Epistemologia delle scienze sociali 8843003763, 9788843003761

Muovendo dalla disputa concernente il rapporto fra "scienze della natura" e "scienze dello spirito",

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Epistemologia delle scienze sociali
 8843003763, 9788843003761

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Davide Sparti

Epistemologia delle scienze sociali

La N uova Italia Scientifica

1995 © copyright 1995 by

r' edizione, ottobre

La Nuova Italia Scientifica, Roma Finito di stampare nell'ottobre 1995 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali srl, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 6 33) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, neppure per uso interno o didattico.

Indice

I.

I .I.

Introduzione. L'epistemologia delle scienze sociali come disciplina filosofica

rr

Domande filosofiche Teoria e pratica della ricerca Teoria e meta teoria La sfida filosofica Stili epistemologici e confini dell'azione Caratteristiche distintive degli stili Obiettivi e struttura del libro

rr I3 I5 I7 r9 2r 26

Il Methodenstreit, storia di un avvio

Sfondo storico e premesse teoriche l I . I . 2 . Dilthey e la nozione di comprensione l Sapere generalizzante e sapere particolarizzante

1.1.1. Introduzione I. I. 3.

1 .2 .

Modello di riferimento : la metodologia di Max We­ ber l I . 2. 2. TI senso dell'azione l l 1. 2-4- Gli orientamenti dell'agi­ re l 1 . 2 .5 . I tipi ideali l 1 . 2 . 6 . L'imputazione causale l 1.2-7- Con­

1 . 2. 1. L'ambito delle scienze sociali 1 . 2 . 3 . Comprensione e spiegazione

clusione

2.

2.1 .

Monismo metodologico e scienza unificata: l'avvento dell'orientamento naturalistico

51

Sfondo storico e premesse teoriche

51

l 2. 1 . 2 . Unità della scienza e struttura logico­ concettuale delle scienze sociali l 2 . 1. 3. Esempi e applicazioni 2. 1. 1. Introduzione

7

2.2.

Modello di riferimento : la spiegazione nomologica 2.2. I. Validità, causalità, legalità

duttivo e modello disposizionale

66

Limiti del modello l 2.3 . 2 . Dimensione

2.3.1. Il problema dell'individuazione del dato

teorica e pragmatica della spiegazione scientifica



Teorie dell'azione, teorie dell'attore: dividualistici

paradigmi in·

73

Sfondo storico e premesse teoriche 3. r . r. Introduzione

59

l 2 . 2 . 2. Modello probabilistico-in­

73

l 3 . r. 2. L'influsso di Wittgenstein

Modello di riferimento : l'intenzionalismo

77

Il concetto di intenzionalità l 3 . 2 . 2 . La differenza fra azioni e non azioni l 3 . 2 .3. L'argomento della connessione logica

3 . 2 . r.

3 ·3 ·

Limiti del modello 3. 3. r . Le intenzioni come vocabolario

comprensione intenzionale

3- 4 -

l 3. 3. 2. L'impossibilità della

Modello di riferimento : il paradigma economicistico

86

3-4-r. La teoria della scelta razionale l 3-4- 2 . L'immagine dell'attore e la logica dell'azione l 3-4-3· Razionalità, giochi sociali e dilemma

del prigioniero

3 ·5 ·

Limiti del modello 3·5-I. I paradossi della razionalità: scelte individuali, identità colletti­

va l 3 . 5 . 2 . Scelte di primo e secondo livello tempo e l'abuso della funzione di utilità

-

3·5·3· La variabile

Modello di riferimento : il paradigma cognitivo 3.6. r. La

social cognition

l 3.6.2.

gnitivo, sapere pratico



Scripts e /rames

99

l 3.6.3. Sapere co­

L'orientamento ermeneutico

107

Sfondo storico e premesse teoriche

107

4 . r . r. Introduzione

l 4 . 1 . 2 . TI "senso", centro dell'indagine sociale l

4.!.3. Il ruolo dell'estraneità

Modello di riferimento : ermeneutica @osofìca, erme­ neutica sociologica l 4.2.2 . Storicità del comprendere l 4 . 2 .3. La validità dell'interpretazione l 4.2-4- Espan­

4. 2.r. Circolo ermeneutico e precomprensione

dere lo spazio comunicativo

8

114

4- 3 .

Modello di riferimento : teoria critica e teoria dell' agi­ re comunicativo

I23

marxista l 4·3· 2 . L a Scuola di Francoforte l 4· 3. 3. Ermeneutica critica e razionalità comunicativa l 4·3·4· Siste­ ma, mondo della vita, colonizzazione 4·3·1. L a matrice

4+

Modello di riferimento : etnometodologia

133

4-4- I. Dalla

sociologia fenomenologica all'etnometodologia l 4-4- 2 . L'atteggiamento antinormativo l 4+3· L'immagine della so­ cietà l 4+4· Contestualità e vulnerabilità delle situazioni sociali



1 45

L'orientamento sistematico

Sfondo storico e premesse teoriche 5. r. r. Modelli classificatori

funzionalista

5.2.

l 5 . r. 2. Il funzionalismo e la spiegazione

Modello di riferimento : teoria dei sistemi e scienze sociali l 5 . 2 . 2 . Teoria dei sistemi e teoria della complessità l 5 . 2 .3 . Sistemi autoreferenziali

5. 2 . r . Dalle funzioni ai sistemi

5·3 ·

Modello di riferimento : lo strutturalismo 5 . 3 . r. Struttura come sintassi e come scambio

identità formale

6.

6. 1 .

1 59

l 5 . 3. 2. Astrazione e

Due excursus

Il Rationalitdtstreit e relativismo l 6. r. 2 . La nozione eli regola l Le regole costituiscono l'agire l 6. I+ lncommensurabilità e trasferibilità dei criteri eli comprensione l 6.1 .5. La risposta razionali­ sta l 6. r . 6 . La fallacia riproduttiva

6. r. r. Razionalità 6. r. 3.

6.2.

Il dibattito su individualismo e contestualismo 6 . 2 . r . Caratterizzare il contesto

1 75

l 6 . 2 . 2 . L'individualismo metodologi­

co e il rischio di astrattezza l 6 . 2 . 3 . Che cosa imparare dall'individua­ lismo

Conclusione. Congedo dall'epistemologia?

181

Introduzione

181

9

Ha senso distinguere scienze naturali e scienze sociali? Conseguenze sociali dell'epistemologia

I 83 I 85

Bibliografia

I 89

Indice analitico

I 97

Indice dei nomi

20 r

IO

Introduzione. L'epistemologia delle scienze sociali come disciplina filosofica

Domande filosofiche

L'espressione "epistemologia delle scienze sociali" ' è di solito riserva­ ta per indicare un insieme assai variegato di indagini a carattere pre­ liminare sui linguaggi, le teorie e gli strumenti concettuali di sociolo­ gi, storici, antropologi, psicologi - insieme la cui somiglianza di fami­ glia consiste nell'enfatizzare la natura teorica dei problemi incontrati e delle domande sollevate . Piuttosto che indicare le condizioni stori­ che che hanno reso possibile la nascita dell'epistemologia delle scien­ ze sociali come specifica disciplina filosofica >, qui di seguito si vor­ rebbero esplorare alcune delle circostanze nelle quali vengono a porsi questioni epistemologiche nell' ambito delle scienze sociali . Prima an­ cora di presentare in maniera articolata il contenuto di questo lavoro, converrà fermarsi su due questioni introduttive: il contributo che la filosofia può offrire alle scienze sociali, ed il rapporto fra le diverse epistemologie delle scienze sociali . Collochiamoci al posto di chi sta guardando un film giallo . La scena è la seguente: una persona passa un certo numero di piccoli dischetti dorati ad un'altra . Perché lo sta facendo? Che significato ha tale sequenza di atti ? L'uomo sta forse trafugando qualcosa? O si r. Impiego il termine "epistemologia" piuttosto che "filosofia" delle scienze so­ ciali per una sola ragione: l'espressione è più consolidata. Non mancherebbero infatti le controindicazioni. Anzitutto nel libro si discutono anche contributi a carattere emi­ nentemente filosofico ( ad esempio la Scuola di Francoforte) . Inoltre, il termine stesso "epistemologia" appare non del tutto adeguato a causa delle oscillazioni di significato cui è sottoposto dai suoi vari usi . Per alcuni filosofi l'epistemologia è sostanzialmente superata, per altri essa equivale a un ben preciso atteggiamento culturale, per altri ancora, infine, filosofia ed epistemologia coinciderebbero. 2. L'espressione "scienze sociali" viene usata in questa sede non solo per coprire un ampio spettro di discipline, dalla storia all'economia, ma anche quei paradigmi di ricerca che producono modelli teorici.

II

EPISTEMOLO GIA DELLE SCIENZE SOCIALI

tratta di medaglie destinate a premiare qualcuno, o forse di una rari­ tà numismatica? Sono monete prestate ad un amico o risparmi da depositare in banca? Le due persone stanno cooperando o ingannan­ dosi l'un l' altra? Ad un certo punto l'uomo che riceve i dischetti estrae una pistola. Si tratta di un indizio della sua colpevolezza? Allo­ ra era lui che ha commesso il precedente assassinio . Ma perché lo avrebbe fatto? Quale motivo aveva? Forse è stato spinto a commette­ re quell'atto sotto ricatto. Dunque non si tratta di un vero e proprio omicidio. È una pista falsa ? Ogni appassionato di gialli passa buona parte del suo tempo di lettore o spettatore a domandarsi il significato ed il perché di certi comportamenti . Ma ciascuno di noi, in quanto attore sociale, applica quotidianamente una teoria che gli permette di capire con chi ha a che fare, al fìne di formarsi una idea su come questi plausibilmente si comporterà. Allo ra ci domandiamo perché vengono compiuti certi gesti . Che cosa ha in mente, a cosa mira quell'individuo ? E siamo soddisfatti quando riusciamo ad attribuire un motivo il quale ci dia ragione del fatto che, a fronte di certi atti, altri atti di un determinato tipo seguiranno . Per certi versi capire e dar ragione di un'azione appaiono opera­ zioni ovvie, conosciute più o meno esplicitamente da tutti in virtù dei modelli consuetudinari di azione a cui ci rifacciamo nei bar, sul lavoro, in viaggio . Nell'avere a che fare con azioni della cultura alla quale apparteniamo conosciamo già, ben prima che un osservatore specializzato ce lo spieghi, la maggior parte delle risposte ai dubbi che possono sollevarsi in tale contesto . Nella nostra vita ordinaria è come se l'intera problematica epistemologica non avesse luogo in for­ ma esplicita. Di più : se dovessimo continuamente chiederci cosa sta facendo quella persona, oppure cosa occorre fare in una data circo­ stanza, ebbene la nostra vita quotidiana sarebbe praticamente impos­ sibile. Ma si consideri . Abbiamo dovuto imparare tali risposte nel corso della nostra educazione. Proviamo ad immaginare cosa acca­ drebbe se fossimo estranei alla nostra cultura e non conoscessimo, ad esempio, la pratica del risarcimento per danni. Difficilmente riusci­ remmo a raccapezzarci . Nel volgerei ad una cultura o sottocultura alla quale non siamo stati iniziati (un altro paese, un nuovo tipo di lavoro, un movimento sociale inedito) queste risposte debbono essere (ri) apprese, ed è allora che tali dubbi e tali domande riguadagnano la loro centralità. Ciò che separa l'esperto dal profano è naturalmente il patrimonio di conoscenza con il quale il primo affronta tale pac­ chetto di domande e risposte sulle società di uomini . Ma per il mo­ mento possiamo restare ancorati alla vita quotidiana . L a prima conclusione raggiunta è dunque che soprattutto i n certe 12

INTRODUZIONE

situazioni noi siamo interessati a dare o cercare spiegazioni del come e del perché si è agito in un determinato modo, proprio come acca­ de davanti ai tribunali, di fronte ai quali, come rei o testimoni, siamo obbligati a ripensare ad una azione ed ai suoi motivi più lungamente del normale. Quali sono queste situazioni ? Per ora basterà chiamarle genericamente situazioni di intoppo, situazioni che ci stupiscono e ci spiazzano obbligandoci a porre domande circa l'accaduto, a chiarire le idee sul senso di un gesto, di un atto o di un'espressione. Consen­ tendoci un salto all'indietro, si ricorderà che i greci individuavano la sorgente della riflessione nello stupore. Questo è precisamente uno dei compiti della teoria sociale: di rispondere alle domande che la società, confrontandosi con ciò che non riconosce, genera su se stes­ sa, sulla propria storia e sulle altre società. L'antropologa americana Margaret Mead ha stilizzato questa considerazione osservando che quanti non si adattano rapidamente alla società in cui vivono, ma anzi scorgono di fronte a se stessi un mondo estraneo da interpreta­ re, possono essere considerati scienziati sociali potenziali. Teoria e pratica della ricerca

Per soffermarsi su questa prima conclusione può essere utile tracciare un'analogia fra agenti e pazienti delle scienze sociali, ossia fra le do­ mande che gli scienziati, almeno implicitamente ed occasionalmente, pongono alla filosofia, e gli interrogativi che l'uomo della strada, di nuovo implicitamente ed occasionalmente, pone alle scienze sociali. Si tratta di una analogia fondata sulla circostanza che entrambi, ancor­ ché con linguaggi profondamente diversi, sono impegnati nell'attività del valutare e connettere fra loro le azioni che li circondano, ricondu­ cendole all'identità di coloro che le realizzano . E questa attività, pur svolgendosi in molti modi e per diverse ragioni, è particolarmente viszbzle nei casi di intoppo e spiazzamento cognitivo (non occorre cer­ to sostenere che la problematica dell'intoppo, canonica in antropolo­ gia, sia l'unica a promuovere gli interrogativi ed il lavoro degli scien­ ziati sociali) . Acquisita questa premessa passiamo ad esplorare il più generale rapporto fra filosofia e scienza, fra teoria e prassi. La sua importanza, in questa sede, è collegabile alla polemica, assai diffusa, contro la preoccupazione eccessiva per il contributo della teoria allo sviluppo delle scienze sociali . Uno scienziato sociale che si ponga troppe que­ stioni di ordine teorico o metodologico - così suona l'argomentazione polemica è di ostacolo all'esercizio stesso della disciplina, in quanto obbliga il praticante a riflettere più a lungo del necessario sul proprio -

13

EPISTEMOLOGIA DELLE SC IENZE SOCIALI

modo di procedere, là dove la storia di qualunque disciplina mostra una forte discrepanza fra la prosperità della disciplina stessa ed il ri­ corso alla teoria. Tale obiezione si riferisce in particolare alla tesi neopositivistica secondo cui la filosofia della scienza non deve limitar­ si a ricostruire il funzionamento della ricerca scientifica, ma deve piuttosto raccomandare come rendere scientifico o comunque codifi­ cato il linguaggio del ricercatore, rivestendo un carattere programma­ tico, intrinsecamente prescrittivo rispetto alla stessa attività di ricerca. Più d'un critico ha polemizzato nei confronti di questa interpretazio­ ne se non presuntuosa quantomeno ambiziosa del ruolo che la filoso­ fia dovrebbe esercitare, con il suo rischio implicito di imporre dall'e­ sterno le regole che sarebbe obbligatorio seguire. L'analisi condotta dai filosofi della scienza è avvertita come una riflessione generale, estrinseca e persino evasiva rispetto ai problemi che si trova ad af­ frontare il ricercatore nel corso del proprio lavoro. Fra i critici pos­ siamo ricordare il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, il quale so­ stiene che il contributo più genuino della riflessione filosofica consiste non già nel proporre teorie generali e nel raccomandare come proce­ d�re - perché questa è anzi una sorta di malattia culturale della no­ stra epoca - ma nell'aiutarci a capire, a rendere più trasparenti le nostre forme di vita. Dato che questa critica alla presenza ingom­ brante della filosofia nelle scienze sociali prefigura una incomprensio­ ne radicale fra il mondo della pratica ed il mondo della teoria, sarà bene soffermarvisi . Per molti versi la storia della relazione fra filosofia e scienze so­ ciali è la storia del figliol prodigo che rinnega la propria origine ( sal­ vo tornarvi non appena il mondo esterno si fa estraneo ed ostile ossia nei momenti di intoppo e di crisi ) . La filosofia per le scienze sociali appare un po' come il "padrone" Thomas Mann agli occhi del suo "cane", il bracco tedesco Bauschan : un essere inconcepibile, ca­ pace di rimanere incollato per ore alla scrivania, apparentemente oc­ cupato nell'immobilismo . Se Mann è la metafora vivente della teoria, il cane, nato per la caccia ed in grado di esprimersi in tutta la sua esuberanza soltanto varcata la soglia di casa, appare a sua volta meta­ fora della vitalità fabrile caratteristica delle singole discipline . Per re­ plicare alla polemica contro il carattere controproducente della teoria ed evitare, diciamo così, di licenziare il filosofo prima ancora di resti­ tuirgli la parola, occorrerà compiere una breve indagine su ciò che gli scienziati sociali fanno, dicono, e dicono che fanno quando svolgono la loro attività scientifica . Ciò ci obbliga a considerare due aspetti: il ruolo della teoria nelle scienze sociali ed il ruolo del discorso sulla teoria ( o metateoria ) . In quanto segue il termine teoria ( sociale) è

INTRO DUZIONE

quello ordinariamente impiegato in espressioni come "la teoria del capitalismo maturo"· o "la teoria del potere carismatico" o "la teoria del rituale"; si riferisce alle categorie linguistiche e concettuali usate per descrivere un certo campo di ind3:gine. Teoria e metateoria

In primo luogo si tratta di chiarire perché si domanda teoria . Tornia­ mo di nuovo al caso dell'uomo della strada. Sarebbe forse augurabile che la sua comprepsione delle azioni fosse, per così dire, garantita a priori. Ma i diversissimi modi con cui uomini e donne organizzano la propria vita rendono spesso difficile la comprensione e la comunica­ zione reciproca. Di fronte ad un intoppo o ad una esperienza trau­ matizzante, nascono inquietudini e interrogativi. Ora, ciò che come membri di una società speriamo di ricevere dalla sua produzione cul­ turale - e dalle scienze sociali in particolare è un tramite interpre­ tativo nei confronti di coloro con i quali soffriamo di lacune comuni­ cative, perché distanti temporalmente o culturalmente, perché diversi da noi nel classificare la realtà. La teoria allora interpreta, cerca i significati, e rifornisce continuamente la società di ricostruzioni sul senso di eventi ed azioni allo scopo di estendere la comunicabzlità del contesto in cui si muovono coloro che sono destinati à ricevere la teoria ( chiamiamoli l'uditorio ) . Se quest'opera di interpretazione ha successo, se ha un effetto - per così dire contagioso, os's i"a se le categorie proposte servono a spiegare una perplessità permettendo agli attori di interpretarsi in modi ulteriori, lo scienziato sociale avrà ridefinito riflessivamente i confini del contesto comunicativo dell'udi­ torio . La teoria, in breve, forniscf! un bene per il quale, nella società in cui circola, vi è la richiesta ma non la disponibilità . Una spia ulteriore del menzionato parallelismo fra l'attività teòri­ ca dello scienziato e quella dell'uomo della strada ( fatte salve le non trascurabili differenze) è costituita dal fatto che anche le comunità scientifiche tendono a rivolgersi sui propri fondamenti filosofici ed a riesaminare i presupposti del loro operato nei periodi di intoppo e di crisi . Tale circostanza ribadisce come molte teorie sociali debbano, esplicitamente o meno, misurarsi con il problema della comprensione e della spiegazione delle azioni anomale, ossia sorprendenti, estranee, inquietanti; una anomalia dovuta al loro carattere di azioni nuove ( si pensi, ad esempio, alla disgregazione degli apparati politici est-euro­ pei ) o al modo inedito con cui certe azioni vengono teorizzate da altri scienziati sociali . Forse non è neppure un caso che le scienze sociali siano esse stesse sorte come risposta a delle perplessità. Fra -



EPISTEMOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI

queste, segnaliamo ad esempio le perplessità create dalla crescita in­ controllata della popolazione avvenuta nel corso del diciottesimo se­ colo. Per intraprendere l'opera di razionalizzazione della sorveglianza delle popolazioni si assiste non solo alla riarticolazione degli assetti sociali tradizionali ma anche al formarsi di un sapere avente come oggetto l'osservazione e la classificazione degli individui. In secondo luogo, abbiamo detto, la questione metateorica. Par­ tiamo dalla constatazione che lo scienziato sociale si concentra su de­ terminate azioni Oa Rivoluzione francese, le origini del capitalismo, il suicidio ) nel tentativo di raccogliere informazioni e costruire teorie . Se questo è il modo con cui può essere descritta la natura del discor­ so sul mondo storico e culturale, ebbene un altro tipo di discorso resta escluso : quello che non è rivolto a descrivere il contenuto prima­ rio delle teorie, ossia le istituzioni storiche e sociali, ma che è bensì diretto ad analizzare a sua volta ciò che viene detto nel primo discor­ so (possiamo chiamarlo il contenuto secondario ) . Accanto alla funzio­ ne tecnica del descrivere occorre riconoscerne dunque un'altra : socio­ logi, antropologi, psicologi, economisti e storici sono spesso impegna­ ti in problematiche la cui caratteristica principale non consiste nel rispondere ad un quesito ( ad esempio: perché i suicidi sono più fre­ quenti in certe aree urbane? ) ma nel chiarire in quale ambito comu­ nicativo il quesito abbia un senso . In altre parole, così come le azioni osservate si trasformano in spiegazioni teoriche mediante l'operazione con cui imputiamo le azioni ad un attore o ad un contesto, ad un secondo livello, metateorico e metalinguistico rispetto al discorso de­ scrittivo o referenziale della teoria, si configura un discorso che si propone di analizzare le spiegazioni e le teorie medesime. A dispetto dei termini, non pochi filosofi hanno ravvisato in que­ sta differenza di discorsi non già la gerarchia verticale fra due status epistemologici ben distinti, ma, più semplicemente, la differenza oriz­ zontale fra due forme comunicative o, per usare la celebre espressio­ ne di Wittgenstein, fra due «giochi linguistici» . In questa interpreta­ zione, i due giochi linguistici obbediscono ad una suddivisione del lavoro fra comunità scientifiche (gli scienziati sociali e gli epistemolo­ gi) ma non certo a quel tipo di differenza per cui il secondo costitui­ rebbe una sorta di illuministico coronamento del primo . Del resto le ipotesi riguardanti direttamente gli oggetti della ricerca non sono sempre ben separabili da quelle che riguardano, riflessivamente, i soggetti osservatori o la disciplina stessa, cioè ipotesi su ipotesi scien­ tifiche. Se la pratica corrente di una disciplina è saltuariamente o cronicamente colpita da una tendenza verso atteggiamenti conservati­ vi (volti a reite rare le domande già in discussione) , il contributo della r6

INT R O DUZIONE

riflessione teorica consiste proprio nell'aiutare sociologi, psicologi, stor1c1, econom1st1 ed antropologi a praticare la propria professione senza perpetuare restrizioni imposte o autoimposte, senza finire, cioè, per restringere le proprie prospettive in modi più gravi del dovuto, anche considerando i limiti già ristretti che ciascuna comunità disci­ plinare necessariamente concede. Di più: innovazione e autocorrezio­ ne teorico-metodologica sono operazioni immanenti alla pratica stessa delle comunità scientifiche in quanto imprese che si giudicano e giu­ stificano in buona misura rispettando il requisito della formazione di prodotti distinti da quelli precedenti . Senza tale sforzo di continua chiarificazione e modificazione del proprio linguaggio e dei propri metodi, senza interrogarsi e confrontarsi sul senso di ciò che si cono­ sce, i singoli contributi delle scienze sociali rischierebbero di non es­ sere riconosciuti come scientifici. Anche per questo gli scienziati so­ ciali si mettono a discutere sul tipo di operazione mediante la quale comprendono una istituzione o un'azione . Alcuni si domandano : che cosa vuole dire capire il perché di un comportamento? Che ruolo svolgono le ragioni del soggetto che agisce? E le regole che istituisco­ no le sue attività? Altri invece si domandano : come si verificano le spiegazioni ? E quale tipo di validità hanno? Ossia quali sono i criteri per decidere se questa è una buona spiegazione? Quali sono i fattori esplicativi dell'azione sociale : gli aspetti contestuali ed istituzionali, o le scelte dei soggetti agenti individuali ? E quale la relazione fra mi­ crosociologia individuale e macrosociologia delle entità collettive e dei fenomeni di larga scala? Cosa soprawive, pertanto, della differenza fra teoria e metateo­ ria ? Un punto : pur emergendo nell'ambito delle scienze sociali, le domande sopracitate pongono questioni non affrontabtli sistematica­ mente dalle singole scienze, dovendo queste darle per scontato : preoc­ cuparsi costantemente dei fondamenti del proprio lavoro costringe­ rebbe gli scienziati a bloccarsi. Di qui la specificità dell'epistemologia delle scienze sociali. La sfida filosofica

Chiarita la differenza fra teoria e metateoria, può essere opportuno ritornare sulle circostanze che inducono la pratica della ricerca a por­ si problemi epistemologici . In primo luogo, vi è il caso dello scienzia­ to sociale il quale, nel corso della sua ricerca, si pone, diremo così, spontaneamente problemi epistemologici relativi al suo oggetto di ri­ cerca o ai metodi da lui impiegati, o comunque solleva domande in relazione a specifici nodi teorici . Chiamiamoli problemi epistemologi17

EPISTEMO L O G I A DELLE SCIENZE SOCI A L I

ci interni all a teoria. In secondo luogo vi è il caso dell'epistemologo, oppure del collega che coltiva un diverso paradigma di ricerca (o una diversa disciplina ) , i quali indicano o pongono certi problemi allo scienziato sociale . Chiamiamole sfide epistemologiche esterne alla teo­ ria . È fin troppo noto che le considerazioni filosofiche generano assai raramente conseguenze rilevanti sullo svolgimento delle discipline or­ ganizzate ( che io, come scienziato, creda in un certo tipo di teoria della conoscenza, o coltivi invece una posizione del tutto diversa, è sostanzialmente irrilevante ai fini dello sviluppo della ricerca ) . Non vi è, in linea di principio, alcuna comunicazione necessaria fra la formu­ lazione di ipotesi teoriche nell'ambito delle scienze sociali e la rifles­ sione metateorica dell'epistemologia, essendo il rapporto fra le due attività generalmente analogo a quello che sussiste fra chi, in econo­ mia, elabora modelli di pianificazione e chi studia invece le variabili di mercato. Ciò non toglie, come mostrano alcuni casi storici (l'esempio forse più calzante è dato dalla teoria critica elaborata nèlla cosiddetta Scuo­ la di Francoforte ) , che occasionalmente una efficace sollecitazione fi­ losofica abbia luogo. A differenza della pratica, la quale, per defini­ zione, si svolge all'interno di un contesto ben determinato ed affronta i problemi "sul tappeto" , uno dei compiti della riflessione teorico­ filosofica è di porsi una classe di domande più ampie, confrontandosi con, e confrontando tra loro, una moltitudine di pratiche e contesti . Si tratta di un compito o di un atteggiamento il quale, per vocazione (e non certo per privilegio ) , è caratterizzato dalla capacità di "fare un passo indietro" rispetto alla prassi, ponendosi all'esterno del singolo contesto per confrontarsi con diverse realtà . In questo modo si tenta di allentare la presa del linguaggio fisso, di sottrarsi al pensiero setto­ dale e di scongiurare il rischio di un eccessivo assorbimento nella concretezza della prassi . Incoraggiando nuove domande, caratteriz­ zandosi per questa capacità di mantenere simultaneamente in vita più prospettive, è come se l'atteggiamento critico-filosofico ci esortasse con una esclamazione : «prova anche così ! » . La sfida filosofica può, almeno in parte, interrogare criticamente, e dunque demistificare, ciò che viene dato per scontato in quanto parte dell'ovvio quotidiano di una disciplina. Stilizzando un po' le distinzioni potremmo esprimerci così : se è giusto che l'epistemologo faccia uno sforzo per uscire dal suo settore confrontandosi con la natura orizzontale, operativa, delle scienze sociali, rischiando di apparire incompetente, è giusto anche che egli chieda uno sforzo analogo, sollecitando lo scienziato sociale praticante ad uscire dalla sua pelle - con tutto il disagio che ciò può comportare - e compiere un salto verticale che metta in discussione r8

INT R O D UZIONE

il senso del proprio lavoro ed il suo debito verso la storia della cultu­ ra da cui è implicitamente contaminato. Stili epistemologici e confini dell'azione

Chiarito il ruolo ed il contributo della dimensione metateoretica nel­ l' epistemologia delle scienze sociali, si tratta adesso di compiere un piccolo salto ed iniziare a presentare i contenuti di questo volume. Pur impostato in accordo ad un approccio storico all'epistemologia, questo libro è nella sostanza articolato intorno alla classificazione di tre stzli epistemologici ( da intendersi come prospettive culturali fonda­ mentali che orientano le teorie nei loro assunti generali ) , e d'altronde non potrebbe che essere così : l'epistemologia delle scienze sociali è una disciplina giovane e dunque contemporanea. T ali stili sono stati tracciati, almeno in prima approssimazione (nel senso che si tratta di una distinzione analitica fra le molte possibili ) distinguendo tre orien­ tamenti o prospettive : l'orientamento naturalistico o empiristico, l'o­ rientamento ermeneutico o rivelativo, l'orientamento sistematico o clas­ sificatorio. Il criterio di individuazione delle prospettive è dato da quello che potremmo chiamare il loro scopo di contrasto, ossia da ciò a cui esso si contrappone. Così lo scopo di contrasto della prospetti­ va naturalistica è quello di scongiurare la nostra impotenza, intesa come incapacità di prevedere, controllare e intervenire sulla realtà empirica. Lo scopo di contrasto della prospettiva ermeneutica - in quanto pratica sospettosa, volta a ridescrivere la realtà immediata o consolidata - consiste nel contrapporsi al già dato, al già pensato . La prospettiva sistematica, infine, trova il suo contrasto principale nello spettro dell'incertezza ( generata dal caos, dal disordine e dal conflit­ to ) , configurandosi come tentativo di ricostruire la certezza della teo­ ria ovunque essa appaia minacciata. Prima di presentare gli stili uno ad uno è necessario premettere fin da ora due punti . Anzitutto fra i tre stili non vi sono relazioni di inclusione o di opposizione poiché questi si miscelano in molti modi nella pratica della ricerca, al punto che l'uno dà per scontato ciò che l'altro esplora come rilevante. V alga, a titolo di esempio, la teoria neosistemica di Niklas Luhmann. Essa ha sì una vocazione prevalen­ temente concettuale, classificatoria e sistematica (e ciò giustifica la sua collocazione nel terzo stile epistemologico ) , ma aspira anche ad avere valore empirico, delineandosi - a detta dello stesso sociologo tedesco - come una forma di pianificazione sociale in grado di gestire i com­ plessi problemi del nostro tempo. Nondimeno, astraendo da ciò che accade nella concreta pratica della ricerca, le differenze restano.

EPISTEM O LO G I A DELLE SCIENZE SOCI A L I

In secondo luogo occorre premettere che gli stili sono stati ulte­ riormente distinti incrociando l'orientamento epistemologico con una altra importante divisione: l'unità di osservazione. Questa è data dal­ la decisione sull'area della società a cui deve essere ascritta l' azione osservata. Se l'azione non può concepirsi che come riferita a soggetti determinati inclusi entro confini determinati, la questione che allora si pone è la seguente: chi stabilisce i confini di riferimento dell' azio­ ne? L'unità di osservazione è definita dalle intenzioni di chi agisce, o dalle regole e pratiche che fanno da sfondo all'azione? La suddivisio­ ne più significativa è quella fra i contestualisti, che riconducono l' ana­ lisi al contesto che l'osservatore ricostruisce come scena dell'azione un macrocontesto riferito ad ampie estensioni spazio-temporali e/o a collettività di attori -, e gli individualisti, i quali indirizzano l' attenzio­ ne delle scienze sociali verso i singoli attori impegnati nell'agire. In termini strettamente epistemologici potremmo esprimerci così : il con­ testualista ritiene generalmente 3 che si debba ricorrere ad una teoria olistica del significato per spiegare l'agire ( una teoria olistica del si­ gnificato è quella teoria secondo cui il significato di un atto non è stabilito dall'atto stesso ma dal medium che lo forma ed avvolge - sia questo il linguaggio, la cultura, la tradizione, o la struttura sociale) , poiché l a totalità che costituisce il contesto di una azione n e determi­ na anche il senso. Nessuna parte, in termini diversi, può essere spie­ gata isolandola dall'intero a cui appartiene . L'individualista, d'altro canto, si contrappone agli approcci contestualisti proprio nella con­ vinzione che ogni fenomeno sociale debba essere riportato e dunque anche spiegato nei termini di ciò che gli individui pensano, scelgono e fanno . A questo punto, integrati da una ulteriore dimensione, gli stili naturalistico, ermeneutico e sistematico si chiariscono in funzione del­ l'unità di osservazione che giudicano saliente. Ma non basta . Poiché tutti e tre sono modelli prevalentemente contestualisti ( enfatizzando rispettivamente il ruolo dell'ambiente naturale, del linguaggio e del sistema ) , il nostro quadro si arricchisce di un ulteriore stile contrad­ distinto dall'enfasi sull'unità di osservazione "individuo" . Chiamiamo tale stile epistemologico la prospettiva delle teorie dell'azione. Ciascu­ no stile è stato articolato nei vari paradigmi che lo compongono ( un paradigma, secondo la definizione proposta da Thomas Kuhn in sede epistemologica, è un insieme di assunti teorico-metodologici condivisi ·

3· Contestualismo e olismo non vanno necessariamente assieme. Alcuni indirizzi empiristi enfatizzano la logica della situazione senza abbracciare in alcun modo una teoria olista del significato .

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INT R O DUZIONE

da una determinata comunità scientifica ) , e di ciascun paradigma è stato presentata una versione esemplare denominata modello di riferi­ mento . Poiché ciascuno stile è internamente articolato, non mancano né aree di parziale sovrapposizione ( ad esempio certe versioni della teoria dell'azione - come quella economicistica - condividono alcuni assunti dell'approccio naturalistico ) , né mancano paradigmi che, pur appartenendo allo stesso stile epistemologico, sono sorti per rispon­ dere a problemi diversi o comunque non del tutto omogenei a quelli affrontati da altri paradigmi ricondotti allo stesso stile. Ciò non toglie che ciascuno stile conservi caratteristiche distintive inibenti una loro reciproca sovrapposizione. La figura che si ottiene associando a ciascuno stile il nome di un paradigma di riflessione teorica è la seguente.

STILE EPISTEMOLOGICO

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CONTESTO

EMPIRISTICO

INTERPRETATIVO

CLASSIFICATORIO

Paradigmi naturalistici

Paradigmi ermeneutici

Paradigmi sistemici e strutturalisti

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o

Teorie dell'azione

ATTORE

Caratteristiche distintive degli stili

Veniamo ora ad una breve presentazione delle caratteristiche distinti­ ve dei quattro stili. Il primo stile, chiamato naturalistico, è di sostan­ ziale matrice neopositivistica, ed afferma che il sapere sociologico è giustificato dalla sua capacità di accertare cause o regolarità empiriche, ossia scoperte indipendentemente dal soggetto osservato. Per il natu2!

EPISTEMO L O G I A DELLE SCIENZE SOC I A L I

ralista la conoscenza sociale, al pari di ogni altra conoscenza scientifi­ ca, deve mirare alla scoperta di leggi generali ed essere contrassegna­ ta da un incremento delle capacità di previsione. Si tratta di un mo­ dello di sapere tecnologico, nel senso che scorge nell'individuazione di connessioni causali fra diversi aspetti della realtà naturale la fonte della nostra, umana, efficacia, trovando la sua ultima giustificazione come ha dichiarato Karl Raimund Popper nel suo scritto Miseria dello storicismo - nella trasferibilità in applicazioni ingegneristiche, applica­ zioni destinate a risolvere i problemi che si pongono le società nell'o­ pera di controllo del proprio funzionamento 4. Stando al secondo stile, chiamato ermeneutico ed ispirato - in larga misura - ai lavori di Hans George Gadamer, le scienze sociali sono volte non ad osservare le azioni ma a coglierne il significato . Cogliere il significato equivale a determinare ciò che permette di sta­ bilire che quell'atto è proprio quello o, meglio ancora, di chiarire la definizione che un atto può assumere per chi vi è, come attore parte­ cipante o come osservatore esterno, coinvolto . La differenza, come vedremo, non è irrilevante : coloro che enfatizzano la centralità del­ l' attore come unità di analisi adottano il paradigma intenzionalista del soggetto agente e producono una teoria dell'azione; quanti enfatizza­ no invece la crucialità dell'elemento olistico-contestuale (il linguaggio o la cultura o la tradizione) , producono una teoria ermeneutica degli ordini simbolici. Max Weber usa l'espressione Verstandlichkeit per de­ signare quell'oggetto di ricerca di cui è rilevante stabilire l'intelligibili­ tà . La domanda cruciale, in altre parole, riguarda il «che cosa è que­ sto?», ossia che tipo di azione è questa, e non invece - come nel modello naturalistico - il «perché è successo questo?», ossia perché è occorso questo evento ( quali ne sono le sue éause) ? Non si tratta solo di una scelta, diciamo così, ideologica : quella di disinteressarsi alle sequenze di eventi in quanto fatti fisico-naturali scaturenti da una causa. Si tratta di un problema semantico. Per essere comprese e rese intelligibili in quanto azioni - ossia in quanto atti del comunica­ re, non del russare; del ballare, non dell'inciampare o dello zoppica­ re, del suicidarsi, non del morire naturalmente - le azioni sociali deb­ bono essere interpretate, o lette, come fossero un testo . E un testo può essere decifrato e compreso solo se ne conosciamo le regole o la ra­ zionalità, ossia se siamo in grado di comprenderlo in quanto atto cui4· L'idea che il modello d'indagine dei rapporti sociali debba essere quello che le scienze naturali hanno sviluppato ( un modello fondato sull'idea di legge conoscitiva e di previsione dei rapporti fra fenomeni) risale al xvm secolo ed alla rivoluzione tecnologica che lo ha caratterizzato .

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turale e cogrut1vo . È solo interpretando un movimento sullo sfondo di un insieme di regole ed intenzioni che esso si costituisce, ad esem­ pio, come voto, o può valere come segnalazione, saluto, richiesta di intervento, tentativo di afferrare qualcosa o di rafforzare i muscoli con un esercizio . Un saluto o un esercizio ginnico sono eventi già carichi di significato in quanto chiaramente definiti da ciò che, nella nostra cultura, viene considerato un saluto o un esercizio . Ma quello ermeneutico non è solo uno stile descrittivo; esso ha infatti anche una vocazione creativa o rivelatrice: pone sotto una luce diversa, di­ scopre o ricostruisce aspetti normalmente sconosciuti, sconosciuti perché inattesi o dati per scontato. Impiegando l'espressione "rivela­ zione" non si allude a nulla di esoterico ma semplicemente all' espe­ rienza del rivedere come per la prima volta ciò che si è già visto nu­ merose volte, erodendo una zona d'ombra ed aprendo un campo di visibilità. Prima dell'impresa ermeneutica è come se fossimo circon­ dati da ciò che Paul Valéry ha chiamato il «visibile non visto» . Attra­ verso l'interpretazione veniamo invece ad usufruire di uno sguardo nuovo, una sorta di pubertà della percezione, la quale rende atti ed eventi nuovamente visibili, sottraendoli dall' opacità del non-ancora o del di-già pensato . Per gli amici dell'ermeneutica vi è una differenza radicale fra so­ cietà e natura, dovuta alla circostanza che quest'ultima non si auto­ propone come dotata di senso. Il sociologo Anthony Giddens ha usa­ to a questo proposito l'espressione «doppio livello ermeneutico» : la componente interpretativa delle scienze naturali è innegabile ma uni­ direzionale. Le descrizioni degli scienziati naturali caricano sì di teo­ ria i loro dati, ma non si riferiscono ad un mondo che "risponde". Le teorie delle scienze sociali, invece, possono essere, almeno in linea di principio, riconosciute da coloro il cui comportamento è oggetto di teoria e venire riprese/incorporate nelle loro azioni . Attraverso la comunicazione le teorie interferiscono con la realtà sociale, e nell'in­ terferire possono produrre e subire determinati cambiamenti 5. Perciò si parla di una doppia ermeneutica . Questo gioco di richiami e rispo­ ste tra descrizioni e fenomeni vale forse anche nel dominio delle scienze naturali, ma vale in un altro modo : se è vero che creiamo fenomeni che non si configuravano prima della nostra impresa scien5. Questa caratteristica riflessiva della vita sociale è stata resa celebre dal socio­ lago americano Robert K. Merton, che l'ha denominata «profezia che si autoavvera>> o autoadempie: gli attori si convincono di una certa previsione ed agiscono in base a tale convinzione, trasformando la teoria dello scienziato sociale in motivi della loro azione.

EPISTEMO L O G I A DELLE SCIENZE SOCI A L I

tifica, e lo facciamo in virtù di un'azione di ritorno o licenza che proviene dal mondo, nondimeno i fenomeni fisici godono di una sor­ ta di resistenza rispetto alla teoria che li ha introdotti. Le porte auto­ matiche dei supermercati, ad esempio, sono state realizzate sulla scor­ ta di certe scoperte fisiche, ma qualora la teoria dei fotoni dovesse subire un drastico ripensamento, le porte automatiche continuerebbe­ ro ad aprirsi. Certo, potremmo perdere interesse in quei fenomeni . Ma è appunto un processo di disinteresse ( umano-sociale ) che può sopprimere o interrompere la persistenza di un fenomeno fisico-natu­ rale. Una declinazione della prospettiva ermeneutica è rappresentata dal paradigma crztico . Anch'esso nasce con l'intento di smascherare le pretese oggettivistiche di una certa scienza sociale, assumendo come problematico ciò che altri danno per scontato. La differenza consiste nella preoccupazione teoretica che la anima: non quella di interpreta­ re i significati ma piuttosto quella di contribuire alla trasformazione storica della società. Tra i fautori di questa prospettiva vanno anno­ verati il marxismo, la Scuola di Francoforte ( erede non solo di Marx ma anche di Nietzsche, Freud, Weber) e Ji.irgen Habermas - espo­ nente di prestigio della seconda generazione della Scuola. Al paradig­ ma critico, per esprimersi in termini sintetici ed un po' semplificati, compete un doppio compito : quello ermeneutico di comprendere meglio il presente, prendendo coscienza dei suoi condizionamenti e decifrando le sue distorsioni ideologiche, e quello critico di mostrare se non la disponibilità quantomeno la realizzabilità di assetti sociali alternativi e più giusti rispetto a quelli in vigore. In terzo luogo lo stile sistematico . Esso si presenta come orienta­ mento classificatorio, volto a costruire un linguaggio destinato a rior­ dinare la realtà secondo un codice di riferimento ( e non a scoprirne le leggi o ad interpretarne i significati ) . Si pensi in particolare ai so­ ciologi Talcott Parsons e Niklas Luhmann, ma anche, fatte salve le differenze, all'antropologo francese Claude Lévi-Strauss . Rispetto al linguaggio ordinario, il linguaggio sistematico fornisce un secondo di­ scorso, non solo e non tanto più specializzato o disciplinato ma più generale e comprensivo, capace di riclassificare ogni evento particola­ re nel quadro di un intero sistema classificatorio. Potremmo espri­ merci così : si tratta di una prospettiva che scorge nelle scienze sociali un sistema di categorie analitiche variamente correlate fra loro piutto­ sto che un insieme di ipotesi e leggi empiriche . I problemi che la prospettiva sistematica affronta, in sintonia con la sua vocazione clas­ sificatoria, hanno una natura eminentemente concettuale, come indica la sua sintassi filosofica ( sistema, autoreferenza, struttura, integrazio-

INTRO DUZIONE

ne, funzionalità, differenziazione, opposizione ecc. ) . I francesi hanno coniato un'espressione riferibile a questo linguaggio codificato e un po' freddo: langue de bois. Infine, l'ultimo stile, l'orientamento delle teorie dell'azione. Esso comprende vari paradigmi di ricerca centrati sulle nozioni di attore e di azione. L'idea chiave è che le scienze sociali sarebbero volte ad esplorare l'uso di schemi mentali ( preferenze, intenzioni, desideri, mo­ tivi, tipizzazioni ecc. ) allo scopo di dare forma unitaria al mondo so­ ciale. Fra i paradigmi di ricerca riportati a questo stile occorre men­ zionare l'intenzionalismo, la teoria cognitiva e l'approccio economici­ stico - un approccio contrassegnato dal tentativo di estendere l'inter­ pretazione economica a tutto il comportamento sociale 6. Esaminiamo ulteriormente le differenze fra gli stili con un esem­ pio . Supponiamo di assistere ad un raggruppamento di individui. Supponiamo anche che nel complesso non ci sia chiaro quel che os­ serviamo . Seguendo la prospettiva ermeneutica si tratta di portare al­ la luce il significato delle azioni nelle quali gli attori sono coinvolti : cosa significa questo raggruppamento per coloro che lo compiono e per coloro che vi reagiscono a loro volta ( una dimostrazione, una processione religiosa, una festa popolare) ? Ed in che rapporto sta con il contesto storico-sociale nel quale emerge e dal quale prende il suo senso ? Seguendo la prospettiva naturalistica ci porremo invece delle domande diverse, o ulteriori, relative alle circostanze dell'evento. Non dimentichiamo che i naturalisti non si occupano né preoccupa­ no del problema dell'individuazione degli eventi dal punto di vista di chi li vive o li recepisce . Quante altre volte si sono verificati raggrup­ pamenti in questa area? E in quali occasioni, nei giorni feriali, duran6. il carattere non solo analitico ma ideologico della disputa emerge soprattutto in relazione all'antropologia dell'attore incorporata nei rispettivi stili. Da una parte vi è l'immagine ermeneutica dell'attore come soggetto complesso, capace di agire inten· zionalmente e di produrre significati connessi essenzialmente con la sua costituzione storico-culturale - e dunque richiedente, sul piano metodologico, un approccio che sappia cogliere quella dimensione del mondo umano che non coincide con il suo ambiente visibile-immediato. Dall'altra vi è invece l'immagine del soggetto naturalizza­ to, espressione di una gamma scientificamente determinabile di disposizioni fisico-or­ ganiche, e dunque richiedente, metodologicamente, una spiegazione causale ed un ap­ proccio empirico-naturalistico . Nell'ottica di questo secondo approccio l'agire umano costituisce la frontiera finale della conoscenza scientifica in quanto ultima parte di realtà della quale si deve dimostrare la riconducibilità a spiegazioni di tipo integral­ mente naturalistiche. Infine lo stile sistematico: ponendo l'accento sulle strutture che agiscono "dietro le spalle" degli individui, questi riducono la loro capacità di scelta fino, nei casi estremi, a togliere rilevanza teorica alla nozione stessa di attore ( cfr . Moravia, I 986 ) .

EPISTEM O L O G I A DELLE SCIENZE SOC I A L I

te la settimana, nel periodo di riscossione degli stipendi ? Il naturali­ sta sta cercando le cause del comportamento, sperando di trovare, insieme alla causa, delle connessioni non occasionali ma regolari fra eventi di quel tipo, in modo da scoprire una generalizzazione sulle situazioni che producono un certo tipo di comportamento . Il fautore dell'approccio sistematico, infine, tradurrà l'evento nell'ambito di ca­ tegorie generali e preelaborate allo scopo di dare un nome ed un posto agli eventi ( ad esempio riconducendoli alle coppie concettuali integrazione/conflitto, sistema/sottosistema o classe/movimento ) , e dunque di porli in una giusta luce. Obiettivi e struttura del libro

Abbiamo già spiegato come una delle attività che la filosofia più fre­ quentemente incoraggia consista nell'invitare sia gli scienziati sociali che gli uomini di strada a porsi domande ed a trascendere in qualche modo la loro situazione pratico-immediata. Questo porsi domande è esso stesso un'attività, impegnandosi nella quale uomini e donne si interrogano sulle azioni che realizzano nelle società dove hanno deci­ so o gli è toccato vivere . Tra i numerosi problemi che diventano filo­ sofici perché sollevano domande sugli esseri umani ed il loro posto nello spazio culturale in cui vivono, questo libro ne ha selezionati tre in particolare. La mia opinione è che si tratta di temi non solo cano­ nici ma relativamente usufruibili . Essi sono il tema del metodo con cui le scienze sociali comprendono e spiegano - o debbono spiegare - il proprio oggetto; la questione della razionalità dell' agire ( esiste un'unica razionalità che sia transepocale, ossia valida per ogni tempo, ed universale, vale a dire indipendente dal contenuto culturale che esprime ? ) ; e il tema dell'immagine dell'attore . Ogni modello di riferi­ mento incluso in questa rassegna, oltre ad ospitare il riferimento a questi temi, suggerirà i punti di tensione e talvolta le aporie che ca­ ratterizzano il modello . In rapporto a queste considerazioni, il primo obiettivo del libro (primo anche in ordine di presentazione) è stato quello di tracciare un profilo storico dei problemi epistemologici nelle scienze sociali, raccogliendo, ordinando e ripercorrendo sinteticamente le tappe (e la letteratura) di un dibattito che prende le mosse in Germania, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del nostro secolo, e si distende seguendo una linea significativa fino al secondo dopoguerra. Nel tracciare tale profilo la mia presenza rimarrà, per così dire, sullo sfondo, al servizio dell'esposizione. Per non essere fuorviati è necessaria a questo punto una precisazione importante. Vi sono essenzialmente due modi di of-

INTRO DUZIONE

frire un resoconto d'assieme di una disciplina filosofica o di un cam­ po di indagine: ricostruirne la storia o determinarne le diverse artico­ lazioni . Ebbene, l'epistemologia delle scienze sociali è intimamente collegata ad un modo di intendere la scienza sociale che è proprio dell'ultimo secolo, cosicché, stante la contemporaneità del suo esor­ dio, sarebbe una forzatura applicarla alle filosofie della società prece­ dente. Non solo: con la messa in crisi del suo paradigma egemonico ( negli anni fra le due Guerre il monopolio è del modello naturalisti­ co ) , lo studio dell'epistemologia delle scienze sociali perde ogni con­ notazione storica di vicenda e diventa analisi di una pluralità di mo­ delli e tendenze teoriche. Ricostruire l'articolazione di tali modelli e tendenze non significa appiattirli o giustapporli gli uni accanto agli altri, perdendo ogni senso dei diversi problemi a cui essi hanno for­ nito una risposta, ma semplicemente riconoscere come il vettore di tale articolazione non sia più la cronologia storica . Per questo motivo il presente libro non può rappresentare una storia dell'epistemologia delle scienze sociali in nuce. E per la stessa ragione il secondo, e più cruciale, obiettivo del libro non poteva che consistere nel fornire al lettore la capacità di distinguere, nell'ambito del rendiconto panorami­ co, fra idee, temi e correnti teoriche differenti . In sintesi, questo li­ bro cercherà di offrire una mappa di orientamento per coloro che si avvicinano all'epistemologia seguendo la via filosofica o seguendo la via dei problemi fondazionali, dei nodi teorici delle scienze umane e sociali . Ciò chiarito, occorrono ancora alcune avvertenze cautelative sul carattere di questa opera al fine di scongiurare attese mal poste o reazioni di perplessità. In primo luogo, stante il suo carattere di in­ troduzione sistematica e sintetica, il libro ha deliberatamente evitato un eccessivo allargamento della sua popolazione, optando per una certa sobrietà di nomi e di riferimenti . Non sempre, peraltro, la siste­ mazione dei singoli contribùti e delle loro linee di discendenza e ascendenza teorica cade senza attriti nell'ambito di uno stile episte­ mologico ben preciso. Del resto non mi sono posto il compito, in fondo irrilevante, di classificare gli autori, le loro appartenenze, filia­ zioni e distacchi da questo o quest'altro paradigma, ma piuttosto quello, credo più interessante, di affrontare i problemi che i diversi autori hanno posto . Stante questa precisazione, il lettore non troverà un numero elevato di note, né riscontrerà un andamento esegetico appoggiato a continui riferimenti testuali . Inoltre, come tutti sanno, anche in una prima introduzione di carattere espositivo e drastica­ mente poco critica, è impossibile evitare che la discrezionalità dell' au­ tore intervenga nelle scelte che questi compie, ed ogni scelta compor27

EP ISTEM O L O G I A DELLE SCI ENZE SOC I A L I

ta delle esclusioni. Anche sul piano delle problematiche teoriche, pur nella salvaguardia di un'apertura di orizzonte che fosse, nel rispetto del carattere compatto dell'opera, sufficientemente vasta ed articolata da apparire esauriente, mi sono permesso di trascurare o saltare alcu­ ne mediazioni storiche, o di servirmi di alcune semplificazioni esposi­ tive nel proporre alcuni nodi, tendenze e proposte emergenti ( ad esempio raggruppandole assieme pur con la consapevolezza di una loro specifica genealogia ) . Per quanto concerne il repertorio di esem­ pi, esso - pur curato - non ha la pretesa di essere esaustivo o di pari interesse e puntualità per tutte le discipline sociali. Infine la bi­ bliografia. Essa comprende una guida minimamente ragionata ed una compilazione vera e propria. I criteri che hanno guidato la compila­ zione sono i seguenti : includere quasi esclusivamente opere di carat­ tere generale che possono essere di rilievo anche per lettori sprovvisti di orientamenti specifici, riportando opere che fossero di preferenza disponibili in versione italiana. La suddivisione dei riferimenti è per argomenti, riflette l'ordine dei capitoli e paragrafi ed include non so­ lo i titoli effettivamente citati ma anche quelli che possono servire per ulteriori approfondimenti. All'inizio della bibliografia vengono presentate alcune opere introduttive ed alcuni manuali . Concentriamoci adesso sul primo obiettivo che il libro si è posto : se attraverso l'epistemologia delle scienze sociali si esprimono anche domande sull'agire umano e sulla sua razionalità, non può stupire che la riflessione su tali aspetti fosse presente nel pensiero antico ed abbia accompagnato buona parte del pensiero d'Occidente 7. È tutta­ via alle soglie del Novecento, allorché le ragioni a sostegno dell'unità metodologica di tutte le scienze appaiono incapaci di spiegare una vasta gamma di differenze fra le scienze naturali e quelle umane, che i temi dell'epistemologia delle scienze sociali si ripropongono con rin­ novata intensità teorica nello scenario intellettuale degli eredi dello storicismo neokantiano e dei seguaci del positivismo ottocentesco . Per questo la parte iniziale del libro riguarda una vicenda dall' anda­ mento certamente ricco di discontinuità, ma anche assai circoscritta, e resa omogenea dal fatto di rapportarsi a precise istanze teoriche. Ho già fatto cenno alla circostanza che le posizioni teoriche espresse 7· Nell'Etica Nicomachea, nella Politica e nel De Anima, ad esempio, Aristotele dedica diverse pagine all'agire pratico quale occasione per realizzare la vera o essen­ ziale finalità della natura umana . La riflessione aristotelica sul telos umano e sul ragio­ namento pratico apre una discussione sul modo in cui volizioni, credenze ed azioni sono fra loro intrecciate in vista di una finalità di lungo termine, una discussione che verrà ampiamente ripresa durante tutto il medioevo.

INT R O DUZIONE

dal dibattito epistemologico appaiono, almeno storicamente, due: da un lato sta l'orientamento che abbiamo definito naturalistico ( ma che potremmo definire anche monista in quanto propugnatore dell'unità metodologica di tutte le scienze) , di ispirazione positivistica e legato, tra gli altri, ad autori quali Cari Gustav Hempel, Theodore Abel, Ernst N agel e Karl Popper. Dall'altro lato sta l'orientamento, più ete­ rogeneo del precedente, di coloro che avvertono l'esigenza, seppure diversamente declinata. di riabilitare le specificità del mondo umano­ sociale e di riaffermare la legittimità e l'autonomia di una prospettiva disciplinare su tale mondo . Da un punto di vista storico, è nelle con­ siderazioni metodologiche di Max Weber che occorre individuare il punto di avvio, l'incipit preciso della nostra vicenda. Il Methodenstret! originario {letteralmente: disputa sul metodo ) si sviluppa tra il r 87o ed i primi due decenni del nuovo secolo in seno alla riflessione teori­ ca sulle scienze economiche, configurandosi ben presto come dibatti­ to volto ad una più precisa determinazione dei fondamenti e delle funzioni delle scienze sociali in senso lato . La vera e propria ripresa novecentesca del tema non avverrà tuttavia che nel r 942 con l' episte­ mologo berlinese C. G. Hempel . Grazie al suo articolo sulle funzioni delle leggi generali in storia, apparso sul "Journal of Philosophy" , si apre una seconda fase della controversia metodologica sulle scienze sociali, una fase le cui ramificazioni possono ritenersi tutt'oggi un punto di riferimento. Per quanto concerne l'articolazione del libro, il primo capitolo ri­ guarda dunque la genesi del dibattito moderno, ossia la discussione, che vede impegnata gran parte della cultura tedesca di fine Ottocen­ to, sulla validità delle procedure di indagine delle scienze storiche. Per il rilievo fondativo avuto nella costituzione della problematica che ci interessa, ad esso è stato dedicato un certo spazio. Il secondo capi­ tolo discute l'ipotesi di riforma naturalistica della metodologia origi­ nariamente teorizzata dagli storicisti tedeschi . Del naturalismo segui­ remo anche alcune importanti ramificazioni applicative nel comporta­ mentismo, nella sociobiologia e nella storia quantitativa. Seguono tre capitoli non solo assai più articolati, ma anche più vicini al polo della teoria che non alla ricognizione storica. Il primo riguarda le teorie dell'azione. Il secondo è dedicato all'ermeneutica in quanto stile epi­ stemologico che pone il problema del senso dell'azione al centro del­ l'indagine sociale Oa sua esposizione è seguita prima da una presen­ tazione dell'orientamento critico, erede del marxismo e legato in mo­ do particolare al contributo di Jiirgen Habermas, poi, con le dovute riserve, dalla presentazione di un indirizzo ispirato alla fenomenologia delle relazioni sociali : l' etnometodologia ) . Da ultimo un capitolo de-

EPISTEMO L O G I A DELLE SCIENZE SOCI A L I

dicato agli ormai collaudati paradigmi sistemici e strutturalisti. Come digressione a tali capitoli, è stata inserita una coda espressamente de­ dicata a due temi dotati non solo di loro relativa autonomia ma an­ che largamente dibattuti : il primo riguarda quel complesso di discus­ sioni sulla coppia razionalità e relativismo che si è sollevato intorno all'opera di Peter Winch ed è oggi più opportunamente denominato Rationalitatstreit o Rationality-Debate. La questione della razionalità dell'azione divide coloro i quali credono nell'unità epistemologica del genere umano da quanti, come Winch, negano l'esistenza di una ra­ zionalità omogenea - una sorta di passe-par-tout di ogni cultura - e per i quali si delineano varie razionalità locali più o meno confronta­ bili fra loro. Il secondo dibattito riguarda invece la coppia inviduali­ smo ed olismo : le azioni debbono essere ricondotte alle ragioni di chi agisce o debbono piuttosto essere inserite in un contesto meta-indivi­ duale? Nel capitolo che chiude il volume, infìne, viene fatto cenno ad alcuni orientamenti e linee teoriche che si propongono di decostruire o smontare le implicazioni metafìsiche dell'epistemologia delle scienze sociali ( ed anzi dell'epistemologia in genere) , configurando una pro­ spettiva radicalmente differente .

I

Il Methodenstreit, storia di

un

avvio

I. I

Sfondo storico e premesse teoriche

I. I. I. Introduzione

Nel corso della storia delle idee non mancano controversie fra le co­ siddette due culture : quella scientifica e quella retorico-umanistica . Il disaccordo sulla natura e la giustificazione dei due modelli di sapere ha tuttavia assunto i tratti di una controversia disciplinare fra scienze sociali e scienze naturali soltanto alla fine dell'Ottocento, in Germa­ nia, soprattutto per merito dei cosiddetti teorici delle Geisteswissen­ scha/ten Oe scienze storiche e della cultura in genere ) e di Max We­ ber. In tale contesto sorge il primo grande dibattito metodologico, il Methodenstreit, volto a definire l'ambito più appropriato delle scienze sociali . Per quanto le specifiche posizioni assunte dai partecipanti che si sono impegnati nel Methodenstreit ( economisti, storici e filosofi) ri­ sultino spesso assai diverse tra loro, è stato generalmente affermato quanto segue. r . Le azioni umane, a differenza degli eventi naturali, sono orientate da motivi, credenze, valori ( «determinanti interni », secondo l'efficace espressione di G. H. von Wright) che conferiscono significato alle azioni stesse . 2 . L'analisi delle azioni comporta una interpretazione, e l'interpreta­ zione, a sua volta, richiede una appropriata metodologia cognitiva, basata su strumenti quali l'empatia (Einfuhlung ) o il comprendere (das Verstehen ) . 3 · Tra le scienze naturali e le discipline che studiano gli eventi stori­ ci e le azioni umane esiste una differenza radicale. I modi di tracciare queste differenze variano in funzione della specifica posizione assunta dai protagonisti del Methodenstreit. Si può tuttavia individuare un'enfasi alternativamente posta sulle differenze

EPISTEMO L O G I A DELLE SCIENZE SO C I A L I

tra i rispettivi ambiti di indagine ( secondo i dualisti antologici o degli oggetti ) e sulle procedure di comprensione di tali ambiti ( secondo i dualisti dei metodi ) . È in ogni caso a tali differenze che può essere storicamente riferita l'espressione "dualismo metodologico", a cui il capitolo che segue è sostanzialmente dedicato . Lo scopo, ribadiamo­ lo, non è tanto storiografico quanto volto a chiarire i presupposti sto­ rici del panorama di posizioni caratteristiche dell'odierna epistemolo­ gia delle scienze sociali . Il primo o comunque il proto-impulso al Methodenstreit è certa­ mente dovuto allo storicismo, un movimento intellettuale assai com­ posito, accomunato dalla convinzione che i fenomeni ed i processi della realtà umana appartengono al divenire storico e da esso ricevo­ no il loro significato. Nel correggere l'approccio speculativo di Hegel alla storia, autori come Leopold von Ranke ( 1 755 - r 886) ma soprat­ tutto Gustav Droysen ( r 8o8 - r 884 ) , sostengono non solo che ogni fe­ nomeno umano richiede di essere esaminato storicamente, ma che la stessa comprensione storica deve prendere le mosse dal riconosci­ mento della propria storicità. In particolare Droysen, storico del clas­ sicismo presso l'Università di Berlino, nel suo Grundrisse der Historik ( scritto nel 1 85 8 e pubblicato dieci anni dopo) introduce una distin­ zione destinata a diventare famosa, quella fra la comprensione, opera­ zione ricorrente nelle scienze storiche, e la spiegazione, vigente invece nelle scienze fisico-matematiche. Nell'ambito di una agguerrita recen­ sione alla riflessione filosofica sulla natura della storia svolta dall'ingle­ se H. T. Buckle - il quale insisteva sulla necessità, per una storia che volesse essere scientifica, di rintracciare delle leggi nello sviluppo del­ la civiltà - Droysen replica che chi avanza la pretesa di sollevare la storia a rango di "scienza" applicandovi un metodo naturalistico fini­ sce piuttosto per stravolgerla collocandola nella cerchia delle discipli­ ne naturali . Nel r 8 83 si awia la fase più "calda" del Methodenstreit: in quel­ l' anno vengono infatti pubblicati in contemporanea due lavori meto­ dologici ( fra loro ben distinti ) : le Untersuchungen uber die Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Okonomie insbesondere (Sul me­ todo delle scienze sociali e dell'economia politica in particolare) dell'eco­ nomista austriaco Karl Menger e la Enleitung in die Geisteswissenschaf ten (Introduzione alle scienze dello spirito ) di Wilhelm Dilthey, opera considerata da Max Weber la prima illustrazione complessiva di una logica delle scienze non naturali . Come spiega lo stesso Weber, prima ancora di riguardare l'insieme delle scienze sociali, la disputa metodo­ logica si manifesta all'interno di una singola disciplina: l'economia,

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coinvolgendo i rappresentanti di due impostazioni di ricerca: l' ap­ proccio economico "classico", sostenitore di una economia teorica astratta (Menger ) , e l'approccio "storico" di Wilhelm Roscher, Karl Knies e Gustav von Schmoller. La controversia - emersa con la re­ censione, da parte di Schmoller, del lavoro di Menger, nonché con l'accesa risposta di quest'ultimo - riguarda il modello di teoria scien­ tifica che deve costituire la base per le scienze sociali . Pur attento allo sviluppo storico, e pur consapevole della difficoltà di accertare regolarità assolute in seno alla vàrietà dei fenomeni sociali, Menger sottolinea a più riprese come il modello da lui difeso è quello di una scienza economica fondata sulla conoscenza teorica delle forme empi­ riche più tipiche, destinate a ripetersi nel tempo con regolarità, poi­ ché il singolo, irripetibile evento non ha una ricorrenza ( non ha la "frequenza relativa" ) sufficiente per assumere un peso nella realtà. Schmoller, al contrario, mette in dubbio la rilevanza teorica delle prospettive di ordine generale, macroscopiche potremmo chiamarle, difendendo lo studio delle individualità non generalizzabili . Parallelamente alla discussione degli economisti, la disputa meto­ dologica si allarga per merito della filosofia neokantiana. In particola­ re l'indirizzo neokantiano denominato del Baden ( perché ebbe i suoi centri principali nelle Università di Heidelberg e di Friburgo - situa­ te entrambe nella regione del Baden ) , si caratterizza non solo per una attenzione alla fondazione filosofica delle scienze storiche ma an­ che per un ulteriore problema chiave delle scienze sociali: quello del valore - due temi, quello della storia e quello del valore, parzialmen­ te trascurati da Kant. Ma forse la testimonianza più eloquente di questo nuovo fervore metodologico è reperibile in Dilthey. La sua riflessione, inizialmente di ascendenza romantica, pone l'accento sia sul recupero e la valorizzazione della dimensione dell'esperienza e della vita, sia sul fatto che la conoscenza del mondo umano si acqui­ sisce attraverso l'opera non tanto dell'intelletto quanto di funzioni quali l'intuizione, l'empatia, il consentire, insomma la capacità di im­ medesimarsi con il soggetto/oggetto dell'indagine. Il contributo di Dilthey consiste soprattutto nell'accentuare il distacco logico ed anto­ logico fra scienze della natura e scienze dell'uomo, della società e del­ lo Stato - così egli chiama nel r 8 75 quell'insieme disciplinare cui nel r 8 83 conferisce unitarietà sotto la famosa dizione Geisteswissenscha/ten (il termine "scienze dello spirito" era stato introdotto in Germania pochi anni prima nel corso della traduzione tedesca della Logica di John Stuart Mill) . Cominciamo col richiamare il contributo di Dilt­ hey. 33

EPISTEM O L O G I A DELLE SCIENZE SOCI A L I

1 . 1 . 2 . Dilthey e la nozione di comprensione La filosofia delle scienze sociali di Wilhelm Dilthey ( r 82 2 - I 9 I I ) , for­ se il maggiore esponente dello storicismo, si configura in buona misu­ ra come risposta all'opera del suo principale avversario : John Stuart Mill ( r 8o6- r 873 ) , il ben noto rappresentante del positivismo inglese. Nel sesto libro del suo scritto più celebre, il Sistema di Logica (System o/ Logic, Ratiocinative and Inductive) , dedicato alle Mora! Sciences ( con tale espressione Mill intende il sapere che si occupa delle azioni uma­ ne ) , le scienze sociali vengono presentate come perfettamente adatte all'ambizione posi tivista di affrontare il sapere umano come scienza rigorosa. Il criterio per stabilire tale scientificità coincide, per Mill, con l'obbedienza a leggi, ossia con il fatto che i fenomeni accadono regolarmente secondo correlazioni causali registrabili induttivamente . In sintonia con David Hume, anche per Mill il principio dell'unifor­ mità e della causalità della natura emerge come risultato di un proce­ dimento induttivo, ossia trova una giustificazione metodologica, non antologica. Tuttavia, per Mill è un fatto che gli esseri umani abbiano una "natura" obbediente a leggi e dunque possano e debbano essere studiati con il metodo di analisi in vigore presso le scienze fisiche. Tale metodo è, però, molto arduo da realizzare per via della partico­ lare complessità dei fattori causali cui è sottoposto sia l'agire umano individuale che, e soprattutto, il suo aggregarsi e concatenarsi in azio­ ne sociale. Per Dilthey la concezione di Mill è limitata in quanto trascura un aspetto non solo costitutivo ma esclusivo dell'universo umano : la sua storicità . Quella che Dilthey introduce contro Mill è una separazione netta fra storia ( cultura) e natura. Rifiutando la candidatura delle scienze della natura come modello ideale (e dunque egemonico ) per le scienze sociali, abbracciando una prospettiva non monista ma dua­ lista o separatista, Dilthey difende quella che potrebbe essere deno­ minata tesi dell'irrzducibzlità delle scienze sociali a scienze naturali. I fenomeni umani, secondo Dilthey, resistono all'indagine scientifica poiché in essi vi è qualcosa di più, o comunque di peculiare e di non riscontrabile nel mondo naturale: il carattere singolare ed intenziona­ le, autointerpretante dell' agire. Credenze, motivi, norme, valori, ruoli, istituzioni sono entità specifiche ed intrinsecamente significanti, ossia inestricabilmente collegate ad intenzioni soggettive e tradizioni cultu­ rali. In breve, non è possibile disporre di una scienza degli accadi­ menti umani, e ciò per due ragioni : la loro irripetibile unicità e l'ine­ liminabile elemento di consapevolezza e di progettualità di coloro che realizzano tali accadimenti . La prima ragione è paragonabile a quella 34

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per cui non abbiamo una scienza della mobilia : non esiste alcuna ca­ ratteristica fisica che sedie, tavoli, banchi hanno in comune tale che cadano sotto un insieme di leggi della mobilia . Il secondo motivo è quello che ci costringe ad accettare la separazione fra natura e cultu­ ra, perché a differenza dell'uomo, che congiunge un senso soggettivo al suo agire, un ventilatore non sa nulla dell'aria, così come un sasso lanciato per aria non sa nulla di parabole. Nell'opera del giovane Dilthey una attenzione non episodica è dedicata all'esperienza vissuta (�rleben ) , la dimensione primaria dell'a­ gire umano, inizialmente concepita in modo individuale-soggettivo . Il soggetto si dispone verso gli oggetti ed esperisce il mondo dall'interno della propria soggettività - donde l'interesse del giovane Dilthey per la psicologia come disciplina fondativa delle scienze umane. Quella che Dilthey offre è una soluzione empatico-intuizionistica anche al problema della comprensione dell'altro. Affinché tale termine possa es­ sere legittimamente applicato all'interpretazione dei fenomeni umani occorre che l'osservatore disponga di una conoscenza dei fenomeni "dal di dentro", avendone avuto un'esperienza diretta o comunque un'esperienza simile a quella del loro autore. Se ad esempio durante una giornata fredda vediamo un individuo che taglia della legna ed accende un fuoco, l'empatia (Ein/uhlung ) ci permette di ricollegare l'impressione della temperatura rigida interiorizzata in passato con la ricerca del calore, aiutandoci a comprendere l' azione. Parimenti, pos­ siamo dare un senso alla parola "ansia" perché noi stessi siamo stati ansiosi - altrimenti sarebbe come discutere di una sinfonia essendo sordi . Nel presentare la capacità di rinvenire il senso di un testo o di una azione come frutto dell'empatia, l'accento viene posto da Dilthey sul mettersi al posto dell'altro (sichhineinversetzen ) quale modalità che consente di rivivere o riesperire (nacherleben) in ultima istanza ri­ produrre (nachbtlden ) l'esperienza stessa dell'altro soggetto. L'ope­ razione empatica vale peraltro anche verso l'esterno : leggendo un li­ bro o andando a teatro, secondo Dilthey, siamo in grado di rivivere per procura esperienze che non avremmo potuto vivere in piima persona. Questa concezione del comprendere come trasferimento vi­ cario nell'altro rivela l'influsso dell'ermeneutica romantica, per la qua­ le il soggetto interpretante, grazie all'intuizione, poteva annullare la distanza temporale che lo separava dal testo in esame, rendendosi contemporaneo al suo autore e riproducendone l'originario atto crea­ tivo. L'approccio del giovane Dilthey, a causa di certe sue ingenuità epistemologiche ( ad esempio la dualizzazione antologica fra natura e cultura; il primato assoluto della coscienza e l'idea conseguente che -

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sia necessario realizzare in prima persona l'esperienza analizzata per averne comprensione; la tesi che posso comprendere un'azione quan­ do e perché sono io stesso ad esemplificarla; o che sia possibile, tra­ mite l'empatia, avere un accesso immediato al significato delle espe­ rienze umane) fu nettamente respinto sia dallo psicologo berlinese H. Ebbinghaus, sia dai neokantiani Windelband e Rickert ( ed infine da Dilthey medesimo) . Nel contesto del Methodenstreit è soprattutto la empatia come metodo interpretativo a rappresentare il tallone d'A­ chille del programma filosofico del giovane Dilthey . In primo luogo è semplicemente ovvio che la comprensione ha luogo anche senza che vi sia trasferimento vicario nell'altro. Anzi, se alla sola empatia doves­ se ridursi l'operazione di comprensione, l'interprete sarebbe indotto a scoprire nell'atto da interpretare un non dimostrabile unico signifi­ cato vero ( quello attribuito dall'attore al momento dell'atto ) . Ma co­ me ha detto il sociologo tedesco George Simmel con una espressione rimasta celebre: «non dobbiamo essere Cesare per comprendere Ce­ sare » . Inoltre, vi sono varie credenze altrui che noi non condividiamo (credenze nei demoni, negli esorcismi, nella salvezza delle anime) , così come vi sono descrizioni di eventi che noi non abbiamo mai vissuto o esemplificato ( ad esempio le incursioni dell'unno Attila ) , e che tuttavia possiamo comprendere . Ma la critica principale all' empa­ tia (formulata anche da Max Weber) può essere riferita così : come è possibile, nella nostra qualità di osservatori, stabilire l'attendibilità dell'empatia senza disporre di una conoscenza indipendente dello sta­ to psicologico che costituisce l'oggetto dell'empatia? Se l'attendibilità dipende solo dall'attore al cui posto ci si colloca, viene a mancare quella forma di controllo indipendente che stabilisce se uno stato co­ gnitivo è sostenuto di volta in volta con un significato costante oppu­ re no . Misurando gli stati cognitivi solo contro se stessi, in altre paro­ le, vengono meno i criteri per poter stabilire se li abbiamo compresi o meno . In breve, la tecnica "riproduttiva" dell'empatia appare una prestazione incontrollata, priva, nel suo carattere assolutamente sog­ gettivo-interno, di criteri per dirimere una comprensione effettiva da ciò che potrebbe non esserlo. In secondo luogo l'empatia non appare una risorsa di compren­ sione autosufficiente, tanto meno prioritaria . Ripensiamo all'esempio della persona che taglia la legna. In un certo contesto culturale la predisposizione del fuoco sarà compresa non come azione di riscalda­ mento ma come sacrificio rituale o come invio di un segnale. L' em­ patia sembra dunque presupporre una comprensione già avviata, o una conoscenza precedente del contesto che attribuisce all'azione il senso che ha . E se è necessario (pre) disporre di questa conoscenza

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antecedente, che altro può essere richiesto ai fini della comprensio­ ne ? Disponendo di tale conoscenza, l'empatia non viene resa meto­ dologicamente ridondante? Insomma, ben difficilmente l'empatia sembra poter rappresentare la corte d'appello decisiva e finale della validità degli atti di comprensione. Queste critiche costringeranno Dilthey, da pochi anni trasferitosi su quella cattedra berlinese di filosofia che era stata di Hegel, ad emanciparsi dal suo psicologi ; mo . Nella sua opera matura, La costru­ zione del mondo storico nelle scienze dello spirito, egli offre una conce­ zione più oggettivata anche dello stesso mondo umano : l'ambito rile­ vante da analizzare non è più soltanto l'esperienza vissuta dall'interno ma il più vasto universo delle «espressioni di vita umana» (Leben­ sausserungen ): dalla partizione degli alberi in un parco all'ordine delle case in una strada, fa notare Dilthey, dallo strumento dell'operaio fi­ no alla sentenza del tribunale, tutto intorno a noi è storicamente di­ venuto e socialmente costruito. Incoraggiato da queste nuove acquisi­ zioni, Dilthey introduce varie categorie cruciali non solo perché speci­ ficatamente pensate per l'analisi del mondo umano ma anche perché nuove rispetto a quelle kantiane. Fra queste, emblema stesso del pensiero di Dilthey, spicca la revisione dell'empatia tramite la catego­ ria del comprendere ( per esprimere anche linguisticamente la diffe­ renza rispetto all'Ein/uhlung, Dilthey opta per il famoso verstehen ) , u n concetto assai importante per l a nostra indagine i n quanto desti­ nato ad alimentare buona parte dei successivi dibattiti sulle scienze sociali . In senso lato il comprendere consiste in un atteggiamento nei con­ fronti della vita umana, un atteggiamento che collega l'io all'altro in virtù di una affinità storico-culturale. Se il comprendere ha a che fare con il riscoprire me stesso in te, allora si tratta di una operazione che non potrebbe avere luogo nei confronti di una pietra e di un albero, dato che non vi è alcuna affinità storico-culturale fra noi e le pietre. In questo senso il comprendere è una possibilità determinata dalla natura di certi fenomeni ma non di altri. Più in particolare, la cate­ goria del comprendere suggerisce di cogliere i fenomeni umani nel modo in cui essi reclamano di essere capiti, e cioè entro un determi­ nato contesto ed una determinata finalità soggettiva r . In quanto ape-

r . Rimane da chiarire come sia possibile che la comprensione riesca in modo felice. Il comprendere ha la sua condizione di possibilità - precisa Dilthey - nella sostanziale omogeneità fra uomini appartenenti ad un medesimo mondo storico-cultu·

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razione di sintonizzazione con fenomeni storico-culturali, il compren­ dere viene tecnicamente affidato alle scienze ermeneutiche. Esso si differenzia nettamente dallo spiegare, il quale tende ad analizzare clas­ si di eventi e ad enucleare le leggi che li governano . Per chiarire la distinzione, già tracciata da Droysen, fra questo orientamento alla comprensione dell'agire umano e la spiegazione naturale di eventi, converrà insistervi con un esempio. Supponiamo che un'automobile venga maltrattata da un guidatore impaziente o incompetente. Il "comportamento" della macchina, il suo procedere a scossoni, i suoi stridii possono essere interamente spiegati ( ad esempio da un mecca­ nico o da un ingegnere) in termini di movimenti regolati da leggi fisiche. Immaginiamo adesso una persona maltrattata. Senza dubbio se conoscessimo in modo perfetto la fisiologia, potrebbe essere forni­ ta una analoga spiegazione fisica del comportamento della vittima (contrazioni muscolari, nervi eccitati, processi nel sistema nervoso centrale, e così via) . Ed anche questi movimenti sarebbero spiegabili interamente mediante le leggi delle scienze naturali . In un senso ov­ vio gli esseri umani appartengono infatti al mondo fisico, e possono essere concepiti come degli enti organico-naturali obbedienti a leggi . Tuttavia, a differenza di quanto avviene nel caso dell' automobile, ci troviamo a disagio di fronte alla spiegazione esclusivamente fisico-fi­ siologica. Questo disagio è ben riassunto dal senso comune : si afferma che comprendiamo (o che non comprendiamo ) certe persone. I genitori possono non capire i figli; le mogli affermano spesso che i propri mariti non le capiscono; certi turisti occidentali sostengono di non capire gli orientali e gli antropologi si accusano reciprocamente di non capire le popolazioni africane dei nuer o degli zande. Non solo le persone ma anche i loro prodotti sono considerati come una classe di "cose" soggette ad essere comprese. Noi comprendiamo le frasi e le teorie, i romanzi e le istituzioni . Non diciamo invece ( se non con una buona dose di immaginazione) di comprendere "cose" come i fossili, le case, i pianeti, le locomotive, le palme, le farfalle, i porco­ spini o le macchine. Certo, a volte diciamo di non capire il compor­ tamento della nostra automobile ( ad esempio non capiamo come mai essa non parte ) . Ma non appena scopriamo la causa di tale compor­ tamento ( siamo rientrati tardi, stanchi e distratti, ed abbiamo lasciato accesi i fanali cosicché la batteria si è consumata) , allora ci spieghiarale. Data questa relazione quasi primaria di comunione fra esseri umani, la riprodu­ cibilità dei fenomeni culturali è assicurata a priori.

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mo perché non è partita, o come la batteria si è consumata ( provocan­ do la mancata accensione ) . Nei confronti di "cose" come le macchine riteniamo di dover ricorrere non alla comprensione ma alla spiegazio­ ne . Forse anche per questo suo carattere profondamente radicato, Max Weber notava già nel suo saggio sugli economisti Roscher e Knies come il Methodenstreit sui fondamenti delle scienze sociali, ed in particolare il contrasto fra la dimensione significante del mondo umano e la dimensione meccanico-causale del mondo naturale, fosse destinato, con etichette e linguaggi sempre rinnovati, a riattualizzarsi, risolversi e poi risollevarsi nuovamente. I . I . 3 . Sapere generalizzante e sapere particolarizzante Rivelando una sostanziale congenialità a quella rotazione dal piano dell'oggetto a quello del giudizio compiuta da Kant, Wilhelm Win­ delband ( I 848- I 9 I 5 ) respinge nettamente la distinzione antologica di Dilthey . In un discorso rettorale pronunciato a Strasburgo nel I 8 94 ed eloquentemente intitolato Geschichte und Naturwissenscha/ten ( si noti anche come le scienze storico-sociali non vengano più denomina­ te "dello spirito" ) egli afferma quanto segue: «Non in una differenza di oggetti va colta la distinzione, bensì nelle rispettive metodologie che scrutano gli oggetti» . Da una parte abbiamo le scienze interessate ad estrarre leggi generali dalla connessione fra fenomeni, a cui Win­ delband - nel secondo volume di Praludien - ascrive il neologismo "nomotetiche" ( ossia conferenti leggi ) , dall'altra le scienze inclini al particolare, battezzate scienze "idiografiche" (ossia raffiguranti l'indi­ viduale, rivolte all'unicità irripetibile di un fenomeno ) . Nel primo ca­ so, afferma Windelband, la realtà osservata diventa natura; nel secon­ do caso storia, la storia di ciò che un fenomeno ha di più proprio, vale a dire il suo valore o significato culturale. Si tratta di una affer­ mazione diretta a sottolineare come siano le scienze di tali fenomeni a mostrare una sostanziale diversità, connessa al differente atteggiamen­ to o interesse cognitivo che rispettivamente manifestano nei confronti della realtà. Dilthey è colpevole di essere incorso in una concretezza mal posta, ossia aver scambiato i nostri modi di descrivere il mondo con il mondo stesso. La dicotomia tra sapere generalizzante e sapere particolarizzante viene ripresa dall'altro esponente neokantiano, l' allievo di Windel­ band, Heinrich Rickert ( I 867- I 93 6 ) . Questi arricchisce la dicotomia mostrando come ogni atto di giudizio nei confronti della realtà ( stori­ ca o naturale ) implica un elemento valutante, una formazione di con39

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cetti (Begrijfsbildung ) conferente significato ad eventi e cose. Il crite­ rio discriminante fra saperi si ridefinisce sulla base dell'indirizzo di Begrijfsbzldung selezionato . La soluzione di Rickert al problema dei tipi di saperi rimane peraltro kantiana: la relazione di valori che indi­ rizza la conoscenza storica ha validità incondizionata in quanto espri­ me uno specifico giudizio trascendentale ( fondato a priori) . In questo senso Rickert subordina l' analisi metodologica del sapere storico-cul­ turale ad una teoria della conoscenza . Dopo Rickert la riflessione metodologica doveva affrontare un'ul­ teriore problematica: quella dei valori . E non è un caso che tale con­ troversia sui valori - nota anche come Werturtezlstreit (o Werturtezl­ sdiskussion ) - ebbe il suo momento topico nei primi anni del Nove­ cento, allorché una sessione plenaria dell'Associazione per le politiche sociali prussiana venne espressamente dedicata al tema. È in questa controversia che entra in scena la figura assai complessa e profonda di Max Weber ( r 864- 1 924 ) . Nel r 897 gli viene conferita la cattedra di economia politica all'Università di Heidelberg, la stessa dove Win­ delband e Rickert insegnavano filosofia . Oltre che dai suoi maestri neokantiani, Weber eredita la problematica dei valori da Friedrich Nietzsche. Nietzsche, come noto, assume un atteggiamento polemico non solo verso i valori costitutivi della società, della morale e delle religioni occidentali, ma anche verso i valori allora dominanti, di qui le sue difficoltà nell'istituire valori debitamente trasformati in senso pluralistico . È assai celebre la tesi weberiana sul cosiddetto politeismo dei valori: nel mondo moderno e disincantato l'unica scienza possibile è quella dei mezzi, non dei valori, tra i quali si registra un irreparabi­ le conflitto . Per questo l'uomo vive in un regime di politeismo dei valori . Ma la problematica dei valori ha un sapore non solo storico­ sociologico bensì metodologico, come vedremo fra breve. Non senza aggiungere che il contributo di Weber è assai vasto, che non può essere appiattito sul dibattito interno allo storicismo, e che tocca fra gli altri - i seguenti temi : la teoria della modernità e della razio­ nalizzazione del mondo attuale; la critica al determinismo economico caratteristico di molti esponenti del marxismo della Seconda Interna­ zionale; la ( conseguente) valorizzazione del più canonico degli ele­ menti sovrastrutturali, ossia gli atteggiamenti etico-religiosi ( se gli in­ teressi rappresentano la forza motrice della storia, riconosce Weber, sono tuttavia le idee ad indicare, come azionando uno scambio ferro­ viario, la direzione di marcia ) . La scelta di limitare la presentazione di Weber ai suoi scritti metodologici trova pertanto esclusiva giustifi­ cazione negli scopi di questo libro.

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1.2

Modello di riferimento: l a metodologia di Max Weber r . 2 . r. L'ambito delle scienze sociali

La prima manifestazione esplicita dell'interesse di Weber per i pro­ blemi epistemologici ha luogo in un articolato saggio dedicato a Ro­ scher, Knies ed ai problemi logici della scuola storica dell'economia. Da questo intervento fino ai primi paragrafi dell'ultima opera di We­ ber, Economia e società, il sociologo tedesco si impegna in una serie di indagini metodologiche che coprono circa cinquecento pagine ( una mole che non implica una organicità o una specifica inclinazione che in questo insieme di contributi manca) . Oggetto privilegiato ed interesse esclusivo dello scienziato sociale, dichiara esplicitamente Weber, sono i fenomeni culturali, ossia quella porzione delimitata del divenire del mondo alla quale l'uomo conferi­ sce un significato . «Noi siamo esseri culturali - scrive testualmente Weber ( 1 974, p . 96) - dotati della capacità e della volontà di assu­ mere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attri­ buirgli un senso» . Nella sua presunta autonomia dal nostro sforzo di attribuirgli un senso, l'universo umano è una realtà enigmatica e di­ sorganizzata, un continuum di eventi privi di significato . Occorre quindi procedere ad una selezione di ciò che nel contesto sociale ap­ pare storicamente rilevante, e tale scelta rimanda inevitabilmente a un criterio di valutazione, ad un punto di vista valutante. È questo atteggiamento conoscitivo riferito ai valori quali criteri orientativi e selettivi dell'indagine sociologica che viene da Weber denominato «relazione ai valori» ( da distinguere nettamente dai «giudizi di valo­ re» in quanto espressione di interessi di stampo ideologico e dogma­ tico) . Mentre dovremmo evitare, come scienziati sociali, di giudicare primitivo o "fascista" un comportamento, non possiamo fare a meno di definirlo rituale o politico . La «relazione ai valori» è dunque costi­ tutiva della realtà sociale : i fatti che spetta alla ricerca indagare non si impongono intrinsecamente ma sono stabiliti dalla scienza sociale. Poiché la relazione ai valori rappresenta il presupposto necessario alla costruzione di ciò che fa differenza, di ciò che rende salienti o unici i fenomeni sociali, ogni osservatore è osservatore giudicante . La circostanza stessa di ricevere una teoria selezionata dal pro­ prio ambiente culturale, di doverla elaborare in un certo modo, di ricercarne i fattori esplicativi, focalizzandosi su certi aspetti particola­ ri, mostra che l'operazione descrittiva non è mai neutra e fattuale ma

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riflette la rilevanza che una certa comunità disciplinare ascrive ad un determinato dominio; ed ogni rilevanza, o importanza riconosciuta, è - ovviamente - basata su una valorizzazione. A differenza di Rickert, per il quale il giudizio di valore costituisce, kantianamente, il fonda­ mento universale e necessario della validità della conoscenza storica, quella weberiana è una posizione non assoluta-trascendentale. Pro­ prio al contrario, l'assunto della storicità e contestualità della cogni­ zione sociale è parte integrante della metodologia weberiana: i valori che presiedono alla scelta del tema di ricerca sono essi stessi il risul­ tato di una scelta storica da parte dell'ambiente culturale nel quale la comunità scientifica opera. Insistiamo su questo punto. Nessuna atti­ vità di osservazione può essere neutra perché ogni osservatore è orientato dalla direzione dell'interesse cognitivo assunto allo scopo di delimitare il proprio campo di indagine. Ciò ha due implicazioni . La prima è relativa all'importanza culturale o rilevanza dei fenomeni, la seconda al ruolo valutante dell'osservatore. Weber sottolinea come non si possa parlare di un'azione sociale e prescindere dalla storia della rilevanza che quell'azione ha assunto per noi nel corso del tem­ po . Ne consegue che la comprensione delle azioni sociali è sempre intrecciata con la storia della loro ricezione, e indica una sorta di giustificazione del perché le abbiamo ritenute essenziali e degne di venire conosciute. In questo senso la conoscenza sociale non dipende dalla realtà sociale ma dagli interessi alla luce dei quali il ricercatore ha stabilito ciò che era rilevante e significativo ( cfr. Weber, 1 974, pp . 95 -6 ) . L'altro punto è che un'azione è azione economica, ponia­ mo, non in virtù di una qualche proprietà intrinseca all'azione, quan­ to piuttosto in virtù di una operazione cognitiva e giudicante di tipo selettivo: la delimitazione di una parte del campo di indagine Ovi, p . 73 ) . Con l e parole d i Weber (ivi, p . 84 ) : «Non c ' è nessuna analisi scientifica puramente "oggettiva" della vita culturale, indipendente­ mente da punti di vista specifici e "unilaterali", secondo cui essi espressamente o tacitamente [ . . . ] - sono scelti come oggetti di ricer­ ca, analizzati e organizzati nell'esposizione» . r . 2 . 2 . Il senso dell'azione A quale ambito di realtà rimanda la conoscenza sociologica? Essa ha in primo luogo a che fare con il significato attribuito, dall'attore o da un osservatore, all'azione: le unità di analisi della sociologia sono co­ stituite dalle azioni di individui e gruppi di individui . Nei termini di Weber, la conoscenza sociologica è conoscenza del «senso soggettiva­ mente inteso», dove soggettivo non vuole dire individuale e tanto

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meno arbitrario, ma vuole alludere al modo in cui determinate situa­ zioni vengono "significate" dagli attori sociali . Ogni condotta umana può essere considerata un progetto volto all'elaborazione, cultural­ mente motivata, di una connessione di senso; tale senso, ossia la dire­ zione che l'azione prende per effetto di intenzioni, motivi o regole, orienta il riprodursi futuro dell'agire. La stessa espressione « agire» è riservata da We ber ( I 9 7 4, p . 24 3 ) ai comportamenti che appaiono intelligibili in virtù dell'elemento che ne specifica il senso, sia questo l'intenzione dell'attore individuale, sia esso il più ampio contesto nel quale l'individuo è inserito . Studiare il comportamento fisiologico e ricavare delle leggi biologiche a fini esplicativi è forse possibile ( ad esempio appellandosi all'ereditarietà di determinati fattori ) . Tuttavia queste considerazioni risulterebbero irrilevanti per la determinazione dell'intelligibilità dell'azione - la quale reclama approcci interpretativi e rimane «sempre irraggiungibile da parte di qualsiasi "scienza natu­ rale"» (Weber, 1 96 1 , cfr. pp . 7, ! 2 ) . Si potrebbe ritenere che il "senso" dell'azione implichi un rinvio diretto alle relazioni sociali intersoggettive. Ma non è detto . Si pensi all'inserimento del segnalibro in un volume. In questo caso non stabi­ liamo alcuna relazione sociale, e tuttavia l'azione risulterà insignifican­ te a chi non sappia che quella striscina di cartone inserita fra due fogli ha il significato di segnare un certo punto del libro . Prendiamo un altro esempio citato da Weber in un suo saggio polemico su Ru­ dolf Stammler, l'esempio del baratto . Supponiamo, egli afferma, che degli attori appartenenti a due tribù si incontrino e barattino due oggetti . Una semplice descrizione della sequenza di eventi pubblica­ mente osservabili ( movimenti muscolari, emissioni sonore ecc. ) non esaurisce l'intera azione poiché manca il senso attribuito all'atto dagli attori in esso coinvolti - quel senso che solo conferisce ad esso il significato di baratto ( e non di gioco, o di sfida) . Se dunque preten­ dessimo di scorporare il senso dell'azione dall'azione stessa, ciò che rimarrebbe non sarebbe nemmeno più un'azione ( ancorché naturali­ sticamente descritta ) ma soltanto un evento naturale. Di un evento nei confronti del quale non si solleva la domanda: che cosa significa?, si potrebbe anche dire: è parte della natura. Eccetto che la natura stessa può avere un senso ( un albero ed un fiume possono risultare altrettanto significativi di una preghiera ) . La distinzione cruciale non è dunque nemmeno quella tra natura e cultura ma tra ciò che ha senso e può essere compreso e ciò che è privo di senso. Dato che la sociologia analizza il senso dell'agire, essa costringe il ricercatore ad utilizzare procedimenti interpretativi o di comprensio­ ne (ivi, p . 4 ) . Il principio di comprensione è reputato così importan43

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te da spingere Weber a definire la stessa scienza sociale una sociolo­ gia «comprendente» . Più in particolare, la metodologia weberiana prevede due momenti complementari: data un'azione, occorre sia comprenderla, sia stabilire quali condizioni garantiscono e soddisfano i requisiti di validità ( "oggettività" ) dell'azione compresa, applicando ad essa il criterio di causazione e dunque spiegando/a . Fra compren­ sione e spiegazione, come vedremo, vige un rapporto di rimando re­ ciproco . 1 . 2 . 3 . Comprensione e spiegazione

Partiamo dalla comprensione (o interpretazione: Weber usa i due termini in modo sostanzialmente intercambiabile) . La funzione di classificare una determinata azione, necessaria a chi interpreta per delimitare il campo di osservazione, interviene selezionando e scorpo­ rando ciò che è rilevante dal punto di vista del tipo di azione in questione dal mzlieu di comportamenti e circostanze occasionati ed ininfluenti . Comprendere un'azione equivale a determinarne l'orienta­ mento in relazione ad un certo termine di riferimento, significa perve­ nire alla determinazione del legame fra orientamento ed azione. We­ ber differenzia quindi nettamente la comprensione dall'empatia, re­ spingendo ogni implicazione metarazionale, psicologistico-immediati­ stica, del comprendere . La comprensione non dipende dall'intuizione ma dalla ricostruzione razionale del «contesto di senso» al quale l'a­ zione va riferita. In Economia e società Weber ( r 96 r , pp . 6-7 ) intro­ duce una importante distinzione tra comprensione attuale e com­ prensione esplicativa . La prima corrisponde alla comprensione imme­ diata che accompagna le nostre interazioni nella vita quotidiana: è la comprensione di una frase in un libro, dell'espressione di un volto o dell'azione del taglialegna che solleva l'ascia per colpire un pezzo di legno . Ma una teoria dell'azione non può affidarsi soltanto alla com­ prensione attuale che ha luogo nel corso dell'agire; deve anche spie­ gare l'agire inserendo l'azione nell'ambito di una direzione o orienta­ mento intenzionale. La comprensione esplicativa pone appunto una domanda ulteriore relativa al motivo dell' azione ( per motivo Weber intende una connessione di senso che risulta essere, per l'attore o per l'osservatore, il "perché" di un'azione ) . Per quale motivo quella per­ sona ha quell'espressione sul volto ? Perché il taglialegna compie la sua azione? Per ricompensa, per bisogno personale o per svago? Possiamo ritenere esaustive le procedure comprendenti ai fini dell'analisi delle azioni ? Secondo Weber ci sono almeno due difficoltà che inducono l'osservatore a controllare la comprensione dell'azione

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applicandovi le categorie e le tecniche della scienza razionai-analitica, ossia raccordando comprensione e spiegazione (ivi, p . 9 ) . I . Un'azione «eguale nel suo corso esterno e nel suo risultato può poggiare su costellazioni di motivi tra loro molto differenti, di cui la più evidente per la comprensione non sempre è [ . . .] quella realmen­ te in gioco» (Weber, I 9 74, p . 24 1 ) . 2 . N el caratterizzare azioni ed attori, gli osservatori incontrano spes­ so motivi antitetici ed in conflitto fra loro. Benché auspicabile, non è facile ricostruire la forza relativa dei vari motivi . Queste due difficoltà Oa sottodeterminazione delle evidenze em­ piriche rispetto ai motivi interni, e la pluralità dei possibili co-deter­ minanti dell'azione ) impegnano l'osservatore a controllare la com­ prensione dell'azione mediante la ricostruzione dei determinanti effet­ tivamente operanti. I cosiddetti "tipi ideali", come vedremo, soccor­ rono l'osservatore sotto questo profìlo, indicando quale dovrebbe esse­ re il determinante operante, dato il tipo di azione in esame. È ciò che il ricercatore sa del " senso" idealmente possibile dell'agire a con­ sentirgli di averne conoscenza empirica. Si tratta inoltre di controllare la plausibilità ricorrendo al criterio dell'adeguatezza causale della comprensione ( o, eventualmente, al criterio di prevedibilità, legato al­ l' osservazione delle conseguenze dell' azione) . Partiamo dal primo punto . r . 2 .4 . Gli orientamenti dell'agire In un suo saggio sulle categorie della sociologia comprendente ( origi­ nariamente apparso sulla rivista "Logos" nel I 9 I 3 ) Weber introduce il concetto di orientamento dell'agire per indicare una forma determi­ nata o tipica di agire, riconosciuta dallo scienziato sociale sulla base della sua esemplarità . Weber suddivide gli orientamenti in quattro tipi, di cui in questa sede due appaiono più rilevanti : l'orientamento razionale o finalizzato, e l'orientamento di valore o normativa. Il pri­ mo orientamento si basa sulla correlazione teleologica tra gli �copi a cui l'attore mira e l'azione ritenuta mezzo appropriato per conseguire tali scopi ( sulla base di certe conoscenze empiriche che l'attore ha sviluppato della connessione mezzi-azioni ) . La razionalità è assicurata dalla correttezza della connessione (date le credenze dell'attore) dei mezzi con i fìni, ossia dalla congruenza fra mezzi e fìni . L'agire razio­ nale non va confuso né con l'agire tecnico, che si riferisce al comples­ so di mezzi impiegati in vista di certi fìni e che come tale inerisce a qualunque azione ( una tecnica serve anche per pregare) , né con l'ot­ timizzazione economica dell'agire, relativa all'adeguatezza o efficienza 45

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dei mezzi rispetto ai fini, ossia alla massimizzazione del fine rispetto ai mezzi disponibili nelle circostanze date. Ciò che contraddistingue l'agire razionale rispetto allo scopo è il calcolo compiuto dall'attore per stabilire se un dato agire possa, in rapporto a determinati inte­ ressi, promuovere le conseguenze che egli attende ( cfr. Weber, 1 9 6 1 , p . I 7) . L'altro tipo di orientamento, quello normativa, si basa invece sul­ la conformità di una azione ad una norma o ad un valore ritenuti obbligatorio seguire. L'agire regolato da norme è quello dell'attore membro di un gruppo o una comunità nei confronti della quale adempie un'aspettativa generalizzata di comportamento comune . Si consideri la seguente circostanza: ogni domenica mattina i fedeli van­ no a messa, ed ogni lunedì mattina i bambini vanno a scuola. La vita sociale appare regolata, per certi versi anche prevedibile. È importan­ te, tuttavia, introdurre alcune distinzioni a questo proposito . Weber distingue anzitutto tra regolarità fattuali della natura (pensiamo alle regole fisiologiche della digestione) e regolazione sociale, la quale si manifesta in virtù del fatto che gli attori si comportano come se se­ guissero regole. Da un punto di vista logico e fenomenologico la di­ stinzione è irrilevante; in entrambi i casi abbiamo un risultato equiva­ lente : l'ordinamento o la regolazione di certi eventi . Tuttavia in un caso è operante una forma di causalità naturale, nell'altro degli atteg­ giamenti culturali che rivestono carattere imperativo . Nel caso della connessione naturale alla causa dovrà necessariamente seguire quell' ef­ fetto, mentre nel caso della connessione sociale ad una regola tutt'al più potrà seguire un certo comportamento. Questo statuto condizio­ nale e non assoluto delle regole, che differenzia queste ultime, al di là di ogni identità funzionale, dalle cause naturali, è legato al fatto che le regole sono apprese ( dopotutto noi impariamo a muoverei in so­ cietà e ad esprimerci in un linguaggio intersoggettivo ) e poi re-inter­ pretate nel corso dell' agire. Ogni ordine normativo è infatti anche cognitivo, osserva Weber, essendo vincolato al modo in cui gli attori lo traducono in massime del proprio comportamento. Si tratta di un processo che consiste nel "vedere" la norma da un punto di vista soggettivo come modello di azione (ivi, p . 29 ) . Date queste due ca­ ratteristiche della norma il fondamento della regolazione sociale non può essere garantito a priori ma deve essere considerato almeno par­ zialmente problematico, dipendendo dalla probabilità con cui gli at­ tori assumono e mantengono un certo orientamento dell' agire . Così come l'orientamento razionale è legato all'intenzione di realizzare cer­ ti scopi, l'orientamento normativo riceve la sua stabilità dal riconosci­ mento intersoggettivo della sua validità.

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r . 2. 5 . I tipi ideali Parlare di orientamenti dell' agire può condurre a credenze fuorvianti: essi non corrispondono a linee guida che dirigerebbero dall'alto il comportamento degli attori, quanto a strumenti del patrimonio cono­ scitivo e concettuale del ricercatore, strumenti per dare senso alle azioni osservate nel lavoro di ricerca. Come sottolinea Weber ( 1 986, p. 454 ) nel suo saggio su Stammler, la presenza empirica della regola nell'azione concreta «è ipotetica tanto per l'osservatore quanto anche - non bisogna dimenticarlo - per ciascuno degli attori nei confronti dell'altro» . Similmente, la razionalità dell'agire è una categoria inter­ pretativa che va nettamente differenziata dall'ipotesi sul predominio dell'elemento razionale nella vita sociale (Weber, 1 96 1 , p . 6 ) . Quan­ do Weber afferma, usando un termine filosoficamente impegnativo, che l'agire razionale corrisponde ad un orientamento più evzdente ri­ spetto a forme di agire determinate da motivi non razionali, tradizio­ nali o affettivi ( si pensi ad esempio all'esperienza mistica o estatica) , egli cerca di assegnare dignità teorica al fatto che, data l a nostra col­ locazione storica, e dunque data la nostra familiarità con un agire tipico del nostro tempo, ci è più agevole riconoscere l'agire come ra­ zionale piuttosto che ritualistico o magico . L'orientamento razionale corrisponde ad un modello di interpretazione più accessibile alla no­ stra comprensione di uomini situati ad un certo punto dello sviluppo della civiltà occidentale. Ma in linea di principio si potrebbe altret­ tanto utilmente pretendere l'opposto : che fosse l'agire irrazionale il punto di riferimento tipico-ideale della sociologia, e che rispetto ad esso si vagliasse il concreto agire empirico . La questione, in altre pa­ role, non riguarda il fatto che possiamo capire solo le azioni razionali ma che tendiamo, per effetto della nostra posizione storica di perso­ ne occidentali moderne, a comprendere le azioni attribuendo degli scopi agli attori. Le comprendiamo come se fossero razionali . In quanto tipizzazioni, ripetiamolo ancora, gli orientamenti dell'agire non hanno statuto empirico ma euristico : il loro scopo è fornire un modello di intelligibilità dell'agire sociale che faciliti il riconoscimento delle condizioni empiriche dell'agire concreto, ed in questo senso essi rappresentano gli "oggetti primari" della sociologia comprendente. In un suo saggio del 1 95 2 sui modelli tipologici nelle scienze na­ turali e sociali, l'epistemologo neopositivista Carl Gustav Hempel af­ fronta lo statuto metodologico del tipo ideale cercando di mostrare come esso non sia tanto un modello di classificazione o generalizza­ zione empirica ( per cui classifico x come istanza o occorrenza di y sulla base dell'operatore logico è-un ) quanto una teoria scientifica. 47

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Ora Weber ( 1 974, p. 1 2 1 ) effettivamente differenzia i concetti tipi­ co-ideali dai concetti generalizzanti : il "genere" è un concetto astratto che opera sussumendo eventi specifici quali suoi casi o istanze, oppu­ re aggregando eventi diversi sulla base di una proprietà comune . Ma Weber non ha in mente un modello di teoria scientifica dal carattere ipotetico: il tipo ideale - e veniamo ad una sua definizione - è piut­ tosto l'accentuazione concettuale di un certo punto di vista, ed ha l'obiettivo di armonizzare un complesso di azioni particolari in un quadro intelligibile, orientando l'osservatore nella costruzione delle ipotesi (i vi, p . I o8 ) . In questo senso Weber definisce i tipi ideali dei modelli relativamente «vuoti» di contenuto empirico . Sono costruzio­ ni deliberatamente « estranee alla realtà», nel senso che creano una distanza concettuale rispetto alla realtà empirica. Anzi, quanto più i tipi ideali si allontanano dalla realtà tanto meglio adempiono la loro funzione. Stabilendo controfattualmente come si sarebbe svolta una certa azione nel caso fosse stata operante, ad esempio, una razionalità rispetto allo scopo (non dimentichiamo che gli orientamenti dell'agire in quanto forme di agire tipizzate dall'osservatore sono tipi ideali ) , quel che il tipo ideale offre in compenso dell'allontanamento dalla realtà è la massimizzazione dell' adeguatezza sul piano del significato e quindi dell'intelligibilità. Il concetto di burocrazia è ad esempio co­ struito da Weber combinando fra loro un insieme di caratteristiche ( divisione del lavoro, struttura gerarchica, indipendenza della funzio­ ne dalla persona, obbedienza alle regole ) che non si trovano mai per­ fettamente realizzate in nessuna organizzazione burocratica concreta. Tuttavia, al pari di concetti quali quelli di Stato, società civile, classe, ceto, potere, i tipi ideali ci sono indispensabili per identificare analiti­ camente le molteplici dimensioni dell'agire . 1 . 2 . 6 . L'imputazione causale Parlavamo della necessità di applicare criteri scientifici allo scopo di controllare l'adeguatezza e corroborare empiricamente le ipotesi in­ terpretative dello scienziato sociale . Veniamo ora al primo criterio di controllo, il citato criterio di adeguatezza causale. Ogni azione inter­ pretata, precisa Weber, deve essere anche spiegata mediante l'impu­ tazione causale, ossia accreditando a dei motivi o all'azione stessa una causazione effettiva. La determinazione causale dell'azione è basata sull ' accertamento delle cause o dei motivi empiricamente operanti nell'azione, ossia sulla circostanza che l'attore ha reso la norma o l'in­ tenzione regola effettiva del proprio agire . Non basta accertare che un determinato fattore causale era presente: occorre avere ragioni per

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credere che fosse causalmente operante. Si parla di "imputazione" per sottolineare che si tratta sia di una operazione cognitiva dell' os­ servatore, sia di una operazione selettiva, che delimita un insieme fi­ nito di condizioni causali dell'azione, quelle adeguate ( perché rilevan­ ti per quel singolo caso ) 2 • Per quanto riguarda il secondo criterio di controllo, il criterio della prevedibilità, Weber parla di una sorta di prolungamento dei motivi dell'azione . Questo prolungamento viene ottenuto mediante la costruzione del corso d'azione che, dati certi motivi o intenzioni, probabilmente seguirà, allo scopo successivo di vedere cosa succede, di commisurare l'ipotesi con il comportamento empirico (Weber, r 96 r , p. r o ) . Nell'opporsi sia ai deterministi ( per i quali si configu­ rano fattori che determinano necessariamente l'agire) che ai sostenitori di un indeterminismo radicale, Weber illustra la sua teoria dell'impu­ tazione causale con la metafora del dado truccato : il comportamento umano è come quello di un dado cui si è spostato il baricentro : la casualità assoluta è annullata poiché viene introdotto un elemento di relativa prevedibilità dato dal complesso di condizioni che lo rendono posszbile. In sintesi, ogni · interpretazione deve essere valida o adeguata sia sul piano causale, e qui il criterio consiste nel riconoscimento di una connessione probabilistica fra azione e causa, che sul piano del signi­ ficato, e qui il criterio consiste invece in una coerenza riconosciuta dall'osservatore tra l'azione ed un orientamento tipico dell'agire. Se manca l'adeguatezza sul piano del significato, l'azione è soltanto l'e­ spressione di una inintelligibile frequenza statistica; se, d'altra parte, manca l'adeguatezza causale, l'azione risulta priva di una sua fisiono­ mia sistematica. A titolo di esempio conclusivo su quanto detto supponiamo che, presso una società tradizionale dove siamo impegnati in qualità di ricercatori, scopriamo con sorpresa che quando un nativo alza il braccio, qualunque altro nativo nel raggio di pochi metri alza, anch'e­ gli, il braccio. E supponiamo di interpretare alternativamente l'atto o come forma di saluto esistente fra i nativi o come rituale per raffor­ zare la coesione di un gruppo di piccole società distribuite su un 2. Non si tratta di individuare la formula sotto la quale può venire collocata l' azione da spiegare, poiché nessun insieme di leggi causali universali contribuisce a gettare luce sulle connessioni causali singolari: