Epicuro, Epistola a Pitocle: In Collaborazione Con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi 3985720223, 9783985720224

Dieses Buch enthalt einen neuen griechischen Text und einen ausfuhrlichen historisch-philosophischen Kommentar zum Brief

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Italian Pages 329 [331] Year 2022

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Epicuro, Epistola a Pitocle: In Collaborazione Con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi
 3985720223, 9783985720224

Table of contents :
Cover
Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del Progetto di Ricerca di Ateneo (anni 2019-2021) Il criterio di verità: Dalla filosofia antica all’epistemologia contemporanea finanziato da Sapienza Università di Roma e grazie al supporto scientifico ed economico del Progetto SPIN-SPIDER (Science and Philosophical Debates: A New Approach Towards Ancient Epicureanism) finanziato dall’Università Ca’ Foscari Venezia (anni 2019-2021).
L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle
La meteorologia epicurea
1. L’autenticità dell’Epistola a Pitocle
2. Il destinatario: Pitocle
3. La dottrina della causalità e il metodo delle molteplici spiegazioni causali in Epicuro
4. Il metodo delle molteplici spiegazioni causali nella tradizione epicurea
5. Aristotele, Teofrasto e il metodo epicureo delle molteplici spiegazioni causali
6. Teofrasto e la Meteorologia siriaco-araba
Nota critica
Sigla
Tavola sinottica
Testo e traduzione
Commentario: La realtà del possibile
L’indeterminatezza ontologica dei meteora
1. I meteora e le loro rappresentazioni
2. Il significato di aitia: spiegazione, causa, possibilità causale
3. Le molteplici aitiai dei meteora
4. Il pleonachos tropos nella tradizione epicurea
5. Conclusione
Bibliografia generale
Index Locorum
Indice dei nomi antichi
Indice dei nomi moderni

Citation preview

Diotima. Studies in Greek Philology

Francesco Verde (Ed.)

Epicuro, Epistola a Pitocle In collaborazione con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi

ACADEMIA

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Francesco Verde (Ed.)

Epicuro, Epistola a Pitocle In collaborazione con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi

Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli

Volume 7

Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)

Diotima. Studies in Greek Philology

|7

Francesco Verde (Ed.)

Epicuro, Epistola a Pitocle In collaborazione con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi

ACADEMIA

Coverpicture: Marble head of Epicurus (2nd century A.D.) / The Metropolitan Museum of Art (New York)

The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN

978-3-98572-022-4 (Print) 978-3-98572-023-1 (ePDF)

British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN

978-3-98572-022-4 (Print) 978-3-98572-023-1 (ePDF)

Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Francesco Verde (Ed.) Epicuro, Epistola a Pitocle In collaborazione con Mauro Tulli, Dino De Sanctis, Francesca G. Masi Verde, Francesco (Ed.) 329 pp. Includes bibliographic references and indexes. ISBN

978-3-98572-022-4 (Print) 978-3-98572-023-1 (ePDF)

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1st Edition 2022 © Academia Verlag within Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, Germany 2022. Overall responsibility for manufacturing (printing and production) lies with Nomos Verlagsgesellschaft mbH & Co. KG. This work is subject to copyright. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage or retrieval system, without prior permission in writing from the publishers. Under § 54 of the German Copyright Law where copies are made for other than private use a fee is payable to “Verwertungs­gesellschaft Wort”, Munich. No responsibility for loss caused to any individual or organization acting on or refraining from action as a result of the material in this publication can be accepted by Nomos or the editor. Visit our website academia-verlag.de

Alla memoria di Anna Maria Ioppolo

Ipsa enim altitudo attonat summa (Maecen. Prometh. fr. 10 Lunderstedt ap. Sen. Ep. II 19, 9)

Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del Progetto di Ricerca di Ateneo (anni 2019-2021) Il criterio di verità: Dalla filosofia antica all’episte­ mologia contemporanea finanziato da Sapienza Università di Roma e grazie al supporto scientifico ed economico del Progetto SPIN-SPIDER (Science and Philosophical Debates: A New Approach Towards Ancient Epicureanism) finanziato dall’Università Ca’ Foscari Venezia (anni 2019-2021). Sin da subito va detto con piena convinzione che questo libro è il concreto esito dell’ormai consueto rapporto di studio e di ricerca sull’Epi­ cureismo che, con mio indiscusso profitto, ho contratto con Francesca G. Masi, Dino De Sanctis e Mauro Tulli: li ringrazio di cuore per aver voluto prendere parte in maniera diretta a questa impresa. Più nello speci­ fico, sono grato a Francesca G. Masi per le (quasi) quotidiane discussioni storico-filosofiche e concettuali su temi epicurei e a Mauro Tulli per la sua perizia filologica e letteraria che ha contribuito a gettare nuova luce sulla struttura dell’Epistola a Pitocle. I loro saggi in apertura e in chiusura del volume sono un contributo di notevole rilievo sulla lettera epicurea. Un grazie sentitissimo va a Dino De Sanctis: senza la sua netta ed esperta competenza sul tormentato greco di questo testo e senza il tempo che ha voluto dedicarmi nell’esaminare nel dettaglio i suoi luoghi più difficili e controversi, sarebbe stato per me impossibile districarmi tra le molte asperità che Pitocle offre. Ho avuto modo di recuperare, studiare e consultare la maggior parte del materiale qui utilizzato ed esaminato in diversi soggiorni di ricerca te­ deschi a partire dal 2011, prima a Berlin (Excellence Cluster TOPOI/Hum­ boldt-Universität) e successivamente presso l’Institut für Klassische Phi­ lologie della Julius-Maximilians-Universität Würzburg come Humboldt-Sti­ pendiat sotto la responsabilità scientifica di Michael Erler: alle persone, alle istituzioni e alle biblioteche che hanno permesso e agevolato la mia attività di ricerca va la mia sincera riconoscenza. Vorrei, inoltre, ringraziare tutti coloro che, a vario titolo, hanno avuto la pazienza di leggere e/o discutere con me una prima stesura del saggio sulla meteorologia epicurea, del commentario o di alcune loro parti con mio sicuro giovamento: oltre ai nomi citati sopra, mi piace menzionare an­ che Carmela Baffioni, Alberto Camplani, Carlo Cellucci, Tiziano Dorandi, Enrico Piergiacomi ed Emidio Spinelli. Un grazie particolare è dovuto anche a Chiara Rover per il decisivo aiuto nella preparazione degli indici finali del volume. 7

Vorrei dedicare, inoltre, un pensiero profondamente grato alla mia famiglia, Antonietta, Alessandra e Filippo: questo lavoro, essendo stato scritto in gran parte a Roma durante i difficili, faticosi e oscuri mesi della cosiddetta prima ondata della emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, senza il loro prezioso sostegno semplicemente non esisterebbe. Il progetto di un nuovo e comprensivo studio filologico e storico-filo­ sofico di Pitocle germinò insieme a Dino De Sanctis e agli altri amici e colleghi delle Università di Roma (Sapienza) e di Pisa, in particolare Emidio Spinelli e Mauro Tulli, circa un decennio fa. Il primo appuntamen­ to scientifico per discutere le difficoltà più manifeste della lettera fu un seminario organizzato presso l’Università di Pisa alla presenza di Graziano Arrighetti: mi rammarico con sincerità che il Professore – che notevoli sforzi esegetici aveva consacrato proprio a tale lettera sin dalla sua Tesi di Laurea del 1951 – non abbia potuto vedere la pubblicazione di questo libro che, in ogni caso, trova nei suoi studi epicurei (sui quali cfr. ora Longo Auricchio 2020) una guida essenziale e decisiva. Va da sé che delle cose buone e di quelle meno buone o palesemente errate che il lettore scorgerà qui sono e rimango l’unico responsabile. Roma, novembre 2021 F.V.

8

Indice

L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle

11

Mauro Tulli La meteorologia epicurea

27

Francesco Verde Nota critica

109

Dino De Sanctis Tavola sinottica

125

Testo e traduzione

127

Dino De Sanctis Commentario: La realtà del possibile

145

Francesco Verde L’indeterminatezza ontologica dei meteora

259

Francesca G. Masi Bibliografia generale

277

Index Locorum

305

Indice dei nomi antichi

321

Indice dei nomi moderni

325

9

L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle Mauro Tulli

Al termine della II Lettera di Platone (313c-314c), un testo senza dub­ bio spurio, giunge indispensabile un puntuale impegno della memoria, ἐκμανθάνειν: se il volumen è da bruciare, perché pericoloso fra le mani di figure lontane dalla ricerca, il contenuto della lettera fiorirà nella me­ moria. È il problema che in modo esplicito emerge al termine del Fedro (274c-279b) e nell’excursus della VII Lettera di Platone (340b-345c): la forma utile di un discorso per trasmettere il sapere. Ma il sapere qui certo non è la trama da custodire nella memoria. Giunge invece con la dinamica della ricerca, inarrestabile, forse capace di cogliere, ma capace anche di superare un risultato, se non di negarlo, per un risultato che più convince: ne deriva l’esigenza di un discorso che offre l’immagine della ricerca, molto più che un veloce schema della meta, di un discorso che di per sé richiede un ruolo attivo, per demolire la dinamica della ricerca e rimontarla, per la conquista della meta, il sapere, dall’interno, con il suo cardine, la maieutica di Socra­ te, la συνουσία con il maestro. Non è che il dialogo la forma utile di un discorso per trasmettere il sapere. Al termine, il fruitore all’improvviso, ἐξαίφνης, vede il sapere. Ma la dinamica della ricerca, subito dopo, avanza: il dialogo non è da custodire nella memoria.1 Epicuro riconosce indispensabile il puntuale impegno della memoria, ἐκμανθάνειν, per un fertile rapporto degli allievi con il testo che pubbli­ ca e diffonde. La tradizione indica un concreto allenamento nel Kepos: ἐγύμναζε τοὺς γνωρίμους καὶ διὰ μνήμης ἔχειν τὰ ἑαυτοῦ συγγράμματα, Dio­ gene Laerzio (X 12) ricava da Diocle di Magnesia (18 Zaccaria), un concre­

1 Cfr. Gaiser 1984: 77-101. Al termine del Carmide (176a-d), la ricerca nasconde un incantesimo da ripetere con ostinazione. Ma per un incantesimo è indispensa­ bile la maieutica di Socrate, non ha senso un puntuale impegno della memoria. Per trasmettere il sapere Agatone suggerisce un contatto immediato, nel Simposio (175c-e), con il travaso dal colmo al vuoto. Ma il rifiuto di Socrate ha qui la forza dell’ironia: εὖ ἂν ἔχοι … εἰ τοιοῦτον εἴη ἡ σοφία.

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Mauro Tulli

to allenamento nel quale spesso la critica scopre la personale meditazione.2 Per il sapere lo scopo è l’εὐδαιμονία, la condizione dell’uomo che spegne la passione. Se la passione deriva dall’errore, da false δόξαι e φαντασίαι, è indispensabile fissare nella memoria il τύπος, l’impronta, di regole con valore fondamentale.3 Giunge l’ἐπιβολή, con il τύπος, un veloce processo che offre l’εὐδαιμονία. Non è che l’epitome la forma utile di un discorso per trasmettere il sapere. Al termine, il fruitore ha un panorama prezioso da custodire nella memoria, il τύπος, l’impronta, con la quale spegne la passione. L’epitome offre un testo che, per il codice condensato, rende possi­ bile un contatto fertile con il sapere. Ai neofiti, ai προβεβηκότες, ai τετελεσιουργημένοι, Epicuro con l’epitome, nelle pagine A Erodoto (35-37), indica il risultato della ricerca sulla natura.4 Da qui nasce un puntuale schema. Certo ai neofiti, al gruppo che non ha studiato l’articolazione delle opere sulla natura, l’epitome offre un sapere di carattere generale, da custodire nella memoria perché ne deriva un aiuto nelle vicende quotidia­ ne. Lo scopo è il γαληνισμός, la conquista della serenità, che giunge con il τύπος, l’impronta, di regole con valore fondamentale.5 Ma l’epitome anche ai προβεβηκότες è indispensabile, al gruppo che ha un sapere, il grande tesoro di dettagli, perché spesso, più che il grande tesoro di dettagli, gio­ va scorgere nell’insieme il movimento della natura. Un compito, questo, della memoria: con il τύπος, l’impronta, senza le ombre di false δόξαι e φαντασίαι, non è difficile scorgere nell’insieme il movimento della natura, per intuire il grande tesoro di dettagli.6 Ai τετελεσιουργημένοι, al gruppo che ha la totale familiarità con le dottrine, l’epitome rende governabile subito il risultato, nelle vicende quotidiane, per il codice condensato, che offre al puntuale impegno della memoria, per il τύπος, l’impronta, di regole con valore fondamentale. Dopo il rapporto lento con le opere sulla natura, un veloce riassunto per la memoria giova, perché allude al grande tesoro di dettagli.7 Al termine delle pagine A Erodoto (82-83), la prospettiva

2 Non sorprende il felice rapporto con la meditazione stoica: ne richiama le singole fasi Hadot 1975/1976: 29-68. Su Diocle di Magnesia, la fonte che ha un grande rilie­ vo nell’indagine di Nietzsche 1868/1869: 181-228, cfr. Gigante 1992: 4302-4307. 3 Indica la funzione che ha il termine Masi 2006: 158-217. 4 Cfr. Asmis 2001: 209-239. 5 Cfr. Damiani 2021: 75-135. Osserva il delicato rapporto, anche nell’Etica Nicoma­ chea di Aristotele (VII 1-X 9, 1145a-1181b), fra la serenità dell’uomo, l’εὐδαιμονία, e il piacere, l’ἡδονή, Mensching 2012: 71-81. 6 Cfr. Bobzien 2006: 206-229. 7 Cfr. Clay 1973: 252-280.

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L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle

è simile: ai neofiti, ai προβεβηκότες, ai τετελεσιουργημένοι, giunge, con il codice condensato, un sapere da recepire senza oscillazione, che indica il movimento della natura, che lo scandisce in regole con valore fondamenta­ le. L’epitome rende possibile un accesso al sapere con la frequenza utile nelle vicende quotidiane.8 Certo, la frequenza utile: πυκνόν, συνεχές. Ma è decisiva la funzione che ha qui ὀξέως, un contatto veloce, ἅμα νοήματι, con il tempo indispensabile per intuire le cause di quanto appare.9 La critica per lo più riconosce il fertile rapporto con le pagine A Pitocle (84-85). Il puntuale impegno della memoria, οὐκ ἀπιθάνως ἐπειρῶ, sulla ricerca per l’εὐδαιμονία, che al culmine ha il trattato Sulla natura, è steri­ le.10 Da qui, sui μετέωρα, il testo della lettera, con il codice condensato, da qui l’epitome, che suggerisce il sapere. Non giova, per la memoria, tornare sulle opere di grande mole, καίτοι συνεχῶς αὐτὰ βαστάζεις, perché, l’andamento è anulare, con le opere di grande mole, certo il trattato Sulla natura, il trattato da postulare per la sequenza ἐν ἄλλοις ἡμῖν γεγραμμένα, emerge la dinamica della ricerca per l’εὐδαιμονία, certo non relegabile nello steccato della memoria, pur sempre limitato.11 È indispensabile, sui μετέωρα, un veloce riassunto, ai neofiti e al gruppo che soffre nelle vicende quotidiane. Per le pagine A Pitocle, subito dopo, emerge lo scopo, un testo da custodire nella memoria con l’Epitome Piccola, μικρά: un titolo che senza dubbio è conciliabile con le pagine A Erodoto, un titolo che le richiama, per il risultato della ricerca sulla natura.12 Giunge la forma imperativa: καλῶς αὐτὰ διάλαβε, per un pronto esercizio con la memoria, ὀξέως αὐτὰ περιόδευε. Al termine, la funzione della memoria non svanisce, nell’apostrofe (116). La forma imperativa è anche qui: ταῦτα δὲ πάντα μνημόνευσον. E ἀπόδος ne offre conferma, dopo ἐκβήσῃ o δυνήσῃ, dopo il futuro, simile per la forza che ha.13 Il compito di custodire nella memoria non è un gioco, un impegno meccanico. Epicuro, al termine delle pagine

8 Cfr. Verde 2010: 229-230. Per Erler 1997: 79-92, con il De rerum natura di Lucrezio la meditazione personale ha il carattere della πεῖρα, che il testo favorisce, con la prospettiva di un concreto allenamento. 9 Indica il contatto veloce, ἅμα νοήματι, per il trattato Sulla natura, fra εἴδωλα e accumulazione atomica per confluenza verso il vuoto, Leone 2012: 557-559. 10 Cfr. Morel 2009: 62-70. 11 Epicuro con le pagine A Pitocle richiama pur sempre un dibattito: il testo nascon­ de la riflessione per l’εὐδαιμονία e ne ribadisce il carattere. Cfr. De Sanctis 2012: 95-109. 12 Cfr. Angeli 1988: 37-61. 13 Non è difficile scorgere un fertile rapporto con la produzione di Parmenide o già di Esiodo: ha spesso la forma imperativa l’esortazione al cammino dell’ἀλήθεια. Cfr. Rumpf 2003: 111-130.

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Mauro Tulli

A Meneceo (135), l’epitome sull’etica, richiede la personale meditazione, la difficile μελέτη di giorno e notte, per la conquista della serenità, la condizione dell’uomo che spegne la passione.14 Certo, è catechistica, se non apodittica la forma utile di un discorso per trasmettere il sapere. Per lo più Epicuro suggerisce la riflessione su regole con valore fondamentale, un sistema da recepire senza oscillazione, ma capace di porgere un aiuto, per la conquista della serenità. L’immagine per la trama di regole con valore fondamentale indica di per sé che il dibattito è da respingere. Il τύπος, l’impronta: la mente dell’uomo apre un campo al τύπος, l’impronta, di regole con valore fondamentale da custodire nella memoria, la protezione utile dalle vicende quotidiane, al riparo da ogni confutazione. Ai neofiti, ai προβεβηκότες, ai τετελεσιουργημένοι, Epicuro indica, per la conquista della serenità, un contatto veloce con il sapere che, per il codice condensato, l’epitome rende possibile.15 Nei 37 libri Sulla natura trionfava l’immagine del Kepos, la dinamica della ricerca per l’εὐδαιμονία, per la serenità. Ma fra le opere che offre il corpus emerge spesso l’epitome, il codice condensato, per lo più con la for­ ma plausibile della lettera: la tradizione lo vuole adottato per trasmettere il sapere al fruitore che non ha un puntuale rapporto con la ricerca del Kepos. L’elenco delle opere che offre Diogene Laerzio (X 26-28) suggerisce un ampio panorama per il contenuto. Al di là delle pagine A Erodoto, l’epitome, per la dichiarazione stessa delle pagine A Pitocle, sulla natura, e al di là delle pagine A Pitocle, sui μετέωρα, o delle pagine A Meneceo, sull’etica, è palese la funzione che ha l’Epitome dei libri contro i fisici. Dioge­ ne Laerzio (X 39-41 e 72-73) richiama, per le pagine A Erodoto, l’Epitome Grande, μεγάλη, l’epitome nella quale per lo più la critica vede la fonte per il De rerum natura di Lucrezio, per non citare l’Epitome Piccola, μικρά, che Diogene Laerzio (X 135), al termine delle pagine A Meneceo, scopre per il rifiuto della mantica.16 L’esigenza di regole con valore fondamentale pervade la trama delle 40 Massime, il culmine che Diogene Laerzio (X 139-154) riconosce per la conquista della serenità. Certo la tradizione ruota

14 Cfr. Hadot 1969: 348-349. Ha per scopo il sapere la meditazione personale, un sa­ pere che Diogene Laerzio (X 117) indica inalterabile. Cfr. O’Keefe 2010: 107-173. Nello Gnomologio Vaticano (33), per l’uomo che non ha fame, non ha sete, non ha freddo giunge la beatitudine di Zeus. Cfr. Schmid 1951: 97-156. È la prospettiva che in epoca imperiale ha Porfirio nell’A Marcella (30-34): la condizione dell’uo­ mo che spegne la passione richiama la condizione degli dei. 15 Cfr. Arrighetti 2013: 315-337. 16 Cfr. Erler 1994: 88-89. Per l’Epitome dei libri contro i fisici è possibile pensare al XIV e al XV dei 37 libri Sulla natura. Cfr. Sedley 1984: 381-387.

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L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle

sulle 40 Massime per compressione, con la Tetrapharmakos, o per espansio­ ne, con lo Gnomologio Vaticano. La trama delle 40 Massime offre nel Kepos l’articolazione per l’epitome, per un sapere da custodire nella memoria, sulle vicende quotidiane.17 Se il dialogo di Platone, per trasmettere il sapere, offre l’immagine della ricerca, Epicuro, per trasmettere il sapere, riconosce indispensabile un testo con il codice condensato, l’epitome, per il puntuale impegno della memoria. Non più la maieutica di Socrate: nel Kepos la prospettiva è catechistica, se non apodittica. La scelta forse ha più di un motivo. Per la conquista della serenità, il fallimento delle scuole nel IV secolo spinge di per sé al rifiuto della ricerca, la base comune per le scuole nel IV secolo: dalla ricerca non deriva che sgradevole inquietudine, un ostacolo per la conquista della serenità, per il maestro che vuole assicurare il γαληνισμός. Con il tramonto della città, lo spazio per trasmettere il sapere cresce senza misura e per lo più rende utile un veloce riassunto di regole con valore fondamentale, per un aiuto nelle vicende quotidiane degli allievi che il maestro non guida con la voce. Il clima di polemica serrata fra le scuole nel IV secolo, se nutre la riflessione sulla natura o sull’etica, irrigidisce il rapporto prezioso degli allievi con il maestro: il puntuale impegno della memoria nasconde anche l’esigenza di fedeltà, che certo è indispensabile per non perdere. Dunque l’epitome, che garantisce la conquista della serenità. Ma lo stile che ne deriva? Per la trama di regole con valore fondamentale, non è diffi­ cile scorgere il codice condensato, pur con variazione forse non minima, se registrata con il testo che offre Diogene Laerzio, 49 paragrafi per le pagine A Erodoto (35-83), 32 paragrafi per le pagine A Pitocle (84-116), 14 paragrafi per le pagine A Meneceo (122-135), con variazione certo non minima per l’Epitome Grande, μεγάλη, se il titolo ha un rapporto plausibile con il titolo per l’Epitome Piccola, μικρά. Epicuro nelle pagine A Pitocle (84-85) indica subito il trattato Sulla natura e qui emerge un paragone concreto: l’epitome richiama con 32 paragrafi un contenuto che occupava forse il XII e il XIII dei 37 libri Sulla natura. La critica spesso ha considerato Epicuro per lo stile che offre.18 Un problema certo emerge, il rapporto inevitabile con la professione che per il trattato Sulla retorica in modo esplicito riconosce Diogene Laerzio (X 13-14). La virtù per eccellenza è la σαφήνεια, in adesione al trattato di

17 Cfr. Arrighetti 1996: 723. Non è difficile scorgere un attrito con la forma per lo più sconnessa dei 37 libri Sulla natura. Cfr. Gagliarde 2011: 69-90. 18 Cfr. Arrighetti 2010: 17-22.

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Mauro Tulli

Aristotele, forse contro la segmentazione che vuole Teofrasto.19 Apre il passo un cenno al gusto comune per la lingua, λέξει κυρίᾳ. Da qui nasce la σαφήνεια, un rifiuto forse delle metafore, per lo stile κατὰ τῶν πραγμάτων, con l’esigenza di rispecchiare il ritmo concreto delle cose.20 Ma nelle pagi­ ne A Erodoto, nelle pagine A Pitocle, nelle pagine A Meneceo, non è difficile scorgere la forza delle metafore. Subito dopo, Diogene Laerzio inserisce un giudizio di Aristofane di Bisanzio (404 Slater) e il giudizio, di grande vigore, nasconde un contatto puntuale, oggi fra le tenebre, con il trattato Sulla natura e con il corpus. Lo stile, pur con il gusto comune per la lingua, è molto particolare, ἰδιωτάτη, forse troppo. 21 Ne deriva un dibattito, con sconcerto e accettazione, spesso inevitabile. Se questo è lo stile, perché la σαφήνεια? Nelle pagine A Erodoto, nelle pagine A Pitocle, nelle pagine A Meneceo, un tormento per la tradizione che offre Diogene Laerzio, la critica vede certo le più aspre della prosa greca e da sempre ha la tentazione di emendare, per un testo con la σαφήνεια che indica il trattato Sulla retorica, senza ellissi e anacoluto, con il plausibile ordine delle parole.22 Ma la funzione della memoria, con il τύπος, l’impronta? Senza dubbio è da postulare per l’epitome lo stile che più favorisce il puntuale impegno della memoria, se nella memoria è per l’epitome la ragione ultima. La critica ne offre conferma. Nelle pagine A Erodoto, l’epitome, per la dichiarazione stessa delle pagine A Pitocle, sulla natura, emerge un felice impianto per la memoria, un puntuale paradigma per la prosa didattica.23 Senza dubbio è possibile analizzare il testo delle pagine A Pitocle per il delicato rapporto fra la funzione della memoria per la conquista della sere­ nità e lo stile, che giunge per lo più in adesione al contenuto, il risultato della ricerca sui μετέωρα. Lo stile ha, in epoca ellenistica, la forza di porge­ re un aiuto al puntuale impegno della memoria? Nella prosa didattica delle pagine A Erodoto, delle pagine A Pitocle, delle pagine A Meneceo, la critica certo non trova il nobile ritmo, con le pause, con la grande armonia di Omero e di Esiodo.24

19 Cfr. Capasso 1988: 83-132. La segmentazione trova conferma nella retorica di epoca imperiale. Cfr. Vanderspoel 2007: 124-138. 20 Cfr. Knape 1994: 1022-1083. 21 Un attrito che nutre il sublime di Lucrezio, per l’ispirazione poetica, il De rerum natura (I 921-950), con lo scopo di lucida carmina. Cfr. Milanese 1989: 107-150. 22 Cfr. Lapini 2015: 3-117. 23 Cfr. Delattre 2004: 149-169. 24 Cfr. Erbì 2020: 35-44. Riconosce nella produzione di Empedocle un aiuto al con­ creto impegno della memoria De Sanctis 2007: 11-30. La funzione della memoria

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L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle

L’origine di un fulmine o di un lampo, di un sole che sorge o di un tramonto, di un alone o di un vento, da postulare, spesso in polemica serrata con le scuole di epoca ellenistica. Ma, nelle pagine A Pitocle, non è difficile scorgere un gusto accentuato per le massime. Lo scopo che ha il risultato della ricerca sui μετέωρα non è che la conquista della serenità, con la forza della persuasione (85-87): πρῶτον μὲν οὖν μὴ ἄλλο τι τέλος νομίζειν εἶναι ἤπερ ἀταραξίαν καὶ πίστιν βέβαιον. Qui emerge il rigore delle 40 Massime che offre Diogene Laerzio (X 139-154), il rigore che garantisce la conquista della serenità proprio perché governabile con la memoria. La critica per lo più ha discusso l’infinito νομίζειν. Ma l’integrazione di un δεῖ non è indispensabile.25 Subito dopo, Epicuro suggerisce il canone della ricerca e qui la funzione per l’infinito παραβιάζεσθαι o per l’infinito ἔχειν è imperativa: non varcare il δυνατόν, per la ricerca non credere sempre identica la θεωρία. Lo stile plasma un testo per la memoria.26 Nutre un testo per la memoria, nelle pagine A Pitocle, il rifiuto dell’o­ pinione sciocca, dalla quale deriva sgradevole inquietudine: οὐ γὰρ ἤδη ἀλογίας καὶ κενῆς δόξης ὁ βίος ἡμῶν ἔχει χρείαν, ἀλλὰ τοῦ ἀθορύβως ζῆν. Dopo il vortice della ricerca sui μετέωρα, che occupava forse il XII e il XIII dei 37 libri Sulla natura, non è difficile scorgere nelle pagine A Pitocle un veloce riassunto per la memoria. Epicuro, con il codice condensato, con la prosa didattica, suggerisce lo schema utile per alleviare il tormento di epoca ellenistica, fra la speranza negli dei e il timore della natura.27 Il risul­ tato della ricerca, da custodire nella memoria per le vicende quotidiane, offre spesso un aiuto (96-97). Per un sole oscurato, per la luna che fra le tenebre svanisce, ad esempio: τάξις περιόδου, καθάπερ ἔνια καὶ παρ’ ἡμῖν τῶν τυχόντων γίνεται, λαμβανέσθω. Subito dopo, emerge, per il puntuale impegno della memoria, il cardine delle dottrine per la beatitudine degli dei. Non deriva dagli dei l’articolazione di giorno e notte che pervade il cielo. Per l’epitome: καὶ ἡ θεία φύσις πρὸς ταῦτα μηδαμῇ προσαγέσθω, ἀλλ’ ἀλειτούργητος διατηρείσθω καὶ ἐν τῇ πάσῃ μακαριότητι, con il codice condensato.28 Se un movimento, per il rumore, per il bagliore, accende sgradevole inquietudine? Il canone della ricerca nelle pagine A Pitocle

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è forse decisiva per la produzione di Parmenide, per la scelta dell’epica. Cfr. Robbiano 2006: 35-60. Cfr. Arrighetti 1955: 67-86. Forse contro Eudosso e contro la prospettiva di Cizico, se non contro il Peripato. Cfr. Taub 2009: 105-124. Cfr. Leone 2000: 21-33. Il passo, per il contenuto e per il codice condensato, richiama l’incipit delle 40 Massime che offre Diogene Laerzio (X 139-154). Cfr. Konstan 2011: 53-71.

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spesso trova conferma: l’origine da non credere sempre identica.29 Dopo la sezione sul fulmine, ad esempio (103-104). La rotazione di un vento, fessure di nuvole, πῦρ che in alto esplode, soffocato da nuvole: κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους πλείονας ἐνδέχεται κεραυνοὺς ἀποτελεῖσθαι. Con variazione sot­ tile, la sequenza scandisce il testo delle pagine A Pitocle, avvolge il fruitore. Nella memoria giunge la forma imperativa che al termine qui splende con il gusto accentuato per le massime. La tradizione, il racconto che di quanto appare non ha la prova è da respingere, ὁ μῦθος ἀπέστω, non senza il rigore, lo stile che più favorisce il puntuale impegno della memoria.30 Ma per la prosa didattica è inevitabile pensare, più che al fugace ascolto, al silenzioso impegno dell’occhio. Il testo delle pagine A Pitocle deriva da un panorama culturale dominato dalle colonne di un volumen: è decisiva l’articolazione delle colonne per trasmettere il sapere in epoca ellenistica.31 Epicuro con le pagine A Pitocle offre un concreto impianto per il silenzioso impegno dell’occhio. Lo scopo di porgere un aiuto nelle vicende quotidia­ ne pervade il testo e il fruitore, per il veloce rapporto con le dottrine sui μετέωρα, trova qui un argine indispensabile, se con la dinamica dei μετέωρα giunge il timore. Stupisce la forza che ha il κόσμος (88-90). Ne deriva l’immagine, περιοχή τις οὐρανοῦ, con il codice condensato, di grande impatto.32 Epicuro indica, subito dopo, accumulazione atomica per confluenza verso il vuoto, dure­ vole per la cornice invalicabile. Ma un segno concreto apre la sezione, il κόσμος. È possibile pensare al gesto di creazione per il sole o per la luna? Il rifiuto giunge in modo esplicito e la sezione ha l’incipit con ἥλιός τε καὶ σελήνη. Materiale sottile, accumulazione atomica, πῦρ o la rotazione di un vento. Un problema è la dimensione che ha il sole. Per un palese rapporto con le schiere degli ἄστρα? La tradizione, forse il testo delle pagine A Pitocle dal quale Diogene Laerzio dipende, qui richiama il trattato Sulla natura, con le parole che la critica osserva spesso. Il risultato per lo più non convince.33 Ma l’incipit non ha sfumature, τὸ δὲ μέγεθος (91-93). Un sole

29 Cfr. Masi infra: 259-275. 30 Non è difficile scorgere qui la religio che indica il De rerum natura di Lucrezio (I 62-101). Cfr. Sedley 1998: 179-185. 31 Cfr. Rossi 1971: 69-94. 32 Perché nasconde un acuto spirito di ammirazione per la natura delle cose. Cfr. Bollack-Laks 1978: 130-136. 33 Cfr. Bignone 1920: 122-123. Un enigma, εἰ γάρ, φησί, τὸ μέγεθος διὰ τὸ διάστημα ἀποβεβλήκει, πολλῷ μᾶλλον ἂν τὴν χρόαν· ἄλλο γὰρ τούτῳ συμμετρότερον διάστημα οὐθέν ἐστι, per il quale certo è difficile scorgere la soluzione. Cfr. Verde infra: 171-172.

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che sorge, un tramonto, per la luna, per le schiere degli ἄστρα. La funzione che ha l’infinito δύνασθαι, un cardine per la sequenza, è imperativa.34 Epicuro vuole ἄναψις e σβέσις, manifestazione, occultamento, e l’incipit ἀνατολὰς καὶ δύσεις qui sorprende. Perché non la forma nominativa? Lo stile indica forse l’esigenza di organizzare il testo per un contatto veloce. Il fruitore delle pagine A Pitocle trova subito la sezione che offre un argine indispensabile, un aiuto per scrutare ἀνατολὰς καὶ δύσεις. Per il sole o per la luna, per le schiere degli ἄστρα, il movimento: κινήσεις apre la sezione. Con ἐνδέχεται γίνεσθαι, è τροπάς l’incipit per l’inclinazione. Perché non la forma nominativa? Lo scopo di porgere un aiuto nelle vicende quotidiane richiede un rovesciamento per il plausibile ordine delle parole. Scende la luna o cresce, ha un πρόσωπον misterioso: non è certo elementare il risultato della ricerca.35 Ma il fruitore delle pagine A Pitocle ne osserva l’articolazione (94-96). Se κένωσις apre la sezione per la rotazione, che suggerisce il canone della ricerca, l’origine da non credere sempre identica, ἔμφασις apre la sezione per la παραλλαγή o per l’ἐπιπροσθέτησις. Il puntua­ le ritmo della rubrica, nelle pagine A Pitocle, marca il testo, per un contatto veloce con le dottrine sui μετέωρα. La lunghezza di giorno e notte, μήκη: il fruitore delle pagine A Pitocle trova subito il risultato della ricerca, la lunghezza è mutevole, perché il movimento che ha il sole non è sempre uguale o perché il sole non avanza sempre sulla stessa linea. Con ἐπισημασίαι giunge la sezione che ha suscitato un dibattito per il delicato rapporto con la sezione, al temine, prima dell’apostrofe (115-116). Non ha senso qui analizzare il problema.36 Certo Epicuro, al termine, prima dell’apostrofe, apre la sezione con ἐπισημασίαι. Non è la prova di un testo che la tradizione ha turbato: l’incipit suggerisce che il contenuto è simile. Qui, dopo la sezione su giorno e notte, non sorprende la forza che ha l’articolazione. Non più il sole o la luna, non più le schiere de­ gli ἄστρα: Epicuro avanza in direzione atmosferica. Ma, per le nuvole o per il tuono, il puntuale ritmo della rubrica non svanisce. Con ἐνδέχεται γίνεσθαι, è βροντάς l’incipit per il tuono (99-100). E la sezione per il tuono ha un palese rapporto con la sezione per lo spaventoso lampo, che apre ἀστραπαί, dopo il καί. Spesso la critica scopre qui un impianto redazionale per il testo: Absatz prima di κεραυνούς, la sezione per il fulmine, prima di πρηστῆρας e prima di σεισμούς, con ἐνδέχεται γίνεσθαι, per l’esigenza 34 Da recepire più che da emendare. Cfr. Von der Mühll 1922: 31. 35 Richiama forse la sezione Plutarco nel De facie (920C-F). Cfr. Ziegler 1951: 256-261. 36 La funzione che ha il problema è decisiva nell’indagine sulle pagine A Pitocle di Usener 1887: 23-25.

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di organizzare il testo per un contatto veloce, con il rovesciamento per il plausibile ordine delle parole (103-106). Brevissima la sezione per il vento. Epicuro dai μετέωρα scende sulla terra, per il timore che sulla terra nasce dai μετέωρα e qui emerge il puntuale rapporto con l’esperienza delle vicende quotidiane. Certo non è indispensabile ricordare il canone della ricerca, l’origine da non credere sempre identica. Per il silenzioso impegno dell’occhio, avanza per schede la trama della grandine, χάλαζα, della neve, χιόνα, con ἐνδέχεται συντελεῖσται, della rugiada, δρόσος. Dopo il καί, è πάχνη l’incipit per la brina e κρύσταλλος apre la sezione per il ghiaccio.37 Il timore ha un campo nell’arcobaleno, accumulazione atomica di grande impatto per il colore, per la forma circolare. Ma non ha senso. Il fruitore delle pagine A Pitocle trova subito il risultato della ricerca: è ἶρις l’incipit. In alto, da qui, con l’alone che stringe la luna e con le comete, πῦρ che splende o κίνησις τοῦ οὐρανοῦ o irruzione degli ἄστρα con il tempo giusto. L’incipit indica il problema, con la sezione per l’alone che stringe la luna o con la sezione per le comete.38 Un gruppo degli ἄστρα non ha il movimento, se non la rotazione, un gruppo invece rende possibile scorgere un movimento, con la forma circolare, un gruppo degli ἄστρα stupisce per il ritmo lento con il quale avanza. Subito dopo, trova conferma il canone della ricerca, l’origine da non credere sempre identica.39 Un progetto degli dei, un impegno gravoso, non è conciliabile con la beatitudine degli dei (110-114). Ma l’incipit? Epicuro divide: un gruppo degli ἄστρα, un gruppo, un gruppo degli ἄστρα: qui un τινα è l’incipit, sempre. Certo, è molto particolare l’ἔκπτωσις di alcune stelle. Ma lo stile delle pagine A Pitocle non è smentito: l’incipit indica il problema. Prima dell’apostrofe, giunge la sezione con ἐπισημασίαι (115-116). Epicuro, al termine, suggerisce il concreto impegno della ricerca.40 Lo stile plasma un impianto redazionale. Stampato in moderne collane, il testo delle pagine A Pitocle ne offre conferma: per lo più Absatz e un segno concreto apre la sezione, per il κόσμος o per la grandine, per il sole o per il ghiaccio.41 Ma il testo di epoca ellenistica? Certo, è difficile

37 Non ha il καί, per il palese rapporto fra la rugiada e la brina, l’integrazione di Boer 1954: 9. 38 Cfr. Bailey 1926: 317-325. 39 Un contributo, qui, per il dibattito fra le scuole di epoca ellenistica. Cfr. Sedley 1976: 23-54. 40 Cfr. De Sanctis 2011: 217-230. 41 È un impianto redazionale che ribadisce Dorandi 2013a: 782-800. Il fruitore di moderne collane spesso ne deriva un contatto veloce.

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scorgere in epoca ellenistica un impianto redazionale.42 Sulle colonne di un volumen il commento ha spesso un rigo in ἔκθεσις o in εἴσθεσις che divide il testo, lemma dopo lemma. Nel III secolo, se il Papiro di Lille 82, con Callimaco, Aitia, offre un rigo in ἔκθεσις, il Papiro di Ossirinco 1235, con Menandro, Imbri, rende possibile scorgere un rigo in εἴσθεσις. Ha la παράγραφος, nel IV secolo, il Papiro di Derveni.43 E il Papiro di Berlino 9875, con Timoteo, inserisce, nel IV secolo, per la forma lirica, sia la coronide sia la παράγραφος. Per lo più in epoca ellenistica la παράγραφος divide il contributo delle singole maschere per il dramma. Nel III secolo, non è difficile scorgere la παράγραφος per il dialogo di Platone, ad esempio il Fedone che offre il Papiro Flinders Petrie 5-8. Certo l’abitudine di tracciare sul margine delle colonne di Platone la διπλῆ per le dottrine, il ceraunio per il metodo, l’asterisco per la coerenza fra le dottrine giunge in età imperiale: sul margine delle colonne con il Fedro, il Papiro di Ossirinco 2102 inserisce la διπλῆ per le dottrine.44 Qui emerge l’esigenza di un contatto veloce con il testo, per la trama delle dottrine, molto più che per la dinamica della ricerca. Indica l’abitudine il Papiro della Società Italiana 1488, che offre un puntuale ordine di σημεῖα, per δόγματα e ἀρέσκοντα, per l’ἀγωγή, per la συμφωνία, in età imperiale. Forse il puntuale ordine di σημεῖα che richiama Diogene Laerzio (III 65-66) per le colonne di Platone fiorisce dopo la stagione di Alessandria, dopo Zenodoto e dopo Aristarco.45 Ma un puntuale ordine di σημεῖα emerge forse con il concreto impegno di Antigono di Caristo in epoca ellenistica. Subito dopo, Diogene Laerzio allude al concreto impegno di Antigono di Caristo per la tradizione sul μισθός dovuto per un accesso ai βιβλία di Platone, forse al corpus che nasce in epoca ellenistica per il grande impulso di Arcesilao.46 Per le pagine A Pitocle, non è da escludere un

42 Materiale adeguato non manca per l’Egitto di epoca imperiale. Cfr. Savignago 2008: 9-16. 43 Fra la Teogonia orfica e il commento. Cfr. Kouremenos-Parássoglou-Tsantsano­ glou 2006: 7-8. 44 La tradizione offre la prova di più di un errore per slittamento, ad esempio il Papiro di Ossirinco 1248 marca un passo che non è conciliabile con le dottrine sul margine delle colonne per il Politico. Cfr. Haslam 1980: 38-39. 45 Il Papiro della Società Italiana 1488 è del II secolo e ha un testo dal quale Diogene Laerzio dipende. Cfr. Carlini 1999: 613-615. È simile per lo più il testo che ha l’Anecdotum Cavense per le colonne di Platone. Cfr. Dörrie 1990: 347-356. 46 Cfr. Gigante 1998: 111-114. Diogene Laerzio, fra il puntuale ordine di σημεῖα e la tradizione sul μισθός dovuto per un accesso ai βιβλία di Platone, inserisce un ἅπερ, che forse non ha un rapporto diretto con il puntuale ordine di σημεῖα. Solmsen 1981 richiama il contributo di Aristofane di Bisanzio: anche per il

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impianto redazionale, che di per sé lo stile suggerisce: un rigo in ἔκθεσις o in εἴσθεσις per il κόσμος o per la grandine, la παράγραφος per il sole o per il ghiaccio. Il puntuale ordine di σημεῖα rende possibile dipanare sul margine delle colonne, certo in epoca imperiale, forse in epoca ellenistica, un embrione della rubrica per le dottrine, utile per le scuole o per il fruitore nelle vicende quotidiane.47 Spesso il puntuale ordine di σημεῖα garantisce la funzione che ha il commento: ad esempio il commento che offre il Papiro di Berlino 9782 per il Teeteto di Platone richiama il testo con la διπλῆ, con la παράγραφος o con la στιγμή. Ma il testo che in epoca ellenistica Epicuro pubblica e diffonde? La prospettiva è simile, perché il commento divide il testo e ne marca la sezione che più colpisce per le dottrine.48 Senza dubbio l’abitudine di tracciare sul margine delle colonne di Platone la διπλῆ per le dottrine, il ceraunio per il metodo, l’asterisco per la coerenza fra le dottrine indica l’esigenza che anima Epicuro. Nelle pagine A Pitocle lo stile rende possibile un contatto veloce con il testo e suggerisce un embrione della rubrica per le dottrine. Ma è la funzione che ha il puntuale ordine di σημεῖα sul margine delle colonne di Platone. In epoca imperiale, Porfirio divide le 6 Enneadi di Plotino e nella Vita di Plotino (4-5, 24-26) richiama il progetto di coniare un titolo e di organiz­ zare un testo che indica per la sezione lo schema e il contenuto.49 È simile, subito dopo, il testo al quale per Timeo di Locri allude Calcidio (6-7). Qui la critica riconosce il concreto impegno di epoca ellenistica su Omero. In Accademia il progetto di coniare un titolo e di organizzare un testo che in­ dica per la sezione lo schema e il contenuto non è da escludere per le opere di Platone, se Clemente di Alessandria (Strom. V 14, 102 5) suggerisce un

puntuale ordine di σημεῖα? Se il concreto impegno di Antigono di Caristo è da respingere, se il contributo di Aristofane di Bisanzio non convince, trova conferma per il puntuale ordine di σημεῖα la collocazione di epoca imperiale. Cfr. Tarrant 1993: 178-185. 47 Se la διπλῆ indica il testo con le dottrine di Platone, già con Ario Didimo (fr. 1 Diels), per Eusebio di Cesarea (PE XI 23, 2-6), nasce lo schema per le dottrine che apre la sequenza di epoca imperiale, fra l’Eisagoge di Albino e il Didascalico di Alcinoo, e se l’asterisco suggerisce la coerenza fra le dottrine, già Eudoro (25 Mazzarelli) vede il τέλος dell’uomo nell’ὁμοίωσις al sapere degli dei per la combinazione delle pagine di Platone. Cfr. Moraux 1984: 509-527. 48 Per Turner 19802: 115-118, la διπλῆ per lo più richiama un commento. Ma è un risultato che non convince Pfeiffer 1968: 115 n. 4. 49 Cfr. Goulet-Cazé 1982: 277-327.

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titolo per un passo del Timeo (41a-d).50 Il Papiro di Berlino 9780, in alto, sul margine delle colonne, offre la capitulatio. Rende possibile, con il titolo per le colonne, con il segno concreto per il fruitore, un contatto veloce con il commento di Didimo, pur con la dimensione che ha il volumen.51 Ma è un testo di epoca imperiale: in epoca ellenistica? Il Papiro di Ercolano 558 ha la capitulatio per la Syntaxis di Filodemo.52 Non è difficile scorgere qui l’esigenza che anima Epicuro: nel Kepos trova conferma un impianto redazionale che lo stile delle pagine A Pitocle suggerisce. Dopo il trattato Sulla natura, con l’epitome, con il codice condensato, giunge lo schema da custodire nella memoria, il τύπος, l’impronta, che rende possibile placare il timore. Ma il τύπος, l’impronta, richiede un contatto veloce con il testo: lo stile offre un aiuto, perché suggerisce la capitulatio, assorbendone la segmentazione. Certo non sorprende la tradizione: il codice Laurenziano 69.13, per le pagine A Pitocle, nel XIII secolo, marca la sezione sulla neve o la sezione sulla brina con περί, con la rubrica.53 L’epitome, il contatto veloce con il testo, un puntuale ordine di σημεῖα e la capitulatio: in età ellenistica, emerge materiale adeguato per intuire un panorama prezioso. Epicuro, con le pagine A Erodoto e con le pagine A Pitocle ne suggerisce la base teorica e un paradigma concreto. La funzione che ha l’epitome per il Nachleben del Kepos è decisiva. Senza dubbio l’epi­ tome favorisce, nel I secolo, un radicamento delle dottrine fra le dimore di Roma, spesso in polemica serrata con lo Stoicismo.54 Anche qui la prospettiva è catechistica, se non apodittica: lo schema da custodire nella memoria, per la conquista della serenità. Ma la critica per lo più riconosce la forza che ha l’esigenza di fedeltà, di adesione al sapere del Kepos. Il tormento di Filodemo è palese: il trattato che offre il Papiro di Ercolano 1005 (fr. 117, 1-18 Angeli) respinge la καινοτομία e il trattato Sulla retorica per il Papiro di Ercolano 1427 (col. 238, 18-29 Nicolardi), ne suggerisce un possibile paragone con la crudele uccisione del padre.55 Da qui deriva

50 Spesso il titolo rende possibile scorgere il contenuto: già Callimaco scopre nel Fe­ done, con l’epigramma di Cleombroto (XXIII 1-4 Pfeiffer), un dialogo Sull’anima. È la forma che ha in Accademia il titolo delle opere di Platone per il grande impulso di Arcesilao. Cfr. Carlini 1972: 28-30. 51 Cfr. Luzzatto 2012: 3-72. 52 Per la sezione su Socrate. Cfr. Arrighetti 2006: 395-431. 53 Non è da escludere qui un risultato che nasconde l’abitudine di porgere un aiuto al fruitore delle pagine A Pitocle in epoca medievale. Ha studiato il codice Laurenziano 69.13, nel XV secolo, Poliziano. Cfr. Dorandi: 2009, 67-78. 54 Cfr. Maso 2008: 9-29. 55 L’esigenza di fedeltà nutre la riflessione sulle parole che richiama, con Demetrio Lacone, la stagione di Alessandria. Cfr. Puglia 1988: 37-104. Da Filodemo, con il

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un clima di alleanza intellettuale che favorisce l’epitome, la richiede. Ma il risultato non è felice: l’epitome, sulle opere di grande mole che, nel III secolo, Epicuro ha elaborato con l’immagine del Kepos, irrigidisce la coerenza fra le dottrine, la spegne, per trasmettere un cuore della ricerca bloccato e immiserito. La fama di edonismo rude o volgare che Cicerone scopre, nelle Tusculanae (IV 3, 6-7), per le opere di figure vicine al debole fremito del Kepos ha forse un sottile rapporto con l’epitome.56 Di per sé la fama rende indispensabile, nel I secolo, un concreto impegno per difendere la dignità del Kepos. È questo lo scopo di Filodemo e di Lucrezio: dalle dottrine giunge un fertile impulso di matrice speculativa e di matrice poetica, per la forza di persuasione, certo di grande impatto per il Nachle­ ben del Kepos e per il dibattito fra le scuole.57 Ma la tradizione che dipende, in epoca imperiale, dal Kepos ribadisce la funzione che ha l’epitome, con il codice condensato, per il puntuale impegno della memoria. Per lo più la colossale iscrizione di Enoanda non è che l’epitome per la conquista della serenità, l’epitome che, per alleviare il tormento delle vicende quotidiane, indica un concreto paradigma nel Kepos, con lo schema delle dottrine.58 Subito e in modo esplicito, se con­ vince l’integrazione di un frammento, forse l’incipit (fr. 1, 1-4 Smith): περὶ αἰσ]θή[σεως καὶ φύσεως ἐπιτομή. La colossale iscrizione va ben al di là di un Canone o di un discorso Sulla natura. Ne deriva un problema per la collocazione: forse, perché la funzione di un Canone o di un discorso Sulla

trattato che offre il Papiro di Ercolano 1005 (fr. 90, 1-21 e fr. 107, 1-19 Angeli), emerge più di un attrito, nel I secolo, per il trattato Sulla natura, per un passo, do­ po la puntuale armonia con il gruppo dei καθηγεμόνες, nel III secolo. Il problema è la coerenza fra le dottrine: in epoca imperiale un problema di Plotino. Cfr. Erler 1993: 281-303. 56 Sulle opere di Amafinio, sulle opere di Rabirio, manca materiale plausibile. Ma l’immagine che Cicerone suggerisce, negli Academica (I 2, 5), di per sé indica l’epitome, per la forma e per il contenuto. Nelle Ad familiares (XV 19, 2), emerge il contributo di Catio, con luce non positiva. Cfr. Castner 1988: 7-11, 32, 63. 57 Il risultato di Filodemo e di Lucrezio nasce anche da un palese anelito di libertà, pur sempre conciliabile con l’esigenza di fedeltà, con la venerazione abituale per il maestro che vede Sedley 1989: 97-119. Da non dimenticare il Peri parrhesias di Filodemo. Cfr. Gigante 19832: 55-113. Ricostruisce la venerazione abituale per il gruppo dei καθηγεμόνες Clay 1983: 255-279. 58 Spesso, per la critica, è inevitabile pensare al 200 circa. Cfr. Ferguson 1990: 2290-2293. Retrodatazione di Canfora 1992: 39-66, che nel τοῦ τε θαυμασίου … Κάρου di un frammento (fr. 122, II 8-9 Smith), scopre le ombre di Lucrezio. Ma Smith 1996: 17-18, indica il felice tempo di Adriano. Cfr. Wörrle 1988: 4-17.

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L’epitome per la conquista della serenità: la forma e lo stile delle pagine A Pitocle

natura è centrale per la prospettiva che ha Epicuro.59 Ma l’integrazione ricalca il testo di un frammento che apre l’Etica (fr. 28, 1-4 Smith): περὶ τῶν] παθῶν καὶ [πράξεων] ἐπιτομ[ή. Qui, se non per l’incipit, la colossale iscrizione indica un codice condensato, con la prosa didattica, per trasmet­ tere il sapere.60 Da un frammento, forse l’incipit, delle parole A Dionigi (fr. 68, 1-7 Smith), con la forma plausibile della lettera, giunge conferma per ἐπ]ιτομή, con valore preciso che περίοδος, il veloce riassunto, ribadisce. Non è difficile scorgere, pur fra lacune, la puntuale imitazione delle pagi­ ne A Erodoto (82-83). Con ἐπιτομή], per la critica, è l’integrazione di un frammento che apre il testo di un discorso Sulla vecchiaia, per un palese rapporto con l’Etica (fr. 137, 1-3 Smith).61 La colossale iscrizione richiama, in epoca imperiale, un risultato che, in epoca ellenistica, Epicuro suggerisce con la forma e con lo stile della lettera. Se l’epitome rende possibile un contatto veloce con le dottrine, certo non manca la trama delle massime da custodire nella memoria. Ma ne deriva spesso un fertile impulso al concreto impegno con la personale meditazione. Lo scopo è riscattare il fruitore di Enoanda da un male che pervade l’etica. Pur con palese ambizione di grande impatto per il tempo lungo delle pietre, la colossale iscrizione offre al fruitore di Enoanda un aiuto, βοήθημα, con le medicine per la terapia (fr. 3, II 7-VI 14 Smith). E nelle medicine trova conferma la funzione che ha Epicuro con lo schema delle dottrine per la conquista della serenità, per l’ἀταραξία della quale godere, sulla terra, con la condizione degli dei (fr. 125, III 9-IV 10 Smith).62 Ai neofiti, οἱ πλεῖστοι, è indispensabile lo schema delle dottrine per il male che giunge da false δόξαι e φαντασίαι con la forza della peste, καθάπερ ἐν λοιμῷ: ai neofiti, al fruitore per eccellenza, il gruppo che subito Epicuro in­ dica nelle pagine A Erodoto. Se la συνουσία con il maestro manca, il dialogo non offre un aiuto per le vicende quotidiane. La colossale iscrizione richia­

59 Cfr. Smith 1978: 46. Indica per l’incipit un περὶ αἰσ]θή[σεως καὶ περὶ φύσεως ἐπιτομή Grilli 1950: 372. 60 Richiama l’articolazione per l’Etica fra παθῶν e [πράξεων] già l’integrazione di Diels in William 1907: 28. Vuole un ἐπιτομ[ὴ ἠθική Grilli 1960: 63. 61 Cfr. Clay 1990: 2526-2548. È al VI livello, forse, il testo di un discorso Sulla vecchiaia: Διογένο[υς τοῦ Οἰνοανδέω]ς συνειπ[όντος τῷ γήρᾳ ἐπιτομή. Cfr. Smith 1993: 570-571. Ma Διογένο[υς τοῦ Οἰνοανδέω]ς apre, con Heberdey-Kalinka 1897: 356, la colossale iscrizione. Cfr. Casanova 1998: 263-272. Non è da escludere, invece di συνειπ[όντος τῷ γήρᾳ, l’ἐ[γ]χειρ[ίδιον περὶ γήρως di Philippson 1931: 155. Indica la funzione che ha nel Kepos l’ἐγχειρίδιον, il manuale, Capasso 1987: 50-57. 62 Cfr. Gigante 1975: 53-61. Il tormento per il male che pervade l’etica apre la colossale iscrizione per Casanova 1984: 50, 78-95.

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ma la συνουσία con il maestro. Ma la trova non conciliabile con lo scopo, con la conquista della serenità, forse con dolore. Svanisce il concreto appel­ lo ai προβεβηκότες e ai τετελεσιουργημένοι, anche se, in epoca imperiale, non è da escludere un radicamento del Kepos nella regione di Enoanda (fr. 117, 1-3 Smith).63 Ma non giova un rapporto fugace con le dottrine, un rapporto veloce da πα]ροδεύοντες. Da qui l’esortazione al puntuale impegno della memoria, con la riflessione, ποικίλως, per la conquista della serenità (fr. 30, III 5-14 Smith).64 Epicuro è al culmine, manca un possibile paragone. Per le parole da felice araldo, la colossale iscrizione lo riconosce al di là della morte: οὐ] τέθνηκε γὰρ ὑμέτ[ερος] κῆρυξ ὃς διέσωσε[ν ὑμᾶς (fr. 72, III 11-13 Smith). Non ha senso la tentazione di emendare. Certo l’esigenza di fedeltà, di adesione al sapere del Kepos, emerge con la forza che ha la tradizione. La forma di un discorso che garantisce l’esigenza di fedeltà, di adesione al sapere del Kepos, è l’epitome. Dopo il tramonto della città, che per trasmettere il sapere indica il rapporto prezioso degli allievi con il maestro, dell’uomo con l’uomo, Epicuro, nelle pagine A Erodoto, nelle pagine A Pitocle, nelle pagine A Meneceo, intuisce la forma di un discorso capace, se non di rispecchiare la dinamica della ricerca, di appagare, con lo stile, con la prosa didattica, lo smarrimento di un fruitore che, minacciato nelle vicende quotidiane, richiede, per la conquista della serenità, lo schema di regole con valore fondamentale.

63 Cfr. Clay 1989: 313-335. 64 La colossale iscrizione favorisce la riflessione, con le medicine per la terapia. Cfr. Erler 1998: 361-365.

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L’Epistola a Pitocle è, tra i testi di Epicuro pervenuti integralmente, uno dei più complessi e certamente il meno noto e studiato. Malgrado ciò, si tratta di una breve opera indubbiamente preziosa per comprendere un aspetto estremamente significativo della scienza della natura (physiologia) epicurea, ovvero l’“atteggiamento epistemologico” che occorre avere nei riguardi di ta meteora, i cosiddetti fenomeni celesti che, per Epicuro, includono non solo i fenomeni astronomici propri delle regioni sovralunari, ma anche quelli più strettamente meteorologici, oltre, per esempio, agli eventi tellu­ rici. Per Epicuro, quindi, i meteora sono sia i fenomeni che definiremmo meteorologici sia quelli più strettamente astronomici. Nella tradizione pre­ cedente le due tipologie di fenomeni erano messe in relazione,1 Aristotele, tuttavia, aveva nettamente distinto i due ambiti, dedicando ai fenomeni celesti (materialmente costituiti dal primo – o quinto – elemento, ossia l’etere) il De caelo e a quelli meteorologici (che hanno meno regolarità rispetto ai fenomeni celesti)2 la Meteorologia (per quanto in quest’opera il filosofo si occupi anche di comete e della via lattea).3 I meteora avvengono nella regione sublunare del cosmo e pertengono ai quattro elementi con l’esclusione dell’etere. Epicuro non adotta questa distinzione ma considera meteora i fenomeni tanto meteorologici quanto astronomici, anche perché i principi che legano interamente il cosmo sono, in ogni caso, gli atomi e il vuoto. Già nella dissertazione del giovane Karl Heinrich Marx, Differenz der de­ mokritischen und epikureischen Naturphilosophie nebst einem Anhange (1841) – un’opera che ha contribuito in modo importante a “sdoganare” la filo­ sofia e la fisica epicuree dal poco edificante giudizio hegeliano,4 essendo

1 Significativa, in proposito, la testimonianza su Ippia nel Protagora platonico: 315c = 86 A 11 DK = VIII 36 D34 LM. 2 Cfr. Aristot. Meteor. I 1, 338a 26-339a 4; cfr. anche Falcon 2005: 2-13 e Wilson 2013: 93-98. 3 Cfr. e.g. Capelle 1913: 323-324 e anche Id. 1912a: 425. Più in generale, si veda anche Simeoni 2020. 4 Cfr. Isnardi Parente 1991: 289-323 ed Ead. 1998; più in generale Bonacina 1996: 277-331.

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anche allora tacciate di scarsa originalità e di basso interesse teoretico – si legge che «[N]ella teoria delle meteore si rivela dunque l’anima della filosofia naturale di Epicuro».5 Marx non ha dubbi sul fatto che lo studio dei fenomeni celesti (ta meteora) in generale non sia una “costola” seconda­ ria ma sia davvero il cuore pulsante, il centro della scienza della natura o physiologia di Epicuro.6 Non escluderei che Marx avesse raggiunto questa conclusione anche a partire dal confronto di Pitocle con Lucrezio, una fonte che, rispetto a Hegel, egli per primo valorizza notevolmente (cfr. Morfino 2012). Se ci si riflette bene, il giudizio marxiano coglie pienamen­ te nel segno: è solo nell’Epistola a Pitocle che Epicuro, dalla prospettiva fermamente materialista e atomista, si occupa di spiegare la maggior parte dei fenomeni naturali di cui si fa più o meno direttamente esperienza. Mentre nell’Epistola a Erodoto7 Epicuro esanima i fondamenti essenziali della natura (physis) e le loro proprietà, dunque gli atomi e il vuoto, è in Pitocle che il filosofo mostra come l’atomismo possa coerentemente esporre le cause della generazione dei fenomeni celesti dal punto di vista scientifico, benché l’unico fine privilegiato rimanga di carattere etico.8 In breve, lo scrupoloso studio storico-filosofico di questa lettera non può che confermare l’opinione di Marx: senza Pitocle avremmo un quadro profon­ damente manchevole e inadeguato della scienza della natura di Epicuro. Ciononostante, un’opera antica di questo tipo potrebbe apparire ecces­ sivamente specialistica, quasi “di nicchia” e, pertanto, di scarso interesse. Ciò viene smentito da una serie di motivi importanti; in prima istanza, dal punto di vista eminentemente testuale, se Diogene Laerzio (III sec. d. C.) decide di trasmettere integralmente questo scritto, significa soprattutto che la fonte (o le fonti) a cui Diogene stesso attingeva aveva catalogato questa lettera di Epicuro come una delle opere importanti, degne di essere preser­ vate e tramandate. Inoltre, se Epicuro affida a una breve lettera, dunque a un sintetico ma efficace compendio dottrinario (una epitome), la trattazio­ ne dei fenomeni celesti, vuol dire che si tratta di tematiche certamente

5 Sabetti 1979: 78; cfr. anche Verde 2020b: 295-299. 6 Pace Bignone 1964: 34 che, in riferimento a Pitocle, parla di una lettera «che tratta di una provincia della fisica epicurea, di secondaria importanza per il maestro». Giustamente di tutt’altro avviso Gigante 2002: 43. 7 Per una traduzione e un commento di questo testo mi permetto di rinviare a Verde 2010a. 8 Cfr. anche la posizione di Strabone – I 1, 21-22 – che sottolinea come la conoscen­ za dei fenomeni celesti sia utile affinché non si rimanga turbati, sebbene l’uomo politico – al quale Strabone si rivolge e che pure deve avere una conoscenza di tali meteora – non debba approfondirli eccessivamente, come, invece, fa il filosofo.

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importanti che non possono essere taciute. Se così non fosse, Epicuro di certo non avrebbe affidato tale argomento al genere dell’epistola9 che mira a essere una sorta di privilegiato “vademecum” finalizzato all’acquisizione dell’imperturbabilità nell’anima (ataraxia), senz’altro messa a rischio e se­ riamente dalla mancata conoscenza dei meteora. I fenomeni celesti in generale, infatti, venivano considerati come azioni dirette delle divinità, il più delle volte al fine di atterrire l’uomo, comuni­ candogli la potenza distruttiva della sfera divina, oppure per concedergli avvertimenti o segni divinatori, anche positivi e benefici (si pensi solamen­ te al valore profetico dei tuoni, dei fulmini e delle folgori nelle religioni antiche).10 Il fatto che i meteora fossero opera degli dei ed esistessero per incutere timore e spavento agli uomini rappresenta, come è ben noto, il cuore teorico del dramma satiresco Sisifo (43 F 19 TrGF Snell-Kannicht) che Sesto Empirico (molto probabilmente in modo corretto) attribuisce a Crizia11 e Aezio a Euripide.12 L’idea di fondo di questo testo (purtroppo frammentario ma il cui senso generale è chiaro) è il fatto che l’esistenza degli dei e dei loro castighi sarebbe un’invenzione esclusivamente umana teorizzata per il controllo e la disciplina degli uomini.13 I meteora, allora, sono considerati come strumenti che la divinità usa per atterrire gli uomi­ ni; più che alla legge (che poteva essere trasgredita di nascosto) è agli dei che non sfugge nulla, anche le azioni malvagie e disinvolte che gli uomini perpetrano di nascosto. Qui i fenomeni celesti sono chiamati in causa come diretta opera della divinità vendicatrice; anzi, i luoghi abitati dagli dei vengono non a caso posti in alto, perché da lì provengono gli spaventi per i mortali, ovvero gli stessi meteora che comunicano l’ira e il castigo della divinità (si tenga conto del fatto che si tratta anche di un argomento epicureo che si ritrova non casualmente in Lucrezio, V 1183-1197). I lampi, i tuoni e la massa rovente del sole per gli uomini sono le evidenti attesta­ zioni dell’esistenza degli dei immortali, laddove, per l’autore del Sisifo sono, per così dire, semplicemente un falso “spauracchio” ideato pour cause da un qualche uomo acuto, scaltro e saggio di mente (πυκνός τις καὶ σοφὸς

9 Su cui cfr. Spinelli 2012: 152-163. 10 Cfr. per un primo orientamento Burkert 2003: 339-342 e Dumézil 2011: 541-551; di particolare interesse, a questo proposito, la testimonianza di Xenoph. Apol. 12. 11 Sext. Emp. M IX 54 = 88 B 25 DK = IX 43 T63 LM. 12 Aët. Plac. I 7, 2, Dox. 298, M-R 370-371 = 88 B 25 DK; sul Sisifo cfr. almeno Kahn 1997 e Sedley 2013. 13 Cfr. in proposito anche la lucidissima e acuta considerazione del ruolo, tutto positivo perché volto all’utile del sistema politico, della δεισιδαιμονία presso i Romani offerta da Polibio, VI 56, 6-15.

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γνώμην ἀνήρ) il quale, pur conoscendo l’origine genuinamente fisica di tali fenomeni, se ne serviva solo per mostrare il darsi efficace delle punizioni divine e fondare così quella che Lucrezio avrebbe definito religio.14 Inoltre, in questo contesto, non va neppure tralasciata la testimonianza di Senofonte su Socrate per cui Socrate stesso deplorava coloro i quali, come Anassagora, nutrivano forte curiosità nell’apprendere in che modo la divinità produceva i fenomeni celesti (ta ourania); si trattava per Socra­ te, per così dire, di una curiosità empia, benché Senofonte (Mem. IV 7, 5) informi che Socrate non fosse del tutto ignaro di astronomia (o di geometria):15 questi fenomeni che concernevano il cielo non potevano essere scoperti dall’uomo e chi osava farlo non era accetto agli dei perché non rispettava ciò che essi non avevano voluto rivelare.16 Al di là della storicità della polemica socratica che Senofonte trasmette, non vi è dubbio che Socrate, stando almeno a questa testimonianza (a cui, in ogni caso, si potrebbero aggiungere chiaramente quella delle Nuvole aristofanee, dove, però, Socrate è rappresentato come un empio cultore dei meteora – cfr. e.g. vv. 228 ss. –,17 nonché la cosiddetta – e presunta – pagina autobiogra­ fica del Fedone platonico – 96a 8 –, nella quale Socrate dichiara il suo giovanile interesse per la περὶ φύσεως ἱστορία), reputasse ben fondata l’idea che l’indagine esclusiva circa i fenomeni celesti fosse inutile, impedisse, anzi, altre conoscenze davvero utili e conducesse all’empietà per il fatto che tali fenomeni erano diretta opera degli dei. Non stupisce, quindi, l’atteggiamento critico e perfino ironico nei riguardi dell’indagine περὶ τῶν μετεώρων di buona parte della tradizione socratica,18 da Diogene di Sinope19 al rifiuto della fisica da parte dello stoico Aristone di Chio.20 Di­ versamente Aristotele, nel I libro della Metafisica (A 2, 982b 12-17), rileva come l’indagine sulla luna, sul sole e sugli astri sia direttamente collegata a quell’originario θαυμάζειν (da cui scaturiscono la filosofia e l’episteme) che spinse gli uomini a porsi questioni (διαπορήσαντες) su questo tipo di fenomeni.

14 Una ricca e utile panoramica sulla superstizione antica e il suo rapporto “dialetti­ co” col Cristianesimo è offerta da Zambon 2019: 65-76. 15 Cfr. Mem. IV 7, 3 e Plat. Theaet. 145d 4-9; si veda anche Diog. Laert. II 45. 16 Cfr. Xenoph. Mem. IV 7, 6 ss. = 59 A 73 DK = VI 25 R7 LM; cfr. anche Rashed 2009: 117-124, Trabattoni 2011: 275-276 e Ransome Johnson 2020: 166-167. 17 Cfr. anche Plat. Apol. 18b 6-c 3. 18 Cfr. Diog. Oen. fr. 4 Smith = SSR I C 463/IV A 167. 19 Cfr. Diog. Laert. VI 39 = SSR V B 371. 20 Cfr. Ioppolo 1980: 78-90.

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Per limitarsi a pochi esempi tra i moltissimi che si potrebbero fare circa questa generalissima e diffusissima convinzione, nell’Edipo a Colono (vv. 1463-1471), dopo un forte tuono, intervenendo nel dialogo tra Edipo e Antigone, il coro attribuisce a Zeus l’indicibile fragore udito che terrorizza gli animi. Dopo che nel cielo si è osservata nuovamente una folgore che lampeggia, il coro si chiede quale evento manderà, quindi che cosa recherà quel segno divino direttamente assegnato al grande etere, a Zeus (1470: o megas aither, o Zeu). Sofocle è, pertanto, perfettamente consapevole del fatto che quello che potrebbe apparire come un banale evento atmosferico sia, in realtà, un segno divino, deliberatamente provocato da Zeus mede­ simo ed evidentemente foriero di eventi futuri. Seppure brevemente, a questo proposito, non è possibile non tenere conto degli Inni orfici; si pensi, per esempio, all’Inno 19 (Ricciardelli) a Zeus folgoratore presentato con estrema efficacia come dio delle tempeste, dei tuoni, delle piogge, degli uragani e naturalmente dei fulmini: eventi tremendi che, appunto, terrorizzano l’uomo, ma pur sempre eventi attraverso i quali Zeus regge e governa l’universo splendente di fuoco.21 Ancora per fare un ulteriore esempio, un discorso simile vale per un altro inno orfico a Zeus che apparteneva probabilmente a un’antica teogonia (31 F PEG II.1 Bernabé); qui Zeus è presentato come collegato, al solito, al fulmine (v. 1), ma anche come fondamento della terra e del cielo stellato (v. 3) e come sole e luna (v. 6) a conferma della sua intrinseca relazione con gli astri e, più in generale, con l’universo. Infine, un interessante frammento delle Eliadi di Eschilo22 identifica Zeus con l’etere, la terra, il cielo, con tutte le cose e con ciò che è al di sopra di loro: si tratta di un’altra conferma di come il divino fosse percepito in profondissima relazione con l’“ambiente”, l’“atmosfera”, il tutto (a cui gli eventi atmosferici e astrali appartengono de iure e de facto). Che i fenomeni atmosferici fossero, pertanto, la conseguenza dell’opera divina o, comunque, fenomeni che sono, per così dire, controllati e gestiti dalla divinità è una sorta di dato comune di moltissime tradizioni religiose; l’Ebraismo e il Cristianesimo non sono da meno. Si pensi, per esempio, al Libro di Giona (1, 4) che si apre con l’immagine del Signore che scatena sul mare un forte vento che a sua volta provoca una tremenda tempesta, oppure all’Esodo in cui Dio si manifesta come una densa nube sulla vetta del Sinai (19, 9), provocando tuoni e lampi che scuotono di timore gli Israeliti al terzo mese dall’uscita dall’Egitto (19, 16; si veda pure Gv 12,

21 Cfr. Ricciardelli 2000: 315. 22 Da Clem. Alex. Strom. V 14, 114 4 e da Eus. PE XIII 13, 41 = 70 TrGF Radt2.

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28-29). Assai rilevanti, poi, i versetti 1-9 del XIII capitolo del Libro della Sapienza, dove l’autore critica fermamente coloro che divinizzano la natura e i suoi fenomeni (il fuoco, il vento, la volta stellata o i luminari del cielo), non rendendosi conto che si tratta solo di prodotti dell’azione creatrice del Signore che rende belle tutte le cose, dato che egli stesso è l’autore della bellezza.23 Sulla medesima lunghezza d’onda si colloca il capitolo 14 del Libro del profeta Geremia dedicato al tema della siccità provocata dal Signo­ re per punire le infedeltà del suo popolo; Geremia invoca la misericordia di Dio affermando: «Fra gli idoli vani delle nazioni c’è qualcuno che può far piovere? Forse che i cieli da sé mandano rovesci? Non sei piuttosto tu, Signore, nostro Dio? In te noi speriamo, perché tu hai fatto tutto questo» (22; trad. CEI 2008).24 Anche in questo caso la stretta relazione di dipendenza tra il volere divino e il fenomeno atmosferico è chiarissima. In ambito cristiano, viene in mente il passo del Vangelo di Marco (4, 35-41) in cui Gesù riesce a placare una tempesta minacciando il vento e il mare ed esortandoli a tacere e a calmarsi: dopo vi fu bonaccia a tal punto che i discepoli provarono un certo timore (si veda anche Gb 38, 8-11 e Sal 106, 23-30). Oppure si potrebbe pensare al momento della Trasfigurazione sul monte,25 dove Pietro, Giovanni e Giacomo vengono travolti da una nube (nephele) che li coprì con la sua ombra minacciosa; dalla nube – che segnala evidentemente la ierofania – uscì la voce di Dio ed essi ebbero paura (Lc 9, 34: ephobethesan). Tornando alla tradizione greca, se, invece, si va ancora più indietro, e si prendono in considerazione i poemi omerici, come è assai noto, le divinità sono direttamente coinvolte, oltre che sul campo di battaglia a stretto contatto con i diversi eroi, anche in diversi fenomeni ai quali specialmente la mentalità scientifica moderna ha insegnato ad attribuire cause naturali. È proprio questo il punto: tra le molte ragioni che collegano indissolu­ bilmente i fenomeni atmosferici e celesti più tremendi e la religione, la principale risiede nel fatto che questi eventi appaiono talmente grandiosi

23 Sap 13, 1-3: «Davvero vani per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è, né, esaminandone le opere, riconobbero l’artefice. Ma o il fuoco o il vento o l’aria veloce, la volta stellata o l’acqua impetuosa o le luci del cielo essi considerarono come dei, reggitori del mondo. Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza»; trad. CEI 2008. 24 Cfr. anche Gb 5, 10 e 9, 7-9. 25 Cfr. e.g. Lc 9, 28-36. Per la nube e il terremoto come manifestazioni divine (teofanie) cfr., per esempio, rispettivamente, At 1, 9 e Mt 27, 54 con At 16, 25-26.

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e spaventosi che le loro cause sfuggono all’esame scientifico e razionale. Per tale motivo, da un lato, secondo una movenza tipica delle religioni più arcaiche, i fenomeni atmosferici e celesti vengono letteralmente divinizzati (anche per renderli meno spaventosi e più propizi), dall’altro, i fenomeni stessi divengono autentiche ierofanie. A tale proposito mi pare opportuno riportare alcune righe del Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade che sintetizza perfettamente la questione, trattando del cielo come sede divina par excellence: «Il modo di essere celeste è una ierofania inesauribile. Di conseguenza tutto quello che avviene negli spazi siderei e nelle regioni superiori dell’atmosfera – la rivoluzione ritmica degli astri, le nuvole che si inseguono, le tempeste, il fulmine, le meteore, l’arcobaleno – sono momenti di questa medesima ierofania».26 Gli dei, in Omero, «promuovono ogni mutamento»27 e, pur tenendo conto di qualche acuto tentativo recente di attribuire all’eroe descritto dai poemi (in particolare nell’Odissea) una prima forma di autodeterminazione e di responsabilità morale,28 è innegabile che gli dei abbiano il controllo diretto su quanto accade al di sotto dell’Olimpo e la loro azione è talmente onnipervasiva29 da essere una delle motivazioni principali che muove e giustifica quanto avviene tra i due schieramenti acheo e troiano sul campo di battaglia e non solo. Si pensi, a mo’ di esempio, all’incipit dell’Iliade, in cui si racconta come nel campo acheo imperversi la spaventosa peste originata dalle temibili frecce di Febo Apollo che «scese giù dalle cime dell’Olimpo, irato in cuore / l’arco avendo a spalla, e la faretra chiusa sopra e sotto: / le frecce sonavano sulle spalle dell’irato / al suo muoversi; egli scendeva come la notte. / Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una feccia, / e fu pauroso il ronzìo dell’arco d’argento» (Il. I 44-49; trad. Calzecchi Onesti). L’Apollo qui rappresentato è irato ed è responsabile di una terribile peste che mieterà moltissime vittime: come è stato giustamen­ te (e autorevolmente) messo in luce,30 siamo assai lontani dall’immagine – dagli influssi “mitico-winckelmanniani” più o meno accentuati –31 del dio come ellenica misura del limite individuale, priva di ogni eccesso o esaltazione di sé.32 Nei poemi omerici, inoltre, alcuni tra gli enti naturali

26 Eliade 2014: 39. 27 Snell 2002: 55. 28 Cfr. Cantarella 2013: 47-90; il tema è comunque vasto e dibattuto: cfr., in genera­ le, Valenti 2014 e soprattutto Pelliccia 1995. 29 Cfr., tra gli altri, Otto 1996: 81-85. 30 Cfr. Colli 2009: 37-46. 31 Cfr. Bianchi Bandinelli 2003: 29-50. 32 Cfr. Nietzsche 2012: 4 e 36-37.

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se non sono resi divini, sono essi stessi divini: il caso forse più celebre è lo Scamandro o Xanto, il principale fiume troiano, la cui riva sinistra fu teatro di accesissimi scontri. Come si comprende chiaramente da Omero, lo Scamandro non è semplicemente un fiume ma è una divinità a tutti gli effetti che protegge i Troiani. Ha un suo “ministro” (areter) che è Dolopione (Il. V 77-78) che rappresenta, in sostanza, un sacerdote addetto al culto della divinità fluviale. Per via del suo atteggiamento protettivo nei riguardi dei Troiani, lo Scamandro insorge violentemente contro Achille, colpevole di una feroce e brutale strage di Troiani nelle sue acque, come racconta Omero nel XXI libro dell’Iliade: lo Scamandro furibondo «balzò contro Achille, torbido, crescendo infuriato, / ribollendo di schiuma e di sangue e di morti; / il livido flutto del fiume disceso da Zeus / si drizzò alto e ormai travolgeva il Pelide. / Urlò forte Era, tremando per Achille / e subito a Efesto parlò, il suo caro figlio» (324-330; trad. Calzecchi Onesti). Solo l’intervento di Efesto, sollecitato da Era, riuscirà ad arrestare la furia del fiume e a far sì che Achille riesca a salvarsi. I fenomeni celesti e atmosferici, inoltre, non erano considerati esclusiva­ mente come il mezzo o lo strumento che gli dei usavano per comunicare la loro volontà e la loro potenza: il ricorso a ta meteora era direttamente connesso, infatti, anche con l’esistenza stessa degli dei. Più chiaramente, la grandiosità degli eventi atmosferici costituiva la prova che gli dei esiste­ vano davvero, pertanto il ricorso a ta meteora legittimava l’esistenza delle divinità, dato che evidentemente dietro a questi fenomeni tanto imponenti non poteva che celarsi una causa divina. Ciò risulta del tutto chiaramente nel filosofo stoico Cleante; nel De natura deorum Cicerone attesta che per Cleante la notio di dio si è formata nella mente umana per più motivi, tra i quali la grandezza dei benefici derivanti dal clima temperato, dalla fecondità della terra, la paura derivante dai fulmini, dalle tempeste, dalla pioggia, dalla neve, dalla grandine, dai terremoti e la regolarità del movi­ mento uniforme del cielo (II 5, 13-15; III 7, 16 = SVF I 528). Secondo Cleante, quindi, i fenomeni celesti e meteorologici non si limitano a essere meri strumenti dell’attività divina ma attestano direttamente l’esistenza degli dei. Siamo perfettamente agli antipodi della posizione epicurea e, considerato che Cleante può essere annoverato tra i filosofi stoici più antiepicurei (o, forse, il più anti-epicureo ma certamente il più antiedonista degli Stoici),33 non è affatto da escludere una sua serrata polemica contro la prospettiva di Epicuro sull’intrinseco significato dei meteora. Saranno, infatti, proprio gli Stoici antichi a fare dell’astrologia e della divinazione at­

33 Cfr. Sedley 2011: 319 n. 23.

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traverso l’interpretazione dei fenomeni astronomici, celesti e meteorologici intesi come segni mostrati e concessi dagli dei agli uomini34 delle dottrine centrali.35 In questo contesto è doveroso menzionare la celebre testimonianza di Sesto Empirico forse dal Peri philosophias,36 nella quale si dice che, secondo Aristotele, due sarebbero i principi da cui si sarebbe costituita negli uomi­ ni la ἔννοια θεῶν, dalle esperienze/dagli accadimenti relativi all’anima (ἀπό τε τῶν περὶ τὴν ψυχὴν συμβαινόντων) e dalla contemplazione dei meteora (καὶ ἀπὸ τῶν μετεώρων): «gli uomini, infatti, osservando, durante il giorno, il sole che girava intorno (περιπολοῦντα) e, di notte, il moto ordinato di tutti gli altri astri (τὴν εὔτακτον τῶν ἄλλων ἀστέρων κίνησιν), ritennero che un qualche dio fosse la causa di un tale moto e ordine perfetto (ἐνόμισαν εἶναί τινα θεὸν τὸν τῆς τοιαύτης κινήσεως καὶ εὐταξίας αἴτιον)».37 Solo di passaggio segnalo che l’idea che i fenomeni visibili provino l’in­ visibile – in questo caso l’esistenza degli dei – avrà una cospicua fortuna in ambito cristiano. Mi limito qui a citare il ben noto versetto dell’Epistola ai Romani (I 20), dove Paolo – che ebbe modo di conoscere e di confrontarsi direttamente con i filosofi epicurei e stoici, come si legge negli Atti degli Apostoli (17, 18) – asserisce che le perfezioni invisibili di Dio (la sua eterna potenza e divinità) sono contemplate e comprese a partire dalla creazione del mondo per mezzo delle opere da lui compiute. Questo argomento, comunque già proprio della tradizione ebraica e dell’Antico Testamento (si pensi, per esempio, al caso della lunga lode dei tre giovani nella fornace riportata nel Libro del profeta Daniele, 3, 57-80, in cui vengono benedette le opere del Signore, dai venti alla rugiada, dalle piogge alle folgori), sarà ripreso da molti apologeti cristiani dei primi secoli, tra cui, per fare un solo esempio, Taziano nella sua Oratio ad Graecos (4) che parafraserà il versetto paolino. Con l’Epistola a Pitocle, insomma, Epicuro rifiuta tutto questo e si inserisce in quella importante tradizione filosofico-scientifica per cui il

34 Cfr. e.g. la testimonianza di Crisippo riferita da Cic. Div. II 63, 130 = SVF II 1189. 35 Cfr. su questo ampio e articolato tema Ioppolo 1984, Ead. 2013 e la sintesi di Cambiano 2020; sulla strettissima relazione tra astronomia e astrologia nel mondo antico rinvio alla datata ma utilissima panoramica offerta da Boll 2008. 36 Sext. Emp. M IX 20-23 = 12a Ross = 14 Untersteiner = 947 Gigon [Fragmente ohne Buchangabe]. 37 Trad. mia; cfr. il dettagliato commento del passo di Untersteiner 1963: 166-171 e Berti 1997: 279-290, tenendo conto del fatto che, come rileva Untersteiner 1963: 166, la duplice causa addotta da Aristotele è già chiaramente in Platone, Leg. XII 966d-e.

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fenomeno naturale (sia questo celeste che meteorologico) è perfettamente spiegabile facendo ricorso a cause esclusivamente naturali, eliminando così l’idea che siano gli dei a provocare eventi di questo genere. Ciò si inscrive nella più ampia concezione epicurea della teologia38 che prevede che gli dei siano dotati di beatitudine (makariotes) e di incorruttibilità (aphtharsia) e che esistano effettivamente come particolari aggregati atomici i quali, tuttavia, non agiscono né in bene né in male nei riguardi del cosmo o, più particolarmente, dell’umanità. Questa posizione, a sua volta, va collegata alla più generale prospettiva epicurea per cui l’ordine del cosmo non può essere ricondotto a nessuna forma di provvidenza (pronoia). Tale visione, come è noto, viene condannata da più parti, sia in ambito pagano che in quello cristiano; un poeta e retore cristiano di V secolo, Claudio Mario Vittorio, nella sua Alethia, non esiterà a considerare la cosmogonia epicu­ rea (che conosceva verosimilmente tramite la mediazione lucreziana) come ispirata da un furore sacrilego (I 22-24).39 Secondo Epicuro i mondi non hanno nulla di divino ma sono semplicemente aggregati atomici che si generano e si corrompono come ogni corpo composto di atomi per ragioni assolutamente legate alla fisica e alla cinetica atomiche. Per comprendere la specificità della posizione epicurea rimanendo nel­ l’ambito dell’Ellenismo, si pensi a un’opera dall’enorme fortuna già nel­ l’antichità, i Fenomeni di Arato di Soli 40 che iniziano con un vero e pro­ prio inno a Zeus (vv. 1-25), il dio presente in ogni luogo e in ogni cosa che con la sua azione regola in modo ordinato la vita dell’uomo grazie ai segni che egli fissa nel cielo (a ragione, dunque, l’“inno a Zeus” arateo è stato ac­ costato, quanto meno per l’afflato lirico più consono a un inno sacro che a un poema scientifico, al ben più celebre Inno a Zeus dello stoico Cleante).41 La medesima posizione sarà ripresa dagli Astronomica di Manilio che, forte di una spiccata vena stoica, inizia la sua opera dichiarando che il cosmo è interamente dominato da una aeterna ratio (64) che dirige armoniosamente l’avvicendarsi di ogni cosa. In Arato e in Manilio (in virtù della loro più o meno deliberata adesione al pensiero stoico)42 si osserva esattamente ciò che Epicuro critica. Lasciando da parte Lucrezio, echi di questa posizione

38 Per approfondire questo difficile tema si vedano le monografie di Essler 2011 e Piergiacomi 2017; si segnala anche la recente e sintetica messa a punto di Spinelli-Verde 2020. 39 Cfr. Kuhn-Treichel 2016: 227-233. 40 Tradotti anche da Cicerone nei suoi Aratea – cfr. Pellacani 2015 –, oltre che da Germanico e successivamente da Avieno. 41 Cfr. Gigante Lanzara 2018: 127; sull’Inno cleanteo cfr. Thom 2005. 42 Cfr., per Manilio, Ramelli 2014.

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si ritrovano lucidamente in uno scritto contenuto nell’Appendix Vergiliana, l’Aetna giustamente definito un «poema scientifico»,43 dove l’anonimo autore polemizza con ogni tipo di visione tipicamente mitico-poetica che giustifica i fenomeni collegati all’attività vulcanica come derivanti dalla divinità. Ma gli dei «[N]on hanno […] occupazioni / tanto vili, né è lecito abbassare i celesti alle più umili attività: / regnano essi sublimi nel cielo a noi nascosto, / né si curano di trattare lavori di artefici» (32-35; trad. Iodice). Come si è già avuto modo di vedere, fondamentalmente la prospettiva antica circa i meteora riconduceva tali fenomeni al diretto intervento divi­ no spesso foriero di presagi funesti e di sventure. Proprio a tale proposito, per comprendere meglio questo punto essenziale, spostandoci, per così dire, da Atene a Roma, anzi, più precisamente, in Etruria, come testimo­ nia Seneca (NQ II 32) soprattutto gli Etruschi sostenevano l’idea che il fenomeno celeste fosse la diretta manifestazione della divinità (si tenga conto, in proposito, della menzione dei Tyrrhena carmina in Lucrezio, VI 381) e, più in generale, che i fenomeni naturali fossero segni del volere divino (questo è il cuore dell’aruspicina, le cui origine si facevano risalire alla “rivelazione” di Tagete: cfr. Cic. Div. II 23, 50). Per fare un esempio, in riferimento alla formazione dei fulmini,44 Seneca scrive: «Questa è la differenza che passa fra noi e gli Etruschi […]: noi crediamo che i fulmini si sprigionano perché le nubi vengono a collisione; essi invece pensano che le nubi vengono a collisione proprio per sprigionare i fulmini (infatti, riferendo ogni cosa alla divinità, nutrono questa credenza: che i presagi non dipendono dal fatto che i fulmini si sono verificati, ma che i fulmi­ ni si verificano perché destinati a presagire il futuro)» (trad. Vottero). Molto verosimilmente basandosi su uno dei suoi massimi esperti (forse proprio quell’Aulo Cecina di Volterra, convinto anticesariano, citato in NQ II 39), Seneca centra il cuore della cosiddetta e celeberrima Etrusca disciplina, ovvero il complesso insieme di quelle diffuse pratiche rituali finalizzate alla divinazione,45 quindi all’interpretazione dei fenomeni gra­ zie a cui presagire gli eventi futuri.46 È di grande interesse il fatto che gli Etruschi rifiutino completamente la spiegazione scientifica a favore di

43 Iodice 2013; cfr. anche Verde 2018a e Id. 2020e. 44 Si veda ancora l’utile trattazione di Dumézil 2011: 541-551, nonché, più in gene­ rale, Pallottino 1982: 235-267. 45 Su cui cfr. ora i saggi raccolti da Poulle 2016. 46 Non desta stupore, pertanto, la stretta relazione tra l’Etrusca disciplina e lo Stoici­ smo considerato come la filosofia privilegiata utile a fare, per così dire, da suppor­ to teorico alla divinazione etrusca anche per garantirne prestigio e credibilità:

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quella “divina”: le nubi collidono tra di loro non perché il loro scontro sia l’esito di motivazioni fisiche, ma perché tale collisione – che coincide con la generazione del fulmine – è esattamente la manifestazione diretta della divinità che, tramite questo particolare mezzo, intende comunicare in anticipo l’accadere di un evento (il più delle volte nefasto). Inutile dire che l’Etrusca disciplina passa direttamente a Roma, dove veniva usata anche per scopi politici: non mancano esempi, infatti, in cui l’interpretazione di un tuono da parte degli auguri invalidava perfino delle elezioni svoltesi regolarmente.47 O esempi notevolissimi in cui l’Etrusca disciplina è alla base del templum, la caeli distributio (Cic. Div. II 20, 45) ovvero la divisione del cielo in parti48 e, quindi, lo spazio augurale rispettato nella fondazione di città o nella deduzione di colonie.49 In Epicuro (fondamentalmente come anche nelle Naturales Quaestiones di Seneca, ma con alcune decisive differenze soprattutto legate al più ampio “orizzonte di senso” in cui si iscrivono i fenomeni celesti e il loro studio: cfr. NQ Praef. 13-17) la spiegazione scientifica assume la primazia assoluta rispetto al discorso religioso e solo dalla prima può venire una ri­ sposta concreta alle paure dipendenti dall’azione diretta degli dei, che, con terremoti, fulmini e tuoni, intendono agire sugli uomini per comunicare loro, terrorizzandoli, la loro volontà. Nulla di tutto ciò si trova nell’Epistola a Pitocle. Anzi, forse proprio in questo punto risiedono l’attualità di tale scritto epicureo e una delle ragioni più cogenti che hanno spinto i curatori del presente volume a presentare una nuova traduzione italiana dotata di commentario di questa lettera. Credo, infatti, che sia abbastanza palese che anche noi, che veniamo più di duemila anni dopo gli uomini a cui si rivolgeva Epicuro, più o meno consapevolmente e per i motivi più dispa­ rati (derivanti da certe tradizioni o da alcune credenze religiose), sovente riteniamo che fenomeni di questo tipo possano essere segni di sventure o della volontà divina (o anche della natura stessa, evidentemene divinizzata e/o personificata) di punire l’umanità per le sue colpe (si pensi alla conside­ razione della pandemia da Covid-19 da parte di quel cattolicesimo più in­ transigente ed estremista). Mi limito a un solo esempio concreto che però la dice lunga sull’atteggiamento che comunemente le persone nutrono nei

su questo cfr. l’importante testimonianza di Sen. NQ II 50, 1 e, per una prima panoramica, senz’altro Sordi 2002. 47 È il caso del consolato di Marco Claudio Marcello – narrato da Livio, XXIII 31 – il quale, sebbene eletto a schiacciante maggioranza, dovette subito rinunciare alla magistratura e fu prontamente sostituito da Quinto Fabio Massimo. 48 Cfr. e.g. Lucret. VI 86-89 e Cic. Div. II 18, 42. 49 Cfr., tra la sterminata letteratura sul tema, il bel lavoro di De Magistris 2007.

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confronti degli eventi di cui stiamo trattando. Qualche anno fa, l’undici maggio del 2011, a Roma era stato previsto – tramite teorie e metodologie che nulla avevano di veramente scientifico – un devastante terremoto che avrebbe completamente distrutto la città eterna. La notizia rimbalzò sui media creando una situazione di panico generalizzato. Ovviamente non accadde nulla (esattamente come l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulca­ nologia aveva assicurato in più occasioni) ma tra i cittadini romani si generarono ansie, angosce e fobie particolarmente profonde che spinsero molti di loro addirittura a lasciare il territorio della città per i giorni vicini alla fatidica data, al fine di sfuggire all’imminente disastro. Una situazione non troppo diversa è venuta a crearsi con l’attuale emergenza pandemica e il presunto complottismo che ne sarebbe alle spalle.50 Mutatis mutandis, è proprio di questo tipo la paura che l’Epistola a Pitocle intende sconfigge­ re ed eliminare non sulla base di benevole e rassicuranti previsioni ma ricorrendo alla conoscenza scientifica delle cause di questi fenomeni che nulla hanno di divino, nel pieno rispetto di uno dei nodi cruciali della filosofia di Epicuro: la natura è oggetto di accurata indagine scientifica esclusivamente perché solo la sua conoscenza può eludere e sopprimere ogni timore derivante da credenze religiose e previsioni fallaci. L’errore frequentissimo e storicamente deplorevole che spesso si fa quando si esamina la filosofia epicurea è di non considerarla un vero e proprio sistema scientifico;51 essa sarebbe, in sostanza, solo un sistema eti­ co-morale di pensiero. Nulla di più errato; è indubbio che lo scopo unico della filosofia di Epicuro sia l’etica intesa come il concreto ottenimento dell’imperturbabilità (ataraxia) nei limiti della vita mondana, ma non credo vi sia espressione più idonea di “sistema scientifico” per descrivere l’intima essenza dell’Epicureismo. La filosofia epicurea è e vuole essere scienza perché solo nella scienza risiede lo strumento privilegiato per ac­ quisire la felicità; nel sostenere questo Epicuro si iscrive legittimamente nel tradizionale razionalismo del pensiero greco antico e proprio perché il suo sistema filosofico è un sistema scientifico egli esamina criticamente la fisica di Platone e di Aristotele, due pensatori, insieme a molti altri, con i quali intavola un continuo dibattito. Di qui si può apprezzare ancora di più il valore genuinamente epistemologico di questa epistola che mette in campo una dottrina particolare, quella delle molteplici spiegazioni causali (pleonachos tropos) che Epicuro teorizza dal punto di vista metodologico proprio in riferimento ai fenomeni celesti per studiarne le cause e le mo­

50 Cfr. il breve ma efficacissimo articolo di Recalcati 2021. 51 Cfr. e.g. Canfora 2000: 183.

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dalità per cui essi avvengono, vanificando e annullando così ogni timore derivante dalla loro fallace comprensione.

1. L’autenticità dell’Epistola a Pitocle Chiunque si accosti all’Epistola a Pitocle si imbatte necessariamente nella vexatissima quaestio della sua autenticità o del suo essere un’opera spuria.52 Qui affronterò sinteticamente il problema esclusivamente dal punto di vista storico-filosofico, chiarendo sin da subito come le ragioni a favore del­ l’autenticità dello scritto – legate anche alla perfetta corrispondenza/coe­ renza dei contenuti della lettera con il programma generale della filosofia di Epicuro – mi sembrano molto più cogenti rispetto a quelle contrarie.53 In primo luogo, è utile tenere presente che per Diogene Laerzio, che trasmette l’epistola nel X libro delle sue Vite dei filosofi (84-116), il testo di Pitocle è sicuramente ascrivibile a Epicuro. Più correttamente, la fonte usa­ ta da Diogene (forse un compendio di filosofia epicurea oppure – il che è forse più probabile – un’antologia di scritti di Epicuro, verosimilmente di lettere ed epitomi: opere di questo tipo non dovevano essere infrequenti) considera autentica la lettera e lo stesso fa Diogene Laerzio trasmettendo­ la. Il problema dell’autenticità, dunque, non sorge in riferimento ai Bioi laerziani ma soprattutto in virtù di un controverso luogo del PHerc. 1005 contenente un’opera di Filodemo a cui l’ultimo editore del papiro, Anna Angeli (1988a: 71-81), aveva assegnato il titolo Agli amici di scuola, tenendo conto che dalla subscriptio del rotolo si legge chiaramente la prima parte del titolo: Philodemou | Pros tous. Più recentemente Del Mastro (2014a: 185) ha proposto una nuova lettura del titolo di questo scritto filodemeo – che, tra l’altro, costituisce una delle questioni maggiormente discusse nell’ambito della Papirologia ercolanese. Secondo l’ipotesi di Del Mastro nella subscriptio si leggerebbe Φιλοδήμου | Πρὸς τοὺς | φασκοβυβλιακούς | Ā, Contro coloro che si proclamano conoscitori di libri (Libro) I. Se questo è il titolo del testo preservato dal papiro (naturalmente è sempre bene essere cauti in merito), è arduo capire quale fosse il bersaglio di Filodemo; forse, come mi suggerisce Tiziano Dorandi (che ringrazio ancora una volta) in una conversazione privata, questo potrebbe riconoscersi in una serie di personalità che possedevano una conoscenza, per così dire, solo

52 Per un utilissimo status quaestionis cfr. Angeli 1988a: 289-293; si vedano anche Lück 1932: 10-11 e Bollack-Laks 1978: 45-55. 53 Cfr. De Sanctis 2012: 95-96.

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libresca, distante e non diretta di Epicuro. Si tratta, evidentemente solo di un’ipotesi che, però, dovrebbe essere approfondita soprattutto alla luce dei contenuti del papiro. In una sezione dell’opera Filodemo (col. XI 1-20 Angeli = 25 Angeli-Colaizzo) sembra riferirsi all’attività “critico-filologica” di un importante filosofo epicureo (sostanzialmente contemporaneo di un altro celebre epicureo, Demetrio Lacone) che fu maestro di Filodemo oltre che scolarca del Kepos approssimativamente tra il 100 e il 75 a. C.,54 Zenone di Sidone.55 Non è mancato chi ha voluto riferire l’intero contesto del passo a un avversario di Filodemo che avrebbe avuto numerose perples­ sità circa l’attribuzione di alcune opere di scuola epicurea,56 tuttavia a me pare molto verosimile concludere che il brano in questione sia riferibile a Zenone stesso. Riporto, dunque, di seguito interamente il testo e la traduzione (questa leggermente modificata) della col. XI del PHerc. 1005 (= IX, pp. 542-543 Körte = 28 Tepedino Guerra = 26 Longo Auricchio) stabiliti da Angeli (1988a: 176-177 e 191-192): – – – ἐρχόμενον ἀκριβεί-] αι πρὸ̣[ς τὰ τῶν ἀνδρῶν], [πε]ρὶ πολλῶν ἡγ̣[εῖσ]θαι [τἀ-] κε̣[ί]νοις ἀρέ̣[σ]κοντ’ , [ἐκ] τ̣ῆς̣ ἀ̣[ρ-] χῆς ὑποψί[α]ν τινὰ̣ [λ]α̣μβάν[ει]ν ὡς περί τινων ἐπιστολῶ̣ν̣ καὶ τῆς [Πρὸς Πυ-] θ̣οκλέα περὶ̣ μ̣[ε]τεώρων ἐπιτομῆς καὶ τοῦ Περὶ ἀρ̣[ετ]ῶ̣[ν], καὶ τῶν εἰς Μητρόδωρον ἀναφερομένων Ὑποθηκῶν καὶ τῶν Μαρτυριῶν καὶ μᾶλλον [δ]ὲ̣ τοῦ Πρὸς τὸν Πλάτωνο̣ς Γοργίαν δευτέρου, καὶ τῶν εἰς Πολύαινον τοῦ Πρὸς τοὺς ῥήτορας καὶ τοῦ̣ Περὶ σελήνης καὶ τῶν εἰς Ἕρ̣μαρχον· ἐξέλεξεν δὲ καὶ [ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣] γεγραμμένω̣[ν]

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54 Cfr. Dorandi 1991: 51-53 e 64. 55 Per un quadro aggiornato sulla figura di Zenone cfr. Del Mastro 2014b e ora Angeli 2018. 56 Cfr. Angeli 1988a: 289.

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… (Zenone) accostandosi con esattezza agli scritti dei Maestri per molte cose considerò le loro dottrine, concepiva all’inizio qualche sospetto, come su alcune epistole, persino sulla epitome A Pitocle sui fenomeni celesti, e sul trattato Sulle virtù, e sui Precetti attribuiti a Metrodoro e sulle Testimo­ nianze e soprattutto sul secondo libro Contro il “Gorgia” di Platone e sui (trattati attribuiti) a Polieno, sul libro Contro i retori e su quello Sulla luna e sulle opere (attribuite) ad Ermarco; scelse anche… Il testo è molto denso di informazioni (importante quella di un trattato Περὶ σελήνης attribuito a Polieno che mostra bene l’interesse dei primi Epicurei per le tematiche astronomiche)57 ma, concentrandoci solo su Pitocle, si osserva immediatamente come Zenone decise di occuparsi con akribeia, dunque con esattezza e puntualità, di alcune opere degli andres o kathegemones del Kepos: Epicuro, Metrodoro, Polieno ed Ermarco. L’opera zenoniana può ascriversi senza difficoltà in quella attività di “filologia filosofica” che vide assiduamente impegnata la scuola di Epicuro (in parti­ colare Demetrio Lacone, ma anche Zenone, appunto) nella difesa e nella tutela (strettamente “filologiche”) delle opere del maestro.58 Un fenomeno del genere, a dire il vero, non doveva essere esclusivo della scuola epicurea, ma lo si riscontra anche nella tradizione platonica; basti pensare a un luogo degli anonimi Prolegomeni alla filosofia di Platone (26 1-9 Westerink) circa il carattere spurio di alcuni dialoghi di Platone – quali l’Epinomide, la Repubblica e le Leggi – e delle Lettere ammesso dal divino (θεῖος) Proclo. Credo sia plausibile ritenere che Zenone – che, non lo si dimentichi, fu scolarca e come tale aveva delle ben precise responsabilità circa la salva­ guardia del patrimonio librario della scuola – volle dedicarsi ad analizzare con meticolosità alcune opere dei Maestri del Giardino sia perché nutriva dubbi personali sulla loro autenticità sia perché, forse, le opere menzionate da Filodemo erano state oggetto di polemica da parte dei detrattori dell’E­ picureismo coevi o comunque cronologicamente vicini all’epoca di Zeno­ ne. Ora, se la testimonianza filodemea è affidabile, come sembra (del resto Zenone fu il maestro di Filodemo stesso), Zenone nutrì una certa hypopsia (l. 5), ossia un certo sospetto nei riguardi di alcune opere; il testo, tuttavia, aggiunge ek tes arches (ll. 4-5), ovvero all’inizio. Noi non sappiamo all’ini­ zio di cosa ma probabilmente non va escluso che si tratti di un’indicazione temporale relativa all’inizio dell’attività “filologico-filosofica” di Zenone. Ciò potrebbe indurre a credere che solamente all’inizio Zenone nutriva un

57 Cfr. Tepedino Guerra 1991: 175. 58 Per un primo orientamento cfr. Puglia 1988: 49-80, Erler 1996 e Ferrario 2000.

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qualche dubbio sugli scritti citati, dubbio che successivamente – magari dopo un accurato esame testuale – poté venire meno. Inoltre, è del tutto fuori discussione che nel testo filodemeo l’Epistola a Pitocle – che viene presentata come un’epitome περὶ μετεώρων, esattamente come fa Diogene Laerzio (X 83), benché il biografo non menzioni il genere dell’epitome – ricopra un ruolo di primaria importanza. Sono, infatti, fondamentalmente d’accordo con la traduzione di Angeli «persino sulla epitome A Pitocle» (sottolineatura mia); evidentemente è il καί di l. 7 ad assumere, secondo Angeli, questa accezione. Ciononostante, va anche detto che, nel greco, il καί di l. 7 è solo il primo di una lunga serie di καί (ll. 9, 10, 12, 13, 15, 17, 18) che introducono, a mo’ di elenco, i titoli di opere oggetto dell’indagine di Zenone. La traduzione più letterale dei vari καί sarebbe “sia…sia”; eppu­ re, a mio avviso, lasciando da parte l’interesse tutto nostro e moderno per l’Epistola a Pitocle (né Zenone né Filodemo potevano sapere che Diogene Laerzio avrebbe trasmesso questa lettera sotto il nome di Epicuro, una delle poche opere di questo filosofo che si possono leggere per intero) che potrebbe condizionare proprio questa traduzione, fa bene Angeli a usare l’avverbio “persino” per la prima occorrenza della congiunzione. Filodemo, infatti, afferma che la hypopsia, per ciò che riguarda gli scritti di Epicuro, riguardava certe lettere (ll. 6-7: peri tinon epistolon) e l’Epistola a Pitocle. Non viene specificato se peri tinon epistolon si riferisca a lettere dot­ trinarie o a lettere private; forse quest’ultimo caso è più verosimile: è noto, infatti, che lo stoico Diotimo o Teotimo59 mise in circolazione cinquanta lettere vergognose a nome di Epicuro; le lettere private difficilmente erano compendiate, pertanto era più semplice diffamare Epicuro disseminando lettere scandalose di natura privata e personale evidentemente spurie.60 Chiaramente, però, la meticolosa opera filologica di Zenone non poteva limitarsi alle sole lettere private, come si evince dal frammento papiraceo. Dal testo si comprende bene come Pitocle non sia affatto una semplice lettera, per questa ragione Filodemo distingue certe epistole (con ogni probabilità di carattere eminentemente privato) da Pitocle (una lettera che, pur richiesta da Pitocle, non poteva risultare privata ma pienamente dottri­ naria, appunto). Se lo fa (e così si spiega il “persino” della traduzione) è perché Pitocle, per un verso, giocava un ruolo significativo nella produ­ zione di Epicuro (era considerata, insomma, un’epistola importante), per un altro, la sua attribuzione a Epicuro era un fatto di cui difficilmente si

59 Cfr. Diog. Laert. X 3 e Athen. Deipn. XIII 611B = 16 Zaccaria = 4 Angeli-Colaizzo; sulla questione cfr. ora Capasso 2020. 60 Cfr. Tepedino Guerra 2010: 39-40.

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poteva dubitare. Naturalmente è molto difficile, se non impossibile, capire i motivi della hypopsia di Zenone (che qualcuno, forse in modo troppo sommario, ha attribuito anche a Lucrezio nei riguardi della medesima epi­ stola):61 questa poteva basarsi o su questioni di carattere filologico-testuale o sugli aspetti contenutistici oppure su entrambe le cose. Che la meteorologia dopo Pitocle ebbe un seguito nell’Epicureismo è, per esempio, confermato dal fr. 49 ll. 3-5 Gallo della Vita Philonidis, nel quale, seguendo la ricostruzione del frammento stabilita da Italo Gallo, si legge che l’epicureo Filonide di Laodicea a mare aveva accettato le opinioni (di Epicuro) περὶ τῶν μετεώρων: ciò significa che Filonide seguì essenzialmente la metodologia epicurea nell’analisi dei fenomeni celesti,62 non senza fornire, comunque, il suo personale contributo. Di conseguen­ za, lo studio dei fenomeni celesti non costituiva affatto una “disciplina” scientifica marginale o eterogenea nella scuola epicurea, per quanto il metodo che Epicuro usò per l’esame dei fenomeni celesti, se non corret­ tamente compreso, poteva condurre a fraintendimenti di grossa portata. Forse la hypopsia di Zenone era dovuta più a questioni di natura testuale legate anche alla struttura della lettera che portò, tra l’altro, finissimi cono­ scitori dell’Epicureismo e, in generale, del pensiero antico (da Usener a Diels, da Crönert a Boer, per esempio)63 a respingere l’autenticità della epistula secunda de meteoris. Significativamente nella sua dissertazione Marx attribuisce senza difficoltà la lettera a Epicuro,64 mentre, come è noto, più di trenta anni dopo, Hermann Usener negli Epicurea,65 ne sottolineerà il carattere spurio sulla base della scribendi ratio di Epicuro,66 concludendo che la lettera sarebbe stata una silloge compilata da un ignoto autore a par­ tire dai libri del Peri physeos.67 Non è mancato, inoltre, chi ha creduto che «la parte introduttiva della lettera è autentica e che la compilazione della materia fu fatta fare da Epicuro stesso a qualche suo famigliare».68 Si tratta, come si vede, di una situazione diametralmente speculare, se non opposta: per un verso, si osserva un atteggiamento attento al contenuto della lettera (Marx), per un altro, la falsità del testo non concerne l’argomento cioè quello che esso dice ma come lo si dice (Usener). A mio giudizio, ambedue

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Cfr. Schmidt 1990: 37. Cfr. Puglia 1988: 54 e ora anche Nicolardi 2020: 45. Per tutti i debiti riferimenti cfr. Angeli 1988a: 289-290. Sabetti 1979: 72. Usener 1887: XXXVII-XXXVIII. Contra von Arnim 1907: 138-140. Usener 1887: XXXIX. Giussani 1923: XXX.

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gli atteggiamenti, se unilateralmente presi, sono da rifuggire; un’accorta analisi che vuole essere davvero storica deve, per così dire, mescolare e amalgamare i due approcci e, di conseguenza, badare al dato testuale-filolo­ gico e stilistico ma, allo stesso tempo e sul medesimo piano, anche alla compatibilità dei contenuti con la filosofia di Epicuro. Ora, è indubbio che il passo filodemeo del PHerc. 1005 può essere un da­ to a favore del carattere spurio della lettera, soprattutto se Filodemo, come sembra, descrive l’attività di uno scolarca del Kepos del calibro di Zenone di Sidone. Malgrado ciò, assumere questo luogo ercolanese addirittura per atetizzare Pitocle mi sembra un’opzione eccessiva e storicamente inaccetta­ bile. Non solo non va dimenticato lo ek tes arches, un’indicazione impor­ tante, come abbiamo visto, dato che, dopo un’analisi capillare, Zenone si sarebbe potuto ricredere circa l’attribuzione della lettera al fondatore del Giardino, ma soprattutto il semplice sospetto di cui si parla nel passo non può affatto costituire la ragione necessaria per rifiutare l’attribuzione a Epicuro e pensare che l’autore sia stato magari un altro epicureo che decise di epitomare altre opere del maestro o alcuni libri del Peri physeos (Usener). A favore della natura non spuria di questo testo si può aggiungere un argomento ulteriore; è noto che l’Epistola a Erodoto e l’Epistola a Pitocle so­ no trasmesse da Diogene Laerzio insieme ad alcuni scolii; non sappiamo se lo scoliasta di Erodoto sia lo stesso di quello di Pitocle (il che non può essere escluso) ma è evidente che si tratti di scolii dotti, eruditi e affidabili per la ricostruzione storica della filosofia di Epicuro.69 L’autore (o gli autori) di questi scolii doveva avere con ogni probabilità una conoscenza approfondi­ ta e dettagliata del pensiero epicureo, il che fa ipotizzare, con prudenza, che lo scoliasta o fosse un abile conoscitore dell’Epicureismo o fosse un membro effettivo della scuola epicurea. Se quest’ultima ipotesi fosse la più verosimile, bisognerebbe chiedersi se gli scolii laerziani non abbiano la lo­ ro origine in quella fervida attività di “filologia filosofica” che proprio nel Kepos, dopo Epicuro e con figure del livello di Zenone di Sidone e Deme­ trio Lacone, trova un esempio concreto e importante. Scrive Tiziano Do­ randi (2013b: 202) in proposito: «Il contenuto puntualmente erudito di al­ cuni scolî porta a respingere sia l’ipotesi che la loro redazione possa essere attribuita allo stesso Diogene Laerzio sia che essi fossero stati (tutti quanti) aggiunti in un’epoca posteriore (tardo-antica o proto-bizantina). Una loro origine antica (pre-diogeniana) appare pertanto la più attendibile». Rispet­ to a Erodoto, Pitocle ha una particolarità: lo scoliasta non si limita a fornire informazioni sulle altre opere di Epicuro (in particolare il Peri physeos, la

69 Cfr. Dorandi 2010: 277.

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Grande epitome e i Dodici elementi) ma ai §§ 96-97 dice non solo che Epicu­ ro affermava le medesime cose nel XII libro del Peri physeos, ma soprattutto menziona il I libro delle Lezioni scelte dell’epicureo Diogene di Tarso (dove questo filosofo ripeteva la medesima argomentazione di Epicuro), il che mostra come lo scoliasta dovesse essere ben informato non solo su Epicu­ ro, ma anche sugli Epicurei seriori. Inoltre, se lo scoliasta riconosceva che ciò che Epicuro asseriva sull’eclissi del sole e della luna (Pyth. 96) era già detto nel XII libro del Peri physeos, mi pare difficile atetizzare questa lettera il cui contenuto, almeno parzialmente, doveva riflettere quello di alcuni li­ bri dell’opus magnum di Epicuro. Tutto, insomma, lascia pensare che lo scoliasta – dotto conoscitore della filosofia del Kepos – doveva riconoscere Pitocle come una lettera autentica di Epicuro e come tale è trasmessa da Diogene Laerzio,70 al di là della hypopsia, più o meno fondata e comunque solo iniziale, di Zenone di Sidone. Se così non fosse, sarebbe assai strano che lo scoliasta in questione avesse aggiunto un testo del genere in cui, sen­ za esplicitare il soggetto (ossia Epicuro), dato che non ve n’era alcun biso­ gno, scrisse ταὐτὰ λέγει («dice le stesse cose»): se lo scoliasta avesse avuto il minimo sospetto circa il carattere spurio di Pitocle, dubito fortemente che avrebbe inserito un commento simile. In conclusione, ritengo che le ragio­ ni per atetizzare questo testo dagli ipsissima scripta di Epicuro non mi sem­ brano affatto cogenti71 e, anzi, mi appaiono perfino minoritarie rispetto al­ le argomentazioni sollevate a supporto della sua autenticità che, a mio av­ viso, va ribadita con convinzione, come è stato anche fatto di recente, 72 pur mantenendo l’usuale cautela che contraddistingue la serietà del lavoro sto­ rico. Per tornare, in chiusura, sul passo filodemeo mi pare che, nella sua Dissertatio inauguralis del 1925 su Pitocle, Kurt Prehn avesse tutte le ragioni per affermare che «non a Philodemo et Usenero epistula damnatur, sed a solo Usenero».73

2. Il destinatario: Pitocle Come è stato ragionevolmente sottolineato,74 Pitocle non è una lettera che Epicuro decise di scrivere autonomamente (un altro esempio celebre è la assai verosimilmente platonica VII Lettera che, stando al testo, venne richie­ 70 71 72 73 74

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Cfr. Mansfeld 1994: 29 n. 2. Così anche Isnardi Parente 1983: 29-30. Cfr. Runia 2018: 394 n. 48; cfr. anche Id. 2010: 263. Prehn 1925: 12. De Sanctis 2012; Taub 2017: 53-54.

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sta allo stesso Platone dai parenti di Dione: cfr. 323d; cfr. Butti de Lima 2015: 133 e Forcignanò 2020: 121-123); si tratta piuttosto di un’epistola esplicitamente richiesta dal discepolo Pitocle a Epicuro stesso, segno del fatto che tra i due vi era senza dubbio un rapporto di stima e di attenzio­ ne reciproca. È questo il motivo per cui occorre, seppur sinteticamente, ricostruire la personalità di questo membro della scuola, benché non sia impresa facile, considerata la scarsità delle notizie in nostro possesso. Evi­ dentemente soprattutto in questa lettera, rispetto a Erodoto e a Meneceo, il destinatario – proprio perché ne richiese a Epicuro la scrittura – gioca un ruolo assai rilevante; non per questo, però, dobbiamo commettere l’errore di pensare che il destinatario Pitocle esautori gli altri destinatari, per così dire, “silenti”. Il compendio dottrinario, insomma, è senz’altro utile a Pito­ cle, ma anche a tutti coloro che leggeranno il testo e che sono intenzionati a sposare la filosofia di Epicuro per essere concretamente felici,75 secondo un Leitmotiv che abbraccia molte opere filosofiche antiche (si pensi ancora alla VII Lettera, 337e);76 come è stato giustamente messo in luce,77 questo è vero anche per un poema come quello di Parmenide: il kouros di cui si parla si deve senz’altro identificare con l’io narrante ma è altrettanto in­ dubbio ritenere che lo scritto di Parmenide intendesse riferirsi a tutti quei kouroi che volevano intraprendere lo stesso particolarissimo (ma concreto e possibile)78 “viaggio” del filosofo di Elea e conoscere l’intima e “sferica” verità del tutto. Purtroppo le notizie che conserviamo su questo personaggio non sono né molte né di facile esegesi;79 Pitocle fu un importante membro della scuola epicurea della prima generazione; ebbe, pertanto, un rapporto diret­ to con il maestro. Essendo nativo di Lampsaco (forse nacque intorno al 324 a. C.),80 è molto probabile che Epicuro lo conobbe qui, durante il periodo in cui fondò un cenacolo filosofico (311/310-307/306 a. C.), dopo esser stato a Mitilene, dove costituì la sua prima “scuola”. Dalle fonti in nostro possesso si può concludere con una buona dose di verosimiglianza che Pitocle visse a lungo a Lampsaco; forse qui (dovremmo essere intorno

75 Cfr. ancora De Sanctis 2012, nonché l’ipotesi di Heßler 2011: 11, per cui alcuni destinatari delle lettere di Epicuro potrebbero essere già scomparsi al momento della composizione e della dedica dello scritto. 76 Cfr. Butti de Lima 2015: 159. 77 Cfr. e.g. Ferrari 2010: 171. 78 Cfr. Mansfeld 2021: 223-224. 79 Cfr. per un profilo aggiornato De Sanctis 2012: 99-102, Dorandi 2012 e ora Erbì 2020: 184-185. 80 Cfr. Dorandi 2012: 1786.

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al 300 a. C.) assunse la carica di precettore (epistates) dei figli di Cronio.81 Avendo abbandonato Lampsaco per dirigersi verso Atene per la fondazio­ ne del Kepos, Epicuro decise di lasciare il giovane Pitocle sotto la tutela di Polieno di Lampsaco,82 un altro filosofo epicureo che si distinse, in particolare, per i suoi interessi geometrico-matematici, ma anche astrono­ mici (abbiamo già ricordato la sua opera sulla luna).83 Da questo si evince con chiarezza il sincero interesse che Epicuro nutriva per Pitocle che, nella piena considerazione della paideia filosofica intesa come fondamento indiscusso della vita comunitaria all’interno della scuola, evidentemente Epicuro non voleva abbandonare, malgrado il suo distacco da Lampsaco. Nella tutela e nella formazione di Pitocle ricoprì un certo ruolo anche Metrodoro di Lampsaco (è probabile che quando Metrodoro accompagnò Epicuro ad Atene intorno al 307/306 a. C. per la fondazione del Kepos Pitocle fosse affidato, come abbiamo già visto, alle cure di Polieno);84 oltre che dal IV libro del De morte di Filodemo85 lo si apprende da un discusso frammento di un’epistola conservata dal PBerol. 16369 v. (col. II Dorandi = SV 51) che trasmette una lettera di Metrodoro a Pitocle.86 Qui Metrodoro mette in guardia Pitocle dai piaceri venerei87 che, secondo Metrodoro, non giovano mai e bisogna essere contenti se non arrecano danno.88 Ancora Filodemo, nel Peri parrhesias,89 trasmette una notizia che riguarda Pitocle: mentre nel caso del PBerol. 16369 v. è Metrodoro che interviene a favore di Pitocle per preservarlo dai piaceri d’amore, stavolta è Epicuro stesso a rim­ proverare (anche se metrios, moderatamente) il “giovane epicureo” molto probabilmente per aver indotto un altro membro della “famiglia” epicurea di Lampsaco, Leonteo, sposo di Temista (anch’essa legata a Epicuro), ad avere opinioni in ambito teologico che evidentemente il maestro non con­ divideva. Purtroppo ci sfuggono i termini precisi della questione; Graziano Arrighetti (1973: 674) ha pensato che questo documento confermasse la

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Cfr. infra: 52. PHerc. 1005 col. VI 8-20 Angeli = 3 Longo Auricchio = 2 Angeli. Cfr. supra: 42. Cfr. Sedley 1976: 45. PHerc. 1050, coll. XII 35-XIII 3 Henry = 63 Körte. Cfr. Erbì 2020: 178 n. 1. Cfr. Vogliano 1936: 274; in proposito Bignone 1973: II 274 ricorda opportuna­ mente la testimonianza di Alcifrone, Ep. IV 17, 3 = 162 Usener = 69 T Erbì, per cui Epicuro era solito chiamare Pitocle un Alcibiade: cfr. le osservazioni in merito di Erbì 2020: 186. 88 Cfr. Dorandi 2017: 110-111, nonché Id. 2014: 274-275. 89 PHerc. 1471, fr. 6 Olivieri = 152 Usener = 69 Arrighetti = 45 T Erbì; cfr. Piergiaco­ mi 2017: 139-141 e ora le opportune considerazioni di Erbì 2020: 156-158.

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polemica di Epicuro nei riguardi della “scuola” eudossiana di Cizico (poco distante da Lampsaco)90 che avrebbe avuto una deleteria influenza (anche in campo teologico) su Idomeneo, Leonteo e lo stesso Pitocle. Naturalmen­ te ciò è possibile e, tra l’altro, spiegherebbe bene il motivo per cui Pitocle richiese un prontuario sui fenomeni celesti e sulla cosmologia al fine di contrastare la scienza degli Eudossiani di Cizico,91 per quanto anche la comunanza con Polieno (e dunque con i suoi spiccati interessi scientifici) dovette forse ricoprire un ruolo significativo in questa vicenda.92 Vi è, in ogni caso, anche il rischio di sovrainterpretare il frammento del De libertate dicendi che, sfortunatamente, rimane assai oscuro; per questa ragione sarei molto cauto a pensare che il luogo filodemeo mostri come Pitocle (insieme a Leonteo) fosse un dissidente in ambito teologico. Considerando anche il più generale contesto del Peri parrhesias, io credo che Filodemo, menzio­ nando questa vicenda, avesse voluto provare non la dissidenza del gruppo lampsaceno (sul quale assai significative rimangono le notizie trasmesse dal PHerc. 176)93 ma la cura che Epicuro aveva nella crescita intellettuale e dottrinaria dei suoi discepoli che, evidentemente, potevano errare o incap­ pare in qualche fraintendimento senza per questo essere dei dissidenti.94 D’altronde, nell’epistola oggetto di questo lavoro, Pitocle non viene affatto presentato come un dissidente ma come un membro del cenacolo filosofi­ co che necessitava di un’epitome su un tema oggettivamente difficile e perfino controverso come il corretto studio more Epicureo delle cause dei meteora. Ciononostante, se mettiamo insieme le informazioni del PBerol. 16369 v. e quelle del Peri parrhesias osserviamo una costante: Metrodoro ed Epicuro hanno a cuore la formazione del giovane Pitocle che, come è naturale che sia, poteva avere bisogno di un supporto per comprendere gli errori, anche dottrinali, in cui eventualmente fosse incorso. Sono, tuttavia, anche del parere che questo atteggiamento di Pitocle non fosse dovuto solo alla sua giovane età, ma anche al fatto che il seguace di Epicuro doveva es­ sere una mente assai brillante, pur non avendo ancora raggiunto i diciotto anni di età, se è vero quanto testimonia Plutarco (Adv. Col. 1124C = 161

90 Cfr., in merito, Sedley 1976, Tepedino Guerra-Torraca 1996 e ora Barbieri 2017: 94-99 circa la decisiva testimonianza del Περὶ Ἐπικούρου filodemeo; dubita dell’e­ sistenza di questo cenacolo Podolak 2010: 45-55. 91 Cfr. Sedley 1976: 46 n. 80. 92 Cfr. Diano 1948: 66-67 ed Erbì 2020: 176. 93 Cfr. Angeli 1988b. 94 Cfr. Angeli 1981: 51; più in generale sulla vexatissima quaestio della dissidenza epicurea cfr. Verde 2010b.

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Usener = 118 Arrighetti = 67 T Erbì)95 nel suo scritto contro Colote (una fonte, questa, particolarmente polemica, dunque da usare con specifica cautela): una natura e un ingegno simili potevano aver bisogno di una guida sicura come lo era senz’altro quella offerta da Epicuro e Metrodoro. A mio giudizio, la natura eccezionale e straordinaria del giovane disce­ polo (ben riscontrabile anche nella pratica quotidiana, per esempio nell’or­ ganizzazione di una esemplare cerimonia funebre per suo fratello Apollo­ doro morto prematuramente)96 è la ragione più intima per cui egli fu il destinatario di parecchie epistole da parte di Epicuro, non solo, dunque, di quella sui meteora. È chiaro, poi, che la cronologia e la durata della vita di Pitocle sono dati essenziali per collocare l’Epistola a Pitocle. Sulla possibile datazione dello scritto – da cui dipende anche quella dell’Epistola a Erodoto –97 rimane utile la messa a punto di Eckstein (2004: 130-131), secondo il quale, se si ammette che Pitocle fosse nato, con Sedley (1976: 45), intorno al 324 a. C. e se si esclude che fosse più che ventenne quando richiese l’epitome a Epicuro, la composizione della lettera potrebbe cadere tra il 306 (o il 307) e il 304 a. C.98 Nessuna di queste epistole a Pitocle è giunta integralmente ma ne posse­ diamo alcuni frammenti (solo di passaggio segnalo che il nome di Pitocle compare anche nel PHerc. 1012, LXX 9 Puglia contenente lo scritto di “filologia filosofica” di Demetrio Lacone ma purtroppo il contesto è così lacunoso che non è possibile dire null’altro se non che si tratti verosimil­ mente di un’altra lettera a Pitocle);99 forse quello più celebre è trasmesso da Diogene Laerzio (X 63 = 163 Usener = 89 Arrighetti = 70 Fa Erbì) e rie­ cheggiato da Plutarco (Contra Epicur. beat. 1094D = 164 Usener = 6 T Erbì), nel quale Epicuro invita il giovane allievo a non conformarsi alla paideia tradizionale ma, anzi, a rifuggirla;100 è il medesimo motivo che ritroviamo nell’Epistola ad Apelle,101 dove è chiarissima l’esortazione a purificarsi dalla paideia e dai mathemata, le discipline scientifiche e specialistiche che la

95 Sul presunto “innamoramento” di Epicuro cfr. Diog. Laert. X 5 = 165 Usener = 88 Arrighetti = 68 F Erbì e ancora la testimonianza di Alcifrone, Ep. IV 17, 3 = 162 Usener = 69 T Erbì e le note di De Sanctis 2012: 101 n. 32. 96 Cfr. PHerc. 176 fr. 5, col. XVIII 1-7 Angeli con Angeli 1988b: 44-45. 97 Cfr. Verde 2010a: 65. 98 Più scettico su questa datazione Montarese 2012: 144-145 ma cfr. anche Erbì 2020: 184. 99 Cfr. Puglia 1988: 309. 100 Cfr., in merito, Clay 2004. 101 Cfr. Plutarch. Contra Epicur. beat. 1094D e anche il filologicamente problemati­ co passo di Athen. Deipn. XIII 588A = 117 Usener = 43 Arrighetti = 6 F Erbì.

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costituiscono e ad applicarsi alla filosofia (di Epicuro).102 Nulla sappiamo del destinatario Apelle103 ma è molto probabile che la lettera a Pitocle trasmessa da Diogene dovesse riguardare un destinatario ancora molto gio­ vane che, per l’appunto, veniva messo in guardia dalla paideia tradizionale che, per esempio, era caldeggiata dalle altre scuole filosofiche, l’Academia e il Peripato in primis, ma anche successivamente la Stoa. Non è possibile qui scendere nei dettagli dell’atteggiamento epicureo nei confronti dei mathemata che, in ogni caso, non sono del tutto disprezzati se possono contribuire al raggiungimento del telos che promette l’esercizio costante della filosofia, ovvero l’ottenimento dell’ataraxia,104 tuttavia l’esortazione è a guardarsi bene da quelle discipline tradizionali (dalla retorica alla matematica, dalla poesia alla musica) che di per se stesse – ovvero senza il supporto e la vicinanza della filosofia – non possono condurre alla felicità ma, anzi, la allontanano sempre più. In questo contesto, dove le diverse scuole filosofiche (in particolare l’Academia, ma anche, ovviamente, la scuola di Isocrate e l’Aristotele del Protreptico)105 facevano, per così dire, a gara per assicurarsi più giovani possibili da formare soprattutto in vista della dimensione politica (cfr., solo a mo’ di esempio, Plat. Ep. VII 324b e 328d-e) – uno spazio importante anche per la riflessione epicurea che non si limitava a rifuggire sterilmente questo ambito106 ma che, però, allo stesso tempo, ben poco condivideva dell’attitudine platonico-aristotelica nei riguardi dell’impegno politico. Dallo scritto sulla ricchezza di Filodemo107 apprendiamo che Pitocle fu il destinatario – verosimilmente sempre in una epistola – di un’altra massima/esortazione, stavolta riguardante i mutamenti della sorte: Epicuro invita Pitocle a non abbattersi di fronte al repentino cambiamento della fortuna bensì a sopportare una situazione del genere al fine di non avere turbamento. Pitocle, inoltre, è il protagonista di una lettera di Epicuro a Idomeneo che conosciamo da Seneca108 e da Stobeo:109 Epicuro invita Idomeneo a pensare che se vuole rendere davvero ricco Pitocle occorre

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Sul tema cfr. anche Sext. Emp. M I 1-6. Cfr. Erbì 2020: 21 e 43. Per approfondire cfr. Verde 2016a e Id. 2021b. Cfr. Isnardi Parente 1979: 235-305; Berti 2000: XIII-XXVIII e, per un’utile visione di insieme, Id. 2010: 200-242. Cfr. Roskam 2007, Spinelli 2018, Id. 2019a e ora Erler 2020: Ch. 3. Philod. De div. I, PHerc. 163, col. XXXVI 6-9 Tepedino Guerra = 90 Arrighetti = 71 F Erbì. Sen. Ep. II 21, 7 = 135 Usener = 19 b Angeli = 36 Fb Erbì. Stob. Ecl. III 17, 23 = 135 Usener = 53 Arrighetti = 19 a Angeli = 36 Fa Erbì.

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sottrarre qualcosa ai suoi desideri. Si osserva qui la tipica concezione epi­ curea della ricchezza (ploutos) che non è un aggiungere smodatamente sostanze su sostanze ma un diminuire e finanche togliere i desideri.110 È interessante che Epicuro menzioni Pitocle e i suoi desideri: questo, forse, potrebbe riportarci al contenuto del PBerol. 16369 v. nel quale, come abbia­ mo già detto, Pitocle è presentato come eccessivamente incline ai piaceri (e dunque ai desideri) venerei. Pienamente infondata, infine, è l’ipotesi che Pitocle sia morto a diciotto anni.111 A questo proposito giova rivolgere l’attenzione a un passo delle cosiddette Memorie epicuree o Pragmateiai (PHerc. 1418 e 310) nelle quali, tra gli excerpta trasmessi, Filodemo ne riporta uno forse proveniente da una lettera di Metrodoro a Cronio (col. XX 3-18 Militello). L’identità di Cronio è alquanto dibattuta, tuttavia è molto probabile che fosse un appartenente al cenacolo eudossiano di Cizico che, tuttavia, volle convertirsi alla scuola epicurea presente a Lampsaco; per far questo, oltre che, forse, per una scarsa abilità in campo filosofico, volle farsi presentare a Epicuro tramite Leonzio (compagna di Metrodoro)112 e lo stesso Pitocle che furono bene­ voli con lui (cfr. Militello 1997: 235-236 ed Erbì 2020: 42 e n. 5). Il dato interessante è che in questa lettera si dice che Pitocle viveva con Cronio e ricopriva la funzione di epistates (tutore) dei suoi figli: di qui si può inferire sia che probabilmente Cronio non doveva essere tanto giovane (o sano?) se aveva bisogno di chi si prendesse cura dei suoi figli sia che, se è vero che fu tutore dei suoi figli, Pitocle non poteva avere poco meno o poco più di diciotto anni ma doveva essere un uomo alquanto maturo e consapevole del suo ruolo sociale.113 Da questo punto di vista, è stato ipotizzato che tra Cronio e Pitocle vi fossero anche legami di parentela114 oltre a quelli di philia. In conclusione, da questa rapida panoramica, dai testi che abbiamo esaminato Pitocle emerge come una figura importante e di primo piano della scuola epicurea; senz’altro fu uno degli epicurei più rilevanti del circolo lampsaceno (menzionato insieme a Ermarco e Ctesippo),115 ben

110 Cfr. Erbì 2020: 188 e, più in generale sul tema della ricchezza nell’Epicureismo, Laurenti 1973 e Spinelli 1996. 111 Cfr. Eckstein 2004: 131. 112 Cfr. Diog. Laert. X 23. 113 Cfr. Militello 1997: 238-239 e la notizia del PHerc. 176, fr. 5, col. XVIII Angeli. 114 Cfr. Tepedino Guerra-Torraca 1996: 139. 115 PHerc. 176, fr. 5 col. XXIII 1-6 Campos Daroca-de la Paz López Martínez = 2 Longo Auricchio, verosimilmente una lettera scritta da Batide – sorella di Metrodoro e sposa di Idomeneo: cfr. Diog. Laert. X 23 = 3 Angeli – alla nipote

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consapevole anche della sua personalità filosofica, specialmente se si accet­ ta l’ipotesi di Marcello Gigante (1981: 82-85) circa il fr. 5 col. 26 Vogliano ancora del PHerc. 176, secondo la quale Pitocle avrebbe polemizzato con un certo Diotimo116 che, secondo Gigante, era un pensatore democriteo.117 Da tutto ciò si evince con chiarezza, quindi, come Pitocle giocò un ruolo centrale tanto nei riguardi della scuola quanto nei confronti di Epicuro stesso; fu, infatti, il destinatario di molte epistole di Epicuro (ma non solo), il che prova quanto profonda dovesse essere la cura e l’attenzione nutrite dal maestro per questo allievo. Non stupisce, di conseguenza, che la lettera qui in esame concernente un aspetto chiave della scienza della natura epi­ curea sia indirizzata proprio a Pitocle il quale, forse da Lampsaco, ne aveva fatto esplicita richiesta a Epicuro. Ancora una volta in Pitocle ritroviamo l’allievo scrupoloso e attento alla comprensione e alla sequela delle dottri­ ne epicuree, bisognoso di un prontuario utile a sé e a tutti coloro che fosse­ ro interessati a capire quali fossero le cause (si badi all’uso del plurale!) dei fenomeni celesti e meteorologici per non averne alcun timore ma, anzi, tramite l’esatta comprensione scientifica, per ottenere quella imperturbabi­ lità duratura che, con ogni probabilità, l’eccezionale natura di Pitocle do­ vette concretamente raggiungere nel corso della sua vita.

3. La dottrina della causalità e il metodo delle molteplici spiegazioni causali in Epicuro Oltre che nello Stoicismo di epoca ellenistica (con la sua meticolosa conce­ zione della causalità),118 il concetto di causa ricopre un ruolo fondamenta­ le nell’Epicureismo.119 Hermann Usener (1977: 26-27) nel suo Glossarium Epicureum dedica quasi due pagine al nome αἰτία, senza contare, dal punto di vista terminologico, la presenza dei seguenti lemmi: αἰτιᾶσθαι, αἰτιολογεῖν, αἰτιολογία, αἰτιολογικός, αἴτιος/αἴτιον. La modalità secondo la quale la causalità è applicata nell’ambito della filosofia di Epicuro è signifi­ cativa nel panorama delle filosofie ellenistiche e ciò è anche provato dai tre significati fondamentali secondo i quali, ancora secondo Usener, si decline­ rebbe la nozione epicurea di causa: causa, res effectrix e vis effectrix. Studiare

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Apia, figlia di Metrodoro: cfr. Angeli 1988b: 50-51 e Campos Daroca-de la Paz López Martínez 2010: 33-34. Cfr. Sext. Emp. M VII 140 con Spinelli 1997: 163-165, nonché supra: 43. Cfr. anche Verde 2013c: 57-58. Cfr. Ioppolo 1994. Cfr. Verde 2013b e Masi 2014a.

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la nozione di causa nell’Epicureismo significherebbe prendere in esame più testi, come i libri XXV e XXVIII del Περὶ φύσεως di Epicuro e almeno il De ira, il De morte e il De pietate di Filodemo. In questa sede, invece, si considereranno principalmente l’Epistola a Erodoto e, in particolare, l’Epi­ stola a Pitocle, senza tralasciare, tuttavia, alcuni utili confronti con il libro XI del Περὶ φύσεως (PHerc. 1042, 154 = [26] Arrighetti), Lucrezio e Dioge­ ne di Enoanda. Si comprende bene il ruolo cruciale della causa, quando si apprende dal § 78 dell’Epistola a Erodoto come il compito fondamentale della φυσιολογία o scienza della natura sia (“aristotelicamente”) l’accurata investigazione (ἐξακριβῶσαι) della causa delle questioni (fisiche) più im­ portanti (τῶν κυριωτάτων αἰτία), dunque dei fenomeni fondamentali. Cre­ do che il riferimento più diretto sia agli atomi e al vuoto (cfr. Hrdt. 39) che costituiscono, infatti, le cause ultime e basilari (i principi supremi, dun­ que) di ogni fenomeno, studiate con accuratezza dalla φυσιολογία. Già nell’Epistola a Erodoto (§§ 78-80) – la cui stesura, come si è visto,120 precede verosimilmente di poco la lettera a Pitocle (cfr. Pyth. 85) – Epicuro intro­ duce il tema dei fenomeni celesti e meteorologici (τὰ μετέωρα), la cui co­ noscenza (γνῶσις) conduce direttamente alla beatitudine (τὸ μακάριον). Il caso dello studio dei fenomeni celesti esemplifica bene la stretta connessio­ ne esistente tra la conoscenza e la beatitudine che si ottiene esclusivamente attraverso di essa; all’inizio della lettera a Pitocle (85) Epicuro è molto chia­ ro in proposito. Lo studio di τὰ μετέωρα non è affatto fine a se stesso o uti­ le per ampliare la conoscenza scientifica dei fenomeni celesti, ma è finaliz­ zato solamente all’ottenimento saldo e duraturo della ἀταραξία e della πίστις βέβαιος, ovvero della credenza che viene opportunamente/ulterior­ mente qualificata come βέβαιος, stabile e ben fondata (anche perché ricon­ ducibile agli assunti di fondo, quali l’atomismo e l’accordo con i fenome­ ni). Ciò è possibile escludendo che la divinità sia responsabile di questi fe­ nomeni che, di frequente, erano considerati come l’espressione dell’attitu­ dine punitiva da parte degli dei nei riguardi dell’umanità e delle sue colpe, come, per esempio, attesta una significativa testimonianza democritea121 che non può non ricordare il nucleo dottrinario centrale del Sisifo.122 Mentre in ambito specificamente teologico, quando si tratta di giustifi­ care l’incorruttibilità e la beatitudine divine, il metodo delle molteplici spiegazioni causali (rintracciabile anche nel libro XI del Περὶ φύσεως)123

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Cfr. supra: 50. Sext. Emp. M IX 24 = 68 A 75 DK = VII 27 D207 LM. Cfr. supra: 29-30. Cfr. Epicur. Nat. XI [26] [42] Arrighetti.

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non è valido, lo stesso non può dirsi per altri fenomeni come τὰ μετέωρα. Coloro che, infatti, ignorano le κυριώταται αἰτίαι di questi fenomeni sono colti da paure e turbamenti, in quanto non riconducono τὰ μετέωρα alle loro cause supreme, ossia gli atomi e il vuoto; anzi, aggiunge Epicuro, perfino coloro che sono esperti di questi fenomeni sono presi da paure maggiori quando lo stupore (τὸ θάμβος) derivante dalla conoscenza detta­ gliata e minuziosa (προσκατανόησις) di τὰ μετέωρα non conduce all’imper­ turbabilità κατὰ τὴν οἰκονομίαν περὶ τῶν κυριωτάτων, ossia quando tale conoscenza non è “economicamente” ridotta e ricondotta ai principi capi­ tali (gli atomi e il vuoto). Alla fine del § 79 dell’Epistola a Erodoto Epicuro scrive che «[P]er questo motivo, quindi, quanto a rivoluzioni e tramonti e levate ed eclissi e altri fenomeni simili, come anche rispetto a quelli che si generano singolarmen­ te (ἐν τοῖς κατὰ μέρος γινομένοις), troviamo più cause (πλείους αἰτίας εὑρίσκομεν)» (trad. mia). Epicuro, in relazione ai fenomeni celesti, alla let­ tera, non parla qui di molteplici spiegazioni (causali) ma di più cause (a lo­ ro volta riconducibili alle κυριώταται αἰτίαι), evidentemente perché non tracciava una distinzione netta tra causa e spiegazione (causale), come sarà ancora più evidente nell’Epistola a Pitocle.124 L’espressione ἐν τοῖς κατὰ μέρος γινομένοις, di primo acchito, potrebbe sembrare in contraddizione con il πλεοναχὸς τρόπος, il metodo delle molteplici spiegazioni causali che, per Epicuro, vale anche per questi fenomeni che avvengono κατὰ μέρος.125 A mio avviso, non si tratta né dei fenomeni che poi saranno descritti nell’Epistola a Pitocle, né dei singoli casi considerati da Epicuro, ma di quei fenomeni che avvengono in modo particolare, di difficile classificazione, che si danno di tanto in tanto e, pertanto, non ciclicamente. Anche di que­ sti fenomeni, di conseguenza, occorre avere una conoscenza accurata, se si intende ottenere l’imperturbabilità e la beatitudine. In ogni caso, per com­ prendere correttamente il pleonachos tropos, occorre iniziare dall’epitome a Erodoto nella quale, prima di Pitocle, Epicuro spiega questo peculiare me­ todo investigativo in riferimento a τὰ μετέωρα. Epicuro già nell’Epistola a Erodoto (§§ 78-80) introduce il tema dei feno­ meni celesti e meteorologici, la cui conoscenza (γνῶσις) conduce diretta­ mente alla beatitudine (τὸ μακάριον). Abbiamo già osservato come Epicu­ ro126 sia fermamente convinto che la ricerca scientifica non sia fine a se stessa ma la si conduca esclusivamente per finalità etiche (interessante, in

124 Cfr. su questo punto Maso 2016b. 125 Su questa espressione cfr. anche infra: 255. 126 Cfr. Epicur. RS XI-XII.

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proposito, ciò che si legge nel Timeo – 40c-d –, dove Platone osserva come i moti degli astri non possano provocare paure o fornire presagi circa il futu­ ro, se essi vengono calcolati con precisione grazie a quelle strumentazioni astronomiche, contro le quali, successivamente, Epicuro sollevò la sua po­ lemica).127 All’inizio dell’Epistola a Pitocle (85) si dice che lo studio di ta meteora non è affatto “autonomo” o unicamente utile per ampliare la cono­ scenza scientifica della natura, ma è finalizzato esclusivamente all’otteni­ mento della ἀταραξία e della πίστις βέβαιος, della credenza che viene op­ portunamente/ulteriormente qualificata come βέβαιος, salda, stabile e ben fondata (anche perché riconducibile agli assunti di fondo, quali l’atomi­ smo e l’accordo con i fenomeni). Questo è il motivo peculiare per cui la conoscenza dei fenomeni celesti non può essere né approssimativa né sem­ plicemente verosimile. Proprio tenendo conto della onnicomprensiva fina­ lità etica della meteorologia epicurea è possibile apprezzare, tra l’altro, il modo in cui l’Epistola a Pitocle è strutturalmente costruita ossia come un testo organizzato per la rapida memorizzazione e la consultazione velo­ ce:128 di qui, per esempio, si comprendono le reiterate ripetizioni soprat­ tutto di carattere metodologico relative al pleonachos tropos,129 senza per questo giungere alla conclusione, a mio modo di vedere eccessivamente ri­ duttiva, che «[T]he entire letter had been a response to Pythocles’ difficulty in memorising Epicurus’ physical doctrines».130 Mentre in ambito specifi­ camente teologico, quando si tratta di giustificare l’incorruttibilità e la bea­ titudine divine, il metodo delle molteplici spiegazioni causali non è valido, lo stesso non può dirsi per altri fenomeni come quelli celesti. Al § 80 dell’Epistola a Erodoto Epicuro spiega il metodo delle molteplici spiegazioni causali in riferimento a τὰ μετέωρα. Il punto di partenza è la considerazione empirica e diretta, dunque παρ᾽ ἡμῖν,131 dei diversi modi in cui si genera (ποσαχῶς [...] γίνεται) ciò che è simile (τὸ ὅμοιον) al fenomeno celeste di cui si intendono investigare le cause. Il fenomeno celeste, pertan­ to, appartiene, in ultima analisi, agli ἄδηλα (quantunque questo termine non si rintracci in Pitocle), le cose che, non essendo direttamente oggetti di percezione, sono non evidenti; ciò ricorda l’espressione περὶ τῶν ἀφανῶν τῇ

127 Cfr. infra: 180-181. 128 Cfr. Tulli supra: 17-22, nonché Giussani 1923: XXX n. 1, Tulli 2014, Masi 2014b, Braicovich 2017, Spinelli 2019b, Capassso 2019, nonché Asper 2007: 222-236 e Damiani 2021: Cap. 4; più in generale cfr. Tulli 2000, MacGillivray 2015 e Vatri 2015. 129 Cfr. Marković 2008: 26 e 136. 130 Chandler 2014: 75. 131 Cfr. Epicur. Nat. XI [26] [23] Arrighetti.

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αἰσθήσει riferita da Aristotele in Meteor. I 7, 344a 5 ai fenomeni nascosti al­ la sensazione che sono oggetto di indagine. Gli atomi e il vuoto, tuttavia, sono ἄδηλα in senso assoluto, mentre i μετέωρα sono ἄδηλα in un senso, per così dire, più moderato (sono τῷ γένει ἄδηλα, per dirla con Sext. Emp. M VIII 319), dato che si tratta solamente di realtà lontane da noi, quindi non ben esperibili. Solo per inciso aggiungo che questo stesso problema era ottimistica­ mente affrontato anche da Galileo Galilei nella ben nota Terza lettera al Sig. Marco Velseri nella Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1612), nella quale viene nettamente esclusa la possibilità di investigare «l’essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali» a favore «d’alcune loro affezioni» che, invece, rappresentano l’oggetto privilegiato della scienza. In questo testo programmatico Galilei mantiene fermo che «se vorremo fermarci nell’appressione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più esattamente in quelli che in questi». Inoltre, anche per Galilei il riferimento agli eventi più vicini a noi e più direttamente controllabili dal punto di vista empirico rimane essenziale per l’indagine dei corpi celesti: «E se, domandando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata, ed in quello resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l’acqua, ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi conti­ nuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell’acqua è solamente più vicina e dipendente da più sensi, ma non più intrinseca di quella che io avevo per avanti delle nugole».132 Tornando a Epicuro, dal momento che la ricerca su τὰ ἄδηλα deve essere possibile (per finalità etiche), occorre partire da fenomeni in qualche mo­ do simili a quelli celesti, o più correttamente, dalle loro diverse modalità di generazione, controllabili dal punto di vista percettivo. Solo in un secondo momento sarà possibile ricercare le cause (αἰτιολογητέον) del fenomeno ce­ leste (o non evidente che sia). La chiusa del § 80 della lettera, tuttavia, non è di facile comprensione: «Se dunque pensiamo che un fenomeno può (ἐνδεχόμενον) generarsi (γίνεσθαι) anche proprio in quella maniera (καὶ ὡδί πως), sapendo che lo stesso si genera in molti modi (πλεοναχῶς γίνεται), sa­ remo imperturbati (ἀταρακτήσομεν) come se sapessimo che quel fenomeno accade proprio in quella maniera (ὡδί πως γίνεται)» (trad. mia). Il discorso

132 Brunetti 2005: I 374-375.

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concerne l’aitiologia relativa alla generazione dei fenomeni; il passo conser­ va un senso innegabilmente peculiare ma che può riassumersi come segue. Se, sulla base della dottrina di Epicuro, sappiamo che un certo fenomeno può verificarsi in molti modi (ma necessariamente limitati) e riteniamo che possa generarsi anche proprio in questo modo, ossia secondo una delle possibilità esplicative confermata e non smentita dall’evidenza sensibile, sa­ remo egualmente imperturbati, come se sapessimo che si genera proprio in questa maniera. Insomma: nei molti modi che sappiamo poter essere all’o­ rigine di quel certo fenomeno deve poter essere compreso anche quello che eventualmente pensiamo sarebbe proprio del caso presente (a patto che tale modalità sia comunque compatibile con i molti modi per cui lo stesso fenomeno si genera). È soprattutto l’incipit dell’Epistola a Pitocle (85-88) che spiega ed esempli­ fica con lucidità e nel dettaglio ciò che rimaneva essenzialmente implicito nei paragrafi finali dell’Epistola a Erodoto. Per esaminare adeguatamente il metodo delle molteplici spiegazioni causali, occorre chiedersi per quale motivo Epicuro si sia spinto a fornire diverse spiegazioni dei fenomeni celesti. Se la finalità privilegiata del πλεοναχὸς τρόπος è l’imperturbabilità, Epicuro avrebbe potuto addurre per ogni fenomeno celeste una sola spie­ gazione che non fosse né mitica né, per così dire, divino-teleologica e fosse, quindi, riducibile agli atomi e al vuoto. In questo modo Epicuro avrebbe potuto fare a meno del πλεοναχὸς τρόπος; eppure non lo fa e, anzi, per ogni fenomeno celeste adduce più spiegazioni, tutte in ogni caso riconducibili alla sua concezione materialista e atomista della realtà senza fare ricorso a cause mitico-religiose, il che è già tipico di Aristotele e, più in generale, della tradizione peripatetica (cfr., in merito, le rapide osservazioni di Baksa 2020: 145). Di ciò, in Epicuro, vi è, a mio parere, una motivazione precisa. Occorre anzitutto tenere presente un punto decisivo: come si legge all’inizio della lettera (86), i fenomeni celesti, differentemente da altri fe­ nomeni, hanno molteplici cause della loro generazione (πλεοναχὴν [...] τῆς γενέσεως αἰτίαν) e molteplici determinazioni/spiegazioni della loro essenza (τῆς οὐσίας [...] κατηγορίαν) in accordo con le sensazioni (ταῖς αἰσθήσεσι σύμφωνον). La molteplicità delle spiegazioni di un dato fenomeno celeste è la diretta conseguenza della molteplicità delle cause della sua generazione; forse proprio in questa prospettiva va considerato un significativo luogo del libro XI del Περὶ φύσεως ([26] [41] Arrighetti) dove, seguendo la ricostruzione di Graziano Arrighetti, Epicuro fa riferimento alle diverse disposizioni o τάξεις (dei fenomeni) in sé (καθ’ ἑα[υτό]) e non rispetto a noi (πρὸς ἡμᾶς). Epicuro, dunque, per un verso, esclude la possibilità di ricadere nel temibile μῦθος (dove si andrebbe a finire, nel caso si accet­ 58

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tasse una spiegazione e se ne rifiutasse un’altra, pur essendo in accordo con i fenomeni), per un altro, elimina la causa unica e onnicomprensiva, capace di spiegare ogni cosa, ricercata ossessivamente dall’Academia e dal Peripato133 ma, se si vuole, anche dalla scienza astronomica. Un fenomeno celeste, quindi, lontano da noi e considerato a torto di origine divina, può accadere in modo diverso e ciò elimina il turbamento perché esclude una sola causa necessaria di generazione ma ammette tante cause quante ne permette la percezione sensibile di ciò che avviene presso di noi. Sulla base di questo importante passo della lettera a Pitocle, Epicuro sembra differenziare due tipologie diverse di fenomeni: (1) i fenomeni che ammettono una sola spiegazione (μοναχὸς τρόπος) e (2) i fenomeni che, invece, ammettono più spiegazioni (πλεοναχὸς τρόπος). Per quanto concer­ ne il monachos tropos, giova ricordare che si tratta del metodo preferito dai dogmatici i quali, sulla base del secondo degli otto tropi di Enesidemo,134 preferiscono optare (arbitrariamente) per una spiegazione causale, quando del medesimo oggetto vi è una molteplicità di spiegazioni valide.135 Per ciò che riguarda il pleonachos tropos, invece, le diverse spiegazioni dei fenomeni celesti e meteorologici a cui questo metodo allude non sono affatto «pura­ mente probabili», laddove quelle relative a quei fenomeni che hanno una sola spiegazione sono «logicamente necessarie», come è stato detto.136 Per comprenderne il motivo, è bene esaminare più da vicino questa dottrina. Il fatto che il tutto sia corpi e natura intangibile o che gli elementi fondamentali siano indivisibili sono questioni che non ammettono e non possono ammettere più spiegazioni; dell’indivisibilità degli atomi non pos­ sono darsi più spiegazioni. Altri fenomeni, come quelli celesti, invece, ammettono molteplici spiegazioni causali della loro essenza (materiale)137 per il semplice fatto che molteplici sono le cause effettive della loro ge­ nerazione. Il metodo delle molteplici spiegazioni causali consegue alle molteplici cause della γένεσις dei fenomeni celesti; sebbene di queste cause non si abbia apprensione diretta, non mi sembra condivisibile l’idea che

133 Cfr. Bakker 2018: 61: «Providing single explanations for celestial phenomena is typically practised by devotees of astronomy – not just professional astronomers, but also those who accepted and incorporated the astronomers’ findings into their own cosmologies, like Plato, Aristotle and the Stoics». 134 Cfr. Sext. Emp. PH I 181 = B 14 Polito. 135 Cfr. su questo punto Spinelli 2005: 86-87 e Catapano 2018: 154-158. 136 Mondolfo 2012: 145. 137 Per l’accezione “materiale”, appunto, del termine οὐσία in questo contesto, cfr. Bénatouïl 2003: 22.

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la conoscenza della γένεσις risulti da una «projection intellectuelle».138 Ciò legittima il fatto che questo metodo non solo non ha nulla a che fare con lo scetticismo, ma soprattutto non è una risposta a un assoluto deficit epi­ stemologico concernente la nostra possibilità di conoscenza dei fenomeni celesti,139 che pure rimangono realtà non direttamente evidenti. Più nel dettaglio, che cosa significa che τὰ μετέωρα hanno più cause della loro γένεσις? I fenomeni celesti hanno più cause in se stessi oppure i fenomeni che accadono presso di noi (e che percepiamo direttamente) – e da cui, per analogia,140 conosciamo quelli celesti – hanno più cause? Νel testo del § 86 della lettera Epicuro non si limita a dire che τὰ μετέωρα hanno più cause della loro generazione e più determinazioni della loro essenza, ma aggiunge significativamente un riferimento a quell’inaggi­ rabile “banco di prova” che è l’accordo con le sensazioni (ταῖς αἰσθήσεσι σύμφωνον; cfr. anche RS XXIV). Esaminando con attenzione la costruzione del testo, si osserva come tale riferimento non sia al fatto che i fenomeni celesti hanno più cause della loro γένεσις ma sia più direttamente alla loro τῆς οὐσίας κατηγορία. Di conseguenza, è soprattutto la determinazione/ spiegazione dell’essenza dei fenomeni celesti che deve essere in accordo con le sensazioni. In che modo, tuttavia, Epicuro può sostenere che τὰ μετέωρα hanno più cause? Credo che la risposta sia ancora interna all’Epi­ stola a Pitocle; la chiusa del § 87 contiene un’informazione decisiva.141 Alcu­ ni fenomeni (φαινόμενα) che avvengono παρ᾽ ἡμῖν sono σημεῖα, cioè segni o indizi, dei fenomeni celesti.142 Interrompo questo discorso solo per una

138 Bollack-Laks 1978: 121. 139 Cfr., in merito, le notazioni di Bénatouïl 2003: 36-37; cfr. anche Bowen 2013: 48 n. 36. 140 Cfr. Epicur. Nat. XI [26] [30], [38], [41] e [42] Arrighetti; è in virtù dell’analogia e del processo induttivo che si comprendono i riferimenti alla somiglianza – ὁμοίωμα – con i fenomeni e alla διάνοια nel libro XI del Περὶ φύσεως. 141 Ma non del tutto ignota alla tradizione peripatetica: cfr. infra: 97; si consideri, per esempio, la trattazione aristotelica dei terremoti causati dal vento in analogia con il soffio a noi interno che è causa di tremiti e palpitazioni – cfr. Aristot. Meteor. II 8, 366b 14-22; sulla relazione tra ciò che è nascosto alla sensazione e la formulazione di una spiegazione possibile in Aristotele cfr. Meteor. I 7, 344a 5-8, dove, tuttavia, il netto ricorso al λόγος e al margine (seppure limitato) di “incertezza” – indicato nel testo da μάλιστα – della modalità esplicativa dell’acca­ dimento dei fenomeni in questione mi pare siano divergenze importanti rispetto alla posizione epicurea – cfr. Asmis 1984: 330. 142 Ancora nell’ambito della trattazione dei terremoti, dopo averne esposto le cause in relazione all’aria, Aristotele – Meteor. II 8, 366b 30-31 – ne rintraccia dei σημεῖα – ottenibili πρὸς ἡμετέραν αἴσθησιν – in alcuni fenomeni sismici recenti, dunque empiricamente controllabili. Il riferimento ai fenomeni παρ᾽ ἡμῖν nel­

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precisazione che considero assai rilevante; il tema della mone della terra, co­ me appena visto, doveva essere centrale nel libro XI del Sulla natura,143 tut­ tavia in Pitocle questo problema non viene considerato.144 Le ragioni posso­ no essere varie; sicuramente Epicuro dovette fare una cernita dei meteora da affrontare nell’epitome e senza dubbio non poteva trattarli tutti. È proba­ bile, dunque, che la mone della terra non fosse un fenomeno così rilevante nell’economia di un compendio come la lettera a Pitocle, forse perché non era così immediatamente/direttamente orientato e connesso al fine etico che regge la scienza dei meteora e che l’epistola esibisce di continuo.145 Ciò conduce a una riflessione più generale: il caso della mone della terra, tra gli altri, mostra come non vi sia perfetta e pedissequa corrispondenza tra il Peri physeos e Pitocle (ammesso che il testo della lettera non includa lacu­ ne),146 il che fa concludere che reputare la lettera come una mera epitome non significa affatto sminuirne l’importanza, ma, anzi, accentuare la sua spiccata autonomia come opera a sé stante.147 Tornando alla questione del metodo investigativo, Epicuro dice che segni dei fenomeni celesti sono dei φαινόμενα che avvengono presso di noi e che occorre porre attenzione al φάντασμα (dei fenomeni celesti). Potrebbe sembrare che il significato di φαινόμενον sia irriducibile a quello di φάντασμα, mi pare, tuttavia, che tale distinzione (se c’è) sia piuttosto sottile; il φάντασμα, infatti, indica, a mio avviso, semplicemente il modo di manifestarsi del fenomeno celeste in questione. Ora, dal momento che non è possibile avere diretta esperienza di come avvengano τὰ μετέωρα, occorre considerare quei fenomeni che accadono παρ᾽ ἡμῖν da cui, quindi, inferire analogicamente le diverse modalità in cui i fenomeni celesti accadono. Dei fenomeni παρ᾽ ἡμῖν osserviamo direttamente come avvengono e si produ­ cono/sono (ὑπάρχει), a differenza di ciò che accade ἐν τοῖς μετεώροις che, infatti, può (ἐνδέχεται) avvenire (γίνεσθαι) πλεοναχῶς. Ciò, tuttavia, non significa affatto che i fenomeni παρ᾽ ἡμῖν non possano accadere πλεοναχῶς e, infatti, Epicuro non lo esclude. Occorre, pertanto, osservare (τηρετέον) il φάντασμα di ciascuno (dei fenomeni celesti), ovvero il modo in cui

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l’investigazione del peso e della stabilità della terra è ben rintracciabile in Nat. XI [26] [23] Arrighetti. Sempre utile su questo tema lo studio di Barigazzi 1950; cfr. ora anche Leone 2020 e soprattutto Ead. 2021 per il confronto con Lucrezio. Sul tema della terra e, forse, della sua forma cfr. Diog. Oen. fr. 66 Smith con le note di commento di Smith 1993: 511. Per una diversa spiegazione cfr. Arrighetti 1975: 42. Cfr. Montarese 2012: 283-287. Cfr. Damiani 2021: 311-329.

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essi si manifestano alla percezione sensoriale148 e, in rapporto a ciò che è congiunto a tale φάντασμα (ἐπὶ τὰ συναπτόμενα τούτῳ) – ossia, mi pare, le opinioni che si formulano proprio in relazione al φάντασμα del fenomeno celeste –, discernere (διαιρετέον)149 quelle opinioni che i fenomeni che ac­ cadono παρ᾽ ἡμῖν non smentiscono (οὐκ ἀντιμαρτυρεῖται) che si verifichino πλεοναχῶς. In sostanza, Epicuro invita a osservare la manifestazione empirica di un dato fenomeno celeste; le opinioni che sull’accadimento di questo fenomeno siamo in grado di formulare non saranno tutte vere, per questa ragione occorre distinguere quelle opinioni che non vengono smentite dai fenomeni che avvengono presso di noi. Dal momento che i fenomeni celesti si producono in molti modi, ossia hanno più cause della loro gene­ razione, i fenomeni che accadono presso di noi – che devono vagliare la correttezza o meno delle opinioni formulate – non possono smentire che quel dato fenomeno celeste si verifichi πλεοναχῶς. Di conseguenza, il punto di inizio dell’esame dei fenomeni celesti non possono essere i fenomeni παρ᾽ ἡμῖν, che a loro volta fanno da σημεῖα dei fenomeni celesti; il punto di partenza deve essere necessariamente il φάντασμα del fenomeno celeste che si intende investigare. Se questo è vero, il motivo per cui τὰ μετέωρα hanno più cause della loro generazione non può risiedere nel fat­ to che i fenomeni παρ᾽ ἡμῖν abbiano a loro volta molteplici cause della loro γένεσις, proprio perché, nell’investigazione di τὰ μετέωρα, occorre prende­ re le mosse dal loro φάντασμα (ciò, beninteso, non esclude che i fenomeni che avvengono presso di noi possano effettivamente verificarsi πλεοναχῶς). Se così fosse, l’attribuzione della molteplicità causale ai fenomeni celesti sarebbe puramente arbitraria e priva di quella accurata scientificità – va tenuto bene a mente un dato cruciale: Epicuro ricorre alla ἀκρίβεια anche nell’ambito del πλεοναχὸς τρόπος e, quindi, nel caso della conoscenza di τὰ μετέωρα –150 necessaria perché il πλεοναχὸς τρόπος conduca efficacemente all’imperturbabilità. Attribuire a fenomeni come l’eclissi o il terremoto più cause, semplicemente perché fenomeni analogamente simili (di cui faccia­ mo diretta e piena esperienza) possiedono più cause della loro generazione non può legittimare alcun approccio che si dica effettivamente scientifico (secondo l’accezione epicurea).

148 Cfr. Epicur. Pyth. 88. 149 Secondo Mansfeld 1994: 37-45 questa espressione costituirebbe la prova della ri­ cezione epicurea della tecnica argomentativa peripatetica della diairesis/divisione, rintracciabile, comunque, anche nella “tassonomia dei desideri” di Men. 127. 150 Cfr. Epicur. Hrdt. 78.

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È arduo, pertanto, rispondere con sicurezza alla questione relativa al perché Epicuro ritenga che τὰ μετέωρα abbiano più cause; è probabile che dietro questa posizione epicurea giochino un ruolo forte anche le ricerche naturalistiche della tradizione peripatetica e, più nello specifico, teofrastea, che Epicuro non poteva non tenere in considerazione. Oltre a ciò, una ulteriore risposta plausibile potrebbe risiedere nell’accentuazione del carat­ tere non evidente dei fenomeni celesti, dunque nel loro essere degli ἄδηλα (ma non in termini assoluti). Si tratta, insomma, di fenomeni complessi che non sono ben esperibili, per questo Epicuro si richiama esplicitamente agli indizi forniti dai fenomeni che accadono (in molti modi) presso di noi e ricorre, dunque, all’analogia, fermo restando che tale ricorso non dipen­ de dalla limitatezza della nostra abilità conoscitiva,151 ma da un metodo scientifico decisivo per la conoscenza accurata di τὰ ἄδηλα. Secondo questa ipotesi, la non diretta evidenza dei fenomeni celesti – il che, naturalmente, non implica che di tali fenomeni non si dia un φάντασμα direttamente percepibile – potrebbe essere il motivo della pluralità causale che Epicuro ascrive alla generazione di τὰ μετέωρα. Il punto decisivo rimane il fatto che il metodo delle molteplici spiega­ zioni causali dei fenomeni celesti è direttamente connesso alla molteplicità causale in virtù della quale τὰ μετέωρα si verificano. L’attribuzione di molteplici cause ai fenomeni in questione non è affatto un’operazione ar­ bitraria eseguita dal soggetto; il punto di partenza rimane il φάντασμα del fenomeno di cui si forniscono più spiegazioni compatibili con i fenomeni che accadono (in molti modi) presso di noi e che sono segni dei fenomeni celesti. Dato che i fenomeni παρ᾽ ἡμῖν si verificano πλεοναχῶς, questa mol­ teplicità causale è attribuita per analogia ai fenomeni celesti, proprio come le proprietà del minimo sensibile sono “trasferite” per analogia (dunque, mutatis mutandis) al minimo atomico (Hrdt. 58-59). Uno dei casi che esemplifica lucidamente il πλεοναχὸς τρόπος concerne la luce della luna (Pyth. 94-95). Epicuro ritiene che la luna può (ἐνδέχεται) avere luce propria oppure può (ἐνδέχεται) riceverla dal sole. Come deve es­ sere inteso in questo e negli altri casi di spiegazione multipla il verbo ἐνδέχομαι che, non senza motivo, ricorre di frequente proprio nell’Epistola a Pitocle? Se reputiamo veritiero (come, a mio avviso, va fatto) quanto Epi­ curo riferisce al § 86 circa la molteplicità causale della generazione dei fe­

151 Condivido del tutto la puntualizzazione di Morel 2011: 143 n. 6: «Concernant les phénomènes célestes, la pluralité causale ne tient pas à la faiblesse de nos facultés, mais à la variété objective des processus qui sont à l’œuvre dans la nature». Cfr. anche Masi infra: 269-272.

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nomeni celesti, il verbo ἐνδέχομαι indica propriamente la possibilità che un dato fenomeno celeste possa realmente verificarsi in più modi.152 Questi modi corrispondono, a mio avviso, alle diverse cause del suo effettivo verifi­ carsi:153 ognuna delle cause del fenomeno x riferite da Epicuro ha il medesi­ mo risultato, ossia la formazione del medesimo fenomeno x.154 L’uso di ἐνδέχεται, pertanto, non concerne l’ambito delle pure congetture possibili, più o meno arbitrarie, ma quello delle (possibili) spiegazioni causali reali connesse alla molteplice generazione di quel dato fenomeno celeste che non ricevono attestazioni contrarie da parte dei fenomeni direttamente os­ servabili.155 A conferma di questa tesi può essere addotto un frammento di una lettera di Epicuro a un ignoto destinatario conservata nel De pietate di Filodemo (col. XXXI 889-896 Obbink = 387 Usener = 114 Arrighetti = 129 F2 Erbì), nel quale ἐνδέχεται assume il senso di possibilità concreta ed effet­ tivamente realizzabile: è possibile (ἐνδέχεται) – si legge nel frammento che ci riporta alla chiusa dell’Epistola a Meneceo – alle nature mortali vivere nel­ lo stesso modo in cui vive Zeus. Nel caso della luce della luna, questo fenomeno ha almeno due cause della sua generazione, pertanto la luce della luna si verifica o perché la luna brilla di luce propria oppure perché riceve la luce da un altro corpo celeste. Queste due spiegazioni sono “possibili” nel senso che conseguono direttamente al fatto che almeno due sono le cause della generazione della luce lunare; per tale ragione, a mio parere, non ha senso per un fenomeno celeste porre la distinzione netta tra la possibilità di accadere in diversi modi e il fatto di accadere in diversi modi. Queste due cause non si escludono a vicenda esattamente perché la luce lunare può realmente generarsi in almeno due modi diversi, sebbene, come è naturale che sia, le due modalità non possono essere contemporanee. Per asserire ciò, Epicuro parte da un duplice presupposto: da un lato, il fatto che i fenomeni celesti hanno più cause della loro generazione, dall’altro, il φάντασμα del fenome­ no stesso. Sulla base di questi due presupposti è possibile formulare ipotesi (ὑποθέσεις) e allo stesso tempo cause/spiegazioni (ἅμα καὶ αἰτίας) che siano

152 Cfr. senz’altro ancora Masi 2014a; per un’altra prospettiva che differenzia eccessi­ vamente la verità e la possibilità delle cause si veda Salemme 2009: 95-112, spec. 97 n. 6: «[…] le spiegazioni molteplici non sono di per sé vere, ma semplicemen­ te possibili». 153 Cfr. anche Epicur. Nat. XI [26] [18] Arrighetti. 154 Cfr. Daiber 1992: 285. 155 Al riguardo condivido pienamente quanto scrive Allen 2001: 198 che ritiene che «the natural phenomenon in question can, in a very robust sense, occur as this explanation maintains it does» (corsivo mio).

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in accordo con il φάντασμα del fenomeno e che non vengano smentite dai fenomeni παρ᾽ ἡμῖν; in effetti, presso di noi molti oggetti brillano di luce propria, molti, invece, la acquistano/ricevono da altri oggetti. Così facendo si rispetta l’assunto di partenza per cui τὰ μετέωρα avvengono secondo più cause, formulando ipotesi esplicative che siano conformi al φάντασμα del fenomeno e che vengono confermate (o non smentite) da quanto accade presso di noi, senza, dunque, scadere nel (temibile) μοναχὸς τρόπος. Per μοναχὸς τρόπος, come risulta dal § 113 dell’Epistola a Pitocle, Epicuro intende il fornire una sola causa dei fenomeni celesti (Arrighetti 1973: ad loc. rende qui μίαν αἰτίαν con «una sola spiegazione», tuttavia credo che for­ se sarebbe preferibile mantenere la traduzione più letterale «una sola cau­ sa» – ma cfr. anche Masi infra: 263-269; subito dopo, del resto, Epicuro scri­ ve che i fenomeni richiamano – ἐκκαλουμένων – più cause: la molteplicità delle spiegazioni dipende dalla molteplicità di cause della generazione dei fenomeni), coincidente con l’attribuzione alla natura divina di attività, compiti e funzioni che, in realtà, non le competono, ma che la stolta scien­ za astronomica (academica e à la Eudosso) le attribuisce. Se, invece, – ma non è questa l’intenzione di Epicuro, come si evince dai testi – per μοναχὸς τρόπος si intende la spiegazione causale unitaria che ricorre esclusivamente agli atomi e al vuoto come principi causali supremi, si potrebbe ben dire che il πλεοναχὸς τρόπος dipenda intrinsecamente dal μοναχὸς τρόπος, nel senso che tutte le spiegazioni causali fornite per un dato fenomeno devono essere in ogni caso compatibili con l’atomismo professato dalla filosofia di Epicuro. Ciò vale anche per quei fenomeni che sembrano non ricorrere al­ la spiegazione atomista. Nel caso della formazione delle nubi (Pyth. 99) Epicuro dice che queste possono generarsi sia per il condensamento dell’a­ ria, sia per gli intrecci di atomi; sebbene solo la seconda spiegazione faccia evidentemente ricorso agli atomi, anche la prima non è affatto in contrad­ dizione con l’atomismo, malgrado gli atomi non compaiano come riferi­ mento diretto. Se ciò non accadesse, evidentemente il sistema epicureo an­ drebbe, per così dire, in “cortocircuito”, sconfessando la teoria atomista di partenza con la quale le molteplici cause della generazione di τὰ μετέωρα devono risultare necessariamente compatibili.

4. Il metodo delle molteplici spiegazioni causali nella tradizione epicurea L’ipotesi interpretativa del πλεοναχὸς τρόπος qui proposta se, per un verso, sembra funzionare rimanendo nei limiti dell’Epistola a Pitocle, per un altro, va incontro a non poche difficoltà di ordine teorico quando si considerano altri testi della tradizione epicurea, quali Lucrezio e Diogene di Enoanda. 65

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Partendo da quest’ultimo,156 si consideri il fr. 13 col. III Smith che si occupa propriamente dei fenomeni celesti e delle loro spiegazioni. Prima di trattare del sorgere e del tramontare dei corpi celesti, Diogene sente la necessità di chiarire un punto importante; risulterebbe ardito, avventato (τολμηρόν) che colui che investiga i fenomeni non evidenti (τὰ ἄδηλα), nel caso vedesse che, letteralmente, «molteplici sono i modi del possibile» (3-5: ἂν βλέπῃ τοὺς τοῦ δυνατοῦ τρόπους πλείονας; trad. mia), ossia che molteplici sono le spiegazioni possibili, asserisse in modo dogmatico e assertorio (καταποφαίνεσθαι) una singola spiegazione del fenomeno in que­ stione. Ciò, infatti, prosegue Diogene, è proprio di un indovino (μάντεως) piuttosto che di un uomo saggio (ἀδρὸς σοφοῦ); «[E]ppure è corretto dire che, pur essendo tutte (le spiegazioni) possibili, questa è più plausibile di quella» (9-13: τὸ μέντοι λέγειν πάντας μὲν ἐνδεχομένους, πιθανώτερον δ᾽εἶναι τόνδε τοῦδε ὀρθῶς ἒχει; trad. mia). La testimonianza di Diogene di Enoanda trasmette una posizione che, a mio avviso, non può essere accostata a quella dell’Epicuro dell’Epistola a Pitocle. Secondo Diogene, benché le molte spiegazioni siano possibili (ἐνδεχομένους), risulta corretto (ὀρθῶς) che l’una sia più plausibile (πιθανώτερον) di un’altra; nell’Epistola a Pitocle non viene mai proposta una “scala gerarchica” delle spiegazioni causali che vada dalla meno alla più plausibile. Ciò si spiega proprio in virtù del fatto che τὰ μετέωρα hanno più cause della loro generazione: se è così, infatti, come è possibile sostenere che la causa e la conseguente spiegazione causale x del fenomeno z sia più plausibile della causa e della spiegazione causale y del medesimo fenomeno z? Nell’Epistola a Pitocle (87), in effetti, si fa riferimento a τὸ πιθανολογούμενον. Questa espressione non indica affatto, come pure è stato sostenuto,157 il verosimile inteso come finalità privilegiata del πλεοναχὸς τρόπος (come fa notare giustamente Repici 2013: 317 è Teofrasto e non Epicuro che procedeva nella costruzione di un’eziologia del verosimile nelle sue indagini sulle cause dei lampi, fulmini, piogge etc.); ciò, infatti, viene smentito dal fatto che, come si è già rilevato, il πλεοναχὸς τρόπος relativo ai fenomeni celesti mira alla ἀκρίβεια, così come ogni conoscen­ za che si dica davvero scientifica.158 Questo è un punto molto delicato ma centrale che necessita di un breve approfondimento; come ho già tentato di mostrare, ritengo che, con ogni probabilità, il plenonachos tropos di Epicuro non risponda necessariamente a un’esigenza di “deficienza”

156 Sul quale cfr. Corsi 2017. 157 Cfr., per esempio, Gemelli 1979: 82. 158 Diversamente Bénatouïl 2003: 46; cfr. anche Garani 2007: 97 e Algra 2018: 420.

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epistemologica; in altre parole, se questo metodo di investigazione è scien­ tifico e mira all’esattezza (all’akribeia, appunto), esso non può presentarsi come una sorta di “copertura” della nostra impossibilità di conoscere i meteora, che non sono affatto un aspetto marginale ma costituiscono il cuore della physis.159 Il problema è che non è possibile avere conoscenza diretta di questi fenomeni: è qui e per questa ragione che entra in gioco il pleonachos tropos. Ciò, tuttavia, non significa che tale metodo offra una mera e illusoria conoscenza dei meteora perché non ne riceviamo turba­ mento: al contrario, la conoscenza di questi fenomeni – che sono lontani da noi (come, per esempio, le eclissi del sole e della luna: Pyth. 96) o che, comunque, possiedono cause di difficile esame (come, per esempio, la formazione delle nubi – Pyth. 99 – o dei tuoni – Pyth. 100) – dovrà essere necessariamente indiretta (non siamo in grado, infatti, di percepire direttamente la loro formazione) ma non meno esatta e scientifica. Natu­ ralmente va chiarito ancora quale significato assuma la ἀκρίβεια; se si intende l’esattezza della conoscenza scientifica fine a se stessa, di certo non è questa la finalità a cui Epicuro mira nell’Epistola a Pitocle. Se, invece, per ἀκρίβεια si intende quella esattezza legata non a conoscenze scientifiche fini a se stesse ma, se confermate e non smentite dai fenomeni, connesse all’ottenimento della felicità, si è perfettamente compresa la motivazione più intrinseca del metodo delle molteplici spiegazioni causali: in breve, se in Epicuro la ἀκρίβεια ha un senso, questo non può che rintracciarsi nella βοήθεια, dunque nella finalità etica.160 Ciò non significa – lo ripeto ancora – che le conoscenze ottenute grazie a questo metodo siano superfi­ ciali e non debitamente approfondite: se perfino un minimo approfondi­ mento (sempre in accordo con i fenomeni) può apportare giovamento in termini eudaimonistici, perché non tentarlo? Da questo punto di vista, τὸ πιθανολογούμενον è, a mio parere, un riferimento alla plausibilità, alla coerenza delle spiegazioni161 συμφωνῶς τοῖς φαινομένοις, in accordo con i fenomeni.162 In sostanza, la plausibilità di una spiegazione è direttamente dipendente dalla sua conformità ai fenomeni, ovvero sia al φάντασμα del

159 160 161 162

Pace Graham 2013: 211-212, 241. Cfr. su questo punto Isnardi Parente 1966: 392-415 ed Ead. 1969: 265-266. Cfr. Salemme 2009: 98 e Pace 2020: 287. Cfr. il dettagliato e utile studio di Corradi 2016; segnalo, inoltre, che Leone 2017: 99 ha tentato di rintracciare già in Epicuro – Hrdt. 80, Nat. XIV col. XXXV 13-15 Leone, oltre che in Nat. XI [26] [44] Arrighetti, integrando in l. 1 [πιθανώτε]|ρον – l’uso del “criterio” della pythanotes, livellando di fatto le differenze con Diogene di Enoanda.

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fenomeno celeste, sia ai fenomeni παρ᾽ ἡμῖν.163 È proprio sul problema della conformità ai fenomeni che vorrei, prima di tornare a Lucrezio e a Diogene, ripercorrere, seppur alquanto cursoriamente, un interessante dibattito avvenuto tra Gabriele Giannantoni e Margherita Isnardi Parente sul pleonachos tropos epicureo, dibattito perlopiù dimenticato dalla critica. In occasione delle tre giornate di studio sulla scienza ellenistica di Pavia nel 1982 Giannantoni propose una relazione Su alcuni problemi circa i rapporti tra scienza e filosofia nell’età ellenistica.164 L’intervento mirava allo studio del rapporto tra scienza e filosofia nell’Ellenismo al fine di mostrare come, pur nel naufragio delle opere di scienza e filosofia dell’epoca, la scienza ellenistica avesse una base teorica che assumeva a partire dal sapere filosofico (quindi dalle varie scuole, in primo luogo dall’Academia e dal Peripato per la loro intrinseca “vocazione” scientifica) limitatamente, per esempio, alla critica del finalismo (che si ritrova in Teofrasto) e al metodo della scienza (oggetto di interesse da parte di Epicurei e Stoici ma non solo: cfr. Giannantoni 1984: 48). Secondo Giannantoni – che con questo studio contribuiva a rivedere (per rigettare) il presunto “divorzio” tra scienza e filosofia – uno dei criteri fondamentali della scienza ellenistica era il sozein ta phainomena che è, appunto, la riproposizione di una tesi filosofica in ambito scientifico. Anche l’Epicureismo intende salvare i fenomeni, pur rifiutando le scienze e, in particolare, l’astronomia matematica; come già il Marx della Differenz, Giannantoni si sofferma sul metodo epicureo delle molteplici spiegazioni causali dei meteora, osservando come tale metodo, malgrado la «rozza ingenuità»165 delle ipotesi che da esso derivano, vada compreso, in realtà, all’interno della concezione epicurea della scienza del­ la natura finalizzata al concreto perseguimento della felicità. Il fornire per ogni meteoron tante spiegazioni quante siano compatibili con l’evidenza percettiva (enargeia)166 risulta in grado di salvare i fenomeni «perché da essi non possiamo prescindere nella ricerca della felicità».167 L’astronomia matematica, al contrario del pleonachos tropos, pretende che la spiegazio­ ne dei fenomeni sia essenzialmente unitaria e, quindi, inscrivibile in un ordine necessario che, agli occhi di Epicuro, non può che provocare tur­ bamenti: in questo senso, per Giannantoni (1984: 63), mentre la scienza turba e può perfino accrescere le nostre paure, la filosofia libera dai timori;

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Cfr. Ransome Johnson 2020: 178-179. Giannantoni 1984. Giannantoni 1984: 61. Su questa nozione nelle filosofie ellenistiche cfr. Ierodiakonou 2012; sull’impor­ tanza dell’aisthesis nell’esame dei meteora cfr. anche Strabone I 1, 20. 167 Giannantoni 1984: 61.

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anche coloro che si sono dedicati allo studio dell’astronomia, in realtà, non conoscono davvero la natura e le cause dei fenomeni che indagano, rimanendo anch’essi imbrigliati nella rete dei sospetti e delle paure.168 Benché – mi sembra – questa posizione vada, in fondo, a inficiare l’idea di Giannantoni che tra scienza e filosofia non vi sarebbe alcun divorzio nel primo Ellenismo, almeno nell’ambito del Giardino, la separazione tra le scienze particolari (del tempo) e la filosofia (ovvero la physiologia o scienza della natura che, in termini epicurei, è filosofia) è quasi doverosa, se si vuole perseguire concretamente la felicità. Al di là del fatto che secondo lo studioso le spiegazioni epicuree possano lasciar sconcertati e perfino indurre al sorriso,169 il punto che mi sembra rilevante è che indub­ biamente Epicuro prende le distanze dalle scienze del suo tempo, pur considerando scienza a tutti gli effetti la propria physiologia. È oltremodo indubbio che alcune delle spiegazioni addotte da Epicuro per i meteora già appartenevano alla tradizione scientifico-filosofica a lui precedente che egli evidentemente riutilizza; il punto, quindi, non è valutare con i nostri crite­ ri le cause/spiegazioni di Epicuro ma fare lo sforzo di comprendere fino in fondo l’essenza genuinamente epistemologica e scientifica del pleonachos tropos. Nel recensire il volume su La scienza ellenistica, la posizione di Giannan­ toni su scienza e filosofia in epoca ellenistica fu criticata da Margherita Isnardi Parente. Secondo la studiosa170 Giannantoni avrebbe avuto il torto di aver minimizzato le novità contenutistiche delle “nuove” filosofie elle­ nistiche non paragonabili alla precedente tradizione platonico-aristotelica. Isnardi Parente a tale proposito richiama l’attenzione su due punti: in primo luogo, per alcune filosofie di epoca ellenistica il “divorzio” dalla scienza, in realtà, si dà (come si vede nettamente nel caso di Epicuro, per cui l’esame della physis tramite le strumentazioni astronomiche si configu­ ra come una violenza perpetrata ai danni della natura stessa). Inoltre, il cri­ terio del sozein ta phainomena (che, come si è detto, Giannantoni reputava essere anche alla base del pleonachos tropos epicureo) è, secondo la studiosa, proprio delle scienze ed Epicuro, con le sue molteplici spiegazioni causali, va esattamente contro di esso: in breve, la “salvezza” dei fenomeni non passa attraverso la loro analisi diretta e immediata tramite la sensazione (questo significa solo “seguire” i fenomeni) ma dipende dalla costruzione

168 Cfr., pertanto, Epicur. Hrdt. 79. 169 Giannantoni 1984: 63-64. 170 Isnardi Parente 1987: 286-287.

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di modelli teorici capaci di giustificare la loro irregolarità apparente (di qui, per esempio, la polemica di Epicuro con Eudosso). Su questo specifico punto vorrei ampliare il discorso perché credo sia utile alla comprensione del nucleo teorico centrale della polemica epicurea contro la scienza astronomica. Eudosso, è noto, al fine di spiegare un fenomeno evidente come il movimento apparente degli astri, teorizzava le sfere concentriche aventi lo stesso centro. Non è possibile approfondire qui questa complessa e imponente dottrina astronomica (cfr., per un primo orientamento, Lloyd 1978: 86-96); basti ricordare che il movimento di ogni astro, secondo Eudosso, dipendeva dal movimento di più sfere, appunto concentriche. Il sole e la luna avevano tre sfere per ciascuno mentre i rima­ nenti cinque pianeti allora noti (Ermes/Mercurio, Afrodite/Venere, Ares/ Marte, Zeus/Giove, Cronos/Saturno) possedevano ognuno quattro sfere: il sistema eudossiano, pertanto, era costituito in totale di 26 sfere.171 Per esemplificare meglio il caso del sole e della luna, la prima sfera spiega il loro moto diurno, la seconda giustifica il fatto che i due astri percorrono le costellazioni durante un anno lungo lo zodiaco e, infine, la terza sfera descrive i movimenti retrogradi dei due astri. Immediatamente dopo il passo della Metafisica appena citato (Λ 8, 1073b 32-38) Aristotele menziona Callippo di Cizico che accettò nel complesso il sistema eudossiano ma «riteneva che al Sole e alla Luna fossero da aggiungere ancora due sfere, se qualcuno voleva rendere ragione delle apparenze (τὰ φαινόμενα εἰ μέλλει τις ἀποδώσειν), e invece una sola a ciascuno degli altri pianeti» (trad. Berti). Il numero delle sfere, per Callippo, è di 33; in questo modo si potevano spiegare completamente (e in modo più soddisfacente rispetto a Eudosso) i movimenti apparenti degli astri. Ora, il dato più interessante per il nostro discorso è che tanto Eudosso quanto Callippo teorizzano sistemi astrono­ mici così elaborati precisamente per rendere conto dei fenomeni, in una sola battuta, per sozein ta phainomena. Anche Epicuro, naturalmente, inten­ de salvare i fenomeni ma lo fa in una diversa maniera e precisamente in ciò si gioca la netta distanza dall’astronomia matematica di un Eudosso o di un Callippo. Costoro, infatti, elaborano (anche grazie all’ausilio di appositi organa) un complesso sistema di sfere concentriche che certamente salva e spiega i fenomeni; il problema, tuttavia, è che non è affatto detto che tale sistema – che pure salva e preserva ciò che appare – corrisponda effetti­ vamente alla realtà fisica (e cinetica) dei cieli. Ciò che importa, in sostanza, è che il sistema teorizzato funzioni e spieghi i fenomeni in esame.172 Per

171 Cfr. e.g. Aristot. Metaph. Λ 8, 1073b 17-32 = D6 Lasserre. 172 Cfr. e.g. Sambursky 1959: 75-77 e, soprattutto, Lloyd 1993: 425-474.

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Epicuro, al contrario, questo modo di procedere non solo è arbitrario, ma è anche scientificamente erroneo in quanto i fenomeni non si salvano veramente proprio perché si impiega un sistema il quale è un puro artificio geometrico-matematico che non rappresenta la realtà perché nulla di tutto questo ha a che vedere con essa. Gli organa, pertanto, sono strumentazioni imitanti modelli geometrici puramente artificiosi, per quanto sofisticati, i quali, nell’ottica epicurea, sono indipendenti rispetto all’effettiva realtà fisica che, invece, il pleonachos tropos intende davvero preservare mediante l’osservazione del phantasma del fenomeno in oggetto in stretta connessio­ ne con l’analisi dei fenomeni presso di noi. Si vede bene come il dibattito tra Isnardi Parente e Giannantoni, che ho qui ricostruito per sommi capi, sia, quindi, di notevole interesse: esso testimonia, da un lato, quanto sia complessa la comprensione del meto­ do delle molteplici spiegazioni causali e quanto diverse possano essere le sue interpretazioni, dall’altro, il fatto che il corretto esame del pleonachos tropos non possa esimersi da un confronto serio con la scienza (anzi, le scienze) dell’epoca. Ambedue le posizioni riportate hanno per certi versi delle punte di estremismo; malgrado questo, secondo me, occorre ricono­ scere al metodo epicureo una serietà e un rigore scientifici fondamentali, pur considerandolo un modello teorico ed epistemologico teorizzato da Epicuro non tanto per “salvare i fenomeni” quanto per spiegare le cause della formazione dei meteora nella maniera scientificamente più esatta, naturalmente compatibilmente con quanto i dati empirici manifestano. Tornando finalmente al passo di Diogene di Enoanda, non è semplice capire i motivi di questa importante modifica teorica; l’epicureismo di Diogene è stato (a ragione) considerato fondamentalmente ortodosso e profondamente aderente alla filosofia di Epicuro,173 sebbene non vada tra­ scurato il fatto che l’arco temporale che separa Diogene da Epicuro non sia affatto breve. Si impongono, allora, diverse soluzioni; si potrebbe pensare, in prima istanza, che Epicuro, in opere successive all’Epistola a Pitocle o nello stesso Περὶ φύσεως, avesse modificato alcuni tratti della sua dottrina delle molteplici spiegazioni causali, oppure che gli Epicurei seriori (di cui verosimilmente Diogene è a conoscenza) abbiano apportato alcune modi­ fiche a un metodo che evidentemente presentava qualche “debolezza”, incoerenza o difficoltà di ordine teorico. In proposito, sia nel primo che nell’altro caso, i motivi potrebbero essere connessi anche a una polemica sorta esternamente al Giardino (si potrebbe ipotizzare che questo dibattito fosse in qualche modo legato agli attacchi dello scetticismo academico,

173 Cfr. Smith 1993: 125-128, nonché Verde 2017a.

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molto verosimilmente già documentabili sin dalla prima generazione degli Epicurei),174 a cui Epicuro o gli Epicurei avrebbero risposto “gerarchizzan­ do” l’ordine delle spiegazioni causali a seconda della loro maggiore o minore plausibilità. La posizione di Diogene di Enoanda non sembra essere registrata nem­ meno da Seneca che, nel VI libro delle Naturales quaestiones dedicato ai terremoti,175 si occupa brevemente del πλεοναχὸς τρόπος epicureo. Seneca, occupandosi per l’appunto delle cause dei terremoti, scrive che «Epicuro dice che tutte queste cause sono possibili e ne cerca moltissime altre (omnes istas posse causas esse Epicurus ait pluresque alias temptat) riprendendo coloro che hanno riconosciuto valida solo l’una o l’altra di esse (aliquid unum ex istis), dato che sarebbe difficile asserire qualcosa di sicuro (aliquid certi) in merito a fatti che si possono comprendere solo attraverso ipotesi (coniec­ tura)».176 La descrizione del metodo delle molteplici spiegazioni causali offerto da Seneca è, per alcuni versi, fedele ai contenuti dell’Epistola a Pitocle, per altri, tuttavia, risulta, se non malevola, piuttosto “superficiale” o comunque lontana dagli originari intenti di Epicuro. Prima di considerare nel dettaglio tale resoconto, si osservi che Seneca non parla di spiegazioni causali, ma dice che Epicuro, in riferimento ai fenomeni celesti, pone più cause (omnes [...] causas […] pluresque alias), il che riflette bene quanto si legge nella lettera a Pitocle. Lo scopo a cui Seneca mira, in ogni caso, è quello di mostrare la differenza tra la posizione di Epicuro e quella di Democrito; dopo aver elencato le diverse cause dei terremoti e prima di sintetizzare il πλεοναχὸς τρόπος epicureo, Seneca riferisce la posizione di Democrito che ritiene che le cause (dei terremoti) siano molte (Democritus plura putat); «[D]ice infatti che il terremoto ora (aliquando) avviene per opera dell’aria, ora (aliquando) dell’acqua, ora (aliquando) di entrambe [...]».177 La differenza tra Democrito ed Epicuro (almeno agli occhi di Seneca) è chiara; ambedue i filosofi ammettono molte cause, ma, mentre per Democrito il numero delle cause è limitato (certe volte, infatti, il terre­ moto avviene per l’aria, certe volte per l’acqua, certe volte per entrambe le cause), Epicuro tenta di aggiungere cause su cause, dal momento che è fon­ damentalmente incerto su fenomeni che si possono conoscere solo tramite coniectura. È per questo che in Seneca le spiegazioni epicuree dei terremoti sono introdotte da fortasse, quando nell’Epistola a Pitocle non compare

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Cfr. Corti 2013. Cfr., in merito, Tutrone 2017. Sen. NQ VI 20, 5 = 351 Usener; trad. Parroni. Sen. NQ VI 20, 1 = 68 A 98 DK = VII 27 D119b LM; trad. Parroni.

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alcun “forse” e Lucrezio, più correttamente (almeno rispetto all’Epistola a Pitocle), usa generalmente aut per distinguere le diverse spiegazioni.178 Il fatto che Democrito ammetta più cause (pur sempre limitate) del terremoto non è un dato così incontrovertibile, se si tiene conto di una fonte importante (ma non necessariamente più attendibile rispetto a quella senecana) e più vicina cronologicamente a Democrito. In un passo del II libro della Meteorologia179 Aristotele attribuisce a Democrito l’idea che gli scuotimenti della terra avvengono perché la terra è piena di acqua e riceve altra acqua per via della pioggia. Dal momento che l’acqua è in grande quantità e le cavità della terra non possono più contenerla, essa refluisce e, così facendo, provoca i terremoti; inoltre, dato che la terra disseccata attrae l’acqua, questa, passando dalle cavità più ricolme agli spazi vuoti, scuote la terra, provocando il terremoto. In Seneca (NQ VI 20, 1-3) è presente grosso modo (ma più estesamente) la spiegazione che Aristotele attribuisce a Democrito, tuttavia in Aristotele non vi è traccia della causa dei terremoti legata all’aria che compare, invece, in Seneca (NQ VI 20, 4), benché l’aria, almeno nel primo caso prospettato, sia in relazione con l’acqua che essa muove. Subito dopo Democrito, Seneca introduce la posizione di Epicuro che, appunto, reputa tutte (omnes) queste cause come possibili; tuttavia, nel breve resoconto del πλεοναχὸς τρόπος, Seneca (probabilmente in modo consapevole) – o la sua fonte – omette l’accordo delle spiegazioni causali con i fenomeni, cosa che in Epicuro rimane il banco di prova fondamen­ tale. Il carattere essenzialmente “malevolo” (o, comunque, lontano dall’im­ postazione dell’Epistola a Pitocle) della testimonianza senecana risiede, poi, nel riferimento alla coniectura; Seneca, in sostanza, interpreta il πλεοναχὸς τρόπος come la risposta epicurea alla difficoltà di avere una conoscenza certa nell’ambito di τὰ μετέωρα. Per questa ragione Seneca richiama la coniectura come l’unica modalità di comprensione di questi particolari fenomeni; nell’Epistola a Pitocle (95) Epicuro fa certamente riferimento alle ὑποθέσεις, ma queste vengono considerate sulla base del loro accordo con i fenomeni (cosa che Seneca omette completamente) e senza alcuna volontà di sminuire la possibilità della ἀκρίβεια della conoscenza, perfino nell’ambito dei fenomeni celesti e del πλεοναχὸς τρόπος. La testimonianza senecana, inoltre, conserva un punto che ci riporta in qualche modo al passo sopra discusso di Diogene di Enoanda; dopo aver elencato le diverse cause del terremoto secondo Epicuro (ossia fondamen­ talmente [1] l’acqua che provoca il movimento della terra; [2] l’aria che

178 Cfr. Lucret. VI 579. 179 Aristot. Meteor. II 7, 365a 1 = 68 A 97 DK = VII 27 D119a LM.

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muove la terra o direttamente o mediante l’acqua), Seneca assai significati­ vamente (e coerentemente con il suo precedente riferimento alla coniectu­ ra) aggiunge: «Tuttavia egli (scil. Epicuro) non crede che vi sia una causa del terremoto maggiore dell’aria (Nullam tamen illi placet causam motus esse maiorem quam spiritum)» (NQ VI 20, 7; trad. Parroni). Parroni traduce ma­ iorem con «più probabile», traduzione che, non essendo letterale, non co­ glie il senso dell’espressione senecana, dove, a ben vedere, non si fa alcun cenno alla probabilità. È verosimile, invece, che Seneca intendesse dire che per Epicuro il riferimento all’aria fosse la spiegazione causale dei terremoti maggiormente efficace o, comunque, quella maggiormente preferita dal fi­ losofo, concordemente, del resto, con la tradizione peripatetica.180 In effet­ ti, oltre che un passo di Aezio,181 il § 105 dell’Epistola a Pitocle presenta l’a­ ria182 come causa dei terremoti, tuttavia Epicuro aggiunge significativa­ mente non solo che i terremoti sono provocati dalla propagazione del mo­ vimento dovuto alla caduta e alla continua ripercussione delle masse di ter­ ra, ma anche che queste κινήσεις τῆς γῆς possono verificarsi in molti altri modi (κατ᾽ ἄλλους [...] πλείους τρόπους). L’aggiunta di Epicuro è importan­ te in quanto mostra come – almeno in riferimento alla trattazione dei ter­ remoti nell’Epistola a Pitocle – non vi siano cause privilegiate o preferite, come invece nel testo senecano, e ciò si spiega bene tenendo a mente che i fenomeni celesti hanno più cause reali della loro generazione, senza una loro specifica “gerarchizzazione”. Prima di esaminare la posizione di Lucrezio circa il pleonachos tropos di Epicuro è necessario soffermarci su uno dei problemi più spinosi della meteorologia epicurea: la questione della compatibilità delle spiegazioni dei diversi fenomeni. Riprendendo (almeno in parte) uno studio di Was­ serstein (1978), Bakker (2016: 263) ha sostenuto che l’incompatibilità di alcune spiegazioni si risolve non solo (e tanto) col fatto che il pleonachos tropos (così come tutta la physiologia epicurea) ha un fine non scientifico ma etico (cioè l’ottenimento dell’ataraxia), come si è già ampiamente os­ servato, ma soprattutto tenendo a mente che Epicuro considera il cosmo come un insieme di fenomeni non connessi tra loro che devono essere

180 Cfr. Aristot. Meteor. II 8, 366b 9-22; si tenga conto anche dell’analoga spiegazio­ ne fornita nello scritto pseudoaristotelico – ma comunque riferibile con ogni probabilità al contesto della scuola peripatetica: cfr. e.g. Natali 1976: 162 e l’otti­ ma e aggiornata messa a punto di Kupreeva 2018: 284-294 – De mundo, 395b 33-36; ancora sul luogo senecano cfr. poi Gilbert 1967: 314 n. 1. 181 Aët. Plac. III 15, 11, Dox. 381, M-R 1302 = 350 Usener. 182 O meglio, il vento, sul cui ruolo in Epicuro e nella tradizione epicurea cfr. Leone 2015.

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spiegati separatamente in accordo con le sensazioni. Un esempio di incom­ patibilità di spiegazioni concerne il sorgere e il tramontare del sole (Pyth. 92) che possono avvenire per accensione o spegnimento; poco dopo (Pyth. 94-95) Epicuro afferma che la luna può avere luce propria o riceverla dal sole. È evidente come, nel caso in cui il tramonto del sole avvenisse per spegnimento, la luna non potrebbe brillare della luce che riceve dal sole. Si tratta di un punto estremamente delicato che andrebbe a ledere la rigorosa scientificità del metodo esplicativo. Mi pare che le soluzioni più drastiche siano due: o Epicuro ha preso una svista (cosa che, in teoria, non può esse­ re esclusa) oppure effettivamente non è interessato a costruire un sistema fisico davvero unitario come, per esempio, Aristotele: di qui verosimilmen­ te il suo rifiuto della scienza astronomica e la sua serrata critica all’uso degli organa astronomici (quali planetari, sfere armillari ecc.),183 attestata anche nel libro XI del Peri physeos ([26] [38-39] Arrighetti).184 Se vale la seconda ipotesi, tuttavia, viene meno quel criterio di scientificità che sor­ regge la fisica dei meteora e con esso anche l’imperturbabilità. Lasciando da parte la possibilità di una svista, sarei del parere che potrebbe esserci una “terza via”, tenendo a mente che i meteora, per loro stessa natura, hanno più cause: le spiegazioni sono compatibili tanto con le sensazioni quanto con i principi fondamentali dell’atomismo ma nel caso in cui due spie­ gazioni causali riguardanti altrettanti fenomeni reciprocamente connessi risultino incompatibili, l’una diviene necessaria (nei termini della necessità condizionale/ipotetica), l’altra, invece, no. Più chiaramente, riprendendo il caso del sole e della luna: se la causa del tramonto del sole è dovuta al suo spegnimento inevitabilmente la luna dovrà brillare di luce propria, mentre essa potrà (non si può escludere, infatti, che la luna brilli di luce propria, nel caso in cui il tramonto del sole non sia dovuto al suo spegnimento) riflettere la luce del sole nella misura in cui il tramontare di questo astro abbia un’altra causa che non sia lo spegnimento, il che è ammesso da Epicuro. Il filosofo, infatti, non esclude che il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli astri possa avvenire anche per «un’apparizione sulla terra alla quale fa seguito un occultamento. Nessuno dei fenomeni, infatti, lo smentisce».185 Secondo questa spiegazione il sole semplicemente scomparirebbe dalla terra, il che significa che esso rimane acceso e in tal caso la luna potrebbe brillare di luce riflessa. Inoltre, non va dimenticato 183 Cfr. Arrighetti 1973: 597 e Tepedino Guerra-Torraca 1996: 145; cfr., inoltre, Cic. ND II 34, 88 = T86 Edelstein-Kidd sulla sphaera costruita da Posidonio. 184 Cfr. Bakker 2016: 32-34. 185 κατ’ ἐκφάνειάν τε ὑπὲρ γῆς καὶ πάλιν ἐπιπροσθέτησιν τὸ προειρημένον δύναιτ’ ἂν συντελεῖσθαι· οὐδὲ γάρ τι τῶν φαινομένων ἀντιμαρτυρεῖ.

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che Epicuro (Pyth. 90) sottolinea come non bisogna credere che il sole, la luna e gli altri corpi celesti ebbero origine separatamente: ciò indica che la formazione di questi astri è intrinsecamente collegata, per questo le cause di questi corpi devono essere in qualche modo reciprocamente connesse. Infine, occorre tenere bene a mente che Epicuro ammette che la co­ noscenza dei meteora possa avvenire sia in connessione con gli altri sia indipendentemente (Pyth. 85).186 Le spiegazioni causali fornite sono valide tanto se si prendono i meteora in relazione agli altri quanto se ciò non avviene; Epicuro, pertanto, ammetteva la possibilità che le spiegazioni causali potessero essere messe in relazione tra loro. Questo implica la loro compatibilità.187 Nei testi non è esplicitamente presente una soluzione simile ma un’i­ potesi di questo genere mi sembra l’unica che possa salvare la rigorosa coerenza scientifica del sistema. Ovviamente bisogna presupporre che alcu­ ni fenomeni siano connessi e che lo siano anche le relative spiegazioni oggettivamente/realmente possibili ma ciò non dovrebbe essere granché problematico in un sistema atomista. A me pare piuttosto strano che, per esempio nel caso del sole e della luna sopra illustrato, Epicuro cada in una contraddizione tale a distanza di così poco spazio nella lettera; rimane aperta, comunque, anche la possibilità che la fonte dossografica (o manualistica) da cui Epicuro dipende o contenga questa incoerenza o semplicemente non sia la stessa: in tal caso il filosofo avrebbe, per così dire, “fuso” due tradizioni diverse. In ogni caso, occupandoci ora di Lucrezio, con la formulazione del cosiddetto principle of plenitude188 il poeta si pone il problema della com­ patibilità delle molteplici spiegazioni causali; la formulazione di questo principio è nel V libro (vv. 526-533; trad. Giancotti): Nam quid in hoc mundo sit eorum ponere certum difficile est; sed quid possit fiatque per omne in variis mundis varia ratione creatis, id doceo plurisque sequor disponere causas, motibus astrorum quae possint esse per omne; e quibus una tamen siet haec quoque causa necessest,

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186 ἐκ τῆς περὶ μετεώρων γνώσεως εἴτε κατὰ συναφὴν λεγομένων εἴτε αὐτοτελῶς; in proposito non mi sembrano condivisibili le osservazioni di Bollack-Laks 1978: 118, per cui «les deux expressions [scil: κατὰ συναφήν e αὐτοτελῶς] semblent ne pas devoir être rapportées à l’opposition entre étude compréhensive ou séparée des phénomènes du ciel». 187 Cfr. anche Epicur. Pyth. 96. 188 Già ben intuito da Giussani 1923: 249-250.

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quae vegeat motum signis; sed quae sit earum praecipere haudquaquamst pedetemptim progredientis. Infatti è difficile dare per certo quale di tali cause operi in questo mondo; ma che cosa possa avvenire e avvenga per tutto l’universo nei vari mondi in vario modo creati, questo io insegno, e proseguo a esporre diverse cause che possono produrre i movimenti degli astri per l’universo; fra esse tuttavia una sola dev’essere anche in questo mondo la causa che dà vita al movimento delle stelle; ma spiegare quale di esse sia, non è affatto proprio di chi avanza passo passo. Il passo si inserisce nella più ampia trattazione dei movimenti degli astri di cui in precedenza Lucrezio fornisce diverse cause; la sintetica digressione sul pleonachos tropos è di enorme rilievo per più ragioni. In primo luogo, Lucrezio sottolinea chiaramente come la causa che opera in questo mondo non necessariamente opera negli altri infiniti mondi e che egli si limita a fornire una serie di spiegazioni causali che, appunto, operano in variis mundis varia ratione creatis (V 528) e, pertanto, nell’universo (per omne: V 530). Inoltre, il poeta mette in luce come sia difficile (V 526) stabilire con certezza quale causa sia attiva nel nostro mondo, malgrado ciò, tra le molte possibili cause, è necessario che una sia la causa (V 531: una […] causa necessest) che in questo mondo spieghi il movimento degli astri; asserire quale sia non è proprio di chi avanza passo passo. Lucrezio si presenta, dunque, come un progrediens189 e non come un proficiens:190 egli, coerente­ mente con l’occorrenza di doceo del v. 529, è colui che procede accortamen­ te/saldamente lungo la strada dell’indagine naturale.191 Lucrezio, in qualità di progrediens, tuttavia, non stabilisce con certezza una causa precisa del movimento degli astri; è stato anche detto che egli non sembra escludere che la si possa un giorno individuare.192 Ciononostante, per Lucrezio ciò che conta non è stabilire con certezza la causa effettiva di un ἄδηλον ma prospettare più cause tutte plausibili. Nell’Epistola a Pitocle il pleonachos tropos non è esibito nei termini in cui Lucrezio qui lo introduce. In parti­ colare, Epicuro né distingue tra la causalità operante in questo mondo e quella negli altri né afferma che solo una causa agisce per giustificare il 189 Cfr. Schiesaro 1989. 190 Cfr. Erler 2009. 191 Cfr. in proposito anche Sen. Ep. V 52, 3 = 192 Usener: Quosdam ait Epicurus ad veritatem sine ullius adiutorio exisse, fecisse sibi ipsos viam; hos maxime laudat quibus ex se impetus fuit, qui se ipsi protulerunt. (sottolineature mie) 192 Cfr. Ernout-Robin 1962: 71.

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movimento degli astri;193 certamente egli non dice quale sia la causa che operi effettivamente per un certo fenomeno ma non perché non spetti al progrediens dirla ma perché non una ma tutte le cause esibite sono con­ cretamente operanti, anche se in diversi momenti e condizioni. Epicuro enumera tre cause dei movimenti astrali194 e non procede oltre, il che conferma come la cinetica astrale non sia affatto un fenomeno eccezionale. È evidente che non tutte le cause possono operare nel medesimo tempo per spiegare un singolo fenomeno ma, sulla base dell’Epistola a Pitocle, non è possibile ammettere, per ciò che riguarda i movimenti degli astri, una e una sola causa che operi sempre allo stesso modo nel nostro mondo: ciò, da un certo punto di vista, contraddirebbe perfino il pleonachos tropos, almeno così come viene descritto in Pitocle. I versi lucreziani, come già osservato, sono utili per comprendere in cosa consista il principle of plenitude; in base a questo principio le spiegazioni causali dei fenomeni celesti non solo sono possibili ma sono anche tutte vere, data l’infinità dei mondi che dipende dall’infinità degli atomi e del vuoto.195 La gamma delle cause esplicative, tuttavia, non può essere infinita: per quanto i mondi siano infiniti, le forme e le condizioni interne a ogni mondo sono limitate.196 Ciò si spiega col fatto che gli atomi, per via del numero e della disposizione dei minimi (ta elachista) al loro inter­ no, hanno forme (quindi grandezze e pesi) limitate;197 pertanto anche il numero delle (possibili) spiegazioni dei fenomeni celesti nell’infinità dei mondi sarà necessariamente limitato e soprattutto non sarà così diverso rispetto alla quantità e alla tipologia di cause dei meteora che si verificano nel nostro mondo. Il secondo luogo in cui Lucrezio si occupa del metodo delle molteplici spiegazioni causali si colloca nel VI libro (vv. 703-711; trad. Giancotti) subito dopo la sezione dedicata alle incandescenti e vaste fornaci dell’Etna, su cui si ritornerà in seguito, e immediatamente prima dei versi dedicati al Nilo:198 Sunt aliquot quoque res quarum unam dicere causam non satis est, verum pluris, unde una tamen sit;

193 194 195 196 197

Cfr. Bakker 2016: 29. Cfr. Epicur. Pyth. 92. Cfr. Bakker 2016: 21-22. Cfr. Sedley 2011: 166-176 e Hankinson 2013: 90-93. In generale sulla dottrina dei minimi atomici mi permetto di rinviare a Verde 2013a; per uno studio più sintetico si veda Id. 2021a. 198 Cfr. Bollack 1978: 539-556.

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corpus ut exanimum siquod procul ipse iacere conspicias hominis, fit ut omnis dicere causas conveniat leti, dicatur ut illius una; Nam neque eum ferro nec frigore vincere possis interiisse neque a morbo neque forte veneno, verum aliquid genere esse ex hoc quod contigit ei scimus. Item in multis hoc rebus dicere habemus.

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Ci sono anche alcuni fatti per i quali non basta dire una sola causa, ma bisogna dirne parecchie, di cui tuttavia una sola dev’essere la vera. Così, se per tua parte vedi un corpo esanime d’uomo giacere lontano, conviene che tu dica tutte le cause di morte perché sia detta quella che sola è per lui vera. Infatti non potresti provare che sia morto di spada, né di freddo, né di malattia, né, putacaso, di veleno; ma sappiamo che è qualcosa di tal genere ciò che gli è capitato. Similmente siamo in grado di dire questo per molte altre cose. Il contenuto di questi versi – che, non lo si dimentichi, compaiono nel­ la sezione del VI libro del poema dove Lucrezio si occupa di fenomeni specifici e peculiari prossimi ai o coincidenti con i cosiddetti mirabilia – non solo è compatibile con il passo del V libro citato sopra ma aggiunge ulteriori informazioni. In primo luogo, sembra poter concludere che dire più cause di uno stesso fenomeno dipende essenzialmente da una nostra incapacità epistemologica. Per esemplificare questo punto, Lucrezio usa la metafora di un corpo umano privo di vita che è visto da un osservatore da lontano (procul: VI 705) – proprio come nel caso dei meteora. Bakker (2016: 23 e 30-31) pone l’accento sul fatto che l’esempio lucreziano sembrerebbe tanto inappropriato quanto corretto. È inappropriato, perché i meteora riguardano in ogni caso fenomeni lontani (mentre il corpo esanime di un individuo può essere avvicinato ed esaminato attentamente); è adeguato, se i fenomeni di cui si tratta rientrano nella “categoria” di ta prosmenonta, “le cose che attendono conferma”.199 Nel caso delle inondazioni del Nilo, per esempio, ci si può recare direttamente in Egitto e verificare se le piene del fiume siano connesse alle diverse spiegazioni causali fornite da Lucre­ zio. Poiché il testo in questione (VI 703-711) precede immediatamente la trattazione relativa al Nilo, l’esempio lucreziano può apparire appropriato. Malgrado ciò, sottolineerei due punti: (1) che i fenomeni celesti (come i venti, i terremoti o le eclissi) non sembrano appartenere a ta prosmenonta;

199 Cfr. Diog. Laert. X 34.

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(2) che nel passo in esame Lucrezio non sembra giungere alla conclusione che, una volta avvicinato il cadavere, si potrà stabilire quale sia la causa del decesso. Lucrezio, invece, sembra essere piuttosto interessato a enumerare molte cause tutte ugualmente/oggettivamente possibili senza alcuna vera necessità di asserire quale sia quella corretta. Fermo restando che la morte di un individuo può essere anche provoca­ ta da più cause, prima di avvicinarsi al corpo, per vederlo da vicino e avere un quadro lucido di quanto avvenuto, l’osservatore non può escludere nessuna causa che ne abbia provocato la morte; per questa ragione egli fornisce parecchie spiegazioni causali (la spada, il freddo, la malattia, il veleno etc.) ma, dichiara Lucrezio, una sola sarà la causa che effettivamente ha provocato la morte dell’individuo. È interessante che il poeta rilevi come non sia possibile provare (vincere: VI 708)200 quale sia la causa della morte prima di avvicinarsi al corpo esanime ma l’unica cosa che sappiamo con certezza (scimus: VI 711) è il fatto che delle cause enumerate una sarà quella giusta (e le altre saranno di necessità errate). Così si giustifica, per fare un solo esempio, l’uso di forsan (VI 729) o forsitan (VI 735) nell’enun­ ciazione delle diverse cause delle inondazioni nilotiche (dunque un caso particolare); l’impiego di avverbi simili non si rintraccia in Pitocle, come abbiamo già visto nel confronto con Seneca,201 il che è estremamente significativo, ma lo si trova in Teofrasto202 a riprova della netta differenza teorica tra il pleonachos tropos di Epicuro e il metodo utilizzato da Teofrasto (su cui si avrà modo di tornare a breve).203 L’uso teofrasteo di τάχα o ἴσως in alcune spiegazioni di fenomeni naturali potrebbe fare riferimento alla εἰκοτολογία, l’eziologia del verosimile nell’indagine sui meteora forse ascrivibile al filosofo sulla base di un importante passo di Proclo (In Plat. Tim. II 120, 29-121, 7 Diehl = 159 FHS&G). A ogni modo, anche in questo caso mi pare difficile non scorgere quan­ to meno alcune incongruenze con il pleonachos tropos dell’Epistola a Pitocle. Epicuro non parla affatto di un’unica causa corretta tra quelle presentate e soprattutto non è necessariamente vero che per ogni fenomeno celeste una sola sia la causa sempre effettivamente operante;204 è evidente che in un da­ to momento la causa della formazione di un meteoron non potrà che essere una sola, ma – e in ciò sta, a mio avviso, il cuore teorico del pleonachos tropos di Epicuro – ciò non significa che quello stesso fenomeno non possa 200 201 202 203 204

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Cfr. Bailey 1947: 1662. Cfr. supra: 72-73. Cfr. e.g. De lapid. 2, 21; De vent. 15, 52. Cfr. infra: 84 ss. Pace Salemme 2009: 97-98.

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avere altre spiegazioni riferibili alle altre effettive cause di generazione di quel dato fenomeno. In tal senso, l’esempio lucreziano potrebbe risultare calzante, essendo uno stesso fenomeno (la morte) provocato da più cause. Secondo Lucrezio non è importante (o possibile) stabilire quale sia la causa (particolare) che produca il dato fenomeno; rilevante è (1) sollevare molteplici spiegazioni causali compatibili con l’evidenza percettiva e con i fondamenti dell’atomismo (epicureo) e che escludano l’intervento divino, e (2) sapere che, tra quelle elencate, una sola sia quella vera.205 In Pitocle, tuttavia, non viene detto che è sempre la stessa causa a provocare un fenomeno ma, appunto, che il singolo meteoron possiede ontologicamente più cause (tutte vere) della sua generazione. Nella sua notevole monografia sulla meteorologia epicurea206 Bakker (2016: 37-42) esamina il fr. 13 col. III Smith di Diogene di Enoanda, dove, come si è già visto, Diogene sostiene che, sebbene le spiegazioni siano tutte possibili, “questa” è più plausibile di “quella” (9-13),207 inserendo, così, un diverso e gerarchico grado di pithanotes (plausibilità) tra le spiegazioni enumerate, cosa che non si ritrova né in Epicuro e nemmeno in Lucrezio. Bakker ipotizza che ciò sia dovuto al fatto che Diogene tenterebbe in questo modo di conciliare la sua ortodossia epicurea con le scoperte astro­ nomiche del suo tempo che, evidentemente, non potevano passare sotto silenzio. Lo studioso (2016: 74) conclude che «Diogenes of Oenoanda’s claim that some explanations are more plausible than others is a departure from Epicurus and Lucretius for whom all alternative explanations have the same truth-value». A mio avviso, Bakker ha ragione ma solo per ciò che riguarda il valore veritativo delle spiegazioni; in effetti né Epicuro né Lucrezio reputano, come Diogene di Enoanda, l’una spiegazione più plausibile di un’altra:208 ciò contraddirebbe in pieno il pleonachos tropos. Malgrado questo, ritengo che, non solo quella di Diogene di Enoanda, ma anche la posizione di Lucrezio non sia sovrapponibile o, per così dire, coestensiva a quanto si legge nell’Epistola a Pitocle.209 Il ventaglio delle ipotesi per giustificare ciò è quanto mai ampio: (1) si può negare l’autenti­ cità della lettera (il che mi pare azzardato ed errato);210 (2) sostenere che Pitocle sia un compendio e che, quindi, in esso Epicuro non sia entrato

205 Cfr. Giussani 1923: 249 n. 1. 206 Per una recensione di questo studio cfr. Verde 2017b. 207 τὸ μέντοι / λέγειν πάντας μὲν ἐνδε-/χομένους, πιθανώτερον / δ’ εἶναι τόνδε τοῦδε ὀρθῶς / ἔχει. 208 Cfr. Pace 2020: 287. 209 Cfr., comunque, anche Bakker 2018: 59-65 e, più in generale, Hardie 2008. 210 Cfr. supra: 40 ss.

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nei dettagli epistemologici del suo metodo (occorre ricordare, tuttavia, che la forma letteraria del compendio non può alterare i nuclei decisivi della dottrina approfonditi in opere più ampie e minuziose);211 (3) affermare che Lucrezio non abbia compreso pienamente il pleoanchos tropos, (4) op­ pure che la sua trattazione dipenda da un libro del Peri physeos (o da una qualche altra opera) di Epicuro non pervenuto, i cui contenuti divergono da Pitocle; (5) ammettere che si tratti di una personale elaborazione di Lucrezio (6) o che il poeta derivi la sua trattazione da un filosofo epicureo (di prima generazione o comunque successivo a Epicuro). È difficile prendere posizione (così come lo è per il frammento di Diogene di Enoanda), tuttavia (come anche per Diogene), non esclude­ rei né che possa trattarsi di un’interpretazione personale (magari pensa­ ta per difendere meglio la coerenza del metodo o dell’espressione τὸ πιθανολογούμενον di Pyth. 87) né che sia un fraintendimento. Ciò che mi sembra più significativo è che, sulla base di quanto argomentato finora, sicuramente Diogene, ma anche Lucrezio si allontanano (deliberatamente o meno) dall’Epicuro dell’Epistola a Pitocle. È, inoltre, difficile comprendere quali siano stati i motivi effettivi del­ la diversità della posizione di Lucrezio e di Diogene di Enoanda sulle molteplici spiegazioni causali rispetto a quella di Epicuro nell’Epistola a Pitocle. Non è impossibile che dell’evoluzione di questa specifica dottrina sia responsabile Epicuro stesso nel Περὶ φύσεως, tenendo conto del fatto che i libri XI-XIII di quest’opera erano dedicati a questioni cosmologiche e all’esame dei fenomeni celesti.212 Che alcuni libri successivi all’undicesimo continuassero la trattazione dei meteora è esplicitamente asserito da Epicu­ ro proprio nella chiusa del libro XI ([26] [45] Arrighetti). Non sempre, tut­ tavia, si scorge, come si è già rilevato, una perfetta convergenza tra la lette­ ra a Pitocle e ciò che resta del libro XI del Περὶ φύσεως. Un esempio di ciò potrebbe essere la trattazione della forma del cosmo; mentre nell’Epistola a Pitocle (88) viene detto espressamente che la forma del cosmo può essere tonda o triangolare o di qualsiasi altro perimetro, nel libro XI ([26] [32] Arrighetti) il cosmo viene considerato di forma tonda, sebbene il contesto di riferimento sia poco chiaro. Le condizioni in cui versa questo luogo, tuttavia, essendo piuttosto malconce, invitano alla prudenza; il passo in

211 Sul rapporto tra la forma del trattato e il suo compendio in Epicuro si veda ancora Damiani 2021: Cap. 8. 212 Per la cronologia anche relativa alle due lettere a Erodoto e a Pitocle e i contenu­ ti di questi libri, cfr. Sedley 1998a: 119-123 e 128-132 (si veda anche supra: 50).

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questione, quindi, potrebbe anche non riferirsi alla genuina posizione di Epicuro. Se già nell’opus magnum di Epicuro si trovasse una diversa teorizzazione del pleonachos tropos rispetto a Pitocle, il “fondamentalismo” epicureo di Lucrezio sarebbe confermato; il poeta, infatti, anche in quei luoghi che paiono differenti da quanto si legge nell’Epistola a Pitocle, rispecchierebbe, in realtà, la dottrina del Περὶ φύσεως. Non va dimenticato, del resto, che l’Epistola a Pitocle si presenta espressamente come un compendio, una trattazione breve e ben circoscritta (Pyth. 84: σύντομος καὶ εὐπερίγραφος διαλογισμός), dove Epicuro avrebbe perfino potuto fare a meno di scendere in dettagli eccessivamente tecnici;213 così facendo, tuttavia, avrebbe trala­ sciato di essere chiaro su quegli aspetti metodologici del πλεοναχὸς τρόπος relativi all’investigazione dei fenomeni celesti, il che non sembra essere un’ipotesi convincente. Non si può neppure escludere, però, che l’accen­ tuazione della spiegazione più plausibile (Diogene di Enoanda), il fatto che di molte spiegazioni valide solo una sia effettivamente quella vera o che il metodo delle molteplici spiegazioni causali sia declinabile nell’infinità dei mondi (Lucrezio) possano dipendere da alcune difficoltà teoriche che la lettera a Pitocle lasciava fondamentalmente insolute oppure di difficile comprensione, come il problema della (presunta) incompatibilità tra le spiegazioni causali. Dall’analisi fin qui condotta mi sembra lecito concludere che la teoria delle molteplici spiegazioni causali e la stessa nozione di causalità a essa collegata, dall’Epistola a Pitocle ai frammenti litici di Enoanda, abbia avuto una significativa “evoluzione” e abbia costituito una delle dottrine più fre­ quentate dalla tradizione epicurea.214 Una prova ulteriore, dunque, degli sviluppi teorici a cui (perfino) la scuola di Epicuro è andata incontro, oppure (ipotesi, questa, di certo non trascurabile) della difficoltà di giun­ gere a una completa chiarezza su un metodo che evidentemente conserva­

213 Cfr. Montarese 2012: 287. 214 Ciò è provato anche dal fr. 49 4-5 Gallo dell’anonima Vita Philonidis preservata dal PHerc. 1044, dove, come si è già visto, seguendo la ricostruzione proposta da Gallo 2002: 100 e 151-152 (ma si veda ora anche il contributo di Nicolardi 2020, nonché Puglia 1988: 51-55), Filonide, in ambito astrologico, avrebbe accolto le opinioni di Epicuro περὶ τῶν μετεώρων. Mi sembra un indizio significativo del fatto che il dibattito sui fenomeni celesti abbia avuto una sua specifica e diacronica tradizione; non si può escludere, inoltre, che proprio Filonide – la cui attività strettamente scientifica è nota – abbia costituito un punto di passaggio si­ gnificativo della riflessione epicurea su τὰ μετέωρα (cfr. anche Verde, di prossima pubblicazione).

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va asperità teoriche non immediatamente risolvibili;215 ciò, tuttavia, non costituisce una cogente motivazione tale da intaccare l’autenticità della let­ tera.

5. Aristotele, Teofrasto e il metodo epicureo delle molteplici spiegazioni causali Studi più o meno recenti si sono utilmente occupati di esplorare la relazio­ ne dottrinaria tra i primi successori di Aristotele e i filosofi della scuola di Epicuro, arrivando alla conclusione che tra Kepos e Peripatos vi sia stato effettivamente un rapporto di influenza (anche e soprattutto di natura polemica), in particolare del secondo sul primo, che ha conseguentemente provocato diverse reazioni del primo nei riguardi del secondo.216 Uno dei temi più stimolanti concerne la questione di quanto e in che misura le opere di Teofrasto abbiano influito (e perfino condizionato) la costituzio­ ne teorica di alcune dottrine epicuree.217 È proprio il caso del metodo delle molteplici spiegazioni causali usato in Pitocle. Relativamente a questo punto, per un verso, è stato mostrato come le Φυσικαὶ δόξαι (con Mansfeld 2010: 35) di Teofrasto abbiano costituito un prezioso “repertorio dossogra­ fico” (o, comunque, di questioni e argomentazioni) a cui Epicuro (e suc­ cessivamente Lucrezio) avrebbe attinto per la descrizione di vari meteora,218

215 Cfr. Boyancé 1985: 275. 216 Cfr., per una prima panoramica, Verde 2016b e, su questioni più specifiche, Id. 2015 e 2016c. 217 Su questo punto cfr. Verde 2018b e le metodologicamente giuste e utili osserva­ zioni di Runia 2010: 263, che invita a essere assai cauti nel presupporre o nel dare per assodate dipendenze eccessivamente meccaniche di Epicuro da Teofra­ sto e i Placita e di Lucrezio da Epicuro; si veda anche Barigazzi 1948: 180-181. 218 Cfr. Sedley 1998a: 157-160, 179-185 e Id. 1998b: 351-354; si attesta su una posizione più cauta Bakker 2016: 155; decisivo ora lo studio di Runia 2018: 413-415 che così (alquanto plausibilmente) conclude: «Epicurus used some early version of the Placita, most likely to be associated with the scholarly activity of Aristotle, his pupil and collaborator Theophrastus and the Peripatetic school they founded» (415). Sul medesimo punto (ma giustamente con più cautela) tornano ora Mansfeld-Runia 2020: 72, 778, 1015-1016, 1308, 1775; inoltre questi studiosi sottolineano, con piena ragione, come, a loro volta, le lettere dottrinali di Epicuro «were attractive for doxographers when formulating their doxai» (737). Ciò porta a ipotizzare che tali scritti di Epicuro possono essere considerati verosimilmente come fonti non trascurabili per la dossografia (come nel caso di quella di Aezio – cfr. e.g. Mansfeld-Runia 2020: 77, 773, 849, 1016 –, la cui opera dossografica è databile, secondo Mansfeld-Runia 2020: 17 – intorno al 50 d. C.).

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per un altro, la critica recente si è occupata di avvalorare e supportare la possibilità che il metodo epicureo delle molteplici spiegazioni causali sia simile al metodo usato in parte già da Aristotele219 ma soprattutto proprio da Teofrasto.220 Per ciò che riguarda Aristotele, va da sé che non può che risultare erro­ neo rinvenire nel filosofo l’utilizzo del pleonachos tropos come lo intendeva Epicuro. Si prenda, per esempio, il caso dei terremoti in Meteor. II 8, 366a 5-12, in cui Aristotele asserisce che la maggior parte dei sismi (soprattutto i più violenti) accadono in assenza di venti ma allo stesso tempo ammette che non è alogon che i terremoti si verifichino anche in assenza di ven­ to. Evidentemente si osserva qui l’ammissione di due diverse spiegazioni causali; ciò, tuttavia, rientra nella tipica posizione aristotelica per cui i fenomeni naturali accadono sempre o perlopiù allo stesso modo.221 A ogni modo, è stato sostenuto che il pleonachos tropos di Epicuro deriverebbe da un metodo simile teofrasteo; così facendo si riduce intrin­ secamente l’originalità di tale “dispositivo epistemologico” che Epicuro impiega esclusivamente per fenomeni particolari come quelli celesti. Tale riduzione di originalità, a dire il vero, mi convince poco, anche per ragioni eminentemente storico-filosofiche; per esempio, si tenga conto del fatto che, con ogni probabilità, Posidonio criticò il pleonachos tropos di Epicu­ ro.222 Se questo metodo fosse stato solo una mera riproposizione della metodologia teofrastea nell’indagine fisica, dubito che il filosofo stoico se ne sarebbe interessato così da vicino, fermo restando che, di per sé, la pole­ mica di Posidonio contro Epicuro non dimostra nulla circa la relazione possibile tra Epicuro stesso e Teofrasto sul metodo di indagine.223 Per queste ragioni ritengo utile, anzi, decisivo a livello storico, verificare se l’ipotesi della completa dipendenza del pleonachos tropos epicureo dalla metodologia teofrastea regga o meno. Per fare questo non esaminerò le diverse occorrenze in cui Teofrasto impiega tale modalità investigativa ma tenterò di andare, per così dire, al cuore della questione, esaminando nello specifico la diversa ed essenzialmente incommensurabile concezione che Teofrasto ed Epicuro hanno dell’aisthesis e del suo uso in ambito

219 Cfr. Bakker 2016: 65-67. 220 Cfr. Steinmetz 1964: 329, Podolak 2010: 55-66, nonché Notaro 2007 e Bakker 2016: 67-70. 221 Davvero paradigmatico anche il caso della generazione delle cosiddette stelle cadenti in Meteor. I 4, 342a 3-12. 222 Cfr. Simpl. In Aristot. Phys. 291 21-292 31 Diels = 18 Edelstein-Kidd. 223 Cfr. Bowen-Todd 2004: 193-204, Verde 2016d e, per altri importanti rinvii bi­ bliografici, Verlinsky 2019: 16 n. 3.

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scientifico. La sensazione ricopre un ruolo fondamentale in questo campo di indagine, considerando che essa è alla base del metodo delle moltepli­ ci spiegazioni causali; in questo senso, giungendo alla conclusione che Teofrasto ed Epicuro intendono in modo profondamente differente la funzione dell’aisthesis, risulterà chiaro che anche i tropoi che su di essa si basano risulteranno differenti e rispondenti a esigenze altrettanto diverse. Uno dei testi più interessanti per l’esame del ruolo dell’aisthesis in Teo­ frasto è un noto passo dello scritto Sui principi primi, meglio noto come Metafisica, (8b 10-17)224 che riporto di seguito nel testo stabilito da André Laks e Glenn Most (1993: ad loc.) nella loro edizione per Les Belles Lettres e nella traduzione italiana (leggermente modificata) di Repici (2013: ad loc.): Τὸ δὲ ὂν ὅτι πολλαχῶς, φανερόν· ἡ γὰρ αἴσθησις καὶ τὰς διαφορὰς θεωρεῖ καὶ τὰς αἰτίας ζητεῖ· τάχα δ’ ἀληθέστερον εἰπεῖν ὡς ὑποβάλλει τῇ διανοίᾳ τὰ μὲν ἁπλῶς ζητοῦσα, τὰ δ’ ἀπορίαν ἐνεργαζομένη, δι’ ἧς, κἂν μὴ δύνηται προβαίνειν, ὅμως ἐμφαίνεταί τι φῶς ἐν τῷ μὴ φωτὶ ζητούντων ἐπὶ πλέον. τὸ ἐπίστασθαι ἄρα οὐκ ἄνευ διαφορᾶς τινος. D’altro canto, che ciò che è in molti modi, è chiaro. Infatti la sensa­ zione osserva le differenze e ricerca le cause; forse però è più vero dire che essa è di sostegno al pensiero, in quanto alcune cose ricerca semplice­ mente e su altre produce aporia, mediante la quale, anche quando non si possa procedere oltre, tuttavia una qualche luce appare nella non-luce via via che indaghiamo più a fondo. Il sapere quindi non senza una qualche differenza. Si tratta di un passo molto discusso, anche dal punto di vista testuale. A mio avviso, non è semplice comprendere quale sia il soggetto di δύνηται, per questo motivo e per ragioni di cautela ho preferito rendere in modo impersonale (nel senso di “non è possibile”) l’espressione in questione.225 Repici indica il soggetto con “essa” che, se comprendo bene, dovrebbe essere un riferimento alla sensazione (aisthesis), dato che la studiosa traduce dianoia con “pensiero”. Se è così, tenderei, però, a essere maggiormente esplicito per limitare l’eventuale ambiguità (dato che il δι’ ἧς immedia­ tamente precedente è giustamente riferito dalla studiosa ad aporia). La tradizione araba (Isḥāq ibn Ḥunayn)226 considera aisthesis come soggetto di δύνηται. I commentatori moderni del passo, invece, intendono dianoia

224 Per un dettagliato commento del passo cfr. van Raalte 1993: 393-406 e Repici 2013: 210-223. Ambedue i titoli dello scritto teofrasteo sono congetturali. 225 Come già fa, per esempio, Reale 1964: 192. 226 Cfr. Gutas 2010: 349.

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(ossia la “facoltà” del pensiero) come soggetto.227 Dal punto di vista della struttura logica del contenuto, ciò non mi pare così pacifico. Credo, infatti, che la tradizione araba di Isḥāq sia più coerente nel rintracciare il soggetto in aisthesis piuttosto che in dianoia. La “facoltà” che non può procedere in avanti nella ricerca, una volta creatasi un’aporia (prodotta dalla sensazione, si badi), mi sembra essere proprio la sensazione e non il pensiero che, invece, è in grado di proseguire nell’indagine evidentemente grazie all’ela­ borazione razionale dei dati forniti dall’aisthesis. Lasciando, comunque, da parte i problemi più spinosi, ripercorro il contenuto del passo. Il contesto più ampio in cui tale luogo si iscrive sembra essere “ontologico”. Poco sopra (8b 2) si dice che «noi affermiamo l’essere in relazione a tutte le cose» (κατὰ πάντων μὲν τὸ εἶναι λέγομεν; trad. Repici), il che implica, per la ricerca scientifica, l’individuazione di pecu­ liarità che siano in grado di differenziare le cose. La prospettiva ontologica è richiamata nell’incipit del testo riportato: ciò che è è πολλαχῶς, non (tanto) nel senso semantico (e aristotelico) del pollachos legetai, ma, appun­ to, secondo una linea propriamente ontologica.228 Ciò che è è πολλαχῶς proprio perché l’essere è κατὰ πάντων. Questo è il motivo per cui Teofrasto introduce il tema delle diaphorai – senz’altro tipico del suo pensiero,229 senza dimenticare, però, che si tratta di una questione fondamentale anche per Aristotele –230 ossia le differenze peculiari di cose e fenomeni che sono, per l’appunto, in grado di differenziarli. Proprio grazie allo scrupoloso stu­ dio delle diaphorai, la ricerca scientifica può procedere.231 Non è, dunque, un caso che alla fine del passo il filosofo affermi che il sapere stabile e incontrovertibile (to epistasthai) non esiste senza una qualche differenza. Al fine di giustificare come si possa giungere a questo sapere, Teofrasto dichiara che la sensazione osserva, studia le differenze e ne ricerca le cause; di conseguenza le diaphorai si rapportano direttamente a determinate cause che l’aisthesis rintraccia e identifica. Non può, quindi, essere contestato il ruolo decisivo che Teofrasto attribuisce alla sensazione: senza di essa, infatti, la ricerca non potrebbe procedere, dato che l’indistinzione di tutte le cose ostacolerebbe lo studio delle differenze e, soprattutto, delle loro

227 228 229 230

Cfr. Gutas 2010: 139 n. 97, nonché Henrich 2000: 126. Cfr. van Raalte 2015: 89. Cfr. e.g. Theophr. De igne 3. Cfr. APo. II 19, 99b 39-100a 3, Top. I 18, 108a 37-b 1, nonché il “precedente” platonico di Theaet. 208c 7-8. 231 Sull’importanza assunta da questo “metodo” in Teofrasto cfr. ancora van Raalte 2015.

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cause, studio che coincide con l’episteme, intesa come indagine causale secondo la prospettiva aristotelica dei Secondi Analitici (I 2, 71b 9-12).232 Quasi come se Teofrasto avesse, per così dire, “esagerato” nell’ascrivere alla sensazione un compito tanto elevato e basilare come la ricerca delle cause, il filosofo tenta quasi di “aggiustare il tiro” e prosegue osservando che forse (tacha) è più vero (alethesteron) che la sensazione sia di supporto alla dianoia e, quindi, fornisca al pensiero il “materiale” su cui esso può agire elaborandolo. Teofrasto spiega il motivo di tale “correzione”: in alcu­ ni casi, infatti, la sensazione ricerca semplicemente (haplos), ossia procede senza aporie nell’individuazione delle cause delle diaphorai, in altri casi, evidentemente più complessi, produce aporia. Con l’uso del termine aporia – indubbiamente proprio del pensiero teofrasteo, come è particolarmente evidente proprio nella sua Metafisica –233 si indica il fatto che la sensazione in questioni complesse e difficili non riesce a procedere oltre e, per questo motivo, produce aporia. Dal momento che è del tutto probabile che δι’ ἧς si riferisca propriamente ad aporia, Teofrasto riferisce che per suo tramite, mano a mano che si prosegue nell’indagine, una qualche luce appare nella non-luce. L’espressione di primo acchito potrebbe apparire piuttosto crip­ tica, tuttavia, a mio avviso, si comprende meglio se la si ascrive all’attività congiunta dell’aisthesis che, per così dire, “passa il testimone” alla dianoia. L’aisthesis produce aporia e, di conseguenza, non è in grado di procedere oltre nell’indagine causale; è proprio grazie all’aporia, tuttavia, che si rende possibile – quasi “socraticamente”, verrebbe da aggiungere – la continua­ zione della ricerca in virtù dell’intervento della dianoia che, sulla base della aporia fornita (anzi, prodotta) dalla sensazione, procede nella ricerca più a fondo (epi pleon), giungendo a delle conclusioni scientifiche di rilievo laddove sembrava che l’attività dello zetein fosse destinata ad arrestarsi.234 In questo modo Teofrasto spiega cosa significhi che la sensazione sia di sostegno alla dianoia: è evidente, infatti, che quest’ultima non potrebbe procedere oltre se l’aisthesis non fornisse l’aporia. Ciò, però, non significa che questo accada sempre; vi possono essere casi, infatti, dove l’intervento della dianoia non sia necessario, dato che la sensazione può procedere nell’indagine haplos. Sebbene il contesto sia diverso, la medesima posizione si ritrova ancora nella Metafisica qualche pagina dopo il passo citato: «Fino a un certo 232 Sulla eziologia dei fenomeni celesti si veda anche APo. II 1, 89b 23-35 con Bronstein 2016: 82-83. 233 Ma, come è noto, il ruolo dell’aporia è centrale anche in Aristotele (cfr. e. g. Metaph. B 1, 995a 24-b 4). 234 Cfr. Repici 2014: 23-24 e 28.

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punto dunque possiamo indagare mediante una causa, assumendo punti di partenza dalle sensazioni, mentre quando passiamo alle cose supreme e prime, non possiamo più, sia perché esse non hanno una causa, sia a motivo della nostra debolezza come volgere lo sguardo verso le cose più luminose. Forse però è più vero questo, cioè che l’indagine su tali cose per mezzo dell’intelletto stesso che le tocca e sta con esse, per così dire, a contatto, ragion per cui non è possibile inganno a loro riguardo» (9b 8-16; trad. Repici). Anche in questo caso si tratta di un passo tanto significativo quanto controverso; limitatamente agli scopi della presente ricerca, basti richiamare l’attenzione su un paio di punti che mi paiono particolarmente rilevanti. Le sensazioni per Teofrasto devono essere considerate dei punti di partenza dai quali l’indagine prende inizio al fine di poter afferrare (lambanein) le cause.235 Al riguardo si constata una perfetta coerenza con ciò che si leggeva poco sopra, quando Teofrasto osservava che grazie alle sensazioni è possibile ricercare le cause. Malgrado ciò, le sensazioni non possono affatto essere esaustive dell’intera conoscen­ za o, più precisamente, della conoscenza ferma e scientifica di τὰ ἄκρα καὶ πρῶτα, dato che questi, essendo “cose prime” o principi, non hanno causa. L’aisthesis, invece, ricerca le cause e procede per causas. Assai signifi­ cativamente Teofrasto aggiunge che l’indagine sui principi primi non può basarsi sul concorso delle sensazioni anche per la nostra debolezza (διὰ τὴν ἡμετέραν ἀσθένειαν), la medesima che si prova nel vedere le cose più luminose. Si rammenterà che il riferimento alla luce era presente anche nel passo precedente e indicava il fatto che, dopo la produzione dell’aporia da parte della sensazione, via via che si indagava più a fondo, appariva una qualche luce nella non-luce: la conferma che tale processo debba essere attribuito alla dianoia o, come in questo passo, al noos/nous viene proprio dal fatto che l’astheneia a cui Teofrasto fa riferimento è intrinsecamente connessa al limitato campo di azione delle aistheseis, individuabile, del resto, anche in Aristotele,236 sebbene non si debba tralasciare il carattere di decisività che Aristotele attribuisce alla sensazione e alla dynamis sensitiva dell’anima, in particolare nel II libro del De anima. È noto, infatti, che i sensi, avendo la capacità di discriminare (krinein), almeno nei riguardi dei sensibili propri, non si ingannano o – con un’aggiunta che conserva una

235 Cfr. Steinmetz 1964: 322. 236 Cfr. e.g. APo. I 31, 87b 28-33, dove si nega che l’ἐπίστασθαι sia ottenibile δι’ αἰσθήσεως, dal momento che la sensazione non è in grado di raggiungere l’universale, e Metaph. A I, 981b 10-13, in cui Aristotele esclude che vi sia identità tra aisthesis e sophia.

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sua notevole problematicità (De an. III 3, 428b 18-22)237 – solo in minima parte.238 L’intelletto, quindi, non può ingannarsi perché è in stretto contatto con i principi, per questo, a differenza della sensazione, non può produrre alcuna aporia. Solo di passaggio, ritengo utile, in questo contesto, sottoli­ neare come proprio su questo punto si incentrò la critica dei Peripatetici alla canonica epicurea; in breve, i Peripatetici potevano anche concordare con gli Epicurei sul fatto che l’inizio della ricerca scientifica risieda nelle sensazioni ma – ed è questa l’obiezione forte – se le aistheseis non vengono guidate dall’intelletto, mancano di quell’unico criterio che possa garantire l’esito rigoroso e positivo dell’indagine. Questo risulta molto chiaro, per limitarsi a un solo esempio, a partire dalla critica sollevata dal filosofo peri­ patetico Aristocle239 alla dottrina epicurea delle affezioni (pathe) intese co­ me terzo canone epistemologico.240 Evidentemente gli Epicurei avrebbero potuto controbattere con l’osservare che il logismos ricopre un ruolo assai rilevante nel processo conoscitivo; al di là della possibile replica epicurea, è interessante notare come i Peripatetici accusassero le sensazioni di mancare di un criterio (identificabile con l’intelletto) capace di orientarle.241 Una importante testimonianza dal Commento alla “Fisica” di Aristotele di Simplicio relativa al I libro della Fisica teofrastea arriva alle medesime conclusioni (p. 20 17-26 Diels = 143 FHS&G); secondo il commentatore, infatti, Teofrasto riteneva che la ricerca della verità circa i principi della natura (τὴν περὶ τῶν φυσικῶν ἀρχῶν ἀλήθειαν) non potesse che prendere le mosse dalle sensazioni e da ciò che è percepito (ἀπὸ τῶν αἰσθήσεων καὶ τῶν αἰσθητῶν). La motivazione che, stando a Simplicio, Teofrasto riporta nella sua Fisica è piuttosto lucida: dal momento che non è possibile trattare di ciò che è naturale senza fare riferimento al movimento (kinesis) – tutte le cose naturali, infatti, sono in movimento –, quando ci si occupa propria­ mente di τὰ τῆς φύσεως non è possibile non fare ricorso alla sensazione (οὐχ οἷόν τε καταλιπεῖν τὴν αἴσθησιν). In virtù della sensazione è possibile afferrare e comprendere i fenomeni di per sé (τὰ φαινόμενα λαμβάνοντας καθ’ αὑτά), mentre, partendo dalle sensazioni (ἀπὸ ταύτης ἀρχομένους), si possono rintracciare, nel caso, principi primi e più eminenti di quelle (κυριώτεραι καὶ πρότεραι τούτων ἀρχαί). La posizione generale di Teofrasto circa l’impiego e la funzione dell’aisthesis risulta coerente: essa, infatti, 237 238 239 240 241

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Cfr., dunque, Johnstone 2015. Cfr. e.g. Aristot. De an. II 6, 418a 11-16; III 3, 428a 11-12. Cfr. Eus. PE XIV 21, 1 = F 8 Chiesara; part. 260 Usener. Cfr. Verde 2018c: 217-221. Sulla questione cfr. anche Cornea 2014 e Hahmann 2015.

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ricopre un ruolo del tutto cruciale, poiché l’indagine sui fenomeni, ma anche quella sui (loro) principi inizia dalla e grazie alla sensazione che fa da supporto al pensiero e all’intelletto. I principi primi sono, tuttavia, compresi esclusivamente grazie all’attività della dianoia (o del noos/nous) ma a ciò si giunge non solo perché la sensazione, in determinati casi, pro­ duce aporia, ma anche per via dell’intrinseca debolezza dei sensi, benché, a mio parere, risulti alquanto problematico conciliare la testimonianza di Simplicio con il passo di Metaph. 9b 8-16 sopra riportato (88-89), dove Teofrasto presenta, ancorché in un contesto prettamente aporetico, una prospettiva essenzialmente diversa, teorizzando un’attività dell’intelletto più diretta e autonoma nella conoscenza dei principi primi. Ciononostante, sarebbe poco lecito pensare che, per questi motivi, la sensazione in Teofrasto ricopra un campo di azione ristretto e limitato: le sue opere e i suoi “opuscoli” di argomento fisico-naturale confermano esattamente l’opposto. Mi limito, tra i tanti, a un solo esempio significati­ vo. Nel trattato De igne (forse da identificarsi con uno dei due libri di un Peri pyros menzionato da Diogene Laerzio V 45 = 1 FHS&G) Teofrasto si occupa della natura del fuoco e, in primo luogo, osserva che il fuoco rispetto agli altri corpi semplici possiede le proprietà più particolari (1); una di queste risiede nel fatto che il fuoco si trova sempre in un sostrato (3: hypokeimeno i). Di qui Teofrasto (4) inferisce che il fuoco, dipendendo da un sostrato, non può essere considerato un elemento primo (proton), in una parola, un principio (arche), visto che esso non può sussistere senza materia (choris hyles). Per spiegare cosa si debba intendere per hypokeime­ non del fuoco, Teofrasto ricorre direttamente all’aisthesis:242 «A tal fine si deve tenere presente ciò che è stato detto poco prima, ossia che anche alla sensazione (τῇ αἰσθήσει) risulta chiaro che le sue (scil. del fuoco) caratteri­ stiche si esercitano in qualche modo su di un sostrato (ἐν ὑποκειμένῳ) che cambia interamente e ne subisce l’azione. Ciò posto, infatti, diventa ora ra­ gionevolmente fondato discutere sia sulla generazione sia sulla distruzione del fuoco» (10; trad. Battegazzore, lievemente modificata). Si comprende qui un punto importante: il sostrato a cui pensa Teofrasto non va inteso come una sorta di “principio metafisico” ma va considerato come una generica materia direttamente osservabile grazie alla quale il fuoco può effettivamente bruciare;243 si può giungere a tale conclusione proprio in virtù dell’aisthesis che, infatti, conferma che non esiste fuoco che sia tale

242 Cfr. van Raalte 2010. 243 Cfr. Battegazzore 2006: 63.

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(dunque, che bruci e che consumi qualcosa) che non necessiti di un sostra­ to. Benché il ricorso all’esperienza percettiva giochi un ruolo del tutto rilevante nella ricerca naturale, Teofrasto è, in ogni caso, perfettamente consapevole del fatto che l’aisthesis, come si è già osservato in sede di analisi del passo della Metafisica, ha dei limiti precisi. Un esempio di ciò è nell’Historia plantarum; nel III libro di quest’opera Teofrasto, dopo aver menzionato le opinioni dei physiologoi Anassagora, Diogene di Apollonia e Clidemo sulla generazione delle piante spontanee, asserisce che questo tipo di generazione (spontanea) va in qualche modo oltre la sensazione (III 1, 5: apertemene pos […] tes aistheseos). Poco oltre (III 1, 6), occupandosi ancora della generazione delle piante in relazione alla natura del suolo e ai semi che esso eventualmente contiene, conclude affermando che «[Q]ueste (scil. le generazioni),244 dunque, sono dovute alla trasformazione (metabole) del suolo sia che vi siano semi già presenti (in esso), sia che in qualche modo (il suolo) provochi di per sé (tale trasformazione), il che forse non è assurdo (ouk atopon), essendo gli elementi umidi rinchiusi (egkatakleiome­ non) allo stesso tempo (nel suolo)» (trad. mia). In breve, Teofrasto ammette due possibilità per la generazione spontanea delle piante (o, più precisa­ mente, della cosiddetta “croce di Malta”, il cui nome scientifico è tribulus terrestris): o la terra contiene già dei semi, oppure il suolo stesso in qualche modo è in grado di generare da sé, ma in quest’ultimo caso va presupposta la presenza di elementi umidi nascosti, “imprigionati” nella terra, di per se stessi non direttamente/empiricamente osservabili. La strategia argomenta­ tiva di Teofrasto appare chiara: se si accetta che nella terra vi siano semi (visibili), la sensazione evidentemente può provarlo; se, invece, l’aisthesis non è in grado di attestare l’effettiva presenza dell’umido nella terra, dati i suoi limiti, ciò non significa che la terra non possa generare ugualmente. Nella terra, quindi, è celato l’elemento umido che permette la generazione spontanea delle piante. In questo secondo caso, la sensazione non coglie nel segno ed è dunque necessario un ragionamento per spiegare in che modo un suolo senza semi possa generare.245 È questo il motivo per cui Teofrasto sottolinea che la seconda ipotesi non è assurda (ouk atopon): lo sarebbe, infatti, se si facesse ricorso esclusivamente alla sensazione. Con una buona dose di plausibilità si può concludere che la posizione teofrastea riprenda quella della Meteorologia aristotelica, dove, in un luogo significativo (I 7, 344a 5-8), si legge: «Noi riteniamo di render conto in

244 Cfr. Amigues 1989: 124 n. 12. 245 Cfr. anche Theophr. De caus. plant. I 21, 4.

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modo razionalmente adeguato di ciò che è nascosto alla sensazione (περὶ τῶν ἀφανῶν τῇ αἰσθήσει) se riusciamo a dare per quanto possibile (εἰς τὸ δυνατόν) una spiegazione, e in base alle cose ora evidenti si può supporre che accadano in massima parte (μάλιστα) in questo modo» (trad. Pepe, lievemente modificata). In ambito meteorologico, pertanto in un campo concernente i fenomeni che avvengono per natura ma non con stretta regolarità (Meteor. I 1, 338b 20: ἀτακτοτέραν),246 Aristotele sa bene che, quantunque il ruolo giocato dalla sensazione rimanga importante, per la maggior parte degli eventi da spiegare occorre ricorrere al logos (κατὰ τὸν λόγον). Inoltre, proprio per via di questa relativa247 assenza di regolarità di siffat­ ti fenomeni, Aristotele aggiunge che si può presumere in massima parte (μάλιστα) che avvengano in questo modo, il che implica la reperibilità di diverse cause possibili della loro generazione come, per esempio, nel caso delle comete (Meteor. I 7, 344a 33-344b 8).248 La presenza di μάλιστα è decisiva e la si comprende solo a partire dal fatto che i meteora che Aristote­ le intende spiegare non hanno costante regolarità, per quanto rimangano certamente eventi κατὰ φύσιν. Una soluzione simile sembra ritrovarsi anche in Teofrasto che, in una significativa testimonianza di Proclo, tratta dal suo commento al Timeo (35a), per la spiegazione dei meteora si appella alla eikotologia: «Saremmo lieti di chiedere in prima istanza a Teofrasto stesso se occorra fornire la causa di nulla oppure di qualcosa; se infatti di nulla, oltre a eliminare la scienza, il cui ruolo è soprattutto conoscere le cause, egli accuserà anche se stesso, dato che ricerca quale sia l’origine del tuono, quale sia quella dei venti, quali siano le cause di fulmini, lampi, presteri, pioggia, neve, grandine, tutte cose, dunque, che, correttamente nella spiegazione causale dei fenomeni celesti (ἐν τῇ τῶν μετεώρων αἰτιολογίᾳ), anche egli ha giudica­ to meritevoli di opportuno resoconto verosimile (εἰκοτολογίας)» (II 120, 29-121, 7 Diehl = 159 FHS&G; trad. mia).

246 Cfr. anche Aristot. PA I 1, 641b 15-20. Sulla distinzione tra fisica e meteorologia in Aristotele quanto ai diversi gradi di ordine presenti in natura cfr. Repici 2013: 85 e 316, nonché, più in generale, 268-285. 247 Non si può parlare, infatti, di assoluta assenza di regolarità dato che questi fenomeni si verificano sempre o perlopiù alla stessa maniera; un esempio signifi­ cativo è il fenomeno dell’avanzare e del rifluire del mare dalla terraferma che, secondo Aristotele, avviene secondo un certo ordine e ciclo: cfr. Meteor. I 14, 351a 25-26. 248 Pace Ransome Johnson 2020: 179.

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A proposito di questa testimonianza è stato sostenuto che «[T]he des­ cription of Theophrastus as “thinking all these things deserving of a proba­ ble account” (εἰκοτολογία) is Proclus’ way of putting the point, based on Plato’s own assessment of natural sciences in Timaeus 29d, not Theophra­ stus’».249 Ora, credo che sia difficile negare il riferimento al Timeo – che Proclo sta commentando – e, più in generale, alla nozione di “verosimi­ glianza” che, come si sa, gioca un ruolo fondamentale nel racconto di Timeo, tuttavia non mi pare che vi siano ragioni così forti da escludere che Teofrasto potesse approvare l’εἰκοτολογία nella spiegazione dei feno­ meni celesti indipendentemente da Platone. A me sembra, infatti, che l’εἰκοτολογία potrebbe confermare la vicinanza di Teofrasto alla posizione del maestro nella Meteorologia, dove si dice chiaramente che le spiegazioni razionali dei meteora si caratterizzano non solo εἰς τὸ δυνατόν, ma anche μάλιστα, inscrivendosi, pertanto, in un contesto che non è quello della assoluta certezza scientifica (come, invece, nel caso di Epicuro). L’εἰκοτολογία teofrastea potrebbe essere compresa anche come un riferi­ mento alle diverse spiegazioni impiegate dal filosofo nelle sue indagini naturali, almeno in quei casi dove di un dato fenomeno non si dia una sola spiegazione. Sempre prendendo in esame lo scritto De igne, proprio all’inizio del trattato (1), si trova un testo interessante: «Inoltre i modi di produzione del fuoco per la maggior parte avvengono per così dire con violenza: infatti un modo si produce per collisione di oggetti duri, come per esempio le pietre, altri modi per sfregamento e pressione dei materiali combustibili e di tutti i corpi in movimento, come quelli che bruciano e fondono (per effetto della stessa aria si verificano anche sconvolgimenti delle nubi e compressioni: violenti sono infatti i movimenti da cui traggo­ no origine i venti infuocati e i fulmini), infine quanti altri modi abbiamo osservato altrove fra quelli che hanno luogo sia sopra la terra sia sulla terra sia sottoterra» (trad. Battegazzore). Teofrasto osserva come la produzione violenta del fuoco avvenga in diversi modi e un modo non esclude l’altro: nell’immediato seguito del trattato (2) il filosofo afferma che «il fuoco possiede moltissime forme di produzione (πλείστας […] γενέσεις)» e che «il fuoco […] si rende manifesto non in un unico modo (καθ᾽ ἕνα μόνον) ma in moltissimi modi (κατὰ πλείστους)» (trad. Battegazzore). Risulta, inoltre, significativo il fatto che Teofrasto introduca un riferimento agli

249 Sharples 1998: 98; per una diversa prospettiva cfr. Repici 2014: 25; Berti 2014: 359, invece, ritiene che l’eikotologia teofrastea farebbe riferimento al fatto che per il filosofo di Ereso, d’accordo con Platone, la fisica sarebbe solo una scienza verosimile in quanto fondata sulle sensazioni.

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sconvolgimenti delle nubi e delle compressioni, mettendo in atto una metodologia di carattere genuinamente analogico-inferenziale,250 come già faceva Aristotele, ma più sporadicamente.251 Questi due eventi atmosferici, infatti, avvengono secondo la stessa modalità con cui si genera il fuoco; Teofrasto, pertanto, spiega l’origine dei venti infuocati e dei fulmini a partire da un fenomeno empiricamente controllabile come la produzione (violenta) del fuoco: nella meteorologia epicurea si può rintracciare un procedimento simile, fatte salve le debite differenze legate ai più specifici contenuti e al più generale orientamento della filosofia dei due pensatori. È, però, doveroso fare qui una basilare precisazione: i luoghi del De igne menzionati non possono essere affatto considerati prove dell’identità tra il metodo scientifico teofrasteo e il pleonachos tropos di Epicuro. In Teofrasto si osserva la produzione di diverse spiegazioni di un fenomeno naturale ma ciò non significa che la metodologia di indagine (oltre che le sue finalità) sia la medesima. Nel De igne Teofrasto asserisce certamente che i modi in cui il fuoco si genera sono diversi ma ognuno di essi è limitato e connesso a un certo tipo di materiale combustibile che ne fa, appunto, da sostrato. Un testo che mi sembra particolarmente significativo, già opportuna­ mente segnalato da Bakker (2016: 69), proviene da Olimpiodoro (In Aristot. Meteor. 80 30-81 1 Stüve = 211B FHS&G) che testimonia come secondo Teofrasto la produzione della pioggia avverrebbe non solo per raffredda­ mento (psyxis), come per Aristotele, ma anche per compressione/condensa­ mento (pilesis).252 In questo caso, se il contenuto del passo di Olimpiodoro è affidabile, Teofrasto, rispetto ad Aristotele, avrebbe ammesso due diverse cause della genesis tou hydatos; più che nei passi citati del De igne, dove i diversi modi di produzione del fuoco sono appunto legati al relativo com­ bustibile, in Olimpiodoro (per quanto si debba essere cauti nei riguardi di questo testo rispetto agli ipsissima verba di Teofrasto del trattato sul fuoco)

250 Tipica di Teofrasto, del resto: cfr. Taub 2003: 119-120 e 124. 251 Cfr. Aristot. Meteor. I 3, 341a 25-26, dove, per spiegare che il caldo si produce quando c’è il sole, si invita ad osservare casi analoghi di eventi che avvengono presso di noi – τὸ ὅμοιον ἐκ τῶν παρ᾿ ἡμῖν γιγνομένων –; si veda anche Meteor. I 4, 342a 9-10 e II 9, 369b 9-11; un simile metodo è adottato anche dalla Meteorologia siriaco-araba, 7. 12-15, p. 266 e 13. 14-18, p. 268 Daiber, dove il riferimento a fenomeni che accadono presso di noi per provare alcune delle diverse cause proposte per un dato meteoron è persistente. Una diversa e poco condivisibile esegesi di questo metodo è offerta da Daiber 1992: 284. 252 Cfr. Cronin 1992: 321. Si tenga presente che la medesima spiegazione si ritrova in Lucret. VI 732-734 – cfr. anche VI 189-193 – e nello pseudoaristotelico Liber de inundacione Nili (695 Gigon = fr. 248, p. 197 1-17 Rose3; Fozio – Bibl. cod. 249, 441a 34-b 14 Bekker = 686 Gigon; part. 246 Rose3).

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si vede all’opera l’attitudine teofrastea di fornire diverse cause di un mede­ simo fenomeno naturale. Un altro caso interessante è fornito dal paragrafo 21 del De lapidibus (Eichholz), dove Teofrasto è chiarissimo nell’affermare che diversi sono i modi di generazione delle pietre pomici (τάχα δὲ ἡ μὲν οὕτως αἱ δ’ ἄλλως καὶ πλείους τρόποι τῆς γενέσεως). Se si prende, poi, un testo di indubbio interesse (anche per l’esame dell’Epistola a Pitocle, come si vedrà a breve), la cosiddetta Meteorologia siriaco-araba, il cui contenuto è generalmente ricondotto alla meteorologia teofrastea,253 si osserva un proliferare di spiegazioni causali per lo stesso fenomeno. Sulla base della preziosa traduzione inglese a cura di Daiber (1992; cfr. anche Id. 2021) della versione araba (probabilmente attribuibile a Ibn Al-Khammār), per limitarsi solo a pochi esempi, quattro sono le cau­ se dei fulmini (2. 2-17, p. 262 Daiber) e dei terremoti (15. 2-16, pp. 270-271 Daiber) mentre due sono le cause della generazione delle nuvole (7. 2-5, p. 266 Daiber) e dei venti caldi e freddi (13. 24-32, pp. 268-269 Daiber). Se questo testo fosse attribuibile senza riserve a Teofrasto, saremmo certi che il filosofo, nell’esame dei meteora, avesse ammesso più cause per un singolo evento naturale. Allo stato attuale delle fonti (escludendo per un momento la Meteorologia siriaco-araba, che è davvero un caso a parte), il De igne (almeno parzialmente), il De lapidibus e soprattutto la testimonianza di Olimpiodoro (per limitarsi ai soli testi qui presi in esame) indicano come a Teofrasto sia riconducibile una certa metodologia di indagine basata sulla produzione di diverse spiegazioni causali nel campo dello studio dei fenomeni celesti. Il punto che mi sembra maggiormente rilevante per gli scopi che ci siamo prefissati (ossia l’esame dell’influsso di Teofrasto sul pleonachos tropos epicureo), tornando alla questione della (presunta) εἰκοτολογία teofrastea, è il fatto che l’origine di fenomeni le cui cause non sono direttamente esperibili sia ricondotta a quei fattori che producono eventi che sono direttamente oggetti di percezione, come il fuoco (terrestre). Da questo punto di vista, se non si considera la sensazione come sempre vera (cosa che Teofrasto non fa, pur attribuendo all’aisthesis un ampio margine di ap­ plicazione), la spiegazione delle cause di ta meteora non potrà che risultare eikos, nella misura in cui si tratta di eventi che non è possibile esaminare “da vicino”, come, invece, si può fare (almeno in certi casi), per esempio, con i fuochi che bruciano sulla terra. In ciò risiede una differenza notevole con la posizione di Epicuro: come è stato notato di recente, è Teofrasto (e non Epicuro, dunque) che procedeva nella costruzione di un’eziologia del

253 Ma ciò non è affatto scontato o accertabile con sicurezza: cfr. infra: 99 ss.

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verosimile nelle sue indagini sulle cause dei lampi, fulmini, piogge e altri fenomeni del genere.254 Un metodo per certi versi simile è già in Aristote­ le, nel quale, per quanto ciò avvenga occasionalmente, si badi, non manca la presenza di analogie con l’esperienza quotidiana che siano di supporto a spiegazioni di fenomeni naturali (cfr. Bakker 2016: 67). Se si prende in considerazione, per esempio, ancora la trattazione dei terremoti nel II libro della Meteorologia (II 8, 366b 30-31), si vede bene come Aristotele, dopo averne esposto le cause in relazione all’aria (prevalentemente sotterranea, dunque ricorrendo a una teoria che non si fonda sulla percezione diretta), ne rintraccia i σημεῖα che si possono ottenere πρὸς ἡμετέραν αἴσθησιν in alcuni fenomeni sismici recenti a Eraclea nel Ponto e precedentemente nell’Isola di Iera (Vulcano, nelle Isole Eolie), dove si è potuto stabilire empiricamente che il terremoto è cessato non appena il vento si è spostato sopra la terra come un uragano. Per trarre, dunque, delle conclusioni dall’analisi qui condotta, il con­ fronto tra la metodologia teofrastea e quella epicurea circa i fenomeni celesti e, più nello specifico, l’esame del ruolo della sensazione in tali me­ todologie sono risultati utili per la comprensione di analogie e differenze tra i due procedimenti di ricerca. Entrambi i filosofi (ma con frequenza assai diversa) condividono la possibilità (che diventa, però, necessità in Epi­ curo) di ammettere diverse spiegazioni causali nell’analisi dei meteora;255 va tenuto a mente, in ogni caso, che non sempre Teofrasto si serve della molteplicità di cause per spiegare i fenomeni meteorologici, dato che la spiegazione unica rimane la norma.256 Taub (2003: 117-118) menziona come esempio di spiegazione univoca il caso della grandine, sulla base della Meteorologia siriaco-araba (10. 2-4, p. 267 Daiber), ma la correttezza di questo rinvio dipende naturalmente dalla paternità di questo testo, nel quale, comunque, sono fornite due spiegazioni relative alla forma sferica dei chicchi di grandine.257 In ogni caso, dall’uso teofrasteo delle molteplici spiegazioni (come pure è stato sostenuto in maniera esageratamente assertoria, fornendo addirit­ tura una rappresentazione stemmatica della dipendenza del Peri physeos dalle opere meteorologiche di Teofrasto)258 non è affatto possibile asserire

254 255 256 257 258

Cfr. ancora Repici 2013: 317 e Corradi 2016: 236 n. 3. Cfr. Steinmetz 1964: 327. Cfr. Bakker 2016: 70. Cfr. anche infra: 218-219. Cfr. Podolak 2010: 56-57 e 65; si tengano ben presenti, ancora, le condivisibili conclusioni cui giunge Bakker 2016: 70.

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l’assoluta e incondizionata dipendenza “meccanica” di Epicuro da Teofrasto quanto alla metodologia applicata all’analisi di siffatti fenomeni. Essendo tale confronto sinottico già stato tentato e con interessanti risultati,259 non mi occuperò ora nel dettaglio delle notevoli somiglianze che gli studiosi hanno rintracciato tra l’Epistola a Pitocle, Lucrezio (V-VI) e il testo (in versione siriaca e in duplice versione araba rispettivamente di Bar Bahlūl, in forma sintetica e abbreviata, e, forse, di Ibn Al-Khammār) di argomento meteorologico riconosciuto (ma non unanimemente) come parte dei due libri dei Metarsiologika di Teofrasto,260 testo che esibisce con­ tinuamente una pluralità di cause per ogni fenomeno celeste.261 Bisogna tenere conto, piuttosto, del fatto che, fondamentalmente, la nostra cono­ scenza della meteorologia teofrastea sia piuttosto scarsa,262 per quanto la (già richiamata: supra: 93) preziosa testimonianza di Proclo263 informa su quelli che, forse, dovevano essere grosso modo gli argomenti toccati e appro­ fonditi da Teofrasto nelle sue opere meteorologiche. Non si può escludere che la versione siriaca o le versioni arabe a cui si accennava, semmai siano attribuibili a Teofrasto, contengano interpretazioni, manipolazioni o deformazioni rispetto al/i presunto/i originale/i teofrasteo/i. Ho privilegia­ to, invece, l’approfondimento di quel criterio inaggirabile che è necessaria­ mente alla base del pleonachos tropos, ossia l’aisthesis e il ruolo che essa gioca in questa metodologia per tentare di provare come l’empirismo teofrasteo sia assai diverso da quello epicureo soprattutto per quanto concerne il suo dominio di applicazione e la sua funzione. Mentre, come è assai noto, in Epicuro la sensazione è sempre vera (cioè reale) perché registra quasi “cronachisticamente” l’impatto dei simulacri esterni (eidola) che urtano i nostri organi sensoriali,264 essendo pellicole materiali perché costituite da atomi, in Teofrasto l’aisthesis ricopre certamente un ruolo significativo – come in Aristotele, d’altro canto – ma essa, non coincidendo con l’autenti­ co sapere scientifico (essendone, per così dire, il momento primo),265 può perfino produrre aporie, il che, dal punto di vista di Epicuro, risulterebbe completamente assurdo. Dato che in Epicuro le sensazioni sono sempre vere e la sensazione stessa è il criterio – o meglio, il canone – su cui si

259 260 261 262 263 264

Cfr. gli utili schemi in Bakker 2016: 269-275. Cfr. Diog. Laert. V 44 = 137 15a FHS&G. Cfr. anche Podolak 2010: 55-61 e l’utile contributo di Kidd 1992. Cfr. i frr. 186A-194 e 211A-D FHS&G. Procl. In Plat. Tim. II 120, 29-121, 7 Diehl = 159 FHS&G. Cfr., per un primo orientamento e per i rinvii bibliografici essenziali, Verde 2018d. 265 Cfr. Reale 1964: 192 n. 4.

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fonda il pleonachos tropos, è evidente che le molteplici spiegazioni causali nell’analisi dei meteora non potranno che essere sempre e in ogni caso vere. Teofrasto, insomma, non potrebbe accettare una visione del genere esatta­ mente perché, tra le altre motivazioni che si potrebbero addurre, il ruolo svolto dalla sensazione non coincide con quello che Epicuro le attribuisce. Né Aristotele né in Teofrasto si rintraccia un uso massiccio e capillare di più spiegazioni per un evento naturale come, invece, in Epicuro, il quale dichiara in maniera del tutto esplicita che esiste un solo e unico metodo scientifico per investigare le cause della generazione dei meteora e questo coincide con il pleonachos tropos. Con ciò non si intende affatto escludere la possibilità (pienamente realistica) che nella formulazione originaria di questo tropos Epicuro sia stato stato influenzato da Aristotele e Teofrasto, ma il significato e l’uso di tale metodo sono in Epicuro del tutto innovativi e originali. Bakker, nella sua importante monografia dedicata alla meteorologia epi­ curea (2016), è perfettamente consapevole che questa conclusione dipende soprattutto dall’attribuzione della cosiddetta Meteorologia siriaco-araba, di cui lo studioso si occupa specialmente nel II capitolo. Vale la pena, dun­ que, dedicare una sintetica trattazione a questo testo, dalla cui attribuzione dipende gran parte delle conclusioni finora raggiunte.

6. Teofrasto e la Meteorologia siriaco-araba Senza scendere eccessivamente nei dettagli di questa complicata questione, si è già detto che, per quanto molti studiosi266 condividano l’attribuzione teofrastea di questo scritto (che poi avrebbe influenzato Epicuro),267 in realtà, ciò non è del tutto scontato, soprattutto a seguito dell’esemplare analisi condotta, appunto, da Bakker (2016: 145-160). Lo studioso rimane, con piena ragione, a mio parere, estremamente cauto circa l’attribuzione a Teofrasto dell’intero testo siriaco, non escludendo la possibilità che la meteorologia epicurea sia stata la fonte di parte di quella siriaca e non viceversa.268 È evidente che se questa “inversione” fosse vera, lo scritto siria­ co-arabo, a livello di influenza, non giocherebbe alcun ruolo (o solo uno minoritario) nei confronti dell’Epistola a Pitocle e/o in quelli di Lucrezio.

266 Cfr. e.g. Mayhew 2018: 1 e n. 6, Ransome Johnson 2020: 177-178 e Baksa 2020: 126 n. 8. 267 Cfr. Wagner-Steinmetz 1964: 14. 268 Cfr. già Bergsträsser 1918: 28 e Reitzenstein 1924: 7-11.

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Per ripercorrere in estrema sintesi la storia di questo testo, basti dire che comunemente lo si ritiene essere un “estratto” dei due libri (perduti) dei Μεταρσιολογικά teofrastei;269 lo scritto, come già ricordato, è giunto in versione siriaca e in duplice versione araba rispettivamente di Bar Bahlūl e, forse, di Ibn Al-Khammār.270 Solo nelle due versioni arabe compare il nome di Teofrasto, essendo la corrispondente sezione del testo siriaco andata perduta. Più nel dettaglio, Alberto Camplani, per litteras electroni­ cas, relativamente all’incipit della versione siriaca271 osserva che «l’ultima parola della riga è “pylwswp”, cioè “filosofo”, che forse è apposizione di un nome proprio finito nella lacuna immediatamente precedente. […] Infatti dice la linea: “tu hai fatto un’indagine con noi sulla qualità (“ayka­ noyuto” vuol dire: qualitas, modus) del [...] filosofo”». Evidentemente in lacuna si potrebbe immaginare qualsiasi cosa, per esempio, la specificazio­ ne del termine “qualità” di cui si parla, ma anche il nome proprio del filosofo. Fatto sta che nelle due versioni arabe, come ancora mi comunica Camplani, «nel primo testo [scil. nella versione di Bar Bahlūl] compare sia il nome di Aristotele sia quello di Teofrasto (ma in due frasi diverse). Nel secondo [scil. nella versione forse di Al-Khammār] ricorre Teofrasto». Il fatto che nella più breve versione di Bar Bahlūl sia presente il nome dello Stagirita non dovrebbe meravigliare: il testo, infatti, è preceduto da un riassunto della Meteorologia aristotelica.272 Daiber (1992; cfr. anche Id. 2021) ha fornito l’edizione critica delle tre versioni, aggiungendo anche la traduzione inglese della versione araba probabilmente attribuibile a Ibn Al-Khammār. Il capillare e continuativo uso delle molteplici spiegazioni causali e l’ordine degli argomenti trattati farebbero pensare273 che Epicuro e Lucrezio dipendano pedissequamente da Teofrasto tanto per l’invenzione del metodo epistemologico delle molteplici spiegazioni causali quanto per l’ordine dei meteora investigati e la tipologia delle spiegazioni offerte. Bakker, al contrario, rilevando come nelle opere sicuramente teofrastee non si osserva un uso tanto minuzioso delle molteplici spiegazioni causali, ipotizza che la Meteorologia siriaco-araba non sia la fonte privilegiata di Epicuro e Lucrezio ma che, invece, riprendendo una suggestione (rima­

269 Cfr. Diog. Laert. V 44 = 137 15a FHS&G. 270 Daiber 1992: 284 è convinto che «the Syriac-Arabic translation is not based on a Greek excerpt». 271 La cui edizione critica è ancora in Daiber 1992: 176-198. 272 Cfr. Daiber 1992: 199. 273 Come, del resto, è stato fatto: cfr., per esempio, ancora Podolak 2010, nonché Bollack-Laks 1978: 45-52 e, da ultimi, Taub 2018: 258 e Ransome Johnson 2020: 180.

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sta tale e non approfondita) già di Bergsträßer, Boll e Reitzenstein,274 il testo siriaco-arabo dipenda fortemente dalla meteorologia epicurea, i cui testi principali, a nostra conoscenza, si riducono (con l’esclusione di Lucre­ zio) essenzialmente all’Epistola a Pitocle e verosimilmente ai libri XI-XIII del Peri physeos. Contrariamente alla posizione di Bakker, Daiber (2021: 417-418), ripubblicando nel 2021 (con alcune revisioni e aggiunte) il suo fondamentale articolo del 1992, ha ribadito che, con ogni verosimiglianza, il frammento meteorologico debba essere attribuito a Teofrasto: non solo perché nelle due versioni arabe si fa esplicitamente il nome del filosofo di Ereso, ma anche perché, oltre alla versione siriaca (già esistente al principio del IX sec. d. C.), il MS siriaco della Cambridge University Library Gg. 2.14 (databile al XV-XVI secolo)275 comprende ulteriori scritti (come, per esempio, alcune parti del Compendio di filosofia aristotelica di Nicola di Da­ masco), nei quali la menzione di Teofrasto non sarebbe rara. Per quanto la posizione ribadita da Daiber sia certamente degna di nota, non mi pare che queste rapide argomentazioni sollevate contro Bakker siano così cogenti da invalidare del tutto la possibilità che sia stata la meteorologia epicurea a in­ fluenzare, almeno parzialmente, i contenuti di questo testo. Anche ritenere, con Daiber 2021: 418, che la Meteorologia siriaco-araba sia il «missing link» tra Aristotele ed Epicuro non è, a mio avviso, così necessario: ovviamente non si possono avere certezze sulle fonti del frammento meteorologico (per questo mantenere cautela e prudenza è d’obbligo) ma a me pare che le ragioni per attribuire parte dei contenuti di questo testo a Epicuro non siano meno forti di quelle a favore dell’attribuzione a Teofrasto. Io credo che, sulla base dell’attenta analisi dei testi, l’ipotesi di Bakker, per quanto, lo ripeto, non la si possa provare con certezza, sia particolar­ mente stimolante; se fosse possibile confermarla, mostrerebbe l’importan­ za assunta dalla meteorologia epicurea anche a livello della sua “fortuna critica” perfino rispetto alla tradizione peripatetica.276 Seguendo Bakker (2016: 144) l’“altra” meteorologia di Epicuro – ovvero l’originaria e più ampia trattazione (rispetto a Pitocle) dedicata ai meteora (esplicitamente richiamata da Pyth. 84: τὰ γὰρ ἐν ἄλλοις ἡμῖν γεγραμμένα, con verosimile riferimento ai libri Sulla natura) – sarebbe la fonte di Pitocle, Lucrezio

274 Cfr. Bakker 2016: 71, nonché supra: 99. 275 Sul manoscritto siriaco in questione cfr. Drossaart Lulofs 1969. 276 Solo per inciso segnalo che la fisica e la meteorologia di Epicuro dovevano essere note anche al di fuori di testi specificamente filosofici, come, per esempio, il caso di un frammento de La donna achea (II 31 Kassel-Austin) del commediografo Alessi verosimilmente mostra: cfr. Verde 2018e.

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(VI 96-607) e, appunto, del frammento meteorologico siriaco-arabo.277 Na­ turalmente non bisogna cadere nell’errore di pensare che la Meteorologia siriaco-araba contenga un’opera in tutto e per tutto epicurea; basti constata­ re, per esempio, la presenza della dottrina dei luoghi naturali (6. 44, p. 264 Daiber)278 certamente tipica della tradizione aristotelico-peripatetica e assente da quella epicurea.279 Se si considera, poi, la “sezione teologica” (14. 14-29, p. 270 Daiber) del trattato, si legge che dio non può essere la causa del disordine nel mondo ma lo è della corretta disposizione (delle cose) e dell’ordine (14. 15-16, p. 270 Daiber).280 Questa tesi ovviamente non ha nulla di epicureo;281 per questo il frammento siriaco-arabo verosi­ milmente «is a compendium of some sort, derived for the most part from Epicurus’ meteorology, but supplemented and ‘corrected’ on the basis of other, possibly Peripatetic or even specifically Theophrastean theories» (Bakker 2016: 153), sebbene, a mio avviso, non si possa escludere perfino un’eventuale influenza stoica. Va, infine, aggiunta una precisazione importante: il testo in esame è trasmesso in arabo esplicitamente sotto il nome di Teofrasto282 e questo è un dato di fatto. Giustamente Bakker (2016: 153 e n. 190) ricorda che, lad­ dove una certa opera sia trasmessa col nome di un certo filosofo, quando i contenuti dello scritto non gli sono in nessun modo attribuibili, ciò non è qualcosa di eccezionale: basti pensare, infatti, alla Teologia di Aristotele o al celebre Liber de causis che sono grosso modo riconducibili contenutistica­ mente a Plotino e a Proclo. Bakker, tuttavia, prudentemente, non dà una risposta al perché questo testo meteorologico sia stato trasmesso col nome di Teofrasto. Con estrema cautela azzardo qui un’ipotesi che rimane tale e senz’altro provvisoria; il trattato in questione nella versione araba inizia con un’invo­

277 Cfr. Bakker 2016: 154. 278 Cfr. anche Daiber 1992: 274-275. 279 Per la presenza di Teofrasto cfr. 14. 3-11, pp. 269-270 Daiber con Daiber 1992: 221-225. 280 Solo per inciso segnalo che Daiber 1992: 290 riconduce questa distinzione alla Metafisica teofrastea – 11b 7 ss. – ma mi sembra che questo parallelo sia estrema­ mente problematico (si veda piuttosto la sezione 6b 23-7b 8 – insieme a 11a 5-7 – dello scritto aporetico di Teofrasto): cfr. Repici 2013: 314-315 e soprattutto van Raalte 2003. Giova, forse, rammentare qui il fatto che, secondo Aristotele, è la natura stessa a essere causa dell’ordine (Phys. VIII 1, 252a 11-12: ἀλλὰ μὴν οὐδέν γε ἄτακτον τῶν φύσει καὶ κατὰ φύσιν· ἡ γὰρ φύσις αἰτία πᾶσιν τάξεως). 281 Cfr. Mansfeld 1992. 282 Cfr. Daiber 1992: 261 per il titolo: Theophrastus’ Treatise on Meteorological Pheno­ mena.

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cazione a dio (p. 261 Daiber) e, dopo aver menzionato di nuovo Teofrasto per informare il lettore che il suo scritto sui fenomeni meteorologici era concluso (15. 36, p. 271 Daiber), si chiude di nuovo con una preghiera a dio, che è riconosciuto come causa dell’ordine e distinto dalla natura che evidentemente non segue un ordine perfetto: di qui, forse, l’uso delle molteplici spiegazioni causali per i meteora.283 Nell’invocazione compare il nome del maestro/profeta Mohammed (15. 37-38, p. 271 Daiber). Di conseguenza, la “cornice” che circoscrive il testo attribuito a Teofrasto è genuinamente religiosa e confessionale (di qui il probabile uso dello scritto nelle scuole?)284 e io ritengo che nell’analisi di questo testo tale cornice religiosa e teologica non sia affatto un elemento trascurabile. Benché non manchino alcune importanti eccezioni (come, per esempio, nel caso di al-Rāzī, la cui prossimità dottrinaria a Epicuro è un fatto alquanto assoda­ to),285 il pensiero epicureo nella filosofia islamica era essenzialmente tac­ ciato di materialismo e di ateismo.286 Trasmettere, pertanto, un’importante opera di meteorologia sotto il nome di Epicuro poteva risultare non poco problematico. Per questa ragione, si potrebbe supporre che si decise di tramandare lo scritto sotto il più onorevole e stimabile nome di Teofrasto (la cui presenza in arabo è ben attestata: see Daiber 1985), anche perché la diffusione della Meteorologia di Aristotele era già piuttosto capillare nel mondo islamico.287 Lasciando da parte, per il momento, la Meteorologia siriaco-araba e tor­ nando ai testi la cui paternità teofrastea è appurata, è rilevante tenere a mente come in Teofrasto si diano casi in cui un dato fenomeno, proprio perché possiede più cause, non possa essere adeguatamente spiegato ricor­ rendo al procedimento deduttivo: può accadere, infatti, che i fenomeni stessi smentiscano un metodo simile. Emblematico in questo senso è un passo del De ventis (59),288 in cui Teofrasto riconosce che talvolta i venti del nord e quelli del sud si comportano in modo diverso dall’atteso; ci si trova allora in aporia e per questo motivo occorre proseguire nella ricerca: ciò che è παράλογον, infatti, necessita di una aitia.289 Come è

283 284 285 286

Cfr. Daiber 1992: 289-290, nonché infra: 189-190. Cfr. Daiber 1992: 284. Cfr. e.g. Goodman 1999: 35-67. Cfr. Baffioni 1991: 393-394; sull’atomismo nel pensiero islamico cfr. l’utile sinte­ si offerta da Zamboni 2021. 287 Cfr. Lettinck 1999; per la fortuna siriaca della meteorologia aristotelica cfr. Takahashi 2003. 288 Cfr. anche 13. 32, p. 269 Daiber. 289 Cfr. Mayhew 2018: 342-343.

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Francesco Verde

stato argutamente osservato, la metodologia teofrastea propende «verso un approccio induttivo basato su estese e particolareggiate osservazioni che incrinano l’impianto speculativo aristotelico, volto a individuare anche per l’anemologia, un’unica spiegazione deduttiva universalmente valida».290 In Epicuro un caso come quello del De ventis non potrebbe darsi non solo perché nel suo sistema filosofico non v’è spazio alcuno per l’aporia (che genererebbe turbamento), ma anche perché, come abbiamo visto,291 il procedimento semiotico prende le mosse non dal fenomeno in se stesso ma dal suo phantasma e, quindi, dal suo semeion osservabili e verificabili in virtù della diretta esperienza percettiva.292 Sebbene il filosofo di Ereso adotti il metodo delle molteplici spiegazioni causali, la loro verità, quindi, non sempre dipenderà dal banco di prova della sensazione: in certi casi, questa può produrre, appunto, delle aporie, dal momento che non è in grado di procedere oltre nella ricerca, per affrontare la quale occorre ricorrere all’ausilio della dianoia. Non è così per Epicuro che, ascrivendo alla sensazione la funzione di fondamentale e costante termine di confronto e pur prospettando il determinante inter­ vento del logismos (della dianoia o dell’epibole tes dianoias)293 sul materiale sensibile fornito dalle aistheseis,294 sarà la sensazione stessa (o, più precisa­ mente, il ricorso all’autoevidenza percettiva o enargeia) a confermare o a smentire la verità delle spiegazioni addotte per un dato fenomeno celeste, a maggior ragione se queste sono sempre formulate a partire da un semeion empiricamente controllabile. Nell’ulteriore elaborazione dei dati sensoriali da parte della ragione/intelletto la posizione di Epicuro è simile a quella di Teofrasto295 tra le quali, tuttavia, vi è una differenza fondamentale che concerne proprio la funzione e il ruolo della sensazione. Teofrasto (come già Aristotele proprio nel campo di analisi dei meteora),296 infatti, adopera senz’altro la metodologia dell’inferenza, laddove i fenomeni non

290 Battegazzore 2006: 146. 291 Cfr. supra: 62. 292 Ciò meriterebbe una trattazione a parte ma solo brevemente va sottolineato che l’immagine riflessa – eikon – del sole nell’acqua, a cui Platone si richiama, per esempio nel Fedone – 99d-e – per indagare indirettamente l’eclissi non mi pare sovrapponibile alla nozione epicurea di phantasma. 293 Per una rapida analisi di quest’ultimo criterio cfr. Verde 2013c: 73-76, nonché Sedley 2018: 113-115, Robitzsch 2021 e Konstan 2020. 294 Cfr. Epicur. Hrdt. 38-39. 295 Ciò è stato già rilevato da van Raalte 1993: 398, soprattutto sul versante termino­ logico per via dell’uso del verbo hypoballein di 8b 12 e l’occorrenza di Pyth. 90. 296 Cfr. Aristot. Meteor. I 7, 344a 5-8.

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La meteorologia epicurea

siano osservabili/esaminabili direttamente.297 Lo stesso fa Epicuro ma non attribuendo alcuna limitazione all’aisthesis e tanto meno alcuna forma di astheneia; in breve, l’inferenza da segni epicurea (semeiosis)298 non va consi­ derata come una sorta di “ripiego” che consegue dal carattere deficitario in sé della sensazione ma come un metodo che, a partire dalla sensazione e facendo costante riferimento a essa, è in grado di legittimare l’esistenza di realtà non evidenti (ta adela). Per Teofrasto ed Epicuro il punto di partenza rimane la sensazione ma: (1) Epicuro, a differenza di Teofrasto, non attribuisce alcun limite all’aisthesis che, essendo in ogni caso vera, non produce alcuna aporia; (2) il procedimento inferenziale epicureo è sempre garantito e legittimato dalla evidenza percettiva (enargeia) – un criterio forse non estraneo allo stesso Teofrasto –299 e, quindi, dalla sensazione. Ciò significa che per Epicuro il risultato dell’inferenza potrà essere accettato se e solo se verrà confermato e non smentito300 da parte dell’enargeia. In questo senso, pertanto, l’esito del processo inferenziale, per avvalorarsi definitivamente come vero e non erroneo, non può fare altro che essere ricondotto al banco di prova della sensazione. Ribadisco ancora che ciò non vuole escludere la possibilità che tra Epicuro e Teofrasto fosse intercorsa una qualche relazione dottrinaria circa l’esame dei meteora: tale rapporto, a mio parere, va considerato anche in termini dossografici e non solo. Da Teofrasto (ma evidentemente anche da Aristotele) Epicuro poté trarre informazioni importanti sulle diverse

297 Ci troviamo di fronte a una sorta di “sensazione scientifica” – αἴσθησις-cumλόγος, come scrive van Raalte 2015: 117 – che non può che ricordare la epistemo­ nike aisthesis di Speusippo (cfr. Sext. Emp. M VII 145-146 = F 75 Tarán = 34 Isnardi Parente) –, ma soprattutto, all’interno del Liceo, il forte accostamento tra sensi e intelletto da parte di Stratone di Lampsaco (cfr. Sext. Emp. M VII 350 = 61 Sharples), soprattutto sulla base di quanto può trarsi dalle sue obiezioni al Fedone platonico ricavabili dal Commento al “Fedone” di Platone di Damascio; cfr. in particolare II 173, 1-3 (77A Sharples), II 325, 4-15 (78 Sharples) e II 301, 5-6 Westerink (77B Sharples). Su tutto ciò mi permetto di rinviare a Verde 2022: Ch. 2. 298 Cfr., per un primo orientamento, Manetti 2013: 233-257. 299 Cfr. Sext. Emp. M VII 216-218 = 301A FHS&G; cfr., in merito, Huby 1999: 93-99, nonché Frede 1987: 160 e Baltussen 2016: 136. Si tenga conto che il luogo sestano potrebbe dipendere dai Kanonika di Antioco di Ascalona, per il quale l’enargeia o perspicuitas giocava un ruolo essenziale nella sua epistemologia e nelle sue ricostruzioni “storiche” delle dottrine filosofiche; se così fosse, la testimonianza su Teofrasto andrebbe considerata con cautela: cfr. Verde 2020a. 300 Si tratta della nota “metodologia” dell’epimartyresis/ouk antimartyresis: cfr. Verde 2013c: 76-79.

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Francesco Verde

spiegazioni di quei fenomeni di cui si occupava nell’Epistola a Pitocle, oltre all’idea di fondo per cui i meteora, in quanto eventi naturali, non possono dipendere da una causa divina. Per quanto concerne le spiegazioni causali molteplici, Epicuro poteva ritrovare (anche se non frequentemente e siste­ maticamente) nelle ricerche teofrastee tale metodologia ma questo non indica che quella di Teofrasto e quella di Epicuro siano due procedimenti identici. Concludendo: la differenza non risiede esclusivamente nel fatto che Teofrasto, per esempio, fornisce un numero finito di spiegazioni (e quin­ di di cause, come si vede anche nella Meteorologia siriaco-araba), mentre Epicuro ammette tante spiegazioni causali quante vengono confermate e non smentite dall’enargeia. Essa si colloca soprattutto nel fatto che il ruolo e, in particolare, la capacità del fondamento che è alla base dei due tropoi, la sensazione, vengono compresi in termini nettamente diversi. Il metodo di indagine di Teofrasto, infatti, si basa sulla sensazione ma non esclusivamente, dal momento che vi sono casi in cui la spiegazione addotta non ricorre direttamente all’aisthesis per legittimarsi come vera ma magari a modelli teorici sempre precedenti sotto i quali viene sussunto il dato fenomeno, senza che tra la teoria e il fenomeno intercorra un necessario rapporto di implicazione garantito dalla sensazione. Il pleonachos tropos epicureo, invece, è sempre vero perché le sensazioni che ne sono alla base risultano in ogni caso vere; in Epicuro non si assiste alla formulazione di modelli teorici che non hanno riscontro empirico sotto cui sussumere que­ sto o quel fenomeno, ma ogni fenomeno trova la sua adeguata spiegazione a partire dalle sensazioni. Questo vale anche per i fenomeni celesti che, pur essendo lontani da noi e non direttamente controllabili e verificabili dall’esperienza, hanno realmente molteplici cause della loro generazione e tali cause possono essere convenientemente/adeguatamente spiegate ricor­ rendo ai loro semeia sensibili. Il pleonachos tropos di Epicuro, quindi, non può che essere strutturalmente diverso dalla metodologia impiegata da Teofrasto, il cui empirismo, per quanto rimanga significativo e per certi aspetti perfino decisivo (non si dimentichi, infatti, che la sensazione è il punto di partenza inevitabile per la ricerca delle cause),301 risulta essere co­ munque limitato e a tratti “debole” rispetto al ruolo decisivo che Epicuro attribuisce alle aistheseis nella ricerca scientifica. Fermo restando che il pleonachos tropos così come è attestato principal­ mente dall’Epistola a Pitocle non si confà né ad Aristotele né a Teofrasto, Epicuro riformula integralmente il modello teofrasteo (ma rinvenibile an­

301 Cfr. la testimonianza di Clem. Alex. Strom. II 2, 9 5 = 301B FHS&G.

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La meteorologia epicurea

che in Aristotele), secondo il quale di alcuni fenomeni naturali possono darsi diverse spiegazioni causali possibili, piegandolo alle sue finalità scien­ tifiche e alla sua idea di scienza integralmente finalizzata all’etica che né Aristotele né Teofrasto avrebbero potuto condividere fino in fondo.

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Nota critica Dino De Sanctis

Sigla B

Neapolitanus III B 29, saec. XII B2 codicis B corrector

P

Parisinus gr. 1759, saec. XI/XII P2 P3 P4 codicis P correctores

F

Laurentianus 69.13, saec. XIII F2 codicis F corrector

Q

Parisinus gr. 1758, saec. XIV in.

Z

Raudnitzianus Lobkowicensis VI Fc 38, saec. XV ex.

Co

Costantinopolitanus Veteris Serail, XV saec.

Con questa nota, che ha lo scopo di essere una sorta di subsidium inter­ pretationis, si intende offrire uno sguardo preliminare, seppur cursorio, sull’Epistola a Pitocle alla luce del quale sarà possibile comprendere alcune tra le soluzioni adottate, rispetto o in accordo all’edizione di Peter Von der Mühll, Epicuri Epistulae tres et Ratae Sententiae a Laertio Diogene servatae, pubblicata a Lipsia nel 1922. A chi intenda studiare l’Epistola a Pitocle quale espressione della prosa scientifico-filosofica nell’ambito della produ­ zione ellenistica, infatti, da subito si pongono dinanzi due ostacoli princi­ pali: da una parte, una prosa ostica per via del tema trattato, dall’altra, l’intricata tradizione testuale che, per le sue molteplici peculiarità, appare spesso tormentata. Come l’Epistola a Erodoto e l’Epistola a Meneceo anche questa lettera, incentrata sulla meteorologia in chiave epicurea, si presenta nella doppia veste di opera di Epicuro e di scritto inserito all’interno delle Vite di Diogene Laerzio. Come ha ben spiegato Dorandi (2010: 273-275), dunque, ogni studioso nell’esegesi della lettera dovrà compiere scelte chia­ re alla luce di una duplice prospettiva a seconda che sia editore di Epicuro o di Diogene e che sia interessato al testo che leggeva Diogene o a quello che si suppone abbia scritto Epicuro. §§ 85-87. Nell’esordio Epicuro si rivolge al suo principale destinatario, il giovane Pitocle, che saluta con la formula di rito, Ἐπίκουρος Πυθοκλεῖ χαίρειν, spiega i motivi che hanno originato questo scritto epistolare, si sof­ ferma sulle caratteristiche della lettera e, infine, ricorda anche gli altri pos­ sibili referenti ai quali, oltre Pitocle, l’analisi meteorologica risulterà utile. 109

Dino De Sanctis

È da subito evidente che questa epistola, a differenza di quelle indirizzate a Erodoto e a Meneceo, nasce esplicitamente come una risposta del maestro, per esaudire una preghiera del discepolo, e trova un fondamento principa­ le nel carattere δυσμνημόνευτος degli altri scritti di Epicuro. Afferma, infat­ ti, Epicuro (85): τὰ γὰρ ἐν ἄλλοις ἡμῖν γεγραμμένα δυσμνημόνευτα εἶναι καίτοι, ὡς ἔφης, συνεχῶς αὐτὰ βαστάζεις. ἡμεῖς δὲ ἡδέως τε σοῦ τὴν δέησιν ἀπεδεξάμεθα καὶ ἐλπίσιν ἡδείαις συνεσχέθημεν. Sul piano testuale in questa sezione la seconda persona βαστάζεις è una correzione di Casaubon rispetto all’infinito βαστάζειν presente in BPF. Al di là della soluzione proposta da Philippson nella sua recensione del 1923 all’edizione di Von der Mühll, καὶ τῷ … βαστάζειν, in base alla quale è arduo ricordare gli scritti di Epicuro, anche con l’averli continua­ mente tra le mani, la critica ha per lo più ritenuto opportuno correggere βαστάζειν, giudicando a ragione poco perspicua una dipendenza dell’infi­ nito da καίτοι. In questa direzione, ad esempio, nel 1813 Schneider propo­ ne κἄν τις … βαστάζῃ, Usener ipotizza καίτοι … βαστάζοντι, sul quale, pur dubbiosamente, Von der Mühll suggerisce καὶ τῷ … βαστάζοντι, mentre Crönert e Kochalsky avanzano i più complicati κἀδύνατον … βαστάζοντι e καὶ τῷ, … βαστάζειν, che non hanno avuto particolare accoglienza. La proposta di Casaubon rimane opportuna ed economica e, anche per questo motivo, è stata adottata nel testo. Ora, infatti, nella sezione esordiale la forma personale βαστάζεις è una prima tessera decisiva per comprendere la prassi dinamica del διαλογισμός a distanza tra mae­ stro e allievo che Epicuro tende a costruire tramite la dialettica garantita dall’ἔφης dell’allievo e l’ἀπεδεξάμεθα/συνεσχέθημεν del maestro (cfr. Erbì 2020: 36-44). Certo, però, la proposta di Philippson non è da trascurare, come del resto fa Boer che la accoglie nella sua edizione del 1954. Il βαστάζεις di Casaubon, infatti, è ineccepibile, se si stampa καίτοι, sul quale concordano i codici, ma tramite la correzione di καίτοι in καὶ τῷ con il dativo τῷ e βαστάζειν, oltre a un senso adeguato al periodo sul piano grammaticale, si mantiene anche una peculiarità dello stile di Epicuro, ricorrente nella lettera: l’uso dell’infinito sostantivato. Va peraltro sottoli­ neato nella sezione proemiale l’impiego dell’infinito con sfumatura iussiva che scandisce la parenesi di Epicuro: νομίζειν, παραβιάζεσθαι, ἔχειν, ad esempio, sono sullo stesso piano dei precedenti διάλαβε e περιόδευε, tanto che non occorre l’integrazione δεῖ dopo νομίζειν proposta da Gassendi. In questa sezione, invece, la tradizione testuale si divide sull’aggettivo che connota le speranze con le quali il maestro accoglie la preghiera dell’al­

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Nota critica

lievo. In BF troviamo il dativo ἰδίαις, mentre in P leggiamo ἡδείαις, che è la forma da accettare, in simmetria non casuale del resto con l’avverbio ἡδέως ad apertura del periodo. È chiaro che la forma ἰδίαις deve essere considerata un banale errore di iotacismo derivato dalla lettura di ἡδείαις, peraltro meno efficace rispetto alla dolcezza evocata da Epicuro per le sue ἐλπίδες. Un analogo errore di iotacismo, sul quale, invece, il giudizio è più difficile, lo si deve postulare poco dopo, ancora nella sezione esordiale della lettera, quando Epicuro spiega il fine ultimo al quale deve tendere la vita umana (87): οὐ γὰρ ἤδη ἀλογίας καὶ κενῆς δόξης ὁ βίος ἡμῶν ἔχει χρείαν, ἀλλὰ τοῦ ἀθορύβως ἡμᾶς ζῆν. La ricerca sulla meteorologia gode di uno statuto particolare rispetto alle altre scienze sulla natura e non può essere condotta per vani assiomi, ἀξιώματα κενά, e leggi imposte, νομοθεσίαι. Solo in questo modo sarà garantita una vita serena all’uomo che osserva i fenomeni celesti, con uno sguardo puro, sereno, affrancato da ogni illogico timore. Ho deciso di stampare il testo ἤδη ἀλογίας, anche se effettivamente la tradizione in questo punto non è unanime. Troviamo, infatti, ἤδη ἀλογίας in FP4Z, mentre BP1(Q) hanno ἰδιαλογίας, corretto dallo Stephanus in ἰδιολογία, accolto in testo per la prima volta da Von der Mühll. Segnalo che BollackLaks divergono rispetto agli altri editori perché congetturano ἰδίᾳ λογίας e traducono «en effet, dans le particulier, notre vie n’a pas l’usage d’une opinion savante et vide». Il termine ἰδιολογία è una parola rara, vista la sua attestazione, a quanto mi consta, in Caritone, ἐπὶ τοῦτον ἦλθεν ὁ Διονύσιος, ἦν γὰρ αὐτῷ φίλος, καὶ ἰδιολογίαν ᾐτήσατο μόνος (IV 6, 1, 6-7), come “discorso privato”, e in Atanasio di Alessandria, ἀλλ’ ἕνα μὲν θέλοντα κατὰ τὴν μίαν ὑπόστασιν, δύο δὲ θελήματα καὶ δύο ἐνεργείας, κατὰ τὴν τῶν φύσεων ἰδιολογίαν (PG 28 925, 29-31), come “ipotesi soggettiva”. La scelta tra ἤδη ἀλογίας e ἰδιαλογίας/ἰδιολογίας non è un problema secondario a questo punto della lettera. Come è evidente, la sequenza che stiamo analizzando si presta sul piano formale al veloce giro di una massima nella quale traspare, con forza, il fine ultimo al quale deve tendere la vita uma­ na. Estrapolata dal contesto, la frase diviene un insegnamento universale, apodittico, facilmente memorizzabile secondo una tendenza tipica della produzione epicurea. Con ἰδιολογία, per tutto ciò, se accettiamo ἰδιολογία di Stephanus, Epicuro pone sullo stesso piano la supposizione personale e la vana opinione, mentre con ἀλογία la vana opinione è posta sullo stesso livello della irrazionalità. I concetti sono certo entrambi plausibili e opportuni a questo punto della lettera, anche se ἰδιαλογίας, dal quale per 111

Dino De Sanctis

l’appunto ἰδιολογία, appare un possibile esito dovuto anche questa volta a iotacismo nella prima parte derivato da un originario ἤδη ἀλογίας. A favore di ἀλογίας, a mio avviso, testimonia inoltre anche il fatto che allo stesso campo semantico Epicuro ricorre altre volte. Ad esempio nella SV 62, con τὴν ἀλογίαν θυμῷ κατέχοντα, Epicuro indica chi mantiene la parte non razionale dell’anima nell’ambito di un’analisi sulle ire dei genitori nei confronti dei figli, considerate peraltro una cosa ἀλογώτερον. L’avverbio ἀλόγως è presente in due luoghi del II libro Περὶ φύσεως (col. XXII 3-4 e col. 116 10-XXIII 7 Leone). E si tenga infine anche conto a questo riguardo della testimonianza di Diogene Laerzio (X 31) secondo la quale per Epicuro πᾶσα … αἴσθησις ἄλογός ἐστι. Nell’esordio della lettera, nell’aprirsi a un pubblico più vasto e corale rispetto al solo Pitocle, come ho detto, Epicuro ricorda i suoi destinatari: γράψαντες οὖν τὰ λοιπὰ πάντα συντελοῦμεν ἅπερ ἠξίωσας πολλοῖς καὶ ἄλλοις ἐσόμενα χρήσιμα τὰ διαλογίσματα ταῦτα, καὶ μάλιστα τοῖς νεωστὶ φυσιολογίας γνησίου γευομένοις καὶ τοῖς εἰς ἀσχολίας βαθυτέρας τῶν ἐγκυκλίων τινὸς ἐμπεπληγμένοις. Questa sezione ha bisogno di qualche precisazione sul piano interpreta­ tivo in rapporto alle categorie che Epicuro considera: i γευόμενοι e gli ἐμπεπληγμένοι. Poca attenzione è stata risposta, innanzitutto, agli ambiti ai quali Epicuro ricorre per segnalare i suoi referenti. Il primo è quello del cibo: il verbo γεύω dal significato concreto di “assaporare un cibo” passa a quello metaforico di “fare esperienza”. Si tenga presente a questo riguardo un nuovo frammento di Diogene di Enoanda (NF 186, I 5-8), nel quale in rapporto a un gruppo di donne che si sono accostate a qualche insegna­ mento di Epicuro, si legge καὶ γὰρ ἤδη | τι ὑπογεγευμέναι τῶν | Ἐπικούρου λόγων τυν|χάνουσι … La metafora che crea l’impiego del verbo ὑπογεύω in Diogene nel senso di “provare una dottrina” trova un antecedente nelle pa­ role di Velleio nel De natura deorum di Cicerone (I 8, 20), hunc censes primis ut dicitur labris gustasse physiologiam, id est naturae rationem, qui quicquam quod ortum sit putet aeternum esse posse?, come hanno evidenziato Hammer­ staedt-Smith 2010: 23. Questo significato, peraltro, pervade da subito la tradizione letteraria greca a partire da Omero – si pensi ad esempio a Il. XXI 60, δουρὸς ἀκωκῆς ἡμετέροιο γεύσεται –, e trova il suo consolidamento nell’immagine affascinante con la quale nella I Istmica Pindaro tramite i γευόμενοι στεφάνων νικαφόρων definisce Castore e Iolao come i primi eroi che fecero esperienza della dolcezza che deriva dagli inni di vittoria, i laudandi ante litteram, da considerare come i primi destinatari dell’epinicio (21-22). Il secondo verbo ἐμπλέκω, invece, richiama il motivo della tessitu­

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Nota critica

ra che assume molteplici connotazioni metaforiche a partire dall’epica e dalla lirica sino a Platone. Il campo semantico della tessitura, peraltro, anche in Epicuro è altamente produttivo: le combinazioni atomiche, ad esempio, περιπλοκαὶ ἀλληλούχων ἀτόμων, danno vita alle nubi in Pyth. 99, e il verbo συμπλέκω sia in Hrdt. (72: ἀλλὰ μόνον ᾧ συμπλέκομεν τὸ ἴδιον τοῦτο e 73: ταῖς ἡμέραις καὶ ταῖς νυξὶ συμπλέκομεν) sia nel Περὶ φύσεως è attestato, ἐξ ὧν | καὶ τὰ λοιπὰ συμπλέκει | σχήμ[α]τα (Nat. XIV col. XXXVIII 2 Leone). Certo, si ha l’impressione che rispetto a queste attestazioni il verbo ἐμπλέκω in Pyth. voglia suggerire una trappola nella quale l’uomo rimane avviluppato e che impedisce, come vedremo, di praticare attività intellettuali elevate come quella filosofica. Osserviamo, dunque, i problemi principali che sul piano testuale offre questa sezione. In BP leggiamo γευομένοις, mentre FZ hanno il participio perfetto γεγευμένοις: è plausibile ora il participio presente, se ipotizziamo che Epicuro si stia riferendo ai discepoli che da poco hanno iniziato a gustare e di fatto stanno ancora gustando la dottrina della scuola. Con γευομένοις, dunque, abbiamo a che fare con i neofiti della scuola. Il par­ ticipio perfetto, invece, assieme all’avverbio νεωστί pone i destinatari di Epicuro a uno stadio da poco compiuto dell’apprendimento, in una fase del sapere da poco acquisito. Significativa poi risulta l’omissione del seg­ mento καὶ τοῖς εἰς ἀσχολίας βαθυτέρας τῶν ἐγκυκλίων τινὸς ἐμπεπληγμένοις sia in F, reintegrato nel margine inferiore da F2, sia in Z: in F e Z, dunque Epicuro si rivolgerebbe ai soli γεγευμένοι, coloro che hanno già beneficiato della verace conoscenza della natura. Non a caso ricordo che FZ hanno il participio perfetto γεγευμένοι nel quale forse senza problemi si possono scorgere tutti i seguaci del Kepos. Ora, come appare subito chiaro, in questo punto la lettera a Pitocle in generale collima con l’incipit di Hrdt. (35-36). Qui, infatti, Epicuro distingue i destinatari della sua opera, dividendoli in tre categorie: a) coloro che non sono in grado di analizzare con accuratezza le opere della Scuola, i cosiddetti iniziati, una sorta di neofiti; b) i progredi­ ti nel cammino verso la conoscenza, i προβεβεκότες, interni alla scuola; c) il perfetto sapiente che, seppur τετελεσιουργημένος, deve tuttavia applicarsi allo studio della natura costantemente, anche tramite il giovevole ausilio dell’epitome dottrinale (cfr., a questo riguardo, Verde 2010a: 67-75). Credo che un’analoga classificazione debba essere individuata anche nella Lettera a Pitocle, sebbene rispetto a questa divisione, qualche problema susciti l’interpretazione non univoca del segmento τοῖς εἰς ἀσχολίας βαθυτέρας τῶν ἐγκυκλίων τινὸς ἐμπεπληγμένοις. I problemi, infatti, dipendono sia dal genitivo τῶν ἐγκυκλίων sia dal valore grammaticale di τινός, cioè se sia da scorgervi un secondo termine di paragone dipendente da βαθυτέρας o un genitivo oggettivo retto da ἀσχολίας. 113

Dino De Sanctis

L’interpretazione del passo secondo la quale τινός introduce un secondo termine di paragone, a mio avviso, vanifica l’opposizione tra uomini inter­ ni ed esterni alla Scuola, che apre l’Epistola a Erodoto, nella misura in cui Epicuro direbbe che la sua epitome è vantaggiosa ai neofiti e soprattutto a coloro che si dedicano a studi più profondi rispetto alle occupazioni quotidiane, in altri termini a coloro che fanno parte del Kepos e che acce­ dono alla conoscenza della vera sapienza. Sebbene tale interpretazione sia plausibile, tuttavia sembra essere limitante nel momento in cui Epicuro nella lettera estende a tutta l’umanità il suo messaggio in una sorta di pro­ selitismo paideutico. In fondo già Pitocle è un membro della scuola e può ben rappresentare nel proemio la categoria dei progrediti. Se valutiamo in questo modo i gruppi ai quali ora si rivolge Epicuro, avremmo una precisa consonanza con i gruppi individuati nell’esordio di Hrdt. Vi è poi un secondo argomento che mi spinge a ipotizzare la dipendenza di τινός come semplice genitivo da ἀσχολίας: l’accezione di ἐγκύκλια e di ἀσχολία. È forse opportuno scorgere in ἐγκύκλια un rimando alle occupazioni giornaliere che distolgono dallo studio della natura. Questo è il senso, ad esempio, che Epicuro sembra avere in mente per gli ἐγκύκλια nella SV 58, ἐκλυτέον ἑαυτοὺς ἐκ τοῦ περὶ τὰ ἐγκύκλια καὶ πολιτικὰ δεσμωτηρίου, nella quale l’invito categorico a liberarsi dal carcere delle attività politiche si accom­ pagna a quello di abbandonare il peso delle attività giornaliere, ostacolo per gli ἄσχολοι verso la vera conoscenza. Il termine ἀσχολία per Epicuro, inoltre, non sembra essere rapportabile alla riflessione filosofica, visto che gli ἄσχολοι di norma trovano il loro campo di azione e di applicazione per l’appunto nel mondo quotidiano dei lavori e delle fatiche attive. § 87. Nella tradizione della lettera la particella disgiuntiva ἤ ha creato a volte confusione, visto la sua presenza ricorrente per via delle cause molte­ plici alla luce delle quali sono spiegati i fenomeni meteorologici. Esaminia­ mo un caso sintomatico nella sezione proemiale: σημεῖα δ’ ἐπὶ τῶν ἐν τοῖς μετεώροις συντελουμένων φέρειν τῶν παρ’ ἡμῖν τινα φαινομένων, ἃ θεωρεῖται ᾗ ὑπάρχει καὶ οὐ τὰ ἐν τοῖς μετεώροις φαινόμενα. Epicuro mette in evidenza l’importanza dei σημεῖα nella ricerca meteorolo­ gica. Il testo presenta qualche problema. BPF hanno concordemente l’infi­ nito φέρειν, corretto da Kuehn in φέρει, un singolare con soggetto neutro plurale. Abbiamo preferito seguire la tradizione medievale in questo caso, con il φέρειν dei codici, supponendo un ricorso all’infinito iussivo o a un infinito retto da un sottinteso verbum dicendi. Ad un tempo abbiamo accolto il δ’ ἐπί di Usener, che dà un senso migliore al periodo rispetto al δέ τι di BP1(Q) e δέ τινα FP4: la corruzione del testo è ben spiegabile 114

Nota critica

per errata divisione in scriptio plena e fraintendimento del gruppo ΠΙ in ΤΙ. L’interessante soluzione di Boer δ’ ἔστι… φέρειν merita di essere presa in considerazione, vista la felice dipendenza di φέρειν da ἔστι, anche se non ha un riscontro sul piano testuale. Un problema più spinoso, invece, è dato dalla sequenza θεωρεῖται ᾗ ὑπάρχει. BPF, infatti, hanno ἤ che non dà un senso chiaro alla frase, a meno che non si intenda con Bollack-Lacks 1978: 79 «qui s’observent ou qui existent». La correzione di Woltjer di ἤ in ᾗ, oltre che economica, stabilisce una migliore soluzione, con una interrogativa indiretta dipendente da θεωρεῖται. § 88. Densa di problemi sul piano testuale ed esegetico si presenta la sezione relativa alla definizione di κόσμος: κόσμος ἐστὶ περιοχή τις οὐρανοῦ, ἄστρα τε καὶ γῆν καὶ πάντα τὰ φαινόμενα περιέχουσα, ἀποτομὴν ἔχουσα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου καὶ καταλήγουσα ἐν πέρατι ἢ ἀραιῷ ἢ πυκνῷ – καὶ οὗ λυομένου, πάντα τὰ ἐν αὐτῷ σύγχυσιν λήψεται – [καὶ λήγουσαν] ἢ [ἐν] περιαγομένῳ ἢ [ἐν] στάσιν ἔχοντι, καὶ στρογγύλην ἢ τρίγωνον ἢ οἵαν δήποτε περιγραφὴν . La definizione di cosmo offerta in questa sezione prevede un’analisi sul piano etimologico. La constitutio textus, tuttavia, diverge spesso nelle edi­ zioni di Diogene e di Epicuro. La soluzione qui proposta cerca di ristabili­ re un ragionamento che sia, il più possibile, consono con le riflessioni del Kepos sull’argomento. Osserviamo qualche dato. Dopo aver chiarito che un mondo svolge una funzione di contenere i fenomeni, Epicuro lo definisce come separato dall’infinito, provvisto di una parte terminante, un πέρας, che può essere denso o rado. Interrotta da un’osservazione parentetica, καὶ οὗ λυομένου, πάντα τὰ ἐν αὐτῷ σύγχυσιν λήψεται, ritenuta da Usener un ad­ ditamentum e per questo espunto, continua la descrizione di questο πέρας. BPF hanno un poco perspicuo καὶ λήγουσαν, espunto da Von der Mühll, e corretto in καὶ λήγουσα da Gassendi. Sembra in questo caso preferibile se­ guire Von der Mühll e pensare che καὶ λήγουσαν sia entrato nel testo quale ripetizione da imputare al precedente καταλήγουσα. Accettata l’espunzione di καὶ λήγουσαν, appare necessaria anche l’espunzione di Diano dei due ἐν successivi in modo che sia περιαγομένῳ sia στάσιν ἔχοντι continuino a indicare le caratteristiche del πέρας, la parte terminante del cosmo. Utile è l’integrazione ἔχουσα di Bailey dopo ἢ οἵαν δήποτε περιγραφήν con la quale si chiude un periodo dominato da vivaci allitterazioni e omeoarti. La sequenza καὶ ἐν κόσμῳ καὶ μετακοσμίῳ, ὃ λέγομεν μεταξὺ κόσμων è giudicata un interpretamentum di ἐν πολυκένῳ τόπῳ da Von der Mühll. § 90. Problemi di altra natura solleva la sezione relativa alla nascita degli astri e dei pianeti nel cosmo che per Epicuro hanno un’origine separata:

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Ἥλιός τε καὶ σελήνη καὶ τὰ λοιπὰ ἄστρα καθ’ ἑαυτὰ γενόμενα ὕστερον ἐμπεριελαμβάνετο ὑπὸ τοῦ κόσμου καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει, ἀλλ’ εὐθὺς διεπλάττετο καὶ αὔξησιν ἐλάμβανεν, ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα, κατὰ προσκρίσεις καὶ δινήσεις λεπτομερῶν τινων φύσεων, ἤτοι πνευματικῶν ἢ πυροειδῶν ἢ τὸ συναμφότερον· καὶ γὰρ ταῦτα οὕτως ἡ αἴσθησις ὑποβάλλει. Merito dell’Aldobrandino è aver integrato in questa sezione la negazione οὐ, assente nella tradizione. L’integrazione, come ha sottolineato in ma­ niera pressoché concorde la critica a eccezione di Pascal 1903: 167 che corregge ἀλλ[ά] in ἄλλα, e Bollack-Lacks 1978: 142-143, è necessaria sia sul piano logico sia sul piano grammaticale: solo in questo modo, infatti, è possibile comprendere con chiarezza il periodo successivo ἀλλ’ εὐθὺς … ἐλάμβανεν. Epicuro sta ora affermando che il sole, la luna e gli altri astri non nacquero di per sé per poi essere inglobati dal cosmo, ma subito, una volta plasmati, iniziarono a crescere grazie al contributo di atomi sottilissimi. In questa sezione, dopo ὑπὸ τοῦ κόσμου, causa efficiente di ἐμπεριελαμβάνετο, crea qualche problema, almeno sul piano della intelle­ gibilità, la sequenza καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει. Gassendi per primo mostrò imbarazzo nei suoi confronti e spostò καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει dopo θάλαττα. Più radicale, invece, fu l’intervento di Usener per il quale καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει altro non era che un’originaria glossa, entrata poi nel testo della lettera. Vero è anche che la acribìa filologica di Usener non si limitò a individuare questa sequenza come estranea al testo originale della lettera. Usener, infatti, forse con minore plausibilità, individuò una seconda glossa in ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα. La posizione degli editori successivi non è stata unanime: alcuni, seguendo l’autorità di Usener, hanno espunto la sequenza, mentre altri hanno accettato queste parole, considerandole come autentiche, una soluzione questa che, a mio avviso, appare molto probabile. Posta la validità nel testo di καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει, tuttavia, occorre analizzare il suo significato nell’argomentazione generale. Per lo più viene facile pensare che Epicuro con καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει indichi ciò che custodisce o protegge il cosmo. In questa direzione vanno, ad esempio, le traduzioni di Boer «in die Welt und alles, was sie umschließt, hineingenommen werden», quella di Arrighetti «e da tutto ciò che esso racchiude», nonché quella di Gigante «e in quelle parti che servono alla sua difesa». In questo modo, in ὅσα è ravvisato un soggetto neutro plurale seguito dal verbo al singolare σῴζει. Non a caso Bignone 1964: 67, al quale molto si deve per la comprensione di questa sezione, richiamava la teoria dei moenia mundi esposta da Lucrezio (V 119-150), per spiegare la frase. La soluzione di Bignone ha un alto grado di plausibilità. Eppure, come credo, è forse possibile lasciare inalterata la struttura grammaticale

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Nota critica

che Epicuro offre in questo passo e tentare un’interpretazione diversa del greco rispetto a quella generalmente seguita. Con καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει, Epicuro dopo l’esplicito riferimento al cosmo, potrebbe indicare tutto ciò che il cosmo protegge o, per meglio dire, custodisce dentro di sé. In altri termini non è che gli astri, secondo Epicuro, prima nacquero e poi furono inglobati dall’universo e questo fatto, come subito è precisato, vale per ciò che il cosmo in verità contiene, cioè tutto il resto dei fenomeni astrali dei quali peraltro nella parte conclusiva della lettera Epicuro tratta: alone della luna, stelle cadenti, stelle fisse, comete e quant’altro. Dopo aver parlato del cosmo, Epicuro sente la necessità di estendere il suo ragionamento a ogni realtà fenomenica che per l’uomo qui è possibile individuare. La precisazione καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει, dunque, assume particolare rilievo sia nel posto in cui è sia per la funzione che assume nell’argomentazione. Si ha quasi l’impressione che la frase καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει abbia il sapore di una glossa, come aveva ipotizzato Usener, ma nel senso di una glossa personale di Epicuro che cerca di prevenire un eventuale dubbio dell’allievo dinanzi alla complessità e alla varietà dei fenomeni astrali e dell’allievo anticipa un possibile e verosimile dubbio. Se è corretta questa interpretazione, si comprende il motivo per il quale è opportuna la precisazione ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα, che, come abbiamo detto, Usener ritenne un additamentum seriore. Epicuro spiega che lo stesso dinamismo che si deve riconoscere tra gli astri nella loro formazione agisce anche presso gli uomini e più precisamente per la terra e per il mare. § 91. Dopo τὸ δὲ μέγεθος ἡλίου τε Von der Mühll integra σελήνης seguendo Usener. § 92. Si accoglie nel testo καὶ καθ’ ἑκατέρους τοὺς τόπους, espunta da Usener. §§ 92-93. Anche per il moto degli astri è elencata una serie di cause mol­ teplici all’interno delle quali Epicuro sembra risalire indietro nel tempo sino alla causa originaria di questo movimento individuata nella formazio­ ne dei corpi astrali: τάς τε κινήσεις αὐτῶν οὐκ ἀδύνατον μὲν γίνεσθαι κατὰ τὴν τοῦ ὅλου οὐρανοῦ δίνην, ἢ τούτου μὲν στάσιν, αὐτῶν δὲ δίνην κατὰ τὴν ἐξ ἀρχῆς ἐν τῇ γενέσει τοῦ κόσμου ἀνάγκην ἀπογεννηθεῖσαν ἐπ ἀνατολῇ, [93] εἶτα θερμασίᾳ κατά τινα ἐπινέμησιν τοῦ πυρὸς ἀεὶ ἐπὶ τοὺς ἑξῆς τόπους ἰόντος. τροπὰς ἡλίου καὶ σελήνης ἐνδέχεται μὲν γίνεσθαι κατὰ λόξωσιν οὐρανοῦ οὕτω τοῖς χρόνοις κατηναγκασμένου· Dopo aver ricordato la δίνη degli astri, secondo la necessità sviluppatasi sin dall’inizio, al nascere del cosmo, quando gli astri si levarono sull’orizzonte, il testo appare problematico. P1, infatti, ha il poco perspicuo τατη, B τὰ 117

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τῆ, P2Q εἰ τατῆ, mentre FP4mg εἶτα τῆ(ι). Quest’ultima soluzione sembra essere in linea con il pensiero di Epicuro, dal momento che suggerisce una gradazione temporale tra il levarsi degli astri all’orizzonte in seguito al quale si sviluppa, in un momento successivo, un calore. Ma al riguardo si veda l’opinione contraria di Dorandi 2010: 286. Per l’uso di εἶτα nella lettera rimando anche a § 101 εἶτα συνελαυνομένου, e a § 107 εἶτα τούτου πῆξιν e εἶτα σύνοδον τούτων. § 93. ἢ καὶ ὕλης ἀεὶ ἐπιτηδείας ἐπομένοις ἐμπιπραμένης: ἐπομένοις è con­ gettura di Mancini 2016 accolta nel testo rispetto a ἐχομένης di FP3Z e a ἐχομένοις di BP1Co. § 94. ἔτι τε ἐνδέχεται τὴν σελήνην ἐξ ἑαυτῆς ἔχειν τὸ φῶς, ἐνδέχεται δὲ ἀπὸ τοῦ ἡλίου. Si accoglie μέν, integrazione di Usener, in corresponsione con il successivo δέ. § 98. L’incipit della sezione sul variare delle lunghezze dei giorni e delle notti da μήκη a τάχιον è generalmente ritenuto un locus corruptus (cfr. Dorandi 2010: 286-287): Μήκη νυκτῶν καὶ ἡμερῶν παραλλάττοντα καὶ παρὰ τὸ ταχείας ἡλίου κινήσεις γίνεσθαι καὶ πάλιν βραδείας ὑπὲρ γῆς, παρὰ τὸ μήκη τόπων παραλλάττοντα καὶ τόπους τινὰς περαιοῦν τάχιον ἢ βραδύτερον, ὡς καὶ παρ’ ἡμῖν τινα θεωρεῖται, οἷς συμφώνως δεῖ λέγειν ἐπὶ τῶν μετεώρων. Secondo Von der Mühll «verba confusa sunt ex duabus eiusdem rei tracta­ tionibus, quarum altera a Diogene iuxta columnam epistulae scripta erat». Il problema deriva dal participio sospeso παραλλάττοντα ad apertura del periodo in PBF. Meibom integra il ricorrente ἐνδέχεται γίνεσθαι, mentre Schneider propone παραλλάττειν. Si accoglie nel testo l’integrazione di Arrighetti. Von der Mühll ipotizza dopo παραλλάττοντα una lacuna che invece Usener individuava dopo ὑπὲρ γῆς. Una proposta plausibile ed economica per sanare in parte questo passo tormentato potrebbe consistere nel congetturare παραλλάττουσι sul tradito παραλλάττοντα. Αl termine, la discussione assume un tono metodologico: οἱ δὲ τὸ ἓν λαμβάνοντες τοῖς τε φαινομένοις μάχονται καὶ τοῦ ᾗ δυνατὸν ἀνθρώπῳ θεωρῆσαι διαπεπτώκασιν. La critica di Epicuro è rivolta a coloro che per la risoluzione del problema e l’identificazione delle cause seguono il μοναχὸς τρόπος, qui definito τὸ ἕν. Costoro compiono un errore grossolano, ingannandosi in rapporto a ciò che è possibile conoscere da parte di un uomo. La sequenza τοῦ ᾗ δυνατὸν ἀνθρώπῳ θεωρῆσαι dipende dal verbo διαπεπτώκασιν che nel significato di sbagliarsi solitamente ammette una costruzione con περί e genitivo, 118

Nota critica

per l’argomento, o ἐν e dativo per lo stato in luogo figurato. In realtà la tradizione oscilla in questo punto: BP hanno τό, mentre F τοῦ. A ben vedere, poi, in BPF è attestato εἰ, mentre ᾗ è una congettura di Usener, utile a sanare un nesso incomprensibile sul piano grammaticale. § 100. La sequenza πνεύματα κατὰ ἀποφορὰν ἀπὸ ἐπιτηδείων τόπων è espunta da Von der Mühll come resto di uno scholium doxographicum. Si accoglie κινουμένου di Arrighetti 1973: 74 rispetto al κινουμένων dei codici. καὶ κατάξεις è presente in Ζ, mentre BP hanno καὶ τάξεις. L’interpunzione dopo κατάξεις rende più chiaro il periodo. § 101. Si mantiene nel testo ἢ ἀπὸ τοῦ πυρὸς νέφη συνειλέχθαι καὶ τὰς βροντὰς ἀποτελεῖσθαι, espunta da Usener in quanto additamentum. § 103. In ἀεὶ πρὸς ἄλληλα si segue l’integrazione di Schneider in corrispondenza con il precedente τὸ μὲν πολὺ πρὸς ὅρος τι ὑψηλόν. § 104. Sono qui esposte le cause in virtù delle quali si formano i presteri: Πρηστῆρας ἐνδέχεται γίνεσθαι καὶ κατὰ κάθεσιν νέφους εἰς τοὺς κάτω τόπους στυλοειδῶς ὑπὸ πνεύματος ἀθρόου ὠσθέντος, καὶ διὰ τοῦ πνεύματος πολλοῦ φερομένου, ἅμα καὶ τὸ νέφος εἰς τὸ πλάγιον ὠθοῦντος τοῦ ἐκτὸς πνεύματος· καὶ κατὰ περίστασιν δὲ πνεύματος εἰς κύκλον, ἀέρος τινὸς ἐπισυνωθουμένου ἄνωθεν καὶ ῥύσεως πολλῆς πνευμάτων γινομένης καὶ οὐ δυναμένης εἰς τὰ πλάγια διαρρυῆναι διὰ τὴν πέριξ τοῦ ἀέρος πίλησιν. καὶ ἕως μὲν γῆς τοῦ πρηστῆρος καθιεμένου στρόβιλοι γίνονται, ὡς ἂν καὶ ἡ ἀπογέννησις κατὰ τὴν κίνησιν τοῦ πνεύματος γίνηται· ἕως δὲ θαλάττης δῖνοι ἀποτελοῦνται. In Epicuro le cause del fenomeno sono tre: la κάθεσις di una nube sottopo­ sta al moto dei venti; il moto dei venti sulla nube; la περίστασις circolare del vento che non riesce a trovare una via di fuga di fianco e dunque cade in basso. κατὰ κάθεσιν è in BP1CoF2, κατάθεσιν in F1, κατὰ θέσιν in Zf, γρ P4mg. Nella prima causa il vento riesce a trascinare la nube che assume la forma di una colonna: l’avverbio στυλοειδῶς che si accoglie nel testo è congettura di Usener rispetto all’ἀλλοειδῶς della tradizione. Già Schneider aveva trovato peraltro poco pregnante l’avverbio e ne aveva suggerito il cambiamento in ἑλικοειδῶς. Per la forma della colonna assunta dal ciclone, cfr. Lucrezio VI 433, tanquam demissa columna. Α Usener si deve εἰς τὸ πλάγιον rispetto all’εἰς τὸ πλήσιον che contribuisce a offrire un senso più chiaro anche in rapporto al successivo εἰς τὰ πλάγια. Usener, seguito da Von der Mühll, scorge in καὶ διὰ τοῦ πνεύματος πολλοῦ φερομένου un’ag­ giunta marginale confluita poi nel testo e dunque ne propone l’espunzio­ ne. Non è forse un’ipotesi necessaria. Come nota Barigazzi 1948: 201, che corregge διά in δή o in αἰεί per legare il genitivo assoluto alla prima causa, l’azione del trascinamento della nube da parte del vento è contemporanea a quella del vento esterno capace di spingere di fianco la nube: ὠθοῦντος

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è in correlazione con φερομένου e non con il participio aoristo ὠσθέντος. Quanto alla seconda causa merita di essere sottolineato l’impiego dello hapax ἐπισυνωθουμένου che in unione all’avverbio ἄνωθεν sottolinea che una certa parte di aria è spinta dall’alto verso il basso, durante il turbinare del vento. Il nesso ὡς ἂν καὶ ἡ ἀπογέννησις κατὰ τὴν κίνησιν τοῦ πνεύματος γίνηται è posto da Usener, seguito da Kochalsky, come uno scholium. La correzione proposta da Usener ὡς ἀναγκαίως ἀπογέννησις κατὰ τὴν δίνησιν τοῦ πνεύματος γίνεται non è necessaria. Per la sequenza ὡς ἂν καί cfr. Hrdt. 75. § 105. Nella sezione sui terremoti si sceglie il κράδανσιν di B2 che cor­ regge il κράδαστον di B rispetto a κραδαστόν di PF. Casaubon congettura κραδασμόν accolto da Von der Mühll (cfr. Dorandi 2009: 59 n. 50). Ne consegue che articolo di κράδανσιν è il τὴν proposto da Usener e verbo della relativa è παρασκεθάζει di F rispetto al παρασκευάζη di BP. § 106. La sezione sui venti da τὰ δὲ πνεύματα a γινομένης è ritenuta da Von der Mühll uno scholium relativo ai terremoti. § 107. Si accoglie in testo, a differenza di Von der Mühll, ἃ οἱονεὶ σύνωσιν ποιούμενα χάλαζαν ἀποτελεῖ, ὃ μάλιστα γίνεται ἐν τῷ ἔαρι. § 108. Non si ritiene, a differenza di Von der Mühll, ἐν οἷς τόποις μάλιστα δρόσος συντελεῖται un additamentum. §§ 108-109. Dubbi sulla constitutio textus gravano anche sulla sezione nella quale prima del ghiaccio è analizzata la rugiada: Δρόσος συντελεῖται καὶ κατὰ σύνοδον πρὸς ἄλληλα ἐκ τοῦ ἀέρος τῶν τοιούτων, ἃ τῆς τοιαύτης ὑγρασίας ἀποτελεστικὰ γίνεται· καὶ κατὰ φορὰν δὲ ἢ ἀπὸ νοτερῶν τόπων ἢ ὕδατα κεκτημένων, ἐν οἷς τόποις μάλιστα δρόσος συντελεῖται, εἶτα σύνοδον τούτων εἰς τὸ αὐτὸ λαβόντων καὶ ἀποτέλεσιν ὑγρασίας καὶ πάλιν φορὰν ἐπὶ τοὺς κάτω τόπους, καθάπερ ὁμοίως καὶ παρ’ ἡμῖν ἐπὶ πλειόνων τοιαῦτά τινα συντελεῖται. [109] τῶν δρόσων τούτων πῆξίν τινα ποιὰν λαβόντων διὰ περίστασίν τινα ἀέρος ψυχροῦ. Al termine di § 108 infatti gli editori hanno avvertito un problema: l’esigenza di introdurre la descrizione di un nuovo fenomeno. πάχνη δὲ συντελεῖται è il supplemento di Cobet, mentre Usener, seguendo Gassendi, suggerisce συντελούμενα θεωρεῖται. καὶ πάχνη οὐ δὲ διαφερόντως. L’ordo ver­ borum varia in Z che prima di τοιαῦτα ha συντελεῖται. Del resto il periodo dà perplessità già a Gassendi che dopo τινα ipotizzava una lacuna. §§ 109-110. Epicuro qui analizza le cause dell’arcobaleno: Ἶρις γίνεται κατὰ πρόσλαμψιν [ὑπὸ] τοῦ ἡλίου πρὸς ἀέρα ὑδατοειδῆ, ἢ κατὰ πρόσφυσιν ἰδίαν τοῦ τε φωτὸς καὶ τοῦ ἀέρος, ἣ τὰ τῶν χρωμάτων τούτων ἰδιώματα ποιήσει εἴτε πάντα εἴτε μονοειδῶς, ἀφ’ οὗ πάλιν ἀπολάμποντος 120

Nota critica

τὰ ὁμοροῦντα τοῦ ἀέρος χρῶσιν ταύτην λήψεται, οἵαν θεωροῦμεν, κατὰ πρόσλαμψιν πρὸς τὰ μέρη. τὸ δὲ τῆς περιφερείας τοῦτο φάντασμα γίνεται διὰ τὸ τὸ διάστημα πάντοθεν ἴσον ὑπὸ τῆς ὄψεως θεωρεῖσθαι, ἢ σύνωσιν τοιαύτην λαμβανουσῶν τῶν ἐν τῷ ἀέρι τόμων ἢ ἐν τοῖς νέφεσιν ἀπὸ τοῦ αὐτοῦ ἀέρος [προσφερομένου πρὸς τὴν σελήνην] ἀποφερομένων ἀτόμων περιφέρειάν τινα καθίεσθαι τὴν σύγκρισιν ταύτην. τόμων è congettura di Meibom sul τομῶν di BPF. Per l’arcobaleno, sono richiamate le cause principali: la prima è la πρόσλαμψις [ὑπὸ] τοῦ ἡλίου πρὸς ἀέρα ὑδατοειδῆ, la riflessione di luce esercitata dal sole sull’aria umida, mentre la seconda è concentrata nella πρόσφυσις ἰδία τοῦ τε φωτὸς καὶ τοῦ ἀέρος, un congiungimento di sole e di aria che dà vita in partico­ lari frangenti alla colorazione dell’arcobaleno. In altri termini alla base della discussione di Epicuro, come appare chiaro, risultano fondamentali due aspetti nella formazione del fenomeno: la luce del sole e l’umidità dell’aria, cause che a ben vedere nella sezione dei fenomeni celesti sono evocate con tendenza frequente. Un secondo dato indagato nella lettera è poi relativo alla forma dell’arcobaleno dovuta o alla visione dalla terra del fenomeno o all’effetto della pressione esercitata dagli atomi sull’aria. Sembra ben evidente che, sebbene nel dettaglio le spiegazioni proposte da Epicuro riguardo all’arcobaleno in parte non prescindano dalla dettagliata riflessione di Aristotele a eccezione della pressione atomica che non a caso chiude la sezione come peculiarità del Kepos, nell’epitome il fenomeno della rifrazione, la πρόσλαμψις, appare molto più semplificato rispetto alla varietà di forme e sviluppi che assume la ἀνάκλασις in Aristotele in ambito ottico. Πρόσλαμψις è un primum dictum di Epicuro costruito sul perspicuo περιλάμπω dopo il quale espungo con Schneider lo ὑπό omesso da F e presente in BP. Non è forse ora necessaria l’esplicitazione della causa effi­ ciente per il sole che di norma non ricorre nelle altre tarde attestazioni del nesso πρόσλαμψις τοῦ ἡλίου (e.g. Claudio Tolemeo, Synt. Math. 1 1, p. 267 14 Heiberg, Pappo Mat., Syn. 6, p. 554 26 Hultsch, Teone Mat., Comm., p. 413 20 Rome). Seguo Gassendi per l’espunzione di προσφερομένου πρὸς τὴν σελήνην che, a questo punto della discussione, risulta poco perspicuo soprattutto per il suo riferimento alla luna che sembra anticipare la discus­ sione successiva all’alone nel quale, non a caso, è presente lo stesso genitivo assoluto. § 112. Τινὰ ἄστρα στρέφεται αὐτοῦ è correzione di Bailey sul τινὰ ἀναστρέφεται di BPF. Von der Mühll integra prima di τινὰ ἀναστρέφεται dei codici. Τινὰ τῶν ἄστρων πλανᾶσθαι, εἰ οὕτω ταῖς κινήσεσι χρώμενα συμβαίνει, τινὰ δὲ μὴ κινεῖσθαι … Si mantiene il κινεῖσθαι in BPF, espunto da Von der Mühll. L’integrazione τινὰ δὲ μὴ κινεῖσθαι è di Bailey. 121

Dino De Sanctis

§ 114. Problematico appare l’incipit della sezione sulle cosiddette stelle cadenti. Von der Mühll infatti stampa οἱ λεγόμενοι ἀστέρες ἐκπίπτειν (καὶ) παρὰ μέρος καὶ (παρὰ τρῖψιν † ἑαυτῶν) δύνανται συντελεῖσθαι (καὶ παρὰ ἔκπτωσιν, οὗ ἂν ἡ ἐκπνευμάτωσις γένηται), ponen­ do tra tonde in corpo minore scholia e annotazioni marginali. Si accetta nel testo la congettura di Usener νέφων al posto dello ἑαυτῶν dei codici. Come ultima causa delle stelle cadenti Epicuro menziona l’infiammarsi dei venti, dovuto a un avvolgimento con conseguente fuoriuscita di fuoco dall’involucro che lo avvolge, mentre il fuoco si dirige anche verso la zona nella quale si è prodotto l’impulso al moto. La «conseguente fuoriuscita di fuoco dall’involucro che lo avvolge» è nel testo εἶτ’ ἐπέκρηξιν τῶν περιεχόντων. L’integrazione di ἐκ è proposta da Von der Mühll che, tuttavia, stampa [ἐπ]ἔκρηξιν, condividendo con Usener ἔκρηξιν, termine raro ma attestato nella prosa scientifica come disgregamento (e.g. [Aristot.] De mundo 395a 15 per il νέφος), mentre ἐπέκρηξιν è un hapax. ἐπέκρηξιν è lezione di PF, mentre B ha ἐπ’ ἔκρηξιν. Per la difesa di questo hapax cfr. Bollack-Laks 1978: 303-304. § 116. Nella parte finale della lettera Epicuro torna sul tema delle ἐπισημασίαι. A conclusione della sezione un testo tormentato: οὐδὲ γὰρ εἰς τὸ τυχὸν ζῷον, κἂν μικρῷ χαριέστερον ᾖ, ἡ τοιαύτη μωρία ἐκπέσοι, μὴ ὅτι εἰς παντελῆ εὐδαιμονίαν κεκτημένον. L’ἄν è integrato da Cobet al quale si deve anche l’ottativo ἐκπέσοι rispetto all’ἐκπέση di BPF. In struttura circolare con l’incipit della lettera, il commiato a Pitocle è nel segno di una memorizzazione salutare dei precetti che, se seguiti, libereranno dalle menzogne del mito: Ταῦτα δὴ πάντα, Πυθόκλεις, μνημόνευσον· κατὰ πολύ τε γὰρ τοῦ μύθου ἐκβήσῃ καὶ τὰ ὁμογενῆ τούτοις συνορᾶν δυνήσῃ, μάλιστα δὲ σεαυτὸν ἀπόδος εἰς τὴν τῶν ἀρχῶν καὶ ἀπειρίας καὶ τῶν συγγενῶν τούτοις θεωρίαν, ἔτι δὲ κριτηρίων καὶ παθῶν, καὶ οὗ ἕνεκεν ταῦτα ἐκλογιζόμεθα· ταῦτα γὰρ μάλιστα συνθεωρούμενα ῥᾳδίως τὰς περὶ τῶν κατὰ μέρος αἰτίας συνορᾶν ποιήσει. οἱ δὲ ταῦτα μὴ καταγαπήσαντες ᾗ μάλιστα οὔτ’ αὐτὰ ταῦτα καλῶς συνθεωρήσαιεν οὔτε οὗ ἕνεκεν δεῖ θεωρεῖν ταῦτα περιεποιήσαντο. Netto è il legame con l’incipit della lettera quasi a creare un andamento circolare nel messaggio di Epicuro (cfr., a questo riguardo, De Sanctis 2015: 64-70). Sul piano testuale è utile qui osservare la giusta integrazione di Usener ἄν che conferisce un valore potenziale all’ottativo che resterebbe altrimenti sospeso. Come mostra Widmann 1935: 131, in frasi principali l’ottativo senza ἄν in Epicuro ha un valore desiderativo, come accade nella SV 70, ma non è possibile ricondurre a questa sfumatura la frase nella conclusione della lettera. L’omissione di ἄν nella tradizione si spiega, forse, 122

Nota critica

se nella sequenza ΟΥΤΑΝΑΥΤΑ si ipotizza una confusione con successiva caduta di ΑΝ, dovuta alla somiglianza dei moduli ΑΝΑΥ nella parte cen­ trale della stessa sequenza. Inoltre è da notare nell’explicit della lettera la correzione significativa di ἤ di BPF in ᾗ, proposta da Kuehn. Si è scelto di pubblicare il testo dei due scholia presenti in Pyth. in corpo minore rispetto al testo di Epicuro.*

* La traduzione e il testo dell’Epistola a Pitocle che qui presento hanno beneficiato dei suggerimenti preziosi che mi sono stati offerti da Giuliana Leone, Tiziano Dorandi e Walter Lapini: giunga loro il mio ringraziamento più sincero.

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Tavola sinottica1

• §§ 84-85. Introduzione della lettera; ragioni della scrittura del compen­ dio sui meteora ed esortazione a tenerne bene a mente i contenuti trami­ te la loro attenta memorizzazione • § 85. Il fine etico della conoscenza dei meteora • §§ 85-88. Descrizione del metodo delle molteplici spiegazioni causali (pleonachos tropos) necessario per la corretta investigazione dei meteora • §§ 88-90. Il cosmo, l’infinità dei cosmi e la loro generazione • § 90. La generazione del sole, della luna e degli astri • § 91. La grandezza del sole e degli altri astri • §§ 92-93. Il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli altri astri e i loro movimenti • § 93. I moti tropici del sole e della luna; critica delle artificiose macchi­ nazioni degli astronomi (organa) • § 94. Le fasi lunari • §§ 94-96. La luce e il volto della luna • §§ 96-97. L’eclissi del sole e della luna • § 97. Critica nei riguardi dell’assumere la natura divina come responsa­ bile dell’accadere dei meteora • § 98. La lunghezza dei giorni e delle notti e il moto del sole • §§ 98-99. I pronostici meteorologici • § 99. La formazione delle nubi • §§ 99-100. La formazione delle piogge e dei venti • § 100. I tuoni • §§ 101-103. I lampi • §§ 103-104. I fulmini • §§ 104-105. I presteri, i turbini (sulla terra), le trombe marine • §§ 105-106. I terremoti • § 106. I venti • §§ 106-107. La grandine e la sua forma tondeggiante • §§ 107-108. La neve • § 108. La rugiada • § 109. La brina • § 109. Il ghiaccio

1 Cfr. anche Bollack-Laks 1978: 67, Podolak 2010: 41-43 e Bakker 2016: 269-271.

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§§ 109-110. L’arcobaleno e la sua forma circolare §§ 110-111. L’alone intorno alla luna § 111. Le stelle comete § 112. Astri ruotanti nello stesso luogo (stelle fisse) §§ 112-113. Gli astri erranti § 114. Il movimento ritardato/retrogrado degli astri §§ 114-115. Le cosiddette stelle cadenti §§ 115-116. I pronostici del tempo derivanti dall’osservazione degli ani­ mali • § 116. Chiusa della lettera; esortazione a Pitocle alla memorizzazione dei contenuti e allo studio delle altre parti del sistema filosofico (scien­ za della natura, canonica, etica); il fine etico (= ottenimento dell’atara­ xia) della conoscenza e dell’indagine scientifiche

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Testo e traduzione Dino De Sanctis

Ἐπίκουρος Πυθοκλεῖ χαίρειν. [84] Ἤνεγκέ μοι Κλέων ἐπιστολὴν παρὰ σοῦ, ἐν ᾗ φιλοφρονούμενός τε περὶ ἡμᾶς διετέλεις ἀξίως τῆς ἡμετέρας περὶ σεαυτὸν σπουδῆς καὶ οὐκ ἀπιθάνως ἐπειρῶ μνημονεύειν τῶν εἰς μακάριον βίον συντεινόντων διαλογισμῶν, ἐδέου τε σεαυτῷ περὶ τῶν μετεώρων σύντομον καὶ εὐπερίγραφον διαλογισμὸν ἀποστεῖλαι ἵνα ῥᾳδίως μνημονεύῃς· τὰ γὰρ ἐν ἄλλοις ἡμῖν γεγραμμένα δυσμνημόνευτα εἶναι καίτοι, ὡς ἔφης, συνεχῶς αὐτὰ βαστάζεις. ἡμεῖς δὲ ἡδέως τε σοῦ τὴν δέησιν ἀπεδεξάμεθα καὶ ἐλπίσιν ἡδείαις συνεσχέθημεν. [85] γράψαντες οὖν τὰ λοιπὰ πάντα συντελοῦμεν ἅπερ ἠξίωσας πολλοῖς καὶ ἄλλοις ἐσόμενα χρήσιμα τὰ διαλογίσματα ταῦτα, καὶ μάλιστα τοῖς νεωστὶ φυσιολογίας γνησίου γευομένοις καὶ τοῖς εἰς ἀσχολίας βαθυτέρας τῶν ἐγκυκλίων τινὸς ἐμπεπλεγμένοις. Καλῶς δὴ αὐτὰ διάλαβε, καὶ διὰ μνήμης ἔχων ὀξέως αὐτὰ περιόδευε μετὰ τῶν λοιπῶν ὧν ἐν τῇ μικρᾷ ἐπιτομῇ πρὸς Ἡρόδοτον ἀπεστείλαμεν. Πρῶτον μὲν οὖν μὴ ἄλλο τι τέλος ἐκ τῆς περὶ μετεώρων γνώσεως εἴτε κατὰ συναφὴν λεγομένων εἴτε αὐτοτελῶς νομίζειν εἶναι ἤπερ ἀταραξίαν καὶ πίστιν βέβαιον, καθάπερ καὶ ἐπὶ τῶν λοιπῶν. [86] μήτε τὸ ἀδύνατον [καὶ] παραβιάζεσθαι, μήτε ὁμοίαν κατὰ πάντα τὴν θεωρίαν ἔχειν ἢ τοῖς περὶ βίων λόγοις ἢ τοῖς κατὰ τὴν τῶν ἄλλων φυσικῶν προβλημάτων κάθαρσιν, οἷον ὅτι τὸ πᾶν σῶμα καὶ ἀναφὴς φύσις ἐστίν, ἢ ὅτι ἄτομα στοιχεῖα, καὶ πάντα τὰ τοιαῦτα [ἢ] ὅσα μοναχὴν ἔχει τοῖς φαινομένοις συμφωνίαν· ὅπερ ἐπὶ τῶν μετεώρων οὐχ ὑπάρχει, ἀλλὰ ταῦτά γε πλεοναχὴν ἔχει καὶ τῆς γενέσεως αἰτίαν καὶ τῆς οὐσίας ταῖς αἰσθήσεσι σύμφωνον κατηγορίαν. οὐ γὰρ κατὰ ἀξιώματα κενὰ καὶ νομοθεσίας φυσιολογητέον, ἀλλ’ ὡς τὰ φαινόμενα ἐκκαλεῖται· [87] οὐ γὰρ ἤδη ἀλογίας καὶ κενῆς δόξης ὁ βίος ἡμῶν ἔχει χρείαν, ἀλλὰ τοῦ ἀθορύβως ἡμᾶς ζῆν. πάντα μὲν οὖν γίνεται ἀσείστως κατὰ πάντων κατὰ πλεοναχὸν τρόπον ἐκκαθαιρομένων, συμφώνως τοῖς φαινομένοις, ὅταν τις τὸ πιθανολογούμενον ὑπὲρ αὐτῶν δεόντως καταλίπῃ· ὅταν δέ τις τὸ μὲν ἀπολίπῃ, τὸ δὲ ἐκβάλῃ ὁμοίως σύμφωνον ὂν τῷ φαινομένῳ, δῆλον ὅτι καὶ ἐκ παντὸς ἐκπίπτει φυσιολογήματος, ἐπὶ δὲ τὸν μῦθον καταρρεῖ. σημεῖα δ’ ἐπὶ τῶν ἐν τοῖς μετεώροις συντελουμένων φέρειν τῶν παρ’ ἡμῖν τινα φαινομένων, ἃ θεωρεῖται ᾗ ὑπάρχει, καὶ οὐ τὰ ἐν τοῖς μετεώροις φαινόμενα·

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Testo e traduzione

ταῦτα γὰρ ἐνδέχεται πλεοναχῶς γίνεσθαι. [88] τὸ μέντοι φάντασμα ἑκάστου τηρητέον καὶ ἐπὶ τὰ συναπτόμενα τούτῳ διαιρετέον, ἃ οὐκ ἀντιμαρτυρεῖται τοῖς παρ’ ἡμῖν γινομένοις πλεοναχῶς συντελεῖσθαι. κόσμος ἐστὶ περιοχή τις οὐρανοῦ, ἄστρα τε καὶ γῆν καὶ πάντα τὰ φαινόμενα περιέχουσα, ἀποτομὴν ἔχουσα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου καὶ καταλήγουσα ἐν πέρατι ἢ ἀραιῷ ἢ πυκνῷ – καὶ οὗ λυομένου, πάντα τὰ ἐν αὐτῷ σύγχυσιν λήψεται – [καὶ λήγουσαν] ἢ [ἐν] περιαγομένῳ ἢ [ἐν] στάσιν ἔχοντι, καὶ στρογγύλην ἢ τρίγωνον ἢ οἵαν δήποτε περιγραφὴν · πανταχῶς γὰρ ἐνδέχεται· τῶν γὰρ φαινομένων οὐδὲν ἀντιμαρτυρεῖ τῷδε τῷ κόσμῳ, ἐν ᾧ λῆγον οὐκ ἔστι καταλαβεῖν. [89] ὅτι δὲ καὶ τοιοῦτοι κόσμοι εἰσὶν ἄπειροι τὸ πλῆθος ἔστι καταλαβεῖν, καὶ ὅτι καὶ ὁ τοιοῦτος δύναται κόσμος γίνεσθαι καὶ ἐν κόσμῳ καὶ μετακοσμίῳ, ὃ λέγομεν μεταξὺ κόσμων διάστημα, ἐν πολυκένῳ τόπῳ καὶ οὐκ ἐν μεγάλῳ εἰλικρινεῖ καὶ κενῷ, καθάπερ τινές φασιν, ἐπιτηδείων τινῶν σπερμάτων ῥυέντων ἀφ’ ἑνὸς κόσμου ἢ μετακοσμίου ἢ καὶ ἀπὸ πλειόνων, κατὰ μικρὸν προσθέσεις τε καὶ διαρθρώσεις καὶ μεταστάσεις ποιούντων ἐπ’ ἄλλον τόπον, ἐὰν οὕτω τύχῃ, καὶ ἐπαρδεύσεις ἐκ τῶν ἐχόντων ἐπιτηδείως ἕως τελειώσεως καὶ διαμονῆς ἐφ’ ὅσον τὰ ὑποβληθέντα θεμέλια τὴν προσδοχὴν δύναται ποιεῖσθαι. [90] οὐ γὰρ ἀθροισμὸν δεῖ μόνον γενέσθαι οὐδὲ δῖνον ἐν ᾧ ἐνδέχεται κόσμον γίνεσθαι κενῷ κατὰ τὸ δοξαζόμενον ἐξ ἀνάγκης, αὔξεσθαί τε ἕως ἂν ἑτέρῳ προσκρούσῃ, καθάπερ τῶν φυσικῶν καλουμένων φησί τις· τοῦτο γὰρ μαχόμενόν ἐστι τοῖς φαινομένοις. ἥλιός τε καὶ σελήνη καὶ τὰ λοιπὰ ἄστρα καθ’ ἑαυτὰ γενόμενα ὕστερον ἐμπεριελαμβάνετο ὑπὸ τοῦ κόσμου – καὶ ὅσα γε δὴ σῴζει –, ἀλλ’ εὐθὺς διεπλάττετο καὶ αὔξησιν ἐλάμβανεν, ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα, κατὰ προσκρίσεις καὶ δινήσεις λεπτομερῶν τινων φύσεων, ἤτοι πνευματικῶν ἢ πυροειδῶν ἢ τὸ συναμφότερον· καὶ γὰρ ταῦτα οὕτως ἡ αἴσθησις ὑποβάλλει. [91] τὸ δὲ μέγεθος ἡλίου τε καὶ τῶν λοιπῶν ἄστρων κατὰ μὲν τὸ πρὸς ἡμᾶς τηλικοῦτόν ἐστιν ἡλίκον φαίνεται· τοῦτο καὶ ἐν τῇ ιαʹ Περὶ φύσεως· εἰ γάρ, φησί (fr. 81 Usener), τὸ μέγεθος διὰ τὸ διάστημα ἀπεβεβλήκει, πολλῷ

κατὰ δὲ τὸ καθ’ αὑτὸ ἤτοι μεῖζον τοῦ ὁρωμένου ἢ μικρῷ ἔλαττον ἢ τηλικοῦτον· οὐχ ἅμα. οὕτω γὰρ καὶ τὰ παρ’ ἡμῖν πυρὰ ἐξ ἀποστήματος θεωρούμενα κατὰ τὴν αἴσθησιν θεωρεῖται. καὶ πᾶν δὲ τὸ εἰς τοῦτο τὸ μέρος ἔνστημα ῥᾳδίως διαλυθήσεται, ἐάν τις τοῖς ἐναργήμασι προσέχῃ, ὅπερ ἐν τοῖς Περὶ φύσεως βιβλίοις δείκνυμεν. [92] ἀνατολὰς καὶ δύσεις ἡλίου καὶ σελήνης καὶ τῶν λοιπῶν ἄστρων καὶ κατὰ ἄναψιν γίνεσθαι δύνασθαι καὶ κατὰ σβέσιν, τοιαύτης οὔσης περιστάσεως καὶ καθ’ ἑκατέρους τοὺς τόπους, ὥστε τὰ προειρημένα ἀποτελεῖσθαι· οὐδὲν γὰρ τῶν φαινομένων ἀντιμαρτυρεῖ· κατ’ ἐκφάνειάν τε ὑπὲρ γῆς καὶ πάλιν ἐπιπροσθέτησιν τὸ προειρημένον δύναιτ’ ἂν συντελεῖσθαι· οὐδὲ γάρ τι τῶν φαινομένων ἀντιμαρτυρεῖ. τάς τε κινήσεις αὐτῶν οὐκ ἀδύνατον μὲν γίνεσθαι κατὰ τὴν τοῦ ὅλου οὐρανοῦ δίνην, μᾶλλον ἂν τὴν χρόαν. ἄλλο γὰρ τούτῳ συμμετρότερον διάστημα οὐθέν ἐστι.

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Testo e traduzione

ἢ τούτου μὲν στάσιν, αὐτῶν δὲ δίνην κατὰ τὴν ἐξ ἀρχῆς ἐν τῇ γενέσει τοῦ κόσμου ἀνάγκην ἀπογεννηθεῖσαν ἐπ’ ἀνατολῇ, [93] εἶτα θερμασίᾳ κατά τινα ἐπινέμησιν τοῦ πυρὸς ἀεὶ ἐπὶ τοὺς ἑξῆς τόπους ἰόντος. τροπὰς ἡλίου καὶ σελήνης ἐνδέχεται μὲν γίνεσθαι κατὰ λόξωσιν οὐρανοῦ οὕτω τοῖς χρόνοις κατηναγκασμένου· ὁμοίως δὲ καὶ κατὰ ἀέρος ἀντέξωσιν, ἢ καὶ ὕλης ἀεὶ ἐπιτηδείας ἐπομένοις ἐμπιπραμένης, τῆς δὲ καταλιπούσης· ἢ καὶ ἐξ ἀρχῆς τοιαύτην δίνην κατειληθῆναι τοῖς ἄστροις τούτοις, ὥσθ’ οἷόν τιν’ ἕλικα κινεῖσθαι. πάντα γὰρ τὰ τοιαῦτα καὶ τὰ τούτοις συγγενῆ οὐθενὶ τῶν ἐναργημάτων διαφωνεῖ, ἐάν τις ἀεὶ ἐπὶ τῶν τοιούτων μερῶν, ἐχόμενος τοῦ δυνατοῦ, εἰς τὸ σύμφωνον τοῖς φαινομένοις ἕκαστον τούτων δύνηται ἐπάγειν, μὴ φοβούμενος τὰς ἀνδραποδώδεις ἀστρολόγων τεχνιτείας. [94] κενώσεις τε σελήνης καὶ πάλιν πληρώσεις καὶ κατὰ στροφὴν τοῦ σώματος τούτου δύναιντ’ ἂν γίνεσθαι καὶ κατὰ σχηματισμοὺς ἀέρος ὁμοίως, ἔτι τε καὶ κατὰ προσθετήσεις καὶ κατὰ πάντας τρόπους, καθ’ οὓς καὶ τὰ παρ’ ἡμῖν φαινόμενα ἐκκαλεῖται εἰς τὰς τούτου τοῦ εἴδους ἀποδόσεις, ἐὰν μή τις τὸν μοναχῇ τρόπον κατηγαπηκὼς τοὺς ἄλλους κενῶς ἀποδοκιμάζῃ, οὐ τεθεωρηκὼς τί δυνατὸν ἀνθρώπῳ θεωρῆσαι καὶ τί ἀδύνατον, καὶ διὰ τοῦτο ἀδύνατα θεωρεῖν ἐπιθυμῶν. ἔτι τε ἐνδέχεται τὴν σελήνην ἐξ ἑαυτῆς ἔχειν τὸ φῶς, ἐνδέχεται δὲ ἀπὸ τοῦ ἡλίου. [95] καὶ γὰρ παρ’ ἡμῖν θεωρεῖται πολλὰ μὲν ἐξ ἑαυτῶν ἔχοντα, πολλὰ δὲ ἀφ’ ἑτέρων. καὶ οὐθὲν ἐμποδοστατεῖ τῶν ἐν τοῖς μετεώροις φαινομένων, ἐάν τις τοῦ πλεοναχοῦ τρόπου ἀεὶ μνήμην ἔχῃ καὶ τὰς ἀκολούθους αὐτοῖς ὑποθέσεις ἅμα καὶ αἰτίας συνθεωρῇ καὶ μὴ ἀναβλέπων εἰς τὰ ἀνακόλουθα ταῦτ’ ὀγκοῖ ματαίως καὶ καταρρέπῃ ἄλλοτε ἄλλως ἐπὶ τὸν μοναχὸν τρόπον. ἡ δὲ ἔμφασις τοῦ προσώπου ἐν αὐτῇ δύναται μὲν γίνεσθαι καὶ κατὰ παραλλαγὴν μερῶν καὶ κατ’ ἐπιπροσθέτησιν, καὶ ὅσοι ποτ’ ἂν τρόποι θεωροῖντο τὸ σύμφωνον τοῖς φαινομένοις κεκτημένοι. [96] ἐπὶ πάντων γὰρ τῶν μετεώρων τὴν τοιαύτην ἵχνευσιν οὐ προετέον. ἢν γάρ τις ᾖ μαχόμενος τοῖς ἐναργήμασιν, οὐδέποτε μὴ δυνήσεται ἀταραξίας γνησίου μεταλαβεῖν. Ἔκλειψις ἡλίου καὶ σελήνης δύναται μὲν γίνεσθαι καὶ κατὰ σβέσιν, καθάπερ καὶ παρ’ ἡμῖν τοῦτο θεωρεῖται γινόμενον, καὶ ἤδη κατ’ ἐπιπροσθέτησιν ἄλλων τινῶν, ἢ γῆς ἢ οὐρανίου τινος ἑτέρου τοιούτου. καὶ ὧδε τοὺς οἰκείους ἀλλήλοις τρόπους συνθεωρητέον, καὶ τὰς ἅμα συγκυρήσεις τινῶν ὅτι οὐκ ἀδύνατον γίνεσθαι. ἐν δὲ τῇ ιβʹ Περὶ φύσεως ταὐτὰ λέγει (fr. 83 Usener) καὶ πρός, ἥλιον ἐκλείπειν σελήνης ἐπισκοτούσης, σελήνην δὲ τοῦ τῆς γῆς σκιάσματος, ἀλλὰ καὶ κατ’ ἀναχώρησιν. [97] τοῦτο δὲ καὶ Διογένης ὁ Ἐπικούρειος ἐν τῇ αʹ τῶν Ἐπιλέκτων.

Ἔτι τε τάξις περιόδου, καθάπερ ἔνια καὶ παρ’ ἡμῖν τῶν τυχόντων γίνεται, λαμβανέσθω· καὶ ἡ θεία φύσις πρὸς ταῦτα μηδαμῇ προσαγέσθω, ἀλλ’ ἀλειτούργητος διατηρείσθω καὶ ἐν τῇ πάσῃ μακαριότητι· ὡς εἰ τοῦτο μὴ πραχθήσεται, ἅπασα ἡ περὶ τῶν μετεώρων αἰτιολογία ματαία ἔσται, καθάπερ τισὶν ἤδη ἐγένετο οὐ δυνατοῦ τρόπου ἐφαψαμένοις, εἰς δὲ τὸ μάταιον ἐκπεσοῦσι 129

Testo e traduzione

τῷ καθ’ ἕνα τρόπον μόνον οἴεσθαι γίνεσθαι, τοὺς δ’ ἄλλους πάντας τοὺς κατὰ τὸ ἐνδεχόμενον ἐκβάλλειν εἴς τε τὸ ἀδιανόητον φερομένους καὶ τὰ φαινόμενα ἃ δεῖ σημεῖα ἀποδέχεσθαι μὴ δυναμένους συνθεωρεῖν. [98] Μήκη νυκτῶν καὶ ἡμερῶν παραλλάττοντα καὶ παρὰ τὸ ταχείας ἡλίου κινήσεις γίνεσθαι καὶ πάλιν βραδείας ὑπὲρ γῆς, παρὰ τὸ μήκη τόπων παραλλάττοντα καὶ τόπους τινὰς περαιοῦν τάχιον ἢ βραδύτερον, ὡς καὶ παρ’ ἡμῖν τινα θεωρεῖται, οἷς συμφώνως δεῖ λέγειν ἐπὶ τῶν μετεώρων. οἱ δὲ τὸ ἓν λαμβάνοντες τοῖς τε φαινομένοις μάχονται καὶ τοῦ ᾗ δυνατὸν ἀνθρώπῳ θεωρῆσαι διαπεπτώκασιν. Ἐπισημασίαι δύνανται γίνεσθαι καὶ κατὰ συγκυρήσεις καιρῶν, καθάπερ ἐν τοῖς ἐμφανέσι παρ’ ἡμῖν ζῴοις, καὶ παρ’ ἑτεροιώσεις ἀέρος καὶ μεταβολάς. ἀμφότερα γὰρ ταῦτα οὐ μάχεται τοῖς φαινομένοις· [99] ἐπὶ δὲ ποίοις παρὰ τοῦτο ἢ τοῦτο τὸ αἴτιον γίνεται οὐκ ἔστι συνιδεῖν. Νέφη δύναται γίνεσθαι καὶ συνίστασθαι καὶ παρὰ πιλήσεις ἀέρος πνευμάτων συνώσει καὶ παρὰ περιπλοκὰς ἀλληλούχων ἀτόμων καὶ ἐπιτηδείων εἰς τὸ τοῦτο τελέσαι, καὶ κατὰ ῥευμάτων συλλογὴν ἀπό τε γῆς καὶ ὑδάτων· καὶ κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους πλείους αἱ τῶν τοιούτων συστάσεις οὐκ ἀδυνατοῦσι συντελεῖσθαι. Ἤδη δ’ ἀπ’ αὐτῶν ᾗ μὲν θλιβομένων ᾗ δὲ μεταβαλλόντων ὕδατα δύναται συντελεῖσθαι· [100] ἔτι τε πνεύματα κατὰ ἀποφορὰν ἀπὸ ἐπιτηδείων τόπων, καὶ δι’ ἀέρος κινουμένου, βιαιοτέρας ἐπαρδεύσεως γινομένης ἀπό τινων ἀθροισμάτων ἐπιτηδείων εἰς τὰς τοιαύτας ἐπιπέμψεις. Βροντὰς ἐνδέχεται γίνεσθαι καὶ κατὰ πνεύματος ἐν τοῖς κοιλώμασι τῶν νεφῶν ἀνείλησιν, καθάπερ ἐν τοῖς ἡμετέροις ἀγγείοις καὶ παρὰ πυρὸς πεπνευματωμένου βόμβον ἐν αὐτοῖς, καὶ κατὰ ῥήξεις δὲ νεφῶν καὶ διαστάσεις, καὶ κατὰ παρατρίψεις νεφῶν καὶ κατάξεις, πῆξιν εἰληφότων κρυσταλλοειδῆ· καὶ τὸ ὅλον καὶ τοῦτο τὸ μέρος πλεοναχῶς γίνεσθαι λέγειν ἐκκαλεῖται τὰ φαινόμενα. [101] Καὶ ἀστραπαὶ δ’ ὡσαύτως γίνονται κατὰ πλείους τρόπους· καὶ γὰρ κατὰ παράτριψιν καὶ σύγκρουσιν νεφῶν ὁ πυρὸς ἀποτελεστικὸς σχηματισμὸς ἐξολισθαίνων ἀστραπὴν γεννᾷ. καὶ κατ’ ἐκριπισμὸν ἐκ τῶν νεφῶν ὑπὸ πνευμάτων τῶν τοιούτων σωμάτων ἃ τὴν λαμπηδόνα ταύτην παρασκευάζει· καὶ κατ’ ἐκπιασμόν, θλίψεως τῶν νεφῶν γινομένης εἴθ’ ὑπ’ ἀλλήλων εἴθ’ ὑπὸ πνευμάτων· καὶ κατ’ ἐμπερίληψιν δὲ τοῦ ἀπὸ τῶν ἄστρων κατεσπαρμένου φωτός, εἶτα συνελαυνομένου ὑπὸ τῆς κινήσεως νεφῶν τε καὶ πνευμάτων καὶ διεκπίπτοντος διὰ τῶν νεφῶν, ἢ κατὰ διήθησιν τῶν νεφῶν τοῦ λεπτομερεστάτου φωτός ἢ ἀπὸ τοῦ πυρὸς νέφη συνειλέχθαι καὶ τὰς βροντὰς ἀποτελεῖσθαι καὶ κατὰ τὴν τούτου κίνησιν. καὶ κατὰ τὴν τοῦ πνεύματος ἐκπύρωσιν τὴν γινομένην διά τε συντονίαν φορᾶς καὶ διὰ σφοδρὰν κατείλησιν· [102] καὶ κατὰ ῥήξεις δὲ νεφῶν ὑπὸ πνευμάτων ἔκπτωσίν τε πυρὸς ἀποτελεστικῶν ἀτόμων καὶ τὸ τῆς ἀστραπῆς φάντασμα ἀποτελουσῶν· καὶ 130

Testo e traduzione

κατ’ ἄλλους δὲ πλείους τρόπους ῥᾳδίως ἔσται καθορᾶν ἐχόμενον ἀεὶ τῶν φαινομένων καὶ τὸ τούτοις ὅμοιον δυνάμενον συνθεωρεῖν. Προτερεῖ δὲ ἀστραπὴ βροντῆς ἐν τοιᾷδέ τινι περιστάσει νεφῶν καὶ διὰ τὸ ἅμα τῷ τὸ πνεῦμα ἐμπίπτειν ἐξωθεῖσθαι τὸν ἀστραπῆς ἀποτελεστικὸν σχηματισμόν, ὕστερον δὲ τὸ πνεῦμα ἀνειλούμενον τὸν βόμβον ἀποτελεῖν τοῦτον· καὶ κατ’ ἔμπτωσιν δὲ ἀμφοτέρων ἅμα τῷ τάχει συντονωτέρῳ κεχρῆσθαι πρὸς ἡμᾶς τὴν ἀστραπήν, [103] ὑστερεῖν δὲ τὴν βροντήν, καθάπερ ἐπ’ ἐνίων ἐξ ἀποστήματος θεωρουμένων καὶ πληγάς τινας ποιουμένων. Κεραυνὸς ἐνδέχεται γίνεσθαι καὶ κατὰ πλείονας πνευμάτων συλλογὰς καὶ κατείλησιν ἰσχυράν τε ἐκπύρωσιν καὶ κατάρρηξιν μέρους καὶ ἔκπτωσιν ἰσχυροτέραν αὐτοῦ ἐπὶ τοὺς κάτω τόπους, τῆς ῥήξεως γινομένης διὰ τὸ τοὺς ἑξῆς τόπους πυκνοτέρους εἶναι διὰ πίλησιν νεφῶν· καὶ κατ’ αὐτὴν δὲ τὴν τοῦ πυρὸς ἔκπτωσιν ἀνειλουμένου, καθὰ καὶ βροντὴν ἐνδέχεται γίνεσθαι, πλείονος γενομένου καὶ πνευματωθέντος ἰσχυρότερον καὶ ῥήξαντος τὸ νέφος διὰ τὸ μὴ δύνασθαι ὑποχωρεῖν εἰς τὰ ἑξῆς, τῷ πίλησιν γίνεσθαι, τὸ μὲν πολὺ πρὸς ὅρος τι ὑψηλόν, ἐν ᾧ μάλιστα κεραυνοὶ πίπτουσιν, ἀεὶ πρὸς ἄλληλα. [104] καὶ κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους πλείονας ἐνδέχεται κεραυνὸς ἀποτελεῖσθαι· μόνον ὁ μῦθος ἀπέστω· ἀπέσται δέ, ἐάν τις καλῶς τοῖς φαινομένοις ἀκολουθῶν περὶ τῶν ἀφανῶν σημειῶται. Πρηστῆρας ἐνδέχεται γινεσθαι καὶ κατὰ κάθεσιν νέφους εἰς τοὺς κάτω τόπους στυλοειδῶς ὑπὸ πνεύματος ἀθρόου ὠσθέντος, καὶ διὰ τοῦ πνεύματος πολλοῦ φερομένου, ἅμα καὶ τὸ νέφος εἰς τὸ πλάγιον ὠθοῦντος τοῦ ἐκτὸς πνεύματος· καὶ κατὰ περίστασιν δὲ πνεύματος εἰς κύκλον, ἀέρος τινὸς ἐπισυνωθουμένου ἄνωθεν καὶ ῥύσεως πολλῆς πνευμάτων γινομένης καὶ οὐ δυναμένης εἰς τὰ πλάγια διαρρυῆναι διὰ τὴν πέριξ τοῦ ἀέρος πίλησιν. [105] καὶ ἕως μὲν γῆς τοῦ πρηστῆρος καθιεμένου στρόβιλοι γίνονται, ὡς ἂν καὶ ἡ ἀπογέννησις κατὰ τὴν κίνησιν τοῦ πνεύματος γίνηται, ἕως δὲ θαλάττης δῖνοι ἀποτελοῦνται. Σεισμοὺς ἐνδέχεται γίνεσθαι καὶ κατὰ πνεύματος ἐν τῇ γῇ ἀπόληψιν καὶ παρὰ μικροὺς ὄγκους αὐτῆς παράθεσιν καὶ συνεχῆ κίνησιν, ὃ τὴν κράδανσιν τῇ γῇ παρασκευάζει. καὶ τὸ πνεῦμα τοῦτο ἢ ἔξωθεν ἐμπεριλαμβάνει ἐκ τοῦ πίπτειν [εἰς] ἐδάφη εἰς ἀντροειδεῖς τόπους τῆς γῆς ἐκπνευματοῦντα τὸν πεπιλημένον ἀέρα· κατ’ αὐτὴν δὲ τὴν διάδοσιν τῆς κινήσεως ἐκ τῶν πτώσεων ἐδαφῶν πολλῶν καὶ πάλιν ἀνταπόδοσιν, ὅταν πυκνώμασι σφοδροτέροις τῆς γῆς ἀπαντήσῃ, ἐνδέχεται σεισμοὺς ἀποτελεῖσθαι. [106] καὶ κατ’ ἄλλους δὲ πλείους τρόπους τὰς κινήσεις ταύτας τῆς γῆς γίνεσθαι. Τὰ δὲ πνεύματα συμβαίνει γίνεσθαι κατὰ χρόνον ἀλλοφυλίας τινὸς ἀεὶ καὶ κατὰ μικρὸν παρεισδυομένης, καὶ καθ’ ὕδατος ἀφθόνου συλλογήν. τὰ δὲ λοιπὰ πνεύματα γίνεται καὶ ὀλίγων πεσόντων εἰς τὰ πολλὰ κοιλώματα, διαδόσεως τούτων γινομένης.

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Testo e traduzione

Χάλαζα συντελεῖται καὶ κατὰ πῆξιν ἰσχυροτέραν, πάντοθεν δὲ πνευματωδῶν περίστασίν τινων, καὶ καταμέρισιν· καὶ πῆξιν μετριωτέραν ὑδατοειδῶν τινων, ὁμοῦ ῥῆξιν ἅμα τήν τε σύνωσιν αὐτῶν ποιουμένην καὶ τὴν διάρρηξιν πρὸς τὸ κατὰ μέρη συνίστασθαι πηγνύμενα καὶ κατὰ ἀθρότητα· [107] ἡ δὲ περιφέρεια οὐκ ἀδυνάτως μὲν ἔχει γίνεσθαι πάντοθεν τῶν ἄκρων ἀποτηκομένων καὶ ἐν τῇ συστάσει πάντοθεν, ὡς λέγεται, κατὰ μέρη ὁμαλῶς περιισταμένων εἴτε ὑδατοειδῶν τινων, εἴτε πνευματωδῶν. Χιόνα δὲ ἐνδέχεται συντελεῖσθαι καὶ ὕδατος λεπτοῦ ἐκχεομένου ἐκ τῶν νεφῶν, διὰ πόρων συμμετρίας καὶ θλίψεως ἐπιτηδείων νεφῶν ἀεὶ ὑπὸ πνεύματος σφοδρᾶς, εἶτα τούτου πῆξιν ἐν τῇ φορᾷ λαμβάνοντος διά τινα ἰσχυρὰν ἐν τοῖς κατώτερον τόποις τῶν νεφῶν ψυχρασίας περίστασιν· καὶ κατὰ πῆξιν δ’ ἐν τοῖς νέφεσιν ὁμαλῆ ἀραιότητα ἔχουσιν τοιαύτη πρόεσις ἐκ τῶν νεφῶν γίνοιτο ἄν, πρὸς ἄλληλα θλιβομένων ὑδατοειδῶν τινων συμπαρακειμένων, ἃ οἱονεὶ σύνωσιν ποιούμενα χάλαζαν ἀποτελεῖ, ὃ μάλιστα γίνεται ἐν τῷ ἔαρι· [108] καὶ κατὰ τρῖψιν δὲ νεφῶν πῆξιν εἰληφότων ἀπόπαλσιν ἂν λαμβάνοι τὸ τῆς χιόνος τοῦτο ἄθροισμα. καὶ κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους ἐνδέχεται χιόνα συντελεῖσθαι. Δρόσος συντελεῖται καὶ κατὰ σύνοδον πρὸς ἄλληλα ἐκ τοῦ ἀέρος τῶν τοιούτων, ἃ τῆς τοιαύτης ὑγρασίας ἀποτελεστικὰ γίνεται· καὶ κατὰ φορὰν δὲ ἢ ἀπὸ νοτερῶν τόπων ἢ ὕδατα κεκτημένων, ἐν οἷς τόποις μάλιστα δρόσος συντελεῖται, εἶτα σύνοδον τούτων εἰς τὸ αὐτὸ λαβόντων καὶ ἀποτέλεσιν ὑγρασίας καὶ πάλιν φορὰν ἐπὶ τοὺς κάτω τόπους, καθάπερ ὁμοίως καὶ παρ’ ἡμῖν ἐπὶ πλειόνων τοιαῦτά τινα συντελεῖται. [109] τῶν δρόσων τούτων πῆξίν τινα ποιὰν λαβόντων διὰ περίστασίν τινα ἀέρος ψυχροῦ. Κρύσταλλος συντελεῖται καὶ κατ’ ἔκθλιψιν μὲν τοῦ περιφεροῦς σχηματισμοῦ ἐκ τοῦ ὕδατος, σύνωσιν δὲ τῶν σκαληνῶν καὶ ὀξυγωνίων τῶν ἐν τῇ ὕδατι ὑπαρχόντων, καὶ κατὰ ἔξωθεν δὲ τῶν τοιούτων πρόσκρισιν, ἃ συνελασθέντα πῆξιν τῷ ὕδατι παρεσκεύασε, ποσὰ τῶν περιφερῶν ἐκθλίψαντα. Ἶρις γίνεται κατὰ πρόσλαμψιν [ὑπὸ] τοῦ ἡλίου πρὸς ἀέρα ὑδατοειδῆ, ἢ κατὰ πρόσφυσιν ἰδίαν τοῦ τε φωτὸς καὶ τοῦ ἀέρος, ἣ τὰ τῶν χρωμάτων τούτων ἰδιώματα ποιήσει εἴτε πάντα εἴτε μονοειδῶς, ἀφ’ οὗ πάλιν ἀπολάμποντος τὰ ὁμοροῦντα τοῦ ἀέρος χρῶσιν ταύτην λήψεται, οἵαν θεωροῦμεν, κατὰ πρόσλαμψιν πρὸς τὰ μέρη. [110] Τὸ δὲ τῆς περιφερείας τούτου φάντασμα γίνεται διὰ τὸ τὸ διάστημα πάντοθεν ἴσον ὑπὸ τῆς ὄψεως θεωρεῖσθαι, ἢ σύνωσιν τοιαύτην λαμβανουσῶν τῶν ἐν τῷ ἀέρι τόμων ἢ ἐν τοῖς νέφεσιν ἀπὸ τοῦ αὐτοῦ ἀέρος [προσφερομένου πρὸς τὴν σελήνην], ἀποφερομένων ἀτόμων περιφέρειάν τινα καθίεσθαι τὴν σύγκρισιν ταύτην.

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Testo e traduzione

Ἄλως περὶ τὴν σελήνην γίνεται [καὶ κατὰ] πάντοθεν ἀέρος προσφερομένου πρὸς τὴν σελήνην ἢ τὰ ἀπ’ αὐτῆς ῥεύματα ἀποφερόμενα ὁμαλῶς ἀναστέλλοντος ἐπὶ τοσοῦτον ἐφ’ ὅσον κύκλῳ περιστῆσαι τὸ νεφοειδὲς τοῦτο καὶ μὴ τὸ παράπαν διακρῖναι, ἢ καὶ τὸν πέριξ αὐτῆς ἀέρα ἀναστέλλοντος συμμέτρως πάντοθεν εἰς τὸ περιφερὲς τὸ περὶ αὐτὴν καὶ παχυμερὲς περιστῆσαι. [111] ὃ γίνεται κατὰ μέρη τινὰ ἤτοι ἔξωθεν βιασαμένου τινὸς ῥεύματος ἢ τῆς θερμασίας ἐπιτηδείων πόρων ἐπιλαμβανομένης εἰς τὸ τοῦτο ἀπεργάσασθαι. Κομῆται ἀστέρες γίνονται ἤτοι πυρὸς ἐν τόποις τισὶ διὰ χρόνων τινῶν ἐν τοῖς μετεώροις συντρεφομένου περιστάσεως γινομένης, ἢ ἰδίαν τινὰ κίνησιν διὰ χρόνων τοῦ οὐρανοῦ ἴσχοντος ὑπὲρ ἡμᾶς, ὥστε τὰ τοιαῦτα ἄστρα ἀναφανῆναι, ἢ αὐτὰ ἐν χρόνοις τισὶν ὁρμῆσαι διά τινα περίστασιν καὶ εἰς τοὺς καθ’ ἡμᾶς τόπους ἐλθεῖν καὶ ἐκφανῆ γενέσθαι. τήν τε ἀφάνισιν τούτων γίνεσθαι παρὰ τὰς ἀντικειμένας ταύταις αἰτίας. Τινὰ ἄστρα στρέφεται αὐτοῦ, [112] ὃ συμβαίνει οὐ μόνον τῷ τὸ μέρος τοῦτο τοῦ κόσμου ἑστάναι, περὶ ὃ τὸ λοιπὸν στρέφεται, καθάπερ τινές φασιν, ἀλλὰ καὶ τῷ δίνην ἀέρος ἔγκυκλον αὐτοῖς περιεστάναι, ἣ κωλυτικὴ γίνεται τοῦ περιπολεῖν ὡς καὶ τὰ ἄλλα. ἢ καὶ διὰ τὸ ἑξῆς μὲν αὐτοῖς ὕλην ἐπιτηδείαν μὴ εἶναι, ἐν δὲ τούτῳ τῷ τόπῳ ἐν ᾧ κείμενα θεωρεῖται· καὶ κατ’ ἄλλους δὲ πλείονας τρόπους τοῦτο δυνατὸν συντελεῖσθαι, ἐάν τις δύνηται τὸ σύμφωνον τοῖς φαινομένοις συλλογίζεσθαι. Τινὰ τῶν ἄστρων πλανᾶσθαι, εἰ οὕτω ταῖς κινήσεσι χρώμενα συμβαίνει, τινὰ δὲ μὴ κινεῖσθαι, [113] ἐνδέχεται μὲν καὶ παρὰ τὸ κύκλῳ κινούμενα ἐξ ἀρχῆς οὕτω κατηναγκάσθαι, ὥστε τὰ μὲν κατὰ τὴν αὐτὴν δῖναν φέρεσθαι ὁμαλὴν οὖσαν, τὰ δὲ κατὰ τὴν ἅμα τισὶν ἀνωμαλίαις χρωμένην· ἐνδέχεται δὲ καὶ καθ’ οὓς τόπους φέρεται οὗ μὲν παρεκτάσεις ἀέρος εἶναι ὁμαλεῖς ἐπὶ τὸ αὐτὸ συνωθούσας κατὰ τὸ ἑξῆς ὁμαλῶς τε ἐκκαούσας, οὗ δὲ ἀνωμαλεῖς οὕτως, ὥστε τὰς θεωρουμένας παραλλαγὰς συντελεῖσθαι. τὸ δὲ μίαν αἰτίαν τούτων ἀποδιδόναι, πλεοναχῶς τῶν φαινομένων ἐκκαλουμένων, μανικὸν καὶ οὐ καθηκόντως πραττόμενον ὑπὸ τῶν τὴν ματαίαν ἀστρολογίαν ἐζηλωκότων καὶ εἰς τὸ κενὸν αἰτίας τινῶν ἀποδιδόντων, ὅταν τὴν θείαν φύσιν μηθαμῇ λειτουργιῶν ἀπολύωσι. [114] Τινὰ ὑπολειπόμενά τινων θεωρεῖσθαι συμβαίνει καὶ παρὰ τὸ βραδύτερον συμπεριφέρεσθαι τὸν αὐτὸν κύκλον περιόντα, καὶ παρὰ τὸ τὴν ἐναντίαν κινεῖσθαι ἀντισπώμενα ὑπὸ τῆς αὐτῆς δίνης, καὶ παρὰ τὸ περιφέρεσθαι τὰ μὲν διὰ πλείονος τόπου, τὰ δὲ δι’ ἐλάττονος, τὴν αὐτὴν δῖναν περικυκλοῦντα. τὸ δὲ ἁπλῶς ἀποφαίνεσθαι περὶ τούτων καθῆκόν ἐστι τοῖς τερατεύεσθαί τι πρὸς τοὺς πολλοὺς βουλομένοις. Οἱ λεγόμενοι ἀστέρες ἐκπίπτειν καὶ παρὰ μέρος καὶ παρὰ τρῖψιν νεφῶν δύνανται συντελεῖσθαι καὶ παρὰ ἔκπτωσιν, οὗ ἂν ἡ ἐκπνευμάτωσις γένηται, καθάπερ καὶ ἐπὶ τῶν ἀστραπῶν ἐλέγομεν· [115] καὶ κατὰ σύνοδον δὲ 133

Testo e traduzione

ἀτόμων πυρὸς ἀποτελεστικῶν συμφυλίας γενομένης εἰς τὸ τοῦτο τελέσαι, καὶ κατὰ κίνησιν οὗ ἂν ἡ ὁρμὴ ἐξ ἀρχῆς κατὰ τὴν σύνοδον γένηται· καὶ κατὰ πνευμάτων δὲ συλλογὴν ἐν πυκνώμασίν τισιν [ἐν] ὀμιχλοειδέσι καὶ ἐκπύρωσιν τούτων διὰ τὴν κατείλησιν, εἶτ’ ἐπέκρηξιν τῶν περιεχόντων, καὶ ἐφ’ ὃν ἂν τόπον ἡ ὁρμὴ γένηται τῆς φορᾶς, εἰς τοῦτον φερομένων. καὶ ἄλλοι δὲ τρόποι εἰς τοῦτο τελέσαι ἀμύθητοί εἰσιν. Αἱ δ’ ἐπισημασίαι αἱ γινόμεναι ἐπί τισι ζῴοις κατὰ συγκύρημα γίνονται τοῦ καιροῦ. οὐ γὰρ τὰ ζῷα ἀνάγκην τινὰ προσφέρεται τοῦ ἀποτελεσθῆναι χειμῶνα, οὐδὲ κάθηταί τις θεία φύσις παρατηροῦσα τὰς τῶν ζῴων τούτων ἐξόδους κἄπειτα τὰς ἐπισημασίας ταύτας ἐπιτελεῖ. [116] οὐδὲ γὰρ εἰς τὸ τυχὸν ζῷον κἂν μικρῷ χαριέστερον ᾖ, ἡ τοιαύτη μωρία ἐκπέσοι, μὴ ὅτι εἰς παντελῆ εὐδαιμονίαν κεκτημένον. Ταῦτα δὲ πάντα, Πυθόκλεις, μνημόνευσον· κατὰ πολύ τε γὰρ τοῦ μύθου ἐκβήσῃ καὶ τὰ ὁμογενῆ τούτοις συνορᾶν δυνήσῃ, μάλιστα δὲ σεαυτὸν ἀπόδος εἰς τὴν τῶν ἀρχῶν καὶ ἀπειρίας καὶ τῶν συγγενῶν τούτοις θεωρίαν, ἔτι τε κριτηρίων καὶ παθῶν, καὶ οὗ ἕνεκεν ταῦτα ἐκλογιζόμεθα. ταῦτα γὰρ μάλιστα συνθεωρούμενα ῥᾳδίως τὰς περὶ τῶν κατὰ μέρος αἰτίας συνορᾶν ποιήσει. οἱ δὲ ταῦτα μὴ καταγαπήσαντες ᾗ μάλιστα οὔτε αὐτὰ ταῦτα καλῶς συνθεωρήσαιεν οὔτε οὗ ἕνεκεν δεῖ θεωρεῖν ταῦτα περιεποιήσαντο.

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Epicuro saluta Pitocle. [84] Cleone mi portò una tua lettera nella quale continuavi a mostrarti affettuoso verso di noi in modo degno della sollecitudine che abbiamo nei tuoi confronti e, non senza fedeltà, tentavi di richiamare alla memoria le conversazioni che tendono al conseguimento di una vita beata; mi pre­ gavi di inviarti anche una trattazione compendiaria e ben delineata sui fenomeni celesti, perché la richiamassi alla memoria facilmente. Quello che abbiamo scritto in altri testi, infatti, è difficile da tenere a mente, sebbene, come affermavi, tu abbia continuamente tra le mani quegli scritti. Noi con piacere abbiamo accolto la tua preghiera e siamo stati presi da dolci speranze. [85] Dunque, ora che abbiamo scritto tutto quanto restava da scrivere, portiamo a compimento queste riflessioni che, come ritieni, saranno degnamente utili a molti altri e soprattutto a coloro che da poco stanno gustando la genuina scienza della natura e a coloro che sono rimasti impigliati in una delle troppo faticose occupazioni della vita quotidiana. Ben accogli, pertanto, queste riflessioni e, tenendole nella memoria, riper­ corrile con prontezza nel loro complesso assieme al resto che inviammo nella Piccola epitome a Erodoto. Per prima cosa, non si creda che esista altro fine della conoscenza dei fenomeni celesti – sia che vengano trattati in connessione sia che vengano trattati indipendentemente – se non l’imperturbabilità e la fiducia salda, come anche per le altre conoscenze. [86] Non si forzi l’impossibile, né si tenga il simile metodo di indagine per ogni problema, sia nei ragiona­ menti che vertono sui generi di vita sia in quelli deputati alla risoluzione degli altri problemi della fisica, come per esempio che il tutto è corpo e natura intangibile o che gli elementi sono indivisibili, come per ogni altra questione del genere che ha un accordo univoco con i fenomeni. Ciò non vale per i fenomeni celesti, ma questi, invero, hanno molteplice sia la causa del loro generarsi sia la spiegazione della loro essenza in accordo con le sensazioni. Per cui non si deve fare scienza della natura in base a vuoti assiomi e a leggi imposte, ma come reclamano i fenomeni. [87] Del resto, la nostra vita non ha bisogno di irragionevolezza e di vuota opinione, ma che noi la trascorriamo senza nessun tumulto. Ogni cosa, dunque, si trova a essere priva di scosse per quanto riguarda ogni problema che viene chiarito definitivamente secondo il metodo delle spiegazioni molteplici, in accordo con i fenomeni, qualora, come si deve, si ammettano spiegazioni plausibili riguardo a essi. Qualora, invece, uno ammetta una spiegazione, ma ne respinga un’altra che, similmente, sia in accordo con il fenomeno, è chiaro che precipita via da ogni studio sulla natura e cade nel mito.

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Testo e traduzione

I segni di ciò che si compie tra i fenomeni celesti li offrono alcuni fenomeni che si mostrano presso di noi e che si osserva come si producono e non i fenomeni celesti, perché questi è possibile che accadano per più motivi. [88] Si deve pertanto badare attentamente al manifestarsi di ciascu­ no di essi e, in rapporto a quanto è a esso congiunto, distinguere le cose il cui compiersi in più modi non è smentito da quelle cose che si verificano presso di noi. Un cosmo è una porzione di cielo che abbraccia astri, terra e tutti i fenomeni, separata dall’infinito e terminante in un confine di costituzione rada o fitta e al cui dissolversi, tutto ciò che si trova in esso sarà soggetto a uno stato di confusione –, o che si rivolge o che è in quiete, con una forma rotonda o triangolare o di qualsiasi altro perimetro. Si possono, infatti, ammettere tutti i modi (scil. appena esposti), perché nessuno dei fenomeni contraddice questo tipo di cosmo, nel quale non è dato di comprendere un termine. [89] È possibile, invece, comprendere che tali cosmi siano anche illimitati di numero e anche che un tale cosmo possa formarsi sia in un cosmo sia in un metacosmo, come chiamiamo l’intervallo compreso tra cosmi, in un luogo ricco di vuoto e non in uno spazio grande, puro e vuoto, come pure taluni sostengono. Ciò accade perché alcuni atomi adatti a tale fine defluiscono da un solo cosmo o da un metacosmo o anche da più cosmi, producendo a poco a poco su un altro luogo aggiunte, connessioni, spostamenti, nel caso in cui così capiti, e afflussi derivanti da corpi adatti, sino a raggiungere un compimento e a ottenere stabilità, fino al punto in cui le basi, poste a fondamenta, riescano a sostenere l’aggiunta. [90] Non basta, infatti, che vi siano stati solo un ammasso di materia e un vortice nel vuoto in cui è in grado di formarsi un cosmo, come si suppone, secondo necessità, e che questo poi aumenti sino a cozzare con un altro, come pure sostiene qualcuno dei cosiddetti fisici, perché questa eventualità è in contrasto con i fenomeni. Il sole, la luna e gli altri astri non nacquero ciascuno in maniera indi­ pendente per poi essere inglobati dal cosmo – unitamente a tutto ciò che il cosmo custodisce –, ma da subito si formarono e cominciarono ad accrescersi, come anche la terra e il mare, grazie ad aggregazioni e a moti vorticosi di nature sottili di origine ventosa o ignea o di entrambe, perché è la sensazione a indicare che sia andata così. [91] La grandezza del sole e degli altri astri, relativamente a noi, è tale quale appare; (Questo [lo dice] anche nell’XI libro Sulla natura: se infatti, dice (fr. 81 Usener), a causa della distanza diminuisse la grandezza, molto di più si perderebbe l’intensità del colore; non esiste, infatti, un’altra distanza più com­ misurata a ciò.) di per sé è più grande di quello che si vede o di poco più piccola o tale quale è. Queste opzioni non si danno contemporaneamente. 136

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Così, infatti, si vedono anche i fuochi nella nostra esperienza quotidiana, osservati da una certa distanza, conformemente alla sensazione. E ogni obiezione su questo punto particolare sarà facilmente eliminata, qualora uno s’attenga all’autoevidenza percettiva, come mostriamo nei libri Sulla natura. [92] Il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli altri astri possono dipendere sia da un’accensione sia da uno spegnimento, se ci sono condizioni tali per cui si realizzano i suddetti fenomeni anche in ciascuno dei due luoghi. Nessuno dei fenomeni, infatti, lo smentisce. E i suddetti fenomeni, peraltro, potrebbero essere dovuti anche a un’apparizione sulla terra alla quale fa seguito un occultamento. Nessuno dei fenomeni, infatti, lo smentisce. Quanto ai loro moti, non è impossibile che avvengano per effetto del vortice del cielo intero o, se questo resta immobile, per il vortice degli stessi astri, secondo la necessità sviluppatasi sin dall’inizio, al nascere del cosmo, quando gli astri si levarono sull’orizzonte; [93] e di seguito grazie al loro calore, secondo un moto di propagazione del fuoco che tende sempre a irradiarsi nei luoghi consecutivi. I moti tropici del sole e della luna possono avvenire per l’inclinazione alla quale il cielo è soggetto in certi periodi. Ma, allo stesso modo, possono dipendere anche dalla resistenza dell’aria o dal fatto che materia di volta in volta adatta ai corpi (scil. il sole e la luna) che la seguono in parte brucia, mentre in parte resta; o anche perché sin dal principio questi astri furono afferrati in un vortice tale da farli muovere in senso elicoidale. Tutte queste possibilità e quelle affini a queste, infatti, non sono dissonanti con nessuna delle evidenze, qualora, riguardo a tali particolari questioni, attenendosi al possibile, uno sia in grado di ricondurre sempre ciascuna spiegazione all’accordo con i fenomeni, senza temere le artificiose macchinazioni degli astronomi che sono cosa degna di schiavi. [94] Il calare e il successivo crescere della luna potrebbero avvenire sia per la rotazione di questo corpo sia, ugualmente, per le configurazioni che assume l’aria, e ancora per un occultamento, e anche in tutti i modi che i fenomeni presso di noi richiedono perché si producano tali mutamenti d’aspetto, a meno che, per un eccessivo amore della spiegazione singola, non si svalutino vanamente le altre motivazioni, senza comprendere cosa sia possibile e cosa sia impossibile conoscere per un uomo, e per questo motivo desiderando conoscere ciò che non si può conoscere. È inoltre possibile che la luna riceva luce da se stessa, ma è anche possi­ bile che la riceva dal sole. [95] Anche presso di noi, infatti, si vedono molti corpi che godono di luce propria, molti invece che la acquisiscono da altri. E nessuna di queste possibilità contrasta con i fenomeni celesti, qualora uno tenga sempre presenti le spiegazioni molteplici, consideri nel loro 137

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insieme ipotesi e, a un tempo, cause conformi ai fenomeni stessi, senza mirare a quanto è privo di coerenza, esaltandolo stoltamente, e scivoli, per un verso o per l’altro, nel metodo della spiegazione singola. L’aspetto del volto che compare sulla luna può generarsi sia per la diver­ sità che caratterizza le sue parti sia per il loro occultamento sia secondo tutti quanti i modi che si vedono essere in accordo con i fenomeni. [96] Non bisogna, infatti, trascurare questa strada di ricerca per il complesso dei fenomeni celesti. Qualora, infatti, uno si metta in conflitto con l’autoe­ videnza percettiva, non potrà partecipare mai della genuina imperturbabi­ lità. L’eclissi del sole e della luna può verificarsi sia per uno spegnimento, proprio come si vede che accade anche presso di noi, sia anche per l’inter­ posizione di altri corpi, o della terra o di qualche altro corpo celeste di tal genere. E così bisogna considerare nel loro insieme le spiegazioni che si accordano le une con le altre e pensare che non sia impossibile che si verifichi un concorso di circostanze. (Dice lo stesso nel XII libro Sulla natura (fr. 83 Usener) e aggiunge che il sole si eclissa quando la luna gli fa ombra, mentre la luna si eclissa per via dell’oscuramento prodotto dalla terra, ma anche per un suo indietreggiamento. [97] Lo afferma anche Diogene epicureo nel I libro delle Lezioni scelte.) E ancora l’ordine in cui si succede la loro rivoluzione lo si interpreti alla luce del modo in cui presso di noi accadono alcuni tra i fenomeni più comuni e non si evochi assolutamente la natura divina come artefice di questi fatti, ma questa la si conservi immune da ogni occupazione e in tutta la sua beatitudine. Perché se non lo si farà, tutta la ricerca sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come già accadde a chi non si attenne al criterio del possibile, tanto da cadere nelle vane argomentazioni perché credeva che i fenomeni celesti avvenissero per un solo motivo, e, spingen­ dosi sino all’inconcepibile, respingeva tutte le altre spiegazioni avanzate secondo plausibilità, non essendo capace di osservare nel loro complesso i fenomeni che vanno accolti come indizi. [98] Le lunghezze dei giorni e delle notti sono variabili sia perché i moti del sole sulla terra sono ora veloci ora lenti o anche perché variano le lunghezze dei luoghi, e alcuni luoghi (scil. il sole li) percorre più veloce­ mente, altri invece più lentamente, come anche presso di noi si vede che avvengono alcuni fenomeni terrestri, in accordo ai quali bisogna parlare dei fenomeni celesti. Coloro che, invece, assumono un solo criterio esplica­ tivo sono in contrasto con i fenomeni e cadono in un grave errore riguardo a come sia possibile a un uomo conoscere. I pronostici possono avvenire sia per un concorso di circostanze, come accade per gli animali che si vedono presso di noi, sia per cambiamenti 138

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d’aria e per mutamenti, perché entrambe le cause non sono in contrasto con i fenomeni. [99] Ma in quali casi valga questa o quest’altra spiegazione non è dato sapere. Le nubi possono formarsi e unirsi sia per il condensamento d’aria dovu­ ta alla pressione dei venti, sia per gli intrecci di atomi tra essi saldamente connessi e adatti a produrre questo fenomeno, sia per una raccolta di esalazioni che si sprigionano dalla terra e dalle acque. Ma non è impossi­ bile anche che gli addensamenti delle nubi avvengano in numerosi altri modi. Inoltre le piogge possono essere generate dalle nubi o quando queste cozzano o quando queste mutano d’aspetto; [100] e anche i venti hanno origine per l’afflusso di masse d’aria provenienti da luoghi idonei e per via dell’aria messa in moto quando si verifichi un acquazzone piuttosto violen­ to causato, per l’appunto, da agglomerati atti a produrre tali precipitazioni. I tuoni è possibile avvengano sia per la rotazione di venti nelle cavità delle nubi, come accade anche all’interno dei nostri vasi, sia per il fragore che tra le nubi produce il fuoco alimentato dal vento, sia per lacerazioni e divisioni delle nubi, sia per sfregamenti e fratture delle nubi che hanno assunto una compattezza simile a quella del ghiaccio. E in generale anche in merito a questo specifico aspetto dell’indagine i fenomeni invitano a affermare l’esistenza di cause molteplici. [101] Allo stesso modo anche i lampi si formano in molti modi: infatti una conformazione di atomi capace di produrre il fuoco che genera il lampo si sprigiona per effetto dello sfregamento e della collisione delle nubi; sia perché i venti soffiano fuori dalle nubi corpi tali da produrre quel bagliore; per una pressione, appena si sia verificato un attrito delle nubi dovuto sia all’urto delle une contro le altre sia ai venti; e anche perché si raccoglie la luce diffusa dagli astri che poi viene compressa dal moto delle nubi e dei venti e infine esce attraverso un varco che passa tra le nubi; o per il filtraggio tra le nubi di luce sottilissima; o per il raccogliersi di nubi di fuoco, il prodursi dei tuoni e per il moto di questo fenomeno; e per l’incendio del vento dovuto a un’intensità del moto e a un violento avvolgimento; [102] e per fratture di nubi causate dai venti e per la caduta di atomi capaci di produrre del fuoco e tali da creare l’immagine del lampo; ma sarà anche facile vedere che i lampi si generano per numerosi altri motivi, purché uno si attenga sempre ai fenomeni e sappia riconoscere ciò che è simile a questi. Quando le nubi si trovano in una condizione del genere, il lampo precede il tuono perché, avvenendo contemporaneamente la caduta del vento, si sprigiona subito una conformazione di atomi capace di creare il lampo, mentre solo in un secondo momento il vento raccolto genera questo frastuono; e perché, pur avvenendo simultaneamente la caduta del 139

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tuono e del lampo, il lampo si serve di una velocità che colpisce i nostri sensi in maniera più intensa, [103] mentre il tuono arriva dopo, come accade nell’ambito di alcuni fenomeni osservati da lontano, durante il cui manifestarsi si producono dei colpi. I fulmini possono generarsi perché, quando i venti si raccolgono in gran quantità, si verificano un moto rotatorio e un violento incendio, una frat­ tura di una parte di essi e una più violenta caduta verso il basso di questa parte, dato che la rottura avviene perché i luoghi contigui sono troppo fitti per la pressione esercitata dalle nubi. Possono generarsi anche per la caduta stessa del fuoco che, dopo aver roteato, – in questo modo si può formare anche un tuono – sia diventato più consistente, si sia mischiato al vento con maggiore violenza e abbia lacerato la nube perché non riesce a ritirarsi nei luoghi contigui, visto che viene a prodursi una pressione, per lo più contro un alto monte, luogo sul quale soprattutto cadono fulmini, mentre le nubi cozzano sempre le une contro le altre. [104] E anche in numerosi altri modi possono prodursi i fulmini. Si tenga solo lontano il mito. E sarà del tutto stornato, qualora, attenendosi correttamente ai fenomeni, da essi uno tragga induzioni per comprendere ciò che non ci appare manifestamente. I presteri è possibile si formino sia perché cade in basso una nube che as­ sume forma di colonna sotto la spinta di un vento continuo; sia per la gran quantità di vento che si trascina in avanti, mentre contemporaneamente un vento che giunge dall’esterno urta la nube di fianco; sia perché il vento produce un movimento turbinoso, mentre una data quantità d’aria viene sospinta dall’alto verso il basso e si sviluppa molta corrente di venti che non è in grado di defluire di lato per la pressione atmosferica dell’aria. [105] E se il prestere scende sino alla terra si generano i turbini a seconda anche di come si formano per il movimento del vento, mentre se cade sul mare si hanno le trombe d’acqua. I terremoti possono avvenire sia perché resta imprigionato il vento den­ tro la terra, sia perché minuscole masse di questa sono tra esse contigue e hanno moto continuo, il che provoca il tremore alla terra. E questo vento (scil. la terra) lo riceve o da fuori o in seguito al fatto che strati di crosta precipitano in luoghi cavernosi della terra, mutando in vento l’aria precedentemente compressa; ma i terremoti si possono formare anche per la stessa propagazione del moto dovuta alla caduta di molti strati di terra e per il conseguente suo contraccolpo, qualora urtino contro parti più compatte della terra. [106] Tali sommovimenti del suolo possono generarsi anche in molti altri modi. I venti possono formarsi perché in determinati momenti a poco a poco s’insinua continuamente materia d’altra natura e per il raccogliersi 140

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di acqua abbondante. I restanti venti, invece, si generano quando scarse masse di materia cadono su molte cavità della terra e da qui si produce la propagazione del loro movimento. La grandine si forma per un congelamento piuttosto forte, quando tut­ t’intorno si dispongono alcuni elementi di natura aerea e per la frammen­ tazione; e anche per un congelamento piuttosto blando di alcuni elementi di natura acquosa, mentre contemporaneamente la loro rottura e la loro compressione producono anche la scissione, perché (scil. il processo di congelamento) si sviluppa parte per parte e in tutta la massa. [107] Non è impossibile che la forma tondeggiante della grandine dipenda dal fatto che tutt’intorno si disciolgono gli spigoli e dal fatto che, durante l’addensa­ mento, come si dice, questi elementi, o che abbiano natura acquosa o che abbiano natura aerea, si dispongono tutt’intorno in maniera regolare parte per parte. La neve si può formare quando pioggia sottile scende dalle nubi per la simmetria dei pori e la pressione di nubi adatte, una pressione sempre impetuosa per azione del vento, mentre in un secondo momento questa pioggia si congela durante la caduta a causa di un violento congelamento che si verifica nelle zone più basse delle nubi. Tale emissione dalle nubi potrebbe generarsi anche per effetto del congelamento prodotto all’interno delle nubi che hanno una porosità uniforme, quando cozzino gli uni contro gli altri alcuni corpuscoli di natura acquosa adiacenti che, se si congiungono, creano la grandine, un fenomeno che si verifica soprattutto in primavera; [108] questo aggregato che forma la neve potrebbe subire il rimbalzo anche per la frizione delle nubi che si sono congelate. Ma la neve può formarsi anche in altri modi. La rugiada si forma per il convergere, le une verso le altre, di quegli elementi derivanti dall’aria che sono in grado di creare tale umidità; sia per la loro provenienza da luoghi umidi o pieni di acque – sono questi i luoghi nei quali si forma soprattutto la rugiada – e per un successivo convergere di queste nello stesso punto, una volta che abbiano formato l’umidità e per una loro successiva caduta in basso, proprio nello stesso modo in cui anche presso di noi si genera, in parecchie circostanze, un fenomeno del genere. [109] La brina, invece, si forma allorché la rugiada abbia subito un qualche congelamento causato dal raffreddamento dell’aria che sta intorno. Il ghiaccio si forma sia perché dall’acqua sono espulsi elementi di forma tondeggiante da una parte, mentre dall’altra si uniscono quelli che nell’ac­ qua hanno forme irregolari o dagli angoli acuti, sia perché dal di fuori vi è un’aggregazione di tali elementi che, compressi saldamente, congelano l’acqua ed espellono una data quantità di elementi tondeggianti.

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L’arcobaleno è dovuto al risplendere del sole contro aria umida o al particolare congiungimento della luce e dell’aria che le qualità specifiche di questi colori, sia tutte insieme sia singolarmente, produrrà; le zone adia­ centi dell’aria, per via della luce che a sua volta si rifrange, assumeranno la colorazione tale quale noi vediamo per il risplendere contro le singole parti. [110] Quanto alla sua apparizione in forma circolare, invece, essa è dovuta al fatto che la distanza è dalla vista osservata come identica da ogni punto o dal fatto che gli atomi si uniranno, sia quelli che sono in aria sia quelli che sono nelle nubi, sospinti dalla stessa aria, tanto che questa aggregazione assumerà una forma circolare. L’alone intorno alla luna si forma quando da ogni luogo l’aria si porta verso la luna o quando l’aria sospinge le emanazioni che, trascinate in modo uniforme, escono dalla luna, fintantoché l’aspetto di nube che il fenomeno assume si dispone tutt’intorno senza che sia più possibile distin­ guerlo come a sé stante, o anche quando l’aria sospinge altra aria che sta intorno alla luna in maniera simmetrica da ogni parte sino a imprimere tutt’intorno a essa questa forma circolare e compatta. [111] Ciò avviene lungo alcune parti o quando un’emanazione d’aria ha esercitato una forza dall’esterno o quando il calore occupa pori atti a produrre tale fenomeno. Le stelle comete si formano o perché, quando si dà una circostanza favorevole, il fuoco rotea in qualche zona del cielo in determinati tempi o perché il cielo di tempo in tempo si muove su di noi con un moto particolare tanto che appaiono tali astri; o perché in certi tempi le comete si levano per una qualche congiuntura, giungono in zone a noi vicine e diventano visibili. La loro scomparsa è dovuta alle cause opposte a queste. [112] Alcuni astri ruotano nello stesso luogo, cosa che capita non solo perché sta ferma questa parte di cielo intorno alla quale gira il resto, come sostengono alcuni, ma anche perché si sviluppa tutt’intorno a questi un vortice circolare d’aria, che impedisce di compiere lo stesso giro, che fanno gli altri astri; o perché nelle zone vicine non c’è della materia adatta a essi, mentre la si trova nel luogo in cui li si vede stare. E anche per numerosi altri motivi è possibile che avvenga questo evento, purché si tenga in considerazione l’accordo con i fenomeni. Alcuni astri possono essere erranti, se si trovano ad avere moti del genere, mentre altri non si muovono così, [113] perché sin dal principio dell’universo, condizionati da un moto circolare, vi furono costretti, per cui alcuni si muovono secondo il medesimo vortice regolare, altri invece secondo un vortice dotato di qualche anomalia. È poi possibile anche che nei luoghi nei quali questi astri si spostano ci siano, da una parte, regolari banchi d’aria che li spingono nella stessa direzione verso la zona vicina e che in maniera uniforme li bruciano, dall’altra, invece, che ci siano banchi 142

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anomali tanto da determinare le variazioni di moto osservate. L’assegnare un’unica spiegazione a questi fenomeni, quando i fenomeni reclamano molteplici spiegazioni, è un’operazione folle e sconveniente, compiuta dagli zelanti seguaci dell’inutile astronomia, i quali riconducono alcuni fenomeni a cause che vanno a vuoto, visto che in nessun caso liberano la natura divina da attività impegnative. [114] Accade che alcuni astri li si veda restare indietro rispetto ad altri sia perché, pur percorrendo la stessa orbita, girano più lentamente di quelli, sia perché si muovono in direzione contraria ricevendo una spinta opposta dallo stesso vortice sia perché alcuni percorrono uno spazio più esteso, mentre altri uno spazio meno esteso, pur girando nello stesso vorti­ ce. Offrire una spiegazione univoca a tali fenomeni è proprio di coloro che vogliono stupire la massa con le loro frottole. Le cosiddette stelle cadenti possono formarsi anche in parte per l’attrito di nubi e per una caduta di fuoco che si muti in vento, come abbiamo detto anche a proposito dei lampi; [115] sia per un’aggregazione di atomi capaci di produrre il fuoco, quando la loro affinità di materia sia adatta a generare questo fenomeno, sia per il movimento in quella parte nella quale si è sviluppato all’inizio l’impulso a una aggregazione; sia per la raccolta di venti in alcuni compatti addensamenti nebulosi e per il loro infiammarsi, dovuto a un avvolgimento con conseguente fuoriuscita di fuoco dall’involucro che lo avvolge, mentre il fuoco si dirige anche verso la zona nella quale si è prodotto l’impulso al moto. E ci sono anche altri modi in cui cui può generarsi questo fenomeno senza chiamare in causa le favole del mito. I pronostici del tempo che offrono certi animali dipendono da un con­ corso di circostanze, visto che gli animali non determinano di necessità la formazione di una tempesta, né esiste una natura divina che sovrintenda alle uscite di questi animali e poi compia questi pronostici. [116] Se, infatti, in nessun animale, anche fosse poco più che dotato, può generarsi un’idea così stolta e insensata, figuriamoci in chi possiede la completa felicità. Dunque, tutti questi insegnamenti, Pitocle, memorizzali. In molte situa­ zioni, infatti, ti terrai lontano dal mito e potrai comprendere subito ciò che appartiene allo stesso genere di questi insegnamenti. Dedicati soprattutto alla scienza dei principi e dell’infinito e di quanto è a essi simile, poi dei criteri e delle affezioni, e di tutto ciò che rappresenta il fine del nostro ragionare, perché questi insegnamenti, una volta indagati con massima cura, faranno comprendere facilmente le cause dei singoli fenomeni. Co­ loro che, invece, non amano assolutamente questo tipo di indagini, non

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potranno comprendere queste cose come si deve, né otterranno il fine per il quale le si deve conoscere.

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Commentario: La realtà del possibile Francesco Verde

Dopo aver approfondito nel saggio precedente su La meteorologia epicurea quelle che mi paiono essere le questioni centrali (quali l’autenticità dell’e­ pistola, la figura di Pitocle e, specialmente, il metodo delle molteplici spiegazioni causali), nella sezione seguente del commentario prenderò in rassegna il testo dell’Epistola a Pitocle paragrafo per paragrafo. Esaminerò il contenuto della lettera in particolare dalla prospettiva storico-filosofica (senza per questo soprassedere sui problemi più significativi di carattere filologico-testuale), limitandomi a segnalare e ad analizzare i punti e i temi di maggiore rilevanza, confrontandoli principalmente con la meteorologia aristotelica e lo scritto siriaco-arabo, senza trascurare, comunque, le altre fonti (come, ovviamente, Lucrezio e, per esempio, lo pseudoaristotelico De mundo e le Naturales Quaestiones di Seneca). § 84. Dopo il consueto saluto iniziale a Pitocle, Epicuro menziona Cleo­ ne, una figura non altrimenti nota (eccezion fatta per un Cleone menzio­ nato nella cosiddetta Lettera alla madre [50 F1-2 Erbì] presente nell’iscrizio­ ne di Enoanda: cfr. fr. 126, III 5-6 Smith ed Erbì 2020: 165); dovrebbe trat­ tarsi di una sorta di “messo” forse interno al Kepos. Figure di questo tipo non dovevano essere rare, considerando sia che l’epistola (privata e dottri­ naria) era uno dei mezzi di comunicazioni più utilizzati in generale sia il frequente impiego del mezzo lettera specificamente nel Giardino epicureo (cfr. De Sanctis 2012: 102 n. 38 e Damiani 2021: 106-135). Il Cleone dell’Epistola a Pitocle può ricordare, mutatis mutandis, l’Antipatro di Ma­ gnesia menzionato nella cosiddetta Lettera a Filippo II di Macedonia (156 Isnardi Parente) probabilmente attribuibile a Speusippo (ma la questione è controversa: cfr. Isnardi Parente 1980: 391-402, Tarán 1981: XXII-XXIII e soprattutto Natoli 2004); l’autore della missiva cita un Antipatro scrittore di storia ad Atene (non altrimenti noto), latore, appunto, della lettera, il cui contenuto è centrale per la ricostruzione della polemica di Speusippo stesso nei riguardi di Isocrate. Il fatto che Pitocle abbia affidato a Cleone la sua richiesta può significare che al momento della scrittura della lettera Pi­ tocle ed Epicuro erano distanti. Nel messaggio di Pitocle affidato a Cleone il giovane allievo doveva aver scritto parole di sincero affetto e riconosciuta ammirazione per il maestro; il richiamo ai dialogismoi è del tutto decisivo.

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La memoria (mnemoneuein) ricopre qui un valore genuinamente terapeuti­ co: il ricordare le conversazioni filosofiche passate è necessario al consegui­ mento della vita beata. Epicuro usa l’aggettivo makarios per qualificare il tipo di bios a cui la sua filosofia mira: la makariotes è la beatitudine che vi­ vono gli dei (fondata sulla aphtharsia o incorruttibilità preclusa agli esseri umani) e che, sulla base della chiusa dell’Epistola a Meneceo (135), è una concreta possibilità per tutti coloro che abbracciano il messaggio salvifico di Epicuro nei limiti di questa vita. Sin dall’inizio della lettera si rende chiaro che l’unico autentico scopo dell’indagine di questi fenomeni è emi­ nentemente etico. Il ricordo delle passate conversazioni filosofiche inter­ corse con il maestro contribuisce in maniera netta e profonda all’otteni­ mento della vita beata. È forse per tenere sempre vivo questo ricordo che Pitocle richiede a Epicuro di mettere per iscritto un breve prontuario de meteoris; non è probabilmente azzardato ritenere che i dialogismoi di cui si parla nell’incipit della lettera avessero come tema (o come uno dei temi af­ frontati) lo studio della generazione dei meteora finalizzato alla rimozione dei timori che da questi derivano e, più in generale, alla paideia (inteso in senso epicureo) del giovane allievo. Al fine, dunque, di avere un utile pron­ tuario da consultare anche rapidamente (e, forse, anche perché, come dice Sedley 1998: 120, Erodoto era un compendio troppo generico che, occupan­ dosi dei fondamenti della fisica, non scendeva nei dettagli delle spiegazioni degli specifici fenomeni naturali) Pitocle richiede a Epicuro un altro dialo­ gismos ma stavolta messo per iscritto e non orale; una trattazione sintetica, compendiaria ma ben delineata (nel senso che non lasci fuori temi o argo­ menti importanti solo perché si tratta di uno scritto più breve) che potesse essere facilmente e immediatamente richiamata alla memoria (la richiesta di Pitocle ricorda quella formulata da Antipatro a Diogene di Enoanda nel­ la Lettera ad Antipatro circa l’infinità dei mondi: cfr. Diog. Oen. fr. 63 Smith, con Smith 1993: 508). Ancora una volta, nello spazio di poche ri­ ghe, compare un nuovo riferimento al ruolo della memoria; il compendio è davvero utile se e solo se è strutturato in modo tale da poter essere facil­ mente ricordato (cfr. la testimonianza di Sen. Ep. IV 39, 1 sulla distinzione tra il genere dei commentarii e quello del breviarum/summarium circa la fun­ zione della memoria). Così si comprende la ragione per la quale Epicuro ammette che ciò che ha scritto in altre opere è difficile da tenere a mente; il riferimento sembra essere a tutte le opere non compendiarie di Epicuro, in primo luogo al Peri physeos in ben 37 libri, un testo sicuramente detta­ gliato ma proprio per questo di difficile memorizzazione (ma cfr. Sedley 1998a: 120 e n. 68). Il compendio, al contrario, è utile perché facilmente consultabile e memorizzabile; a tale questione è direttamente connesso il tema del destinatario (cfr. ancora De Sanctis 2012 e il recente contributo di 146

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Heßler 2019). È del tutto evidente che mentre il Peri physesos aveva come destinatari persone che avevano la possibilità di dedicarsi alla sua lettura, il compendio, per così dire, parla e si rivolge a tutti. L’inizio della lettera è, però, un testo di indubbio interesse perché, sebbene Pitocle richieda al maestro la scrittura di un compendio, Epicuro ci informa che il suo giova­ ne allievo aveva sempre tra le mani le opere più dettagliate che verosimil­ mente avevano come argomento anche i meteora. È una prova significativa del fatto che chi si dedica alle opere maggiori (= non compendiarie) ha bi­ sogno del compendio, come si legge all’inizio dell’Epistola a Erodoto (35-37), del resto. Il rischio è quello di “perdersi” eccessivamente nei detta­ gli della trattazione, perdendo di vista le questioni strutturali e fondamen­ tali e il più ampio contesto nel quale i dettagli si collocano. Per ovviare a questa difficoltà, perfino gli “specialisti” sentono la necessità di avere un breve prontuario; così si spiega il favore che Epicuro dimostra nel soddisfa­ re la richiesta di Pitocle (a tal proposito Boer 1954: 1 b segnala una certa affinità tra l’inizio di Pitocle e la lettera del sacerdote Petosiris al re Ne­ chepso forse databile al II sec. a. C.: anche Nechepso richiede a Petosiris una sintetica trattazione astrologica: cfr. Damiani 2021: 214-216, 240, nonché Monteventi 2020: 57-68). Occorre rilevare, infine, che da queste ri­ ghe iniziali della lettera, si evince con chiarezza come il tema dei meteora dovesse avere un’importanza notevole nella produzione scientifica di Epi­ curo, dato che il filosofo trattava di tali questioni in più scritti; la lettera a Pitocle può essere considerata, dunque, il primo compendio (o uno dei pri­ mi) sulla formazione dei fenomeni celesti nella cospicua “bibliografia” del maestro che Pitocle evidentemente doveva conoscere bene. § 85. Non è facile comprendere a cosa Epicuro intenda riferirsi con ta loipa panta; credo che il riferimento più verosimile sia ad altri scritti che il filosofo aveva ultimato prima di mettere mano al compendio de meteoris richiesto da Pitocle. Se così fosse, otterremmo una informazione significa­ tiva sulla modalità di lavoro di Epicuro che, a quanto pare, preferiva ulti­ mare opere precedenti prima di dedicarsi all’elaborazione di un nuovo scritto. A poca distanza Epicuro ribadisce che i dialogismata messi per iscrit­ to hanno una finalità esclusivamente etica: essi saranno utili a molti. Qui si coglie con efficacia il doppio registro di Pitocle: per un verso, il giovane Pi­ tocle è senz’altro il primo destinatario dell’epitome, per un altro, Epicuro è ben consapevole del fatto che il compendio è concretamente utile a tutti coloro che lo consulteranno. Da ciò si comprende come la circolazione di queste epitomi dovesse essere piuttosto ampia; non si tratta, insomma, di scritti privati indirizzati solo al singolo destinatario ma erano rivolte a mol­ te altre persone. Così, mi pare, si può spiegare l’alta e frequente circolazio­ ne di questi compendi dottrinari che, evidentemente, se fossero stati solo 147

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proprietà del singolo destinatario avrebbero avuto senz’altro meno diffu­ sione. Per quanto concerne ancora la questione dei destinatari della lettera, Epicuro è chiarissimo nell’affermare che intende riferirsi soprattutto a co­ loro che da poco hanno intrapreso lo studio della scienza della natura. La precisazione non è di poco conto: essa, infatti, indica come lo studio dei meteora fosse parte centrale e integrante della physiologia. Non si tratta, per­ tanto, di una branca secondaria o “provinciale” della fisica epicurea ma proprio coloro che sono, per così dire, alle prime armi con lo studio della natura devono applicarsi nell’investigazione delle cause della formazione dei fenomeni celesti e meteorologici. Ancora sul livello dei destinatari, la lettera si rivolge anche a coloro che sono (eccessivamente) presi dagli egky­ klia, le occupazioni quotidiane, in breve, la routine (cfr. Erbì 2020: 191 n. 7). Il riferimento a questa categoria di persone mostra perfettamente, da un lato, il sincero interesse di Epicuro per coloro che non sono filosofi o scien­ ziati della natura di e per professione, dall’altro, il fatto che nessuno è escluso dallo studio serio e rigoroso dei meteora; d’altronde, nessuno è esente dalla paura mentre la felicità è un bene effettivamente disponibile per tutti. Le persone che sono profondamente invischiate negli affari quo­ tidiani non hanno tempo (o perfino le capacità intellettuali) per accostarsi alle opere maggiori dedicate dal filosofo allo studio della natura; per questa ragione il compendio sarà utile anche a loro, date la sua brevità e la sua conseguente rapidità nella consultazione. Va, inoltre, osservato un ulterio­ re richiamo di Epicuro all’importanza della memoria a pochissima distan­ za dal precedente: il compendio dottrinario è veramente efficace se e solo se può essere prontamente ripercorso nella sua interezza dia mnemes, attra­ verso la memoria. L’utilità dell’epitome passa attraverso la memoria, anzi, si basa costitutivamente su di essa. Indubbiamente interessante il fatto che Epicuro ricordi la Piccola epito­ me indirizzata a Erodoto che dovrebbe con ogni probabilità coincidere con l’Epistola a Erodoto trasmessa da Diogene Laerzio nel X libro delle Vite dei filosofi (cfr. Sedley 1998a: 120). Ciò è assai rilevante per almeno due ordini di motivi: in prima istanza è verosimile che Epicuro considerasse i due compendi a Erodoto e a Pitocle come scritti complementari che dovevano essere studiati e meditati insieme. Ciò non stupisce se si pensa che la lettera a Erodoto concerne i fondamenti della physiologia, del tutto essenziali per comprendere la scienza dei meteora; insomma, è come se Epi­ curo mettesse in guardia il suo lettore, affermando che l’una epitome senza l’altra fondamentalmente non hanno senso ma l’una è il completamento dell’altra. Visto questo riferimento all’Epistola a Erodoto si può pensare che Pitocle conoscesse e possedesse questo testo, il che conferma come il com­ pendio, pur avendo uno specifico destinatario (nel caso, Erodoto), in realtà 148

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intendesse deliberatamente rivolgersi a più destinatari. In secondo luogo, questa informazione potrebbe suggerire il motivo per cui Diogene Laerzio trasmise i due scritti l’uno di seguito all’altro; naturalmente si potrebbe anche pensare che si tratti di una scelta di Diogene ma credo che sia molto più probabile pensare che Diogene dipendesse da una qualche “antologia” o raccolta di testi epicurei in cui già si trovavano insieme i due scritti. Il tutto fa pensare che il compilatore di questa raccolta o fosse un epicureo o fosse un buon conoscitore della filosofia epicurea che, pertanto, sapeva bene che i due scritti fossero complementari e reciprocamente integrativi per volontà dello stesso Epicuro. Come già osservato in precedenza, Epicuro decide di richiamare con chiarezza e concisione estreme quello che è l’unico scopo della conoscenza e della scienza all’inizio della lettera. La gnosis – si tenga conto di questo termine che indica una forma di conoscenza scientifica rigorosa – dei feno­ meni celesti è finalizzata e orientata alla ataraxia e alla pistis bebaios. Non credo che questi due concetti formino necessariamente una endiadi sebbe­ ne siano reciprocamente connessi: l’ataraxia è l’imperturbabilità, l’assenza di paure che ostacolano l’ottenimento della felicità mentre la pistis bebaios indica, a mio avviso, la salda fiducia che si ottiene grazie alla scienza, ossia la conoscenza attenta della natura e dei meteora. Si tratta, pertanto, di un duplice telos che indica due diversi momenti: l’imperturbabilità come condizione generale di felicità e la pistis intesa come stato conoscitivo saldo e ben fondato perché rigorosamente scientifico. È interessante notare che Epicuro non parli solo di pistis ma la qualifichi con l’aggettivo bebaios: la pistis che si ottiene tramite lo studio dei meteora non è una vaga, fallace e altalenante fiducia ma è una credenza salda perché fondata su un metodo rigoroso di indagine, è un credere fermamente che le cause di generazione dei meteora non hanno alcunché di divino ma sono spiegabili nei termini della fisica atomista: di qui il venire meno di turbamenti e ansie derivanti tanto dalla non conoscibilità di questi fenomeni quanto dal ritenere che dipendano da cause divine. Si è già richiamata l’attenzione, infine, su un punto importante di questo paragrafo (cfr. supra: 74-76): i fenomeni celesti sono da trattarsi o in connessione reciproca oppure autonomamente. La precisazione non è secondaria: anzitutto Epicuro intende chiarire come la finalità etica dipen­ da dallo studio delle cause dei meteora se li si esamina tanto in relazione tra loro quanto singolarmente. Il dato più significativo (frequentemente trascurato dalla critica e forse perfino pour cause) utile per supportare la coerenza logica del pleonachos tropos (contrariamente alla posizione di Was­ serstein 1978: cfr. supra: 74) è il fatto che è il filosofo stesso ad ammettere la possibilità – che ha conseguenze importanti dal punto di vista metodolo­ 149

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gico – dell’analisi scientifica dei meteora kata synaphen, ossia in relazione reciproca. Ciò vuol dire, insomma, che le cause dei meteora non sono sempre indipendenti tra loro ma possono essere in connessione reciproca in virtù, come già ricordato (cfr. supra: 75), della necessità condizionale o ipotetica, come sembra potersi evincere dalle spiegazioni fornite di alcu­ ni fenomeni. Asserire, quindi, la non compatibilità logica delle cause di fenomeni celesti in relazione tra loro non può delegittimare la coerenza del pleonachos tropos, dal momento che Epicuro sottolinea la possibilità dell’indagine dei meteora non solo autotelos, ma anche kata synaphen. §§ 86-88. L’argomento di questi paragrafi davvero cruciali per la com­ prensione della lettera è la descrizione del metodo delle molteplici spiega­ zioni causali. Se ne è già ampiamente trattato in precedenza (cfr. supra: 53 ss.), pertanto qui ci si limiterà ad alcune sintetiche annotazioni. Epicuro sottolinea subito come la theoria non possa essere la stessa per tutti gli ambiti dell’indagine filosofica come nel caso dei discorsi sui generi di vita (hoi peri bion logoi) o delle questioni riguardanti la physis (sull’e­ spressione di colore peripatetico φυσικὰ προβλήματα cfr. le condivisibili os­ servazioni di Mansfeld 1994: 36-37), per esempio il fatto che i principi fon­ damentali del tutto siano corpo e natura intangibile (to pan soma kai ana­ phes physis) o che indivisibili siano gli elementi (atoma stoicheia). In buona sostanza, Epicuro dice che per l’investigazione in campo etico e per quella circa i fondamenti della fisica non può essere utile l’impiego del pleonachos tropos; la ragione è che questi ambiti possiedono un singolo accordo con i fenomeni (monache […] tois phanomenois symphonia). Più chiaramente: da­ to che questi campi (etica e fisica, escludendo naturalmente la meteorolo­ gia) contraggono, per così dire, un singolo accordo con i fenomeni – ossia: non hanno diverse cause che li spieghino – il metodo di analisi non potrà che essere unitario e univoco. Insomma, per ammettere che il tutto sia cor­ po e natura intangibile o che gli elementi siano insecabili non è possibile o necessario esibire più cause, perché già il singolo accordo con i fenomeni è in grado di giustificare questa conclusione teorica. Interessante, a tale ri­ guardo, l’espressione che chiude il § 87: si tratta di fenomeni celesti che è possibile accadano in più maniere (ἐνδέχεται πλεοναχῶς γίνεσθαι). È impor­ tante non equivocare il significato di ἐνδέχεται: non si tratta di una mera possibilità, secondo l’accezione più immediata e scontata del termine, co­ me a dire che tali meteora possono accadere πλεοναχῶς ma potrebbero an­ che non farlo. Se l’interpretazione che ho proposto è plausibile, ritengo che con ἐνδέχεται Epicuro voglia intendere una specifica “forma” di possi­ bilità (che anche studi recenti hanno contribuito a esplorare ulteriormen­ te: cfr. Masi 2014a; si veda anche Mansfeld-Runia 2020: 773) secondo la

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quale la possibilità tramite cui i meteora si generano πλεοναχῶς è di tipo causale. Le spiegazioni della generazione di questi fenomeni sono possibili nel senso che essi si generano effettivamente in più modi e ogni modo è, per l’appunto, possibile perché indica propriamente una delle cause reali della formazione del fenomeno celeste in questione. In altre parole, quando Epicuro dice che è possibile che un meteoron accada in più modi intende dire che ogni modo è possibile perché ognuno richiama esattamente una causa realmente responsabile della generazione del meteoron. Il § 86 di Pitocle richiama in qualche modo il § 40 dell’Epistola a Erodoto, in cui Epicuro descrive sinteticamente i principi fondamentali del tutto (cfr. Verde 2018f e, ora, Dorandi 2020). Anche lì il filosofo menzionava la natura intangibile o anaphes physis; da un noto passo di Sesto Empirico (M X 2 = 271, p. 350 Usener) sappiamo che la natura intangibile è, per così di­ re, il “nome” generale del vuoto che, a seconda della sua relazione con i corpi, si declina in kenon, topos e chora. Senza ripercorrere ora tale questio­ ne (cfr. Verde 2013c: 103-106), segnalo che l’impiego della medesima espressione per indicare in generale il vuoto nelle due lettere è significativo e non mi pare necessario sostenere che Pitocle sarebbe uno scritto spurio per il fatto che in Erodoto, con ogni probabilità, al § 39 debba leggersi τὸ πᾶν ἐστι (seguendo, dunque, Peter Von der Mühll, sul­ la base della congettura di Pierre Gassendi πῇ μὲν σῶμα, πῇ δὲ κενόν e rifiu­ tando, quindi, la lettura σώματα καὶ τόπος proposta da Hermann Usener). In Erodoto (40) l’anaphes physis appare come il nome del vuoto mentre in Pitocle è uno dei costituenti fondamentali del tutto (τὸ πᾶν); è senz’altro una differenza ma non così cruciale tra i due testi. Inoltre, se la testimo­ nianza di Sesto Empirico è davvero fededegna, Epicuro reputava la natura intangibile come il nome generale del vuoto, il che viene suffragato proprio dal § 86 di Pitocle. Circa la tanto discussa espressione “elementi indivisibili”, a partire da Elementum di Diels (1899: 8-9; contra Vollgraff 1949: 108) è stato anche sostenuto che l’uso di ἄτομα στοιχεῖα potrebbe essere una spia dell’inau­ tenticità della lettera (cfr. Bollack-Laks 1978: 53-54, Arrighetti 1973: 524, nonché Ferrario 2002: 141), sebbene vada ricordato che l’uso di ἄτομος co­ me aggettivo che denota la qualità indivisibile di un corpo è ampiamente attestato in Epicuro (cfr. Keen 1979: 64; si veda anche Corrado 2020). An­ che in questo caso non mi sembra un’argomentazione cogente, soprattutto se si tiene conto del retroterra aristotelico che Epicuro avrebbe potuto be­ nissimo tenere presente (cfr. Mansfeld 1994: 47) e del fatto che nella tradi­ zione epicurea (per esempio in Diogene di Enoanda, fr. 6, I 2-4 Smith, fatte salve la bontà e l’affidabilità delle integrazioni) non mancano esempi di 151

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relazione tra i corpi primi atomici e gli elementi (cfr. anche Alfano Caranci 1984: 18-22 e Wigodsky 2007: 525-526). Tra le altre cose, al di là della pur rilevante mediazione aristotelica (o peripatetico-teofrastea: cfr. e.g. Simpl. In Aristot. Phys. 28 4-31 Diels = 229 FHS&G), non si può tralasciare il fatto che Epicuro abbia impiegato il termine stoicheion (usato, comunque, in opere sicuramente di sua mano: cfr. le occorrenze in Nat. XIV [PHerc. 1148] coll. XXXIV 11 e XXXVI 2 Leone; cfr. ancora Corrado 2020: 274) per indicare propriamente la nozione di un elemento considerato nella sua fisica e materiale corporeità (cfr. Colli 2019: 113-114) e identificato con l’atomo. La conclusione del § 86 vede un appello forte e deciso, anzi necessario, a fare scienza della natura (φυσιολογητέον) come i phainomena richiedono; la natura, pertanto, non va indagata sulla base di (presunte) leggi, teorie o dottrine che sono di norma impiegate prima di considerare i fenomeni da investigare nel loro darsi. Ciò è di estrema rilevanza dal punto di vista epi­ stemologico: una teoria relativa all’esame della natura, secondo Epicuro, non può in nessun caso precedere il fenomeno in oggetto ma la sua elabo­ razione deve necessariamente seguire lo studio del fenomeno ossia del suo manifestarsi. Una teoria presuntamente scientifica che preceda il fenome­ no è vuota e illegittima (cfr. anche supra: 69-71). In poche linee, tra i para­ grafi 86 e 87 Epicuro usa più di una volta l’aggettivo “vuoto” a indicare propriamente l’inutilità di teorie, assiomi e opinioni che non tengono in debito conto i fenomeni. Le opinioni vuote coincidono con la più netta alogia, l’irragionevolezza che conduce direttamente a una vita di assoluto turbamento. Ancora al § 87 Epicuro richiama l’utilità e la fondatezza del metodo delle molteplici spiegazioni causali, considerato come unico anti­ doto, nell’analisi dei meteora, alla alogia da cui si generano turbamento, confusione e paura. Il pleonachos tropos, a differenza di altri assiomi o di al­ tre leggi che studiano la physis, si basa costitutivamente sull’accordo con i fenomeni, che è ciò che rende plausibili e affidabili le spiegazioni addotte. La symphonia tois phainomenois gioca un ruolo importante anche, per così dire, “in negativo”; non è, infatti, solamente la “cartina di tornasole” a cui fare costantemente riferimento per provare la bontà epistemologica e scientifica delle spiegazioni, ma è anche quel “criterio” che esclude netta­ mente tutte quelle spiegazioni che non si accordano con il manifestarsi dei fenomeni. Inoltre, respingere una spiegazione che rispetta in ogni caso la symphonia tois phainomenois è, a gli occhi di Epicuro, un atteggiamento del tutto antiscientifico, contrario alla genuina physiologia e prossimo a quella alogia che conduce tanto alla vita turbata quanto al mito. È interessante qui la menzione del mito: il mythos, per Epicuro, si configura come un’arbitra­ ria ricostruzione teorica non fondata sulla symphonia tois phainomenois. 152

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Non rispettare tale accordo significa non fare scienza e, pertanto, ricadere nelle favole del mito che apportano turbamento e paura. Credo sia doveroso apprezzare l’atteggiamento puramente scientifico di Epicuro improntato alla massima considerazione per la razionalità. Riten­ go, a tale proposito, doveroso aggiungere una riflessione: abbiamo visto in precedenza come il dibattito critico sul pleonachs tropos ha preso in esame la possibilità che questo metodo abbia come finalità privilegata il sozein ta phainomena (cfr. supra: 68-70). Tale posizione, a mio parere, risulta convin­ cente se per sozein ta phainomena intendiamo la symphonia tois phainome­ nois: Epicuro non vuole salvare e preservare a ogni costo i fenomeni per partito preso ma ritiene che l’unico modo di fare scienza è far sì che la phy­ siologia relativamente ai meteora si attenga al manifestarsi dei fenomeni e su questa base li spieghi. Ciò che Epicuro intende davvero salvare è la scienza ed è perfettamente convinto che per fare questo non occorra stricto sensu salvare i fenomeni ma partire dal loro manifestarsi e formulare spiegazioni che siano in accordo con loro. Per tale motivo, forte e chiaro è il richiamo di Epicuro, all’inizio del § 88, al φάντασμα dei fenomeni che rappresenta l’ineludibile punto di avvio per l’analisi scientifica dei meteora; questa, co­ me abbiamo già detto (cfr. supra: 60-62), passa attraverso l’attenta conside­ razione dei σημεῖα. I segni dei fenomeni celesti sono offerti dai fenomeni παρ’ ἡμῖν, quelli che accadono, appunto presso di noi, e che devono avere un rapporto di somiglianza e di analogia con i phantasmata dello specifico meteoron in esame. Come anche il § 55 di Erodoto suggerisce, i fenomeni παρ’ ἡμῖν sono, in sostanza, quelli le cui cause sono direttamente esperibili e non necessitano della mediazione dei semeia. Ancora nel § 88 di Pitocle Epi­ curo accentua l’importanza di questo punto asserendo che tra i meteora e i fenomeni παρ’ ἡμῖν non possa esserci alcuna insolubile contraddizione; nel caso in cui questa si desse, è del tutto evidente che la spiegazione proposta andrebbe o abbandonata o riformulata. I fenomeni παρ’ ἡμῖν sono, quindi, decisivi per il pleonachos tropos; occorre, infatti, badare al fatto che la spie­ gazione della generazione dei meteora non sia smentita (si noti l’uso di un termine tecnico in Epicuro, legato al vocabolario della conferma e della smentita da parte dell’autoevidenza percettiva o enargeia: οὐκ ἀντιμαρτυρεῖται) dai fenomeni che avvengono presso di noi e che siamo in grado di controllare empiricamente. Si è, infine, discusso lungamente sul senso da dare all’espressione ἐπὶ τὰ συναπτόμενα ancora del § 88. Lo studioso che, a mio giudizio, ne ha forni­ to l’esegesi più acuta è stato Bignone (1964: 118 n. 3), seguito fondamental­ mente da Bailey (1926: 280) e da Bollack-Laks (1978: 129). Secondo Bigno­ ne le cose che sono congiunte al phantasma dei meteora sarebbero le opi­ nioni che, sulla base di Hrdt. 50 (ἐν τῷ προσδοξαζομένῳ), si vanno ad ag­ 153

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giungere al manifestarsi stesso del fenomeno celeste. A me pare che per comprendere correttamente questo punto senz’altro controverso occorra riflettere sul significato di τηρητέον e di διαιρετέον in questo contesto: Epi­ curo invita a osservare il phantasma del meteoron e a distinguere le cose la cui generazione pleonachos non sia smentita dai fenomeni che accadono presso di noi in relazione a ciò che è connesso al phantasma. Lo studio del phantasma di un certo fenomeno celeste porta con sé la formulazione di opinioni che ne spieghino la formazione. Quando Epicuro esorta a distin­ guere i fenomeni che accadono in più maniere da quelli che avvengono presso di noi, in ultima analisi, si riferisce anche alla formulazione di opi­ nioni che risulteranno vere se e solo se saranno confermate e non smentite dai fenomeni παρ’ ἡμῖν. Nel momento in cui una opinione sarà vera, il suo contenuto coinciderà con una delle cause che spiegano la generazione del meteoron indagato. I fenomeni παρ’ ἡμῖν, dunque, sono in grado di verifica­ re la tenuta delle opinioni che si formulano a partire dal phantasma del meteoron in esame: potrebbe darsi il caso, infatti, che un certo phantasma conduca all’elaborazione di una opinione falsa, la cui falsità è, appunto, mostrata solo dalla verifica con i fenomeni παρ’ ἡμῖν che, essendo i σημεῖα di quanto avviene ἐν τοῖς μετεώροις, sono in grado di accertare (o meno) il contenuto epistemico e veritativo di un giudizio. In conclusione: tra i meteora e i fenomeni παρ’ ἡμῖν intercorre una stret­ ta relazione di somiglianza e/o di analogia: i secondi sono segni dei primi. Non potendo investigare direttamente le cause della generazione dei meteo­ ra, si ricorre ai semeia a partire, comunque, dal manifestarsi del fenomeno celeste in questione. L’opinione che si formula sulla base del phantasma può essere confermata o smentita dai fenomeni παρ’ ἡμῖν che, sebbene non possano essere il fondamento del pleonachos tropos (che, invece, risiede nel phantasma del meteoron), rimangono l’autentico banco di prova della verità (o della falsità) di quelle asserzioni che, se vere, spiegano le cause della generazione del meteoron. Se questa interpretazione è corretta, si comprende bene l’invito di Epicuro a osservare il phantasma e a distinguere le opinioni vere da quelle false ricorrendo a quei fenomeni che avvengono παρ’ ἡμῖν. § 88. Il primo meteoron che Epicuro decide di trattare nella lettera è il kosmos; la descrizione del cosmo come porzione del cielo (περιοχή τις οὐρανοῦ; cfr. parallelamente Aristot. De cael. I 9, 278b 18-24, nonché Plat. Tim. 33b 2; su περιοχή si veda anche Mansfeld-Runia 2020: 756) distaccata dall’infinito ricorda da vicino la posizione di Leucippo, almeno sulla base di quanto trasmette Diogene Laerzio (IX 31 = 67 A 1 DK = VII 27 D80b LM). Secondo l’atomista i mondi si formerebbero separandosi nettamente dallo spazio infinito (κατὰ ἀποτομὴν ἐκ τῆς ἀπείρου); la nozione di apotome 154

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è presente anche nel contesto del presente paragrafo. Come per Leucippo e Democrito, anche per Epicuro i cosmi/mondi sono illimitati di numero per l’infinità degli atomi che si muovono nel vuoto e che, dunque, hanno la possibilità di aggregarsi (cfr. Hrdt. 45 e Leone 2012: 49-68 per i paralleli­ smi col II libro del Peri physeos). Come per la tradizione atomista preceden­ te, per Epicuro la nozione di kosmos indica una porzione delimitata dello spazio infinito nella quale la materia, organizzandosi e strutturandosi, si è aggregata formando gli astri e la terra; probabilmente con quest’ultimo ter­ mine (ge) Epicuro intende significare un pianeta simile al nostro con simili condizioni di vita (cfr., in generale, sul tema Sedley 2011: Cap. 5). Se que­ sto è vero, in ogni cosmo deve esistere una sorta di “pianeta Terra”, degli astri e dei fenomeni cosicché vi sia una certa somiglianza reciproca tra i co­ smi ma naturalmente non una piena e assoluta identità (cfr. Lucret. II 1070-1076, 1084-1089), tenendo conto della varietà degli atomi, ma anche della finitezza delle loro forme (dovuta al numero finito dei minimi atomi­ ci), il che limita, appunto, le modalità possibili di aggregazione. Rispetto al cielo e allo spazio vuoto illimitato, i cosmi sono, dunque, regioni che pos­ siedono un confine esterno (in movimento o in quiete: cfr. Bailey 1926: 282; cfr. anche Lucret. V 510-516) che coincide con uno stato di materia che può essere rado o fitto (cfr. Aët. Plac. II 7, 3, Dox. 336, M-R 846 = 303 Usener). Epicuro descrive il dissolvimento a cui i mondi sono destinati (cfr. Hrdt. 73 e Lucret. II 1133-1145) col termine σύγχυσις che indica una condizione di rovina e di confusione. In questo contesto credo che σύγχυσις debba essere inteso in senso materiale: si tratta della confusione/ rovina degli atomi che, al momento della dissoluzione, si disgregano, di­ sperdendosi nel vuoto infinito ed eventualmente muovendosi per aggre­ garsi di nuovo e formare nuovi mondi. Come si legge al § 74 di Erodoto i mondi non hanno una sola forma ma possono averne diverse, anzi ne sono possibili molte (non credo che con πανταχῶς qui si intendano tutte le for­ me – ciò è contraddetto dalla limitatezza delle forme atomiche – ma molte forme o, molto più plausibilmente, tutte le alternative precedentemente menzionate: cfr. Bailey 1926: 283 e Bollack-Laks 1978: 135). Tale descrizio­ ne del cosmo e, più in particolare, la molteplicità delle forme concreta­ mente possibili che i mondi possono assumere, non sono contraddette dai fenomeni (ritengo che il riferimento sia necessariamente a quelli παρ’ ἡμῖν). Nella lettera Epicuro ammette che i cosmi possano avere forma rotonda o triangolare o di qualsiasi altro perimetro (καὶ στρογγύλην ἢ τρίγωνον ἢ οἵαν δήποτε περιγραφήν); quest’ultimo punto solleva delle notevoli diffi­ coltà (cfr. Gregory 2007: 174). Che un cosmo possa avere più forme rispet­ to a quella sferica (la sola ammessa da Aristotele, come si legge, per esem­ 155

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pio, nel De caelo, II 2, 285a 32-b 1 e II 3, 286a 10-12; ciò induce a credere che qui si celi una marcata polemica di Epicuro nei riguardi di Aristotele – cfr. Mansfeld 1994: 37-40 –, ma, chiaramente, anche nei confronti di Plato­ ne: cfr. Tim. 33b), come quella triangolare non fa problemi; problematica, invece, è la successiva asserzione per cui il cosmo può possedere qualsiasi perigraphe. Se consideriamo il § 74 di Erodoto la contraddizione con Pitocle sembra palese: i cosmi possono avere più forme ma non ogni forma (οὐ μέντοι πᾶν σχῆμα ἔχειν). Se i cosmi possono avere ogni forma, infatti, an­ che gli atomi dovrebbero possedere tutte le infinite forme possibili, il che è fortemente contraddetto da Epicuro. Pur rimanendo questo punto alquan­ to ambiguo, si potrebbe pensare che la perigraphe alluda non alla forma ma al perimetro nel senso dell’estensione, tuttavia questa accezione di perigra­ phe non è attestata (si vedano le versioni inglesi limit e termination di peri­ graphe date dal LSJ). D’altronde, se Epicuro avesse voluto dire che i cosmi hanno qualsivoglia estensione, ciò sarebbe stato smentito dai fenomeni: un cosmo, infatti, potrebbe avere estensione illimitata, il che contraddirebbe il numero altrettanto illimitato dei cosmi (un cosmo infinito occuperebbe, infatti, tutto lo spazio disponibile e, pertanto, non vi sarebbe posto per al­ tri cosmi). Un cosmo, inoltre, non può essere di estensione illimitata, dato che un cosmo è una porzione limitata del cielo (περιοχή τις οὐρανοῦ). Per uscire dall’impasse si potrebbe più correttamente ipotizzare che è possibile ammettere qualsiasi perigraphe dei cosmi ma nell’ambito delle (limitate) forme della conformazione degli atomi. In breve, Epicuro non starebbe di­ cendo che i cosmi possono assumere tutte le perigraphai ma solo quelle rese possibili dalle forme degli atomi che, per quanto siano inconcepibilmente elevate, rimangono di numero limitato così come le conformazioni delle aggregazioni. L’espressione τῷδε τῷ κόσμῳ non mi sembra riferibile al nostro mondo (come vuole la versione di Bignone 1964: 120) ma alla descrizione del kosmos che Epicuro ha appena condotto (cfr. Bollack-Laks 1978: 135): il senso, quindi, è che il cosmo come Epicuro lo ha qui tratteggiato non è smentito dai fenomeni che siamo in grado di controllare empiricamente. Alquanto enigmatica risulta essere, infine, la frase conclusiva del paragrafo, in cui, con riferimento a τῷδε τῷ κόσμῳ, si legge ἐν ᾧ λῆγον οὐκ ἔστι καταλαβεῖν, «nel quale non è dato di comprendere un termine». Secondo Bignone (1964: 120) il significato di λῆγον sarebbe quello di «confine estre­ mo»; grosso modo sulla stessa linea si attesta la posizione di Bailey (1926: 183), secondo il quale la frase significherebbe che non siamo in grado di percepire la natura dell’estremità del nostro mondo. Una soluzione alter­ nativa e più convincente è offerta da Bollack-Laks (1978: 135): «l’absence, pour la limite, de propriétés définies n’entame pas la validité de la défini­ 156

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ton initiale du κόσμος». Credo sia utile intenderci sul termine λῆγον che, nella successiva logica stoica (cfr. e.g. Diog. Laert. VII 73 = SVF II 215; cfr. anche Sext. Emp. M VIII 112), sarà utilizzato per indicare il “conseguente” (mentre ἡγούμενον è l’antecedente). Nulla di tutto questo, naturalmente, è riscontrabile in Pitocle; il significato di λῆγον in questo contesto è quello di “fine” o “termine”. A mio avviso, Epicuro sta dicendo che la tipologia di cosmo appena descritta non viene smentita dai fenomeni (dunque è vera), tuttavia è scorretto asserire che la descrizione del cosmo e delle sue forme offerta in precedenza sia l’unica possibile: non si dà, insomma, una descrizione “terminale” (ossia finale e definitiva) proprio perché vi posso­ no essere ulteriori spiegazioni (quindi ulteriori tipi e forme di cosmo) che non sono smentite dai fenomeni. Se questo è vero, da questa espressione è possibile raggiungere una conclusione importante: le spiegazioni fornite in Pitocle non esauriscono la natura dei meteora di cui mostrano solo alcune delle cause della generazione. Su questo punto preciso, occupandosi, tra l’altro, proprio della definizione di kosmos in Pitocle, Mansfeld (1994: 37-41), se capisco bene, conclude che per certi fenomeni «the method of the ‘plural way’ is inappli­ cable» (41) e che «[A]t Ad Pyth. 86 Epicurus says that all ‘meteorological’ questions admit of multiple solutions, but we shall see that this is not really the case» (36 n. 24). Ritengo utile, in Pitocle, distinguere tra la mera descrizione di un fenomeno e le sue cause generative. Nel caso del κόσμος Epicuro è assai preciso nel dire che si tratti di una περιοχή τις οὐρανοῦ; non vengono date alternative ma ciò avviene solo a livello della semplice descrizione di un fenomeno, che evidentemente non potrebbe avere una descrizione altra o, appunto, alternativa, pena la lesione del criterio stesso della symphonia con i fenomeni. In breve, un cosmo deve essere sempre una περιοχή τις οὐρανοῦ perché, se si ammette che i cosmi sono illimitati (e ciò non riceve alcuna controattestazione da parte dell’enargeia), è impossibile che un solo cosmo sia di per sé illimitato. Da questo punto di vista, non mi sembra che la posizione di Epicuro sia in contraddizione con il pleonachos tropos esibito, invece, con piena coerenza per tutta la lettera. § 89. Trattandosi di un tema di particolare rilevanza – che, come è noto, segna anche la netta differenza della tradizione atomista dalle cosmologie di Platone (cfr. e.g. Tim. 31b) e Aristotele (cfr. e.g. De cael. I 5, 271b 1-279a 18) – Epicuro continua a occuparsi dell’infinità dei mondi. È interessante l’uso del verbo καταλαβεῖν che torna in questo paragrafo dopo essere stato citato poco prima; con Bollack-Laks (1978: 135) e differentemente da Bai­ ley (1926: 283) – che, tra l’altro, ritiene che questo verbo abbia due accezio­ ni diverse a così poca vicinanza, il che mi pare poco probabile – sono del parere che καταλαβεῖν indichi un’operazione cognitiva di tipo intellettuale 157

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come il “cogliere”, l’“afferrare”, il “comprendere”. Secondo Epicuro, è, quindi, possibile ammettere (senza che vi siano fenomeni che lo smentisca­ no) che i cosmi siano numericamente illimitati; il filosofo torna ancora sul­ le modalità di formazione del cosmo che viene ammessa come possibile tanto in un altro cosmo quanto in un metacosmo. Per comprendere questo passo bisogna tenere a mente che la generazione dei cosmi è strettamente connessa alla presenza (cospicua) di materia atomica. Per questa ragione un cosmo può formarsi anche all’interno di un altro cosmo, laddove ci sia ancora materia atomica non completamente esaurita dal cosmo “ospitan­ te”. Lo stesso ragionamento vale per l’altra possibilità prospettata; il meta­ cosmo è un intervallo tra i cosmi (μεταξὺ κόσμων διάστημα; al riguardo cfr. Rescigno 1996: 57-96, spec. 61-66) noto non tanto per motivi cosmologici ma teologici (cfr. Piergiacomi 2017: 162-167). Gli spazi tra i mondi (gli in­ termundia, come si legge per esempio in Cic. ND I 8, 18 = 367 Usener; cfr. inoltre anche Lucret. V 146-147; Cic. Div. II 17, 40 = adn. p. 234 Usener; Sen. De benef. IV 19 = 364 Usener; ‘Hipp.’ Ref. I 22, 3 = 359 Usener), infatti, sono le sedi degli dei beati e incorruttibili; in questo modo Epicuro ha in­ ferto un micidiale colpo alla cosiddetta teologia astrale (su cui è d’obbligo rinviare a Festugière 1949, nonché all’utilissima panoramica offerta da Boyancé 1952), che trova il suo “vangelo” nell’Epinomide (cfr. Simeoni 2012), asserendo la non coincidenza tra gli dei e i pianeti/astri (cfr. Philod. De dis III (PHerc. 152/157) coll. VIII-IX Essler e Plutarch. Adv. Col. 1123A = 342 Usener; cfr., al riguardo, anche Solmsen 1968a). Nel contesto del para­ grafo in esame, Epicuro non si occupa di questioni teologiche ma analizza in termini fisici la nozione di metakosmion. Lo spazio tra cosmi può ospita­ re la formazione di un cosmo ulteriore perché, pur essendo molto vuoto (ἐν πολυκένῳ τόπῳ; frequente l’uso di questo aggettivo in Nat. II: cfr. Leo­ ne 2012: 706), non è del tutto vuoto ma può eventualmente conservare quella materia atomica sufficiente per la generazione di un cosmo. Epicuro prende le distanze da altri filosofi che, al contrario, ammettevano la possi­ bilità che un cosmo si potesse generare in uno spazio grande e completa­ mente vuoto. I τινές a cui il filosofo allude potrebbero essere gli Atomisti più antichi (cfr. Runia 2018: 391), in particolare Leucippo (se così fosse, la notizia laerziana – X 13 = 67 A 2 DK = VII 27 R80 LM = 13 Longo Auric­ chio – secondo la quale Epicuro ed Ermarco avrebbero negato l’esistenza di Leucippo – che sarebbe, però, stata ammessa dall’epicureo Apollodoro – si rivelerebbe poco affidabile e forse perfino tendenziosa). Sulla base di Diogene Laerzio (IX 31 = 67 A 1 DK = VII 27 D80b LM) e dell’autore della Refutatio (‘Hipp.’ Ref. I 12, 2 = 67 A 10 DK = VII 27 D81 LM) veniamo a conoscenza del fatto che per Leucippo la formazione dei cosmi avviene in un grande vuoto (εἰς μέγα κενόν) che va a ospitare grandi masse di materia, 158

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le quali, una volta raccolte insieme, danno avvio al vortice cosmogonico (δίνη). Epicuro è di diverso avviso: la generazione di un kosmos non può av­ venire in uno spazio assolutamente vuoto ma in uno spazio grandemente vuoto, nel quale vi sia in ogni caso materia atomica. Ciò viene spiegato nel­ la conclusione del paragrafo dove, non essendoci nessun cenno al vortice cosmogonico (come nella tradizione atomista), si legge che si danno semi/ spermata (ossia gli atomi, di cui si accentua la loro natura generatrice, per­ seguendo, per analogia, il modello tipicamente biologico: cfr. paradigmati­ camente Solmsen 1968b, nonché Taub 2012: 54-58 e, più in generale, Maso 2016a) adatti alla formazione dei cosmi. Non tutti gli atomi, pertanto, so­ no capaci di generare cosmi ma solo quelli adatti; questi fluiscono da un cosmo, da un metacosmo o perfino da altri cosmi, e si raccolgono insieme fino a generare il corpo del cosmo. È utile confrontare questo passo con i versi finali del II libro del poema lucreziano (1105 ss.), nei quali il poeta descrive la cosmogonia sulla base di diverse fasi di “crescita” (cfr. Furley 1989: 229-230); la raccolta, l’assimi­ lazione e la giustapposizione del materiale atomico (naturalmente adatto a questo fine) raggiungono un livello di crescita tale da essere, nei termini dell’Epistola a Pitocle, compiuto e stabile, ossia uno stato che non ammette l’aggiunta di altra materia. Come Lucrezio afferma con chiarezza, alla fase di crescita corrisponde quella, per così dire, della “decrescita”; una volta toccato il culmine dell’accrescimento materiale poco per volta inizia il decadimento (cfr. II 1128-1138). L’immagine impiegata dal poeta in questi versi è molto efficace: quanto più un corpo è grande e voluminoso, nel momento in cui la sua crescita si è arrestata, tanto più è facile che inizi a perdere materia, spargendola ed emettendola qua e là. Lo stesso deve pensarsi dei mondi che si disgregano e decadono nella misura in cui, dopo la fase dell’accrescimento massimo, iniziano a perdere materia e, quindi, a sfaldarsi definitivamente. § 90. Ancora in questo paragrafo Epicuro continua a trattare della co­ smogonia, più in particolare per differenziare la sua posizione da qualcuno dei cosiddetti fisici (τῶν φυσικῶν καλουμένων φησί τις), un’espressione al­ quanto spregiativa e diffidente soprattutto perché il filosofo sembra consi­ derare costui (o costoro) non dei veri e autentici fisici (evidentemente perché non professavano la physiologia così come la intendeva Epicuro!). Il bersaglio polemico sembra appartenere ancora una volta alla tradizione atomista precedente da cui il filosofo intende prendere nettamente le di­ stanze. Si noti che lo fa in un compendio, in uno scritto breve: da ciò si comprende come questa polemica fosse molto rilevante per Epicuro. L’i­ dentificazione del destinatario della critica è facilitata dalla menzione del vortice (δῖνον) e della necessità (ἐξ ἀνάγκης). Come abbiamo già ricordato 159

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in precedenza (cfr. supra: 158-159), gli Atomisti – che, giova ricordarlo, Epicuro, in un noto passo del XXV libro del Peri physeos ([34] [30] Arri­ ghetti = Laursen 1997: 40), stimava come degni αἰτιολογήσαντες, ai quali, tuttavia, sembra contestare l’aver posto come cause di tutto la necessità e il caso – ammettevano il vortice cosmogonico all’interno del quale i corpi atomici si organizzano raccogliendosi i simili con i simili; dopo la conclu­ sione del rapido movimento circolare del vortice, gli atomi più minuti fuo­ riescono nel vuoto esterno mentre gli altri si aggregano formando un cor­ po sferico (cfr. Diog. Laert. IX 31 = 67 A 1 DK = VII 27 D80b LM; cfr. an­ che Perilli 1996: 87-101). Questa è la posizione che Diogene ascrive a Leu­ cippo; anche Democrito condivide con Leucippo la dottrina del vortice (cfr. Diog. Laert. IX 45 = 68 A 1 DK = VII 27 D14 LM) che, tuttavia, identi­ fica esplicitamente con la necessità, per quanto anche nella fisica di Leucip­ po la necessità giochi un ruolo decisivo (cfr. Aët. Plac. I 25, 4, Dox. 321, MR 655 = 67 B 2 DK = VII 27 D73 LM). Per questo motivo credo che non sia storicamente corretto individuare dietro il tis o Leucippo o Democrito ma forse Epicuro intendeva riferirsi alla tradizione atomista a lui precedente tout-court; va anche detto, in ogni caso, che la stretta relazione tra il vortice e la necessità nel passo di Pitocle in esame sembra essere preponderante so­ prattutto in Democrito. Come che sia, Epicuro ritiene che un semplice am­ masso di materia e soprattutto il vortice coincidente con la necessità non sono in grado di formare un cosmo. Epicuro, inoltre, attacca l’idea che un cosmo aumenti di grandezza a tal punto da scontrarsi con un altro e, infi­ ne, frantumarsi. Si ritrova questa posizione in un passo della Refutatio (‘Hipp.’ Ref. I 13, 3 = 68 A 40 DK = VII 27 D81 LM) dove l’autore, trattan­ do di Democrito, riferisce che, secondo il filosofo, la distruzione di un mondo avverrebbe a causa di un altro che si abbatte su di esso. È, quindi, verosimile concludere che Epicuro avesse di mira proprio questa dottrina democritea che egli rifiutava perché in contrasto con i fenomeni (τοῦτο γὰρ μαχόμενόν ἐστι τοῖς φαινομένοις). Non è affatto necessario che il vortice e la necessità siano le condizioni per la formazione di un cosmo e nemme­ no è necessario che un cosmo venga abbattuto da un altro cosmo, dopo es­ sere cresciuto esponenzialmente. Epicuro, come è suo consolidato costu­ me, si richiama alla testimonianza dei fenomeni (presso di noi) che scon­ fessano e smentiscono che questo tipo di meteoron avvenga in tale modo. Dopo questa breve sezione polemica, il paragrafo si chiude con un sinte­ tico riferimento agli ἄστρα che costituiscono il cosmo (inteso, pertanto, co­ me una sorta di “contenitore” che racchiude gli astri e, conseguentemente, i meteora); Epicuro sottolinea la generazione non indipendente degli astri, tra i quali annovera il sole e la luna, che, dunque, si costituiscono non in maniera autonoma ma in stretta relazione al cosmo, di cui sono parti 160

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integranti (segnalo che l’espressione ἥλιός … καὶ τὰ λοιπὰ ἄστρα si legge anche nel PHerc. 1670 che contiene un interessantissimo scritto, probabil­ mente filodemeo, forse Sulla provvidenza, nel quale la polemica con gli Stoici sulla pronoia concernente anche i meteora e il moto degli astri doveva occupare larghe porzioni dell’opera: cfr. Ferrario 1972: 81-82 ed Ead. 2002: 140). Torna qui il tema dell’accrescimento causato dalla materia atomica che, come abbiamo già notato, è decisivo nella cosmogonia epicurea; in precedenza, la materia atomica era stata definita come adatta alla formazio­ ne di cosmi. Qui ne comprendiamo la ragione; la materia atomica – che si aggrega anche grazie a movimenti circolari (κατὰ προσκρίσεις καὶ δινήσεις) che, tuttavia, poco o nulla hanno a che fare col vortice cosmogonico della tradizione leucippo-democritea – idonea alla generazione degli astri è di natura sottile ventosa o ignea oppure possiede entrambi i caratteri. Per provare tutto ciò Epicuro ricorre al banco di prova della αἴσθησις che conferma e non smentisce questa descrizione. La sezione testuale ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα è apparsa a Bignone (1964: 122 n. 3) una glossa; sulla scorta delle preziose osservazioni di Arri­ ghetti (1973: 525-526), sono dell’avviso che non vi siano motivazioni così forti e necessarie da privare Pitocle di questa parte. Il discorso di Epicuro, infatti, mi appare coerente: tenendo sullo sfondo specialmente il passo del Timeo (38c) efficacemente segnalato da Arrighetti (oltre a un luogo democriteo: [Plutarch.] Strom. 7, Dox. 581 = 68 A 39 DK = VII 27 D77 e 87 LM), Epicuro propone la tesi che gli astri non si siano prodotti in un secondo momento rispetto al cosmo ma che tutto si sia formato insieme e gradualmente come anche la terra e il mare (nel senso che non si sono for­ mati l’uno dopo l’altro ma insieme sin dall’inizio e poi progressivamente strutturatisi). A tale proposito occorre fare, in conclusione, una precisazione impor­ tante; potrebbe sembrare che nelle spiegazioni dei fenomeni, come nel ca­ so della generazione e dello sfaldamento dei kosmoi, Epicuro non impieghi apertamente il pleonachos tropos. In realtà, questo è falso; Lucrezio e un pas­ so di Aezio (Plac. II 4, 13, Dox. 331, M-R 795 = 305 Usener) contribuiscono a gettare luce su questo punto. Secondo Lucrezio almeno tre sono le cause della corruzione dei mondi: (1) il declino o perdita di materia che segue necessariamente al massimo accrescimento (II 1118-1138); (2) la dissoluzio­ ne dell’intero a opera della corruzione delle parti (V 235-246, 364-379); (3) le catastrofi periodiche, come incendi e diluvi (V 380-415). Aezio trasmet­ te la notizia che per Epicuro molteplici sono i modi in cui un mondo si corrompe (Ἐπίκουρος πλείστοις τρόποις τὸν κόσμον φθείρεσθαι) come molteplici sono le modalità di corruzione di un animale e di una pianta. Lo studio recente di Runia (2018: 400-406) ha mostrato persuasivamente 161

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come i Placita siano una fonte particolarmente affidabile in riferimento alla filosofia epicurea, soprattutto dal punto di vista della terminologia tec­ nica. Nei paragrafi di Pitocle dedicati ai kosmoi Epicuro non descrive affatto le diverse modalità di corruzione dei mondi ma si limita a polemizzare con la tesi che abbiamo or ora approfondito. Da Aezio, però, sappiamo che i tropoi della corruzione dei mondi erano molteplici; Epicuro non li ha esplicitati in Pitocle evidentemente perché si tratta di un compendio e probabilmente perché all’inizio dell’epitome era più interessato alla forma­ zione dei kosmoi. Inoltre – e questo è il punto decisivo –, bisogna tenere conto di due que­ stioni metodologiche fondamentali che è bene ribadire per comprendere correttamente la struttura argomentativa della lettera. In primo luogo, se anche Epicuro non esplicita diverse modalità di generazione di un dato me­ teoron non significa che non ne abbia ammesse molteplici; potrebbe non volerle enumerare in una epitome, considerando il suo carattere conciso. In secondo luogo, nel caso in cui Epicuro fornisca una sola spiegazione causale di un meteoron non vuol dire che tale spiegazione esaurisca tutte le altre, cioè sia l’unica possibile. È, piuttosto, l’unica che Epicuro ha voluto presentare e inserire nella lettera, senza contravvenire così al pleonachos tropos. § 91. Questo paragrafo della lettera è probabilmente uno dei più noti perché uno dei più discussi, essendo il tema centrale quello della grandez­ za del sole, un argomento, questo, tra i più dibattuti nel pensiero antico da parte delle varie scuole filosofiche, almeno a partire dai filosofi preplatoni­ ci. Oltre ad Anassagora, che considerava il sole molte volte più grande del Peloponneso (cfr. Aët. Plac. II 21, 3, Dox. 351, M-R 992 = 59 A 72 DK; è forse a partire dalla posizione di Anassagora che Archelao, suo discepolo e maestro di Socrate, reputava il sole la più grande delle stelle: cfr. Diog. Laert. II 17 = 60 A 1 DK = VI 26 D3 LM e ‘Hipp.’ Ref. I 9, 3 = 60 A 4 DK = VI 26 D2 LM; sulla considerazione epicurea di Archelao cfr. infra: 208) o ad Aristotele, che ammetteva che il sole apparisse della grandezza di un piede laddove si è convinti che sia più grande della terra abitata (cfr. De an. III 3, 428b 3-4, nonché Sen. NQ I 3, 10), si pensi, per esempio, a Eraclito, al quale la tradizione dossografica e quella papirologica – il riferimento è alla col. IV 5-9 del Papiro di Derveni = III 9 D89a LM – attribuiscono la tesi che il sole fosse della dimensione di un piede umano (cfr. Aët. Plac. II 21, 4, Dox. 351, M-R 992 = 22 B 3 DK = III 9 D89b LM; Plutarch. De exil. 604A = 22 B 94 DK = III 9 D89c LM con il commento di Fronterotta 2013: 128-132). È interessante ricordare, a tale proposito, che, del tutto gratuita­ mente e polemicamente, Cleomede – Cael. II 1, 404-406 Todd – attribuisce la stessa opinione a Epicuro, laddove il filosofo non ha mai esplicitato che 162

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la grandezza del sole fosse di un piede, almeno sulla base delle testimo­ nianze note (su Cleomede ed Epicuro cfr. Algra 2000). Forse non è fortuito che proprio in questo paragrafo della lettera si trovi il primo scolio; si po­ trebbe pensare, infatti, che l’anonimo scoliasta fosse ben consapevole non solo di quanto questo argomento fosse rilevante per Epicuro (e per gli Epi­ curei), ma anche del fatto che la posizione epicurea andava a collocarsi nel più ampio dibattito sul tema intercorso tra i diversi indirizzi filosofici pre­ cedenti e coevi (e verosimilmente anche successivi, se questo scoliasta visse dopo Epicuro, il che è probabile) la scrittura della lettera. Il tema della grandezza del sole, dunque, giocava un ruolo importante nei dibattiti tra le scuole filosofiche ellenistiche non solo dal lato più strettamente scientifico e astronomico, ma soprattutto dal punto di vista epistemologico. Oggetto della discussione, in particolare tra Stoici ed Epicurei (cfr. Philod. Sign. [PHerc. 1065] coll. IX 12-XI 9 De Lacy-De Lacy circa il dibattito sulle di­ mensioni solari tra Zenone di Sidone e lo stoico Dionisio di Cirene), era la capacità che i sensi possiedono di conoscere le effettive dimensioni del sole (cfr. Dem. Lac. PHerc. 1013, col. XXII 6 Romeo). Epicuro è molto chiaro quando afferma che pros hemas il sole (così come gli altri astri; l’aggiunta ⟨καὶ σελήνης⟩ da parte di Usener al principio del § 91, prima di καὶ τῶν λοιπῶν ἄστρων non mi sembra granché necessaria, benché al § 92 si legga ἡλίου καὶ σελήνης καὶ τῶν λοιπῶν ἄστρων) è tale quale appare; ciò significa che la grandezza del sole è tale quale appare a noi, alle nostre dirette sensazioni. L’anonimo scoliasta aggiunge poi una notazione importante che mostra bene come in alcune parti dell’Epistola a Pitocle Epicuro riprenda in sintesi ciò che più dettagliatamente aveva tratta­ to nell’undicesimo libro del Peri physeos. Ciò fa pensare che questo scolia­ sta dovesse avere una conoscenza non poco dettagliata della filosofia e del­ la produzione di Epicuro, il che, tuttavia, non può significare, in termini di certezza, che lo scoliasta fosse un epicureo. Mi pare indubbia, invece, da parte sua, la conoscenza del Peri physeos, una conoscenza che oserei (con prudenza) definire diretta. Se lo scoliasta non era un filosofo epicureo, ciò potrebbe mostrare come la diffusione dell’opus magnum di Epicuro non fosse così circoscritta al Kepos (cfr. Dorandi 2015 e Id. 2019). Come che sia la questione (sulla quale abbiamo poche certezze e non possiamo che affi­ darci a sensate congetture), il dato che mi sembra più significativo è che nello scolio sia introdotta un’argomentazione relativa alla grandezza del sole che Epicuro non menziona in Pitocle. Ma iniziamo, appunto, dalla let­ tera. Epicuro distingue subito e in maniera netta tra la grandezza del sole pros hemas e la grandezza del sole kath’hauto; questa distinzione indica come il filosofo conoscesse la divisione – originariamente di Platone (Soph. 255c) 163

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e poi divenuta formalmente academica con Senocrate (Simpl. In Aristot. Cat. 63 22-25 Kalbfleisch = F15 Isnardi Parente2; cfr., da ultimo, Granieri 2021) che, forse, insieme a Ermodoro (Simpl. In Aristot. Phys. 247 30-248 15 Diels = F5 Isnardi Parente2), influenzò direttamente Aristotele (cfr. Duncombe 2018: 133 relativamente a Cat. 7) – tra “assoluto” e “relativo”, καθ’ αὑτό e πρός τι. Non solo Epicuro, ma anche la tradizione epicurea, con Polistrato in testa, eredita e impiega quest distinzione categoriale (cfr. Isnardi Parente 1971 e Sedley 2018: 108-112). Aristotele stesso, inoltre, in un passo molto significativo del I libro della Meteorologia, occupandosi delle stelle, distingue chiaramente tra come appaiono e come sono in sé (cfr. Meteor. I 6, 343b 32-344a 2; a tale riguardo di particolare rilievo anche Plat. Phaed. 111c). Per noi, ovvero per le nostre sensazioni, la grandezza del sole è tale quale appare (phainetai), mentre in se stesso la sua grandezza può variare rispetto a quanto appare. Per provare questa posizione Epicuro richiama l’esempio dei fuochi (un fenomeno, quindi, παρ’ ἡμῖν), la cui grandezza nella nostra esperienza non appare così diversa da come sono percepiti. Il ricorso al criterio dell’autoevidenza percettiva (enargeia) è cruciale per provare la veridicità della sensazione (aisthesis); esaminando ora il contenu­ to dello scolio, nel Peri physeos Epicuro molto probabilmente tentava di risolvere il problema della distanza che farebbe diminuire la grandezza di un oggetto. Epicuro confuta questa posizione, sostenendo che se la distanza facesse diminuire la grandezza degli oggetti, anche il colore e la luce dovrebbero rimpicciolirsi o ridimensionarsi ma questo non avviene, se si tiene conto, appunto, dell’esempio dei fuochi terrestri. L’enigmaticità di questo paragrafo risiede nel fatto che Epicuro, in ultima analisi, non dice chiaramente se la grandezza del sole sia quella che appare a noi, ossia alle nostre sensazioni, oppure quella che è in sé; è innegabile, infatti, che tra la grandezza pros hemas e la grandezza kath’hauto esiste una differenza, sebbene – e questo è il punto importante (si veda oltre) – non sia così ampia. Una posizione del genere poteva facilmente essere equivocata, fraintesa e diventare oggetto di polemica da parte dei detrattori della fisica epicurea. In effetti, ciò accadde, come sappiamo grazie al II libro dei Caelestia di Cleomede (II 1) che probabilmente visse intorno alla seconda metà del II secolo d. C. e che utilizzò per la composizione del suo “manuale” di astronomia materiale stoico e anche (ma non esclusivamente) posidoniano (cfr. Goulet 1980: 11-15 e Bowen-Todd 2004: 5-17). Occorre avere estrema prudenza nel considerare la “sezione epicurea” dei Caelestia come una fonte davvero attendibile per ricostruire la posizione di Epicuro sulla grandezza del sole. Non di rado le ragioni polemiche, infatti, prendono 164

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il sopravvento sulla verità storica. In ogni caso, gli Stoici (e in particola­ re Posidonio) con ogni probabilità polemizzarono contro la concezione epicurea della grandezza del sole, che venne, poi, difesa in uno scritto molto probabilmente attribuibile all’epicureo Demetrio Lacone (cfr. Del Mastro 2014a: 20 n. 165) e conservato nel PHerc. 1013 (si veda ancora oltre). Solo molto brevemente sembra che, nell’ambito del dibattito sulla grandezza del sole, in qualche modo l’“attitudine difensiva” che troviamo in Demetrio sia rintracciabile anche in Lucrezio (V 585-609; testo e trad. Giancotti, leggermente modificata): Infine tutti i fuochi del cielo che vedi di quaggiù: poiché tutti che scorgiamo sulla terra, finché il loro scintillìo chiaro, finché la loro fiamma è scorta, solo un tantino si vedono talora mutare in più o in meno la loro grandezza, a seconda della distanza, si può concludere che di pochissimo possono essere minori di come ci appaiono o d’un’esigua e breve parte maggiori. Neppure di questo ci si deve stupire, come il sole, pur così piccolo, possa emettere tanta luce da riempire dei suoi raggi i mari e tutte le terre e il cielo, e inondare del suo ardente calore tutte le cose. Può darsi infatti che in tutto il mondo s’apra di qui l’unica fonte che faccia scaturire con flusso abbondante e prorompere la luce, perché da ogni parte del mondo in tal modo gli elementi ignei si raccolgono e in tal modo il loro ammasso confluisce cosicché l’ardore sgorga qui da un’unica sorgente. Non vedi anche quanto ampiamente una piccola fonte d’acqua talora inondi i prati e trabocchi sulla pianura? Può anche essere che dal fuoco del sole, benché non grande, una vampa invada l’aria col suo fervere ardente, se per caso l’aria è così convenientemente acconcia da potersi accendere colpita da vampe leggere; come talora da una sola scintilla vediamo piombare su messi e stoppie un incendio diffuso. Quando il poeta scrive che non ci deve stupire che la piccolezza del sole sia effettivamente capace di emanare moltissima luce (qui l’uso dell’analo­ gia con i fenomeni che accadono par’hemin è decisivo: una piccola fonte d’acqua, infatti, è in grado di inondare grandi spazi), non si può escludere la possibilità che egli stia rispondendo a una critica stoica (riportata da Cleomede: Cael. II 1, 357-413 Todd), per cui sarebbe impossibile che il sole così piccolo possa avere una dynamis così grande da illuminare l’intero cie­ lo, riscaldare la terra, generare la vita e causare l’andamento delle stagioni

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(non è un caso che, come testimonia Diogene Laerzio – VII 144 = 17 e 117 Edelstein-Kidd – secondo Posidonio il sole era più grande della terra). Scrive Cleomede (Cael. II 1, 357-367 Todd; trad. mia): Ma se anche (scil. Epicuro) non fosse stato in grado di porre attenzione a queste cose (scil. i calcoli astronomici precedentemente investigati) né di scoprire queste cose, la cui ricerca risultava essere più impegnativa rispetto a un uomo che aveva reso onore al piacere, sarebbe stato necessario che costui ponesse attenzione alla stessa potenza del sole e riflettesse in prima istanza sul fatto che (scil. il sole): (1) illumina l’intero cosmo, essendo, questo, di grandezza pressoché infinita, (2) riscalda, inoltre, la terra a tal punto che alcune sue parti sono inabitabili per via del calore estremo, (3) in virtù della sua notevole potenza, vivifica (alla lettera: doti di pneuma) la terra, in modo tale che essa possa produrre frutti e dare vita agli animali; è, infatti, il sole stesso la causa della sussistenza degli animali e del nutri­ mento, della crescita e della maturazione dei frutti/raccolti; (4) non solo produce i giorni e le notti, ma anche l’estate, l’inverno e le altre stagioni […]. Qualora fosse possibile stabilire una relazione sicura tra le argomentazio­ ni anti-epicuree di Cleomede e Lucrezio, si avrebbe un indizio piuttosto significativo del fatto che il poeta stesse rispondendo a un’obiezione stoica posteriore a Epicuro, il che avrebbe conseguenze notevoli circa le fonti del poema lucreziano e la modalità di lavoro dell’autore (pace Furley 1989: 183-205, Sedley 1998a: 84-85 e Salemme 2009: 115; per una diversa prospet­ tiva cfr. Schmidt 1990, Lévy 1999, Bakker 2016: 162-263 e ora Galzerano 2019: 244-252). Naturalmente, allo stato delle nostre attuali conoscenze, non è possibile stabilire se nel Peri physeos Epicuro avesse affrontato l’o­ biezione della dynamis del sole; certo è che in Pitocle il filosofo non se ne occupa ma troviamo la controbiezione dal versante epicureo solo in Lucrezio (cfr., tuttavia, Diog. Oen. fr. 13, IV 10-14 Smith). Non è possibile non dedicare, a questo punto, uno spazio, seppur breve, al PHerc. 1013 (cfr. Verde, di prossima pubblicazione); generalmente lo scritto contenuto in questo papiro viene intitolato Sulla grandezza del sole ma non abbiamo la certezza che Demetrio avesse scritto un’opera del gene­ re (benché occorra essere sempre estremamente cauti nella ricostruzione certa dei titoli dei Papiri Ercolanesi, soprattutto quando questi si presen­ tano in modo nettamente frammentario, segnalo che di recente è stato sostenuto da Ranocchia 2018 che il PHerc. 177 conterrebbe un trattato di Demetrio Lacone di argomento astronomico, proprio relativo al sole, parte dello stesso scritto trasmesso dal PHerc. 1013; per una diversa rico­ struzione cfr. Del Mastro 2014a: 81-83). Non può essere esclusa, infatti, la possibilità che questo testo appartenesse a un’opera più ampia in qualche

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modo simile a quella contenuta nel PHerc. 1012, in cui Demetrio difende specialmente l’esattezza filologica di luoghi di alcune opere di Epicuro che erano stati con malevolenza attaccati dai suoi avversari o che erano incorsi in corruttele varie. Il contenuto del PHerc. 1013 si legge tuttora nell’edizio­ ne critica proposta da Costantina Romeo (1979; cfr. anche Barnes 1989: 32-41); qui mi limito a riportare di seguito il testo di due colonne che sono molto significative soprattutto per tentare un confronto col paragrafo di Pitocle che stiamo qui esaminando. Si tratta delle coll. XX e XXI; il testo è quello stabilito da Romeo mentre la traduzione si basa su quella proposta da Romeo ma da me alquanto modificata: col. XX ̣κα [ «- ἐπεὶ πᾶν] τὸ φαι[νό-] με[νον καὶ ἔστι], φαίνεται δ’ ὁ̣ ἥλι[ος] ἑσ[τηκ]ώς, ἔστιν ἄρα ὁ ἥλιος ἑστηκώς»·’ φήσομεν γ[ὰ]ρ ἐπὶ [τ]ούτου τὸ̣ κα[ὶ] πρότερον [ῥη]θέν, [ὅτι] ο[ὐ] φαίνεται μ̣[ὲ]ν ὁ ἥλιο[ς] ἐσ[τ]ηκώς, δοκεῖ δὲ φαίν[εσ]θ̣αι διὰ τ[ῆς ̣ ̣ ̣ ̣ ̣] ε̣ς [ ] αὐτῆ[ς ]

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«Poiché tutto ciò che appare è anche, il sole appare fermo, dunque il sole è fermo». Circa questa obiezione diremo quello che abbiamo detto anche prima, cioè che il sole non appare fermo, ma sembra che appaia a causa della … stessa … col. XXI [ ̣ ̣ ̣] ̣α ̣[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣]ηλη̣π̣ [ ̣ ̣ ̣]ελ[ ̣ ̣]ται ἡ ὄψις καὶ [ ̣ ̣ ̣ ̣]π̣εν τοῖς ἰδίοις ἀποδίδοται̣ [λ]όγοις εἰκότως· οἷον αὐτὴν κεινεῖ τὸ φάντασμα τὸ ἡλιακόν, τοιοῦτο κ[αὶ] βλέπεται καὶ ὑπόκειται πρὸς τὴν ὄψιν. τὸ γὰρ ἡλια[κὸν ε]ἴδωλον φερόμενο[ν ἐ]κ τῶν μετεώ̣ρων [κ]αὶ προσκρ̣[ου-] [όμενον ]

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…la vista…è mostrato da argomenti appropriati secondo ciò che è persua­ sivo; e quale la rappresentazione del sole colpisce la vista, tale (la rappre­

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sentazione del sole) viene osservata ed è realmente per la vista. Infatti il simulacro solare portandosi dalle alte regioni del cielo e urtando … Anche a un primo e sommario sguardo, si nota come l’impostazione di Demetrio Lacone sia diversa dal paragrafo 91 dell’Epistola a Pitocle; purtroppo non possediamo integralmente il testo del papiro, per questo motivo è necessario essere estremamente prudenti. Se si volessero, tuttavia, tentare delle congetture, si può notare facilmente come nelle parti leggibili e, più nello specifico, nelle coll. XX e XXI Demetrio non distingue tra la grandezza del sole pros hemas e la grandezza kath’hauto. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che questa posizione fosse stata oggetto di polemica: se per noi il sole è grande quanto appare ma in sé può essere più piccolo o più grande di quanto appare, la veridicità dei sensi era messa in discussione e, quindi, confutata. Demetrio, per difendere la posizione epicurea per cui il sole è grande quanto appare, decide di considerare le obiezioni stoiche, forse ancora una volta posidoniane, che conosciamo a partire dai Caelestia di Cleomede (II 1, 110-114): «Di nuovo, se il sole è grande come appare, allora, dato che appare anche stazionario, la sua posizione rimarrebbe invariata. Eppure non è immobile e quindi non è in posizione invariata. Quindi non è della dimensione che appare essere» (καὶ μὴν εἰ τηλικοῦτός ἐστιν ἡλίκος φαίνεται, καὶ τοιοῦτός ἐστιν οἷος φαίνεται, ἐπειδὴ καὶ ἑστὼς φαίνεται, εἴη ἂν ἀμετάβατος· οὐκ ἔστι δ’ ἀκίνητος οὐδὲ ἀμετάβατος· ὅθεν οὐδὲ τηλικοῦτός ἐστιν ἡλίκος φαίνεται; trad. mia). La tesi stoica è chiara: te­ nendo presente che la premessa maggiore (epicurea) di questo “sillogismo” è “tutto ciò che appare è anche”, se il sole appare fermo, esso è fermo e, quindi, non cambia posizione; eppure il sole si muove e cambia posizione e, di conseguenza, il sole non può essere della grandezza che appare. È interessante che Cleomede richiami l’evidenza percettiva (grazie a cui può constatare che il sole si muove e cambia posizione) esattamente per confutare la posizione epicurea, quindi la stessa evidenza menzionata da Epicuro alla fine del paragrafo 91 dell’Epistola a Pitocle. Demetrio Lacone riprende lo stesso sillogismo e lo confuta asserendo che il sole non appare fermo (col. XX 7-8: ο[ὐ] φαίνεται μ̣[ὲ]ν ὁ ἥλιο[ς] ἐσ[τ]ηκώς) ma sembra che appaia tale (col. XXI 8-9: δοκεῖ δὲ φαίν[εσ]θ̣αι). Potrebbe sembrare un dettaglio superficiale ma non lo è affatto. L’uso di δοκεῖ in questo contesto è, infatti, decisivo: gli Epicurei concordano nell’affermare che il sole non è fermo (l’enargeia, infatti, attesta e non smentisce che il sole si muove e cambia posizione) ma, letteralmente, sembra che esso appaia fermo (il successivo διά doveva spiegarne la causa ma sfortunatamente qui il testo non è più leggibile). Per comprendere correttamente questo punto è utile prendere in considerazione il testo della col. XXI, dove compare il termine 168

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phantasma, che indica la rappresentazione del sole che colpisce la vista (opsis). Il phantasma del sole non può che essere vero, infatti subito dopo Demetrio aggiunge che quale è la rappresentazione del sole tale (ancora la rappresentazione del sole) viene vista ed è realmente (hypokeitai) per la vista (pros ten opsin); come spiegare, dunque, che, il phantasma non rappresenti il sole come fermo? Io credo che qui sia necessario introdurre la “duplice” nozione di ve­ rità propria dell’Epicureismo (cfr. Verde 2018d, Warren 2019 e, ora, con molta cautela, le conclusioni, secondo me poco fondate, raggiunte da Hahmann-Robitzsch 2021); per dirla in breve, la sensazione (aisthesis) è vera perché è reale, mentre un’opinione (o hypolepsis) è vera, quando il suo contenuto è confermato e non smentito dall’evidenza percettiva (enargeia). Il processo percettivo della vista, per esempio, prende avvio con l’urto dei simulacri o eidola con l’organo della vista; i simulacri sono pellicole atomiche tridimensionali con molto vuoto al loro interno che si distaccano continuamente dalla superficie dell’oggetto solido e di cui, almeno in partenza, riproducono le caratteristiche fisiche (sulla dottrina degli eidola cfr. Leone 2012: 68-165). Qualunque phantasma sia percepito sarà sempre vero nel senso di reale, dato che esso è provocato dall’urto dei simulacri. Il “luogo” della verità intesa, per così dire, come corrispondenza alla realtà esterna è solo l’opinione vera, il cui contenuto deve essere confermato e non smentito dall’enargeia. Non è casuale che Demetrio alla col. XXI parli del phantasma pros ten opsin e subito dopo del simulacro che proviene dal sole (heliakon eidolon), che è l’autentico responsabile della formazione del phantasma per la vista. Conseguentemente, il phantasma del sole fermo è vero nel senso che è reale esclusivamente per la vista: è innegabile, infatti, che in un certo momento vediamo il sole fermo. Se, poi, a partire dal mero phantasma della vista formuliamo un giudizio, per esempio, “Il sole è fer­ mo”, sbagliamo, perché l’evidenza percettiva confermerà (e non smentirà) che in realtà il sole è in movimento e cambia posizione. Per casi come questi l’epistemologia epicurea prevede l’introduzione di un “dispositivo concettuale” come il prosmenon, ciò che attende conferma (cfr. Diog. Laert. X 34); avendo delle condizioni percettive migliori e, nel caso del sole, aspettando semplicemente un po’ di tempo, si osserverà come il sole si muova e come, quindi, l’hypolepsis “Il sole è fermo” elaborata a partire da un phantasma, che, lo si ripete, per la vista è vero solo perché reale, sia completamente errata. In questo modo, a mio avviso, può spiegarsi l’espressione δοκεῖ δὲ φαίνεσθαι della col. XXI, che non mi sembra essere direttamente un riferi­ mento all’opinione che si formula sul phantasma; Demetrio afferma che il sole non appare fermo (infatti esso cambia posizione mano a mano che tra­ 169

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scorre il tempo) ma che sembra/si pensa che appaia fermo. Il riferimento potrebbe essere, piuttosto, alla semplice rappresentazione per la vista che non può essere vera nel senso di corrispondente alla realtà esterna. L’unica cosa vera del phantasma è la sua realtà; non è casuale, ancora una volta, la menzione dei simulacri solari che urtano gli occhi. Non vi è dubbio, come si è già rilevato, che tra l’Epistola a Pitocle e l’opera del PHerc. 1013 vi siano differenze notevoli; fermo restando che l’epistola è un’epitome, è del tutto normale che un compendio dottrinario non possa approfondire i dettagli di ogni specifico punto. Malgrado que­ sto, mentre Epicuro distingue tra grandezza del sole per noi e grandezza del sole in sé, Demetrio (ma forse lo faceva già Epicuro nel libro XI del Sulla natura), introduce la nozione di rappresentazione e menziona i simu­ lacri solari; in breve Demetrio, rispetto a Epicuro, si occupa più dettagliata­ mente di questioni epistemologiche certamente perché il filosofo rispetto al maestro ritiene che solo facendo chiarezza sugli aspetti epistemologici della canonica è possibile difendere e corroborare la posizione epicurea oggetto di serrata polemica da parte degli avversari (sulla considerazione epicurea degli avversari con i quali il filosofo polemizza nel libro XI del Peri physeos torna ora Leone 2020). Da un certo punto di vista, l’operazione di Demetrio può essere considerata, per così dire, come una sorta di “inno­ vazione fedele” all’interno della tradizione epicurea spesso considerata in termini esageratamente monolitici soprattutto rispetto ad altri indirizzi di pensiero (la Stoa in primis): ciò che Demetrio scrive è compatibile con l’Epistola a Pitocle, tuttavia il livello delle argomentazioni cambia, dato che non si tratta di spiegare/illustrare una dottrina come in Pitocle, ma di difen­ derla e, per fare questo, occorre sollevare argomenti e ragionamenti diversi da quelli di Epicuro, approfondendo alcuni aspetti che il maestro aveva magari lasciato in secondo piano. Nella storia della tradizione epicurea e, più in particolare, nell’analisi del concetto di auctoritas/fedeltà al fondatore del Kepos, questo è un capitolo che non può essere trascurato. Dopo questa digressione sullo scritto di Demetrio, tornando ora al para­ grafo 91, non bisogna dimenticare che il discorso di Epicuro non vale solo per il sole, ma anche per gli altri astri, il che rende plausibile concludere che i corpi celesti luminosi possiedono, per così dire, uno statuto a parte (cfr. Bollack-Laks 1978: 148). La distinzione tra il megethos del sole πρὸς ἡμᾶς e quello καθ’ αὑτό porta lo scoliasta ad aggiungere la sua nota: nel Peri physeos Epicuro argomentava il medesimo punto in un altro modo, introducendo la nozione di distanza e quella di colore. Se la grandezza di un dato corpo diminuisse per la distanza (di chi guarda), verrebbe meno anche l’intensità del colore, ma ciò non si vede avvenire; l’intensità del colore di un corpo non può andare perduta per la distanza, avrebbe 170

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affermato Epicuro. A me pare che tale argomentazione sia particolarmente compatibile con il successivo esempio dei fuochi che il filosofo fa in Pitocle e, in ogni caso, con esempi relativi a corpi luminosi. L’intensità del colore dei fuochi non viene meno con la distanza; per questo lo scoliasta riferisce che non si darebbe una distanza tale da far scomparire l’intensità del colore. A dire il vero, la parte finale dello scolio è stata oggetto di diverse discus­ sioni da parte degli interpreti (cfr. Bollack-Laks 1978: 148-152); in effetti, non si tratta di un testo di immediata comprensione. Una delle interpreta­ zioni più convincenti è quella offerta da Bignone (1964: 123 n. 2) che, in un certo qual senso, viene seguito, mutatis mutandis, anche da Sedley (1976: si veda oltre); il problema principale è quello di capire a cosa si rife­ risca τούτῳ che, in sostanza, può riferirsi o al precedente μέγεθος o al μέγεθος ἡλίου oppure, come per Bignone, a ciò che viene detto subito pri­ ma circa il colore e la luminosità. Un altro problema non meno rilevante concerne i limiti dell’estensione dello scolio; Bollack e Laks (1978: 82 e 151), seguendo Schneider 1813: 31, sono dell’avviso che ἄλλο γὰρ τούτῳ συμμετρότερον διάστημα οὐθέν ἐστι appartenga al testo della lettera e non dello scolio. Io non credo che questa conclusione sia plausibile non solo perché nel testo precedente della lettera non si fa alcun riferimento al διάστημα (se ne parla dopo in relazione ai fuochi che si osservano a distan­ za – πυρὰ ἐξ ἀποστήματος θεωρούμενα – ma il contesto di riferimento è, ap­ punto, diverso, dato che lì Epicuro si occupa della grandezza in sé del so­ le), ma soprattutto perché il γάρ spiega precisamente ciò che viene detto subito prima nello scolio e non all’inizio del § 91. Sono, dunque, del pare­ re che il testo citato poco sopra appartenga allo scolio e non alla lettera. Se questo è vero, la frase in esame deve spiegare per quale motivo la distanza non fa diminuire la grandezza e nemmeno il colore. È del tutto evidente che se conoscessimo il contesto del libro XI, comprenderemmo meglio il senso dello scolio; a mio parere, va tenuto bene a mente che il testo dello scolio si riferisce in generale a ogni corpo luminoso e, in particolare, alla grandezza del sole che per Epicuro è grosso modo tale quale appare. Non bisogna, quindi, fare l’errore di attribuire l’argomentazione dello scolio basata sulla relazione grandezza/distanza/colore a ogni corpo: qui si tratta dei corpi luminosi e, più nel dettaglio, degli astri. Epicuro nell’undicesimo libro della sua opera maggiore avrebbe mostrato che la grandezza del sole è tale quale appare perché accade che i corpi luminosi non perdano la loro lucentezza/il loro colore a distanza; pertanto, se è così, tali corpi non si rimpiccioliscono per la distanza. Epicuro vede una relazione stretta tra l’intensità del bagliore dei corpi luminosi e la loro grandezza: se non viene meno la prima a causa della distanza, non può 171

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venire meno nemmeno la seconda. Il filosofo, inoltre, è ben consapevole del fatto che il sole (così come gli altri astri) si colloca a notevole distan­ za dal potenziale osservatore; per questo motivo, la distanza ricopre un ruolo decisivo per la comprensione dello scolio e, più in generale, per il tema del μέγεθος ἡλίου. Non mi pare convincente la spiegazione offerta da Bollack-Laks (1978: 151-152) i quali, riprendendo più o meno l’analisi del passo di Sedley (1976: 48-49), sostengono che Epicuro ipotizzerebbe il caso di un avvicinamento al sole (se, per esempio, lo osservassimo dalla luna), al fine di negare che la sua grandezza possa essere diversa da quella che ci appare sulla terra. Sedley (1976: 49) – la cui soluzione, in fondo, non mi pare così lontana da quella prospettata da Bignone (si veda oltre) – focalizza la sua analisi soprattutto sull’espressione σύμμετρον διάστημα: se si vuole giudicare correttamente la grandezza di un qualunque corpo terrestre, occorre situarsi a una distanza appropriata, dato che non sarebbe possibile giudicare bene la sua grandezza se si fosse troppo vicini o troppo lontani. Se il sole, però, non si comporta come i corpi terrestri, significa che la distanza non influisce sulla sua grandezza; non si dà quindi una distanza appropriata/commisurata per osservare la grandezza del sole. Come già detto, mi pare che l’ipotesi esplicativa di Bignone relativa­ mente al testo dello scolio regga di più; in sostanza, Bignone esclude che τούτῳ si riferisca alla grandezza del sole ma a quanto lo scoliasta dice im­ mediatamente prima circa l’intensità del colore. Il senso, quindi, sarebbe questo: non c’è nessun’altra distanza più commisurata/idonea per questo (ossia per la “produzione” del fenomeno appena descritto), sottintenden­ do “rispetto a/se non quella del sole”. La distanza del sole rispetto a un osservatore terreste è alquanto elevata (questo secondo Bignone sarebbe l’accezione da dare a συμμετρότερον: nessuna distanza più che quella del sole potrebbe fargli perdere lo splendore e la grandezza ma questo non si osserva accadere) e, tuttavia, il sole non perde l’intensità della sua lucentez­ za e, pertanto, la distanza non inficia sulla sua grandezza che è per come appare. In breve, nel caso del sole, nonostante che sia così lontano dalla terra, non si dà una distanza capace di confondere il suo splendore e di ridurre (o aumentare) la sua grandezza e questo vale anche per tutti gli altri astri. Sempre rimanendo al § 91 è stata assai discussa l’espressione οὐχ ἅμα che non deve essere necessariamente espunta dal testo, laddove non è mancato chi ha pensato che si trattasse di un’aggiunta superflua o, peggio ancora, pedante e ridicola (per approfondire, cfr. Verde 2016e). Essa, al contrario, sta a indicare che il sole in sé non può che avere una e una sola grandezza la quale, a sua volta, non potrà che essere uguale o maggiore o di poco mi­ nore rispetto a come il sole si vede, così come accade quando si osservano i 172

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fuochi sulla terra a una certa distanza. Dalla trattazione che Epicuro ne fa nella lettera, si evince come il sole (a onor del vero, insieme agli astri) è considerato un unicum nel cosmo. Epicuro, infatti, si occupa del sole non per come appare πρὸς ἡμᾶς ma per come è καθ’ αὑτό; per questo motivo, le tre grandezze – le uniche possibili, del resto, come avviene nel caso dei fuo­ chi παρ’ ἡμῖν – che Epicuro riferisce non possono essere affatto molteplici spiegazioni causali e nemmeno possono avere una qualche relazione con la veridicità delle sensazioni. La grandezza καθ’ αὑτό del sole è un ἄδηλον, per questo motivo viene immediatamente menzionato un fenomeno della no­ stra esperienza quotidiana (κατὰ τὴν αἴσθησιν, scrive Epicuro) come i fuo­ chi che, a una certa distanza, rimangono (grosso modo, si badi) identici, quanto alla grandezza, per come li osserviamo. Le tre grandezze enunciate non potranno che essere le uniche ipotesi possibili in grado di descrivere adeguatamente la grandezza del sole in sé che non potrà che essere una so­ la. Lo οὐχ ἅμα, quindi, è una spia del fatto che, sulla base della sensazione, non è possibile stabilire con certezza se il sole sia uguale, più grande o di poco più piccolo di come si vede. Si può solamente asserire che il sole, fer­ mo restando che πρὸς ἡμᾶς è grande tanto quanto appare (τηλικοῦτόν ἐστιν […] φαίνεται), καθ’ αὑτό sarà maggiore o un po’ più piccolo o identico ri­ spetto a come si mostra. Queste tre grandezze (che, lo ripeto, nulla hanno a che fare con le spiegazioni molteplici), tuttavia, non possono essere simul­ tanee (οὐχ ἅμα); le molteplici spiegazioni causali, se non smentite dall’enar­ geia, sono vere nello stesso tempo (dato che, come più volte ribadito, la causa della generazione dei fenomeni celesti è altrettanto molteplice) ma ciò, ovviamente, non vuol dire che due spiegazioni reciprocamente incom­ patibili possano essere attive nel medesimo tempo e nei riguardi del mede­ simo fenomeno. È, pertanto, possibile difendere οὐχ ἅμα al § 91, ma, so­ prattutto, è importante tenere a mente come questa espressione contribui­ sca a precisare un elemento importante dell’argomentazione epicurea. Sta­ bilire, poi, se οὐχ ἅμα sia di Epicuro stesso (ossia faccia parte della lettera) o di un (acuto) scoliasta è impresa assai ardua. A questo punto, rimangono due possibilità: (1) o si mette un punto e virgola (o una virgola) prima di οὐχ ἅμα e si attribuisce l’espressione a Epicuro mantenendola nel testo (co­ me si vede fare nel nostro testo); (2) oppure la si considera uno scolio re­ datto da uno studioso intelligente e perspicace che ha perfettamente com­ preso il pensiero di Epicuro e ha cercato di renderlo più esplicito. In que­ sto secondo caso, evidentemente, οὐχ ἅμα va espunto dal testo dell’Epistola a Pitocle, cosa che noi non facciamo, ritenendo che tale espressione sia mol­ to rilevante per la comprensione di questo luogo della lettera. A ogni mo­ do, sia che ci si trovi di fronte agli ipsissima verba Epicuri o che si tratti di uno scolio, sono comunque dell’avviso che οὐχ ἅμα sia un’espressione si­ 173

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gnificativa per comprendere meglio la struttura logico-teorica del passo in esame. La chiusa del paragrafo è di particolare interesse; Epicuro sembra essere perfettamente consapevole che la sua posizione sulla grandezza del sole poteva generare obiezioni non solo esternamente alla scuola ma, con ogni probabilità, anche al suo interno. Il Kepos è una scuola filosofica antica e, come tutte le altre coeve, è un luogo di dibattito e di discussione; non sarà mancato, pertanto, chi sollevò rilievi critici nei riguardi di questa posizione che, se esaminata con attenzione, appare coerente ma poteva con facilità suscitare reazioni critiche. È interessante che Epicuro si richiami all’autoevidenza percettiva come risposta univoca ed esaustiva a qualsivo­ glia obiezione sulla grandezza del sole e degli astri; questo è pienamente coerente, appunto, con la filosofia di Epicuro, secondo la quale l’enargeia rappresenta il banco di prova ultimo e fondamentale per legittimare la verità delle opinioni e delle ipotesi formulate su un dato fenomeno. Non è, dunque, fortuito che Epicuro sottolinei che lo stesso faceva nei libri del Περὶ φύσεως; si potrebbe perfino congetturare che scrivendo ἐν τοῖς Περὶ φύσεως βιβλίοις Epicuro non intenda riferirsi a quei libri nei quali si occupava del sole e della sua grandezza ma, forse, a tutta la sua opera che, investigando la realtà naturale, era strutturalmente fondata sul criterio essenziale dell’enargeia. Né è fortuito che proprio qui Epicuro richiami tale criterio e il suo Περὶ φύσεως: si tratta di una spia chiara del fatto che questa dottrina era percepita come “scottante” e, vivente Epicuro, era stata molto verosimilmente attaccata o comunque criticata non solo esternamente ma forse anche internamente alla scuola. Se così non fosse stato, il filosofo non avrebbe avuto alcun bisogno di “mettere le mani avanti” e di menzionare l’enargeia come onnicomprensiva risposta a tutte quelle obiezioni alla sua dottrina del sole che senz’altro non mancarono. § 92. Il discorso sugli astri prosegue in questo paragrafo dove Epicuro si occupa dei loro movimenti, un tema, questo, centrale per le dottrine astro­ nomiche. Il primo fenomeno esaminato concerne il sorgere e il tramontare del sole, della luna e degli astri; questi eventi possono essere spiegati per l’accensione dell’astro (= il sorgere) e il suo spegnimento (= il tramontare). Non poco problematica è l’espressione καὶ καθ’ ἑκατέρους τοὺς τόπους che viene espunta dal testo della lettera da Usener, il che mi sembra eccessivo e fondamentalmente scorretto; Marcus Meibom (editore delle Vite laerziane in greco e in latino, stampate ad Amsterdam nel 1692: cfr. Dorandi 2013a: 12-13), invece, propose di leggere τρόπους al posto di τόπους ma in questo modo la comprensione del passo risulterebbe, come è stato detto, «meanin­ gless» (Bailey 1926: 289). Cosa potrebbe significare, infatti, che a certe con­ dizioni i fenomeni del sorgere e del tramontare degli astri accadono in en­ 174

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trambi i modi (ossia per accensione e per spegnimento)? Mantenendo τόπους – che pare essere la soluzione migliore, anche nel rispetto della tra­ dizione manoscritta – il riferimento potrebbe essere piuttosto all’est e all’o­ vest, dunque ai punti cardinali rispettivamente dove sorge e dove tramonta il sole (cfr. Bollack-Laks 1978: 158). Anche questa lettura, però, potrebbe essere problematica: l’est e l’ovest riguardano il sole ma non necessariamente i movimenti di tutti gli astri; forse è questa la ragione per cui Epicuro ha voluto non specificare i nomi dei due topoi di cui qui si parla. Più chiaramente, non si può escludere che Epicuro intendesse dire che l’accensione e lo spegnimento degli astri come spiegazioni del loro sorgere e del loro tramontare, a certe condizioni, possono accadere in ciascuno dei due luoghi nel senso che, prendendo come esempio il sole, non necessariamente questo astro deve accendersi sempre completamente a est e spegnersi sempre totalmente a ovest ma potrebbe anche accendersi a ovest per poi continuare a essere acceso a est nel sorgere e spegnersi poi ancora a est (cfr. Bignone 1964: 124 n. 3). In effetti, ciò che scrive Epicuro non è affatto banale; si poteva, infatti, immaginare senza eccessiva difficoltà che il sole si spegnesse a ovest ma come spiegare che esso si sarebbe riacceso a est? Da questo punto di vista, dice Epicuro, nulla impedisce che il sole e gli altri astri possano accendersi e spegnersi in ciascuno dei due luoghi nei quali siamo abituati a credere che si accendano e si spengano. Di conseguenza, non si può escludere che il sole si accenda ancora a occidente (dove si era già spento) per tramontare poi a oriente. Nella tradizione precedente, Senofane di Colofone sembra avesse am­ messo che gli astri si spengono ogni giorno e si riaccendono ogni notte (Aët. Plac. II 13, 14, Dox. 343, M-R 905 = 21 A 38 DK = III 8 D36 LM); secondo Eraclito (stando alla testimonianza di Aristot. Meteor. II 2, 355a 13 = 22 B 6 DK = III 9 D91a LM) il sole sarebbe sempre continuamente nuovo (ἀεὶ νέος συνεχῶς; cfr. anche Lucret. V 662), laddove Metrodoro di Chio ([Plutarch.] Strom. 11, Dox. 582 = 70 A 4 DK) affermava che fosse l’aria, condensandosi, a produrre le nubi e la pioggia. La stessa aria, inoltre, sarebbe responsabile dello spegnimento del sole; essa, poi, rarefacendosi, permetterebbe di nuovo la sua accensione. Si vede bene, dunque, come l’idea che gli astri si spegnessero e si riaccendessero fosse alquanto consoli­ data nella tradizione; Epicuro la segue con la solita clausola – non a caso qui di nuovo ribadita: οὐδὲν γὰρ τῶν φαινομένων ἀντιμαρτυρεῖ – per la quale non si escludono altre spiegazioni dei suddetti fenomeni che non contrastino con l’evidenza percettiva. Epicuro non esclude che il sorgere e il tramontare possano dipendere anche dal duplice movimento di apparizione (dell’astro) sulla terra e del 175

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suo occultamento; nel passato l’idea più comune era che il sole passasse sotto la terra (cfr. Lucret. V 650-662, nonché Bignone 1964: 124 n. 1) ma non è mancato chi, come verosimilmente Anassimene (cfr. e.g. Aët. Plac. II 16, 6, Dox. 346, M-R 938 e Aristot. Meteor. II 1, 354a 28 = 13 A 14 DK = II 7 D16 LM), fosse del parere che il sole passasse attorno alla terra e non sotto di essa, scomparendo dietro la parte più elevata. Epicuro si concentra, poi, sulla più generale cinetica degli astri, dunque sulle loro κινήσεις; una tra le spiegazioni “non impossibili” riprende da vi­ cino, anche terminologicamente, la dottrina atomista del vortice, di cui si è trattato in precedenza (cfr. supra: 159-160): Epicuro naturalmente non può abbracciare interamente la natura del vortice degli Atomisti più antichi (in particolare la sua identificazione con il potere della necessità: cfr. Silvestre 1985: 121-155) ma ne attua un’autentica rifunzionalizzazione (cfr. Perilli 1996: 126-127). Non si può escludere, pertanto, che i movimenti degli astri siano dovuti al vortice, ossia al rivolgimento dell’intera volta celeste (κατὰ τὴν τοῦ ὅλου οὐρανοῦ δίνην); seguendo questa spiegazione, quindi, sarebbe il cielo nella sua integrità a muoversi e non gli astri presi singolarmente. Il movimento circolare del cielo causerebbe il movimento altrettanto circo­ lare degli astri (cfr. parallelamente Lucret. V 510-516). Ma nemmeno si può escludere (nulla, infatti, impedisce quest’altra spiegazione causale: cfr. Lucret. V 517-525), prosegue Epicuro, che il cielo rimanga immobile e che gli astri si muovano di movimento (circolare) proprio (torna, termino­ logicamente, la δίνη) «secondo la necessità sviluppatasi sin dall’inizio, al nascere del cosmo, quando gli astri si levarono sull’orizzonte» (κατὰ τὴν ἐξ ἀρχῆς ἐν τῇ γενέσει τοῦ κόσμου ἀνάγκην ἀπογεννηθεῖσαν ἐπ’ ἀνατολῇ). Questo punto potrebbe sorprendere; Epicuro, in un contesto dove in poche righe è presente la δίνη, menziona la ἀνάγκη. Si è già ricordato il rapporto strettissimo (ovvero di identità) nel quale gli Atomisti più antichi collocavano il vortice originario e la necessità; in sostanza, per Democrito, il movimento vorticoso cosmogonico coincideva con la necessità. Meravi­ glia, dunque, che un filosofo come Epicuro, netto confutatore di ogni determinismo fisico, possa parlare qui di necessità in relazione al vortice. Io credo che, se si pone attenzione alla lettera del testo, Epicuro non sta sposando nessuna forma di determinismo, benché sia innegabile l’uso (probabilmente voluto e deliberato) di una terminologia propria della tradizione atomista, alla quale, tuttavia, il filosofo di Samo sembra affidare nuovi significati. Se la volta celeste è immobile, per spiegare il moto degli astri, non si può che ammettere il movimento autonomo di ogni astro; ma da dove proviene loro questo movimento? Esso dipende esattamente dal medesimo movimento che gli astri necessariamente assunsero al momento della loro generazione come aggregati di atomi in movimento. Lucrezio, 176

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nel passo su menzionato (V 517-525), non esclude che gli astri si muovano singolarmente o per via di correnti interne di etere o di aria oppure perché, in quanto corpi igniformi, si muovono in cerca di “nutrimento” nel cielo. Si vede bene come Lucrezio vada più nel dettaglio rispetto al dettato di Pitocle – il che non meraviglia affatto – ma sia Epicuro sia Lucrezio ammettono senza difficoltà che gli astri possano essere dotati di per se stessi di movimento. Epicuro è, se si vuole, più puntuale e sottolinea come il movimento degli astri sia necessariamente ἐξ ἀρχῆς; si tratta, insomma, del movimento che di per sé gli astri possiedono e acquistano nella genera­ zione stessa del loro corpo igneo. In conclusione, come intendere, quindi, questo accenno alla necessità originaria? A mio parere, qui Epicuro non intende affatto riprendere il temibile determinismo degli Atomisti più antichi (nonostante la termino­ logia usata e, forse, il tono polemico o perfino ironico e “canzonatorio”) o quello che, in Meneceo (134), chiama la heimarmene dei fisici alla quale non bisogna sottostare (τῇ τῶν φυσικῶν εἱμαρμένῃ δουλεύειν), ma si limita a considerare la cinetica degli astri da scrupoloso scienziato della natura quale egli fu. Se si ammette che la volta celeste rimane immobile, gli astri si muovono perché sono costitutivamente/necessariamente dotati di movimento (circolare) sin dalla loro origine. Per comprendere meglio questo punto è bene rifarsi ad alcuni versi lucreziani (V 666-679), nei quali il poeta evidenzia come non debba affatto destare stupore che vi sia un ordine fisso che guida e orienta i movimenti astrali (V 679: ex ordine certo; sulla tematica, anche se non senza una qual­ che prudenza, cfr. la recente monografia di Noller 2019; per una diversa posizione cfr. Isnardi Parente 1966: 397-415. Si vedano anche Long 2006b, Wilson 2008: 85-88, Verde 2013d e Salemme 2019; più in generale, Wright 1995: Ch. 5), senza per questo cedere al determinismo oppure alla causalità divina. D’altronde, ammettere che le cose avvengano per necessità non implica in ogni caso il determinismo (cfr. Men. 133). Tornando a Lucrezio, vediamo molti fenomeni che accadono certo…tempore (V 670) e questo vale grosso modo anche per i fenomeni meteorologici come la neve, la pioggia o i venti che si producono in certi periodi dell’anno piuttosto che in altri (cfr. V 676: non nimis incertis), dunque secondo una regolarità che, per questi specifici fenomeni, Aristotele tendeva, come si sa (cfr. Meteor. I 1, 338a 20 ss.; un dettagliato commento filologico-stilistico del “proemio” della Meteorologia aristotelica è offerto da Capelle 1912b), a moderare ma che Lucrezio parrebbe, invece, accentuare. Scrive ancora: «Infatti, poiché tali furono i primi principi delle cause / e così le cose si svolsero fin dall’origine prima del mondo, / anche oggi ritornano l’uno dopo l’altro in ordine fisso» (V 677-679: Namque ubi sic 177

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fuerunt causarum exordia prima / atque ita res mundi cecidere ab origine pri­ ma, / consequë quoque iam redeunt ex ordine certo; trad. Giancotti; si veda anche Solmsen 1977); secondo il poeta l’ordine dell’universo non può che dipendere dalla sua origine (cfr. anche V 1183-1185). Allo stesso modo il movimento di ogni astro segue un ordine fisso, stabile, necessario sin dalla sua origine semplicemente perché ognuno si è formato in un certo modo come un corpo intrinsecamente dotato di movimento a partire dalla sua genesis. Il punto più importante, in ogni caso, rimane il fatto che Epicuro non intende affatto confondere l’ordine della natura col determinismo: il cosmo non è retto da una cieca o divina necessità ma dalle leggi genui­ namente fisiche della cinetica degli atomi che producono corpi aggregati come gli astri, intrinsecamente capaci di movimento ordinato senza nulla concedere al determinismo/necessitarismo di Leucippo e Democrito, da cui l’autonoma nozione di physis epicurea rimane esente. § 93. Già Usener aveva individuato la presenza di una lacuna all’inizio del paragrafo 93 (cfr. Bignone 1964: 125 n. 3); è molto probabile, comun­ que, che Epicuro continui a occuparsi del movimento degli astri e che qui fornisca un’altra spiegazione causale che forse è ripresa da Lucrezio (V 523-525). Il poeta giustifica il movimento degli astri col fatto che questi corpi ignei si muoverebbero alla ricerca di “nutrimento” (V 524: cibus; solo di passaggio segnalo che la relazione tra il movimento del sole e il suo “nu­ trimento” sarà dottrina stoica: cfr. Aët. Plac. II 23, 5, Dox. 353, M-R 1012 = SVF I 501. Cfr. Galzerano 2019: 55-58). Con questo si intende verosimil­ mente materiale igneo di cui, appunto, gli astri si nutrirebbero al fine della loro conservazione e coesione. Non si può escludere, dunque, che anche in Pitocle Epicuro riportasse la medesima o una simile spiegazione; in effetti, però, in ciò che si legge di integro non si vede alcun riferimento al nutri­ mento degli astri. Si potrebbe anche pensare che Epicuro volesse giustifica­ re il movimento degli astri col ritenere più semplicemente che, essendo questi dotati di calore, essi si muoverebbero intrinsecamente, dal momen­ to che il calore di per sé tende a propagarsi e a irradiarsi nei luoghi imme­ diatamente consecutivi. Si tratterebbe, pertanto, di un’ulteriore spiegazio­ ne relativa al movimento autonomo degli astri. Subito dopo Epicuro decide di occuparsi esclusivamente del sole e della luna e, più nel dettaglio, dei loro movimenti tropici; con questa espressio­ ne si intendono i movimenti (generalmente del sole, come è chiaro in Lu­ crezio: V 614 ss.) di avvicinamento (e/o di allontanamento) dal tropico del Capricorno e da quello del Cancro. Il termine “tropico”, come è noto, in­ dica la massima latitudine a nord e a sud dell’equatore e il tropico del Ca­ pricorno e quello del Cancro si riferiscono rispettivamente al parallelo più meridionale e più settentrionale, tenendo presenti i due emisferi divisi dal­ 178

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l’equatore. Per spiegare il movimento del sole e della luna in relazione a questi due tropici, Epicuro si appella, in primo luogo, all’inclinazione del cielo (κατὰ λόξωσιν οὐρανοῦ; cfr. Lucret. V 689-695) che può avvenire in certi periodi (un probabile riferimento all’andamento delle stagioni: cfr. Bailey 1926: 292); come suggerisce Bailey (1926: 291), questa motivazione potrebbe richiamare il vortice dell’intero cielo del § 92 (cfr. Perilli 1996: 131-134), una delle spiegazioni addotte da Epicuro per descrivere le cause del movimento degli astri (ma cfr. anche poco oltre, nonché Diog. Oen. fr. 13, I 1-13 Smith). L’inclinazione del cielo è un tema caro alla tradizione preplatonica, in particolare, per limitarsi a un solo esempio, a Empedocle, come attesta la dossografia (cfr. Aët. Plac. II 8, 2, Dox. 338, M-R 858; II 23, 3, Dox. 353 = 31 A 58 DK = V 22 D120, 130 LM; cfr. anche la testimonianza di Diogene Laerzio – II 9 = 59 A 1 DK – relativa ad Anassagora). L’altra spiegazione dei movimenti tropici del sole e della luna – che può ugual­ mente (ὁμοίως) darsi – chiama in causa la resistenza dell’aria (κατὰ ἀέρος ἀντέξωσιν); anche in Lucrezio si ritrova la medesima spiegazione: in V 696-700 il poeta parla della densità dell’aria mentre in V 637-649 (che sono i versi maggiormente accostabili a questo punto di Pitocle) si fa chiaro rife­ rimento ad alcune regioni del mondo attraversate dal sole che emanano due correnti d’aria in determinati periodi stagionali, delle quali l’una è ca­ pace di ricacciare il sole dalle costellazioni estive al tropico invernale, l’al­ tra di ricacciarlo dalle regioni fredde a quelle ricche di calore. Molto signi­ ficativamente Lucrezio (V 643-645) aggiunge che il movimento orbitale della luna e delle stelle può essere dovuto a queste due correnti d’aria; non bisogna dimenticare che in questo paragrafo di Pitocle Epicuro esamina i movimenti tropici del sole, ma anche della luna. Nella precedente tradizio­ ne si ritrova questa spiegazione soprattutto in Anassagora, come apprendia­ mo da un passo di Aezio (Plac. II 23, 2, Dox. 352, M-R 1012 = 59 A 72 DK; cfr. anche la testimonianza aeziana immediatamente precedente – II 23, 1, Dox. 352, M-R 1012 = 13 A 15 DK = II 7 D18 LM – su Anassimene), un filosofo che Epicuro aveva ben presente e del quale aveva particolare stima (cfr. Diog. Laert. X 12 = 59 A 26 DK = VI 25 R28 LM). Dopo la menzione dell’aria Epicuro fa dipendere i movimenti tropici del sole e della luna anche da una non meglio specificata hyle che, adatta ai corpi (ossia al sole e alla luna) in parte brucia e in parte resta. Ritengo che Bailey (1926: 292) abbia fondamentalmente ragione a collegare questa spiegazione con l’argomentazione già incontrata in precedenza del “nutri­ mento” che corpi ignei come gli astri ricercano (una spiegazione, come già ricordato, che avrà particolare fortuna nella fisica stoica): di qui il loro movimento. La materia che in parte brucia sembrerebbe essere quella, per così dire, “consumata” dal sole e dalla luna. 179

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In questa spiegazione si evidenzia una difficoltà testuale relativa al parti­ cipio ἐχομένοις dei codici (cfr. Isnardi Parente 1983: 184 n. 1); mi pare che l’idea di pensare a ἐπομένοις (cfr. Mancini 2016) al posto di ἐχομένοις sia più che legittima. In questo senso la materia che si incendia e che è adatta ai corpi (ovverosia al sole e alla luna) è quella da loro seguita: dal momento che il sole e la luna seguono questa hyle – che in parte si incendia (pertanto si consuma) e in parte rimane (proprio perché essa non si consuma del tutto: se si incendiasse completamente il sole e la luna non potrebbero più seguire il loro “nutrimento” e, quindi, non si muoverebbero) –, Epicuro può spiegare uno dei motivi dei movimenti tropici del sole e della luna. L’ultima spiegazione fornita nella lettera dei moti tropici richiama anco­ ra una volta la dottrina leucippo-democritea della dine (cfr. Aët. Plac. II 23, 7, Dox. 353, M-R 1012 = 68 A 89 DK = VII 27 D104 LM); Lucrezio (V 621-628), in proposito, fa esplicitamente il nome di Democrito. In breve, non si può escludere che questa tipologia di movimento dipenda anche dal fatto che il sole e la luna conservino questa attività cinetica per via di un vortice che sin dalla loro origine (ἐξ ἀρχῆς) ha fatto sì che tali astri fossero caratterizzati da tale movimento. Si osserva come Epicuro si appropri della teoria atomista della dine, senza però cadere nel determinismo fisico; non solo non c’è alcuna identificazione tra la dine e la necessità, ma il filosofo si serve del vortice originario esclusivamente come dottrina fisica capace di spiegare il darsi di certe proprietà cinetiche (come quelle tropiche, appun­ to). In sostanza, Epicuro ammette il vortice originario come una delle spie­ gazioni possibili della cinetica degli astri senza per questo abbracciare il determinismo fisico che, come abbiamo più volte ribadito, per Democrito si identificava direttamente con la dottrina del vortice (cfr. Luciani 2003). La chiusa del paragrafo è di enorme interesse storico-filosofico; come aveva già osservato Arrighetti (1973: 528), queste linee conclusive devono essere contestualizzate nella più ampia polemica condotta da Epicuro nei riguardi dell’uso degli organa astronomici (cfr. Barigazzi 1952, Barbieri 1959 e Tepedino Guerra-Torraca 1996), ovvero le strumentazioni usate da­ gli astronomi nell’esame del movimento dei corpi celesti. Già Platone era a conoscenza di queste sofisticate strumentazioni (cfr. Tim. 40d) che, soprat­ tutto e proprio con Eudosso di Cnido, trovano una coerente e persistente applicazione nel campo della scienza astronomica (cfr. e.g. Cic. De rep. I 14, 22 = F1 Lasserre); per questo motivo, è difficile non pensare che il rifiuto epicureo di questi strumenti non fosse in qualche maniera connesso al loro capillare impiego da parte di Eudosso e degli Eudossiani (ciziceni). Questa polemica contro gli organa, come abbiamo già avuto modo di constatare, è nota soprattutto grazie al libro XI del Peri physeos ([26] [38-39] Arrighetti); è interessante notare che il filosofo in questo libro critichi l’uso degli orga­ 180

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na proprio in riferimento al movimento degli astri. A mio parere, dunque, non è affatto un caso che nell’Epistola a Pitocle, esattamente dopo aver trat­ tato della cinetica degli astri, Epicuro polemizzi col sapere astronomico. Senza scendere nei dettagli di questa polemica (che dovette essere molto più importante di quanto generalmente si pensi), il punto centrale è che al sapere astronomico e all’uso di questi strumenti, considerati palesemente inutili nell’analisi della cinetica dei corpi celesti, Epicuro oppone con con­ vinzione l’enargeia, l’autoevidenza percettiva come criterio assolutamente decisivo nell’indagine sui meteora. Nella misura in cui non vi sia alcuna diaphonia tra le spiegazioni date, quelle affini a queste (τὰ τούτοις συγγενῆ) – aggiunta rilevante che prova senza alcun dubbio come quelle esplicitate nella lettera non esauriscano tutte le spiegazioni causali possibili circa un dato meteoron – e l’enargeia, l’esame dei meteora risulterà scientificamente rigorosa e improntata a quella akribeia che la physiologia epicurea inten­ de perseguire. Nel momento in cui, invece, il “possibile” (ἐχόμενος τοῦ δυνατοῦ) di cui qui si parla non sia in accordo con i phainomena, è chiaro che si tratterà di una nozione di “possibile” del tutto estranea al pleonachos tropos così come è stato descritto all’inizio della lettera. Il “criterio” del “possibile”, infatti, è saldamente ancorato all’accordo con i fenomeni: le spiegazioni sono “possibili” perché non ricevono alcuna controattestazione da parte dell’enargeia e, pertanto, dai fenomeni stessi, fermo restando che, come più volte detto, questa nozione di “possibile” esplicita la serie di cause che realmente provocano i meteora. Affidarsi, quindi, all’enargeia e all’accordo con i fenomeni significa non temere affatto le macchinazioni degli astrologi (ἀστρολόγων τεχνιτείας), i loro artifici che si fondano su false premesse scientifiche e sull’uso di inutili organa che non badano all’accordo con l’enargeia e con i fenomeni. La polemica, insomma, non è solo contro il sapere astronomico, ma anche contro l’astrologia e la teologia astrale, discipline o dottrine che per Epicuro non avevano nulla di scientifico e alcun valore filosofico. C’è, tuttavia, un altro motivo che spiega l’attacco agli artifici degli astronomi; si è osservato in precedenza (cfr. supra: 48-52) come sia storicamente probabile la relazione tra l’Epistola a Pitocle e il circolo eudossiano di Cizico; non stupisce, pertanto, che Epicuro senta il bisogno di mettere in guardia il suo giovane allievo da quella falsa scienza che i presunti astronomi fanno. Da questo punto di vista – e qui si gioca, secondo me, l’importanza storico-teorica dell’Epistola a Pitocle –, il metodo delle molteplici spiegazioni causali vuole presentarsi come un sapere scientifico alternativo che sia capace di prendere senza mezzi termini le distanze dagli artifici astronomici fondati, agli occhi di Epicuro, su un concetto di scienza che non guarda né al rigore/akribeia né alla sua concreta utilità per la felicità degli uomini. 181

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§ 94. Dopo la polemica contro le (false) tecniche scientifiche degli astro­ nomi, Epicuro si occupa ancora della cinetica degli astri, più in particolare dei movimenti della luna, avendo dedicato principalmente al sole alcune delle sezioni precedenti dell’epistola. La questione concerne essenzialmen­ te le fasi della luna, dunque il suo calare e il suo successivo crescere (κενώσεις τε σελήνης καὶ πάλιν πληρώσεις; sul tema e sulle fonti dossografi­ che eventualmente usate da Epicuro circa questo fenomeno cfr. Bakker 2013: 697-701). Le prime due spiegazioni addotte sono la rotazione del pia­ neta su se stesso (cfr. Lucret. V 720-730 che attribuisce questa descrizione delle fasi lunari alla Babylonica Chaldaeum doctrina che, significativamente, confuta l’astrologorum ars; su questi versi lucreziani cfr. anche Mansfeld-Ru­ nai 2020: 1072-1073) e ugualmente (si noti ancora l’uso decisivo dell’avver­ bio ὁμοίως che indica con chiarezza come tra le diverse spiegazioni non ve ne sia una migliore, più plausibile o preferibile rispetto alle altre) le confi­ gurazioni (schematismoi) assunte dall’aria. A me pare che questa seconda spiegazione faccia riferimento alle conformazioni dell’aria capaci di muo­ vere un astro, di cui Epicuro aveva già parlato in precedenza in relazione ai moti tropici del sole e della luna. Non si può nemmeno escludere che l’a­ ria sia chiamata in causa come “nutrimento”, ossia come “combustibile” dell’accensione e dello spegnimento della luna (cfr. Bignone 1964: 126 n. 6); Epicuro, tuttavia, è preciso nel parlare di schematismoi, che mi sembra­ no riferirsi a masse aria che assumono una certa conformazione fisico-ma­ teriale tale da provocare il movimento delle diverse fasi del pianeta. La for­ mula ἔτι τε καί introduce una nuova spiegazione che si colloca sullo stesso piano delle precedenti (cfr. Denniston 1954: 305): il calare e il crescere del­ la luna possono dipendere dall’occultamento (κατὰ προσθετήσεις) ossia, più esattamente, dall’interposizione (cfr. Bignone 1964: 126 n. 7 e Bailey 1926: 293) di altri corpi capaci di nascondere, appunto, la luce della luna. Dal punto di vista metodologico, questo paragrafo è di grande interesse; qui Epicuro torna su un punto essenziale del suo pleonachos tropos, cioè il fatto che le spiegazioni causali addotte per un certo meteoron (nel caso particolare le fasi lunari) devono essere compatibili con quei fenomeni empiricamente controllabili in maniera diretta che avvengono presso di noi (παρ’ ἡμῖν) e che possono chiarire, in termini analogici, la causa del fenomeno celeste in oggetto di esame. In breve, la nostra esperienza quoti­ diana insegna che, per esempio, se si colloca un oggetto tra lo spettatore e una fonte luminosa, il primo oscurerà la seconda. Nulla esclude, in questo senso, che la luna possa comportarsi analogicamente allo stesso modo: il suo oscurarsi può, infatti, dipendere dall’interposizione di un altro corpo che sia in grado di nascondere la sua luce. Naturalmente il riferimento ai fenomeni παρ’ ἡμῖν è agli occhi di Epicuro decisivo per legittimare il 182

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pleonachos tropos: nell’indagine di un meteoron si devono ammettere come realmente possibili tutte quelle modalità in cui presso di noi si danno alcuni fenomeni che, sempre in termini analogici, possono essere messi in relazione con lo stesso meteoron. Per questa ragione, si condanna la spiegazione singola che risulta essere dannosa dal punto di vista del rigore scientifico: come è impossibile che un certo fenomeno avvenga presso di noi in un solo modo, così è impossibile che i meteora seguano singole spiegazioni causali. Oltremodo interessante, infine, ancora dal punto di vista metodologico, la chiusa del paragrafo: all’uomo deve essere chiaro cosa sia possibile cono­ scere (θεωρῆσαι) e cosa non lo sia perché, se così non fosse, si ritroverebbe a desiderare di conoscere quanto è impossibile conoscere (ἀδύνατα θεωρεῖν ἐπιθυμῶν). Io non credo che, nello scrivere queste righe, il primo scopo di Epicuro fosse quello di ricordare all’uomo il limite o i limiti delle sue capacità conoscitive; per usare categorie proprie della tradizione scetti­ co-(neo)pirroniana antica, Epicuro è un filosofo dogmatico che conosce perfettamente come è costituita la realtà naturale, sebbene nessun filosofo antico possa attribuire concretamente alla conoscenza umana l’assoluta perfezione nell’indagine naturale. Detto questo, a me pare che lo scopo di questa chiusa sia diverso: stimare la spiegazione singola a fronte delle spiegazioni causali molteplici significa, in ambito meteorologico, semplice­ mente non conoscere correttamente le cause dei meteora. Bignone – ma non è il solo – riteneva che questa frase facesse capo all’impossibilità tutta umana di avere una conoscenza precisa per via della distanza che ci separa dai meteora (1964: 111 n. 1); abbiamo già affrontato questo punto delicato (cfr. supra: 59-60) che, tuttavia, non mi sembra essere la motivazione di quanto qui scrive Epicuro. Ci saranno pure cose impossibili (o difficili) da conoscere per la mente dell’uomo (ma dovremmo anche chiederci davvero che cosa, dato che in questa epistola Epicuro fornisce le spiegazioni perfino dei fenomeni celesti e meteorologici più complessi e più lontani da noi) ma ammettere che vi siano cose impossibili da conoscere non significa, in fondo, creare uno spazio per il turbamento e per la paura dipendenti dall’i­ gnoto? Il filosofo, invece, intende rinsaldare la fiducia nel suo metodo di spiegazione, accentuando la reale efficacia del porre molteplici spiegazioni causali per i meteora: coloro che, al contrario, pretendono di fare scienza, affidandosi alla spiegazione singola, non rispettano il criterio dell’enargeia e, così facendo, conoscono ἀδύνατα: in breve, non conoscono. §§ 94-96. La chiusa del § 94 conclude la trattazione relativa alla luna, fo­ calizzandosi sulla questione della sua luce; si è già considerato questo passo in relazione tanto alla più generale metodologia delle molteplici spiegazio­ ni causali quanto alla sua compatibilità con altre spiegazioni riguardanti il 183

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sole (cfr. supra: 74-76), pertanto non tornerò sulla questione. La luna può brillare di luce propria oppure può ricevere luce dal sole (cfr. in parallelo Lucret. V 705 ss.); i filosofi precedenti Epicuro che abbracciarono la prima tesi (si ricordano, paradigmaticamente, Anassimandro e Senofane: Aët. Plac. II 28, 1, Dox. 358, M-R 1065 = 12 A 22 / 21 A 43 DK = II 6 D27 / III 8 D29b LM) sono numericamente inferiori a quelli che, invece, reputarono che la luce lunare dipendesse da quella solare (è noto che questa era opi­ nione di Parmenide – Aët. Plac. II 26, 2, Dox. 357, M-R 1049 = 28 A 42 DK = V 19 D29 LM –, ma anche di Empedocle – Aët. Plac. II 28, 5, Dox. 358, M-R 1065 = 31 A 60 DK – e, naturalmente, di Anassagora – Aët. Plac. II 20, 6, Dox. 349, M-R 971 = 59 A 72 DK; ‘Hipp.’ Ref. I 8, 6 = 59 A 42 DK = VI 25 D4 LM – che reputava il sole e gli astri masse incandescenti e pietre infuo­ cate, il che gli procurò il processo per empietà: cfr. Diog. Laert. II 12). Epi­ curo ovviamente non opta né per la prima né per la seconda spiegazione perché i fenomeni che accadono presso di noi (παρ’ ἡμῖν; un riferimento importante che torna qui a rafforzare quanto il filosofo scriveva immedia­ tamente prima) possono o brillare di luce propria o riceverla da altri corpi. Ancora una volta Epicuro, esaurito il discorso sulla luce lunare, torna sui caposaldi teorici del suo pleonachos tropos: che la luce della luna dipenda da queste due spiegazioni non solo è confortato dai fenomeni presso di noi empiricamente controllabili ma ciò è compatibile (ovvero: non contrasta) con i fenomeni celesti. Questo punto è di cruciale importanza per il pleonachos tropos: per un verso, le spiegazioni non devono essere smentite da ciò che avviene παρ’ ἡμῖν, per un altro, esse non possono in alcun modo essere in contrasto nemmeno con i meteora in generale e, più in particolare, con quelli che hanno una qualche relazione col meteoron in esame (per esempio, il sole re­ lativamente alla luce della luna). Epicuro accentua il fatto che tra le diverse spiegazioni debba esserci compatibilità, un tema che si è già affrontato (cfr. supra: 149-150), il che non è affatto un punto secondario. Epicuro è interessato a fornire un sistema rigorosamente scientifico di spiegazioni, ferma restando la duplice clausola della compatibilità con i fenomeni presso di noi e con gli altri meteora: di qui la forte e netta esortazione di Epicuro a tenere sempre alla memoria il pleonachos tropos (ἀεὶ μνήμην ἔχῃ), a non ricadere follemente/stoltamente (ματαίως) nella teoria dell’unica spiegazione (ἐπὶ τὸν μοναχὸν τρόπον) e, soprattutto, in ciò che è privo di coerenza (τὰ ἀνακόλουθα; sull’importanza della akolouthia nella filosofia di Epicuro, cfr. la chiusa del XIV libro del Peri physeos – PHerc. 1148 – con Leone 1987). In questo contesto è interessante l’uso di “ipotesi” connesso a “cause” (ὑποθέσεις ἅμα καὶ αἰτίας); ὑποθέσεις non indicano mere supposi­ zioni eventuali (in tal caso difficilmente avrebbe senso la relazione con le 184

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cause) ma principalmente le ipotesi contenenti le diverse spiegazioni/cause dei meteora che naturalmente devono essere verificate e vagliate. Ancora la luna rimane il fenomeno centrale di questi luoghi di Pitocle; stavolta si tratta di indagare l’ἔμφασις ossia l’immagine, l’aspetto del volto (τοῦ προσώπου) della luna, un argomento a cui, come è noto, Plutarco de­ dica un intero trattato (il De facie in orbe lunae che si può studiare nella pre­ gevole edizione a cura di Donini 2011). Epicuro non dedica, però, troppo spazio a tale questione e si limita a dare un paio di spiegazioni, lasciando ovviamente aperto il campo a tutte le altre spiegazioni in accordo con i fe­ nomeni: la prima riguarda la varietà delle sue parti (κατὰ παραλλαγὴν μερῶν), dunque la stessa diversità materiale che caratterizza il corpo lunare che può essere responsabile della varietà dell’ἔμφασις con la quale la luna appare (cfr. in proposito anche Plutarch. De fac. 934F-935F, dove non man­ cano dei chiari riferimenti al Fedone platonico: cfr. Donini 2011: 315 n. 257 e, sul versante epicureo, Arrighetti 1973: 529); la seconda chiama in causa l’interposizione di altri corpi (κατ’ἐπιπροσθέτησιν), una spiegazione che Epicuro aveva menzionato già al § 94, dove si diceva che le fasi della luna possono dipendere dall’occultamento (κατὰ προσθετήσεις) dovuto all’inter­ posizione di altri corpi. Il paragrafo 96 si apre con un’altra sintetica trattazione di natura stretta­ mente metodologica; Epicuro esorta ancora una volta a impiegare il pleona­ chos tropos nell’indagine di tutti i fenomeni celesti evidentemente per le esigenze di sistematicità, a cui si accennava in precedenza. Particolarmente indicativo è il fatto che il filosofo ribadisca qui la relazione tra l’autoevi­ denza percettiva (che, in ultima analisi, deve vagliare e valutare le diverse spiegazioni, garantendone il “rispetto” delle sensazioni e, pertanto, della scientificità) e l’imperturbabilità; Epicuro, dopo aver affrontato l’esame di più meteora, rammenta in maniera retoricamente efficace il fine ultimo esclusivo a cui l’indagine rigorosa dei meteora conduce e che non va mai posto nel dimenticatoio, pena l’inutilità dell’indagine stessa. Interessante, infine, il fatto che si parli non di mera imperturbabilità ma di genuina, autentica ataraxia (ἀταραξίας γνησίου); mi sembra un dato importante che mostra bene come l’imperturbabilità non possa che passare attraverso la conoscenza precisa e puntuale della natura. Solo la physiologia conduce alla verace imperturbabilità che, perciò, non è affatto una condizione im­ mediata ma uno stato che si conquista unicamente dopo l’attento esame scientifico delle cause dei fenomeni naturali. §§ 96-97. Il tema dell’eclissi del sole e della luna occupa la parte centrale del § 96 (sull’eclisse della luna e sulle fonti dossografiche della trattazione epicurea rinvio ancora a Bakker 2013: 701-703); la medesima questione è affrontata anche da Lucrezio nel V libro del De rerum natura (751-770). Co­ 185

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me sovente accade, la trattazione lucreziana appare più particolareggiata ri­ spetto all’Epistola a Pitocle; ciò si spiega col fatto che l’epistola è un com­ pendio e che il poema lucreziano, tra le sue fonti, contempli non solo que­ sta lettera, ma anche opere di Epicuro (o anche epicuree) più ampie e det­ tagliate, come il Peri physeos (cfr. Arrighetti 1975 e Sedley 1998a: 119-123). In Pitocle sono essenzialmente due le cause dell’eclissi offerte ma, come sempre, Epicuro non può escludere (e non esclude) altre spiegazioni, pur non menzionandole esplicitamente; la prima fa capo allo spegnimento (κατὰ σβέσιν) degli astri in esame, il sole e la luna. Lo spegnimento era sta­ to richiamato già prima nella lettera (§ 92; cfr. supra: 174 ss.) relativamente al sorgere e al tramontare della luna e degli altri astri. Questa spiegazione delle eclissi è presente anche in Lucrezio (V 768-770); per quanto concerne la tradizione precedente Epicuro, l’opinione che generalmente le eclissi av­ vengano per spegnimento e accensione (ἐκ τῆς σβέσεως καὶ ἐξάψεως) degli astri può forse essere ascritta al democriteo Metrodoro di Chio (cfr. [Plu­ tarch.] Strom. 11, Dox. 582 = 70 A 4 DK). La seconda spiegazione offerta fa capo all’interposizione (κατ’ἐπιπροσθέτησιν) di altri corpi capaci di oscura­ re il sole e la luna così da provocare l’eclissi. Tra i corpi che possono inter­ porsi Epicuro cita certamente la terra; Lucrezio (V 753-757), invece, men­ ziona il caso della luna che, ponendosi tra il sole e la terra, può escludere quest’ultima dalla luce del sole. Questo caso non pare essere contemplato in questo luogo della lettera; Lucrezio (V 762-764), comunque, esplicita che è possibile che la terra sia in grado di opporsi al sole, lasciando così la luna priva della luce solare e a ciò mi sembra far riferimento Epicuro, quando parla della terra come uno dei corpi che potrebbero collocarsi di contro al sole e/o alla luna. Più arduo, anche dal punto di vista filologico (cfr. Bignone 1964: 128 n. 1; Bailey 1926: 295-298; Bollack-Laks 1978: 183-184), è spiegare il genitivo οὐρανοῦ dei codici; in che senso, infatti, il cielo potrebbe interporsi per oscurare i due astri? Non mi sembrano pienamente convincenti le ipotesi di chi ha voluto a tutti i costi mantenere οὐρανοῦ (Bollack-Laks 1978: 184; cfr. anche Von der Mühll 1922: ad loc.; Arrighetti 1973: ad loc.), di chi, con Usener (1887: Praef. pp. XVIII-XIX), ha preferito leggere ἀοράτου (Bailey 1926: 295-296) e tantomeno di chi ha inserito al posto di “cielo” perfino un altro astro come la luna stessa (Woltjer 1877: 135). Filosoficamente più convincente e filologicamente più “economica”, invece, mi sembra essere la soluzione prospettata da Ettore Bignone e accolta da Boer (1954: 5 a), Isnardi Parente (1983: 185 n. 2) e, ora, dall’ultimo editore delle Vite laerziane (Dorandi 2013a: 788). Mentre in un primo momento Bignone (1964: 128 n. 1) aveva accettato la lectio di Usener ἀοράτου, in un secondo momento (1933: 112) propose di leggere οὐρανίου. Il riferimento, quindi, 186

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potrebbe essere a un generico corpo celeste (cfr. anche la menzione di un corpus in Lucret. V 757) che sia in grado di collocarsi in opposizione al sole e/o alla luna causando così l’eclissi. Ripeto che la soluzione di Bignone mi sembra la più adeguata al contesto e, filologicamente, la più persuasiva, tenendo conto dello οὐρανοῦ della tradizione manoscritta che mi sembra alquanto difficile mantenere. Ancora una breve trattazione di carattere metodologico è aggiunta dal­ l’autore nella chiusa del paragrafo; si riafferma ulteriormente la globale sistematicità attraverso la quale vanno considerate le diverse spiegazioni causali. Non è affatto fortuito che Epicuro lo ribadisca proprio in questo punto della lettera: le spiegazioni dell’eclissi fornite, infatti, potrebbero essere smentite e sconfessate da spiegazioni di altri meteora che hanno a che fare con l’eclissi. Si è già affrontata questa delicata ma centrale questione (cfr. supra: 74 ss.); qui mi limito a sottolineare quanto la questione della sistematicità e della compatibilità stia a cuore a Epicuro. Nella misura in cui, infatti, la compatibilità tra le spiegazioni venisse meno, verrebbe altrettanto meno anche la scientificità dell’indagine; per questo motivo il filosofo sottolinea come le cause dei meteora (in particolare quelli che sono in qualche modo tra loro connessi) debbano essere esaminate insieme (συνθεωρητέον) e come non sia impossibile che un certo meteoron dipenda da una concomitanza/coincidenza (συγκυρήσεις; su questo termine cfr. l’annotazione di Bailey 1926: 296) di circostanze. Non si può escludere che il riferimento possa essere a quella necessità condizionale o ipotetica a cui si faceva cenno (cfr. supra: 75), che spiegherebbe come la formazione di alcuni meteora sia reciprocamente collegata e, pertanto, come le cause in gioco siano connesse tra loro. La presenza di un interessante scolio conferma come l’argomento dell’e­ clissi fosse particolarmente importante per Epicuro che lo approfondì nel XII libro del Peri physeos; la corrispondenza tematica tra l’opus magnum di Epicuro e Pitocle conferma come tra i due scritti vi fosse un’intima relazione (cfr. Arrighetti 1973: 700 e Sedley 1998a: 119-120), anche se né esclusiva né meccanica. Lo scoliasta appare essere ancora una volta un fine conoscitore della bibliografia di Epicuro (e, come si vedrà a breve, non solo), il che induce a credere che conoscesse direttamente il Peri physeos. Il testo dello scolio informa che nel XII libro di questo scritto Epicuro forniva spiegazioni ulteriori del fenomeno dell’eclissi; si tratta di spiegazio­ ni che evidentemente non sono presenti in Pitocle ma che si ritrovano in buona parte in Lucrezio. Nello scolio l’eclissi di sole è fatta dipendere dalla luna che gli fa ombra; in Lucrezio (V 753-754: Nam cur luna queat terram secludere solis / lumine) si legge come la luna sia capace di escludere la terra dalla luce del sole. L’eclissi di luna, invece, è fatta dipendere 187

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dall’oscuramento dell’astro da parte della terra; in Lucrezio (V 762-763: Et cur terra queat lunam spoliare vicissim / lumine et oppressum solem super ipsa tenere) la terra può privare la luna della luce e anche nascondere il sole. A dire il vero, nel testo dello scolio, è fornita un’altra spiegazione dell’eclissi lunare che fa capo a un indietreggiamento dell’astro (κατ’ἀναχώρησιν); non è immediato rintracciare un efficace parallelo lucreziano ma forse non si può escludere il verso 764 sempre del V libro del poema (menstrua dum rigidas coni perlabitur umbras), dove si fa riferimento al fatto che la luna ogni mese attraversa il cono d’ombra proiettato dalla terra, sebbene non vi sia affatto congruenza o sovrapponibilità tra le due spiegazioni. Come che sia, il dato rilevante è la stretta relazione tra lo scolio e Lucre­ zio; si tratta di un indizio interessante della dipendenza del poema dal Peri physeos (nel caso specifico delle eclissi, dal XII libro dello scritto), sebbene non si possa escludere la possibilità che Epicuro avesse trattato di questo specifico fenomeno altrove e che, pertanto, Lucrezio possa dipendere da qualche altro scritto (sulla specificità lucreziana nell’ambito della meteoro­ logia è utile Kany-Turpin 2020). Il XII libro del Peri physeos non doveva oc­ cuparsi solamente di meteorologia, ma anche di altri argomenti quali la co­ smologia/cosmogonia (cfr. lo scolio del § 74 dell’Epistola a Erodoto) e, se­ condo la ricostruzione di Sedley (1998: 121-122), basata soprattutto su alcu­ ni luoghi filodemei del De pietate, l’origine della religione e quella della ci­ viltà. Altro non credo si possa dire sui contenuti; che un libro del Peri phy­ seos trattasse di argomenti diversi e apparentemente lontani tra loro non deve stupire ma forse rifletteva il modo in cui Epicuro elaborava e appro­ fondiva (magari collegandoli) i diversi contenuti che intendeva esaminare nell’ambito di un solo libro: nel II libro, per fare un solo esempio, prima della trattazione della dottrina dei simulacri che rimane il tema principale, vi è un accenno a una questione di carattere specificamente cosmologico (Nat. II coll. 1-7 Leone). Lo scolio, infine, fornisce una informazione di grande rilievo; anche il filosofo epicureo Diogene (vissuto verosimilmente nel II sec. a. C. ma è arduo identificare il tempo della sua esistenza con precisione: cfr. Dorandi 1994) riprendeva nel I libro delle sue Lezioni scelte (ἐν τῇ αʹ τῶν Ἐπιλέκτων) l’argomento delle eclissi così come Epicuro ne trattava nel XII libro del Peri physeos. Da Diogene Laerzio (X 26) sappiamo che il Diogene menzionato dallo scoliasta era un epicureo illustre, di Tarso; scrisse delle lezioni scelte o Epilekta (Διογένης τε ὁ Ταρσεὺς ὁ τὰς ἐπιλέκτους σχολὰς συγγράψας) che dovevano essere in almeno venti libri (cfr. Diog. Laert. X 138) e riguardare varie questioni, da quelle meteorologiche a quelle etico-morali, che, in ogni caso, dovevano avere una certa preminenza (cfr. Diog. Laert. X 119, 136). Nulla conosciamo di quest’opera se non il riferimento dello scolio 188

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pitocleo; si potrebbe pensare che i contenuti concernessero la messa per iscritto delle lezioni di Diogene stesso. Non andrebbe esclusa anche la possibilità che quest’opera riguardasse perfino alcune lezioni di Epicuro che Diogene in qualche modo rielaborò; una di queste poteva riguardare proprio le eclissi così come venivano affrontate nel XII libro del Peri phy­ seos. Da altri passi laerziani (X 118) siamo informati del fatto che Diogene doveva lavorare abitualmente sugli scritti di Epicuro, con particolare pro­ pensione per quelli di carattere etico-morale; significativa a tale riguardo è la sua Ἐπιτομῇ τῶν Ἐπικούρου ἠθικῶν δογμάτων (cfr. Gigante 1986: 95). Dal testo dello scolio, di conseguenza, si ricavano diverse conclusioni: (1) che lo scoliasta doveva essere un personaggio ben informato non solo circa le opere di Epicuro, ma anche di quelle degli Epicurei illustri, il che porta il terminus post quem dell’attività dello scoliasta (almeno di Pitocle) al II sec. a. C.; (2) che Diogene di Tarso doveva ricoprire un ruolo non secondario nell’ambito della scuola epicurea tanto da essere citato da uno scolio a un paragrafo di un compendio; (3) che i suoi Epilekta dovevano essere un’opera più rilevante e significativa di quanto le fonti testimoniano; in queste lezioni (o di Diogene stesso o forse elaborazioni a partire dalle stesse lezioni di Epicuro) gli argomenti principali erano di natura etica ma proprio il testo del nostro scolio riporta che non mancavano temi fisici (verosimilmente esaminati pur sempre in più ampi contesti morali). § 97. Come si legge nell’incipit di questo paragrafo, la relazione tra i fe­ nomeni celesti e quelli che accadono presso di noi è strettissima e necessa­ ria anche per confutare la credenza che sia la divinità a provocare i meteora. Facciamo continuamente esperienza, infatti, di eventi παρ’ ἡμῖν che hanno una precisa regolarità senza che questa sia causata da una θεία φύσις: perché, quindi, non dovrebbe essere lo stesso per i meteora? Epicuro, in­ somma, concentra la sua attenzione su una questione essenziale: la regola­ rità dei fenomeni astronomici – che era alla base di uno dei “dogmi” della cultura antica tout-court, la cosiddetta teologia astrale – non necessita dell’e­ sistenza di una natura divina che ne sia la causa. Di ciò, appunto, facciamo diretta esperienza: παρ’ ἡμῖν si danno eventi regolari che, pur essendo tali, non dipendono da un artefice divino. Il pleonachos tropos, dunque, non confuta ma legittima la regolarità dei movimenti dei corpi celesti senza ri­ condurre quest’ordine alla causalità divina che Epicuro lascia esente da qualunque occupazione (ἀλειτούργητος) e per questo partecipe della più piena e completa beatitudine (ἐν τῇ πάσῃ μακαριότητι). Il confronto con la Meteorologia siriaco-araba (14. 14-29, p. 270 Daiber) qui si impone: in que­ sto testo si legge in maniera esplicita che esclusivamente dio è la causa del­ l’ordine e della disposizione armonica del mondo, mentre il disordine e l’irregolarità (e in queste categorie rientrano anche alcuni tra meteora, co­ 189

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me i fulmini e gli uragani, da quanto si desume dal testo) è da ascriversi solo alla natura del mondo, ovvero alla causalità della natura (a 14. 17-23, p. 270 Daiber viene detto apertamente che dio non può essere la causa dei fulmini; Mansfeld 1992: 324-327 ha giustamente rintracciato stretti e signi­ ficativi parallelismi con la trattazione lucreziana sui fulmini – VI 357-422 –, dove il poeta mette in guardia dal credere che sia Giove a causa­ re questo fenomeno). La natura evidentemente deve considerarsi profonda­ mente diversa (e perfino opposta) rispetto alla intelligente causalità divina (cfr. Daiber 1992: 280-281) e, data la sua intrinseca incostanza, si esplica e si declina in una pluralità di cause per ogni fenomeno. È forse questa la motivazione principale del metodo delle molte e diverse spiegazioni adot­ tato da questo testo (che, beninteso, potrebbe anche dipendere dalla εἰκοτολογία teofrastea – cfr. supra: 93-97 – ma bisogna tenere conto del fat­ to decisivo che, nelle spiegazioni, per come sono presentate nel testo, non vi sia alcun esplicito accenno alla verosimiglianza). Fornire più spiegazioni di un fenomeno causato direttamente dalla divinità sarebbe risultato assur­ do e perfino blasfemo. Se gli dei esistono (e per Epicuro esistono senz’altro), essi non si occupa­ no di causare i meteora, un’azione, questa, che andrebbe a ledere la loro assoluta beatitudine. Ammettere che una θεία φύσις sia responsabile dei meteora significa vanificare il pleonachos tropos e tutta la ricerca (rigorosa e scientifica) delle loro cause (ἅπασα ἡ περὶ τῶν μετεώρων αἰτιολογία); non senza condividere una certa “aria di famiglia” aristotelica, Epicuro accentua la decisività dell’αἰτιολογία (cfr. al riguardo anche Polistrato, De cont. coll. XIV 23-26 e XV 20-XVI 8 Indelli, con Verde 2020c: 209-213; sulla relazione tra l’indagine sulla natura e la conoscenza delle cause cfr., paradigmaticamente, Plat. Phaed. 96a), dell’esame scientifico che mira a stabilire le cause dei fenomeni. Coloro che, al contrario, si affidano non alla περὶ τῶν μετεώρων αἰτιολογία come la intende Epicuro ma alla θεία φύσις per esporre le medesime cause si affidano, in fondo, al monachos tro­ pos, ovvero alla spiegazione univoca. Così facendo, verrà meno il pleonachos tropos (che Epicuro identifica con la genuina αἰτιολογία) e, con esso, tanto il “criterio” del possibile (δυνατοῦ τρόπου) che, come abbiamo più volte osservato, va inteso nel senso della possibilità causale (cfr., su quest’ultimo punto, ancora Masi 2014a) riconosciuta alle diverse spiegazioni ammesse per un meteoron, che ne esplicitano le diverse cause, le quali effettivamen­ te/realmente/materialmente lo provocano. La relazione tra monachos tropos e una θεία φύσις artefice e demiurgica (credo sia fuor di dubbio che il riferimento polemico principale sia al Timeo platonico: cfr., a tale proposito, l’interessantissimo NF 155 = YF 200 Hammerstaedt-Smith di Diogene di Enoanda con Chiaradonna 2015, 190

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Erler 2017, Verde 2017a: 79-85 e Id. 2021c) è, per Epicuro, un rapporto scellerato perché intrinsecamente antiscientifico; di qui si comprende il costante e continuo richiamo epicureo alle vane e folli considerazioni nelle quali ricadono coloro che non condividono l’αἰτιολογία tramite il pleonachos tropos. Rifiutando questo metodo scientifico, costoro rifiutano le spiegazioni causali improntate al “criterio” del possibile/plausibile (κατὰ τὸ ἐνδεχόμενον; cfr. anche supra: 63-64), precipitando in quella condizione di insensatezza e inconcepibilità che è all’opposto dell’αἰτιολογία rigorosa e puntuale. Il fatale errore, conclude Epicuro, risiede nel non considerare nel loro insieme (συνθεωρεῖν), ossia nella loro composita e organizzata sistematicità, i σημεῖα dei fenomeni celesti, ovvero i loro indizi sensibili dai quali necessariamente parte il metodo delle molteplici spiegazioni causali. Nella misura in cui non si considerano con la debita attenzione tali σημεῖα, si manda all’aria il basilare criterio dell’enargeia, l’autoevidenza percettiva che, da un lato, vaglia la (plurale) validità delle spiegazioni causali e, dal­ l’altro, elimina di per sé la possibilità stessa che i meteora siano provocati dalla divinità o, comunque, da una causa singola e unitaria. §§ 98-99. La variabilità della lunghezza dei giorni e delle notti (cfr. in pa­ rallelo Lucret. V 680-704 e Diog. Oen. Theol XV 14-XVI 4 HammerstaedtSmith) è il tema principale del § 98 che, dal punto di vista teorico, si colle­ ga ai precedenti, vista la sua relazione con il movimento del sole sulla terra. Le diverse spiegazioni di questo fenomeno fanno capo ai movimenti del sole sulla terra, appunto, che possono essere più veloci o più lenti, determi­ nando, così, giorni e notti più brevi o più lunghi (cfr. Hrdt. 72-73). Tale va­ riabilità può dipendere anche dal fatto che alcuni luoghi sono percorsi dal sole più rapidamente o più lentamente; questa spiegazione può richiamare quanto Epicuro aveva detto in precedenza circa i moti degli astri, quali il sole e la luna (cfr. Bignone 1964: 129 n. 2, nonché supra: 178 ss.). È possibi­ le che il sole impieghi più o meno tempo nell’attraversamento di una re­ gione, nella misura in cui incontri più o meno ostacoli materiali nel suo corso. Il riscontro offerto da Epicuro non poteva che essere ai fenomeni παρ’ ἡμῖν, che confermano come la presenza o meno di un ostacolo mate­ riale possa rispettivamente rallentare o velocizzare il movimento di un cor­ po. Bignone, nel luogo appena segnalato, fa un esempio molto calzante: una fiamma si propaga velocemente quando trova di fronte a sé materiale infiammabile (ciò potrebbe rievocare l’argomentazione del “nutrimento”, una delle spiegazioni offerte del movimento degli astri: cfr. supra: 178) mentre si arresta quando trova, al contrario, un ostacolo. Il riferimento ai fenomeni παρ’ ἡμῖν permette a Epicuro di aprire l’enne­ sima parentesi metodologica: coloro che ammettono una sola spiegazione, in realtà, si oppongono ai fenomeni e si ingannano completamente sul 191

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conoscere. Ciò che a Epicuro preme sottolineare in questo luogo è il fatto che l’attività del θεωρῆσαι (il conoscere che passa, per l’appunto, per l’osservazione dei fenomeni), se deve essere davvero scientifica e rigorosa, non può opporsi ai fenomeni ma deve, invece, rispettarli; e rispettare i fenomeni significa ammettere più spiegazioni e, pertanto, non ricadere negli errori che il monachos tropos necessariamente comporta. L’ultima parte del paragrafo è dedicata all’esame dei cosiddetti “prono­ stici” che sarà ripreso anche dopo al § 115 (cfr. infra: 249 ss.; di qui, a torto, Bignone 1964: 130 n. 1 inferiva la fretta e il poco discernimento con cui questa lettera era stata redatta) ma, come vedremo, in diverso modo. Con il termine ἐπισημασίαι Epicuro intende essenzialmente i segni atmosferici (solo di passaggio segnalo che a Teofrasto è ascritta un’opera proprio sui segni atmosferici: cfr. l’edizione di Sider-Brunschön 2007) come, per esem­ pio, la luna che acquisisce una coloritura rossa oppure un tramonto altret­ tanto rosso (cfr. Bailey 1926: 299). Sappiamo che le cause dei pronostici fu­ rono indagate dallo stoico Boeto e da Posidonio (cfr. Cic. Div. II 21, 47 = Boeth. SVF III 4 = 109 Edelstein-Kidd). Evidentemente per Epicuro questi segni non possiedono nulla di divino o alcuna capacità divinatoria; ciò lo si comprende dalle cause che Epicuro descrive. Le ἐπισημασίαι possono av­ venire κατὰ συγκυρήσεις (si tratta dello stesso termine usato poco più sopra al § 96: cfr. supra: 187), ossia per un fortuito concorso di circostanze (fisi­ che e materiali), come del resto avviene nel caso di quegli animali che emettono, per esempio, particolari versi o assumono alcune peculiari mo­ venze (cfr. Bailey 1926: 299, nonché il rilevante precedente platonico di Phaed. 84d-85b). Questi eventi non sono affatto profetici ma avvengono semplicemente per un concorso di circostanze (per un significato alternati­ vo e più tecnico di συγκυρήσεις/συγκύρημα καιρῶν cfr. infra: 251); ma le ἐπισημασίαι possono dipendere anche da mutamenti d’aria e più in genera­ le da cambiamenti capaci di provocare una modifica del tempo atmosferi­ co (cfr. anche [Aristot.] Probl. 941b 9-10 = 170 Arrighetti; sulla relazione tra il genere di scritti relativi ai προβλήματα e la struttura di Pitocle cfr. ora Da­ miani 2021: 318-323). Queste cause, incalza Epicuro, non sono affatto in contrasto con i fenomeni, per questa ragione possono essere ammesse co­ me vere e rigorose. L’aggiunta finale, che in realtà, nella partizione moderna del testo apre il § 99, è importante: «Ma in quali casi valga questa o quest’altra spiegazio­ ne non è dato sapere». Se proprio si deve trovare un limite al metodo scien­ tifico epicureo è questo: non è possibile sapere (συνιδεῖν) in quali casi sia valida questa o quella spiegazione. Questo punto è di cruciale importanza per l’analisi del pleonachos tropos: tutte le spiegazioni fornite per i meteora esplicitano le cause effettivamente operanti ma chiaramente non tutte le 192

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cause sono attive nella formazione dei fenomeni celesti. Per tale motivo questi hanno più cause della loro generazione. Il pleonachos tropos, insom­ ma, si limita a esplicitare le spiegazioni causali che possono, tutte allo stes­ so modo, generare un dato meteoron ma è del tutto evidente che non tutte le cause addotte sono responsabili sempre e in modo concomitante della formazione del fenomeno celeste in esame. Vi sono casi in cui opera una causa e casi in cui ne opera un’altra: noi possiamo conoscere scientifica­ mente le cause ma non quali cause effettivamente operino in un preciso momento. A dire il vero, se si riflette bene, non si tratta nemmeno di un limite vero e proprio: Epicuro semplicemente non sembra essere così inte­ ressato a sapere quale causa operi in una certa circostanza. Il filosofo è inte­ ressato, piuttosto, alla αἰτιολογία, ovvero alla scienza delle cause: l’impor­ tante, dunque, è (1) sapere che un dato fenomeno celeste ha più cause della sua formazio­ ne; (2) conoscere nel dettaglio e con precisione quali sono queste cause; (3) non ricadere né nella spiegazione unitaria o in quella facente capo alla divinità, dato che questo tipo di motivazioni contrasta con i fenomeni. Da questo punto di vista, sapere quale causa operi in una data circostanza non è utile; lo sarebbe, semmai, se la meteorologia epicurea avesse come fine non la felicità e la scomparsa delle paure ma l’aumento della cono­ scenza fine a se stessa. § 99. Con questo paragrafo Epicuro abbandona, almeno per il momen­ to, i meteora intesi come eventi atmosferici per dedicarsi nello specifico ai fenomeni meteorologici. Il primo esaminato riguarda la formazione delle nubi (νέφη); vengono fornite tre spiegazioni. La prima fa dipendere la ge­ nerazione delle nubi dal condensamento dell’aria provocato dalla pressio­ ne dei venti (cfr. Lucret. VI 455-469); una causa simile è ammessa anche da Anassimene (cfr. Simpl. In Aristot. Phys. 24, 26, Dox. 476 = 13 A 5 DK = II 7 D1 LM; Aët. Plac. III 4, 1, Dox. 370, M-R 1203 = 13 A 17 DK = II 7 D21 LM) e da Anassagora (Aët. Plac. III 4, 2, Dox. 371, M-R 1203 = 59 A 85 DK = VI 25 D54b LM), sebbene, come in tutti gli altri casi, non bisogna crede­ re che i precedenti preplatonici siano stati assunti in modo immediato o acritico da Epicuro, come giustamente Graziano Arrighetti (1955: 70-71) ha evidenziato con specifico riferimento a questo paragrafo della lettera. La seconda spiegazione chiama in causa direttamente i corpi atomici che, in­ trecciati saldamente tra loro, sono in grado di formare le nubi (cfr. Lucret. VI 451-454); è molto interessante l’uso di ἀλληλούχων riferita ad ἀτόμων, soprattutto se si tiene a mente il ruolo giocato dalla allelouchia nel II libro del Peri physeos (cfr. Nat. II col. 106 20-21 Leone). Il termine allelouchia in­ dica la coesione, la stretta compattezza dei simulacri; è proprio in virtù del­ 193

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la allelouchia che i simulacri sono in grado di conservare la loro stretta compagine (già propria della superficie dell’oggetto solido di partenza) an­ che in seguito a eventuali urti (antikopai) o fratture, cui possono andare in­ contro durante il loro transito attraverso l’aria o l’acqua. Per indicare la sal­ da compattezza degli atomi adatti a formare le nubi, Epicuro in Pitocle si richiama alla medesima nozione di allelouchia che, evidentemente, doveva essere un concetto rilevante nella fisica epicurea. È altrettanto importante notare come non tutti gli atomi siano idonei alla formazione delle nubi. Il filosofo parla di atomi adatti (ἐπιτηδείων εἰς τὸ τοῦτο τελέσαι); una conoscenza certamente sommaria e superficiale del materialismo epicureo induce a credere che tutti gli atomi possano generare tutto. Non è affatto così: esistono tipologie di atomi capaci di intrecciarsi reciprocamente in maniera più salda e coesa rispetto ad altre. Non tutti gli atomi, perciò, sono in grado di saldarsi tra loro e dare luogo alle nubi. L’ultima spiegazione fornita, infine, fa riferimento alle esalazioni prove­ nienti dalla terra e dalle acque (κατὰ ῥευμάτων συλλογὴν ἀπό τε γῆς καὶ ὑδάτων) che, una volta raccoltesi insieme, possono dare luogo alle nubi; una simile spiegazione si ritrova in Senofane (cfr. Aët. Plac. III 4, 4, Dox. 371, M-R 1203-1204 = 21 A 46 DK = III 8 D32 LM) ed è abbondantemente presa in considerazione da Lucrezio (VI 470-484). Come si è già visto in altri casi, Epicuro ribadisce che non è possibile escludere che le nubi si formino secondo modalità ulteriori rispetto alle tre cause descritte. Come in Lucrezio la formazione della pioggia segue a quella delle nubi (VI 495-523), lo stesso si osserva in Pitocle, il che risulta essere difficilmente fortuito e, dunque, è assai probabile che Lucrezio dipenda da Epicuro. Del resto, il tema delle nubi non poteva che essere strettamente legato a quello della pioggia; questa può avvenire o nel momento in cui le nubi urtano tra loro (ᾗ μὲν θλιβομένων; cfr. Lucret. VI 510-518) oppure quando in esse accade un mutamento (ᾗ δὲ μεταβαλλόντων; si tenga conto che di nubi “in trasformazione” in riferimento al fenomeno del tuono parla Aristotele in Meteor. II 9, 370a 29-30). Su quest’ultima spiegazione, che fa riferimento a una metabasis, un cambiamento all’interno delle nubi, mi pare facciano luce alcuni versi del De rerum natura (cfr. Bignone 1964: 130 n. 5 e Bailey 1926: 301); Lucrezio spiega che, quando le nubi sono ricolme di semi d’acqua (VI 507: semina aquarum), queste emettono la pioggia a causa della forza del vento oppure può accadere che piova anche quando le nubi siano diradate dai venti o si sciolgano per via del calore del sole, proprio come la cera, esposta a una fonte di calore, inizia a gocciolare (VI 513-516). Se il parallelismo con Lucrezio è corretto, non si può, pertanto, scartare l’ipotesi che con metabasis Epicuro indichi un’alterazione della condizione 194

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materiale della nube allo stato liquido per via di fattori esterni, quali il vento o il calore del sole. § 100. La prima parte di questo paragrafo è stata lungamente discussa dai critici (cfr. Arrighetti 1955: 73 ss.); non entro in questa sede nei minu­ ziosi dettagli filologici (che pure sono, ovviamente, decisivi) ma, basando­ mi sul testo qui proposto, lo esamino dal punto di vista del contenuto non senza qualche riflessione di carattere testuale. Il problema principale è ca­ pire se qui Epicuro prosegua con la trattazione della formazione della piog­ gia oppure cambi argomento e passi a considerare i venti (πνεύματα). Arri­ ghetti (1955: 74) ritiene che la questione concerna i venti e non più la piog­ gia; Von der Mühll (1922: 35) reputava la frase da πνεύματα a τόπων una glossa che, pertanto, provvedeva a espungere dal testo, sebbene ritenesse che tale glossa fosse «de conceptione umoris […] vel de origine ventorum». Bailey (1926: 301) credeva, invece, che Epicuro trattasse della causa esterna della pioggia (il vento che muove le nubi), dopo aver descritto quella inter­ na inerente alle nubi stesse. Ora, Epicuro dei venti tratterà anche in seguito (§ 106) ma a me pare che il filosofo intenda mettere in relazione la pioggia e i venti, quindi credo abbia ragione Isnardi Parente (1983: 187 n. 1) nel dire che qui si parla non solo dell’origine della pioggia, ma anche dei venti (cfr., in questa luce, Lucret. VI 455-459). Modificando il tràdito κινουμένων in κινουμένου riferito ad ἀέρος, Arrighetti, come abbiamo già detto, reputa le prime righe del paragrafo in esame, come relative all’origine dei venti. Questi si costituirebbero a partire da “emanazioni”, afflussi probabilmente di aria da luoghi adatti (κατὰ ἀποφορὰν ἀπὸ ἐπιτηδείων τόπων) – forse da luoghi contenenti grandi masse d’aria capaci di spostarsi verso precise dire­ zioni (cfr. Bailey 1926: 301-302) – e (si noti attentamente l’uso di καί – omesso da Usener, a mio parere, immotivatamente – che, se mantenuto, indica come Epicuro non descriva una spiegazione dei venti nuova e vera­ mente alternativa ma faccia semplicemente un’aggiunta rispetto alla prece­ dente che ha luogo solamente nel caso degli acquazzoni) per via di aria mossa quando avviene un forte acquazzone causato da corpi aggregati adat­ ti (ἀπό τινων ἀθροισμάτων ἐπιτηδείων). Epicuro spiega non solo come si ge­ nerano i venti a partire dall’aria, ma anche come precipitazioni alquanto violente, da un lato, possano mettere in movimento l’aria e causare i venti, dall’altro, vengano provocate da materia atomica ben coesa, salda e agglo­ merata (cfr. Bailey 1926: 302). Resta da capire per quale ragione, dopo aver descritto il fenomeno della pioggia, Epicuro decida di introdurre gli πνεύματα. Trovo molto convin­ cente la soluzione proposta da Arrighetti (1955: 77; cfr. anche Arrighetti 1973: 530) che spiega come la relazione tra i venti e la pioggia sia luci­ damente presente nella Meteorologia di Aristotele, dalla cui impostazione 195

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Epicuro potrebbe dipendere. È notissimo che Aristotele facesse dipendere i fenomeni meteorologici da due tipi di esalazione (anathymiasis), l’una umi­ da (vapore) e l’altra secca (cfr. e.g. Meteor. II 4, 359b 28-34; II 9, 369a 12-19 con Wilson 2013: 35-72); nel IV capitolo del II libro della Meteorologia (360b 26-361a 4) Aristotele descrive propriamente il legame tra la pioggia e il vento. I venti sono abbondanti dopo la pioggia mentre essi cessano quan­ do la pioggia sopraggiunge. Ciò si spiega col fatto che, dopo la pioggia, la terra, grazie al suo calore e a quello del sole, si dissecca ed emette esalazioni che sono, dice Aristotele, il corpo del vento (Meteor. II 4, 360b 32: anemou soma). Quando i venti vengono meno per il fatto che il calore si separa e si eleva verso luoghi superiori, il vapore, raffreddandosi, si condensa e diviene acqua che va, a sua volta, a raffreddare l’esalazione secca: così si giustificano il cessare dei venti e il sopraggiungere della pioggia. Rispetto a questa spiegazione la posizione di Epicuro appare certamente diversa ma ciò che importa sottolineare è, appunto, la relazione tra la pioggia e i venti/l’aria che è tematizzata già da Aristotele e che Epicuro avrebbe potuto tenere in considerazione senza difficoltà. La seconda parte del paragrafo concerne i tuoni (cfr. Lucret. VI 96-159 e la tarda ma interessante testimonianza del Peri diosemeion/Sui segni cele­ sti di Giovanni Lido, 21, opportunamente segnalata da Bignone 1973: II 320-321), uno dei meteora che più si facevano risalire alla causa divina (cfr. la preziosa testimonianza di Sext. Emp. M VI 19 non rubricata dagli Epicurea di Usener); è forse per questo che, alla fine del paragrafo, Epicuro ribadisce che, relativamente al tuono, i fenomeni stessi inducono a esporre cause molteplici (πλεοναχῶς). I tuoni possono avvenire per (almeno) quat­ tro cause: (1) la rotazione dei venti nelle cavità delle nubi (cfr. Lucret. VI 121-131 e Sen. NQ II 27, 2; il fenomeno presso di noi qui richiamato è quello dei vasi, verosimilmente quelli di uso comune a collo stretto, del tipo del lekythos: cfr. Bignone 1964: 131 n. 3). Se diamo fiducia alla testimonianza sestana di M VI 20, Epicuro, per spiegare il fragore del tuono ricorreva anche alla macina del mulino e al battito delle mani. Solo di passaggio faccio notare che il rapporto tra il tuono e il battito delle mani è richiamato anche da Seneca – NQ II 27, 4 e 28, 1 – ma tale relazione prima di essere stoica – così Vottero 1989: 326 n. 8 – sembra essere già epicurea, il che rappresenta un indizio importante circa l’influenza della meteorologia di Epicuro su NQ II 27, 1-4; (2) il fragore dipendente dal fuoco tra le nubi causato dal vento. Bailey 1926: 130 sostiene che questa spiegazione non sarebbe presente in Lu­ crezio, tuttavia credo che ciò non sia del tutto corretto; il poeta, infatti, ammette la relazione tra il fuoco del lampo – benché Epicuro non lo 196

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menzioni esplicitamente –, il turbinio dei venti e il boato del tuono (cfr. Lucret. VI 145-155, nonché infra, §§ 101-102: 199 ss.). In ogni ca­ so, Epicuro potrebbe riferirsi – il che è molto plausibile – al materiale atomico contenuto nelle nubi capace di incendiarsi per via del vento, come dirà successivamente nella lettera (cfr. infra: 205); (3) le lacerazioni delle nubi (cfr. Lucret. VI 102-115); (4) gli sfregamenti delle nubi tra loro, in particolare quelle ben compatte come il ghiaccio (cfr. Lucret. VI 116-120 e Sen. NQ II 27, 4; lo scontro tra nubi come motivo del tuono è ammesso anche dagli Stoici: cfr. Aët. Plac. III 3, 12, Dox. 369, M-R 1185 = SVF II 705). Al di là dei precedenti preplatonici (segnalati da Bignone 1964: 131 n. 2 per la terza – Anassimandro: Aët. Plac. III 3, 1, Dox. 367, M-R 1182 = 12 A 23 DK = II 6 D33a LM – e la quarta causa – Metrodoro di Chio: Aët. Plac. III 3, 3, Dox. 368, M-R 1182 = 70 A 15 DK), è utile rammentare come nello pseudoaristotelico De mundo (395a 10-14) il tuono è fatto risalire allo pneuma espulso violentemente da una nube; anche in questo scritto si fa riferimento a fenomeni che accadono presso di noi per provare la spiegazione fornita, come, nel caso del tuono, un soffio nell’acqua che viene spinto fuori violentemente (per una prima panoramica sulla sezione meteorologica di questo scritto cfr. Baksa 2020). Nel capitolo 9 del II libro della Meteorologia (369a 24-b 3) Aristotele identifica nell’esalazione secca la causa del tuono (così come quella dei venti e del terremoto: cfr. Meteor. II 9, 370a 27-33): parte di questa esalazione viene espulsa dalle nubi e urtando con queste produce il tuono, fermo restando che il suono prodotto può variare a seconda dell’irregolarità e delle cavità delle nubi. Anche Epicuro parla di cavità nelle nubi nella prima spiegazione del tuono; al di là di questa analogia, la posizione di Aristotele e quella di Epicuro rimangono diverse soprattutto per il decisivo peso teorico (ed euristico) che il primo attribuisce alle esalazioni. Dal punto di vista storico-filosofico, però, le analogie più interessanti con il § 100 della lettera si ritrovano nella cosiddetta Meteorologia siriacoaraba. In questo testo (di cui abbiamo già trattato: cfr. supra: 99 ss.) sono presentate sette cause della formazione del tuono (1. 2-23, pp. 261-262 Dai­ ber): 1. la collisione tra nubi; 2. il vento che entra in una nube cava e ruota in essa; 3. il fuoco che entra in una nube particolarmente umida e successi­ vamente si estingue; 4. il vento che violentemente urta contro una nube grande e gelida; 5. il vento che si introduce in una nube lunga, non unifor­ me e cava; 6. il vento imprigionato in una nube cava e questa si lacera; 7. le nubi ruvide che si sfregano reciprocamente. Anche stando a una superficiale considerazione di queste cause non si può non notare una certa affinità con Pitocle; si tenga anche conto che 197

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dopo l’enunciazione di ogni causa l’autore della Meteorologia siriaco-araba presenta un fenomeno empirico (del tipo di quelli “presso di noi”) che prova la spiegazione fornita: per limitarsi a pochi ma significativi esempi, si fa riferimento ai vasi (causa 2) e al battito delle mani (causa 1; cfr. Sext. Emp. M VI 20 e supra: 196), ossia a fenomeni già noti a Epicuro nell’esame della formazione del tuono. Inoltre, la prima e la settima spiegazione della Meteorologia siriaco-araba ricordano la quarta spiegazione epicurea, la seconda della Meteorologia siriaco-araba rammenta la prima che si legge in Pitocle e, infine, la terza e la sesta della Meteorologia siriaco-araba sembrano richiamare da vicino rispettivamente la seconda e la terza causa offerte da Epicuro (senza contare che nella quarta causa della Meteorologia compare il caso della nube gelida e nella quarta spiegazione di Pitocle – cfr. anche Lucret. VI 156-157 – Epicuro evoca il ghiaccio per indicare la compattezza delle nubi; infine, uno degli esempi portati a riprova della quarta causa della Meteorologia è quello della “carta” battuta dal vento: il fenomeno della “carta” – da intendersi nel senso dei fogli di papiro: cfr. Giussani 1898: 189-190 – capace di provocare forti rumori si ritrova anche in Lucret. VI 108-115). Non credo che queste analogie siano fortuite: o Epicuro di­ pende dalla Meteorologia siriaco-araba oppure quest’ultimo testo risente for­ temente di Epicuro, come ha acutamente suggerito Bakker (cfr. supra: 99), ridimensionando, a ragione, le certezze storiografiche circa la paternità teofrastea dell’opera. Il fatto che nella Meteorologia siriaco-araba si faccia costantemente ricorso ai fenomeni presso di noi, laddove in Teofrasto (e in Aristotele) questa metodologia certamente non manca ma appare alquanto sporadicamente e, in ogni caso, non rappresenta un caposaldo teorico necessario e ineludibile per la spiegazione dei meteora come per Epicuro, induce a pensare che è molto più probabile che la Meteorologia sia, almeno parzialmente, debitrice a Epicuro piuttosto che il caso contrario. Un altro indizio di ciò potrebbe provenire dal fatto che la parte conclu­ siva della sezione della Meteorologia dedicata al tuono si occupa di rispon­ dere a un’obiezione “scettica”, ossia come sia possibile che rumori e boati tanto forti possano provenire da nubi che non sono affatto corpi solidi ma rarefatti (1. 24-38, p. 262 Daiber). Per rispondere a questa obiezione l’autore della Meteorologia evoca fenomeni quotidiani (cfr. anche Sen. NQ II 28-29) che provano come non necessariamente tutti i corpi solidi produ­ cano rumori ma accade non di rado che corpi rarefatti (come, per esempio, l’acqua) siano in grado di causare forti boati. Anche Lucrezio (VI 102-120; 130-131; solo rapidamente segnalo che l’analogia con la vensicula parva di VI 130 – che torna anche in Sen. NQ II 27, 3 e 28, 2 oltre che nella Meteoro­ logia 1. 20, p. 261 Daiber – è già presente nelle Nuvole di Aristofane, vv. 404-407 ma in riferimento al fulmine: cfr. Fratantuono 2015: 417), seppur 198

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brevemente, pone la medesima questione, a cui risponde in maniera simile a ciò che si legge nella Meteorologia. Si tratta, insomma, di un altro indizio da non sottovalutare nell’analisi della paternità della Meteorologia. §§ 101-102. La trattazione del tuono non può che essere legata a quella del lampo; ciò è ancora più evidente se, quando Epicuro si occupa dei tuo­ ni nel paragrafo precedente, il fuoco che compare nella seconda causa of­ ferta è un riferimento al lampo. La relazione tra i tuoni e i lampi non è originariamente epicurea; questa era già l’impostazione aristotelica e anche nella Meteorologia siriaco-araba (2., p. 262 Daiber) la descrizione delle cause del lampo segue a quella inerente al tuono. Lucrezio (VI 160-218) non fa eccezione e dedica ai lampi non pochi versi dopo essersi occupato del tuo­ no sempre nel VI libro del poema. Come tutti i meteora, anche i lampi, ri­ badisce Epicuro, hanno molteplici modalità di formazione (κατὰ πλείους τρόπους); le prime tre spiegazioni proposte partono dal presupposto che le nubi contengano materiale atomico idoneo a provocare il fuoco, dunque il bagliore del lampo. (1) Secondo la prima, il fuoco del lampo dipenderebbe, appunto, da atomi specifici che vengono sprigionati a causa dello sfregamento e della collisione tra le nubi (una spiegazione simile è attribuita anche a De­ mocrito dalla tradizione dossografica: cfr. Aët. Plac. III 3, 11, Dox. 369, M-R 1183-1184 = 68 A 93 = VII 27 D117 LM). (2) Nella seconda causa illustrata i venti tornano ad avere un ruolo centra­ le: essi possono essere i responsabili della fuoriuscita dei corpi (atomi­ ci) capaci di produrre il bagliore del lampo; (3) secondo la terza spiegazione, tuttavia, questa fuoriuscita di materiale atomico può dipendere anche da una pressione (κατ’ ἐκπιασμόν) dipen­ dente da un attrito delle nubi, a sua volta provocato o dallo scontro reciproco tra le nubi o dai venti. Nella tradizione meteorologica antica il fatto che le nubi contenessero direttamente materia capace di provocare il fuoco non era affatto pacifico. Basti ricordare che Aristotele nel capitolo 9 (369b 11 ss.) del II libro della Meteorologia, trattando del lampo connesso al tuono, critica coloro che, co­ me Empedocle (31 A 63 DK = V 22 D146a LM) e Anassagora (59 A 84 DK = VI 25 D53a LM), ritengono che già le nubi contengano fuoco, laddove, per lo Stagirita, il lampo dipende dall’accensione del soffio dell’esalazione secca che viene espulsa dalle nubi (369b 4-9). Sulla base di questo luogo della Meteorologia aristotelica io non esclude­ rei una deliberata polemica di Epicuro nei riguardi di Aristotele; come ab­ biamo appena visto, infatti, le prime tre cause della formazione del lampo esposte da Epicuro spiegano in che modo i corpi atomici capaci di genera­ re il fuoco contenuti nelle nubi fuoriescano da queste. Contrariamente ad 199

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Aristotele e in qualche modo in linea con Empedocle e Anassagora (ma anche con la Meteorologia siriaco-araba 2. 12-14, p. 262 Daiber; la quarta causa del lampo presuppone la presenza di fuoco nella nube, il che è ancora una volta un indizio non poco importante che segna, da un lato, la distanza di alcune spiegazioni lì fornite dall’impostazione aristotelica, dall’altro, la vicinanza con quanto si legge in Pitocle), Epicuro non rifiuta la possibilità che le nubi contengano corpi atomici responsabili del fuoco del lampo. Ciononostante, Epicuro aggiunge che il bagliore del lampo può dipendere anche da altre cause secondo le quali le nubi non contengono direttamente il fuoco; questo può essere provocato: (1) dalla luce proveniente dagli astri (cfr. Arrighetti 1973: 530), che succes­ sivamente viene compressa e assorbita dal movimento delle nubi e dei venti (ὑπὸ τῆς κινήσεως νεφῶν τε καὶ πνευμάτων) e che si sprigiona aprendosi un varco tra le nubi; (2) dal filtraggio di luce sottilissima attraverso le nubi (κατὰ διήθησιν τῶν νεφῶν); queste particelle finissime di luce non provengono dagli astri, come nella precedente spiegazione, ma sono probabilmente contenute nell’aria: questa potrebbe essere una dottrina di Anassagora (cfr. Bailey 1926: 304) – criticata da Aristotele nel passo di Meteor. II 9 appena esaminato – secondo la quale il filosofo di Clazomene chiamava fuoco una parte dell’etere superiore. (3) Sebbene la questione sia piuttosto controversa e il testo sia poco chiaro al riguardo, la terza spiegazione mi pare faccia ancora riferimento alle particelle di luce che sarebbero capaci perfino di incendiare le nubi; questa terza causa potrebbe spiegare il precedente accenno al fuoco (cfr. supra, § 100: 195 ss.) presente nella trattazione del tuono; una del­ le spiegazioni offerte era che il fragore del tuono potesse dipendere dal fuoco tra le nubi causato dal vento. Epicuro, dunque, sembra tornare o sulla medesima spiegazione o su una simile; non è un caso, del resto, che anche nella trattazione del lampo si ritrovi la medesima relazione tra il fuoco delle nubi e il prodursi dei tuoni. Se questa ricostruzione è plausibile, le finissime particelle di luce potrebbero essere in grado di incendiare le nubi e, di conseguenza, di provocare il lampo e il tuono. Su questa difficile e controversa sezione testuale è tornato utilmente Da­ miani (2012) in una nota dove lo studioso propone alcune correzioni tali che il testo che va da ἢ ἀπὸ a κίνησιν sarebbe una parentetica. Questo il testo di Damiani e la sua traduzione: ἢ ἀπὸ τοῦ πῦρ νέφει συνειλέχθαι καὶ τὰς βροντὰς ἀποτελεῖσθαι [καὶ] κατὰ τὴν τούτου κίνησιν, «(allo stesso modo in cui, dal raccogliersi di fuoco in una nube, si formano anche i tuoni per il movimento di questo [scil. del fuoco])» (Damiani 2012: 131). Secondo questa ricostruzione, la parentetica spiegherebbe con più chiarez­ 200

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za il tropos immediatamente precedente, ovvero in che modo il lampo si genera per il filtrare di luce sottilissima tra le nubi, facendo riferimento al tuono. In buona sostanza, Epicuro affermerebbe che il lampo si costituisce per il filtraggio della luce sottilissima così come, nella misura in cui si rac­ coglie del fuoco nella nube, si generano i tuoni per la kinesis del fuoco. In questo modo la menzione del tuono non interromperebbe bruscamente le diverse cause del lampo ma avrebbe un preciso legame esplicativo con uno dei suoi tropoi. Questa esegesi è proficua per una migliore e più plausibile comprensione di questa parte testuale, benché, forse, rimanga la difficoltà che con ἢ κατὰ διήθησιν Epicuro introduca una nuova spiegazione causale. (4) La quarta spiegazione del bagliore del lampo invoca la possibilità, per via dell’intensità del movimento o per un forte rivolgimento, che il vento possa incendiarsi (κατὰ τὴν τοῦ πνεύματος ἐκπύρωσιν); l’idea che i venti fossero infuocati e potessero provocare sconvolgimenti tra le nubi e compressioni non era affatto estranea a Teofrasto, come si legge all’inizio del De igne (1). Il § 102 prosegue con la presentazione di ulteriori cause dei lampi, fermo restando che, alla fine di questa sezione, Epicuro ribadisce ancora una vol­ ta come anche i lampi possano avere più cause rispetto a quelle descritte, il che rende la posizione epicurea differente tanto da Aristotele e Teofrasto quanto dalla Meteorologia siriaco-araba, dove, generalmente, viene esplicita­ mente dichiarato all’inizio della trattazione di un dato fenomeno il nume­ ro preciso delle sue cause; in quest’ultimo testo, per esempio, le cause del lampo sono quattro e nulla legittima il fatto che ve ne siano di più. La pri­ ma causa di questa nuova sezione concerne la lacerazione delle nubi per via dei venti mentre la seconda riguarda la caduta di atomi capaci di pro­ durre fuoco (ἔκπτωσίν τε πυρὸς ἀποτελεστικῶν ἀτόμων) e, aggiunge Epicu­ ro, di produrre il φάντασμα del lampo. Circa la prima causa, non credo sia necessario insistere ulteriormente sull’importanza ricoperta dal vento; che, poi, le nubi contengano materiale atomico capace di sviluppare fuoco non stupisce, avendo trovato questa posizione già in precedenza (cfr. supra: 197). Lucrezio riporta la spiegazione inerente al vento nel VI libro del poe­ ma e ammette, come Epicuro, la caduta dalle nubi a causa del vento dei semina quae faciunt fulgorem (VI 217). Non bisogna, infine, fraintendere l’u­ so di φάντασμα: non si tratta, infatti, della mera parvenza ma semplicemen­ te dell’apparire stesso del bagliore del lampo. Credo sia bene precisare questo punto perché Aristotele, ancora nel ca­ pitolo 9 del II libro della Meteorologia (370a 10-21 = 62 A 1 DK), menziona e confuta l’opinione di Clidemo (cfr. Boer 1954: 7 b), secondo la quale il lampo non esiste realmente ma ci appare soltanto (οὐκ εἶναί φασιν ἀλλὰ φαίνεσθαι; sulla distinzione tra esistenza apparente – kat’emphasin – ed esi­ 201

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stenza reale o effettiva – kath’hypostasin – circa i fenomeni meteorologici che hanno luogo nell’aria cfr. lo pseudoaristotelico De mundo, 395a 28-32). Epicuro, al contrario, ritiene che il lampo esista materialmente; del resto non potrebbe che essere che così, avendo egli trattato di atomi contenuti nelle nubi concretamente capaci di dare origine al fuoco del lampo che la vista è in grado di cogliere senza difficoltà. Precedentemente abbiamo sot­ tolineato l’importanza del φάντασμα per la corretta comprensione del pleo­ nachos tropos (cfr. supra: 61-62); mi sembra che questo stesso punto sia ri­ chiamato alla fine della trattazione del lampo al § 102, dove Epicuro esorta a tenere presenti anche altre cause di questo meteoron, attenendosi ai feno­ meni e sapendo nel contempo considerare ciò che a questi è simile (τὸ τούτοις ὅμοιον δυνάμενον συνθεωρεῖν). Se non vado errato, si tratta esatta­ mente del cuore teorico del metodo del pleonachos tropos che si fonda, in prima istanza, sull’attenta considerazione/osservazione del φάντασμα del fenomeno celeste in esame, in base al quale, successivamente, bisogna indi­ viduare fenomeni terrestri (παρ’ ἡμῖν) che siano simili a ciò che dei meteora siamo in grado di vedere/percepire (cfr. Bailey 1926: 305). §§ 102-103. Epicuro decide di occuparsi separatamente della relazione tra lampo e tuono – ossia del fatto che il primo precede di norma il secon­ do –, dopo aver descritto piuttosto nel dettaglio le cause dei due meteora presi singolarmente. È interessante che anche nella Meteorologia siriaco-ara­ ba la questione sia trattata a parte; più precisamente, dopo le prime due se­ zioni sul tuono e sul fulmine, la Meteorologia si occupa in maniera distinta di tre fenomeni: le cause (1) del tuono che avviene senza lampo (3.), (2) del lampo che avviene senza tuono e, infine, (3) della precedenza del lampo ri­ spetto al tuono (5., p. 263 Daiber). Le spiegazioni fornite da Epicuro sono due (ma, ovviamente, in questo caso come in tutti gli altri non è possibile escluderne altre che rispettino i “criteri” del pleonachos tropos): la prima fa riferimento alle nubi contenenti atomi capaci di generare fuoco che, in prima battuta, sono violentemente mosse (e lacerate) dal vento. Solo successivamente il vento, una volta espul­ so il materiale atomico, può raccogliersi (sull’uso del verbo ἀνειλούμενον in questo contesto cfr. Lehoux 2020: 88) all’interno della cavità della nube e, secondo la prima delle spiegazioni già enunciate da Epicuro al § 100 (cfr. supra: 196), provocare il fragore del tuono (cfr. Lucret. VI 194-203). Se que­ sta spiegazione presuppone un ordine cronologico preciso per cui il lampo precede il tuono, la seconda causa proposta ammette la possibilità che il lampo e il tuono avvengano simultaneamente (ἅμα). La spiegazione di questo fenomeno dipende, per così dire, non dal fenomeno stesso ma dai nostri sensi (πρὸς ἡμᾶς): il lampo impressiona più rapidamente il nostro apparato percettivo rispetto al tuono (che, infatti, udiamo solo in un secon­ 202

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do momento). Tenendo conto che la percezione avviene esclusivamente grazie ai simulacri che urtano contro gli organi percettivi, bisogna conclu­ dere che gli eidola della fonte luminosa (ovvero il lampo) siano più rapidi nel loro transitare verso gli occhi rispetto a quelli sonori. Ciò è confermato dalla nostra esperienza; si danno molti fenomeni che accadono lontano dall’osservatore il quale, tuttavia, vede in un primo momento una certa azione, ma solo dopo ascolta il rumore provocato dalla stessa azione (καθάπερ ἐπ’ ἐνίων ἐξ ἀποστήματος θεωρουμένων καὶ πληγάς τινας ποιουμένων). L’esempio lucreziano (VI 164-172) – che mi pare getti luce sulle linee iniziali del § 103 della lettera – concerne un boscaiolo che taglia un albero; un osservatore che veda il boscaiolo di lontano vede il colpo del­ la scure prima di sentirlo. In conclusione, Epicuro ammette due spiegazio­ ni circa la relazione lampo/tuono: la prima considera questi due fenomeni l’uno successivo all’altro per motivazioni genuinamente fisiche, la seconda, invece, li riconosce come simultanei. Relativamente alla seconda spiegazione Epicuro segue l’impostazione aristotelica, almeno quando Aristotele afferma che appare prima il lampo e poi il tuono perché la vista precede l’udito (Meteor. II 9, 368b 8-11). Lo Sta­ girita, tuttavia, ritiene che, in realtà, sia il tuono a precedere il lampo (Me­ teor. II 9, 368b 7-8). Se prendiamo brevemente in considerazione la Meteo­ rologia siriaco-araba circa questo fenomeno (5. 2-8, p. 263 Daiber), le cause della priorità del lampo rispetto al tuono sono due: secondo la prima il fuoco lascia la nube molto rapidamente e, pertanto, il lampo precede il tuono (si noti la somiglianza con la prima spiegazione epicurea). La secon­ da causa ammette la possibilità, proprio come in Pitocle, che i due fenome­ ni siano simultanei: questo accade perché la vista è più rapida del suono, dunque la percezione visiva raggiunge gli occhi più rapidamente del rumo­ re che raggiunge le orecchie. Tenendo a mente quanto scrive Epicuro all’i­ nizio del § 103 (dove si fa esplicito riferimento ai colpi/πληγάς uditi solo in un secondo momento) e in particolare l’esempio lucreziano del boscaiolo che taglia un albero osservato da lontano, risulta senza dubbio sorprenden­ te che il fenomeno descritto dalla Meteorologia siriaco-araba portato a soste­ gno della simultaneità del lampo e del tuono sia esattamente lo stesso di quello di Lucrezio: «In maniera simile, quando noi vediamo un uomo da lontano spaccare la legna da ardere, possiamo vedere prima il suo colpo ma successivamente ascoltiamo il rumore, laddove non sappiamo che ci (deve) essere un rumore simultaneo al colpo» (5. 5-6, p. 263 Daiber, trad. mia dal­ la versione inglese di Daiber). Si noti come la posizione della Meteorologia siriaco-araba si discosti dall’impostazione aristotelica, per cui, in realtà, è il tuono ad anticipare il lampo, sebbene a livello percettivo a noi appaia il contrario. La Meteorologia sembra, invece, avere notevoli affinità con Epi­ 203

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curo e Lucrezio per ambedue le cause esposte; mi sembra difficile che per­ fino per la descrizione di un fenomeno παρ’ ἡμῖν Epicuro (con Lucrezio) dipenda da Teofrasto, ammesso che Teofrasto sia l’autore (principale) di questo scritto meteorologico. Ritengo, invece, che sia molto più “economi­ co” e sensato ipotizzare che sia piuttosto la Meteorologia siriaco-araba, quan­ to meno relativamente ad alcuni fenomeni, a dipendere dall’impianto teo­ rico epicureo. §§ 103-104. Il corpo centrale del § 103 è dedicato allo studio del fulmine, il cui esame si connette ai fenomeni che Epicuro ha indagato in preceden­ za; ciò conferma una spiccata attenzione alla sistematicità nell’investigazio­ ne di quei meteora che sono in reciproca relazione causale. Lucrezio dedica una lunga e dettagliata sezione al tema dei fulmini nel VI libro del poema (219-422), come, d’altronde, si osserva anche nella Meteorologia siriaco-araba (6., pp. 263-266 Daiber); mentre Lucrezio si occupa anche delle conseguen­ ze e degli effetti violenti del fulmine, nulla di tutto questo è in Pitocle. Non si può escludere che in altre opere Epicuro si dilungasse più minuziosa­ mente sulla natura del fulmine, che, in ogni caso, è un tema attestato nella tradizione epicurea come in Diogene di Enoanda (cfr. fr. 98 Smith). La pri­ ma spiegazione della formazione del fulmine richiama ancora una volta l’azione del vento – che, come abbiamo visto, ricopre un ruolo decisivo nell’eziologia dei fenomeni meteorologici fino a qui esaminati dal filosofo. I venti, raccogliendosi, possono dar vita a un movimento rotatorio; di rota­ zione dei venti Epicuro aveva già parlato al § 100 come causa dei tuoni (cfr. supra: 196), ma anche alla fine del § 101 dove si parla di un violento avvol­ gimento (dei venti) per spiegare il fenomeno del lampo (cfr. supra: 199). Anzi, per essere più precisi, una delle cause del lampo fornite da Epicuro era, come si ricorderà, l’incendio del vento e una violenta rotazione; questa stessa spiegazione è riproposta nella trattazione dei fulmini, sebbene qui si aggiunga, per illustrare nello specifico come avvenga il fulmine, che è pos­ sibile che una parte di questi venti infuocati decadano verso il basso. Sulla lezione κατάρρηξιν μέρους il dibattito della critica è stato molto vivo, in particolare a partire dallo studio di Adelmo Barigazzi (1948: 195-198); a me pare che le argomentazioni sollevate da Arrighetti (1973: 530-531) a favore del mantenimento di κατάρρηξιν μέρους siano del tutto fondate (anche richiamando la seconda spiegazione che Epicuro dà del fulmine, dove si fa riferimento, sebbene con un termine diverso, a un processo di caduta direttamente del fuoco e non del vento infuocato, oltre che alla frattura della nube sempre da parte del fuoco). Non si vede, infatti, per quale ragione non dovrebbe essere possibile che una parte di questi venti infuocati possa cadere verso il basso e così generare il fulmine (cfr. Lucret. VI 274-289; cfr. anche la Meteorologia siriaco-araba, 6. 42 ss., p. 264 204

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Daiber); del resto, Epicuro spiega perché solo una parte di questi venti potrebbe cadere. La causa dipende dalla forte pressione delle nubi (a sua volta dipendente dalla spinta dei venti) che fa sì che la loro densità sia talmente fitta e, appunto, compressa (cfr. Bailey 1926: 307; si veda anche la Meteorologia siriaco-araba, 6. 59-60, p. 265 Daiber) da permettere che avvenga la caduta solo di una parte del vento (ovverosia di quella parte che è in grado di rompere la densità continua delle nubi, sebbene qui non se ne faccia esplicitamente parola). Va da sé che l’altra parte del vento che non decade persevera nel suo movimento vorticoso, raccogliendosi nelle nubi. L’altra spiegazione offerta da Epicuro può essere considerata come una sorta di “variante” rispetto alla precedente. I fulmini possono generarsi non solo per la caduta del vento infuocato, ma anche del fuoco stesso; il riferimento è verosimilmente al materiale atomico contenuto nelle nubi, capace di incendiarsi sempre a causa dell’attività dei venti (cfr. ancora Bai­ ley 1926: 307). Qui Epicuro (ed è egli stesso a ricordarlo) fa riferimento an­ cora a una delle cause del tuono precedentemente esposta al § 100, dove si diceva che il tuono può formarsi a partire dal fuoco alimentato dal vento (cfr. supra: 196-197). Trovo non poco significativo il fatto che Epicuro stes­ so rinvii a una delle cause esposte prima: ciò prova come la lettera abbia una sua organizzazione interna quanto ai suoi contenuti. Tornando alla seconda spiegazione, il fuoco, dopo aver roteato a causa del venti, aumenta quantitativamente e, mescolatosi al vento, è in grado di lacerare la nube non trovando spazio per espandersi né nella nube né tra le nubi, vista la loro fittissima densità (un argomento già presente nella pre­ cedente spiegazione). Per questo motivo viene chiamata in causa la forte pressione esercitata dalle nuvole (ancora per i venti) che costringe il fuoco a fuoriuscire con violenza, una volta assunto il movimento rotatorio e uni­ tosi col vento. Epicuro aggiunge che per lo più questo fenomeno accade nei pressi di un alto monte (cfr. in proposito la testimonianza su Epicuro del Peri diosemeion/Sui segni celesti di Giovanni Lido, 21; sulla relazione tra i monti e l’impatto delle nuvole cfr. Olymp. In Aristot. Meteor. 80 30-81 1 Stüve = 211B FHS&G e il già citato – v. supra: 95 n. 252 – Liber de inunda­ cione Nili 695 Gigon), dove di frequente si osservano cadere i fulmini (cfr. anche Procl. In Plat. Tim. I 120, 21-121, 1 Diehl = 211A FHS&G). Lo stesso punto è richiamato da Lucrezio, anche se sinteticamente (VI 421-422; cfr. anche VI 459-464). Va, infine, rilevato che nella Meteorologia siriaco-araba (6. 75-85, p. 265 Daiber) una sezione è specificamente dedicata alla ragione per la quale i fulmini risultano più frequenti nei luoghi elevati. La trattazione del fulmine si chiude già al § 104 dove Epicuro evidenzia come i fulmini possano formarsi in molti altri modi rispetto a quelli espli­ 205

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citamente descritti. È molto significativo (ma ciò non meraviglia) il forte e risonante imperativo epicureo a tenere lontano il mito (μόνον ὁ μῦθος ἀπέστω); il fulmine, si sa, era considerato come una prerogativa propria de­ gli dei, in particolare di Giove (cfr. Lucret. VI 410), non è quindi casuale l’esortazione a stornare da sé il mito. Mentre in Platone il μῦθος può avere un valore positivo e importante (si pensi, solo per fare alcuni esempi cele­ bri, al mito finale del Fedone, al X libro della Repubblica, ai miti del Politico e del Fedro o anche al discorso di Timeo nell’omonimo dialogo), in Epicu­ ro il mito rappresenta l’antitesi della scienza, dunque, in una parola, della filosofia. Il mito invita a credere a spiegazioni che nulla hanno di scientifi­ co perché non sono basate su alcun metodo investigativo e, soprattutto, non rispettano i fenomeni che, nell’investigazione scientifica, ricoprono un ruolo decisivo in particolare per ciò che non è direttamente evidente. Epicuro è chiaro su questo punto: ricorrere ai fenomeni vuol dire conside­ rarli dei segni evidenti per ciò che non lo è, saper trarre induzioni per ciò che non è manifesto (περὶ τῶν ἀφανῶν σημειῶται). Bailey (1926: 307) è del parere che con ta aphane Epicuro voglia intendere le cause dei fenomeni celesti e non i fenomeni in sé. Credo che lo studioso abbia almeno in parte ragione; Epicuro, del resto, non potrebbe reputare i fenomeni degli adela in termini assoluti, ossia delle realtà del tutto non evidenti e oscure: in tal caso si tratterebbe di realtà ininvestigabili (cfr. supra: 56-57, nonché Furley 1989: 161-162). Certamente, però, non sono fenomeni di facile esame, in particolare per via della lontananza; se i meteora fossero, dunque, fenomeni di immediata e diretta evidenza, il ricorso ai fenomeni presso di noi (cen­ trale per il pleonachos tropos) sarebbe un passaggio inutile. Tutto questo per dire che dietro quel περὶ τῶν ἀφανῶν si devono senz’altro leggere le cause dei fenomeni celesti, ma, forse, anche gli stessi meteora (intesi come eventi non assolutamente oscuri), fatta salva la plausibilità dell’interpretazione appena fornita. §§ 104-105. Dopo la trattazione dei fulmini è la volta di quella dei pre­ steri, un nome che indica fenomeni differenti (cfr. Bignone 1964: 134 n. 3); Seneca (NQ V 13, 3) informa che i Greci chiamano prestere il turbine (turbo) che, se particolarmente violento, si incendia e provoca, appunto, il turbine di fuoco (igneus turbo). Aristotele (Meteor. III 1, 371a 15-16) afferma che quando la nube, portata verso il basso, si infiamma, questo fenomeno si chiama prestere. Lucrezio, pur parlando di turbine (VI 438: turbo), nella sezione del poema dedicata ai presteri (VI 423-450) che, come nella lettera, segue all’esame dei fulmini, non menziona mai l’intervento del fuoco e lo stesso fanno tanto Epicuro in Pitocle quanto la Meteorologia siriaco-araba (13. 43-54, p. 269 Daiber; cfr. anche Arrighetti 1973: 531). Si nota, pertan­ to, una chiara presa di distanza teorica dal precedente aristotelico. Per que­ 206

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sto motivo, sembra opportuno concludere che con presteri Epicuro inten­ da piuttosto i cicloni (cfr. Bailey 1926: 308), dunque fenomeni atmosferici la cui formazione dipende dall’aria e, più nello specifico, dalla forte e vio­ lenta attività dei venti; successivamente Epicuro parlerà anche dei turbini o uragani veri e propri (στρόβιλοι). La prima spiegazione chiama in causa una nube che assume una forma particolare, quella di colonna/pilastro (στυλοειδῶς; la stessa immagine è in Lucrezio, VI 433: columna, e nella Meteorologia siriaco-araba, 13. 43-45, p. 269 Daiber) a causa della pressione di un vento continuo che, sebbene non sia esplicitato, sarà responsabile anche della rotazione di questa nube che ha assunto la forma di colonna (ma si veda anche oltre). Epicuro aggiunge immediatamente dopo che, oltre alla forza del vento appena menzionata che si porta in avanti, può esserci altro vento che urti la nube lateralmente così da produrre e preservare la forma di colonna (cfr. anche la spiegazione di Aristot. Meteor. III 1, 370b 17-27). Il vento stesso, inoltre, può anche as­ sumere un movimento circolare, a spirale (κατὰ περίστασιν δὲ πνεύματος εἰς κύκλον; cfr. anche i §§ 92 e 102, nonché supra: 196) ed è anche possibile che l’aria attui un movimento di spinta dall’alto verso il basso tale da dare luogo a correnti ventose che, tuttavia, non sono in grado di disperdersi di lato per via della pressione dell’aria circostante (τὴν πέριξ τοῦ ἀέρος πίλησιν) che fa da impedimento. Già al § 103, esaminando le cause dei ful­ mini, Epicuro aveva richiamato la pressione esercitata dalle nubi. L’inizio del § 105 prosegue l’indagine sui presteri; quando il ciclone arri­ va fino alla terra si formano i turbini (si potrebbe anche dire gli uragani) o στρόβιλοι; la generazione di questo fenomeno dipende sempre dal movi­ mento dell’aria (κατὰ τὴν κίνησιν τοῦ πνεύματος). Qualora, invece, il preste­ re cada sul mare, ciò dà luogo ai δῖνοι, letteralmente dei vortici o trombe marine; è interessante tenere presente che anche Aristotele parla di δῖνοι ma con questo termine egli intende il fenomeno dei vortici sulla terra (Me­ teor. III 1, 370b 27-31). Anche Lucrezio come Epicuro differenzia tra i tur­ bini sul mare (VI 438-445) e quelli sulla terra (VI 446-450), i quali, aggiun­ ge il poeta, rispetto ai primi sarebbero meno frequenti e, in ogni caso, i monti ne impediscono la vista (per questo le trombe marine sono più aper­ tamente visibili). Di particolare rilievo, infine, il fatto che, nella Meteorolo­ ga siriaco-araba (13. 45-54, p. 269 Daiber), dopo la trattazione del prestere (inteso nell’accezione epicureo-lucreziana – lo ricordo – e non in quella aristotelica), si legga che, quando questo cade sulla terra, assume il nome di “uragano” («hurricane» nella versione inglese di Daiber); subito dopo, tuttavia, il testo si occupa nello specifico della formazione dell’uragano sul mare e delle sue rovinose conseguenze anche sulle navi eventualmente pre­ senti nei dintorni. Lucrezio spiega che il turbine marino ruota su se stesso 207

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mentre cade verso il mare, portando con sé la nube dal corpo cedevole (VI 439: lento cum corpore nubem); una volta immersosi, il turbine con enorme fragore sommuove il mare costringendolo a ribollire. Anche nella Meteoro­ logia siriaco-araba (13. 45-46, p. 269 Daiber), trattando della prima causa dell’uragano sul mare, si menziona una nube cava che si estende fino al mare e che è in grado di portare a sé il vento. Anche per questa attenzione dovuta alle nubi, al vento e al fenomeno dei vortici marini mi sembra che la Meteorologia possa (o debba?) considerarsi in debito con l’impostazione epicurea. §§ 105-106. Non è senza una precisa motivazione il fatto che il meteoron affrontato da Epicuro subito dopo i presteri sia il terremoto; abbiamo visto con molta chiarezza come nelle diverse spiegazioni di più meteora il vento e più in generale l’aria ricoprono un ruolo di prim’ordine (cfr. ancora Leo­ ne 2015). Lo stesso può dirsi per il fenomeno del terremoto che è l’argo­ mento principale del § 105 e della parte iniziale del § 106 (cfr. in parallelo Lucret. VI 535-607 e Diog. Oen. fr. 98, 8-11 Smith). La prima causa offerta è, appunto, il vento che rimane imprigionato nella terra; la sua forza vio­ lenta può provocare il movimento sotterraneo altrettanto violento della terra; è rilevante segnalare che la dipendenza dei terremoti dai venti era già sostenuta da Archelao (almeno sulla base di Sen. NQ VI 12, 1 = 60 A 16a DK). A questo proposito giova ricordare che, sulla base dell’informazione di Diogene Laerzio – X 12, un passo non presente nel capitolo 60 dedicato ad Archelao nel DK (ma giustamente presente in VI 26 R3 LM) –, Epicuro aveva particolare stima per Archelao: questa doveva dipendere certamente da più fattori. Non va dimenticata la presenza di Archelao con Socrate a Samo, di cui, forse, Epicuro, nativo di Samo, conservava in qualche modo memoria anche se indiretta (cfr. Diog. Laert II 23 con l’ipotesi di Graham 2008 – ma cfr. già Giannantoni 1971: 31 –, per cui il motivo del viaggio di Archelao e Socrate sarebbe stato una visita a Melisso, nonché Bétegh 2016: 20 n. 25); ma tale considerazione da parte di Epicuro per Archelao poteva, non da ultimo, anche dipendere da alcune puntuali spiegazioni in ambito fisico come probabilmente proprio quella relativa ai terremoti (cfr. più in generale Bétegh 2016: 37-38). Vedremo subito che Epicuro non è il solo ad attribuire al vento una delle cause del terremoto. La seconda spiegazione mette capo a delle piccole masse di terra (παρὰ μικροὺς ὄγκους) che, essen­ do reciprocamente strette, sono in continuo movimento e sono capaci di generare il tremore della terra; non viene esplicitato ma il movimento di queste masse di terra dipende con ogni verosimiglianza ancora dal vento sotterraneo: quest’ultimo o è di per sé in grado di provocare un terremoto oppure può muovere sempre sotterraneamente gli ogkoi di terra che, a loro volta, saranno responsabili del moto tellurico. Epicuro subito dopo spiega 208

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per quale ragione è possibile che il vento sia presente nelle cavità ipogee della terra. Il vento può provenire dall’esterno (e poi rimanere all’interno della terra) oppure può generarsi a partire dalla caduta di strati di crosta/ suolo che si abbattono con forza in luoghi cavernosi sotterranei. In questo secondo caso, la violenta caduta di tali masse pesanti comprime l’aria che si trasforma in vento. L’ultima spiegazione, infine, che Epicuro fornisce – prima di ribadire al­ l’inizio del § 106 che i movimenti tellurici possono avvenire per altre mo­ dalità (κατ’ἄλλους δὲ πλείους τρόπους) rispetto a quelle descritte (un’ag­ giunta, lo ribadisco ancora, importante, se si pensa che nella Meteorologia siriaco-araba le cause dei diversi meteora hanno un numero ben preciso e li­ mitato: per esempio, quattro e solo quattro sono le cause dei terremoti, se­ condo questo scritto) – richiama la caduta di cospicui strati di terra. Tali strati possono cadere con violenza contro parti di terra più compatte; ciò causa un contraccolpo (ἀνταπόδοσιν), la propagazione di movimento e, pertanto, il terremoto. Aristotele dedica i capitoli VII e VIII del II libro della Meteorologia all’esame dei terremoti; è interessante esplorare, seppur brevemente, la posizione aristotelica per confrontarla con quella epicurea. Nel capitolo VII Aristotele riporta tre teorie della generazione dei terremoti attribuibili rispettivamente ad Anassagora (59 A 89 DK =VI 25 D62a LM), Anassimene (13 A 21 DK = II 7 D27 LM) e Democrito (68 A 97 DK = VII 27 D119a LM). Secondo Anassagora (Meteor. II 7, 365a 19 ss.) la causa dei moti tel­ lurici sarebbe riconducibile all’etere che, pur portandosi per natura verso l’alto, si dirige verso le cavità della terra e la muove; Democrito (Meteor. II 7, 365b 1 ss.), invece, spiegava il terremoto rifacendosi all’acqua (una causa che, come vedremo, non è estranea allo stesso Epicuro, almeno sulla base di una importante testimonianza di Seneca): la terra sarebbe piena d’acqua che viene mossa soprattutto quando riceve una quantità cospicua di acqua piovana. Secondo Democrito (Meteor. II 7, 365b 4 ss.), inoltre, il terremoto avverrebbe anche nella circostanza in cui la terra, seccatasi, farebbe riversare dai luoghi pieni a quelli vuoti la massa d’acqua che, quin­ di, provocherebbe le scosse. Anassimene (Meteor. II 7, 365b 6 ss.), infine, affermerebbe che la terra, inumidendosi e poi disseccandosi, non potrebbe che spaccarsi e, pertanto, sarebbe mossa dalla caduta delle falde che si distaccano; per questa ragione i terremoti si verificherebbero in particolare nei periodi di siccità e poi di grandi piogge. Aristotele rifiuta tutte e tre queste posizioni, da un lato, perché non spiegano davvero quali siano le circostanze precise in cui avvenga un terremoto, dall’altro, perché è convinto che la causa del terremoto sia dello stesso genere di quella dei venti (Meteor. II 7, 365a 15). Il terremoto, 209

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asserisce esplicitamente Aristotele (Meteor. II 8, 365b 21-28), è l’effetto dell’esalazione secca e di quella umida: la terra è di per se stessa secca ma contiene, per via delle piogge, anche molta umidità. La terra, in queste condizioni, viene scaldata dal sole o dal calore e produce una grande quantità di pneuma che, a sua volta, penetrando interamente all’interno della terra o effondendosi all’esterno o portandosi in entrambi le direzioni, provoca il terremoto (cfr. anche lo pseudoaristotelico De mundo, 395b 30-36, dove lo pneuma è riconosciuto come causa dei terremoti). Che lo pneuma sia in grado di causare i sismi dipende dalla sua intrinseca natura (Meteor. II 8, 365b 32-366a 5): lo pneuma, infatti, possiede la massima forza d’urto per via della velocità, può spingersi dappertutto e, essendo il corpo più sottile e rarefatto, è il più idoneo a passare attraverso altri corpi. Lo pneuma è, dunque, in natura il corpo più capace di produrre il movimento; da questo punto di vista, non solo è inammissibile che l’acqua e la terra siano cause del terremoto, ma così si spiega anche per quale ragione la maggior parte dei sismi accada in assenza di vento: quando non c’è vento significa che l’esalazione irrompe tutta insieme o all’interno o all’esterno (Meteor. II 8, 366a 5-8). Anche nella Meteorologia siriaco-araba (15. 16-19, p. 271 Daiber) si dice che i terremoti sono più frequenti in assenza di vento, benché non si faccia allusione all’esalazione secca e a quella umida: quando non c’è vento significa che esso è trattenuto internamente nella terra e, non potendo fuoriuscire, si genera così il terremoto. Relativamente a questo punto, mi pare che la Meteorologia siriaco-araba dipenda dall’impostazione aristotelica, da cui si allontana immediatamente dopo, quando si esclude nettamente la possibilità che vi siano terremoti in presenza di vento (15. 19-21, p. 271 Daiber), laddove questa possibilità non è affatto scartata da Aristotele (cfr. Meteor. II 8, 366a 8-12), benché sia meno frequente e sebbene i terremoti che accadono in questo frangente risultino meno violenti. Ciò mostra bene come la Meteorologia siriaco-araba raccolga e amalgami tra loro diverse tradizioni, tra le quali continua ad apparirmi alquanto preponderante quella epicurea. Tornando a Epicuro e volendo sintetizzare, si può concludere col dire che le cause del terremoto proposte in Pitocle fanno riferimento, sostanzial­ mente, o al vento o alla caduta di pesanti strati di terra (cfr. anche Aët. Plac. III 15, 11, Dox. 381, M-R 1302 = 350 Usener). Questa, almeno, è la conclusione che si raggiunge nella lettera; fortunatamente nel VI libro del­ le Naturales Quaestiones (VI 20 = 351 Usener) Seneca sembra riportare gli ipissima verba Epicuri proprio circa il fenomeno del terremoto; purtroppo Seneca non fornisce informazioni sulla fonte precisa da cui dipende ma, se Epicuro non trattava dei terremoti anche in altre sue opere, non escluderei né che la fonte di Seneca sia il Peri physeos né, beninteso, che questa possa 210

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identificarsi con una qualche dossografia o con un qualche “manuale” di meteorologia. Come che sia la questione, è interessante osservare come Epicuro, ammessa l’affidabilità della testimonianza senecana (sulla quale cfr. anche supra: 72-74), abbia ammesso più cause rispetto a quelle enume­ rate in Pitocle: ciò naturalmente non stupisce affatto, considerando che Epicuro stesso afferma nella lettera che il terremoto può accadere secondo spiegazioni ulteriori che, verosimilmente, aveva descritto nel dettaglio al­ trove. Seneca non sembra avere presente direttamente l’Epistola a Pitocle; lo si comprende, per esempio, dal fatto che la prima causa del terremoto che Seneca, riferendosi a Epicuro, riporta è l’acqua che, appunto, è in grado di scuotere la terra (NQ VI 20, 6). Ora, dell’acqua non si fa alcuna parola in Pitocle. Seneca, inoltre, dopo aver menzionato come causa anche la spinta dell’aria e la caduta di masse di terra (il che coincide con ciò che si legge nella lettera, anche se Seneca aggiunge significativamente che qualche parte della terra si sostiene come su delle specie di colonne e di pilastri che possono deteriorarsi e cedere: cfr. NQ VI 20, 6), aggiunge come ulteriore spiegazione epicurea delle scosse telluriche anche correnti di aria calda che mutano in fuoco e «che si muovono con grande rovina di tutto ciò che loro si oppone» (NQ VI 20, 7; trad. Vottero). In Lucrezio non sembra che il fuoco ricopra il ruolo di causa dei terremoti ma viene menzionata chiaramente l’acqua (ciò, tuttavia, non significa necessariamente che la fonte dell’informazione senecana e di Lucrezio sia la stessa): la caduta di grandi masse nei laghi fa sì che la terra si agiti e vacilli sotto il fluttuare dell’acqua (VI 552-556) «come un vaso talora non può star fermo, se il liquido / dentro non ha cessato di agitarsi con instabile fluttuare» (VI 555-556; trad. Giancotti). Se prendiamo in considerazione la sezione della Meteorologia siriaco-ara­ ba dedicata alle quattro cause del terremoto (15. 2-16, pp. 270-271 Daiber) si possono rintracciare delle peculiari somiglianze con la testimonianza di Seneca su Epicuro. Nella Meteorologia la prima causa è la caduta dall’alto verso il basso di caverne (evidentemente ipogee); l’esempio (presso di noi) di questa spiegazione è la caduta di una colonna che inizia a barcollare quando una sua parte cade e lascia la propria sede (15. 3-7, p. 270 Daiber); si ricorderà come colonne e pilastri fossero presenti nel passo senecano. La seconda causa nella Meteorologia è proprio l’acqua (15. 7-9, p. 270 Daiber) mentre la quarta è il fuoco contenuto nella terra. Il fuoco è capace di rendere sottile l’aria contenuta nella terra e di dissolverla così da muoversi rapidamente per trovare spazi più grandi; se, dunque, l’aria si scompone e lascia la terra (per via del fuoco), il fuoco stesso (se questo è il soggetto sot­ tinteso da un generico «it», come credo, sebbene nella versione inglese di Daiber non sia affatto chiaro, dal momento che il riferimento potrebbe es­ 211

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sere anche all’aria; sarei del parere, in ogni caso, di escludere l’aria, perché si dice che il fuoco in qualche modo consuma l’aria e si espande alla ricerca di spazi sempre maggiori: mi pare che in questo preciso movimento del fuoco sia da vedersi la causa del terremoto) inizia a far tremare la terra (15. 12-16, p. 271 Daiber). Si rammenterà come in Seneca, tra le cause ammesse da Epicuro, si faccia menzione dell’acqua (che è in grado di scuotere la terra) e del fuoco o, più correttamente, di correnti calde di aria che si trasformano in fuoco. Ritengo che queste analogie tra la testimonianza di Seneca su Epicuro e la Meteorologia siriaco-araba non siano affatto da sottovalutare e costituiscano l’ennesimo indizio a favore di una qualche dipendenza (anche se in termini di parzialità, come più volte detto) di questa Meteorologia da Epicuro. §§ 106-107. Abbiamo osservato come il vento ricopra un ruolo estrema­ mente importante nella spiegazione di molti meteora; Epicuro, tuttavia, non ha ancora approfondito quali siano le cause effettive della sua forma­ zione. Lo fa solo qui al § 106; credo vi siano pochi dubbi sul fatto che si tratti di una scelta forse poco felice dal punto di vista del contesto e, quin­ di, della generale economia argomentativa della lettera. Proprio in riferi­ mento all’ordine dei diversi meteora investigati si è fatta sempre più strada, tra gli studiosi, l’idea che la lettera fosse un’opera spuria (cfr. Bollack-Laks 1978: 240-241). Inoltre, non va dimenticato che Epicuro aveva già trattato brevemente dell’origine dei venti poco prima, al § 100 (cfr. supra: 195 ss.); se l’esame delle cause dei venti è qui fuori luogo, questo testo o è semplice­ mente frammentario e lo si comprende solo connettendolo a un altro me­ teoron (perfino a un fenomeno il cui esame è andato perduto dal testo di Pitocle: cfr. Bailey 1926: 310 che pensa alle eruzioni vulcaniche) oppure si tratta di uno scolio o al § 104 (Usener 1887: 48) oppure al § 105 (cfr. Von der Mühll 1922: 38) della lettera, perciò a meteora precedentemente investi­ gati, dei quali il vento era una causa rilevante. Naturalmente non è manca­ to chi, a partire da Bignone, ha giustificato l’autonomia e la plausibilità dell’esame dei venti a quest’altezza dell’epistola (cfr. Arrighetti 1955: 76). A dire il vero, non mi sento di sottoscrivere una posizione netta e sicura su questo luogo ma nutro senz’altro non pochi dubbi sulla presenza di questa trattazione al § 106, proprio perché le cause del vento avrebbero dovuto es­ sere studiate già prima. Anche se si vuole ammettere che qui Epicuro in­ tenda esaminare l’origine dei venti in sé e per sé, senza fare alcun riferi­ mento al vento come causa di altri meteora, ciò, mi sembra, convinca poco, dato che sarebbe stato più ragionevole esaminare i venti prima di conside­ rarli anche come cause di altri fenomeni, fermo restando che, come già ri­ cordato, Epicuro si era già occupato delle cause dei venti in sé al § 100. Inoltre, trovo non poco strano il fatto che alle cause dei venti sia dedicato 212

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uno spazio troppo breve, tenendo conto del ruolo che hanno per molti me­ teora importanti. Queste perplessità, dal mio punto di vista, non supporta­ no affatto la natura spuria della lettera ma mi pare mostrino come il testo della lettera non sia stato tramandato in maniera omogenea (o perfino in­ tegrale); si potrebbe anche supporre che già Diogene Laerzio avesse letto e tramandato un testo non del tutto completo, sebbene non si possa affatto escludere che queste righe appartengano effettivamente a uno scolio (la cui posizione, in ogni caso, mi risulta oltremodo problematica: da questo pun­ to di vista, allora, perché non pensare che si tratti di uno scolio al § 100 del­ la lettera – oppure, in qualche modo, una sua prosecuzione? –, dove veni­ vano analizzate proprio le cause dei venti e dove – forse non a caso – era ben presente la relazione tra venti e pioggia?). Come che sia, il testo di queste linee non è né chiaro né semplice da capire e interpretare. Si dice in prima battuta che i venti (τὰ πνεύματα) possono formarsi in maniera progressiva (κατὰ χρόνον: cfr. Bollack-Laks 1978: 242-243), ovvero quando a poco a poco si insinua materia d’altra natura (ἀλλοφυλίας) e per il raccogliersi di cospicue masse d’acqua (συλλογήν). Occorre comprendere cosa sia tale materia d’altra natura; Epicuro soprattutto non spiega rispetto a cosa tale materia sia altra. Io credo che, se il fenomeno in esame è il vento e lo pneuma è intrinsecamente connesso all’aria, la materia d’altra natura faccia riferimento a materie che non siano aeriformi. Se questa ipotesi è almeno in parte fondata, mi sembra che Epicuro dica che i venti possano formarsi a mano a mano che della materia non aeriforme (terra e acqua: cfr. parallelamente la Meteorologia siriaco-araba 13. 10-17, p. 268 Daiber) operi una continua e forte pressione tale da provocare il movimento dell’aria (cfr. Bollack-Laks 1978: 243). In qualche modo la seconda spiegazio­ ne offerta sembra strettamente connessa alla precedente: cospicue quantità di acqua possono raccogliersi così da comprimere sempre di più l’aria e, così facendo, causare i venti. La presenza dell’acqua nella spiegazione dell’origine dei venti è importante: non solo per il fatto che Epicuro aveva già tematizzato questa relazione in precedenza (§ 100), ma anche perché, come abbiamo già notato (cfr. supra: 195-196), la relazione tra pioggia e venti è tematizzata da Aristotele nel IV capitolo del II libro della Meteorologia (e, tra l’altro, è anche presente nella Meteorologia siriaco-araba: cfr. 13. 3-6, p. 268 Daiber). A ragione è stato osservato come tale relazione in Epicuro dipenda con ogni probabilità dal precedente teorico aristotelico (cfr. Bignone 1964: 136 n. 1, Arrighetti 1955: 77-79 e Id. 1973: 533). È stato ampiamente dibattuto l’inizio del nuovo periodo; la tradizione manoscritta riporta τὰ δὲ λοιπὰ πνεύματα mentre Bignone corregge in τὸ δὲ λοιπὸν πνεύματα (cfr. Bignone 1964: 136 n. 2). Nel primo caso si tratterreb­ be dei “restanti/rimanenti venti”, nel secondo, Bignone invitava a rendere 213

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τὸ δὲ λοιπόν con «[D]el resto» («Ma d’altronde» traduce Isnardi Parente 1983: 189); in queste righe lo studioso intravedeva una palese polemica di Epicuro contro Democrito che, sulla base di un passo senecano (NQ V 2 = 68 A 93a DK = VII 27 D 118 LM), riteneva che il vento si generasse quando molti corpuscoli (gli atomi) si ritrovavano stretti in uno spazio angusto (angusto inani multa sint corpuscula quae ille atomos vocat, sequi ventum). A me sembra che la correzione di Bignone non sia granché necessaria (pace Arrighetti 1955: 77): con l’espressione τὰ δὲ λοιπὰ πνεύματα dei codici Epi­ curo potrebbe riferirsi, senza troppa difficoltà, ai venti che non si formano a partire dalle cause esposte immediatamente prima. I λοιπὰ πνεύματα, quindi, potrebbero essere altre tipologie di vento che non si formano per la pressione di altre materie ma per via della caduta di masse sulle cavità della terra. Queste masse non devono essere necessariamente tante, come reputava Democrito, ma possono anche essere poche: in questo senso mi sembra sia possibile osservare qui una polemica di Epicuro nei confronti di ciò che la testimonianza di Seneca citata prima attribuisce a Democrito (cfr. ancora Arrighetti 1955: 76-77), per quanto, con Bailey (1926: 311), non sia peregrino rimanere al riguardo prudenti. Mi appare, in ogni caso, poco convincente l’ipotesi di Bollack-Laks (1978: 244) che mantengono il tradito τὰ δὲ λοιπὰ πνεύματα ma riferiscono τὰ δὲ λοιπά all’aria pressata dall’elemento di natura diversa citato sopra («Le «reste» (τὰ λοιπά) désigne cet air, à savoir la matière comprimée par l’élément étranger»), traducendo così: «le rest devient vient». La successiva sezione del § 106 è dedicata allo studio della formazione della grandine (χάλαζα). La prima causa esplicitata è un congelamento al­ quanto forte (κατὰ πῆξιν ἰσχυροτέραν) che avviene quando si collocano in­ torno particelle di natura aerea o, alla lettera, ventosa (πνευματωδῶν); tale congelamento porta a un compattamento e a una solidificazione e successi­ vamente a una frammentazione che dovrebbe coincidere con gli stessi chic­ chi di grandine. Purtroppo questa spiegazione non trova paralleli in Lucre­ zio e rimane assai oscura (cfr. Bailey 1926: 311 e Arrighetti 1955: 79; è si­ gnificativo che anche per Aristotele la spiegazione della formazione della grandine può risultare perfino controintuitiva, come vedremo: cfr. Meteor. I 12, 347b 34-36); il motivo di ciò risiede nel fatto che non si capisce cosa si congeli. Si potrebbe pensare che a congelarsi siano le particelle di aria di cui si parla (cfr. Bailey 1926: 311-312); secondo Arrighetti (1955: 79-80; cfr. anche Bollack-Laks 1978: 246-247) questa ipotesi, però, risulta non poco problematica, dato che Epicuro affermerebbe che elementi aeriformi pos­ sano congelarsi e, dunque, solidificarsi per dare luogo alla grandine, laddo­ ve solo l’acqua può diventare ghiaccio. Se al posto di πῆξιν (il congelamen­ to) potesse leggersi τῆξιν (che indica il processo di liquefazione), si potreb­ 214

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be concludere che le particelle di aria si condensano, passando dallo stato aeriforme a quello liquido, ma il testo così come è stato tramandato non autorizza questa ipotesi. Per uscire da questa impasse Arrighetti ritiene che gli elementi aerei di cui qui si parla indicherebbero la condizione nella quale le masse d’acqua (menzionate subito dopo) si solidificherebbero per provocare la grandine. In effetti, il problema sussiste: per Aristotele, per esempio, la grandine è ghiaccio e l’acqua (e non l’aria!) gela d’inverno (Me­ teor. I 12, 347b 36-37), pertanto la relazione tra la grandine e il ghiaccio è un dato di fatto. Compatibilmente con Aristotele, nella Meteorologia siriacoaraba (10. 2-3, p. 267 Daiber) si legge che la grandine si forma quando grandi (laddove nella versione siriaca del testo si dice “piccole”: cfr. Daiber 1992: 267 n. 113) gocce d’acqua si solidificano per via del gelo (questa è l’unica spiegazione fornita). Naturalmente, al di là di Aristotele e dell’ano­ nimo testo meteorologico, si potrebbe anche credere che Epicuro, unico nel pensiero e nella meteorologia dell’antichità, avesse ritenuto possibile il solidificarsi tramite congelamento dell’aria, benché questa conclusione mi sembri ardua da accettare a cuor leggero, fermo restando, inoltre, che le obiezioni sollevate da Arrighetti risultano più che giuste e fondate. Un confronto con Diogene di Enoanda, forse, può contribuire a chiarire que­ sto difficile punto. In due frammenti dell’iscrizione (frr. 14 e 99 Smith) Diogene descrive la formazione della grandine. Nel primo, secondo la ricostruzione e la traduzione di Martin Ferguson Smith (1993: 374), si dice che «[H]ail, not unreasonably, is produced by a fine, loose conglomeration, which is due to the [self-moving energy] of what surrounds it and [is formed] either by a wind [that is cold] but high in the air or by filmy snow]» (.... χ̣άλα̣ζαν δ’ οὐκ ἀ̣-/[πει]κ̣ότως ποιεῖ λεπτὴ / [ἄ]τ̣ονος συστροφὴ διὰ /5 τ̣ὴν τοῦ περιλαμβ̣[ά]-/νοντος αὐτε̣ν̣[έργειαν], / εἴτε πνεύμα̣[τι γεινο]-/μένη ψυ̣[χρῷ, ἀλλὰ μετε]-/[ώρῳ, εἴτε χιόνι ὑμενώ]-/[δει]). A cosa si riferisce γεινομένη (parzialmente ricostruito) di ll. 7-8? Se si riferisce a χάλαζα, il frammento di Diogene vedrebbe nello pneuma freddo una delle cause della grandine; se è così, si dovrà ammettere che non è affatto fuori luogo che in Pitocle Epicuro consideri la solidificazione degli elementi aerei tramite congelamento come una delle spiegazioni della grandine. A ben vedere, tuttavia, non mi pare si possa escludere che il participio possa riferirsi a συστροφή; se è così, lo εἴτε di l. 7 introduce la prima causa di tale συστροφή e, pertanto, lo pneuma freddo non sarebbe la diretta causa della grandine ma, appunto, della συστροφή. A me sembra che questa ipotesi interpretativa del fr. 14 Smith (lo stesso si può dire del fr. 99 Smith) sia essenzialmente compatibile con ciò che si legge in Pitocle (cfr. Leone 2017: 102) e supporti la fondamentale correttezza dell’esegesi di Arrighetti. Lo 215

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pneuma freddo è solo una causa indiretta della grandine, nel senso che esso è la condizione necessaria perché la grandine si generi ma ciò non significa affatto che lo pneuma freddo possa solidificarsi per poi frammentarsi nei chicchi di grandine. Tornando alla lettera, come nel fr. 14 Smith si parla di συστροφή (la grandine come dipendente da un’agglomerazione dovuta all’energia semo­ vente di ciò che è circostante, una formulazione che non può che ricorda­ re, mutatis mutandis, l’espressione πάντοθεν δὲ πνευματωδῶν περίστασίν τινων della lettera), in Pitocle si dice che, perché avvenga la grandine, sono necessarie tre condizioni: il congelamento piuttosto forte, la presenza di elementi aerei che si collocano in un certo modo e la successiva frammen­ tazione. Rimane da capire di cosa. Prima di affrontare questo punto è utile comprendere a cosa si riferiscano verosimilmente Epicuro (e Diogene di Enoanda) indicando rispettivamente la disposizione degli elementi aerei e la συστροφή: sulla base di Lucrezio (VI 156-159; cfr. anche Arrighetti 1955: 80, nonché Diog. Laert. VII 153 = 11 Edelstein-Kidd), ma anche in virtù di quanto si dice a proposito della neve al § 107 (cfr. infra: 220 ss.), la grandi­ ne si forma nelle nubi, quantunque ciò non venga detto apertamente (ma cfr., in ogni caso, il § 107 e infra: 221). È nelle nubi, infatti, che avviene il congelamento; tuttavia, l’agglomerato di cui parla Diogene e gli elementi aeriformi di cui si tratta in Pitocle mi sembrano un riferimento solo indiret­ to alle nubi; il riferimento diretto è alla struttura interna della grandine (cfr. le giuste osservazioni di Bollack-Laks 1978: 247). Da ciò che scrive Epi­ curo, la grandine possiede una struttura interna alquanto complessa, costi­ tuita da diverse parti aggregate e messe insieme. Perché la grandine si for­ mi, non è necessario solo il congelamento che avviene nelle nubi, ma an­ che la presenza di elementi d’aria che sono parte integrante della struttura interna della grandine. Ciò che viene raffreddato, che si solidifica e poi si frammenta nelle suddette condizioni è l’acqua (cfr. i significativi versi lu­ creziani di VI 529-530: nix, venti, grando, gelidaeque pruinae, / et vis magna geli, magnum duramen aquarum – sottolineature mie) che, forse non a caso, viene finalmente richiamata subito dopo. Ribadisco che si tratta di una in­ terpretazione che mi sembra alquanto persuasiva ma che allo stesso tempo rimane problematica: essa, non risolvendo affatto tutte le oscurità del testo, va considerata con cautela e prudenza. Nella seconda parte non mancano le difficoltà di ordine testuale; i codici hanno τῆξιν mentre nei recentiores compare nuovamente πῆξιν. Mi sembra maggiormente plausibile leggere qui πῆξιν al posto di τῆξιν (così fa anche Von der Mühll 1922: 38, benché, prima di πῆξιν, inserisca specularmente al κατὰ πῆξιν precedente, il che mi sembra un’aggiunta più che condivisibile, per questo la si accoglie nel testo); il secondo termine 216

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indica la liquefazione o la fusione in questo caso di elementi d’acqua (ὑδατοειδῶν) ma la liquefazione (ossia il passaggio dallo stato gassoso a quello liquido) di acqua mi sembra un autentico controsenso (sarebbe diverso se con τῆξιν si indicasse la fusione di più masse d’acqua). Mi pare, tuttavia, che Epicuro tracci una sorta di parallelismo tra la precedente πῆξιν ἰσχυροτέραν e la πῆξιν μετριωτέραν (per questo credo sia preferibile leggere qui πῆξιν) con la differenza che alla πῆξιν μετριωτέραν è diretta­ mente riferibile il genitivo ὑδατοειδῶν τινων (a differenza del precedente genitivo πνευματωδῶν τινων dipendente da περίστασιν e non da κατὰ πῆξιν ἰσχυροτέραν). Se questa ipotesi è fondata, l’intera sezione acquista un senso relativa­ mente compiuto (ferma restando la problematicità di fondo alla quale si è già accennato): gli elementi che si solidificano e si frammentano sono elementi acquei ma due sono le condizioni (come di consueto, in termini di possibilità) nelle quali la grandine può formarsi: la prima concerne un congelamento piuttosto forte mentre la seconda uno più moderato. Un congelamento più modesto dell’acqua sarà, per così dire, allo stesso tempo progressivo e globale, riguardando tanto le singole parti quanto la massa complessiva degli elementi acquei. Il raffreddamento provoca la loro rottura, la loro compressione e la loro scissione: in questo modo il con­ gelamento non solidificherà l’intera massa d’acqua generando un unico corpo di ghiaccio ma, nel contempo, il raffreddamento di questi elementi, pur investendo tutta la massa d’acqua, provocherà la loro solidificazione e anche la loro scissione: così si spiega il darsi dei chicchi di grandine (cfr. Arrighetti 1955: 81-82). Il testo è e rimane oscuro; il punto centrale è, in ogni caso, il fatto che i chicchi di grandine possono formarsi tanto nel caso di un congelamento piuttosto forte quanto di un raffreddamento più blando ma sempre di elementi d’acqua contornati da elementi aeriformi. L’indagine concernente la forma tondeggiante dei chicchi di grandine costitutiva una sorta di topos della meteorologia antica; Epicuro non si sot­ trae ed esamina la questione all’inizio del § 107. Le cause della forma circo­ lare della grandine che vengono presentate sono due (ma, come sempre, ri­ mane sottinteso che altre possono essere le spiegazioni; d’altronde la for­ mula iniziale οὐκ ἀδυνάτως, «non è impossibile che», lascia aperta tale pos­ sibilità); la prima fa riferimento al fatto che tutt’intorno le estremità (τῶν ἄκρων) si disfanno: non viene detto esplicitamente ma è probabile che ciò avvenga mano a mano che i chicchi di grandine cadano verso la terra, evi­ dentemente perché il congelamento iniziale (forte o modesto che sia) che li ha prodotti viene meno (cfr. Sen. NQ IV 3, 5, nonché Aët. Plac. III 4, 2, Dox. 371, M-R 1203 = 59 A 85 DK = VI 25 D54b LM). D’altronde, che tale motivazione, per Epicuro, possa essere ricondotta alla caduta verso la terra 217

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è confermata da un passo di Aezio (Plac. III 4, 5, Dox. 371, M-R 1204 = 349 Usener). La seconda spiegazione mi pare si riferisca al momento stesso di formazione della grandine; qui Epicuro torna a menzionare gli elementi acquei e quelli aerei (εἴτε ὑδατοειδῶν τινων, εἴτε πνευματωδῶν) che sarebbe­ ro responsabili della forma arrotondata dei chicchi di grandine perché as­ sumerebbero una disposizione regolare e uniforme parte per parte (κατὰ μέρη ὁμαλῶς) al momento della formazione spiegata prima. A prima vista, si potrebbe pensare, allora, che la grandine si generi a partire dal congela­ mento (più forte) dell’aria e (più moderato) dell’acqua. In realtà, non mi pare che questa sia l’unica esegesi possibile (pace Isnardi Parente 1983: 190 n. 2); coerentemente con l’ipotesi interpretativa proposta, Epicuro afferma che non solo le particelle d’acqua – che sono direttamente interessate dal congelamento – si dispongono in maniera regolare, ma questo accade an­ che per quegli elementi aeriformi che, come abbiamo visto, pur non essen­ do direttamente coinvolti dal congelamento, senz’altro contribuiscono a questo processo e, in particolare, alla forma omogenea (cioè sferica) dei chicchi di grandine. Le particelle d’aria sono, infatti, parti strutturali di quell’agglomerato complesso che è la grandine; data la loro presenza nei chicchi di grandine, secondo Epicuro, essi cooperano alla loro forma arro­ tondata. Mi sembra, infine, che Bollack-Laks (1978: 251) colgano nel segno nel riferire lo ὡς λέγεται all’immediatamente precedente πάντοθεν, inteso da Epicuro verosimilmente nella stessa modalità in cui lo si intende nel lin­ guaggio ordinario. A questo punto è d’obbligo un confronto, prima che con Aristotele, con la Meteorologia siriaco-araba che, come abbiamo riscontrato in più di un’occasione, possiede non poche analogie con la lettera. Dopo aver spiegato l’unica causa della grandine (gocce d’acqua che si solidificano per via del raffreddamento), il testo si interroga, come in Pitocle, sulla forma tondeggiante dei chicchi di grandine (10. 3-6, p. 267 Daiber); si tenga presente che tanto l’epistola quanto la Meteorologia siriaco-araba non ammettono altre forme per la grandine se non quella sferica. Si tratta di un dato significativo e non scontato, come emergerà soprattutto dal confronto con Aristotele. Secondo la Meteorologia, il chicco di grandine assume questa forma per tre cause: (1) perché i suoi bordi si smussano durante la discesa (e così questo testo spiega anche il fatto che la grandine è liscia e levigata); (2) perché esso consiste di un elemento che per sua natura possiede forma sferica, come per esempio l’acqua; (3) o perché il raffreddamento lo ha solidificato e reso omogeneo da tutti i lati.

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La prima spiegazione coincide pressoché perfettamente con la prima che si legge in Pitocle; le altre due si può dire siano in qualche modo sintetiz­ zate nella seconda spiegazione offerta dall’epistola, dove si fa riferimento alla natura degli elementi che costituiscono l’agglomerato della grandine. Ancora una volta trovo evidente la stretta relazione tra questi due testi e mi appare sempre più plausibile la dipendenza della Meteorologia (solo pre­ suntamente teofrastea) dalla struttura teorica e contenutistica dell’Epistola a Pitocle (o, comunque, dalla meteorologia epicurea). Prima di chiudere questa parte del commentario, è opportuno prendere in considerazione, seppure brevemente, la trattazione aristotelica. Occu­ pandosi della formazione della grandine, Aristotele riporta l’opinione di alcuni (il riferimento è assai verosimilmente ad Anassagora) secondo i quali la causa della grandine risiederebbe nel fatto che la nube viene spinta (probabilmente dalle correnti ventose) verso l’alto, dove è più freddo: a quell’altezza l’acqua presente nella nube gela e dà luogo alla grandine (Meteor. I 12, 348a 14-18 = 59 A 85 DK = VI 25 D54a LM). La spiegazione di Anassagora appare accettabile da più punti di vista ma per Aristotele essa è scorretta; di qui il carattere controintuitivo, ammesso dallo stesso Aristotele (cfr. supra: 214), dell’esame anassagoreo del caso della grandine. Secondo lo Stagirita, Anassagora sbaglia perché ritiene che la grandine si verifichi quando le nubi procedono verso l’alto, dunque verso l’aria fredda, laddove è vero il contrario: la grandine avviene quando le nubi scendono verso l’aria calda (Meteor. I 12, 348b 12-15). Per Aristotele il caldo e il fred­ do si respingono reciprocamente e ciò accade anche nei luoghi superiori di cui parla Anassagora; dal momento che la grandine si dà soprattutto nei periodi dell’anno più temperati, il freddo viene respinto verso il basso (Aristotele aggiunge che quando il tempo è caldo, i luoghi sotterranei sono freddi e viceversa: cfr. Meteor. I 12, 348b 2-8). Per questa ragione, più il congelamento avviene vicino alla terra più sono violenti i rovesci e più grandi saranno le gocce e i chicchi di grandine (αἱ ψακάδες καὶ αἱ χάλαζαι) per via della brevità del percorso effettuato (cfr. Meteor. I 12, 348b 22-25). Proprio alla vicinanza alla terra Aristotele attribuisce il motivo principale della forma assunta dalla grandine. Lo Stagirita, a differenza di Epicuro e della Meteorologia siriaco-araba, è dell’avviso che i chicchi di grandine abbiano forma non rotonda (Meteor. I 12, 348a 26-27): ciò dipende dal fatto che la loro caduta non dura molto, dal momento che il congelamento è avvenuto vicino alla terra. In breve: i chicchi di grandine non rotondi sono di grosse dimensioni e gelano vicino alla terra mentre quelli rotondi sono più piccoli perché cadono da altezze maggiori e per via dell’attrito provocato dalla lunga caduta (Meteor. I 12, 348a 32-b 2). Tenendo a mente la posizione di Anassagora che Aristotele critica, forse non è casuale che 219

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nel fr. 14 Smith Diogene di Enoanda sottolinei come la grandine si formi in zone alte (ll. 8-9: ἀλλὰ μετε]-/[ώρῳ); Diogene (o la sua fonte) potrebbe deliberatamente riprendere e appoggiare la teoria anassagorea, rifiutando così le critiche aristoteliche. §§ 107-108. Il meteoron oggetto di questi paragrafi è la neve; come di consueto, alla fine dell’esame del fenomeno, dunque all’inizio del § 108, Epicuro ribadisce che è possibile (ἐνδέχεται) che la neve si produca in altri modi (κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους). Il primo modo esplicitamente descritto da Epicuro fa dipendere l’origine della neve dalla pioggia e da un suo successi­ vo raffreddamento (per una spiegazione della neve come fenomeno indi­ pendente dalla pioggia cfr. Ps. Aristot. De mundo 394a 32-34). La pioggia scende dalle nubi (ἐκ τῶν νεφῶν); tale fenomeno è spiegato da Epicuro con riferimento alla simmetria dei pori (διὰ πόρων συμμετρίας) e alla pressione esercitata dal vento di nubi adatte (θλίψεως ἐπιτηδείων νεφῶν). Più detta­ gliatamente Epicuro distingue, in questa spiegazione, due momenti: nel primo descrive la caduta della pioggia dalle nubi. La simmetria dei pori è una delle espressioni tipiche di Epicuro usata soprattutto in ambito gno­ seologico, dove i pori indicano essenzialmente i canali presenti negli orga­ ni percettivi attraverso i quali scorrono i simulacri provenienti dalla super­ ficie degli oggetti solidi esterni (cfr. Gigandet 2020). Il passo di Pitocle che stiamo commentando è interessante perché informa che Epicuro ricorreva alla simmetria dei pori anche non in diretta connessione con gli eidola e soprattutto in contesti extra-gnoseologici. Mi pare di poter suggerire che, nell’epistola, i pori indichino delle “vie” simmetriche e proporzionate alla pioggia che permettono il loro scorrimento diretto e senza ostacoli a parti­ re dalle nubi. Sappiamo già che il concetto di pressione delle nubi è stretta­ mente legato alla formazione della pioggia (cfr. supra: 194); qui Epicuro ac­ centua il fatto che la forza di tale pressione tra le nubi dipenda dall’azione continua del vento. Torna qui, inoltre, la nozione di “adatto” attribuito al­ le nubi (ἐπιτηδείων νεφῶν). Come abbiamo già visto in altre occasioni (cfr. e.g. supra: 159-161), Epicuro è molto scrupoloso nel sottolineare come non tutte le strutture fisiche legate a determinati meteora sono in grado di dar luogo ai fenomeni stessi. Le nuvole “adatte” di cui qui si parla sono quelle che possiedono qualità fisiche ben precise per produrre il fenomeno in questione, ossia il venire compresse dal vento con la specifica finalità della caduta della pioggia. Per sintetizzare, dunque, la simmetria dei pori e la pressione tra le nuvole danno luogo a questa caduta. Dopo aver illustrato questo punto, Epicuro passa a illustrare la seconda parte della prima spiegazione della neve: successivamente la pioggia conge­ la per via di un forte raffreddamento che avviene nelle parti più basse delle nubi (anche secondo Aristotele – Meteor. I 12, 347b 22-24 – il congelamen­ 220

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to della nube produce la neve). Questa precisazione è interessante se si tiene conto del fatto che, nel caso della trattazione della grandine, Aristote­ le, contrariamente ad Anassagora, aveva affermato che il raffreddamento avviene verso il basso più che verso l’alto (cfr. supra: 219). Qui Epicuro non nutre dubbio alcuno circa il fatto che il raffreddamento che congela la pioggia avvenga nelle zone più basse delle nubi (ἐν τοῖς κατώτερον τόποις τῶν νεφῶν). La seconda spiegazione dell’origine della neve colloca questo fenomeno (che Epicuro definisce precisamente come πρόεσις ἐκ τῶν νεφῶν, un’emis­ sione dalle nubi) ancora nelle nubi, dove ha luogo il congelamento (κατὰ πῆξιν δ’ ἐν τοῖς νέφεσιν); si incontra subito una difficoltà di natura testuale. Nel testo si parla di ὁμαλῆ ἀραιότητα, uniforme porosità (la ἀραιότης rinvia al termine – importante per la medicina: cfr. Verde 2019: 59 – ἀραίωμα che indica l’interstizio; in questo senso la ἀραιότης può essere intesa come l’opposto della πυκνότης), che, grammaticalmente, sarebbe posseduta dal congelamento. Il participio ἔχουσαν non può che riferirsi a πῆξιν; natural­ mente è molto strano che il congelamento possieda una uniforme porosità. Per ovviare a questa difficoltà Bollack-Laks (1978: 254-255) preferiscono leggere τοιαύτην al posto di τοιαύτη immediatamente successivo a ἔχουσαν: «ὁμαλῆ ἀραιότητα, avec τοιαύτην, se rapporte aux structures visibles de la neige, aux cristaux que l’on voit (τοιαύτην)» (Bollack-Laks 1978: 255). Questa ricostruzione del testo e la conseguente interpretazioni mi appa­ iono forzate e non convincenti soprattuto perché, mi sembra, quand’anche si voglia leggere τοιαύτην e non τοιαύτη, il problema del riferimento di ἔχουσαν a πῆξιν rimane e non è risolto. A questo punto io credo che, ad sensum, la conformazione uniformemente porosa non possa che essere quella delle nubi; forse si potrebbe pensare che il significato di ἔχουσαν non sia stricto sensu quello di “avere”/”possedere” ma di “essere in grado/ca­ pace di”. Secondo questa ipotesi, il congelamento avrebbe una porosità uniforme nel senso che sarebbe capace di produrre interstizi uniformi all’interno delle nubi; mi pare che Epicuro intenda dire che non tutte le nubi sono dotate necessariamente di ἀραιότης ma solo quelle nelle quali il congelamento è forte. Il punto centrale, in ogni caso, concerne la struttura delle nubi: quelle che danno luogo alla neve, secondo questa spiegazione, devono essere porose, quindi ricche di interstizi: non si può escludere, pertanto, che il congelamento possa contribuire alla formazione di questo tipo di struttura. Sono ben consapevole che questa ipotesi teorica non risulti così fondata, ma, a mio modo di vedere, è l’unica (o tra le poche) a spiegare il riferimento di di ἔχουσαν a πῆξιν. In alternativa – come facciamo nel nostro testo –, differentemente dalla tradizione dei codici, si può leggere, seguendo Meibom, ἔχουσιν al posto 221

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di ἔχουσαν riferito al dativo νέφεσιν (cfr. Bailey 1926: 314). In realtà molti traduttori moderni, nelle loro versioni, leggono il testo come se ἔχουσαν fosse correlato con νέφεσιν (cfr., per esempio, Bignone 1964: 137 e Isnardi Parente 1983: 190) – impossibile dal punto di vista grammaticale – e, pertanto, in ultima analisi, ammettono la congettura di Meibom senza dichiararlo e, comunque, lasciando il testo tradito così come è. Di conseguenza, se si legge ἔχουσιν sono le nubi a possedere l’uniforme porosità, il che dà un senso coerente e accettabile all’intera trattazione. In tutti i modi, sia che il congelamento produca tale ἀραιότης sia che le nubi di per sé la possiedano, la questione centrale rimane la struttura delle nubi la cui omogenea porosità contribuisce alla formazione della neve. Nelle nubi può avvenire uno scontro di elementi acquosi che sono tra loro adiacenti; da questo scontro di corpuscoli d’acqua evidentemente raffred­ dati si genera la neve che verosimilmente transita attraverso gli interstizi uniformemente presenti nella struttura delle nuvole. Anche la Meteorologia siriaco-araba (9. 2-4, p. 267 Daiber), circa l’origine della neve, fa riferimento al congelamento di piccole gocce d’acqua separate dall’aria (si tenga conto che questa è l’unica spiegazione che questo testo fornisce dell’origine della neve, il che farebbe pensare a una dipendenza non epicurea di questa sezio­ ne); a dire il vero, però, nella Meteorologia l’aria gioca un ruolo importante nella produzione della neve e lo stesso non si osserva in Pitocle. Nella Meteorologia, per esempio, si affronta il tema del candore della neve e si dice che questo dipende dalla notevole quantità di aria contenuta in essa (9. 8-11, p. 267 Daiber); pertanto nella neve è contenuta molta aria e ciò lo testimoniano i nostri occhi (9. 4-5, p 267 Daiber). L’aria non sembra giocare alcun ruolo in Pitocle circa la produzione della neve ma non si può escludere – ed Epicuro, anche se implicitamente, non lo fa – che tra le altre spiegazioni possibili di questo meteoron ve ne siano alcune nella quali l’aria abbia una certa rilevanza. Tornando al testo, non può non destare un certo interesse il fatto che Epicuro affermi che quando i corpuscoli acquosi (gli stessi che, quando collidono tra loro danno luogo alla neve) si compenetrano e vengono assie­ me (σύνωσιν; si tratta, non a caso, del medesimo termine usato poco sopra al § 106) producono la grandine. Epicuro è interessato a stabilire una diffe­ renza netta tra la neve e la grandine; come già ribadito in precedenza (cfr. supra: 217) qui si ha una importante conferma del fatto che, nel caso della grandine, sono gli elementi di natura acquosa (e non quelli di natura ae­ rea) a essere raffreddati. In sintesi, quindi, lo scontro tra le particelle d’ac­ qua raffreddate dà luogo alla neve mentre la loro compenetrazione e il loro venire insieme sono responsabili della grandine.

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Subito dopo si incontra una difficoltà testuale; nei codici si legge ὃ μάλιστα γίνεται ἐν τῷ ἀέρι mentre Usener (1887: ad loc.) propose di leggere ἐν τῷ ἔαρι per confronto con un passo della Meteorologia aristotelica (I 12, 347b 37; a questo luogo aggiungerei anche 348a 18-20 e 348b 26-29), dove si dice che le grandinate si verificano soprattutto in primavera. Von der Mühll (1922: ad loc.), invece, considera il testo che va da ἃ οἱονεὶ σύνωσιν fino a ἐν τῷ ἀέρι una glossa. Se si segue Usener, questa informazione rela­ tiva alla stagione – rammento che si tratterebbe dell’unico esplicito riferi­ mento stagionale presente nella lettera (ma non mancano testimonianze sull’interesse di Epicuro circa la relazione meteora/stagioni come si vede nel Peri diosemeion/Sui segni celesti, 21, di Giovanni Lido) – potrebbe sembrare un’aggiunta fuori luogo nella sezione sulla neve. Ci si potrebbe chiedere, infatti, per quale motivo l’autore decida di inserirla qui e non nella parte subito precedente dedicata, appunto, alla grandine. Per giustificare ciò, si potrebbe credere che Epicuro fornisca questa informazione qui per diversi­ ficare nettamente i due meteora non solo a livello della loro formazione, ma anche su quello del loro verificarsi durante l’anno: in effetti, nevicate in primavera sono rare mentre non lo sono le grandinate. Questa ipotesi, tuttavia, potrebbe cozzare con una difficoltà di tipo grammaticale (rilevata da Bollack-Laks 1978: 257) ossia che ὃ non può riferirsi a χάλαζαν; tale difficoltà potrebbe risolversi pensando che con ὃ Epicuro intendesse richia­ mare genericamente il fenomeno appena citato, ossia la grandine. Se, poi, si rifiuta la congettura di Usener e si accoglie lo ἐν τῷ ἀέρι dei codici (come, per esempio, invita a fare Pace 2020: 289), la seguente questione si impone: che significa che la grandine avviene soprattutto nell’aria? Se si mantiene ἐν τῷ ἀέρι, si può ipotizzare che ciò che accade nell’aria (ossia nell’aria intesa come “atmosfera”) sia il fenomeno descritto da σύνωσιν, ovvero il venire insieme degli elementi di natura acquosa che danno luogo alla grandine. Forse la precisazione epicurea potrebbe risultare maggior­ mente comprensibile se si tiene a mente che mentre la formazione della neve (almeno stando alle spiegazioni esplicitamente fornite dal testo) acca­ de esclusivamente nelle nubi, il processo di compressione (responsabile, verosimilmente, anche della maggiore solidità della grandine rispetto alla neve) che causa la grandine avviene soprattutto nell’aria. Malgrado ciò, questa interpretazione, a mio avviso, solleva più difficoltà di quante effettivamente ne risolva; per questo motivo, soprattutto badan­ do alla presenza di μάλιστα, ritengo sia più plausibile seguire Usener e leggere ἐν τῷ ἔαρι; del resto, che la grandine avvenisse più in questa sta­ gione, cioè in primavera, non era affatto un’opinione infrequente: basti menzionare, qui, un passo di Seneca (NQ IV 4, 1-2) che spiega per quale motivo in inverno nevichi e non grandini, mentre in primavera, quando 223

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il rigore del freddo si è allentanto, cada la grandine. Tornando all’epistola, benché sia l’unica informazione stagionale nel testo di Pitocle, come già ricordato, è probabile che il riferimento alla primavera sia più corretto rispetto all’aria per via della presenza di μάλιστα che indicherebbe che il fenomeno della grandine avviene più frequentemente in primavera. Come aveva già ben visto Usener, mi pare evidente che un legame di queste linee con la Meteorologia aristotelica ci sia; nel capitolo XII del I libro di quest’o­ pera Aristotele descrive il fenomeno della grandine, soffermandosi su dei precisi dati stagionali, sottolineando come la grandine avvenga soprattutto (μάλιστα) in primavera e in autunno, meno spesso nella seconda metà del­ l’estate e raramente d’inverno (I 12, 347b 37-348a 2). Verso la conclusione del capitolo Aristotele torna sulle questioni stagionali, affermando che la grandine avviene più raramente d’estate che in primavera o in autunno, anche se più frequentemente d’estate che d’inverno (I 12, 348b 26-29); giova ricordare che poco sopra (I 12, 348a 14-20) Aristotele polemizza contro alcuni (verosimilmente Anassagora: cfr. 59 A 85 DK = VI 25 D54a LM) che, dando una spiegazione alternativa al fenomeno della grandine, asserivano che essa si verifica più spesso d’estate. In seno alla tradizione epicurea, Diogene di Enoanda, in una delle sue Massime (fr. 99 Smith), fornisce un’indicazione sul fatto che non occorra rimanere perplessi che la grandine avvenga in estate. In Pitocle, pur ammettendo la bontà della lettura di Usener, non si ritrova alcun riferimento all’estate, benché il fatto che Epicuro affermi che la grandine si formi μάλιστα in primavera non esclude il suo verificarsi in estate; al di là di questa più o meno profonda incongruenza tra Diogene ed Epicuro, la massima è importante perché testimonia come nella tradizione epicurea ci si poneva effettivamente la questione della stagionalità della grandine, il che rende meno astrusa la lettura di Usener. Inoltre, in Pitocle non si fa alcun cenno all’autunno che, invece, Aristotele pone sullo stesso piano della primavera quanto alla frequenza della grandine; si potrebbe scorgere qui anche una più o meno velata polemica di Epicuro nei riguardi di Aristotele, sebbene, come già rilevato, l’uso epicureo di μάλιστα non escluda il novero di altre stagioni. L’ultima spiegazione del fenomeno della neve chiama in causa la frizio­ ne o sfregamento tra le nubi congelate; ἄθροισμα è il termine usato per in­ dicare il “corpo” della neve e non escluderei che l’impiego di questo nome nasconda un riferimento alla spiegazione precedente, laddove si fa riferi­ mento allo scontro tra gli elementi d’acqua presenti nelle nubi che in qual­ che modo vanno ad aggregarsi per dare vita alla neve. In ogni caso, in Epi­ curo ἄθροισμα indica un corpo composto in maniera omogenea (cfr. Verde 2010a: 188), dunque un riferimento alla neve come corpo aggregato da ele­ menti di natura acquosa non è da escludere. La frizione tra le nuvole con­ 224

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gelate provoca un fenomeno che Epicuro chiama ἀπόπαλσις che non può non ricordare il palmos, l’apopalmos, ma anche la palsis rispettivamente dei §§ 43, 44 e 50 dell’Epistola a Erodoto (cfr. Verde 2010a: 109-11 e 133-134). Il palmos dovrebbe indicare il movimento vibratorio degli atomi, l’apopalmos è il movimento di rimbalzo dovuto a uno scontro, mentre la palsis sembre­ rebbe essere il movimento ondulatorio interno ai corpi solidi probabil­ mente responsabile del distacco degli eidola dalla loro superficie (cfr. Mo­ rel 2020). L’ἀπόπαλσις di Pitocle parrebbe indicare un rimbalzo nel senso di un movimento di slancio dell’ἄθροισμα della neve provocato dallo sfrega­ mento delle nubi; a mio avviso, queste righe illustrano stricto sensu gli aspetti cinetici più che la formazione della neve. Per questo motivo ritengo che tale spiegazione, più che essere una causa ulteriore rispetto alle due precedenti, debba essere considerata come una sorta di appendice della se­ conda: il corpo della neve, inteso come aggregato uniforme di elementi ac­ quosi, come si dice nella seconda spiegazione, può essere messo in movi­ mento dalla frizione tra nubi congelate che è, appunto, responsabile dell’ἀπόπαλσις, il rimbalzo/lo slancio dei fiocchi di neve. §§ 108-109. Dopo la neve è la volta di due meteora strettamente connessi tra loro, la rugiada e la brina; la loro relazione non si fonda esclusivamente sulla comunanza delle cause della loro formazione, ma anche sul fatto che nella tradizione meteorologica antica (per esempio in Aristotele, che dedi­ ca alla brina e alla rugiada il X capitolo del I libro della Meteorologia, 347a 13 ss.) i due fenomeni sono esaminati insieme oppure l’uno di seguito al­ l’altro (come si osserva nella Meteorologia siriaco-araba, 11.-12., pp. 267-268 Daiber o nello pseudoaristotelico De mundo, 394a 23-26). Epicuro sembre­ rebbe rispettare deliberatamente questa tradizione (ma va anche osservato che Lucrezio – VI 527-534 – non solo non dedica una spiegazione partico­ lareggiata dell’origine della brina, ma, enumerando rapidamente i fenome­ ni che si formano all’interno delle nubi, menziona solo la brina – VI 529: gelidaeque pruinae – ma non fa parola alcuna circa la rugiada), occupandosi prima della rugiada e poi, molto brevemente, della brina. La causa della rugiada è, alla lettera, un venire assieme, un convergere (κατὰ σύνοδον) di elementi provenienti dall’aria responsabili della forma­ zione dell’umidità (ὑγρασίας): è l’umidità a fare da sostrato comune tanto alla rugiada quanto alla brina, pertanto gli elementi di cui qui si parla sono evidentemente di natura acquosa; Epicuro specifica che essi provengono dall’aria in quanto mi pare presupposto che l’umidità di cui si tratta si costituisca nell’aria, nell’atmosfera. La rugiada, ovvero questa umidità, può provenire non solo dall’aria (è, appunto, la spiegazione κατὰ σύνοδον, fondata sull’incontro degli elementi acquosi nell’aria), ma anche da terra, cioè da luoghi umidi o ricchi di acqua (κατὰ φορὰν δὲ ἢ ἀπὸ νοτερῶν τόπων 225

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ἢ ὕδατα κεκτημένων; segnalo la lettura κατ’ ἀφοράν di Bignone 1964: 137 n. 2, forse non così necessaria, come già rilevava Bailey 1926: 315, anche perché mi pare che l’espressione κατὰ φορὰν δὲ ἢ ἀπὸ νοτερῶν τόπων κτλ. sia in qualche modo speculare/simmetrica rispetto a quanto si dice subito dopo: καὶ πάλιν φορὰν ἐπὶ τοὺς κάτω τόπους), dove non è affatto infrequente che si generi la rugiada. Questi elementi, sia che provengano dall’aria sia dalla terra (per via delle esalazioni, evidentemente), devono unirsi per formare l’umidità; questa, una volta costituitasi, cade verso il basso (ἐπὶ τοὺς κάτω τόπους; cfr., in parallelo, anche la Meteorologia siriaco-araba 11. 6, p. 267 Daiber, nonché Aristot. Meteor. I 10, 347a 15), come, del resto, aggiunge Epicuro, si vede facilmente accadere παρ’ ἡμῖν (forse il riferimento è a fenomeni usuali relativi alla presenza di vapore sui corpi: cfr. Bailey 1926: 315). Come si vede, la causa della rugiada è il convergere insieme di elementi acquosi; si può dire, dunque, che la spiegazione è unica e ciò che varia è la provenien­ za di tali elementi, o dall’aria oppure dai luoghi terrestri ricchi d’acqua; su quest’ultimo punto mi pare che Epicuro dipenda prevalentemente da Aristotele (Meteor. I 10, 347a 30-35), il quale, riferendosi ai due fenomeni in esame, afferma che il vapore non è in grado di salire molto in alto (per questo è facile che ricada), per esempio quando esso si leva da luoghi umidi e concavi; il condensamento può dipendere anche dall’aria in movi­ mento a grandi altezze, il che spiega la sua discesa verso il basso. Per ciò che riguarda la brina, Epicuro la colloca in stretta dipendenza dalla rugiada: si forma quando la rugiada subisce un qualche congelamen­ to (πῆξίν τινα) per via del raffreddamento dell’aria circostante (che la brina sia rugiada congelata è la causa ammessa unanimemente dalla Meteorologia siriaco-araba, 12. 2, p. 268 Daiber, ma anche da Aristotele – Meteor. I 10, 347a 16-18 – e dal De mundo, 394a 25-26). Questa è l’unica spiegazione fornita da Epicuro. Questa sintetica sezione sulla rugiada e sulla brina permette di richiama­ re l’attenzione su due punti; in primo luogo, il fatto che Lucrezio non si occupi delle cause della rugiada (che nemmeno cita) e della brina (che cita, come si è rilevato, solo fugacemente) non può essere affatto un indizio del carattere spurio della lettera. O Lucrezio ha deliberatamente optato di non trattare questi fenomeni (forse considerati poco interessanti nella più generale economia del poema e della filosofia epicurea perché certamente non incutono timore e perché le cause non sono così nascoste o ardue da investigare) oppure, circa questo specifico punto, dipende, nel caso, da un’altra fonte che non è Pitocle. Il secondo punto riguarda, invece, il fatto che della brina si dà una sola spiegazione; anche questo non è affatto in contraddizione con lo spirito 226

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generale della lettera e, quindi, con il pleonachos tropos. Come abbiamo già osservato in occasione di altre spiegazioni, nella lettera Epicuro presenta solo alcune cause ma non tutte le cause di un dato fenomeno (come potreb­ be, d’altronde, in un compendio?): quando avviene che di un meteoron (come la brina) si dà una sola causa non vuol dire che quella fornita è, in termini assoluti, l’unica causa possibile ma, verosimilmente, è solo quella più frequente. In breve, in casi di questo tipo, è bene tenere a mente che il pleonachos tropos non cede il posto al monachos tropos, un metodo che Epicuro bandisce in termini davvero assoluti dall’esame dei meteora (nei quali la brina, ovviamente, rientra a pieno titolo). §§ 109-110. Una breve parte della lettera è dedicata all’analisi della for­ mazione del ghiaccio; le spiegazioni fornite sono due ed esse differiscono per il fatto che il congelamento avviene o all’interno o all’esterno dell’ac­ qua. Riguardo alla prima spiegazione, Epicuro ammette la possibilità che proprio dall’acqua siano espulsi (κατ’ ἔκθλιψιν) degli elementi di forma tondeggiante (τοῦ περιφεροῦς σχηματισμοῦ), che evidentemente, precisa­ mente per la loro forma, non permettono il processo di congelamento e, pertanto, di solidificazione dell’acqua. L’espulsione di questi elementi fa sì che le particelle a forma di angolo scaleno e acuto presenti nell’acqua pos­ sano unirsi e dare origine al ghiaccio (un riferimento all’angolosità è pre­ sente anche in Nat. XI [26] [24] Arrighetti). Si è pensato che questa causa sia debitrice di Democrito (cfr. Bignone 1964: 138 n.1); secondo la lunga testimonianza democritea offerta da Teofrasto nel De sensu (68 = 68 A 135 DK = VII 27 R46 LM), la figura atomica propria del caldo è quella sferica. Si potrebbe concludere, allora, che l’espulsione degli elementi di forma tondeggiante avviene perché la loro unione provoca il calore e non il con­ gelamento che, invece, è dovuto all’aggregazione di elementi dalle forme più irregolari. Dall’indagine sul ghiaccio si vede bene il ruolo decisivo gio­ cato dallo schematismos di questi elementi costituenti l’acqua, che potrebbe­ ro essere gli atomi ma, come sovente accade nella fisica epicurea, anche ag­ gregazioni di più atomi, perciò di masse più grandi. La forma di questi ele­ menti determina la modalità di aggregazione dalla quale, a sua volta, di­ pendono le qualità, come il caldo e il freddo. Non è semplice capire cosa Epicuro intenda riferendosi agli elementi scaleni e dalla forma ad angolo acuto (τῶν σκαληνῶν καὶ ὀξυγωνίων); Bailey (1926: 316) è del parere che, nel primo caso, si tratterebbe probabil­ mente di figure triangolari mentre, nel secondo caso, di «other angular formations». Io credo che non sia necessario invocare il triangolo; la fina­ lità di Epicuro è quella di differenziare nettamente le forme tondeggianti da quelle più irregolari per legittimare il processo di congelamento e di solidificazione internamente all’acqua. È, quindi, verosimile che il filosofo 227

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pensi, nel caso delle forme scalene, a elementi che hanno forme irregolari (non necessariamente coincidenti con la forma del triangolo scaleno), nel secondo caso, a elementi che o hanno spigoli acuti (cfr. la traduzione di Isnardi Parente 1983: 191) oppure una forma dotata di angoli acuti. La seconda spiegazione è speculare alla prima: ciò mostra che, pur essendo ambedue le cause possibili, è impossibile che agiscano allo stesso tempo e nelle medesime condizioni. È possibile che il medesimo processo di espulsione degli elementi tondeggianti, che nella prima spiegazione era provocato all’interno dell’acqua, possa accadere anche esternamente (ἔξωθεν); in questo secondo caso, gli elementi dalla forma irregolare e acuta aggregati insieme subentrano esternamente (κατὰ ἔξωθεν δὲ τῶν τοιούτων πρόσκρισιν) così da espellere una certa quantità di elementi tondeggianti e avviare il processo di congelamento e di solidificazione dell’acqua. Il secondo meteoron affrontato dal paragrafo è l’arcobaleno; della forma­ zione di questo fenomeno sono presentate due cause. La prima riguarda il risplendere (κατὰ πρόσλαμψιν) della luce del sole contro l’aria umida (πρὸς ἀέρα ὑδατοειδῆ; su quest’ultimo termine cfr. Arrighetti 1973: 533); in sostanza, l’iride è prodotto dal riflesso del sole, una spiegazione alquan­ to tradizionale (cfr. Bonadeo 2004: 199-200) che si ritrova, con alcune differenze, però, già in Anassimene, almeno sulla base della dossografia (cfr. Aët. Plac. III 5, 10, Dox. 373, M-R 1215 = 13 A 18 DK = II 7 D24 LM). La seconda spiegazione, invece, si fonda sulla peculiare combinazio­ ne (κατὰ πρόσφυσιν ἰδίαν) della luce e dell’aria che produrrà, sia tutti insieme sia singolarmente, i caratteri specifici dei colori dell’arcobaleno. La precisazione εἴτε πάντα εἴτε μονοειδῶς è importante perché così Epicuro giustifica il fatto che la congiunzione della luce con l’aria possa dare luogo ai colori dell’iride tanto in una sola volta quanto singolarmente, colore per colore. Subito dopo Epicuro approfondisce questa seconda spiegazione: le parti vicine dell’aria, per via della rifrazione della luce, assumono quella colorazione che noi vediamo secondo il risplendere di ciascuna parte (κατὰ πρόσλαμψιν πρὸς τὰ μέρη). Per apprezzare e comprendere meglio, dal punto di vista storico, la po­ sizione epicurea, occorre ripercorrere, per quanto brevemente, alcuni mo­ menti salienti di come il fenomeno dell’iride venisse spiegato nell’antichità (in merito è senz’altro di riferimento l’eccellente monografia di Bonadeo 2004). L’umidità come carattere della nuvola in cui si riflette il sole (o la luna: Aristotele – Meteor. III 2, 372a 21-29; cfr. anche III 4, 375a 17-20 – afferma che, seppur raramente, l’arcobaleno può formarsi anche di notte) è richiamata anche dalla sezione meteorologica dello pseudoaristotelico De mundo (395a 32-34); significativamente la definizione dell’arcobaleno 228

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come riflesso (ἔμφασις) di una parte/un segmento di sole (o di luna) in una nube umida e concava si ritrova in Ario Didimo (fr. 14 Diels, Dox. 454, da Stob. Ecl. I 30, 2) che l’attribuisce ad Aristotele (segnalo che una definizione simile a quella posidoniana in Diogene Laerzio – si veda oltre – e a quella che Stobeo attribuisce ad Ario Didimo è presente nelle Defini­ zioni di Aquilio, 85, un testo che il suo editore – Rashed 2012; si veda la p. 167 sulla definizione 85 – fa dipendere dall’Epitome di Ario Didimo). Nella sezione stoica delle Vite dei filosofi Diogene Laerzio (VII 152) attribuisce agli Stoici la definizione di arcobaleno come la riflessione dei raggi del sole a partire da nubi umide; subito dopo Diogene Laerzio cita la definizione di arcobaleno di Posidonio (15 Edelstein-Kidd) che, nella sua Meteorologia (ἐν τῇ Μετεωρολογικῇ), avrebbe sostenuto che l’arcobaleno è un riflesso di una parte/un segmento di sole o di luna (ἔμφασιν ἡλίου τμήματος ἢ σελήνης) in una nube umida di rugiada, concava e continua all’apparenza, che si mostra come in uno specchio nella forma di un arco di un cerchio. La definizione posidoniana coincide parzialmente con quella che Ario Didimo attribuisce ad Aristotele e con quella che si legge nel De mundo: si potrebbe ipotizzare, ma con estrema cautela e soprattutto in riferimento al solo versante terminologico, che l’attribuzione ad Aristotele da parte di Ario Didimo di questa definizione non sia del tutto fededegna e che tanto il passo del De mundo quanto il luogo di Ario Didimo dipendano da elaborazioni in qualche modo stoicheggianti, forse perfino posidoniane (di diverso avviso Reale-Bos 1995: 144-145; per approfondire cfr. Bonadeo 2004: 192 n. 153 e Verde 2018g: 386-388). Naturalmente non è questa la sede adatta per affrontare come si deve la questione concernente la cronologia e la paternità del De mundo, uno scritto che mi pare denunci una ben marcata coloritura peripatetica (rinvio su quest’ultimo punto alla monografia di Brumana 2022). Quanto alla definizione di arcobaleno nel De mundo, inoltre, non vedo alcuna ragione davvero cogente per stabilire una relazione di dipendenza di questo passo dalla meteorologia teofrastea, sia perché di questa si sa pochissimo, come abbiamo più volte rilevato in questa sede, sia perché la Meteorologia siriaco-araba (ammesso e non conces­ so che sia teofrastea nella sua integrità) non contiene alcuna trattazione dell’arcobaleno. Ora, però, il dato più significativo per avviare un confronto con Pitocle, è che tanto Aristotele quanto Posidonio condividono l’idea che l’iride sia un fenomeno ottico, dunque una ἔμφασις; una delle differenze più notevoli risiede nel fatto che mentre per Posidonio (Sen. NQ I 5, 13 = 134 Edelstein-Kidd) è la nube che di per sé assume la configurazione di uno specchio concavo e rotondo capace di riflettere il raggio luminoso, per Aristotele è l’aria, che nelle nubi si condensa in gocce (Meteor. III 229

Francesco Verde

4, 373b 20-21), a produrre la riflessione: per Aristotele, infatti, l’acqua riflette più dell’aria (Meteor. III 4, 373b 13-32). È interessante richiamare qui, soprattutto per le analogie con Aristotele, la trattazione lucreziana sull’iride: «In quel punto, se il sole coi raggi fra la tempesta opaca / rifulge contro il gocciolìo dei nembi che gli stanno di fronte, / allora nelle nere nuvole compaiono i colori dell’arcobaleno» (VI 524-526; trad. Giancotti). Per Aristotele l’arcobaleno è una riflessione della vista verso il sole (Me­ teor. III 4, 373b 32-33: ἀνάκλασις ἡ ἶρις τῆς ὄψεως πρὸς τὸν ἥλιον); per Posi­ donio (ma anche per l’autore del De mundo, come abbiamo visto), invece, l’iride è una ἔμφασις del sole, quindi un’immagine apparente. Ciò che ac­ comuna la posizione aristotelica e quella posidoniana è il fatto che ambe­ due riducono l’arcobaleno a un fenomeno ottico, dunque non a un “ogget­ to” reale e indipendente dalla vista dell’osservatore. Secondo Aristotele, in­ somma, è la vista dell’osservatore che è riflessa verso il sole; del resto, Ari­ stotele afferma con grande chiarezza che la vista viene riflessa da tutti i cor­ pi lisci come l’aria e l’acqua (cfr. Meteor. III 4, 373a 35-b1: ἀνακλωμένη μὲν οὖν ἡ ὄψις ἀπὸ πάντων φαίνεται τῶν λείων, τούτων δ’ ἐστὶν καὶ ἀὴρ καὶ ὕδωρ). Senza poter entrare qui nelle complesse questioni che questo punto solleva, contrariamente al De anima (II 7, 418b 13-17) e al De sensu et sensi­ bilibus (437b 10-438a 4 = part. 31 B 84 DK = part. V 22 D215 LM) – in cui il filosofo non risparmia serrate critiche a questo modello di visione che egli riconduce principalmente a Empedocle e a Platone –, come rilevava già Alessandro di Afrodisia (In Aristot. Meteor. 141 Hayduck), la Meteorologia aristotelica accoglie una teoria emissiva della vista per cui gli occhi emette­ rebbero un raggio visuale. Nel passo aristotelico appena richiamato (Me­ teor. III 4, 373a 35-b 1) si parla, appunto, di riflessione della vista a partire da superfici lisce come quella dell’aria o dell’acqua; ciò, in ultima analisi, significa che a essere riflesso è il raggio visuale stesso che, come tale, è in grado di ripercuotersi o di riverberarsi quando incontra una superficie li­ scia. Se torniamo a Epicuro e teniamo a mente che per Aristotele l’iride è una ἀνάκλασις τῆς ὄψεως, l’Epistola a Pitocle presenta una trattazione di questo meteoron come un fenomeno reale, il cui accadimento è indipendente dal­ la vista dell’osservatore. È improbabile, a mio avviso, che Epicuro non conoscesse le lunghe e particolareggiate pagine che Aristotele dedicò all’ar­ cobaleno nel III libro della Meteorologia; se questa ipotesi è fondata, ritengo che Epicuro, con le sue due spiegazioni presentate nella lettera, abbia deli­ beratamente polemizzato con la descrizione aristotelica di questo meteoron, ribadendo che le due cause dell’iride presentate, quella κατὰ πρόσλαμψιν e quella κατὰ πρόσφυσιν, fanno riferimento a fenomeni reali e non ottici. Epicuro naturalmente non esclude il ruolo dell’osservatore ma se badiamo 230

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al testo della lettera il filosofo dice che noi vediamo (θεωροῦμεν) i colori formatisi dalla combinazione di aria e luce κατὰ πρόσλαμψιν πρὸς τὰ μέρη. Potrebbe sembrare una mera e ridondante aggiunta ma verosimilmente Epicuro intendeva accentuare il fatto che vediamo i colori dell’iride per il risplendere/il riflettersi della luce sulle singole parti, quindi per un feno­ meno fisico che non dipende dalla vista dell’osservatore. Se la prima spiegazione (κατὰ πρόσλαμψιν) poteva essere considerata in qualche modo già acquisita dalla tradizione, come abbiamo già osservato, la seconda (κατὰ πρόσφυσιν) potrebbe avere una originalità genuinamente epicurea, come suggeriva convincentemente Arrighetti (1973: 534). Lo studioso rinviava a un passo dell’Adversus Colotem di Plutarco (1110C = 29 Usener = 280 FHS&G) che dovrebbe dipendere dal II libro del Contro Teofrasto di Epicuro; Arrighetti, giustamente, faceva notare che, sulla base del testo plutarcheo, per Epicuro i colori non appartengono agli atomi ma sono qualità reali dei corpi aggregati che derivano da particolari dispo­ sizioni degli stessi atomi, intervenendovi anche la luce. Non è questa la sede adatta per entrare nei dettagli della teoria epicurea dei colori (cfr., in merito, tra gli studi più recenti, Ierodiakonou 2015: 231-239 nonché, più in generale, Castagnoli 2013 e Sedley 2021), ma il passo di Pitocle sul­ l’arcobaleno non può essere ignorato da chi vuole indagare correttamente questa teoria perché è un luogo estremamente significativo. Esso conferma come i colori per Epicuro siano qualità reali che non possiedono nulla di “convenzionale” e, soprattutto, come non solo la disposizione degli atomi, ma anche la luce (che per Epicuro ha natura atomica e materiale, differen­ temente da Aristotele: cfr. e.g. De an. II 7, 418b 13-26) giochino un ruolo rilevante nella formazione dei colori (cfr. e.g. Lucret. II 795-809, nonché Furley 1993: 88-90, Castagnoli 2013: n. 84 e Ierodiakonou 2015: 239). Va comunque osservato, infine, che, almeno in Pitocle, Epicuro non prende posizione circa la natura dei colori dell’arcobaleno quando la discussione sui colori e sulla loro origine nell’iride era assai vivace nell’antichità (cfr. Verde 2018g: 394 ss.). L’esame dell’iride prosegue soffermandosi sul suo φάντασμα di forma circolare. Aristotele nel III libro della Meteorologia dedica una cospicua parte della sua trattazione dell’iride a dimostrazioni geometriche atte a spiegare la semicircolarità dell’arcobaleno. Per semplificare massimamente l’articolato procedimento geometrico che conduce, Aristotele (Meteor. III 5, 375b 16-377a 28) ritiene che l’arcobaleno sia un cerchio completo che, tuttavia, risulta visibile come semicerchio o come arco, dato che solo una sezione del cerchio si colloca al di sopra dell’orizzonte (Meteor. III 2, 371b 26-32). Posidonio (Diog. Laert. VII 152 = 15 Edelstein-Kidd) ritiene che l’iride non sia un cerchio completo ma solo una sezione (circolare) del sole 231

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o della luna (ἔμφασις ἡλίου τμήματος ἢ σελήνης; la medesima definizione si ritrova nel De mundo, 395a 33): l’arcobaleno, pertanto, non riflette inte­ ramente né il sole né la luna. Seneca (NQ I 4, 1), inoltre, cita l’opinione di alcuni geometri non meglio identificati che considerano l’iride una riflessione imperfetta e infedele del sole, per via del fatto che la superficie speculare che riflette la luce possiede una configurazione difettosa. È inte­ ressante che poco dopo Seneca (NQ I 5, 13-14 = 134 Edelstein-Kidd) men­ zioni nuovamente Posidonio, con il quale egli concorda nel considerare la generazione dell’iride a partire da una nube che ha assunto la configura­ zione di uno specchio concavo e rotondo e che assume la forma di un segmento di sfera, come si legge in Diogene Laerzio. Queste, in estrema sintesi, le più rilevanti opinioni antiche sulla forma dell’arcobaleno. Per Epicuro il φάντασμα circolare dell’iride si spiega in diversi modi (che, pace Bailey 1926: 316-317, non mi sembrano necessariamente specula­ ri alle due cause dell’arcobaleno enunciate), il primo dei quali concerne la vista dell’osservatore, fermo restando che il fenomeno dell’arcobaleno rimane un meteoron reale a tutti gli effetti. Secondo la prima spiegazione, la distanza dell’arcobaleno è percepita dalla vista come uguale da ogni parte (διὰ τὸ τὸ διάστημα πάντοθεν ἴσον ὑπὸ τῆς ὄψεως), pertanto in un kosmos sferico, l’arcobaleno apparirà alla vista come della medesima forma (cfr. Bailey 1926: 317). La seconda spiegazione, invece, si fonda sull’unione (provocata dalla stessa aria) degli atomi, tanto quelli che sono nell’aria quanto quelli nelle nubi (solo di passaggio segnalo che qui, per la prima volta, Epicuro menziona le nubi in relazione all’arcobaleno, una connes­ sione, come abbiamo rilevato poco sopra, alquanto tipica e consueta nella tradizione e presente anche in Lucrezio: cfr. supra: 230); tale unione forma un’aggregazione (σύγκρισιν) che assume la forma circolare. Senza dubbio si tratta di due spiegazioni molto diverse tra loro soprattutto perché la prima è relativa alla vista di chi osserva, mentre la seconda chiama in causa direttamente la stessa costituzione atomica dell’iride, in totale in­ dipendenza dall’osservatore; di conseguenza, la prima causa descrive la forma circolare dell’arcobaleno come un fenomeno ottico connesso alla vista dell’osservatore mentre per la seconda causa è l’arcobaleno stesso ad assumere la forma circolare per ragioni eminentemente fisiche. Questo è il motivo per cui ritengo che l’opinione di Bailey, secondo la quale queste due spiegazioni relative alla forma dell’iride sarebbero speculari a quelle relative alla sua formazione, non sia corretta: le due cause della formazione dell’arcobaleno, infatti, fanno riferimento a un fenomeno fisico vero e proprio e non a un fenomeno ottico. Tornando al φάντασμα dell’iride, Epicuro ammette come possibili am­ bedue le cause esposte; la questione ricorda per alcuni versi la grandezza 232

La realtà del possibile

apparente del sole affrontata in precedenza, tuttavia, nel caso presente, Epicuro non differenzia in modo netto tra la forma in sé dell’iride e quella che appare alla vista. È indubbio che questo passo dell’epistola contenga alcune difficoltà teoriche che potrebbero essere risolte, almeno parzialmen­ te, concludendo che la forma circolare dell’iride abbia effettivamente queste due cause. Se Epicuro asserisce che l’iride assume la forma sferica solo perché la vista lo vede così, è chiaro che, in questo primo caso (a differenza del secondo), la forma dell’arcobaleno non sarà circolare in sé. È possibile, pertanto, che l’iride in sé non abbia sempre forma circolare, malgrado appaia sempre con questa forma. Epicuro, invocando la vista dell’osserva­ tore che sarebbe equidistante dal meteoron, potrebbe aver ammesso questa spiegazione proprio perché, in sé, non è affatto sicuro che l’arcobaleno assuma sempre la forma circolare, pur apparendo sempre dotato di questa forma. Naturalmente ciò non comporta che la sensazione non sia vera: la vista, infatti, vede effettivamente il φάντασμα circolare dell’arcobaleno. La seconda spiegazione, invece, invocando delle ben precise cause atomi­ che, giustifica materialmente la forma in sé dell’arcobaleno senza alcuna necessità di fare ricorso alla vista dell’osservatore. Se si vuole difendere la scientificità del pleonachos tropos secondo l’interpretazione che abbiamo proposto, è possibile che Epicuro ritenesse che la forma in sé dell’arcobale­ no non fosse necessariamente e sempre circolare (come, d’altro canto, non lo è ogni kosmos): quando non ha in sé questa forma (pur mostrandosi in questa forma alla vista di chi vede), vale evidentemente solo la prima spiegazione. Risulta, in ogni caso, di particolare interesse il fatto che, diversamente da buona parte della tradizione (in prima istanza aristotelica e poi posidoniana), Epicuro non sembra avere dubbi sul fatto che l’iride sia un fenomeno reale: egli richiama la vista dell’osservatore non per spiegare l’accadere dell’iride ma solo il suo φάντασμα circolare. §§ 110-111. Che la descrizione delle cause della formazione dell’alone se­ guisse la trattazione dell’iride è proprio di gran parte della tradizione me­ teorologica (se si vuole, fa eccezione, oltre a Lucrezio – come ricorda op­ portunamente Bailey 1926: 317 –, la Meteorologia siriaco-araba, in cui non c’è alcuna trattazione dell’iride ma è presente una notevole sezione dedica­ ta all’alone attorno alla luna: 14., pp. 269-270 Daiber): per limitarsi a pochi esempi, basti citare Aristotele – che consacra all’arcobaleno e all’alone il II e il III capitolo del III libro della Meteorologia – e il De mundo (395a 34-b 3) che, pur nella sua estrema brevità, tratta dell’alone dopo l’arcobaleno, con­ frontando, tra l’altro, i due fenomeni. Secondo Epicuro, l’alone che circonda la luna – di nuovo, un fenomeno reale e non una mera ἔμφασις, come si legge nel De mundo, 395a 34 – pos­ siede (almeno) tre cause; si tenga conto che, per esempio, differentemente 233

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da Aristotele (cfr. Meteor. III 2, 371b 22-24; 3, 372b 12-14), Epicuro si occupa solo dell’alone lunare e non di quello del sole o degli astri; non può non risultare significativo rilevare, in proposito, che nella Meteorologia siriaco-araba si tratta esclusivamente dell’alone lunare. La prima causa fa riferimento all’aria che, da ogni parte, è ricondotta intorno alla luna; secondo questa prima causa, quindi, è l’aria esterna a portarsi verso la luna e a provocare l’alone. La seconda causa, al contrario della prima, concerne ancora l’aria che spinge uniformemente (ὁμαλῶς) verso l’esterno delle emanazioni (ῥεύματα) dall’interno della luna; questi effluvi vanno a collocarsi (evidentemente ancora in modo omogeneo) intorno al corpo lunare, assumendo l’aspetto di una nube (τὸ νεφοειδές) che, tuttavia, non è autonomamente distinguibile dalla luna. L’ultima spiegazione chiama in causa due tipologie di aria: la prima più esterna alla luna rispetto alla se­ conda. In breve, l’aria più esterna sospinge l’aria che sta intorno alla luna, disponendola in maniera simmetrica da ogni parte (συμμέτρως πάντοθεν) così da farle assumere la forma sferica (περιφερές) e compatta (παχυμερές). Dopo Epicuro spiega più nel dettaglio i motivi di quest’ultima causa possibile; mi pare, infatti, che l’espressione ὅ γίνεται si riferisca precisamen­ te all’ultima spiegazione enunciata. Il successivo κατὰ μέρη τινά ha fatto discutere i critici; secondo Bailey (1926: 318) si alluderebbe alle parti del cielo lungo il corso della luna mentre mi sembra che Bollack-Laks (1978: 278) colgano più nel segno rispetto a Bailey nell’interpretare i μέρη come parti dello stesso alone. Epicuro, in breve, starebbe dicendo che, secondo la terza spiegazione appena presentata, il flusso d’aria esterno o il calore (citati subito dopo) agirebbero verosimilmente sull’aria intorno alla luna (come si legge nella terza causa esposta) in alcune parti dell’alone o, più correttamente, della periferia lunare; interpretandolo in questo modo il κατὰ μέρη τινά non confligge con il συμμέτρως πάντοθεν della terza spie­ gazione (o con lo ὁμαλῶς della spiegazione ancora precedente). L’alone lunare, pertanto, avviene secondo la terza causa o quando un flusso, un’e­ manazione d’aria agisce con forza dall’esterno (ἔξωθεν βιασαμένου τινὸς ῥεύματος) oppure quando il calore occupa i pori o canali adatti alla produ­ zione di tale fenomeno (τῆς θερμασίας ἐπιτηδείων πόρων ἐπιλαμβανομένης εἰς τὸ τοῦτο ἀπεργάσασθαι). Dubito che Bignone (1964: 139 n. 1) abbia ragione nel sostenere che si tratti di calore (esterno) che va a chiudere i pori dell’aria (presenti evidentemente nell’atmosfera lunare) così da impe­ dire che le emanazioni della luna si disperdano verso l’esterno. Epicuro, in effetti, non parla di calore esterno, per questo l’esegesi proposta da Bollack-Laks (1978: 278), per la quale qui si tratterebbe dello stesso calore della luna, è più convincente. Se Epicuro fa riferimento effettivamente al calore lunare, l’alone si forma o quando il flusso esterno dell’aria sospinge 234

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e modella l’aria intorno alla luna oppure quando il calore stesso della luna occlude i canali o pori lunari in modo tale che l’aria (già presente intorno alla luna) non possa disperdersi e, condensandosi, dia luogo all’alone. Il fatto che Epicuro introduca il calore non può essere causale: molto correttamente Barigazzi (1948: 213) ha connesso queste righe epicuree alla chiusa del III capitolo del III libro della Meteorologia (373a 27-29). Aristotele, lo si ricorderà, non si occupa solo dell’alone lunare, ma anche di quello del sole e degli altri astri; il filosofo, ciononostante, ritiene che gli aloni si formino più spesso intorno alla luna (piuttosto che intorno al sole o agli altri astri) perché il sole col suo vigoroso calore scioglie e disperde i condensamenti dell’aria. Questo fenomeno si dà di meno nel caso della lu­ na, il cui calore è senz’altro minore rispetto a quello del sole. Epicuro non poteva sorvolare su questo punto: la luna, in quanto astro, deve possedere del calore che, essendo poco forte, non disperde l’aria condensata, perché va solo a occludere i canali del corpo lunare attraverso i quali l’aria non potrebbe che fuoriuscire, appunto disperdendosi: per Aristotele il leggero calore della luna è la causa della maggiore frequenza dell’alone intorno a questo astro rispetto agli altri, per Epicuro è lo stesso calore lunare a provocare la formazione dell’alone, non impedendo il condensamento dell’aria (non potrebbe farlo, dato che non è così intenso). È del tutto evidente che quest’ultimo punto si regge solo grazie all’introduzione della nozione (prettamente atomista e materialista) dei pori che Aristotele, nel caso dell’alone, non considera affatto. § 111. Dopo lo studio dell’alone – che dischiude una nuova sezione del­ la lettera che torna ad analizzare quei fenomeni che noi chiameremmo più astronomici che stricto sensu meteorologici, senza per questo concludere in modo necessario che la lettera sia stata composta frettolosamente (cfr. Ru­ nia 2018: 409 n. 99) – Epicuro esamina le stelle comete. Il passaggio dall’ar­ cobaleno e dall’alone alle comete può apparire perfino stravagante e irrego­ lare a livello tematico (cfr. e.g. il giudizio di Bailey 1926: 318) ma ritengo che non sia necessariamente così; nel De mundo, per esempio, l’autore, do­ po aver trattato dell’alone si occupa della cosiddetta “stella filante” (395b 3: σέλας; per l’accezione di questo termine cfr. Reale-Bos 1995: 295 n. 166), ma anche, seppur assai brevemente, della cometa (395b 9: κομήτης). Il pa­ rallelo col De mundo potrebbe far ipotizzare che questo scritto e Pitocle di­ pendano o l’uno dall’altro o da una fonte comune (almeno relativamente ai fenomeni di cui qui si tratta e al loro ordine di indagine), forse di carat­ tere dossografico (sul ruolo della dossografia nel De mundo cfr. LucariniScermino 2018 e 2019; sulla relazione tra il De mundo e Lucrezio tornano ora Galzerano 2019: 309-322 e Ransome Johnson 2020: 178: «Like the Pseudo-Aristotelian On the Cosmos, which may have in part been a respon­ 235

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se to Epicurus’ Letter to Pythocles, Seneca’s Natural Questions is probably be­ st interpreted as a literary ‘riposte’ to Lucretius’ Epicureanism»). In ogni caso, va anche tenuto a mente che l’esame delle comete non era affatto disgiunto da quello dell’alone, come testimonia lucidamente Aristo­ tele nel I libro della Meteorologia, escludendo che le comete si formino per riflessione verso l’astro stesso (Meteor. I 7, 344b 12-18). Come che sia, Epicuro presenta tre diverse cause della formazione delle comete; secondo la prima esse avvengono in determinate circostanze (περιστάσεως) e in certi tempi (διὰ χρόνων τινῶν; è una non trascurabile precisazione, che informa come le stelle comete non siano un fenomeno così frequente: cfr. anche Aristot. Meteor. I 7, 344a 14) quando del fuoco rotea (συντρεφομένου) in alcuni luoghi del cielo. Non è perfettamente chiaro cosa Epicuro intenda col fuoco ma è probabile che intenda riferirsi a un agglomerato igneo in movimento nel cielo; d’altronde, la relazione tra le comete e il fuoco era alquanto assodata nella preesistente tradizione (per esempio in Senofane – cfr. Aët. Plac. III 2, 11, Dox. 367, M-R 1169 = 21 A 44 = III 8 D37 LM –, Anassagora – cfr. Diog. Laert. II 9 = 59 A 1 DK – e nello stesso Aristotele – cfr. Meteor. I 7, 344a 13-14, b 18-20). La seconda spiegazione richiama ancora tempi precisi (διὰ χρόνων) nei quali è possibi­ le che il cielo (da intendersi come l’intera volta celeste; si ricordi il κατὰ τὴν τοῦ ὅλου οὐρανοῦ δίνην del § 92) si muova su di noi (ὑπὲρ ἡμᾶς) di un certo movimento particolare (ἰδίαν τινὰ κίνησιν) così da rendere visibili tali astri. Secondo l’ultima causa descritta, le stelle comete si leverebbero per una qualche circostanza (διά τινα περίστασιν) – non ulteriormente specifi­ cata da Epicuro –, giungendo verso luoghi vicini a noi (εἰς τοὺς καθ’ ἡμᾶς τόπους) così da risultare visibili. L’esame delle comete si chiude con l’affermazione (che, a mio avviso, non va affatto eliminata, come propone Usener, che espunge l’intero te­ sto che va da ἢ αὐτὰ ἐν χρόνοις a αἰτίας: cfr. Bignone 1964: 139 n. 4; Bailey 1926: 319; Isnardi Parente 1983: 192 n. 2) per cui la scomparsa (ἀφάνισιν) delle comete dipende da cause opposte a quelle presentate (παρὰ τὰς ἀντικειμένας ταύταις αἰτίας). La precisazione non è affatto fuori luogo perché, se si bada con attenzione alle tre spiegazioni, solo la prima è relativa alla natura intrinseca delle stelle comete ricondotta a un fuoco che si rivolge nel cielo; le altre due cause, in ultima analisi, si limitano a spiegare esclusivamente le ragioni per le quali le stelle comete sono visibili (ἀναφανῆναι, ἐκφανῆ) a noi. Di conseguenza, asserire che le comete scom­ paiono dalla nostra vista per cause opposte a quelle descritte non è affatto ridondante, se si tiene conto che Epicuro non solo è ben consapevole del fatto che le comete sono un fenomeno particolarmente raro (cfr. Sen. NQ VII 3, 1 che afferma che l’esame dei percorsi delle comete è arduo propter 236

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raritatem eorum) o, comunque, temporaneo e transeunte (di qui il costante richiamarsi a tempi e circostanze opportuni e determinati) ma, soprattutto, sembra essere più interessato a spiegare la visibilità delle comete piuttosto che la loro natura. Le cause opposte saranno, dunque, la disgregazione dell’aggregato igneo, la cessazione o l’alterazione del moto particolare del cielo e, infine, il fatto che le comete, pur levandosi, non si dirigono verso zone a noi vicine (cfr. Bollack-Laks 1978: 282-283). § 112. In questo luogo della lettera Epicuro sembra continuare la tratta­ zione degli astri, occupandosi più nello specifico del loro movimento. Questa conclusione non è condivisa da tutti gli studiosi; segnalo, per limi­ tarsi a un solo esempio, l’esegesi fornita da Bollack-Laks (1978: 283-288) che, all’inizio del paragrafo, leggono, seguendo i codici, τινὰ ἀναστρέφεται αὐτοῦ al posto di τινὰ στρέφεται αὐτοῦ. La congettura ἄστρα στρέφεται è di Bailey, modulata sulla congettura ἄστρα στρέφεσθαι di Use­ ner; è, perciò, merito di Usener aver proposto la lectio ἄστρα. Bollack-Laks ritengono che il paragrafo si occupi del movimento del cielo, coerente­ mente con il precedente paragrafo sulle comete dove, come si ricorderà, si richiama proprio il movimento del cielo per spiegare la visibilità delle co­ mete. Secondo Bollack-Laks (1978: 284), quindi, τινὰ … αὐτοῦ si riferisce ad alcune parti del cielo; coerentemente con la loro interpretazione, la suc­ cessiva espressione καθάπερ τινές φασιν sarebbe un diretto riferimento ad Aristotele (Bollack-Laks 1978: 287), da cui Epicuro prenderebbe le distan­ ze, sostenendo che il cielo (ossia l’universo) non si muoverebbe esclusiva­ mente rispetto alla terra (τοῦτο) che rimane ferma, ma anche per via della dine, il vortice. Inoltre, i due studiosi (Bollack-Laks 1978: 285-286) escludo­ no che qui si possa nuovamente trattare della cinetica degli astri, dal mo­ mento che la questione è stata affrontata già nella sezione dedicata alle co­ mete. Non posso negare che questa interpretazione sia plausibile e che ri­ spetti la lettera dei codici, tuttavia continuo a ritenere che Usener abbia vi­ sto bene nel riferire la trattazione ancora agli ἄστρα; non bisogna dimenti­ care, infatti, che anche le sezioni successive della lettera, almeno fino alle ἐπισημασίαι (i pronostici) del § 115, sono consacrate allo studio degli astri. Perché, allora, inserire una interruzione nella trattazione degli ἄστρα per esaminare la rotazione del cielo che, d’altronde, è una questione della qua­ le Epicuro si era già occupato al § 92, dove si ritrova la menzione del vorti­ ce? Anche Von der Mühll (1922: ad loc.), scrivendo τινὰ ἀναστρέφεται ritiene che questa parte della lettera sia ancora riferibile agli astri. Se Bailey (1926: 319) era del parere che l’argomento fossero le stelle fis­ se, Bignone (1964: 140 n. 1) riteneva che il tema fosse quello delle costella­ zioni polari. Ambedue le esegesi mostrano una certa correttezza, tuttavia, 237

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mi pare che gli ἄστρα a cui Epicuro si richiama siano le cosiddette stelle fisse. Si tenga conto che poco più sotto, alla fine del § 112, il filosofo si oc­ cuperà degli astri erranti (tινὰ τῶν ἄστρων πλανᾶσθαι); l’idea che, dopo aver esaminato le comete, si sia voluto occupare prima degli astri fissi (che ruo­ tano su se stessi) e poi di quelli erranti, che noi chiamiamo usualmente pia­ neti, mi appare persuasiva (cfr. White 2021: 448 n. 98). Si rammenti, inol­ tre, che per Epicuro, così come per Aristotele, in particolare nel De caelo (cfr. Jori 2002: 461 n. 138), gli ἄστρα sono tanto le stelle quanto i pianeti. Di conseguenza, mi sembra che qui Epicuro voglia spiegare quali siano le cause del movimento degli astri, dal momento che, nel paragrafo prece­ dente, si era dedicato prevalentemente alle cause della visibilità delle come­ te; il problema del movimento delle stelle era stato parzialmente affrontato prima, relativamente alle comete, ma solo per spiegarne la visibilità. Gli astri che Epicuro investiga qui ruotano nello stesso luogo (στρέφεται αὐτοῦ; cfr. anche Diog. Oen. fr. 13, I 9-11 Smith), dunque si muovono su se stessi: questo è precisamente il fenomeno da spiegare. Occorre osservare, in prima istanza, che Aristotele ritiene che gli astri (i quali non hanno natura ignea: cfr. De cael. II 7, 289a 19-35), pur essendo corpi sferici, non possiedono né il movimento di rotolamento (κύλισις) né quello di rotazione (δίνησις). Nel capitolo VIII del II libro del De caelo (290a 7-13) Aristotele asseriva che se gli astri ruotassero, dovrebbero rimanere nello stesso punto e, pertanto, non dovrebbero cambiare luogo, il che è impossi­ bile (Δινούμενα μὲν γὰρ ἂν ἔμενεν ἐν ταὐτῷ καὶ οὐ μετέβαλλε τὸν τόπον, ὅπερ φαίνεταί τε καὶ πάντες φασίν). Epicuro, ammettendo che alcuni degli astri si muovono, rigirando su se stessi, si discosta da Aristotele. Chi, invece, aveva ammesso che alcuni astri (non erranti: ἀπλανῆ τῶν ἄστρων) si muovono di un movimento uniforme nello stesso luogo (κατὰ ταὐτὰ ἐν ταὐτῷ στρεφόμενα ἀεὶ μένει; sottolineatura mia: si noti che è lo stesso verbo usato da Epicuro) era Platone nel Timeo (40b; cfr. Isnardi Parente 1983: 193 n. 1). Questi astri sono le stelle fisse che solo apparentemente sono immobili: in realtà, si muovono con la volta del cielo, come del resto pensa anche Aristotele, per cui le stelle fisse non hanno movimento proprio ma sono, appunto, “incastonate” sulla sfera in movimento (cfr. Fronterotta 2003: 222 n. 145 e Jori 2003: 52-53). Tornando a Pitocle, Epicuro fornisce due spiegazioni del movimento di rotazione su se stessi di tali astri: secondo la prima, questi astri si muovono su di sé, per così dire, per differentiam, rispetto a questa parte del cielo (τὸ μέρος τοῦτο τοῦ κόσμου) che è in quiete, intorno alla quale ruota il resto (del cielo: cfr. Bailey 1926: 320). Questa sarebbe la posizione di alcuni (καθάπερ τινές φασιν: Epicuro non esplicita di chi si tratti) che, per l’appunto, “inferiscono” il movimento di rotazione di queste stelle dalla 238

La realtà del possibile

fissità di quella parte del cielo che rimane immobile; a me pare che abbia­ no ragione Bollack-Laks (cfr. supra: 237) nello scorgere dietro a questa espressione un riferimento alla terra. Se ciò è corretto, nei tines menzionati da Epicuro potrebbero riconoscersi Platone ma, forse, soprattutto Aristote­ le (o perfino entrambi; del resto è assai probabile la frequentazione del Timeo e del De caelo da parte di Epicuro per esempio nel XIV libro del Peri physeos: cfr. Verde 2010c). Platone, come abbiamo visto, attribuiva alle stelle fisse un movimento di rotazione su se stesso nello stesso luogo (che Aristotele rifiutava); questi astri sono immobili solo apparentemente ma si muovono lungo la traiettoria del cerchio dell’identico, dunque col movimento della volta celeste che verosimilmente si muove rispetto a qualcosa di fermo che è la terra posta al centro dell’universo (cfr. e.g. Brisson 1998: 40-41). Aristotele, dal canto suo, aveva negato che gli astri fossero dotati di movimento rotatorio (anzi, essi non sono dotati di alcun movimento autonomo), sostenendo che «sono i cerchi a muoversi, mentre gli astri sono in quiete e si muovono in quanto sono infissi nei cerchi» (De cael. II 8, 289b 32-33: λείπεται τοὺς μὲν κύκλους κινεῖσθαι, τὰ δὲ ἄστρα ἠρεμεῖν καὶ ἐνδεδεμένα τοῖς κύκλοις φέρεσθαι; trad. Jori, leggermente mo­ dificata). Per raggiungere questa conclusione, tuttavia, Aristotele doveva necessariamente fissare un punto fermo e immobile, ovvero la terra: «Ma l’immobilità della terra va ammessa come presupposto» (De cael. II 8, 289b 5-6: Τὴν δὲ γῆν ὑποκείσθω ἠρεμεῖν; trad. Jori). Pertanto, pur asserendo che gli astri non hanno movimento proprio ma si muovono perché la sfera del cielo e quindi i cieli sono in movimento, Aristotele non poteva non tenere conto della quiete della terra che, per l’appunto, andava necessariamente presupposta. Ritengo che probabilmente Epicuro fosse a conoscenza di questo punto e ne tenesse conto; una prova è che egli non poteva escludere che il movimento degli astri su di sé fosse inferibile dall’immobilità della terra attorno alla quale il cielo gira (senza contare che proprio il tema della mone della terra era centrale nel libro XI del Peri physeos: cfr. supra: 60-61). Si vede bene come la cosmologia di Epicuro, in ultima analisi, non si allontana troppo, almeno in questo caso, da quella platonico-aristotelica. Malgrado questo, quella che mi sembra la novità epicurea risiede piutto­ sto nella seconda spiegazione della rotazione degli astri; Epicuro, come se­ conda causa di questo fenomeno, presenta la possibilità che attorno agli astri abbia luogo un vortice circolare di aria (δίνην ἀέρος ἔγκυκλον) – una dottrina riconducibile agli Atomisti più antichi, come abbiamo già visto (cfr. supra: 159-160) –, capace di impedirne il movimento locale, trattenen­ do questi astri nel loro luogo, differentemente dagli altri astri (ὡς καὶ τὰ ἄλλα). Credo che questa espressione si riferisca agli altri astri che, invece, si muovono localmente lungo una traiettoria orbitale; si tratta di un indizio 239

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importante del fatto che Usener aveva con ogni verosimiglianza colto nel segno nell’individuare nel tema delle stelle fisse l’argomento del § 112 del­ la lettera. La terza spiegazione fa riferimento all’assenza di “nutrimento astrale” (una questione già ampiamente toccata in precedenza: cfr. supra: 178): le stelle non avrebbero ragione per muoversi localmente perché nelle altre sezioni di cielo non si riscontrerebbe l’esistenza di materia a loro adatta (αὐτοῖς ὕλην ἐπιτηδείαν) che, invece, sarebbe presente esattamente nel luogo occupato. La hyle di cui qui si parla può essere compresa come “nutrimento” utile e necessario al “sostentamento” del corpo di questi astri. Il paragrafo si chiude con una formula ormai consueta, nella quale Epicuro ribadisce che le cause della quiete di questa tipologia di astri pos­ sono essere molteplici (κατ’ ἄλλους δὲ πλείονας τρόπους), a patto che, nei ragionamenti, si tenga in considerazione il basilare criterio dell’accordo con i fenomeni (τὸ σύμφωνον τοῖς φαινομένοις συλλογίζεσθαι). Si tratta na­ turalmente dei fenomeni che avvengono presso di noi, la cui generazione è da parte nostra direttamente controllabile a livello empirico. §§ 112-113. Dopo aver esaminato le stelle fisse, l’analisi degli astri si con­ centra su quelli chiamati “erranti” (τινὰ τῶν ἄστρων πλανᾶσθαι; per questa definizione cfr. Plat. Tim. 38c e Leg. VII 821b-822c) ossia i pianeti che, per l’appunto, sono dotati, per dirla con Aristotele, di movimento locale lungo una certa traiettoria. L’espressione τινὰ δὲ μὴ κινεῖσθαι , ampiamen­ te discussa dai diversi editori del testo (su cui cfr. Bollack-Laks 1978: 289-290), potrebbe essere una spia del cambio di argomento rispetto al pa­ ragrafo precedente. Non v’è dubbio che qui Epicuro intenda investigare gli astri erranti: il loro movimento può essere uniforme e regolare oppure no. In questo secondo caso, il problema (già tradizionale ai tempi di Epicuro) è quello del movimento retrogrado di alcuni astri, di cui si tratterà nell’epi­ stola al § 114 (cfr. Bowen 2013: 241-244). Alcuni astri, dunque, sono erran­ ti, perché dotati di movimento regolare oppure anomalo, mentre altri, co­ me le stelle fisse, non possiedono il moto locale ma si muovono ruotando su se stesse, come già si è visto. La prima spiegazione del movimento dei pianeti che viene presentata fa riferimento al movimento originario (ἐξ ἀρχῆς) di natura circolare che ha condizionato in termini di necessità (κατηναγκάσθαι) la traiettoria di tali astri. Il contenuto e il linguaggio di queste linee non possono non ricordare il § 92, dove si parlava tanto del vortice del cielo quanto del vortice dei singoli astri e della necessità originaria (cfr. supra: 176-178). Stando alla lettera del testo, come già Bailey (1926: 320) suggeriva, non sembra esserci alcun riferimento al movimento circolare dell’intera volta celeste: Epicuro si limita a dire che la (prima) causa del movimento degli astri erranti è il moto lungo 240

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un’orbita circolare (questo mi pare essere il significato del vortice richiamato in questo paragrafo così come al § 92) che possiedono sin dal principio dell’universo: tale movimento vorticoso/circolare può essere regolare (κατὰ τὴν αὐτὴν δῖναν…ὁμαλήν) oppure può possedere delle anomalie, ovvero delle irregolarità (τὰ δὲ κατὰ τὴν ἅμα τισὶν ἀνωμαλίαις χρωμένην). Se la prima spiegazione invocava l’intrinseco e originario moto circolare (regolare o anomalo) degli astri erranti, la seconda chiama in causa corren­ ti o, come suggerisce Bailey (1926: 321), tratti o, preferibilmente, estensio­ ni, banchi di aria (παρεκτάσεις ἀέρος) capaci di far spostare gli astri nella medesima direzione verso la quale già si muovono; è molto probabile che Epicuro richiami qui l’idea per cui gli astri si muovono perché alla ricerca di nutrimento, una motivazione che si incontra nella lettera in più di un’occasione. Tali παρεκτάσεις ἀέρος, pertanto, sono presentate come con­ cause o cause ulteriori del movimento degli astri erranti che, già di per sé, sono dotati di movimento: ci si potrebbe chiedere, allora, che tipo di spie­ gazione sia questa che, in fondo, non illustra le ragioni cinetiche di questi astri. In realtà, Epicuro menziona le παρεκτάσεις ἀέρος non tanto per spie­ gare il movimento (anche se, almeno parzialmente, lo spiegano, dato che si dice esplicitamente che le παρεκτάσεις muovono gli astri nella stessa dire­ zione verso la quale già di per sé si muovono) ma per altri due motivi del tutto decisivi: senza le παρεκτάσεις ἀέρος non solo non si potrebbe spiegare l’infiammarsi (ἐκκαούσας) di questi astri (si tenga conto che già nel caso delle stelle comete al § 111 era stato menzionato il ruolo del fuoco: cfr. su­ pra: 236), ma non sarebbe possibile nemmeno differenziare il movimento regolare di alcuni astri da quello irregolare. Le παρεκτάσεις ἀέρος, se rego­ lari (ὁμαλεῖς), condizioneranno il moto regolare degli astri; se anomale (ἀνωμαλεῖς), ne determineranno il movimento irregolare, provocando quelle variazioni/alterazioni che possiamo osservare empiricamente (τὰς θεωρουμένας παραλλαγάς; su quest’ultimo termine cfr. il κατὰ παραλλαγήν del § 95, dunque supra: 185). Si osserva con facilità quanto sia importante il ruolo delle παρεκτάσεις ἀέρος in questa spiegazione, soprattutto per legitti­ mare tanto la regolarità quanto l’irregolarità del moto degli astri erranti. Una precisazione, infine, sul rapporto tra aria e fuoco: Epicuro ha affermato esplicitamente che tali παρεκτάσεις ἀέρος sono responsabili del­ l’infiammarsi degli astri. Come già in altri casi presi in considerazione, è arduo non rintracciare qui una polemica più o meno sottesa con Aristote­ le. Occupandosi della natura degli astri nel II libro del De caelo, Aristotele, avendo sostenuto che gli astri sono costituiti da etere (come del resto anche le sfere), afferma che proprio per questo (cfr. Jori 2002: 461 n. 136) essi non si infiammano «mentre l’aria che si trova sotto la sfera del corpo che si muove di moto circolare necessariamente si riscalderà, a causa del moto 241

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di tale sfera, e questo soprattutto nel punto in cui si trova infisso il sole» (De cael. II 8, 289a 29-32; trad. Jori). Senza scendere nei dettagli di questo testo e lasciando da parte le numerose difficoltà teoriche che esso pone, Aristotele, a differenza di Epicuro, nega che gli astri si infiammino perché evidentemente non sono formati da materia ignea o infiammabile (come sembra essere, invece, il caso di Epicuro, dal momento che si dice che le παρεκτάσεις ἀέρος bruciano gli astri erranti); in Aristotele, quindi, non bruciano né l’astro né la sfera ma l’aria sottostante che prende fuoco per via dell’attrito delle sfere. Non può non risultare significativo che già Ari­ stotele aveva messo in relazione il movimento degli astri con l’aria e con la questione del fuoco; sono del parere che, con ogni probabilità, Epicuro conoscesse la posizione aristotelica che, come spesso è suo costume fare, modifica e critica: gli astri, in Epicuro, bruciano e a ciò contribuiscono le estensioni di aria che, inoltre, ricoprono anche la funzione di spinta degli astri nella medesima direzione verso la quale già si muovono. Il paragrafo si chiude con una sezione di particolare interesse nella quale Epicuro non solo mette in guardia dall’assegnare una sola spiegazione ai fe­ nomeni appena investigati (il che non è una novità nella lettera ma è signi­ ficativo che Lucrezio – V 614-620 – ribadisca con insistenza lo stesso pun­ to), laddove sono i fenomeni stessi a reclamare più spiegazioni, ma pole­ mizza drasticamente anche contro l’astrologia. Naturalmente ciò non è af­ fatto casuale. Si ricorderà che già al § 93 (cfr. supra: 180-181) Epicuro aveva fermamente criticato le artificiose macchinazioni degli astronomi, ovvero gli organa utilizzati per lo studio dei movimenti degli astri (in particolare dei moti tropici del sole e della luna); anche al § 113 si parla nuovamente di moti astrali e torna qui il rifiuto dell’astrologia. Con questo termine, ov­ viamente, non si deve intendere tanto l’astrologia come scienza quanto la teologia astrale (cfr. Bailey 1926: 321), secondo la quale, per essere estrema­ mente sintetici, i pianeti e gli astri sono enti divini a tutti gli effetti (cfr. anche supra: 158): di qui la loro perfezione e la loro uniforme regolarità nella quale si risolve anche il problema del moto retrogrado che Epicuro affronterà subito dopo. La considerazione della piena divinità degli astri (strettamente connessa, soprattutto nella tradizione platonica, alla dottrina dell’anima del mondo che garantisce e tutela la massima razionalità possi­ bile – almeno nei termini del Timeo – dell’universo) è la base della teologia astrale convintamente professata dalla scuola di Platone (ma anche da Ari­ stotele, pur senza alcun ricorso all’anima del mondo: cfr. solo e.g. De cael. II 12, 292a 18-21 e anche Cic. ND II 15, 42-16, 44 = 21 Ross = 32 Unterstei­ ner = 835-836 Gigon [Fragmente ohne Buchangabe] con Aubenque 2005: 335-355 e Babut 2019: 137): i movimenti degli astri, infatti, per un verso, comunicano la volontà degli dei, per un altro, influenzano, più o meno di­ 242

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rettamente (cfr., in merito, almeno Long 2006a), il destino dei viventi. Di tutto questo non c’è alcuna traccia in Pitocle; l’astrologia è definita inutile, vana (τὴν ματαίαν ἀστρολογίαν) esclusivamente perché non si presenta co­ me scienza rigorosa. L’ἀστρολογία di cui qui si tratta rende ragione di alcu­ ni fenomeni riconducendoli a cause che vanno a vuoto (εἰς τὸ κενὸν αἰτίας τινῶν ἀποδιδόντων), dunque, in ultima analisi, a non cause, perché non supportate e garantite da un fermo e solido metodo scientifico. Epicuro, come egli stesso chiarisce subito dopo, pensa naturalmente a quel perverso studio dei fenomeni astrali che riporta questi ultimi a essere mere conse­ guenze della causalità e della volontà divine. Così facendo, i seguaci di que­ sta pseudoscienza non liberano la divinità (τὴν θείαν φύσιν; Boer 1954: 11b segnala che la medesima espressione si rintraccia in De mundo, 392a 31 e 398b 20; in ogni caso, pace Podolak 2010: 71, θεία φύσις appare un nesso genuinamente epicureo soprattutto sulla base del confronto con Polieno – Philod. Piet. col. XXXVIII 1092-1099 Obbink = 29 Tepedino Guerra – e, poi, con Diogene di Enoanda: Theol XIII = fr. 20, II 12 HammerstaedtSmith) da attività tanto impegnative (λειτουργιῶν) come il causare di conti­ nuo i meteora (cfr. su questo punto e, in particolare, sul valore causale di ὅταν Bakker 2018: 61-62). L’esito di ciò è quanto meno duplice: costoro, da un lato, inquinano la solenne regalità della theia physis attribuendole una laboriosità di cui essa è, in realtà, assolutamente esente, dall’altro, ritengo­ no di fare scienza senza alcun metodo davvero scientifico, invocando come cause le divinità, che non hanno nulla a che vedere né con l’ordine né col disordine della physis (la distanza dalla “sezione teologica” della Meteorolo­ gia siriaco-araba è nettissima: cfr. supra: 102). In breve, i propugnatori di questa dottrina impiegano nella loro attività due concetti, agli occhi di Epi­ curo, completamente mistificati: quello di scienza e quello di divinità. § 114. Il tema affrontato da questo paragrafo è uno degli argomenti cen­ trali dell’astronomia antica, ovvero il cosiddetto moto retrogrado dei pia­ neti, per usare un’espressione moderna. Proprio in virtù di questo moto che faceva apparire irregolare la traiettoria di alcuni pianeti, gli astri si dice­ vano “erranti” (ἄστρα πλανητά; cfr. ancora Plat. Tim. 38c-39a e Leg. VII 821b-822c). Il moto retrogrado dei pianeti è stato affrontato nell’antichità in diversi modi e da diverse prospettive, il più delle volte offrendo soluzio­ ni anche molto complesse e ingegnose (il riferimento principale è, natural­ mente, alla teoria degli epicicli e deferenti: cfr., per un primo orientamen­ to, Brunet 1959: 69-71 e Lloyd 1978: 199-222) volte a mostrare come tale movimento retrogrado fosse solo apparente al fine di salvaguardare la rego­ larità e, pertanto, la razionalità della cinetica astrale (cfr. e.g. Plat. Tim. 38d-39a e, in particolare, Leg. VII 822a). Anche Epicuro (ma cfr. anche Lu­ cret. V 614-649) non fa eccezione e si inscrive de facto nella medesima tradi­ 243

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zione astronomica, dedicando una sezione della lettera a questo tema natu­ ralmente senza alcuna finalità teo-teleologica tesa a salvaguardare l’ordine divino dell’universo. Epicuro parte dall’osservazione empirica (θεωρεῖσθαι): alcuni astri si vedono restare indietro rispetto ad altri, pur percorrendo la medesima orbita. La prima causa di questo fenomeno fa appello alla diversa velocità degli astri che, pertanto, non possiedono la stessa velocità uniforme: pur percorrendo la stessa orbita, alcuni astri sono più lenti di altri e resteranno indietro rispetto a quelli più rapidi (cfr. la testimonianza su Democrito circa le diverse velocità degli astri riportata e accolta da Lucret. V 621-624 = 68 A 88 DK = VII 27 D105 LM; cfr., in merito, l’importante testimonianza di Diog. Oen. fr. 13, I 11-II 12 Smith). La seconda causa del ritardo di alcuni astri su altri è più articolata: è possibile che questi procedano in di­ rezione contraria (παρὰ τὸ τὴν ἐναντίαν κινεῖσθαι; sulla questione si vedano Aristot. Metaph. Λ 8, 1074a 2-3; De cael. II 2, 285b 30-3, 286a 4 e Theophr. Metaph. 5a 16), venendo sospinti in maniera opposta dallo stesso vortice (ὑπὸ τῆς αὐτῆς δίνης). La comprensione di questa seconda spiegazione è controversa e non è affatto immediata; ritengo che l’interpretazione di Bollack-Laks (1978: 295) sia quella più plausibile. In primo luogo, sono del parere che tra τὸν αὐτὸν κύκλον e ὑπὸ τῆς αὐτῆς δίνης non vi sia affatto identità: la prima espressione indica la traiettoria circolare (in una parola, l’orbita) percorsa dagli astri, mentre la seconda indica il movimento di rotazione dell’intera volta celeste. Epicuro sostiene, quindi, che è possibile che un astro si muova in direzione opposta rispetto a un altro astro: questo movimento “retrogrado” viene spiegato chiamando in causa due forze rotatorie opposte: la prima è quella appartenente all’astro, la seconda è quella della volta celeste (che naturalmente è valida per ogni astro). Que­ st’ultima può opporsi al movimento rotatorio (o vorticoso, nel vocabolario epicureo) proprio dell’astro, facendolo muovere in senso contrario rispetto alla direzione del proprio movimento “originario” (cfr. anche Lucret. V 621-636). Il ritardo dipende così dall’azione di due forze opposte che non può che rallentare il corso dell’astro. Con questa spiegazione mi pare che Epicuro getti luce su almeno due questioni: non solo sul ritardo di alcuni astri rispetto ad altri (che è l’argomento principale di questo paragrafo), ma anche sullo stesso moto retrogrado di alcuni pianeti. La terza spiegazione, infine, non riguarda né la velocità degli astri, né l’opposizione tra il moto rotatorio dell’astro e quello (più potente) della volta celeste, ma lo spazio percorso. Alcuni astri, pur muovendosi per via dell’uniforme moto rotatorio della volta celeste (l’espressione τὴν αὐτὴν δῖναν mi sembra richiamare direttamente quella precedente ὑπὸ τῆς αὐτῆς δίνης) che vale per tutti gli astri, coprono 244

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distanze diverse: le orbite degli astri non sono tutte uguali (cfr. Diog. Oen. Theol XV = NF 182 II 9-10 Hammerstaedt-Smith), di conseguenza il ritardo nel moto può dipendere anche dall’ampiezza della traiettoria e dello spazio percorsi (cfr. Bollack-Laks 1978: 296). Il paragrafo si chiude ribadendo che rendere ragione del fenomeno del ritardo dei moti astrali in modo semplice (ἁπλῶς) ovvero univoco, appellandosi al monachos tropos, è proprio non di chi investiga la natura in termini scientifici ma di chi vuole stupire e meravigliare i polloi. Quest’ultimo punto è particolarmente interessante: esso mostra come l’atteggiamento filosofico e scientifico di Epicuro si collochi su un versante decisamente opposto a quello della consolidata tradizione popolare e dei polloi, evidentemente non sempre interessati all’investigazione seria e rigorosa dei meteora. §§ 114-115. L’ultimo fenomeno riguardante gli astri che Epicuro consi­ dera è quello delle cosiddette stelle cadenti (οἱ λεγόμενοι ἀστέρες ἐκπίπτειν) o, come suggeriscono Bollack-Laks (1978: 105 e 297-298), “stelle filanti”, ossia astri che, lungo la traiettoria percorsa, lasciano una scia, una traccia, «une projection de fragments» (Bollack-Laks 1978: 297). Parlando di λεγόμενοι ἀστέρες Epicuro è perfettamente consapevole di usare un’espres­ sione che si adopera tradizionalmente per indicare una serie di fenomeni che non necessariamente hanno a che fare direttamente con gli astri; è in­ teressante che anche in Aristotele si ritrova un simile accorgimento pro­ prio nel caso delle stelle cadenti (cfr. Meteor. I 4, 341b 34-35: οἱ δοκοῦντες ἀστέρες διάττειν γίγνονται; sottolineatura mia). La prima spiegazione del fenomeno è introdotta da καὶ παρὰ μέρος, traducibile con “anche in parte”; questa espressione (inspiegabilmente non tradotta da Isnardi Parente 1983: 194) è stata intesa nel senso di “in certi casi” con un riferimento a casi specifici e individuali, nei quali il fenomeno in esame avrebbe luogo secondo la spiegazione proposta immediatamente dopo (cfr. Bignone 1964: 141, Bailey 1926: 321 e Boer 1954: 12 b). Non mi pare, tuttavia, che questa interpretazione sia granché persuasiva: per quale motivo Epicuro avrebbe avuto il bisogno di richiamare presunti casi specifici e individuali? Del tutto diversa l’esegesi di παρὰ μέρος di BollackLaks 1978: 298-299; secondo questi studiosi (che lo traducono con «et par morceaux»: 105) il riferimento sarebbe alle parti materiali dell’astro che questi perderebbe per frammentazione lungo la sua traiettoria (un passo che supporta questa esegesi è Aristot. Meteor. I 4, 341b 32-35, dove, per l’ap­ punto, si parla di mere dell’esalazione che, frantumandosi, si disperdono in varie direzioni, dando luogo a quelle che sono credute – dokountes – stelle cadenti – asteres…diattein). Di conseguenza, καὶ παρὰ μέρος è strettamente collegato al precedente ἐκπίπτειν, specificando di quale tipo di astro si sta parlando (di qui la resa di Bollack-Laks 1978: 105 «Pour les astres que l’on 245

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dit être projetés, et par morceaux…»). Questa ingegnosa interpretazione mi sembra avere alcuni tratti di plausibilità, soprattutto se si constata l’uso continuato della formula καὶ παρά all’inizio della trattazione di questi astri, il che non può essere fortuito (καὶ παρὰ μέρος καὶ παρὰ τρῖψιν νεφῶν δύνανται συντελεῖσθαι καὶ παρὰ ἔκπτωσιν; sottolineature mie): καὶ παρά sembrerebbe introdurre le diverse cause del fenomeno in esame. Stando alla costruzione del testo e mantenendo una cospicua dose di prudenza, si potrebbe perfino andare oltre l’esegesi di Bollack e di Laks: καὶ παρὰ μέρος potrebbe essere la prima spiegazione delle stelle che si dicono cadere (ἐκπίπτειν). È possibile, infatti, che questi astri cadano παρὰ μέρος, alla lettera, per parte, ossia, interpretando, per la semplice frammentazione di (alcune) parti del corpo astrale, parti che giustificherebbero la scia di questi astri. Ciononostante, ritenere che παρὰ μέρος introduca la prima delle spiegazioni del fenomeno è davvero poco convincente, così come risulta poco persuasivo, in ultima analisi, che παρὰ μέρος si riferisca al processo di frammentazione descritto dalla prima spiegazione introdotta da παρὰ τρῖψιν. Se si consulta il LSJ: 1104, παρὰ μέρος può voler significare in turn, by turns; traducendo παρὰ μέρος semplicemente con “in parte”, Epicuro sosterrebbe che gli astri che si dicono cadere possono formarsi sia παρὰ τρῖψιν sia παρὰ ἔκπτωσιν. Ma perché Epicuro aggiunge proprio qui παρὰ μέρος? Come vedremo a breve, le due spiegazioni che seguono coincido­ no con quelle del lampo, come lo stesso Epicuro osserva; come nel caso del lampo, le due spiegazioni non possono produrre il fenomeno delle cosiddette stelle cadenti nello stesso tempo. Le due cause introdotte da καὶ παρά sono considerate insieme perché sono le stesse cause del lampo; Epicuro aggiunge παρὰ μέρος perché esse non possono che essere, per così dire, alternative, ovvero non agiscono nello stesso tempo. Ciò mi spinge a rifiutare la posizione di Bailey (1926: 323) per cui la spiegazione παρὰ τρῖψιν e quella παρὰ ἔκπτωσιν sarebbero due step di una medesima causa. La prima spiegazione pone ulteriori problemi; Epicuro chiama in causa lo sfregamento/attrito (παρὰ τρίψιν): la difficoltà consiste nel capire di cosa. I codici dopo παρὰ τρίψιν hanno ἑαυτῶν (stampato, per esempio, da Bailey, Boer, Bollack-Laks e Dorandi) mentre Usener propose di leggere νεφῶν al posto di ἑαυτῶν. Più nel dettaglio, Usener leggeva κατὰ παράτριψιν al posto di παρὰ τρίψιν: καὶ παρὰ μέρος κατὰ παράτριψιν; così facendo, il pre­ cedente παρὰ μέρος non destava particolari difficoltà esegetiche e poteva tranquillamente essere tradotto con “in parte” (vel similia), dato che, subito dopo, si leggeva κατὰ παράτριψιν e non παρὰ τρίψιν (che, come abbiamo visto, se si accetta il testo dei codici, non può non richiamare tanto il precedente παρὰ μέρος quanto il successivo παρὰ ἔκπτωσιν). Si aggiunga 246

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anche la proposta di Bignone (cfr. Id. 1964: 141 n. 7) di leggere ἄστρων. La lettura di Usener è stata accolta da Arrighetti (cfr. Id. 1973: 534 per alcune note di commento) e anche da Isnardi Parente. Mantenendo la consueta cautela, ritengo che la correzione di Usener sia molto plausibile soprattutto per ciò che concerne νεφῶν; non ritengo, però, così necessario leggere con Usener κατὰ παράτριψιν. Per questo moti­ vo è preferibile mantenere nel testo καὶ παρὰ τρῖψιν dei codici. La lettura di Usener κατὰ παράτριψιν νεφῶν, in ogni caso, conserva una sua specifica sensatezza. Le ragioni di ciò sono molteplici ma una è quella più cogente delle altre. È Epicuro medesimo, nell’unico richiamo interno presente in Pitocle (il che è un indizio importante del fatto che l’autore della lettera fos­ se ben consapevole della struttura a suo modo ordinata del testo), a men­ zionare la precedente trattazione del lampo (καθάπερ καὶ ἐπὶ τῶν ἀστραπῶν ἐλέγομεν) che cade al § 101 (cfr. supra: 199 ss.). Lì si diceva che una delle cause della generazione del lampo è lo sfregamento e la collisione delle nu­ bi (κατὰ παράτριψιν καὶ σύγκρουσιν νεφῶν) e non degli astri, per questo è arduo accettare tanto lo ἑαυτῶν dei codici quanto lo ἄστρων di Bignone. È, quindi, proprio seguendo il rinvio interno dello stesso Epicuro che si può comprendere la ragione principale della lettura di Usener κατὰ παράτριψιν νεφῶν. In breve: dal momento che è lo stesso Epicuro a richiamare il fenomeno del lampo, è assai difficile condividere le ragioni che portano alcuni editori a riferire agli astri lo sfregamento. Se interpreto bene il punto, Epicuro sta dicendo che il cosiddetto fenomeno delle stelle cadenti – rammento che sotto questa dizione generale e tradizionale Epicuro colloca più fenomeni non direttamente connessi agli astri – può avvenire secondo le stesse cause del lampo, ovvero per sfregamento/attrito delle nubi e per una caduta di fuoco che si trasformi in vento (è interessante avere presente la parallela trattazione aristotelica, per cui le cosiddette stelle cadenti derivano dall’ac­ censione dell’esalazione secca: cfr. Meteor. I 4, 341b 35-342a 20). Come si vede chiaramente, queste spiegazioni non riguardano direttamente gli astri, il che non stupisce: Epicuro sembra voler affermare che il cosiddetto fenomeno delle stelle cadenti può avere le stesse cause del lampo e, benché ciò non sia detto esplicitamente, può in qualche modo confondersi con esso. Le cosiddette stelle cadenti sono fenomeni che possono condividere le stesse cause del lampo: quando ciò accade potremmo pensare che si tratti del fenomeno delle stelle cadenti ma non è così: si tratta, infatti, del lampo. Esaminando questa spiegazione e tenendo conto del fatto che né la causa παρὰ τρῖψιν né quella παρὰ ἔκπτωσιν riguardano gli astri si comprende quanto sia cruciale il precedente λεγόμενοι: le cosiddette stelle cadenti concernono più meteora, alcuni dei quali sono identici ad altri 247

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meteora (come il lampo) e non interessano minimamente gli astri veri e propri. Ancora relativamente alla prima spiegazione, occorre, a mio avviso, tenere conto di un testo che non mi pare sia stato granché considerato dalla critica. Abbiamo già visto come anche nello pseudoaristotelico De mundo era affrontato il tema delle “stelle filanti” (395b 3: σέλας; cfr. supra: 235-236), diversificate tra quelle che sfrecciano nel cielo e quelle che resta­ no fisse. Quelle che si muovono rapidamente nel cielo sono un’accensione di fuoco derivante dallo sfregamento nell’aria (ἐκ παρατρίψεως ἐν ἀέρι); il termine paratripsis è, mutatis mutandis, quello che si ritrova in Pitocle; anche nel De mundo lo sfregamento avviene nell’aria: è vero che non si fa parola delle nubi ma è certo che tale paratripsis non avvenga tra astri, il che conferma ulteriormente la bontà della lettura di Usener. Si aggiunga, infine, un passo senecano (NQ I 1, 6), dove si tratta di sottili meteore infuocate che lasciano un’esile traccia nel cielo; desta interesse non solo il fatto che Seneca connetta l’origine di questo fenomeno alle stesse leggi che regolano i fulmini e i lampi, ma soprattutto il fatto che menzioni la collisione tra nubi (nubes collisae mediocriter). La terza spiegazione del meteoron delle stelle cadenti riguarda un com­ posto formato di atomi capaci di produrre fuoco (κατὰ σύνοδον δὲ ἀτόμων πυρὸς ἀποτελεστικῶν); questi atomi, aggiunge Epicuro, possiedono una certa affinità nel provocare questo fenomeno. Anche nel caso della presen­ te spiegazione si nota una precisa somiglianza (anche se non identità) con la prima causa del fenomeno delle comete del § 111 (cfr. supra: 236), dove Epicuro menzionava del fuoco roteante in alcune zone del cielo. Mi pare che con il successivo καὶ κατὰ κίνησιν Epicuro non introduca una nuova causa del meteoron in esame ma, per così dire, una causa accessoria utile a spiegare la direzione cinetica dell’aggregato atomico infuocato (cfr. Bailey 1926: 324). Da quanto si evince dal testo, l’aggregato si muoverà verso una ben determinata direzione che coincide con quell’impulso (evidentemente a muoversi) assunto dall’aggregato medesimo nel momento della sua for­ mazione (ἡ ὁρμὴ ἐξ ἀρχῆς). In questo modo Epicuro illustra il perché le co­ siddette stelle cadenti si muovono in una certa direzione: non vi è alcuna causa esterna di ciò ma è la struttura atomica stessa a muoversi verso la me­ desima direzione assunta al momento dell’aggregazione. L’ultima causa concerne la raccolta di venti (κατὰ πνευμάτων δὲ συλλογήν) in masse compatte di natura nebulosa (ἐν πυκνώμασίν τισιν ὀμιχλοειδέσι; per il significato di pyknoma cfr. l’espressione τὸ ἑξῆς πύκνωμα di Hrdt. 50, su cui cfr. Verde 2016c); questi venti possono infiam­ marsi (ἐκπύρωσιν) per via del loro avvolgimento (διὰ τὴν κατείλησιν). Tale kateilesis fa sì che successivamente il fuoco fuoriesca (εἶτ’ ἐπέκρηξιν) da 248

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questi addensamenti nebulosi, dirigendosi, come abbiamo già visto nella precedente spiegazione, verso dove si è formata la ὁρμὴ τῆς φορᾶς, l’impul­ so al movimento. Segnalo, in conclusione, che il tema della direzione del moto delle stelle cadenti era stato affrontato da Aristotele ancora nel IV capitolo del I libro della Meteorologia (342a 16-27), raggiungendo la conclusione che il moto delle stelle cadenti è nella maggior parte dei casi obliquo (ἡ πλείστη λοξὴ γίγνεται φορά; cfr., per la medesima conclusione, anche Sen. NQ I 1, 1 e 5. Si veda anche Diog. Oen. fr. 13, I 7-9 Smith, che attribuisce al sole e alla luna un moto obliquo/λοξόν; cfr. anche Theol XV = NF 182 II 11-14 Hammerstaedt-Smith). Da questa analisi si evince come il fenomeno delle cosiddette stelle ca­ denti è, nel nostro linguaggio, più un fenomeno stricto sensu meteorologico che celeste, avendo poco a che vedere direttamente con gli astri. Epicuro si colloca grosso modo in quella tradizione testimoniata da Seneca in un passo già citato del I libro delle Naturales Quaestiones (I 1, 6), nel quale le meteore infuocate sono ricondotte alle medesime cause (ma meno intense) che determinano i fulmini. §§ 115-116. L’ultimo meteoron affrontato in Pitocle, in realtà, non è una novità, dal momento che Epicuro se ne era già occupato in precedenza ai §§ 98-99: si tratta delle ἐπισημασίαι, i pronostici del tempo. Questi non so­ no esaminati in termini generali ma Epicuro si concentra nello specifico sui pronostici offerti dagli animali (ἐπί τισι ζῴοις). Francamente in questo paragrafo di chiusura non vedo nulla di ironico (come vuole Bailey 1926: 325) e nemmeno una prova del presunto disordine relativo agli argomenti affrontati nell’epistola, che pure è stato definito essere «un dato oggettivo» (Podolak 2010: 72; a mio giudizio pienamente sottoscrivibili, invece, sono le parole di Von der Mühll 1922: VI: «Me vero quin omnes tres epistulas genuinas esse credam neque orationis stilique differentiae nec dispositio capitum impediunt»). A me sembra, al contrario, che la collocazione di questo breve paragrafo sulle ἐπισημασίαι si spieghi soprattutto tornando al­ la chiusa della sezione del precedente meteoron; questo il testo: καὶ ἄλλοι δὲ τρόποι εἰς τοῦτο τελέσαι ἀμύθητοί εἰσιν. Su ἀμύθητοι dei codici non vi è, però, accordo tra gli studiosi. Usener propose di leggere ἀνύσιμοι (efficacious, effectual è il significato secondo il LSJ: 168, pace Bollack-Laks 1978: 304; Usener, pertanto, qualificava i τρόποι come ἀνύσιμοι, nel senso di modi efficaci per dare luogo al fenomeno in questione; Ramelli 2002: 163 – cfr., in bibliografia, Usener 1887 –, nella sua versione italiana degli Epicurea, traduce illegittimamente «senza appellarsi al mito»), mentre Lortzing (1888: 422), nella sua recensione degli Epicurea di Usener, propose ἄμυθοι (con diretto riferimento al rifiuto del mito da parte di Epicuro), una congettura che persuase anche Heidel 249

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(1902: 194). Dopo Lortzing e Heidel tornò sul medesimo punto anche Crönert (1906: 417) che optò per mantenere nel testo lo ἀμύθητοι della tra­ dizione, eliminando qualunque riferimento al mito, col sostenere, citando altri passi di Pitocle, che il termine si riferisse al fatto che anche le stelle cadenti possono avvenire in molti modi. Se non si vuole leggere ἄμυθοι con Lortzing e Heidel, credo che, in ogni caso, un riferimento al mito (non infrequente nella lettera: cfr. §§ 87, 104, 116 nonché, supra: 152-153 e infra: 254) ci sia. Evidentemente questa con­ clusione cozza col fatto che ἀμύθητος significa “indicibile” (senza alcun ri­ ferimento al mito), per questo Crönert potè scorgervi un richiamo al pleo­ nachos tropos. Nonostante ciò, come hanno suggerito Bignone 1964: 142 n. 2 e Bailey 1926: 325, non è peregrino che Epicuro abbia dato al termine ἀμύθητος il significato specifico di “esente” o “incontaminato” dal mito. Pertanto, ritengo che nel testo possa senz’altro rimanere ἀμύθητοι, un ter­ mine, forse, in qualche modo “risemantizzato” da Epicuro con diretto rife­ rimento alla polemica sul mito (cfr. White 2021: 449 n. 100). D’altronde, – e questo è il punto principale – il richiamo al mito mi pare essere perfetta­ mente lecito alla fine della sezione sulle stelle cadenti perché è ben noto che questo particolare fenomeno era considerato in strettissima relazione con profezie, vaticini, in una parola, con il mito stesso. Ciò, per limitarsi a un solo esempio, è chiarissimo in Seneca (NQ I 1, 3-4) che, occupandosi dei «fuochi che l’aria spinge trasversalmente» (NQ I 1, 1; trad. Vottero), menziona alcuni prodigi che si crede siano stati annunciati da questi feno­ meni considerati come segni premonitori (cfr., in proposito, anche NQ VII 28, 2-3 = 193 FHS&G e Procl. In Plat. Tim. III 151, 1-9 Diehl = 194 FHS&G). Non può del tutto meravigliare, pertanto, che, dopo le stelle ca­ denti e la chiusa nella quale si rifiutano le favole del mito, Epicuro dedichi una breve parte alle ἐπισημασίαι da parte degli animali. La critica si è interrogata sulla ragione di questa doppia trattazione delle ἐπισημασίαι ai §§ 98 e 115; l’analisi migliore e più acuta è, a mio parere, quella offerta da Arrighetti (1973: 534 e 692-699) che rileva come al § 115 «si prende in considerazione solo il caso degli animali per criticare con par­ ticolare acredine la μωρία di credere che questi esseri possano in qualche modo determinare i fenomeni meteorologici. La maggior asprezza della polemica è data non solo dal tono e dalle parole che vengono usate, ma dal significativo silenzio relativo alle ἐπισημασίαι παρ’ ἑτεροιώσεις ἀέρος καὶ μεταβολάς sulle quali, proprio per il principio metodologico della possibi­ lità delle molteplici cause, non era facile assumere un atteggiamento ugual­ mente negativo» (Arrighetti 1973: 698; cfr. anche Pittà 2016: 322-323). Ar­ righetti ha perfettamente ragione nel dire che nel secondo passo c’è una maggiore vis polemica, laddove, nel primo, la possibilità dell’effettivo darsi 250

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delle ἐπισημασίαι, proprio perché si tratta di quelle di carattere genuina­ mente meteorologico, non viene affatto esclusa. A quanto scriveva Arri­ ghetti si potrebbe aggiungere il fatto che le due trattazioni a distanza delle ἐπισημασίαι non sono affatto fuori luogo ma rispettano esattamente i due “generi” di pronostici tipici della tradizione antica. Nella loro superba edi­ zione del Peri semeion/De signis, l’opera attribuita a Teofrasto (o a un suo allievo e, in ogni caso, di ambiente peripatetico: cfr. Cronin 1992 e Man­ sfeld-Runia 2020: 964) sulle ἐπισημασίαι (basata, forse, su un precedente scritto democriteo? Cfr. Ransome Johnson 2020: 163 e 182 n. 21), Sider e Brunschön (2007: 38) a tale proposito scrivono: «In general, it is easy to see that the more accurate of the signs are the meteorological ones, the less ac­ curate those derived from animal behavior. For Epicurus, in fact, the div­ ision is absolute: ἐπισημασίαι derived from meteorological signs have phys­ ical causes, those from animals are due merely to chronological coinci­ dence». Ciò giustifica la duplicità della trattazione ma non spiega il motivo della distanza dei due passi nella lettera. Ritengo che questa si possa spiega­ re su base contenutistica: al § 98, nel più generale contesto di altri fenome­ ni che definiremmo stricto sensu meteorologici, Epicuro aveva esaminato i pronostici meteorologici, appunto, ossia quei “segnali” atmosferici che danno luogo ad altri fenomeni, come il vento, la pioggia e simili. Il filoso­ fo non poteva escludere che alcuni fenomeni ne “annuncino” altri e, infat­ ti, queste ἐπισημασίαι, benché possano avvenire per un concorso di circo­ stanze, accadono sia per cambiamenti d’aria sia per mutamenti. Malgrado Epicuro menzioni gli animali al § 98 da cui possono evincersi ἐπισημασίαι ma solo κατὰ συγκυρήσεις καιρῶν, i pronostici meteorologici sono conside­ rati come meteora a tutti gli effetti che, come tali, si danno. Tutto l’opposto vale per le ἐπισημασίαι degli animali così come sono affrontate al § 115: qui, come già giustamente osservava Arrighetti, la vis polemica è assai forte a tal punto da condannare questi presunti fenomeni come derivanti in buona sostanza dal caso, da un concorso di circostanze che, però, nulla possiede di scientifico (Epicuro ribadisce lo stesso punto del § 98: lì si dice­ va κατὰ συγκυρήσεις καιρῶν e qui κατὰ συγκύρημα τοῦ καιροῦ). L’analisi delle ἐπισημασίαι offerte dagli animali, pertanto, si colloca bene verso la conclusione della lettera, soprattutto perché poco prima Epicuro ha messo in guardia dal mito e, in particolare, ha trattato delle cosiddette stelle ca­ denti che, insieme ai pronostici degli animali, erano reputate manifestazio­ ni divinatorie della volontà degli dei. Nell’Epistola a Pitocle, contro ogni forma di divinazione (per la critica epicurea alla mantica cfr. Diog. Laert. X 135 = 27 Usener = 15 Arrighetti), si rintraccia un attacco netto e violento, quindi, contro i presunti pronosti­ ci derivanti dai comportamenti degli animali, i quali non determinano di 251

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necessità il fatto che oggi o domani ci sarà una tempesta oppure un certo vento piuttosto che un altro. Solo brevemente segnalo la possibilità che nelle due trattazioni dei pro­ nostici gli animali (τὰ ζῷα) di cui si parla siano quelli delle costellazioni zodiacali; se così fosse, συγκύρημα τοῦ καιροῦ ed ἐξόδους del § 115, tuttavia, assumerebbero chiaramente un’accezione tecnica tipica del vocabolario astronomico: la prima espressione sarebbe relativa alle congiunture mentre la seconda alle uscite di tali costellazioni. Si tratta, come già detto, di una possibilità, che è, in realtà, una certezza per alcuni studiosi (cfr. Isnardi Pa­ rente 1983: 194 n. 4 e 195; cfr. anche Bollack-Laks 1978: 305-306 per i debi­ ti rinvii bibliografici). Questo significato tecnico per ἐξόδους (outgoings, co­ me propone Bailey 1926: 81; cfr. anche Bollack-Laks 1978: 307-308) è possi­ bile ma non assolutamente necessario, considerando il contesto. In breve: sel al § 115 si assume che le ἐπισημασίαι riguardano gli animali, le uscite di cui si parla potrebbero essere intese come la comparsa di specifici animali; se, invece, riguardano le costellazioni, si tratterebbe delle loro uscite/sortite in senso tecnico-astromico. Per ciò che concerne l’esegesi astronomica di questo passo, preferisco, comunque, continuare a parlare, appunto, di una mera possibilità interpre­ tativa perché la pratica consistente nell’interpretare i comportamenti degli animali come segni che annunciano alcuni fenomeni meteorologici è ben attestata nell’antichità (cfr. soprattutto l’esaustivo studio di Bouffartigue 2003, nonché Sider-Brunschön 2007: 3 n. 8). Un passo de Le previsioni astrologiche/Tetrabiblos – I 2, 8 – di Claudio Tolemeo, tra gli altri, conferma il fatto che gli animali irrazionali fossero perfino più capaci di indicare ἐπισημασίαι rispetto alle persone comuni (cfr. anche la XVIII delle Quae­ stiones naturales di Plutarco – 916A-B – uno scritto che, in generale, esibisce chiaramente un metodo delle molteplici spiegazioni causali ma essenzial­ mente differente da quello epicureo). Di notevole importanza, poi, il fatto che nella seconda parte dei Fenomeni Arato dedichi una lunga sezione ai pronostici (vv. 733-1154), nella quale sono presi in considerazione i segni/presagi di eventi atmosferici provenienti dagli animali terrestri (vv. 913 ss. e 942 ss.); assai condivisibile l’idea che per questa parte dei Fenomeni Arato dipenda dallo scritto Peri semeion/De signis attribuito a Teofrasto (Gigante Lanzara 2018: X), in questa sede più volte menzionato. Arato con­ clude affermando che occorre prestare molta attenzione a questi segnali che bisogna avere sotto osservazione l’uno dopo l’altro in modo tale che «[S]e due conducono allo stesso punto / c’è buona aspettativa, / un terzo ti dà la sicurezza» (vv. 1143-1144; trad. Gigante Lanzara). È proprio tenendo a mente l’impostazione aratea che si può comprendere il rifiuto dei prono­ stici da parte di Epicuro. Arato (vv. 733-772) asserisce con chiarezza che 252

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è Zeus a mandare questi segni; certo, Zeus non permette agli uomini la conoscenza di tutto (vv. 768-771) ma egli «[B]enefica infatti apertamente / la stirpe umana / apparendo ovunque / e mostrando segnali (σήματα) dap­ pertutto» (vv. 771-772; trad. Gigante Lanzara). Va da sé che Epicuro non può che rifiutare toto corde l’idea che i segnali – sia che siano atmosferici sia che derivino dagli animali – possano provenire da una volontà divina che fornisca deliberatamente queste indicazioni agli uomini nel più generale contesto di un cosmo retto, governato, ordinato e orientato da una theia physis. Non pochi, inoltre, erano gli animali sacri alle divinità che, proprio per questo, spesso avevano capacità mantiche (è il caso, per fare un solo esempio, dei topi sacri ad Apollo Sminteo – cfr. Ael. NA XII 5; si veda anche Eus. V. Const. III 54, 2 –, il cui culto oracolare, secondo indagini alquanto recenti, sarebbe stato non a caso presente anche presso il tempio superiore dell’acropoli di Cuma: cfr. Rescigno et alii 2016). Ambedue le esegesi hanno dei tratti di plausibilità ma continuo a pensare che gli ζῷα di cui qui si parla siano più probabilmente gli animali visibili presso di noi, come, d’altronde, è stato mostrato con prove convincenti anche di recente (cfr., in merito, Bignone 1973: II 311-312 e ora lo studio di Pittà 2016: 323-324). Più in generale, ciò si lega all’inesistenza di una θεία φύσις capace di provocare negli animali comportamenti e azioni specifici così da essere in­ terpretati come segni da parte della volontà divina. Beninteso, Epicuro non intende affatto negare l’esistenza della θεία φύσις ma ciò che vuole confuta­ re in modo assoluto è una natura divina che si occupi di mandare presagi, il che non le compete affatto. Per questa ragione, all’inizio del § 116 l’attac­ co sferrato contro simili concezioni non lascia spazio a dubbi: nessun vi­ vente che abbia una qualche minima accortezza potrebbe ammettere la sensatezza delle ἐπισημασίαι animali, figurarsi quegli esseri viventi che pos­ siedono la completa εὐδαιμονία come gli dei. L’autentica εὐδαιμονία, che per gli dei è beatitudine (makariotes), non può contaminarsi con ἐπισημασίαι presuntamente offerte dagli animali che, sia detto per inciso, per buona parte della tradizione epicurea rimangono viventi irrazionali (per un primo orientamento cfr. Verde 2020d). Con la demolizione teorica delle ἐπισημασίαι degli animali Epicuro chiude la trattazione scientifica dei meteora ribadendo con convinzione, come farà subito dopo, la totale incompatibilità tra il suo rigoroso metodo scientifico di investigazione e l’insensato mito di una θεία φύσις indaffarata a svelare presagi tramite il comportamento animale. § 116. La prima esortazione che Epicuro desidera indirizzare al giovane Pitocle prima di concludere l’epitome è quella al ricordo; non occorre qui insistere ancora sul ruolo cruciale giocato dalla memorizzazione nella filo­ 253

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sofia epicurea (cfr. anche supra: 146-148). Qui sia sufficiente dire che l’im­ portante è la memorizzazione dei contenuti della lettera perché essi possa­ no essere richiamati all’occorrenza con facilità e immediatezza. Il compen­ dio, insomma, è veramente utile se e solo se i suoi contenuti vengono me­ morizzati: ciò farà sì che, magari nel momento stesso in cui si presenta un certo meteoron e magari si è presi dal timore circa le sue vere cause, la me­ moria dell’epitome sui fenomeni celesti allontanerà la falsità del mito e, nello stesso tempo (cfr. Bollack-Laks 1978: 311 per questa importante sfu­ matura), permetterà di comprendere (συνορᾶν) l’insieme di quegli insegna­ menti affini (τὰ ὁμογενῆ) a quelli affrontati nella lettera. La precisazione è molto significativa e assume un valore rilevante proprio perché collocata nella chiusa: la lettera non ha potuto occuparsi di tutti i meteora ma solo di quelli in qualche modo più importanti per le sue finalità etiche. Chi si affi­ da al pleonachos tropos e memorizza le molte cause che danno luogo ai feno­ meni meteorologici e celesti sarà in grado di spiegare anche altri fenomeni le cui spiegazioni sono affini a quelle presenti nella lettera. Dopo il primo forte invito alla memorizzazione, la seconda decisa esor­ tazione è allo studio attento della physiologia, la scienza della natura, i cui cardini sono i principi e l’infinito (εἰς τὴν τῶν ἀρχῶν καὶ ἀπειρίας). Certamente è difficile non scorgere dietro le archai citate un chiaro riferi­ mento agli atomi e al vuoto (ambedue, tra l’altro, infiniti) che fondano e legittimano le cause dei meteora e, dunque, del pleonachos tropos. Epicuro, pertanto, incita il giovane e promettente Pitocle a dedicarsi allo studio della fisica, degli atomi, del vuoto, dell’infinito e di tutto ciò che è a questi affine; in tal modo, si conferma il fatto che la meteorologia sia parte integrante della scienza della natura e che lo studio serio delle cause dei meteora non possa affatto prescindere dall’attenta considerazione della physiologia. In breve, dedicarsi ai meteora indipendentemente dalla scienza della natura è metodologicamente errato, oltre che, per certi versi, impossi­ bile. Per questa ragione Epicuro invita Pitocle a guardarsi, per così dire, dallo “specialismo” e a ricondurre in ogni caso lo studio dei fenomeni celesti ai principi che regolano la natura. Ma ciò non basta. Per essere investigati, tanto la natura quanto i meteora, sono necessari degli strumenti conoscitivi e questi sono i criteri della verità (kriteria tes aletheias) della canonica, la prima parte del sistema filosofico. Epicuro, tuttavia, diversamente dal resoconto laerziano (X 31), distingue qui i criteri (kriteria) dalle affezioni (pathe) che pure fanno parte dei cano­ ni, di cui il filosofo si occupava verosimilmente nello scritto Canone. Non mi pare che questo costituisca un problema insormontabile (pace e.g. Phi­ lippson 1926: 887: «Die πάθη gehören selbst zu den Kriterien; Epikur hätte kaum so schreiben können») così come non lo è il fatto che sia menzionata 254

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prima la physiologia e poi la canonica, laddove l’ordine, sulla base di Diog. Laert. X 29-30, è inverso. Probabilmente la menzione della fisica prima del­ la canonica potrebbe dipendere dal fatto che la scienza dei meteora è parte della physiologia, per questo risultava utile citarla prima della canonica. I pathe (ovverosia piacere e dolore) sono senza dubbio un criterio gnoseolo­ gico (insieme alle sensazioni e alle prolessi), ma anche pratico (cfr. su que­ sto punto Verde 2018c, nonché Bignone 1964: 143 n. 1 e Bailey 1926: 326). Subito dopo i pathe Epicuro esorta Pitocle a tenere bene in conto il fine in vista del quale sono stati condotti i ragionamenti (καὶ οὗ ἕνεκεν ταῦτα ἐκλογιζόμεθα) e questo telos non può che essere quello etico, tratteggiato da Epicuro all’inizio della lettera (§ 85: cfr. supra: 147 ss.) e successivamente ef­ ficacemente richiamato nella chiusa. Da questo punto di vista, il richiamo ai pathe in maniera distinta dagli altri criteri non meraviglia necessaria­ mente, proprio perché le affezioni dischiudono la parte etica del sistema esibita, per sommi capi, subito dopo e ancora nell’ultima battuta dell’epi­ stola. Sulla base di questo passo, si potrebbe anche azzardare l’ipotesi che, al momento della scrittura di Pitocle, l’opera Canone non fosse stata ancora elaborata in tutta la sua ampiezza; la mancata sistematizzazione della cano­ nica da parte di Epicuro potrebbe spiegare questo luogo pitocleo ma non possediamo elementi per vagliare la veridicità di questa ipotesi che, perciò, rimane tale. Indagare tutto questo, ovvero i meteora, la scienza dei principi e dell’in­ finito (physiologia), quella dei criteri, delle affezioni e la piena considera­ zione dell’unico fine etico, fa sì che sia possibile comprendere le cause dei singoli fenomeni (κατὰ μέρος) e, così facendo, perseguire ancora più agevolmente l’imperturbabilità. Evidentemente questo vale solamente per chi è interessato a questo tipo di ricerche: tutti coloro che, al contrario, non mostrano questo interesse non solo non raggiungeranno la conoscen­ za, ma, soprattutto, non otterranno l’autentico fine per cui l’attività del θεωρεῖν ha davvero senso: l’ataraxia. Seguendo il modello della Ringkomposition, così si chiude l’articolata Epistola a Pitocle, con quello che potremmo definire un vero e proprio di­ stillato della filosofia epicurea che il giovane Pitocle è chiamato dalla viva voce del maestro a meditare con serietà, nella piena consapevolezza che il rigore della scienza fine a se stessa (magari finalizzato all’accrescimento della conoscenza: cfr. Aristot. EE I 5, 1216b 10-16, nonché Kupreeva 2018: 297 e Ransome Johnson 2020: 179) sia un’occupazione assolutamente inutile se non mira costantemente a rendere possibile, nei termini della concretezza, il raggiungimento della serenità contro i terrori fondati sul mito.

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L’insistere su questo punto mostra bene come lo studio dei meteora sia del tutto centrale nella filosofia di Epicuro e non ne costituisca una parte mar­ ginale o periferica. In fondo, i timori che provengono dalla physis dipendo­ no dal fatto che non si è in grado di riconoscere con esattezza le cause dei fenomeni meteorologici e celesti, con i quali si ha un rapporto, nella maggior parte dei casi, diretto. Per questo motivo il compendio a Pitocle è un testo assolutamente cruciale ed estremamente importante per avere un quadro corretto ed esaustivo del pensiero epicureo: in esso si osserva con estrema chiarezza come la filosofia intesa come scienza rigorosa concorra immediatamente a dileguare la nebbia, il disorientamento e l’incertezza causati da quella paura che deriva dall’ignoranza delle cause e dal facile (e spesso comodo) ricadere nel mito della religio. La strategia investigativa di Epicuro non poteva che essere eziologica: sono, infatti, lo studio e la comprensione delle cause fisiche e non teologiche dei meteora a eliminare qualunque forma di terrore. I fenomeni analizzati nella lettera non sono segni divini e non avvengono sempre a vantaggio degli esseri umani, come se ci fosse un disegno provvidenziale che regoli il loro accadimento; alcu­ ni, anzi, sono inutili e altri dannosi (cfr. Diog. Oen. Theol XIII 11-XVI 8 Hammerstaedt-Smith con Leone 2017: 105-110; cfr. anche il testo del NF 213 Hammerstaedt-Smith con Hammerstaedt-Smith 2016, nonché le interessanti testimonianze dell’Alethes logos di Celso – ap. Orig. Cels. IV 75, V 6, VI 27 – e di Minucio Felice – Oct. V 9-13). Ma il livello di indagine di questi meteora non può essere né quello teologico-provvidenziale né quello della loro presunta utilità a vantaggio degli uomini: essi sono fenomeni naturali che devono essere analizzati esclusivamente iuxta propria principia ovvero grazie alla scienza fisica. L’Epistola a Pitocle, in questo senso, è un’opera essenzialmente ordinata e originale nei contenuti affrontati (cfr. le giuste considerazioni di Gregory 2007: 185-186), perfettamente coerente dal punto di vista filosofico e, so­ prattutto, genuinamente epicurea. È la stessa chiusa a confermare quest’ul­ timo punto, accentuando l’idea, tutta di Epicuro, che un θεωρεῖν, perfino quello che ha per oggetto principale le cause dei meteora, che non si apra e non contribuisca efficacemente all’ataraxia, dischiudendone la concreta ottenibilità, è vano e non ha alcuna ragion d’essere. In conclusione, per tutte queste motivazioni, sottrarsi allo studio accurato di questo testo significa violare l’unità e la completezza della filosofia di Epicuro e, al di là di giudizi che reputo piuttosto corrivi (cfr. e.g. de Ruggiero 1972: 469 e Franco Repellini 1985: 133), quand’anche non si nutrissero interessi specifici per l’Epicureismo, rinunciare a uno scritto 256

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capitale sulla meteorologia e sulla scienza dell’antichità, delle quali il rilie­ vo e l’importanza, in sede storica e teorica insieme, sono del tutto fuori discussione (su questo cfr. le notevoli e ancora valide considerazioni di Vailati 1967: 39-65).

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L’Epistola a Pitocle deve la sua centralità e la sua notorietà nel quadro della filosofia ellenistica, nonché la sua fortuna nei secoli successivi, all’e­ sposizione di una peculiare dottrina epistemologica: il pleonachos tropos. Si tratta di un metodo di indagine, finalizzato al raggiungimento dell’im­ perturbabilità dell’anima, inteso a spiegare in modo molteplice la causa e l’essenza dei fenomeni celesti, in accordo con la sensazione e in assenza di attestazione contraria da parte dell’autoevidenza percettiva, ossia l’enargeia. Il commento di F. Verde alla lettera, significativamente intitolato La realtà del possibile, nel testo e nella traduzione stabiliti da D. De Sanctis, esplora in modo sistematico ed esaustivo gli aspetti salienti della teoria: la sua contestualizzazione storica, l’ambito di applicazione, la sua funzione nell’ambito del sistema filosofico epicureo e nel quadro delle cosmologie antiche, i suoi sviluppi dottrinari, i suoi principali aspetti problematici. Tra i numerosi meriti dell’analisi, vi è quello di aver messo in luce il nesso inestricabile che, attraverso l’illustrazione del metodo, Epicuro stabi­ lisce tra aspetti ontologici dei fenomeni celesti e caratteristiche epistemiche delle loro spiegazioni. Come spiega chiaramente Verde, infatti, la questione fondamentale che occorre affrontare per comprendere pienamente il pleonachos tropos è perché Epicuro fornisca spiegazioni e descrizioni plurime dei meteora, spesso senza dettagliarle da un punto di vista contenutistico e/o quantitativo, piuttosto che ricorrere a una spiegazione univoca, ovvero al monachos tropos, metodo di ricerca ammesso per altre tipologie di enti, a partire da quelli fondamen­ tali, gli atomi e il vuoto. Non è il caso, infatti, di attribuire la ragione di ciò a un deficit gnoseologico né tantomeno ritenere che, ai fini pratici, un’indagine approssimativa sia sufficiente: in più occasioni, anzi, il filosofo rivendica il carattere di akribeia e l’efficacia etica del metodo, rispettoso della effettiva varietà dei fenomeni e fedele ai contenuti dell’esperienza empirica. Per affrontare il tema della molteplicità e il problema dell’indetermina­ tezza che ne se segue, la critica si è principalmente impegnata sul versante epistemologico della dottrina, cercando di stabilire se fosse possibile o meno definire il numero delle spiegazioni, se le spiegazioni fornite fossero

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tutte vere o mutuamente esclusive, se tra le spiegazioni possibili fornite ce ne fosse una preferibile rispetto alle altre, se le spiegazioni fornite per un dato fenomeno fossero compatibili o meno con quelle di un altro, quale fosse la ratio alla base dell’ordine delle spiegazioni.1 Raramente o in modo cursorio, ci si è soffermati sulle ragioni metafi­ siche del metodo, e qualora ciò si sia verificato, lo si è fatto in modo strumentale, per stabilire il valore di verità delle molteplici spiegazioni offerte. A questo scopo, per esempio, sulla base della testimonianza di Lucrezio, sono state generalmente richiamate la dottrina fisica dell’infinita disponibilità di materia e la dottrina cosmologica dell’infinità dei mondi, per sostenere che tutte le spiegazioni di un fenomeno sono vere nello stesso tempo in mondi diversi, che in un dato mondo una sola, tra quelle fornite, è vera ed è compatibile solo con alcune spiegazioni relative agli altri fenomeni.2 Verde, invece, ha impostato la sua ricerca sul pleonachos tropos, stabi­ lendo una stretta relazione tra molteplicità epistemologica e molteplicità ontologica dei fenomeni celesti e sostenendo che «[L]a molteplicità delle spiegazioni di un dato fenomeno celeste è la diretta conseguenza della molteplicità delle cause della sua generazione» (supra: 58).3 La tesi trova precisi riscontri negli scritti di Epicuro. Nel paragrafo 86, il filosofo affer­ ma chiaramente che il metodo della spiegazione univoca non può appli­ carsi ai meteora, per ragioni che hanno a che fare con la loro genesi e natura, cioè perché «questi, invero, hanno molteplice sia la causa del loro generarsi sia la spiegazione della loro essenza in accordo con le sensazioni (ἀλλὰ ταῦτά γε πλεοναχὴν ἔχει καὶ τῆς γενέσεως αἰτίαν καὶ τῆς οὐσίας ταῖς αἰσθήσεσι σύμφωνον κατηγορίαν)».4 Nell’XI libro dell’opera Sulla natura Epicuro sostiene che il metodo univoco di spiegazione, diversamente dal pleonachos tropos, non è in grado di rendere ragione delle indeterminatezze (aoristeiai), presenti nel sorgere e nel tramontare degli astri ([26] [38] Arri­ ghetti).5 Alla luce di ciò, Verde ha quindi potuto spiegare meglio, da un lato, la finalità del metodo, cioè assicurare una salda sicurezza e tranquillità psicologiche rispetto ai meteora, fondate su un’autentica comprensione

1 Per una trattazione esaustiva si veda Bakker 2016: 8-75. 2 Hankinson 1998: 222-223; Bénatouïl 2003: 44-45; Taub 2003: 135-136; O’Keefe 2010: 106. 3 Su questo nesso cfr. anche Morel 2011: 143 n. 6; Masi 2014: 59 e 61. 4 Da qui in avanti si utilizzeranno testo e traduzione di D. De Sanctis, salvo minimi cambiamenti da parte mia segnalati in corsivo. 5 Questo aspetto è ben affrontato in Tsouna, di prossima pubblicazione.

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della loro natura, dall’altro, mettere in luce l’ambito dialettico entro cui la dottrina è concepita, nonché la direzione polemica che la sottende, ovvero come reazione a quegli astronomi e matematici che, costruendo a priori spiegazioni del cosmo e macchine di osservazione dei fenomeni celesti ba­ sate su calcoli predeterminati, ne ignorano la varietà della genesi e dell’es­ senza. Questa soluzione esegetica può essere, però, ulteriormente sviluppata. Si può, infatti, cercare di comprendere esattamente che cosa significhi che i fenomeni celesti hanno una molteplice causa della loro genesi e una molteplice determinazione della loro essenza, ovvero che cosa significhi che i meteora siano in qualche modo indeterminati. Per affrontare la questione, si distinguerà innanzitutto tra le immagini dei corpi celesti o dei processi che li riguardano e i corpi celesti stessi o i processi che li riguardano. Si sosterrà quindi che sul piano ontologico si danno due livelli di molteplicità diversi, quello che riguarda la causa e la natura dell’immagine e quello che riguarda l’oggetto stesso. Ci si concen­ trerà, dunque, su questo secondo tipo di indeterminatezza ontologica e si sosterrà che essa rimanda non solo al fatto che, date l’infinità di materia disponibile e l’infinità dei mondi, lo stesso processo celeste può verificarsi in mondi diversi nello stesso tempo in modi diversi, ma anche che uno stesso processo può verificarsi in uno stesso mondo in modo diverso in virtù della capacità causale di un corpo celeste di produrre uno stesso effetto in seguito all’interazione con fattori esterni diversi. A sostegno di ciò si spiegherà che Epicuro utilizza la nozione di aitia per indicare proprio questa plurima capacità causale dei corpi celesti, che tale facoltà dipende in ultima analisi dal comportamento degli atomi che li compongono, i quali, entro certi limiti dettati dalle loro forme, possono variare le modalità delle loro aggregazioni e interazioni. Una tematizzazione esplicita della indeterminatezza ontologica dei fe­ nomeni celesti di questo tipo si rivelerà, infine, utile a comprendere me­ glio anche alcuni apparenti distinguo dottrinari presenti nelle fonti degli epicurei seriori, in particolare Lucrezio e Diogene di Enoanda, di nuovo ben evidenziati da Verde nel suo saggio su La meteorologia epicurea.6

6 Verde supra: 65-84.

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1. I meteora e le loro rappresentazioni Per comprendere pienamente l’ambito di applicazione del pleonachos tropos è utile tracciare preliminarmente una distinzione tra i meteora e i loro phantasmata. I meteora sono enti o processi di natura molto diversa tra loro (cosmologica, astronomica, atmosferica, tellurica), adela, ovvero oggetti che non sono direttamente accessibili alla percezione. I phantasmata, inve­ ce, sono le manifestazioni sensibili dei meteora, le loro rappresentazioni, che si formano nell’osservatore in seguito al sopraggiungere di simulacri. Tali immagini, oltre a essere in certa misura omogenee agli oggetti cui si riferiscono, per la specificità della loro costituzione, presentano anche delle somiglianze e delle analogie con le immagini dei fenomeni direttamente esperibili o par’hemin.7 Epicuro mostra piena consapevolezza nei confronti della distinzione tra i meteora e i loro phantasmata, distinzione che emerge da più punti del testo della lettera. Questa differenziazione, tuttavia, pone il problema di chiarire se l’ambito di applicazione del pleonachos tropos riguardi effettiva­ mente gli uni o gli altri o entrambi. Meteora e phantasmata, infatti, hanno entrambi modalità plurime di formazione e di costituzione, ma, mentre quelle dei meteora rimandano alla genesi, alla natura, al comportamento dei corpi celesti stessi, quelle delle immagini hanno a che fare con la provenienza, la struttura, i flussi e la trasmissione al sensorio dei simulacri. La questione emerge da due casi, ampiamente analizzati da Verde, quel­ lo della grandezza del sole e quello della forma dell’immagine dell’arcoba­ leno, in cui effettivamente la concentrazione dell’autore sembra focalizzata sulle manifestazioni dei meteora, piuttosto che sui meteora stessi. Nel caso del sole, Epicuro distingue la grandezza del sole come appare da quella in sé (91). Nel caso dell’arcobaleno, si chiede a cosa sia dovuta la forma arrotondata dell’immagine e rimanda alle condizioni in cui si verifica l’osservazione (110). Per risolvere il problema, si possono svolgere, tuttavia, due ordini di considerazioni. Il primo è che, al di là dei due casi menzionati, nella maggior parte degli altri, Epicuro offre spiegazioni della genesi e della natura dei meteora, non delle loro manifestazioni. In secondo luogo, per circoscrivere ambito e procedura del metodo, si può ricordare la sezione metodologica introduttiva dell’epistola (87-88):

7 Per un’analisi approfondita della dottrina dei simulacri, cfr. Leone 2012; Masi-Ma­ so 2015.

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σημεῖα δ’ ἐπὶ τῶν ἐν τοῖς μετεώροις συντελουμένων φέρειν τῶν παρ’ ἡμῖν τινα φαινομένων, ἃ θεωρεῖται ᾗ ὑπάρχει, καὶ οὐ τὰ ἐν τοῖς μετεώροις φαινόμενα· ταῦτα γὰρ ἐνδέχεται πλεοναχῶς γίνεσθαι. [88] τὸ μέντοι φάντασμα ἑκάστου τηρητέον καὶ ἐπὶ τὰ συναπτόμενα τούτῳ διαιρετέον, ἃ οὐκ ἀντιμαρτυρεῖται τοῖς παρ’ ἡμῖν γινομένοις πλεοναχῶς συντελεῖσθαι. I segni di ciò che si compie tra i fenomeni celesti li offrono alcuni fenome­ ni che si mostrano presso di noi e che si osserva come si producono e non i fenomeni celesti, perché questi è possibile che accadano per più motivi. [88] Si deve pertanto badare attentamente al manifestarsi di ciascuno di essi e, in rapporto a quanto è a esso congiunto, distinguere le cose il cui compiersi in più modi non è smentito da quelle cose che si verificano presso di noi. Qui, stando all’analisi convincente di Verde, il filosofo sembra voler di­ re che il pleonachos tropos si applica immediatamente ai phantasmata dei meteora, e, tramite la somiglianza delle immagini dei fenomeni celesti con quelle dei fenomeni par’hemin, mira a distinguere gli oggetti cui i phantasmata si riferiscono e a rendere note le modalità plurime del loro compimento, in base all’accordo con i contenuti dell’esperienza. Alla luce di ciò si può pensare che la distinzione tra meteora e rappresen­ tazioni sia fondamentale per articolare il procedimento con cui si attua il pleonachos tropos, ma che l’ambito della sua applicazione sia costituito prevalentemente, anche se non esclusivamente, dai meteora.8 Di questi, dunque, si dovrà in particolare spiegare cosa significhi che hanno una aitia molteplice della loro generazione e una determinazione plurima della loro essenza.

2. Il significato di aitia: spiegazione, causa, possibilità causale L’Epistola a Pitocle costituisce un documento fondamentale per compren­ dere la teoria causale di Epicuro, non solo perché attraverso una serie di illustrazioni consente di capire in che modo la dottrina atomistica si declini di fatto nell’eziologia dei fenomeni naturali, ma anche perché, congiuntamente ad altri testi, permette di riflettere meglio sul significato della nozione di aitia che ne è alla base. Il termine aitia è solitamente tradotto dagli interpreti o con “spiegazio­ ne” o con “causa”. Anche nel De rerum natura, d’altra parte, la parola greca è resa con ratio o causa. Le due espressioni, tuttavia, si riferiscono a signifi­ 8 Per una diversa interpretazione, si veda Bénatouïl 2003: 37-41.

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cati diversi: mentre una spiegazione opera a livello linguistico-epistemolo­ gico e consiste sostanzialmente nella descrizione di una causa all’origine di un fenomeno indagato, la causa opera a livello ontologico e si riferisce a un fattore che produce un effetto nel mondo.9 Non è sempre chiaro nella lettera a cosa l’espressione si riferisca. Per esempio, nel paragrafo 95, nell’ambito di un esame del fenomeno dell’illuminazione lunare, l’autore afferma che: καὶ οὐθὲν ἐμποδοστατεῖ τῶν ἐν τοῖς μετεώροις φαινομένων, ἐάν τις τοῦ πλεοναχοῦ τρόπου ἀεὶ μνήμην ἔχῃ καὶ τὰς ἀκολούθους αὐτοῖς ὑποθέσεις ἅμα καὶ αἰτίας συνθεωρῇ καὶ μὴ ἀναβλέπων εἰς τὰ ἀνακόλουθα ταῦτ’ ὀγκοῖ ματαίως καὶ καταρρέπῃ ἄλλοτε ἄλλως ἐπὶ τὸν μοναχὸν τρόπον. E nessuna di queste possibilità contrasta con i fenomeni celesti, qualora uno tenga sempre presenti le spiegazioni molteplici, consideri nel loro insieme ipotesi e, a un tempo, cause conformi ai fenomeni stessi, senza mirare a quanto è privo di coerenza, esaltandolo stoltamente, e scivoli, per un verso o per l’altro, nel metodo della spiegazione singola. Qui l’uso del verbo syntheorein e il riferimento alle ipotesi, che rimandano al piano epistemologico, potrebbe far pensare che il termine aitiai si riferi­ sca alle spiegazioni che devono conformarsi ai fenomeni. Si può anche pensare, però, che le varie aitiai siano i corrispettivi ontologici delle ipote­ si formulate conformemente ai fenomeni osservabili e che siano perciò traducibili con “cause”, come fa in effetti De Sanctis. Più avanti, nel paragrafo 111 della Lettera, dopo aver trattato della for­ mazione delle stelle comete e aver esaminato le circostanze in cui si verifica la loro generazione, Epicuro sostiene che: La loro scomparsa è dovuta alle cause opposte a queste (τήν τε ἀφάνισιν τούτων γίνεσθαι παρὰ τὰς ἀντικειμένας ταύταις αἰτίας). In questo passo l’uso del verbo ginesthai e del costrutto para con accusativo chiarisce il significato del termine aitias in un senso causale. Meno perspicue risultano le occorrenze della parola nel paragrafo 113: τὸ δὲ μίαν αἰτίαν τούτων ἀποδιδόναι, πλεοναχῶς τῶν φαινομένων ἐκκαλουμένων, μανικὸν καὶ οὐ καθηκόντως πραττόμενον ὑπὸ τῶν τὴν

9 Cfr. Hankinson 1998: 4.

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ματαίαν ἀστρολογίαν ἐζηλωκότων καὶ εἰς τὸ κενὸν αἰτίας τινῶν ἀποδιδόντων, ὅταν τὴν θείαν φύσιν μηθαμῇ λειτουργιῶν ἀπολύωσι. L’assegnare un’unica aitia a questi fenomeni, quando i fenomeni reclama­ no molteplici spiegazioni, è un’operazione folle e sconveniente, compiuta dagli zelanti seguaci dell’inutile astronomia, i quali riconducono alcuni fenomeni ad aitiai che vanno a vuoto, visto che in nessun caso liberano la natura divina da attività impegnative. Il ricorso al verbo apodidomi suggerisce che l’espressione aitia sia usata a un livello teoretico per descrivere la risposta al perché si verifichi un certo fenomeno, piuttosto che la causa del fenomeno stesso, ovvero l’ente o l’in­ sieme delle circostanze presente nel mondo che lo determina effettivamen­ te. A sostegno di questa lettura epistemologica dell’espressione si potrebbe anche notare che in questo passo Epicuro sta polemizzando con i seguaci dell’astronomia, probabilmente l’astronomia promossa dai matematici di Cizico, e il loro metodo scientifico, basato sulla costruzione a priori di un modello di spiegazione capace di dare ragione della regolarità dei moti astrali. D’altra parte, l’autore, contro questa impostazione, ribadisce che «i fenomeni reclamano molteplici aitiai», suggerendo una diversa possibile soluzione. Gli interpreti, infatti, a questo punto del passo, intendono il termine in modo differente: alcuni nel senso di causa,10 altri nel senso di spiegazione.11 La ragione di tale incertezza dipende proprio dalla presenza del verbo ekkalein o, meglio, dalla funzione che i fenomeni svolgono nella costruzione di inferenze logiche e/o nessi causali. In questo passo non è immediatamente chiaro se qui i fenomeni servano come indizi per rintrac­ ciare cause possibili o come segni per inferire spiegazioni o per entrambe le cose.12 Alla luce delle occorrenze esaminate si potrebbe ritenere, quindi, che Epicuro abbia un uso ambiguo dell’espressione aitia o addirittura che non sia consapevole della distinzione tra il significato di “causa” e quello di “spiegazione”.13 Si potrebbe, tuttavia, suggerire un modo più caritatevole di risolvere la questione, ovvero pensare che, proprio in virtù della stret­ ta relazione che egli intende ribadire tra piano epistemologico e piano ontologico della realtà, già richiamata in altri ambiti della sua fisiologia,

10 Così fanno, per esempio, Bailey 1926: 79; Bollack-Laks 1978: 105; Morel 2011: 92. 11 Bignone 1964: 141; Arrighetti 1973: 100; Isnardi Parente 1983: 193; e ora De Sanctis supra: 143. 12 Sulla relazione tra semiologia e implicazione causale cfr. Giovacchini 2012: 106 ss. 13 Cfr. Maso 2016.

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Epicuro usi la nozione nei vari contesti per tenere insieme i due livelli dell’indagine, e, qualora la prospettiva dell’analisi ne prediliga uno, per rimandare sempre anche all’altro. Non sarebbe d’altra parte questo il pri­ mo caso in cui Epicuro utilizza in modo tutt’altro che impreciso, ma in maniera accorta e meditata un’unica nozione per connettere più livelli di analisi diversi.14 A sostegno di ciò, si può in effetti sostenere che il termine sia utilizzato da Epicuro nel senso di possibilità causale o, come suggerito anche da Verde nel suo commento, nel senso di causa possibile. In base a quanto già sostenuto in un precedente lavoro, infatti, intendere aitia nel contesto della Lettera a Pitocle in termini di possibilità causale, piuttosto che di spie­ gazione o causa, ha il vantaggio, da un lato, di riconoscere all’espressione un valore ontologico, e non solo epistemologico, dall’altro, di riferirsi a qualcosa di realizzabile, ma non già attuato nel mondo, che può essere espresso in forma ipotetica. Inoltre, intendere aitia in termini di possibilità causale permette di concepirla non solo come il fattore o l’insieme di fattori che può determinare un certo effetto, ma anche in modo più specifi­ co come la disposizione di un certo fattore a determinare quell’effetto in combinazione con circostanze esterne adatte ad attualizzare la sua capacità intrinseca. Si tenterà di spiegare, quindi, perché sia plausibile rendere il termine aitia nel senso di possibilità causale e che cosa si debba intendere esatta­ mente con ciò. Un primo passo rilevante a questo scopo è il seguente: Ἐπισημασίαι δύνανται γίνεσθαι καὶ κατὰ συγκυρήσεις καιρῶν, καθάπερ ἐν τοῖς ἐμφανέσι παρ’ ἡμῖν ζῴοις, καὶ παρ’ ἑτεροιώσεις ἀέρος καὶ μεταβολάς. ἀμφότερα γὰρ ταῦτα οὐ μάχεται τοῖς φαινομένοις· [99] ἐπὶ δὲ ποίοις παρὰ τοῦτο ἢ τοῦτο τὸ αἴτιον γίνεται οὐκ ἔστι συνιδεῖν. I pronostici possono avvenire sia per un concorso di circostanze, come accade per gli animali che si vedono presso di noi, sia per cambiamenti d’aria e per mutamenti, perché entrambe le cause non sono in contrasto con i fenomeni. [99] Ma in quali casi si verifichi questo o quest’altro aition non è dato sapere.

14 È il caso, per esempio, dell’uso del termine spermata, impiegato, nel XXV libro dell’opera Sulla natura, per tenere insieme il livello propriamente atomistico e il livello biologico della composizione materiale dell’essere umano: cfr. Masi 2006: 195-199.

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Si possono, infatti, mettere in evidenza due dati importanti del testo citato, utili a chiarire che cosa intenda Epicuro per molteplice aitia. Il primo è che qui Epicuro sta indicando cause possibili di un certo particolare fenomeno, come si può ricavare dall’uso del verbo δύνανται e dei costrutti causali κατὰ συγκυρήσεις καιρῶν e παρ’ ἑτεροιώσεις ἀέρος καὶ μεταβολάς. Il secondo è che il termine τὸ αἴτιον si riferisce alla causa attuale che determina di fatto il fenomeno, come suggerisce l’uso del verbo γίνεται. Sulla base di queste evidenze si può per il momento avanzare l’ipotesi che nell’ambito dell’Epistola a Pitocle la nozione di aitia sia riconducibile a quella di dynamis.15 A sostegno di questa soluzione, si possono svolgere due ordini di considerazioni. In primo luogo, come anche ricordato opportunamente da Verde nel suo commento,16 nei vari passi in cui Epicuro enumera le aitiai di un feno­ meno indagato, introduce spesso il discorso ricorrendo al verbo dynatai o endechetai. In secondo luogo, e questa è la prova decisiva, nel paragrafo 97 Epicuro definisce il metodo di indagine applicato allo studio dei fenomeni celesti, il metodo del possibile (dynatos tropos) e lascia intendere chiaramente che l’oggetto del metodo sia proprio ciò che è possibile (to endechomenon): ὡς εἰ τοῦτο μὴ πραχθήσεται, ἅπασα ἡ περὶ τῶν μετεώρων αἰτιολογία ματαία ἔσται, καθάπερ τισὶν ἤδη ἐγένετο οὐ δυνατοῦ τρόπου ἐφαψαμένοις, εἰς δὲ τὸ μάταιον ἐκπεσοῦσι τῷ καθ’ ἕνα τρόπον μόνον οἴεσθαι γίνεσθαι, τοὺς δ’ ἄλλους πάντας τοὺς κατὰ τὸ ἐνδεχόμενον ἐκβάλλειν εἴς τε τὸ ἀδιανόητον φερομένους καὶ τὰ φαινόμενα ἃ δεῖ σημεῖα ἀποδέχεσθαι μὴ δυναμένους συνθεωρεῖν. Perché se non lo si farà [scil. se non si conserverà la natura divina immune da ogni occupazione e in tutta la sua beatitudine], tutta la ricerca sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come già accadde a chi non si attenne al criterio del possibile, tanto da cadere nelle vane argomentazioni perché credeva che i fenomeni celesti avvenissero per un solo motivo, e, spingen­ dosi sino all’inconcepibile, respingeva tutte le altre spiegazioni avanzate secondo plausibilità, non essendo capace di osservare nel loro complesso i fenomeni che vanno accolti come indizi.

15 Cfr. Epicur. Hrdt. 49, 63-66; Nat. XXV Laursen 1997: 28, PHerc. 1191, 7, 2, 3 = - 16 inf./PHerc. 1191, 8, 1, 2 = - 15 sup. = [34] [24] Arrighetti; PHerc. 697, 3, 2, 3; PHerc. 1056, 6, 1 su cui cfr. Masi 2006: 194 ss. Per un approfondimento di questo possibile significato di aitia nell’Epistola a Pitocle, cfr. anche Masi 2014: 44-47. 16 Cfr. Verde supra: 150-151. Cfr. anche Masi 2014: 44.

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Si tratta, quindi, ora di capire che cosa sia effettivamente una causa possibi­ le, o meglio, una possibilità causale, per Epicuro. Per alcuni dei fenomeni indagati, le varie possibilità individuate si riferi­ scono a corpi che singolarmente o in combinazione con altri producono un dato effetto in virtù della loro azione. Per citare tre esempi tra tutti, al paragrafo 107, Epicuro sostiene che la forma tondeggiante della grandine dipende dalla liquefazione degli spigoli; al paragrafo 108, una possibilità della generazione della neve è indicata nelle nuvole congelate in frizione tra loro, nel paragrafo successivo una possibilità della formazione dell’arco­ baleno è ricondotta all’unione peculiare di luce e aria. Sulla base di casi come questi, si può pensare che l’aitia ricercata sia una causa efficiente e, più in particolare, una causa efficiente possibile, ovvero un ente che può essere presente nel mondo e, qualora lo sia attualmente, che produce un determinato effetto. Da questo punto di vista, la resa di causa possibile sug­ gerita da Verde nel suo commentario è assolutamente plausibile e precisa. Dall’analisi di altri fenomeni celesti, tuttavia, emerge anche una no­ zione di possibilità causale diversa e, per certi versi, più complessa. Per esempio, dall’esame del fenomeno del lampo ai paragrafi 101 e 102, una possibilità causale si riferisce al potere causale di produrre un effetto, che un corpo possiede per la propria composizione e la propria configurazio­ ne materiale, potere attivabile dall’interazione con fattori esterni diversi. Una certa configurazione atomica può così determinare il lampo o in combinazione con la frizione delle nuvole o per l’interazione con i venti;17 oppure la luce che filtra dai corpi celesti può dare origine al lampo per la pressione delle nuvole o dei venti, ecc. Considerazioni analoghe si ricavano dall’analisi di altri fenomeni. Particolarmente emblematico e interessante risulta il caso della neve: una pioggia sottile, in virtù della sua specifica composizione e peculiare azione di caduta, attraversa la nuvola, che, a sua volta, strutturata in base a pori commisurati, è idonea a esercitare sulla pioggia una pressione necessaria al suo congelamento. La pioggia sottile, inoltre, in alternativa o in concomitanza, può causare la neve attraverso la nuvola, anche grazie alla pressione dei venti: Χιόνα δὲ ἐνδέχεται συντελεῖσθαι καὶ ὕδατος λεπτοῦ ἐκχεομένου ἐκ τῶν νεφῶν, διὰ πόρων συμμετρίας καὶ θλίψεως ἐπιτηδείων νεφῶν ἀεὶ ὑπὸ

17 Cfr. il paragrafo 101 dell’Epistola: «infatti una conformazione di atomi capace di produrre il fuoco che genera il lampo si sprigiona per effetto dello sfregamento e della collisione delle nubi (καὶ γὰρ κατὰ παράτριψιν καὶ σύγκρουσιν νεφῶν ὁ πυρὸς ἀποτελεστικὸς σχηματισμὸς ἐξολισθαίνων ἀστραπὴν γεννᾷ)».

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πνεύματος σφοδρᾶς, εἶτα τούτου πῆξιν ἐν τῇ φορᾷ λαμβάνοντος διά τινα ἰσχυρὰν ἐν τοῖς κατώτερον τόποις τῶν νεφῶν ψυχρασίας περίστασιν· La neve si può formare quando pioggia sottile scende dalle nubi per la simmetria dei pori e la pressione di nubi adatte, una pressione sempre impetuosa per azione del vento, mentre in un secondo momento questa pioggia si congela durante la caduta a causa di un violento congelamento che si verifica nelle zone più basse delle nubi. (107) Da questa illustrazione si evince quindi che la possibilità esplorata da Epicuro si riferisce al potere causale di un determinato corpo, la pioggia sottile, attivabile dall’interazione con uno o più corpi esterni, la nuvola dotata di pori commisurati e i venti impetuosi, a loro volta materialmente adatti a esercitare su di esso l’azione necessaria alla produzione dell’effetto, ovvero una pressione tale da far cozzare tra loro e congiungersi in una trama più solida le particelle acquose. Ora, alla luce di queste ultime considerazioni sul significato di possibi­ lità causale, si deve cercare di comprendere meglio che cosa significhi che un fenomeno ha molteplici aitiai, ovvero capire se esse siano mutuamente esclusive o no, e chiedersi, come suggerisce Epicuro, «in quali casi valga questa o quest’altra spiegazione» (99).

3. Le molteplici aitiai dei meteora Il testo della Epistola a Pitocle lascia aperta la possibilità di intendere la mol­ teplicità delle aitiai dei fenomeni celesti, in più modi. In primo luogo, si è detto, aitia sembra riferirsi semplicemente a una causa efficiente possibile di un dato fenomeno, ovvero a uno o a più corpi in combinazione tra loro, che possono determinare la generazione di un certo effetto in virtù della loro azione. Queste cause possibili, a volte, sono trattate da Epicuro come mutuamente esclusive, nel senso che non possono per lui darsi contemporaneamente, a volte, però, sono considerate tra loro compatibili. Per esempio, nei paragrafi 96 e 97, esaminando il caso dell’eclisse, dopo aver elencato alcune possibilità e raccomandato di prestare attenzione alla compatibilità delle spiegazioni fornite per i vari meteora, l’autore ammette anche, tra le varie, la possibilità di un concorso di circostanze: Ἔκλειψις ἡλίου καὶ σελήνης δύναται μὲν γίνεσθαι καὶ κατὰ σβέσιν, καθάπερ καὶ παρ’ ἡμῖν τοῦτο θεωρεῖται γινόμενον, καὶ ἤδη κατ’ ἐπιπροσθέτησιν ἄλλων τινῶν, ἢ γῆς ἢ οὐρανίου τινος ἑτέρου τοιούτου. καὶ ὧδε τοὺς οἰκείους

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ἀλλήλοις τρόπους συνθεωρητέον, καὶ τὰς ἅμα συγκυρήσεις τινῶν ὅτι οὐκ ἀδύνατον γίνεσθαι. L’eclissi del sole e della luna può verificarsi sia per uno spegnimento, proprio come si vede che accade anche presso di noi, sia anche per l’inter­ posizione di altri corpi, o della terra o di qualche altro corpo celeste di tal genere. E così bisogna considerare nel loro insieme le spiegazioni che si accordano le une con le altre e pensare che non sia impossibile che si verifichi un concorso di circostanze. Ancora più chiara in questo senso la spiegazione delle cause della forma­ zione delle nubi che fornisce tre possibili cause: (1) la condensazione del­ l’aria dovuta alla pressione dei venti; (2) l’aggregazione e la combinazione di atomi capaci di generare le nuvole; (3) la raccolta in uno stesso luogo di vapore proveniente dal suolo e dall’acqua: Νέφη δύναται γίνεσθαι καὶ συνίστασθαι καὶ παρὰ πιλήσεις ἀέρος πνευμάτων συνώσει καὶ παρὰ περιπλοκὰς ἀλληλούχων ἀτόμων καὶ ἐπιτηδείων εἰς τὸ τοῦτο τελέσαι, καὶ κατὰ ῥευμάτων συλλογὴν ἀπό τε γῆς καὶ ὑδάτων· καὶ κατ’ ἄλλους δὲ τρόπους πλείους αἱ τῶν τοιούτων συστάσεις οὐκ ἀδυνατοῦσι συντελεῖσθαι. Le nubi possono formarsi e unirsi sia per il condensamento d’aria dovuta alla pressione dei venti, sia per gli intrecci di atomi tra essi saldamente connessi e adatti a produrre questo fenomeno, sia per una raccolta di esalazioni che si sprigionano dalla terra e dalle acque. Ma non è impossi­ bile anche che gli addensamenti delle nubi avvengano in numerosi altri modi. (99) È evidente che, tra queste cause possibili, la seconda è compatibile sia con la prima sia con la seconda.18 Inoltre, come ben messo in luce da Verde,19 ci sono cause possibili di un fenomeno celeste, che non possono attuarsi contemporaneamente con altre di meteora diversi. Per esempio, la luna può ricevere la luce da se stessa o dal sole (94), ma la seconda spiegazione non è compatibile con una delle spiegazioni possibili del tramonto del sole, ovvero lo spegnimento (92).20 In secondo luogo, aitia, si è detto, si riferisce più specificamente al potere causale che un corpo possiede intrinsecamente di produrre un certo effetto, qualora interagisca con un fattore esterno in grado di attivarlo, in

18 Per un approfondimento, Masi 2014: 54; Verde supra: 193 ss. 19 Verde supra: 173. 20 Wasserstein 1978, Bakker 2016: 263, Verde supra: 74 ss.

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virtù della propria composizione e configurazione materiale. Rispetto a questa accezione del termine, sostenere che uno stesso fenomeno ha molte­ plici aitiai significa che il potere causale di un corpo, responsabile di quel fenomeno, può essere attivato da più fattori, ovvero che un certo corpo può determinare uno stesso effetto, interagendo in uno stesso mondo e anche, in alcuni casi, in uno stesso tempo, con fattori esterni diversi, in virtù della materia che lo compone, disponibile, per la propria peculiare natura, configurazione e attività, a combinazioni diverse. Questa tipo di indeterminatezza ontologica dei meteora, che consiste nell’impossibilità di prevedere a priori con quale fattore effettivamente un corpo coinvolto nel processo, interagirà per dare origine e determinare l’essenza di un fenomeno celeste, è perfettamente coerente con la nozione di materia sottostante alla cosmogonia epicurea esposta brevemente nel paragrafo 89: ὅτι δὲ καὶ τοιοῦτοι κόσμοι εἰσὶν ἄπειροι τὸ πλῆθος ἔστι καταλαβεῖν, καὶ ὅτι καὶ ὁ τοιοῦτος δύναται κόσμος γίνεσθαι καὶ ἐν κόσμῳ καὶ μετακοσμίῳ, ὃ λέγομεν μεταξὺ κόσμων διάστημα, ἐν πολυκένῳ τόπῳ καὶ οὐκ ἐν μεγάλῳ εἰλικρινεῖ καὶ κενῷ, καθάπερ τινές φασιν, ἐπιτηδείων τινῶν σπερμάτων ῥυέντων ἀφ’ ἑνὸς κόσμου ἢ μετακοσμίου ἢ καὶ ἀπὸ πλειόνων, κατὰ μικρὸν προσθέσεις τε καὶ διαρθρώσεις καὶ μεταστάσεις ποιούντων ἐπ’ ἄλλον τόπον, ἐὰν οὕτω τύχῃ, καὶ ἐπαρδεύσεις ἐκ τῶν ἐχόντων ἐπιτηδείως ἕως τελειώσεως καὶ διαμονῆς ἐφ’ ὅσον τὰ ὑποβληθέντα θεμέλια τὴν προσδοχὴν δύναται ποιεῖσθαι. È possibile, invece, comprendere che tali cosmi siano anche illimitati di numero e anche che un tale cosmo possa formarsi sia in un cosmo sia in un metacosmo, come chiamiamo l’intervallo compreso tra cosmi, in un luogo ricco di vuoto e non in uno spazio grande, puro e vuoto, come pure taluni sostengono. Ciò accade perché alcuni atomi adatti a tale fine defluiscono da un solo cosmo o da un metacosmo o anche da più cosmi, producendo a poco a poco su un altro luogo aggiunte, connessioni, sposta­ menti, nel caso in cui così capiti, e afflussi derivanti da corpi adatti, sino a raggiungere un compimento e a ottenere stabilità, fino al punto in cui le basi, poste a fondamenta, riescano a sostenere l’aggiunta. Non solo il cosmo nel suo complesso, ma ogni corpo celeste interno a un singolo perimetro di cielo, è il risultato di una stratificazione materiale gradualmente più complessa, alla cui base si trovano atomi. Questi, a loro volta, sono dotati rispettivamente di una certa grandezza e forma, determi­

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nate dai minima di cui sono costituiti,21 nonché di certi moti, in parte naturali, forse anche indeterminati a loro volta, se si ammette anche in ambito cosmologico la presenza della deviazione atomica, in parte forzati dalle reciproche collisioni. Forma, grandezza e moti, inoltre, rendono gli atomi idonei a formare le fondamenta delle aggregazioni e ad attivare processi di interazione reciproca. La struttura atomica di ciascun corpo celeste, così concepita, quindi, fa sì che un corpo celeste sia disposto a rapportarsi in maniera varia, seppur in misura limitata, con altri corpi. Alla luce di ciò, quindi, si può capire perché il pleonachos tropos si applichi in particolare, anche se forse non solo,22 ai fenomeni celesti: i meteora sono determinati dalle plurali potenzialità intrinseche presenti nei corpi interessati da tali processi, in base alla loro struttura materiale e attività cinetica, attivabili dal concorso di più, seppur limitati, fattori esterni, operanti singolarmente o in combinazione tra loro. Il metodo delle molteplici spiegazioni, quindi, dipende strettamente da un principio di multi-realizzabilità della materia cosmica.

4. Il pleonachos tropos nella tradizione epicurea Questa interpretazione ontologica del metodo consente, infine, di svolgere alcune considerazioni conclusive sulla interpretazione e declinazione che ne hanno offerto gli epicurei seriori, in particolare Lucrezio e Diogene di Enoanda. Come è noto ed è stato anticipato sia qui sia più estesamente da Verde,23 Lucrezio sostiene la tesi, già menzionata, non riscontrabile negli scritti superstiti di Epicuro, secondo cui, data l’infinità dei mondi, tra le varie spiegazioni possibili indicate di un certo tipo di fenomeno, tutte le spiega­ zioni sono vere in mondi diversi e una sola nel mondo attuale (principle of plenitude), anche se non è possibile determinare quale. Nel quinto libro del De rerum natura, Lucrezio si interroga sulla causa del moto delle stelle e in tale contesto sostiene: Quale infatti di queste cause si dia nel mondo presente, dirlo certo è difficile; ma ciò che può essere, e avviene nel tutto, nei vari mondi con varia struttura creati,

21 Sulla dottrina dei minima, i testi di riferimento e la bibliografia completa, si veda Verde 2013a. 22 Su questo si veda Bénatouïl 2003: 20. 23 Cfr. Verde supra: 76 ss.

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questo io insegno, e proseguo a esporre cause diverse, che possono avere, nel Tutto, i moti degli astri. Di tali cause, è necessario che, pur qui, una sola sia la causa che dia forza al moto degli astri: ma qual sia tra di esse, non possono insegnarlo assolutamente coloro che avanzano a passo prudente. (vv. 526-533)24 Una tesi analoga è sostenuta nel sesto libro, in un contesto di indagine diverso dal precedente, non più centrato sui fenomeni propriamente cele­ sti, in un passo collocato subito dopo l’analisi delle cause dell’eruzione dell’Etna e prima della spiegazione delle piene del Nilo: Esistono anche certe cose, delle quali dichiarare un’unica causa non basta: se ne devono dare svariate, di cui tuttavia solo una è la vera: come se da lontano tu stesso vedi giacere il corpo privo di vita di una persona, si verifica essere meglio enunciare tutte le cause della sua morte, perché si dica l’unica propria al suo caso. Non potresti, infatti, essere certo ch’egli è morto per spada o per freddo, né per malattia, forse, oppure per un veleno: ma che è stato qualcosa di questo tipo che gli è capitato lo sappiamo. E ancora in molte altre cose possiamo dir questo. (vv. 703-711) Stando a questi passi, Lucrezio sembra intendere il pleonachos tropos nel senso che, dato un certo fenomeno, si fornirà una spiegazione adeguata, se si sarà in grado di indicare varie cause possibili alternative tra loro, di cui una sola è vera in questo mondo e non è possibile determinare con certezza unicamente per la distanza che separa l’osservatore dall’oggetto indagato. Diogene di Enoanda, fr. 13 col. III Smith, invece, riferisce la tesi secon­ do cui, tra le spiegazioni possibili date, una sarebbe più persuasiva (pitha­ noteron) rispetto alle altre.25 Entrambi gli autori, dunque, in questi passi sembrano preoccupati di suggerire una gerarchizzazione delle spiegazioni date. Lucrezio, inoltre, afferma che tra le cause indicate una sola sia effettivamente operante. Rispetto alla versione del pleonachos tropos attestata nella tradizione epi­ curea, ci si limiterà qui a notare alcune differenze tra Epicuro e i suoi successori. In primo luogo, mentre Epicuro, in merito al pleonachos tropos, ha come scopo appunto quello di stabilire un rapporto tra ontologia ed

24 Trad. di G. Milanese. 25 Oltre a Verde supra: 66, si veda il bel lavoro di Corsi 2017.

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epistemologia dei fenomeni celesti, e di precisare i diversi aspetti causali e ontologici che sono alla base delle caratteristiche epistemiche delle mol­ teplici spiegazioni, i suoi successori, probabilmente perché ispirati dalla natura dei dibattiti in cui sono coinvolti, incentrati sulla criteriologia, e impegnati forse nella difesa della validità del metodo, qualora intenti a teorizzarlo,26 si concentrano maggiormente sulle questioni di natura epi­ stemologica, finendo, forse per questo, per esprimere una preferenza tra le spiegazioni fornite. In secondo luogo, la metafisica che fa da sfondo alla illustrazione del metodo da parte di Lucrezio e Diogene non sembra del tutto riducibile a quella che emerge dagli scritti di Epicuro. Infatti, mentre Epicuro sem­ bra insistere sulla molteplice capacità causale della materia che compone gli oggetti interessati dai fenomeni cosiddetti celesti, che impedisce di determinare a priori come un fenomeno si determinerà, nonché quindi di gerarchizzare le spiegazioni in termini di maggiore o minore plausibilità, gli Epicurei seriori sembrano trascurare questo aspetto dell’ontologia dei meteora, limitandosi a tenere in considerazione, da un lato, la distanza che impedisce di determinare quale sia la causa vera, dall’altra, l’infinita disponibilità della materia e dei mondi, che rendono compatibili la tesi della verità di tutte le spiegazioni con quella della maggiore plausibilità di una rispetto alle altre nel mondo attuale. Ciò induce anche a pensare, infine, che la nozione di causa utilizzata da Epicuro non sia nemmeno del tutto riconducibile a quella dei suoi successori. Se, infatti, per esempio, nei passi sopra citati, causa per Lucrezio indica propriamente la causa efficiente, ovvero il fattore, o l’insieme dei fattori, che, qualora attualizzato, determina un certo effetto e che si dà alternativamente alle altre cause indicate, Epicuro intende per aitia più precisamente il potere o la disposizione di un corpo a produrre un certo effetto in virtù della sua composizione materiale e attività cinetica in com­ binazione e interazione con altri fattori esterni considerati singolarmente o anche in combinazione tra loro. Lucrezio, quindi, presumibilmente si riferisce a una causa sola tra le varie possibili, intendendo, forse, con questo, lo scenario complessivo che determina l’effetto nel mondo attuale; Epicuro, invece, insistendo sulla causa molteplice, intende probabilmente rimandare alla potenzialità della materia, che è strutturalmente plurima.

26 Naturalmente, nel momento in cui si dedicano alla fisiologia di tali fenomeni, sia Lucrezio sia Diogene si impegnano su un piano ontologico, e non solo epistemo­ logico.

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5. Conclusione Alla luce di queste ultime considerazioni, è chiaro che l’Epistola a Pitocle costituisce una risorsa unica e imprescindibile per comprendere le ragioni del pleonachos tropos e della sua specifica applicazione ai meteora. Tra i testi epicurei superstiti che lo teorizzano e illustrano, la lettera è quella che meglio ci consente di stabilire perché per Epicuro sia possibile fornire mol­ teplici spiegazioni dei fenomeni celesti. I corpi celesti si iscrivono in un perimetro di cielo la cui materia, per le modalità e la natura della sua costi­ tuzione, possiede una pluralità di potenzialità causali. Queste potenzialità sono tali da determinare, in modo aprioristicamente imprevedibile seppur limitato, gli stessi processi in combinazione con più fattori esterni diversi, a loro volta in grado di attivarle non solo in mondi diversi, ma anche nello stesso mondo, e, nello stesso mondo, non solo in tempi diversi, ma anche nello stesso tempo. Il testo, la traduzione e il commento offerti da D. De Sanctis e F. Verde hanno il merito di restituirci la dottrina in tutta la sua bellezza letteraria, precisione storica e profondità teoretica.

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304

Index Locorum

Aelianus – De natura animalium XII 5 253 Aenesidemus Cnosius (Polito) B 14 59n. Aeschylus – Heliades (Radt2) 70 31n. Aëtius – Placita (Mansfeld-Runia) 370-371 29n. 655 160 795 161 846 155 858 179 905 175 938 176 971 184 992 162 1012 178-180 1049 184 1065 184 1169 236 1182 197 1183-1184 199 1185 197 1203 193, 217 1203-1204 194 1204 218 1215 228 1302 74n., 210 Alciphro – Epistulae IV 17, 3 48n., 50n. Alexander Aphrodisiensis – In Aristotelis Meteorologica (Hay­ duck) 141 230

Alexis – Achaiis (Kassel-Austin) II 31 Anaxagoras (Diels-Kranz) 59 A 1 59 A 26 59 A 42 59 A 72 59 A 73 59 A 84 59 A 85 59 A 89 Anaximander (Diels-Kranz) 12 A 22 12 A 23 Anaximenes (Diels-Kranz) 13 A 5 13 A 14 13 A 15 13 A 17 13 A 18 13 A 21 Aquilius – Definitiones (Rashed) 85 Aratus Soleus – Phaenomena 1-25 733-772 733-1154 768-771 771-772 913 942 1143-1144 Archelaus (Diels-Kranz) 60 A 1 60 A 4

101n. 179, 236 179 184 162, 179, 184 30n. 199 193, 217, 219, 224 209 184 197 193 176 179 193 228 209

229

36 252 252 253 253 252 252 252 162 162

305

Index Locorum 60 A 16a 208 Aristippus Cyrenaeus (Giannantoni) IV A 167 30n. Aristocles Messanius (Chiesara) F8 90n. Aristophanes – Nubes 228 30 404-407 198 Aristophanes Byzantius (Slater) 404 16 Aristoteles – Analytica posteriora I 2, 71b 9-12 88 I 31, 87b 28-33 89n. II 1, 89b 23-35 88n. II 19, 99b 39-100a 3 87n. – Categoriae 7 164 – De anima II 89 II 6, 418a 11-16 90n. II 7, 418b 13-17 230 II 7, 418b 13-26 231 III 3, 428a 11-12 90n. III 3, 428b 3-4 162 III 3, 428b 18-22 90 – De caelo I 5, 271b 1-279a 18 157 I 9, 278b 18-24 154 II 2, 285a 32-b1 156 II 2, 285b 30-3, 286a 4 244 II 3, 286a 10-12 156 II 7, 289a 19-35 238 II 7, 289a 29-32 242 II 8, 289b 5-6 239 II 8, 289b 32-33 239 II 8 290a 7-13 238 II 12, 292a 18-21 242 – De partibus animalium I 1, 641b 15-20 93n. – De philosophia (Ross) 12a 35n. 21 242 – De sensu et sensibilibus 437b 10-438a 4 230

306

– Ethica Eudemia I 5, 1216b 10-16 – Ethica Nicomachea VII 1, 1145a-X 9, 1181b – Meteorologica I 1, 338a 20 I 1, 338a 26-339a 4 I 1, 338b 20 I 3, 341a 25-26 I 4, 341b 32-35 I 4, 341b 34-35 I 4, 341b 35-342a 20 I 4, 342a 3-12 I 4, 342a 9-10 I 4, 342a 16-27 I 6, 343b 32-344a 2 I 7, 344a 5 I 7, 344a 5-8 I 7, 344a 13-14 I 7, 344a 14 I 7, 344a 33-344b 8 I 7, 344b 12-18 I 7, 344b 18-20 I 10, 347a 13 I 10, 347a 15 I 10, 347a 16-18 I 10, 347a 30-35 I 12, 347b 22-24 I 12, 347b 34-36 I 12, 347b 36-37 I 12, 347b 37 I 12, 347b 37-348a 2 I 12, 348a 14-18 I 12, 348a 14-20 I 12, 348a 18-20 I 12, 348a 26-27 I 12, 348a 32-b 2 I 12, 348b 2-8 I 12, 348b 12-15 I 12, 348b 22-25 I 12, 348b 26-29 I 14, 351a 25-26 II 1, 354a 28 II 2, 355a 13 II 4 II 4, 359b 28-34

255 12n. 177 27n. 93 95n. 245 245 247 85n. 95n. 249 164 57 60n., 92, 104n. 236 236 93 236 236 225 226 226 226 220 214 215 223 224 219 224 223 219 219 219 219 219 223-224 93n. 176 175 213 196

Index Locorum II 4, 360b 26-361a 4 II 4, 360b 32 II 7 II 7, 365a 1 II 7, 365a 15 II 7, 365a 19 II 7, 365b 1 II 7, 365b 4 II 7, 365b 6 II 8 II 8, 365b 21-28 II 8, 365b 32-366a 5 II 8, 366a 5-8 II 8, 366a 5-12 II 8, 366a 8-12 II 8, 366b 9-22 II 8, 366b 14-22 II 8, 366b 30-31 II 9, 368b 7-8 II 9, 368b 8-11 II 9, 369a 12-19 II 9, 369a 24-b 3 II 9, 369b 4-9 II 9, 369b 9-11 II 9, 369b 11 II 9, 370a 10-21 II 9, 370a 27-33 II 9, 370a 29-30 III 1, 370b 17-27 III 1, 370b 27-31 III 1, 371a 15-16 III 2, 371b 22-24 III 2, 371b 26-32 III 2, 372a 21-29 III 2, 372b 12-14 III 3, 373a 27-29 III 4, 373a 35-b1 III 4, 373b 13-32 III 4, 373b 20-21 III 4, 373b 32-33 III 4, 375a 17-20 III 5, 375b 16-377a 28 – Metaphysica A 1, 981b 10-13 A 2, 982b 12-17 B 1, 995a 24-b 4 Λ 8, 1073b 17-32

196 196 209 73n. 209 209 209 209 209 209 210 210 210 85 210 74n. 60n. 60n., 97 203 203 196 197 199 95n. 199 201 197 194 207 207 206 234 231 228 234 235 230 230 229-230 230 228 231 89n. 30 88n. 70n.

Λ 8, 1073b 32-38 70 Λ 8, 1074a 2-3 244 – Physica VIII 1, 252a 11-12 102n. – Topica I 18, 108a 37-b 1 87n. [Aristoteles] – De mundo 392a 31 243 394a 23-26 225 394a 25-26 226 394a 32-34 220 395a 10-14 197 395a 15 122 395a 28-32 202 395a 32-34 228 395a 33 232 395a 34 233 395a 34-b 3 233 395b 3 235, 248 395b 9 235 395b 30-36 210 395b 33-36 74n. 398b 20 243 – Liber de inundacione Nili (Gigon) 686 95n. 695 95n., 205 – Problemata 941b 9-10 192 Arius Didymus – Epitome (Diels) fr. 1 22n. fr. 14 229 Athanasius Alexandrinus (Migne) 28 925, 29-31 111 Athenaeus Naucratites – Deipnosophistae XIII 588A 50n. XIII 611B 43n. Biblica Novum Testamentum – Evangelium secundum Matthaeum 27, 54 32n. – Evangelium secundum Marcum 4, 35-41 32

307

Index Locorum – Evangelium secundum Lucam 9, 28-36 32n. 9, 34 32 – Evangelium secundum Iohannem 12, 28-29 31-32 – Liber Actuum Apostolorum 1, 9 32n. 16, 25-26 32n. 17, 18 35 – Ad Romanos I 20 35 Vetus Testamentum – Exodus 19, 9 31 19, 16 31 – Liber Iob 5, 10 32n. 9, 7-9 32n. 38, 8-11 32 – Liber Psalmorum 106, 23-30 32 – Liber Sapientiae Salomonis 13, 1-3 32n. 13, 1-9 32 – Liber Hieremiae 14, 22 32 – Liber Danihelis 3, 57-80 35 – Iona Propheta 1, 4 31 Boethus Sidonius (von Arnim) III 4 192 Calcidius – In Platonis Timaeum 6-7 22 Callimachus – Epigrammata (Pfeiffer) XXIII 1-4 23n. Chariton IV 6, 1, 6-7 111 Marcus Tullius Cicero – Academica I 2, 5 24n. – Ad familiares XV 19, 2 24n.

308

– De divinatione II 17, 40 158 II 18, 42 38n. II 20, 45 38 II 21, 47 192 II 23, 50 37 II 63, 130 35n. – De natura deorum I 8, 18 158 I 8, 20 112 II 5, 13-15 34 II 15, 42-16, 44 242 II 34, 88 75n. III 7, 16 34 – De re publica I 14, 22 180 – Tusculanae disputationes IV 3, 6-7 24 Clemens Alexandrinus – Stromata II 2, 9 5 106n. V 14, 102 5 22 V 14, 144 4 31n. Cleomedes – Caelestia (Todd) II 1 164 II 1, 110-114 168 II 1, 357-367 166 II 1, 357-413 165 II 1, 404-406 162 Critias – Sisyphus (Snell-Kannicht) 43 F 19 29 Damascius – In Platonis Phaedonem (Westerink) II 173, 1-3 105n. II 301, 5-6 105n. II 325, 4-15 105n. Demetrius Laco – PHerc. 1012 (Puglia) LXX 9 50 – PHerc. 1013 (Romeo) XX-XXI 167-168 XX 7-8 168 XXI 168-169 XXI 8-9 168

Index Locorum XXII 6 163 Demetrius Magnesius (Zaccaria) 16 43n. Democritus (Diels-Kranz) 68 A 1 160 68 A 39 161 68 A 40 160 68 A 75 54n. 68 A 88 244 68 A 89 180 68 A 93 199 68 A 93a 214 68 A 97 73n., 209 68 A 98 72n. 68 A 135 227 Diocles Magnesius (Zaccaria) 18 11 Diogenes Laërtius – Vitae II 9 179, 236 II 12 184 II 23 208 II 45 30n. V 44 98n., 100n. V 45 91 VI 39 30n. VII 73 157 VII 144 166 VII 152 229, 231 VII 153 216 IX 31 154, 158, 160 IX 45 160 X3 43n. X5 50n. X 12 11, 179, 208 X 13 158 X 13-14 15 X 23 52n. X 26 188 X 26-28 14 X 29-30 255 X 31 112, 254 X 34 79n., 169 X 35-83 15

X 39-41 X 63 X 72-73 X 83 X 84-116 X 117 X 118 X 119 X 122-135 X 135 X 136 X 138 X 139-154 Diogenes Oenoandensis – Fragmenta (Smith) 1, 1-4 3, II 7-VI 14 4 6, I 2-4 13, I 1-13 13, I 7-9 13, I 9-11 13, I 11-II 12 13, III 13, III 3-5 13, III 9-13 13, IV 10-14 14 14, 7 14, 7-8 14, 8-9 20, II 12 28, 1-4 30, III 5-14 63 66 68, 1-7 72, III 11-13 98 98, 8-11 99 117, 1-3 122, II 8-9 125, III 9-IV 10 126, III 5-6

14 50 14 43 15, 40 14n. 189 188 15 14, 251 188 188 14, 17 e n.

24 25 30n. 151 179 249 238 244 66, 81, 273 66 66 166 215-216 215 215 220 243 25 26 146 61n. 25 26 204 208 215, 224 26 24n. 25 145

309

Index Locorum 137, 1-3 25 – New Fragments (HammerstaedtSmith) 155 (YF 200) 190 182, II 9-10 245 182, II 11-14 249 186, I 5-8 112 213 256 – Theological Physics-Sequence (Hammerstaedt-Smith) XIII 243 XIII 11-XVI 8 256 XV 245, 249 XV 14-XVI 4 191 Diogenes Sinopeus (Giannantoni) V B 371 30n. Empedocles (Diels-Kranz) 31 A 58 179 31 A 60 184 31 A 63 199 31 B 84 230 Epicurus – De natura II (Leone) 155 coll. 1-7 188 col. 106 20-21 193 col. 116 10 112 col. XXII 3-4 112 col. XXIII 7 112 XI (Arrighetti [26]) 54, 61, 136, 163, 170-171, 239 [18] 64n. [23] 56n., 61n. [24] 227 [30] 60n. [32] 82 [38] 60n., 260 [38-39] 75, 180 [41] 58, 60n. [42] 54n., 60n. [44] 67n. [45] 82 XI-XIII 82, 101

310

XII XII-XIII XIV (Leone) col. XXXIV 11 col. XXXV 13-15 col. XXXVI 2 col. XXXVIII 2 XV (Millot) XXV (Arrighetti [34]/ Laursen 1997) [24]/p. 28 [30]/p. 40 XXVIII (Sedley) – Epistula ad Herodotum 35-36 35-37 38-39 39 40 43 44 45 49 50 55 58-59 63-66 72 72-73 73 74 74 (schol.) 75 78 78-80 79 80 82-83 – Epistula ad Menoeceum 127 133 134 135

46, 138, 187-189 15, 17 14n., 184, 239 152 67n. 152 113 14n. 54, 266n. 267n. 160 54 113 12, 147 104n. 54, 151 151 225 225 155 267n. 153, 225, 248 153 63 267n. 113 191 113, 155 155-156 188 120 54, 62n. 54-55 55, 69n. 56, 67n. 12, 25 62n. 177 177 14, 146

Index Locorum – Epistula ad Pythoclem (non sono indicizzati i luoghi ci­ tati nel Commentario) 84 83, 101 84-85 13, 15, 125 85 54, 56, 76, 110, 112, 125 85-87 17, 109 85-88 58, 125 86 58, 60, 63, 260 87 60, 66, 82, 111, 114 87-88 262-263 88 62n., 82, 115 88-90 18, 125 89 271 90 76, 104n., 115, 125 91 117, 125, 262 91-93 18 92 75, 78n., 117, 270 92-93 117, 125 93 118, 125 94 118, 125, 270 94-95 63, 75 94-96 19, 125 95 73, 264 96 46, 67, 76n. 96-97 17, 125, 269-270 96-97 (schol.) 46 97 125, 267 98 118, 125 98-99 125, 266 99 65, 67, 113, 125, 269-270

99-100 100 101 101-102 101-103 103 103-104 103-106 104 104-105 105 105-106 106 106-107 107 107-108 108 108-109 109 109-110 110 110-111 110-114 111 112 112-113 113 114 114-115 115-116 116 – Epistulae (Erbì) 6F 6T 36 Fa 36 Fb 45 T 50 F1-2 67 T

19, 125 67, 119, 125 118-119, 268n. 268 125 119 18, 125 20 119 125 74, 120 125 120, 125 125 118, 120, 268-269 125 120, 125, 268 120 125 120-121, 126 262 126 20 126, 264 121, 126 126 65, 264-265 122, 126 126 19-20, 126 13, 122, 126 50n. 50 51n. 51n. 48n. 145 50

311

Index Locorum 68 F 69 T 70 Fa 71 F 129 F2 – Ratae Sententiae XI-XII XXIV – Sententiae Vaticanae 33 51 58 62 70 – Fragmenta (Usener) 27 29 81 83 117 135 152 161 162

50n. 48n., 50n. 50 51n. 64 55n. 60 14n. 48 114 112 122

251 231 136 138 50n. 51n. 48n. 49-50 48n., 50n. 163 50 164 50 165 50n. 192 77n. 260 90n. 303 155 305 161 342 158 349 218 350 74n., 210 351 72n., 210 359 158 364 158 367 158 387 64 p. 234 adn. 158 – Spicilegium Fragmentorum et Testi­ moniorum (Usener) 271 151 – Fragmenta (Arrighetti) 15 251

312

43 50n. 53 51n. 69 48n. 88 50n. 89 50 90 51n. 114 64 118 50 170 192 Eudorus Alexandrinus (Mazzarelli) 25 22n. Eudoxus Cnidius (Lasserre) D6 70n. F1 180 Eusebius Caesariensis – Praeparatio Evangelica XI 23, 2-6 22n. XIII 13, 41 31n. XIV 21, 1 90n. – Vita Constantini III 54, 2 253 Heraclitus (Diels-Kranz) 22 B 3 162 22 B 6 175 22 B 94 162 Hermarchus (Longo Auricchio) 2 52n. 3 48n. 13 158 26 41 Hermodorus (Isnardi Parente2) F5 164 – Hymni Orphici 19 (Ricciardelli) 31 31 F (Bernabé) 31 31 F, v. 1 31 31 F, v. 3 31 31 F, v. 6 31 Hippias (Diels-Kranz) 86 A 11 27n. ‘Hippolytus’ – Refutatio omnium Haeresium I 8, 6 184 I 9, 3 162 I 12, 2 158 I 13, 3 160

Index Locorum I 22, 3 158 Homerus – Ilias I 44-49 33 V 77-78 34 XXI 60 112 XXI 324-330 34 Idomeneus Lampsacenus (Angeli) 2 48n. 3 52n. 19 a 51n. 19 b 51n. Iohannes Lydus – De ostentis 21 196, 205, 223 Leucippus (Diels-Kranz) 67 A 1 154, 158, 160 67 A 2 158 67 A 10 158 67 B 2 160 Titus Livius – Ab Urbe condita libri XXIII 31 38n. Titus Lucretius Carus – De rerum natura I 62-101 18n. I 921-950 16n. II 795-809 231 II 1070-1076 155 II 1105 159 II 1084-1089 155 II 1118-1138 161 II 1128-1138 159 II 1133-1145 155 V 119-150 116 V 146-147 158 V 235-246 161 V 364-379 161 V 380-415 161 V 510-516 155, 176 V 517-525 176-177 V 523-525 178 V 524 178 V 526 77

V 526-533 V 528 V 529 V 530 V 531 V 585-609 V 614 V 614-620 V 614-649 V 621-624 V 621-628 V 621-636 V 637-649 V 643-645 V 650-662 V 662 V 666-679 V 670 V 676 V 677-679 V 679 V 680-704 V 689-695 V 696-700 V 705 V 720-730 V 751-770 V 753-754 V 753-757 V 757 V 762-763 V 762-764 V 764 V 768-770 V 1183-1185 V 1183-1197 VI 86-89 VI 96-159 VI 96-607 VI 102-115 VI 102-120 VI 108-115 VI 116-120 VI 121-131 VI 130 VI 130-131 VI 145-155

76, 273 77 77 77 77 165 178 242 243 244 180 244 179 179 176 175 177 177 177 177-178 177 191 179 179 184 182 185 187 186 187 188 186 188 186 178 29 38n. 196 102 197 198 198 197 196 198 198 197

313

Index Locorum VI 156-157 VI 156-159 VI 160-218 VI 164-172 VI 189-193 VI 194-203 VI 217 VI 219-422 VI 274-289 VI 357-422 VI 381 VI 410 VI 421-422 VI 423-450 VI 433 VI 438 VI 438-445 VI 439 VI 446-450 VI 451-454 VI 455-459 VI 455-469 VI 459-464 VI 470-484 VI 495-523 VI 507 VI 510-518 VI 513-516 VI 524-526 VI 527-534 VI 529 VI 529-530 VI 535-607 VI 552-556 VI 555-556 VI 579 VI 703-711

198 216 199 203 95n. 202 201 204 204 190 37 206 205 206 119, 207 206 207 208 207 193 195 193 205 194 194 194 194 194 230 225 225 216 208 211 211 73n. 78-79, 273 79 80 80 80 95n. 80

VI 705 VI 708 VI 711 VI 729 VI 732-734 VI 735 Gaius Cilnius Maecenas – Prometheus (Lunderstedt) fr. 10 7

314

Manilius – Astronomica 64 36 Metrodorus Chius (Diels-Kranz) 70 A 4 175, 186 70 A 15 197 Metrodorus Lampsacenus (Körte) IX, pp. 542-543 41 63 48n. Minucius Felix – Octavius V 9-13 256 Olympiodorus – In Aristotelis Meteora (Stüve) 80 30-81 1 95 Origenes – Contra Celsum IV 75 256 V6 256 VI 27 256 Pappus Alexandrinus – Synagoge (Hultsch) 6, p. 554 26 121 Parmenides (Diels-Kranz) 28 A 42 184 Philodemus – De diis III (Essler) coll. VIII-IX 158 – De divitiis I (Tepedino Guerra) col. XXXVI 6-9 51n. – De libertate dicendi (Olivieri) fr. 6 48n. – De morte (Henry) coll. XII 35-XIII 3 48n. – De pietate (Obbink) col. XXXI 889-896 64 col. XXXVIII 1092-1099 243 – De rhetorica I (Nicolardi) col. 238, 18-29 23 – De signis (De Lacy-De Lacy) coll. IX 12-XI 9 163 – Memoriae Epicureae (Militello) col. XX 3-18 52 – PHerc. 558 23 – PHerc. 1005 (Angeli) 45 Subscriptio 40

Index Locorum fr. 90, 1-21 fr. 107, 1-19 fr. 117, 1-18 col. VI 8-20 col. XI 1-20 col. XI 4-5 col. XI 5 col. XI 6-7 col. XI 7 col. XI 9 col. XI 10 col. XI 12 col. XI 13 col. XI 15 col. XI 17 col. XI 18 – PHerc. 1670 Photius – Bibliotheca (Bekker) cod. 249, 441a 34-b 14 Pindarus – Isthmia 21-22 Plato – Apologia Socratis 18b 6-c 3 – Charmides 176a-d – Epistulae II 313c-314c VII 323d VII 324b VII 328d-e VII 337e VII 340b-345c – Leges VII 821b-822c VII 822a XII 966d-e – Phaedo 84d-85b 96a 96a 8 99d-e 111c – Phaedrus 274c-279b

24n. 24n. 23 48n. 41-42 42 42 43 43 43 43 43 43 43 43 43 161

95n.

112

30n. 11n. 11 47 51 51 47 11 240, 243 243 35n. 192 190 30 104n. 164

– Protagoras 315c 27n. – Respublica X 206 – Sophista 255c 163 – Symposium 175c-e 11n. – Theaetetus 145d 4-9 30n. 208c 7-8 87n. – Timaeus 29d 94 31b 157 33b 156 33b 2 154 35a 93 38c 161, 240 38c-39a 243 38d-39a 243 40b 238 40c-d 56 40d 180 41a-d 23 Plutarchus – Adversus Colotem 1110C 231 1123A 158 1124C 49 – Contra Epicuri beatitudinem 1094D 50 e n. – De exilio 604A 162 – De facie in orbe lunae 920C-F 19n. 934F-935F 185 – Quaestiones naturales XVIII 916A-B 252 [Plutarchus] – Stromata (Diels) 7, Dox. 581 161 11, Dox. 582 175, 186 Polyaenus (Tepedino Guerra) 28 41 29 243

11

315

Index Locorum Polybius – Historiae VI 56, 6-15 29n. Polystratus – De contemptu (Indelli) col. XIV 23-26 190 coll. XV 20-XVI 8 190 Porphyrius – Ad Marcellam 30-34 14n. – Vita Plotini 4-5 22 24-26 22 Posidonius (Edelstein-Kidd) T86 75n. 11 216 15 229, 231 17 166 18 85n. 109 192 117 166 134 229, 232 Proclus – In Platonis Timaeum (Diehl) I 120, 21-121, 1 205 II 120, 29-121, 7 80, 93, 98n. III 151, 1-9 250 Prolegomena in Platonis philoso­ phiam (Westerink) 26 1-9 42 Claudius Ptolemaeus – Apotelesmatica (Tetrabiblos) I 2, 8 252 – Syntaxis mathematica (Heiberg) 1 1, p. 267 14 121 Lucius Annaeus Seneca – De beneficiis IV 19 158 – Epistulae ad Lucilium II 19, 9 7 II 21, 7 51n. IV 39, 1 146 V 52, 3 77n. – Naturales Quaestiones Praef. 13-17 38

316

I 1, 1 I 1, 3-4 I 1, 5 I 1, 6 I 3, 10 I 4, 1 I 5, 13 I 5, 13-14 II 27, 1-4 II 27, 2 II 27, 3 II 27, 4 II 28-29 II 28, 1 II 28, 2 II 32 II 39 II 50, 1 IV 3, 5 IV 4, 1-2 V2 V 13, 3 VI VI 12, 1 VI 20 VI 20, 1 VI 20, 1-3 VI 20, 4 VI 20, 5 VI 20, 6 VI 20, 7 VII 28, 2-3 Sextus Empiricus – Adversus Mathematicos I 1-6 VI 19 VI 20 VII 140 VII 145-146 VII 216-218 VII 350 VIII 112 VIII 319 IX 20-23 IX 24 IX 54 X2

249-250 250 249 248-249 162 232 229 232 196 196 198 196-197 198 196 198 37 37 38n. 217 223 214 206 72 208 210 72n. 73 73 72n. 211 74, 211 250

51n. 196 196, 198 53n. 105n. 105n. 105n. 157 57 35n. 54n. 29n. 151

Index Locorum – Pyrrhoneae hypotyposes I 181 59n. Simplicius – In Aristotelis Physicorum libros (Diels) 20 17-26 90 24 26 193 28 4-31 152 247 30-248 15 164 291 21-292 31 85n. – In Aristotelis Categorias (Kalbfleisch) 63 22-25 164 Sophocles – Oedipus Coloneus 1463-1471 31 1470 31 Socratis et Socraticorum Reliquiae (Giannantoni) I C 463 30n. IV A 167 30n. V B 371 30n. Speusippus (Isnardi Parente) 34 105n. 156 145 Stobaeus (Wachsmuth-Hense) – Eclogae I 30, 2 229 III 17, 23 51n. Stoicorum Veterum Fragmenta (von Arnim) I 501 178 I 528 34 II 215 157 II 705 197 II 1189 35n. III 4 (Boethus Sidonius) 192 Strabo – Geographica I 1, 20 68n. I 1, 21-22 28n. Strato Lampsacenus (Sharples) 61 105n. 77A 105n. 77B 105n. 78 105n.

Tatianus – Oratio ad Graecos 4 35 Theon Alexandrinus (Rome) – Commentaria in Ptolemaei Syntaxin mathematicam p. 413 20 121 Theophrastus – De causis plantarum I 21, 4 92n. – De igne 1 91, 94, 201 2 94 3 87n., 91 4 91 10 91 – De lapidibus 2 80n. 21 80n., 96 – De sensu 68 227 – De ventis 15 80n. 52 80n. 59 103 – Historia plantarum III 1, 5 92 III 1, 6 92 – Metaphysica (Laks-Most) 5a 16 244 6b 23-7b 8 102n. 8b 2 87 8b 10-17 86 8b 12 104n. 9b 8-16 89, 91 11a 5-7 102n. 11b 7 102n. – Fragmenta (Fortenbaugh-HubySharples-Gutas) 1 91 137 15a 98n., 100n. 143 90 159 80, 93, 98n. 186A-194 98n.

317

Index Locorum 193 250 194 250 211A 205 211A-D 98n. 211B 95, 205 229 152 280 231 301A 105n. 301B 106n. – Meteorologica (versio Arabica) (Daiber) 1. 2-23 197 1. 20 198 1. 24-38 198 2. 199 2. 2-17 96 2. 12-14 200 3. 202 5. 202 5. 2-8 203 5. 5-6 203 6. 204 6. 42 204-205 6. 44 102 6. 59-60 205 6. 75-85 205 7. 2-5 96 7. 12-15 95n. 9. 2-4 222 9. 4-5 222 9. 8-11 222 10. 2-3 215 10. 2-4 97 10. 3-6 218 11. 6 226 11.-12. 225 12. 2 226 13. 3-6 213 13. 10-17 213 13. 14-18 95n. 13. 24-32 96 13. 32 103n. 13. 43-45 207 13. 43-54 206 13. 45-46 208 14. 233 14. 3-11 102n.

318

14. 14-29 102, 189 14. 15-16 102 15. 2-16 96, 211 15. 3-7 211 15. 7-9 211 15. 12-16 212 15. 16-19 210 15. 19-21 210 15. 36 103 15. 37-38 103 [Publius Vergilius Maro] – Aetna 32-35 37 Claudius Marius Victorius – Alethia I 22-24 36 Xenocrates (Isnardi Parente2) F5 164 F15 164 Xenophanes (Diels-Kranz) 21 A 38 175 21 A 43 184 21 A 46 194 Xenophon – Apologia Socratis 12 29n. – Memorabilia IV 7, 3 30n. IV 7, 5 30 IV 7, 6 30n. Zeno Sidonius (Angeli-Colaizzo) 4 43n. 25 41 Papyri – PBerol. 9780 23 – PBerol. 9782 22 – PBerol. 9875 21 – PBerol. 16369 v. (Dorandi) 49, 52 col. II 48 – PDerveni (Kouremenos-Parásso­ glou-Tsantsanoglou) col. IV 5-9 162 – PHerc. 176 49 (Angeli) fr. 5 col. XVIII 52n.

Index Locorum fr. 5 col. XVIII 1-7 (Campos Daroca-de la Paz López Martínez) fr. 5 col. XXIII 1-6 (Vogliano) fr. 5 col. 26 53 – PHerc. 177 – PHerc. 1044 fr. 49, 3-5

50n. 52n. 166 44

fr. 49, 4-5 PLille 82 POxy. 1235 POxy. 1248 POxy. 2102 PFlinders Petrie 5-8 – PSI 1488

– – – – –

83n. 21 21 21n. 21 21 21 e n.

319

Indice dei nomi antichi

A Achille 34 Adriano (imperatore) 24n. Aezio 29, 74, 84n., 161-162, 179, 218 Agatone 11n. Afrodite 70 Albino 22n. Alcibiade 48n. Alcifrone 48n., 50n. Alcinoo 22n. Alessandro di Afrodisia 230 Alessi 101n. al-Rāzī 103 Amafinio 24n. Anassagora 30, 92, 162, 179, 184, 193, 199-200, 209, 219, 221, 224, 236 Anassimandro 184, 197 Anassimene 176, 179, 193, 209, 228 Antigone 31 Antigono di Caristo 21, 22n. Antioco di Ascalona 105n. Antipatro (destinatario dell’Epistola ad Antipatro di Diogene di Enoanda) 146 Antipatro di Magnesia (latore dell’Epi­ stola a Filippo II di Macedonia forse di Speusippo) 145 Apelle (destinatario dell’Epistola ad Apelle di Epicuro) 51 Apia 53n. Apollo 33 Apollo Sminteo 253 Apollodoro (epicureo) 50, 158 Arato di Soli 36, 252 Arcesilao 21, 23n. Archelao 162, 208 Ares 70 Ario Didimo 22n., 229 Aristarco di Samotracia 21 Aristocle di Messene 90 Aristofane (commediografo) 198

Aristofane di Bisanzio 16, 21n., 22n. Aristone di Chio 30 Aristotele 12n., 16, 27, 30, 35 e n., 39, 51, 57-58, 60n., 70, 73, 75, 84-85, 87, 88n., 89 e n., 93 e n., 95, 97-101, 102n., 103-107, 121, 155-157, 162, 164, 177, 194-201, 203, 206-207, 209-210, 213-215, 218-221, 224-226, 228-231, 233-242, 245, 249 Atanasio di Alessandria 111 Aulo Cecina 37 Avieno 36n. B Bar Bahlūl 98, 100 Batide 52n. Boeto di Sidone (stoico) 192 C Calcidio 22 Callimaco di Cirene 21, 23n. Callippo di Cizico 70 Caritone 111 Castore 112 Catio 24n. Celso (platonico) 256 Cicerone, Marco Tullio 24 e n., 34, 36n., 112 Cleante 34, 36 Clemente di Alessandria 22 Cleombroto 23n. Cleomede 162-166, 168 Cleone (latore dell’Epistola a Pitocle) 135, 145 Clidemo 92, 201 Colote di Lampsaco 50 Crisippo 35n. Crizia 29 Cronio 48, 52 Cronos 70 Ctesippo 52

321

Indice dei nomi antichi D Damascio 105n. Demetrio Lacone 23n., 41-42, 45, 50, 165-170 Democrito 72-73, 155, 160, 176, 178, 180, 199, 209, 214, 227, 244 Didimo Calcentero 23 Diocle di Magnesia 11, 12n. Diogene di Apollonia 92 Diogene di Enoanda 54, 65-66, 67n., 68, 71-73, 81-83, 112, 146, 151, 190, 204, 215-216, 220, 224, 243, 261, 272-273, 274 e n. Diogene di Sinope 30 Diogene di Tarso 46, 138, 188-189 Diogene Laerzio 11, 14 e n., 15-16, 17 e n., 18, 21 e n., 28, 40, 43, 45-46, 50-51, 91, 109, 112, 115, 118, 148-149, 154, 158, 160, 166, 179, 188, 208, 213, 229, 232 Dione di Siracusa 47 Dionisio di Cirene 163 Diotimo (democriteo) 53 Diotimo/Teotimo (stoico) 43 E Edipo 31 Efesto 34 Empedocle 16n., 179, 184, 199-200, 230 Enesidemo di Cnosso 59 Eraclito 162, 175 Ermarco di Mitilene 42, 52, 158 Ermes 70 Ermodoro 164 Erodoto (destinatario dell’Epistola a Erodoto) 110, 135, 148 Eschilo 31 Esiodo 13n., 16 Eudoro di Alessandria 22n. Eudosso di Cnido 17n., 65, 70, 180 Euripide 29 Eusebio di Cesarea 22n. F Quinto Fabio Massimo 38n. Filodemo di Gadara 23 e n., 24 e n., 40-43, 45, 48-49, 51-52, 54, 64

322

Filonide di Laodicea a mare 44, 83n. Fozio 95n. G Geremia (profeta) 32 Germanico 36n. Gesù 32 Giacomo (apostolo) 32 Giovanni (apostolo) 32 Giovanni Lido 196, 205, 223 Giove (v. Zeus) I Ibn Al-Khammār 96, 98, 100 Idomeneo di Lampsaco 49, 51, 52n. Iolao 112 Ippia 27n. Isḥāq ibn Ḥunayn 86 Isocrate 51, 145 L Leonteo 48-49 Leonzio 52 Leucippo 154-155, 158, 160, 178 Tito Livio 38n. Lucrezio 13n., 14, 16n., 18n., 24 e n., 28-30, 36-37, 44, 54, 61n., 65, 68, 73-74, 76-83, 84 e n., 98-101, 116, 119, 145, 159, 161, 165-166, 176-180, 185-188, 194, 196, 198-199, 201, 203-207, 211, 214, 216, 225-226, 232-233, 235, 242, 260-261, 272-273, 274 e n. M Manilio 36 e n. Marco Claudio Marcello 38n. Marte (v. Ares) Melisso 208 Menandro 21 Meneceo 110 Mercurio (v. Ermes) Metrodoro di Chio 175, 186, 197 Metrodoro di Lampsaco 42, 48-50, 52 e n., 53n. Minucio Felice 256 Mohammed (profeta) 103

Indice dei nomi antichi N Nechepso 147 Nicola di Damasco 101 O Olimpiodoro 95-96 Omero 16, 22, 33-34, 112 P Paolo di Tarso 35 Pappo di Alessandria 121 Parmenide 13n., 17n., 47, 184 Petosiris 147 Pietro (apostolo) 32 Pindaro 112 Pitocle 43, 46-47, 48 e n., 49-53, 109, 112, 114, 122, 126, 135, 143, 145-148, 253-255 Platone 11, 15, 21 e n., 22 e n., 23n., 35n., 39, 42, 47, 56, 94 e n., 104n., 113, 156-157, 163, 180, 206, 230, 238-239, 242 Plotino 22, 24n., 102 Plutarco di Cheronea 19n., 49-50, 185, 231, 252 Polibio 29n. Polieno di Lampsaco 42, 48-49, 243 Polistrato 164, 190 Porfirio 14n., 22 Posidonio di Apamea 75n., 85, 165-166, 192, 229-232 Proclo 42, 80, 93-94, 98, 102 R Rabirio 24n. S Saturno (v. Cronos) Lucio Anneo Seneca 37-38, 51, 72-74, 80, 145, 196, 206, 209-212, 214, 223, 232, 236, 248-250

Senocrate 164 Senofane 175, 184, 194, 236 Senofonte 30 Sesto Empirico 29, 35, 151 Simplicio 90-91 Socrate 11 e n., 15, 23n., 30, 162, 208 Sofocle 31 Speusippo 105n., 145 Stobeo 51, 229 Strabone 28n., 68n. Stratone di Lampsaco 105n. T Tagete 37 Taziano 35 Temista di Lampsaco 48 Teofrasto 16, 66, 68, 80, 84 e n., 85-86, 87 e n., 88-94, 95 e n., 96-101, 102 e n., 103-104, 105 e n., 106-107, 192, 198, 201, 204, 227, 251-252 Teone di Alessandria 121 Teotimo (v. Diotimo/Teotimo) Timeo di Locri 22, 94, 206 Timoteo di Mileto 21 Claudio Tolemeo 121, 252 V Velleio 112 Venere (v. Afrodite) Claudio Mario Vittorio 36 Z Zenodoto di Efeso 21 Zenone di Sidone 41 e n., 42-46, 163 Zeus 14n., 31, 34, 36, 64, 70, 190, 206, 253

323

Indice dei nomi moderni

A Aldobrandini, T. 116 Alfano Caranci, L. 152 Algra, K. 66n., 163 Allen, J. 64n. Amigues, S. 92n. Angeli, A. 13n., 40 e n., 41 e n., 43, 44n., 49n., 50n., 53n. Arrighetti, G. 8, 14n., 15n., 17n., 23n., 48, 58, 61n., 65, 75n., 116, 118-119, 151, 161, 180, 185-187, 193, 195, 200, 204, 206, 212-217, 228, 231, 247, 250-251, 265n. Asmis, E. 12n., 60n. Asper, M. 56n. Aubenque, P. 242 B Babut, D. 242 Baffioni, C. 7, 103n. Bailey, C. 20n., 80n., 115, 121, 153, 155-157, 174, 179, 182, 186-187, 192, 194-196, 200, 202, 205-207, 212, 214, 222, 226-227, 232-238, 240-242, 245-246, 248-250, 252, 255, 265n. Bakker, F. A. 59n., 74, 75n., 78n., 79, 81 e n., 84n., 85n., 95, 97 e n., 98n., 99-100, 101 e n., 102 e n., 125n., 166, 182, 185, 198, 243, 260n., 270n. Baksa, I. 58, 99n., 197 Baltussen, H. 105n. Barbieri, A. 180 Barbieri, G. 49n. Barigazzi, A. 61n., 84n., 119, 180, 204, 235 Barnes, J. 167 Battegazzore, A. M. 91 e n., 94, 104n. Bénatouïl, T. 59n., 60n., 66n., 260n., 263n., 272n. Bergsträsser, G. 99n., 101 Berti, E. 35n., 51n., 70, 94n.

Bétegh, G. 208 Bianchi Bandinelli, R. 33n. Bignone, E. 18n., 28n., 48n., 116, 153, 156, 161, 171-172, 175-176, 178, 182-183, 186-187, 191-192, 194, 196-197, 206, 212-214, 222, 226-227, 234, 236-237, 245, 247, 250, 253, 255, 265n. Bobzien, S. 12n. Boer, E. 20n., 44, 110, 115-116, 147, 186, 201, 243, 245-246 Boll, F. 35n., 101 Bollack, J. 18n., 40n., 60n., 76n., 100n., 111, 115-116, 122, 125n., 151, 153, 155-157, 170-172, 175, 186, 212-214, 216, 218, 221, 223, 234, 237, 239-240, 244-246, 249, 252, 254, 265n. Bollack, M. 78n. Bonacina, G. 27n. Bonadeo, A. 228-229 Bos, A. P. 229, 235 Bouffartigue, J. 252 Bowen, A. C. 60n., 85n., 164, 240 Boyancé, P. 84n., 158 Braicovich, R. 56n. Brisson, L. 239 Bronstein, D. 88n. Brumana, S. I. S. 229 Brunet, P. 243 Brunetti, F. 57n. Brunschön, C. W. 192, 251-252 Burkert, W. 29n. Butti de Lima, P. 47 e n. C Calzecchi Onesti, R. 33-34 Cambiano, G. 35n. Camplani, A. 7, 100 Campos Daroca, F. G. 53n. Canfora, L. 24n., 39n. Cantarella, E. 33n.

325

Indice dei nomi moderni Capasso, M. 16n., 25n., 43n. Capelle, W. 27n., 177 Carlini, A. 21n., 23n. Casanova, A. 25n. Casaubon, M. 110, 120 Castagnoli, L. 231 Castner, C. J. 24n. Catapano, M. 59n. Cellucci, C. 7 Chandler, C. 56n. Chiaradonna, R. 190 Clay, D. 12n., 24n., 25n., 26n., 50n. Cobet, C. G. 120, 122 Colli, G. 33n., 152 Cornea, A. 90n. Corradi, M. 67n., 97n. Corrado, A. 151-152 Corsi, F. G. 66n., 273n. Corti, A. 72n. Crönert, G. 44, 110, 250 Cronin, P. 95n., 251

E Eckstein, P. 50, 52n. Eliade, M. 33 e n. Erbì, M. 16n., 47n., 48n., 49n., 50n., 51n., 52 e n., 110, 145, 148 Erler, M. 7, 13n., 14n., 24n., 26n., 42n., 51n., 77n., 191 Ernout, A. 77n. Essler, H. 36n.

D Daiber, H. 64n., 95n., 96, 100 e n., 101, 102n., 103 e n., 190, 203, 207, 211, 215 Damiani, V. 12n., 56n., 61n., 82n., 145, 147, 192, 200 de la Paz López Martínez, M. 53n. De Magistris, E. 38n. de Ruggiero, G. 256 De Sanctis, D. 7-8, 13n., 16n., 40n., 46n., 47n., 50n., 109, 122, 127, 145-146, 259, 260n., 264, 275 Del Mastro, G. 40, 41n., 166 Delattre, D. 16n. Denniston, J. D. 182 Diano, C. 49n., 115 Diels, H. 25n., 44, 151 Donini, P. 185 Dorandi, T. 7, 20n., 23n., 40, 41n., 45 e n., 47n., 48n., 109, 118, 120, 123n., 151, 163, 174, 186, 188, 246 Dörrie, H. 21n. Drossaart Lulofs, H. J. 101n. Dumézil, G. 29n., 37n. Duncombe, M. 164

G Gagliarde, G. 15n. Gaiser, K. 11n. Galilei, G. 57 Gallo, I. 44, 83n. Galzerano, M. 166, 178, 235 Garani, M. 66n. Gassendi, P. 110, 115-116, 120-121, 151 Gemelli, B. 66n. Giancotti, F. 76, 78, 165, 178, 211, 230 Giannantoni, G. 68 e n., 69 e n., 71, 208 Gigandet, A. 220 Gigante, M. 12n., 21n., 24n., 25n., 28n., 53, 116, 189 Gigante Lanzara, V. 36n., 252-253 Gilbert, O. 74n. Giovacchini, J. 265n. Giussani, C. 44n., 56n., 76n., 81n., 198 Goodman, L. E. 103n. Goulet, R. 164 Goulet-Cazé, M.-O. 22n. Graham, D. W. 67n., 208 Granieri, R. 164 Gregory, A. 155, 256

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F Falcon, A. 27n. Ferguson, J. 24n. Ferrari, F. 47n. Ferrario, M. 42n., 151, 161 Festugière, A.-J. 158 Franco Repellini, F. 256 Fratantuono, L. 198 Frede, M. 105n. Fronterotta, F. 162, 238 Furley, D. 159, 166, 206, 231

Indice dei nomi moderni Grilli, A. 25n. Gutas, D. 86n., 87n. H Hadot, P. 12n., 14n. Hahmann, A. 90n., 169 Hammerstaedt, J. 112, 256 Hankinson, R. J. 78n., 260n., 264n. Hardie, P. 81n. Haslam, M. W. 21n. Heberdey, R. 25n. Hegel, G. W. F. 28 Heidel, W. A. 249-250 Henrich, J. 87n. Heßler, J. E. 47n., 147 Huby, P. 105n. I Ierodiakonou, K. 68n., 231 Iodice, M. G. 37 e n. Ioppolo, A. M. 30n., 35n., 53n. Isnardi Parente, M. 27n., 46n., 51n., 67n., 68, 69 e n., 71, 145, 164, 177, 180, 186, 195, 214, 218, 228, 236, 238, 245, 247, 252, 265n.

239-240, 244-246, 249, 252, 254, 265n. Lapini, W. 16n., 123n. Laurenti, R. 52n. Lehoux, D. 202 Leone, G. 13n., 17n., 61n., 67n., 74n., 123n., 155, 158, 169-170, 184, 208, 215, 256, 262n. Lettinck, P. 103n. Lévy, C. 166 Lloyd, G. E. R. 70 e n., 243 Long, A. A. 177, 243 Lortzing, F. 249-250 Lucarini, C. M. 235 Luciani, S. 180 Luzzatto, M. T. 23n.

K Kahn, C. H. 29n. Kalinka, E. 25n. Kany-Turpin, J. 188 Keen, R. 151 Kidd, I. G. 98n. Knape, J. 16n. Kochalsky, A. 110, 120 Konstan, D. 17n., 104n. Kouremenos, T. 21n Kuehn, T. 114, 123 Kuhn-Treichel, T. 36n. Kupreeva, I. 74n., 255

M MacGillivray, E. D. 56n. Mancini, A. 118, 180 Manetti, G. 105n. Mansfeld, J. 46n., 47n., 62n., 84 e n., 102n., 150-151, 154, 156-157, 182, 190, 251 Marković, D. 56n. Marx, K. H. 27-28, 44, 68 Masi, F. G. 7, 12n., 18n., 53n., 56n., 63n., 64n., 65, 150, 190, 259, 260n., 262n., 266n., 267n., 270n. Maso, S. 23n., 55n., 159, 262n., 265n. Mayhew, R. 99n., 103n. Meibom, M. 118, 121, 174, 221-222 Mensching, G. 12n. Milanese, G. 16n., 273n. Militello, C. 52 e n. Mondolfo, R. 59n. Montarese, F. 50n., 61n., 83n. Monteventi, V. 147 Moraux, P. 22n. Morel, P.-M. 13n., 63n., 225, 260n., 265n. Most, G. W. 86

L Laks, A. 18n., 40n., 60n., 76n., 86, 100n., 111, 122, 125n., 151, 153, 155-157, 170-172, 175, 186, 212-214, 216, 218, 221, 223, 234, 237,

N Natali, C. 74n. Natoli, A. F. 145 Nicolardi, F. 44n., 83n. Nietzsche, F. 12n., 33n.

J Johnstone, M. A. 90n. Jori, A. 238-239, 241-242

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Indice dei nomi moderni Noller, E. M. 177 Notaro, E. 85n.

Runia, D. T. 46n., 84n., 150, 154, 158, 161, 235, 251

O O’Keefe, T. 14n., 260n.

S Sabetti, A. 28n., 44n. Salemme, C. 64n., 67n., 80n., 166, 177 Sambursky, S. 70n. Savignago, L. 21n. Scermino, M. 235 Schiesaro, A. 77n. Schmid, W. 14n. Schmidt, J. 44n., 166 Schneider, J. G. 110, 118-119, 121, 171 Sedley, D. N. 14n., 18n., 20n., 24n., 29n., 34n., 48n., 49n., 50, 78n., 82n., 84n., 104n., 146, 148, 155, 164, 166, 171-172, 186-188, 231 Sharples, R. W. 94n. Sider, D. 192, 251-252 Silvestre, M. L. 176 Simeoni, L. 27n., 158 Smith, M. F. 24n., 25n., 61n., 71n., 112, 146, 215, 256 Snell, B. 29, 33n. Solmsen, F. 21n., 158-159, 178 Sordi, M. 38n. Spinelli, E. 7-8, 29n., 36n., 51n., 52n., 53n., 56n., 59n. Steinmetz, P. 85n., 89n., 97n., 99n. Stephanus, H. (Henri Estienne) 111

P Pace, N. 67n., 81n., 223 Pallottino, M. 37n. Parássoglou, G. M. 21n. Parroni, P. 72n., 74 Pascal, C. 116 Pellacani, D. 36n. Pelliccia, H. 33n. Pepe, L. 93 Perilli, L. 160, 176, 179 Pfeiffer, R. 22n. Philippson, R. 25n., 110, 254 Piergiacomi, E. 7, 36n., 48n., 158 Pittà, A. 250, 253 Podolak, P. 49n., 85n., 97n., 98n., 100n., 125n., 243, 249 Poliziano, A. 23n. Poulle, B. 37n. Prehn, K. 46 e n. Puglia, E. 23n., 42n., 44n., 50n., 83n. R Ramelli, I. 36n., 249 Ranocchia, G. 166 Ransome Johnson, M. 30n., 68n., 93n., 99n., 100n., 235, 251, 255 Rashed, M. 30n., 229 Reale, G. 86n., 98n., 229, 235 Recalcati, M. 39n. Reitzenstein, E. 99n., 101 Repici, L. 66, 86 e n., 87, 88n., 89, 93n., 94n., 97n., 102n. Rescigno, A. 158 Rescigno, C. 253 Ricciardelli, G. 31 n. Robbiano, C. 17n. Robin, L. 77n. Robitzsch, J. 104n., 169 Romeo, C. 167 Roskam, G. 51n. Rossi, L. E. 18n. Rover, C. 7 Rumpf, L. 13n.

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T Takahashi, H. 103n. Tarán, L. 145 Tarrant, H. 22n. Taub, L. 17n., 46n., 95n., 97, 100n., 159, 260n. Tepedino Guerra, A. 42n., 43n., 49n., 52n., 75n., 180 Thom, J. C. 36n. Todd, R. B. 85n., 164 Torraca, L. 49n., 52n., 75n., 180 Trabattoni, F. 30n. Tsantsanoglou, K. 21n. Tsouna, V. 260n. Tulli, M. 7-8, 11, 56n. Turner, E. G. 22n. Tutrone, F. 72n.

Indice dei nomi moderni U Untersteiner, M. 35n. Usener, H. 19n., 44 e n., 45-46, 53, 110, 114-120, 122, 151, 163, 174, 178, 186, 195-196, 212, 223-224, 236-237, 240, 246-249

Vollgraff, W. 151 von Arnim, H. 44n. Von der Mühll, P. 19n., 109-111, 115, 117-122, 151, 186, 195, 212, 216, 223, 237, 249 Vottero, D. 37, 196, 211, 250

V Vailati, G. 257 Valenti, V. A. 33n. van Raalte, M. 86n., 87n., 91n., 104n., 105n. Vanderspoel, J. 16n. Vatri, A. 56n. Verde, F. 13n., 18n., 27, 28n., 36n., 37n., 49n., 50n., 51n., 53n., 71n., 78n., 81n., 83n., 84n., 85n., 90n., 98n., 101n., 104n., 105n., 113, 145, 151, 166, 169, 172, 177, 190-191, 221, 224-225, 229, 231, 239, 248, 253, 255, 259, 260, 261 e n., 262-263, 266, 267 e n., 268, 270 e n., 272 e n., 273n., 275 Verlinsky, A. 85n. Vogliano, A. 48n.

W Wagner, E. 99n. Warren, J. 169 Wasserstein, A. 74, 149, 270n. White, S. 238, 250 Widmann, H. 122 Wigodsky, M. 152 William, J. 25n. Wilson, C. 177 Wilson, M. 27n., 196 Woltjer, J. 115, 186 Wörrle, M. 24n. Wright, M. R. 177 Z Zambon, M. 30n. Zamboni, F. O. 103n. Ziegler, K. 19n.

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