illam vitam iam habemus in nobis manentem, quia aeterna illa vita, qua victuri sumus in carne, nunc spiritu vivimus. Qui hoc in se ipso non praesentit, nondum est a Christo regenitus, sed paganismum adhuc agit. Unum et idem est regnum Christi, quod est, et futurum est, et omnes prophetiae, quae gloriam resurrectionis respiciunt etiam nunc sunt impletae in iustificato per gloriam spiritus dati». 161 Dialogorum, D 5 1r. 159

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na (la cui affermazione non implica secondo lui la negazione del libero arbitrio) il Serveto insiste, come il Valdés, accentuando anche il carattere spirituale della nuova vita e della legge cristiana, che non ha bisogno di esser scritta, e anzi, avrebbe potuto rimaner salda anche se gli Apostoli nulla avessero scritto: «Et quamvis apostoli nil scripsissent (si tamen durasset in nobis Christi cognitio) stare potuisset haec nova Christi lex, scripta interno atramento, quod est efficacia spiritus Dei viventis, qui legem illam in tabulis cordis imprimit»162 . Dunque, questo ardito spagnolo, spregiatore di Platone ed Aristotele, offriva una concezione spirituale della religione, indipendente nei suoi motivi e nella sua presentazione dal luteranesimo, affine nelle sue conseguenze alla filosofia platonica (la quale non conosceva, come aveva rilevato il Ficino, il dogma della Trinità) ma nel suo atteggiamento verso questa filosofia affine allo scetticismo del Castellesi e di Giovanfrancesco Pico. Con questo pensiero ci si avviava ad un nuovo passo nel soddisfacimento della esigenza della unità della vita spirituale formulantesi spesso misticamente, e allo stesso tempo dell’esigenza razionale di giungere a una cognizione chiara e coerente della fede. Non solo: i motivi della scuola padovana potevano trovare nel panteismo energetico del Serveto un sistema teologico che non costringesse a ricorrere alla dottrina delle due verità, poiché risolvendo l’essenza della vita cristiana nella carità, cioè in una attività pratica, si realizzava positivamente l’esigenza religiosa di quella dottrina, e si ammetteva libertà di discussione religiosa. Ma accanto a questi motivi filosofici e razionali, che riguardano piú la cultura filosofica che la filosofia vera e propria, altri motivi si trovavano nelle dottrine del Serveto che gli animi potevano essere disposti ad accettare in Italia piú che altrove, anche a prescinde162

Ibid., D 53 v.

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re dalla libertà di discussione che abbiamo veduto esser cosí altamente stimata dal Cerretani. Infatti la diffusione delle dottrine del Serveto dovette esser molto aiutata dagli elementi gioachimitici e spiritualistici che accompagnavano la critica al concetto tradizionale della Trinità: le profezie sull’avvento del regno di Cristo si avverano, poiché noi possiamo instaurare questo regno in noi vivendo in ispirito, possiamo essere rigenerati per la misericordia divina, per illuminazione divina, vivendo secondo lo spirito, cioè secondo l’ispirazione divina, secondo la legge non scritta dell’amore... È imminente la terza dispensazione della storia cristiana, anzi, essa si realizza in noi; l’età dello spirito, della libertà cristiana, l’età dell’oro che i mistici del platonismo ermetico avevano atteso, quella età che dopo rovine e disastri anche Egidio da Viterbo aveva annunciato, oltre che i profeti vaganti. L’età della carità cristiana, il cui ardore è superiore a quello della fede, e che rende possibile l’esercizio di quella povertà che tanto effetto fa sempre sulle anime semplici. E questa speranza di potere attuare immediatamente le aspirazioni religiose alla società cristiana perfetta, della pace e dell’eguaglianza, attraverso la partecipazione alla società dei rigenerati in ispirito, si incontrava con le speranze sollevate confusamente dalla riforma e concentrantisi nelle dottrine dell’anabattismo. Cosí le idee del Serveto hanno contribuito a dare un particolare carattere all’anabattismo italiano, accentuandone i motivi spiritualistici su una linea analoga a quella del movimento valdesiano, e rendendo possibile la sua unione proprio con quell’umanesimo che sembrerebbe il suo contrario, psicologicamente come idealmente. Infatti, lo spiritualismo del Serveto è affine a quello valdesiano: le affinità vanno oltre quella della dottrina della fede e delle opere, per giungere a quella della grazia divina illuminante e a quella della misericordia divina. E le speranze gioachimitiche nella terza dispensazione e nel

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regno dello spirito fornivano un contenuto piú vivace, assieme alla dottrina della carità, a quella riforma interiore, che non solo presso i valdesiani, ma in larghissimi circoli della vita italiana doveva ispirare tanti motivi: «Non attendete a quel che sta di fuori, ma prima riformate i vostri cuori», aveva detto un tipico portavoce della cultura italiana del primo Cinquecento, il Berni163 . Questa aspirazione alla riforma interiore aveva ricevuto un primo avviamento concreto dalle dottrine del Valdés: ma lo stesso soggettivismo di esse aveva contribuito a mantenerle entro limiti molto moderati, mentre animi piú irrequieti o piú semplici, desiderosi di rinnovazione completa, o menti piú radicali, impazienti dei freni della moderazione e della prudenza, insofferenti degli indugi e agitate dalle speranze destate dai successi d’oltralpe, trovavano nei lati positivi come in quelli polemici della dottrina del Serveto la formulazione delle loro aspirazioni e insoddisfazioni. La dottrina della carità poneva in rilievo l’esigenza pratica di uscire dall’isolamento individuale e di procedere all’azione ispirata, ed era atta a diffondersi in ambienti dove la necessità della solidarietà attiva fosse piú forte che negli ambienti aristocratici nei quali soprattutto si diffuse il pensiero valdesiano; la dottrina della legge non scritta dava grande libertà d’azione, e la critica al concetto tradizionale della Trinità rappresentava l’esigenza radicale di distacco completo dal vecchio mondo, ora che si instaurava il «regno dello spirito». 163 Nel Rifacimento dell’Orlando innamorato (Orlando innamorato di M. M. Boiardo, conte di Scandiamo, rifatto da M. Francesco Berni, cogli argomenti a ciascun canto, Milano 1806, II, Canto XX, st. 5, p. 72). Cfr. Atteggiamenti cit., pp. 44 sgg.; e G. Mercati, Su Francesco Calvo da Menaggio primo stampatore e Marco Fabio Calvo da Ravenna primo traduttore latino del corpo Ippocratico, in Notizie varie di antica letteratura medica e di bibliografia, III (Studi e Testi, 31), Roma 1917, pp. 60 sgg.

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CAPITOLO SETTIMO

L’anabattismo in Italia. Eretici italiani nei Grigioni: Francesco Calabrese, Girolamo Milanese, il Tiziano.

Non è a dire che il popolo, cioè le classi della società italiana non mosse dal movimento di idee dell’umanesimo e in certo senso rimaste fuori del «Rinascimento», non partecipasse al movimento di riforma religiosa, sotto qualunque forma si presentasse. Certo in Italia non si ebbero sollevazioni di moltitudini, violenze di folle: ma ad ottenerle occorreva il favore del principe all’azione suggestiva e incitatrice del pergamo, oppure l’appoggio di organizzazioni artigiane forti e indipendenti come nelle città svizzere, nella renana Strasburgo, o in Lione; e queste non avevano piú importanza nell’Italia dei principati, mentre quella fu resa presto impossibile dal movimento di riforma cattolica, con il suo lato di reazione antiprotestante, negli anni che vanno dal Sacco di Roma e dalla caduta di Firenze alla metà del secolo. Ma nei processi dell’Inquisizione che ci sono accessibili troviamo spesso, accanto ad alti personaggi, poveri preti e poveri grammatici, maestri, artigiani, semplici donne, gente lontana dalle accademie e dai circoli aristocratici, e pure ardentemente presente alla vita religiosa164 . Le manifestazioni di questa gente non vanno molto oltre una prima manifestazione, e un’abiura piú o meno rassegnata appena colti dall’Inquisizione; ma stanno a testimoniare una notevole diffusione delle nuove dottrine e delle nuove aspi164 Atteggiamenti cit., pp. 55, 60 sgg.; Chabod, Per la storia cit., pp. 116 sgg.

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razioni. È il frutto della crisi italiana dei primi anni del secolo, come è stata illustrata dal Chabod165 . Fra questa gente si diffondono anche le idee anabattistiche, delle quali cominciamo a trovare traccia fin dal 1529, ma già in esilio, seppure ancora ai confini d’Italia: è il «frater italicus» citato davanti alla Dieta di Ilanz per opinioni stravaganti, non meglio definite, ma la cui stravaganza doveva essere soltanto teologica, perché alla notizia del decreto di espulsione del suo predicatore, il popolo era insorto, e aveva ottenuto che l’italiano continuasse a predicare166 . Piú tardi incontriamo, sempre nelle stesse regioni, due predicatori, forse di origine francescana, Francesco Calabrese e Girolamo Milanese, che traevano nuove conseguenze dalla dottrina della predestinazione e del servo arbitrio. Le notizie che ci rimangono, provenienti dagli avversari, ci parlano di indifferenza 165 Ibid., pp. 83 sgg. e in genere in tutta la seconda parte; Del Principe di N. Machiavelli, Milano-Roma-Napoli 1926, pp. 16, 48. 166 Il Comander, pastore di Coira al Vadiano, l’umanista e riformatore di San Gallo 12 aprile 1529, in P. D. Rosius de Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum, CoiraLindau 1771, T. I, Lib. I, p. 157 e Lib. II, p. 29. Il De Porta identifica questo frater Italicus con fra’ Bartolomeo Maturo, sul quale ora vedi Chabod, Per la storia cit., p. 90 e note 2 e 3. Il Maturo fu piú tardi accusato ancora una volta di opinioni stravaganti, «quae tamen non exponuntur», sostenute da lui pervicacemente nonostante non fosse uomo di grande cultura; nel 1545 lo vediamo amico di Camillo Renato (scrivono insieme una lettera al Bullinger, che è ora in Museum Helveticum, vol. V, P. XIX, p. 477; cfr. T. Schiess, Bullingers Korrespondenz mit den Graubündnern, I (Quellen zur Schweizer Geschichte, XXIII), Basel 1904, pp. 90-91. Il Maturo però non si trova negli elenchi di Antitrinitari del Sand e del Bock, che pure ricordano Camillo Renato come maestro di Lelio Sozzini. Cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, pp. 73 sg.

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delle buone e delle cattive azioni, volute le une come le altre da Dio, inutilità delle buone opere, indennità delle cattive. La salvezza non esser dovuta a nessuno fuori che alla grazia divina («soli divinae gratiae»): il che implicava inutilità del sacrificio e del beneficio di Gesú Cristo, della sua funzione di mediatore, rimanendo quella di maestro. Gli infanti non debbono esser battezzati finché non siano giunti all’uso della ragione167 . Qui incontriamo anche la dottrina del sonno delle anime dopo morte168 , in una forma particolare: dopo il distacco delle anime dai corpi, le anime dei giusti riposano dormendo, quelle dei miscredenti si purificano attendendo il dí del giudizio universale, che sarà anche l’inizio di un nuovo mondo, nel quale tutti saranno buoni. I relatori che ci hanno lasciato notizia di questi predicatori italiani li accusano di aver condotto, attraverso la dottrina della predestinazione fatalisticamente intesa, all’indifferenza morale, con tutte le sue conseguenze. Ma sembra che queste accuse vadano troppo lontano, attribuendo ai due italiani, come se le avessero sostenute, dottrine semplicemente deducibili con espediente polemico dalla loro predicazione. Infatti, se il Milanese dovette abbandonare subito la sua comunità, il Calabrese, sostenuto dal consiglio del comune di Vettan, affrontò a Süss una disputa coi ministri riformati zwingliani, assistiti da funzionari imperiali dell’amministrazione del Tirolo, e da rappresentanti dei cattolici che avevano diritti in quelle re167 Intorno al 1544. Cfr. Trechsel, Die protestantichen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, pp. 77 sgg. Il Trechsel identifica Girolamo Milanese con Girolamo Mariano: Cfr. Chabod, Per la storia cit., p. 112, nota 2. De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., T. I, Lib. II, pp. 67 sgg., 194. 168 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 79, ricostruisce queste dottrine sulle indicazioni raccolte dal De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., I, Lib. II, pp. 67 sgg., 194.

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gioni. Di contro alle dottrine dell’eretico, riformati e cattolici si trovarono d’accordo, e dopo aspra discussione Francesco Calabrese fu espulso dalla «contea del Tirolo» non per dottrine immorali, ma per anabattismo169 . Le fonti del Rosio de Porta non espongono le dottrine che vengono accusate di immortalità170 ; e quando si viene alla condanna, evidentemente ispirata da un’intesa politica, si parla solo di anabattismo. La comunità di Vettan avrebbe voluto insistere per mantenere il suo pastore, ma dovette rassegnarsi a pregarlo di partire, non potendo assumersi le spese di una seconda riunione di pastori, ecclesiastici, dignitari e funzionari per rivedere la sentenza. Certo l’anabattismo del Calabrese aveva una tinta particolare. La negazione dell’inferno, cioè di una dannazione positiva eterna è caratteristica di queste dottrine. Secondo esse la infinita misericordia di Dio non può compiacersi di eterne sofferenze dei dannati. Cosí l’inferno si riduce ad una specie di purgatorio per le anime dei dannati, con assoluzione finale di tutti i purificati, e annichilamento totale dei giudicati. Pena vera e massima dunque, la morte seconda, letteralmente intesa. Letteralismo biblico e razionalismo tendente alla coerenza nella concezione degli attributi divini si uniscono qui in uno sforzo di concepire nuovamente la dottrina della immortalità 169 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 81; De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., pp. 70 sgg. 170 Ibid., p. 68 e Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit. p. 79 riportano notizie del Campell, secondo le quali le prediche degli italiani davano «anche troppo», dice il Trechsel, occasione a deviazioni. Il Campell invece dice che i sostenitori dell’idea che si deve peccare erano «ab illo [Francisco] haud dubie instituti et persuasi». Di tutto questo non risulta niente al processo: e già il Trechsel aveva dubitato (Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 80) della esattezza delle notizie del Campell.

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dell’anima, che per il cristiano fa tutt’uno con quella della vita delle anime dopo la morte. Mentre si manteneva la sanzione della pena e del premio alla condotta morale e religiosa, si formulava, ancora teologicamente, lo spunto di una dottrina del Settecento, che fa dell’«immortalità» un valore, in quanto «immortali» sono coloro che hanno bene agito, e che vivono nelle loro opere e buone azioni, anche se per un momento possono essere dimenticati, «dormire»; gli altri, sono semplici mortali. La «morte seconda» è soltanto una ripetizione della prima, e la mortalità si identifica col non-valore morale. È l’esigenza rinascimentale della immanenza dei valori nella vita, che anche qui si fa sentire fecondamente. Analoghe a quelle del Calabrese le dottrine del Tiziano171 , che propagava un soggettivismo religioso molto pronunciato dichiarando di seguire solo la illuminazione interiore dello spirito e non riconoscendo autorità alla tradizione scritturale, poiché la Scrittura era secondo lui stata falsificata da san Girolamo e dai papisti. Il Tiziano viene scacciato da Coira nel 1547: e dal noto costituto del Manelfi risulta che la sua attività in Italia si può far datare all’incirca dallo stesso anno172 . Dalla relazione del Manelfi non risulta che un generico anabatti171 Comba, I nostri protestanti cit., pp. 487 sgg.; Benrath, Wiedertäufer cit., pp. 20 sgg. {Da non confondere con Lorenzo Tizzano, del quale dà notizia Domenico Berti, Di Giovanni Valdés e di taluni suoi discepoli secondo nuovi documenti tolti dall Archivio Veneto, in «Atti della R. Accademia dei Lincei», anno IX («Memorie della classe di scienze morali storiche e filosofiche», Roma 1878, II, pp. 66-81). Cfr. Wilbur, A History of Unitarianism cit., p. 101 nota}. 172 Archivio di Stato di Venezia, S. Uffizio, Busta 9, pubbl. dal Comba nella «Rivista Cristiana», XIII (1885). Cfr. Comba, I nostri protestanti cit., p. 490. Il Manelfi, nel 1551, comincia a parlare di «dieci o undici anni prima», poi la narrazione si sposta dal 1540 o’ 41 al 1541-42 «circa un anno dopo» e infine

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smo: ma in Isvizzera il Tiziano viene anche condannato all’espulsione per avere affermato che Cristo era un uomo particolarmente ispirato, e per avere negato il dogma della Trinità. La sua posizione era del tutto coerente, e rivela una notevole diffusione delle dottrine anabattistiche: il Tiziano negava anche la verginità di Maria, il valore del battesimo, e che un cristiano possa esercitare l’ufficio del giudice. Il costituto del Manelfi ci mostra l’attività del Tiziano in Italia, che fu notevole. Non sembra però che prendesse parte alle adunanze di carattere anabattistico del 1546, note sotto il nome di «collegia vicentina» che secondo una tradizione sorta piú di un secolo dopo sarebbero state addirittura regolari convegni presieduti e diretti da Lelio Sozzini, e che si è anche potuto pensare non abbiano mai avuto luogo. Probabilmente si ebbero realmente adunanze a Vicenza anche nel 1546, e Lelio Sozzini può avervi partecipato; ma si tratta probabilmente di riunioni, incontri amichevoli a scopo di discutere in comune problemi di interesse comune, «accademie», piú che di adunanze organizzate per la risoluzione di determinate questioni, con valore impegnativo, «concilia», o «collegia»173 .

al 1544-45; a questi si aggiungono altri due anni, e si è al 1546-47. 173 Cfr. Comba, I nostri protestanti cit., p. 485. Il problema presentato dalla tradizione che parla di queste adunanze non può risolversi finora che per congetture. Tuttavia si può rilevare che la diceria registrata dal Cantú, secondo la quale ancora ai suoi tempi si indicava la «casa Pigafetta» dove gli eretici si sarebbero radunati, può trovar conferma nella presenza di un Pigafetta (Pigavetta) veneto negli ambienti ereticali italiani di Heidelberg, dove però risulta delatore (cfr. C. Cantú, Gli eretici d’Italia, III, Torino 1866, p.156). La tradizione si trova la prima volta nella Narratio compendiosa quomodo in Polonia a Trinitariis Reformatis separati sint Christiani Unitarii (1678) del

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Pochi anni dopo (fine del 1549 o inizio del 1550) Vicenza fu teatro di un’altra adunanza di anabattisti, questa volta bene organizzata, dove sembra la dottrina antitrinitaria sia stata proposta per la prima volta non in privato ma davanti ad una assemblea174 . I punti d’accordo furono ad ogni modo: il battesimo vale solo per coloro che già credono; non può darsi magistrato cristiano, né principe cristiano, perché magistrati e principi usano la forza; i Sacramenti, semplici segni; la Chiesa Romana, totalmente diabolica. Non si poté venire ad un accordo sui problemi della Trinità e della natura di Cristo; e in conformità al principio della libera discussione, si convocò un vero e proprio «concilio» anabattistico, che avrebbe dovuto risolvere la questione della divinità di Cristo e del modo d’intendere la Trinità. Il concilio fu convocato a Venezia; ogni comunità avrebbe mandato due dei suoi anziani a rappresentarla. Dai Grigioni venne Francesco Negri; e anche un’altra comunità di esuli, quella di Basilea, mandò il suo rappresentante, il Curione: non si conosce il nome dell’inviato di San Gallo. Il procedimento di discussione, onde prendevano successivamente la parola coloro che si sentivano ispirati, dietro invito generico di uno degli anziani, sembra ispirato a quello proposto dal Serveto nella conclusione dei Dialogi.

Wiszowaty, che poteva averla raccolta dalla discendenza diretta di Fausto Sozzini. Cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 391-408; Benrath, Wiedertäufer cit., p.17; sul Pigafetta cfr. J. F. Hautz, Geschichte der Universität Heidelherg, Mannheim 1864, II, pp. 79 sgg. Pigafetta polemizza con l’Erasto e contribuisce alla scoperta dell’«arianesimo» di Simon Simonio, che aveva lasciato Heidelberg nel 1573. 174 Comba, I nostri protestanti cit., pp. 491 sgg.; Benrath, Wiedertäufer im Venetianischen cit., pp. 24 sgg.; {Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 86, 101, 102}.

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Le conclusioni del «concilio» veneziano mostrano un radicalismo molto spinto, come il modo di organizzazione e la sua durata, e infine la prassi della scomunica per chi non ne accettasse le conclusioni (scomunica senza persecuzione dello scomunicato), mostrano la solidità che doveva aver raggiunto la organizzazione anabattista, pur nel segreto. Il concilio di Venezia mostra infatti che la maggioranza dei suoi partecipanti riteneva Cristo soltanto uomo, se pur ripieno di tutte le virtú di Dio; per quegli eretici non v’era altra natura che la umana, oltre quella divina; gli angeli erano stati semplici annunciatori della parola divina, uomini ispirati; non esisteva altro demonio che la «prudentia humana»175 . Si riprendeva la dottrina che l’inferno è semplicemente il sepolcro, e si abbandonava il concetto di quella specie di purgatorio che il Calabrese ancora ammetteva: le anime degli empi perivano per essi col corpo come per un qualun175 Riporto per esteso il passo del costituto del Manelfi, perché questo concetto della «prudenza umana» che è il demonio, Satana, è anche a base degli «Stratagemata Satanae» dell’Aconcio, e dà un significato particolare a tutta la controversia degli eretici italiani contro i protestanti. La definizione di questo concetto segue immediatamente la definizione di Cristo come uomo «repieno de tutte le vertude de Dio» e quella della natura angelica («angeli essere ministri cioè huomeni mandati da Dio»). «Determinassimo ancora con queste medesime authorità non essere altro Diavolo eccetto la prudentia humana, et disserro quell’antico serpente che Moise mostra aver seduta Eva non esser altro chela prudentia humana perché non ritroviamo nelle scritture nissuna cosa creata da Dio essere nemica di Dio se non la prudentia humana, si come dice Paolo alli Romani [Rom., I 19.20]». Si vedranno nel corso del lavoro le conseguenze di questo concetto, che rendendo il male immanente, condurrà a ritenere immanente anche il bene; e che «spiritualizzando» l’idea del Nemico condurrà a vedere le manifestazioni di esso in determinati atteggiamenti umani (desiderio di potenza, di predominio, ecc.).

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que animale, quelle degli eletti dormivano dopo la morte fino alla resurrezione finale. La elezione avveniva secondo loro per l’eterna misericordia e carità di Dio senza nessuna opera visibile, quindi senza i meriti di Cristo, il cui benefizio stava solo nell’insegnamento e nella testimonianza miracolosa della giustizia di Dio, non nel sacrificio. Vennero anche riprese e riaffermate le dottrine sulla magistratura, sul battesimo, ecc., ormai tradizionali dell’anabattismo. In Italia l’organizzazione anabattista, che abbracciava uomini di tutti i ceti, con prevalenza delle classi artigiane (ciabattini, calzolai, spadari, tessitori delle varie specialità, sarti, cardatori, fornai, stracciaioli, merciai coi loro garzoni)176 , e che era stata fiorente e solida, fu stroncata rapidamente per la delazione di uno dei suoi capi177 , che forní all’Inquisizione tutte le indicazioni necessarie per procedere agli arresti e alla repressione di quel movimento, senza che il Senato veneto si opponesse all’azione energica e immediata contro quella sètta sovvertitrice, che oltre a negare la divinità di Cristo era pericolosa per i principi, poiché sosteneva «che li 176 Benrath, Wiedertäufer cit., pp. 28 sg.; Geschichte der Reformation cit., p. 83, sempre in base al constituto del Manelfi. Come in tutti i movimenti di questo genere, quel che conta è la semplice prevalenza di un ceto sociale fra i membri di esso; non importa che al movimento partecipino uomini provenienti da altri ceti o altre «classi», poiché si tratta per solito di persone che volontariamente abbandonano il proprio ceto come l’abate Buzzale che pose tutto il suo a disposizione dei confratelli, o come Lelio Sozzini che negli ultimi anni della vita abitò presso un tessitore (cfr. Benrath, Wiedertäufes cit., p. 28). Per L. Sozzini, vedi piú avanti. 177 Il Manelfi stesso, che adduceva una improvvisa illuminazione della clemenza divina, ma pare fosse mosso dal desiderio di procurarsi l’impunità di un furto commesso contro uno dei confratelli (Benrath, Wiedertäufer cit., p 28; Comba, I nostri protestanti cit., p. 510).

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Christiani non possono esercitare magistrati, et signorie, domini et Regni»178 . La prima emigrazione italiana nei Grigioni era formata soprattutto da coloro che erano potuti sfuggire alla repressione del 1551, rapida e sistematica. Ma l’organizzazione anabattistica non scomparve del tutto in Italia; nel 1553 il Gribaldi poteva indirizzare una lettera ai «Fratelli di Vicenza», con l’annuncio della morte del Serveto. E la storia del Gherlandi e del Della Sega mostra come l’organizzazione fosse viva ancora nel 1560; il Benrath, che l’ha narrata179 , rileva casi sporadici di anabattismo fino al 1573. Il movimento continuava, dissolvendosi nella attività di persone singole, poiché ormai anche l’organizzazione che si era pensato poter fondare fuori d’Italia si trovava sotto la persecuzione dei protestanti, e anche qui il movimento perdeva valore in quanto cosa comune, mentre acquistavano valore le singole persone. Ma mentre a Basilea e a Zurigo, a Londra e in Transilvania, le dottrine si elaboravano e diventavano fermento di vita religiosa e di dottrine morali e politiche, in patria ci si avviava alle secche della rassegnazione e della disperazione. La coesione che ci è attestata nel 1551 e che ritroviamo nel 1560 sembra scomparsa nei processi conservatici del 1580 e del 1581, dove non si ha testimonianza alcuna di organizzazione, ma si parla solo di casi individua178 Constituto del Manelfi, 12 novembre 1551. Gli argomenti per questa dottrina sono i soliti: l’«autorità» di Cristo che si distingue dai re di questo mondo. «Poi ancora per la legge che dice non occides, et perché lo Apostolo dice che la spada è data a’ Gentili ad vindictam malefactionum et non a’ Christiani [Rom., XIII 4]. Imperò niuno Christiano può essere Re, Duca, Principe, né esercitare magistrato alcuno; et questo è uno dé primi principii de[gli] Anabattisti». Il Manelfi considera questa la «dottrina antiqua» degli Anabattisti, alla quale nella nuova si aggiunge la negazione del dogma antitrinitario. 179 Geschichte cit., pp. 91 sgg.

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li. L’unica connessione che si può pensare col movimento e con l’organizzazione degli anni precedenti a noi conosciuti, è data dalla distribuzione geografica dei processi del 1580 e ’81, oltre che dalle dottrine. Infatti si tratta soprattutto di terre venete o confinanti con le venete180 . 180

Atteggiamenti cit., pp. 60-63, 66-69.

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CAPITOLO OTTAVO

Giorgio Siculo. Antiluteranesimo, anticalvinismo e «nicodemismo».

Nel quadro delle dottrine anabattistiche sulla giustificazione in ispirito e sulla rigenerazione spirituale per opera della sola grazia divina, direttamente operante sull’animo cristiano, rientra anche l’opera, sinora trascurata dagli studiosi, di Giorgio Siculo181 , giustiziato a Ferrara il 23 maggio 1551, secondo alcune notizie senza processo, secondo altre impenitente, avendo rifiutato la ritrattazione richiestagli. L’unico libro del Siculo che sembra rimasto, è stato trascurato probabilmente perché si presenta come esplicita polemica antiprotestante, e non da un punto di vista generico, ma da un punto di vista specifico: Epistola di Georgio Siculo servo fidele di Jesu Christo alli cittadini di Riva di Trento contra il mendatio di Francesco Spiera et falsa dottrina de’ Protestanti182 . Ma le dottrine 181 Cfr. B. Fontana, Renata di Francia, II, Roma 1893, p. 279 e cfr. p. 422; III, Roma 1899, pp. 186-187; C. Cantú, Gli eretici d’Italia cit. II p. 98; Notizie relative a Ferrara per la maggior parte inedite ri cavate da documenti e illustrate da L. N. Cittadella, Parte prima, Ferrara 1864, p. 389. Il Fontana lo chiama Domenico Giorgio, ed è quello che dà le notizie piú ampie, oltre qualche documento sugli scritti del Siculo; egli sembra considerarlo frate, mentre il Cantù lo chiama «don». 182 In Bologna, per Anselmo Giaccarello, 1550. Ne conosco solo una copia, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Nel verso del frontespizio si ha la seguente raccomandazione: «In questa Opra Christiano si contiene il vivo et veto intelletto delle divine scritture, nella quale si prova, scuopre et si convince la falsa dottrina de’ protestanti, et la gran Bestemia del suo discepolo Francesco Spiera contro d’Iddio et sana dottri-

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in esso contenute ebbero diffusione non solo fra gli emigrati nei Grigioni, dove ancor molto tempo dopo la morte del Siculo c’era chi si professava suo discepolo, ma anche fra gli italiani di Ginevra, tanto da spingere Calvino a polemizzare contro di lui. Infatti la polemica del Siculo contro la dottrina della predestinazione, esemplificata nel caso famoso dello Spiera183 , non è condotta da un

na del suo Santo Evangelio, et in cui si dichiarino molti luoghi difficili della scrittura vecchia et nuova, cosa certamente molto necessaria alla salute d’ogni fidele Christiano, et degna d’essere letta et honorata con ogni reverenza et divino timore». Alla raccomandazione fanno seguito alcuni versetti della scrittura, fra i quali quello che si può dire il motto degli eretici italiani «Quare Fratres omnia probate: [Vulg.: Omnia autem probate, et] quod bonum est tenete...» (I Thess. 5.21; Rom. 12.17; I Pet. 3.9); e il motto evidentemente allusivo al messaggio del Siculo stesso: «Eccum aquilonem illum a quo pandetur omne malum, et si imperitum sermone non tamen dei scientia, et doctrina filii dilectionis eius» (il Siculo cita Hie. I = Jer. I. Ma a Jer. I 14 si ha nella Vulgata: «Ab aquilone pandetur malora super omnes habitatores terrae...» È evidente come il Siculo trasformi a sua posta i testi). 183 Su questo «caso» vedasi per tutti Comba, I nostri protestanti cit., pp. 257-97; e Francesco Spiera, episodio della riforma religiosa in Italia, Roma 1872. Lo Spiera aveva abiurato nel giugno 1548 le dottrine luterane che aveva professato e diffuso a Cittadella; ma poi s’era pentito dell’abiura ed era caduto in disperazione, morendo dal rimorso, e rimanendo convinto fino all’ultimo d’essere dannato irrimediabilmente per aver «rinnegato Cristo». Alla morte dello Spiera erano presenti il Vergerio e il Gribaldi, che assieme ad altri personaggi dell’Università patavina parteciparono alla redazione della Historia Francisci Spierae, qui, quod susceptam semel evangelicae veritatis professionem abnegasset damnassetque, in horrendam incidit damnationem... (Basileae 1550), che portava anche una sdegnosa prefazione di Calvino, il quale trovò che lo Spiera aveva ben meritato la sua sorte, e che questa era un buon esempio per la leggerezza di carat-

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punto di vista di ortodossia cattolica, ma dal punto di vista servetiano e anabattista, onde i rigenerati dalla grazia divina credenti nella dottrina del nuovo testamento sono tutti eletti, e quindi lo Spiera aveva torto di considerarsi reprobo e di lasciarsi condurre alla disperazione per la sua apostasia dalla nuova fede che aveva abbracciato. Secondo il Siculo, non si può parlare in nessun modo di indurimento e di acciecamento definitivo del peccatore, del reprobo; poiché chi crede all’Evangelo è rigenerato e non può mai essere reietto. Quindi estremamente condannabile la dottrina della predestinazione, proprio per la stessa ragione onde Serveto condannava la dottrina luterana del servo arbitrio: perché negatrice della misericordia divina infinita, e della efficacia della rigenerazione nello spirito. Le notizie di Giorgio Siculo sono estremamente scarse, e vertono tutte intorno all’anno della sua morte e della pubblicazione del suo libro. Intorno al 1550 il Siculo era probabilmente già a Ferrara e vi predicava aspramente contro i «luterani», attirando l’attenzione di un cremonese che era già stato frequentatore di eretici nei Grigioni e per un momento almeno aveva seguíto le idee del capo anabattista Camillo Renato184 . Questa polemica antiluterana si deve con tutta probabilità intendere nello stesso senso di quella antiprotestante dell’«Epistola». Ma la

tere degli italiani (cfr. F. Ruffini, Il Giureconsulto chierese Matteo Gribaldi Mofa e Calvino, in «Rivista di Storia del diritto italiano», I, 1928, p. 16 e sul giudizio di Calvino p. 18 dell estr.). {Su questa opimone di Calvino e i suoi riferimenti storici cfr. D. Cantimori, «Nicodemismo» e speranze conciliari nel Cinquecento italiano, in Contributi alla storia del Concilio di Trento e della Controriforma (Quaderni di «Belfagor», I), Firenze 1948, p. 13} [poi in Id., Studi di storia, Torino 1959, pp. 518-36]. 184 Pietro Bresciani da Casalmaggiore. Chabod, Per la storia cit., p. 204; cfr. pp. 123-27 sg.

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veste negativa della sua dottrina non gli serví a lungo a mascherare sotto l’antiluteranesimo un modo di pensare ancor piú pericoloso per la ortodossia. Ai primi di aprile del 1551 «Don Georgio» era già arrestato, e il cardinale Ercole Gonzaga scriveva ad Ercole II di Ferrara per spingerlo a mostrare piú calorosa collaborazione con l’Inquisitore «perché importerebbe assai quanto ad intimorire tutti quelli che sono della openione di quel ribaldo... Il lasciar fare all’inquisitore, anchora che sia assai quanto a Don Georgio, nondimeno quanto al resto delli complici et fautori è quasi niente, anzi in certo modo fa pensare che non concorrendo l’autorità di V. Ex. se non permissive et non imperative sia piú tosto una fratesca persequtione che una severa giustitia debita alli errori di Don Georgio»185 . Pochi giorni dopo, il commissario generale dell’Inquisizione scriveva al Duca Ercole per ringraziarlo a nome dei cardinali inquisitori per quanto egli aveva «operato in la causa del Don Georgio impio heretico»186 . Questi aveva fama di grande dottrina; ma i suoi libri rimasero sconosciuti, se le notizie tramandateci sono precise e concordi quanto alla data e al modo dell’esecuzione della sentenza capitale, e concordi anche quanto alla fama di dottrina, ma dei libri non ci parlano. Essi però non rimasero ignoti all’Inquisizione, che li fece ricercare, e ne ebbe uno, sebbene un po’ tardi, cioè dieci anni dopo, come risulta da una lettera di ringraziamento di Michele Ghislieri al Duca Alfonso II d’Este, per avere mandato a Roma «il pestillentissimo libro del quondam Don Georgio».187 . L’aggiunta «e piú è stata grata et loda185 Il Card. Ercole Gonzaga al cugino Ercole II, 3 aprile 1551, Modena Archivio di Stato. Questa, come pure le due lettere che seguono, mi sono state comunicate con amichevole cortesia dal prof. Alfredo Casadei, che ringrazio vivamente. 186 11 aprile 1551 (Modena, Archivio di Stato). 187 16 marzo 1561 (Modena, Biblioteca Estense).

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ta la prudentia sua havendolo mandato per mano del Padre Inquisitore...» fa pensare che questa volta il «pestillentissimo»fosse qualcosa di piú che un termine retorico, e che si tenesse particolarmente a tener nascosto questo libro; mentre il fatto che il libro viene ricercato ancora dieci anni dopo l’esecuzione dell’autore può far pensare a una diffusione di esso o delle dottrine in esso contenute. Ma potrebbe anche darsi che si fosse risvegliato l’interesse per l’opera del Siculo attraverso la polemica di Calvino contro di lui, o attraverso notizie della diffusione delle idee del Siculo nei Grigioni. Infatti, un anno dopo la morte del Siculo, il Calvino, polemizzando con il Pighio, trova opportuno polemizzare anche contro l’ignoto italiano, non tanto, come dice, perché ne trovi degne di attenzione le dottrine, ché anzi dispiace perder tempo, ma perché «eius libri per Italiam volitantes, multos passim dementant»188 , ed occorre evitare che «cum tanta ecclesiae iattura insania eius grassetur». Le notizie che il Calvino fornisce sul siciliano sono notevolmente fantastiche, e debbono essere state trasmesse attraverso le informazioni di qualche pastore italiano calvinista come Giulio da Milano, che era bene informato del movimento in Italia, ma troppo proclive ad accettare le piú gravi accuse contro questa gente, che gli sembrava peggiore dell’Anticristo, cioè addirittura della Chiesa Romana. In una relazione di Giulio da Milano troviamo però ricordato Giorgio Siculo solo di passaggio, a proposito di un capo degli anabattisti, Pietro della Marca: «Questo tale ha mescolato il papismo con l’ana188 De aeterna Dei Praedestinatione qua in salutem alios ex hominibus elegit, alios suo exitio reliquit, item de providentia qua res humanas gubernat, Genevae 1552, Opera Calvini, VIII (Corpus Reformatorum, 36), coll. 257 sgg. Il Calvino aveva annunciato la sua confutazione fin dall’anno prima (agosto 1551) al Viret (ibid., p. XXII)

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battismo, e ha cominciato a fare una terza sètta, siccome ha fatto il satanico Giorgio Siculo»189 . Le informazioni di Calvino vanno piú in là in quanto a quantità e a particolari, ma non parlano di anabattismo, e contraddicono alla fama di dottrina che il Siculo aveva lasciato dietro di sé a Ferrara. Calvino infatti chiama il suo avversario «homo quidem indoctus et contemptu quam insectatione dignior: nisi quod nomen, fraude et impostura partum, magnas illi ad nocendum vires dedit»190 . Dunque indotto, ma di grande influenza sugli animi. Era monaco benedettino, e sarebbe rimasto chiuso nel suo convento dove era rimasto tanto tempo a tutti ignoto, se «Lucius Abbas, unus ex patribus Tridentinis» non l’avesse portato «in sublime» con una falsa esaltazione, «sperans se quoque eius humeris in coelos usque evolaturum». A parte l’ambizione, la ragione per la quale l’abate Lucio avrebbe dato tanta importanza al suo frate, sarebbe stata una visione di Giorgio Siculo: «Nebulo hic Christum sibi apparuisse, et totius scripturae ab illo se interpretem constitutum mentitus, quod ipse crassa pudendaque inscitia plus quam vanum esse prodebat, nullo negotio plurimis verum esse persuasit»191 . Dunque, un ispirato, un profeta, un «visionario». E ancora: «monachus ordinis S. Benedicti apud Italos, ut videtur, et sparsis libris et revelationibus quas sibi contigisse fingebat, non parvi nominis»192 . Dall’Epistola contro l’interpretazione che la letteratura apologetica protestante offriva del caso dello Spiera, risulta che il Siculo avrebbe tenuto a Riva di Trento, probabilmente l’anno precedente alla pubblicazione del libro, o l’anno stesso, una predicazione quaresimaComba, I nostri protestanti cit., p. 509. O. C. VIII (C. R. 36) cit., col. 258. 191 Ibid. 192 Ibid. 189

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le (di quaranta giorni)193 . Da Riva era partito all’improvviso, egli dice, e senza salutar nessuno, perché gli mancava il cuore, tanto piú che doveva partire per sempre, e salutar per sempre quei cittadini ai quali portava tanto amore194 . Ma da un altro punto della lunga epistola risulta che era stato chiamato davanti al giudice, non si sa per quale ragione195 . Certo il Siculo si considerava ispirato e messaggero di una verità rivelatagli specialmente, ed aveva sopportato per questo suo annuncio qualche persecuzione ancor prima di arrivare a Ferrara, come risulta da questa perorazione: [...] Tutti quelli, i quali con bona mente et senza contentione legerano la presente epistola con ogni fideltà et prudenza, l’accettarano et gl’obedirano come opera divina, et non humana; trovandola tutta piena di superna scienza et divina dottrina, et non terrena né humana. Per il che costoro con ogni verità diranno ad alta voce publicamente, contro ogni impietà et mendacità di quelli, i quali malegnamente me hanno con la lor mordace lengua lacerato, biastemiato, et negato per Città, Castelli et Monasteri, Scientiam Dei, et divinitatem filii eius invenimus in ea, et non scientiam hominis, neque doctrinam diaboli, sicut aliqui maligne et mendose de me dixerunt et dicunt etiam usque adhuc, i nomi delli quali io voglio per il presente tacere...196 .

Probabilmente quella chiamata davanti al giudice e la improvvisa partenza da Riva di Trento sono da mettersi in relazione con gli «empi e mendaci» che hanno parlato contro il Siculo, e, com’egli dice con prosopopea da vero ispirato, lo hanno «bestemmiato e negato». L’alluEpistola, p. 121v. Ibid., p. 122v. 195 Ibid., p. 44v. 196 Ibid., p. 119v. Il libro dev’esser stato pubblicato prima dell’arrivo del Siculo a Ferrara; si può supporre una fermata di questi a Bologna. 193 194

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sione ai monasteri sembra confermare l’appartenenza del Siculo a un ordine religioso, come dice il Calvino che sa anche indicare quale, mentre le fonti ferraresi parlano di un prete, e non di un frate. Rimane ad ogni modo fermo che Giorgio Siculo era un ispirato, credeva che le proprie dottrine fossero di ispirazione divina diretta, era un predicatore, ed era giunto fino a Riva di Trento: non si sa se col proposito di recarsi al Concilio, o no; e rimane fermo egualmente ch’egli aveva ottenuto a Ferrara una certa influenza con la sua predicazione antiluterana e allo stesso tempo innovatrice, raccogliendo un certo numero di seguaci, mentre da Riva di Trento era dovuto partire improvvisamente, ed era anche stato chiamato davanti al giudice, e molti l’accusavano di propagare dottrine «diaboliche». E la sua dottrina ebbe una certa diffusione, per lo meno nei Grigioni e negli ambienti protestanti italiani, e anche una certa influenza, per lo meno su altri ispirati e mistici, come il Pucci; e continuò ad interessare l’Inquisizione e i controversisti cattolici anche dopo qualche anno dalla sua condanna e dalla sua morte197 . 197 Il Pucci, il quale si professa scolaro del Siculo, cfr. avanti, p. 360, ne riprende il pensiero del quale si proclama fautore, prendendone le difese contro Calvino. Ma le notizie che ne dà (De Praedestinatione Dei ecc., cap. 30, f. 140r della copia di Dresda) coincidono troppo da vicino con quelle fornite da Calvino, per potersi considerare provenienti da una tradizione diretta e non semplicemente derivate dallo scritto del riformatore. Il Pucci rovescia l’immagine che ci dà Calvino: i fatti rimangono gli stessi. Il Siculo sarebbe rimasto per qualche tempo celato nel suo monastero, vivendovi santamente; sarebbe stato «literarum imperitissimus» ma poi avrebbe avuto la diretta visione di Cristo, ii cui corpo avrebbe potuto toccare, e improvvisamente sarebbe diventato dottissimo. Cosí identiche le notizie su Lucius Abbas (del quale non m’è riuscito trovar notizia): il Pucci sa dirci in piú che il Siculo fu raccomandato al cardinal Pole: ma questa è forse una sua aggiunta, fondata nel ricordo che il Pole era protettore della Congregazione benedettina

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Nell’«Epistola» del Siculo troviamo una mescolanza di motivi razionalistici e motivi mistici analoga a quella del Serveto (benché qui non si tratti di critica di nessun genere al dogma trinitario), e corrispondente da una parte ai motivi comuni della cultura italiana dell’epoca, con la sua fiducia nelle possibilità della mente umana, dall’altra alla religiosità «spirituale» valdesiana, con la sua fede nella grazia divina e nella infinita efficacia del benefizio di Cristo. Essa costituisce pertanto un notevole documento della tendenza della religiosità italiana del tempo fuori della tradizione e dell’àmbito della Chiesa: con la sua polemica antiluterana, che non è soltanto un espediente, come mostra a sufficienza il suo continuo insistere e la sua coerenza, l’«Epistola» rivela l’indipendenza di larghe correnti di cosiddetti «riformati» italiani di fronte alle principali dottrine della Riforma, pur nella avversione per la Chiesa tradizionale come allora si presentava. Nel profetismo ispirato, nella dottrina della religione spirituale, nell’esigenza di una religiosità semplificata, si trova no i precedenti dei motivi del Siculo, e insieme le ragioni della diffusione e della influenza del suo pensiero, che non affronta, oltre la critica al dogma della predestinazione, né i problemi dei Sacramenti né quello del purgatorio né gli altri luoghi comuni della controversia anticattolica, e non mostra neppur traccia di anticlericadi Santa Giustina presso Padova. Non ho trovato nessuna notizia dell’andata del Siculo al Concilio, del quale sono del resto note le vicende proprio in quegli anni. Nel 1556 il beneventano Bartolomeo Camerati nella sua opera controversistica De praedestinatione libri tres, Parisiis 1556, si trova d’accordo con Calvino nel respingere la dottrina del Siculo. Ma anch’egli conosce del Siculo solo le idee riportate da Calvino. Calvino e il Carcerari citano un Commentarius in Epistolam ad Romanos del quale non abbiamo altrimenti notizia (Lauchert, Die italienischen literarischen Gegner Luthers cit., p. 627).

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lesimo. L’unico carattere «protestante» dell’«Epistola» è l’uso esclusivo della Scrittura nelle argomentazioni; ma si tratta d’un carattere troppo generico perché se ne possano trarre conclusioni. D’altra parte, anche a prescindere dal punto di vista della critica alla dottrina della predestinazione, che non era accettabile né in sé, né nelle sue conseguenze, non si può dire che il Siculo intendesse di rimanere entro la tradizione della Chiesa, e ne uscisse solo inconsapevolmente. Ecco infatti la sua dottrina dell’autorità ecclesiastica, la cui tendenza è abbastanza evidente pur nella sua ambiguità: Le Charità vostre e tutto il mondo sappiano che alli preposti et Rettori ordinari della Christiana religione se apertiene provedere et con ogni divin timore et summa diligentia definir con autorità delle divine scritture tutte le cose le quali accadono in essa christiana religione.

Dunque, l’autorità decisiva spetta alla gerarchia, ma sul fondamento esclusivo della Sacra Scrittura; d’altra parte, nessun diritto ai semplici fedeli: Et non è lecito ad ogni uno da sé farlo, né al popolo, nè anchor a Ministro alcuno di esso S. Evangelio, ma simile previsione et deffinitione si appartengono solamente all’ordinari, et rettori legittimi di essa christiana religione.

Nessun diritto? Quello di reclamare e di ricondurre all’ordine le autorità che debbon definir la dottrina, sí: Et al populo et a’ ministri del S. Evangelio s’appertiene intimare a quelli le cose mal fatte, le quali accadono in essa christiana religione. Et gli è anchor lecito pregar, et finalmente costrengere essi preposti a decidere et provedere alle cose che accadono a essa Christiana religione198 . 198

Epistola cit., p. 46v.

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Con questa dottrina, che non è né protestante né cattolica in sé, ma non è accettabile né dagli uni né dagli altri, specie in un momento come quello nel quale il Siculo scrive, il nostro predicatore propone una sorta di indifferenza di fronte alle confessioni religiose e alle professioni di fede: Si che non negano Christo come mendacemente ha detto Francesco Spiera et soi mendaci maestri, quelli i quali propter infirmos fratres, et etiam per non essere a loro lecito altrimente provedere et difinire, consentino con gli altri infermi fratelli a quelli culti che a loro non paresseno leciti né veri. Né manco negano Christo coloro e’ quali accettano et confessano publicamente le cose, et ordini che tiene la Romana Chiesa, sin tanto che altramente se gli provvederà et se determinarà legitimamente dalli suoi ordinari199

Dunque non è principal dovere di un cristiano rifiutare un culto che non gli sembra vero: si può accettare un culto nel quale non si crede, senza contravvenire al dovere del cristiano, e cosí si può accettare anche la disciplina e la dottrina della Chiesa Romana, per operarvi dal di dentro e contribuire a che le si provveda altrimenti, dai suoi legittimi rettori, o almeno, per potere aspettare che questa riforma si verifichi. Questa dottrina in sostanza indifferentistica del Siculo è una delle conseguenze principali della polemica antipredestinataria, e merita di esser seguita piú da vicino nei suoi prudenti avvolgimenti, che nondimeno lasciano vedere a che cosa mira il Siculo: Horsu, secondo la dottrina di Francesco Spiera aprobata et addimandata dalli dottori et maestri della protestantaria dottrina del figliuol di Dio, tutti quelli i quali consentino o con fatti o con la propria persona a culti non veri, vengono a negar Chri199 Epistola cit., p. 49r. La conseguenza principale del «caso» dello Spiera è per lui questa del pratico comportamento di fronte alla persecuzione.

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sto come lui, et negando Christo sono nel medesimo giuditio et negatione che lui. Et tutti quelli i quali per paura delle pene corporali si sono publicamente retrattati dell’openioni de’ protestanti, et hanno accettato quelle della Romana Chiesa forzatamente, non volendo, come ha fatto lui sono parimente delli reprobati et da Dio maledetti per aver negato Christo come lui. O quanto gran numero de preti e frati, huomini, et donne, i quali sono dell’openione de’ protestanti nascosti in diverse reggioni et paesi della dottrina Romana, che per timore de non essere presi, et maltrattati dall’Inquisitori, consentino con parole, et con le proprie persone a’ culti et sagramenti reputati da lor stessi falsi, et abominevoli apresso Dio, et soi santi? Adoncha secondo la dottrina di Spiera confermata dalli soi mendaci maestri, tutti sono delli reprobi negando lor Christo in quel modo. Senza dubio alcuno egli sono delli reprobati secondo la dottrina et confessione loro200 .

Qui si aspetterebbe che, mostrata la durezza della dottrina protestante e la sua erroneità nel dogma della predestinazione, si invitassero tutti quei criptoprotestanti a pentirsi e a ritornare nel seno della Chiesa anche interiormente. Ma il Siculo, dopo aver insistito che secondo la dottrina dello Spiera tutti coloro che «per paura, et pene corporali» si sono ritrattati, se pure a malincuore, sarebbero «delli reprobi» che non potrebbero «haver piú misericordia», e dopo aver dichiarato che è un medesimo spirito maligno quello che ha spinto lo Spiera alle sue idee e i protestanti a diffonder la notizia del suo caso e la sua dottrina, «in desperatione et confusione infernale di quelli, i quali sono della loro openione in diversi regni et stati, sotto l’ordine et costumi della Romana Chiesa»201 , oppone a quella la propria dottrina, ispirata all’annuncio della misericordia divina. Come infatti lo spirito maligno ha permesso la diffusione della dottrina dello Spiera, 200 201

Ibid., p. 45r e v. Ibid., p. 46r.

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cosí anchora il benegno, et veridico spirito di Jesu Christo ha voluto per me suo minimo servo in salute delle anime loro et zelo del suo divin honore et verità christiana, scoprire la fallatia dell’inimico infernale, et penitus destruere simile mendace dottrina et predestinatione loro, accioche ogniuno possi consolarsi et sperar nella misericordia et charità paterna di sua divina maiestà, appresso la cui gratia et misericordia non è eccetione di persone, ma come dice il Sant’Apostolo, Dives est in misericordia in omnes, et super omnes qui invocant illum, et oboediunt eius imperio202 .

Dunque, la misericordia divina viene invocata per consolare e far tornare alla speranza i protestanti, e specialmente quelli «i quali sono per l’Italia, Franza et altri luoghi, et regni, i quali si reggono, et governano sotto l’ordine e sito della Romana Chiesa»203 , e per persuadere costoro che non è peccato contro la loro nuova fede aderire esteriormente al culto e al rito della Chiesa Cattolica. L’importante non è la polemica contro i protestanti, ma l’affermazione che si può vivere secondo la nuova fede anche entro i quadri della vecchia organizzazione, che si possono accettare forme rituali e culturali considerate false, quando la forza o la situazione generale lo consiglino. Dunque, tutti coloro che credono nell’Evangelo e ne seguono i precetti, camminando «per la via delle virtuti et honestati et confidentia della sua divina misericordia et paterna charità»204 , sono eletti alla vita eterna, alla salvazione; il resto, è indifferente. L’importante è la speranza, la fiducia in Dio e nell’avveramento delle sue promesse, nel rinnovamento della Chiesa, e la convinzione di essere eletti e rinnovati nello spirito, accompagnata da una condotta morale. Ibid., p. 46v. Ibid., p. 44v. 204 Ibid., p. 55r. 202 203

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Non solamente Christo ci ha liberati et redenti dalla condennatione del nostro primo parente, ma etiam da ogni nostra iniquità et attuali peccati, che noi commettiamo contro la sua divina maiestà, purché sempre ex corde ci pentiamo et ci confidiamo nella sua bontà et divina indulgentia, et vogliamo caminare nella sua obedientia et divina volontà205 .

Questa dottrina è per il Siculo: «la vera apostolica et prophetica dottrina, la quale dà, et ha dato sempremai viva speranza a tutti de la loro salute et paterna misericordia»206 . Dunque, elezione universale alla salvezza, per la grazia divina e l’opera redentrice dell’Evangelo: il che ricorda molto da vicino la posizione servetiana; ma procede avanti, con l’idea della salvazione universale dei buoni, cioè degli uomini di condotta morale. Il Siculo appoggia le sue argomentazioni su una larga fiducia nella ragione umana, e nelle possibilità della natura umana. Anzi, accusa la posizione predestinataria da una parte di sofisma filosofico, dall’altra di irrazionalità, e da questa accusa risale a considerazioni generali: Dicono gli protestanti, per mantenere le lor openioni de particolari praedestinatione, che noi non ci dovemo reggere con raggione nelle cose delle divine scritture. Immo loro per via di tragedia vilipendevo et sprezzano essa humana raggione accioché i lor discepoli vadano et caminano nella falsa dottrina loro peggio che cavalli et brutti animali. Et questo fanno loro perché non sanno né connoscono, che cosa sia l’humana raggione. La quale è una vertú da esso Iddio data ad essa humana natura acciò che ella si reggesse et governasse secundum Deum a quo creata est, per essere la raggione una delle virtú de esso Dio, dal quale descende l’anima nostra all’imagine, et alla sua divina similitudine. Et perché nel huomo è essa divina virtú della ragione (sic) Iddio ogni cosa tratta con raggione con essa umana natura. Et perhò tutte le sue divine scritture ci parlano a noi 205 206

Ibid., pp. 16v, 17r. Ibid., p. 22r.

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con ragione, et non senza raggione. Hor adonque, se le divine scritture son tutte fondate, et dette con raggione, perché noi le vogliamo intendere senza humana raggione? O gran cecità et ignoranza de quelli, i quali dicono l’huomo non si dover reggere secondo la raggione nelle cose della salute. Cum sit che le divine scritture tutte ci annontiano la nostra salute, et infernale dannatione per via di essa raggione. Se la raggione non fusse, come andarebbe il mondo? Con che cosa si governano i stati e gli regni et Città, se non per via di raggione? Et che piú pretiosa cosa può avere in se l’huomo della raggione? Tolta via la raggione che cosa è essa divinità in l’huomo? Non resta egli peggio che non è una bestia salvatica?207 .

Si noti, anche volendo far la debita parte all’enfasi retorica, che qui non si parla di anima immortale, ma di ragione; la mortalità e l’immortalità dell’anima sono una punizione la prima, un dono di Dio la seconda; l’uomo per sé è mortale, e se non segue la volontà divina, perderà l’immortalità che Dio ha riconcesso al genere umano per mezzo di Cristo, dopo averla tolta una prima volta a tutto il genere umano in Adamo. Invece la ragione è qualcosa di divino nell’uomo stesso in quanto tale, è ciò che fa la somiglianza dell’uomo con Dio, è ciò che regge il mondo. Perché gli protestanti vilificano tanto essa raggione? Se forsi non fussero lor privi di quella, per giusto iuditio de Iddio. Loro non sano dir altro se non abassare et vilipendere essa humana natura, et farla men degna de uno cavallo, togliendogli ogni libero arbitrio, et ogni forza et volontà nel bene operare. Per il che incolpano la divina gratia de ogni nostra iniquità et male operazioni. Ma le divine scritture fanno il contrario, percioché grandemente magnificano l’humana natura et ci fanno connoscere la sua grandezza et divina dignità, acio che connoscendo l’huomo la sua grandezza et dignità divina sia constretto vivere et caminare secondo il suo stato et divina conditione208 . 207 208

Ibid., p. 99r e v. Ibid., pp. 99v, 100r.

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Dunque, ragione e dignità della natura umana fanno tutt’uno: e la considerazione della propria divina natura deve far vivere l’uomo degnamente, cioè secondo ragione, morale e religione. Questa può sembrare una posizione analoga a quella del platonismo italiano del secolo, con in piú l’accentuazione della ragione e del suo valore. Ma la dimostrazione che il Siculo offre della sua dottrina è scritturale, non filosofica; è vero però che a sua volta questa dimostrazione scritturale è fondata su di un passo certo carico di pensiero speculativo: Si come si connosce in quello discorso del’Apostolo Giovanni dove che dice che Dio è la luce et non le tenebre, et noi i quali descendiamo da essa luce et divinità, quant’al nostro huomo interiore, dovemo anchor noi caminare nella luce, se noi vogliamo dire che avemo società con esso Iddio. In quanto che siamo fatti al’imagine et similitudine sua divina209 .

A questo punto il Siculo passa all’esortazione morale: se siamo nella luce, siamo in società con Dio, e il sangue di Cristo figliuol suo ci monda da ogni peccato «il qual noi portiamo dal nostro primo padre Adamo. Della quale Christiana mundatione tutti n’habbiamo bisogno...»210 . Ma si riprende subito e ritorna alla rivalutazione della natura umana contro i protestanti, mostrando quanto questi eretici italiani avessero compreso come accanto alle esigenze poste in luce dalla riforma, occorresse non lasciare disperdere il motivo de dignitate hominis, e anzi bisognasse trasportarlo in quella religiosità rinnovata e piú libera (soprattutto piú libera, e valevole solo per quella libertà) che a tanti sembrava poter209 Ibid., p. 100r. Il Siculo cita I. Joa., I [5-7]. Vulgata: «... quoniam Deus lux est et tenebrae in eo non sunt ullae... Si autem in luce ambulamus sicut et ipse est in luce, societatem habemus ad invicem...» 210 Ibid., p. 100v.

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si trovare solo oltr’alpe, mentre altri speravano poterla realizzare in patria. Si che il sant’Apostolo non abassa l’humana natura dandoci occasione che piú facilmente si diamo al peccato, ma l’inalza, et fa l’huomo consorte della sua Deità, per darci occasione di farci vivere secondo la sua natura et divina qualità. Et questo Apostolico procedere sforza et necessita le persone vivere nella luce et nel honestà, secondo che conviene alla sua natura et professione, et non quello che insegnano gli protestanti, il quale fa intepidire l’huomo dal suo honesto et rational vivere...

D’altra parte, questa glorificazione dell’uomo non deve intaccare la devozione e il senso religioso della divinità: «Per questo alzare in alto l’humana natura non si tol la gloria a’ sua divina maiestà, et si dà ad essa natura... Immo l’huomo quando non vive et cammina in iustitia et veritate viene a vilipendere et negare l’imagine et virtú di sua divina maiestà, le quali sono in esso huomo»211 . Dunque il messaggio che il Siculo pensava di dover portare e di dover difendere contro la dottrina della predestinazione era quello della salvazione del genere umano nell’entusiasmo spirituale, nel pentimento di cuore, nella fede nella misericordia e nella grazia divina; e insieme quello della dignità della natura umana e del valore della ragione, che basterebbe all’uomo anche se Dio non gli avesse dato altro, poiché gli fa conoscere il bene e il male (che Adamo avrebbe conosciuto anche senza disubbidire a Dio, secondo il Siculo): «Quantunque l’huomo non havesse da Dio altro in sé che la raggione, potrebbe lui sufficientemente connoscendo il bene et il male, vivere et caminare per la via delle virtú et honestà, et fuggere le iniquità, ingiustitia et dishonestà tanto contrarie all’anima rationale»212 . 211 212

Ibid. Ibid., p. 70r.

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Misticismo della grazia divina, religiosità consistente in una speranza sconfinata di misericordia e perdono, che doveva essere accetta a tutti quelli che in Italia si erano lasciati attirare dalle nuove dottrine, e anche alle piú estreme, e credevano di essere rinnovati in ispirito, aspettando in segreto l’avvento del Regno di Dio, mentre cercavano di realizzarlo nelle loro comunità; ma d’atra parte erano irrequieti nella loro coscienza per l’esempio dei loro fratelli d’oltr’alpe che si erano liberati dall’avversario oppressore, e per il loro ripetuto cedere alla forza di questo, e alla debolezza umana. E insieme, religiosità semplificata all’estremo e ridotta alla moralità razionale. Razionale è anche la dottrina del Siculo sulla elezione speciale, che non consiste nella grazia della salvazione concessa ad una piccola parte dell’umanità, ma in qualcosa di ancor piú limitato e insieme di piú importante, e che il Siculo presenta quasi politicamente: «Gli è un’altra elettione particulare, che Dio ha ne la sua gratia et divina voluntà eletto particolarmente ad alcuno de la humana natura in ministerio, et governo di essa humana natura. Come fu eletto Moises al governo del populo, et Aron nel sacerdotale officio, Saul et David nel regal officio, tutti li profeti et li santi Apostoli»213 . La elezione speciale è dunque una vocazione straordinaria; mentre la predestinazione è solo predestinazione al bene, una «particulare et singulare gratia et dignità de li credenti del nuovo testamento...» Cosí i due motivi principali si uniscono in una commossa esaltazione della dignità dei suoi compagni di fede («O ammirabile et divina dignità de noi credenti del nuovo testamento, che siamo stati eletti et predestinati dalla gratia et divina voluntà de conseguire realmente lo figurato delle umbre, et figure del vecchio testamento, et le sue spirituali et celesti promissioni. De noi 213

Ibid., pp. 24r.

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fu detto: Ego dixi dii estis, et fili, excelsi omnes...»)214 , che dura per alcune pagine, quasi tutte conteste di citazionievangeliche. Nello scritto di Giorgio Siculo non si trovano dunque dottrine anabattistiche né nel senso proprio e ristretto né nel senso piú largo che noi diamo alla parola: non vi è né critica ai Sacramenti, né affermazione della necessità del Battesimo né affermazione della indifferenza di esso, né dottrina della mortalità delle anime dei dannati né critica antitrinitaria, e via dicendo. Ma vi è quella dottrina della ragione umana e quel misticismo della redenzione e della misericordia divina, quella ispirata concezione della religione spirituale onde nella vita interiore anche un dogma come quello della predestinazione perde significato, che sono i caratteri comuni alle dottrine degli eretici italiani di quel secolo, insieme alla preoccupazione morale e alla esigenza della «libertà», cioè della possibilità di approfondire individualmente i problemi religiosi e di far valere le proprie concezioni attraverso la discussione, sulla base della ragione e della scrittura. Dal punto di vista pratico possiamo dire che l’«Epistola» del Siculo è la principale, forse la prima formulazione consapevole del fondamento religioso dell’atteggiamento degli italiani di fronte alla Chiesa e all’Inquisizione. Questa forma di dissimulazione ragionata, che potremo chiamare con Calvino «nicodemismo»215 , consisteva nella giustificazioIbid., pp. 25r e v. Lo scritto piú famoso di Calvino a questo proposito è del 1544 (Excuse à Messieurs les Nicodémites... O. C. VI, col. 589. (Renata di Francia raccomanda al Duca Cosimo (20 marzo 1552) indulgenza per Ludovico Domenichi da Piacenza, condannato per le seguenti ragioni: «procurò di avere un libro pessimo di eresia, detto la Nicomediana di Giovanni Calvino, scripto in linghua latina, il quale, infra le altre cose, trattava contro el sanctissimo Sacramento et contra la fede christiana... et decto pessimo libro di latino in volgare tradusse et non con214

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ne dottrinale della prassi di coloro i quali, come il fariseo Nicodemo andava a Gesú di notte, temendo di far conoscere la sua fede ed era pieno di dubbi, tenevano celata la propria fede, aspettando per manifestarla che cessasse il timore del martirio, e facendo intanto atto di ossequio alle autorità ecclesiastiche dei paesi dove si trovavano. Era un appellativo sarcastico, che si adattava bene a tale atteggiamento piú politico che religioso, molto diffuso allora in Italia216 . tento a questo, fece di nascoso stampare decto pessimo libro nella ciptà di Fiorenza... et tale impressione e stampa di libro, falsamente e iniquamente fece sotto nome e segnio di Basilea» (F. Bonaini, Dell’imprigionamento per opinioni religiose, di Renata d’Este e Ludovico Domenichi, e degli uffizi da essa fatti per la liberazione di lui, in «Giornale Storico degli Archivi toscani» III (Archivio Storico Italiano n.s., X),1859, p. 273). 216 Cfr. A. Pascal, Una breve polemica fra il Riformatore Celso Martinengo e fra’ Angelo Castiglione da Genova, in «Bulletin de la Société d’Histoire Vaudoise», n. 35, 1915 ora «Bollettino della Società di Studi Valdesi»), p. 77; dove è indicata la bibliografia riguardante questo movimento in Piemonte; cfr. infra, pp. 140 sgg., 186, 198, 265, 322, 360.

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CAPITOLO NONO

Camillo Renato, e la critica alla dottrina del Battesimo e della Cena.

Un siciliano abbiam veduto rappresentare e diffondere in Italia, con gli avvolgimenti che la avvedutezza della Inquisizione rendeva necessari, il motivo dottrinale principale degli eretici italiani, che doveva trovare eco e svolgimento fuori d’Italia; un altro siciliano troviamo come capo della vita spirituale degli eretici stessi in terra straniera, nel doppio senso che da lui prendono le mosse o con lui entrano in rapporto fin da principio alcuni dei piú famosi fra essi, e che attorno a lui si raccoglie il gruppo degli eretici nel primo centro della «diaspora italiana», ancora vicino alla patria, nei Grigioni. Nei Grigioni infatti vive ed opera, per il periodo della sua vita a noi conosciuto, il maestro di Lelio Sozzini, l’amico del Curione e di Francesco Negri: Camillo Renato, siciliano da identificarsi con tutta probabilità con il minorita Paolo Ricci, conosciuto anche sotto il nome di Lisia Fileno217 . 217 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 74; Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., vol. II, pp. 155 sgg.; Dunin-Borkowski, Untersuchungen cit. pp. 113 sgg.; Anabattismo e Neoplatonismo cit., pp. 4 sgg. Quanto è quivi detto va corretto nel senso che l’accenno a Giorgio Siculo va tralasciato, poiché la persona di questi è ben distinta da quella del Renato, mentre le dottrine per quanto le conosciamo s’incontrano in tanti punti; e che va accettata l’indicazione di F. C. Church, I riformatori italiani, trad. it., 1935, I, pp. 85-86 e nota 2. L’ultima parte della nota andava tradotta come segue: Mentre la confessione del Ricci o Fileno non costituisce un indice conclusivo delle sue credenze, non c’è molta distanza fra l’opinione implicita nella ritrattazione [a proposito della vita celeste delle anime dopo morte che viene

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Vicini alle terre venete e lombarde dove il movimento «anabattista» italiano era stato piú vigoroso e diffuso, i Grigioni costituivano, specie nella parte di lingua italiana, un notevole centro di attrazione per i protestanti italiani, e per la lingua, e per le possibilità di trovare un sostentamento come insegnanti o come pastori; e la legislazione di quei paesi, che per un incontro di interessi politici era stata una delle prime a concedere e a regolare giuridicamente la tolleranza religiosa, doveva sembrare favorevole non solo in generale a coloro che avevano abbandonato la fede cattolica per il luteranesimo o per lo zwinglianesimo, ma specialmente agli eretici, man mano che si facevano consapevoli del carattere limitato della «libertà» protestante218 . Forse c’era anche la speran-

riaffermata] e quella di Camillo Renato sulla risurrezione. Alle coincidenze indicate ivi dal Church (cfr. anche p. 232 e nota 1), il prof. Alfredo Casadei sta per aggiungere, com’egli mi comunica, nuove conclusioni in un suo saggio complessivo sul Renato; esse saranno fondate in parte su indicazioni dalla corrispondenza del Vergerio col Bullinger (Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, pp. 256-57) in parte su documenti inediti da lui trovati; e conducono anch’esse alla identificazione di Camillo Renato col minorita Paolo Ricci, alias Lisia Fileno, che tanta importanza ebbe per il movimento riformatore modenese {Lisia Fileno e Camillo Renato, Roma 1939 – un estratto di 82 pagine dall’ultimo numero (1939) della rivista «Religio» (diretta da E. Buonaiuti). Il numero fu stampato, ma non pubblicato. La conclusione del Casadei è che Renato-Lisia Fileno non è un mistico, ma un battagliero razionalista religioso. Cfr.} Church, I riformatori italiani cit. Cfr. anche G. K Brown, Italy and the Reformation to 1550, Oxford 1933, sull’attività italiana del Ricci. Per il resto rimando allo studio del Casadei. Sul Curione e Lelio Sozzini vedi avanti in questo libro; per Fr. Negri, cfr. G. Zonta, Francesco Negri l’eretico e la sua tragedia «Il libero arbitrio», in «Giornale Storico della letteratura italiana», LXVII, 1916, pp. 265 sgg.; LXVIII, 1916, pp. 108 sgg. 218 Church, I riformatori italiani cit., I, pp. 149 sgg.

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za di poter piú facilmente diffondere la propria dottrina presso uomini semplici, non legati da interessi a quanto ancora c’era di conservatore nelle dottrine elaborate sotto la protezione dei principi o delle potenti corporazioni comunali. Cosí doveva pensare Francesco Calabrese, alle cui dottrine abbiamo già accennato, quando alla disputa di Süss protestò contro la presenza dei cattolici e del funzionario imperiale, dicendo che gli evangelici non si dovevano riunire con i nemici per far condannare un compagno di fede. E non dovette esser troppo persuaso della argomentazione del pastore Filippo Saluz, che anche Cristo s’era unito coi Farisei contro i Sadducei, e che ci si poteva alleare con i cattolici se anche questi difendevano la causa della verità: poiché per gli italiani di questa tendenza s’è visto che la Chiesa Romana rappresentava senz’altro l’Anticristo, col quale non si poteva concludere nessuna alleanza. Il radicalismo soggettivistico cominciava a urtarsi e a tutto suo danno con il realismo politico dei costruttori delle nuove chiese. Nei Grigioni abbiamo incontrato anche il Tiziano, con la sua dottrina anabattista e spiritualista coerente e completa; ed anche questi fu scacciato per ragioni di politica, anche se le stesse ragioni indussero il Saluz ad impedirne la condanna a morte. Ma col caso del Tiziano siamo già avanti nella storia di questi anni, e al momento della trasformazione portata nella situazione degli emigrati dalla condanna del Serveto. Della situazione psicologica che si era allora creata, è testimonianza la giustificazione che il Saluz inviò al Bullinger del proprio modo di procedere contro il Tiziano non condannato a morte come si sarebbe meritato, ma espulso: un martirio, dato l’atteggiamento della popolazione, avrebbe aumentato i seguaci dell’italiano, e avrebbe confermato gli incerti nelle lo-

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ro idee219 . Questo timore di aumentare il movimento eretico creando un martire, presuppone uno stato d’animo di fervore diffuso e di irrequietezza presso la massa. Ma nel primo periodo dell’emigrazione degli eretici italiani la personalità dominante nei Grigioni è Camillo Renato, che forse assunse questo simbolico nome al momento del suo rifugiarsi in Valtellina, nel 1542220 ; forse volle indicare col nuovo nome d’avere acceduto alle dottrine spfitualistiche radicali. Da principio si fermò a Caspano come istitutore dei figli di Raffaele Pallavicini; nel 1545 fu a Traona e a Vicosoprano; nel 1547 era a Chiavenna. Fra la permanenza a Traona e quella a Chiavenna si potrebbe supporre un viaggio in Italia per partecipare alle adunanze vicentine. Sembra che il Renato preparasse piccoli scritti, forse in forma di «epistole» o trattatelli, che venivano diffusi in segreto, ricopiati e passati di mano in mano. Oltre a uno di questi scritti, c’è rimasta la sua corrispondenza col Bullinger, nella quale naturalmente non si trova traccia di aperta eterodossia. Però il Renato pone continui quesiti al capo ecclesiastico zurighese, erede della tradizione zwingliana che certo doveva attirare questi uomini piú che la dottrina luterana e che in questi anni era ancor bene distinta da quella calvinista. Ad ogni modo, il procedimento del Renato nella corrispondenza con il Bullinger corrisponde al metodo usato da Lelio Sozzini e poi dal Biandrata per proporre le loro dottrine insinuandole sotto la forma di problemi e quesiti. Caratteristica è la prima lettera del Renato al Bullinger, che è una specie di presentazione dell’esule all’antistes, e allo stesso tempo una specie di professione di fede, una dichiarazione impegnativa delle proprie 219 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 84 nota. 220 Ibid., pp. 75, 85.

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idee221 . Il centro della sua dottrina è posto esplicitamente nel concetto dello «spirito cristiano» (Christianus ille Spiritus), che viene poi nel corso della lettera inteso in maniera che è potuta sembrare ambigua; poiché «c’era da aspettarsi che sotto il nome dello spirito divino si facesse avanti quello umano»222 : ma per il Renato l’ambiguità, necessaria, stava soltanto nell’aver sottaciuto il significato da lui dato a «spiritus christianus», che era semplicemente «disposizione d’animo cristiana», volontà e desiderio d’agire nello spirito e nell’ubbidienza dell’Evangelo. Considerava la Cena come pura e semplice «memoria mortis Christi», con una interpretazione letterale del passo evangelico ancor piú estrema di quella dello Zwingli, il cui fedele discepolo notò nella risposta che cosí si toglieva alla Eucaristia ogni carattere sacramentale, pur necessario se si voleva conservare la organizzazione ecclesiastica. È vero che il Renato replicava di essere d’accordo col Bullinger, dopo d’averne ricevuto la professione di fede della chiesa zurighese; ma era un accordo puramente esteriore e formale. Anche il Battesimo perdeva nella dottrina del Renato ogni carattere sacramentale, e veniva ridotto a pura affermazione di fede individuale e personale del credente, con uno svolgimento unilaterale del motivo zwingliano originale. Agostino Mainardi, pastore a Chiavenna, uno dei tanti profughi italiani che si erano dati con entusiasmo all’opera costruttrice fra i loro compatrioti, accettando le dottrine delle chiese riformate e partecipando alla loro vita223 , s’accorse subito che il «siciliano», amico del CuSchiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, pp. 69 sgg. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 86. 223 Ibid., pp. 92 sgg.; P. Tacchi Venturi, Storia della compagnia di Gesú in Italia, 2ª ed., Roma 1931, I, pp. 469-70; Chabod, Per la storia cit., p. 87 e nota, ecc.; G. Jalla Storia della Ri221 222

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rione (che il Mainardi doveva conoscer bene come pencolante verso dottrine estreme)224 amico del Maturo, amico del Tiziano, non solo coltivava personalmente idee non concordanti con la dottrina ch’egli s’era impegnato a insegnare, ma le diffondeva fra la popolazione. E qui il Renato si trovò in una situazione differente da quella che forse aveva potuto sperare vedendo lo svolgersi calmo e aperto della sua libera discussione con il Bullinger, il quale replicava con argomenti agli argomenti del siciliano sulla concezione soggettiva della Eucaristia. Da principio il Mainardi aveva guardato con simpatia al Renato, considerando ammesso, ad esempio, il tentativo di riistituire l’agape cristiana dell’età apostolica, che il Renato ed egli stesso consideravano precedente alla celebrazione dell’Eucaristia vera e propria, e che il Renato si compiaceva di chiamare umanisticamente «epulus»225 . Ma quando dalla discussione privata e dalle cerimonie si cominciò a passare alla diffusione pubblica di dottrine contrarie a quelle che insegnava la chiesa riformata, dall’amicizia si passò all’inimicizia e alla lotta aperta. Il Mainardi ricorse al metodo praticato e imposto con successo da Calvino per mantenere la disciplina nelle comunità riformate: la confessio fidei, che in terreno riformato rinnovava la costrizione religiosa della scomunica cattolica226 . La scomunica protestante, o, meglio, la

forma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto, Firenze, s.d., ma 1914, p. 36, ecc. 224 Sul Curione vedi più avanti; è nota l’amicizia dei due piemontesi Curione e Mainardi. 225 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 92; cfr. piú avanti. 226 Cfr. J. Panniet, Les origines de la confession de foi et la discipline des églises réformées de France. Étude Historique (Études d’Histoire et de philosophie religieuses publiées par la

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esclusione dalla Cena, non implicava persecuzione ufficiale dell’escluso, ed era quindi in linea di diritto differente da quella tradizionale, e si poteva dichiarare solo nel caso di rifiuto della sottoscrizione alla confessio fidei oppure di condotta o immorale in senso specifico o contraddittoria alla confessio fidei sottoscritta solennemente; cioè era piú difficilmente adoprabile come strumento di lotta politica, benché fosse usabile come strumento di lotta sociale e religiosa. L’esclusione dalla Cena equivaleva ad ogni modo a una dichiarazione di non credere alla testimonianza di fede cristiana della persona di condotta, ma anche di dottrina, irregolare; e non dipendendo da norme regolate dalla tradizione, conservava una notevole elasticità che la facevano temibile strumento nelle mani delle autorità religiose, che avevano non solo il modo di espellere chiunque professasse opinioni non accette, ma anche il mezzo di riconoscere, attraverso la formulazione della confessio fidei, tutti gli altri eventuali seguaci delle opinioni proibite o da proibirsi, i ribelli e gli incerti. Nel 1547 l’uso della professione di fede e della scomunica nel senso calvinistico aveva già piú di un lustro di vita227 , e il Mainardi credette forse di risolvere con la professione da imporsi alla chiesa di Chiavenna la situazione creatasi dopoché egli ebbe cominciato a predicare contro le dottrine del Renato, con la conseguenza che questi e molti suoi seguaci non frequentavano piú la chiesa. Invece l’atto del Mainardi incontrò non solo faculté de Théologie protestante de l’Université de Strasbourg, fasc. 32), Paris 1936, pp. 39 sgg. La prassi calvinistica è una applicazione agli individui del principio che si doveva affermare su un altro piano con l’Augustana. 227 Le Ordonnances ecclésiastiques di Calvino, che instaurano la nuova disciplina, sono del 1541.

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la opposizione dei seguaci del Renato, come il Negri228 , ma anche dello Stancaro229 , che, pure amico del siciliano, non ne condivideva affatto la dottrina dei sacramenti, giungendo anzi a conclusioni opposte. Il loro modo di procedere mostra che non si trattava solo di avversione al Mainardi e di simpatia per il Renato, ma di opposizione al principio della confessio fidei e al modo di organizzare la vita della comunità cristiana in essa implicito, e cosí contrario a quella libertà di discussione che tanta importanza aveva per gli italiani: essi infatti contrapposero una propria confessio fidei a quella del Mainardi, come ad affermare che non soltanto l’autorità ecclesiastica aveva il diritto di proporre una professione di fede, ma qualunque cristiano poteva far valere la sua; e anche per mostrare, facendo sottoscrivere la propria confessio ad altri pastori piú autorevoli del Mainardi230 , che questi non aveva il diritto di imporre la propria. Il predicatore di Coira, Giovanni Blasio, venuto in Valtellina per insediare un nuovo pastore a Caspano, cercò di risolvere la questione invitando i due contendenti al sinodo di Coira del 1547, dove avrebbero dovuto sottoscrivere una dichiarazione sui sacramenti preparata dal Bullinger: ma il Renato non si presentò né si scusò, e fu ammonito di non opporsi piú al Mainardi, la cui professione di fede fu trovata ortodossa231 . Presto la disputa riprese, e i pastori di Coira rimandarono i due contendenti a Zurigo: il Mainardi nel 1548 fece infatti un viaggio a Zurigo e a Basilea, tornandone con approvazioni della sua confessio al228 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 100. 229 F. Ruffini, Francesco Stancaro, contributo alla storia della Riforma in Italia, Roma 1935, p. 204. 230 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 101. 231 Ibid., p. 102.

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le quali s’aggiunse finalmente quella dei pastori di Coira. Il gruppo del Renato finora si era tenuto tranquillo, poiché la dottrina che vi veniva professata, pur non essendo stata riconosciuta ortodossa, tuttavia non era stata formalmente proibita. Ma quando il Mainardi minacciò di abbandonare il paese se non si fosse imposta a tutti la sua confessione, che tanti trionfi aveva ottenuto presso le autorità di Coira, di Zurigo, di Basilea, e se non si fossero poste in atto contro gli «anabattisti», fanatici, perturbatori della pace, maestri non chiamati, le norme della disciplina ecclesiastica della chiesa svizzera (cioè, probabilmente, quelle di Ginevra, le piú severe), i seguaci del Renato cominciarono ad agitarsi. Caratteristico di nuovo il caso del Negri, il quale mentre si allontanava dalle dottrine estreme del Renato, s’irrigidiva contro le pretese autoritarie del Mainardi, e rifiutò di far battezzare un bambino che gli era nato, prima che il Mainardi avesse accettato la professione di fede che il Negri gli proponeva232 . Un medico, Pietro da Casalmaggiore233 dichiarò la sua fede davanti al Vergerio, che nel 1549 era di passaggio per Chiavenna nella sua fuga, e davanti al Mainardi stesso: si era fatto ribattezzare e da quel momento si era sentito un altro uomo «nempe innovatum et spiritu Dei plenum»; abbandonato il Papa, aveva abbandonato tutto quel che sotto il papa aveva ricevuto, anche il battesimo, che era stato cosa dell’Anticristo. Il Mainardi, che riferisce la cosa in una sua lettera al Bullinger, dice che il suo avversario aveva detto tutto ciò a mensa, ad alta voce, ed alla presenza di molti altri, ed aggiunge che il medico avrebbe chiamato lui, Mainardi, «seductorem, lupum rapacem, falIbid., p. 103. Ibid. Cfr. su di lui (Pietro Bresciani) Chabod, Per la storia cit., pp. 123 sgg., e specialmente pp. 125-26, e qui sopra, p. 70. 232 233

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sorum concionatorem»234 . Il che forse non è probabile; ma si può tener per vera l’avversione netta al Mainardi, e l’ardire di professare apertamente la propria dottrina. Il Renato si ritirò da Chiavenna per recarsi in un punto non meglio determinato della Valtellina, ma prima di partire pubblicò un elenco di centoventicinque «errores, ineptiae, scandala, contradictiones» dal Mainardi detti o scritti dal 1545 in poi235 . I tolleranti zurighesi e italiani che si trovarono a passare nei Grigioni (l’Altieri, oltre il Vergerio) cercavano di frenare la impulsiva intolleranza del Mainardi, che impediva ogni riconciliazione. Una delegazione del sinodo di Coira si recò a Chiavenna per rendersi conto della situazione, e decise contro il Renato e i suoi seguaci, che finirono col sottoscrivere una dichiarazione di fede preparata dai delegati e tenuta nel senso del Mainardi. Ma il Renato non tenne conto della proibizione di predicare e di insegnare, e continuò a radunare intorno a sé un piccolo gruppo di seguaci, che apprendevano da lui le due dottrine a cui piú teneva, quella della mortalità dell’anima a meno della rinascita in Cristo, individuale e determinata dalla fede spirituale nel Vangelo come dal nuovo battesimo, e quella della non validità del battesimo della Chiesa di Roma236 . Il 6 luglio 1550 venne scomunicato: vinceva il Mainardi e il partito della severa disciplina, il principio di Calvino: il 19 gennaio dell’anno seguente, per l’intervento del Vergerio, il Renato si sottomise firmando una dichiarazione di fede che condannava esplicitamente punto per punto le proprie dottrine; ma non rimase tranquillo, tanto che ancora nel 1552 si doveva 234 Mainardi a Bullinger, 7 agosto 1549, in Bullingers Korrespondenz cit., I, p. 148. 235 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 104. 236 Ibid., pp. 105-6.

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parlare di lui. Ma poi rimase in silenzio fino alla condanna del Serveto, che tanta indignazione risvegliò nel mondo degli emigrati italiani, e non solo nei Grigioni. Pietro da Casalmaggiore aveva forse potuto permettersi tanta libertà contro il Mainardi perché fra i suoi compagni di fede c’erano membri delle piú importanti famiglie della regione, come quel Gianandrea de’ Paravicini, che aveva una concezione eretica della Trinità, e sosteneva apertamente il Renato. Forse per le potenti amicizie di questi, il Vergerio, durante la sua permanenza nei Grigioni, cercò sempre di difenderlo contro il Mainardi, cercando una conciliazione che si riduceva a una sconfitta del Mainardi stesso; e certo per riguardo alla potente famiglia alla quale apparteneva, il Vergerio prese a difendere il Paravicino e ad insistere che gli fosse conferito il diritto di predicare e di insegnare237 . Ma oltre il riguardo per i potenti amici del Renato, c’era probabilmenté un’altra ragione nel procedere del Vergerio: egli, che tendeva ad acquistare influenza nella regione per condur di lí un efficace attacco, piú politico che religioso, contro la Chiesa che aveva da poco abbandonato, è per costituirvi forse un centro di diffusione e di propaganda più anticuriale che protestante238 , doveva calcolare che nel suo giuoco gli «anabattisti» cosí decisi contro la Chiesa dell’Anticristo avrebbero potuto avere una parte forse importante. Questa ipotesi è confermata dalla partecipazione del Vergerio al movimento iconoclastico, che era di carattere sempre estremistico e spesso, come in questo caso, violento239 . Cosí il Vergerio in questo primo momento si trova in contatto con molti «irregolari» della riforma italiana: Lelio Sozzini, che nel 1552 si 237 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 116. 238 Ibid., p. 117. 239 Churc, I riformatori italiani cit., pp. 267 sgg., e 273.

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ferma per tre settimane nei Grigioni240 , e Celso Massimiliano Martinengo, che difende il Paravicini, sostenendo anch’egli «scripturis canonicis probari non posse Trinitatis aut personarum vocem»241 , e che occorra toglier dalle chiese il fonte battesimale; e che solo piú tardi prenderà un’altra strada. Nell’autunno del 1552, quando il sinodo della Lega Retica decide d’imporre una formula disciplinare che tutti i pastori debbono sottoscrivere, il Vergerio si trova a capo dell’opposizione degli italiani, che volevano continuare a presentarsi ognuno con la propria professione di fede individuale, spesso capziosa e ambigua242 . L’amicizia che il Vergerio mostra in questo tempo con il Gribaldi, amico a sua volta di Lelio Sozzini, e che il Vergerio incontra nel 1551 a Zurigo243 , sembra provare che l’antico nuncio pontificio cercava di avvicinarsi al gruppo degli eretici, degli «anabattisti» italiani, del quale, piú o meno strettamente, tutti questi uomini facevano parte. E appunto la virulenza dei libelli vergeriani potrebbe assumere nuovo colore sullo sfondo del movimento anabattista estremista come lo vediamo nei Grigioni. Del resto il Vergerio doveva vedere la impossibilità di servirsi degli eretici italiani per il suo giuoco, e abbandonare, anzi, tradire uno per volta i suoi antichi amici. Ma intanto, ora, nei Grigioni, cercava di farsi ca240 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 119. 241 Ibid, pp. 120-23. Cfr. Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, p. 243 sg. Il Martinengo diventato poi piú tardi pastore della chiesa italiana di Ginevra (O. Grosheintz, L’église italienne à Genève au temps de Calvin, Lausanne 1904, p 48) dimenticherà la sua posizione in questi momenti, e diventerà rigido tutore della ortodossia calvinistica. 242 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 123. 243 Churc, I riformatori italiani cit., II, p. 273.

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po degli italiani che protestano contro la Confessio Rhaetica, lamentandosi che vi si contenessero troppe limitazioni alla libertà di culto e di vita religiosa; e giungeva a proporre addirittura un sinodo italiano244 . Questa era una sua vecchia idea, scartata dalle autorità locali, e destinata a rimanere senza effetto, perché volta soprattutto ad accrescere l’inguenza del Vergerio stesso. Accanto alla dottrina del sonno delle anime dopo la morte, con la sua premessa che non può esserci vita senza corpo, e che quindi la vera vita oltreterrena comincerà solo quando tutte le anime salvate risorgeranno dopo il giudizio universale in un nuovo mondo spirituale, mentre le altre non risorgeranno, e a quella della non validità del battesimo cattolico, il Renato professava la teoria del rinnovamento nello spirito, che rende inutile ogni legge, anche quella morale. Il vero centro del suo pensiero in questa idea della rinascita spirituale, che rende superflua ogni legge nell’entusiasmo e nella coscienza della carità cristiana; e in questo senso va accettata la limitazione degli studiosi che, intendendo l’anabattismo in senso ristretto, negano che il Renato fosse anabattista, in quanto, pur rifiutando valore all’antico battesimo, non credeva necessario un nuovo battesimo in quanto nessun sacramento aveva per lui un valore essenziale245 . Oltre la confessio fidei preparata dal Mainardi contro di lui, e che ci serve per ricostruire le sue dottrine, e oltre le lettere, l’unica cosa rimastaci del Renato è un Trattato del Battesimo e della Santa Cena, in italiano246 , 244 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 123. 245 A. Gordon, [Lelio Sozzini], in «Theological Review», Edinburgh 1879, p. 305. 246 Pubblicato in parte da me in Per la storia degli eretici italiani nel secolo XVI in Europa (Reale Accademia d’Italia, Studi e Documenti, n. 7), pp. 49 sgg. (Cod. Bern. A. 93.13. Cfr.

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fatto quindi per esser diffuso tra persone ignare di latino, e per diffondere tra loro lo spirito critico ravvivato e rafforzato dalla dottrina della rinnovazione mistica nello spirito. Importante è il presupposto generale, si potrebbe dire metodologico, della critica alla quale il Renato sottopone il concetto stesso dei Sacramenti. Per lui infatti l’intelligenza delle cose in genere e dei fatti della vita spirituale e religiosa, nasce dalla proprietà dei nomi: se ad una «cosa», ad un sacramento in questo caso, non conviene il nome, non gli conviene neppure il significato, l’insieme di qualità, attributi, relazioni, che sono sintetizzati nel nome stesso247 . Questa è la dialettica del Valla, col suo concetto delle «res» e con la sua logica fondata sulle parole e sulla grammatica, con la sua preoccupazione linguistica e puristica, e il suo sforzo di sistemare e concretare in una dottrina di valore generale lo spirito critico della sua filologia. Il Renato dimostra con osservazioni linguistiche che al Battesimo e alla Eucaristia non convengono i nomi di «suggelli confermativi né certificativi», e ne conclude che non si può dire che l’uno o l’altro dei due ultimi Sacramenti conservati dalle chiese svizzere abbiaibid., introduzione, p. 9). Ho pubblicato in questa raccolta solo la prima parte (circa un terzo dell’intiero trattato), dove il Renato imposta il problema ed esprime chiaramente e in generale il suo sistema. Nelle parti che seguono prevalgono argomentazioni scritturali (il significato del sacrificio di Abramo, la circoncisione, ecc.), fra le quali oggi tanto si rilevano affermazioni generali, che ho citato nel testo. Il Renato afferma la soggettività della vita religiosa, che è indifferente alla propria estrinsecazione in atti di culto, e non riconosce loro alcun valor proprio, oggettivo. Il metodo razionale-critico è per lui solo uno strumento di lotta contro la dottrina dell’avversario. 247 Trattato del battesimo cit., in Per la storia cit., p. 51.

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no l’ufficio di sigillare o di confermare la fede248 . La ragione scritturale viene solo in secondo luogo, e il Renato v’insiste meno; dopo un breve accenno egli ritorna alla dimostrazione che i Sacramenti non possono avere alcun valore oggettivo, come invece le chiese svizzere tendevano ad attribuire loro, secondo la tendenza che poi doveva condurre al Consensus Tigurinus fra zwingliani e calvinisti: Zwingli, che fino ad allora aveva offerto la critica piú ardita e piú coerente da un punto di vista umanistico dei Sacramenti, aveva detto che essi erano «segni», ma segni che certificavano e confermavano la comunione in Cristo (anche se puramente spirituale) e la nascita cristiana249 . Ma il Renato osserva che essi sono «segni, perché significano qualche cosa», ma che non per questo sono «certificativi o conservativi della cosa stessa», perché «altra cosa è significare, altra è confirmare»250 . Non si può dunque trasformare il «significato» dell’istituzione sacramentale in «confermazione» di ciò che viene solamente indicato in esso; non si può dare valore oggettivo a ciò che ha valore soggettivo, spirituale. Ma se queste due istituzioni sacramentali del Battesimo e dell’Eucaristia non avessero valore oggettivo, obiettavano gli avversari, non avrebbero nessuna utilità per coloro che vi prendessero parte: la risposta del Renato è perentoria: non ci si deve battezzare né comunicare per utilità: «Io per me non truovo, né vedo tanta utilità, se non in parole...»251 . Il mistico spiritualista è coerente nella estrema negazione di ogni utilitarismo cristiano. Cena Ibid., p. 52. Cfr. R. Seeberg, Die Lehre Luthers (Lehrbuch der Dogmengeschichte, IVer Bd., Iste Abteilung), 2ª, 3ª ed., Leipzig 1917, p. 372. Lo Zwingli usa il paragone del battesimo con il giuramento, che il Renato rifiuta (p. 51). 250 Trattato del Battesimo cit., p. 52. 251 Ibid. 248

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e battesimo sono qualcosa di astratto, senza valore effettivo, perché stanno a indicare qualcosa già avvenuto nello spirito di una persona, che per ciò stesso d’essere avvenuto e compiuto ha valore puramente retrospettivo: la cena e il Battesimo «sono segni et mostre eterne del passato fatto. Et non di promessa alcuna delle cose da venire». E riprende col suo metodo delle distinzioni «Qui bisogna considerare la differenza ch’è fra promessa et memoria». La promessa ha riguardo alle cose future, le quali sono incerte e dubbiose, specialmente per gli uomini, ed hanno bisogno per lo piú che vi sia aggiunto qualche segno visibile esterno e durevole, che serva ad eliminare i dubbi che in futuro possano occorrere. La memoria invece non riguarda le cose future, «che anchora non sono fatte, ma le passate già fatte»; e se vi si aggiunge qualche segno esterno, come le opere, questo non avviene perché nel dare effetto a questi segni e a queste opere si eliminano i dubbi, ma semplicemente per dare ricordanza di ciò che è avvenuto, del fatto. «Le cose passate e già fatte non hanno bisogno di certificazione, né di confermazione», sono già compiute e conchiuse in sé; ma tale bisogno l’han «bene le future». Non c’è continuità fra il passato e il futuro, poiché l’uno non può garantire l’altro, e poiché sono non solo distinti ma contrapposti, come memoria e promessa. «I patti, le convenzioni, le confederazioni riguardano le cose da venire e non delle passate»252 : 252 Ibid., Cod. Bern. A, 93.13, f. 5v: «Questo non accade nel battesmo, ne anche nella cena, li quali sono segni et mostre esterne del passato fatto. Et non di promessa alcuna delle cose da venire. Qui bisognava considerare la differenza che è tra promessa et memoria. La promessa ha riguardo alle cose future, le quali sono incerte e dubiose, specialmente al huomo, et per ciò bisogna il piú delle volte aggiognervi qualche esterno et visibile et durabile segno, il qual lievi gli futuri occurrenti dubij. La memoria non riguarda le cose future che anchora non sono fatte, ma le passate già fatte, et intervienendovi qualche

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e sono fondati sul reciproco impegno di osservanza e di fede. Ma questo non è il caso dei Sacramenti della Eucaristia e del Battesimo. Questo, ad esempio, «ci ha lavati nel passato, e non ci ha promesso di lavare in futuro. Se la fede va innanzi al battesimo, il che è senza dubbio – et la fede non è altro che certissima certezza et fermissima fermezza nel cuore di tal beneficio della giustificazione già ricevuta (mercé di Cristo) et non da ricevere nell’avvenire – il battesimo non è ordinato per accertare et confirmare colui che lo riceve, ma solo per mostrare alli circostanti esternamente quel ch’egli prima ha ricevuto da Dio per mezzo di Gesú Cristo»253 . Analogamente per il sacramento dell’Eucaristia. L’analogia fra il Battesimo e la circoncisione, che era uno degli argomenti piú importanti in favore del Battesimo degli infanti, è errata perché è «per similitudine e non per proprietà». Poiché la «similitudine non ha luogo dove non è alcuna convenienza né in nome né in effetto»254 . E questo perché «la giustificazione proviene da una certa, sicura, sincera et ferma fede. Una fede vacillante non giustifica, chi vacilla nel credere non consegue nulla: non c’è cuore sincero e reale dove c’è qualche vacillanza o discredenza, la quale abbia bisogno di confirmatione o certificatione»255 . Chi è sicuro della propria fede, non ha bisogno di effetti

esterno segno o opera, non è per torre dubij facendosi, ma è ricordanza del fatto. Le cose passate et già fatte, non hanno bisogno di certificatione, né confirmatione, ma bene le future. Li patti, le conventioni le confederationi sono delle cose da venire, et non delle passate. Et perciò tal hora, ad petpetuam rei memoriam, come se dice, vi si aggionge qualche segno, che lievi gli occorrenti dubij... Ma la cena non ha già questo uficio né questo fine, essendo segno di memoria et non di promessa...» 253 Ibid., f. 6r. 254 Ibid cit., ed. cit., p. 53. 255 Ibid cit., Cod. Bern. cit., f. 5r.

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esteriori: questo è quanto sanno i cristiani, «i quali s’acquietano e consentono, come dice Paolo, nei parlari della santa scrittura di Gesú Cristo»: e per essi la similitudine dei Sacramenti cristiani con le cerimonie ebraiche «è profana, et scolastica et papale»256 L’importanza di questo scritto è duplice: per il tono di discussione razionale e per la posizione di un problema unico a proposito dei due sacramenti dell’Eucaristia e del Battesimo. Fino ad allora essi erano stati considerati separatamente: neppure lo Zwingli, che al principio della sua attività aveva guardato con simpatia al radicalismo anabattista, aveva accennato in nessun modo ad unire la sua critica alla concezione oggettiva del sacramento della Eucaristia con un qualsiasi riesame della concezione, altrettanto oggettiva ed ispirata ad un principio sostanzialmente identico, del Battesimo. Il Renato compie un importantissimo passo avanti, pur partendo da una posizione zwingliana nel riguardo del sacramento della Santa Cena: e proprio in virtú di un criterio metodologico generale opposto all’allegorismo dello Zwingli, che trovava tropi in tutta la Sacra Scrittura257 . Egli unisce in una critica sola i due sacramenti, quello pel quale, secondo la tradizione, si entra, appena nati, a far parte della comunità cristiana e quello pel quale si rinnova la nostra comunione con Dio: la distinzione fra essi era giusta su un piano realistico e naturalistico, non piú sul piano nettamente e radicalmente spiritualistico nel quale si poneva il Renato, poiché per lui «tutti li credenti si battezzano, chi non crede o dubita non è atto a battezzarsi, e molto meno a cenare»258 . Cioè: tanto la Cena quanto il Battesimo sono segni della fede, di un atto compiutosi nel nostro interno, di una certezIbid cit., ed. cit., p. 53. Cfr. Ritschl, Die reformierte Theologie cit., pp. 76 sgg. 258 Trattato del Battesimo cit., ed. cit., p. 52. 256 257

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za o sicurezza già acquistata nel nostro intimo: e quindi sostanzialmente identici poiché servono l’uno e l’altro a significare un fatto, e non a garantire un da farsi, un futuro. Dal punto di vista delle dispute teologiche di quel periodo l’arditezza e la novità della sintesi compiuta dal Renato erano grandi: e di essa egli era consapevole, poiché faceva precedere lo scritto da molte avvertenze e preghiere di segretezza, per timore di portare «admiratione» ai «fratelli infermi» e di destare malevolenza, «invidia»259 . La critica alla posizinne «papistica» cioè tradizionale, della dottrina dei Sacramenti, che è implicita in questa sintesi, è forse in questo scritto meno vigorosa esteriormente ed esplicitamente, meno eloquente, ma molto piú profonda delle critiche parziali dei capi riformatori, troppo preoccupati dai loro doveri di organizzatori. Essa costituisce infatti il primo passo verso la revisione ab imo del sistema tradizionale delle dottrine sacramentali, dalla forma giuridica di istituzioni oggettive che avevano assunto, verso una forma libera e spontanea di manifestazioni di convinzioni e fatti spirituali interiori: non è piú una critica parziale, ma si avvia ad essere una critica generale, non piú un riesame di dottrine particolari, ma una critica delle idee e delle posizioni fondamentali. L’atteggiamento che ha permesso al Renato di guardare cosí spregiodicatamente al duplice problema è prettamente razionale: e trova la sua origine nella sintesi fra spirito critico filologico e fede di trovare la verità e la norma di vita nella Scrittura, considerata come parola scritta, da intendersi come gli altri discorsi, perché pronunciata, su ispirazione divina, da un uomo dotato di ogni virtú e divina potenza, ma uomo, e quindi comprensibile con mezzi umani dagli altri uomini, perché «rinati in 259

Ibid., p. 49.

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ispirito» e consapevoli di un rinnovamento interno operato per congiungimento mistico con Dio. Infatti il razionalismo critico, che qui è in atto mentre in Giorgio Siculo era rimasto allo stato di affermazione generale, fa riscontro anche nel pensiero di Camillo Renato ad un caldo misticismo, dove la religiosità e la esaltazione spiritualistica amano assumere forme poetiche. Ecco infatti il Credo che il Renato ebbe ad inviare a Federico Saluz260 : «Dio è, e questi è il Padre, in cui professo di credere con convinzione, e questa fede non è illusione di vana speranza; egli è unico, onnipotente: per sua mano son stati fatti il cielo e la terra, e tutto ciò che è, per la sua grande potenza. Credo anche ugualmente nel Figlio (che si può chiamare Gesú) e in quel Cristo, di cui ha vaticinato l’antica età degli uomini pii, non ignara del grande futuro, e che essa ha esaltato con segni, se pure oscuri, tuttavia certi. E credo che questi sia il solo signore di noi tutti, e che egli solo tenga lo scettro, ed è giusto che tutte le cose sian sottoposte a questo solo. E lui non il caso, non l’importuna passione umana, ma lo Spirito Santo fece nascere all’aure vitali dall’intatto alvo della Vergine che lo aveva concepito... Ed ora egli, ammesso in cielo, siede alla destra del Padre, che è Dio, che tutto può, e insieme al quale egli solo regna...» E dalla destra del Padre egli discenderà, «quando tutto ciò che ora si vede, sarà esca di fuochi eterni». Allora egli giudicherà gli uomini. E continua: Vimque Dei spirantem et pia corda moventem Amplector faveoque libens, fateorque fideli Ore palam, atque uni nitor discrimine in omni; Humano sese insinuans quae pectore mentem 260 In De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., II, p. 115.

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Format agens, rebusque facit coelestibus aptam Vera docens, animosque adversum affirmat in hostem. Questa «vim Dei» (lo Spirito Santo) che spira nei cuori dei veri cristiani e insinuandosi nel petto dell’uomo e in esso agendo ne forma la mente, e la rende capace delle cose divine insegnandole il vero e rafforzandone l’animo contro il Nemico, ha in sé qualche cosa dell’amore come lo intende il Ficino, e che rende gli uomini superiori alla comune dei mortali; permettendo di intuire il vero e rendendo capaci delle cose divine.261 È naturalmente un platonismo trasformato dalla preoccupazione religiosa e morale di riformare ab imis la vita cristiana: ma l’ispirazione generale ci sembra da riportarsi alla dottrina ficiniana dell’amore, alla quale fa riscontro la dottrina servetiana della carità. E il platonismo, cosí genericamente inteso, non deve sembrare strano in un amico del Curione, la cui dottrina è chiaramente platonica. Altrettanto mistica e spirituale è la concezione che il Renato propone della Chiesa: tolto ogni valore oggettivo ai Sacramenti, l’unico elemento di unione che rimane è il sentirsi uni in ispirito e nella carità: Nec non et late populus terrisque poloque Concio et haec sancta est, divinisque usibus apta, Quae tamen arcanis mirum compagibus unum Augustum coit in corpus, variosque per artus 261 Cfr. P. O. Kristeller, Volontà e amor divino in Marsilio Ficino, in «Giornale Critico della filosofia italiana», XIX (1935), pp. 185-214. In questo senso va intesa la conclusione di Anabattismo e neoplatonismo cit., p. 41 dell’estr. Cfr. nell’Oratio de Charitate del Ficino: «Deus enim charitas est, et qui manet in charitate in Deo manet, et Deus in eo» (M. Ficini Opera, ed. Parigi 1658, I, 909): il che corrisponde a quanto il Kristeller ha citato sull’«amore platonico» secondo il Ficino.

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Membra ministeriis pulcherrimus explicat ordo Ut sese alternis foveant, tueantur, alantque Officiis, nihil atque minus quam commoda curent Quodque sua. Est adeo illis corporis omnibus una Cura sui: quae cum (start certa oracula) sanctus Spiritus aeternae donarit munera vitae Semper agens, nulloque usquam semel additus absit Tempore, non aliud fungi decet aptius ullum His caput aeterno quam qui victurus in aevo est Omnipotens Christus, vitae certissimus autor, Unus divino qui amplectitur omnia nexu Ac fovet, et qui corporea nunc mole premuntur In terris, et qui laeti potiuntur Olympo. Hoc regnum, hoc corpus, haec fida Ecdesia Christi est262 . La dottrina del corpo mistico della Chiesa serve dunque al Renato per accentuare i doveri di unione, di solidarietà e di rinuncia a se stessi per il bene della comunità: la quale vien concepita, com’è ovvio in una sètta, se pur incipiente come questa e mai uscita dal primo stadio, come comunità chiusa e perfetta, alla quale al suo tempo nessuno mancherà, e nulla si potrà aggiungere di meglio. Il capo di questa società mistica, che costituisce anche il regno di Cristo in terra, come aveva detto il Serveto, è Cristo stesso: il che distacca la concezione del Renato dalla concezione mistica medievale della Chiesa come corpo mistico di Cristo. I segni dell’appartenenza a questa mistica solidarietà sono i due Sacramenti263 . 262 De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., II, p. 115. 263 «... Nom primum ubi contigit ullis | Certa fides, Christumque sequi non vana cupido | Adscribi in coetum petimus, lustramur et hymbri | Membra sacro...» (ibid., p. 116).

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A parte l’elemento razionalistico del fatto che al Battesimo ci conduce una «certa fides» e un «non vano desiderio di seguire Cristo», onde la frase «adscribi in coetu petimus» perde il suo valore metaforico e indica, alla lettera, la domanda d’essere iscritti nella schiera dei credenti; a parte questo, va notato il concetto che con il Battesimo si muore al secolo, e si sfugge ai «communia fata», entrando nella schiera dei perfetti e simili a Cristo: è lo spirito del cristianesimo eroico degli ordini religiosi che opera ancora, in quest’altro ambiente. Classicheggiante è invece la rappresentazione dell’Eucaristia e dell’agape che l’accompagna, alla quale come s’è visto il Renato teneva non poco: Inde per occiduae male tuta volumina vitae Ad Christum acciti sanctaeque ad pocula coenae, Magno adsertori Dominoque epulamur ovantes, Christicolae, Divum genus et coelestis origo. Non his, non servos liber, non dives egentem Foemineusque mares pudor a consessibus arcet Una omneis adeo pietas et gratia iungit264 . Forse si può vedere qualcosa di troppo pagano in questo banchetto comune di fedeli d’ambo i sessi: ma l’accentuazione sta piuttosto da un’altra parte, sull’unione fra poveri e ricchi, servi e liberi, fra i quali deve scomparire ogni distinzione. Questo è possibile solo ai rinati, sottratti al destino comune del genere umano peccatore. Ma i rinati sono tali solo in ispirito: Mente novos nos esse homines, sed carne novandos 264 Ibid.: «Per essi il libero non scaccia i servi, il ricco non scaccia il povero (nel testo del De Porta si ha divos, che ho corretto, in dives) né il pudore femminile tiene gli uomini lontani da questi consessi...»

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Vi magna, quae olim moriturum a funere Christum Aeternam in vitam, stygiisque reduxit ab umbris. Qui la concezione della risurrezione coincide con quella dell’incendio del mondo e con il suo ricominciamento e la sua trasformazione: Quin faetor ventura olim nova saecula, quando His vetus indomitis ardescit in ignibus orbis Cunctorum in poenas, et tristia fata malorum. Tum vero sanctorum hominum crassissima moles Carnis in aetheream mutabitur altera sortem... E i santi rinasceranno in tutto simili a Cristo: ... excors Quis neget aeternam pietate fideque renatos Coelitibus, Christoque panem deducete vitam? Nec mirere: mori si nobis contigit una Cum Christo, una etiam divinas hausimus auras Et fruimur verso communibus ordine fatis, Omnes coelicolae, omnes et supera alta tenentes. Il concetto della imitazione di Cristo portato all’estremo, e unito con quello della rinascita, conduce alla concezione della divinizzazione dei fedeli in Cristo: poiché questo regno di Cristo e questa vita superiore non sono certo stati raggiunti dall’età vagheggiata dai filosofi «Clara olim ingenio, studiisque atque artibus»: poiché la «humana industria» di per sé, non è da tanto, dice il Renato. Ma anche le possibilità superiori date da Dio all’uomo nel De dignitate hominis pichiano riguardano Adamo prima della caduta; e cosí anche l’amore ficiniano è concepito, o voluto concepire, nel quadro della dottrina cristiana, liberamente intesa: quindi accanto ad esso si può mettere la concezione del Renato per la quale la congiun-

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zione dell’uomo con Dio e la restituzione della divina dignità dell’uomo è opera solo dei «Christophili»265 . 265 «Aeternam hanc vitam non attigit ullo Sophorum | Clara olim ingenio, studiisque atque artibus aetas | quaesitam: neque enim erta humana industria tanti. | Christophili potuere, agitataque pectora Christo» (ibid, p. 117). {G. Spini mi riferisce cortesemente che Gregorio Leti inserí nel suo Puttanismo romano, ovvero conclave delle puttane di Roma (Ginevra 1668), seguendo il vero e proprio Conclave, un Dialogo di Pasquino e Marforio sopra lo stesso soggetto del puttanismo, in cui il Leti scrive, riferendosi alla Inquisizione e alle sue persecuzioni: «quel chiudere le bocche nelle piazze con la forza delle minacce, gonfia talmente il petto de’ christiani piú sensati, che soffiano con grand’impeto le penne piú zelanti di que’ Nicodemi, che se ne stanno nascosti per paura ne’ cabinetti piú reconditi, facendoli volare fino alle parti estreme della terra, dove gli huomini non sono cosí facili a credere il bianco per nero ed il nero per bianco»}.

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CAPITOLO DECIMO

L’emigrazione italiana a Zurigo e a Basilea. Il Bullinger.

In quegli anni dal 1542 al 1553 e 1554, che vedono il consolidarsi della potenza di Calvino a Ginevra e l’aumentare della sua influenza in Isvizzera, gli eretici italiani si volgono piuttosto verso Zurigo e Basilea che verso Ginevra. La dottrina zwingliana, anche se conosciuta solo nei principi generali, sembra piú confacente alla loro mentalità che la dottrina luterana: e a Zurigo, nella persona del Bullinger, questa dottrina ha il suo maggior rappresentante e sostenitore266 . Zurigo è la città che ha iniziato per prima la riforma in Isvizzera e dove ha avuto principio anche il movimento anabattista267 . I zurighesi dovevano avere agli occhi di 266 Cfr. G. von Schulthess-Rechberg H. Bullinger, der Nachfolger Zwinglis, Halle 1904 (Schriften des Vereins für Reformationsgeschichte, XXII, 1 [e 82 della raccolta]). (A. Bouvier, H. Bullinger, le successeur de Zwingli, d’après sa correspondance avec les réformés et les humanistes de langue française, Neuchâtel-Paris 1940. Fr. Blanke, Der junge Bullinger, Zürich 1942). 267 L. von Muralt, Glaube und Lehre der Schweizerischen Wiedertäufer in der Reformationszeit, 101 Neujahrblatt zum Besten der Waisenhäuser in Zürich für 1938, p. 4. Su Zurigo e gli italiani cfr. anche Church, I riformatori italiani cif., I, p. 160 (dove nella prima riga in alto 1544 va corretto in 1554). Si veda anche la descrizione classicheggiante della organizzazione di queste città in Jo. Simler, De republica Helvetiorum, Tiguri 1576, pp. 124r sgg. Per la vita intellettuale pp. 128r sgg, pp. 148r, sul famoso Ehegericht tigurino la cui giustificazione doveva sembrare altamente approvabile agli italiani: «Mutata enim religionis forma et abiecto imperio episcoporum pontifice religionis, cum iniquum videretur deinceps suos homines iudicio consi-

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quegli italiani anche il pregio di aver per primi posto in atto la «libertà cristiana» com’essi la intendevano, osando porre la verità al di sopra dell’unità, e resistendo all’autorevolezza e alla violenza di un Lutero. E i libri del Bullinger, con la loro dottrina, con le loro argomentazioni umanistiche che risentivano la preparazione erasmiana, con la loro preoccupazione di chiarezza e semplicità, dovevano attrarre particolarmente gli intelletti italiani. Oltre questi caratteri generali, e la cultura anche scolastica del Bullinger che era giunto attraverso lo studio dei padri e dei filosofi medievali a una concezione soggettivistica della Eucaristia ancor prima di conoscere lo Zwingli, la dottrina spiritualistica e accentuatamente morale e mitica insieme dell’Antistes doveva contribuire a questo interesse268 . Infatti in Italia i libri del Bullinger erano notevolmente diffusi, e conosciuti fra gli italiani, come risulta dalle richieste di un libraio, anche se non si vuol dare troppa importanza alla dichiarazione dell’Ochino di aver letto e studiato a Napoli le opere del Bullinger, la quale pptrebbe essere anche dettata dal desiderio di rendere omaggio all’amico e protettore269 . Cosí quando la Duchessa Renata volle raccomandare il Curione costretto all’esilio, si rivolse al Bullinger270 . A Zu-

storii episcopalis subjcere, a quo haereticorum loco haberentur, domi propria consistoria instituere». 268 Schulthess-Rechberg, Bullinger cit., pp. 11 sgg. Si noti che uno dei problemi dei quali piú s’era occupato il Bullinger era stato quello della esatta definizione dell’eresia, giungendo alla conclusione che la vera grande eretica era la Chiesa di Roma. 269 Ibid., pp. 68 sgg. 270 Da Ferrara, 24 ottobre 1542. Berna, Staatsarchiv, U.P., Bd. 82, n. 45. Cfr. la lettera del Curione al Senato di Berna, n. 46 (8 novembre 1542, da Tirano).

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rigo era subito venuto Pietro Martire Vermigli271 ; e dopo esser dovuto partire da Strasburgo durante la guerra della lega di Smalcalda, e da Oxford dove era stato successivamente chiamato, durante la persecuzione di Maria la Sanguinaria, a Zurigo dal vecchio amico trovò. pace e possibilità di continuare la sua attività di insegnante e di dotto. Il futuro difensore di Pietro Ramo contro il Beza era tollerante e disposto ad accettare le sottili interpretazioni e i dubbi degli italiani, e a rispondere con argomentazioni contro argomentazioni certo non all’infinito, ma con minore impazienza di Cavino. Inoltre il Bullinger era in un certo senso il protettore delle chiese protestanti dei Grigioni, che tanta importanza avevano per gli esuli italiani. Anche in questo il Bullinger continuava l’opera dello Zwingli attraverso una continua corrispondenza e le visite che i pastori dei Grigioni gli rendevano: e s’è visto come ogni decisione nel caso del Renato provenisse in ultima analisi dal Bullinger stesso, e con quanto spirito di tolleranza questi procedesse. Bullinger era in rapporti epistolari e diretti con tutti gli svizzeri, con gli strasburghesi, con molti tedeschi, affine di mentalità con l’amico Melantone; appoggiato ad una chiesa che era molto piú indipendente di fronte allo Stato di quelle di Berna e di Basilea, e poteva esercitare quindi una piú larga politica di ospitalità; preoccupato della diffusione della cultura classica e della organizzazione degli studi in Zurigo, il Bullinger doveva rappresentare agli occhi dei primi emigrati italiani quel che poi sarà Calvino per tutti i riformati: capo, guida, protettore della vera riforma, radicale e coerente, e della «libertà di religione» ch’essi cercavano. Certo, Zurigo non aveva né una Università, recente ma già famosa, né tante tipografie celebri in tutta Europa, né una tradizione di spiriti liberali come quella che a 271

Schmidt, Peter Martyr Vermigli cit., pp. 47, 190 sgg.

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Basilea aveva lasciato Erasmo. Ma dal tempo dello Zwingli anche la scuola zurighese aveva cominciato a rifiorire, e il Bullinger vi dedicava cure attente ed assidue, specialmente per l’insegnamento delle lingue classiche, convinto com’era della loro necessità per la preparazione dei pastori e dei teologi. E quando il consiglio della città di Zurigo sembrò propenso a ridurre le entrate della scuola, per devolverle alle spese di guerra, il Bullinger, da poco assunto all’ufficio di «Schulherr», capo della scuola, si presentò al consiglio stesso, e dichiarò che una magistratura cristiana non poteva in alcun modo lasciar cadere la sua chiesa nell’ignoranza limitando la vita degli studi: questo era il mezzo di lasciar ritornare il papismo!272 . Accanto a lui il Bibliander, il Simler, il Wolf, il Gwalther, dotti e tolleranti, saranno amici degli italiani. Dunque, Zurigo doveva apparire agli irrequieti ricercatori e discettatori che venivano dall’Italia, luogo di rifugio piú adatto di Ginevra, dove la severa disciplina di Calvino cominciava a farsi sentire, affermandosi proprio in quegli anni dopo il 1541: e dove la dottrina riformata andava acquistando un carattere nuovo, lontano dal soggettivismo e dallo spiritualismo umanistico dello Zwingli. La questione sacramentaria, che era diventata il punto cruciale delle dissensioni fra i protestanti, e continuava a dividerli in due campi, minacciava di dividere i ginevrini, con la loro dottrina intermedia, oltre che dai luterani, anche agli zwingliani; e se risolta in senso conservatore, cioè in modo che si attribuisse ai Sacramenti in qualche modo un valore oggettivo, sarebbe riuscita molto pericolosa per gli eretici, la cui posizione, con l’aiuto di avvolgimenti dottrinali e di interpretazioni adatte, poteva essere ancora sostenibile nel quadro della dottrina strettamente zwingliana, non poteva però essere in alcun modo tollerata dalla dottrina calvinista. 272

Schulthess-Rechberg, Bullinger cit., p. 46.

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Ancor piú attraente era Basilea, che, nel secondo trentennio del Cinquecento, non era soltanto la città dell’Università umanistica, sempre tollerante per le contendenti scuole di teologi, aperta alla nuova cultura, ospite di Erasmo, patria di Bonifacio Amerbach, uno dei principali centri tipografici di Europa, la Basilea che Pietro Ramo avrebbe, proprio alla fine di questo periodo, esaltato, ricordando molti italiani fra le sue glorie273 ; ma era anche un centro di libertà religiosa, proprio nel senso desiderato dagli eretici italiani. Non solo l’atmosfera umanistica concedeva larga tolleranza alle discussioni, e favoriva l’attività di ricerca nel senso di una religiosità erasmiana; non solo la possibilità di lavoro offerta dalle tipografie attirava gli eretici, bisognosi di lavoro per sostentarsi e spesso impreparati ad altra attività che quella di correttori e revisori, per la loro stessa origine sociale; ma soprattutto la prassi tollerante del consiglio della città, che teneva ad attirare persone stimate nel mondo della cultura, e a non recar pregiudizio con fama di intolleranza alla frequenza e alla importanza dei suoi commerci; e infine la situazione stessa della città, posta all’incrocio di tante strade, con la possibilità di comunicare coi loro fratelli dispersi, dovevano contribuire a chiamare nell’antica città del Concilio eretici e spiriti indipendenti di tutta Europa. A Basilea vivevano, fra gli altri, il savoiardo Sebastiano Castellione, scacciato da Ginevra per le sue troppo indipendenti interpretazioni bibliche, famoso in tutta Europa per la sua opera pedagogica, e piú tardi per le sue arditissime opinioni; il Cellario, di Stoccarda, che, prima di esser nominato professore a Basilea, era stato amico di Nicola Storch (Ciconia), attraverso di lui era entrato in contatto con in «fanatici» spirituali ed aveva finito col prender parte per essi, attirandosi rimproveri e 273 Petri Rami, Basilea, ad Senatum Populumque Basiliensem, Basileae 1571.

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accuse anche di «anabattismo» da parte di Melantone e di Lutero; e infine, sotto falso nome, il capo anabattistico fiammingo David Joris274 . Intorno alla metà del decennio, negli ambienti teologici di queste città si discuteva dell’accordo che si stava profilando fra zwingliani e calvinisti, il quale avrebbe preso il nome di Consensus Tigurinus. Esso sarebbe consistito sostanzialmente in una modificazione in senso oggettivo della dottrina zwingliana dei Sacramenti, la quale cosí veniva ad avvicinarsi molto alla interpretazione melantoniana e calvinista, cioè a un concetto della vita cristiana piú conservatore, che riconosceva in qualche modo alla Chiesa e ai pastori un valore di per se stesso superiore a quello dei singoli credenti, di contro all’individualismo degli eretici, che non volevano riconoscere nella Chiesa altro valore che quello pratico di organizzazione. In Isvizzera, durante il ventennio di disputa sacramentaria che ormai era trascorso, si era andata generalmente diffondendo la tendenza ad abbandonare la concezione zwingliana dell’Eucaristia come pura e soggettiva testimonianza di fede e di commemorazione di Gesú Cristo da parte dell’individuo che ad essa si accosta (concezione razionale, ma fredda), per quella di una presenza «sostanziale, reale, spirituale» della Divinità nella Cena. Ma c’era un certo ritegno a professare apertamente la dottrina melantoniana (e poi quella di Calvino), perché il ricordo della disputa fra lo Zwingli e Lutero, perpetuatasi per tanto tempo, impediva di venire a una soluzione conciliativa. Subito dopo la morte di Lutero, Calvino, assecondato dal riformatore di Losanna, il Viret, s’era messo al274 Sull’importanza di Basilea mi soffermo di meno perché la presenza della Università ha reso piú famosa Basilea che Zurigo nella storia della cultura. Cfr. Church, I riformatori italiani cit., I, pp. 150 sgg.

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l’opera per ottenere, almeno fra gli svizzeri, una fusione delle dottrine, che acquetasse gli spiriti piú religiosi, togliesse esca a quelli piú vogliosi di controversie, impedisse svolgimenti razionalistici atti a distrugger le fondamenta della organizzazione ecclesiastica, portasse l’unità fra gli svizzeri riformati, e insieme avvicinasse per quanto possibile la confessione riformata svizzera a quella luterana. Oltre queste ragioni dottrinali e generali, c’era l’interesse politico di avvicinare Ginevra e gli emigrati francesi agli altri Cantoni svizzeri, ed esso riuscí ad affermarsi non ostante la resistenza, anch’essa solo politica, di Berna, che temeva per la sua egemonia la influenza ginevrina275 . A Zurigo la resistenza all’azione di Calvino era piú decisa; a Basilea prevaleva una tendenza filoluterana, che avrebbe trovato ancor troppo zwingliana la formula dell’Eucaristia del Consensus. Ma non era soltanto la tendenza teologica dei capi a spingere gli italiani verso queste città, benché essi partecipassero ben presto alle discussioni, eran l’ambiente culturale, e le possibilità di vita, in ogni senso. 275 Sulla disputa sacramentaria e sul Consensus Tigurinus cfr. Ruffini, Stancaro cit., p. 381, e A. Barclay, The protestant doctrine of the Lord’s supper, Glasgow 1927, pp. 158-79.

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CAPITOLO UNDICESIMO

Il Curione a Basilea. Il Curione e il Bullinger. L’Araneus: tendenze mistiche; Della Christiana Creanza de’ figlioli: tendenze anabattistiche del Curione.

A Basilea si fermò dunque, dopo una breve sosta a Losanna, il piú famoso amico di Camillo Renato, che assieme a lui aveva abbandonato l’Italia, fermandosi per qualche tempo in Valtellina, e che non smise i contatti con lui: Celio Secondo Curione, celebre nella storia della Riforma italiana per i casi della sua vita mentre fu in Italia e per la fama ottenuta a Losanna e poi a Basilea come insegnante di umane lettere276 . In una lettera del dicembre 1542, da Losanna, il Curione parla di Camillo al Bullinger come «virum et literis et religione praestantem»; nel marzo dell’anno seguente, sempre scrivendo al Bullinger lo chiama «virum cumprimis doctum et bonum»277 . Il Curione mantenne poi, sembra, sempre buoni rapporti col Renato e con la comunità italiana nei Grigioni, nella quale ritornò l’estate del 1553, per atten276 Sul Curione manca un lavoro d’insieme. Per le notizie principali e la biografia per sommi capi, rimando al breve saggio riassuntivo di F. Borlandi, La riforma luterana nell’Università di Pavia, Roma 1928, pp. 9 sgg.; e allo Schmidt, C. S. Curione in «Zeitschrift für die historische Theologie», xxx (1860). fasc. IV, oltre che alla voce relativa nella Realenzyklopädie dello Herzog (IV, 353 sg.), scritta dal Benrath. 277 Curione al Bullinger, Losanna 10 dicembre 1542; Zurigo, Staatsarchiv, E II 368/228; 24 febbraio 1543, ibid., E II 366/88. Cfr. Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, p. 49: il Renato scrivendo al Bullinger si riferisce a sua volta all’incoraggiamento del Curione «non tam familiaritate quam religione mihi coniunctissimus». Nel 1546 e 1547 il Renato invia lettere al Curione attraverso il Bullinger (ibid. p. 98).

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dere sua figlia, ch’era rimasta in Italia (e forse colse l’occasione per accordarsi sulla pubblicazione del De Amplitudine Beati Regni Dei, avvenuta quivi, l’anno seguente), e delle cui sorti prese cura. Di questo periodo è la notizia che il Curione («uno dei prime uomini di Basilea») si sarebbe fatto ribattezzare278 : ma il Bullinger, che nel gennaio del 1553 riceveva questa notizia dal Vergerio, riceveva nell’estate dal Curione la notizia d’attività del Vergerio per diffondere nei Grigioni la dottrina luterana a scapito di quella zwingliana, facendo circolare una propria traduzione del catechismo del Brenz, e mandandone anche molti esemplari in Italia, «invitis nobis omnibus» insiste il Curione279 . Il Bullinger dovette credere piú al Curione che al Vergerio, perché la corrispondenza col primo continua poi a lungo. Del resto il Curione aveva smesso da tempo di parlare del Renato al capo zurighese, e anzi, nella lettera da Chiavenna dove avvisa dell’opera e della mala fede del Vergerio, chiede una lettera che consoli tutta la comunità «ac praesertim Augustinum bonum senem». Dunque, dalle parole esaltatrici in lode del Renato, a quelle di simpatia per il suo avversario, il Mainardi. Ma la simpatia per il vecchio maestro Mainardi, qui manifestata per solidarietà contro il Vergerio280 , non esclude, dato il temperamento del Curione che vediamo compiaciuto di una larga cerchia di amicizie e conciliante con tutti, la continuità della relazione con il Renato: tanto piú che il Curione in questo periodo continua a parSchiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, pp. 279-80, n. 2. Curione al Bullinger, 22 agosto 1553, Zurigo, Staatsarchiv, E II 166-67. 280 II Mainardi in data 3 settembre 1553 conferma la notizia del Curione, riferendosi a lui come ad amico. Il Vergerio continua ad affidare le sue lettere al Curione (10 settembre 1553) che ritorna a Zurigo; ma il 14 ottobre torna a denunciarlo (Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., p. 331). 278 279

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lare al Bullinger anche di Lelio Sozzini, al quale affida a volte le sue lettere281 . Un certo interesse presenta una lettera, dell’estate del 1549: il Bullinger ha mandato al dotto italiano la «Concordia» dei zurighesi con Calvino sul modo d’intendere i Sacramenti, e ha chiesto il parere del Curione, il quale risponde, fra il modesto e l’amaro: Quid est, mi Bullingere optime, quod meum iudicium expetas? Nam neque is sum, qui de tantis viris ferre sententiam debeam; neque si minus forte mihi probaretur, iam posset immutari282 .

Infatti è troppo tardi: i ginevrini hanno diffuso l’accordo ottenuto perfino in Inghilterra! Dunque, il Curione ha ricevuto le notizie della diffusione del Consensus già prima che il Bullinger gliene mandasse una copia, e non cela il suo disappunto perché non gli si chiede il suo parere altro che per cortesia. Perché egli è avverso all’accordo, e lo dichiara nettamente, se pure con riguardo e circospezione: premette che egli approva una concordia nella chiesa, specialmente «inter doctores», e quando la comprovino e la confermino «divinarum literarum clarae constantesque sententiae», com’è, a quanto sembra alla lettura del testo, quella fra il Bullinger e il Calvino. Ma qui cominciano le eccezioni, sia pur con la riserva che an281 Thesaurus Epistolicus calvinianum, IV (O. C. XIII, C. R 41), n. 1243, pubblicata non completamente, tralasciando cioè l’ultima parte della lettera dove il Curione parla di nuovo di Lelio Sozzini e si rimette a lui per le notizie da comunicare al Bullinger. Lelio vi è chiamato «frater noster charissimus»; il Curione, alludendo al ritorno di Lelio dal suo viaggio, dice ancora di Lelio «quem, quia reducem accipitis, non dubito, vobis fore (qua ingenii suavitate, quoque candore animi est) chariorem». Lo stesso termine di «frater» il Curione adopra con il Bullinger. 282 La stessa lettera sopra citata (13 agosto 1549)

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che nelle poche cose che al Curione non sembrano fondate basta una retta intelligenza perché tutto vada bene. Le parole del Curione sono: «... paucis exceptis; quae bene, et sobrie intellecta, nullum fortassis in religionem detrimentum possunt importare». È evidente la esitazione del Curione, amico di Lelio Sozzini, amico del Renato, amico dello Stancaro ch’egli ha anche raccomandato caldamente al Bullinger due anni prima, parlando anche di una sua «antiqua cum eo necessitudo», e insieme capo morale della comunità italiana di Basilea, professore in quella Università, corrispondente e amico del capo della chiesa zurighese. Non vuol dispiacere a quest’ultimo, vuole evitare di crearsi inimicizie, e anche, forse, di mettere in pericolo la propria posizione; ma d’altra parte gli sembran troppo gravi le concessioni che Zurigo ha fatto a Ginevra: fa un’eccezione, poi una riserva a questa eccezione, e con un «fortassis» distrugge la riserva stessa. Alla fine si decide: «Animadverti enim ad vestrae sinceritatis consuetudinem aliquid externi et peregrini fermenti admistum, non sine magno quodam artificio fuisse». Insomma l’accordo è sforzato: c’è qualcosa di estraneo alla solita semplicità della dottrina zurighese. La critica del Curione al Consensus si pone come difesa della purezza della dottrina zwingliana, conformemente al modo di argomentare di allora, specie in campo protestante. I Sacramenti, nell’accordo, ricevono definizioni e attributi che il Curione non saprebbe approvare: Appendices vocantur evangelii, Sigilla, Organa: dicuntur confirmare, continuare, ac reparare communionem Christi ipsius, conferri per ea dicuntur bona quaedam, augeri quodammodo Christus in nobis dum illa usurpamus.

Sono tutte le accentuazioni in senso oggettivo, richieste con tanta insistenza e ottenute con tanta abilità e pieghevolezza da Calvino, in nome dell’unità delle chiese svizzere, quelle che il Curione non può approvare, come

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non le può approvare, intorno allo stesso tempo, il suo amico Lelio Sozzini, come non le approva certo nei Grigioni Camillo Renato. Il Curione continua accentuando la sua critica alla concezione oggettiva dei Sacramenti: «Fructum denique, qui fortassis in ipsa sacramentorum usurpatione non existit, nescio in quae tempora differri, dilatumque proferri»: dove si noti la insinuazione che i Sacramenti non dànno alcun frutto, che è tanto estremista quanto la critica del Renato: i Sacramenti (Cena e Battesimo) sono semplicemente segni, indicazioni della fede interiore, e come tali non hanno alcun frutto per il credente, in quanto non accrescono la sua fede, ma si limitano ad esprimerla. Tutte le affermazioni dunque che il Curione ha elencato sono per lui pure costruzioni logiche, senza fondamento nella Scrittura: Quae omnia, etsi, ut dixi, excusari aliqua ratione queant, sunt tamen ab illa simplici divinarum literarum consuetudine (ni fallor) aliena: et talia, quae si quis tueri velit, in magnas incidat ambages, et non modo [immo] verum etiam ecclesiae dei periculosas contentiones.

Per il Curione dunque il pericolo è costituito non dalla sottigliezza intellettuale e dall’amore della disputa degli italiani, ma dal progressivo affermarsi nelle chiese svizzere di dottrine non consentanee alla semplicità cristiana cioè alla dottrina zwingliana accentuata in senso soggettivistico, il che vale: delle dottrine calviniste. Ma, detto questo, e spiegata all’amico la sua posizione, il Curione non si preoccupa oltre perché confida nel grande strumento di questi eretici per adattarsi alle norme che venivano loro imposte nelle comunità dove si rifugiavano, senza rinunciare alle proprie opinioni: l’interpretazione. «Sed tamen, ut idem dicam saepius, commoda possunt interpretatione excusari». E intanto si limita ad accettare la interpretazione dei zurighesi, cioè le loro riserve.

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Anche altre volte il Curione si era mostrato preoccupato di evitare dissensi, sia pure a costo di mostrarsi poco propenso a diffondere e a sostenere la dottrina zwingliana, questa volta contro i Luterani. Nel gennaio del 1545 infatti il Bullinger gli aveva proposto di tradurre in italiano una sua risposta polemica ai Luterani, sempre a proposito della questione sacramentaria; e il Curione, pur dichiarandosi pronto a farla, osservava che sarebbe stato meglio non diffondere tali polemiche in tutte le lingue. Si enim de Luthero intelligis, longe consultius foret... si Germaniae scribenti, Germanice modo responderetis, ut aliae nationes et linguae ignorarent, quod sine periculo gravique molestia resciri non potest283 .

E dopo aver citato l’esempio delle antiche chiese cristiane e il danno che vi fecero le dispute religiose, insiste con un tono di distacco che non va trascurato: Quod si pergat Lutherus, et velit orbem terrarum ista nosse, vobis autem operae precium videatur, res in integro vobis usque erit, vestris linguis vestrae disputationes illustrari. 283 Curione al Bullinger, Losanna 18 gennaio 1545, da Basilea. Zurigo, Staatsarchiv, E II 346, foll. 148 sgg. Cfr. l’informazione del Viret a Calvino 7 febbraio 1545 (Thesaurus cit., III. O. C. XII, C. R 40, col. 31) che si riferisce evidentemente a questa discussione. Calvino e i suoi amici avevano anch’essi interesse a far tacere le dispute; ma il loro punto di vista non era certo quello del Curione. L’opera che il Bullinger voleva far tradurre dal Curione era il Wahrhafftes Bekenntniss... von dem Abendmahl del 1544-45 in risposta al Kurzes Bekenntniss di Lutero del 1544, violentissimo, nel quale Lutero esprimeva anche il dubbio che l’anima dello Zwingli non fosse fra quelle degli eletti alla salvazione eterna, e trattava i seguaci di lui, dunque in primo luogo il Bullinger stesso, di bugiardi e bestemmiatori: Luthers Werke (Weimar), 54, pp. 119-68.

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È ancora la posizione degli italiani, come s’incontra nella lettera del prete e grammatico che chiede libri e consigli, però ammonisce che non contano le dispute sui Sacramenti, ma importa solo la fede; come si ritrova in Giorgio Siculo, nel Valdés, in Aonio Paleario, e anche nel Renato. Le discussioni e le sottili e spesso capziose analisi di questi uomini erano un mezzo col quale essi speravano poter far valere o tutelare il loro modo soggettivo e spirituale di intendere il rinnovamento della vita religiosa; e se una volta entrati nell’ingranaggio delle discussioni e delle interpretazioni, delle formule e delle distinzioni, essi vi provvedettero con maggiore successo intellettuale dei loro antichi protettori ed ora avversari, non si deve dimenticare la loro ispirazione originale, che è tutt’altra. Il Curione aveva letto i primi scritti polemici dei Riformatori, e aveva portato nei suoi studi l’entusiasmo religioso ch’essi gli avevano risvegliato, tenendo fermo al principio del valore della fede nell’economia della salvazione. Il resto, ancora nel 1545, gli sembrava indifferente, piú pericoloso che utile. Non si deve dire perciò che non prendesse interesse alla questione: egli stava del tutto dalla parte del Bullinger, e non solo per complimento, se dopo aver ironizzato sul Cocleo, arrivava a dire di Lutero: De Luthero nihil est novi, sic enim solet: ac vereor, ut ne ad mortem usque insaniat; quod omen pius ille Pater avertat, ne malo ipsius exemplo nostrisque dissidiis, pietatis utraeque religionis hostes insolescant, et nostrae ecclesiae tenerae etiamnum virgunculae corrumpantur...

Ma è un interesse generico, dettato piú dalla propensione per la dottrina zwingliana nei suoi caratteri generali, che da una convinzione profonda della necessità di far valere piú l’una formula che l’altra. Del resto, si può dire che il Curione conosceva soltanto genericamente il pensiero dello Zwingli, perché nella stessa lettera chiede-

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va che il Bullinger gli procurasse «Zwinglii monumenta»: anzi, domandava «ubi excussa fuerint», e solo se possibile e facile chiedeva che il Bullinger li comperasse per conto suo. «Nec enim aliam rationem et viam novi, qua illis potiri possim». Quattro anni dopo lo vediamo sottilizzare sulla terminologia del «Consensus Tigurinus»: ma il motivo informatore è sempre lo stesso: le nuove formule e le nuove determinazioni dottrinali, quelle che il Siculo e il Renato chiamavano filosofia umana, cioè logica astratta, conducono a dissensi e a disunioni invece di portare la necessaria unità, poiché questa è possibile solo nella libertà della vita interiore e nella carità reciproca, non coi mezzi disciplinari esterni. L’indifferenza del Curione per le dispute teologiche in questo primo periodo dell’emigrazione italiana in Isvizzera è fondata non solo sull’atteggiamento generale nelle cose religiose, ma anche su un pensiero mistico, già elaborato nel senso della cultura filosofica italiana del primo Cinquecento. Egli aveva infatti pubblicato a Venezia, prima di emigrare definitivamente in Isvizzera, un’operetta filosofica284 : della quale in Isvizzera preparò una nuova edizione, che si distacca dalla prima nello stile, piú fiorito, del titolo, che ora suonava Coelii Secundi Curionis Araneus, seu de Providentia Dei, libellus vere aureus, 284 Aranei Encomion, in quo Aranei erudita natura Rhetorico schemate explicatur; et in eo loci communes de Ente supremo et unico, de divina Providentia, de Spiritus humani perpetuitate, aliisque nonnullis scitu dignis Coelio Secundo Curione autore (sic). Venetiis MDXXXX. Di questa edizione conosco sinora tre copie: una al British Museum, una nella collezione Guicciardiniana ora presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, e l’altra nella Biblioteca Civica Gambalunga di Rimini, che è quella da me consultata.

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cum aliis nonnullis eiusdem opusculis..., ed anche nella precisione dottrinale285 . 285 Basilea, luglio 1544. La prima edizione appare piú decisa, piú esplicita fin dal titolo nella sua affermazione monoteistica, implicante dubbio sul dogma trinitario e meno riguardosa della ortodossia a proposito del dogma stesso. Ad es. nella prima edizione, della deduzione dell’esistenza di Dio dalla perfezione delle opere della natura il Curione dice: «iam manifeste produnt sese nostri numinis vestigia. Nam cum araneum esse video, nec a semet ipso esse posse, iam summum aliquid unum statuo: a quo, in quo, et per quem sunt omnia. Nihil enim refert, de parte, an de toto loquar» (p. 25r); la seconda invece: «... iam manifeste produnt sese divini numinis vestigia. Nam cum araneum esse video, nec tamen a semetipso esse posse cogito, iam summam aliquam naturam statuo; a qua, in qua, et per quam sunt omnia. Nihil enim refert, de parte, an de toto mundo loquar. Eadem enim partium, quae est totius, est natura» (p. 34): l’ultima spiegazione manca nella prima edizione, e la «natura» può essere una o trina, mentre l’«unum» non può essere per se stesso altro che «unum». Ancora: la prima edizione termina con la caratteristica distinzione: «[Piorum felicitas]... quam nobis largiri dignatur unicus salutis nostrae autor Iesus Christus, Dei filius; qui cum Patre, omnia generante, et spiritu cuncta replente atque agitante, vivit, regnatque sine fine», che nella seconda è sostituita da una invocazione generale; nella seconda edizione il «rerum omnium fons» è identificato con Iehova, Jupiter, e Christus (che riceve anche gli appellativi di Emanuel e di Deus noster), mentre nella prima tale identificazione manca del tutto (cfr. 10r, 1ª ed.; 51, 2ª ed.). Nella seconda edizione, si ha in genere, una maggiore abbondanza di citazioni scritturali, che mostrano una maggior preoccupazione devota, insieme ad una maggiore violenza polemica anticattolica. In compenso, nella seconda edizione l’ubertà ciceroniana serve al Curione per aggiungere affermazioni platoniche che la loro genericità non deve far considerare meno notevoli. «Mens enim hominis, ut spiritus ille coelestis omnis concretionis expers, nihilqne commune habens cum iis notis usitatisque naturis, cum allo nullo, nisi cum ipso Deo, quem intelligit, cogitat, expetit, potest comparari» (p. 37).

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Ma la struttura dell’operetta rimane identica nelle due edizioni, e poiché il Curione non sembra mai avere ricordato la prima, altro che riprendendone la dedica al vescovo Guglielmo Pellicier, nel 1540 ambasciatore di Francia a Venezia, possiamo considerare come espressione definitivamente accettata del suo pensiero la seconda, e seguirla nella nostra esposizione. Il motivo fondamentale del trattatello è l’idea che in tutte le creature operi la «virtus» di Dio, intesa come potenza che opera nel mondo, con espresso richiamo allo «spiritus intus alit» virgiliano. Dio Padre è identificato con questo «esse» o «natura» onnipresente e onnioperante. Il Curione, come il Serveto, accentua l’invisibilità di questo Dio (ente, spirito, monade, come anche insiste a dire); con la conseguenza che nessuno può vedere Dio, il quale abita, inaccessibile, la regione della luce, allo stesso modo che nessun uomo può vedere «mentem spiritumque suum»286 . Quando allora si legge nella Scrittura che qualcuno ha «veduto» Iddio, si deve dire che si tratta di una rivelazione in forma speciale e non di una percezione sensibile; la rivelazione poi, data la invisibilità di Dio, e la incapacità della mente umana a procedere altro che per cognizioni fondate sulle conoscenze sensibili, presuppone «rei alicuius visibilis suppositio, non divinae substantiae apparitio»287 . Cosí Cristo, nel quale Dio ci è apparso, «nobis conspicuus factus est», è una «res visibilis», come aveva detto il Serveto; è puro uomo, sembra voler accennare il Curione, benché non giunga esplicitamente a questa affermazione. Tipicamente neoplatoniche, e indipendenti dal Serveto sono invece le considerazioni sulla diade, sulla triade, sulla tetrade e sulla decade, numero perfetto, sulla quale il Curione insiste molto288 . Araneus cit., 1540, p. 7. Ibid. 288 Ibid., pp. 18-20. 286 287

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Ma, se c’è «una natura, eaque sempiterna, quam quidem Deus esse oportet»289 , bisognerà dire che tutto ciò che è, è Dio, e che o nulla perisce, o Dio muore con le cose create, e allora non è eterno. E se si dice che tutto è eterno, si torna ad Aristotele: evidentemente all’Aristotele dei patavini e degli averroisti. Il Curione svolge questo motivo nel senso della continua operosità della Provvidenza divina nel mondo: «Quemadmodum enim si ab homine vim illam qua intelligit separes, hominem destruxeris: sic ablata a Deo providentia, saxum nobis ex Deo feceris»290 : ma proprio da questa onnipresenza della attività divina il Curione trae una conseguenza panteistica: «Denique cum proprie Deum tantum esse, per seque consistere dicatur... non aberrabit, opinor, qui quod est, quo cohaeret et constat, Deum esse fatebitur»291 . Di qui, il Curione deduce anzitutto la eternità (immortalità) dell’anima umana, che non può perire, perché divina; ma anche la immortalità (eternità) della materia: «Quod autem ad rerum materiem ipsam attinet, nequaquam perniciem interitumve sentire putetis. Formae ipsae mutantur, materia manet et constat»292 . Le cose, corpi inanimati come quelli animati, sono formate da una «admistione elementorum»; gli elementi a loro volta derivano come rivi da un sol fonte: e le cose, al loro cessare, si risolvono nei loro elementi, «donec aliam rursum suscipiant formam»293 . Il Curione dichiara d’aver ripreso questa dottrina da Pitagora, che non avrebbe insegnato la metempsicosi (che il Curione considera assurda, quindi Ibid., p. Ibid., p. 291 Ibid. 292 Ibid., p. 293 Ibid., p.

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impensabile da un cosí grande patriarca della filosofia)294 , ma la palingenesi universale, concepita come metamorfosi della materia: «nihil est aliud quam una cum materia ipsa spiritus (qui quidem in omnibus et per omnia diffusus est) migratio, nempe, ut cuius illa existis materia, eius pariter spiritus in novam illam formam abeat»295 . Non manca qui naturalmente la citazione ovidiana, che però viene abbandonata per dedurre la tesi dell’onnipresenza di Dio nelle cose dall’«Ego sum qui sum» biblico, e dall’inizio del vangelo giovanneo (e qui va notato ancora che la prima edizione parla del Verbo come «oraculum Deique filius», nella seconda insiste nell’identificazione di esso con Gesú Cristo). Dal commento della orazione di Paolo agli Ateniesi trae il motivo che già abbiamo incontrato presso il Siculo, e presso il Renato: «Quid clarius dici poterat? quam nos vivere, nos in deo moveri et constare? Nos Deo ortos esse? O generis hominum excellentiam, o dignitatem...»296 . Tipicamente umanistica è poi la narrazione della favola di Minerva e Aracne, interpretata allegoricamente, e facendo divenire Minerva simbolo di Cristo «aeterna patris sapientia»297 , e Aracne di Eva, che ha voluto emulare la sapienza divina; onde il genere umano è stato colpito di decadenza, e cerca con vane fantasie, come Adamo ed Eva con la foglia di fico, di coprire la propria peccammosità: «Sed Deus vult ut sibi fidamus, et ad Deum revertamur: qui solus recte tegere peccata nostra novit»298 . Gli stessi motivi ritornano nel commentario al primo capitoIbid., pp. 42 sgg. Ibid., p. 47. 296 Ibid., p. 55. 297 Ibid., pp. 81 sgg. 298 Le foglie inutili sono gli espedienti e le leggi umane (disciplina ecclesiastica, disposizioni sui costumi, «opere» di fede, ecc.): la dottrina della giustificazione per la fede è qui ben lon294

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lo dell’Evangelo giovanneo, che è stato stampato dal Curione in appendice alla seconda edizione: identità della «ratio» divina che è insieme causa e origine di tutte le cose, con Dio stesso: «nam Deus illa ipsa ratio erat»299 . Insistenza sulla invisibilità di Dio e sulla necessità di prender forma umana. «Verum cum Deus nullo modo nec cerni oculis, nec mente intelligi possit, placuit aliquam induere personam, qua velut in sua viva imagine appareret»300 . Dio si esprimeva in luce e in voce spirituale, «quae, quod ea potissimum docendo, seque ipsum nobis aperiendo uteretur, λóγoς hoc est verbum, sermo, oraculum atque sapientia appellata est». È evidente qui lo sforzo di unire il motivo mistico della sapienza divina con quello filologico e razionalistico della parola intesa in senso letterale. In questo «verbo» eterno, ragione di Dio, causa e ragione di tutte le cose, era «vita illa magna, vitaeque fons quidam perennis», e cercava di trar seco gli uomini, come una fiaccola301 . Ma gli uomini erano nelle tenebre, e non capivano, ed allora anche questo verbo decise di assumere una forma, «personam aliquam assumere, qua posset Deus hominem familiarius erudire»302 . Con la venuta di Cristo, con il suo annuncio e il suo sacrificio, è stata data all’uomo la possibilità di rinascere in ispirito.

tana dall’originaria esperienza luterana, che non tollera rivestimenti allegorici (ibid.). 299 Paraphrasis in principium Evangelii sancii Joannis, quae pro commentariolo esse potest, in Araneus cit., pp. 190 sgg. 300 Ibid. 301 Ibid., p. 191. 302 Ibid., p. 192: «Decrevit et verbum hoc personam aliquam assumere...» Dunque il verbo a un certo punto ha assunto una «persona» (un aspetto esteriore), a mezzo della quale Dio potesse piú facilmente istruire gli uomini. Qui «persona» mi sembra avere lo stesso significato che ha nel luogo citato del Valla.

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La fede in Cristo è, come per il Serveto, credere all’Evangelo della rinascita, onde si partecipa alla prerogativa dei figli di Dio. Qui il Curione si esalta nella considerazione mistica delle conseguenze dell’incarnazione: «O metamorphosin omnibus saeculis admirandam. Deus erat verbum, verbum vita, vita lux hominum, lux caro, caro homo, homo Deus, laudandus in omnia saecula»303 . Ecco la scala mistica di Giacobbe, per la quale, in sei gradini, si sale e si scende dall’uomo a Dio, da Dio all’uomo. Sono motivi neoplatonici, motivi di speculazione orientale, cabbalistica forse, come erano diffusi nella cultura italiana dopo l’opera del Pico; e insieme motivi che si possono idealmente far risalire alle sètte ereticali del medioevo con la loro speculazione sul λóγoς , e alla tradizione gnostica304 . La fusione di tutti questi motivi nella religiosità riformata è analoga a quanto si soleva dire e proporre dai platonizzanti francesi alla corte di Margherita di Navarra305 , e anche a quanto Calvino ci fa sapere dei «libertini», che rinnovano (o continuano) il pensiero della «secta novi spiritus»306 , e secondo i quali la esParaphrasis cit., p. 196. Benché a p. 93 (Epistola de Immortalitate animae) il Curione sostenga di non seguire né Pitagora né Platone, ma Paolo di Tarso, e (a p. 94) di non volere superare né la copia di Platone, né la soavità di Cicerone, né la gravità di Lattanzio, né la sottigliezza di Agostino, né la varietà di Ficino (mostra dunque di conoscere e apprezzare quest’ultimo, che mette in una sola serie con quei grandi); benché (p. 91) polemizzi con l’idea platonica dell’origine del moto, a p. 113 non manca di citare Ermete Trismegisto sul motivo della dignità dell’uomo che sta in piedi e guarda in alto; cfr. p. 122; e la elaborazione del concetto del microcosmo, a p. 98. 305 Imbart de La Tour, Les origines de la Réforme cit., III, «L’Evangélisme» pp. 289-90; cfr. H. Hauser, Études sur la Réforme française, 1909: Humanisme et Réforme..., pp. 18 sgg. 306 Lindeboom, Stiefkinderen cit., pp. 162 sg. 303

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senza divina si manifesta come spirito negli esseri creati, e la rinascita cristiana è nascere nello spirito, onde le anime (spiriti) degli uomini sono lo stesso spirito divino che opera in essi (e viceversa gli uomini rinati in ispirito sono Dio stesso: Curione accentua questo secondo motivo, ritengo per ragioni prudenziali). L’annuncio della riforma luterana e poi zwingliana non poteva dunque avere avuto per questi uomini, che elaboravano con diverse preparazioni e da differenti punti di vista lo stesso concetto dell’avvento del regno dello spirito e della rinascita spirituale (Camillo Renato, Giorgio Siculo, Michele Serveto, Celio Secondo Curione) altro significato che quello apocalittico della fine del regno dell’Anticristo e della pienezza dei tempi. In altre parole, il motivo della riforma della cristianità, unendosi a queste concezioni filosofiche e mistiche della vita in ispirito, induceva quegli uomini a considerare l’azione dei grandi riformatori come punto di partenza per una completa e radicale negazione del passato, rappresentato dalla Chiesa cattolica, e non come una necessaria purificazione della Chiesa, intesa a conservarla rinnovandola. D’altra parte, le speranze nella innovazione completa si andavano restringendo sempre di piú, e la comunità dei rinnovati in ispirito doveva adattarsi a vivere entro il quadro delle comunità protestanti, dove almeno era possibile la negazione dell’Anticristo, e dove si sperava poter vivere secondo lo spirito, nella «libertà dell’uomo cristiano». Per questo, occorreva velare il piú possibile le proprie dottrine, avvolgendone i lati piú negativi di fronte alla tradizione, entro la polemica contro l’avversario comune ed entro l’accentuazione di quelle dottrine positive che non erano in diretto contrasto con le dottrine ufficialmente insegnate nelle chiese che li accoglievano. Il Curione ci appare in questa luce come il maggior rappresentante di tale opera di adattamento. L’abbiamo visto e lo vedremo in rapporto con il mondo degli ana-

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battisti e degli «spirituali», per contatti personali e per analogia di idee; ma era anche capo morale della comunità italiana di Basilea, responsabile della vita ecclesiastica di questa di fronte alla chiesa basileese, insegnante nella Università, amico dei capi religiosi delle chiese svizzere; e cosí egli non manifestò mai esplicitamente la sua opinione, accentuando le differenze fra essa e le dottrine dei riformati, ma cercò di proporla nelle sue opere, contento di spargere semi delle sue idee, fiducioso nella germinazione spontanea di essi. Nelle dispute teologiche entrava solo se richiesto, e con che sostanziale indifferenza si è visto; esse erano anche per lui quel che il Serveto, il Siculo e il Renato chiamavano filosofia e sofistica e che una polemica posteriore ha chiamato sottigliezze scolastiche. In una situazione come quella del Curione, l’attività di diffusione delle proprie idee doveva incanalarsi in una direzione che unisse il vantaggio del minore pericolo con quelli di una grande efficacia e di corrispondere alla sua attività professionale di insegnante. Già la «devotio moderna» aveva dedicato la sua maggiore attività all’insegnamento307 ; e grande fama e diffusione hanno avuto i libri di scuola dell’amico e compagno di idee del Curione, il Castellione: ma nell’italiano a questi elementi si aggiungeva la grande fede, schiettamente umanistica, nella efficacia dell’educazione. Jacopo Nardi pensava addirittura, ripetendo certo un’opinione diffusa nel primo Cinquecento, che «la educazione e la disciplina che l’uomo riceve da’ suoi genitori era molto potente cagione a causare nel mondo» la grande diversità degli uomi307 Hyma, Christian Renaissance cit., pp. 122 sgg.; J. Wiese, Der Pädagoge Alexander Hegius und seine Schüler. InauguralDissertation, Berlin 1892; M. Schoengen, Die Schule von Zwolle von ihren Anfängen bis zur Einführung der Reformation (1582), I Teil, Freiburg 1898.

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ni e delle società umane; ed elevava la educazione a motore della storia, intendendo per essa non solo «la dieta del vitto domestico e famigliare, e tutta la osservanza de’ costumi e instituti paterni», ma anche «la religione, le leggi, le consuetudini e le cerimonie comuni e i comandamenti de’ magistrati e de’ principi e signori...; e finalmente tutti quegli ordini e maniere di vivere che si osservano e mantengono o volontariamente o forzatamente...; e quinci crediamo esser procedute e procedere quotidianamente le mutazioni e varietà degli stati, non piú de’ principi e delle città particolari che de’ popoli e delle intiere provincie e nazioni...»308 . Un concetto analogo dell’educazione ha il Curione: «Tu sai quanto importa esser nato e allevato in una religione, e molte volte piú importa l’esserci allevato che nato»309 : senza voler vedere in questo l’indifferenza degli «spirituali» e anabattisti italiani per il Battesimo, o una critica al Battesimo degli infanti, si può notare che il Curione concepisce anch’egli, umanisticamente, l’educazione come forza principale della vita, anche religiosa. Non è la dottrina pedagogica del Curione, quel che qui importa, col principio generale che non è cristiano chi nasce nella religione cristiana, ma chi la vive, con i doveri dei genitori, dei maestri ecc., ma proprio la conseguenza di quel principio generale, e il pensiero in essa implicito, che è dunque comprensibile solo sullo sfondo di quella dottrina spiritualistica e dell’idea umanistica della educazione. E oltre a quel che il Curione professava si dovesse insegnare, in senso scolastico o specificamente religioso, oltre tal pensiero del Curione sui punti obbliga308 Nardi, Vita di Antonio Giacomini e altri scritti minori, Firenze 1867, pp. 10 sgg. 309 Pasquino in estasi nuovo e molto più pieno... s. a., p. 14; cfr. T. Balma, Il pensiero religioso di C. S. Curione, in «Religio», XI (1935), p. 38.

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ti di ogni pedagogia310 , c’importa vedere se egli proponesse qualcosa d’insolito. Accanto ai principi che la scelta della professione dev’esser fatta secondo natura, che ogni fanciullo va trattato individualmente, ecc., accanto all’importanza data al catechismo e all’esempio dei genitori, onde dalla pedagogia si passa all’esortazione morale, va rilevato nella concezione educativa del Curione un elemento che lo riavvicina di nuovo al mondo dell’anabattismo: l’importanza assegnata al lavoro manuale. Oltra e meglio dei giochi, il Curione proponeva che ogni fanciullo imparasse una «qualche arte honesta», ognuno secondo la sua inclinazione, e «istinto della natura»: e, distaccandosi esplicitamente dal suo Cicerone, dichiara di tenere per oneste ed onorevoli tutte quelle «arti», cioè mestieri, che utili sono et honorevoli alla vita comune, come sono de’ fabri di ogni maniera, de’ calzolai, de’ tessitori, de’ sarti, de’ agricoltori et de altri simili. Io seguo la natura delle cose et la ragione: Tullio ha seguito l’opinione, et persuasion de’ nobili et ricchi: ma non fu già cosí nelli antichi tempi...311 .

Ma non basta aver sostenuto l’«onestà» del lavoro «meccanico» e averne dimostrato l’utilità come esercizio e occupazione da preferirsi ai giochi e all’ozio, e da alternarsi utilmente alle lettere, con i soliti argomenti della morale e della salute. Ci dev’essere un motivo religioso, che faccia acquistare a questa esaltazione del lavoro manuale un valore non piú di ammonimento o di consiglio generale, ma di imperativo religioso: e quello che presenta il Curione, cosí ingenuamente formulato, si spiega soltanto con la prassi anabattistica: 310 Per il che rimando alla esposizione del Balma, ibid., pp. 37-40. 311 Della Christiana creanza de’ figlioli, Basilea 1545, cap. XXI.

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Oltra tutte queste cause, bisogna travagliare et operar con le nostre mani, acciò che con l’artificio et industria nostra avanziamo qualche cosa da dar a poveri, et sovenire a quei che non possono lavorare...312 .

Ritorna anche il motivo ereticale medievale: Il padre Adamo, benche da Dio nell’abundantia di ogni cosa et nelle delitie fosse posto, nondimeno per comandamento di Dio era tenuto lavorare: il qual comandamento non è abrogato, o diminuito dopo il peccato, ma stabilito et accresciuto. Voce di Dio fu quella: Nel sudore della tua fronte, ti guadagnerai il pane tuo...313 .

E dopo aver confortato la sua affermazione con una citazione vergiliana, che viene estesa dal lavoro agricolo ad ogni genere di lavoro, e con gli esempi di Gesú Cristo, di san Paolo e di Aquila e Priscilla, conclude: «Per tanto non vi sia alcuno che si presuma senza lavorare puoter vivere giustamente: se alcuno fra voi (dice Paulo) non lavora, che esso non mangi»314 . E questo non vale solo per i fanciulli, ma anche per le «fanciulle o per donzelle». Dunque, lavoro manuale per uomini e per donne, non solo per ragioni pedagogiche o igieniche o caritatevoli, ma perché ogni lavoro è onorevole, e solo i ricchi dicono per bocca di Cicerone il contrario, e perché nessuno può considerarsi giusto che viva senza lavorare: e si deve intendere, manualmente. Sono dichiarazioni esplicite, che vanno al di là della particolare dottrina pedagogica per investire il concetto dei doveri della vita sociale, conducendo all’estremo quella tendenza a far prevalere nella vita religiosa l’eleIbid., cap. XXIII. Si ricordi il motto dei Lollardi: «When Adam delved and Eve span | Where was then the gentleman?» 314 Della Christiana creanza de’ figlioli cit., cap. XXIII. 312 313

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mento morale, che già nelle sètte ereticali del medioevo aveva condotto alla negazione del valore dei Sacramenti amministrati da sacerdoti indegni, ed ora giunge a negare il viver giustamente a chi non lavora manualmente. Il predominio dell’interesse etico su quello religioso nella dottrina del Curione sull’educazione è mostrato anche dal suo carattere che è stato giustamente definito come «non necessariamente religioso»315 nel senso della religiosità dei riformati, che conduceva nella vita quotidiana l’ascetismo cristiano e la preoccupazione devozionale. Il che non contrastava col misticismo del Curione, poiché proprio la credenza nella rinascita in ispirito e nell’ispirazione divina rendeva vano il senso «protestante» della necessità di conquistarsi la propria fede ogni giorno, e insieme induceva a vedere nella semplice vita morale l’effetto della rinascita. A questa maniera si aveva quasi una sovrapposizione di due elementi, il misticismo della speculazione sullo spirito divino continuamente operante nel mondo, e la fiducia prammatistica nella efficacia della educazione morale. L’importante qui è che la tendenza dell’educazione del Curione rivelasse spunti anabattistici. Anabattistici in quel senso generale da noi usato e umanistici insieme sono anche i principi del catechismo del Curione; apparso prima in latino e poi in italiano, con lo sforzo di semplificare all’estremo la dottrina religiosa: «Il primo officio di pietà... è conoscere un Dio solo... L’altro officio di pietà è riconoscere l’huomo come fratello...»316 . Nel catechismo lo spirito santo è inteso come «virtú divina»317 Balma, Il pensiero religioso di C. S. Curione cit., p. 43. Una familiare et paterna institutione della Christiana religione, di M. Celio Secondo Curione, più copiosa et più chiara che la latina del medesimo, con certe altre cose pie, Basilea 1549, p. D5 v. 317 Ibid., p. B5 v; p. C5 r. 315

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che si identifica con la persona divina, e si insiste a lungo sulla legge di natura, e nella conoscenza naturale di Dio: Imperò che niuna legge può convenire a tutti gl’huomini del mondo, se la non è tratta et espressa dal natural giuditio et sentimento comune non corrotto, et dalla conscientia di tutti, come è la legge del Decalogo; – Che cosa sai et conosci di Dio per questo sentimento dell’animo, et per questo tuo natural instinto? – Io ne so et intendo questo, che nel mondo vi è una certa natura, una sostanza, et un certo animo, o ver spirito eterno, senza principio et senza fine, il quale chiamiamo Iddio, et quello doversi honorar et adorar da tutti gl’huomini del mondo: la qual cosa ci è efficacemente dimostrata dalla quasi infinita bellezza di questo mondo, et dall’ordine maraviglioso che vediamo nei celesti corpi et lumi318 .

Come il Consensus Tigurinus poteva essere accettato con la riserva di una interpretazione adatta, cosí con una interpretazione adatta queste dottrine, che sfuggivano alla condanna da parte delle chiese protestanti, potevano assumere carattere radicalmente eretico. Ibid., p. A5 r, a p. C1 v si riprende il motivo, che è già nel Ficino (Orphica comparatio solis ad Deum, in Opera, ed. Parigi 1641 I, pp. 797 sgg.; la prima ed. è di Tubinga 1547; cfr. Kristeller, Supplementum cit., I, p. LXXI) del paragone tra Dio e il sole. «Il sole, il quale è un grande essempio et una propria imagine della luce et splendor di Christo, egli è pure in cielo et nondimeno egli è sí presente a tutto il mondo, che senza lui non vi è cosa alcuna presente, cioè, nulla si vede». 318

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CAPITOLO DODICESIMO

Gli amici Basileesi del Curione: David Joris, M. Borrhaus, S. Castellione. L’atmosfera mistica e illuminata del circolo di Basilea.

Con tale preparazione e tali tendenze, era naturale che il Curione diventasse un frequentatore delle pie ed edificanti conversazioni d’una persona che a Basilea era conosciuta come il ricco e benefico mercante Jan de Bruges ed era invece l’eresiarca David Joris319 . David Joris predicava a una piccola comunità di parenti e amici, discuteva con gli italiani Curione e Castellione, riceveva visite dalla Francia, dai Paesi Bassi, dalla Frisia, e soprattutto intratteneva una fitta corrispondenza coi suoi seguaci, in Olanda, Belgio, Frisia, Holstein, Danimarca, Germania (Vestfalia, Colonia, Cleve, Assia, Baden superiore), Francia: spesso gli venivano portate da messaggeri speciali notizie tanto gravi e importanti da non potere esser trasmesse che oralmente cosí che spesso doveva biasimare chi facesse nomi, chi desse indirizzi320 . Polemizzava con lo Schwenckfeld, asserendo il valore della propria dottrina della «ignorantia sacra» contro le speculazioni mistiche del tedesco sul corpo di Cristo; leggeva e discuteva le opere del Postel, che erano molto diffuse fra gli anabattisti di lingua olandese; e scriveva operette e rivelazioni nelle quali ritornavano sempre i motivi della vita interiore contrapposta a quella esteriore, dello spirito contrapposto alla carne, condannando la du319 Cfr. R H. Bainton, David Joris, Wiedertäufer und Kämpfer für Toleranz im 16. Jahrhundert, Leipzig 1937 (Archiv für Reformationsgeschichte, Ergänzungsband VI). 320 Ibid., p. 64.

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rezza e la superbia dei dotti, esaltando la pace cristiana e la fraternità321 . Doveva risolvere dubbi come ne abbiamo incontrati fra gli italiani, sulla ammissibilità del sottoporsi a cerimonie non riconosciute come cristiane, o del giuramento ad autorità persecutrici dei veri cristiani: e assumeva un atteggiamento analogo a quello del Siculo e del Renato, che è anche il presupposto implicito delle domande di Lelio Sozzini: considerava cioè indifferente tutto quanto riguardava la vita esteriore, anche il giuramento, anche il battesimo degli infanti322 . Altri dubbi che venivano sottoposti al Joris sono caratteristici del mondo dell’anabattismo germanico, come quelli sulla poligamia che alcuni consideravano addirittura piú morale della monogamia, sul ritorno alla nudità (che avrebbe dovuto esser ritorno alla purezza di Adamo ante lapsum, per conseguenza della rinascita in ispirito). Il Joris confutava le interpretazioni scritturali di queste tendenze, ma alcuni suoi seguaci erano stati processati e condannati nel 1539 per deviazioni in questo senso323 . Interessante la tripartizione della storia della cristianità: il periodo della legge e del Vecchio Testamento era poligamo (cosí si risolvono i dubbi scritturali derivanti dalla poligamia dei patriarchi), il periodo del Nuovo Patto, sotto il quale ancora noi viviamo è monogamo, il terzo periodo dello spirito abolirà invece ogni vita sessuale, sarà di celibi324 . Nella seconda parte della sua vita, che è tutta basileese, il Joris attenua i motivi profetici ed ispirati della sua dottrina, giungendo anche a dire di non disprezzare i dotti in quanto tali, ma solo per la loro superbia; e prepaIbid., pp. 71 sgg. Cfr. Bainton, David Joris cit., pp. 81 sgg. 323 Ibid., pp. 69-70. 324 Ibid., p. 68. 321

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ra la seconda edizione della sua opera principale, dove la dottrina della Trinità è elaborata con maggiore dottrina, e dove si ritrova l’argomento del Valla che la parola persona è stata distorta attraverso l’influenza del pensiero greco dal primitivo significato di maschera325 . Il Bainton pensa che questa posizione, congiunta con la polemica antiaristotelica e una citazione erasmiana, possa derivare dall’influenza del Castellione326 . Piú probabile ci sembra la derivazione dal Curione, perché la citazione del Valla si ritrova in generale solo fra gli italiani, e anche perché certamente curioniano pensiamo si possa dire il concetto di Dio che il fiammingo espone a fondamento della sua dottrina: «Dio è» infatti per lui «l’assoluto, incomprensibile e indescrivibile Uno del neoplatonismo mistico», del quale parla il Curione327 . Forse un’eco di discussioni fra i due si può ritrovare nella insistenza dell’italiano sulla invisibilità assoluta di Dio, mentre il fiammingo soleva spesso parlare di visioni328 . Alle profezie direttamente ispirate da Dio poteva credere anche il Curione, il quale sosteneva che Dio si manifesta solo in luce e voce329 . E tutta la interpretazione che il Joris dà della Trinità come forma con la quale Dio si mostra all’uomo altrimenIbid., pp. 72-74. Ibid. Il Bainton pone la sua congettura in forma dubitativa; secondo la sua esposizione, il Joris cita Erasmo, e non il Valla. Anche la mia congettura è fondata su analogie dottrinali. 327 «Monas ipsa quae numerorum omnium origo et causa est, se ipsa contenta, individua,... unam perfectissimam naturam, quam Deum appellamus, nobis statuit: deinde et verae pietatis symbolum esse censetur...» (Araneus cit., 2ª ed., p. 18). 328 Bainton, David Joris cit., pp. 25, 27. 329 «At cum nihil aliud praeter unum... et simplex esset, sese in vocem quandam divinissimam, lucemque totum exprimebat...» Paraphrasis cit., p. 190. Dall’unità semplice alla dualità (Dio e Verbo = luce, voce), alla Trinità (Dio, Verbo e Persona del Verbo, cioè Cristo). 325

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ti incapace di comprenderlo e di sentirlo, come invece è necessario che avvenga per la sua salvezza, e la distinzione delle tre epoche e dei tre stadi della vita cristiana e delle tre persone Mosè, Cristo, Elia (in distinzione da altri che parlano di Mosè, Cristo, David) mostrano precisa l’influenza delle dottrine del Curione, come sono esposte nell’Araneus. Anche quel che il Bainton chiama «forte ottimismo sulle possibilità e facoltà dell’uomo accompagnato da un profondo pessimismo sui suoi successi»330 si può ricondurre piuttosto al pensiero del Curione che a quello del Castellione, vôlto ad altri problemi. Nel Siculo e nel Curione ritroviamo il concetto che l’uomo, purché si sforzi di ottenerla, è in grado di raggiungere la perfezione cristiana, giungendo cosí attraverso la scala mistica, a Dio e all’unione con Dio: il Curione aveva esposto questi concetti nell’Araneus fin dalla prima edizione. Curioniano è anche il concetto che la libertà cristiana consista soprattutto nella possibilità di percorrere i gradini della scala mistica, dopo esser rinati in ispirito per grazia assolutamente gratuita di Dio. Col Castellione e col Curione, il Joris pensava che la grazia divina si estende a tutte le genti, senz’alcuna distinzione, che perciò ognuno deve vivere secondo le sue convinzioni religiose, e tutti possono errare, compresi gli anabattisti, e non si deve impedire che i cristiani manifestino le loro esperienze e ispirazioni religiose; gli argomenti per la tolleranza religiosa sono dunque irrazionalistici: quel che gli studiosi chiamano «razionalismo» in Joris sarebbe meglio detto scetticismo sulla capacità umana di conoscere la verità piena, nel senso del Castellesi e di Giovanfrancesco Pico qualche decennio prima. Comune a Curione e a Castellione è anche la dottrina che la fede deve essere attiva, trasformarsi, come avevan detto il Ficino e il Serveto, in carità; e soprattutto l’im330

Bainton, David Joris cit., pp. 77.

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portanza che il Joris attribuisce specialmente allo Spirito: anche al di là della Scrittura, oltre che degli articoli di fede delle varie confessioni331 . Piú affine al Curione per la preparazione culturale e per la mentalità doveva essere il suo collega e predecessore nella cattedra di retorica all’Università, che venendo a Basilea aveva abbandonato il travestimento umanistico del suo nome, Cellarius, riprendendo il tedesco Borrhaus332 . Gli eretici italiani della seconda generazione elencano il Cellario fra i loro precursori333 . Nel De operibus Dei del 1527 il Cellario sostiene la interpretazione zwingliana dei Sacramenti con tanto radicalismo da avvicinarsi a quella che abbiam visto piú tardi sostenuta da Camillo Renato334 . Ma l’opera principale in questo senso del Cellario è posteriore a questo primo periodo della attività del Curione a Basilea, essendo stata pubblicata nel 1555, mentre un’altra ancora veniva pubblicata Ibid., pp. 37, 83. Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., pp. 122 sgg. C. A. Bernoulli, nella Realenzyklopädie dello Herzog, III; B. Riggenbach, M. Borrhaus, in Basler Jahrbuch, 1900 pp. 47-84. 333 Cfr. G. Biandrata, De origine et progressu triadis: deque initio sophistices: et variis reclamatoribus, in Per la storia degli eretici cit., p. 109. 334 Il De operibus Dei è l’opera del Borrhaus piú citata dagli italiani. Cfr. ad es. il De falsa et vera unius Dei patris filii et spiritus sancti cognitione libri duo, del Biandrata, e di F. Dávid (Alba Julia 1567), Lib. II, cap. 1 (al contrario, non capisco perché, Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., p. 122, dice che quest’opera ha avuto poca importanza). Ma cfr. (sempre del Biandrata e del Dávid): De mediatoris Jesu Christi hominis divinitate libellus, Item de restauratione Ecclesiae Cellarii, Alba Julia 1568, dove a c. H3 (cap. XX) si vede che il De restauratione ecclesiae è un estratto del De Operibus Dei. 331

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nel 1561335 . Il Dunin-Borkowski osserva che questi scritti sono importanti soprattutto per le formule ambigue, tendenti a non dire nulla in contrario alle proprie convinzioni, senza però polemizzare con la dottrina ufficialmente accettata: Cristo vi vien detto Dio, figlio di Dio, parola di Dio, ma non in quanto coessenziale al Padre, ma soltanto in quanto «pieno di divinità», in quanto il Padre gli ha concesso la propria natura; la divinità di Cristo vien dedotta in questi scritti dalla potenza che il Padre gli ha conferito, non dalla sua essenza divina: Cristo fu uomo, vero uomo, ma non uomo come tutti gli altri (purus homo) anzi, uomo eccezionale, «plenus divinitate»336 . Il Cellario condivideva con gli anabattisti la identificazione della Chiesa Romana con l’Anticristo, il distacco dal quale dev’essere radicale, e la polemica contro la «filosofia», cioè contro la dottrina e la cultura filosofiche delle scuole, con gli umanisti, il concetto del microcosmo, e della importanza dell’uomo nell’universo. La sua dottrina dell’eloquenza, come appare dall’introduzione alla retorica di Aristotele, cerca di fondere il motivo umanistico tradizionale sul valore dell’eloquenza, che faceva ci335 Si tratta di Martini Borrhai In Mosem, divinum legislatorem... Commentarii, Basileae 1555; e di In Jesaiae Prophetae oracula... Commentarii, Basileae 1561. Il Dunin-Borkowski, che riassume questa seconda opera (Quellenstudien cit., pp. 123 sgg.), non ricorda De Veteris et novi hominis ortu atque natura, Axiomata a Martino Borrhao... ad cognoscendam veram pietatis salutisque rationem proposita, Basileae, maggio 1549, che riprendono una parte dello In Salomonis regis filii David Sacrosanctam ecclesiastis concionem commentarius, dedicato a Carlo V, Basileae 1539, e che ci interessano per il misticismo del vecchio e nuovo Adamo, affine alla dottrina della rinascita dei nostri «spiritualisti». Del Commentarius del 1539 ricordo i titoli dei capp. v (Ratio vicissitudinis temporum et eius ad mysterium crucis aptatio) e VI (De sermonis et auditus dignitate et usu). 336 Dunin-Borkowski, Quellenstudien cit., p. 124.

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ceroniamente dell’«orator» il tipo dell’uomo ideale, con la religiosità viva e mistica della Riforma: «Demum cum tria sint, in quibus Deus sapientiam suam velut in speculo relucere voluerit, mundus is tot insignibus operibus descriptus, animi humani, et ipsa orario tum mundi tum animorum fidus interpres...»337 : dove la «orario» diventa, come già la lingua (sermo) nel Valla, sinonimo di pensiero. Non manca, come ci si può attendere sempre in questi ambienti di umanesimo e di eterodossia, la identificazione di questo «sermo» con il verbo divino, del quale il Borrhaus parla con la solita ambiguità, dicendo che l’uomo è fatto «ad hoc verbum sacrosanctum, tanquam ad imaginem et verum exemplar Dei» facendo dunque del verbo l’esemplare e l’immagine di Dio. E di qui l’esaltazione del divino dono della parola dato da Dio all’uomo, onde possa «mentis et eloquentiae vi», manifestare al creato la volontà divina338 . La filosofia del Borrhaus aggiunge a questi motivi neoplatonici una specie di panteismo poetico, fondato su Lucrezio e Virgilio; e non mancano le espresse citazioni ermetiche e pitagoriche, che mostrano il Borrhaus affine al Curione339 ; come la fede nell’ispirazione profeti337 M. Borrhai Stugardiani in tres Aristotelis de Arte dicendi libros Commentarii, Hermolai Barbari eorundem versio, Basileae, settembre 1551, dedicato a Cristoforo del Württemberg p. a. 3v della dedica introduttiva, non numerata. In questo senso va corretta la inesatta indicazione in Incontri italo germanici nell’età della Riforma, in «Studi Gemanici»; 1938, III, pp. 82 nota, 83 nota. 338 Commentaria cit., ibid., e a 4. 339 Commentarium in Ecclesiastem, p. 268: cita Mercurio Trismegisto, i pitagorici e i platonici, che parlavano non «face humanae sapientiae praelucente, sed ea praelucente, quae in mosaeis libris et Prophetarum oraculis lucet»; citaz. vergiliana a p. 270. Non manca neppur qui il raffronto fra i due Adami (pp. 128 sgg.).

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ca (pur senza millenarismo, ch’egli rifiuta espressamente) ce lo mostra affine a uomini come il Renato o il Siculo340 . Probabilmente era stato scolaro del Renato quel Martino Paravicino che dedicava nel 1550 al padre Raffaele la traduzione di uno scritto contro il giubileo romano, al quale faceva seguito un’epistola dello stesso argomento del Borrhaus341 . Mentre lo scritto principale della raccoltina è politico e violento, quello del Borrhaus consiste in una contrapposizione del giubileo cristiano della libertà spirituale a quello esteriore e cerimoniale della Chiesa, non solo, ma anche ai giubilei della Chiesa primitiva, dei quali quello «romano» è un abuso e una corruzione, ma che erano anch’essi fatti istituzionali e non spirituali. «In Christiano Iubilaeo restitutio libertatis consideratur, de qua illud Apostoli: Ubi spiritus, ibi libertas. Ubi spiritus inquam Christi, qui spiritus adoptionis filiorum Dei spiritus est, vere nos liberos reddens a iure servili...»342 . L’antico anabattista, ora professore di retorica, doveva compiacersi dell’amicizia coll’umanista italiano anch’esso amico di anabattisti, incline alla speculazione mistica, e alla tolleranza pacifica delle audacie religiose e culturali. Sotto il suo rettorato s’erano inscritti alla Università di Basilea non solo il Curione, ma anche l’Ochino e lo Stancaro. Il Curione si fece a Basilea un altro amico, e questo ancor più vicino poiché alle tendenze dottrinali si uniIn Apocalypsim (in In Iesaiam), pp. 720, 725. Declaratio iubilei futuri Romae anno MDL, Accessit Martini Borrhai de ortu, natura, usu atque discrimine eorum Iubileorum quos Deos instituit, [Basilea] 1549, pp. 43 sgg. Uso la copia della Bibl. Angelica di Roma. L’originale italiano, tradotto qui in latino dal giovane Paravicino, era del Vergerio; probabilmente anche la traduzione era destinata alla diffusione clandestina in Italia; altrimenti non si spiegherebbe la mancanza di ogni indicazione tipografica. 342 Ibid., p. 43. 340

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va, come motivo di amicizia, il comune spirito umanistico, e anche l’affinità di patria: il già famoso pedagogo e latinista Sebastiano Castellione era savoiardo; e benché scrivesse la sua traduzione della Bibbia in francese, anzi, in dialetto savoiardo, conosceva benissimo l’italiano343 . Emigrati l’uno e l’altro, entrambi poveri a differenza del Joris che i suoi seguaci tenevano con le loro collette in grado di rappresentare la parte di ricco cittadino e benefattore, il Curione e il Castellione erano uniti anche dall’affinità dell’insegnamento che impartivano nelle aule dell’Università, sulla riva del Reno, presso la Mittelbrücke. Il Castellione, partito da Ginevra dove il suo ardimento dottrinale e la sua indipendenza di giudizio rappresentavano un pericolo per la disciplina della compagnia dei pastori e in generale per la dura opera di concentrazione delle forze che Calvino vi stava compiendo344 , viveva, prima di ottenere una cattedra che gli permettesse il sostentamento, come correttore di bozze presso l’Oporino, ed era in tanta povertà che era costretto a procurarsi legna per la casa traendo a riva i tronchi vaganti sul Reno in piena, con un gancio da pescatori345 . Il Curione, dopo la sua partenza da Losanna, con una numerosíssima famiglia da mantenere, aveva uno stipendio inferiore a molti altri, e si trovava anch’egli spesso in istrettezze, che solo in parte erano alleviate dalla pensione che teneva, e alla quale accorrevano, come al suo insegnamen343 F. Buisson, Sébastien Castellion, sa vie et son œuvre étude sur les origines du protestantisme libéral français, I, Paris 1892, pp. 323 sg., sul carattere della Bibbia francese del Castellione; per la conoscenza dell’italiano, ibid., p. 226 e A. Schweitzer, Die protestantischen Centraldogmen und ihre Entstehung, Zürich 1854, II, p. 235. 344 Carew Hunt, Calvino cit., p. 158. 345 Buisson, Sébastien Castellion cit., pp. 248 sgg.

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to, giovani di ogni parte d’Europa346 . La fondazione erasmiana, amministrata dall’Amerbach, gli dovette venire spesso in soccorso347 . Il Castellione aveva pubblicato già i suoi Dialogi sacri, in quattordici edizioni, fra primo, secondo, terzo e quarto libro, dal 1543 al 1552; la traduzione del libro del profeta Giona, in esametri latini e la vita del Battista, in esametri greci, «ita eleganter ut linguae graecae ac pietatis ex aequo studiosis nihil possit esse lectu iucundius» che erano giunte alla terza edizione, le Odae in psalmos, rifacimento classicheggiante dei Salmi, e infine l’edizione e la traduzione degli Oracoli sibillini, che dal 1546 al 1555 era giunta anch’essa alla terza edizione. Ma l’opera principale del Castellione in questo suo primo periodo di vita basileese è la traduzione della Bibbia in latino e in francese; la latina viene pubblicata nel 1551, la francese nel 1555. Caratteristico della doppia faccia del movimento che studiamo è il fatto che la traduzione latina è stata compiuta in uno stile e con un metodo del tutto umanistici, cioè usando unicamente termini della latinità classica a cominciare dal famoso «sermo», con il quale tutti questi eretici traducono λóγoς , appellandosi ad Erasmo, e dal «lustratio» che indica il Battesimo; mentre la traduzione francese è condotta in una lingua colorita, semplice, popolare, che, come abbiamo osservato sulla traccia del Buisson, si può addirittura identificare col dialetto savoiardo. Il Jones interpreta questo fatto nel senso che il Castellione, «uomo del semplice popolo, aveva sempre presenti gli interessi e i bi346 St. Kot, Polacchi a Basilea (in polacco), in «Reformacja w Polsce», I (1928), pp. 101 sgg. {adesso anche in tedesco nella Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde, vol. 41 (1942), pp. 105 sgg.}. 347 Church, I riformatori italiani cit., pp. 243 sgg.

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sogni del semplice popolo»348 , al che sembrerebbe contraddire la preziosità umanistica dell’altra traduzione. È invece proprio lo spirito umanistico, ma non nel senso della preziosità letteraria, anzi in quello della precisione filologica e critica alla quale aveva avviato il Valla, che conduce da una parte al linguaggio latino puro e dall’altra al linguaggio popolare, senza intrusioni e sovrapposizioni letterarie questo, come quello doveva essere senza sovrapposizioni barbariche o «filosofiche», cioè scolastiche. Dicendo «lustratio» per Battesimo non solo si usava una parola latina che si stimava piú adatta ma si criticava implicitamente il concetto tradizionale del Sacramento battesimale: e traducendo con la sola preoccupazione filologica, si eliminavano le interpretazioni unilaterali che dai particolari modi di tradurre deducevano le varie dottrine. La prefazione della traduzione latina diretta al re d’Inghilterra Edoardo VI, è tenuta sulla linea della «libertà di coscienza», con l’avvertenza che la Riforma ha in questa, e solo in questa, il suo vero principio: che quindi non deve combattere per la propria vittoria altro che con arma dello spirito. In questa dimostrazione il Castellione va cosí avanti, da ridurre la religione cristiana a pura morale349 : poiché i veri nemici di essa sono solo i vizi, che possono esser vinti solo dalle virtú (è la formulazione non teologica del principio che l’unico demonio è la «prudenza umana»). È il moralismo umanistico, ravvivato dal misticismo spiritualistico, che si riscontra anche negli altri scritti, posteriori, del Castellione: riforma dell’uomo interiore, semplificazione della religione, abolizione di ogni esteriorità e anche di ogni coercizione in 348 Jones, Spiritual Reformers in the XVIth and XVIIth Centuries cit., p. 92. 349 Buisson, Sébastien Castellion cit., pp. 304 sgg.

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questioni religiose, in quanto cosa «anticristiana», e puramente esterna. Fin dal periodo ginevrino il Castellione aveva dovuto conoscere Bernardino Ochino350 , del quale era divenuto, – e rimase poi fino alla catastrofe del 1563 –, traduttore, e insieme, possiamo dire, discepolo: l’entusiasmo dell’ardente senese e il suo pensiero teologico non possono esser stati senza influenza sul giovane umanista, tanto piú che erano preoccupati dello stesso problema della libertà religiosa: e questo era anche un altro punto di contatto col Curione, il quale a sua volta ha pubblicato la traduzione di un sermone dell’Ochino, e altre ne ha fatte fare a suo figlio Orazio351 . Un’altra opera ancora del Castellione pensiamosi possa ricondurre a suggerimento del Curione, che abbiamo visto seguire dottrine «pitagoriche» e neoplatoniche (mentre non sapremo escludere una influenza del Castellione sul pensiero educativo del Curione): la traduzione in latino degli «oracula sibyllina», che la tradizione ha accompagnato con gli oracoli Caldaici, e che è rivelatrice dell’accesa atmosfera d’ispirazione profetica e di misticismo nella quale vivevano quegli uomini352 . Il Castellione, che pure aveva interIbid., pp. 220 sgg. In calce all’Araneus cit., nell’ed. di Basilea; e in Marsilius Andreasius, De amplitudine Misericordiae Dei absolutissima oratio... nunc in latinum conversa C. Horatio Curione C. S. F. interprete. Item. Sermones tres D. Bernardini Ochini de Officio Christiani principis eodem interprete, Basileae, maggio 1550. {C. S. Curione ha tradotto solo la prima predica della «prima parte» delle prediche di Ochino, cfr. B. Nicolini, Il pensiero di Bernardino Ochino, Napoli 1939, p. 142}. 352 Buisson, Sébastien Castellion cit., pp. 278 sgg.; e l’ed. ι dell’Alexandre, I (Padei χρησ µoι σ υβυλλιακo¨ ris 1851), che riproduce la prefazione del Castellione (pp. XI-XVII) e descrive la sua edizione e la sua traduzione (pp. XXXIV-XXXVIII). Per la prefazione mi riferisco all’Alexan350 351

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pretato il Cantico dei Cantici al di fuori di ogni allegoria e rivelazione come un antico canto d’amore, a proposito di queste antiche profezie ch’egli traduceva per la prima volta ammetteva l’opinione corrente, e le considerava opera autentica come già il Ficino per gli oracoli caldaici da lui tradotti353 . Questo motivo, che rimane isolato nell’attività del Castellione, corrisponde invece del tutto alla mentalità del Curione, e in genere all’atmosfera entusiastica ed apocalittica degli ambienti «spirituali» e «anabattistici». È caratteristico che il Castellione polemizzi contro l’affermazione che le profezie ch’egli traduceva non potevano esser veraci e d’ispirazione divina, per la troppo grande precisione e determinatezza che vi si riscontrava: «faciunt arroganter sane, qui Deo vaticinandi modum praescribunt»354 . Piú importante ancora è la dichiarazione che egli trovava molto interesse nelle profezie di Balaam, delle Sibille, e di Giuseppe, e che anzi riteneva che esse non solo servissero a confermare i cristiani nella loro fede, ma anche ad attirare i non cristiani. «Sed etiam externos allici posse, atque convinci, tanquam productis ex ipsorum intimo penetrali testibus»355 . La traduzione del testo è in istile lucreziano, come già il poema di Aonio Paleario e i versi di Camillo Renato. Ecco l’avvento dell’Anticristo: Ex Augustinis autem volventibus annis Adveniat Belial, qui celsa cacumina montes,

dre. Per il commento e il testo alla 2ª ed. della traduzione latina, Basileae 1551. 353 Cfr. B. Kieszkowski, Studi sul Platonismo del Rinascimento in Italia (Pubblicazioni della scuola di filosofia della R. Università di Roma, IX), Firenze 1936, pp. 113 sgg., 156 sgg. 354 In Alexandre, op. cit. (qui a nota 34), p. XII non manca il richiamo alla quarta egloga vergiliana (ibid., p. XIII). 355 Ibid., p. XVI.

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Qui mare, qui magni lucentem lampada solis Qui claram lunam, qui sistet lamine cassos...

Anche il commento del Castellione ricorda le speculazioni del Serveto, del Renato, del Curione. «Augustinis annis» viene interpretato Roma; Belial, «homo perditus»: ma il Castellione passa subito dalla interpretazione profetica alla considerazione mistico-morale: occorre osservare che, mentre Cristo già era presente, si continuava ancora ad attenderlo; il che deve essere applicato anche all’Anticristo, affinché non s’inganni qualcuno perché l’oracolo dice che l’Anticristo avrebbe fatto miracoli. Ciò significa che il Castellione riteneva, come gli anabattisti, che l’Anticristo era venuto (e lo identificava anch’egli, come tanti suoi amici eretici, essotericamente con la Chiesa Romana ed esotericamente con la «prudenza umana») e che era presente, e molti non se ne accorgevano, come molti a suo tempo non s’erano accorti della presenza di Cristo; che forse voleva accennare anche ai Cristiani che non s’accorgevano neppure allora della venuta di Cristo e del nuovo annuncio del suo Vangelo356 ; e che infine non dava grande importanza ai miracoli. Infatti continua: i miracoli dell’Anticristo non saranno veri miracoli; «cosa che inganna coloro che sono verso Gesú Dio come furono gli Ebrei verso Gesú uomo», cioè increduli, ossequienti alla legge, sofisti. Motivo che può esser chiarito con la frase analoga: «Questa santissima dottrina, la quale sarà sempre oppugnata dai cristiani che hanno gli animi ebrei», del «Beneficio 356 Edizione del 1551, p. 95, e nota relativa: «Est autem diligenter animadvertendum, quemadmodum Christus cum jam adesset, tamen expectabatur; inde etiam in Antichristo accidere ne quem forte illud fallat quod dicitur Antichristus miracula facturus. Non enim vera erunt miracula: quae res eos fallit qui sales sunt in Iesum Deum, quales fuere Iudaei in Iesum hominem».

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di Cristo»357 , il piú diffuso libro del movimento religioso italiano del Cinquecento. Abbiamo cercato di dare rilievo a questo aspetto mistico della religiosità del Castellione, nella quale rientra anche la traduzione in latino della famosa Theologia Deutsch (Theologia Germanica), dovuta probabilmente all’influenza del Joris358 , per mostrare la radice profonda dell’energia e della costanza di questi uomini, che per il loro umanesimo e il loro spirito razionale sembrerebbero a tutta prima aver dovuto comprendere, come tanti altri di loro, – il Vermigli, lo Zanchi, il Martinengo che veniva dalle loro schiere, il Caracciolo, – le ragioni della posizione del Calvino e dei suoi amici, intenti alla affermazione storica di quei principi che essi per formularli con immediata chiarezza quasi estraniavano dalla loro epoca. Quando i controversisti dell’età seguente, riprendendo del resto un motivo di Lutero, paragoneranno ironicamente questi uomini ai «monaci» medievali, e riscontreranno in loro lo spirito degli ordini religiosi del «papismo»359 , colpiranno, in certo senso, nel segno: se pur confusamente e in forma polemica, essi faranno valere quel che è pur vero, che alla radice di quello spirito di ardente indipendenza c’era la presunzione di poter essere migliori degli altri per un dono speciale e non per attività continuamente rinnovantesi; di essere insomma, privilegiati dallo spirito, come chi aveva fatto i voti monastici s’era in certo senso ribattezzato ed era privilegia357 Opuscoli e lettere di Riformatori italiani, a cura di G. Paladino, I, Bari 1913, p. 57. 358 Buisson, Sébastien Castellion cit., vol. II, p. 365. 359 Il concetto che l’anabattismo e le sètte rinnovino lo spirito del monachesimo si trova spesso nei controversisti protestanti (e già in Lutero a proposito del Münzer): qui citiamo per tutti G. Jameson, Roma Racoviana et Racovia Romana, Edinburgh 1702, che si richiama a Lutero (cfr. pp. 28, 16, ecc.).

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to per questo. La tenacia, la pieghevolezza, la energia e l’ardire di quegli eretici non eran fondati sulla coscienza religiosa come la riforma di Lutero e Calvino l’andava formando, ma, pur con tutta la veste umanistica e la spregiudicatezza razionale, su un mobile terreno di visioni, profezie, ispirazioni, che qualche volta sommovevano anche istinti e sentimenti meno nobili di quegli strati della società che attraverso il movimento anabattista cominciavano a prender parte attiva e autonoma nella vita religiosa. Questi elementi piú incerti e qualche volta torbidi non si incontrano nel gruppo degli eretici italiani, nel quale pensiamo che per la formazione culturale e le tendenze spirituali si possa comprendere anche il Castellione. Per essi, la educazione umanistica non era solo una veste; infatti li vedremo elaborare in dottrine definite quel complesso di aspirazioni, passioni, istinti, risentimenti che trovava sfogo nel movimento anabattistico. Ma per i contemporanei essi non si distaccavano dagli altri eretici, dagli «spirituali», «libertini», «anabattisti», che continuavano nel Cinquecento, risvegliati a nuove speranze, le sètte medievali, i loro atteggiamenti, la loro mentalità. Tanto piú che i loro argomenti per la libertà di discussione e di interpretazione venivano fondati, nelle loro argomentazioni, su di uno scetticismo spesso molto esteso, che dalla constatazione della ignoranza umana traeva la conseguenza che nessuno aveva diritto di usare mezzi coercitivi nei riguardi dell’altro, altrettanto ignorante nelle cose della religione. Nobile ideale, ma puro ideale, valevole piú per il sentimento, e atto a sostenere gli animi in una sètta, o a fornire materia di meditazioni e di sogni, piú che spinta ad agire e ad esercitare storicamente una volontà. Abbiam visto come il Castellione provi la ignoranza umana nelle cose divine, accusando i cristiani che hanno animi di ebrei, cioè che vogliono sottoporre lo spirito alla lettera, l’amore alla legge, di illudersi nella inter-

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pretazione della Scrittura. Ma a quali interpretazioni egli pensava per solito? Nella prefazione alla propria traduzione latina della Scrittura, il Castellione insiste sul motivo delle profezie: l’età dell’oro annunciata dalla Sacra Scrittura non s’è ancora realizzata, né si può dire si stia realizzando: cosí anche tutti gli altri enigmi della Scrittura sono ancora oscuri e misteriosi, e nell’attesa della rivelazione piena non dobbiamo ricorrere alla violenza per sostenere le nostre differenti opinioni. In questa atmosfera, i motivi del misticismo neoplatonico di un Curione, o quelli di religiosità francescana di un Ochino, dovevano acquistare un tono particolare, piú alto e vibrante di quel che potevano avere in Italia, dove erano ormai abusati, ma dovevano allo stesso tempo per dare la loro qualità originaria, assumendo una funzione come di fermento nascosto, destinato a scomparire nel seguito del processo di maturazione delle nuove idee, che sarebbero state le idee della tolleranza religiosa e della critica razionale anche nelle dottrine religiose, e insieme della eterogeneità di vita politica e di vita religiosa, le quali avrebbero avuto cosí grande importanza nella storia europea.

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CAPITOLO TREDICESIMO

Bernardino Ochino nel primo periodo dell’esilio. I rapporti dell’Ochino con lo Schwenckfeld.

Nel gruppo degli italiani di Basilea possiamo comprendere, per il primo periodo della loro emigrazione, anche il tanto famoso Bernardino Ochino; l’immatricolazione nell’Università, l’amicizia col Castellione, che data probabilmente da Ginevra, e quella con il Curione360 , ci permettono di considerare idealmente basileese l’antico predicatore cappuccino, che non mancava di fermarsi a Basilea presso gli amici ogni volta che cambiava città, e che a Basilea si tratterrà piú a lungo quando si troverà in incertezza sul futuro. Il primo soggiorno basileese dell’Ochino è dell’agosto 1545, e brevissimo; anche il secondo, del 1546, e il terzo, del 1547, sono piú passaggi momentanei che soggiorni veri e propri361 . In questo periodo l’Ochino vive prima a Ginevra, poi ad Augusta, infine in Inghilterra: le prediche dei primi volumi, stampati a Ginevra, i sermones tradotti in latino dal Curione e da suo figlio Orazio, le prediche stampate ad Augusta, il Catechismo del 1551 pubblicato a Basilea, e infine la tragedia del Libero Arbitrio pubblicata in Inghilterra sono le testimonianze principali della sua attività di questi anni362 . Inoltre c’è l’attività di predicatore: a Ginevra per gli emigrati italiani, ad Augusta pei ricchi 360 K. Benrath, Bernardino Ochino von Siena, 2ª ed., Braunschweig 1892, p.171. L’Ochino s’iscrive all’Università assieme allo Stancaro e al Curione. 361 Solo piú tardi si fermerà un po’ piú a lungo a Basilea, nel 1554. Cfr. Benrath, Bernardino Ochino cit., pp. 200 sgg. 362 Ibid., pp. 139 sgg., 158 sgg., 172 sgg.

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mercanti che avevano appreso l’italiano nei loro viaggi in Italia e soprattutto a Venezia, e tenevano ad avere per sé, nella loro città, un predicatore speciale, che solo essi potessero capire, e cosí famoso, che alcuni di loro avevano già ascoltato363 . In Inghilterra era stato predicatore della chiesa degli stranieri, per gli italiani e per quei non italiani che desideravano apprendere la loro lingua364 . Di tutta questa attività, ecclesiastica e letteraria, qui c’interessa soltanto, per il primo lato, il comportamento dell’Ochino nei confronti dello Schwenckfeld e degli schwenckfeldiani di Augusta, e il loro giudizio su di lui; e per il secondo lato, il carattere generale del suo pensiero religioso in questo periodo. La devozione che l’Ochino predica in questo periodo tende al soggettivismo individualistico: «Bisogna veramente credere, non solo che è Dio in sé, ma che è Dio a te... Bisogna anche vivamente credere non solo che è padre di Christo et delli eletti... ma che è tuo padre... bisogna che vivamente et con spirito creda che l’onnipotenza divina l’è omnipotentia a te, et che senta che Dio l’usa di continuo con te, in farti tutto il bene che hai»365 . Ma non va piú in là della tendenza. Per il resto, sembra che Calvino abbia fatto una certa impressione su Ochino: l’argomento che ci può essere una sola legge naturale, come c’è un solo Dio, si distacca da quello usato dal Calvino nella Istituzione del 1539 per mostrare, contro la netta separazione anabattistica fra vecchio e nuovo pat363 F. Roth, Reformationsgeschichte Augsburgs Bd. III, Augsburg 1907, p. 242. Però si fecero tradurre opere di Ochino in tedesco perché anche chi non sapeva l’italiano le potesse conoscere. 364 Benrath, Bernardino Ochino cit., p.176. 365 Prediche, Terza parte Bbb 3v; Bbb4r (Sermones de Fide 1544 [Ginevra]. (Bernarth, Bernardino Ochino cit., p. 316, nota 13).

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to, l’unità d’ispirazione religiosa che avevano per lui tutti i libri sacri, soltanto perché Calvino adopra argomenti scritturali, e mostra l’identità di rivelazione e legge naturale, mentre Ochino argomenta filosoficamente dal concetto di Dio366 . Anche la libertà spirituale del nuovo patto che incontriamo in questi primi scritti dell’esilio è la «libertà cristiana» della dottrina protestante in generale. Un’eco gioachimita si può riscontrare nella divisione della storia religiosa in tre periodi: legge naturale, fino a Mosè; legge scritta, fino a Cristo; legge dello spirito, o della Grazia, sotto Gesú Cristo. Questo terzo periodo vive sotto la legge dell’amore, della libertà cristiana, ed è il piú felice di tutti, per gli eletti367 . Ma l’Ochino non si ferma qui: nella sua nuova situazione egli continua le speculazioni antiche, e passa dalla posizione polemica e generalmente spirituale, ai problemi specifici, tentando di dare una immagine di Dio. Anche questa è calvinista, o, se si vuole, tomista368 : è l’immagine di una volontà infinita continuamente operante nel mondo da essa creato. Nonostante la solita polemica antiaristotelica, troviamo elementi tomistici abbastanza rilevanti: ma la posizione generale è quella dello scetticismo devoto, per il quale gli accademici, col loro dubbio universale, sono piú vicini alla saggez366 Bertrand-Barraud, Les idées philosophiques de Bernardin Ochin, de Sienne (Études de Philosophie médiévale, Dir. E. Gilson, VII), Paris 1928 p. 35. 367 Opuscoli e lettere di riformatori italiani del Cinquecento, I, Bari 1913, p. 267. 368 Bertrand-Barraud, Les idées philosophiques de Bernardin Ochin cit., p. 45; Cfr. B. Nicolini, Bernardino Ochino e la Riforma in Italia (vol. LVII degli Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli), Napoli 1935, p.164, che pensa piuttosto a Bonaventura da Bagnoregio. Cfr. anche dello stesso Il pensiero di B. Ochino, Napoli 1939, pp. 36 sg.

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za cristiana che i filosofi, i quali presumono di provare la religione e la sua verità, con l’insufficiente mezzo della ragione umana. Come mostrano gli accenni ai tentativi di conciliare Platone con Aristotele, che non ci sembra si possano riferire ad altro che alla tendenza del platonismo ficiniano del Diacceto e alle discussioni di Giovan Francesco Pico, la polemica dell’Ochino contro i filosofi, pure rientrando nell’atteggiamento del calvinismo, rivela ancora qualche eco della cultura italiana369 . Oltre a questi motivi, l’accentuato «spiritualismo» di ogni tipo di argomentazione e l’insistenza sul motivo dell’amore e dell’entusiasmo mistico, ci fan pensare al Curione e al Castellione, e alla loro posizione morale e mistica insieme. Ma rimangono analogie generali: e tutte si possono fare rientrare nell’osservazione dell’influenza avuta dal Valdés sull’Ochino; come l’insistenza sulla riforma interiore e sull’osservanza della legge morale attraverso l’imitazione e la cognizione di Cristo riconduce alla posizione generale dell’umanesimo cristiano. In questo momento possiamo dire l’Ochino amico di eretici, che condivide alcuni dei loro presupposti; inquieto per quel concetto dell’amore divino e della necessità di conoscere Iddio, non solo negativamente, ma anche positivamente, e animato perciò da uno spirito non del tutto comprensibile a Calvino, per il quale la conoscenza di Dio si risolveva nella constatazione della nostra inettitudine a comprenderlo e della nostra abiezione, anziché della eccellenza della nostra natura: ma Ochino non è ancora eretico. Istruttivi per la comprensione della posizione dell’Ochino ci sembrano i suoi rapporti con lo Schwenckfeld, il quale letti i Sette dialoghi nell’edizione tedesca, ne trasse ispirazione a un suo scritto ora perduto, e desiderio di 369 Bertrand-Barraud, Les idées philosophiques de Bernardin Ochin cit., p. 39.

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conoscere altri scritti e di discutere col loro autore370 . Il mistico Schwenckfeld diffida dell’intellettualismo dell’italiano, e consiglia a un suo amico che ne segue le prediche di non lasciarsi prendere dalle discussioni «de mysterio incarnationis» (l’Ochino accennava forse a critiche antitrinitarie?), ma di considerare soltanto «gloriam Regnantis Christi». Coll’Ochino, che è un «alter Pater Lector», si può cominciare subito ponendogli questioni: anzitutto che cosa sia Cristo, cioè non solo «quis sit», ma anche «quid sit», quale ne sia l’essenza371 . Cosí, attraverso il concetto dell’«unctio» di Cristo, che consiste nella presenza di Dio, anzi, di tutta la divinità in lui, si potrà condurre questo italiano alla cognizione di Cristo secondo lo spirito, alla quale l’Ochino non è ancora arrivato, perché crede che l’uomo in Cristo sia una creatura372 . Se lo Schwenckfeld leggeva gli scritti dell’Ochino e si interessava delle sue dottrine, sperando il condurlo alla propria verità, l’Ochino leggeva scritti della corrente 370 Corpus Schwenckfeldianum, editore Ch. D. Hartranft, E. Ellsworth e Sch. Johnson (a cura della Schwenckfelder Church, Pennsylvania, e dello Hartford Theological Seminary, Connecticut), vol. IX (Letters and Treatises of Caspar Schwenckfeld von Ossig,1544-46), Leipzig 1928, pp. 502-3. {Cfr. R H. Bainton, Bernardino Ochino esule e riformatore senese del Cinquecento 1487-1563, Firenze 1940. Il Bainton ha pubblicato direttamente in italiano questo suo fondamentale lavoro sull’Ochino, come quello su David Joris già citato, in tedesco. Si attende la sua monografia sul Castellione, in francese. Sul rapporto con lo Schwenckfeld si vedano le pp. 82-85, 177, 180 del sopracitato libro del Bainton su Ochino}. 371 Corpus cit., vol. cit., p. 505: «... und gleich per Quaestiones mit ihm handelte, dan weil er ein alter Pater Lector ist. So hat er villeicht lieber dass man ihne fragte, weder vill mit ihm disputier». 372 Ibid.: «Wird sich Italus auf diss venehmen können... er wirdt baldt In cognitione Christi quae est secundum sanctum spiritum, mögen fortkommen, wie ich gleichenwohl besorg».

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schwenckfeldiana373 , e si sapeva che gli piacevano: il che dava nuove speranze al mistico di Breslavia. Ma quando sente che l’italiano crede all’efficacia dei Sacramenti, ne parla con un certo compatimento: «den guthen alten Pater»374 ; però scrive critiche alle opere di questi che vengono tradotte in tedesco. Sembra che l’Ochino facesse altrettanto, se la corrispondenza dello Schwenckfeld ci parla di un’articolo dell’Ochino sotto il nome di «Corvinus» mandato dall’Ickelseimer al suo maestro, e dove le dottrine di quest’ultimo sarebbero addirittura messe in ridicolo. Polemizzavano, ma una certa affinità ci doveva essere, se gli schwenckfeldiani di Augusta erano tutti entusiasti dell’italiano375 : e già da tempo si era avviati verso le discussioni ereticali, poiché l’Ochino con molti argomenti filosofici negava le due nature in Cristo, assumendo una posizione stancariana376 . Lo Schwenckfeld gli scrive una lunga missiva per convincerlo alla sua dottrina, e intanto s’informa delle opere dello Stancaro da un amico che abitava a Venezia, promettendo di mandargli la propria copia dei sermoni dell’Ochino, per mostrargli che li ha studiati attentamente: era la risposta a qualche esortazione dell’amico, che forse gli aveva scritto di leggere attentamente le opere del373 Ibid., p. 508. L’Ochino aveva letto il trattatello Novus Homo del Crautwald, edito dallo Schwenckfeld stesso (Corpus cit., VIII, pp. 35 sgg.). 374 Ibid., IX, p. 825. 375 Schwenckfeld a Sibilla Eisler, circa ai primi di maggio 1547 (Corpus, XI, Lipsiae 1931, pp. 23 sgg.; pp. 17 sg. lo scritto critico dello Schwenckfeld, composto prima del 1547). 376 Corpus cit., VIII pp. 830-39 a Val. Ickelseimer, e pp. 841-48 direttamente a Corvino-Ochino. Questi scritti figurano del 1544: fanno dunque pensare che Ochino fosse conosciuto in questi ambienti ancor prima di arrivare ad Augusta; il che non presenta nessuna difficoltà, poiché alcuni schwenckfeldiani lo avevano potuto conoscere a Venezia. Cfr. nota seguente.

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l’ammirato predicatore. Nei sermoni il tedesco riscontra un principio di illuminazione divina che poi l’Ochino, secondo lui, ha abbandonato377 . Ciononostante, lo Schwenckfeld doveva stimare altamente il suo antagonista italiano, se a un anabattista esitante consigliava di rivolgersi all’Ochino per farsi spiegare la questione della divinità di Cristo (sempre con la riserva: benché egli erri sulla questione della umanità)378 . Per lo Schwenckfeld il senese era da porsi addirittura fra gli antitrinitarii, già nel 1545; ma dobbiamo prendere con cautela questa affermazione dello Schwenckfeld, che probabilmente intendeva colpire piú le esitazioni e i dubbi fatti valere dall’Ochino, che una dottrina ben definita379 . Infatti dalle epistole controversistiche dello Schwenckfeld risulta che l’Ochino sosteneva che Cristo era «vere filius Dei», ma «non vere, sed per metonymiam... filius hominis», e accusava il tedesco di far di Cristo un «puren Menschen», maomettanamente380 ; e, altrove, si dice invece che negava la filiazione divina di Cristo381 . Le due accuse principali che lo Schwenckfeld fa all’Ochino sono di rinnova377 Corpus cit., XI, p. 632, Schwenckfeld a Philipp Walther, console tedesco a Venezia (si tratta delle XX Predige [Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 317]). Cfr. ibid., p. 26; le parole dello Schwenckfeld sono riportate in Incontri, p. 85, nota; il mistico tedesco trova (Corpus cit., XI, pp. 637 sgg.) che il Walther inclina troppo alle idee dell’Ochino, e occorre richiamarlo a Cristo (a S. Eisler, agosto-settembre 1548). Cfr. ibid., pp. 640 sgg.; p. 650 inviando la copia delle XX prediche p. 665 diffidando del Walther, p. 774 (dopo il 5 febbraio 1549, a S. Eisler) lamentandosi che anche l’Ickelseimer sia stato sviato dall’Ochino. 378 Ibid., p. 796 a S. Eisler, marzo-aprile 1549. 379 Corpus cit., IX, p. 404. 380 Ibid., pp. 765, 780 e 791 (le parole dello Schwenckfeld in Incontri, p. 86, nota 4). 381 Corpus cit., VIII, p. 836.

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re l’eresia valentiniana, cioè di negare una vera incarnazione di Cristo e la sua nascita da Maria Vergine, della quale non sarebbe stato, come dice lo Schwenckfeld, figlio, ma solo ospite; e di indulgere troppo alla argomentazione filosofica382 . Quest’ultimo motivo era ormai di prammatica in questi ambienti di eretici e di illuminati, e corrisponde all’antiaristotelismo di prammatica fra gli umanisti; ma la prima accusa sembra strana, perché non corrisponde alla posizione dell’Ochino come è generalmente descritta. Probabilmente lo Schwenckfeld ha veduto solo un lato della predicazione spiritualistica e mistica dell’Ochino, e anche solo un lato delle sue dottrine trinitarie, come venivano diffuse oralmente (poiché nulla appare dagli scritti: e la prudenza solidale andava fino a parlare sempre di un Corvinus invece che dell’Ochino): cioè la distinzione fra il Verbo eterno, e il Cristo uomo. Ma sono supposizioni. Il piú importante è che ad Augusta l’Ochino ha cominciato di nuovo (o ha cominciato la prima volta) a proporsi o a sentirsi proporre problemi sull’essenza di Cristo e sulla sua umanità, che ne ha discusso a lungo, e non con autorità religiose riconosciute, ma con l’eretico mistico Schwenckfeld. La simpatia fra i due uomini, il nobile slesiano e il frate senese, è pure evidente anche attraverso il carteggio unilaterale cha abbiamo, e attraverso le discussioni. Il tedesco aveva certamente sentito una affinità profonda fra il suo risveglio alla nuova vita e alla riforma spirituale e la predicazione di riforma interiore del cappuccino italiano; e la stessa impressione dovevano aver provato i suoi discepoli. E l’italiano probabilmente contraccambiava questa simpatia, poiché continuò la discussione, e a quanto sembra, senza violenze polemiche, e continuò a dare spiegazioni ai discepoli dello Schwenckfeld, che lo interrogavano e gli ponevano sempre nuove questioni, 382

Ibid., p. 828; IX, p. 796, cfr. Incontri, p. 86, note 6, 7.

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secondo il consiglio del loro maestro che ricorda il modo di procedere del Renato e di Lelio Sozzini. Lo Schwenckfeld, dopo le dispute sull’Eucaristia, era giunto a una conclusione analoga a quella degli eretici italiani sul Battesimo, e presupponente lo stesso concetto della religione cristiana come vita interiore383 . Infatti la decisione dello Schwenckfeld di sospendere la celebrazione della Cena finché non si fosse in chiaro sul suo valore contestato dalla disputa sacramentarla presuppone la stessa indifferenza per le cerimonie che il rifiuto di Fausto Sozzini di ribattezzarsi. Il centro della sua speculazione religiosa era l’incarnazione di Dio e della parola divina in un corpo umano, la glorificazione della carne umana dopo l’incarnazione, che permette l’unificazione dell’anima con Cristo e la risurrezione in Cristo: motivi che ricordano da vicino quelli del Curione e della sua scala mistica: mentre la speculazione dello Schwenckfeld sul vecchio e sul nuovo Adamo si ritrova nel Borrhaus. La dottrina fortemente colorita di ispirazione e di esaltazione «spirituale» dell’Ochino, ma ancor piú quella di un Giorgio Siculo e di un Renato, accentrate sull’operazione miracolosa dello spirito che discende gratuitamente in noi e fa risorgere nel suo regno, purificati e perfetti, hanno il loro analogo nella dottrina pneumatica dello Schwenckfeld, per il quale lo spirito ha creato con Cristo nel mondo un nuovo ordine, la partecipazione ispirata al quale è la salvezza dell’anima cristiana. Lo Schwenckfeld cita Ireneo, come il Serveto e come gli altri eretici italiani, per confortare la sua idea che la redenzione consista in una «deificazione» dell’uomo, una trasformazione di esso in un essere divino, riproducendo in sé, – come, ancora, dice il Curione –, il divino processo dell’incarnazione. Dopo questo, si è figli di Dio, fratelli di Cristo, 383 Jones, Spiritual Reformers in the XVIth and XVIIth Centuries cit., pp. 64 sgg.; Lindeboom, Stiefkinderen pp. 183 sgg.

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come dirà l’Ochino, e si proverà il vero senso della libertà cristiana, la libertà nello spirito; inoltre si avrà il dono di sentire la parola spirituale di Dio, che è superiore alla parola scritta. Lo Schwenckfeld aveva certo un concetto mistico e trascendente della fede e della rinascita in Cristo, corrispondente alla sua forte coscienza della peccaminosità umana; mentre negli eretici italiani abbiamo notato un preponderante ottimismo sulle possibilità morali degli uomini, che con le loro forze possono collaborare con la grazia divina (dopo avvenuta la rigenerazione mistica per gratuita ispirazione divina). Ma era, come gli anabattisti e come gli eretici italiani col loro misto di anabattismo, profetismo spiritualistico e neoplatonismo, avverso alla organizzazione della comunità mistica dei cristiani in corpo ecclesiastico ufficiale riconosciuto e tutelato dall’autorità politica384 . E, come il Renato, il Siculo e il Curione, lo Schwenckfeld credeva soprattutto nella illuminazione interna, nella chiamata dello spirito, nell’ispirazione divina. Da questa interiorizzazione assoluta della vita religiosa si ritorna alla svalutazione dei Sacramenti, che hanno per lo Schwenckfeld valore di fenomeni interiori, e soltanto in quanto tali; e questo vale tanto per il Battesimo quanto per l’Eucaristia, che sono l’uno e l’altro fatti spirituali, e soltanto spirituali: come per il Renato. Un’altra analogia fra lo Schwenckfeld e gli eretici italiani sta nella tendenza, comune ad entrambi, di formare piccoli gruppi che vivano l’esperienza religiosa spirituale, evitando la controversia, e diffondendo la propria dottrina lentamente e gradualmente, risvegliando le coscienze, seguendo una rigorosa condotta morale e spargendo i semi della propria dottrina come affermazioni positive, in 384 Jones, Spiritual Reformers in the XVIth and XVIIth Centuries cit., pp. 78-79.

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forma accettabile entro un involucro di dottrina cristiana scritturale comune e da tutti ammessa. Queste analogie, anche se rafforzate dall’effettuale contatto fra l’Ochino e lo Schwenckfeld, non bastano certamente per, parlare di rapporti piú intimi fra il movimento schwenckfeldiano e gli eretici «spirituali» italiani: però mostrano come il loro movimento (e quello del Valdés, che tante analogie presenta a sua volta con quello del nobile slesiano) corrispondesse a una esigenza largamente sentita, di una nuova religiosità semplificata e «spirituale». Del resto si potrebbe anche fare l’ipotesi che gli amici dello Schwenckfeld a Venezia ne diffondessero la dottrina, trovando terreno altrettanto favorevole che il Serveto385 . Allo stesso modo è legittima la supposizione che l’Ochino non trascurasse i motivi che lo Schwenckfeld e gli schwenckfeldiani gli avevano fatto conoscere, e che non solo continuasse per conto suo le riflessioni sul dogma trinitario, ma approfondisse anche seguendone l’impulso il suo forte misticismo e la sua esperienza dell’ispirazione divina e della rigenerazione interiore per Cristo. 385 Cfr. p. 126, nota 5. Da una ricerca fatta dal Centro d’Informazioni Bibliografiche non risulta che si trovino opere dello Schwenckfeld né del Crautwald nelle biblioteche dell’Italia settentrionale (con due eccezioni: la Bibl. Civica di Trieste, con due scritti dello Schwenckfeld, entrati nella Biblioteca stessa in epoca molto tarda, e la Bibl. Univ. di Bologna, con uno scritto del Crautwald in una miscellanea di scritti luterani e zwingliani degli anni 1527, 1528, 1529, proveniente dall’antica «Biblioteca pontificia». Ma non ho potuto stabilirne ulteriormente l’origine).

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Lelio Sozzini. Il suo atteggiamento di perenne ricerca. I suoi viaggi in Germania e Polonia. Le sue discussioni teologiche con Calvino, e le tendenze del «nicodemismo». Dubbi sulla risurrezione della carne, sul Battesimo, sulla predestinazione. Critica alla dottrina svizzera dei Sacramenti. Critica dell’idea tradizionale del pentimento.

L’atteggiamento mentale di Lelio Sozzini era differente da quello degli eretici che abbiamo incontrato finora, non tanto perché il famoso amico, anzi probabilmente discepolo del Renato si distaccasse dall’insegnamento di questi e dal carattere dottrinale generale del movimento degli eretici italiani, quanto per la particolare accentuazione che il giovane senese dette al lato critico di quel movimento. Infatti finora abbiam veduto prevalere lo «spiritualismo» mistico, o un mistico platonismo: ispirazione divina, parola interiore, rigenerazione perfetta, salvazione universale, prossimo avvento del regno di Dio, scala mistica per arrivare a Dio, spirito cristiano e spirito divino... Con Lelio Sozzini, che pure teneva fermo anch’egli allo «spiritualismo» della parola interiore, vediamo invece salire in primo piano l’osservazione filologica, il dubbio sottile e insidioso, la perenne incertezza e diffidenza di fronte alle soluzioni definitive, l’insistenza per ottenere spiegazione su tutto (e la capacità di sfuggire alle dichiarazioni precise che gli venivano richieste e che non intendeva fare); ma di tutto questo la cosa piú importante è l’applicazione coerente ai problemi teologici del metodo critico e della «dialettica» del Valla. Le due correnti del gruppo eretico italiano non sono distaccate e lontane l’una dall’altra; come gli uomini che le rappresentano sono in continuo contatto fra loro, esse s’intrecciano e intersecano continuamente, poiché sono due

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facce di uno stesso pensiero religioso. Ma rimangono sempre distinte: e quando il gruppo degli eretici italiani giungerà alla dissoluzione attraverso il progressivo assottigliarsi degli emigrati dalla prima alla seconda generazione, questa dissoluzione si manifesterà col distaccarsi delle due correnti. Mentre quella platonica e «spirituale» concluderà nel ritorno alla Chiesa cattolica, la seconda terminerà nell’opera esegetica e sistematica di Fausto Sozzini, e attraverso gli antitrinitari polacchi suoi scolari, informerà di sé un largo movimento di critica religiosa nell’Europa protestante del Seicento. Sulla preparazione culturale di Lelio abbiamo pochi particolari precisi: le supposizioni del Bengel e del Trechsel sugli studi ciceroniani del più giovine figlio del famoso giureconsulto Mariano Sozzini junior386 non hanno fondamento: anzi, la tradizione opposta, che Lelio non fosse molto sicuro in latino e si facesse aiutare dal Curione387 è confermata dai documenti che ci sono rimasti: il latino di Lelio è molto secco e duro, tanto nelle lettere che nel trattatello sui Sacramenti. Sembrerebbe ovvio che la sua cultura giuridica fosse invece migliore: ma sul carattere di essa deve esser tenuta presente la testi386 Burnat, Lélio Socin, Vevey 1894, le ripete sulla falsariga della tradizione, trovando anche che la «façon dont il aborde les problèmes religieux suffirait à le prouver». Cfr. Bengel, Ideen zur historich-analytischen Erklärung des socinischen Lehrbegriffes, in Magazin für christliche Dogmatik und Moral, del Süskind, XIV. Stück, Tübingen 1808, p. 143. Piú convincenti mi sembrano gli accenni del Bengel stesso, loc. cit., sull’importanza della tradizione degli studi di diritto canonico nei Comuni, in funzione della resistenza delle loro autorità civili all’autorità ecclesiastica. Dal diritto canonico si poteva risalire allo studio della Scrittura. Ma se questo può esser stato l’avvio al cammino percorso da Lelio, non è però diventato il carattere dominante della sua religiosità. Cfr, anche Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., vol. II, p. 140. 387 Cfr. Burnat, Lélio Socin cit.

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monianza del Melantone che conobbe personalmente il giovine e ne fu amico, e che probabilmente non fa che riesporre quanto quegli deve avergli narrato di sé. Lelio, dice il Melantone in una sua lettera, adolescens, ut fontes iuris videlicet jus divinum cognosceret, legit propheticos et apostolicos libros, quorum lectione cum divinitus traheretur ad veri invocationem et ad omnia pietatis officia, tanto studio sacrarum literarum flagrare coepit, ut et Hebream linguam disceret, ut fontes certo cognosceret388 .

La preoccupazione fondamentale di Lelio fu sempre religiosa e teologica, e nessuno dei suo scritti mostra spirito giuridico e formalistico, né temperamento astrattamente razionalistico, come gli sono stati attribuiti dagli storici posteriori, sulla traccia di una supposta eredità familiare di mente giuridica o dalle accuse e definizioni degli avversari. Già prima di recarsi in Svizzera, Lelio aveva esercitato una certa attività, della quale però si conoscono con certezza solo i caratteri generali. Non si può dire neppuMelanchtonis Opera, ed. Bretschneider, IX, Halle 1842, n. 6411, col. 381. È la commendatizia del Melantone a Massimiliano II, del 1° dicembre 1597. Qui non c’è accenno alcuno che permetta di accettare le congetture tradizionali; anzi, si potrebbe pensare a un improvviso aprirsi di sentimento religioso durante la lettura dei libri ai quali Lelio s’era avvicinato per rendersi umanisticamente conto delle fonti del giure che avrebbe dovuto studiare: e il risalire alle fonti fino allo studio della lingua ebraica non può esser derivato da una preoccupazione giuridica, ma solo da una preoccupazione religiosa. Lo studio dell’arabo, al quale accenna il Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., vol. II, p. 71, nota 1, potrebbe far pensate anche a una tendenza a confrontare le tre grandi religioni della tradizione, Ebraica, Maomettana, Cristiana; e a qualche partecipazione di Lelio alle grandi aspettazioni di conversione universale del principio del secolo. 388

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re con sicurezza se la tradizione che farebbe del giovane ventunenne il presidente dei «collegia» vicentini abbia una base di realtà o meno. Certo, a creare una tale tradizione può avere contribuito la familiare devozione di Fausto Sozzini, al quale risalgono di solito molte notizie che tramandano gli storici «unitari»; ma l’unico argomento in contrario, quello della eccessiva giovinezza di Lelio, non pare molto valido, poiché qui non si trattava di erudizione, ma di vigore di pietà e di forza d’ingegno; e in una famiglia di alte tradizioni come quella dei Sozzini, non era certo mancata a Lelio la educazione adatta. Ad ogni modo, capo o semplice partecipante, non si può dir nulla contro la tradizione che Lelio verso il 1546 prendesse parte a colloqui e riunioni di membri della organizzazione anabattistica cosí salda e diffusa allora nel Veneto, dov’egli si trovava. Nato a Siena nel 1525, aveva studiato a Padova, dove era vissuto con la famiglia fin dal suo quinto anno. La conversione al protestantesimo, anzi all’anabattismo, avvenne probabilmente in età molto giovanile, fra i quindici e i venti anni, dal 1540 al 1545: il suo primo viaggio, da Padova, fu per Venezia, gran centro intellettuale. Secondo la tradizione, oltre il Gribaldi, collega del padre, probabilmente conosciuto a Padova, avrebbe stretto allora rapporti con G. Paolo Alciati e col Biandrata, e poi ai «collegia Vicentina» con l’Ochino, col Negri, col Curione, con l’abate Buzzale389 . Ma non è probabile che subisse influenze decisive: potrà avere assorbito i motivi di razionalismo filologico e quelli del moralismo stoico o delle dispute filosofiche della scuola patavina: ci pare che si possa dire soltanto, e in forma congetturale, che 389 Trechsel Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 391 sgg. Cfr. L. Amabile, Il santo officio della inquisizione di Napoli, I, Città di Castello 1892, p. 163. {L’Amabile scrive Busale}.

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l’evento principale della vita interiore di Lelio dev’esser stato, prima d’incontrare Camillo Renato, il risvegliarsi dell’interesse religioso, e dopo l’incontro, l’avviamento al misticismo anabattistico. Irrequieto fu sempre; i suoi viaggi che si può dire comincino con l’andata a Venezia nel 1547 continuano quasi ininterrottamente per piú di un decennio, fino al 1559: dai Grigioni all’Inghilterra, dalla Polonia ai Paesi Bassi, da Wittenberg a Siena, almeno secondo la tradizione. Il primo viaggio europeo di Lelio comincia nell’estate del 1547, dal Veneto, e sembra avere il carattere di un viaggio di studi. Dopo la tappa nei Grigioni, dove stringe amicizia col Renato pur senza inimicarsi col Mainardi, Lelio si ferma a Basilea, dove si trovano il Castellione e Celio Secondo Curione, la sua amicizia pei quali data verosimilmente da allora (ottobre 1547)390 . Si iscrive all’Università nello stesso anno, sotto il rettorato di Sebastiano Münster, e viene accolto con amicizia da Bonifacio Amerbach, collega del padre; le lettere di presentazione che Lelio poi dà al giovane Basilio Amerbach che si deve recare in Italia a compiere gli studi giuridici, e la corrispondenza col Gribaldi che ne segue, mostrano Lelio già amico del famoso giurista Matteo Gribaldi Mofa391 . Per un anno dalla fine del 1547 si perdono le tracce documentate di Lelio, che riappaiono nell’estate 1549. I biografi parlano per questo periodo di un viaggio in Isvizzera, probabilmente a Ginevra, in Francia, dove si sarebbe fermato alla corte di Nérac, presso Margherita di Navarra, in Inghilterra, dove avrebbe conosciuto il Vermigli, il 390 Per le notizie sulla vita di Lelio mi riferisco in generale al Burnat e al Trechsel, che non cito in particolare ogni volta. 391 Matthaei Gribaldi et Basilii Amerbachii ad Bonifacium Basilii patrem Amerbachium Epistolae Patavinae, Basileae 1922 (per il quadricentenario dell’Università di Padova), pp. 8, 33 ecc.

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capo della riforma polacca Giovanni Laski, e il fiammingo Utenhove392 . L’Hottinger parla della presenza di Lelio a Ginevra per l’inverno 1548-49393 ; e di lí questi si reca a Zurigo, dov’era atteso. Nell’estate del 1549 Lelio è di nuovo a Basilea ma ritorna verso la fine dell’anno a Zurigo, e vi si ferma per un certo tempo, fino al giugno dell’anno seguente (1550). Il Burnat, che accetta anche la tradizione di una sosta nelle Fiandre, suppone che quivi Lelio sia potuto entrare in contatto con quegli ambienti anabattisti; ma non si ha nessuna prova precisa. Tanto a Basilea che a Zurigo Lelio rimane negli ambienti dell’Università: a Basilea abita presso Sebastiano Münster, e stringe conoscenza oltre che con gli italiani, con stampatori come il Perna, l’Oporino, con pastori come il Myconius, con professori come Martin Borrhaus; a Zurigo abita presso un professore, il Pellikan, e frequenta i migliori rappresentanti della cultura umanistica, il Wolf, il Gwalther, il Bibliander, e il famoso Konrad Gessner. Il centro dell’attività di Lelio Sozzini, se di centro si vuol parlare, rimane proprio Zurigo, dove la piú importante amicizia che egli stringe è quella dell’erede dello Zwingli, il mite e dotto Bullinger. L’influenza del temperamento di questi e della tradizione zwingliana, che oltre la stretta sorveglianza dell’autorità civile sulla vita ecclesiastica contava nella sua fresca ma vigorosa tradizione l’ospitalità offerta allo Hutten, e una certa prassi di tolleranza e di discussione di fronte agli anabattisti, contribuivano a fare della città sul lago un centro di tolleranza se non tanto famoso come Basilea, per lo meno atto ad attirare qualche esule. 392 Con l’Utenhove, il confidente del riformatore polacco Laski, Lelio si trova in corrispondenza anche piú tardi. Ma non c’è altro che giustifichi questa tradizione. 393 J. H. Hottinger, Historia ecclesiastica Novi Testamenti, IX, Tiguri 1657, p. 436.

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Certo Lelio Sozzini ora non si può considerare veramente un emigrato, ma ancora un viaggiatore. Il Gordon sostiene che in questi suoi viaggi Lelio andava cercando libertà di discussione; il Burnat col Trechsel s’accontenta di enumerarne le cause immediate, il Church afferma che furono viaggi d’istruzione394 . Si può forse osservare che in tutti i luoghi dove Lelio Sozzini si recò, o la tradizione ci dice si fosse recato, v’era o un centro di cultura e di vita religiosa come a Wittenberg, o un gruppo piú o meno importante di anabattisti, e spesso italiani. Forse Lelio cercava di stabilire un collegamento fra questi gruppi, forse si limitò a cercare il luogo e l’ambiente piú convenienti per fermarsi a compiere i suoi studi: in favore di questa ipotesi va rilevato che Lelio non perdette mai il contatto con l’Italia, e che fu molto lieto quando Siena fu liberata «non ab Hispanis solum, verum 394 A. Gordon in «Theological Review» Edinburgh 1879, p. 302; Church, I riformatori italiani cit., vol. I, p. 234; la «libertà di discussione» del Gordon è troppo generica per non esser vera in qualche senso. Un semplice viaggio di studio potrebbe essere stato il primo, se lo si limita alla Svizzera; ma quando si accetti la tradizione del viaggio in Inghilterra e nei Paesi Bassi, e quando si pensi al carattere dei luoghi dove si reca il giovane studente, Ginevra, Wittenberg, non si può piú parlare di semplice viaggio di studio.

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etiam ab alia quacunque servitutis specie»395 ; e che cosa intendesse per l’altra servitú è chiaro dal commento. È probabile che le opinioni religiose di Lelio, se già non erano precisamente orientate, cominciassero presto a definirsi nel senso di Camillo Renato: il quale gli ispirò anche l’estrema riserva e prudenza nella formulazione delle sue opinioni, naturali in chi dava tanta importanza alle parole e al loro significato, anche a prescindere dal carattere estremo di quelle; si contentavano delle loro implicazioni ed esclusioni, che gli «intelligenti» avrebbero senz’altro rilevato. D’altra parte, con questo consapevole limite, Lelio era, secondo i testimoni concordi, «liberissimo» nel parlare e nel discutere, ardito perché consapevole della propria posizione e di quella degli avversari, e sicuro del proprio metodo anch’esso appreso dal Renato: che consisteva nel porre questioni, nel suscitare controversie, nel tenere cioè svegli gli animi e presenti i problemi; e, piú che nel dissertare per conto proprio, nel raccogliere materiali di studio e di riferimento indiretto, come esigeva la «oscurità» dei tempi, nei quali occorreva procedere attentamente e cautamente, per non scandalizzare gli ignari e per non porre in pericolo la diffusione delle proprie idee fin dal primo momento: 395 L. Sozzini a H. Bullinger, Siena 25 settembre 1552 (correzione del Trechsel; il primo editore ha dato 1551). La lettera è affidata ai quattro legati della Rep. Senese al Re di Francia, per ringraziarlo dell’assistenza. Sembra che ci fosse qualche probabilità di avviare la Repubblica verso la riforma, perché il Sozzini aggiunge «... homines isti copiose tibi narrabunt, et non ingrata fortassis» (Museum Helveticum Particula XIX, Tiguri 1751, ma tomo V della raccolta non num. a parte), p. 489. Cfr. Vergerio al Bullinger, Chiavenna, 10 marzo 1552: «De Laelio scio, eum in patria agere: nunc enim inquisitoribus non licet saevire, quamquam non sine magno pericolo illic degat, quippe qui soleat libenter loqui de Christo inviso». Schiess, Bullingers Kosrespondenz cit., I, p. 290.

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Praestare igitur arbitrabatur [dice di lui il nipote Fausto] dubia et quaestiones illustribus in Ecclesia viris identidem proponere, ut ea ratione paullatim via ad veritatem sterneretur addubitantibus illis interdum ob argumenta ab eo allata de inveteratarum opinionum firmitate easque non amplius populo tanquam christianae religionis axiomata obtrudentibus; quod tamen, ut omnem offensionem vitaret, addiscendi tantum studio a se fieri dicebat (qua tamen ratione ab initio idem vere ab eo factum fuisse verisimile est), quare etiam discipulum semper se, nunquam autem doctotem profitebatur396 .

Tornato dal primo viaggio, il Sozzini aveva già cominciato a porre le sue questioni dottrinali. A prescindere da un primo dubbio sulla risurrezione della carne proposto a Calvino nel primo incontro397 , deve aver proposto molti problemi anche al Bullinger: non sappiamo quali, in questo momento (1549), ma dovevano essere delicati, se il Bullinger rinvia il giovive italiano a Calvino. Probabilmente Lelio sottopose a quest’ultimo solo una parte di quelli che aveva proposto oralmente a Zurigo. Vale la pena di soffermarci sui dubbi proposti da Lelio al patriarca della Riforma dei paesi romanzi, nonostante si tratti piú di casistica che di veri problemi religiosi (eccetto quel che riguarda la risurrezione), perché qui il giovane senese si fa esplicitamente portavoce di tutto un gruppo di italiani: di quelli che abbiamo chiamato «nicodemiti». Non sappiamo se essi fossero fieri della loro dottrina, e invocassero a onore, e non a scherno, il nome di Nicodemo, che era stato santificato dalla 396 F. Socini, De Christi natura disputatio, in Bibliotheca Fratrum Polonorum, Irenopoli (Amsterdam) 1656, I, p. 782b. 397 Calvino risponde a questo dubbio nella sua lettera del giugno 1549 (O. C. XIII, col. 309, n. 1212) mentre in quella di Lelio, citata nella nota seguente, non v’è cenno di tale problema. Però Lelio ripropone la questione della risurrezione un mese dopo (ibid., coll. 336 sgg. n. 1231).

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Chiesa, e che anche Calvino chiamava sant’uomo398 ; non sappiamo nulla di preciso sul loro conto, ma possiamo far valere per loro quel che Calvino diceva dei «nicodemiti» francesi: fra loro forse c’erano meno «prothonotaires delicats, qui sont bien contents d’avoir l’Evangile, et d’endeviser ioyeusement et par esbat avec les Dames, moyennant que ce la ne les empeche point de vivre à leur plaisir»399 , ma molti erano probabilmente fra gli italiani amici di Lelio, che conosceva tante persone400 , ceux qui convettissent a demy la Chrestienté en philosophie: ou pour le moins ne pressent pas les choses font à cueur: mais attendent sans faine semblant de rient, voir s’il se fera quelque bonne reformation...

oppure coloro qui imaginent des idées Platoniques en leur testes, touchant la façon de servir Dieu, et ainsi excusent la plus part des folles superstitions que sont en la Papauté..., Ceste bande, [diceva Calvino] est quasi tonte de gens de lettres... il se trouvera beaucoup de gens de estude, qui s’endorment en certe speculation...401 .

Calvino fece tradurre queste lettere in latino: e probabilmente molte copie dell’edizione latina dovevano esser destinate oltre che alla Francia e alla Germania, all’Italia, se ad essa fu aggiunta un’appendice coi pareri del Butzer, di Melantone e di Pier Martire Vermigli402 . 398 Excuse à Messieurs les Nicodémites, del 1544, O. C. VI (C. R. 34), col. 596. 399 Ibid., coll. 598-99 400 Melanchtonis Opera cit., IX, n. 64 II, col. 381. 401 O. C. cit., col. 600. 402 Ginevra 1549-50, con una nuova aggiunta di Calvino. Cfr. ibid., col. 628. Un’opinione «nicodemita» dell’Ochino in

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Le testimonianze di tale atteggiamento dei riformati italiani meriterebbero d’esser raccolte e analizzate, per distinguere quanto c’era di calcolo e di travestimento ideologico d’una situazione di debolezza e di incapacità all’azione e quanto semplicemente di riconoscimento di una sconfitta. Che accanto alla «infermità umana» ci fosse un atteggiamento favorevole al compromesso e all’adattamento, che si considerasse lecita la duplicità dell’osservanza cattolica mentre le convinzioni erano protestanti è chiaro dalla lettera piú volte citata del prete grammatico, il quale trovava quasi lodevole il pronunciare confusamente l’abiura, e simili sottigliezze, del genere di quelle che poi saranno chiamate «gesuitiche». Questo si vede anche nelle deplorazioni di Giulio della Rovere («da Milano»), il quale lamenta che «il fuggitivo cuopra la viltà dell’animo col manto della fuga degli Apostoli»403 ; e dalla polemica del Lentulo contro i «nicodemiti»404 . La caratteristica dell’atteggiamento dei «nicodemiti» italiani è la consapevolezza dei pericoli religiosi e morali che l’accompagnavano, e il tentativo che ne conseguiva di giustificarlo teologicamente, come abbiam visto fare da Giorgio Siculo. Si voleva rimanere nel segreto,

Bertrand-Barraud, Les idées philosophiques de Bernardin Ochin cit., p. 57 (sulle persecuzioni). 403 Comba, I nostri protestanti cit., pp. 167 sgg. Il Della Rovere scrive nel 1552 sul tema della fuga davanti alla persecuzione (Esortazione al Martirio), riprendendo la severa posizione di Calvino, e cercando nella mancanza di organizzazione una scusa per i suoi italiani. Cfr. Chabod, Per la storia cit., pp. 92, nota 4, e 121-22 dove viene molto bene analizzato lo stato d’animo di quegli uomini. 404 Lentulo, Historia delle grandi e crudeli persecuzioni fatte ai tempi nostri... contro il popolo che chiamano valdese, edita da Teofilo Gay, Pinerolo 1906, p. 5 {e Cantimori, Nicodemismo cit., p. 15}.

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si voleva anche potere abiurare, al caso, senza per questo doversi sentire menomati di fronte alla propria coscienza: perciò si giustificava non solo la fuga di fronte alla persecuzione, ma anche l’osservanza delle leggi dell’«Anticristo». Certo, il fatto che Calvino, sempre cosí bene informato e attento, non parli di un particolare «nicodemismo» italiano e non ponga i «delirii» del Siculo in relazione con esso, induce ad andare molto cauti nel fare congetture su questo «nicodemismo»: se abbiamo documenti della consapevolezza, possiam dire, teologica, di esso, abbiamo invece solo rare notizie e indizi di una consapevolezza politica tale da poterci far parlare di un movimento in qualche modo definito, tendente ad agire sotterra, in una politica di circuizione delle autorità e di attesa. Uno di questi indizi e non trascurabile, ci pare l’accenno di Lelio Sozzini nella sua prima lettera a Calvino. Infatti il suo motivo fondamentale è la opposizione al De vitandis superstitionibus, appena pubblicato. Lelio, diremmo, si avvicina a Calvino con metodo «nicodemitico»: facendo atto di ammirazione e sottomissione e nello stesso tempo proponendo una serie di questioni casistiche che se accettate avrebbero ridotto a nulla tutta la severa ammonizione del riformatore. E non parla in nome proprio405 , ma in nome degli italiani, dicendo che Calvino s’è mostrato «salutarem... medicum his nostris qui 405 Come interpreta il Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 145 sgg., il quale, considerando le dichiarazioni di Lelio di parlare a nome di «qualcuno» come un espediente retorico, congettura che Lelio pensasse a sposarsi, e chiedesse, poiché amava una cattolica, il parere a Calvino. La mia congettura può valere solo se si accettano per veridici gli accenni di Lelio ai «nostri» a nome dei quali parla (come non vedo alcuna ragione di non fare).

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bestiali adhuc morbo laborant»406 . Dunque questi italiani non intendevano accettare gli avvertimenti e le esortazioni di Calvino, del Butzer, del Vermigli, di Melantone, e insistevano per bocca di Lelio. Questi, per girare la posizione, parte da una questione pratica, per giungere a un dubbio grave di natura dottrinale e teorico-teologica. Si può sposare una donna che, pur avendo la «vera fede», non sappia o non voglia per timore umano abbandonare le cerimonie cattoliche? Dovevano essere questioni e preoccupazioni comuni fra i «nicodemiti» italiani, costretti a rimanere sotto la minaccia dell’Inquisizione, e che pur non volevano rinunciare a continuare la lor vita: Alius valde haeret, quum sibi alioqui pie vivere liberum sit, num quia infantem cogitur offerre deserenda sint ei omnia, vel potius aliqua sui contaminatione filio consulere et reliquae familiae liceat?

Giorgio Siculo offriva una soluzione, larghissima. Ma probabilmente Lelio Sozzini non la conosceva ancora, se mai l’ha conosciuta; intanto si rivolge ai capi delle chiese svizzere, e invoca il parere favorevole di Melantone e di Pietro Martire. Dalle questioni pratiche e spicciole, che pure implicano gravi problemi religiosi, poiché la risposta ad esse implica una risoluzione sul carattere fondamentale della religione, quello al quale non si può portare offesa in nessun modo (è sufficiente la «vera fides» interiore e non pubblicamente manifestata? o occorre la pubblica dichiarazione, malgrado i pericoli?) o anche una dichiarazione sul carattere della Chiesa e del Battesimo (in caso di risposta affermativa alla prima domanda, la «publica confessio» viene in certo qual modo equiparata al Battesimo), il Sozzini passa alla questione scot406 Lettera di Lelio Sozzini a Calvino, O. C. XIII, n. 1191, col. 273.

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tante, preparata già con un accenno in sordina, sul valore del Battesimo407 . E finisce col gran problema degli italiani protestanti, ma rimasti in Italia: si può ascoltare senza danno la messa, quando vi si sia costretti da qualche valida ragione?408 . Anche qui, sotto l’aspetto di problemi spiccioli di pratica quotidiana, il giovane Sozzini, con l’avvicinamento della messa al Battesimo, e col paragone del Battesimo cattolico a un gioco, inficia il valore sacramentale del Battesimo: inoltre cerca di impigliare il Calvino in una serie di contraddizioni, già prima che quest’ultimo abbia risposto. I protestanti combattevano l’uso del Battesimo in casa dei privati, e il Sozzini deduceva da questa posizione, che consisteva sostanzialmente in un ritorno agli usi della Chiesa primitiva, addirittura la invalidità di ogni Battesimo cattolico: e piú ancora, affacciava coi paragoni e gli andirivieni del suo ragionamento l’idea dell’indifferenza del Battesimo in quanto Sacramento. Calvino non rispose subito. E il Sozzini tornò alla carica, da Basilea dove nel frattempo si era recato per qualche mese, con una lettera, riproponendo le vecchie questioni, ed aggiungendone altre due ancora piú scabrose ed esplicite. 407 «Deinde, an ratum habeas baptismum per lusum etiam administratum, cum efficacem agnoscas papistatum, qui non ludendo tantum sed blasphemando... baptizatum esse credunt...» Calvino non può credere alla virtú oggettiva delle parole che accompagnano il Battesimo. Altrimenti, gli dice il Sozzini, non ribattezzerebbe «qui simplicissime ac bona fide ab amico privato aut parentibus semel fuit tinctus». E se non è valido il Battesimo privato, ancor meno valido sarà quello idolatrico. O. C., ibid. 408 La conclusione è che Calvino non è d’accordo nel condannare coloro che «ab externa idolatriae professione non abstinent... etiamsi fidem suam dissimulent periculorum meta». Certo non approva la tiepidezza e incita al fervore: «Legem tamen imponere non audeo, quatenus progredi necesse habeant». Ibid., 1212, Calvinus Socino, col. 308.

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Quaeritur, nos quid simus, vel potius quid erimus, et quibus constabimus rebus? num anima nostra sola futura sit in illa felicitate, cuius particeps fuit mox quum ex hoc ergastolo revolaverit, aut corpus istud etiam, licet alio est praeditum ingenio, pariter exsistet aliquando? nam hoc scripturae loci non pauci, illud ratio omnino comprobare videtur409 .

Qui il Sozzini pone in dubbio la resurrezione della carne, ne nega anzi, sia pure in forma dubitativa, la utilità, la importanza religiosa, e, quel’ che è piú, si richiama alla ragione, o, meglio, alla ragionevolezza critica. Protesta che ritiene «nihil esse credendum quod rationi sit adversum» benché sia duro dubitare della parola divina come si presenta nella Scrittura, ma aggiunge: «at rursus non minus durum sibi impossibilia persuadere futura, ac voluntatem cogere ad expetendum id quod intellectus perpetuo suggerit nunquam futurum», e termina col proporre una interpretazione simbolica dei passi scritturali al proposito: la Scrittura sarebbe piena di tali espressioni che fanno intendere le verità superiori «carnali quodam modo», finché «perfectiore luce donati nos et Deum ipsum in Christo uti est, corporaliter, id est, vere et non umbratice cernamus». Ma termina la lettera insistendo che Calvino gli spieghi razionalmente se si riavrà il proprio corpo, se saranno necessarie tutte le parti di esso, se si avrà allora un corpo nuovo differente da questo che ci accompagna in terra, e cosí via. Ripetendo le domande della lettera precedente, aggiunge un’altra questione, diretta ancora ad infirmare la concezione tradizionale del Battesimo, e particolarmente l’argomento in favore di questo e del suo valore sacramentale trat409 Da Basilea, «ex aedibus Monsteri» cioè del famoso Sebastiano Münster, 25 luglio 1549, O. C. XIII, n. 1231, coll. 337-38; cfr. la lettera al Bullinger del 31 dello stesso mese, in Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 43 sg.

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to dalla analogia con la circoncisione, alla quale anche Gesú Cristo si era sottomesso410 . Intanto Calvino aveva risposto, inviando la lettera al Bullinger: ed era una lettera già impaziente. Disapprovava in genere il matrimonio con una cattolica, ma faceva riserve per il caso specifico, ammettendo che bisognasse essere indulgenti per il timore umano di una donna. Riguardo al Battesimo, biasimava i padri che non facevano ogni sacrificio affinché i figli non nascessero cattolici, ma insisteva sul valore oggettivo sacramentale del Battesimo, in generale, e in ispecie di quello cattolico, malgrado tutte le «impurità» che lo possano macchiare. Calvino poi rispondeva ad obbiezioni del Sozzini contro la concezione tradizionale della risurrezione della carne: obbiezioni che non figurano nella prima lettera del Sozzini411 ; forse si riferiva al colloquio avuto tempo prima con questi, o a un piccolo appunto di Lelio, che però sarà pubblicato molto piú tardi. Calvino dice: «Non mi meraviglio che la concezione tradizionale ti sembri incredibile. Ma bada che la incredulità intellettuale della risurrezione della carne non giustifica affatto scritturalmente la tua ipotesi che ci sarà allora dato un altro corpo, nuovo. Attento a non lasciare che il dubbio possa prendere troppo piede nel tuo animo. Spero nella tua vera religione e pietà». Alla seconda lettera Calvino rispose solo dopo molti mesi, e aspramente: la parola scritturale deve bastare per un credente: 410 «Num Turco baptizato eius quoque famulitium universum tingendum censes, et si non licet in hoc circumcisionem unitari, cur liceat in filios qui non meliori iure circumcidebantur». Come il «Turco» battezzandosi non può obbligare la famiglia e i servi a imitarlo (mentre tanto doveva fare il gentile entrando nella Sinagoga, circoncidendosi), cosí neppure il padre può far battezzare il figlio, perché il caso del «Turco battezzato» invalida per il Sozzini il parallelo fra la circoncisione e il Battesimo. O. C. XIII, n. 1231, col. 339. 411 O. C. XIII, n. 1212, coll. 307 sgg., primi di luglio 1549.

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si plura desideras, aliunde petenda sunt, quoniam nunquam a me impetrabis, ut obsequendi tibi studio fines a Domino positos transiliam. In aliis quoque si parcior ero quam opto, ignosces412 .

Risolve rapidamente, in senso affermativo, il dubbio sul Battesimo d’autorità ai familiari del convertito. E l’epistolario di Calvino con Lelio s’interrompe qui, per la durata del viaggio in Germania e Polonia. Dopo un anno di vita tranquilla in Isvizzera, Lelio infatti intraprese un secondo viaggio, ancor piú ricco del primo in conoscenze e colloqui. Nel giugno del 1550 si mise in viaggio per Wittenberg, dove si recò a visitare il Melantone, fornito di presentazioni del Bullinger e del Myconius; prima s’era fermato a Norimberga, stringendo amicizia con l’umanista Camerario, che aggiunse le sue alle altre lettere di elogio e presentazione. Anche a Wittenberg Lelio prese alloggio presso un professore di ebraico, il Forster, del quale seguí assiduamente le lezioni413 . Arrivato il 18 luglio, viene immatricolato il 26 settembre come studente dell’Università di Lutero. Qui vede spesso il «praeceptor Germaniae», e s’interessa per le dispute sugli adiafora ferventi fra i luterani, e anche per gli studi astrologici del Melantone, che disapprova. Da tanto tempo l’astrologia era stata criticata in Italia, sotto ogni punto di vista!414 . Fra gli altri professori, il Sozzini preferiva Nicola Gallus, e, cosa strana, l’intolle412 Ibid., n. 1323, col. 485. Lelio replica il I° febbraio 1550 chiedendo scusa e insistendo perché la corrispondenza non venisse interrotta (ibid., n. 1341, col. 518). Il 20 marzo annuncia la sua partenza per la Germania e chiede lettere da portare a Wittenberg. 413 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 153. 414 L. Sozzini al Bullinger, 20 agosto 1550, in Illgen, Symbolarum ad vitam L. Socini, Particola II, Lipsiae 1805, p. 19.

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rante Flacio Illirico415 : ma probabilmente saran stati il rigor dell’argomentazione e la dottrina storica ad attirare il giovane italiano. A Wittenberg, l’interesse di Lelio si volge per la prima volta verso quella Polonia che avrà tanta importanza per gli emigrati italiani, e dove già si cominciava a svolgere un movimento di idee analogo a quello di critica antitrinitaria iniziatosi in Italia, e destinato a sfociare anch’esso in quel movimento dottrinario che avrebbe avuto il nome di «socinianesimo»416 . Uno dei molti polacchi che erano allora a Wittenberg, il Maczinski, si strinse d’amicizia con Lelio; a Wittenberg venivano notizie della Polonia da un altro italiano, che raccontava della propagazione della dottrina riformata e delle lotte che suscitava417 . Forse anche l’interesse per queste lotte, il desiderio di vedere da vicino il processo di diffusione e di affermazione della riforma in un paese che per tanti lati si trovava in una situazione analoga al suo, mossero il Sozzini ad avviarsi in Polonia. Il viaggio s’iniziò il 23 giugno del 1551; il Sozzini passò da Breslavia dove conobbe i principali riformatori e umanisti, fra i quali il medico imperiale Crato von Krafftheim, che manterrà poi relazioni con la famiglia di Lelio: coi suoi sfortunati fratelli, e con il nipote, Fausto Sozzini418 . Da Breslavia, Lelio proseguí per Cracovia, attraverso Praga: gli storici tramandano notizie di ottiBurnat, Lélio Socin cit., p. 34. St. Kot, Le Mouvement Antitrinitaire au XVIe et au XVIIe siècle, Paris 1937 (estt. da «Humanisme et Renaissance» anno IV, 1937), pp. 30 sg. estr. 417 Ruffini, Stancaro cit., p. 208; J. Maczinski al Pellikan, Wittenberg, 24 agosto 1550, in Th. Wotschke, Der Briefwechsel der Schweizer mit den Polen (Archiv für Reformationsgeschichte, Ergänzungsband III, Leipzig 1908), pp. 27 sgg. 418 Burnat, Lélio Socin cit., Appendice. 415

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me accoglienze fatte a Lelio nella città polacca; ma sembra che egli abbia frequentato soprattutto Francesco Lismanini, confessore della regina, decidendolo, secondo la tradizione degli storici della sètta, ad abbandonare il cattolicesimo419 . Alla fine dell’autunno Lelio lascia Cracovia, e avviandosi di nuovo alla sua Zurigo, passa per la Moravia. Anche per questo viaggio si può parlare, per lo meno per la prima parte, di studi; per la seconda, si può rinnovare, pur senza insistervi, la congettura della ricerca di una sede, o di visite ai luoghi dove si trovavano gruppi religiosi analoghi a quelli dei Grigioni e del Veneto. Ritornando in Isvizzera, il Sozzini trovò il mondo dei teologi e dei dotti «riformati» preoccupato della disputa fra il Calvino e il Bolsec, sulla grazia e sulla predestinazione, della quale informò subito anche il Melantone; e prese subito parte alle discussioni. Senza entrare direttamente nel merito della questione, poiché egli professava ignoranza su ogni problema, Lelio scrisse al Calvino pregandolo di non procedere con troppa violenza ed acrimonia contro il suo avversario. Le chiese svizzere si erano mostrate piuttosto tiepide alla richiesta di Ginevra sulla colpevolezza del Bolsec, ammettendo l’errore di questi, ma consigliando indulgenza e moderazione al Calvino, mentre quella di Berna fece addirittura rispondere che il Bolsec non era colpevole, essendo la sua opinione avversa alla predestinazione assoluta, condivisa da molti uomini «eccellenti ed autorevoli»420 . A Wittenberg, il Melantone, informato da Lelio, esclamava, scrivendo al Camerario: 419 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 156. Un’altra tradizione parla dello Stancaro (Ruffini, Stancaro cit., p. 255). 420 Carew Hunt, Calvino cit., p.189.

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Ac vide saeculi furores, certamina allobrogica de stoica necessitate tanta sunt, ut carceri inclusus sit quidam, qui a Zenone dissentit. Laelius narrat, se coriphaeo cuidam scripsisse, ne tam vehementer pugnet. Et mitiores sunt Tigurini421 .

Quanto si era lontani dalla disputa fra Lutero ed Erasmo sull’analoga questione del libero e servo arbitrio! L’unica notizia che abbiamo della lettera del Sozzini al Calvino è l’accenno del Melantone. Ci rimane invece, e fu conservata anche dalla tradizione dei «sociniani», la lettera violentissima di risposta del Calvino al giovane dotto italiano. Questi non solo deve averlo pregato di essere meno aspro con l’avversario, ma deve anche avergli rimproverato di oscurare la religione con costruzioni troppo sottili, e deve avergli posto, secondo il suo costume, anche alcune domande. Il Calvino risponde, fra l’altro: Liberale verum ingenium, quod tibi dominus contulit, non modo in rebus nihili frustra occupari, sed exitialibus figmentis corrompi, vehementer dolet... Quod pridem testatus sum, serio iterum moneo, nisi hunc quaerendi pruritum mature corrigas, metuendum esse, ne tibi gravia tormenta accersas422 .

Il Przipkowski, biografo di F. Sozzini, che per primo cita questa lettera, vede nelle parole che abbiamo riportato una minaccia da parte di Calvino: e anche noi possiamo credere che il Calvino volesse dare un avvertimento preciso al suo corrispondente, non solo perché il PrziMelanchtonis Opera, ed. cit., vol. VII, p. 930. Calvino, O. C. XIV, C. R. 42, coll. 229-30. La lettera si trova, citata solo in parte, anche nella Vita di F. Socino scritta dal Przipkowski (Biblioteca Fratr. Polon., F. Socini Opera I, p. **, v. della Vita authoris) e datata Calend. Jan.1552, data accettata dal Corpus Reformatorum. Termina «Vale, frater mihi dilettissime, et si obiurgatio haec aequo durior est, amori erga me tuo imputa». 421

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pkowski raccoglieva molto probabilmente una tradizione proveniente da Lelio stesso attraverso Fausto, ma anche perché il Calvino non era solito rimaner fermo a vaghi ammonimenti, quando credeva di agire per la maggior gloria di Dio. Anche il Trechsel commenta: «una risposta come questa avrebbe spaventato e tenuto lontano altre dieci persone una volta per sempre»423 . Cosí per il momento Lelio tralasciò di insistere a Ginevra: e si volse al Bullinger. Questi aveva creduto fin da principio alla buona fede delle questioni agitate da Lelio, e solo dopo la sua morte si sarebbe accorto della evoluzione dell’italiano, che passava insensibilmente dalle domande e dai dubbi derivati dal desiderio di apprendere e di ricevere schiarimenti, al dubbio sistematico, ai problemi posti non per imbarazzo proprio, ma per avviare altri al dubbio. Al Bullinger il Sozzini accenna i suoi primi dubbi sull’accordo raggiunto dalla chiesa di Zurigo con quella di Ginevra sulla questione dei Sacramenti424 : gli comunica le obiezioni dei bernesi e dei basitesi, e lascia trasparire anche la sua riserva425 . Inoltre scriveva lunghe lettere sulla questione per conto proprio, e per preparare il trattato sui Sacramenti, che è il piú ampio rimastoci426 . In esso Lelio polemizza direttamente contro l’articolo sul quale si fonda l’interpretazione trascendente del Sacramento: l’articolo VII del Consensus dichiara che il piú importante fine dei sacramenti è «ut per ea nobis suam gratiam testetur Deus»427 ed egli oppone: che il primo e principale fine dei Sacramenti è 423 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 157. 424 Ibid., p. 151. 425 Ibid., pp. 151 sg. 426 Ripubblicato in ibid., pp. 438-46 (app. VIII). 427 Ibid., pp. 438.

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ut per ea in publico visibili specie repraesentemus, asseramus et praedicemus dei gratiam et ingentia beneficia, quae per Christum in nos collata sentimus et olim conferenda certo speramus.

Ed occorre che prima del Sacramento della Cena noi ci ricordiamo, riconosciamo e sentiamo il valore della commemorazione che stiamo per iniziare: mentre il Consensus riteneva che fosse il Sacramento stesso a rinnovare la memoria altrimenti ne sarebbe venuto che piú uno si fosse dimenticato e allontanato da Cristo, piú si sarebbe avvicinato all’Eucarestia428 . Dunque nei Sacramenti noi manifestiamola nostra gratitudine a Dio, anziché riceverne in esso i benefici, come il Calvino era riuscito a fare accettare al Bullinger. Cosí pure Lelio critica l’articolo VIII: «quod vere sacramenta firment Dominus vere praestat», al quale egli obbietta: «hic rursus videmini et sacramentis nimium tribuere, et spiritualem veritatem ordine inverso colligere», riaffermando che i Sacramenti sono «sigilla non pignora», onde ci si può avvicinare alla Cena soltanto dopo un accurato esame di coscienza, e solo se sentiamo novam lucem in nobis accensam, si illius divini incendii flammas aliquas sentimus, si desiderio rerum aeternarum ardent nobis corda429 .

Anche le altre questioni che il Sozzini poneva al Bullinger erano molto piú ardite di quelle che già conosciamo. Neppur qui ci resta la richiesta di Lelio: ma dalla risposta del Bullinger si possono trarre notevoli indicazioni. Il Sozzini aveva presentato al Bullinger un foglietto con alcuni quesiti, insistendo per avere risposta scritta. Il Bullinger non sa rendersi conto della necessità della ri428 429

Ibid., pp. 441 sg. Ibid., p. 442.

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sposta scritta e della insistenza del giovane italiano, tanto piú che questi ha già di lui «libellos aliquot locupletissimos amicitiae nostrae testes». Evidentemente il Sozzini teneva ad avere per iscritto le risposte tanto per avere un testo preciso sul quale riflettere e poi presentare nuove obiezioni prudentemente formulate, quanto per conservare le varie argomentazioni in quelle miscellanee di estratti e di annotazioni che sembrano essere stata l’unica eredità lasciata al nipote Fausto. Il Sozzini non solo poneva in dubbio la validità assoluta e necessaria del comandamento di confessare Gesú Cristo, ma rivelava il suo spirito critico richiedendo come si potesse predicare l’avvento del regno di Cristo, senza conoscer chiaramente come avverrà la redenzione, onde si entra a far parte del regno divino?430 . Alla predicazione per la fede e per l’azione, il Sozzini oppone che non si può compiere nessuna vera e grande azione, che non si può predicare la fede, senza avere una chiarezza estrema ed esplicita di quello che si vuole, e si vuole far sentire agli altri. Si riconoscono ancora i problemi degli anabattisti italiani, con la loro organizzazione clandestina (è necessario confessare sempre e apertamente la propria fede?), e in genere quelli dei protestanti italiani, che desideravano chiarezza d’idee, nettezza e coerenza intellettuale fino all’estremo, ed erano poi capaci di sottili avvolgimenti nella pratica. Il Sozzini deduce da quelle premesse perfino «minus peccasse, qui in Christum non crediderunt», poiché non era sempre stato necessario «filium Dei confiteri... ad salutem consequendam». Il Bullinger risolve scritturalmente i dubbi del suo amico, ma non vuole píú che questi perseveri nella via delle questioni troppo «curiose». Riconosce la sua serietà morale: 430 Ibid., pp. 158 e 447 sgg. (app. IX, 1); a p. 448 la questione sul come avverrà la Redenzione, riportata in forma indiretta dal Bullinger.

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Tu... mavis peregrinando et disputando et opportune et importune interrogando, quid certo credas, discere, interim propter religionis studium dulcibus et suavissimis parentibus carere, denique genium tuum fraudare.

Ma non bisogna eccedere neppure in questo. Certo Lelio Sozzini non poteva accettare di «interquiescere» né tanto meno di «acquiescere», di riposare e di considerarsi sazio: né l’intelletto inquieto, né il misticismo mai sazio della verità divina che poteva incontrare in Ochino, gli potevano permettere di cedere alle argomentazioni del Bullinger affinché lasciasse le questioni e le discettazioni e riconoscesse «est sane Theologia vera theorica, sed magis tamen practica»; né poteva fargli molta impressione la lunga citazione da Tertulliano con la quale il Bullinger termina la sua lettera: da Tertulliano egli e gli amici attingevano argomenti a ben piú ardite speculazioni e a critiche ai dogmi tradizionali. Di questo tempo è anche la lettera a Rodolfo Gwalther, sulla penitenza e il pentimento, che ci rivela un altro aspetto delle idee di Lelio, e anch’esso riconducibile allo «spiritualismo» di stampo anabattista. In che cosa consiste il pentimento? «qua ratione illud fiat et accipiatur, quaero»431 . Dobbiamo sentir un gran dolore della vita fino a questo momento condotta, sí da desiderare di non essere nati? Dobbiamo cambiare i costumi, e desiderare di non aver fatto ciò di cui ci pentiamo? Ma Lelio si mostra soprattutto preoccupato, perché, mentre si sforza di adempiere al dovere della penitenza, tale dovere gli appare incerto e dubbio, poiché non ne conosce «initia, progressus, et exitus». Mentre si duole dei peccati compiuti, riflette che non è la carne, il corpo a dolersi, poiché questi si lamenta solo di aver perso i propri piaceri; d’altra parte a dolersi non è lo spirito né og431

Ibid., pp. 159 sgg., e 452-54 (app. IX, 2).

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gettivo né soggettivo («spiritus Dei bonus vel meus, quatenus clarificatus est ab illo et divinae voluntati... consentiens»), in quanto questo dev’essere contento di tutto ciò che avviene, perché nulla avviene contro la volontà di Dio, e deve inoltre rallegrarsi dei beni divini. L’angoscia e il dolore del pentimento non può derivare «a iusti amore vitiique execratione», perché altrimenti sarebbe maggiore nella vita futura nella quale crescerà sempre l’amore di Dio e del bene: ma in essa non vi sarà nessun dolore. Quindi bisognerà pensare che il dolore e i tormenti del pentimento derivino «ex quodam naturae ingenito desiderio,... ex felle multo magis perfunctorum, ac praesentium malorum asperitate», e forse anche dalla «perversitate opinionum, quae in optimi cuiusque mentem facile irrepserit». E di conseguenza il pentimento è inutile: et in praesentia nobis, quantenus sumus illo divino spiritu, illa beata ac sempiterna luce donati, accensi atque infiammati, moeror omnis aberit eorum, quae sine magno Dei consilio et nutu haudquaquam praeteriere.

Come può l’uomo «novus, internus, spiritualis» addolorarsi per le cose che vede chiaramente «accidisse ex permittente saltem, ut vocant, Dei voluntate, cuius irreprehensis, quamvis mcomprehensis iudiciis cunctis, ut divino iure postulatur, ita libenter subscribit nunc et in perpetuum»? Alla obiezione che anche il tormento di chi si pente è voluto da Dio, il Sozzini risponde: bisogna prima dimostrare che Dio voglia parte illa mentis altissima, qua sibi nos altissime copulat, electos tristari ob ea, quae iuxta aeterna immutabilique dispensatione ad sui nominis celebratione destinata ostendit ubique et efficacíssime intus persuadet.

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In sostanza l’opinione del Sozzini era che, intanto che si è nel peccato, immersi nelle azioni cattive, non c’è pentimento, e che quando si è cambiato animo e mente, non ci si può addolorare di esse, perché si riconosce la loro necessità nell’ordine divino. L’obbligo della penitenza è dunque una superstizione, il dolore del pentimento deriva da un errore, o da un istinto naturale di rammarico per il male avvenuto? Il Gwalther, nel presentargli la propria soluzione delle questioni proposte (la definizione stessa della penitenza implica il tormentoso dolore del pentimento, il peccato è per natura contro la volontà di Dio, e contribuisce alla gloria divina contro la propria natura, quindi non si può dire che sia da Dio approvato), si meraviglia che l’amico sia tanto perplesso su cose «quae Evangelicae doctrinae rudimenta sunt», e che si lasci prendere dalla perversità della ragione «carnale e umana», «quae in re plana et facili Labyrinthos inextricabiles sibi ipsi fabricare solet», e lo ammonisce a seguire la semplicità della scrittura, piuttosto che investigare «humanae philosophiae inextricabiles griphos», concludendo, pietisticamente: «Poenitentiam agere passim nos iubet Dominus, non de illa subtiliter et argute disputare»432 . Si noti che il Sozzini ha usato il termine greco e non s’è mai servito di quello latino di «poenitentia», lasciando ambiguo il concetto, senza distinguere fra penitenza e pentimento. Il fatto esteriore della penitenza, esteriore anche se semplificato e compiuto in solitudine non presenta alcun valore per il giovane senese: quel che gli interessa è l’atto del pentimento, il doge del rimorso. E ha visto acutamente che non si può fare del rimorso e del pentimento un «officium», ma che si tratta di un fenomeno umano e naturale e che quando ci si indugia in esso invece di allietarsi della nuova vita e in essa perseverare, si trat432

Ibid., pp. 454-58.

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ta di errore e pregiudizio. Certo nel Sozzini prevale atteggiamento teorico, contemplativo, che riconosce le ragioni e le condizioni di ciò che si è fatto, e non fa luogo a tormentosi pensieri di rimorso. Ma anche in questa posizione e nera formulazione teologica egli portava un vivo senso della inutilità delle codificazioni della vita spirituale e della identità fra volontà buona, vera volontà, e volontà divina, «Provvidenza». Il concetto coerente ch’egli si fa della assolutezza divina gli permette di andare al di là della concezione mitologica e personale della teologia corrente, per la quale si poteva distinguere fra il Dio che permette il male, e quello che vuole il bene. Certo, tutti questi dubbi e queste riflessioni non provenivano da un sistema filosofico, ma da una diretta esperienza di vita interiore, sorvegliata da una mente naturalmente incline alla critica e al dubbio.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

Gli eretici italiani e la critica al calvinismo. Gli italiani e il processo del Serveto.

In territorio bernese viveva un altro amico del Curione e di Lelio Sozzini, dividendo il suo tempo fra Padova, dove insegnava, e la Svizzera. Il famoso giureconsulto Matteo Gribaldi Mofa infatti passava le sue vacanze a Farges, di dove, come dice il Ruffini, «egli soleva fare apparizioni frequenti a Basilea, a Zurigo e, come era naturale, soprattutto nella vicinissima Ginevra»433 . Per la sua posizione, imparentato com’era con l’alta nobiltà piemontese, professore all’Università di Padova, egli aveva molte relazioni, e sembra conoscesse anche Calvino, al quale presentava il Vergerio nel 1549434 . Qui c’interessa che il suo nome ricorre fra i partecipanti ai «Collegia Vicentina» del 1546, e che egli era in rapporti non solo col Curione, ma anche con Lelio Sozzini: la sua interpretazione del caso dello Spiera, identica a quella di Giorgio Siculo, mostra all’evidenza che questi rapporti non erano di semplice amicizia, ma erano fondati anche su una comunanza di idee religiose. A Berna, centro soprattutto politico, non c’era nessuna grande personalità che potesse attirare questi italiani della tendenza radicale, benché una certa tolleranza nel governo della chiesa potesse in seguito indurre a qualche speranza, presto frustrata. Inoltre la scarsità di scuole e di tipografie e in genere di una vita intellettuale rendeva difficile trovar possibilità di lavoro e di sostentamento per gli italiani. Ruffini, M. Gribaldi Mofa cit, p. 22. Comba, Spiera cit, p. 86, rileva l’analogia fra il Gribaldi e il Siculo, ma ritiene questi «arrabbiato cattolico». 433 434

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A Ginevra, anche prima che il caso del Serveto mostrasse chiaramente che un gruppo eretico non avrebbe potuto vivervi a lungo, e che il caso del Biandrata non confermasse questa impossibilità, il trattamento subíto del Castellione435 doveva esser bastato per mettere sull’avviso gli umanisti, come la posizione generale di Calvino era inequivocabile nei riguardi degli anabattisti. La fama di larga ospitalità, il prestigio di città libera, che doveva esser particolarmente sensibile per tanti italiani, come ad esempio pei Lucchesi, non erano certo accompagnate da fama di tolleranza, che potesse attirare gli eretici, in cerca soprattutto di possibilità di vivere secondo le proprie convinzioni e di proseguire quelle discussioni che l’Inquisizione proibiva in Italia. Usciti dal proprio paese per sfuggire alla pressione esercitata dall’autorità ecclesiastica sulla vita intellettuale e religiosa, avevano cercato in Isvizzera non tanto una nuova Chiesa e una nuova patria come il Caracciolo, come il Martinengo, il Vermigli, e tanti altri della chiesa italiana di Ginevra o della comunità «locarnese» di Zurigo, quanto quella «libertà» generale e non condizionata, soprattutto intellettuale, che era venuta a mancare in Italia: di vivere secondo le dottrine anabattistiche, di esercitare la critica su qualunque argomento, anche dei piú sacri, obbedendo solo alle leggi della coerenza mentale e della verità. Ma oltre le dispute teologiche fra luterani e zwingliani, e la possibilità di seguire i nuovi culti e le nuove dottrine, non avevano trovato quella libertà che cercavano, di elaborare la propria tendenza: si erano trovati entro nuove chiese con una loro disciplina, con una loro autorità ecclesiastica, che per esser differenti da quelle lasciate nel dominio dell’«Anticristo» non erano meno severe e meno decise nella tutela dei loro dogmi, anche di quelli 435 Buisson, Sébastien Castellion cit, I, pp. 180 sgg.; ma cfr. Carew Hunt, Calvino cit, pp. 157-58.

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che rimanevano in comune con la tradizione «romana», e nella difesa della compattezza della propria organizzazione. In questo primo periodo, sembra che questi italiani della tendenza radicale possano trovare in qualche modo quel che cercano: il Renato urta nei Grigioni contro la resistenza di un altro italiano, ma può continuare a vivere e ad operare in quelle regioni, ammaestrato dall’esperienza a procedere cautamente e celatamente. Il Curione a Losanna, poi a Basilea, Lelio Sozzini a Zurigo sono accolti con onore, per la fama personale l’uno, per quella della famiglia l’altro, per quel rispetto e per quell’ammirazione che presso gli umanisti godevano in quel tempo gli italiani: e a questo si dovevano aggiungere grandi speranze degli svizzeri, specialmente dei Zurighesi, di poter propagare in Italia la loro dottrina436 . Quando piú tardi gli italiani della tendenza radicale, gli eretici, verranno allontanati dalla Svizzera pei perturbamenti provocati negli animi dalle loro discussioni, e si dirà che colpa di tutto ciò era stata la troppo benevola accoglienza e il troppo onore reso agli italiani, quest’affermazione verrà intesa come accusa fatta al capo della chiesa zurighese, il Bullinger, gran protettore di italiani. Da principio, questi uomini continuano la loro attività senza prendere un vero e proprio contatto col nuovo ambiente nel quale sono entrati: Lelio Sozzini propone a Calvino i problemi di coscienza dei riformati italiani: non quelli dei nobili e ricchi, che potevano emigrare, o attraverso amicizie e relazioni sfuggire, almeno per qualche tempo, ai rigori dell’Inquisizione, e non quelli degli spiriti più ardenti, disposti al martirio e perciò senza problemi di questo genere; ma della moltitudine di coloro che non potevano abbandonare le proprie occupazioni, e ai quali manca436 Schulthess-Rechberg, Bullinger cit., p. 68 anche per quanto segue.

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va la forza di affrontare le pene degli eretici impenitenti. Mancavano le possibilità di creare nuove organizzazioni religiose, nuove chiese corrispondenti alle nuove dottrine: non solo perché mancava il sostegno politico a queste nuove organizzazioni, scomparse o sulla via di scomparire le piccole repubbliche conservatrici, mal disposti i principi e Venezia ad accrescere le difficoltà della loro situazione politica inimicandosi la Santa Sede, l’Impero e, secondo i momenti, la Francia, col proteggere non solo individui, ma nuove comunità; ma anche per il diffondersi rapido, per l’influenza di idee spagnuole e per la diffusione di dottrine anabattistiche, di un forte radicalismo, che distoglieva l’animo dei politici dalle eventuali simpatie per il protestantesimo, rivelantesi qui sovversivo e non atto come altrove a rafforzare lo Stato, fosse il regno d’Inghilterra, Stato cittadino, o principato territoriale. Cosí gli animi dei riformati italiani ripiegavano verso il segreto, nel quale si poté creare l’organizzazione anabattistica, ma che costringeva alla dissimulazione, all’acquiescenza esteriore, alle aborrite cerimonie, a un susseguirsi continuo di adattamenti, che ad uomini come il Calvino sembravano, e altro non potevano sembrare, ipocrisia. Forse il Sozzini pensava che altrettanti adattamenti e altrettanti sforzi di interpretazione erano necessari in terra protestante, forse desiderava dal capo della chiesa ginevrina una specie di approvazione, dove questi poteva concedere tutt’al piú perdono e compassione. Quel che interessa qui è che il modo di procedere di Lelio ce lo mostra preoccupato di questioni derivanti dalla situazione del movimento protestante in Italia, tanto riguardo al comportamento morale e alle dottrine pratiche, quanto per i problemi generali e teorici. Non si preoccupava tanto di propagare le dottrine riformate attraverso traduzioni o scritti propri, quanto di trovare la possibilità di far continuare la vita della tendenza radicale, anabattistica, e di ottenere una giustificazio-

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ne al sistema di compromessi che questo richiedeva. Cosí anche il Curione da principio continua la sua attività di umanista, fondendo misticismo neoplatonico e spiritualismo anabattistico, monoteismo filosofico e motivi di stoicismo eclettico ciceroniano; e si disinteressa delle polemiche fra zurighesi e luterani per la questione sacramentaria, preoccupato piú di elaborare il proprio pensiero che di partecipare alla vita dottrinale del nuovo mondo nel quale era stato accolto con tanto onore. Cosí l’Ochino, il quale sembrava al Calvino piú adatto a propagare genericamente la riforma nelle sue idee elementari fra gli italiani, che a partecipare direttamente alla vita religiosa ed ecclesiastica di Ginevra: Je vous prye me tenir excusé si je ne vous mande encor mon jugement de la translation des sermons de Messire Bernardin, Je vous puis bien dire un mot à l’oreille, qu’ils sont plus utiles en italien qu’en autres languages, n’estait que le nom de l’homme sert; et puis il y a une telle diversité d’esprit qu’il n’est pas mauvais de tâcher à en amener aulcuns par ce moyen...437 .

Ma, lentamente, gli emigrati cominciavano a partecipare alla vita del nuovo ambiente, ad arricchire le loro esperienze con la conoscenza di spiriti affini delle altre parti d’Europa, non colti e sovraccarichi di dottrina filosofica, né pieni di spirito critico come loro, ma, quel che piú contava, animati dallo stesso ideale di vita religiosa interiore, dalla stessa tendenza al distacco radicale dalla tradizione, dalla stessa indifferenza per le istituzioni e per le cerimonie come per le dottrine teologiche particolari, dallo stesso misticismo spiritualistico, dallo stesso solidarismo religioso, accresciuto di vigore per la comune situazione di perseguitati, di esuli, di sospettati. Si può pensare che Lelio Sozzini entrasse fin da principio in 437 Calvino a M. de Falais, mar. 1546, O. C. XII, C. R 40, n. 784, col. 322.

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rapporto con gli anabattisti che a Zurigo erano piú tollerati che altrove, e presso uno dei quali avrebbe terminato la sua vita; il Curione diviene amico del Castellione, del Joris; l’Ochino discute con lo Schwenckfeld. Allo stesso tempo, per disposizione naturale ma anche per necessità, gli italiani prendono parte alle dispute dottrinali che da principio erano state meno interessanti per loro: per necessità, perché l’avviamento del mondo riformato alla unità dottrinale e alla sistemazione sotto l’influenza di Calvino, con le conseguenze di organizzazione autoritaria e di severa disciplina ecclesiastica che l’accompagnavano era pericoloso per la loro tendenza, per le loro aspirazioni alla indipendenza nelle formulazioni del pensiero religioso, e per le possibilità di elaborazione in senso radicale della vita cristiana e con essa di tutta la vita sociale. Cosí tanto il Curione che Lelio Sozzini prendono parte alla discussione del «Consensus Tigurinus», che fu una vittoria di Calvino, e che tanto il Curione che il Sozzini vorrebbero ancor piú zwingliano che il Bullinger non abbia saputo mantenerlo; al quale proposito va notato che il Catione si manifesta a questo proposito contrario alla tendenza prevalente a Basilea per influsso del Miconio, che trovava troppo zwingliano l’accordo. Quegli italiani, propensi a ridurre la riforma alla dottrina della giustificazione per la fede intesa in senso spirituale e soggettivo come aveva fatto il Valdés, al distacco radicale se pur soltanto interiore dalla Chiesa romana, e a un’estrema semplificazione dogmatica, e scarsamente interessati alla questione sacramentaria perché insomma per essi, in certo senso, essa era superata, cominciano ora a sentire che anche per sé e per quel mondo di anabattisti che dietro a loro confusamente s’intravvede, la questione sacramentaria può avere importanza decisiva. Non ci si può piú accontentare di sottoscrivere una confessione di fede per poi interpretarla a modo proprio, come faceva il Renato: poiché la dottrina, at-

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traverso l’influenza di Calvino, si va formulando sempre piú fermamente e decisamente, cosí da non offrire il destro a dubbi, questioni, interpretazioni. E si va formulando in senso opposto a quello soggettivistico degli eretici italiani, cosicché non solo le forme generali ma anche i contenuti specifici delle organizzazioni e delle dottrine riformate, entro le quali vedevano doversi svolgere la loro vita, si allontanano sempre piú dai loro ideali. Non si hanno testimonianze esplicite dell’esistenza di una vera e propria organizzazione, sul tipo di quella degli anabattisti del Veneto, che riunisse fra loro il Renato, il Sozzini, il Curione e i loro amici. Ma il fatto che non solo sempre qualcuno di essi venga ricordato fra i partecipanti alle riunioni vicentine e poi al «concilio» veneziano del 1551, ma si trovino riuniti anche in vari processi, per le loro dottrine e la concordanza delle loro dottrine e di molte loro azioni, ci inducono a ritenere non troppo azzardata la congettura che vi fossero contatti continuati e regolari, fra di essi, e fra il loro gruppo e gruppi di anabattisti italiani o svizzeri nei Grigioni o altrove: le relazioni del Curione e del Sozzini coi Grigioni non si limitano all’amicizia con Camillo Renato, e i rapporti con David Joris non debbono essere rimasti un episodio isolato. Tanto vale anche per l’Ochino, benché a questo momento per lui si possa parlare solo di rapporti con lo Schwenckfeld, e di discussioni con qualche anabattista. Era tutta un’attività di polemica e di discussione, a volte rivestita delle forme dell’interrogazione e della richiesta di chiarimenti, altre volte di quelle della difesa della tradizione zwingliana, di discussione e di critica clandestina, accanto a quella semipalese di discussione confidenziale coi capi della Riforma svizzera, condotta da Lelio Sozzini, dal Curione, poi dal Biandrata; un’attività che non potrà mai esser conosciuta nei particolari, e probabilmente rimarrà sempre avvolta in quell’ombra nella quale dovette nascere. Ad ogni modo, le noti-

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zie che possediamo e le dottrine che vedremo sorgere in questo ambiente, ci permettono di servirci di questa ipotesi, che è anche convalidata dalla storia degli altri movimenti ereticali del Cinquecento, coi quali abbiam visto fin d’ora in contatto quello italiano, e dalla presenza del «nicodemismo», sia pure ancor non meglio definita. Era il mondo sotterraneo degli anabattisti, degli «spirituali», dei gruppi o delle sètte religiose che nel bel mezzo del Rinascimento e mentre la Riforma stava consolidandosi cercavano di rinnovare il primitivo cristianesimo, inteso radicalmente e prammatisticamente; la cui vita non può esser studiata che per indizi, per lo piú sui documenti che ce ne han lasciato i nemici, i tutori delle chiese dominanti, associate agli Stati; processi, narrazioni «ad deterrendum», confutazioni. I documenti diretti che ci rimangono debbono, altro argomento di esitazione per lo studioso, esser studiati come gli autori li pensavano e li volevano letti: calcolando le implicazioni, negative e positive, le esclusioni, le omissioni, gli accenni simbolici, il dire «la falsità mai mai, la verità non ad ogni uno»438 del Sarpi. In certi momenti però quel mondo sotterraneo, scosso da qualche avvenimento che mostrava trionfante lo spirito dell’«Anticristo» anche dove questo veniva «a parole» abborrito, o spinto dalla necessità, cominciava a fermentare, a muoversi, anche senza giungere ormai piú alle manifestazioni violente di Münster o di Zwickau. Ne sorgeva qualche solenne e aperta manifestazione, qualche dichiarata protesta dello «spirito» contro la «carne». Quegli uomini cercavano di far valere i loro principi, e insieme di creare con quelle proteste una atmosfera che rendesse loro possibile continuare nella loro lenta e raccolta opera di riforma interiore e di educazione intellettuale, senza dover esser costretti a riprender di nuovo la via 438

Lettere ai Protestanti, ed. Busnelli, Bari 1932, II, p. 123.

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dell’esilio, in cerca di possibilità di vita, in senso materiale come in senso religioso e morale. La dura violenza della repressione contro gli anabattisti, contro i sociniani, contro le manifestazioni aperte degli «spirituali», poi contro i quaccheri e i «levellers», insomma contro ogni forma di vita religiosa che non rientrasse nel quadro delle organizzazioni ecclesiastiche riconosciute e tutelate dagli Stati, ci avverte dell’importanza di coloro che venivano disprezzati come «nebulones», ma perseguitati inesorabilmente, perché temuti. Timore giustificato, che spiega la persecuzione, poiché lo spirito critico di quegli eretici, adoprandosi alla eversione delle dottrine dell’«Anticristo», metteva in pericolo la ricostruzione della società cristiana che i riformatori si proponevano; perché il loro misticismo della rinascita in uno stato di perfezione e il loro sforzo di costituire piccole società di «perfetti» contenevano motivi analoghi a quelli degli ordini religiosi della tradizione, che i riformatori tanto avversavano; e cosí gli innovatori radicali finivano per identificarsi, nella loro anarchia, coi difensori del vecchio ordine, e la loro formale libertà rivelava piú grave schiavitú. La mentalità che essi diffondevano, di ricerca indipendente, offendeva i corpi ufficiali monopolizzatori degli studi, intimoriva i predicatori ortodossi, custodi politicamente autorizzati della parola divina, ed era realmente pericolosa alla affermazione delle idee e delle esigenze politiche e sociali della Riforma, non tanto per se stessa, quanto per il contenuto che essa tendeva a prendere, di critica ai dogmi piú sacri della tradizione cristiana, di negazione e critica di quegli elementi della religiosità e della fede cristiana che si manifestavano nell’atteggiamento reverenziale di fronte a misteri come quello della Santa Trinità. La negazione di questi e degli altri principi fondamentali della dottrina negava le fondamenta stesse della società cristiana, riduceva il Cristianesimo a una religione fra le altre, identico al Maomet-

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tanesimo e all’Ebraismo; o, per lo meno, già al proporre dei dubbi, si vedeva in essa il pericolo di un ritorno a quello scetticismo e a quel fatalismo che era tanto diffuso in Italia e al quale specialmente Calvino guardava con tanta collera, come s’è visto pel caso dello Spiera. Se vogliamo parlare di rivoluzione a proposito della Riforma protestante, questo scetticismo con le sue manifestazioni, rappresentava il fenomeno piú pericoloso per la rivoluzione; e il radicalismo di quegli uomini, spianando la via alla acquiescenza per i rappresentanti della tradizione, non solo attraverso lo scetticismo razionalistico derivante dalla critica a credenze venerande e dall’affermazione della supremazia della ragione anche in questioni di religione, ma anche attraverso quello scetticismo ben piú pericoloso e insidioso che svaluta le conquiste della realtà alla luce illusoria di un ideale perfetto ed irraggiungibile, in base ad una utopia, si dimostrava oggettivamente reazionario. Tuttavia le utopie hanno la loro funzione storica, nei momenti delle grandi trasformazioni e dei rivolgimenti profondi: in questo caso, le proteste della tendenza radicale o «eretica» in senso piú stretto, contro l’azione di uomini come Calvino, rimanevano senza efficacia, in quanto non riuscivano a ottenere trasformazioni istituzionali entro le organizzazioni ecclesiastiche, né attenuazioni alla legislazione civile in proprio favore, e neppure cambiamenti favorevoli dell’atteggiamento generale delle autorità nei loro riguardi: ma di fronte alla accentuazione, spesso unilaterale, della necessità di conservare per non mettere in pericolo l’opera appena iniziata, esse facevano valere la purezza del motivo originario della riforma stessa. Nel 1554 questi due atteggiamenti opposti si scontrano con grande violenza, e si mostrano lontani l’uno dall’altro portando all’estremo la loro opposizione, tanto che è facile dimenticare come tale opposizione fosse

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in realtà apparente, e celasse una fondamentale complementarità dei due atteggiamenti. Quest’anno segna anche l’inizio di un nuovo periodo della emigrazione italiana, per quanto riguarda il gruppo degli eretici, i quali si trovano d’ora in poi in una nuova situazione, e accanto alla elaborazione delle loro dottrine particolari, sullo spirito e l’ispirazione divina, sulla Trinità e l’importanza della ragione nella comprensione della vita cristiana, sui Sacramenti, e via dicendo, propongono quella dottrina della tolleranza religiosa che tanta parte ha avuto nella storia del pensiero politico europeo nei due secoli seguenti, e che li ha resi piú comunemente famosi. Nell’autunno del 1553 Calvino aveva fatto giustiziare a Ginevra il famoso Michele Serveto, i cui pensieri avevano avuto una pur notevole efficacia sugli italiani. Il capo d’accusa principale era la critica al dogma trinitario contenuta nell’ultimo libro del Serveto, uscito nel 1553, a piú di vent’anni di distanza dalle operette che abbiam veduto segnalate al Senato Veneto, e dopo una varia attività di medico e di editore e commentatore di testi biblici, astronomici e medici439 . È vero che il rogo del Serveto riscosse l’approvazione dei maggiori uomini della Riforma, di quanti avevano il sentimento della responsabilità, e che con esso, e con le misure disciplinari analoghe che lo precedettero e accompagnarono, il riformatore di Ginevra aveva fatto saldo argine contro l’«insorgente pericolo dell’anarchia delle opinioni, che faceva temere la perdita di quanto si era acquistato, il dissolvimento della Riforma stessa e una reazione che avrebbe ricondotto a piú pesante idolatria»440 . Ma, dall’altra parte, tanto il fatto che si condannasse a morte una persona soltanto per avere maniCarew Hunt, Calvino cit., pp. 194 sgg. Croce, Il Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo cit., in Vite di avventure, di fede e di passione cit., pp. 208-9. 439

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festato un pensiero differente da quello della maggioranza dei capi, quanto la qualità dell’accusa, discussione e rifiuto del dogma trinitario tradizionale, quanto infine le circostanze, – la perseveranza del Calvino nel perseguitare l’eretico, le insidie tese a questi, solo e vivente sotto nome fittizio in terra cattolica, dal capo temuto e venerato della chiesa ginevrina, il quale non si peritò di far comunicare lettere compromettenti del Serveto al vescovo cattolico di Vienne, facendolo denunciare a questi con una vera e propria delazione, né di negare pubblicamente quel che egli aveva fatto –, tutti questi fatti dovevano scuotere quegli esuli per ardore di ricerca ed esigenza di rinnovamento, gli oppressi politicamente per le loro opinioni religiose: e anche dovettero sembrare ad essi cose tanto enormi da dovere e potere essere criticate e giudicate pubblicamente e apertamente, per indurre a meditazione chi credesse veramente nei valori della vita spirituale, come allora si atteggiava nell’animo dei piú: della vita religiosa, della vita cristiana. Si può dire che l’opinione media degli ambienti riformati fosse vicina a quella espressa dal Vergerio: «Terruit me tragedia Servetana. Nam singulis horis experior non posse quemquam unum verbum de illa dicere, quin commoveat multorum animos...» I cattolici accusano i riformati d’aver prodotto uomini come il Serveto, i riformati si vergognano di tutto l’accaduto: «in summa sub specie reformandarum ecclesiarum deformantur et concutiuntur fundamenta»441 . Il pensiero del Vergerio non è molto chiaro: oltre che al pericolo delle dottrine radicali, egli sembra riferirsi anche al pericolo del richiamare l’attenzione su di esse con avvenimenti cosí clamorosi. Certo il procedimento della Inquisizione, che oltre a sopprimere gli eretici tendeva a fare il silenzio attorno ad essi e al441 Vergerio al Bullinger, da Coira, 8 ottobre 1553 (Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, pp. 329. sgg.).

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le loro dottrine quando le sembrassero particolarmente gravi, era differente da quello clamoroso di Calvino. Il Vergerio poi approva il Bullinger di non avere consigliato esplicitamente la morte per il Serveto; egli, il Vergerio, per conto proprio non approva la condanna a morte degli eretici. Certo, questa opinione non è di un «responsabile», ma pur sempre di una persona che pensava politicamente, e che conosceva bene la situazione: e, a parte la questione della condanna a morte, è altrettanto avversa al Serveto e altrettanto consapevole dei pericoli della sua dottrina per la Riforma protestante, quanto quella dei capi delle chiese protestanti stesse. Oltre gli italiani di Ginevra e di Basilea, protestarono anche quelli della Rezia e quelli rimasti in patria, dai quali probabilmente venivano quei versi in favore del Serveto che il Curione era tanto preoccupato e timoroso potessero venirgli attribuiti442 . Il Vergerio faceva sapere al Bullinger, ancora prima della condanna, che nei Grigioni molti ne portavano notizia a voce, molti ne scrivevano. E anche personaggi di fama, come il Gribaldi, e come un altro italiano «non parvi in re literaria nominis», nel dare le notizie sul processo e poi sulla condanna dello spagnolo, si mostravano a lui favorevoli: non solo per spirito di tolleranza, o di generica umanità non meglio concretata come il Vergerio, ma anche per consenso alle dottrine del condannato. Molti erano i fautori dell’eretico, e anche persone che volevano sembrare colonne della chiesa riformata. Certo, erano esuli, eretici essi stessi, in quella penombra ambigua nella quale costringeva a vivere la persecuzione delle autorità, e che non conferiva certo ai silenziosi lavoratori e seminatori che in essa si raccoglievano, il prestigio di attori di primo piano e di spiriti eroici. Ma, quel che era piú grave, questi esuli italiani non 442 Curione al Bullinger, da Basilea, gennaio 1554, O. C. XV, n. 1938, coll. 101 sgg.

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rappresentavano una forza attiva, come gli esuli francesi, come quelli inglesi, che proprio in quegli anni affluivano più numerosi in terra riformata: dietro di essi non stava una «Italia reformata» dove la forza della fede si manifestasse attivamente, completando l’attività degli emigrati, e rimanendo in contatto con loro. Nella stessa lettera del Vergerio che abbiamo citato sulle conseguenze del processo del Serveto, il vescovo propagandista definisce cosí la situazione in Italia: Mea Italia trepidat ubi non est timor. Sic res est: si cerneres timiditatem eius in causa Evangelii, quam se retrahit, quam dissimulat, quam rogat exules ne ad eam scribant, diceres cotidie centum comburi, et non est ita ne unus quidem, tametsi levis quaedam persecutio paucis in locis oborta sit. Diabolus immittit pavores, diabolus suscitat haereses et Servetos...

Anche facendo la debita parte all’enfasi retorica del Vergerio, che era un dissimulatore e una mente piú politica che religiosa, questo giudizio corrisponde pure, generalmente, alla situazione italiana e al modo di procedere della massima parte dei seguaci italiani della Riforma: cosicché gli emigrati si trovavano in certo senso soli, a rappresentare i loro ideali e non le esigenze morali e religiose di una Chiesa forte e attiva pur sotto la persecuzione. In questo senso i loro ideali si possono dire «astratti», come ogni posizione radicale, di fronte alla concreta responsabilità politica dei capi della Riforma: ma questo giudizio ci sembra vada integrato con l’altro, che la concretezza di quegli ideali stava nell’esprimere le esigenze di una ristretta comunità di menti elevate, che volevano continuare a tener vive le aspirazioni del Rinascimento alla libera ricerca, all’affermazione dell’individuo e dei valori umani, in quella nuova Europa che aveva visto il Sacco di Roma e l’Assedio di Firenze, e si stava dividendo in campi opposti, che negavano, con un avvenire differente, ma con un effetto immediato identico, i valo-

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ri dell’uomo, della ragione, dell’affermazione individuale. Lo sforzo di questi uomini, portati da coscienza religiosa e da coerenza morale a seguire le dottrine riformate, fu quello, fallito come effetto immediato, di voler far valere il pensiero del Rinascimento e l’esigenza ch’esso rappresentava, entro la religiosità protestante alla quale li attirava soprattutto la speranza di maggiore «libertà» e la maggiore serietà morale: trasportando un pensiero cosí lontano dalla teologia entro la teologia, essi finirono per dissolverla dal l’interno, corrodendo proprio quella teologia nuova che la Riforma aveva prodotto, e preparandone il processo di svolgimento in deismo e illuminismo moralistico. Non solo: ma, uomini, la maggior parte, di cultura, umanisti, essi elaborarono, lentamente, attraverso esitazioni e avvolgimenti, su un piano culturale ed universalmente valevole tutte quelle aspirazioni confuse di rinnovamento generale e radicale che sommuovevano i semplici e gli oscuri, che si agitavano informi nelle masse mentre patrizi, borghesi, principi territoriali, piccola e media nobiltà compivano la loro rivoluzione religiosa. Cosí, nell’atto stesso che gli italiani si mostravano lontani dallo spirito della Riforma protestante proprio mentre affermavano di seguirla, essi affermavano in questo mondo lontano il valore della loro mente, e fecondavano di nuovo la storia del pensiero europeo, di nuovo presenti.

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CAPITOLO SEDICESIMO

Il De haereticis, an sint persequendi; la parte di L. Sozzini ad esso e alle dispute su di esso. La protesta del Renato contro il Beza, e la disillusione degli eretici italiani sulla «libertà di coscienza» in terra protestante. L’illuminato Gian Leone Nardi, e la sua avversione al calvinismo.

Calvino comprese che la incertezza e la inquietudine per quanto era avvenuto erano largamente diffuse, si manifestassero esse come considerazioni sulla clemenza, oppure come dottrina della tolleranza, o dubbi giuridici sulla validità del procedimento seguito. L’approvazione dei capi del protestantesimo era controbilanciata non solo da casi come quello del Colinet, un maestro del collegio di Ginevra dove aveva insegnato il Castellione, che aveva diffuso la prefazione di quest’ultimo alla traduzione della Bibbia, circolante in copie manoscritte ancor prima che il libro fosse pubblicato, e dovette lasciare Ginevra per Basilea; ma dal coro di proteste che partì dagli italiani e dal gruppo basileese443 . E per chiarire la propria posizione, su consiglio del Bullinger, che forse aveva maggiore sensibilità per la opposizione umanistica, pubblicò gli atti del processo, facendoli seguire da una dissertazione sulla necessità, in generale, di punire l’eresia, e in particolare di porre a morte eretici così pericolosi come il Serveto (Defensio Orthodoxae fidei, del gennaio 1554)444 . È una delle manifestazioni piú perentorie della ferma convinzione nutrita da Calvino, d’essere depositario di una verità fondata non su autorità umane, ma sulla Carew Hunt Calvino cit., pp. 217 sgg. O. C. VIII (C. R, 36), coll. 453-644. A col. 461 viene posto il problema: An Christianis iudicibus haereticos punire liceat. 443

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espressa parola divina. L’eresia, specie in una forma cosí esplicita ed ostinata, è vera e propria apostasia; tollerarla significherebbe ammettere implicitamente in essa una possibilità di giustezza e di veracità, il che è inconcepibile, poiché l’eresia è menzogna ed errore per se stessa, ed equivarrebbe a sovvertire le basi stesse della religione, togliendo ogni fondamento alla certezza religiosa. Dunque la sicurezza della religione e l’onor di Dio, che fanno tutt’uno, esigono che l’eresia sia punita, e sia punita radicalmente, da quel male radicale che è: con la spada che è in mano dei sovrani e dei magistrati. Il parallelo con la prassi della Chiesa cattolica, che la controversia protestante assumeva come tipo dell’irreligione e del male per eccellenza, non poteva valere per Calvino: perché quella perseguitava la verità, quella stessa verità che era corrosa e negata dagli eretici, e solo per questo la sua prassi era condannabile: la Chiesa Romana era dunque nell’errore secondo Calvino, solo quanto al giudizio sulla qualità di eretici attribuita ai protestanti, non quanto alla dottrina che gli eretici debbano essere condotti a morte. Le ammonizioni e le parabole evangeliche non possono essere intese in modo da sovvertire la vita civile e politica. La proibizione della spada, che Gesú fece a Pietro riguarda i ministri della parola divina, non i magistrati. È assurdo punire le offese alla proprietà e non quelle all’onore di Dio445 . Gli eretici devono essere considerati alla stregua dei falsi profeti che volevano ricondurre alla idolatria il popolo eletto, contro i quali il Deuteronomio ha parole durissime: «non compiacergli, e non ascoltarlo, l’occhio tuo eziandio non gli perdoni, e non risparmiarlo, e non celarlo; anzi del tutto uccidilo; sia la tua mano la prima sopra lui, per farlo morire, e poi la mano di tutto il popolo...»446 . 445 446

Ibid., col. 468 e specialm. 474. Deuter., trad. Diodati, 13, 8, 9.

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Certo, l’adattamento dei testi evangelici a questo motivo fondamentale non persuadeva troppo neppure gli amici e sostenitori di Calvino; d’altra parte egli aveva ammesso che si potessero tollerare dissensi di dottrina, ma nel testo della Defensio parlava di bestemmie, mentre gli atti del processo nominavano soltanto l’eresia447 . Inoltre la giustificazione dottrinale della necessità religiosa di uccidere gli eretici aveva portato la questione dal piano della politica ecclesiastica dove l’azione di Calvino poteva essere approvata, su quello della teoria morale e religiosa. Cosí il terreno era preparato alla revisione dei problemi vertenti sulla essenza stessa della dottrina religiosa protestante; Calvino la vedeva determinata nella Scrittura, mentre il Castellione e il gruppo di Basilea si appellavano alla ispirazione, che parla direttamente al cuore dell’uomo. Questo problema, insieme a quello della tolleranza, viene affrontato in un’operetta anonima, uscita a Basilea nella primavera del 1554: il famoso De haereticis an sint persequendi, et omnino quomodo sit cum eis agendum, doctorum virorum tum veterum, tum recentiorum sententiae. Libretto strano e interessante nella sua forma antologica, che doveva suscitare una controversia aspra e complessa ma molto feconda per la storia della tolleranza religiosa e dell’idea di «umanità» nella vita intellettuale e nel pensiero politico europeo. Lo svolgimento di questa controversia è stato tracciato dal Buisson, dal Giran e dal Bainton448 , che hanno raccolto molto materiale e hanCarew Hunt, Calvino cit., p. 218. Buisson, Sébastien Castellion cit., I, pp. 335 sgg.; II, p. 1 sgg.; E. Giran, Sébastien Castellion, Haarlem 1913, pp. 208 sgg.; R. H. Bainton Concerning Haeretics, Whether they are to be persecuted and how they are to be treated..., New York 1935 (Records of civilisation, XII) contenente la traduzione inglese 447 448

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no dato molti particolari, soffermandosi soprattutto sulla personalità e sul pensiero del Castellione, il principale ideatore e collaboratore della raccolta, mentre l’importanza storica generale e gli sviluppi ne sono stati messi in rilievo dal Ruffini449 . La parte avuta dai vari collaboratori nell’opera di compilazione e di edizione di questa silloge di passi di vari autori che vanno dall’età patristica al Curione e al Castellione stessi, con l’aggiunta di due scritti pseudonimi e uno anonimo, è incerta. Anche l’autore della raccolta si cela sotto l’anonimo. Non si sa dunque in qual misura, ma riman fermo che alla impresa, oltre al tipografo alsaziano Oporino, hanno partecipato il Curione e il Sozzini. La parte piú importante spetta certamente al Castellione; forse Lelio Sozzini ha fornito materiali e suggerito l’idea della raccolta antologica, egli che come eredità ha lasciato al nipote piú che scritti veri e propri raccolte di testi e di appunti, una specie di zibaldone450 . Gli

del De Haereticis, con introduzione ricchissima di notizie, e appendici. 449 F. Ruffini, La libertà religiosa, vol. I: Storia dell’idea, Torino 1901, pp. 68 sgg. e negli altri scritti che abbiamo citato e verremo via via citando. 450 Cfr. D. Cantimori, Gli ultimi anni e gli ultimi scritti di Lelio Sozzini, in «Religio», XII (1936), e quanto al proposito dice il Bainton, New Documents on Early Protestant Rationalism, in «Church History» VII (1938), p. 185 {; ivi, IX (1940), il Bainton annuncia l’importante scoperta di B. Becker, della quale fu data notizia per la prima volta nella rivista «L’Esprit et la Vie» diretta da E. Giran, il noto studioso del Curione. Si tratta della risposta al De Haereticis di Beza del 1554. Come osserva giustamente il Bainton, il titolo della nuova opera del Castellione permette di identificare nel Castellione, definitivamente, anche lo pseudonimo «Basilius Montfortis», dimostrando definitivamente che l’operetta è dovuta esclusivamente al Castellione stesso, come il Bainton aveva già sostenuto nella cit. intro-

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argomenti sono di ogni genere, e si assommano in quelli che abbiamo rilevato piú sopra, dell’ignoranza umana e dell’«umanità»: la consapevolezza della prima deve impedire che si uccidano altri uomini in nome di una verità di cui non si è sicuri, la seconda deve indurre a porre in opera la vera virtú cristiana, l’amore del prossimo, anche verso gli eretici, e ad escludere o l’intervento delle autorità o «poteri» politici nella vita spirituale, alla quale si riduce per essi tutta la vita religiosa. I profeti disarmati negavano alle armi il diritto di decidere nel campo dello spirito, lasciando loro il campo della politica. Cosí, con la loro affermazione dell’autonomia della spontanea vita religiosa e intellettuale di fronte ad ogni forma d’istituzione e di organizzazione, cioè di politica, anche se ecclesiastica, quegli esuli completavano negativamente la scoperta machiavellica dell’autonomia della vita politica. Ma questa riduzione della vita religiosa a vita spirituale e la eliminazione da essa di ogni elemento politico non poteva compiersi e verificarsi che nell’animo di pochi ispirati o nella mente di qualche umanista, poiché la funzione politica della Chiesa non era ancora affatto esaurita. E l’ironia contro i profeti disarmati implicava il desiderio di profeti armati. Questo è il senso della risposta del Beza al libretto del gruppo basileese; il discepolo di Calvino denuncia come empia e sacrilega l’affermazione che i dogmi e il dogmatismo non sono necessari alla religione, e dalla necessità dei dogmi per la conservazione della Chiesa deduce la triplice conseguenza che punire gli eretici è necessario, che questa punizione spetta al magistrato cristiano, e che si deve anche giungere alla pena di morte. La semplice scomunica non basta, perduzione alla sua edizione del De Haereticis an sint persequendi. Quindi, quanto è detto sopra va inteso nel senso di una ipotetica collaborazione di consigli, osservazioni ecc. da parte del Curione e di Lelio}.

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ché gli eretici sono pervicaci. E la pena di morte è necessaria, perché l’eresia è il peggior delitto che ci possa essere. Il magistrato cristiano deve assumere carico di condannare e fare giustiziare gli eretici, perché il suo dovere è quello di assicurare l’adempimento del fine supremo pel quale è costituita l’umana società: cioè che a Dio sia resa la dovuta gloria, il che non potrà mai essere fatto come si deve se non vengono soppressi coloro che per ostinazione mettono in pericolo la vera dottrina e con essa la Chiesa451 . Di qui doveva poi svolgersi la controversia sulla possibilità d’una magistratura cristiana, cioè di uno Stato realmente cristiano; intanto, la reazione rimaneva sul piano del sentimento umano e della religione concepita come pura vita spirituale. Cosí, quando venne annunciato il libro del Beza, il vecchio Renato, dal fondo della sua valle retica, diffuse manoscritto un lungo carme latino452 , che faceva valere di nuovo le ragioni dell’umanità e della «tolleranza», ed esprimeva chiaramente la disillusione particolare degli eretici italiani. Per essi infatti, se volevano continuare nell’esilio a vivere secondo i motivi della «fides iustifica» e della «certa cruore salus» cosí caratteristici della riforma italiana, dal Valdés agli anabattisti, e se continuavano a rifiutare in terra protestante quel dogmatismo e quella funzione politica della Chiesa che tanto avevano combattuto in patria, si ripeteva la situazione del Serveto. Anche questi, incalzato dai pericoli che incombevano sulla sua vita in terra cattolica, aveva dovuto riprendere la strada dell’esilio verso nuovi paesi: ed era stato condannato per una dottrina particolare, senza tener conto del Buisson, Sébastien Castellion cit., II, pp. 18 sgg. Pubblicato per la prima volta dal Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit.; I (Michael Servet und seine Vorgänger), p. 321; ora in O. C. XV (C. R 43), n. 2017, coll. 239-45. 451

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suo consenso a quello che era il principio generale della Riforma, la fede giustificante. Lo stesso pericolo correvano dunque, come il Renato ben sapeva, gli eretici dei Grigioni, di Zurigo, di Basilea. Il dotto siciliano non si poteva render conto dei motivi di Calvino: né «ratio» né «spiritus» potevano spiegare secondo lui come il capo della chiesa ginevrina si fosse indotto a compiere cosí immenso delitto: per lui è assiomatico infatti che non si uccide per un errore, anche se grave; e tanto piú questo principio doveva valere nei riguardi del Serveto, che mai aveva cessato di professarsi cristiano e che non faceva propaganda pubblica, poiché non gli importava di quel che Calvino insegnasse al volgo. Certo la fede cristiana del Serveto come la presenta il Renato non poteva essere accetta al Calvino: era la semplice «fides fiduciaria» che i riformatori combattevano negli umanisti, e il suo contenuto era soltanto la speranza nella salvazione universale: «placatumque hominem generi coelumque Deumque». La incomprensione e la ostilità degli eretici per il Calvino giunge al punto di accusarlo d’essere ispirato da Satana: Nil iuvat excusis defendere caeca libellis Consilia, et diram Satanae referentia mentem453 . Mano a mano che si procede, anche la veste esteriore di scritto che si rivolge a un pubblico piú vasto, è messa da parte: e si parla soltanto per la comunità degli ispirati, che si sente nettamente ostile al calvinismo, e soprattutto per gli emigrati italiani. Ad essi il Renato si rivolge, dicendo: anche noi «ausonii» siamo rinati nello spirito, e siamo diventati veri cristiani. I pericoli che abbiamo affrontato fanno garanzia della veracità della nostra fede: 453

Ibid., col. 240.

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Nos etiam natique Dei Christoque clientes Hic sumus, et nostrani fecere pericola certam Multa fidem, Ausoniaque ideo decessimus ora, Amplexi exsilium, ignotisque habitamus in arvis, Paupertas quibus una comes, quibus aspera culto Est facies, quibus haud certis dant facta diebus Verba, sed assidui fessis alimenta labores. Ipsi evangelium, si quando contigit usquam, Haud predo inducti, pactisque ad commoda rebus Attulimus, vitae sed per discrimina nota, Ingressi quo numen agit, quo oranda volentes Spes votat, adversos magna vi stravimus hostes, Et quos fata dabant, quod spiritus intus agebat, Iunximus ereptos Satanae nova pectora Christo454 . Ed ora ci troviamo di fronte a una nuova chiesa satanica, il cui capo infierisce «in coetus pios», «in Christi clientes», che non ha lasciato vivere, come doveva, l’avversario Serveto, per correggerlo amorevolmente, ma l’ha ucciso, sperando, invano, sottolinea il Renato d’impedire la diffusione del suo pensiero. Tutt’al piú si poteva espellere l’eretico dalla comunità: ma non mai trattarlo da nemico. Dov’è la libertà cristiana tanto vantata? Quid vestros iactare laetosque recessus, Quo libet Ausonia fratres traxisse relicta, Ut vestro in coetu facies divina videri Possit ab his, toto quam quaerere pectore debent? Ista Dei facies, errantem exurere flammis Qui Christum natumque Dei, Christique parentem Esse Deum mediis vel credat in ignibus...? 454

Ibid., col. 241.

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Meglio rimanere in Italia, anche se vi si deve vivere nascosti; la situazione vi è piú chiara, e si è in patria: Praestat in Ausonia timide consistere terra, Quam tacitis spectare oculis immania facta, Quae nisi forte probet, digitum nisi tollet in aures Advena, mox socium sceleri; vox una putabit...455 Il Renato non si ferma qui: dalla indignazione per il rogo del Serveto e dall’angoscia degli esuli si eleva alla critica della nuova Chiesa, ricostruita anch’essa su cerimonie e su forme esteriori, prossima a divenire di nuovo Chiesa dei ricchi e dei potenti, destituita di ciò che è essenziale, l’amore cristiano. Cosa vi giova il Battesimo al quale tanto tenete, se non avete lo spirito? Non sono le voci, i simboli, anche se purificati, quelli che formano il popolo cristiano, ma lo spirito di carità e solidarietà cristiana. I pii italiani debbono dunque cercare in mezzo alla società cristiana solo le manifestazioni della potenza dello spirito rinnovatore e dell’amore cristiano. Il resto non interessa. Non è chiaro che cosa il Renato intenda dire con le parole «Christicôlum coetus», che cosa intenda per «cristiani»; secondo l’uso controversistico del tempo, sembrerebbe dovere indicare in genere il campo della Riforma: ma è probabile che si riferisca in generale a tutta la cristianità, scissa in due campi ma in fondo una. Infatti parla di due aspetti di Dio, l’uno conosciuto «priscis temporibus», l’altro nuovo, l’uno della potenza, l’altro dell’amore, trasportando la scissione nel campo storico, e giustificando in certo senso anche la chiesa della potenza, della ricchezza, della legge. Ad ogni modo, questo motivo non viene elaborato, e il Renato insi455

Ibid., col. 243.

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ste nella sua concezione della Chiesa spirituale. Il volto vero di Dio è soltanto spirituale456 . È inutile volere agire contro lo spirito con la violenza e con la forza, come ha fatto Calvino: distrutto il corpo mortale, lo spirito rimane piú forte. Il Renato non intende ciò in senso mistico, ma in senso prammatico: lo spirito del Serveto vive nei suoi scritti (come lo spirito divino si manifesta nella parola): Scripta vigent, doctique probant, cupidaque feruntur Germanûmque Italûmque manu, ac defenditur error, Peioresque orti vestris ex ignibus ignes. Irrita consilii spes tanti, atque irritus irae Conatus, voti fuit irrita gloria vestri, Tam certo reprobante Deo crudelia facta Successu indignasque animis coelestibus iras. La conclusione è un nuovo appello alla libertà di predicazione per gli ispirati: «veridicis libertas vatibus esto iam sua»457 . Oltre questo carme del Renato, altri versi venivano diffusi contro Calvino, e sembra che ne venissero anche dall’Italia. Ad ogni modo, le proteste più vivaci erano di italiani. Quando si veniva a parlare di qualche scritto anonimo in favore degli eretici il pensiero correva subito a qualche piú noto emigrato italiano, come mostra fra l’altro la voce che correva riguardo al Curione, e che egli 456 Ibid., col. 244: «Namque Dei geminae facies, quarum altera priscis | Cognita temporibus... | Altera spiritibus tantum coeloque renatis | Nota viris, non illa oculis adeunda caducis, | Non templis alte extructis, non ordine pompae | Nec circumfusae media inter murmura turbae». 457 Ibid., col. 245.

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stesso raccolse, per smentirla scrivendo al Bullinger458 . La lettera del Curione, piena di affermazioni di ortodossia, mostra soprattutto il continuo sospetto nel quale vivevano quegli italiani, e la situazione penosa nella quale si trovavano, costretti com’erano al segreto e a difendere la tanto amata libertà d’opinione «clam et in angulis» come dice il Grataroli, l’informatore basileese del Bullinger e di Calvino. La diffidenza verso gli italiani, che non era certo cosa nuova, si fa sempre piú forte, diventa sospetto e avversione: il Bullinger, alle prime vaghe notizie del libro del gruppo basileese, pensa che sia venuto dall’Italia: «Arbitror ergo in Italia esse venenata ingenia qui huiusmodi exhalent foetores»459 . L’ispirazione illuminata che animava gli oppositori italiani di Calvino doveva riuscire tanto piú sospetta ai capi della riforma svizzera, quanto piú si presentava ai loro occhi confusa con fenomeni strani e torbidi come quelli del visionario Giovanni Leone Nardi o Giovanni Leopardi, che nel 1554 vaga per la Svizzera, da Basilea, dov’è in relazione conl’Amerbach460 , e dove abita presso Celio 458 «Sermo incidit isthic [Zurigo] inter quosdam de quibusdam versiculis a Perna bibliopola ex Italia... allatis, qui nescio quid de Serveti causa continerent...», lett. del Curione al Bullinger O. C. XV (C. R 43), n. 1938, col. 101, in fine. Proprio questi versi vennero attribuiti dal Gwalther al Curione con queste parole: «Scio... qui eiusmodi versiculos spargit, vester haud dubie Coelius». 459 Ibid., n. 1944, col. 119, 26 aprile 1554 (Bullinger a Calvino). 460 Come risulta dalla seguente lettera, che accompagna il libro da lui pubblicato e offerto all’Amerbach: «Praestans et honde Doctor optime. Non potest mea supelectilis conferii cum tua, sed memor cum quanta benignitate et benevolentia me exceperis inter illos praestantes convivas in domum tuam, eius gratitudinis non possum esse immemor. Ideo ut in aliquo recognoscam animi tui candorem, mitto quinque parvulos libros quos ex gratia et misericordia liberali dono ac-

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Secondo Curione, a Berna, a Ginevra, a Losanna, a Zurigo, provenendo, a quanto egli stesso dice, dall’Inghilterra. Aveva ottenuto sempre le stesse accoglienze: diffidenza e rifiuto di credere alle visioni che proclamava di avere avuto: e come punizione di questo rifiuto e delle «mormorazioni» contro di sé concepiva la persecuzione di Maria Tudor detta la Sanguinaria contro i protestanti inglesi461 . Dall’Inghilterra aveva cercato di diffon-

cepi a Dño me[o] Jesu Chtisto; placeat ea charitate, qua eos offero, illos accipere, et in sinceritate, prout certus sum, cos legere. Unusquisque enim debet communicare dona domini quae accepit in vinea et ecclesia eius, ne videamur talentum nobis commissum abscondere in terram. Gratia Dei per Iesum Christum, et omni gaudio in spiritu sancto, in te, honorande et integerrime doctor, tuosque omnes in dies auguratur, Basileae 12 Marcij 1553 Ut tibi omnibusque Christi fidelibus instruam humilis servus Domini johannes Leonis nardi Praestanti et Preclaro dottori [sic] Amerbachio mihi plurimum hon.do Ioh. Leo Nardus». Basilea, Universitätsbibliothek ms G. II 31440. Cfr. Church, I riformatori italiani cit., I, p. 352, nota 1. Che il Nardi abitasse presso il Curione, risulta da una lettera dello Haller al Bullinger, 12 gennaio 1554: «habitavit aliquandiu apud Coelium Basileae, sed nec ipse potuit illi suas ineptias eximere...» (Zurigo, Zentralbibliotek, Simmlerische Sammlung, Bd. 81, n. 8). {Nardi è registrato all’università di Basilea nel 1552 sotto il rettorato di Simon Sulzer, sotto il nome di Jo. Leo Nardus Josius pedemontanus}. 461 Septem conclusiones descritte piú sotto: «Sed ecce quo modo Maria soror Moysi, id est illa ecclesia Angliae que intra maria sita esta, propter illam murmurationem etiam quod minimus servus domini hoc non concupiverit, apparet leprosa, eiiciens Dominus ministros ipsos, qui doctrinam leprosam et impuram seminantes...» E poco piú sopra: «Et quia ministri

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dere i suoi scritti in Francia: ma questi erano finiti in Fiandra, dove erano stati sequestrati, sollevando un incidente diplomatico, nel quale il Nardi fu difeso dal Morysine, ambasciatore inglese presso Carlo V, che lo conosceva personalmente462 . Alle insistenze del Granvelle, che era preoccupato probabilmente per il carattere delle lettere dirette a un personaggio non nominato ma forse importante, e per la propaganda che pare il Nardi avesse tentato di esercitare in Francia, il Morysine risponde trattarsi di cose piú atte a far ridere che a commuovere. Dal Nardi l’ambasciatore inglese aveva avuto solo oscure promesse di conversione dei turchi e di ogni altro tipo d’infedeli, compresi gli ebrei, al cristianesimo, attraverso la sua predicazione. Sembra poi che il Morysine si lamentasse che il suo protetto, il quale era stato mandato in Francia, non si sa da chi, si fosse lasciato sorprendere in Fiandra: cosa scusabile, diceva scherzosamente, solo se durante il passaggio della Manica il vento avesse fatto deviare la nave, il che sarebbe stato un evidente giudizio di Dio463 . Accettate le scuse del Morysine, il Granvelle ammoniva gli inglesi del pericolo di lasciare entrare nel loro paese uomini che vi osavano diventare piú arditi che

ecclesiae londini in Angliam, quando dominus illuc me misit ad eos de anno millesimo quingentesimo primo..., quando dixi eis; Dominus qui apparuit mihi mittit me ad vos, in hoc verbo scandalizati sunt... prout sic quoque murmurantes dixerunt ministri ecclesiarum Geneve et Lausiane» (Zurigo, Zentralbibliothek, Simml. Sammlung, Bd. 81, n. 9, carte 17 sgg.). 462 Calendar of State Papers, Foreign Series: Eduard VI, ed. Turnbull, London 1861, pp. 103 sgg. (n. 343, anno 1551). Il Nardi vi è anche chiamato Joannes Leonis Asini. 463 Ibid p. 104. Il Morysine era un lettore dell’Ochino e fu protettore del Vermigli. Il Church, I riformatori italiani cit., p. 352, accenna ad una confutazione del libro del Nardi da parte del Vergerio; ma non m’è riuscito di trovarne traccia.

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altrove. Pochissimo d’altro si sa sulla vita di questo stravagante profeta, che aveva stampato a Basilea e cercava di diffondere un libro sul metodo della prossima conversione dei maomettani e degli ebrei al Cristianesimo464 . 464 Lucida Explanatio super librum Alchoranum legis saracenorum seu Turcarum in quo manifesta est Evangelii Dei et domini nostri Iesu Christi confirmatio, et ostenditur quam male liber ipse hactenus fuerit intellectus..., Basileae 1553. Coloro che hanno mal compreso il Corano sono stati i maomettani stessi, perché non vi han saputo vedere la rivelazione di Cristo. {D. Gerdes (Specimen Italiae reformatae sive observata quaedam ad historiam renati in Italia tempore Reformationis evangelii..., Leydae 1765, p. 307) indica questa opera come quinta parte di: Tabularum duarum legis Evangelicae, gratiae spiritus et vitae libri quinque, Basileae 1553, che si trovano indicati anche in K. Gessner, Bibliotheca..., ed. J. Simler, Basileae 1574, p. 390. Il sottotitolo delle Tabulae suona: «a minimo Jesu Christi servo Ioanne Leone Nardo nunc primum, spirito sancto dictante, scripti et editi». La prima Tabula contiene due libri impaginati progressivamente, la seconda tre, impaginati autonomamente. La Lucida Explanatio consta di 125 pagine. La data della seconda Tabula suona, a causa di un chiaro errore dello stampatore Iac. Patcus, 1533 invece che 1553. Il titolo completo è: Lucida Explanatio super Alchoranum legis Saracenorum... Ioanne Leone Nardo, servo Dei et domini nostri Iesu Christi scriptote et non autore ipsius libri Gli altri libri contengono: De gladio versatili deitatis domini nostri Iesu Christi; De spirito sancto Christi fidelibus necessario; l’esposizione della Apocalisse; la polemica con Grenier (sul quale vedi sotto). Gli esemplari di questa opera sono abbastanza rari; completa conosco solo quella presso la Biblioteca di Basilea; l’esemplare di Parigi alla Biblioteca Nazionale contiene solo la Lucida Explanatio}. Nell’indice di Pio IV del 1564 (il cosidd. Indice tridentino), figura solo il «Sertorio», in quello di Sisto V del 1590 figurano insieme Johannes Leonardus Sertorius e Joannes Leonis Nardi sempre fra gli autori di prima classe (cfr. H. Reusch Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhurnderts Gesammelt und herausgegeben..., Tübingen 1886 (Bibliothek des Liter. Vereins in Stuttgart CLXXVI), pp. 267 e 491. L’indice di Benedetto XIV

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Ma le sue idee e il tipo della sua predicazione risultano chiari, piú che dal libro, dalle tesi ch’egli inviava ai capi

(Roma 1764, p. 158) identifica Joannes Leonis Nardi (come già aveva fatto l’ediz. di Clemente VIII, del 1688 [p. 44]; Joan. Leonardus, Sartotius) con Joannes Leonardus Sertorius pedemontanus il quale non può essere altri che il visionario di cui ora parliamo; e del quale oltre la lettera dello Haller al Bullinger, cit., parla una notizia dello Haller stesso nelle sue Ephemerides {Museum Helveticum ad juvandas literas in publicos Usus apertum, parte V [vol. II], Tiguri 1747: Ephemerides D. Joannis Halleri; quibus ab anno 1548 ad 1565 continetur, quiquid fere in utroque statu Bernae accidit [trasmesso da J. Jac. Simler], p. 103, [3 genn., 1554};) e rimane traccia anche negli Archivi ginevrini (cfr. O. C. XV, C. R. 43, n. 1897, coll. 6 sgg.). Infatti il Iehan de Leonnard che si presenta al consiglio di Ginevra sostiene le identiche idee del Leonardus di Berna e di Zurigo e del libro. Il dubbio del Reusch (Der Index der verbotenen Bücher, I, Bonn 1883, p. 382) proviene dalla indicazione del Tiraboschi (Storia della letteratura italiana, Tomo VII, Parte I Roma 1784, p. 341) il quale parla di un Gianleone Nardi fiorentino altrimenti ignoto. Ma il Tiraboschi a sua volta ripete semplicemente il Gerdes sopra cit., il quale non fornisce nessuna prova della sua asserzione derivata probabilmente dall’analogia fra il Nardus di una delle forme del cognome dell’eretico con il cognome della famiglia dello storico Jacopo Nardi (benché la forma latina del Nardi fiorentino sia Nardius e non Nardus). E le Septem Conclusiones presentate a Zurigo, identiche nella sostanza e in parte nella forma con la predicazione ginevrina, portano appunto il nome di Leonardus Sertorius Pedemontanus. Si tratta probabilmente di un membro della famiglia Sertori (emigrata a Ginevra a cominciare da Jean-Gérard nel 1551) ma certo non identificabile con il Jean-Léonard morto nelle carceri dell’Inquisizione a Torino, e consigliere della corte di Savoia (cfr. Galiffe, Le refuge italien de Genève au XVIme et XVIIme siècles, Genève 1881, p. 113, e P. Longo, Breve saggio sulla riforma in Italia nel sec. XVI, in «Rivista Cristiana», IX (1881), p. 227, che qui ripete il Galiffe). Nello scritto al Senato ginevrino il Leonnard parla (col. 7) del suo libro e delle sue cinque parti, in tutto analoghe a quelle elencate dal Gerdes.

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delle varie chiese svizzere, impegnandosi a sostenerle e ad affermarle rigorosamente465 . Per il Nardi, che parla da ispirato annunciatore di una splendente verità, a tutti ancora incognita, da rivelatore di un grande mistero che s’è verificato mentre gli uomini non ponevano attenzione alle ammonizioni divine, le due meretrici che si contendevano il figlio davanti a re Salomone sono l’una la «meretrix Romana», l’altra l’«ecclesia quae vocatur evangelica»466 . Quando Iddio ebbe aperto gli occhi alla chiesa di Germania per mezzo di Martin Lutero, e di altri suoi servi la «meretrix citramontana» ha tolto il figlio, «scilicet reliquias fidelium relictas pro semine», alla Chiesa Romana, che dormiva, e in cambio le ha lasciato il suo figlio morto, il popolo incredulo ed infedele. Quando la «meretrix romana» s’è risvegliata e ha visto che le è stato tolto il figlio, cioè è stata compiuta la riforma (in quest’ordine: Germania, Svizzera, Savoia, Inghilterra), s’è messa a gridare «coram te o aeterne Salomon, universoque populo tuo». Essa afferma che il popolo vivente è suo figlio, perché la sua dottrina è buona; altrettanto l’altra. A risolver la disputa interviene ora Dio stesso che manda la spada della sua parola a mezzo 465 Al senato di Ginevra, in O. C., vol. cit., col. 8; Zurigo, Zentralbibliothek, vol. 81, n. II (in forma lievemente mutata anche nel n. 9, dove sono a lungo commentate, sotto il titolo Revelationes Factae Johanni Leoni Nardi: Septem conclusiones, quas proponit minimus servus Dei et Domini nostri Jesu Christi, Joannes Leonardus Sartorius, coram universo populo Dei offerens se per gratiam Domini nostri Jesu Christi demonstrare, eas esse plenas omni veritate. Tanto nelle tesi ginevrine che in quelle zurighesi il sartorio parla d’una confutazione di N. Grenier, Le Bouclier de la foy..., la seconda edizione del quale (1555) porta una «briefve apologie contre un clabault luthérique», che potrebbe essere il Sartorio stesso. 466 Revelationes (cfr. Simml. Sammlung, Bd. 81, n. 9, cc. 17 sg.).

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del suo umile servo Giovanni Leonardi, affinché sia restituito il figlio alla sua vera madre, la Santa Chiesa degli apostoli e dei profeti, sempre fedele a Dio e unica vera: perché le sia restituito «populum tuum revivificatum dono fidei in poenitentiam», del quale il Leonardi fa parte, «reiectis duabus meretricibus contendentibus». Egli respinge tanto i profeti di Baal, i cattolici, come i «prophetae excelsorum lucorum», gli evangelici, che si richiamano ai grandi dottori della chiesa «anticristiana», Agostino, Girolamo, Ambrogio, Gregorio ed altri consimili, e alla loro dottrina rovinosa e tenebrosa. La loro dottrina è satanica, come quella dei fedeli a Roma è idolatrica. Al posto della tradizione cattolica e dell’innovazione luterana, il Leonardi propone solo un misticismo molto generico; il vero sacrificio è, per lui, quello che si consuma nei cuori umiliati e contriti dei fedeli, «in delectione charitatis Dei», che si diffonderà nei cuori di essi «per amplum donum spiritus sancti quod Dominus daturus est nobis, in abundantia liberalis gratiae suae». Papisti ed evangelici vogliono egualmente condannare a morte «sanctam et honestam Susannam, quae non volt fornicari cum eis»: cioè la vera Chiesa, rappresentata da coloro che vogliono vivere puramente e semplicemente secondo la legge apostolica. Ma Gesù Cristo in persona è apparso a Leonardo per incaricarlo di predicare a tutti la riconciliazione del popolo cristiano, sulla base del ripudio di ogni dottrina tradizionale, che è caligine introdotta da Satana nella vita del popolo cristiano, il ritorno immediato, puro e semplice, alla lettera scritturale (escluso il libro dei Maccabei e le quattro lettere apostoliche), e insieme il ripudio di ogni esposizione e interpretazione. Alla obiezione che la dottrina dei padri della Chiesa si può mantenere, il Leonardi risponde che il precetto del Signore deve venire osservato in semplicità di cuore e che chi aggiunge altro alla parola divina la contamina. I ministri della Chiesa devono portare al popolo la sola

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dottrina di Dio, senza mutare nulla, «neque verba neque sensum», e invocando l’illuminazione divina467 . A questo letteralismo ispirato che equivale a una dottrina dell’illuminazione mistica, il Leonardi accompagna l’esigenza di una larghissima libertà di predicazione e di discussione, riprendendo gli evangelici «omnia tentate, et quod bonum est tenete», e «Probate spiritus an ex Deo sint»468 , nel senso di una ispirazione da trarsi immediatamente dalla Scrittura attendendola dall’alto, e da trasformarsi subito in pratica di condotta ascetica (abolizione di ogni lusso, «corruzione», e via dicendo) e di santa ignoranza: «Apostoli rudes et ignari sapientiores cunctis sapientibus mundi fatti sunt». Il Leonardi aveva trovato un lusso scandaloso perfino a Ginevra, nel 1554, specialmente nelle donne che coprivano il capo «operibus variis auri fusoriis et sericeis», e trovava anche scandaloso il commercio ginevrino dei capponi: «Nonne deferuntur capones arte impinguati ex Geneva civitate quae dicitur evangelica?» E a Ginevra ha visto carte da giunco e dadi: effetto della scarsità di vera e illuminata pietà nei pastori, che seguono i falsi dottori e le dottrine surrettizie, e non la lettera evangelica. Ai ginevrini egli rimprovera ancora di aver falsificato, traducendolo in francese, il Pater noster, omettendo la preghiera che ci sia concesso il «pane della vita eterna»469 . 467 Cfr. Septem Conclusiones et exposicio earum (Inizio: Locutus est Dominus ad servum suum Johannem Leonis Nardi dicens: scribe septem conclusiones, quas propones coram universo populo meo publice sustinendas...) Prima conclusione (Hott. Samml., l. c.). 468 Cfr. pp. 69, nota 2. 469 Septem condusiones et exposicio earum, c. 6r. Ai ginevrini mi sembra si riferisca anche il seguente passo delle Revelationes: «Nonne et Papistae et ministri condemnant ad mortem omnes de ecclesia Dei et Domini nostri Iesu Christi, qui nolunt consentire eorum fornicariae doctrinae? Comburunt papistae

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Questa infiltrazione di dottrina satanica che conduce all’immoralità deriva per il Leonardi dal fatto che i ministri delle chiese evangeliche non possono comprendere tutto il vero senso della Sacra Scrittura, perché non accettano le rivelazioni di lui Leonardi. Tanto è vero che Calvino ha sbagliato nella sua versione della Sacra Scrittura, per esempio dove traduce In principio erat verbum con au commencement estoit la parolle, dimenticando, dice, il Leonardi, la differenza fra il verbo eterno che è l’ispirazione divina e ha parlato in Cristo, e la semplice parola470 . Questa fede generica nello spirito e questo ingenuo moralismo d’ispirato ascetico e di entusiastico visionario si ritrova anche in qualche passo della Lucida Explanatio: lo spirito della verità si riconosce da quello di Satana dalla carità che il vero spirito divino sa infondere in noi471 . La carità procede dalla fede ed è frutto dello Spirito Santo: essa contraddistingue i veri ispirati e i veri fedeli, e si manifesta nell’amore reciproco fra gli uomini, inteso nella maniera elementare di solidarietà umana. A Ginevra il Nardi, che si faceva chiamare secondo Mosè e profeta, aveva anche sentito il bisogno di assicurare che la nuova legge evangelica della pura grazia e dello spirito da lui predicata non conduceva alla distruzione dei ministri, ma solo alla loro emendazione. A Berna era stato ascoltato e disapprovato, e infine, perché non si sapeva risolvere a tacere, era stato scacciato; lo Haller lo considerava o insigne impostore o mentecatto.

servos Dei et persecuntur omnes qui eis contradicunt. Comburunt etiam et praedicantes, et persecuntur omnes qui eis contradicunt». 470 Septem condusiones et exposicio earum, cit., c. 6r. 471 Tabularum duarum... libri V, pp. 226-27: «In hoc cognoscitur spiritus veritatis a spiritu erroris, id est, Satanae, si nos habuerimus charitatem in nobis, quae ex fide procedit, et fructus spiritus sancii...»

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Questo predicatore «staturae et formae insignis et ingenuae» che annunciava una legge evangelica «di grazia, di spirito e di vita», accusando i ministri riformati di traviare i cristiani dalla retta via con una errata interpretazione delle Scritture, e con un disattento controllo morale, ricorda, in un mondo cosí differente, gli asceti predicatori di Milano e Bologna, tre decenni prima: ispirazione solitaria, avversione ad ogni forma di organizzazione della vita religiosa, moralismo esasperato in senso ascetico. In piú, ormai esaudita l’esigenza della riforma della Chiesa, parificazione di evangelici e papisti, e richiesta d’una legge d’amore e di carità, di una solidarietà mistica fra tutti i cristiani, che doveva riuscire altamente sospetta ai riformatori, proprio in quel momento di irrigidimento nella lotta. Sospetta doveva riuscire l’idea del Nardi, che le interpretazioni ed esposizioni delle Scritture sacre, a cominciare dai primissimi padri, fossero tutti espedienti di Satana per portare la rovina nei cuori dei cristiani: interpretare la Scrittura con la Scrittura, rimanere aderenti alla lettera ed ascoltarne solo gli echi nel nostro cuore era quanto asserivano di voler fare anche gli eretici come il Serveto, che proprio allora destavano tante preoccupazioni negli animi dei capi della Riforma svizzera. Questo tipo di visionario e d’ispirato non era isolato, come mostra la storia del Claudio Allobrogo che aveva portato gran turbamento nella comunità protestante di Augusta dopo aver cercato di diffondere le sue idee nella Svizzera472 . Questo piemontese proclamava anch’egli 472 Su Claudio Allobrogo o Claudio di Savoia (com’è conosciuto negli ambienti svizzeri) cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., I, p. 57; DuninBorkowski, Quellenstudien cit., pp. 116 sgg. O. C. X, b (C. R. 38), coll. 88, 98, 104, 263; Melanchtonis Opera cit., III (C. R 3), col. 400. L’Allobrogo univa all’«entusiasmo» degli ispirati («fanaticus homo» lo chiama lo Schelhorn, Dissertatio epistolica

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un’ispirazione diretta confortata da visioni e una dottrina che il Melantone identificava con quella del Serveto, perché poneva in dubbio la Trinità; ed aveva anche osato di andare a visitare Lutero, «cum eo acturus de eo delirio». Come con l’Ochino, lo Schwenckfeld aveva polemizzato anche con questo personaggio misterioso, con una sua lettera latina, ad «Augustanos et Argetoratenses»473 ; e da principio aveva attribuito a lui uno scritto pseudonimo dell’Ochino. Cosí la diffidenza per questi fanatici vaganti si rifletteva sugli altri italiani di opinioni estreme, che già erano considerati sempre pronti a cose e opinioni stravaganti; tanto più se, come nel caso del Nardi, essi erano in contatto con lui e lo ospitavano nella propria casa. de Mino Celso senense, Memmlingen 1738, p. 76, il quale nota come verso il 1550 l’Allobrogo fosse in Memmlingen) le dottrine servetiane. Nel 1554 il Blauer, scrivendo da Berna a Calvino a proposito del caso del Serveto, gli ricorda ad esempio la mitezza del Senato di Augusta nel caso dell’Allobrogo, prima imprigionato e poi rilasciato su consiglio dei ministri (O. C. XV, C. R 43, n. 1916, 27 febbraio 1554, col. 48). 473 Corpus Schwenckfeldianum cit., vol. VII, pp. 204-35; cfr. Roth, Reformationsgeschichte Augsburgs cit., p. 244. Cfr. anche Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., I, pp.55-59; Museum Helveticum VII, p. 667 (Anecdota quaedam de Claudio Allobroge homine fanatico et S. Triadis hoste); aggiunte sono le dediche di Breitinger a Schelhorn.

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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Viaggio in Italia di Lelio Sozzini. Suo ritorno in Isvizzera, e nuove discussioni: sulla Trinità, sui Sacramenti. L’apologia del Serveto, di Alphonsus Lyncurius Tarraconensis, probabilmente opera di L. Sozzini. Denuncia del Martinengo contro Lelio; sua professione di fede, accettata dal Bullinger, e suo ripiegamento.

Alla disposizione d’animo degli Italiani, cosí efficacemente espressa dal Renato, corrispondeva, da parte dei capi ginevrini, il passaggio dai sospetti alle accuse contro i difensori degli eretici, eretici sovente essi stessi. I primi accenni del Grataroli al Bullinger riguardo al Curione risalivano già all’ottobre del 1553474 ; subito dopo la pubblicazione del De Haereticis, Calvino mostra già di sapere quali ne sono gli autori: Castellione e Curione475 ; ma c’era ancora qualche incertezza, poiché nell’originale della lettera, pervenutaci, gli editori delle opere di Calvino hanno notato che il nome dell’italiano era stato cancellato. Mentre Calvino gli comunica questi sospetti ancora incerti, almeno in parte, il Bullinger assicura il Curione che s’era affrettato a inviare la sua non richiesta giustificazione, avvertendolo che nessuno gli ha mai attribuito le macchie di cui s’è lavato con tanto calore476 . Calvino viene informato a sua volta della giustificazione, che poteva essere anche sottomissione477 . L’incertezza dei capi svizzeri sull’azione del gruppo basileese è mostrata dalO. C. XIV, C. R 42, n. 1840, col. 658, 28 ottobre 1553. O. C. XV, C. R 43, n. 1935, col. 95, 5 aprile 1554. 476 Ibid., n. 1942, col. 116, 9 aprile 1554. 477 Ibid., n. 1944 sopra cit. L’Italia nella quale nascono i «venenata ingenia» va dunque intesa probabilmente in senso proprio, non metaforicamente. 474

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la confusione che il Bullinger può fare, ancora nell’aprile del 1554, fra i «versiculi», che si diceva il Perna avesse portato dall’Italia, e il libro del «Bellius». Man mano che si procede verso l’estate, le accuse si precisano e si concentrano attorno al Castellione. Il piú accanito sembra il Beza, che alla fine denuncia direttamente ed esplicitamente i tre autori al Bullinger: il Castellione, il Curione, Lelio Sozzini, che portò egli stesso al Bullinger la lettera contenente la grave accusa478 . Pel momento il piú colpito fu proprio Lelio, che in questo periodo era molto attivo. Alla metà del 1552, poco tempo dopo esser tornato dalla Polonia, egli si era diretto in Italia, non per proprio desiderio, ma per una forza maggiore, che non conosciamo, e con pericolo dell’anima e del corpo, com’egli si esprime479 . Si può forse supporre che si trattasse della volontà del padre, o di regolare la propria situazione economica, in modo da poter vivere tranquillo per questo lato in Isvizzera. All’inizio di questo viaggio Lelio si fermò a Vicosoprano presso il Vergerio per tre settimane. Una lettera del padre, che lo ammoniva a non entrare in Italia, non lo raggiunse in tempo. Al momento della sollevazione della città contro i Medici, pare che Lelio fosse nella sua Siena; benché la famiglia di Sozzini non fosse in cattivi rapporti con quella dei Medici, il giovane Lelio si mostra avversario di questi, e pieno di speranza per la libertà della propria città480 . Dopo Siena troviamo il Sozzini a Bologna, presso il padre, dove trascorre l’inverno; nel478 Ibid., n. 1952, col. 134; cfr. coll. 97 e 166; cfr. Buisson, Sébastian Castellion cit., II, p. 3, nota 6 sulla congettura del Simler e degli editori del Corpus, che qui faccio mia. 479 Burnat, Lélio Socin cit., App., pp. 90-91 (lettera del 29 aprile 1552, da Zurigo, al Moibanus (uno del circolo umanistico di Breslavia che incontreremo piú avanti). 480 Vedi sopra, p. 139.

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la primavera del 1553 è di nuovo a Siena, dove la Inquisizione procedeva ancora con molta mitezza, grazie alla particolare situazione politica. Il Vergerio riferisce al Bullinger che in patria il suo amico parava con piena libertà dell’«evangelo», mostrando preoccupazioni per la sua audacia481 . Nell’autunno riprende il viaggio verso la Svizzera, ma si ferma due mesi presso il Gribaldi a Padova, dove trova anche Basilio Amerbach; poi probabilmente si ferma a Chiavenna dal Renato. Nel dicembre è a Zurigo, donde parte presto per Basilea, dove incontra il Curione e probabilmente il Castellione; di qui passa a Ginevra, donde nell’aprile scrive al Bullinger riguardo all’edizione italiana del trattato di questi sulla messa, pregandolo di mandarglielo presso il Calvino o presso il Caracciolo, coi quali dunque non doveva stare in troppo cattivi rapporti482 , benché a questa residenza ginevrina della primavera del 1553 si possa far risalire la prima dichiarazione esplicita del Sozzini contro la condanna a morte del Serveto. Lelio dunque si comporta con molta prudenza; mentre partecipa all’attività clandestina degli eretici contro Calvino, continua a presentare a questo le sue questioni, ritornando sulla dottrina della predestinazione. Calvino gli risponde per iscritto; non nella forma amichevole di lettera, anzi in quella impersonale di «consilium»483 . Ma la freddezza che gli dimostra Calvino non scoraggia il Sozzini, la cui attività palese sembra anzi 481 Cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, p. 164. 482 Ibid, p. 437. 483 Rimane solo la risposta di Calvino, che poi è stata in parte trasportata nella edizione del 1559 della Institutio nel libro III (De modo percipiendae gratiae), capp. 11 e 12 (O. C. XIa, C. R. 38, coll. 163 sgg.; Calvini ad Laelii Socini quaestiones responsio; J. Calvini opera selecta, ed. P. Barth et G. Niesel, IV, München 1931, pp. 20 sgg.).

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moltiplicarsi in questo tempo: egli infatti compie e presenta al Wolf di Zurigo, che sarà anche amico dell’Aconcio, la sua dissertazione sui Sacramenti, che aveva probabilmente cominciato a preparare al tempo del «Consensus Tigurinus». Siccome il Wolf gli risponde molto amichevolmente, sostenendo, sí, la dottrina del Consensus, ma con poca energia484 , Lelio lo ringraziò calorosamente, e poco dopo gli mandò una schedula contenente addirittura questioni sul dogma trinitario, che, al solito, non veniva messo apertamente in dubbio, ma criticato implicitamente, cercando di condurlo all’assurdo485 . Lelio insi484 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 174. 485 La risposta del Wolf è del 10 agosto 1555. Il testo delle questioni di L. Sozzini è riprodotto dal Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, p.176, nota 2, e p. 177, nota 1, dal ms F. 40, f. 332r (Hottingerische Sammlung, Tomo V, p. 332) della Zentralbibliothek di Zurigo. Si tratta di un solo foglietto scritto di seguito, senza intestazione né indirizzo, forse consegnato brevi manu. Nell’ultimo periodo Lelio stava per scrivere «ab extra sint indivisa» poi si è fermato alle due prime lettere di «sint», cancellandole, ed ha sostituito «censeantur» piú distaccato e lontano dalla dottrina che critica. {Riproduco di sull’originale per maggior chiarezza, il testo della «questione» del Sozzini, pubblicato in due parti staccate dal Trechsel: «Si nomen Spiritus commune est tribus personis in hac propositione Deus est spiritus quoniam significat spiritualem. Ego scire velim an significet aliud, quando tertiam designat personam? Num Deo hinc (Trechsel: hic, testo hîc) nomen spiritus concedatur ut patris [cancellatura] et filii nomen tribuitur? Sed quam relationem habeat simul indicato. An spiritus ille reperiatur in Dei essentia ab eo distinctus qui est Deus pater atque filius? Praeterea vide an filius de ipso deo sicut pater omnino praedicetur. Nam Jesus Christus illius Dei filius qui trinus et unus creditur esse, non tamen filius trinitatis dicitur quamvis [cancellatura] creatura sit et opera trinitatis ab (Trechsel: ad) extra censeantur indivisa». Ho mantenuto l’interpunzione dell’originale, ma ho sciolto le abbreviazioni}.

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ste soprattutto sul concetto dello «spirito», mostrando di identificare la terza persona della Trinità con lo «spirito» dei mistici e dei filosofi, del quale non si poteva fare una ipostasi, perché si doveva identificarlo con l’Unico, con Dio. Il Wolf non seppe dare risposta precisa ed esauriente, com’egli stesso dichiarava fin da principio replicando al Sozzini. Era difficile rispondere a questo mistico desiderio di chiarezza, a questo umanista volonteroso di conoscere il Dio nel quale doveva e voleva credere, di intendere il significato concreto di quanto veniva proposto come dottrina necessaria alla salvezza e a quella unione con Dio che era per questi uomini il fine dell’umanità; a questo spirito irrequieto, che a garanzia della verità delle interpretazioni addotte ad acquetarlo, richiedeva soltanto chiarezza di termini, precisione e nettezza di linguaggio. Era la posizione inquietante del Renato, che poteva assumere qualche apparenza di affinità con la mentalità giuridica: ma questa affinità non va piú lontano dell’affinità generale della teologia con il diritto, come nel secolo seguente l’ha notata il Leibniz486 . Questo fa la novità della posizione di Lelio, e anche la inafferrabilità del suo pensiero da un punto di vista sistematico. Mistico desideroso di chiarezza per meglio avvicinarsi alla divinità, che voleva intendere al di là delle sovrastrutture delle scuole e delle filosofie; ma mistico umanista, consapevole del valore del linguaggio, della parola che racchiude la sapienza, e sagace nello intendere e nel distinguere, lo troveremo sempre critico e mistico insieme. Piú esplicito è il pensiero di Lelio Sozzini negli scritti destinati a correre anonimi o pseudonimi, pei quali an486 Nova methodus discendae docendaeque Jurisprudentiae, in Variorum Opuscula ad cultiorem Jurisprudentiam adsequendam pertinentia, Tomo II, Pisa 1769, p. 190 (a p. 223 il Leibniz cita l’Aconcio fra i precursori dell’irenismo e degli scrittori De Methodo).

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ch’egli rientra nel mondo sotterraneo dell’«anabattismo». Il primo di questi è un violento scritto contro Calvino, in difesa del Serveto, che circolò manoscritto sotto lo pseudonimo di «Alfonsus Lyncurius Tarraconensis»487 , sotto il quale ci sembra potersi identificare Lelio Sozzini, poiché «Lyncurius» è la traduzione greca latinizzata del cognome latinizzato di Lelio: «soccinus»488 . Questo pseu487 Lo scritto, in forma d’orazione ai ginevrini ha il titolo Alfonsi Lyncurii Tarraconensis apologia pro Michaele Serveto. È stato edito nel C. R. 43 (nell’epistolario del Calvino, O. C. XV, n. 1918, coll. 52 sgg.), con l’annotazione: Ex Codice Bibliothecae Antistitii Basileensis inscripto «Varia Ecclesiastica Basiliensia», vol. I. Il ms porta un’indicazione marginale di un bibliotecario o di uno studioso posteriore – del XIX secolo – che attribuisce le correzioni alla mano del Curione, e avverte che il nome del’autore è uno pseudonimo. Il Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 9, ammette senz’altro l’ipotesi che l’autore sia il Curione, forse fidandosi dell’assonanza Lyncurius, Curio. Cosí il Bonnet, Récits du seizième siècle, Paris 1864, p. 257; Ruffini, La libertà religiosa cit., pp. 81, 86 nota. Ma l’identificazione della scrittura del Curione è errata, cfr. Bainton, Concerning Haeretics cit., pp. 7-8. 488 Alfonsus Lingurius Tarraconensis hispanus figura anche nel catalogo degli antitrinitari del Sand (Bibliotheca Antitrinitariorum, p. 40) con un’opera. Il Sand deriva la sua indicazione dal De falsa et vera unius Dei patris cognitione scritta dal Biandrata a nome dei «Ministri Sarmatiae et Transylvaniae». Non ho potuto rintracciare nessuna pur minima indicazione di questo Lyncurio, né del suo passaggio per Basilea: né negli archivi, né dalla corrispondenza dei basileesi né in quella degli zurighesi. D’altra parte non è strano che Lelio abbia mantenuto il segreto anche nei confronti del nipote Fausto, che questi, anche se seppe qualcosa di questa «apologia», non ne parli mai nei suoi scritti, e non ne abbia neppure tramandata quella notizia orale che potesse poi essere utilizzata da biografi come il Przikowskj; infatti gli accenni diretti a scritti di Lelio sono rarissimi nelle opere di Fausto, e straordinariamente generici: non c’è pervenuto nessun titolo né indicazione precisa; il trattatello di Lelio stampato nel Seicento non è uscito dalla officina ra-

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donimo aveva anche un valore simbolico, tratto da un passo del Beato Renano nel suo commento a quel Tertulliano al quale tanto spesso ricorrono questi eretici, dove si parlava proprio di lyncurius a proposito di perspicacia d’ingegno, e si riferiva questo termine anche, vagamente, al famoso Linceo489 . Del resto la calligrafia delle correzioni apposte sulla copia di amanuense contemporaneo rimastaci è a mio parere facilmente identificabile con quella di Lelio Sozzini. Nella mente dell’eretico italiano, l’apologia del Serveto si amplia in difesa della causa di tutti gli esuli per «ragione di coscienza», la quale a sua volta faceva tutt’uno con quella della «libertà di coscienza», di pensiero e di discussione, intesa in senso religioso, cioè assoluto e formale. Non si può dire uno scritto elegante o ordinato: il sarcasmo vi si alterna con l’invettiva e con l’appello patetico, gli argomenti di carattere giuridico si alternano con quelli di carattere teologico e quelli morali, tumultuosamente. Facile vittoria quella dei ginevrini contro un avversario inerme! E qual era il delitto del Serveto? Quando vide che luterani, zwingliani, papisti combattevano gli uni contro gli altri per le cerimonie, per i riti e per il primato (cioè sempre e soltanto per cose esteriori) ma si trovavano d’accordo sul dogma della Trinità, il meno comprensibile e il piú caratteristico della tradizione cattolica e scolastica, egli volle esaminare come stessero le co-

coviana, ma in Olanda, e molto tempo dopo la morte di Fausto. Il Bock nella sua Historia antitrinitarianorum, completissima, ignora Lyncurio. Per Soccino – succino – soccinum – Lynkourios cfr. Stefano, sub verbo:«Nam quidam Lingorium cum succino confusere. salmas. Plin. Excerp. P. 62»; Il vocabolario degli accademici della Crusca: «ambra; il succiono overo l’elettro»; il Forcellini, ecc. 489 Tertulliani Opera, ed. cit., p. 443.

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se in realtà: «ac de vero Deo et eius filio ex scripturarum fonte omnia maturius consideravit». Sono, ancora una volta, le perplessità e le impazienze degli eretici della tendenza radicale di fronte ai dissidi e alle discussioni dei capi riformati, e a quelle che sembravano ancor troppo grandi affinità con la tradizione, col passato, con l’«Anticristo». La dottrina del Serveto è giusta, dice il Sozzini: ma è caratteristico che degli scritti servetiani sia citato solo il primo, il De erroribus trinitatis; benché come causa della persecuzione ginevrina contro il medico spagnuolo si dia, con schietto prammatismo, soprattutto il fatto ch’egli criticava e confutava personalmente e facendone i nomi i sostenitori della dottrina trinitaria tradizionale in campo protestante. Un risentimento personale quindi sarebbe alla base di tutto: accusa diretta a Calvino, che è evidentemente fuori di luogo, e che mostra solo la distanza che c’era fra i due mondi. Il motivo che corre attraverso tutto lo scritto è quello patetico «Quid Evangelio cum flammis?»: ma ci sono anche osservazioni pratiche: a parte chela dottrina del Serveto è scritturalmente fondata, in una città libera ed evangelica come Ginevra non si doveva procedere con tanta precipitazione in materia cosí grave e incerta, poiché la verità ultima su questi problemi e sulla vita delle coscienze è riservata a Dio solo (come diceva anche il Castellione). Una condanna cosí orrenda, per semplice diversità di opinioni! Inoltre, nell’aperto discutere del Serveto, nel suo candido professare la propria opinione si vede una assoluta mancanza di quel dolo, senza il quale ogni condanna a morte è ingiusta. E anche se ci fosse sospetto di reticenza e di mala fede, da parte del Serveto, bisognava rimettere la cosa a Dio: «Fides enim et veritatis cognitio donum Dei. est, nec omnibus omni tempore datur. Spiritus ergo omnia iudicat, ipse autem a nullo sed a se ipso iudicatur». Ecco la dottrina mistica

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per la quale fede, coscienza e spirito – spirito umano e divino insieme –, fanno tutt’uno. Anche quando ricorda Lutero e lo Zwingli, che pure hanno per primi e tanto piú fortemente innovato, e hanno combattuto non contro una dottrina nuova e in via di formazione come quella dei riformatori, ma contro un consenso di tredici secoli, e senza limitarsi a porre in dubbio un dogma, come il Serveto, ma investendo e rovesciando tutto un sistema, il Sozzini adopra un’espressione insolita: «Martini Lutheri spiritus, quum Deo placuit, in hoc excitatus fuit...» Ma come mai Lutero e lo Zwingli sono riusciti ad evitare la sorte del Serveto? La risposta è dettata da orgoglio e prammatismo umanistici, e insieme da risentimento sociale anabattistico. Se a un monaco tedesco, nel fiorire della potenza della Chiesa di Roma, è stato possibile di andare tanto avanti, come mai al Serveto «viro bene docto et in sacris literis diligenter versato» non è stato possibile discutere una sola cosa, la sua opinione «de hoc imaginario nomine trinitatis», dopoché la Riforma aveva già avuto inizio, «iam commotis temporibus et scismatibus superiunctis?» Perché nel caso del Serveto non si è usata quella tolleranza che Paolo vuol sia osservata, quando dice: «nullus spiritus contemnendus est, sed omnia probanda?» La risposta suona: perché Lutero e Zwingli si appoggiarono a forze politiche, cioè non veramente cristiane: essi ebbero «summos principes fautores et corporis sui protectores»; mentre il Serveto, insiste sarcasticamente il Sozzini, era povero: «advena et peregrinus, omni amicorum et procerum suffragio destitutus... ubique insidiis et persecutione versatus». Su base umanistica e mistico-pietistica viene svolta la tesi della tolleranza assoluta: Dio chiama sempre nuovi spiriti a rivelare la verità e a manifestare i suoi giudizi, e ne chiamerà sempre altri fino alla fine del mondo: quindi nessuno potrà pretendere di avere il monopolio della

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rivelazione e della verità religiosa, che è solo di Dio. È il vecchio concetto filosofico del misticismo neoplatonico, che ritorna con insistenza, contro l’attivismo del Calvino. Ma non solo occorreva lasciar libero il Serveto per questa ragione generale: bisognava anzi onorarlo, per aver portato sul serio a compimento l’opera di rinnovamento dottrinale iniziata dai riformatori. Per questi eretici italiani, si trattava dunque di una riforma soprattutto dottrinale, nella quale i «recentes theologi, qui se evangelicos profitentur et verae doctrinae assertores praedicant» (si osservi che a questo modo il Lyncurio-Sozzini si pone al di fuori del protestantesimo come del cattolicesimo) si erano preoccupati di cose secondarie: «circa inferiora elementa strenue et diligenter elaborarunt», e, trascurando la testa del nemico «circa caudam dumtaxat laborarunt». Ma a questo modo, essi hanno trasportato nella nuova dottrina lo spirito «filosofico» e «greco» della vecchia, lo spirito dell’Anticristo, cioè la violenza, la politica con la sua indifferenza ai valori dello spirito, la sua intolleranza: «quemadmodum igitur in trinitatis articulo unanimes convenerunt, sic etiam in flammarum supplicio haereticis adhibendo concordes fuerunt». Anzi i «papisti» sono piú pietosi, perché prima del rogo impiccano gli sciagurati che debbono esser bruciati, mentre gli «evangelici» li bruciano vivi. E, sommo dell’ironia, ora Calvino prepara un libro per dimostrare la sua ragione e il torto del Serveto, combattendo cosí con un morto, che non può piú rispondere. Il Sozzini non si fermò qui: prese parte alla preparazione del De Haereticis, an sint persequendi..., e, continuando la sua attività di discussione e di critica, cominciò a cercare di diffondere piú esplicitamente la sua dottrina antitrinitaria. Già il Blaurer aveva scritto al Bullinger nel novembre del 1553 che il Serveto aveva ancora seguaci, e cinque giorni dopo la morte del Serveto il Grataroli aveva scritto sempre al Bullinger che a Basilea

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molti «qui literatissimi et summe egregi haberi volunt» giungono a chiamar Calvino «carnefice»490 . E l’agitazione a Basilea doveva esser forte, se anche il Grataroli, amico di Calvino, giungeva a dubitare se il genere di morte e la formula della condanna fossero leciti a un «magistrato cristiano»491 . Queste notizie generiche vengono in generale riferite soprattutto al Curione e al Castellione: ma probabilmente riguardano anche il Sozzini. Le denuncie specifiche però cominciano ad arrivare al protettore di Lelio solo verso la fine del 1554, se si prescinde dall’accenno del Beza, che viene subito dopo la pubblicazione del De Haereticis. Agli occhi dei capi ginevrini, il Sozzini aveva un’altra colpa, oltre la collaborazione al De Haereticis, e oltre la partecipazione alle discussioni basileesi contro l’azione di Calvino, che dovevano essere state molte ed aspre, se erano riuscite a scuotere perfino il Grataroli, cosí fedele a Calvino. Il giovane senese aveva non solo manifestato chiaramente la propria disapprovazione al Martinengo, il pastore della comunità italiana di Ginevra, ma aveva osato aggiungere che anch’egli considerava la critica al dogma trinitario come il necessario compimento della Riforma492 . Non si trattava di una professione di fede servetiana o antitrinitaria in genere, perché Lelio, nella sua posizione di ricercatore e di indagatore, non sentiva di poter concludere ancora in un senso o nell’altro; ma in un certo senso egli procedeva al di là della posizione servetiana, affermando in generale la necessità della critica e della discussione come carattere principale della Riforma, e non limitandosi ad una critica particolare, che rimaneva controversa: «audet veluti È l’accenno ricordato sopra, p. 176, nota 1. O. C. XIV, n. 1850, col. 666, 16 novembre 1553, scrivendo al Bullinger. 492 O. C. XV, n. 2045, col. 310; del 14 novembre 1554 secondo il Trechsel, che segue il Simler. 490

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gigas de SS. Trinitate verba faeiens dicere immo gloriari: turrem hanc a fundamentis eversam». Questa posizione faceva tutt’uno con l’idea che tutti ancora erano all’oscuro quanto alla verità divina, e che nessuno poteva arrogarsi di giudicare gli altri. Il Martinengo dichiarava di non avere denunciato prima questo atteggiamento del Sozzini, perché sperava che questi avrebbe abbandonato la Svizzera, o per lo meno Zurigo (dove la colonia italiana stava per acquistare una certa importanza per l’afflusso dei Locarnesi). Ma ora, vedendo che l’eretico non si muoveva da Zurigo, riteneva opportuno avvertire il Bullinger, suo protettore, «ne unius hominis intuitu tota nostra natio suspicione, eaque gravi, notaretur». Quel che più preoccupava il Martinengo era l’efficacia della propaganda di Lelio; egli era infatti stato avvertito che un giovane, non altrimenti a noi noto, che faceva parte della sua chiesa e si era recato a Zurigo, appena quivi aveva cominciato ad inclinare verso opinioni antitrinitarie e a scriverne agli amici, i quali avevano avvertito il loro pastore. Dunque Lelio era divenuto anche corruttore di menti giovanili: pericoloso fra i suoi coetanei per la sua abilità nel cattivarsene le simpatie, come per la stima nella quale vien tenuto dall’antistes zurighese, e per le lodi che a Zurigo gli vengon tributate. E pestilente, dice il Martinengo, perché senza piú speranza di conversione o di ritorno sulla retta strada, coltivatore di vane opinioni e chimere, di bestemmie e mostruosità. Quanta maggiore asprezza contro Lelio, in questo compatriota e antico compagno di discussioni e di tendenze eretiche! Ma se prescindiamo da queste considerazioni personali, si sente chiara nella lettera del Martinengo la preoccupazione per la comunità italiana, che correva il pericolo d’essere disgregata dall’allignare di tali discus-

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sioni, proprio mentre la diffidenza degli ospiti si andava aggravando493 . I fatti esposti dal Martinengo si riferiscono probabilmente alla tarda estate del 1554, poiché nello stesso torno di tempo Lelio era stato a Ginevra portando notizie dalla Germania dove aveva ripreso le sue peregrinazioni, e aveva ricevuto un primo avvertimento, perché Calvino aveva rifiutate di dargli una lettera per il Bullinger. Calvino stesso avvertí il Bullinger del suo rifiuto, commentando «est enim inexplebilis hominis curiositas. Utinam non simul accederet phrenetica quaedam protervia»494 ; e insisteva ancora: «Quam modeste se istic contineat Laelius, nescio; virus quidem suum, quod hactenus aluit, tandem evomet, sicut apud nos: semper olfeci, prodigiosum esse genium, opinionem tamen meam vicit. Quando autem nullis humanis remediis cicurari possunt talea furiae, Dominus eas virtute sua compescat»495 . Il Bullinger si limitò a promettere che avrebbe fatto una diligente indagine; evidentemente esitava. Ma non poté evitare di affrontare la delicata questione, perché gli avvertimenti e le denuncie venivano anche da Basilea, dal Grataroli, il quale avvertiva dell’arrivo a Zurigo d’un certo «Perinus» discepolo del Castellione, uomo quest’ultimo «servetiano e pelagiano», e aggiungeva «De Laelio Italo nihil dico, quod illum fortasse non minus quam ego noveris et ex Geneva audire poteris»496 , e da Tubinga, dal Vergerio, che riferiva informazioni dei Grigioni: «Etiam scripserunt ad me fratres Laelium se continere non potuisse, quin aperuerit se et bene multa dixerit contra nostra dogmata. Utinam non ita sit! Audio ivisse Basileam. Si Church, I riformatori italiani cit., pp. 325 sgg. O. C. XV, n. 1995, col. 208, 7 agosto 1554. 495 Ibid., n. 2050, col. 318, 25 novembre 1554. 496 Ibid., n. 2066, col. 354.

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ita est, quaerit suos»497 . Questa lettera del Vergerio è interessante perché dà notizie sulla agitazione degli antitrinitari dopo la morte del Serveto, come se volessero non tanto difendere la memoria del medico spagnuolo, quanto spargere i semi della dottrina e soprattutto dello spirito critico di questi, per far prendere nuovo vigore al movimento razionalistico e anabattistico dopo la morte clamorosa di uno dei suoi maggiori rappresentanti, e quasi per mostrare a Calvino la inutilità della sua violenza. Il movimento sembrava al Vergerio pericoloso e forte: «deteriora timeo». E le dottrine «servetiane» continuano a diffondersi anche in Italia. Infine venne la notizia diretta dai Grigioni, da parte di Giulio Milanese498 secondo il quale Lelio inclinava alle dottrine di Ario, di Serveto, degli Anabattisti, non riconosceva la dottrina della Trinità, e non era sincero nel dichiarare «Christum Dominum iuxta divinitatem patri esse coaequalem, iuxta humanitatem vero nobis consubstantialem». Il Bullinger si decise finalmente ad intervenire, benché, conoscendo bene Lelio, si meravigliasse delle accuse di Giulio. Chiamato Lelio, gli espone le accuse che contro di lui si fanno, «praeterito tamen tuo et aliorum quorundam nomine», scrive a Giulio. Lelio risponde che ignora come possono essere sorte le accuse, se non è per aver detto una volta a Ginevra che non approvava «quod Servetus de repente sit extinctus»; dichiara di disapprovare la dottrina del Serveto, che «vorrebbe estinta» ma appunto per questo avrebbe preferito che il Serveto fosse liberato da essa con la discussione invece che si fos497 De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., I, parte II, p. 159; dai Grigioni anche il predicatore Filippo Saluz scriveva in questo senso al Bullinger, da Coira (17 settembre 1554) Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, p. 388. 498 Hottinger, Historia cit., p. 419, Cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, p. 182.

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se bruciata la dottrina di lui. Riguardo al resto, Lelio dichiara di seguire la Scrittura Canonica e il Simbolo Apostolico. Alle insistenze del Bullinger sul simbolo niceno, Lelio cerca di sfuggire. L’impazienza e l’irritazione di Lelio di fronte all’insistere, insolito, del Bullinger, e ai persecutori, che egli doveva aver bene indovinato chi fossero, fece impressione al Bullinger, che gli chiese soltanto di firmare la relazione scritta della conversazione e delle sue dichiarazioni. Lelio accettò; e aggiunse una specie di dichiarazione di fede, di tono risentito, ambigua sui punti sostanziali della dottrina, benché egli rinnegasse esplicitamente con le parole di rito e le solite detestazioni ariani, servetisti e anabattisti. Invece di consegnargli una «confessio fidei» il Sozzini proponeva al Bullinger nuovi dubbi e nuove questioni. Lelio dice di non cercare nuova dottrina, ma desidera intendere e capire chiaramente «quae sunt ad aeternam salutem necessaria, summoque theologorum omnium consensu docentur» per potere «acquiescere in ipsa veritate Dei», abbandonando le dispute inutili. Cioè, intanto che ci saranno cosí violente e sottili discussioni fra i massimi teologi e questi non avranno ottenuto una concordia assoluta, e ci saranno dispute inutili, egli non potrà rinunciare alle sue indagini e alle sue ricerche. Ed aggiunge, passando dall’ironia alla protesta risentita: «quoniam fateor ingenue, me curiosiorem fuisse quam potuerint ferre nimis zelotypi quidam Pythagorici»: è stanco di tutte queste meschinità, e spera di morire presto, per risuscitare nella vita eterna dove non ci sarà piú timore di morte, – né di persecuzione, sembra voler aggiungere –, e rivolge preghiera a Dio di assisterlo e di impedirgli di errare. E dalla preghiera si slancia nella profezia: «ego vobiscum non dubito, monstrificam horribilemque patefacere illam belluam, quae tandem comprehendetur una cum falso vate, qui in eius conspectu facit ostenta, quibus decipit eos, qui Bestiae notam accipiunt, qmque eius ve-

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nerantur imaginem Duo illi vivi coniicientur in stagnum ignis ardens sulphure. Reliqui gladio necabuntur sedentis in equo, qui gladius ex eius ore procedit, eorumque cornibus satiabuntur omnes alites: hic cernitur infelicissimus exitus ipsorum, et gladius acutissimus, quo profligandi sunt omnes agro rebelles». Il Trechsel opina che qui si alluda alla Chiesa Romana: ma Lelio Sozzini non avrebbe mancato di specificare in questo caso come ha specificato per gli anabattisti, i servetiani, gli ariani: è invece molto piú probabile che Lelio si riferisse allo spirito satanico della violenza e della politicizzazione della vita religiosa, del quale si vedeva, certo, la maggiore personificazione nella Chiesa Cattolica, ma che non si identificava unicamente con essa, e che in quel momento a lui doveva apparire vivo e attivo anche nella Ginevra di Calvino. Cosí si spiega molto meglio la domanda che segue: «cur igitur nos allo quam Christiano et apostolico iure atque ferro animadverteremus in eos, qui solum propria Christi et Apostolorum iura ac enunciata violant?»499 . Lelio riconosce poi la necessità della moderazione e della cautela nel parlare, ma dichiara: «sed interim numquam sinam me hac sancta libertate privari a maioribus quaerendi et disputandi modeste ac reverenter ad amplificandam rerum divinarum agnitionem... ita ego non adeo sum infans, ut ipsa quoque mea infantia me lateat, et quanta mihi desunt non sciam». E finisce col chiedere al Bullinger di pregare Dio con lui perché il suo Lelio «quae sunt a tergo obliviscens, et ad anteriora se intendens ad scopum, contendat ad palmam, ad quam superne vocatus est divinitus per Christum Iesum». La palma è qui simbolo del martirio? Forse Lelio attendeva una condanna? Ad ogni modo non l’affrontò. Il Bullinger s’accontentò di proporgli alcune correzioni, di cerca499 Hottinger, Historia cit., p. 424; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit.; p. 186.

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re di convincerlo del valore della terminologia e dei concetti tradizionali riguardo al dogma della Trinità, e di ammonirlo che anch’egli, Sozzini, si sarebbe, coll’andar del tempo, convinto che quando gli eretici diventano fomentatori di sommosse e intaccano l’ordine politico-sociale, occorre reprimerli con tutti i mezzi; come era accaduto ai luterani, che dapprima credevano di potere essere tolleranti con gli anabattisti, ma avevano cambiato opinione dopo la repubblica comunistico-anabattistica di Münster. Il Bullinger termina con l’avvertimento che nessuno vuole limitare la libertà d’indagine a Lelio, ma che occorre, in cambio, che questi non cerchi di diffondere e propagare i suoi dubbi. Sicuro che Lelio avrebbe capito la lezione, e d’altra parte ben disposto verso di lui, il Bullinger si prese cura di assicurare gli avversari del suo protetto, che questi non avrebbe piú dato occasione a incidenti o a preoccupazioni per l’ordine delle chiese. Ci rimane la risposta a Giulio Milanese, dove rende conto dell’andamento di tutta la questione, e termina garantendo per Lelio e avvertendo: «Est sane illi curiosum ingenium et multiplicibus implicitum quaestionibus. Eas cum aliquoties proposui discendi et experiendi causa, visus est nondum assuetis eius ingenio, pestiferas fovere opiniones, quin et illas serere et propagare velie». Giulio Milanese accettò, com’era naturale, la decisione del venerato successore dello Zwingli: ma capí subito il rimprovero d’eccessiva diffidenza implicito nella decisione stessa, e in tutto il modo col quale il Bullinger aveva condotto l’interrogatorio e l’ammonimento di Sozzini; e rispose elencando nuovi fatti che secondo lui dovevano tornare ad accusa di Lelio: Lelio frequenta e difende Camillo, a Ginevra a Chiavenna e in altri posti ha preso dichiaratamente le parti degli anabattisti; e ripete che nei Grigioni si ha maggiore esperienza del modo di procedere dei seguaci di Camillo Renato, degli anabattisti, dei servetiani:

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e che era colà opinione diffusa che Lelio stesse dalla loro parte500 . 500

Hottinger, Historia cit., p. 430.

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CAPITOLO DICIOTTESIMO

Il De Amplitudine del Curione. Polemica contro Calvino, interpretazione umanistica della religione cristiana: dottrina della chiesa clandestina. L’attività del Castellione contro Calvino. Il processo per il De Amplitudine, su denuncia del Vergerio.

A Basilea, il Curione credette, anche dopo gli avvenimenti della fine del 1553, di poter continuare la sua opera, sostenendo un principio teologico dal quale si potessero, anzi, si dovessero trarre illazioni nel senso della tolleranza religiosa. Non era un attacco diretto a Calvino e alla dottrina della predestinazione, ma era l’affermazione di un principio che negava esplicitamente l’idea della massa damnationis e della malvagità congenita del genere umano. Il titolo della nuova operetta del Curione, De Amplitudine Beati Regni Dei, Dialogi sive libri duo, riecheggia quello di uno scritto di Erasmo501 , ma il contenuto è del tutto diverso, poiché il fiammingo s’era limitato 501 ...ad Sigismundum Augustum Poloniae Regem potentissimum et clementissimum,1554, settembre. Il luogo è incerto, ma è quasi certamente Basilea. Il Curione cita espressamente il trattato di Marsilio Andreasi, De Amplitudine misericordiae Dei, traduzione latina ad opera di Orazio Curione, Basileae 1550, maggio, dedicata a Edoardo VI d’Inghilterra, del Trattato divoto et utilissimo della divina provvidenza, dell’Andreasi, pubblicato a Brescia, 1542, e dedicato a Margherita Paleologa (F. Lemmi, La riforma in Italia e i riformatori all’estero nel sec. XVI [Documenti di Storia e di pensiero politico, 3], Milano 1939, p. 130, nota 1). Erasmo, che il Curione sembra non stimasse (cfr. Pasquillus ecstaticus, omnia auctiora..., Genevae 1543, pp. 165 sgg.), almeno da principio, aveva scritto un sermone, dove il motivo dell’infinità della misericordia divina era accennato e brevemente sviluppato nel senso della speranza che il cristiano deve avere in essa (Concio de magnitudine Misericordia-

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ad esortare alla fiducia nella misericordia divina, mentre il piemontese cerca di dimostrare filosoficamente l’ampiezza di contro alla asserita ristrettezza della concezione che ne avevano i non nominati avversari. L’operetta è dedicata a Sigismondo Augusto di Polonia, la cui azione allora destava le speranze non solo di Calvino e dei capi delle chiese elvetiche502 , ma anche degli irregolari che speravano di trovare terreno adatto per far valere le loro idee nella genericità di polemica che è propria di ogni primo affermarsi di movimento rivoluzionario, tendente a convogliare il maggior numero possibile di desiderosi o bisognosi di cose nuove. Nell’ampolloso stile ciceroniano che gli è proprio, il Curione promette al re polacco la gloria sopra ogni altro se seguirà la giustizia e la religione: e riprende il vecchio motivo della luna e del sole, la giustizia l’una, la religione l’altro, che infiamma con l’amore delle cose celesti, e rende immortali i mortali503 ; e cosí via. Ufficio dell’autorità regia è anche curare che si insegni ai popoli la vera dottrina dell’evangelo: non che gli uomini debbano essere costretti con la forza a seguir la religione504 , ma basta che si proceda a riforme di istituzioni, riti, ecc., che si ridia libertà di predicazione e di discussione, in modo che la verità si faccia strada da sé. È inutile a Dio chi manca di devozione e di fede: e queste virtú non ci possono essere in coloro i quali vengono costretti a seguire una dottrina che non sentono. Già

rum Domini, in Erasmi Opera ed. Leclercq, 1704, vol. V, coll. 572 sgg.). 502 Th. Wortschke, Geschichte der Reformation in Polen, Leipzig 1911; K. Völker, Kirchengeschichte Polens (Grundriss der slavischen Philologie und Kulturgeschichte), Berlin 1930, pp. 149 sgg.; cfr. pp. 190-91, ecc. 503 Epistola dedicatoria, aijv-aiijr. 504 Ibid., avir.

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nell’epistola dedicatoria il Curione avverte che nella sua operetta si troverà qualche cosa di nuovo, ma che non ci si deve allarmare davanti alla novità, poiché inesausti sono i tesori della scienza divina, e c’è sempre qualcosa di nuovo da ritrovarvi. Tutti possono ripetere le cose conosciute di pochi è trarre alla luce le verità recondite e nascoste negli intimi recessi della dottrina505 . Uno di questi arcani è la questione se sarà ma giore il numero di coloro che dovranno esser beati («beandorum») o di coloro che dovranno esser dannati: arcano tanto piú difficile a investigare, perché è prevalsa da secoli l’opinione che saranno di piú i dannati e perché nulla si può dedurre dai meriti e dalle buone azioni umane. Ma quanto piú arduo il problema, tanto maggiore la gioia della soluzione. Infatti essa ci darà speranza di salvezza, e ci allontanerà dalla disperazione. Questo problema ha tanto valore quanto quello della misericordia, della sapienza, della potenza, insomma della natura di Dio: poiché son tutti problemi indissolubilmente connessi fra loro. Limitare il regno di Dio vale limitarne la misericordia e con essa tutti gli attributi divini. Bisogna perciò riflettere e investigare questo problema con animo sereno e non preconcetto. Anche se si troveranno interpretazioni bibliche non usitate, si ricordi che nella Chiesa e nella società cristiana c’è sempre stata libertà di proporre il proprio parere senza offendere e senza essere offesi506 . D’altra parte tutte le interpretazioni concordano coi principi della religione; e le allegorie e le interpretazioni mistiche son sempre state libere purché non escano dall’«analogia fidei» e dal consenso delle Sacre Scritture. È vero che tutto quel che Dio ha voluto che noi sappiamo e facciamo ci è detto ed ordinato nelle Sacre Scritture; ma non si può dire che tutto sia in esse chiaro e dispiegato: altrimen505 506

Ibid., avij4 r. De Amplitudine, pp. 6-7.

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ti, perché tante dispute?507 . E perché ogni età, a cominciare dalla apostolica, che avrebbe meglio delle altre potuto veder tutto chiaro, ha dato le sue interpretazioni? D’altra parte, Paolo ha stabilito che nella Chiesa ci deve sempre essere profezia, cioè chiarimento di cose oscure e recondite508 . Non si devono porre barriere e dighe, in modo che a nessuno sia piú permesso d’irrigare il giardino edenico, cioè il regno di Cristo509 . Animo servile avrebbe chi temesse che la dottrina dell’infinita ampiezza del regno di Dio potrebbe fare insuperbire gli uomini di fronte a Dio. Non il timore, ma l’amore deve condurre gli uomini alla virtú e all’osservanza della legge cristiana; e la sicurezza di essere salvi, che gli avversari trovano pericolosa, è un conforto a fare il bene, che agisce piú forte della paura. Questa sicurezza, che non viene da disprezzo della legge divina, è mancanza di dolore e di tormento, «vacuitas aegritudinis», e tranquillità d’animo: e in essa sta la vita beata, ed essa è la fonte della santità510 . Il dubbio sulla propria salvezza impedisce di compiere cose degne d’un uomo magnanimo; da animo meschino è il voler ridurre la grandezza del regno di Dio. È questa una posizione del tutto umanistica, che non comprende le istanze morali del profondo pessimismo di Calvino e le rifiuta a priori; mentre sostiene nel campo teologico la libertà dell’interpretazione e insieme accenna alla storicità del pensiero che la giustifica; umanistica anche nella sua concezione di una verità celata, di un arcano da intendere attraverso l’allegoria e la filosofia: è l’ermetismo platonico del Quattrocento che riappare e cerca di riaffermarsi nella controversia teologica. L’attacco alla teoIbid., p. 8. Ibid., p. 9. 509 Ibid., pp. 10 sg. 510 Ibid., pp. 11, 14. 507 508

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logia ginevrina, pur non nominata, è evidente: si rivendicano la libertà di discussione, la libertà di interpretazione, il valore e la possibilità della interpretazione mistica e ispirata. Ma c’è anche il richiamo alle dottrine positive dello «spiritualismo» ereticale: all’attesa del regno di Dio, da realizzarsi in noi prima che nella vita futura. Il dialogo si figura svolto a Pavia, fra il giovane Curione e il venerando Mainardi, un sermone del quale s’immaginava avesse provocato nella mente del giovane un dubbio cosí forte da non lasciarlo dormire. Il Mainardi non fa tanto la parte del sostenitore della tesi della ampiezza infinita del regno di Dio quanto quella dell’«iniziatore» del Curione alla verità nascosta. In primo luogo si dichiara che la idea della grandezza del regno di Dio non va intesa nel senso origeniano, che anche i demoni si salveranno, come contraria alla Scrittura511 . Neppure si può accettare l’idea che saranno beati tutti coloro che siano stati bagnati dell’«acqua mystica» e che partecipano del «pane mistico»: poiché si confonde il segno esterno con la trasformazione interiore. «Baptismus cordis Baptismus est, qui spiritu constat, non externo opere»512 . Dunque l’idea che il regno di Dio sia maggiore di quello di Satana dev’essere intesa in senso puramente spirituale. Il Mainardi però prima di procedere nella spiegazione vuol essere sicuro che il Curione non si spaventerà né delle autorità contrarie, che sono cosí grandi e forti, né della novità della dottrina. Il Curio511 Ibid, pp. 20-21. Il Curione ritiene che l’opinione della salvazione finale di Satana non sia di Origene, ma sia stata una falsa interpretazione di avversari e ignoranti. E si richiama alla difesa di Origene ad opera del Pico («Sed Origenes a Io. Pico Mirandulano docte simul et copiose defensus est...», p. 21). Cfr. E. Garin G. Pico della Mirandola, vita e dottrina, Pubblicazioni della R. Univ. di Studi di Firenze, Facoltà di Lett. e Filosof., serie III, vol. V, Firenze 1937, pp. 31 sgg. 512 De Amplitudine, p. 23.

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ne lo rassicura, anzitutto perché egli non tiene conto dell’autorità in questo caso ma della ragione: neppure i padri sono autorità assolute513 . «Deinde multorum saeculorum consensus, aut vetus consuetudo, si ratione atque sacrorum autoritate librorum careat, quod aliud quam vetus error est?»514 . La verità non è mai nuova, perché è figlia di Dio; e se ci fosse novità dovrebbe attirare piú che spaventare. Convinto, il Mainardi spiega al Curione i passi scritturali che questi gli propone, sulla limitazione dei salvati, interpretandoli come riguardanti il popolo ebraico, e non quello cristiano al quale venivano applicati come profezie. È la forte distinzione fra il Nuovo e il Vecchio Testamento, che i movimenti rinnovatori e innovatori del Cristianesimo hanno sempre accentuato, e che Calvino tendeva invece ad attenuare. Nel corso di queste interpretazioni si solleva il problema del futuro avvento di Cristo, e di quello dell’Anticristo che lo precederà: dove il Mainardi sollecitato dal Curione ha luogo ad esporre l’interpretazione spiritualistica delle dottrine dell’Anticristo. Poiché questo sarà vinto dalla spada dello spirito che è il parlare di Dio, Dei sermo, e dalla folgore della presenza di Dio: «Ignis enim consumens Deus est: cuius ignis splendor et fulgor est Christus»515 . Qui viene proposta anche la dottrina di un avvento di Cristo in terra, intermedio fra il primo, quello storico, e l’ultimo, quello escatologico516 . Questo avvento intermedio, che non segue dunque la venuta dell’Anticristo e non precede la fine del mondo, è necessario perché tutte le genti sono corrotte e oscurate: i cristiani per 513 Ibid., pp. 25: «non tam autoritas in disputando, quam rationis momenta quaerenda sunt». 514 Ibid. 515 Ibid., p. 41; cfr. p. 39: «gladio spiritus, qui est aliud nihil quam Dei sermo... et doctrina». 516 Ibid., pp. 45 sgg.

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i decreti pontificii e la dottrina scolastica, gli ebrei per la dottrina talmudica, i maomettani per il Corano di Maometto. Cosí il Curione non condanna il «medioevo» solo per quanto riguarda la cristianità, ma anche per quanto riguarda le altre religioni517 . Il segno di questo avvento intermedio sono le grandi conversioni al Cristianesimo degli Ebrei «vagi et palantes»518 . E ci sono stati pochissimi che han saputo di questo avvento di Cristo, e l’hanno profetato: oscuri quanto all’avvento, chiarissimi quanto alla riforma, e al rinnovamento della Chiesa che esso doveva portare con sé: Cirillo e Gioachino. Anche Papia, Ireneo, Apollinare, Tertulliano e Lattanzio hanno ammesso un avvento intermedio; neppure Agostino si manifesta del tutto contrario519 . Questo secondo avvento, che neppure Gerolamo osò contestare, i cui segni sono gli stessi che per il primo e per l’ultimo e si possono adattare interpretandoli misticamente al tempo presente, e del quale ora si vede appena l’aurora, è, dice il Curione, il completamento del primo e la preparazione dell’ultimo; e porterà all’unificazione di tutti i popoli in 517 Ibid., p. 47. Con ciò il Curione si pone in certo senso al di fuori della storia del cristianesimo occidentale ed europeo, e abbraccia in uno sguardo solo tutta la vita religiosa nelle tre grandi religioni. E sembra che questo avvenga in funzione di una vera sapienza superiore alla religione: «in tanta cum omnium aliarum rerum tum disciplinae veteris perturbatione, necesse omnino est coelestem doctorem et Regem suo clarissimo adventu sanctissimaque doctrina omnia sedare animosque fluctuantes tranquillare: ut et docti ad veram sapientiam dirigantur, et indocti ad veram religionem». 518 Ibid., p. 50. 519 Ibid., pp. 52-53. Per Gioachino: Denifle, Das Evangelium Aeternum and die Commission zu Anagni, in Archiv für Litteratur and Kirchengeschichte des Mittelalters, I, 1885, p. 124. Il Curione cita fra i favorevoli anche Vittorino di Pettau. Probabilmente il Curione si riferiva all’apocrifo De Fabrica Mundi, d’intonazione millenaristica.

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una sola religione520 . Esso consiste nell’abbandonare gli errori e nel volgersi alla vera fede di Gesú Cristo, che è la vera vita dell’uomo521 . Questa dottrina non è del tutto identica a quella del Chiliasmo, ma affine: e il Mainardi dichiara senz’altro che i chiliasti, se certo non sono da difendere e hanno errato, hanno tuttavia avuto una gran causa d’errore, e si possono e si debbono scusare, perché avevano ragione di credere che Cristo stesse per scendere in terra, e l’errore loro nell’interpretazione dei segni è consistito nel credere che quell’evento imminente fosse l’ultimo, accompagnato dalla fine del mondo, e non il secondo intermedio. Questo viene descritto come il principio della diffusione della luce sulla terra dopo le tenebre, luce che è lo spirito e l’Evangelo di Cristo, cosí dunque identificati, anzi, Cristo stesso che è la vera luce. Dunque l’avvento intermedio è «adventum illustrationis», «quasi illius aspectabilis aurora quaedam, diluculumque»522 . Ritornando alle argomentazioni sull’ampiezza del regno di Dio, il Mainardi osserva che sarebbe stato contro la natura stessa di Dio limitare il numero degli uomini buoni, dei quali Dio gioisce piú che di ogni altra cosa. La «porta angusta» e «la porta che si chiude» dell’Evangelo sono da intendere in riferimento storico agli ebrei del tempo di Cristo, e in riferimento simbolico all’accecamento dei loro animi per suprema deliberazione divina. La via larga dell’inferno e la via stretta del paradiso vanno interpretate, dice il Mainardi, non nel senso della scarsità degli eletti, ma l’una come via della natura umana e corrotta, e l’altra come osservanza della legge divina e imitazione di Cristo523 . Il Curione fa poi corrispondeIbid., p. Ibid., p. 522 Ibid., p. 523 Ibid., p. 520

521

54. 56. 73. 89.

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re a questa interpretazione religiosa quella filosofica, riconnettendo il passo evangelico all’apologo di Ercole al bivio e facendo risalire questo al suo Pitagora; e cita un passo pitagorico, che attribuisce a Virgilio524 . Non manca l’osservazione della differenza fondamentale, che per la parabola antica ambedue le vie procedono dalla natura umana e nella via del bene nessuno ci è guida, mentre per i cristiani la via del male procede da noi, quella del bene da Dio, che in essa ci è guida. Non molti, ma tutti entrano nella via del male, poiché vi nascono; tutti vi sono entrati e vi entreranno, eccetto Cristo: essa è la stessa natura umana. E non pochi, ma nessuno può entrare da solo, «natura duce» nella via della salvezza e dell’imitazione di Cristo. Tutti invece vi possono entrare per aiuto e ispirazione della grazia divina: la quale è data a tutti; altrimenti bisognerebbe pensare che tutto il genere umano è stato creato soltanto per la morte e la dannazione eterna. Non è detto che chi entra in una via la debba seguire fino infondo. Anche i «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti» va interpretato secondo il canone di non dare valore assoluto alle parole evangeliche, e di tenere anzi sempre presente il fine propostosi da Cristo nel pronunciarle, specie per le parabole. Il che equivale a una interpretazione storico-prammatistica, che conclude come altrove nel riferire le parole di Cristo solo agli ebrei del suo tempo. La dottrina del minino numero degli eletti è stata inventata da Satana per minare l’affermarsi del regno di Dio fondato sulla misericordia, e subito l’hanno sostenuta coloro che nutrivano l’ambizione di apparire più sapienti degli altri. Dapprima questa dottrina lusingatrice di superbia si è manifestata in forma generale, sostenen524 Ibid., p. 101. È il noto motivo della «litera Pythagorae»; cfr. E. Panofsky, Herkules am Scheidewege, Leipzig 1930 (Studien der Bibliothek Warburg, XVIII), pp. 43-44.

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do che molti sono i malvagi, pochi i buoni: e Curione cita due passi di Giovenale, e l’antico detto «stultorum infinitus est numerus» che però non sarebbe di Salomone, ma di Cicerone525 . Contro di essa Platone ha giustamente osservato nel Fedone che la massa maggiore non è di cattivi né di buoni, ma di mediocri tanto nel bene che nel male526 . Unendo il numero dei mediocri a quello dei buoni, ecco che il numero dei malvagi è già di molto superato. Non per nulla Platone è sempre sembrato al Curione «reliquis omnibus religiosior». Espediente dell’astuto Satana anche la dottrina della giustizia che limita la bontà e la misericordia divina. Le testimonianze bibliche addotte in favore di questa dottrina da parte dei superbi che vogliono essere pochi, e in questo e in quell’altro mondo, sono già state confutate. Direttamente contro Calvino, pur senza nominarlo, si volge ora la critica delle altre ragioni addotte pera dottrina della minoranza degli eletti: la prima che consiste nell’attribuire alle opere e alle azioni degli uomini la causa di tale minoranza, poiché pochissimi sono realmente e completamente giusti. Qui il Curione rinnova contro Calvino la polemica del Valla contro lo stoicismo di maniera predominante nel mondo umanistico italiano: è come se questi italiani vedessero risorgere nel nuovo ambiente i problemi già posti dalla cultura italiana e credessero di poterli risolvere riproponendo le vecchie soluzioni e le vecchie critiche. Pur affermando la preminenza della sapienza divina su quella umana, della devozione sulla cultura, questi uomini non si rendono conto che la nuova esperienza religiosa e morale e le nuove situazioni sociali e politiche non permettono la identificazione dei vecchi coi nuovi atteggiamenti: sembrano non vedere che quel che era orgoglio e rettorica nello stoicismo umanistico, è vera e seria convin525 526

De Amplitudine, p.137. Juvenal. Sat., 10, 1 sg.; 26 sg. De Amplitudine, p.138.

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zione religiosa in Calvino. Così appare gratuito il corollario nel quale il Curione identifica l’argomentazione pochi saranno gli eletti poiché pochissimi sono i veramente buoni (che è la trasformazione a scopo polemico del calviniano pochi saranno gli eletti perché pochi saranno sottratti alla corruzione della natura umana) con il motivo del sorgere degli ordini religiosi, che avrebbero applicato l’opinione (di origine «filosofica» dice il Curione) della minoranza degli eletti separandosi dal comun popolo dei fedeli527 . A quell’argomentazione il Curione oppone per bocca del Mainardi che la ragione della salvezza non sta nelle opere (nell’osservanza della giustizia) degli uomini, ma nella grazia di Dio, che è infinita. Che è anche il punto di partenza di Calvino, e può essere ritorto contro di lui solo attraverso la interpretazione morale della sua posizione: fra la concezione intellettuale degli umanisti e la esperienza religiosa di Calvino qui non c’era possibilità d’incontro. Basta la fede in Dio e nella sua misericordia e il dilettarsi della sua legge, «et quod ad interiorem hominem mentemque attinet», per poter dire che né i peccati, né la legge, né la forza degli inferi, né alcun’altra cosa al mondo possono condannarci528 . Confutati gli avversari il Curione passa, notando con compiacenza che cosí deve fare chi segue le buone norme dell’arte oratoria, a raccogliere gli argomenti in favore della sua tesi. Non sono argomenti, egli dice, ma la vera e semplice dottrina divina; e si riducono alla deduzione dell’ampiezza del regno di Dio dalla potenza, dalla sapienza, dalla bontà o misericordia divine, e infine dalle testimonianze scritturali. Dalla potenza: perché la vera potenza di uno Stato sta soprattutto nel numero dei sudditi. E Satana dovrebbe essere piú potente di Dio? La potenza si po trebbe manifestare nella giusta punizio527 528

Ibid., p. 141. Ibid., pp. 143-44.

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ne dei nemici, i peccatori: ma questo sarebbe da tiranno, non da padre del genere umano. Il tiranno che domina questo mondo è Satana, che cerca di portare alla rovina il massimo numero di uomini: onde noi viviamo come in uno stato che appartenga di diritto a un buon principe, ma sia oppresso di fatto da un tiranno. Come gli ebrei nella servitú di Egitto, il popolo cristiano «volens et libens palam tyranni sequitur nutum, eiusque capessit iussa: verum clam, cum suo vero et legitimo principe consentit». E quando il buon principe verrà a scacciare l’usurpatore il tiranno s’accorgerà di aver molti nemici dove aveva creduto di possedere molti sudditi che gli ubbidivano solo o per coazione o per ignoranza: «Quot quis habet servos, eum tot inimicos habere»529 . La saggezza antica viene a confortare e a concludere l’argomentazione tipicamente cristiana e settaria, che nel Seicento si diffonderà o risorgerà anche ma non sempre indipendentemente da questi scritti, quasi controparte alla elaborazione delle dottrine dell’as solutismo. Intanto che si attende il giorno della liberazione del peccato, continua il Curione, «noster rex cum suis clandestina habet colloquia», e li consola, e li esorta a perseverare nella fede, affermando di accettare come perfetta obbedienza questa fede e questo desiderio che i suoi hanno di lui, e il loro tendere a lui. La dottrina della Chiesa invisibile diventa qui dottrina d’una Chiesa clandestina, come doveva accadere in questi gruppi di perseguitati; e si appoggia alla netta distinzione e separazione fra il regno di Dio e il regno di Satana nell’uomo, lasciando a questo la vita umana in generale, ed assegnando a quello solo la fede e l’attesa dell’avvento definitivo: insieme di idee che uniscono il «nicodemismo» allo spiritualismo religioso anabattistico. Quasi un’eco di eresie rinnovanti motivi manichei si può sentire in quanto il Curione fa dire al Mainardi sulla 529

Ibid., p. 163.

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potenza e sapienza di Satana, cominciando dagli antichi greci ed ebrei: certo, piuttosto malizia, «versuta et fallax nocendi ratio». che vera sapienza; piuttosto audacia che forza, piuttosto violenza che potenza; ma insomma qualcosa che si oppone validamente, se pur destinato a essere sconfitto, a Dio. Alla potenza e alla sapienza segue ora la bontà, cioè la misericordia, per la quale il Curione rimanda all’opera di suo figlio530 aggiungendo le sue considerazioni sui luoghi comuni della parenetica su questo tema. L’affermazione che il sacrificio di Cristo è stato compiuto per tutti, ma ha giovato pochissimo, è paragonata al procedere di Epicuro, che non negò formalmente l’esistenza degli dèi, pure eliminandoli di fatto dal suo sistema di pensiero531 . Anche i popoli di recente scoperti, se hanno osservato la legge di natura, se hanno onorato un solo Dio, se non han fatto agli altri quel che non voglion sia fatto a loro o si son pentiti d’averlo fatto, saranno salvi, come coloro che han vissuto prima di Cristo e prima di Mosè532 . Era un pensiero ormai abbastanza divulgato, e adottato anche da Calvino, ma qui volto contro di lui. Come contro Calvino è tutta l’argomentazione sul carattere della vera predicazione evangelica: che non deve fondarsi sulla forza e sulle armi, ma sulla predicazione, sull’energia e l’evidenza spirituale, sui costumi, sulla sapienza, sulla tolleranza e sulle altre virtú cristiane: «Si enim imperiis ac vi religionem tenere velis, iam non defendetur, sed polluetur ac violabitur potius»533 . Se si seguirà la vera religione e la vera predicazione, s’avvicinerà il giorno nel quale vedremo ampliarsi ancora il regno di Dio in terra. Anzi, è vicino, perché l’annuncio evanIbid., p. 174. Ibid., p. 182. 532 Ibid., pp. 195-96. 533 Ibid., p. 216. 530 531

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gelico è giunto ormai agli Sciti, ai Traci, agli Indiani, agli Africani, per non parlare dell’Europa: la Rezia e l’Elvezia sono già occupate dal «Rex Christus»: egli protegge la Germania, ha regnato e regnerà di nuovo in Inghilterra, governa la Danimarca e i regni dei Cimbri, tiene la Prussia e sovrasta alla Polonia e a tutta la Sarmazia, «urget Pannonias, spectat Moscos. Nutat Gallia, nostra parturit Italia...»534 . E anche gli Ebrei non son piú cosi lontani dal Cristianesimo come prima, per la semplificazione della vita religiosa e dei dogmi derivata dalla diffusione della Riforma. Prima di passare all’elenco e al commento dei passi evangelici in favore della sua dottrina il Curione si sofferma a spiegare l’accenno all’Italia: Utinam tandem pariat, quod iam diu parturit: et qui nunc tenet et obstat e medio tollatur... Utinam nostrorum prmcipum quispiam, aliquave Respublica, aut Regnum, Asylum aperiret iis, qui vix usquam locum tutum inveniunt: qui unam tantum ob causam impii seditiosique proclamantur, quod vere pii ac Christi domini gloriae studiosi esse volunt.

Certo, chi aprirà questo asilo vedrà in breve il suo Stato fiorire di grandezza e potenza. Ma invece che in Italia questo asilo sembra aprirsi ai profughi proprio in Polonia; il Curione cita una lettera scrittagli dal Lutomirski535 , e ricorda come il re di Polonia abbia anche sangue italiano nelle vene: re generoso, generosa e forte nobiltà, grande e magnifico regno. È evidente l’intenzione del Curione, e probabilmente dei suoi amici, di cercare rifugio in Polonia; e se si tien conto della situazione nel 1554, quando Zurigo stava raccoglienIbid., pp. 218 sg. Su questo protettore e capo di protestanti polacchi cfr. Völker, Kirchengeschichte Polens cit., pp. 165 sgg. Stanislao Lutomirski è l’autore della prima professione di fede polacca (3 maggio 1555). 534

535

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do e ammettendo alla cittadinanza i locarnesi, e quando la emigrazione italiana a Ginevra, lucchese e siciliana soprattutto aveva raggiunto un valore notevole, e per l’importanza dei singoli, e per il numero dei rifugiati, è anche evidente che il Curione non pensa agli italiani riformati in genere, ma al movimento spiritualistico e anabattistico. Infatti ai riformati non si adatta il «qui vix usquam locum tutum invenissent»: mentre certo per Lelio Sozzini, pel Curione, per il Gribaldi, neanche la Svizzera e i Grigioni erano «locus tutus». Oscuro è invece il senso dell’augurio che l’Italia «Utinam tandem pariat, quod iam diu parturit»: non si riesce a vedere a chi e a che cosa alluda il Curione, in questi anni precedenti al 1554, e neppure che cosa speri dalla scomparsa di «qui nunc tenet et obstat», a meno che non si tratti d’un accenno generico al Papato. Mentre il Curione cercava di colpire indirettamente l’atteggiamento di Calvino, il Castellione continuava la controversia diretta, rispondendo al De haereticis a civili magistratu puniendis del Beza, piú conosciuto sotto il nome di Anti-Bellius, con il Contra libellum Calvini536 . Già prima che uscisse questo secondo scritto del Castellione, anonimo anch’esso, Calvino aveva creduto di vedere la mano di lui nel tentativo fatto a Ginevra stessa da un suo avversario, il Vandel, presentando al Consiglio della città un voluminoso atto d’accusa, il «livre des blasmes», anonimo, ch’egli diceva essergli pervenuto da fuori. Anche se lo scritto era del Joris, mal non s’apponeva il Vergerio riassumendo la situazione con le parole: «Res certa est conspirationem esse aliquorum basiliensium cum nonnullis Italis, quae nisi comprimatur pariet nobis aliquod magnum malum»537 . 536 537

Buisson, Sébastien Castellion cit., II, pp. 29 sgg. O. C. XV, col. 246, 6 settembre 1554.

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Il Contra libellum Calvini riprende con maggiore vivacità e in forma dialogica i motivi del De Haereticis, rispondendo punto per punto al testo di Calvino. Contro la convinzione del capo ginevrino, d’esser in possesso della unica verità religiosa, il Castellione riafferma che nessuna sètta cristiana è in possesso di questa verità, e rivendica i diritti degli ispirati alla discussione di ogni problema. Contro il richiamo al Deuteronomio, ricorda che la legge ebraica non vale per i cristiani: e ha buon giuoco a invocare le massime del Nuovo Testamento. Ma lo scritto del Castellione rimase inedito, come tanti altri suoi scritti. Se infatti le pressioni di Calvino sui capi ecclesiastici di Basilea per far punire il Castellione della supposta preparazione dell’atto d’accusa presentato dal Vandel dovevan rimanere senza seguito, aveva avuto invece effetto l’intervento contro la pubblicazione della Adnotatio in Epistula ad Romanos, dove il Castellione controbatteva la dottrina calvinista della predestinazione: la commissione di censura fece ritirare il fascicolo della traduzione già uscito, e ne permise la pubblicazione solo dopo che la lunga annotazione fu soppressa. Gli amici del savoiardo la fecero circolare di sottomano; ma il Castellione si tenne per avvertito, e anche i tipografi dovettero essere meno inclini ad aiutarlo. Era divenuto da poco professore nell’Università, e dovette non solo sottomettersi, ma anche tener conto dell’avvertimento implicito nella decisione presa, tanto piú, che come nota giustamente il Buissonn, questa volta la dottrina della tolleranza, diventando esplicita, condannava non piú soltanto la prassi ginevrina, ma anche quella delle altre Chiese svizzere e protestanti che avevano approvato l’operato di Calvino. Intanto, nel 1555 Calvino trionfava sul partito dei «libertini» di Ginevra, che aveva tentato di attaccarlo come «eretico», cioè rivolgendo contro di lui la sua arma; ma inutilmente. E anche questa vittoria, con il conseguente aumento di influenza degli amici

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di Calvino e della rigida disciplina ecclesiastica, doveva consigliare il Castellione a ripiegare sui suoi studî, come il Curione, almeno per il momento. In questi anni si occupa di traduzioni e di edizioni di classici: Omero, che vien pubblicato nel 1561, Senofonte, nel 1551, Erodoto greco-latino e Diodoro nel 1559, Tucidide nel 1560. Sono, come quelle del Curione, edizioni scolastiche, sorte dall’insegnamento e pensate per l’insegnamento o la diffusione fra gli studiosi, in accordo con gli editori basileesi, l’Iserigrin, il Brylinger, l’Henricpetri538 . Il Castellione non ha piú interesse per gli studi classici, com’egli stesso dichiara nella prefazione al suo Omero; e si isola quasi del tutto, conservando relazioni soprattutto con il Curione, con l’Amerbach, con il tipografo Oporino, con il giovane Teodoro Zwinger, scolaro del Ramo e amico del Perna, e infine col francese Bauhin e col bernese Zurkinden, amico dei «moderati di tutti i partiti», fra i quali il Curione539 . In questo periodo il Castellione legge la Theologia Germanica e la propone allo Zurkinden, difendendone il misticismo contro le osservazioni umanistiche dell’amico; il Buisson, che fa del Castellione un apostolo della tolleranza in senso moderno e umanitario, rimane un po’ perplesso di fronte a queste manifestazioni di misticismo del savoiardo: ma questo fa tutt’uno con la dottrina dell’ispirazione e della rigenerazione dell’uomo in Cristo, che è il lato positivo dell’atteggiamento del Castellione, e forma il fondamento dell’atteggiamento negativo in favore della tolleranza e contro l’intransigenza di Calvino. Non è dunque semplicemente «odio»irragionevole o dettato da offesa volontà di predominio, quello che spinge il Beza ad attaccare di nuovo ed apertamente il Castellione per tutti i motivi mistici che appaiono nella sua 538 539

Ibid., p. 83. Ibid., pp. 86, 89, 94.

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traduzione della Sacra Scrittura, e per tutte le traduzioni discrepanti dalla linea del calvinismo540 . In quello «spiritualismo» i ginevrini sentivano infatti il pericolo maggiore alla loro opera di costruzione e di propagazione dei principi della riforma religiosa, perché l’universalismo che ne scaturiva sembrava piú coerente, nella sua astrattezza, di quell’altro universalismo che ha pur fatto la forza del calvinismo nei confronti del luteranesimo. Da tale sentimento era animato il Beza quando, nelle sue annotazioni alla propria traduzione latina del Nuovo Testamento, attaccava violentemente la traduzione del Castellione, che non si degnava neppur di nominare. Il Castellione tentò di pubblicare una difesa della propria traduzione: ma benché si assoggettasse a tutti i tagli imposti dalla commissione di censura, allora allora rinnovata e trasferita dal Consiglio all’Università, non gli fu concesso per il momento di diffonderla. Non sembra ci fosse una vera e propria proibizione; ma anche questa volta il Castellione era stato denunciato dal Beza e dal Calvino, prima per uno scritto anonimo in francese contro la predestinazione, poi per alcuni discorsi contro la stessa dottrina che era stato indotto a fare in una discussione ad arte provocata alla presenza stessa del Beza541 . Le accuse non ebbero seguito, anche perché il Beza, che era accompagnato dall’irruente Farel, si era attirato l’avversione di uomini come l’Amerbach, il tipografo Frobenio 540 Il Buisson (ibid., p. 103, per es.; ma in tutto il libro) non sa vedere altro che odio accanito in Calvino e in Beta. Ma l’unilateralità della sua interpretazione deriva dall’astrattezza della sua posizione storiografica (illuministica) che basta accennare; la scarsa comprensione storica della reale situazione della vita politico-religiosa dell’Europa del Cinquecento non ha del resto impedito che l’opera del Buisson riuscisse una preziosa raccolta di notizie. 541 Oltre il Buisson, Sébastien Castellion cit., pp. 108 sg., cfr. Carew Hunt, Calvino cit., p. 222.

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e l’Episcopio per il modo aspro e inopportuno col quale avevano parlato di Erasmo, la cui memoria era onorata da tutti i basileesi: il Beza era perfino giunto ad affermare che Erasmo era in fondo «un ariano». Il modo col quale si era cercato di porre il Castellione davanti all’alternativa o di ritrattarsi o di esporsi all’accusa di eresia e di blasfemia da parte dei due acri controversisti francesi fu disapprovato anche dal Melantone. Il Castellione fu riconosciuto innocente di tutte le accuse fattegli ed ebbe la soddisfazione dell’approvazione del venerato capo tedesco, che aveva tanto maggior valore perché anche Calvino ne ascoltava la parola con deferenza; ma non poté aggravare la situazione con la pubblicazione di uno scritto che avrebbe irritato ancor di piú gli avversari. Anche per un altro attacco che gli viene questa volta direttamente ed esplicitamente da Calvino, e dove questi discende anche a violente e ridicole accuse di leggerezza, ladroneccio542 e cosí via, il Castellione prepara la risposta, ma non la pubblica; anzi, non cerca neppure di pubblicarla, cedendo alle esortazioni alla concordia che gli vengono dallo Zurkinden. E la risposta del Castellione fu l’invito al Beza di pubblicare integralmente in edizione parallela i due loro scritti sulla traduzione della Bibbia: il che, sotto l’apparente moderazione, celava pei ginevrini un pericolo ancor piú grave che ogni attacco e ogni aperta controversia, perché avrebbe dato possibilità di diffusione a un pensiero ch’essi consideravano estremamente insidioso e da rifiutarsi del tutto e senza nessun riguardo. Cosí il Beza pubblicò un altro libretto polemico, rincarando le dosi. Il Castellione cercò di far pervenire a Calvino la risposta al suo attacco dell’anno prima con un’appendice per questo del Beza: ma non ebbe risposta. 542

Buisson, Sébastien Castellion cit., I, p. 209; II, pp. 122

sgg.

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È una continuazione accanita della controversia iniziata col De Haereticis, e condotta, da parte dei ginevrini, con tutte le armi possibili, da parte del Castellione con ostinatezza ed elastica tenacia. Questa tenacia del Castellione si spiega soltanto con il misticismo ispirato che lo animava, e che lo conduceva a rivendicare la possibilità di parlare a tutti coloro che sentivano la voce interiore, e, entrando nelle dottrine specifiche, a riaffermare il valore della volontà umana rigenerata da Dio contro le perentorie negazioni di Calvino. I ginevrini sospettavano, non a torto, che il Castellione tentasse di diffondere le sue idee fra i riformatori francesi, portando cosí non solo una dottrina tanto pericolosa, ma anche la discordia in quelle comunità che si trovavano in una situazione di per sé molto difficile. Cosí, con gli attacchi ripetuti e insistenti costringevano lui, come gli altri del gruppo italiano di Basilea, a ripiegare o nella discussione privata e inefficace, o nell’azione clandestina, che anche lo Zurkinden, pur tanto amico del savoiardo, disapprovava. I concetti principali del De Amplitudine non sono una escogitazione polemica, ma risalgono al primo periodo dell’esilio del Curione, quello di Losanna. Il dotto piemontese aveva mandato di lí un primo abbozzo del suo scritto al Borrhaus; era vicino al suo trasferimento a Basilea, e forse intendeva farlo precedere da un nuovo lavoro. Ma il Borrhaus, già allora, sconsigliò la pubblicazione, e allora il Curione aveva accettato il consiglio543 . Che rompesse gli indugi proprio nel 1554 non poteva non avere il carattere di replica a Calvino; e d’altra parte, il Curio543 Cfr. la lettera del Curione al Borrhaus, dell’epoca di Losanna, ora in Opuscoli e lettere di Riformatori italiani cit., II p. 243 (C. S. Curionis, Selectarum Epistolarum libri duo, Basileae 1553, marzo, pp. 42 sg.). Cfr. G. G. Schelhorn, Amoenitates literariae, XII, Francofurti-Lipsiae 1730, pp. 592 sgg. (Historia Dialogorum Coelii Secondi Curionis de Amplitudine beati regni Dei).

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ne dovette pensare che se fino ad allora c’era stata qualche ragione di evitare polemiche, ora, mentre ferveva la controversia sul processo del Serveto, questa ragione era venuta a mancare nonostante il parere contrario dell’Amerbach e del Bullinger. Ad ogni modo il De Amplitudine non era stato diffuso in Isvizzera, ma in Polonia, dove per un momento l’autore cercò di far credere che fosse stato stampato544 . E questo tentativo di diffusione semiclandestina, limitata consapevolmente ad una sola regione, mentre nelle altre il libro non veniva pubblicato, ebbe successo per un certo tempo: la prima notizia della disubbidienza commessa dal Curione col pubblicare il libro senza il permesso del collegio dei censori, giunse a Basilea solo un anno e mezzo circa dopo che il libro era uscito per le stampe dall’officina dell’Oporino545 . Anche questa volta, il denunciatore era il Vergerio, spinto dal suo protettore, il Duca Cristoforo; al Vergerio la notizia era giunta dalla Polonia, dove il dialogo venne soprattutto diffuso, per opera del Lismanini546 . È probabile che il Vergerio intendesse o prevenire una nuova accusa di eresia per gli italiani riformati, dei quali egli si atteggiava a capo, o colpire un pericoloso competitore nella propaganda protestante in Polonia, alla quale il Duca Cristoforo teneva particolarmente, e che voleva fatta in senso luterano, o che infine cercasse di sbarazzarsi a questa maniera dell’unica persona che potesse contrastargli a proprio favore la posizione di capo degli emigrati italiani. O forse tutti e 544 Schelhorn, Amoenitates literariae cit., pag. 593. Ma la prefazione portava la data di Basilea. Cfr. Church, I riformatori italiani cit., I, pp. 344 sgg. (a p. 344, riga 9 dal basso, leggi 1544 invece di 1554, p. 345 riga 5 dal basso, leggi «estensione del regno di Cristo»), poi il parete dell Amerbach e del Bullinger. 545 Schelhorn, Amoenitates literariae cit., p. 626. 546 Church, I riformatori italiani cit., pp. 384 sgg.

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tre questi motivi, quello confessionale, quello politico e quello personale ebbero una parte nell’azione del Vergerio contro il Curione, che fu insistente e precisa. Il Vergerio però non fece una denuncia in senso proprio, scrivendo ufficialmente al Consiglio della città, o al Senato accademico, ma si rivolse all’Amerbach, che sapeva amico e protettore del Curione, cosicché la denuncia perdette alquanto del suo carattere pericoloso547 . Invitato a discolparsi tanto per quel che riguardava l’espressa disubbidienza alla deliberazione negativa dei Ministri sulla pubblicazione dell’opera, e per quanto riguardava il contenuto di essa, che il Vergerio aveva accusato d’eresia, il Curione seppe difendersi con abilità, mentre, in privato, insisteva presso l’Amerbach sui motivi dell’avversario per svalutarne l’accusa548 . Al primo punto, periIbid. Curione a Bonifacio Amerbach, datata dal 29 luglio 1557, Basilea, Universitätsbibliothek, ms Ki. Arch., 18ª, n. 1, fol. 167, cit. dal Church, I riformatori italiani cit., p. 78; e inoltre, sempre dal ms Ki. Arch. 18ª, fol. 171, con i riferimenti alle idee del Butzer, a passi biblici, al De Clementia di sant’Agostino, e alla prefazione di Erasmo alle Tusculane di Cicerone; infine, ibid., foll. 172 sg., la lettera, non datata, con la quale il Curione accompagna l’invio del manoscritto del suo libro all Amerbach. Cfr. Church, I riformatori Italiani cit., I, p. 345, nota 2 (p. 208, nota 74), dove invece di «dolere Minervam» verso la fine della lettera si ha «dolere». «Salve. Velim te per ocium hosce dialogos nostros legere Bonifaci patrone singularis, prius quam eum [sic] ullo mortalium communices: idque oro ut facias, quo melius meam integritatem adversus aemulos, si qui erunt tuearis. Namque hoc tempore plerique adeo Suffeni sunt, ut nihil sit ab invidorum dentibus tutum. Vale et quemadmodum coepisti candidis ingeniis fave. Qua de re inter nos egimus, una cautio in eo est, ne ullus theologorum id rexiscat. Quanquam nihil erat opus docere Minervam. 547 548

Tuus ex animo

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coloso per lui che non era cittadino di Basilea, rispose asserendo che l’opera non era uscita in quella città, ma nei Grigioni; e non per opera sua, ma di suo figlio Orazio549 . Quindi egli non aveva contravvenuto all’espressa proibizione, e perché questa valeva solo per Basilea, e perché il fatto era stato compiuto dal figlio (il quale aveva la cittadinanza basileese, e sarebbe stato punito meno severamente, e in ogni modo non poteva essere espulso). Questa difesa fu in sostanza accettata dai giudici, che erano tre, con a capo il protettore stesso del Curione, l’Amerbach; tanto piú che nella stessa denuncia del Vergerio si parlava dei Grigioni550 . Il Curione adduce poi come causa della pubblicazione l’insistenza di alcuni suoi scolari polacchi, i quali, conosciuto l’argomento del libro, avrebbero scritto al Lutomirski per indurlo a pregare il Curione di pubblicare il lavoro sotto l’egida del nome del re di Polonia. Il capo d’accusa principale era però quello d’eresia, fondato sull’affermazione che la salvezza è possibile anche solo per l’osservanza della legge di natura; il che equivaleva, per l’accusa, alla negazione dell’ufficio di mediazione di Cristo e dello Spirito Santo, e della virtú del sacrificio e del beneficio di Cristo. Qui il Curione si difese facendo professione di ortodossia e dichiarando, con una distinzione forse troppo sottile, di non avere affermato che ci si possa salvare senza l’intervento di Gesú Cristo, ma di aver soltanto sostenuto che non si possono condannare tutti coloro ai quali non sia pervenuta la

c. s. c.» Un altro foglietto del Curione (fol. 74) si raccomanda perché l’Amerbach sia presente alla discussione della sentenza sul suo libro. 549 Schelhorn, Amoenitates literariae cit., p. 603. 550 Ibid., pp. 615 sgg.

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«aeterna vox Evangelii», il che implica la dottrina della voce di Dio interna all’uomo, realmente suscettibile di sviluppi in senso ereticale. Alle argomentazioni, il Curione fece seguire un elenco di passi del suo libro, perfettamente ortodossi nel senso della Confessio Helvetica; ma quel che dovette fare piú effetto furono le citazioni di un lungo passo di Ludovico Vives tratto da un’opera piú volte ristampata a Basilea e senza che fosse sollevato nessun incidente, dove il pio erasmiano affermava una dottrina analoga a quella incriminata dal Vergerio551 ; e di una autorità generalmente riconosciuta come quella del Butzer, che anch’egli aveva sostenuto una tesi del genere nel commento all’Epistola ai Romani. Se l’umanista piemontese avesse meglio conosciuto le opere dello Zwingli, avrebbe potuto citare anche la piú importante autorità della riforma svizzera; era una idea sorta dal platonismo fiorentino, che nell’atmosfera della Riforma aveva perduto il suo immediato significato, e che solo sotto la penna di un umanista italiano, pur riformato, riacquistava il suo carattere pericoloso per le nuove ortodossie. Il Vergerio, con la sua animosità che il Curione non aveva mancato di rilevare, trovava addirittura che nel De Amplitudine Cristo era «escluso»; la commissione di Basilea, piú equanime, non credette di potervi riscontrare una implicazione cosí grave, ma pur accogliendo le difese e le proteste di buona fede che il Curione non lesinò, lo ammoní severamente. Non cosí tollerante fu il Brenz, il consigliere teologico del Duca Cristoforo, che condannò e fece sorvegliare la diffusione del De Amplitudine nel Württemberg552 ; e anche in Polonia il libro del Curione 551 Commentarium in Augustinum De Civitate Dei, lib. XVIII, cap. 47, nota a, secondo lo Schelhorn, Amoenitates literariae cit., pp. 611. 552 Quivi la cosa andò per le lunghe. Il Vergerio informava nel 1558 (1° gennaio) il Duca Cristoforo che i zurighesi aveva-

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fu considerato con diffidenza, benché le accuse del Vergerio non fossero accettate del tutto553 . Forse la condanna fu impedita anche dal fatto che il libro portava nella dedica il nome del sovrano, e si appellava all’insistenza del Lutomirski perché fosse pubblicato. Il Curione non recedette dalla sua opinione, e ancora nel 1558 ribadisce la sua idea, in una lettera al Laski: «Verum etiam, a quocunque dicatur, a Deo est; sive is sit Mosis, sive Plato, sive Paulus sive Cicero»554 no nel proprio interesse denunciato il libro del C. ai basileesi, Briefwechsel zwischen Christoph, Herzog Württemberg, und Petrus Paulus Vergerius, ed. E. von Kausler and Th. Schott, Tübingen 1875, Bibliothek des Litt. Vereins in Stuttgart, CXXIV; e nel 1562-63 il Granduca insisteva ancora, perché evidentemente gli era dispiaciuto che i basileesi avessero lasciato cadere la cosa, nonostante il suo richiamo nella denuncia del caso del Garibaldi e il Vergerio gli rifece tutta la storia del caso, adducendo anche in traduzione latina, una lettera di Giulio da Milano del 6 febbraio 1562 (ibid., p. 464), dalla quale risulterebbe che anche a questi s’era rivolto il Curione per la pubblicazione del suo libro, e che il libro fu stampato realmente in Valtellina, a Poschiavo, e con una gravissima spesa. Giulio da Milano vi vedeva anche idee pericolose sulla persona di Cristo. Cfr. anche ibid., pp. 368, 371, 372. 553 Church, I riformatori italiani cit., pp. 44, 77, 79 (il richiamo a p. 44, nota 3 va corretto in 77 [non 67]; a p. 77 leggasi «condannato», non «bruciato» per il libro del Curione). 554 Gabbema, Epistolarum ab illustribus et claris viris scriptorum centuriae tres quas passim ex autographis collegit ac edidit Simon Abbes Gabbema, Haarlem 1665, p. 135 (1° novembre 1558). Nella Universitätsbibliothek di Basilea, ms G. I. 66, foll. 37v sgg., è conservata la minuta di un lettera del Curione indirizzata al «Mag.co Do Pamphilo | Se Canzelario Bergomési in | Bergomo» di cui pubblico una parte perché interessante per i rapporti conservati dal Curione con l’Italia (le parole comprese fra [ ] sono state cancellate dal Curione stesso): «Proxima amici accusatione comperi [ex parte] quosdam esse qui in illis nostris dialogis de amplitudine beati regni [dei] quaedam repre-

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CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Il Gribaldi a Ginevra e la sua critica razionalistica al dogma trinitario; sua chiamata a Tubinga; suo processo e sua partenza da Tubinga. Il Biandrata e l’Alciati riprendono le dottrine del Gribaldi a Ginevra partenza del Biandrata e dell’Alciati da Ginevra, per la Polonia. Fortuna del Biandrata in Polonia, nonostante gli attacchi di Calvino.

Speculazioni sul libero arbitrio, speculazioni sull’ispirazione diretta, speculazioni sulla Trinità: anche quando queste tre cose non andavano insieme negli scritti o nei discorsi di una stessa persona, Calvino ne percepiva nettamente il nesso, il concatenamento necessario fra di esse e con le dottrine anabattistiche e le aspirazioni di rivolgimento sociale. Non che le idee del libero arbitrio, della parola interiore, e della unicità astratta della Divinità siano collegate l’una con l’altra da necessità logica; ma, nella controversia teologica entro il protestantesimo, rappresentavano come i motivi obbligati, i loci communes dello sforzo umanistico per reinterpretare la religione cristiana al lume della nuova cultura. Le discussioni hendant: [idcirco] Ac temetsi in eo inique accusamur, recte et pie nos sentire inventi sumus, quoniam tñ hic rumor latius sparsus est, non est de (?) [hoc scripto extemporaneo] huic malo, ne latius serperet, mederi operae pretium esse cogitavimus: ut quam in ecclesia Dei opinionem, quam Dei munere consecuti sumus, eam sartam tectam conservaremus. Nam negligere quid de se quisque sentiat, non solum arrogantis est, sed etiam omnino dissoluti. Hoc autem quam brevissime faciam alias forsitan si dominus dederit, copiosius facturus... Oro igitur omnes primum ut ne incognita damnent: deinde, ut qui velit crescere, propria virtute crescat, non alienis malis». Forse l’oro... omnes si riferisce a tutta la comunità bergamasca, alla quale il Curione terrebbe ad apparire ortodosso.

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sul libero arbitrio avevano occupato il pensiero dei filosofi del Rinascimento e degli umanisti già molto prima della disputa fra Lutero ed Erasmo; le speculazioni sulla Trinità erano una conseguenza diretta del confronto filosofico fra le religioni e del nuovo metodo apologetico iniziato dal Ficino; e la dottrina dell’ispirazione rappresentava un altro aspetto di quella filosofia platonica, che tendeva a istituire un rapporto diretto fra individuo umano e Divinità. In terreno riformato, questi motivi, uniti alle concezioni averroistiche della divinità e alla critica della dottrina dell’anima, assumevano l’aspetto che ci è ormai noto, di discussioni e di dubbi su ogni punto tradizionale di dottrina, su ogni dogma, sostenute da un ardente misticismo e da un fervido entusiasmo di uomini che sentivano in sé la parola divina, l’ispirazione. Essi avevano perduto del tutto la consapevolezza dei presupposti filosofici del loro atteggiamento: non è necessario pensare che avessero tutti conosciuto direttamente il pensiero dei filosofi, ma basta richiamarci ai caratteri generali della cultura italiana, dalla quale provengono, e anche, come per l’Ochino, ai motivi platonici della tradizione francescana. Anzi, fervorosi com’erano tutti per la nuova fede nella grazia divina rigenerante e per la riscoperta che al suo lume facevano delle verità della religione cristiana, ripetevano o rinnovavano l’irrazionalismo scettico e il misticismo fideistico del secondo Pico, conferendogli un accento di positività e di attività derivato dal fermento della Riforma protestante, ma anche concludendo all’estremo, svolgendolo radicalmente. Rinnovamento radicale dell’uomo come potevano desiderare solo menti inclini a svolgere fino in fondo le conseguenze di una posizione e a non fermarsi di fronte a nessun ostacolo in quest’opera di penetrazione e di osservazione logica, oppure menti semplici, ferme ad un razionalismo dell’evidenza, e portate al desiderio di un rinnovamento radicale non da considerazioni logiche, ma da una esi-

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genza morale e religiosa unilateralmente sentita. Critica alla redestinazione, critica alla Trinità, speculazioni sullo spirito, attesa del terzo regno di Cristo, erano gli aspetti negativi di quella posizione, che si manifestava concretamente anche come rifiuto di ogni riconoscimento al valore del Battesimo degli infanti e al significato oggettivo dell’Eucaristia. Calvino aveva bene la nozione di tutto ciò, e nella sua azione come nella sua controversia agiva col medesimo rigore contro gli eretici – che gli presentavano, staccati e ognuno secondo i propri problemi particolari, dubbi e questioni, – accomunandoli tutti nelle accuse di anabattismo e di servetismo; tanto più che non ignorava, dato il suo esteso servizio di informazioni, i rapporti personali che intercorrevano fra tutti quegli uomini. Cosí l’insistente durezza dei capi ginevrini contro il Castellione si spiega anche con lo scandalo che proprio in quel torno d’anni aveva suscitato la scoperta del vero pensiero del Gribaldi. I particolari della vita del famoso e ricercato giureconsulto piemontese sono stati narrati dal Ruffini; qui basterà rilevare alcuni fatti atti a spiegare meglio la sua posizione. Per un certo tempo, possiamo annoverare il Gribaldi fra i «nicodemiti»: conduceva una vita in partita doppia, dice il suo biografo555 . E non era favorevo555 Ruffini, Il giureconsulto chierese cit., p. 19 dell’estratto. Uso il termine di «nicodemismo» nel significato già rilevato, ma in senso generale, anche quando non consta documentariamente l’appartenenza a un gruppo dei «Nicodemiti» veri e propri, che ci sono attestati solo per il Piemonte, benché il loro capo fosse Domenico Baronio fiorentino. (Cfr. oltre il Jalla, Storia della Riforma in Piemonte cit., a p. 271, e nota 1, Gilles, Histoire Ecclésiastique des Eglises Vaudoises, Pinerolo 1881, I, pp. 62, 246, 100-105). Forse per il Gribaldi si potrebbe congetturare che appartenesse a questa tendenza in senso particolare e specifico. Ma l’interesse è qui la diffusione di questo atteggiamento mentale. Per l’uso piú generale del termine «nicodemi-

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le alla dottrina della predestinazione, se nella sua lettera per il caso dello Spiera attribuisce la disperazione di questi alla dottrina della predestinazione, senza però trarre tutte le conseguenze della sua affermazione, come non avrebbe certo potuto fare in uno scritto destinato ad essere pubblicato sotto gli auspici di Calvino. D’altra parte l’accusa di condurre alla disperazione che anche i luterani facevano alla dottrina della predestinazione di Calvino era troppo diffusa perché si possa pensare che il Gribaldi la ignorasse, e non volesse invece suggerirla. L’Ochino scriverà a lungo per dimostrare che non c’è nessun peccato che non possa essere perdonato, e che debba condurre alla disperazione. Nel 1553 il Gribaldi si trovò a Ginevra al momento della condanna del Serveto, e protestò che non si dovevano punire le opinioni erronee in materia dogmatica, «quia libera cuique esset fides»; poi finí col manifestare il suo accordo con il pensiero del Serveto, e col chiedere un colloquio a Calvino. Aveva sperato di trovare a Ginevra la possibilità di manifestare liberamente le sue idee, ma si era sbagliato. Calvino, che aveva saputo come il Gribaldi, oltre a criticare il principio della punizione degli eretici con la morte, aveva dichiarato d’aver nutrito fin da bambino un’idea di Cristo analoga a quella del Serveto, rifiutò il colloquio richiesto. La ragione ch’egli poi ne dette fu la doppiezza del Gribaldi, che dopo aver dichiarato espressamente le proprie opinioni, e sotto la minaccia d’essere accusato come eretico, era ricorso all’espediente di chiedere «ut de re valde ardua suspensus» un colloquio con la massima autorità teologica di Ginevra. Tornato in Italia, il Gribaldi apprese a Padova, assieme a Lelio Sozzini che era suo ospite, la notizia della condanna e della esecuzione del Serve-

ti» a proposito anche dei seguaci del Valdés, cfr. A. Casadei, J. de Valdés, in «Religio», vol. XIV, 1938, p. 121.

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to; e ne inviò subito notizia ai «fratres Vicentini», cioè alla comunità anabattistica di Vicenza. Il Castellione, raccogliendo questa informazione, avuta probabilmente dal Gribaldi stesso, nel suo Contra libellum Calvini556 , intendeva probabilmente di suggerire che tali notizie dovevano scoraggiare le comunità italiane, già cosí poche e poco propense a seguire le dure esortazioni alla lotta aperta che venivano da Ginevra. Ma se all’umanista Castellione premeva la diffusione delle nuove idee in Italia, a Calvino interessava poco la semplice diffusione delle idee senza conseguenze politiche, tanto piú ch’egli non condivideva la comune ammirazione degli uomini della sua età per l’Italia e gli italiani. Tornato a Ginevra nel settembre del 1554, d Gribaldi si lasciò trasportare a manifestare apertamente le sue opinioni sulla Trinità, in una discussione sorta nella chiesa italiana: era tanto sicuro della sua ragione, che non esitò a porre in iscritto le sue argomentazioni in una lettera ai capi di quella. Ritornano alcuni motivi comuni di controversia, secondo il solito metodo esegetico: la prima persona della Trinità è regolarmente chiamato Dio nella Scrittura, l’altra, Signore; Dio e «Domino» sono per lui nomi appellativi, che indicano l’uno potestà, l’altro semplice superiorità. Di conseguenza, il Gribaldi intende «il figliolo esser Dio da Dio padre, lume da lume, et vero Dio da vero Dio», distinto però da esso in modo «che l’uno non è l’altro», e l’uno dipende dall’altro557 . Qui incontriamo anche formule di vero e proprio razionalismo spicciolo: «Et in fino adesso non lo posso capire altramente, maxime che in concreto et individuo uno sia tre et tre sia uno. Per che mi par che questo ripugni ad ogni intelletto». Per il momento la questione non ebbe seguito; il Gribaldi aveva promesso di inviare uno scritto piú 556 557

Ruffini, Il giureconsulto chierese cit., p. 20. Ibid., p. 74. (O. C. XV, C. R 43, coll. 246-48).

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circostanziato dove avrebbe addotto le prove scritturali della sua opinione, e che avrebbe preparato a Padova. Ma non ne è rimasta traccia. A Padova, dove aveva ripreso le lezioni, rimase poco, perché le pressioni dell’Inquisizione che aveva scoperto quali dovessero essere le idee religiose del giureconsulto cosí stimato dagli studenti e dall’autorità civile, costrinsero i Reggitori veneti dello studio patavino a invitarlo a ritrattarsi, e poi a licenziarlo quando l’invito non fu accolto. Da Padova il Gribaldi si diresse a Zurigo, e di lí a Tubinga, dove il Duca Cristoforo del Württemberg gli offerse una cattedra, dietro suggerimento dell’Amerbach, che era stato probabilmente appoggiato dal Vergerio558 . Questi sapeva verso quale lato si dirigeva il pensiero dell’amico; ma ne tacque presso il Duca, forse sperando che il Gribaldi sarebbe riuscito a non fare trapelare la cosa. Prima di andare a Tubinga, il Gribaldi passò da Farges, dove lo raggiunse l’invito di Calvino ad un colloquio; la nuova chiamata, la fama raggiunta, tale che Melantone poteva consigliare di frequentare l’università di Tubinga, solo per la presenza ivi del giureconsulto piemontese, ma forse soprattutto la decisione presa dal Gribaldi di abbandonare l’Italia e di proclamare cosí apertamente la propria fede protestante, sono probabilmente i motivi che spinsero Calvino ad offrire ora spontaneamente quel che prima aveva rifiutato559 . Ma il colloquio non ebbe luogo: Calvino rifiutò di stringere la mano al Gribaldi prima che questi avesse chiarito la sua posizione religiosa, e il Gribaldi, indignato, se ne andò; invitato a giustificarsi davanti al consiglio, rifiutò di dare una professione di fede, e fu bandito da Ginevra560 . Ibid., p. 32. Ibid., pp. 33 sgg. 560 Ibid., p. 36. 558 559

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A Tubinga, mentre il Gribaldi preparava uno scritto per spiegare le sue opinioni, giungevano avvisi di Calvino, che accusava il Vergerio per avere consigliato la chiamata del Gribaldi, e faceva conoscere le eresie di questi561 . D’altra parte, il giureconsulto piemontese aveva una difesa, poiché una sua professione di fede era stata approvata dal Bullinger: e a questa si richiama il Vergerio difendendo il suo operato dalle accuse del Beza. Ma neppure l’attestazione del Bullinger poteva bastare ai Ginevrini, che avevano intanto ricevute notizie della diffusione delle idee del Gribaldi in Polonia562 . Questa insistenza, e le risposte ambigue che il Gribaldi dava quando veniva interrogato sulla sua dottrina, crearono una notevole perplessità anche fra i suoi amici. Il Vergerio, vedendo che il Gribaldi non riusciva a dissipare i sospetti, e probabilmente notando che si irrigidiva nella sua posizione, e che cercava di diffondere le sue idee, se ne distaccava prudentemente sempre di piú, nelle lettere al Bullinger563 . Cosí nel 1557, quando presso Cristoforo del Württemberg intervenne il conte Giorgio di Montbéliard, suo fratello, il Gribaldi aveva perso anche l’appoggio del Vergerio. Anzi, l’antico vescovo di Capodistria, ritornando da Ginevra nel giugno del 1557, si assunse la responsabilità di denunciare espressamente il vecchio amico564 . Il processo fu affidato al senato dell’Università di Tubinga, che procedette da principio con molto riguardo per quell’uomo di alto lignaggio e di grande fama565 ; ma il Gribaldi, che aveva chiesto tre settimane di tempo per Ibid., p. 39. Ibid., p. 41. 563 Ibid., p. 43. 564 Ibid., pp. 45-46. 565 Ibid, pp. 46-47. Cfr. anche per quanto segue D. Cantimori, Matteo Gribaldi Mofa Chierese e l’Università di Tubin561 562

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preparare la risposta alle prime domande sulla sua dottrina, abbandonò all’improvviso Tubinga, forse anche per consiglio di qualche persona della corte, che gli fece sapere che avrebbe fatta cosa grata al Duca se se ne fosse partito «sine ullo strepitu et tumultu». Forse si tratta del Vergerio stesso, che cosí poteva sperare di aver dato termine allo scandalo a Tubinga; con la fuga, che non fu ostacolata, il Gribaldi evitava anche non solo a sé la condanna, ma al Duca il discredito che da essa sarebbe venuto; quest’ultimo d’altra parte non avrebbe potuto fare a meno di farla impartire e di farla eseguire. Partito il Gribaldi, il Duca fece perquisire le carte del professore fuggito, e fra esse trovò uno scritto esplicitamente eretico, pronto per la stampa, a quanto sembra, che portava annotazioni del Curione, già molto sospetto al Duca per il De Amplitudine. Cosí si poté scrivere a Berna, avvertendo della perniciosa eresia del Gribaldi e a Basilea denunciando insieme a lui il Curione566 . La preghiera di abbandonare tacitamente Tubinga era stata accompagnata dall’invito di lasciarvi tutti i suoi averi, e soprattutto i suoi libri, che non furono sequestrati come le carte e rimasero presso l’Università, che ne trattò poi la restituzione col Gribaldi. Erano soprattutto libri giuridici, fra i quali naturalmente anche le Lecturae Socini. Di teologico, notevole la Biblia Castilionei ligata, valutata a 2 fiorini e le Concordantiae Bibliae, anch’esse legate, a un fiorino, mentre le Institutiones di Calvino erano valutate mezzo fiorino: inoltre scritti del Butzer, del Gwalther, un libro di Conclusiones catholicae contra Lutheranos, il De Amplitudine di Celio Secondo Curione, l’Eusebius Captivus dell’italiano Massari, il De coena domini dell’Ochi-

ga, in «Boll Storico Bibliografico Subalpino», XXXV (1933), n. 5-6: e Per la storia degli eretici italiani cit., pp. 85 sgg. 566 Ibid., pp. 90-91.

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no, le Epistole del Sadoleto, il commento del Borrhaus ai libri di Mosè, e molti libri letterari, di eloquenza, di storia e di filosofia, da soli, piú di una cinquantina di volumi567 . Non mancavano le eleganze del Valla, che del resto il Gribaldi cita nel suo libro sul metodo degli studi giuridici568 . Da Zurigo il Gribaldi poté mandare una dignitosa lettera al Senato accademico di Tubinga, che spiegava la situazione, e che gli permise poi di continuare i rapporti con quella Università569 . Intanto, da Farges il Gribaldi si mise a far propaganda delle sue idee, diffondendo libretti, che però venivano raccolti dal balivo di Gex ed inviati al Senato di Berna, il quale non poté fare a meno questa volta di arrestare un personaggio tanto eminente, ma tanto turbolento. Il Ruffini ha raccontato magistralmente le vicende del processo, che si risolse con la espulsione del Gribaldi, il quale questa volta sembra che non accettasse il consiglio di partirsene prima che si dovesse emanare un decreto di espulsione, che avrebbe pregiudicato irrevocabilmente la sua posizione. Tuttavia anche questo ostacolo fu superato per l’intervento dello Zurkinden, che già era intervenuto durante il processo, e aveva sopportato con pazienza, durante le discussioni sulla dottrina trinitaria, la sufficienza del Gribaldi, gran signore, gran giureconsulto e realmente fanatico. Cosí, dopo un breve esilio a Friburgo, il Gribaldi poté ritornare a Farges, nel 1558. Di qui 567 Tubinga, Universitätsbibliothek, Universitätsarchiv XIII, I, Fac. Jur. Professorum vocationes et electiones, I, 152692, n. 15 iii; di questi libri il Mandry, Joh. Sichard eine Akademische Rede, in Würtb. Jahrbücher, 1872, II, p. 51, ha indicato una minima parte soltanto; anch’io mi limito ai libri non puramente giuridici, pure ampliando l’elenco, utile per mostrare la formazione culturale di questi eretici. 568 Matthaei Gribaldi Mophae jurisconsulti cheriani De methodo ac ratione studendi, libris tres, Venetiis 1559, p. 47v. 569 Matteo Gribaldi Mofa cit., Appendice 1.

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tentò di tornare a Tubinga: ormai si era sottomesso a una dichiarazione di fede ortodossa a Berna, ed era disposto a presentarne un’altra al Senato di Tubinga. E nel maggio del 1558 inviò al Senato accademico di Tubinga una lettera patetica, raccontando le sue sventure (gli era morta la moglie, era rimasto solo con otto figli), e chiedendo un salvacondotto per poter andare a Tubinga a regolare la sua posizione570 . La lettera e la confessione di fede che l’accompagnavano, furono portate a Tubinga da Lelio Sozzini, e già nell’agosto il Vergerio scriveva al Duca dichiarando che la confessione di fede gli pareva molto sospetta, e che il Gribaldi non era sincero, perché, dichiarando d’accettare il simbolo apostolico, non aveva chiarito la sua intenzione, in quanto gli eretici italiani intendevano in questo caso il «parvum symbolum»; se fosse stato realmente convertito avrebbe dichiarato di accettare tutti i simboli, e non il solo apostolico571 . Se dunque nel Senato accademico ci fosse anche stata l’intenzione di far tornare in qualche modo il Gribaldi, l’autorità ducale gli era del tutto sfavorevole, tanto piú che il Vergerio, di ritorno dal suo viaggio in Austria, aveva riferito che in Moravia gli anabattisti pullulavano piú che mai, e che vi erano arrivati una trentina d’italiani: non solo, ma che fra quegli anabattisti cominciavano a diffondersi idee sulla trinità analoghe a quelle del Gribaldi572 . E, dopo aver lasciato passare altro tempo, il Senato accademico di Tubinga rispose con molta gentilezza, ma con un 570 Per la storia degli eretici cit., pp. 87 e 89. A p. 88, al primo capoverso, si deve leggere come segue: [fine del capov. preced.]: «dignam censuerit. Ceterum [vos rogo Patres] optimi» ecc., dove ora ho cercato d’integrare la lacuna, e ho letto meglio Ceterum invece di aeternum. Naturalmente non vi è piú capoverso. 571 Cfr. Briefwechsel cit., ed. Kausler und Schott cit., p. 183. 572 Ibid., p. 167.

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rifiuto quanto al salvacondotto, e con un «fin de non recevoir» quanto alla confessione. Ad ogni modo la parte finanziaria dei rapporti fra il Gribaldi e l’Università continuò ad essere trattata ancora per qualche anno: il Gribaldi voleva compensare il suo debito verso l’Università, per l’insegnamento non prestato, coi libri che aveva lasciato a Tubinga, all’Università stessa, e presso un legatore. Ma il fallimento di questi complicava la cosa, e le trattative furono concluse solo molto tempo dopo la morte del Gribaldi, da un suo figlio573 . Lo scritto maggiore del Gribaldi, inviato dal Duca Cristoforo a Basilea per provare la complicità del Curione nella preparazione di un libro cosí pericoloso, e rinviato a Tubinga dopo l’esame della commissione dei professori e pastori basileesi, alla conclusione del processo del Curione, sembra del tutto perduto. Per determinare un po’ piú particolareggiatamente il pensiero del Gribaldi ci rimane, oltre la lettera italiana alla comunità del «rifugio» di Ginevra, e oltre le laconiche dichiarazioni dello Zurkinden, solo un breve scritto, inviato dal conte Giorgio di Montbéliard all’Amerbach, probabilmente al tempo delle prime discussioni sul giureconsulto, dal basileese tanto raccomandato. Anche gli atti delle discussioni bernesi, se furono raccolti, sembrano ora perduti. Lo scritto inviato dal conte Giorgio all’Amerbach, in una copia, porta anche un titolo, evidentemente del Gribaldi stesso, che permette di supporre che si tratti di uno di quei libretti che il Gribaldi avrebbe poi cercato di diffondere a Farges. Il testo invece sembra un riassunto, o addirittura un sommario di capitoli574 . Matteo Gribaldi Mofa cit., pp. 10-11, estr. Per la storia degli eretici cit., pp. 81 sgg. L’esposizione che segue è fondata su quei testi; certo qui il ragionamento dell’eretico appare realmente astratto e limitato a una ragione 573

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Il vero e sommo Dio, distinto da suo figlio Gesú Cristo e dallo Spirito, che sono veri Dei, ma inferiori a Dio Padre, è uno spirito semplicissimo, «perpetuo invisibilis et immutabilis», e non ha persona, cioè forma o aspetto visibile, «personam non habet». È il motivo del Valla che ritorna, usato però qui nel senso che, siccome «persona» significa una «qualità mutevole», non si può applicare a Dio, immutabile. Il nome della Trinità è una invenzione umana, dal numero ternario, al quale si è dato un significato che non gli spetta. Il vero e sommo Dio, fonte e principio di ogni divinità, la cui infinita ed arcana essenza comprende tutto, tutto riempie e tutto regge, è l’unico Dio. È empietà dire ch’egli sia persona, natura o proprietà d’un altro Dio o d’un’altra essenza. Cioè: la qualità della divinità, nel suo pieno senso, è predicabile a rigore soltanto di Dio, e solo in una direzione. Se di questa divinità il Padre fa partecipe il Figlio, questi è inferiore al Padre. Infatti dalla Scrittura si deduce che Gesú Cristo è venuto ad annunciare ed eseguire la volontà dell’unico vero Dio, il Padre. Questo unico Dio, è quello che la Chiesa ha sempre adorato «per Jesum Christum unigenitum filium». Di conseguenza, se la unità fosse Dio, si avrebbero quattro dèi, il Padre, il Figlio, lo Spirito, e la Trinità stessa: e cosí via con argomenti di razionalismo dell’evidenza e del buon senso aritmetico, che ben si comprende dovessero annoiare, stupire e scandalizzare gli uomini della Riforma. Il Padre, il Figlio e lo Spirito non sono dunque, per il Gribaldi, tre qualità di una unica essenza, ma tre spiriti o sostanze spirituali, e fanno uno, sí, ma non numericamente, anzi: «unitate coniunctionis et unanimita-

puramente aritmetica. Ma forse in questo stava la sua efficacia e possibilità di diffusione.

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tis, non singularitatis et identitatis». Qui il Gribaldi si appoggia ad un passo di Tertulliano e ad Origene, il quale chiamando Dio αυτ óθoς , ne avrebbe mostrato il vero carattere (onde Cristo, che non sarebbe αυτ óθoς , non potrebbe essere veramente Iddio). Il Figlio e lo Spirito provengono direttamente da lui, non necessariamente, ma per sua benefica volontà e impercettibile comunicazione della sua essenza. Dio ha creato tutte le cose per mezzo del Figlio, e per mezzo dello Spirito le ha vivificate. La dottrina della Trinità è sorta quando si è cominciato ad abbandonare la semplicità evangelica, come è successo anche per la Eucaristia, che si è trasformata con il prevalere delle invenzioni umane che venivano inserite fra i semplici precetti divini. E questa degenerazione è cominciata prestissimo: fin dalla prima antichità cristiana si è aberrato, costruendo «alium deum imaginarium et confusum loco veri et simplicissimi atque purissimi». Ed è strano che i riformatori, i quali hanno riportato alla originaria semplicità e purezza la dottrina della Eucaristia, vogliano ora difendere quella della Trinità che ha la stessa origine e lo stesso carattere di escogitazione umana, senza appoggio alcuno nella Scrittura. L’umanista ha pronta una spiegazione per la fermezza dei riformatori nel difendere la tradizionale dottrina trinitaria: è l’ambizione e la superbia degli uomini. Nella loro opera di revisione della dottrina cristiana, i riformatori si sono lasciati sfuggire questo errore cosí grave e palese, e sono rimasti «cum caetero grege, parum cogitantes»; ed ora sono convinti, «certe nimis impie» che non possono rimuoverlo senza intaccare il loro onore e la stima del loro nome. Ma, qualunque sia la convinzione di tutto il mondo, qualunque cosa riesca a macchinare l’astuzia del diavolo, rimarrà del tutto incontestata la dottrina evangelica, «unum esse verum et summum deum, nempe aeternum illum patrem a quo omnia: et unum unius dei filium Ie-

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sum Christum, per quem omnia, quibus cum sanctu spiritu sit sempiterna gloria». In questo triteismo, come è poi stato chiamato in Polonia575 , si trovano realmente elementi di razionalismo astratto, atti a fare impressione su persone dalla mentalità semplicistica; e qui si può realmente parlare di una mentalità giuridica portata nelle questioni teologiche. L’elemento positivo di questa dottrina sta nell’affermazione della unicità di Dio: è in fondo il motivo calviniano della gloria di Dio applicato a una discussione dottrinale. Qui per la prima volta l’influsso delle idee del Serveto sulla Trinità appare evidente, soprattutto per quanto riguarda le argomentazioni polemiche. Si può parlare di superbia e di fanatismo, ma non piú di misticismo; è una reale deviazione del pensiero religioso e teologico, per quanto possiamo giudicare dai frammenti che ci sono rimasti, e dalle impressioni di una persona assennata come lo Zurkinden576 . La dottrina del Gribaldi venne ripresa da uno fra i piú accorti uomini del gruppo eretico italiano, appartenente già, si può dire, a una seconda generazione: il Biandrata. Il Biandrata era venuto in Isvizzera da Pavia, dove era giunto dalla Polonia e dalla Transilvania, dove aveva esercitato la sua opera di medico e di diplomatico presso quelle corti, dal 1540 al 1552577 ; ma non si ha nessuna indicazione, non che nessun documento, che perKot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., p. 29 dell’estr. Ruffini, Il giureconsulto chierese cit., p. 53. 577 Di questa attività diplomatica anche nel primo periodo delle vita del B. ci rimane documentazione diretta (prescindendo dalle indicazioni sospette del falsario Malacarne, Commentario delle opere e delle vicende di G. Biandrata, Padova 1814) in una lettera della Bibl. Estense di Modena (Autografoteca Campori), comunicatami dal prof. Alfredo Casadei, che ringrazio vivamente, per questa come per tante altre indicazioni. È una commendatizia per il Biandrata, diretta da Ferdinando I a 575

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metta di affermare che il Biandrata avesse partecipato al movimento di idee della Riforma prima d’esser tornato in Italia. La famiglia del Biandrata, che era il terzogenito di Bernardino Biandrata, castellano di San Fronte, del ramo saluzzese della gran casata dei Biandrate di San Giorgio, aveva tradizioni non del tutto ortodosse578 , e in questo periodo la vediamo partecipe alla Riforma, nella persona del primogenito Alfonso, che nel 1558 si rifugia a Ginevra coi figli579 . Il Biandrata poteva avere incontrato in Polonia Lelio Sozzini, il Lismanini, lo Stancaro, ed avere avuto da essi l’avvio alle idee ereticali; poteva avere forse ascoltato le prime idee riformatrici a Pavia dove era stato a confermare la laurea ottenusta a Montpel-

«Don Ferrando de Gonzaga» governatore dello Stato di Milano, in data di Vienna 18 agosto 1552. Ne riproduco qualche parte: «Georgius de Blandrata artium et medicinae doctor tunc cum illmae Ser. Principis Dnae Isabelle, Reginae Hungarie etc. viduae, sororis et consanguinae nostrae charmae Physicus existeret, ita de nobis benemeritus est in tractatu illo, quem ratione Transylvaniae cum ipsa Serma Regina Isabella, eiusque Ill. filio inivimus, ut non possemus non esse illi gratia et clementia nostra valde propensi. Cum igitur ipse nunc in ltaliam et Patriam suam revertens nobis exposuisset se non nihil negotii quod se domum familiamque suam concerneret, apud Dilectionem vestram habere, et ob id se nostrae apud Dilectionem vestram intercessionis favore iuvari optasset, nos eum non solum uti Virum de nobis benemeritum et rerum nostrarum cum primis studiosum, sed egregijs quoque animi et ingenii dotibus singularique Doctrina praeditum non nisi libenti benignoque animo, Dilectioni vestrae commendare suscepimus...» 578 G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (sec. XI-XIV)2 , Firenze 1926, p. 124. Sull’appoggio dato dai conti di Biandrate ai dolciniani. 579 Jalla, Storia della Riforma in Piemonte cit, p. 277; Galiffe, Le refuge cit., p. 123; D. Cantimori, Profilo di Giorgio Biandrata saluzeese, in «Boll. Storico Bibliografico subalpino», XXXVIII (1936), pp. 3-4, del quale riprendo qui varie parti.

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lier nel 1533, oppure al suo ritorno dopo un ventennio. Quel che possiamo dire sicuramente è che il Biandrata alla fine del 1553 e al primi del 1554 dichiarava, in occasione del processo del Martinusio, dove era testimone, di non esser mai stato né inquisito né condannato, e di essersi confessato e comunicato poco prima a Mestre (cioè nel 1553). Dal 1554 al 1557 il medico ormai famoso insegnò a Pavia: ed è qui che secondo la tradizione venne in sospetto presso gli Inquisitori, e dovette decidersi a lasciare di nuovo l’Italia e a rifugiarsi a Ginevra, dove lo si ritrova già nel 1557. Nella città di Calvino, il Biandrata edificò da principio la comunità italiana per la sua buona e docile condotta; ma questo non contò piú nulla, quando ci si accorse che anche il nuovo venuto attaccava sordamente nelle conversazioni il dogma della divinità di Gesú Cristo. Anche il Biandrata si serviva del metodo di proporre le sue osservazioni e le sue questioni ai capi, chiedendo risposta scritta, probabilmente per evitare l’accusa di riferire inesattamente il pensiero degli interpreti ortodossi della dottrina, e per poter servirsi delle risposte come punti di partenza per nuove questioni e osservazioni critiche. Cominciò con Celso Martinengo, pastore della comunità italiana di Ginevra, il quale, avendo per un certo tempo seguito anch’egli le idee anabattistico-antitrinitarie quando era stato nei Grigioni, intuí subito il significato e lo scopo delle domande del nuovo venuto, e non volle piú saperne di lui, neppure come medico580 . Allora il Saluzzese si rivolse direttamente a Calvino: e, fingendo ogni volta, dice quest’ultimo, di essersi acquetato, e di accettarne le risposte, tornava invece sempre alla carica, «quasi novus» con le sue ambagi e interrogazioni «de Christi deitate», e non finiva mai di chiedere nuove spiegazioni. Calvino lo 580 Calvino, lettera ai Polacchi sul Biandrata, O. C. XIX, C. R 47, n. 3563, col. 39, 9 ottobre 1561.

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trattava aspramente, chiedendogli di abbandonare «perfidiam et fallacias dolosque tortuosos»581 , ma continuava, com’egli stesso afferma, a salutarlo amichevolmente e ad ammetterlo al sermone: infine acconsentí a dare risposta scritta a una serie di questioni propostegli dal Biandrata, pure per iscritto: alle tre paginette del Biandrata, Calvino risponde con una decina, fitte di argomentazioni e di citazioni582 . Questi «accademici» sapevano cogliere sempre il vivo delle questioni. Le domande poste dal Biandrata erano apertamente vòlte a ottener risposte che conducessero logicamente alla conclusione che soccorre adorare in Dio il Padre, creatore di tutte le cose, superiore al figlio; che la Trinità, intesa nel senso tradizionale, non esiste («Pater, Dominus a quo omnia, Christus, Dominus per quem omnia»); e terminavano con la domanda, che è comune anche ad altri eretici di questa tendenza «critica» del movimento eretico, se per esser considerati buoni cristiani non basti, per quanto riguarda la Trinità, «credere in unum Deum Patrem, in unum Dominum Jesum et in unum Spiritum Sanctum... absque ulla altiore de essentia illa unica speculatione, cum scriptura nihil etiam dixerit». Qui appare già in germe la concezione del Biandrata, che finirà per essere un intermedio fra l’assoluto monoteismo antitrinitario e le concezioni gradualistiche della Trinità, e che si ritrova anche nella confessione di fede firmata a Ginevra, benché piú elaborata e meno evidente. Il Biandrata era molto ardito, poiché nelle sue domande a Calvino non si era peritato di chiamare sprezzantemente «speculazione» il dogma trinitario, né di fare la insidiosa domanda: «Quousque progrediendum in inquisitione essentiae Dei?» Calvino fu paziente, forse perché pensava che il Biandrata non avesse una profonda preparazione teologica, come 581 582

Ibid., n. 3563. O. C. IX, C. R 37, coll. 315 sgg.

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doveva asserire piú tardi il Beza; ma non accedette al desiderio del saluzzese e non si mise sul suo piano, poiché la sua risposta non è sul tono di una discussione o di una spiegazione ragionata ma di una esposizione e di un ammaestramento confortato da citazioni, e rifiuta in forma apodittica tutte le dottrine esplicitamente proposte o implicitamente insinuate dal Biandrata. Intanto i dubbi che il medico piemontese proponeva al Calvino non rimanevano segreti, e, probabilmente per la sua stessa opera, si andavano diffondendo fra i membri della colonia italiana di Ginevra583 . E, mentre dovevano giungergli agli orecchi le prime notizie della nuova pericolosa irrequietezza degli italiani per opera degli ultimi arrivati, il Calvino si vedeva chiedere dal Biandrata un atto di vera intolleranza: la condanna di tutte le opinioni di coloro che dissentivano dalla sua dottrina. Il Biandrata dava come motivo della sua insistenza che tutte le dottrine dei tedeschi lo turbavano, e che solo quella di Calvino lo soddisfaceva completamente. E fin qui si poteva ammettere la sua sincerità; ma non si poteva continuare ad ammetterla quando il Biandrata insisteva affinché Calvino condannasse tutte le opinioni differenti dalla sua, sotto lo specioso pretesto che ciò era necessario per tranquillizzare le coscienze. Il Calvino vide in questa proposta un’insidia, che egli non specificò meglio, ma che destò la sua indignazione584 . Probabilmente il Biandrata sperava che il capo ginevrino, accettando la sua proposta, e condannando esplicitamente le dottrine dei luterani e degli zwingliani, avrebbe non solo risuscitato discordie e discussioni nelle quali egli con gli altri eretici avreb583 Famosi i casi di G. P. Alciati e di V. Gentile. Per il primo cfr. A. Pascal, Gli antitrinitari piemontesi, I: Giovan Paolo Alciati, Pinerolo 1920; cfr. Grosheintz, L’église italienne cit., pp. 82 sgg. Pel secondo vedi piú avanti, pp. 226 sgg. 584 O. C. XIX, col. 40.

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bero avuto modo di far valere le loro dottrine, ma si sarebbe anche attirato un’accusa di intolleranza ben piú grave di quella proveniente dai circoli degli esuli, che sarebbe partita da altri capi di chiese riconosciute, da uomini occupanti posizioni di alta responsabilità politica, e rappresentanti forze effettuali. Inoltre Calvino, accedendo a questo invito, avrebbe mostrato di volere ricostruire nel mondo protestante un’autorità dottrinale unica, che si arrogasse la potestà di condannare e non solo di approvare o di discutere, ridestando l’asprezza della disputa sacramentaria e indebolendo il protestantesimo mentre la Controriforma si mostrava compatta e aggressiva. Anche la natura del pretesto era tale da spiegare la irritazione di Calvino; acquetare le coscienze con una condanna era un atto di politica ecclesiastica che un teologo riformato non poteva compiere senza porsi in contraddizione con se stesso e con lo spirito della Riforma, a meno che non si arrivasse a una dottrina cosí inquietante come quella di un Serveto. Ad ogni modo, da quel momento Calvino cessò di ricevere il Biandrata, e il tentativo della «finissima volpe» come il Possevino lo ebbe a chiamare piú tardi, per condurre il capo di Ginevra a compromettersi in modo che l’accusa di «papismo» lanciatagli dagli eretici apparisse giustificata, rimase senza seguito. Intanto, succeduto al Martinengo il piú severo Lattanzio Ragnoni585 , e divenuti palesi i sospetti che il Martinengo aveva avuto sul conto del Biandrata, tenendoli tuttavia nascosti fino al momento di morire, la chiesa italiana prese ad agire piú decisamente, tanto piú che le opinioni eretiche dilagavano nel suo seno. Il Biandrata, il suo conterraneo Giovanni Paolo Alciati e Silvestro Te585 Nel 1557. Il Ragnoni era senese, ed era arrivato a Ginevra assieme al Caracciolo. Cfr. Croce, Il marchese di Vico Galeazzo Caracciolo cit., p. 48 dell’estr.; e Grosheintz, L’église italienne cit., pp. 88 sgg., anche per quel che segue.

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glio, noti per le loro opinioni, vennero invitati davanti al consistoro della Chiesa italiana, alla presenza di Calvino, il 18 maggio 1558. Il Biandrata fu colto in fallo perché attribuiva a Calvino la propria interpretazione delle parole di questi; l’Alciati si lasciò andare a espressioni violente, e i tre eretici dovettero sottomettersi586 . Ma poco dopo giungeva alle autorità ginevrine la voce che il Biandrata e gli altri cercavano di guadagnare alle loro idee la semplice gente del popolo, e li ammonirono di nuovo. Il Biandrata non si tenne piú per sicuro, e abbandonò Ginevra587 . Dunque anche questo esule, come tutti gli altri di quegli anni, appena abbandonata apertamente la religione cattolica, si mostrò inquieto e irrequieto, insoddisfatto delle dottrine del Cristianesimo riformato, per non parlare di quello luterano, e già incline alla critica del dogma trinitario. Questo ci permette di congetturare che anche il Biandrata fosse dei «nicodemiti», e che avesse coltivato fin da prima pensieri del genere che abbiamo incontrato: probabilmente in Polonia. Fin da ora, ad ogni modo, il Biandrata cerca di diffondere e di fare accettare le sue dottrine piú con le armi dell’astuzia e della diplomazia che con quelle della controversia dottrinale, rivelando subito la sua mente piú politica che speculativa. A questa abilità si deve probabilmente che il Calvino lo trattasse meno duramente di Lelio Sozzini, che era stato 586 II Teglio si ritirò poi a Basilea, dove compí la traduzione latina del Principe del Machiavelli. Il Lbro (Nicolai Machiavelli... De Principe libellus..., Basileae, marzo 1560) è dedicato a uno degli scolari polacchi del Curione, lo Sbaski. Fra gli amici, il Teglio ricorda Paolo Arnolfini, Nicola Gallo, sardo, e in genere tutti i lucchesi; infine C. S. Curione. {Cfr. W. Kaegi, Machiavelli in Basel, trad. it. in Meditazioni storiche, Bari 1960, pp. 124-54}. 587 Profilo cit., pp. II sg., estr.; Grosheintz, L’église italienne cit., p. 87.

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meno audace e d’altra parte godeva d’una situazione sociale per lo meno uguale a quella del medico delle corti ungherese e polacca. Infatti la mitezza del Calvino aveva scontentati molti, anche quasi tutti gli italiani. Il Biandrata, lasciata Ginevra assieme all’amicissimo Alciati, era andato prima a Farges presso il Gribaldi, e di qui poi s’era recato a Zurigo passando per Berna, dove s’era lamentato con lo Zurkinden, l’amico del Castellione. Il pastore bernese non aveva mancato di rimproverare Calvino, col quale la sua chiesa non era mai stata in rapporti amichevoli, rispecchiando la tensione politica fra Berna e Ginevra; ma Calvino dimostrò facilmente la sua buona ragione588 . A Zurigo il Biandrata visitò direttamente Pier Martire Vermigli, cercando di discutere con lui e di trarlo alle proprie idee, o, meglio detto, al proprio partito589 . Il metodo era il solito delle questioni e delle richieste di schiarimento sui punti piú scabrosi; ma il Biandrata non era uno spirito elastico e fine come Lelio Sozzini, se pure altrettanto sottile, e d’altra parte aveva di fronte un uomo esperto di dispute e di questioni spinose. Non valse che il Biandrata protestasse di rifiutare «Deorum multitudinem... quam Gribaldus disertis verbis asserebat»: il Vermigli comprese subito quale fosse la vera dottrina del Saluzzese, poiché questi voleva che gli si concedessero come validi, concetti dai quali derivava necessariamente la conseguenza del triteismo. Ma il Vermigli non volle far scacciare subito il Biandrata e finí per chiedere consiglio al Bullinger. Mentre questi gli consigliava di interrompere ogni rapporto con il nuovo venuto, perché tali spiriti di solito erano incorreggibili, e sotto la parvenza di chiedere ammaestramento cercavano disordine, il Biandrata si spingeva a minacciare 588

O. C. XVII, C. R. 45, n. 2908, coll. 235 sgg.; 2914, 246

sgg. 589

Ibid., n. 2916, col. 250.

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Calvino, provocando l’indignazione del Bullinger590 ; cosí il vecchio teologo fiorentino avvertí il Biandrata che non poteva rimanere a Zurigo se non intendeva di sottoscrivere e di osservare in buona fede la confessione proposta dalla comunità italiana di Ginevra agli altri suoi amici rimasti colà: il Teglio, il Gallo e gli altri, riconciliandosi cosí con essa. È la stessa solidarietà che nel caso dell’Ochino vien mostrata dalla chiesa basileese con quella zurighese. Il Vermigli non si lasciò smuovere dalle proteste del Biandrata, e alla fine, spinto anche dal Bullinger, dal Wolf e dal Gwalther, gli ordinò di partire, facendo tuttavia in modo che potesse sostare per un certo tempo a Basilea, prima di ritornare, come aveva annunciato, in Transilvania. L’Alciati si avviava verso i Grigioni, per poi andare anch’egli in Moravia e in Polonia, a raggiungere il Biandrata. Questi era andato in Polonia direttamente da Basilea rinunciando per il momento al suo primo progetto; probabilmente aveva appreso a Basilea che le dottrine antitrinitarie erano abbastanza diffuse in quelle regioni, e che avrebbe potuto sostarvi senza pericolo immediato di essere di nuovo espulso. In questo periodo di tempo (fine del 1558) giungeva in Polonia anche Lelio Sozzini, che il Biandrata poteva aver conosciuto a Zurigo, se non nel precedente viaggio di questi in quel regno; e del quale aveva forse sentito parlare dal Gribaldi a Farges591 . In Polonia si trovava in una 590 Bull. al Radziwill, 30 settembre 1561, O. C. XVIII, C. R. 46, n. 3539, col. 755. 591 Il Church, I riformatori italiani cit., II, p. 159, parla addirittura di arrivare insieme («Era venuto con» nella trad. it.; nell’originale inglese, The Italian Reformers, New York 1932, p. 338: «with L. S... was»). Ma non ho trovato altre notizie che confermino questa, che può del resto essere una congettura; cfr. ibid., trad. it., II, p. 109 per il soggiorno del Biandrata e dell’Alciati a Farges; cfr. anche Ruffini, Stancaro cit., p. 536. Ibid., p. 344, è tratteggiato con evidenza il problema

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posizione di molta influenza, come appaltatore delle imposte sul sale, un altro piemontese, amico dell’Alciati, e probabilmente del Biandrata stesso, Prospero Provava da Collegno, di una famiglia con la quale era imparentato anche il Curione592 ; quindi non mancavano le probabilità di protezione, insieme alla fama che il Biandrata già vi possedeva. D’altra parte, le dottrine antitrinitarie nella forma triteistica vi erano già state diffuse dal polacco Pietro Gonesio, che possiamo considerare col Ruffini come un semplice diffusore del pensiero del Gribaldi593 . Che il Biandrata avesse saputo del Gonesio e della sua ´ residenza a Pinczów presso Cracovia, a Basilea dal Curione e dal Castellione, o a Zurigo dal Sozzini, o a Farges dal Gribaldi, o fosse semplicemente attirato dalla notizia che quivi era il centro del movimento evangelico e riformatore in Polonia, appena arrivato in Polonia lo trovia´ mo a Pinczów, dove erano anche il Lismanini e lo Stancaro, che con le loro discussioni sull’ufficio di mediato-

dei rapporti fra lo Stancaro e il Biandrata; e alla conclusione del Ruffini che riprende quella di E. M. Wilbur, Our unitarian Heritage, Boston 1925, p. 217, ci rimettiamo. {Cfr. anche Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 302 sgg.}. 592 Sulla parentela del Curione coi Provana, cfr. Church, I riformatori italiani cit., I p. 122, nota I. Il ms citato ma non indicato dal Church è il G. I. 66, I, della Universitätsbibliothek di Basilea: «Mio padre Jacomino figlio di Msr di Novalesa il vecchio Prouana di Cirie». Il Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 499, annovera un Provana fra gli eretici italiani in Polonia nel 1583. Il Provana doveva poi acquistare – forse – alla partenza di questi dalla Polonia, la biblioteca del Biandrata (K. Gòrski, Grzegorz Pawel z Brzezin, Kraków 1929, p. 189; ivi anche notizie sull’attività dell’Alciati in Polonia). Sugli italiani in Polonia cfr. F. Ruffini, La Polonia del Cinquecento e le origini del Socinianesimo, in «La Cultura», XI (1932), fasc. II, e le indicazioni quivi riportate. 593 Ruffini, Stancaro cit., p. 534.

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re di Cristo avevano già portato l’attenzione sul problema cristologico, cosí grave di conseguenze, perché porgeva agli antitrinitari il destro di introdurre e insinuare le loro questioni e le loro opinioni. Dopo un breve viaggio in Transilvania per curare la morente regina Isabella, il Biandrata ritornò in Polonia, alla fine del 1559, e re Sigismondo lo nominò suo invia´ to al sinodo di Pinczów del 1560 insieme col Lismanini: quivi fu invitato a prender parte alle deliberazioni dei seniori, per la sua devozione, la sua dottrina e la sua grande esperienza: ma non ancora definitivamente594 . Il Biandrata accettò con animo grato, e accettò anche di fungere ´ da inviato della chiesa di Pinczów a quella di Wilno, dove era anche invitato dal Radziwill. A Wilno la tradizione dice che il Biandrata seppe guadagnare qualche pastore alle sue idee; ma non si scopriva, ed era utile prudenza, perché, se egli manteneva attive relazioni epistolari con amici rimasti a Ginevra, anche i ginevrini tenevano l’occhio su di lui. I primi avvertimenti in Polonia dovevano esser giunti già nella primavera del 1560; e nell’agosto dello stesso anno Calvino dedicava al Radziwill la sua nuova edizione del commentario agli Atti595 , elogiando il principe polacco per la protezione concessa ai riformati, ma esortandolo anche a tutelare la purezza della nuova dottrina di fronte a uomini come lo Stancaro e l’ancor peggiore Biandrata. Intanto che le lettere e le dediche di Calvino partivano per la Polonia, il Biandrata vi 594 Ibid., pp. 350 sgg. Cfr. anche il Profilo cit., che qui e in quanto segue viene ripreso. 595 O. C. XVIII, C. R. 46, col. 158, 1° agosto 1560. Questa prefazione agli Atti è stata considerata dai calvinisti uno degli scritti principali del loro maestro; ed è stata ristampata, nell’antica traduzione francese, anche di recente, in occasione del quadricentenario della prima edizione della Institutio (1936). (Calvin homme d’église, Paris-Genève 1936, pp. 298 sgg. Sul Biandrata, p. 309).

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acquistava sempre maggiore stima fra i nobili, che al sinodo di Xionz del settembre 1560 lo elessero con il Lismanini a coadiutore del soprintendente della chiesa riformata polacca, il Cruciger596 . Ai due italiani si doveva la nuova piú salda organizzazione, che dava maggiore importanza ai seniores laici, e stabiliva una sede fissa per il sinodo annuale delle chiese; il Biandrata aveva anche proposto che i ministri non potessero essere eletti fra i seniori, che cioè fossero esclusi dal governo della chiesa, lasciando loro solo l’ufficio della predicazione e dell’insegnamento. Con questa proposta, presentata abilmente come una necessaria distinzione fra i piú importanti, i «doctores et pastores», e i loro coadiutori, i «presbyteri», il Biandrata agiva nell’interesse dei magnati, dai quali i ministri, provenienti dalle città e dalla nobiltà minore, dipendevano economicamente, e che non avrebbero avuto piacere di vederli a capo della chiesa anche per affari politici. Ma non si trattava forse solo di un espediente politico, poiché anche quando la sua proposta fu respinta a metà, e fu costituito un corpo di seniori in parte laici e in parte ecclesiastici, il Biandrata insistette nello spiegare la sua idea, che ai ministri non doveva esser lecito mescolarsi negli affari politici, proprio perché il ministero della parola, loro ufficio, era il piú importante «in ecclesia Christi». Due giorni dopo queste deliberazioni e la sua nomina a coadiutore laico, il Biandrata, ringraziando il sinodo per l’onore fattogli col nominarlo seniore, prega di essere dispensato da tale ufficio, allegando gli impedimenti che venivano dalla sua qualità di straniero, ignaro della lingua polacca, dalla sua professione e dalla instabilità della sua residenza da quest’ultima derivante. Le rimostranze del Biandrata non furono accettate, anzi gli fu concessa licenza di assentarsi temporanea596 Dalton, Lasciana, Berlin 1898, p. 515, anche per quanto segue (Atti dei sinodi dei riformati polacchi).

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mente quante volte fosse necessario, e cosí fu eliminato l’ostacolo maggiore. Intanto che arrivavano le lettere di Calvino, il Biandrata aveva dunque raggiunto una grande influenza in Polonia: cosicché poteva cominciare, sia pur sempre con una certa cautela, a diffondere i suoi dubbi sulla concezione ortodossa della Trinità, in modo che all’arrivo delle lettere l’ambiente gli era già favorevole. Ad ogni modo il sinodo di Cracovia del 1561 decise di chiedere al medico italiano una professione di fede che potesse soddisfare il severo capo ginevrino. Ma non giovò a nulla né la professione di fede di un gruppo di ministri, firmata anche dal Biandrata, dove non mancava neppure una detestatio delle dottrine del Serveto; né una lettera del sinodo, che difendeva il Biandrata, né una lunghissima lettera del Lismanini, che difendeva sé dall’accusa di avere protetto e introdotto il Biandrata presso la nobiltà polacca, e sé e l’amico dall’accusa di eresia597 . Il Cruciger e il Radziwill intervennero anch’essi personalmente e separatamente presso Calvino, ma senza effetto. Infatti da tutte le lettere individuali e dai messaggi collettivi Calvino doveva rilevare come il Biandrata avesse imbevuto della sua maniera di pensare gli uomini della Chiesa polacca, i quali lodavano il Biandrata perché questi seguiva il puro senso del verbo di Dio «sine exoticis nominibus, sine sophisticis argutiis», ed esortavano Calvino a trattarlo amichevolmente, «prout decet verum Christi verbi ministrum». Scritturalismo estremo ed esortazione alla carità cristiana che in sé potevano essere innocenti, anzi lodevoli, ma che in quel momento storico significavano un atteggiamento mentale ben pericoloso alla coesione interna della Riforma protestante, già scossa dalla rivalità fra «riformati» e luterani e premuta dall’opera di penetrazione e di propaganda dei Gesuiti. Calvino 597

O. C. XIX ecc., nn. 3647, 3648, 3649, coll. 166 sgg.

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si irrigidisce, e risponde al Cruciger che coloro che hanno accolto bene il Biandrata sono stati poco saggi e poco prudenti; si dichiara pronto a perdonare al Biandrata, se questi dimostrerà d’esser realmente pentito. Ai ministri di Wilno, che avevano voluto ammaestrarlo sui suoi doveri di cristiano, risponde che hanno tempo da perdere, se si riuniscono per quisquilie del genere; e rinuncia alla discussione: «Mihi non creditis, cur ego potius vobis credam?» Con vera violenza risponde al Lismanini e al Radziwill, rimandandoli alla narrazione dell’attività ginevrina del loro protetto, che ha già mandato ai pastori di Wilno598 . La ragione della violenza e della durezza di Calvino sta nel fatto che nel frattempo gli era giunta notizia del grado raggiunto nella chiesa polacca dall’uomo che né gli italiani di Ginevra né i zurighesi avevano potuto tollerare fra loro, perché da lui condannato: il pericolo ch’egli vedeva era ormai troppo grave. Neppure le lettere contenenti la professione di fede ortodossa e la condanna del Serveto e quelle che le accompagnavano, riuscirono a convincere il vecchio teologo, che permase nella sua posizione, e alla fine giunse quasi a disinteressarsi della Polonia, rifiutando nel 1562 di scrivere a un certo numero di nobili polacchi che forse si sarebbero, cosí lusingati, messi dalla parte dell’ortodossia. Piccolo espediente che gli consigliava il Trezio, il quale dovette sentirsi rispondere che Calvino non era solito scrivere a sconosciuti, tanto piú che tutti i tentativi fatti per indicare ai polacchi la via da seguire erano falliti599 . Ma le lettere che continuavano a giungere dalla Polonia e denunciavano l’attività ereticale sempre piú intensa del Biandrata lo indussero a lasciar da parte la polemica con questi, 598 C. O. XVIII, C. R. 46, 23 luglio 1561, n. 3453, col. 571; 3 settembre 1561, n. 3508, col. 676; cfr. XIX (47), 3561, col. 37; 3562, col. 58 (9 ottobre 1561). 599 Ibid., n. 3889, col. 607.

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e a preparare una Brevis Admonitio ad Polonos, che uscí nel 1563. Il successo dell’opuscolo e la sua efficacia furono però scarsi: e gli si dovette far seguire una Epistola ad Polonos, per la quale anche il Bullinger aveva insistito600 . Ma l’attività specifica contro il Biandrata era terminata, e le risposte di Calvino ai polacchi sono sempre piú secche. Intanto il Biandrata aveva elaborato e presentato la professione di fede promessa a Cracovia, facendola leggere al sinodo di Xionz, nel marzo del 1562601 ; essa suscitò da principio molti dubbi, e forse per questo venne ´ sí riletta pubblicamente a Pinczów nell’aprile dello stesso anno, ma non fu mai pubblicata nel Cinquecento. Lo storico degli antitrinitari ci dice che fu «nonnullis probata, aliis plane improbata, privatimque tantum letta»602 . ´ Ma il sinodo di Pinczów, dove non fu piú cosa privata, accedette in sostanza alle idee del Biandrata, il quale aveva anche richiesto, prima di sottomettersi a Calvino, che questi ritrattasse le accuse lanciategli nella prefazione agli Atti. La Confessio del Biandrata appare oggi chiaramente antitrinitaria, ma non sapremmo dire se la si possa definire «triteistica» o «diteistica» o «monoteistica», nel senso del riconoscimento del carattere divino anche alle altre due persone della Trinità, a una sola, o a nessuna di esse. Infatti vi è nettamente affermata la preminenza del Padre, «ex quo omnia, qui est in omnibus et super omnia... solus sapiens, solus immortalis et solus invisibilis». Questo Dio è padre di Cristo signore nostro: e qui il Biandrata cita espressamente Calvino; ma per il resto polemizza aspramente contro «tota illa Mo600 C. O. IX, ml. 629. Cfr. Kunitz e Reuss, nei Prolegomena allo stesso volume, pp. XLVIII sg. 601 Riprodotta in Profilo cit., pp. 22 sgg., estr. 602 Lubieniecki, Historia Reformationis Poloniae, «Freistadii», 1685, p. 130.

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nachorum de Deo trinitario mithologia, et profanae illae voces omnes», e contro coloro che vorrebbero mantenere la terminologia scolastica e i concetti ch’essa presuppone, senza poterli fondare sulla Scrittura. E cita il Beza che nella sua polemica contro Valentino Gentile aveva, pur tergiversando, riconosciuto la necessità delle distinzioni filosofiche per poter sostenere il dogma della Trinità. Neppure l’accusa di arianesimo gli fa molto effetto: «et si Ariani male senserunt in fide, hoc tamen optime sive malo sive bono animo exoptarunt ne vocem profanam et novam in regulis fidei statui liceret»603 ; dove viene implicitamente infirmata la tradizionale condanna degli ariani, nel momento stesso che si prescinde dal loro eventuale torto o errore. Il Figlio, «per quem omnia facta sunt», viene immediatamente dopo il Padre: ma per esso non si deve intendere la seconda persona della Trinità, il «verbo» eterno, ma soltanto il figlio di Maria Vergine, che è il Messia. Lo Spirito Santo è lo spirito di Dio Padre e di Cristo, l’unzione che Cristo ebbe sopra ogni misura e che noi abbiamo misuratamente, onde siamo rigenerati; è in sostanza indifferente adorarlo, purché si provi che i primi cristiani l’hanno fatto, ma non lo si può chiamare né Dio né persona, a meno che questi termini si trovino per lui usati nella Scrittura. Uno dei piú entusiasti e coerenti seguaci della decisio´ ne del sinodo di Pinczów, secondo la quale i ministri dovevano da allora in poi sforzarsi di evitare le espressioni filosofiche, dando quindi ragione al Biandrata, fu Gregorio Pauli (Pawel), la cui predicazione doveva poi suscitare molte lotte in Polonia, e infine condurre alla scissione della Ecclesia Minor nei due campi degli evangelici riformati ortodossi, e dei dissidenti604 . Profilo cit. pp. 23-24. Su di lui oltre il libro del Gòrski, Grzegorz Pawel z Brzezin cit., pp. 86 sgg., vedi Wotschke, Geschichte der Reformation 603

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Mentre arrivava in Polonia l’Alciati, il Biandrata ne partiva, accettando l’invito a recarsi come archiatra alla corte di Transilvania605 . Probabilmente il Biandrata considerava ormai finito il proprio compito in Polonia, dove i semi della «vera dottrina» avevano trovato buon terreno e prosperavano (nel 1563 la dottrina della Trinità verrà esplicitamente condannata), benché d’altra parte non si potesse dire che la chiesa «unitaria», come poi si sarebbe chiamata, fosse saldamente organizzata. D’altra parte, sebbene l’insistenza di Calvino contro la sua persona sembrasse ormai terminata, la situazione generale non era piú favorevole; era il momento nel quale si stava preparando il decreto del 1564 contro gli eretici stranieri, che era di fatto vôlto contro gli italiani, e pel quale vennero espulsi l’Alciati, il Gentile e l’Ochino dopo una brevissima permanenza. Fin qui il Biandrata s’era comportato piú da politico che da uomo di pensiero; abile nel crearsi una posizione personale, nel cattivarsi l’amicizia di persone influenti e potenti, nel preparare una «confessio fidei», che non simulasse nulla ma dissimulasse bene il proprio pensiero, e nell’instillare dubbi, egli non aveva esercitato, d’altra parte, alcuna attività originale; passati di poco i quarant’anni, se dobbiamo credere alla tradizione che lo fa medico verso i venti, non aveva scritto ancora un libro, dopo i primi trattati di medicina: ma come agitatore e propagatore di dottrine la sua figura, colorita di astuzia e flessibilità, era ormai definita. In Polonia egli aveva conosciuto il Lismanini, lo Stancaro che ritroverà nella Transilvania, Lelio Sozzini poco

cit., pp. 215 sgg., che parla anche delle tre tendenze: triteiti, diteiti e unitari entro il campo dei dissidenti. 605 Lubieniecki, Historia Reformationis Poloniae cit., p. 170; wotschke, Briefwechsel cit., pp. 133 sgg., ecc.

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´ dopo il suo arrivo a Pinczów. Vi lasciava, tra gli altri, un discepolo, a lui affine pel temperamento tenace, se pure tanto irruente e violento quanto il saluzzese cauto e astuto: il Pauli, il traduttore polacco di Fausto Sozzini, ardito polemista, attraverso il quale il Biandrata mantenne stretti rapporti con le chiese polacche. Cosí, per esempio, al Biandrata si rivolsero i polacchi nel 1565 quando la disputa sul Battesimo agli infanti ebbe preso tra di loro un carattere troppo violento, che avrebbe potuto portare alla scissione. In quel momento il Biandrata stava abbandonando la dottrina triteistica nella quale aveva indugiato fino ad allora, valevole piú come sostegno alla critica del dogma trinitario tradizionale che per se stessa, e non elaborata; e si stava avviando a un rigido unitarismo, che gli sembrava adatto come base di unione fra le varie chiese eterodosse, specie per procurare una unione religiosa della Polonia e della Transilvania. Egli consigliò di lasciar da parte il problema, considerandolo di secondaria importanza, un adiaforon: e il suo consiglio fu seguíto, mentre non era stato seguíto un consiglio analogo dell’Alciati606 . Del resto anche il Sarnicki aveva dovuto riconoscere i meriti di organizzatore e di consigliere del Biandrata607 . Questi aveva tanta fiducia nel Pauli, che al sinodo di Rogów (20 luglio 1562) non aveva neppure ritenuto di dovere intervenire alla discussione, pago di quello che diceva l’amico in difesa delle comuni dottrine: probabilmente il Biandrata s’era anche reso conto che ormai la sua parte, di seminatore in terra straniera che procede cautamente e gradualmente, era terminata, e che per condurre a termine l’opera ed affermare definitivamente le proprie concezioni erano piú adatti il tem606 607

Górski, Grzegorz Pawel x Brzezin cit, pp. 156 sgg. O. C. XVIII, C. R. 46, n. 3506, col. 672.

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peramento focoso, il radicalismo e il coraggio civile del Pauli608 , che agiva nella propria patria. Però la chiesa «unitaria» polacca risentí subito della partenza del Biandrata e della mutata situazione politica. I grandi protettori politici degli unitari e dei «triteisti» andavano scomparendo: e ora veniva a mancare anche la grande energia intellettuale del medico italiano, che d’altra parte era riuscito ad acquistare una grande influenza sulla «piccola nobiltà» polacca. Appena partito il Biandrata, il Lismanini divenne incerto; se sotto l’influenza del Biandrata, credendo di chiarificare e perfezionare la tradizionale dottrina della Trinità, egli era servito all’amico proprio per scalzarla, ora che questi era partito, e che il Pauli aveva svelato chiaramente quel che significassero le idee e le sfumature insinuate dal saluzzese, il Lismanini si scosse, e cercò di riparare al male compiuto: ma riuscí soltanto a migliorare la propria situazione personale di fronte al sovrano e ai capi svizzeri, e la dottrina continuò a diffondersi come prima609 . 608 609

Górski, Grzegorz Pawel x Brzezin cit, pp. 60 sg. Ibid., p. 100.

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CAPITOLO VENTESIMO

Valentino Gentile, e il suo processo ginevrino.

In Polonia presso il Biandrata si era rifugiato, oltre l’Alciati, il cosentino Valentino Gentile, che era fra gli italiani invitati a sottoscrivere la professione di fede imposta al Biandrata, insieme a Nicola Gallo, sardo610 . Anche qui, si comincia con una sottomissione puramente «nicodemitica» all’ortodossia. Il Gentile era un maestro di scuola, intelligente, «sed vafro sophisticoque ingenio praeditus»611 dice il Beza; emigrato per le sue idee religiose, e attirato a Ginevra dalla fama di Calvino. Entrato nella comunità italiana di Ginevra nel 1556, lo stesso anno che il Gallo, possiamo annoverare anche lui fra i fuorusciti della seconda generazione. A Ginevra era stato convinto dalle idee del Gribaldi e del Biandrata, ma aveva finito col sottoscrivere la confessione di fede del 18 maggio 1558 sperando che la sottomissione formale fosse sufficiente a evitare altri incidenti. I dubbi però continuavano a preoccuparlo, finché Dio rispose alle sue preghiere con una illuminazione che gli rese 610 Calvino, Impietas Valentini Gentilis detecta et palam traducta, O. C. IX, C. R. 36, pp. 361-420; H. Fazy, Procès de Valentin Gentilis, in Mémoires de l’Institut National genévois, XIV (1878-79); B. Aretius, Valentini Gentilis historia (contiene anche Beza, Valentini Gentilis impietas explicata), Genevae 1567; Grosheintz, L’église italienne cit., pp. 96 sgg.; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., I, pp. 316 sgg.; Doumergue, J. Calvin cit., VI, pp. 490 sgg. {T. R. Castiglione, Valentino Gentile, in «Archivio Storico per la Lucania e la Calabria», VIII (1938), pp. 109-28; IX (1939), pp. 41-54; XIV (1945), pp. 101-17 (che proseguirà)}. 611 Beza, Vita Calvini, in O. C. XXI, C. R. 49, col. 154.

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chiaro ed evidente tutto quello che prima gli era rimasto oscuro ed incerto. La coscienza della illuminazione divina che gli era stata concessa non gli permetteva piú di tacere, e anzi, gli faceva sentire il rimorso d’essersi sottomesso, rinnegando la verità che pure aveva intuito. E fu seguíto dal Gallo612 . A Ginevra, la professione di fede equivaleva ad una legge civile che si doveva osservare rigorosamente, sotto pena d’esser considerati «spergiuri ed infami». Ma il comandamento della coscienza era cosí forte, che il Gentile ruppe consapevolmente il suo giuramento: e nel giugno del 1558 venne denunciato assieme al Gallo per avere sostenuto che il solo Dio è il Padre, che ha trasmesso la sua divinità al figlio. Questa dottrina fondamentale era accompagnata dalle solite considerazioni sui termini «trinità», «essenza», «ipostasi», estranei alla Scrittura, e sulla impossibilità di fondare scritturalmente la dottrina della Trinità; non mancavano le osservazioni sarcastiche sul modo di procedere di Calvino: «Calvino riprova questo sistema, in base alle sue fantasie; perché non dobbiamo avere anche noi lo stesso diritto?» Il Gallo aveva detto che l’Alciati aveva ragione e che Calvino era «bilioso»613 . Arrestati e sottoposti a stringenti interrogatori, in un primo momento i due cedono; il Gallo definitivamente, il Gentile per risollevarsi subito dopo. Egli aveva molte speranze nel famoso argomento della «quaternitas», ma non era in grado di sostenere le sue tese con argomenti scritturali, di fronte all’incalzare di Calvino, che dirigeva personalmente l’interrogatorio614 . Gli fu accordato un Grosheintz, L’église italienne cit., p. 96. Fazy, Procès de Valentia Gentilis cit., pp. 7, 8, 35; Grosheintz, L’église italienne cit., p. 98. 614 Ibid., p. 100; cfr. Ruffini, Il giureconsulto chierese cit., pp. 58 sgg., che mette in rilievo la durezza del procedimento di Calvino. 612 613

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periodo di due settimane per esporre per iscritto le sue idee, e gli furono dati anche i libri che aveva chiesto. Ma gli fu negato l’avvocato, che il Gentile aveva chiesto nella persona di Pier Martire Vermigli615 . Le due settimane d’attesa dovettero essere di dubbi e pentimenti: l’evidenza dell’«illuminazione» divina non cessava d’operare nell’animo del Gentile, ma d’altra parte doveva essergli chiaro che egli non sarebbe mai riuscito a scuotere il pensiero di Calvino né dell’assemblea dei notabili della città ch’era stata invitata ad assistere al suo processo616 . Cosí si spiega la breve professione di fede presentata dal Gentile al termine dei quindici giorni, nella quale, come osserva giustamente il Grosheintz, quel ch’è sottaciuto è molto di piú di quel che è detto. Gli fu chiesta una dichiarazione piú particolareggiata. In questa ritorna l’argomento della «quaternitas», che prelude alla dottrina positiva del Dio Padre come unica sostanza, dalla quale il figlio procede come vero Dio. Il Grosheintz ritiene che la concezione del Gentile fosse emanatistica, ma egli stesso osserva che i termini da questi usati erano cosí vaghi e generici, da non poter permettere una conclusione precisa617 . Ad ogni modo il Gente riteneva che non si potesse parlare in nessun modo di una prima persona della Trinità, il Padre, perché il concetto stesso di persona gli appariva, sulle tracce del Valla, sofistico e non giustificabile scritturalmente. Le argomentazioni di tipo esegetico, tratte dalla convenienza o meno degli attributi scritturali di Dio con il concetto di esso che il Gentile vedeva nella dottrina trinitaria tradizionale, si alternano con i ragionamenti astrattamente logici, come l’insieme di sillogismi sulla quaternità. Tutto lo sforzo del Gentile tenGrosheintz, L’église italienne cit. Ibid., p. 102; Fazy, Procès de Valentin Gentilis cit., p. 64. 617 Grosheintz, L’église italienne cit., p. 103. 615 616

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de a stabilire una preminenza assoluta di Dio, inteso come pura essenza, su Cristo, Dio anch’esso, ma non pura e semplice essenza. Le lunghe e contorte disquisizioni del Gentile erano accompagnate da un tono violento contro Calvino e i suoi seguaci, che si può spiegare soltanto col sentimento dell’illuminazione divina, e con la convinzione d’essere realmente ispirato. Questa convinzione, che permetteva all’italiano di resistere alle particolari durezze dell’incarceramento e della procedura, lo induceva anche ad avere una ingenua fiducia nell’esito del processo; e spiega anche l’insistenza con la quale Calvino lo tratta di «delirante», «frenetico», «allucinato», il che, attraverso la deformazione polemica, suona quanto «illuminato»618 . Infatti, all’orgoglio del Gentile, che credeva di poterla aver vinta facilmente contro un Calvino, questi rispose con violenza durissima, e con la minaccia finale: che Dio ti converta o ti pieghi, o che altrimenti ti sopprima. Dopo una nuova protesta e una nuova preghiera che gli si concedesse un avvocato, il Gentile cedette, con la dichiarazione «Visum est potius ipsis vel somniantibus, quam vigilanti mihi credere», che potrebbe essere intesa anche in senso ironico, se le altre dichiarazioni con le quali il Gentile l’accompagnò non fossero di completa sottomissione, fino a dichiarare Calvino «rarissimo ministro di Dio e sommo teologo»619 . La sottomissione non venne accettata senz’altro, perché non era evidentemente sincera: e il Gentile dovette 618 «Crasse hallucinaris», Fazy, Procès de Valentin Gentilis cit.. p. 73; cfr. Grosheintz,L’église italienne cit., pp. 104-5. 619 Fazy, Procès de Valentin Gentilis cit., p. 86; Grosheintz, L’église italienne cit., p. 106; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 327, intende questa frase come di «malcelato scherno» onde il Gentile indicasse i ministri ginevrini come sognatori e sé come unica persona sveglia.

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accompagnarla con molte particolareggiate dichiarazioni di abiura, e sottostare ad interrogatori che permettessero di eliminare ogni dubbio sulla sua accettazione meditata e completa della dottrina tradizionale. È già stato narrato il succedersi di interrogatorii e di umiliazioni alle quali dovette abbassarsi il Gentile: d’altra parte egli era colpevole di spergiuro patente, e i capi ginevrini non si potevano accontentare di una ritrattazione venuta dopo tante ambigue dichiarazioni, tanto piú che il momento politico esigeva che si osservassero rigorosamente la disciplina e la coesione interiore della Riforma, e che si evitassero alla «Roma protestante» le possibili accuse di farsi ricetto di spiriti ribelli e «scandalosi»620 . Il riavvicinamento della Francia alla Spagna preludeva infatti ad una maggiore pressione del cattolicesimo sul protestantesimo621 . Cosí la commissione dei giureconsulti incaricata del giudizio definitivo si pronunciò per la pena di morte per decapitazione, ma propose di sospendere la esecuzione di essa, per vedere se il pentimento del Gentile fosse sicuro e sincero. L’eretico, malato e molto malandato, dovette rimanere in prigione, con un durissimo trattamento, ancora per un mese, durante il quale si continuò ad interrogarlo insistentemente. Finalmente, per l’intervento di due italiani, che assicurarono del suo pentimento e della sua grave condizione di salute, il Gentile venne liberato, non senza esser stato prima costretto ad una pubblica abiura, accompagnata da solenni cerimonie, durante le quali il Gentile dovette attraversare la città vestito d’un Grosheintz, L’église italienne cit., pp. 106 sgg. Siamo infatti alla vigilia della pace di Cateau-Cambrésis, il famoso trattato del 1559; le parole del cui inizio gli conferivano un «andamento di Santa Alleanza», come dice H. Hauser, Les Débuts de l’Age moderne (Peuples et civilisations, VIII), Paris 1929, p. 580. 620 621

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abito speciale, bruciare pubblicamente di propria mano i suoi scritti, ecc.622 . Il Gentile aveva promesso di rimanere a Ginevra dopo la liberazione dal carcere; ma col pretesto della povertà non aveva versato la cauzione, e cosí, alla prima occasione, poté facilmente fuggire, nonostante che gli incaricati del Concistoro lo sorvegliassero attentamente: e si recò a Farges, presso il Gribaldi. Appena libero e lontano da Ginevra, il cosentino riprese con accanimento a propagare le sue idee, insistendo contro Calvino e la sua idea della Trinità; si deve dunque pensare che la prontezza e la facilità con la quale accettò le vergognose umiliazioni che accompagnarono la ritrattazione pubblica di Ginevra fossero semplicemente l’effetto di un calcolo, al quale il male e la stanchezza improvvisa dopo tanto violento ardire l’avessero indotto. Da Farges si recò a Lione, sperando forse di trovarvi modo di vivere, e anche terreno adatto alle sue idee. Lí, fornito di libri da un Battista lucchese, si dedicò allo studio dei Padri e preparò uno scrit622 I due italiani erano il conte Francesco Cattani, un rifugiato lucchese che nel 1560 pubblicò una traduzione della Confessione della fede cristiana del Beza (il Jalla, Storia della Riforma in Piemonte cit., p. 96, lo dice calabrese ma nel Castiglione, Il rifugio calabrese a Ginevra nel XVI secolo cit., non se ne ha cenno; Galiffe, Le refuge cit., p. 153); e G. C. Paschali (cfr. gli studii del Pascal, Gli antitrinitari piemontesi cit. e B. Croce, Varietà di storia letteraria e civile, Bari 1935, p. 81). {Giulio Cesare Paschali, il poeta di Messina, non è da confondere con Gian Luigi Paschale piemontese, predicatore valdese in Calabria, bruciato a Roma nel 1560. Cfr. Castiglione, Il rifugio Calabrese a Ginevra nel XVI secolo, in «Archivio» cit., VI (1936), pp. 175 sg., e Lettere d’un carcerato (1559-60), ordinate, annotate... per opera di A. Muston, Torre Pellice 1926}. Per l’abiura ecc., Grosheintz, L’église italienne cit., pp. 111 sgg. Per quanto segue: Ruffini, Il giureconsulto chierese cit., pp. 59 sgg.; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 329 sgg.

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to, Antidota, che non venne pubblicato, ma che gli avversari conobbero, dove polemizzava punto per punto con il capitolo della Institutio sulla Trinità623 . Qui ritornano piú evidenti anche alcuni motivi come quelli del Gribaldi, e come quelli che si troveranno negli scritti del Biandrata: per esempio l’idea che il vero Dio è αυτ óθoς , il che si può dire solo del Padre, ecc. Da Lione, dove la povertà e la salute non gli permettevano di rimanere a lungo, si recò a Grenoble, di nuovo presso il Gribaldi: e anche quivi dovette manifestare qualcosa delle sue opinioni, perché l’autorità cominciò a sospettarlo. Ma egli poté sfuggire ad ogni pericolo con un espediente che ricorda quello di Giorgio Siculo nel suo libro sullo Spiera: fece tali dichiarazioni di odio a Calvino, che quelle autorità lo lasciarono senz’altro libero, non sospettando che vi potesse essere qualcosa di peggiore che il calvinismo; ma, per timore che la verità finisse per essere conosciuta, il Gentile preferí ritornare nel sicuro rifugio di Farges, attraverso Chambéry. Ma a Farges l’eretico era ormai troppo noto, e il balivo di Gex, dal quale, come rappresentante di Berna, dipendeva il feudo del Gribaldi, lo fece arrestare. I pastori del luogo si preparavano già a rinnovare il processo ginevrino, ma il Gentile riuscí a sfuggire ad ogni fastidio con una dichiarazione di fede ortodossa e con una cauzione. Poco tempo dopo, mediante la promessa di presentarsi al primo invito, fu lasciato in libertà incondizionata, e ritornò a Lione. Quivi commise l’errore che doveva piú tardi costargli la vita: stampò, dedi623 È il cap. XIII del I libro, nell’edizione del 1559, al quale corrispondono nella sostanza anche le edizioni latine immediatamente precedenti. Nell’edizione del 1559 (ed. Barth-Niesel cit., III, pp. 134-48 [paragrafi 20-28]) in una lunga aggiunta Calvino risponde partitamente al Biandrata, al Gribaldi e al Gentile. Nella edizione francese del 1541 il problema è trattato nel cap. IV: De la foy (ed. Pannier; Paris 1936-382 , vol. II, 1937, pp. 50 sgg.).

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candola al balivo di Gex, una professione di fede che gli aveva fatto consegnare manoscritta prima di avere la libertà incondizionata, a mezzo di una terza persona. Cosí il balivo era chiamato direttamente in causa, e si destava l’impressione che egli in qualche modo avesse accettato quella dedica. La cosa era grave, tanto più che la professione di fede era accompagnata da alcune Protheses e da annotazioni sul simbolo atanasiano, dove la dottrina del Gentile appariva di nuovo in pieno, e più chiara ancora, forse per influenza del Gribaldi. Il Gentile si scusò poi di avere compromesso cosí il balivo di Gex, dicendo che l’autore della pubblicazione era stato l’Alciati; ma la scusa non fu accolta, benché corrispondesse a verità. Questa volta Calvino, contro il quale il Gentile polemizzava direttamente, intervenne di persona, con una lunga confutazione624 . Anche a Lione l’attività di discussione e di critica che il Gentile probabilmente non poté trattenersi dall’esercitare, gli attirò i sospetti dell’autorità; ma anche quivi riuscí ad eludere i giudici con la dichiarazione che le sue dottrine erano vôlte non contro la dottrina ortodossa della Trinità, ma contro la interpretazione fornitane da Calvino625 . Liberato dopo cinque giorni di carcere, ac624 È l’Impietas Valentini Gentilis detecta cit., sopra; cfr. Institutio, ed. cit., p. 139, nota 5. 625 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 343; nell’Appendice XVI, la Confessio al Balivo di Gex (p. 471), le Annotazioni al simbolo atanasiano (p. 480), le Protheses Theologiae (p. 486), e le Veri Dei Patris et Pseudo-dei Trinitatis Antitheses (p. 487), forma efficacissima di propaganda che qui s’incontra per la prima volta in questo ambiente, e che sarà poi ripresa dal Biandrata. Riproducono una di queste antitesi: «Evangelicus ille unus Deus et Parer per Filium Mediatorem fuit nobis placatus et reconciliatus. – Sophisticus iste Trinus Filio Mediatore carens nullam agnoscit placationem neque reconciliationem». Nel Cod. Bern. 122, fol. 2r in una lettera

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cettò l’invito del Biandrata, e si recò, probabilmente assieme all’Alciati, in Polonia.

del 25 febbraio 1561 il Gentile adduce a sua difesa il pensiero dello Stancaro, nella lettera di questi del 4 dicembre 1560 a W. Muscolo, P. Martire Vermigli, Calvino, Bullinger.

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CAPITOLO VENTUNESIMO

Ripiegamento degli eretici italiani nell’attività clandestina. Gli ultimi anni di Lelio Sozzini. Viaggio in Germania, Austria e Polonia. Proposito di tornare in Toscana. Il commento all’inizio dell’Evangelo giovanneo e le tesi sulla Trinità. Antitrinitarismo e motivi sociali (anabattistici) nell’interpretazione sociniana dell’umanità di Cristo.

L’attività degli eretici continuava clandestinamente; ma questo segreto è indice di ripiegamento. Gli eretici rimasti in Italia pensavano all’Alemagna come terra dove si potesse liberamente discutere e dove fosse permesso esprimere le proprie opinioni: ma in questa terra d’esilio si doveva ritornare sul piano della dissimulazione, che, anche se non cosí avvilente come la simulazione, non è meno perniciosa per l’educazione morale. Occorreva dunque cercare altri paesi, più adatti per la diffusione delle proprie idee: o tanto valeva tornare in patria. Questo dovette essere il pensiero di Lelio Sozzini, che già da tempo al principio del suo scambio di idee con Calvino, aveva proposto a questi idee analoghe a quelle dei «Nicodemiti». Da principio Lelio non deluse la fiducia del Bullinger, almeno per quanto riguarda le promesse formali che gli aveva fatto. Abbandonò quasi del tutto l’abitudine di proporre questioni e problemi scottanti, e si ritirò nei suoi studi e in umbratili indagini. «Negli ultimi anni della sua vita», dice il suo principale biografo, «non si ha più quasi notizia che abbia proposto le sue questioni religiose e i suoi dubbi a dotti che non fossero della sua stessa nazione e del suo spirito: eppure non si può ammettere che cosí a un tratto fosse giunto a solide convinzioni su ogni punto di dottrina. Reso più prudente dagli ultimi, spiacevoli incidenti, si limitò probabilmente

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ad affidare i suoi pensieri, o alla carta, che non diffonde i suoi segreti, o ad amici altrettanto silenziosi e che dividessero le sue opinioni»626 . Ci rimane di questo tempo una lettera al Borrhaus, del quale erano da poco usciti i Commentaria, la cui lettura aveva provocato qualche nuovo dubbio di esegesi a Lelio. Questi si rivolge di nuovo a Bullinger, il quale doveva tenerlo già un po’ a distanza, poiché, pure avendogli mostrato le proprie osservazioni al Borrhaus, non gli aveva voluto promettere di fargli vedere la replica di quest’ultimo. Lelio ne scrive direttamente all’antico anabattista, riferendo l’opinione del Bullinger, e chiedendogli la sua risposta627 . Qualche amico, o almeno qualcuno con cui poteva conversare senza timore di malintesi, il giovane Sozzini lo trovò probabilmente fra i locarnesi, emigrati a Zurigo, e certamente nel loro predicatore Bernardino Ochino, tornato dall’Inghilterra dov’era cominciata la reazione cattolica di Maria Tudor628 . Possiamo forse vedere qualche ricordo delle conversazioni fra i due senesi, il celebre cappuccino d’origine popolana e il figlio della grande famiglia patrizia, nei Triginta dialogi dell’Ochino, che per la loro implicita dottrina provocarono la cacciata di quest’ultimo da Zurigo. Ma Lelio non poteva rimanere del tutto tranquillo. Nel 1566 il padre moriva a Bologna, e Siena perdeva anche l’ultima parvenza della sua 626 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 189. 627 Pubblicata in Gli ultimi anni cit., p. 20 dell’estr. 628 Benrath, Bernardino Ochino cit., pp. 198, 222; nel 1558 il Bullinger raccomanda Lelio all’Utenhove (Original Letters, relative to the english Reformation, ed. H. Robinson per la Parker Society, II serie, Cambridge 1847, p. 700 e nota).

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autonomia (1557)629 , passando sotto la signoria dei Medici. Ora per Lelio non c’era più modo di sottrarre i suoi beni all’Inquisizione che procedeva alla confisca del patrimonio degli eretici; Mariano era riuscito fino ad allora a tenerla lontana, ma Celso Sozzini, che gli era succeduto nella cattedra bolognese, non aveva più la sua autorità e doveva presto essere anch’egli sospettato630 . A questo 629 Possiamo congetturare senza andar molto lontani dal vero che vedesse il Betti e l’Aconcio, e che rimanesse in contatto col Curione: il nipote Fausto, che probabilmente l’ebbe a visitare forse durante una gita di Lelio a Basilea che altrimenti non c’è attestata, parla di amici comuni ai quali Lelio avrebbe espresso le sue idee. Cfr. nota sg. 630 Questo processo dei familiari di Lelio rimane ancora da chiarire nei particolari. J. Hanhart, in Conrad Gessner, Ein Beytrag zur Geschichte des wissenschaftlichen Strebens., Winterthur 1824, p. 349, ha pubblicato la consolatoria del famoso medico e bibliofilo «ad Laelii Socini fratres et cognatos in Italia captos propter verbum Domini et de morte periclitantes», 6 gennaio 1561. Incontreremo Dario Sozzini nei Grigioni; per Celso cfr. Cantù, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 505 (da una lettera di M. Bentivoglio sulla famiglia Sozzini); cfr. p. 406 dove si ha un accenno che rimane sospeso e senza documentazione di sorta, pp. 506 e 449 sgg., lettera di Nofri Camajani al Duca (5 settembre 1558) dove si parla di un Carlo e di Cornelio ma non di Celso e Dario Sozzini. Cfr. P. Piccolomini, Documenti del R. Archivio di Stato in Siena sull’eresia in questa città durante il sec., estr. dal «Bollettino Senese di Storia Patria», XVII (1910), p, 34. Le notizie che fornisce il Trechsel (Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 198) riprendendo l’Illgen (Vita L. Socini cit., p. 63) risalgono alla Vita F. Socini scritta dal Przipkowski (Eques Polonus) e preposta alle opere di Fausto nell’edizione della Bibliotheca Fratrum Polonorum. Il Trechsel parla di Celso (che pare abiurasse, e morí a Bologna nel 1570 secondo il Cantù, Gli eretici d Italia cit., p. 509) di Camillo (che incontreremo nei Grigioni) e di Fausto; ma ignora Dario (su cui cfr. Cantù, loc. cit.). Il Burnat, Lélio Socin cit., Appendice (p. 92), cita una lettera di Lelio a Crato von Krafftheim, medico imperiale che ha probabilmente conosciuto nel suo ultimo viaggio, del

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punto, Lelio avrebbe deciso di recarsi in Italia a rendersi conto personalmente della situazione, e a salvare il salvabile. Gli occorrevano però salvacondotti e credenziali di un principe non italiano, che gli permettessero di circolare con una certa libertà negli Stati italiani, come aveva già fatto, esempio notissimo, l’Altieri: allo scopo di procurarsi questi documenti Lelio avrebbe intrapreso il suo terzo e ultimo, lunghissimo viaggio. Questa è la tradizione e certo vi sono elementi di verità631 . Ma Lelio deve avere ventilato già fin d’allora quello che vedremo essere il proposito del Castellione, quello che l’Ochino fu costretto ad effettuare contro sua voglia, che il Biandrata e Fausto Sozzini compirono con effetti fecondi: siccome non si poteva piú vivere liberamente in Isvizzera agitando le proprie idee, occorreva recarsi in terra piú libera. Il viaggio di Lelio deve avere avuto anche questo scopo, altrimenti, non si potrebbe capire la sua lunga permanenza in Polonia, e in genere la lunghezza delle tappe di questo viaggio, spiegabile solo in parte con gli indugi delle corti e l’attesa dei salvacondotti e delle lettere credenziali. Né deve essergli rimasto del tutto estraneo il pensiero di fermarsi in Italia, come criptoanabattista: l’organizzazione segreta in quegli anni durava ancora, la famiglia dei Sozzini godeva ancora per poco di una certa influenza, Lelio avrebbe potuto trovare un protettore altolocato, come piú tardi avrà per molti anni suo nipote. Il Serveto, fuggendo dal Delfinato, aveva in animo di recarsi in Italia632 : quivi bastava un atto esteriore di osse-

1° dicembre 1560; è una semplice richiesta all’amico, affinché preghi per lui e per i fratelli arrestati. 631 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 192 sgg. 632 Church, I riformatori italiani cit., I, p. 337; almeno questa era l’opinione diffusa negli ambienti degli eretici e ripresa

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quio, e c’era un mondo di ricercatori e di studiosi piú vivo e piú consono alla mentalità di questi eretici. Eredi fedeli del cosmopolitismo umanistico, quegli uomini dovevano trovare che la vita intellettuale poteva avere in Italia, – nonostante l’Inquisizione, che era del resto coerente, nei paesi cattolici, a un principio, e dopo l’esperienza di Paolo IV e prima della conclusione del Tridentino si accontentava anche di una sottomissione formale, – ancora respiro maggiore che in terra riformata, dove i capi erano molto piú severi e sospettosi, nella preoccupazione per il consolidamento delle proprie conquiste e in quella per la saldezza delle coscienze. In terra protestante, come mostra la storia stessa che stiamo narrando, era impensabile addirittura ogni forma di «nicodemismo». E a questo finivano invece per volgersi gli eretici, pei quali la «riforma interiore» diveniva volontà di immediate e radicali trasformazioni, mancando la possibilità delle quali, essi finivano col divenire indifferenti all’«esteriorità», e col perdere per estremismo la possibilità di distinguere fra l’una e l’altra gerarchia e organizzazione ecclesiastica. E in questo senso era giustificato il sospetto che a volte veniva espresso dai riformatori, di una identità fondamentale e reale benché non esplicita, fra il «papismo» e le dottrine degli «eretici» italiani. Che non stava certo nella miscredenza e nello spirito «mondano» ed «esteriore» dell’uno e degli altri, ma nella comune indifferen-

dall’Apologia del Lyncurio; essi non facevano che accettare l’affermazione fatta dal Serveto al suo processo (O. C. VIII, C. R 35 col. 770), che gli studiosi come il Carew Hunt (Calvino cit., p. 208) mettono in dubbio. Dal processo (Ibid., p. 209; O. C. VIII, C. R. 35, col. 770, 28) risulta che il Serveto intendeva recarsi da Ginevra a Zurigo. Si può forse congetturare che il Serveto volesse visitare qualche gruppo di amici, o volesse prendere la via dei Grigioni, non fidandosi di quell’altra (Grenoble, Mollane, Susa), che era la piú diretta.

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za per le sorti delle chiese protestanti, anzi nella ostilità ad esse e al loro spirito. Di tutto il costruire e ricostruire delle chiese «evangeliche» gli eretici sembravano vedere soltanto che il necessario procedimento dell’intolleranza religiosa rimaneva ancora arbitrario e violento, più elastico e quindi piú insidioso, meno facile ad eludere. Calvino, nonostante la sua diffidenza, e cedendo a una raccomandazione del Bullinger, acconsentí a fornire Lelio di lettere di presentazione per la Germania e la Polonia, sperando in cambio, come ebbe, informazioni sulla situazione religiosa e politica in Germania e in Polonia soprattutto, dove la Confessio Helvetica aveva molti seguaci. Lelio iniziò il suo viaggio recandosi a Worms, dove per il colloquio del. 1557 si trovava il Melantone, e dove era anche il «Re dei Romani» Massimiliano II, dal quale sperava ottenere lettere di salvacondotto per l’Italia633 . Il Bullinger e i suoi amici speravano che l’amabile e colto giovane senese, da tutti tanto stimato, e cosí sottile nelle discussioni e abile nei compromessi, avrebbe potuto contribuire molto a ristabilire il buon accordo fra luterani e calvinisti, che per l’appunto durante il colloquio di Worms s’era di nuovo rotto634 . Non si conosce il risultato di questi sforzi, anche se vi furono; forse Lelio era ormai indifferente alle dispute fra i protestanti, tutti persecutori in vario modo delle sue idee. Una lettera di Lelio da Tubinga informa il Bullinger che il colloquio è stato sospeso, e che questo gli ha impedito di vedere Massimiliano, già partito; ma Lelio non è scontento, perché Melantone l’ha accolto amichevol633 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 192. 634 Cfr. G. Kawerau, Worms, nella Realenzyclopädie dello Herzog, vol. XXI, 1908, pp. 489-96

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mente, e l’ha fornito di lettere per Vienna635 . Mentre Lelio sverna in Isvizzera, il Bullinger interviene presso Calvino per fargli ottenere da questi una nuova commendatizia, per il principe Nicola Radziwill636 . L’estate seguente riprende la strada, e a Tubinga si provvede di nuove commendatizie per personaggi della corte viennese che avrebbero potuto presentarlo e ottenergli udienza637 . Il Sozzini, cosí ben fornito, arriva a Vienna attraverso la via della Baviera, ma non cerca neppure di ottenere udienza, non si sa perché; e prosegue direttamente per la Polonia. Le lettere per il Radziwill di Calvino e per il Laski del Bullinger fecero ammettere il giovine patrizio senese nella piú alta società polacca di allora e gli permisero di essere ricevuto anche a corte, dove re Sigismondo II in quel momento era bene disposto verso la riforma e i suoi rappresentanti. In Polonia Lelio incontra, se non l’aveva conosciuto già prima a Zurigo, il Biandrata, e ritrova il Lismanini, ora pencolante verso l’antitrinitarismo; e partecipa attivamente alla vita della riforma: tanto che il Lismanini, scrivendo al Wolf, poteva dire: «Del stato della religione Mr. Lelio nostro, qual veramente è un altro cornucopie, vi dirà non solum quello che si fa, ma per l’acutezza del suo ingegno (nosti virum) quello che si pensa; è stato presente a tutti negotii, conversato familiarissimamente con molti grandi, tanto che è informato del tutto. State pur attenti, che vi farà certi piú che non sono molti, qui interfuerunt»638 . Il doppio giuoco di Lelio era ardito, perché mentre partecipava cosí all’atti635 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 193 e nota. le commendatizie di Melantone per Lelio sono già state citate. 636 Ibid., p. 194. 637 Ibid., pp. 195-96. 638 Ibid., p. 197, nota 3. Da Pelsnice 10 marzo 1559; cfr. Wotschke, Briefwechsel cit., n. 166 a, p. 88. Fr. Lismanini a H.

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vità della riforma nel senso elvetico, e ne informava Calvino, riprendeva i contatti con gli eretici che Calvino piú aborriva e che cercava di combattere anche in Polonia. Dalla Polonia, dove rimase per quasi sei mesi639 , il Sozzini partí nella primavera del 1559 per Vienna, provvisto

Bullinger; n. 167, p. 89 a Rud. Gwalther; n. 167 a, p. 89, a J. Simmler, tutte dello stesso contenuto, ma in latino. 639 Quivi il partito della riforma protestante era in pieno rigoglio di attività: Nicola Radziwill, palatino di Wilna, suocero del re; il principe Tamowsky, capo della casa militare del re, ed altri rappresentanti della piú alta nobiltà caldeggiavano la riforma; Giovanni Laski tornato dall’esilio era la guida spirituale del movimento riformatore, al quale sembrava inclinare perfino il primate di Polonia, il vescovo Uchanski, mentre il re stesso lo guardava con simpatia, a malgrado del nunzio Lippomani che insisteva per la repressione dell’eresia (cfr. Wotschke, Geschichte des Reformation cit., pp. 165 sgg.). Il Sozzini portava non solo le raccomandazioni dei capi ecclesiastici svizzeri a quelli polacchi, ma anche una di Massimiliano II al Radziwill, nella quale il re raccomandava caldamente al principe anche l’amore della vera religione di Lelio. Dalla risposta del palatino si vede come questi avesse saputo insinuargli le sue idee, il che spiega anche l’atteggiamento tenuto dal Radziwill nei riguardi del Biandrata: «mihi vero Laelii Socini consuetudo simul et quum ad me venit, tam est grata et accepta, ut in dies quo videlicet familiarius eo utor, multo sit jucundior, cum ob singularem hominis eruditionem, tum multarum rerum, potissimum vero controversiarum religionis multiplicem usum, quae utinam tandem in toto orbe Christiano componantur. Quamquam Dei beneficio quod ad genus doctrinae attinet iam compositas esse constat et e magnis tenebris plerasque matenas erutas, spinosisque ac intricatis sophistarum disputationibus liberatas esse, unum hoc restare videtur, ut tandem Monarchae, Reges et Principes populorum suam auctoritatem interponant, veterique superstitione et idolatria iam iam subsistere jussa, stipulam et paleam a puro grano, scorvam ab auro dividant, segregent et separent...», 4 gennaio 1559, in Iagiellonski Polskie w XVI Wieku, Tomo V, Kraków 1878, pp. 145 sgg.

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di nuove commendatizie, e di un salvacondotto rilasciatogli da Sigismondo II. A Vienna viene favorevolmente accolto da Massimiliano, che non gli nasconde le proprie simpatie per la riforma, pur pregandolo di tenerle segrete, e gli fornisce il salvacondotto. Cosí potentemente presentato, Lelio arriva finalmente in Italia, a Venezia; erano ormai tre anni che il padre era morto, e nonostante l’intervento del Doge presso il Granduca Cosimo, non si riuscí in alcun modo a fare che l’Inquisizione rilasciasse una parte di quello che aveva confiscato. Anzi, è questo il momento nel quale i fratelli di Lelio, il giureconsulto Celso e Dario, vengono messi sotto accusa dall’autorità ecclesiastica, e, pare, arrestati, assieme al piú giovane, Camillo. Dopo qualche settimana passata a Venezia, Lelio riprende la via per Zurigo, di dove non doveva piú muoversi. Al ritorno a Zurigo, nel 1560, Lelio deve avere ancora qualche speranza in Italia, perché conclude una lettera dell’ottobre al Calvino: Plura non addo, sed tantum rogo suppliciter an mihi in patriam sub fide ac promissione Ducis Fiorentini saltem ad tempus redeundum censeas. Id enim propter regiam commendationem offertur nunc quod paulo ante saeviente illa Romana bestia negabatur. Sed hoc quoque tacitum esse velim: nemo hic est qui sciat640 .

Non si sa che cosa rispondesse Calvino: Lelio ad ogni modo non andò piú in Italia, dove le cose già si erano messe molto male per la sua famiglia. Nel 1561 infatti fratelli e parenti di Lelio sono già da qualche tempo nelle carceri dell’Inquisizione, e il famoso naturalista e bibliofilo zurighese Konrad Gessner indirizza loro una lunga lettera consolatoria, dalla quale risulta la sua amicizia con Lelio. È un saggio di eloquenza umanistica, che co640

O. C. XVII, C. R. 45, n. 3121, col. 651.

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mincia con le congratulazioni perché essi hanno riconosciuto la verità eterna, superando tante difficoltà e tante amarezze, e poi accumula argomenti di fede e argomenti filosofici stoico-platonici per consolarli dei dolori che soffrono. Lelio rimase ad ogni modo a Zurigo, limitando ancor piú le comunicazioni con altre persone, tanto personali che epistolari. Non abitava piú presso un membro dell’Università, ma presso un artigiano, un tessitore di seta, forse anabattista. Pare che siano questi gli anni nei quali Lelio compone quella Parafrasi a San Giovanni, della quale il Beza dichiara che sorpassa in empietà tutto quanto gli eretici possano aver scritto su quel passo dell’Evangelo, e gli altri scritti perduti. Cosí lontano dalla società dei grandi e dei potenti, benché non cessasse dall’avere col Bullinger rapporti almeno non cattivi, Lelio morí il 14 maggio 1562, a trentasette anni, lasciando incompiuta la sua opera, prima di raccogliere i frutti del suo studio e delle sue ricerche. Il Bullinger comunicò laconicamente la notizia al Fabricius, senza una parola di compianto. «Lelio è morto ieri; io ero assente da qualche giorno». Tale freddezza del Bullinger non è facilmente spiegabile senza qualche incidente sopravvenuto all’ultimo momento. Aveva saputo quale fosse il tenore degli scritti accumulati nei «collectanea» di Lelio? Gli era stata riferita qualche dichiarazione dell’italiano suo amico e protetto, in punto di morte?641 . Certo Lelio morí non fra gli ortodossi, ma fra gli eretici: chi ne annunziò la morte a Fausto, il quale accorse a Zurigo, a raccogliere le carte dello zio ammirato e venerato, fu Mario Besozzi, che pochi anni dopo sarebbe stato processato per eresia. Ma neppure del Curio641 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 199; seguito dal Burnat, Lélio Socin, cit., pp. 81 sg., che fornisce il particolare sull’ultimo ospite di Lelio (p. 80).

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ne, neppure del Castellione, né dell’Ochino, e degli altri compagni d’idee è rimasto nulla che attesti o compianto per la scomparsa di Lelio, o semplicemente un affettuoso interessamento. Di Lelio Sozzini non ci è rimasto, all’infuori del trattatello sui sacramenti, nessun’opera completa; tutte le fonti contemporanee parlano di «rhapsodiae», di «collectanea», lasciate da Lelio e raccolte dal nipote Fausto. Era probabilmente uno zibaldone, consistente, come s’è già accennato, di appunti personali, di excerpta di varia ampiezza, di riassunti, schemi, sommari, ricapitolazioni: in breve, di lavori preparatori per uno o piú libri. La massima parte di questo materiale di problemi («dubitationes») e di riflessioni staccate («cogitationes»), andò in mano a Fausto, insieme agli appunti veri e propri («in eius schedis»)642 . Rimangono ignoti o dubbi i seguenti scritti: la seconda operetta sul’Eucaristia che non importa però molto, giacché conosciamo il pensiero di Lelio in proposito dalla prima Dissertatio e che possiamo quindi senz’altro lasciare da parte; la Parafrasi del primo capitolo dell’Evangelo di San Giovanni; la «Rhapsodia» in commento alle profezie di Isaia; e infine le «Tesi sulla Trinità». Gli studiosi si sono dedicati soprattutto a ricercare e a identificare, almeno con qualche probabilità, la Parafrasi all’inizio dell’evangelo giovanneo, trascurando le tesi sulla Trinità, pur definite audacissime dal Beza, che probabilmente ne ebbe notizia dal Bullinger stesso. A Basilea si conservano alcune «Tesi», raccolte nel breve spazio di un foglio, che non sono in forma elaborata, ma piuttosto appunti per la «dubitatio» che è servita a prepararle. Si tratta, secondo il mio parere, di appunti e note di 642 F. S. Bock, Historia Antitrinitariorum, Regiomonti, vol. II, 1784, pp. 635 sgg.

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Lelio Sozzini sulla Trinità, e se ne può parlare a questo punto643 . 643 Le opere di Lelio elencate dalla tradizione sono: 1) la Dissertatio sui sacramenti, che abbiamo già analizzato (in Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, pp. 439 sgg.) l’altra Dissertatio sulla risurrezione dei corpi, anch’essa già analizzata; 3) una Paraphrasis in initium Evangelii Sancti Iohannis, che il Sand (Bibliotheca Antitrinitariorum, «Freistadii», 1684, pp. 21 sgg.) dichiara di non avere mai veduto; 4) una Praecipuarum enumeratio causarum, cur christiani cum in multis religionis doctrinis mobiles sint et varii, in trinitatis tamen retinendo dogmate sint constantissimi (Bock, Historia Antitrinitariorum cit., p. 651). Si tratta di uno scritto pubblicato dal Du Jon (Franciscus Junius, il famoso controversista calvinista, piú noto da noi per la sua controversia con il Bellarmino) nel 1591, e che il Bock attibuisce a Lelio solo perché lo Junius nel confutarlo, chiama «Samosatenus» l’autore di esso, e ha chiamato «Samosatenus» anche quello che per lui era l’unico autore dei due commenti di Lelio e Fausto Sozzini all’inizio del Vangelo giovanneo. Fr. W. Cuno, Fr. Junius der Ältere, sein Leben und Wirken, Seine Schriften und Briefe, Amsterdam 1891, p. 319 (cfr. p. 101) pubblica una lettera dalla quale risulta che lo scritto confutato dal Junius era del sociniano, antico gesuita, Chr. Francken. L’opera dedicata alla confutazione è: Defensio Catholicae doctrinae de S. Trinitate personarum adversus Samosatenicos errores... libello comprehensos, cuius haec inscriptio: Praecipuarum enumeratio causarum ecc., Heidelberg 1590, 5) Un secondo scritto sulla Eucaristia (che sarebbe circolato insieme alla Dissertatio sui sacramenti, col titolo comune Duo scripta de Coena Domini, cfr. Bock, Historia Antitrinitariorum cit., p. 652), irreperibile; 6) una Rhapsodia in Esaiam Prophetam (cfr. Sand, Paraphrasis in initium Evangelii Sancti Iohannis cit., p. 21; Bock, Historia Antitrinitariorum cit.) che è rimasta irreperibile; 7) l’epistola a Calvino del 22 agosto 1559 (O. C. XVII, C. R. 45, n. 3100, col. 604) sullo stato della riforma in Polonia; 8) la Confessio pubblicata dallo Hottinger (Historia cit., vol. IX, pp. 417 sgg.). Cfr. la traduzione e interpretazione di E. M. Hulme nella raccolta Persecution and Liberty, Essays in Honor of G. L. Burr, New York 1932; 9) Theses de Deo Trino et uno (o De Trinitate) che il Sand, Paraphrasis in ini-

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È un notevole documento del modo di lavorare di Lelio, e della mentalità con la quale egli affrontava questi

tium Evangelii Sancti Iohannis cit., p. 25, non sa se attribuire a Lelio, a N. Paruta, o al Biandrata, e crede risalire in generale a quegli italiani «quos in ditione veneta collegia ad sacrae scripturae sensum indagandum instituisse memoravimus»; e il Bock, Historia Antitrinitariorum cit., p. 653, attribuisce a Lelio; 10) un elenco di Voces ambiguae in S. Scriptura, quarum praecipuae fuisse feruntur principium, creare, facere, mundus, deus, omnia ecc. (Sand, Paraphrasis in initium Evangelii Sancti Iohannis cit., p. 25, le identifica nell’elenco pubblicato in uno dei zibaldoni editi dal Biandrata, come per es. in calce alla Disputatio albana e in appendice al De falsa et vera... unius Dei... cognitione, Alba Giulia (Gyulafehérvár) 1568 (ma 1567). Per il commento all’inizio giovanneo, cfr. píú avanti. Per le Theses de Trinitate, ritengo che si possano identificare negli appunti ora compresi nella raccolta basileese che comprende vari scritti del Castellione e l’apologia del Lyncurio, che abbiamo attribuita anch’essa a Lelio. Il Buisson, che li ha esaminati per incidente occupandosi del ms del Lyncurio, li attribuisce senz’altro al Curione, fidandosi, come pel Lyncurio della annotazione scritta sulla cartella. Ma è sufficiente mi pare, un confronto fra la scrittura del Curione, quella delle annotazioni al Lyncurio, e quella di Lelio, per ammettere che si tratta di quest’ultimo. In questi appunti o «tesi» sono elencate in latino le varie dottrine principali sulla Trinità, con le principali argomentazioni contrarie comuni a questi eretici, e con appunti marginali in italiano, anch’essi di scrittura di Lelio Sozzini (cfr. Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 9); le Theses sono ora pubblicate in Per la storia degli eretici cit. pp. 57-61; cfr. Bainton, New Documents cit., p. 185, che non è convinto del tutto. Della attribuzione delle Theses non parla; di quella dell’Apologia dice che è «piú convincente» della parte attribuita da me a Lelio nella preparazione del De Haereticis; ma di queste congetture non si può mai esser convinti del tutto. D’altra parte questi scritti hanno una certa importanza, e a mio parere, non saprebbero esser meglio situati che nel quadro dell’attività di Lelio; mentre le ragioni specifiche che adduco per le attribuzioni non sono state ancora contestate.

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problemi. Il foglietto conclude con questo motto, in italiano: «Meglio è torto e ingiuria patire, che fare: meglio esser creditore del danno che debitore» riecheggiante il notissimo motivo platonico-socratico del Gorgia. Dopo avere elencate le varie opinioni sulla Trinità, l’autore osserva: Affirmare deum esse simplicissimam unamque substantiam, aut spiritum simplicissimum, immutabilem: et esse tres, repugnat. Nam quod obijciunt esse tres hypostases, et unam substantiam, apud omnes eruditos nihil valet, cum unum idemque significent, nimirum substantialem esse, et non qualem. Vide Laur. Vallam in Eleg. ubi de persona contra Boethium.

Al punto citato644 , il Valla critica la concezione boeziana della persona come «incommutabilis naturae individua substantia», non una «qualitas». E cosí argomenta, per mostrare «huic homini Romano» che non sapeva «Romane loqui»: «persona... non est in Deo magis quam in bruto, sicut humanitas, sicut alia plura»; ma ammettiamo pure che in Dio ci sia anche la «persona»: non si può negare che si tratti – per quanto riguarda Dio, come per quanto riguarda l’uomo – di una «qualitas». Nell’uomo la persona indica la qualità «qua alius ab alio differimus, tum in animo, tum in corpore» e che non è unica per ogni singolo individuo, ma può coesistere ad altre qualità, ad altre «personae»: «vel uti in me est persona humani, liberalis, timidi, iracundi...» Cosí in un individuo c’è una «multiplex persona, ac diversa», ma una sola so644 Per la storia degli eretici cit., p. 57; cfr. ibid., p. 82. L. Vallae Elegantiarum latinae linguae libri sex, Lugduni 1540, lib. VI, cap. XXXIII, pp. 420-22. {Cfr. L. V. opera... in unum volumen collecta..., Henricpetri, Basel 1543, pp. 215-16. E ancora sta in Index librorum prohibitorum di Benedetto XIV, Roma 1764: Valla, Laurentius, Caput 34 libri VI Elegantiarum, De Persona contra Boethium, donec corrigatur. Cfr. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum cit., vol. I, pp. 227 sg.}.

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stanza. E prosegue: «In Deo autem personam ponimus, vel quod nullum aliud vocabulum quadrat, non natura, quo veteres utebantur, non substantia, quo graeci utuntur, vel quod vere in Deo triplex est qualitas». Ma la qualità è contraddistinta dal fatto che essa può anche «abesse praeter subiecti corruptionem»: ma la luce, il calore sono «qualitates» nel sole: «tales qualitates» il Valla statuisce in Dio «et has dico esse personas, quae ab eo abesse non possunt, et qualitatem significare, non substantiam (ut Boethius voluit, qui nos barbare loqui docuit)». Questo forse ha indotto il volgo a usare locuzioni errate come «tre persone mi attendono, vedo due persone, il tale è una buona persona»: modi di parlare inauditi prima della decadenza della latinità, ed ora non usati da nessuno «nisi imperitus omnino». E qui il Valla ritorna alla concezione della Trinità. «Sunt autem in Deo tres personae, non tres substantiae illi adesse intelligamus: praesertim quae neque ulla vox meram substantiam significat neque ulla res est mera substantia, ut in eodem nostro opere645 ostendimus». È lo stesso modo di argomentare che abbiamo incontrato in Camillo Renato e in Lelio Sozzini; si parla del significato della parola, per dedurne le implicazioni, e per escluderne ciò che non è conforme al retto uso della parola stessa. È un mondo puramente umano, immanente, che respinge la metafisica («nulla res est mera substantia») e nel quale il nominalismo e l’empirismo vengono superati dalla coscienza etica. La qualitas non va confusa con l’accidens, come il Valla accusa Boezio di fare, ma è intrinseca al soggetto. L’im645 Dialecticae Laurent. Vallae libri tres seu eiusdem Reconcinnatio totius Dialecticae... Aedibus ascensianis, 1509, fol. IVv, fol. Vv, col. 1, 2 (lib. I, capp. IV, VI), sulle qualità e sui termini substantia, persona ecc.; e cap. VIII (De Spirito), fol. VIv col. 2, sulla Trinità e il paragone di essa col sole, e ancora sul termine persona. {Cfr. l’edizione di Basilea: Dialecticarum disputationum liber primus..., pp. 652-53, 654-55, 658 (cap. VIII)}.

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portante è che il Valla concepisca le persone della Trinità come «qualitates» di Dio, non come sostanza, anzi come una «triplex qualitas» di Dio: non si può anzi neppur parlare di «sostanza» perché questa è indefinibile, inesprimibile nel linguaggio concreto: non c’è nessuna parola che significhi «meram substantiam». Questa teoria, cosí espressa, e cosí limitata, non aveva alcun carattere ereticale ed eterodosso, né a quanto si sa era stata oggetto di particolari e specifiche accuse, neppure da parte degli accaniti avversari del Valla nel periodo napoletano. Ma, dopo che la speculazione servetiana e, più ancora, le dottrine anabattistiche avevano attirato la loro attenzione sul valore del dogma trinitario, confortati anche dalla accentuazione dei valori etici del Cristianesimo, da parte di un Erasmo e di un Valdés, questi umanisti italiani riprendono i motivi del Valla, e ne esplicano l’energia critica e rinnovatrice. Negli appunti italiani in margine, il Sozzini riprende: «Le rifulgenze di luce sono molto proprie a dimostrare come Iddio ha prodotto il figlio senza alterazione sua, e Cristo si chiama luce»646 . Non si tratta di emanatismo, ma di una semplice e consapevole metafora, per «dimostrare» come si possa pensare il rapporto fra Dio Padre e Dio Figlio senza intaccarne il valore religioso, ma prescindendo dalla intellettualistica costruzione della Trinità. La decisione che Lelio Sozzini dimostra in questi scritti, l’uno (l’apologia del Lyncurio) pseudonimo, e del resto rimasto segreto probabilmente fino al 1563-64, l’anno degli ultimi processi intentati al Curione e al Castellione e della morte loro e di Lelio, e pubblicato solo nel Corpus Reformatorum; l’altro anonimo uscito non si sa come dallo zibaldone di Lelio, e rimasto nascosto fra gli 646 Per la storia degli eretici cit., p. 61. È un’evidente eco del motivo del Valla sopra ricordato.

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atti degli Antistites della chiesa riformata di Basilea –, è certo maggiore che nelle epistole che noi conosciamo, ma non maggiore di quella del trattatello sui Sacramenti, anch’esso destinato a circolare fra poche persone, e pubblicato solo molto tempo dopo la morte di Fausto Sozzini, e circa cento anni dopo quella di Lelio. Si può anzi dire che il procedimento di questi scritti (a parte il carattere oratorio dell’Apologia e quello frammentario delle note sulla Trinità) è lo stesso: si ha una serie di osservazioni critiche alla dottrina avversaria, tutte fondate sulla esigenza della chiarezza e precisione linguistica, che appare qui identificata con quella concettuale; un elenco di termini da scartare come non corrispondenti a nessuna realtà concreta, a nessuna realtà del mondo umano esprimibile umanamente, e infine una serie di interrogazioni, assieme alla affermazione che occorre indagare, discutere, ricercare, per conoscere meglio la volontà divina, e meglio seguirla. Nello scritto sulla Trinità c’è addirittura l’appunto: «Chiedere che cosa sia, per spirito eterno essersi offerto il figliol di Dio», che mostra come Lelio si preparasse coscienziosamente alle sue famose questioni. Cercava anche di proporsi le risposte degli avversari: nelle note latine dello stesso scritto si ha «Si haec trinitas unus est Deus in substantia, sequitur unum eundemque deum se genuisse, sibi imperasse, et paruisse: se ipsum in mundum misisse...»647 e nell’appunto italiano a questo luogo: «Mai non diranno che la Trinità abbia generato un figlio, ma diranno che il padre, il quale è uno di questi tre, l’ha generato». Onde non si può argomentare contro la dottrina trinitaria in quella maniera, ma ci si deve limitare a proporre la difficoltà «come può ciò avvenire, come si deve intendere, che cosa significa?» «Chiedere che cosa sia»: si può supporre che Lelio Sozzini avesse in mente il τ´ ι σ τ´ ιν socratico, al quale an647

Ibid., p. 58.

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che il Burnat ha pensato a proposito del cauto procedimento del senese648 . Queste «tesi» sono forse sfuggite a Fausto Sozzini quando accorse a Zurigo a raccogliere l’eredità dello zio. Probabilmente prima dell’arrivo di Fausto a Zurigo scomparve tutto un fascicolo dei «collectanea» di Lelio, i quali secondo la tradizione che parte da Fausto stesso e che il Bock raccoglie, solo a stento furono da Fausto Sozzini salvati dalla distruzione649 . Per la Parafrasi al primo capitolo del Vangelo Giovanneo il caso è piú complicato, perché abbiamo vari scritti che vanno sotto questo titolo e sotto il nome tanto di Lelio che di Fausto Sozzini. Credo di potere identificare il testo di Lelio in uno scritto pubblicato dal Biandrata nel 1567, con una congettura che mi sembra probabile650 . L’attribuzione ha importanza perché ci permette di definire meglio la posizione di Lelio nella storia di questo movimento, anche senza entrare in sottili disquisizioni teologiche. Lo stile, duro ed energico, e il latino inesperto e un po’ goffo di questo scritto sono, non che Lélio Socin cit. Przipkowski, Vita F. Socini cit. 650 Per la storia degli eretici cit., pp. 611 sgg. Cfr. Gli ultimi anni e gli ultimi scritti cit., pp. 31-33. L’argomentazione che ivi propongo è fondata a) sulla distinzione fra una paraphrasis della quale parla F. Sozzini nelle sue opere, citandone qualche passo, e una interpretatio o explicatio citata nella Disputatio Albana edita a cura del Biandrata (cfr. piú avanti, e Profilo cit., p. 36 dell’estratto), e b) sulla identificazione a mezzo di confronti della Interpretatio con uno scritto pubblicato dal Junius nella sua Defensio Catholicae doctrinae de S. Trinitate personarum in unitate essentiae Dei, adversus Samosatenicas interpretationes et corruptiones... libello comprehensas cuius haec inscriptio: Brevis explicatio in primum caput Evangelii Ioannis sine auctoris nomine, s. d. (ma c. a 1590-91). (Cfr. Curvo, Fr. Junius der Ältere cit., n. 7, III, p 249), e riprodotta nel secondo volume della prima ediz. delle Opere (Genève 1607, Curo, Fr. Junius der Ältere cit., r, p. 240), pp. 133 sgg. 648

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analoghi, identici a quelli di Lelio negli scritti che conosciamo; si vedano le caratteristiche infilate di aggettivi e di apposizioni che erano solite negli scritti di Lelio, quando egli voleva descrivere minutamente e circoscrivere nettamente il concetto che esaminava, o contro il quale polemizzava, o voleva dar forza ad una propria affermazione. È un metodo, se metodo può chiamarsi, un po’ oratorio, una specie di cumulo di prove, e allo stesso tempo il procedimento affrettato e rapido di chi è avvezzo a prendere appunti, a scrivere per propria notizia, non per il pubblico «... de Filio Dei Christo, quem fingunt aeternum, bis genitum, duarum naturarum, incarnatum», tirando dritto allo scopo senza preoccuparsi della forma. Inoltre ritorna qui fortissima la preoccupazione terminologico-esegetica, direttamente espressa, che Lelio pone qui in primo piano anche letterariamente. La sostanza del trattatello è la seguente. Il termine «in principio» non significa il principio di tutte le cose, l’eternità, ma soltanto il principio della predicazione dell’Evangelo; anche Giovanni parla «de Christo verbo visibili oculis, palpabili manibus, qui ex Maria natus est. Nam ille aeternus qui fingitur, a nemine unquam palpatus ab aeterno, vel post legitur, neque unquam auditus»651 . Il termine λóγoς , che va tradotto, come già Erasmo e come sulle sue tracce il Castellione avevano proposto, «sermo», si riferisce a quel Cristo puramente uomo: «qui voluntatem paternam homines docuit; unde etiam, quod proloquutor esset paternorum mandatorum nomen habet sermonis vel verbi»: qui è chiamato «verbo», «parola», altrove vien detto, «eodem sensu», «magister, praeceptor, doctor, Apostolus confessionis nostrae, Pontifex, imago Dei incospicui; quae omnia Christus homo expressit tum dictis, tum factis», ecc. Cristo era certo «pro651

Per la storia degli eretici cit., p. 62.

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missus, cognitus et expectatus» dal principio del mondo; le parole: «erat in principio apud Deum» significano che solo Iddio di quel suo predicatore che gli altri credevano «tam vilis ex Nazareth, ex Josepho, fabri filius... cui omnes primores contradicebant» conosceva la qualità e l’ufficio; poiché la manifestazione piena della sua qualità di maestro e di figlio di Dio era riservata a dopo la crocefissione, e con la risurrezione, che non fu concessa a nessun altro uomo. Le parole «et sermo ille erat Deus» significano sempre secondo Lelio che la parola che sta al principio del Vangelo era parola divina: infatti «articulus (ille) additus est Sermoni, ut subiectum esse de quo Deus praedicatur, intelligatur»; e ribadisce: «Absolute nomen Dei in Scripturis tribuitur interdum Christo; Patri vero per se primo, quia unus solus Deus est, praeter quem nullus est alius, qui sit a se ipso altissimus, et ex quo omnia. Reliquos ergo omnes, quicunque sint tandem sive Dei, sive Domini, ex illo esse oportet»652 . Cosí Cristo non è Dio sostanzialmente, ma solo qualitativamente, dice Lelio: «est a Deo datus magister et pastor, ut doceat, ne quis audiens illum aberret: datus Servator, Rex et caput...» Solo per questa prerogativa e dignità divina, che egli ha ricevuto integralmente dal Padre, – e non per altra ragione – «Filius Dei est Deus, Dominus et Christus, Rex Sacerdos...» Chi ha altro concetto di Cristo «et tamen illum a se ipso Deum esse credit, duos Deos inducit, et Patrem summa afficit contumelia». Cosí il passo «omnia per ipsum facta sunt» non si riferisce alla creazione del cielo e della terra, all’opera cosmica dell’unico Dio Padre, poiché del figlio non c’è ricordo alcuno nella storia biblica della creazione («An non absurdissimum esset... umbras nullas intermittere et reptilia insectaque describere, Christum autem per quem fac652

Ibid., p. 66.

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ta essent omnia obliterare?»)653 ; esso va riferito invece alla «nova creatio», alla «recreatio seu renovatio», «reconciliatio, recapitulatio, restauratio» che viene nel Nuovo Testamento sempre attribuita a Cristo «per quem Deus hanc exequutus est». Certo, il cielo, la terra, il mare, gli alberi, gli esseri animali non sono stati ricreati da Cristo, ma si parla «de spirituali renovatione et cum Deo reconciliatione per Christum». Quando l’evangelista dice: «In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognovit», egli non intende parlare delle sfere celesti, ma secondo Lelio degli uomini, («Quid enim hoc esset ad rem, Christum non esse cognitum a machina coeli et sphaeris?»), che Cristo ha rinnovato e ricreato: «evangelizare pauperibus, sanare infirmos, caecos illuminare. Haec est novi mundi fabrica, et fabricatus novus mundus a Christo: haec est fabrica quam describunt omnes Evangelistae, non Moses. Et tamen hic fabricator summus huius mundi non fuit agnitus, quia fuit vilis homo, caro, subiectus, despectus virorum»654 . Questo motivo dell’umanità di Cristo identificata con la sua umiltà sociale, ben differente dalla povertà e miseria naturale che pel passato e presso gli asceti si intendeva con la parola «la carne», è insistente nello scritto di Lelio: «hoc verbum, inquam, fuit caro, homo vilis, mortalis, despectus, maledictum etiam factus... Hoc dicit (Et verbum caro factum est) ne quis Christum sibi somniet, seu unctum a Deo, qui non sit homo»; factum est, inquam, caro, id est vilis, pauper, miser, maledictus, vermis et non homo, quasi omni potentia destitutus esset; morti se abiecit crucis oboediens Patri factus: et haec quoque est forma servi et paupertas spontanea655 . Ibid., p. 68. Ibid., p. 73. 655 Ibid., p. 75, 77. 653

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Le caratteristiche principali di questa Brevis explicatio sono due: una, la piú evidente e dominante, è la polemica continua contro la interpretazione tradizionale e in favore della concezione che fa di Cristo non la seconda ipostasi eterna della Trinità, ma un uomo divino dotato da Dio di infinite qualità divine, uomo però e solo uomo, nato in un momento della storia, e da allora mai piú morto, per volontà divina e per l’opera da lui compiuta. Il secondo, meno appariscente, ma nondimeno evidente e rilevato, è quello della povertà e umiltà del Cristo «vero», del Cristo uomo, di contro alla ricchezza e potenza secolare del «falso» Cristo: povertà e umiltà puramente umane, viste nella vita sociale, quindi, non nella vita naturale. L’autore del libretto li fonde solo teologicamente, non approfondisce l’intima unità dei due motivi, preoccupato com’è del problema dogmatico-scritturale: ma identifica in sostanza l’umanità vera con la sofferenza, l’umiltà, la povertà: il Cristo uomo è il Cristo degli oppressi e dei poveri. Pensiero che verrà ripreso e svolto dal Biandrata. L’esaltazione della povertà come caratteristica della vita cristiana era già antica nella storia della Chiesa, ed aveva una lunga tradizione tanto ortodossa che ereticale: nella storia della Riforma aveva avuto già la tragica affermazione anabattistica e quella della guerra dei contadini. Ma presso i capi intellettuali della Riforma non aveva avuto alcuna fortuna: Lutero vi aveva veduto addirittura lo spirito del monachesimo cattolico. E certo vi era, portata all’estremo opposto, ma identica nella sua essenza, la stessa coerenza cristiana. Ma Lelio Sozzini non si ferma al motivo etico-sociale: gli dà un fondamento teologico dottrinale rinnovando e trasformando il concetto della persona di Cristo, della Trinità stessa, riempiendo il concetto della «carne» di un nuovo e piú nobile significato. Allo stesso tempo toglie al concetto della dignità umana (che pure esaltava concependo sufficiente

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al Cristo l’umanità divinizzata) ogni elemento aristocratico sfociante in una astratta e generica celebrazione di un microcosmo non esistente in realtà, non sofferente e vivente; poiché la umanità di Cristo era umanità di umili e di poveri, non di potenti e ricchi. Questo motivo profondo del suo scritto, che raccoglie in sé le ansie e le speranze del movimento anabattistico, è quello che gli conferí tanta potenza, e che articolandosi nelle dottrine del nipote e di Giorgio Biandrata, doveva poi animare la formazione delle dottrine politiche del mondo europeo per piú di due secoli, intanto che esse rimasero sullo sfondo di preoccupazioni religiose e teologiche come si erano configurate dopo l’opera della Riforma e della Controriforma. Intanto gli scritti di Lelio e dei suoi scolari ed amici circolavano in segreto fra piccoli gruppi di gente spesso oscura e ignota e di persone colte che percepivano in qualche modo l’inquietudine dei nuovi tempi.

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CAPITOLO VENTIDUESIMO

L’Ochino a Ginevra, a Basilea e a Zurigo. I locarnesi. Tendenze nicodemitiche ed eretiche nel misticismo ochiniano; i Triginta Dialogi; critica alla Trinità, critica alla predestinazione, spiritualismo mistico; polemica contro l’intolleranza calvinista. Condanna del libro dell’Ochino.

Di ritorno dall’Inghilterra, donde lo scacciava la reazione di Maria la Sanguinaria, l’Ochino era giunto a Ginevra il giorno seguente alla esecuzione del Serveto, che subito, come egli poi raccontò agli amici, gli fu riferita. Neanche il vecchio senese approvò la condanna dello spagnuolo: il che lo rese inviso, dice poi il Castellione656 , certo accentuando la durezza dei Ginevrini, perché l’Ochino poté rimanere alquanto a Ginevra, se giuntovi nell’ottobre del 1553 vi poteva pubblicare i suoi Apologhi nel 1554657 . Ma probabilmente col manifestarsi della tensione fra i Ginevrini e il gruppo basileese del Curione e del Castellione, i primi sospetti verso l’italiano che disapprovava l’opera di Calvino dovettero aumentare: al ricordo dell’antica e generale diffidenza verso lo scetticismo italiano si aggiungeva ora l’amicizia palese dell’Ochino col Curione e col Castellione (la traduzione latina degli Apologhi è del savoiardo)658 . Cosí da Ginevra Ochino si reca prima a Chiavenna poi a Basilea; ma non doveva fermarsi neppur qui: infatti a metà del 1555 una deputazione zurighese della quale faceva parte anche Lelio Sozzini l’invitava ad andare a Zurigo come predicatore della comuBenrath, Bernardino Ochino cit., p. 199, nota. Ibid., p. 200. 658 Ibid., p. 202.

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nità dei riformati locarnesi, scacciati dall’autorità ecclesiastica cattolica e allora accolti in Zurigo659 . Quello dei locarnesi, che suscitò molta emozione nel campo protestante, è un caso molto notevole di emigrazione di una intiera comunità, perché si tratta di tutto un gruppo deciso ed esplicitamente organizzato, non di un insieme di famiglie che si muovono contemporaneamente ma senza organizzazione unitaria, come i lucchesi di Ginevra; e ha un parallelo solo nelle migrazioni dei Valdesi. Essi erano stati iniziati alla nuova dottrina dall’umanista Giovanni Beccaria, che pure aveva proceduto clandestinamente, ed era stato scoperto solo quando nel 1547 i luganesi, rivali dell’altra cittadina lacustre, avevano accusato i locarnesi presso l’Inquisizione per avere ascoltato con approvazione un frate Cornelio siciliano, che aveva predicato nelle due città durante il 1546, e che era stato presto denunciato all’Inquisizione e da questa condannato al carcere; e dopo che era stato inviato nel 1549 a Locarno un predicatore domenicano, la cui funzione era quella di provocare, con un’aspra predicazione e con una pubblica discussione, la manifestazione dei veri sentimenti e veri pensieri dei locarnesi660 . Locarno dipendeva direttamente dalla Confederazione svizzera, nella quale in quel momento avevano la preponderanza i cantoni cattolici: e dopo una severa repressione, le famiglie che avevano tenuto fede alla nuova dottrina dovettero abbandonare il paese. I zurighesi, che avevano sentito questa sconfitta diplomatica come una ripetizione di quella militare di Kappel661 , risolsero di acco659 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., I, p. 297, nota 79, II, pp. 8,13; Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 208. 660 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., I, pp. 181 sg., 185 sg. 661 Bentath, Bernardino Ochino cit., p. 207.

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gliere nella loro città le piú di cento famiglie locarnesi: ed era naturale che queste pensassero a scegliersi come pastore il loro antico capo spirituale. Ma l’uomo atto a diffondere dubbi in segreto e a diffondere germi di idee nuove non si sentiva di assumere la grave responsabilità pubblica di predicatore662 . Cosí, venne invitato l’Ochino, sessantenne, che accettò e a Zurigo cominciò subito a scrivere, componendo dal 1555 al 1563 il trattatello contro il dogma del purgatorio, e la Defensio della dottrina eucaristica dello Zwingli e in genere dei «sacramentari» contro il Westphal, i labirinti del libero arbitrio e infine i trenta dialoghi che dovevano farlo scacciare dal la Svizzera. A Zurigo il vecchio cappuccino si lega d’amicizia col Vermigli e col compatriota Lelio Sozzini: ma in casa sua abita Francesco Betti e si vede il Lismanini e forse l’Aconcio, e in Zurigo s’incontra Isabella Manriquez663 . In questo ambiente congeniale le idee valdesiane dell’Ochino e le sue esperienze schwenckfeldiane di Augusta dovevano assumere forma più radicale. Anche se il Vermigli potrà in buona coscienza difenderlo dalle accuse degli aspri e sospettosi sostenitori dell’ortodossia evangelica della Valtellina, che diffidavano della sua dottrina del beneficio di Cristo vedendovi una diminuzione dell’importanza di Cristo nel processo della salvazione664 , è evidente che l’Ochino inclinava sempre piú verso una interpretazione «spirituale» cioè antiecclesiastica e soggettiva della vita religiosa. Da questo punto di vista si comprende come egli possa giungere a dichiarare indifferente uno dei punti piú importanti della dottrina eucaristica tradiIbid., p. 208. Ibid., pp. 221 sgg. Sulla Manriquez, si veda l’esauriente saggio di A. Casadei, Donne della riforma italiana: Isabella Bresegna, in «Reggio», XIII (1937), pp. 6 sgg. 664 Benrath, Bernardino Ochino cit., pp. 220 sg. 662 663

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zionale: «può un huomo esser eletto, amato, grato, giusto, santo et salvo, senza credere che il corpo di Christo sia o non sia nel pane et il suo sangue nel vino»665 : vanificazione del valore oggettivo del Sacramento che equivale a quella diminuzione del valore delle opere e dei meriti di Cristo in nome dell’azione amica della grazia e potenza divina che aveva insospettito i valtellinesi. Questo radicalismo, che vedeva nella dottrina luterana un avanzo della messa «papistica», e la considerava empia, da rigettarsi in tutto e per tutto e impossibile a riformarsi, poteva finire in fondo col favorire la tendenza «nicodemitica» dei «riformati» italiani, o per muoverli alla piú decisa opposizione666 . La violenza stessa di Ochino contro chi vorrebbe considerare come adiaphoron l’assistere o meno alla messa667 mostra che la prima tendenza era sempre forte: se pur non si tratta di un’eco di discussioni con Lelio Sozzini, del quale conosciamo i dubbi in proposito. Le discussioni degli italiani in esilio si rispecchiano invece nelle osservazioni di Ochinò sulle di versità fra 665 Disputa di M. Bernardino Ochino da Siena intorno alla presenza del Corpo di Giesú Christo nel Sacramento della Cena, Basileae 1561(Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 226 sgg.; e p. 322 per le indicaz. bibliografiche [n. 41]), p.160. 666 Cfr. Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 228. 667 Mentre, come ho notato poco sopra, e come rileva anche il Benrath, poneva fra gli adiaphora il significato stesso dell’Eucaristia. Inveisce contro quell’indifferentismo pratico che corrisponde al suo indifferentismo dottrinale. Ma quello poteva avere gravi conseguenze, per l’abbassamento di livello religioso e morale a cui portava, e questo non sembrava all’Ochino pericoloso; anzi, probabilmente anch’egli sperava, come tanti altri eretici italiani, di portare la pace fra luterani e calvinisti, sopprimendo addirittura l’oggetto della loro discussione. D’altra parte anche per quanto riguarda l’atteggiamento pratico da tenersi, l’Ochino si rimette all’ispirazione divina (Cfr. Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 229).

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le chiese protestanti, e sul bisogno di parlare delle proprie esperienze spirituali, di esporre le proprie idee, per il quale si lasciava la patria, e che non veniva sconosciuto nelle nuove chiese, le quali trattavano di ignorante, di eretico o di rimbambito chi voleva parlare668 . Il Benrath riferisce a queste osservazioni l’accusa fatta piú tardi all’Ochino di aver sostenuto che tutte le chiese errano in qualche cosa, e che quindi si può rimanere anche in quella romana, anche quando se ne sono riconosciuti gli errori, e trova che il senso ne è stato deformato ad arte, e che gli accusatori han fatto dire all’Ochino il contrario di quello che egli pensava669 . Ma la stessa genericità di quelle osservazioni, che vien messa in rilievo dal Benrath, giustifica l’interpretazione di teologi e consiglieri della città di Zurigo; constatazioni di quel genere, lamentele di quel tono, in un momento di polemica cosí forte, e specialmente se mantenute sulle generali, non potevano non avere se anche non lo scopo certo l’effetto oggettivo di insinuare proprio la sfiducia nella veridicità assoluta della dottrina riformata, e con essa lo scetticismo piú coerente, «tollerante» anche di fronte alla tradizione, cioè disposto ad accettare anche il dogma rinnovato e rinsaldato a Trento, e a coltivare solo interiormente la pura dottrina. Un effetto analogo dovevano fare i «Labirinti», che mostrando l’insolubilità del problema del libero arbitrio, avviavano a quello scetticismo per la discussione teologica dottrinale in nome di una attiva carità, che dal Valla a Giovanni Francesco Pico a Lelio Sozzini è esplicitamente o implicitamente proposto, e che doveva trovare il suo culmine nell’Ars dubitandi et confidendi del Castellione. Certo quello che si sostituisce alla tradizione e alla veri668 Ochino, Disputa cit., p. 258, Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 229. 669 Ochino, Disputa cit., p. 230.

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tà rivelata non è qui il pensiero consapevole di se stesso, ma l’ispirazione divina immediata, soggettiva, la verità interiore altrimenti incontrollabile: dopo la condanna assoluta di ogni menzogna, l’Ochino scusa le menzogne dei personaggi biblici perché probabilmente ispirati da una voce divina670 . Cosí pure soggettivistica è la dottrina del Battesimo, che è quella di tutto il movimento eretico italiano: l’uomo non viene battezzato affinché gli siano perdonati i peccati, «ma per protestare che già vivamente ciò crede; talché la promessa è fatta a chi crede e non a chi si battezza»671 . Anche se accanto a questa dottrina, ch’egli pone in bocca a un «illuminato», l’Ochino riprende il motivo zwingliano del Battesimo come consacrazione672 , atto a giustificare l’uso del Battesimo degli infanti, questo non ne rimane meno fondamentalmente svalutato, poiché la consacrazione e dedicazione a Dio di per sé, non dà la fede, come non la presuppone, e rimane quindi esteriore. Chiarissima è poi la posizione di Ochino nei Triginta Dialogi, quando si prescinda dalle preoccupazioni confessionali e dalle sottigliezze teologiche dalle quali gli eretici italiani cercavano tenacemente di uscire, spesso riuscendo solo ad avvolgervisi ancor di piú; e quando ci si limiti a quel che importa di questi uomini, gli atteggiamenti di pensiero religioso, e i germi di dottrine religiose ed etico-politiche che hanno poi operato nella formazione del pensiero europeo. I Triginta Dialogi erano usciti contro la volontà dei pastori, – Bullinger, Gwalther e Wolf –, che costituivano la commissione di censura della cit670 Il Catechismo, o vero Institutione Christiana di M. Bernardino Ochino da Siena, informa di Dialogo. Interlocutori, il Ministro et Illuminato. In Basilea, MDLXI, p. 124. 671 Ibid., p. 246; cfr. Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 242. 672 Catechismo cit., p. 275; cfr. Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 243.

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tà di Zurigo, e che avevano avvertito l’Ochino che i suoi scritti destavano preoccupazioni e dubbi, consigliandolo a non pubblicare piú nulla in Zurigo senza averlo fatto esaminare da loro. Si ripete in parte il caso del Curione: Ochino fa stampare a Basilea in latino i dialoghi che aveva scritto a Zurigo in italiano e che quivi avrebbe voluto fare uscire; e dopo esser stato scacciato dalla città dichiara d’aver ignorato, poiché i pastori non l’avevano avvertito, che agli abitanti di Zurigo era proibito pubblicar altrove673 . Qui l’espediente non riesce, perché urta contro un divieto espresso: e le sottilizzazioni giuridiche non servono, perché finiscono in una contestazione fra l’Ochino che afferma di non aver saputo del divieto, e i pastori che affermano di avergliene parlato. È vero che i dialoghi erano già stati mandati a Basilea dove il Castellione li aveva tradotti, da otto mesi, e che erano già in tipografia, quando l’Ochino fu visitato dai tre teologi zurighesi: ma è evidente che, dopo tanti casi, da quello del De Haereticis a quello del Curione e a quello del Gribaldi, e dopo l’esperienza fatta dal Bullinger alla morte di Lelio Sozzini, le autorità zurighesi non potevano né cercare né accettare le circostanze e gli elementi che potessero attenuare la gravità dell’azione del vecchio predicatore, il quale non aveva ascoltato i consigli dei colleghi e dei superiori e aveva disobbedito alle leggi della città che l’ospitava, e proprio per pubblicare e diffondere dottrine tali da destare scandalo e da tornare a disdoro della città dove venivano diffuse; tanto piú grave la cosa, quanto piú alta la responsabilità dell’Ochino, che non era un semplice privato come Lelio Sozzini e poi 673 Ibid., p. 245, e nota I. Cfr. nella lettera del Wissenburg al Bull., del 25 novembre 1563, O. C. XX, C. R. 48, n. 4047, l’intricato palleggiamento di responsabilità fra il Perna, l’Amerbach, il Castelone e il Curione, perché il libro era uscito senza passare sotto la dovuta censura.

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il Besozzi, ma il predicatore della nuova colonia italiana. Tuttavia da principio il Bullinger cercò di ignorare la cosa, benché il Beza da Ginevra lo avvisasse subito che il nuovo libro dell’Ochino era pieno di infeconde speculazioni e di traviamenti della Scrittura; ma quando sopraggiunse la pubblica denuncia al consiglio della città, fu inesorabile674 . D’altra parte, posizione assunta dall’Ochino di fronte al vecchio Antistes è quella degli eretici basileesi contro Calvino: «io non pensava», scrive nella sua difesa l’Ochino «che il Bulingiero fosse Papa in Zurigo, e che non solamente a’ suoi precetti, ma ancora alla sua esortazione s’havesse ad ubbidirsi...»675 . L’opera era stata stampata in piú di seicento esemplari e diffusa anche in Germania (a Wittenberg specialmente); ma l’autorità di Basilea, avvertita del suo contenuto, ne aveva proibita l’ulteriore vendita e spedizione676 . Quel che i pastori zurighesi trovarono di pericoloso erano soprattutto la gravità e l’audacia delle questioni proposte, che per essi, in un momento cosí grave per il protestantesimo come quegli anni di persecuzioni e di ripresa del cattolicesimo, erano impertinenti e pericolose. L’atto di accusa e la condanna si fondano soprattutto sul Dialogo XXI, dove l’Ochino discute con un sostenitore della poligamia, adoprando contro di essa argomenti cosí deboli, da destare fondato sospetto di propendere per essa piú che per la monogamia. Infatti egli conclude Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 245. Dialogo. Favellatori: Prudenza humana e Ochino, in Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 245, nota I; Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., II, pp. 168-69, nota 174. 676 Ibid., p. 169. Seicento esemplari erano già «ausgegangen und verkauft» quando il zurighese che poi si rivolse al Senato seppe della cosa. Cfr. Beza al Bull., O. C. XX, C. R. 48, n. 4053, col. 205: a mala pena s’è impedito che i Dialoghi fossero diffusi in Francia. beza avrebbe desiderato una pena più grave. 674

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il dialogo rimettendosi alla ispirazione divina; chi la segue non pecca: «id si feceris, ad quod te Deus impellet, dummodo divinum esse instinctum exploratum habeas, non peccabis»677 . Questo punto di controversia era pericoloso per doppia ragione: per la polemica fra protestanti e cattolici a proposito della bigamia di Filippo d’Assia, e per la diffusione fra gli anabattisti della dottrina favorevole alla poligamia678 . Ma la commissione dei tre teologi non s’era fermata su questo punto di propria iniziativa: era il passo che l’autorità civile stessa alla quale era stato segnalato, le aveva chiesto di esaminare. Come risulta anche dalle lettere del Beza e Bullinger, ciò che li aveva colpiti un’altra volta era quella che altrove è detta la stranezza dell’ingegno italiano; cioè il carattere delle questioni sollevate dall’Ochino, delle quali ora veniva presa ad esempio la piú scandalosa, e insieme il modo ambiguo della discussione, onde non si aveva una risoluzione precisa e definitiva in senso ortodosso delle lunghe e sottili discussioni679 . Possiamo anche accettare da un controversista cosí esperto come il Bullinger e da uomini cosí poco intolleranti come il Gwalther e il Wolf, amici 677 Bernardini Ochini Senensis Dialogi XXX in duos libros divisi, quorum primus est de Messia; continetque di alogos XVIII, Secundus est, cum de rebus variis, tum potissimum de Trinitate, Basileae 1563, II, p. 227; Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 247. 678 H. Bainton, The immoralities of the patriarchs according to the exegesis of the late middle ages and of the reformation, in «Harvard Theological Review», XXIII (1930), pp. 44-45. 679 Bullinger a Beza, O. C. XX, C. R. 48, n. 4048, col. 195, 28 novembre 1563. Ha annotato pel Senato «capita quaedam perversarum doctrinarum» dunque solo una parte di esse dottrine eretiche del libro, il quale tutto intiero è per lui «nihil aliud quam impia perversitas». Sei mesi prima aveva difeso l’Ochino scusando i difetti controversistici del libro con la vecchiaia (ibid., n. 3967, col. 40). Cfr. Beza a Bullinger, 4 dicembre 1563, ivi, n. 4053, col. 205.

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entrambi di Lelio Sozzini, e il secondo anche dell’Aconcio, il giudizio sull’ironico tipo di argomentazione usato dall’Ochino, onde l’interlocutore che sosteneva l’opinione ortodossa – l’Ochino stesso – usava argomenti meno validi, non solo logicamente ma anche teologicamente ed esegeticamente, di quelli dell’avversario680 . Anzitutto, nel libro dell’Ochino era pericoloso il continuo insistere sul valore assoluto e preponderante della ispirazione divina, che il Castellione traduce, come s’è già notato, con impulso, o istinto divino. Gli argomenti e le istanze di carattere «spirituale» cominciano fino dai primi dialoghi nei quali sembra che l’Ochino consideri efficace contro le istanze anticristiane soltanto la dimostrazione che Cristo fu Messia «spirituale»681 . Ma inquietanti non potevano non apparire ai riformatori anche discussioni come quella sul peccato contro lo Spirito Santo, il quale in ultima analisi, dice l’Ochino, è indefinibile ed inconoscibile. Nel dialogo su questo problema682 l’Ochino esamina partitamente le varie specie di peccati, e le mostra tutte perdonabili dall’infinita misericordia divina; anzi, giunge a negare che vi possa essere un peccato compiuto per pura malvagità, poiché in ogni peccato c’è non solo malvagità ma debolezza ed errore: che comportano perdono. Non si poteva giungere a una negazione piú radicale dell’agostinismo predestinazionistico di Zwingli e di Calvino. Anche i Farisei che perversamente accusarono Gesú di servirsi per i suoi miracoli del potere di Belzebú sono perdonabili; e anche i giudei che condannarono Cristo, perché il loro peccato fu congiunBenrath, Bernardino 0chino cit., pp. 246-47, 308 sgg. XXX Dialogi, I, p. 58. 682 Dialogo XVIII, che conclude la prima parte. De peccato in Spiritum Sanctum, quid sit. 680 681

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to «cum ignorantia atque infirmitate»683 . Non è peccato contro lo Spirito, cioè peccato imperdonabile, il credere che lo Spirito Santo sia «minor» del Padre; non è peccato contro lo Spirito disubbidire alla legge di natura; non la disperazione: e cosí via. A un certo punto l’interlocutore «eterodosso», non contento di tante negazioni, dichiara di non credere neppure all’esistenza di tale terribile peccato., Gesú Cristo ne avrebbe parlato solo a scopo pedagogico, ad deterrendum. L’interlocutore «ortodosso» non confuta con argomenti questa opinione, ma si limita ad un atto di fede, acconsentendo che non è necessario alla salvezza sapere in che cosa consista il peccato contro lo Spirito684 . La conclusione è che si tratta di un mistero destinato per il momento a rimanere tale: e la conseguenza di questo è che non si deve ritenere nessuno definitivamente condannato e imperdonabile: neppure chi maledica Cristo685 . Dunque nessuno deve disperare della propria salvezza finché è in vita686 : e l’ufficio del predicatore e del maestro è quello di tener viva sempre e in tutti la speranza della salvezza e del perdono. Male fanno coloro che procedono altrimenti, e credono di potere usurpare l’ufficio di Cristo arrogandosi la potestà 683 XXX Dialogi I, p. 401. Anche il peccato stesso di Giuda fu congiunto con ignoranza e infermità, quindi non del tutto dovuto a pura malvagità. 684 Ibid., pp. 404, 405, 409. 685 Ibid., p. 427. 686 Ibid., pp. 431-32. «Itaque profecto fatendum est nullum electum peccare in spiritum sanctum quippe qui omnes, etiam si nonnunquam peccent, resurgant ac serventur, quia sint immutabiliter eletti ad vitam aetemam»; e p. 435: «Itaque etiam si quis volens a Christo deficeret, eique malediceret, non tamen iccirco credere deberemus incondonabile eique esse peccatum: nisi sciremus eum spiritui sancto, hoc est deo, ita prava voluntate maledixisse, ut esset eius peccatum incondonabile, quia sic deus irrevocabiliter decrevisset».

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di giudicare, mentre si deve soltanto esercitare la carità verso di tutti687 . È vero che quanto Ochino qui dice è riservato solo agli eletti, e non vale per i reietti: ma siccome non c’è nessuna prova oggettiva della elezione intanto che si rimane in questa vita, occorre considerare tutti come eletti. Lo spunto anticalviniano è qui evidente; ma quel che piú importa è l’affinità di questa dottrina con quella di Giorgio Siculo e con quella del circolo di Basilea: poiché, da un altro punto di partenza, lo «spiritualismo» ochiniano conclude alla stessa maniera di quello del Curione e del «razionalismo» del Castellione: e, se vogliamo risalire piú indietro, coincide con la indifferenza dogmatica del misero prete grammatico pel quale tutto si riassume in una fede intesa generalmente e senza specificazioni dottrinali, come, se vogliamo guardare in avanti, fa tutt’uno con lo scetticismo di Fausto Sozzini per le determinazioni dogmatiche. È il prevalere umanistico della teologia «positiva» su quella «scolastica» che giunge qui alle sue estreme conseguenze. La eliminazione di ogni elemento ecclesiastico nella vita religiosa alla quale finisce per condurre questo atteggiamento è particolarmente chiaro in espressioni come quelle che adopra Ochino per descrivere la vera vita cristiana: essa consiste per lui infatti in un ribattezzarci continuo e sempre rinnovato per mezzo della buona volontà688 : che è una metafora e non una definizione dottrinale, ma che proprio per ciò mostra lo svuotamento che avevano raggiunto in tali mentalità quei termini dottrinali che proprio le controversie interne fra protestanti avevano caricato di nuovo vigore e di nuovo empi687 Ibid., I, p. 439: «Sed contra faciunt nonnulli, omisso enim officio suo, hoc est procuratione salutis aliorum, invadunt in Christi officium, hoc est id faciunt quod facturus est ipse in die iudicii, dum reiecturos ab electis secernere volunt». 688 Ibid., p. 97.

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to di vita. Anche la definizione della «libertà spirituale» è di questo genere: «Sumus ab omni servitute liberi excepta Dei servitute, cui soli servimus et cui servire summa est libertas»689 : espressioni di questo genere si trovano spessissimo nella parenetica cristiana, e specie nella patristica: ma il suono che ora esse rendono è quello di una religiosità spoglia da determinazioni ecclesiastiche e dogmatiche, che mostrerà i suoi frutti nel deismo e nel misticismo settecenteschi. Nel dialogo quinto690 l’interlocutore eterodosso dimostra che Cristo non è venuto come Messia, ma soltanto come profeta e annunciatore di penitenza, e usa questo argomento, accettato dall’Ochino: se Cristo fosse venuto come il Messia profetato dall’Antico Testamento, si sarebbe verificata la rigenerazione e la spiritualizzazione del mondo, che è invece tanto lontana. Questo implica che anche l’Ochino concepiva il Messia come puro Dio spirituale, apportatore di un regno di Dio integrale: la incarnazione rimane nell’ombra, quasi dimenticata. Questo è il lato negativo, polemico, della credenza di Camillo Renato e del Serveto nell’avvento prossimo del regno di Dio e nella rigenerazione spirituale che costituisce tale avvento nell’interiorità degli spiriti; ed è il complemento, pure negativo, della dottrina curioniana del secondo avvento di Cristo, intermedio fra il primo e l’ultimo che si sta verificando con la diffusione della fede cristiana spiritualisticamente intesa in tutto il mondo. Questa fede cristiana, che è amore, non ha bisogno di intermediari come non ha bisogno di determinazioni dottrinali: Est omnino amor ita adhaerens Deo ut inter ipsum et Deum nihil medium potuit intercedere. Itaque fatendum est nos et 689 690

Ibid., p. 102. Ibid., pp. 134 sgg.

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amatos et electos a Deo fuisse mero beneficio, nullius adhibita opera, ideoque neque Christi...»691 .

e come da Dio all’uomo, cosí dall’uomo a Dio692 . Per acquistare le virtú morali e quelle «cristiane e divine» non occorre l’intervento mediatore di Cristo: ma essenzialmente bastano le nostre forze soltanto, e la grazia di Dio693 . Questa dottrina, che ricorda i motivi degli illuminati spagnoli di ispirazione araba, e quelli del Valdés, elimina anche la preoccupazione della giustizia, e ricorda da vicino la teoria dell’amore del platonismo fiorentino: non tanto nel suo contenuto filosofico e speculativo, quanto nella sua accentuazione unilaterale del valore assoluto e incondizionato dello slancio entusiastico, di quel che diventerà piú tardi e in un’altra mente l’eroico furore, al di sopra di ogni altra cosa. Anche al di sopra del beneficio di Cristo: è proprio sotto questo titolo che Ochino dice: tamen nego Christi beneficiis, licet maximis et innumeris, equiparati Dei beneficia... Ab amore Dei pendent omnia bona nostra: et ipse nos amavit non quia Christus pro nobis mortuus est et oravit, sed mero suo beneficio. Itaque amor Dei quia fons est omnium bonorum nostrorum, solus est omnium eiusdem divinorum beneficiorum praestantissimum...694 . Ibid., p. 129. Ibid., p. 110: «Iam si quis vivo Dei lumine praeditus est, non dubium est quin quandiu eo lumine praeditus est, necessario amet et operetur». La verità «sese aperit attollentibus mentem ad Deum, id quod facere nos possumus auxilio Dei, nemini denegato» (p. 110). 693 Ibid., p. 132. 694 Ibid., p. 348 (Dialogus XIV: Solius Jesu opera nobis ignosci peccata). 691 692

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È vero che ciò avviene «per Christum», e che per opera di Cristo soltanto ci vengono rimessi i peccati, anche secondo l’Ochino: ma ciò non toglie che la posizione di Cristo rimanga qui di secondo ordine, e che il problema e la teologia di Cristo perdano per l’Ochino come per gli altri eretici ogni importanza. Coerente da questo punto di vista spiritualistico è la posizione dell’Ochino riguardo al dogma trinitario. Questo viene riconosciuto «unum de praecipuis fidei nostrae capitibus», ma formalmente, non per il suo contenuto tradizionale: e diventa un problema, poiché credere alla Trinità vuol dire intenderla, «eam credere ideoque intelligere», dal momento che la fede non è cieca, ma «perspicace»695 . E il criterio dell’«intelligere» è questo: siccome credere nella Trinità è necessario, Dio, che ci assiste sempre nelle cose necessarie, ha dato una cognizione interiore di essa a tutti i suoi eletti (cioè a tutti i cristiani, data l’estensione che l’Ochino dà, contro Calvino e col gruppo eretico italiano, alla elezione al bene). Dio ha inoltre aperto a tutti la cognizione della Trinità attraverso le Sacre Scritture, nelle quali lo Spirito Santo ha parlato chiaramente e perspicuamente, in modo da esser compreso da tutti: questa insistenza mostra molto nettamente la direzione del pensiero dell’Ochino, pur che si rifletta essere un luogo comune della controversia del tempo à constatazione che nelle Sacre Scritture non esiste il termine «trinitas»696 , e non si perda di vista l’inciso con il quale l’Ochino colorisce le sue affermazioni: lo Spirito Santo, che ha parlato «ut doceret et intellige695 Nella introduzione ai dialoghi sulla Trinità, XXX Dialogi, II, p. 5. 696 Basterà ricordare l’accusa di arianesimo fatta a Calvino proprio perché non aveva usato il termine «trinitas», come non scritturale. Carew Hunt, Calvino cit., pp. 61, 62; e quanto s’è accennato a proposito di Lutero (cfr. piú sopra).

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retur», e non per intricare ed ottenebrare le menti umane. Si potrà sottilizzare, ricercando in bocca di quale degli interlocutori l’Ochino abbia inteso porre le sue vere idee; ma data l’ambiguità voluta di tutto il libro, bisogna fermarci alla consapevolezza che Ochino aveva di sollevare problemi spinosi, e dell’importanza che aveva per i suoi scopi il semplice proporli: la verità egli non intendeva offrirla, perché essa stava per lui soltanto nell’uomo interiore dove Iddio parla direttamente. Come Camillo Renato, come Lelio Sozzini, come il Biandrata, l’Ochino vuole che su questi problemi parlino i grandi dottori della Riforma, i capi ascoltati da quelle popolazioni sulle quali gli esuli italiani non avevano quell’autorità che forse desideravano. Non mi devono accusare, dice l’Ochino, perché ho toccato con tanta fatica questo problema, anzi, mi devono ringraziare, «non solum quia ipsos ad loquendum de ea excitaverim...»697 . Questo inciso può sembrare semplicemente una preterizione ironica: ma oltre l’ironia, c’è proprio la posizione degli eretici, che volevano sopra ogni altra cosa la discussione completa della dottrina cristiana nei suoi dogmi tradizionali, per mostrare attraverso le opinioni contrastanti che il solo importante era il semplice e ardente credere nelle verità evangeliche, cioè la religiosità immediata e non intellettualizzata. Questa tendenza religiosa non investe con la sua critica soltanto il contenuto del dogma trinitario, benché anche questo abbia la sua importanza, ma nega ogni forma dogmatica, con il richiamo alla semplicità della dottrina evangelica: semplicità estrema che è estrema intelligibilità poiché tutto quel che è necessario alla fede è per tutti nella Scrittura e in essa lo spirito divino ha parlato per essere inteso e non per creare sottigliezze esegetiche o astruse interpretazioni. Intelligibilità condizionata dalla fede, cioè dalla elezione per la 697

Dialogi, II, p. 7.

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grazia divina, cioè dall’amore infinito di Dio per l’uomo e dell’assoluto reciproco amore dell’uomo per Dio, senza intermediari: fatto della vita interiore, alla quale bastano accenni e spunti e parole dettate da carità, e non occorrono dottrine. Fuori del gran quadro della tradizione, il misticismo d’origine francescana, con la sua via della saggia ignoranza, diventa motivo di radicale distacco da ogni tradizione, attraverso la asserita semplicità e universale comprensibilità della Scrittura. In questo terreno mistico ha le sue radici la critica razionalistica del dogma trinitario: ma qui quel che importa è ancora la posizione del problema, che è condizione necessaria della critica stessa. Come il dialogo sulla punizione capitale degli eretici, dove la dottrina secondo la quale essa è necessaria viene posta in bocca a Pio IV cui fa contrasto il cardinal Morone, e viene presentata come espressione della volontà di affermazione politica, era dedicato a Sigismondo II Augusto di Polonia al quale già s’era rivolto il Curione quasi dieci anni prima, e presso il quale l’Ochino doveva trovare per qualche tempo rifugio, i dialoghi sulla Trinità erano dedicati al Principe polacco Nicola Radziwill, l’amico di Lelio Sozzini, il protettore del Biandrata698 . È dunque probabile che l’Ochino, oltre che cercare favore presso la liberalità di quel sovrano e di quel principe, sapesse, per quanto riguarda quest’ultimo, di rivolgersi a una mente disposta ad accettare le sue idee quando non fossero proposte in maniera recisa e atta a destare scandalo. Il silenzio699 dell’Ochino sulla controverIbid., II, p. 421 (Dialogo XXVIII), p. 3. Silenzio che lo Hassinger, Studien zu Jacobus Acontius (Abhandlungen zur Mittleren und Neueren Geschichte, 76), Berlin 1934, p. 102, adduce a prova che non si può parlare di antitrinitarismo dell’Ochino. Qui si tratta di tendenze, non di dottrine solidamente fissate. 698

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sia trinitaria nel dialogo scritto da Norimberga contro i pastori svizzeri che lo avevano scacciato si può interpretare come un riguardo ai suoi sperati protettori, analogo a quello del Biandrata nel periodo polacco della sua attività, e non può bastare ad escludere la tendenza eterodossa delle sue opinioni. Questi riguardi sono comprensibili non tanto per la difficoltà delle situazioni nelle quali si trovavano questi esuli, sospettati da tutte le parti, quanto per la loro indifferenza teologica e per il loro costante attaccamento alla Confessio Helvetica che consideravano come punto di partenza e fondamento della riforma religiosa. L’Ochino, come gli altri eretici italiani, che in questo ripetono il suo atteggiamento, non si trovava tanto in dissenso coi capi della Riforma e coi loro successori, quanto con l’incipiente cristallizzazione della «Riforma» nella «ortodossia» protestante700 , che sarebbe stata molto ristretta e «scolastica», ma che allora era appena in formazione, anzi, allo stato di tendenza percepibile solo nella maggiore sensibilità degli entusiasti neofiti e delle mentalità umanistiche degli italiani. A questo si univa la polemica, anch’essa piú morale e religiosa in genere che dottrinale, contro Calvino701 , non tanto per le sue dottrine specifiche, quanto per la sua azione autoritaria e accentratrice, della necessità della quale quegli emigrati e quegli illuminati, con la loro menIbid., p. 100; qui seguo le conclusioni dello Hassinger. Ibid., p. 99, osserva che per la voluta ambiguità dello scritto dell’Ochino, noi non possiamo, per es. per la questione del libero arbitrio, decidere se egli sostenesse una tesi predestinazionistica o una moralistica, in favore del libero arbitrio. Ma la stessa ambiguità voluta e consapevole mostra che l’Ochino intendeva proporre e suggerire con argomenti e discussioni proprio la tesi del libero arbitrio (conciliabile benissimo, nell’amore, con la grazia illuminante, e non conciliabile con la predestinazione); se avesse sostenuto la tesi ufficiale e predominante, allora avrebbe certo parlato chiaramente e univocamente. 700

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talità radicale e il loro entusiasmo di rigenerazione immediata, non erano in grado di rendersi conto. È dunque inutile discutere come hanno fatto sinora gli studiosi, se Ochino sia stato un razionalista, un «soggettivista», uno scettico, o un antitrinitario, o niente di tutto questo, o uno «spiritualista»702 ; anche a prescindere dalla impostazione troppo strettamente teologica di queste definizioni, il fatto è che Ochino identificava l’ispirazione interiore con la ragione, e che non scettico, ma indifferente era di fronte alle determinazioni dogmatiche, fra le quali anche quella trinitaria. Come pure è inutile discutere se ci sia stato un avvicinamento al Castellione, poiché non c’era stato nessun distacco703 : il savoiardo non faceva che esprimere piú chiaramente e spesso piú arditamente, come quello che era il meno imbevuto di cultura teologica di tutto il gruppo, le idee comuni, procedendo ad affermazioni verso le quali gli altri tendevano senza giungere alla loro formulazione. Non possiamo considerare questi uomini che dissolvevano le dottrine e che ne negavano la importanza, come se avessero ognuno dottrine precise e definite, a proposito delle quali si potesse parlare di avvicinamenti o deviazioni, e cosí via dicendo. I pastori zurighesi non potevano non condannare un’opera di questo genere, e il Bullinger non poteva non aver presenti i suggerimenti di Beza, che aveva parlato di rapporti delle idee dell’Ochino «cum Servetanis, Gribaldistis et Blandratistis»704 . Scacciato senza dilazioni da Zurigo, il vecchio senese si recò a Basilea, ma non poté restarvi che poco tempo; se le sue proposte di presentare ed osservare una confessione di fede non furono accetta702

Cfr. Hassinger, Studien zu Jacobus Acontius cit., pp. 97 e

98. Ibid, p. 102. Bullinger a Beza, O. C. XX, C. R. 48, n. 3967, col. 41, 12 giugno 1563. 703 704

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te, forse la sua azione e certo la sua partenza giovarono al Castellione, che era stato messo sotto processo per la sua opera di traduzione dei dialoghi, su denuncia del Beza.

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CAPITOLO VENTITREESIMO

Processo al Curione per l’accusa di avere collaborato col Gribaldi. Processo ai seguaci di David Joris. Situazione del Curione e del Castellione. Progetti di quest’ultimo per un viaggio in Polonia, e sua morte. Influenza degli eretici italiani sul protestantesimo francese: il Curione e il Ramo; l Alamanni a Lione.

Infatti, anche a Basilea la diffidenza per gli eretici italiani s’era fatta piú attenta, dopo i processi del Curione, che era sempre stato assolto, ma a prezzo di sottomettersi. Era stata una serie continua di ammonimenti, inchieste, censure. Infatti l’inchiesta per il De Amplitudine si era associata con quella per la partecipazione del Curione alla preparazione del De filio Dei del Gribaldi705 . Anche questa volta il colpo contro il Curione veniva da Tubinga, e non piú attraverso una lettera privata del Vergerio, ma attraverso una missiva ufficiale del Duca Cristoforo al Senato della città di Basilea706 . Nella mente del Brenz e del Vergerio – consiglieri del Duca che nella denuncia aveva accomunato le due cose – l’idea dell’infinita ampiezza del regno di Dio, cioè degli eletti a essere salvati, faceva evidentemente tutt’uno con quella della salvazione in base alla legge naturale, non solo, ma anche con le speculazioni antitrinitarie. Anche questo processo del Curione terminò con l’assoluzione, ma non senza che qualche sospetto rimanesse nell’aria; la commissione accettò le dichiarazioni del Curione, e non investigò oltre, come forse avrebbe potuto fare una commissione Church, I riformatori italiani cit., II, pp. 79 sgg. Per la storia degli eretici cit., pp. 90, 91. I documenti di questo processo sono stati molto deteriorati dall’acqua durante il 1914-18; ne rimangono copie parziali di bibliotecari, che ho quivi in parte riprodotto in parte riassunto. 705

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piú severa o piú rigida nella sua fede. Il Curione infatti aveva riconosciuto come proprie le correzioni apportate al testo del libro del Gribaldi, e anche le crocette, interpretate subito dall’accusa come segni di approvazione; e aveva risposto che le correzioni non implicavano collaborazione di nessun genere all’elaborazione della dottrina, perché erano di carattere esclusivamente grammaticale, e che le crocette indicavano, anziché i punti d’accordo, i punti di disaccordo, che il Curione aveva segnato per discutere col Gribaldi e per convincerlo a recedere dalle sue opinioni. A questo proposito il Curione adduceva la testimonianza del Perna, alla presenza del quale egli aveva avuto una violenta disputa col Gribaldi, proprio per le dottrine di questi707 . L’elenco delle correzioni ci è rimasto; ma poiché manca il testo del Gribaldi, ogni tentativo di rendersi conto del loro significato rimarrebbe inutile708 . Certo il fatto che si trattasse di correzioni Basilea, Stadtarchiv, K. A. A. 3, fol. 180. Ad ogni modo lo riproduco qui (ivi, fol. 175, foglio aggiunto): Blatt 3 molti pro tutti; 8 riferisce; 10 riferisce; 16 tutte le; 19 riferiscono; 20 verra; 27 verra; 30 verra; 40 verra; 41 verra; 54 parimente; 58 riferisca; 60 fede; 64 parimente; 67 contra; 70 come pare; 70 in apparenza; 75 queste; 75 quaranta; 77 e liberare; 78 loro; 79 talmente ch’; 80 de le (te?) An; 23 orten Coelii Bekantnusz (ho scritto di seguito separando con i punto e virgola; nell’originale è tutto in colonna). Forse è opera dell’agente politico Vincenzo Maggi, che venne invitato a far da interprete (Church, I riformatori italiani cit., p. 80), e che viene nominato al fol. 181. Queste correzioni comunicatemi dal sig. W. Dettwyler di Basilea, che sta preparando una monografia sul Curione, e che qui ringrazio, poiché mi permette di correggere quanto ho notato in Per la storia degli eretici cit., p. 91, ultime righe, dicono veramente molto poco. Forse si potrebbe osservare che il Curione ha trasportato al futuro qualche frase che era al presente; che ha sostituito un tutti, troppo definito, con un meno compromettente molti; che due volte ha attenuato un’espressione del Gribaldi, aggiungendo o sostituendo ad altra 707 708

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grammaticali non significava molto di per sé, poiché abbiamo già visto quale importanza avessero per quegli uomini e per le loro sottili distinzioni le determinazioni linguistiche e grammaricali. Ad ogni modo la commissione, pur accettando le giustificazioni del Curione, ne richiese una dichiarazione esplicita di fede nella dottrina ortodossa della Trinità, che il Curione non ebbe difficoltà a scrivere. Certo solo una commissione, i membri piú influenti della quale fossero l’Amerbach e il Borrhaus, poteva accettare le spiegazioni che il Curione aveva dato degli stretti rapporti di amicizia che aveva mantenuto col Gribaldi anche dopo che ne aveva conosciuto le detestabili dottrine, e del non avere denunciato; dopo aver visto la irriducibilità dell’amico un libro tanto pericoloso. L’amicizia che il Gribaldi coltivava con me, dice il Curione, e con molti altri, era derivata dalla comunanza di patria e di idee religiose: «a patria communi et a vera contra papistas suscepta quondam religione»709 . Dove sembra quasi accennarsi ad una amicizia lontana, sorta nel formarsi delle nuove idee religiose, confermata poi dalla solidarietà degli italiani nell’esilio. Davanti a una commissione rigidamente calvinista questi argomenti troppo umani non avrebbero avuto nessun valore di contro a quelli dell’onor di Dio e della purezza della dottrina. Piú grave era la risposta al secondo punto perché conteneva una affermazione di principio. Infatti il Curione si scusava anzitutto di non aver denunciato subito il libro, adducendo che da principio non ne aveva compreso il vero carattere. E questo argomento poteva essere accetta-

parola un come pare: insomma si potrebbe vedere anche qui il temperamento piú flessibile e piú elastico del Curione. Certo è una conget tura arrischiata. 709 Per la storia degli eretici cit., p. 92.

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bile da una commissione ben disposta. Ma per scusarsi di non avere fatto la denuncia (che si assumeva essere suo dovere di cristiano) neppure in un secondo momento, quando la prima giustificazione non poteva piú valere, e il Curione stesso ammetteva di essersi accorto d’avere tra le mani un’opera deleteria alla retta fede, egli giunse a fare una dichiarazione di principio, che esce dall’àmbito delle idee della riforma rigidamente intesa. Infatti l’umanista piemontese dichiarò di non avere denunciato l’amico perché non riteneva cosa degna di uomo onesto denunciare un eretico anche pericoloso come il Gribaldi e metterlo nel doppio pericolo di perder la vita e di perdere l’anima andando a morte mentre era e persisteva nell’errore. Un ritorno alla retta dottrina era sempre possibile, finché non si fosse giunti alla morte. E Iddio comanda che si tenti ogni mezzo prima di rivelare a tutti il peccatore, e di mettere in pubblico, con un tradimento, la colpa d’un amico710 . Quindi il Curione dichiarava d’essersi limitato ad impedire che il libro del Gribaldi giungesse a Ginevra, dove evidentemente era destinato, e dove avrebbe costituito un’arma terribile in mano all’implacabile Calvino. L’onor di Dio, il principio della riforma calvinista, qui non compare: al suo posto c’è il precetto evangelico della pazienza di fronte al peccato dell’amico, che nella mente del Curione fa tutt’uno con il concetto stoicizzante della fedeltà all’amico in tutti i casi e al di sopra di ogni altra considerazione, la religione antica dell’amicizia. Non solo: i due motivi, insieme con quello che non si deve mai considerare un uomo indurito nel peccato o nell’errore fino a non ammettere che si possa mai ricredere, si fondevano in una esplicita teoria della tolleranza religiosa, che era suscettibile di svolgimenti non del tutto confacenti alla dottrina pure accettata dalle autorità basileesi. Ad ogni modo, il Curione 710

Ibid., p. 92.

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si era sottomesso, aveva fatto dichiarazione di ortodossia quanto al dogma trinitario, e anche questa volta i giudici si accontentarono di una ammonizione. Certo, dopo la pubblicazione del De Amplitudine, il Curione ha fatto per tre volte atto di sottomissione; nei processi per il De Amplitudine stesso, per il Gribaldi, e per il caso degli «Joristi», nel quale fu coinvolto assieme al Castellione; e, almeno per quanto riguarda l’attività pubblica, s’è mantenuto tranquillo, rinunciando a controversie e discussioni, tanto che può valere per tutto l’ultimo periodo della sua vita l’elogio di ritegno e tranquillità che ne fa lo Zurkinden nel 1555, proponendolo come esempio all’irrequieto Castellione711 . Ma se il Curione non interviene piú nella polemica religiosa, il fatto stesso dei tre processi nei quali il suo nome si presenta come accusato principale o in ogni modo non trascurabile; e il modo col quale egli s’è comportato specialmente in quello per il caso del Gribaldi, mostrano ch’egli non aveva abbandonato nessuna delle sue posizioni; e il tipo delle amicizie che ha coltivato fino alla fine ci fa pensare che la sua abitazione di Basilea rimanesse ancora un centro di eretici italiani. La contrapposizione fra il Curione e il Castellione, della quale s’è compiaciuto Buisson a tutto svantaggio del piemontese, presentato come la mente e il carattere piú deboli di fronte al savoiardo, non può dunque essere accettata712 . Certo, l’opera del Castellione, soprattutto qella rimasta allora inedita, ha una originalità potente, maggiore di quella del Curione, benché neppur l’opera del Curione sia del tutto trascurabile, con la sua inconfondibile fisionomia pitagoreggiante. Ma quanto al carattere, anche il Castellione è ricorso a sotterfugi giuridici quando è stato messo sotto inchiesta per la sua tra711 Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 381, Zurkinden al Castellione, Berna, 15 aprile 1555. 712 Ibid., p. 154.

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duzione latina dei Dialoghi dell’Ochino, e in questo caso non gli mancò la difesa e l’assistenza del Curione; e anche il Castellione s’è sempre sottomesso alle deliberazioni delle autorità basileesi. I contemporanei li videro insieme, come il pastore della chiesa francese di Londra, il quale biasimava in una lettera a Calvino le «fantasticherie» dei due umanisti, «qui novam Academiam ampliandi regni Christi praetextu invexerunt»713 . Le opere di questo ultimo periodo della vita del Curione sono tutte di insegnamento e di pubblicazioni di testi classici. Qualche volta si sente un’eco delle sue idee, come nell’introduzione alla edizione di Seneca, dove il Curione dice che l’antico filosofo era pio e forse aveva di Dio e dell’onore che gli si deve un’idea migliore di costoro che si elevano alle stelle e pretendono il primo posto fra i cristiani, dove l’allusione ironica a Calvino è evidente714 . L’interesse sempre vivo del Curione per le cose italiane ci è attestato anche dalla sua traduzione latina della Storia d’Italia del Guicciardini, dove erano riuniti per la prima volta i sedici libri della edizione fiorentina del 1561 e i quattro pubblicati a Venezia nel 1564715 . Qui un accenno religioso appare solo alla fine della dedica a Carlo IX di Francia. Le altre edizioni in genera713

N. Gallasio a Calvino, O. C. XVIII, C. R. 46, n. 3341, col.

367. 714 L. Annaei Senecae Opera quae extant Omnia, Basileae 1557, ded. a Giov. Lutomirski. 715 Basilea 1566 (Francisci Guicciardini patrici Florentini Historiarum sui temporis libri viginti cit.). Il Curione avverte che ha mantenuto i nomi moderni senza travestirli all’antica. Dichiara poi che sbagliano coloro «qui in historia non ferunt, si quis de sua gente etiam si verissimum sit, aut crudeliter, aut perfide... factum aperte aliquid scripsit» (Ad Lectorem).

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le sono dedicate a qualcuno di quei nobili polacchi che continuavano a frequentare le lezioni del Curione716 . Appena terminato il processo per il caso del Gribaldi, le autorità di Basilea si dovettero occupare di uno scandalo piú grave e piú clamoroso: a tre anni dalla morte di un ricco gentiluomo fiammingo, da tutti fino ad allora conosciuto e stimato come Giovanni da Bruges o da Binningen, dal luogo dove s’era fermato, si veniva a sapere, in seguito a litigi fra gli eredi, che l’uomo ospitato e onorato dai basileesi per circa dodici anni era l’eresiarca David Joris717 . Nel processo che ne seguí, e che concluse con la condanna al rogo dell’eresiarca, eseguita sul cadavere che era stato esumato, con la solenne abiura e ammenda dei suoi seguaci ed eredi, e con la loro riabilitazione, i due professori conosciuti come amici del Joris furono trattati con diffidenza. Infatti il Curione e il Castellione non furono invitati alla seduta plenaria dell’Università dove vennero prese le ultime e definitive decisioni; ma il giorno dopo, a cose fatte, vennero invitati presso il rettore, il quale, alla presenza del «ginnasiarca» Henricus Petri, chiese loro una dichiarazione scritta di approvazione a quanto era stato deciso. Il Castellione rilasciò una dichiarazione molto riservata, dove rilevava che né lui né l’amico erano stati invitati, e osservava, come per inciso, che quegli articoli ch’erano chiamati a condannare venivano attribuiti («qui dicuntur excerpti») allo Joris senza però che ne fosse data la prova; e non espresse nessuna condanna della persona dello Joris. Il 716 Cfr. Kot, Polacchi a Basilea cit., pp. 101 sgg.; in Wotschke, Briefwechsel cit., p. 122 la dedica dell’edizione di Sabellico a Sigismondo Augusto. L ’ed. delle Partitiones Oratoriae di Cicerone (Basileae 1556) era dedicata «Stanislao Tencinio comiti Palatino Cracoviensi et Lublinensi»; quella di Giovenale (Basilea 1551) allo Sbaski. 717 Bainton, David Joris cit., p. 99; Buisson, Sébastien Castellion cit., II, pp. 148 sgg.

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Curione invece fu piú ampio e veemente contro l’antico amico, che chiamava «uomo satanico». La dichiarazione del Castellione suona come un atto di sottomissione forzata; quella del Curione suona come una piena ed ampia sottomissione. Forse vi si può vedere una delle meno piacevoli manifestazioni di «nicodemismo», o forse solo di stanchezza morale, da parte di un uomo che usciva da due processi718 . Ora veniva la volta del Castellione. La sua fama cresceva in Isvizzera, in Francia, in Germania, in Inghilterra; ma a Basilea era sempre tenuto in disparte, e a Ginevra era sempre guardato con ostilità719 . Nel 1558 usciva a Ginevra il Nuovo Testamento tradotto in francese da Beza e Calvino, e nella introduzione il Castellione era di nuovo attaccato come strumento scelto da Satana per divertire gli spiriti leggeri e indiscreti. Questa volta il Castellione riuscí a ottenere il permesso di pubblicare la difesa delle proprie traduzioni che era pronta da tanto tempo; ma dovette assoggettarsi a una severa censura da parte del Borrhaus, che tagliò molti e lunghi passi del testo originale del Castellione720 . Nonostante la moderazione del tono del Castellione e i tagli del Borrhaus, questo scritto provocò un’acerbissima risposta del Beza, mentre il Castellione veniva per fino portato sulla scena come amico e strumento di Satana, del quale si sarebbe fatto servo per ambizione721 . Lo scritto del Beza usciva, come dice giustamente il Buisson, dal campo della controversia722 e rapresentava una formale accusa di eresia e di tradimento dei doveri professionali: il CastelIbid., p. 154. Ibid., pp. 243 sgg. 720 Ibid., p. 252. 721 Ibid., pp. 253 sgg. 722 Ibid., p. 256. 718 719

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lione avrebbe tradotto la Bibbia introducendovi errori e trasformazioni di significato allo scopo di diffondere le proprie pericolose eresie723 . Queste accuse vennero riprese dal medico paracelsista Adam von Bodenstein, che si assunse il carico della denuncia ufficiale presso il Senato della città di Basilea. Il Castellione fu chiamato davanti al consiglio dei pastori della chiesa di Basilea, poi davanti alla Signoria, per giustificarsi. A questo processo si associò quello per la sua parte di traduttore dei Dialoghi dell’Ochino724 . Il Bodenstein aveva aggiunto anche questo capo d’accusa alla sua denuncia, parlando del detrimento che veniva all’onore della città di Basilea dalla pubblicazione di tali libri nelle sue tipografie: e quest’accusa sarebbe riuscita forse piú dannosa delle altre al Castellione, che le aveva dato meno importanza di tutte, se la morte non fosse intervenuta nel dicembre del 1563, a troncare il processo iniziatosi un mese prima725 . I piú fervidi nel rendere onore al Castellione, e nel procurargli una sepoltura onorata, furono alcuni giovani polacchi, scolari del Curione. Il piemontese sarebbe rimasto solo a Basilea anche se la morte non gli avesse tolto l’amico e compagno di discussioni, poiché questi si preparava già ad abbandonare la città sul Reno, e si informava della situazione che avrebbe potuto trovare in Polonia, per dove s’era avviato l’Ochino726 . Gli ultimi anni del Curione, che sopravIbid., pp. 155-56. Ibid., p. 261. Il Buisson vede anche l’Ochino in funzione del Castellione e della sua idea della tolleranza. Ma abbiamo già rilevato a sufficienza il carattere secondario di essa. 725 Ibid., pp. 263 sgg. 726 Il Church, (I riformatori italiani cit., II, p, 162) ha pubblicato in traduzione inglese la lettera che il Marchese d’Oria, Bernardino Bonifacio (su cui cfr. il Church stesso, II, pp. 57-89 ecc.) scrisse al Castellione evidentemente in risposta a qualche 723

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domanda di questi. Ritengo opportuno pubblicarla nell’originale latino. «Literae tuae Atticae nescio voluptatis plus an doloris attulerint. Nam si ob novitatem magna me laetitia affecisse non nego: ita quae penitus inspexi ingentem moestitiam dedisse piane confiteor. Unde, caeteris omissis, venio ad id quod mihi videtur esse tibi magis necessarium. Video Christianos homines minime Christiane procedentes. Video iam personam abiecisse, et aperto Marte tecum velle contendere. Caeterum altera ex parte video tuam simplicitatem expositam fede omnib. nebulonib. quum sit verissimum illud, Dat veniam corvis, vexat censura columbas. Itaque si quid mihi (id est si non sapientiss., tui tamen amantiss.) credis, debes omnino de solo vertendo cogitare. Haec regio non esset prorsus ingrata, si tantum cum cervisia degere posses. Nec dico id quod vinum hic non reperiatur, sed quum non nascatur hic, aliunde vili pretio asportari non potest. Nam in caeteris reb. meo iudicio, non cedit Germaniae, licet in aliquibus etiam praecurrat. Quod ut planius intelligas quam breviter potero, apertius conabor ostendere. Magnani immo max. haberes hic libertatem tua sententia arbitratuque vivendi, item scribendi, et edendi. Nemo esset censor. Haberes homines qui te diligerent et defenderent, et (quod gratias tibi deberet esse) qui communem causam tecum habent. Quod diu parturis, tandem pareres. Annona hic non est admodum cara; ego parum discrimen inter hanc et vestram esse iudico. Frigora sunt immensa ut quod singulis annis flumina gelu rigescant: sed in vestra Germania non video minora. Superest ut de verbo principali (ut dicitur) loquar. Utinam is essem qui in Italia quondam fui, vel saltem quando ex Italia discessi Basileam petens. Nunc habeo eas vires extenuatas quas tu poteris considerare, habita prius ratione tot viarum, tot impensarum, tot periculorum. Nec omnib. his transactis certam hic video sedem, ut tibi a Nicephoro Magio meis verbis significatum fuit. Verum si Sarmatia cum dotib. sive bonis, sive malis, quas praefatus sum, tibi arriderei, vellem ut me certiorem faceres de ea pecuniae summa, quae tibi in singulos annos esset necessaria. Hoc a nemine quantumvis eruditiss. nisi a te ipso scire poterimus. Itaque tu dicas oportet: nam de reliquo, mihi erit curae rem diligenter et secreto, ut par est, tractare. Nec caelarem hoc Georgium Blandratam, hominem mei, nec minus tui, amantissimum. Hic velis

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visse fino al 1569, furono tranquilli; e i segni di fama e di stima che gli giungevano dal Piemonte, dove Emanuele Filiberto gli avrebbe procurato l’impunità dalla Inquisizione, dall’Impero e dalla Transilvania, dove forse avrebbe trovato un terreno piú adatto per le sue idee, gli furemisque foveret huic negotio: nec dubito quo est candore et humanitate, quia omnem moturus sit lapidem. Opus etiam esser mihi significare, si tantam habes pecuniam quae itineris impensis sufficeret, vel qua egeres. Et hoc, ut illud, a te debet significari. Quod si itineris descriptionem petis: Audio esse duas vias, unam, quae per Danubium Viennam usque ducit: alteram vero, quae Norimbergam, deinde Pragam Boëmiae, deinde Vratislaviam Silesiae, a qua huc iter est dierum quatuor, vel ad summum quinque. Haec omnia volui tibi dicere. Tu, animum tuum, quam primum poteris, mihi significabis: ad hoc, ne interea hinc discedere contingat. Habebis tuorum consiliorum adiutorem si non strenuum, certe diligentem. Et fortassis si te hic videbimus, discedendi mutabimus voluntatem. Non absurdum mihi videtur, si rem omnem cum Sozino tractes, scilicet ut tu petas Tigurum, vel ipsum Basileam accersas, vel fidis nuntiis literas tradas. Est homo ille qui te amat, et probe novit totam Sarmatiam. Fortassis esset futurus itineris comes vel dux. Faxit te Deus id decernere, quod tibi utilius foce cognoscit. Sed de his hactenus. De emendatione carminum, habeo tibi gratias...» [seguono scuse per alcuni errori di grammatica nei quali era incorso, saluti per il suo figlioccio «Bonifaciolum», per il predicatore Joannes (forse il Leonardi?), il compare di Castellione, Nicolaus (Church, I riformatori italiani cit., p. 1631 nota) e il medico Gallus (che abbiamo incontrato a Ginevra implicato nei processi degli anntrinitari); data: Casimiriae pridie Calendis Julii MDLXI, e un poscritto:] «Nactus opportunitate fidi nuntii visum fuit scribere Georgio Blandratae, qui nunc Vilnae Lithuaniae est. Volui videlicet potius praeceps in tuis reb. quam piger videri. Si tibi non gratam rem feci, ignosce voluntati meae. Tuus ex corde totus, Joannes Bern. Bonifacius». (Berna, Stadtbibliothek, ms Hist. Helv., VI, 63, n. 5 a). Rilevo, col Church, l’importanza di questa lettera anche per stabilire la intimità di rapporti fra gli eretici anche se di tendenze diverse (Church, I riformatori italiani cit., pp.163-64).

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rono forse di conforto al dolore di vedere scomparire i propri figli prima di lui727 . I profughi che continuavano a venire, piú scarsi, ma forse possiamo dire piú scelti, dall’Italia, si recavano da lui: non è improbabile ch’egli conoscesse Fausto Sozzini, che era a Basilea al momento dell’espulsione dell’Ochino; e a lui si rivolsero Francesco Betti e Jacopo Aconcio abbandonando l’Italia; a lui si rivolgeva il giovane Dudith-Sbardellati per avere un amico e consigliere in questioni filosofiche, a lui chiedeva aiuto e raccomandazione il famoso Simone Simonio728 . Alle idee degli eretici italiani e soprattutto del Curione si può riconnettere la posizione assunta nella chiesa riformata francese dal Ramo, che era amico del Curione, del quale aveva letto ed approvato, sembra, il De Amplitudine, e che ricordò con parole calorose nell’elogio di Basilea729 . Come gli umanisti basileesi, il Ramo sosteneIbid., pp. 216, 219. La commendatizia del Curione al Bullinger per l’Aconcio e per il Betti, infra, p. 323. Pel Dudith: nel 1581 egli scriveva al medico imperiale Crato von Krafftheim (sul quale vedi J. F. A. Gillet, Crato von Krafftheim und seine Freunde, Frankfurt am Main 1860, ricco di notizie e documenti riguardanti anche la storia degli italiani) che una dozzina d’anni prima aveva scritto al Curione chiedendogli d’indicargli «studiorum socium in illo meo recessu Sarmatico, qui et Philosophus et medicus esset». Il Curione rispose «esse Simonium, qui conditionem quaereret» e che gli sembrava idoneo a quanto il Dudith chiedeva (Dudith al Cratone, Breslavia, 5 ottobre 1581, Breslavia, Stadtbibliothek, Hs R. 253, n. 36 a). Cfr. P. Costil, André Dudith, humaniste hongrois, 1553-1589, Paris 1935, p. 204. Sul Simonio, qui non ci soffermiamo. Cfr. infra, p. 333, nota 4. 729 Il Curione aveva raccomandato il Ramo al Gwalther e al Bullinger, e con buon successo: «Gaudeo pios homines sensisse meam commendationem apud te, ut nec Rami nostri apud clarissimum virum D. Rod. Gwalterum haud leve pondus habuisse... Petrum Ramum virum tum pietate tum eruditione praestantem quem tam officiose salutari iubebas, vides: cuius con727

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va una concezione soprattutto morale della religione: anche per lui, la teologia era soprattutto «dottrina bene vivendi», norma morale prima di ogni altra cosa: donde il valore attribuito alla volontà umana e l’accettazione della dottrina della salvazione solo a mezzo dell’osservanza della legge di natura730 . Per quanto riguarda il Sacramento della Cena, anche il Ramo s’avvicinava alla concezione radicalmente simbolica dello Zwingli, che ormai era diventata caratteristica piú degli eretici italiani che degli stessi zurighesi. Cosí, per la organizzazione della vita delle comunità riformate, il Ramo, coerente all’atteggiamento mentale razionalistico ed egualitario che gli anabattisti avevano impresso all’eresia di quegli umanisti, sosteneva una riforma dell’ordinamento fin’allora adottato sul modello ginevrino. Non piú concistori formati di pastori e ministri in grande maggioranza, con l’assistenza di pochi diaconi e anziani laici nominati dai pastori stessi, ma, accanto al concistoro, e con larghi poteri di intervenire nelle questioni piú gravi, l’assemblea dei fedeli laici731 . Que-

gressum tibi iucundissimum fore non dubito: a quo utpote nostrorum hominum jam peritissimo multa audies quae sane operae pretium fuerit», 22 agosto 1569, Museum Helveticum, vol. VII, 567-68). Per il De Amplitudine: Basilea, Universitätsbibliothek, G. I, 66, 19 v./20 lettera (minuta) del Curione al Ramo, prid. cal. Dec. 1555: C. S. C. Petro Ramo suo S. D. dove il Curione ringrazia il Ramo per il giudizio sul suo scritto (il De Amplitudine?) Il Curione raccomanda al Ramo il giovane polacco Andreas Siemiecius, suo scolaro. Per gli altri rapporti del Ramo coi polacchi, cfr. Costil, André Dudith cit., pp. 146-47, 336. 730 Ma non ne traeva le conclusioni anticerimoniali degli italiani. Cfr. Waddington, P. Ramus, sa vie, sa pensée, Paris 1855, p. 239. Cfr. A. Schweizer, Die Entwicklung des Moralsystems in der reformirten Kirche, in Theol. Stud. und Kritiken, 1850, I, pp. 78-89., 731 Waddington, P. Ramus cit., p. 240.

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ste idee gli procurarono l’avversione del Beza, e la disapprovazione esplicita dell’ottavo sinodo generale delle chiese riformate di Francia, tenuto a Nîmes poco prima della notte di Saint-Barthélemy.732 Il Beza, rispondendo al Bullinger, al quale il Ramo s’era rivolto protestando per questa condanna, e che lo difendeva soprattutto per la dottrina dell’Eucaristia e per la sua avversione all’uso del termine «sostanza» nella celebrazione di essa (il Ranno non avrebbe voluto che si parlasse di presenza della sostanza di Cristo nella celebrazione della Cena, perché questo gli sembrava dare un valore oggettivo, trascendente, a quella celebrazione, avvicinando la funzione del ministro a quella del sacerdote cattolico), accenna al rapporto che la posizione del filosofo francese aveva con quella degli italiani733 . Per il Beza, la condanna delle opinioni del Ramo era la giusta risposta all’opposizione di questi contro le decisioni del settimo sinodo della chiesa riformata francese, che alla Rochelle nel 1571 aveva condannato le «hérésies et blasphémies horribles» diffuse «ès Pays circonvoinsins» dal Gentile, dal Dávid, dal Biandrata, insieme alle proposte di riforma della disciplina della chiesa, e di abolizione del termine di presenza sostanziale734 . L’argomento decisivo usato dal Beza per convincere il Bullinger, che cercava di difendere la eredità dottrinale zwingliana della quale egli era l’ultimo rappresentante, fu infatti l’affermazione che 732 Aymon, Actes ecclésiastiques et civils de tous les synodes nationaux des Eglises Reformées de France, L’Aia 1736, I, pp. 112 sgg. 733 Zurigo Staatsarchiv, F. II, 381/1293 sgg., 1300-1304, 1314, 1318, 1322, 1346; la corrispondenza fra il Ramo e il Bullinger, e fra il Bullinger e il Beza a questo proposito (novembre 1571); copie nella Zentralbibliothek di Zurigo, Simml. Sammlung, vol. 125, nn. 36 sgg. (Controversia in Dogmate de Disciplina Ecclesiastica in Ecclesiis Gallicis). 734 Aymon, Actes ecclesiastiques cit., pp. 112 sgg.

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le dottrine sostenute dal Ramo allora, nel 1570 e 1571, erano identiche a quelle proposte fin dal 1567 da alcuni italiani della comunità di Lione, e che celavano il veleno dell’eresia. Poiché finora sappiamo poco della partecipazione degli italiani, che avevano una cosí numerosa colonia a Lione, al movimento riformato di quella città, indugiamo un po’ piú a lungo sulle brevi notizie che se ne possono desumere dalla lettera del Beza. Si trattava di un piemontese di nome Alamanni, dice il Beza, e di un certo Capponi fiorentino, l’uno sfacciato ed ostinato, l’altro ben noto per le sue opinioni «vertiginose»735 . I due sostenevano che era assurdo stabilire che il Corpo di Cristo fosse «res sacramenti», «ex quo nihil nisi dona et merita Christi percipiamus», e che quindi occorreva espungere il termine di salvezza dalle formule della celebrazione. Maggiori particolari si hanno poi da una lettera del Beza all’Alamanni, ripubblicata nelle epistole teologiche del successore di Calvino736 . Dall’esordio della lettera, 735 Beza al Bullinger, 13 novembre 1571 (Zurigo, Staatsarchiv, F. II, 1322 [4]). 736 Theodori Bezae Vezeliij Epistolarum Theologicarum, Liber Unus, sec. ed., Genevae 1573 pp.48 sgg. (Epistola V, Alamanno Lugdunensis Ecclesiae Turbatori). Cfr. Galiffe, Le refuge cit., indica, per il 1564 un Luigi Alamanni, forse di Venezia (p. 171) e un Luciano Alemanno, veneto, per il 1587 (che non può essere il nostro). I nomi Allemand, d’Allemagne ecc. appartengono a molte famiglie del Delfinato e a molti personaggi risiedenti a Lione. Gli Alamanni fiorentini e i Capponi figurano certo in Charpin-Feugerolles, Les Florentins à Lyon, 1893; a Lione in quegli anni si trovava G. Michele Bruto, lo storico antimediceo che vedremo amico di Fausto Sozzini (Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia..., vol. II p. IV, pp. 2248 sgg.; anche in Bruto, Florentina Historia, volgarizz.. da St. Gatteschi, Firenze 1838, I, p. XXII) che dedica la prima edizione della sua storia (Lione 1562) per l’appunto a un Piero Capponi. Ma di riformati non si parla. Invece una comunità italiana entro la chiesa ri-

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che evidentemente si riferisce al caso del quale il Beza fa menzione scrivendo al Bullinger, appare che fra lui e il «piemontese» vi fossero stati a Ginevra rapporti di una certa cordialità, in quel momento però del tutto scomparsi. L’italiano aveva scritto al Beza protestando di non volere turbare e anzi di non avere per nulla turbato la comunità lionese, e chiedeva di poter sostenere le sue idee in una discussione pubblica e anche in discussione privata. Già a Ginevra era stato richiamato all’ordine, per avere espresso, in discussioni private, opinioni non permesse, sullo stato e le condizioni delle anime dopo morte: ora ripeteva le stesse idee a Lione, e si fermava soprattutto sulla questione della presenza del corpo di Cristo nel Sacramento, vantandosi anche d’aver confutato perfino il Beza. Sosteneva che non si può parlare di una comunicazione dell’anima con Cristo se non in senso puramente spirituale (come opposto a sostanziale) e che dunque non si poteva parlare in alcun modo della presenza del corpo di Cristo nella Cena. Il «caput ecclesiae» non era per lui Cristo stesso, «sed eius tantum spiritus seu beneficia»; la Cena era pura e semplice commemorazione, e non aveva nessun effetto sulla fede. Da quanto dice il Beza sembra anche che l’Alamanni seguisse il solito me-

formata di Lione è attestata da una lettera del Beza al Bullinger (22 aprile 1564; dunque proprio intorno al tempo della presenza dell’Alamanni), che parla di «Itali fratres Lugdunensis ecclesiae» i quali desideravano avere lo Zanchi come predicatore. E se lo Zanchi ci fosse andato, sarebbe stato un bene: «Est enim urbs illa velut altera Corinthus, in quam videmus multos etiam ex iis confluere quorum irrequieta ingenia ferre nostra haec ecclesia nec potuit nec debuit... De Italis loquor...» Alcuni protestanti italiani a Lione, sono cit. da E. Masi, I Burlamacchi, Bologna 1876, p. 92 {e da E. Picot, Les italiens en France au XVIe siècle, in «Bulletin Italien», 1901, 1902, 1903, 1904, 1917, 1918; ma non c’è nessun Alamanni o Alamannus}.

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todo del Renato, del Biandrata, di Lelio Sozzini; sollevare le questioni piú spinose in forma non positiva, di asserzioni, ma dubitativa, di interrogazioni e di problemi sui quali si chiedeva di essere ammaestrati. Il Beza risponde accuratamente a tutti questi punti, inframmezzando le sue confutazioni di ammonimenti molto severi, specialmente al principio e alla fine, e minacciando la vendetta divina all’Alamanni e ai suoi seguaci, se non abbandonassero le idee pericolose e se continuassero a turbare la comunità con la pretesa di insegnare e di porsi alla pari dei pastori sotto il pretesto di chiedere spiegazioni e di farsi ammaestrare. Porre certe questioni e volerle discutere coi pastori, la cui vocazione all’ufficio dell’insegnamento della dottrina della vera religione era garantita dalla loro carriera e dal consenso di tutte le altre comunità francesi, significava un vero e proprio turbare la disciplina della chiesa, che l’Alamanni doveva pur riconoscere poiché per entrare in questa chiesa aveva abbandonato la patria; era voler inquietare gli animi dei fedeli. Chiedere spiegazioni non dev’essere un espediente per proporre e sostenere le proprie idee, poiché di far questo han diritto solo coloro che hanno avuto o la vocazione ordinaria o la straordinaria: e sembra quasi che il Beza pensi che quegli italiani presumessero di possedere la vocazione straordinaria, poiché insiste soprattutto su questa. Ed era con tutta probabilità un errore, poiché gli ambienti «spirituali» dai quali certo provenivano l’Alamanni e il Capponi non avevano bisogno di ammettere una vocazione straordinaria all’insegnamento delle verità di religione, dal momento che ammettevano una cosí larga interpretazione dell’idea del sacerdozio universale, da permettere a chiunque si sentisse ispirato non che specificamente chiamato – l’esposizione delle sue idee. La vocazione straordinaria, dice il Beza, ha sí avuto la sua ragione nel momento eroico della Riforma, ai tempi di Lutero e di Zwingli, ma ora, riordinata la Chiesa,

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le è di nuovo subentrata la vocazione ordinaria. Dunque il cómpito della Riforma, che consisteva nel ricondurre l’ordine, è terminato: chi sotto il pretesto di continuare lo spirito di quei momenti voglia continuare a proporre nuove idee e nuove interpretazioni compie opera di disordine. Il Beza arriva a ricordare che Lutero era dottore in teologia e lo Zwingli parroco: quindi non si può dire che neppure la loro vocazione fosse fuori dell’ordinazione. E non si può dire, come l’Alamanni avrebbe potuto obiettare, che i pastori lionesi errano nella dottrina: poiché consentono con tutta la chiesa francese, la quale è stata istituita da uomini santi e dotti; anzi, per i punti di controversia sollevati dall’Alamanni, i pastori lionesi concordano anche coi papisti, e perfino con gli entusiasti. Argomento questo che non doveva provocare l’ironia in uomini del tipo dell’Alamanni, che appunto assumevano la vera Riforma dover radicalmente romperla con la Chiesa Romana, e consideravano erroneo o moralmente riprovevole ogni punto di contatto che rimanesse con lei. E se, come pare, continua il Beza, i pastori di Lione non sono riusciti a convincerti, tu dovevi rivolgerti per spiegazioni a tutti i principali dottori delle altre chiese, prima di metterti a contestare ostinatamente la dottrina accettata dell’Eucaristia. Quel che indigna il Beza, è la proposta dell’Alemanni di fare una pubblica disputa: è vero, risponde, che i pastori debbono saper difendere pubblicamente e privatamente la verità divina, cioè debbono saper render conto a tutti della loro dottrina; ma se ogni volta che qualcuno si ostinerà in un dubbio pervicace su questo o quell’argomento si dovesse istituire una pubblica disputa, «quid aliud erit Ecclesia quam altercationum officina?» Perché l’Alamanni non ha fatto a Lione come a Ginevra, dove s’era limitato a discussioni private e dove, ammonito, aveva promesso di tacere? Forse perché temeva l’autorità civile ginevrina, e non quella lionese?

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Per quanto riguarda la dottrina, il Beza osserva che l’Alamanni interrogato de re sacramenti risponde de fructu sive effectu: ed è osservazione che coglie nel segno perché al soggettivismo della tendenza umanistica non interessava il fatto oggettivo, il carattere del Sacramento in sé, ma soltanto il carattere del Sacramento stesso nell’anima umana, cioè, detto dal punto di vista oggettivo, gli effetti di esso nell’uomo. Ma il successore di Calvino non vuole ammettere che la risposta dell’Alamanni sia realmente evasiva e suppone che derivi da ignoranza della vera dottrina, quella calvinista; e gliela riespone brevemente: troppo lontana dalla sua mente era l’identificazione dello spirito divino con quello umano (distinto dall’anima) dalla quale partivano, piú o meno consapevolmente i seguaci di quella tendenza. Cosí egli ammonisce ancora l’Alamanni essere impossibile la comunione spirituale, nella quale gli uomini diventano «ipsius Christi spiritus et virtutis participes», senza quella sostanziale; ed essere grave errore negare la presenza del «corpus substantiale Christi» nella Eucaristia con la implicita negazione di ogni realtà storica del Cristo che è capo della Chiesa, al posto del quale verrebbe posto un puro spirito. L’interpretazione letterale difesa dall’Alamanni, secondo la quale Cristo istituendo la Cena diede ai discepoli solo pane e vino, conferendo ad essi un significato simbolico, è per il Beza vero e proprio anabattismo: e, intendendo il termine nel significato generico che noi abbiamo adottato e che era quello della controversia del secolo XVI, questo giudizio si può senz’altro accettare. L’interpretazione giovannea dell’Alamanni viene confutata alla stessa maniera: valida tutt’al piú come argomento contro cattolici e luterani, non può valere contro la dottrina calvinista intermedia fra quella zwingliana e quella luterana. La dottrina onde la Cena è una commemorazione dei beneficî di Cristo è vera, ma incompleta: occorre aggiungere che è anche fondamento

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dei beneficî stessi. «Io ti parlo in nome di Dio, dal quale, se pure indegnamente, ho avuto il mio ministero e l’autorità di parlare per illustrare e annunciare la parola divina: ascoltami dunque – conclude il Beza – e cerca di apprendere la verità e abbandona la tua ostinazione». – «Si discipulum te non doctorem praestiteris, recte feceris...» – «Altrimenti, vedrai che avrai nociuto, piú che a tutti gli altri, a te a ai tuoi seguaci, se ve ne sono».

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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Un seguace dell’Ochino e di Lelio Sozzini a Zurigo (Anton Mario Besozzi), e il suo processo.

Dopo l’espulsione dell’Ochino, in Isvizzera non rimanevano ormai che Basilea e i Grigioni, dove gli eretici si potessero fermare e ritrovare. Con maggiore libertà di movimento forse nei Grigioni, con maggiore prudenza e cautela a Basilea: ma quivi, se l’attività ereticale, quando continuava, era spesso tortuosa come accade delle attività clandestine, c’era maggiore possibilità di studio per le persone di cultura e maggiore possibilità di guadagno per i commercianti. Quivi si rifugia un altro italiano, espulso da Zurigo per opinioni ereticali, e proveniente dalla comunità locarnese: il commerciante Antonio Mario Besozzi, probabil mente di nobile famiglia milanese. Fin dal 1546 egli era stato amico del Beccaria, il capo della comunità locarnese, e del professore zurighese Pellikan737 , ed aveva probabilmente servito da intermediario fra i due, nei suoi viaggi d’affari. Era il Besozzi a portare al Beccaria i libri nuovi che uscivano in terra riformata. Era stato amministratore del Conte di Masserano738 , che cercò di proteggerlo quando, fra i primi, fu colpito da un decreto di espulsione da Locarno, già nel 1553. La protezione non dovette essere molto 737 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., I, p.173 sui rapporti dei Locarnesi con Milano; cfr. Chabod, Per la storia cit., p. 118, nota 5. Il Besozzi era anche in buoni rapporti con Paolo Gaddi, pastore della chiesa riformata di Cremona (cfr. Chabod, Per la storia cit., p.149, nota 6, p.169, nota I); Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., p. 334 (P. Gaddi al Bullinger, da Chiavenna, 28 ottobre 1553). 738 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., p. 266.

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efficace, poiché nello stesso anno il Besozzi si trovava a Chiavenna, dove si dedicava fra l’altro a tradurre in latino per il Bullinger la prefazione che il Vergerio aveva scritto per la edizione italiana del suo De coena domini739 . O la possibilità di movimento e l’essersi presto messo in contatto col Vergerio e col Bullinger, o particolari qualità di coraggio e di intraprendenza, fecero del Besozzi il rappresentante dei locarnesi presso il Bullinger e presso i cantoni protestanti. Cosí egli presenta il primo messaggio dei locarnesi ai cantoni protestanti, il 31 marzo 1554, e nel maggio viene nominato loro plenipotenziario ufficiale, – e ha molto da fare per dimostrare che fra i locarnesi non c’è traccia di anabattismo –: il Bullinger lo presenta come ben conosciuto e stimato membro della chiesa locarnese, che si è stabilito in terra protestante con la nobile e fedele moglie (una Orelli), perché è stato scacciato prima degli altri per la sua attività in favore della fede740 . Quando è necessario, il Bullinger accompagna personalmente il Besozzi dal borgomastro di Zurigo, per fargli dare consigli sulla tattica da seguire in favore dei suoi concittadini. Ma il centro del Besozzi rimane Chiavenna, dove si trova nel luglio, insieme all’Ochino di ritorno dall’Inghilterra741 . Spinti dalla necessità di mostrare che non erano né anabattisti, né monache e frati scappati dai conventi, gente che non meritava l’interesse dei cantoni evangelici, come si andava già dicendo a Zurigo e altrove, e consigliati dal Besozzi, i locarnesi protestanti fanno battezzare pubblicamente i nuovi nati da un ministro riformato, e poi fanno una aperta e pubblica manifestazione di fede, provocando un rincrudimento della persecuzione. Le famiglie riformate cominciano ad ab739

Ibid. p. 273; Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., I, p.

328. 740 741

Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., p. 294. Ibid., p. 296.

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bandonare Locarno: ed è ancora il Besozzi a preoccuparsi delle loro sostanze, che si son dovute lasciare in patria, e della loro vita stessa: si era alla fine di novembre del 1554, e nessuna città voleva o poteva offrire asilo ai profughi; solo il Mainardi riuscí a far offrire loro un’ospitalità non definitiva da Chiavenna. E mentre comunicava la proposta del Mainardi, il Besozzi si faceva nominare curatore dei beni che i Locarnesi non avevano potuto portare con sé, per evitare speculazioni ed abusi742 . Nell’estate del 1557 venne ad abitare anch’egli a Zurigo, insieme agli altri suoi concittadini. Si uní con altri tre di essi, e si mise ad esercitare il commercio in spezierie, stoffe, sete; piú tardi aveva organizzato una fabbrica di velluto, e sembra anche che prestasse denaro, e che accuse sorte contro di lui a questo proposito lo mettessero in cattiva luce. Ma nel 1561 doveva avere pur sempre una certa influenza e godere di una certa stima, se venne nominato con altri due a commissario della comunità locarnese per giudicare tre persone turbolente di essa743 . Come gli altri italiani, amava le discussioni di argomenti religiosi, e probabilmente doveva essersi convinto di molte delle idee dell’Ochino, o che le avesse raccolte dalla viva voce, o che le avesse tratte dai Triginta Dialogi. Subito dopo l’espulsione dell’Ochino, fu proprio il Besozzi a preoccupare le autorità civili ed ecclesiastiche di Zurigo, che finirono con l’espellerlo. Il suo caso è interessante, non solo perché mostra ancora una volta lo spirito aggressivo del quale erano animati i ginevrini, che non esitavano mai a denunciare un eretico, e a sosteneIbid., pp. 398, 439; II, p. 25. Ibid, pp. 156, 164. Intanto era sempre rimasto in buoni rapporti con la famiglia dei Salis di Coira, e col Mainardi. Un giovane dei Salis era a pensione presso di lui: Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., II, pp. 82, 139, 147 (lettere dal 1558 al 1559). 742

743

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re spese e fatiche per farlo condannare il che giustifica in qualche modo la tortuosità del procedere di questi, e la loro prassi «nicodemitica», ma anche perché ci fornisce una testimonianza non troppo limitata dell’atteggiarsi dell’eresia fuori degli ambienti strettamente umanistici e teologici. Come la denuncia dei Dialoghi dell’Ochino, anche quella dei ragionamenti del Besozzi ebbe infatti occasione da una discussione fra mercanti, durante il pranzo, a una fiera. Alla fiera d’autunno di Zurzach e, del 1564, il Besozzi aveva incontrato un mercante fiorentino, Michele Pulliano, cittadino di Strasburgo; il discorso era caduto sulla dottrina religiosa, per la quale probabilmente anche il Pulliano aveva abbandonato la sua patria. E i due italiani avevano cominciato a discutere il dogma del peccato ereditario. Ci furono alcuni ascoltatori, che pure non conoscendo molto l’italiano, credettero di poter dire che il Besozzi aveva messo in dubbio che fosse impossibile all’uomo di adempiere la legge divina, che una mediazione fra l’uomo e Dio fosse necessaria, che ci fosse realmente una dannazione all’inferno come la presentava la dottrina tradizionale, e infine anche che si potesse parlare dell’eternità della natura divina di Cristo, il che equivaleva alla negazione della Trinità. Il Besozzi avrebbe detto addirittura che noi non siamo nati dal seme d’Adamo, non siamo concepiti nel peccato, e che possiamo adempiere con le sole nostre forze alla legge morale. E quando gli fu obiettato che le sue erano dottrine condannabili, che gli avrebbero attirata una punizione, egli replicò che solo giudici ingiusti avrebbero potuto condannarlo, perché quel che diceva era vero. I due italiani si conoscevano da tempo, ma le loro relazioni erano rimaste di affari, benché solessero spesso sedere a mensa insieme quando si incontravano alla fiera di Zurzach, e avessero spesso, prima o dopo del momento culminante della fiera, discusso di religione, sempre per iniziativa

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del Besozzi: e discutevano sempre nella loro lingua, riferendosi alla Sacra Scrittura744 . Quando il Besozzi aveva dichiarato che il peccato d’Adamo non si era trasmesso agli altri uomini di generazione in generazione, il Pulliano gli aveva risposto citando il passo di san Paolo sui due uomini che avevano l’uno portato il peccato, l’altro la grazia sulla terra. Ma il locarnese aveva rifiutato l’argomentazione, e il discorso era passato all’altro argomento, sulla legge divina: se ci è stata annunciata, e se ci è dato l’obbligo di ubbidirle, è perché noi possiamo adempiere a questo obbligo; altrimenti Dio non ce l’avrebbe proposta. «Dio è buono e giusto, non ingiusto come lo volete voi». «Dio è buono e giusto, ma non alla maniera che voi l’immaginate –, rispondeva il Pulliano, – perché è vero che noi uomini non siamo in grado di adempiere alla legge che Dio ci ha dato, ma egli ha mandato Cristo per pagare i nostri peccati col suo sacrificio. E voi, Besozzi, potete dire di avere del tutto adempiuto alla legge?» «No, perché sono troppo uomo e debole. Ma ci sono altri, che l’hanno adempiuta, e che possono adempierla, e non soltanto Cristo». «Quali? Nominatemene qualcuno?» «Vo744 Zurigo, Staatsarchiv, Abt. A. 350. I. È la deposizione del Pulliano, trasmessa dalle autorità di Strasburgo. Il Meyer l’ha trascurata, come troppo favorevole; ma, usata con cautela, ci dà qualche notizia interessante e chiarisce bene la situazione: «Uff den Andern Articul, so anfohett, Si en freguentant, sagt Zeug, er habe mit Besutio kein ander frequentation, dan dz er jme zu Zurzach wahren abkaufft and sie wie gemeldt, ettwa über einen tisch khommen. Da habe sich wol begeben, dass seith zwey oder dritthalb Jaren här derselb Besutius offtmals an Jne gerothen Jne mit der Religion angezepgfft alless and alweg Jn Italianischer sprach, wie dan ettwa geschicht, dass die kaufleuth ein tag, zwen, oder drey ehe der Marck angehet und vor Jren wahren ankommen, dz sie wenig geschefft and wol der weill haben, seyhen sie der heiligen geschrifft halben Jn Disputationes miteinander erwachen, sollichs aber an keinem andern Ende dan Jnn der Herberg zum schlussell zu Zurzach».

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lentieri: il profeta Zaccaria». E qui si sollevò una discussione sulla peccaminosità del profeta Zaccaria, sollevata dal Pulliano, per il quale egli era piú peccatore ancora di altri profeti, perché non aveva creduto all’Arcangelo Gabriele745 . Il Besozzi avrebbe addotto frivole ragioni, e 745 «Uff den dritten Articul, dessen Anfang Si un jour de mecretij deponiert Zeug wahr sein dass uff ein Mittwoch zwen tag vor dem letsten Zurzacher Jarmarck ettliche kauffleuth von Genff seins be halts einer von Ulm und ander, die er nit all kenne, auch Besutigen and Er Zeug zum schlüssell zu Zurzach an einem tisch über dem Jmbiss gesessenn unnd wír Besutius zuvor mehrmalen an Jne Zeug abordiert, alsso seye er jtz wider an Jne auss heilliger schrifft zu disputieren khommen (doch alles Jn Jrer muttersprach) unnd uff disse rede gefallen, dass er sagt, die sündt Adams were nit erblich und wir hetten die sündt von Adam nit ererbt, dagegen Er Zeug dass widerspiel bestritten, nemlich dz wir Adam här de generatione in generationem die sundt uff unnss geerbtt, dass wolt Besutius nit gestehn, begert Zeug solts Jme darthun unnd beweissen, da Er Zeug det spruch dess Apostels Pauli angezogen, dass durch Einen menschen (Adam) die sundt In die welt khommen unnd durch Einen menschen (Christum) die Gnad alsso unnd nit eben wie Jm Articul gesetzt, seyhen die wortt ergangen. Solche beweissung hab Besutius nit wellen annemmen sonder seyhe darvon uff die Materi vom gesatz gefallen, Unnd gesagt, Gott seyhe gutt unnd gerecht and nit ein sollicher, wie wir Jn dafür hielten, unnd bereden unss dz wir dass gesatz so er unss gebotten hatt nit solten erfüllen können. Dawider Er Zeug Gott hett unss dass gesatz gebotten wir köndten es aber nit erfüllen, allein Christus hette es erfülltt. Unnd aver dannach Gott gerecht und gutt und Christus hetts für sich nit bedörfft, sonnder für unss, oder von unnseret wegen erfült, dessen gehorsam nemme Gott von unnsern wegen zu bezalung unsern sünden an. Unnd avere Gott gutt unnd gerecht unnd nit wie er, Besutius, sagte, dass wir Jnne machten, Unnd hette er Zeug Jne Besutium darauff gefragt, aber dz gesatzt erfüllete oder erfüllen mechte, Sagte Besutius Nein, dan er aver zu vil ein mensch. Aber es weren wol andere, die es erfült hetten und mechten erfüllen dan eben allein Jhesus Christus Jnn ansehung, dass Gott dass gesatz Jn gemein ge-

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avrebbe addirittura rifiutato di accettare la testimonianza della Scrittura, dalla quale il Pulliano traeva la conclusione che Zaccaria aveva peccato di disubbidienza. Qui il fiorentino s’alzò da tavola, perché era tardi, e avvertí il Besozzi che le sue dottrine erano pericolose per chi le sosteneva: il che gli attirò male parole. Tornato a Strasburgo, il Pulliano chiese particolari sul Besozzi a un locarnese, Bartolomeo Verzasca, imballatore, che conosceva da una quindicina d’anni il Besozzi, e che non ne aveva mai sentito opinioni eretiche, e gli raccontò della discussione che aveva avuta746 . La cosa sarebbe forse rimasta ferma a questo punto; ma la notizia della discussione venne all’orecchio di un ginevrino, Nicolas Denis, detto Le Fex, il quale si mise subito in moto: andò alla stessa osteria «Zum Schlüssel» dove soleva pranzare il Besozzi, e portò il discorso sulla possibilità che ha l’uomo di fare il bene da solo senza l’aiuto della grazia divina747 . Il Besozzi disse qualcosa in questo senso, e il Le Fex l’accusò subito di essere servetiano, aggiungendo che se si fosse stati a Ginevra

botten. Daruff er Zeug an Jne begert, solt Jme ein sollichen der Jhr dass gesatz erfüllen megen, anzeigen unnd nennen, hett Besutius gesagt. Er wolts thun unnd Jme Zachariam den Propheten benanndt damit er understunde zu beweyssen, dass Zacharias dass gesatz erfült hette, Er Zeug Jme widerparth gehalten unnd gesagt, Zacharias were ein grosser sündet gewessen, dan ettlich andere Propheten». Cfr. I Cor. 15, 21; Lu. I, 11 sgg. (67 per il termine «profeta» usato per Zaccaria). (A cura di E. Bryner dello Staatsarchiv di Zurigo). 746 Il Verzasca ammetteva che il Besozzi, ch’egli conosceva da quindici anni, aveva parlato con lui di questioni religiose; ma sosteneva di non ricordarsi il contenuto di esse. Ricordava invece che il Pulliano gli aveva spesso parlato delle «seltzame opiniones» del Besozzi. La sua deposizione è unita a quella del Pulliano nella relazione degli strasburghesi. 747 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., p. 186.

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non avrebbe potuto parlare in quel modo748 . Al che il Besozzi replicò che se tale era l’uso, ben noto, dei ginevrini, esso non era diffuso dappertutto, e che se il Le Fex voleva venire a Zurigo egli l’avrebbe accolto cordialmente in casa sua. Il Le Fex promise d’andare a Zurigo, ma per denunciare il suo interlocutore il quale s’accontentò d’aggiungere che non aveva paura della denuncia. Una discussione, dunque, dove accanto all’interesse religioso entravano palesemente elementi personali, e come dovevano avvenirne di continuo in quei luoghi di ritrovo, specialmente fra gli irrequieti italiani. Ma questa volta non rimase senza conseguenze: il Le Fex parlò del Besozzi con due zurighesi, e la cosa venne portata davanti al Senato di Zurigo, per la tutela dell’onore della città. I due zurighesi furono tanto accaniti, che il Senato della città, alla fine del processo, dovette punirli in qualche modo. Probabilmente nel loro modo d’agire aveva avuto parte l’avversione verso i concorrenti italiani. Il Besozzi dichiara subito che gli altri non hanno capito il suo italiano: e i due zurighesi si appellano al Le Fex. Il Senato mette sotto sorveglianza i due accusatori e l’accusato, e invita il Senato di Ginevra a lasciar venire a Zurigo il Le Fex; questi viene accompagnato da un avvocato, presenta undici capi d’accusa, ed ottiene il permesso di andare a Strasburgo a raccogliere la testimonianza del Pulliano e del Verzasca, davanti a una commissione nominata dall’autorità strasburghese749 . I due ginevrini non poterono raccogliere quanto avevano sperato: il Verzasca si era anzi rifiutato di parlare del Besozzi con 748 Ibid., p. 187. Le testimonianze addotte dal Le Fex erano però incerte sul vero e preciso senso delle parole del Besozzi, che dunque avrà parlato in italiano anche col ginevrino. 749 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., pp. 188 e 189.

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loro, prima di esservi invitato dall’autorità, e anche davanti alla commissione, alla quale aveva dichiarato il voler dir tutto quel che sapeva per purgarsi di ogni sospetto, disse ben poco750 ; e il Pulliano disse di non ricordare quanto il Besozzi aveva detto delle questioni piú pericolose, limitandosi a raccontare la discussione sulla possibilità umana di fare il bene senza l’assistenza della grazia divina. Ma non si scoraggiarono, e raccolsero altre testimonianze a Ginevra, Zurzach, Yverdon, dove il Besozzi probabilmente s’era trovato per i suoi affari751 . Con questo materiale a disposizione, il Senato zurighese invitò il Besozzi a render conto delle sue idee: e, siccome questi non seppe spiegarsi chiaramente e cercò di sfuggire a una dichiarazione di fede esplicita, venne senz’altro imprigionato. Nel secondo interrogatorio, il Besozzi dichiarò che il suo italiano non era stato ben compreso da quei tedeschi e francesi, e citò tre testimoni a favore: ma le testimonianze di questi non ebbero nessuna efficacia, perché troppo favorevoli752 . Il Senato allora sottopose al Bullinger le testimonianze raccolte dai ginevrini, e il vecchio antistes vi trovò errori di ebraismo, pelagianesimo, e arianesimo, ma soprattutto dottrine derivate dai Triginta Dialogi dell’Ochino, e specialmente da quello sul peccato contro lo Spirito Santo e da quello sul peccato originale. Per conto suo e dei ministri, il Bullinger aggiunse che la chiesa zurighese sapeva da tempo che 750 Cfr. sopra; il Verzasca, locarnese anch’egli, di ceto inferiore al Besozzi («guetter fertiger», imballatore), che conosceva fin da prima dell’esilio dei Locarnesi, si mostra piú solidale con l’accusato che non il fiorentino-strasburghese Pulliano; ma anche questi, che non poteva smentire fatti noti, e sentiva in pericolo se stesso, come si vede chiaramente dall’insistenza sulla propria ortodossia, cerca di rendere il meno grave possibile la propria deposizione. 751 Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., p. 189. 752 Ibid., p. 190.

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il Besozzi soleva ospitare persone note come seguaci del Serveto e come negatrici della eterna divinità di Cristo. Non solo: ma che non ci si doveva accontentare di una semplice dichiarazione di ortodossia, perché i servetiani, i davidiani e simili specie di eretici erano tutti nicodemiti, quindi tanto piú pericolosi753 Il Besozzi era ormai condannato. Neppure l’intervento della moglie, che il Bullinger aveva una volta lodato per la sua nobiltà e fedeltà al marito, riuscí ad evitare l’espulsione. Ma probabilmente riuscí a far temperare la durezza della condanna, poiché Clara Orelli, nello scagionare il marito dall’accusa di usura che gli era stata fatta per sovrappiú, aveva ricordato la beneficenza da lui esercitata, adducendo testimonianze precise. Cosí il Besozzi fu espulso dalla città assieme alla moglie che aveva voluto assicurare il Senato della ortodossia del marito negata dalla chiesa, con argomenti cosí ingenui come 753 Ibid., pp. 192-93 e app., XXX, pp. 395 sgg.; p. 397: «die Servetaner, Davidianer and andere in glichen Säcter... lehrend. Dass man den glauben vor mengklichem zu bekennen nit schuldig sye, sondern er möge ein jeder denselbigen nach deren will and meynung richten, under deren Schirm er wonet». Queste testimonianze del Bullinger sulle conseguenze dei dialoghi dell’Ochino e sul «nicodemismo» degli eretici ci confermano quanto s’è detto piú sopra riguardo alle vere ragione della condanna e cacciata da Zurigo dell’Ochino; e quanto s’è andato via via accennando sul «nicodemismo» degli eretici. Cfr. in T. Lyon, The Theory of religious Liberty in England, 1603-1639, Cambridge 1937, app., pp. 235 sg., una citazione dall’opera di Edm. Jessop, antico anabattista inglese: A Dicovery of the Errors of the English Anabaptists,1623, dove si parla d’una sètta anabattista, «Family of Love» (anche dell’«Homo Novus»), che sosteneva anch’essa una dottrina analoga a quella dei nostri «nicodemiti»: non è il corpo che pecca, ma l’anima. Col corpo ci si può sottomettere a qualunque cosa corporea, anche ai culti «idolatrici», purché interiormente si rimanga «puri».

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quello dell’assidua lettura della Scrittura754 ; ma il termine per la partenza fu spostato alla Candelora del 1565, e fu loro concesso di ritornare in territorio zurighese purché per soli affari e per brevissimi soggiorni. Non era escluso neppure il ritorno a Zurigo, se si fosse data soddisfazione sufficiente. Ma la condanna pecuniaria, anche se consisteva solo nella rifusione di una parte delle spese del Le Fex, mentre i due accusatori zurighesi, che avevano caricato troppo le tinte a sfavore dell’italiano, avevano dovuto pagare da sé le proprie, aveva impoverito il Besozzi tanto da rendergli inutile ogni tentativo di risollevare la propria industria zurighese. Cosí egli dovette fermarsi a Basilea, dove il permesso di residenza non gli fu rifiutato, e anzi gli fu subito affidata un’accomandita, e seppe acquistarsi tanta stima da ottenere presto la cittadinanza. A Zurigo è molto probabile che il Besozzi fosse amico di Lelio Sozzini, e forse anche che ne conoscesse le vere idee, poiché fu lui che mandò la notizia della sua morte al nipote Fausto, permettendogli di andare a raccogliere le carte dello zio755 . A Basilea si trovò probabilmente in rapporto con Francesco Betti, e con gli ambienti universitari; abbiamo una sua lettera del 1566 al rettore dell’Università di Basilea, allora Teodoro Zwinger, dalla quale risulta che gli era stato promesso un certificato dell’Università, che lo «dichiarasse membro suo»756 . Ora egli insisteva perché la promessa gli fosse mantenuta asserendo che sperava di «vivere et morire buon svizzero e far mentire li temerari quali hanno detto ch’egli voleva tornare al papato». Si trovava a Lione, dove attendeva il filosofo aristoMeyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno cit., p. 195. La notizia risale alla Vita F. Socini del Przipkowski cit., e quindi probabilmente a Fausto Sozzi: ni stesso. 754 755

756 Basilea, Universitätsbibliothek, G2 II, 8, 46 sg. (copia), «Da Lijone alli 12 aprile del 66».

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telico Vimercati, che sarebbe poi stato nominato professore del Collegio Reale; il Besozzi sperava di far stampare a Basilea le opere filosofiche del suo conterraneo che era stato anche suo compagno ed amico «perché, – diceva, – mi è parso che la cosa sia molto necessaria, utile et honesta, che nel mio giudicio tutto è nulla senza la filosofia morale et naturale per fare uomini dotti». Il Besozzi doveva aver raggiunto una certa familiarità con il dotto svizzero, che del resto si interessava molto di cose italiane, e aveva apposto una sua prefazione all’edizione delle opere del Diacceto, poiché giunge a dargli consigli: «I’ vorrei che V. S. si desse tutto alla filosofia, e lassasse la sua lettione greca a uno mancho atto alla filosofia di quello che voi sete». Sembra che le sorti della filosofia a Basilea stessero a cuore a questo eretico e mercante, almeno a stare alle sue asserzioni; nella lettera insiste soprattutto sui vantaggi che verrebbero a Basilea e al Perna dall’edizione del corpus delle opere del filosofo milanese. Se forse in questa insistenza c’è più che altro la volontà di fare un favore ad un amico, sincero appare il Besozzi quando, dopo essere arrivato all’iperbole che l’edizione delle opere del Vimercati avrebbe procurato a Basilea almeno tanta fama quanto quella di Erasmo, se non più, protesta di rimettere il giudizio allo Zwinger: «io non faccio professione di sapere, ma sí bene d’amare la scienza, ed essere servitore delli Dotti, quandò sono veramente dotti filosofi, cioè cristiani, sendo la filosofia de’ Gentili con la cristiana congionta ne’ precetti morali». All’Università di Basilea il Besozzi era iscritto dal 1562, sotto il rettorato di Simon Sulzer757 . È probabile che conoscesse an757 Antonius Besutius Mediolanensis. Basilea, Universitätsbibliothek, Rationes Rectoratus (Universitätsarchiv K. 8.) ad annum. Il Church indica questi e altri volumi come appartenenti ai «city archives» di Basilea; ma ora si trovano nella Universitätsbibliothek (Church, I riformatori italiani cit., II, p. 234).

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che il Curione, amico di tutti gli italiani, specie se della tendenza del Besozzi. Ad ogni modo nella lettera non vi sono saluti né per il Curione, né per altri italiani abitanti a Basilea: invece c’è una protesta per la pubblicazione della Storia fiorentina del Machiavelli, in traduzione latina. Ci trovava cose che non tornavano ad onore degli svizzeri, come la storia della cattura di Lodovico il Moro, ecc.758 . Sembra dunque che il Besozzi dopo una residenza di due anni a Basilea pensasse già di stabilirsi a Lione: egli parla però di tre anni passati a Basilea, mentre tutt’al piú si può parlare di due anni e qualche mese. Di lui non abbiamo altre notizie. 758 Lett. cit., poscritto: «Sono sforzato agionger questi duo versi, acciò V. S. con li nostri S. cognoscano l’affetto dell’animo mio verso quella Repubblica. Ho visto stampare pochi libri in tre anni che io sono stato costí che mi siano piaciuti ma uno fra tutti mi è dispiaciuto qual hora pur stampa il nostro Perna che è l’hystoria del Machiavelli latina, essendovi dentro alcune cose quali non mi pare siano con honore de Sri Suuicere Sri ñri. divulgano maxime la presa del Moro ducha de Milano e cose simili». Si sente il vecchio lombardo in quest’uomo cosí fervido per l’onore svizzero!

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CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Il movimento eretico in Valtellina e nei Grigioni. G. Turriani, M. A. Florio, P. Leoni. La professione di fede di «Dario Senese» (Sozzini?). N. Camulio e Francesco Betti, e il tentativo di far rifugiare l’Ochino nei Grigioni. Mino Celsi nei Grigioni e a Basilea e la sua dottrina politica della tolleranza. Sue peregrinazioni in Polonia, e suo probabile ritorno alla Chiesa Cattolica.

Dopo che il Renato, diffusa la sua protesta per la condanna del Serveto, era ritornato nel silenzio, sembrava che il movimento eretico nei Grigioni fosse cessato: ma sotto l’apparente calma la comunità dei rigenerati e degli spiriti inquieti aveva continuato la sua vita, della quale si hanno ogni tanto segni sparsi, per qualche manifestazione che provocava l’intervento delle autorità e della quale ci è rimasto ricordo. Nel Bergell, nella Valtellina e nell’Engadina inferiore si diffondevano le idee della «libertà spirituale», e le opinioni che gli avversari giudicavano di indifferentismo morale derivato da una interpretazione fatalistica della dottrina predestinataria, identificandole tutte coi libertini: erroneamente, poiché si applicava a tutti il nome degli eretici contro i quali aveva polimizzato il Calvino759 . Piú vivace era il movimento in Valtellina, dove Girolamo Turriani a Piur, Michelangelo Florio760 a Soglio e Pietro Leoni a Chiavenna facevano rinascere le idee e l’attività del Renato. Essi ripetevano la dottrina che abbia759 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, p. 125 sgg. 760 Ibid., pp. 127; Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., II, pp. 277 (Mainardi al Bullingers, 18 febbraio 1561). È il padre del Florio famoso nella storia della cultura inglese.

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mo trovato in Giorgio Siculo e nei Dialoghi dell’Ochino: la rigenerazione e la elezione alla salvezza eterna non son dovute al beneficio della morte di Cristo, ma semplicemente e integralmente alla grazia divina: è stata solo la grazia divina che ha dichiarato il sacrificio di Cristo espiazione sufficiente per i nostri peccati e l’ha accettato «loco poenae nobis infligendae». Fra coloro che sostenevano queste idee c’erano anche i fratelli di Lelio Sozzini, che anzi dichiararono d’essere d’accordo con l’Ochino, allora da poco chiamato a Zurigo; infatti si risale al 1557 e al 1558761 . È caratteristico dell’ambiente di segreto e di sospetto nel quale vivevano quegli uomini, che ad avvisare l’Ochino di questo fosse non un ortodosso che credesse tale anche l’Ochino, ma uno dei capi del movimento eretico, il Florio. Siccome il Florio scrisse al Martire e non direttamente all’Ochino, si può avanzare la congettura che volesse a questa maniera denunciare i Sozzini e insieme l’Ochino; ma poiché la sua condotta posteriore, almeno finché rimase nei Grigioni, sembra fare escludere questa congettura, rimane piú plausibile l’altra, che il Florio, confidando nella naturale solidarietà fra gli italiani, intendesse avvertire l’Ochino a mezzo del Vermigli dell’imprudenza commessa dai giovani senesi, da poco emigrati, e forse ancora illusi di aver trovato quella libertà che cercavano. La congettura è convalidata dal fatto che l’Ochino condivideva realmente l’opinione che al Salis dichiarò di non tenere: infatti egli protesta di non aver «predicato che Cristo abbia meritato o soddisfatto»fosse bestemmia: ma poi esponendo la sua dottrina, si mantiene cosí sulle generali, che è evidente lo sforzo di soddisfare il rappresentante dell’ortodossia senza però contraddirsi: e in fondo è evidente che il be761 La lettera di Ochino a F. von Salis è del 4 giugno 1558 (pubbl, in Benrath, Bernardino Ochino cit., p. 306 [Appendice I, n. 20]).

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neficio di Cristo vale per lui solo per l’«accettazione» di Dio762 . E non erano solo i fratelli di Lelio, ma in genere tutti i nuovi arrivati dall’Italia, a portare nei Grigioni le loro idee antitrinitarie e anabattistiche, come dice il Trechsel763 , o, come forse è meglio dire, la loro tendenza a una religiosità cristiana puramente morale e sentimentale. Nel 1561 il Mainardi dovette radunare i ministri, i seniori e i diaconi della chiesa di Chiavenna, e proporre di nuovo una dichiarazione di unità e di fede, la cui sincerità fosse garantita dalla sottoscrizione individuale di una nuova professione di fede, nella quale si condannassero le dottrine «ariane» e «anabattiste». Il Mainardi era stato molto largo nell’accogliere nella sua comunità i profughi, e scrivendo al Bullinger dice d’esser stato rimproverato per questo, soprattutto per quanto riguarda coloro che «novi et incogniti» venivano dall’Italia, poiché molti infetti dei sopraddetti errori erano stati accolti come pii e fedeli cristiani764 . Dunque la prassi del «nicodemismo» veniva trasferita in terreno protestante. La opposizione al Mainardi, che sospettava anche di qualche altro pastore, perché voleva fare sottoscrivere la sua professione di fede anche dai pastori della contea di Chiavenna e della Valtellina, fu subito forte; e per gli stessi argomenti addotti, che sfuggono le questioni fondamentali, essa mostra già la sua ispirazione: o non si voleva firmare la nuova professione di fede perché già si era impegnati con la «Rhaetica», o si dichiarava di rifiutare le dottrine servetiane ma allo stesso tempo di non rico762 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, p. 127. 763 Ibid., p. 128. 764 Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., II, p. 298 (Fabricius al Bullinger, 18 maggio 1561, da Coira); cfr. ibid., Bullinger al Fabricius, al 16 maggio 1561; e p. 300 (Bullinger al Fabricius, 23 maggio) e p. 301 (Fabricius al Bullinger, 24 maggio).

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noscere altra formula impegnativa che il simbolo apostolico, e altro testo di fede che la Sacra Scrittura. Pietro Leoni raccolse le ragioni della opposizione sua e dei suoi amici al Mainardi, e le fece stampare a Milano765 . Ancora una volta l’eccessivo rigore del Mainardi e la sua ambizione di supremazia aveva destato una troppo larga opposizione. Il rappresentante dell’ortodossia zurighese, il Fabricius, deplora le discordie fra gli esuli, ed esprime il timore ch’essi possano avere il sopravvento sugli antichi abitatori, nelle chiese della Valtellina e di Chiavenna: «Quid futurum putas, si rerum potirentur? Certe everterent ecclesias sua ambitione»766 . Tanto più preoccupanti erano le discordie perché il legato pontificio appoggiato dall’ambasciatore milanese premeva in quei giorni perché venissero scacciati tutti gli emigrati italiani, venissero introdotti i gesuiti e si restaurasse la supremazia del cattolicesimo sulle altre confessioni, minacciando la chiusura dei confini, che avrebbe gravemente colpito la vita economica di quelle regioni. Radunato il sinodo a Chiavenna, i pastori trovarono il libro del Leoni cosí pericoloso, che si dovette dare ragione al Mainardi767 . Allora l’opposizione si rivolse alla chiesa di Zurigo, con un lungo questionario, redatto dal Florio, dove si tornavano a proporre le dottrine del semplice ritorno alla Scrittura, dell’indifferenza di fronte ai dogmi, che dovevano, 765 Ibid., p. 302 (Fabricius al Bullinger, 26 maggio 1561). Gli estratti, trascritti dal Gallizio e segnalati qui dallo Schiess ripetono i soliti motivi. Cfr. ibid., p. 316, Mainardi al Bullinger, 4 agosto 1561, dove il Mainardi sostiene che gli articoli di Pietro Leoni sono tratti da uno scritto di Camillo Renato (che non può essere quello che conosciamo, data la differenza del contenuto). 766 Fabricius al Bullinger, 12 maggio 1561, De Porta cit., I, 2, pp. 394 sgg.; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 129, nota 2; non riprodotta in Schiess. 767 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., pp. 131 sg., anche per quanto segue.

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specialmente quello della Trinità, essere adorati ma non interpretati in nessun modo, quindi neppure secondo la tradizione, della prevalenza della buona condotta morale sull’osservanza dei dogmi, e specialmente, anche qui, di quello della Trinità: è lecito scomunicare una persona altrimenti incensurabile, solo perché non crede nella Trinità? Ma i zurighesi, pur con molta moderazione, dettero torto al Florio e ai suoi amici. Quando, il 5 giugno, si venne alle strette, gli oppositori italiani si trincerarono dietro alla confessione retica, che già avevano sottoscritto, finché uno di essi, Ludovico Fieri, dichiarò imprudentemente che accettava la confessione della chiesa di Chiavenna «tribus exceptis: primo quod non credit Jesum Christum esse aeternum Dei filium; secundo esse patri aequalem; tertio esse creatorem coeli et terrae»; e ripeté che una persona che si comportasse moralmente e cristianamente non poteva essere scomunicata semplicemente per qualche idea particolare sulla Trinità: «An pro haeretico sit habendus quispiam ob simplicem errorem in articulo de Trinitate, quum alioquin esser probatissimus moribus ac maxima erga pauperes praeditus charitate?»768 . La reazione a questo ardimento fu la scomparsa di ogni scrupolo per la durezza e la insistenza del Mainardi, la scomunica del Fieri e del Leoni e infine la proibizione del libro di questi, pena la scomunica per chi ne fosse trovato in possesso. La pena del Fieri fu mitigata nel senso che fu ammesso alla predica, ri768 De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., pp. 395, 396, citando Scip. Lentulo, il quale, arrivato a dirigere la comunità di Chiavenna dopo la morte del Mainardi (31 luglio 1563) e un quadriennio di pastorato dello Zanchi, si mise subito a un’attività ordinatrice e disciplinatrice, raccogliendo una documentazione del movimento ereticale nei Grigioni (Responsio Orthodoxa pro edicto illustr. DD III Foederum Rhaetiae adversus haereticos promulgato, Genevae 1592, che non ho veduto).

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manendo escluso dalla comunione e dalla preghiera comune, e posto sotto una sorveglianza speciale affinché non cercasse di diffondere le sue dottrine. La dieta dei Grigioni condannò anch’essa il libro del Leoni: questi fu processato, e probabilmente scacciato dal paese. Il Fieri si recò in Boemia. La mentalità e le idee di quegli italiani che il Fabricio temeva avrebbero finito per sovvertire anche la chiesa di Chiavenna appaiono chiare e vivaci in uno scritto indirizzato ai «Ministri Seniori e Diaconi» di Chiavenna da un «Dario Senese», che probabilmente possiamo identificare con uno dei fratelli di Lelio ricordati nella lettera dell’Ochino al Fabricio769 . Dichiara ironicamente: «me 769 Scritto di Diario Senese presentato ai Ministri Seniori e Diaconi della Chiesa di Chiavenna, dove si trovò presenti tre altri Ministri cioè di Piur di Morbegno e di Tei. Cavato puntualmente dal suo originale et da la sua propria mano che restò nelle mani di m. Augustino. Zurigo, Zentralbibliothek, Simml Samml. Bd. 73. n. 37. È evidentemente fuori posto, perché segue a una lettera del Mainardi al Bullinger, del 4 agosto 1550, mentre i riferimenti ail’Alciato ai Gribaldi e al Biandrata mostrano trattarsi per lo meno della fine del decennio; mentre la riunione alla quale si allude nel titolo è probabilmente quella del 2 gennaio 1561(accennata a p. 214). Quanto alla identificazione di questo Dario con un fratello di Lelio, gli elementi per la congettura sono i seguenti: il Bullinger scrive al Fabricius nel 1563 (24 dicembre; Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., II, p. 476) «Darius et Camillus Laelius, Ariani hinc discessere, dicuntur et in Rhetiam profecti. Proinde vigilate» e, il 27 dicembre (ibid.) «Eijcite et Camillum et Darium». Siccome Camillo è certamente Camillo Sozzini è probabile che questo «Darius Laelius» sia l’altro Sozzini, Dario. Altrimenti quale sarebbe il secondo dei «Laelii fratres», indicati sempre al plurale, anche nella sopra citata lettera dell Ochino al Salis? Ma non si può accertare se questo fratello di Lelio Sozzini, anch’egli eretico, sia identico all’autore della nostra dichiarazione. La corrispondenza del Bullinger coi Grigioni (Schiess Bullingers Korrespondenz cit., II, pp. 216 sgg., 476, 480) ricorda un antitrinitario senese, Dario Scala. Il

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ne resto al quia», cioè son pronto a sottomettermi: ma questa sottomissione è condizionata a una dimostrazione espressa e manifestata del suo torto, sulla base della sola Scrittura. La sua opinione è ferma, e non è in arbitrio di uomo che viva né di lui stesso mutarla, né farà mai qualcosa contro coscienza. È di nuovo ironico contro gli avversari: «guardatte bene, guardatte bene che sotto ombra di fervore non vengasi al furore, con darmi subito dell’Eretico su la testa»770 . Gli argomenti degli avversari vengono chiamati «correggiuole» se sono dottrine: a quello della tradizione e del consenso universale oppone che non conta la moltitudine e la forza, e che la «mente de i piú» non è «la meglio»: «Il fatto non consiste in moltitudine; se la cosa andasse cosí, noi l’havressimo persa con i lutterani, i lutterani coi papisti, i papisti coi Turchi, i Turchi coi diavoli». E infine diventa sarcastico, nonostante l’avvertenza «avvertite che io non buffoneggio né rido», quando, protestando contro la termi-

Cantú, Gli eretici d Italia cit., II, p. 448 ricorda «Carlo e Camillo» Sozzini e poi, p. 451, «duoi nipoti» di Lelio Sozzini sospettati nel 1558, e detenuti nel 1560; egli non ricorda però Dario nella genealogia della famiglia Sozzini (ibid., p. 506) mentre altrove (p. 484) afferma «Risoluti antitrinitari furono i senesi Dario Soccino e i suoi fratelli». Il silenzio sul nome nel nostro documento potrebbe essere un riguardo pei membri della famiglia rimasti in Italia e per Lelio stesso. 770 Tutto il tono dell’inizio è sprezzante: «protesto inoltre... d’esser fuor uscito per la istessa caggione che molti e molti altri: dirò per il Christo. Né manco bramo che la sua verità abbia suo luoco che qualsivoglia altro. Sogiongo ancora, che per quanti segni d’amore e carità mi potesse mostrare tutta la universal chiesa del Christo, mai sarà per persuadermi che la mia salute le sia piú a cuore ed a petto che a me... Contra conscientia non son già mai né per dir né per fare; laonde se in questa parte la mia mente non sarà conforme alla verità ne avrete carità; lo dimostrarete ai frutti».

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nologia filosofica e teologica, dichiara che si deve lasciare il numero ternario agli «aritmetici», «le persone ovvero mascare (tutto è uno) al gran carnavale et i suppositi allo Ariosto»771 . Il «Christo crocifisso», cioè la imitazione di Cristo e la pietà pratica, era quel che importava a questa gente: e per allargarne il piú possibile la base, si tendeva all’eliminazione di tutto ciò che potesse riuscire incomprensibile o dubbioso: una semplificazione che diventava riduzione della fede a pura religiosità e a slancio mistico da una parte, e a pura moralità dall’altra, che cioè equivaleva alla dissoluzione della fede cristiana come si era venuta articolando e sistemando per secoli. La certezza della verità ispirata delle proprie idee, che è forte, si unisce a una certa spavalderia, che doveva destare piú che ogni altra cosa la diffidenza dei capi riformati: non cambierei idea, dice Dario, «avvegna che io sappesse che cento mille vescovi con un milion d’huomini appresso avesse dannata questa opinione». Dario si distingueva dall’Alciati, dal Gribaldi, dal Biandrata, per aver preso le difese dei quali era stato accusato di eresia: «non son lor fattura, non lor discepolo»; ma aveva avuto i primi dubbi da un’altra parte che non nomina: «non niego già, che non mi sia stata data occasione di vedere et pensare». La sua posizione era limitata alla ferma idea che Cristo dovesse esser concepito 771 «Ma rinunziando alli huomini tutti massimamente alla sapienza, questa è stulticia latina con tutti i lor terminazioni e novità di voci come ben ci amonisce Paolo; quanto a me prima vendo la essentia alli scolastici, overo a sum es est, – avertite che io non buffoneggio né rido –, la sustantia ad Aristotile, il num. Ternario alli arithmetici (questa voce dispiacque sino a Lutero) le ypostasi alli signori fisici (perdonatemi vi prego) le persone overo mascare (tutto è uno) al gran carnavale, et i Suppositi allo Ariosto, m’attacco semplicemente alla dottrina predicata da Christo, e dai (testo: di) discepoli suoi, non mi curando di saper o cercare altro che Christo crocifisso».

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minore del Padre: cioè qualcosa di analogo alle idee del Fieri, e in un certo senso dell’Ochino772 . Anche nella sua protesta ai pastori di Chiavenna ritorna il motivo comune agli italiani, che occorre discutere tutte le idee e non «fulminare e precipitosamente dare sententia tanto severa» di eresia quando si sente esporre un’opinione poco comune. In questo ambiente, del quale faceva parte anche Francesco Berti romano, fuggito dall’Italia assieme all’Aconcio, e in mal odore presso le chiese «ortodosse» di Lione, di Ginevra e di Zurigo, «religionis impurae causa», l’Ochino veniva considerato come un compagno di idee, e appena si seppe della sua condanna, si pensò a trovargli possibilità di vita per sé e per la famiglia proprio nei Grigioni. L’idea era venuta al mercante anabattista genovese Nicolò Camulio, che si trovava a Basilea di ritorno da Anversa, e che il 1° dicembre del 1563 scriveva al Turriani, e poi di nuovo il tre dello stesso mese 772 Ecco un esempio delle sue argomentazioni: Gio 6 (Joh. 6.38, Vulg. «quia descendi de coelo, non ut faciam voluntatem meam sed voluntatem eius, qui misit me», Diodati: «Perciocché io son disceso dal cielo non acciocché io faccia la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato»): Io son disceso dal cielo non per far la mia volontà, ma la volontà di colui, che m’ha mandato. Notate: qui s’intende pure della seconda persona venuta a far la volontà del Padre. (Giov. 20.17) Vattene ai miei fratelli, e di’ loro ch’io saglio al padre mio e padre vostro e allo Dio mio e Dio vostro. Tu ami la giustizia e vuoi male all’impietà perciò che il tuo Dio, o Dio, l’ha unto d’oglio di gioia molto piú che i tuoi fratelli (Salmo 45.7). Hor io non dubito, quantoche il mandare, comandare, il dar vita ad altri, dar poter di far ad altri, il dar possanza di dar vita eterna ad altri l’essere lo Dio e padre d’altri non sia cosa da maggiore cossí all’incontro l’essere mandato, l’ubedire, l’aver vita, il dar la vita ad altri: e finalmente l’aver Padre e Dio sopra di sé non sia de’ minori.

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al Turriani e al Florio in comune773 . Il Camulio era commosso della sventura dell’Ochino fino a dichiarare che sarebbe stato meno addolorato se il bando fosse capitato a lui stesso, e sperava che il vecchio senese avrebbe potuto trovare asilo nelle leghe retiche, dove c’era piú libertà religiosa: «Videbo nunc, an meorum Dominorum ac Patronum Rhetorum Regio erit omnino libera»; era convinto che anche questa volta le autorità politiche della Re773 Berna Stadtbibliothek, ms A. 93, 7. È una relazione che presenta tradotte in latino anche molte lettere scambiate fra gli eretici. Nel De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 543 il Pastore Tobia Eglin, riferendo tutta la storia delle discussioni e delle decisioni intorno al 1571, parla di lettere presentate da Giulio di Milano, che sono quelle qui usate e che vennero tradotte in latino da Scip. Lentulo (ibid., p. 544). La relazione può essere o dell’Eglin, o del Lentulo, come credo, poiché l’Eglin dopo avere accennato alle lettere dice che a quanto da esse risultava s’aggiungevano altre cose che il Lentulo aveva da dire contro il Turriani; e la relazione è in fondo tutt’un atto d’accusa contro il Turriani stesso (ibid.). Il Camulio è detto Genuensis nel ms bernese (fol. 35), che però parla anche di «Genuensis ecclesia» (fol. 49r). Il De Porta dice solo che era nummosissimus (ibid.), ma non dà particolari sulla sua patria. Il Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 306 (vedendo anche qui l’influenza del Castellione), dice il Camulio «gênois», fondandosi su una lettera dell’Englin al Bullinger (in Museum Helveticum cit., XVII, p. 106) che ripete quanto noi conosciamo dalla lettera del Camulio. Nei luoghi citati dal Buisson non si ha però alcun accenno alla patria del Camulio. Nel Galiffe, Le refuge italien cit., non c’è traccia di questo Camulio; e neppure negli studi di M. Rosi, La Riforma religiosa in Liguria e l’eretico umbro B. Barroccio, in «Atti Soc. Lig. St. Patria», XXIV (1809) pp. 555 sgg., e Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa romana, in «Memorie della R. Acc. Lincei», XXX (1898). Lo Schiess, Bullingers Kosrespondenz cit., III, p. 256 (cfr. p. 253 sulle sue ricchezze e gli aiuti dati agli eretici) lo chiama «genevensis» ma può esser differenza di lettura per «genuensis». Le sue lettere a pp. 46v-50v sgg. della relaz. citata.

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zia avrebbero offerto rifugio al profugo «religionis causa», ma raccomandava al Turriani e al Florio di aiutarlo, perché «ii, quos nostis», cioè i tigurini, lo perseguitavano fortemente; offriva il suo appoggio pecuniario per la residenza dell’Ochino a Chiavenna, come ne aveva ospitato a Basilea i figli; prometteva anche di venirsi a stabilire a Piur, se vi fosse venuto ad abitare l’Ochino, e faceva balenare doni al Florio se lo avesse assistito774 . I pastori zurighesi sono qui chiamati «papi», ai quali viene contrapposta la libertà retica nella quale anche Camillo Renato, perseguitato da nemici piú potenti che Ochino, può vivere tranquillo. Ricorre piú volte l’idea che se non sarà possibile avere tranquillità in Rezia occorrerà andare ad Anversa o a Lione, dove non v’è persecuzione, e dove molti amici spingono il Camulio a recarsi. Il tentativo non doveva riuscire, nonostante tutte le precauzioni del Camulio, che raccomandava agli amici di procurare in gran segreto un appoggio potente per l’Ochino, in modo di poter resistere alle eventuali pressioni dei ministri devoti alla chiesa zurighese, e faceva spargere la voce che l’Ochino si dirigesse non a Piur o a Soglio, ma in altra località, sulla via della quale avrebbe dovuto esser trattenuto, come per caso. Il Florio e il Turriani erano in. una posizione troppo difficile dopo gli avvenimenti dell’estate, e del resto la intenzione dell’Ochino era già trapelata, e i zurighesi ne venivano informati775 . 774 Ibid., c. 47v. A c. 50v (29 dicembre 1563) Camulio al Florio e al Turriani: «Diuturna consuetudo et necessitudo, quae mihi fuit cum D. Dario Scala senensi...» {cfr. Bainton, B. Ochino cit., Appendice, note 11, 20, pp. 180, 188 sgg.} 775 Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., II, p. 476, Bullinger al Fabricius, 24 dicembre 1564. Bernardino Ochino è stato scacciato anche da Basilea. Segue l’avvertimento già ricordato su Dario e Camillo; ivi, 27 dicembre, avverte che corte voce che Ochino s’avvii per i Grigioni: «hic se virum et fidelem Christi ministrum exhibeat, oder man wirt nit vil me uff im ha-

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Se anche si fosse cercato il potente appoggio, questo non si sarebbe facilmente trovato per un personaggio cosi famoso come l’Ochino, in una regione cosí vicina all’Italia ed, esposta alle pressioni del Ducato di Milano. Contemporaneamente a questo tentativo del Camulio per l’Ochino, un altro ne faceva un nipote, probabilmente, di Lelio Sozzini, che portava al Florio i Dialoghi dell’Ochino, e che si recava nei Grigioni per evitare la persecuzione dei «novi Pharisaei», e per vedere se c’era modo di fermarvisi in tranquillità; se fosse stato possibile, informa il Camulio, avrebbe condotto nei Grigioni anche Fausto e forse altri. Lione, Anversa, i Grigioni, la Polonia, la Moravia: in questa affannosa ricerca di un luogo dove poter vivere con quella libertà che per ogni altro allora era licenza e disordine, si esauriscono gran parte delle energie di questi esuli. Per questo prolungarsi nel tempo fra le sue montagne della vita di un gruppo eretico ben definito, la Valtellina rimane, come Basilea con ogni probabilità per la presenza del vecchio Curione, il centro ideale degli emigrati italiani del gruppo eretico. Da Basilea e dalla Valtellina partono italiani per l’Inghilterra, come l’Aconcio, per la Polonia, come il Biandrata, come l’Alciati; e quando il gruppo eretico è ridotto alle persone del Biandrata e di Fausto Sozzini, in Transilvania e in Polonia, i rapporti

ben»; il Bullinger informa anche la famiglia Salis, affinché provveda a evitare il pericolo. Forse il Camulio chiedendo il potente appoggio pensava ai Parravicini. A p. 479, i provvedimenti presi dal Fabricius per impedire che l’Ochino si stabilisse nei Grigioni (parla di un senex, ma non mi pare ci siano dubbi); p. 572, il Bullinger comunica che dell’Ochino non si sa piú nulla, e che Dario e Camillo sono nascosti a Costanza (7 gennaio 1564). Le lettere del Camulio vanno dal 1°, al 3, al 28 e al 29 dicembre. È nota la storia ulteriore dell’Ochino: la breve permanenza polacca e la morte in Moravia nel 1564.

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con la città di Erasmo e con la Valtellina sono rotti solo dalla fine naturale degli uomini rimasti a Basilea e dalla vittoria cattolica in Valtellina, narrata dal Cantú nel suo Sacro Macello; benché, dopo il 1571 e l’intervento di Scipione Lentulo, il movimento dei Grigioni avesse perduto ogni energia attiva. A Zurigo, in Valtellina, a Strasburgo, a Lione, troviamo tracce di Francesco Betti, gentiluomo romano, antico segretario del Marchese di Pescara – il figlio del governatore di Milano e nipote del famoso capitano, legato di Filippo II alle ultime sessioni del Concilio di Trento –: ma il suo centro rimane Basilea. Della vita di questo romano, scrittore elegantissimo a detta del Cinelli che ne voleva ristampare una traduzione da Galeno, e che ebbe una non breve polemica col famoso Muzio giustinopolitano, conosciamo pochi particolari. Fuggí dall’Italia nel 1557 d’accordo col tanto piú famoso Aconcio776 , partendo due mesi prima di questi e attendendolo a Basilea; probabilmente in seguito al rincrudimento dell’attività della Inquisizione di quell’anno. Ma già da tre anni aveva manifestato al suo signore, con il quale aveva a volte, a quanto egli stesso afferma, discusso di questioni di religione, lasciandolo anche nell’imbarazzo, il desiderio di abbandonarne il servizio. Benché egli parli della propria famiglia come potente e influente, non ne troviamo il nome negli elenchi del Jacovacci777 . Appena a Basilea, prende 776 Hassinger, Studien cit., p. 7. In un lavoro di Ch. O’Malley sull’Aconcio, che mi è stato comunicato in ms, ci sono alcune notizie anche sul Betti. 777 Le notizie che il Berti ci dà su di sé e sulla propria famiglia sono tutte nella sua Lettera di Francesco Berti Romano all’illustriss. et eccellentiss. S. Marchese di Pescara suo padrone ne la quale da muto a sua Eccellenza de la cagione perché licentiato sí sia dal suo servigio, Zurigo 1557, 16 ottobre. Se ne ha anche una seconda edizione, del 1589, Londra, dove nomina lo zio, capitano Marcello Pisciansanti. Il nome di questi si trova,

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a scrivere una lettera di giustificazione del suo operato e delle sue idee, analoga a quella dell’Ochino al Senato di Siena, e diretta al suo antico signore; e, pochi anni dopo, replica al Muzio che gli ha risposto, con un altro libretto polemico destinato a circolare in Italia come il primo, e camuffato nel titolo come uno scritto del Muzio stesso778 . In questi suoi scritti, vivaci e serrati, troviamo qualche nota personale, come quando descrive al suo antico signore i suoi dubbi e le sue esitazioni prima di compiere un passo dal quale lo distoglievano l’amore verso i parenti, e, piú, i doveri verso il grande personaggio di cui era stato segretario, o come quando riprende un motivo di polemica protestante e adduce la storia dei Valdesi a prova dell’esistenza di una tradizione apostolica non romana, e nel far questo non sa celare la sua meraviglia per questa storia italiana fino ad allora ignorata. Non mi sono deciso alla cieca, egli dice, o per umore malinconico: sapevo che non avrei trovato clima confacente alla mia salute, sapevo che abbandonavo uno zio che avevo sempre «per padre riverito e teneramente amato», sapevo che mi privavo «d’un gran numero di non men nobili e virtuosi, che dolci et cari amici, che ne le piú famose città d’Italia et altrove io m’haveva acquistati»779 ; ed è stato «oltremodo difficile et amaro» per la mia «sensualità», «il risolvermi a venir pellegrino et incognito a viver fra persone con le quali io non poteva sperare di dover facilmente contrarre di quell’amicitie»: ma soggiunge «non posso già negare di non haver con infinita mia con un rimando alle storie del Giovio, nei Repertori di famiglie di D. Jacovacci, t. V (Bibl. Vaticana, Ottob. Lat., 2552), foll. 870-72; invece manca il nome del Betti. 778 Risposta di M. Girolamo Mutio Iustinopolitano ad una lettera di Francesco Betti Romano... Cfr. Lauchert, Die italienischen literarischen Gegner Luthers cit., p. 662, nota. 779 Lettera, pp. 7, 13.

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soddisfattione trovato maggior libertà, non però di carne, ma di spirito...» E anche dopo molto tempo, quando, come non è illecito supporre, date le persone che frequentava, quella libertà spirituale che si godeva in terra protestante gli era dovuta sembrare meno larga che al principio, e mentre la insoddisfazione della coscienza permaneva e lo incalzava mostrandogli le sue debolezze, il Betti continuò a interessarsi delle cose italiane, come ci mostra una lettera di Mino Celsi del 1570, dove il senese gli racconta con molti particolari le cerimonie della sua nomina ad accademico intronato, e gli dà anche notizie dell’Accademia Fiorentina, ma, scusandosi delle cose scrittegli, che ora gli sembrano sciocche e vane, gli dice d’averlo fatto solo per soddisfare alle sue domande780 . E anche la sua ultima opera, la traduzione di Galeno, dove intende di mostrare quanta saggezza e virtú avevano gli antichi, i quali, pur dotati del solo lume naturale, «si mostrarono ripieni di virtú et giovevoli al mondo in tal guisa, che ancora in questa nostra età non men ricca di scienze, et di lume divino, che si sia stata alcuna delle passate, possono recar gran pro’ a chi gli legge» è dedicata agli italiani che non sanno il latino781 . 780 Basilea, Universitätsbibliothek, Fr. Gr, Ms I, 15, 10 maggio 1570. Sembra che il Celsi appartenesse all’Accademia dei Desiosi, dove aveva il nome di Gradito, e che questi entrassero tutti in quella degli Intronati: «i nomi nuovi [entrando in] santa Intronatesia ne punsero; rivolgendosi [...] in Fumoso, Lunatico, Acciutto, e altri simili...» Descrive l’insegna dei Desiosi (una vite che s’attorce a un mirto per salire in alto). Molto lacunosa. La lettera è stata riportata in parce e in traduz. latina, in Beyerlinck, Magnum Theatrum vitae humanae, Lugduni 1656, I, pp. 35 F-36 B. Forse F. Sozzini allude a lui parlando di un accademico Intronato «Deliro». Cfr. piú avanti. 781 Galeno da Pergamo, Del modo da conoscere et da medicare le proprie passioni dell’animo, Basilea 1587, p. 3.

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Vivace è anche il movimento col quale ricorda i Valdesi: «Che si sapeva egli avanti che Lutero cominciasse a predicare contro la romana Chiesa, che ci fossero in alcune valli et montagne di Piemonte numerosi popoli chiamati Valdesi, i quali avevano in abominatione le dottrine papistiche? E pur vi erano... Non leggiero esempio ci può esser questo delle memorie piú lontane»782 . L’argomento non è nuovo, specie nella controversia calvinista; ma per il Betti, che in Valtellina doveva aver conosciuto Scipione Lentulo o almeno sentito parlare di lui, e a Basilea aveva potuto avere notizie delle persecuzioni del Duca di Savoia contro i Valdesi, era certamente nuovo e sorprendente: «e pur vi erano». «Et quantunque non avessimo noi contezza alcuna de’ Valdesi, ne’ quali la vera Chiesa di Dio continuata fosse, egli non segue che per ciò non ci siano stati sempre alcuni, ne’ quali contmova ella sia stata»783 . Il Muzio si scandalizza: la Chiesa sapeva bene che c’erano questi eretici, e li aveva condannati. Ma il Betti non era un teologo, un ecclesiastico, anzi un uomo di lettere, e un uomo di mondo: e come tale era ancor piú meravigliato della ignoranza che ora scopriva in sé, a proposito di quei «numerosi popoli» che una persona colta, un uomo di corte, non avrebbe dovuto ignorare. Negli scritti del Betti non troviamo traccia positiva di eresia nel senso specifico che qui abbiamo adottato. La sua dottrina può dirsi ortodossa in senso riformato; tutt’al più si possono rilevare alcune formule come le seguenti: Insegnano i nostri che credere indubitatamente si debba, ch’Iddio sia vero e solo Creator e conservator del cielo, de la terra, et di tutte le cose che nell’universo mondo sono state, sono, e sa782 783

Risposta, pp. 449 sgg. Ibid., p. 450.

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ranno: e per dirlo brievemente, autor d’ogni bene. Insegnano che per questo si debba lui solo con tutto il cuore, con tutta la mente, et con tutte le forze nostre amare, riverire et adorare, et a lui solo ricorrere in tutti i nostri bisogni, tribulationi et affanni, aspettando da lui solo ogni aiuto, rimedio e conforto, senza riporre in altrui pur una minima speranza. E questo insegnano che far si debba in ispirito et verità, come il nostro Maestro Giesu Christo ci ha chiamato et espressamente insegnato... Insegnano che quelli che per ispetial gratia ricevono da Dio questo mirabil dono della fede, morendo al mondo, et a la carne, sono rigenerati in una nuova vita spirituale, e per lo Spirito Santo, che abita ne’ cuori loro, sono talmente infiammati de l’amor di Iddio, che d’altro piú non pensano che d’osservare la sua divina legge e di servirlo in tutti i modi possibili784 .

In queste formule la dottrina calvinistica ha un’accentuazione spiritualistica, che avvicina il Betti all’Ochino; e la distinzione fra Dio creatore al quale tutto dobbiamo, quindi anche la salvezza, e Cristo «maestro» potrebbe far pensare a un atteggiamento come quello del Curione. Ma andare oltre questo accenno sarebbe troppo arrischiato, tanto piú che il Betti ammette esplicitamente il magistrato cristiano; piuttosto si potrà qui parlare realmente di un seguace del Valdés, che per conto proprio non è arrivato alle conclusioni di un Ochino o di un Lelio Sozzini, rimanendo fermo al lato positivo della nuova fede, per esercitare liberamente la quale s’era deciso ad abbandonare la patria. Certo non era un temperamento di «nicodemita», perché la ragione della sua fuga era stata proprio la impossibilità di simulare una fede contraria alla sua, mentre prima di esser preso dalla nuova fede interveniva con indifferenza alle «cerimonie» della Chiesa: ma non era neppure un forte carattere religioso, se aveva potuto durare in quell’«inferno» per ben tre anni, solo 784

Lettera, pp. 30, 33.

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perché «districatosi d’un negozio, si trovava, quasi senza avedersene, in un altro avviluppato...»785 . Il Betti dunque non entrerebbe in questa storia se non lo incontrassimo sempre in rapporto con gli altri eretici italiani, e se un personaggio bene informato come Giulio da Milano non lo avesse annoverato fra i malpensanti786 . A Zurigo il Betti alloggia in casa dell’Ochino; a Basilea lo vediamo amico del Curione, che era stato a trovare un arino prima di prender la via dell’esilio; il Celsi, mentre gli scriveva, stava preparando il suo libro sulla tolleranza religiosa, che conteneva anche passi dell’Aconcio; sarà il Betti che farà incontrare Francesco Pucci e Fausto Sozzini a Basilea; il Camulio ricorda il Betti nelle sue lettere ai pastori di Valtellina: questo cumulo d’indizi giustifica a pieno il giudizio del sospettoso Giulio da Milano, e ci permette di considerare il Betti con piú attenzione. Purtroppo le notizie su di lui non sono molto abbondanti: sappiamo che nel 1565 s’è iscritto alla Università di Basilea, sotto il rettorato dello Zwinger, e possiamo supporre, da alcuni passi oscuri delle lettere del Camulio, che si occupasse di affari bancari. Una lettera del 1562 ce lo mostra ancora in rapporto col Wolf, che da Zurigo lo prega di far giungere a destinazione una sua lettera all’Aconcio; altre lettere ce lo mostrano in rapporto con il Marchese Bonifacio d’Oria, il quale gli scrive o gli Ibid., p. 23. Cfr. Ms Bern. A. 93.7 sopra cit., fol. 49r, in margine a una delle lettere del Turriani dove vien ricordato il Betti: «Hic Bettus male audit apud orthodoxas Ecclesias Lugdunensem, Genuensem (cfr. nota 34, p. 292: per Genevensem, il che può spiegare il genevensis per genuensis dello Schiess) et Tigurinam, religionis impurae causa». L’Eglin, in De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 544, ne fa addirittura un compagno d’eresia di Dario, riassumendo le lettere comunicate da Giulio da Milano: «Expectantur Darius et Bettus haeretici». 785 786

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comunica lettere di terzi attraverso Basilio Amerbach e Mino Celsi787 . Il Ramo lo ricorda nel suo elogio di Basilea, assieme a Silvestro Teglio, che era partito da Ginevra per non sottoscrivere la confessione di fede preparata contro gli antitrinitari nel 1567, e ce lo mostra come propagandista delle dottrine riformate in Italia788 Ci è stato conservato il suo epitaffio, che lo dice morto nel 1590, a 69 anni789 . Finora altro non si sa di questo amico di tanti eretici (credo anche estremamente improbabile che il Betti non abbia conosciuto il Castellione): ma questo poco può bastare a farcelo pensare come intento a una attività di collegamento, forse doppia: degli eretici fra loro, e degli emigrati con l’Italia. Ma il problema rimane aperto. Dopo le decisioni del 1571 non rimase a lungo nei Grigioni neppure il senese Mino Celsi790 , che nel sinodo di quell’anno s’era fatto notare per la difesa del principio della tolleranza, nel senso che l’autorità civile non ha il diritto di punire gli eretici, purché in tutto ciò che non è stretta materia dottrinale osservino le leggi civili e morali. Ci fu anche uno scambio di scritti fra i sostenitori della tesi calvinista e quelli della tesi eretica, al quale 787 Zurigo, Zentralbibliothek, Ms F. 41, fol. 224r, 28 agosto 1562, Hottingerische Sammlung; Basilea, Universitätsbibliothek, Ms Ki. Ar. 14, f. 33; G. II. 31 passim. Il Bock, Historia antitrinitariorum cit., II, p. 665, lo annovera fra i componenti di un gruppo di «criptosociniani» di Basilea: «Commemorantur aliquando in monumentis huius aevi Cryptosociniani Basileenses, ad quorum numerum ipse Bettus referendus erit». 788 Ramo, Oratio cit., «Francisco Betto et Sylvestro Teglio, vix Italia duos viros candidiores et verae pietatis amantiores apposuerit. Bettus patriam patrio sermone Christianismi sacris initiat....», in Gerdes, Specimen cit., p. 176. 789 Ibid., p. 177. 790 Buisson, Sébastien Castellion cit., II, pp. 308-13.

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presero parte Bartolomeo Silvio791 e il Celsi, da poco arrivato dall’Italia. Al Celsi o al Silvio possiamo attribuire una lunga lettera italiana, della quale ci è rimasta copia contemporanea fra gli atti di quei processi conservati a Berna; per lo stile propenderemmo ad attribuirla al Celsi, benché non ci sia il mezzo di confrontarla con qualche lettera del Silvio. La lettera è diretta a un Messer Nicolò, che potrebbe esser il Balbani, ministro della comunità italiana di Ginevra792 : e si riferisce certamente al sinodo del 1571, perché vi si parla del Turriani, che l’avversario dell’anonimo autore aveva ritenuto deposto, mentre era stato solo sospeso per un anno. L’autore della lettera osserva che se il Turriani fosse stato condannabile per la dottrina, gli avversari non avrebbero mancato di far valere un argomento cosí forte in loro favore. Se non lo hanno fatto, è segno che non ce n’era possibilità. Quel che è servito a far sospendere il ministro di Piur per un anno, è stata la sua affermazione che «non conviene ai cristiani l’uccider gli uomini per ragion di fede» travisata e resa insolente dagli avversari. Il Turriani non ha detto che sanguinari siano i magistrati che fanno uccidere eretici, ma che tali sono «quei ministri che senza far le debite, christiane ammonizioni accusano gli heretici al Magistrato»793 . Il Celsi fa propria questa affermazione, osservando fra l’altro che la questione era stata giudicata indifferente quanto alla fede fino a poco tempo prima. 791 Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., III, pp. XXXIII, e 252 sgg.; Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 134. 792 Ms Bern. A. 93. 11. (copia) Al Turriani si accenna come «mr. Gir°», ma non mi par dubbio che si tratti del Turriani. Nel fol. 1r, si parla della chiesa dell’avversario, la quale considera adiafora la questione della persecuzione degli eretici, ma poi l’ha sviluppata nel senso di considerarla necessaria. 793 Ibid., fol. 1r.

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Il Turriani viene difeso contro le accuse di avere accolto nella sua chiesa eretici scomunicati, perché le altre chiese non gli avevano comunicato l’atto compiuto, e perché egli non ha amministrato loro i Sacramenti, ma li ha aiutati a vivere, il che non sarebbe stato interdetto neppure da Calvino; di avere frequentato Michel Angelo Florio, perché la eresia di questi è stata conosciuta solo dopo la sua morte; e dalle accuse di eterodossia sulla Trinità, sul Battesimo, sulla Cena, e sulla persona di Cristo794 . Il Celsi si ferma soprattutto sulla accusa fatta al Turriani, di non avere introdotto nella sua comunità la «buona disciplina», cioè, probabilmente, se si ammette che la lettera sia diretta al Balbani, la disciplina ecclesiastica di Ginevra. Il Celsi infatti replica che la organizzazione che si potrebbe imputare al Turriani di non avere adottata rimane sempre quella di un’unica chiesa, e non è affatto la migliore: anzi, le migliori sono quelle di Basilea e di Zurigo, senza tanti collegi e concistori, diaconi e seniori, il che fa pensare proprio a Ginevra: E poiché voi mi tassate che si par bene ch’io non sono uso a veder chiese ben disciplinate e riformate: vi dico che avendone veduto il ritratto e non mi piacendo, son certissimo che non mi piacerebbe anco l’Archetipo. E se voi mi domandaste la cagione, vi direi ch’elle son tante... Intanto vi basterà sapere che la principal di tutte è ch’io non approvo la persecutione795 .

È d’accordo che non si devono approvare coloro che «trattengono le discussioni nelle chiese, né vogliono ricevere regola veruna, se non quella che proceda da la loro fantasia» e che un ministro non deve «lasciar abbondare ciascuno nel suo senso aprendo in questo modo la porta ad ogni corruzion di dottrina»: ma la disciplina non deve condurre alla persecuzione. D’altra parte, nella chiesa 794 795

Ibid., foll. 1v, 2r. Ibid.

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del Turriani non è stata mai introdotta nessuna dottrina cattiva. Tutto quel che ha detto l’avversario, non vale per se stesso, ma tende a un punto solo, da quegli sottaciuto: ma il Celsi lo dichiara. Ben veggo che voi mi volete ridurre a un punto, che è il vero, et unico centro di tutta questa circonferenza e proprio bersaglio di tutte queste saette. E questo è Camillo Sozzini, il qual voi dite che tutte queste chiese hanno informatione ch’egli è hereticissimo, privo di timor di Dio, e di vera religione. Ma s’egli era tale, i ministri di quelle chiese che n’hanno vera informatione, perché non l’accusarono a la sinodo come tale? E se la sinodo l’ha conosciuto per tale, perché non l’ha fatto brusciare?796 .

È pure gran cosa che fra tanti rumori sparsi per tanti anni non è venuto fuori altro che nel 1570 «fu uno in Valtlina che disse avergli udito dire già piú anni sono che il sangue di Cristo non ci aveva giovato piú che quello di Cipriano», imputazione falsissima agevolmente smentita per iscritto dal Sozzini. All’altra accusa, di avere discusso della Trinità con un tale verso il 1560, il Sozzini aveva risposto che era vero, ma che l’aveva fatto semplicemente per informazione dell’interlocutore, adducendo le ragioni di coloro che impugnavano quel dogma, ma senza farle proprie; e aveva presentato una professione di fede del tutto soddisfacente. Il Celsi disapprova la scomunica che fu data, nonostante tutto, al suo amico. E commenta: Hor qui so io, che voi mi spaccerete per temerario: che essendo un minimo ignorante, vogli contrapormi al giudizio d’una sinodo: perciò che voi liberamente me n’avvertite. Ma se a nostri dottori moderni è stato lecito contraporsi a concili antichi, non sol provinciali, ma ancora universali, dove è paruto loro, 796

Ibid., fol. 2v.

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che abbiano errato; perché non sarà lecito ad un altro cristiano, non dico il contraporsi, che non è officio da par mio, ma il dir modestamente il parer suo intorno a un decreto d’una sinodo?

E l’opinione che il Celsi ha da dire, è questa: non si può condannare una persona che ha avuto una volta un’opinione eretica, ma non l’ha mai predicata, mai insegnata, né mostrato indizio veruno di tenerla, e che poi, chiamata a render conto della sua fede, offre una confessione accettabile. «Cristo perdonava e non puniva l’error perdonato». Il Celsi dunque era un gentiluomo senese, che aveva appartenuto all’Accademia degli Intronati e che nell’ultimo periodo della indipendenza senese aveva coperto cariche pubbliche di qualche importanza797 . Nella tarda estate del 1545 gli era stata affidata una missione diplomatica, che per Firenze e Bologna lo condusse a Milano, dal Del Vasto. Si trattava di ottenere il «disloggio» delle milizie imperiali fermatesi a Siena, di affrettarlo e di ottenere la promessa che sarebbe stato compiuto per la via scelta dai senesi e senza che le milizie avessero piú a ripassare attraverso il territorio della repubblica798 . Il Celsi 797 Molte notizie sui suoi rapporti col Tolomei, col Benvoglienti e con la famiglia Bellanti amica dei Burlamacchi, in Schelhorn, Dissertatio Epistolaris de Mino Celso Senensi, Ulma 1748. Una sua lettera su questioni linguistiche al Tolomei è stata pubblicata da G. Boralevi, per Nozze Franco-Cave-Bondi, 26 giugno 1904 (Una lettera inedita di Mino Celsi senese al vescovo Claudio Tolomei) (Livorno 1904, Tip. R Giusti). Sulle ragioni della sua fuga, seguita all’arresto del Paleario e del Benvoglienti, cfr. la lettera del conte F. Monteaguto a Cosimo I, in Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 450 (31 luglio 1569),{e P. Piccolomini, Documenti fiorentini sull’eresia in Siena, in «Bollettino Senese di Storia Patria», XVII (1910), pp. 188-89}. 798 Siena, Archivio di Stato, Carteggi di Balia,198, c. 33 (27 agosto 1545); c. 35, 43 91 (31 agosto; prima udienza), 53 (2 settembre), 64. {I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe Senesi,

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ebbe varie udienze dal Del Vasto e anche dalla Marchesa, che l’assicurava della buona volontà del marito verso la Repubblica799 ; ma le truppe non si potevano muovere senza prima averle pagate, e il Marchese adducendo la mancanza di danaro, tergiversava800 . Alle insistenze del Celsi sui pericoli di disordini, il Vasto finí per dichiarare che se disordini vi sarebbero stati, la colpa sarebbe ricaduta sui Signori di Siena, che non facevano il loro dovere per le contribuzioni. Il Celsi si lasciò turbare dalla risposta, e cercò di convincere gli officiali di Balía che «la mala impressione intorno al governo era fatta in sorte, che s’elle havessero qua Demostene o Cicerone non persuaderebbero il contrario». Era il primo negozio di importanza che gli era stato affidato, e vedendo che perdeva tempo. e buttava denaro, il Celsi si affliggeva, e incolpava la sua disgrazia invece della sua evidente ingenuità, consolandosi con la constatazione che la stessa disavventura toccava all’ambasciatore lucchese801 . Ma alla fine, arrivati i denari al Del Vasto, i negoziati furono conclusi favorevolmente a Siena, che fu pregata a mezzo del Celsi di nominare un gonfaloniere di giustizia raccomandato dal Del Vasto802 . Dopo questa missione milanese, non si hanno altre notizie di incarichi diplomatici del Celsi; invece nel 1552 mentre si preparava l’ultima guer-

Pistoia 1649, I, pp. 567-68, Luca Contile, Il primo volume delle Lettere..., Venezia 1564, f. 95v, L. C. a M. C. Worms, 19 luglio 1545}. 799 Ibid., c. 86. 800 Ibid., c. 92. 801 Ibid, 198, c. 96, 12 settembre. 802 Ibid, 199, nn. 17, 24, 38, 59, 77, 96.

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ra di Siena, venne nominato commissario per Chiusi803 . Nel 1567 era «capitano» di Montalcino804 . Non si sa come si inducesse a seguire la nuova religione: probabilmente furono discussioni con Fausto Sozzini, o con altri conoscenti, che si preoccupavano di problemi religiosi805 . Del primo periodo della sua vita ci rimangono quattro scritti di argomento teologico, che sono probabilmente le minute di quattro lettere, dalle quali risulta un accurato studio della Bibbia e dei Padri, specie latini. Sono quattro epistole di argomento disparato: la prima, sulla voce ebrea «osanna», e intorno alla venuta di Cristo in Gerusalemme; la seconda su un problema di concordanza evangelica; la terza, sul paradiso terrestre e la quarta sull’interpretazione della «plenitudo temporis» secondo San Paolo806 . Queste epistole, che risalgono tutte al 1553, sono precedute da un’altra non teologica ma filosofica, sulla conoscenza di se stessi secondo Platone, che mostra come nell’Accademia degli Intronati continuassero i motivi del platonismo ficiniano. Ma anche da questa si può raccogliere qualche spunto religioso: il Celsi riafferma che la cognizione di se stesso, pur essendo la cosa piú importante per l’uomo, viene dopo «quella che l’uomo aver de’ del glorioso Iddio». Anche per il Celsi la cosa piú importante non è la prudenza umana, ma «la divina sapienza cioè la teologia... Percioche la teologia raIbid, Concistoro f. 2106, n. 64. Ibid, Carteggi di Balía, 226, 51. Questi documenti dell’Archivio di Stato Senese mi sono stati gentilmente comunicati dal Direttore Prof. C. Cecchini, che ringrazio vivamente. 805 Tutto avveniva nel piú gran segreto come osserva l’agente di Cosimo I, Monteaguto, nella lett. cit. sopra alla nota 39: «...la imboscata delli eretici, de quali potria forse essere ora molta la segretezza...» 806 Siena, Biblioteca Comunale, Ms D. VII. 13. 803 804

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pisce l’animo nostro sopra se stesso, e l’innalza e solleva infino a Dio»807 . La seconda lettera, sulla parola ebraica «Osanna», comincia, fra molti complimenti come tutte le altre, con una considerazione sull’importanza del conoscere le parole, o «voci»: «Non sapete voi che i termini della scienza sono voci? et che senza la cognizione de’ termini non s’acquisterebbe giamai scienza alcuna?... Il vero acquisto della scienza consiste nella buona cognizione»808 . Poi il Celsi espone filologicamente il significato della parola «Osanna», mostrando notevoli cognizioni di ebraico. La terza lettera risolve l’apparente contraddizione fra il passo dell’evangelo giovanneo che dice come Gesú desse lo Spirito Santo agli apostoli prima di risalire in cielo, mentre Luca, nel passo parallelo, parla di una promessa e non di un conferimento attuale dello Spirito. Il frate Ippolito al quale il Celsi ora scrive era rimasto perplesso a questo proposito, meditando questi passi il giorno della Pentecoste nella chiesa di Santo Spirito. Il Celsi lí per lí aveva detto di saper la soluzione del dubbio; ma poi per la sua cattiva memoria non era riuscito a ricordare quel che gli era sembrato di vedere durante la conversazione col frate; ma ora, «diverse cose leggendo com’era sua costume» aveva ritrovato il filo perduto. Che era la soluzione proposta da san Girolamo, per la quale, ricordando che le grazie e i doni dello Spirito Santo sono diversi, si deve ritenere che «il primo giorno della risurrezione, del quale parla Giovanni... diede Cristo a’ suoi apostoli non la totale pienezza dello Spirito Santo ma solamente la grazia di rimettere e ritenere i peccati», e co807 808

13 giugno 1553, cc. 16v,12r. Al m. Piet.° Gaietano amico dolcissimo, s.d., 17r, 18r,

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sí via; mentre nel giorno della Pentecoste, al quale allude Luca, «diede loro la pienezza di esso spirito»809 . Il problema sul quale il Celsi risponde nella quarta lettera, che è la terza teologica, diretta a Bernardo Salandi, è piú grave, perché il tema del Paradiso Terrestre involge la questione se il passo del Genesi dove di esso si parla vada inteso alla lettera, o se gli si possa «dare alcuno intendimento spirituale»810 . Evidentemente il Celsi qui si sentiva a disagio, perché cominciò con un elogio di sant’Agostino e delle sue opere che dichiara d’aver studiato a lungo, e continua citando Agostino a ogni pie’ sospinto, tanto riferendo le varie interpretazioni spirituali che esponendo quelle letterali. Quando viene a parlare della situazione geografica del Paradiso Terrestre, fa sfoggio di cultura filosofica e storica: cita Flavio Giuseppe, Platone, Alberto Groto nel commento ad Avicenna, Polibio, Eratostene811 . Conosceva anche Aristotele e molti «dottori talmudici», che citava nell’ultima lettera diretta ad Angelo Pasqualigo, sulla interpretazione che si deve dare all’espressione «pienezza dei tempi». Questa indicava per lui la settimana della passione di Cristo, annunciata dall’angelo Gabriele al profeta Daniele; e lo dimostrava con molto sfoggio di citazioni rabbiniche. In questa lettera troviamo qualche espressione che si potrebbe ritenere di sapore genericamente protestante, ma anche una espressa dichiarazione di ossequio alla santissima Chiesa Romana e quello ch’essa tiene per vero. La pienezza dei tempi è l’avvento della legge evangelica, cioè della giustizia dei secoli812 . 809 Al molto Rdo P. il p. frate Hypolito sempre osservando, cc. 24r sgg., s.d. 810 c. 28r. 811 cc. 31v sgg., 36r e v. 812 cc. 37r, 38r e v. parla della sua stanchezza per le continue guerre e la vanità dell’attività politica, e il desiderio di volger

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Se in queste lettere non si trova che una lievissima traccia di eterodossia, è pure evidente che l’interesse religioso cosí forte di questo laico era molto noto, poiché a lui si rivolgono diverse persone, e perfino un ecclesiastico, frate Ippolito, coi loro dubbi e le loro richieste di schiarimenti. Il che non poteva, a lungo andare, non attirare l’attenzione della Inquisizione: il che avvenne, o il Celsi pensò potesse avvenire al momento del processo del Paleario813 . Dunque uomo di larga cultura, umanistica e teologica, letteraria e filosofica, e uomo di mondo, interessato ai fatti politici, ai quali per lo meno da principio ha partecipato direttamente, benché già nel 1553 sia lieto di trovare nelle lettere d’un suo amico dubbi teologici piuttosto che notizie di guerre e di discordie tra principi, e richieste di consigli su cose spirituali piuttosto che sul modo di aumentare i propri beni e di avanzare nella vita degli onori e degli uffici. Grande fu la sua mortificazione e delusione («offensio») quando giunto in terra protestante dove sperava di riposare, udí quel che non avrebbe mai creduto: «evangelicas nostras ecclesias... non solum corporea poena haereticos mulctandos censuisse»814 . Le di-

l’animo tutto a Dio. c. 39r: «La smisurata carità di Dio, che senza alcun merito nostro anzi nel colmo de nostri demeriti degnò mandare l’unigenito suo figliuolo»; c. 43r: «Quantunque la santissima Chiesa Romana tenga (et cosí è) ch’egli venisse a rilassare non pure l’original peccato ma gli attuali ancora». {Pietre Costil, André Dudith cit.} 813 Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 450. 814 In Haereticis coercendis quatenus progredi liceat: Mini Celsi Senensis Disputatio, Christlingae [ma Basilea] 1577. Piú accessibile la seconda ediz. del 1584, De haereticis capitali supplicio non afficiendis, dalla quale cito, A Vb . Vedasi in Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 310, nota 2, e Costil, André Dudith cit., pp. 420-21, la storia della pubblicazione della contro-

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scussioni alle quali prese parte nei Grigioni, e delle quali riteniamo che la lettera su riportata sia un saggio, gli fecero formare il proposito di trattare a lungo e sistematicamente della questione, perché lo spirito di persecuzione si identificava, per lui come per l’Aconcio e per Fausto Sozzini, con lo spirito satanico che portava la discordia e il disordine nelle chiese riformate; e questo gli faceva pensare che l’unico modo di debellarlo fosse non l’irrigidimento della disciplina, ma la semplificazione di

versia fra il Benza e il Dudith, sull’argomento della tolleranza {: in questa controversia, Dudith difende per ragioni umanistiche contro Beza la tesi della tolleranza su fondamenti umanistici; le lettere di Beza e di Dudith sono state pubblicate in appendice alle due edizioni sopra citate del Celsi, all’insaputa degli autori. Il Dudith deve essere intervenuto molto presto, perché moltissimi esemplari dell’opera di Mino Celsi che ho potuto vedere sia nell’una che nell’altra edizione sono stati amputati della controversia Beza-Dudith. La preoccupazione dei mutilatori, di presentare l’opera come completa, tagliando dall’ultima pagina il margine inferiore in modo che non rimanesse traccia della parola di richiamo alla pagina seguente sembra indicare che si tratti di mutilazioni fatte già presso lo stampatore o presso i librai; il che è confermato anche dal modo come si presentano le legature. Una controversia analoga del Dudith col Beza fu pubblicata qualche decennio piú tardi, a parte, a cura di Jo. Rud. Lavater di Zurigo: Quaestio ubi vera et catholica Jesu Christi Ecclesia invenienda sit. Abs Andrea Dudithio... olim... per epistolam proposita..., Hanoviae 1610. La lettera di Dudith è datata 1569. L’esemplare dell’opera di Celsi conservata alla Biblioteca Nazionale di Roma (H. 10. B. 17) è completa, cioè comprende anche la controversia tra Dudith e Beza. Cfr. oltre a Costil (André Dudith cit.), C. Samuelfy, De vita et scriptis Andreae Dudithii Dissertatio historico-critica, in A. Dudithii... Orationes quingue in Concilio Tridentino habitae..., Halle 1743, pp. 101-4 (par. XLIV)}.

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essa, e la separazione netta dell’autorità civile da quella ecclesiastica815 . Quest’ultimo è il motivo originale del trattatello pubblicato dal Celsi in latino nel 1577, a Basilea, sotto la falsa data di Christlinga, con il titolo: Dissertatio in Haereticis coercendis quatenus progredi liceat ma preparato da ormai tre anni in quella stessa città, dove il Celsi si era recato probabilmente alla fine del 1571, e dove nel 1572 aveva pubblicato in agosto, come frutto dei suoi studi esoterici, un trattato di alchimia, e in settembre una nuova edizione del Nuovo Testamento latino francese del Castellione; era stato anche iscritto all’Università col titolo di «senensis secretarius»816 . A parte il motivo della separazione delle due autorità, il libro del Celsi è un ordinato repertorio di argomenti e di confutazioni, appoggiato su larghe citazioni dalle opere del Castellione e dell’Aconcio, molto chiaro e preciso, ma steso in un latino poco elegante817 . Oltre i soliti argomenti del Castellione e dell’Aconcio, del Brenz e del primo Lutero contro l’intervento della 815 In Haereticis coercendis, A Vb 161r, 180r; a pp. 219-20, il Celsi, che aveva sperimentato la disciplina della Controriforma rifiuta di chiamare «papi» Calvino e gli altri persecutori d’eretici in terra «riformata»; p. 221: cita il Brenz per la dottrina che il «magistrato» deve prender cura della religione; e cfr. 226r: il buon magistrato sorveglia i ministri e cura l’istruzione e l’educazione religiosa. «Ad haec pias synodos in urbe et Regno suo habere curato, in quibus liberum cunctis sententiam dicendi sit arbitrium, non autem papistico more praeiudiciis agatur...» Per la separazione fra autorità civile e autorità ecclesiastica si appoggia a citazioni da W. Musculus e dall’Aconcio; p. 125r giustifica la condanna di V. Gentile con la sua disubbidienza alla legge di Berna. 816 Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 308, nota 5; p. 360, num. 10; p. 308, nota 4. 817 Ibid., p. 312, nota 1.

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violenza e della coazione dell’autorità laica nelle questioni spirituali, che con sole armi spirituali debbono essere dibattute, il Celsi, con spirito pratico, osserva che non c’è nessuna legge che possa permettere all’autorità laica di punire l’eretico che abbia fatto professione di ortodossia. L’autorità civile non può intervenire nel segreto delle coscienze. Quindi l’autorità ecclesiastica deve procedere da sola, e può arrivare fino alla scomunica, ma non deve oltrepassare questo limite con la denuncia dell’eretico all’autorità politica. L’eretico porta, se mai, il disordine soltanto nella Chiesa, non nella società civile, che dell’eresia in quanto tale si deve disinteressare. Non che l’autorità civile si debba disinteressare della religione: anzi, essa deve aiutare la chiesa, in primo luogo sorvegliandone i ministri, e poi curandone la preparazione ed educazione religiosa. Inoltre tocca all’autorità politica curare che nel territorio a lei sottomesso si tengano «pii concilî», nei quali «liberum cunctis sententiam dicendi sit arbitrium, non autem papistico more praeiudiciis agatur...»818 . Questo spiega la fortuna che l’opera del Celsi ebbe, non solo subito, tanto che nel 1584 se ne fece una nuova edizione, ma anche dopo cent’anni circa, in Germania, dove venne riesumata dal medico Zwicker per rafforzare le tendenze erastiane819 . Ibid., nota 2. Henoticum Christianorum seu disputationis Mini Celsi Senensis: Quatenus in haereticis... lemmata potissima... recensita a D.[aniele] Z.[wickero]..., Amstelodami 1662. Nell’anno precedente lo stesso scritto era uscito in olandese: Vereeningsschrift der Christenen, ofte de voorustellingen der disputatie Mini Celsi van Sene, Amsterdam 1661. L’Henoticum si trova alla Bibl. Angelica di Roma. Cfr. J. C. van Slee, De Geschiedenis van het Socinianisme in de Nederlanden, Haarlem 1914, p. 220, dove il nome del Celsi è scomparso, benché il suo scritto avesse ancora tanta forza sovversiva da attirar punizioni al riduttore e commentatore Daniele Zwicker, e al tipografo. 818 819

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Il Celsi non godette molto del soggiorno basileese: nel 1574 si trovava a Vienna, di dove scriveva a Teodoro Zwinger, dando notizie di sé e del la sua «dedozzione», che camminava «a lento passo, per molti impedimenti che lo attraversavano», «ma certo con non piccola sua soddisfazione»820 . Dallo storico Michele Bruto aveva avuto buone speranze per il suo «trattenimento», ma queste erano sfumate; dall’Italia non gli venivano né lettere né danari. Cosí il Celsi s’era acconciato ad accompagnare un giovane nobile tedesco, ma ora non lo poteva piú seguire, e chiedeva il certificato dell’Università di Basilea. Questo gli venne mandato a mezzo del medico imperiale Cratone, che abbiam visto amico anche della famiglia Sozzini conosciuta a Siena durante il suo viaggio in Italia; ma non dovette giovare molto, perché nel 1575 lo ritroviamo a Basilea, aiutato con molta attenzione e gentilezza dal Marchese d’Oria per mezzo di Basilio Amerbach. Era in rapporti col Berti, con il medico antitrinitario Marcello Squarcialupi da Piombino, e con la gentildonna Esther Colli821 . La sua situazione era re820 Basilea, Universitätsbibliothek, G2 II 8 (cfr. Buisson, Sébastien Castellion cit., p. 309, nota 2, su informazione privata), 30 gennaio 1574. 821 Ivi, G II 31, 3, 10 (dalla quale risulta di nuovo il rapporto col Betti), 28, 29; lett. cit. nella nota precedente per Esther Colli. Crato von Krafftheim a Th. Zwinger, 25 febbraio 1575, Basilea, Universitätsbibliothek, F. G. II, 8: lo Squarcialupi invoca una testimonianza scritta di Mino Celso per un affare di denaro con Cratone (n. 484). A Breslavia, Stadtbibliothek, Hs. R. [Collectio Redingeriana] I, 341, n. 30 si ha una lettera non datata (ma dalla seguente del 1° aprile 1585 si può ricostruire la data) dello Squarcialupi al Cratone: «quod iussisti de litteris ad Minoa mittendis, amicos monui»: si può forse pensare che al Cessi, cosí chiamato anche nelle lettere del Bonifacio, non si dovessero piú mandare lettere poiché era «infesto». Marcello Squarcialupi medico di Piombino, benché sia annoverato dal Sand e dal Book fra gli antitrinitarî, ci sembra piutto-

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sa piú difficile dal fatto che, memore degli uffici tenuti in patria e consapevole della propria cultura, egli non si adattava facilmente ad attività piú umili: evidentemente presso il conte di Ditz aveva avuto funzioni di segretario e di gentiluomo di compagnia; ma a Vienna sembra insistesse per ottenere qualche aiuto e qualche incarico dall’Imperatore, a mezzo del Cratone, e che d’altra parte rifiutasse d’insegnare la lingua italiana al figlio di questi. E il medico imperiale s’indignava delle pretese degli

sto un temperamento irrequieto, in cerca di fortuna. Il De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 508, lo ricorda partitante per l’opposizione nei Grigioni intorno al 1571. Nel 1565 aveva dedicato a Camillo Castiglione, senatore milanese, la sua Difesa della Peste. Dunque la sua partenza dall’Italia va messa in questi anni. Apparve subito come un «novus Academicus» (T. Eglin al Bullinger, 18 febbraio 1572, De porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 508, Schiess, Bullingers Korrespondenz cit., III, pp. 301-2) per questo suo epigramma: «Est liber Christus, est Rhetia, liber et hospes | Este procul vulpes, dura catena vale». Entrò subito in rapporto con lo Zwinger al quale scriveva da Piur nel 1571, protestando amicizia eterna ed inviando al Betti (Fr. Gr. II, 26 della Universitätsbibliothek, di Basilea, n. 389), Attorno al 1574 è in viaggio, e trasmette notizie da Trebitsch (ivi n. 391) attraverso Celso senese; cosí nel 1575-76, sempre con riferimenti al Celsi (nn. 392, 93, 94, 95, 96, 97, 98). Nel 1572 aveva anche scritto al Gwalther a Zurigo (Simml. Sammlung, Zentralbibliothek Bd, 125, n. 142, 18 febbraio). Era già stato a Zurigo. Si scusa di non aver saputo parlare latino: «Accedit Italorum commune malum, quod vigente florenteque per universam Europam idiomate Romanorum prisco nos tantum studium... aspernamur. Patria lingua maxime laudatur, cunctis arridet... quodve Tuscorum ferme longe sit latino facilior et locupletior... Neque ullum reperias in Italia qui familiariter latine dicentes ilico non subsannet...» E finisce col chieder d’esser saggiato non «in linguis» ma «in rebus ipsis». Riincontreremo lo Squarcialupi piú avanti, in Polonia e in Transilvania.

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italiani822 . Il senese, ad ogni modo, non restò a Basilea, e ritornò verso Vienna, poiché nel 1585 il Cratone ne scriveva di nuovo allo Zwinger: e questa volta la situazione era molto cambiata: «Minus est ferox et in nos saevit»823 , diceva il Cratone. E la ragione del cambiamento poteva stare in un ritorno al cattolicesimo, analogo a quello di tanti altri eretici della seconda generazione, proprio in quel penultimo decennio del secolo; il che trova una conferma indiretta nel fatto che nel febbraio dello stesso anno egli si faceva mandare le lettere all’indirizzo del Banco Franciotti di Roma824 . 822 Cratone a Zwinger, Vienna, 4 Non. Januarii 15 (73?) sulla situazione degli eretici. Ho già accennato all’ambiente del Cratone, piuttosto disposto all’indulgenza in questioni religiose. Sembra d’accordo con il Celsi: «Minoa tuum sapientiorem esse divina lege existimo» (ivi, n. 474); «Et Celsus profecto egregie miser est: Nec quomodo vel a me vel ab aliis iuvari possit in aula video» (n. 477, 22 giugno); «Minos... ad vos redit... Voluit... per me a Caesare adiumenta consequi...» XVI sextilis, senza data (n. 529), frammezzo ad altre del 1584 ma per la carta e la scrittura analoga a quelle di un decennio prima. {Tutte le lettere cit. in Fr. – Gr. II 8 della Universitätsbibliothek di Basilea}. 823 1° giugno 1585, n. 527. 824 Siena, Arch. Stato, Particolari Famiglie Senesi, Celsi, n. 3: «Spectabili viro domino Mino de Celsa de Senis ut fratri honorando». Potrebbe però darsi si trattasse d’altra persona. Va ricordato che nessuna delle due edizioni del libro sugli eretici è stata curata dal Celsi personalmente. {Ugurgieri, Le pompe Senesi cit., ricorda Mino Celsi, ricorda Ochino, poiché lo ritiene riconciliato con la chiesa cattolica, ma non ricorda né Lelio, né Fausto Sozzini}.

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CAPITOLO VENTISEIESIMO

Sopravvivenza del movimento eretico nei Grigioni nella seconda metà del Cinquecento: L. Fieri, G. e F. da Modena, Fr. Vacca da Bagnacavallo, B. da Serravalle, Camillo Sozzini, G. Bovio da Bologna. Fine del movimento eretico italiano nei Grigioni.

Il Florio e il Turriani erano in una situazione troppo difficile per potere offrire ospitalità all’Ochino, il cui caso aveva destato tanto scandalo, e per potergli trovare una potente protezione come quella che permetteva al Renato, se non di fare aperta propaganda delle sue idee, di vivere indisturbato pur professandole; invece avevano sempre la possibilità di assicurare, pur nei limiti delle proprie comunità, a Soglio e a Teglio, una certa tolleranza, che non giungeva all’ammissione ai Sacramenti, ma che permetteva di vivere senza esser perseguitati, a persone meno famose e pericolose, come il Camulio e i suoi amici. Era una resistenza passiva che non poteva durare a lungo; si diffondeva infatti nella Rezia l’impazienza dei capi ginevrini, basileesi, zurighesi per lo spirito inquieto di quegli italiani, del quale gli svizzeri non riuscivano a rendersi conto perché ne vedevano solo l’aspetto negativo, e non potevano intenderne l’empito di ispirazione mistica, che si rifaceva a correnti e motivi del tutto estranei allo spirito della Riforma protestante. La solidarietà umanistica e l’ammirazione per il sacrificio degli uomini che abbandonavano la ricca, la colta, la splendente Italia per le aspre montagne dei Grigioni, che lasciavano una vita tranquilla e piena di possibilità per vagare di città in città, cessavano a poco a poco, di fronte alla constatazione che a quegli italiani nessuna religione piaceva, dopo che quella «papistica» aveva incominciato ad

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esser loro spiacente825 . Offensive riuscivano soprattutto, oltre il gusto per le questioni spinose, le insistenti accuse di papismo ad ogni forma di disciplina e di organizzazione della Chiesa: accuse che diventavano sempre meno comprensibili man mano che ci si allontanava dal momento «eroico» della ribellione di Lutero e di Zwingli, e man mano che la scissione della Cristianità s’approfondiva, col solidificarsi delle chiese protestanti e con la ripresa della tradizione nella riforma e nella restaurazione cattoliche. Anche la prima generazione degli emigrati italiani andava scomparendo: negli anni dal 1562 al 1564 muoiono Lelio Sozzini, il Castellione, il Gribaldi, l’Ochino, i principali fra coloro che avevano iniziato la vita d’esilio nel 1542 e negli anni immediatamente seguenti. La cesura si sente soprattutto nel campo degli eretici, pei quali la morte interviene soltanto a evitare, come per il Castellione, o a concludere, come per l’Ochino, l’imprigionamento o la persecuzione che li scaccia di paese in paese: sembrava non esserci piú posto per loro nella storia d’Europa826 . Infatti mentre per uomini come il Vermigli e lo Zanchi o come il Vergerio, che erano entrati a far 825 Come diceva un italiano, il Lentulo (al Wolf, da Sondrio, 19 ottobre 1566, (De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 496) «quibus nulla religio placet, quando papistica coepit eis displicere». 826 Questa può essere, in sostanza anche la conclusione dell’agitata vita di Valentino Gentile, che nel 1566 era stato costretto ad abbandonare la Polonia, dove il partito calvinista aveva vinto contro i dissidenti nel 1565 (Dieta di Piotrków, e rinnovamento (1566) dell’editto di Parczew, dei 1564 con particolari clausole contro anabattisti e triteiti; Wotschke, Geschichte der Reformation cit., pp. 210 sgg.; Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 320 sgg., 327 sgg. Dopo un soggiorno in Moravia e in Austria, dove pare incontrasse alcuni degli anabattisti ivi rifugiati (Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 356), il Gentile era ritornato in Isvizzera, e pro-

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prio nel territorio bernese di Gex, dove forse aveva sperato di ritrovare il Gribaldi, morto nel 1564. Anche Calvino era morto nello stesso anno. Il Gentile credette forse di potere agire con maggiore libertà, e invitò tutti i teologi protestanti di Francia e Savoia a una discussione pubblica sulla Trinità, diffondendo un proclama di cui e rimasta copia a Berna (Stadtbibliothek, Ms Bern. 122, fol. 153ª) che riproduciamo perché contiene ancora il richiamo al Valla, benché già pubblicato nel Catalogus Codd. Mscr. Bibliothecae Bernensis del Sinner T 3, Berna 1772, pp. 516 sg. Domini Joannis Calvini olim Genevensis Ecclesiae episcopi, de Altissimo Deo et Dei Filio Jësu Christo dogmata [i corsivi sono miei]. Primo, asserit Altissimum Deum esse Christum. Secundo, asserit Dominum nostrum Jësum Christum esse Filium Dei Altissimi; non tamen simpliciter, hoc est, vere et proprie, sed (ut ipse loquitur) respectu personae. Tertio, negat Altissimum Deum et Patrem domini nostri Jësu Christi esse synonyma. His Calvini dogmatibus Valentinus Gentilis Italus sequentes protheses opposuit, quas frequenti senatui Gaiensi ultro obtulit, nihil metuens capiti periculum subire, nisi eas daris scripturae testimoniis adversus omnes adversarios defenderet. Gentilis protheses Calvinianis oppositae. Altissimus ille Deus, quem nemo unquam mortalium vidit, nec videri potest, non est λóγoς ille qui in plenitudine temporis apparuit in vera et naturali carne, in qua ab hominibus visus palpatus et contrectatus fuit; sed est verus proprius et naturalis Pater τo¨ υ λóγoυ incarnati J. Christi. Dominus noster J. C. est vere et proprie Filius Dei Altissimi absque ullo respecto personae. Quod nomen (teste doctissimo Valla) tam convenit Deo, quant bruto. Unus ille Altissimus, qui est sine ullo autore genitore capite principio et origine, et Pater Domini nostri Jësu Ch. sunt synonyma». V. Gentilis Italus evang.cae veritatis assertor. Naturalmente, invece della pubblica discussione, ebbe l’arresto; cercò di sfuggire alla condanna dichiarando di non aver impugnato la dottrina della Trinità in quanto tale, ma solo la

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parte delle chiese riformate, accettandone e difendendone la dottrina, gli ultimi anni di vita sono fecondi ancora di attività e di scritti, per gli eretici, anche quando sopravvivono al di là di questa cesura, gli ultimi anni sono di ripiegamento e di silenzio, se pure non inattivo, come per il Curione. Non che le comunità o i gruppi di Zurigo e di Basilea, specialmente, scompaiano del tutto; ma non ne abbiamo altro segno di vita che il passaggio di Fausto Sozzini e di Francesco Pucci a Basilea, e il processo del Besozzi a Zurigo, dove continuava a vivere il Betti. L’attività della prima generazione degli eretici è terminata, e comincia quella della seconda generazione, degli uomini che iniziano l’esilio intorno alla metà del sesto deceninterpretazione di essa data da Calvino. Ma all’accusa di «arianesimo» s’aggiunse quella di anabattismo, grave perché recenti sommosse avevano di nuovo fatto sentire questo movimento come un pericolo sociale (Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 366). Questa volta le insistenze del Beza per un procedimento severo trovarono eco nel pastore bernese Haller, consigliere di quella Signoria; e anche il Bullinger non mancò d’incitare i bernesi alla severità (Trechsel, ibid., pp. 361, 362, 363). Cosí il cosentino, che non volle in alcun modo abiurare, venne decapitato il 10 settembre 1566, dopo un processo di piú d’un mese. La reazione fu molto debole (s’è visto sopra quanto dirà, una decina d’anni dopo, il Celsi) in quanto alla questione della tolleranza; abbondanti furono invece le confutazioni teologiche degli ortodossi (Trechsel, ibid., pp. 373 sgg.) fra le quali notevoli quella del Simler (De aeterno Dei filio, Tiguri 1582,) e quella dello Zanchi (De Tribus Elohim, Heidelbergae 1589), che per la loro data mostrano il persistere delle idee antitrinitarie. Del resto il «triteismo» del Gribaldi e del Gentile stava perdendo la sua importanza di posizione radicale di fronte al diffondersi dell’«unitarismo» sociniano al quale anche il Biandrata andava accedendo: l’ammissione di tre Dei distinti e subordinati non soddisfaceva le esigenze mistiche e razionali come la dottrina di un solo Dio da una parte, e dell’uomo (Cristo) divinamente ispirato e maestro di religione e di vita morale dall’altra.

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nio del secolo: ma questa attività, ed ancor piú che quella della prima generazione, è cosa di individui isolati, dispersi in quelle regioni dove i primi avevano solo potuto pensare di stabilirsi, in Polonia, in Transilvania, in Inghilterra. Solo nei Grigioni continuiamo a trovare un gruppo di eretici italiani ancora per un decennio circa: sono i nuovi rifugiati dei quali il Mainardi si lamentava col Bullinger, ed altri ancora che emigrano un lustro circa piú tardi, e che troviamo raggruppati intorno a Michelangelo Florio e al Turriani. Nel 1563 era morto anche il Mainardi, e gli eretici avevano avuto un momento di tregua, perché era venuto a regger la chiesa di Chiavenna uno dei principali emigrati italiani ortodossi, il fervente calvinista Girolamo Zanchi, che nei Grigioni aveva pensato di trovare riposo e tranquillità dopo le dispute coi luterani di Strasburgo, dove era professore827 . In un colloquio col Camulio, lo Zanchi si era mostrato piú disposto del Mainardi alla tolleranza; e gli eretici dovevano sperare in maggiore mitezza da parte sua anche perché egli era genero del Curione. Ma gli eretici non ebbero la «libertà» che speravano, e lo Zanchi non trovò la tranquillità che cercava, proprio per la irrequietezza dei suoi italiani828 ; e dopo quattro anni egli abbandonava i Grigioni per una cattedra a Heidelberg, e gli succedeva il duro Scipione Lentulo, napoletano di patria, valdese di origine, ostilissimo agli eretici, contro i quali aveva già proceduto rigo827 De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 412. 828 Ibid., p. 421. L’opposizione allo Zanchi non era di carattere religioso. Il colloquio col Camulio, nel ms bernese già citato, fol. 48v., poscritto alla lettera del 13 dicembre 1563.

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rosamente a Monte presso Sondrio, dove da ultimo era predicatore829 . Accanto a nomi noti, come quello del Fieri, che era ritornato dalla Moravia e che insisteva nella sua opinione che Cristo era stato generato solo dallo Spirito e quindi era inferiore al Padre, e dell’Alciati, troviamo molti nomi nuovi, anche qui di uomini di ogni parte d’Italia: un Antonio da Padova, un Giovanni da Modena, un Francesco da Bagnacavallo, un Battista da Serravalle830 . L’Alciati aveva continuato a tenere corrispondenza coi Grigioni e forse anche col Piemonte dalla Moravia «ubi vespertiliones isti sua habent latibula»831 . Antonio da Padova scriveva anch’egli, negando «disertis verbis» che Cristo fosse Dio: viveva facendo il sarto, ma sapeva porre e svolgere le sue questioni con abilità, tanto da far sospettare che fosse ispirato dal Camulio. Giovanni da Modena venne processato nel 1567 perché sosteneva che i rigenerati non peccavano e non potevano in nessun modo peccare; chi peccava, non era per lui veramente rigenerato832 . Da principio s’era rifiutato di rispondere, ripetendo l’irritante accusa: mi trattate come l’Inquisizione Spagnola, o come i papisti. Poi, «anguillae instar», aveva cominciato con le ritrattazioni e con le formule ambigue; e quando gli fu chiesta risposta scritta e impegnativa a una serie di venti domande, dopo varie esitazioni, egli rifiutò di rispondere al collegio dei pastori soltanto, e si dovette ammetterlo alla disputa di fronte a tutta la comunità: ma non si presentò neppure alla disputa pubblica, e d’allora in poi non volle piú discutere. Evidentemen829 Sul Lentulo, Teofilo Gay, nella prefazione alla Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri... contro il popolo che chiamano valdese, Torre Pellice 1906. 830 Ms bernese cit. (A. 93. 7), fol. 2v. 831 Ibid., fol. 4r. 832 Ibid., fol. 5r e v.

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te in un primo momento aveva ritenuto di poter trarre la comunità dalla sua parte contro i pastori; poi aveva riflettuto esser meglio ritirarsi nel silenzio. Ma questo non gli giovò, perché se l’autorità non era riuscita a fargli esporre opinioni esplicitamente condannabili, poté farlo arrestare perché frequentava troppo un fabbro Salomone da molto tempo scomunicato per «arianismo». Ammonito solennemente davanti a tutta la comunità, non cessò d’insistere sulle sue idee: negava che la tentazione sia di per sé un peccato, e la considerava una «labes naturalis» che non può venire imputata a peccato in nessun modo833 . A questa maniera era evidentemente molto piú facile sostenere che un rigenerato non pecca, poiché tutto si riduceva all’estrinsecazione del peccato, e non si portava il giudizio nell’interno. Un’altra sua opinione, conseguente a questa, e che mostra il distacco completo di questi eretici dai riformati, era che le opere buone siano necessarie alla salute, «tanquam causas». Quando si è pervenuti alla perfezione, si possono fare le opere buone che conducono alla salvezza; la funzione della grazia sta nel condurci alla perfezione, ma non va oltre. È vero che anche i rigenerati pregano che sian loro rimessi i peccati: ma non perché realmente ne abbiano bisogno, bensí «animi quadam moderatione», per una certa gentilezza d’animo834 . Fu naturalmente scomunicato, ma poi riammesso per l’intervento del nobile Alessandro Trissino: ma continuò a esporre liberamente le sue idee, specialmente «in taberna cuiusdam Joannis testoris»835 . Anche nei Grigioni e nella storia di questi eretici troviamo molti tessitori, come nella storia di tutte le eresie e dei movimenti di ribellione fino alla rivoluzione industriale. Quando il modenese venne a morte, sempre fermo nelle Ibid., fol. 6v-8r. Ibid., fol. 9r. 835 Ibid., fol. 9v. 833 834

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sue idee, fu sepolto onoratamente dal Turriani, accompagnato da Bartolomeo Silvio e da Camillo Sozzini836 . Francesco Vacca da Bagnacavallo837 era giunto a Chiavenna accompagnato da un certo pittore Giovanni, e tutti e due si professavano scacciati di patria per la loro religione. Da Chiavenna il Vacca s’era recato a Piur, dove per qualche tempo era rimasto in casa del Camulio: ritornato a Chiavenna si manifestò «ariano», negando la divinità di Cristo e rifiutando ogni discussione e ogni dimostrazione anche solo scritturale, poiché aveva un’unzione «a qua de omnibus edoceretur», e se ne andò schernendo la comunità che lo scomunicava: se mi volete, va bene, se no, mandatemi via: «Quid ad me?» Si avviò probabilmente verso la Moravia, poiché ci è stata conservata una sua lettera a Camillo Sozzini, dove dava notizia di Nicolò Paruta, l’anabattista e «ariano» in casa del quale era morto l’Ochino, e del Fieri che ritornava dalla Transilvania, diceva che avrebbe passato tutto l’inverno a casa del Paruta stesso, e mandava saluti al Camulio838 . Questo focoso romagnolo aveva anche tentato di sovvertire realmente la chiesa riformata di Chiavenna, con un espediente che troviamo tentato anche dall’Alamanni a Lione, ma che non riusciva perché troppo trasparente, in modo che le autorità «ortodosse» impedivano che fosse messo in atto. Il bagnacavallese infatti aveva dichiarato ai ministri di Chiavenna che, benché ad ogni modo deciso ad abbandonare la regione, avrebbe spiegato piú chiaramente le sue vere opinioni, se gli fosse permesso di parlare di fronte a tutto il «popolo» della comunità. La caratteristica della sua proposta sta nella condizione che in questa adunanza pubblica di tutta la massa della popolazione riformata avessero diritto di parlare «omnes pauperes meIbid., fol. 11r. Ibid., fol. 22v. 838 Ibid., fol. 24r. 836 837

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chanici, sutores, sartores, et huiusmodi homines», poiché il Vacca non teneva in nessun conto «nobiles, medicos, doctores, et similes». L’antico contrasto fra poveri e ricchi accenna a trasformarsi in quello fra «mechanici» e «nobiles et doctores». Le speranze del Vacca furono frustrate, perché si convocò sí l’adunanza di tutti i fedeli, proprio come egli aveva richiesto, ma i ministri s’erano messi tutti d’accordo per impedire ad ogni modo che egli parlasse ed esponesse le sue dottrine; il collegio dei ministri si radunò prima dell’assemblea, e invitò davanti a sé il Vacca, per sentirne le ragioni; ma questi naturalmente, vedendo che non c’era nessuno del «popolo», rifiutò di parlare, e fu scomunicato839 . Camillo Sozzini, fratello di Lelio del quale ormai era conosciuto il vero carattere di «omnium prope haeresum foetidissima lerna»840 , era stato a Zurigo per qualche tempo, intorno al 1563 o 1564, ma ivi era stato subito riconosciuto come eretico perché abitava in casa di Antonio Mario Besozzi841 . L’autorità ufficiale aveva lasciato partire costui, ma i pastori non recedevano dalla loro certezza, fino a fare un indizio di colpa l’accettare la sua ospitalità; prima avevano avvertito i seniori della chiesa locarnese di tener lontano il Sozzini, affinché il sospetto non ricadesse su di loro, ma poi gli fecero comprendere ch’era meglio partire, per bocca del vecchio Bullinger che, avendolo un giorno incontrato per la strada, rifiutò di stringer la mano che quegli gli aveva porto, e gli disse in faccia: «Quia tu Dei Filium blasphemas, ego te horreo et abhorreo» e altre parole simili. Cosí il Sozzini se ne partí, senza bisogno di una particolare deliberazione dell’autorità civile. Il Lentulo, informato di tutto questo; Ibid. (marzo 1569). Ibid., fol. 24v. 841 R. Gwalther all’autore della relazione (Lentulo), 9 marzo 1571, ibid., e 25r. 839

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gli impedí di fissarsi a Chiavenna: e il Sozzini si recò a Piur, presso il Turriani, che l’accolse per sei anni in casa sua, in grandissima ed intima familiarità842 . Filippo Valentino da Modena era «eruditus», e aveva cominciato a diffondere le sue idee, ariane e anabattiste, ma poi, ammonito a Chiavenna, era andato a Piur, dove s’era sposato e s’era poi tenuto sempre tranquillo843 . Battista da Serravalle era «pessimus anabaptistarum choragus», che fu subito inquietato a Chiavenna, e si rifugiò anch’egli a Piur844 . Appoggio presso il Turriani trovò anche Battista Bovio bolognese845 , che proveniva da famiglia agiata, e in esilio era ridotto in tale povertà da dover esser mantenuto con otto soldi al giorno, versatigli dalla comunità. Da principio il Lentulo aveva albergato presso di sé il bolognese, che non proveniva direttamente dalla patria ma da Lione. Ma poi aveva dovuto allontanarlo, perché in una discussione con Ulisse Martinengo quegli aveva difeso il libero arbitrio e sostenuto opinioni erronee sul peccato e la rigenerazione. Invitato davanti al collegio dei pastori, il bolognese persiste nelle sue idee, e si lascia trasportare a invettive contro la chiesa di Ginevra, chiamandola sanguinaria e carnefice, rimproverando a Calvino la morte del Serveto. Altre informazioni facevano sapere che egli dissuadeva i conoscenti dal recarsi a Ginevra, e che frequentava «arcta familiaritate» gli eretici. Altre accuse mostrano che in qualche modo non doveva avere abbandonato le abitudini di quando era ricco a Bologna, se si poteva parlare di lui come gran bevitore e mangiatore, con scandalo degli evangelici, e, quel che piú bruciava, dei cattolici; queste informazioni evidentemente risalgono al periodo precedente all’arrivo a ChiaIbid. Ibid., fol. 25v. 844 Ibid. 845 Ibid., fol. 26r. 842 843

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venna o per lo meno all’ospitalità concessagli dal Lentulo e al sussidio della comunità, perché dicono anche che il Bovio, accusato a Chiavenna di non volere lavorare si era fatto notare per questo anche a Lione, rifiutando anche di fermarsi almeno in una libreria per qualche ora del giorno, per non dare scandalo. I ministri di Chiavenna decisero di togliergli il sussidio, e di esaminarne accuratamente le idee. Il Bovio parlò piú esplicitamente degli altri: credeva che gli Apostoli avessero tramandato, sempre in segreto, una dottrina arcana, della quale parlavano soltanto ai perfetti, e che consisteva in una particolare interpretazione dei misteri del Vecchio Testamento, non meglio identificata846 . Il Lentulo identifica questa dottrina con quella del Castellione, «in sacris scripturis esse quaedam recondita et nondum hominibus patefacta, sed patefacenda suo tempore ....»847 , che è certo interpretazione più vicina alle idee del Castellione che quelle in senso razionalistico; ma ci si può riferire anche alla dottrina esplicitamente proposta dal Curione all’inizio del De Amplitudine. Il Bovio rideva del dogma trinitario, che per lui era cosa da bambini: «puerorum cathechesin et lac puerorum»848 ; ma la sua dottrina positiva era estremamente confusa, almeno nella esposizione del Lentulo, secondo il quale il Bovio avrebbe asserito che la «lex mentis» e l’«homo interior et spiritualis» non erano che l’anima stessa; e viceversa, la «lex carnis» e l’«homo exterior et carnalis», il corpo; e che anche l’animo poteva peccare come il corpo. Cristo era per il Bovio solo un riconciliatore e un mediatore, il che secondo il Lentulo derivava dall’Ochino. Ma la dottrina attribuita qui al senese, – onde Cristo è stato il salvatore degli uomini non per aver soddisfatto per noi la giustizia divina, ma Ibid., fol. 27r. Ibid., fol. 29v. 848 Ibid., fol. 27v. 846 847

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per averci dichiarato, come profeta, la divina volontà del Padre, sfidando anche la morte per meglio testimoniarla, – è piuttosto, in questa forma esplicita, di Lelio Sozzini, il cui fratello Camillo aveva dichiarato di non stimare il sacrificio di Cristo piú di quello di Cipriano. Ma la formulazione sistematica di essa sarà opera di Fausto Sozzini. Il Bovio negava anche la formula comune del giuramento, «Ego iuro per Deum», ammettendo però che si potesse dire «Testo Deum»849 , negava che l’autorità civile potesse procedere alla condanna capitale di un eretico, ammettendo al piú la relegazione. Anche il Bovio, condannato, dichiarò che il collegio dei ministri di Chiavenna era peggiore della Inquisizione spagnola; la condanna però non dovette essere grave, poiché il Bovio non fu subito scacciato da Chiavenna; infatti dopo poco tempo il collegio dei ministri venne informato che il Bovio sparlava di loro, di Beza, di Calvino e del Bullinger, che tornava a casa tardi, che si incontrava a buio «cum excommunicato mutinensi», – probabilmente il Giovanni da Modena che era rimasto a Chiavenna, – e che aveva dichiarato che l’autorità civile prevaricava condannando a morte i ladri. Infine il bolognese si presentò con una buona testimonianza del Turriani, che la nostra relazione allega ad infamia di questi, e cessano le notizie. Il carattere delle discussioni che si tenevano fra i tessitori appare chiaro dal processo di Giovanni Fratini, che viene rimproverato per aver accolto e lasciato parlare «in sua textoria taberna» Giovanni da Modena, e per aver negato che un cristiano potesse occupare cariche politiche o civili850 . Anch’egli si dovette probabilmente recare Ibid., fol. 28v. Il Fratini era anche recidivo: la prima ammonizione è del 21 maggio 1568, la seconda dell’8 maggio 1569. Ibid., foll. 30r sgg. 849

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a Piur, come un Giacomo Veneto, che manifestava opinioni «sabelliane», e frequentava gli «ariani»851 . Per aver frequentato Giovanni da Modena viene anche processato Camillo Carrara, che era un lettore assiduo dei libri dell’Ochino852 ; anch’egli si rifugia a Piur. Cosí pure un Pietro di Paolo che si diceva romano, e s’era presentato alla fine del 1568 presentando una buona professione di fede, ma poi s’era fatto notare perché frequentava Giacomo Veneto, Giovanni da Modena, e un certo Paolo da Calcinato, «anabattista infame»853 . Di questo Paolo romano Giulio Milanese forní al Lentulo un’altra informazione, che ci riconnette a Giorgio Siculo. Infatti il romano, trovandosi a Tirano dove Giulio era pastore, incontrò un dottore Antonio Pergola ch’egli, ingannato dal nome, prese per Giovanni Antonio Pergola «anabaptistam georgianum»854 . Equivoco grave di conseguenze per il romano, che si rivelò subito per «georgianus» anch’egli, e mostrò il libro di Giorgio Siculo contro la predestinazione, chiedendo all’ignaro Pergola un manoscritto di rivelazioni del suo ammirato autore, del quale era stato familiare; probabilmente le rivelazioni che Giorgio asseriva di avere avuto e che aveva forse inteso di portare anche davanti al Concilio di Trento. Chiamato a render conto di quanto aveva detto, il romano si vide perduto, e confessò non solo l’amicizia col Siculo, ma anche con un certo chirurgo Pietro e con un medico Pietro Giudici, anabattisti entrambi, il secondo dei quali era stato arso vivo a Mantova855 . Ma rifiutò di fare una pubblica riIbid., fol. 34v. Ibid., estate 1568: «quod delectatur lectione librorum Ochini» 853 Ibid., fol. 35v. 854 Ibid., fol. 26r. 855 «Ecce igitur qui sit hic Petrus Romanus, qui Plurio a Hieronimo Turriano, Camulio et Sozzino fovebatur, ac tantum 851

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trattazione dei suoi errori e di riconoscere che gli eretici devono esser puniti, sostenendo invece che nelle chiese riformate si va ricostituendo il «papismo». Ecco, esclama scandalizzato il Lentulo, chi era questo Pietro Romano, che a Piur era tanto amato dal Turriani, dal Camulio e dal Sozzini. Salomone fabbro ferraio negava la divinità di Cristo. Il Camulio stesso era considerato eretico pericolosissimo, che osava deplorare la morte del Serveto e il comportamento dei magistrati di Ginevra e soprattutto la crudeltà, «saevitiam», di Calvino; e perché aveva accusato quest’ultimo anche di tradimento, perché avrebbe scritto amichevolmente al Castellione, mentre al tempo stesso lo denunciava di eresia856 . Il Camulio negava la divinità di Cristo, e la identità delle persone della Trinità, e sosteneva queste sue idee apertamente in varie conversazioni, di cui era pervenuto notizia al Lentulo857 . Il Lentulo riuscí a fare intervenire i predicatori di Coira, i quali ottennero dalla dieta federale un decreto (1570) per il quale chiunque volesse risiedere nelle terre di lingua italiana doveva professare o la fede evangelica secondo la «Confessio Rhaetica» o la fede cattolica, mentre ogni altro errore anabattistico, ariano, o simili, doveva esser distrutto e sradicato dall’autorità civile. Ognuno doveva sottoscrivere la professione di fede della sua chiesa, pena l’espulsione. Questo decreto risollevò la controversia di quindici anni prima sulla condanna degli eretici da parte dell’autorità civile e s’è visto come oltre Bartolomeo Silvio, pre-

non habebatur in deliciis». Che «Petrus chirurgus anabaptista» sia Pietro da Casalmaggiore il cremonese per un certo tempo seguace del Siculo? 856 Ibid., foll. 44r-45v. 857 I delatori erano Gabriele Averario e il gardonese Lorenzo Moretti; quest’ultimo sapeva anche riferire che il Camulio soleva chiamar Satanasio Atanasio.

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dicatore di Traona, fosse intervenuto Mino Celsi. L’ammanno della Valtellina, Rodolfo di Salis, applicò il decreto con larghezza, accettando anche la sottomissione del Turriani, del Camulio e del Silvio, con grande irritazione dei pastori di Coira e del Lentulo858 . Ma i pastori trovarono modo di riproporre la questione al sinodo del 1571, dove avevano fatto intervenire oltre il Camulio, il Silvio, il Sozzini e il Turriani anche un Sadoleto non meglio conosciuto859 . Tutti gli italiani furo858 Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., II, 135 sg. 859 Ibid., p. 136; De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 545. Il Camulio, che durante le discussioni del Sinodo era giunto a dire di saperne della Trinità quanto ne sapeva la sua scarpa (ivi, p. 544), si mostrò poco forte quando sentí la condanna: «Camulius in deliquium animi incidit». Questo processo degli italiani era stato del resto come una parentesi entro uno piú lungo, contro il tedesco Gantner. Il Camulio venne poi riammesso nella chiesa, tenendo conto della sua opera di carità (ms bernese, fol. 46v). Cfr. Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor F. Socin cit., p. 135 per il Sadoleto. Nel De Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Rhaeticarum cit., p. 497 una lettera del Lentulo del 7 novembre 1569, dove le notizie coincidono con parte delle nostre. Ma la relazione da noi usata è datata 22 giugno 1574. {Cfr. Controversia in Rheticis ecclesiis an. MDLXX orta de Haereticorum Poena e Documentis authenticis exposita, in Museum Helveticum, t. IV, pp. 617-51; t. V, pp. 106-167; ibid., pp. 108 sgg. Notizie su Lentulo e sui suoi rapporti, come sul Camulio (in una lettera di Th. Jconius ad Eccles. Tigurinae Ministros, Cal. Ott. 1571, datata da Coira)}. In connessione con questi ambienti della Rezia sta la circolare inviata nel 1576 «omnibus ecclesiis Jesu Christi ubicumque sint» dal cremonese Giacomo Antonio Murena, il quale, mentre afferma di essersi sempre opposto «contra anabaptistas et haereticos Christi divinitatem confundentes» e mette in rilievo i propri sacrifici per la fede, protestando violentemente contro la fama di anabattista che gli veniva fatta, insinua dottrine «spiritualistiche» (Zurigo, Zentralbibliothek, ms A. 49,

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foll. 596 sgg.). Queste accuse lo hanno messo in una situazione imbarazzante, dalla quale non riesce a uscire, perché nessuno lo vuole ascoltate, e i ministri non voglion rinunciare alla loro autorità: ed egli non ha «vires ad resistendum», «pauper forensis», come è; tanto che si riduce alla disperazione, e quasi è ridotto a persuadersi d’essere davvero eretico. Tutte le accuse vengono dall’avere egli sostenuto che non è necessario alla fede credere al «magistratum et ministerium», poiché l’unica cosa necessaria è la fede in Cristo. Non che il ministero ecclesiastico non sia necessario nella Chiesa; ma tuttavia non è «perpetuo inviolabilis». E nella Chiesa non si deve costringere nessuno alla fede: e il ministro ha errato «quando impulsit maritos fideles sub minis excommunicationis cogere uxores proprias infideles in fide, ac earum conscientias vi et verberibus infringere». Concezione quasi materiale della coscienza, che si può «infringere»; ed eco di problemi «nicodemitici». Inoltre il Murena continua; «Et consequenter asserui non spectare magistratui humano, fidei vel conscientiae imperare» benché non contesti che l’autorità civile si debba occupare di cose di fede. E polemizza con Calvino, sostenendo che Cristo è solo salvatore, e non anche legislatore: tale è solo Mosè. Protesta anche contro l’invito ai re e ai principi a favorire la ampliazione del «regnum Christi» ed afferma che questo è poco cristiano: «credo quidem scire quae liceant et quae non liceant bella conserere, sed Christi regnum extollere et substentare viribus humanis scio esse impium». Finisce col chiedere una discussione pubblica su questi problemi «Dummodo astutiis aut artibus hypocritarum non circumveniar, sed libere et sine personarum acceptione omnibus aeque tum dicendi tum respondendi concedatur facultas, nec per dispendia res perducatur ut paupertas succumbat ut civilibus indiciis fieri videmur». Fervore ingenuo di problemi, e diffidenza verso ogni forma regolata di discussione; una certa astuzia grossolana, e il desiderio di poter dire senza impedimenti tutto il proprio animo: e il Murena invocava in proprio favore il nome di Giulio da Milano! I due motivi principali sono: «In ecclesia Christi nullum esse personarum respectum, aequales igitur sumus in Christo. Sola dona spiritualia excellunt in ecclesia Christi». Una nota dell’indice manoscritto contemporaneo del volume dove è conservato l’autogra-

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no scomunicati, e il Turriani venne sospeso per un anno dal suo ufficio, senza tener conto di nessuna intercessione e preghiera. Ma dopo poco gli altri scomunicati furono riaccolti nelle comunità, e, sottoposti a severa sorveglianza specie ad opera del Lentulo, cessarono la loro inquietante attività, limitandosi a mantenere qualche rapporto con la Transilvania e la Polonia, e con Basilea.

fo di questa circolare, osserva che queste, idee venivano diffuse nella Rezia.

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CAPITOLO VENTISETTESIMO

Con lo scomparire della prima generazione, gli eretici italiani abbandonano definitivamente la Svizzera, eccetto Basilea. Il Biandrata in Transilvania. Il dispiegarsi della sua dottrina intorno al 1568. Discussioni teologiche e propaganda popolare.

Ormai le speranze di poter rimanere in Isvizzera, vicino alla patria, venivano meno del tutto, e anche la «rhaetica libertas» si dimostrava illusoria per quegli eretici. Occorreva cercare nuove regioni dove fosse possibile rimanere senza essere perseguitati e anche diffondere le proprie idee: e la seconda generazione degli irrequieti esuli italiani vivrà ed agirà soprattutto in Polonia ed in Inghilterra. Nel 1563 e 1564 il Camulio pensava ad Anversa, a Lione, alla Moravia, alla Polonia: ma nelle Fiandre e in Francia il calvinismo ortodosso e la disciplina di Ginevra s’erano troppo saldamente affermati perché si potessero conservare ancora molte speranze di ospitalità e di tolleranza: come mostrano gli accenni sul Bovio, il caso lionese dell’Alamanni non era rimasto isolato. La Moravia era destinata a rimanere luogo di passaggio, anche perché le dottrine dei «Fratres Bohemi» non coincidevano in tutto con quelle del gruppo eretico italiano. Anche la chiesa degli Stranieri di Londra, pur prevalentemente fiamminga, offriva ancora un punto di appoggio agli italiani, col suo ambiente di perseguitati e di esiliati di ogni paese, irrequieto per natura e composizione, e aperto alle discussioni e ad una concezione piú larga della disciplina e della dottrina. E in Polonia e in Transilvania la situazione politica e la cultura della nobiltà erano particolarmente favorevoli agli italiani, umanisti e individualisti. Cosí, in Polonia si avranno, anche dopo la scomparsa di Fausto Sozzini, martiri italiani delle dottrine antitrini-

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tarie o, meglio, «unitarie»860 : come quel Franco de Franco che nel 1611 venne ucciso a Wilna dalla folla, per essersi mostrato «homines idoli sequaces officii admonentem», con qualche parola durante la festa del Corpus Domini. E nel 1620 Pietro Gucci (Gucius), fiorentino, piú che ottantenne, venne provocato e malmenato nella sede stessa dei «sociniani», Racovia, da un soldato ubriaco, come racconta il Lubienecki, che l’accusava di negare la verginità di Maria. L’incidente ebbe seguito, per la posizione del figlio del Gucci, Giovanni, e per la personalità del vecchio, che era venuto in Polonia al tempo della regina Bona, ed era benemerito della corona polacca. Lo storico antitrinitario racconta che il soldato si pentí, ed ebbe il perdono dal vecchio morente. Il Gucci aveva seguito le sorti della comunità di Cracovia, da questa città ´ a Pinczów, a Chmielnik, a Racovia. In Transilvania v’era certo un’atmosfera movimentata di discussioni religiose: ma non v’era neppure l’odio arroventato che l’azione del Calvino e del Sarnicki aveva finito per creare in Polonia. Il giovane re Giovanni Sigismondo Zápolya, anche se non manifestava intenzioni definite, si mostrava invece per lo meno non alieno dall’ammettere, e forse proteggere, la dottrina antitrinitaria nei suoi paesi. Alla corte transilvana si trovavano varî italiani, con mansioni militari, o come musici e artisti: non era certo la stessa cosa che in Polonia, dove fra gli italiani inclini se non altro a proteggere gli eretici v’era il potentissimo Provana, ma anche qui il Biandrata poteva contare su un’atmosfera adatta alla sua attività. Questa era stata preparata dallo Stancaro, che vi era stato dal 1553 al 1558 e vi aveva diffuso le stesse dottrine che anche in 860 Lubienecki, Historia Reformationis Polonicae cit., pp. 175, 246-48. In G. Ptanik, Gli italiani a Cracovia dal XVI secolo al XVIII, Roma 1909, viene nominata la famiglia Guzzi, e molti suoi membri, ma non il nostro Pietro, né Giovanni.

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Polonia avevano finito col preparare cosí bene il terreno al Biandrata861 , il quale arrivava già insignito del titolo di medico di corte, preceduto dalla fama della sua abilità e delle sue avventure. Il suo nobile aspetto, le sue maniere cortesi, la sua eloquenza lo fecero ben presto diventare la figura principale della piccola corte: nel 1564 il re gli fece dono di tre feudi, e lo nominò suo consigliere privato862 . Anche qui il Biandrata procedette lentamente e gradualmente, secondando a suo modo le tendenze del giovane re a continuare l’opera riformatrice per unificare la chiesa transilvana. Del resto in Transilvania la Dieta di Torda aveva nel 1563 stabilito piena tolleranza religiosa, allo scopo di toglier virulenza alle dispute che fervevano fra luterani e calvinisti sulla Eucarestia; e vi convivevano pacificamente, sotto la sorveglianza dello Stato, tre chiese: la cattolica, la luterana, e infine la riformata. Il re, insistendo nei suoi tentativi di conciliazione, sperò di potersi giovare del Biandrata, e lo nominò suo delegato alla Dieta di Nagy Enyed del 1564863 . Era quel che piú si confaceva al Biandrata: una missione politica, nella quale poter agire con i suoi modi civili, e creare allo stesso tempo una concordia fondata su reciproche concessioni, cioè un equilibrio politico, e una situazione favorevole alla diffusione delle proprie dottrine. Intanto gli storici annotano che egli si mostrava «Romano-Catholicum aut... nulli Religioni addictum»864 . E mantenne tale posizione fino al 1567: «Blandrata ex Ruffini, Stancaro cit., p. 348. Wilbur, Our unitarian Heritage cit., p. 218; {A History of Unitarianism cit., pp. 317, 335, ecc.}. 863 Profilo cit., p. 29 estr. 864 Burian, Dissertatio historico-critica de duplici ingressu in Transylvaniam Georgii Blandratae, Karolyféhervát 1806, p. 213. 861 862

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abrupto non statim se prodiit», dice la tradizione antitrinitaria, «sed sensim sensimque quosdam allexit, et demum anno 1567 publice cum aliis homodoxis significavit quid in recessis animorum suorum habuerint»865 . Al sinodo eniedinense il Biandrata aveva stretto amicizia con il principale capo protestante della Transilvania, il «vescovo» Francesco Dávid, allora ancora luterano, che il cronista dipinge cosí: «Infatigabilis, irremissus in proposito sibi scopo assequendo, eloquens, ac inexhauribilis in rationibus, quas ad suum planum stabiliendum adducebat, seu deinde illud verum, seu falsum esset»866 ; e nel 1566 lo fece diventare predicatore di corte di Giovanni Sigismondo. Ai primi di quell’anno il Biandrata e il Dávid avevano fatto accettare, come piú semplice e atto a costituire una base d’incontro per tutte le confessioni, il credo apostolico, con una dichiarazione esplicativa che rifiutava il credo atanasiano867 . Nell’estate dello stesso anno il re si recò, accompagnato dal Biandrata, presso Solimano: al ritorno insisté perché si trovasse una formula di concordia, e si finissero realmente le dispute. Ma ora stava per scoppiare la lotta più aspra: Petrus Melius, capo del calvinismo in Ungheria (che era stato a studiare a Wittenberg dove aveva conosciuto Lelio Sozzini) sconfitto a Torda, aveva convocato un sinodo a Debreczen (1567): e quivi aveva avuto la vittoria. Intanto il Biandrata pubblicava, assieme al Dávid, il famoso libello De falsa et vera unius Dei... cognitione, a nome di tutti i pastori e seniori delle chiese unitarie, dove la dottrina unitaria e antitrinitaria veniva fondata storicamente e teologicamente, e dove veniva pubblicato, con questo libretto, un incunabolo dell’unitarismo, il commento al Ibid., p. 229. Ibid. 867 Wilbur, Profilo cit., pp. 30 sgg., anche per le notizie generali che seguono. 865

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primo capitolo del Vangelo di Giovanni, di Lelio Sozzini, ma ancora senza nome, benché in questo libro, per la prima volta, il nome di Lelio venisse apertamente annoverato fra quegli degli avversari della ortodossia tradizionale, con grave scandalo dei suoi amici d’una volta, che fino dopo la morte l’avevan creduto dei loro868 . Questo libro869 ci rivela alcuni aspetti della personalità del Biandrata che sinora erano rimasti celati sotto la maschera del cauto disputatore, dell’astuto insinuatore di dubbî, dell’abile organizzatore e prudente diplomatico. Anzitutto la dottrina. C’è una storia della formazione del dogma della Trinità e una storia dei suoi avversarii: esse sono il primo tentativo di tal genere presso gli antitrinitarii. Il pragmatismo e l’individualismo storiografico dell’umanesimo italiano appaiono fin da principio, con la dichiarazione del motivo ispiratore dello scorcio storico che stiamo per esaminare: l’Anticristo, non riuscendo ad abbattere la pura e semplice dottrina dei libri sacri «addens multa de suo per patres, concilia, et suam Ecclesiam (idque praetextu Haereticorum), unum Deum esse Trinum praedicavit»870 . La persecuzione degli eretici, che è un’opera dell’Anticristo secondo tutti i perseguitati nella storia delle eresie, viene qui concepita non piú, come sinora, in funzione di una affermazione politica, ma come un pretesto, in funzione di una affermazione dottrinale, che 868 De falsa et vera unius Dei patris, filii, et Spiritus Sancti cognitione, libri duo. Authoribus ministris Ecclesiarum consentientium in Sarmatia et Transylvania, Gyulaféhervár 1568 (ma 1567). Mi servo della copia dresdense di questa rarissima stampa. 869 Cfr. gli excerpta in Per la storia degli eretici cit., pp. 104-10. 870 De falsa et vera cit., p. 21. Uso la numerazione ms. di mano antica, credo contemporanea, della copia dresdense; oppure, per le poche pagine di excerpta, quella di Per la storia degli eretici.

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a sua volta ne esce illuminata politicamente; il Biandrata, come il Sozzini, parla sempre e con coerente insistenza di vero Cristianesimo, non vuole mai ammettere d’essere altro e piú che un riformatore, e concepisce quindi la condanna degli eretici come un semplice espediente per l’affermazione della dottrina, mentre questa, a sua volta, finirà con il presentarsi non come pensiero religioso, mitologico e teologico, ma come formulazione di un’idea etica, quindi anche politica, nei suoi effetti. «Postquam Tripersonatus Deus... et bini Christi... crediti et admissi sunt, difficile non fuit plures baptismos, coenas, sacramenta, mediatores, et vias ad salutem... seminare»871 , onde s’è formata la supremazia della gerarchia sul popolo, nelle comunità cristiane. L’opera di Lutero e dello Zwingli è stata veramente rivoluzionaria: «Non ergo mireris, si ex tot sepulchris Antichristi ille verus Christus unicusque resurgens terram totiens concusserit... Hinc tot labores Luthero et Zwinglio...»872 . Ed ecco l’ambizione del Biandrata: Non mireris, inquam, si et nobis quoque nunc maiora experienda sint, qui ex densioribus tenebris Christum erutum cupimus, et adversus plures satellites, et veritatis hostes pugnamus, quorum arma calumniae, convitia, maledicta, ferrum et ignes sunt...

e la sua speranza: «Deus... suum humilem Christum nobis restituet...»: l’avvento del Cristo degli oppressi, degli umili, del anche Lelio Sozzini. 871 872

De falsa et vera cit., p. 27. Ibid., anche per quanto segue.

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Per il Biandrata, come per il Serveto873 , la cui Restitutio Christianismi egli aveva certamente letto, la concezione ortodossa della Trinità, il dogma tramandato attraverso i secoli, è una escogitazione «filosofica», intellettualistica ed astratta, dello spirito greco. «Omnium autem errorum potissimum fundamentum fuit Graecorum Philosophica illa vanitas»874 : essi non intesero la Scrittura ed escogitarono il dogma trinitario: «Deum in ordinem redigentes, et suis regulis ac figmentis divina eloquia subiicientes». Da questa costruzione trinitaria è derivata quella delle due nature in Cristo, dei «duo Christi», come dice il Biandrata: per essa l’Oriente è passato al Maomettanesimo, «Iudaei pariter ob hanc de Deo doctrinam a Christianis defecerunt. Sed et Philosophi Christianos subsannant, quod plures colant Deos: vide Averroim»875 . E cosí durò fino al mille circa: e le dispute su questo argomento stavano per cessare, quando Satana, «post annum millesimum alio usus est stratagemate, erecta nempe Sorbona Lutetiae, tunc omnium Academiarum matre»876 : e quivi si organizzò il regno dei teologi. Il pri873 Sul Biandrata cfr. anche H. P. Bayon, William Harvey, Physician and biologist: his precursors, opponents and successors, Parte IV, in «Annales of Science», IV (1939), pp. 95 sg. Del Bayon si veda anche Calvin, Servet and Rabelais, in «Isis», XXXVIII (1947), pp. 22-28. 874 Ibid., p. 36; Per la storia degli eretici cit., p. 104. 875 Per la storia degli eretici cit., p. 106. Non credo utile illustrare particolarmente i richiami al Corano e alla teologia islamica che condanna la dottrina trinitaria, il culto di Maria e quello delle immagini, poiché ritengo che essi, anziché a lontane e famose controversie, debbano essere ricondotti alla vicinanza e ai rapporti politici della Transilvania con la Sublime Porta. 876 Ibid. Cfr. Opera Q. S. F. Tertulliani... per Beatum Rhenanum... e tenebris eruta (uso l’ed. del 1539, benché leggermente discrepante da quella usata dal Biandrata, in una copia

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mo a reagire, a «reclamare», contro di esso fu «Ioachimus Abbas sui temporis propheta insignis»877 : e seguirono moltissimi altri, che il Biandrata enumera, da Abelardo ad Erasmo a Giovanni Valdés, all’Ochino, al Buzzale, a Lelio Sozzini, a Valentino Gentile, al discepolo del Biandrata, Gregorio Pauli: non è una nuova dottrina, la sua, ma è la vera dottrina cristiana, difesa per tutte le età, «quemadmodum et illa antichristi fuit semper oppugnata»878 . La «restauratio» di questa vera dottrina è cominciata gradualmente, ad opera di Lutero, il quale non cominciò «a summo vitae aeternae cardine, quia repurgationis praeordinatum tempus nondum aderat: si enim mundus tunc crassissimos errores videre non poterat, quomodo tantam lucem ferre potuisset?» Cosí Lutero cominciò dalla fine, che era la remissione dei peccati879 . Il secondo grado fu quello dello Zwingli, che purificò la dottrina dei Sacramenti, e liberò, dice il Biandrata, la Chiesa dagli idoli, dagli altari, dalle varie ornamentazioni, dagli organi, dai canti e dalle altre superstizioni «Luthero etiam reclamante, et acriter contendente». Fin qui i «reformatores nugarum papisticarum», che spesso s’identificarono coi «sanioris doctrinae defensores». Essi ebbero anche la protezione dei sovrani, il che aumen-

appartenuta a Fulvio Pellegrino Morato («Est Fulvii Pellegrini Morati et amicorum omnium», della Bibl. Angelica di Roma), p. 754 (Admonitio ad Lectorem). Il Biandrata ha usato probabilmente l’ed. del 1545 di Parigi. (Cfr. Migne, PL, I, p. 41), riassumendola un po’. Nell’Idex Expurgatorius del 1607 (Indicis Librorum Expurgandorum liber primus... per F. Io. M. Brasichell.[ensem], ristamp. da R. Gibbins, Dublin 1837, p. 32) l’Admonitio non figura. Per la storia degli eretici cit., p. 106. 877 Ibid., p. 107. 878 Ibid., p. 110. 879 De falsa et vera cit., p. 120.

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tò la loro forza e i loro successi. Furono il Bucero, l’Ecolampadio, il Muscolo, Pietro Martire, il Calvino, l’Ochino, il Viret, «qui non solum ad ravim usque Papatum torserunt, sed et mundum in veritate confirmarunt, adeo ut nullus unquam sperandus sit ad Ecclesiam Romanam regressus»880 . Ecco dunque venuto il tempo di cominciare a riesaminare la concezione di Dio stesso, e del Figlio suo. Il primo fu Erasmo, «qui nostra aetate primus movit hunc lapidem»; dopo di lui «surrexit Michael Servetus, qui et diligenter, et palam de uno Deo Patre, eiusque filio contra doctrinam receptam scripsit». Ma egli era solo e senza protettori: «cum careret fautoribus et coadiutoribus, a Calvino suo antagonista Genevae combustus est, non absque multorum piorum offendiculo, sanguine tamen doctrinam suam confirmavit»881 : e rimasero i suoi scritti che condussero «multos sensim ad articoli illius considerationem». Secondo questo processo graduale di ritorno alla verità originaria partendo dallo stato attuale e presente e procedendo poco per volta a levare le scorie, fino ad arrivare al centro, – che è il processo storico invertito –, hanno agito gli unitarî, dice il Biandrata: «Sic et in Baptismo retrograde processum a chrismate, sputo, sale, et candelis initium facientes: postea ad exorcismos, signa crucis, obstetrices (quae necessitate ingruente baptizare deberent infantes) et ad compatres demum, et ad ipsum paedobaptismum ventum»: e cosí avverrà degli «Dei babilonici» della Trinità. Come gli «exploratores» mandati a esaminare la terra promessa di Canaan spaventarono il popolo eletto parlando della potenza e della forza degli abitanti di Canaan («Il popolo che abita in esso è potente, e le città son molto forti e grandi»), onde gli ebrei, temendo per sé e per le mo880

Ibid., p. 121.

Ibid., pp. 122 sgg., anche per quanto segue. È l’argomento del Lyncurio-Sozzini. 881

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gli e le famiglie, vollero tornare indietro, suscitando l’ira di Dio, che interdisse loro di entrare nella terra promessa e li fece morire nel deserto, mentre solo i loro figlioli avrebbero potuto raggiungerla dopo quarant’anni, – cosí Lutero e lo Zwingli, Erasmo e il Cellario, che avevano, gli uni per una parte, gli altri per la seconda, perlustrato «terram Chanaan integram, idest Christi et Apostolorum puram doctrinam», spaventati da «tot regum, patrum, conciliorum, Ecclesiarumque authoritate, et consensu» allontanarono il popolo dalla purificazione completa della dottrina, disperdendo le loro energie e l’ispirazione divina nelle dispute e nelle lotte degli uni contro gli altri: «Lutherus enim Zwinglium damnavit, uterque Anabaptistas, quos et interfici Tiguri curarunt, cuius quoque tyrannidis Zwinglium poenam similem luit»882 . E il popolo cristiane fu costretto a rimanere per altri quarant’anni nell’oscurità, «ita ut nunc primum nos eorum infantes [Deus] eo introducat, aperiens nobis», cioè al Biandrata e ai suoi amici, «mysteria veritatis suae»883 . Gli anabattisti, il Serveto, il Gentile, furono uccisi «cum tempestivum tempus nondum instaret tantorum Dei mysteriorum revelandorum». Per questo dunque 882 Ibid., p. 125. E continua ricordando la condanna del Serveto e quella di V. Gentile. È una spiegazione piú seria di quella strettamente prammatistica del Gribaldi, e coerente all’idea che Satana coi suoi stratagemmi (il Biandrata usa il termine di Stratagemata Satanae a p. 26, a p. 29, e a p. 30: «Summa est, non alio Stratagemate Satanam omnia evertisse, quam illo, quo in Paradyso cum Eva usus est: omnia enim plus ultra efferendo et ampliora pollicendo, addendoque de suo divina semper abstulit...») sia semplicemente la «prudenza umana» che osteggia l’ispirazione divina in tutti i modi. 883 Ibid. Fra i perseguitati oltre il Serveto e il Gentile, il Biandrata indica: «Castalionem, Fr. Balduinum, Eshusium, Alciatum, Blandratam, Ochinum, Lismaninum, Matthaeum Gribaldum, Laelium Sozzinum» (p. 126).

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tanto aveva atteso il Biandrata. Dalle dispute sempre piú acri fra gli «exploratores» della verità divina fermatisi a mezzo per timore umano, il Biandrata deduce la prossima fine di Babilonia: che avverrà, come si è svolta finora la graduale purificazione della Chiesa, col ritorno puro e semplice alla lettera biblica «reiectis omnium hominum commentis, symbolis, conciliis, et longis consuetudinibus»: ma prima bisogna che si denuncino le mene degli «exploratores» che non han saputo capire che a metà la voce divina: quegli Aristarchi sanguinarî, con la loro «procacitas, arrogantia et sycophantia»884 . Per colpa di essi, delle loro contese e dispute, è venuta a mancare quella «animorum reformatio» che è sempre stata il fine di tutta la Riforma italiana; ma siccome essi predominano, «ferenda aequiore animo eousque cunctatio, quoad nobis uso veniat, quod Israelitis olim contigit, qui nova fondamenta novae Ierosolymae iacere volentes, prae hostium furore, atque malitia, altera manu defendere sese, altera aedificare cogebantur»: ecco la ragione del cautissimo procedere del Biandrata!885 . «Manent et hostium supremae insidiae»: i nemici accusano i veri cristiani «tanquam defectionem a Regibus praedicantes, vetantes tributa dari, et seditiones moventes» e cosí tenteranno di opprimerli. Questo è il secondo 884 Ibid., p. 129: «Oportet... prius calumniatore et Thrasones blasphemos illos mondo apertius innotescere, et Aristarchos sanguinarios ab omnibus dignosci, et quidem per eiusmodi contentiones». Se si avvicina questo passo alla proposta fatta dal Biandrata a Calvino, e da questi cosí acerbamente accolta, si conferma l’ipotesi di un «santo machiavellismo» del medico piemontese. 885 Ibid.: «Vident et pueri quales fructus pepererint tot illorum conatus, et an sit aliqua inter illos animorum reformatio: adeo enim frigent apud rabulas illas maledicas omnia sancta opera, ut ignoremus, an decem vere pii inveniri possint, qui sub illorum ferulis fuerint educati».

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motivo che nel Biandrata piú esplicitamente che in ogni altro di questi riformatori e rivoluzionari italiani si fonde con quello dommatico e dottrinale: il motivo sociale, del quale fino ad ora abbiamo veduto solo sparsi accenni. S’è visto l’insistente richiamo agli anabattisti: e le comunità unitarie erano regolate, tanto in Polonia quanto in Transilvania, sul modello anabattistico, anche se la comunità dei beni non vi era condizione assoluta legale, e se non si dava nessuna importanza al Battesimo886 . Infatti, questo significava che il Battesimo o il ribattesimo non avevano alcun valore religioso, non che si dovesse ammettere il Battesimo cattolico. In fine della Brevis enarratio disputationis Alvanae887 il Biandrata elenca infatti una serie di ragioni contro il Battesimo degli infanti: «prius doceamus, postea baptizemus»; «qui christianus fieri vult, exuere veterem hominem, induto novo, debet, et nova fieri creatura: hoc facere non possunt infantes». Certo, la peculiare situazione nella quale si trovava, costringeva il Biandrata a dichiarazioni di lealismo verso il sovrano888 . Ma si vedano le Antithesis pseudochristi cum vero illo ex Maria nato889 : il Cristo eterno del Papa fu sempre padrone e signore, e forte, sempre potente, mai debole, sempre accompagnato da gran servitú di papi, imperatori, re, sempre ricco, seguito e difeso da gran turba di filosofi e scolastici: egli li arricchí di oro, seta, 886 Wilbur, Our unitarian Heritage cit., pp. 138 sgg., 223 sg.; Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., pp. 38, 41. Sul Battesimo, cfr. anche De vera et falsa cit., p. 122. 887 Del 1568: Profilo cit., app., p. 49, n. 4; cfr. Sand, Bibliotheca Antitrinitariorum cit., p. 24. L’elenco è unito in calce alla Diputatio, con numerazione propria. 888 Profilo cit., p. 37. 889 Per la storia degli eretici cit., pp. 97-103; cfr. p. 11 sulla prima notizia di questo libello.

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bisso, e non avendo mai sopportato povertà, donò loro città, villaggi, terreni, decime. Et quemadmodum Christus dives, omnes secum habet Reges, Principes, Magistratus, ita suam religionem per eos ubicumque adoratur, non tantum apud Papam, cogit gladio, carceribus, proscriptione etc., neque curat quomodomque credatur, modo externis gestibus adoretur; cor non quaerit, modo ore cognoscatur890 .

Non vuole che si creda, ma che si riconosca il Papa e la messa; non ha inferno «nisi pro Apostatis a sede Romana, et decimam non solventibus, quos solos inferno devovet excommunicatos». Di contro a questo Cristo eterno, terza persona della Trinità, si erge il Cristo uomo: «Christus pauper genitus est in terris»: non ha avuto nulla da sé, ma tutto da Dio, ha sempre patito miserie e persecuzioni, non ha avuto signori e potenti per famuli, «et a Iudaeis repudiatum fuit, ob paupertatem, ut et nunc a mondo contemnitur»891 ; non ebbe concilî né scuole né filosofi né re né imperatori dalla sua parte, ma solo gli Apostoli «qui nullas aedes illi construebant sed obambulantes domos, campos, et flumina, Christum inibi praedicabant»; e i suoi seguaci «hinc et inde pulsi discurrebant», dice il Biandrata, «ut et nunc fit»; il Cristo, solo e vero uomo, figlio del Dio Unico creatore del mondo, dice il Biandrata, «pauperes in consorcium accersens, in eadem paupertate continuit semper, in diem illos pro pane orare, non decimas in annum extorquere iussit»; egli «nullos habet sibi addictos Dominos vel reges, Magistratusque, quare nec ullum gladium habet in 890 891

Ibid., p. 97 (nota 7 in fine). Ibid., p. 99, nota 4.

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Ecclesia sua»892 . Questo scritto, con la vigorosa contrapposizione del Cristo uomo povero ed oppresso, non amico di re e magistrati, a quello ricco opulento e potente ed oppressore dei principi e dei potenti, esplica il motivo che era ancora appena accennato nel commento di Lelio Sozzini al primo capitolo del Vangelo giovanneo, pubblicato per la prima volta, come s’è notato, dal Biandrata, e tutto pieno del senso che l’umanità e la povertà, l’umiltà del Cristo politicamente e socialmente, non naturalmente e biologicamente intesa, facciano una cosa sola; qui umanità e abiezione umana non sono più un fatto naturale che induca a sprezzo e orrore («Homo natus de muliere, inter faeces et spurcitias...») ma un fatto storico, onde il Cristo «puro uomo», diventa il Cristo liberatore degli oppressi e dei poveri, degli umili non per natura, ma per la malvagia prepotenza di Satana, onorato dai ricchi e dai potenti. C’è un fermento nuovo, che potrà svilupparsi andando al di là del semplice solidarismo degli anabattisti. Con tale radicale estremismo, e consapevole del significato di esso, è evidente che il Biandrata dovesse sentirsi obbligato alla cautela e alla prudenza: non era un fanatico, anzi, un uomo di mondo e un politico, e teneva tanto più nascoste le sue idee, quanto piú gliene era chiaro il significato rinnovatore e rivoluzionario; la pratica del mondo, la naturale disposizione, la situazione di isolamento, il «nicodemismo» dell’esule si congiungevano qui all’esoterismo dell’umanesimo italiano e del gruppo ereticale, per indurre il Biandrata a non manifestare le sue idee che al momento propizio. Un altro aspetto, sotto il quale ci si presenta il Biandrata in questo momento, e che anch’esso non è meno sorprendente, ma d’altra parte concorda con quella pre892 Ibid., p. 100, nota 7 in fine. È evidente che se altrove il Biandrata ha attenuato questi motivi, è stato per ragioni di opportunità, secondo la sua esplicita dottrina.

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occupazione sociale che abbiamo ora veduta, è quello di propagandista popolare. Le ire maggiori degli avversari del Biandrata e degli unitari furono infatti destate dal fatto che nel De falsa et vera... venivano riprodotti alcuni quadri, tentativi ingenui di rappresentare graficamente la Trinità, che potevano diventare, in mano ad avversari come il Biandrata e il Dávid, e col loro commento, addirittura caricature, atte a colpire le menti popolari893 . Una di quelle immagini si sarebbe trovata vicino a Cracovia, in una chiesa; un’altra, rappresentante un sacerdote officiante, all’Elevazione, mentre dal calice, in una nube, appare la Trinità rappresentata dal Dio Padre in alto, dal Figlio con la croce in mezzo, dalla Colomba dello Spirito Santo in basso, si sarebbe trovata addirittura in Vaticano, commessa da Clemente VII894 . Il 1568 fu l’anno della maggiore attività, dei piú netti successi, delle piú ardite speranze per il «fatalis Medicus gente Italus»895 , che ora stimava venuto il momento in cui fosse possibile calare la maschera silenica fino ad allora conservata, per rivelare le verità ch’egli credeva portare entro di sé. Di quest’anno le piú importanti e audaci pubblicazioni, come abbiamo visto: di quest’anno probabilmente la decisione per l’unitarismo e l’abbandono del larvato triteismo di prima; di quest’anno infine la vittoriosa disputa di Alba Giulia contro il Melius e i calvinisti, che, cominciata l’8 marzo, dopo nove giorni vide delinearsi la disfatta dei calvinisti, che volevano ritirarsi, e 893 E. Gliczner, Societas et symbola doctrinae et morum Arii et Trideitarum modernorum arianorum, Francofurti ad Viadrum 1565, fol. c. 1v, c. C. 894 De vera et falsa cit., pp. 45 sgg. (E iii sgg.): «De horrendis Simulachris deum Trinum et unum adumbrantibus». Altre nella Refutatio Scripti Georgii Maioris..., del Biandrata e del Dávid in collaborazione (1569). 895 Burian, Dissertatio cit., p. 231.

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rimasero solo quando il re li avvertí che ritirarsi avrebbe significato darsi per vinti. Il giorno dopo la disputa venne conclusa dal re, favorevole apertamente agli unitari; il Biandrata non partecipò molto alle discussioni e ai dibattiti lasciando questa parte all’impetuoso Dávid: la sua posizione gli imponeva un certo riserbo e una certa prudenza, la sua esperienza gli insegnava a non compromettersi. Il trionfo esteriore, le acclamazioni della folla egli li lasciò dunque al Dávid, che entrò in Koloszvár acclamante, e venne rieletto vescovo per la seconda volta. Il medesimo trionfo fu accolto dal Dávid l’anno seguente, in disputa coi calvinisti sul loro terreno, a Gran Varadino (Nagyvárad). Nel 1571, alla Dieta di Maros Vásárhely, il re stabilí nel suo regno perfetta eguaglianza fra le confessioni cattolica, luterana, riformata e unitaria, e fece entrare questa fra le leggi fondamentali del regno, cui tutti i suoi successori dovevano giurare fedeltà. Lo storico degli unitari commenta: «È degno di memoria che l’unica volta che nella storia c’è stato sul trono un re «unitario», e al potere un governo «unitario», questo potere non è stato usato per opprimere altre forme di religione, né per assicurare alla propria eccezionali privilegi, ma per insistere sulla concessione di diritti e privilegi uguali per tutti»896 . Grandi speranze e immatura costruzione, queste del Biandrata e del Dávid, che intanto scelsero «i piú dotti giovani delle scuole di Transilvania, et in costoro instillato il loro veleno», dice l’avversario, «poiché parve che fossero assai confermati mandarono tra gli altri tre alli studi di Italia, acciocché con maggiore credito et litteratura ritornando potessero spandere quella fiamma piú oltre». Dalla Germania fecero venire, per preporlo come «rettore» alla scuola di Koloszvár, Giovanni Sommer, «sendo da’ luterani scacciato per l’altre heresie, le quali dopo la loro andava spargendo e Jacopo Paleo896

Wilbur, Our unitarian Heritage cit., p. 231.

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logo, presidente» della stessa scuola: entrambi uomini di notevole ingegno e valenti grecisti897 . 897 A. Possevino, Commentario di Transilvania, in G. Bascapè, Le Relazioni fra Italia e Transilvania nel sec. XVI, Roma 1931, p. 112. Sul Sommer cfr. Bock, Historia Antitrinitariorum cit., I, 2, pp. 888 sgg.

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CAPITOLO VENTOTTESIMO

L’Aconcio in Inghilterra; rapporti della sua dottrina con quella degli altri eretici italiani.

In Inghilterra finí invece col fermarsi, dopo un breve soggiorno in Isvizzera, il trentino Giacomo Aconcio, piú famoso del Biandrata per i suoi scritti, che ebbero larga diffusione in Inghilterra, Paesi Bassi, Svizzera e Polonia898 , ma meno attivo come organizzatore e polemista diretto in favore delle idee e delle esigenze del gruppo degli eretici italiani al quale pure apparteneva. Anche l’Aconcio abbandona l’Italia nel 1557, insieme al nobile romano Francesco Betti, che poi vediamo nei Grigioni e a Basilea amico degli eretici, come il Turriani, il Camulio, C. Sozzini, l’Ochino; e quando lascia Basilea, che è il primo luogo dove lo troviamo dopo la sua fuga da Milano, l’Aconcio porta una lettera di raccomandazione al Bullinger, per sé e per il Betti, scrittagli dal Curione899 . Que898 E. Ruffini Avondo, Gli «Stratagemata Satanae» di Giacomo Aconcio, in «Rivista Storica Italiana» XLV (1928), N. S. VI, pp. 113 sgg.; W. Köhler e E. Hassinger, Acontiana, in Abhandlungen der HeidelbergerAkademie der Wissenschaften, Phil. Histor. Klasse, VIII 1932; Hassinger, Studien zu Jacobus Acontius cit. A meno di riferimenti specifici per discutere qualche conclusione, mi riferisco per quanto riguarda le opere dell’Aconcio allo studio del Ruffini Avondo, compiuto sulla edizione del Köhler, I. Acontii Satanae Stratagematum libri octo, Monaci 1927, e naturalmente a questa e all’Acontiana; per la vita, allo studio dello Hassinger, il quale assieme al Ruffini Avondo fornisce una completa bibliografia. 899 Pubblico questa lettera che non è conosciuta dagli altri biografi dell’A.: «C.S.C.S.D. per Christum Jesum. Quantam laudem in Sanctorum coetu mereatur, optime frater, qui Aegyptiorum spretis thesauris et reliquis quae apud ipsos in ma-

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sta lettera, che ci permette di stabilire un intimo rapporto dell’Aconcio col circolo eretico di Basilea, poiché è inverosimile che il Curione non avesse fatto conoscere i suoi amici al Castellione, mostra anche che la risoluzione del Betti e dell’Aconcio era maturata lentamente: il Curione infatti dice che i due gli avevano promesso di passare esplicitamente al protestantesimo fin dall’estate del 1556. Dunque bisogna supporre rapporti clandestini dei due amici col Curione per lo meno da questa data, e anzi bisogna ammettere che avessero compiuto un viaggio per lo meno fino a Basilea, il che del resto non presenta nessuna difficoltà perché proprio per il 1556 non si hanno particolari sull’attività dell’Aconcio, che in qualche maniera facciano escludere il viaggio; e anche del Betti sappiamo pochissimo. Secondo quanto dice il Curione, i due nuovi esuli si dirigevano a Zurigo per conoscere gli italiani, cioè verosimilmente l’Ochino, il Vermigli,

ximis habetur bonis, propius Christi subeat, non est quod te unum omnium doceam. Hoc fecerunt hi duo viri nobiles Franciscus Bettus Romanus, et Jacobus Contius tridentinus, uterque maximis apud suos principes functus muneribus, Bettus apud Piscarium, Contius Madrucium Cardinalem Insubrium proregem. Viri sunt pietate, ingenio, et literis non contemnendi, tuo et bonorum reliquorum qui apud nos sunt, amicitia et consuetudine degni. Quod nunc fecerunt, ante annum hic se facturos mihi promiserunt. Tigurum se conferunt, ut nostros homines, et vestros si possint, audiant; et proficiant magis. Non est quod dubites hos unquam vobis aut dedecus [sic] aut incommodo futuros. Sunt enim tum a pietate et modestia, tum a reliquis rebus parati et instructi. Hos si quid mea fides, si quid antiqua necessirudo inter nos valet, tibi commendatos cupio, ut intelligant, se ad fratres, ad patres, atque ad suam civitatem dum futuram inquirant, tantisper venisse. De mea petitione e superioribus literis nihil dicam, nisi me abs te eandem benevolentiam expectarem, qua hactenus sum expertus. Vale cum tota domo. Salutant te et tuos mei». (Zurigo, Staatsarchiv, E. II, 366 55). Basileae, cal. Julii 1557.

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e Lelio Sozzini, e possibilmente i predicatori zurighesi, il Wolf, il Gwalther, e trarre da ciò profitto per la loro nuova vita religiosa. In questa lettera possiamo anche forse sentire un’eco della diffidenza che in quegli anni s’andava formando verso gli italiani, poiché il Curione, dopo avere ricordato le cariche coperte dai due nuovi venuti, e aver lodato la loro pietà, il loro ingegno e la loro dottrina umanistica, insiste «non est quod dubites hos unquam vobis aut dedecori aut incommodo futuros»; Betti e l’Aconcio sono preparati e ammaestrati, dice il Curione, tanto dalla loro pietà e dalla loro modestia, quanto da «tutto il resto», cioè, probabilmente, da quanto poteva aver detto loro il Curione sulla situazione che si era venuta formando in quegli anni dopo la morte del Serveto e le proteste dei circoli italiani. A Zurigo il Betti e l’Aconcio abitarono probabilmente presso l’Ochino, e dell’Aconcio sappiamo che vi rimase quasi un anno; ma possiamo supporre altrettanto per il Betti, poiché nel 1558 ritroviamo i due amici insieme a Strasburgo. Quivi si dovettero separare, poiché non abbiamo nessuna notizia di viaggi del Betti in Inghilterra, mentre nel 1559 l’Aconcio, pieno di speranze nella nuova regina Elisabetta, partiva per Londra, dove nell’anno seguente occupava un posto come ingegnere delle fortificazioni. Il Ruffini Avondo, il Köhler, e lo Hassinger hanno raccolto ed esposto tutti i particolari possibili, piuttosto scarsi, sulla vita e sulle opere dell’Aconcio, facendo seguito ai primi studi di Karl Müller900 sulla diffusione delle sue idee, – come appaiono nella sua ultima opera Stratagemata Satanae, – negli ambienti arminiani. A noi basterà ricordare il fatto principale della vita religiosa dell’Aconcio, dopo il suo passaggio al protestantesimo; ed 900 K. Müller, Kirchengeschichte, II, 2, 2ª ed., Tübingen 1919, pp. VIII, 125-27 ecc.

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esaminare, alla luce di questo fatto e degli Stratagemata Satanae, le conclusioni degli studiosi sulla posizione dell’Aconcio nel mondo protestante. Pochi anni dopo il suo arrivo in Inghilterra, l’Aconcio venne scomunicato dalla Ecclesia Peregrinorum della quale era entrato a far parte, e non fu piú riammesso né nella comunità francese né in quella italiana, quando fu ricostituita. Le ragioni della scomunica stanno nella testimonianza prestata dall’Aconcio in favore di Adriano Hambstede, capo della comunità fiamminga di Londra, il quale era stato accusato di anabattismo per avere raccomandato al Vescovo Grindal, dal quale dipendeva la Ecclesia Peregrinorum, alcuni rifugiati olandesi, riconosciuti all’esame come anabattisti; e, soprattutto, nella dottrina ch’egli svolse durante la difesa dell’amico. Lo Hambstede infatti aveva semplicemente dichiarato che non poteva considerare eretici i suoi compatrioti «soltanto perché non credevano nel Battesimo degli infanti e nella concezione soprannaturale di Cristo», dogmi non fondati sulla Scrittura. Ma si fermava qui, e non svolgeva tutti i motivi che potevano essere impliciti in questa affermazione, come notò subito anche il pastore della comunità francese, N. Gallasio, riferendo a Calvino l’incidente. Invece l’Aconcio, che aveva già scritto due operette italiane di propaganda protestante in senso riformato, e già in esse mostrava di avere riflettuto, polemizzando contro la dottrina e la prassi della incipiente Controriforma, sulla distinzione fra «cose necessarie alla salute» e cose indifferenti, che ritroviamo anche in Lelio Sozzini e in Ochino e piú tardi viene ampliata e sistemata da Fausto Sozzini, adesso elabora su questa distinzione tutta una teoria, che dagli ortodossi come il Gallasio viene chiamata «sofistica», con sua grande irritazione, aumentata quando gli si rifiuta di prendere in con-

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siderazione un lungo scritto che aveva preparato per dimostrarne la corrispondenza con la Scrittura901 . È la dottrina principale dell’opera fondamentale dell’Aconcio, gli Stratagemata, alla quale deve la sua fama, assieme al filosofico De Methodo902 , e la sua importanza nella storia del protestantesimo. L’Aconcio sostiene, come già abbiamo visto dire dall’Ochino e da Lelio Sozzini, che è veramente necessario conoscere e professare solo alcuni pochi articoli di fede, tali che rifiutare uno solo di essi equivarrebbe a negare l’intiera dottrina dell’Evangelo; tutti gli altri, che non sono dedotti direttamente dalla Scrittura, sono indifferenti; e rifiutarli o interpretarli erroneamente non ha una grande importanza, e in ogni modo non ha una importanza decisiva, in quanto non tocca la sostanza stessa della fede. Fra questi dogmi sta per l’Aconcio anche quello dell’incarnazione903 ; anzi, se in un primo momento egli sembra ancora esitante, nella lettera al Grindal del 1564, insistendo per essere ammesso nella comunità italiana, e ripetendo probabilmente lo scritto presentato nel 1560, ora perduto, si esprime molto chiaramente: per lui, non solo non debbono esser considerati come esclusi dalla misericordia divina e dalla salvezza ottenuta «per Christum» coloro che non ammettono il dogma dell’incarnazione, ma si deve avere speranza che si salveranno. Per conto proprio, dichia901 Il Gallasio a Calvino, Londra, 25 gennaio 1561, O. C. XVIII, C. R. 46, n. 3327, col. 341. «Variis enim et sophisticis argumentis tueri conatus est quod Hadrianus temere et fere nullo praetextu asserebat». 902 H. J. De Vleeschauwer, Jacobus Acontius’ Tractaat «De Methodo» met een inleiding witgegeven door... Universiteit te Gent, Werken witgegeven door de Faculteit der wijsbegeerte en Letteren, 67, Antwerpen-Paris 1932, e De Jongste Acontiusstudie, in Algemeen Nederlandsch Tijdschrift voor wijsbegeerte en psychologie, XXVIII, 1934, pp. 49 sgg. 903 Hassinger, Studien zu Jacobus Acontius cit., p. 13.

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ra di non comprederlo e di non poterlo ammettere, perché non si ritrova nella Scrittura, dove egli lo ha cercato a lungo, invocando anche la illuminazione divina, ma invano904 . Dunque l’Aconcio, pur senza definire in qualche maniera nuova il dogma dell’incarnazione e senza entrare nel campo di quelle «sottigliezze» filosofiche e dogmatiche ch’egli con l’Ochino e con il Biandrata e il Castellione tanto deprecava, persiste nel non accettarne la formulazione tradizionale, anzi, ne dichiara indifferente il contenuto stesso. E quante altre dottrine dichiara indifferenti alla salvezza l’Aconcio! Egli non le enumera partitamente: ma basta ricordare, oltre il dogma dell’incarnazione, la dottrina dell’Eucaristia, sulla quale egli rifiuta di pronunciarsi, ammettendo tutte le tesi, anche quella della tradizione cattolica, e condannando egualmente cattolici, luterani e calvinisti perché si vogliono escludere a vicenda dalla salvezza905 . L’importante è ubbidire ai comandamenti di Cristo. Indifferenza dogmatica, dunque, in pro’ dell’attuazione pratica dei precetti, della vita cristiana come si possono trarre dall’Evangelo. È il vecchio motivo italiano e valdesiano che risorge, trasformato, ma non irriconoscibile, di contro al cristallizzarsi delle dottrine protestanti nelle nuove «ortodossie», con le dispute che ne seguivano. L’importante è la trasformazione morale e religiosa dell’uomo, non l’osservanza di questo o quel precetto od opinione «speculativa»: e come tali apparivano le posizioni dogmatiche della tradizione cattolica al Valdés e ai suoi seguaci, cosí all’Aconcio le discussioni e le invettive e maledizioni fra cattolici e protestanti, fra calvinisti e luterani, apparivano «sata904 Epistola Apologetica ad Grindal, in Statagemata cit., pp. 240 sg.; cfr. Ruffini Avondo, Gli «Stratagemata Satanae» cit., pp. 126-27. 905 Statagemata cit., p. 69.

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niche», «filosofiche», «speculative», cioè intellettualistiche di fronte all’atteggiamento di spiritualismo moralistico e di devozione immediata e proveniente dal sentimento proprio di questa tendenza. Queste astuzie di Satana che si riducono alle ambizioni e alle sofisticherie umane, ricordano anche da vicino l’idea anabattistica che l’unico vero demonio è la «prudenza umana». Quello che in Italia intorno al 1540 era accentuazione della vita spirituale interiore, sottacendo ogni determinazione dogmatica in un senso o nell’altro, diventa, negli ambienti degli emigrati per causa di coscienza riuniti nella Ecclesia Peregrinorum di Londra, e provenienti non solo da paesi cattolici, ma anche da paesi protestanti dove si affermavano le nuove illogiche e piú dure intolleranze, condanna di ogni intolleranza, e proposta esplicita di una semplificazione estrema del patrimonio dogmatico cristiano in favore della concordia e della pratica attuazione della solidarietà cristiana. Il tratto italiano, nel senso della tradizione valdesiana, sta nella estensione della tolleranza derivante da quella indifferenza, anche ai cattolici: le invettive contro di questi, a proposito della dottrina dell’Eucaristia, non riguardano la concezione della transustanziazione, ma semplicemente la esclusione dalla salvezza e dalla solidarietà della comunione cristiana di quelli che non la ammettono; e non rimangono unilaterali, ma hanno il loro corrispettivo nella condanna di coloro che escludono i cattolici stessi dalla salvezza e dalla qualità di veri cristiani. È il vecchio lamento del misero prete grammatico, e, da un’altra parte, l’atteggiamento positivo che fa da complemento a quello negativo dei «nicodemiti» e che appare anche nelle prime interrogazioni di Lelio Sozzini a Calvino: che importano le dispute? la sola fede basta alla salvezza; che importa seguire cerimonie e usi che si credono opera umana e non divina? il viver bene, l’onorare Dio rettamente nel nostro cuore sono possibili sotto ogni cielo e in ogni chiesa. È

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il motivo migliore dello spiritualismo visionario di Giorgio Siculo: una misericordia divina cosí vasta che è sufficiente la fede in essa e solo questa fede, per esser certi della salvezza. È il motivo delle argomentazioni dell’Ochino sul carattere del peccato contro lo Spirito Santo, l’unico che non si possa perdonare, ma che noi non possiamo conoscere: neppure per l’Aconcio esiste un errore tale da poter fare considerare chi vi permanga come condannato da Dio e quindi condannabile dagli uomini: «Quid enim, cum dicat dominus: venite ad me omnes, qui laboratis et onere pressi estis, et ego vos sublevabo, tanta erit aliquis temeritate, ut accedentem retrahere audeat atque ei suo capite dicere: heus tu, frustra accedis, qui hoc et illud non credas... ?»906 . È anche il motivo del De Amplitudine curioniano, e delle argomentazioni del Castellione. Rapporti piú diretti ci sono soprattutto con l’Ochino, proprio l’Ochino di Zurigo che veniva preparando i trenta dialoghi907 ; ma, o attraverso questi, o attraverso il Curione, o per conoscenza diretta acquistata in Italia e che non si può escludere, si può dire che l’Aconcio facesse proprio il motivo della rinnovazione e rigenerazione interiore che si manifesta soprattutto nella nuova forza onde si sentono i motivi morali e la carità cristiana, che è il motivo fondamentale degli eretici italiani, con le sue implicazioni negative e positive, del quale ognuno accentua quelle che piú corrispondono alla sua tendenza o alla sua particolare situazione psicologica e culturale. L’Aconcio, per la sua stessa coerenza di pensiero tollerante, che non esclude i cattolici, e che in questo rimane allora del tutto isolata, per lo meno se si rimane alle dichiarazioni esplicite, anche fra gli eretici italiani, e per il suo stesso sforzo di giustificazione di ogni atteggiamenIbid., p. 71. Rilevati e definiti dallo Hassinger, Studien zu Jacobus Acontius cit., pp. 73 sgg. 906 907

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to e di ogni posizione, riconosce anche il diritto del magistrato cristiano a tutelare la fede. Ma non una confessione particolare, anzi l’Aconcio insiste particolarmente contro il moltiplicarsi delle professioni di fede; onde rimane compito dell’autorità piú che la punizione degli infedeli, la sorveglianza degli ecclesiastici, degli apostati e di coloro che sovvertono realmente, per esempio con un espresso ateismo, le fondamenta del cristianesimo; gli eretici in quanto tali sono esclusi dall’azione dell’autorità civile, la quale dovrebbe curare soltanto che le polemiche religiose non degenerassero in contese personali. Sempre per la coerenza stessa della sua posizione, l’Aconcio può proporre come fondamento comune di tutte le confessioni cristiane una professione di fede molto larga, e che non esclude in fondo nulla della tradizione, distaccandosi in questo dall’insistenza degli eretici italiani a discutere il dogma trinitario. Ma non va dimenticato che quelle discussioni erano derivate soprattutto dalla necessità di difendersi dalle accuse degli ortodossi per mostrare che si poteva essere buoni cristiani e seguaci della parola divina anche senza ammettere quel dogma; e che a quella critica negativa s’accompagnava una esigenza positiva, espressa sovente dagli eretici con la stessa formula di Calvino: l’onor di Dio, la gloria di Dio. Quindi il distacco dell’Aconcio dagli altri eretici italiani non è originario, benché il trentino abbia svolto le sue idee piú sulla linea della comune intesa di ogni confessione cristiana e della semplificazione dei dogmi, i cui lontani motivi si possono riscontrare fin nel Contarini, che su quella della discussione razionalistica e della critica del complesso delle dottrine tradizionali della Chiesa, anch’essa ispirata allo stesso motivo. L’Aconcio stesso, scrivendo al Grindal, ricorda come le sue opere italiane, il Dialogo e la Somma, fossero diffuse fra gli italiani di Zurigo e della Svizzera (cioè probabilmente, dei Grigioni e forse anche di Ginevra), e co-

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me non avessero provocato nessun biasimo e condanna da parte delle autorità ecclesiastiche di quei paesi, e neppure da Calvino; ma questo, come il fatto che anch’egli riassumeva la propria dottrina teologica nella «gloria et honor di Dio», e come le affinità delle sue dottrine teologiche particolari del Battesimo e della Cena con quelle di Calvino, giustamente messe in rilievo dallo Hassinger908 , non basta per porre l’Aconcio fra gli emigrati italiani del tipo del Vermigli e dello Zanchi, che rimasero sul terreno della Riforma protestante e si contrapposero anche con la controversia diretta al gruppo degli eretici italiani. Quel che lo Hassinger dice dello «spiritualismo» aconciano909 , si può dire non solo anche di quello ochiniano, – ed è suo merito avere mostrato gli stretti rapporti fra il pensiero del senese e quello del trentino –, ma anche del pensiero di Lelio Sozzini, del Curione, del Castellione, del Biandrata e degli altri italiani; nessuno dei quali ammette di essere così lontano dal pensiero dei riformatori protestanti quanto invece Calvino aveva chiaramente inteso. Certo, ognuno di essi procedeva sul comune terreno della Riforma, delimitato dalla Confessio Helvetica prior, a proprio modo e secondo le proprie tendenze; ma le motivazioni delle loro particolari dottrine (come la critica della Trinità dall’esigenza di «tribuere gloriam uni Deo») si muovono tutte sul piano del pensiero riformatore. Quel che in Aconcio c’è di comune con Calvino è quello stesso che possiamo ritrovare in tutti gli altri italiani del gruppo eretico; le considerazioni dello Hassinger, che sono fondate anche su una attenuazione della intransigenza di Calvino a proposito di questioni come quella della punizione degli eretici e del Battesimo degli adulti, ci mostrano, specialmente con il rilievo che in Aconcio manca ogni richiamo all’idea della religione natura908 909

Ibid., pp. 60 sgg., 67 sgg., ecc. Ibid., pp. 85 sg.

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le e della salvazione dei pagani che l’abbiano osservata, che l’Aconcio era per un verso di preparazione filosofica meno umanistica e platonica del Curione e del Castellione, e per l’altro ch’egli era più portato all’accentuazione morale e positiva dello «spiritualismo» comune a tutti gli eretici italiani, che allo svolgimento delle implicazioni negative di esso. Ma proprio la sua insistenza per entrare o nella comunità spagnola o in quella francese o in quella italiana della Ecclesia Peregrinorum, la sua fermezza nel condannare l’intervento della magistratura nelle discussioni religiose, la sua avversione per l’intolleranza, ce lo mostrano, come la sua amicizia col Curione e con l’eretico Betti, come uno del gruppo degli italiani che mantengono nell’esilio le esigenze specifiche della vita religiosa italiana, e non riescono a nessun patto ad accettare realmente il nuovo ordine religioso, per il quale pure han lasciato la patria e del quale si sentono sostenitori e interpreti, anche in quei loro atteggiamenti che i capi riconosciuti della Riforma vedevano come deviazioni. Non si può usare per questi italiani, eretici di fronte alla chiesa calvinista e a quella luterana come di fronte a quella cattolica, un criterio differente da quello che si usa per definire la posizione dei ribelli o degli innovatori di fronte alla Chiesa Cattolica in questo periodo; non si deve cioè credere troppo facilmente di rivedere il giudizio dei capi di quelle chiese, che le avevano costruite, e che le governavano dopo averne veduto da vicino il sorgere, e ben conoscendone le esigenze e i caratteri fondamentali. Il Gallasio e i capi della vita ecclesiastica inglese erano in diretto contatto con Calvino; e se essi accomunarono l’Aconcio agli anabattisti e agli altri eretici, non possiamo prescindere da questo giudizio con il facile rilievo che si trattava di «epigoni» e con una astratta affinità di

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pensiero fra Calvino e Aconcio, come fa lo Hassinger910 . Nel caso degli eretici italiani di fronte alle chiese della Riforma svizzera rielaborazioni e spostamenti di questo genere possono sedurre piú facilmente ad argomentazioni paradossali, perché la loro ostinata volontà di rimanere fedeli alla Confessio Helvetica finiva per metterli in una posizione ambigua, come accade alle opposizioni interne che si annidano nei movimenti rivoluzionari, e che in nome della fedeltà ai motivi originari di esse, astrattamente intesi, finiscono per minarne la integrità e la efficacia storica concreta. Ma se si vuole fare opera di storici, occorre riconoscere quella ambiguità, nelle sue ragioni e nella sua vera natura, differenti di volta in volta, e non fermarsi su essa per trarne interpretazioni eleganti ma poco storiche. Cosí la diffusione dello scritto principale dell’Aconcio fra gli arminiani e i rimostranti in Inghilterra e in Olanda non può essere interpretata come pura e semplice «pubblicistica», come vorrebbe lo Hassinger911 , cioè come adattamento, piú o meno inconsapevole, del reale pensiero dell’Aconcio alle nuove esigenze delle sètte religiose nella società del Seicento europeo; ma dev’essere considerata come riconoscimento storico del valore del pensiero dell’Aconcio per tutto quel mondo di pensieri e atteggiamenti religiosi di insoddisfazione e di esigenze di rinnovamento radicale. Si tratta infatti di un fenomeno niente affatto isolato e inspiegabile, perché la diffusione dello scritto dell’Aconcio va di pari passo con quella del socinianesimo: cioè della dottrina in tante cose analoga a quella dell’Aconcio, che Fausto Sozzini elaborò si910 Ibid., p. 91. Invece è giusto l’accenno dello Hassinger a p. 95: «Ferner wäre noch die Frage aufzuwerfen, ob es sich bei dieser Richtung um eine typisch italienische Erscheinung handelt»: che è la soluzione qui tratteggiata. 911 Ibid., p. 96.

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stemando le idee degli anabattisti e degli eretici italiani, e che corrispondendo a una esigenza largamente diffusa nel mondo protestante, dette una solidità e una ragione storica a tutto il fermento di affermazioni e di negazioni, di critiche e di ispirazioni che gli eretici italiani avevano portato con sé dall’Italia nell’Europa.

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CAPITOLO VENTINOVESIMO

Cracovia e gli eretici italiani. Fausto Sozzini a Lione e in Italia. Commento all’inizio del vangelo Giovanneo. L’Accademia degli Intronati e l’eresia. Fausto Sozzini e la morte del Castelvetro.

Nella seconda generazione degli eretici italiani incontriamo, ancor piú che nella prima, individui staccati, che perseguono idee affini e rimangono solidali fra loro, ma sono ormai isolati dal resto della emigrazione italiana; e appaiono anche figure irrequiete, che annunciano già l’avventuriero «onorato» e il viaggiatore italiano del Settecento. La isolazione e la irrequietezza spiegano i ritorni al cattolicesimo e le cadute nello scetticismo; era la conseguenza naturale della insofferenza degli eretici italiani per la nuova disciplina delle nuove forme di vita ecclesiastica, e del loro individualismo, ormai anacronistico nell’Europa della Controriforma. D’altra parte, Fausto Sozzini, l’unico che abbia trovato una nuova società in cui operare e una nuova comunità a cui appoggiarsi, in Polonia, ci interessa non tanto come capo di un movimento religioso, quanto come sistematore del movimento di idee e di aspirazioni proprio del gruppo eretico italiano, che in lui si conclude912 . 912 Egli stesso rifiutava l’idea di poter essere considerato come «eresiarca»: «Nullo prorsus pacto possum ego haeresiarcha vocari, cum nec alios in iis, quae ad religionis nostrae decreta spectant, docendi provinciam hactenus mihi sumpserim, sed tantummodo vel piane provocatus ac lacessitus, vel amicorun et fratrum precibus ac jussibus coactus, aliquid hucusque scripserim, mea autem ipsius spunte nihil...» (F. Sozzini a M. Vadovita, 14 giugno 1598, in Opera, I, p. 475). Si può dire di lui quel che il Renan ha detto dell’«unitarismo anglosassone», a proposito del Channing (L’unitarisme aux Etats Unis, in «Revue des

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Uomini come il Pucci, il Biandrata, Fausto Sozzini, e i minori che si muovono con essi o attorno ad essi, non hanno piú un centro ideale come gli uomini della prima generazione avevano nelle città svizzere, a Zurigo o a Basilea, o nella Valtellina; viaggiano irrequieti dall’Inghilterra alla Germania alla Transilvania, dalla Francia alla Polonia alla Prussia, effettuando nella loro vita stessa quel cosmopolitismo del «vero cristiano» che era una delle idee piú care all’anabattismo e al socinianesimo, e cercando una sede adatta per la diffusione delle loro idee, o semplicemente una possibilità di esercitare la loro professione. Tuttavia possiamo parlare anche per essi di un centro, di una città dove in qualche modo si ritrovano, di dove partono, dove ritornano o dove finiscono per avviarsi; ed anche questa volta è, come Basilea, la sede di una famosa Università e insieme un centro commerciale e un luogo d’incontro di popolazioni di stirpi diverse: Cracovia913 . A Cracovia stessa e nei dintorni abiterà Fausto Sozzini, di lí era partito il Biandrata per la Transilvania, lí si dirigono il Pucci e lo Squarcialupi; nelle sue vicinanze viene ad abitare l’italo-ungherese Dudith-Sbardellati; sulla via di Cracovia era Breslavia, dove attorno al medico imperiale Crato von Crafftheim si muoveva un circolo d’idee umanistiche, che faceva rivivere in quegli ambienti luterani la simpatia per l’Italia e per gli italiani, e attraverso il Cratone e il Dudith-Sbardellati intratteneva con essi larghi rapporti. Ma se da Breslavia poteva passare qualche emigrato errante che chiedeva aiuto a quei potenti personaggi vi-

Deux Mondes», 1854, vol. 8, p. 1086): «Servie par de bonnes et solides natures, étrangères d’une part aux raffinements et aux caprices de l’artiste, de l’autre aux exigences et aux scrupules du savant, cette honnête et sage école...» 913 Oltre Ruffini, La Polonia nel Cinquecento cit., Ptašnik, Gli italiani a Cracovia cit.

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cino alla corte imperiale914 , o se con questi poteva stare 914 Agostino Doni cosentino autore di un De Natura hominis telesiano (De Natura hominis libri duo, in quibus, discussa tum medicorum, tum philosophorum antea probatissimorum caligine, tandem quid sit homo naturali ratione ostenditur, ad Stephanum sereniss. Regem Poloniae, Basileae, 1581; per le notizie italiane cfr. F. Fiorentino, Bernardino Telesio, ossia studi storici sull’idea della natura nel Risorgimento italiano, vol. I, Firenze 1872, pp. 321 sg.) aveva forse sperato di far fortuna diffondendo in Europa le idee del Telesio. Ma non ci riuscí; le poche notizie che abbiamo ce lo mostrano prima a Basilea, in rapporto con Th. Zwinger, al quale confida il «librum primum, nondum quidem satis elaboratum, sed ita informatum, ut ferri possit» e chiedendogli se gli poteva vendere un berretto di seta usato, perché nuovo non lo poteva comprare ma senza berretto di seta, la gente non lo voleva considerare filosofo ([Basilea) ex aed. Calderini 6 marzo 1580; Basilea, Universitätsbibliothek, Fr. Gr. ms II, 27, n. 61); poi, da Ginevra, lamentandosi che il Perna abbia concesso la «correctio scriptorum» ad un altro (settembre 1580, ivi, n. 62); chiedendogli aiuto per ottenere dalla censura il permesso di pubblicare il libro e per avere un posto presso un tipografo (da casa 10 luglio s.a., ivi, n. 63); per annunciargli la partenza, e per chiedergli aiuto per il pagamento d’un debito che un altro italiano (certo Aloysius) gli rifiuta (15 luglio; da Basilea, ivi, n. 64); per raccontargli, da Francoforte, le prime peripezie del suo viaggio: persecuzioni da parte delle autorità cattoliche, ma anche da qualcuno che voleva fare un favore a Beza (ma il Doni sospettava anche «novos inimicos... arrianos videlicet» [30 settembre, s. a.; ivi, n. 66]); e infine da Cracovia, idi di giugno del 1582; da Francoforte era andato a Marburgo, e di lí a Lipsia, dove sperava di trovare il Simonio però già partito. Da Lipsia si era recato a Breslavia, dove era stato accolto liberalmente dal Dudith, il quale gli aveva dato lettere per Cracovia. Quivi «a Polonis» dice il Doni, «multa accepi beneficia, ab Italis, qui hic sunt, nulla fere, praeterquam a quibusdam Florentinis» (Basilea, Universitätsbibliothek, Fr. Gr. ms II, 4, n. 70). A Cracovia era giunto in estrema povertà e il Dudith l’aveva aiutato (Gillet, Crato von Crafftheim cit., II, p. 539, n. 72, Dudith a Cratone, 22 ottobre 1581): il Dudith ci dice che il libro era «plenum nova quadam et

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per un certo tempo in rapporto qualche tipo avventuroso come il lucchese Simone Simoni915 , il vero centro – sempre in un senso limitato – della seconda generazione degli eretici italiani è Cracovia: l’ambiente umanistico che già vi aveva creato il Lismanini916 era ormai disperso, ma gli italiani vi erano ad ogni modo numerosi, e creavano, se pur meno vasto che nella Svizzera, un ambiente favo-

absurda philosophia, caeterum» il Doni era «homo bonus, ob pietatem exul, cum quinque annos in carcere fuisset in patria». A Cracovia il Doni viveva esercitando la professione di medico. 915 Pascal, Da Lucca a Ginevra cit., pp. 482 sgg. Il Simonio espresse una volta simpatia per gli antitrinitari, lodandone la dottrina e la pietà, e anche forse i costumi e le idee («Alia multa commendabat»: J. Monau al Cratone, sul ritorno del Simonio al cattolicesimo, 8 settembre 1581, Breslavia, Stadtbibliothek, Hs. Red. 244, fol. 490), ma non si può dire avesse reali convinzioni religiose, e ad ogni modo non si può dire facesse parte del gruppo, pur cosí poco organico, che stiamo studiando. 916 Völker, Kirchengeschichte Polens cit. pp. 135, 167 sgg.; Th. Wotschke, Francesco Lismanino, in «Zeitschrift der Hist. Gesellschaft, für die Provinz», Posen 1903, vol. 18, pp. 213-32. Per quanto grande sia la sua importanza per la diffusione delle idee ereticali in Polonia, neppure il Lismanini può entrare a far parte della nostra storia, dalla quale rimane lontano lo stesso Stancaro, il quale fra gli italiani rimane del tutto isolato, e con la sua dottrina dell’ufficio di mediatore di Cristo e della sua natura entra a far parte piuttosto della storia delle dottrine teologiche protestanti. Questi uomini perdono ogni nesso con la patria, non sentono i problemi dei compagni di fede in Italia; se hanno ancora qualche rapporto col gruppo eretico italiano che studiamo e che porta in Europa problemi, esperienze e idee maturati nella cultura italiana e durante la crisi italiana, questo avviene soltanto per l’aiuto che questi italiani solevano dare l’uno all’altro, come rileva lo Squarcialupi (dedicando a «Petro, Valacchiae Domino» il suo De fontium et fluviorum origine, Claudiopoli [Giulaféhérzvar] 1585): «Et quia sum ego Italus, nec debeo nec volo id requirente occasione, meos honestissimos cives non magni facere...»

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revole. Influentissimo era Prospero Provana917 , maestro delle poste e «curatore del sale», che era un protettore degli eretici italiani, verso le idee dei quali nutriva probabilmente qualche simpatia; non meno influente era il medico di corte Nicolò Buccella, che nel 1581 avrebbe lasciato suo erede Fausto Sozzini, dopo averlo per molto tempo ospitato918 . Da Cracovia sono datate anche molte 917 S. Ciampi, Bibliografia critica delle antiche reciproche corrispondenze... colla Polonia, Firenze 1834, p. 320, per i rapporti col Bruto; F. Giannini, Storia della Polonia e delle sue relazioni con l’Italia, Milano 1916, pp. 131 sgg. L’appalto della salina (di Wieliczca presso Cracovia) gli fu tolto nel 1578, per «subornare il Palatino di Cracovia... con avergli assegnati cinque mila fiorini all’anno sopra il sale» (Th. Wierzbowski, V. Laureo... nonce apostolique en Pologne 1574-1578 et ses dépêches, Varsavie 1887, p. 678). Ptašnik, Gli italiani a Cracovia cit., pp. 161-64. 918 Le lettere a lui dirette lo mostrano personaggio rispettato nella raccolta «redingeriana» di Breslavia, e vi sono numerose. Poteva infatti, come medico del Re di Polonia, considerarsi collega di Cratone. Per i suoi rapporti con Fausto Sozzini, che abitò per lungo tempo in casa sua, cfr. Wl. Budka, Nuovi particolari sulla vita di F. Sozzini (in polacco), in «Reformacja w Polsce» III (1924), che contiene documenti, fra l’altro, sul dotalizio di F. Sozzini alla moglie, e il testamento del Buccella con le clausole in favore di Fausto. Altri particolari in A. Brückner, Dissidenti polacchi, I (in polacco), Varsavia 1905, p. 141, che anch’egli riproduce il testamento del Buccella, meno completamente che il Dr. Budka (al quale debbo il riassunto del suo articolo e altre cortesi indicazioni, e che qui ringrazio). Il Buccella chiedeva d’esser sepolto in un luogo «ad sepeliendum cadavera non papisticae religionis destinatum», vestito con gli indumenti piú vecchi e sciupati. Il suo cadavere doveva esser chiuso «in cista lignea, rudi, more Italico»; la fossa doveva esser scavata da quattro poveri, che dovevano compiere anche il seppellimento e il trasporto. Nessuno doveva accompagnare il morto, neppure i parenti, e nessuna persona «nobilis vel gravis»; ma solo il primo dei domestici. «Deferetur enim cadaver ad sepulturam in curru cooperto et clauso, ut nemo animadvertat, quid

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lettere dello storico Giovanni Michele Bruto919 , che pur frequentando i principali italiani, rimase del tutto fuori dal movimento religioso, da letterato qual era. Ma proprio il Bruto ci attesta in una sua lettera che a Cracovia vi era anche un ambiente di italiani artigiani, fra i quali l’eresia era diffusa, e che formava dunque come un primo appoggio per gli eretici piú famosi920 .

sit, vel noctu aut sommo mane in aurora...» Il Buccella aveva intrapreso anche una fabbrica di carte («papyri faciendi officinas») nel 1583 (J. Ptašnik, Monumenta Poloniae typografica, I, Leopoli 1922, p. 341). 919 Oltre l’ed. sopracitata della sua storia e il Mazzucchelli, cfr. F. Ch. Vogel, Nachrichten von dem Leben und dea Schriften des Geschichtschreibers Johann Michael Brutus, Meissen 1864, di dove non risulta però nessun rapporto dottrinale con Fausto Sozzini, che invece conosceva fin dal periodo lionese, e che presentava nel 1574 al Dudith con parole di amicizia (Book, Historia Antitrinitariorum cit., II, p. 659 e cfr. 725). Anche il nome del Bruto s’incontra spesso fra i corrispondenti del Cratone e del Dudith, nella raccolta breslaviense. Cfr. anche pp. 170 sgg. dell’André Dudith del Costil cit. 920 Parigi, Bibl. de S.te Geneviève, ms n. 1456, Epistolae haereticorum (Copie), III, fol. 220r. (cfr. descrizione di questa collezione di lettere in Costil, André Dudith cit., p. 14, V). «Quid, quod hic Bovius horum [degli italiani] Coryphaeus, qui Christum educit in terras per mille annorum spacium regnaturum, suis autorem mollis et delicatae vitae?» La lettera è del 1° gennaio 1583, e in un poscritto rivela la preoccupazione comune che tali dissensioni potessero aprite la via al nemico («Amurathes») che premeva ai confini della Polonia. Per la Gerusalemme terrena cfr. Wilbur, Our unitarian Heritage cit., p. 146: «The anabaptist regarded Rakow as almost a new Jerusalem». Per la «Nuova Gerusalemme» cfr. anche il seguente passo dell’Eglin sulle opinioni del Gantner, il cui processo fu occasione di quello degli italiani nei Grigioni, del 1570-71: «... imaginatur sibi more fanaticorum quorundam terram novam, in qua nova iustitia regnare debeat...» (Museum Helveticum, vol. IV,

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A capo di questa comunità di eretici italiani dei ceti popolari troviamo un Bovius, del quale Bruto ci dice solo che annunciava l’avvento del regno di Cristo in terra, che avrebbe durato mille anni. Con tutta probabilità si tratta dunque del Giambattista Bovio bolognese che aveva dovuto abbandonare i Grigioni per le sue dottrine anabattistiche. L’umanista ciceroniano si scandalizza dell’ambiente italiano di Cracovia: solo una decina d’italiani che non si occupino di mercatura: e seicento eresie, professate dall’infima plebe: ciabattini, muratori, spazzacamini, piccoli trafficanti e merciai di ogni genere, allevatori di pollame: e nessuno va d’accordo con l’altro. «Nova sibi Hierusalem fingunt, sedem imperii». Sul carattere specifico delle dottrine il Bruto dice poco: «addunt ex Luciani Diogene, ac Menippo»: dunque cinismo, cioè forse la semplicità estrema di vita e il culto della povertà come dovevano appàrire a un umanista: ma anche la speranza egualitaria nel livellamento di ogni differenza fra ricchi e poveri, potenti e deboli: «fore ut tum magni olim reges mercenaria opera victum quaerant, quorum alii totos dies inclusi in fabrica traducant, reconcinantes alii veteres calceos, alii everrentes focum». Ma quel che piú aveva colpito il Bruto era la diversità delle opinioni: «Arrianorum, quasi ex altera familia, unum nomen, admirabilis opinionum diversitas; ut nulla iam sit pars fori, quae non vocibus eorum personet: ita homines sibi temperare non noverunt, ubi iis semel sint frena licentiae taxata». Questa era la situazione a Cracovia, come appariva al Bruto, nel 1583; ma se accettiamo la congettura che il capo di quegli eretici fosse lo stesso Bovio che veniva dai Grigioni, possiamo pensare che una situazione analoga vi fosse stata anche per un decennio prima.

p. 636). Non si trattava soltanto di aspirazioni utopistiche, come mostra l’esempio di Racovia.

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Ci potrebbe essere un intervallo di residenza in Moravia presso i fratres boheme; ma i rapporti fra la Moravia e Cracovia erano stretti921 , come fra la Moravia e i Grigiori. Cosí possiamo supporre che a Cracovia ci fosse un ambiente di italiani dei ceti popolari che continuavano in terra straniera quelle violente discussioni delle quali si parla tanto spesso, e con l’identico sprezzo che il Bruto, nelle fonti italiane di un quarantennio prima; e che coltivavano idee di egualitarismo, e insieme di antitrinitarismo. Non sappiamo se questa gente abbia avuto rapporti con Fausto Sozzini o con gli altri italiani di passaggio a Cracovia: ma ad un ambiente di questo genere ricorre la mente quando pensa alla morte dell’Ochino in Moravia, nella casa dell’anabattista Nicolò Paruta, che anch’egli era in rapporto coi Grigiori. E le idee che Fausto Sozzini sosteneva, se non giunsero mai ad espressioni cosí vivaci come quelle che il Bruto ci riferisce accompagnandole da citazioni classiche, ma che sembrano colte dalla viva voce di qualcuno di quei «sutores veteramentarii», corrispondevano però sostanzialmente ad esse. Notizie come queste, che il Bruto scriveva al Cratone, o la conoscenza diretta di ambienti italiani o polacchi del genere, non erano certo fatte per procurare agli «ariani» e ai loro capi reali consensi da parte di un antico prelato, di un diplomatico e di un raccoglitore di testi greci come Andrea Dudith-Sbardellati, che pure dalla tradizione dei sociniani viene considerato come uno dei loro, e che indubbiamente per un certo tempo ha piegato verso le 921 Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., pp. 46 sgg., riferisce le polemiche fra Fratres Poloni e Fratres Moravi; benché conducessero a discussioni violente, queste polemiche derivavano da un continuo contatto, che è quanto qui ci preme rilevare. Cfr. anche Wilbur, Our unitarian Heritage cit., p. 106 sgg. {A History of Unitarianism cit., pp. 354-55}.

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idee di Fausto Sozzini, corrispondendo e discutendo lungamente con lui922 . Secondo la tradizione degli «antitrinitari» e dei «Fratres Poloni», Fausto Sozzini entra nella storia di quel movimento che da lui doveva prendere il nome solo intorno al 1562, quando da Lione accorse a Zurigo per raccogliervi le carte dello zio Lelio923 . A questa prima apparizione segue nelle biografie tradizionali di Fausto un periodo di circa dodici anni, passato alla corte medicea, piuttosto oscuro dal punto di vista religioso; poi, con l’esilio, ricominciano le notizie delle dispute sostenute e delle imprese compiute. Ma quel che poteva apparire di poco interesse a biografi che, pur seguendo un’idea della religione cristiana dove ogni agiografia avrebbe dovuto perder valore, davano tuttavia importanza preminente alla «testimonianza» resa alla loro idea religiosa e tendevano a fare dell’emigrato italiano un precursore ed un esemplare di vita cristiana; quel che ad essi poteva sembrare meno interessante anche perché Fausto stesso non amava parlarne che come d’un periodo di sonno, presen922 C. Juhàsz, A. Dudith. Ein Beitrag zur Geschichte des Humanismus und der Gegenreformation, in Historisches Jahrbuch, LV, 1935, pp. 55-74, argomenta a lungo contro il Costil per sostenere che il Dudith non fu mai sociniano. La discussione mi sembra poco utile ai fini dell’indagine storica, poiché una definizione confessionale piú o meno esplicita in questo caso non muterebbe nulla alla figura di questo gran dilettante e umanista, che fu a lungo in corrispondenza con F. Sozzini e che, se di fronte alla durezza del Beza giungeva ad esaltare i gesuiti, egli protestante, si mostrò sempre avverso alla tradizione della Chiesa Romana. La sua sostanziale indifferenza per la teologia lo fa molto piú vicino al Sozzini e agli altri italiani di quanto non ve lo possano allontanare le successive posizioni confessionali. 923 E. M. Wilbur, Faustus Socinus, an Estimate of his Life and Influence, in «Bulletin of the International Committee of Historical Sciences», v (1933), pp. 48-60; Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., pp. 117 sgg.

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ta per noi, che cerchiamo d’intendere la vita religiosa e morale di questo gruppo d’eretici in funzione della storia della vita italiana e non di una sètta protestante, il carattere d’un problema non trascurabile. Fausto Sozzini, che non fu mai ammesso ufficialmente a far parte di nessuna delle chiese eretiche di Polonia, e che rifiutò, anche quando tutti lo consideravano il capo reale del movimento dei «cristiani unitari», di essere l’iniziatore di una sètta o di un sistema religioso, considerandosi soprattutto maestro di un metodo per intendere la Scrittura, raggiunse la grande influenza di cui godette specie alla fine della sua vita e la grande autorità morale e religiosa che esercitò, nonostante fosse straniero, sugli ambienti piú irrequieti e ribelli e sulle coscienze più pronte allo scrupolo e alla condanna, proprio per la sua coerenza morale e mentale, oltre che per la acutezza del suo intelletto, e l’equilibrio pratico di cui dette prova. La formazione di queste qualità non è un fenomeno individuale, avulso dai problemi e dalle speranze del gruppo eretico italiano, e lineare, onde dalla «depressione» della vita di corte si salga all’«altezza» delle prime e piú importanti controversie in terra riformata; anzi, rispecchia, insieme al ripiegamento e alla dissoluzione della corrente piú vivace e coerente della Riforma protestante italiana, anche una conclusione della crisi della coscienza italiana apertasi ai primi decenni del secolo. Nato nel 1539, Fausto Sozzini non aveva seguito un corso regolare di studi, anzi, aveva trascurato la giurisprudenza che pure era tradizionale nella sua famiglia, e aveva mostrato gusto soprattutto per le lettere, nelle quali non è improbabile ch’entrasse qualche tintura di quel platonismo che era diffuso nell’Italia e soprattutto nella Toscana del Cinquecento. Sembra che neppure l’educazione religiosa fosse molto curata, benché le idee riformatrici fossero coltivate da molti della famiglia Sozzini, ancor dal tempo della «conversione» di Lelio. Il

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giovane Fausto crebbe dunque senza una educazione ordinata, e con un carattere fiero ed impulsivo, molto atto, dice la tradizione, a sentire il comando delle passioni. Fin qui abbiamo pochi particolari; sembra che la persona che avesse maggiore autorità su di lui fosse lo zio Celso, professore di diritto a Bologna, che coperse molte cariche in patria, e che aveva fama di poco credente924 . Fausto entrò fra i soci dell’Accademia degli Intronati, col nome di Frastagliato, come lo zio Celso col nome di Sonnacchioso925 . Non si sa se Fausto fosse anche nell’Accademia senese dei Sizienti, che Celso trasportò verso il 1554 a Bologna926 . In queste Accademie senesi si doveva discutere non solo di letteratura e del problema della lingua; se quella dei Sizienti di Bologna sembra del tutto volta a problemi giuridici, fra gli scopi di quella degli Intronati c’era anche l’onorare Iddio927 . E abbiamo visto del resto dal Valla a Lelio Sozzini a Mino Celsi, quale im924 A. Gordon, art. Socinus nella Enciclopedia britannica, fondato su ricerche originali. Ed. XIV, vol. 20, pp. 909 sg. 925 C. Mazzi, La congrega dei Rozzi di Siena, nel secolo XVI, Firenze 1882, p. 345. Cfr. l’art. in Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici del Calogerà, III, Venezia 1745. p. 8. 926 Ibid. 927 Non credo che sarebbe del tutto inutile studiare piú da vicino la storia di questa Accademia degli Intronati, sciolta nel 1568 da’ Medici, alla quale appartenevano anche altri riformati senesi come lo Spannocchi e come il Benvoglienti. Lo statuto dell Accademia era: Deum colere, Studere, Gaudere, Neminem laedere, Non temere credere, De mundo non curare (Nuova raccolta, p. 9); il Mazzi, La congrega dei Rozzi di Siena cit., dà invece, p. 347: Orare... Nemini credere. Cfr. P. Piccolomini, Documenti del R. Archivio di Stato in Siena sull’eresia... durante il sec. XVI, in «Boll. Senese di Storia Patria», XVII (1910), pp. 1-35, Documenti fiorentini... ivi, pp. 159-99; Documenti Vaticani sull’eresia in Siena durante il sec. XVI, ivi, pp. 195-306. {Molti nomi di accusati di eresia «luterana», si ritrovano negli elenchi degli Accademici}.

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portanza anche religiosa potesse acquistare ed acquistasse il problema della lingua. Nel 1561 Fausto partí per Lione, probabilmente per farvi esperienza commerciale, secondo l’uso di tanti giovani toscani e in genere italiani. Di qui si recò nel 1562 a Zurigo, a raccogliere le carte dello zio Lelio. Era stato avvisato dal Besozzi, e probabilmente a Zurigo vide l’altro senese Bernardino Ochino. Si può congetturare che si fermasse anche a Basilea. Dell’aprile 1563 abbiamo una lunga lettera a G. Bargagli, col quale la famiglia Sozzini era imparentata, che è stata pubblicata dal Cantú, ma che non sembra sia stata particolarmente analizzata928 . Il Bargagli era stato in pensiero per la vita dell’amico e socio Intronato: ma questi era preoccupato di cosa di maggiore importanza, nei riguardi dell’amico, perché non temeva per la vita corporale di lui, ma per quella «spirituale ed eterna», che il Bargagli stava, secondo i timori di Fausto, per perdere. Piú avanti Fausto esorta il «Materiale» del quale si manifesta intimo amico, a cambiar vita, e a temere il castigo divino, consistente nell’abbandono da parte di Dio e nella caduta totale in ogni sorta di vizi. So che questo mio parlare ti parrà strano, e pur la cosa sta cosí, né voler paragonare altri con te, perciocché gli altri non hanno avuto né tante correzioni né tanti ricordi, né tanta luce in questo oscurissimo mondo, quanta n’hai avuta tu: e oltre a ciò i ricordi e le correzioni che ti sono state fatte, ti sono fatte da persona che tu ami tanto, e a cui ne sei tanto caro... Com’è possibile che non ti muovano le mie parole, dette con tanto amore e con tanta verità? 928 Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 491; Siena, Biblioteca Comunale, D. VI. 7, nn. 17 sgg., 20 aprile 1563. La lettera è indirizzata al «Materiale» Intronato, cioè a G. Bargagli.

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Questi ammonimenti di Fausto al Bargagli si riferiscono dunque evidentemente a una discussione precedente, che con tutta probabilità era cominciata a Siena, poiché Fausto sembra pensare che se egli fosse rimasto a fianco dell’amico, questi non avrebbe tralignato. Le esortazioni, i ricordi e la «luce» avuta dall’amico non erano stati probabilmente solo di carattere morale e genericamente religioso, e le discussioni devono essere andate abbastanza avanti, se Fausto si duole che il Bargagli sia ora «fuori di quei concetti che gli porgevano materia di fargli dei dubbi», e se poi, accennando alle notizie delle feste senesi che il «Materiale» gli aveva mandato, esclama: Quanto alla Befana e il resto che tu mi racconti intorno a quelle cose che già m’erano tante grate, me ne passerò leggermente. Ti dirò solo che mi par che tu abbi voluto far prova alla mia fermezza, la quale con l’aiuto di Dio non scemerà mai, anzi ogni giorno anderà crescendo. Io posso dire...: Amor, se vuoi ch’io torni al giogo antico Come par che tu mostri, un’altra prova Meravigliosa e nova Per domar me convienti vincer pria. E quest’è che bisogna ch’egli mi faccia vedere apertamente, rendendomene chiaro testimonio, che, seguendo le sue istigazioni e facendomi suo servo, io dopo morte abbia ritornar in vita si come ha fatto Cristo, ogni volta ch’io osserverò i suoi comandamenti e mi farò tutto suo: ma perciocché questo è del tutto impossibile, impossibil è ancora ch’io mai piú ritorni ad innamorarmi di quella maniera.

Fausto dice di aver ripreso il primo motto della sua «impresa» d’Intronato, riferendolo non piú a Delia, ma a un «soggetto divinissimo», «non nascosto» al Bulgarini. Sotto il velo della prudenza che si doveva osservare anche nella corrispondenza privata, son chiare le allusioni a ragionamenti religiosi fra i due amici. Chiarissimo è poi che Fausto, già prima della sua partenza per Lione, era stato combattuto fra l’inclinazione alle feste e ai divertimenti (la Befana), e un forte amore, da una parte, e il sentimento religioso, dall’altra; e che l’amico ne

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seguiva i sentimenti, e ne ascoltava le esortazioni religiose, le quali lo conducevano a dubbi che soddisfacevano Fausto. Ma se aveva abbandonato il pensiero di Delia, alla quale forse si riferisce il sonetto aggiunto da Fausto in fine della sua lettera, e dove si parla anche di una disillusione o di un amore respinto, ad ogni modo molto doloroso, non aveva abbandonato gli interessi letterari, che si accompagnavano ad una vivissima antipatia per lo studio delle leggi. Questo non presentava per lui, a parte il lucro personale, nessuna utilità: «Non è sí vil mestiero al mondo che oggi non sia piú giovevole a tutti comunemente che la scienza delle leggi civili, trattata come s’usa ora». La pace e la tranquillità cittadina si hanno solo dove con il bando agli avvocati, uditori, dottori si sono bandite le liti. L’antipatia del Sozzini per la vita pratica in questo senso è fortissima e giunge all’invettiva contro Bartolo, Baldo, Cino, Alessandro «e tanta canaglia che nacquero al mondo per mettervi una peste perpetua». Questa antipatia è fondata insieme sul culto delle lettere, «rifugio a tutti i travagli», e sul sentimento religioso: perché tanto vale per lui la legge civile che la canonica, si tratta sempre di «leggi fatte da uomini», alle quali viene contrapposta dunque implicitamente la legge fatta da Dio, dell’Evangelo. L’abolizione dell’Accademia degli Intronati gli sembra un segno di imbarbarimento: «e poiché par che l’Italia ami tanto la barbarie, che voglia dar bando a tutte le buone lettere, guardisi che Dio non la facci barbara da dovero»; gli è dispiaciuto anche per altre ragioni, ma queste rimangono oscure. Desidera istantemente un Decamerone, del quale indica anche l’edizione, e prega l’amico di non mancare anche se «dovesse metter sottosopra tutto il mondo, non che Siena». Continua a scrivere versi latini e italiani, dei quali manda saggi all’amico. Da un sonetto accluso si vede che non era soddisfat-

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to del proprio ardore religioso: quando amava una cosa mortale, ardeva d’interno amore pur contro il proprio fermo volere: Ed or che del eterno padre e Dio, Fonte d’ogni mio ben, bramo nel core Vive fiamme sentir di dolce ardore, Lungi è l’effetto da sí bel disio. Ma spera di potere arrivare a una conoscenza religiosa cosí viva e immediata come era la visione dell’«angelica beltà» del primo oggetto del suo amore. Certo, non rimaneva ozioso. Infatti, nell’aprile del 1563 Fausto aveva già raccolto gli scritti dello zio a Zurigo, e aveva già composto o stava ultimando la sua prima opera teologica, un commento all’Inizio del Vangelo giovanneo, derivato nei concetti fondamentali dallo scritto analogo di Lelio, anch’esso diffuso negli ambienti della Riforma, che abbiamo analizzato piú sopra929 . Ma fin dall’inizio se ne distacca per un bisogno di giustificazione preliminare della propria posizione attraverso una sorta di «storia della questione», che intende di eliminare in linea di principio ogni accusa di eresia, negando valore ad ogni richiamo alle eresie degli Ebioniti e di Cerinto930 . Se infatti l’evangelista avesse pensato a costoro, argomenta il Sozzini, li avrebbe nominati, co929 Pubblicato dal Du Jon, assieme a quello di Lelio, nella Defensio sopra ricordata; e poi ripubblicato con leggere modificazioni stilistiche nelle opere del Sozzini (Fausti Socini Senensis... Opera..., Bibliotheca Fratrum Polonorum, Irenopoli (Amsterdam) 1656 sgg., I), pp. 75 sgg. Seguo l’edizione del Du Jon, che riproduce la versione piú antica; cfr. qui, supra, pp. 238 sgg. 930 Ibid., coll. 129.40, 130.25 sg.

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me ha fatto in altri casi, mentre di essi non si trova traccia né negli scritti di Giovanni, né in quelli degli altri evangelisti931 . In Fausto il ragionamento astratto precede sempre l’argomentazione scritturale: tanto Lelio che Fausto intendono per «principio» non il principio delle cose, l’eternità stessa, ma il principio dell’Evangelo; ma Lelio comincia subito con le argomentazioni scritturali, mentre Fausto osserva che non si può usare la voce principio per indicare la eternità, poiché essa non ha né principio né fine. Cosí l’interpretazione comune non solo contrasta con la Scrittura, ma anche «omni rationi»932 . Fausto segue piú da vicino il testo evangelico, commentandolo passo per passo, mentre Lelio si ferma di piú su alcuni punti piú importanti, tralasciando gli altri. In Fausto mancano le citazioni di Calvino, del Butzer e del Castellione, che invece troviamo in Lelio; c’è piú chiarezza e consapevolezza, ma meno immediatezza religiosa. Cosí, per esempio, nel commentare il versetto «In ipso vita erat, et vita erat lux hominum», Lelio parla sempre del «Cristo figlio di Maria», contrapponendolo al Cristo metafisico, e spiegando cosí il senso evangelico: «Qui enim in Christum credet, habet vitam aeternam». Invece Fausto ha, piú direttamente: «Christum vita dicitur, quia credentibus vitam dat aeternam»; e mentre lo zio distingue fra vita «temporale» e vita «eterna», con linguaggio più semplice e tradizionale, il nipote distingue fra vita «eterna», – che è la stessa che per lo zio, la vita dello spirito che è dono di Dio –, e vita «naturale», che è quelIbid., coll. 129.58 sgg. Ibid., coll. 135.55 sgg. «Qui hoc loco principij nomine Christi aeternitatem designare volunt, manifeste erroris convincuntur, tum quod nulla Scripturae auctoritate fulcitur, tum quod omni rationi adversatur.... Aetetnitas nulla admittit principium: immo quum principium dico, consequenter ac necessario aeternitatem excludo». 931 932

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la che intendono i filosofi e che non interessa all’uomo religioso933 . La preoccupazione dell’uno è l’affermazione dell’umanità di Cristo, a volte quasi patetica, insistente; la preoccupazione dell’altro è il senso spirituale nel quale debbono essere intese le parole evangeliche. Non che anche Fausto non insista sul motivo dell’umanità di Cristo e della sua subordinazione al padre: ma l’accento è del tutto diverso, e piú consapevole dell’importanza della critica alla concezione metafisica del Figlio; e in Lelio manca anche del tutto il richiamo alla ragione, che in Fausto è invece esplicito. Una persona che aveva scritto e diffuso un’argomentazione cosí decisamente e consapevolmente eretica non poteva abbandonare poi la sua posizione dottrinale, e tornarsene a vivere in terra cattolica, senza una convinzione ben precisa e determinata della possibilità e ammissibilità di questo, o senza avere da compiere un’attività clandestina che giustificasse una tale rinuncia alla manifestazione delle proprie idee. Ora, di un’attività clandestina di Fausto in Italia non esiste traccia alcuna, né nella tradizione della sètta antitrinitaria, né in accenni di contemporanei o in documenti d’altro genere. D’altra parte non c’è alcuna notizia del sopravvivere di una organizzazione protestante di nessun genere in Toscana nel periodo dal 1563 al 1574. Cosí rimane, come ultima spiegazione, la convinzione «nicodemitica»: possiamo forse immaginare che Fausto pensasse di rimanere in Italia solo pochi anni, per poi tornare in Isvizzera, e che impegni di ogni genere, intrecciati gli uni con gli altri, finissero per trattenerlo ancor piú che non succedesse col Betti; amicizie, forse qualche amore, la situazione comoda che aveva alla corte medicea, la reverenza verso la principessa sua protettrice, tutte cose che lo 933

Ibid., coll. 202.60 sgg.

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trattenevano, sí che il ritorno in terra «evangelica» veniva rimandato di anno in anno. D’altra parte, per un eretico cosí deciso, la differenza tra terra evangelica e terra papistica non doveva sembrare, specie in quegli anni di abbattimento e di ripiegamento del gruppo degli eretici italiani, cosí grande e cosí importante: un giovane che volesse prepararsi in silenzio aveva la possibilità di studiare e riflettere tanto in Italia che in Isvizzera, e fare piú che prepararsi in silenzio doveva sembrare impossibile in quel momento. Solo quando la lenta e lunga preparazione s’avviò alla maturazione e alla decisione, Fausto dovette sentire quale era la differenza fra Basilea, dove gli studi biblici erano permessi senza sospetto a un laico, e Firenze, dove essi davano ormai certamente sospetto. Qualunque sia stata la ragione o il complesso di motivi che indusse Fausto Sozzini a rimanere in Italia per un periodo cosí lungo, egli non trasformò né mise a dormire del tutto il suo animo, e anche nella sua attività letteraria ne troviamo qualche traccia. Rimangono di lui vari sonetti e canzoni, alcune delle quali pubblicate nella raccolta del Ferentilli934 . Fra esse anche le lodi dello sdegno935 , che distoglie l’uomo dai falsi amori e lo volge alla speranza della vita immortale, che squarcia il velo dell’ignoranza oscurante una non ben sana mente, e riempie l’anima di «alto ardente zelo», che modera le passioni «e ’n libertà sicura Volge una servitú molesta e dura», che fa soffrire per i falli che si commettono, e fa sentire il dolore che si è dato agli altri. C’è indubbiamente un tono moraleggiante, con un velato richiamo all’evangelico «non fare agli altri...»; ma questo «sdegno», appare piuttosto come rite934 Scelta di stanze di diversi autori toscani, Raccolta da M. Agostino Ferentilli, di nuovo con ogni diligenza ricorrette, Venetia 1583, pp. 49, 53, 55. 935 Ibid., p. 59.

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gno morale che come passione e moto violento dell’animo onde si ripugna a qualcosa, e non è ben determinato, perché non si sa verso che cosa sia rivolto («del falso amor distruggi l’empio regno», «di stratio indegno Liberi l’uomo, et tolto a viva morte A speme d’immortale vita il trasporle», «Et di vil voglia sgombra Riempi un’alma d’alto ardente zelo» sono determinazioni negative, generiche come quelle positive: «santo fuoco», «Per te lieto e beato L’uom, mentre il suo voler domi, et governi, Abbatte, et scaccia i rei nemici interni»). Le altre poesie del Sozzini che sono riunite in questa raccolta non presentano un grande interesse, poiché si tratta di versi d’amore del carattere platonizzante allora usuale. Anche le lodi dello sdegno furono scritte per un «Trionfo dello sdegno» celebrato dagli studenti senesi, con un carro simbolico; ma pure c’è un tono piú sospeso, allusivo. Altri versi di Fausto Sozzini si trovano in una raccolta manoscritta936 , dove accanto alle stanze sopraricordate, vengono riportate traduzioni poetiche dei salmi, e vari sonetti. Una è la traduzione del «Miserere», poi seguono la traduzione del primo e del ventiduesimo salmo; anche queste poesie «spirituali», come venivano allora chiamate, non direbbero niente di per sé, perché nella seconda metà del Cinquecento esse erano di moda; anche perché nella considerava queste traduzioni come cosa secondaria di fronte alle discussioni teologiche, pur annettendo loro una certa importanza937 . 936 Roma Bibl. Angelica, 1882; cfr. E. Vitale, Inventario dei mss. della Biblioteca Angelica, in Mazzatinti-Sorbelli, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, LVI, Firenze 1934, pp. 62, 65. 937 Cfr. la lettera a B. Bulgarini da Baden, 30 ottobre 1577, in Cantú, Gli eretici d’Italia cit., pp. 496 sgg.; Siena, Bibl. Com., D. VI. 7, nn. 21 sgg. «... io scrissi al Bargaglio di volermi pigliare la traslazione dei Salmi per passatempo... perché, facendo paragone da queste altre fatiche, nelle quali,

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Verso la fine del periodo toscano troviamo Fausto in stretto rapporto con un altro Intronato forse eretico anch’egli, il quale, dice Fausto, potrà riferire al Bargagli su un certo sonetto di Curzio Gonzaga, probabilmente contro la costellazione politica (l’inizio è: «Poi che l’aquila e ’l gallo han fatto i figli», che evidentemente allude ad avvenimenti francesi e tedeschi), e tale da destare timori, poiché il Sozzini chiede al Bargagli se sono state fatte opposizioni al sonetto stesso, e quali e da chi. E ci dovevano essere probabilmente implicazioni di carattere religioso, se c’è bisogno dell’avvertenza: «Né dubitate che svenga come del Castelvetro al Caro, né che quindi nasca scandalo alcuno»938 . Il caso del Castelvetro era certo presente alla mente di quegli uomini come un ammonimento di prudenza; tanto piú che era allora giunta la notizia della morte del letterato modenese. «La morte del Castelvetro mi ha dato tanto dolore che non potrei mai dirvelo a pieno» dice nella stessa lettera il Sozzini, il quale aveva per l’occasione composto un sonetto, che con molti complimenti raccomandava al Bargagli, se pur glielo avesse mandato, di non mostrare a nessuno. Forse il poeta modenese e il gentiluomo senese si erano incontrati o in Italia o durante un passaggio di Fausto per i Grigioni, verso il 1563 nei Grigioni, dove il Castelvetro aveva risieduto prima di Lione, e dove sarebbe tornato a finire la vita. Questa presenza del Castelvetro nel centro piú vivace dell’anabattismo italiano, Chiavenna, non ba-

o in simili, io sarò continuamente involto, a quella, queste [la polemica col Pucci e il De Christo Servatore] mi paiono veramente fatiche, e quella quasi una ricreazione d’esse, alla quale ricreazione ritornerò subito ch’io posso, non avendo infino a qui vulgarizzati piú che undici Salmi e mezzo». 938 Comunicazione anon. in «The Athenaeum», n. 2598, 11 agosto 1877, p. 80, da documenti della collezione del rev. A. Toti {di W. M. Brady}.

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sta certo per farcelo pensare incline alle dottrine ereticali degli anabattisti tanto piú che il suo nome non viene mai ricordato nelle loro cronache; ma certo possiamo ritenere che il Castelvetro si sentisse piú affine ai suoi conterranei del tipo del Curione e dei Sozzini, che non ai fedeli delle nuove confessioni. Il «satireggiare, obiettare, rifiutare» del Castelvetro, il suo «non prediligere» alcune delle dottrine del protestantesimo, il suo «appoggiarsi» a tutte, accogliendole solo come «iniziatrici di un nuovo moto intellettuale»939 , che hanno permesso al Muratori di sostenere (infondatezza dell’accusa fatta al Castelvetro, ci permettono di considerarlo invece proprio piú vicino agli eretici piú pericolosi, che finivano per spogliare la riforma della sua concretezza religiosa ed ecclesiastica, per ridurla, inconsapevolmente ancora, a fenomeno di vita morale e intellettuale soggettiva. Anche il Castelvetro potrebbe essere annoverato fra i «nicodemiti», poiché la sua fuga in Isvizzera si deve alla denuncia del Caro, cioè ad un fatto esteriore, e non ad una sua risoluzione o ad un impulso della sua coscienza; come, probabilmente, si può dire anche per Sozzini, almeno per tutto un lungo periodo940 . Non è del tutto improbabile la congettura che questi uomini nutrissero una utopistica speranza di qualche grande rivolgimento, che permettesse la convocazione di un concilio universale941 , dal quale sarebbe venuta la riG. Cavazzuti, L. Castelvetro, Modena 1903, p. 217. Ad Clarissimum virum Martinum Vadovitam Academiae Cracoviensis professorem, 1598: «... vix dici potest me unquam Romanae Ecclesiae adhaesisse, quum simulatque per aetatem iudicio in divinis rebus ubi potui, fuerim in illis aliter atque Ecclesia Romana doceat, edoctus atque institutus», F. Socini Opera, I, p. 476b. 941 Anche il Paleario, che nel 1545 aveva inviato ai capi protestanti un’epistola che auspicava un libero concilio, aveva con939

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forma radicale che essi desideravano, cioè la abolizione di ogni forma di vita ecclesiastica sovrapponentesi alla religiosità e alla moralità individuali e alla spontaneità dei raggruppamenti di discussione e preghiera. Certo nel 1558, quando l’Aconcio scriveva nel suo Dialogo sotto lo pseudonimo di Ricamati queste idee erano in qualche modo diffuse; «non sarebbe egli adunque meno male» dice uno degli interlocutori, «evitar tutte queste calamità [dell’esilio] (delle quali ciascuna è grandissima) e starsene cosí infino a tanto che non si faccia un libero et santo concilio, per lo quale siamo tutti senza pericolo alcuno chiariti del vero? poiché questo concilio bisognerà pure che un dí si faccia»942 . È vero che quando l’Aconcio si poneva questa domanda, che ci sembra rispecchiare discussioni e speranze comuni fra i «riformati» italiani, c’era ancora la speranza nella convocazione di quella che fu la terza ripresa del Concilio di Trento, e che nell’animo di molti, interpretato anche dall’autorità dell’Imperatore e della corona francese, avrebbe dovuto essere un nuovo e santo concilio che avrebbe dovuto andare incontro in qualcosa ai protestanti. Ma non è assurdo pensare che speranze di questo genere continuassero ad essere coltivate fra questi protestanti italiani sostenendosi su altre speranze di vittoria degli Ugonotti e di sconfitte della politica absburgica, poiché anche in quel riassunto delle idee, delle aspirazioni e della prassi degli eretici ita-

tinuato a sperare in esso anche dopo che le prime due sessioni avevano tolto ai desiderosi di riforma dottrinale ogni speranza nel Tridentino; e, proprio in occasione della pace di Cateau-Cambrésis, aveva invitato i sovrani a curarne la convocazione e a garantirne la «libertà». (Oratio de Pace, in Opera, Amsterdam 1696, pp. 196-97). Cfr. anche nell’Estratto del processo di P. Carnesecchi, edito da G. Manzoni (Miscellanea di Storia italiana, X, Torino 1870) pp. 343 sgg., 370 sgg., 480 sg. 942 Acontiana cit., p, 20.10, ma cfr. 35.

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liani, che è la Forma d’una Republica Christiana, composta a Londra nel 1580943 , il punto di partenza è proprio fornito dal «libero e santo concilio, al quale si vede che tutti gli huomini da bene di tutte le provincie inclinano», e che dovrebbe portare rimedio al prepotere degli ecclesiastici e alle differenze confessionali. Anche se non si coltivano piú speranze di quel genere, non ci si rispondeva più come l’Aconcio: «Questo concilio sapete come convien farlo? in molti pezzi: hoggi farem la parte nostra voi ed io: doman faranno la sua due o tre altri amici, et cosí anderanno facendo tutti quelli che stimano l’honore et la gloria d’Iddio...»944 ; all’attivismo della propaganda personale e all’ottimismo della efficacia dello «intender le openioni di tutti con far paragone, qual sieno alle scritture sacre piú conformi» si sostituiva il pessimismo, per il quale non v’era luogo alcuno che desse «comodo ricetto ad huomini di libero giuditio i quali si mettessero a rivedere da capo a piedi tutta la religione». Ma per gran parte tanto quella speranza quanto questo pessimismo conducevano allo stesso effetto pratico, a una passiva inazione, contenta della vita puramente interiore o di un astratto «sdegno», che avrebbero finito per isterilirsi rapidamente. Il sonetto del Sozzini per la morte del Castelvetro ci è stato conservato945 , e merita d’essere analizzato, per quanto ci può dire dei rapporti fra il Sozzini e il CastelCfr. ifra, pp. 378 sgg. Acontiana cit., p. 20. 945 Nella raccolta dell’Angelica sopra citata, 32r; «In morte di L.° C.°». Il Vitale lo considera anonimo; ma dalle indicazioni del ms stesso, è evidente trattarsi anche qui di opera di Fausto Sozzini (Opera, n. 27a). Non credo ci sia ragione di dubitare che la sigla L.° C.° si riferisca al Castelvetro, tanto piú che sappiamo d’altra parte che il Sozzini aveva scritto appunto un sonetto di questo genere. Fra gli altri sonetti di Fausto, ve n’è (c. 24v) uno in lode di Virginia Spannocchi. 943

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vetro, e dell’atteggiamento psicologico di quegli uomini. Il giovane senese comincia col dire che nel cammino da lui preso «per estiva selva a parte eletta e rara» egli aveva avuto una dolce scorta, seguir la quale gli era piú caro che la vita: la «scorta» è dunque il Castelvetro, la cui morte ora il Sozzini lamenta. Ormai egli comprende quanto furono diritti e sicuri i passi della sua guida, «onde s’impara quel che pria nessun vide, et fassi chiara l’oscura via, ch’ancor finire intende». Dunque dalla vita del Castelvetro si sarebbe fatta chiara la via oscura che il Sozzini intendeva anch’egli di seguire, e si sarebbe imparato quel che prima nessuno aveva veduto. La seconda parte dell’allusione è la piú comprensibile: il dolore per la morte dell’amico venerato come maestro, e le riflessioni da essa suscitate fanno veder chiaramente al Sozzini il suo dovere, la strada che deve seguire: e quale sia questa strada appare evidente dai versi seguenti: Ma lasso appena i piè dietro l’amate Piante avea mossi, ch’un rio sonno et lento Gli occhi e ’l cuor opprimendo arrestar femmi. È la strada dell’esilio in terra evangelica e dell’aperta professione di fede, che Fausto aveva prima cominciato a seguire, poi abbandonato. In vita del Castelvetro non era riuscito a seguirne l’esempio, ma ora la morte lo fa riflettere: Or lei partita, e veggio sol segnate Le bell’orme; ahi che lieve pioggia e vento Spegner le puote, e tor ciò che il ciel diemmi. Sentimento di disperazione e di debolezza: basterà poco a farmi abbandonare del tutto la strada. Sentimenti di rimorso e di propositi di nuova vita sono anche in un sonetto per la morte della sorella Fillide, nata nel 1540,

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e della quale il Cantú, nella genealogia della famiglia Sozzini, non indica la data della morte, che è avvenuta probabilmente nel 1568, poiché il sonetto comincia con un’allusione che mi pare evidente allo zio, morto nel 1563, cinque anni prima. Volge il quinto anno, et lasso parmi un giorno Ch’altri gli occhi chiudendo a me gli aperse; Ahi chi me gli rinchiuse, et mi sommerse Donde risurto ancora ho tema e scorno! E ora una nuova morte lo fa riflettere alla sua situazione. Anche la sorella, con la sua morte, gli ha scoperto «quel vero che può far l’huom di stelle adorno», e gli ha fatto desiderare di morire, per potere essere riuniti nel seno del Padre celeste, come erano figli dello stesso padre. E lo spera ancora, poiché ora s’è tirato fuori dalla profondità dei mali dov’era caduto, e sta per tornare «a la via già smarrita» nella quale la sorella aveva impresso alte vestigia946 . Ma da queste speranze e da questi poetici propositi alla decisione definitiva dovevano passare ancora sei anni. Intanto il Sozzini non rimaneva inoperoso: perché proprio a questo secondo periodo toscano risale la composizione in lingua italiana, a istanza di un «grande personaggio» rimasto ignoto, del suo secondo scritto teologico, il De Sacrae Scripturae autoritate, noto solo nella traduzione latina. 946 Ibid., c. 28v. Cfr. la Vita F. Socini, cit. del Przipkowzki, sul culto avuto da Fausto per la sorella Fillide.

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CAPITOLO TRENTESIMO

Fausto Sozzini a Basilea. De Sacrae Scripturae Autoritate. Razionalismo esegetico e moralismo umanistico nella concezione della religione. Polemiche sulla giustificazione, e dottrina razionale della redenzione, come opera d’ammaestramento morale: De Jesu Christo Servatore.

Secondo le notizie forniteci dal Sozzini stesso quest’opera ebbe inizio quasi contemporaneamente al commentario ai primi versetti dell’Evangelo giovanneo; ma venne pubblicata solo piú tardi durante il periodo del «sonno» in Toscana. Essa è la prima opera di Fausto veramente originale ed ebbe subito grande successo. La prima edizione, del 1568, uscita sotto il nome del gesuita Domenico Lopez947 , portava una prefazione che contraddiceva al testo, perché affermava che si può avere una cognizione puramente naturale di Dio, mentre questo viene negato nel corso dell’opera; per il Sozzini invece, l’unica cognizione che si può avere di Dio è quella che viene dalla Scrittura stessa, dalla parola divina948 . Il Sozzini si rivolge in primo luogo a coloro che fanno professione, in un modo o nell’altro, di cristianesimo: e a costoro è facile dimostrare l’assoluta e preminente autorità della Sacra Scrittura con argomenti di carattere filologico, considerando il libro sacro come un qualunque libro del quale si deve dimostrare l’autenticità949 . In que947 Opera cit., I, pp. 265 sgg. Le pagine sono divise in colonne, che indico quando necessario con a, b. 948 Ibid., p. 273b: «Religio nequaquam res naturalis est». 949 G. De Ruggiero, Storia della filosofia, III: Rinascimento, Riforma e Controriforma, I, Bari 1930, pp. 267 sgg. {Ma la migliore visione di insieme circa i problemi filosofici la dà A. Stöckl, Geschichte der Philosophie des Mittelalters, III, Mainz 1866,

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sta prima parte si può dire col De Ruggiero che il libro di Fausto Sozzini è il primo trattato di filologia moderna, ma soprattutto in quanto sistema e generalizza, applicandoli al libro per eccellenza, la critica dei testi inaugurata dal Valla e il metodo delle concordanze del Flacio. Per i cristiani, quattro sono le ragioni per le quali essi potrebbero dubitare dell’autenticità, e dell’autorità assoluta che ne consegue, di questo testo: che l’autore non sia degno di fede; che non possa essere identificato; che si possa pensare o si sappia certamente che il testo sia stato «depravato» o interpolato; che vi siano testimonianze in contrario. Fausto dimostra che la Scrittura regge a tutti questi dubbi, con ragioni interne (gli Apostoli non possono aver contravvenuto al precetto cristiano della veridicità) e con ragioni esterne (concordanze) e che quindi un cristiano deve credere incondizionatamente alla Sacra Scrittura, e solo ad essa, e alla sua interpretazione «filologica», cioè aderente al testo. Per coloro invece che seguono una religione differente dalla cristiana, occorre dimostrare la preminenza del cristianesimo su tutte le altre religioni950 . E qui Fausto accenna a una teoria dell’essenza della religione, che è del tutto moralistica: la religione consiste essenzialmente di promesse e di precetti, e in quella cristiana si hanno promesse piú splendide e grandi di ogni altra, e i precetti migliori. La diffusione rapidissima di essa, fin dal suo principio, ne è una prova. La religione si fonda sulla rivelazione, poiché non esiste religione naturale, come dimostra la esperienza fatta nelle nuove terre americane, e come è implicitamente affermato dalla Scrittura, che dice che la religione viene dalla fede, il che non significhe-

pp. 608-28 («Der empiristische Rationalismus auf religiösdogmatischem Gebiet»)}. 950 Socini Opera cit., I, p. 271b.

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rebbe nulla se si trattasse di un fenomeno naturale. La rivelazione è manifestazione di Dio e della sua volontà, che avviene storicamente nelle varie religioni, ed è storicamente avvenuta attraverso la Sacra Scrittura; ma soprattutto attraverso l’Evangelo, nella religione per eccellenza, che è la cristiana: fatto storico e non naturale. Se non è un fatto naturale la rivelazione, non può esser fatto naturale la religione che poggia su di essa e su di essa soltanto. Questa dimostrazione (dei limiti della quale il Sozzini è, come vediamo piú avanti, consapevole) si chiude con una lunga citazione di Dante sulla rivelazione, origine della fede951 . La posizione del Sozzini non è incoerente con il suo pensiero, che non è affatto razionalistico come si suole ritenere riferendosi alla critica del dogma trinitario e alla concezione di Cristo come vero uomo; infatti, quando Fausto, dopo aver dimostrato l’autorità della Sacra Scrittura e l’eccellenza della religione cristiana anche per coloro che non riconoscono nessuna religione in particolare, ma ammettono in generale la religione, si trova di fronte all’ultima obiezione, di coloro che vogliono prove inoppugnabili e che negano anche la religione in generale, egli rinuncia alle argomentazioni razionali. Con questi è inutile discutere, perché hanno poco considerato la natura della religione, «quae ea est ut... fidei meritum requirat, sitque hominum probitatis tamquam lapis quidam lydius»952 . Se le verità religiose e in ispecie quelle dell’Evangelo fossero evidenti e del tutto inoppugnabili, non ci sarebbe nessuna differenza fra i cattivi e i buoni, perché tanto gli uni che gli altri sarebbero convinti delle verità di fede, e non ci sarebbe neppure «ulla causa bene et male agendi, eoque non virtutis remunerandae et vitii puniendi»953 . Dalla parte di Dio, la Ibid., pp. 273b, 280b. Par. XXIV 88-111. Socini Opera cit., I, pp. 279b-280a. 953 Ibid. 951 952

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religione è rivelazione, dalla parte dell’uomo, la religione è sforzo di fede, e persuasione che si deve fare il bene (che si devono seguire i precetti divini) e che le promesse divine saranno mantenute. E qui il Sozzini inserisce la sua citazione di Dante954 . Dunque, il metodo critico di Fausto Sozzini non può esser chiamato razionalistico in senso diverso da quello usato da studiosi come il Dempf per il pensiero tomistico955 ; perché esso ha lo stesso limite di quello, la rivelazione. La maggiore cultura e consapevolezza filosofica del tomismo gli permetteva d’accogliere anche la speculazione metafisica sulla Trinità; il Sozzini, che non aveva avuto nessuna preparazione filosofica, si teneva all’esperienza, e per questo appariva cosí lontano dal tomismo956 . L’esperienza del Sozzini era puramente let954 Cfr. anche Par. XXIV 63-84, 133-38, e P. Chiminelli, La fortuna di Dante nella cristianità riformata, con speciale riferimento all’Italia, Roma 1921, pp. 28 sgg., sulle discussioni dantesche in Toscana, con una citaz. di lettera del Bulgarini a Fausto; il Chiminelli ha però trascurato questa citazione dantesca di Fausto nella prima opera originale. 955 A. Dempf, Sacrum Imperium, trad. it. di C. Antoni, Messina 1932, p. 328. 956 Lettera di F. Sozzini a un ignoto, Opera cit., I, p. 490a, dove parla di sé come uomo «qui nec philosophiam unquam didicit, nec scholasticam (quam vocant) theologiam unquam attigit, et ipsius logicae artis nihil nisi rudimenta quaedam idque valde sero degustavit». F. Sozzini si considerava autodidatta: «levissime et otnni praeceptore destitutus bonarum artium et literarum studiis operam impendi et florentissimos aetatis meae annos duodecim perpetuos, ab anno videlicet 23 usque 35 in patriae otio et partim in aula perdidi» (ivi); «Neminem... in iis rebus... ex iis qui hodie vivunt ulla ex parte magistrum agnosco; sed Deum tantummodo praeceptorem habui sacrasque literas. Quinetiam in universo ipsa divinarum rerum scientia, quaecunque tandem illa in me sit, praeter unum Laelium patruum meum, vel potius praeter quaedam paucula ab ipso con-

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teraria e morale: essa si riduceva infatti alla lettura e allo studio dei libri sacri, ch’egli cercava d’intendere coi sussidi delle lingue e della critica filologica, secondo il metodo dello zio: della critica filologica inaugurata dal Valla. Il «res, non verba quaero» del Sozzini va inteso in questo senso, di richiamo all’esperienza filologica957 . È un razionalismo esegetico, tanto piú consapevole dei suoi limiti, quanto piú ardito entro di essi. Anzi, il Sozzini dichiara espressamente che la religione ha il suo precipuo fondamento nell’autorità e non nella ragione: questa posizione del De Autoritate si svolgerà poi nel senso che l’autorità divina può dire cose che siano sopra la ragione958 , ma mai cose che siano contro di essa; ma non sarà mai contraddetta da Fausto Sozzini, e solo i suoi seguaci giungeranno a parlare di «religio rationalis»959 . Noi sappiamo che il Sozzini, pubblican-

scripta, et multa annotata nullum prorsus magistrum me habere contigit. (F. S. a M. Squarcialupi, 1582, in Opera cit., I, p. 362a). 957 De J. Christo Servatore, in Opera cit., II, p. 185b. Cfr. Meli, Spinoza e due antecedenti italiani dello spinozismo, Firenze 1934, p. 18, che interpreta invece in senso piú generale. È un richiamo all’esperienza intesa in senso elementare, e qui come esperienza filologica. 958 Adversus eos qui rerum ad salutem suam pertinentium cognitionem diligentes per se ipsi non inquirunt, in Opera cit., I, p. 343a: «Nam ubi divina patefactio adest, non solum humana ratio res divinas percipere potest, sed ut percipiat necesse est»; Responsio ad libellum Iac. Wujeki de divinitate filii Dei et Spiritus Sancti, in Opera cit., II, p. 617b: «multa quidem divinitus patefiunt sopra rationem et humanum captum, nihil tamen contra rationem et sensum ipsum communem» dove la ragione è posta sullo stesso piano del «senso comune». 959 L’opera di A. Wiszowaty (Wissovatius), Religio rationalis seu de rationis iudicio in controversiis etiam theologicis ac religionis adhibendo tractatus, è uscita ad Amsterdam nel 1685, ed

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do nel 1578 alcuni degli scritti lasciati dal Castellione, ne lasciò nascosta una grande parte, la piú ardita, quella nella quale l’arte del dubbio s’estende anche alle verità rivelate960 . Evidentemente temeva che la pubblicazione integrale delle vere idee del Castellione avrebbe destato tale scandalo da far piú male che bene. Questo fatto autorizza il sospetto che l’eretico senese possa in molti casi avere esercitato un simile controllo anche sulle proprie espressioni: il che non contraddirebbe a quanto abbiamo detto del «nicodemismo» di questi uomini. Ma in questo caso dobbiamo ritenere che si trattasse di una convinzione reale, alla quale egli tenne sempre fermo, e alla quale corrispose l’atteggiamento che nel 1579 doveva prendere in Transilvania, di fronte a F. Dávid, che, traendo le conseguenze logiche dalla negazione della divinità di Cristo, sosteneva che, come non si riconosceva il carattere divino del Figlio, cosí non si doveva adorare che il solo Dio Padre961 . Era un porsi fuori della tradizione cristiana e un avvicinarsi all’ebraismo e al maomettanesimo, che se poteva avere una giustificazione logica intrinseca, ma astratta, e una giustificazione storica nei continui rapporti della Transilvania con la Sublime Porta alla quale era anche spesso stata soggetta politicamente, non poteva essere ammesso da chi non volesse rinunciare al nome cristiano, e non volesse venir messo del tut-

è il frutto piú caratteristico della seconda generazione dei sociniani. 960 Cfr. Buisson, Sébastien Castellion cit., II, p. 372, nota 31, e p. 379, nota 40: «Felix Turpio», che ha apposto la prefazione a questi Diahgi IIII, De Praedestinatione, De Electione, De Libero arbitrio, De fide, è F. Sozzini. Per la pubblicazione parziale cfr. E. Feist, Introduzione al De Arte Dubitandi del Castellione, in Per la storia degli eretici cit., p. 303. 961 Wilbur, Our unitarian Heritage cit., pp. 229 sgg. {; A History of Unitarianism cit., pp. 392 sg.}.

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to al bando della società cristiana, rendendosi piú malvisto degli stessi anabattisti. E Fausto non intendeva porsi in nessun modo fuori della tradizione cristiana, né rifiutare di adorare in Cristo la volontà divina: sarebbe stato un ritorno alla legge mosaica, un rinnegamento dell’Evangelo, per il quale egli s’era deciso ad abbandonare la patria e gli amici, rompendo un lungo indugio. L’adozione era per Fausto, prima d’ogni cosa, la manifestazione esteriore della riconoscenza per la salvezza da Cristo donataci con la rivelazione della volontà divina e con l’indicazione della via da seguire per la salvezza: l’ubbidienza alla volontà divina, ai comandamenti evangelici962 . E ad essa non si poteva rinunciare per la stessa ragione onde non si possono separare le opere dalla fede, per quella intima unione di sentimento religioso e di volontà morale la cui idea Fausto riprende dalla spiritualità valdesiana. Il Sozzini ripeté queste idee anche nel 1585. In questa unità, che si colorisce come senso dell’unità della coscienza umana, tale che la contradizione per cui l’uomo «non bonum quod velit sed malum quod nolit facit»963 si svela nella sua sostanziale immoralità, viene superato il contrasto apparente fra fede e ragione, che poi sarà ripreso dal movimento sociniano, ma che nel pensiero del Sozzini non compare. Non si deve parlare quindi di razionalismo, ma di una religione dell’attività morale e della coerenza intellettuale, per lo meno a questo proposito. L’uso della critica filologica e forse del metodo esegetico delle scuole giuridiche italiane, l’esigenza che l’autorità concordi con la ragione, il respingere tutto ciò che alla ragione sia opposto, non è razionalismo, perché si am962 De Jesu Christi invocatione disputatio, scritta nel 1579, pubbl. a Cracovia nel 1595, in Opera cit., II, pp. 713 sgg.; cfr. p. 717b. 963 Ibid., I, p. 89a, in un commento a san Paolo. Cfr. Meli, Spinoza cit., p. 24.

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mette che vi possa essere qualcosa che alla ragione sfugga; è la fede attiva, che è dell’uomo, e deve da questo essere compresa coi mezzi umani, ma è da Dio, e come tale ad essi superiore. La incoerenza di questa posizione da un punto di vista strettamente logico e razionalistico mostra che l’interesse del pensiero di Fausto Sozzini va cercato sul piano strettamente religioso e morale, e non su quello speculativo. Nel 1574 Fausto Sozzini decise finalmente di abbandonare del tutto l’Italia e il servizio della corte medicea dove, del resto, aveva perduto la sua protettrice964 . Era un altro segretario di principe che abbandonava cosí il servizio del suo signore e la patria; non si ha notizia che il gentiluomo senese fosse implicato in qualche processo o semplicemente sospettato; probabilmente, dopo il processo del Paleario e quello del Carnesecchi, la pressione dell’autorità inquisitoriale era piú forte, o le esitazioni di Fausto erano giunte da sole alla risoluzione, o la scomparsa della protettrice aveva reso piú difficile la posizione dell’amico di eretici come il Celsi e parente di eretici ancora viventi. Non si sa se il Sozzini passasse per la Valtellina; ad ogni modo lo troviamo subito a Basilea, intento a studi teologici, che si assommavano nella rielaborazione del concetto della redenzione. Egli stesso scrisse piú tardi che quelle idee erano già note allo zio Lelio e agli amici di questi, che erano anche amici suoi: dunque, probabilmente, Mino Celsi che Lelio aveva potuto conoscere a Siena, il Curione che Fausto aveva potuto cono964 La infelice Isabella dei Medici, moglie di G. P. Orsini e da questi uccisa per amore di vittoria Accoramboni. Pare che la partenza avvenisse prima della morte di Isabella, poiché la vita di F. Sozzini dell’Eques Polonus ricorda che il Sozzini aveva perso ogni speranza di ottenere licenza «ab invitissimis principibus»; l’Orsini fu anche inviato dal Duca a insistere presso Fausto perché questi rimanesse in Toscana (Opera cit., **2r).

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scere a Basilea alla fine del 1563, e certamente Francesco Berti e Mario Besozzi. I nuovi concetti di Fausto Sozzini venivano discussi anche fuori del ristretto ambiente eretico: attraverso Girolamo Marliano, ne venne a conoscenza anche il padovano G. B. Rota, pastore della chiesa italiana di Ginevra, e, attraverso questi, Manfredo Balbani, pastore italiano anch’egli a Ginevra. I due italiani avevano promesso di confutare un breve scritto dove Fausto aveva raccolto i principî fondamentali della sua dottrina, ma non mantennero la promessa; invece mandarono a Basilea il pastore francese Covet, che riuscí ad attirare Fausto in una discussione, e infine ottenne un nuovo scritto dell’italiano e gliene mandò una confutazione, alla quale Fausto rispose a lungo e particolareggiatamente. Cosí il De Jesu Christo Servatore, che è la prima e piú importante opera realmente originale di Fausto Sozzini, si presentò in forma polemica. Esso venne diffuso manoscritto, perché Fausto aveva preso l’impegno di non pubblicare nulla col suo nome, per non ostacolare l’opera dei suoi protettori che difendevano il suo patrimonio dal sequestro dell’Inquisizione. Una parte ne venne pubblicata nel 1583, a insaputa di Fausto, sotto l’allusivo pseudonimo di Prosper Dysidaeus; l’opera intera venne pubblicata dall’autore, che per la prima volta pubblicava col proprio nome, solo nel 1594965 . Questi brevi accenni alla storia esteriore del libro di Fausto ci mostrano ancora l’ambiente di sotterfugi, di discussioni ad arte provocate, di diffusione clandestina o semiclandestina di nuove idee, che abbiamo incontrato tante volte nel corso di queste ricerche. I ginevrini vi hanno la stessa parte di qualche decennio prima: ma c’è qualcosa di piú pacato e 965 Prefaz. al De J. Christo Servatore (1594), in Opera cit., II, p. 118: «cognoverant ex parte hoc idem similiter ante complures annos amici isti mei, quippe qui et Laelii amici fuissent»; e quivi anche per le notizie che seguono.

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di meno acre anche nel loro procedere; non vi sono, da parte loro, denuncie, come al tempo del Serveto, del Gribaldi, del Castellione, del Besozzi: ma discussioni e confutazioni circondate da grandi cautele. Fosse maggiore tolleranza dei basileesi al tempo di Basilio Amerbach e di Teodoro Zwinger, fosse stanchezza dei ginevrini, fosse maggiore prudenza degli italiani, o il fatto che ormai si trattava di qualche individuo isolato e senza seguito, la prassi si era fatta piú mite. E sí che l’idea della redenzione proposta da Fausto era davvero rivoluzionaria, e tale da scuotere e trasformare davvero la vita religiosa delle comunità protestanti che l’accettassero. Infatti, il senese sovvertiva radicalmente la dottrina fondamentale e originaria di tutta la Riforma, quella della giustificazione per la fede. Il centro della giustificazione per la fede non stava piú per lui nel beneficio di Cristo, nel sacrificio ch’egli ha compiuto della sua vita per placare la giustizia divina offesa dai peccati degli uomini, con una divina espiazione; ma soltanto nella rivelazione della volontà divina, compiuta da Cristo attraverso i comandamenti dell’Evangelo e attraverso il suo stesso esempio. Cristo ci ha salvato annunciandoci la volontà di Dio, insegnandoci quel che dobbiamo fare per ottenere la vita eterna e vincere la morte alla quale altrimenti non sfuggiremmo, mostrandoci come dobbiamo ubbidire a quella volontà e come possiamo seguire quei precetti e assicurandoci della verità del suo messaggio coi suoi miracoli. Cristo è dunque il salvatore e il redentore degli uomini, perché ha loro annunciato «viam salutis aeternae», e ha loro assicurato che la via da lui indicata è la vera «in sua ipsa persona, cum vitae exemplo»966 . Le obiezioni principali erano che con questa dottrina non si spiegava come potesse rimanere soddisfatta la 966

De J. Christo servatore cit., p. 121.

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giustizia divina, che esige una pena per i peccati; e che l’uomo, creatura di peccato, non è in grado di ubbidire da solo ai comandamenti divini e tanto meno di imitare la perfezione religiosa rappresentata da Cristo. Alla prima, il Sozzini risponde con un concetto della giustizia divina del tutto differente da quello del calvinismo e anche, a lui sembrava, della tradizione cattolica, rappresentata da Dante967 . La giustizia divina non dev’essere distinta dalla divina misericordia, ma fa tutt’uno con essa, e immediatamente, non nel senso che è misericordia punire il peccatore; nell’assoluta libertà e indeterminatezza di Dio, che è creatore della legge e non può essere ad essa sottoposto, che è creatore della giustizia e giustizia esso stesso, e non può esser giudicato secondo l’idea umana della giustizia, che agisce non come giudice «qui de alieno jure agit», ma «tanquam dominus et princeps cuius sola voluntas, cum de ipsius jure tantum agitur, omnium rerum lex est, et perfectissima norma»968 . La giustizia divina non ha bisogno di nessuna espiazione, di nessuna sacra vittima; l’ira e la severità di Dio non sono la sua giustizia, e non si può parlare di ostilità di Dio all’uomo, ma piuttosto dell’uomo a Dio. Quindi l’obiezione che la concezione della redenzione come rinnovamento morale attraverso l’insegnamento della parola divina e l’esempio non risponde all’esigenza di una soddisfazione della giustizia divina, non regge. È vero che Dio non lascia impunita l’iniquità: ma questo vale non per i peccati e gli errori sui quali non si insiste, ma solo per la «ostinata malizia di qualche uomo», e la «perseveranza e dilettazione perpetua del male»969 : per quel peccato conIbid., p. 94b, cfr. Par. VII 109-20. Ibid., p. 186b. 969 Ibid., p. 123b, «obstinatam hominis malitiam, eiusque perseverantiam et perpetuam delectationem in malis perpetrandis». Queste argomentazioni di Fausto ricordano quelle del967

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tro lo Spirito, che l’Ochino aveva cosí suggestivamente insinuato non esistere, non potersi dare. La condanna dei veri e costanti peccatori alla morte eterna, non viene necessariamente «ex aliqua divina iustitia», ma «ex libera dei voluntate»970 . Il concetto dell’assolutezza di Dio, che Calvino aveva cosí potentemente sentito e cosí acutamente elaborato, viene qui portato all’estremo, e serve a dissolvere ogni altro concetto subordinato ad esso, come quello della giustizia di Dio. Quanto alla seconda obiezione, il Sozzini è altrettanto esplicito e radicale, quanto concreto e realistico nella sua idea dell’uomo e delle sue possibilità. Anzitutto riprende esplicitamente l’idea della imitazione di Cristo971 , che è dunque possibile. Imitare Cristo non è però «a d e o sancte et iuste, ac vixit, vitam componere», cioè vivere santamente nella stessa misura di Cristo, il che è evidentemente impossibile, e sarebbe assurdo: quel che si richiede all’uomo solo è ch’egli si metta nella stessa via di Cristo, e che lo segua non nella quantità ma nella qualità della virtú972 . La differenza fra Cristo e gli uomini non

l’Ochino sul peccato imperdonabile, che non esiste. F. Sozzini espone però al proposito una dottrina che s’incontra con quella di san Tommaso; il peccato contro lo Spirito, benché rarissimo, non può esser rimesso che difficilissimamente, per un miracolo di grazia, ma grazia eccezionale (Thom. IIª IIae , q. XIV, art. 3; F. Sozzini, In quintum caput I Epistolae D. Johannis, in Opera cit., I, p. 255a); in Fausto la dottrina tomistica è attenuata nel senso che la grazia divina non è cosí difficile a ottenersi come in san Tommaso. 970 De J. Christo servatore cit., p. 124b. 971 Ibid., p. 129b; la citaz. sg. 129a. 972 «Humana enim fragilitas morum perfectionem admittere non solet; ad quam nihilominus omnes animo si non re ipsa aspirare debemus», ibid., p. 129b.

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è di qualità, ma di quantità soltanto973 : la concezione antitrinitaria è vôlta dunque a porre, attraverso l’accentuazione dell’umanità di Cristo, la dignità morale dell’uomo, che è della stessa qualità, di Cristo, seppure non identico a lui nel grado di perfezione. Non c’è nessuna traccia dell’esaltazione ficiniana della dignità dell’uomo; e neppure la trasposizione teologica della dottrina platonica della divinità dell’anima, poiché qui non si parla né di straordinaria virtú dell’uomo nella creazione, né di immortalità e divinità connaturate all’uomo. Anzi, il Sozzini riteneva che l’uomo, – l’uomo intiero di anima e di corpo – fosse per natura di condizione mortale, e che l’immortalità fosse un dono di Dio da conquistarsi con la fede. È piuttosto un benevolo realismo, fondato sulla considerazione empirica della vita degli uomini, e sull’interpretazione letterale della Scrittura: una via di mezzo, per la quale si deve dir giusto chi riesce ad evitare il peccato per la massima parte della vita, si pente dopo esservi incorso, e cerca di seguire la retta via. I fondamenti di questo giudizio sono «loquendi consuetudo et ratio»974 : insomma la lingua e la sua interpretazione razionale. Consapevole o inconsapevole, si tratta di una applicazione alla religione del metodo del Valla: la realtà si conosce nella lingua, e nella «ratio», aderente alla lingua stessa, che esprime l’essenza dell’uomo e la volontà divina. Ma queste implicazioni, che sono evidenti, non sono state sviluppate 973 Ibid., p. 129a: «Quandoquidem, ut quis aliquem imitari dicatur, satis est illius praecipuas qualitates in ea re, de qua agitur, ita exprimere, ut similitudo inter utrumque appareat, et uterque eiusdem generis qualitates habere dici possit; licet is, quem alter sibi imitandum proposuit, multo perfectiores eas praestantioresque habeat». 974 Ibid., p. 129b: «Haec interpretatio verbis ipsis, ut dixi, et humanae rationi nullam vim affert. Ita enim loquendi consuetudo et ratio fert, ut scilicet unusquisque talis dicatur et iudicetur qualis fere semper est».

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né dal Sozzini né dai suoi seguaci, e vanno accennate solo per rilevare l’efficacia dei problemi della cultura italiana dell’umanesimo anche in questo mondo ormai tanto lontano da essa. Tornando alla possibilità dell’imitazione di Cristo e della esecuzione dei comandamenti divini ch’egli ci ha rivelato: la fragilità umana, dice Fausto, non suole permettere la perfezione: ma ad essa importa che noi aspiriamo «animo, si non re ipsa». Cristo poi ha la possibilità di dare la vita eterna a coloro che lo seguono, anche come puro uomo: «Nam ut homo potestatem consequutus a Deo est omnia sibi subijciendi»975 . Dunque basta la fede in Cristo, cioè il credere alla sua promessa («Christo confidere»), credere che sia vero tutto quel ch’egli ci ha detto di noi, a farne tanto conto da ubbidire realmente ai suoi precetti. Non un credere passivo, una pura «fides fiduciaria», ma una fede operante: «qui ea, quae Christus praecepit, facere recusaret, etiamsi eius verba verissima esse crederet, ei confidere dici tamen non posset»976 . Questa dottrina, che riduceva l’opera redentrice di Cristo a una influenza morale esercitata sull’uomo attraverso la parola e l’esempio, toglieva valore, in campo protestante, ad ogni altra teoria, e a tutte le dispute sull’imputazione della giustizia e sulla funzione di Cristo come mediatore che fervevano specialmente fra luterani; e corrispondeva insierre all’esigenza morale dell’umanesimo e del cattolicesimo, che non ammettevano la scindibilità della fede dalle opere, e a quella di ritornare agli Ibid., p. 133a. Ibid., p. 234b: «Fides igitur in Christum, quae nos iustos coram Deo constituit, ut ipsa verba aperte iudicant et ratio omnino postulat, nihil aliud est, ut pridem diximus, quam Christo confidere {: id est, non solum quaecumque Christus ad nos spectantia dixit, vera esse credere: sed etiam ea tanti aestimare, ut, si quid nos facete praecepit, id faciamus...»} 975

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elementi primi della vita cristiana, come li intendeva in generale la Riforma protestante, perché l’unità di fede e opere era fondata sull’imitatio Christi. Da essa derivava un concetto originale della religione cristiana il quale, se era suscettibile di sviluppi solo negli ambienti irrequieti dell’eresia, aveva le sue radici in una tendenza della cultura umanistica. Era, in breve, il concetto della religione come metodo. Il Sozzini non ha usato questa parola, che tanta importanza doveva assumere piú tardi nella storia del protestantesimo; ma ha ripetuto insistentemente la paro la latina corrispondente, e le ha dato proprio il significato di metodo. Per lui la religione cristiana è infatti «via divinitus proposita et patefacta perveniendi ad immortalitatem seu aeternam vitam»977 . L’uomo, che è per natura mortale, desidera la immortalità: e Dio gli insegna la via per ottenerla. «Via», o «ratio» sono i termini impiegati dal Sozzini per indicare nella religione il mezzo per raggiungere la vita eterna cioè la immortalità dell’anima. Tale mezzo o via per ottenere la immortalità consiste nella conoscenza di Dio e di Cristo e nella osservanza dei loro precetti. Ma quel che importa qui stabilire, è che essa viene concepita formalmente come metodo, fondato sulla esperienza della parola divina interpretata dalla ragione, per ottenere un determinato scopo; metodo di studio della volontà vera di Dio e di attuazione di essa, attraverso l’esegesi e la prassi. Questa «via et ratio» ci è stata rivelata da Dio, e in essa, per il Sozzini, la ragione si unisce alla rivelazione, in quanto l’uomo attraverso la ragione comprende la rivelazione. Fondandosi su questo metodo, cioè sull’osservanza ragiona977 Brevissima Institutio Christianae religionis, in Opera cit., I, p. 651a (Cfr. ibid., Summa religionis christianae, p. 281a): «Religio Christiana est doctrina caelestis, docens veram viam perveniendi ad vitam aeternam».

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ta dei precetti evangelici, nella quale consiste la religione, ognuno può e deve ricercare da solo la sua salvezza. Cosí Fausto Sozzini rielabora i concetti dell’Imitazione di Cristo e della giustificazione della fede fondendoli in uno attraverso quello, tipicamente valdesiano, della giustificazione per la fede e per le opere; e attraverso l’esigenza della critica filologica dell’umanesimo applicata alle questioni teologiche fa della religione un metodo, dove «ragione», cioè intelletto umano nella forma piú immediata, e rivelazione si uniscono per ottenere, attraverso la comprensione e la osservanza dei precetti divini, la salvezza, la immortalità. Quel che il Valla aveva richiesto e tentato di offrire nella Dialecticae Disputationes, una nuova filosofia del valore effettivo e pratico per la vita umana, e lontana dalle speculazioni metafisiche, diventava ora, verso la fine dell’umanesimo, fuori delle scuole filosofiche, e specialmente là dove prevalevano le esigenze pratiche, morali o religiose, la ricerca di una nuova strada da seguire nelle varie scienze. Era il momento nel quale si veniva formando, per giungere solo piú tardi alla consapevolezza filosofica, la ricerca di un nuovo metodo in senso proprio, di un novum organum; nel quale l’Aconcio aveva pubblicato il suo De Methodo, richiamandosi proprio alla necessità del metodo, ovvero «ratio»978 , che gli permettesse di sopperire alla impreparazione filosofica e di spiegare facilmente i problemi. L’Aconcio stesso aveva scritto un modo di studiare le storie, e del modo di studiar la storia avevano scritto anche il Cu978 De methodo hoc est de recta investigandarum tradendarumque artium ac scientiarum ratione, ed. cit., p. 140; cfr. p. 141: «... quum essem natura ad rerum investigationem minime aptus, rationem tamen me aliquam eiusmodi studio ac diligentia comparasse...»

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rione, il Bruto e Bernardino Bonifacio979 . Era la ricerca d’un mezzo d’orientamento su problemi nuovi, dove non si era ancora aperta una strada da seguire e su cui progredire, o sui vecchi problemi, quando si erano rifiutate le vecchie determinazioni logiche; e questa ricerca veniva estesa, come mostra proprio il caso dell’Aconcio, anche ai problemi della teologia, cioè della scienza religiosa. Rifiutata ogni tradizione, si sentiva che la cosa piú importante era fissare in qualche modo la via da seguire, il metodo di cui servirsi; l’accordo su di esso doveva portare all’accordo sui vari problemi: anche, e soprattutto, su quelli religiosi. Il metodo doveva spiegare l’origine degli errori e delle contraddizioni, e risolvere in limine, formalmente se non nel contenuto, i problemi. Cosí al Sozzini anche la religione cristiana appariva un metodo, la via da seguire nelle piú importanti questioni della vita, quelle che riguardavano la sorte della propria anima. Certo, nel Sozzini non c’è neppure quella prima generica consapevolezza che troviamo nell’Aconcio: ma la sua definizione della religione corrisponde proprio a quell’esigenza, a quel problema comune che sorgeva dal rifiuto radicale del passato. Né per l’Aconcio né pel Sozzini si deve pensare a qualcosa come il «problema del me979 J. Aconcio, Delle osservationi et avvertimenti che aver si debbono nel leger delle historie, in Acontiana cit., pp. 88 sgg.; C. S. Curione, De utilitate legendi historias, nell’Artis historicae Penus octodecim scriptorum tam veterum quam recentiorum monumentis et inter eos praecipue Bodini libris methodi historicae sex instructa, Basileae 1579, II, n. XIV; G. B. Bonifacio, lettera al Camerario, in Ph. Camerarius, Operae horarum subcisivarum, sive meditationes historicae, Francofurti ad Moenum 1602, pp. 9 sgg.; Jo. M. Bruti, De historiae laudibus sive de certa via et ratione qua sunt rerum scriptores legendi, liber unus, in Opera varia selecta, Berolini 1697, pp. 637-778. Non son scritti di gran valore; ma, come tutti gli altri raccolti nella Penus, mi sembrano lumeggiar bene l’atmosfera nella quale si muoveva la mente del Sozzini.

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todo», che doveva sorgere in altro terreno, terreno filosofico: ma a un tentativo di risolvere i problemi al lume di una esperienza sensata (poiché per il Sozzini lo studio della Scrittura e la prassi della imitatio Christi avevano il valore di un’esperienza), che costituiva una nuova via per intendere i doveri del cristiano. Cosí era ormai completa quella revisione radicale della dottrina religiosa che era cominciata con la critica ai Sacramenti, con quella al dogma della Trinità, e con i dialoghi ochiniani sul beneficio di Cristo. Con Fausto Sozzini si compie il distacco degli eretici italiani dalla corrente mistica e speculativa rappresentata dal pitagorismo e dal platonismo del Curione e dalla dottrina dell’ispirazione e della rigenerazione completa di Giorgio Siculo.

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CAPITOLO TRENTUNESIMO

Polemica fra il Sozzini e Fr. Pucci. Personalità di questi: savonarolismo, platonismo, misticismo illuminato, millenarismo. Il De Christi efficacitate e gli scritti inediti del Pucci.

Il Sozzini dovette interrompere la preparazione del suo scritto sulla redenzione e sul vero carattere di essa, per discutere con un altro toscano, il fiorentino Francesco Pucci, che rinnovava, nel suo sistema, il pensiero del Curione e lo univa a quello di Giorgio Siculo, al qual espressamente si richiamava980 . Il Sozzini dà notizia di questa disputa nella seconda lettera pubblicata dal Cantú: «m’è necessario d’attendere a replicare a un nostro italiano, persona assai letterata, e la quale fa professione di studi di teologia, sopra una questione nata tra noi, nella quale abbiamo già l’uno e l’altro scritto alcuni fogli, ed è questa: cioè, se Adamo fosse creato da Dio in guisa che di 980 Molti sono i Pucci che figurano tra i firmatari della attestazione a favore del Savonarola pubblicata in Villari-Casanova, Scelta di prediche e scritti di Fra Girolamo Savonarola, Firenze 1898, pp. 513 sgg. {Il prof. Giorgio Spini mi comunica che da documenti nell’Archivio di Stato di Firenze e dalle stesse indicazioni della Appendice citata del Villari-Casanova, risulta che il Filidinus col quale si riteneva il Pucci indicasse la patria, è una forma corrotta (errata o intenzionale non sappiamo) di «Filius Dini». Filidinus letto come «di Figline», come vuole il De Gasparis nella Raccolta Calogerà sotto citata, è un errore, poiché, sottolinea lo Spini, «di Figline» si traduce «Figulinus». Ritengo che il Pucci usasse il nome di Filidinus come pseudonimo (forse per riguardi di famiglia? Cfr. la nota 24, p. 367 in questo capitolo)}. È noto il fervore savonaroliano di un Alessandro Pucci; cfr. Villari, La Storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, II, Firenze 1930, p. 166.

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sua natura fosse immortale, o no. Egli tiene di sí, e io credo la parte negativa esser piú vera»981 . Il Pucci era vissuto fuori degli ambienti di Basilea, di Zurigo e dei Grigioni nei quali abbiamo visto muoversi gli italiani finché non s’erano rivolti alla Polonia e alla Transilvania. Prima d’incontrare Fausto, la sua vita s’era svolta in ambienti diversi fra la Francia e l’Inghilterra, e anche dopo, benché si recasse in Polonia e discutesse a lungo con il Sozzini, rimase isolato, fino a che non si decise a ritornare in seno alla Chiesa cattolica. Nato a Figline Valdarno verso il 1540, diceva di appartenere alla nobile famiglia fiorentina che contava tante altre personalità della Chiesa fra i suoi membri: ma questa, nonostante le sue proteste e dichiarazioni, non lo volle riconoscere982 . Secondo la sua narrazione, trovandosi a Lione per l’usata pratica commerciale, fu colto, all’età di ventisette anni, da un improvviso «movimento et cambiamento» che lo spinse a darsi «principalmente allo studio delle cose celesti ed eterne»983 . A questa risoluzione era stato preparato dall’ambiente familiare, poiché i suoi genitori avevano sempre in mano e in bocca «la Scrittura Santa, gli scritti del Savonarola e di simili eccellenti predicatori, la Divina Comedia di Dante, l’opere piú spi981 F. Sozzini al Bulgarini, in Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, pp. 498 sgg. Siena, Bibl. Comunale, D. VI. 7, foll. 25 sgg. 982 Almeno a giudicare dalle lettere «al Commendatore Pucci» conservate nello Erzbischöfliches Consistorialarchiv di Salisburgo, senza segnatura e senza numerazione. Cfr. M. Battistini, Per la storia dell’Inquisizione fiorentina, in «Bilychnis», XVIII (1929), pp. 425 s8g. Il Cantú, Gli eretici d’Italia cit., II, p. 499, lo fa senz’altro membro della famiglia del Card. Ascanio Pucci; cfr. Per la storia degli eretici cit., pp. 162, e 168 nota. La lettera all’ignoto ivi riportata è forse da ritenersi diretta allo stesso Ruperto Capponi al quale è diretta la precedente ivi riportata pure in parte. 983 Ibid., p. 159.

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rituali del Petrarca»984 , e lo inanimavano a imitare quei grandi lumi della sua lingua e della sua patria, accendendolo del desiderio di vedere il cristianesimo d’accordo, e dolendosi di scorgerlo in declinazione in Europa. Cosí, quando si sentí reso irrevocabilmente dal desiderio di una vita religiosa, il primo moto fu quello di riesaminare tutti i problemi religiosi, per trovare la ragione dei contrasti fra religione e religione, chiesa e chiesa, e per fermarsi solo alle conclusioni nelle quali riteneva di trovare e sentire i segni espressi della verità divina. Da Lione s’era recato a Parigi, per studiare presso quella facoltà teologica; la strage della notte di San Bartolomeo lo spinse a passare fra i seguaci delle «oltramontane sètte»985 : ma anche qui rimase insoddisfatto e provò la stessa disillusione degli altri eretici italiani, ch’egli esprime in forma piú forte, scrivendo, al fine della vita, a papa Clemente VIII: «tosto gli trovai senza fondamento di carità et lealtà». Da Parigi si recò poi in Inghilterra, iscrivendosi ad Oxford, dove s’imbevve di platonismo986 . Nel 1578 aveva diffuso presso le università e le accademie un manifesto dove invitava tutti a discutere sulla sua tesi preferita, dell’innocenza naturale dell’uomo, «nella quale tutti gli uomini nascono et restano innanzi all’uso della ragione e del giuditio»; su di essa aveva scritto anche una lunga lettera in italiano a Nicolò Balbani, che è probabilmente dello stesso periodo987 . Per il Pucci, il peccato originale non può essere imputato a dannazione eterna, a nessuno perché Cristo ne ha tutti redenti: e della redenzione Ibid., p. 158. Ibid., pp. 159-60. 986 Nel 1574 divenne Magister Artium nell’Università di Oxford. Cfr. A. Wood, Athenae Oxonienses, Londinii 1721, I, pp. 251, 255; III, p. 290; e Battistini, Per la storia dell’Inquisizione fiorentina cit., pp. 425 sgg. 987 Per la storia degli eretici cit., pp. 113 sgg. 984 985

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siamo tutti partecipi, per nascita, come diceva il Siculo, o, come con altre parole dice il Pucci, «nel ventre materno, quando per benefitio del creatore semo forniti d’anima all’imagine d’Iddio»988 . La dannazione riguarda solo gli adulti, dotati dell’uso della ragione, che non ubbidiscono alla legge divina quando l’hanno conosciuta, e derogano dall’osservanza della legge morale. Tutti gli altri, cioè soprattutto i «fanciulletti», sono innocenti, e rispecchiano in sé, finché con l’età adulta non interviene la ragione e il discernimento del bene e del male, l’innocenza e bontà naturale dell’uomo989 . Con questa dottrina il Battesimo diventa inutile; il Battesimo dei «putti» è cosa tollerabile, e il Pucci non vuol contendere su questo; ma stima senz’altro errore l’opinione che senza il Battesimo l’uomo non si possa salvare. Anzi, «il Signore fa che infiniti non battezzati si salvano»990 . Contro l’elaborazione calvinistica del concetto della giustizia e dell’ira divina, che finiscono per fare tutt’uno di fronte alla peccaminosità umana, il Pucci insiste che esse non riguardano il genere umano, il quale anzi è buono per natura, ma solo la «malizia» consapevole degli uomini e la loro ritrosia. Questo concetto è analogo a quello adoperato dal Sozzini nel De Jesu Christo Servatore, ma qui ha importanza molto maggiore, benché nel Sozzini sia piú elaborato: poiché per il Pucci l’insistenza sull’amore di Dio verso il genere umano creato buono per natura e tralignante per «il costume malvagio» è il motivo teologico principale. Sull’idea della bontà di Dio, che solo per i consapevoli tralignanti si trasforma in ira e punizione, è fondato anche il concetto della fede che il Pucci contrappone a quello protestante: «la Ragion Di988 Ibid., pp. 113 sgg. La citazione è dallo scritto al Balbani, p. 114. 989 Ibid., p. 115. 990 Ibid., p. 125.

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vina insegna che il fondamento della religione, et bontà vera, è propriamente la fidanza generale in Dio dei cielo e della terra»991 , il «buon concetto» che si ha «dello Iddio del cielo». La «fidanza particolare» dei protestanti (il credere nelle promesse divine «che il particolare applica a se stesso», il credere che Dio abbia elargito il suo benefizio «a te», come diceva l’Ochino) si fonda solo su questa fidanza generale, che è in sostanza la fede come la concepiva e la presentava, per esempio un Sadoleto992 . Un altro tratto umanistico nel pensiero del Pucci è la grande importanza attribuita all’educazione: «si come i padri generano i figliuoli simili a se di corpo, cosí e’ maestri insegnando fanno de’ simili a sé in quella facoltà che insegnano, onde filosofi fan filosofi, teologi fan teologi... e generalmente ogni maestro o inventore d’arte o di scienza acconciamente si chiama il padre di quei della sua scuola»993 . Su questa analogia fra il padre e il maestro il Pucci fonda la sua interpretazione della «rinascita» e della «rigenerazione» del cristiano, che egli intende avvenire in ispirito, non piú in senso mistico, ma in senso intellettuale e morale: quando i maestri mandati da Dio hanno predicato ad uomini «mal instrutti», sovente li hanno riconosciuti per «mal nati, e mal creati, cioè per mal ammaestrati e mal indirizzati», e li hanno invitati a rigenerazione e riformazione «non già nella natività di corpo delle lor madri, ma in quella della scuola e delle sètte, donde gli uomini ordinariamente escono con gli animi formati a modo de’ lor parenti», cioè maestri. Cosí è l’educazione quella che conta, poiché essa può far conIbid., p. 134. Cfr., per non uscire dal terreno della Riforma protestante, la sua lettera ai ginevrini del 1539, che attirò la famosa risposta di Calvino, ristampata assieme a questa, O. C. X, p. 2, C. R. 34. p. 345. 993 Per la storia degli eretici cit., pp. 121 sgg.; cfr. p. 125. 991 992

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tinuare nell’innocenza naturale o può da essa fare aberrare: i figli dei padri cristiani sono avuti in migliore concetto degli altri soltanto «per riguardo di migliore o peggiore educatione o di migliore o peggiore speranza nel progresso della vita». L’educazione viene intesa in senso generale, come «conversatione umana», e posta accanto al costume e alla «usanza», che è un’altra natura, e al «corso del mondo»: e la sua grande importanza non è solo positiva, ma anche, soprattutto quando prevale il senso piú generale, negativa. Quando l’apostolo parla degli uomini come «figliuoli d’ira», «non parla della natura umana nel primo stato, ma in quello quand’ella è quasi smarrita e vinta dal costume malvagio, allorché ne siamo comunemente portati dal corso del mondo e degli errori delle sétte che hanno il credito in quei paesi ove viviamo»: e il costarne malvagio comincia «quando entriamo nel corso del mondo e cominciamo a valerci della ragione e del giuditio». Il Pucci dice d’avere inviato al Beza la dimostrazione di queste sue tesi, e di non avere mai avuto la risposta promessa; e suppone che il capo ginevrino avrebbe preferito fare silenzio sopra i propri errori994 . È probabile che dopo la esperienza dei decenni precedenti, ora il Beza preferisse soffocare le discussioni, anche a costo di lasciar vivere e discutere gli eretici purché non uscissero dalle loro conventicole e dalle discussioni private. Ma verso il Pucci ci deve essere una diffidenza anche maggiore che verso gli altri eretici, come il Sozzini: perché il fiorentino proclamava di avere avuto il dono del santo spirito di discrezione, onde aveva potuto intendere l’origine degli errori e delle discordie, e «percepire», per illuminazione divina, «corpus doctrinae Christianae... naturali et communi rationi mirifice consentaneum», e nelle sue argomentazioni si richiamava alle sibille, a visioni 994

Ibid., p. 136.

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divine, e al prossimo avvento del regno di Dio in terra, con la conseguente e concomitante conversione di tutte le genti al cristianesimo. A Ginevra si dovevan ben ricordare le pretese del Leone Nardi, e gli scritti di Giorgio Siculo. Inoltre il Pucci si richiamava sempre alla Chiesa cattolica. Ce n’era abbastanza per accontentarsi della sdegnosa confutazione dell’Honoré, e per ripetere il suo «quod extra nos, nihil ad nos»995 . Migliore accoglienza trovò il Pucci fra gli altri italiani eretici, che erano preoccupati dei suo stessi problemi: una fede che soddisfacesse alla «ragione divina e umana», una dottrina che permettesse di risolvere le differenze fra religione e religione, fra confessione e confessione, e di porre un termine alle dispute, alle violenze e alle persecuzioni. Il Pucci era in relazione con il Betti, e questi lo invitò a venire a Basilea dove era arrivato da poco Fausto Sozzini. La discussione che si accese fra i due volgeva su un argomento analogo a quello tanto caro al Pucci: la perfezione dell’uomo prima del peccato. La bontà naturale dell’uomo, si manifestava per il Pucci, da un lato come innocenza dell’infanzia che quindi andava considerata come redenta per se stessa e non bisognosa, prima dell’età della ragione, di altra opera di redenzione; dall’altro come possibilità di osservare la legge divina e di avere la fede redentrice estesa a tutto il genere umano, dotato di religione naturale e quindi, a meno di deviazioni derivate dal corso del mondo, redento fin dalla nascita per il sacrificio di Cristo, che aveva esercitato la sua efficacia anche per gli uomini che vivevano fuori della religione cristiana; e infine come immortalità e perfezione dell’uomo prima del peccato, alla quale l’uomo può ritornare con la redenzione e con la fede nel Dio del cielo. 995

Ibid., p. 155 nota.

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Ognuno di questi tre aspetti del pensiero del Pucci era implicito negli altri, e tutti e tre erano affatto opposti alla concezione attiva e pratica della religione che il Sozzini veniva elaborando. La redenzione, nel pensiero di questo mistico platonizzante, era un fatto cosmico, una rivoluzione della natura, che aveva reso buoni tutti gli uomini; per essere di essa partecipi occorreva solo una generica fede in Dio, di carattere píú contemplativo che attivo. La rivelazione naturale poteva bastare per dare la fede e la salvezza e per fare ottenere quella immortalità che non era concepita più come una faticosa conquista, ma come un dono naturale, perduto dall’uomo per il cattivo uso della ragione e del giudizio, e riacquistabile con un retto uso di essi. Nella dottrina dello stato perfetto di Adamo «ante lapsum», cioè della perfezione naturale dell’uomo, era dunque implicita tutta una interpretazione della religione cristiana. Il Sozzini vide subito l’importanza della questione, come scrisse al Bargagli: «E quantunque la predetta questione o disputa paia di non molto memento nella religione nostra, nondimeno, massimamente per le conseguenze ch’egli tira dalla sua opinione, o piú tosto dagli argomenti co’ quali si sforza di provarla, e egli e altri, essendo quegli argomenti veri, è sforzato a tirare, ella è di grandissimo»996 . E cosí dedicò «un giusto libro» a rispondere agli argomenti del Pucci. Per Fausto, l’uomo naturale è di condizione mortale, e si deve conquistare l’immortalità con la fede attiva nella dottrina cristiana, fuori della quale non c’è possibilità di salvezza, poiché non esiste religione naturale, e se in ogni religione c’è una scintilla di rivelazione, la vera e completa rivelazione è quella data da Dio agli uomini a mezzo di Cristo. Il Pucci argomentava che l’uomo naturale, Adamo, doveva essere immortale, perché creato a immagine e somiglianza di Dio nella mente e nello 996

Lettera al Bulgarini cit. alla nota 2, p. 360.

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spirito: il Sozzini risponde che la somiglianza dell’uomo con Dio sta principalmente non «in ipsa quidem mente et ratione», ma «in dominatu rerum omnium, praesertim inferiorum, sex illis diebus a deo creatorum»997 . È vero che la mente e la ragione, lo spirito e l’intelletto sono necessari a quel dominio dell’uomo sull’universo; ma l’importante è questo, e ad esso non è necessaria l’immortalità. L’uomo non ha niente di immortale in sé, perché è formato di terra e quindi fu creato mortale. Il predominio sulla natura, che forma la sua somiglianza con Dio, non è andato perduto del tutto neppure dopo la caduta: quindi l’argomento della somiglianza con Dio non ha valore per provare la immortalità, che invece sarebbe andata perduta con il peccato. L’argomento della vita felice di Adamo nell’Eden, che secondo il Pucci avrebbe provato la sua immortalità, non reggeva per il Sozzini, perché Epicuro aveva provato che la immortalità non è necessaria alla felicità dell’uomo. Adamo era in tutto e per tutto come noi siamo; la natura dell’uomo, in quanto tale, non è mai cambiata; solo che mentre la morte allo stato originario era un fatto naturale, ora, dopo il peccato, essa è non solo connaturata all’uomo, ma anche necessaria. E Adamo non era neppure quell’essere straordinario, dotato di mirabile sapere, del quale aveva parlato Agostino; anzi, era veramente un uomo di natura, semplice e inesperto, senza nessuna cognizione e senza nessuna intelligenza speciale998 . Le imprese di Adamo nel Paradiso terrestre (il dare nome agli animali e ad Eva) non dimostravano nulla, per il Sozzini, per il quale erano cose che chiunque, «quantumvis stupidus» avrebbe 997 De statu primi hominis ante lapsum, in Opera cit., II, pp. 257 sgg. La formula piú chiara riportata nel testo è tolta dalle Praelectiones Theologicae, ibid., I, p. 539b. 998 De statu primi hominis cit., ibid., II, pp. 258a, 261b.

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potuto compiere999 . Solo l’esperienza è fonte di saggezza per il Sozzini: e Adamo che non aveva nessuna esperienza, non poteva conoscere quella verità che un luogo comune del Rinascimento faceva «filia temporis». Non si poteva neppure parlare della «iustitia originalis» che Adamo, e in lui il genere umano, avrebbe posseduto secondo la tradizione ora ripresa e unilateralmente svolta dal Pucci. Solo per gli angeli si può parlare di una giustizia originale, nel senso della impossibilità di peccare; il fatto che Adamo ha peccato, mostra che per lui non si può parlare di angelica innocenza, ma, eventualmente, solo di quella «giustizia attuale», della quale ogni uomo è capace quando segue la legge morale. Ma di quale atto morale di Adamo possiamo trovar testimonianza nella scrittura? Non si può neppur dire che in lui si attuasse il perfetto accordo di spirito e sensi, perché quel che di lui sappiamo, la caduta, testimonia del contrario. La giustizia, la virtú morale, non è e non può essere una qualità naturale per l’uomo, perché è una qualità etica, frutto della volontà1000 . Se Adamo avesse fatto un retto uso della sua libera volontà, si potrebbe dire che fu un giusto. Tutt’al piú invece si potrà ammettere che l’uomo originario fu creato da Dio «integer et incorruptus» vuoto di ogni determinazione morale, che era lasciata alla sua libera decisione1001 . È la volontà dell’uomo, originario o no, quella che conta per il Sozzini, e non la bruta natura: Ad defensionem Francisci Pucci responsio, p. 296b. Praelectiones Theologicae cit., in Opera cit., I, p. 540: «Justitia... non est perfectio hominis naturalis sed volontaria». 1001 Ibid.: «In eo naturalis perfectio hominis est, ut omni labe ac vino careat, haec quae fuit ab initio in primo homine, qui integer et incorruptus creatus est: sed libera tamen ad malum non minus quam ad bonum voluntate. Non potest autem ista perfectio iustitia nisi improprie appellari, quatenus scilicet omnia injustitia adhuc abest, quod tamen rursus et ipsum minus proprie dictum est, quum proprie ab homine injustitia abesse 999

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e per questo sforzo di serietà morale egli lasciava cadere tutte le profonde speculazioni tradizionali sulla natura dell’uomo originale, tutti i grandi motivi dell’umanesimo sulla dignità dell’uomo che poggiavano sul primo uomo e padre dell’umanità. La dignità dell’uomo, come la sua abiezione dopo il peccato, dipendono solo dalla sua volontà. Il peccato è stato un fatto della storia degli uomini, e non un rovesciamento cosmico, come, seguendo la tradizione platonica, tornava a proporre il Pucci1002 . Il peccato ha avuto conseguenze dolorose per gli uomini, ma la natura è rimasta tale e quale come era da principio, con tutti i «mali» che le derivano dal suo carattere di mondo del limite e del finito. Poiché anche l’uomo originario era un essere limitato, un fanciullo inesperto, il suo peccato, pur con tutte le sue conseguenze, non era stato, pel Sozzini, quel cataclisma cosmico che la tradizione doveva proporre per spiegare il trapasso dalla perfezione iniziale alla miseria attuale. Il male esistente nel mondo non era per il senese un mistero da interpretare, ma un fatto dal quale trarre conseguenze, soprattutto in vista della condotta umana. E per quanto riguarda l’uomo, è vero che Dio lo poteva fare non libero, senza la possibilità di far male; ma a questo modo avrebbe limitato anche se stesso. Il Pucci non rimase persuaso delle argomentazioni di Fausto Sozzini, che erano troppo lontane dalla sua posizione; ma continuò per molto tempo a scrivergli; e nel 1582 si recò anche a Cracovia, per discutere, sempre sul suo argomento preferito, davanti a un comitato di rappresentanti delle comunità dissidenti polac-

dicatur, si iniuste agendi occasione saepius sibi ablata, nihil iniuste egerit». 1002 De statu primi hominis cit., in Opera cit., II, p. 311, cfr. anche pp. 262 e 322.

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che; ma non ebbe successo. Cosí, non trovando ascolto né presso i calvinisti e i luterani, né fra gli anabattisti, il Pucci, sempre visitato da apparizioni e da ispirazioni divine, finí per ripiegare di nuovo verso i cattolici1003 . E nel 1592 pubblicava a Guda una serie di tesi che sotto il titolo De Christi servatoris efficacitate in omnibus et singulis hominibus tornavano a proporre, come chiave per la pacificazione delle chiese e delle religioni, nell’approssimarsi della «pienezza dei tempi», le idee sulla innocenza originale del genere umano che abbiamo veduto. Queste idee tornavano in due trattati, rimasti manoscritti, che il Pucci aveva dedicato, probabilmente per ironia, al Bellarmino: De regno Christi e De praedestinatione Dei1004 nei quali il Pucci segue, piú per ingenuità che per mali1003 Verso il 1585. Ma, come risulta anche dalle lettere a papa Clemente VIII (e non a Gregorio XIII come ho erroneamente scritto in Per la storia degli eretici cit., pp. 157 sgg., 163 sgg.), incontrò diffidenze, che non si sopirono mai del tutto e sulle quali vedi piú avanti, p. 398, nota 8. Il resto della sua vita non c’interessa. Il Battistini, Per la storia dell’Inquisizione fiorentina, p. 447, pubblica documenti che mostrano il Pucci a Roma dal 1594 al 1596. Pare morisse (forse giustiziato) nel 1597. {Cfr. A. Mercati, Il sommario del processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano 1942 (Studi e testi, 101), pp. 124 sg., pagamenti per conto di «Francesco Filidino Fiorentino carcerato nelle carceri d’essa Inquisizione dalli 27 di maggio 1594». L’inquisitore di Firenze ha pagato parte del conto «delli denari di esso Francesco ». Qui non c’è traccia del cognome Pucci!}. 1004 Conservati nel fascicolo sopraricordato dell’Archivio Concistoriale di Salisburgo; e in una copia nella Sächsische Landesbibliothek di Dresda XXX; cfr. i sommari e gli estratti che ne ho riprodotti in Per la storia degli eretici cit., pp. 138-56. Per il De Christi efficacitate vedi G. Radetti, Francesco Pucci, riformatore fiorentino, e il sistema della religione naturale, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana» XI (1931). pp. 219-31 {; cfr. anche Id., Riformatori ed eretici italiani del secolo XVI, ivi, XXI (1940), pp. 75-87}.

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zia di clandestino diffusore d’idee consapevolmente eretiche, il vecchio espediente di insinuare le proprie idee nella polemica contro la dottrina di Calvino. Nel De Christi efficacitate il Pucci citava come suoi predecessori il Savonarola, Pico della Mirandola, il Catarino, lo Steuco (che anche il Sozzini aveva citato nella lettera al Bargagli come autorità per la sua tesi della condizione mortale di Adamo), il Gaetano, Francesco Giorgio, il Pighio, e infine Giorgio Siculo1005 . Altrove espone addirittura la storia di quest’ultimo, coprendo d’invettive Calvino e i padri tridentini, questi per non averne ascoltato le ispirate parole, quello per averne cosí duramente combattuto la dottrina1006 . Ma siccome il Pucci non sa dire del misterioso siciliano piú di quello che se ne apprende dallo scritto di Calvino contro lui e contro il Pighio, non possiamo dire che ne avesse sentito parlare da qualche suo seguace diretto. Sullo stesso piano il Pucci metteva poi anche il Petrarca e Dante, sue letture preferite1007 . Ora, anche il Sozzini considera i due poeti come maestri di sapienza i cui detti si possono citare nelle controversie teologiche, come autorità decisive, ma mostra una certa indipendenza di giudizio e una maggiore coerenza, perché sa discernere la differenza fra la posizione teologica sua e quella di Dante, e a proposito del concetto della giustizia divinala rileva espressamente1008 . Invece il Pucci unisce il Pico al Gaetano, lo Steuco al Savonarola, del quale probabilmente si sentiva prosecutore De Christi efficacitate cit., p. 35. De Regno Christi, cap. XXX in Per la storia degli eretici cit., p. 150. 1007 Cfr. ibid., p. 157 (Lettera a Gregorio XIII); e p. 156 (Contro l’Honoré). 1008 Come si è visto sopra, per Dante. De J. Christo Servatore cit., p. 301b a per Petrarca (citando espressamente: «Ben vedi homai, si come a morte corre Ogni cosa creata»). 1005

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soprattutto come profeta e ispirato, il Catarino al Giorgio, e in questa compagnia mette infine il visionario eretico Giorgio Siculo, solo perché in essi credeva di riscontrare in qualche modo una conferma della sua intuizione fondamentale. All’infuori di questa insistenza sull’efficacia universale, quasi magica, della salvazione, che ha fatto buoni tutti gli uomini, separati ora solo da pregiudizî ed errori, il pensiero del Pucci è estremamente confuso e incerto: argomentazioni esegetiche fondate sulla «interpretazione storica» della Scrittura, si alternano con racconti di visioni e di profezie, con lunghe invettive sullo stato della Cristianità al suo tempo e con disquisizioni per dimostrare come le proprie previsioni si fossero avverate. Pure uno svolgimento di pensiero c’è stato: mentre nel primo scritto che di lui conosciamo, la lettera al Balbani, la ragione viene considerata come fonte di errore, quasi come il rovinoso intervento dell’intelletto e del giudizio nell’innocenza originaria dell’uomo, ridonatagli integra dalla redenzione, negli ultimi scritti egli attribuisce, come a proposito del De Christi efficacitate ha giustamente notato il Radetti1009 , una grande importanza alla ragione: «communem rationem, quae singulos homines collustrat». Non direi però che il Pucci assuma una posizione razionalistica come non è razionalistica la posizione di Fausto Sozzini: poiché questa «ratio naturalis» o «ratio communis», come la «ratio» del senese, è piuttosto il «gesunder Menschenverstand», il senso comune, che la ragione critica. E probabilmente l’accentuazione in questo senso, che è anche un abbandono del motivo originario, è dovuta nel pensiero del Pucci proprio alla controversia col Sozzini. Ma mentre per senese l’intelletto naturale dell’uomo, che si deve sempre seguire, non può mai essere in contrasto con la Scrittura e deve ammette1009

Francesco Pucci cit., p. 226.

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re che in essa vi sono cose a lui superiori, per il Pucci la «ratio naturalis» fa tutt’uno con la rivelazione divina nel cuore dell’uomo, e con la «religio naturalis», al di là del principio scritturalistico. Il Sozzini aveva intuito nettamente che la questione proposta dal Pucci durante tutta la sua vita non era «pura teologica»; e per questo, l’aveva considerata in certo senso, estranea al suo pensiero e alla sua preparazione, come estraneo al suo modo di considerare la religione era tutto il pensiero del Pucci. D’altra parte, pure in questo distacco, dovuto alla differenza di concezioni teologiche e alla mentalità per niente filosofica e mistica del Sozzini cosí lontana da quella torbida, ma filosoficamente preparata, del Pucci, su quest’ultimo l’idea della ragione, intesa in quel senso semplice ed immediato, aveva finito per l’avere una certa presa. Tanto piú che a una mente cosí ossessionata da una sola idea, le differenze teologiche, tanto fortemente sentite dal Sozzini, apparivano di secondaria importanza di fronte alle affinità e confluenza delle loro due tendenze nel comune ideale dell’accordo fra i cristiani e della cessazione di ogni controversia, violenta o meno, e nella comune accentuazione della preminenza della condotta coerente ai dettami dell’etica evangelica. Ma da parte del Sozzini la diffidenza rimase sempre, aumentata dal millenarismo del Pucci. L’annuncio della imminente π αρoυσ´ ια, fondato su speculazioni astrologiche come l’apparizione della cometa del 1577 che aveva dato invece occasione allo Squarcialupi di combattere ogni pregiudizio al proposito1010 , o su calcoli profetici sui testi biblici, era probabilmente confortato nella mente del Pucci dall’imminenza del compimento del secolo; ed è noto quale importanza abbia avuto la cifra di 1010 De cometis dissertationes novae clariss. Virorum Th. Erasti, Andr. Duditii, Marc. Squarcialupi, S. Grynaei, Basileae 1580. Cfr. Costil, André Dudith cit., pp. 177 sgg.

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mille e seicento in queste speculazioni. Il Pucci attendeva ora quel che il Meleto aveva atteso all’inizio del secolo: la conversione degli Ebrei e dei pagani, la venuta di Cristo in terra a tenere un gran «consistoro» per il rinnovellamento del Cristianesimo. Erano le vecchie e grandi speranze e le attese apocalittiche che avevano accompagnato l’inizio della crisi italiana, e che rinascevano e si proponevano piú forti in questo spirito fantasioso. Cristo sarebbe venuto a riprender possesso di Gerusalemme, e a instaurare il regno della pace e della felicità. La Chiesa ha degenerato dopo Costantino, perché è stata soffocata dalle ricchezze e dall’ambizione di dominio; e da allora in poi la sua corruzione è sempre avanzata. Essa non consisteva per il Pucci nell’affermazione dell’autorità del Pontefice che veniva riconosciuta «multis nominibus maxima», ma, senza rilevare la contraddizione, nella formazione della gerarchia. Del resto neppure la concezione del carattere del pontificato romano che il Pucci osava proporre al Bellarmino era del tutto ortodossa: poiché «Pontifices Romani contra fidem definire non possunt, et possunt, diversis respectibus». La corruzione aveva investito tutti: i «millenarî», che pure avevano coltivato la stessa attesa del Pucci, avevano errato, secondo lui, perché anch’essi corrotti dalle ricchezze terrene e dall’imperizia di alcuni ebraizzanti1011 . Cosí, durante il periodo della corruzione, la «fides naturalis» originaria si è trasformata in «credulitas incomprehensibilium rerum»; ma ora è venuto il momento della vera profezia, fondata sullo «spirito di discrezione» e sull’interpretazione storica della Scrittura1012 . È prossimo l’avvento di Cristo, e la conversione degli Ebrei, dei 1011 De Regno Christi cit., cap. XIX (testi non riprodotti in Per la storia degli eretici cit., foll. 335 sgg. della copia di Dresda). 1012 Ibid., cap. XV (foll. 311 sgg. della copia di Dresda).

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Maomettani, dei popoli pagani. Anche gli Ebrei sono «satis bene propensi ad Christum, si cum discretione de eo loquendo audiant». Certo, una concezione cosí attenuata del cristianesimo doveva essere facilmente accettabile anche dai non credenti; il trionfo del cristianesimo derivava nelle illusioni del Pucci dalla dissoluzione dei suoi caratteri peculiari in una religiosità generica, dove la fede cristiana era sostituita dal fervore del profeta e dalla torbida fiamma del visionario. Il tempo profetato è vicino: abbiamo avuto il regno della femmina, del quale parla l’oracolo sibillino; la cometa del 1577 ha annunciato quel che sta per avvenire; il sole si avvicina alla terra, e anche i pontificati di Sisto V e di Gregorio XIII sono stati annunciati dalla Sibilla. Sisto V doveva esser l’ultimo pontefice della Cristianità, e la sua elezione fu accompagnata da sinistri auguri: il Tevere uscí dal suo letto, e inondò la città: il che è presagio dell’inondazione di popoli settentrionali, che minacciano grande sciagura all’Urbe. Questa sciagura sarà il concilio richiesto da Enrico di Borbone, re di Francia e di Navarra, seguito da altri capi del settentrione. Egli infatti per stirpe, per educazione e per abitudine ma anche per volontà e per necessità è nato ad comprimendam superbiam, intollerabilemque arrogantiam Romanae Curiae, cui jam pridem denuntiatum est ab eodem vate Joachimo, qui excidium Graeciae praedixit, et a S. Brigitta severum supplicium a secta Patarenorum, quae nunc renovata est et aucta a Calvinistis et Lutheranis, in qua Rex ille educatus est, et a Turcis, qui sunt in foedere cum adversariis Pontificis1013 .

Non sarebbe infatti credibile che quel re avesse potuto resistere, senza l’aiuto divino, a tanti nemici cosí potenti, conciliando poi tanti, avversari cosí lontani gli uni dagli 1013

Ibid., cap. XVI (fol. 320v della copia di Dresda).

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altri, e istituendo un tribunale cosí terribile per coloro che trattano delle cose sacre con fede poco sincera. E il Pucci, preso dall’entusiasmo, intona il «Novus ab integro saeculorum nascitur ordo». In questo nuovo ordine, pel quale Cristo regnerà in terra, sarà finalmente abolita la curia, che è la rovina della Chiesa cattolica romana. La curia è cresciuta con la Chiesa, minandone all’interno la vita spirituale, come i Farisei hanno minato la vita spirituale del popolo eletto: ed è colpa della curia se «ipsa Ecclesia apud multos non satis perspicaces male audit, et tantum non deseritur ab hominibus cordatis et piis»1014 . Una prova della peccaminosità della curia è nel fatto che ormai in essa non si dà piú ascolto alle rivelazioni divine, e alle profezie e alle ispirazioni dei prescelti e degli «homines spirituales»; e presagio della sua tirannide è l’introduzione dell’Inquisizione spagnuola attraverso la quale i curiali affermano e sostengono le loro dottrine. Ma tutto questo sarà abolito da Cristo, dal concistoro massimo che egli stesso convocherà, che precederà il concilio generale di tutta la cristianità, e che i «curiali» temono sopra ogni altra cosa al mondo. Con la venuta di Cristo cesseranno le discordie fra gli uomini e fra tutte le creature, si avrà la pace perpetua, gli uomini ritorneranno alla pristina perfezione, non ci sarà pu contrasto fra la carne e lo spirito... Il Pucci sente rinascere in sé lo spirito del Savonarola e quello dell’abate Gioacchino: critica aspra del mondo contemporaneo, annuncio del re gno di Dio nei cuori, di contro alla mondanità, ascetismo «spirituale»; di contro alla curia, l’attesa di un gran concilio che proclamerà la dottrina della fede naturale, unendo in essa tutti i popoli della terra, e portando per prima cosa, la pace fra i cristiani tutti. 1014

Ibid. (fol. 345 della copia di Dresda).

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Questo deve avvenire, dice il Pucci, perché è predestinato da Dio, il quale ha anche predestinato tutti gli uomini alla eterna salvazione. Questa è la sostanza dell’altro trattato del Pucci De praedestinatione Dei catholica rationalis sententia. Quel che contraddice alla dottrina del Pucci, per esempio nel pensiero di sant’Agostino, è un errore derivato dal fatto che quel santo possedeva soltanto «mendosum codicem bibliorum»1015 . Qui il Pucci prende le difese della dottrina del Pighio contro Calvino, e oppone insomma alla dottrina calvinistica della doppia elezione e della predestinazione al male una dottrina della predestinazione ed elezione univoca di tutto il genere umano al bene e alla salute eterna. È anche questa volta una congerie di interpretazioni scritturali, soprattutto dell’Apocalisse, di commenti a vaticini, di richiami alla dottrina della rivelazione naturale onde anche i filosofi pagani hanno annunciato Cristo, e hanno potuto raggiungere mirabili conoscenze, con lo «spirito rationali Christi». Tutte le insistenze del Pucci sull’accordo delle sue dottrine con quelle della Chiesa non potevano però impedire che il suo pensiero, anche a parte l’anticurialismo e il profetismo, ormai da tempo condannati, presentasse lati del tutto eterodossi. Oltre l’accentuazione unilaterale della dottrina della redenzione universale, sono la interpretazione del λóγoς e la concezione della Trinità che palesano un pensiero confuso, pieno di lampeggiamenti, ma senza la forza di raggiungere una qualsiasi coerenza, e, con tutte le cognizioni letterarie, teologiche, filosofiche, inconsapevole d’allontanarsi dalla tradizione dogmatica della Chiesa. Per il Pucci l’eterno figlio di Dio dev’esser detto, come volevano anche i primi padri, «potius rationem quam verbum»1016 , e per beneficio di questa ra1015 1016

Ibid., cap. VII, Per la storia degli eretici cit., p. 145. Ibid.

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gione divina tutti gli uomini debbono esser considerati razionali. Dove a questa parola «ragione», che sembra affascinasse il Pucci, è dato di nuovo un atro significato, differente da quello che abbiam visto nel De Christi efficacitate. Ora non si tratta piú della ragione naturale comune dell’uomo, con la quale s’accordano le visioni profetiche e apostoliche, ma addirittura del «consensus rationis humanae creatae cum divina increata»1017 : benché sembra che il Pucci manifestasse le due idee quasi allo stesso tempo. Ad ogni modo questa interpretazione del λóγoς era di tendenza troppo eterodossa per essere accettata cosí semplicemente come veniva proposta. Altrettanto per la Trinità: il Pucci era fiducioso che la sua interpretazione «storica» dello svolgimento del pensiero cristiano fosse dotata di tale evidenza che bastasse enunciarla ed esemplificarla per convincere tutti e risolvere ogni problema. Infatti non ne espone i principî ordinatamente e non ne spiega il carattere; ma ne applica a principio alle dottrine che gli interessano per ottenere lo scopo al quale ha fissa a mente. La discussione sul mistero della Trinità si può troncare facilmente ricordando che ai primi Padri e agli Apostoli esso non fu piú noto di quel che insegna la «historica series» e anche noi dobbiamo tornare come loro, e far sí che la forza della nostra fede consista «in consensu cum spirito» e non «in mysteriorum cognitione». Segue una disquisizione sulla possibilità di intendere i misteri attraverso le visioni interiori e le riflessioni nel foro della coscienza; gli uomini pii seguono le opinioni «in quibus divinus spiritus nihil hesitationis aut scrupoli relinquit». Quanto alla Trinità, il Pucci riprende il motivo platonico, e anche servetiano e curioniano, del dio supremo, che è invisibile agli uomini e si è sempre manifestato ad essi attraverso il λóγoς , sapienza divina, che spira, nei modi ordinari, in «singu1017

Ibid. p. 155.

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los rationales homines», ma ha anche variamente parlato agli antichi Padri in maniera straordinaria, e ultimamente «in persona domini nostri Christi»1018 . Insomma, la questione della Trinità non viene affrontata direttamente, ma c’è quanto basta per dire che il Pucci non considerava fondamentale questo dogma, e si accontentava di dire anche a questo proposito che gli uomini hanno sempre avuto la rivelazione dell’esistenza ed essenza di Dio, anche prima di Cristo. Troppo poco per parlare di ortodossia: e, in un momento della storia del pensiero cristiano come quello della fine del Cinquecento, quando si preparavano le grandi controversie, abbastanza per parlare di eresia, come del resto fecero subito – non per queste dottrine, che non furon diffuse, ma per il De Christi Efficacitate – il gesuita Serario da una parte, il luterano Luca Osiander e il calvinista Du Jon dall’altra1019 . Ibid., p. 139. N. Serarius, Contra novos novi pelagiani et chiliastae, Francisci Pucci Filidini errores, quos sese in Anglia, Gallia, Hollandia, Helvetia et alibi multis probasse gloriatur; quosque per Germaniam peregrinando, colloquendo, suosque de Christi servatoris efficacitate libellos dissipando spargere incipit, libri duo, Wirceburgi 1593 {riprodotto in Opuscolorum theologicorum... libri tres; Tomus Tertius, 3-59, «contra Franciscum Puccium Filidinum»; Mainz 1611}. L. Osiander, Epitomes historiae ecclesiasticae centuriae decimae sextae, pars prima, Tubingae 1610, pp. 1098 sgg., e Refutatio Scripti Satanici a Francisco Puccio Filidino in lucem editi et Goudae impressi, anno salutis 1592..., Tubingae 1593; F. Junius, Catholicae doctrinae de Natura hominis jacentis in peccato et gratia Dei ex peccato evocantis omnes communiter, et suos excitantis singulariter, Collatio cum doctrina nova libelli... De Christi servatoris efficacitate, Leydae 1592. J. Arminius, la cui dottrina aveva pur tante affinità con quella del Pucci, si rallegrò della confutazione del Junius, perché cosí si sarebbe portata pace alle «multorum circa istam haeresiam fluctuantes mentes» (cfr. Cuno, Fr. Junius cit.). Queste confutazioni e questa lettera ci mostrano come il pensiero del Puc1018

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CAPITOLO TRENTADUESIMO

Il millenarismo del Pucci e le sue speranze in Clemente XII. La Republica Christiana: progetto di società segreta, eretica in senso antitrinitario e anabattistico, nicodemitica e repubblicana, ad opera d’un italiano (1581). Affinità fra il pensiero dell’anonimo e quello del Pucci.

Il Pucci era ritornato in seno alla Chiesa cattolica, o almeno aveva fatto professione di ritornarvi, nel 1585, a Praga, dopo il fallimento delle sue ultime dispute con il Sozzini. Di li era tornato nei Paesi Bassi, dove aveva, oltre che pubblicare il De Efficacitate, preparato gli altri due suoi scritti principali, insieme a un poema in ottava rima sull’origine del mondo e della regione cristiana, che è andato perduto, per lo meno nell’originale1020 . Alcuni sonetti del Pucci al papa, conservati con gli altri scritti a Salisburgo dove per un incidente di viaggio dovette fermarsi mentre s’avviava a Roma, e dove pare morisse nel 1593, non ci fanno rimpiangere dal punto di vista letterario questo poema del quale il Pucci aveva composto una ventina di canti. Il De regno Christi e il De Praedestinatione Dei possono essere stati composti indifferentemente dal 1580 al 1593; la cometa del 1577 vi è ricordata come un fatto a tutti noto, ma lontano; le allusioni al pontici fosse notevolmente diffuso in Germania e in Olanda: ed è un parallelo alla diffusione delle idee dell’Aconcio, colle quali quelle del Pucci collimano, se non certo nel contenuto teologico, nelle conclusioni finali: riduzione della religione a morale o a religiosità generica. 1020 Anticamente era conservato nell’Archivio concistoriale di Salisburgo; poi fu trasportato nella Biblioteca del Georgianum di Monaco di Baviera, la quale ora {(1934-39)} dichiara di non possederlo piú.

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ficato di Sisto V vi sono piú specificate di quelle al pontificato di Gregorio XIII, che quindi possono essere state inserite piú tardi. Ma, data la concezione della «ratio» che vi appare, propenderei a datarli verso il periodo della conversione, se di tale vogliamo parlare, poiché il Pucci dichiara di non aver mai sottoscritto a nessuna professione di fede di nessuna delle chiese protestanti, benché a Londra abbia conosciuto gli ambienti della chiesa dei forestieri1021 . Le dichiarazioni anticuriali non possono voler dire molto, come le dottrine eterodosse: perché il Pucci, nel suo entusiasmo di ispirato, era convinto di rappresentare con queste la miglior tradizione cattolica, e quanto a quelle, rivendicava a sé la libertà dei «soldati di frontiera»1022 . Il Pucci sperava che la sua attesa del prossimo avvento del regno di Dio e della unificazione di tutti i cristiani e di tutti i popoli fin’allora rimasti fuori del cristianesimo potesse trovare adempimento ad opera di un concilio generale, che illuminato dalla rivelazione naturale e razionale, avrebbe vinto le resistenze di tutte le chiese particolari, e anche della sinagoga: abbiamo notizia di una lettera scritta agli ebrei di Venezia che certamente era dello stesso tono de altri scritti, ma rimase senza risposta1023 . Nella seconda lettera al pontefice parla della venuta di Cristo «a tener consistoro et riformare la chiesa»1024 , alla quale egli vorrebbe preparare la Chiesa romana con una pubblica disputa da tenersi sotto gli auspici del pontefice, e con la diffusione, sempre sotto gli auspici di Roma, della sua dottrina. Ma nel De Regno Christi parla di un divi1021 Hessel, Ecclesiae Londino-Batavae Archivum, Londini 1889-97, vol. III, p. 485. 1022 Lettera a Clemente VIII, in Per la storia degli eretici cit., p. 162. 1023 Ibid., p. 168 nota. 1024 Ibid., p. 163.

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no concilio al quale aderiranno tutti gli «spirituales»1025 e amatori della verità; e che sembra concepito piú concretamente. Infatti benché questo concilio si debba tenere all’apparizione di Cristo in terra, e sia impossibile prima di questa apparizione, esso è tale che i «curiali» interdicono l’appello ad esso; e lo stesso avvertimento che questo concilio non si potrà tenere se non all’avvento di Cristo mostra che il Pucci aveva per qualche tempo condiviso una speranza analoga a quella del Celsi e a quella che abbiamo supposto negli ambienti eretici italiani della seconda metà del secolo. Egli infatti parla anche di un concilio non divino ma solo «santo», «per quem Ecclesiasticus ordo reformetur», e sostiene che la speranza in esso, che l’unico conforto delle anime pie che sono turbate e angosciate dal presente disordine della Chiesa, cioè della Cristianità, è consentanea alla fede implicita e allo spirito religioso. Anzi, avverte che molti possono servirsi di questa attesa piú per desiderio di giovare alla propria sètta che per desiderio di verità; ma anche questi, pur attraverso le loro deviazioni, serviranno a Dio «ad alios seque ipsos plectendos et erudiendos, atque ad decreta divina exequenda» come accade a coloro che indulgono alle proprie cupidigie, ma vengono ingannati in molti modi dallo spirito1026 . 1025 De Regno Christi cit., cap. 17, copia dresdense, fol. 323v. Cfr. Per la storia degli eretici cit., pp. 139-40. Quando curai quella edizione di testi non avevo ancora scorto l’importanza di questa aspettativa d’un nuovo Concilio, né il suo nesso, che ora mi pare di potere osservare, con il «nicodemimo» italiano. E dopo non ho potuto piú consultare che la copia dresdense. 1026 Ibid., anche per quanto segue. Come il Pucci immaginasse concretamente l’attività del Concilio risulta da questo accenno: «Nobis quidem visum est jam pridem, et videtur adhuc, hac una sancta exercitatione restituta (quod conatur Romee et alibi societas Oratorii) posse ecclesias non parum reformari et melius gubernari tantisper...» (ibid., p. 311v).

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La ragione per la quale il concilio universale, auspicato e desiderato da tanti, non si potrà riunire e non potrà avere efficacia per sola forza di uomini, qualunque sia l’autorità a loro da Dio concessa su questa terra, è soprattutto che il mondo è troppo diviso, fra credenti nel vero Dio e non credenti; e che i credenti sono a loro volta divisi in cristiani ed ebrei, e i cristiani sono divisi fra loro, mentre a queste differenze religiose si aggiungono gli interessi politici e le ambizioni nazionali, che impediranno ogni accordo. Da Dio solo si può dunque aspettare che questo concilio possa esser convocato, da Dio solo esso potrà avere fiducia e forza per pacificare realmente la Cristianità. Ma esso è vicino: gli antichissimi oracoli e i primi monumenti della religione cristiana mostrano che il Creatore stesso ha stabilito habere senatum vel consistorium lectissimorum virorum dignum sua maiestate, cum quo forum agat, et ius dicat mortalibus omnibus in cunctis orbis partibus, eosque conciliet, qui conciliari et melioribus cedere volunt.

E in esso sarà finalmente deciso che la religione cristiana consiste essenzialmente «in coniunctione animorum generali», mentre le innumerevoli differenze nei particolari non avranno nessuna importanza per determinare chi sia e chi non sia «spiritualis homo». Questo concilio risolverà anche il problema politico, nella felicità del regno di Dio finalmente avveratosi in terra1027 . Infatti secondo il Pucci gli scrittori politici, che egli non nomina, partendo nella loro considerazione dello Stato «ex elementis huius mundi», e trascurando «certa illa doctrina 1027 Ibid., p. 325v: anche per quanto segue. Ecco la conclusione del Pucci: «Nobis vero, Deo adhaerentibus, haec retecta sunt ab eius Spiritu, et a magistris coelitus edoctis, et ideo Dei munere tanto melior est nostra instutio et informatio, quanto incorruptum coelum terra corrupta est praestantior».

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originum et decretorum Dei» che è propria della santa Chiesa e dei suoi figli «spirituali», hanno dovuto confessare, «veritate ipsa atque experientia cogente» che ogni forma di organizzazione (administratio) dello Stato, monarchica; aristocratica (senatoria) e popolare è imperfetta; e hanno dovuto dichiarare che gli uomini non riusciranno mai ad ottenere dagli altri uomini «perfectam rerum gubernationem» poiché fra i mortali è impossibile trovare «supremi custodis custos aut fidejussor satis locuples et fidus» e perché «homines hominibus quasi oves ovibus praesunt, cum ad perfectam procurationem requirerentur Reges et principes praestantiores privatis civibus, tanquam pastores ovibus». Ma essi scrittori, pur avendo veduto il vizio fondamentale di ogni società politica, non ne hanno veduto l’origine e quindi il rimedio; quindi «imperfecta cum imperfectis conferrendo, nihil solidi adiumenti attulerunt humanis rebus». Ma quando il Pucci deve proporre la sua «institutio et informatio», non sa dir altro se non che essa è da Dio e quindi migliore, e ritorna a descrivere la perfetta società dell’amore e della solidarietà cristiana, sotto un supremo pastore e un supremo concistoro ispirato da Dio. Costruzioni e speranze di questo genere non erano infrequenti nel mondo intellettuale del Cinquecento: basta pensare alla «Concordia mundi» e alla religione universale del Postel1028 , e, piú vicino alla probabile epo1028 Cfr. G. Postel, L’unique moyen de l’accord des protestants et des catholiques, Lyon 1563. Cfr. P. Mesnard, L’essor de la philosophie politique au XVI siècle, Paris 1936, pp. 431 sgg. La «religione universale» del Postel, con le sue idee di riunione del mondo islamico a quello cristiano previa la semplificazinne della dottrina cristiana e via dicendo ricorda da vicino le idee degli eretici italiani; abbiam visto del resto che il Postel veniva letto negli ambienti intorno a David Joris. Ma altri rapporti precisi non si potrebbero stabilire, mi pare. Rimane che queste del Pucci non erano semplici fantasie o fantasticherie di settario

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ca di composizione di questi scritti, alle speranze conciliaci che si nutrivano in Francia negli ambienti intorno ad Enrico IV, che nel 1589 aveva promesso di lasciarsi istruire da «un buono e legittimo concilio, nazionale o generale»1029 ; anche il Bodin, nel 1576 subito dopo la pubblicazione della sua Repubblica aveva ripreso l’idea di un libero concilio1030 . Il contenuto di queste richieste era il desiderio di un accordo fra le due tendenze religiose della Francia, dunque la speranza di una conciliazione soprattutto politica. Ma l’importante è che, ormai concluso il concilio di Trento, le dottrine conciliaci continuassero a vivere, con carattere sempre piú utopistico, ma pur forti, e dando forma ora alle aspirazioni ireniche dei dotti, ora a quelle delle sètte perseguitate, oltre

isolato, ma immaginazioni che corrispondevano ad esigenze delle quali anche il francese s’era fatto interprete. 1029 J. H. Mariejol, La Réforme et la Ligue. L’Edit de Nantes. (E. Lavisse, Historie de France, VI, P. L.), Paris 1911, p. 304. Cfr. E. C. Davila, Historia delle guerre civili di Francia, Venetia 1630, p. 592: «Esser pronto a sottoponersi ad un concilio, o generale, o nationale» (Dichiarazione regia del 4 agosto 1589). L’idea del concilio rimase viva presso i protestanti francesi: nel 1607 l’Hotman, sostenuto dal D’Aubigné, presentò al re un progetto di concilio per la riunione delle chiese, che venne, com’era ovvio, aspramente combattuto dai cattolici (Response au discours faict au roy pour l’assemblée d’un nouveau concile, s.d., 1607); ma l’idea era vitale nelle menti dei protestanti: il famoso letterato Pierre de La Primaudaye vi ritornò tanto nell’Examen de la response de Sponde catholique apostolique Romain à la confession de Foy du Protestant de reformation, s. l., set. éd., 1595, pp. 90, 91; come nell’Advis sur la necessité et forme d’un S. Concile pour l’union des Eglises chrestiennes en la foy catholique, sec. éd., Saumur 1611. 1030 A. Garosci, J. Bodin, politica e diritto nel rinascimento francese, Milano 1934, pp. 38, 39: era l’idea cara agli Ugonotti, e ondeggiava sempre fra il motivo nazionale e quello riformatore e universalistico.

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che all’interesse dei politici a sopire le differenze religiose entro gli Stati. Nel pensiero del Pucci queste speranze si riunivano con l’idea di una religione universale e probabilmente con quella di una organizzazione della Riforma e del concilio divino da parte della Chiesa romana, alla quale egli si rivolge come ad ultima speranza, dopo aver scritto non invano a quanto sembra, al re di Francia, alla regina d’Inghilterra e ai loro ministri, presentando il De Christi Efficacitate1031 . Le speranze del Pucci nel concilio universale sono del tutto analoghe a quelle della Forma d’una Republica Ca1031 Il Pucci non era stato ammaestrato dal precedente fallimento. Cfr. I. Friedrich, Ueber Francesco Pucci, in Sitzungsberichte der Philosophisch-philologischen und historischen Classe der K. B. Akademie der Wissenschaften, München 1880, pp. 111 sgg. Le notizie che il Friedrich raccoglie da un ms del dotto illuminista trentino Giov. De Gasparis (del quale si vedano le notizie sul Pucci nella Raccolta del Calogerà, vol. XXIX, 1755, e XXX, 1776 della prima serie) al Georgianum (ibid., pp. 113 sgg.) non risultano che in parte dai documenti di Salisburgo, benché al tempo del de Gasparis fosse fra essi anche una rlozione del soggiorno parigino del Pucci, scritta da lui medesimo. A Parigi il Pucci fu dunque per la seconda volta nel 1591, invitando cattolici e protestanti a una disputa sulle due tesi pubblicate in Per la Storia degli eretici cit., pp. 154-55, con la replica del Pucci alla risposta del pastore calvinista Honoré (cfr. Friedrich, Ueber Francesco Pucci cit., p. 123). Il Pucci invocava anche l’attesa di un concilio generale da parte del Re di Francia (ibid, pp. 124, 125). Oltre che coi calvinisti, il Pucci riuscí anche ad ottenere la disputa con i cattolici, sotto la presidenza del Card. di Bourbon: ma dopo tre giorni di discussioni, venne espulso da Parigi. Ora tornava alla carica. Fra i documenti salisburghesi sono conservate lettere del 1592 a «Mr. de Revol, segretario del Re di Francia et di Navarra»; al Marchese Pisani; al «Duca di Buglione», al Re di Francia stesso; «a la Regina»; alla Regina e al gran tesoriere d’Inghilterra; e Mons. di Boncourt; «al S. R Guglielmo Gentilhomo inglese»; «al Nuntio a Colonia».

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tholica anonima, del 15811032 : il rimedio alla confusione che si vede «hoggi dí nella religione et republica Christiana» non può essere altro che «un libero e santo concilio al quale si vede che tutti gli uomini da bene di tutte le provincie inclinano». Questo desiderio dev’essere considerato voce di Dio, il quale conforta con questa speranza coloro che bramano che la verità trionfi, e un giorno darà soddisfazione a sí santo desiderio. Nonostante la promessa divina, la maggior parte degli uomini non credono facile al tempo d’oggi «una simil radunanza». Nonostante il grido delle popolazioni contro il predominio e la cattiva vita del clero e contro la «sanguinosa differenza e discordia di culto divino nella quale si vive», «i prelati potenti», che comandano «non solo nella religione, ma anche nella republica» non permetteranno mai «simil giuditio»1033 . Cosa fare nell’attesa? Preparare una comoda residenza al futuro concilio, unendo il gran numero degli «uomini da bene», e «ben disposti verso il bene publico» in «un corpo di republica sano», che li unisca attraverso la lontananza e la differenza di leggi e di popoli ai quali appartengono, senza muoversi dai paesi dove vivono, e senza alienarsi dai loro principi e magistrati civili1034 . Cosí «il corpo di republica sano» combatterebbe contro il «corpo corrotto» e in breve tempo lo ridurrebbe alla «desiderata forma e sanità», approfittando di coloro il cui animo è alienato «dal principato di giurisdizione ecclesiastica». Questa società viene chiamata «republica catholica, cioè universale, composta di diversi collegi d’uomini, i quali vivono forastieri per gli altrui paesi, o come forastieri in casa loro»1035 . Questa espres1032 Pubblicata da me in Per la storia degli eretici italiani cit., pp. 169-209. 1033 Ibid., p. 171. 1034 Ibid. 1035 Ibid., p. 174.

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sione torna altre volte nello scritto, e mostra che il suo autore doveva aver riflettuto sulla condizione non solo degli emigrati per causa di religione, ma anche delle sètte eretiche, che vivevano in patria sotto una legislazione eccezionale, escluse da ogni diritto civile e considerate quindi realmente come gruppi di stranieri. L’affinità del pensiero dell’autore della Republica Catholica con quello del Pucci a proposito del concilio universale, è evidente. Affini, anzi, si può dire, identiche sono anche le idee religiose: il fondamento di ogni comunità che voglia «governo databile e buono» è «l’accordo della religione»; e la religione di questa «republica» dev’essere quella cristiana e cattolica. Ma cattolica in senso di universale, e universale nel senso che cattoliche e universali sono le dottrine «accettate per tutta la christianità», la somma delle quali sta nel simbolo degli Apostoli, nei dieci comandamenti, nella orazione domenicale «et nella caldissima raccomandazione» delle opere di carità1036 . Il resto è indifferente: «cirimonie»; Battesimo, Eucaristia, celebrazione della festa sono esposti in una forma generica e suscettibile di tutte le interpretazioni. Questa religione universale proviene dal «lume della ragione naturale, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo»1037 ; e comprende anche la fede nelle profezie dell’Antico Testamento e nelle testimonianze degli apostoli, nella divina sapienza di Cristo e nella sua nascita miracolosa, ma la dottrina trinitaria e quella dell’incarnazione sono lasciate da parte ed accennate in maniera anche qui suscettibile di ogni interpretazione. Anzi si ammonisce come fa il Pucci a non usare sottigliezze eccessive a questo proposito1038 . Ibid., p. 176. Ibid., p. 204. 1038 Ibid., p. 205. 1036

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Un’altra affinità fra il Pucci e l’autore della Republica Catholica è data dal fatto che quegli, in una lettera al Sozzini, della quale abbiamo notizia solo da quest’ultimo, si era proclamato, prima del 1584 o 1585, membro di una società analoga a quella che abbiamo visto qui abbozzata, e che il Sozzini chiama «coetum peregrinantium Christianorum». Questa società di cristiani peregrinanti sembra che avesse sede nei Paesi Bassi, e che tenesse «concilium etiam quoddam per sessiones multas». Si tratta però soltanto di deduzioni fatte dal Sozzini, perché il Pucci non gli aveva scritto niente di preciso, ma aveva solo datato a questo modo la sua lettera: «Ex sessione XXXV concilii peregrinantium christianorum». Altre notizie di questo «concilio» di «cristiani peregrinanti» che era giunto verso il 1584 alla XXXV sessione (o adunanza) si trovano solo nel titolo del libro del Serario ricordato sopra1039 . Con questa scarsità di notizie non possiamo andare molto avanti: ma l’idea di una società di cristiani «peregrinantes» che tiene un suo «concilio» è molto affine a quella della Republica Catholica, tanto piú se si pensa al significato della parola italiana «pellegrini». Basta però anche il richiamo alla Ecclesia Peregrinorum di Londra. Si può dunque affacciare l’ipotesi che l’autore dell’anonimo scritto sia stato il Pucci; ma si deve mantenere ogni riserva: se l’ipotesi venisse accettata, bisognerebbe dedurne che il Pucci in un primo momento credette possibile la realizzazione dell’ideale del concilio universale attraverso una organizzazione segreta fondata sulla comune credenza nella religione cristiana natura1039 Fausto Sozzini a M. Radecke, 8 gennaio 1586, in Opera cit., II, p. 379b. Il titolo dell’opera del Serario pare accennare a qualcosa di simile. Ma l’opera non contiene nessun accenno particolare in proposito, limitandosi ad accenni a «libelli» sparsi dal Pucci in Germania, e a una sua residenza ad Altorf (la sede piú tardi del Criptosocinianesimo) e a Norimberga. Cfr. supra, p. 373 e nota 40.

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le e razionale, mentre in un secondo momento rinunciò ad effettuare in questo senso l’impresa, e pensò di affidarla alla Chiesa di Roma. Rimarrebbe dubbio se egli si fosse fatto quell’idea di una società religiosa segreta osservando una società preesistente di quel tipo, alla quale avrebbe alluso scrivendo al Sozzini, o se questa fosse sua creazione; e rimarrebbe anche senza spiegazione il fatto che nella Republica manca ogni accenno a visioni e ad oracoli, mentre il Pucci non ha mai cessato di parlarne. Ad ogni modo, si può dire che l’autore della Republica catholica era un italiano (forse un fiorentino), di idee e dalla terminologia affini a quelle del Pucci, vissuto almeno per un certo tempo fra gli emigrati per causa di coscienza, in qualche comunità del tipo della Ecclesia Peregrinorum di Londra, e in ambienti insoddisfatti delle riforme tedesca, svizzera e inglese. Infatti egli desidera, e afferma che molti con lui desiderano, una revisione di «tutta la religione» cristiana, «da capo a piedi», tale che faccia finire tutte le discordie, fra cattolici e protestanti, fra chiese occidentali e chiese orientali. È avverso ad ogni forma di predominio ecclesiastico sulla vita della società e dello Stato, e concepisce la vita della società cristiana come una vita d’uno Stato: «republica», «comune»1040 . E propone, allo scopo di ottenere la riforma radicale auspicata, la formazione di una società segreta, che formi come uno Stato nello Stato, una «republica» buona entro la «republica» degenerata, per riformarla. È dunque la codificazione del «nicodemismo», non piú prassi di perseguitati che si difendono con la dissimulazione, cercando di giustificarsi teologicamente, ma organizzazione consapevole, la quale non dovrebbe ormai avere carattere passivo, ma dovrebbe anzi esercita1040 Per l’uso del termine «comune» accanto a quello di «republica» e con lo stesso significato, cfr. Per la storia degli eretici italiani cit., pp. 181, 184, 197, ecc.

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re una pressione attiva entro i vari Stati e le varie chiese. Questa organizzazione segreta, dovrebbe avere in parte, espressamente, il carattere di un ordine laico, il quale dovrebbe acquistare influenza soprattutto morale, per la severità di costumi dei suoi membri; e in parte quello di una società politica vera e propria, fondata sul nucleo familiare, e destinata dunque a vivere per molto tempo: il tempo della riforma radicale non doveva sembrare molto vicino al nostro eretico. I membri di questo ordine e società devono credere in «un solo Dio del cielo e della terra, creatore e governatore dello Universo», e in «quel Giesú Christo ch’egli ha mandato a salvare il mondo»1041 ; nella redenzione «mediante la morte e risurrezione» di Cristo, e nella giustizia divina, che premia i buoni e castiga i cattivi1042 . I membri di questa società devono essere laici, perché gli ecclesiastici sono divisi fra di loro, e lo scopo di essa è di superare queste divisioni ecclesiastiche, mentre i laici possono piú agevolmente sopire le discordie nella considerazione della fede comune, che è quella contenuta nelle «risolutioni cattoliche»; quanto ai particolari, i «cittadini» di questo nuovo Stato saranno «liberi di governarvisi secondo detta loro coscienza» rimettendo la decisione finale al «futuro concilio»1043 . Anzi, tutti dovranno obbligarsi con giuramento a conservare i principi generali e la buona concordia accettando fin da principio la censura del loro «collegio», a condizione di esser «convinti d’haver fatto qualcosa direttamente contr’a quelle risolutioni, nelle quali tutti consentono»1044 . Ibid., p. Ibid., p. 1043 Ibid., p. 1044 Ibid., p.

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174. 175. 176. 180.

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I «collegi» si potranno ordinare in tutti i luoghi dove si trovi un certo numero di persone pronte ad obbligarsi ai «capitoli»1045 dell’anonimo, e si chiameranno Accademia, Compagnia, Fraternità o con altro nome a seconda degli usi; basta che ci siano due o tre persone disposte a partecipare alla organizzazione per costituire un «collegio». Il «collegio» si dovrà radunare almeno una volta ogni settimana, «piuttosto innanzi che dopo desinare»1046 , per stabilire il da farsi; dovrà nominare un capo a tempo, chiamandolo «provosto o console», al quale spetterà ascoltare la relazione e proporre gli argomenti da discutere, pur senza avere nessuna maggiore autorità degli altri. Le deliberazioni dovranno esser prese alla unanimità; e si dovranno fare due votazioni, la prima per vedere, a maggioranza, quali siano le deliberazioni da portare alla conclusione definiriva; le votazioni dovranno esser segrete, ma se non si possa raggiungere l’unanimità, la minoranza dovrà spiegare la sue ragioni perché si possa giungere all’accordo. Se l’unanimità non si potrà raggiungere, allora, dice l’anonimo, «ricorsasi adunque alla dichiaratione che ne farà la sorte, la quale è cosa divina e datane da Dio per fine delle differenze»1047 . Ibid., p. 184. Ibid., p. 185. 1047 Su quest’uso della sorte per decidere le controversie l’anonimo insiste anche nell’introduzione del suo scritto (pp. 172 e 173), dandone ragioni scritturali. Anche il Pucci aveva parlato di rimettersi «religiosis sortibus», ma insieme ad altre forme di «giudizio di Dio», attirandosi i sarcasmi dei suoi tre critici. Cfr. De Christi efficacitate, p. 90 (Ratio CXVIII); e la confutazione dello Junius che riproduce per intero lo scritto del Pucci, confutandolo punto per punto (p. 244), come quella dell’Osiander. Il Serario invece non riporta che una serie di estratti di proposizioni ereticali. La sua confutazione è riprodotta in N. Serari Opusculorum Theologicorum... libri tres (uniti in uno), 1045

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Lecito l’appello alla dieta generale, ma previa garanzia che la parte appellante sia pronta «a stare alla fine al giudicato», e solo quando vi siano stati dispareri. Le donne, dice l’anonimo, debbono stare sottoposte ai mariti, «secondo la divina legge» e non potevano avere autorità né ufficio in questi collegi1048 . Nessuna distinzione di ranghi; gli ufficiali avrebbero dovuto sedere «a un desco nel mezzo» e prima di parlare avrebbero dovuto fare «riverenza al corpo della compagnia, riconoscendolo per giudice e superiore», mentre gli altri non si dovevano muovere «perché quella ragunanza era tanto superiore all’ufficiale, che non conveniva che la gli rispondesse in segno alcun di sommessione». Al voto dovevano essere ammessi solo i soci di venticinque anni compiuti; chiunque, terminate le discussioni, poteva avvertire se il provosto avesse tralasciato qualche cosa d’importante da mettere all’«ordine del giorno». Gli assenti potevano delegare i loro compagni. Dunque, la preoccupazione prevalente era quella di evitare il formarsi di una gerarchia costituita. Oltre il provosto, a capo del collegio doveva essere uno degli anziani, con l’ufficio di «censore», che controllasse la condotta degli altri, e li ammonisse, «perché le repubbliche non possono andare inanzi né fare progressi senza i loro due piedi, l’uno dei quali è il premio delle buone opere, l’altro il gastigo delle cattive». Le pene dovevano essere ammonizioni, o pene pecuniarie e anche «afflittive»; il censore doveva render conto al collegio, al quale solo spettava di imporre le ultime due specie di pene. Dopo quattro chiamate davanti al collegio e dopo sei mesi di «ritrosia» la dieta generale poteva

Magontiaci 1611, III, pp. 3 sgg. «Contra Novos novi pelagiani errores...» 1048 Per la storia degli eretici cit., pp. 186 sgg.

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radiare il membro maligno: «che è» commenta l’anonimo, «la maggior pena che dia la nostra republica mentre che la non può usare la forza né la giurisdizione assoluta». Dunque, pena unica è in questa società la scomunica; ma non si esclude che ve ne possano essere altre, appena dallo Stato clandestino si passi a uno Stato che permetta anche qualche forma positiva di coazione. Del resto, l’anonimo è consapevole degli effetti della «scomunica» anche nella situazione per la quale prepara il suo progetto1049 . Piuttosto si può notare che non viene sollevato il problema di una eventuale denuncia da parte di uno «scomunicato». Il mezzo principale di comunicazione fra i vari collegi dispersi «in diverse contrade», doveva essere la corrispondenza epistolare: di qui la necessità d’un cancelliere che sapesse usare «quelle allegorie o cifare» che fossero «piú a proposito» secondo i vari paesi o persone1050 ; suo cómpito doveva essere anche il tener nota di ogni adunanza e risoluzione e di preparare le lettere di raccomandazione. Il cancelliere era anche amministratore, ma non tesoriere, doveva durare in carica quattro anni, ma poteva essere riconfermato (solo all’unanimità), e doveva render conto al censore della sua amministrazione. L’ufficio di cancelliere poteva essere unito a quello del provosto: e in tal caso, il censore non poteva accusarlo davanti al collegio, ma doveva scegliere un rappresentante per l’accusa. Ogni collegio poteva poi nominare altri ufficiali, a seconda del bisogno: ma i regolamenti particolari che ne sarebbero derivati obbligavano solo coloro che vi aveva1049 Ibid., p. 187: «Allora tutti i nostri cittadini siene obligati a non gli parlar piú né conversar piú seco, et la dieta ne avvisi i collegi a fine che tutti i nostri lo fugghino... Et non è dubbio che Dio gastigherà quel tale, come mancatone del suo giuramento et abbandonatone della buona disciplina». 1050 Ibid., pp. 188 sgg.

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no consentito, al momento della costruzione del collegio. Se questo fosse diventato cosí numeroso da rendere scomode le adunanze, e da poter destare qualche sospetto nelle autorità, l’anonimo propone la costituzione di un «consiglietto» di membri scelti fra i piú «atti e intendenti delle cose del mondo», per la elezione e il controllo del quale vengono dati minuti particolari, atti a impedire ogni «usurpazione di autorità». La misura principale di questo genere doveva essere il «sindacato», cioè una commissione di «tre deputati giurati» che dovevano rivedere diligentemente l’azione dell’ufficiale o consigliere sospetto1051 . Il regime di sospetti e diffidenza che cosí veniva instaurato, simile, per quanto riguarda la sorveglianza della comunità nella vita individuale, a quello della repubblica savonaroliana e della Ginevra calvinistica, viene considerato dall’anonimo come del tutto giustificato non tanto dal segreto nel quale deve vivere l’associazione, quanto dal suo santo scopo: Non sia vergogna fra i nostri cittadini l’accusarsi l’un l’altro, né il riferire quel che può giovare al pubblico, anzi sia tenuta cosa honorata, per che si come gli accusatori e le spie pagate sono meritatamente biasimevoli, quando servono alla tirannia, cosí sono con buona ragione lodevoli, quando di buona volontà e gratuitamente servono alla libertà e al bene comune1052 .

I tre ufficiali, – provosto, cancelliere e censore, – dovevano preparare ogni anno un bilancio preventivo, a coprire le spese del quale ogni «cittadino» doveva versare una percentuale delle sue rendite o dei suoi guadagni annuali, che l’anonimo propone in via d’esempio nel tre per cento. Le spese maggiori di un certo limite (dieci scudi) 1051 1052

Ibid., pp. 189 sgg. Ibid., p. 191.

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dovevano essere prima approvate dal collegio o dal consiglietto; per le altre bastava l’accordo dei tre ufficiali. Al di sopra dei «collegi» locali doveva stare una «dieta generale»; alla quale doveva competere «la soprintendenza e sovranità di tutta questa republica». La dieta doveva esser composta di «deputati» scelti dai vari collegi, che avesse, accanto alle istruzioni particolari, «facoltà di rappresentare» il suo collegio1053 . Il luogo della dieta doveva esser fissato di volta in volta nella «terra di qualche gentilhuomo o signore» amico della società, oppure in qualche città europea sede di grandi fiere, «come Francoforte, Lione, Parigi e simili», perché l’affluenza di gente per i mercati avrebbe permesso ai deputati di muoversi e radunarsi «senza sospetto o impedimento alcuno». Sempre per questa ragione, i deputati dovevano andare in abito di mercanti o di simili persone non sospette, e anzi, era consigliabile che i deputati stessi fossero realmente mercanti. La dieta doveva essere organizzata come un collegio: ad essa spettava decidere degli appelli da parte delle minoranze dei collegi particolari, e le sue decisioni dovevano esser considerate come cosa divina da tutti gli associati: opporsi ad esse doveva esser considerato «colpa di diffidenza e di empietà». I deputati potevano essere rieletti, ed erano sottoposti al controllo del loro collegio per tutto quel che avevano fatto alla dieta, le cui risoluzioni dovevano spiegare e difendere se del caso, davanti ad esso. Il principio rappresentativo era dunque limitato dal fatto che i deputati dovevano render conto della loro attività al proprio collegio. Notevole anche l’idea che il deputato non doveva rappresentare soltanto il proprio collegio davanti alla dieta, ma anche la dieta, cioè (autorità centrale, davanti al proprio collegio. Se necessarie, si potevano fare diete provinciali secondo (ordine della dieta generale, ma la sovranità do1053

Ibid., pp. 198 sgg.

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veva rimanere sempre a questa. Se un collegio non manda deputato, vuol dire che si rimette senz’altro alla dieta, la quale deve curare di informarlo; un deputato, se malato, può farsi rappresentare da un altro, ma nessuno poteva rappresentare piú di una persona, e l’anonimo insiste molto sulla presenza di tutti i deputati. Alla dieta spettava anche nominare un «provveditore», che si recasse sul luogo prima degli altri per organizzare gli alloggi, i luoghi di ritrovo, e via dicendo. Questo quanto alla organizzazione della società, che ricorda da vicino l’organizzazione segreta degli anabattisti italiani, il cui concilio si radunò a Venezia nel 1551. Anche il nome dei «collegia Vicentina» ritorna in quello dei «collegi» del nostro anonimo. Il sistema dei deputati è lo stesso, ma nel costituto del Manelfi non si parla di collegi o diete, ma di «congregationi» per le «diete» e di «giese» per i «collegi»; però il Manelfi parla anche di «collegio della Santa Romana Giesa»; «Concilio» è usato anche per «Congregatione». Nel costituto del Manelfi si parla anche di Ministri ed Episcopi, che nel programma dell’anonimo invece non figurano1054 . La vita interna dell’associazione avrebbe dovuto svolgersi a questo modo: radunato il collegio, gli anziani, distinti dagli altri perché seduti in luogo piú adatto a farsi sentire da tutti, ma senza altre cerimonie, cominceranno a leggere capitoli della Scrittura, tolti dai Proverbi, dalla Sapienza, dall’Ecclesiaste, dai Salmi, per il Vecchio Testamento, e dalla vita e passione di Gesú, dalle lettere di San Pietro, di San Giovanni e di San Giacomo, e gli ultimi capitoli delle lettere di San Paolo, per il Nuovo: con l’avvertenza di proporre al «popolo» solo cose comprensibili direttamente e senza bisogno di commenti o interpretazioni. Venuta l’ora dell’uffizio divino vero 1054 Cfr. Comba, in «Rivista Cristiana», XIII 1885, Constituto del Manelfi cit. (cfr. sopra, cap. VII).

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e proprio, si doveva alzare un qualunque membro, scelto prima d’accordo con tutti, il quale dopo la preghiera d’essere illuminato da Dio, doveva commentare qualche passo della Bibbia. Finita la lettura e la spiegazione, doveva cominciare la discussione: il primo che aveva parlato faceva passare la Bibbia di mano in mano, e ognuno, ricevendola, aveva diritto di parlare, a seconda che si sentisse venire in mente «qualche concetto divino», o «qualche mirabil segreto»1055 . Finita la discussione (l’anonimo propone che parlino due o tre persone, ma non limita definitivamente il numero; le donne devono ascoltare, ma non hanno diritto d’intervenire nella discussione), il membro che l’aveva aperta la doveva concludere riassumendone i punti particolari, e l’adunanza si doveva sciogliere dopo aver ascoltato la recitazione del pater noster, delle preghiere per i principi e per le autorità politiche del luogo, e infine del simbolo apostolico. Si doveva usare sempre il volgare e il linguaggio piú semplice possibile. Per la decisione delle controversie in mate1055 Per la storia degli eretici cit., pp. 177 sgg. Questo procedimento è fondato, in sostanza, su quello indicato da san Paolo, nella I ai Corinzi, 26 sgg. Ma lo possiamo considerare imitato dall’ordinamento della Ecclesia Peregrinorum del Laski (Forma ac ratio tota ecclesiastici ministerii in peregrirrorum, potissimum vero germanorum Ecclesia: instituta Londini in Anglia (s. l. né a., ma 1552): cfr. p. 107: «De modo ac ratione Prophetiae in Germanorum Ecclesia diebus Jovis»; p. 113: «De modo seu ritu Prophetiae in Ecclesia Gallorum». Ricordiamo che il Pucci aveva preso parte alla vita di questa chiesa durante il suo passaggio a Londra (cfr. l’art. di A. Gordon, fondato su ricerche originali, in Dictionary of National Biography, ed. 1909, London, XVI, p. 443) dove era entrato in rapporti anche con lo spagnolo A. del Corro, i cui destini furono tosi simili ai suoi (questi rapporti vengono indicati dal Gordon, mentre nell’ottimo studio di L. Linnhoff, Spanische Protestanten und England, Emstetten 1934, che si occupa a pp. 42-49 del Corro, il Pucci non viene ricordato).

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ria di religione ci si doveva rimettere a un collegio di anziani (attempati) e se questo non desse risoluzioni soddisfacenti, al futuro concilio1056 . Ma anche nelle controversie il pensiero della carità cristiana doveva sempre stare al di sopra di ogni contesa e differenza dottrinale, lasciando sospesa ogni decisione quando fosse impossibile raggiungere l’accordo: Perché i dispareri vengono il piú delle volte perché gli uomini non badano quanto e come conviene alle importanze delle cose nelle quali sono d’accordo, e sono piú riscaldati nella gara di qualche punto particolare che è in disputa che nell’amore della verità indubitata, contenuta nella loro professione1057 .

Se sorgevano dispareri fra «cittadino e cittadino», per qualsiasi ragione (religione, onore, roba), il giudizio andava rimesso al collegio: che in primo luogo doveva deputare arbitri competenti nella questione sorta, che dovevano giudicare in capo a due mesi. Se gli arbitri non riuscivano a mettersi d’accordo, si doveva passare alla votazione generale del collegio secondo l’ordine fissato1058 . Anche nella raccolta delle testimonianze per questi giudizi l’anonimo ammoniva di seguire gli usi del paese nel quale ci si trovasse, e di ricorrere poi al giuramento solenne nelle mani del censore in mancanza di altre prove. Ognuno doveva esporre da sé le sue ragioni, e 1056 Per la storia degli eretici cit., p. 178. Un altro tratto di «nicodemismo» è il seguente: «Ma perché i nostri cittadini vivono per lo piú in luoghi ne’ quali sono costretti a trovarsi presenti a certa hora il dí di Domenica alle messe o agli altri simili uffitii che meritano d’essere emendati, noi gli consigliamo che non potendo meglio vi stieno con la maggior divotione ch’e’ possono, et guardinsi dalle superstitioni et abbusi che conoscessimo esservi, il meglio ch’é sanno...» (p. 179). 1057 Ibid. 1058 Ibid., p. 191.

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per chi non ne fosse in grado doveva supplire il provosto, interrogandolo ordinatamente; anche i giovani dovevano potere ascoltare – in silenzio – le discussioni di questo tribunale. Ma nessuno dei membri di questa «Republica» doveva far mestiere «di piatire le liti», e queste si dovevano evitare il più possibile, specialmente per opera del censore. Anche nelle liti sorte con gli estranei alla società, occorreva, secondo l’anonimo, cercare il piú possibile di raggiungere la soluzione attraverso un arbitrato1059 . Il censore doveva curare anche di mantenere gli associati in «esercizio dell’animo e del corpo»1060 : chi non avesse occupazione nel suo mestiere o nella organizzazione della società, doveva dedicarsi alle lettere e all’insegnamento dei «fondamenti delle cose divine e umane» ai giovani, oppure a «qualche coltivazione e fatica», per fuggire «i ridotti degli uomini oziosi e vaghi di dir male, che svaniscono in discorsi senza conclusione, né mai migliorano l’intelligenza o la pratica di ben governarsi»1061 . Il censore avrebbe dunque dovuto curare che prima dei quarant’anni i «fratelli» non facessero giuochi in luoghi chiusi o da star seduti, ma si esercitassero in lotta, corsa, salto a cavallo e a piedi, lancio del «palo», trar d’arco e d’archibugio, palla, scherma; anzi, si sarebbe dovuto nominare un «capitano» dei giuochi, dipendente in tutto dai tre ufficiali principali. L’anonimo non segue gli eventuali modelli anabattisti nella loro negazione della vita politica. Anzi, per lui i magistrati e i principi sono «ministri di Dio». La degenerazione della vita politica è venuta, come quella della vita religiosa, dalla «sopranità» usurpata dal «vescovo di Roma» e da «altri ecclesiastici simili a lui» nei re1059 Questa antipatia per i tribunali e per le contestazioni giuridiche era condivisa com’è visto, anche da F. Sozzini. 1060 Ibid., pp. 188 sgg., 196 sg. 1061 Ibid., p. 196.

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gni e nelle repubbliche cristiane. Quindi i veri cristiani spirituali, fra i quali si pone e pei quali parla il nostro anonimo, credono che il Papa e gli altri ecclesiastici usurpatori di potere politico debbano esser sottoposti al loro concilio; e quanto allo Stato, essi debbono ritenere che «i ministri ecclesiastici siano suggetti a’ principi et magistrati civili, come gli altri uomini». Da questa dottrina, l’anonimo sperava derivasse una simpatia delle autorità politiche per la sua «republica», che prometteva di liberarle «da detto principato ecclesiastico e da’ suoi subalterni»1062 . La concezione della vita politica che avrebbe dovuto prevalere in questa società era probabilmente repubblicana: perché la riforma da essa propugnata era sí che l’autorità politica fosse sovrana di fronte a quella ecclesiastica, ma in quanto «magistrato civile eletto ed approvato dai popoli». Questo accenno che rimane allo stato di accenno, come un altro, sulla necessità di riformare contemporaneamente la «republica» e la Chiesa, fa pensare che l’anonimo non esponesse tutte le sue vere idee, riserbandole esotericamente a un piccolo gruppo da scegliere quando la associazione che proponeva avesse cominciato ad estendersi; infatti questi due accenni rimangono isolati, e il nostro anonimo non insiste sulle riforme politiche né sul carattere del magistrato civile. Insiste invece sull’ubbidienza che è dovuta tanto a principi che a magistrati. Tutti coloro che non osserveranno strettamente la regola dell’ubbidienza alla autorità politica saranno esclusi dalla società. L’anonimo parla anzi di «rispetto» ed «amore» per le autorità politiche, e giunge anche a raccomandare ossequio e riverenza per le autorità politiche di «quelli stati e regni nei quali il papa e i simili a lui sono riconosciuti per sovrani». Non è chiaro se questo ossequio giunga alla collaborazione attiva, alla partecipazione alla vita politica (magistrature, esercito), 1062

Ibid., p. 181.

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perché proprio a questo proposito l’anonimo insiste sul vivere «come forastieri nel loro natio terreno o forastieri interamente per gli altrui paesi»1063 . Anche se questo non sembra vada inteso del tutto letteralmente, poiché nello stesso capitolo si parla di «viver con animo di forastieri», il che fa presupporre un distacco soprattutto interiore, pure l’amore e la reverenza non si dovevano manifestare altro che nell’ubbidienza e nel pagamento delle gabelle; del resto quell’estraneità nella quale si dovevano mantenere i cittadini della repubblica cristiana non escludeva probabilmente qualche servizio politico, poiché si parla d’autorità che essi possono acquistare, e che devono usare per combattere il predominio ecclesiastico sulla vita civile e politica. Si può pensare ad una «autorità» acquistata con servizi diplomatici, come quella del Biandrata, che era pur «forastiero» in Transilvania. Le ragioni di prudenza prevalgono però nell’atteggiamento dell’anonimo di fronte alle autorità politiche, perché egli suppone nei suoi seguaci una tendenza alla ribellione e una insoddisfazione politica di fronte allo stato presente delle cose – uomini d’animo e talvolta anche di corpo alienato dagli ordini e dalle usanze di quegli Stati nei quali sono cresciuti, com’egli dice –, e si preoccupa che la buona e onesta conversazione di essi faccia che i principi li tengano volentieri nei loro paesi e proteggano il loro «comune», sia che ne abbiano o no cognizione particolare. Gli associati di questa «repubblica» o «comune» dovevano esser scelti con grande cura, fra persone di provata «costanza, carità e virtú»; ma questo non doveva impedire una larga propaganda. Non una propaganda diretta, che avrebbe condotto a svelare l’esistenza del «comune» segreto, ma indiretta, per accendere negli animi il desiderio della riforma degli ecclesiastici, e del concilio 1063

Ibid.

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generale; l’esempio concreto mostra che l’anonimo pensava soprattutto a una propaganda negativa, di carattere anticlericale, fondata sull’accusa di tirannia agli ecclesiastici e sull’affermazione della facilità di scuoterne il giogo. Prima di mostrare i «capitoli» della società a chi si vedesse bene animato alla riforma e disposto a sacrificare il suo interesse privato per il bene pubblico, occorreva fargli giurare davanti a Dio che non avrebbe svelato il segreto anche se non avesse accettato tutti gli obblighi dei membri della società stessa. Un secondo giuramento di osservare quegli obblighi, di preporre l’interesse del comune a quello privato, di essere amico degli amici del comune e nemico dei suoi nemici, suggellava la nuova cittadinanza; ad esso si era ammessi dopo la votazione del collegio. Tutti i fratelli dovevano aiutarsi e «carezzarsi» scambievolmente, facendosi parte l’un l’altro di «quello che sapevano e di quello ch’egli avevano», come membri di un medesimo corpo1064 . Il censore, oltre la coerenza e la solidarietà fra i fratelli, doveva anche curare i matrimoni di essi, inducendoli a vincere le difficoltà che sorgevano dal loro viver come stranieri nei vari paesi1065 . Se possibile, i matrimoni dovranno avvenire entro l’ambiente della società stessa, o ad esso vicino. Chi non possa mantenere la castità, e allo stesso tempo non trovi una moglie adatta, potrà avere dal censore, per «permissione politica» la concessione di tenere una concubina, purché sia altrimenti devoto e benemerito della società, faccia il meno scandalo possibile e la cosa non si prolunghi molto. I figliuoli di queste relazioni illegali dovranno essere evati in modo da potere eventualmente essere ammessi nel «comune», benché altrimenti non ne debbano far parte per diritto di successione che i figli legittimi e adottivi. Nessu1064 1065

Ibid., p. 184. Ibid., p. 193.

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na ricerca di doti; nella «repubblica» non si daranno doti, o se mai piccolissime; le mogli dovranno esser scelte, oltre che devote, frugali e pudiche, anche «molto ben sane e gagliarde» per averne buona razza, il marito dovrà visitare la moglie non piú di due o tre volte per settimana, per mantenere la salute a sé e per evitare nella donna l’abitudine al piacere1066 . Grande importanza ha per l’anonimo l’educazione; tanto che, oltre un apposito capitolo nella Forma le ha dedicato un apposito trattatello1067 . L’educazione è presa qui, come in generale nel pensiero del Rinascimento italiano, in senso lato: comincia con la nascita e termina solo col matrimonio. Le madri devono allattare i propri figli; questi devono crescere senza mollezze ma senza privazioni; giunta l’età devono frequentare la scuola indicata dal collegio; quivi devono imparare a leggere e a scrivere e a conoscere «quelle lingue che sono necessarie per vivere ne’ paesi dove ei peregrinano»1068 . Dopo la scuola, un mestiere «di quelli che sono necessari per la vita umana», e mai ad ogni modo di quelli che devono esser riformati o aboliti: avvocati, chierici, e simili. Entro la famiglia il padre funge da sacerdote, dirigendo le orazioni della sera e della mattina, la benedizione prima e il rendimento di grazie dopo i pasti; amministrando, quando sia possibile per le condizioni del paese nel quale si vive, il Battesimo ai figliuoli, possibilmente al trentesimo anIbid., pp. 193 sg. «Disciplina domestica o vero Uffitio di religione de’ padri di famiglia e capi di casa, i quali vivono fra popoli di diverse chiese et opinioni, et vogliono esser d’accordo, per quanto possono, con tutti i christiani, procurando che si raguni il concilio il qual risolva delle dispute che sono in christianità a cagione de’ diversi dottori et predicatori», pubblicato parzialmente da me in Per la storia degli eretici cit., pp. 203 sgg. 1068 Forma d’una republica catholica, ibid., p. 195. 1066

1067

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no d’età, o istruendoli, sempre a quell’età, della vera dottrina, se sono stati costretti a seguire pratiche «superstiziose». Il padre o il capo della famiglia amministra anche la sacra Cena, concepita come pura commemorazione, entro la casa, ai figli, fratelli e altri famigliari, ma non sovente, e dopo una conveniente preparazione1069 . Dunque una società ristretta, chiusa in sé, e affidante la propria durata e propagazione soprattutto al nucleo familiare, concepito su base paterna e patrimoniale; il padre di famiglia è padrone, ed è responsabile per i figli e per i servi, che formano parte della famiglia. I figliuoli dei servitori devono esser allevati con la stessa disciplina che quelli dei padroni, perché dovranno servire in qualche modo nella «repubblica»; anche i servitori che si vedono devoti e capaci vanno ben trattati e, col crescere del benessere della famiglia, elevati di grado e di mansioni; le famiglie si devono conoscere l’una con l’altra, si devono servire dai medesimi artefici, «dando guadagno a persone di buona vita, secondo questi principi naturali e comuni». Nel pensiero dell’anonimo questa società perfetta, conchiusa in sé ed operante in segreto sul mondo circostante doveva avere una forza di attrazione e di irradiazione di per sé già forte; «cosí senza fatica alcuna, con poche parole e con buoni fatti» si faranno molti della medesima «disposizione». E allora sarà facile convocare il concilio che riformi definitivamente la Cristianità e risolva tutte le controversie in ispirito di carità e di solidarietà religiosa. L’anonimo si riprometteva molto dal suo «comune» cosí saldamente organizzato, e cosí ben fondato sui principi della famiglia e della religione che erano stati cari, 1069 Ibid., p. 200: «... alleveranno i lor figliuoli et creati in questa speranza, confortandosi con essa sotto il grave giogo ch’hora aggrava il collo della maggior parte de’ popoli, e massime de’ nostri Italiani».

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dopo il Savonarola, al Brucioli; e sperava che i cittadini dei vari Stati («repubbliche particolari») avrebbero preso a favorire la sua associazione universale («republica universale») solo al conoscerne l’ordine ideale, e portati dallo stesso amore per la loro patria. In questa universalità europea di programma, che sembra comprendere indistintamente paesi protestanti e paesi cattolici, l’anonimo non dimenticava la sua Italia, ch’egli vedeva piú delle altre patrie gravata dal giogo del predominio ecclesiastico. Ma il suo progetto rimaneva universale, cioè ambiva a una rinnovazione della Chiesa e della società, non solo italiana, ma europea; poiché possiamo ammettere che gli accenni ai popoli non europei rimanessero generici e sospesi anche nella sua mente1070 Tolti dalla esperienza degli eretici italiani che noi conosciamo sono gli espedienti che l’anonimo consiglia per coloro che, come soprattutto gli italiani, avevano da vivere sotto una «guardia degli inquisitori» cosí «stretta e rigida», e cosí diffidente «contro alle raunanze di quelli che erano punto sospetti d’esser alienati d’animo dal loro principato ecclesiastico», da rendere impossibile l’organizzazione da lui proposta di «collegi» e «diete». Uso di metafore, allegorie, antifrasi, ironie, da usarsi in ogni tempo e luogo, «perché fra quei che s’intendono basta un minimo cenno, onde potranno trattare di queste cose per i ridotti, per le botteghe, per le chiese, per le piazze, per le corti, e dovunque si adunano brigate: o finalmente alle tavole stesse...» In discussioni religiose iniziate a mensa abbiamo trovato il Besozzi e lo stesso Fausto Sozzini: quel che appariva come un fatto casuale si colorisce ora diversamente, benché si debba rimanere molto cauti e non si possa parlare, appunto, che di minimi cenni. Si può dire anche che alla luce di queste massime di attività politico-religiosa 1070

Ibid., p. 201.

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clandestina le stanze del Sozzini sullo sdegno acquistano una nuova accentuazione; anche il suo accenno sul trasferimento del significato della sua impresa, da Delia a piú degno soggetto, ci diventa ora chiaro: e possiamo dire che l’atmosfera degli Intronati era probabilmente, al tempo di Fausto Sozzini e di Mino Celsi, proprio quella che l’anonimo dipinge, mentre ordina in progetto i suoi ingenui consigli: «gli uomini intendenti possono ragionare e scrivere copertamente delle cose nostre etiandio in presenza di terze persone, sotto figure d’altri propositi...» Le ragioni inespresse che Fausto Sozzini aveva per addolorarsi della scomparsa della sua Accademia possono forse essere interpretate alla luce della osservazione dell’anonimo, che quei che leggono pubblicamente per le Accademie e per le scuole gli autori sacri e profani o che parlano per le compagnie et per le ragunanze hanno mirabil comodità di fare degli amici al nostro comune et de’ nimici a’ nostri avversari... Cerchino adunque i nostri di averli favorevoli1071 .

All’ambiente giuridico di Fausto e Lelio Sozzini, ma anche a quello delle tendenze gallicane francesi, e a quello che s’andava preparando nella Venezia del Sarpi, ci riportano le considerazioni che il nostro anonimo mostra di ritenere piú adatte alla propaganda per la riforma e il concilio che è differente da quella, cui sopra si è accennato, vôlta a fare proseliti per la «repubblica». Questa è vôlta ad effettuare direttamente lo scopo della società segreta. All’occasione, si deve mostrare «di che importanza sia l’interpretazione delle leggi divine, della quale gli ecclesiastici si servono a lor capriccio...»; si deve rammentare prima «la sentenza imperiale delle leggi comuni, che dice che a colui appartiene interpretare a cui appartiene creare» per poi insinuare che 1071

Ibid.

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dopo Dio il popolo è quello che crea i re e i magistrati e a lui appartiene similmente creare i ministri e governatori della chiesa, e il giudizio delle differenze che nascono nella interpretazione delle divine leggi.

I popoli dovranno abbandonare la loro trascuratezza che ha lasciato prendere piede agli ecclesiastici, «e ripigliare la sopranità dovuta loro», attraverso l’azione della società proposta dal nostro anonimo, e dovranno «dare sindacato e quei che si usurpano il primo luogo nella cristiana republica»1072 . Possiamo dire tipicamente italiana anche la grande fiducia che il nostro anonimo aveva nella riforma interiore, nel guadagnare gli animi senza preoccuparsi di una trasformazione delle istituzioni: basta che disponghino gli animi degli amici e uditori loro a questa nostra riformatione, con ciò sia che guadagnati gli animi degli uomini la prima occasione che si presenta fa accostare alla parte migliore ancora i corpi e le altre facoltà esterne1073 .

Qui il motivo della riforma interiore del Pole e del Contarini, del Sadoleto e del Soranzo, fine a se stessa e fiduciosa nella forza viva della virtú e della devozione esemplari, è diventato quasi un mezzo al fine della riforma generale e universale, un grado di preparazione, che però conclude in sé tutta la preparazione alla riforma, e 1072 Ibid., e p. 202. Questo motivo ricorda immediatamente le dottrine di Marsilio da Padova, ma anche quelle dei monarcomachi dell’una e dell’altra parte. Cfr. Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., pp. 340 sgg. Anche le specificazioni dell’anonimo («a fine che gli ecclesiastici non tenghino piú suggetti i magistrati et principi d’essi popoli sotto specie di religione, et non usurpino piú, con titolo d’inquisitione o di cause matrimoniali o di leggi canoniche... la maggior parte della giurisditione civile...») ricordano motivi comuni del giurisdizionalismo del tempo, che tralasciamo di confrontare nei particolari. 1073 Per la storia degli eretici cit., p. 202.

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ancor piú facilmente si doveva esaurire in una «educazione» senza sbocco e senza risoluzioni, in una vita di conventicole, in una attesa della «occasione» e in una astratta compiacenza della «semenza occulta» che non manca di «sfruttare se ben la sta coperta ne’ primi giorni ch’ella è gittata in terra».

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CAPITOLO TRENTATREESIMO

Conclusione della tendenza platonizzante degli eretici italiani. La concezione della religione nel Pucci e nel Campanella.

La dottrina proposta dall’anonimo per questa società esemplare, preludio della perfetta società cristiana che si doveva preparare, è quella del Curione, del Castellione, dell’Aconcio e del Pucci: che ora, esposta non più in forma negativa, e polemica, ma in forma positiva, di un credo generalissimo e accettabile da tutti i popoli cristiani, e non piú nel latino dei teologi o dei filosofi, ma in volgare, acquista una efficacia piú viva, e un accento che si può dire senz’altro preilluministico1074 . La fede in Dio e fondata sul «lume della religione naturale, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo» e sulla «contemplazione dell’opere dell’universo nel qual risplende e risuona per tutto una mirabile et stupenda sapienza e ragione». La legge divina e la divina verità sono state manifestate attraverso i profeti e gli apostoli, i cui scritti sono «testimonianza sicura delle origini del mondo» e «regola della nostra credenza e vita». C’è un solo Dio, padre figliuolo e Spirito Santo. Il padre è l’«alta cagion prima», «fonte d’ogni Deità, d’ogni essenza e d’ogni vita», che opera mediante la sua «sapienza e ragione eterna» (parola o verbo). Il Figlio è Gesú Cristo, perché in lui ha abitato la sapienza e ragione divina, alla quale spetta in primo luogo il nome di figlio ab aeterno, distinto dal figlio generato che è Cristo. Lo Spirito Santo è la volontà e l’amore del Padre di Cristo e la 1074 Ibid., p. 204; cfr. Rom. 1.20. Ma il motivo evangelico assume un altro tono per l’aggiunta «mirabile e stupenda sapienza e ragione».

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loro virtú ed efficacia, che si sente soprattutto quando si «gusta» il «benefizio di Cristo»1075 e quando gli uomini per la promessa «d’un tanto fratello e signore si risolvono con ardire e baldanza straordinaria di trascurar tutte le cose esterne e mondane a petto delle celesti e divine». Le opere del Figlio, del Padre e dello Spirito sono indivise; e vengono da un sol Dio; ci si contenti di questa semplicità, e si evitino le discussioni. L’anonimo però evita il termine di Trinità, e la sua interpretazione del rapporto fra Figlio e Verbo è molto vicina a quella del Serveto. Anzi, egli sostiene che non bisogna usare i nomi che non si trovano nella Scrittura: e con ciò egli si pone nettamente dalla parte degli antitrinitari. Si distingue però dai sociniani per l’importanza attribuita al «Benefizio di Cristo», che il Sozzini e i suoi seguaci negavano ormai esplicitamente da qualche anno, al momento della stesura della Forma. Quanto al Battesimo, l’anonimo non è esplicitamente anabattista, ma lascia trapelare molto chiaramente il suo pensiero: quando si possa, alla nascita si deve fare solo un atto di grazie, e il Battesimo si deve impartire a trent’anni, quando il battezzato può avere chiara notizia del significato di questo Sacramento; altrimenti, si segua l’uso della chiesa piú vicina all’ideale della purezza qui proposto, e al suo momento si spieghi il significato del Battesimo ricevuto quando non si poteva rendersene conto. Dunque non c’è un secondo Battesimo per coloro che sono stati battezzati al momento della nascita. La Cena è concepita come pura commemorazione, senza nessun valore oggettivo, e viene amministrata nelle case, dai padri di famiglia, e non nei «collegi». Insomma un «battismo» moderato, piú che una forma di anabattismo; uno spiritualismo piuttosto etico che mi1075

Per la storia degli eretici cit., p. 205 anche per quanto

segue.

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stico, e fortemente razionalistico; un antitrinitarismo attenuato e non polemico. Ma l’elemento che prevale in questo scritto, come in tutta la riforma italiana, è quello morale: le formulazioni dottrinali servono solo per creare un terreno dove si possa stabilire un accordo, e questo deve servire a evitare le discussioni teologiche, perché l’importante è la vita secondo la norma morale intesa religiosamente, nel suo senso piú semplice ed elementare. Questa prevalenza della morale, intesa come osservanza di una legge naturale secondo una ragione anch’essa «naturale», sopra ogni altro aspetto della vita religiosa, è il motivo profondo che accomuna le due tendenze del gruppo eretico italiano: quella dell’umanesimo platonizzante e quella dell’umanesimo critico. Su di essa è fondata anche quella identificazione di vita politica e vita religiosa, che è implicita nella dichiarazione: Egli è chiarissimo che conviene riformare la religione e la repubblica tutto a un tratto, a volere far cosa durabile e buona e che abbi riscontro e convenienza ragionevole, con ciò sia che l’una cosa aiuta l’altra e quando si congiunge insieme la forza e la ragione se ne veggiono mirabili effetti1076 .

Solo una concezione della religione come norma e forza della vita morale permette di considerare come necessaria per la riforma religiosa anche la riforma politica, e viceversa. Il nostro anonimo non dice nulla di piú preciso su quest’ultima; ma il suo rispetto per le autorità politiche costituite e la sua insistenza sul dannoso prevalere dell’autorità religiosa su quella politica, permette la supposizione che egli pensasse soprattutto a un rinvigorimento dei privilegi di questa, a una avocazione di po1076

Ibid., p. 200.

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teri allo Stato, e forse a una larga partecipazione delle magistrature inferiori all’amministrazione di esso1077 . Possiamo dire che con questo scritto la tendenza platonizzante degli eretici italiani si conclude, lasciandoci un progetto di società segreta, religiosa e politica, altamente interessante perché offre, pur nella sua ingenuità, un tentativo di coordinare la esperienza della vita clandestina dell’anabattismo italiano e di quella della vita degli italiani dispersi nell’Europa del Cinquecento, e insieme di dare una pratica attuazione agli ideali utopistici della società perfetta e del millennio, che non debbono esser piú attesi passivamente o progettati in astratto, ma costituiscono uno scopo raggiungibile su questa terra, attraverso l’azione di un gruppo di persone di maggiore coerenza e decisione. Questo progetto dell’anonimo italiano si distingue dalle sètte che fioriscono in terreno protestante per la sua consapevolezza politica, e per la mancanza completa dell’idea che i membri della sua «republica» avrebbero costituito qualcosa come il «popolo eletto»; quel che l’anonimo propone, non è una società di perfetti, che attuino in pieno gli ideali dell’utopia politica e religiosa, ma veramente un’organizzazione che prelude alle società segrete politiche di secoli posteriori, una società che non si esclude dal mondo circostante, ma vuole operare e agire su di esso, e accetta il segreto e il «nicodemismo», cioè l’adattamento ad ogni forma religiosa e ad ogni situazione ecclesiastica come mezzi per meglio giungere allo scopo voluto. In questo progetto di «comune» universale lo spirito realistico e politico non prende il sopravvento sulle aspirazioni religiose e sulle fantasie universalistiche di rinnovamento del mondo e della umanità; queste rimangono prevalenti, ma solo nella forma d’una attesa del concilio universale che le at1077 Riprendendo forse il motivo del Beza, per il quale cfr. Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., pp. 317 sgg.

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tui definitivamente. L’anonimo raccoglie in uno le aspirazioni degli ambienti degli eretici scacciati da tutte le chiese ufficialmente riconosciute dall’Impero, dalle monarchie o dagli Stati cittadini o principeschi, che si ritrovavano in ambienti come quelli della Ecclesia Peregrinorum di Londra e delle città olandesi; le critiche soprattutto degli italiani alle formulazioni dottrinali che le chiese protestanti si erano date; e, ad attuare quelle aspirazioni e a soddisfare quelle critiche propone il ritorno alla pratica italiana delle congiure e delle accademie, cercando di conferire a quell’insieme di speculazioni millenaristiche, di profezie, di aspettative apocalittiche, di critiche radicali, di sentimenti di ribellione, di elaborazioni personali e di visioni d’un futuro migliore, una unità e insieme una universalità che avrebbe dovuto sottrarre alla dispersione quelle energie. Il termine di «republica catholica» usato dall’anonimo per il suo progetto non implica certo un riferimento al cattolicesimo; ma forse possiamo dire che anche in questo eretico, cosí lontano ormai dalla Chiesa cattolica, assieme al realismo politico proprio degli italiani, continuavano ad operare le idee cattoliche ed umanistiche dell’unità e della universalità, che avrebbero informato di sé, un decennio piú tardi, i tentativi di riforma del Campanella1078 . Dal Campanella il nostro anonimo si distingue in primo luogo perché il suo ideale non sta in una teocrazia cattolica, ma nella restituzione della supremazia della autorità civile su quella ecclesiastica, e poi perché invece di cominciare l’attuazione della società perfetta in un luogo e in un momento dato si accontenta della preparazione di un «comune» che sia in grado di attuarla. Ma la semplificazione della dottrina religiosa in un deismo e in un naturalismo razionalistico, che qui sono puramente accennate, e nel Campanella accentua1078 C. Dentice D’Accadia, Tommaso Campanella, Firenze 1921, pp. 143 sgg.

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te con ben altra conspevolezza, e il tener fermo al principio dell’unità e dell’universalità che devono contraddistinguere la riforma auspicata, se questa ha da essere efficace, ci permettono di porre l’anonimo battista e antitrinitario sulla stessa linea di svolgimento del pensiero religioso italiano del Rinascimento sulla quale sta il Campanella, e di parlare di un suo intriseco «cattolicesimo», del quale egli non si può spogliare in nessuna maniera1079 . Questo intrinseco «cattolicesimo» e questo realismo politico concomitante con le idee dell’universalità e della unità, spiegano anche la inefficacia di quest’opera e il silenzio nel quale essa è rimasta: né l’idea della restituzione dei suoi poteri all’autorità laica, nè quella di una rinuncia alle loro particolarità e alle loro autonomie potevano avere eco nel mondo degli eretici o in quello delle sètte protestanti, dove l’autorità politica era considerata cattiva in sé, e dove il soggettivismo e l’individualismo religiosi diventavano fine a se stessi, affermazioni di anarchia e non di libertà. Meno ancora idee come queste potevano trovare accoglienza nelle chiese calviniste e luterane, dove i motivi cosí esplicitamente anticlericali che potevano interessare un cattolico non avevano nessun significato, perché la supremazia dei principi territoriali nelle seconde e quella dei concistori nelle prime aveva ormai risolto, fino a che non si presentassero nuove situazioni storiche, il problema dei rapporti fra autorità civile e autorità ecclesiastica; e dove il consolidarsi della «ortodossia» e la formazione delle nuove «scolastiche» rendeva le menti sorde al tentativo di religione naturale universale e razionale qui accennato. L’anonimo aveva forse avuto sotto gli occhi certi ambienti inglesi e olandesi, dove si facevano strada idee sulla religione analoghe alle sue, e dove l’umanesimo religioso che informa tutto il suo progetto doveva sopravvivere piú a lungo: ma neppur qui l’uni1079

Ibid., pp. 150 sgg.

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tà e la universalità del suo progetto potevano raccogliere simpatia, perché qui la lotta contro la Chiesa Romana non era semplicemente di carattere anticuriale e anticlericale, ma anche nazionale e sociale. Ovunque, nelle grandi confessioni protestanti e negli ambienti dell’eresie e delle sètte, la preoccupazione era di «salvare» se stessi e il proprio paese: la preoccupazione di riformare e di salvare il genere umano che anima il pensiero di questo anonimo italiano era destinata a fallire, per il momento, come per il momento nel quale era uscito scarsa eco aveva avuto il De Amplitudine del Curione, che ne è il lontano presupposto. Anche il Pucci aveva creduto di aver trovato la soluzione di tutte le controversie e il modo di riportare l’unità e la universalità nella confusione e nella dispersione del Cristianesimo, riconducendo la dottrina cristiana a una forma semplificata e soprattutto a una devozione elementare e ascetica, confortata non tanto dall’idea della religione naturale e razionale, che pure anche in lui s’affaccia, quanto da ispirazioni e visioni apocalittiche, derivate probabilmente dalla lettura del suo Savonarola, e che lo riavvicinano, anch’egli, al Campanella. Ma dopo avere peregrinato per i vari paesi di Europa e dopo avere conferito con i principali dottori di tutte le sètte il Pucci s’era deciso a ritornare «alla santa chiesa Romana» sperando da lei, e soprattutto dall’intervento diretto di un potentefice, l’attuazione della sua idea di un concilio universale, la pacificazione della Cristianità e la conversione generale degli infedeli, e a lui offrendo il mezzo per questa azione nel suo «corpo di dottrina e di interpretazione tanto accordante con la ragion comune e con la natura... che non può se non piacere alle persone che di ragione si appagano1080 . 1080

Per la storia degli eretici cit., p. 160.

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Il Pucci afferma che il suo pensiero coincide con quello di san Tommaso: e certo le formule della sua religione razionale, cosí vaghe come ci sono rimaste, possono essere ricondotte agevolmente a concetti tomistici. Ma l’accentuazione unilaterale di esse, e la loro applicazione a unificare semplificando anziché a conciliare distinguendo, mostrano che si trattava di un’illusione del fantastico Pucci. Il ritorno alla Chiesa del Pucci, il quale ormai sperava solo dal pontefice la riforma che avrebbe salvato dalla discordia il cristianesimo e per esso «tutto il genere umano», non è solo un fenomeno di stanchezza individuale, ma è soprattutto il riconoscimento della impossibilità di far valere fra gli eretici e fra i protestanti quei principi dell’umanesimo platonizzante e della solidarietà cristiana generale che gli eretici italiani avevano portato con sé, assieme alla nostalgia per la «libertà» di vita religiosa che s’era goduta nel tardo Quattrocento e nel primissimo Cinquecento. Quel che sarebbe stato impossibile agli uomini della prima generazione, a un Curione, per esempio, era possibile agli uomini della seconda, come il Pucci: il ritorno di questi a Roma era la conseguenza della accorata esclamazione del Renato dopo la condanna del Serveto. Ma il ritorno del Pucci non poteva certo avvenire nella forma ch’egli sperava e con gli effetti ch’egli si riprometteva. Se in fondo ad esso c’era la coscienza che le sue esigenze di universalità e unità effettive non potevano aver significato fuori della Chiesa cattolica, la forma con la quale tale coscienza si manifestava era troppo lontana dalla realtà storica della Chiesa post-tridentina, e le speranze del Pucci si svelavano come una illusione, analogamente a quelle dell’anonimo a cui tante affinità lo legano1081 . Questa corrente degli ere1081 Se il nuncio Della Sega aveva potuto credere nel 1585 all’utilità del Pucci per l’opera di riconquista delle anime, e lo

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tici italiani aveva tenuto fermo a speranze e a idee che dopo la crisi del Rinascimento italiano avevano perduto ogni efficacia e ogni valore, di fronte alle nuove situazioni e ai nuovi problemi; gli uomini che ne avevano fatto parte avevano creduto, rinnovando unilateralmente vecchi motivi anticuriali, che solo la corruzione degli ecclesiastici e il loro predominio nella società cristiana impedissero l’affermarsi di una piú larga solidarietà cristiana e di una rivelazione naturale e razionale con quella cristiana concordante, ma atta a chiamare ad essa gli altri popoli. Ma in terra protestante le chiese «purificate» non avevano avuto nessuna comprensione per i loro sforzi e le loro aspirazioni, che rimanevano universali e unitarie da una parte ed erano dall’altra piú filosofiche e morali che religiose in senso strettamente cristiano; e come il Valdés e il Contarmi, Giovanfrancesco Pico e il Sadoleto, Egidio da Viterbo e i platonici politici degli Orti Oricellari non avevano potuto riformare la Chiesa e la vita morale italiana e cattolica o la vita politica fiorentina, cosí il Curione e il Pucci, l’Aconcio e il Celsi non riuscirono a far raccogliere l’empito delle loro speranze e delle loro aspirazioni dalle confessioni protestanti né dalle sètte eretiche. aveva raccomandato alla Santa Sede (Reichenberger, Nuntiaturberichte aus Deutschland, II Abt., I Hälfte 1585-90 [Quellen und Forschungen della Görres-Gesellschaft, Bd. X, Paderborn 1905], pp. 349 sgg.), piú avveduto e retto meglio informato era stato nel 1589 il Visconti (J. Schweizer, Nuntiaturberichte..., 1589-92, II Abt., III Bd. [Quellen und Forschungen cit., XVIII, 1919], p. 65), il quale chiedeva addirittura che si facesse arrestare il Pucci, che dopo avere solennemente abiurato non solo era tornato eretico come prima, ma inoltre era sospettato di corrispondere con altri eretici (forse il Sozzini) e costituiva un pericolo per gli italiani.

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CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO

Fausto Sozzini e la corrente critica e antispeculativa della eresia italiana del Cinquecento. Fausto Sozzini in Transilvania e la sua discussione con Fr. Dávid; sua attività in Polonia e sua posizione nella storia delle sette anabattistiche e antittinitarie polacche.

Altra sorte ebbe la tendenza critica e antispeculativa nella persona di Fausto Sozzini, il quale prese una via differente dal Pucci, e rimase coerente al distacco dalla tendenza platonizzante che aveva manifestato nella discussione basileese. Non furono solo il caso e la fama di abile discettatore e dotto controversista che lo chiamarono in Transilvania e di lí in Polonia; né fu solo il nuovo ambiente nel quale venne a trovarsi a Cracovia, a dare al corso della vita del senese e alle sue opere una direzione cosí lontana da quell’aspetto della tradizione italiana che è cosí evidente nel Pucci e nell’anonimo della Republica Cristiana. Il Sozzini trovò in Polonia un ambiente adatto alla sua attività, perché il terreno vi era stato preparato dallo zio e soprattutto dal Biandrata, dall’Alciati e dal Gentile: e perché i problemi degli ambienti eretici polacchi erano quelli della tendenza critica degli eretici italiani, o almeno si incontravano per grande parte con essi: e Fausto Sozzini è il maggiore rappresentante di tale corrente, che, se vogliamo trovarne le radici nell’umanesimo del Quattrocento, dobbiamo far risalire al Valla piuttosto che al Ficino. In questa corrente, che nell’ambiente degli eretici italiani comincia a farsi chiara con Lelio Sozzini, la comune tendenza di tutta la riforma italiana a mettere in rilievo l’elemento morale di fronte a quello dottrinale e la vita dello spirito religioso di contro alle determinazioni teologiche e rituali, assume un aspetto piú vicino alla realtà della situazione delle sètte nate entro il

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protestantesimo, piú intrinsecamente «protestante» che non nella corrente che abbiam detto platonica. Mentre in questa i motivi morali acquistano tanta preponderanza da finire quasi nella dissoluzione degli elementi peculiari del Cristianesimo storico, articolato in confessioni e chiese e in un corpo solido di dottrine e di credenze, e la universalità che avrebbe dovuto condurre alla conversione dei popoli infedeli assumeva il carattere di una astratta religiosità intellettualistica, nella corrente che culmina in Fausto Sozzini essi rimangono subordinati all’ascetismo cristiano e al senso religioso della volontà divina, e i motivi peculiari del cristianesimo storico rimangono in primo piano, nonostante il razionalismo esegetico e il prevalere degli elementi intellettuali che han fatto parlare allo Harnack di una concezione «umanistica» della religione cristiana, e della sua elevazione, che sarebbe piuttosto da dire, dal punto di vista della vita ecclesiastica e religiosa, estenuazione, in una scuola di vita morale1082 . Il De Christo servatore era stato subito diffuso in Polonia e in Transilvania, e doveva aver fatto una certa impressione sul Biandrata, se questi ne invitò l’autore a recarsi in quella regione, per convincere Francesco Dávid ad abbandonare la posizione teologica che lo induceva a rifiutare a Cristo, considerato semplice maestro, l’adorazione, che doveva esser riserbata al solo vero Dio padre e creatore1083 . Gli argomenti del senese non convin1082 A. Hatnack, Dogmengeschichte, in Grundriss der Theologischen Wissenschaften, parte IV, vol. III, pp. 392, 407-15. 1083 Con la morte di Giovanni Zàpolya e con l’ascesa al trono transilvano di Stefano Bàthory, cattolico (cfr. Profilo cit., p. 115), il movimento antitrinitario in Transilvania s’era trovato di nuovo in difficoltà, e «quella volpe del Blandrata» (Possevino, Commentario di Transilvania cit., p. 115) era ritornato dalla teologia alla medicina; e, mentre gli antitrinitari transilvani erano malvisti dal principe per avere appoggiato il suo antagonista, il Biandrata aveva saputo ottenerne il favore contribuendo

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sero il Dávid, che in un certo senso era piú conseguente, ma non sentiva che la sua era una coerenza astratta, per la quale si sarebbe venuti a negare ogni connessione con le altre «confessioni» cristiane. L’ungherese preoccupato solo della coerenza delle deduzioni e delle applicazioni pratiche che ne derivavano e l’italiano indifferente in sostanza a tutto quello che non riguardasse direttamente le questioni etiche e l’ascetismo cristiano, non potevano intendersi. L’atteggiamento del Sozzini è rivelato dal fatto che da principio egli s’era preoccupato di dimostrare solo la possibilità e liceità che anche un coerente antitrinitario invocasse Cristo1084 . Dimostrato questo, rimaneva questione pratica e contingente vedere se si dovesse o meno fare quel che secondo la Scrittura era dimostrato lecito. E con la sua attività diplomatica alla elezione di lui al trono polacco (cfr. L. Szadesky, L’election d’Étienne Bàthory au trône de Pologne, in Ét. Báthory, Kraków 1935, p. 1). Cosí il Biandrata era ritornato in una situazione del tutto analoga a quella dei primi anni ed aveva cominciato a regolarsi di nuovo secondo l’opportunità. Invece il Dávid, il suo compagno ungherese, che aveva iniziato del resto indipendentemente dal Biandrata la critica al dogma trinitario, continuava a perseguirla nel senso non adorantistico, che lo conduceva vicino all’ebraismo e al maomettanesimo; e non si curava degli editti del Báthory del 1572 e 1573 che proibivano le innovazioni religiose, pur riconoscendo anche l’«unitarismo» o antitrinitarismo. Il Biandrata capiva il pericolo che ormai presentava tale radicalismo, al quale probabilmente anch’egli aveva prima aderito, e osteggiava in tutti i modi il Dávid pur cercando di non alienarsi gli animi degli antitrittitari. Cosí, prima di lasciarlo condannare, cercò di farlo convincere da Fausto Sozzini: i Gesuiti, chiamati dal Báthory, avrebbero avuto nel non-adorantismo un’arma troppo tagliente contro l’«unitarismo»; e il principe li ascoltava. 1084 De Jesu Christi invocatione disputatio, Cracovia, 14 luglio 1595 (Prima edizione del testo scritto nel 1579), in Opera cit., II, pp. 713 sgg.

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solo dopo che il Biandrata lo ebbe avvertito che questo non bastava1085 , egli si mise a dimostrare che era necessario per un buon cristiano (nel senso degli antitrinitari) invocare Cristo e rivolgergli le sue preghiere e la sua adorazione anche se non si ammette che si tratti del vero e unico Dio del cielo e della terra, ma solo dell’uomo divino, signore del genere umano. L’argomento principale di Fausto era d’ordine pratico, analogo a quelli che abbiamo già incontrati a proposito della questione sullo stato di Adamo ante lapsum. La invocazione di Cristo, dalla quale deriva necessariamente la adorazione di lui, è necessaria in quanto riconoscimento del suo regno, del suo potere e del suo governo sugli uomini, ch’egli ha avuto direttamente da Dio. Come il potere sulla natura dato da Dio all’uomo costituisce la vera somiglianza di questo con il Creatore, cosí il potere dato da Dio a Cristo ne costituisce la divinità; ed è per questa potenza divina in lui manifestantesi che si deve adorare Cristo, che altrimenti è vero uomo1086 . Non importa che Cristo sia sostanza finita e finita sia la sua potenza, mentre infinito è solo Dio. Escludere Cristo dalla adorazione sarebbe un ritorno a giudaismo, che il Sozzini rifiuta categoricamente. Ma in sostanza la questione rimaneva per lui adiafora, non nel senso che l’adorazione di Cristo non fosse né bene né male, ma nel senso che non era né espressamente proibita, né espressamente ordinata dalla Scrittura. La sua necessità derivava non da argomenti logici, interni al concetto stesso della divinità, ma da argomenti esterni, come la debolezza umana, e la necessità di pregare Cristo per nostro conforto e consolazione. Era una necessità soggettiva dell’uomo, non una necessità oggettiva, derivante direttamente dalla parola divina o dalla ragione. Anzi, più tardi il Sozzini rifiutò espressamente di accetta1085 1086

Ibid., pp. 716a, 717a. Ibid., pp. 725, 728, 730; cfr. 770, 772.

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re la ragione come ultima istanza1087 . È evidente che partendo da questi presupposti il Sozzini non poteva persuader l’avversario, che si sentiva su una miglior posizione logica, e che le conversazioni fra i due non concludessero nulla, nonostante che fossero prolungate dall’autunno del 1578 alla primavera del 1579. Il Sozzini non prese certo parte alla attività del Biandrata per far condannare il Dávid ma probabilmente la sua opinione che non si potesse considerar cristiano chi rifiutasse d’adorare Cristo ebbe un certo peso1088 . Nella primavera del 1579, Fausto abbandonò la Transilvania, e prese la via del ritorno; ma si fermò a Cracovia, dove l’ambiente religioso era tale da attirare il suo interesse, e dove i molti e potenti italiani potevano offrirgli protezione e compagnia; e non tornò piú verso l’Europa occidentale. Nonostante la grande fama che subito raggiunse, e il prestigio che doveva accompagnarlo fino alla morte e per il quale il suo nome avrebbe avuto tanta importanza nella storia religiosa del Seicento europeo, il Sozzini fu da principio e rimase per molto renipo isolato dalle comunità anabattistiche e unitarie polacche che pure a lui ricorrevano per consiglio e per guida. Infatti egli rifiutò sempre di sottoporsi a un secondo Battesimo, e non poté quindi essere accolto in nessuna comu1087 Disputatio inter Faustum Socinum et Christianum Francken, de honore Christi (1584), in Opera cit., II, p. 767a. Alle testimonianze non discutibili sulla Sacra Scrittura si può ricorrere «tamquam ad certa quaedam principia»; «at vero si rationem tantum spectes, paucissima... sunt principia certa, eaque saepissime ab eo de quo disputatur tam longe absunt, ut vix unquam disputando ad illa perveniri possit». 1088 Profilo cit., p. 46. La questione era finita con una disputa davanti al principe, il cui esito era stato sfavorevole al Dávid. Questi condannato al carcere perpetuo, ma già malato, soggiacque ai primi strapazzi e al suo male, e morì il 15 novembre 1579.

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nità: solo verso la fine della sua vita venne ammesso alla celebrazione in comune della Eucaristia1089 . Questa posizione significava anche una separazione netta dal millenarismo dell’anabattismo, come anche dalla sua posizione del tutto negativa di fronte all’autorità politica, all’esercizio e al servizio della quale l’anabattista non doveva in nessun modo partecipare, perché la vita politica, con le sue precipue manifestazioni giuridica e militare era concepita come direttamente anticristiana. Cosí il Sozzini poté sempre dichiarare espressamente di non essere stato capo di nessuna sètta, e di non potere esser chiamato in nessun modo «eresiarca». Quel che permise al Sozzini di acquistare tanta influenza su quegli uomini che pure non lo accettavano fra loro quando compivano il piú importante atto della loro vita religiosa, furono gli sforzi da lui compiuti per l’attuazione dell’idea che gli eretici italiani portavano con sé nell’Europa protestante, divisa in sètte e confessioni: l’unità religiosa da ristabilirsi per ridare al Cristianesimo quella unità e universalità che aveva perduto. Certo, la stessa tendenza empirica del pensiero del Sozzini non permise che questa idea fosse posta formalmente e coerentemente, e ne ridusse l’attuazione all’accordo e all’unificazione di una sola parte del protestantesimo polacco1090 . Il Sozzini approvava il modo di vivere dei Fratres Poloni come piú vicino di ogni altro ai precetti evangetici; ne stimava la dottrina antitrinitaria, e, nonostante l’esclusione ecclesiastica, si considerava uno dei loro: cosí vide che la prima questione da risolvere 1089 Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., p. 119. Cfr. anche, benché invecchiato, O. Fock, Der Socinianismus nach seiner Stellung in der Gesammtentwicklung des christlichen Geistes, nach seinem historischen Verlauf und nach seinem Lehrbegriff, Kiel 1847, pp. 165 sg. 1090 Cfr. Wilbur, Faustus Socinus cit., pp. 51 sg.

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era quella dell’accordo fra le varie correnti: quella antitrinitaria generale, quella diteitica che riprendeva motivi del Gribaldi, quella triteitica che riprendeva motivi del Biandrata; quella non adorante e quella giudaizzante, quella che negava, riprendendo motivi anabattistici, ogni ossequio all’autorità civile, e quella che tendeva a portare molto in là la collaborazione con essa; occorreva anche ridare una giustificazione della fede cristiana di contro agli sviluppi razionalistici in senso antireligioso e ateistico1091 . Insomma occorreva dare una omogeneità interiore al movimento unitario polacco e difenderlo contro il pericolo di dissoluzione proveniente dalle tendenze radicalmente negative che in esso si muovevano. Erano in gran parte problemi del tutto lontani da quelli della riforma e della eresia italiana, derivati da altre situazioni politiche e sociali, atteggiantesi in altre discussioni teologiche. Ma come non mancava il nesso fra queste e le questioni agitate fra gli eretici italiani, non mancava neppure l’interesse del senese per i nuovi problemi e le nuove situazioni. Finalmente qui uno di questi nostri eretici, nonostante l’isolamento, si trova davanti a vita religiosa collettiva, a una comunità religiosa di principî affini ai suoi, e le sue dottrine non sono piú manifestazioni d’un pensiero astratto, di un desiderio individuale o di piccoli gruppi senza rapporto con il mondo circostante, semiclandestini e sognanti accordi irreali, ma sono soluzioni di problemi di larghi gruppi e ceti di popolazione, le quali implicano una responsabilità reale. Fausto Sozzini, attraverso trattati, opuscoli, lettere, discussioni orali, oltre a condurre gli antitrinitari polacchi ad una certa unità della loro dottrina e quindi nella loro organizzazione, ne sostenne polemicamente le idee contro cattolici e protestanti, 1091 Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., pp. 30 sg., 32, ecc.; Wilbur, Faustus Socinus cit., p. 53.

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specialmente calvinisti; e la chiarezza e la abilità controversistica che gli erano proprie fecero sí che i suoi scritti pubblicati in parte dopo la sua morte, venissero poi raccolti dai Fratres Poloni quando vennero scacciati, alla metà del Seicento, dalla loro patria, e fossero pubblicati in due volumi a capo della raccolta generale del loro corpus dottrinale. Di qui il termine di «sociniani» loro attribuito, e il termine di «socinianesimo» alla loro dottrina, che solo in parte riprende il pensiero dell’italiano, ma che da lui aveva ricevuto l’impronta della unità e dell’universalità, come la rivalutazione del libero arbitrio e delle buone opere, e, infine la concezione del peccato originale, che secondo i sociniani non aveva distrutto ogni possibilità di bene nell’uomo1092 . I migliori teologi dei Fratres Poloni si formarono alla scuola di Fausto: accan´ to ai polacchi Gerolamo Moskorzewski e Giov. Stoinski, i tedeschi Giovanni Crell, Cristoforo Ostorodt e Valentino Schmalz (Smalcius) formarono un gruppo unito che diffuse nelle Università europee il pensiero religioso dell’italiano1093 . La vita del Sozzini in Polonia non fu tranquilla: per quattro anni egli poté rimanere indisturbato a Cracovia, ma in seguito alla sua prima polemica quivi sostenuta per 1092 Praelectiones Theologicae, IV, in Opera cit., I, p. 541a: «Concludimus igitur nullum, improprie etiam loquendo, peccatum originale esse... nec aliud malum ex primo illo delicto ad posteros omnes, necessario manasse quam moriendi omnimodam necessitatem... quia quum jam homo natura mortalis esset, ob delictum illud suae naturali mortalitati a Deo relictus est, quodque naturale erat, id in delinquentis poenam prorsus necessarium est factum. Quare qui ex ipso nascuntur, eadem conditione omnes nasci oportet: nihil enim illi ademptum fuit, quod naturaliter haberet vel habiturus esset». Cfr. Fock, Der Socinianismus cit., pp. 655 sgg. 1093 Ibid., pp. 188 sgg.; Van Slee, De Geschiedenis van het Socinianisme cit., pp. 44 sgg.

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iscritto fu accusato di seminare lo spirito di rivolta contro lo Stato, e nel 1583 dovette ritirarsi nel feudo di Cristoforo Morsztyn, ricco gentiluomo del quale poi sposò la figlia. Intanto era giunta in Italia la notizia del suo passaggio esplicito alla eresia, e Fausto perdette le entrate dei suoi beni, che furono prima posti sotto sequestro poi del tutto confiscati dall’Inquisizione; con la morte del granduca Francesco il senese aveva perduto ogni protezione in Italia. Nel 1585 ritornò a Cracovia, alternando la residenza nella capitale con quella a Pawlicowice, il feudo dei Morsztyn; da Cracovia nel 1588 partí per partecipare al sinodo di Brze´sc´ in Lituania. A Cracovia, nonostante la sua vita ritirata, era divenuto celebre e il popolo cattolico lo considerava con grande avversione: finché nel 1598 un gruppo di studenti cattolici ne devastò la casa, distruggendone tutte le carte, fra le quali il vecchio Sozzini rimpianse soprattutto uno scritto contro gli atei, e trascinandolo verso la Vistola per annegarlo. Salvato dall’intervento di un professore dell’Università, il Sozzini si ritirò definitivamente nel villaggio di Luslawice, dove morí nel 1604, allontanandosene solo per partecipare a qualche sinodo delle comunità antitrinitarie, nelle quali aveva finito per essere ammesso1094 . Non si può seguire in tutti i suoi particolari l’attività del Sozzini, che fa tutt’uno con la storia dei Fratres Poloni e del movimento antitrinitario polacco, narrata esaurientemente dal Kot, che ha mostrato chiaramente l’importanza e il limite dell’azione del Sozzini in Polonia, nel senso già indicato, che le dottrine teologiche dei Fratres Poloni erano in gran parte già formate alla venuta dei Sozzini, e che questi ha esercitato piú un’opera di chiarificatore e di coordinatore che di iniziatore. A quanto di1094 Fock, Der Socinianismus cit., pp. 173-75; Wilbur, Faustus Socinus cit., p. 52; Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., p. 119.

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ce il Kot si può aggiungere solo il rilievo che le dottrine principali del movimento che fu poi chiamato «socinianesimo», quella della redenzione come influenza morale, quella dello stato di Adamo ante lapsum, e quella della religione come metodo erano già state formulate e articolate da Fausto Sozzini prima di arrivare in Polonia, e che solo esse gli dovevano permettere quell’opera di unificazione e di educazione universalistica del movimento polacco alla quale si riduce la sua importanza, che è, in questo senso, analoga a quella di Calvino nella Riforma svizzera. Per questo, il giudizio del Seicento che ha dato il nome dell’italiano al movimento in cui tanta parte e di primo piano avevano avuto i polacchi, è giustificato storicamente, anche se il Sozzini rifiutò sempre i giudizi analoghi dei contemporanei, e se si può ben dire che senza il ricco contenuto religioso e sociale e la concreta energia dei polacchi le dottrine dell’italiano sarebbero rimaste dottrine astratte e isolate, formalmente interessanti ma senza importanza nella storia europea.

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CAPITOLO TRENTACINQUESIMO

Il problema dell’autorità politica e la dottrina della eterogeneità dell’attività politica e civile e della vita del «vero cristiano», nella polemica di F. Sozzini.

Lo scritto forse piú importante ma certo per noi piú interessante del periodo polacco di Fausto Sozzini è il suo trattato sull’autorità politica e il suo rapporto col «vero Cristianesimo», in risposta a un analogo scritto di Jacopo Paleologo1095 . Nella discussione sui doveri del cristiano di fronte allo Stato, gli antitrinitari polacchi si trovavano da un certo tempo divisi in una tendenza piú conservatrice, che asseriva il dovere di riconoscere il ius gladii e di partecipare all’attività militare, piú importante che altrove in quel paese che si considerava baluardo della cristianità, e in una tendenza radicale, che negava la parte1095 Defensio verae sententiae de magistratu politico in ecclesiis Christianis retinendo, contra quosvis eius impugnatores, Loxi Litauorum 1580, agosto. Cfr. Opera cit., II, pp. 1 sgg. Per tutta la questione cfr. St. Kot, Le idee politiche e sociali dei Fratres Poloni, detti sociniani (in polacco; ringrazio qui lo studente del prof. Kot che mi ha tradotto in tedesco le pagine riguardanti F. Sozzini), Cracovia 1932, pp. 38 e 39, 57 sgg. (Riassunto nel «Bulletin de l’Académie Polonaise des Siences et des Lettres», Kraków 1932, pp. 22-28). Cfr. Le Mouvement Antitrinitaire cit., pp. 40 sgg., e 54 sgg. che riprende largamente le Idee politiche. Cfr. anche Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., pp. 253 sgg., e anche il vecchio Fock, Der Socinianismus cit., pp. 704 sgg. (che però a noi serve meno, perché concepisce il socinianesimo come un corpo di dottrina sistematica, hegelianamente inteso, e trascura ogni differenza fra Fausto Sozzini e i piú lontani seguaci). A questi scritti mi riferisco nella narrazione che segue. Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 398 sgg.

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cipazione del vero cristiano alla attività politica e alla attività militare, per la coazione e la violenza in esse implicite, che contraddicevano alla lettera evangelica. Fin dal 1572 il Paleologo aveva sostenuto il dovere del cristiano di partecipare alla difesa del paese che gli offriva la sua ospitalità e la protezione delle sue leggi, e in sostanza le sue tesi avevano prevalso su quelle del Pauli e degli altri antitrinitari che seguivano l’idea di una comunità di cristiani perfetti, viventi fuori dello Stato (organizzazione umana e non divina), e sciolti da ogni obbligo all’infuori dei precetti evangelici; tanto piú che la pressione militare della Russia rendeva poco accettabile, soprattutto in Lituania dove l’antitrinitarismo era molto diffuso, l’idea della non resistenza alla forza e quella della diserzione ai doveri militari. Nel 1580, dopo la elezione al trono di Stefano Báthory, la questione s’era fatta piú acuta, perché uno dei rappresentanti della tendenza conservatrice aveva fatto stampare gli scritti del Paleologo e le risposte degli avversari, rivelando anche le tendenze piú estreme che si agitavano fra gli antitrinitari, e procurando loro aspri ammonimenti del re alla dieta di Varsavia del 1581. Occorreva chiarire la propria dottrina, mostrando che essa non era né sovversiva né pericolosa per la vita dello Stato, e tenendo fermo dall’altra parte al radicalismo religioso che ne faceva la forza e la ragion d’essere. A questo punto interviene il Sozzini, arrivato in Polonia da un anno e mezzo, con la sua Ad Jac. Paleologi librum... pro Racoviensibus responsio1096 . Da principio l’italiano, il quale non condivideva del tutto il punto di vista del Pauli che ora era chiamato a difendere, aveva esitato e aveva pregato che l’incarico fosse lasciato al polacco. Solo dopo le insistenze di questi, il Sozzini accettò di preparare la sua risposta, che fu approvata dal sinodo di Chmielnik del 1581, e pubblicata anonima. Nella prefa1096

Opera cit., II, pp. 1 sgg.

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zione egli dichiara che lo scopo dello scritto è di difendere i «racoviani» dalla interpretazione erronea e odiosa che ne ha dato il Paleologo: e per far questo, il Sozzini si limita strettamente alla discussione teologica, senza riguardi umani di nessun genere. È sempre il dottrinario che non si preoccupa altro che della verità e della coerenza astratta, senza tener conto della situazione concreta. Nella prima parte del suo libro il Sozzini riprende le teorie estreme dei racoviani, fondate sul discorso della montagna, e si preoccupa di mostrare che sono le uniche evangeliche. Non si deve sostituire il Vecchio Testamento a quello Nuovo, che è solo di pace e di carità. Lo Stato non ha bisogno dei cristiani per la sua attività militare, quindi non ha diritto di costringerli a parteciparvi; invece le dottrine del sermone sulla montagna sono state annunciate a tutti, e tutti le devono seguire. L’unico nemico che l’uomo deve combattere è Satana (inteso anche qui come «prudenza umana»), che si vince con le armi dello spirito soltanto. Non ci può essere nessuna guerra voluta da Dio. Ma neppure la resistenza armata contro un governo che perseguiti le opinioni religiose di una parte dei suoi sudditi è ammessa dal Sozzini: anzi, egli condanna esplicitamente le dottrine che facevano scorrere il sangue in Francia e nei Paesi Bassi, cioè quelle dei monarcomachi calvinisti1097 . La vita religiosa è del tutto distaccata dalla vita politica, e non si deve mai servire dei mezzi politici, e meno che mai di quelli militari. Nella seconda parte viene affrontato il problema píú generale del magistrato politico, attraverso la dottrina del giuramento e della proibizione che i racoviani facevano ai loro seguaci di adire i tribunali. Il Sozzini spiega, assumendo una posizione analoga a quella della Republica Catholica, che non si nega all’autorità il diritto di esige1097

Ibid., p. 30a, cfr. Kot, Le idee politiche cit., p. 59.

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re il giuramento, né quella di punire i misfatti; ma che si afferma solo che i «veri cristiani» non debbono ricorrere alla giustizia dell’autorità civile, ma risolvere tutte le questioni fra di loro. L’argomento che il male dev’essere punito, e che se non si procurasse il castigo a chi lo merita si commetterebbe troppo grave ingiustizia non viene accettato dal Sozzini, che oppone a questa preoccupazione della giustizia la mitezza dei pagani1098 . Il distacco dal mondo predicato dai racoviani significa solo evitare la convivenza con gli empi e gli spiriti profani, e non implica direttamente la proibizione di partecipare alla vita politica accettando uffici dall’autorità; vero però che le riserve sono tanto gravi da equivalere realmente a una proibizione1099 . Un vero cristiano può anche esser Re, dice il Sozzini, purché rimanga fermo: primo, che vero re dei cristiani può essere solo Cristo, e, secondo, che un cristiano non può versare sangue cristiano neppur per ragione del suo ufficio. Un ufficio dove non ci sia da condannare a morte un cristiano può benissimo essere accettato da un «vero cristiano». Ma in caso di guerra e di difesa della patria? Anche in questo caso va le piú il coraggio di chi segue il precetto di Cristo che quello di chi rifiuta di farsi dichiarare disertore. Pagare le imposte richieste per sovvenire alle spese militari non implica riconoscere la giustezza di queste: pagare le imposte significa per il Sozzini dare a Cesare quel che è di Cesare, senza immischiarsi dell’uso che ne sarà fatto1100 . Il precetto cristiano contro la violenza e il versare sangue cristiano non è diretto ai governi, ma ai singoli individui, che debbono giudicare nella loro coscienza. Il cristiano deve ubbidire all’autorità come a Responsio, p. 35. Ibid., p. 83. Cfr. Kot, Le idee politiche cit., p. 60; Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., p. 258. 1100 Ibid., pp. 92 sgg. 1098

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Dio stesso, anche se questa è cattiva e pagana, e deve dare anche la vita, purché non si tratti di andare contro all’espresso precetto di Cristo; ma in nessun caso si deve andare contro di esso. La difesa del paese e dei confini della patria non significa nulla, dice il Sozzini, per il vero cristiano, che è straniero su questa terra; né va le l’argomento della guerra fatta in difesa della pace, perché si tratta di una contraddizione in termini. Al caso dell’autodifesa e a casi simili, il Sozzini risponde con distinzioni e sottigliezze del tutto astratte: si può incutere terrore al nemico con ogni mezzo, ma non lo si deve uccidere; si può ubbidire all’ordine di partire per la guerra ma si deve essere decisi a non versar sangue umano: e via dicendo. Piú che al ridicolo come dice il Mesnard1101 , queste distinzioni si avvicinano all’ipocrisia dissimulatrice, come quelle che permettono di versare le imposte di guerra fingendo di ignorarne la vera destinazione. Altrettanto ambigua e sottile è l’affermazione che il vero cristiano può adire i tribunali, ma solo per farsi restituire ciò che gli sia stato mal tolto, mentre non può chiedere nessuna pena per l’ingiustizia che gli è stata fatta1102 . L’offesa alla legge, che è piú grave di quella all’individuo, viene qui del tutto ignorata. Insomma, una diffidenza radicale per l’autorità costituita e insieme una radicale sottomissione ad essa; una coerenza astratta se pur rigorosa coi principi evangelici letteralmente intesi, accompagnata da una passiva indifferenza per le affermazioni positive dei principi della Riforma protestante, e da uno sforzo di conciliare quei principi con la realtà politica e sociale1103 . La Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., p. 258. Ad J. Palaeologi librum cit., p. 85. 1103 P. Bayle, Dictionnaire, art. Socin, ha sentito bene questa indifferenza quando ha notato, a proposito del giudizio sui monarcomachi calvinisti e sugli ugonotti, che il Sozzini «parle plutôt comme un Moine qui auroit vendu sa plume pour faire haïr 1101

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conciliazione fra le istanze e i motivi contraddittori è cercata in una casistica minuziosa, davvero avvocatesca, che perde ogni valore religioso e morale e non appare ispirata da una fede religiosa come quella che abbiam visto propria del Sozzini nel De Autoritate, ma dalla disumanità della pura coerenza intellettuale. Se nella trattazione del Sozzini fossero state soltanto sottaciute le dottrine piú sovversive e radicali dei Fratres Poloni: quelle sulla povertà del vero cristiano, sul diritto di proprietà (anzi, il Sozzini ammette il possesso di denaro e anche il prestito), e cosí via, e se si fosse rimasti per altre (come per il pagamento delle imposte) a una formula di compromesso, si avrebbe potuto dire che ci si trova di fronte ad un caso estremo di «nicodemismo», applicato dal Sozzini in una situazione nuova. Ma di «nicodemismo» non si può piú parlare, poiché non si trattava di una vita clandestina da condurre sotto la sorveglianza della Inquisizione, ma di una vita pubblica e legalmente riconosciuta, i cui principi dovevano essere pubblicamente giustificati. Non si può parlare neppure, come fa il Kot1104 , di realismo e di senso pratico dell’italiano, segretario della corte medicea: perché è un povero realismo quello che pensa dignitoso o in qualche modo ammissibile, – per la Reformation Protestante, que comme un fugitif d’Italie». A parte la penna venduta, c’era veramente qualcosa di ascetismo «medievale» e di indifferenza monastica per il mondo, in questa posizione del Sozzini. 1104 Le idee politiche cit., p. 63. Certo, lo scritto del Sozzini mostra maggiore «praticità» di quelli del Pauli, che il Kot ha analizzato ed esposto, e degli altri polacchi. Ma nella sostanza è altrettanto radicale, e la «praticità» si mostra in una quantità di compromessi puramente formali; il «realismo» non sta nei compromessi, ma nella visione della realtà effettuale senza preconcetti e senza sovrapposizioni: va ben piú profondo che questo sistema di calcoli e distinzioni. Cfr. Le Mouvement Antitrinitaire cit., p. 56.

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conciliare doveri di marito e padre e doveri di cristiano, – il cercare di spaventare in tutti i modi l’assalitore della propria famiglia, rimanendo però ben determinato a non usare realmente la forza1105 . E il vero realista e spirito politico, il Biandrata, disapprovò fortemente questo scritto di Fausto. Quelle inconseguenze e quelle distinzioni casuistiche si possono intendere solo considerando il Sozzini come impacciato in una situazione falsa: il suo vero pensiero a proposito di questi problemi era un rifiuto totale della vita politica e civile e un disinteresse ascetico per le cose di questo mondo. Il medico Squarcialupi, per incarico probabilmente del Biandrata, gli scrisse una lettera violenta, accusandolo di ambizione, di smania di attaccar contese, e ricordandogli i doveri di prudenza che incombevano a loro esuli: Peregrini sumus, necessaria vix habemus ad vitam tuendam, et nisi aliena succurrat benignitas,... quo nos vertamus, nos fugit. An non in iis redactis angustiis decet pacatam vitam agere, nemini infensos esse certamina graviora declinare...?

e il Sozzini risponde che queste sono ragioni del tutto umane, quindi non pertinenti alla questione, che è religiosa, di cose divine, e che come tali non devono esser tenute in nessun conto «homini Christiano»1106 . D’altra parte il Sozzini era stato posto dalle insistenze dei polacchi nella situazione di avvocato della comunità «racoviana» che era sotto la minaccia d’incorrere nella disgrazia del sovrano: e come tale aveva ripreso le esperienze del nicodemismo e i suoi sistemi per acquetare le coscienze, escogitando ogni mezzo che gli potesse sembrare adatto a fare impressione sulla cavillosa mentalità del tempo: Ad J. Palaeologi librum cit., p. 83a. Squarcialupi a F. Sozzini, 15 settembre 1581, in Opera cit., I, pp. 359b. Risposta del Sozzini, ibid., pp. 361a sgg. 1105

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inoltre egli aveva lavorato con il materiale che la situazione stessa e le polemiche precedenti gli potevano offrire, ordinandolo e rivedendolo allo scopo di conciliare le diverse tendenze e di ottenere ai «racoviani» l’approvazione regia1107 . Ma tutte le acrobazie e le sottigliezze del Sozzini non servirono a nulla: il suo scritto, che era uscito anonimo e veniva diffuso clandestinamente, fu denunciato al re come pericoloso per l’ordine politico. L’ira del re era piú minacciosa per l’italiano, perché i nemici degli antitrinitari insistevano sulla sua qualità di straniero, che invece di rimanere tranquillo turbava la quiete del paese che l’ospitava. Dal rifugio di Pawlikowice il Sozzini dovette scrivere anche al granduca Francesco II per chiarire la sua situazione, poiché si era sparsa la voce ch’egli era dovuto fuggire dalla Polonia per avere scritto contro l’ordine politico e sociale1108 . E cercò anche di far sapere al Báthory ch’egli non aveva per nulla inteso di scuotere le fondamenta dell’ordine politico, e che anzi piú di ogni altro del movimento antitrinitario aveva riconosciuto i poteri dello Stato: anzi, era andato piú in là dei teologi di ogni tendenza, poiché non aveva proposto nessuna superiorità dell’autorità religiosa su quella civile, in nessun senso, e non aveva parlato che dei doveri religiosi del singolo cristiano1109 . Ma per il momento il Sozzini dovette rimanere lontano dalla capitale, tanto piú che anche i cattolici avevano cominciato a interessarsi del movimento antitrinitarío e ad agire contro di lui a corte. 1107 Kot, Le idee politiche cit., pp. 55 sgg.; Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., pp. 257 sg. 1108 Kot, Le idee politiche cit., pp. 65 sgg., F. Sozzini al Dudith, in Opera cit., I, p.509. 1109 Kot, Le idee politiche cit., pp. 65 sgg.; Mesnard, L’essor de la philosophie politique cit., pp. 259, anche per quanto segue.

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Il Biandrata gli aveva fatto scrivere che anche il problema del rapporto del cristiano con l’autorità politica era da lasciare da parte, e che non ci si doveva immischiare in simili questioni, ma solo dedicarsi ad approfondire il problema della salvezza: cosí il Sozzini si allontanava anche dagli altri eretici italiani, e, cosí isolato, si distaccava dalla tradizione e dalla cultura italiana per partecipare sempre piú intensamente al movimento ereticale polacco, che, com’egli insiste nella risposta allo Squarcialupi, lo aveva scelto a suo rappresentante nelle discussioni teologiche. Da principio rimase isolato anche fra gli antitrinitari polacchi, presso i quali le sue conclusioni a questo proposito non furono affatto acettate alla unanimità. Ma la sua dottrina e la sua abilità controversistica gli acquistarono una influenza personale sempre maggiore; quelle che noi dobbiamo giudicare sottigliezze e distinzioni sofistiche erano richieste dalla situazione particolare della sètta antitrinitaria in Polonia, dove le necessità militari erano piú forti e la costituzione politica rendeva piú vive tutte le questioni sul rapporto dell’individuo con lo Stato, e corrispondevano anche a una situazione culturale piú generale, poiché si trovavano sullo stesso piano, benché all’estremo opposto, del metodo controversistico della Compagnia di Gesú. Lo stesso radicalismo religioso della posizione del Sozzini e dei suoi seguaci richiedeva, quando non si volesse soggiacere alla repressione totale, e non si volesse intendere integralmente il rifiuto di questo mondo, un grande sforzo di compromesso e di distinzioni casuistiche, onde la dottrina per sopprimere la quale il primate di Polonia chiedeva la morte e la corda finiva per condurre a una sottomissione all’autorità civile cosí completa come neppure i piú audaci sostenitori dell’assolutismo regio osavano chiedere. Infatti, a parte il rifiuto passivo di versar sangue umano, il Sozzini non riconosce al cristiano nessun diritto di resisten-

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za all’autorità politica, neppure per difendere la propria religione: il diritto d’insorgere contro l’autorità politica che volesse imporre una confessione non accettata dalla coscienza dei popoli, era riconosciuto tanto dai calvinisti che dai cattolici, invece il Sozzini lo negava, e lasciava al vero cristiano solo la scelta fra la persecuzione e la morte o l’abiura.

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CAPITOLO TRENTASEIESIMO

Esaurimento del movimento eretico italiano con la scomparsa di F. Sozzini e del Biandrata; dissolversi di esso, come «socinianesimo», nella critica delle confessioni e delle forme religiose tradizionali del «socinianesimo» e nella dottrina della tolleranza anglo-olandesi.

Del Socinianesimo sono piene le carte dei polemisti e dei controversisti del Seicento e del primo Settecento: il Ruffini1110 , ne ha mostrato l’importanza per la polemica politico-religiosa ancora ai tempi di Voltaire e di Rousseau, e per la formazione del liberalismo, attraverso le sue indagini sugli anni giovanili del Cavour. Ma fra l’età di Voltaire e quella del giovane Cavour era intervenuto nella storia del Socinianesimo un mutamento che ne aveva mutato del tutto il significato: esso non era ormai piú l’«eresia» per eccellenza, il cui nome anche il Voltaire aveva usato ad deterrendum, ma era divenuto un movimento di pensiero religioso assai affine a quello che poi sarà chiamato in terra protestante «teologia liberale». E non sapremmo dire se maggiore sia stata la parte che ha avuto nella rivalutazione del Socinianesimo il primo conformarsi di una consapevolezza storica del liberalismo «ginevrino», o l’effettivo contributo del «Socinianesimo» alla formazione di quella mentalità. Indagare su questo problema condurrebbe molto lontano, come anche molto lontano ci potrebbe condurre lo sforzo di discernere nel gran mare delle controversie soprattutto inglesi ed olandesi del Sei e del Settecento gli 1110 Voltaire e Rousseau contro i Sociniani di Ginevra in «La Cultura», XII, 1933, fasc. I; Metodisti e Sociniani nella Ginevra della restaurazione («Quaderni di critica», V) (estr. da «Civiltà Moderna», VII, 1936, pp. 383-435), Firenze 1936.

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elementi vitali e il trasformarsi della controversia teologica in polemica politica. Gli studi sul «Socinianesimo» potrebbero forse uscire dalle indagini sulla formazione del concetto della tolleranza religiosa, per avviarsi a quelle sulla formazione del pensiero politico moderno, il che non vorrebbe dire abbandonare la storia di quel concetto, ma farla uscire dalla astratta celebrazione di esso, alla quale rimangono fermi anche gli studî piú recenti, che quando non siano ripieni della serietà morale del Ruffini lasciano molto perplesso lo studioso di problemi storici, poiché rimangono fermi a un’antistorica concezione del progresso della mente umana1111 . Ma le indagini in questo senso, come sono state accennate già dal Dilthey1112 , che mostrerebbero l’efficacia lontana nella storia europea dell’umanesimo critico italiano, abbisognano di ricerche preparatorie, anche al di fuori delle linee fin qui tracciate dagli storici della tolleranza; e ci condurrebbero fuori del nostro problema, che riguarda l’atteggiarsi del movimento di riforma della vita religiosa cristiana in Italia nel suo aspetto piú originale, quello che abbiamo detto «eretico» in un senso meno esatto, ma piú limitato e per la nostra ricerca piú utile; e che insomma è un ten1111 Cosí l’opera, che abbiamo tante volte citata, del Buisson, che solo sotto questa luce presenta Fausto Sozzini nel suo capitolo finale (II, pp. 313 sgg.). Non che le osservazioni del Buisson sull’importanza del soggiorno basileese di Fausto non abbiano valore, anzi rimandiamo ad esse senz’altro; ma non sta nell’idea della tolleranza religiosa il solo interesse storico di questo esule italiano. Cosí per citare solo le ultime opere uscite, W. K. Jordan, The Development of Religious Toleration in England, voll. I-III, London 1932-38; T. Lyon, The Theory of Religious Liberty in England, 1603-339, Cambridge 1937. 1112 L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII, trad. it., G. Sanna, Venezia, s.d. ma 1927, vol. I, spec. pp. 177-78, dove c’è già il richiamo al Valla, intuíto acutamente dal Dilthey.

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tativo di chiarire il definirsi dottrinale, fuori della tradizione cattolica e anche fuori delle risoluzioni delle maggiori chiese protestanti, della crisi della coscienza italiana dei primi decenni del Cinquecento. Se consideriamo la soluzione del problema dei rapporti fra la società dei veri «cristiani» e lo Stato che il Sozzini, sia pure occasionalmente, ha presentato, vi possiamo vedere, pur frammezzo alle acutezze teologiche e al coerente empirismo scritturalistico, la negazione rigorosa ed estrema di quella politica che il Machiavelli aveva «scoperto», e insomma la glorificazione consapevole dei profeti disarmati, l’assoluto, sistematico, codificato distacco da ogni vita politica, il rifiuto anzi di essa in ogni sua forma1113 . La risposta di questo piú coerente fra gli «eretici» italiani al problema di quella crisi italiana alla quale, sulla traccia del Chabod, abbiamo accennato al principio di queste ricerche, crisi soprattutto politica, era dunque una negazione completa di ogni valore alla vita politica, in ogni sua forma, in ogni suo aspetto: attività civile nelle magistrature, attività militare, anche per la difesa della patria, attività amministrativa, anche nella Chiesa... Si capisce come fra gli italiani il Sozzini rimanesse isolato: la sua corrispondenza è ricca di nomi polacchi, ma, se prescindiamo dal Dudith, che aveva per le dottrine del nobile senese un interesse soprattutto genericamente filosofico, e ad ogni modo da dilettante, i nomi italiani scompaiono col passare degli anni, mentre il Sozzini continua le sue meditazioni e la sua attività di controversista fra i suoi polacchi, fra i quali aveva anche trovato una moglie1114 . Il Pucci era scomparso dal suo orizzonte dopo il 1586; e anche il Biandrata aveva finito per allontanarsi tanto da lui, ch’egli non sapeva neppure con sicu1113 Cfr. C. Curcio, Dal Rinascimento alla controriforma, Roma 1934, pp. 139 sgg. 1114 Wilbur, Faustus Socinus cit., p. 52.

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rezza se il piemontese fosse o no tornato alla Chiesa nei suoi ultimi anni1115 . Infatti il Biandrata, dopo la morte del Dávid, era rimasto isolato fra gli antitrinitari, che lo guardavano con diffidenza, anche se avevano seguito la sua mossa politica1116 ; e, non si sa se per semplici considerazioni di opportunità, o per nostalgia verso la patria o per reale simpatia per la loro attività umanistica e la loro «modernità» s’era avvicinato ai Gesuiti introdotti dal reggente Cristoforo Báthory in Transilvania nel 1579; ed era giunto a tanto che essi potevan raccogliere la voce che il vecchio eretico avrebbe desiderato di avere il permesso «di abitare in Bologna con promessa di mai parlare di religione e di mostrarsi cattolico e di star rinserato in una casa» pur di non morire in Transilvania1117 . Ma non riuscirono a farlo abiurare. Cosí, anche il Biandrata, il quale aveva se non creato, condotto il movimento religioso che doveva dar nome all’«unitarismo» cosí importante nella storia degli Stati Uniti d’America, ripiegava, come aveva ripiegato il Pucci, come aveva ripiegatolo Squarcialupi1118 , anche se non giungeva all’estremo: e moriva, in maniera non ancora chiarita, solo e abbandonato nel 1588. Di tutta la seconda generazione degli eretici, che aveva iniziato l’esilio negli anni dopo la morte del Serveto, il Sozzini rimaneva solo, anch’egli ormai del tutto distaccato dalla patria lontana, ma sempre pronto alla controversia, alla distinzione, alla moderazione. Opera cit., II, p. 538a. Profilo cit., p. 47: cfr. Wilbur, Our unitarian Heritage cit., p. 244. 1117 Epistolae et acta jesuitarum Transylvaniae Temporibus Principum Báthory, ed. Veress (Fontes Rerum Transylvanicarum, Budapest 1913, II, p. 40. Cfr. I, pp. 77,130. 1118 Profilo cit., p. 44. 1115 1116

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Dei suoi ultimi anni ci resta una documentazione non solo negli scritti, pubblicati in gran parte dopo la sua morte dai seguaci polacchi e poi raccolti nella loro Bibliotheca, ma anche nelle relazioni dei congressi tenuti dai «fratres poloni» nel 1601 e 16021119 : dunque, tre e due anni prima della sua morte che è del 1604. In questi documenti il Sozzini, secondo il Kot che per primo ha rilevato la loro importanza e l’esistenza del manoscritto1120 , il Sozzini modera il suo estremismo antipolitico e antistatale: ma è una moderazione sempre nel senso del compromesso, non nella sostanza. Egli permette ora di compiere tutte le formalità utili a non mettere il «nobilis polonus», che in cosí gran numero aveva aderito al movimento antitrinitario, fuori dell’obbedienza al suo re: ma se è lecito per esempio partire per la guerra quando c’è la mobilitazione generale («expeditio publica universalis»), non è lecito poi fare questa guerra, uccidendo1121 . All’obiezione che cosí si cade in simulazione, il Sozzini risponde, e crediamo sia un’eco del «nicodemismo», che non ogni simulazione è peccato. Ma la casuistica arriva a distinguere i gradi di gravità dei peccati: è meno grave uccidere in guerra che commettere adulterio, e meno grave uccidere un tartaro che un cristiano...1122 . Ma il mestiere del soldato è condannato, e chi lo segue sarà certamente dannato, secondo il Sozzini. 1119 Pubblicate da me in excerpta, in Per la storia degli eretici cit., pp. 217 e 258, cercando di discernere, in base alle indicazioni del raccoglitore stesso, le dichiarazioni e gli interventi di Fausto da quelli dei compagni di fede. {Si tratta degli appunti presi dallo Schmalz (Valentinus Smalcius). Cfr. Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 362 sgg.}. 1120 Le idee politiche cit., pp. 82 sgg. 1121 Per la storia degli eretici cit., pp. 247, 248. 1122 Ibid., p. 249.

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I problemi che accanto a questo occupavano il Sozzini e i suoi compagni di fede in questo eriodo erano ancora quelli della delimitazione fra le cose necessarie alla salute e quelle non necessarie1123 ; il problema dell’Aconcio, il problema teologico e religioso che stava a fondamento della richiesta della tolleranza religiosa, in quanto senza affermare una indifferenza religiosa vera e propria, riduceva a un minimo sempre piú limitato i punti sui quali l’indifferenza non era lecita. Qui questi problemi ci appaiono al vivo, nella vita di una comunità che vive in mezzo ad altre comunità diffidenti e avverse, e che discute in se stessa per rimanere aperta a tutti, e per non rinchiudersi nel dogmatismo da essa condannato; e vediamo il Sozzini agire sempre in questo senso1124 . Il Kot, come già il Völker e il Morse Wilbur, e prima ancora il Fock, ha narrato la storia del Socinianesimo in Polonia: non discuteremo l’importanza avuta dal movimento antitrinitario per la storia polacca1125 , e il suo carattere negativo o positivo. Il movimento italiano che abbiamo cercato di lumeggiare è ormai finito, e anche il nome di «socinianesimo» appare piú tardi, quando le idee dei «Fratres Poloni» si diffondono in Europa, mentre fra i polacchi, in Polonia, non appare1126 . Ed è finito lasciando nel mondo protestante europeo un fermento sotterraneo, che possiamo vedere simbolicamente accennato nella storia dell’opera piú importante lasciata dal Castellione: il De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi, che attraverso tante peripezie non è giunto se non tardi Ibid., pp. 217 sgg. Ibid., p. 235 riguardo ai calvinisti ecc. 1125 {Cfr. Wilbur, A History of Unitarianism cit., pp. 338, 349, 396-97, 404-5}. 1126 Kot, Le Mouvement Antitrinitaire cit., p. 69; supra, p. 403. 1123

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alla pubblicazione1127 ; anche in Olanda, dove presso i Rimostranti trovarono larga ospitalità1128 , anche in Inghilterra, dove permearono delle loro idee larghi strati della società, i «sociniani» dovevano continuare a dissimulare, a rinnegare all’occasione il nome ereticale: e la storia del loro movimento è ancora somma di biografie, come quella del Guichard1129 , come quella delle loro dottrine è storia di indizi e di analogie, come per gli studi del Meli1130 e per gli accenni del Dunin-Borkowski1131 : in un certo senso, si può dire che è la sorte del «nicodemismo», che qui continua a perpetuarsi. In quest’ultima osservazione sta anche la risposta al problema dell’importanza di questi eretici nella storia della vita italiana: celata, oscura, ma a volte suggestiva: al socinianesimo si rifarà l’illuminismo, come, consapevolmente, avviene col Pilati, a proposito del quale ritorna nella polemica a lui contemporanea il nome dei 1127 Cfr. E. Feist, Introduzione alla sua edizione del De arte dubitandi, in Per la storia degli eretici cit., parte II. 1128 Sul socinianesimo in Olanda: Van Slee, Geschiedenis von het Socinianisme cit.; e per la parte più dottrinale W. J. Kühler, Het socinianisme in Nederland, Leiden 1912; Wilbur, Our unitarian Heritage cit., pp. 315 sgg. {A History of Unitarianism cit., pp. 547 sgg.}. 1129 Histore du socinianisme, Paris 1723 (l’opera è anonima, ma l’autore è il Père Anastase Guichard) il cui sottotitolo suona «avec les caractères, les avantures, les erreurs, et les livres de ceux qui se sont distingués dans la secte des Sociniens». 1130 F. Meli, Spinoza e due antecedenti italiani dello spinozismo, Firenze 1934. 1131 St. Dunin-Borkowski, Spinoza, Bd. III: Aus den Tagen Spinozas, II Teil: Das Neue Leben, pp. 120 sgg., 390 sgg. Cfr. G. Radetti, Questioni spinoziane, in «Giornale Critico della Filosofia italiana», XVIII (1937), p. 444.

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Delio Cantimori - Eretici italiani del Cinquecento

sociniani1132 ; ritorno isolato, certo, e forse di non grande importanza, ma che pur meritava d’esser notato.

1132 Eufrasio Lisimaco (M. A. Griffini), Brevi riflessioni su il libro della Riforma d’italia, p. 60. Cfr. C. A. Pilati, Di una Riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia, «Villafranca», 1767, pp. 47, 113. Cfr. M. Rigatti, Un illuminista trentino del secolo XVIII, C A. Pilati, Firenze 1923, pp. 142 sgg. sulla semplificazione dei dogmi.

Storia d’Italia Einaudi

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