Eraclito d'Efeso. Diario. Introduzione, testo, versione e commento 9788860321244

Questo studio vuole essere una proposta di elencazione biografica dei fram­men­ti di Eraclito secondo suggerimenti desun

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Eraclito d'Efeso. Diario. Introduzione, testo, versione e commento
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Michele Barbieri

Eraclito d’Efeso Diario Introduzione, testo, versione e commento Con discussione dell’Eraclito di Spengler, Heidegger, Gadamer

Società

Editrice Fiorentina

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© 2010 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 [email protected] www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-124-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’immagine del dipinto di Salvator Rosa a pagina 135 è stata concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte In copertina Salvator Rosa, Il filosofo (Collezione privata)

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A chi dubita di sé

Ici-bas tous les lilas meurent, tous les chants des oiseaux sont courts, je rêve aux étés qui demeurent toujours! Ici-bas les lèvres effleurent sans rien laisser de leur velours, je rêve aux baisers qui demeurent toujours! Ici-bas, tous les hommes pleurent leurs amitiés ou leurs amours… je rêve aux couples qui demeurent, qui demeurent toujours! Sully Prudhomme

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Indice

parte prima: eraclito

9

introduzione Il lascito eracliteo: un diario di ricordanze

11



11 14 27 32 44 49 53 58 63

Una filologia divinatoria I progressi di filologia e filosofia Sui problemi più generali di un riordino Origini della critica contemporanea Un moralista politico Un uomo frustrato L’antropologia cittadina Il lascito come un diario Un democratico autoritario

diario

69

Versione consecutiva

71

1. La città e le passioni

81



Il sacerdote Il moralista Il propagandista La delusione Il buon tiranno L’antropologo

81 92 98 104 107 120

2. Il raccoglimento e la sapienza

125



125 140 147 157

Il sonno Lo psicologo Essenza e sostanze Il polemista

3. La divulgazione e l’insuccesso

165



165 171

Fra gli ottimati Fra gli artigiani

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4. Il ritiro e l’attesa della morte

177



177 178 189

Il fisico e il tatto Il caso, il tempo e le opinioni L’Ade e l’olfatto

parte seconda: letteratura eraclitante

195

introduzione Pregiudizio politico e giudizio letterario

197

capitolo primo La dissertazione di dottorato di Spengler del 1904

213



214 218 222 225 231 234

Mentalità gerarchica: metafore e pregiudizi Fra Nietzsche e Guglielmo II Eraclito artista immaturo Neokantismo Un ritmo musicale della democrazia Sui limiti di una logica del concetto

capitolo secondo Le lezioni di Heidegger del 1943

237



237 239 244 250 257 260

L’Essenza, ennesima Sostanza Sotto il segno d’Artemide L’ontologia fra l’ermetismo e il dada Un Eraclito völkisch e il resto dell’essenza Il significato ontologico dell’oscurità Fra banalità e Terzo Reich

capitolo terzo La conferenza accademica di Gadamer del 1984

267



267 272 275 278 280 283

Preconcetto e pregiudizio Una morfologia del paradosso Illuminismo e rivelazione La negazione del sogno Rivelazione nella simultaneità Il lapsus di Agostino

indice onomastico indice tematico indice frammentale indice terminologico

289 293 297 299

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Parte prima

eraclito

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Introduzione

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Il lascito eracliteo: un diario di ricordanze

una filologia divinatoria Questo studio vuole essere una proposta di elencazione biografica dei frammenti di Eraclito secondo suggerimenti accolti dalla sensibilità letteraria, nonché dall’impiego degli strumenti di una filologia divinatoria. Ciò che intendo per ‘sensibilità letteraria’ e per ‘filologia divinatoria’ non può essere definito qui, in sede preliminare, in modo che la definizione si renda passibile, poi, di verifica nel corso della lettura del Diario da parte di un esaminatore puntiglioso dell’applicazione del metodo: ciò che conta è il risultato; e questo studio, dopotutto, non deve meritare più attenzioni di quante ne meritino gli stessi pensieri eraclitei. Posso tuttavia dire fin d’ora che la presente lettura si caratterizza per lo sforzo di estrarre la vita, il pensiero e la forte personalità di Eraclito principalmente dalla lettura del testo di tutti i suoi frammenti, secondo una congruenza e una plausibilità complessiva e autonoma (o come anche si dice, con una distinzione che però non gradisco, interna). La filologia, insomma, deve servire alla filosofia senza mettersi sotto tutela alcuna, e la filosofia deve farsi con gli strumenti della critica letteraria. L’esame si esercita sul testo concepito come espressione di un’intenzione personale, o di una volontà di pensiero dell’autore, le quali non sono sempre chiare a lui stesso. Non si tratta affatto di un problema dossografico di storia della filosofia. D’altra parte, il testo medesimo non costituisce il campione istologico di un cadavere, bensì una personalità vivente – così come dovrebbe avvenire, e del resto avviene, per un qualsiasi altro autore moderno. Gli ambienti filologici non sembrano molto propensi a leggere Eraclito (né alcun altro filosofo antico, in verità) come si leggerebbero, per esempio, Góngora o Campanella, Blake o certi passi di Dante; e la critica filosofica, dal canto suo, appare talmente chiusa in alcune sue vecchie certezze pregiudiziali da non riuscire quasi a muovere un passo. Essa rifiuta con una certa boria, per lo più, le grucce della filologia. Non si tratta di due mondi sempre separati; ma non si può dire che il rapporto di scambio, quando esiste, sia limpido: perché l’una trova nell’altra, all’occasione, soltanto il suo particolare tornaconto.

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12   parte prima. eraclito

È pur vero, d’altra parte, che non si può del tutto negare che noi abbiamo a che fare con i resti di qualcosa di morto, nel senso che è perduto per sempre. Diciamo allora che dell’esame istologico necrotico deve sussistere, in primo luogo, il valore autoptico. Se non che, di un’autopsia alquanto anomala qui si tratta: perché il nostro problema non consiste tanto nello stabilire le cause e le circostanze della morte – o come sarebbe a dire: del fallimento di Eraclito; bensì nientemeno che di farlo rivivere a modo nostro nelle sue vere intenzioni. Anche se al lettore la cosa potrà suonare sgradevole, devo tuttavia ammettere che durante il lavoro ho percepito più volte la sensazione di trovarmi nella posizione del dottor Frankenstein: la personalità alla quale stavo dando vita era in definitiva il risultato di un montaggio. Ho cercato perciò di descrivere il mio lavoro ricorrendo alla similitudine con altre arti ed altre tecniche: la teatrale, innanzitutto. Anche se la sua non è che un’autopsia, quale regista di teatro penserebbe mai di ridare vita a dei cadaveri nell’interpretazione di un testo? Ma è proprio per questo che parlo di filologia divinatoria. Nessuno può sapere quale personaggio vivesse nell’immaginazione di un autore di teatro nel momento della scrittura, più di quanto noi sappiamo della vita di Eraclito. Eppure, ecco, dopo un attento esame del testo, svolto secondo le sue proprie tecniche evocative, il personaggio va in scena – e così può andare in scena anche un Eraclito. Mi rendo perfettamente conto che il risultato potrebbe anche finire per somigliare ad un ‘ritratto di lady Morgan’ – vale a dire: a una di quelle biografie inventate per corrispondere ai bisogni della fervida immaginazione che fecero di Salvator Rosa, per esempio, un sublime spirito selvaggio, o un’anima dannata priva di profondità di pensiero e di vera sensibilità.1 Ma se anche così fosse, mi considererei altamente onorato d’avere ottenuto un simile risultato: i cui pregi divinatori si riassumono, in generale, nella possibilità d’intendere il più col meno ignoto. Ciò che conta, poi, non è che la plausibilità delle conferme, in modo che la cosa stia in piedi da sé, anche senza l’assistenza continua della sensibilità dell’interprete, o la complicità della sua epoca. È ciò che si chiama ‘intrinseca coerenza stilistica’.2

1   I giudizi sono di Horace Walpole e di John Ruskin (da Luigi Salerno, Salvator Rosa, Club del Libro, Milano 1963, pp. 12 e 17). 2   Con ragioni di coerenza stilistica un critico settecentesco (Joshua Reynolds) giustificò i presunti difetti di esecuzione, di colore disegno proporzioni, nella pittura di Rosa (ivi, p. 12). Mediante una simile attenzione rivolta alla tensione di tendenza, o alle principali polarità evolutive della creazione artistica, io credo che vadano superate le discrepanze di pensiero e d’espressione anche in un uomo come Eraclito – e in tant’altri.

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   13

Se dunque l’oggetto incognito del personaggio storico e del personaggio letterario non sono sostanzialmente diversi, e differiscono soltanto per la finalità della rievocazione, ma non per la tecnica preliminare (perché si sa che la tecnica non preliminare, o successiva, diventa sempre più diversificata e specifica man mano che il lavoro procede), nell’uno e nell’altro caso si tratta soltanto di porsi dinnanzi al problema in generale di un oggetto incognito. Ora, se parlo di divinazione è allo scopo di combattere, in quest’approccio, l’intellettualismo. Non c’è dubbio che gli strumenti di approssimazione sono anche intellettuali – e chi lo nega? Nego, però, o comunque voglio negare che nel percepire il barlume di verità di una cosa sia possibile distinguere le facoltà dell’intelletto da quelle della sensibilità. E poiché si erge su questa via l’ostacolo conoscitivo del criticismo kantiano, capostipite di gran parte della filosofia professionale contemporanea, io credo che lo si debba decisamente combattere nella sua inconsistenza culturale, nel manierismo plagiario e rampicante sui fusti del migliore pensiero moderno, e nelle sue numerose ricadute intellettualistiche. Fra queste ricadute o sviluppi, presentano per il nostro problema un particolare interesse fenomenologia ed ermeneutica. Dei numerosi aspetti o caratteristiche teoriche di entrambe non ci riguardano che i loro assunti di ripetuta interposizione con l’oggetto. Diciamo che se la fenomenologia può essere descritta come la filosofia dell’età della nascita della fotografia, o della rivelazione della lastra impressionata, l’ermeneutica è invece già la filosofia della fotografia cartacea senz’altro. A un certo punto nella storia del kantismo si comincia a capire che le sintesi a priori sono miriadi, e tutte quante già date in forme altamente elaborate o complesse: ogni nostra impressione, ogni voce bibliografica, ogni testimone o testimonianza della cosa lo sono. Se non che, a simile riconoscimento segue la propugnazione della metodica interposizione con l’oggetto delle sue sintesi a priori più o meno congruenti – e lo studio si sposta poi su quest’ultime, ovvero sull’interposizione medesima. In conseguenza degli sviluppi del criticismo si perde via via nella cosa il senso della terza dimensione, e ad acquistarla non sono, semmai, che i sostituti bibliografici o la monumentalità dei testimoni. La quarta dimensione del tempo, che lo storicismo (quasi a compensare la perdita) propugna nientemeno che come identità e destino di una cosa, viene a un certo punto ad esaurirsi storicamente e ad annullarsi logicamente sulle sponde della cosiddetta filosofia ‘dell’inizio’, che non conosce in verità dimensione alcuna, né alcuna estensione diversa dalla logorrea intorno all’essenza. Attraverso passaggi successivi e successive generazioni teoriche, insomma, si viene a perdere la presenza viva dell’oggetto, la percezione indistinta della sua radiazione, la lenta emanazione o il barlume o la fosforescenza della sua verità sepolta come in un blocco di

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14   parte prima. eraclito

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marmo. Le lezioni di Valla e di Lessing fanno qui da punti d’orientamento generale, come spero si vedrà. i progressi di filologia e filosofia Lo stoicismo, soprattutto, ha fornito alla filologia eraclitea un’assai poderosa tutela filosofica almeno fino a Hegel compreso, e fino al suo esecutore testamentario Ferdinand Lassalle. La filosofia ha fatto così, per lo più, da solida cornice alla filologia – la quale ha creduto di poter procedere con larghezza di contributi in un ambiente teoreticamente concluso e ammesso per sicuro. Ciò ha giovato assai alla critica filologica, ma non poteva giovare, e non ha giovato, ad autonome letture filosofiche e filosofico-politiche del lascito eracliteo – per non parlare, poi, di letture ispirate dalla sensibilità letteraria. Nel presentare una sua traduzione commentata dei frammenti uno studioso canadese ha recentemente sentito il bisogno d’avvertire i suoi lettori d’essersi voluto rivolgere a coloro che sono interessati alla filosofia greca «as philosophy»: al pensiero di Eraclito, dunque, in quanto esso è filosofia, e a lui «as a philosopher», in quanto è un filosofo.3 Indipendentemente dai risultati del libro di Robinson, alquanto eclettici, una simile avvertenza non deve sembrare superflua, dal momento che, per lo più, non è affatto una simile lettura filosofica che è dato riscontrare negli studi eraclitei. La lettura filosofica, a quanto sembra, c’è già, ed è già data altrove. Anche quando la filosofia con la filologia c’è, essa è data per assunto: come la scelta liminare, e poi accantonata, di una tutela, o come la costante presenza dissuasiva di un’erma. La scelta della tutela o dell’erma filosofica può anche cambiare, e l’interprete può rivolgersi a qualche pontefice o a qualche scuola della fase generazionale vigente, ma essa è più apparente che reale, ed è utile solo per liberarsi da un pesante interrogativo circa la sintesi di una personalità fortemente contraddittoria, com’è quella di Eraclito. Ciò che non cambia è la ricerca di una generica tutela filosofica, meglio se temibile, da parte di una filologia che ama lavorare indisturbata. Se dunque dai tempi di Schleiermacher i progressi sul piano filologico sono stati notevoli, lo stesso non mi sembra potersi dire per il piano filosofico, dove si è per lo più rimasti a quel travestimento e sunto sommario della lettura stoica di Eraclito che è rappresentato dall’inconsistente pregiudizio hegeliano, circostanziato poi in trattato da Lassalle. E il fatto che il trattato di Lassalle

  Heraclitus, Fragments, a cura di Thomas More Robinson, University, Toronto 1987, p. ix.

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   15

non venga per lo più neppure menzionato dalla critica contemporanea non dimostra proprio niente – al contrario! Il persistente prestigio dei Cosmic Fragments di Geoffrey Kirk, per esempio, deve pure significare qualcosa, e mostra come la filiazione critica di origine positivista possa perfettamente conservare intatta la generica matrice acritica dell’idealismo storicista e romantico.4 Dalla lettura di pressappoco quattro frammenti su dieci, e anche meno (qualcos’altro si aggiunge per aggregazione), Eraclito esce dal libro di Kirk come l’uomo che avrebbe insegnato a sottomettersi ad una qualche legge impersonale, ad una qualche ineluttabile necessità del divenire o dei modi dell’essere. Ma non si capisce contro chi egli avrebbe combattuto per tutta la vita anziché, più semplicemente e comodamente, assecondare con l’indifferenza o l’atarassia i modi dell’essere e del divenire, anche cittadino e sociale – ciò che, in fondo, non aveva alcun bisogno di venire insegnato ad alcuno; e con l’impegno per giunta, oltre alla recriminazione, di descrivere questi modi dell’essere e del divenire per mezzo di metafore alquanto ricercate: a beneficio di chi? Spinoza, sì, lo fece – ma senza le continue recriminazioni di Eraclito. E quando una sola volta nella sua vita ebbe qualcosa da recriminare, dopo il linciaggio dei fratelli de Witt si presentò sulla piazza di Amsterdam inalberando il cartello: Hic sunt barbari, scritto, per l’appunto, prudentemente in latino, tanto per mettersi al sicuro dalle reazioni della folla in modo da non fare la stessa fine. Che ne è della franchezza instancabile e persino tediosa di Eraclito, qui? In un solo caso io credo che si possa attribuirgli un atteggiamento di prudenza persino reticente, come dirò interpretando e commentando il frammento più bizzarro che oscuro DK 3 – sempre che sia suo (quello del sole che ha la grandezza di un piede umano). Ma per il resto la sua oscurità non può essere in nessun modo interpretata né come una quietistica, ovvero cinica (alla maniera napoleonica o bismarckiana) contemplazione degl’individui come onde del mare o come rospi affoganti nella Beresina, né come una forma di reticenza nei confronti del potere o della folla. Tutta la sua vita sta lì ad illustrare che la sua non fu quella che si dice una socratica o spinoziana ‘santa anima’. *** Spiega il Kirk nel presentare la sua raccolta che

  Heraclitus, The Cosmic Fragments, a cura di Geoffrey Kirk, University, Cambridge 1962.

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16   parte prima. eraclito ‘I frammenti cosmici’ sono quelli, il cui contenuto è il mondo come un tutto, come qualcosa di opposto all’uomo [the world as a whole, as opposed to man]; essi includono tutto ciò che tratta del Lógos e degli opposti, e che descrive le trasformazioni fisiche su vasta scala, nelle quali il fuoco gioca una parte primaria. Essi non includono ciò che tratta di religione, di dio in relazione all’uomo, della natura dell’anima, di epistemologia, di etica o di politica; né essi includono gli attacchi di Eraclito contro particolari individui, o contro gli uomini in genere, sebbene il terreno di questi attacchi sia molto spesso un’ottusità nei confronti del Lógos, o dei suoi equivalenti [although the ground of these attacks is very often an impercipience of the Logos or its equivalents].5

Anziché spiegare l’emotività collerica di Eraclito noi dobbiamo scusarla, dunque: perché il Lógos si manifesta dappertutto, tranne che nei suoi umori personali, dei quali meriterà forse parlare altrove: «Questi frammenti, che potrebbero denominarsi ‘i frammenti antropocentrici’, potrebbero essere fatti oggetto di uno studio successivo».6 Del resto, la sordità di Eraclito è forse veniale, dal momento che il Lógos ha pure dei misteriosi «equivalenti» (di minore importanza e cogenza, si suppone).7 Ma l’unica legge ineluttabile, per Eraclito, fu per lo più la legge dell’indole umana, non tanto quella di una cosmica Sostanza pulsante come il Fuoco o, tantomeno, dei fiumi e del cosiddetto Divenire. A tarda età, come vedremo, egli andò in cerca di altre leggi non-sostanziali come il tempo, il caso e l’opinione – che sono, in verità, legislatori più o meno arbitrari anziché leggi. Fu la contraddizione antropologica, illustrata nel libro scritto a caratteri piccoli della città, che lo mise sulla strada dell’indagine sulla contraddizione cosmica, illustrata nel libro scritto a caratteri grandi. Egli non volle insegnare a sottomettersi ad alcunché, bensì semplicemente insegnare ciò che, dopo aver vissuto una buona parte della sua vita, credette d’avere imparato: che per correggersi bisogna innanzitutto sapere come si è fatti. L’opposizione non è un divenire, perché il divenire esclude la possibilità stessa della stabile opposizione come Eraclito si sforza di descriverla (mentre non è vero il contrario, e

  Ivi, p. xii.   Ibidem. 7   Il Kirk giustifica la sua scelta con quattro spiegazioni incomprensibili: una trattazione completa dei frammenti avrebbe richiesto un libro troppo poco maneggevole; questo grosso libro non sarebbe stato pubblicato da nessuno; non sarebbe stato saggio continuare a lavorare per altrettanto tempo, senza avvantaggiarsi della critica proveniente da un campo più vasto, dalla quale la trattazione dei restanti frammenti, fatta da chicchessia, potrebbe infine trarre profitto (insomma: la sua trattazione parziale servirà a chi vorrà completare il lavoro – come se le trattazioni complessive mancassero; e a lui non sembra prudente anticiparle); infine, l’insieme dei frammenti cade «non innaturalmente» sotto la distinzione delle due classi da lui indicate, che si possono ben trattare separatamente senza distorsioni – «salvo una metodica applicazione di riferimenti reciproci [provided full cross-reference is carried out]» (ivi, pp. xii-xiii). 5

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   17

la stabile opposizione è motrice di un divenire d’innumerevoli forme). L’unità fra gli opposti è dunque stabilità di un rapporto fra sostanze, e la sua forma è la nostra ‘costituzione’ come ‘soluzione’ della contraddizione antropologica del ‘soggetto’: dell’uomo che è libero da tutto, fuorché da se stesso. In questo senso l’uomo è animale politico, in quanto è una città, e fa parte di una città cosmica. A causa del suo moralismo mancò quasi del tutto ad Eraclito il senso pratico della città terrena, della quale egli era pure creatura indissolubile. Mostrò tuttavia di possedere (questo è vero, e va detto) una più che dignitosa sensibilità sociale, che io credo di avere individuata nelle tre proposte di legge decifrabili dai frammenti DK 25, 84 e 24: sull’adeguata spartizione delle spoglie di guerra in proporzione al rischio e non al ceto, sull’equa divisione dei compiti professionali di servizio, e sulle onoranze funebri non discriminatorie nei confronti del sacrificio degli umili. Ma questa sua attenzione sociale si espresse, per l’appunto, in forma cifrata pressocché incomprensibile; e noi non sapremo mai se ciò fu dovuto alla natura ‘cosmica’ della sua sensibilità, o non piuttosto, come io preferisco credere, ai limiti imposti alla sensibilità dalla sua educazione aristocratica. Il clima culturale dell’ellenismo e dell’età imperiale romana fu assai propizio per tenere spalancata sul vuoto questa divaricazione fra antropologia e cosmologia, fra cittadino e impero, senza farle conoscere la realtà intermedia, più concreta e pratica, della città abbandonata al gioco dei potenti. Così l’impegno cittadino di Eraclito venne dimenticato, e con esso anche il suo fallimento. Di lui rimase il sommo profeta delle vaghe intuizioni fisiche e metafisiche nelle quali s’era per qualche tempo rifugiato. *** Con l’attenzione rivolta da Charles Kahn alle particolari soluzioni linguistiche riscontrabili nei frammenti acquista un certo credito l’aspetto di virtualità letteraria della filosofia eraclitea – tanto, che le due cose (Art and Thought, appunto) talvolta non sono più ben distinguibili. Sin dalla prefazione alla sua opera egli stabilisce un parallelo tra i frammenti di Eraclito e la poesia della Commedia di Dante, aggiungendo anzi che, sotto il profilo teorico, Eraclito fu anche più originale.8 Ma con simile parallelo egli trascura l’importanza dell’aspetto contratto, quasi inesteso, di certa ‘poesia’ eraclitea, che la rende più simile ai pietrosi prodotti dell’ermetismo, come ancora dirò; né si può tra  Charles Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, University, Cambridge 1981, p. x.

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18   parte prima. eraclito

scurare che questo carattere contratto, e studiatamente formulato, non fu che uno degli aspetti della sua scrittura: la quale conobbe anche spesso l’estensione ripetitiva della perorazione, o lo sfogo momentaneo e sintatticamente girovago della recriminazione, o l’abbozzo infelice, mancato, di un pensiero sfuocato. Ma, al di fuori degli aspetti linguistici, l’orizzonte filosofico perimetrale in cui Kahn continua piuttosto vagamente a collocare Eraclito è pur sempre quello, più comodo e sicuro, di tipo stoico: vale a dire (perché con l’uso di certi termini bisogna sempre, grosso modo, intendersi) del moralismo antropologico e dell’ineluttabile legislazione impersonale e sostanziale. Proprio per un uomo come Eraclito! Il quale insieme con l’antropologia scoprì la vanità del moralismo, e che prima ancora di questo rassegnato riconoscimento passò almeno la metà della sua vita a predicare una legge che andava propugnata e ascoltata, e poi letta, capita, accettata e praticata come una scelta di volontà e di virtù: tutt’altro che impassibile, e tutt’altro che ‘oggettivamente’ complice, o soggetto ad una qualche ineluttabile legge di alcun Divenire. Con tutto ciò, questo mio libro è alquanto vicino all’opera di Kahn non per l’interpretazione, bensì per il tipo di lettura – e questo è forse è ciò che più conta. E questa lettura consiste in un’attenzione testuale che si avvale degli strumenti critici della sensibilità letteraria – a tal punto, che Kahn dà spesso l’impressione di volersi sottrarre, per lo più, alla conclusione teorica, nei confronti della quale egli non mostra un vero e proprio interesse; cosicché la conclusione teorica compare qua e là, come chiamata all’occorrenza a sbrigare quanto rimane del suo lavoro. D’altra parte, non si può neppure esagerare; e non si può ignorare che, come dirò a iosa, questo talento linguistico di Eraclito non volle e non riuscì mai svilupparsi in vero talento letterario. Col possesso di un simile talento egli avrebbe potuto fare col suo ‘fuoco’ ciò che Eschilo seppe farne nel Prometeo: il «maestro d’ogni arte», la sostanza di cui potevano considerarsi cultori orgogliosi tutti quegli artigiani o artieri o esperti a vario titolo a cui di preferenza egli si rivolgeva, come sacerdote di una divinità provvida e ingegnosa, sebbene relativamente appartata e minore rispetto ad Athena. Tutti essi sapevano che prima di loro, come prima dell’avvento di Prometeo, gli uomini «avevano occhi e non vedevano, avevano orecchie e non udivano», proprio come i “presenti che sono assenti” di DK 34. E però proprio questo pubblico di riferimento deluse le aspettative di Eraclito, mostrando di non sapersi elevare, neppure guidato dai suoi strumenti espressivi, al di sopra dell’esercizio della propria arte verso l’esercizio delle leggi sancite con un lógos: proprio «essi, che pure hanno esperienza di parole e d’opere tali, quali secondo natura io espongo distinguendo ciascuna e spiegando com’è» di DK 1. Per educare questo

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   19

popolo bisognava portarlo a teatro – ma Eraclito non ebbe questo talento. Così, essi mancarono a lui, come egli in un certo senso mancò loro. Grazie al suo stile avvenne però, in qualche modo, una compensazione fuori dal teatro: perché la minima possibile poesia del suo ermetismo gettò qualcuno dei semi generatori della futura metafisica. Solo i semi, però, nei pensieri quanto mai succinti, e non negli sviluppi trattatistici – al contrario: perché Eraclito non fu uomo del pensiero in atto, bensì del pensiero in potenza. Tra i pensieri di Eraclito i semplici vaneggiamenti di metafisica stanno anzi a pigione, o quasi, e hanno comunque un’importanza relativamente modesta nell’economia complessiva dei frammenti – inutile negarlo, mi pare: la parte più consistente ed evidente della sua personalità sta decisamente altrove; ed è la sensibilità esercitata nella lettura dei frammenti mediante qualcuno degli strumenti della critica letteraria che lo può mostrare, come spero si vedrà nel mio lavoro.9 Se parlando di metafisica si vuole più precisamente trapassare dalla cosmologia all’ontologia, poi, ci si avventura su clinami ancora più ardui e fitti di equivoci. Se il cosiddetto ‘essere’ è ciò che in una cosa basta a se stesso e non cambia, e che ritorna a presentarsi intuitivamente invariato al termine di ogni processo di crisi e di trasformazione (vale a dire, in definitiva, la sua sostanza, specifica o generica), allora questo essere è, per Eraclito, l’indole, l’ēthos: ciò che egli considerava la parte oscura e pesante dell’uomo, la stalla a cui sempre l’animale ritorna e si adagia – il démone della sua gravità. Non si tratta affatto di un ‘inizio’, perché l’inizio è l’essenza, il rapporto, l’intuizione di una costituzione nell’essere complesso per il pensiero; e non si tratta neppure di alcunché di ‘demoniaco’, come si dice, perché dal richiamo di questa gravità dell’essere è escluso alcunché di attivistico. La cosa merita una trattazione a sé. *** Dirò nel commento ai frammenti o pensieri (i due termini per me si equivalgono) che in Eraclito non esiste pensiero di sostanze specifiche (e intendo 9   Avverto subito il lettore che in questo mio studio non mi soffermerò in esami particolareggiati di quelle posizioni che ruotano tutte attorno ad una teologia del Lógos, e che si possono esemplificare con la monografia di Carlo Mazzantini, Eraclito, Chiantore, Torino 1944. In questa teologia ogni caso particolare del pensiero eracliteo diventa immediatamente un’occasione per giustificare l’assunto spiritualistico, gerarchico, neoscolastico ed eurocentrico dell’autore. Eraclito stesso diventa l’oggetto d’esercizio di una «metafisica spiritualistica come filosofia della virtualità ontologica», come Mazzantini ha definito il suo pensiero innestando Heidegger sul tronco di un cattolicesimo dell’obbedienza. Il lettore non si dolga di questa lacuna nella discussione, alla quale seguiranno identiche rinunce segnalate nelle prossime note: sarebbe strano vedere venire alle prese uomini che non hanno niente da dirsi. Le ragioni per cui nella Parte Seconda dedicherò una discussione particolareggiata a Spengler Heidegger Gadamer sono ragioni di filosofia politica del Novecento, che verranno illustrate nella rispettiva introduzione.

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pressappoco per ‘sostanza’ ciò che Aristotele chiama «corpo semplice», ma estendendo il concetto anche alle grandezze del pensiero10). Esiste pensiero degli elementi fisici, questo sì, e pensiero delle loro trasformazioni reciproche; ma non esiste alcunché di corrispondente agli elementi fisici sul piano antropologico, che sia vagamente soggetto al medesimo ciclo di trasformazioni. Gli elementi naturali come la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco si possono trasformare l’uno nell’altro; ma la trasformazione delle anime nei corpi, o viceversa, significa la morte di quelle e di questi; e con le acque le anime non hanno che una relazione per contaminazione – vale a dire: conoscono a contatto delle acque una degradazione della loro sostanza. In un solo caso, mi sembra, si può forse parlare di una derivazione delle anime dalle acque – ed è il caso descritto nel celeberrimo DK 12, dove noi assistiamo alla rappresentazione di anime che (forse) «evaporano» al di sopra delle acque. Se questa interpretazione del verbo anathumiaō fosse giusta, noi ci troveremmo in presenza di una contaminazione sostanziale dell’anima che ha il significato di una promozione, anziché una degradazione. Ma per l’appunto la promozione avviene per liberazione dell’anima dalla commistione con una sostanza specifica. Ciò che Eraclito vuol dire, in definitiva, è che la sostanza eletta a virtù o a principio non può essere che un genere, e non una specie. In quanto è specie, o è commista ad una specie, essa si degrada e genera le molte specie del male. Il pensiero delle sostanze specifiche, o del ciclo, e comunque delle trasformazioni, reciproche o no, degli elementi naturali (perché non c’è soltanto l’idea del ciclo, come mostra bene DK 31a; né le trasformazioni sono sempre reciproche ed energeticamente conservative); questo pensiero delle sostanze specifiche, dunque, trova un limite nel discorso sulla costituzione antropologica: la quale appare assai più stabile, definita secondo un’intuizione bipartita della forma che poi darà i suoi frutti lontani nell’antropologia metaforica tripartita della Repubblica platonica. Un punto di contatto comune fra le due sfere naturalistica e antropologica potrebbe trovarsi là dove vi fosse tra i frammenti naturalistici qualcosa di corrispondente a DK 20, dove si parla di un rigenerarsi soltanto allo scopo di morire senza scopo; o corrispondente a DK 88, dove si parla di giovani che decadono nei vecchi i quali, a loro volta, semplicemente si dissolvono. La netta separazione e la trasformazione entropica, dispersiva, che Eraclito immagina per gli elementi antropologici non compare in modo significativo nelle trasformazioni degli elementi fisici, i quali conoscono invece una continua rigenerazione.   Aristotele, Metafisica, I, 3, 984a.

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   21

È vero che questa rigenerazione fisica non è sempre reciproca, e che il fuoco si potrebbe dunque immaginare come una fonte d’energia che vorrebbe, forse, avere il compito di supplire ad una dispersione entropica nella natura, simile alla dissoluzione nel nulla dei corpi umani. Ma queste sarebbero speculazioni nostre, aggiunte alle speculazioni eraclitee; e a me non sembra che in simili esercizi congetturali debba consistere il compito degli studiosi. C’è anche buona e cattiva divinazione, mi pare. Del resto, se un punto di contatto fra le due sfere antropologica e fisica ci fosse, sarebbe come dire, per esempio, che l’anima si può rigenerare coll’immersione nel corpo; ma Eraclito, com’è prevedibile, non dice questo – e però soprattutto non dice neppure il contrario: vale a dire, che il corpo si può rigenerare a contatto con un’anima virtuosa. E questo, volendo, avrebbe anche potuto dirlo. A me sembra chiaro, dunque, che simile discontinuità tra fisica e antropologia in Eraclito non solo sancisca la precedenza del carattere antropologico del suo pensiero maturo sui contenuti naturalistici (che è uno dei principali quesiti preliminari per chi si accinge ad un riordino dei frammenti successivi alla prima fase cittadina), ma che d’altra parte ponga anche dei limiti alla possibilità di una lettura dell’intero lascito in chiave stoica. Che cosa poi sia, questa ‘chiave di lettura stoica’ dalla quale principalmente dipendono le letture moderne e contemporanee, storiciste e positiviste, dei frammenti, non è facile dire. Bisognerebbe parlare delle diverse letture eraclitee effettuate da singoli testimoni stoici, semmai, dal momento che un solo ‘ismo’ non è mai esistito. E non sarebbe certo facile discernere, poi, che cosa sia soltanto loro, anziché debito accademico o peripatetico. L’esame del testimone si verrebbe così ad interporre rispetto all’oggetto, e non è davvero questa la strada che ho prescelto: perché al valore della testimonianza antica ho preferito quello della versione moderna, così come alla pretesa dell’immedesimazione ho creduto di poter contrapporre il talento della divinazione. I risultati parleranno da sé. Credo che una buona soluzione per liberare Eraclito da una pesante tutela dottrinale stoica consista nel sottolineare l’importanza della sua rinuncia, a un certo punto, al moralismo. Da un certo momento in poi, allorché si esaurisce l’esperienza della politica cittadina, Eraclito comincia a vedere e a descrivere l’uomo com’è, e non come dovrebbe essere. Qualunque cosa s’intenda allora per ‘stoicismo’, è chiaro che a partire da questo momento la tutela deve cessare. È vero che insieme con l’antropologia egli scopre anche la fisica degli elementi, e che si avventura nella cosmologia e nella logica non diversamente dalla Stoa; diversamente da essa, però, non si giova della discontinuità fra antropologia e cosmologia o logica allo scopo di continuare a praticare il suo

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moralismo giovanile ad oltranza – al contrario: secondo la mia interpretazione, e secondo l’elencazione dei frammenti che ne consegue, dal momento del ritiro in solitudine egli lo abbandona. Eraclito rinuncia al moralismo dal momento in cui si mette sulle tracce di una costituzione comune dell’essere come generico essere complesso. A somiglianza degli stoici, non ammetterà mai che il ciclo degli elementi diventi ciclo di scambio anche nell’uomo (perché egli ammette nell’uomo soltanto la contaminazione fra elementi, come l’anima che assume o che cede acqua, come ho spiegato, ma non lo scambio o la trasformazione reciproca fra sostanze: cosa che implicherebbe, come anche ho già detto poco sopra, l’idea di corpi che cedono energie virtuose alle anime); a differenza degli stoici, tuttavia, rinuncia completamente al biasimo. Quando anche l’opera di divulgazione del terzo periodo fallirà, noi leggeremo soltanto una lamentela amareggiata (DK 51: «Non intendono…») – ma non si tratta, per l’appunto, di alcun biasimo o di alcuna esortazione. Ora, ci saranno anche tanti modi d’intendere le varie posizioni degli stoici, ma nei loro confronti la rinuncia al moralismo a me sembra discriminante. Eraclito può essere tanto bene fatto loro capostipite, quanto può esserlo fatto degli epicurei. Se non che, questi ultimi si sono dati assai meno da fare – ecco tutto. Non c’è alcuna ragione di sottovalutare la testimonianza di Clemente Alessandrino in proposito, come fa nel suo filostoicismo e filo-naturalismo Rodolfo Mondolfo – il quale prende sul serio, invece, tutto ciò che viene, per esempio, da Aetio.11 Quest’osservazione mi sembra importante per rispondere ai tentativi di lettura ermeneutici (perché l’ermeneutica non è andata, e non va, mi sembra, al di là di tentativi, basati su di una scarsa campionatura di testimoni prediletti). I risultati parziali e generalizzanti che essi offrono non sono dei semplici dati di fatto, in attesa di migliore futuro, bensì esiti invariabili del metodo. Bisogna per forza che il giudizio o la versione del testimone prediletto, che l’ermeneuta suppone avere esaminato l’originale ancora tra le sue mani, vengano in qualche modo contrapposti alle rimanenti testimonianze; e perciò ad una completa caratterizzazione di un’intera personalità, sulla scorta di tutti i testimoni, chi segue questo metodo deve rinunciare, se non vuole renderla arbitraria. Altra cosa è invece raccogliere tutte le testimonianze, lasciandole

11   Dagli Stromata, II, 130: «Dicono infatti che Anassagora di Clazomene affermò che il fine della vita è la contemplazione e la libertà che da questa deriva, ed Eraclito di Efeso [affermò che questo fine è] la soddisfazione [euaréstēsis]». L’identificazione di questa soddisfazione col piacere sarebbe secondo Mondolfo una grossolana deformazione di Teodoreto (come dice nel suo commento in Rodolfo Mondolfo e Leonardo Tarán, Eraclito, Testimonianze e imitazioni, La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 170-171).

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fluttuare nell’immaginazione in modo che si raccolgano in gruppi per affinità tematica, o lasciando che si depositino successivamente secondo la loro gravità suggestiva, o secondo la plausibilità della successione. La plausibilità qui prescelta è la più semplice e chiara, mi sembra, in qualche modo assoluta: si tratta della plausibilità biografica, alla quale mi sono decisamente risolto dopo la lettura dello studio di Antonio Capizzi.12 E con ciò siamo giunti a toccare l’argomento dei problemi più generali di riordino dei frammenti, che mi accingo a trattare nel sottotitolo seguente. Ma intanto desidero ancora aggiungere qualcosa in un’ultima sezione del presente sottotitolo. *** Tanto per rimanere sulle caratteristiche del moralismo eracliteo, e tornando all’origine del problema antropologico dell’ēthos, può essere necessario insistere sul fatto che, come ho detto, il démone dell’indole non ha in Eraclito alcuna caratteristica attivistica, vale a dire ‘demoniaca’, o modernamente e tecnicamente barbarica; e non ha dunque alcuna possibilità di venire titanizzato secondo un’inversione ‘romantica’ del costrutto della metafora antropomorfica in cose politiche che nella nostra età contemporanea inizia, pressappoco, col Faust di Goethe: dove si assiste alle imprese di un intelletto onnivoro che, per indigenza famelica, si trasforma in una forza viscerale guidata dai perfezionamenti di una ragione perversa (mentre ancora fino al Goetz von Berlichingen, invece, il costrutto è sano e diritto). L’intellettualismo del ver-stehen, che ha in Goethe le radici poetiche e in Kant le radici teoriche, ha largamente segnato gli studi e gli orizzonti metodici dell’età contemporanea; e da questi studi e orizzonti Eraclito non poteva rimanere escluso – anche se, come ho detto, nei confronti della filosofia la filologia ha saputo ritagliarsi uno spazio, al riparo del quale ha potuto proseguire indisturbata un lavoro prevalentemente tecnico e dalle sintesi alquanto incerte. Essa, la filologia, ha pure avuto l’umiltà di chiedere lumi in prestito alla filosofia, mentre il contrario non è avvenuto: tutta la filologia alla quale la filosofia si mostra disposta ad accondiscendere è, di tanto in tanto, la pratica di un poco di terminologia – nient’altro. È ciò che si vedrà nella Parte Seconda di questo studio, esaminando l’Eraclito di Gadamer. Ma insomma, il costrutto antropologico eracliteo, o la metafora antropomorfica della sua intuizione politica, è come si dice ‘retto’, nonché, come ho 12   Antonio Capizzi, Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979.

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detto, bipartito. Per conseguenza, il cosiddetto ‘non-essere’ non può consistere, per Eraclito, che in una volontà di perfezionamento, e non già nell’attivismo di una forza onnivora: come se il fuoco pulsante al ritmo delle precessioni equinoziali di DK 30 fosse l’istintualità cieca e famelica di un lógos viscerale antropologico, oltre che cosmico. Parlare di ‘lógos viscerale’ significa usare due parole al posto di una sola: intellettualismo. E chi pretende di centrare tutto il pensiero di Eraclito sul lógos, facendone nientemeno che una teologia, non si accorge di esaltare non già il contenuto illuministico del suo pensiero, bensì proprio il senso intellettualistico dello sviluppo senza progresso che è la dannazione dell’età contemporanea. Lo dimostra il fatto che laici, dialettici o loici, e spiritualisti, trinitari o mistici, se ne vanno a zonzo a turno menando dappertutto per l’aia dei frammenti eraclitei, fiutandoli qua e là per un poco, questo loro più fedele compagno che è il Lógos. Per Eraclito invece questo, del perfezionamento virtuoso a dispetto del cosiddetto ‘essere’, o questo della volontà che vince l’indole padrona, è il suo divenire. E questo divenire (come è facile capire, fiumi o non fiumi) è tutt’altro che perpetuo: è parabola sempre soggetta a caduta, semmai, come mostra il pensiero DK 88 sui giovani che decadono nei vecchi i quali, a loro volta, si dissolvono. La vecchiaia ha un posto importante nell’antropologia eraclitea; e in DK 117 (l’ubriaco ingannato da un fanciullo) egli sembra credere che la vulnerabilità del ‘fisico’ (come l’ho chiamato, titolando la prima sezione del quarto periodo della sua vita) renda l’uomo meno capace di praticare un perfezionamento. Non c’è da nessuna parte il corrispondente pensiero complementare: quello di una virtù più facilmente praticata da giovani – tant’è vero, che l’ubriaco viene ingannato proprio da un fanciullo. Come dirò nel commento ai singoli frammenti, qualche sgradevole episodio della sua vita dovette spegnere in lui ogni illusione sulla possibilità di rigenerare la città mediante la pedagogia infantile, secondo il programma già annunciato in DK 121. Anche chi, nella storia della letteratura, s’è rifugiato fra i pastori ha dovuto prima o poi riconoscere la loro perfidia. Il genere pastorale rappresenta in mille guise (fino al genere western) il sostrutto antropologico della drammaturgia. Ma Eraclito non lo coltivò: né dopo la sua prima delusione (quando lasciò la città), né dopo la seconda (quando si attardò a trastullarsi nel tempio) ebbe le forze per dedicarsi ad osservare la vita dei fanciulli (o di quei fanciulli che sono gli uomini semplici). Al di là dell’invettiva e del paradosso, non mostrò nei loro confronti quell’attenzione che aveva dedicata all’anima, agli elementi naturali e al cosmo. Un fanciullo gli riservò, anzi, l’amara sorpresa, che considerò ben meritata, descritta con l’episodio dell’ubriaco in DK 117.

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Ciò significa che in lui le distinte forze elementari sono soltanto fisiche, non animali o passionali – e un simile difetto d’attenzione o d’interesse costituì un limite invalicabile ad un possibile progresso letterario della filosofia. Tutto ciò (vale a dire: la disunione o discontinuità fra antropologia e cosmologia), deve pur avere qualcosa a che fare col cosiddetto ‘essere’ e col cosiddetto ‘inizio’ degl’interpreti eraclitei più teoreticamente ispirati e vaticinanti. E se poi invece per ‘essere’ s’intende designare qualcosa di niente affatto radicale, e anzi, all’opposto, le cose così com’esse sono o appaiono nella loro vita effimera e sempre contraddittoria (e si parla allora di ‘essenti’, o di un ‘essendo’, o, peggio che mai, di una ‘essenza’), allora l’ontologia diventa fenomenologia delle variazioni e delle impressioni, e il divenire non conosce sosta – ma questo è precisamente ciò che Eraclito ripudiava quando, in DK 20, osservava il miserabile spettacolo di un’umanità che si riproduce soltanto per riconfermare, di generazione in generazione, il proprio appuntamento con la morte. Come avrebbe potuto non deplorare il medesimo sviluppo senza progresso anche negli studi? Non si può prendere per realistica l’immagine dei fiumi nei quali entriamo: dev’essere per forza una metafora – ma di qui a farne una metafisica riassuntiva di tutto il suo pensiero, ce ne corre. Bisognerebbe esaurire tutte le possibilità della letteratura, prima. Per mettersi d’accordo su ciò che possa significare ogni generico riferimento alla lettura metafisica dei frammenti, bisogna pur dire che l’immagine dei fiumi è stata, del resto, del tutto malintesa. Come Platone fa dire giustamente a Socrate nel Teeteto, il frammento DK 12 non mette affatto l’accento sul fluire di cose sempre diverse, bensì sul resistere fermamente ai flussi che investono chi vi entra; e le nebbie aleggianti al di sopra delle acque possono forse alludere ad una posizione di atarassìa che Eraclito si sforzò in qualche modo di coltivare. In questo senso fortemente soggettivo e moralistico, e non oggettivo o fisico o cosmologico, allora, si può parlare della legittimità di una lettura ‘stoica’. Ma ciò può solo significare che all’equivoco eracliteo s’è anche aggiunto un equivoco stoico; e che la legge dinamica, o del perpetuo movimento, ha preso, fin dalle origini storiciste e romantiche della critica contemporanea, il posto di quelle forme perfettamente statiche e reciprocamente tese, entro le quali Eraclito volle fissare le simboliche immagini indelebili dell’immutabile natura degli esseri complessi. Per capire quanto invasiva e pregiudiziale sia diventata (specialmente nella critica subcontinentale, diciamo così) questa idea del perpetuo movimento, bisogna vedere come essa nel commento di Giovanni Gentile tocchi persino il ridicolo, e proprio per il puntiglio di «far sul serio». Scrive egli infatti in un suo compendio, sul finire degli Anni Trenta:

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26   parte prima. eraclito Per i precursori di Eraclito [vale il] pánta reĩ sì, ma senza che perciò si debba contraddire al pensare comune, che il moto vede e concepisce in perpetua alternativa con la quiete. Viene Eraclito, e la rompe col pensare comune, e coi mezzi termini; e pretende che si faccia sul serio, e si stia, come di dovere, alla logica, e si neghi perciò ogni quiete, per pensare senza riserve né limitazioni, che tutto fluisce.13

Apprendiamo così che quello dei precursori di Eraclito fu un pensiero alquanto comune, compromissorio e persino poco serio. Apprendiamo anche che l’unità dei contrari non ammetterebbe un moto in perpetua alternativa alla quiete, la quale è, a sua volta, in perpetua alternativa al moto, bensì il moto soltanto – in alternativa, si suppone, a se stesso. Ed apprendiamo infine che la logica (anche i principi d’identità e di non contraddizione?) non ammette la quiete. La filosofia qui, io credo, c’entra ben poco: perché c’entrano, semmai, gli umori, i climi e le tendenze dell’Italia triplicina, che nelle serre delle scuole hanno poi fatto allievi per un buon secolo. E bisognerebbe anche vedere quanto la moda del wagnerismo e del durchkomponieren possa avere influito su questo baldanzoso e insieme corrivo modo di pensare, in forza del quale Gentile si permise di stroncare lo studio sui frammenti di Emilio Bodrero.14 Dopo avere ricordato nella sua personale versione dei frammenti che per Eraclito «è legge che si obbedisca alla volontà di uno solo», Gentile conclude la sua sommaria esposizione con queste parole: «E quando i presenti assenti, a cui Eraclito ha accennato [in DK 34], non la riconoscano [questa volontà di uno solo] e ricalcitrano, ecco la guerra regina di tutte le cose; e prevale per essa chi ha da prevalere, e trionfa l’unità».15 Contro esplicite sentenze contrarie di Eraclito, che odiava le fazioni, era alla guerra civile che nelle sue lezioni palermitane del 1907-1908 Gentile già pensava come ad una normale funzione fisiologica della vita politica; e la guerra civile si risolve, secondo lui, con l’instaurarsi del predominio sicuro di una sola delle due parti in lotta. L’esperienza del Novecento, con le due guerre mondiali, avrebbe mostrato invece

  Giovanni Gentile, Storia della filosofia dalle origini a Platone, Le Lettere, Firenze 2003, p. 53.   Vedi la polemica su ‘La Critica’ del 1910 (pp. 291-294, 397-400) e del 1911 (pp. 72-74). Quanto alla serra delle scuole, nella sua premessa alla traduzione gentiliana dei frammenti Francesco Adorno afferma che «i singoli, come per Eraclito, si risolvono nella dialettica, per cui tutto è come deve essere, in una suprema necessità storica» (Gentile, Eraclito. Vita e frammenti, p. ix). Ho combattuto l’idea della sottomissione a questa suprema necessità, e simili tedescherie, che hanno fatto parte del comune armamentario eraclitante per le generazioni post-triplicine, nello studio, parallelo a questo, su L’Ifigenia di Eschilo (già pubblicato presso questo medesimo editore). Riparlerò della posizione di Gentile nella Parte Seconda, esaminando la dissertazione di Spengler (alla nota 6). 15   Gentile, Eraclito. Vita e frammenti, p. 228. 13

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l’importanza del ruolo risolutivo delle potenze neutrali (ossia del ‘terzo’: che Gentile, ragionando ‘per due’, non considera). Il suo pensiero, in ogni caso, è esattamente all’opposto di ciò che Eraclito avrebbe potuto insegnare circa l’unità come armoniosa opposizione nella vita costituzionale. Gentile non poteva sapere che proprio la guerra civile, così baldanzosamente propugnata, l’avrebbe un giorno travolto; e noi non possiamo sapere quanto virilmente egli avrebbe saputo accettare la sua fine, se essa fosse avvenuta mediante fucilazione al termine di una detenzione. Sappiamo bene, in compenso, quanto ancora la commiserino, quella sua fine, coloro che vorrebbero gl’intellettuali soggetti ad uno statuto speciale d’irresponsabilità; né so immaginare con quale dottrina del pánta reĩ Gentile avrebbe potuto continuare a fare il sommo intellettuale di Stato in un’Italia presieduta da un Mussolini manovrato da Churchill. Alquanto paradossalmente, dunque, cento e anche duecent’anni dopo Hegel alla propugnazione teorica del perpetuo movimento non sembrano talvolta corrispondere dei significativi avanzamenti sul piano più propriamente filosofico dell’intelligenza dei frammenti eraclitei. È il caso, almeno per certi ambienti, di parlare di uno sviluppo senza progresso: il quale, proprio quando sembra mandare in frantumi l’orizzonte stoico racchiuso entro ben definite orbite planetari, immediatamente ne ripristina con tanto più zelo la logica dogmatica di subordinazione alla necessità ineluttabile e gerarchica. sui problemi più generali di un riordino Rinunciando a conferire all’ordine di pubblicazione dei frammenti un qualsiasi significato normativo o interpretativo, in molti casi gli editori hanno preferito seguire il criterio onomastico, sull’esempio di Diels – Kranz, disponendoli in un’unica successione secondo l’ordine alfabetico dei testimoni (così in Italia, per esempio, Gentile, Bodrero, Cardini, Walzer, Mazzantini, Trabattoni). La pubblicazione dell’ordine dei frammenti risponde, se no, al criterio dei raggruppamenti tematici o ideologici (Marcovich: venticinque gruppi in tre sezioni; Gilardoni – Salucci: cinque gruppi; Tonelli: quattordici gruppi; Capizzi: sette gruppi).16 Una terza soluzione consiste nel disporre i frammenti in un’unica successione, come nel primo caso, ma diversamente ordinati secondo criteri interni, che suggeriscono o presuppongono, anche soltanto implicitamente, un’interpretazione (Colli, Diano – Serra). Resta in ogni caso 16   I raggruppamenti tematici nella bibliografia meno recente sono descritti da Mondolfo e Tarán nell’introduzione a Eraclito, p. 26.

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28   parte prima. eraclito

escluso il criterio esplicito dell’ordine biografico, che in questo Diario ho voluto adottare. Una posizione del tutto diversa è quella di Vittorio Macchioro: il quale, partendo dal presupposto che i testimoni antichi conoscessero l’opera di Eraclito nella sua forma genuina e integrale, propose di leggere i frammenti integrandoli «col pensiero di chi li cita», leggendoli «attraverso il pensiero di chi conosceva l’intera opera».17 È una posizione ermeneutica, questa, che discuterò nella Parte Seconda trattando di una conferenza di Gadamer. Preferisco spostare altrove la discussione di questo tipo di approccio, e portarla su un altro studioso, perché attraverso Spengler Heidegger Gadamer il profilo della critica eraclitea viene ad assumere di fatto la forma del profilo di una nazione attraverso le tre generazioni che hanno fatto il Novecento: prima delle due guerre, fra le due guerre, e dopo. Qui basti dire che non vedo la legittimità della conclusione di Macchioro, quand’anche fosse valido l’assunto della conoscenza da parte del testimone di un’opera eraclitea genuina: ne uscirebbe, e ne esce, un Eraclito fatto a brandelli e sfigurato dai molti testimoni (talvolta persino dieci per un solo frammento!). Chi voglia conoscere un esempio di questo modo di procedere non ha che da leggere il contributo di Serge Mouraviev che apre il Simposio Eracliteo di Chieti del 1981.18 Tutta la ‘nuda’ lettura che seguirà in questo Diario si propone invece di ottenere il risultato opposto, tentando di spogliare i frammenti da ogni possibile superfetazione, e anche auto-superfetazione (non solo altrui, dunque, bensì anche eraclitea, per quanto possibile: sul piano speculativo e naturalistico, ossia scientistico, soprattutto, distinguendo i luoghi di vera consistenza del suo pensiero dalle mere divagazioni). Il ruolo ordinatore dell’interprete si affida qui, insomma, ad un giudizio saggistico sull’uomo pratico, prima che di pensiero, il quale giudizio possa conferire al lascito una sua forte unità interna. Non è vero, come si dice e si ripete a partire da Schleiermacher, che in Eraclito l’individuo non conta nulla:19 esso conta anzi come diecimila, se ottimo – e in ogni caso l’individuo della sua filosofia, per noi, è lui stesso. La soluzione di Macchioro e di tutti gli ermeneuti non è che una generalizzazione della posizione che fu già assunta proprio dallo Schleiermacher per primo. Partendo dall’assunto che gli unici testimoni affidabili sul lascito eracliteo

  Vittorio Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull’orfismo, Laterza, Bari 1922, pp. 13 e 69-70.   Serge N. Mouraviev, Heraclitus ap. Clem. Strom. I 70.3: A neglected Fragment?, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di Livio Rossetti, Ateneo, Roma 1983, (SH) I, pp. 17-36. Ne discuto nel Diario, nel commento al frammento sulla Sibilla (DK 92). 19   Giovanni Moretto, L’Eraclito di Schleiermacher, in SH, II, pp. 102-103. 17 18

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   29

siano Platone e Aristotele, egli si propose di ordinare e di leggere tutti i frammenti, malgrado ogni altra possibile provenienza, alla luce dei giudizi di questi due soli testimoni privilegiati (o, com’egli dice con una certa enfasi, «queste validissime fra le testimonianze»: diesen gültigsten Zeugnissen folgend).20 Ma ciò non gl’impedì certamente di attribuire ad Eraclito le sue personali o epocali predilezioni, né di rimettere in circolazione la lettura stoica dei frammenti, così come Macchioro non s’è certo riguardato dal seguire una sua linea interpretativa fortemente personale. Anche tacendo d’altre considerazioni, dunque, ordine e interpretazione dei frammenti ricevono in tal modo un’unità soltanto apparente, dal momento che lo stesso Schleiermacher non ignora la disparità e l’incertezza dei giudizi aristotelici rispetto ai platonici – anche se poi finisce per metterli sullo stesso piano.21 Così, anche in età contemporanea Eraclito diventa senz’altro, e in modo credibile, l’uomo del pánta reĩ e della mistica coincidenza degli opposti – senza, peraltro, che l’idea del flusso universale e dell’unità indistinta riesca a conferire unità ad un commento assai diseguale. Questa, della diseguaglianza non riunita su di un autonomo punto focale, fu la sua debolezza nei confronti di Hegel; il cui approccio ad Eraclito, d’altra parte, non è credibile per la ragione opposta: se non altro, per le pesanti superfetazioni speculative che aggiunse alle antiche sulla base di una lettura assai unilaterale e davvero esigua, in tutti i sensi – tanto, da non rinunciare neppure, dopo la pubblicazione dell’opera dello Schleiermacher, a servirsi ancora con snobistica preferenza dell’edizione stefaniana.22 Ma è pur vero, d’altra parte, che Hegel seppe strutturare schematicamente (ossia ‘dialetticamente’) l’idea del perpetuo divenire. In ciò consisté la sua capacità di far presa sull’immaginazione del pubblico, in ciò la sua arte di governo della sensibilità. E nondimeno, entrambi ebbero qualcosa in comune: sulla scorta dei più autorevoli fra gli antichi, e a dispetto dell’evidenza, vollero in tutti i modi fare della coincidenza degli opposti qualcosa di mobile e di sostanziale (anche quando lo definirono ‘essenziale’). Niente di meno vero, per Eraclito: l’idea della coincidenza degli opposti, come ancora dirò in questa Introduzione e, poi, nel Diario, è per lui qualcosa di perfettamente immobile. È l’essere per il pensiero, se vogliamo chiamarlo così; e esso non ha nulla a che fare col cosiddetto non-essere del divenire: il quale non trova in Eraclito, per l’appunto, la

20   Friedrich Schleiermacher, Herakleitos der dunkle, von Ephesos, in Kritische Gesamtausgabe, vol. 6, a cura di Dirk Schmid, de Gruyter, Berlin New York 1998, pp. 110-111 e 135. 21   Schleiermacher, Herakleitos, p. 134. 22   Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1998, I, p. 309.

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30   parte prima. eraclito

benché minima ragion d’essere – se non volendo giocare, via via per costruire, sulle parole di Aristotele e sulle immagini di Platone. L’essenza di un insieme di cose legate in modo necessario dalla natura o dal pensiero è in principio un rapporto, proprio nel senso matematico e frazionario, e non ha nulla di ‘dialettico’ o di ‘superante’ – se non nel senso che l’astrattezza del rapporto diventa realtà concreta per mezzo di narrazione, definizione, formulazione, esemplificazione, convenzione e artificio letterario. Insomma: sensibilità e letteratura. *** Facendo di Eraclito un post-kantiano come lui, e con la caratteristica tendenza kantiana a ricondurre ogni problema alla distinzione e all’esercizio delle facoltà, Hegel affermò che per Eraclito si trattò di andare oltre l’intelletto e il concetto, verso l’idea e la ragione. La sensibilità, collettrice di semplici ‘materiali’ per l’intelletto e per il concetto, riafferma il suo ruolo su di un piano più alto. Ma credo invece che proprio il talento della letteratura, intesa come sensibilità ampiamente estesa (una letteratura che per il metafisico è sistema, come per il poeta è epos o dramma o romanzo), abbia fatto difetto ad Eraclito: il quale non seppe e non volle divenire un poeta, neppure metafisico – ma proprio perché volle tenersi il più possibile vicino alle sue intuizioni (anziché, si badi, svolgerle; anziché farle divenire!), andando appena un passo soltanto oltre il silenzio e l’identità e la potenza dell’essere e del pensiero in aforismi e sentenze il più possibile succinti. In questo senso può dirsi ben appropriato il paragone di Vittorio Mathieu tra i frammenti eraclitei e le poesie di Ungaretti.23 Ma proprio per questo bisogna riconoscere che ciò che non mancò affatto ad Eraclito fu la capacità di esprimersi mediante una letteratura minima, ovvero una sensibilità ‘minimamente’ estesa – vale a dire: per simboli o formule. E questi simboli o formule hanno poi avuto fortuna imperitura non meno dell’alquanto più estesa scrittura marmorea di Eschilo – la cosa è innegabile, mi sembra. La differenza sempre attuale, però, la fa il pubblico, che in Eraclito e in Eschilo non è affatto il medesimo; e mentre Eraclito dovette struggersi per non aver mai trovato il pubblico d’un drammaturgo, il contrario non è mai stato vero: che un drammaturgo si sia crucciato, mancandogli il pubblico

23   Vittorio Mathieu, Eraclito, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1993, p. 7. Dopo una citazione epigrafica da Hegel, Ferdinand Lassalle aprì il suo grosso studio su Eraclito all’insegna di una seconda citazione del suo maestro August Boeckh, il quale pensava che Eraclito meritasse l’alloro, proprio come i poeti (Die Philosophie Herakleitos des dunklen von Ephesos, in Gesammelte Reden und Schriften, ed. Eduard Bernstein, Cassirer, Berlin 1920, VII, p. 17).

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   31

dei filosofi. Il risultato politico non è il medesimo, e Eraclito fu un animale politico (sebbene in senso diametralmente opposto al banale significato della sentenza aristotelica, che fa d’ogni individuo la semplice suddivisione infinitesima della comunità sociale). Lassalle non sbaglia quando, come ancora dirò nel commento ai frammenti del Diario, trova nel semplice cenno di Apollo una «simbolica» raffigurazione sensibile della legge divina: perché il simbolo, certo, rivela e nasconde.24 Ma egli non capisce che il simbolo sta da tutt’altra parte rispetto al concetto, al quale Eraclito avrebbe avuto il merito, secondo lui, d’innalzare «i materiali» naturali della sensibilità. E sbaglia, o non intende, non soltanto perché non considera che sul piano sociologico il pubblico del simbolo non è il pubblico del concetto, bensì anche perché, sul piano logico, il simbolo è la condensazione della nozione, e non già del concetto. Il concetto non ha affatto bisogno di simboli per esprimersi, bensì soltanto di una proposizione che non contiene alcuna contraddizione. Esso è incapace di definire esseri complessi, i quali richiedono strumenti di evocazione diversi, come la nozione: ossia ciò che, vivendo di narrazione, ammette in sé la contraddizione. Se un punto di contatto comune fra concetto e nozione è possibile, si potrà forse dire che la definizione mediante la quale si esprime il concetto non è che la minima narrazione possibile della cosa. Ma bisogna, in tal caso, che la cosa sia fatta di una semplice sostanza, e non costituita o costituibile su di un rapporto, che richiede di pensarla come un’essenza. Resta dunque per me chiaro questo punto: che Eraclito non fu in grado di superare la soglia del concetto, e non seppe trovare il mezzo narrativo, letterariamente esteso, che gli avrebbe consentito di esprimere la contraddizione moralistica o l’unità degli opposti antropologica e cosmologica con l’illustrarla, oltre che col sancirla. In questo consiste il significato teorico della sua posizione storicamente diversa rispetto a Eschilo. Basta avere appena intuito il carattere dell’uomo, e leggerlo davvero, per capire con quanto disprezzo egli avrebbe giudicato coloro che innalzano sistemi appena lontanamente simili agli hegeliani, con tutto l’indispensabile corredo esegetico. Quando, deposto o spento il fervore del biasimo esortativo, egli volle divulgare le astrusità della sua meditazione solitaria, rendendole accessibili con degli esempi, fu di una semplicità e di un’umiltà addirittura commoventi. Il destino ha però voluto che non dall’immobile simbologia di questi esempi, bensì dalle sue più confuse e fluttuanti meditazioni fosse tratto, per lo più, il succo duraturo del suo insegnamento. Di ‘hegeliano’ egli ebbe   Lassalle, Die Philosophie Herakleitos, pp. 71-72.

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32   parte prima. eraclito

soltanto (e soltanto in certi momenti della sua vita, dopo il ritiro) la moderata pretesa di affermare la coincidenza del pensiero con l’essere – dopo aver passato la prima metà della sua vita a negarla. Fu una pretesa rivolta, tuttavia, per lo più a se stesso, non molto più di una tentazione teorica senza grandi sviluppi: una ricerca, più che una sanzione. Questa pretesa venne frustrata, persino umiliata – ed egli (nell’interpretazione che qui propongo) riconobbe il suo fallimento due volte: si rifiutò, dunque, di farsi vate buono per tutte le stagioni e pronto a tutte le sorprese. Ma tale lo si è fatto, e ancora lo si fa. E non occorrerà nemmeno ricordare che nello Stato, poi, ossia nella sua città, egli non cercò la benché minima esaltazione o tutela – come Hegel, del resto, riconobbe nelle sue lezioni di storia della filosofia. Il resto che parte da Hegel (non da Schleiermacher) è recezione, divulgazione e propaganda: un autentico museo delle curiosità dossografiche, ormai, che può interessare non la cultura, bensì semmai la storia della cultura, la psicologia degl’intellettuali e la sociologia della conoscenza.25 origini della critica contemporanea A Hegel non mancò, come ho detto, quell’astrusa ed ingegnosa abilità di dar forma strutturata al perpetuo divenire, che ancora incanta qualcuno con la sua capacità di rendere tutto, d’un tratto, spiegabile – salvo soccorso esegetico. Essa fece invece difetto allo Schleiermacher, a causa di una forma di prudenza disciplinare e di ritegno nello stile personale alquanto diversi dal ritegno dell’ermetismo eracliteo. Di fronte ad uno Hegel dilagante nei giudizi a braccio, nelle misteriosofie terminologiche e sintattiche, e nelle applicazioni dei suoi schemi, Schleiermacher non si mise ad oracoleggiare, sull’esempio del suo modello antico, ma si avanzò nel fiume quel tanto che basta per non riuscire ad arrivare dall’altra parte. Per convincersi della diseguaglianza pressocché informe del commento schleiermachiano basta osservare come egli noti in una sua pagina che tutti i commentatori sono d’accordo nel riconoscere nei frammenti di Eraclito la generica importanza dell’idea della trasformazione universale; ma quando poi si tratta d’illustrarla nei particolari, egli dice, questo accordo svanisce, e ognuno vede la cosa a suo modo.26 È dunque sull’analisi di questi parti25   Se ne può avere un’illustrazione nel secondo volume del Symposium Eracliteum, grazie ai contributi di Salvatore Nicolosi, L’Eraclito di Hegel e la storiografia filosofica dialettica (pp. 105-130), e di Marco Duichin, Marx e Engels interpreti di Eraclito (pp. 157-189). 26   Schleiermacher, Herakleitos, p. 142.

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   33

colari che egli sembrerebbe volere indirizzare la sua attenzione. Se non che, fa poi esattamente il contrario; e così noi apprendiamo, venticinque pagine più avanti, che l’idea del divenire, o dell’unità e molteplicità del tutto, si può rappresentare con ogni sorta di schema: vanno tutti bene, purché si ammetta che per Eraclito il movimento è tutto e la quiete nulla. Il lettore rimane così piantato in asso, e lasciato a sbrigarsela da sé sul terreno delle conclusioni parziali. Oltre a rispettare l’autonomia di giudizio del suo lettore, che non volle considerare un semplice scolaro, Schleiermacher si rifiutò anche di fornirgli i suoi trucchi di lettura – che peraltro, onestamente, non possedeva. Ma così la filologia fin dall’inizio dell’età contemporanea venne a perdere nel confronto con la filosofia quello strumento di successo che proprio Eraclito per primo andò cercando nel periodo dell’eremitaggio e poi della divulgazione: un piccolo repertorio d’immagini chiare, evidenti, nelle quali riassumere e lasciare facilmente comprendere i risultati parziali del suo pensiero. Di conclusioni parziali con le sue triadi gerarchiche Hegel invece s’intendeva, eccome. Sapeva segnare le tappe, organizzare e strutturare verso una conclusione generale un discorso, che per la filologia rimase invece condannato fin dall’inizio ad una penosa tediosità senza alcuna immaginazione architettonica, ad una libertà girovaga e persino razzolante, randagia. La nozione riassuntiva generale di unità molteplicità e movimento viene espressa in questa prosa faticosa, che può essere considerata, nondimeno, un esempio fra i più chiari di tutto lo stile di Schleiermacher: E se di queste effimere forme se ne vuole scegliere una, che serva da schema al tempo stesso dell’essere e dell’unità, e però [anche si vuole scegliere] il suo [di questa forma] trapasso nelle altre [possibili forme] quale schema del divenire e della molteplicità, ciascuna [vale a dire l’una e l’altra: la forma prescelta, o una forma che poi assume altre forme] può benissimo giovare allo scopo. Perché si può sempre comunque dire che il mondo sia una terra che costantemente diviene e si dissolve, e però anche di nuovo precipita e rassoda, oppure un costante esalare in fuoco e addensarsi in terra, o altresì un perpetuo ripristinarsi in mare da entrambi [da fuoco e terra insieme; ma Eraclito non ha mai detto nulla di simile!], come noi sappiamo che Eraclito ha detto [?] …, sia essa [la terra] un fuoco che in parte continuamente si spegne e in parte continuamente si accende [di nuovo: Eraclito non ha mai detto nulla di simile!]. Ma che egli abbia purtuttavia detto questo, e non quello, trova la sua ragione in ciò: che per lui, per l’appunto, soltanto il movimento era la cosa viva e reale, la quiete e il riposo, invece, il nulla e il morto».27 27   Ivi, p. 169. Ecco il testo, come si presenta nell’edizione Schmid: Wenn von diesen vergänglichen Formen Eine gewählt werden soll um gleichsam zum Schema des Seins und der Einheit, ihr Uebergang in die andern aber zum Schema des Werdens und der Vielheit zu dienen, so scheint jede dazu gleich gut zu sein. Denn man kann eben sowol sagen, die Welt sei eine immer flüssig werdende und schmelzende aber auch immer wieder sich niederschlagende und erstarrende Erde, oder ein immer in Feuer verhauchendes und Erde absetzendes

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34   parte prima. eraclito

Una simile pagina può valere quale esempio di critica ‘romantica’. Essa ha fatto scuola assai più, e più a lungo, che non si creda, soprattutto in ambito pedagogico: tanto, che non è raro trovare ancora divulgazioni del pensiero eracliteo improntate al medesimo stile farraginoso, vagamente omiletico e, in definitiva, concettualmente inconcludente. Ma prima ancora di ottenere i suoi effetti sui banchi di scuola una simile critica ha stimolato i voluminosi cimenti, per esempio, di un Ferdinand Lassalle, teorico politico del motto anarcosindacalista: ‘Il movimento è tutto, il fine nulla’, col quale, in pieno clima schopenhaueriano, la meccanica prevedibile o accademicamente sancita della dialettica hegeliana si sfascia del tutto per finire nel Tutto. Ma non c’è nulla di meno vero: l’universo di Eraclito è e resta sempre un universo finito, dotato di una quantità di energia interna variamente convertibile e riconvertibile, ma pur sempre finita e secondo misura. A parte Lassalle, sul quale tornerò fra poco, il fatto che l’uso pedagogico dei pensieri di Eraclito rappresenti ancora un indirizzo importante per la critica filologica è mostrato, in Italia, dall’edizione Diano – Serra dei frammenti: la quale si conclude con DK 101 («Ho indagato me stesso»), proprio come la raccolta di Schleiermacher. Il significato di tutta la fatica di Eraclito si riassumerebbe, dunque, in un’autopedagogia. È lecito sospettare che gli studiosi attribuiscano in tal modo ad Eraclito ciò che potrebbe aver giovato a loro stessi, o che potrebbe ancora giovare ai loro discepoli. Ora, è un fatto di un’evidenza inoppugnabile, mi pare, che Eraclito passò buona parte della vita, piuttosto, a cercare di educare i suoi concittadini mediante la propaganda di un’igiene dei costumi pubblici e privati alquanto semplice, persino elementare talvolta. È lui stesso a ripetere a sazietà, e non senza sgomento, che ciò che insegna senza essere capito non ha alcunché di astruso. O si vuole proprio credere che abbia cominciato con la propaganda del Lógos (comunque lo si voglia intendere) per poi dedicarsi a biasimare chi si rotola nel fango, si riproduce ciecamente o si riempie il ventre come le bestie? Di qui bisogna partire, dunque, e ammettere che DK 1 non sia stato affatto l’inizio della sua vita (anche se poté essere l’inizio del suo libro, come dice Aristotele – ma questa è tutt’altra faccenda, chiusa per sempre, evidentemente); e bisogna ammettere che l’autopedagogia per lui sia stata un ripiego. aber auch aus beiden sich immer wiederherstellendes Meer, als Herakleitos, wie wir wissen, (s. oben S. 374) gesagt hat, sie sei ein theilweise immer verlöschendes und sich wieder entzündendes Feuer. Daß er aber dennoch nur dieses gesagt hat, und nicht jenes, hat seinen Grund darin, daß ihm eben nur die Bewegung das reelle und lebendige war, die Ruhe und der Stillstand aber das Nichtige und Todte. Il riferimento del curatore alla pagina 374 nel medesimo volume non rinvia il lettore ad alcunché di significativo, che giovi a chiarimento di un pensiero del tutto rapsodico.

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Per discutere la collocazione finale di DK 101 in Schleiermacher e Diano – Serra dobbiamo soltanto chiederci se l’autopedagogia fu un ripiego transitorio o finale. Il tono del frammento ha indubbiamente un significato conclusivo. Ma si tratta di una conclusione totale o parziale? Io credo che sia stato un rimedio transitorio, e che segni una conclusione parziale, appresso la quale deve ancora venire un buon numero di giudizi di conseguenza: perché non si può credere fino a tal punto al gusto per gl’indovinelli! E credo che la soluzione del problema dipenda dalla collocazione di DK 26: Eraclito si volse a scrutare in se stesso quando la luce si spense (metaforicamente) nei suoi occhi, e tornò poi a divulgare ciò che aveva concepito scrutando i barlumi della notte che era dentro di lui. L’autopedagogia non è il risultato di un bilancio della sua vita, da tramandare ai posteri come indicazione dello scopo di un po’ tutte le vite di studio, bensì un episodio di fondamentale importanza formativa che trova un seguito nella divulgazione. Se no, con un Eraclito che esce di scena soddisfatto di sé (come dicendo: “Tutto ciò che ho imparato di me stesso, almeno, nessuno me lo toglierà mai”, o qualcosa del genere) non si capirebbe il significato e il tono di troppi frammenti. La sua immagine somiglierebbe un po’ troppo a quella del saggio, biasimato da Seneca, che uscì dalla città distrutta felice di portare con sé tutto ciò che possedeva: una nuova esperienza, e altra conoscenza. *** Con tutto ciò, non si può negare allo Schleiermacher il valore di capostipite della critica eraclitea (non eraclitante, o post-hegeliana) contemporanea – ma non mi sembra davvero che si possa definire o spiegare la sua critica ‘romantica’ come l’espressione di un disegno storico-filologico di tipo «religioso».28 Ciò presuppone, evidentemente, una personale, metonimica nozione di ‘religione’ che scambia il contenente con il contenuto: non fu ‘la religione’ a contenere la critica ondivaga come gusto di tutta un’epoca, bensì questa quella, così che la religiosità stessa (con o senza panteismi) fu ‘sentita’ in quel particolare modo. Che Hegel abbia giudicato con ironica sufficienza il perfezionismo filologico erudito e faticoso della raccolta schleiermachiana (con uno stile borioso che è poi rimasto caratteristico dell’idealismo nei confronti della filologia – basta pensare ai giudizi di Croce) è più che comprensibile: dalla critica storica egli non poteva attendersi che una smentita dei suoi costrutti (la quale, peraltro,   Giovanni Moretto, L’Eraclito di Schleiermacher, in SH, II, p. 104.

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36   parte prima. eraclito

venne anche da chi, come Romagnosi, considerò la filosofia hegeliana della storia alla semplice luce dell’evidenza, soprattutto dell’evidenza delle omissioni). Se qualcuno accettò la sfida di mettere l’idealismo alla prova della filologia, questi fu Ferdinand Lassalle: nei cui scritti di economia, diritto, filologia, politica e letteratura vengono ad esaurire le loro capacità creative i principali contenuti culturali delle due generazioni precedenti, secondo gli scopi pratici di un uomo che aprì la via soltanto all’azione demagogica, e non ad altro pensiero (che non fosse quello della Luxemburg e degli sviluppi anarcosindacalistici del marxismo). Il clima schopenhaueriano e wagneriano assicurò un certo successo alla sua frantumazione dei frammenti sotto la mola dell’hegelismo, che fece della trattazione del discorso eracliteo una specie di ‘melodia continua’. Nel presentare l’opera di Lassalle (che Marx giudicò una sezione della Logica di Hegel) lo stesso Bernstein notò con sorpresa come l’autore fosse riuscito ad essere persino più hegeliano di Hegel senza aggiungere in sostanza nulla di nuovo alla Storia della filosofia, bensì solo sviluppandone i giudizi nei dettagli. Nel 1920 non occorreva più convincere nessuno delle parzialità e addirittura della violenza fatta al testo dei frammenti.29 Desidero portare un solo esempio di questo approccio fortemente pregiudiziale sotto il profilo ideologico. E poiché ci troviamo in sede introduttiva, senza toccare i singoli commenti ai frammenti mi sembra appropriato scegliere, nel trattato, un giudizio tra i più generali e precoci. Lassalle rimprovera a Schleiermacher di avere attribuito al divenire eracliteo una forma del tutto generica: quella del movimento di una semplice «linea retta», o di un «mutamento indifferente», ben diverso dal concetto della «pura negatività», per cui Essere e Non-essere trapassano l’uno nell’altro nell’unità di una «contraddizione assoluta».30 Il lettore si accorge immediatamente che qui Lassalle non contrappone allo sviluppo indifferente della «linea retta» una qualche altra forma schematica (come sarebbero, per esempio, la spezzata o la spirale, la O o la Y), bensì nient’altro che l’uso insistente di una terminologia già definita altrove. Egli cerca di dare all’arbitrio di quest’applicazione hegeliana ai «filosofemi» eraclitei una base filologica, e menziona la «corrente contraria», o enantía roé, del Cratilo (413 e) – la quale, però, significa tutt’altra cosa. Platone fa dire infatti a Socrate: È chiaro che l’adikía (ingiustizia) è un ostacolo per l’ente diaïón (che attraversa), mentre l’andreía significa che ha ricevuto il suo nome in battaglia; e nell’essere, se [questo] vera29   Dalla Prefazione di Eduard Bernstein a Lassalle, Die Philosophie Herakleitos, in Gesammelte Reden und Schriften, VII, pp. 6-11. 30   Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 48-49.

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   37 mente scorre, la battaglia non è altro che la enantía roé (corrente contraria). Se dunque si elimina il δ dal nome andreía, il nome anreía indica proprio questa attività. È chiaro che il coraggio è la corrente contraria non a qualsiasi corrente, ma a quella che scorre contro il giusto – altrimenti non sarebbe lodato il coraggio.31

Come si vede immediatamente, quella che Lassalle vuole presentare come una ‘corrente dei contrari’ è in realtà, nel Cratilo, una «corrente contraria»: non già un abbandonarsi al contraddittorio flusso delle cose, bensì, viceversa, proprio una ferma posizione di virile resistenza a qualsiasi andazzo, nel nome della giustizia. E per designare il prozessierender Gegensatz eracliteo, giovandosi della terminologia platonica, Lassalle non ha neppure ritegno ad introdurre «senz’altro» (schlechterdings) un suo glossema, fabbricato alla tedesca: enantiorroé. Per il resto, in generale, la prosa pesante, nello stile del manufatto accademico, rende oltremodo faticosa la lettura del trattato di Lassalle. Bisogna purtroppo dire addio alla sintassi per lo più paratattica, o senechiana, del XVIII secolo, e accingersi a sbrogliare i costrutti talvolta piramidali della cosiddetta deutsche Sprache der Wissenschaften. Non si tratta soltanto del fenomeno per cui lo studioso avventizio cerca di mascherare la propria insicurezza (e intanto, però, dà libero corso alle proprie estreme ambizioni): si tratta piuttosto di qualcosa di più sostanziale, che sorge nientemeno che dalle radici speculative della mentalità di tutta un’epoca post-kantiana. Anziché essere dapprima formulato, e poi svolto o accompagnato da un corredo di riferimenti annessi e connessi, non necessariamente vincolanti, l’elemento più importante della frase, verbo o sostantivo, al quale si affida la formulazione del giudizio, viene preceduto da tutta una serie di elementi sintattici che ne circostanziano la validità secondo possibilità e limiti. In questo tipo di prosa il giudizio viene in tal modo sintatticamente ‘fondato’. *** In ogni caso, quando l’opera uscì la sorpresa fu grande, e valse a Lassalle l’accoglienza, patrocinata dal Michelet, nella Berliner Philosophische Gesellschaft. L’ortodossia hegeliana mostrava così di poter sopravvivere in clima schopenhaueriano; e dell’opera fu apprezzato per l’appunto lo sforzo, che si considerò riuscito, d’inferire dal lascito eracliteo un intero sistema. Come dice Lassalle: 31   Platone, Cratilo, in Dialoghi filosofici, a cura di Giuseppe Cambiano, UTET, Torino 1981, II, p. 49 (con una leggera variazione nella punteggiatura).

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«Per noi ne venne il dovere di ordinare la sua filosofia – fermo restando che in essa le distinzioni concettuali di simili discipline non giunsero mai a chiarezza sistematica – nelle quattro sezioni dell’ontologia, della fisica, della dottrina della conoscenza e dell’etica».32 Fino ad allora, invece, non s’erano avuti dubbi circa il fatto che Eraclito non avesse elaborato alcuna sistematica esposizione delle sue teorie, bensì lasciato nient’altro che una raccolta di aforismi su temi specifici. Ma limitarsi ad intrecciare frammenti e testimonianze in una «corolla», alla maniera di Schleiermacher, a Lassalle sembrò un compito troppo modesto, ed egli volle proporsi il compito «ben più elevato» (höher hinaus) di mostrare la coincidenza della filosofia con la storia della filosofia: vale a dire, mostrare come «la legge dello sviluppo della conoscenza debba coincidere con la legge della conoscenza stessa». E al di là dell’esecuzione testamentaria hegeliana (diciamo così), egli si propose di adempiere anche ai compiti di una missione della scienza tedesca, alla quale spettava di unificare filologia storia filosofia religione sotto un’unica contemplazione delle vicende umane e divine. Il suo Eraclito non volle essere che un modesto contributo a questo sacro connubio (hieròs gámos).33 Per illustrare di nuovo con un solo esempio quale sia la prensilità ideologica, mediante la quale («ma appunto perciò»!) Lassalle seppe giovarsi di studi altrui, basterà menzionare questo passo della sua prefazione. Egli è ben cosciente che gli oscuri «filosofemi» di Eraclito sono fortemente sospetti di ridursi a nient’altro che artificio linguistico; e dunque sa essere possibile che con lui cominci, nella storia della filosofia, tutta una vana speculazione fatta di convenzioni e di equivoci terminologici: l’inizio, vale a dire, di una filosofia che forse in maggior grado rispetto, per lo più, alle altre, ha contribuito all’adempimento [Erfüllung] di quella legge dello sviluppo linguistico che [vuol vedere] trapassare il significato originariamente sensibile delle radici lessicali in determinazioni concettuali; di una filosofia la quale però, appunto perciò [aber eben deshalb], nelle sue determinazioni concettuali assume la singolare posizione intermedia per cui l’originario significato sensibile della parola è per essa altrettanto essenzialmente importante [ebenso wesentlich], quanto quella schietta [wahrhaft erkennbare] elaborazione della medesima [parola] in concetto speculativo [geistig] che essa stessa [von ihr selbst] ha intrapreso con la parola, e solo con l’aiuto di quell’originario significato [sensibile].34

  Lassalle, Die philosophie Herakleitos, p. 27.   Ivi, pp. 29-31. 34   Ivi, p. 23. 32 33

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   39

Chi abbia il gusto d’indagare sui meccanismi logici, terminologici e sintattici dai quali nasce la filosofia dei professori di filosofia; chi voglia trovare un esempio dell’origine d’una superfetazione ideologica, insieme con l’anticipazione di tutto il pesante stile trattatistico dei futuri professori del Secondo Reich, può rileggere attentamente questo passo: nel quale il vivo processo linguistico eracliteo, costretto dalla meraviglia, dall’indignazione e dalla frustrazione all’invenzione di nuovi termini e di nuovi significati (in seguito all’urto con la contraddizione, con l’assurdo, col dolore), troverebbe invece nella filosofia, secondo l’hegeliano, il suo demiurgo infallibile e schietto, capace di guidare ogni passione verso il concetto. La lingua si trasforma in mille guise, certo – «ma proprio perciò» la filosofia vi assume una sua singolare posizione, svolgendo un ruolo di mediazione del fenomeno casuale. In realtà, questa filosofia che si pretende demiurgica è, in Eraclito, tutta quanta dentro la lingua come poesia – e la poesia tenta di diventare poi letteratura minima. In definitiva, non si può rimproverare allo Schleiermacher quello che fu proprio il suo merito: di avere portato nello studio del lascito eracliteo l’erudizione di una critica filologica ecumenica (diciamo così), la quale ebbe il suo corrispettivo nella critica storica d’indirizzo eclettico, o sincretico, di Georg Friedrich Creuzer.35 Mentre però lo Schleiermacher propugnò decisamente l’idea dell’indipendenza inventiva della speculazione eraclitea (con teorie desunte, secondo lui, dalla diretta osservazione della natura), al Creuzer, più che ad ogni altro, si deve invece l’origine della posizione critica favorevole a riconoscere un’origine orientale, asiatica, in quelle intuizioni. Lassalle assunse poi entrambe le posizioni, e a modo suo: un patrimonio così contraddittorio, misterico e fotistico, com’è quello delle culture cosmico-religiose mesopotamica persiana ed egizia, non fu utilizzato da Eraclito che «come materiale», o «sola forma sensibile», o «forma del tutto indifferente» per l’innalzamento della sua unica dottrina: quella del divenire, o della fluente unità di Essere e Non-essere. Eraclito avrebbe fatto insomma, pressappoco, ciò che «recentemente fece la vecchia scuola hegeliana con i dogmi e i misteri della religione cristiana, nei quali essa nascose i propri filosofemi».36 Oltre ai meriti antiquari, Lassalle riconosce a Schleiermacher anche d’aver saputo «sentire» (fühlen) il giusto ogni volta che (secondo lui) non era riuscito a veder bene. Ma vide bene, per esempio, quando si rifiutò di prendere in seria

35   Alle relazioni fra Schleiermacher e Creuzer sono dedicate le pagine più interessanti dell’esposizione di Giovanni Moretto nel Simposio Eracliteo di Chieti. 36   Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 61-62.

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considerazione la teoria della conflagrazione universale, o ekpúrōsis, e simili altre delizie della futura critica positivista.37 Io credo, come ho detto, che gli si possa rimproverare di non aver saputo elaborare dal lascito eracliteo forme del divenire distinte, ben definite, e sue proprie, desunte dal testo e dal pensiero, secondo un’interpretazione saggistica priva di preoccupazioni dottrinarie o pedagogiche. Questo difetto negli studi di un’intenzione o di uno spirito saggistico è stata, e rimane, la principale caratteristica della scienza accademica tedesca (al confronto, per esempio, con la francese e con l’americana); e gli ossequienti studi italiani vi si mostrano, per lo più, del tutto conformi. Quanto al difetto d’interesse analitico per le distinte forme del divenire, che lo Schleiermacher sembrò volere apprezzare, e che poi invece trascurò del tutto per riaffermare il vago significato della mistica coincidenza degli opposti, ho già detto che esso fu riassunto da Lassalle come un interesse per un divenire «indifferente», o della semplice linea retta. Un hegeliano di scuola avrebbe facilmente saputo colmare il vuoto con qualche schema triadico – ma Lassalle era troppo intelligente e prudente per andare al di là dell’insistente ripetizione di poche formule sicure. Solo, ciò che nell’insieme si presentava in Schleiermacher senza una forma schematica si doveva potere stabilire con sicurezza entro il disegno complessivo di un sistema saldissimamente concluso (den gesamten Umriß seines durchaus fest in sich geschlossenen System mit Sicherheit feststellen zu können).38 Nel trattato lassalliano questo sistema c’è – ma non è, né può essere, l’eracliteo, bensì lo hegeliano. E si può anche ammettere che la sovrapposizione ideologica trovi spazio in un vuoto – ma non si tratta di un vuoto eracliteo, bensì di una malcollocata pretesa altrui. Per mostrarlo a sufficienza basteranno poche parole. Con un discorso alquanto malcondotto, com’è in genere nel suo stile, nella Fisica (I, 2) Aristotele fa notare come la dottrina eraclitea si possa perdere facilmente nel nulla, approdando non già alla concezione dell’essere come unità dei contrari, bensì alla semplice non esistenza di alcunché: Se tutte le cose sono un uno per il discorso , come ‘vestito’ e ‘mantello’, capita di proferire per esse la dottrina di Eraclito: infatti, sarà possibile che abbiano lo stesso discorso il bene e il male, ossia il non-bene e il bene; per cui il bene e il nonbene, l’uomo e il cavallo [?], saranno la stessa cosa, e la dottrina non riguarderà l’essere le cose un uno, bensì [l’essere tutte le cose] il niente, e identico l’essere di questa qualità e di questa quantità [?].39   Ivi, pp. 50-51.   Lassalle, Die philosophie Herakleitos, p. 44. 39   Aristotele, Fisica, a cura di Marcello Zanatta, UTET, Torino 1999, p. 137. 37 38

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   41

Questa, del possibile nulla conseguente dalla dottrina eraclitea, sembrò a Schleiermacher una conclusione alquanto sorprendente. Ma no, replica Lassalle: si tratta piuttosto di una conseguenza opposta al suo pensiero, verso la quale Platone e Aristotele sospinsero la dottrina eraclitea; e la conseguenza fu tratta non da lui stesso, bensì dai «sofisti eraclitei» che la svilupparono positivamente già «all’interno della sua propria scuola [?]».40 Noi possiamo ben credere le cose siano andate così, e che l’Eraclito tràdito sia stato tradìto – se non che Lassalle avverte che simile conseguenza nichilista fu «dialetticamente sviluppata proprio dal suo [di Eraclito] sistema [doch aus seinem System dialektisch entwickelte Konsequenz]»! Così, in un preteso difensore del vero pensiero di Eraclito noi troviamo la scuola, troviamo il sistema, e troviamo pure, immancabile, la dialettica del difensore medesimo. *** Inutile insistere, mi pare. L’alquanto amorfa, antiquaria, presentazione schleiermachiana del lascito eracliteo è senz’altro preferibile all’inquadramento hegeliano di Lassalle, che chiude un po’ tutte le strade. È del resto possibile estrarre sommariamente dal lascito una serie di forme schematiche, che tanto lo Schleiermacher che il Lassalle, per ragioni opposte, non ne seppero o vollero cavare. Lo studio dei frammenti mi sembra permettere di ricostruire almeno nove schemi logici, distinti in due gruppi principali, che desidero elencare fin d’ora, a mo’ d’introduzione anche di qualcuno dei contenuti, oltre che dei criteri editoriali, di questo riordino. Nella logica dei pensieri si possono trovare schemi di sviluppo aperto o chiuso. Lo sviluppo è aperto, per esempio, in DK 59 (la vite della gualchiera) e DK 88 (i giovani decadono nei vecchi, che a loro volta si dissolvono). Lo schema aperto diventa aleatorio in DK 6 (il sole nuovo ogni giorno); e diventa casuale e combinatorio in DK 52 (il tempo è un bimbo che gioca agli scacchi). Lo schema è chiuso, per esempio, in DK 103 (principio e fine sul circolo). Lo schema chiuso diventa sviluppo a doppio senso o reversibile, per esempio, in DK 60 (la via in su in giù è una e la stessa) e in altri pensieri di fisica elementare; diventa sviluppo scisso o alternativo in DK 61 (l’acqua del mare vitale ai pesci e fatale agli uomini); sviluppo centrico, o a denominatore comune, in DK 90 (tutto in cambio del fuoco, e le merci dell’oro); sviluppo ciclico, come in DK 100 (le

  Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 53-54.

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stagioni portano tutto) e in DK 36 (le anime diventano acqua, l’acqua terra, la terra di nuovo acqua, e l’acqua di nuovo anime); e infine sviluppo pulsante o anentropico, come in DK 30 (l’universo che si accende e si spegne) o in DK 126 e DK 91b. Sarà appena necessario ricordare che non si devono confondere questi schemi logici con gli schemi o figure retoriche (della metafora o dell’analogia, per esempio) – a meno che non si voglia affermare che la pretesa logica e fisica, oltre che metafisica, si riduce senz’altro, in definitiva, a nient’altro che linguaggio. A conti fatti, si nota immediatamente che gli schemi suggeriti da un istinto o da un’attrazione verso la stabilità, la misura e la finitezza di un orizzonte chiuso (com’è quello della città; e che dunque tendono a fare dell’universo una città cosmica) prevalgono decisamente sugli schemi di vaga apertura verso un divenire infinito o almeno indefinito. E il numero delle specificazioni concrete dei primi, soprattutto, rispetto alle enunciazioni del tutto generiche dei secondi parla chiaro, mi pare. I due gruppi di schemi, aperti e chiusi, si possono riassumere, rispettivamente, nell’immagine del flusso e nella nozione di rapporto. La prima, quella del flusso, non ha quasi bisogno di rappresentazioni, dal momento che è resa facilmente visibile con la fortunata immagine del fiume. Il rapporto è invece una pura nozione del tutto astratta – ed Eraclito ricorre allora ad un’altra immagine, a quella del conflitto permanente: la quale può servire tanto bene a rappresentare la stabilità del rapporto quanto, anche, la variabilità del flusso. Una specie di sintesi generale, insomma. Il fuoco, poi, non è che l’equivalente sostanziale del conflitto, perfettamente adatto allo scopo di darsi un’identità tra i filosofi della Ionia. Ora, una sensibilità ‘romantica’, sebbene filologicamente agguerrita (nessun filologo è privo di preferenze: le sa soltanto nascondere meglio!) – una sensibilità ‘romantica’, dunque, non poteva avere esitazioni nel prediligere l’idea del flusso universale, o della perenne permutazione delle forme. Quest’idea del cosiddetto pánta reĩ di Eraclito, che dopo Schleiermacher è ritornata in gran voga nel Novecento grazie soprattutto a Bruno Snell, è una favola di origine sofistica trasformata in un equivoco: Ippia, contemporaneo di Cratilo, la mise in voga sul finire del quinto secolo trattando non già di Eraclito, bensì di Talete, allo scopo di far dire anche ad Eraclito, coi suoi fiumi, pressappoco quello che faceva dire a Talete: e cioè che l’acqua è l’origine delle cose. Platone conobbe il libro di Ippia (un centone), e prese la cosa con una certa sufficienza – ma ad ogni modo scambiò Talete con Eraclito, sotto la perdurante suggestione delle proprie origini ideologiche cratilee. Aristotele rese poi definitivo l’equivoco – polemicamente aggravandolo, per giunta, col fare dell’acqua non

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   43

soltanto un principio originario, bensì anche una sostanza, secondo criteri di giudizio interamente suoi propri.41 In conclusione, è facile vedere come lo stato assai disperso in cui ci è stato tramandato il lascito eracliteo sia aggravato dalla varietà delle forme in cui si presentano anche i pensieri apparentemente dotati di una maggiore omogeneità di contenuto. La storia della critica vi aggiunge le sue forti e ricorrenti predilezioni nel prendere una qualche parte per il tutto. Ma non è impossibile (come poc’anzi si è visto sommariamente per i frammenti tecnici, fisici o cosmologici) trovare criteri di raggruppamento relativamente semplici e poco numerosi. Ciò rende possibile affrontare l’impresa del raggruppamento monotematico dell’insieme di tutti quanti i frammenti. Tornando dunque a parlare delle scelte editoriali, dirò che tra i criteri di elencazione dei frammenti che ho più sopra menzionato il migliore resta, a mio giudizio, il terzo (un’unica elencazione, con partizioni, secondo una libera interpretazione): il quale unisce i pregi del primo e del secondo criterio (ordine dei testimoni, e liberi gruppi tematici). Ma esso deve venire integrato dal giudizio biografico: perché una volta stabiliti i capisaldi principali di uno svolgimento biografico piuttosto che teorico (mediante la scelta del primo pensiero e di pochi pensieri di svolta), è relativamente semplice, poi, ordinare la sparsa materia dei frammenti secondo la successione corrispondente ad un immaginario ‘discorso’ o lógos indirizzato all’attività pratica.42 La linea di svolgimento generale che ho prescelto per questa traduzione e interpretazione non è di prevalente carattere teorico, dunque, bensì biografico, per le ragioni che ho detto e che verrò ancora illustrando. Nel lascito eracliteo non mancano, del resto, le più vistose contraddizioni: le quali lasciano facilmente capire che Eraclito ritornò almeno due volte sui suoi pensieri, modificando sensibilmente precedenti affermazioni, ovvero mitigandole nel senso, per esempio, di cavarne il contenuto moralistico. Il cambiamento di tono e d’interlocutore è spesso evidente in numerosi frammenti. Mi sembra poi anche importante che, all’interno di quest’arco di svolgimento principale, i criteri secondari di suddivisione tematica debbano essere

41   Ciò si trova esposto in modo molto convincente da Iaap Mansfeld, Cratylus 402 a-c: Plato or Hippias?, in SH, I, pp. 43-55. 42   Il significato della parola lógos è stato molto discusso – inutile riparlarne. In Esiste una dottrina del Lógos in Eraclito? Thomas More Robinson ne elenca sommariamente le più comuni accezioni (discorso, struttura, verità, legge, significato), distinguendo le asserzioni predicative, che danno un giudizio sulla cosa, dalle asserzioni d’identità, che dicono cos’è in verità quella cosa (SH, I, pp. 65-72). Nell’ultimo sottotitolo di questa Introduzione dirò come nella seconda parte della sua vita il significato di ‘legge’ tenda a scomparire dal suo pensiero, a favore d’altri princìpi normativi.

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pochi, e dei più semplici – così che l’opposto di questa posizione, insomma, può considerarsi l’edizione assai tecnica di Marcovich: la quale somma all’abituale disinteresse biografico della critica anche una forte frammentazione dei raggruppamenti teorici. E poiché non è di una nuova edizione dei frammenti che qui si tratta, bensì semplicemente di una traduzione e di un’interpretazione (come del resto avverrebbe comunemente con un qualsiasi altro autore), conservo la numerazione Diels – Kranz per ragioni di comodità nei confronti. Alla numerazione DK segue la numerazione DS dell’edizione Diano – Serra, che è fra le più diffuse in Italia, e la numerazione C della proposta di lettura di Antonio Capizzi. un moralista politico Alla proposta di Capizzi il presente studio si avvicina sotto il profilo principale, che fa di Eraclito, innanzitutto, un moralista politico. Secondo Vittorio Mathieu (che la chiama, non si sa perché, sociologica), la lettura biograficopolitica qui prescelta avrebbe «a lungo ammorbato il nostro secolo» – sebbene essa abbia il suo autorevole capostipite nella testimonianza del grammatico Diodoto, il quale affermò l’interesse principale di Eraclito non essere stato la natura, bensì la politica (perì politeías). Non so come il Mathieu possa giustificare la sua affermazione – e infatti non la giustifica. Non mi sembra affatto che studi del genere siano prevalsi nella letteratura, tanto da ammorbarla: basta leggere, per esempio, i contributi al Simposio Eracliteo di Chieti del 1981, che di un eurismo biografico della critica recano ben poche tracce.43 E tra questi contributi, per l’appunto, non so neppure spiegarmi, d’altra parte, come si possa indebolire la testimonianza di Diodoto, dopo averla messa in rilievo, facendo della sua «politica», o interesse per la cosa pubblica, un’antropologia senz’altro.44 La cosa si può spiegare soltanto con un persistente sforzo degli studiosi, tendente a moderare questo interesse per la politica: ragion per cui essa viene in qualche modo accordata con la fisica attraverso la ‘natura’ umana – come se ce ne fosse bisogno. La fisica elementare o cosmologica di Eraclito è politica metaforica o analogica o induttiva, nel senso che

43   Mathieu, Eraclito, p. 4. Nella nota 4 di p. 71 egli fa un semplice riferimento alle radici «in senso lato ‘politiche’» del carattere scorbutico di Eraclito, come esse sono messe in risalto da Remo Bodei e da Marcel Detienne in due interviste contenute nella videocassetta allegata al volume. La terza intervista è rilasciata da Georg Gadamer. 44   Lambros Couloubaritsis, Prolégomènes à l’anthropologie de Héraclite, in SH, I, pp. 121-128.

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deve presupporre in qualche modo l’esperienza cittadina e l’antropologia. Ma la riconduzione del pensiero dalla fisica elementare e dalla cosmologia alla città e all’antropologia, senza mezzi termini, in Eraclito non esiste affatto: altrimenti egli avrebbe descritto in qualche suo pensiero una natura umana e una città soggette al medesimo ciclo di elementi fisiologici e di fazioni municipali. Idee simili compaiono nel pensiero dei naturalisti politici come Machiavelli, ma non in Eraclito; e questa è la ragione per cui ho interpretato in senso tecnico, riferendolo alla tessitura e non alla politica, il frammento DK 60 sulla via in su e in giù (che altrimenti non significa niente; e bisogna pur avere il coraggio di dirlo). L’interesse antropologico in lui esiste certamente, e fa da tramite all’interesse cosmologico – ma, per l’appunto, non fa che da tramite in una sola direzione. Ma non voglio insistere su cose già dette. D’altra parte, l’intuizione dell’uomo come di una città bisognosa di governo non assume in alcun modo una consistenza sufficiente per affermare che in Eraclito l’interesse per la politica si riduce all’interesse per l’antropologia – in modo da ridurre poi quest’ultima al consueto moralismo (che è il vero scopo dei riduzionisti antipolitici e antibiografi). È vero il contrario: è vero che egli ad un certo punto dovette riconoscere che l’uomo è così com’è in seguito all’esperienza fallita della propaganda sulla legge e sul governo. Una delle ragioni del suo fallimento consiste nell’incapacità del suo pensiero di soffermarsi abbastanza a lungo su alcunché non avesse attinenza con i suoi scopi pratici: non appena trovato un sufficiente numero di formule, egli abbandonava il problema, o lo riformulava su altri piani. In questo suo intelletto abile e girovago c’è un po’ già la presunzione del capostipite dei filosofi di professione, almanaccanti senza disporre di vero mestiere o competenza – ma a veder bene c’è anche la modestia di chi dovette riconoscere, almeno una volta, di trovarsi di fronte al problema insolubile dell’umana indole, che non cambia. Oltre la metà dei pensieri superstiti di Eraclito dipende, in un modo o nell’altro, da questo riconoscimento. E noi, allora, possiamo anche fare dell’antropologia il ‘perno’ del riordino del suo lascito – ma il ‘perno’ non è che un punto: basta intendersi, poi, sull’estensione e sul peso della svolta. La lettura prescelta in questo studio, dunque, è principalmente politica e biografica. A dispetto della sua scelta di solitudine, Eraclito fu un uomo di città, e della sua città. Fu un intellettuale cittadino, come del resto non poteva non essere. Il suo pensiero nasce morale e politico, e va interpretato innanzitutto sotto questa luce. La sua sdegnosa solitudine va giudicata sulla misura della corruzione o dell’inettitudine cittadine, e l’albagia che gli sarebbe stata connaturata trova comunque una smentita nella sua premurosa disponibilità a stabilire un dialogo con gente alquanto più umile (non si deve dimenticare

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che egli fu sacerdote di una divinità non propriamente olimpica; in questo senso si può parlare semmai, sotto un importante profilo secondario, di lettura ‘sociale’). Eraclito non fu uomo impegnato in una dotta discussione a distanza con dei corrispondenti italioti o ionici, come volle la maggior parte degli studiosi di quell’epoca che, per più generazioni, vide gareggiare l’idealismo col positivismo sul terreno di un comune pregiudizio accademico. Durante le meditazioni del suo ritiro nella solitudine del tempio (più probabilmente), o dell’eremitaggio (meno probabilmente), egli sarà stato informato dei risultati di speculazioni naturalistiche che erano sempre state lontane dai suoi veri interessi e dai suoi umori. Il bisogno di evasione dalla vita cittadina in questo esilio mentale delle dotte stravaganze, oltre alla curiosità intellettuale, può avergli suggerito l’idea di elaborare a modo suo, più astrattamente, dottrine e ricerche che in realtà non gli appartenevano. Simili speculazioni gli potevano per giunta offrire materiali utili per il suo insegnamento – ma non molto di più. E peggio ancora, poi, se è vero che s’inventò tutto da solo: come volle, per esempio, lo Schleiermacher sulla scorta di quegli antichi, come Filone Alessandrino, che fecero di Eraclito, senz’altro, nientemeno che un inventore.45 Schleiermacher cita in nota, per giunta, l’opinione di Georg Friedrich Creuzer, il quale fece di questo ‘inventare’ qualcosa di più plausibile: la filosofia della natura di Eraclito non derivò dalla diretta osservazione della natura, bensì da una sorta di divulgazione della simbologia del culto di Artemide di cui era, o era stato, ministro. Il Creuzer era particolarmente incline, diciamo così, al sincretismo storico-critico, sempre ben disposto ad ammettere la possibilità di scambi e di contaminazioni. Ma nessuno può negare, mi sembra (e così fa lo stesso Schleiermacher), che nei frammenti eraclitei non si trovi la minima traccia di teologia cólta, se non per allusioni le più generiche.46 Insomma: egli, che parlò di morale in termini del tutto espliciti, e che parlò di leggi e di politica in termini per lo più perifrastici o figurati, avrebbe forse preferito parlare di religione in termini ancora più criptici, vale a dire naturalistici? Ciò potrebbe anche essere ammissibile, qualora noi giudicassimo inconcussa la sua fiducia nell’efficacia pedagogica della religione – ma così non sembra: perché non si spiegherebbe, se no, quella sua veemenza dei biasimi e delle esortazioni che è tipica, piuttosto, di un uomo che deve constatare la propria impotenza professionale. A che scopo, dunque, sforzarsi di tradurla in altri termini, facendone la difficile espressione fisica e metafisica di posizioni non più sostenibili?   Schleiermacher, Herakleitos, p. 122.   Ivi, p. 131.

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*** Restiamo dunque all’evidenza. E questa ci mostra senza ombra di dubbio che l’oscurità del linguaggio su terreni a lui poco familiari non esiste affatto, invece, sui temi che più gli stavano a cuore. Quando tratta di moralità privata, Eraclito sa parlare in modo del tutto chiaro di asini e di maiali. L’oscurità è moderata quando ingredisce la sfera pubblica, religiosa e politica – un terreno, questo, sul quale egli volle o dovette riguardarsi. La testimonianza di Diogene Laerzio sul suo disdegno, che gli avrebbe senz’altro fatto rifiutare il ruolo di legislatore in una città ormai troppo corrotta, rende inspiegabile il contenuto di troppi frammenti della massima importanza, e non ammette che egli abbia potuto anche fare, almeno per un certo tempo, da patrocinatore di una riforma. Del resto, Diogene Laerzio non menziona neppure il suo rango sacerdotale. Poiché questa sua proverbiale oscurità non esiste per nulla nei frammenti polemici e parenetici, del biasimo e dell’esortazione morale, che sono talvolta di una chiarezza persino brutale, è chiaro che l’oscurità e la brevità reticente sui terreni fisico e metafisico devono corrispondere ad altra cosa. Esse furono una cosmesi, e quasi una necessità, allo scopo di nascondere la mancanza di originalità o la derivazione, la commistione e la contaminazione, l’estrapolazione e l’induzione (in Eraclito non si trova una sola deduzione!), o persino l’eclettismo degli argomenti con la fissazione della ricerca dell’unità in una materia che sfugge – in definitiva: oscurità e brevità furono il dilettantismo dell’avventizio, che si esercitava sulla base di dottrine altrui, malamente conosciute. Ad un chiaro accesso a queste dottrine gli doveva fare impedimento la natura umorale, turbata dal pregiudizio moralistico e politico, o dal senso civico dell’ordine – tanto, che Pitagora e i suoi pericolosi sovversivi settari non furono da lui trattati molto meglio di Omero. Intellettuali vissuti in epoche successive, anche assai lontane (in età alessandrina e post-alessandrina, imperiale specialmente), che nulla più, o ben poco, potevano comprendere della vita cittadina ormai disfatta, non furono neppure in grado, per conseguenza, d’interpretare il pensiero eracliteo alla luce di questo assunto fondamentale e indispensabile per capirlo. Platone ancora ne trasse unicamente ciò che gli serviva: il succo teorico della tendenza, o i radicali liberi del pensiero, per così dire, senza minimamente curarsi di restituirne l’intero profilo, bensì trattandolo per assunti logicamente occasionali. Aristotele e la dossografia teofrastea fecero il resto: così che non riuscendo più a capire l’uomo e il suo pensiero immersi nella situazione cittadina, si cominciò a volerne ricostruire la dottrina scientifica. Il costume accademico ha ot-

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tenuto il suo prevedibile successo attraverso lo spazio di due dozzine di secoli. In età positivistica, specialmente, i virtuosismi circa la possibile congruenza dottrinale del supposto fisico, metafisico, cosmologo, meteorologo, fisiologo e psicologo, logico e ontologo, epistemologo, iniziato iniziante, e quant’altro ancora (scambiato talvolta nelle testimonianze antiche, per giunta, con Eraclide Pontico o addirittura con Eracle,47 così come l’amico Ermodoro potè essere, all’occasione, un Ermocrate) – simili cimenti, dunque, hanno fatto la delizia degl’interpreti in ponderosi volumi di congetture e di dotte discussioni e polemiche sopra non più di un centinaio di ricordanze significative, e anche meno, raccolte talvolta in meno di una dozzina di pagine. E c’è chi nota giustamente che fra le circa duecento righe del lascito eracliteo solo ventisette hanno un possibile contenuto cosmologico – e non sempre sicuro.48 E con la dottrina dovevano anche arrivare, inevitabili, i campioni delle scuole: con la contrapposizione di Eraclito a Parmenide, per esempio, e gli annessi quesiti di cronologia intesi a stabilire quelle precedenze che sono indispensabili per fare la storia delle dottrine, e per credere nel progresso della Storia della Filosofia. Tutti esercizi assai utili – ma nient’altro che esercizi di plausibilità delle ipotesi più virtuosistiche; i quali andavano pur fatti, e che comunque sono stati fatti, e il cui risultato non giova, per lo più, che a conoscere la storia degl’intellettuali attraverso le diagnosi da essi medesimi effettuate sui loro per lo più malcapitati pazienti. «I medici tagliano e bruciano» – appunto. Assurdità o paradossi, bizzarrie e stravaganze del solitario non poterono che alimentare la sua leggenda, non senza la curiosità un po’ malevola dei mediocri: i quali dovettero notare che la vita di Eraclito era stata, per l’appunto, tutta quanta una contraddizione. Se non altro, perché riconobbe il ruolo universale della contraddizione, e però non la seppe mai tollerare; perché predicò il divenire, ma visse nella fermezza; perché si amareggiò nell’educare gente che apertamente disprezzava; perché pretese di fustigare i poeti nazionali cimentandosi come poeta dilettante, e di bandire i dotti politecnici presumendo, lui

47   Vedi, per esempio, nel secondo volume Diels – Kranz l’illustrazione di una moneta che ritrae Eraclito d’Efeso impugnante nella mano sinistra (o destra, se la riproduzione è fatta a specchio) una clava (Hermann Diels e Walther Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin Zürich 1966, p. 3). 48   Conrado Eggers Lan, Ethical-religious meaning of fr. 30 D.-K., in SH, I, p. 292. Il numero dei frammenti, che di solito non raggiunge i centotrenta, varia, com’è noto, secondo l’attribuzione e lo scorporo dalle testimonianze. Almeno una ventina di essi hanno scarso peso, o sono d’incertissima attribuzione e significato. Pur con tutti gli eccessi dovuti ad una formazione culturale di origine positivistica, o all’enfasi su temi naturalistici di moda, il meglio di quanto è stato prodotto negli studi eraclitei novecenteschi meno recenti è stato esposto, in Italia, da Rodolfo Mondolfo e da Leonardo Tarán. Temo invece che con un Marcovich rifugiato sotto l’egida di Heidegger un novello, ingenuo Teofrasto abbia trovato il suo nuovo oscuro Aristotele (v. nel Diario il commento a DK 93).

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   49

solo, un po’ tutto sapere; perché il corpo che aveva duramente castigato si prese infine la sua rivincita, cagionandogli una morte triste, forse persino crudele, e comunque indegna d’una qualsiasi trasformazione ch’egli stesso potesse aver previsto e predicato. Ma quei suoi critici curiosi, e un poco forse anche compiaciuti, non notarono ciò che più conta, per noi: che la sua vita fu in verità, nell’insieme, tutta quanta una tragedia. E non fu una tragedia per queste sue contraddizioni soltanto, bensì proprio perché Eraclito, nella sua crisi di rinuncia e di afasia, non seppe diventare un drammaturgo tragico, portando la sua lezione pedagogica davanti al popolo riunito in teatro grazie alla dote di un vero talento poetico, che gli mancò. E io mi azzardo a credere che la filosofia speculativa, se anche non vuole confessare la sua natura di genere letterario, debba però almeno ammettere di nascere da un difetto di talento letterario, il quale induce a concepire l’ideale sensibile soltanto in quanto è un ideale, e non in quanto è anche sensibile. L’ideale non ammette di subire trasformazioni, se non nella fenomenologia storica, che è la sua sensibilità involontaria, mentre il sensibile dell’ideale ritorna, e resta uguale a se stesso nelle trasformazioni. Nella storia del pensiero Eraclito si colloca all’origine dell’alternativa, e la risolve, per lo più, a favore della sensibilità. un uomo frustrato Un Eraclito tradìto da un Eraclito tràdito, dunque? Sì, in buona parte – ma non basta. Un Eraclito che bisogna, e che basterebbe, rimettere dentro Efeso, e poi restaurare e riordinare soltanto, per capirne il pensiero? No – questa conclusione è troppo semplice: perché egli stesso contribuì, con uno stile che non fu privo di vanità, ad alimentare la propria leggenda, mentre buona parte di quanto resta, o si è perduto, del suo pensiero sfida anche l’ottimo assunto di un’interpretazione che vedesse in lui soltanto l’animale politico. La polemica cittadina in Eraclito non è tutto: sostenerlo è impossibile. Bisogna perciò ammettere degli svolgimenti. E bisogna che questi svolgimenti siano pochi, semplici e plausibili. L’interpretazione di Antonio Capizzi, dunque, ha i suoi meriti – ma non basta. E siccome non basta, Capizzi esagera – anche per omissione. Nel suo ottimo contributo al Simposio Eracliteo di Chieti egli è costretto ad ignorare la solitudine di Eraclito, e il suo auto-esilio, nonché le manifeste contraddizioni tra i suoi pensieri.49 Che il lógos eracliteo, com’egli sostiene, abbia po  Antonio Capizzi, Il mito paradigmatico da Omero ad Eraclito, in SH, I, pp. 315-328.

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tuto essere una legge scritta, e scritta magari dal suo amico Ermodoro, con la collaborazione forse persino di Eraclito stesso, è una brillante ipotesi, che può trovare conferma in alcuni frammenti, e che può aiutare a spiegare il significato di altri ancora. Ma non basta per tutti. Che quella legge scritta possa essere la nuova costituzione cittadina, concepita e redatta dopo la conquista insurrezionale dell’indipendenza ionica, oppure dopo l’elargizione dell’autonomia da parte di un Mardonio in cerca di uomini e di quattrini per l’impresa di Grecia,50 è possibile – ma non vedo come si possa interpretare lo scritto di Eraclito come un commento a quella costituzione, che dovette risultare indecifrabile e incomprensibile ai barbari ospiti, o alle anime barbare dei suoi concittadini, non avvezzi ad essere governati da leggi. «Alla ‘barbarie’ delle anime Eraclito, nel prologo del suo scritto, offre lo scritto stesso come rimedio: in esso infatti egli “spiega quel tipo di parole e di azioni (che quelle persone non comprendono), distinguendo ciascuna di esse secondo la sua natura e dicendo com’è” [DK 1]; si comporta cioè (rimanendo nella metafora delle ‘anime barbare’) come fa l’interprete, che traduce il discorso in un linguaggio che lo straniero possa comprendere».51 Ma così, oltre a fare di Eraclito una specie di giurista (dopo avere rettamente negato che sia stato un filosofo impegnato in speculazioni accademiche), lo si fa parlare non più di un solo lógos, bensì di due: la legge scritta, e il commento scritto contenuto nel suo libro. La lettura dei frammenti non ammette che le due cose possano stare pacificamente insieme nel medesimo pensiero; e infatti è lo stesso Capizzi a ribattere agl’interpreti, i quali parlano di due lógos (‘la ragione’ universale, e ‘lo scritto’ eracliteo), che, «partendo da questa ipotesi, il presunto doppio significato si manifesterebbe anche all’interno di uno stesso frammento, il primo [DK 1]», il quale diventa così semplicemente incomprensibile – «a meno che … non si spinga l’ambiguità arcaica del linguaggio presente in Eraclito fino a fargli usare la stessa parola in due sensi radicalmente diversi all’interno di una stessa frase»; il che sembra sorpassare ogni credibilità.52 È una perplessità legittima, questa, ma non per ragioni di credibilità: nella stessa frase Eraclito potrebbe anche avere usato una stessa parola in due significati diversi – solo che, per superare simili difficoltà, non si può ricorrere all’espediente di menzionare un’ambiguità semantica che sa-

  Erodoto, VI, 43.   Capizzi, Eraclito, p. 33. 52   Ivi, p. 35. Capizzi riconosce il suo debito verso un’analoga osservazione di Kirk; ma rinuncio d’ora in poi a menzionare di continuo, a mia volta, simili riferimenti, per non trasformare queste note in una cattiva e non richiesta storia della critica. 50 51

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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze   51

rebbe tipica di linguaggi arcaici. È una vecchia scappatoia, questa della lingua ‘arcaica’ e del mondo ‘arcaico’. Quando viene il momento, nessuno sa ben dire che cosa mai sia.53 Non si può dunque escludere affatto che il significato di lógos, almeno in DK 1, possa anche essere uno solo. E il fatto che i lógos siano due, ma non siano quelli (la Ragione Universale degli stoici, e il libro eracliteo), bensì altri (cioè la legge scritta cittadina, e il suo commento nel libro eracliteo), lascia il problema esattamente com’è. Le due cose non si possono ridurre a una sola (Capizzi: la costituzione; Diano: il libro). Il lógos di DK 1 è ‘legge scritta’ in entrambi i casi – ma non può essere la stessa ‘legge’, ossia la costituzione: perché è difficile credere che nel consegnare le sue riflessioni ad un libro Eraclito abbia lamentato soltanto l’incomprensione per la legge cittadina: quella medesima, cioè, che da lui stesso, autore o almeno collaboratore, era forse stata concepita o redatta; e che era stata poi esposta per essere letta da chi sapeva leggere, e da lui stesso spiegata a chi non la sapeva leggere. È difficile credere che, con l’indifferenza del pubblico nei confronti della legge scritta, egli non lamentasse anche l’insofferenza per la sua predicazione. È il suo impegno, che i cittadini non capivano. Prima di essere scritto, il contenuto del suo libro (o meglio: parte di esso) era stato a lungo e inutilmente proclamato, perorato, propugnato. Il discorso scritto e orale, al termine di un’esperienza fallita, doveva ormai fare tutt’uno, per lui. E riesce dunque anche difficile credere che per risolverlo basti attribuire alla parola lógos un unico significato, quello di ‘discorso’ – il discorso, cioè, del libro eracliteo sulla legge: come fa Diano, che vorrebbe liberarsi del problema una volta per tutte con quella che è, in definitiva, una cosmesi terminologica e un altro vecchio espediente. Il quadro storico che abbiamo delineato, e a cui, per i problemi che involge, abbiamo dovuto dare una certa ampiezza, mentre conferma, per le parti di questo frammento da noi considerate, l’interpretazione che già la grammatica valeva a rendere certa, e segna i limiti semantici entro i quali ogni discorso su Eraclito va tenuto, ci permette di escludere sin da ora, e per le parti di questo frammento che ancora rimangono da esaminare, e per gli altri frammenti nei quali lógos è attestato, ogni interpretazione che vada al di là dei valori che il

53   È la risposta di Carlo Diano a chi aveva notato il problema del doppio significato di lógos in DK 1 prima di lui, risolvendolo con un riferimento alla cosiddetta ‘mentalità arcaica’ (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e di Giuseppe Serra, Fondazione Valla – Mondadori, Milano 1980, p. 102 nota 1). Nel commento ai primi quattordici frammenti della sua raccolta Diano si sofferma sul problema, diciamo così, della coabitazione dei due significati di lógos in DK 1, giudicandola egli pure inammissibile. Ma il suo studio, interrotto nel 1974, non fu completato e pubblicato che nel 1980, per opera di Giuseppe Serra. Capizzi, che aveva già pubblicato il suo libro l’anno prima, non lo poteva conoscere, almeno pubblicamente.

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vocabolo al tempo di Eraclito aveva raggiunti. Cadono così di colpo tutte le interpretazioni – e sono del maggior numero – … più o meno influenzate dalla tradizione stoica.54

Così mi sembra però che il rifugio nella ‘mentalità arcaica’, già respinto, venga soltanto cercato da un’altra parte: nel significato del vocabolo «al tempo di Eraclito», passando soltanto da una dotta antropologia a una dotta storia della lingua, che si presume garantire dei risultati sicuri.55 È lo stesso Diano a segnalare l’importanza del ruolo che la sineddoche, fin dal tempo di Anassagora, ebbe nell’evoluzione storica della parola lógos.56 Appunto: due significati, più largo e più stretto, possono stare uniti in una sola parola per sineddoche – e allora bisogna ammettere che Eraclito conoscesse già qualcuno degli espedienti della retorica. Quanto poi alle certezze grammaticali, mi permetto di trovare poco convincente l’interpretazione del dé iniziale, attestato da Ippolito.57 Non perché esso non sia originario – al contrario: è chiaro che il libro non poteva cominciare con le precise parole di DK 1. Ma non vedo come questo importantissimo frammento, così denso, oltre che d’acrimonia e d’amarezza, anche di riferimenti impliciti, indirizzati ad un lettore già preparato ad intenderli, potesse venire subito dopo il sigillo d’esordio. Non è con la sfragís che si lega il dé. Quando poi Diano interpreta toũ dè lógou toũd’eóntos come un genitivo assoluto,58 mi pare che abbia ragione – ma poi bisognerebbe ritrovarlo nella sua versione italiana; la quale invece, senza conferire al testo alcun particolare rilievo, lo rende semplicemente con le parole: «Non intendono gli uomini questo Discorso che è sempre». E la maiuscolazione della parola ‘discorso’ mi sembra, di passaggio, un espediente per tornare a barcamenarsi con gli stoici, dopo avere risolutamente bandita una volta per tutte la loro Ragione, la loro Legge, il Cosmo, il Fato e Dio.59 È strano infine che, dopo avere dedicato al commento di DK 1 decine di pagine, un uomo così attento si sia lasciato sfug  Diano-Serra, Frammenti e testimonianze, pp. 100-101.   Una certa frequentazione dei filologi specialisti insegna presto ad apprezzare quel che valgano davvero i riferimenti all’uso comune di una parola «al tempo di» (e perché non anche “dove”?). Nel muovere sue obiezioni allo Zeller il Marcovich, per esempio, osserva che nessuna delle tre coppie di verbi in DK 91 b (“si dissolve e si addensa, si costituisce e si disperde, si avvicina e si allontana”) può essere eraclitea, bensì di origine o derivazione scettica (Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 36 nota 43). Al tempo e al luogo si aggiungono così i gerghi delle scuole – non diversamente da quanto si fa ancora al giorno d’oggi, del resto. Diels ha sottolineato come il gusto per l’oscurità del linguaggio, per esempio, fosse una caratteristica dell’epoca, che si ritrova in Pindaro e in Eschilo (ivi, p. 27 nota 24). Il riferimento ad un ipotetico usus scribendi fa da archetipo della lingua, non diversamente da quanto avviene nella recensione dei codici. 56   Diano-Serra, Frammenti e testimonianze, p. 100. 57   Ivi, pp. 89-90. 58   Ivi, p. 104. 59   Ivi, p. 100. 54 55

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gire nella traduzione lo állous della proposizione conclusiva, col quale Eraclito designa una terza categoria di cittadini o di abitanti. La credibilità della lunga e ormai (passate le mode) poco convincente analisi strutturalista della sintassi del frammento, che ne vuol fare a tutti i costi un microcosmo contenente in nuce l’intera dottrina,60 non può che uscire gravemente pregiudicata da una simile omissione. Con le ultime parole di questo frammento Eraclito allude infatti ad «altri», come se fossero ben noti al lettore, e come se persino li avesse già menzionati. È un’altra prova che il frammento DK 1, a dispetto di Aristotele, non poteva trovarsi in apertura del ‘discorso’. E poiché egli menziona distintamente chi sa leggere e non sa interpretare, e chi non sa leggere né intendere la sua spiegazione, è possibile che egli abbia riservato la sua ultima sdegnosa allusione proprio ai cittadini del suo rango. Non è verosimile, infatti, che Eraclito si sia dato a spiegare il ‘discorso’ a chi già doveva conoscerlo perfettamente – se non altro, per averlo osteggiato (nel caso della legge scritta), o per averne conversato e discusso privatamente con lui, trovandolo indisponente o astruso (nei casi, rispettivamente, del biasimo e dell’esortazione, oppure della dottrina). Noi possiamo dunque supporre che nel frammento DK 1 Eraclito lamenti non una, bensì due frustrazioni della sua volontà: una frustrazione attuale, dichiarata, venendo a contatto con gente diversa dalle sue frequentazioni abituali, alla quale egli dovette rassegnarsi a rivolgersi dopo avere patito una frustrazione pregressa in compagnia di gente del suo medesimo rango – il ceto dei nobili o dei notabili cittadini. In piena sintonia con le sue successive simpatie politiche filo-tiranniche, il suo ‘discorso’ rappresentò dunque, in qualche modo, un appello demagogico al popolo. Ma per esercitare questa demagogia pedagogica egli dovette infine accorgersi di non possedere strumenti letterari adeguati. A nient’altro che all’incapacità di farsi tribuno e persino poeta, e anzi ormai, considerati i tempi, a nient’altro che all’incapacità di farsi drammaturgo e di portare il popolo a teatro – a nient’altro che a questo, dunque, si deve in ultima analisi, almeno per lui, lo sviluppo della metafisica. l’antropologia cittadina In termini non molto diversi dal problema del lógos si pone il problema delle ‘anime barbare’, perché il riferimento può essere duplice: metaforico e no. Sono ‘barbare’ le anime dei suoi concittadini, che non capiscono ciò che leg  Ivi, pp. 104 ss.

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gono (la nuova legge scritta) prima che lui la spieghi; e sono ‘barbari’ i noncittadini, i non-greci, che non sanno neppure leggere né ascoltare. Le categorie dei ‘barbari’ sono due, come spiega testualmente DK 1 (così che, secondo qualche interprete, la città si dividerebbe in realtà per Eraclito in tre fasce, alla prima delle quali appartiene evidentemente lui stesso, insieme con uomini come Ermodoro). Ma interpretare la cosa, come fa Capizzi, nel senso che vi sarebbero in città un «gruppo di maggioranza», corrotto e non-patriottico, o anzi anti-patriottico e addirittura (di volontà, o di fatto) filo-persiano, e un più virtuoso «gruppo di minoranza» al quale Eraclito avrebbe indirizzato il suo appello, mi sembra davvero nient’altro che un’ipotesi molto moderna e poco seducente: Eraclito ha sempre ignorato le fazioni.61 La distinzione tra gli efesini è morale (‘barbarie’ metaforica) e linguistica (‘barbarie’ etnica); ma Capizzi non può resistere alla tentazione (più che giustificata, del resto, conoscendo la personalità di Eraclito) d’introdurre anche una distinzione sociale: allo scopo di esortare i concittadini alla dura guerra contro i persiani, Eraclito avrebbe inteso colpire soprattutto «l’aristocrazia ricca e godereccia», pronta a ritirarsi dalla guerra alle prime batoste; e con la coscienza della vera aristocrazia, invece, e con la voce dell’orgoglio nazionale greco, egli avrebbe chiamato a raccolta «la parte sana della sua classe di appartenenza».62 Ora, a me sembra probabile che qui si desideri passare dal filosofo oscuro al chiaro patriota, facendo però subire ai frammenti e alle testimonianze pressappoco la stessa identica sorte di torcitura. Nulla, nei frammenti, ci autorizza a trarre simili conclusioni – anche se, effettivamente, non è mai impossibile trovare deboli riscontri a congetture esterne che possano sembrare conferme interne al testo. Che Eraclito abbia esortato i concittadini poltroni a combattere è sicuro: è lui che lo dice in DK 44: «Bisogna che il popolo combatta per la legge che nasce come per le mura della città». Ma chiede loro di combattere per la legge «come» per le mura della città, e non viceversa – segno evidente che la sua fiducia nella virtù cittadina non era ancora spenta del tutto, e che l’amore per la legge nascente63 poteva (forse) essere fatto sorgere dal patriottismo di cui era ancora capace la parte migliore della sua classe. Che non

61   Non posso indicare con precisione dove Capizzi si sia spinto così avanti in questa interpretazione, perché nel suo libro essa appare soltanto suggerita. Le espressioni: «I due gruppi di cittadini», «Invettiva contro il gruppo di maggioranza» e «Appello al gruppo di minoranza» si trovano soltanto nell’indice, e nella partizione del riordino dei frammenti che egli propone (rispettivamente 1, 2, 3). La sua, del resto, non è che una «proposta» di diversa lettura dei frammenti – vale a dire un intelligente suggerimento. 62   Ivi, p. 57. 63   Nessuno dei traduttori italiani accoglie la lezione attestata da ben tre codici: hupèr tou ginoménou nómou, ossia «per la legge attualmente vigente», o «che sta per essere istituita», o «da poco istituita». Non

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tutto fosse marcio a Efeso dimostra proprio questo frammento; ed egli avrà proprio cominciato a biasimare e ad esortare la parte sana della sua classe di appartenenza, e non la più ricca e godereccia. Ma un simile invito a combattere per la legge come contro i persiani, se perseguito strenuamente, sarebbe potuto diventare un invito alla guerra civile; e noi non possiamo sacrificare al sostegno di un’ipotesi tanto clamorosa tutti i frammenti in cui Eraclito insiste, invece, sull’unità, come DK 114: «Coloro che parlano con senno è necessario che insistano sull’interesse comune a tutti, come legge della città, e senza mai stancarsi d’insistere. Tutte le leggi umane si nutrono infatti d’una sola, divina: la quale governa ogni cosa quanto le piace, e comanda a tutti, e tutto vince». Ad ogni modo, il suo è un invito a difendere la legge, e non ad uscire fuori dalla città in cerca di guai coi persiani. Se nell’insieme gli efesini erano a suo giudizio già ìmpari al primo compito, difensivo, tanto da non sapersi neppure disciplinare in un assedio, tanto meno lo saranno stati al secondo, offensivo.64 Non è con un attivista pieno d’illusioni e di vane speranze che abbiamo a che fare. E dovremmo piuttosto domandarci se la sua insistenza sull’importanza della legge scritta (che è, proprio soltanto in quanto è scritta, una legge a suo modo ‘democratica’) non possa avere il significato di un impegno non puramente declamatorio e moralistico, bensì avveduto e lungimirante, persino spregiudicato – politicamente realistico, insomma: nel senso che Eraclito potrebbe aver capito che senza una legge scritta, l’unica in grado di garantire la certezza del diritto alle classi meno abbienti, non si sarebbero trovate risorse sufficienti neppure per difendere validamente la città. E perché, del resto, combattere per l’orgoglio ionico, quando ai suoi occhi c’era ben poco di che andare orgogliosi, e le riforme di Artaferne potevano ancora dimostrare la superiorità dell’amministrazione persiana?65 Non era con le armi che si potevano vincere i barbari nella Ionia, bensì con le leggi. Il resto non sono che le molte storie dell’avvento delle tirannidi e dei prodromi della democrazia, comuni all’evoluzione costituzionale di tutte le città greche.

fa eccezione neppure Capizzi: il quale pure si arrischia a parlare addirittura della vigenza a Efeso di un recente «codice ermodoreo» di leggi di guerra contro i persiani (ivi, pp. 53, 55, 57), del quale sarebbe stato promotore Eraclito stesso in qualità di capo del partito aristagorista (cioè greco autentico). E nondimeno egli fa però di una generica legge scritta l’unico lógos eracliteo. 64   Mi riferisco alla ben nota testimonianza di Temistio: di lui che all’assemblea, nella città assediata e incapace di disciplinare il consumo dei viveri, senza dire una parola raccoglie un pugno di farina, e impastatala con acqua, inghiotte la pagnottella, a mo’ d’esempio per tutti (Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 63-64). 65   Erodoto, VI, 42.

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La vicenda di Eraclito si situa alle origini di questi prodromi – e allora, considerato l’uomo, noi possiamo dire che la sua sorte era in qualche modo segnata. Noi non abbiamo elementi per attribuirgli una vera intelligenza politica (nel senso che ‘politico’ è sinonimo di ‘realistico’, o di ‘pratico’, o di ‘misurato col successo’), mentre abbiamo d’altra parte sufficienti elementi per attribuirgli una buona dose d’astrattezza. Ma senza una simile astrattezza, che mai sarebbe stato di lui e della sua predicazione? Di fronte al disordine e alla faziosità, alla corruzione imbelle delle città ioniche, l’unico vero realismo politico non poteva consistere che nell’affidarsi alla tutela dell’amministrazione persiana: era vano attendersi che i giovani efesini combattessero per la libertà come gli sciti nomadi, né che le ricche e vanitose efesine si rassegnassero a portare i loro calzari. E se Ermodoro, come si dice, fu davvero l’ispiratore di quest’ultima legge, bisogna proprio dire che le recriminazioni di Eraclito (DK 121) furono sprecate: «Sarebbe giusto per gli efesini adulti impiccarsi tutti quanti, e lasciare la città ai fanciulli, essi che cacciarono Ermodoro, uomo fra tutti loro il più utile, dicendo: “Fra noi non uno ci sia indispensabile; e se ce n’è uno, se ne stia altrove, e con altri”».66 La lettura dei frammenti non ci consente neppure di escludere del tutto quest’ultima ipotesi: che la rassegnazione, cioè, abbia spinto Eraclito ad ammettere di preferire al disordine cittadino l’ordine autocratico dell’amministrazione persiana. Se vogliamo proprio escludere la possibilità di un Eraclito che fa il capocolonna del re, dobbiamo forzare un poco la lettura di qualche frammento, di uno, in particolare, in apparenza ben poco significativo, il DK

66   Le testimonianze di Strabone (XIV, 25) e di Plinio (Hist. nat., XXXIV, 21) su Ermodoro sono estremamente esigue, e in compenso si contraddicono: al primo «pare» che abbia dato leggi scritte ai romani, mentre il secondo afferma con sicurezza che sarebbe stato «interprete» di leggi scritte dai decemviri romani. Sebbene confutata da Boesch nel 1893, l’identificazione con l’amico di Eraclito fu accolta con entusiasmo da Wilamowitz nel 1909 sulla base di un frammento di Polemone che fa di un tale Ermodoro il severo disciplinatore dell’abbigliamento femminile. L’ipotesi è stata poi di nuovo relegata nel novero delle mere possibilità da Marcovich, in considerazione dell’alta popolarità del nome ‘Eraclito’ nella Ionia (Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 61-62 e 17-18 nota 6). Ciò nonostante l’identificazione di Wilamowitz fra l’amico di Eraclito e il legislatore calzaturiero è stata accolta e tramandata da Santo Mazzarino e da Rudolf Schottlaender, con argomenti su argomenti. Per esempio Mazzarino: poiché il frammento di Polemone ci riconduce, per il suo dialetto, «alla Ionia», è chiaro che «in questo periodo» esiste un’attività nomotetica «a Efeso»: qualcosa dev’essere dunque successo a Efeso, nella Ionia, in questo periodo. E Schottlaender precisa che la testimonianza di Polemone ci è nota attraverso una glossa di Esichio, e che Plinio deve la sua testimonianza a Varrone. Tutto quanto di seconda o terza mano, dunque. Nondimeno, la tendenza austera della legge suntuaria ermodorea «corrisponde in tutto al pensiero di Eraclito», il quale in DK 15 si oppone alla sfrenatezza sessuale dei cortei bacchici. Di qui, l’ipotesi di Wilamowitz passa a Capizzi (Eraclito, pp. 41-43): il quale non sembra rendersi conto della distanza che deve intercorrere fra il suo bellicoso legislatore antipersiano e questo nomoteta della moda, nonché autore o interprete delle XII tavole, con tanto di statua nel foro romano.

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3, facendogli dire: “Il sole [non sta che] alla distanza d’un passo” – che significa: il buon tiranno è già qui, inutile cercarlo altrove. Perché cimentarsi soltanto in forzature esterne, quando le interne, sul testo, potrebbero essere almeno altrettanto convincenti e in qualche misura legittime? Non esiste un solo frammento che ci garantisca Eraclito non essersi mai rassegnato al ritorno all’ordine dell’amministrazione persiana. Questa fu un’ultima possibilità che egli dovette prendere in considerazione, prima di abbandonare tutto. Dov’è mai l’orgoglio greco, in Eraclito? Leggendo certi studi tedeschi, ma ancor più italiani, per esempio, s’intuisce l’immaginazione latente di un rappresentante del progresso germanico, ovvero occidentale, impegnato sui confini delle provincie orientali polacche. Nessuno ci può garantire che il suo isolamento sia stato sempre e soltanto ricercato da lui stesso, e non sia stato dovuto anche al sospetto, oltre che all’impazienza, dei suoi concittadini: i quali dovettero certamente sopportare con molta insofferenza i suoi biasimi, ma poterono anche avere qualche ragione per sospettare in lui un nemico e un possibile traditore della città. Nell’aristocrazia cittadina i simpatizzanti filo-persiani non mancavano; ma nel clima di entusiasmo bellicoso non avranno osato farsi avanti, se non dopo i primi rovesci. Eraclito non era il tipo da starsene buono. Che cosa intendeva mai dire davvero con le parole del suo frammento DK 49: «Uno solo è per me diecimila, se ottimo»? Anche al gran re la sentenza si sarebbe adattata perfettamente! E perché tanta reticenza, poi, e tante sibilline metafore solari? Chi, o quali sue parole, potevano dare agli efesini la certezza che egli si riferisse in tal modo ad un tiranno cittadino, e non invece a Dario stesso?67 Lo sviluppo di simile ipotesi consentirebbe di aggregare alla penultima sezione del primo periodo cittadino il frammento sul sommo dio immobile e distante DK 120. Chi vuole modernizzare la lettura di simili pensieri in senso politico non può ignorare che nella sua città Eraclito può benissimo essere finito relegato nella difficile posizione, per fare un esempio, dell’intellettuale comunista in una nostra qualsiasi città di provincia durante gli anni della guerra fredda. Se proprio se ne vuole fare un patriota, allora, bisogna trovare un appiglio testuale, che ci garantisca essere egli andato alla ricerca di un tiranno vicino, non lontano: un tiranno cittadino. E questo appiglio, a costo di una forzatura, può essere DK 3. Sempre che sia suo, s’intende. Ma davanti a una difficoltà noi

67   È questa l’ipotesi argomentata in uno dei contributi al Simposio Eracliteo di Chieti che si leggono con maggiore interesse per la sua chiarezza e concretezza, oltre che per il non poco coraggio: quello di Emanuele Riverso (Eraclito, fr. 90 D.-K., in SH, I, pp. 213-230, e specialmente pp. 220-221).

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non possiamo cavarcela ogni volta negando l’attribuzione del frammento.68 DK 3 gli è stato attribuito da molti autorevoli studiosi – e quindi ammettiamo anche noi che sia suo, perché un’ipotesi in più è sempre meglio che un problema in meno. il lascito come un diario Il profilo più generale che presiede alla qui presente interpretazione, e all’elencazione dei frammenti, è dunque il seguente. Già destinato per ragioni di discendenza all’assolvimento degli uffici religiosi, è naturale che Eraclito abbia precocemente sviluppato una qualche sensibilità filosofica; ma non è detto affatto che questa sensibilità abbia avuto sin dal principio un carattere speculativo, teorico e metafisico – anzi. È difficile immaginare che, dopo avere elaborato le sue dottrine fisiche metafisiche cosmologiche, secondo gl’incipienti doveri di una destinazione familiare che non gli conferiva in alcun modo quest’obbligo, egli si sia dato inutilmente ad insegnarle; e che abbia tratto dalla frustrazione di questo suo insegnamento il risentimento e il biasimo che si esprimono nelle invettive rivolte ai suoi concittadini. È assai più verosimile il contrario: che egli si sia dato alla speculazione teorica in conseguenza della frustrazione derivante dalle prime esperienze del suo ufficio religioso. Egli lamenta di non essere ascoltato e capito, è vero; ma le esortazioni indirizzate ai suoi concittadini non sono mai esortazioni al sapere – sono esortazioni al ben vivere virtuoso, piuttosto. Preparandosi ad assolvere i doveri che l’attendevano, perciò, egli avrà cominciato ad esercitare la semplice funzione dell’officiante e del moralista; ed è la frustrazione di questa suo ufficio, e non di un inesistente ufficio teorico, che (almeno per quanto ne sappiamo) dovette spingerlo a compiere le sue scelte di vita solitaria, e a dedicarsi a speculare su interrogativi d’altra natura. È dunque ragionevole supporre e ammettere che nella disposizione generale dei frammenti i riferimenti alla vita della città debbano comparire per primi; e che, fra questi, debbano figurare a loro volta fra i primi i riferimenti di biasimo sui riti e sulla condotta morale dei concittadini. La sterilità del bia-

68   Per l’estrema scarsità o incertezza del significato, oltre che dell’attribuzione, ho preferito non accogliere nel Diario i frammenti DK 71 («Si scorda dove porta la strada»), DK 69 («Cose che si trovano appena in uno e di rado»), DK 68 («Medicina i misteri») e DK 39 («A Priene nacque Biante figlio di Teutame: più che ogni altro ebbe fama [lógos]»). Quest’ultimo presenta un interesse per l’uso del termine lógos nel suo significato più generico.

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simo può averlo spinto verso la politica. L’insuccesso della propaganda politica può averlo indotto a riflessioni di carattere antropologico prima del ritiro in solitudine o immediatamente dopo. La meditazione dell’eremitaggio può essere stata riassunta in un ‘così va il mondo’. Le forze acquisite con la meditazione di una qualche parvente dottrina o verità suggestiva, persino clamorosa, possono averlo indotto ad un ritorno animato da intenzioni pedagogiche, non più moralistiche. Il nuovo impegno può avergli fatto constatare, con una nuova frustrazione, la povertà e l’inefficacia, soprattutto letteraria, dei suoi mezzi pedagogici. La conseguente nuova amarezza può essersi espressa nelle invettive contro poeti e letterati, aprendo poi la strada alle ultime meditazioni. Questo, per sommi capi, è il plausibile ordine di svolgimento della sua vicenda biografica, politica e spirituale. L’elencazione e la lettura dei frammenti che qui si propone vuol seguire lo svolgimento di questa vicenda, facendo dei frammenti stessi non già i lacerti, o i resti sparsi, d’un trattato perduto (della cui effettiva esistenza, in definitiva, non possediamo alcuna vera prova), bensì proprio le sparse testimonianze, per lo più momentanee, ma non solo momentanee, delle varie situazioni nelle quali Eraclito si trovò a condurre la sua tormentata esistenza. Ecco perché preferisco non parlare sempre di ‘frammenti’, bensì anche di ‘pensieri’. E Pensieri, o Ricordanze, avrebbe anche potuto essere il titolo di questo studio, se avessi rinunciato a dare alla loro elencazione l’unità di uno svolgimento biografico, in quello che infine risulta essere, in qualche modo, un diario. Se non che, l’uso del termine ‘frammenti’ s’è ormai troppo generalizzato perché una proposta diversa non suoni come una fastidiosa petulanza perfezionistica. Basta restare intesi così. Per il resto, noi non sappiamo quanti fossero gli scritti di Eraclito; e quasi ciascuna sezione o fase subalterna dei quattro principali periodi biografici nei quali ho suddiviso i frammenti (in tutto quindici) potrebbe raccogliere i resti di una sua opera indipendente. Di un solo libro, suddiviso in tre trattati, parla Diogene Laerzio – ma anche di un libro, forse, su Le muse, o forse Sulla natura, o forse piuttosto Sui retti costumi, per esempio. Di vari scritti, incompiuti o diseguali per stile, parlò Teofrasto. Chi esclude che gli scritti di Eraclito fossero più di uno solo si condanna, poi, a far combaciare le sentenze più contraddittorie – a cominciare dal significato dello stesso termine lógos.69 La parte di gran lunga maggiore della

69   Come si vede in Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 29 nota 28 e 33 nota 40. Essi stessi parlano più volte, del resto, di «testi» originali, o di «testi» eraclitei (per es. p. 34). Hanno ragione invece quando, aderendo all’opinione con la quale già Schleiermacher concluse il suo lavoro, essi parlano di un «piccolo»

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letteratura non monografica, del resto, si compone di studi invariabilmente costruiti sul modello agglutinante del frammento interpretato alla luce di altri (pochi) frammenti omogenei sotto il profilo contenutistico o terminologico. Il presunto ‘libro’ o trattato viene così, di fatto, a smembrarsi in una miriade di possibili combinazioni del tutto parziali, e spesso isolate o senza seguito: un Eraclito ridotto in cocci, insomma. Bisogna almeno ammettere che la sua vita abbia conosciuto periodi assai diversi, senza fare della sua figura una specie di stentoreo fantasma che attraversa i muri, un po’ come la voce della sua Sibilla i millenni: perché questa delle invariabili opinioni divine era una dote potente che Eraclito ormai si sentiva mancare, dopo averla posseduta in gioventù; ed egli poté invidiarla ai profeti nell’ultima parte della sua vita, come si vedrà nell’ultima parte del Diario. E io credo anche che ci sia persino un indizio concreto della pluralità dei suoi scritti. Si osservino i frammenti del biasimo e dell’esortazione a contenuto zoologico: il medesimo giudizio viene ripetuto più volte sull’esempio di animali diversi, come asini e buoi, maiali e polli. Anche trascurando di considerare la diseguaglianza con l’abituale concisione del suo stile, io domando: quale scrittore avrebbe mai allineato una simile serie di esempi sostanzialmente identici, o, peggio, sarebbe tornato a ripeterli alla distanza nel medesimo scritto? L’effetto anaforico si può perdonare all’oratore còlto sul vivo d’una concione, non certo allo scrittore. E se no, si tratta di appunti in un promemoria, che Eraclito non poté riordinare a causa della sopravvenuta cecità di cui parla l’epigramma di Diogene Laerzio. L’assunto generale che qui è stato prescelto è, come si vede, di tipo antiaccademico – in armonia, del resto, col contenuto dei numerosi frammenti astiosamente polemici contro scuole, allievi e maestri; e gl’interrogativi dossografici di tipo più professorale (concernenti la sua filiazione teorica da Senofane, per esempio, o la questione della precedenza o della successione rispetto a Parmenide) sono stati certamente importanti, ma solo in seconda istanza rispetto al nucleo originario della sua ispirazione, che è fortemente autonoma e automotivata: politica moralistica e pedagogica. Il resto è pensiero suo e insieme dottrina altrui – della Ionia stessa, o magari d’oriente, forse di Persia, non sappiamo: la quale dottrina, comunque ricevuta, egli seppe captare

libro, del quale non ci manca poi molto: Eraclito non fu certo uno scrittore prolifico (Schleiermacher, Herakleitos, p. 241). Claudio Lausdei ha fatto notare che nella letteratura coeva il termine lógos viene sempre associato con brevi o singole parti di un’opera, mentre ad un’opera organica di una certa ampiezza ci si riferiva col plurale lógoi (Lógos in Eraclito e in Erodoto, in SH, I, p. 75). Egli discute nondimeno il lascito come un unico trattato, come si vedrà nel commento a DK 1.

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e restituire in rudimentale forma letteraria, tanto più condensata in formule suggestive, arcane, oracolari, quanto meno (probabilmente) quelle intuizioni erano davvero soltanto sue. *** Bisognerà anche tenere conto, d’altra parte, che ciò che noi possediamo del suo pensiero è un prodotto in qualche modo rifinito, un risultato raggiunto e consegnato ai posteri in luogo sicuro: il ‘discorso’ non è soltanto un diario come semplice testimonianza immediata, o un quaderno d’appunti. L’ordine di successione dei frammenti non può dunque rispecchiare lo svolgimento della sua vicenda teorica secondo il solo assunto biografico, perché esso fu in qualche modo una sintesi anche per lui, come lo è per noi. Egli si accinse a mettere insieme (magari raffazzonandola) la redazione del ‘discorso’ trovandosi già in possesso di una qualche dottrina, o almeno di una folla di pensieri ch’era andato svolgendo nella solitudine e nella divulgazione. Bisogna dunque che l’ordine in cui sono disposti i frammenti tenga conto di questa duplice esigenza: ammettendo che Eraclito si sia accinto alla redazione di un solo discorso, egli avrà dovuto illustrarvi la storia della sua personale vicenda, insieme con i risultati, in qualche modo presupposti e acquisiti, della sua dottrina – e così dovremo dunque cercare di fare anche noi. Ciò significa che i primi frammenti potranno anche già portare qua e là i segni dei contenuti e degli artifici letterari del suo pensiero. Non contrastano affatto con la libertà di questa logica interpretativa le due testimonianze di Aristotele (Retorica, III 5, 1407 b 11) e di Sesto Empirico (Adversus mathematicos, VII 132) circa il frammento DK 1, il quale, proprio in ossequio alla loro testimonianza, viene dagli editori quasi sempre pubblicato per primo (Colli ha rotto per primo questo vincolo, in Italia, seguito da Tonelli). Aristotele è alquanto generico: «all’inizio» (en tē archē); Sesto sembra un poco più vincolante: «incominciando» (enarchómenos). Ma noi non sappiamo se il discorso iniziasse davvero con le parole di DK 1, vale a dire con una sprezzante recriminazione poco degna, in verità, della solennità di un lascito; né la forma sintattica del testo permette di crederlo, come ho detto. Possiamo soltanto ammettere che esso fosse collocato fra i primi pensieri di un qualche svolgimento. Ma poi? Pensiamo ad un caso analogo come, per esempio, le Ricordanze del Guicciardini: i frammenti eraclitei se ne distinguono solo perché un numero non trascurabile d’essi tradisce l’origine immediata, coeva, dell’annotazione. Resta il fatto che DK 1 è l’unico frammento di cui si presume di conoscere, pressappoco, la collocazione. E io mi chiedo, dunque,

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se valga davvero la pena di vincolare la disposizione dei restanti centoventicinque frammenti, e perciò la varietà delle interpretazioni, alla presunta collocazione iniziale di quest’unico. Da un pezzo nessuno, del resto, si azzarda più a scrivere la storia antica sulla base dei suggerimenti aristotelici: essi non valgono ormai che come conferme. È quasi sorprendente vedere con quanta fiducia Schleiermacher, per esempio, si affida ancora a «la più antica e sicura» testimonianza aristotelica per sostenere che Eraclito fu innanzitutto un fisico, anziché un moralista e un politico; e che la sua opera fu una sola, pensata secondo un unico significato e stesa in un unico getto.70 Con pie’ leggero poi, alla maniera romantica, egli stesso ignora questo suo assunto, nonché la testimonianza aristotelica, e pubblica DK 1 al quarantasettesimo posto, ben oltre la metà dei suoi settantatre frammenti, divisi in sei gruppi. Uno studioso (Geoffrey Kirk) ha pure avanzato l’ipotesi che la prima trasmissione del pensiero eracliteo sia stata orale e frammentaria. La scrittura venne dopo. Negarlo, come fanno Mondolfo e Tarán, appellandosi alla testimonianza di Aristotele che parla di un súggramma conosciuto e forse posseduto nella biblioteca della sua scuola, è impossibile: perché le due cose non sono affatto incompatibili.71 Un numero non trascurabile dei frammenti eraclitei è, per l’appunto, l’eloquente testimonianza di un suo impegno pubblico; e il fatto che egli abbia ripetutamente lamentato di non essere stato capito (parlando) non smentisce la possibilità di una rapida tradizione orale dei suoi insegnamenti, precedente o almeno parallela alla circolazione manuale dei pensieri scritti. La petulanza rissosa che Platone lamenta come una caratteristica distintiva dei settari eraclitei lo può confermare (Teeteto, 179 d – 180 c). Ma non manca neppure chi considera la tradizione orale del pensiero eracliteo più sicura della scritta: la quale, proprio perché scritta, si prestò ad essere rimaneggiata dai seguaci.72 Una via di mezzo fra tradizione orale e scritta è rappresentata da quella che Schleiermacher definisce la «brutta favola» di Taziano il Siro: secondo la quale Euripide, ospite nel tempio di Artemide, si sarebbe imparato a memoria il trattato eracliteo, e da lì, in questa forma, l’avrebbe portato ad Atene.73 Ad ogni modo, lo scopo più importante di una nuova elencazione dei frammenti non può essere quello di riprodurre il probabile disegno del discorso originale perduto, secondo una mentalità archeologica, o puramente   Schleiermacher, Herakleitos, pp. 132-134.   Vedi il commento alla critica stilistica aristotelica in Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 68 nota 115. 72   Schleiermacher, Herakleitos, p. 110. 73   Ivi, p. 112. 70 71

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antiquaria: non si tratta qui, insomma, di ricostruire l’intero scheletro di un animale preistorico a partire da un singolo osso, né di far combaciare i cocci di un’anfora. E tuttavia è pur sempre una forma che noi dobbiamo ricostruire; e poiché è impossibile che sia quella ‘vera’ di Eraclito, essa dev’essere almeno la nostra, purché serva a qualcosa. La successione dei frammenti deve dunque avere un senso coerente in sé e per noi, secondo un nostro modo di sentire il discorso. Non risponde certo a simili requisiti un riordino estremamente tecnico, quale si presenta nella «raccolta di fonti» (a source book), per esempio, del Marcovich: dove avviene la sezionatura di ciascun frammento nella gerarchia letterale (per lo più ipotetica: probable degree of literality) delle singole testimonianze, distinte secondo il grado di vicinanza all’originale come citazioni o parafrasi o rimandi, e una successiva ricomposizione in ben venticinque gruppi, privi del benché minimo legame di contiguità o successione. La connessione (concettuale, terminologica, disciplinare, contenutistica, logica, schematica, ideologica) esiste soltanto all’interno di ogni singolo gruppo, e giustifica l’interpretazione dei singoli frammenti che lo compongono. Ma un disegno generale, in questa tecnica cronologica ‘dendrometrica’ (diciamo così), manca del tutto. L’edizione italiana si è trovata «sotto il tiro di quanto spiritualismo e poi riformismo tedesco da un lato, dall’altro idealismo italiano hanno superfetato di interpretazioni eraclitee». Prudenza consiglia allora al traduttore di mettere la raccolta al riparo di un ombrello ideologico abbastanza ampio ed oscuro, com’è quello «filoheideggeriano» – e intenda chi può.74 un democratico autoritario Il significato di ogni singolo pensiero o frammento può notevolmente cambiare, a seconda di come lo si colloca in relazione con gli altri. La disposizione, perciò, in un certo senso è tutto – e considerando la bibliografia eraclitea, dove abbondano i commenti parziali, si vorrà ammettere che quest’afferma-

74   L’edizione dei frammenti di Marcovich è stata resa dal suo traduttore italiano Piero Innocenti mediante un «trasporto sistematico della terminologia secondo i canoni della coerenza interna alla posizione filosofica filoheideggeriana» dell’editore. Né l’editore, né il suo traduttore italiano forniscono la benché minima indicazione utile all’orientamento del lettore: come sarebbe stata, per esempio, una lista indicante l’uso e la versione di almeno una dozzina di termini significativi. Ma si tratta, in fondo, soltanto di un’indiscrezione, perché Marcovich non fa prudentemente parola di suoi filosofi tutori. Per il resto, non sono riuscito a prendere visione di alcuna delle discussioni e delle memorie presentate allo International Colloquium on Heraclitus svoltosi a Kronenburg dal 25 al 29 agosto 1969, che viene menzionato nella prefazione.

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zione non è tanto ovvia come potrebbe sembrare. Diciamo dunque che, molto in generale, prima deve venire la divinazione di uno schema di cornice o di un ‘senso’ complessivo della personalità eraclitea, poi la collocazione del frammento, ed infine la sua interpretazione. Non vorrei essere tanto apodittico, e spero di non esserlo stato nel lavoro sul Diario, ma è più importante cercare di capirsi. Proprio il tono fortemente umorale di DK 1, tutt’altro che olimpico, può lasciare facilmente intuire quanto diseguale, quanto lampeggiante e irrequieto dovesse essere lo svolgimento di un’eventuale trattazione. Ciò che conta davvero per noi, oltre al pensiero, sono la figura del personaggio e il suo talento letterario. Quest’ultimo si esprimeva con la sua massima efficacia non già nel ricercare un’ordinata disposizione architettonica della materia, bensì proprio nelle immaginose e improvvise condensazioni del pensiero: allorché il tedio della misantropia e del biasimo lasciano i modi tortuosi dell’argomentazione antropologica o cosmologica e si fissano in immagini di alta suggestione, tra le più inoppugnabili e memorabili. È proprio la sensibilità, in definitiva, che riscatta l’evanescenza oracolare delle sentenze eraclitee – e al tempo stesso mette la sua sapienza alla prova della comunicazione e del riscontro evidente per chiunque. L’ambiguità o ambivalenza del termine lógos va spiegata in modo del tutto plausibile pensando che Eraclito intenda riferirsi, oltre che alla legge cittadina, anche alla sua esperienza di pensiero e alla sua esperienza di vita – vale a dire, alla sapienza e al diario: perché per lui le due cose, quando decise di riordinare i pensieri, non erano più distinguibili. Oltre alla legge, sono tre, dunque, i lógos ai quali egli pensa nella seconda metà della sua vita: la vita o il mondo, il diario e una sapienza con parvenza di dottrina. Ai quattro significati se ne deve aggiungere un quinto, in età avanzata: allorché Eraclito si affida all’opinione, e comincia a riflettere sulla diversa consistenza delle opinioni umane e divine. Come si vedrà da questo riordino e dal commento ai frammenti, la ferma opinione è tutto ciò che gli rimane al termine della sua meditazione, e la speranza è tutto ciò che gli resta al termine della sua vita. Il bisogno di fare assumere al pensiero caratteristiche di ordine e di stabilità non è affatto raro in un animo assai irrequieto. E per chi crede che anche la statistica possa offrire un aiuto alla formulazione di un giudizio mediante l’evidenza dei numeri, dirò che i pensieri eraclitei caratterizzati da un netto significato di stabilità del sentimento o dell’immagine sono quasi una sessantina – poco meno della metà. Il resto si divide fra pressappoco due dozzine di pensieri, per così dire, ambivalenti, ambigui o neutri, una dozzina circa di pensieri soltanto polemici, e non più di trenta pensieri decisamente orientati a descrivere una trasformazione.

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La trasformazione, del resto, si presenta nei pensieri in modo tale da rinviare spesso a nozioni di stabilità e di rapporto costante. Conformemente a questi assunti verrà dunque ordinata la materia, secondo poche partizioni generiche. Queste partizioni non sono esclusive: deve restare inteso che un frammento può sempre assumere più significati, e potrebbe collocarsi in più sezioni. È proprio di qui, del resto, che nascono la libertà criticoletteraria dell’interprete e della sua elencazione. Ma la partizione generale della vita e del pensiero di Eraclito in quattro periodi biografici principali, a loro volta suddivisi in due, tre o anche sei fasi ciascuno, rimane la caratteristica di questa mia proposta, non meno dell’interpretazione più generale che vede nei frammenti poco più di un diario, o una collezione di pensieri memorabili, di ricordanze, ordinate secondo, pressappoco, l’ordine cronologico più idoneo a descrivere lo svolgimento di una vita. È chiaro che, come avviene in tutte le elencazioni, il punto più delicato per il ricostruttore si trova all’inizio: il resto ne dipende. E poiché non dubito che il tratto principale della personalità di Eraclito fosse quello di un fervente cittadino, così i frammenti del primo periodo, sulla vita cittadina, raccolgono oltre un terzo delle testimonianze (precisamente quarantasette), distinte in sei fasi. Non occorre credere nella statistica per riconoscere l’importanza decisamente maggiore di questo aspetto della personalità di Eraclito; e nei raggruppamenti successivi non mancano altri riferimenti alla vita cittadina – così che il suo essere un intellettuale cittadino potrebbe richiamare a sé pressappoco la metà delle testimonianze. Quasi altrettanto importante, dopo il primo, è la scelta del tema del secondo periodo, dedicato all’anima, distinto in quattro fasi – e così via. I temi dei due periodi successivi accolgono il loro materiale in modo via via più conseguente rispetto alle scelte precedenti. I margini di attribuzione, d’inversione o di sostituzione man mano che l’elencazione procede si fanno più esigui – ma non si esauriscono mai del tutto: è sempre possibile trovare ad ogni frammento successivo una più convincente collocazione altrove.75 La collocazione è, per lo più, ciò che rende plausibile l’interpretazione. E non dev’essere necessario dire che l’ordine di disposizione non ha nulla a che fare con l’importanza, in sé, del singolo frammento. Il fatto che i frammenti di contenuto religioso siano, tutto sommato, così scarsi (il fatto, cioè, che Eraclito abbia preferito occuparsi di fisica elementare piuttosto che di teologia) può anche stupire. Ma bisogna considerare che

75   Ne ho discusso commentando, per esempio, il frammento DK 11: «Chi va prono è governato con la frusta».

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66   parte prima. eraclito

come sacerdote di Artemide egli si trovava preposto alla disciplina di quei culti, tra i più popolari, ibridi e contaminati, che insieme con l’edonismo degli ottimati costituivano una delle ragioni della corruzione del suo popolo. La sua imbarazzata posizione è testimoniata, anche sotto il profilo logico e sintattico, dal celebre frammento di contorta, impotente recriminazione sul corteo fallico dedicato ad Ade, in qualche modo giustificabile senza scandalo. Ad una riforma religiosa egli pensò, effettivamente, nella prima parte della sua vita; ma si trattò di cosa troppo ardua per produrre un qualche effetto. Noi non dobbiamo esitare ad avanzare l’ipotesi che Eraclito possa anche non essere stato all’altezza di qualcuno dei suoi compiti. Risulta da tutto ciò evidente il ruolo fondamentale che la politica assume nel pensiero di Eraclito. Questa ‘politica’ va pure intesa come vita della città, ossia vita dello Stato, del quale non si ignorano diverse, opposte (secondo il carattere dell’uomo) soluzioni costituzionali – fra la tirannide illuminata e limitata dal costume, e la democrazia sorvegliata che rende giustizia al sacrificio degli umili. Per il resto, tutto è possibile, o quasi. E mi resta soltanto da dire che la lettura e la disposizione dei frammenti politici, che in questo studio propongo raggruppati per primi, si giustificano sulla base della probabilità che ad Efeso vi sia stata una riforma o una rivoluzione democratica, o che vi sia stato comunque un esperimento di autogoverno, seguito, dopo il suo fallimento, da un tentativo di normalizzazione tirannica indigena, anch’esso fallito. Non mi sembra possibile, invece, che sia avvenuto l’inverso, e che si possa parlare di una rivoluzione democratica diretta a rovesciare una buona tirannia indigena, perché in tal caso agli almeno cinque significati di lógos bisognerebbe aggiungerne un sesto: quello di ‘parola del tiranno’, che nelle ricordanze eraclitee non compare affatto.76 Simili interpretazioni discendono, io credo, da simpatie nei confronti dei regimi autoritari di studiosi formatisi in clima triplicino. Al problema del pregiudizio politico che sottentra nell’esame dei pensieri, e al confronto fra autoritarismo e democrazia (che è poi l’alternativa sulla quale oscilla la politica eraclitea), è dedicata nel modo più possibile congruente la Parte Seconda di questo libro.

76   Mondolfo afferma, per esempio, che Eraclito si trovò a vivere un’insurrezione democratica che cacciò da Efeso l’amico tiranno Ermodoro (Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 14).

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Questo libro rappresenta uno sviluppo parziale del mio primo corso di Estetica Politica, tenuto nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena nella primavera del 2006 col titolo: ‘Eraclito e il senso tragico’. Ebbi un solo studente, Andrea Gurgone, che ringrazio per l’assiduità. Lo sviluppo complementare del tema del corso, che ha per protagonista l’altro grande sacerdote artemisio Calcante, si trova già pubblicato presso questo medesimo editore col titolo: L’Ifigenia di Eschilo. Filologia e drammaturgia nell’Agamennone. Buona parte di questo studio eracliteo fu tuttavia concepita e scritta per prima, e poi sospesa. Al perfezionamento e alla pubblicazione frammezzo dell’Ifigenia fui in qualche modo obbligato da ragioni di contrasto accademico. Il perfezionamento del Diario, una volta ripreso, ha seguito il suo corso del tutto autonomo – ed è dunque possibile che fra le due monografie si trovino qua e là disparità di giudizio, così come è possibile che in questa si trovino disparità di stile (ma non di giudizio, spero). L’origine didattica del lavoro può aver dato luogo a qualche ripetizione e a qualche didascalia. Nella presente traduzione dei pensieri eraclitei sono state messe a confronto le seguenti edizioni e traduzioni, senza ulteriori menzioni nelle note: Hermann Diels – Walter Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin-Zürich 1966-1968 Gabriele Giannantoni (da Diels – Kranz), I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1983 Friedrich Schleiermacher, Herakleitos, der dunkle, von Ephesos, de Gruyter, Berlin New York 1998 Ferdinand Lassalle, Die Philosophie Herakleitos des dunklen von Ephesos [1857], Cassirer, Berlin 1920 Giovanni Gentile, Eraclito. Vita e frammenti [1907-1908], Le Lettere, Firenze 1995 Vittorio Macchioro, Zagreus. Studi intorno all’orfismo, Vallecchi, Firenze 1930 Maria Cardini, Eraclito d’Efeso. Frammenti e testimonianze, Carabba, Lanciano 1932 Carlo Mazzantini, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Chiantore, Torino 1945 (t. a f.) Geoffrey S. Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, University, Cambridge 1962 (t. a f.) Bruno Snell, Heraklit, Fragmente, Heimeran, München 1965/1976 (t. a f.) Brunero Salucci, Eraclito. Tutti i frammenti, Le Monnier, Firenze 1967

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68   parte prima. eraclito Miroslav Marcovich (Innocenti), Eraclito. Frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1978 (t. a f.) Antonio Capizzi, Eraclito e la sua leggenda, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979 Charles H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, University, Cambridge 1979 (t. a f.) Carlo Diano – Giuseppe Serra, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Mondadori-Valla, Milano 1980 (t. a f.) Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980 (t. a f.) Thomas M. Robinson, Heraclitus, Fragments, University, Toronto 1987 (t. a f.) Angelo Tonelli, Eraclito. Dell’origine, Feltrinelli, Milano 2005 (t. a f.) Bibliografie ben note sono quelle di Evangelos Roussos, Heraklit-Bibliographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, e di Francesco De Martino, Livio Rossetti, Pier Paolo Rosati, Eraclito. Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, ESI, Perugia 1986. Il testo greco di riferimento per la traduzione è quello dell’edizione Diels – Kranz, non senza variazioni di preferenza effettuate sulla base di confronti con altre edizioni, nonché per ragioni di congruenza con la mia interpretazione. La tradizionale numerazione Diels – Kranz dei frammenti è accompagnata dalle numerazioni dell’edizione Diano – Serra (in ragione della sua maggiore diffusione in Italia) e di Capizzi (in ragione della sua vicinanza con questa mia interpretazione). La traduzione dei frammenti è stata eseguita con la paziente assistenza di Silvano Del Carlo, al quale va il mio sentito ringraziamento. Ogni arbitrio, sempre suo malgrado, dev’essere imputato soltanto a qualche mia ostinazione. Allo scopo di favorire l’intelligenza del testo e di evitare equivoci, avverto che le virgolette a sergente (« ») sono usate per riferire le parole dell’autore trattato nel contesto immediato, mentre le doppie virgolette (“ ”) racchiudono mie parafrasi o miei sunti di parole dell’autore principale trattato, oppure parole testuali altrui inserite nel contesto dell’autore trattato. Gli apici o virgolette semplici (‘ ’), invece, servono per attribuire ad una parola un significato particolare, o a metterla in particolare evidenza in modo da evitare l’uso del corsivo, che serve per integrare il dettato dei frammenti.

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diario

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Versione consecutiva*

Di quanto vedo, odo, apprendo: di ciò io mi prendo cura. I riti segreti che sono in uso fra gli uomini non hanno nulla di sacro. Si purificano lordandosi con altro sangue, come se qualcuno si detergesse dal fango immergendosi nel fango: e se uno degli uomini lo vedesse far questo, lo considererebbe pazzo. E rivolgono preci a cotali simulacri, come se qualcuno conversasse coi muri, non sapendo chi sono gli dèi, né gli eroi. I porci si lavano nel fango, e i polli nella polvere e nella cenere. I porci godono più nel fango che nell’acqua pura. Si protendono verso di lui, che sta lì, e così desti diventano d’un tratto custodi dei vivi e dei morti. Se non fosse a Dioniso che fanno il corteo, e intonando per giunta l’inno fallico, sarebbe di somma vergogna: se non che il medesimo sono Ade e Dioniso, per cui infuriano e impazzano. Non è meglio che agli uomini tocchi quello che vogliono. L’opulenza non vi abbandoni, o efesini, affinché voi stessi riconosciate quanto siete mediocri! Se la felicità fosse nei piaceri del corpo, dovremmo dire felici i bovi quando trovano vecce da mangiare. Gli asini vorrebbero scegliersi lo strame, piuttosto che l’oro. *   Considero utile anticipare la pubblicazione dei pensieri eraclitei in versione consecutiva, priva di partizioni e commenti, in modo che il lettore profano ne possa trarre una prima impressione personale.

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72   parte prima. eraclito

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Una cosa sola si scelgono i migliori, anziché ogni altra: fama perenne tra i mortali. Ma i più se ne stanno sazi come bestie. Nati a vivere, vogliono avere destini di morte; e lasciano che i figli siano portatori di altri destini di morte. Qual è la loro testa, o il loro cuore? Credono ai cantastorie, e si servono della plebe come maestra, senza sapere che i più sono cattivi e solo i pochi son buoni. Se tutte le cose diventassero fumo, i nasi le distinguerebbero. Lo stolido ama perdersi dietro ad ogni discorso. Coloro che parlano con senno è necessario che insistano sull’interesse comune a tutti, come legge della città, e senza mai stancarsi d’insistere. Tutte le leggi umane si nutrono infatti d’una sola, divina: la quale governa ogni cosa quanto le piace, e comanda a tutti, e tutto vince. Il sole è nuovo ogni giorno. Comune a tutti è il pensiero. Perciò bisogna perseguire l’interesse comune – vale a dire l’interesse pubblico: comune infatti è ciò ch’è pubblico. E pur essendo il discorso comune, i più vivono pensando di avere ciascuno una mente sua propria. A ciò che non tramonta, come potrebbe mai qualcuno celarsi? Bisogna che il popolo combatta per la legge che nasce come per le mura della città. Maggiore rischio di morte maggiore merita sorte. Mutando condizione si riposa. È faticoso per le stesse persone lavorare e obbedire. Dèi e uomini onorano i morti in battaglia.

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diario. versione consecutiva   73

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Non conoscerebbero il nome della giustizia, se queste cose non fossero. Quelli che s’imbattono, e sono tanti, in queste cose, non ci riflettono; né quando le hanno imparate le conoscono – sebbene essi lo credano. Non sanno né ascoltare né parlare. Meglio nascondere la propria ignoranza. Dal discorso in cui sono di continuo completamente coinvolti: proprio da questo discordano; e le cose in cui s’imbattono ogni giorno, proprio queste appaiono loro estranee. Ascoltando inebetiti, sembrano sordomuti; e il detto conferma che “presenti sono assenti”. Ma pur essendo questo discorso sempre così com’è, sempre gli uomini sono incapaci di comprenderlo: e prima ancora di udirlo, e non appena l’ascoltano; sebbene infatti tutto avvenga secondo questo discorso, nondimeno essi ne sono inesperti – essi, che pure hanno esperienza di parole e d’opere tali, quali secondo natura io espongo distinguendo ciascuna e spiegando com’è; e quanto agli altri, poi, sfugge loro ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno dormendo. È legge anche obbedire al consiglio di uno solo. Chi è più provato sa come tenere a bada le opinioni. E ad ogni modo Giustizia colpirà i fabbricanti di menzogne e i falsi testimoni. Il sole ha la misura di un piede umano. I cani abbaiano a chi non conoscono. Chi va prono è governato con la frusta. Uno solo è per me diecimila, se ottimo. Se non ci fosse il sole, stando alle altre stelle sarebbe notte.

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74   parte prima. eraclito

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Il sole non oltrepasserà la misura: se no, le Erinni al servizio di Giustizia lo scoveranno. Bisogna spegnere la tracotanza più di un incendio. Sarebbe giusto per gli efesini adulti impiccarsi tutti quanti, e lasciare la città ai fanciulli, essi che cacciarono Ermodoro, uomo fra tutti loro il più utile, dicendo: “Fra noi non uno ci sia indispensabile; e se ce n’è uno, se ne stia altrove, e con altri”. Cattivi testimoni sono agli uomini occhi ed orecchi, quando hanno anime barbare. È duro combattere il proprio animo: ciò che si prefigge, l’acquista anche a prezzo della vita. All’uomo l’indole è padrona. Indole umana non ha nozioni sicure, quella divina invece sì. Il signore, di cui l’oracolo è in Delfi, non spiega e non cela: dà segno. Per coloro che vegliano il mondo è uno e comune; ma ciascuno di coloro che stanno sprofondati nel sonno si volge al mondo suo proprio. Non si deve operare e parlare come nel sonno. Anche nel sonno, infatti, a noi sembra di agire e di parlare. Morte è quanto vediamo vegliando; e quanto vediamo dormendo, sogno. L’uomo si accende una luce nella notte quando essa si spegne nei suoi occhi; ma quando dorme il vivo è a contatto col morto, mentre da desto frequenta il dormiente. I dormienti sono operatori e cooperatori degli eventi del mondo. La stessa cosa, vivo e morto, sono e il desto e il dormiente, e il giovane e il vecchio; e quelli decadono in quest’altri, e quest’altri, a loro volta, si dissolvono.

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diario. versione consecutiva   75

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Le anime sono immortali mortali, mortali immortali: viventi esse, la morte di quei corpi; morti questi corpi, la vita di quelle anime. Morte alle anime è diventare acqua, morte all’acqua è diventare terra; e dalla terra scaturisce acqua, e dall’acqua l’anima. Vive il fuoco la morte della terra, e l’aria vive la morte del fuoco; l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua. Verso coloro che entrano nei medesimi fiumi scorrono acque sempre diverse; e le anime aleggiano al di sopra delle acque. Negli stessi fiumi noi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. È piacere oppure morte alle anime umide trasformarsi. […] Noi viviamo la loro morte, ed esse vivono la morte nostra. Anima asciutta la più saggia e migliore. I confini dell’anima, andando, non li troveresti percorrendo tutta quanta la strada: talmente profonda ha ragione. Una, la sapienza: conoscere il senno che ha governato tutto attraverso il tutto. Se non spera non troverà l’insperato: che è ininvestigabile e insondabile. La natura ama nascondersi. Non manifesta armonia di manifesta è più forte. Rapporti: tutto e non-tutto, convergente-divergente, consonante-dissonante, e da tutte le cose uno, e da uno tutte. Ciò che contrasta concorda: e dai contrasti la più bella armonia, e tutto sorge secondo contesa. Bisogna sapere che il conflitto è comune, e che la giustizia è contesa, e che le creature tutte esistono secondo contesa e necessità.

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76   parte prima. eraclito

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Il conflitto è padre di tutto, e anzi di tutto è re; e alcuni rese dèi, e alcuni uomini; e alcuni fece schiavi e altri liberi. Trasformazioni del fuoco sono dapprima il mare, e trasformazioni del mare una metà terra, e l’altra metà turbine. Il mare evapora, e conserva il medesimo rapporto fra terra e turbine che aveva prima di diventare terra. Le cose fredde si riscaldano, e le calde si raffreddano; le umide si asciugano, e le secche s’ammorbidiscono. Si dissolve e di nuovo si addensa, si costituisce e si disperde, si avvicina e si allontana. Questo ordine del mondo, lo stesso per tutti, non lo fece né qualche dio, né qualche uomo, ma fu sempre, ed è, e sarà: fuoco eterno, che si accende secondo misura e secondo misura si spegne. Di quanti ho udito parlare, nessuno è giunto a capire questo: che il conoscere, in quanto è un conoscere sapiente, è diverso da tutti. Nella conoscenza di cose manifeste gli uomini s’ingannano, in modo assai simile ad Omero, che fu il più sapiente di tutti gli elleni. Dei bimbi che stavano uccidendo i pidocchi lo ingannarono, dicendo: ciò che abbiamo visto e preso, lo perdiamo; ciò che non abbiamo visto, né preso, ce lo teniamo. Omero l’astrologo! Pitagora di Mnesarco si occupò di ricerca più di tutti quanti; e mettendo insieme questi appunti si fece una cultura politecnica e raffazzonata. (Pitagora) è capofila di ciarlatani / è inventore di sottigliezze. Avere senno è somma virtù, e saggezza è dire la verità e realizzare le cose che si sentono secondo natura. L’erudizione non insegna ad avere senno: se no, l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e così pure a Senofane e ad Ecateo.

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diario. versione consecutiva   77

Quelli che cercano l’oro scavano molta terra e ne trovano poco.

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Dell’anima è proprio quel senno che accresce se stesso. Ho indagato me stesso. A tutti gli uomini è dato conoscer se stessi, e vivere con saggezza. Ascoltando non me, ma il discorso, è saggio convenire che tutte le cose sono una. Non bisogna comportarsi come figli di genitori. Omero merita d’essere espulso a frustate dagli agoni, e Archiloco del pari. Noi non ci confrontiamo a caso sulle cose più grandi. Uomini amanti del sapere devono essere esperti di molte cose davvero. Di moltissimi è maestro Esiodo: e lo conoscono per certo come uomo coltissimo, uno che non sapeva che il giorno e la notte fanno tutt’uno! … ad Esiodo, che fa i giorni questi buoni e quelli cattivi solo perché non sa la natura di ogni giorno essere una sola. Gli occhi sono testimoni più acuti degli orecchi. Anche il ciceone, se non si mescola, si separa. Per la vite della gualchiera la via è diritta e tortuosa, ed è una e la stessa. Le stagioni, che portano tutto. Il mare è acqua purissima e lordissima: bevibile e vitale ai pesci, ma imbevibile e fatale agli uomini. Il nome dell’arco è ‘bíos’, ma morte è l’effetto. La via in su e in giù è una e la stessa.

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78   parte prima. eraclito

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Sul perimetro del circolo principio e fine coincidono. La malattia rende piacevole e preziosa la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo. I medici, che tagliano e cauterizzano, mentre fanno simili beni e mali lamentano di ricevere una mercede niente affatto adeguata. Tutte le cose in cambio del fuoco, e il fuoco in cambio di tutte le cose: come dell’oro in cambio le merci, e in cambio delle merci l’oro. Non intendono come ciò che discorda da sé seco stesso concordi: simmetrica conversa armonia, come d’arco e di lira. Quando si ubriaca, un uomo si lascia ingannare da un fanciullo imberbe, non sapendo dove muovere il passo, poiché umida ha l’anima. Come, stando nel centro della tela, il ragno sente la mosca non appena essa spezza qualcuno dei suoi fili, cosicché vi accorre rapido, quasi percependo il dolore della rottura del filo, così l’anima dell’uomo, offesa [ma intendi piuttosto: “offeso”, riferito all’uomo] in alcuna parte del corpo, vi si porta senza indugio, quasi non sopportando la lesione del corpo, al quale è saldamente unita secondo un rapporto. Il mondo lo governa la folgore. Trastulli di bimbi sono le opinioni degli uomini. Profferendo parole senza sorrisi, né decori o profumi, la Sibilla con bocca delirante supera i millenni grazie al dio nella voce. La ferma opinione è morbo sacro; e la vista inganna. Al dio tutto è bello e buono e giusto, mentre gli uomini considerano alcune cose ingiuste, altre giuste. Méta dell’est e dell’ovest il nord, e di contro al nord l’erma di Zeus celeste. Solo l’essere saggio non vuole e vuole essere chiamato col nome di Zeus.

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diario. versione consecutiva   79

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L’uomo ha l’aspetto d’un infante a cospetto del dio, come un bimbo a cospetto dell’uomo. La più bella delle scimmie è turpe se messa a paragone degli uomini. Il più sapiente degli uomini sembra una scimmia a cospetto degli dèi: e per sapienza, e per bellezza, e per tutto il resto. Il tempo è un bimbo che gioca agli scacchi: ecco il regno d’un bimbo! (Il fuoco) è indigenza e sazietà: perché verrà e divorerà tutto. Attendono gli uomini, quando muoiono, ogni genere di cose che essi non si aspettano, né immaginano. La maggior parte delle cose divine per incredulità non possono essere conosciute. Il dio giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame si tramuta come fuoco / unguento / olio / aria allorché si miscela alle spezie, e prende il nome secondo l’aroma di ciascuna. Le anime fiutano l’Ade. I cadaveri vanno gettati via più degli escrementi. Un cumulo alla rinfusa: ecco il mondo più bello!

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1. La città e le passioni

il sacerdote DK 55 / DS 57 / C 42

ὅσων ὄψις ἀκοὴ μάθησις, ταῦτα ἐγὼ προτιμέω. Di quanto vedo, odo, apprendo: di ciò io mi prendo cura. Nessun testimone antico specifica quando Eraclito abbia rinunciato ad esercitare l’ufficio religioso che gli spettava per privilegio familiare. Perché mai, dunque, dovremmo credere che fin da principio non l’abbia voluto esercitare? È assai più semplice e plausibile credere, invece, che egli abbia assunto quest’ufficio con ogni migliore intenzione, e pieno di buona volontà. Eraclito assume l’esercizio del suo ufficio, per giunta, senza alcuna particolare pretesa o particolare pregiudizio. Non distingue tra facoltà sensibili e intellettive, né tra le due principali facoltà sensibili della vista e dell’udito. Ciò a cui si affida è dunque il ‘buon senso’. Nell’ultimo periodo della sua vita tenderà invece, come si vedrà, ad affermare i pregi della conoscenza attraverso il tatto e l’olfatto; ma il ‘buon senso’ e la retta opinione non verranno mai rinnegati – anzi: essi acquisteranno, da ultimo, la forza suggestiva di un vero e proprio atto di fede. L’interpretazione hegeliana, e poi lassalliana, che fece di Eraclito l’uomo che seppe innalzare la conoscenza dalla mera sensibilità oltre il concetto astratto, è del tutto priva di fondamento. Eraclito restò sempre fedele agl’indizi della conoscenza sensibile, senza mai distinguerla dall’intellettiva, e si tenne sempre ben lontano dal formulare concetti astratti. In alcuni periodi della sua vita egli può avere formulato nozioni e intuizioni assai vaghe, persino farneticanti – ma esse sono sempre immaginose, mai astratte. È vero semmai (come dirò commentando, per esempio, i frammenti DK 10, 8, 31 a), che dopo e oltre Pitagora egli resta il primo ad avere intuito il significato generale della nozione di ‘rapporto’ e di ‘essenza’, andando così al di là delle nozioni di ‘relazione’ e di ‘sostanza’. Ma rapporto ed essenza non sono mai per lui (né,

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82   parte prima. eraclito

del resto, possono essere) cose separate dalla sensibilità, o ad essa superiori: perché è la sensibilità, semmai, che come facoltà d’ordine superiore stabilisce rapporti analogici, enumerativi e narrativi, simbolici, retorici, convenzionali fra sostanze che sono fra loro logicamente, concettualmente, e anche materialmente estranee. Che cosa offriranno i pensieri del periodo della divulgazione, del resto, se non delle rappresentazioni di rapporti?1 L’unità distinta, ma inseparabile e agerarchica, delle facoltà conoscitive che qui si enuncia resta una costante indefettibile del suo pensiero e, prima ancora, del suo carattere. E poiché ci troviamo qui, fin da principio, alle prese con essa, non sarà male dedicare qualche parola ai commenti. Non vedo come si possa fare di questo frammento, con una traduzione tirata per i capelli, la prova di un ripudio della conoscenza sensibile, a favore di una misteriosa e superiore conoscenza d’altro genere. Si legge in Diano – Serra, per esempio: «Più che alle cose di cui vi è audizione e visione e che si possono apprendere, a queste io dò pregio». Se si vuole a tutti i costi creare una gerarchia tra le facoltà, bisogna almeno rispettare l’ordine di comparizione dei termini eraclitei (ópsis akoē máthēsis). Con ‘audizione, visione, apprendimento’ si crea una gerarchia crescente di facoltà sensibili, oltre le quali vi sarebbe un misterioso qualcos’altro. È chiaro invece che fra i tre termini Eraclito non volle stabilire alcuna gerarchia, trattandoli come sinonimi; ed è pure chiaro che altro, qui, non c’è. Ma non vedo neppure come ci si possa ingegnare a fare di máthēsis un generico sunto della conoscenza sensibile, privando questa conoscenza, oltre che il termine stesso máthēsis, del suo contenuto intellettivo o d’altra specie. In quanto tale, la conoscenza intellettiva dovrebbe essere per forza cosa distinta dai sensi, per cui máthēsis «dovrebbe indicare soltanto il sapere ottenuto attraverso l’esperienza sensibile», ossia «l’apprendimento attraverso l’osservazione diretta, le ricerche fatte in prima persona, la conoscenza ottenuta per essere stato ‘testimone oculare’».2 Simile conoscenza «rappresenta pur sempre un elemento indispensabile per la realizzazione della vera sapienza» – che però, a quanto pare, viene soltanto ‘dopo’. In che consista questa vera sapienza successiva, poi, non è ben chiaro: citando Antonio Battegazzore sembra ch’essa

1   Avverto che userò, in generale, il termine ‘propaganda’ per indicare la sua prima attività politica filo-costituzionale (e anche, meno propriamente, la sua presa di posizione filo-tirannica), mentre userò più avanti la parola ‘divulgazione’ per indicare la sua attività successiva al ritorno in città. 2   Così Aniello Montano (Máthēsis e nóos in Eraclito, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di Livio Rossetti, Ateneo, Roma 1983, [SH] I, p. 132), il quale traduce: «Le cose di cui c’è vista e c’è udito, in sintesi c’è esperienza sensibile, queste io preferisco».

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1. la città e le passioni   83

consista in una «intrinseca» acquisizione (perché la sensibilità, si sa, è ‘estrinseca’), oppure (tanto per cambiare) in un’intuizione di ciò «che si nasconde nel profondo», «riservata a pochi ispirati». Ma intanto si precisa il significato di máthēsis come «semplice … comprensione superficiale delle cose», o «semplice... sapere superficiale e frammentario».3 Questo insistere sulla ‘semplicità’ della conoscenza sensibile può effettivamente avere un senso, se si fa di questa máthēsis un sinonimo della semplice opinione personale, scevra da pregiudizi. L’opinione ‘semplice’ si distingue dall’opinione ‘comune’ in quanto è del tutto autonoma, non derivata dall’ambiente o dai costumi e dai pregiudizi altrui. Trattandosi di un giudizio strettamente personale, è chiaro che la natura non-pregiudiziale dell’opinione ‘semplice’ va intesa in senso soltanto relativo: perché è chiaro che l’Eraclito esordiente non è un bambino, e che le sue ‘semplici’ opinioni sono il prodotto di un’educazione rivolta all’assolvimento professionale di un ruolo sociale. Questa educazione non può non avere condizionato la sua sensibilità e il suo intelletto. Ammesso e precisato tutto ciò, dunque, diciamo che Eraclito si accinse all’assolvimento dei doveri attinenti al suo ufficio dotandosi di una semplice opinione personale, e pervenne alla fine della sua vita ad una ‘retta’ opinione su uomini e cose di questo mondo, che per lui significò tutto. DK 14 / DS 122 / C 84

τὰ γὰρ νομιζόμενα κατ’ἀνθρώπους μυστήρια ἀνιερωστὶ μυεῦνται. I riti segreti che sono in uso fra gli uomini non hanno nulla di sacro. I misteri non gl’interessano in senso specifico, bensì soltanto in quanto sono generici riti segreti. Come tali, essi sfuggono alla sua competenza, e ciò in qualche modo offende il suo amor proprio. Ma giudica pur sempre la vita dei suoi concittadini soltanto per ciò che gli compete per ufficio. Ancora non si occupa di politica, lui. Pensa di doversi occupare della moralità dell’intera vita cittadina (non fa alcun cenno ai governanti, parla anzi di uomini in genere) secondo i precetti di una semplice, chiara e pratica moralità per tutti.

  Ivi (SH), I, pp. 132-133.

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84   parte prima. eraclito

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DK 5 / DS 121 / C 85

καθαίρονται δ’ ἄλλωι αἵματι μιαινόμενοι οἷον εἴ τις εἰς πηλὸν ἐμβὰς πηλῶι ἀπονίζοιτο. μαίνεσθαι δ’ ἂν δοκοίη, εἴ τις αὐτὸν ἀνθρώπων ἐπιφράσαιτο οὕτω ποιέοντα. καὶ τοῖς ἀγάλμασι δὲ τουτέοισιν εὔχονται, ὁκοῖον εἴ τις δόμοισι λεσχηνεύοιτο, οὔ τι γινώσκων θεοὺς οὐδ’ ἥρωας οἵτινές εἰσι. Si purificano lordandosi con altro sangue, come se qualcuno si detergesse dal fango immergendosi nel fango: e se uno degli uomini lo vedesse far questo, lo considererebbe pazzo. E rivolgono preci a cotali simulacri, come se qualcuno conversasse coi muri, non sapendo chi sono gli dèi, né gli eroi. Eraclito non possiede ancora il benché minimo pensiero della contraddizione, evidentemente, perché considera un’assurdità il mettere sangue purificatore su sangue contaminatore, e fango su fango. Sente di essere un competente in materia religiosa: suona già qui il biasimo dell’ignoranza in materia di miti e di teologia, che verrà fuori ancora più avanti in maniera più contorta ed astiosa. È come se avesse visto celebrare sacrifici, e rivolgere preghiere o invocazioni inappropriate agli dèi e agli eroi meno adatti a riceverle e ad esaudirle. Tutto ciò rientra ancora in un quadro di difesa delle legittime prerogative del suo ruolo ufficiale, ossia nel quadro di un esercizio convinto e volonteroso dell’ufficio religioso al quale era stato destinato per ragioni di discendenza e di rango. Eraclito non rivolge il suo biasimo agl’iniziati ai misteri, come nel frammento precedente DK 14, bensì ad affiliati di sette particolari, dotati di particolari riti e credenze. Si tratta di riti non artemìsi, contemplativi o cruenti, ben più assurdi o spregevoli rispetto ai dubbi riti misterici che ha appena disapprovato in DK 14. Noi notiamo qui la sua tendenza ad orientarsi, nella situazione religiosa che gli tocca affrontare, mediante l’osservazione e il giudizio su estremi diametralmente opposti. È quel che si dice un ‘panorama per sommi capi’: da una parte i riti latomici; dall’altra i riti esibizionistici; e poi, all’interno di questi ultimi, di nuovo i due capi opposti della purificazione per commistione, ovvero per ascesi. In simile ragionevole posizione c’è già, evidentemente, qualcosa dell’intuizione della verità nell’unità del centro, o del giusto mezzo. La conclusione mostra che per lui la sensibilità materiale, tattile, del contatto offende il vero sentimento religioso non soltanto negli aspetti più lordi d’un qualche barbaro rito, ma anche negli aspetti più elevati del puro contatto visivo, con la contemplazione delle immagini. C’è qualcosa di ‘protestante’ in

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1. la città e le passioni   85

questa sua posizione iconoclasta. E tuttavia io non credo proprio che a questo pensiero DK 5 debba seguire il DK 54 che ho collocato nel secondo periodo della sua vita («Non manifesta armonia di manifesta è più forte»), perché parlare di ‘armonia’ significa già ammettere uno sviluppo del suo pensiero sui piani della contraddizione e dell’unità degli opposti. Nulla di simile esiste ancora nella prima parte della sua vita. DK 37 / DS 100 / C 92

sues caeno, cohortales aves pulvere vel cinere lavari. I porci si lavano nel fango, e i polli nella polvere e nella cenere. Conferma il giudizio espresso nella prima parte del pensiero precedente DK 5. Il paragone con gli animali non deve far pensare che Eraclito divida l’umanità in uomini superiori e inferiori – tutt’altro: di una simile idea non esiste la benché minima traccia in tutti i suoi pensieri. Se così non fosse, egli non si dedicherebbe tanto a biasimare chi non avrebbe speranza di riscattarsi mediante la sua esortazione. Anche quando esprimerà i suoi giudizi più desolati (e anzi: proprio in questi!), lo farà sempre in riferimento all’intera umanità in genere. Una qualche distinzione di gradi (come nel caso tipico di DK 1) esiste per lui unicamente in riferimento alle capacità dell’apprendimento. Sul piano strettamente religioso, invece, che è il suo campo professionale di competenza, le distinzioni esistono, eccome; ma non si tratta di distinzioni d’ordine verticale, bensì orizzontale: relative alle sette che proliferano attorno al tempio. DK 13 / DS 99 / C 91

ὕες βορβόρωι ἥδονται μᾶλλον ἢ καθαρῶι ὕδατι. I porci godono più nel fango che nell’acqua pura. Un giorno dovrà ammettere che l’acqua di mare è vitale ai pesci ed esiziale agli uomini. Ma qui parla ancora, senz’altro, di acqua pura. Così come ha voluto iniziare la sua missione imparando dagli occhi, e così come ha voluto insegnare agli altri ad osservarsi, così anche Eraclito deve arrendersi di fronte all’evidenza, la quale insegna che ciascuno segue la propria natura. La sua

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86   parte prima. eraclito

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intelligenza fortemente umorale segue un circolo tutto sommato piuttosto breve, o rapido, di slancio e di sfacelo – che è un po’ la ciclotimìa tipica dei moralisti. DK 63 / DS 115 / C 106

ἔνθα δ’ ἐόντι ἐπανίστασθαι καὶ φύλακας γίνεσθαι ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν. Si protendono verso di lui, che sta lì, e così desti diventano d’un tratto custodi dei vivi e dei morti. Conferma il giudizio espresso nella seconda parte del pensiero precedente DK 5. In più, aggiunge il sarcasmo verso le facili iniziazioni che sono possibili nelle nuove sette religiose. Diventare ministro della divinità è una cosa seria: a lui dev’essere costato molto di più. Il dio «che sta lì» significa: che non parla, che fa da simulacro, che è (per esempio) litico o fittile, metallico o ligneo, dipinto. Esso non è, insomma, che un idolo muto. I fedeli dovrebbero invece ascoltare la viva voce di lui, che parla a loro – ma essi non lo ascoltano. Incominciano i pensieri segnati dalla frustrazione, dettati dall’amarezza, oltre che motivati dal biasimo. Si capisce chiaramente che il culto artemisio non capta i sentimenti religiosi quanto dovrebbe. Si possono fare le supposizioni sociologiche o antiquarie le più varie e le più fantasiose – ma non è questo che conta. Conta assai più osservare la logica temperamentale, reattiva, di Eraclito: il quale, da perfetto moralista, non si domanda minimamente la ragione della crisi che il culto da lui amministrato sta attraversando – no: preferisce rivolgere ai disertori due diversi rimproveri, uno assai cólto e uno assai infamante. DK 15 / DS 123 / C 82

εἰ μὴ γὰρ Διονύσωι πομπὴν ἐποιοῦντο καὶ ὕμνεον ἆισμα αἰδοίοισιν, ἀναιδέστατα εἴργαστ’ ἄν· ὡυτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος, ὅτεωι μαίνονται καὶ ληναΐζουσιν. Se non fosse a Dioniso che fanno il corteo, e intonando per giunta l’inno fallico, sarebbe di somma vergogna: se non che il medesimo sono Ade e Dioniso, per cui infuriano e impazzano.

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1. la città e le passioni   87

Questo pensiero può lasciare capire che Eraclito a un certo punto moderò qualche suo giudizio di biasimo, e cercò anche, a quanto sembra, di capire un poco le ragioni degli altri. Lo fece nell’unico modo in cui sapeva farlo: cercando a favore degli altri qualche sottile giustificazione, che in realtà poteva convincere soltanto lui. Ne discuterò immediatamente – ma non prima d’aver fatto osservare al lettore che certe diseguaglianze di pensiero si spiegano anche (o comunque implicano) una successione temporale interrotta: in questo, come in tanti altri casi, non è possibile che i pensieri siano frammenti coevi di una sola opera, di un solo scritto coerente ed organico. Questo appunto è di difficile interpretazione, in quanto il pensiero contenuto è fortemente contorto per ragioni teologiche, sociali, e soprattutto umorali. Si tratta di un’espressione momentanea. Ed effettivamente non ci sarebbe stata neppure una vera ragione per scriverlo, dal momento che, come Eraclito stesso dice, manca una vera ragione per lo scandalo: se non fosse a Dioniso che i coribanti fanno il corteo fallico, sarebbe uno scandalo – ma in realtà (come lui dice di sapere) lo stanno facendo proprio in onore di Dioniso, anche se essi non lo sanno; e dunque lo scandalo in realtà non c’è. Qualcuno nel tempio di Artemide gli avrà fatto notare lo scandalo di un corteo fallico in onore di Ade; ed è possibile che egli sia dovuto intervenire in una disputa per sedare gli animi e mettere le cose in chiaro, assumendo una posizione conciliatrice. Di nuovo, come si vede, il pensiero degli opposti scaturisce dall’esercizio pratico della sua professione. Qual è il problema che lo affligge, dunque, e che lo induce a scrivere? Il problema sta nel fatto che il corteo fallico è stato organizzato in onore di Ade, non di Dioniso; e che il sacerdote conosce la parentela mitica fra Ade e Dioniso, e sa che quel corteo o festeggiamento può effettivamente, in realtà, celebrare comunque Dioniso.4

4   La fede nell’originaria natura ctonia di Dioniso Zagreo, sopraffatta dalla genealogia olimpica, non ci è stata tramandata da un grande numero di testimonianze. Olimpiodoro (In Platonis Phaedonem commentaria, 68) definisce Dioniso «ministro della morte» (éforos toũ thanátou). Diodoro Siculo (I, 96) afferma che in Egitto il rito misterico di Osiride è identico a quello di Dioniso. Commentando un passo alquanto vago di Plutarco (Iside e Osiride, 27) lo Scarpi afferma che la prima assimilazione di Osiride nel mondo greco è con Dioniso e con Ade (v. gli studi citati in Le religioni dei misteri, a cura di Paolo Scarpi, Valla-Mondadori, Milano 2002, II, p. 484). La parentela di Dioniso con Ade è testimoniata dall’Ethimologicum Magnum (406, 46) e dall’Etymologicum Gudianum (287, 41). Su tutto ciò si può vedere Vittorio Macchioro, Zagreus. Studi intorno all’orfismo, Vallecchi, Firenze 1930, pp. 148 nota 4 e 369 ss. Zagreo è figlio di Ade e di Persefone, ma c’è chi afferma (senza citare fonti a conferma) che Persefone era già incinta di Zeus quando fu rapita (Robert Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 1955, p. 145). L’opinione è probabilmente derivata dall’interpretazione di un passo dell’Inno a Demetra: il quale, ai vv. 78-79, dice che Zeus destinò o assegnò o concesse Demetra ad Ade (édōk’Aĩdē) perché fosse detta sua sposa; e Ade ci tiene ad essere considerato uno sposo degno del fratello (vv. 360 ss.). Ade, come Dioniso, è divinità polionimica – ma già secondo Platone la polionimia (con ‘Plutone’; ma anche con ‘Climeno’,

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88   parte prima. eraclito

Lo scandalo in qualche modo c’è, e in qualche modo non c’è. Ma c’è sicuramente per lui, che fa il sacerdote, lo spettacolo dell’ignoranza, della commistione casuale (anche se andata a buon fine, stavolta) dei miti misterici: egli non li apprezza – ma si deve soprattutto destreggiare nel disordine dei culti, e nell’infuriare e nell’impazzare per un dio della morte portando in trionfo il simbolo opposto, della generazione. Egli sa che il dio della vita e il dio della morte non sono che uno (secondo, del resto, una comune idea ciclica della rigenerazione) – ma lo preoccupa la mancanza di senso delle distinzioni, del decoro e dell’opportunità. Per avere questo senso, occorre vivere in una città bene ordinata – e questo ancora non è compito suo; ma per dirimere una disputa bisogna ben possedere una dottrina, e lui crede onestamente di possederla, questa dottrina – o forse si accorge ora, per la prima volta, di non possederla in modo adeguato, efficace: sotto il profilo mitico la parentela fra Ade e Dioniso è alquanto rara e disputata, persino peregrina. E perché se no, scrivere questa nota stizzita e rimasta priva di svolgimento? Al di fuori della registrazione di un serio problema personale, essa non avrebbe alcun senso. Una stretta relazione tra la filosofia di Eraclito e i riti e i miti misterici dell’orfismo non è sostenuta con chiarezza, in definitiva, da nessuno. Anche Macchioro, il quale riconosce e forse lamenta che la teoria delle influenze orfiche non sia stata propugnata che da Lassalle, esagera di molto: secondo Lassalle, infatti, «entrambi i partiti contendenti hanno insieme ragione e torto»5; e per il resto non aggiunge nulla di nuovo agli studi di cui si serve per la sua scolastica applicazione hegeliana, come ho già detto nell’Introduzione.6 Sempre nell’Introduzione ho già menzionato l’opinione di Georg Friedrich Creuzer, il quale fece risalire le divagazioni naturalistiche di Eraclito all’oscura e mista simbologia artemisia.7 Questo semplice suggerimento (perché altro di più non è) fu avvallato dall’autorità, soprattutto, dello Zeller. Ma a moderarne l’importanza possono servire gli sforzi di chi batte, piuttosto, la più prudente via della riconduzione, diciamo così, del più ignoto al meno ignoto: il culto di Artemide efesia sarebbe stato imparentato col culto di Demetra eleusina per esempio) non andava considerata che come un modo per esorcizzarlo (Cratilo, 403 a). Negli Inni orfici si parla di un chthónios Diónusos (53, 1, ed. Gabriella Ricciardelli, Valla Mondadori, Milano 2000, pp. 140 e 141; e v. anche Karl Kerény, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano 1992, pp. 226-227, il quale dà la coincidenza di Ade e Dioniso come nota a tutti). In un recente ritrovamento sepolcrale di lettere scritte su piombo, risalenti al VI o V secolo, compaiono riferimenti all’estasi dionisiaca. Il nome di Dioniso si associa così alla sfera di Ade (Walter Burkert, Eraclito nel papiro di Derveni: due nuove testimonianze, in SH, I, p. 37). 5   Macchioro, Zagreus, p. 369 nota 1; Ferdinand Lassalle, Die Philosophie Herakleitos des dunklen von Ephesos, in Gesammelte Reden und Schriften, ed. Bernstein, Cassirer, Berlin 1920, VII, p. 61. 6   Alla nota 29. 7   Alla nota 46.

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– cosicché Eraclito viene in qualche modo ricollegato con gli appena meno misteriosi culti di Eleusi, della madre e della terra, della generazione e della rigenerazione.8 Ma a me sembra che soprattutto ci sia, in questo frammento, il rancore per l’indifferenza nei confronti delle sue funzioni: ecco ciò che gli sta più a cuore. Nessuno lo ha consultato sulla liceità di un corteo fallico o di un baccanale in onore di Ade; il corteo è spontaneo, oppure organizzato chissà come e da chi. Ci sono altri consiglieri, altri pretesi teologi in circolazione – e questa volta non si può far nulla, perché in qualche modo hanno saputo mescolare cose diverse ma non del tutto incompatibili. Non si può parlare, a rigore, di una profanazione – e lui non può far da guida, bensì da mediatore, oppure deve rassegnarsi a starsene zitto. O forse è accaduto persino di peggio: a Efeso si sarà forse fatta una processione fallica in onore di Ade, credendolo diverso da Dioniso; e ciò sarebbe davvero un oltraggio, se i due dèi non fossero strettamente collegati da un mito che lui solo, come sacerdote specializzato, può chiaramente conoscere. Ad ogni modo, noi dobbiamo constatare che ad Eraclito giunge notizia di riti non disciplinati, che egli giudica o ha sentito giudicare alquanto confusi e irriverenti sotto il profilo mitico e teologico. Questo aspetto soggettivo della fede popolare, la sua casuale motivazione, o la sua mancanza di lecita motivazione, dunque, e non la destinazione del rito in sé, è ciò che l’offende. Egli manifesta qui un aspetto alquanto ombroso della sua personalità già frustrata, che non può aver giovato a migliorare i rapporti coi suoi concittadini. Pur esprimendo un giudizio vagamente favorevole all’unità di divinità come queste, assai diverse, si mostra però nettamente contrario, almeno qui, ad ogni commistione disordinata dei riti. È il tono, è il senso a farlo capire, più che le parole. In futuri svolgimenti di pensiero le cose si presenteranno diversamente, allorché parlerà di un unico dio concepito secondo un’idea di sostanza assai mista e fluida come «Il dio giorno-notte, inverno-estate, ...» (DK 67), e simili. Ma qui, per il momento, a lui non interessa ripristinare l’autenticità e la semplicità di un antico assunto religioso, com’è quello dell’origine ctonia di Dioniso, precedente al suo mito olimpico. Il suo non è, insomma, un pacioso problema accademico. L’identità che qui viene ammessa fra Ade e Dioniso con una reazione alquanto confusa, umorale, non è che un suo puntiglio personale: fa il teologo, lui; perché allora, in casi come questo, non è stato consultato,

8   Rodolfo Mondolfo e Leonardo Tarán, Introduzione a Eraclito, Testimonianze e imitazioni, La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 59-60.

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90   parte prima. eraclito

ed è dovuto intervenire a cose fatte? La sua esclamazione, qui, non va dunque interpretata già alla luce della futura dottrina – vale a dire, come unità di contrari: con un Ade che presiede alla dissoluzione dei corpi, per esempio, e un Dioniso che presiede alla dissoluzione degli spiriti. Eraclito non avrebbe parlato, in tal caso, di vergogna, bensì d’insipienza – né, del resto, avrebbe degnato l’avvenimento meritevole di menzione in riferimento ad una sua dottrina, che dall’episodio uscirebbe addirittura ridicolizzata. Il tono del biasimo stizzoso e frustrato, qui, è invece proprio tipico del suo moralismo nell’osservare e giudicare la vita dei concittadini durante la prima fase della sua vita. Lassalle propose di emendare e tradurre: «E se non facessero il corteo a Dioniso e [non] intonassero a lui [cioè a Dioniso] l’inno [fallico], si renderebbe omaggio alle parti vergognose nel modo più vergognoso; ma il medesimo infatti è Ade e Dioniso, per cui infuriano…», ecc.9 Questa proposta rende la seconda parte della sentenza incomprensibile, perché non si vede la congruenza della menzione dell’identità di Ade con Dioniso. Con la precisazione sottolineata «a lui», poi, Lassalle vuol far dire ad Eraclito che sarebbe osceno intonare l’inno al simulacro del fallo come tale – ma che essendo l’inno, in realtà, intonato a Dioniso, sia pure attraverso un suo simulacro osceno, non esiste ragione di vergogna. Ora, Eraclito ebbe dure parole di sarcasmo contro coloro che adorano idoli e sembrano parlare coi muri (DK 5, DK 63), mentre è chiaro, d’altra parte, che in ogni simulacro è rappresentata una divinità. Non è possibile che la giustificazione di Eraclito valga, a mo’ d’eccezione, soltanto per quest’occasione, per questo simulacro e per questa divinità; ed è ancora più difficile immaginare che egli abbia cambiato opinione in proposito di adorazione di simulacri. La spiegazione va dunque cercata nella seconda parte di questa riflessione occasionale (che è improprio chiamare ‘frammento’). Ripeto: non in onore di Dioniso fu organizzato il corteo fallico, bensì in onore di Ade; e ciò sarebbe sacrilego – ma in realtà non lo è, dal momento che è possibile far coincidere Ade, in sostanza, con Dioniso, in onore del quale si celebrano cortei fallici legittimi. È vero (come dice Macchioro, per esempio) che in tal modo Eraclito vuole difendere certi riti – ma questo vale solo contro gl’incompetenti. E poiché egli non era affatto disposto a patrocinare simili pratiche di culto, è chiaro, d’altra parte, che anche nei confronti degli orgiasti egli non poteva avere sentimenti di simpatia. Eraclito era semplicemente costretto a prendere atto che gli uni biasimavano ciò che non capivano solo perché non lo   Lassalle, Die Philosophie Herakleitos, pp. 336-337.

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1. la città e le passioni   91

conoscevano, mentre gli altri facevano ciò che, in fondo, era lecito, ma senza saperlo, o forse sapendolo chissà come. Qui si esprime dunque lo stato d’animo stizzoso di un uomo che si accorge di vivere in una situazione confusa, che gli sfugge. Macchioro, come ho detto, interpreta il frammento eracliteo come una difesa del rito misterico e orgiastico delle feste Lenee, le quali, al di là delle apparenze, andavano capite (secondo Eraclito) per il loro vero significato.10 Così quella di Eraclito sarebbe una pubblica perorazione in favore di questi orgiasti; e quest’opinione è messa in bocca ad un uomo che non l’aprì mai se non per esprimere il biasimo, oltre che per insegnare. Ma qui non si tratta, per lui, d’impartire un insegnamento, bensì di esprimere privatamente una sua recriminazione. Clemente Alessandrino ha interpretato le parole di Eraclito nello stesso modo, e se ne è servito per infamare i culti orgiastici e misterici. Tutti i commentatori moderni le hanno interpretate come un biasimo, ad eccezione di Edmund Pfleiderer: il quale pensò che Eraclito avesse voluto giustificare il baccanale apprezzandone il contenuto di misterica identificazione fra Ade e Dioniso.11 Ma quella di Eraclito, alla fine del frammento, non è che la semplice constatazione della verità di una nozione, ch’egli sa di possedere ben chiara, a differenza dei coribanti che per il resto biasima. E fra lui e i coribanti ci sono dei terzi, ai quali egli dovrebbe illustrare questa nozione evidentemente già rara o desueta. Con loro, probabilmente, egli ebbe una disputa. L’origine estemporanea, del tutto episodica e persino fortuita di questo appunto (come d’altri, del resto, che vedremo: del tutto contraddittori fra loro) dimostra, come ho già detto, che i cosiddetti ‘frammenti’ di Eraclito non possono appartenere tutti ad un suo unico discorso organico, che ci sarebbe rimasto in lacerti. I frammenti sono per lo più pensieri sparsi in osservazioni cronachistiche personali e in sentenze gnomiche, talvolta di carattere del tutto umorale e momentaneo, che furono da lui stesso raccolte e depositate per essere tramandate e lette proprio, suppergiù, nella forma in cui noi le possediamo. Nulla vieta, del resto, di supporre che Eraclito si proponesse di fonderli in un trattato o in un poema organico, per il quale non ebbe tempo, voglia, o talento. La conseguenza di questa sua insopportabile situazione, comunque, è in definitiva una sola: Eraclito comincia a sentirsi un uomo impotente, e teme di diventare un uomo inutile. E perciò ha voglia di fare, di uscire dal tempio.

  Macchioro, Zagreus, p. 377.   Ivi, p. 373.

10 11

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92   parte prima. eraclito

Il disordine religioso si cura non con le sottigliezze teologiche, bensì mediante l’educazione e un buon governo cittadino. Egli lascia la teologia per la pedagogia prima, e per la politica poi. Se gli altri non lo cercano, sarà lui a cercare loro. Comincia la lunga serie dei frammenti del biasimo implacabile sui costumi. il moralista DK 110 / DS 92 / C 89

ἀνθρώποις γίνεσθαι ὁκόσα θέλουσιν οὐκ ἄμεινον. Non è meglio che agli uomini tocchi quello che vogliono. È il principio disciplinare di tutti i moralizzatori. Ha cessato di rivolgersi a categorie particolari di uomini, distinte secondo la fede. DK 125 a / DS 124 / C 14

μὴ ἐπιλίποι ὑμᾶς πλοῦτος, Ἐφέσιοι, ἵν’ ἐξελέγχοισθε πονηρευόμενοι. L’opulenza non vi abbandoni, o efesini, affinché voi stessi riconosciate quanto siete mediocri! Il sarcasmo nasconde un resto di fiducia in un popolo che, se si vedesse com’è, ancora potrebbe correggersi con i propri mezzi. Questi mezzi sono gli stessi che hanno giovato a lui: in primo luogo la vista. Mentre biasima ed esorta i concittadini, egli tuttavia non considera ancora indispensabile l’impiego predicatorio della sua parola, perché il solo spettacolo dei vizi potrebbe ancora costituire il loro rimedio. Se questa disposizione dell’ordine dei suoi pensieri è convincente, Eraclito, come si vede, non cominciò affatto a praticare fervorosamente e pubblicamente il lógos come se si fosse proclamato ministro di questa sua nuova divinità. Ciò lo avrebbe esposto semplicemente al ridicolo – o per lo meno all’amara frustrazione che egli confessa in DK 1, dalla quale non è plausibile fare iniziare la sua vicenda senza lasciar capire da che cosa nasca. Si risolse, invece, a ricorrere alla pratica del cosiddetto lógos (la cui varietà di significati, anche pratici, non ha nulla di mistico) soltanto per gradi: prima annotando le sue osservazioni e i suoi giudizi professionali, poi facendone

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1. la città e le passioni   93

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oggetto di discussione interna al tempio, poi rivolgendosi ai concittadini cautamente, ed infine apertamente. DK 4 / DS 101 / C 90

si felicitas esset in delectationibus corporis, boves felices diceremus, cum inveniant orobum ad comendum. Se la felicità fosse nei piaceri del corpo, dovremmo dire felici i bovi quando trovano vecce da mangiare. Vuole essere didattico, persuasivo. Si sente che vuole cominciare a parlare con una certa indulgenza, dal momento che la fiducia nella vista, evidentemente, non gli basta più. Tono e qualità di pensieri come questo sono simili, per l’evidenza, alle future esemplificazioni più simboliche, le quali ricorreranno ai casi dell’arco e della lira, dell’acqua di mare, della vite, del circolo o della malattia, e simili: saranno evidenze altrettanto concrete, quelle, che egli presceglierà al momento del suo ritorno nella vita pubblica allo scopo d’insegnare gli elementi di una dottrina. Non è questa l’unica evenienza in cui cose simili si presentano nei pensieri di Eraclito due volte, con un significato o uno scopo diverso – insomma: con un ritorno. Ma direi anzi che tutta la sua figura offre, nell’insieme, l’esempio di una tipica personalità fatta di ritorni. Questo frammento esclude che Eraclito (secondo affermano alcuni interpreti) abbia voluto relativizzare i comportamenti umani (nel senso senofaneo, o persino sofistico, protagoreo) – anzi: ad una qualsiasi relativizzazione egli è qui fermamente contrario. E le riflessioni che poi svilupperà su di un confuso piano cosmicheggiante e metafisicheggiante saranno non meno dirette a combattere il relativismo sul piano più radicale, fisico e ontologico, dando alla relazione la forma certa, sostanziale e logica, del fuoco e del rapporto.12

12   Lo Snell, che accenna appena a simili interpretazioni relativistiche, avverte che il preteso relativismo eracliteo, non diversamente dal cosiddetto pánta reĩ, appartiene ai seguaci, e non a lui (Bruno Snell, Il linguaggio di Eraclito, Corbo, Ferrara 1989, p. 8). E tuttavia nella sua interpretazione ci mette, di fatto, l’uno e l’altro.

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94   parte prima. eraclito DK 9 / DS 98 / C 93

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ὄνους σύρματ’ ἂν ἑλέσθαι μᾶλλον ἢ χρυσόν. Gli asini vorrebbero scegliersi lo strame, piuttosto che l’oro. Intendi ancora, come in DK 4: “Se la felicità fosse nei piaceri del corpo...”. Il riferimento all’oro è assai importante, perché lascia capire facilmente a chi Eraclito si sta rivolgendo. Il suo biasimo non è affatto diretto a correggere l’umanità in genere, né la generica cittadinanza, bensì a correggere i suoi rappresentanti più cospicui almeno sotto il profilo patrimoniale, se non anche politico. Il suo interesse, tuttavia, non è ancora politico, bensì riguarda il solo governo delle persone. Volta in altri termini, l’espressione suona: “Voi, che prediligete l’oro, fate però come gli asini riguardo al governo delle vostre persone”. DK 29 / DS 110 / C 99

αἱρεῦνται ἓν ἀντὶ ἁπάντων οἱ ἄριστοι, κλέος ἀέναον θνητῶν· οἱ δὲ πολλοὶ κεκόρηνται ὅκωσπερ κτήνεα. Una cosa sola si scelgono i migliori, anziché ogni altra: fama perenne tra i mortali. Ma i più se ne stanno sazi come bestie. Intende riferirsi a “i più fra i migliori”, e si rivolge dunque ad una parte, la maggiore, dei cittadini cospicui. Resta da vedere di quali migliori e di quale maggioranza si tratti. Poiché è di una maggioranza «sazia» che parla, è probabile che egli si rivolga ad un pubblico alquanto più largo della classe degli ottimati. Non è dunque ancora ad una classe dirigente, politica, che si rivolge. Il suo interlocutore (sempre che poi esista: questo pensiero potrebbe essere una semplice annotazione privata, sullo stile, tanto per capirsi, delle Ricordanze di Guicciardini); il suo interlocutore, dunque, continua a rimanere assai generico e, detto francamente, anche sfuocato. Non è possibile, infatti, rivolgere un biasimo a «i più» fra «i migliori» e, al tempo stesso, indicare la méta della fama perenne tra i mortali – come se questo dovesse essere lo scopo della loro vita. Eraclito confonde lo scopo possibile soltanto a ‘i migliori fra i migliori’ (vale a dire: a ‘i meno fra i migliori’, ad una piccola minoranza nel loro numero) con lo scopo doveroso a ‘i più fra i migliori’, che è un’altra cosa. Quest’altra cosa egli ancora non la vede, o la trascura, evidentemente:

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1. la città e le passioni   95

ed essa consiste nel retto e virtuoso, o almeno semplicemente onesto, assolvimento dei comuni impegni connessi con gli uffici. Soltanto questo è ciò che si può ragionevolmente chiedere alla maggioranza delle buone minoranze: di dedicarsi seriamente all’amministrazione. Se Eraclito fallisce il bersaglio, ciò avviene perché la politica cittadina non è ancora entrata nel centro del suo campo visivo, ed egli ragiona nei termini astratti di un perfezionamento che oggi si direbbe ‘umanistico’. Parlare de “i più, sazi come bestie”, d’altra parte, fa pensare anche al popolo grasso – vale a dire: ad una fascia di popolazione assai più larga degli ottimati. Ma a costoro, effettivamente, non si può chiedere nulla; e Platone stesso, per esempio, rinunciò a pretendere dai demiurghi alcun perfezionamento personale, nonché l’assolvimento di alcun dovere che non fosse quello dell’obbedienza. Eraclito no, lui ci crede ancora e ci prova – solo che fra gli ottimati e il popolo è chiaro che non sa ancora bene a chi rivolgersi, né che cosa chiedere. Dove ci sono «i migliori», del resto, ci sono anche sempre «i più» – siano essi i più fra i migliori stessi, oppure la maggioranza cittadina in genere; e la minoranza fra i migliori, o anche i migliori stessi in quanto minoranza cittadina, non può che consentire, indisturbata, all’esortazione di Eraclito. L’esortazione non può interessare la minoranza, dunque, né il biasimo può toccare la maggioranza. Diversamente starebbero le cose, e la sentenza non mancherebbe il bersaglio né l’efficacia, se essa si arrestasse alla fine sua prima parte. Ma Eraclito crede di dovere per forza trarre una conclusione. Si rivela in questo pensiero un aspetto ricorrente della sua personalità: la tendenza alla predica inutile, o senza un destinatario ben definito (che è anche peggio). Né è detto, del resto, che questo destinatario sempre esista, e che Eraclito, perciò, non affidi le sue recriminazioni ad un quaderno personale. In ogni caso, la sua attenzione si rivolge ancora al costume, e non alla politica. Resta ancora da notare che quando, in età avanzata, vorrà porre fine al suo moralismo col riconoscimento della duplice natura degli esseri, la sazietà, che qui accomuna gli uomini alle bestie, diventerà attributo parziale del fuoco e della divinità. DK 20 / DS 50 / C 110

γενόμενοι ζώειν ἐθέλουσι μόρους τ’ ἔχειν, καὶ παῖδας καταλείπουσι μόρους γενέσθαι.

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96   parte prima. eraclito

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Nati a vivere, vogliono avere destini di morte; e lasciano che i figli siano portatori di altri destini di morte. Con un movimento caratteristico, rivolge la sua attenzione nella direzione opposta, verso la gente più comune, la plebe. Scopo di quelli che in DK 29 chiama «i più» è di saziarsi e di arricchirsi; e non è dunque ad una grande maggioranza che là si riferisce, bensì ad una maggioranza relativa. Qui, invece, lo scopo non è altro che quello di sopravvivere e di perpetuare la specie – che è lo scopo della maggioranza assoluta. Eraclito rivolge la sua attenzione nella direzione opposta perché egli è l’uomo dell’unità dei contrari già nella persona, prima ancora che nel pensiero; e lo rivolge alla gente comune perché il suo sarà, poi, un pensiero ‘comune’. Non parla, qui, bensì riflette in privato, e annota un pensiero. Ha scelto di riservare a se stesso le meditazioni più desolanti, come questa, che non vede alcuno scopo nel vivere della plebe, se non nel riprodursi. Per i migliori, invece, no: egli sa, e l’ha detto, che essi possono e devono avere uno scopo più alto. Non c’è alcunché di ‘esistenziale’, dunque, in queste sue tetraggini: perché chi non ha altro scopo che riprodurre l’esistenza non può interrogarsi circa il suo senso; e chi potrebbe interrogarsi sul senso dell’esistenza ha già la risposta pronta – la sua. DK 104 / DS 78 / C 31

τίς γàρ αὐτῶν νόος ἢ φρήν; δήμων ἀοιδοῖσι πείθονται καὶ διδασκάλωι χρείωνται ὁμίλωι οὐκ είδότες ὅτι “οἱ πολλοὶ κακοί, ὀλίγοι δὲ ἀγαθοί”. Qual è la loro testa, o il loro cuore? Credono ai cantastorie, e si servono della plebe come maestra, senza sapere che i più sono cattivi e solo i pochi son buoni. A chi si riferisce? Qui la plebe viene ad identificarsi con «i più», contrapposti a «i pochi». Non c’è più la maggioranza relativa dei migliori, ed egli comincia ad identificare meglio, schematicamente, i suoi destinatari: sono una minoranza cittadina vittima dei demagoghi (i cantastorie), o peggio ancora una minoranza che ostenta di volere imparare qualcosa dalla plebe, servendosene. Mi sembra chiaro che si tratta di una minoranza politica dirigente; e dunque per la prima volta egli è entrato nell’assemblea democratica, osservando quel che vi succede.

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1. la città e le passioni   97

Parlando di «testa» e di «cuore» egli fa uso di un generico schema antropomorfico dualistico, dal quale è stato estromesso il terzo termine delle viscere, o della sfera puramente appetitiva. Così sarà sempre, d’ora in poi, nei suoi pensieri; e lo schema triadico dell’antropomorfismo politico verrà ripristinato soltanto con Platone. DK 7 / DS 59 / C 41

εἰ πάντα τὰ ὄντα καπνὸς γένοιτο, ῥῖνες ἂν διαγνοῖεν. Se tutte le cose diventassero fumo, i nasi le distinguerebbero. È sarcastico. La facoltà conoscitiva dell’olfatto è lo strumento di conoscenza degli stolidi, i quali, ciechi, vanno dietro ai discorsi come i cani agli odori. Oltre alla testa e al cuore, l’uomo possiede anche una terza facoltà conoscitiva, di natura schiettamente animale come la sensibilità epidermica. Non si tratta di una ‘sfera’, di una ‘dimensione’ o di un ‘fattore’ (come si dice), o insomma di una grandezza antropomorfica divenuta tipica dell’antropologia politica – si tratta proprio di una facoltà. E sul ruolo di questa facoltà egli tornerà a riflettere in età avanzata, con uno dei suoi numerosi ritorni, allorché in DK 98 dirà che «le anime fiutano l’Ade». Chi invece non tornerà quasi più a considerare il ruolo conoscitivo dell’olfatto è la storia della filosofia, mentre l’esclusione nella storia della letteratura sarà più clemente. Alla sensibilità epidermica del tatto Platone riserverà ancora un ruolo nel Timeo, col suo ‘mondo’, il cieco animale planetario privo della vista. Vedremo col frammento DK 67a che un interesse per la sensibilità tattile si risveglia in Eraclito a tarda età, probabilmente in conseguenza della cecità. DK 87 / DS 58 / C 39

βλὰξ ἄνθρωπος ἐπὶ παντὶ λόγωι ἐπτοῆσθαι φιλεῖ. Lo stolido ama perdersi dietro ad ogni discorso. Siede ancora nell’assemblea; osserva, ascolta e giudica. Ma se tace, non è soltanto per disprezzo di ciò che gli si presenta – no: è anche perché i discorsi dell’assemblea lo fanno riflettere circa un problema che si pone a lui stesso. Quale discorso farebbe o farà, lui? Che cosa gli può garantire che non si gua-

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98   parte prima. eraclito

dagnerà, lui stesso, nient’altro che un seguito di stolidi, moralisti fanatici? Non è capo dell’ennesima fazione che vuole diventare. Il problema è un po’ il medesimo che si presentò a Marx ventiquattro secoli dopo: che cosa gli poteva garantire che la sua rivoluzione sarebbe stata veramente l’ultima, e che la dittatura del proletariato non sarebbe stata che l’ennesima sopraffazione di una classe sull’altra? Prima ancora di fare delle proposte, dunque, bisogna cambiare tipo di discorso. Bisogna che il discorso sia uno e comune. Comincia a capire che la sua predicazione religiosa (e poi morale) non è che una fra tante, e che è troppo generica. Occorre fare riferimento ad un discorso più generale ed astratto. Ha lasciato l’ufficio sacerdotale per dedicarsi a compiti più ampi e precisi, all’interesse cittadino. Sarà forse la politica a fare migliori gli uomini. il propagandista DK 114 / DS 8 / C 51

ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται. Colorocheparlanoconsennoènecessariocheinsistanosull’interessecomune a tutti, come legge della città, e senza mai stancarsi d’insistere. Tutte le leggi umane si nutrono infatti d’una sola, divina: la quale governa ogni cosa quanto le piace, e comanda a tutti, e tutto vince. Passando a propugnare la legge cittadina, non dimentica di trovarle una legittimità superiore nella legge divina: dopotutto, egli è un sacerdote orgoglioso del suo ruolo – anche se capisce che con la propugnazione della legge cittadina comincia per lui una fase nuova. Mi sembra probabile che egli abbia cominciato ad occuparsi della cosa pubblica non come semplice apprendista della politica, bensì con la pretesa di mantenere una continuità col suo ufficio religioso. D’altra parte, ciò riguarda ormai soltanto il passato. È il futuro che sembra preoccuparlo. Se anche parla di un interesse comune a tutti, sa perfettamente che gl’interessi in realtà sono molti; e sa anche, per conseguenza, che le leggi sono molte e assai variabili. Non riesce ancora ad immaginare una sola legge comune che sia superiore alle altre – quella, insomma, che noi chiameremmo una costituzione; e perciò è naturale che pensi ad una

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legge divina. Ma la sua pretesa non è certo (né avrebbe potuto essere) teocratica: altrimenti non parlerebbe tanto della necessità di «insistere» (che significa sempre, dopotutto, persuadere), bensì parlerebbe della necessità di affermarsi. Quindi non è ad una fazione di risoluti, che parla – e la cosa trova conferma nella conclusione: nella quale si dice che è la legge divina a governare, a comandare, a vincere. Credo proprio, perciò, che anche nella nuova situazione Eraclito sia solo, e che annoti i suoi pensieri come semplici volonterosi propositi. Fra xùn nóō («con senno») e xunõ («comune a tutti») c’è un esplicito doppio senso, come poi in DK 48. Eraclito vuol sempre mostrare, mai trarre in inganno con le parole. Egli ebbe, o avrebbe avuto certamente in odio i sofisti. DK 6 / DS 43 / C 118

ὁ ἥλιος νέος ἐφ’ ἡμέρηι ἐστίν. Il sole è nuovo ogni giorno. Questo «sole» si può interpretare come la legge che nasce ogni giorno nelle deliberazioni. Non si tratta certo di un elogio della volubilità della perfetta democrazia assembleare. Vuole battersi per il miglior regime possibile: il regime ideale che farà il popolo virtuoso (non viceversa) dovrà possedere il requisito dell’invariabilità. DK 113 / DS 10 / C 50

ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονεῖν. Comune a tutti è il pensiero. È l’enunciazione del cogito nella filosofia politica eraclitea. Anche il sole cambia ogni giorno – ma il pensiero di tutti non può cambiare. Ciò deve insegnare qualcosa circa il significato che va attribuito al cosiddetto ‘illuminismo’ eracliteo: il quale non è fatto ancora di osservazioni o d’ipotesi naturalistiche. Si attua qui un significativo progresso rispetto a DK 114. Mentre infatti là si parla di una legge divina sovrordinata ai molti interessi umani (ai quali corrispondono, inevitabilmente, le molte leggi effimere), qui egli si sforza di trovare una legge sovrordinata che sia di questa terra e comune a tutti, senza

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più il bisogno di ricorrere alla stabilità della sanzione unificante religiosa. Una certa sua innocenza, o mancanza di realismo (diciamo così), lo porta dapprima a riconoscere nel «pensiero» la legge comune. Si tratta di una soluzione di tipo prettamente socratico, come ben s’intende; e nel frammento DK 2, che segue, egli mostra di volere andare al di là di essa. Che ci riesca, o no, per lo meno si rende conto del problema politico che invece sfuggirà completamente a Socrate, e che sarà affrontato da Platone. Non credo affatto di esagerare, trovando nello spazio fra questi due frammenti la prima diversificazione di strade destinate a diventare del tutto diverse: quella della pedagogia inconcludente, e quella della filosofia politica. DK 2 / DS 7 / C 4

διὸ δεῖ ἕπεσθαι τῶι ξυνῶι, τουτέστι τῶι κοινῶι· ξυνὸς γὰρ ὁ κοινός. τοῦ λόγου δ’ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἰδίαν ἔχοντες φρόνησιν. Perciò bisogna perseguire l’interesse comune – vale a dire l’interesse pubblico: comune infatti è ciò ch’è pubblico. E pur essendo il discorso comune, i più vivono pensando di avere ciascuno una mente sua propria. Si nota qui un ulteriore importante progresso rispetto a DK 113. Eraclito deve trovare qualcosa di politicamente comunicabile, che non lo metta nella scomoda posizione del precettore che parla di «pensiero» anche a chi non ne ha. Al di là del suo cogito, egli non può farsi molte illusioni maieutiche, in proposito; ed è anche allo scopo di capire questo suo pregiudizio nei confronti della folla, indiscutibilmente sottostante al cogito (il quale, dopotutto, non è che un’intenzione, un buon proposito!) – è anche a questo scopo che bisogna sapere apprezzare come meritano i suoi primi pensieri e i giudizi moralistici o teologici derivati dall’adempimento dell’ufficio artemisio. Soltanto dei pedagoghi perdigiorno possono cominciare un dialogo fingendo di saper di non sapere. Eraclito a questo punto ne sa, di cose: ne ha viste, udite, intese – e non è da perdigiorno il suo interesse per la cosa pubblica. Allo scopo di ottenere un qualche primo risultato nell’adattamento pragmatico al suo nuovo ruolo politico, dunque, egli escogita una soluzione con lo strumento più idoneo in suo possesso: vale a dire, ricorrendo alla terminologia. Così spiega e ripete non già che interesse «comune» significa «pensiero», bensì che significa, in verità, interesse «pubblico». Questa è la dimostrazione, a me sembra, della duttilità pragmatica del nostro uomo. La seconda parte

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della sentenza, invece, segna un regresso del giudizio nella recriminazione, ed è del tutto caratteristica del suo modo di sentire: il quale sopraggiunge ad impedire lo sviluppo razionale del giudizio, esattamente come abbiamo già visto accadere nella conclusione di DK 29. Il biasimo non è più diretto, come si vede, contro i costumi corrotti che l’avevano occupato come sacerdote, bensì contro la varietà delle opinioni politiche. È interessante notare che Eraclito non descrive affatto una città divisa in pochi grandi partiti, bensì in innumerevoli opinioni, estremamente frammentate, quasi che ogni testa facesse parte a sé. Questo delle innumerevoli opinioni politiche costituisce, ora, il suo pubblico perfettibile; ma non c’è dubbio che l’estrema frammentazione politica non faciliti affatto il suo compito. Eraclito resta solo anche perché non può trovare davanti a sé un interlocutore di una qualche credibilità e consistenza. DK 16 / DS 104 / C 100

τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι; A ciò che non tramonta, come potrebbe mai qualcuno celarsi? Il re, il tiranno, gli oligarchi possono morire, il popolo può mutare opinione da un giorno all’altro, ma la legge non può cambiare. Quale legge? Ma quella che egli attendeva e propugnava con insistenza, mi sembra chiaro: una costituzione. Essa è stata finalmente promulgata, o è in procinto di essere promulgata e di entrare in vigore. Lo dimostra il fatto che Eraclito se l’immagina già come una stella fissa, onniveggente, sospesa sopra la città. L’interlocutore di Eraclito sono qui i timorosi, gl’incerti, i quali temono l’inefficacia di un mero dettato scritto, muto, al quale Eraclito cerca di dare voce. Perché, se no, affannarsi a spiegarlo, se non per mostrare i vantaggi democratici dell’invariabilità della legge? Questo frammento va messo a confronto con il tardo DK 120, nel quale parlerà di un’immobile erma di Zeus celeste come garanzia di stabilità e di tutela sulle cose umane, che la legge scolpita su di un muro non può garantire. DK 44 / DS 107 / C 15

μάχεσθαι χρὴ τὸν δῆμον ὑπὲρ τοῦ νόμου ὅκωσπερ τείχεος.

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102   parte prima. eraclito

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Bisogna che il popolo combatta per la legge che nasce come per le mura della città. È deciso a combattere per la costituzione, e ricorre alla metafora della guerra. Si tratta però di una metafora difensiva, anche se la costituzione sta nascendo, o si deve affermare, e richiederebbe invece il ricorso ad una metafora più simile a qualcosa come: ‘un ultimo sforzo’. Ma il ricorso alla metafora difensiva delle mura, che fa pensare a dei virtuosi assediati a difesa di qualcosa di solidamente compiuto, significa che la legge è stata sancita in forma materialmente lapidaria: la costituzione cittadina è stata scolpita su di un muro. L’immagine dell’assedio, perciò, è assai efficace, rivela talento oratorio, e promana dalla bocca o dalla mano di un ottimate, al quale mal si addice l’impiego di un linguaggio insurrezionale, di conquista, che saprebbe di cospiratorio e fazioso. DK 25 / DS 112 / C 104

μόροι μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι. Maggiore rischio di morte maggiore merita sorte. È possibile e plausibile che nell’assemblea Eraclito non sia rimasto spettatore muto, ma che si sia fatto promotore di leggi. Noi abbiamo forse tre testimonianze che si riferiscono a questo suo ruolo propositore. Nel caso di questa sentenza, che suona a motto, si tratta forse della proposta di ricompensare adeguatamente i combattenti più esposti al rischio. Potrebbe essere il segno di una sua sensibilità sociale e democratica, dal momento che l’assemblea non aveva alcun bisogno di consultazioni e di consigli riguardo alla distribuzione dei premi di guerra agli opliti, la quale seguiva una logica più o meno consolidata sin dai tempi omerici. Il problema si poteva porre, dunque, soltanto per dei ceti di nuovo arruolamento: ceti più umili, adibiti a mansioni non specializzate ma comunque rischiose. Se questa fosse l’interpretazione giusta, si tratterebbe di un frammento importante, perché la sensibilità sociale di Eraclito non è altrimenti testimoniata che insieme coi seguenti DK 84 e DK 24. DK 84 / DS 33 / C 66, 94

μεταβάλλον ἀναπαύεται· κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι.

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1. la città e le passioni   103

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Mutando condizione si riposa. È faticoso per le stesse persone lavorare e obbedire. Come DK 25 e DK 24, può trattarsi di una proposta di legge, formulata a motto, insieme con la sua breve giustificazione. Affermare che una medesima persona debba allo stesso tempo lavorare e obbedire sarebbe un’ovvietà, se la sentenza fosse riferita a dei servi o a degli schiavi. Dunque non si tratta di servi o schiavi, bensì di liberi cittadini esecutori generici di più di una qualche faticosa mansione. Quali esecutori? Oltre a fare il loro normale lavoro, essi devono anche obbedire – e a me sembra dunque probabile che si tratti di cittadini soldati reclutati alla difesa. Eraclito, in sostanza, desidera che i due compiti non vengano assolti contemporaneamente, e che i soldati vengano esonerati dalle loro abituali occupazioni civili, dedicandosi soltanto ai doveri militari, così come gli artigiani non devono assolvere ad obblighi militari durante il loro lavoro. Anche questo frammento, insieme con DK 25, testimonia una sua sensibilità sociale – ma più ampia, e rivolta verso la politica e verso l’ordine nell’impiego efficace delle forze. Nella Historia Augusta si trova una conferma estemporanea di una simile posizione: Massimino padre «non permise mai che alcun soldato lavorasse nell’esercito come fabbro o in altri tipi di artigianato, come sogliono fare i più». In Dione Cassio già si ode Mecenate dare lo stesso consiglio ad Augusto: «Per queste ragioni propongo che … siano i soldati più prestanti e, soprattutto, quelli maggiormente bisognosi di sostentamento ad essere scelti e a fare pratica con le armi. Infatti, se dedicheranno il loro tempo a questa unica occupazione, combatteranno meglio, mentre gli altri avranno la possibilità di coltivare la terra, di darsi al commercio marittimo e di praticare le altre attività commerciali che si addicono al tempo di pace».13 DK 24 / DS 111 / C 101

ἀρηϊφάτους θεοὶ τιμῶσι καὶ ἄνθρωποι. Dèi e uomini onorano i morti in battaglia. Si tratta di un’ovvietà, perché da tempo immemorabile i morti in battaglia ricevono sacre onoranze e umano compianto; e se invece non si tratta di un’ov  Maximini duo, 8, 4 (Soverini); Storia romana, 52, 27 (Stroppa).

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104   parte prima. eraclito

vietà, perché Eraclito ha sentito il bisogno di scriverla, allora deve trovare una spiegazione. Egli non può riferirsi agli opliti morti in battaglia, i quali venivano comunque onorati, bensì a coloro che non venivano onorati, o che qualcuno, ad ogni modo, non riteneva meritevoli di ricevere onoranze funebri. Si tratta dunque, a quanto pare, di combattenti comuni, di cittadini e forse persino di servi senza panoplia. Eraclito con questo pensiero vuol dire che “Dèi e uomini onorano ‘tutti quanti’ i morti in battaglia”, senza distinzioni: i morti sono tutti uguali. Come già DK 25 e DK 84, anche questa sentenza così estemporanea è preziosa per due motivi: perché ci dice quale fosse la sensibilità sociale e democratica di Eraclito nei confronti dei nuovi ceti, e forse persino degli umili; e poi perché mostra che egli non ebbe affatto la pretesa di servirsi della tribuna assembleare per fare propaganda ad una qualche sua propria dottrina, tediando i concittadini sui loro vizi morali o sulla loro mancanza di perspicacia speculativa, bensì per avanzare proposte concrete e di largo interesse. la delusione DK 23 / DS 103 / C 7

Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ἤιδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν. Non conoscerebbero il nome della giustizia, se queste cose non fossero. A quanto pare, è successo qualcosa. È una fortuna che esista tutto un insieme di cose giuste – ma qualcuno non se le merita. Che cosa farebbero mai gli efesini, senza la costituzione? È soltanto grazie ad essa che hanno potuto conoscere il nome della giustizia – eppure le cose, evidentemente, non vanno per il verso giusto. Ma di certo la costituzione è ancora vigente: “non conoscerebbero, se le cose non fossero” – ma le cose, invece, ancora sono. Eraclito deve assumere una posizione di resistenza contro i renitenti, in difesa della costituzione. DK 17 / DS 3 / C 28

οὐ φρονέουσι τοιαῦτα πολλοί, ὁκόσοι ἐγκυρεῦσιν, οὐδὲ μαθόντες γινώσκουσιν, ἑωυτοῖσι δὲ δοκέουσι.

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1. la città e le passioni   105

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Quelli che s’imbattono, e sono tanti, in queste cose, non ci riflettono; né quando le hanno imparate le conoscono – sebbene essi lo credano. Imbattersi nelle cose, e doverle impararle lì per lì, significa avere a che fare con problemi non professionali: è dunque escluso che Eraclito si riferisca alle abituali mansioni pratiche dei suoi ascoltatori di più modesta condizione. E poiché i numerosi cittadini a cui egli si riferisce credono invece d’avere imparato ciò in cui si sono imbattuti, è pure escluso che Eraclito si riferisca ad una qualsiasi dottrina ch’egli sia andato loro predicando. Si tratta dunque di un’esperienza nuova e inattesa, affrontata con buona volontà ma senza discernimento. È del tutto plausibile che si tratti della nuova esperienza costituzionale, ed è lecito supporre che esprimendo un giudizio di sfiducia su «i tanti» egli cominci a dubitare dell’efficacia della partecipazione democratica. D’altra parte, poiché costoro sono gente che dovrebbe sapere riflettere, e che crede d’avere imparato qualcosa di nuovo, è escluso che Eraclito si riferisca alla grande moltitudine. Egli dubita dunque della maturità politica di coloro che hanno patrocinato la costituzione democratica. La sentenza non si riferisce ad un ristretto numero di capi democratici, né alla folla, bensì al largo numero dei cittadini democratici o filo-costituzionali più attivi. Bisogna dire che Eraclito non rivolge mai il suo biasimo a gruppi ristretti, o a fazioni (le quali, come tali, evidentemente non gl’interessavano), bensì ad intere categorie sociali – oppure, in via eccezionale, a singoli personaggi ben noti che indica sempre per nome. DK 19 / DS 5 / C 30

ἀκοῦσαι οὐκ ἐπιστάμενοι οὐδ’ εἰπεῖν. Non sanno né ascoltare né parlare. Eraclito siede nell’assemblea. Osserva ascolta e giudica la gazzarra. DK 95 / DS 79

ἀμαθίην ἄμεινον κρύπτειν. Meglio nascondere la propria ignoranza.

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106   parte prima. eraclito

Intende dire: “La vostra, di voi che la esibite nell’assemblea”. È uno sprezzante invito ai demagoghi a tacere, quando non hanno nulla da dire. Schleiermacher apre con questo frammento la sua raccolta – ma la motivazione di questa scelta non è convincente, e giustificherebbe, semmai, la scelta opposta, secondo i suoi criteri: di pubblicare il frammento per ultimo. Egli combatte, giustamente, le opinioni sulla pretesa oscurità dell’Efesio, al quale, dice, non si può negare proprio lo sforzo di rendere quanto più possibile evidente il pensiero. E si dilunga, anzi, nello smentire coloro (non pochi) che già nel mondo antico giudicarono l’oscurità di Eraclito come frutto di un’arte premeditata. Non è così: Eraclito, dice, non fu pari al compito dell’evidenza, che s’era prefisso, semplicemente per la difficoltà stessa del contenuto del suo pensiero, ovvero per semplici ragioni di difetto di maturità della lingua greca e della tecnica interpuntiva – come, del resto, riconobbero già alcuni antichi (Sesto e Demetrio). Dopo avere svolto considerazioni abbastanza (non del tutto) convincenti, come queste, Schleiermacher presenta il suo primo frammento spiegando che in queste parole si esprimerebbe la sfiducia di un uomo, il quale dubita di poter mai portare alla luce la verità.14 Ma se questo è vero, DK 95 dovrebbe essere, come ho detto, il frammento conclusivo della raccolta. Quella di Eraclito potrebbe essere diventata a un certo punto, dopo una lunga frustrazione, trasformata in ossessione, una forma di malinconica rassegnazione su se stesso. Ma non può mai essere stata una sua sfiducia preliminare, capace di spronarlo a mettere per iscritto ciò che non riusciva a spiegare a voce. In tal caso, questo DK 95 dovrebbe seguire DK 1, per esempio. E poi, l’insistenza di Eraclito sul fatto che non lui, bensì altri non sanno né ascoltare né parlare né intendere, è troppo manifesta. Collocazione a parte, conservo dunque al frammento, come si vede, tutta la sua forza polemica estroversa, politica, e tutt’altro che arcana. DK 72 / DS 2 / C 6

ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται. Dal discorso in cui sono di continuo completamente coinvolti: proprio da questo discordano; e le cose in cui s’imbattono ogni giorno, proprio queste appaiono loro estranee. 14   Friedrich Schleiermacher, Herakleitos der dunkle, von Ephesos, in Kritische Gesamtausgabe a cura di Dirk Schmid, de Gruyter, Berlin New York 1998, vol. 6, pp. 112-114.

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1. la città e le passioni   107

Il discorso in cui «ogni giorno», e «di continuo», e «completamente» si è coinvolti non può essere nulla di mistico, d’indefinibile e arduo, di metafisico e cosmico – come se Eraclito lamentasse d’avere degli studenti zucconi ai quali è vano rispiegare la sua dottrina del Lógos. No: questo «discorso» è qualcosa di quotidiano, di ordinario, qualcosa che è entrato nella vita comune, e del quale ci si occupa attivamente mediante lo svolgimento di mansioni pratiche che si presentano via via: è dunque nient’altro che l’attuazione pratica della costituzione, con l’applicazione del nuovo senso di giustizia ai casi empirici. La sua osservazione e il suo commento si sono dunque rivolti anche verso l’amministrazione. il buon tiranno DK 34 / DS 4 / C 29

ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι· φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι. Ascoltando inebetiti, sembrano sordomuti; e il detto conferma che“presenti sono assenti”. Eraclito s’è dato a parlare, e biasima l’apatia con la quale la maggioranza dei presenti lo ascolta. La gazzarra è finita. È chiaro, mi sembra, che egli possiede un ascendente sull’assemblea, capace di ridurla al silenzio – ma è anche chiaro che questo ascendente ha un effetto sconcertante, in definitiva controproducente. Oltre che con gli altri, comincia da questo momento ad avere dei problemi con se stesso. Tutto, in ciò che è comune, dovrebbe essere chiaro, oltre che semplice e ordinato – ma evidentemente non è così. O gli uomini hanno anche qualcos’altro in comune oltre al pensiero, dunque, oppure il pensiero comune s’innesta su qualcosa che non è affatto comune, bensì specifico, o addirittura individuale ed empirico. È ancora presto per avventurarsi troppo al di là del semplice dettato di questo frammento – ma bisogna pur dire fin d’ora che nello sconcerto politico che qui si manifesta è già presente il primo indizio di un problema che nel suo pensiero diventerà antropologico e metafisico: il problema della natura degli esseri complessi. Dire che l’uomo è un animale ‘razionale’ non equivale certo a dire, viceversa, che esso è piuttosto un ragionevole ‘animale’. Su questo punto la pedagogia socratica non muoverà un solo passo, ed è persino patetica, anche se fa, e farà sempre, la delizia degli scolari, fintanto che Platone non

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108   parte prima. eraclito

giunge a mettervi fine in modo persino un po’ brutale con la sua antropologia delle distinte nature metalliche. Ad ogni modo, chi in quest’assemblea dovrebbe capire cose chiare e distinte grazie al possesso della dote comune del pensiero (secondo il cogito di DK 113), in realtà non lo fa, o non ci riesce, o non lo vuole, perché è animato dagli umori tipici della sua indole, nonché da interessi particolari che viziano o guidano il suo modo d’intendere. In tutt’altre circostanze questa fu del resto, in definitiva, l’obbiezione di Gassendi alle Meditazioni cartesiane. Ma mentre Cartesio capì perfettamente il problema (tanto che nelle sue obbiezioni Gassendi gli domanda almeno una dozzina di volte se egli sia sincero, se creda veramente a ciò che scrive sull’intelletto umano), Eraclito no: è stupito, è sconcertato davvero di fronte all’impotenza del suo cogito. Ora, per affrontare la situazione basterebbe descrivere l’assemblea secondo i partiti, o secondo gl’interessi di rango e di fazione, o secondo gli umori tipici del carattere, diremmo noi; ma Eraclito non lo fa – e la ragione c’è: l’umanità, per lui, è e resterà sempre e soltanto, nel bene e nel male, un genere, mentre è il regno animale che ostende la distinzione delle specie. Non solo Eraclito ha detto chiaramente ciò che pensa dei costumi degli animali, ma ha anche associato questi loro costumi proprio alla natura specifica di ciascuno. Allo scopo di biasimarli, ha anche paragonato gli unici caratteri umani che menziona a quelli delle specie animali: la specie che si lorda, la specie che si sazia, la specie che si riproduce. Perciò fra il genere umano dotato in qualche modo di pensiero e l’individuo empirico eminente (i Pitagora, gli Archiloco, gli Omero) Eraclito non potrà mai scorgere la consistenza di una dimensione intermedia dell’antropologia, che è la dimensione della specie: la quale rende opaca la relazione fra gli estremi in virtù di sue caratteristiche naturali non casuali (il genere, infatti, non possiede caratteristiche naturali, mentre l’individuo empirico possiede sì caratteristiche naturali, ma casuali). Le suddivisioni del genere, o i corpi intermedi, non gl’interessano come tali, e come tali egli anzi li combatte. E come egli ripudia la logica delle fazioni in politica, così nell’antropologia ignorerà del tutto, semplicemente, la suddivisione dell’umanità secondo le specie (ma piuttosto che di suddivisione è meglio parlare di ‘reperibilità’ secondo le specie: perché è in queste che ogni genere si trova già diviso, e da queste dipende come loro essenza logica, mentre non sono le specie a risultare da un’astratta suddivisione generica). Ma restiamo, come ho detto, sul frammento senza allontanarci troppo nel preannunciare quanto avverrà; e restiamo sui problemi personali che da questo momento cominciano (non ve ne sono stati di significativi, mi sembra, finora – a parte l’ombrosità manifestata in DK 15; ma là potevano essere gli

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altri, semmai, ad avere dei problemi con lui). Una caratteristica tipica della sua indole, che già s’è manifestata in qualcuno dei frammenti che precedono, consiste nel fatto che egli evita regolarmente di prendersela coi capi (che sono tutti capi di fazione e che come tali egli disprezza), e preferisce rivolgere un biasimo alla mediocrità di una qualche maggioranza, più o meno larga, più o meno relativa. Il vizio del moralismo e il senso generico della folla, che sono un po’ tipici del prete, non lo abbandonano. È notevole il fatto, mi sembra, che il suo stupore non sia minore di quello di chi lo ascolta; ed esso (bisogna pur dirlo) testimonia implicitamente una sua certa mancanza di preparazione politica – che gli deriva dalle sue origini professionali di sacerdote. Senza ammettere una sua solida formazione religiosa e un effettivo esercizio dell’ufficio certe cose, dunque, non si spiegano. La recriminazione privata che segue allo sconcerto, d’altra parte, testimonia il suo timore del confronto personale, un disdegno della lotta che non è soltanto disprezzo personale. Eraclito sembra afflitto da un complesso d’inferiorità (dovuto anche, magari, ad un difetto d’eloquenza, che poi è ciò che lo induce a scrivere ciò che pensa), e in definitiva si tiene per lo più fuori dal gioco. Per un uomo d’azione sarebbe venuto il momento di fare il demagogo e il tiranno, ma egli sente di non averne le doti. Perciò non se la prende tanto con chi ci prova, o potrebbe provarci, bensì con l’apatia della maggioranza. Di entrambi questi aspetti complementari (tirannico e remissivo) troveremo conferma in qualcuno dei pensieri che seguiranno. DK 1 / DS 1 / C 1

τοῦ δè λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Ma pur essendo questo discorso sempre così com’è, sempre gli uomini sono incapaci di comprenderlo: e prima ancora di udirlo, e non appena l’ascoltano; sebbene infatti tutto avvenga secondo questo discorso, nondimeno essi ne sono inesperti – essi, che pure hanno esperienza di parole e d’opere tali, qualisecondonaturaioespongodistinguendociascunaespiegandocom’è;e quanto agli altri, poi, sfugge loro ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno dormendo.

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110   parte prima. eraclito

Il discorso invariabile è una costituzione sancita per iscritto. La posizione ambigua di «sempre» è voluta, è doppiamente riferita, e perciò nella versione la parola può essere ripetuta. Chi non comprende il discorso prima di udirlo è chi sa leggere, e potrebbe capirlo da sé; chi non lo comprende non appena letto, è chi non sa leggere e se lo fa spiegare. Chi ha esperienza di parole e d’opere è cittadino attivo nell’assemblea e nell’amministrazione. La natura non è il mondo fisico in generale, governato da un Lógos al quale Eraclito avrebbe dedicato lunghe meditazioni lamentando, ora, di non trovare scolari diligenti, bensì è la natura di queste stesse parole e opere. Una terza categoria di persone, poi, della costituzione neppure si cura: essa ignora ciò che fa da sveglia perché vive come dormendo, e destandosi ogni mattino dimentica ciò che fa ogni giorno (vale a dire: dimentica ciò che ha fatto il giorno prima). Noi c’imbattiamo qui, per la prima volta, in un pensiero complicato, condensato, espressivamente e sintatticamente persino lambiccato. Qualcosa del genere è già successa in DK 15, sui baccanali per Ade e Dioniso – e la ragione è probabilmente la medesima: più che il filosofo oscuro o piangente, Eraclito è il filosofo ombroso. Egli s’è offerto e s’è dato a spiegare il significato della costituzione, ma deve constatare l’insuccesso dei suoi sforzi. Ne fa una questione personale, oltre che politica, e ciò l’induce ad annotare il suo pensiero in modo alquanto contorto. Dopo avere osservato l’andamento delle cose, disgustato dall’assemblea e dai demagoghi, egli s’è ridato alla predicazione (o, se si preferisce, alla propaganda) – ma si tratta di educazione politica, questa volta. Comincia qui, effettivamente, una nuova fase per lui; e in questo senso il frammento DK 1 (insieme col precedente DK 34, col quale si può senz’altro scambiare di posizione) può essere davvero un frammento d’inizio, secondo le testimonianze di Aristotele e di Sesto Empirico. Se dispongo i due pensieri in quest’ordine, è perché DK 1 è più articolato ed elaborato di DK 34: il quale esprime molto meglio la sorpresa di un insuccesso. Eraclito, dunque, ha deciso di far da sé. L’attenzione rivolta ai ceti meno istruiti, e forse persino umili, già manifestata in precedenza, trova qui un’importante conferma: perché egli parla volonterosamente a gente che non sa leggere, o che non sa capire ciò che viene letto; e soltanto alla fine lamenta, e con tono di amara commiserazione, che vi sono in città anche «altri», che di nulla si curano. Neppure di lui si curano, evidentemente, come dovrebbero. È molto probabile che voglia riferirsi alla gente del suo rango, agli ottimati, ricambiandone l’indifferenza col disprezzo. La sfiducia nel popolo, ad ogni modo, diventa completa, dunque: egli non vede forze delle quali giovarsi. Ma almeno una ragione che spiega, se non giustifica, la perplessità o l’indifferenza dei suoi concittadini appare qui con

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1. la città e le passioni   111

una certa evidenza: ed essa consiste nell’apparente inutilità, persino ovvietà, della sua propaganda. È lui stesso che lo dice. Il discorso di cui egli parla non è loro affatto sconosciuto: è un discorso «di parole e d’opere» (nulla di astruso e di metafisico, dunque – altrimenti la sua lamentela non avrebbe ragion d’essere) di cui essi hanno già parlato, di cui hanno già trattato personalmente, e che non richiederebbe alcuna spiegazione di sorta. Sono proprio queste sue spiegazioni, dunque, la ragione del loro disinteresse, e forse persino del riso che l’offende. Se è ad una legge scritta che egli intende riferirsi, parlando di un «discorso» – ebbene, essi hanno gli usi tramandati oralmente, e gli accordi presi all’occasione. Che altro mai occorre? D’altra parte, è abbastanza normale, mi sembra, che chi si vede presentare una legge scritta sospetti un inganno, soprattutto se non la sa leggere: come se gli si presentasse un muto dio di pietra che non cambierà mai più la sua sentenza. Dove sarà più il margine per una contrattazione, una deroga, un patteggiamento, un inganno, una manovra, una mediazione – il margine, insomma, per tutto ciò che fa l’ozio e il cabotaggio di una politica di faccende? Né si può trascurare di considerare che finora (né in seguito mai) nessuno ha udito Eraclito tuonare apertamente contro la gente del suo rango; e questo è un silenzio che dobbiamo senz’altro ammettere, dal momento che egli non ha confidato pensieri siffatti neppure ai suoi scritti: essi parlano prudentemente, come s’è visto, dei vizi de «i più» – che è un po’ poco, sotto il profilo dell’identificazione del bersaglio sociale. Tanto maggiore è dunque il sospetto di un ignorante allorché un prete spretato, dopo che i suoi compagni di casta se lo sono levato di torno, senza ch’egli se la sia mai presa davvero contro di loro, si prende la briga di spiegargliela, quella legge indecifrabile, cercando di dar voce ad un dio impotente. Nella sua predicazione religiosa egli aveva già biasimato il culto delle immagini, e le preci rivolte ai simulacri da chi sembrava volere conversare coi muri. Come mai, ora, vorrebbe che si prestasse ascolto ad un discorso scritto? Peggio ancora poi se (come gl’interpreti preferiscono, a larghissima maggioranza), non è di una legge o di una proposta di riforma cittadina che si tratta, ma di un qualche arcano e mistico Lógos; oppure ancora se si tratta di sue confuse fantasticazioni psichiche sulla natura dell’uomo, come quelle che alla critica teoricizzante sembrano affacciarsi nella conclusione con gli accenni alla veglia e al sonno, e che saranno destinate a svilupparsi soltanto in seguito, nelle meditazioni della solitudine. Ed è peggio anche per gl’interpreti che, qui, le prendono sul serio: perché qui esse non possono ancora valere che come una semplice invettiva cólta, pressoché indecifrabile, diretta contro la nobiltà dei suoi pari, i quali ricusano di assumersi responsabilità durante la vita pra-

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tica del giorno, mentre ignorano, la notte, rimorsi e problemi di coscienza (se questa può essere un’altra interpretazione). Tantomeno saranno disposti a venire ad ascoltarlo. Il «discorso» che egli s’affanna a spiegare, dunque, non è per loro, bensì per gente assai più modesta. Ma con gli ottimati a me sembra chiaro che Eraclito, in definitiva, si barcameni senza parlare aperto per non crearsi inutilmente dei nemici aperti. Appare chiaro in questo frammento un aspetto caratteristico della sua personalità: la pedanteria pedagogica e permalosa. Esso s’è già manifestato nell’appunto, che s’è visto, circa il corteo fallico dedicato a un Ade scambiato per Dioniso. “Perché”, diceva in sostanza, “non sono stato consultato? Avrei potuto dar loro la mia motivata approvazione!”. E qui egli torna a mettersi in una situazione simile, se non peggiore, perché, senza essere stato consultato o incaricato da alcuno, s’è dato a spiegare a tutti ogni cosa e ogni parola per filo e per segno, com’essa è e come non è, e una per una secondo la sua natura. Ci si presenta dunque in questo frammento non già la sintesi della sua metafisica demiurgica e della sua antropologia, come si dice, bensì la sua sintesi caratteriale: la quale consiste nella figura un po’ patetica di un uomo che, a chi conosce la vita pratica e tecnica assai meglio di lui, vuole spiegarne partitamente la «natura» – come farebbe qualcuno che andasse al mercato ad insegnare che cos’è il commercio, o a spiegare che non si deve rubare sul peso; oppure che, andando al circolo dei nobili, spiegasse che non bisogna desiderare la donna d’altri, o qualcosa di simile. Poiché ho accennato alle posizioni della letteratura teoricizzante, bisognerà discuterla un poco in qualcuno dei casi più tipici. Claudio Lausdei si sforza di pervenire ad una saldatura dei tre termini lógos, gnōmē (usato in DK 41 e DK 78) e nómos (usato in DK 114, DK 44 e DK 33) in «una sola e identica cosa» mediante questa formulazione: «ragione (gnōmē) conoscibile (lógos) che regola (nómos) il tutto». Come molti altri interpreti, più che alla specificazione terminologica (della quale pure si serve) egli mira alla massima sintesi ideologica. Gli è però indispensabile, a questo scopo, ricorrere a neologismi o a montaggi glossemici come: «la gnōmē-lógos insita nella fúsis» – nonché fare dell’ontologia: «l’Essere parla a chi lo sa ascoltare; il lógos è la ‘voce’ della gnōmē, del nómos universale, un ‘discorso’ che spiega, un lógos che échei e che dídoi lógon».15 Povero Eraclito, che si sforzava tanto, lui stesso, di farsi capire! Ma era «l’Essere» a parlare in lui, un po’ come la voce della Sibilla – solo che nessuno lo stava ad ascoltare. E le virgolette apposte alla ‘voce’ impersonale dell’Essere sono indi  Claudio Lausdei, Lógos in Eraclito e in Erodoto, in SH, I, pp. 80-81.

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1. la città e le passioni   113

spensabili: perché quella ‘voce’ che predicava nel deserto, in realtà, fu proprio quella di Eraclito! Un discorso «che spiega»? No, piuttosto: un ‘discorso’ che andava spiegato (nient’altro fece mai Eraclito in pubblico, quando non tacque) a gente che a malapena si soffermava ad ascoltare (ottima l’osservazione sugli aoristi akoũsai e akoúsantes – altro che «lógos che possiede il lógos e conferisce il lógos»!). Un simile lógos rende semplicemente inspiegabile tutta la sua vita. E quando in età avanzata egli, come vedremo, ripensò alla potenza della voce della Sibilla, lo fece per sé: per riaffermare davanti a se stesso e ai posteri il significato e il valore della sua caparbia posizione, indefettibile – non già per pretendersi profeta di un ‘Essere’ che è, in definitiva, soltanto un’invenzione dei filosofi di professione, e che gli storici della lingua in vena di filosofare talvolta menzionano, a quanto sembra, soltanto per fare torto a se stessi. La filologia non basta, e la filosofia nemmeno. Giovarsi dell’una e dell’altra non è cosa facile, né praticabile per semplice via terminologica. Tra i pensieri di Eraclito e l’opera di Erodoto intercorrono una, o al massimo due generazioni; e in uno spazio di tempo simile una certa terminologia eraclitea diventa, dice Lausdei, stereotipo erodoteo – ma i termini lógos e gnōmē subiscono innegabilmente anche una vistosa degradazione: perché «mentre gnōmē è scelto [da Erodoto] per indicare il giudizio, l’opinione personale, lógos è invece usato per indicare la communis opinio, il sensus communis, o, anche, la ratio per se manifesta, cioè [?] una ragione o ragionevolezza o verisimiglianza di ordine generale, per non dire universale».16 Quest’ultima conclusione, «universale», non serve che a tentare di risollevare le sorti ormai pressocché colloquiali dei due nobili termini, dopo averle sancite, allo scopo di fare dell’uso di essi, a tutti i costi, l’inequivocabile «impronta del pensiero di Eraclito»17 – quando tutta l’argomentazione porta evidentemente ad una conclusione opposta, o meramente probabile: la ratio per se manifesta è, nei frammenti eraclitei, proprio ciò che nessuno dei suoi concittadini capiva! Ma è pur vero, d’altra parte, che in Eraclito la forza dell’opinione non manca affatto – solo che non si tratta di una «comune» opinione (come in DK 70: le credenze sono trastulli infantili), bensì di una ‘retta’ opinione; e anche il «senso» non manca – ma non si tratta di senso «comune», bensì di ‘buon senso’. È quel che si vedrà interpretando il frammento della Sibilla DK 92. Egli non aveva parole per esprimere simili nozioni, se non con la forza della suggestione.

  Ivi, pp. 77-78.   Ivi, p. 78.

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114   parte prima. eraclito DK 33 / DS 109 / C 16

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νόμος καὶ βουλῆι πείθεσθαι ἑνός. È legge anche obbedire al consiglio di uno solo. Ecco una nuova svolta: allorché, per tutta conseguenza, comincia ad orientare decisamente la sua fiducia verso un buon tiranno. Il tiranno sarà legge vivente, o quel che un giorno sarà chiamato il nómos émpsuchos. Non si deve credere che la fiducia di Eraclito per la legge scritta, in quanto essa è soltanto scritta, sia mai stata grande, dal momento che la sua invariabilità la rende anche più facilmente vulnerabile. Il suo impegno in difesa della costituzione scritta è stato uno dei tentativi di riforma più importanti della sua vita – ma non si può dimenticare che egli era arrivato a quest’impegno dopo aver lamentato che gli uomini non sanno né ascoltare né parlare (DK 19). La scelta tipicamente sua, orale o scritta, che egli praticò per tutta la vita come una costante espressiva, fu, invece, quella della sentenza lapidaria quanto più succinta. Lo stile di Eraclito si spiega certamente con più di una ragione; ma fra queste ragioni bisogna anche dare un posto importante a questa sua acuta consapevolezza del problema di conciliare l’invariabilità della legge con la sua duttilità. Ed è dunque anche di qui, dalla sua esperienza di vita pubblica, che nasce il pensiero sulla duplicità della forma, oltre che il pensiero sulla natura complessa degli esseri. DK 28 / DS 106, DS 105 / C 11

δοκέοντα ὁ δοκιμώτατος γινώσκει φυλάσσει· καὶ μέντοι καὶ Δίκη καταλήψεται ψευδῶν τέκτονας καὶ μὰρτυρας. Chi è più provato sa come tenere a bada le opinioni. E ad ogni modo Giustizia colpirà i fabbricanti di menzogne e i falsi testimoni. Si esprime a favore di un tiranno sperimentato e capace di sottrarsi alle influenze delle opinioni, contro le fazioni e contro la diffamazione di un ottimo candidato – che egli sembra già conoscere. Ma non si può negare una certa prudenza o riserva pessimistica riguardo alla sua fortuna pubblica: occorre pur sempre confidare in una Giustizia sopravveniente, che qui somiglia un po’ troppo al Tempo Galantuomo. Per un sacerdote, o un ex-sacerdote, fare riferimento ad una divinità o potenza in qualche modo tutelare è cosa del tut-

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1. la città e le passioni   115

to ammissibile; ma, certo, questo non serve a fare di Eraclito un uomo che si addentra concretamente nella politica. Egli, come si vede, ne resta e ne resterà sempre fuori non soltanto per albagìa, ma anche proprio in conseguenza di una sua effettiva incapacità di rispondere a dei quesiti che oggi chiameremmo ‘di ordine costituzionale pratico’. Ed egli era il primo a rendersene perfettamente conto. La difficoltà di tradurre una posizione morale in un’efficace posizione giurispolitica si dovette presentare come una difficoltà personale a lui, che qui si presenta ancora, per l’occasione, come tutore di valori mitici o religiosi. Eraclito non riusciva a liberarsi dalla sua ombra – né, del resto, avrebbe potuto. Deposto o no, abiurato o no, il ruolo che gli era toccato di assolvere per nascita rischiava ad ogni occasione di mostrarsi comunque fallito. DK 3 / DS 42 / C 19

ἡλίου εὖρος ποδὸς ἀνθρωπείου. Il sole ha la misura di un piede umano. Frammento assai incerto sotto ogni riguardo, compresa l’attribuzione. Ma ammettiamo che sia suo. La traduzione forzata di «misura di un piede umano» con “distanza d’un passo” (che non mi azzardo a sancire) potrebbe allora significare: “Il sole non dista che un passo”; e ciò potrebbe a sua volta significare: “il buon tiranno è vicino”, “l’uomo giusto è già qui fra noi”, “il buon tiranno può essere un nostro concittadino”. Può essere questa la sua proposta di candidatura, ben cifrata, a favore di Ermodoro. Vale la pena di discuterne perché, se questa ipotesi fosse vera, essa smentirebbe il filomedismo di Eraclito: non sarebbe vero che egli abbia mai voluto ricorrere al re per mettere ordine nella città. Eraclito non sarebbe paragonabile, insomma, con un comunista dei passati anni anni cinquanta che, come si diceva, aspettava l’arrivo di ‘Baffone’. La cifratura del giudizio sarebbe altrettanto interessante: a quali occhi si sarebbe voluto sottrarre Eraclito, se non a quelli degl’informatori del re? In una crisi di passaggio dalla democrazia alla tirannia c’era modo di giocare più d’una carta. In un recente ritrovamento papiraceo si parla, fra l’altro, della misura di un piede umano «non secondo natura» (ou katà fúsin anthrō[peíou] eũros podós). Ciò può significare che la «misura di un piede» è solo metaforica. Walter Burkert ha fatto del ritrovamento la prova dell’influenza esercitata da Eraclito nella Ionia dei primi decenni del IV secolo – sebbene il papiro non menzioni

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116   parte prima. eraclito

né Eraclito, né (secondo il testimone) il sole. Nella sua versione le parole «non secondo natura» restano annesse ad una proposizione precedente, e terminano con un punto. Egli, perciò, non le vuole riferite alla «misura di un piede»: la quale, perciò, non andrebbe considerata in senso figurato. Come Burkert ribadisce: «Ou katà fúsin, a quanto sembra, non fa parte della citazione [eraclitea]».18 Mi sembra assai più interessante, invece, proprio l’eventualità opposta che il papiro, non interpunto, manifesta chiaramente: e precisamente, che la cosiddetta «misura di un piede» sia solo un modo di dire figurato – e poi trarne una qualche deduzione. DK 97 / DS 102 / C 9

κύνες καταβαΰζουσιν ὧν ἂν μὴ γινώσκωσι. I cani abbaiano a chi non conoscono. Si metta dunque alla prova Ermodoro. L’ufficio rivelerà l’uomo. DK 11 / DS 96 / C 55

πᾶν ἑρπετὸν πληγῆι νέμεται. Chi va prono è governato con la frusta. Nessuno abbia la vanità di lamentarsi del tiranno, dunque: quella della sottomissione è un’esperienza già fatta da chi è schiavo della propria accidia. Il testimone che reca questo frammento (Aristotele, De mundo 6, 401 a) lo introduce in modo anomalo, del tutto irenico, con gli animali che nell’aria, sulla terra e nell’acqua nascono crescono e muoiono beatamente sotto la sferza (ma perché?) di un dio. Questo riferimento aristotelico alla divinità domatrice viene giustamente espunto dalle parole di Eraclito: perché, in caso contrario, questo frammento andrebbe collocato assai più avanti, accanto a DK 64 («Il mondo lo governa la folgore»). Ma così, mentre Aristotele perde completamente il significato polemico, sprezzante, noi d’altra parte, con un simile accostamento, toglieremmo all’uso della frusta il suo scopo intenzionale, uti  Burkert, Papiro di Derveni, in SH, I, pp. 39-42.

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1. la città e le passioni   117

litario, facendone uno strumento assai più casuale, e simile, per l’appunto, alla folgore, che invece scopo non ha. Bisogna dunque piuttosto leggere la sentenza in un significato politico disciplinare: vale a dire, come un ritorno attivo, politico, del pensiero di biasimo che già s’è espresso con veemenza nei frammenti sugli animali. DK 49 / DS 74 / C 17

εἷς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ἦι. Uno solo è per me diecimila, se ottimo. Un uomo come Ermodoro vale quanto l’intera assemblea. DK 99 / DS 44 / C 20

εἰ μὴ ἥλιος ἦν, ἕνεκα τῶν ἄλλων ἄστρων εὐφρόνη ἂν ἦν. Se non ci fosse il sole, stando alle altre stelle sarebbe notte. Tutti quanti i nobili, insieme, non valgono Ermodoro. DK 94 / DS 45 / C 52

Ἥλιος οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν. Il sole non oltrepasserà la misura: se no, le Erinni al servizio di Giustizia lo scoveranno. Niente paura: i poteri del tiranno non sono illimitati. Ma lo si lasci fare: a distoglierlo dalle malefatte sarà la deterrenza degli antichi costumi. La potenza di Giustizia si serve qui di ministri al suo servizio; e la sua figura sembra dunque alquanto più organizzata, più efficace, persino un poco amministrativa rispetto al Tempo Galantuomo (come l’ho chiamato, tanto per capirsi) di DK 28. Dobbiamo constatare con soddisfazione che il realismo politico di Eraclito è talvolta capace di compiere dei piccoli progressi.

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118   parte prima. eraclito

Si nota immediatamente quanto elementare sia ancora questa concezione del rapporto problematico che sussiste fra l’arbitrio della potenza celeste e il costume della rappresaglia in vigore sulla terra. Di qui, una generazione dopo, si svilupperà in forma del tutto dispiegata, narrativa, la trilogia dell’Orestea di Eschilo, che darà al rapporto una soluzione diversa e in qualche modo paritaria mediante l’introduzione del tribunale cittadino. Per Eraclito non ci sono dubbi, invece, che la legge della rappresaglia costituisca ancora una sanzione di ordine superiore, o comunque una sentenza di cassazione. È difficile dire quanto di più o di meno ‘democratico’, in linea di principio, vi sia nell’una e nell’altra posizione – a meno che non si voglia distinguere una democrazia etnica (diciamo così) da una democrazia istituzionale e schiettamente giurispolitica. Ma chi ha seguito la mia interpretazione fin qui, e la trova convincente, non potrà davvero credere, a me sembra, che Eraclito possa avere molto da spartire con una giustizia democratica etnica, basata sul costume erinnico, vale a dire arcaico o tribale, della rappresaglia. Un simile potere nelle mani di chi non l’aveva saputo capire?! No. Mi sembra invece più credibile l’ipotesi che queste Erinni ministre di Giustizia non siano che un’offa gettata, per l’occasione, nelle fauci di coloro che reclamano garanzie antitiranniche. Anche questo è un segno interessante di progresso della sua abilità politica pratica, che qui tocca addirittura il ricorso all’espediente. Ma se ciò è vero, d’altra parte, noi siamo costretti a rivedere quanto abbiamo appena detto a proposito della sua collocazione ideologica riguardo al problema della Giustizia inscritto nel triangolo del cielo (la volontà arbitraria), della città (il tribunale), e della terra (la rappresaglia). Le rassicurazioni che dà agli altri Eraclito dovrebbe invece (tanto per cambiare) darle a se stesso, dal momento che per lui il terzo elemento che in Eschilo fa da centro e da punto di neutralità e d’equilibrio nella contraddizione (vale a dire: la giustizia amministrata dal tribunale cittadino) ancora semplicemente non esiste, è di là da venire. Eraclito è, in un certo senso, il fondatore anche suo malgrado della logica filosofico-politica del ragionare ‘per due’, e non ‘per tre’; solo, che non dà a questo ragionare ‘per due’ un esito alternativo (come farà invece Socrate, e poi Machiavelli, Lutero, e tanta schiera), bensì dedicherà il resto della vita a tenere uniti i due capi dell’opposizione. E non è affatto escluso, dunque, che dalla vita giurispolitica, e dal pratico pórsi di questo interrogativo di Giustizia nell’opposizione aperta fra due estremi si nasconda già un’altra delle radici della sua futura riflessione fisica e metafisica.

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1. la città e le passioni   119 DK 43 / DS 108 / C 10

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ὕβριν χρὴ σβεννύναι μᾶλλον ἢ πυρκαϊήν. Bisogna spegnere la tracotanza più di un incendio. Al solito, non è chiaro a chi si riferisca. In ogni caso, la tracotanza del tiranno non è peggiore di quella dei nobili. L’una sorveglierà l’altra. È il programma di una tirannia moderata. C’è una certa qualche simmetria nel costrutto di questi ultimi quattro frammenti: come il tiranno vale quanto l’assemblea popolare da un lato e quanto tutti i nobili insieme dall’altro, così il suo strapotere sarà sorvegliato dagli antichi usi popolari della rappresaglia e, d’altra parte, dalla coalizione dei nobili. DK 121 / DS 125 / C 8

ἄξιον Ἐφεσίοις ἡβηδὸν ἀπάγξασθαι πᾶσι καὶ τοῖς ἀνήβοις τὴν πόλιν καταλιπεῖν, οἵτινες Ἑρμόδωρον ἄνδρα ἑωυτῶν ὀνήιστον ἐξέβαλον φάντες· “ἡμέων μηδὲ εἷς ὀνήιστος ἔστω, εἰ δὲ μή, ἄλληι τε καὶ μετ’ ἄλλων”. Sarebbe giusto per gli efesini adulti impiccarsi tutti quanti, e lasciare la città ai fanciulli, essi che cacciarono Ermodoro, uomo fra tutti loro il più utile, dicendo: “Fra noi non uno ci sia indispensabile; e se ce n’è uno, se ne stia altrove, e con altri”. Ecco una nuova peripezia: Ermodoro è stato cacciato. Sono falliti la legge, il discorso e l’aspirante tiranno. Bisogna ricominciare tutto da capo; e l’accenno all’innocenza dei fanciulli gli fa anzi pensare nientemeno che ad una riforma antropologica, o almeno ad una pedagogia radicale (che è punto d’approdo obbligato di tutti i moralisti riformatori sconfitti). Incominciano così le sue numerose recriminazioni sui difetti dell’umana natura, che fanno sempre parte del gruppo dei pensieri dedicati alla città, ma al tempo stesso preparano il suo ritiro in solitudine. Simili recriminazioni sono uno dei suoi ritorni, perché noi ci troviamo il biasimo che aveva caratterizzato i primi pensieri sui vizi, o sulle malintese virtù, annotati in qualità di sacerdote – con la differenza, però, che questa volta il biasimo apre la via ad un’intuizione dell’uomo come essere complesso e bipartito, dotato di tare che sono comuni quanto il pensiero. Si tratta perciò d’indizi premonitori importanti non soltanto per la sua antropologia, ma anche per le future nebbiose divagazioni

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120   parte prima. eraclito

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fisiche, cosmologiche, persino ontologiche alle quali indulgerà per qualche tempo abbandonarsi. l’antropologo DK 107 / DS 64 / C 44

κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων. Cattivi testimoni sono agli uomini occhi ed orecchi, quando hanno anime barbare. Aveva cominciato dicendo di volersi occupare di ciò che si vede, si ode e s’intende; ora riconosce che è inutile mostrare e spiegare alcunché ad un popolo corrotto. È a se stesso, che parla. È impossibile interpretare questa ‘barbarie’ nel senso politically correct di una generica e astrusa dislessia, come fa Marcovich – il quale, per evitare l’uso di un termine spinoso come ‘barbaro’, traduce: «Cattivi testimoni sono occhi ed orecchi per gli uomini, se questi hanno anime che non ne (their) comprendono il linguaggio». Quale linguaggio: quello degli occhi e degli orecchi, oppure il linguaggio di altri uomini? Forse vi sono uomini che non capiscono ciò che altri uomini dicono (come i barbari coi greci, e viceversa) – e allora è inutile che si tengano aperti occhi ed orecchi. Quello di Eraclito sarebbe dunque un invito a chi lo ascolta perché si levi di torno? Ma egli non dice, e non ha mai detto questo: potrebbe forse dire che, tenendo aperti occhi ed orecchi, essi capirebbero tutt’altro da ciò che viene loro mostrato e detto – e ciò sta in aperta contraddizione con tutte le sue lamentele circa la cecità e sordità dei suoi concittadini. Non è con un equivoco che se la prende, da un capo all’altro dei frammenti, bensì con un’apatia. Non deve combattere per raddrizzare una situazione nuovamente insorta che gli è sfuggita di mano – magari! Oppure (com’è più plausibile) vi sono forse uomini che non capiscono il linguaggio dei loro propri occhi e dei loro propri orecchi – ma questi uomini, allora, saranno di certo i ‘barbari’ di Efeso: vale a dire gli stolidi, per esempio, del frammento DK 87, i quali non vanno al di là di ciò che vedono e odono. Eraclito non si rivolse affatto all’intero ‘mondo greco’, per un rassemblement della cultura e della civiltà, ponendo raffinate questioni di educazione dell’anima, o esortando all’acquisizione di forme superiori di conoscenza che furono troppo lontane dai suoi interessi pratici, bensì semplicemente si rivolse

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1. la città e le passioni   121

ai suoi concittadini ignavi e corrotti. A gente che si voltolava nella crapula non era il caso d’insegnare molto di più. Perciò le cautele perifrastiche sono del tutto superflue, e l’uso metaforico (assai moderno, settecentesco) del termine ‘barbaro’ non va evitato, come fa Marcovich, allo scopo di non incappare in problemi di storia della lingua che filologi in agguato possono porre, e hanno effettivamente posto. Evitando di parlare di ‘barbarie’, un atteggiamento così poco coraggioso, del resto, non fa onore a chi si appella ad un patrocinio filosofico considerato temibile, come quello heideggeriano – a meno che il patrocinato non trovi nel patrocinante un uomo della sua stessa natura: una natura che ama nascondersi. Secondo Marcovich la parola psuché «significa qui ‘intelligenza’, ‘facoltà di comprendere e d’interpretare’», come risulterebbe anche da DK 118. «Il frammento sottolinea il bisogno d’intelligenza o perspicacia personale per l’apprendimento del Logos». Si tratta di un’interpretazione del tutto intellettualistica, dal momento che non fa parola del ruolo dei sensi, e pretende di definire ciò che sia l’anima. Eraclito vuol dire che per chi fosse dotato di una buona «anima» (qualunque cosa egli intenda con questo termine) occhi ed orecchi potrebbero bastare per ben conoscere. Occhi ed orecchi hanno un loro linguaggio ben chiaro, come lo hanno i greci in confronto coi barbari. È vero che non manca (come nota energicamente il Marcovich) chi stravolge il significato del frammento, parlando di «sensi ingannatori», e di una conoscenza razionale quale «unica» facoltà degna di fede – ciò che Eraclito assolutamente non dice; ma di qui ad avventurarsi nel definire «intelligenza» e «perspicacia» quest’anima non-barbara, senza neppure menzionare la barbarie, con quello che è un perfetto capovolgimento del ragionamento e del dettato eracliteo, ci corre. DK 85 / DS 93 / C 88

θυμῶι μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέληι, ψυχῆς ὠνεῖται. È duro combattere il proprio animo: ciò che si prefigge, l’acquista anche a prezzo della vita. Compare per la prima volta l’animo, o il carattere, come indole – vale a dire non più semplicemente come vizio, bensì come elemento costituente dell’uomo. E il significato della costituzione, che fin qui è stato soltanto moralistico o giurispolitico, può cominciare a diventare antropologico. Se si ammette che

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122   parte prima. eraclito

questo pensiero può fare da contrappunto sarcastico a DK 44, nel quale, pieno delle migliori speranze, aveva invitato a combattere per la legge come per le mura della città, noi possiamo dire di possedere già tutti gli elementi che serviranno poi a Platone nella Repubblica per descrivere l’uomo come una città, e per sviluppare l’analogia fra i due libri scritti a caratteri piccoli e grandi della città e dell’anima. DK 119 / DS 91 / C 78

ἦθος ἀνθρώπωι δαίμων. All’uomo l’indole è padrona. Può fare da contrappunto sarcastico, amaro, a tutti i suoi precedenti pensieri di propaganda filo-tirannica: quella città che è l’uomo possiede già infatti un suo tiranno nell’indole. DK 78 / DS 70 / C 56

ἦθος ἀνθρώπειον μὲν οὐκ ἔχει γνώμας, θεῖον δὲ ἔχει. Indole umana non ha nozioni sicure, quella divina invece sì. Si vede qui che cosa gli accade nei momenti difficili: Eraclito ritorna ad attingere al fondo di se stesso, agli automatismi della sua natura, che è quella di un moralista religioso. Contro l’indole, ha ammesso, la ragione è impotente; egli cerca una via per una riforma antropologica, e questa via, per lui che è stato sacerdote, ritorna ad essere quella religiosa. Ma le cose non possono tornare semplicemente come una volta: Eraclito non può rimettersi a predicare in disparte e nel vuoto. La certezza alla quale si dovrà riferire, d’ora in poi, è la certezza data da un riconoscimento realistico della natura umana. Il suo pensiero deve perciò acquistare un fondamento antropologico sicuro, privo d’illusioni e di biasimi. Cercando un suggeritore, Eraclito non pensa di poter fare affidamento sulla sua dea Artemide: perché è un fatto che essa, con le sue arti pratiche e la sua rude moralità così schietta e incapace di sottintesi, non ha saputo bene assisterlo. Per intendere la natura complessa degli esseri è dunque alla divinità più prossima ed enigmatica, è al fratello d’Artemide che egli si rivolge per consiglio. Non diversamente Eschilo farà agire Calcante nel

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1. la città e le passioni   123

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parodo dell’Agamennone, invocando la mediazione di Apollo presso la sorella (vv. 147-148). DK 93 / DS 120 / C 48

ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει, ἀλλὰ σημαίνει. Il signore, di cui l’oracolo è in Delfi, non spiega e non cela: dà segno. Eraclito si accinge ad incamminarsi su di una nuova via – ma non senza un protettore e un viatico. Guardandosi attorno, non vede altre risorse che gli giovino, come noi potremmo supporre: non la saggezza popolare, per esempio; non l’osservazione dei costumi, o la letteratura gnomica, e simili. Si affida ai segni enigmatici di un dio perché nell’enigma divinamente sancito è già contenuta con certezza una verità complessa, fatta di opposti incompatibili uniti da una ragione. Questa ragione di un’unità fra sostanze è la loro essenza, che dilegua non appena il pensiero cessa di accudirla, così come gli elementi del ciceone si separano qualora esso non venga agitato. Apollo dunque è stato eletto da Eraclito quale dio dell’essenza. Nessuno meglio di lui e del suo segno può assistere chi vuol comprendere l’unità opposta dell’umana natura. Il commento di Marcovich al frammento è alquanto curioso. Egli dice di aver voluto procedere da posizioni heideggeriane; e in tal modo sembra essersi scelto il suo tutore e il suo viatico in una specie di divinità, non diversamente da Eraclito. Ma qualche perplessità sul credito che dovrebbero garantire aderenze filosofiche tanto impegnative, e supposte poderose o temibili, sorge allorché, per esempio, nel commentare questo frammento (che egli traduce: «Il Signore di cui è l’oracolo in Delfi non rivela e non nasconde, ma dà un segno»), spiega che «Apollo non rivela tutto (100%), né cela tutto (0%), ma lascia trapelare una parte della verità (50%)». Le profonde intuizioni eraclitee finiscono così in percentuali. Sarebbe interessante sapere perché si debba proprio fare a metà: non sarà che talvolta Apollo rivela per il 75% e cela per il 25%? Simili ingenuità a me sembrano interessanti perché mostrano bene quale sia la difficoltà per la filologia di entrare in contatto con la filosofia mediante una relazione che non si riduca alla semplice sudditanza, o alla scelta di un’erma liminare deterrente. Al problema della relazione inversa (vale a dire: della filosofia che si serve della filologia per circostanziare i propri giudizi, e persino

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124   parte prima. eraclito

allo scopo di dare un fondamento ai propri costrutti) è dedicata una lunga discussione su tre casi esemplari e congruenti nella Parte Seconda di questo studio. In tre interpretazioni di Eraclito che spaziano su tutto il Novecento si vedrà come la filosofia si serva di un esiguo armamentario terminologico, o sentenziale, o aneddotico, scambiato per vera filologia.

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2. Il raccoglimento e la sapienza

il sonno DK 89 / DS 9 / C 3

τοῖς ἐγρηγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρἐφεσθαι. Per coloro che vegliano il mondo è uno e comune; ma ciascuno di coloro che stanno sprofondati nel sonno si volge al mondo suo proprio. È ancora pervaso dalla sensibilità e dall’impegno cittadini, con tutto lo spirito del suo biasimo. Ma il moralismo è scomparso. Riprende il filo delle sue meditazioni dalla conclusione di DK 1 per avviarsi ad elaborare una qualche teoria che gli dia ragione dell’esperienza vissuta. «Vegliare» qui non significa ‘condurre vita diurna’, bensì ‘avere coscienza’. Vivono invece sprofondati nel «sonno» proprio coloro che conducono la vita diurna volta agl’interessi particolari. Questa è il loro sonno – e la cosa non può non essere paradossale, presentandogli un enigma. Sebbene ancora immerso nell’espressione del suo risentimento, grazie all’uso della metafora il sonno comincia dunque a presentarglisi come una condizione problematica della costituzione antropologica. Il traslato linguistico è germe di pensiero, mentre l’immaginazione si desta, e comincia a fantasticare intorno ad una città popolata di uomini che vivono come sonnambuli. Si vede qui assai bene quanto del pensiero e della sensibilità eraclitea vada perduto, allorché si riduce la sua meditazione alla sola filosofia, e questa filosofia, a sua volta, ad una teologia originaria del Lógos. Si vede qui assai bene, per giunta, quale sia il ruolo di vero e proprio capostipite teorico che il sonno, come stato anfibolo dell’uomo, svolge nella peregrinazione teoricizzante che da questo momento ha inizio. Il fatto che egli combatta la condizione metaforica del sonno come scelta di uno stile di vita non deve trarre in inganno: questo è il suo giudizio, questo è il suo biasimo, e non potrebbe essere diversamente. Ma ciò non toglie che egli abbia posto

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126   parte prima. eraclito

il sonno al centro della sua attenzione, e questo è ciò che conta – anche se avrebbe un effetto lievemente comico fare di questo frammento il nuovo cogito complementare rispetto a DK 113. Perché questo fosse vero, bisognerebbe che l’ordine delle due proposizioni fosse invertito, così: “Ciascuno di coloro che stanno sprofondati nel sonno si volge al mondo suo proprio; ma per coloro che vegliano il mondo è uno e comune”. Questo tipo di formulazione sarebbe consono all’Eraclito della ‘prima maniera’, diciamo così. Nell’ordine del pensiero di questo frammento noi troviamo dunque uno dei suoi numerosi ritorni, espresso nella forma di un cogito inverso: il quale apre la strada ad un modo completamente diverso di vedere le cose, nel quale il moralismo non può più trovare alcuno spazio. L’uomo viene descritto com’è: un essere misto e complesso; e dalla costituzione dell’uomo Eraclito si avventura poi a trascorrere per analogia e per induzione sulla costituzione della natura, nonché dell’essere in quanto tale. Parlare di esseri ‘misti’ e di esseri ‘complessi’ non significa ripetersi, o usare dei sinonimi, perché il mero stato della mescolanza vive nella complessità secondo una ‘costituzione’ (preferisco l’uso di questo termine ad uno più assai più fortunato come ‘struttura’). Eraclito è passato alla storia della filosofia come l’uomo che ha cercato per primo di dare una forma a questa costituzione dell’essere complesso; e la forma che gli ha conferito non è verticale gerarchica tripartita, secondo il modello antropomorfico platonico della Repubblica, bensì una forma bipartita orizzontale equilibrata. Ciascun modello ha pregi e difetti. Il modello platonico è più completo, e aggiunge alla tripartizione il quarto requisito del senso della forma, ovvero della proporzione delle parti. Esso presenta tuttavia degli evidenti e gravi aspetti di debolezza per carenza e per vera e propria omissione: c’è carenza, quando Platone evita di problematizzare l’interrogativo che deve nascere dalla condizione d’infelicità in cui vivono i custodi – vale a dire: nientemeno che dal centro del costrutto antropomorfico, che sta nel cuore; e c’è omissione quando (non meno di Cartesio secondo Gassendi, del resto, come ho già detto) evita completamente di considerare quali siano le spinte che dalla società sottostante dei demiurghi, ossia dagli umori delle viscere, possono salire al capo. Il luogo di mediazione del cuore, che Platone vuole a tutti i costi considerare sicuro, è in realtà quanto mai precario. In ciò consiste un po’ tutto il suo intellettualismo politico, non diversamente dal cartesiano. Questo modello, ad ogni buon conto, possiede tuttavia un centro e un perimetro. Essi mancano invece quasi del tutto nel modello bipartito eracliteo: il quale non arrivò a dare al centro una consistenza logica e poi metafisica più solida di un generico ‘pensiero comune’, ovvero di un generico ‘fuoco cosmi-

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2. il raccoglimento e la sapienza   127

co’. Vedremo commentando DK 92, nell’ultimo periodo della sua vita, come la Sibilla sia l’unica figura nella quale il centro fra opposti (il dio e l’uomo, in questo caso, e le rispettive opinioni) assume una solida consistenza – ma col significato di tramite, o transito (e lo stesso avviene già, forse, con «la via in su in giù» di DK 60, se non è riferito al pettine del telaio; nel qual caso il frammento appartiene non al terzo, bensì al quarto periodo). Sempre in età avanzata sembrò ad Eraclito di poter collocare il sole immobile a sud, al centro di una traiettoria e al culmine meridiano della sua ascensione. Ma non si tratta che di un punto di transito, del quale in DK 120 gli sarebbe piaciuto fare un’erma sicura. Né tantomeno, soprattutto, Eraclito seppe dare al suo modello un perimetro, ossia una vera forma. Ne scelse molte, di forme, questo sì – ma proprio questo fu ciò che in definitiva gli nocque, facendo perdere efficacia alla sua propaganda, che risultò inevitabilmente banale. Così come in DK 1 egli lamenta di non riuscire ad interessare uomini, ai quali spiegava per filo e per segno ciò che essi già facevano ogni giorno, allo stesso modo nella fase del ritorno in città e della divulgazione, come vedremo, egli si dette a spiegare al cardatore quale fosse il doppio movimento della sua vite, al pescatore il doppio effetto dell’acqua di mare, al soldato e al musicista il significato simbolico dei loro strumenti, e così via. C’è qualcosa di patetico in tanta umiltà – qualcosa di nazareno, diciamo così, con la parabola il più possibile succinta e ristretta ad una formula elementare. Eraclito non si risolse mai ad elaborare un modello comune di tipo antropomorfico, anche bipartito, che avrebbe dato credibilità al suo senso della contraddizione in una forma evidente, ben comunicabile, di stabile opposizione, perché a quel punto la sua esperienza politica e antropologica lo aveva già troppo amareggiato nel suo ruolo di sacerdote e di moralista perché egli potesse prendere un modello antropomorfico (se mai ci pensò) in seria considerazione. Il difetto di riferimento schematico e letterario (perché pur sempre dell’uso logico di una figura retorica si tratta) gl’impedì, per conseguenza, di sviluppare un senso ben concreto e visibile del centro stabile. Nessuna delle immagini che vorrà rinvenire per la divulgazione della sua dottrina sarà dotata di un centro. La posterità può bene affaticarsi a ripetere le interpretazioni di una dottrina centrata sul Fuoco, sul Lógos o, peggio ancora, sul perpetuo Divenire, insistendo su poche formule talvolta persino inventate: questo centro non è pericolante, come in Platone, ma anzi è quasi del tutto inesistente. E se poi, per rimediare, del Lógos si vuole fare Fuoco e viceversa, in modo che l’essenza (vale a dire: il rapporto stabilito dal pensiero, che fa la costituzione) acquisti una sua propria sostanza fra sostanze, le cose diventano ancora più difficili.

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128   parte prima. eraclito

Si entra qui già nella storia della critica, e si rischia di ripetere cose già dette o di anticipare cose che verranno dette nella Parte Seconda, sovraccaricando il significato di questo pensiero DK 89. Restiamo dunque su di esso soltanto per ribadire il suo significato di cogito inverso, che apre la strada non soltanto ad una seconda fase, ma anzi a tutta la seconda metà della vita di Eraclito. DK 73 / DS 12 / C 2

οὐ δεῖ ὥσπερ καθεύδοντας ποιεῖν καὶ λέγειν. καὶ γὰρ καὶ τότε δοκοῦμεν ποιεῖν καὶ λέγειν. Non si deve operare e parlare come nel sonno. Anche nel sonno, infatti, a noi sembra di agire e di parlare. È la conferma e insieme il logico complemento della sentenza precedente DK 89. È la conferma di un nuovo orientamento dell’attenzione, perché la disposizione delle due proposizioni è la medesima; e mentre un tempo Eraclito avrebbe scritto, esortativamente: “Nel sonno a noi sembra di agire e di parlare. Ma non si deve vivere come dormendo”, adesso invece comincia dove prima finiva, e poi si spiega: “Sappiamo che non si deve vivere come dormendo. E bisogna infatti riflettere sul fatto che anche nel sonno a noi sembra di vivere” – cosicché, per conseguenza sottintesa, l’ammonimento a non vivere come sonnambuli non è esagerato o fuori luogo: viene giustificato. Si capisce subito, insomma, che ciò che prima lo interessava di più adesso lo interessa meno, e resta ridotto ad una conseguenza. Questa conseguenza esortativa è diventata la premessa, e occupa il posto della prima proposizione, esattamente come avviene in DK 89 per sancire l’identità dei virtuosi e poi aggiungere una riserva. Se non che, in questo DK 73 la prima proposizione non sancisce l’identità dei virtuosi, bensì un divieto per chi vuole diventarlo; e la seconda proposizione qui non aggiunge alcuna riserva per alcuno, bensì una spiegazione per chi voglia intendere meglio il divieto mediante la giustificazione della similitudine, che vi è stata impiegata, fra l’accidia e il sonno. In questo senso DK 73 è anche un logico complemento, oltre che una conferma, di DK 89. Eraclito non sentirebbe il bisogno di spiegare alcunché, se non dovesse prima spiegarlo a se stesso; e noi siamo dunque certi di stare percorrendo insieme con lui una nuova strada. Va notato per giunta che fra le due proposizioni si nasconde uno zeugma. Per essere interamente logica, dalla sua forma condensata il frammento an-

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2. il raccoglimento e la sapienza   129

drebbe svolto distinguendo come segue: “Non si deve operare come in sogno, e non si deve parlare come nel sonno”. Oltre ad una sua caratteristica tendenza alla contrazione del pensiero, agisce qui il cautissimo interesse rivolto dal suo pensiero al sogno rispetto al sonno. Perché questa riluttanza a parlare di sogno, scambiato col sonno, anche a costo di dire una cosa senza senso: che nel sonno sembra di agire e di parlare? Eraclito doveva temere gli stati onirici come stati misti dell’essere e della coscienza. Lo stato misto per lui rimane il sonno – vale a dire, lo stato dell’uomo vivo che sembra morto. Gadamer, come vedremo nella Parte Seconda, insisterà molto su questo punto – tanto, da introdurre la distinzione fra húpnos e enúpnion, che non trova riscontro nella terminologia eraclitea. La ragione di simile cautela così antiletteraria è spiegata qui: Eraclito vuole gli uomini virtuosi ben desti e vigili, e non rifugiati in un loro mondo fittizio non-metaforico. Il vivere da sonnambuli è una metafora, che egli accetta e impiega volentieri, mentre il vivere come in un sogno non è metafora affatto: può diventare una scelta di distacco, di atarassia, che egli disapprova (con buona pace di tutti gli stoici che vorranno tirarlo dalla loro parte). In età alessandrina il vivere come in teatro assolverà la funzione del sogno nella vita pubblica, mentre l’importanza attribuita agli stati onirici è un po’ caratteristica di tutte le epoche di decadenza della vita pubblica. Fra la metafora del sonno e la pratica del sogno passa la differenza fra due diverse possibilità letterarie della filosofia. Eraclito non capì (perché non poteva capirlo) che in teatro (e poi nel cinema) il sogno può diventare stato misto esibito della coscienza in una forma di gran lunga più efficace delle sue sentenze gnomiche o parenetiche, illustrative o moralistiche, enigmatiche o lampanti. E se anche lo capì, o se l’avesse capito, il risultato sarebbe stato il medesimo: perché Eraclito, come poi Platone, è proprio il tipico filosofo che fa della letteratura con la pretesa di combatterla. DK 21 / DS 23 / C 112

θάνατός ἐστιν ὁκόσα ἐγερθέντες ὁρέομεν, ὁκόσα δὲ εὕδοντες ὕπνος. Morte è quanto vediamo vegliando; e quanto vediamo dormendo, sogno. Ribadisce, nella prima parte della sentenza, il suo giudizio sulla vita diurna delle relazioni e dei traffici, e ribadisce pure nella seconda parte, per la terza volta, il suo interesse per lo stato del sonno. O del sogno. Tradurre húpnos con «sonno», come regolarmente si fa, non significa as-

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130   parte prima. eraclito

solutamente niente. Tant’è vero, che la versione Diels – Kranz propone timidamente fra parentesi, dopo Schlaf, anche una Dämmerung, ossia un “crepuscolo” – e per estensione si potrà ammettere anche un “dormiveglia”, una “penombra”, una “semicoscienza” o “semiincoscienza”, e simili, che affardellano la versione senza spiegare o risolvere niente. Bisogna allora avere il coraggio di proporre qualcosa, dando una giustificazione discutibile. Credo che un traduttore neanche troppo coraggioso possa rendere húpnos con “sogno” – e allora il discorso torna: ciò che noi vediamo dormendo è sogno.1 In sogno noi crediamo di parlare e di agire, come afferma DK 73. Ma qui comincia il vero problema: bisogna spiegare perché mai Eraclito stabilisca una relazione ellittica di somiglianza fra la morte e il sogno; perché mai tema tanto il sogno; perché voglia gli uomini distinti in desti e dormienti senz’altro, anche a costo di dire uno sproposito; perché il sogno non debba diventare per lui un centro consistente della coscienza. Ho spiegato nel commento al frammento precedente DK 73 quali sono le ragioni della diffidenza di Eraclito nei confronti della vita del sogno: essa, per lui, può anche essere peggiore del vivere come nel sonno, perché il sogno presenta alla vita attiva delle possibilità del tutto arbitrarie che a lui dovevano sembrare pericolose, in quanto si sottraggono non soltanto alla sorveglianza della ragione, ma anche a quegli automatismi del sonnambulismo che consentono al vivere di procedere in modo coerente con gli scopi istintivi della conservazione e della riproduzione. Insomma, in due parole: con un popolo corrotto Eraclito saprebbe ancora cosa fare, mentre un popolo ebbro di sogni sarebbe un’orda fanatica che gl’ispira semplicemente il terrore. È la lingua spagnola che non distingue i due significati di sueño; e nella celebre sentenza di Goya i mostri sono generati dai ‘sogni’ (ideologici) della ragione tanto bene come dal suo ‘sonno’. Nulla meglio di quest’ambivalenza di significato può indicare l’origine e la doppia natura, antica e moderna, della ‘barbarie’. Noi ci troviamo qui per la prima volta di fronte all’ uso di una parola studiato a scopo di reticenza, e assistiamo al sorgere di un altro fortunatissimo vizio della letteratura filosofica. Finora l’uso studiato poteva avere avuto (e avrà) uno scopo espressivo. Qui no: ci troviamo di fronte ad una reticenza linguistica, mentre di solito Eraclito pratica l’uso studiato del senso doppio morfologicamente distinto o distinguibile (bíos / biós in DK 48, kópis / kopís in DK 81), oppure del senso doppio morfologicamente indistinto (osmáōmai in DK 98), o ancora del senso vago (anathumiaō in DK 12), o infine del senso   Rendono húpnos con ‘sogno’, per esempio, Gentile Colli e Tonelli.

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2. il raccoglimento e la sapienza   131

enigmistico (la grandezza di un piede che forse è la distanza di un passo in DK 3). Qui, invece, c’è ambiguità per reticenza – praticata persino a costo di scrivere una seconda proposizione che, se non è proprio del tutto priva di senso, non va neppure da nessuna parte. È un altro indizio che è avvenuto in lui un importante cambiamento di posizione; ed è preoccupante constatare che Eraclito sceglie di destreggiarsi fra le pieghe della lingua, anziché spiegarsi mediante un’estensione letteraria per la quale gli mancava il talento – o il coraggio: cosa c’è di male, infatti, nell’ammettere che abbia avuto paura dei possibili svolgimenti dei suoi pensieri? Il sogno della ragione, che teme, dovrebbe dissiparsi mediante i suoi esorcismi terminologici – ma non è così: perché proprio mediante gli esorcismi (e non tanto gli esorcismi di reticenza o di omissione, come questo, bensì mediante quelli di superfetazione) il sogno della ragione entrerà nel suo pensiero, e poi purtroppo dilagherà nell’intera storia della filosofia, finendo per costituire il fardello più penoso e ferace del suo genere letterario caratteristico. Ho detto nel commento al precedente DK 73 che il teatro avrebbe potuto, e può, ed infatti è (col cinema poi oggi, specialmente) lo stato di sogno governabile e discutibile alla cui possibilità Eraclito non volle credere – se pure la poté immaginare o prendere mai in considerazione. Nell’occasione del manifestarsi per la prima volta dei suoi esorcismi linguistici non mi resta da aggiungere che questi esorcismi sono precisamente il teatro cattivo che egli temette, semplicemente perché non ebbe talento sufficiente per praticare il buono. Nessuno può dire se sia stata una fortuna o una disgrazia che Eraclito, e comunque il pensiero scritto in nuda prosa, sia arrivato pressappoco una generazione prima di Eschilo. Certo è che anche al ritardo della scrittura teatrale noi dobbiamo la nascita della filosofia come genere letterario. Ciò che Eraclito andrà cercando negli archi e nelle lire, nel ciceone, nei medici che tagliano e bruciano, e simili, non furono in definitiva che rappresentazioni della verità. DK 26 / DS 25 / C 111

ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνηι φάος ἅπτεται ἑαυτῶι ἀποσβεσθεὶς ὄψεις· ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων, ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος. L’uomo si accende una luce nella notte quando essa si spegne nei suoi occhi; ma quando dorme il vivo è a contatto col morto, mentre da desto frequenta il dormiente.

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Dal piano sintattico notiamo immediatamente un nuovo progresso del pensiero. Proposizione si aggiunge a proposizione non già in successione, bensì anteponendosi: si presenta per primo il giudizio mediante il quale Eraclito esprime il suo nuovo interesse, mentre i due giudizi successivi contengono cose già dette. Egli ha già detto che chi vive lo fa per lo più dormendo come un morto, e ha pure già detto che i pochi desti frequentano questi vivi come muovendosi fra sonnambuli; ciò che invece non ha ancora detto è che “chi cessa di vedere si risolve ad immaginare” – come può anche, più succintamente, rendersi il giudizio contenuto nella prima parte di questo appunto. Si nota pure facilmente una strana incongruenza: la prima parte, la parte sorgente del pensiero, è ben chiara, mentre le altre due successive, o del pensiero caduco, non lo sono altrettanto. Ma si tratta di un’incongruenza abbastanza naturale, e comunque spiegabile: dal momento che si stava ripetendo, Eraclito ha fatto il possibile per non ripetersi; e ha dato in tal modo forma misteriosa, semioracolare, a giudizi che aveva già espresso e che intendeva ribadire obbedendo ad una sua certa inclinazione didattica. Ha cercato di dare alla ripetizione una forma d’arte; e questa forma d’arte non gli poteva venire che dalla sensibilità religiosa nella quale si era formato. Noi non possiamo dimenticare che il nuovo cammino della sua vita, da poco intrapreso, si distacca dai piedi del dio che non spiega e non cela. E insieme con altri che ho già segnalati, dunque, anche questo indizio sintattico mi sembra importante per concludere che noi non ci troviamo affatto in presenza di una trattazione organica, e meno che mai di un’unica trattazione, bensì di una raccolta di pensieri, giudizi, impressioni, propositi, suggerimenti, promemoria, confidenze, consolazioni, supposizioni, e quant’altro. Ad ogni modo, non vedendo che una realtà desolante intorno a sé Eraclito decide di dedicarsi alla ricerca di una sua verità – e anzi di costruirsela con l’immaginazione o divinazione del vero. Si può anche percepire il bisogno di assolvere se stesso, in questo primo giudizio sull’uomo che si accende un lume nelle tenebre: il bisogno di assolversi dal biasimo (che nessun altro che lui stesso gli avrà rivolto) d’avere abbandonato i suoi concittadini alla loro sorte. Avrà pure avuto tutte le sue buone ragioni, lui – ma intanto gli resta il dovere di trarre una conclusione inoppugnabile: lui stesso, proprio lui che biasimava coloro che, distogliendosi dall’interesse comune, vivono come nel sonno, vòlti ad un proprio particolare interesse, anche lui, dunque, che altro ha fatto, ritirandosi, se non questa loro scelta? Nella notte in cui ha scelto di vivere, che altro vede, se non le luci ch’egli stesso si accende? Ne deve risultare rivalutata la funzione del sonno e del sogno, del raccoglimento e dell’intimità, per lo sviluppo della coscienza. È proprio ciò che vedremo nei frammenti che seguono.

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Intanto, però, per farsi forza riprende ancora, nella seconda parte della sentenza, l’invettiva sprezzante già lanciata contro i suoi concittadini, specialmente «gli altri» di DK 1, che neppure si degnavano di venire ad ascoltare ciò che egli si premurava di spiegare, distinguendo e illustrando per filo e per segno le cose secondo la loro natura. Risponde a chi potrebbe rinfacciargli il disimpegno: “Il morto non sono io, siete voi!”. Ma non può non prendere atto del fatto di non essere stato seguito da nessuno. Pur senza rinunciare in nulla a se stesso, Eraclito si rende tuttavia conto che il mondo che gli si mostra cieco e muto e sordo dinnanzi deve pur avere una ragione per esistere; e la sua intelligenza reclama per quel mondo una spiegazione, che egli con la prima asserzione di questo frammento annuncia di voler trovare nell’intelligenza stessa. Eraclito deve riconoscere che così sono fatti gli uomini: è lui lo sconfitto, in definitiva, non loro. Iniziano così, nel raccoglimento dell’eremitaggio, le riflessioni della divinazione dell’essere, con vaghe considerazioni antropologiche sulla natura mista dell’uomo che sconfinano poi nella mista natura senz’altro – vale a dire, nelle divagazioni sul ciclo degli elementi naturali. Si affacciano intuizioni che obbediscono ad una logica non meramente consecutiva (chiusa nel congegno dell’osservazione alla quale segue immediatamente il giudizio sicuro e la condanna senza appello), bensì contemplativa e induttiva, la quale fa sì che le cose si presentino come potrebbero essere, e come effettivamente sono ma non più come si vorrebbe che fossero. Eraclito sa bene che le risposte che cerca ai suoi interrogativi non sono altro che luci ch’egli stesso si accende nella notte, dal momento in cui la speranza si è spenta nei suoi occhi. Le risposte che vuole darsi non servono che a lui stesso, allo scopo di consolare la sua amarezza. È soltanto in seguito, col tempo, che queste prime vaghe risposte sulla natura mista dell’uomo (un essere pensante dotato di un’indole che gli è padrona) diventeranno una rudimentale dottrina generale in forma oracolare, fatta di sentenze slegate e d’intuizioni senza vero sviluppo né salda coerenza. Il segreto del fascino imperituro del pensiero di Eraclito consiste proprio nel suo difetto di talento creativo, comunicativo, formale, tanto sul piano letterario che su quello teorico sistematico. Le ponderose esegesi dell’epoca positivistica hanno cercato di venirgli in aiuto almeno sul secondo piano, mentre le scuole di derivazione romantica hanno trasformato il suo difetto di talento letterario in una vera e propria letteratura del talento. Quanto alla collocazione del frammento in questa posizione nell’ordine di successione, non nego che essa potrebbe essere diversa – come del resto è vero per gran parte dei pensieri, se non per tutti. Ho discusso nell’Introduzione il quesito riguardante la collocazione dei frammenti supposti iniziale e finale DK 1 («Ma pur essendo questo discorso sempre così») e DK 101 («Ho

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indagato me stesso»): il primo potrà forse essere anche stato l’inizio del libro, o di un libro, ma non certo l’inizio della sua vita attiva; il secondo non può essere considerato come il risultato del bilancio complessivo di questa vita intera. Uno dei punti mediani di svolta, e forse il più importante sotto il profilo psicologico e biografico (perché sotto il profilo strettamente teorico ce n’è più d’uno, come si vedrà), è proprio questo DK 26. La sua collocazione nell’ordine dei frammenti ha una sola alternativa credibile, mi pare: esso potrebbe collocarsi all’inizio del quarto periodo finale: là, dove Eraclito comincia a parlare della decadenza del suo fisico, e delle possibilità conoscitive offerte dal tatto e dall’olfatto (pressappoco fra DK 51 e DK 117, dunque). Che Eraclito fosse effettivamente diventato cieco, dunque, come tramanda l’epigramma di Diogene Laerzio?2 In un suo dipinto Salvator Rosa raccoglie questa notizia, e lo rappresenta proprio come un cieco, seduto mestamente ai piedi di un ilare Democrito che invece pianta il suo sguardo ben dritto negli occhi dello spettatore (v. Tavola I). Tutto si riduce, dunque, a stabilire se la luce spenta negli occhi, della quale si parla in questo DK 26, sia metaforica, o no. Da una soluzione metaforica dipende la divinazione del periodo euristico e speculativamente creativo della personalità teorica di Eraclito; da una soluzione fisica o patologica dipende invece il giudizio sul rilievo che dev’essere attribuito agli ultimi pensieri sul tatto e sull’olfatto: questo maggiore rilievo non fu dovuto ad una sopravvenuta sfiducia nella facoltà conoscitiva della vista, che Eraclito propugnò per gran parte della vita, bensì semplicemente al fatto che la vista gli venne a mancare. Non si tratta di una questione capitale, dal momento che le speculazioni dell’eremitaggio o le meditazioni della vecchiaia sarebbero comunque sopravvenute dopo l’abbandono della città o dopo l’insuccesso della divulgazione, e conservano il loro valore, insieme con la posizione reciproca nell’elencazione, indipendentemente dal fatto che sia DK 26 ad aprirle, oppure no. Io credo, come si vede dalla disposizione che ho adottata, che la cecità della quale qui si parla sia metaforica, e credo di poter giustificare quest’opinione in base a considerazioni di contenuto e di stile. Quanto al contenuto, ho già detto all’inizio del commento che questo frammento s’incatena bene, nella seconda parte, coi precedenti DK 73 e DK 21; e quanto alla forma, mi sembra importante notare che si tratta di un giudizio sintatticamente esteso, artico2   «Spesso mi meravigliai come mai Eraclito poté concludere con una tal morte una vita così tormentata ed infelice. Ché una crudele malattia inondò il suo corpo con l’acqua, spense la luce negli occhi e l’abbandonò alla tenebra fonda» (traduzione di Marcello Gigante da Rodolfo Mondolfo e Leonardo Tarán, Eraclito. Testimonianze e imitazioni, Nuova Italia, Firenze 1972, p. 21).

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Tavola I. Salvator Rosa, Eraclito e Democrito (Vienna, Kunsthistorisches Museum)

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lato, non aforistico e non narrativo. È la logica, che vi prevale. Eraclito sembra preoccupato, insomma, di conseguire una conclusione, e ciò corrisponde bene ad una fase di ricerca aperta. Anche DK 117 (l’ubriaco ingannato dal fanciullo) e DK 67a (il ragno al centro della tela), che aprono a mio giudizio l’ultima fase della sua vita, sono pensieri esposti in forma alquanto estesa – ma sono pensieri di carattere narrativo, e non di carattere logico. È la sintassi, che lo mostra: là Eraclito non vuole pervenire ad alcuna conclusione, ad alcun giudizio, perché le cose parlano da sé. Qui, invece, le cose non parlano affatto da sé, ed egli s’ingegna a spiegarle nella sua ardua maniera. DK 75 / DS 11

τοὺς καθεύδοντας ἐργάτας εἶναι και συνεργοὺς τῶν ἐν τῶι κόσμωι γινομένων. I dormienti sono operatori e cooperatori degli eventi del mondo. È un riconoscimento clamoroso, se significa una concessione immediata fatta al significato della vita degli altri; meno clamoroso invece se, com’è più probabile, si tratta di un riconoscimento reso alle proprie ragioni di vita. Il risultato però, alla breve o alla lunga, è lo stesso: perché attraverso una giustificazione del proprio eremitaggio Eraclito deve pervenire anche, in qualche modo, a riconoscere una ragione come utilità finale (non attuale) delle scelte privatistiche altrui. È qui che gli si presenta per la prima volta, dunque, l’immagine di un universo energeticamente chiuso, e vivente di una dinamica di equilibrio fra contrari, o di compensazione reciproca, o di ciclo dei suoi elementi, tutti indispensabili. La sentenza potrebbe significare, replicando a chi lo biasima o canzona: “Il mio ritiro è prezioso quanto il vostro inutile affacendarvi”. Le sue posizioni sul sonno diventano qui meno drastiche. Meditando sulla natura mista dell’uomo, che non è fatto soltanto di pensiero, ma anche di indole, egli deve necessariamente riconoscere una natura mista anche al sonno come stato ibrido dell’essere (non della coscienza: perché questo, come ho detto e ripeto, implicherebbe invece un riconoscimento allo stato misto del sogno; e Eraclito non vuole ammettere stati ibridi della coscienza). Egli non può negare che questo suo ritiro nella meditazione strettamente privata gli sia latore di una qualche verità, o di progressi, forse anche inattesi, della sua coscienza. Perciò il mondo gli si comincia a presentare nientemeno che ciò che è: fatto da uomini come

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«gli altri» di DK 1, non meno che da quelli come lui. Che lo si voglia cambiare, o anche soltanto capire, si tratta di cogliere il segreto di questa unità. Per giudicare l’importanza di questo appunto nell’insieme dello svolgimento dei pensieri, appare a prima vista veramente notevole il fatto che qui, per la prima volta, non si menzionano i desti. I precedenti DK 89, DK 73, DK 21 e DK 26 affiancano i desti ai dormienti secondo una misura d’importanza, o d’attenzione, inversamente decrescente e crescente. Qui invece, per la prima volta, non si parla che dei dormienti. Il frammento DK 88, che segue, dà a questo crescendo d’attenzione assai più che una semplice conferma. DK 88 / DS 22 / C 113

ταὐτό ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ ἐγρηγορὸς καὶ καθεῦδον καὶ νέον καὶ γηραιόν· τάδε γὰρ μεταπεσόντα ἐκεῖνά ἐστι κἀκεῖνα πάλιν μεταπεσόντα ταῦτα. La stessa cosa, vivo e morto, sono e il desto e il dormiente, e il giovane e il vecchio; e quelli decadono in quest’altri, e quest’altri, a loro volta, si dissolvono. Finora Eraclito aveva detto che i vivi sono come morti, perché operano e parlano come nel sonno. Se qui dicesse che “la stessa cosa sono il vivo e il morto nel dormiente”, noi non ci saremmo allontanati da questa posizione. Ma non dice questo: dice che anche il desto, come il dormiente, è insieme vivo e morto – e noi ci troviamo dunque di fronte ad una nuova peripezia del pensiero, in una fase di successivi adattamenti che vanno tutti in una sola direzione, del tutto coerente. D’ora in avanti Eraclito potrà aggiungere, precisare o modificare via via la sua posizione, potrà innestare una fisica e una cosmologia sull’antropologia, potrà decidere che è venuto il giorno del ritorno in città e dell’ultimo tentativo di rendersi utile mediante la divulgazione del suo pensiero, o potrà infine rassegnarsi alla sconfitta e prepararsi alla morte – ma ciò non modificherà l’assunto principale del suo nuovo pensiero, che in questa sentenza DK 88 trova la sua prima formulazione completa. Sebbene graduata attraverso i quattro pensieri precedenti, la svolta è stata abbastanza rapida, se si considera l’economia del numero complessivo dei frammenti. Bisogna considerare che Eraclito è solo, e che non ha più davanti a sé coloro, la cui presenza, assenza, ottusità o dileggio potevano inasprire la sua caparbietà. Per la prima volta, dunque, dalla meditazione sul sonno scaturisce l’intuizione dell’unità dei contrari; e l’unità vale per ogni uomo – anche per i desti. Un lettore esigente sul piano teorico, e pieno di aspettative, potrebbe a questo

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punto domandare come i desti possano, anch’essi, essere morti, dal momento che proprio questo è il contenuto di clamorosa novità del frammento. Non è così: Eraclito non sviluppa il tema dell’antropologia dei desti, con le loro tare, le loro oscurità, i corpi in cui stanno immersi (così come, del resto, farà Cartesio non accettando l’invito di Gassendi). Egli si avvia per un’altra strada; e questa strada lo porterà verso la fisica, la metafisica e la cosmologia. Per noi sarebbe stato d’immenso interesse conoscere invece proprio questo: come il pensiero possa rappresentare la parte dormiente e morta dell’uomo – la parte dormiente come pregiudizio, o la parte morta come forza d’inerzia e trascinante del fanatismo. Ma come si vede, e si vedrà, non è così; e la scelta di Eraclito diventa una scelta anche per l’intera storia della filosofia: la quale dedicherà alla morta o dormiente consistenza del pensiero un’attenzione ben scarsa, se non proprio nulla. Dovrà arrivare la società di massa, e la politica ‘per’ le masse, e poi anzi ‘delle’ masse, senz’altro, perché ci si accorga che esiste un problema di sonnambulismo anche per coloro che sono desti, o credono di esserlo. Le ideologie ‘di massa’ costituiscono, per l’appunto, la ‘gravità’ del pensiero, e i pregiudizi la sua tara non eliminabile. Una seconda volta Eraclito si troverà sul punto di percorrere questa strada, e per la seconda volta rifiuterà di farlo: allorché nell’ultima parte della sua vita mediterà sul valore dell’opinione (come vedremo commentando DK 70, 92, 46, 102). Ad ogni modo, tutto ciò è ancora di là da venire; e in questo DK 88 noi non possiamo che constatare un semplice fatto: si tratta di un pensiero che, esercitandosi sulla psicologia, si fa poi tentare da una generalizzazione antropologica mediante il riferimento al giovane e al vecchio. È la prima volta che Eraclito parla di vecchiaia – e se ne parla, vuol dire che ci pensa: non è più tanto giovane, e sente vivere in sé la mista unità dell’uomo. Se distoglie i suoi pensieri dall’ideologia di massa, è perché non la conosce ancora, né potrebbe; e se distoglie i suoi pensieri dal pregiudizio, è perché non lo ammette. Ma capisce che anche i desti hanno la loro tara in un corpo che invecchia, che perde la vista l’udito e forse persino il discernimento (la memoria, anche; ma in Eraclito non esiste mai menzione né ruolo alcuno della memoria: anche nell’eremitaggio egli è l’uomo sempre presente). È chiaro, perciò, che egli ha visto ridursi fortemente la fiducia nel suo punto di partenza giovanile DK 55. Io credo proprio che le privazioni dell’eremitaggio abbiano qui giocato un ruolo importante. Manca qui, come risulta evidente nella conclusione, l’idea del ciclo: i vecchi decadono, e poi semplicemente, si dissolvono. Egli tenderà presto a muoversi verso l’idea contemplativa (e un po’ consolatoria) del ciclo degli elementi in un universo energetico chiuso – ma l’idea della dissoluzione, che qui assu-

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me la forma geometrica della parabola aperta, non verrà meno, e tornerà ad affermarsi nelle ultime sentenze. DK 62 / DS 21 / C 107

ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι, ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες. Le anime sono immortali mortali, mortali immortali: viventi esse, la morte di quei corpi; morti questi corpi, la vita di quelle anime. È il primo passo nelle generalizzazioni metafisiche. A svolta compiuta, ci troviamo sempre nell’àmbito di un interesse antropologico; e cominciano da quest’ambito le divagazioni, le approssimazioni, le fantasie, i lambiccamenti, le vaghe possibilità e le potenti figurazioni che soggiogano la sua immaginazione visionaria non meno di quanto soggiogheranno i posteri senza immaginazione. Ma questa è la parte caduca del suo pensiero. Essa deve la sua vitalità e il suo fascino unicamente al fatto di nascere da una doppia frustrazione, esistenziale e teorica, dalle quali è scaturita tanta poesia. Basterebbe, per renderla tollerabile, che la metafisica lo riconoscesse: ne guadagnerebbe, se non altro, la precisione del linguaggio che essa può imparare dai buoni poeti. In questa sentenza, di difficile interpretazione, l’unità antropologica degli opposti non è fatta di ciclo, bensì di contraddizione estrinseca e logicamente simmetrica, non basata su alcuna sostanziale unità fisica. La seconda parte della sentenza spiega la prima, e non viceversa. Eraclito non vuol dire, nella prima parte, che le anime sono al tempo stesso mortali e immortali (secondo dunque una contraddizione intrinseca, ontologica, che farebbe dell’anima un animo, o una radice dell’unità antropologica più che metaforica); né vuol dire, secondo una contraddizione fisica, che le anime sono viventi in quanto provocano la morte dei corpi, oppure che vivono grazie alla morte dei corpi secondo una misura di relazione inversa; bensì vuol dire che sono immortali in quanto i corpi sono logicamente, concettualmente, separatamente da esse, cose mortali. L’idea di un divenire concepito come trapasso qui resta ancora esclusa – tant’è vero che la vita è associata alle sole anime, e la morte ai soli corpi, mentre non vale la relazione inversa: quella che descriverebbe anime che sono, ‘in quanto’ i corpi non sono. No – Eraclito dice proprio che le anime ‘sono’ vive, e che i corpi ‘sono’ morti. La cosa è possibile solo ammettendo, in via logica, un’esclusione reciproca.

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In questa separazione logica delle sostanze è già sancita la perdita di quel problema dal quale (dopo le successive crisi religiosa, politica, morale, che si sono viste nella prima parte) egli era partito per poi approdare ad un’avventura speculativa: nientemeno che la definizione e la risposta all’interrogativo sull’indole padrona all’uomo di DK 119. Egli perde così, insomma, il centro di unità antropologica che ne possa spiegare le miserie, e riformula il problema in termini logicamente scissi. Continuerà poi a farlo: la riformulazione dei problemi è una delle caratteristiche del suo pensiero, come già abbiamo visto: e questo è l’unico vero pánta reĩ che sia dato rinvenirvi, e una delle ragioni della sua inconcludenza.3 La mancanza di lucidità (affascinante quanto si vuole, come si addice alla poesia) dei pensieri che seguono non potrà non condizionare anche la precisione della disposizione e del commento. lo psicologo DK 36 / DS 53 / C 114

ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή. Morte alle anime è diventare acqua, morte all’acqua è diventare terra; e dalla terra scaturisce acqua, e dall’acqua l’anima. A differenza della sentenza precedente, compare qui invece senz’altro, per la prima volta, l’idea del ciclo. Se non che, è di un ciclo fisico che si tratta, non di un ciclo antropologico. Eraclito menziona qui l’acqua e la terra, ma non fa parola dei corpi umani. Perdendo il contatto con l’antropologia, egli cede alla malaugurata tentazione e, diciamo pure, al dilettantismo (se l’uso del termine può già avere un senso) dell’incursione fisica e della teorizzazione metafisica. Nulla può compensare nella storia della filosofia la perdita del problema dell’uomo come reale unità antropologica complessa. È difficile dire se si tratti di uno sviluppo volontario o involontario. Se la

3   Pánta reĩ, ovvero Alles ist in Fluß, sono invece le parole con le quali Bruno Snell conclude la sua del tutto nuda edizione dei frammenti eraclitei, non senza una loro misteriosa attribuzione cifrata a Leucippo (Heraklit, Fragmente, a cura di Bruno Snell, Heimeran, München 1976, pp. 38-39). In Die Sprache Heraklits, pubblicato dieci anni prima nelle Gesammelte Schriften (Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966) egli aveva già negato che gli appartenessero (come ho detto nella nota 12 della prima parte del Diario (La città e le passioni).

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disposizione del frammento è corretta sotto il profilo dell’ordine cronologico, è molto probabile che si tratti di uno sviluppo volontario (considerata la novità alquanto sorprendente dell’enunciazione). D’altra parte, bisogna pur dire che simili sviluppi teorici, di carattere speculativo e intellettualistico, sono piuttosto frequenti in chi si trova a dialogare soltanto con se stesso – ed è evidente che, da un pezzo, egli non ha ormai più nessuno davanti a sé. Gli mancano completamente i materiali e le occasioni per esercitare quello spirito d’osservazione che aveva reso tanto forti e indisponenti i suoi precedenti giudizi. Bisogna notare qui il particolare importante dell’assenza di una fonte d’energia: chi o che cosa fa scaturire acqua dalla terra e l’anima dall’acqua? Potrebbe essere il fuoco, e i frammenti sul fuoco potrebbero anche avere la precedenza su questo. Ma quest’interpretazione dovrebbe basarsi sul postulato di un Eraclito lucidamente impegnato ad elaborare una dottrina coerente, dotata a sua volta del postulato della centralità fisica e metafisica di un elemento sostanziale, come il fuoco, e di conseguenti induzioni. Sono invece convinto che così non sia – e non soltanto perché mi sembra chiaro dal carattere dei pensieri che egli non si chiuse in uno studio a pensare, ma trovò la sua strada grado a grado, e anzi a tentoni (come spiega bene DK 26, con quell’uomo che si accende un lume nella notte che ha negli occhi). Se egli fosse partito dal postulato del fuoco, possiamo noi credere che questo pensiero contenente un cogito fisico-metafisico ci mancherebbe? Possiamo davvero accettare l’idea che, esistendo un passo simile nei suoi scritti, o scritto, i posteri non ce l’avrebbero tramandato? Il frammento candidato più credibile non potrebbe essere che DK 30: «Questo ordine del mondo, lo stesso per tutti, non lo fece né qualche dio, né qualche uomo, ma fu sempre, ed è, e sarà: fuoco eterno, che si accende secondo misura e secondo misura si spegne». Se non che, a me sembra chiaro che questo pensiero, assai evoluto, abbia ben poco a che fare con il problema dell’energia che servirebbe per attuare le trasformazioni psichiche. È dell’anima che parla, qui, Eraclito, e non della creazione e del governo del cosmo. DK 30 ha tutto il carattere di una conclusione; e a quella potente intuizione, che è già una suggestiva rappresentazione, egli giungerà dopo avere ammesso che qualcosa si nasconde nella natura, e che questo qualcosa è più forte d’ogni altra, e che il mondo è fatto di contraddizioni, e che il rapporto è la forma logica dell’unità dell’opposizione, e che infine l’universo è un grande corpo caldo ritmicamente pulsante. Non si può supporre, a me pare, che dopo aver toccato una simile altezza cosmosofica egli si sia dedicato a risolvere problemi a ritroso, per così dire, aggiustando le lacune della dottrina. È più semplice e

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plausibile supporre, invece, che Eraclito abbia fatto anche in questo DK 36 ciò che gli abbiamo già visto fare coi frammenti che danno inizio alla seconda parte della sua vita. E quindi egli avrà prima enunciato l’idea di una trasformazione, che gli spiegava qualcosa, e poi sarà andato in cerca della possibile causa di questa trasformazione. DK 76 / D 0 / C 115

ζῆι πῦρ τòν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τòν πυρòς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τòν ἀέρος θάνατον, γῆ τòν ὕδατος. Vive il fuoco la morte della terra, e l’aria vive la morte del fuoco; l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua. Inserisco qui questo frammento, sebbene esso sia naturalistico e non menzioni l’anima, perché insieme con il precedente DK 36 esso costituisce il doppio capostipite delle idee del ciclo. Si noti il confronto: in DK 36 il ciclo è catabatico-anabatico, mentre qui è anabatico-catabatico. Il suo sviluppo si avrà più avanti, dopo i pensieri sull’anima. DK 12 / DS 52 / C 119

ποταμοῖσι τοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶ ἕτερα ὕδατα ἐπιρρεῖ· καὶ ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν ἀναθυμιῶνται. Verso coloro che entrano nei medesimi fiumi scorrono acque sempre diverse; e le anime aleggiano al di sopra delle acque. Nebbiosamente oracoleggiando di anime vagamente evaporate, librate o aleggianti al di sopra di acque, egli non tanto trascura di menzionare il fuoco, che dovrebbe presiedere al fenomeno fisico della trasformazione dell’acqua in qualunque cosa che somigli al vapore (e già, del resto, aveva trascurato di menzionarlo nel frammento precedente DK 36, come s’è visto, e per le ragioni che ho detto); non tanto evita di menzionare il fuoco, dunque, bensì piuttosto trascura di menzionare, nella prima parte della sentenza, i corpi di «coloro che entrano» nei fiumi: i quali corpi dovrebbero pur trovarsi immersi in quelle acque scorrenti sempre diverse. Resta dunque ribadita, ormai, la perdita dell’interesse antropologico e del quesito circa l’unità complessa dell’anima col corpo.

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DK 49a / DS 16 / C 121

ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν. Negli stessi fiumi noi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. Nel precedente DK 12 aveva parlato vagamente di anime evaporate, o aleggianti come nebbie, e di «coloro che entrano nei fiumi». Cosa significa, qui: “noi”? Per chi ha distinto così nettamente le anime dai corpi, tanto da dimenticarsi questi ultimi, e ha fatto delle anime vaghe entità vaporose, questo “noi” non può significare semplicemente alcunché. Né si vorrà interpretare la sentenza nel senso che noi entriamo negli stessi fiumi con i corpi, mentre aleggiamo su di essi con le nostre anime evaporate, mentre i nostri corpi subiscono un ignoto destino. In questo senso, sembrerebbe, noi «siamo e non siamo»: coi corpi immersi, abbandonati al loro destino, e con le anime evaporate aleggianti al di sopra. Per questo «siamo e non siamo» non occorre tuttavia affatto l’esemplificazione dei fiumi: perché la vita delle anime come dissoluzione dei corpi è verità del tutto autonoma appartenente al ciclo fisico antropologico, come spiega più di un pensiero precedente, e non è la verità di un peregrino ciclo empirico bisognoso di evidenza naturalistica. La stessa separazione di anime e corpi, che si è già vista, non ha avuto alcun bisogno di associarsi a fenomeni naturali. Perdendo i contatti con l’antropologia, è però precisamente di questo tipo di evidenze naturalistiche stravaganti, immaginose e immaginarie, che Eraclito s’è messo in cerca, come se avesse bisogno di rappresentazioni efficaci per illustrare il suo pensiero. Ma a chi, se non a se stesso? Io non credo proprio che abbia già deciso d’illustrare il suo pensiero ad altri (cosa, che farebbe spostare più avanti nell’ordine la comparizione di questo DK 49a): semplicemente perché non è con rappresentazioni come questa che egli poteva pensare di ritornare in mezzo ai suoi concittadini senza farsi coprire di ridicolo. Quando inizierà l’opera di divulgazione, dopo il ritorno, sceglierà esemplificazioni estremamente semplici e del tutto comprensibili a chiunque. DK 77 a b / DS 54 / C 81

ψυχῆισι τέρψιν ἢ θάνατον ὑγρῆισι γενέσθαι. [...] ζῆν ἡμᾶς τὸν ἐκείνων θάνατον καὶ ζῆν ἐκείνας τὸν ἡμέτερον θάνατον.

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144   parte prima. eraclito

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È piacere oppure morte alle anime umide trasformarsi. […] Noi viviamo la loro morte, ed esse vivono la morte nostra. Si tratta di una conferma succinta, perché ha già espresso con maggiore ampiezza il significato della prima proposizione in DK 36, e il significato della seconda in DK 62. L’unica novità si presenta sul piano logico: l’anima umida può decadere verso la solidità della terra, oppure rarefarsi ulteriormente in vapore. All’idea del ciclo subentra qui l’idea di uno sviluppo scisso (a mo’ di Y adagiata, come vedremo ancora in DK 31a), che con il «piacere» e con la «morte» suggerisce forse persino l’idea del premio e del castigo, vale a dire la possibilità di una sorte alternativa per i virtuosi e per i viziosi. Ma non si può certo andare troppo in là con le interpretazioni, e bisogna restare sul significato disgiuntivo di «oppure». Questa parola è segno che la sua meditazione non ha vere basi fisiche, bensì puramente logiche o schematiche. Eraclito tenta degli schemi, ecco tutto. È vero che in DK 62 egli ha specificato che la vita dei nostri corpi è morte delle anime, che vi stanno sepolte, mentre esse vivono (ossia rivivono) con la morte dei corpi. Ma poiché non parla di ulteriori materializzazioni, sarebbe soltanto un’ipotesi interessante voler parlare di un vero e proprio ciclo di trasmigrazione – così come resta soltanto un’ipotesi interessante ammettere che egli pensasse ad un premio e ad un castigo dopo la morte. È più plausibile credere che ad Eraclito interessi mettere in risalto il solo momento logico della separazione simmetrica. DK 118 / DS 56 / C 79

αὔη ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη. Anima asciutta la più saggia e migliore. È il corollario o il complemento della sentenza precedente sulla sorte dell’anima verso la condensazione o verso la rarefazione. È ben vero che il vapore non è “asciutto”; ma penso che «anima asciutta» significhi qui anima “rarefatta”, per metterla in contrapposizione all’anima “densa” e pesante della terra. Quanto poi alla possibilità che la trasformazione corrisponda ad un premio e ad un castigo per le anime dopo la morte, si deve notare che Eraclito non dice qui affatto che l’anima migliore diventa asciutta, bensì semplicemente che l’anima asciutta è la migliore. Sembra più uno stato, che una sorte.

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DK 45 / DS 51 / C 46

ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει. I confini dell’anima, andando, non li troveresti percorrendo tutta quanta la strada: talmente profonda ha ragione. Quella che sembrava un’entità definita per lo meno in tre modi: antropologicamente (attraverso il contrasto col corpo), fisicamente (attraverso il ciclo unico delle trasformazioni materiali), moralmente (attraverso lo stato o la sorte della condensazione o della rarefazione) – questa entità che è l’anima, dunque, via via più astratta e inafferrabile, si perde ora semplicemente nel nulla, o quasi. Al suo posto, a fare in un certo senso da compensazione per la quantità di pensiero speculativo nel quale Eraclito si trova sopraffatto, viene a sorgere una Ragione infinitamente profonda, la quale costituirà la chiave per la lettura stoica dei suoi pensieri. Ma non si tratta affatto di un elemento di dottrina: Eraclito sta parlando a se stesso. DK 41 / DS 13 / C 25

ἓν τὸ σοφόν· ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων. Una, la sapienza: conoscere il senno che ha governato tutto attraverso il tutto. Come DK 45, anche questo non è un giudizio, bensì un proposito: egli dice a se stesso ciò che si propone di conoscere per ottenere la somma sapienza, non per elargirla ad altri. La generica ragione insondabile dell’anima si trasforma e materializza in modo assai più sicuro in questo senno governatore, che non si può scambiare con un metafisico Lógos senza intellettualizzare l’universo e il suo governo. Eraclito procede invece da vaghe intuizioni astratte cercando poi di renderle, per quanto gli riesce, concrete e visibili. Non è plausibile che abbia fatto il contrario, e che abbia voltato le spalle al saldo governo centrale del senno per dedicarsi ad inseguire una ragione erratica ed ubiqua. È tutta la sua precedente vita cittadina a suggerire che egli si propone, d’ora in poi, di raffigurarsi una città cosmica. È notevole che dopo avere perso i confini dell’anima nella ragione insondabile di DK 45 egli si sia affrettato a trovare al tutto un centro demiurgico. Il suo interesse per la natu-

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ra procede dal suo interesse per l’anima; e come poi farà Platone, già Eraclito si accinge a leggere nella natura i grandi caratteri del libro corrispondente al libro dell’anima. I due frammenti DK 45 e DK 41 sono opposti fra loro e insieme complementari. Il risultato è un’unità di opposti nella quale l’anima resta il sottinteso del mondo. Qualunque cosa s’intenda con i due termini lógos e gnōmē, quest’unità d’illimitata ragione e di fermo senno pratico deve avere una spiegazione. Io credo che questo sia il vero problema, e non quello di mettersi alla ricerca dei molti possibili significati di due parole alle quali Eraclito non ha mai voluto attribuire un significato tecnico o mistico, che non possono avere e non hanno. Nasce così la ricca serie di celebri pensieri che servono per dare una formulazione logica e una forma concreta all’unità del rapporto. La formulazione logica è una qualche definizione di rapporto, la forma concreta è un abbozzo di fisica e di cosmologia. La serie di frammenti si conclude nella potente figurazione di DK 30. Non manca che il possesso di un solo requisito per mettersi in cammino – ed eccolo indicato in DK 18: la speranza. DK 18 / DS 65 / C 103

ἐὰν μὴ ἔλπηται, ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον. Se non spera non troverà l’insperato: che è ininvestigabile e insondabile. La ragione è la periferia introvabile del tutto, il senno ne è il centro demiurgico. La loro unità è un rapporto sotto il profilo logico, ed è una scienza naturale sotto il profilo figurativo. Ma non esiste ricerca di una ragione senza la ragione di una possibilità; e perciò fra senno e ragione, o gnōmē e lógos, si stendono i cammini della speranza. Questa è la motivazione che Eraclito offre a chi voglia avventurarsi nelle profondità dell’anima e del mondo. Ecco ciò che riesce ancora ad attendersi un uomo sconfitto, che era ripartito fiducioso di riuscire ad accendersi una luce nella sua notte: nient’altro che il barlume della speranza. Oltre questa egli non ha mosso e non muoverà, in definitiva, un solo passo che non sia una continua dislocazione girovaga di un problema attraverso figurazioni e formulazioni, in attesa che le cose assumano un senso.

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essenza e sostanze

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DK 123 / DS 28 / C 27

φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. La natura ama nascondersi. Comincia la serie delle sintesi. Si sente che, dopo avere riposto fiducia nella speranza, Eraclito è animato da un’energia più raccolta, da una capacità di esprimersi più semplice ed efficace. Queste sintesi, anche se sono più chiare, tanto da sembrare talvolta lapidarie, non valgono già per la futura divulgazione cittadina: valgono ancora soltanto per lui – ma hanno già la chiarezza della divulgazione. L’unità di un punto di vista è ciò che gli manca e che gli serve, ed egli scambia ciò che occorre a lui con qualcosa che tiene insieme segretamente il mondo. DK 54 / DS 27 / C 68

ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείττων. Non manifesta armonia di manifesta è più forte. È sentenza diametralmente opposta alla sua futura opera di divulgazione, che si avvarrà d’immagini assai semplici ed evidenti: segno che esse ancora non possono entrare nel numero dei pensieri qui raccolti. Dal momento che per quell’opera non è ancora pronto, Eraclito sente il bisogno di raccogliersi tutto in una salda certezza di verità intima, e riflette sul significato inesteso e non sostanziale del rapporto, come viene descritto nel prossimo DK 10. Credo che non si possa esagerare l’importanza di questa sentenza, riducendola ed esaltandola, al tempo stesso, ad una sanzione del primato della conoscenza di cose invisibili. L’interesse, il gusto e persino il talento per la visibilità in Eraclito è troppo forte e costante perché si possa negare che questo pensiero costituisce nell’insieme dei pensieri, in definitiva, soltanto un’eccezione. Il frammento che potrebbe in parte accostarglisi è il DK 5 del primo periodo, dove nella conclusione deplora il comportamento di quegli adepti di sette religiose che sembrano parlare con dèi e con eroi dipinti sui muri. Ho già spiegato, là, perché i due frammenti non possono stare uniti: il pensiero dell’armonia implica già un notevole progresso teorico, mediante l’accettazione della

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sussistenza della contraddizione e dell’unità degli opposti. Ora il momento è arrivato, e l’unità gli si presenta nella soluzione invisibile del rapporto – vale a dire: della forma non sostanzialmente partecipata dell’essenza. Ora, il fatto che la forma di un rapporto non sia sostanzialmente partecipata non implica affatto necessariamente che debba essere invisibile e inconcreta. Tutt’altro – e anzi: perché il rapporto trovi significato in una forma bisogna proprio che diventi in qualche modo visibile, e che assuma persino una sostanza per sé. Il rapporto fra tre pere e quattro mele in un cesto di frutta è una frazione sostanzialmente impartecipata di ‘tre quarti’, che non sono ‘tre quarti’ di pere, e neppure di mele. Ma il rapporto che si deve creare fra il patrizio e il plebeo, o tra il feudatario e il vassallo, il capitalista e il salariato, o fra ancora più numerosi ceti sociali (il redditiere, il finanziere, il contadino, l’assistito, il prete, il funzionario, il fuorilegge, il vagabondo: che sono, di per sé, altrettante sostanze corporative) – questo rapporto, dunque, bisogna certo che sia astratto, e sancito per diritto in una costituzione e in una legge sostanzialmente impartecipata da ciascuna delle singole sostanze (a meno, che si voglia invece sancire la dittatura di una classe sulle altre, ripristinando il primato della sostanza sull’essenza); ma bisogna pur tuttavia che il rapporto sancito per legge diventi visibile e acquisti forma e sostanza sua propria materializzandosi in una istituzione. Di qui, poi, l’effettiva vigenza della legge. Non c’è nulla che potesse interessare meno ad Eraclito del concepire leggi non vigenti. Nulla del filosofo puramente speculativo, in quel moralista che era, e che tenne sempre bene in vista il risultato. Ma il fatto di essere uomini concreti, in cerca della visibilità, non significa di per sé affatto avere il senso della forma. Il senso della forma e della sostanza del rapporto è un problema assai arduo, che nella storia della filosofia politica trova soluzioni assai stentate. Trovata l’essenza, il filosofo politico di solito s’acqueta: il suo lavoro gli sembra finito. Lo si vede bene allorché si nota che altri filosofi politici, altri uomini pratici e bene attenti al risultato non meno di Eraclito, dopo avere scoperto l’essenza non sempre hanno rispettato l’appuntamento con la forma e la sostanza per sé del rapporto – vale a dire: con le istituzioni. Machiavelli non capì mai nulla della repubblica di Venezia, che gli stava sotto gli occhi; e il ruolo del senato, del consolato, del tribunato, e simili, della repubblica di Roma non hanno per lui alcun valore al di fuori dell’esercizio di una volontà personale. Dopo avere concepito a suo modo il principio della sovranità, Hobbes abbandonò la questione della vigenza alla lealtà e alla buona volontà dei ministri. Marx poi, dopo aver creduto di scoprire nella storia, con la lotta delle classi, l’essenza dinamica di qualsivoglia rapporto sociale, combatté per tutta la vita la possibilità di dargli una solida forma, e in ogni occasione che si

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presentò di materializzare la teoria in una scelta pratica ripristinò regolarmente il primato della sostanza. Ed infine, dopo avere formulato in termini assai chiari nel Che fare? il problema politico dell’egemonia fra tutte le classi sociali, Lenin (sulle cui attitudini di uomo che bada al risultato non ci sono dubbi, mi pare) non seppe tuttavia concepire alcunché sul piano delle istituzioni. La prassi costituzionale inglese e la storia del pensiero politico francese sono diverse – ma appunto perché i teorici costituzionalisti di entrambi i paesi non furono dei ‘veri’ (per così dire) filosofi politici. Ora, anche se in Grecia c’erano già stati un Solone e un Licurgo, noi non possiamo certamente pretendere di trovare in Eraclito qualcosa di paragonabile agli edifici che poi si trovano in Bodin o in Montesquieu: perché anche Platone nelle Leggi non seppe andare, in definitiva, molto più in là di un Consiglio Notturno. E tuttavia è pur vero che nei pensieri cittadini del primo periodo della vita di Eraclito noi troviamo chiaramente sanciti, come si è visto, i due termini opposti della questione istituzionale che poi sarà ampiamente trattata da Eschilo nell’Orestea: la volontà arbitraria della tirannia illuminata (in DK 33, 49, 99) da una parte, e le leggi moderatrici, o comunque remunerative per misurata rappresaglia, del costume (con Dike e le Erinni che scoveranno un sole oltracotante in DK 28, 94, 34) dall’altra. È un fatto, non un biasimo, che Eraclito non seppe immaginare nulla che legasse questi due termini logici del problema della giustizia in un solido rapporto istituzionale. Secondo la mentalità tipica dei filosofi, il problema della giustizia rimase per lui il problema di formulare una legge, mentre la celebrazione dell’istituzione della corte di giustizia cittadina rimase affidata non ad un filosofo, bensì ad un poeta come Eschilo. È un fatto, e non un biasimo, che in Eraclito (come dirò trattando del framento DK 92, nel quarto periodo della sua vita) l’unico raro caso di materializzazione non puramente simbolica del rapporto assume la forma personale del transito nella Sibilla. Al di là della formulazione di una legge, è dunque sempre ad un ruolo di volontà e di non-volontà personale che tutto finisce per ridursi (come in Machiavelli, tanto per capirsi: dove pure ciascuno agisce volontariamente secondo l’involontarietà della sua natura specifica – che somiglia assai al servo arbitrio di Lutero). Ma questo caso di materializzazione, sia pure pressocché unico nei frammenti, rimane d’altra parte comunque un fatto importante, che si unisce a tutta quanta la tendenza largamente prevalente del suo pensiero. Insistere tanto sul primato dell’armonia invisibile in Eraclito, insomma, è sbagliato. Esso viene sancito in questo DK 54, non c’è dubbio – ma viene sancito soltanto come un problema, e non come una soluzione. Muri o non muri in DK 5, Eraclito si sforzò per tutta la vita proprio di rendere visibile l’invisibile, udibile l’inudibile, intelligibile il non intelligibile (e questa è

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la ragione per cui traduco afanēs e fanerẽs, in senso ampio, ‘manifesta’ e ‘non manifesta’, senza limitarmi alla sola visibilità). E se la singola comparsa di un pensiero viene tanto prediletta dai commentatori, ciò risulta da scelte teoriche loro, già fatte altrove; altrimenti non si vede perché non si dovrebbe esaltare l’importanza di DK 18 (dopo averlo legato a DK 26, in primis), e rileggere tutta la raccolta dei frammenti alla luce della speranza e della luce che, disgustato del mondo, l’uomo si accende nella notte. Se della Guerra gallica di Cesare, per esempio, non ci fossero rimaste che poche dozzine di frammenti, saremmo noi forse autorizzati a divinare il significato dell’opera intera alla luce del solo passo VII, 84, 5: «infatti sono le cose non viste che turbano di più le menti umane»? O potremmo fare lo stesso sulla base dell’affermazione conclusiva del capitolo 43 della Germania, dove Tacito descrive la ferocia tenebrosa degli Arii: «in ogni battaglia i primi sconfitti sono gli occhi»? La spigolatura o il florilegio di un certo numero di frammenti può diventare l’epicentro di un riordino generale e perciò di un’interpretazione – e questo infatti è l’approccio sismico (diciamo così) maggiormente praticato dai critici; ma bisogna pure che l’epicentro del sisma abbia una qualche solida consistenza, e delle linee di diramazione pressocché esaustive, oltre che chiare. Si provi a riordinare la raccolta dei frammenti alla luce del primato dell’invisibilità, e si vedrà presto a quanti di essi bisogna rinunciare senza darne delle interpretazioni sperticate. E che cosa del resto, se davvero si vuole, impedirebbe di dare proprio di questo frammento un’interpretazione alquanto sperticata, assecondando il gusto dell’avventura congetturale in favore del primato della visibilità, che esso sembra smentire? Ammettiamo che Eraclito avesse voluto dire esattamente l’opposto di ciò che afferma, e che il suo pensiero fosse questo: “per il saggio” manifesta armonia di non manifesta è più forte – mentre “per il volgo”, conforme al dettato tràdito, vale l’opposto. Il significato volutamente recondito del frammento sarebbe, insomma, polemico, e Eraclito avrebbe anche potuto proporsi di biasimare la credulità popolare precisamente come (per esempio, visto che l’ho appena menzionato) fa Tacito quando nelle sue Storie (I, 22) parla di «quell’avidità propria della natura umana, che consiste nel credere più volentieri a ciò che è oscuro». Non manifesta armonia di manifesta è più forte, dunque – ma nell’opinione del volgo! E il lettore sa bene che il conforto ad una simile avventurosa lettura di DK 54 nel corpo dei frammenti non mancherebbe: perché non vi mancano i giudizi sugli occhi che sono testimoni più sicuri degli orecchi, sugli stolti che vanno a naso, su Omero l’astrologo, e simili. Io non credo che la lettura da dare di DK 54 sia questa: perché credo che Eraclito si sia aggirato effettivamente intorno al problema della verità invisi-

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bile dell’essenza, o del rapporto fra sostanze – per cui, per esempio, fra due sostanze come il cittadino e la città il rapporto è: ‘la cittadinanza’. Ma credo pure che sia interessante mostrare l’importanza di accostarsi ad un oggetto incognito altamente composito come ci si accosterebbe ad un maestoso edificio sconosciuto: come Tamino deve apprendere nel Flauto magico, nel palazzo di Sarastro è vietato entrare per le porte laterali. Dopo un certo tempo la cosa va vista di fronte, e noi dobbiamo lasciarci guidare dal senso del centro e della simmetria. La metafora architettonica deve allora prendere il posto della metafora sismica, e le superfici verticali devono innalzarsi al posto delle linee spezzate tracciate sul terreno. Quanto all’interesse logico di Eraclito per il rapporto, che prelude alla sanzione speculativa del ruolo conoscitivo dell’essenza, è ben vero che il rapporto frazionario fra due grandezze incommensurabili, o sostanze, è un valore assoluto che non porta in sé alcunché delle sostanze medesime – ma ciò non impedisce affatto di ottenere la sua visibilità mediante, per esempio, una rappresentazione simbolica. Che cosa saranno poi l’arco, la lira, la vite della sua opera di divulgazione, se non dei simboli – e dunque la visibilità intelligibile dell’invisibile? La sola intelligibilità dell’essenza ad Eraclito non bastava. Per ottenerla (come nel caso appena portato de ‘la cittadinanza’) gli sarebbe bastato formulare un concetto racchiuso entro una definizione – vale a dire: entro una proposizione che non contiene alcuna contraddizione. Un simile impegno avrebbe portato Eraclito verso la logica – ma è un fatto che tra i suoi pensieri non si trova una sola definizione di alcun concetto. Mai. Così come non si trova alcuna deduzione. Ciò significa che la logica non gl’interessava, per il semplice fatto che l’unità di esseri complessi, viventi di una contraddizione, non può essere descritta mediante ciò che non ammette contraddizione, qual è appunto la definizione. Eraclito non è mai approdato al concetto, e non lo ha mai ‘superato’, semplicemente perché non avrebbe saputo che farsene. Da cima a fondo, la sua è una conoscenza estetica. L’unità invisibile fra gli opposti che andava cercando poteva dunque essere resa visibile soltanto in due modi: trovandola materializzata intorno a sé, vicina o lontana, e indicandola; oppure evocandola mediante rappresentazione o narrazione. Nel primo e nel terzo periodo della sua vita egli seppe far bene col trovare e con l’indicare; nel secondo periodo si cimentò alquanto col rappresentare (le anime sulle acque, le luci nella notte, il cosmo pulsante, e simili). Non seppe invece mai imparare a narrare, perché gli spunti narrativi che pure sono contenuti nel suo pensiero (da ciascuno dei quali potrebbe uscire un romanzo – come DK 20, sull’umanità che si riproduce soltanto per prepararsi a morire: che avrebbe fatto la fortuna di Zola) furono soffocati sul nascere dal

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giudizio morale, oppure rimasero chiusi nell’autocommiserazione dell’ubriaco ingannato dal fanciullo, del mondo in balìa del caso e della folgore, o affidato alla speranza, e simili, secondo lo stile del quarto periodo della sua vita, che si vedrà. Ciascuno di questi pensieri può essere uno spunto nozionale per fare della letteratura – ma perché simili nubi calde e umide si condensino e precipitino in lunghi rivoli occorre tutto ciò che Eschilo possedeva, e che ad Eraclito invece mancava. In questo senso si può effettivamente parlare della filosofia di Eraclito come di una filosofia ‘dell’inizio’: nel senso che essa è l’inizio della filosofia come di quel genere letterario particolare che nacque da un’impotenza letteraria. E parlando della maggior forza di un’armonia non manifesta rispetto alla manifesta noi potremmo anche, volendo, immaginare che l’Oscuro abbia inteso riferirsi ad un limite delle sue capacità creative dinnanzi all’invisibile. Ma non si può nemmeno, d’altra parte, descrivere la filosofia di Eraclito soltanto in termini d’impotenza: perché egli seppe anche fare le sue scelte, e non gli passò mai per la testa di credere che la verità come unità invisibile di una realtà complessa potesse stare racchiusa entro un gioco di definizioni. Il fatto che poi, di fronte ad un difetto di talento letterario, la scelta della maggior parte dei filosofi postumi non sia stata simile alla sua, ma abbia anzi rivendicato con orgoglio la superiorità di un accesso conoscitivo diverso alla vita dell’opposizione, della contraddizione, della complessità e dell’assurdo in quanto non sarebbero che concetti immutabili per definizione, non fa che aggiungere un’inesauribile tragedia postuma alla tragedia della sua vita. DK 10 / DS 19 / C 69

συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καί ἐξ ἑνὸς πάντα. Rapporti:tuttoenon-tutto,convergente-divergente,consonante-dissonante, e da tutte le cose uno, e da uno tutte. È un appunto, non una sentenza, sia pure estremamente succinta o minimamente svolta. È la semplice intuizione di un programma teorico da svolgere. Ma la sua importanza è assai grande. Fino a questo momento Eraclito ha descritto i suoi pensieri nella forma della relazione, non del rapporto. Relazioni erano quelle dell’anima col corpo, degli elementi nel ciclo fisico, di anime e corpi con gli elementi fisici, e dei diversi stati delle sostanze. La relazione ha

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2. il raccoglimento e la sapienza   153

una stretta congruenza con la sostanza, e consiste, in definitiva, in un’estensione fra grandezze commensurabili. Il rapporto è tutt’altra cosa: perché è congruente con l’essenza (ossia con l’essere per il pensiero) e con grandezze tra loro incommensurabili. Parlando non più di relazioni fra sostanze, bensì di rapporto fra sostanze, Eraclito concepisce per la prima volta, forse, l’unità come qualcosa di assoluto e di astratto: un puro valore frazionario o logico. Non si deve credere, d’altra parte, che l’intuizione dell’unità fra opposti come essenza rimuova definitivamente l’idea del primato della sostanza universale. Il pensiero sul fuoco accompagnerà anzi Eraclito sino al termine della sua vita. Senza attendere tanto, del resto, lo si vedrà fra poco commentando DK 31a e DK 31b: il rapporto quantitativamente costante che si conserva fra gli elementi nelle trasformazioni presuppone pur sempre una sostanza energetica che promuova queste trasformazioni. DK 8 / DS 24 / C 67

τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίαν, καὶ πάντα κατ’ ἔριν γίνεσθαι. Ciò che contrasta concorda: e dai contrasti la più bella armonia, e tutto sorge secondo contesa. Se la sentenza si arrestasse alla parola «armonia», essa sarebbe perfetta. Aggiungere che «tutto sorge secondo contesa» è una zeppa inutile – oppure appiccica un altro discorso. Il fatto è che all’aspetto logico ed estetico della formulazione Eraclito vuole aggiungere la concretezza naturalistica di un fenomeno osservabile. DK 80 / DS 15 / C 63

εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνόν, καὶ δίκην ἔριν, καὶ γινόμενα πάντα κατ’ ἔριν καὶ χρεών. Bisogna sapere che il conflitto è comune, e che la giustizia è contesa, e che le creature tutte esistono secondo contesa e necessità. È la descrizione svolta della terza parte aggiunta nel giudizio precedente DK 8. Ma qui egli introduce le nozioni di «giustizia» e di «necessità», e non parla di «bella armonia».

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154   parte prima. eraclito

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DK 53 / DS 14 / C 64

πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους. Il conflitto è padre di tutto, e anzi di tutto è re; e alcuni rese dèi, e alcuni uomini; e alcuni fece schiavi e altri liberi. È lo svolgimento delle nozioni di «giustizia» e di «necessità» contenute nel giudizio precedente DK 80. Eraclito descrive una città cosmica, e trova una figurazione personale, aulica e dispotica, per il senno di DK 41. Una promozione figurativamente meno ingenua (politica o familiare) di questo senno sarà poi il fuoco. DK 31 a / DS 39 / C 117

πυρὸς τροπαὶ πρῶτον θάλασσα, θαλάσσης δὲ τὸ μὲν ἥμισυ γῆ, τὸ δὲ ἥμισυ πρηστήρ. Trasformazioni del fuoco sono dapprima il mare, e trasformazioni del mare una metà terra, e l’altra metà turbine. La nozione astratta di contesa e di rapporto assume consistenza sostanziale con questo «fuoco», che gli rende possibile effettuare una rappresentazione. Insieme con la precedente, questa sentenza mostra il moderato interesse di Eraclito per le trasformazioni qualitative: parlando di due «metà», egli mostra ora di prediligere l’idea della conservazione quantitativa di una totalità finita e simmetrica. In ciò consiste la differenza rispetto al precedente DK 36, dove senza pensare alla conservazione di rapporti quantitativi costanti aveva affermato: «Morte alle anime è diventare acqua, morte all’acqua è diventare terra; e dalla terra scaturisce acqua, e dall’acqua l’anima». A quello schema del ciclo (rappresentabile come una lettera O) si sostituisce qui lo schema di un’emanazione degradata e poi scissa (rappresentabile come una lettera Y adagiata, dove un termine medio si separa in due rami, ascendente e discendente; è uno schema che già compare in DK 77ab, come s’è visto).

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2. il raccoglimento e la sapienza   155

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DK 31 b / DS 40

θάλασσα διαχέεται, καὶ μετρέεται εἰς τὸν αὐτὸν λόγον, ὁκοῖος πρόσθεν ἦν ἢ γενέσθαι γῆ. Il mare evapora, e conserva il medesimo rapporto fra terra e turbine che aveva prima di diventare terra. Conferma il suo interesse per la conservazione quantitativa nelle trasformazioni delle sostanze elementari, che somiglia molto ad una prima formulazione della legge di Lavoisier. DK 126 / DS 41 / C 70

τὰ ψυχρὰ θέρεται, θερμὰ ψύχεται, ὑγρὰ αὐαίνεται, καρφαλέα νοτίζεται. Le cose fredde si riscaldano, e le calde si raffreddano; le umide si asciugano, e le secche s’ammorbidiscono. Il ciclo psichico è diventato qui ciclo prettamente fisico. Ma mentre l’anima, nelle sentenze del secondo periodo, subiva trasformazioni attraverso le sostanze elementari, qui le cose subiscono cambiamenti di stato senza espliciti trapassi sostanziali. Si nota dunque la tendenza a cercare la stabilità quantitativa nelle trasformazioni energetiche, indipendentemente dalle trasformazioni fra sostanze. Alla nozione di sostanza tende dunque a subentrare la nozione di energia. Parlo di una semplice tendenza, e non di una svolta, perché la trasformazione energetica costante riguarda chiaramente la sola variazione termodinamica della prima sentenza sulle cose calde e fredde, mentre nella seconda sussiste ancora implicitamente qualcosa della trasformazione sostanziale: è chiaro, infatti, che per trasformarsi le cose umide o asciutte devono perdere o assumere acqua. Ma è anche chiaro, d’altra parte, che quest’acqua entra o esce dalle cose senza trasformarsi in esse, o viceversa. Sebbene meno chiaro (come non di rado gli succede nel formulare la seconda o terza parte delle sue sentenze), l’interesse per le cose secche o umide resta comunque un interesse quantitativo.

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156   parte prima. eraclito

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DK 91 b / DS 17

σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει, συνίσταται καὶ ἀπολείπει, πρόσεισι καὶ ἄπεισι. Si dissolve e di nuovo si addensa, si costituisce e si disperde, si avvicina e si allontana. Con ogni probabilità il soggetto è il fuoco, cosmico o metafisico. Si tratta di una pulsazione energetica, non rappresentabile, che prescinde completamente dalla trasformazione sostanziale. DK 30 / DS 37 / C 62

κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται· πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα. Questo ordine del mondo, lo stesso per tutti, non lo fece né qualche dio, né qualche uomo, ma fu sempre, ed è, e sarà: fuoco eterno, che si accende secondo misura e secondo misura si spegne. È finalmente quello che cercava: la rappresentazione della pulsazione energeticamente costante. L’interesse di Eraclito non è teologico o cosmogonico: l’affermazione dell’eternità del mondo increato gli serve unicamente per sancire la costanza della sua quantità di energia interna. La fisica qualitativa delle trasformazioni sostanziali è completamente scomparsa nella quantità della misura. Il lettore non può non notare che in questa sintesi cosmica la Sostanza compensa la scomparsa delle sostanze, e prende il sopravvento sull’essenza del rapporto. Contrariamente a quanto affermato in DK 54, l’armonia visibile torna a farsi più forte dell’invisibile – almeno per la scrittura e per i suoi scopi: perché Eraclito comincia effettivamente a riproporsi degli scopi pratici, e si prepara a vivere un nuovo periodo della sua vita dopo avere raccolto le forze e la fiducia nella propria sapienza.

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2. il raccoglimento e la sapienza   157

il polemista

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DK 108 / DS 80 / C 24

ὁκόσων λόγους ἤκουσα, οὐδεὶς ἀφικνεῖται ἐς τοῦτο, ὥστε γινώσκειν ὅτι σοφόν ἐστι πάντων κεχωρισμένον. Di quanti ho udito parlare, nessuno è giunto a capire questo: che il conoscere, in quanto è un conoscere sapiente, è diverso da tutti. Inizia il periodo della preparazione al ritorno e all’attività di divulgazione della sua sapienza. Eraclito è sempre solo – ma ora si sente forte. Gli argomenti che qui di seguito usa, e le invettive, non sono destinati al pubblico, io credo: perché ciò gli farebbe ripetere immediatamente l’esperienza dell’emarginazione, e anche del dileggio. No: sono destinati a lui stesso, allo scopo di raccogliere psicologicamente le forze. E anche se la periodizzazione è tutt’altro che sicura (ma cosa c’è di sicuro, in Eraclito?), questo è ciò che voglio credere per non dovermi immaginare un uomo come lui che, senza alcuna cautela, si dà immediatamente all’alterco coi possibili concorrenti, o riprende ad apostrofare i concittadini, biasimandoli per la loro malriposta fiducia nei cattivi maestri dell’istruzione primaria. La scelta dei suoi bersagli è interessante, perché se Eraclito, come si dice, fosse stato un filosofo di tipo accademico impegnato in una dotta corrispondenza coi colleghi solo per opporre dottrina a dottrina (come amò rappresentarselo la scuola storica), noi non lo vedremmo attardarsi tanto sui patri poeti, campioni alfabetizzanti della prima formazione scolare. Se la prende con Pitagora perché, sensibile uomo di cose sensibili, e non ignaro dell’esistenza dell’insensibile ma fermamente deciso a renderlo visibile, detesta l’intellettualismo matematico che si arena sulla non rappresentabilità dei numeri irrazionali e trascendenti. È proprio la scoperta della non rappresentabilità dei numeri irrazionali trascendenti come pi greco, d’altra parte, che gettò nella costernazione i pitagorici; né si può dimenticare che, basandosi sulla successione dei numeri naturali, la teoria pitagorica degl’intervalli musicali si propose precisamente di non perdere i contatti con la sensibilità e con il senno comune, per evitare di cadere nell’intellettualismo mensuralista. E non è questa l’unica somiglianza di Pitagora con Eraclito, se si considera il carattere sapienzale della conoscenza d’entrambi, unito alla socievolezza con gli umili che fa della gerarchia fra gli uomini una pura distinzione di conoscenza e non di nascita o di stato. Eraclito parla di Pitagora per indovinelli (in DK 81) perché lo conosce soltanto per sentito dire.

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158   parte prima. eraclito

Le invettive contro Pitagora sono dunque poco chiare non senza ragione. Ed Eraclito si rivolge con assai maggiore efficacia contro i suoi veri nemici Omero ed Esiodo, che invece stavano i bocca a tutti i ragazzi, perché medita di dare alla sua divulgazione il posto di un’alfabetizzazione teorica di base, che scacci dalle menti le fole letterarie. Così come s’è ben guardato dal conferire un ruolo al sogno nella sua teoria dello stato degli esseri complessi, così vorrebbe bandire dalla pedagogia quel sogno, quello stato misto dell’essere che viene coltivato nell’accendersi dell’immaginazione poetica. E noi potremmo dunque immaginare che egli già mediti di rivolgersi soprattutto a dei fanciulli, come s’era augurato lasciando la città in DK 121. Vedremo che non sarà così: è chiaro che la sua divulgazione si svolgerà prima fra gl’istruiti, e poi, soprattutto, fra gli artigiani, conformemente al referente sociale della divinità artemisia alla quale in gioventù s’era votato. È dunque più semplice e plausibile credere che le invettive che qui seguiranno siano meditate allo scopo di levarsi di torno i saccenti che potrebbero eventualmente intralciarlo. Lo rassicura credere alla potenza di una sapienza aforistica, il più possibile raccolta, che si scolpisca nelle menti come un suo promemoria: gli argomenti svolti poi seguiranno, secondo le occasioni e gl’incontri. Allontanarsi dalla formulazione il più possibile succinta dell’enunciato significa, secondo lui, degradare la potenza dell’intuizione nella casualità empirica dell’atto e nella vanità del piacere letterario. La sua è ritornata ad essere una posizione di moralismo e di continenza. Le troppe parole ingannano, come nell’assemblea – e non diversamente, del resto, la sua legge in gioventù non era stata che una. La varietà dei casi empirici del continuo divenire non gl’interessa, se non come continua ed innumerevole conferma della validità di un unico assunto. Come tutti i polemisti cocciuti, in ogni perplessità e di fronte ad ogni obiezione egli si rifà invariabilmente al suo principio, che svolge appena quel tanto che basta a trovarne la dimostrazione nel giro di logica più semplice. L’eccezione, per lui, conferma sempre la regola. È da una caratteristica come questa che si potrebbe anche fare di Eraclito un ontologo, come vuole Heidegger – con l’unica differenza che non riesco ad immaginarmi un Eraclito che si dimena fra le nebbie in un esibizionismo logorroico, studiatamente inconcludente. Eraclito è ormai un uomo incapace non solo di mescolarsi alle contingenze, se non per propinare una sua verità, ma incapace anche di vivere al di fuori di un continuo presente, che non sa essere meditativo se non quando è polemico. La dimensione della memoria per lui non esiste, come ho già detto: lo spessore della coscienza consiste nell’intimità di una frustrazione sempre presente o incombente. Di conseguenza non può intendere la poesia di Esiodo, che tramanda una sapienza antica. Può intendere, forse, la più immediata

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2. il raccoglimento e la sapienza   159

forma della lirica – dalla quale è del resto scaturita la sua sapienza attuale. Come epica o saga omerica, d’altra parte, la poesia non può avere lo scopo di tramandare alcunché, se non lo spettacolo dei vizi degli dèi, che come exsacerdote ancora l’offende. DK 56 / DS 83 / C 40

ἐξηπάτηνται οἱ ἄνθρωποι πρὸς τὴν γνῶσιν τῶν φανερῶν παραπλησίως Ὁμήρωι, ὃς ἐγένετο τῶν Ἑλλήνων σοφώτερος πάντων. ἐκεῖνόν τε γὰρ παῖδες φθεῖρας κατακτείνοντες ἐξηπάτησαν εἰπόντες· ὅσα εἴδομεν καὶ ἐλάβομεν, ταῦτα ἀπολείπομεν, ὅσα δὲ οὔτε εἴδομεν οὔτ’ ἐλάβομεν, ταῦτα φέρομεν. Nella conoscenza di cose manifeste gli uomini s’ingannano, in modo assai simile ad Omero, che fu il più sapiente di tutti gli elleni. Dei bimbi che stavano uccidendo i pidocchi lo ingannarono, dicendo: ciò che abbiamo visto e preso, lo perdiamo; ciò che non abbiamo visto, né preso, ce lo teniamo. Eraclito deve superare davanti a se stesso, come ho detto, i dubbi circa la sua credibilità nei prossimi confronti cittadini. Inizia a farsi forza con questa parabola. Aveva lasciato Efeso invitando i suoi abitanti ad impiccarsi tutti quanti – tranne i fanciulli. D’altra parte, qui Eraclito non li considera affatto come delle menti vergini, sulle quali sia possibile imprimere delle verità come sulla cera morbida. Una riflessione attenta su questo aneddoto suggerisce la possibilità che egli, in qualche modo, tema i fanciulli. Sa perfettamente di non essere un Omero. La sua insicurezza dunque persiste, al di là dell’aggressività polemica contro i sapienti più celebrati. In definitiva, quali altre credenziali può egli offrire a garanzia della sua sapienza, oltre ad una piccola raccolta di pensieri sparsi, oscuri e lacunosi? Nessuno lo sa meglio di lui. Per le ragioni esposte nel commento al frammento precedente, Eraclito è nemico dell’epica in quanto essa è, secondo lui, il genere letterario il più largamente possibile svolto da un semplice assunto, come la virtù eroica o la fama. Egli crede insomma che il poeta scriva o racconti non perché ha, semplicemente, qualche cosa da mostrare o da tramandare (e tanto meno, poi, perché questa è l’unica cosa che sa fare; e ancora meno che mai, se possibile, perché la poesia è rito o occasione sociale), bensì perché ha qualcosa da scoprire o da dimostrare; e ciò che si vuole scoprire o dimostrare si può sempre meglio riassumere in un ben studiato enunciato.

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160   parte prima. eraclito DK 105 / DS 85 / C 109

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ἀστρολόγον τὸν Ὅμηρον. Omero l’astrologo! Se ad un giudizio tanto esiguo si deve attribuire un qualche valore per noi, esso può forse significare che oltre alla dimensione anamnestica Eraclito, vivendo nel suo fermo presente, nega validità anche alla pretesa conoscenza di un qualsiasi futuro. Quale? Il futuro omerico. Se non che, in Omero non c’è alcuna pretesa di stabilire il futuro – al contrario, semmai. Non è dunque con la poesia omerica in sé che Eraclito se la prende, ma con l’Omero della pedagogia scolastica, con l’Omero dei modelli da imitare. Egli pensa confusamente alla libertà e alla responsabilità presenti contro la pretesa pedagogica di stabilire in anticipo il destino degli uomini secondo i caratteri. Ho già detto più volte che l’umanità virtuosa per lui non è che un genere, e che le specie ne sono in qualche modo la degradazione – ed ecco che nella poesia omerica si rinvengono varie specie di virtù, oltre a varie specie di vizi. Secondo i caratteri o tipi letterari l’uomo dovrebbe imparare a conoscere se stesso, la propria indole – vale a dire: proprio la forza che gli è padrona! Di qui, la sua presa di distanza. L’indizio è quanto mai vago – ma io credo che nella presa di distanza da questa ‘astrologia epica’ si nasconda un sentimento di libertà e di responsabilità, che Eraclito tornerà a malapena a sfiorare nell’età avanzata (e vi accennerò appena, per quel tanto che merita, discutendo i pensieri del quarto periodo DK 102 e 32). Di più, oltre a sfiorarlo, non può fare un uomo che è prigioniero di se stesso. DK 129 / DS 88

Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora di Mnesarco si occupò di ricerca più di tutti quanti; e mettendo insieme questi appunti si fece una cultura politecnica e raffazzonata. Eraclito parla, com’è evidente, soltanto per sentito dire, e mostra così la sua solitudine – nonché (se è già lecito l’uso del termine) il suo provincialismo.

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2. il raccoglimento e la sapienza   161

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Egli non viaggiò mai, né risulta che abbia avuto significativi contatti con gl’intellettuali della koiné. DK 81 / DS 89 / C 36

(Πυθαγόρης) κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός. (Pitagora) è capofila di ciarlatani / è inventore di sottigliezze. Come già con bíos e biós in DK 48, gioca sul doppio senso di kópis o kopís. Se la traduzione valida è la prima, possiamo credere che l’invettiva si rivolga contro l’astrattezza e l’intellettualismo matematico in genere. Abbiamo visto come Eraclito, pur descrivendo l’unità del tutto come un rapporto e un’essenza, non sappia poi fare a meno di dare a questo rapporto la forma della relazione e della sostanza mediante l’idea del fuoco e delle trasformazioni elementari. Se la traduzione valida è invece la seconda, possiamo credere che il sarcasmo abbia preso occasione dalla scoperta dei numeri irrazionali, che gettò nella costernazione i discepoli della scuola pitagorica. In entrambi i casi, però, il risultato è il medesimo: perché la forma del rapporto per eccellenza è quel numero trascendente che esprime l’incommensurabilità fra il diametro e la circonferenza. La polemica contro l’astrattezza viene perciò a coincidere con l’insofferenza verso le sottigliezze – e tali dovevano apparire ad Eraclito i tentativi di approssimazione infinitesimale nel problema della quadratura del cerchio. DK 112 / DS 75 / C 26

σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαΐοντας. Avere senno è somma virtù, e saggezza è dire la verità e realizzare le cose che si sentono secondo natura. Il ‘sentire’, o il ‘sentimento’, contro l’intellettualismo. Il tono si è fatto alquanto predicatorio. A dispetto di ogni sua astrusità ed asprezza caratteriale, ma proprio perché fu un carattere fortemente umorale, Eraclito resta pur sempre: 1) un moralista, che assegna il primo posto nella conoscenza alla virtù (e in ciò apre la strada a Platone); 2) un pedagogo disarmante ed ingenuo, che insegna

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162   parte prima. eraclito

a dire sempre la verità – come se lui l’avesse trovata; 3) un pragmatico, che vuole realizzare le cose che sente: la filosofia deve pur sempre servire a qualcosa. Il fatto che questo suo ‘sentire’ sia «secondo natura», cioè uguale per tutti, in un moralista antropologo mancato è del tutto normale, e gli consente di aprire la via agli stoici: l’umanità, per lui, non è che un genere. Dice un’antica sentenza riferita da Aristotele che uno è il bene, e molte le specie di male.4 Pur senza escogitare una formula, Eraclito è su questa strada. E tuttavia egli, come ho detto più sopra, non menziona affatto le specie, che non siano specie animali. Il fatto è che nella sentenza aristotelica qualcosa è andato perduto del problema della relazione che sussiste fra il genere e le specie. Il genere è l’essenza, è il rapporto fra le specie creato dal pensiero «comune», proprio come Eraclito l’intendeva – il quale, tuttavia, può esistere soltanto nei corpi delle specie, vale a dire nelle differenti sostanze, nessuna delle quali gli corrisponde. Come privazione di qualcosa che è comune nel genere, la specie in quanto tale è dunque il male; e la coltivazione dei caratteri tipici della specie (razza, etnia, stirpe, nazione) è coltivazione dell’insocievolezza, della barbarie e dell’odio. Tralascio qui di considerare come la coltivazione virtuosa dei caratteri, delle tare e del peso corporeo (ideologico) del pensiero, possa anche diventare un fattore propulsivo nel cammino della civiltà, o almeno un’efficace rappresentazione che può servire da mezzo virtuoso di contrasto fra le specie. Lo tralascio, semplicemente perché la cosa non riguarda Eraclito – almeno come dato di fatto: egli non si arrovellò, se non sul problema della rappresentabilità del bene, del vero e del pensiero soltanto. DK 40 / DS 82 / C 33

πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον. L’erudizione non insegna ad avere senno: se no, l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e così pure a Senofane e ad Ecateo. Il poeta e il matematico vengono qui colpiti dal medesimo anatema che aveva già colpito, separatamente, Omero e Pitagora. La ragione del ripudio è dunque la medesima, così per il pensiero quanto più possibile svolto in forme   Aristotele, Etica nicomachea, II, 6.

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2. il raccoglimento e la sapienza   163

narrative concrete, come per il pensiero succinto in forme astratte, ma indefinito nella sua conclusione della ricerca del rapporto approssimato. Che cosa egli biasima veramente, dunque, se non proprio lo svolgimento indefinito del pensiero, il cosiddetto pánta reĩ del lógos, incapace di approdare ad alcuna massima pratica? Questo, della massima pratica, è sempre stato il suo scopo. In realtà, egli dubita di se stesso: teme di non essere all’altezza d’impartire un insegnamento con i suoi pochi filosofemi naturalistici. Vuole raccomandare di accontentarsi di verità molto semplici e pratiche – ma sa che prima deve tradurre in simili verità semplici, pratiche, evidenti, i suoi stessi sperticati pensieri sulla natura. DK 22 / DS 94 / C 95

χρυσὸν οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον. Quelli che cercano l’oro scavano molta terra e ne trovano poco. Paragona la fatica degli eruditi a quella di chi desidera arricchirsi. Non riesce dunque a concepire attività intellettuale che, nel bene come nel male, non sia rivolta ad uno scopo pratico. Con questo ‘cercare l’oro scavando terra’ comincia a trovare il genere di esemplificazione che gli è più congeniale, e che svilupperà nei numerosi casi di evidenza sensibile, la più immediata e concreta, nella prossima fase nuovamente attiva della sua vita. DK 115 / D 0 / C 45

ψυχῆς ἐστι λόγος ἑαυτòν αὔξων. Dell’anima è proprio quel senno che accresce se stesso. Si riferisce a chi si cura soltanto di accrescere le proprie ricchezze. Perciò individua già il suo prossimo interlocutore nella classe degli ottimati.

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3. La divulgazione e l’insuccesso

fra gli ottimati DK 101 / DS 126 / C 22

ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν. Ho indagato me stesso. Risponde ai concittadini che lo interrogano (non senza maligna ironia, probabilmente) su ciò che abbia fatto e concluso nell’eremitaggio. Eraclito se li vuole forse levare di torno, per ricominciare dedicandosi ad una pedagogia infantile, secondo la promessa contenuta nell’invettiva di congedo DK 121? No: riproverà a parlare a uomini adulti, come mostra il successivo DK 116. DK 116 / DS 76 / C 23

ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ σωφρονεῖν. A tutti gli uomini è dato conoscer se stessi, e vivere con saggezza. Vale a dire: “Ciò che è riuscito a me può riuscire a voi tutti”. Ecco la conferma: è effettivamente con uomini adulti, dunque, che Eraclito vuole avere a che fare. Non parlerebbe così a dei fanciulli. In questi uomini adulti egli cercherà di risvegliare le doti intuitive dei ragazzi, ma il tempo dell’ozio e dei trastulli in loro compagnia, giocando a dadi, non è ancora venuto. Durante il primo periodo cittadino aveva già detto che «comune a tutti è il pensiero». Ora, dopo il suo ritorno, ripete il giudizio parlando però di conoscenza di sé e di saggezza pratica. Non sono le sue intuizioni naturalistiche o cosmiche che vuole divulgare: quelle valgono solo per lui, e non gli darebbero alcuna probabilità di successo. Si tratta invece di un invito rivolto ai concittadini affinché lo imitino. Non vuole più predicare sulla legge, vuole costituire

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166   parte prima. eraclito

un esempio. Non intende restare solo, né formare una piccola setta di pretesi iniziati. Il pessimismo antropologico è moderato dalla buona volontà e da persistenti sentimenti democratici. Vale la pena di ritentare: per tutti loro, che forse dubitano di potere riuscire, come per lui. Ma è anche a se stesso che parla, dal momento che, dovendo vincere le proprie esitazioni, si rassicura circa le possibilità del senno comune: ciò che è riuscito a lui, lavorando con se stesso, può riuscire con tutti. Questa interpretazione potrebbe fare giustamente credere che d’ora in poi Eraclito si sforzerà d’insegnare ai suoi concittadini ad indagare se stessi – come se questo, per lui, fosse il loro problema. Ma una simile deduzione puramente logica è del tutto inverosimile, come può facilmente capire chiunque abbia seguito la sua vicenda fin qui, e abbia una sia pur minima capacità di divinazione della vita cittadina. Dicendo d’avere indagato se stesso Eraclito ha voluto rispondere nel suo stile tagliente a qualche domanda beffarda – ma ha anche voluto dire a se stesso d’avere cercato il suo proprio centro di consistenza, imparando a motivare la sua vocazione morale. Questa vocazione s’era inizialmente manifestata nella vita cittadina in modo moralistico del tutto naturale, per lui, ossia caratteriale. Il ritiro in solitudine è servito a dare al suo moralismo delle basi teoriche, ed è servito a fargli comprendere che la sua vocazione non è quella dell’anacoreta sdegnoso. Ciò che ancora ha da spendere di suo, lo spenderà per la città. Egli ha riacquistato il senno, dopo aver dubitato d’averlo perso in una predicazione inutile. Ma non è certamente il mezzo dell’introspezione che egli vuole divulgare in città, bensì il risultato che egli ha già ottenuto con quel mezzo: la fiducia in se stessi e nella chiarezza di mente. Non sarà che questione di gradi, e Eraclito si rivolgerà prima ai concittadini più istruiti (con i prossimi DK 50, 74, 42, 47, 35, 57, 106); poi, inimicatisi questi, si rivolgerà ai meno istruiti (con i successivi DK 125, 59, 100, 61, 48, 60, 103, 111, 90). DK 50 / DS 6 / C 49

οὐκ ἑμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι. Ascoltando non me, ma il discorso, è saggio convenire che tutte le cose sono una. In DK 1 aveva detto assai chiaramente d’essere stato un propagandista della costituzione; e aveva anche lasciato capire che fra i suoi ascoltatori c’erano

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3. la divulgazione e l’insuccesso   167

degli analfabeti, per i quali la sua esegesi della legge si rendeva indispensabile. Ora no: per chi già possiede una dose di saggezza («è saggio convenire») basta ascoltare il discorso. È dunque a concittadini alquanto istruiti che si riferisce; e questa è la ragione per cui, malgrado le somiglianze, io credo che questo pensiero non vada annoverato fra quelli della propaganda, o del ‘periodo costituzionale’. Eraclito è pronto ad affrontare nuovamente i suoi concittadini – ma si domanda: “Mi ascolteranno, questa volta?”. È persuaso di possedere una teoria convincente: essa non è diversa dal discorso sulla legge cittadina e sull’interesse pubblico – ma questa volta non si tratta di costringe alcuno a rinunciare alle sue comode abitudini. Questo farà la differenza: si tratterà soltanto di consentire con lui su alcune verità semplici ed evidenti. Da queste, poi, col tempo, potrà venire il resto. Il suo scopo è probabilmente quello di affascinare con un gioco di rivelazioni le coscienze più intatte, senza ricorrere a complicate dottrine del tutto ipotetiche – che restano vere, forse, soltanto per lui. Ricomincia dall’unità, come dalla cosa più semplice da intendersi – anche se egli, come i suoi concittadini, sa che quest’unità è fatta di opposti. Ma ciò che può dargli fiducia, stavolta, è sapere che la città non è che il libro scritto a caratteri piccoli corrispondente alla città cosmica (adombrata in quel prudente: «tutte le cose»). L’analogia eraclitea fra i due libri è in questo diversa dalla platonica: dal cosmo si scende per leggere la città, anziché salire dalla città per leggere l’anima. DK 74 / DS 95 / C 5

οὐ δεῖ παῖδας τοκεώνων. Non bisogna comportarsi come figli di genitori. In questo frammento si nasconde un problema di non poca importanza per l’interpretazione dei pensieri successivi e per la probabile ricostruzione di questo periodo della sua vita. Essere «figli di genitori»: quest’espressione va intesa in senso letterale o metaforico? Se la intendiamo in senso metaforico, Eraclito vuol dire a gente istruita che prima di tutto bisogna sgomberare il campo dai pregiudizi dovuti alla tradizione, nonché dalle nozioni impartite in casa e a scuola. Chi lo vuole ascoltare dovrà farlo senza ricorrere a simili dipendenze. D’altra parte, egli ha lasciato la città invitando i suoi concittadini ad impiccarsi tutti quanti, salvo i fanciulli, uniche creature ancora incorrotte. Da essi,

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168   parte prima. eraclito

dunque, si sarebbe potuto ricominciare – e quest’idea verrà effettivamente ripresa da quell’eracliteo di terza generazione che è Platone. Viene di nuovo da chiedersi se, ritornando alla città, Eraclito voglia indirizzare i suoi insegnamenti ai fanciulli. I numerosi esempi di unità dei contrari che seguiranno nella prossima sezione sono estremamente semplici, evidenti, e facilmente accessibili anche a dei ragazzi. L’ipotesi, tuttavia, non mi sembra probabile. Indirizzato a dei ragazzi, infatti, questo frammento DK 74 non avrebbe senso: Eraclito non può chiedere a dei fanciulli di sciogliere i legami con la famiglia. Né si può credere che le prossime invettive contro Omero, Esiodo, Archiloco e Pitagora abbiano avuto per destinatari dei ragazzi che, come Eraclito ben sapeva, avevano saputo ingannare persino Omero grazie alle loro doti naturali. Queste doti naturali della conoscenza restano certamente un caposaldo dell’antropologia eraclitea – ma egli non sa dedicarsi a costruire, a fare scuola sua: gli allievi gli ripugnano, vuole avere a che fare con degli uomini, e l’intento pedagogico non è per lui esercitabile indipendentemente dallo spirito polemico. Perciò questo frammento significa che Eraclito ricomincia con la divulgazione della sua sapienza rivolgendosi dapprima alla parte più istruita della sua città, e cercando di stabilire con essa un rapporto non pregiudiziale. Ma lo fa sempre a modo suo, naturalmente: e crede di accattivarsi delle simpatie elargendo i propri interdetti! DK 42 / DS 84 / C 37

Ὅμηρον ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως. Omero merita d’essere espulso a frustate dagli agoni, e Archiloco del pari. È un’invettiva. Il clima si scalda: qualcuno ha reagito contro il suo tentativo di fare piazza pulita con le scuole, ed egli reagisce con caparbietà, rincarando la dose. Il tono è chiaramente del tutto diverso rispetto all’aneddoto pacato dei fanciulli coi pidocchi. Ritornato alla vita pubblica, usa un tono da comiziante contro chi frequenta i concorsi di poesia. E torna il suo vecchio tarlo della mancanza di successo.

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3. la divulgazione e l’insuccesso   169 DK 47 / DS 77 / C 21

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μὴ εἰκῆ περὶ τῶν μεγίστων συμβαλλώμεθα. Noi non ci confrontiamo a caso sulle cose più grandi. Sembra volere rispondere a qualcuno che lo accusa di occuparsi di problemi troppo astratti, o del tutto vani. Egli non è un perdigiorno, che risponde a domande che s’è posto da sé: sono invece i quesiti più grandi che si pongono da sé, necessariamente. DK 35 / DS 81 / C 32

χρὴ εὖ μάλα πολλῶν ἵστορας φιλοσόφους ἄνδρας εἶναι. Uomini amanti del sapere devono essere esperti di molte cose davvero. Se questa non è una polemica contro la sapienza specializzata delle sette chiuse, come la pitagorica, si tratta di un sarcasmo generico. A meno che egli non intenda riferirsi all’esperienza di sé, recentemente acquisita. Ma non mi sembra probabile, come ho detto, che voglia parlare agli efesini istruiti della loro mancanza di vita interiore. La sentenza va dunque annoverata nel gruppo delle invettive rivolte contro i poeti: questi ciarlatani sono i suoi nuovi bersagli, come già lo erano stati i demagoghi concionatori dell’assemblea nel primo periodo (quelli che «non sanno né parlare né ascoltare» di DK 19). Si tratta perciò, con questo pensiero, di un ritorno, di una simmetria. DK 57 / DS 86 / C 34

διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν. Di moltissimi è maestro Esiodo: e lo conoscono per certo come uomo coltissimo, uno che non sapeva che il giorno e la notte fanno tutt’uno!

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170   parte prima. eraclito

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DK 106 / DS 87 / C 35

Ἡσιόδωι τὰς μὲν ἀγαθὰς ποιουμένωι, τὰς δὲ φαύλας, ὡς ἀγνοοῦντι φύσιν ἡμέρας ἁπάσης μίαν οὖσαν. … ad Esiodo, che fa i giorni questi buoni e quelli cattivi solo perché non sa la natura di ogni giorno essere una sola. Sono le risposte ch’egli dà, probabilmente, a coloro che gli hanno risposto essere sufficiente seguire, quale regola di saggezza pratica, il semplici dettati del costume antico, tramandato per mezzo della poesia. La loro posizione somiglia un po’ a quella di Cefalo nella Repubblica. Costoro sono assai tiepidi verso la morale omerica, eroica ed insieme scandalosa, e potrebbero anche consentire con lui nel desiderio di cacciare Omero dagli agoni. La cultura di Esiodo, per giunta, è politecnica, artemisia; e la nuova sapienza, con la quale egli si presenta dopo avere deposto le vesti di sacerdote della dea, è di tipo apollineo – ma può davvero apparire inutile. Ai cittadini non è chiaro in che cosa consista la trasformazione di Eraclito. A che scopo spretarsi, se il risultato pratico è questo generico insegnamento? A molti Esiodo e Artemide potevano ancora bastare. Ciò significava, ancora una volta, l’inutilità della sua mania di andare spiegando per filo e per segno le cose come sono secondo la loro natura – cosa che i suoi ascoltatori, praticandole ogni giorno, conoscevano anche meglio di lui. A suo tempo egli aveva giustificato l’incomprensibile fervore della sua propaganda con la necessità d’illustrare la nuova costituzione; ora, invece, non può rispondere se non con ciò che ha tratto dalla meditazione durante il suo ritiro in solitudine: nientemeno che con la legge cosmica della pulsazione del fuoco e con l’unità degli opposti. Venuto il momento di spiegarsi davvero, si caccia in un vicolo cieco. Riprende perciò forza in lui, inevitabilmente, la vocazione dottrinaria corrucciata con la poesia: una vocazione dottrinaria non più religiosa e morale, non più politica, bensì logica fisica e metafisica. E il corruccio poetico non è fatto certo per aprirgli i cuori: Eraclito non sa farsi amare. Il risultato non può che essere simile al precedente: l’estraneazione dalla comunità, che ne farà di nuovo un solitario per forza. Bisogna ch’egli si sforzi, a questo punto, di trovare un nuovo interlocutore e di migliorare i suoi mezzi espressivi. Egli si rivolge allora al popolo ancora incorrotto dei semplici di spirito, come a dei fanciulli, pensando che la semplice evidenza possa, incontestabilmente, insegnar loro qualcosa.

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3. la divulgazione e l’insuccesso   171

fra gli artigiani

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DK 101 a / DS 61 / C 43

ὀφθαλμοὶ τῶν ὤτων ἀκριβέστεροι μάρτυρες. Gli occhi sono testimoni più acuti degli orecchi. È rivolto a se stesso: un suggerimento programmatico per una pedagogia decisamente ingenua. Agli ottimati, fin qui, s’è rivolto parlando – ma occorre cambiare interlocutore e, per conseguenza, anche i mezzi. Aveva cominciato l’intera sua vicenda dicendo in DK 55 di volersi affidare alla vista, all’udito e all’intelletto; e ora, invece, decide che darà il primato alla vista soltanto, rinunciando a parlare. Il dio di Delfi non si limita infatti a “dar segno”? Non credo, tuttavia, che DK 93 potrebbe anche essere collocato qui, perché non mi sembra plausibile che, allo scopo di rivolgersi agli artigiani, egli abbia prima cercato consiglio presso il fratello di Artemide. DK 125 / DS 18 / C 76

καὶ ὁ κυκεὼν διίσταται κινούμενος. Anche il ciceone, se non si mescola, si separa. A differenza di come ha fatto nel primo periodo della sua vita adesso, probabilmente, egli preferisce avvicinare i suoi interlocutori uno ad uno, con esempi assai semplici, innocui e concreti, non giudicanti né offensivi per la sensibilità altrui. La differenza di tono e di contenuti rispetto al periodo giovanile, quando parlava di asini e di buoi, di maiali e di polli, è evidente. Il tipo dell’interlocutore viene prescelto secondo una categoria artigianale – e qui abbiamo probabilmente a che fare con un farmacista. DK 59 / DS 29 / C 73

γναφείωι ὁδὸς, εὐθεῖα καὶ σκολιὴ, μία ἐστί καὶ ἡ αὐτή. Per la vite della gualchiera la via è diritta e tortuosa, ed è una e la stessa.

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172   parte prima. eraclito

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L’unità degli opposti trova qui un’esemplificazione del tutto evidente per l’artigiano cardatore. DK 100 / DS 47 / C 53

ὥρας αἳ πάντα φέρουσι. Le stagioni, che portano tutto. Come altri, questo frammento potrebbe non essere suo. Ma poiché gli viene attribuito, lo si può collocare qui: il sole che presiede al ciclo stagionale dà l’immediata evidenza dello stato perennemente misto e unito delle cose. È il frammento che ben più dell’immagine dei fiumi può rendere l’idea del ‘tutto scorre’. E ha anche un sapore esiodeo. Perfetto, per dei coltivatori. Che Eraclito qui avesse in mente l’idea del ciclo (come avvicendamento o trasformazione reciproca di opposti) mi sembra del tutto certo. Nel mondo antico, e non solo in quello, il significato delle stagioni è indissolubilmente legato all’idea del ciclo.1 DK 61 / DS 34 / C 71

θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον. Il mare è acqua purissima e lordissima: bevibile e vitale ai pesci, ma imbevibile e fatale agli uomini. Avvicina dei pescatori. DK 48 / DS 49 / C 72

τόξωι ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος. Il nome dell’arco è ‘bíos’, ma morte è l’effetto. 1   Tacito, per esempio, se ne serve negli Annali, III 55: «A meno che tutte le cose siano per avventura soggette ad una specie di rotazione, e che le usanze abbiano un loro ciclo, come le stagioni» (Arici).

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3. la divulgazione e l’insuccesso   173

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Avvicina un soldato, o un cacciatore. Il doppio senso è del tutto esplicito, non ingannevole, non sofistico. DK 60 / DS 31 / C 74

ὁδὸς ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή. La via in su e in giù è una e la stessa. Può significare tutto e niente, dal momento che lo stesso giudizio può valere per “la via a destra e a sinistra”, o per “la via in avanti e all’indietro”. È possibile che mostri la cosa ad un tessitore. La via verso destra e verso sinistra della spola non è diritta, ma sinusoide; ed egli ha già usato questo schema mostrando al cardatore la sua vite. Perciò potrebbe riferirsi al pettine del telaio. DK 103 / DS 30 / C 75

ξυνὸν ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας. Sul perimetro del circolo principio e fine coincidono. Non trascura il maestro di scuola o l’agrimensore. DK 111 / DS 35 / C 98

νοῦσος ὑγιείην ἐποίησεν ἡδὺ καὶ ἀγαθόν, λιμὸς κόρον, κάματος ἀνάπαυσιν. La malattia rende piacevole e preziosa la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo. Avvicina il medico, il lavoratore, il viaggiatore, il ginnasta. DK 58 / DS 36 / C 97

τέμνοντες, καίοντες, ἐπαιτέονται μηδὲν ἄξιοι μισθὸν λαμβάνειν ταὐτὰ ἐργαζόμενοι τὰ ἀγαθὰ καὶ τὰς νόσους.

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174   parte prima. eraclito

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I medici, che tagliano e cauterizzano, mentre fanno simili beni e mali lamentano di ricevere una mercede niente affatto adeguata. Si rivolge al paziente, e non senza un tratto d’umorismo. DK 90 / DS 38 / C 116

πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός. Tutte le cose in cambio del fuoco, e il fuoco in cambio di tutte le cose: come dell’oro in cambio le merci, e in cambio delle merci l’oro. Il paragone in questa sentenza è assai eloquente per capire a quale genere di cittadini Eraclito abbia deciso di rivolgersi: ai mercanti. Ma a differenza dei casi precedenti si nota in questo, come nei frammenti successivi, la tendenza ad associare all’evidenza dell’immagine anche il suggerimento di un astratto significato dottrinario. È qui che interviene la crisi, e che si prepara il suo nuovo insuccesso: perché le verità evidenti in virtù di esperienza comune o tecnica, nonché di buon senso, quali egli ha enunciate fin qui, devono rimettere i suoi ascoltatori in quel medesimo stato di perplessità ch’egli aveva già lamentato, allorché s’era dato a spiegare partitamente cose di cui essi dovevano pur avere migliore esperienza. Egli, che non aveva potuto capire né ben conoscere l’insegnamento di Pitagora, e l’aveva mal giudicato soltanto per sentito dire, deve ora fare l’esperienza dell’incommensurabilità della conoscenza che nasce dalla prassi (la mercatura e l’usura) con la conoscenza che nasce soltanto dal pensiero metafisico del fuoco. La sua stessa vicenda illustra questa incommensurabilità di due diverse nature del sapere: perché senza il suo ritiro in meditazione nella solitudine anche la sua amara esperienza pratica, cittadina, non avrebbe mai conosciuto sviluppi teorici. E per passare dall’oro al fuoco, in una sentenza come questa, occorre ammettere la plausibilità dell’uso di figure letterarie che facciano da termine di rapporto sensibile, ossia formale, fra cose sostanzialmente estranee tra loro. La conoscenza di una verità d’ordine superiore diventa possibile soltanto ‘per modo di dire’. Ma che la verità non sia, in definitiva, nient’altro che ‘un modo di dire’ era cosa contro cui tutta la sua coscienza si doveva ribellare: conoscendo l’uomo, chi mi ha seguito sin qui non farà fatica ad ammetterlo, credo. Eraclito non poté mai sospettare che la sua stessa osservazione e predicazione moralistica giovanile, e poi la propugnazione della democrazia e della

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3. la divulgazione e l’insuccesso   175

tirannide, e poi ancora la meditazione e il raccoglimento dell’eremitaggio, ed infine la pedagogia dell’evidenza si riducevano a nulla senza una letteratura dell’espressione di forme sensibili estese e convincenti. Sentì soltanto, probabilmente, di non possedere quel talento poetico necessario, che poi non mancherà a Platone; e si rese conto che non sarebbe mai riuscito a mettere insieme i suoi scritti sparsi, se non disponendoli pressappoco nell’ordine stesso in cui s’era svolta la sua vita.2 Il commento dedicato da Emanuele Riverso a questo frammento, in un contributo fra i più concreti, arditi e interessanti del Simposio Eracliteo del 1981, pecca soltanto per eccesso.3 Secondo Riverso quest’oro di Eraclito sarebbe moneta sonante persiana, appositamente coniata da Dario in oro zecchino nel quadro di una politica ideologica di simbolica unificazione del giovane impero; e se anche non fu proprio complice di questa politica, è impossibile negare che Eraclito ne sia stato in qualche modo influenzato – così come chi avesse scritto un trattato di economia in una qualsiasi propaggine dell’impero sovietico non avrebbe potuto non metterci almeno qualcosa dei princìpi ideologici metropolitani. Ma l’autore dello studio riconosce pure l’autonomia, anche monetaria, che i persiani concessero alle città della Ionia, nelle quali l’oro zecchino di Dario non finiva certo nelle mani dei mercanti (e dalle quali, comunque, semmai defluiva in tributi, o sotto forma di contingenti arruolati); e non trascura neppure di affermare che quella di Eraclito non si presenta come un’influenza subìta dall’esterno, bensì come una verità del tutto evidente e propugnata: tanto, che il fuoco diventa una monoteistica divinità del «valorelavoro» che pervade il mondo. Negli empori della Ionia si scambiavano merci provenienti «dall’Egeo, dalla Scizia, dall’India, dall’Egitto, dalla Caldea, dal Mare Eritreo e dall’Iran».4 Ma Riverso non vede esercitarsi su Eraclito che le «influenze indo-iraniche», o di mitraismo e mazdeismo attraverso la predicazione di Zoroastro. Se ciò è vero, il confronto fra l’imponenza suggestiva e la popolarità di quelle dottrine, e le sue, dovette riuscirgli schiacciante – pur solleticando la sua immaginazione circa le possibilità offerte da quella che oggi si chiamerebbe ‘una pro2   Il contenuto astratto e puramente logico del frammento è sottolineato da Isabella Labriola, Il fuoco, lo scambio e l’unità degli opposti, in SH, I, pp. 241-250. Citando anche autori diversi, ciò che qui si trova è definito, per esempio: «similitudine fra rapporti», o «più alta relazione» e «più alta opposizione dialettica», o «espressione materiale ad una legge logica», o «idealizzazione della generalizzazione», o «sillessi» (ivi, pp. 242, 245, 247, 250). Fra simili e altre definizioni possibili è interessante vedere come retorica letteratura e linguistica si mescolino alla logica con termini come «similitudine», «espressione materiale» e col glossema «sillessi». 3   Emanuele Riverso, Eraclito, fr. 90 D.-K., in SH, I, pp. 213-230. 4   Ivi, I, p. 220.

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176   parte prima. eraclito

paganda per suggestione delle masse’. Sfruttare l’occasione della circolazione dell’oro persiano per dare concreta evidenza alla sua nuova sapienza, dunque? In questa direzione, di praticare a sua volta una suggestione delle masse, egli non seppe fare che dei tentativi – ma non fu mai così poco serio da buttarsi a fare il profeta di provincia dell’impero per sola vanità. Di questo gli va dato atto: di un suo realistico apprezzamento delle proprie effettive capacità, e delle sue probabilità di successo. Di qui nascono la recriminazione e il moralismo.5 Dal commento di Riverso risulta che, da una parte, Eraclito si sarebbe rivolto non solo ai greci della Ionia, ma anche a «molti altri popoli», opponendo alle interpretazioni del mondo dei suoi predecessori (poeti greci) «il senso originario dell’icona pirofotistica iranica»; d’altra parte, però, Eraclito non si sarebbe rivolto, in definitiva, che ad un’unica categoria di artigiani, vale a dire ai fornaciai e ai fabbri, quali unici esperti del sacro significato del «fuoco-lavorovalore», ossia di «una divinità che era insieme saggezza e valore».6 DK 51 / DS 20, 26 / C 65

οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντονος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης. Nonintendonocomeciòchediscordadasésecostessoconcordi:simmetrica conversa armonia, come d’arco e di lira. È il riconoscimento dell’insuccesso della sua opera di divulgazione mediante l’ultima esemplificazione visiva. Eraclito è fallito di nuovo nel suo proposito di riforma degl’intelletti mediante il ricorso alle risorse della sensibilità. Un tempo, agl’inizi, questa s’era esercitata inutilmente nella lettura e nell’esegesi della legge scritta; ora, invece, fallisce alla prova della semplice osservazione e della comune esperienza. Inizia l’ultima fase della sua vita, segnata dalle riflessioni sul tempo, il caso e l’opinione, nonché dall’abbandono, dall’afasia, e dall’apprezzamento delle risorse della sensibilità olfattiva e tattile. 5   Riverso lo riconosce: «Che una tale interpretazione potesse incontrare successo, egli stesso ne dubitava seriamente, ma era sugli Elleni che faceva cadere la colpa di tale incomprensione» (ivi, I, p. 229). 6   Ivi, I, pp. 223, 226, 228-230. Questa insistenza sul «valore», che è di origine marxiana, non tiene conto della distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. La saggezza predicata da Eraclito costituisce un valore in sé nella prima parte, religiosa, della sua vita. Poi diventa, in un certo senso, valore di scambio nelle discussioni dell’assemblea, in vista di un vantaggio comune. D’altra parte non c’è, né può esserci nel mondo antico, come nel primitivo, qualcosa di letterariamente apprezzabile come semplice valore d’uso: come tale, una non-merce è semplicemente oggetto di preda oppure cosa indifferente, a meno che essa non serva a designare uno status: il valore in sé, non scambiabile, della fama.

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4. Il ritiro e l’attesa della morte

il fisico e il tatto DK 117 / DS 55 / C 80

ἀνὴρ ὁκόταν μεθυσθῆι, ἄγεται ὑπὸ παιδὸς ἀνήβου σφαλλόμενος, οὐκ ἐπαΐων ὅκη βαίνει, ὑγρὴν τὴν ψυχὴν ἔχων. Quando si ubriaca, un uomo si lascia ingannare da un fanciullo imberbe, non sapendo dove muovere il passo, poiché umida ha l’anima. È spiacevole, persino doloroso dirlo – ma qui Eraclito parla di sé: una simile esperienza dell’ubriaco ingannato da un fanciullo è toccata recentemente proprio a lui. Ed egli l’annota, la vuole ricordare. Ogni sorpresa, dopotutto, serve a fare conoscenza; e lui non è certo un uomo che esiti ad indagare se stesso. Era ubriaco, e se l’è meritata, questa brutta esperienza; ma se parla della perfidia di un fanciullo, è per autocommiserazione: Eraclito è ormai un uomo in età avanzata. Riprende, adattandole in forma di parabola elementare, le sue meditazioni sulle anime umide allo scopo di rendersi ragione dell’accaduto. Qui le acque, però, intridono pesantemente le anime, che in giovanili pensieri già s’erano librate al di sopra di esse, o avevano potuto scegliere se condensarsi in terra o rarefarsi in aere. DK 67 a / DS 60 / C 96

sicut aranea stans in medio telae sentit, quam cito musca aliquem filum suum corrumpit itaque illuc celeriter currit quasi de fili persectione dolens, sic hominis anima aliqua parte corporis laesa illuc festine meat quasi impatiens laesionis corporis, cui firme et proportionaliter iuncta est. Come, stando nel centro della tela, il ragno sente la mosca non appena essa spezza qualcuno dei suoi fili, cosicché vi accorre rapido, quasi percependo il

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178   parte prima. eraclito

dolore della rottura del filo, così l’anima dell’uomo, offesa [ma intendi piuttosto: “offeso”, riferito all’uomo] in alcuna parte del corpo, vi si porta senza indugio, quasi non sopportando la lesione del corpo, al quale è saldamente unita secondo un rapporto. L’esempio è fra i più cólti e letterari, se non il più cólto e letterario – sempre che qualcuno non ci abbia messo abbondantemente le mani. Si sente che le esemplificazioni elementari non gli bastano più. Le immagini si fanno alquanto ricercate, come nel periodo della meditazione sull’anima il mondo e gli elementi – ma senza quelle nebbie. Eraclito deve pensare un poco anche a se stesso – e si pensa come un essere senziente in tutte le sue fibre più estese. L’anima non è più, come aveva detto in precedenza, legata al corpo da una relazione di esclusione reciproca, bensì unita ad esso da un rapporto di soccorso che fa l’unità della natura antropologica. Quest’unità non consiste più nel dispotismo che l’indole esercita sull’uomo. In questi ultimi frammenti si nota una decisa tendenza a preoccuparsi del corpo dell’uomo offeso o malato, nonché a descrivere l’anima come qualcosa che morirebbe, offesa anch’essa con lui, se esso morisse (contrariamente al dettato di DK 62). Sono pensieri di un uomo in età avanzata, forse cieco, che comincia a pensare alla morte. È notevolissimo il fatto che dopo essersi affidato ai sensi della vista e dell’udito, oltre che all’intelletto, egli cominci ora ad apprezzare il senso del tatto. il caso, il tempo e le opinioni DK 64 / DS 117 / C 12

τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός. Il mondo lo governa la folgore. Il mondo è il regno della forza e del caso. Non è più questione di pensiero comune, né di lógos. Cercare una legge che lo renda comprensibile è cosa vana. Si tratta anche in questo caso di un ritorno. In DK 53 aveva detto qualcosa di simile: «Il conflitto è padre di tutto, e anzi di tutto è re; e alcuni rese dèi, e alcuni uomini; e alcuni fece schiavi e altri liberi». Ma quanta più fiducia, e persino noncuranza, a quel tempo, negli effetti casuali del conflitto!

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4. il ritiro e l’attesa della morte   179 DK 70 / DS 63

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παίδων ἀθύρματα τὰ ἀνθρώπινα δοξάσματα. Trastulli di bimbi sono le opinioni degli uomini. S’intrattiene con i fanciulli, che un tempo aveva giudicato essere le sole creature ancora incorrotte della città. Ma non li vuole educare, secondo un principio pedagogico segregazionario. Ora li vede con altri occhi: nei loro giochi vede già le future vane dispute degli uomini adulti, e non può fare a meno di chiedersi se l’opinione, che sarà loro padrona, non si manifesti così precocemente proprio in simili trastulli. Ciò non può lasciargli alcuna speranza, se è vero che il loro destino è già segnato in così giovane età. Si vede bene, qui, in che cosa si sia trasformata l’indole padrona di DK 119: farne un’opinione significa averne percorsa, di strada! Nell’opinione che qui compare gli umori del corpo, il carattere, gl’istinti, potrebbero anche diventare una specie di seconda natura – magari argomentata per l’occasione o, peggio, con la pretesa della verità. Eraclito potrebbe anche lasciare intendere (ma così non è) che le opinioni sono qualcosa di assai precoce nell’uomo: pregiudizi profondamente radicati, e suscettibili di lenta modificazione attraverso le generazioni – purché non vengano ricoltivati. Per renderlo un uomo del nostro tempo, almeno su questo punto, non gli mancherebbe che da riflettere sulla trasformazione di simili opinioni in ideologie attraverso le scuole. Se questo passaggio in lui non avviene, ciò non dipende né dal fatto che il mondo politeista non conobbe ciò che chiamiamo ‘ideologia’ o ‘fanatismo’, né dal fatto che Eraclito fu nemico delle scuole, né, dopotutto, dall’effettiva mancanza di scuole (i pitagorici conoscono e applicano già la sentenza di morte; e la testimonianza platonica sull’insopportabile settarismo degli eraclitei non tarderà ad arrivare); bensì dipende dal fatto che egli associa l’opinione umana a null’altro che alla pura e semplice volubilità (sempre che non ci sia un lieve progresso, come discuterò su DK 102 e soprattutto DK 32). L’indole padrona di DK 119 era stata qualcosa di più fermo e di più ‘grave’: una vera e propria tara, che rendeva l’uomo un animale fin troppo prevedibile. Di simile prevedibilità qui non resta traccia, e quest’opinione così volubile si lega strettamente con il tempo, la folgore e il caso: le nuove forze che nella sua mente si presentano al governo dell’universo. Si tratta di una sublimazione, dunque, non di una precipitazione ideologica, che nell’intero lascito non conosce la benché minima comparsa. È veramente notevole il fatto che Eraclito dedichi almeno quattro impor-

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180   parte prima. eraclito

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tanti pensieri all’opinione (DK 70, 92, 46, 102, più almeno altrettanti per diretta aggregazione: DK 120, 32, 79, 82-83). È ciò che qui di seguito subito vedremo. DK 92 / DS 119 / C 87

Σίβυλλα μαινομένωι στόματι ἀγέλαστα καὶ ἀκαλλώπιστα καὶ ἀμύριστα φθεγγομένη χιλίων ἐτῶν ἐξικνεῖται τῆι φωνῆι διὰ τὸν θεόν. Profferendo parole senza sorrisi, né decori o profumi, la Sibilla con bocca delirante supera i millenni grazie al dio nella voce. Questo frammento mette a diretto confronto le opinioni infantili degli uomini con le ferme opinioni dell’oracolo. È un ritorno anche questo, perché già in DK 78 aveva detto: «Indole umana non ha nozioni sicure, quella divina invece sì». L’oracolo non esprime direttamente la voce del dio – dunque la sua non è nozione, bensì opinione. Ma è ferma opinione. Dopo la frustrata fiducia nell’efficacia discorsiva della ragione, viene a prevalere in Eraclito la predilezione per il medium di questa figura mista, che fa da sintesi fra il divino e l’umano. L’apprezzamento della potente nudità seduttiva della formula sibillina richiama alla mente la severità della sua polemica giovanile iconoclasta contro fedeli che si prosternano davanti a un idolo che se ne sta lì muto, e sembrano parlare ai muri (DK 5). Non mi sembra esserci continuità possibile: è con un altro uomo che abbiamo a che fare. Come ho già detto trattando di DK 54 nel secondo periodo («Non manifesta armonia di manifesta è più forte»), ancor più notevole mi sembra poi il fatto che in questa Sibilla noi abbiamo un raro esempio di un’unità degli opposti materializzata. Ce ne sono ben pochi altri, mi pare; e il centro dell’opposizione, o il rapporto, in Eraclito di solito non ha alcuna consistenza fisica. L’arco e la lira sono unità acentriche, dotate di estremità opposte; l’acqua del mare ha un effetto ambivalente a seconda di chi la beve (Eraclito non si sofferma sull’ambivalenza intrinseca della ‘salinità’); i movimenti della vite sono due (non è la vite in sé che è doppia); i medici producono effetti simili a quelli delle malattie (due cause diverse per il medesimo effetto – ma non è l’effetto descritto come sostanza delle cause); la fatica trova un contatto col riposo, il sonno con la veglia e le merci con l’oro (il momento della congiunzione degli opposti è un nulla; e su questo lavorerà Gadamer, come vedremo). Si tratta sempre di due cose in una, e non di una in due. Soltanto la misteriosa «via in

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4. il ritiro e l’attesa della morte   181

su in giù» è come questa Sibilla: non un semplice istante di contatto, bensì un solido tramite, permanente e del tutto consistente (ragion per cui Gadamer, se non sbaglio, non degna i due frammenti della minima attenzione). È possibile allora che tra il frammento DK 60 e questo pensiero DK 92 ci sia una relazione, e che la via in su in giù possa avere un significato religioso? A me la cosa sembra soltanto molto vagamente possibile, e soltanto in astratto – e fra l’astratto e il concreto, con Eraclito mi tengo a quest’ultimo: al pettine del telaio. È questo il luogo più adatto per menzionare lo studio col quale Serge Mouraviev ha pensato di trovare negli Stromata di Clemente Alessandrino una citazione «che merita il prestigio di un frammento separato del libro di Eraclito». La citazione dagli Stromata di Clemente (I 70, 3; già una volta emendata, ma col consenso di tutti gl’interpreti) suona dopo la nuova emendazione del Mouraviev: Herákleitos gàr ouk anthrōpínōs fēsìn allà sùn theõi mãllon Sibúllēs pefánthai – vale a dire: «Eraclito dice in effetti che non in guisa umana, bensì con l’aiuto di Dio, egli ha espresso se stesso più chiaramente della Sibilla». Oltre ad emendare l’originale Sibúllēi in Sibúllēs, lo studioso maiuscola la parola ‘dio’. Come poi questa interpretazione si accordi col frammento DK 92 e col resto della dottrina eraclitea non è dato sapere, perché «questo è un problema del tutto diverso, che ricade al di fuori della prospettiva» dello studio del Mouraviev.1 Clemente tendeva a fare dei filosofi greci, compreso Eraclito, profeti simili ai biblici (così che egli dovette immaginarselo un po’ come l’Elia del Ribera: con il libro in una mano e il fuoco nell’altra, come mostra la Tavola II).2 Mouraviev asseconda l’operazione: non la Sibilla, e anzi meglio della Sibilla, egli stesso, Eraclito, sarebbe l’oracolo. E sarebbe lui stesso ad affermarlo. Ciò presuppone d’avere a che fare con un uomo ben sicuro di sé – e quest’uomo Eraclito non era affatto, soprattutto nell’attuale periodo della sua vita. Ma anche con riguardo al periodo giovanile, l’alterigia solitaria e la pedagogia perfezionistica del biasimo e dell’esortazione non vanno interpretate come

1   Serge N. Mouraviev, Heraclitus ap. Clem. Strom. I 70.3: A neglected Fragment?, in SH, I, pp. 28 e 34. Egli numera il nuovo frammento con la sigla congetturale *16 A, sebbene la lettera A sia abitualmente usata non per i frammenti originali, bensì per le testimonianze. Quanto poi all’indifferenza nei confronti del problema della congruenza organica (ossia teorica), essa è diffusissima tra gli studiosi filologi, e gli Atti del Simposio Eracliteo ne fanno bella mostra: non si contano i contributi nei quali si estraggono costole dal lascito, abbandonando il resto al suo destino. 2   C’è chi riprende quest’idea, facendo di Eraclito un secondo Ezechiele: «Il suo compito è di annunciare la verità all’uomo (perché in definitiva egli non può sapere chi si sveglierà e chi preferirà dormire)» (Conrado Eggers Lan, Ethical-religious meaning of fr. 30 D.-K., in SH, I, p. 299).

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182   parte prima. eraclito

sintomi d’intima sicurezza – può ben essere il contrario. La sua fiducia in se stesso cominciò ad essere scossa allorché non fu più certo dell’indispensabilità del suo ruolo religioso (come attesta DK 15). Poi seguì la frustrazione politica, ed infine anche la frustrazione teorica – almeno sul piano della propaganda. In questo momento egli è l’uomo da cui meno ci si attenderebbe di udire sancire sentenze oracolari. Eraclito annota ancora qualcosa per iscritto, per sé soltanto: ecco tutto. Se l’interpretazione data nel presente mio studio è plausibile, e se è giusta la collocazione del frammento in questa posizione, bisogna dire che apprezzando la potenza e il successo duraturo degli enunciati della Sibilla egli non poteva non confrontarli, oltre che con le vane opinioni degli uomini eterni fanciulli, anche coi risultati della sua opera pedagogica, con la sua giovanile fiducia nelle distinzioni zoologiche e col tentativo, ripreso in età matura, di educare il prossimo singolarmente, o a piccoli gruppi, mostrando l’evidenza delle cose in laconiche immagini. Non poteva non confrontarli, in due parole, anche con le vane opinioni sue. DK 46 / DS 62 / C 38

τήν οἴησιν ἱερὰν νοῦσον· καὶ τὴν ὅρασιν ψεύδεσθαι. La ferma opinione è morbo sacro; e la vista inganna. Continua il confronto tra le opinioni umane e i responsi oracolari. La vista, alla quale s’è a lungo affidato, inganna: è fonte di vane opinioni. È un pezzo della sua sapienza che se ne va. Nell’Etica Nicomachea fu Aristotele, in particolare, a fare di Eraclito il prototipo dell’uomo animato da un’incrollabile fiducia nel valore delle proprie opinioni: «alcuni uomini, infatti di ciò di cui hanno opinione hanno una convinzione non inferiore a quella che altri hanno di ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra Eraclito».3 Ma non se ne può fare un tratto meramente caratteriale, senza una profonda motivazione esistenziale e religiosa in cui si compendia tutto il significato della vita di un uomo. Questa motivazione può venir meno – ed è proprio ciò che accadde. Alquanto diverso è il giudizio consegnato alla Grande Etica, dove il quesito assume, almeno, un generico rilievo teorico: «se

  Etica Nicomachea, VII, 1146 b (Mazzarelli).

3

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4. il ritiro e l’attesa della morte   183

Jusepe de Ribera, Elia (Napoli, Certosa di San Martino)

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184   parte prima. eraclito

l’opinione sarà forte per il fatto di essere qualcosa di saldo e d’immutabile, essa non differirà in nulla dalla scienza, poiché l’opinione comporta che gli uomini credano che le cose stiano così come essi opinano; per esempio, di tal genere era l’opinione di Eraclito di Efeso sulle cose intorno alle quali ne aveva una».4 È vero: è vero che Eraclito non distinse la scienza dalle sue ferme opinioni, quando ne ebbe. Ma in questa fase della sua vita egli sembra proprio dubitare anche della possibilità di dotarsi di ferme opinioni. DK 102 / DS 69 / C 57

τῶι μὲν θεῶι καλὰ πάντα καὶ ἁγαθὰ καὶ δίκαια, ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια. Al dio tutto è bello e buono e giusto, mentre gli uomini considerano alcune cose ingiuste, altre giuste. Di nuovo il confronto fra le opinioni umane e divine per la terza volta (e anzi per la quarta, se è giusta l’interpretazione del frammento sulla Sibilla di DK 92). Il valore dell’opinione è il problema che gli sta più a cuore ormai; e a me sembra del tutto chiaro che così non sarebbe, se egli ancora credesse nella possibilità di possedere una verità. Ma così evidentemente non è: l’unica conoscenza della quale l’uomo può dotarsi è niente più che un’opinione volubile. E noi non dobbiamo giudicare quest’interesse come un sintomo di regresso – tutt’altro: questo è ciò che avrà forse potuto credere lui giudicando se stesso. Noi possiamo invece credere che nella sua tarda età egli avrebbe potuto senz’altro aprire una fase nuova della sua riflessione: fatta di primato dell’opinione, del caso, del tempo, del tatto e dell’antropologia infantile. Se si giudica l’ampiezza numerica nei raggruppamenti monotematici del resto dei frammenti, e se si ammette che la successione che propongo sia giusta, non si può certo dire che l’interesse dedicato al valore dell’opinione (con quattro frammenti) e all’antropologia infantile (con tre frammenti) sia del tutto irrilevante. Certo, esso da solo non può bastare per permetterci di affermare che egli abbia vissuto davvero una nuova vita di pensiero: perché manca, d’altra parte, il numero sufficiente di relazioni con gli altri temi di nuova acquisizione (diciamo così), che ho menzionati. E al caso, al tempo e al tatto aggiungerei

  Grande Etica, II, 1201 b (Caiani).

4

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4. il ritiro e l’attesa della morte   185

anche un nuovo interesse, assai enigmatico, per le divinità sovrordinate ad Artemide, come fra poco vedremo. Sono perciò convinto che la critica moderna, oltre a riconoscere finalmente la personalità cittadina, politica, di Eraclito, dovrebbe dedicarsi anche allo studio di questi pensieri della vecchiaia, o almeno metterli nel giusto rilievo per lo meno indiziario. E mi riferisco proprio alla critica più teoricizzante, che di solito ignora del tutto la vita cittadina, e si getta a costruire edifici su un paio di dozzine, e anche meno, delle sue divagazioni speculative. Bisogna considerare qualcosa nel contenuto di questo pensiero, che a me sembra piuttosto importante. Eraclito attribuisce qui agli uomini una facoltà di discernimento che agli dèi manca. È vero che egli vuole mettere in luce il valore del giudizio contenuto nella prima parte della sentenza, e lamentare il valore relativo, vale a dire incerto, delle cose per gli uomini. È una disposizione sintattica di valore discendente, diciamo così, che già conosciamo – ma non sarebbe la prima volta che dalla seconda parte, caduca, della sentenza si sviluppasse del nuovo pensiero, quando essa non ha un contenuto di semplice biasimo moralistico. Lo abbiamo già visto accadere in DK 62, per esempio, e anche in DK 15. Finché Eraclito parla della viva voce della Sibilla, sicuramente si strugge per il possesso della sua ferma opinione. Ma se invece si tratta proprio del dio? A me sembra innegabile che il dio lontano, irraggiungibile e immobile come un sole che contempla con mista opinione le nostre vicende (come si vedrà qui di seguito) somiglia davvero molto agl’idoli venerati da coloro che sembrano parlare coi muri di cui si parla in DK 5. Come può un uomo di passioni come Eraclito agognare davvero la lapidea certezza indifferente di questa mista opinione insondabile? Sarebbe così sorprendente, dopotutto, che nella variabile opinione umana egli apprezzasse quella libertà che conferisce una responsabilità? È ciò che sapremo leggendo DK 32. Ma intanto leggiamo in DK 120 qualcosa sul dio sommo – e però anche lapideo e distante, irraggiungibile. DK 120 / DS 46 / C 54

ἠοῦς καὶ ἑσπέρας τέρματα ἡ ἄρκτος καὶ ἀντίον τῆς ἄρκτου οὖρος αἰθρίου Διός. Méta dell’est e dell’ovest il nord, e di contro al nord l’erma di Zeus celeste.

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186   parte prima. eraclito

È un ritorno del giovanile DK 16 («A ciò che non tramonta, come potrebbe mai qualcuno celarsi?»): è chiara, ormai, la sua sfiducia nelle possibilità per una legge scolpita su di un muro di offrire qualche garanzia di giustizia. La garanzia di stabilità nel governo delle cose umane sta ormai fissa in cielo. Oltre che muta, la legge scritta nella pietra è anche cieca (come già muto e cieco è anche lui, probabilmente). I suoi caratteri scolpiti, vicini, non sono che un misero spauracchio per gl’indifferenti. Eraclito si appella ad una potenza onniveggente lontana. Parla dunque del corso del sole, il quale sta rivolto verso il nord come in faccia alla méta dei suoi raggi luminosi. Esso gli appare fermo e lontano nel suo punto più alto di mezzogiorno. La solenne formulazione della sentenza ha lo scopo di accentuare il distacco del dio supremo da quella misera creatura che è l’uomo. Quanto siamo lontani dal sole nuovo ogni giorno di DK 6! Se Apollo è il dio enigmatico e imprevedibile, Zeus è il dio irraggiungibile che non si mescola con vicende terrestri (se non nell’immaginazione profanatrice dei poeti, ch’egli biasimava). Perciò egli preferisce chiamare Apollo, nel suo ruolo di certezza solare, col nome di Zeus (e così farà anche Eschilo nel parodo dell’Agamennone, ai vv. 55-56 e 160, usando una simile fungibilità onomastica col tono di chi la dà ormai per acquisita). Al lettore non sarà sfuggita la nuova dislocazione del suo referente religioso, attraverso le svolte principali della sua vita: da Artemide per la moralità pratica e domestica, ad Apollo per l’intuizione degli esseri complessi, e da questi infine a Zeus per l’ultima speranza. DK 32 / DS 67 / C 86

ἓν τὸ σοφὸν μοῦνον λέγεσθαι οὐκ ἐθέλει καὶ ἐθέλει ζηνὸς ὄνομα. Solo l’essere saggio non vuole e vuole essere chiamato col nome di Zeus. Nella distanza irraggiungibile di Zeus, e negl’incerti suggerimenti di Apollo, egli deve constatare la sterilità pratica della religione olimpica. Questo pensiero indica che l’opinione umana, così diversa dalla divina, può scegliere liberamente se identificarsi con una verità sancita, oppure con una verità raggiunta per forza propria. Si tratta, come si vede, di un pensiero di grande significato, che testimonia la vitalità teorica dell’ultimo Eraclito: i cui pensieri non si possono affatto riassumere soltanto come tetraggini. Il pensiero di Eraclito non si va soltanto spegnendo: conosce qualche evo-

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4. il ritiro e l’attesa della morte   187

luzione. Si affaccia qui, infatti, un vago apprezzamento per l’incertezza delle opinioni, che è opposto o complementare rispetto al tono di commiserazione di DK 70 (“le opinioni sono trastulli infantili”). Si nota un interesse positivo per la ferma opinione di chi ancora vuole essere saggio, e ciò m’induce a collocare questo pensiero in una posizione successiva, anziché precedente DK 70: perché ad un Eraclito irrimediabilmente pessimista e depresso preferisco un Eraclito ciclotimico. Quanto alla formulazione, «essere saggio», a dire il vero, è una contraddizione in termini. Chi “vuole essere” non può che restare fedele a se stesso. Chi vuole “diventare saggio”, invece, deve andare contro se stesso. Non mi sembra perciò persuasiva l’interpretazione di vari commentatori (come Kirk, o Marcovich), i quali fanno dell’onomastica di questo «essere saggio» una questione di personalità o d’impersonalità dell’essere supremo – vale a dire, in due parole: Zeus può ben rappresentarsi come un ‘essere saggio’, ma lo ‘Essere saggio’ non può rappresentarsi in una personalità come Zeus. Per conseguenza, lo ‘Essere saggio’ è la vera somma divinità per Eraclito, superiore allo stesso Zeus. Torna a fare capolino la Ragione stoica. Simile interpretazione trascura di considerare che un solo frammento, DK 54, parla assai concisamente della superiorità di un’armonia non manifesta sulla manifesta. Per tutto il resto della sua vita Eraclito è andato in cerca della visibilità, udibilità, intelligibilità sensibile del vero. Fare della non rappresentabilità dell’Essere saggio una ragione sufficiente per innalzarlo al di sopra di Zeus deve portare come conseguenza una rilettura completa dell’intera vita di Eraclito, e rispiegarla da capo a fondo. Non è questo che accade, però, negli studi di Kirk e di Marcovich; il cui particolare apprezzamento per la non-rappresentabilità e per l’impersonalità di qualcosa mi sembra condizionato, io sospetto, dal pregiudizio che mira ad innestare un moderno difetto di sensibilità tipicamente protestante su di un’antica posizione stoica. In questo caso è invece chiaro, piuttosto, che il problema si pone in termini di ‘potere e non potere’ da parte degli uomini, non già di ‘volere e non volere’ da parte di un essere supremo. Il quesito che Eraclito a malapena si pone, senza poi saperlo o poterlo svolgere, è insomma quello della libertà. DK 79 / DS 71 / C 58

ἀνὴρ νήπιος ἤκουσε πρὸς δαίμονος ὅκωσπερ παῖς πρὸς ἀνδρός. L’uomo ha l’aspetto d’un infante a cospetto del dio, come un bimbo a cospetto dell’uomo.

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188   parte prima. eraclito

L’interesse logico e conoscitivo per il valore dell’opinione si tramuta in antropologia. Conosciamo abbastanza la sensibilità del nostro uomo, il suo bisogno di concretezza e di rappresentabilità, per sapere che questo passaggio era quasi prevedibile. Il giudizio sui bimbi non è elogiativo. Eraclito non crede più alla loro innocenza e perfettibilità: vede in loro, piuttosto, la stessa inferiorità irrimediabile che separa l’uomo da una divinità. Ha capito che nel cuore dei fanciulli ci possono essere tanta brutalità, tanto vizio e pregiudizio, quanti ce ne sono nel cuore degli uomini che poi diventeranno. DK 82, 83 / DS 72 / C 59, 60

πιθήκων ὁ κάλλιστος αἰςχρὸς ἀνθρώπων γένει συμβάλλειν. ἀνθρώπων ὁ σοφώτατος πρὸς θεὸν πίθηκος φανεῖται καὶ σοφίηι καὶ κάλλει καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσιν. La più bella delle scimmie è turpe se messa a paragone degli uomini. Il più sapiente degli uomini sembra una scimmia a cospetto degli dèi: e per sapienza, e per bellezza, e per tutto il resto. Non si serve più dei fanciulli come termine di paragone, e li degrada a scimmie. È il ritorno (anche questo plausibile, se non prevedibile) dei suoi moralistici paragoni zoologici giovanili. La proporzione: ‘il bimbo sta all’uomo, come l’uomo sta a dio’ di DK 79, nella quale l’uomo fa da termine medio, lascia il posto ad un semplice confronto per opposizione che non lascia alcuna speranza di ulteriore perfettibilità oltre il dato naturale. È del tutto impossibile innalzare al di sopra di queste due ultime formulazioni (e di scarsissime altre variamente tormentate dagl’interpreti allo scopo) una teoria di non so quale logica eraclitea: perché non c’è in Eraclito forma logica uniforme, o comunque distinta dalla sempre varia formulazione con finalità pratica. L’unica caratteristica ben chiara, sul piano logico generale, è che egli pratica l’induzione (e che cerca persino di ‘fondarla’ con la certezza della sensibilità), mentre non conosce affatto la deduzione. Eppure negli studi che gli vengono dedicati i teoricismi di questo genere logico non mancano mai; e il lascito eracliteo ne sembra afflitto più di qualsiasi altro – probabilmente, perché offre ai logici le proposizioni che essi di solito prediligono.

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4. il ritiro e l’attesa della morte   189 DK 52 / DS 48 / C 122

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αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη. Il tempo è un bimbo che gioca agli scacchi: ecco il regno d’un bimbo! Se è giusta, come credo, la collocazione di questo frammento dopo i precedenti DK 79 e DK 82,83, è anche innegabile, mi sembra, che egli consideri il tempo un tiranno crudele. È il tipico pensiero di un vecchio. E poiché non è dettato che dalle sue personali circostanze, e non dal pensiero, noi potremmo anche non dare alcun peso a questo giudizio. Ma tanto varrebbe, allora, spiegare il suo interesse igneo con la pienezza della maturità, il suo moralismo con l’ossessione giovanile per la purezza, e così via. Né si può trascurare che proprio le circostanze della vita aprono ai filosofi, non di rado, nuovi orizzonti. Prendiamolo dunque del tutto sul serio; e diciamo che questa è la vera divinità sicura, ormai, per lui: non più il fuoco, bensì il tempo. È un altro pezzo della sua sapienza che se ne va. Si deve notare che l’azione del tempo viene concepita come esercizio su di un’estensione spaziale e finita, com’è la scacchiera: nulla di anamnestico per il passato, nulla di divinatorio per il futuro. Eraclito scrive questo suo pensiero come avendo spiegate davanti a sé tutte le vicende che lo hanno coinvolto: la sua vita, e le vite degli altri. Ricominciare sarà come trovare nuove combinazioni, tra le infinite possibili, in un gioco dove in definitiva nulla cambia. Si sa che Eraclito durante il suo ritiro amò intrattenersi con fanciulli giocando. Che il gioco fosse di dadi, o di scacchi, o d’altro, nulla cambia al fatto che il caso si eserciti su un numero assai alto di combinazioni, ma pur sempre un numero finito. Il risultato è casuale, ma non si può affermare che il gioco sia del tutto arbitrario. C’è qui forse un vago ritorno dell’idea già espressa in DK 94, allorché aveva messo le Erinni a vigilare sui confini del moto del sole. l’ade e l’olfatto DK 65, 66 / DS 116 / C 13

(τὸ πῦρ) χρησμοσύνη καὶ κόρος· πάντα γὰρ τὸ πῦρ ἐπελθὸν καταληψεται. (Il fuoco) è indigenza e sazietà: perché verrà e divorerà tutto.

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190   parte prima. eraclito

Iniziano le meditazioni sulla morte, che assumono una dimensione escatologica. Il fuoco non è più vita pulsante dell’universo come in DK 30 – è la sua morte. I vecchi pensieri di cosmologia o di fisica elementare ritornano qui in un significato diverso, catastrofico, con un sole che precipita sulla terra, come un’ultima folgore, a far giustizia d’ogni male. Sembra chiaro che per lui, ormai, il male risiede nel mondo dispiegato. Aveva tuonato, da giovane, contro i più che si saziano come bestie, e ora parla di una potenza alla perpetua ricerca della sazietà. Il suo disgusto è finito nell’orrore. DK 27 / DS 113 / C 102

ἀνθρώπους μένει ἀποθανόντας ἅσσα οὐκ ἔλπονται οὐδὲ δοκέουσιν. Attendono gli uomini, quando muoiono, ogni genere di cose che essi non si aspettano, né immaginano. Il mondo dell’aldilà non è descrivibile, e in un certo senso esso non è per noi diverso dal mondo terrestre, governato dal caso e dalla folgore. Ciò insegna a non temerlo. Anche la sua dottrina del ciclo fisico elementare, al quale andavano soggette le anime diventando acqua o vapore, viene così accantonata. Assistiamo ad un progressivo smantellamento della sapienza. Eraclito è crudele con se stesso. Non vedo come si possa negare il riferimento oltremondano, e riaffermare la validità della dottrina della trasformazione fisica degli elementi.5 DK 86 / DS 68 / C 61

τῶν μὲν θείων τὰ πολλά ἀπιστίηι διαφυγγάνει μὴ γιγνώσκεσθαι. La maggior parte delle cose divine per incredulità non possono essere conosciute. La sentenza non va letta ed intesa secondo il vecchio stile giovanile delle sentenze di biasimo sulla vita cittadina, come se Eraclito se la prendesse con gli agnostici. L’accento non va posto su «incredulità», bensì su «non possono».   Così Luigi Senzasono, Il frammento 98 D.-K. e la cosiddetta ‘escatologia’ eraclitea, in SH, I, p. 269.

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4. il ritiro e l’attesa della morte   191

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L’incredulità è giustificata dalla contemplazione di un mondo in balìa del gioco di forze casuali. L’al di là non sarà diverso, e il caso e la folgore governano veramente tutto. DK 67 / DS 32 / C 77

ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός· ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ , ὁπόταν συμμιγῆι θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ’ ἡδονὴν ἑκάστου. Il dio giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame si tramuta come fuoco / unguento / olio / aria allorché si miscela alle spezie, e prende il nome secondo l’aroma di ciascuna. Il dio dell’unità degli opposti, infinitamente mutevole ed evanescente come fumo aromatico, inebriante, s’innalza e si disperde. È un’immagine diametralmente opposta a quella, abbagliante, di uno Zeus solare, fermo nel cielo di mezzogiorno. Al dio che si rivela strapotente e irraggiungibile alla vista preferisce un dio vicino, domestico, che gli si rivela dolcemente all’olfatto. Oltre che da Zeus, Eraclito era stato anche soggiogato, d’altra parte, dalla potenza dell’opinione che scaturisce dalla bocca della Sibilla “senza sorrisi decori o profumi” (DK 92). Non solo la fermezza di un dio solare irraggiungibile, dunque, ma anche questa soggiogante suggestione di una potenza vicina, udibile e tangibile come la profetessa, ormai gl’interessa meno. La potenza del fuoco non ha più nulla di cosmico: è diventata il semplice conforto di un braciere. Il tono in cui è stato redatto l’appunto esprime un’evidente soddisfazione. Discuterò nella Parte Seconda di questo studio le due lezioni introduttive al corso su Eraclito che Heidegger tenne nel 1943, e discuterò la sua scelta di presentare un Eraclito, secondo l’aneddoto, oziante in un forno. Sulle testimonianze tràdite è chiaro che ognuno fa le proprie scelte divinatorie; e questa del braciere aromatico a me sembra invece rendere assai meglio il senso della tarda sensibilità eraclitea relativamente al fuoco. Se si vuole dare un significato teorico alla descrizione di un uomo intento a riscaldarsi, allora bisognerebbe non tanto soffermarsi sulla sua indigenza folklorica, bensì sul fatto che quest’uomo ha un corpo e una sensibilità epidermica, che si giova del fuoco mediante la superficie esterna del suo essere (com’è testimoniato dal già discusso DK 67a). Ma Heidegger è naturalmente ben lontano dal volere riconoscere un ruolo ‘iniziale’ al tatto. In quest’altro caso, invece, noi lo vediamo entrare in relazio-

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192   parte prima. eraclito

ne col fuoco mediante l’olfatto – vale a dire: mediante la superficie interna del suo essere (gusto e olfatto sono il tatto dell’epitelio interno). Credo perciò che i due frammenti 67 e 67a debbano appartenere allo stesso periodo della sua vita; ma credo anche che fra essi ci sia stata un’evoluzione, e che perciò non vadano elencati in stretta successione. DK 98 / DS 114 / C 83

αἱ ψυχαὶ ὀσμῶνται καθ’ Ἅιδην. Le anime fiutano l’Ade. Il nuovo dio domestico, dolce e inebriante, del fuoco mescolato agli aromi lo conduce nell’al di là. Liberate dai corpi, e private della vista, le anime trovano così la loro strada. Può sembrare un’incongruenza il fatto che anime liberate dai corpi possiedano ancora il senso dell’olfatto; ma Eraclito qui pensa probabilmente ad una dolce agonia – che è comunque uno stato misto dell’essere. Nei frammenti della città Eraclito aveva già detto (DK 7) che se tutte le cose diventassero fumo gli stolti le distinguerebbero all’istante, con quella facoltà che non manca loro mai di andare dietro ad ogni discorso che sappia di novità. Si vede quanta strada abbia fatto la sua sensibilità, dal tempo di quelle durezze! Vale la pena di menzionare l’opinione di Schleiermacher riguardo a questo frammento, che dal greco hai psuchaì osmōntai kath’áidēn egli tradusse così: «nell’Ade le anime odorano», mettendolo per l’appunto in qualche modo in relazione col frammento DK 7. Eraclito avrebbe così, in generale, privilegiato l’olfatto rispetto a tutti gli altri sensi, in quanto esso sarebbe in grado di percepire in modo «quanto mai esclusivo ed immediato il Divenire stesso» (am ausschließendsten und unmittelbarsten das Werden selbst); ed avrebbe attribuito alle anime una simile eccelsa facoltà proprio allorché esse si trovano nella condizione della massima indipendenza dal corpo – vale a dire nell’Ade. In questa condizione esse non sono che pure esalazioni, «perché infatti [citando Aristotele] l’odore si sprigionerebbe attraverso una specie di fumosa evaporazione asciutta» (weil nemlich der Geruch entstehe durch eine rauchartige trokne Ausdünstung).6 Ma si tratta di due cose diverse, com’è evidente. Schleiermacher

  Schleiermacher, Herakleitos, p. 140.

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4. il ritiro e l’attesa della morte   193

vuole, in realtà, giocare sul doppio senso del verbo tedesco riechen, il quale significa tanto ‘avere odore’ che ‘annusare’, o ‘seguire un odore’ – e attribuisce poi questo doppio senso ad Eraclito (che pure di doppi sensi fa uso, come ben sappiamo da DK 114, o DK 48, e altrove).7 DK 96 / DS 97 / C 105

νέκυες κοπρίων ἐκβλητότεροι. I cadaveri vanno gettati via più degli escrementi. Può avere un significato polemico nei confronti dei culti dei morti, e dei riti delle imbalsamazioni – ma in tal caso non si vede quale possa essere il referente prossimo: perché è chiaro che si rivolge a qualcuno. È più probabile dunque che si riferisca al proprio corpo. E poiché in Grecia l’imbalsamazione non veniva praticata, bisogna pensare che il significato sia quello, traslato, di una conservazione marmorea delle proprie sembianze. Egli rifiuta con sdegno gli onori che potrebbero essergli tributati, dopo morto, da concittadini che non l’hanno meritato. Affida la sua fama non ad un monumento che contenga la sua salma, bensì alla raccolta delle sue ricordanze. DK 124 / D 0 / C 0

σάρμα εἰκῆ κεχυμένων ὁ κάλλιστος κόσμος. Un cumulo alla rinfusa: ecco il mondo più bello! Sia questo cumulo, semmai, il suo monumento.

7   Il doppio significato del verbo osmáōmai è stato riaffermato da Felix M. Cleve, e confutato da Luigi Senzasono, Il frammento 98 D.-K. e la cosiddetta ‘escatologia’ eraclitea, in SH, I, pp. 267-268 nota 5.

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Parte seconda

letteratura eraclitante

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Introduzione

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Pregiudizio politico e giudizio letterario

Per le loro caratteristiche di forte indipendenza di giudizio rispetto all’oggetto, e con riguardo specialmente all’uso delle fonti e all’esiguità della base testuale, alcuni studi su Eraclito non possono essere propriamente annoverati sotto il titolo di ‘letteratura eraclitea’. Simili letture, teoreticamente giustificate o semplicemente incursive secondo il talento, sono altra cosa, creano altra cosa, e non si dovrebbero mescolare con letture di tipo ‘approssimativo’ e periegetico. Non dico che non se ne possa trarre giovamento, niente affatto – se non altro, per lo stimolo euristico o polemico che offrono con le loro ‘occasioni’: l’occasione, per esempio, di osservare una cosa anche da uno specchio retrovisore, o in un innesto più o meno improbabile, o in uno smontaggio di pezzi sparsi che attenda una ricomposizione casuale. Tutto ciò può essere molto artistico, può essere molto creativo, e serve certamente alla nostra vita presente. Dico però che una trattazione che voglia essere chiara e ordinata deve saper classificare la letteratura in grandi partizioni, secondo i gradi di mondanità, di autismo e (diciamolo pure) di esibizionismo della critica. Le letture secanti, tangenti, o di rimbalzo servono per lo più ad osservare l’osservatore: il quale, trattando l’oggetto come una superficie speculare, fa sì che venga egli stesso per conseguenza illuminato da luce riflessa. Il fenomeno della retroilluminazione, che si osserva nell’applicazione di certi metodi d’indagine, può non essere (e di solito infatti non è) del tutto innocente: chi li pratica sforzandosi di non lasciarsi giudicare fa del narcisismo. E se queste immagini dello specchio e di Narciso possono sembrare troppo severe nei confronti di poche celebrità del nostro tempo, e inapplicabili, poi, allo stuolo dei loro più modesti seguaci, diciamo allora più realisticamente così: che mentre la fenomenologia rende visibile un oggetto incognito avvolgendolo in un foglio di carta stampata, l’ermeneutica, poi, si dedica alla lettura di quella stampa. Il significato dell’ipotiposi si chiarirà da sé nel corso dei tre studi che seguono; ma il loro scopo principale non è questo, bensì mostrare come avvenga il sacrificio delle emanazioni dell’oggetto – e peggio che mai, poi, quando l’osservatore pretende di fare nientemeno che dell’ontologia proprio mediante il sacrificio dell’oggetto!

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198   parte seconda. letteratura eraclitante

È in conseguenza di simili motivazioni di fedeltà nei confronti dell’oggetto, o d’attenzione rivolta alle proprietà emanative (per così dire: nel senso che la verità dell’oggetto è una sua debole energia, una fosforescenza o un tepore), che preferisco riservare alla discussione di alcune trattazioni eraclitee, nate su presupposti teorici completamente diversi, secanti tangenti o speculari, una sede separata, senza inframmezzarla inutilmente in ciò che, in una conversazione, diventerebbe presto un continuo battibecco. Il lettore capirà tuttavia facilmente che il tono della conversazione, in questa sede separata, dovrà pure essere talvolta un poco diverso, lasciando qualche posto all’ironia e persino al sarcasmo. Le ragioni dell’ironia derivano dalle differenze di approccio teorico che ho spiegate. Essa non comporta alcun pregiudizio nei confronti di altri osservatori, bensì semplicemente un giudizio su di un diverso modo d’entrare in relazione con l’oggetto, che in qualche misura lo sacrifica mentre impone all’attenzione la personalità dell’osservatore. Le ragioni del sarcasmo, invece, nascono per l’appunto da veri e propri pregiudizi nei confronti degli osservatori, ovvero dall’insofferenza nei confronti degli approcci intellettualistici in genere. Non è prudente premettere qui una definizione di intellettualismo, e neppure un chiarimento sui limiti e le possibilità di uso del termine (un simile chiarimento non servirebbe a niente, dal momento che soltanto un idiota si legherebbe le mani con una definizione senza scioglierle all’occorrenza per esprimere ciò che sente). In una qualsiasi trattazione, del resto, la ricorrenza in una mezza dozzina d’occasioni di simili termini lascia capire da sé, di solito, il loro significato o la particolare accezione d’uso. Diciamo però, tanto per abbreviare l’attesa, che sotto questa insegna di ‘intellettualismo’ io intendo il processo di sviluppo senza progresso di gran parte della filosofia contemporanea, vale a dire post-kantiana, compreso il capostipite. Non dando seguito ad alcuna discussione non vorrei sembrare arrogante; ma mettendo innanzi almeno una spiegazione, tanto per capirsi, voglio essere leale verso il lettore o la lettrice – questo sì. Mentre scienza arte musica e letteratura sono passate da un’epoca all’altra per larghe strade e per mille rivoli, io mi rifiuto di credere che per la filosofia soltanto (e per la filosofia di due secoli come il Seicento e il Settecento, poi!) sia stata una fortunata eccezione, o un prodigio, il fatto di essere dovuta passare attraverso il buco della serratura di Königsberg, e per le teste di topolini che hanno partorito montagne. Il giudizio resta valido anche se (e anzi proprio perché) è un fatto innegabile che gl’intellettuali accademici di una nazione si sono ingegnati, con caratteristica laboriosità, a rifare il pensiero moderno secondo una maniera che, per assunti e per linguaggio, da cosmopolita diventa sostanzialmente autoctona – e non tanto in senso nazionale, quanto soprattutto in senso professionale. Meglio dunque esser subito chiari.

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pregiudizio politico e giudizio letterario   199

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*** Con i tre studi su Eraclito che qui di seguito verranno discussi si potrebbe delineare (esagerando soltanto di poco) nientemeno che la biografia accademica di una nazione attraverso tre studiosi appartenenti a tre generazioni: la Germania del Secondo Reich, del Terzo Reich, e della Guerra Fredda in prossimità della sua fine. Quesiti simili non si pongono mai in questi termini con la pretesa dell’obbiettività innocente, estemporanea, di un qualsiasi problema scientifico. È chiaro che deve esistere, presente alla mente di chi scrive come di chi legge, una questione aperta (che fa da sintesi a priori generale) relativa ad una città cosmica – in questo caso: il problema tedesco nel Novecento; e poi devono anche esistere i tre studi monotematici meritevoli d’esame, che facciano da via d’accesso letteraria al problema politico. Anche l’Italia ha costituito un problema per la città cosmica del Novecento – ma come il lettore ha visto nell’Introduzione e nel commento ai frammenti non ho ritenuto di dovere, né del resto potere discutere su di una trilogia eraclitea italiana: non si offre in Italia, anche volendo, una campionatura in grado, nel bene e nel male, di sostenere il ruolo di letteraria via d’accesso a simili prospettive politiche. Una simile carenza, in sé, può anche non essere affatto deprecabile: perché il moltiplicarsi degli studi secondari e della carta stampata, unicamente in quanto tale, può giovare alla sola industria parassitaria del commento, ad una scienza che vive soltanto di se stessa e non dà frutti che per conoscere, ex post, soltanto se stessa. Nel suo narcisismo non soltanto vanitoso, ma anche scrupoloso, doveroso, inevitabile, questa scienza ha ormai raggiunto i limiti della nausea – o della pura e semplice impossibilità umana, come mostrano le bibliografie eraclitee. A giovarsene davvero non può essere invece, per reazione, che l’istinto del raccoglimento, dell’indipendenza del tutto euristica del giudizio e del partire dal sentimento unito di sé e dell’oggetto. Come dirò alla fine di questa presentazione della Parte Seconda, i tre studi qui prescelti meritano l’attenzione loro dedicata, indipendentemente dai contenuti, proprio perché mostrano ciò che si possa fare andandosene risolutamente per la propria strada, senza gli scialbi cabotaggi snobistici, ammiccanti, persino roditori e servili, che sono diventati un po’ la caratteristica degli studi filosofici italiani dopo il ricevimento delle stimmate nel clima triplicino che ha creato la nostra scuola contemporanea. L’interpretazione del pensiero eracliteo che vi si propone è filologicamente del tutto insostenibile – e nondimeno essi sono lì, pubblicati perché c’è chi li legge, esaminati perché bisogna pure smentirli. E però, intanto, sono lì, con la forza del loro opinione, del loro forte sentire, e del loro pregiudizio.

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200   parte seconda. letteratura eraclitante

Ho detto e dirò da un capo all’altro di questo libro che la filologia intelligente non sembra sapersi dotare di simile opinione, di analogo forte sentire e di paragonabile pregiudizio: i quali fanno invece sortire studi filosofici, diciamo così, in qualche modo inevitabili (anche se lo scopo dell’esame che seguirà è proprio quello di convincere il lettore a metterli da parte!). Ho detto e mostrato nell’Introduzione che questa debolezza si manifesta già, fin dalle origini della critica eraclitea contemporanea, nella filologia di Schleiermacher messa a confronto con la (diciamo così) efficacia demagogica di Hegel. Qui vorrei accennare brevemente ad un altro aspetto, assai più generale, della questione del rapporto fra politica e letteratura, in modo da fare avvertito il lettore circa il senso e la motivazione complessiva dei tre studi che seguiranno. Il rapporto fra politica e letteratura è governato dall’analogia platonica fra i due libri della città e dell’anima, stabilita nella Repubblica. Platone era convinto che per riuscire a leggere nel libro scritto a piccoli caratteri del cuore umano si dovesse prima leggere il libro della città, scritto a caratteri grandi. È ancora vero e utile, nel nostro mondo moderno, questo tipo di approccio? Io credo di sì – ma in misura assai ridotta rispetto all’antico; mentre sono convinto che valga assai meglio stabilire la medesima analogia nella direzione inversa. Muovendo dalla città verso l’anima Platone propose una soluzione analogica unidirezionale che a lui, e ai suoi contemporanei, dovette sembrare naturale. Ciò si spiega con i due caratteri principali della letteratura antica – che sono: la mancanza di carattere nazionale, e la mancanza d’interiorità. Entrambi questi caratteri sono invece posseduti dalla letteratura moderna, e la caratterizzano rispetto all’antica: se è vero che noi non abbiamo più un Eschilo, è vero che il mondo antico non possiede alcunché di paragonabile a Petrarca, a Shakespeare o a Dostoievskij. Leggiamo Goethe come capostipite indiscusso di una letteratura nazionale, e leggiamo Flaubert come uno dei più intelligenti conoscitori del cuore umano. Poi guardiamo al sorgere e allo sviluppo trionfante degli Stati moderni, e alle giustificazioni delle ragioni di Stato sulle quali si affaticano gli storici e gl’ideologi. Domandiamoci se sia ancora vero che il libro scritto a caratteri piccoli è il libro dell’anima, e che l’accesso vi sia facilitato dalla lettura del libro a grandi caratteri della politica. Io credo di no. Credo che ormai sia vero il contrario, e che lo studio dei poeti possa lasciare intuire in modo discutibile i caratteri specifici della politica – non come effetto di un ‘clima’ storico, come si dice (che ripristinerebbe il senso unidirezionale dell’analogia platonica), bensì soprattutto in quanto nella poesia si vengono a rivelare i caratteri di una costituzione antropologica nazionale, o più brevemente una mentalità nazionale. Vi sono casi in cui la letteratura non fornisce soltanto

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pregiudizio politico e giudizio letterario   201

un florilegio d’indizi per la politica, o il ritratto di una personalità immaginaria, bensì presenta essa stessa come una città: nella Commedia di Dante è impossibile distinguere vizi virtù e penitenze, se non vedendoli organizzati come una metropoli (e qui è del tutto impossibile sancire la distinzione fra ciò che è ‘interno’ e ciò che sarebbe ‘esterno’, fra poesia e non-poesia); e lo stesso fenomeno si presenta nello spettacolo del Seicento manzoniano, o in Victor Hugo, o in Tolstoj. Le prime grandi opere sistematiche della filosofia contemporanea possono non meno esser descritte come il fitto pullulare di una metropoli: con le sovrapposizioni di un’archeologia girovaga la prima Critica kantiana osservata dall’alto; coi costrutti babelici l’enciclopedia e la fenomenologia hegeliana vista dal piano. Il lettore capirà ora più facilmente quale sia il tipo di logica che mi ha spinto alle tre analisi che seguiranno; e capirà, spero, perché esse costituiscano tre saggi di dichiarata approssimazione estetico-politica. Potrà obbiettare che, una volta ammessa la problematicità prepotente del nesso Germania-Novecento, ogni attenta lettura esercitata su cose tedesche, benché stravaganti, diventa, o è comunque, di fatto, un giudizio politico sugli sviluppi di una personalità immaginaria. È così, infatti. E se anche questa volontà d’approssimazione non fosse dichiarata mediante anticipazioni che spero non siano noiose, essa sarebbe sempre presente come un pensiero direttivo lontano, o come un innegabile pregiudizio. Mi è sembrato non del tutto inutile, perciò, spiegarlo. Ma proprio per essere del tutto chiaro, mi preme non meno spiegare che l’approssimazione del giudizio implicito ha pure un’altra faccia: quella della ricerca, nella letteratura di qualunque genere e di qualsivoglia nazione, di una parte caratteristica dei lineamenti di un’integra ed astratta umanità, che esisterebbe per il resto, fuori di quei lineamenti, soltanto come genere o essenza insensibile. *** Non diversamente da Eschilo, anche Eraclito fu uno dei tanti ottimati che si trovarono costretti ad accettare la democrazia come processo ineluttabile. E nelle tre interpretazioni del suo pensiero che qui di seguito esamineremo si assiste pressappoco al verificarsi dello stesso fenomeno in tre intellettuali accademici del Novecento tedesco in momenti e modi diversi. Al di là di una quantità di schermi psicologici, di depositi storici e politici, o di filosofemi, è insomma il problema della democrazia che li accomuna con l’Oscuro. Spengler si avvicina ancora riluttante alla soglia, che poi varcherà quando dopo la guerra giudicherà la democrazia e la modernità dei mali necessari. Una generazione dopo, Heidegger ha già oltrepassato di slancio quella soglia, con

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202   parte seconda. letteratura eraclitante

la pretesa di gettarsi addirittura oltre la democrazia, come rappresentazione la più astratta della politica, direttamente dentro al substrato latente, indifferenziato e casuale, comune, dell’uomo come essere sociale; e in netto contrasto con l’albagìa di Spengler in lui noi assistiamo alla compiaciuta presentazione di un Eraclito umile e ozioso – l’uomo comune più adatto abitatore di quella città dell’Essere col cui nome è stata ricamuffata l’intramontabile Sostanza. E con un altro slancio iperbolico, ma nella direzione opposta, in una Germania completamente diversa, infine, Gadamer cerca nella recezione paleocristiana della tradizione eraclitea il senso più generale dell’essere uomo nell’umanità. Ciò che si perde nei tre casi è il centro, è la politica come dimensione cittadina della vita di Eraclito; e anche Spengler, che sembra proporla mediante l’equivoco dell’altezzosità, non pensa ad una posizione di stato sociale, bensì accademico. In ragione simmetricamente inversa rispetto al progresso storico dell’idea democratica, nei tre studi che esamineremo, e nelle tre generazioni, noi vediamo via via recedere l’idea dell’impero. Essa è ben presente (e non solo come idea) nell’immaginosa sensibilità gerarchica del giovane Spengler; diventa cosa diffusa e affatto demagogica negli abbandoni politici di Heidegger; e si volatilizza infine quasi del tutto nel senso cristiano dell’umanità di Gadamer, lasciando soltanto una piccola traccia (io credo) in una menzione del tutto superflua di Agostino – il quale meglio dei neoplatonici, effettivamente, seppe fungere da vero teologo dell’Impero. Che la democrazia come forma politica di generica cittadinanza abbia una stretta affinità con l’impero sentito come una città cosmica è cosa che poteva sembrare assurda soltanto ai sudditi di un impero sostanzialmente amministrativo come il Secondo Reich. Il secolo dell’America ha dimostrato che impero e democrazia possono giungere persino ad identificarsi – a condizione che l’idea dell’impero cambi; e a me non sembrerebbe affatto esagerata l’ipotesi di descrivere tutto quanto il Novecento come un secolo di trasformazione, per conversione, dell’idea imperiale in democrazia, dopo che l’Ottocento ha visto invece concludersi fino alle ultime conseguenze l’affermazione dell’idea dello Stato iniziata nell’età moderna. Potrà forse fare sorridere l’idea futuristica di descrivere l’età contemporanea come l’inizio di un analogo processo plurisecolare, che potrebbe portare nel giro di poche generazioni ad una solida affermazione egemonica dell’impero democratico. Potrà fare sorridere – ma è un fatto che al principio del XX secolo noi vediamo il tentativo tedesco di conquistare l’egemonia sul secolo mediante la propugnazione della superiorità amministrativa del Reich, mentre all’inizio del XXI noi vediamo affermarsi una democrazia sovranazionale che è di fatto un impero governato da legami

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pregiudizio politico e giudizio letterario   203

deboli, solubili o solvibili, gravitanti attorno al sentimento di uno stile di vita e, comunque, non amministrativamente vincolanti. Sono due idee d’impero diametralmente opposte; ma questa seconda, gravitativa, non è affatto estranea al mondo tedesco – anzi: fu già semplicemente l’idea dell’Impero Romano-Germanico; e ciò potrebbe spiegare qualche reviviscenza dell’interesse degli studiosi nei confronti del Primo Reich nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Alle ragioni di un possibile interesse rivolto invece verso il Secondo Reich ho appena accennato: si tratta di farne il capo opposto, logico e cronologico, dell’impero americano. Ma questa ragione d’interesse non basta: perché se è vero che da un paio di generazioni, ormai, noi ci avviamo probabilmente verso una lunga éra di democrazia internazionale, che vedrà l’affermazione di quest’impero non-gerarchico e non-amministrativo almeno in quella città cosmica che si chiama Occidente, il problema del suo capo opposto all’origine del Novecento rischia di diventare antiquario se lo s’intende soltanto come problema storiografico. La presenza del Secondo Reich è invece logica e ideologica, sempre attuale. Logica a lungo termine, in primo luogo, perché l’intuizione del suo tipo o carattere può giovare ad una migliore definizione, per contrasto, di un tipo opposto d’impero che si verrebbe delineando per le generazioni future. Ideologica, poi, e di grande attualità immediata, a causa dell’ascesa geopolitica della Cina. Nessuno può fingere d’ignorare che l’affermazione mondiale di una potenza autoritaria come la Cina all’inizio del XXI secolo non ponga, pressappoco, gli stessi problemi posti dalla Germania all’inizio del XX. Se il motto: ‘Ordine e Progresso’ stesse scritto soltanto sulla bandiera del Brasile, noi (con tutto il rispetto) potremmo anche non darci troppo pensiero di difendere il nostro ‘Libertà Uguaglianza, Fraternità’, illuministico e rivoluzionario. Ma se ‘Ordine e Progresso’ diventa il vessillo della Cina, com’è perfettamente plausibile che sia, allora le cose evidentemente cambiano; e questo motto, senza illuminismo e senza rivoluzione, potrebbe anche candidarsi (e di fatto silenziosamente già si candida, forse) a guidare la filosofia politica del secolo ch’è da poco iniziato. Ora, a me sembra ammissibile che, come oggi potrebbe ipoteticamente comparire scritto sulla bandiera cinese, così il motto ‘Ordine e Progresso’ sarebbe già potuto benissimo figurare scritto sul vessillo del Secondo Reich. Ciò ripropone in modo niente affatto antiquario, bensì con piena attualità analogica, il problema della sfida circa l’egemonia sul Novecento che nel 1914 fu gettata da una potenza emergente come la Germania. Mi avventuro anzi persino a supporre che l’esito (fortunatamente, a mio gusto) negativo dei due tentativi egemonici del ’14 e del ’39 sia stato in buona parte dovuto all’incapacità tedesca di contrapporre alla formula illuministico-rivoluzionaria francese una triade

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di valori altrettanto potente ed altrettanto chiara, che facesse presa sull’immaginazione consenziente dei popoli. Neppure i simboli che comparvero poi, e che svolsero un ruolo particolarmente efficace nell’azione del Terzo Reich, furono accompagnati da alcuna formula o triade. Perciò il problema principale relativo alla propugnazione di una soluzione autoritaria, non totalitaria, sul piano internazionale rimane pur sempre quello del Secondo Reich: comunque le si voglia giudicare, nessuna delle aberrazioni o distorsioni ideologiche più importanti del Terzo furono sconosciute al Secondo, dal grembo del quale rinacquero per semplificazione agitatoria; e lo stesso pregiudizio razziale, che svolse un ruolo fondamentale nell’azione del Terzo, ma non del Secondo, non fu tuttavia che l’estrema semplificazione di un canone etnico-gerarchico già disponibile da più generazioni. La continuità fra i due regimi è dunque l’aspetto prevalente; e non credo che essa possa venire messa in discussione mediante il riferimento ad un’ideologia razzistica specifica, antisemita, che costituirebbe la loro sostanziale differenza. È invece proprio il tentativo d’instaurare un’egemonia gerarchica europea, che conta. Il razzismo fa parte necessariamente del suo programma – non necessariamente, però, l’antisemitismo; e uomini come Fermi avrebbero potuto benissimo consegnare l’arma nucleare nelle mani di un nazifascismo purgato dalle più odiose e criminali demenze antisemite. Una corrente d’opinione, diffusa anche fra gli studiosi, giudica che il problema capitale del Novecento sia stato ‘l’Olocausto’, come lo si chiama. In tal modo l’attenzione rivolta al progetto di pulizia etnica generale si viene a restringere su di una sola vittima privilegiata, abbandonando altri sacrifici, di fatto, all’oblio; e si offre per giunta la possibilità di una riabilitazione del Secondo Reich proprio in conseguenza di questa speciale esecrazione del Terzo. Si trascura di considerare, in tal modo, che la barbarie del Novecento sono stati non solo i sei, bensì i settanta milioni di morti di un’unica guerra civile europea; e circa l’opposizione al regime antisemita hitleriano (che non è necessariamente, si badi bene, opposizione al nazionalsocialismo) si omette di specificare che essa può ben essere antidemocratica, e di fatto riabilitatrice di un originario progetto d’impero continentale gerarchico e autoritario: quello, per l’appunto, del Secondo Reich. Nient’altro pressappoco ebbero in mente, del resto, i congiurati del 20 luglio. Ciò aiuterà il lettore a comprendere meglio l’acrimonia della mia critica nei confronti di uomini come Spengler e Heidegger. È su questo progetto originario, che fu poi criminosamente deformato, che deve vertere la discussione, dunque; e il suo problema puramente ideologico viene oggi riproposto, come ho detto, dall’ascesa mondiale della potenza cinese come possibile modello di regime.

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Il bisogno di effettuare una qualche propugnazione ideologica distingue nettamente l’ascesa della potenza autoritaria tedesca rispetto a quella cinese agl’inizi dei due rispettivi secoli. Ma la formula, come ho detto, in entrambi i casi non c’è. Ci si potrebbe allora sbizzarrire sulle possibilità di completare il binomio ‘Ordine e Progresso’ con un terzo termine, in modo da formare due triadi da opporre al motto rivoluzionario francese nei due rispettivi casi: guglielmino e cinese. Ciò renderebbe alquanto più interessante, persino divertente, il gioco delle differenze. Poiché in un regime autoritario è implicito che l’ordine debba essere gerarchico, sarebbe superfluo inserire fra ‘Ordine e Progresso’ la parola ‘Gerarchia’; e credo che questa sia la semplice ragione per cui essa non ebbe bisogno di comparire nei programmi o negli obbiettivi circa il futuro ordine europeo da instaurarsi sulla pace vittoriosa, intorno al quale Bethmann-Hollweg confusamente si affaccendò sotto la spinta delle più diverse sollecitazioni. Se obbiettivi e programmi di ordine gerarchico non furono propagandati, insomma, ciò si deve al fatto che per la mentalità imperiale dei circoli dirigenti tedeschi la cosa era di per sé ovvia. Il motto ‘Ordine, Cultura, Progresso’ avrebbe potuto invece esprimere abbastanza bene, io credo, e anche nei suoi aspetti migliori, un programma tedesco d’egemonia europea nel 1914. E io dubito che una propaganda chiara e risoluta, se posta in questi termini, sarebbe rimasta inefficace. Ma bisognerebbe domandarsi, allora, se la formula triadica anti-illuminista anti-liberale e anti-democratica non fu escogitata, o comunque non sortì fuori, perché i gruppi dirigenti tedeschi preferirono prendere la via della propaganda vittimista, anziché quella della propugnazione di princìpi. La formula non sortì, insomma, perché essi preferirono parlare di una pretesa aggressione subìta o incombente – e in tal modo presero a modello proprio la posizione della Francia rivoluzionaria di centovent’anni prima. Oppure bisognerebbe domandarsi se, viceversa, la via della propaganda vittimista fu presa semplicemente perché una formula come ‘Ordine, Cultura, Progresso’ non fu escogitata, o comunque non sortì fuori dall’ingegno dei pubblicisti addetti alla propaganda. Ora, io non credo che un vasto progetto mondiale possa fallire per il cattivo funzionamento di un ufficio dello stato maggiore (un’idea simile passò per la testa di Gerhard Ritter); ma penso anche, d’altra parte, che un libro come Libertà e forma, che Cassirer scrisse mentre era, per l’appunto, addetto all’ufficio della propaganda di guerra, non sia potuto nascere per caso, per malinteso, o per incarico di alcuno. Cassirer scrisse quel libro per sé, per darsi una ragione di ciò che accadeva e che egli stesso faceva. Al tempo stesso, lo scrisse per altri: per dare all’Europa il senso della candidatura tedesca all’egemonia. Ma ‘Libertà e Forma’ è motto troppo cólto, che non potrebbe stare scritto su

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alcuna bandiera – e in ogni caso è motto binomiale: è lecito sospettare qui il ricorso all’omissione, o l’uso di una reticenza programmatica. E la reticenza effettivamente c’è, nel libro di Cassirer: il cui contenuto di storia della cultura risponde, in definitiva, ai requisiti di una tacita proposta tedesca di spartizione fra dominio delle terre e dominio dei mari, rivolta all’Inghilterra. Il terzo termine mancante, da inserire fra i suoi due titolari, mediante i quali egli ragiona e discetta, potrebbe dunque essere in questo caso: ‘Condominio’. Intanto, in quegli stessi anni, nella Montagna incantata Thomas Mann non seppe rendere ragione al ruolo civilizzatore europeo della Francia, presentata sotto mentite spoglie come sola fucina di barbarie moderna. La sua fu una reticenza complementare rispetto a quella di Cassirer – ma senza alcun possibile esito al fine del completamento dello slogan, mi pare (a meno che, celiando un poco, non si voglia parlare di ‘Libertà, Forma, Omissione’). Il caso dell’autoritarismo cinese oggi è diverso, innanzitutto perché al sogno di avere il proprio secolo manca in questo caso completamente una qualsiasi propugnazione ideologica, nonché la volontà di far seguire alle idee i fatti sul piano militare; e poi perché il terzo termine ‘Cultura’, immaginariamente frapposto nel motto ‘Ordine e Progresso’, in Cina è sì largamente attinente, per un verso, al significato etnico tedesco, ma è anche assai più decisamente flesso verso un significato d’imitazione e di modernizzazione, verso il quale il Secondo Reich (impegnato semmai, come ogni altra nazione europea nell’epoca dei nazionalismi, a darsi uno stile e ad imitare se stesso) non mostrò invece alcun interesse. ‘Ordine, Imitazione, Progresso’ potrebbe descrivere dunque il significato dell’ascesa del modello autoritario cinese nel nostro tempo – e lo dico senza la minima intenzione di fare dell’ironia: non consiste proprio nell’osservazione e nell’imitazione a scopi di virtuosa emulazione, in definitiva, l’insegnamento leibniziano sul perfezionamento delle personalità? *** Comunque si preferisca risolvere l’indovinello del terzo termine della formula, in ogni caso rimane attuale il quesito circa la sfida che nel mondo contemporaneo s’è venuta di fatto ad aprire fra princìpi egemonici contrapposti. Il Terzo Reich non ha la credibilità di un modello proponibile, mi sembra – è soltanto un problema storico, ormai: inutile perciò farne un oggetto di estetica politica. Ma in quanto se ne può mondare il fatto storico, ed estrarne il meglio possibile, a me sembra inevitabile di doverne ricavare il Secondo – del quale tuttavia si discute assai meno semplicemente a causa di una maggiore predilezione degli studiosi per gli studi storici di grande mercato. Ora, propo-

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nendomi di assumere invece una posizione del tutto diversa (perché ciascuno usa, dopotutto, l’ingegno che si ritrova), il mio compito, qui, non è quello di ribadire i pregiudizi della democrazia nei confronti dell’autoritarismo della migliore marca tedesca (e tantomeno cinese), bensì di mostrare come sia possibile seguire, nella successione di tre cospicui momenti monotematici della cultura accademica tedesca, l’evolversi, e lo sprofondare o il sublimarsi, di un pregiudizio antidemocratico. Eraclito è l’oggetto comune di questo pregiudizio – ed è bene dire subito che, a dispetto della vistosa evoluzione alla quale ho già accennato (dal rifiuto preliminare, all’abbraccio demagogico, all’universalismo irenico), anche il pregiudizio rimane tuttavia uno solo fino alla fine. Esso consiste, come ho detto, nel fermo rifiuto di fare di Eraclito un cittadino democratico. Non credo minimamente, in certi casi, ai cosiddetti doveri professionali, o ai limiti disciplinari di competenza, i quali richiederebbero agli accademici di porre quesiti in termini esclusivamente tecnici, e ai filosofi di occuparsi soltanto delle idee astratte. No: se Eraclito è soltanto l’aristocratico sdegnoso del popolo, se è soltanto il pensatore oscuro dell’oscuro inizio, se è soltanto il cripto-teologo del Lógos tramandato dai testimoni neoplatonici o paleocristiani, ciò non avviene perché gl’interpreti accampino con umiltà o con sussiego le ragioni di un loro preliminare difetto professionale di sensibilità nei confronti della vita empirica: dei tiranni e delle assemblee, degli animali e dei morti, di archi e lire, pesci e chirurghi, vizi e miti malintesi. Heidegger è l’unico dei tre che si rinvoltola un po’ fra queste cose per il tempo strettamente necessario a menzionarle, prima di effettuare i suoi balzi empedoclei nel fuoco. Al contrario: tutti e tre non hanno nulla da accampare o da confessare perché in ogni caso essi sono certi di andare più in là, e di cogliere il vero nel dato di fatto e il pensiero essenziale nel mero pensato. Che ne è dell’ostacolo, superato d’un balzo? Che cosa ne resta, se non un’asticella? Non ho esitazioni nel definire un simile atteggiamento come una pratica, diciamo così, di snobismo di slancio. Soltanto in Gadamer è presente un certo ritegno puramente metodico dello snobismo – ma promosso, archeologicamente, a culto dell’ultimo venerabile testimone della Verità; ed Eraclito esce dalle sue mani, se possibile, ancora più lontano da ciò che fu. Fra Spengler Heidegger Gadamer, nello spazio di tre generazioni si attuano riduzioni, identificazioni e trasposizioni diverse rispetto all’oggetto. Possiamo ordinarle così, dicendo che sono altrettante forme di autonomia del giudizio: autonomia rappresentativa (che conserva l’unità immaginaria dell’oggetto), autonomia fenomenologica (che conserva l’unità esibizionistica del soggetto), autonomia ermeneutica (che conserva l’unità disciplinare della testimonianza).

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E naturalmente non sono le sole possibili, perché esistono anche autonomie d’approccio che conservano unita la materia, o il senso della forma, o la tecnica, o il postulato dogmatico, e simili; ma qui esse sole verranno esaminate, principalmente perché hanno trovato in Eraclito un oggetto d’esercizio comune, che le illustra in una successione che a me è parsa decisamente brillante. Si tratta di un pregiudizio proprio di ciascuno dei tre, dunque, risolto secondo un costume accademico e nazionale: attivisticamente. E si tratta anche, indubbiamente, di un pregiudizio mio nei confronti di questo costume: non intendo affatto negarlo – anzi: a scanso di equivoci desidero precisare che nella critica del pregiudizio è contenuto anche il riconoscimento della sua validità come presupposto sentimentale di ogni originalità creativa. Chi studia Eraclito deve mettere ciò che sente alla prova della sua parola, innanzitutto. È pericoloso praticare la lezione di Montaigne senza quella di Valla. Ma l’approssimazione alla verità del testo è anche un’approssimazione a se stessi; e il risultato, se questo avviene, è sempre originale, interessante e persino scandaloso o ridicolo. Non importa. La filosofia contemporanea è piena di cose ridicole o penose: dalla deduzione trascendentale kantiana al ribaltamento di ogni problema nella sua immediata soluzione praticato nei saltelli di Heidegger, per esempio. Se ciò che qui di seguito verrà svolto è un’analisi di tre significative riduzioni e trasposizioni dell’oggetto, dunque, non si può neppure fingere d’ignorare che esse sono sorte, e vengono ancora lette e commentate, in quanto sono, prima d’ogni altra cosa, tre diverse forme d’identificazione con un personaggio. Nei tre studi che verranno noi non ci accingiamo a discutere di tre imitatori, bensì pur sempre, in qualche modo, di tre originali. Originali accademici, e un po’ tipi comuni, sì – ma accademici senza dubbio emotivi, che si sono accinti alla scrittura perché mossi da pregiudizi e passioni, e senza neppure farne troppo mistero. Accostandosi ad Eraclito, ciascuno ha dato un saggio di sé. È vero che Eraclito è il tipico autore della parola riferita, della parola non sua: non esiste un suo pensiero che non sia contenuto in un giudizio altrui. Esso si presenta dunque come giudizio di giudizio. Ciò può portare, e porta non di rado, alla conclusione di dovere svolgere su di lui un lavoro esclusivamente tecnico. Si può anche apertamente asserire che ogni nostra conoscenza dell’antico in generale (e persino di un qualsiasi passato, anche recente) è sempre una conoscenza in qualche modo mediata, e consegnata da altri autori che fanno da garanti e testimoni. Che senso avrebbe parlare di originalità ed in particolare di saggistica, allora? È impossibile avere un sentimento di Eraclito, come cosa in sé, allorché ci accostiamo a lui attraverso la venerabile grandiosità storicizzata di un Platone, di un Aristotele, di uno stoico o di un

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neoplatonico. Il centro sentimentale della coscienza viene in tal caso a traslare su questo mediatore, ed esso farebbe da centro fuori di noi e fuori dell’oggetto incognito. E se non ha iniziato a leggere il mio libro da questa introduzione alla Parte Seconda (come sarebbe pur lecito, talvolta consigliabile), il lettore conosce già dall’introduzione alla Parte Prima quanta fatica ci vuole per liberare Eraclito dalla tutela di una lettura come quella stoica, con la quale m’è sembrato più necessario di dovermela prendere. Sono convinto che una logica metodica d’interposizione, che si pretende puramente tecnica, vada combattuta – sempre che ce ne sia veramente il bisogno. Ma sono altresì convinto che ben peggiore di essa sia la logica della subgravitazione planetaria fredda (priva, cioè, di un sentimento di sé e dell’oggetto) attorno a dei temibili interpreti: la quale logica è invece un deprimente costume dell’accademia filosofica compradora italiana – e di combattere questa logica io credo che ci sia effettivamente molto bisogno. Che ne è del principio dell’imitazione, in questo caso? I sentimenti di sé e dell’oggetto non si possono imitare – ci sono, o non ci sono. La Cina non comincerà a produrre i drammi, i romanzi, la poesia d’amore che non ha prodotto in migliaia di anni soltanto in virtù di un assoggettamento imitativo ai modelli occidentali: non è questa virtù della sottomissione in quanto tale, interpretata senza genialità e senza autonomia, in senso gerarchico, in grado di suscitare sentimenti creativi. Lo stesso non potrà accadere per la filosofia italiana – a meno di produrre, come accade, un’intensificazione della vita degli studi senza scopo e senza progresso. S’intende che l’attivismo precoce esercitato sull’oggetto uccide sul nascere una condizione germinativa delle idee (quella che Eraclito trovò nell’eremitaggio), mentre un attivismo dell’applicazione delle idee altrui le lancia su di un’orbita teoretizzante iperbolica, destinata a perdersi nel nulla della letteratura secondaria. I caratteri delle letterature nazionali, e in primis della filosofia (che è letteratura, a tutti gli effetti, malgrado si guardi bene dall’ammettere il confronto) sono il risultato della varia misura in cui si conciliano simili condizioni opposte di spirito. E a me non pare dubbio che, dall’esame dei tre saggi che seguiranno, a dispetto di tutte le ironie e di tutti i sarcasmi possibili, dei quali non sono stato parco e che ho voluto giustificare, ci venga pure, d’altra parte, una lezione di fermezza di coscienza e di risolutezza d’opinione e di scrittura: l’esempio di tre uomini che hanno saputo trovare il raccoglimento del sentire nel mezzo dell’intensità della vita, e del percepire e dell’osservare nell’imitare. Benaccetta o no, la loro letteratura è un fatto compiuto, è cosa data sulla quale ancora si discute come qui stiamo facendo. E chi difende i tre princìpi della democrazia non dovrebbe disperdere l’unità sentimentale del

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soggetto nella molteplicità delle sue relazioni pubbliche, come di fatto accade; né deve, per conseguenza, sottovalutare l’importanza di quel primo principio autoritario della nostra personale costituzione, il quale consiste nel dotarsi di uno stile di raccoglimento e nel ripartire da sé. *** Il partire da sé è problema a sua volta. Se noi ammettiamo che la conoscenza dell’oggetto sia sempre in qualche modo mediata (e la conoscenza di Eraclito, come di altri simili autori, lo è sommamente), non basta che, sul piano speculativo, noi classifichiamo e magari gerarchizziamo le forme tecniche della mediazione e dei rimedi metodici nell’approccio. Una logica che non voglia rinunciare all’approssimazione all’oggetto deve anche sapere ammettere francamente il ruolo che nella conoscenza gioca l’unità radicale e sentimentale di sé, oltre al sentimento dell’oggetto, dal quale è talvolta a tutta prima indistinguibile: la prima spinta alla scrittura nasce infatti proprio dalla sorpresa di un’identificazione o di una repulsione. Si tratta di un risveglio degli umori corporei nella lettura – e noi, di corpi, ne abbiamo diversi altri, oltre al nostro: nazionali ed etnici, storici e consuetudinari, professionali e corporativi, sociali e ambientali. Non è detto, per giunta, che il pensiero stesso non possa diventare un secondo corpo, e che noi non ragioniamo mediante strumenti e in circostanze che costituiscono il principale intralcio al pensiero. Chi vuole porre problemi di mediazione del giudizio, o sollevare questioni d’interposizione nella conoscenza dell’oggetto, deve aggiungere, quanto meno, la psicologia o la sociologia o l’antropologia degl’intellettuali alla loro storia. Il filosofo deve sapere che porre il problema dell’oggetto soltanto in termini accademici di mediazione d’autori e di letteratura, nonché auspicare una sua ricreazione nell’interpretazione, non significa che aggiungere l’ennesima pretesa all’ennesima reticenza. Ciò che si chiama ‘essere’ è innanzitutto ciò in cui ci troviamo, noi stessi, di già sprofondati, divisi per specie o per parti: il nostro ‘essere nel pensiero’, o il nostro ‘inizio’, se così lo si vuole chiamare, è il pregiudizio nel quale riposiamo. La specie e la parte fanno del pregiudizio qualcosa di naturale oppure di acquisito, d’istinto oppure di scuola; ed esso gioca perciò un duplice ruolo, simmetricamente opposto, nella costituzione di un essere complesso: la ‘soggettualità’ di un simile essere, ovverosia la gravità e l’oscurità nelle quali esso rimane soggetto innanzitutto a se stesso, può consistere tanto della sua dimensione antropologica fisica e storica, quanto, e non meno, di quella intellettuale. Diciamo in tal caso, e si dice, che le ideologie hanno il loro ‘peso’.

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pregiudizio politico e giudizio letterario   211

Attraversare da un capo all’altro, in tre salti, la storia del Novecento facendo di Eraclito il caso esemplare di un oggetto incognito, col quale si possono esercitare i propri virtuosismi teoretici relativi ad una metodologia di rappresentazione, d’immedesimazione, di ricreazione dell’oggetto, senza sollevare quesiti relativi al ruolo d’interposizione del pregiudizio, significa fare cosa poco saggia, e poco saggistica. Questo, a me pare, è il limite principale dei tre studi che esamineremo: un limite accademico di forte parzialità nell’accesso all’oggetto, un limite di stile e di genere letterario. È un difetto comune, questo, italiano e tedesco, che consiste nel fare del pregiudizio un prodotto del raccoglimento soltanto nelle forme della complicità corporativa. Il pregiudizio cambia: può essere gerarchico, speculativo, metodologico – ma il risultato non cambia, perché il consenso ottenuto per omertà accademica è il medesimo. Altra cosa è il raccoglimento che si esprime nell’opinione saggistica, nella quale è impossibile distinguere il sentimento di sé dal sentimento dell’oggetto. La saggistica sarebbe potuta nascere, e anzi effettivamente è nata a malapena, proprio in Italia, con Petrarca – mentre non è il caso di cercare paragoni col caso troppo singolare di Boezio, che in verità perpetua il genere marcaureliano della memoria nel senso (poi) della ‘ricordanza’ guicciardiniana; e io credo, come ho detto più volte, che i pensieri eraclitei facciano da capostipite proprio a questa tradizione. Montaigne trovò il nome al ‘saggio’, e gli spalancò la via – ma un confronto fra la vita irrequieta di Petrarca e la vita di Montaigne fornisce due ipotiposi originarie di una chiarezza lampante, mi sembra, su due opposte antropologie intellettuali. La pervicace inclinazione ‘politica’ dell’intellettuale italiano, la sua dipendenza da una metropoli reale o immaginaria, diventa troppo facilmente un bisogno di farsi accettare e di farsi ben giudicare: si trasforma troppo rapidamente in un cattivo cosmopolitismo che lo induce alle imitazioni, alla perdita del raccoglimento e alla dissipazione di quei virtuosi pregiudizi senza i quali una saggistica non può mai nascere. Certi rilanci della metafisica, e certe plateali esibizioni della filosofia speculativa, come le heideggeriane, sono anche il risultato di un franco risveglio del ruolo conoscitivo del pregiudizio nell’àmbito di una strutturale debolezza saggistica della letteratura filosofica, che in Germania e in Italia (per imitazione) conosce ben poco al di fuori della produzione accademica. Ciò che ne esula (per imitazione di esemplari saggistici per lo più francesi, o americani) non ha, francamente, un grande valore: perché quando vi si trova l’opinione, non vi si trova la filologia, e viceversa. Il sorgere del solitario fenomeno di Nietzsche si spiega anche, nel suo complesso, proprio come reazione e compensazione di questa debolezza del ruolo saggistico che la letteratura filosofica deve giocare nella vita nazionale. Un Nietzsche in Italia non c’è stato – e tutto sommato io

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non credo che sia stata una disgrazia. Ma è poi vero che il fenomeno Nietzsche ha creato una saggistica filosofica tedesca? Basta sforzarsi di leggere Spengler anche soltanto per poche centinaia di pagine, per esempio, per darsi una risposta. La lettura di un saggio non dovrebbe mai essere soltanto un dovere, né un piacere senza costrutto. E spero che sia stato e che sia ancora così anche per i lettori del presente studio.

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Capitolo primo

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La dissertazione di dottorato di Spengler del 1904

Sotto il profilo della presentazione e del giudizio preliminare, la dissertazione di dottorato di Spengler sopra i princìpi energetici della filosofia di Eraclito del 1904 può essere definita un centone di notizie comuni, sommariamente rinvoltato entro un fascicolo storiografico burckhardtiano e ben legate insieme con le dande ideologiche nicciane. All’Introduzione fanno seguito due capitoli, dedicati rispettivamente al Movimento puro e al Principio formale, vale a dire ai princìpi ‘dionisiaco’ e ‘apollineo’, o sorgente e decadente, o ancora orientale e occidentale, fra i quali si combatte il dissidio dell’unità interna indissolubile del «sistema» – vale a dire: dell’eraclitea «psicologia dell’accadere del mondo».1 L’autore era ancora ben lontano dalla pubblicazione del Tramonto dell’Occidente (1918), che qui si trova soltanto in qualche raro seme; e la sua storia intellettuale successiva non c’interessa. Lavori come questi, di un ventiquattrenne, non vanno giudicati per le loro eventuali pretese future (che del resto non vi si trovano), bensì come esemplari di ‘applicazione’ (come si dice) ad una materia quanto mai idonea di temi culturali suggestivi, di moda; e vanno letti, soprattutto, per l’interesse che offre qualche rapsodica osservazione più libera e originale, dovuta alle prime impressioni di una mente fresca e indocile, non sempre guardinga delle comuni convenienze e delle reticenze accademiche. È con un corpo immerso in un fluido che abbiamo a che fare. Per la legge di Archimede, si tratta di vedere quale sia la sua galleggiabilità – vale a dire: quali siano le spinte che lo sorreggono e quale il suo modo di orientarsi fluttuando. Quelle spinte si possono descrivere, nell’insieme, come una mentalità, e quest’orientamento come un uso di metafore. All’una e all’altra cosa è bene dedicare subito una discussione di carattere generale.

1   Oswald Spengler, Eraclito, a cura di Maurizio Guerri, Mimesis, Milano 2003, p. 24 (da: Heraklit. Eine Studie über den energetischen Grundgedanken seiner Philosophie, in Reden und Aufsätze, Beck, München 1951. Ma io dispongo dell’edizione 1937).

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mentalità gerarchica: metafore e pregiudizi Per Spengler Eraclito è l’uomo del fuoco e del pánta reĩ, naturalmente. Il suo è l’opposto del sistema parmenideo.2 Il divenire nel suo pensiero è unità di opposti: di puro movimento e di senso della forma. L’Introduzione non si sofferma però tanto su questi aspetti, ai quali sono interamente dedicati i due capitoli successivi, bensì (e con molta insistenza) sull’albagìa personale del filosofo, promossa nientemeno che ad «abito del cosmo [Sitte des Kosmos]».3 In questa introduzione, insomma, Spengler mostra di volersi accostare innanzitutto all’uomo – e ciò non è molto frequente nella letteratura di studio, che preferisce accantonare i riferimenti biografici come dubbi, o distraenti. Una tale insistenza sullo «stile imperiale» di un pensiero «simile all’anima di Amleto», nella scrittura di un uomo che fu assai avaro di notizie personali,4 mi sembra interessante per capire il clima culturale gerarchico che permeava il Secondo Reich. Il riferimento allo «stile imperiale» o Imperatorenstil del suo pensiero è un esplicito compiacimento per quella insopportabile Standesethik che oggi sopravvive ancora in certi understatement persino ridicoli dello snobismo inglese – con la sola differenza che la pratica dello understatement non è mai stata molto congeniale allo stile imperiale tedesco. La sensibilità di un ventenne come questo può dunque fungere, sotto qualche riguardo, da mobile ago di bussola, orientato secondo i flussi magnetici prevalenti fra le principali polarità ambientali, nazionali ed europee, e vincolato al centro da ambizioni e da pregiudizi alquanto prevedibili (diciamo così), ma pur sempre significativi per il loro valore di viva testimonianza esemplare. Una sensibilità giovanile simile (contenuti a parte: che sono, semmai, opposti) si riscontra, per esempio, nel Goethe drammaturgo esordiente nel primo Impero Romano-Germanico: allorché la letteratura nazionale tedesca nasceva con lui, liberandosi dai regionalismi o dalle imitazioni di modelli stranieri. Per un ventenne si trattava di guardarsi intorno (il precettore, i borghesucci, l’eroe nazionale) e di captare energie lontane per cominciare a fare da sé. Si trattava di mettere insieme l’essere, il volere, il sapere nel montaggio di tipi secondo un modello antropologico – in questo senso, la letteratura di tutti i ventenni è sempre la stessa: ciò che cambia è il modello ideologico-antropologico, la metafora antropomorfica delle cose politiche. Ciò richiede una breve riflessione più generale sulla validità della campionatura: che senso può avere fare   Ivi, p. 25 (con un confuso riferimento a DK 81).   Ivi, p. 15. 4   Ivi, pp. 27, 13 e 15. 2 3

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   215

delle opinioni di un giovane esordiente il saggio di tutta quanta una mentalità ambientale, e magari persino nazionale? Il campione appropriato e discutibile di una mentalità (che è sempre intuizione assai evanescente di una personalità immaginaria) si può cercare là dove vediamo formarsi un talento originale, ma non tanto originale da essere una vera e propria singolarità: un talento ben circoscritto, ancora del tutto nazionale; persino corporativo sul piano professionale – ma non ancora impegnato ad innalzare il personaggio di sé medesimo davanti ad un pubblico che è ormai sicuro d’avere; né preoccupato di trovare giustificazioni di coerenza alla propria storia personale. La corporazione, etnica nazionale o professionale, fa (per l’appunto) da ‘corpo’ e da prigione dell’anima; mentre i pregiudizi, o la miriade di sintesi a priori assimilate coi pollini dell’aria e con le linfe del suolo, sono a loro volta gravità e oscurità delle idee che non hanno peso né tempo né patria. E viceversa, poi. A loro volta i pregiudizi costringono i corpi e il loro bisogno di socievolezza e d’amore con vincoli moralisticamente o intellettualisticamente obbliganti – li costringono assai più gravemente e irrimediabilmente di quanto i corpi storici o naturali abbiano fin dapprincipio vincolato, distorto ed infine sacrificato gli spiriti. Dopo il tramonto dei fanatismi nazionalistici o ideologici dell’Occidente, la rinascita nel nostro tempo del fanatismo religioso dell’Oriente mostra ancora quanto la gravità di un essere complesso possa risiedere nei corpi dottrinali, più che nei fisici. E mentre questi corpi fisici (o la cosiddetta materia) risultano sempre più coercibili sotto l’azione della scienza o del caso, i corpi dottrinali, e le mentalità sottostanti, rimangono invece per lo più intatti, o suscettibili di trasformazioni assai più lente. La gravità, l’inerzia, la resistenza abituale alle trasformazioni che sono tipiche manifestazioni della sostanza si accompagnano anche ad una certa oscurità. Ciò rende necessario il ricorso a strumenti induttivi d’osservazione indiretta, analogici metaforici e comunque dotati di simili evidenze tattili. Nient’altro, né più né meno significa il ricorso a termini climatici, epidemiologici, magnetici, fisiologici o vegetali in materie sfuggenti come questa. E nient’altro, né più né meno, dovrebbe dunque significare il ricorso a suggestive intuizioni di valore induttivo come ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’, del tutto prive di qualsiasi garanzia di fondamento o di certezza. Alla mancanza di garanzie fanno tuttavia riscontro non altrettanto modeste pretese, che sono spesso esteticamente o moralisticamente motivate trotz alledem: il mondo deve per forza avere un ‘senso’– e queste pretese hanno per lo più origine nel criticismo kantiano.5 Inutile discuterne, qui. Chiedo al 5   Non soltanto nel criticismo kantiano, naturalmente. Dopo la metaforologia teologica e religiosa, che ha dato ‘senso’ al mondo mediante i modelli della trascendenza, lo storicismo è stato un altro impor-

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lettore soltanto di concedermi quel po’ di credito che basta per un’affermazione di valore marginale, che non tocca, dopotutto, il valore intrinseco dello studio su Eraclito che sono venuto svolgendo fino a questo punto. Mi basta dunque dire che fra mentalità e dottrine non c’è affatto, mi sembra, quella netta distinzione di ruoli teorici, quel rapporto di unità e d’opposizione che si può descrivere coi termini di ‘dionisiaco’ e di ‘apollineo’. Quali sarebbero, infatti, la loro rispettiva attribuzione e i loro rispettivi ruoli? Alla mentalità, che è il dormiveglia di una sostanza, toccherebbe forse di svolgere un ruolo ‘dionisiaco’ – proprio quando essa, invece, è il grembo di conservazione, di senescenza e d’immutabilità di costumi e cultura. E alle dottrine intellettuali toccherebbe forse di svolgere un ruolo ‘apollineo’ di sempre continua codificazione disciplinare, di formalizzazione caduca della supposta creatività eslege di una sostanza – quando proprio l’Occidente, con la sua editoria oceanica, esibisce la propria identità in questa incessante e caotica generazione di pensiero e d’azione conforme a pensiero, che l’Oriente (qualunque esso sia, e dovunque esso si trovi) avverte come la minaccia di un Grande Satana, il Lucifero o il Prometeo ribelle alla legge eterna della ripetizione identica e del riposo. Non c’è dubbio che è impossibile generalizzare, creando un metodo di studio delle mentalità sulla base di modelli come questo soltanto. Nessuno potrà pensare che lo studio degli scritti (contemporanei a quelli del giovane Spengler) di un ribelle come il giovane Papini, per esempio, possa dare accesso all’intuizione della mentalità dell’Italia triplicina giolittiana e anarcosindacalista, trasformando la discutibilità letteraria in discutibilità politica di qualcosa che esisteva, piuttosto che di qualcosa che ‘non’ esisteva affatto, e che Papini e i futuristi disperatamente cercarono finché seppero d’avere le forze per farlo. Le linfe di un popolo che corre, per lo più, in soccorso dei vincitori si sciolsero e circolarono in Papini, semmai, proprio nella maturità, mescolando calcolo timore mediocrità alla fedeltà ragionevole di una sua pia contrizione. Insomma: l’attenzione dedicata ad uno scritto giovanile accademico di Spengler sia richiamata qui soltanto allo scopo di circostanziare momentaneamente qualche osservazione sintomatica circa il tipo di clima culturale che poté

tante laboratorio, che ha generato, per esempio, le metafore vegetali della pianta per descrivere lo sviluppo della personalità, oppure della serra e del giardino botanico per descrivere la varietà dei tipi storici e nazionali. La drammaturgia ha fatto lo stesso a partire dai caratteri dei personaggi. Il dilettantismo scientifico e la sociologia si sono serviti di metafore fisiche e chimiche. Se qui parlo soltanto di criticismo kantiano, è per tenermi vicino a quell’ordinaria dossografia filosofica nella quale simili problemi teorici sono venuti a ridursi nel Secondo Reich anche (e soprattutto, in origine) in conseguenza di un basilare difetto di cultura di Kant. Egli possedette il disgraziato talento di trasformare un difetto di cultura in mestiere – e l’ha trasmesso alle scuole di filosofia.

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   217

circondare i rilievi di una scrittura, che noi sappiamo destinata ad avere futuro in quell’indigeribile compendio d’intuizioni e d’induzioni che è Il tramonto dell’Occidente. Non fu senza soddisfazione che dopo l’entrata in guerra della Germania Giorgio Pasquali, per esempio, vide finalmente a Gottinga (come scrisse da qualche parte) svanire tra la popolazione tedesca l’abituale senso gerarchico delle relazioni sociali, che lasciò il posto ad una diffusa ed inattesa socievolezza. È proprio questa la strada che Spengler prenderà dopo la guerra, quando giudicò inesorabile il cammino della democrazia – se non altro, proprio a causa della guerra. Nella sua Storia della filosofia dalle origini a Platone (scritta intorno al 1938, in vista di un grande progetto editoriale per l’editore Sansoni su La civiltà europea) Giovanni Gentile faceva invece ancora di Eraclito l’uomo sprezzante i giudizi del volgo, che elegge soltanto se stesso a giudice supremo. Per il volgo, in realtà, Eraclito non ebbe affatto disprezzo, bensì commiserazione, nonché una buona dose di attenzione censoria, pedagogica e perfettiva. Ebbe disprezzo, invece, proprio per i suoi capi cittadini corrotti e demagoghi, così come n’ebbe per i più celebri intellettuali suoi simili, coi quali non fu disposto a spartire alcuna complicità, o statuto speciale, fra eletti. Ma vediamo meglio. Scriveva dunque ancora Gentile verso la fine degli Anni Trenta: [Il buon senso dei più, o i dettati del sano intelletto, come lo chiamano i tedeschi,] non si possono violare impunemente senza incorrere in una di quelle condanne atroci, che mettono l’individuo al bando del consorzio degli uomini ragionevoli. Non si è filosofi senza capacità di opporre il più sereno disprezzo a siffatti giudizi del volgo, senza la coscienza di avere in se stesso il giudice supremo a cui sempre convenga appellarsi, senza essere disposti ad ogni rinunzia rispetto ai beni che possono essere concessi dall’approvazione sociale, compresa la vita. Ma gli eroi del pensiero umano sono in numero molto minore di quello dei filosofi, che concorrono al lento maturare dei più ardui pensieri: e uno dei pochi è questo oscuro efesio.6

Si compendiano qui, in poche righe, alcuni insopportabili spropositi. Il disprezzo di Eraclito non fu affatto, né avrebbe potuto essere, «sereno». Egli non fu colpito da alcun atroce bando sancito dalla banale ragionevolezza dei più: applicò a se stesso, semmai, la legge severa della coerenza e del fìo per chi più sa (ignorata oggi, invece, da chi ancora piange la fine di Gentile, reclamando un pánta reĩ diverso per l’uomo e l’occasione), mentre volle e seppe piegare la

  Giovanni Gentile, Storia della filosofia dalle origini a Platone, Le Lettere, Firenze 2003, p. 52.

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sua sapienza all’accessibilità e all’evidenza del buon senso, o del sano intelletto dei più. Eraclito non si erse a giudice supremo fra altri giudici, bensì dubitò di se stesso; e non fu disposto a sacrificare la sua vita, senz’altro, per propugnare una qualche verità, bensì disposto a sacrificare la sua vita sociale soltanto – mentre in uno scatto d’ira invitò gli altri, semmai, ad impiccarsi tutti quanti. Il Gentile, che poi mandò a morire con le sue inesorabili ragioni i figli altrui, lo volessero o meno, non può riconoscerlo, e deve mettere in scena un Eraclito martire delle proprie dottrine già prima che qualcuno potesse fare lo stesso con lui medesimo. Eraclito non fu affatto un eroe del pensiero: da un capo all’altro delle sue sentenze ripete che quanto insegna non è affatto difficile. Fu solo vittima della mediocrità altrui, e della vita che s’era scelto liberamente. Ed è infine verissimo che, come Gentile dice, il numero dei filosofi è di gran lunga superiore rispetto a quello dei solitari eroi del pensiero – ma resta da vedere se questa stragrande maggioranza d’intellettuali serenamente sprezzanti i giudizi del volgo non sia proprio l’inetto ceto ottimatizio che Eraclito detestava in testa a tutti gli efesini; e resta da vedere se, per conseguenza, egli non vada avvicinato proprio agli uomini di quella sparuta dozzina che rifiutò di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo. fra nietzsche e guglielmo ii Eraclito, come il giovane Spengler lo descrive, è un uomo che per nascita e per educazione nel sentire e nel pensare «soggiace ad un’irrefrenabile vocazione aristocratica», inasprita da ostacoli e delusioni. Riconosciamo la mano dell’aristocratico nella laconicità aforistica, propria a lui soltanto, e nello sprezzante disdegno di minuzie o di questioni marginali.7 Quali, non sappiamo: Spengler è abbastanza prudente da non menzionarne alcuna. Né possiamo capire con chiarezza come lo stile tipico di una classe potesse essere proprio di un uomo soltanto. Eraclito, dopotutto, non fu l’unico filosofo di ceto elevato, ed incontrò i maggiori problemi proprio con gli ottimati della sua città. Proprio contro di loro, semmai, si appunta il suo disprezzo, mentre alla condizione e ai vizi dei ceti più umili non dedicò che una desolata contemplazione impotente. La lettura dei pensieri è ben chiara, al riguardo. Eraclito terminò la sua azione educativa rivolgendosi al ceto medio artigiano, tutelato dalla divinità politecnica di cui era o era stato sacerdote. E nondimeno Spengler insiste nell’affer-

  Ivi, pp. 15-16.

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   219

mare che egli era incapace di giudicare gli uomini del suo tempo «in assoluto, prescindendo dalla nascita e dal rango».8 La prima parte dell’affermazione è verissima; la seconda va decisamente modificata: Eraclito fu incapace di giudicare gli uomini, in genere, prescindendo dall’antropologia; e fu risolutamente indisposto a giudicare gli uomini di rango della sua città prescindendo dalla funzione sociale e dalla responsabilità. Ma no, invece. L’Eraclito di Spengler si lascia guidare dalla distinzione omerica fra áristoi e hoi polloí; e proprio in questo significato omerico il termine áristos sarebbe usato nei frammenti DK 13, 29, 49, 104, così come hoi polloí in DK 2, 17, 29. Egli non si abbassò a discutere col dēmos perché la padronanza di sé e il senso del gusto di tutti i greci nobili glielo impedirono: «senza rabbia, senza ingiurie, [Eraclito] giudica il popolo dall’alto, in modo freddo e ostile, con disdegno e con disgusto, celando talvolta il rancore crescente dietro a qualche osservazione sarcastica».9 Già – ma perché mai un rancore, e un rancore «crescente» per giunta, in un uomo simile? Da dove tanti cattivi umori e tanto sarcasmo nell’apollinea natura di un nobile greco, come se lo voleva a tutti i costi immaginare un giovane aspirante accademico del Secondo Reich? La domanda rimane senza risposta, semplicemente perché non è affatto una domanda, bensì un’affermazione selbstverständlich, del tutto ovvia: destinata a lusingare e ad incontrare il consenso e la lode di una commissione giudicatrice. Eraclito andava presentato quanto più possibile simile ad un professore tedesco – o a certi professori tedeschi che poi sono entrati nella storia della caricatura, anche tedesca. E penso al Simplicissimus, oltre che a John Grand-Carteret. I pensieri che Spengler porta a testimoni della sua tesi lo smentiscono. DK 13 (“I porci godono più nel fango che nell’acqua pura”) non si riferisce affatto a chi nel fango vive per necessità, bensì a chi potrebbe scegliere l’educazione dello spirito e preferisce i piaceri del corpo. Sotto il profilo sociale, si tratta di un riferimento tutt’altro che generico. Eraclito si rivolge ai ricchi, perché il fango è “oro” ai porci, proprio come lo strame agli asini (DK 9). DK 29 è ancora più esplicito: i veri ottimati prediligono la fama perenne; ma i più (di costoro: degli ottimati!) se ne stanno sazi come bestie. DK 49 è un nuovo schiaffo alla classe ottimatizia: uno solo, se si chiama Ermodoro, vale quanto tutti loro, la cui luce stellare non basta per illuminare la notte (DK 99). L’interpretazione di questo frammento non è dubbia, se solo si pensa alle

  Ivi, p. 17.   Ivi, p. 18.

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prime parole della vedetta nell’Agamennone di Eschilo, quand’essa descrive il moto ascendente e discendente degli astri riuniti a congresso nel cielo. Ed è vero che in DK 104 i più coincidono con la plebe. Ma chi si serve di essa come cattiva maestra, se non chi dovrebbe seguire altro cammino? Eraclito se la prende non con la maggioranza, bensì con chi non conosce l’ufficio della minoranza. Con riguardo poi a hoi polloí, Spengler non si accorge d’avere inserito il medesimo frammento (DK 29) come testimone dell’uno e dell’altro gruppo – oppure vuole separare i riferimenti a “i migliori” e a “i più”, rendendo senza significato l’unità dell’avversativa. Così facendo, egli confondeva il popolo di Efeso con la borghesia del Reich. DK 2 (“I più vivono pensando d’avere ciascuno una mente sua propria”) non ha alcun rilievo sociale, bensì schiettamente politico; e non si riferisce alla plebe, evidentemente, bensì all’innumerevole varietà d’opinioni dei cittadini riuniti in assemblea. Fra questi egli prende di mira i capi della democrazia avventizia, oppure vuol dire che una democrazia ha bisogno di capi all’altezza dei loro compiti: perché guidare un’assemblea pubblica è compito assai più arduo del governare per accordi fra consorterie – anche quando la democrazia assembleare dovesse poi ridursi di nuovo a questo. I “tanti” di DK 17 dunque, che s’imbattono in nuovi compiti, e credono di conoscerli dopo un breve tirocinio, non sono affatto “i più” della maggioranza assembleare. Ma chi, d’altra parte, può dire che questi capi siano uomini nuovi, democratici sortiti dalla plebe, e non, piuttosto, ottimati demagoghi che si cimentano con la democrazia? È proprio quando venga diretta contro costoro che la rampogna di Eraclito acquista più senso; e ragionare in termini diversi significa attaccare non i capi della democrazia cittadina, bensì la democrazia stessa in nome di un arroccamento solidale di classe che in Eraclito non trova la benché minima conferma. E tuttavia questo è proprio ciò che il giovane Spengler gli fa fare, riassumendo il significato della sua vita sull’intero piano storico-esistenziale. Ma non glielo fa dire, però, semplicemente perché non può trovare nelle sue parole ciò che vorrebbe. Eraclito è il filosofo che piange; e piange, secondo Spengler, perché è arrivata la democrazia. Egli si troverebbe legato non soltanto per discendenza, ma anche «per fedeltà» ad un ideale di vita che «non ha più alcuna possibilità di esistere. Il potere e gli abiti della nobiltà sono decaduti o scomparsi, e la democrazia inizia a dominare».10 Già – Spengler non può dire che la nobiltà fu travolta o tradita dalla demagogia tirannica: deve dire

  Ivi, p. 20.

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   221

che essa era decaduta o scomparsa per qualche soverchiante ragione storiconaturale (la stessa, poi, che conferisce all’immaginazione sua e della classe dirigente imperiale in genere l’impronta del Canto del destino di Brahms (1871), o il gusto letterario thomasmanniano della malattia, e simili); e deve dire che in questo vuoto cosmico la democrazia si fece avanti. È lecito supporre che Eraclito abbia pianto per la crisi di un ruolo politico e sociale che egli stesso, per qualche tempo, si ostinò a svolgere con il massimo impegno e con le migliori intenzioni – inquantocché, se non altro, questo ufficio gli era toccato per nascita. Perché, se no, piangere su qualcosa a cui abbiamo fin dapprincipio rinunciato, e che non è mai stata nostra? Ma proprio per questo è del tutto gratuito supporre che si sia dato a biasimare l’avanzare del nuovo, più che a deplorare il decadere dell’antico. E di qui a farne un antidemocratico sullo stile gerarchico, accademico o gallonato del Secondo Reich, con le sue ebbrezze ideologiche platoneggianti contro i ‘demiurghi’ borghesi arricchitisi anche con le riparazioni di guerra più che puntualmente pagate dai francesi dopo il 1871, ce ne vuole. Ragioni di disprezzo potevano anche non mancare – ma “i più” erano diversi da come Spengler se li immaginava. E gli stavano, come per Eraclito, proprio dentro casa. Bisogna, del resto, decidersi: o Eraclito restò fedele ad un ideale di classe, oppure restò fedele ad un ideale ellenico. Guglielmo II tira Spengler per di là, mentre Nietzsche lo tira per di qua. O si dice che a Efeso una delle cariche più importanti «non era più ciò che avrebbe dovuto essere e [che] pertanto [Eraclito] vi rinunciò»;11 oppure si dice che come ogni elleno autentico, non meno di Alcibiade o persino di Erostrato, Eraclito fu protagonista e vittima di una «forma nazionale di ambizione» che fu il «tratto fatale del carattere greco». Questo sentimento radicale e dominante, in verità «poco nobile» ai nostri occhi, è «invidia irrefrenabile che tutto consuma, o addirittura odio contro quelli che sono più felici, una sorta di insopportabilità della coscienza – che poteva condurre fino all’autoannientamento – per il fatto di essere ammirato in misura minore rispetto ad altri, un sentimento che ha trasformato i greci, con la loro intensa sensibilità, in un popolo profondamente infelice».12 Si sente giungere al soccorso la mano del Burckhardt qui, dove Spengler non saprebbe cavarsela nello spiegare il senso storico-mondiale della ‘libertà greca’. E va benissimo. Ma ancora non gli tocca l’onere di cimentarsi con le future divagazioni piramidali sui caratteri delle civiltà – gli tocca per ora soltanto l’onere di spiegare un paio di vistose incongruenze. Oltre alla liber  Ivi, p. 20.   Ivi, pp. 21-22.

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tà dell’orgoglio ottimatizio offeso scambiata, o malmescolata, con la ‘libertà greca’, bisognerebbe spiegare come si fa a parlare di «autoannientamento» per Alcibiade e per Erostrato, che di annientamenti altrui, semmai, s’intendevano un po’ meglio di Eraclito. Quello dell’Oscuro fu ben tutt’altra cosa: il primo esempio di un sacrificio incruento di sé, prima ancora che un «autoannientamento» – con cui effettivamente non si spiega niente. All’annientamento di sé egli pervenne soltanto alla fine, dopo aver tentato ogni via, e giunse soltanto gradualmente al disprezzo dell’intera cittadinanza, dopo aver sondato in ogni ceto la possibilità di educarla. Non è proprio Spengler a definirlo «il primo filosofo sociale»?13 Eraclito fece della corruzione dei costumi una questione antropologica soltanto al termine della sua vita attiva, e rifiutò persino di consegnare il suo corpo alle onoranze funebri e alla memoria dei vivi, preferendo affidarsi alla vaga possibilità di un lontano riconoscimento futuro. Ma parlare di autoannientamento per orgoglio di casta significa ignorare, per esempio, l’esempio di sacrificio che dette quando si recò alla tribuna assembleare non per parlare, ma per impastare nel palmo della mano una pagnottella di farina prima d’inghiottirla. eraclito artista immaturo Gl’istinti della filiazione accademica generalizzante fanno sì che Spengler trapassi disinvoltamente dai caratteri della ‘libertà greca’, come si ritroverebbero in Eraclito, ai caratteri della stessa filosofia nascente. In un popolo tanto individualista e orgoglioso ogni pensiero ebbe la pretesa di nascere come dal nulla. Nessuno volle mai riconoscersi allievo di alcun maestro: «mai in quel tempo fu possibile trattare una questione sulla base dei risultati conseguiti dai pensatori precedenti».14 Dobbiamo supporre che Platone sia figlio della degenerazione democratica, dunque? Ma com’è che il pensiero si presenta in modo tanto forbito proprio nel secolo della democrazia radicale, e tanto informe proprio all’apogeo e al tramonto dell’éra della nobiltà? Non sarà che, nel frattempo, il disdegno platonico aveva riconosciuto l’inutilità del sacrificio personale, anche socratico, riducendolo ad una semplice rinuncia di ruolo pubblico? Non diverso era stato il sacrificio di Eraclito: una rinuncia all’ufficio, ma senza alcunché dell’autoannientamento che colpisce tanto volentieri l’immaginazione

  Ivi, p. 24.   Ivi, p. 22.

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di chi si prepara ad assolvere un ufficio prostrandosi dinnanzi alla benevolenza del superiore gerarchico. L’esempio della vita di Nietzsche, dopotutto, non aveva affatto insegnato alcunché di simile; ed egli finì nelle mani dei nicciani pressappoco come Darwin finì in quelle degli evoluzionisti vittoriani. La malignità di Eraclito nel riferirsi a nomi conosciuti non si spiega con l’immodestia dell’esordiente bisognoso di farsi largo. Tutta la sua vita (per origine, ufficio e condizione, se non altro) mostra bene che di simili espedienti egli non aveva alcuna necessità. Essa si spiega con una sua sincera ispirazione antiintellettualistica, e con la frustrazione di vedere questa sua sincera ispirazione ìmpari al compito della comunicazione. È qui, nelle ultime pagine dell’introduzione, che Spengler ha qualche buona intuizione: allorché tocca l’aspetto estetico della filosofia politica di Eraclito. Quale fu, in definitiva, il suo vero talento – peraltro non unico fra i greci? Fu quello di un artista: tra i filosofi greci «Eraclito è il poeta più importante». «Eraclito è l’artista più importante fra i presocratici. (…) Eraclito vede le proprie idee, non le calcola», o non le sottilizza, come invece avverrebbe nelle forme dialettiche de «l’opposto sistema parmenideo».15 Sfugge completamente a Spengler, dell’animosità eraclitea, l’aspetto della polemica antiintellettualistica, o insomma i cosiddetti coltelli di Pitagora: le sue sottigliezze. Il sistema, e le contrapposizioni fra sistemi, sono, secondo lui, l’estetica del pensiero. In essi, in definitiva, si riassume la natura riflettente del Giudizio, e il ‘senso’ del vivere secondo uno scopo morale, nonché il senso del pensare stesso e del perpetuo ver-stehen. Con una certa dose di patetica ingenuità il giovane Spengler individua l’origine di questa creatività artistica proprio in ciò che faceva i filosofi antichi tanto arroganti: «In un’epoca di pensiero ingenuo, che non aveva ancora maturato alcun tipo di riflessione su se stesso, Eraclito si trovò nella felice condizione di poter creare attingendo a piene mani, di potersi abbandonare alle proprie inclinazioni senza essere limitato da lavori precedenti più importanti o vòlti alla ricerca in una dimensione più ridotta e all’interno di orientamenti già fissati». Non diversamente da Goethe, il quale poteva tranquillamente dire che la Germania compiva gli anni insieme con lui.16 La disparità dei giudizi sul carattere antiaccademico e sulla verginità delle condizioni storiche non potrebbe essere maggiore, come si vede – mentre risulta assai sproporzionato il paragone fra la Jonia del VI e V secolo e la Germania del vecchio Impero, o

  Ivi, pp. 86 e 25.   Ivi, p. 23.

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quanto meno fra un Eraclito piangente e il loquace soddisfatto dabbenuomo dei colloqui con Eckermann. Spengler lo sa, tuttavia. E lo sa tanto bene da giungere infine a riconoscere giustamente nell’immaturità artistica l’origine delle frustrazioni di Eraclito. Alla felicità delle sue intuizioni non si accompagnò una pari felicità di espressione, in quanto «dal suo modo di porre le questioni derivavano continuamente difficoltà di esposizione linguistica che non sempre fu in grado di superare», nonostante la potenza dell’intelletto. Spengler non distingue fra le immagini così semplici e sobrie relative all’unità degli opposti, e le tortuose espressioni relative alle trasformazioni, agli stati misti o al divenire. E mentre queste ultime soffrono di mancanza (anche ricercata) di definizione, quelle soffrono semmai di mancanza di svolgimento. «Il suo pensiero fondamentale entra in aperto contrasto sia con ciò che si manifesta all’occhio, sia con il pensiero comune, e richiede una gran forza d’astrazione per essere còlto». La sua forza, dunque, non sta nel talento artistico, bensì nell’unità interna di un sistema dotato di una logica immanente, e ruotante attorno ad un solo pensiero.17 Nondimeno, «Eraclito può essere definito un realista». E sebbene possa apparire facilmente come simbolico, ogni suo concetto è sempre riconducibile «ad un fondamento reale» grazie al suo colpo d’occhio eccezionalmente dotato e salutare «per ciò che è concretamente presente». Ne fa fede il frammento DK 55 (“Di quanto vedo, odo, apprendo: di ciò io mi prendo cura”).18 Sono giudizi interessanti, questi, che scaturiscono dalla sensibilità esteticopolitica di Spengler: il quale è stato uno dei pochi a percepire la natura concreta, intuitiva e per lo più presente alle cose della personalità dell’Oscuro. La presenza invece non già alle cose, bensì alle persone di questo «primo filosofo sociale», in Spengler si perde. E mentre l’introduzione si avvia a concludersi con la rara, preziosa affermazione, secondo cui «l’opera di Eraclito è una raccolta di aforismi», noi vediamo dileguare la nostra soddisfazione apprendendo, subito dopo, che «Eraclito non ha cercato di operare in un senso modestamente didattico, e meno che mai in modo popolare».19 A dispetto delle sue migliori intuizioni, Spengler ha dunque voluto in tal modo ribadire l’unità indissolubile di uno stile oscuro non con una deficienza letteraria, bensì con

  Ivi, p. 26.   Ibidem. 19   Ivi, p. 28: Die Schrift ist eine Aphorismensammlung, wie eine Bemerkung Theophrasts und die Fragmente selbst lehren. Heraklit hat nicht im bescheidensten Sinne didaktisch, geschweige denn populär zu wirken versucht. 17 18

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   225

un manifesto, ricercato disprezzo nei confronti degli uomini. Il sentimento del rango sociale fa in Spengler tutt’uno con la filosofia riciclando il concetto nicciano di ‘pathos della distanza’. Contro un Lassalle solidarista e socialistanazionale, che tende a negare il valore delle opposizioni o a dichiarare la loro identità, bisogna anzi affermare che Eraclito le ha poste in evidenza «forse anche soltanto per la sua origine aristocratica». «In Eraclito si fondono il gusto artistico e la coscienza di casta propri di un aristocratico». Il senso ginnico del termine agōn lo dimostra, come hanno spiegato Curtius e Burckhardt nei loro studi sulla civiltà greca.20 Sventuratamente per Spengler, però, nei frammenti teorici Eraclito si giova di termini come pólemos e éris, mentre agōn compare una sola volta, in senso descrittivo o logistico, nel frammento polemico contro Omero e Archiloco; e dunque non può affatto avere tutta quell’importanza ch’egli desidera attribuirgli. neokantismo I due capitoli che costituiscono la dissertazione vera e propria sono rispettivamente dedicati, come ho detto, ai temi del puro movimento e del principio della forma. La trattazione è preceduta da poche pagine d’ambientazione empiriocriticista, che non presentano particolare interesse – se non per l’irritante abitudine di emulare Kant nel procedere da superficiali assunti filosofici verso giudizi indotti attraverso continue tergiversazioni logiche e discorsive. La superficialità assai convenzionale degli assunti può essere tollerata, perché ognuno che senta d’avere qualcosa da dire ha sempre il diritto di cominciare una sua trattazione ambientandola fra delle quinte o dei fondali dipinti. Le Umkippungen invece, le capriole logiche del disordine erratico e superfetativo che si comprimeva sotto la parrucca di Kant, sono assai irritanti per il lettore attento che voglia capire che cosa si sta dicendo su questa scena, senza dover badare ai cenni del capo e alle strizzatine d’occhi con le quali si vuol dare ad intendere d’avere già stretto un patto di complicità con lo spettatore. Nei Sogni d’un visionario fu lo stesso Kant a smascherare con sarcasmo questo vizio degli accademici wolffiani e dei loro allievi – ma ciò non gli conferì l’immunità dell’autovaccinazione, e il costume stilistico è rimasto. Non chiedo di meglio che di fare a capirsi; e perciò desidero mostrare come

  Ivi, pp. 56, 64, 62.

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226   parte seconda. letteratura eraclitante

meglio posso uno dei primi, e poi numerosi casi. Alla base della dottrina eraclitea, dice Spengler, noi dobbiamo «fare emergere» o mettere in rilievo (hervorheben) questa distinzione kantiana, che è contenuta «indubbiamente, di fatto» nei «frammenti del suo scritto» (ma non era già stata definita l’opera di Eraclito, soltanto alla pagina precedente, una semplice raccolta di aforismi?): dobbiamo mettere in rilievo la distinzione, vale a dire, fra il corso e il carattere «più intimo» dell’accadere del mondo, «di cui egli sostiene che non sia accessibile alla nostra percezione», e «lo spettacolo» o colpo d’occhio (Anblick) offerto dal mondo delle cose. In virtù della distinzione kantiana possiamo concepire l’accadere sensibile soltanto come fenomeno, e grazie ad essa eviteremo frequenti errori di valutazione della dottrina eraclitea.21 Come Kant ha mostrato nella prima Critica, continua Spengler, è un errore partire dal concetto di sostanza come sostrato permanente, perché è la supposta permanenza immutabile che fa chiamare ‘sostanza’ qualcosa di cui non è mai stata dimostrata la permanenza. Sulla scorta di qualche lettura di Ernst Mach, di Wilhelm Ostwald, di Julius Mayer, nelle confuse pagine che seguono Spengler vuol dire, in ultima analisi, che ciò che nelle cose permane come loro supposto substrato è proprio ciò che invece muta di continuo: nient’altro che energia; e poiché essa muta in noi: nient’altro che energia psichica. Ragionare in questi termini (che qui ho molto semplificato, rispetto all’acrobatica dissertazione spengleriana, rimbalzante per assunti sulle sponde neokantiane ed empiriocriticiste) – ragionare in questi termini, dunque, significa non già stabilire un’equazione fra materia ed energia, bensì sostituire la materia con l’energia, e in definitiva cambiare semplicemente nome alla Sostanza: l’ennesimo onomastico, nella storia della filosofia che comincia almeno con Spinoza, la quale vede la Sostanza travestirsi via via con sempre nuovi nomi di Natura, di Io, di Spirito, di Materia, di Corpo, di Lavoro, di Fede, di Speranza, di Utopia – e anche, non c’è dubbio, di Noia. I greci non poterono giungere a questa conclusione, spiega Spengler, perché non seppero distinguere fra movimento ed energia (dal momento che il concetto di forza compare soltanto con Galilei). Per il monismo greco esiste soltanto qualcosa di mosso e che si muove per cause immanenti e ideali, indipendentemente da una causa rappresentabile come la forza, o da una causa sostanziale qual è l’energia. Eraclito, secondo Spengler, è l’uomo che nega questo concetto di sostanza (per introdurre il concetto di energia, si suppone),

21   Ivi, p. 29. Il riferimento è alla Dottrina trascendentale degli elementi; Analogie dell’esperienza; Prima analogia.

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   227

mentre Parmenide nello spazio di una sola pagina è colui che con il tò pléon avrebbe fatto della sostanza «ciò che riempie lo spazio» – oppure, viceversa, nient’altro che pensiero: «Parmenide a ragione poteva affermare che tutto il pensiero si riferisce comunque a un essere, che tutto ciò che è pensato riceve, in quel preciso istante, il carattere della sostanzialità».22 La specificazione della natura «istantanea» della sostanzialità nel pensiero è l’unica cosa interessante in queste tergiversazioni continue da un capo all’altro degli assunti dossografici: perché orecchia da qualche parte un principio d’attualismo; e l’attualismo non è a sua volta, in definitiva, che l’applicazione ontologica della seconda legge della dinamica – vale a dire: un’ontologia attivistica desunta e applicata dal concetto analitico-matematico della derivata. La sostanzialità acquisita nel «preciso istante [in diesem Augenblick]» del pensiero non è che la versione speculativa della rappresentazione vettoriale dell’esercizio di una forza, o accelerazione impressa al movimento di un corpo mediante la tangente in ogni singolo punto o istante della sua traiettoria. Il lettore capisce facilmente da sé quale sia l’effettivo valore di queste pagine, che presentano un interesse soltanto come le morene di un ghiacciaio: in quanto vi si ritrovano tracce di depositi e transiti geologici. Per non lasciare il sospetto d’avere omesso qualcosa di più convincente, basterà riportare questa sola citazione: Dal momento che il pensiero greco non riconosce alcuna forma di separazione tra ciò che muove e ciò che è mosso, e poiché Eraclito pone espressamente in evidenza l’unità dell’accadere del mondo – il suo detto ek pántōn hèn, kaì ex henòs pánta, sotto questo aspetto, ha lo stesso significato dello hèn kaì pãn di Senofane – allora l’assunzione di un ‘divenire’ puro, unitario, incessante, negato dagli Eleati, esclude in ogni senso il concetto di sostanza.23

La filosofia è diventata un gioco di veloci intuizioni, di peripezie e di colpi di scena, che da Kant non ha preso una cosa soltanto: la lentezza farraginosa. Le morene veloci si chiamano frane. Riguardo all’endemico disordine energetico, il filo con Kant è diretto e sostanziale, non soltanto speculativo e stilistico, perché parlare di energia senza materia significa riprendere un’idea di disordine tipica della fisica molecolare dei gas che, trasformata in logica e metafisica, si ritrova allo stato di barlumi ben nascosti nello scritto precriti-

  Ivi, pp. 34 e 35.   Ivi, p. 35.

22 23

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228   parte seconda. letteratura eraclitante

co sulle Quantità negative. Discernere questi barlumi non è facile, e richiede una buona dose d’attenzione e d’immaginazione, di pignoleria e di sospetto – nonché di pena per il lettore. Ma non sarà impossibile, qui, riassumere a braccio il sunto del problema. La teoria dell’opposizione reale trasforma la somma algebrica a risultato zero (o comunque reciprocamente compensato dai due segni di quantità opposti, positivo e negativo) della matematica in una fisica molecolare a risultato sempre positivo, attivistico e fortemente espansivo. Indipendentemente dalle quantità numeriche indicate, la polarità algebrica fra i due segni più e meno crea sempre in qualche modo un’unità interna fra le quantità, e quest’unità è data dal risultato del calcolo. Poiché Kant non ha la benché minima idea del significato della neutralità e del centro come potenza, egli tende costantemente a descrivere il risultato di un calcolo algebrico come uno zero e un nulla. Ma nella fisica non può essere così; e con l’opposizione reale, che è concetto fisico, e che trasforma i segni contrari in cariche reciprocamente autonome, il significato algebrico della relazione interna si perde, mentre ogni frammento di materia esercita una sua spinta, positiva o negativa, verso le altre e verso la periferia dell’universo. Ora, Kant non aveva davvero molta immaginazione – ma ne aveva comunque abbastanza per capire, non senza preoccupazione, che il risultato fisico della teoria dell’opposizione reale non era più il reciproco annullamento dei segni algebrici, o la moderazione per sottrazione delle quantità opposte, bensì sempre e comunque la somma delle cariche. Con la teoria dell’opposizione reale e il passaggio dall’algebra alla fisica l’universo moltiplicava la sua energia interna, e veniva ad assomigliare, sul piano politico e morale, al caos di una guerra di tutti contro tutti – assai simile a quella che noi descriveremmo come, per l’appunto, una nube gassosa conforme alla teoria cinetica dei gas. Che ne è dell’inerzia dei corpi, in quest’universo? Dove rimane la loro resistenza pesante all’inizio del moto? Essa scompare per omissione, evidentemente. Una teoria fisica della libertà non può prescindere da una teoria della ‘soggettività’ – non intesa, però, nel significato ‘romantico’ e per l’appunto attivistico (quello dei morti a cavallo, tanto per intendersi), che per noi è diventato così abituale: perché questo significato ne è, semmai, proprio la negazione. Per non fare confusione bisogna allora parlare di ‘soggettualità’: si tratta di concepire la libertà di ogni essere corporeo, ovvero pensante ed impulsivo, come soggetta innanzitutto a se stessa – vale a dire: al proprio corpo, ovvero al pensiero e all’impulso; e si tratta di considerare, volta a volta, l’uno e l’altro come la parte oscura e pesante del suo opposto. Nulla di tutto ciò è presente in Kant: il quale procedette nelle sue peregrinazioni speculative sempre per linee esterne all’oggetto, e poi sempre più

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   229

esterne, in vista di una qualche possibile ricomposizione di un universo che gli sfuggiva in tutte le direzioni (se non altro, per difetto di competenze), fino a perdere completamente il contatto con l’oggetto – tanto, che il suo pietismo ‘edificante’ (in tutti i sensi) del soggetto si ridusse in definitiva ad un puro sentimento ansioso di allarme, e la moralità ad un gendarme del pensiero e dell’anima. Per capire la differenza fra una teoria della soggettualità e la posizione sturmiana e romantica della soggettività bisogna invece considerare, per esempio, la teoria della guerra elaborata da Clausewitz sotto la Restaurazione: nella quale l’attivismo logico estremo del fenomeno trova una ragione di moderazione non tanto nella politica, quanto nella resistenza offerta dal ‘mezzo’: dalla natura del medium, o del corpo fisico nel quale si svolge l’azione, e dalla natura dall’azione stessa considerata come uno strumento della volontà e del pensiero. Anche l’attivismo più estremo nella forma di una guerra condotta secondo la pura logica, insomma, è pur sempre soggetto a se stesso in quanto l’azione non è che un mezzo immerso in un mezzo. Prima che i risultati in qualche modo definitivi si vedessero con la successione delle tre Critica, Kant cercò varie soluzioni al problema della libertà nella fisica – non senza ricorrere ad espedienti; e soltanto nella Teologia naturale appare qualcosa d’interessante, a me sembra, con la teoria ben crittata (come sempre) del dovere d’omissione: «Mi sono convinto che la regola: fai la cosa più perfetta che sia possibile per tuo mezzo, è il primo principio formale di ogni normatività di azione; così come la proposizione: ometti di fare ciò che per tuo mezzo è d’impedimento alla massima perfezione possibile, lo è nei riguardi del dovere di omissione».24 A dispetto della limpida simmetria della formulazione, che come al solito tocca la banalità, non è facile capire che cosa Kant avesse in mente. Ma insomma: il dovere d’omissione consiste nell’omettere tutto ciò che potrebbe ostacolare l’azione amministrativa illuminata o, come noi diremmo, progressista – nonché nel collaborare attivamente con essa. Questo dovere d’omissione (assai arcano e confuso, in verità) consente a Kant di formare quel conduttore dall’alto verso il basso, che scarica nel sottosuolo le minacciose cariche potenziali dell’universo come attraverso un parafulmine. La storia tedesca, anche del Novecento, mostra che questo conduttore funzionò assai meglio del parafulmine che la municipalità di Königsberg lo incaricò un bel giorno di realizzare: e dopo aver cincischiato per dei mesi, Kant non concluse un bel nulla. Il lettore capisce facilmente quale sia l’attinenza di simili questioni col pen24   Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, p. 251.

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siero del nostro Eraclito: il quale andò cercando nella simbologia fisica e cosmologica il significato della tensione e dell’equilibrio fra gli opposti. Sebbene fisici, sebbene non algebrici o comunque matematici, e anzi estremamente concreti fino sul piano artigianale, gli opposti per lui sono sempre polari, o alterni, e vincolati da un legame interno o chiuso – perché, se no, egli ci avrebbe sentito l’intellettualismo dell’infinito. Gli stati indefiniti della coscienza, semmai: questi sì, esistono senz’altro nel suo pensiero. E nondimeno quest’universo, proprio così descritto, gli appare animato in un equilibrio, in definitiva, rassicurante. Non la libertà turba i sonni di Eraclito, bensì la corruzione e il vizio senza compenso o riscatto. La sua cosmologia ciclica possiede in se stessa delle garanzie: proprio come un ‘soggetto’, appunto, consistente in se stesso. E una di simili garanzie è rappresentata dalla reciproca conversione di sostanza in sostanza, e di materia in energia. Ma questo è proprio ciò che nel primo capitolo della sua dissertazione Spengler, tutto dedito ad inseguire il dionisiaco del movimento «puro», s’ingegna per quanto possibile d’ignorare, in favore di una soluzione puramente energetica del problema della Sostanza. Su un piano teorico più generale, d’altra parte, rinunciare alla Sostanza non significa affatto rinunciare alla miriade di sostanze e di essenze che costituiscono tutte le nostre sintesi a priori. Una dottrina di critica della Sostanza deve, o dovrebbe, avere come conseguenza, o corredo indispensabile, una dottrina del ruolo conoscitivo dell’Essenza. Ma questa dottrina correlata e d’ordine superiore dell’essenza in Kant non esiste (anche se avrebbe potuto esserci, in base ai suoi presupposti teorici elementari, estetici), in conseguenza del fatto che nel suo pensiero non c’è la benché minima nozione di rapporto assoluto, d’approssimazione infinita e di mediazione neutrale. Oltre alla causa, tra le categorie dell’intelletto compare la relazione – ma non il rapporto; e causa e relazione ricadono entrambe nella sfera speculativa attinente alla nozione di Sostanza. Mancò a Kant sul piano antropologico, per giunta, una qualsiasi nozione di pregiudizio, o di opinione come verità radicale percepita dalle facoltà unite nel primo sentimento di una cosa. Il pietismo come cultura viva dell’interiorità e delle percezioni nascenti in lui è ormai cosa morta, e sopravvive per lo più, come ho già detto, con gli automatismi allarmistici dell’ansia. Su questo secondo piano, antropologico, è vero che l’empiriocriticismo e la fenomenologia hanno cercato di creare qualcosa di nuovo sul piano dottrinale, che non fa del neokantismo una mera risorgenza ripetitiva, o revival. Ma nel caso di questa dissertazione di Spengler il difetto sta un poco più indietro rispetto alle nuove dottrine, e consiste nella semplificazione schematica e nell’esagerazione di una suggestione nicciana, che gli fa tranquillamente

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   231

ridurre la materia ad energia (ma non viceversa) senza neppure menzionare la velocità: «Il concetto di sostanza non viene mai utilizzato da Eraclito», che pure avrebbe dovuto conoscerlo, né «il concetto di spazio vuoto». Nelle sue proposizioni (come DK 10: “Rapporti: tutto e non tutto, convergente-divergente, consonante-dissonante, e da tutte le cose uno, e da uno tutte”) «è possibile riconoscere il tentativo di esprimere in una formula energetica il puro operare nello spazio non connesso alla materia».25 Nello spazio? E perché mai? Nel pensiero, vorrà dire! Dov’è finito, ahimé, il nisi intellectus ipse di Leibniz? Il significato della velocità nell’equazione di equivalenza fra materia ed energia non è quantitativo, bensì costitutivo del rapporto. La sua assenza fa perdere l’equazione, e la perdita dell’equazione è perdita dell’unità, perdita del rapporto, perdita dell’essenza. Il senso fisico e visuale delle cose, che Spengler sottolinea in Eraclito, non poteva esimere lui stesso dal considerare con serietà ciò che all’Oscuro poteva sembrare intellettualismo. Soltanto la matematica, per l’appunto, separa Eraclito dalla prima enunciazione della nozione di rapporto assoluto e di essenza come necessità e sufficienza di un essere complesso per il pensiero. Anche la natura della democrazia, dello Stato e delle leggi come rapporti impersonali materializzati nella neutralità delle istituzioni si sarebbe potuta svelare a lui per primo; e la filosofia politica sarebbe così potuta diventare nelle sue mani un’estetica politica ben prima di Platone – nel cui pensiero, del resto, le istituzioni compaiono ben poco. Il senso della matematica fece perciò difetto ad Eraclito non meno del senso letterario. un ritmo musicale della democrazia Tutto ciò che qui sopra ho cercato d’illustrare si trova disseminato nella dissertazione del giovane Spengler con non poche tergiversazioni, come ho detto. Il caso più notevole è proprio quello della matematica, ch’egli vuole a tutti costi ritrovare nel pensiero di un Eraclito supposto emulo di Pitagora. Dopo avere tanto insistito sulla concretezza e sulla visualità della sensibilità logica e psicologica eraclitea, nel secondo capitolo della dissertazione, dedicato al Principio formale, Spengler ha un bel ripetere che la forma del fenomeno è, in generale, rapporto matematico, e che la nostra incapacità di accedere alla cosa in sé non ci lascia altro modo di rappresentarcela, se non mediante la misura

25   Eraclito, p. 37 (In den Sätzen … sieht man zweifellos den Versuch einer energetischen Formel, um das reine, nicht an Materie gebundene Wirken im Raume auszudrücken).

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232   parte seconda. letteratura eraclitante

matematica del fenomeno. Ha un bel ripetere che per Eraclito «il valore della forma matematica nei processi naturali è estremamente alto»: perché poi deve tuttavia concludere che fra lui e Pitagora non è possibile stabilire che generici «parallelismi» circoscritti «ai presupposti generali».26 Ma è troppo modesto, Spengler. Perché questa conclusione su quello che sarebbe, in definitiva, un nulla di fatto è già stata smentita dall’insistenza con cui egli ha voluto a tutti i costi trovare una coincidenza col pitagorismo nella musica. «Eraclito concepisce il mondo come puro movimento. Il lógos dunque è il suo ritmo, il tempo del movimento». E un sistema che non riconosce alcun essere permanente deve dare una valutazione precisa di «ciò che è metrico». «Per Eraclito lógos e métron sono lo stesso». «Per Eraclito il cosmo è un puro ed eterno accadere. L’unica costante di questo processo è la misura: harmonía è lo stesso di lógos».27 Quest’idea di rapporto è andata immediatamente perduta nello stesso pensiero greco, e non poteva certo risorgere nel pensiero cristiano, medievale e moderno: i quali vedono il dualismo affermarsi, ed infine formalizzarsi nelle sostanze di Cartesio e negli attributi di Spinoza.28 Il lettore avrebbe anche potuto leggere certe insistenti affermazioni sul significato matematico e formale del rapporto, con la speranza di vederne sortire una filosofia del primato dell’essenza sulla sostanza; ed è invece con un certo fastidio che s’imbatte nella (ahimé prevedibile) associazione del monismo originario con un senso del destino ineluttabile che sarebbe stato tipico dei greci. Contro il cielo di questa heimarménē, che non ammette eccezioni e che non lascia il minimo spazio per la casualità, si proietta dunque il significato ritmico di un fatale Divenire; e non è senza un certo effetto comico che, d’altra parte, noi vediamo la pura forma della matematica e le equazioni differenziali di Maxwell ridursi a computo «puramente aritmetico» della battuta musicale.29 Ha una direzione stravagante, questo fatale Divenire? Noi sappiamo che il senso ciclico e simmetrico della cosmologia eraclitea lo esclude; e lo sa anche Spengler: il quale nega ogni valore all’interpretazione teleologica, ovvero decadente, dissipativa, entropica della metafisica energetica eraclitea – secondo l’assunto della sentenza faustiana, citata da Lassalle, secondo la quale «tutto ciò che nasce merita di perire». Eraclito era un uomo «così traboccante di

  Ivi, pp. 69 e 74-75.   Ivi, pp. 73 e 67. 28   Ivi, pp. 71 e 70. 29   Ivi, pp. 72-73, 85 e 69-70: «È addirittura possibile determinare i fenomeni naturali in modo puramente aritmetico, senza aggiungere alcuna ipotesi circa la loro ‘essenza’» (Es ist sogar möglich, Naturerscheinungen rein zahlenmäßig vollständig zu bestimmen, ohne eine Hypothese ihres ‘Wesens’ hinzuzufügen). 26 27

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   233

forze e dotato di un’inclinazione positiva, da non poter certo invalidare la propria filosofia in seguito a una disposizione negativa».30 Già – ma che fine fa, allora, il Piangente? Dove se ne va tutta l’amarezza della sua vita? O noi vogliamo davvero accettare la proposta di un Eraclito che avrebbe raggiunto l’atarassia mediante la contemplazione disillusa, e magari persino serena, del ciclo delle virtù e dei vizi? Non lui, ammette Spengler, bensì Protagora ha effettivamente compiuto il passo di sviluppare un agnosticismo assoluto; e tuttavia – e tuttavia «in un simile caos di metamorfosi non vi possono essere valori permanenti: questa non è che l’ultima conseguenza dell’intuizione di Eraclito. (…) Ci troviamo di fronte ad un sistema relativistico pensato fin nelle sue ultime conseguenze».31 Eraclito non fu un panteista né un mistico – tant’è vero che per esprimere il concetto di legge del movimento egli usa almeno una decina di termini, che Spengler diligentemente elenca: lógos, nómos, harmoníē, sophón, métron, gnōmē, heimarménē, díkē, theós, Zeús – ma tutto ciò è naturale e «familiare ad un popolo che viaggiava per mare».32 Chissà – può darsi. Ma allora bisognerebbe mettere in relazione la musica, e il senso della forma come senso del tempo musicale, non tanto con il lavoro artigianale o servile dei campi, come fecero i tragici, bensì con la marineria dei liberi teti. Noi possiamo facilmente ammettere che i rematori, servi o no, potessero intonare delle melodie ritmiche non molto diverse da quelle che sorsero nelle piantagioni americane di cotone al tempo del blues. Ma allora, dopo avere descritto un Eraclito piangente per l’avvento della democrazia (vale a dire: del regime cittadino prodotto dal crescente peso assembleare degli equipaggi) bisogna pure supporre che egli si sia servito della sua medesima lingua. E non c’è difficoltà a credere che Eraclito l’abbia fatto, almeno nella fase divulgativa della sua vita – solo, che non si vede perché avrebbe dovuto farlo piangendo di dolore contro la democrazia. Anche le date, poi, temo che qui non tornino, e che l’infarinatura manualistica abbia messo Spengler in una prospettiva storica del tutto prematura: perché la democrazia radicale degli equipaggi poté prendere il sopravvento nelle assemblee di alcune importanti città greche, attiche e joniche, soltanto dopo le grandi guerre persiane e la politica navale di Temistocle. Quando Eraclito nelle sue esemplificazioni menziona il mare, lo fa riferendosi all’acqua salata che è vita al pesce e morte all’uomo: è dunque a pescatori che parla, o

  Ivi, pp. 50-51 e 53.   Ivi, pp. 53 e 55: Wir haben ein vollkommen zu Ende gedachtes System des Relativismus vor uns. 32   Ivi, pp. 78 e 82. 30 31

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234   parte seconda. letteratura eraclitante

medita di parlare. Non gli sarebbe stato difficile trovare qualcosa anche per dei rematori, se appena ci avesse pensato. È molto seducente, ma anche troppo facile, servirsi dell’estetica politica fatta coi connotati più generici dei caratteri nazionali per effettuare delle deduzioni. Sotto il riguardo sociale la sua posizione politica non fu molto diversa da quella di un Eschilo – ma con un senso assai più angosciato e severo delle responsabilità di governo; e così, tanto per capirsi, un paragone alquanto più calzante a me sembra semmai possibile con un uomo come Tocqueville. Ma non si può passare, di qui, a sostenere senz’altro che la sua incipiente metafisica non fu che una proiezione speculativa di un intimo conflitto, sorgente dalla necessità, nella quale si venne a trovare, d’imporre innanzitutto a se stesso l’accettazione della democrazia. Risulta infatti evidente dall’insieme dei suoi pensieri ch’egli fu preparato alla vita democratica assai meglio dei suoi concittadini; e che proprio la sfiducia nella loro maturità democratica motivò il suo bisogno di propugnare una virtuosa tirannide. sui limiti di una logica del concetto Che cosa, io domando, potrebbe tenere unite cose tanto diverse in ciò che si vuol definire ad ogni costo un sistema? L’unica arte che effettivamente può farlo, e lo ha sempre fatto: la letteratura. A torto essa viene separata dalla filosofia, perpetuando una tradizione che inizia con Socrate e con la riduzione della logica alla dinamica del concetto. A torto, o comunque non senza perdite, oltre che con vantaggio: perché il concetto consiste, in definitiva, nella riduzione di una cosa ad una proposizione che non contiene alcuna contraddizione. La chiarezza e la duttilità dialettica in tal modo ottenute mediante una sostanza logica semplice (ogni sostanza, in quanto tale, è semplice, uniforme, continua; e ciò vale per la sintassi del concetto, che dev’essere fatta di sole proposizioni principali) – questa chiarezza e duttilità, dunque, non possono in alcun modo compensare la perdita della possibilità di descrivere e comunicare la realtà essenziale di esseri complessi, viventi di una o più contraddizioni. Nei casi d’approccio a nozioni d’ordine superiore narrazione e rappresentazione sono strumenti adeguati d’ordine corrispondente, intuitivo, capaci di comunicare idee chiare sebbene non distinte; mentre l’inesausto intelletto ragionante socratico si dimostra invece impotente, relativizzante, fuorviante ed effettivamente diseducativo – persino penoso e puerile nello spettacolo del suo dibattersi dialogico. Noi sapremmo cogliere meglio questa verità, se il nostro giudizio non fosse stato offuscato da una condanna a morte,

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1. la dissertazione di dottorato di spengler del 1904   235

e Socrate fosse stato condannato, che so?, a sorvegliare i mercati o a svuotare latrine. Noi oggi possederemmo, in tal caso, i suoi dialoghi della vecchiaia, dove egli avrebbe forse saputo spiegare con più precisione ai giovani che cosa sia ‘decoro pubblico’. È strano che la democrazia radicale ateniese non conoscesse l’arma del ridicolo, quando proprio la Grecia è il tipico paese nel quale il ridicolo poteva uccidere. Secondo Spengler, l’universo dei pensieri di Eraclito si presenta «come un poema maestoso, come una tragedia del cosmo che, per la sua forza sublime, appare degna delle tragedie eschilee».33 Ma egli vuol vedere soltanto ciò che desidera, perché non è così. La tragedia del cosmo fu scritta da Eschilo, non da Eraclito: il quale giunse alla prima soglia dei mezzi espressivi più elementari che danno alla letteratura valore ontologico, costitutivo dell’essere complesso; e lì si dovette arrestare per eccesso d’ispirazione e per difetto di talento nell’esecuzione. L’eccesso d’ispirazione gl’impedì d’isolare un oggetto ben identificabile, sul quale esercitare un talento esperito mediante la tecnica della composizione, poetica o drammaturgica. Eraclito dovette rinunciare alla letteratura che gli avrebbe assicurato il suo pubblico, non senza affliggersi per una qualche consapevolezza di questi suoi propri limiti. E così noi vediamo con lui la metafisica (come ho detto a sazietà nella Parte Prima) sorgere in buona misura da un’impotenza letteraria – compensata, di solito, mediante un’inevitabile atteggiamento di sufficienza dei filosofi nei confronti dei poeti. Ma insomma. Che un giovane esordiente come Spengler si giovi di tutto quanto gli capita sottomano per farsi strada, e finisca per barcamenarsi nel relativismo, non è cosa che possa fare scandalo, né sollecitare un commento. Se ne ho parlato con una certa ampiezza è per mostrare come l’eraclitismo abbia fornito lo strumentario venerabile e mistico ad un ambiente intellettuale filosofante che ripudia la specializzazione per fare del dilettantismo in trattato; che parla di monismo greco-arcaico mentre pratica il dualismo nicciano; che si lega le mani con l’apollineo e il dionisiaco per poi dibattersi a districarle con l’aritmetica; e che medita sull’immersione nei fiumi mentre ostenta il pathos nobiliare della distanza. L’involontarietà baldanzosa delle associazioni arbitrarie, improbabili, e magari capovolte, ha la sua lontana origine teorica nella separazione del pensiero dal sentimento dell’oggetto, nella rinuncia a percepirne la lenta emanazione; ha origine nella fiducia riposta nel possesso di un ‘fondamento’ del pensiero e del giudizio – ossia nel pallottoliere categoriale e nei miracoli promessi dalla logica trascendentale. Tutto ciò ricorda la storiella   Ivi, pp. 85-86.

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236   parte seconda. letteratura eraclitante

di quel tale che, perdute nella notte le chiavi di casa, le cercava sotto i lampioni: perché soltanto lì c’erano condizioni, possibilità e limiti per ritrovarle.34 L’epoca in cui il giovane Spengler si trovò a farsi strada ha saputo dare, come tutti ben sappiamo, anche scienza eccellente. Ma chi, come me, non è per natura dedito alla contemplazione fotistica del divino e del magnifico divenuto, e considera, invece, i vizi della creazione come quelli della storia allo scopo di darsene una ragione, deve, credo, occuparsi delle storture insite nei corpi. Allo spettacolo dei corpi sani dedichiamo la nostra attenzione negli stadi, dopo che per troppi secoli la letteratura l’ha celebrata soltanto nelle guerre dei vincitori. In questo senso, potrebbe anche avere un senso per noi l’invito di Eraclito a cacciare Omero dagli agoni.

  La parabola è di Michele Ranchetti.

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Capitolo secondo

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Le lezioni di Heidegger del 1943

l’essenza, ennesima sostanza Una certa sazietà di rappresentazioni risveglia in noi un naturale appetito d’immediata presenza dell’oggetto, mentre la vera e propria nausea nei confronti delle rappresentazioni induce qualcuno, inevitabilmente, ad esibirsi nel rilancio in grande stile dell’ontologia mediante un tuffo nell’Essere. Il tuffatore è in definitiva pur sempre un attore – specialmente quando si presenta goffamente a compiere le sue evoluzioni indossando le brache di cuoio da passeggio e impugnando l’Alpenstock. Non si sfugge, alla rappresentazione secondo un genere! – e neppure, in verità, all’essere secondo una specie. È vero che Heidegger non tenne le sue lezioni in una simile tenuta – ma nessuna immagine casuale come questa sua, ben nota, diventa famosa e viene rivisitata per caso. C’è della malignità in chi ce la ripresenta, ogni tanto, sulla stampa periodica, ma anche della verità: perché ci viene in tal modo ricordato che l’Essere nel quale si pretende d’immergersi si trova fin dapprincipio (dall’Origine, dall’Inizio, appunto) distinto in specie – e queste specie sono anche, per esempio, nazionali, o regionali, o comunque si voglia etniche. Una Sostanza originaria, che riposa in se stessa e che non ha bisogno di nient’altro che di se stessa per esistere, non può essere origine o inizio di alcunché. Se anche non viene ammessa una molteplicità sostanziale originaria, la divisione interna o l’incursione esterna danno vita a specie della Sostanza, e ad un’unità costruita su almeno un rapporto fra almeno due sostanze. Reso narrabile, descrivibile, discutibile in termini di pensiero, questo rapporto diventa unità di un essere complesso. L’attribuzione di ruoli distinti in una costituzione antropomorfa può fare di quest’unità ciò che a determinate condizioni può anche chiamarsi una personalità, reale o immaginaria. Prima di Heidegger, la trattatistica e la manualistica storico-filosofica neokantiana non avevano avuto ambizioni soltanto didattiche: avevano meditato di offrire in qualche modo l’essenza del pensiero moderno in forma narrata. Ora, se si prescinde da determinate condizioni e cautele, questa ricerca dell’essenza (o della necessità e sufficienza della cosa per il pensiero) può approdare

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di fatto ad una vera e propria sostituzione dell’oggetto. Questo è il pericolo della sua ricerca – e questo, ad ogni modo, è di frequente il risultato: di ripristinare il problema finale di Cartesio, per cui del mondo non rimane che un sogno matematico. Rigoroso, e a suo modo affidabile – ma pur sempre un prodotto della nostra immaginazione. La storia della filosofia in trattato esaustivo e la dossografia manualistica oggi non usano ormai più – almeno per il pubblico cólto e ben scolarizzato; ma è con piena ragione che in altri tempi qualcuno sia potuto restare insoddisfatto delle levigate rastremature con le quali un Cassirer, per esempio, venne presentando gli autori dell’età moderna in volumi capaci, pressappoco, di contenere le loro stesse opere: si potevano leggere (e si leggono ancora) quelli al posto di queste – scoprendo con sorpresa, per giunta, che ogni problema non sorge che per essere risolto di lì a poco: dall’autore stesso, oppure, preferibilmente, da un suo successore incaricato di effettuare una riproposizione in nuovi termini. Se si prende la strada dell’idealismo romantico, d’altra parte, il concetto di essenza come rapporto assoluto fra sostanze perde via via il suo significato estetico e statico, gravitativo e razionale, di punto d’equilibrio orizzontale, o di centro e di neutralità, o di potenza e di costituzione di un essere complesso, come può essere una personalità o una generica nozione. Da orizzontale, senza alcuna giustificazione, il modello del costrutto logico si fa verticale, e il centro diventa un momento squilibrato di transito. Il senso ottimistico, salvifico o progressivo, provvidenziale o teleologico della storicità conferisce al concetto di essenza, in tal caso, il significato del superamento: col quale si perde il senso della vita delle personalità in un continuo gioco di travestimenti, i quali vorrebbero essere sempre più spettacolari – finché lo spettacolo deve per forza finire conducendo il pubblico nella cabina di regìa. Peggiore ancora del concepire l’essenza come sintesi e superamento di sostanze è il volerla concepire come nuova sostanza, dando ad intendere che con l’instaurare un rapporto fra sostanze si generi nuova sostanza, capace di riposare in sé stessa e non bisognosa che di se stessa per esistere. Anziché un ciceone, bisognoso d’essere agitato per esprimere le sue proprietà senza separarsi nei suoi componenti, si veniva così a presentare all’immaginazione del pubblico una sorta di tubo telescopico, o una serie di scatole cinesi. In altri termini, sarebbe un po’ come dire (sul piano politico) che la costituzione di uno Stato multinazionale o multietnico fa di questo Stato una nuova nazione e una nuova etnìa, capace di riposare sui propri istinti e su sentimenti comuni indipendentemente dal tempo, dalla mescolanza delle generazioni e da un continuo riferimento alla costituzione; o sarebbe come dire (sul piano logico) che il rapporto fra il diametro e la circonferenza è sostanza e superamento della contraddizione insita

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2. le lezioni di heidegger del 1943   239

nelle grandezze del cerchio; o sarebbe come dire (sul piano storico-ideologico) che Cartesio può stare senza i precedenti di Valla e di Montaigne (che sono in qualche modo le antonomasie delle sue sostanze separate). Mentre nel primo caso noi vediamo nel Novecento il neokantismo approdare ad una sostituzione dell’oggetto, nel secondo noi vediamo l’idealismo romantico approdare ad una sostituzione della teologia spinoziana della Sostanza mediante una teologia heideggeriana dell’Essenza. In quanto si tratta di una teologia, però, questa Essenza nient’altro è che l’ennesimo travestimento della Sostanza. Non senza buone dosi d’infantilismo teorico, davanti ad ogni problema il tuffatore ontologico dell’essenza finisce per tornare a ficcare il capo in una materia arcana che è madre generatrice e figlia del suo figlio, anziché dedicarsi all’auscultazione e alla contemplazione del significato di un rapporto. Se anche non è un ciarlatano, bisogna per forza che presto lo diventi. Certo, quella di Heidegger non è ciarlataneria nel senso hegeliano: se non altro, perché gli mancò il senso della sovracostruzione ad oltranza (dedicandosi egli, viceversa, a spogliare immediatamente ogni cosa), nonché la prensilità politecnica e l’impudenza multidisciplinare (per semplici ragioni d’indigenza culturale accademica: si risparmiò il lungo tirocinio mestierante del Kant cosiddetto pre-critico). sotto il segno d’artemide La conferma di quanto detto fin qui si trova già nelle prime due lezioni del primo corso su Eraclito (le sole, di cui mi occuperò), tenuto a Friburgo nel semestre estivo del 1943, e soprattutto, più esplicitamente, nella seconda lezione (mentre la prima testimonia più chiaramente un esordio esitante e un approccio confuso all’oggetto, non privo di giudizi banali e di prove d’ignoranza su questioni pressocché elementari, come vedremo).1 Discutiamo dunque il contenuto di queste due prime lezioni, che formano l’Introduzione al corso, o Riflessione preparatoria, e non contengono riferimenti ai frammenti; i quali sono invece trattati nella successiva Parte principale intitolata La verità

1   Martin Heidegger, Eraclito, Mursia, Milano 1993 (da Klostermann 1987; ma io uso la ristampa conforme del 1994). I miei riferimenti al testo riguardano le sole lezioni, e non i sunti che le corredano, che non sono di Heidegger. I manoscritti delle lezioni dei due corsi estivi (1943 e 1944) furono poi ricopiati in dattiloscritti riveduti e corretti da Heidegger. Essi sono perciò specchio fedele del suo pensiero. Ciascuna lezione occupa lo spazio di poche pagine. Nel sunteggiare le questioni principali, o nel citare qualche singola parola di uso più frequente, rinuncio, talvolta, ai riferimenti in nota alle singole pagine del testo, quando ho già menzionato la lezione alla quale mi riferisco.

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240   parte seconda. letteratura eraclitante

dell’essere. Le lezioni vere e proprie contenute in questa parte principale non sono poi che un interminabile sproloquio, senza capo né coda – qualcuno deve pur dirlo, mi pare: un autentico spettacolo del disfacimento mentale dei resti di una cultura nazionale, non in quanto essa è cultura (perché non lo è), ma proprio in quanto è nazionale. Nell’introduzione al corso, dunque, il pensiero è definito come qualcosa di essenziale, e si occupa di ciò che deve essere pensato. «Solo» di ciò che deve essere pensato. Questo qualcosa «deve» essere pensato perché esso non ha altro modo di esistere, ovvero perché non c’è altro modo per farlo esistere. Noi diremmo, per capirci, che il pensiero del cerchio si occupa di pi greco in quanto, come numero trascendente, soltanto nel pensiero esso esiste, ovvero può essere fatto esistere. È lo stesso cerchio che in tal modo esiste nel pensiero e che «deve» essere pensato «solo» come cerchio – vale a dire nella sua unità e nel suo risultato di rapporto fra opposti. L’essenza di qualcosa e l’essere di questo medesimo qualcosa per il pensiero vengono in tal modo a coincidere. Entrambi non sono che ‘l’essere’ senz’altro. Presentandosi il cosiddetto ‘essere’ nella sua unità di rapporto risolto e riposante nel pensiero, il rapporto medesimo è fatto sostanza, mentre prescindendo dal pensiero della misurabilità delle sostanze l’essenza è coincidenza di una coincidenza: il risultato, presentato come origine, di un rapporto fra sostanze e, insieme, dell’essere col pensiero. Diciamo, per cercare di capire, che pensando pi greco si pensano anche immediatamente, secondo Heidegger, tutte quante le proprietà possibili che fanno l’essere qualcosa di sondabile – vale a dire, per esempio, la definizione del cerchio come luogo dei punti equidistanti da un punto dato giacenti su di una medesima superficie, o il suo essere la superficie massima compresa entro una linea chiusa. Mi permetto d’inserire nel discorso qualche rudimentale esemplificazione perché Heidegger (buon ultimo, in quello che è diventato un irritante costume dei filosofi) si guarda bene dal farlo. Il significato del rapporto stesso scompare, perché con la doppia coincidenza del rapporto fra opposti e delle proprietà con l’essenza l’essere non è ‘col’ pensiero, bensì è ‘nel’ «pensiero essenziale». Sul piano di una problematica storica, quest’origine e questo riposo in se stesso del solo pensiero di ciò che può essere soltanto pensato sono ciò che si chiama un «inizio». L’indistinguibilità terminologica di essenza e di sostanza nella lingua greca facilita il compito di misticheggiare questo inizio – anche se non manca, naturalmente (proprio perciò) l’abile invito, seminato là per mestiere, a non fare di Eraclito un mistico.2 Né questa oscurità dell’essenza e dell’inizio   Ivi, p. 26: «Custodire ciò che è oscuro nella modalità del pensiero è essenzialmente diverso da ogni

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2. le lezioni di heidegger del 1943   241

dev’essere priva di luce: possiamo noi dimenticare, infatti, che Eraclito era l’uomo di Artemide, o di colei ch’era soprannominata ‘la portatrice di luce’? Ma soltanto l’uomo di pensiero di Artemide, si badi bene: perché mai, da nessuna parte, se ho letto bene, Heidegger menziona l’ufficio sacerdotale di Eraclito. Egli è sempre, dall’inizio alla fine, soltanto un pensatore che secondo un’antica leggenda un bel giorno si recò nel tempio d’Artemide per mettere il suo manoscritto al sicuro. Mai effettivamente un sacerdote, mai un ottimate, mai un cittadino, mai un osservatore e un giudice, mai un malinconico e un collerico e un moralista, mai un pedagogo frustrato, mai uno stravagante e persino un pazzo, mai un eremita o un organizzatore o un rompiscatole – no: sempre e soltanto un pensatore perennemente dedito a pensare nient’altro che a «l’oscuro», chiuso nel forno o nel tempio. In quanto tutelato da Artemide, «il pensiero del pensatore che pensa l’oscuro, e che si dice egli stesso l’Oscuro, dovrebb’essere [soll] ‘apollineo’, vale a dire essenzialmente legato alla luce. Come si conciliano questi due aspetti?».3 Già – si concilieranno, probabilmente, con uno svolgimento di pensiero, che non è compatibile col suo ‘inizio’. E la luce, d’altra parte, non c’entra affatto con «l’oscuro»: c’entra, invece, con la nuova intuizione sotto il “segno” di Apollo della doppia natura degli esseri, a cominciare dall’uomo, che egli acquisisce nella solitudine. In conseguenza della sua corriva attenzione per i frammenti, Heidegger non si accorge che ad un certo momento della sua vita Eraclito si rivolge per migliore consiglio al fratello della sua dea, in modo da poter concepire mediante il suo segno una forma per gli esseri complessi, o viventi di un’opposizione. Se non che, un simile svolgimento di pensiero (per non parlare, poi, di svolgimenti successivi come l’erma di Zeus, o il braciere dei profumi) mal si concilia con una mistica dell’essenza e dell’inizio, qual’egli si propone di coltivare, e perciò non l’ammette. Ma prima ancora di dimenarsi nelle consuete giravolte risolutive degli arcani bisognerebbe giustificare un’affermazione superficiale, nonché la deduzione dilettantesca implicita in quel «dovrebb’essere». Vediamo per prima, l’affermazione superficiale: quando o dove mai Eraclito «si dice egli stesso» l’oscuro? Fin dalla prima lezione Heidegger dà prova della superficialità della sua preparazione, quando attribuisce a Hegel, anziché ad Aristotele, il giudizio circa le ragioni sintattiche e linguistiche dell’oscurità di Eraclito: «Lo stesso Hegel … esprime il seguente giudizio sull’oscurità di Eraclito: l’oscurità di tipo di ‘mistica’ e dallo sprofondare nella notte». Heidegger si guarda bene dallo spiegare il perché e il come, mentre tutto il contesto smentisce l’affermazione. 3   Ibidem.

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242   parte seconda. letteratura eraclitante

Eraclito è piuttosto la conseguenza di una costruzione sintattica poco curata e di un linguaggio rudimentale».4 Tutto questo pensiero «dell’inizio» sembra dunque abbeverarsi a fonti alquanto recenti, e preferibilmente autarchiche: Hegel, per Heidegger, è «il pensatore tedesco Hegel».5 Sebbene sia due volte derivato (da Hegel, che lo derivò da Aristotele) il giudizio, in sé, resta ad ogni modo valido. Ma se Eraclito dev’essere per forza l’Oscuro, ciò che invece non vale è la doppia deduzione circa il pensiero artemisio che sarebbe ‘apollineo’, e circa il pensiero apollineo che sarebbe, a sua volta, legato alla luce. Se Artemide in Messenia è la Fosfora (Pausania 4, XXXI 10), che bisogno c’è mai di scomodare Apollo? Ma perché, dopo averlo appena fatto con Hegel, bisogna attaccarsi anche ai pantaloni di Nietzsche – magari per levarglieli, con un effetto sorprendente sul pubblico, che si attende l’omaggio: qui Nietzsche, infatti, non è l’uomo dell’opposizione fra ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’, bensì l’uomo del solo ‘dionisiaco’. Ma andiamo con ordine. Parlando di carattere ‘apollineo’ Nietzsche non aveva tanto voluto riferirsi, in generale, al senso della luce, quanto piuttosto al senso della forma. Ora, nella sorella Artemide questo senso della forma non c’è affatto: la sua ‘luce’ è fatta di una laboriosità costante e di un’assiduità politecnica assai varia, creativa sì sul piano artigianale, ma alquanto comune, e niente affatto artistica o formativa. Apollo, d’altra parte, per Eraclito non è affatto il dio della luce soltanto, bensì anche il dio muto dell’evidenza simbolica densa di significati chiari e non distinti, come tutti sanno da DK 93. Parlare di ‘luce’ non è che dilettantismo, in questo ‘inizio’ (che è, in realtà, un ‘principio’: nel senso dei principianti). Ogni più spiccio lettore dei pensieri eraclitei deve avere presenti certe nozioni – e le avrà pure avute presenti anche qualcuno di quegli uditori che accorsero ad assistere alle esibizioni oracolari dell’ennesimo mago del nord. Proprio per questo, di fronte a loro egli mostra di sapere perfettamente come stanno davvero le cose, gettando là quest’affermazione: «L’interpretazione ‘dionisiaca’ del pensiero di Eraclito, introdotta da Hegel, involgarita e poi mandata a ramengo da Nietzsche, viene innanzitutto e in modo incidentale neutralizzata dall’indicazione che Artemide è la dea di questo pensatore».6 Qui   Ivi, p. 19.   Ivi, p. 18. 6   Ivi, p. 17 (come la citazione che segue). Il testo dice in modo alquanto brutale e bizzarro: Die bereits durch Hegel aufgebrachte und von Nietzsche dann vergröberte und in die Sphäre des Sumpfes verschobene ‘dionysische’ Deutung des heraklitischen Denkens wird zum voraus und nebenbei ausgeschaltet durch den Hinweis, daß Artemis die Göttin dieses Denkers ist. A parte la «sfera del lezzo», l’espressione zum voraus und nebenbei ha il significato di ‘togliere di mezzo alle spicce, senza molta fatica’. 4 5

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2. le lezioni di heidegger del 1943   243

Heidegger ci rivela che da più di un secolo il pubblico è stato ad assistere ad una messinscena ‘dionisiaca’ (allestita proprio dai suoi personali tutori Hegel e Nietzsche!) senza molto costrutto, alla quale si poteva facilmente mettere fine con la semplice menzione della tutela artemisia dello scritto: non portò infatti Eraclito secondo un’antica leggenda, rammenta Heidegger, il suo manoscritto al sicuro nel tempio d’Artemide? «Così la parola di Eraclito sta sotto la protezione di Artemide». E noi, in compagnia di qualunque liceale, possiamo continuare: “e siccome Artemide era sorella d’Apollo, ecco che la sua tutela lega alla luce il pensatore oscuro che pensa l’oscuro”. Heidegger non sembra neppure rendersi conto che qui dentro c’è più d’un pasticcio – né del resto se ne cura: come tuffatore dell’essere, lui ci sguazza, in queste paludi che sarebbero di Nietzsche. Ma a noi interessa, qui, un solo particolare filologicamente importante, perché avrà un futuro. Heidegger mostra di non capire, prima di tutto (questo sì zum voraus – ma non nebenbei!), quale sia la differenza che passa tra il fare di Artemide la tutrice di un pensiero oscuro, e fare di Artemide la tutrice del manoscritto di questo pensiero, depositato nel luogo del quale essa è tutrice. Identificare le due cose così, alla buona, presuppone un patto di complicità con l’ascoltatore o con il lettore, dicendo pressappoco: “siamo d’accordo che Eraclito fu sacerdote d’Artemide, e che scrisse il suo libro, o qualunque cosa fosse, come sacerdote d’Artemide?”. Ma non è affatto questo che Heidegger dice. Egli si limita a tradurre l’antica diceria, secondo la quale Eraclito anéthēke, brachte, insomma «portò» il manoscritto al tempio d’Artemide allo scopo di metterlo là al sicuro. E in tal modo Artemide Fosfora sarebbe diventata tutrice del pensiero oscuro che pensa l’oscuro! Non si sa che cosa pensare della sciatteria di una simile improvvisazione, spedita con ogni riguardo alle stampe. Ma a noi interessa, come dicevo, per un altro motivo: perché offre l’appiglio per un riferimento alla prossima discussione sulla posizione ermeneutica di Gadamer. Come si vedrà, questa posizione considera fondamentale, nell’intelligenza di un testo tràdito, la mediazione interpretativa dei testimoni – anche assai tardi, come Gadamer di fatto li predilige. Ora, senza rendersene conto, facendo di Artemide nientemeno che il primo testimone della tradizione del pensiero eracliteo, Heidegger costringerebbe una posizione ermeneutica del tutto conseguente ad interpretare i frammenti proprio alla luce, innanzitutto, di questa tutela artemisia, anziché delle successive testimonianze profane, magari assai tarde. Non obbietti il lettore, a questo punto, che simile compito interpretativo, destinato a mettere il pensiero di Eraclito tutto quanto sotto una luce artemisia, dovrebbe spettare in verità, e da subito, allo stesso Heidegger che la propone. Perché sarebbe una vera ingenuità!

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l’ontologia fra l’ermetismo e il dada Gli uditori, si sa, furono vinti da ‘l’atmosfera’ e da ‘l’ambiente’ di ‘quella’ Germania. Senza il ricorso a metafore meteorologiche ed ecologiche poco si spiega di certe ipnosi accademiche e, poi, editoriali. Se non che, creando un’atmosfera, Heidegger pretendeva proprio di dissipare d’attorno al suo Eraclito ogni appannante atmosfera: Già a partire da Hegel, e soprattutto a partire da Nietzsche, il pensiero, la forma e la parola di Eraclito sono stati avvolti da un’atmosfera, cui difficilmente sono sfuggiti sia gl’interpreti inesperti che quelli assai abili. Questa atmosfera, che circonda Eraclito, nasce da una sbrigativa applicazione del pensiero dialettico, che in se stesso nasconde un pericolo specifico che neppure pensatori esperti possono evitare completamente. Infatti persino il pensiero di Hegel e quello di Schelling sono talvolta finiti tra le ruote della dialettica. Come potrebbero i successori, che non pensano più a partire dall’esperienza della ‘sostanza’, non correre un rischio maggiore?7

Parlare di uno Hegel che finisce «talvolta» (bisweilen) fra le ruote della dialettica non è a dir poco sorprendente: è semplicemente penoso, e persino un poco offensivo per l’intelligenza e la buona fede di chi legge, o di chi avesse voluto ascoltare libero da soggezione discepolare. Heidegger tenta, di passaggio, di scagionare Hegel dal giudizio che deride nel suo sistema la meccanica degl’incantesimi triadici; e inserisce un riferimento alla garanzia che «l’esperienza della sostanza» avrebbe ancora offerto a uomini di quella generazione – l’ultima delle generazioni ‘sostanzialiste’, par di capire; le quali sarebbero, secondo lui, ormai tramontate per sempre. In difetto di salvaguardia sostanziale, dal momento che il pensiero può reggersi ormai soltanto sul vuoto di se stesso, occorrerebbe cautelarsi facendo compiere al pensiero la minima dialettica, il minimo movimento possibile al di fuori dell’essere. È ciò che udiamo affermare, e che soprattutto vediamo accadere fin dalla prima di queste lezioni: nella quale alla domanda su chi siano Artemide o Zeus viene immediatamente negata la risposta storico-mitologica, o per così dire tecnica ed estesa, perché «l’essenza nascosta della storia alla quale apparteniamo [das verborgene Wesen

7   Ivi, p. 27. Anche qui la lingua è tanto bizzarra, da suscitare impressioni persino balorde: Denn bisweilen ist sogar Hegels Denken und ist auch Schellings Denken zwischen die Räder der Dialektik geraten. Heidegger lascia immaginare ai suoi ascoltatori due operatori distratti che vengono catturati fra gl’ingranaggi di una macchina tentacolare. Dopo la Sphäre des Sumpfes, che farebbe ridere un agricoltore, in questi Räder der Dialektik si rinnova un gusto völkisch del tutto posticcio, che farebbe ridere un operaio. Che Heidegger avesse visto Tempi moderni (1936)? In entrambi i casi il traduttore italiano Franco Camera corre in soccorso del suo assistito, moderando la grossolanità delle espressioni.

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2. le lezioni di heidegger del 1943   245

der Geschichte in die wir gehören]» cela «ancora [noch]» ogni risposta «nella nostra storia futura, in quanto questa stessa storia risponde a ciò che è stato».8 Siamo di fronte ad un senso completamente sconvolto del tempo. Le domande che noi ci poniamo nel presente insomma, secondo Heidegger, non sono che il futuro del passato; e la risposta sta nel nostro futuro, dal momento che noi «ancora» non possiamo darla (nell’espressione sull’essenza nascosta della storia in die wir gehören è implicito il significato dello ‘stare immersi’ nel presente, e non dell’appartenere al presente nel senso di conferirgli la nostra identità). Siamo noi, uomini d’oggi, futuro dei greci e futuro di noi stessi, che dovremo dire chi siano veramente Artemide e Zeus. Sarà un arbitrio, questa nostra risposta? Sarà una sopraffazione del passato? Ma no, almeno nella misura in cui (sofern) questa stessa nostra storia noch da scrivere, questo nostro essere futuro del passato e ‘anche’ futuro di noi stessi, risponde, o corrisponde, o va incontro, o soddisfa a ciò che è stato (dem Gewesenen entgegnet). Si capisce senza troppa difficoltà che in questi rimbalzi adialettici (senza sviluppo) tra passato e presente-futuro si viene a comprimere, come su tavolette strettamente affacciate e continuamente reversibili (come vedremo ancora più avanti), tutto quanto un secolo e mezzo di storicismo, coi suoi rigogliosi o monumentali sviluppi. È la negazione dell’estensione del tempo. E il lettore capisce anche facilmente qual’è la debolezza d’origine, e persino l’inconsistenza di una speculazione tutta concepita non solo come reazione pregiudiziale ad una logica rappresentativa, ma anche come rimedio ai vizi e alle virtù di un autorevole illusionista di famiglia, come Hegel, che ha creato il mestiere. Ognuno ha pur sempre il diritto di prendere le sue strade, portandosi dietro i suoi vecchi nel modo più decoroso che può. Ma di questo Anchise del suo passato il nostro avventuriero non vuol portare stancamente il peso: porta sul bavero una fotografia – solo, girata in modo da mostrare il bianco del retro: come potremmo infatti dire oggi che cos’è la dialettica e cos’è stato Hegel, se Artemide e Zeus attendono ancora una risposta? Come per loro, anche questa probabilmente verrà, ‘andando incontro’, come si dice, ‘a ciò che è stato’. Il fatto è che tutto ciò che Heidegger è venuto sin qui dicendo, veramente, non è affatto andato nella direzione che ho cercato di chiarire in queste contorte espressioni. Heidegger non dice affatto, per lo più, che l’oscurità

8   Ivi, p. 15. Die eigentliche Antwort auf die Fragen “Wer ist Artemis?” und “Wer ist Zeus?” verbirgt sich noch in unserer kommenden Geschichte, sofern nur diese selbst dem Gewesenen entgegnet. Di nuovo il traduttore italiano soccorre Heidegger sopprimendo il noch, che accentua il disorientamento temporale. Rinuncio, d’ora in avanti, a segnalare altri rilievi simili.

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di Eraclito può dipendere dai difetti lessicali o sintattici notati da Hegel, né dice che essa dipende da un’atmosfera ‘dialettica’ che uomini come Hegel gli avrebbero creata intorno. Dice e ripete a sazietà piuttosto, badando bene a non allontanarsi troppo dalla formulazione dell’assunto, che Eraclito è oscuro semplicemente perché pensa l’oscuro; e perché il pensare l’essenza è pensare necessariamente il nascosto e dunque (secondo lui) l’oscuro; e perché «l’universo … còlto nell’essenza del suo essere, è piuttosto ciò che si nasconde ed è quindi [necessariamente, a lui sembra] ciò che è essenzialmente ‘oscuro’»; e perché il pensiero che voglia pensare ciò che si nasconde nell’inizio «lo deve lasciare essere per ciò che è», rinunciando ad esercitare «una ‘volontà’ che costringe l’universo ad abbandonare la sua oscurità».9 Questo riferimento ad una ‘volontà’ dialettica che avrebbe costretto l’universo a svelarsi, snaturandone e rendendone inaccessibile l’essenza sotto un cumulo d’innumerevoli superfetazioni, suona alquanto strano: perché giunge dopo un giudizio di degnazione su Schopenhauer (che non fu pensatore, secondo Heidegger, ma semmai divulgatore di filosofia) contenuto nella prima lezione. La schopenhaueriana rinuncia alla volontà dialettica, e il suo abbandono alla Volontà sostanziale, sono, tuttavia, pressappoco ciò che Heidegger andava proprio cercando – o almeno diceva di andare cercando; e con un simile ossequio al successo accademico e dossografico hegeliano egli mostra uno dei tratti caratteristici della sua personalità: il servilismo ipocrita, la debolezza di carattere, l’ossequio reso al successo accademico, e la ricerca di una facile complicità coi suoi ascoltatori. Ma insomma: ciò che qui Heidegger deplora in riferimento all’idealismo romantico è la nausea creata dalla ‘dialettica’, che nasconde la nudità della cosa pensata con le sue sovracostruzioni sistematiche o trattatistiche; ed egli ripudia per giunta nella dialettica triadica (ma questo va da sé, mi pare) il momento tecnico della sintesi come pretesa di superamento della cosa stessa. Al di là delle formulazioni oracolari e del dimenarsi nel nulla del pensiero pensante il pensato nell’istante del suo divenire pensiero, non è molto difficile, allora, capire che cosa sia, in definitiva, questa oscurità: è il fermo proposito di non allontanarsi mai d’un solo passo dal pensato, senza decidere di farvi immediatamente ritorno.10 È l’inesteso che pretende di estendersi d’una sola parola per rientrare subito nell’afasia, o nel manierismo della ridondanza ter  Ivi, p. 26.   Di DK 16, per esempio, nelle sue lezioni fornisce almeno quattro versioni, la cui unica variazione significativa consiste nel trasformare “ciò che mai tramonta” in un arbitrario “ciò che sorge”, mediante la trasformazione in affermazione di una pretesa doppia negazione (il ‘non’ e il ‘tramontare’). 9

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minologica identitaria praticato ad oltranza. Un esame sommario permette d’individuare altri casi esemplificativi alquanto interessanti dell’autismo ontologico del pensiero essenziale dell’inizio. Sono casi, fra i primi che si presentano, che vale la pena elencare per non dovere più tornarci sopra. Nella Considerazione preliminare, con la quale presenta al lettore il suo ciclo di lezioni, Heidegger sancisce che il pensiero essenziale è un dono, non è una costruzione. Sappiamo già (e avremo, tra non molto, occasione di ripetere), che questo dono viene elargito al pensatore essenziale da Artemide. Ma il culto artemisio, che Heidegger getta là senza una ragione, è una sua trovata, buona soltanto per paludarne il narcisismo vaticinante davanti ad ascoltatori ben disposti a farsi continuamente sorprendere. Limitiamoci dunque a notare soltanto quel che c’interessa: il pensiero è un dono, non è una costruzione. Il pensiero essenziale non dovrebbe trovarsi depositato in diverse decine di volumi, bensì è (o dovrebbe essere) un argomento, un aforisma, un appunto, una nota, un motto, una sentenza, un’esclamazione, persino un improperio, o un rantolo – tutti quanti riuniti preferibilmente in un solo libro (e qui vale la pena di osservare, di passaggio, che sarebbe interessante compilare una classifica canonica dei filosofi che combini in ragione diretta la loro notorietà, e in ragione inversa la mole dei loro scritti). Ora, nel Novecento un’idea del genere, ma praticata sul serio, c’era già stata da un pezzo nell’ermetismo poetico: in Ungaretti il pensiero è un sasso, è la parola appena uscita d’un solo passo oltre il silenzio. Di più, non si può: chi ha vissuto un’esperienza è anche il solo a poterla conoscere davvero. Narrarla significa tradirla, perché il racconto diventa sempre un’altra esperienza. Perciò essa è destinata a morire col ricordo – o a restare a fior di labbra e a fior di pelle, come una scorza, una cicatrice o il rilievo di una moneta, a cui si accenna. Dopo le esperienze cubista e futurista, che corrispondono bene al clima neokantiano di riduzione della cosa agli avvolgimenti delle sue rappresentazioni, o alla fenomenologia delle intersecazioni dei suoi piani atmosferici, la reazione dada ripropone la necessità del contatto immediato con l’essere semplicemente dato, rinvenuto in un mondo che è disseminato dei brandelli manufatti degli objet trouvé. Una ruota di bicicletta senza la bicicletta non ha alcuno scopo, e perciò, esposta in bella mostra, non ha che da essere se stessa. Quale mai essere più essere di questo? E così ogni singolo manufatto della civiltà della macchine, dove tutto viene prodotto per uno scopo che sta fuori di esso, ritorna a delimitare nient’altro che una semplice suddivisione dell’Essere non appena perde questa finalità. Non senza una volontà di poesia la pop art ha poi cercato in ogni brandello dell’essere, in ogni manufatto abbandonato, la sua dignità, e ha trovato persino l’arte nell’umiltà di un tubetto di denti-

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fricio spremuto. Il movimento dada no: s’è divertito a rimontare i manufatti a casaccio, e la ruota di bicicletta sullo sgabello, in modo da farsi beffe della dignità dell’oggetto mediante il conferimento di una finalità incongrua. Esso, in tal modo, si faceva in realtà beffe del giudizio riflettente kantiano, e di chiunque pretenda di conferire una finalità o un senso alle cose di questo mondo, mediante una sfida portata direttamente contro il Giudizio. Una generazione dopo, la filosofia accademica arrivò a formulare il problema in termini generali, in modo tale che non potesse interessare a nessun altro che ai filosofi accademici. Afasia a parte, e a dispetto delle diverse decine di volumi nei quali è stata depositata (secondo la migliore tedescheria), la filosofia di Heidegger può anche avere qualcosa a che fare, almeno in linea di principio, o d’inizio, con lo stretto raccoglimento dell’ermetismo. Dopotutto, Ungaretti e Heidegger sono quasi coetanei (1888 e 1889). E tuttavia a me pare che, violando ogni migliore intenzione, o comunque ogni proclamazione di volere restare fedele all’unità originaria dell’essenza (che essa tuttavia postula, come ho già detto, come non derivata per pensiero di rapporto fra sostanze), e violando ogni proposito di escludere significativi sviluppi oltre il cosiddetto ‘inizio’ – insomma: credo che, con le trovate che vi sono seminate, l’opera di Heidegger possa assai meglio essere paragonata, nell’insieme, ad una ricerca di objet trouvé. Ma essa esclude senz’altro i rimontaggi canzonatori dada, nonché la distratta simpatia verso gli umili della pop art. Per convincersene, basterà vedere ciò che diventano, nelle sue mani, quegli objet trouvé che sono i pochissimi frammenti eraclitei di cui si occupa. Nella medesima pagina della Considerazione preliminare si trova un altro argomento astringente (diciamo così) sul caso della ‘filosofia occidentale’: A rigore questa denominazione è un’espressione sovraccarica di significato. Non esiste altra filosofia oltre a quella occidentale. Nella sua essenza la ‘filosofia’ è così originariamente occidentale, che su di essa si basa il fondamento dell’intera storia dell’Occidente. Soltanto da questo fondamento è sorta la tecnica. Esiste solo una tecnica occidentale. Essa è la conseguenza della ‘filosofia’ e non è nulla al di fuori di quest’ultima.11

Se con la tutela artemisia del manoscritto eracliteo abbiamo trovato un punto di giunzione generazionale proclitica (sia pure involontaria ed inevasa) con l’ermeneutica di Gadamer, qui troviamo invece un’esplicita giunzione generazionale enclitica con Spengler.

  Ivi, p. 7, come il caso precedente.

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Il lettore non deve lasciarsi fuorviare dall’arroganza, che è il tratto più saliente ma meno importante di questo passo, nel quale si rincorrono un paio di tautologie o di sofismi. Che non esista altra filosofia oltre a quella occidentale è affermato senza ambagi anche, per esempio, da Carlo Mazzantini. Restiamo dunque a noi, e all’astringenza monopode del pensiero. Parlando con ridondanza di ‘filosofia occidentale’, dice Heidegger, si crede di dire due cose, o un genere e la sua specificazione, e invece se ne dice una sola – tanto, che basta parlare di ‘filosofia’ (benintesa, fra virgolette, come l’intende lui: filosofia essenziale), oppure di Occidente. Una cosa vale l’altra. E l’identità dell’Occidente non consiste, per lo Heidegger pensoso ‘dell’inizio’, nella memoria letteraria scritta e tramandata estesamente per generi (l’epica, la lirica, la saga, la storiografia, la mitologia, il dramma – oltre alla filosofia, essenziale o no), bensì consiste in un sola forma inestesa (ma pur sempre scritta! – o non è la scrittura del brogliaccio di Eraclito un’estensione del pensiero, e il primo passo di una tradizione?); consiste in una sola forma inestesa, dicevo, di attività dello spirito che nella sua ‘attualità futura’ (diciamo così, per la compressione del tempo, che s’è vista) non vorrebbe essere vera memoria, e che nella sua formulazione oracolare o aforistica pretende di non essere neppure scrittura. La filosofia essenziale è l’Occidente per antonomasia, secondo Heidegger, perché essa, «nella sua essenza», è «originariamente» occidentale – e questa è una doppia tautologia, o una doppia ridondanza, con la quale si cerca di mettere rimedio ad una ridondanza: l’essenza della filosofia essenziale è occidentale perché è occidentale ‘in origine’. Non resta di fermo, in questo primo costrutto logico e sintattico, che questa ‘origine’, postulata e ribadita. E subito dopo: essa (la filosofia essenziale) è occidentale perché è il fondamento dell’intera storia dell’Occidente; ed è il fondamento, perché su questo fondamento è sorta la tecnica; ragion per cui, come esiste solo una ‘filosofia’ occidentale, così esiste solo una tecnica occidentale; la quale è conseguenza del fondamento filosofico e nulla al di fuori di esso. Di nuovo non resta di fermo, in questo secondo costrutto logico e sintattico, che questa ‘tecnica’, gettata là con non poca nostra sorpresa: è mai possibile che nell’origine inestesa, e come puntiforme o almeno monopode del pensiero si trovi una tecnica – vale a dire la diversificazione procedurale per eccellenza del pensiero? Si sente che Spengler ha seminato i suoi pollini – ma non con la dissertazione sull’Eraclito animale gerarchico: perché il filosofo indigente che si riscalda vicino al fuoco è un uomo che sembra avere conosciuto il 1919 e il 1923 (‘l’anno dei suicidi’), e che in definitiva trema di freddo perché ha un corpo. Il pensiero essenziale ha pur sempre un’estensione, dunque – ma i nostri disorientamenti non sono ancora terminati. Heidegger trascura di trarre

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al momento opportuno la conseguenza che il lettore si attenderebbe: che la filosofia è il fondamento dell’Occidente ‘solo’ perché la tecnica è sorta da essa o con essa. La ‘filosofia’ potrà anche, forse, dovere tutto ciò che è nient’altro che a se stessa – ammettiamolo pure; ma certamente l’Occidente deve ciò che è alla ‘filosofia’ soltanto in quanto essa ha prodotto una tecnica, ovvero consiste in una tecnica. Vale a dire: in quanto consiste in una varietà di forme estese d’applicazione – a cominciare dalla terminologia, dalla logica sintattica e dalla scrittura (a tacere, poi, dell’invenzione e dell’efficacia). Ma ciò nient’altro significa, se non che la filosofia, essenziale o no, è uno dei generi letterari dell’Occidente; e che l’identità dell’Occidente è indissolubilmente legata alla memoria scritta e alla conservazione dei suoi generi letterari. Heidegger non trae questa conclusione ‘estesa’ perché pretende di poterla evitare con i suoi stretti montaggi a giro di vite senza fine sul cosiddetto ‘inizio’ – anche se però pratica largamente la tecnica, mediante il frequente ricorso agli espedienti che si sono visti, e che si vedranno ancora nel proseguire la discussione su queste sue prime pagine. un eraclito völkisch e il resto dell’essenza Nel forno il pensatore infreddolito si riscalda. Con questo aneddoto si compiace di esordire Heidegger dinnanzi ai suoi ascoltatori. Perché il pensatore (non è vero?) ha anche un corpo: quella cosa che, oltre a permettere a Eraclito di pensare l’essenziale, talvolta lo faceva anche andare in collera, o gli comunicava visioni e sensazioni di profumi; e la cui vitalità cieca, o entusiastica, o accidiosa, o combattente, o sazia, o lussuriosa, e quant’altro, egli osservava nei suoi concittadini. Dalla constatazione che egli possedeva un corpo paziente, e che non lo nascondeva affatto, si può ben giustificare anche la scelta d’iniziare il riordino dei frammenti da DK 55, per esempio: nel quale egli afferma di fare un uso conoscitivo del corpo mediante la vista, l’udito, e un intelletto non distinto dai sensi. È questo, l’inizio, già diversificato nella sua unità. In tal modo l’attività di Eraclito comincia nel silenzio, nella contemplazione e nell’ascolto; né si potrebbe in alcun modo associare quest’intelletto ad alcun lógos, comunque concepito e pertrattato. “Prendersi cura” di qualcosa che si osserva, si ode e s’intende non implica necessariamente alcun uso della parola – anzi: io credo proprio che Eraclito abbia assunto i compiti del suo ufficio facendo uso per lungo tempo proprio dell’osservazione e del silenzio. Si spiegherebbe anche assai meglio, in tal modo, la ragione per cui sentì il bisogno di annotare i suoi giudizi.

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Per Heidegger non è così; ed egli si compiace di mettere in mostra a tutta prima questo corpo che teme, che lo smentisce, e che più lo smentirebbe se l’aneddoto fosse soltanto l’inizio di una scelta ricostruttiva dei frammenti di tipo biografico: mediante la quale la vita cittadina di Eraclito fosse portata dinnanzi al lettore, come sarebbe naturale, per invitarlo a fare proprio come dice lui: a guardare, a udire, a capire prima di darsi a parlare. Ma non è così: perché Heidegger, non diversamente da Spengler e da Gadamer (nonché da molti altri interpreti, del resto, come ho già detto nell’introduzione e nel commento ai pensieri) si guarda bene dal sottoporre ad esame tutti quanti i frammenti – e specialmente il gran numero di quelli che lo potrebbero smentire. Noi non possiamo fare altro che constatare il fatto, e andare avanti. Nel forno, dunque, «domina la presenza dello straordinario all’interno dell’ordinario».12 L’Eraclito völkisch che invita il pubblico a condividere la sua indigenza non può farlo senza sovraccaricare l’invito di misteriosi significati: «Non è forse ciò che faccio e il luogo in cui mi trovo già sufficientemente pieno di segni?», gli fa dire il docente per la sorpresa degli studenti in immobile attesa. C’è la presenza simbolica del fuoco – ma questo lo capisce chiunque. No, ci dev’essere anche dell’altro, perché «in ogni espressione comune del suo discorso si nasconde necessariamente un senso profondo»; e dunque «bisogna comunque» ammettere che la parola di Eraclito, come «parola che scaturisce dal pensiero», abbia «una spiegazione strana». Si resta non poco perplessi nell’apprendere che il pensiero, e il pensiero essenziale per giunta, debba per forza avere qualcosa a che fare con delle stranezze racimolate nella vita quotidiana – ma ho già parlato dell’adiacenza di Heidegger col dada, e ciò basti per ammansirci. Eraclito stesso seppe raccogliere oggetti della vita quotidiana dotati di un valore simbolico, come la vite della gualchiera o come l’arco, senza tuttavia cercare in essi la stranezza, bensì la semplice evidenza. Heidegger no, deve sorprendere e toccare il cuore del pubblico – ed ecco la trovata: quel forno è «un forno per il pane». «Il forno dà il pane», scandisce Heidegger. «Come potrebbe vivere l’uomo senza il dono del pane? Questo dono del forno [vale a dire: il pane] è il segno di ciò che i theoí, gli dèi, sono». Gli dèi non sono più il fuoco, almeno per il momento (tanto, quanto deve durare una sopresa): sono il pane. Il filosofo è indigente, ha freddo. Avrà anche fame? Non lo sappiamo: perché Heidegger, una volta esaurito l’effetto, preferisce evitare un quesito che minaccia di diventare imba-

  Ivi, pp. 10 e 11, come i passi e i riferimenti che seguono.

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razzante, e ritorna prontamente a parlare del fuoco: «Essi [gli dèi] sono daíontes, coloro che si offrono nell’ordinario come straordinari». E che cosa c’è di straordinario nel dare il pane? Nulla, appunto, si affretta a spiegare Heidegger, liberandosi dell’ostia nella quale gli dèi si offrono: «Io mi riscaldo nel forno e rimango così in vicinanza del fuoco – in greco pũr – e questo significa contemporaneamente luce e calore. Mi trovate qui in rapporto col fuoco, che rende possibile sia il raggio di speranza di coloro che guardano verso l’interno, sia il raggio di calore che permette di ‘aprirsi’ e di manifestarsi a ciò che altrimenti, a causa del freddo, dovrebbe sottostare alla rigidità». Il dada ha aperto effettivamente la strada alla moda del kitsch – e qui non c’è una semplice tangente con Heidegger: c’è una vera e propria secante, una fetta abbondante. Al disgusto che nasce, a leggere bene (perché chi ascolta non ha il tempo di accorgersene, e Heidegger questo lo sapeva perfettamente), dal sospetto di una messinscena dell’eucarestia, con quei visitatori che improvvisamente diventano una folla assetata non di curiosità, ma di speranza; a questo disgusto, dunque, si aggiunge la goffaggine ridicola della spiegazione di un misterioso fenomeno fisico-teologico. Se abbiamo capito bene, insomma, oltre al raggio di speranza esce dal forno anche un raggio di calore. Questo raggio di calore permette a qualcuno o a qualcosa di manifestarsi – perché altrimenti dovrebbe sottostare alla rigidità. Apprendiamo così che c’è qualcosa di più potente del fuoco: ‘la rigidità’, alla quale il fuoco, o gli dèi, dovrebbero sottostare se non ci fosse il calore. C’è dunque qualcosa di più potente anche della rigidità – ed è questo calore. Ad esso il fuoco o gli dèi devono la loro forza. La luce del fuoco dà speranza ai visitatori, mentre il suo calore dà agli dèi la forza di vincere il rigore del gelo, al quale, se no, dovrebbero sottostare. O qualcosa del genere – il lettore si diverta come vuole. Basta che noti bene ciò che a me interessa di mostrare: che a dispetto di ogni proclamazione invitante a restare ben fermi sull’essere e sull’essenza, senza allontanarsi d’un passo, il pensiero di Heidegger se ne va a prendere all’occasione, surrettiziamente, ciò che gli serve dovunque lo trovi. Questa ontologia del fondamento trova in realtà tutti i suoi fondamenti nei più comuni depositi emotivi, ed è scaltrezza da ciarlatano di una tarda fenomenologia che sa ben praticare la teoria della percezione come arte della suggestione. Ma restiamo sul discorso. Suggestionabilità ed emotività di chi? Degli ascoltatori soltanto, o anche dello stesso oratore? Rispondere a questa domanda significa addentrarsi nella psicologia di Heidegger, per cercare di capire se egli mentisse soltanto ai suoi ascoltatori facendo del teatro scadente e della cattiva letteratura, o se anche sentisse veramente le cose in questo modo, e mentisse prima di tutto a se stesso. Mi perdonerà il lettore, se rispondo che il

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quesito non mi tormenta – anche se in proposito ho le mie opinioni? Smetteremmo di parlare di Eraclito per parlare di lui, e non mi sembra vantaggioso. Un altro caso d’autismo essenziale di notevole rilievo si presenta col problema della storia: «Tutte le rappresentazioni storiografiche del passato sono solo miseri aspetti esteriori di errori storici».13 Heidegger vuol dire, assai succintamente, che l’uomo è un essere che brancola su questa terra, e che la storiografia non fa che illustrare (nel doppio senso del termine) questo suo brancolare. Misero lui, misera anch’essa. Che lo sapesse o meno, lo sberleffo dei rimontaggi dada aveva preso di mira, come ho già detto, il giudizio riflettente kantiano: quello cioè che (tanto per capirsi) dopo il giudizio determinante che distingue il gatto dal topo ci spiega perché dev’essere proprio il gatto a mangiare il topo, se si vuole che il mondo abbia un senso per noi. Non diversamente Heidegger si fa beffe della storiografia che vuole dare un senso alla vita, e si abbandona ad una contemplazione del passato (e del presente) che ha molto a che fare con gli abbandoni schopenhaueriani. Con simili abbandoni egli ebbe molto a che fare, malgrado ogni giudizio di sufficienza e ogni protesta contraria di hegelismo trionfante. Nell’accademico ciò servì soprattutto a tenersi in buona compagnia, dissipando l’ansia di potere restare un uomo senza successo. Ciò allontana decisamente Heidegger da Eraclito: il quale dovette subire, sì, un confronto col successo – ma lo risolse ripudiando ogni tutela, e non ammise alcuna sudditanza nei confronti della fama. Per un filosofo dell’essenza, insomma, la storiografia è la tipica materia estesa, e il pensiero se ne deve tenere ben lontano. Ho già detto più volte quel che penso in proposito: un’essenza che prescinda da un rapporto fra sostanze, il quale crei l’unità di forma o di costituzione di un essere complesso, o di un soggetto ‘soggetto’ innanzitutto a se stesso, non fa che sostituire un termine con un altro, e realizza sotto altro nome l’ennesimo ripristino del primato della Sostanza. Il maestro di questo artificio è Spinoza, perché la sua Sostanza dotata di attributi nient’altro è che una somma Essenza dotata del potere di risolvere il problema del rapporto fra sostanze formulato nei termini più generali da Cartesio. Il fatto è, però, che quest’Essenza non si riproduce poi nei modi distinti dell’essere proprio come essenza, vale a dire come catena unita di esseri complessi, bensì in due filiazioni distinte secondo gli attributi. E così il dualismo cartesiano viene soltanto ingigantito legando le sorelle per le trecce, o per i sommi capi delle sostanze distinte. Si capisce facilmente quanto l’artificio sia fungibile: perché basta dare al nodo un nome via via diverso, e ogni pensiero   Ivi, p. 13, come il passo che segue.

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sostanzialista potrà trovare l’unità inesauribile delle cose di questo mondo in una sempre nuova teologia. Trovare gli attributi distinti di ogni nuova Sostanza non è poi tanto difficile: sono l’Io e il Non-Io, la Tesi e l’Antitesi, il Valore d’uso e il Valore di scambio (se la sostanza è il lavoro) o la Classe dominante e il Movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (se la sostanza è la lotta), o ancora la Rappresentazione e l’Annullamento – e così via. È notevole che dopo la nausea per la dialettica e per lo storicismo Heidegger abbia espresso anche la nausea per la Sostanza. E ha pensato di liberarsene, liberandosi delle sue estensioni – vale a dire: delle catene distinte dei modi. La testa doppia, però, come uno scolice, è rimasta, accuratamente protetta nel suo radicamento nucleare e pronta ad ogni istante a rilasciare le sue proglottidi. Non pensa forse, il pensatore dell’inizio, per istanti? L’essenza dovrebbe essere pensiero di ciò che non può esistere, se non nel pensato (e contrariamente a ciò che fanno i filosofi, i quali non si azzardano mai a fare degli esempi che potrebbero smentirli, più sopra ho appositamente parlato di un pi greco) – ma essa di fatto non esiste come rapporto fra alcunché di sostanziale. È pensiero di sé, il quale si mette semmai, necessariamente, in relazione con sostanze le più casuali secondo le occasioni e i vantaggi dell’argomento. Queste occasioni e questi vantaggi sono anche, per Heidegger, i frammenti di Eraclito: mescolati col pane, con le moltitudini, con la speranza, l’indigenza e la rigidità, il raggio di luce e il raggio di calore, e quant’altro possa servire da legna a far fuoco nel suo forno. Appiattendo l’estensione (vale a dire le sostanze) della storia su di una sola superficie perfettamente reversibile, egli spiega che «una cosa è costruire dal punto di vista storiografico una immagine del passato per il presente, un’altra cosa è pensare storicamente, vale a dire esperire ciò che è stato come ciò che ci viene incontro dal futuro dispiegando già la propria essenza». Qualcosa, qui, si capisce subito, e qualcosa no. Si capisce subito che il «pensare storicamente» non è un «costruire», perché fin dalla presentazione del corso (nella Considerazione preliminare) egli aveva detto che il pensiero non è una «creazione» del filosofo – e costruzione e creazione possono, pressappoco, spiegarsi a vicenda. Si capisce meno bene, invece, come qualcosa possa venire incontro al (vero) pensiero storico «dal futuro». Con uno dei suoi tuffi e dei suoi illusionismi più vanitosi, Heidegger vuol dire che l’essenza è qualcosa di ormai dispiegato nel nostro presente, ossia nei giudizi e nelle rappresentazioni storiografiche degli errori storici e del brancolare umano; e che il vero pensiero storico si sprofonda invece nel passato, s’identifica con l’origine, s’immedesima in Eraclito (per esempio; o in Anassimandro, o in Parmenide), e da là esso osserva fluttuare in blocchi, come spezzandosi per una controglaciazione operata dal fuoco, la

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banchisa delle storiografie e dei trattati, delle bibliografie e delle dissertazioni che fanno l’essenza dispiegata dei nostri studi presenti, fra i quali noi ci dibattiamo cercando di non naufragare. Ma Heidegger sa cosa fare: bisogna! naufragare – naufragare nel modo giusto, gettandosi nel pensiero dell’inizio, ben s’intende. Chi si attendesse, ora, che il nostro filosofo se ne andasse dall’aula dopo aver pronunciato pochi motti sconcertanti, resterebbe deluso: non siamo che alle prime di alcune centinaia di pagine. Ma non dice Heidegger che «all’inizio del dire originario la parola non è ancora decaduta a semplice ‘espressione linguistica’», o a ‘locuzioni’, ciascuna delle quali fungibile, sostituibile, e in definitiva inessenziale? Non dice che essa è ancora ‘la’ parola nella sua essenza iniziale, «senza che i poeti e i pensatori iniziali posseggano già un sapere della sua essenza nascosta, o anche soltanto ne sentano il bisogno»?14 Certo, che lo dice. Certo, che questo basterebbe a sbarazzarsi anarchicamente, niccianamente, di tutte le superfetazioni accademiche, nonché dei vati della filosofia dell’inizio come di altrettanti parassiti. Ma, a parte il fatto che qui egli distingue i poeti dai pensatori (e la distinzione fra due generi letterari nel cosiddetto ‘inizio’ si giustifica male, sulla base dei suoi postulati, senza un ricorso al ruolo mediatore originario della tecnica); a parte questo, dunque, egli spiega anche ai suoi ascoltatori che la «lingua pensante» di un Eraclito «non dipende da un particolare talento linguistico del pensatore» (e questo è patentemente falso: basta leggere come Eraclito si serva, per esempio, del termine biós, o dei verbi anathumiaō e osmáōmai, o di un termine come kópis ovvero kopís), bensì dipende, quella lingua pensante, da ciò che «è insito nell’essenza stessa di ciò che in questo pensiero viene pensato e rimane da pensare». Apprendiamo così che il pensiero dell’inizio, che è pensiero dell’essenza, non è esaustivo. Apprendiamo che l’essenza ha dei resti – come dire che l’infinita approssimazione di pi greco è un suo riporto, sul quale si può lavorare. Dopo averla pensata, l’essenza, qualcosa ancora «rimane da pensare». E questa rimanenza «richiama la parola, in modo che il pensatore deve solo seguire questa chiamata». Insomma: la parola iniziale, che dovrebbe esprimere l’unità originaria dell’essere in un semplice suono, esprime in realtà un rapporto approssimativo di qualcosa con qualcos’altro; nell’approssimazione è insita l’oscurità di un resto; il pensatore iniziale consegna l’oscurità dei suoi detti agli spiriti futuri perché continuino a pensare ciò che nell’oscurità dell’essenza ri-

  Ivi, p. 23, come i passi che seguono.

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mane sempre da pensare. È come dire, pressappoco, che la storia della filosofia non dovrebbe più conoscere altri inizi, oltre il cosiddetto ‘inizio’ oracolare, e dedicarsi all’enumerazione dei decimali di quel pi greco: agl’inesauribili commenti che ogni generazione sforna secondo il suo modo di vivere la lettura dell’Oscuro. Qui c’è un punto d’innesto dell’ermeneutica, la quale è, nel suo insieme, tutta quanta una teoria dei resti promossa a metodo scientifico. Ma per quanto ora ci riguarda, è chiaro che su questa filosofia, che vorrebbe essere assai prossima all’afasia, Heidegger innesta, con una pretesa di piena legittimità, il principio della sua pura e semplice uccisione mediante lo sviluppo accademico logorroico di ciò che nell’oscuro resta sempre da pensare. Non c’è dubbio, che per lui questa oscurità vada accuratamente assecondata e coltivata, come fra poco vedremo. A qualcuno certe esibizioni potranno anche piacere – lo so, e non lo posso biasimare: finché non pretende di stabilire delle gerarchie, nella repubblica dei filosofi ognuno si sceglie la propria patria. Tutto dipende dal sentimento di appartenenza di ciascuno, e dal profitto che vuole ricavare. Basterebbe che la nostra filosofia compradora non volesse derivare dall’oscurità del pensiero essenziale, per superfetazione, tutta un’ingombra filosofia ‘dell’inizio’ più realista del re. Lo diceva anche Hobbes, che il re può essere soltanto un bambino, un dilettante o un cretino: quando il principio della sovranità è salvo, il suo esercizio e l’effettiva vigenza poi dipendono da cortigiani e ministri. Per un paese come il nostro, che ha conosciuto l’Otto Settembre, questa dottrina è un po’ difficile da accettare. Proprio di cortigiani e di ministri, proprio dello Stato Hobbes non avrebbe più trattato, abbandonando a se stesso il principio della sovranità privo di estensioni, privo d’istituzioni. Analogamente, nessuno può fingere d’ignorare che questa pretesa filosofia inestesa dell’inizio vive, non diversamente da uno Stato, soltanto grazie al suo indotto accademico ed editoriale – vale a dire: grazie alla ricaduta strettamente professionale che costituisce l’edificio effettivamente vigente delle scienze filosofiche. Heidegger ritorna sulla polemica antistoricista alla fine di questa seconda lezione, allorché spiega che la conoscenza storica di autori come (per esempio) Leibniz e Kant «può rimanere di per se stessa una mera conoscenza del passato, senza che la parola di questi pensatori venga risvegliata nel suo avvenire storico».15 Di nuovo, fra il passato e questo «avvenire» si ripropone l’enigma di annullamento del tempo che già conosciamo – solo, che l’idea di trasfe-

  Ivi, p. 30.

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rire il tuffo dell’immedesimazione da Eraclito a Leibniz o a Kant non è, nel suo contesto, che un’altra delle sue goffaggini. Più interessante, invece, è la pretesa di negare l’estensione, oltre che sul piano del tempo teoretico, anche sul piano logico, o psichico, nonché sul piano del tempo storico. «Ciò che è da pensare non è nulla di ‘oggettivo’; questo pensiero [d’altra parte] non è nulla di ‘soggettivo’. Qui la distinzione tra oggettivo e soggettivo non trova posto alcuno. Essa è estranea al mondo greco e specialmente [!] all’ambito del pensiero iniziale» – vale a dire: all’ambito del pensiero suo.16 Che questa indistinzione non sia soltanto un parto della sua volontà teoretica, ma per giunta un fatto storico, caratteristico del mondo greco, non è che un’altra delle sue affermazioni temerarie, per le quali è vano attendere da lui la benché minima preoccupazione di fornire una giustificazione. il significato ontologico dell’oscurità L’ultimo caso di astringenza che ci resta da esaminare, in queste due prime lezioni introduttive del corso, apre la via ad un’altra discussione, che ho annunciata, circa il significato dell’oscurità del pensiero. Come Heidegger ha appena finito di sancire che nel pensiero essenziale non c’è alcuna differenza fra soggettivo e oggettivo, così sancisce che è vano voler distinguere fra il chiaro e l’oscuro. Il pensiero dell’essenza è oscuro perché non s’imbatte nell’essere, bensì si propone di custodirlo: «Una cosa è custodire ciò che è oscuro, altra cosa è imbattersi in qualcosa di oscuro come se si trattasse di un limite».17 Ahimé – dove se ne va, non dico il problema della quadratura del cerchio, ma tutta la vicenda esistenziale, piena di frustrazioni e di amarezze, di Eraclito? Egli non s’imbatté mai in nulla: destinato ad amministrare il culto di Artemide, si mise tranquillo nel tempio a meditare (quando non si scaldava nel forno, o non giocava coi fanciulli) per fare, già che c’era, anche il custode dell’essere. La banalità illusionistica del giudizio è segnata (ma avrebbe potuto essere diversamente?) anche da corrività linguistica – che non è preziosa oscurità: è soltanto sciatteria dialogica e logica. «L’universo – che in greco si dice ho kósmos –, còlto nell’essenza del suo essere, è piuttosto ciò che si nasconde ed è quindi ciò che è essenzialmente ‘oscuro’». La sottolineatura in corsivo è dell’autore; ma

16   Ibidem. Das Zu-denkende ist nichts ‘Objektives’; dies Denken ist nichts ‘Subjektives’. Die Unterscheidung von Objekt und Subjekt hat hier keine Stätte. Sie ist der Welt des Griechentums und zumal dem Bereich des anfänglichen Denkens fremd. 17   Ivi, p. 26 e 27, come i passi che seguono.

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qui egli ha sottolineato male – se non altro, perché non ha senso specificare ulteriormente che è ‘essenzialmente’ oscuro ciò che è stato còlto nella ‘essenza’ del suo essere. La frase andrebbe invece letta sottolineandola e interpuntandola così: “L’universo, còlto nell’essenza dell’essere, ‘è’ ciò che ‘si nasconde’; ed esso ‘è quindi’ ciò che ‘è essenzialmente’ oscuro”. In questa formulazione risultano evidenti l’incongruenza dell’azione soggettiva del pensiero e dello stato oggettivo dell’essere, nonché la discrepanza della deduzione. Il pensiero compie l’azione di cogliere l’essenza, conformemente al fatto che l’essere compie l’azione di nascondersi (Heidegger non dice che l’essere ‘rimane’ nascosto, riposando in se stesso – e non può dirlo, perché in tal caso ne farebbe una sostanza; le rimanenze, per lui, sono soltanto quelle del pensiero oscuro lasciato ai pasti dei posteri). Se non che, è l’azione del pensiero che conferisce all’essere la sua essenza oscura (e ragionando in termini di essenza, ossia di necessità e di sufficienza della cosa per il pensiero, la cosa non può stare diversamente); per cui la deduzione che fa «quindi» l’essere essenzialmente oscuro non può dire assolutamente nulla su ciò che l’essere ‘è’ – oppure non è che una ripetizione o una tautologia. Saranno anche inezie – ma intanto si perde in tutto ciò la discrepanza (questa sì produttrice di resti!) fra un pensiero che conferisce all’essere la sua essenza nel momento in cui la coglie, e un essere che si nasconde, facendo di tutto per non farsi cogliere. Eraclito dovette passare buona parte della vita ad arrovellarsi su questo essere che si nasconde, sfuggendogli – che cosa resta della drammaticità così penosa, lenta e confusa, del suo pensiero, se no? Ma Heidegger fa più in fretta, e predispone le cose a puntino: l’essere si nasconde, Eraclito lo coglie e l’essere acquista per conseguenza un’essenza; e poiché non si capisce bene come Eraclito abbia fatto (se non ammettendo un travestimento heideggeriano di Eraclito), il mistero dell’essere resta consegnato dal pensatore dell’inizio al pensiero essenziale dei posteri. Ciò che segue è un’argomentazione impacciata e prolissa, che serve per districarsi dalle perplessità attraverso una serie d’inutili ripetizioni, o di proposizioni autoconfermative: Il rapporto del pensiero iniziale con ciò che esso deve pensare viene determinato inizialmente a partire da ciò che si nasconde. Se però il pensiero, dovendo pensare ciò che si nasconde, lo deve lasciare essere per ciò che è [ma se lo deve pensare, come può anche doverlo lasciare?], allora il modo di conoscere di questo pensiero essenziale non può mai essere una ‘volontà’ che costringe l’universo ad abbandonare la sua oscurità [ecco la rinuncia alla volontà del pensiero, che apparenta Heidegger con Schopenhauer assai più di quanto egli non volesse ammettere – ed ecco anche l’Oscurità come Volontà sostanziale!]. Ora, poiché ciò che è da pensare è nella sua essenza ciò che si nasconde, e perciò proprio in questo senso può essere detto ‘ciò che è oscuro’, proprio per questo e solo per questo

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anche il pensiero, che rimane conforme a ciò che è ‘oscuro’ esperito in quanto tale, rimane esso stesso necessariamente oscuro.

La conclusione, che segue immediatamente a queste tergiversazioni è, direi, quasi ovvia, e la conosciamo già: «Pensata in questo modo, la ‘oscurità’ indica allora una modalità essenzialmente necessaria del nascondersi. Il pensatore Eraclito è l’oscuro perché il suo pensiero conserva in ciò che è da pensare l’essenza che propriamente gli appartiene». Il lettore deve notare l’uso ripetuto del termine: «ciò che è da pensare», che in tedesco suona: das Zu-denkende. Con questo artificio terminologico, consistente in una sostantivazione di un verbo participiale corredata da una preposizione finale, egli ha preteso di espungere dall’atto del pensiero la volontà. Ma insomma: il pensiero conferisce l’essenza all’essere che si nasconde, e il pensiero oscuro la custodisce. Confesso che è un mistero, per me, capire come lo studioso di un pensatore della contraddizione e degli opposti non abbia introdotto, fra tante sue trovate, anche quella di un pensiero ‘chiaro’ che conferisce l’essenza, e di un pensiero ‘oscuro’ che la custodisce. Ma così sarebbe stato tutto più chiaro – nonché passibile di dualismo. Diciamo allora (con una nuova trovata) che il massimo della luminosità coincide con il massimo dell’oscurità – perché la luce, si sa, acceca: «L’oscuro ‘è’ nella sua essenza il chiaro, e il chiaro ‘è’ nella sua essenza l’oscuro. Innanzitutto noi avvertiamo questo nesso solo quando il chiarore è puro chiarore, vale a dire quando il chiarore si diffonde in una misura tanto superiore alla nostra portata e alle nostre capacità, [che] proprio per questo non vediamo più nulla». La filosofia dell’essenza vuole essere anche una filosofia degli abbagli. Ma per essere proprio generosi possiamo dire che, nell’insieme, si tratta in definitiva dell’uovo di Colombo. Dice Kant (rifacendo Cartesio) che la cosa resta irrimediabilmente oscura; e replica Hegel (rifacendo Spinoza) che il pensiero coincide con la cosa. Mediante la propugnazione di un pensiero che dev’essere necessariamente oscuro Heidegger realizza il prodigio dell’unità. Se si trascura di ammettere che la metafisica tedesca è, quanto ai postulati logico-teorici, in tutto e per tutto una derivazione manierista o una risorgenza autoctona e provinciale di alcuni sommi lasciti dell’età moderna, non si può negare che in un simile montaggio degli assunti più elementari della metafisica contemporanea sia effettivamente racchiuso quello che si può chiamare un ‘inizio’.

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fra banalità e terzo reich L’andirivieni immobile sull’essere che, mediante continue oscillazioni, un pensiero che non si giova d’ausili tecnici vorrebbe compiere sfugge forse alle maglie della dialettica, ma non a quelle degli spropositi: che spingono Heidegger, per esempio, a voler fare a tutti i costi di Artemide la dea della lira, oltre che dell’arco; o ad ostentare per ragioni d’indigenza culturale e politecnica qualche snobismo penoso.18 Questo andirivieni privo di rapporti intorno alla centralità dell’essere (o sul pensiero della contraddizione come fondamento ontologico, o sull’essenza come pensiero dell’unità e dell’inizio, come si vuole); questo andirivieni fatto d’un solo passo d’andata e d’un immediato passo di ritorno, insomma, si esprime ancor più chiaramente nel descrivere, per esempio, il rapporto del moderno con l’antico: nel quale («in modo greco», secondo Heidegger) «la pura vicinanza vale a dire la lontananza».19 Oppure si esprime nel rifiuto della spiegazione tecnica, sintattica, dell’oscurità della prosa di Eraclito (perché la sintassi, rudimentale o no, è comunque una materia estesa oltre il pensiero dell’essere, e come tale passibile di smentite): è allora secondo Heidegger la filosofia dei pensatori essenziali che ‘deve’ essere oscura. L’oscurità non sta tanto nel modo di esprimersi confuso di Eraclito, quanto nella ‘filosofia’ stessa, poiché essa pensa in un modo che non risulta familiare all’intelletto comune e perciò risulta sempre difficile per esso. Per questo il pensiero filosofico, conformemente alla sua essenza, rimane oscuro per il punto di vista del pensiero comune. Dunque la filosofia è sempre e necessariamente oscura proprio in quanto viene presa in considerazione dal punto di vista del semplice intelletto, vale a dire del rappresentare e dell’intendere quotidiani. (…) Tenendo conto di questo, allora anche la spiegazione fornita da Hegel circa l’oscurità del pensiero eracliteo non ci sembra affatto soddisfacente.20

18   Allorché, per esempio, annuncia che la linguistica moderna avrebbe scoperto l’identità di significato tra phúsis e pháos – ma senza costrutto, secondo lui, perché essa ignora i nessi essenziali ai quali ricorre «in modo inconsapevole e senza pensare a fondo»! «Una conoscenza di tipo linguistico non dimostra nulla, poiché essa è solo un’appendice e una conseguenza di un modo di vedere alcuni nessi essenziali» (ivi, p. 16). Neppure essa è per lui, almeno, un presupposto, un materiale, un’ancella – no: la linguistica moderna è un’appendice e una conseguenza! E meno male che il pensiero essenziale non è che «un» modo di vedere «alcuni» nodi! 19   Ivi, p. 17. Für Heraklit, der den Streit denkt als das Wesen des Seins, ist Artemis, die Göttin mit Bogen und Leier, die Nächste. Aber ihre Nähe ist die reine Nähe – d. h. die Ferne. Lasciando perdere la trovata della lira artemisia, io credo che nella sua tarda età Eraclito sia andato effettivamente in cerca di una divinità vicina e più dolce della sua Artemide, che nel pudore e nel disbrigo delle sue pratiche incombenze conserva sempre qualcosa di rude; e credo che sia andato in cerca, poi, di una divinità meno faticosa di Apollo e meno distante di Zeus. Mi sembra che l’abbia trovata nel fuoco mescolato ai profumi di cui parla DK 67. Si vede anche in questo caso come l’attenzione divinatoria al testo possa giovare, volendo, ad allestire una sceneggiatura più interessante di una sceneggiata. 20   Ivi, pp. 24 e 25.

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Qual è il pensiero comune che non capisce la filosofia? A chi appartiene questo intelletto comune, il semplice intelletto della quotidianità? Appartiene a Cicerone, per esempio, e a tutti i romani che di filosofia greca «notoriamente non hanno compreso assolutamente nulla». Si sta parlando di un difetto di chiarezza della filosofia, che non vuole e non deve farsi capire, e si sposta il problema sul difetto di acume teoretico dei romani. Si noti per giunta la formulazione maliziosamente contorta: «Hegel afferma che questa intenzionalità [dell’essere oscuro] (che proprio Cicerone attribuisce ad Eraclito) sarebbe in realtà assai banale; ed essa rivelerebbe la banalità dello stesso Cicerone, che invece ne fa la banalità di Eraclito».21 Cicerone non dice affatto che Eraclito è banale – dice che fa l’oscuro. Insomma: Cicerone dice che Eraclito è oscuro per intenzione, perché vuole esserlo; Heidegger dice che la filosofia è oscura perché deve esserlo; ma si ricorda che secondo Hegel il proposito eracliteo di rendersi incomprensibile fu, in definitiva, banale; a differenza di Hegel, Cicerone non seppe capire questa banalità, questa mancanza di rilievo della voluta oscurità di Eraclito: come romano invece la sopravvalutò, ma senza emularla, rinunciando ad innalzare su di essa propri filosofemi ‘dell’inizio’ altrettanto oscuri (come del resto non fecero neppure i greci!); e dunque la banalità (non quella che Hegel trovava nell’oscurità di Eraclito, bensì quella che Cicerone, con uno scambio di soggetto del giudizio, avrebbe trovata in Eraclito stesso) fu, in realtà, mediocrità di spirito di Cicerone e di tutto il mondo romano. È così che ragionava e discuteva Heidegger quando assumeva un patrocinio. Di fronte all’oscurità Cicerone (che non diversamente da Platone chiedeva, in definitiva, una filosofia adatta alla vita civile senza mettersi al servizio incondizionato di nessuno) – Cicerone, dunque, non seppe essere umile, almeno quanto Heidegger e il suo fratello maggiore. Frammentarietà e oscurità, secondo il vate della filosofia dell’inizio, insegnano l’umiltà: «Riconosciamo che è una fortuna se la parola del pensatore iniziale ci è stata trasmessa solo in frammenti. Infatti dobbiamo notare che per ogni frammento è necessaria da parte nostra un’adeguata attenzione, mentre nel caso felice in cui le parole iniziali fossero state conservate integralmente si potrebbe rafforzare in noi assai più facilmente e con maggiore intransigenza l’ostinazione di una crescente saccenteria».22 Sembra di capire, insomma, che se Eraclito fosse

21   Ivi, pp. 18-19. Hegel sagt, solche Absichtlichkeit (wie sie nämlich Cicero dem Heraklit unterstellt) wäre aber sehr platt; und sie ist nichts, als die eigene Plattheit des Cicero, die er zur Plattheit Heraklits macht. 22   Ivi, p. 30.

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stato più chiaro Cicerone avrebbe potuto giudicarlo non con soddisfazione, bensì con saccenteria; mentre la sua voluta oscurità, che avrebbe dovuto fare di Cicerone un umile come Heidegger, lo rese invece un filosofo insignificante. Il lettore non deve credere che la vanità di un simile destreggiarsi snobistico, nella sua passeggera arroganza, sia solo un tratto di sgradevolezza veniale di un uomo e tutt’alpiù d’una corporazione – perché in tal caso non ne tratterei: non si discute, qui, di psicologia, sociologia, antropologia accademica, bensì di Eraclito. Ma proprio per questo certe osservazioni non possono mancare: perché non è senza un certo fastidio che noi osserviamo come uomini di regime possono pretendere d’identificarsi con colui che soltanto in parte per sua scelta fu, in definitiva, un uomo senza potere e senza fortuna: con un ribelle, uno sconfitto, un reietto, un generoso, un contrito e dubitoso di se stesso. Questi due corsi furono tenuti nel ’43 e nel ’44, non dopo il ’45. L’identificazione non può passare senza espedienti – e infatti l’espediente c’è: si tratta della messinscena con la quale Heidegger apre il suo primo corso presentando un Eraclito völkisch. Qui siamo al capo opposto rispetto al giovane Spengler: la differenza fra Secondo e Terzo Reich non potrebbe essere più evidente. Eraclito non è innanzitutto, per Heidegger, l’uomo dei frammenti, bensì l’uomo degli aneddoti: è il filosofo infreddolito che si scalda nel forno del pane, e invita cordialmente i visitatori stranieri ad entrare per stare con lui in prossimità degli dèi; ed è poi l’uomo sdegnante i suoi pari che gioca coi bimbi sui gradini del tempio. E dunque? Di quale ricercata oscurità si vuol parlare, qui? Ma di un’oscurità professionale, evidentemente – anzi: professionistica! *** È ad una tecnica disciplinare dell’oscurità che Heidegger pensa: a un’arte della posa. La «moltitudine [die Menge]» (nella quale si sono trasformati «gli stranieri» che fanno visita dell’aneddoto aristotelico) si attende qualcos’altro: un uomo difficile, insocievole, scontroso ed astruso. Quale «moltitudine»? Ma quella degli studenti nell’immaginazione del docente luminare, naturalmente! Essi gli si affollano intorno come i bimbi nel tempio, ed egli gioca con loro sulle parole. La moltitudine rimane delusa e perplessa «di fronte al pensatore»; essa crede di potere «incontrare il pensatore»; essa va «a trovare il pensatore» sperando di poter vedere «il pensatore … proprio nell’attimo in cui egli pensa» (ci vuole una notevole puntualità, o almeno una certa coordinazione, non c’è che dire!). Perché «la moltitudine» farebbe questo? Forse per giovarsi del pensiero? Ma no – a quell’epoca non c’erano mica ancora i corsi universitari.

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Lo fa «semplicemente perché così si possa dire di aver visto e ascoltato qualcuno, che è un pensatore».23 Se per lusingare questo narcisismo dell’immaginazione bisogna inventarsi le folle dei turisti in visita a quel monumento nazionale della Jonia che sarebbe stato «un pensatore» e null’altro, per giustificare l’ozio e la stravaganza ludica del «pensatore che non si occupa della dea, ma gioca ai dadi con i fanciulli» bisogna omettere qualcosa. Qui non è in gioco soltanto il pensiero, ma anche la dignità e la responsabilità dell’ufficio. «La moltitudine» incuriosita, che Heidegger insiste a volere immaginare radunata davanti al tempio, è lì perché da «un pensatore» l’uomo comune si attende serietà e profondità.24 La folla s’è radunata dunque, secondo Heidegger, non perché Eraclito non fa il sacerdote come dovrebbe, ma perché non fa il pensatore come essa se l’aspetta. Non c’è cordialità, qui, non c’è l’invito ad entrare, come nel forno, bensì l’invito ad andarsene. In due istanti della sua vita scelti del tutto arbitrariamente, secondo l’aneddotica, Eraclito ci viene presentato nella sua natura umorale alquanto contraddittoria. Dal punto di vista heideggeriano ciò è del tutto conforme alle aspettative dei suoi ascoltatori, i quali, come i visitatori, si attendono di vedere un pensatore dell’essenza vivente nella sua propria contraddizione, un pensatore contraddittorio della contraddizione. Lo scopo teatrale del montaggio dei due aneddoti non manca d’ingegnosità e d’efficacia: basta solo annullare il tempo – la biografia. Dalla risposta risentita di Eraclito noi possiamo facilmente immaginare, invece, chi gli stava davanti, e perché: «Non è forse meglio fare questo, anziché prendersi cura della città insieme con voi?». Si tratta dunque di qualche autorità, di qualche ottimate o ministro cittadino venuto a fargli visita per sollecitare consiglio e collaborazione. La città chiede ad Eraclito di rendersi utile, insomma, ed egli risponde che non si risana un pozzo d’acqua sporca gettandovi secchi d’acqua pulita. Nell’ozio, il pensiero della corruzione cittadina occupava dunque ancora il suo pensiero – ma per Heidegger non è così: «Il pensatore – almeno così sembra – non vuole avere nulla a che fare con il politeúesthai, con il preoccuparsi della pólis».25 Alla delegazione degli ottimati Heidegger sostituisce qui la folla degli efesini non senza una ragione: la dura polemica eraclitea contro l’amministrazione si dissolve in un confronto tra l’uomo e la città intera. Il pensatore raccoglie la sua figura e la sua vita tutta quanta in un punto, così come il suo pensiero essenziale dell’inizio non vuole, secondo Heidegger, conoscere estensione e   Ivi, p. 10.   Ivi, p. 12. 25   Ibidem. 23

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sviluppo. Che la vita cittadina in tal modo si perda non è affatto un problema, perché «il pensatore che si prende cura della vicinanza essenziale degli dèi è l’uomo autenticamente ‘politico’»; e d’altra parte l’indigenza del pensiero lo spinge a cercare «lo straordinario in tutto ciò che vi è d’ordinario».26 Chissà che i ministri efesini non fossero proprio venuti da Eraclito a cercare rimedi straordinari all’ordinarietà della corruzione. Quel che è certo, secondo Heidegger, è che ogni ufficio, proprio in quanto ufficio diverso dal raccoglimento nel pensiero dell’inizio, non è che dissipazione. Tanto vale, allora, sia gioco. Egli se ne stava nel tempio a fare il pensatore dell’inizio, anziché il ministro d’Artemide, perché «Artemide è la dea del pensatore Eraclito, non soltanto la dea dell’efesio. Ma essa è la dea del pensatore proprio perché è la dea di ciò che il pensatore ha da pensare».27 Un’affermazione tanto temeraria farebbe tremare un antichista o un archeologo che la volessero giustificare con coscienza professionale – ma la filosofia contemporanea da Kant in poi, a differenza della moderna, non ha mai troppo sofferto di simili scrupoli politecnici (e artemìsi, precisamente); e Heidegger è proprio uno di quei filosofi che se ne sono sbarazzati del tutto. La sua intera filosofia si può anzi descrivere, sotto questo riguardo, come il ripudio in linea di principio di ogni politecnìa. Se non che in ogni ripudio, in ogni negazione, per quanto radicale sia, rimane pur sempre insita, inevitabilmente, almeno la tecnica del ripudio e della negazione. E questa tecnica è talvolta logica, talvolta storica, talvolta sintattica, talvolta retorica, talvolta teatrale – sempre comunque, nel bene e nel male, letteraria. Quanto al senso eracliteo del gioco, d’altra parte, è chiaro che qui si potrebbe trovare, ex post, qualche argomento giustificazionista per l’intellettuale complice di un regime come quello nazionalsocialista: la dissipazione alla quale si va incontro oltre il primo e unico passo mosso al di fuori del cosiddetto ‘inizio’ tanto vale sia gioco – e come tale essa sarebbe sempre innocente. Sollevare questioni teoretiche di responsabilità con Heidegger non è impossibile – è inutile. Un accostamento fra la sua posizione e quella di Eraclito, sotto questo riguardo, non può che mostrare le differenze tra il narcisismo servile e l’orgoglio coerente, tra l’uomo di successo e il fallito, tra il pegno subìto e il pegno anticipato, tra un regime perfettamente efficiente e un regime corrotto dalla crapula e dall’inettitudine.   Ivi, p. 13.   Ivi, p. 15. Artemis ist die Göttin des Denkers Heraklit, nicht bloß die Göttin des Ephesiers. Sie ist aber die Göttin des Denkers, weil sie die Göttin dessen ist, was der Denker zu denken hat. Nel tono di disbrigo di un’incombenza di questo zu denken haben c’è un po’ tutto l’uomo Heidegger: il quale non riesce ad impedire alla sua sperticata pretesa speculativa di mescolarsi con l’ordinarietà della sua vita. 26 27

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2. le lezioni di heidegger del 1943   265

È materia, questa, che può interessare qualche pio cireneo della vicenda personale, e forse anche speculativa, di Heidegger successiva al 1945. Dopo un 20 luglio coronato dal successo egli sarebbe stato il rappresentante ideale del ripristino della continuità fra il Secondo Reich e un nazionalsocialismo «decoroso», come lo voleva Carl Goerdeler insieme con i suoi ‘resistenti’ come il Ritter: vale a dire, purgato dalle demenze antisemite dell’hitlerismo. Il gioco dell’inizio per lui, quando non fosse un gioco di parole, sarebbe stato il gioco della fenice di Himmler.

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Capitolo terzo

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La conferenza accademica di Gadamer del 1984

preconcetto e pregiudizio Ho detto, trattando di Heidegger, che trascurare di considerare l’unità e la distinzione di filosofia e poesia, nonché un esame del ruolo della tecnica nella genesi dei generi letterari, è un requisito d’omissione indispensabile per innalzare una mistica del cosiddetto ‘inizio’. Nel presentare gli studi eraclitei di Gadamer, per esempio, Andrea Mecacci menziona in apertura della sua introduzione un giudizio, secondo il quale «in Eraclito non solo si dà un’origine, ma si dà anche l’originario, il pensare per “metafore originarie”, per usare una felice formula di Bruno Snell».1 Ma non ci può essere niente di meno ‘originario’ di una metafora – a meno che non si apra tutta una lunga questione su (per esempio) l’inconsistenza logica e culturale del criticismo kantiano, e sui suoi pretesi fondamenti nella deduzione trascendentale, o sulla vacuità delle sue sintesi a priori. Una “metafora originaria”, invece, non può mai essere vacua, e il puro e semplice uso del termine deve implicare una presa di distanza dalle origini della filosofia contemporanea. È per l’appunto ciò che vedremo fare anche a Gadamer. Lo stesso Mecacci accenna, immediatamente dopo, agli elementi costitutivi della phúsis, alle opinioni interne della pólis che diventano metafore e queste, a loro volta, «doppifondi» del pensiero. Come ho detto, non esiste pensiero speculativo dell’essenza che non sia già pensiero tecnico specifico di sostanze; e questo solo postulato può bastare per dissolvere ogni mistica dell’inizio. Le ‘metafore originarie’ esistono, i ‘doppifondi’ esistono se ammettiamo che anche nel ganglio cerebrale dell’essere più primitivo siano depositati giudizi fatti di una qualche unità indistinguibile fra sensibilità e intelletto. Studi etologici sul comportamento dei volatili appena usciti

1   Hans-Georg Gadamer, Studi su Eraclito, Sulla tradizione di Eraclito, Hegel ed Eraclito in Eraclito. Ermeneutica e mondo antico, a cura di Andrea Mecacci, Donzelli, Roma 2004, p. vii (da HeraklitStudien, Hegel und Heraklit e Zur Überlieferung Heraklits in Gesammelte Werke, risp. vol. VII e VI, Mohr, Tübingen 1991 e 1985).

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268   parte seconda. letteratura eraclitante

dal guscio lo confermano. La misticizzazione del cosiddetto ‘inizio’ deriva in qualche modo (per opposizione, compensazione, superamento, ripristino, o come si vuole) da una preliminare omissione o negazione circa l’esistenza di quest’unità originaria perfettamente raccolta e indistinguibile. Livelli di coscienza estremamente evoluti e specializzati trovano assai difficilmente l’accesso all’unità sentimentale originaria del soggetto; e l’accesso alla verità della cosa, peraltro, non è affatto più semplice – come se noi, voglio dire, potessimo rimediare ad una insufficienza d’approssimazione mediante un’altra. Si può allora prendere atto dell’esistenza dell’ostacolo su entrambi i versanti (che non voglio chiamare ‘interno’ ed ‘esterno’, perché sarebbe una distinzione gravemente deviante in quanto il soggetto è oggetto innanzitutto di se stesso), si può rifiutare di ‘gettare il cuore’ al di là, come si dice, e costruire risolutamente qualcosa al di qua dell’ostacolo. Quantunque brillanti e trionfali possano sembrare i risultati, la coscienza vive allora la conoscenza e la scienza, in realtà, come una continua estraneità e frustrazione, curate mediante tecniche d’interposizione le più varie e sofisticate. La corrente principale della filosofia contemporanea non è che la storia di queste tecniche d’interposizione. Per spiegare un po’ sommariamente che cosa sia l’ermeneutica Gadamer parla di una «coscienza della storia degli effetti», che è tipica del suo approccio metodico. Questa coscienza consiste, in definitiva, in quelli che sono i nostri preconcetti. E spiega: I nostri preconcetti sono radicati così profondamente che ci sono d’ostacolo nella comprensione di altre culture e d’altri mondi storici. Al fine di ottenere una migliore comprensione si deve diventare consapevoli dei propri preconcetti. Nel caso di Eraclito questo è abbastanza arduo, perché l’influenza tardo-antica e precristiana sulla tradizione di Eraclito, soprattutto Ippolito e Clemente, pervade apertamente i nostri preconcetti, e per questo ci svia. D’altra parte, noi dobbiamo rimanere consapevoli dei nostri preconcetti, anche se dobbiamo guardarci dall’effettuare identificazioni premature.2

Per capire che cosa sia l’ermeneutica, quelle due parole «anche se» sono rivelatrici. Dove il lettore si sarebbe atteso un conclusivo “e perciò”, trova invece la riserva cautelativa delle istruzioni per l’uso. Gadamer vuol dire che l’ermeneutica insegna ad intendere il suo oggetto incognito attraverso i testimoni. Qualcosa del testimone è sempre rimasto inseparabilmente mescolato nell’oggetto, e la tradizione fa perciò di quest’oggetto qualcosa che esiste or  Ivi, p. 48.

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   269

mai, per noi, soltanto così com’è nell’atto anziché nella potenza – vale a dire: così come di fatto è stato inteso in un passato che è ancora un futuro relativamente prossimo all’autore. In questa facile reversibilità del tempo, conteso fra passato e futuro in corsa per l’incontro reciproco, noi sentiamo una predilezione estetizzante heideggeriana. Persuasi o no del metodo d’approccio, noi possiamo pur sempre lamentare, mi sembra, che Gadamer prediliga troppo spesso testimoni alquanto tardi; o che comunque non dia il debito rilievo alla differenza di peso di testimonianze distanti fra loro la bellezza di otto secoli. Una simile predilezione e noncuranza mal si giustifica davvero con l’assunto teorico generale della mediazione: la quale richiederebbe, semmai, l’elaborazione di tutta quanta una gradazione tecnica fra i testimoni. La differenza di un simile approccio con una (diciamo così) logica pregiudiziale è segnata dalla parola «preconcetto» (come Andrea Mecacci traduce fortunatamente Vorurteil) – e il preconcetto non è il pregiudizio: è semmai l’intellettualizzazione del pregiudizio. La lingua tedesca non conosce che una parola, dove l’italiano ne ha due; e con una traduzione diversa (cioè rendendo Vorurteil, letteralmente, con ‘pregiudizio’) il lettore non verrebbe messo sulle tracce di una distinzione di gran peso.3 È talmente importante, questa distinzione, che dissipando molte delle ambiguità fra le quali si destreggia (peraltro giovandosene) la prima Critica kantiana avrebbe potuto intitolarsi ‘Critica del preconcetto’; e la necessità di una distinzione dei due termini avrebbe forse potuto portare qualcuno (non Kant) a riconoscere altresì la necessità di scrivere una preliminare Critica del giudizio che fosse ciò che non avrebbe potuto, in realtà, non essere: una ‘Critica del pregiudizio’. Non è difficile capire che nel metodo di Gadamer, corrispondentemente, il deposito logistico (il doppiofondo delle metafore originarie) non sono gli umori sentimentali che fanno il pregiudizio, bensì la storia terminologicamente sondata che fa il preconcetto. Perché non si può dire, francamente, che Gadamer faccia mai davvero della filologia: fa della terminologia all’occasione, questo sì. Sotto il profilo ermeneutico, il suo è un metodo di approssimazione all’oggetto mediante studio dei suoi depositi nel pensiero altrui linguisticamente formulato. Questa è filologia, ma non può esaurire tutta la filologia, né tutta la politecnìa dell’approssimazione; né può rinunciare a giovarsi, per esempio, dei virtuosi pregiudizi che nello studio di un uomo turbato e solitario, o sconcertato e depresso, rancoroso o lucido, possono suggerire all’inter-

3   In altri due casi Gadamer usa termini diversi, allorché parla di testimoni antichi che citano Eraclito «precomprendendolo», o che ne hanno una «precomprensione implicita» (ivi, pp. 9 e 27).

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270   parte seconda. letteratura eraclitante

prete (che lo sappia, o no) qualche buona supposizione. È impossibile dire, per esempio, quanto nello studio di Eraclito possa pesare in noi la suggestione latente di figure come quella del Tasso, del padre di Goethe, o di Romain Rolland e di Ernesto Buonaiuti. Questi sono pregiudizi, non sono preconcetti. Il risultato in parte inconsciamente motivato dell’interprete che, come si dice, ‘segue delle voci’, conferisce sempre all’interpretazione pregiudiziale qualcosa di personale e di arbitrario, ma anche di creativo, che è un delitto voler conculcare con una parvenza di disciplina accademica della plausibilità dei testimoni testualmente verificata. Gadamer ha avuto il merito, fra rarissimi interpreti (ma forse addirittura l’unico, io credo), di accennare almeno assai vagamente agli aspetti d’insicurezza che si manifestano nella personalità d’Eraclito: Il momento della timidezza e della cura si addice all’opinione che ogni uomo ha di sé. Un attimo di follia, di autoindulgenza risiede in ogni uomo. Attimo che si può chiamare malattia. Superarla con l’autocritica e la ragione, con l’aiuto della ragione che è comune a tutti, porterebbe ad una giusta e sana autovalutazione. Tuttavia questa ‘malattia’, nei limiti in cui è tale, richiede una certa cura. Nessuno può resistere senza avere un’opinione di sé (anche se modesta). In Lord Jim Joseph Conrad ha descritto la vita tragica di un giovane che colpevolmente ha perso del tutto questa opinione di se stesso.4

Il lettore apprezzerà in questo passo il richiamo analogico tratto dalla letteratura contemporanea come tesoro di sintesi a priori utili a comunicare la nozione di un essere complesso qual è ‘un uomo sfiduciato in se stesso’; e tuttavia noterà pure immediatamente in Gadamer la mancata estrazione dai frammenti di quella personalità eraclitea che dovrebbe poi corrispondere a quest’assunto. Come mai l’Eraclito insicuro, dubitante di sé, gettato e perso nel mondo, poi non compare nel suo studio? La grave incongruenza è già evidente in Heidegger – ma Heidegger è stato abbastanza scaltro da non menzionare alcunché che potesse metterlo nell’imbarazzo di una riprova. Il fatto è che il protagonista del racconto di Conrad per Gadamer è un pregiudizio, non è un preconcetto – e dunque non svolge un ruolo tecnico di tramite, di mediazione testimoniale nei confronti dell’antico, bensì soltanto un ruolo di sospetta sollecitazione logica, dalla quale è prudente liberarsi. Come tale, esso non può interessare l’ermeneutica come disciplina accademica. Non è neppure difficile capire che una logica del preconcetto, una logica ermeneutica, porta naturalmente il discorso su tutto un altro piano: i pre  Ivi, p. 78.

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   271

concetti diventano espliciti, mentre le reticenze del presente rimangono. È alquanto curioso vedere come ci si avventuri ad interpretare Eraclito secondo la mediazione tardo-antica e pre-cristiana d’Ippolito e di Clemente offrendo al lettore la garanzia di conoscere i loro pregiudizi meglio dei nostri! Il fatto è che, come ho spiegato e ripeto, quelli d’Ippolito e di Clemente non sono per Gadamer dei pregiudizi, bensì dei preconcetti, dei quali bisogna imparare a fare buon uso. A differenza di Spengler e di Heidegger, che si sono accinti allo studio di Eraclito guidati, rispettivamente, da aperte motivazioni ambientali, ovvero intimamente reticenti, egli ha dunque sacrificato il possibile valore euristico dei suoi pregiudizi al compito ermeneutico metodicamente assegnato al preconcetto. Motivazioni decisamente pregiudiziali non sono estranee a lui stesso, naturalmente – e come potrebbero esserlo, del resto? Oltre ai suoi preconcetti depositati negli autori mediatori, anche Gadamer ha i suoi bravi pregiudizi del tutto immediati. In forza di simili pregiudizi una grave forzatura è stata da lui operata, per esempio, con un’interpretazione insostenibile dell’esordio della Repubblica: secondo la quale interpretazione (enunciata, per quanto ne so personalmente, in un seminario tenuto all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli nei primi Anni Ottanta) il Socrate che fa ritorno ad Atene dopo avere assistito alle feste bendidiche del Pireo è un Socrate che medita sulla perdita dell’identità religiosa autoctona della sua comunità. Niente di più pregiudizialmente cristiano-germanico e di meno greco, di meno socratico e di meno testualmente platonico – ma almeno (diciamolo pure) serve per discutere. Il ruolo giocato da un preconcetto rispetto al pregiudizio si potrebbe vedere qui, invece, se si suppone l’esistenza nell’immaginazione di Gadamer di un possibile riferimento analogico ad Omero: facendo, ermeneuticamente, della poesia dell’episodio dell’introduzione in Troia del cavallo una venerabile testimonianza di pensiero sul valore della preservazione dell’identità religiosa. Se invece non è così (e non è così: perché in Omero noi assistiamo, piuttosto, ad una caratterizzazione di Ulisse come tipo dell’ingegnosità ossidionale greca; e la preoccupazione identitaria religiosa è semmai asiatica, del sacerdote Laocoonte); se invece non è così, dunque, noi assistiamo all’agire, nell’interpretazione che per l’occasione ci viene offerta, dell’automatismo di un pregiudizio Blut-und Boden che non può affatto caratterizzare, in genere, il mondo pagano: il quale non conobbe mai l’esclusivismo né tantomeno il fanatismo religioso, bensì proprio la contaminazione e la versione dei culti.

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272   parte seconda. letteratura eraclitante

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una morfologia del paradosso È interessante osservare con quanto tecnica disinvoltura Gadamer si muova, allorché i moti pregiudiziali dell’animo pilotano la sua sensibilità linguistica. In che modo si possono risolvere questioni assai delicate, domanda, se la tradizione ci pianta in asso, o addirittura ci svia? Egli non conosce le risorse della divinazione del personaggio, ma conosce le possibilità della terminologia. Stoici e neoplatonici hanno accolto con entusiasmo, per esempio, l’idea di un fuoco imperversante nella conflagrazione finale dell’universo in DK 66 (“Il fuoco verrà e divorerà tutto”). «Ma la sentenza eraclitea, a cui tutto questo sembra risalire, afferma veramente che tutto va in fiamme?». Krineĩn e katalambáneĩn sono verbi d’uso giuridico, che significano, per lo più, ‘condannare’ e ‘afferrare’ o anche ‘arrestare’. «Krineĩn, però, significa anche ‘tagliare’, ‘distinguere’, ‘separare’. La frase può allora benissimo indicare che il fuoco separa ogni cosa» – come del resto si vede in Empedocle, che lo usa in questo significato e che potrebbe addirittura citare Eraclito! Qual è la traduzione giusta? La sentenza di Eraclito potrebbe avere un significato completamente diverso da quello che in genere le viene attribuito sulla base della sensibilità dei neoplatonici, «Ma chi lo sa? Bisognerebbe pur sempre delibare se la frase in primo luogo abbia il senso qui mostrato – e tutt’al più dovrebbe lasciare risuonare il senso ‘morale’ sottostante». Già – ma Gadamer sa bene che una delibazione non vale una “prova” impossibile (come invece, venendogli in aiuto, traduce Mecacci); e in caso di dubbio irrimediabile è disposto, tutt’al più, a tagliare il nodo col ricorso all’arte pedagogica dei doppifondi, ossia al senso morale sottostante, che non può mai mancare – perché si sa che nel dubbio la moralità costituisce requisito preferenziale di verità: conviene sempre. In questa opzione (che è poi una versione della scommessa di Pascal) si riassume tutto il significato della prima Critica kantiana – la quale risulta essere in definitiva il vero grande doppiofondo di tutta questa scienza.5 A parte il ricorso al requisito morale di soccorso, e a parte una rapida consultazione del Cratilo, non resta allo studioso, secondo lui, che imboccare la via morfologica: la quale insegna ad «esaminare a fondo la struttura delle pro-

5   Ivi, pp. 21-23. Aber wer weiß? Daß der Satz zunächst den hier aufgezeigten Sinn hat – und höchstens den ‘moralischen’ Hintersinn anklingen lassen sollte, müßte immerhin erwogen werden. La traduzione nell’edizione italiana suona: «Ma chi lo sa? Che la frase in primo luogo abbia il senso qui mostrato deve pur sempre essere provato, e tutt’al più dovrebbe risuonare il senso ‘morale’ sottostante». Gadamer vuol dire che se una cosa non può essere provata, non resta che la riserva dell’opzione preferenziale morale. Facendogli avanzare la richiesta di una prova, si perde un po’ la sfumatura di questo suo automatismo kantiano.

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   273

posizioni che con certezza appartengono soltanto a Eraclito, perché sono simili tra loro come i membri di una stessa famiglia». La famiglia fa da modello comune, o da «struttura concettuale» che si suppone qua e là variamente imitata, senza tuttavia «diventare necessariamente irriconoscibile». È quello che egli chiama il metodo «della riduzione morfologicamente guidata».6 Il lettore capisce facilmente che qui si propone l’intellettualizzazione per analogia, con qualche pretesa di certezza, di uno schietto problema di divinazione o di pura opinione: da un giudizio eracliteo, o pseudo-eracliteo, si passa alla raccolta di giudizi simili, e da questa raccolta, induttivamente, all’elaborazione concordata di uno schema sintattico e linguistico che formi l’unità morfologica di una famiglia. L’attribuzione per deduzione dell’apparentamento alla famiglia di un singolo frammento confermerà a sua volta la validità dell’induzione sintatticolinguistica. È così che Gadamer annuncia di avere recuperato dalla lista delle citazioni di Ippolito un frammento abitualmente omesso nella raccolta. Sarà vero – ma intanto la divinazione e la pura opinione (vale a dire: l’ipotesi d’interpretazione soggetta a verifica per congruenza e plausibilità) restano in tal modo completamente sacrificate. Per questa ragione ho già detto altrove, un po’ celiando, che quando un fenomenologo avvolge un oggetto in un foglio di giornale, sul quale s’imprimono come in una stampa le nostre suggestioni dell’oggetto, poi l’ermeneuta si mette a leggere il giornale. Nella sua forma originale il frammento tramandato da Ippolito è così concepito: Hote mèn oũn mē genénēto ho patēr, dikaíōs patēr prosēgóreuto, hote dè ēudókēsen génesin hupomeĩnai, gennētheìs ho huiòs egéneto autòs heautoũ, ouch hetérou – vale a dire: “Fintantoché il padre non giunse ad essere, non può essere chiamato con diritto padre. Ma quando si degnò di giungere ad essere, divenne il figlio, il figlio di se stesso e di nessun altro”.7 E Gadamer così lo discute in Studi su Eraclito, più brevemente di quanto non avesse già fatto nello studio Sulla tradizione di Eraclito: Come sempre accade con Ippolito, il frammento è così estraneo alla dimensione cristianotrinitaria che lo si prende per una semplice falsificazione. Lo si può ricostruire morfologicamente. Il risultato è: “Il padre è il figlio di se stesso”. Ovvero: quando il padre genera un figlio, rende se stesso padre [qui c’è una svista di Gadamer, perché avrà voluto dire, logicamente e testualmente: “Quando il padre genera un figlio, rende se stesso figlio”]. Mi sembra un’affermazione tipicamente eraclitea, nel conciso stile del paradosso, motivo per

  Ivi, p. 24.   Testo, traduzione e discussione si trovano nello studio Sulla tradizione di Eraclito (Zur Überlieferung Heraklits, 1974), pubblicato in questo medesimo volumetto curato da Andrea Mecacci, pp. 85 ss. (citazione a p. 91). 6 7

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274   parte seconda. letteratura eraclitante cui i tardi critici dello stile hanno ritenuto che Eraclito fosse stato un melanconico e che avesse espresso le sue frasi solo a metà [?]. Questa per noi è pur sempre un’indicazione, un principio guida ragionevole: dove c’è qualcosa di conciso, concentrato, paradossale, là abbiamo Eraclito.8

Alquanto sorprendente davvero, questa riduzione dell’ermeneutica alla morfologia del paradosso! Gadamer ha un bel dire di continuo che nelle tarde testimonianze noi dobbiamo «eliminare lo strato cristiano e recuperare le parole di Eraclito».9 Quando commenta le aggiunte o spiegazioni di Clemente al significato di frammenti come DK 90 (“Tutte le cose in cambio del fuoco”), DK 88 (“La stessa cosa vivo e morto, desto e dormiente, giovane e vecchio”) e DK 67 (“Il dio giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace”), secondo le quali aggiunte o spiegazioni il fuoco e il logos sarebbero Dio, conclude che non sono del tutto false.10 E quando vuole identificare il sonno con la morte, di cui parlerò più avanti, è sempre alla tradizione nel testo di Clemente che si aggrappa.11 Ciò che per istinto egli vuole trovare, in realtà poi lo trova anche a dispetto del suo metodo ermeneutico mediante delle semplificazioni che per lui hanno il gusto della rivelazione. Perché è proprio la rivelazione che Gadamer cerca in realtà nel testo: l’istante dell’evidenza che soggioga e salva il lettore perso in un labirinto di significati incomprensibili. E così in questa brachilogia del ‘figlio di se stesso’ egli trova, e ripropone con soddisfazione, un Eraclito precursore dell’eresia noetiana.12 Perché lo fa, e a quali voci obbedisce? Non si tratta di voci (così almeno egli assicura) cristiane. Qualcosa, comunque, nella sua sensibilità gli fa prendere le distanze da un’idea gerarchica della filiazione; e questo qualcosa mira a smentire completamente l’assunto gerarchico in generale – anche, e soprattutto, sul piano filosofico-politico che aveva informato di sé tutta la mentalità imperiale che si esprime, per esempio, nell’interpretazione di Spengler. Filologia e teologia, in tal modo, non perdono di vista la politica: Se si riflette, del tutto sganciati dalla questione se vi sia qualcosa di cristiano o meno, su cosa possa significare la medesimezza di padre e figlio, la prima cosa in cui con Eraclito ci si imbatte non è l’unità di famiglia o di sangue. Infatti l’unità genealogica di padre e figlio, come è alla base del modello aristocratico dell’etica e dell’educazione, o anche l’unità poli-

  Ivi, pp. 24-25.   Ivi, per esempio alla p. 92.   Ivi, p. 66. 11   Ivi, pp. 71-72. 12   Ivi, pp. 91 e 92. 8

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   275

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tica di una dinastia governante, la cui autocrazia non si restringe alla successione del figlio (così Noeto l’ha chiaramente intesa), non è sicuramente ciò che intendeva il grande solitario Eraclito, il quale affermava di opporsi con la sua dottrina a tutti gli altri uomini.13

Ma sarà poi vero che l’esserci o non esserci qualcosa di cristiano qui non c’entra per nulla? Gadamer si rallegra di poter addurre a favore della sua ricostruzione il fatto che essa permette di capire come due neoplatonici quali Ippolito o Noeto abbiano «sfruttato l’acuta formulazione di Eraclito come un’anticipazione dell’unità cristiana di padre e di figlio».14 Nella sua virtuosità, niente come la conduzione di quest’analisi morfologica mi sembra più chiaramente lusingare gl’istinti intellettuali dell’interprete – e parlare di ‘istinti intellettuali’ non è un ossimoro! Niente, d’altra parte, mi sembra meno dottrinalmente metodico. Si sente, invece, che Gadamer sta seguendo qualcosa che gli appartiene, che lo ispira e che lo guida nelle sue analisi e nelle sue scelte apparentemente più tecniche. Nelle loro più autentiche motivazioni, che qui si percepiscono come in filigrana, non sono certamente, questi suoi studi su Eraclito, dei cosiddetti ‘contributi’ o delle ‘occasioni’ per la delineazione di un metodo ermeneutico, o alcunché di simile che di solito fa la felicità e la fortuna di discepoli e seguaci. Nella forte unilateralità del loro approccio noi troviamo materia per lo studio non già dell’ermeneutica, bensì del pregiudizio. illuminismo e rivelazione Se a Gadamer stesse a cuore l’elaborazione di una dottrina, del resto, noi non incontreremmo in questi studi tante incongruenze analitiche, tante irritanti perplessità nelle quali il lettore attento si viene continuamente a ritrovare.15 Nelle analisi del testo l’impressione è troppo spesso quella di seguire un uomo che non sa bene che cosa cerca. L’insegnamento heideggeriano dell’essere smarriti nel mondo in cerca dell’unità dell’inizio è diventato qui un essere smarriti nel testo in attesa della rivelazione del suo vero significato unitario. Solo ogni tanto si sente ritornare, per fortuna, la nota di fondo dell’insegnamento di

  Ivi, p. 92.   Ibidem. 15   Un caso fra tutti lo può mostrare in modo addirittura sconcertante. Trattando della tensione fra gli opposti (come in DK 51, DK 10 o DK 8), nello spazio di poche righe Gadamer afferma prima: «In Aristotele diventa del tutto chiaro come interpretare tutto ciò: il tono acuto e quello grave devono esserci entrambi se ci deve essere armonia»; e poi: «Aristotele non ha mai una comprensione speculativa per le sentenze contraddittorie di Eraclito» (ivi, p. 42). 13

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276   parte seconda. letteratura eraclitante

Gadamer, che è quella dell’illuminismo pragmatico eracliteo: per cui Eraclito non è affatto l’uomo dei misteri, bensì è colui che descrive un ordine, che è lo stesso per tutti, a chi possiede una ragione che è uguale per tutti; e pretende la sapienza non dagl’iniziati, bensì da tutti gli uomini. Gioca sulle parole soltanto al fine di rafforzare la verità razionale che è celata al loro interno, e a tal fine in DK 114 (“È necessario insistere sull’interesse comune a tutti”) a xunón (‘comune’) fa seguire xùn nõ (‘con la ragione’). Egli non rilascia sulla morte alcuna dichiarazione pseudomisteriosa, bensì indica ciò che è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo vedono. Eraclito è l’uomo che non costruisce dottrine cosmologiche, ma fa affidamento sulla ragionevolezza pratica della phrónesis – cosicché, per esempio il significato di DK 84 (“Mutando riposa”) dovrebbe essere spogliato di tutti i fardelli mitici di cui lo carica Plotino. Eraclito anticipa Platone in qualche «ardito pensiero illuminista» quando mostra l’impotenza degli dèi nel naufragio dell’uomo.16 L’illuminismo eracliteo di Gadamer è pratico, non speculativo – sebbene egli parli talvolta insistentemente di una «dottrina» eraclitea.17 E non è, per lo più, ricavato dai pensieri (se non dal cosiddetto proemio DK 1), né illustrato analiticamente sul testo – altrimenti le sue asserzioni circa i rapporti con l’eleatismo, o nei confronti dello stesso Parmenide, non sarebbero tanto vaghi, né il confronto con la scuola ionica sarebbe sviluppato in modo tanto alterno. Nello spazio di sei pagine pressocché contigue Gadamer afferma, successivamente: 1) che Eraclito in certo modo critica e adegua le sue idee al nuovo illuminismo milesio, ma anche pitagorico e senofaneo; 2) che egli non può essere visto come un continuatore della cosmogonia ionica, né come suo traduttore in cosmologia; 3) che in DK 30 non si può scorgere un suo rifiuto della cosmogonia ionica; 4) che le eruzioni del fuoco inquieto di DK 31 non hanno nulla a che fare con l’equilibrio degli opposti degli ionici; 5) che la trasformazione iniziale del fuoco in mare di DK 31 va intesa semplicemente quale espressione dell’inizio, non diversamente da come l’aveva concepito la cosmologia ionica; 6) e che infine Eraclito con la sua dottrina del fuoco indaga, per così dire, la cosmogonia ionica.18 Il fatto è che, come ho detto, l’illuminismo pragmatico eracliteo è per Gadamer un assunto del tutto generico, tratto con insistenza unicamente da

  Ivi, rispettivamente pp. 63, 60, 26, 56-57, 19 e 20, 56, 59.   Per esempio alle pp. 34 e 36.   Ivi, rispettivamente pp. 60-61, 61, 62, 64, 66, 68. Studi su Eraclito fu in origine una conferenza tenuta all’Accademia delle Scienze di Heidelberg nel 1984. Gadamer aveva allora ottantaquattro anni, e all’età avanzata si deve, probabilmente, una certa mancanza di lucidità dello scritto. 16 17 18

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   277

DK 1, e confermato per confutazione delle tesi opposte. Nessun riferimento, in lui, alla vita pratica, all’ufficio, alla politica. Gadamer ha imparato da Heidegger a sentire se stesso nel suo Eraclito; e la vita di Eraclito nella quale s’immedesima è il suo pensiero trovato nei tardi testimoni che predilige, e trascurato o negato in tutto ciò che non gli è congeniale; e la morfologia delle testimonianze corrisponde ad un essere-nel-mondo come un suo essere-neltesto in attesa dell’esperienza che in una parola, che in una formula si riveli la traccia, il barlume della verità che cerca. Questo barlume di verità è il suo ‘illuminismo’: non già del chiarore uniforme e permanente solare del giorno che illumina la vita della città (una luce che non gl’interessa, si sente: mi pare che nello scritto non si menzioni una sola volta il sole, che pure ebbe per Eraclito un’importanza metaforica decisiva), bensì il chiarore dei lampi e delle fosforescenze dove qualcosa è aggiunta, ‘si’ accresce, ‘si’ dispiega, ‘si’ muove e alla fine ‘si’ cerca. Questo ‘si’, che penetra in ogni ‘mutamento’ di una stessa e medesima cosa, mette in contrasto Eraclito rispetto al pensiero degli opposti dei milesi. L’accender-si del fuoco, il muover-si del vivente, il tornare-in-sé di colui che si sveglia e il pensar-si del pensiero sono manifestazioni di un logos che sempre è. Il misterioso ‘si’ è ciò che ha valore per la profondità di Eraclito.19

Il pensarsi del pensiero, dunque. La phrónesis pragmatica, antiteoretica in senso cosmologico, che distingue Eraclito dagli ionici (nonché da tutto il nostro mondo post-cartesiano, nel quale vige una sostanziale distinzione fra l’interno e l’esterno20) – questa saggezza pratica, dunque, è tuttavia speculativa! Com’è possibile? È possibile, perché nell’immaginazione di Gadamer questa ‘prassi’ è vita ed esperienza della ricerca e del ritrovamento di parole speciali fra parole ordinarie, o di significati non ordinari frammezzo alla prassi della tradizione letteraria, non diversamente da come nella sua vita ordinaria l’attenzione di un uomo sensibile resta in attesa, e fra le cose ordinarie che lo circondano cerca l’occasione del lancio su un’altra orbita, o vede spalancarsi gli Eldoradi, le malchiuse porte d’alti reami. Nella poesia di Montale si trovano già le radici genuine di questo tipo di sensibilità, alla quale la filosofia è arrivata (come nel caso di Heidegger con Ungaretti) con almeno una generazione di ritardo. Non è un fenomeno unico: i tempi di reazione del mondo della musica, per esempio, sono pressappoco gli stessi.

  Ivi, p. 79.   Ibidem.

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la negazione del sogno Prima ancora del pensar-si del pensiero, nel passo che ho appena citato Gadamer parla di un tornare-in-sé di colui che si sveglia. Quest’espressione apre la penultima questione alla quale desidero dedicarmi, nella quale è contenuto il suo senso della verità, eraclitea e non, e della rivelazione. Ha un bel dire, Gadamer, che la dichiarazione d’intenti contenuta in DK 1 non va ermeneuticamente interpretata alla luce di alcuna dottrina più tarda, né come annuncio del contenuto della dottrina eraclitea.21 Perché questo contenuto della dottrina poi c’è; e comincia proprio da qui, da questo illuminismo pragmatico del pensiero che in DK 1 vede ciò che altri vedono senza vedere, vivendo come dormienti. La dottrina che Gadamer traccia sul percorso dei frammenti inizia con la negazione di valore conoscitivo allo stato del sonno e ai contributi del sogno, e si conclude con l’affermazione della rivelazione della verità come manifestazione o come svelamento della simultaneità, ovvero dell’ambivalenza istantanea, nelle trasformazioni e nei processi del divenire. Il tempo non interessa a Gadamer, si sa e si sente. Perciò non può interessare neppure ad Eraclito: al quale il suo interprete, dopo aver negato valore a supposte teorie cosmologiche cicliche, fa svolgere una vita di fatto inesistente, e neppure minimamente distinta per fasi o periodi. La vita dell’uomo che attende rivelazioni si svolge effettivamente in un perpetuo presente del tutto banale, con qualche sporadica occasione. Queste medesime occasioni non sono che ripetizioni, e fra queste ripetizioni Gadamer predilige soffermarsi sui passaggi dallo stato di sonno allo stato di veglia. Si capisce abbastanza bene il perché: non solo perché Eraclito ne parla nei suoi pensieri, ma anche perché il passaggio dalla sazietà alla fame, per esempio, è assai più graduale, e conferisce al tempo un ruolo nella trasformazione fra gli opposti.22 Questo è ciò che contraddistingue la nostra attività nel sonno, secondo il Gadamer che commenta DK 1: il fatto che quando siamo svegli la dimentichiamo. Leggendo il testo alquanto corrivamente (secondo il costume degli ermeneuti, quando non si tratta di fiutare parole rivelatrici di una qualche pista), egli trascura di considerare che Eraclito dice, in verità, che “agli altri” rimane celato ciò che fanno da svegli; e lo fa anche Diano nella sua traduzio  Ivi, pp. 33 e 34.   Egli menziona, in verità, la sazietà e la fame, ma si destreggia così: «Quello che alletta del cibo presuppone la fame, o forse l’appetito, e svanisce con sorprendente velocità quando si è sazi» (ivi, p. 46). Insomma: il passaggio dalla fame alla sazietà è sorprendentemente veloce (benché graduato, forse, dall’appetito), e perciò gl’interessa; il passaggio inverso dalla sazietà alla fame, assai più graduale, non gl’interessa, perché implica un decorso del tempo, e perciò non lo menziona. 21

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   279

ne omettendo állous, come ho già detto nell’Introduzione. Ma non importa – seguiamo il pensiero dell’interprete. «Delle esperienze oniriche che facciamo, non portiamo nulla nella nostra realtà vissuta. L’attività onirica non ha conseguenze. Né si può, una volta destati alla veglia del giorno, continuare il gioco del proprio sogno, né inserirlo nella propria esperienza. Questo è il significato della proposizione introduttiva [DK 1]».23 Il lettore noti ciò che Gadamer teme: che si possano continuare a praticare nella vita attiva i giochi dei sogni. Non si tratta di un invito alla virilità del vivere in modo positivo o responsabile – no: Gadamer vuole uomini ben desti e vigili, attenti e pronti alle rivelazioni (una simile posizione si può vedere illustrata, per esempio, nel cinema di Krzysztof Kieślowski). Per tutte le ragioni che ho già spiegato, una vita iniziata senza alcun significato lo può acquistare mediante un continuo spiare le piccole, domestiche manifestazioni della verità e del divino nella vita ordinaria – e questo non si può fare vivendo come dormendo. «Che gli uomini facciano esperienze senza divenire saggi indica che essi vivono come sognatori. Le loro esperienze non hanno conseguenze». Perciò la negazione di valore allo stato di sonno e di sogno è particolarmente insistente, giungendo persino all’identificazione: «sognare è precisamente il non essere svegli». Ma poiché la cosa non si può in verità sostenere, Gadamer è presto costretto a distinguere sonno da sogno, húpnos da enúpnion (un termine, quest’ultimo, che non trova menzioni nei frammenti), e a identificare il sonno con la morte stessa, senz’altro: in DK 21 (“Morte è quanto vediamo da svegli; e quanto dormendo, sogno”) «ciò che è visto nell’essere sveglio, con la sua veglia apparente [di chi vive come dormendo], è attribuito non alla vitalità, ma all’esser morti».24 E così ancora più avanti, non senza una certa disarmante ingenuità, a proposito di DK 26: «Che l’uomo si accenda una luce nella notte indica già un particolare uso del fuoco: ‘fare luce’. Questo non si accorda con la situazione del dormiente».25 Già – nessun dormiente ha mai pensato di accendersi nulla per farsi luce. Che Gadamer abbia deciso una volta tanto, perché gli serve, di fare del realismo, magari arguto? «Mi sembra anche fuorviante rapportare una tale affermazione generale sull’uomo alla vita onirica … quasi che fossimo capaci di governare i sogni come il fuoco che 23   Ivi, p. 35, e p. 36 per le due citazioni seguenti. Può essere interessante sapere che Curzio Malaparte negò qualsiasi valore poetico al sogno: «La poesia non ha niente a che fare col sogno. Che è un sottoprodotto della realtà, un suo riflesso incosciente» (Nostro tempo, in L’arcitaliano, e tutte le altre poesie, Vallecchi, Firenze 1963, p. 221). La pretesa origine del bando starebbe nella poetica surrealista, come l’intese lui. 24   Ivi, pp. 38 e 39. 25   Ivi, p. 74 come le citazioni che seguono.

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280   parte seconda. letteratura eraclitante

accendiamo» – già, ecco il punto che lo preoccupa veramente: i sogni non si possono governare come il fuoco. E così non si accorge di ridurre questo fuoco, metafisico o metaforico, essenziale o cosmologico, ad uno strumento pratico nelle sue mani. Ma insomma: «Certamente Eraclito oppone il mondo dei sogni e dell’illusione [ma quest’ultima ce la mette lui!] al mondo comune del giorno e della ragione». Come si spiega quest’insistenza, che non ho neppure elencata in tutte le sue espressioni? Si spiega forse col valore dottrinale dello stato di veglia, indispensabile perché l’uomo divenga padrone di sé, dissipando oscure tutele nascoste nel cielo? Ma questo non sarebbe che vecchio illuminismo! No, come ho detto: quello di Gadamer è un illuminismo, sì, ma della rivelazione. Non è lo stato di veglia che gl’interessa, né il sole, bensì l’attimo del risveglio; e su questo punto, di valore decisivo per la «dottrina» che in generale attribuisce ad Eraclito, egli non è meno insistente: «Chiunque abbia acceso una volta delle candele sull’albero di Natale sa che tra i due significati di haptein, ‘accendere’ e ‘toccare’, sussiste una stretta relazione semantica. Basta tenere una candela un po’ troppo distante perché l’altra non si accenda. ‘Accendere’ significa ‘toccare’. Quanto i due significati qui giochino l’uno con l’altro è ovviamente un problema; in ogni caso non si può trattare di un gioco di parole» – e dunque si tratta di un gioco serio.26 rivelazione nella simultaneità Gadamer non può ricordarsi di aver temuto che la vita, vissuta come dormendo, non sia che una prosecuzione del gioco dei nostri sogni, e nota con interesse che Eraclito, il Desto, può anche giocare coi significati delle parole allo scopo di risvegliare una profonda verità: quella della repentinità del cambiamento improvviso da uno stato all’altro, nella quale i due stati si mostrano come uno. Questo, nella sua interpretazione, è il significato generale della «dottrina» eraclitea sull’unità dei contrari e sul mutamento immobile. Non c’è più qui, finalmente, alcun indefinito scorrere o pánta reĩ, una volta tanto. I tempi cambiano; e chissà che noi non dobbiamo il diffondersi di questa disgraziata diceria proprio al clima culturale del wagnerismo – ma muoiano l’una e l’altro, senza che muoia la musica di Wagner! «Veglia e sonno, vita e morte, si toccano reciprocamente in modo diretto. (…) Non c’è alcun trapasso fra il dormire e l’essere sveglio. O si è ‘qui’ o non si è ‘qui’, cioè nella   Ivi, p. 71.

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   281

coscienza. I fenomeni, che qui Eraclito ha in mente, sono opposti in modo così ‘totale’, che proprio tramite la repentinità del cambiamento improvviso dall’uno all’altro si mostrano come uno».27 In ragione della sua importanza teorica, desidero offrire al lettore una breve rassegna dei modi gadameriani di esprimere quest’accensione. Nel Sofista e nel Simposio platonici si menziona l’agitazione del ciceone, allo scopo di dargli efficacia; e «il passo del Sofista mostra inequivocabilmente che Platone aveva compreso molto bene che Eraclito … non aveva in mente che l’unità fosse il risultato finale. Al contrario. Quello che conta è la simultaneità».28 «Il logos di Eraclito è uno. Egli lo scorge in fenomeni così diversi come il fluire delle cose, il repentino mutamento del fuoco in acqua e del sonno in veglia».29 Si nota, qui, che parlando di un fluire «delle cose» Gadamer evita di menzionare il fiume – perché altrimenti non ci avrebbe trovato la repentinità. «Eraclito non intende soltanto ciò che tutti sanno: il susseguirsi, la necessaria successione di una cosa dietro l’altra, come il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, la giovinezza e la vecchiaia; ma, oltre a questo, quell’intreccio che … consiste evidentemente nel fatto che è la stessa cosa che tiene unita se stessa nella separazione da se stessa».30 Questa formulazione sull’unità e separazione di una cosa in se stessa offre a Gadamer lo spunto per dei riferimenti all’anima, secondo la sua sensibilità religiosa, e non già per concepire, più in generale, una teoria degli esseri complessi. Ma andiamo avanti. In tutti i casi del fiume, dell’armonia dell’arco e della lira, del ciceone, e simili, «il discorso non verte più sull’unità basata sulla semplice successione temporale o sulla semplice [?] repentinità del mutamento. (Semmai, se si tratta della repentinità del mutamento, si potrebbero sussumere gli esempi senza la contemporaneità dell’unità speculativa della successione temporale)».31 La frase risulta incomprensibile, e toglie anche alquanto valore alla dottrina della repentinità – ma sembra voler significare che questa repentinità, ch’egli ha in mente, dovrebbe essere concepita del tutto indipendentemente dal tempo. E

27   Ivi, p. 72. Gadamer non è lucidissimo nell’enunciare il concetto, perché aggiunge subito dopo qualcosa che lo appanna notevolmente, togliendo ai due stati di sonno e di veglia, che sono ben distinti, il momento della congiunzione e del trapasso istantaneo: «Chi è sveglio e chi dorme sono una cosa sola e la stessa: colui che ‘è vivo’. Inoltre, una persona quando dorme esiste in modo enigmaticamente diverso, non è ‘qui’, è come un morto, e noi diciamo anche di chi dorme profondamente che dorme ‘come un morto’». Ma in tal modo si attua un’identificazione dei due stati, nella quale si vanifica il momento della congiunzione istantanea. 28   Ivi, p. 13. 29   Ivi, p. 30. 30   Ivi, p. 41. 31   Ivi, p. 43.

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282   parte seconda. letteratura eraclitante

ancora: DK 10 (“Rapporti: tutto e non-tutto, convergente-divergente”) «intende chiaramente la simultaneità».32 E poi: è vero che alcune sentenze «sembrano esprimere soltanto il mutamento come tale e non l’unità speculativa che nel mutamento risiede» (come DK 67); ma altri, come DK 88, che senza alcun dubbio pongono l’accento sul mutamento, sul susseguirsi, descrivono tuttavia questa trasformazione «come cambiamento repentino (metapesónta). Proprio in senso genuinamente eracliteo, ogni mutamento implica una simultaneità» che mostra «in generale l’essenza unitaria delle cose e il loro vero essere».33 E qui Gadamer aggiunge uno dei suoi sporadici riferimenti all’unità di una non meglio precisata «struttura melodica», che gli sta evidentemente a cuore, e che vorrebbe udire senza peraltro riuscire a farla udire a noi. Ed infine: «Lo scoppio della guerra è una completa trasformazione di ogni cosa. Anche la veglia e il sonno fanno parte di questa lista. Quello che è sorprendente nell’opposizione fra veglia e sonno è proprio la subitaneità con cui un’intera condizione diventa un’altra».34 E con ciò siamo tornati al punto di partenza, e non occorre più insistere. Stabilito e documentato dunque questo punto centrale di quella che Gadamer chiama la «dottrina» eraclitea (desunta direttamente dalle parole sul sonno e sulla veglia di DK 1, che per lui resta il frammento più importante), non mi resta che avviarmi a concludere l’esame di questi studi traendone il significato ispirativo generale – e questo significato è senz’altro religioso. Come ho già detto in precedenza, a questa dottrina del contatto, che avrebbe soprattutto valore logico-ontologico, Gadamer conferisce valore religioso interpretandola come accensione e come subitaneità del risveglio. Il suo valore conoscitivo è quello di una rivelazione, il suo valore spirituale è quello di una vigile attesa. Redenzione e resurrezione o reincarnazione no, non ci possono essere (a dispetto d’Ippolito, di DK 62 e della seconda sentenza in DK 77), perché in questo Gadamer vuole a tutti i costi il mondo pagano nettamente separato dal cristiano. Bisogna per forza, secondo lui, che ci sia una frattura, perché il culto antico dei morti non è che «un modo per tenersi in vita», mentre la particolarità della religione cristiana consiste nel fatto che il terrore della morte per essa «non è attenuato, bensì del tutto accettato mediante la fede nella resurrezione», così come la fede nel sacrificio di Gesù ci assicura la redenzione.35 Perché la frattura sia netta e credibile bisogna negare ogni valore   Ibidem.   Ivi, pp. 44 e 45. 34   Ivi, p. 46. 35   Ivi, p. 50. 32 33

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   283

alle credenze orfiche, pitagoriche e platoniche sulla trasmigrazione dell’anima e sulla reincarnazione, negando per giunta che simili teorie siano presenti nei pensieri di Eraclito – ed è proprio questo che Gadamer fa, con un certo puntiglio: «Riveste un significato decisivo chiarire che tutto questo non ha nulla a che fare con Eraclito. In Eraclito non è presente alcun discorso sulla trasmigrazione dell’anima».36 Il lettore accoglierà simili asserzioni, con le loro generiche motivazioni, come preferisce. Gadamer stesso, per nostra fortuna, si esprime come preferisce, con molta libertà davvero, e in Eraclito insegue soltanto le sue voci. Nell’identificazione esistenziale fra l’interprete e il suo oggetto noi vediamo rinnovarsi per l’ultima volta (forse!), e in forma sempre più blanda man mano che le generazioni si avvicendano, l’originaria suggestione nicciana del ‘dionisiaco’. Possiamo tuttavia dire che avviene con Gadamer un’identificazione opposta rispetto a Heidegger (contenuti a parte): perché è del tutto assente in Gadamer, come s’è visto, ogni vanità di abbandonarsi nel personaggio, ogni infatuazione ontica spettacolare e ben dissimulata – mentre c’è, viceversa, l’attrazione a sé dell’oggetto: c’è un Eraclito che si tuffa (a sue spese, non di rado) nella nostra vita contemporanea, e nella sensibilità di un uomo sincero e religiosamente motivato del Novecento. Il rispetto che è dovuto ad un simile approccio può moderare alquanto l’irritazione che nasce talvolta da una lettura decisamente forzata dei frammenti. Non può invece dissipare le nostre perplessità riguardo alla base testuale, numericamente assai esigua, sulla quale si basa l’interpretazione. il lapsus di agostino L’ermeneutica tocca le sponde della storia della cultura, ma senza adottarne la varia fenomenistica empirica ed erudita. Gadamer lo sa tanto bene, da capire di doversi limitare per non incorrere nei dilettantismi di Schopenhauer: «Ovviamente, quando abbiamo a che fare con contesti culturali e con tradizioni totalmente altre sorgono grandi difficoltà. Si pensi soltanto alla deformazione del vedānta compiuta dal kantiano Schopenhauer».37 Perché, in questo contesto, Gadamer ha voluto specificare che è stato proprio un kantiano ad incorrere in una prova di dilettantismo? Perché fin dall’inizio del suo studio eracliteo egli lascia capire al lettore d’avere qualche riserva nei confronti del   Ivi, p. 52 e già p. 50.   Ivi, pp. 48-49.

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284   parte seconda. letteratura eraclitante

criticismo, e invita a riferirsi al cogito di Cartesio e alla matematica di Galileo così da potere ricominciare dalla grande filosofia moderna.38 Quest’invito è senz’altro indispensabile: «La soggettività, nella forma della filosofia trascendentale, ha accompagnato la scienza moderna nella sua marcia trionfale. Nel frattempo i dubbi sulla certezza dell’autocoscienza hanno còlto il pensiero moderno, facendogli trattenere il respiro». I dubbi sulla certezza sono i dubbi sulla pretesa kantiana di dare all’autocoscienza un fondamento. La filosofia contemporanea più recente si è trovata insomma, secondo Gadamer, dinnanzi al compito di operare una riforma della soggettività; e qui, dice, «tutto ha inizio con Nietzsche».39 Ora, fare di Nietzsche un dilettante più prudente di Schopenhauer, e persino un fondatore più sicuro di Kant, anziché un monello ‘renudista’ (diciamo così), senza neppure mai (se ho letto bene) menzionare Schleiermacher, non può non destare in noi qualche perplessità. E Nietzsche era uomo che insieme coi preconcetti si portava dentro una buona dose di pregiudizi, per giunta. Il fatto poi che rompere i vetri serva a creare un mestiere sicuro anche ai vetrai, oltre che ai filosofi, è cosa che non molto tempo dopo Nietzsche s’è incaricato di mostrare Charlie Chaplin. Ripartire dalla grande filosofia moderna, dunque, per andare a ritroso. «Al fine di liberarci da queste prospettive moderniste, occorre ritornare in quella dimensione storica che da Cartesio conduce ad Agostino, e da Agostino a Platone. Ora vorrei mostrare che da Platone si deve compiere un ulteriore passo indietro, il passo che di fatto porta ad Eraclito».40 Se anche l’ermeneutica si propone di effettuare i montaggi telescopici della filosofia della storia o delle genealogie dossografiche, in questo caso la cosa a me sembra particolarmente azzardata, persino concettualmente impossibile, se non con grave sacrificio di Eraclito. Il punto nevralgico è Agostino, che nel corso dello studio gadameriano non verrà più menzionato. Il fatto è che, oltre a proporre il metodo del montaggio telescopico a ritroso, Gadamer si sforza anche di metterci dei contenuti per arrivare ad una sua conclusione; e questa consiste nella rivalutazione della tarda testimonianza neoplatonica e paleocristiana. Insomma: recentiores non deteriores. Ora, per Cartesio e per Platone, la cosa può andare. Annunciare agli ascoltatori fin dall’esordio di volersi accingere allo studio de «il modo in cui Platone si relaziona ad Eraclito» e de «lo stile con il quale

  Ivi, pp. 4 e 7.   Ivi, p. 6. 40   Ivi, p. 7. 38

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Eraclito costruisce le proprie proposizioni»41 è un tipico pagamento di pegno: noi conosciamo Eraclito proprio attraverso Platone, effettivamente, mentre il cogito e le idee chiare e distinte ci possono effettivamente dire qualcosa (solo qualcosa) su come Eraclito potrebbe avere costruito una parte delle sue proposizioni. Solo qualcosa e solo una parte, dico, perché nelle fasi più incerte della sua vita Eraclito si mostra alquanto incline a formulare, invece, idee nebulose e indistinte. Tutta l’interpretazione di Gadamer tende, in generale, a farne un illuminista: colui che porta alla luce ciò che è comune e invisibile ai più. Nulla di mistico o misteriosofico, dunque, in Gadamer – piuttosto, una decisa tendenza a portare Eraclito quanto più possibile vicino alla luce della rivelazione cristiana (soprattutto con l’interpretazione di DK 26: “L’uomo si accende una luce nella notte quando essa è spenta nei suoi occhi…”) attraverso i prodromi della testimonianza platonica. È un illuminismo della rivelazione il suo, come ho detto – non un illuminismo naturalistico o cosmologico di tipo ionico, che invece Gadamer combatte alquanto confusamente. L’interposizione di Platone è obbligata, e quella di Cartesio è voluta, dunque. Il loro montaggio è esso pure liberamente voluto – e va bene: perché il cartesianesimo può senz’altro offrire degli accessi logici al Platone testimone eracliteo. Ma Agostino? Se noi interponiamo Agostino, e in un montaggio, per giunta, non potremo che leggere lo stesso Platone, in qualche modo, attraverso Agostino – e qui il ruolo d’interposizione non è affatto obbligato, non è affatto storicamente e filologicamente necessario: se non altro, perché Agostino non è testimone platonico. Di più. L’agostinismo (che esiste come ‘ismo’) nelle sue linee più generali è la pura e semplice negazione dell’eraclitismo (che come ‘ismo’, invece, non esiste). L’agostinismo è monistico ed emanazionistico, ‘l’eraclitismo’ (diciamo così) è dualistico, unitario bipartito o ciclico, e non contiene la benché minima idea di emanazione graduata. L’ordine del mondo che in DK 30 è fuoco eterno, il quale «secondo misura» si accende, e «secondo misura» si spegne, implica l’idea della pulsazione immobile (non ciclica), e non l’idea dell’emanazione graduata, naturalmente. Ma l’agostinismo è la vera ideologia duratura dell’Impero, assai più longeva ed efficace del neoplatonismo, e Gadamer lo sa perfettamente. Io credo che per un suo pregiudizio universalistico filo-imperiale Gadamer abbia voluto a tutti i costi mediare la lettura di Eraclito col nome del fondatore di un universo filosofico-politico che egli ha sentito e mutamente vagheggiato nel presente, e che ha effettivamente segnato l’immaginazione di intere generazioni tedesche   Ivi, p. 3.

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286   parte seconda. letteratura eraclitante

oltre alla sua (penso a un Kantorowicz, per esempio, proprio in riferimento al ruolo pregiudiziale dell’iconocrazia): quello di un ordine culturale imperiale cristiano irradiantesi da un centro di luce accademica verso le tenebre, la barbarie, o semplicemente verso il vuoto. E tale è per l’appunto il significato filosofico-politico più generale dell’agostinismo, soprattutto sotto il profilo della dottrina morale del male come assenza di bene, che è il presupposto di ogni programma di civilizzazione contro le tenebre e la barbarie. Il lettore non deve credere che qui si stia operando una congiunzione troppo ardita e immediata fra cose troppo distanti: perché è pur vero che l’uso anche di una sola parola ci svela in Eraclito interi mondi d’ipotetiche supposizioni, alle quali noi vogliamo fermamente credere, circostanziandole. È un uomo come Gadamer stesso che lo mostra e lo insegna. L’interprete, del resto, ha il diritto-dovere di avanzare delle interpretazioni, anziché delle omissioni che non giovano a nessuno. E come dunque io credo, per esempio, che l’estemporanea menzione di Peithō in apertura del parodo dell’Agamennone di Eschilo si debba in qualche modo spiegare, così credo pure che questo estemporaneo Agostino si debba spiegare. Credo dunque che Gadamer abbia costruito un preconcetto metodico sopra questo suo pregiudizio imperiale e cristiano e illuminista; e che oltre al neoplatonismo abbia voluto fare entrare a tutti i costi Agostino nel discorso, almeno menzionandolo anche soltanto una volta. Come si vede, gli automatismi di un vecchio studioso non sono meno interessanti degli automatismi di un giovane esordiente, come Spengler. *** È possibile percepire, in un simile caso, come il sentimento dell’oggetto venga guidato da un forte sentimento di sé. In generale si tratta, in definitiva, di quell’emulazione dell’egemonia illuminista francese che negli ultimi due secoli è stata il pensiero costante di tanti uomini di cultura tedeschi. La sua possibilità è stata per lo più accolta con il consenso degli ambienti scientifici italiani, non meno di come in circoli altrettanto ristretti d’Italia e di Germania i francesi della Rivoluzione e di Napoleone vennero accolti come liberatori. Ma non si può certo dire che i filosofi italiani abbiano imparato ad avere un altrettanto forte sentimento di sé, altrettanto radicati pregiudizi, così come, invece, seppero avere un adeguato sentimento di riforme e di libertà. A causa della loro debolezza autoctona, i nostri ambienti filosofici hanno fatto di questo bisogno d’emulazione e d’egemonia una vera e propria maniera – nonché miniera. Poiché ho citato per intero (come merita, per la sua rarità nella letteratura eraclitea) il passo di Gadamer su Lord Jim circa l’inconsistenza di un

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3. la conferenza accademica di gadamer del 1984   287

uomo che ha perduto ogni opinione di se stesso, posso però aggiungere ancora senz’altro questo: che ad ogni nazione che abbia esercitato via via nei secoli la sua egemonia in Europa non è mai mancato, al momento opportuno, questo sentimento di sé, questa sua ferma opinione – gradevole e benaccetta agli altri, o no. E rispetto al sentimento dell’impero teocratico, o gravitativo, o illuminato, o gerarchico, o socialista che attraverso molte generazioni ha via via fatto salire pregiudizialmente le sue voci dai precordi dell’intellettualità spagnola, inglese, francese, tedesca o russa, un paese come l’Italia non ha avuto e non ha alcun sentimento di sé da potere paragonare. Che è come dire: nessuna vera ragione per accettarsi (che è il problema dello Stato) e per farsi accettare (che è il problema dell’impero). Il modello propagandistico della romanità è stato, sotto questo profilo, quanto mai fuorviante – e anche qui il punto di partenza pedagogico non può essere Machiavelli, bensì Valla: i cui dialoghi sul piacere e sul libero arbitrio sono per l’appunto quelli che non vengono mai letti nelle scuole. Essi rappresentano un elegante, limpido e sorridente punto d’approdo del pensiero antropologico che ai suoi albori aveva visto un Eraclito ben disposto a riconoscere la natura umana com’è, e non come egli stesso già avrebbe voluto che fosse. Ed è proprio con un omaggio a Lorenzo Valla che, del resto, si conclude la Teodicea di Leibniz. Io non credo che il sarcasmo volterriano possa sbarazzare tanto facilmente la coscienza contemporanea dalle grandiose acquisizioni teoriche, o di ragion sufficiente, né offuscare brillantemente le speranze di una perfettibilità sempre possibile, che sono state conseguite o formulate dal migliore pensiero europeo sotto l’arco delimitato da simili capostipiti. La vita d’un uomo come Eraclito mostra a quali vicissitudini di vita e a quanta umiltà di pensiero debba davvero costringere se stesso chi voglia propugnare che il migliore dei mondi possibili è un mondo migliore sempre possibile. Non credo neppure, d’altra parte, che sulle ceneri del dileggio dell’ottimismo si possa ricostruire una certezza di perfettibilità e di moralità mediante la garanzia kantiana del Fondamento e del Giudizio – i due assunti ai quali, in definitiva, si può ridurre tutto quanto il criticismo: perché ricerca di un fondamento del pensiero nient’altro significa che pretesa di dare certezza all’induzione, mentre la formulazione riflettente del giudizio nient’altro significa che riproporre la scommessa di Pascal sommergendola in una faticoso rifacimento neocartesiano. Possiamo immaginare che la cura kantiana dell’ansia per la moralità in un mondo privo di significato proceda dalla supplica che Brecht fa rivolgere a Galileo dal monacello: «Noi dobbiamo tacere per il più nobile dei motivi: la pace spirituale dei diseredati!». Orbene, Kant non tacque di certo – ma in definitiva le sue risposte obbedirono precisamente a quest’esigenza di

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288   parte seconda. letteratura eraclitante

pace spirituale dei diseredati e dei prìncipi. Poiché il sommo problema morale s’era già posto assai prima di lui, non è dal suo talento manierista e rampicante che la filosofia può ripartire, bensì dal grande pensiero antico e moderno. Se la disposizione dei frammenti e la divinazione biografica che ho proposto sono convincenti, si vorrà riconoscere che, d’altra parte, circa la perfettibilità del mondo Eraclito assume una posizione diametralmente opposta alla trattatistica: e passa dalla fervida propaganda all’afasia di chi si limita a mostrare la verità. Non diversamente Galileo, del resto, aveva invitato i dottori a tacere, e a guardare piuttosto nel suo cannocchiale. Quanto poi alla moralità e ai destini del mondo, entrambi ne fecero soltanto una questione di verità, anziché d’inesausta pedagogia dell’interpretazione. Mentre Socrate non scrisse nulla, e Platone tutto, Eraclito scrisse il meno possibile: poco più di un compendio di aforismi o di mementi – appena quanto basta. Nulla meno avrebbe desiderato, che il suo pensiero diventasse una dottrina o una pretesa di moralità logicamente fondata.

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Indice onomastico*

Ade 66, 86 ss., 110, 112. Adorno Francesco 26. Aetio 22. Agostino 202, 284, 285-286. Alcibiade 221, 222. Alighieri Dante 11, 17, 201. Amleto 214. Anassagora 22. Anassimandro 254. Anchise 245. Apollo 31, (122), 123, (132), (170), (171), 186, 241, 243, 260. Archiloco 108, 168. Archimede 213. Aristagora (55). Aristotele 20, (21), 28, (29), 30, (31), 34, 40, 41, 42, 47, 48, 53, 61, (62), 110, 116, 162, 182, 192, 208, 241, 242, (262), 275. Artaferne 55. Artemide (18), 46, 62, 66, (84), (86), 87, (100), 122, (158), 170, 186, (218-219), 241 ss., 257, 260, (263), 264. Athena 18. Augusto 103. Battegazzore Antonio 82. Bendis 271. Bernstein Eduard 30, 36. Bethmann-Hollweg Theobald von 205. Bismarck Otto von (15). Blake William 11. Bodei Remo 44.

Bodin Jean 149. Bodrero Emilio 26, 27. Boeck August 30. Boesch Georg 56. Boezio 211. Brahms Johannes 221. Brecht Bertold 287. Buonaiuti Ernesto 270. Burckhardt Jacob (213), 221, 225. Burkert Walter 88, 115, 116. Calcante 67, 122. Cambiano Giuseppe 37. Camera Franco 244, (245). Campanella Tommaso 11. Capizzi Antonio 23, 27, 44, 49, 50, 51, 54, 55, 56. Carabellese Pantaleo 229. Cardini Maria 27. Cartesio Renato 108, 126, 138, 232, 238, 239, 253, 259, (277), 284, (287). Cassirer Ernst 205, 238. Cefalo 170. Cesare 150. Chaplin Charlie 284. Churchill Winston 27. Cicerone 261. Clausewitz Carl von 229. Clemente Alessandrino 22, 91, 181, 268, 271, 274. Cleve Felix 193. Climeno 87. Colli Giorgio 27, 61, 130.

*  Gli onomastici comprendono tutti i derivati diretti (‘Hegeliano’, ‘Marxista’, ‘Platonismo’, e simili). Non comprendono ‘Neokantismo’, ‘Neoplatonismo’, ‘Dionisiaco’, ‘Apollineo’, e simili traslati storici o metaforici.

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290   indice onomastico Colombo Cristoforo 259. Conrad Joseph 268, (286). Couloubaritsis Lambros 44. Cratilo 42. Creuzer Friedrich 39, 46. Croce Benedetto 35. Curtius Ernst 225. Dario 175. Darwin Charles 223. Demetra 87. Demetrio 106. Democrito 134. Detienne Marcel 44. De Witt Johan e Cornelis 15. Diano Carlo 27, 34, 35, 44, 51, 52, 82, 278. Diels Hermann 27, 44, 48, 52, 130. Dike 149. Diodoro Siculo 87. Diodoto 44. Diogene Laerzio 47, 59, 60, 134. Dione Cassio 103. Dioniso 86 ss., 110, 112. Dostoevskij Fedor 200. Duichin Marco 32. Ecateo 162. Eckermann Johann Peter 224. Elia 181. Empedocle (206), 272. Epicuro (22). Eracle 48. Eraclide Pontico 48. Erinni 117, 118, 149, 189. Ermocrate 48. Ermodoro 48, 50, 54, (55), 56, 66, 115, 116, 117, 119, 219. Erodoto 50, 55, 113. Erostrato 221, 222. Eschilo 18, 26, 30, 31, 52, 118, 122, 131, 149, 152, 186, 200, 201, 220, 234, 235, 286. Esichio 56. Esiodo 158, 162, 168, 169-170, (172). Euripide 62.

Ezechiele 181. Fermi Enrico 204. Filone Alessandrino 46. Flaubert Gustave 200. Frankenstein Victor 12. Gadamer Hans Georg 19, 23, 28, 44, (124), 129, 180, 181, 202, 206, 207, 243, 248, 251. Galilei Galileo 226, 284, 287, 288. Gassendi Pierre 108, 126, 138. Gentile Giovanni 25, 26, 27, 130, 217, 218. Gesù 280. Giolitti Giovanni (216). Goerdeler Carl 265. Goethe Johann Caspar 270. Goethe Johann Wolfgang 23, 200, 214, 223. Giustizia 114, 117, 118. Góngora Luis de 11. Goya Francisco 130. Grand-Carteret John 219. Graves Robert 87. Guerri Maurizio 213. Guglielmo II 221. Guicciardini Francesco 61, 94, (211). Hegel Georg Friedrich 14, 27, 29, 30, (31), 32, 33, (34), (35), 36, (38), (39), (40), (41), (81), 200, (201), (239), 241 ss., (253), 259, 260, 261. Heidegger Martin 19, 28, 48, (63), 121, (123), (124), 158, 191, 201, 202, 204, 206, 207, 208, (211), 267, 269, 270, 271, (275), 277, 283. Himmler Heinrich 265. Hitler Adolf (204), (265). Hobbes Thomas 148, 256. Hugo Victor 201. Innocenti Piero 63. Ippia 42. Ippolito 268, 271, 273, 275, 282. Iside 87.

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indice onomastico   291 Kahn Charles 17, 18 Kant Immanuel 13, 23, 201, (208), (215), (216), 239, 256, 257, 259, 264, 269, 272, (283), (284), 287. Kantorowicz Ernst 286. Kerény Karl 88. Kieślowski Krzysztof 279. Kirk Geoffrey 15, 16, 50, 62, 187. Kranz Walter v. Diels Hermann Labriola Isabella 175. Lady Morgan (Sidney Owenson) 12. Lan Conrado Eggers 48, 181. Laocoonte 271. Lassalle Ferdinand 14, 30, 31, 34, 36, 37, 38, 39, 40, 41, (81), 88, 90, 225, 232. Lausdei Claudio 60, 112, 113. Lavoisier Antoine-Laurent 155. Leibniz Gottfried Wilhelm 206, 231, 256, 257, 287. Lenin Nicolaj 149. Lessing Gotthold Ephraim 14. Leucippo 140. Licurgo 149. Lutero Martino 118, 149. Luxemburg Rosa 36. Macchioro Vittorio 28, 29, 87, 88, 90, 91. Mach Ernst 226. Machiavelli Niccolò 45, 118, 148, 149, 287. Malaparte Curzio 279. Mann Thomas 205, 221. Mansfeld Iaap 43. Manzoni Alessandro (201). Marco Aurelio (210). Marcovich Miroslav 27, 44, 48, 52, 56, 63, 120, 121, 123, 187. Mardonio 50. Marx Karl 36, 98, 148, 176. Massimino 103. Mathieu Vittorio 30, 44. Mayer Julius 226. Maxwell James 232. Mazzantini Carlo 19, 27, 249. Mazzarino Santo 56.

Mecacci Andrea 267, 269, 272, 273. Mecenate 103. Michelet Jules 37. Mondolfo Rodolfo 22, 27, 48, 52, 55, 56, 59, 62, 66, 89, 134. Montano Aniello 82. Montaigne Michel de 208, 211, 239. Montale Eugenio 277. Montesquieu Charles-Louis 149. Moretto Giovanni 28, 36, 39. Mouraviev Serge 28, 181. Mussolini Benito 27. Napoleone Bonaparte (15), 286. Nicolosi Salvatore 32. Nietzsche Friedrich 211, 212, (213), 221, 223, (225), 230, 235, 242 ss., (255), (283), 284. Noeto 272, 275. Olimpiodoro 87. Omero 47, (102), 108, 150, 158, 159, 162, 168, 170, (219), 236, 271. Osiride 87. Ostwald Wilhelm 226. Papini Giovanni 216. Parmenide 48, 60, 214, (223), 227, 254, 276. Pascal Blaise 270, 287. Pasquali Giorgio 217. Peithō 286. Petrarca Francesco 200, 211. Pfleiderer Edmund 91. Pindaro 52. Pitagora 47, 108, 157, 160, 162, 168, (169), 174, (179), 223, 231, 232, (276), (282). Platone (21), 25, 28, (29), 30, 36, 41, 42, 47, 62, 87, 95, 97, 100, 108, 122, (126), 127, 129, 146, 149, 161, (167), 168, 175, (179), (200), 208, (221), 222, 231, 261, (271), 276, 281, (282), 284, 285, 288. Plinio 56. Plotino 276.

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292   indice onomastico Plutarco 87. Plutone 87. Polemone 56. Prometeo 18, 216. Protagora (93), 233. Prudhomme Sully 5. Ranchetti Michele 236. Reynolds Joshua 12. Ribera Jusepe de 181, 182. Ricciardelli Gabriella 88. Ritter Gerhard 205, 265. Riverso Emanuele 57, 175-176. Robinson Thomas More 14, 43. Rolland Romain 270. Romagnosi Giandomenico 35. Rosa Salvatore 12, 134, 135. Rossetti Livio 28, 82. Ruskin John 12. Salerno Luigi 12. Salucci Brunero 27. Sarastro 151. Scarpi Paolo 87. Schelling Friedrich Wilhelm 244. Schleiermacher Friedrich 14, 28, 29, 32, 34, 35, 36, 38, 39, 40, 41, 42, 46, 59, 60, 62, 106, 192, 200, 284. Schopenhauer Arthur (34), (36), (37), 246, (253), 258, 283. Schottlaender Rudolf 56. Seneca 35. Senofane 60, (93), 162, 227, (276). Senzasono Luigi 190, 193. Serra Giuseppe v. Diano Carlo Sesto Empirico 61, 106, 110. Shakespeare William 200. Sibilla 60, 112, 113, 127, 149, 180 ss., 191. Snell Bruno 42, 93, 140, 267. Socrate (15), 25, 36, 100, (107), 118, (222), 234, 235, 271, 288.

Solone 149. Spengler Oswald 19, 26, 28, (124), 201, 202, 204, 207, 212, 248, 249, 251, 271, 274, 286. Spinoza Baruch 15, 226, 232, 253, 259. Stalin Josif (115). Stefano Enrico (Henri Estienne) (29). Strabone 56. Tacito 150, 172. Talete 42. Tamino 151. Tarán Leonardo v. Mondolfo Rodolfo Tasso Torquato 270. Taziano il Siro 62. Temistio 55. Temistocle 233. Teodoreto 22. Teofrasto (47), 48, 59. Tocqueville Alexis de 234. Tolstoj Lev Nikolaevic 201. Tonelli Angelo 27, 61, 130. Trabattoni Franco 27. Ulisse 271. Ungaretti Giuseppe 30, 247, 248. Valla Lorenzo 14, 208, 239, 287. Varrone 56. Voltaire (287). Wagner Richard (26), (36), 280. Walpole Horace 12. Walzer Riccardo 27. Wilamowitz-Moellendorff Ulrich von 56. Wolff Christian (225). Zanatta Marcello 40. Zeller Eduard 52. Zeus 185, 186, 187, 191, 244, 245, 260. Zola Émile 151. Zoroastro 175.

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Indice tematico*

Amministrazione 95, 107, 110, 229. Analogia (16), (17), 42, 44, 82, 122, 126, 145, 167, 200, 215, 270, 273. Anima 20, 21, 22, 121, 139 ss., 152, 155, 167, 177 ss., 192, 281. Apollineo 213, 215, 216, 219, 235, 241, 242. Approssimazione 13, 197, 201, 208, 210, 268, 269. Arcaico 51. Armonia 153 Arti figurative 247 ss. Attivismo 19, 23, 24, 209. Attualismo 227. Barbarie 53, 54, 55, 120, 121, 130, 162, 286. Buon senso 81, 113, 123, 217, 218, 260. Caso 16, 178, 184, 191. Centro 126, 127, 130, 140, 145, 151, 180, 202, 238. Ciclo 20, 22, 26, 31, 45, 88, 133, 136, 138, 140, 143, 144, 154, 155, 172, 190. Cinema 129, 131. Cittadinanza 94 ss. Concetto 30, 31, 39, 81, 151. Contesa 153, 154. Contraddizione 31, 84, 85, 127, 139. Corpi 210, 215, 236. Cosmologia 17, 19, 21, 25, 45, 93, 107, 136, 137, 138, 141, 232, 276, 277, 278.

Costituzione 17, 19, 20, 50, 51, 66, 98, 101, 102, 104, 105, 107, 110, 111, 114, 115, 121, 126, 127, 148, 166, 170, 200, 210, 253. Costume 95, 101, 108, 117, 118, 119, 123, 149. Deduzione 47, 151, 188, 234, 273. Democrazia 55, 66, 96, 99, 101, 102, 104, 105, 115, 118, 174, 201, 217, 220, 221, 233, 234, 235. Demoniaco 19, 23. Destino oltremondano 144, 190. Difetto logico 94-95, 100. Dionisiaco 213, 215, 216, 230, 235, 242, 243, 283. Divenire 16, 17, 18, 24, 26, 27, 29, 39, 42, 93, 127, 139, 140, 158, 163, 172, 192, 214, 217, 224, 225, 232, 280, 281. Divinazione 11 ss., 21, (22), 64, 134, 150, 166, 191, 260, 272, 273, 288. Divulgazione 82, 147, 157. Dovere d’omissione 229. Drammaturgia 24, 30, 49, 53, 216. Ellenismo 17. Emanazione 13, 154, 197, 198, 235. Empiriocriticismo 226, 230. Energia 155, 226. Ermeneutica 13, 22, 28, 197, 207, 255, 256, 268, 269, 270, 273, 274, 275, 278, 283, 284.

*  Rinuncio a segnalare le ricorrenze dei lemmi: Antropologia, Filologia, Filosofia, Politica. ‘Divenire’ comprende anche ‘Flusso’, ‘Movimento’ ‘Pánta reĩ’, e simili; ‘Storia della filosofia’ comprende anche ‘Dossografia’, ‘Dottrine’, e simili; ‘Enumerazione’ e ‘Narrazione’ sono compresi in ‘Letteratura’; ‘Divinità’ e ‘Teologia’ sotto ‘Religione’; ‘Esseri complessi’ e ‘Corpi intermedi’ sotto ‘Soggetto’; ‘Interposizione’ e ‘Sostituzione’ con ‘Oggetto’; ‘Demagogia’ e ‘Autoritarismo’ con ‘Tirannide’; ‘Unità dei contrari’ e simili con ‘Opposizione’; ‘Intelletto comune’, ‘Pensiero comune’, ‘Semplice intelletto’ come ‘Buon senso’.

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294   indice tematico Ermetismo 17, 19, 32. Essenza 13, 19, 29, 31, 81, 108, 123, 127, 148 ss., 152 ss., 162, 230, 231, 232, 237 ss., 246, 253. Estetica 151, 153. Estetica politica 206, 224, 231, 234. Estetismo 269. Fascismo 218. Fazioni 26, 45, 54, 105, 108, 109, 114. Fenomenologia 13, 25, 49, 197, 207, 230, 252, 273. Filomedismo 54-57, 115. Filosofia politica 14, 19, 100, 148, 231, 274. Fisica (20), 21, 93, 118, 137, 138, 228. Fondamento 236, 287. Forma 17, 114, 126, 127, 141, 146, 148 ss., 161, 174, 214, 225, 241, 242, 253. Fuoco 16, 18, 21, 24, 42, 93, 95, 126, 127, 141, 142, 153, 154, 155, 174, 175, 189, 190, 191, 214, 260, 274, 279, 280. Genere 20, 108, 160, 162, 201. Gioco 189. Giudizio riflettente 223, 248, 253, 287. Giustizia 153, 154. Giustizia cittadina 118, 149. Gravitazione 203. Idea 30, 49. Idealismo 15, 35, 36, 46, 63, 238. Illuminismo 99, 276, 277, 280, 285. Imitazione 206, 209. Impero 203. Impero romano-germanico 203, 214, 223. Indole 19, 23, 24, 45, 108, 109, 121, 122, 133, 136, 140, 160, 178, 179. Induzione 44, 47, 126, 133, 141, 188, 215, 225, 273, 287. Inizio 13, 19, 25, 152, 210, 237, 240, 242, 246, 247, 249, 250, 255, 256, 259, 264, 267, 268. Intelletto 13, 23, 30, 45, 81, 82, 108, 163, 171, 176, 267.

Intellettualismo 13, 23, 24, 126, 141, 145, 157, 161, 198, 215, 223, 230, 231. Intuizione 81, 83, 84. Istituzioni 148-149, 231, 256. Letteratura 82, 123, 127, 129, 130, 131, 152, 158, 159, 160, 174, 175, 200, 223, 234, 235, 250, 255, 264, 270. Libertà 187, 221-222, 228 ss. Logica 21, 26, 31, 127, 128, 133, 136, 139, 140, 144, 146, 151, 153, 158, 175, 188, 224, 234. Lógos 16, 18, 19, 24, 34, 43, 49, 50, 51, 52, 53, 55, 58, 59, 60, 64, 66, 92, 107, 110, 111, 112, 113, 125, 127, 146, 163, 178, 207, 232, 233, 250, 274, 277, 281. Manierismo 13, 259. Matematica 228, 231, 232, 284. Memoria 138, 158, (189). Mentalità 200, 213, 215, 216. Metafisica 19, 25, 53, 93, 107, 118, 138, 139, 174, 234, 235. Metafora 23, 25, 42, 44, 53, 102, 115, 116, 121, 125, 129, 134, 139, 151, 167, 213, 214, 215, 244, 267. Metempsicosi 283. Misteri 39, 83, 91, 282, 285. Misura 156. Mondo 16, 141, 214, 215, 226, 253. Moralismo 21, 22, 23, 43, 47, 60, 86, 90, 92 ss., 109, 121, 122, 125, 126, 158, 161, 166, 176, 215. Musica 232, 233, 277, 282. Nazionalsocialismo 204, 265. Necessità 27, 153, 154. Neokantismo 30, 37, 198, 225 ss., 237, 239. Neoplatonismo 202, 207, 208, 272, 284, 285. Novecento 19, 26, 28, 42, 57, 66, 124, 138, 199 ss., 229, 256, 283, 285-286. Nozione 31, 81, 152, 180, 234, 238, 270.

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indice tematico   295 Oggetto 13, 208, 238, 257, 258, 268, 283. Olfatto 81, 97, 134. Ontologia 19, (22), 25, 93, 113, 126, 136, 139, 158, 197, 227, 237, 252. Opinione 16, 60, 64, 81, 83, 101, 113, 114, 138, 179 ss., 200, 209, 230, 273. Opposizione 16, 17, 29, 31, 85, 87, 90, 123, 127, 136, 137, 141, 167, 170, 180, 191, 224, 228. Oscurità 47, 106, 132, 133, 241, 245, 246, 255, 257 ss. Ottocento 202. Pedagogia 24, 46, 49, 53, 59, 60, 92, 100, 112, 119, 160, 161, 165, 168, 179, 182. Periegesi 197. Personalità 237, 238. Pietismo 230. Plausibilità 12, 23. Positivismo 15, 21, 40, 46, 48, 133. Pragmatismo 163, 188, 261, 276, 278. Preconcetto 268 ss. Pregiudizio 47, 66, 81, 83, 138, 179, 188, 199, 201, 206, 208, 210, 215, 230, 269 ss., 275, 285, 286. Presocratici 26. Propaganda 82, 111. Protestantesimo 63, 84, 187. Provincialismo 160. Pulsazione 156, 170. Qualità 154. Quantità 154, 155. Ragionare per due, per tre 24, 26, 84, 96, 97, 118, 126, 127. Ragione 145, 146. Rapporto 17, 19, 30, 42, 81, 82, 93, 141, 147 ss., 152 ss., 230, 240, 253. Rappresentazione 82, 131, 146, 151, 154, 202, 207, 237, 245. Realismo 224. Relativismo 233, 235. Relazione 81, 152, 230.

Religione 35, 46, 65, 84, 85, 86, 92, 95, 115, 116, 118, 122, 123, 132, 181, 186, 271, 282. Responsabilità 27, 160, 185, 219, 264. Resti 258. Retorica 52, 82. Rigenerazione 20, 21, 89. Riordino dei frammenti 27 ss., 87, 91, 106, 132, 133, 134, 140, 143, 150, 167, 175, 288. Ritorni 93, 97, 119, 126, 140, 178, 180, 188, 189. Rivelazione 274, 275, 278, 279, 280, 282. Roma 17, 148, 285, 287. Romanticismo 15, 23, 25, 42, 133. Sapienza 82. Schemi 36, 41, 42, 127, 142, 144. Secondo Reich 39, 199 ss., 214, 216, 219 ss., 262, 265. Senno 146, 154. Sensibilità 13, 29, 30, 31, 39, 49, 64, 81, 82, 83, 84, 97, 108, 157, 163, 171, 176, 187, 188, 192, 231, 267, 277. Sensibilità sociale 17, 55, 102, 103, 104, 222. Sentimento 161, 199, 209, 210, 211, 230, 235, 268, 286, 287. Silenzio 250. Simbolo 25, 30, 31, 82, 93, 151. Simultaneità 280 ss. Sintassi 100, 110, 126, 128, 131, 132, 185, 242, 260, 272-273. Sintesi a priori 13, 199, 215, 230, 267, 270. Sofistica 99. Soggetto 17, 107, 108, 114, 119, 123, 126, 129, 133, 136, 138, 140, 142, 158, 186, 210, 215, 228, 230, 231, 234, 237, 253, 268, 270, 281. Sogno 129, 130, 132, 136, 158, 278, 279. Sonno 125 ss., 132, 136, 137, 278, 282. Sostanza 16, 17, 20, 29, 31, 43, 81, 123, 127, 148 ss., 152 ss., 162, 202, 215, 226, 227, 230, 232, 237 ss., 253, 254. Specie 20, 108, 160, 162, 210, 237.

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296   indice tematico Speranza 64, 133, 146, 186. Spiritualismo 63. Stoicismo 14, (15), 18, 21, 22, 25, 27, 29, 51, 52, 129, 145, 162, 187, 208, 272. Storia della filosofia 11, 48, 60, 97, 138, 140, (152), 238, 255. Storicismo 13, 15, 21, 25, 157, 215, 245, 256, 284. Struttura 126. Strutturalismo 53. Sublimazione 179. Surrealismo 279. Sviluppo 143.

Tatto 81, 84, 97, 134, 178, 184, 191. Teatro 12, 19, 49, 129, 131, (225), (260), 263. Tempo 16, 184, 189, 278, 281. Terzo Reich 199, 204, 206, 262. Tirannide 53, 55, 57, 66, 101, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 122, 175, 189, 234. Udito 81, 120, 138, 171. Visibilità 148 ss., 153, 156, 157. Vista 81, 92, 93, 120, 134, 138, 171, 182. Volontà 18, 24, 246, 258.

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Indice frammentale*

DK 1

DK 2 DK 3 DK 4 DK 5 DK 6 DK 7 DK 8 DK 9 DK 10 DK 11 DK 12 DK 13 DK 14 DK 15 DK 16 DK 17 DK 18 DK 19 DK 20 DK 21 DK 22 DK 23 DK 24 DK 25 DK 26 DK 27 DK 28 DK 29 DK 30

18, 34, 50, 51, 52, 53, 54, 60, 61, 62, 64, 85, 92, 106, 109*, 125, 127, 133, 137, 166, 276, 277, 278, 279, 282. 100*, 219, 220. 15, 56-57, 58, 115*, 131. 93*. 84*, 90, 147, 149, 180, 185. 41, 99*, 186. 97*, 192. 81, 153*, 275. 94*, 219. 81, 152*, 231, 275, 282. 65, 116*. 20, 25, 130, 142*. 85*, 219. 83*. 56, (66), 86*, 109, 110, 112, 182, 185. 101*, 246. 104*, 219, 220. 146*, 150, 151. 105*, 114, 169. 20, 25, 95*, 151. 129*, 134, 137, 279. 163*. 104*. 17, 103*. 17, 102*. 35, 131*, 137, 141, 150, 279, 285. 190*. 114*, 117, 149. 94*, 101, 219, 220. 24, 42, 141, 146, 156*, 190, 276, 285.

DK 31a DK 31b DK 32 DK 33 DK 34 DK 35 DK 36 DK 37 DK 39 DK 40 DK 41 DK 42 DK 43 DK 44 DK 45 DK 46 DK 47 DK 48 DK 49 DK 49a DK 50 DK 51 DK 52 DK 53 DK 54 DK 55 DK 56 DK 57 DK 58 DK 59 DK 60 DK 61 DK 62 DK 63 DK 64 DK 65

20, 81, 144, 153, 154*, 276. 153, 154*. 160, 179, 185, 186*. 112, 114*, 149. 18, 26, 107*, 110, 149. 169*. 42, 140*, 142, 144, 154, (177). 85*. 58. 162*. 112, 145*, 154. 168*. 119*. 54, 101*, 112, 122. 144*, 145. 138, 182*. 169*. 99, 130, 161, 172*, 193. 57, 117*, 149, 219. 142*. 166*. 22, 134, 176*, 275. 41, 189*. 153*, 178. 85, 147*, 156, 180, 187. 81*, 138, 171, 224, 250. 159*, (168). 169*. (48), 173*. 41, 171*. 41, 45, 127, 173*, 181. 41, 172*. 139*, 144, 178, 185, 282. 86*, 90. 116, 151, 178*. 189*.

*  L’asterisco indica la pagina contenente la versione seguita dal commento.

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298   indice frammentale DK 66 DK 67 DK 67a DK 68 DK 69 DK 70 DK 71 DK 72 DK 73 DK 74 DK 75 DK 76 DK 77ab DK 78 DK 79 DK 80 DK 81 DK 82 DK 83 DK 84 DK 85 DK 86 DK 87 DK 88 DK 89 DK 90 DK 91b DK 92 DK 93 DK 94 DK 95

189*, 272. 89, 191*, (241), 260, 274, 282. 97, 136, 177*, 191. 58. 58. 113, 138, 179*, 187. 58. 106*. 128*, 130, 131, 134, 137. 167*. 136*. 142*. 143*, 154, 282. 112, 122*, 180. 187*. 153*. 130, 161*, 157, 214. 188*. 188*. 17, 102*, 276. 121*. 190*. 97*, 120. 20, 24, 41, 137*, 274, 282. 125*, 137. 41, 174*, 274. 42, 52, 155*. 28, 113, 127, 138, 149, 180*, 184, 191. 48, 123*, 171, (241), 242. 117*, 149, 189. 105*.

DK 96 DK 97 DK 98 DK 99 DK 100 DK 101 DK 101a DK 102 DK 103 DK 104 DK 105 DK 106 DK 107 DK 108 DK 110 DK 111 DK 112 DK 113 DK 114 DK 115 DK 116 DK 117 DK 118 DK 119 DK 120 DK 121 DK 123 DK 124 DK 125 DK 125a DK 126 DK 129

193*. 116*. 97, 130, 192*. 117*, 149, 219-220. 41, 172*. 34, 35, 133, 165*. 171*. 138, 160, 179, 184*. 41, 173*. 96*, 219, 220. 159*. 170*. 120*. 156*. 92*. 173*. 161*. 99*, 108, 126. 55, 98*, 99, 112, 193, 276. 163*. 165*. 24, 134, 136, 151, 177*. 121, 144*. 122*, 140, 179. 57, 101, 127, 185*, (241). 24, 56, 119*, 158, 165. 146*. 193*. (123), 171*. 92*. 42, 155*. 160*.

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Indice terminologico*

agōn 225. akoē 82. akoũsai 113. akoúsantes 113. állous 53, 133, 137, 279. anathumiaō 20, 130, 255. anreía 37. haptein 280. áristoi 219. harmonía, harmoníē 232, 233. afanēs 150. bíos 130, 161, 255. biós 130, 161. gnōmē 112, 113, 146, 233. dé 52. díkē 233.

koiné 161. kópis 130, 161, 255. kopís 130, 161, 255. krineĩn 272. máthēsis 82, 83. metapesónta 282. métron 232, 233. nómos 112, 233. xunō 99, 276. xùn nóō 99, 276. hoi polloí 219, 220. ópsis 82. osmáōmai 130, 193, 255. pólemos 225.

heimarménē 232, 233. ekpúrōsis 40. enantía roé 36, 37. enúpnion 129, 279. éris 225. euaréstēsis 22.

Sibúllēi 181. sophón 233.

Zeús 233.

húpnos 129, 130, 279.

ēthos 19, 23.

psuché 121.

theós 233.

***

katalambáneĩn 272.

Cogito 99, 100, 126, 128, 141, 284, 285.

phanerēs 150. pháos 259. phúsis 112, 259.

*  Le ricorrenze del termine lógos si trovano elencate nell’Indice Tematico; e così pure nell’Indice Tematico le ricorrenze di pánta reĩ, elencate sotto ‘Divenire’.

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300   indice terminologico ***

Vorurteil 269.

Dämmerung 130. Das Zu-denkende 259. Riechen 193. Verstehen 23, 223.

*** Sueño 130.

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Finito di stampare nel febbraio 2010 da Grafica Editrice Romana

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