Elogio della menzogna 9788838906305

Quattro trattatelli sull'Elogio della menzogna: un esame della reticenza, un'illustrazione apologetica dell�

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Elogio della menzogna
 9788838906305

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« accusare. Se l ’autorità di chi accusa potesse iendere di colpa sospetta l ’innocenza, sarebbono vane le speranze e miserabili le condizioni de­ gli uomini. Guai al mondo, se i grandi potessero auten­ ticare le calunnie solamente col pretesto doverle proferi­ te. Non vi sarebbe bontà che non fosse posta in ombra e costituita rea al tribunale del­ la morte. « Q ii vuol accusare altri, de­ ve egli prima esser puro ed innocente. Niuna ragione con­ sente che questo chieda con­ to della vita di quello, s’egli non lo può dar della propria. Chi ha traviato dal diritto della coscienza, non è abile a ridurvi altri. Il poco fon­ damento dell’accusa, s’argo­ menta dal poco merito della persona che accusa. « Accusar altrui, nelle sue di­ sgrazie, è cosa da uomo rozzo ed ignorante. Accusar se stes­ so è cosa da chi comincia a farsi savio. Non accusar al­ trui, né se stesso, è cosa da savio e da perfetto ». In copertina: Dama della famiglia Hofer, ano­ nimo del XV secolo. National Gallery, Londra.

Il divano

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Celio Caleagnini, Celio Malespini, Giuseppe Battista, Pio Rossi

Elogio della menzogna A cura di Salvatore S. Nigro

199° © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo 1990 giugno seconda edizione

Elogio della menzogna / Celio Caleagnini, Celio Malespini, Giuseppe Battista, Pio Rossi ; a cura di Salvatore Nigro. - 2. ed. - Palermo : Sellerio, 1990 154 p. : ili. ; 15 cm. - (Il divano ; 13) I. B attista , Giuseppe il. C alcagnini, Celio n i. M alespini , Celio iv. N igro, Salvatore v. R ossi , Pio i. M enzogna cdd.

808.849353

(a cura di S. & T. - Torino)

Dar passione agli invisibili di Salvatore S. Nigro

Giovanni Ferro, Maschera, in Teatro dTmprese, Venezia 1623.

...il vero ed il falso sono passioni deirenunziazione... C amillo Baldi, Delle mentite ed offese di parole, Bologna 1623

Si definivano « orbe ». E si appellavano al « bel­ vedere » della giustizia. Erano lettere di denun­ cia, senza paternità dichiarata: « orbate », ano­ nime. Della rimozione del soggetto facevano capziosa argomentazione. Battevano il sentiero obliquo del gioco linguistico e dell'antinomia fittizia. E trascorrevano, con rapida ala e più breve parola, da una protesta di apparente men­ dacio a un argomento di non peritosa verità: « questa, se ben orba, è degna di essere vista con occhi d'Argo »; « sono orbo, ma vi vedo; né parlo a caso ». Si facevano rimbalzo della protesta e condensavano in scrittura il fiato della denuncia, per la maggior gloria dello stato; perché la patria, dicevano, « si serve col sangue e con l'inchiostro ». E più con l'inchiostro, che

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era economico strumento di virtù: senza aggra­ vio fiscale, e senza militare dispendio. Secente­ sca magnificazione civile della scrittura, questa, che aveva avuto precedente e magistero nelVopinion prava e nei traffici clandestini e frau­ dolenti di Celio Malespini. Il suo vero nome era Orazio. Ma è passato agli archivi e agli annali tipografici con la sua ma­ schera. Com e si conveniva a un creatore di universi artificiosi, di oggetti inautentici e di false identità: ora in qualità di teatrante e di realizzatore di spettacoli e apparati scenici; ora in veste di falsario e di impostore. Trovò diffi­ coltoso vivere la vita come realtà. Visse nella sua arte. E la realtà trasformò in scena: in luogo del fittizio. Era nato a Venezia nel 15 3 1. E ci si provò a « servire col sangue ». D i fatti fu sol­ dato di professione. Combattè pure: nelle Fian­ dre, al servizio degli spagnoli. Fu uomo di mano. Ma ben presto preferì impugnar penna, e « spen­ dere inchiostro ». Abbandonò Vesercito ed entrò in segreteria: addetto alle segrete manipolazioni di principi, duchi e granduchi; alla fabbricazione di apocrifi e alla falsificazione delle convenzionali cifrature. Proterva e irresponsabile gli sembrò la forza guerriera. Si votò alla gloria opaca di un io

lavoro nell'invisibile: là dove diventava arte inavvertibile e scienza sublime la duplicazione falsata degli enunciati autentici; o la produzione e messa in funzione di nuovi ordigni di scrittu­ ra, per ridurre il mondo in guerra o in pace. Avventuriero di razza e maestro in trucchi, la­ vorò anche in proprio: tra travestimenti e truffe; carcere e messa al bando. Indossò la divisa del conte di Pompei e attentò al tesoro imperiale. Falsificò cedole mercantili e cedole testamenta­ rie. E alla fine, nel giugno del 15 79 , gli O tto di Guardia e Balia di Firenze lo condannarono in contumacia all'amputazione della mano destra e alla forca. Chirurgia ed emblematistica, chirologia e chiro­ nomia, collaboravano alla significazione simbo­ lica della mano: membro « eloquente », recupe­ rato alla cultura retorica; fino all'evidenza di « simbolo e figura dell'umane operazioni » nella « gestuosa » A rte de' cenni di Giovanni Bonifa­ cio ( Vicenza 1616 ). Sulla mano versatile e poli­ morfa del falsario, le autorità fiorentine fecero scendere la severità della giustizia. E questa mano dolosa, così « tagliata », il Malespini offrì con orgoglio patrio al senato della Serenissima: mondata dall'intenzione « pietosa » di una crittoti

grafica guerra santa contro pascià e mamelucchi. D i fronte all’offerta del Malespini, il Doge venne a trovarsi nella stessa indecidibilità che di lì a poco avrebbe angustiato il gran Panza gover­ natore nel D on Quijote. A Sancho verrà propo­ sta la soluzione di un rompicapo, con due pro­ posizioni non compossibili: « Signore, un grosso fiume divideva i confini d ’una stessa proprietà... E stia ben attenta la signoria vostra, perché il caso è importante e alquanto difficile. Dico, dun­ que, che su questo fiume c’era un ponte e, in capo ad esso, una forca e una specie di tribunale, dove di solito stavano quattro giudici che appli­ cavano la legge imposta dal padrone del fiume, del ponte e della proprietà, che era redatta in questa forma: — se qualcuno vorrà passare da un parte all’altra per questo ponte, deve prima dichiarare con giuramento dove e a quale scopo; e se vi giurerà il vero, lo si lasci passare; ma se dicesse il falso muoia, a causa di ciò, impiccato sulla forca che lì si vede, senza alcuna remis­ sione —. Conosciuta questa legge e la sua rigo­ rosa condizione, molti passavano perché subito, in ciò che giuravano, si riscontrava che avevano detto la verità e i giudici li lasciavano passare liberamente. Ora avvenne che un tale da cui si 12

prendeva il giuramento disse, ciò facendo, che in virtù del giuramento che prestava, andava a morire su quella forca là e non per altro. I giu­ dici rifleterono su tale giuramento e dissero: - Se lasciamo che quest*uomo passi liberamente, ha giurato il falso, e, secondo la legge, deve morire; ma se Vimpicchiamo, egli ha giurato che andava a morire su quella forca, e, avendo giu­ rato il vero, per la stessa legge deve essere li­ bero —. Si chiede alla signoria vostra, signor governatore, che cosa i giudici devono fare di quest*uomo; perché fino a questo momento sono ancora dubbiosi e perplessi » (n , 51). I l quesito appartiene alla letteratura degli insolubili. È una variante del paradosso del mentitore che dice di dire la verità: un gioco linguistico irreversibile, che non dà via d*uscita. Sancho si libererà dalla trappola del paradosso in nome della clemenza: « siccome le ragioni di condannarlo o assolverlo si bilanciano, lo lascino passare liberamente ». Un falsario dichiarato e appurato si proponeva allo stipendio della Serenissima, e si protestava veritiero e credibile nell*ossequio di fedeltà alle segrete cose della patria. I l senato respinse la petizione del Malespini con tre quarti dei voti. Consenti però che l*avventuriero «passasse il

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ponte », e vivesse indisturbato a Venezia: a esercitarvi la professione di editore pirata (di cui fece le spese il Tasso) e di autore plagiario. A Venezia, nel 1609, il Malespini pubblicò le sue Duecento novelle. E in esse non mancò di narrativizzare la sua profittevole « scienza nuo­ va»: « ...io sotto la is tessa cifra, scrissi confor­ me alla sua cifra» (1, 87). Morì intorno al 1610. Celio Malespini aveva segnato la riuscita estre­ ma, e tutto sommato venturosa, delTeducazione artistica della menzogna: battuta sull'inganno e spinta alla giacitura irta e insidiosa della frode. Prima che si arrivasse alla sfacciata superbia del falso, più discreta via era stata percorsa per Tartificioso occultamento del vero: attraverso la solennizzazione del silenzio come regola di saggezza e arte di prudenza, tra capacità mime­ tica e capacità distintiva. Una Descrizione del silenzio (Descriptio silentii) aveva scritto il ferrarese Celio Caleagnini (147913 4 1). L'autore insegnava lettere classiche nello Studio di Ferrara. Era filologo, poeta, agente diplomatico della corte estense, cultore dell'eru­ dizione antiquaria e di curiosità egittologiche. L'Ariosto ne aveva fatto un ritratto in pietra.

In qualità di « dotto », Vaveva effigiato nel bas­ sorilievo della fontana del Mantovano (Orlando furioso, XLii, 90). E di certo il Caleagnini era abituato a entrare nelle « favole » figurative, se nella Descriptio si presenta nella doppia veste di visitatore e interprete (antiquario ed icono­ grafo) del mondo esoterico dell*archeologia isiaca abitato da divinità e creature enigmatiche. La Descrizione riscrive, dalla parte del silenzio, il De garrulitate di Plutarco sulla pubblica indecorosità dell*incontrollata verbigerazione d i ciar­ lieri e cicaloni. E segue la falsariga della classica distinzione tra « silere » e « tacere »: tra affer­ mazione del silenzio e negazione del suono; tra la custodia degli arcani divini e il mantenimento dei segreti umani. Per suggerire la proposta nuo­ va di un linguaggio intramato con il silenzio; e aggiornare la regola aurea del non dir troppo (di più e oltre) sulla disciplina linguistica del­ l'arte di prudenza. I l silenzio è un pensiero di saggezza. Ma è anche una divisa di occhi e orec­ chie; e un busto di lupo di folta pelliccia: perché nell*invisibile del silenzio opera il lupo, e con il silenzio disarma. N el cuore deve formarsi la parola, e non sulla lingua: « A d Arpocrate fu dedicato il persico, perché questo arbore ha le 15

foglie simili alla lingua umana, ed i suoi frutti rassomigliano il core; come che la lingua mani­ festi quello che è nel core, ma non lo debbe però fare », specificava Vincenzo Cartari nelle Imagini delli dei degli antichi (Venezia 1580). I l silenzioso ritegno e le parole chiuse, la taci­ turnità e la riservatezza, Vesser parchi e moderati, sono maschere umbratili di temperanza e con­ tinenza. L o stesso silenzio quinquennale osser­ vato dai pitagorici era esercizio sottrattivo: in­ teso a diseducare alla parola (« lo q u i dediscere »). L'invito è a intervenire, per sottrazione e dissimulazione, sulla scala dei fenomeni: dalla garrulità al silenzio; alla dissimulazione, infine, del D e garrulitate di Plutarco nella Descriptio silentii del Caleagnini. In un momento in cui la stessa « eccellentissima virtù » della verità, « degna delVuom civile », veniva ridefinita in termini stilistici e retorici come luogo di medio­ crità (aristotelica) tra gli estremi del « vanta­ m e l o » e della « dissimulazione ». N el D e la istitu z io n e di tutta la vita de Puomo nato no­ bile e in città libera (1543) di quell'Alessandro Piccolomini che la sua opera ristamperà aggior­ nata, nel 1360, con il titolo D ella istitu z io n e morale: « Da questa verità per due contrarie

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strade si può l ’uomo dipartire: per l ’una ecce­ dendo nel troppo, con far le cose maggiori ch ’el­ le non sono; e per l ’altra con eccesso nel poco, facendo le cose minori del vero. Questo estremo dissimulazione, overo ironia; e quell’altro van­ ta m e lo si può domandare ». Il vero e il falso venivano così a differenziarsi sulla base di due diverse enunciazioni retoriche. E perciò risultava possibile fronteggiare l ’inter­ detto agostiniano, moralmente irriducibile e in­ transigente. Perché per Agostino il luogo speci­ fico della menzogna era individuabile nel per­ corso dalla mente alla parola; e quindi nella non coincidenza della parola con il pensiero. Il peccato di parola era un vizio contro natura, nella misura in cui la natura esige nel segno l ’associazione automatica tra pensiero ed espres­ sione. N é potevano intaccare l ’intrinseca illiceità della menzogna, e la sua malizia, eventuali cir­ costanze attenuanti. L ’ostacolo venne rimosso dal marchigiano Alberico Gentili, professore di diritto romano ad Oxford. Il giurista, che fu amico di Giordano Bruno, pubblicò nel 15>99 la disputazione De abusu mendacii. Ammise il vero e il falso come apocrifi ottici prodotti da reci­ proca speculazione: « se è male abusare del bene,

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è bene abusare del male ». E affermò la natura­ lità della menzogna « officiosa », ovvero « ma­ gnanima » (in un verso della Gerusalemme libe­ rata) perché usata a nobil fine: « Le leggi si col­ legano alla natura; fine dell'uomo deve essere la conservazione di questa, della società civile e dell'esercizio delle proprie azioni. La lingua, in­ terprete dell'animo, soddisfa col vero all'ufficio di natura; ma siccome il fine dell'uomo è la propria difesa, ed il progresso proprio ed altrui, se a questo scopo occorre un'officiosa menzo­ gna, profferendola non si va contro la legge di natura ». Ormai anche il silenzio veniva espres­ samente recuperato all'« officioso » della dissi­ mulazione. N el maggio del 1580 il Tasso aveva scritto al marchese Giacomo Buoncompagni: « ...s'essi fossero stati così pronti al mio soc­ corso, com'io desiderava, peraventura non mi sarei curato di manifestar più oltre de la verità; giudicando che l'uom o non sia sempre obligato a manifestare quelle cose le quali, senza offesa altrui e senza far torto al vero, può tacere, e co 7 silenzio de le quali egli può credere in alcun modo di fare a se medesimo giovamento ». E il Marino canterà n ell'h à on t (16 2 ß): «lecità è la menzogna anco talvolta, / quando giova a

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chi mente il dir bugia / e non noce il mentire a chi Fascolta » (xiv, 36, 4-6). A sua volta Tor­ quato A ccetto definirà la dissimulazione un « ri­ poso al vero », dato « non con intenzion di faref ma d i non patir danno »; e la chiamerà « one­ sta », con aggettivo tolto dalle Etiopiche di Elio­ doro (nella traduzione di Leonardo G hini) che il loro lessico avevano prestato a tanta declina­ zione di officiosa menzogna: « Percioché a le volte è onesta anche la bugia, quando giovando a chi la dice, non nuoce a chi Vascolta » (1, 26). L'erudito e grammatico latino Publio Nigidio Figulo aveva attribuito designazione di inten­ zionale fraudolenza al verbo « mentiri », e di in­ volontarietà e sostanziale innocenza all'espres­ sione « mendacium dicere ». Attraverso le N otti attiche di G elilo (xi, 1 1 ) , le due glosse pedanti (sovrapponibili e scambievoli) alimentarono le acrobazie linguistiche del pensiero paradossale (almeno fino alla giustificazione dell'Utopia di Thomas More) e diedero luogo a costellazioni di antinomie retoriche. Com e nel trattato Delle mentite ed offese di parole (1623) di Camillo Baldi: dove « il vero ed il falso sono passioni dell'enunziazione »; figure retoriche, non per niente esemplificate «¿//'Orlando furioso. E fra

l'altro reciproche: « La verità è una giovinetta tanto bella quanto pudica, ed è per questo che va sempre avvolta nel suo mantello », senten­ zierà Gracián nel Saggio (1645). N é era stato eccessivo /'Elogium mendacii (16 19 ) di Elias Maior nell'attribuire alla duttile menzogna una missione educativa nei confronti dei valori duri ed esuberanti della smoderata, immane e bruta verità. È l'arte di mentire che, con le ombre e le nebbie, con il magnanimo falsiloquio e gli umili fiati, con le maschere e le foglie di fico, fonda la civiltà e le relazioni sociali: « G li uo­ mini non vivrebbero a lungo in società se non si ingannassero reciprocamente ». Sentenzia, stavol­ ta, François de La Rochefoucauld. In una massi­ ma, che Celio Malespini avrebbe sottoscritto. L'ipocrisia è la cicatrice del mondo e della ci­ viltà. N ei Discorsi, Quevedo la chiamava « stra­ da »: « È una strada che è nata col mondo e col mondo terminerà, e non c'è nessuno che in essa non abbia, se non una casa, almeno un apparta­ mento 0 una stanzetta. Alcuni vi abitano, altri sono di passaggio... ». Ne era convinto anche il canonico Giuseppe Battista (1610 -1675). Che dell'incanto potente della menzogna alzò elogio. E con arguzia fulminante lo fissò nell'immoto

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splendore, come di pietra dura, di un accade­ mico paradosso: « S e la verità... è madre deb l'odio... genitrice dell'affetto sarà la menzo­ gna ». I l poeta 'Battista era entrato a far parte deWAc­ cademia napoletana degli Oziosi, con la carica di censore delle lingue volgare e latina. Proveniva dalla provincia pugliese, nella quale vantava gran seguito il fondatore e « principe » delVAc­ cademia: il marchese Giovan Battista Manso, a sua volta non estraneo alla pratica del falso nel duplice ruolo di verseggiatore e di biografo del Tasso. Poeta e pugliese era pure Torquato A c­ cetto, un po’ più anziano del Battista. E an­ ch'egli in rapporti di amicizia con il Manso, e prossimo all'Accademia. Nonché autore del trattatello Della dissimulazione onesta (16 4 1). L ’apologia della menzogna del Battista era stata letta nell'Accademia, molto prima di essere pubbli­ cata nel 1673. Ed era tipica lezione, che dava svolgimento a una « questione » formulata a pa­ radosso. Rispetto a questo modello, l'opera di Accetto sceglieva la marginalità. N el senso codicologico del termine: configurandosi come scrit­ tura a margine, libellistica. Riprendeva i luoghi comuni delle lezioni, se non di quella specifica

del battista: dalla bugia prima di Eva al passo giustificatorio delle Etiopiche di Eliodoro. Ma della dissimulazione faceva una tecnica di soprav­ vivenza., che consentiva agli onesti di vivere inav­ vertiti e invisibili in mezzo alla malignità somma del gran teatro del mondo. E il paradosso rein­ ventava come « passione » retorica dellesser grandi e parer piccoli, del valer molto e sembrar da poco. E come enunciazione che in origine era turgida e abbondante, e che poi si è costretta al disseccamento e alla concentrazione: in un libro che si presenta piccolo, ma con cenni tali da po­ ter essere letto come libro grande. I l Seicento è pur sempre il secolo del microscopio e del telescopio. Della metafora pascaliana e del « li­ bro nano » di Gradan. D ei solitari di Port-Royal e della milizia di Ignazio de Loyola: tra il rifiuto delle forme del vivere quotidiano e la loro giu­ stificazione; tra la chiusura nel foro interiore e Vapertura al mondo. La passione delVonesto fal­ so di Accetto stoicamente conciliava, neWinvisibile, necessità e libertà. Ed era figura retorica di potenziato silenzio. Dissimulazione della dissi­ mulazione: « ...il dissimular è una professione, della quale non si può far professione se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno por­

li

tasse la maschera ogni giorno, sarebbe più noto di ogni altro per la curiosità di tutti; ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia alcuna ». D ei veri dissimulatori non si può far cronaca, se non barando: perché non c'è acume d i storico che possa reggere ai silenzio e all'invisibile. All'invisibilità dei dissimulatori diede passione anche il piacentino Pio Rossi (15 8 1-16 6 7), ge­ nerale della Congregazione dei Monaci Eremitani di S. Gerolamo d'Italia. Pascal scriveva che « tut­ ti i nostri mali nascono dal non aver saputo ri­ manere nella nostra camera ». Da parte sua il monaco gerolimitano fu più che sedentario. I biografi raccontano che « mai uscì fuori una sola volta dai monasteri ». Eppure fece molta strada. E dei suoi viaggi « in camera » lasciò appurabile memoria: « ...usava... il passeggiare nel proprio corridoio, ove anche oggidì in S. Savino di Pia­ cenza si vede segnata nel pavimento larga stri­ scia d el suo camminare ». I l Rossi preferì spen­ dere gran parte delle proprie energie nella ste­ sura del ponderoso Convito morale per gli etici, economici e politici in due « portate » o volumi: rispettivamente pubblicati nel 1639 e nel 1657; e, in edizioni postume, nel 1672 e nel 1677. È

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l ’imbandigione di un sontuoso menu di « vivan­ de » affogate nella salsa di latte di strega del secolo perfido e fraudolento. Un grande lessico morale, che sistema citazioni e aforismi come fossero nature morte di forte evidenza visiva: disposte, nel rapinoso alternarsi di giudizi di lode e di biasimo, in una notte sciabolata da lampi di luce. E di luce alta, caravaggesca. D i un Caravaggio in cifra barocca: « Mirabil cosa! Nasce il sole, spargendo d ’ogn’intorno i suoi rag­ gi; e pure, aperte le cateratte de’ suoi splen­ dori, non può con un diluvio di luce sommergere un’ombra piccolissima. S ’accampa quasi per dar l ’assalto, il re della luce, intorno un’ombra con l ’esercito innumerabile de’ raggi... e vergognoso tramonta, quasi chiedendo soccorso, per vincere una poc’ombra, all’ombre universali della not­ te ». Il Convito è la grandiosa ortografia di un viver « corrotto » che, nell’impossibilità di un « viver libero », trova sicurezza nella ragion di stato. E difesa nell’astuzia, condannata e blandita insie­ me: degno compendio dell’arte di mentire di un secolo intero. S.S.N.

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Notizia

Questo libretto deve la sua idea a una pagina del saggio di Oscar Wilde sulla Decadenza della menzogna: « Chi sia stato colui che per primo, senza essere uscito per la dura caccia, raccontò agli ester­ refatti cavernicoli, nell’ora del tramonto, come ave­ va trascinato il megaterio fuori della purpurea te­ nebra della sua caverna di diaspro, o ucciso il mammut in singoiar tenzone per riportarne le zampe dorate, non possiamo dirlo, né ha avuto il coraggio civile di dircelo nessuno dei nostri antropologi moderni, malgrado tutta la loro tanto van­ tata dottrina. Quale che fosse il suo nome e la sua razza, egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali. Egli è la base stessa della società civile, e senza di lui un pranzo, anche nelle magioni dei grandi, è insipido come una conferenza alla Royal Society, o un dibattito alla Società degli Autori, o una delle farse di Mr. Burnand ». La Descriptio silentii, qui nella traduzione del cu­ ratore, è tolta da C. Caleagnini, Opera aliquot, Ba­ silea 1544, pp. 491-494. La lettera del Malespini è stata pubblicata da G. E. Saltini: Proposte che fa Celio Malespini alla Repubblica di Venezia con una

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petizione, diretta a Sua Serenità il Doge e al eccelso Consiglio de9 X, in Di Celio Malespini ultimo no­ velliere italiano in prosa del secolo X V I, « Archivio Storico Italiano», t. x m , 1894, pp. 71-74. L'apo­ logià della menzogna è riprodotta da Le giornate accademichey Venezia 1673, parte seconda, pp. 7490: le note contrassegnate con lettere alfabetiche sono dell’autore; quelle con esponente numerico, qui e negli altri testi, sono del curatore. Un voca­ bolario per la menzogna (titolo del curatore) è un estratto di lemmi da P. Rossi, Convito morale per gli etici, economici e politici, portata seconda, Ve­ nezia 1637: sono stati soppressi i rinvìi tra voce e voce, resi inetti dall’antologizzazione. A ll’interno dei testi, le citazioni latine e greche sono state date in traduzione: i testi originali sono stati spostati in nota. Dentro parentesi quadre sono state chiuse le integrazioni del curatore. Il saggio introduttivo dialoga con i seguenti studi: E. Grendi, Lettere orbe. Anonimato e potere nel Seicento genovese, Palermo 1989; K. E. G. Simmons, The Liar Paradox y Los Angeles 1988; K. Langedijk, Silentium y in « Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek », XV, 1964, pp. 3-18; L. Heilmann, SilereTacere. Nota lessicale, in « Quaderni dell’Istituto di Glottologia dell’Università di Bologna », 1, 19551956, pp. 5-16; E. McCutcheon, «Mendacium di­ cere » and « mentiri »: A Utopian Crux, in Acta

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Conventos Neo-latini Sanctandreani. Proceedings of the Fifth International Congress of Neo-latin Stu­ dies, New York 1986, pp. 449-457; P. L. Franchi, Le figure del silenzio. Statuto retorico dei feno­ meni ellittici, in Studi in onore di Vittorio Zac­ caria in occasione del settantesimo compleanno, a c. di M. Pecoraro, Milano 1987, pp. 439-455; A. Kibédi Varga, La rhétorique des passions et les genres, in «Rhetorik», 6, 1987, pp. 67-83; La menzogna, a c. di F. Cardini, Firenze 1988; H. Weinrich, Linguistica della menzogna, in Metafora e men­ zogna: la serenità dell'arte, Bologna 1976, pp. 133191; U. Eco, Sulla verità. Una favola, in Filosofia e linguaggio. Nel settantesimo compleanno di R. Raggiunti, a c. di V. Sainati, Pisa 1989, pp. 253278; E. Wind, Il linguaggio dei misteri, in Misteri pagani del Rinascimento, Milano 1971, pp. 3-20; G. Speranza, Alberico Gentili, Roma 1876; A. Bion­ di, Il « Convito » di don Pio Rossi: società chiusa e corte ambigua, in La corte e il « Cortegiano », 11, a c. di A. Prosperi, Roma 1980, pp. 93-112. Un generoso aiuto è stato dato al curatore da Gio­ vanni Saimeri e da Giuseppe Guzzetta. Il libro è dedicato a Gualtiero Tarchini: « Chi mi sa dir s’io fingo? ».

Elogio della menzogna

Celio Caleagnini Descrizione del silenzio

Vincenzo Cartari, Angerona, Arpocrate o Sigalione, il persico e la cornacchia, in Imagini delti dei degli antichi (ed. Padova 1615).

Capitò che ozioso mi ritrovassi nel tempio della Fortuna, a Preneste. Ero affascinato dalla bel­ lezza delle immagini dipinte, che in quel mira­ bile esempio d’arte si mostrano. Volsi gli occhi a destra, e mi apparve una pit­ tura variegata dal genio di un singolare artista. Con un monte di rotto sasso e confratto. E con in alto, sulla sommità piana e rigogliosa, una donna di regalità cinta e di vario oro. Né adito si mostrava che a lei conducesse. Tanto e fuor di misura era l ’asperità. Assieme a lei stavano due matrone non di pari abito, ma di non dispa­ ri abitudine: di nibbio gli occhi; florido l ’aspet­ to; inesauste le forze. Una svolgeva catene tor­ tili e ad anelli fluenti. L ’altra, che a quadrata pietra s’appoggiava, levi corolle avvolgeva. Una turba d’uomini anelava intanto alla donna re­ gale: bocche aperte e occhi spalancati. Molti fidavano nelle loro forze; e, più temerari che saggi, si sforzavano alla vetta. L ’impraticabilità del luogo era tale, infatti, che a rompicollo si 33

sfracellavano: alcuni nelPincominciamento stes­ so, altri dopo sforzi ostinati. Di sicuro a rari uomini, da Giove nati, era stato accordato di sortire alle superiori altezze. Con il soccorso di un dio possente. E quel dio dappertutto aveva occhi. Dappertut­ to aveva orecchie. Per metà era vestito di pel­ liccia di lupo. Calcava un berrettino di foggia spartana. E sandaletti di lana calzava. Stupii, in vero, che in nessuna parte del corpo riuscissi a indovinarne la bocca. Mi sembrò proprio del tipo che i greci chiamano astomos , o di bocca privo. A lui sacrificavano quegli uomini eletti: non con l'incenso, e neppure con una vittima; ma con un uccellino chiamato kichlen dai greci, e da noi identificato col tordo. Sul suo altare era scritto: Confida nel Fato . Nel corso del sacrificio, era rispettato il più ri­ goroso silenzio. Solo alla fine, se propizi erano gli auspici, la donna che svolgeva le catene fa­ ceva scendere giù una correggia con un'ossidiana in capo. Il dio astomo premeva la pietra sulle bocche dei supplici, che serrate stringevano le labbra. Allora la donna divina lentamente li at­ tirava a sé, e sul costone li faceva procedere. Ma se per caso essi avessero disserrato le bocche, oh 34

disavventurati mortali incalzati da sùbita rovina: tutto quanto fino a quelPestremo del viaggio avevano sopportato, tutto andava perduto. Se però fin lì erano giunti, sostenuti da sorte più propizia, allora finalmente venivano cinti di co­ rone; e, tra Pappiauso grande, bevevano a una tazza che la donna regale porgeva. Da quel momento entravano a godere di un’eternità libera da affanni, e con felicità piena. Ero intento a decifrare questa pittura, quando mi si accostò il guardiano del santuario. Che disse: « Ciò che tu, ospite, vedi, merita rifles­ sione. Non ti smarrire nella novità; considera la successione narrativa dell’intera dipintura. Ve­ drai che la donna d’abito regale, in cima al mon­ te, asside su un seggio d’oro. È la buona sorte. I greci la chiamano agathe tyche o agathos daimon. Noi buon genio la diciamo, e altre volte dea salutare. Talora anche Felicità. Delle due ma­ trone, quella che svolge le catene è Pbronesis : da noi denominata Prudenza. L ’altra è Pistisy ovvero Fede inviolabile. Ed esse, in nulla e per niente, sono da meno della Felicità. Difatti sono stirpe divina. E , a dir tutto il vero, la Felicità invano sarebbe desiderata se non ci fossero esse. Laddove sappiamo che sono in molti ad aspi­

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rarvi. Qual meraviglia, del resto, che ognuno ricerchi la prosperità? Tuttavia non si conosce nessuno che possa ottenerla, se da quelle due prescinda. E colui che vedi senza bocca, i greci lo soprannominarono astomon mentre alcuni di noi lo dissero a bocca inespressa: ed è il dio che gli egizi hanno denominato Arpocrate, i greci Sigalione, i nostri Silenzioso. Credimi: a nes­ suna salute si accederà mai, se prima non si sarà sacrificato a lui. « Non molta esperienza ci vuole per sapere che niente al mondo è più salutare, e anche più de­ siderabile, del silenzio: nulla più stolto e peri­ coloso del multiloquio. Nel far Pelogio di Epammunda, 1 Pindaro disse che difficilmente si sa­ rebbe trovato un altro che più di lui sapesse e meno di lui parlasse. La natura stessa è stata esplicita: ci ha forniti di due orecchie e di un’unica lingua; perché (per dirla con le parole di un autore comico) conviene ascoltar molto e parlar poco. Si dice che Amicle sia caduta per il silenzio, sebbene risulti che sia stata distrutta dai serpenti; ma a me pare che, più convincente­ mente, il fatto si sia compiuto per la negligenza delle sentinelle.2 Senocrate voleva che i giovi­ netti, piuttosto che gli atleti ponessero fasciòle 3^

alle orecchie: evidentemente perché non udis­ sero le corruttrici insanie dei dissoluti. In più adunanze Democrito, richiesto di dire se per stoltizia tacesse o per penuria di parole, rispose che lo stolto non sa contenersi e tacere. Biante di Priene scelse la lingua, la volta che l’egizio Amasi gli chiese di inviargli la parte migliore e peggiore di un animale sacrificale. Non per niente gli antichi baciavano i fanciulli sulle orec­ chie, anziché sulle labbra: quasi che lì i baci profittassero. Motivo per cui salutare è detto il dito indice: dato che per suo mezzo è indicato il silenzio, agli uomini assai giovevole. E , presso i greci, la notte ha l ’aggiunto di “ benefica sapendo essere, ciascuno, più saggio nel silenzio della notte. « Dopo che Alessandro ebbe messo in fuga Dario dal campo di battaglia, fece di tutto per scoprire dove avesse riparato. Ma non poté venirne a capo, per via della consuetudine persiana di nascondere con mirabile fedeltà quanto era te­ nuto segreto dai re: non la paura sortì effetto; né la speranza allettò a svelare i segreti. Una avita disposizione regia sancì il silenzio a rischio della vita. Più di qualsiasi altra infamia veniva punito il peccato di lingua. Né potevano soffrire 37

enormità maggiore di quella ispirata da chi rite­ neva difficile il tacere: visto che la natura ha voluto che per Puomo fosse cosa del tutto age­ vole. Certamente è così, tanto che i greci sen­ tenziarono che “ nulla giova più del silenzio ” e che “ molti la lingua rovina Quante parole, infatti, si ritorsero a danno del collo? Cosa mandò in rovina il romano Staterio e lo spar­ tano Pausania, se non la smania di cianciare? Cosa, alPopposto, onestò la meretrice Leena, al­ trimenti disonorata, se non il silenzio ancora una volta; e fece che presso gli ateniesi esso venisse rappresentato in figura di leaena , o leo­ nessa, priva di lingua? Che cosa assegnò ad Er­ cole la vittoria sui troiani? Di certo il silenzio. Tanto che ancor oggi viene celebrato il promon­ torio Sigeo. « Sicuramente consapevole delPutilità del silen­ zio, Pitagora volle che i suoi discepoli prima di ogni altra cosa disimparassero a parlare. Propose loro un ben definito periodo di silenzio: un “ sa­ per tacere ”, disse. Di qui il misterio di scacciare la rondine: i garruli sono infatti da allontanare; ed è possibile che abbia inteso pure che bisogna tener lontano gli amici occasionali. È celebre un breve verso greco: “ da casa tua tieni lontano i 38

chiacchieroni A un tale gli fu chiesto a cosa la filosofia gli fosse servita. Rispose: “ a voler e poter tacere Non c’è dubbio che la natura abbia claustrato la lingua di labbra e denti. Omero cantò la “ chiostra dei denti perché le parole, irrevocabili e da lui chiamate “ alate ”, non si propalassero facilmente dalla bocca. Plau­ to, che era poeta, per mostrare che il silenzio va indicato con il silenzio, ricorse al segno di due consonanti senza vocale: st! Appio fu punito con la cecità, per avere i suoi schiavi divulgato il rito sacro di Ercolano. Gli antichi romani sa­ pevano bene quanto fosse nociva la loquacità. E non vollero che fosse divulgato il nome arcano della città, per evitare che i nemici potessero evocare gli dei una volta che si fossero impos­ sessati del nome. Valerio Soriano osò rivelarlo, e subito ne espiò la colpa. Per questo motivo invitiamo a tacere nelle cerimonie sacre. Non sulla lingua difatti deve nascere la parola, bensì nel cuore. Ecco perché la statua d’Angerona por­ ta chiuse e serrate le labbra: esempio di culto antico appunto, su siffatto silenzio regolato. Ad essa si sacrifica il venti di dicembre. Ugualmente ad Atene si venerava un altare, che era dedicato agli dei ignoti. Si capisce che ai giusti sia stato 39

consigliato di tacere: di tenere a bada la lingua, come bestia al pascolo. « Seicento sentenze si sono tramandate contro i garruli. Così Omero, della verità interprete, definì Tersite “ parlatore senza misura ” , epperò effusore di incontinenti discorsi: volendolo di­ sapprovare al massimo. Quindi i greci dissero che a tutti i ciarlieri era stata bucata la punta della lingua; che la genìa dei blateratori “ più di una tortora scilinguagnola E che non vi è gar­ rulo che non sia odioso, assimilato al “ lebète di Dodona perché a Dodona la statua bronzea di un fanciullo, fatta girare dal vento, batteva allo stesso modo dodici bacinelle o lebèti. Sen­ z’altro bene fece Mecenate Melissio a imporsi per tre anni un silenzio volontario. E a com­ mentare, con non minor sagacia: “ persino lo sciocco, se avrà taciuto, sarà reputato saggio “ se tace, chiunque è saggio Diffusa è pure la sentenza di Pitagora: “ chiunque, anche se igno­ rante, è prudente se tace ” . I l medesimo filosofo, quando gli si chiedeva qualche segreto, rispon­ deva: “ brucerei la tunica, se la ritenessi al cor­ rente dei miei fatti Allorché un figlio chiese quando sarebbe stato mosso l’accampamento, la risposta fu: “ tu solo, forse, non udrai lo squillo



di tromba? » . 3 Così radicato era il culto del dover tacere. A Senocrate fu chiesto come mai tacesse. Rispose: “ perché m’è capitato di pentirmi d’aver parlato, ma mai d’aver taciuto Prima di tutto, questo gli spartani insegnavano ai figli, che chia­ mavano bomonicv. dacché tutti sopportavano con fermezza frustate e dolori.4 E con maggior forza, un giovane spartano, tollerava il dolore: quando una vulpécula, introdotta di soppiatto, gli dilaniava quasi tutto il fianco. Persino alle porte delle sale da pranzo avevano apposto: “ Da qui non esca voce ” . « Dunque: il valente artista, nella sua pittura, fece indossare al dio dipinto un berretto spar­ tano. Ciò è da intendere nel senso che nascoste devono restare quelle cose che in gran segreto ti sono state affidate. Oppure: sebbene per li­ beral dono di natura dipenda dalla libera scelta di ognuno il mantenimento del silenzio, non ugualmente libero è l’arbitrio di parola. O an­ cora: se il multiloquio è vizio di servi, pertiene agli uomini liberi il decoro del silenzio. Non per niente sono soprattutto gli adulatori e i malevoli ad essere affetti da questo vizio. E anche le donne. E a proposito di esse è venuta fuori l ’osservazione di Plauto che in nessun tempo se 41

n'è trovata alcuna che restasse zitta: “ frottole di vecchie ” e corredo femminile è il clamore. « Gli adulatori e i detrattori non tacciono. Piut­ tosto montano discorsi indiscernibili. Di inven­ tate lodi gli uni, e di calunnie gli altri, imbot­ tiscono le orecchie di chi ascolta. Ne è nato il detto: “ Non c'è indiscreto che non sia garrulo ''. Non manca un adagio su quelli che hanno im­ parato a risparmiare il fiato: “ per primo guardò il lupo e cioè: “ fa diventare roco qualunque ci veggia prima che sia veduto ” .5 Ecco perché il dio ti si presenta entro una pelliccia di lupo: di quell'animale che neppure respira, quando affer­ ra la preda; laddove le altre bestie giubilano con guaiti, come il favolista Esopo rimproverò al corvo in un suo apologo. In genere agli dei si attribuiscono piedi lanuginosi, proprio perché passo dopo passo, e senza strepito, procedono a vendicare le offese dei tristi. A significar que­ sto, il pittore attribuì al dio calzari di lana. « Del prudente si suol dire anche: “ la volpe non crocida " . I prudenti ogni cosa con diligenza os­ servano, ascoltano, scrutano, e badano sempre a non dir nulla che sia a sproposito o poco con­ veniente. Agli altri oppongono questo principio: “ o hai qualcosa di meglio da dire del silenzio, o 42

taci ”. Non meraviglia quindi che il dio sia effi­ giato tutt’occhi e tutt’orecchie. A lui sacrificano i figli di Giove: la tradizione vuole infatti che da Giove siano nati gli uomini più eminenti. Di qui i detti: “ appartengo alla stirpe del sommo Giove “ da Giove ci viene Ponore e con riferimento a Taltibio e ad Euribate, “ salute a voi, araldi messaggeri di Giove E ancora: “ degnazione gli diede Giove Ne deriva Pappellativo di Giove quale “ padre degli uomini e degli dei ” . Gli uomini di siffatta preminenza, Omero li indica come “ nati da Giove e a dire il vero “ ogni bene da Giove procede ” , dice Orfeo. La pensava così anche Platone, che di cose divine se ne intendeva. « Inoltre sacrificano un tordo, uccello assai gradi­ to a Silenzioso. A evidenza: in quanto esso si astiene dalla garrulità. E sul volatile dettò un proverbio Eubolo: “ muto più di un tordo ” . Non a caso si ritiene che i tordi non gracchino affatto. Come mute si pensa che siano le cicale di Acan­ to, la rana di Serifo e — in Platone — il girino. Il sacrificio si celebri allora sulPaltare che por­ ta Piscrizione: Confida nel Fato. Perché non uno che la tradizione vuol nato dalPAmmirazio­ ne noi veneriamo, ma Silenzioso: dal quale si 43

dice che provenga l ’ispirazione a filosofare; pro­ prio lui, il più bello, il più invocato persino dalle maggiori e principali divinità: generato dalla Fede inviolata, che alla custodia dei segreti lo prepose. È lui che con la pietra ossidiana, che nerissima Ossidìo portò dall’Etiopia, tappa la bocca agli uomini dopo che ha ricevuto il sacrificio. La pietra ha la virtù, come tutti i maghi ammettono, di ammutolire gli uomini e renderli elingui. E siccome il silenzio da solo non basta perché si raggiunga la felicità, avanza la Prudenza; e con la catena tira: intendo con quella catena costituita dalla successione delle virtù. Con reciproco nodo si tengono infatti le virtù, e si susseguono come quella fluente serie di anelli che Platone descrisse attratta da un magnete. Così si muove anche il giro delle scien­ ze, che i greci definirono “ enciclopedia ” . « Se per disgrazia accadesse di aprire la bocca, subito un pericolo si annuncerebbe. E a nulla servirebbe l ’aver cominciato bene. Ma se con il favore degli dei si tocca il culmine, pronta è la Fede a consegnare il premio delle fatiche e a condurre quanti sono cinti di ghirlande imperi­ ture al trono della dea della salvezza. E quest’ultima una coppa di nepente offre, come quella 44

che liberò Telemaco da ogni affanno. In seguito, congedatisi dalle emozioni, gli eletti trascorre­ ranno un'età felice ». Così il guardiano del tempio mi spiegava la tra­ ma della pittura. E io tra me e me riflettevo; e capivo che agli dei e agli uomini nulla sta a cuore ed è gradito più del silenzio. Riconoscevo le panatenee di Palladè e di Erittonio; le canefore e le ceste. E quindi i monti dei coribanti e i portatori di ferula devoti a Libero; i tirsi avvolti e i sanda­ li di mussola di quegli egizi, che sono detti “ in­ transitivi ” perché a nessuno partecipano i segreti della religione. E ancora: i geroglifici, i sistri e i tumuli in cotto; i recinti misteriosi di Iside, il vischio più che mai sacro presso i sacerdoti gal­ lici; le fabulazioni dei filosofi e lo sfuggente Proteo; la numerologia ancora arcana di Pla­ tone; i cabiri di quattro processioni di samotraci: Assiocersa, Assiocerso e Casmilo, che al­ cuni interpretano come Cerere, Persefone e Plu­ tone. Ma Dionisodoro credeva che Casmilo fosse Mercurio, mentre altri, che si sono fermati a considerarne soltanto due, hanno identificato il più vecchio con Giove e il più giovane con Dio­ niso. Mi spiegavo le corna di Mitra; i segreti della buona Dea; il fatto che gli dei si fossero 45

sdegnati con l’oracolo perché il sacro era stato trascurato. Mi spiegavo il cane sul letto sacro; le invocazioni degli Esseni; il nome stesso mi­ stero che implica serrar ( myein) la bocca {sto­ ma), Così i re sottopongono a prove quanti vo­ gliono ammettere a più intima amicizia. Così Numenio ebbe castigo per aver compromesso le cerimonie eleusine: con lui le donne si lamen­ tarono in sogno di essere state pubblicamente esposte. Così Ulisse, in Omero, ammonisce Te­ lemaco: « nascondi, e nella tua mente trattieni, e non parlare ». Così gli disse: « barbaro è il clamore, greco è il silenzio ». So pure che alcune popolazioni con i cenni tra di loro comunicarono, anziché con la voce: fu questo il motivo per cui il poeta tragico Teodoto divenne cieco all’improvviso, dopo aver tentato di trasporre in rac­ conto particolari delPiniziazione degli ebrei. Per la stessa ragione Teopompo, preso da terror pa­ nico e da profondo sconvolgimento nell’animo, a stento poté chiedere perdono. E piuttosto nel silenzio, quelli che prudentissimi furono, stabi­ lirono cosa fosse il sommo bene, del quale forse con più libertà abbiamo potuto parlare proprio perché ne abbiamo discusso privatamente: non immemori dell'antica saggezza, che invita a par­ 46

lare quando il silenzio potrebbe nuocere e la parola giovarci. Di certo è come disse Esiodo: « La lingua è, per l ’uomo, il principale tesoro »; finché saranno osservati i detti “ nulla di trop­ po ” e “ ogni cosa a suo tempo Epperò il pru­ dente giudicherà il momento opportuno per par­ lare e tacere. Con esito felice, infatti, ciascuno coglierà le articolazioni del momento: e senza bisogno di ricorrere all’uovo di serpente dei druidi.6

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N ote

1 Così nel latino di Caleagnini. Ma il nome non trova riscontro nell'opera di Pindaro. Neppure, eventualmen­ te, come corrotta omonimia di Epaminonda. A meno che Pindaro non stia per Plutarco. In questo caso il rinvio sarebbe al D e laude ipsius, e anche alle Quaestiones convivales. E l'episodio riguarderebbe il gene­ rale tebano Epaminonda. 2 A commento di un verso virgiliano (Eneide, x , 564), Servio aveva raccontato le ipotesi sulla fine di Am ide, città « muta ». D i origine spartana, la città era devota a Pitagora. E del filosofo del silenzio rispettava il divieto di uccidere animali. Accadde così che venisse aggredita e distrutta dai rettili, che indisturbati prosperavano in una vicina palude. Secondo un'altra ipotesi, a perdere la città era stato il silenzio imposto alle sentinelle. Più volte il falso an­ nuncio di un'aggressione nemica aveva messo in agita­ zione la città. Per evitare il ripetersi di ingiustificati allarmi, si era deciso di ordinare alle guardie di tacere in ogni caso. Il nemico arrivò. Le guardie tacquero. E la dttà fu presa, « silente ». 3 Caleagnini ha qui reso ellittica una pagina di Plutar­ co: « ... il famoso re Antigono, al figlio (Demetrio) che gli chiedeva quando l'esercito si sarebbe messo in mar­ cia, così rispose: - D i che hai paura? Temi forse di essere il solo a non udire la tromba? - . Non volle dunque confidare un segreto proprio a colui che doveva ereditare il suo regno? N o certo! Egli volle invece in­

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segnare al figlio a dominare e ad essere riservato in faccende di tale importanza » (De garrulitate, 506 c-d). 4 Bomonici, o «vincitori presso l ’altare », erano chia­ mati i giovani spartani che presso l ’altare di Artemide venivano premiati per la loro capacità a sopportare e superare la prova delle frustate. 5 Si è preferito dare l ’aforisma latino nella traduzione di Vincenzo Cartari: Imagini delti dei degli antichi, Venezia 1580, p. 197. 6 La Naturalis historia di Plinio aveva reso proverbiale il mitico uovo di serpente grande quanto una mela (costituito da un corpo di serpente acciambellato e da un guscio di cartilagine fungosa), al quale i G alli attri­ buivano poteri di talismano: « n e è incredibilmente lodato l ’effetto per vincere le liti giudiziarie e accedere ai re » (xxix, ^2-54).

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Celio Malespini La scienza nuova

19 d’agosto 1579 Serenissimo Principe, Illustrissimi Signori,1 il fidelissimo suo servo Celio Malaspina dice che, sendosi trovato negPanni suoi più ziovenili con molti Principi e Signori, frequentando seco diverse guerre, ha veduto sempre da ognuno di loro accarezzare, onorare e premiare tutti coloro che con qualche illustre e rara virtù si sono affa­ ticati di conservare e republiche e stati loro da tutti i loro nemici; onde da così degna in­ vidia invaghito e stimolato, ha cercato con ogni diligenza, studio ed arte, tutte le vie e modi possibili d'investigare anch’esso qualche nuova invenzione, per la quale egli potesse giovare al publico e conquistarne gloria e premio appresso di qualche Principe. E considerando, come sol­ dato e professore di guerra, che la professione del scrivere, con la quale tutto il mondo se governa e rege, gli potesse aportare quello utile ed onore che tanto egli desiderava, a quella tutto si volse e diede: non perdonando a tempo sudori e fatiche, finché se n’impatroni de modo

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tale che quello che a tutto il mondo par forsi sia impossibile ed incredibile, che altrui possa contrafare tutte le sorti di lettere di qual si voglia uomo del mondo, e scrivere in quello istesso carattere tutto ciò altri vuole, che a lui gli s’è reso facilissimo e sicuro. Onde egli si offerisce a Vostra Serenità di contrafare ogni sor­ te di lettera così perfettamente che ognuno, ve­ dendola, confesserà ella sia delPistessa mano o carattere di quel tale che gli sarà commandato ch’ei contrafaccia. E questo s’intende di tutte le altre sorti di lettere che si scrivono con il nostro alfabeto, a , b , c et caetera , e specialmente di queste quattro sorti, cioè latina, italiana, fran­ cese e spagnuola, delle quali egli ne ha suffi­ ciente cognizione. DelPaltre lingue poi che esso non intende, come sarebbe a dire alemana, greca, schiavona, ebrea, turchesca e simili, egli promet­ te de fare il medesimo, e contrafarle tutte; men­ tre però gli sia dato un interprete, che sapia legere e scrivere in quella lingua che altrui vorrà contrafare: escludendo, se sarà bisogno, il detto interprete dal secreto del soggetto e dal detto contrafare; rimanendo tutto in lui solo. E perché questo scrivere rimarebbe in qualche parte im­ perfetto, se non si avesse il modo di far qual si 54

vogliano sugelli per sugellare tutto quello che bisognasse, imperò che egli anco offerisce e pro­ mette di trovar modi sicuri e facili da contra­ farli tutti, per servirsene poi ai bisogni in ogni occasione. Tutte le predette cose sono di gran­ dissima considerazione, e si possono usare in beneficio publico per la conservazione di qual si vogli república e stato: il che difficilmente si può conseguire, se altrui non pone confusione, diffidenza e discordia tra gli nemici. E spesso con lettere contrafatte si può fuggire li gran pe­ ricoli che soprastanno; e spesso anco per tal mezo guadagnare delle fortezze a mano salva, che per altra via sono reputate inespugnabili: ché chi ha cognizione delle cose passate, della diversità delli stratagemmi militari, facilmente potrà comprendere che questa scenzia di con­ trafare la mano d’altri possa recar infinito utile e giovamento a ciascheduno Principe, sì nelle cose di guerra come in quelle della pace; ed alTopposito nuocere con gran pregiudicio all’ini­ mico, sì come per li sottoscritti capitoli in qual­ che parte si dimostra. E quando ciò a Vostra Serenità piaccia, ne può ad ogni suo piacere far­ ne la prova: offerendosegli poi pronto ad ogni suo servigio, mentre che si degni stabilirgli in vita 55

sua de provigione onorata, accioché onoratamen­ te egli possi vivere, insieme con la sua moglie, figliuoli e servitù, in questa felicissima città dove egli è nato e desidera morire in servizio di Vo­ stra Serenità ed a beneficio universale di tutta questa Serenissima Repubblica, alla quale sem­ pre sia il grande Iddio propizio e favorevole. Capitoli per li quali succintamente si declara in che altrui si possa servire di questa scienza e virtù, videlicet : 2 prima si può metter discensione3 e discordia fra Principi, generali, colonelli, capitani o altri importanti signori; si può nelle fortezze, sì al tempo di guerra come di pace, di molte stratagemma, e forsi facilmente conquistarne qualcheduna; si può a tempo di qualche assedio di qualsivoglia luoco divertire o prolungare il giorno determi­ nato all'assalto, con render con lettere sospetto il generale o altri officiali e capitani, fino che se gli possi dar soccorso; si può liberar prigioni d'importanza, manomet­ tere vittuaglie, far perdere monizioni ed artiglia­ ne, e con artificio di lettere far uscir quelle dell'inimico e tagliarle a pezzi; 56

si può in tempo di necessità di dinari, buscarne buona quantità in diverse parti del mondo; si può in sedia vacante divertir v o ti 4 e tirar alla sua devozione i sospetti, e tentare di far il Pontefice a suo modo; si può aver nelle mani qualsivoglia uomo, abenché lontano ed in giurisdizzion aliene,5 o almeno farlo mal capitare; si può disturbare matrimoni de Principi grandi ed altri personaggi, ed alPopposito giovar assai; si può in tempo di carestia far tratte di grani, vini, ogli ed altre specie di vettovaglie per prov­ vedersene ne’ suoi bisogni; si può far fanterie e cavallerie in terre aliene e cavarle fuori, bisognando, d’ogni stato; si può in ogni titolo di onor o precedenza gio­ vare, e similmente nuocere assai; si può disturbar leghe e paci, far intertenir corieri,6 in ogni loco, per mutare le lettere e la zifra,7 far patenti di qual si sia Principe, salvicondutti, lettere di credenza, passaporti ed altre simile cose; si può finalmente mettere in rovina e diffidenza tutti i Bassà 8 ed altri Signori grandi, che ser­ vono al Gran Turco, rendendoli con lettere con­ trafatte sospetti di tradimento, e farli mal capi­ 57

tare e precipitare, servendosi di questa occasio­ ne, quando fosse vicino al venire una armata loro a’ danni de* Cristiani per divertirla (ed in questa specie molto volentieri mi vi adoprei in beneficio prima di Dio e poi di questo felicis­ simo Dominio): tralasciando fratanto mill’altre stratagemme che gli si pòno far contro, sì come sono infinite le azioni del mondo, il quale per mezo del scrivere si ha sempre governato e si governa; ché sendogli qualcheduna di quelle pro­ postagli, sempre vi si troverà il modo di potere giovare e nuocere bisognando. In quanto alle zifre, ho detto che non è mia professione; ben dico che, capitando una let­ tera di qualsivoglia Principe scritta in zifra, e volendola contrafare mutandogli il senso, si imiterà quella medesima; e mutata che sarà, quello a cui sarà indrizzata, volendola levare, non potrà, trovandola tutta piena di errori a tal che sarà forzato di scrivere di nuovo al suo Principe, e così altrui anderà guadagnando il tempo che correrà di rescrivere ed averne la risposta. I l mutar senso della zifra per esempio sarà come qui sotto: 2928467531

2618235939. 53

Di modo che si imiterà il numero stesso o altra cosa simile, e si guadagnerà il tempo, e se ne darà la colpa al secretario che abbia preso errore, basta che si guadagni il detto tempo, poiché dette lettere non mancherà del solito sigillo, e delTistessa carta ed altre sue circostanze.

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Note

1 La petizione è indirizzata al Doge e al Consiglio dei D ied di Venezia. 2 e doè. 3 distensione. 4 stornar voti, quando il soglio papale è vacante. 5 straniere. 6 trattener corrieri. 7 cifra; linguaggio cifrato. * basdà; pasdà.

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Giuseppe Battista L ’apologià della menzogna

 persuadiere, Oziosi,1 necessaria è predicata Par­ te di cattar benivólenza. Se la verità, come disse colui, è madre delPodio: genitrice delPaffettp sarà la menzogna. Voi dunque necessariamente benivoli mi sarete, perché della menzogna vo’ ragionarvi. Tutte le cose sdegnano la menzogna, e pure in tutte lç cose ella si truova. Tutti fingono di scansarla, e pur tutti la scontrano. Piacciavi d’esaminar primamente i principii delle cose; e, lasciando in non calére le opinioni di varie scuole, ammettasi la dottrina del Liceo. Se chie­ dete della materia prima che cosa ella sia, daravvi risposte d’oracolo menzoniero: « Né cosa, né quale, né quanto »,a per bocca d’Aristotile. E, per bocca d’Agostino, faravvi intendere: « Non è colore, non è figura; non è corpo, non a Arist., 7, Metdpb. c. 3, t. 8: «Ñ eque quid, ñeque quale, ñeque quantum ».

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è spirito. E tuttavia non è del tutto nulla ».b Un’ombra del nulla, e pur si truova in tutti gli enti. Con l ’ornamento delle forme, e terra e acqua e aria e fuoco e cielo appare. E nulla di meno non è cielo, né fuoco, né aria, né acqua, né terra. « Grande » 2 fa nomarsi da Porfirio, perché è ingenerabile e incorruttibile, e può ri­ cever tutte cose. « Cosa minima » 3 dal mede­ simo, perché attualmente nulla possiede. Si av­ vilisce per testimonianza di Platone, da cui vuol esser detta regione di dissimiglianza, perché es­ sendo ente potenziale non ha simiglianza alcuna con Dio che è atto purissimo. Poscia a Dio si rassomiglia, perché non ha luogo quasi dove ella non si truovi. Feccia della prima vita, per­ ché è ignobilissima fra tutte le sostanze prodotte dall’eterno Facitore. Ma nobilissima allo ’ncontro si vanta, perché nobiltà veruna non avreb­ bero le cose prodotte se fossero queste di ma­ teria spogliate. Perloché vide assai chi Proteo dell’universo l’appellò; perché, qual Proteo b Augustin., 1. 12, Confess., c. 3: «N on color est, non figura; non corpus est, non Spiritus; non tarnen omnino nihil». [La citazione agostiniana è stata riadattata dal Battista. Si legga: « non color, non figura, non corpus, non Spiritus? Non tarnen omnino nihil»].

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or scuote col capo la criniera, divenuto leone; e poi diventa serpente spaventoso. Or cinghiale, or pante­ ra immane, o albero d’alto fogliame; or scorre fat­ tosi fresca acqua; or crepita, divenuto fuoco...® Confessa talora la privazione, che ella altro esser non abbia se non quello che le comunica l’umano intendimento. Si contraddice talora; e concede che, senza operazione alcuna d’intelletto, ella sia nelle cose non per esistenza positiva: ma esercitando la sua malefica tirannia di dar l’esi­ lio alle forme. Né mai conoscerete verità di locu­ zione, se all’idioma della forma porgerete l’orec­ chio. Ella in una cattedra insegna esser parte del composto; in un’altra scranna dichiara il con­ trario, con persuaderci che ’1 composto altro non sia che la materia sola corredata d’accidenti. L 'uno fa dirsi da Pitagora, perché procura l ’uni­ tà come la materia, la moltitudine o la divisione. Il bello da Aristotile, perché porge bellezza alla materia, e tutta la scena del mondo rende spetc Horn., 1. 4, Odyss.: « Nunc torquet cervice iubas leo factus, et inde / fit draco terribilis, modo sus, modo pardafis ingens, / alticoma aut arbor, nunc frigida defluit unda, / nunc ignis crépitât ». [La citazione ome­ rica corrisponde, nel testo greco, a Odissea iv , 456-458].

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tabile con la varietà eh’è bella. Termine da non pochi, restringendo la materia vagabonda a certi confini. Carattere da molti, perché stampa nelle cose un marchio col quale distinte dalle altre si fan conoscere tali. Oh quante bugie! Se dunque veritieri non sono i principii che le cose com­ pongono, come dirán vero le cose composte? Dimandate per vostra fé’ a questo cielo, sotto del quale viviamo, di qual natura e’ sia. Chi vo­ lesse certificarsene, dubbio sempre rimarrebbe e lontano pur troppo dalla certezza. Fece intendere a Pitagora che avesse natura di fuoco. Ad Empe­ docle rivelò che, di fuoco e d'aria compaginato, simigliasse il cristallo. A Tálete che sia di terra; a Plasione che sia il fiore degli elementi. Uno si manifesta appo molti, dove le stelle fisse ser­ bano sempre il sito medesimo e i pianeti da questa parte a quella camminano liberamente come nuotano i pesci nel mare. Con altri muta linguàggio, e dice d’esser in tre multiplicato: un delle stelle, un del sole, un della luna. Otto fra gli egiziani si contano; e fra i caldei, per altrettanti moti osservati, sette delle stelle er­ ranti dall'occaso all'oriente, e l'ottavo del firma­ mento che essi-pensano mobile. Nove si nume­ rano per dottrina d’Aifragano e di Tolemeo; e 68

dieci, finalmente, giusta ^opinione di Tebizio e d’Alfonso re delle Spagne. Con Lattanzio e con Procopio Gazeo, si ridono di coloro che gli pre­ dicano di figura sferica. Con Tálete poscia, e con Pittagora, si maraviglian di coloro che gli vo­ gliono di figura ovata. Vantano armonia, e pure sono mutoli. Non hanno colore, e sembrano colorati. Paiono stabili, e pur si muovono. Nel moto stesso sono bugiardi, perché saper non possiamo se abbiano il principio intrinseco del lor moto. Il sole disse a Metrodoro ch'egli fosse un sasso infocato; ad Euripide che fosse una zolla d'oro. Ha le sue macchie, e gloriasi d'es­ sere schietto. La luna sotto varie divise mentisce. In cielo è lampana luminosa per cacciar in fuga le tenebre della notte. In terra fa chiamarsi Dia­ na, per turbar la quiete alle fiere ne' boschi. Nello inferno mutasi nome, e s'appella Proser­ pina sposa a Dite. Piani sembrano alla nostra veduta il sole e la luna, e pur sono amendue agglobati in isfera. Ma se piacevi di sapere quan­ to colassù regni la menzogna, mirate quel sen­ tiero di candidezza che dal latte prende l'aggiun­ to. Se l'interrogate che cosa e’ sia, vi si risponde per le penne de' poeti - che sia latte di Giunone: il quale gocciolò giù dalle sue poppe, donde al­ 69

lontanò le labbra d'Alcide. Striscia che lasciò impressa Fetonte, nella sua caduta. Strada che fan Tanime dallo inferno al cielo. Stanza di uo­ mini illustri. Ritorno che fece il sole in dietro, per la sceleraggine di Tieste. Per Possidonio, poi, fa dirsi certa spruzzaglia di color sidereo. Per bocca di Diodoro, vuol esser chiamato fuoco di natura densa. Da Teofrasto, commisura di due emisferi. Per mezzo d'Anassagora, lume di stelle che non sono mirate dal sole per la interposizion della terra. Per detto d'Aristotile, esa­ lazioni concrete e lungamente distèse nell'aere. Per relazione dello Scaligero, del Cardano e del grande Alberto, una frequenza di menome stelle attaccate nell'ottava sfera: le quali, per la pic­ colezza non possono distintamente giugnere alla nostra veduta come le altre stelle fanno; e così, fra loro mescolano e confondono il lume. O ve­ ramente che sieno le parti più dense del cielo stesso, ma più rare: le quali, per lo riflesso del lume solare e delPaltre stelle che ivi risplendono, mandano quella candidezza. Or dove, Signori, troverete il vero, quando per un sentiero di purità s'incespica in tante bugie? Né meno bugiarda fa scoprirsi la figliuola di Taumante,4 cioè della maraviglia, mentre in una

pluralità di colori appar da se stessa difieren te. Niun colore possiede, e ne vanta mille. Ciò che a noi sembra possedimento reale, è vanità d'ap­ parenza. Quando Omero la disse lingua delle stelle, darle a ragion doveva aggiunto di men­ dace. E molto vide chi la nominò Mercurio degli dei, che è nume tutelare delle menzogne. E nulla di meno, in una perfezione tanto notabile, Criso­ stomo la chiamò chirografo di Dio rappacificato con l’uomo. Girolamo, simulacro della superna clemenza. Agostino, tessera d’amicizia. Bernardo, ostaggio di tregua eterna. Cipriano, geroglifico della celeste benignità. Gregorio, idea dello Spi­ rito Santo. Nazianzeno, simbolo della divina pie­ tà. Anassagora, preludio di serenità. Pittagora, immagine del divino splendore. Macrobio, beni­ gnissimo prodigio di Dio. E ditela voi, se final­ mente vi piace, lucerna della natura e riso d’un del piangente. Nella fascia del Zodiaco ci rappresentano gli astronomi diverse immagini d’animali, e pur altro non sono che certo numero di stelle ch’ivi lampeggiano. Orpellano la invenzione bugiarda con dire che portano quelle costellazioni nome brutale, perché simigliano que’ bruti de’ quali ciascuna stella porta il nome. O perche il sole, 71

movendosi con quelle, produce azioni rispon­ denti alla natura di quelle fiere. I genetliaci poi, fatti del futuro indovinatori, ne presagiscono avvenimenti o buoni o mali. Ma qui vale il dire che erano a tutto cielo. Non è bugiarda l’aria se, tonando da man sinistra, promette felicità a’ latini; infelicità a’ greci? Quando poi tuona da man destra, prosperi avvenimenti a’ greci; cala­ mità a’ latini? Non vi par egli che mentisca il mare quando chiama a sé con le lusinghe della bonaccia il credulo piloto, e poi con le braccia tempestose Taffoga? Non giudicate mendace la terra, quando nella lussuria delle biade fa veder più che ricco Pagricoltor sudato; e nella raccolta, poscia, lo dichiara più che mendico nella steri­ lità delle avene? I l raccolto che ha deluso le speranze; e le vigne flagellate dalla grandine, e il podere m endace...5

Ma lasciamo di spaziare col pensiero le cose che sono fuori di noi; e siaci piacimento di ristrin­ gerci a considerar le nostre imperfezioni.'Il no­ stro intendimento, quantunque abbia il vero per obbietto, nulla di meno quante volte nella co­ gnizione del vero mentisce? Non dice il falso a 72

noi la volontà quando, rappresentandoci sotto scorza di bene il male, il male stesso ci trascina ad abbracciare? Mille fiate la memoria fa ricor­ darci una cosa in vece di un’altra. I sensi è vero che non fanno ingannarsi dal sensibile sotto ragion comune. Imperciocché è impossibile che la potenza passi i confini del proprio obbietto. Ma negar non puossi che non s-ingannino nel sensibile sotto ragion particolare. Quindi è che lo ’ntelletto gloriasi di far il correggitore spesse fiate a’ sensi. Io non voglio esaminar qui tutti i sensi. Basti il più nobile, che è della vista: il quale, se ha l ’organo guasto, rappresenta per giallo il color bianco. Se il mezzo ha vapori in­ terposti, vermiglio pur troppo divisa il sole mat­ tutino. Se lo ’ntervallo è lontano, un edificio d’architettura quadrata, sferico giudicherollo. Onde cantò Lucrezio: Succede ancor che le quadrate torri riguardate da lungi appaion tonde, sol perché di Ionian gli angoli suoi m olto ottu si si veggono, o piuttosto più da noi non si veggono, e svanisce affatto ogni lor piaga, e non ne giunge p ur a m overe il senso un picciol urto.6

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Datemi licenza ch'io tragga il piè dalle scuole fisiche, nelle quali mi si potrebbe dire non mai la verità si truova, perché sempre si contrasta per trovarla: « discutendo troppo, si perde la verità ».7 E veniamo, con locuzione di proprietà, nelle morali. Mestier fa, nostro malgrado, di confessar la bugia nostro retaggio inseparabile; se è vero che ella nacque in bocca della nostra prima genitrice sugli orienti del mondo allora, quando al ser­ pente infernale narrò altramente il divino divie­ to. È passata a' posteri la infirmità, e forse uomo non ha che non vi soggiaccia. Non voglio far oggi, in questo luogo, minuto catalogo di que* giusti che nelle sacre carte leggonsi d'aver ta­ ciuto la verità secondo l'apparenza almeno delle parole: perché, difesi e scusati da teologi grandi, non deono del mio giudicio, che pur troppo è picciolo, trutinarsi.8 Siami lecito non di meno di rammentarvi le menzogne di Cusai ad Assalone, d'Amano contro Mardocheo, di que' vec­ chioni contro Susanna, de' principi di Gierusalemme a Geremia; d'Antioco a' prìncipi di Gie* rusalemme, di Demetrio a Gionata, d'Anania a Pietro. Se vi dà l'animo di por nella soglia delle corti 74

il piede, non ferirà altro suono le vostre orec­ chie che di cicalecci bugiardi. O si fanno encomi al vizio, o invettive alla virtù. Le adulazioni grondano mèle, e vomitano veleno le accuse. Qui Aristobolo presenta storie di valor iperbo­ lico ad Alessandro. Quintiliano appella Domi­ ziano poeta grande. Virgilio chiama Cesare, Dio. Colpì nel bianco Seneca quando scrisse: « ti mostrerò qual è la povertà che affligge i potenti, che cosa manca a quelli che possiedono tutto: manca loro chi dica la verità ».d Le orecchie di Tiberio erano sempre aperte alle accuse, o fos­ sero portate dallo scherzo o vomitate dall’eb­ brezza; o dipinte dalla malignità. Licenza che, d’ogni guerra civile più dannosa, distruggeva pacificamente la città togata. Non aspettavasi l’esito degli accusati, perché il diletto di crudel­ mente tiranneggiare non conosceva divario tra l ’accusa e la pena. Oh quanti Domiziani premia­ no oggi giorno gentaglia di cotai fatta che, tra­ scurando i propi affari, spia l ’altrui faccende: d Senec., 1. 6, De Benef.: «Monstrabo tibi, cuius rei inopia laborent magna fastigia, quid omnia possidentibus desit: scilicet ¿lie, qui veruni dicat ». [Il luogo esatto è: De Bene fiáis, v i, 30, 3].

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perché quegli* abbiano l ’anima sitibonda di san­ g ü eso famelica d’oro! Quanti rapportatori in­ ventano menzogne, perché invidiano gli Amani, odiano i Danieli, amano le Susanne? È fatica mal durata il darvi a dividere con quanta libertà signoreggi ne’ tribunali la bugia. Quivi si con­ dannano i Furii Camilli come innocenti, si assol­ vono i Publii Clodi come rei. E con qual verità possono difendersi i cattivi, punirsi i buoni? Non si danno sentenze, si fanno vendette. Il nome stesso della verità è ignoto in tai luoghi, e ne fu a Cristo signor nostro dimandata la diffinizione. Né sia maraviglia quando ne’ ricinti più sacri trovansi di coloro che hanno la scorza d’agnelli e il midollo di volpe. Vivono da Luculli, e parlano da Catoni. Somigliano i sepolcri che chiudono cadaveri, puzzòsi al pensiero; e fuori sono di candido marmo, speciosi alla ve­ duta. Sono di Satanasso, e paion di. Dio. Solle­ v a c i con gli occhi al cielo, e s’abbassano col cuore nello inferno. Argento bianco, ma tirano linee nere. Cercano Cristo, ma come Erode. Ri­ tratto di quegli Arturi di Giovenale: « che cam­ biano in bianco il nero ».9 Altra contemplazione non hanno che d’ingannare; e sono tutti pieni d’insidie, come il cavallo troiano. Che altro è

la vita di costoro, che una continua menzogna? Eh, di grazia, non si brontoli con agra veemem za; né si biasimi, con parole riscaldate, la bugia: quando parmi un necessario condimento delle professioni di gran vantaggio pregiate. La loica quando insegna i sofismi, insegna il falso. Quan­ do la rettorica dà i precetti d’ingrandir le cose picciole, e per lo contrario, allora mèntiscè. Tan­ te sue figure che altro sono, che impiastri della verità? La pittura, quando in una sola superficie ci rappresenta un corpo di trina dimensione, non c’inganna? Non fu ella detta bugia di colori? Le storie, dei nostri tempi massimamente, non sono per lo più favolose? Chi tor vuole alla poesia le menzogne, la vuol distrutta. Le nazioni più da noi rimote furono bugiarde. Degli egiziani .disse Alessandro Napoletano: « presso gli egiziani non c’è limite al mentire, e totale è l’impunità quando si m ente».* I greci, perché mancano di fede, mancano di verità: perché la perfidia s’appoggia su la bugia. I candiotti furono celebri per le menzogne, tanto che c Lib. 6, c. io : « Aegyptiis nullus mentiendi modus, summaque mentiendi impunitas ».

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erano in bocca di tutti: « Cretesi, tutti bugiar­ di ».10 E Ovidio cantò: Ciò che canto è noto a tutti: né lo può negare, benché bugiarda, Creta che sostiene cento città.11 Vedete bugia solenne! Vantavano d’aver il se­ polcro di Giove, c pur adoravano Giove come dio immortale. G li africani, gente come di due facce, così di due lingue: « africani subdoli e mendaci »,12 Ciarloni gli alessandrini. E chi non sa che troppo mentisce, chi troppo favella? Gli scrittori più rinomati concedon di dire a chi che sia, nelle occasioni, la menzogna. Eliodoro la chiamò bella, quando giova a chi la dice e non nuoce a chi l ’ascolta: « bello è il dir bugia, quando giova a chi mente e non nuoce a chi l ’ascolta ».13 Erodoto non dubitò d’avvertire che, quando la necessità costringe, non debba dirsi: « quando è necessario dire una bugia, la si di­ ca ».14 Pisandro non biasima chi, per salvar la vita, mentisce: « non si deve biasimare chi men­ tirà, per aver salva la vita ».I5 E vaglia per mille un sol Platone, il quale, escludendo dalla regola gli dei, a tutti gli uomini della sua Repubblica dispensa con tutta libertà il servirsi della bugia, come necessaria e come rimedio ne’ bisogni op-

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portuno: « la menzogna non si addice agli dei, ma è utile agli uomini, anzi necessaria; e a tal punto che ce ne serviamo come medicamento ».f E questa platonica sentenza lusingò forse il no­ stro Torquato a commendar la bugia di Sofronia con quel bellissimo epifonema: Magnanima menzogna, or quand'è il vero sì bello che si possa a te preporre?16 O forse imitò Orazio, il quale celebra Ipermnestra dalla bugia detta al padre per salvar allo sposo la vita: Una sola fra tutte, in onore del fuoco nuziale, seppe splendida mentire al padre traditore, e famosa per Teternità la vergine rimase.17 Chi vuol dire la verità è censurato per uomo superbo di genio e libero di lingua. Ammettiamo volentieri la bugia adulatrice. E quantunque con­ fessiamo d’esser immeritevoli d’onore esaggerato, e caldo rossore ci tinga il volto, pur non di f Lib. 3, De Repubbl.: «D eos mendacium non decet, sed hominibus utile, immo et necessarium, et ut eo tanquam medicamento utemur ».

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meno entra nel nostro cuore il piacimento; e ci contentiamo di quelle insidie che si fanno al­ l ’udito. Quante allegrezze concepisce nell’animo, quel timido che appellòssi avveduto? Quel teme­ rario, che dicesi generoso? Quell’avaro, che chia­ masi parco? Quel garrulo, che si nomina affa­ bile? Quell’ostinato, che si predica forte? Quel­ l ’ignorante, a cui titolo di saputo s’attribuisce? Offende ciò che non vuole intendersi, e diletta quel che d’ascoltar si brama; e come, dicendosi il vero, si guadagnano le nimicizie, così l’affetto degli uomini si acquista col mentire. Olito, men­ tre banchetta Alessandro, perché con sensi licen­ ziosi di verità biasima i costumi de’ persiani, per mano del Macedone stesso vien trafitto; né punto giovògli eh’e’ fosse figliuolo di chi a quel re diede in fasce il bianco alimento, e che una volta il serbasse dal pericolo della vita. Pressaspe riprende l ’ebbrezza di Cambise, alla quale era questi soggetto, e questi gli uccide il propio figliuolo con avventargli nel cuore scelerata saetta. Finiamola. Tutte le cose che chiude il mondo, sono bugiarde apparenze. Altramente sono, al­ tramente si veggono. Poma di Pentapoli,18 che lusingano col colore la veduta, ingannano con la 80

cenere il tatto. Tutte sono bellezze d’Alcina. Simigliano quelle ricchezze appunto, che donar voleva a Giesucristo il demonio tentatore su la cima d’un monte nel deserto: « le cose del mon­ do nient'altro sono che menzogna », disse con verità Clemente Alessandrino.8

ß Lib. 6, Stromata.

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N ote

1 Si rivolge ai sodali dell'Accademia napoletana degli Oziosi. 2 Magnum. 3 Parvum. 4 Iride; arcobaleno. 5 « Spem mentita seges, / et verbérate grandine vineae, / fundusque mendax ». [Battista ha qui contaminato due luoghi oraziani: Epistole i, 7, 87; O di, in , 1, 29-30]. 6 « Quadratasque procul turris cum cernimus urbis, / propterea fit uti videatur saepe rotundae, / angulus optusus quia longe cernitur omnis / sive etiam potius non cernitur ac périt eius / plaga nec ad nostros acies illabi tur ictus». [D e rerum natura, iv , 353-361. La tra­ duzione riportata è quella di fine Seicento approntata da Alessandro Marchetti: w . 511-518]. 7 «Nimium altercando veritas ammittitur». 8 Soppesarsi. 9 « Q u i nigrum in candida vertunt ». [Satire, in , 30]. 10 Cretenses mendaces ». 11 « Nota cano: non hoc, quae centum sustinet urbes, / quanvis sit mendax, Creta negare potest ». [Ars ama­ toria: i , 298]. 12 « A fri subdoli et mendaces ». 13 « Pulcrum est mendacium, eum auctori commodat et audienti non nocet». [Le Etiopiche, 1, 26, 6], 14 « Ubi dicere oportet mendacium, dicatur ». 15 « Non reprehendendus est qui mendacium prò vita dixerit ». 16 T . Tasso, Gerusalemme liberata, 11, 22, 3-4.

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j7 « Una de multis face nuptiali / digna periurunt fuit in patentem / splendide mendax et in omne virgo / nobilis aevom». [O di, m , n , 33-36]. 18 Frutti pervertiti. Sodoma, Gomorra, Zeboim, Zoar e Adama erano le cinque città (Pentàpoli) che la Bibbia ha reso proverbiali per le abitudini contro natura degli abitanti.

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Pio Rossi Un vocabolario per la menzogna

Se Pautorità di chi accusa potesse rendere di colpa sospetta Pinnocenza, sarebbono vane le speranze e miserabili le condizioni degli uomini. Guai al mondo, se i grandi potessero autenticare le calunnie solamente col pretesto d’averle proferite. Non vi sarebbe bontà che non fosse posta in ombra e costituita rea al tri­ bunale della morte. Chi vuol accusare altri, deve egli prima esser puro ed innocente. Niuna ragione consente che questo chieda conto della vita di quello, s’egli non lo può dar della propria. Chi ha traviato dal diritto della coscienza, non è abile a ridurvi altri. Il poco fondamento delPaccusa, s’argomenta dal poco merito della persona che accusa. Accusar altrui, nelle sue disgrazie, è cosa da uo­ mo rozzo ed ignorante. Accusar se stesso è cosa da chi comincia a farsi savio. Non accusar altrui, né se stesso, è cosa da savio e da perfetto. accusare .

adulare , adulazione.

Non adula chi dice la

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verità, sì come non adula il sole chi dice che ’1 sol risplende o che riscalda. È cosa naturale agli uomini il desiderar alcuna lode: se vera non la possono avere, godono della falsa. La sembianza lusinghiera di chi n’adula, è il più potente fascino ch’abbia la frode per farne pazzi. L ’adulazione è quel blando mostro, che non machina che togliere dal mondo la verità. L ’adulazione, benché peste atrocissima, non of­ fende però che quelli che la ricevono e che di essa si dilettano. È, la stessa, l ’abbigliatrice di tutti quanti i vizi. Quanto più l ’uomo è buono, manco ha bisogno di adulazione. L ’adulazione è divenuta un male che è dolce, ed un vizio eh e civile. Si maschera coll’esterno l’in­ terno; e si vela il cuore col volto; e si appanna l ’aspetto e lo specchio della verità col fiato d’una parola. Così l ’uomo, che dal sagro Davide col­ l ’allegoria di cettera fu chiamato, non porge al suo suono che corde false: risonando una voce che non ha cuore, o pure eh’è tradi trice del cuo­ re. Artefice di quest’inganni è il falsetto del­ l ’interesse, il qual fa il gran maestro di cappella nella gran musica dell’universo. 88

Il vero lapis philosophorum y che per tanti secoli non ha potuto l ’avarizia umana fabbricare, l’ha finalmente l ’adulazione fabbricato; e n’ha prove­ duto largamente tutti li stati degli uomini. Con questa, toccando il piombo e lo stagno de’ vizi, fa meravigliose metamorfosi: dando loro l ’aureo colore della virtù; e facendoli materia di lodi, d’encomii. L ’adulazione, dice S. Gieronimo, ha per oggetto il guadagno. A questo per arrivar, l ’adulatore con armoniose parole affonna l’incauto di modo che lo priva della vita e della robba. Anche Mer­ curio, per rubbare la vacca ad Argo consegnata, allo stesso appressato, con tal soavità si mise a tasteggiare che, benché cent’occhi avesse, tutti in un tratto al medesimo in profondissimo sonno chiuse. Addormentato poscia che l ’ebbe (perché dal sonno alla morte è picciol varco), privollo della vita e della vacca. Manco male è l ’incontrarsi ne’ corvi che negli adulatori: quelli mangiano la carne de’ morti, questi quella de’ vivi; I grandi tengono volontieri, attorno le orecchie, degli animi compiacenti ch’hanno delle parole a tutti gl’incontri; e sanno fare delle mascare a

adulatore .

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tutti i volti, e delle scarpe a tutti i piedi. Il verme non si parte dal grano, sin che dentro vi trova sostanza da pascersi. Il cenocefalo ha per costume di variare il pelo, nonché gli affetti, con le mutazioni della luna. L'eccellenza delli scaltriti adulatori sta in sapere, col canto e con la voce, conformarsi con li nostri appetiti: in saper ben (dico) sonare e trovare quel suono che corrisponde al morso della nostra tarantola. L'affettazione fu sempre biasime­ vole in tutte le azioni morali e politiche, molto maggiormente negli abiti e ne* comportamenti. Sempre Paffe nazione toglie il verisimile. Le affettazioni si lasciano a coloro che non sanno dichiararsi per amici, se non si mostrano lusin­ ghieri. L'amicizia va coltivata con dimostrazioni d'amor virile. Le visite fuor di tempo, i complimenti non op­ portuni, le espressioni di affetto che sentono del singolare, i tratti di osservanza isquisiti: tutti sono testimoni venali. Ama l'amicizia il cuore, non la lingua. Le opere nelle cose di sostanza, non le cortegianesche vanità, attestano dell'amo­ re. Chi è nato veramente libero, dilungandosi a ffettazio n i .

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quanto più può dalla servilità dell’adulazione, tiene il piede sempre immobile nel centro duna nobile ed onorata amicizia. am ici di fortuna . Gli amici di fortuna corrono dov’ella è. Odiano chi la possiede, perché vorriano possederla. Gli amici di fortuna voltan le spalle, secondo che soffiano i venti e le venture. È veramente di fortuna, poiché sono mai sempre seguaci della fortuna; e sono nel cuore simili alla fortuna: instabili, vacillanti. Se sei povero di ricchezze, sarai povero di seguaci. Se sei ricco e potente, vedrai la tua potenza riverita e corteggiata. Si mirano ed ammirano i splendori, ma l’ombre si fuggono: ancorché ombre, s’atterrano e si sot­ terrano. Gli amici sono annoverati fra i beni della for­ tuna. Ma si partono gli amici, quando da noi si partono i beni della fortuna. Nell’oriente delle miserie nasce l ’occaso dell’amicizia. Non si ama­ no gli amici, ma le fortune. È d’uopo che altri abbia amica, cioè fortunata, la fortuna, per aver amici gli amici. Mancano questi, mancando quel­ la. L ’amicizia è una Clizia, che sempre seguita i raggi di questo sole. Tramonta l ’amicizia, se

tramonta la sorte. Onde Ovidio: « Se nubilosi saranno i tempi, solo sarai ».2 am icizia fin ta . Chi contrae l’amicizia allettato dall’utile, cessato quello, rescinde il contratto. Tolta la cagione dell’amicizia, non resta con che più si mantenga. Non è questa amicizia: è mer­ canzia. I prati, i campi, i gregi, s’amano di tal modo: perché rendono il frutto. L ’amore tra gli uomini è senza ricompensa e gratuito. Non nasce l’amore che da se stesso. Quell’amicizia, che non diletta e non risponde al genio, meglio è lasciarla morire di puro che am­ mazzarla in un tratto. Non torna conto, per rinonziar ad un amico, incontrar un nemico. È troppo grand’errore contro coloro combattere, con i quali si visse familiare. Le amicizie finte finiscono con la morte, ma le vere durano sempre. La dottrina di coloro che ci esortano ad amare gli amici come mortali, e come potessero una volta divenirci nemici, provasi da se stessa oltra modo sospetta di falsità: percioché, come può essere vero amore quello che non è perpetuo? È finita quell’amicizia che viene angustiata da’ pen­ sieri di perdersi. Come può darsi ad uno perpe-

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tiiamente il cuore, che d’ora in ora si crede morto? Il prender amor a cosa che facilmente corra a rischio di perdersi, è imprudenza e paz­ zia. Non può amarsi quello che, in breve, sarà d’altri. Dunque, perché è vero che non si per­ dono gli amici che muoiono, ma che vanno in­ nanzi ad attendere il nostro arrivo: perché noi pure non dovremo amar quelli, e sospirare la lontananza loro che tanto dovrà durare quanto la nostra vita? Dolcissimo fu sempre il nome dell’amicizia, e l ’uomo nacque per godere di questa dolcezza; ma la corrompe. E corrompitore di questo miele fu il veleno dell’interesse. L ’amicizia, che già da Tullio fu al sole parago­ nata, è oggi un sole coperto o di nuvole o di macchie; o sanguinoso, od eclissato: l’interesse, che sta sempre attaccato alle cose terrene, è quel­ la terra che lo eclissa. Ciascuno è amico di se medesimo, non dell’ami­ co. È un trovato sofistico che l ’amico sia un altr’io. Non è possibile trovar un’anima che al­ berghi in due corpi, perché ciascuno vive solo: cioè, solo a se medesimo. Non può verun amico esser l ’occhio dell’altro amico, attesoché l ’inte­ resse è appannatore ed altresì rubbatore degPoc-

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chi. Né con alt Cocchio tutto il mondo si mira, che con l ’occhio dell’interesse. Ma se l ’uomo è stato creato da Dio per vivere in compagnia, come potrà egli accompagnarsi se non si trova un buon compagno? Da chi sarà amato, se l’uomo non è amato dall’uomo? Io, per me, non so rispondere se non che l’uomo va distruggendo Pumanità: che è a dire se stesso. Si cominciano le amicizie, ma non si mantengo­ no: perché non si mantengono quelle cose con cui elle si mantengono. Congiurano a separare l ’unione de’ cuori l ’indiscrezione, l’impazienza, le pretensioni, la superbia, l ’incostanza, l ’inte­ resse. Per epilogo d’ogni cosa, l ’amore di se medesimo distrugge l ’amore e l ’amicizia. L ’in­ trinseca anche malvagità della propria natura, per esser intrinseca, corrompe l ’intrinsichezza. Si sono affatto estinte le prosàpie dei Pitii, de’ Damoni; de’ Tesei e de’ Piritoi; de’ Patrocli e degli Achilli; degli Euriali e degli Nisi; de’ Piladi e degli Oresti: con tutto ch’io creda che sì fatte amicizie siano favole, non amicizie. I Barbarighi, i Trivisani, sono stati miracoli di Venezia: città sempre miracolosa. Sì che l’ami­ cizia, nel mondo, non c natura; ma è miracolo.

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amico finto . La solitudine eredita quelle abi­ tazioni da cui gli amici timidi della mala fortuna si dilungano, per non incorrere in qualche pre­ giudizio. Che d'ordinario di là fuggano gli amici di donde s'apparta la buona fortuna, molti ne imputano la colpa alla stessa fortuna: chiaman­ dola rigida, poiché, dopo d'aver levato ogni be­ ne, toglie anche l'amico. Ma ben folle è chi non conosce che questo è difetto nostro, non della fortuna o delle stelle. Teme l'uomo il contratto di coloro che, avendo la fortuna avversa, o non può conferire che del suo male, o non può pre­ tendere che del nostro bene. Fu già chi disse che gli amici si conoscono ne' bisogni. Ma io dico: e come si possono cono­ scere, s'eglino allora non conoscono noi? Com­ patiscono le nostre miserie, ma non ci aiutano. Compatiscono, ma non compiscono. Scusano le loro forze, e non si sforzano. Ah, che s'accusano mentre si scusano! Desiderano le occasioni (com'essi dicono) di servirne e di giovarne: ma, non mancando ad essi l'occasione, essi mancano all'occasione. Ne donano pródigamente una ste­ rile volontà, tanto più infruttuosa quanto più feconda e faconda; anzi, tanto men buona quan­ to (com'essi dicono) si dichiara più buona. I l più

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delle fiate questa buona volontà non è bontà, né volontà; ma creanza e cerimonia. Non è de­ siderio, ma forse desiderio di desiderio: mancan­ do loro il desiderio. Corrono con gran passi di cerimonie, ma non soccorrono. Offeriscono, ma differiscono. Promettono, ma dismettono. Vo­ gliono, ma non vogliono (dicono essi); ma io dico che non vogliono. Pasciamoci della loro volontà, quantunque buona; e proveremo se po­ tiamo vivere tra Ï numero de* viventi. Per mantenersi dunque gli amici, fa di bisogno il non aver bisogno. Per averne molti, se ne de­ vono provar pochi. Aiutiamoci da noi stessi, e solo ne sieno amiche le nostre industrie, le no­ stre fatiche. Non speriamo in alcuno de' nostri amici, perché il nulla è sempre figliuolo della speranza. Chi vive di speranza, vive sognando: perché le speranze sono sogni de* vigilanti. Per conoscere un vero amico, non ne cerchiamo il paragone: perché non trovaremo né Pamico, né il paragone. Se siamo felici, contentiamoci di noi medesimi. Se siamo miseri, il solo tollerare ne sia amico. Quando Palbero sta per cadere, niuno s'accosta per sostentarlo: temono tutti il danno della caduta. Ma, s’è caduto, tutti vi cor­ rono sopra per farne legna. 96

Colui che si chiama intrinseco, e pur tradisce, è un fanale ingannatore che con fiaccola lusin­ ghiera addita il porto e guida alle Cariddi. È una vaga serpe, allevata nel proprio seno. Ma che farà la barbarie, se tradisce l ’intrinsichezza? Con qual persona viveremo noi senza pericolo, se siamo traditi dagli amici intrinsichi? Quest’amicizia è velenosa, onde non dobbiamo meravigliarci che muoia quasi prima che nasca: avendo il veleno per latte. Un’aura lusinghiera di cerimonie e di finzione le dà lo spirito; onde con ragione presto svanisce, essendo animata vanamente dall’aura. Il re Antigono, come nar­ ra Plutarco, giornalmente con alta voce pregava Dio che dagli amici lo difendesse. Povera uma­ nità che, per essere priva d’ogni bene, non trova alcun bene in coloro che professano di voler bene! Gli uomini non possono pratticar fra gli uomini. Chi più prattica, più precipita. L ’amicizia di costoro non oltrapassa i confini delle labra, perché la loro giurisdizione s’esten­ de alle sole parole. Il cuore o non intende, o non attende la lingua: atteso che non è il cuore, dov’è la lingua. Quanto più sanno ben parlare, tanto più imparano a mal operare. Allora de­ clina l ’amicizia, che declina la fortuna. Oh Pro­ 97

tei! Ma Protei più mostruosi, poiché trasforma­ no non solo il loro sembiante ma altresì la na­ tura. Si trasformano costoro, per magia dell’interesse, in cani; ma cani che, lasciando la fedeltà, ritengono solamente la rabbia: per incitamento della quale, mordono non attizzati. Cangiandosi la fortuna, cangiano gli uomini an­ cor essi parole, pensieri, costumi. Queste sono quelle piante che, al tramontar del sole, rivol­ gono le frondi. È tanto commune nel mondo questo costume, che il contrario può raccontarsi per miracolo. Qual più stretta amicizia potiamo imaginarci di quella che passa tra il corpo e l'anima? Con tutto ciò, quando la carne dall’infermità è ridotta a termine che non può servir più Panima, né può questa aspettar più da lei alcun aiuto, ella si parte; e lascia la povera carne in preda a* nemici e in cibo a* vermi. L ’apparenza inganna quasi sempre; e contra di essa difficile è il consiglio. Molte cose, nell’apparenza, tengono dell’orribile: perché il senso fa sempre travedere; ché se il vetro della ragione si framette, mutano allora in gran parte sembiante. Non v’è argomento che, presso gl’ignoranti, apparenza .

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vaglia ad ¡spugnare l'apparenza. Giudicano essi colPocchio, non con Pin teilet to. Pericolosissima è sempre la luce del teatro, ed in particolare nelle corti. Sta più sicuro chi fa i suoi gesti privatamente. Le piramidi d'Egitto servono d'una gran mostra ed ostentazione, ma sono di niun profitto. Le ampolle fatte con l'acqua del sapone sono belle a vedere, ma facili a sparire. La virtù si riverisce da' savi, non le vane appa­ renze. Tutte le apparenze sono in se stesse cose minime. Ov’è maggior abbondanza di frodi, ivi è più de­ bole la virtù interna; ed i frutti sono imperfetti. Dove gli occhi umani s'appagano di quello che apparisce di fuora, quelli di Dio all'incontro non pregiano che la bontà. I carriaggi, che fra gli spettacoli degni di riso vede Roma nelle cavalcate degli ambasciatori de' prencipi, non hanno di buono altro che la co­ perta: essendo le casse vuote e tolte in prestito. Chi non ha sodezza di merito, ambisce apparen­ za d'onore: pensando scioccamente di ricompen­ sare il difetto della virtù con la soprabbondan­ za degli ornamenti. Ma non fu mai lodata la faccia d'Elena per le ricchezze o sontuosità del­ 99

le vesti. Né un Cillaro ed un Seiano divennero feroci per Pabbigliamento pomposo. Coloro che affettano l ’apparenza, non altrimente procurano le proprie rovine che le lucerne del mondo: le quali, per dar luce agli altri, consummano se stesse. La luna quanto maggior luce dimostra verso la terra, tanto (meno illuminata nella parte superiore, verso il cielo) ha più lon­ tano il sole. Così costoro, per far pompa agli occhi degli uomini, s’oscurano nella parte supe­ riore per allontanarsi da Dio. Chiamò il Salva­ tore, questa vana apparenza, suono di tromba: perché in tal modo si pone all’incanto la santità, per venderla a vilissimo prezzo e per un poco d’aura. È cosa fallace il giudicare dall’esterna apparen­ za. Sotto l ’onde tranquille, chiude ben spesso il mare tempestose procelle. Sotto a’ monti di neve, arde e fiammeggia Etna. Sotto benigno volto, occultasi e sdegno ed ira. E chi pensato mai averebbe che dalle spine spuntar dovessero le rose? Da cipolla fetente, il candido e vago giglio? Per lo più il pomo più rosso, più bello e più maturo, è il men sano degli altri. E chi il taglia, vi trova il verme che il rode e ’1 rende maturo 100

prima del tempo. Gli uomini che non hanno, come dice il savio, gli occhi nella testa, vedendo una bella apparenza non passano più oltre e non ricercan punto al fondo. Ma gli più accorti, che anzi del midollo s’appagano che della corteccia, vanno con gli occhi di lince penetrando fin nelle tombe più nascoste. Chi confidato ne’ propri artifizi troppo palesemente gli usa, invano aspetta al­ cun buon avvenimento alle sue cose. La guerra, la pace e tutti gli affanni mondani, non si governano che con artifizi. Il parlare senza arte, pare libero da ogni sospet­ to di adulazione. L ’aiuto d’una foglia arricchisce una gemma. An­ che l ’oro, che serve d’incastro a gemme di prezzo infinitamente maggiori, aggiunge se non pregio almeno ornamento. L ’uomo prudente conosce il tempo: conforme a quello, cambia batteria. Fila sottile, ed atten­ de a cucire le pezze della volpe con quelle del leone. Con questi, o simili artifizi, vantaggia i suoi affari. Quello eh’è contrafatto, non si può mantenere

a r t ifiz io , a r te .

IOI

lungamente. Al primo sudore si stacca l ’impia­ stro dal volto, a chi n’è incrostato. L ’arte vuol stare coperta; né può celarsi, se frequentemente vien adoprata. Quando si vuol parere quello che non è, se si vuole riuscire felicemente, bisogna farlo per modo di passag­ gio. La gioventù non sa vivere con artifizio. Gli artifizi leciti son atti di prudenza, che si porgono altrui con modi ed accorgimenti così ben disposti che in ogni impresa danno soffi­ ciente vantaggio per condur a fine i propri dise­ gni. E chiamansi atti di prudenza, a distinzione degli artifizi malvagi che sono atti di maliziosa astuzia. Gli artifizi acquistano talora la sua eccellenza e perfezione quando, chi gli usa, fa credere d’esser lontano da ogni artifizio. astuto . Le pelli delle pantere sono, presso de­ gli uomini, in molto prezzo per la varietà de* colori. Lo stesso si può dire di coloro che, nel latino, si chiamano versipelles : uomini pieni di cautele, doppii, mutafaccie; per essere il semplice colore delPuomo da bene ormai stimato sciocchezza.

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■a stuzia . L ’astuzia, propria delle volpi, non fa

quelle punto esenti da’ lacci. È l ’astuzia, spesso, più temuta che la forza. Il gallo, animai generoso e solito a combattere a campo aperto, vedendo il nibbio, più tosto la­ dro che combattente, teme: non già per la forza, ma per gPinganni suoi. Non v’è uomo che non dovesse sapere la misura della propria bocca. Che altro è la bocca, che un mare di perle tra due sponde di rose? Uscio gemmato della reg­ gia del riso; siepe di rose, da cui svapora arabo fiato; arca di perle, donde trabocca ogni gioia; antro odorato; cameretta purpurea; coppa di rubini, da cui chi beve, beve una nuova morte. È la bocca principal seggio d’amore; scrigno che, al di fuori composto di rubini, dà a vedere quanti preziosi tesori racchiuda; arto da cui prin­ cipalmente s’avventano strali al cuore, mentre o con riso impiaga o con parole ferisce. Ostello finalmente d’aurora: che, appunto rosseggiante, nel cielo d’un volto apre l ’adito al giorno della felicità degli amanti. Bocca, madre delle parole; genitrice de’ baci; teatro ch’ha i cerchi di rubini, le porte di vivaci bocca .

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coralli, i giri di candide perle, le cortine d’ostro nativo, le strade d’animate rose: dove, scher­ zando, passeggiano le grazie; ha il suo soggiorno il riso. È cosa malagevole il mantener le labbra monde. Isaia, per altra parte tutto mondo e netto, si confessa di non aver la bocca senza macchia: « chi nelle parole non avrà mancato, onesto sarà pure nelle azioni », disse l’apostolo san Giaco­ mo.3 bugia . La verità non è che una. Le bugie sono infinite. Figuravano gli antichi la verità per un punto, le bugie per le linee; e ciò perché da un punto si tirano linee infinite. Le bugie, costantemente per verità affermate, se non ingannano coloro che le conoscono, li ren­ dono almeno perplessi. Non v’è falsità più valen­ te a esprimersi, nel concetto degli uomini, di quella che rassomiglia la verità. Mille cose veri­ simili par che argomentino un vero necessario; e molte cose vere, lontane, una conclusione falsa. Chi pretende finzioni e bugie, s’avvagli della poesia. Non dicono mai il vero i poeti, se non quando confessano d’esser poveri. La bugia è un difetto commune di tutte le femine.

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Ma che meraviglia, se la femina è una bugia della natura, che, promettendo all’uomo nel sembian­ te la quiete, dà il travaglio? Sara, moglie d’Àbra­ mo, ancorché domestica della santità, vedendosi dietro all’uscio scoperta, timorosa delle ripren­ sioni, negò d’aver riso; e così, precipitando nella menzogna, pretese mostrar bugiardo colui che, per esser angelo, tutto avrebbe potuto fuor che mentire. Chiamò Dio, dopo il peccato, Adamo; e non la donna: per non provocar la donna a nuovi errori, essendo la bugia connaturale del suo sesso. La bugia non è mai libera dalla gabella della riprensione. Le bugie, quasi che mosche, in ogni luogo si por­ tano; ed ove più odorano il dolce della curiosità, ivi si posano. Deve più tosto l’uomo eleggere d’esser vinto con verità, che vincere con bugia: per­ ché durar non può lungo tempo la prosperità del bugiardo. I bugiardi mettono sottosopra gran parte del mondo, e turbano del continuo la vita degli uomini. Sotto il titolo di bugiardo si comprendono gli bugiardo .

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adulatori, i doppii, i calunniatori, gli sleali con­ siglieri, i perversi educatori: da’ quali, come da* fonti, scaturiscono tutti i disordini. Quando Iddio vuol punire i popoli, permette che la bugia tenga luogo di verità nella bocca de' dottori e nelle orecchie degli uditori. QuelPintelletto che lascia la verità, ch’è la sua propria sposa, per congiungersi con la falsità, dir si deve che sia ammogliato e con incantesimi guasto. Il medesimo giudizio de' Galati fece il predicator delle genti, quando disse: « O Ga­ lati insensati, chi ammaliò voi a disertare la verità? ».4 Una dell’ultime scuole de’ greci esaminò questo particolare, ed è ancora su 1 punto di pensare che cosa sia questo, ed onde nasca che gli uomini amino le bugie quando non ne ricevano piacere come si riceve ne’ poeti; né guadagno, come sanno i mercatanti; ma per le bugie istesse. Una mistura di bugie sempre aggiunge piacere agli affetti e depravati giudizi degli uomini. Può dubitar alcuno che, se levate dalle menti umane le varie opinioni, le adulatrici speranze, false estimazioni, immaginazioni fantastiche e simili caprici, fossero per restar le menti d’un gran numero d’uomini anguste, ristrette, piene

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di malinconia, indisposizioni, e dispiacevoli a se medesimi. Degl’indiani racconta Strabone che, ritrovan­ dosi alcuno aver detto tre volte la bugia, gl’imponevano perpetuo silenzio in tutti i publici ne­ gozi: stimando che indegno fosse di parlare chi perduto avea la ragione della lingua. Chi toglie le difese alla calunnia, met­ te la musarola al cane piagato perché non possa con la lingua curarsi. Spera, confida e prega, oh calunniato fedele, as­ sicurato che a Dio non mancano i Danieli abili a sottrarti dalla tua calamità. Non si trova spirito sì eccellente, che si ripari da’ colpi della calunnia. La calunnia è un testimonio, benché falso, del demerito; contrasegno del disprezzo, caligine del­ la fama, scala del vituperio, spada che impiaga la riputazione, fulmine che incenerisce la gloria. I saggi egizi figurarono la medesima nel basilisco che, senza mordere, col solo sguardo è pernizioso all’uomo: mercé che la calunnia, anche sotto gli occulti susurri proferita, prima di publicarsi alla luce cagiona calamità. Vedesi il lampo, avanti che s’oda il suono; prima ferisce che mi­ calunnia .

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nacci; prima uccide che sia avvertito. Non v’ha petto così forte, che non s’atterrisca; animo sì costante, che non vacilli; cuore sì intrepido, che al sibilo di lingua calunniatrice non illanguidi­ sca: « la calunnia conturba il sapiente, e com­ promette la saldezza del suo cuore ecc. ».5 La maggior parte de’ figliuoli d’Adamo troppo è inclinata a prestar fede al falso. La calunnia è così audace che a niuno, per grande ed eminente che sia, porta rispetto. Sci­ pione, che domò l ’Africa guerriera, fu sì dalla ca­ lunnia oppresso che, cedendole il campo, diede se stesso in custodia ad una vita rusticale e boscareccia. A Temistocle la calunnia involò la patria per via dell’ostracismo, e lo splendore del medesimo oscurò col vituperio. La lingua ca­ lunniatrice di Tullio Ausidio costò a Coriolano la vita. La calunnia è una spaventosa bombarda, che col suo mugito fa palpitare nel petto ogni più saldo cuore. Ma se non v’è la palla della colpa, tutto termina in strepito e fumo. Sarà Socrate. in tutti i secoli illustre, ed il di lui nome andrà sempre a volo, portato sì dalle penne degli scrittori come dall’ali della fama: perché la calunnia, che a indegna morte con10 8

dannollo, fu il rogo in cui egli, avventurosa feni­ ce, rinacque più famoso e riverito che mai. Come Pombre servono ai lumi, così le calunnie alla virtù, per farla maggiormente spiccare. An­ che la fosca notte scuopre gli eterni piropi che, con immenso splendore, fregiano il firmamento. La virtù del severo Catone più risplende per le cinquanta accuse dategli, che per mille lumi delPopere sue gloriose. Chi avrebbe avuta giammai notizia di Susanna, se la calunnia non rendeva gloriosa la sua inno­ cenza? Se tutte le lingue di Palestina avessero in favor suo cospirate; se a gara avessero lodi ed encomi tessuti, non potevano tanto farla ri­ splendere quanto due sole lingue calunniatrici la resero illustre. Gioseffo finalmente, Pinnocente, non da altro che dalla calunnia fu portato al trono d'Egitto. Se la perfidia umana ha voluto infamare infino il cielo, e fra le stelle chiare e risplendenti ri­ porre la mercede degli stupri (chiamando le me­ desime con nomi d'uomini scelerati: di Giove, di Saturno, di Marte, e d'altri simili), chi sarà quello che si pretenda esente o libero dalle ca­ lunnie? Gli uomini più santi e giusti ecco che ne sono tocchi: « in eterna memoria starà il giu­ 109

sto; cattiva fama non avrà a temere ».6 La calunnia è la cote, alla quale più s'acuisce la virtù. La calunnia non nuoce che a se stessa. Le più maligne sue accuse sono le più onorevoli giustificazioni. S'ella non avesse tentato d'ucci­ dere la bella, casta e santa Susanna, forse che non sarebbe la medesima oltre il suo secolo vis­ suta; ma perché contra di lei perfida s’avventò, restale ora obligata (se non per l'intenzione) al­ meno per l ’effetto che la fa vivere per tutti i secoli. Tutti i tiranni hanno sempre o coltivata o dis­ simulata la calunnia; forse perché, senza di essa, non avrebbono potuto esser tiranni. Questo era l'unico mezo di far tutto a lor modo. I calun­ niatori erano senza numero, perché l'aver calun­ niato era l'aver meritato. E perché il giudizio era una calamita che non si volgeva ad altro polo che al genio del tiranno, era libero al tiranno l'uccidere la giustizia con la spada della giusti­ zia. Infelici quegli stati ove, o bisognava morire all'innocenza, o alla gloria d'esser vissuto inno­ cente. Guardi Dio le cristiane republiche da sì esecranda tirannide. calunniatore . I IO

Proprio de' calunniatori è bia-

simar tutte le cose; non provar mai niente: « pessimi gli onesti vengono chiamati dagli im­ probi »7 È cosa curiosa, al parer di Demostene, da sape­ re: perché, uscendo da qualche fessura od antro una vipera, tutti a gara, vedutala appena, vi cor­ rono sopra e cercano d e c id e rla per dubbio che non morda qualcuno; e, presentandosi loro un calunniatore, mostro più crudele e mortifero della vipera, che non si pasce che di sangue in­ nocente e che mai non morde che insanabilmen­ te, sia il benvenuto e come domestico accarez­ zato? Fu consiglio d’Isocrate a Nicocle il registrare, nelle leggi del regno, che della stessa pena fosse­ ro castigati così i calunniatori come i delinquenti. cuore . Chi penetrò giammai l’abisso del cuor umano? Chi, se non Dio, conosce da lontano i pensieri? Chi giudica i passi e i moti, se non quel Dio cui tutte le cose sono aperte? Non ha il mare, sotto il suo vasto impero, tanti squamosi abitatori quanta ha il cuore umano vanità di pensieri. Egli è un abisso inesausto, un pelago immondo, a cui Bernardo il santo applicò le parole: « dove

in

c'è mare grande e spazioso, lì sterminato è il numero dei rettili ».8 I popoli sibariti a’ piedi del loro re solevano collocare una tartaruca, animale fra gli altri come scrivono i naturali — senza cuore: in sim­ bolo del privato interesse, del quale devono esser privi coloro che governano. Un santo re, pure, confessò d'essere senza cuore quando disse: « il mio cuore mi abbandonò ».9 È il cuore fontana della vita, fucina del nativo caloré, sorgente del sangue, origine delle vene, dell'arterie, de' nervi. Ed è egli, nel corpo, quello ch'il sole nel cielo. Se questi sta nel mezo de' pianeti, quasi tra suoi ministri loro compartendo gPoffizii, quegli distribuisce a tutti i membri le cariche loro. Se questi dispensa all'altre stelle la luce, e non la riceve da loro; quegli dà l'essere che ha da sé e non da loro. Se questi col moto e col lume è cagione di tante produzioni ne’ misti, e della corruzione con la sottrazione de' medesimi; quegli col palpitare dona a tutto il corpo la vita e, col fermarsi, la morte. Se questi fu, innanzi ogni celeste lume, da Dio creato; quegli, prima d’ogn'altro membro è dalla natura organizzato. II cuore nel corpo è come il prencipe nello stato: 112

questi in mezo del regno, quegli in mezo del petto; questi or pietoso, or severo, or rigido, or molle, secondo i diversi costumi de* soggetti po­ poli, quelli è parimente diverso in diversi: ne­ gl’ingegnosi molle, negParditi picciolo, ne* timidi grande, in tutti tenero, in pochi ruvido e peloso. Il cuore de’ giusti è come una lampada perpe­ tuamente accesa avanti la faccia di Dio: non può non risplendere dentro le tenebre de* più belli giorni del mondo. Cuor amante, forza è che s’apra. Il melgranato, quando è pieno di accesi granelli, squarcia la veste per palesarsi. Tutti i sensi e le membra dell’uomo ricevono l ’iniquità dal cuore: dal medesimo sono mossi ed ammaestrati. Egli è che muove i piedi, che suggerisce alla lingua, che aggira le mani, che governa gli altri sensi e gli fa partecipi della sua malizia o bontà. Egli poscia non d’altronde attinge l ’iniquità, che dall’occhio. Perché questo n’è il primo fonte: « se l ’occhio tuo è sano, tutto il tuo corpo sarà illuminato ».10 Le conchiglie delle perle ñon devono aprirsi, che per ricevere la rugiada del cielo. Ch’introduce ladroni in casa, a torto si lamenta delle loro ru­ berie.

Il cuore umano è un laberinto torto, obliquo, fallace. Non è alcuno che possa penetrare i suoi pensieri, né anche gli angeli istessi. Questo è quelPabisso, di cui si scrive nel principio del Genesi : « le tenebre ricoprivano Pabisso » ; 11 e questo per la vasta sua rotondità ed oscurezza: « profondo è il cuore dell’uomo, e inscrutabi­ le ».12 Centro del cuore umano non è il mondo, perché in esso non s’hanno che pressure e travagli. Non è il cielo, perché egli è il luogo degl’angeli. È Dio, e Dio chiaramente, perché egli solo è infini­ tamente amabile, buono, dilettabile: « inquieto è il mio cuore, finché in te non riposerà ».13 Così, dello stesso parlando, scrive sant’Agostino. La discrezione è maestra della dis­ simulazione, ed alla medesima serve come d’un velo per ricoprirla. Comandava, nella antica legge, nostro signor Dio che: dal campo ritornassero alle case loro quelli che, avendo piantata una vigna, non anche ave­ vano gustato del vino di essa, quasi che quel pen­ siero dell’amara vigna loro esser dovesse d’im­ pedimento al combattere. La canna con cui Giovanni nélYApocalisse mi­

discrezio ne .

suro il tempio, Paitare, e chiunque ivi era tribu­ tario a Dio delle sue adorazioni, altro non figurò che una prudente discrezione con la quale anche alle sante operazioni deve prefigersi moderato termine e misura. La discrezione è una perfetta prudenza. Né la prudenza può essere perfetta senza la discrezio­ ne. Comunque sia de* nomi, basta il sapere che questa interna qualità ha per essenza il deter­ minare i passi nel sentiero della virtù: in modo che, chi ne trascorre, un'orma, è fuori di carriera; perché una virtù indiscreta è vizio. Quasi oro­ logio da polve è il continuo corso delle azioni virtuose, con le quali dobbiamo distinguere le ore della nostra vita. Quando non sia ben aggiu­ stato il foro della discrezione, per cui devono passare, sconcertata resta l’anima: perché se troppo è ristretto da* rigori d’aspre mortifica­ zioni, dall’impotenza si ferma il camino; se trop­ po dilatato, compisce tosto il suo moto la virtù, onde succede nell’anima un ozioso e vizioso ri­ poso. d issim u la zio n e . La dissimulazione non è altro che una fiacca spezie di prudenza, overo sapien­ za. Gran giudizio vi vuole, grand’ingegno e gran

cuore, per conoscere quando si debba dire la verità e quando debba essere posta in opera: che perciò gli gran dissimulatori sono la più debole sorte dei politici. Gli più abili uomini che mai fossero, tutti hanno avuto un’apertezza e franchezza di trattare; ed hanno avuto il nome di sinceri e veraci, di ma­ niera che alle volte, quando hanno stimato ch’il caso ricercasse in fatti la dissimulazione, se l’han­ no usata, allora, la prima opinione sparsa dalla loro buona fede e sincerità di trattare gli ha resi invisibili. La nudità così è talora indecente nella mente come nel capo; ed apporta non picciola riveren­ za a’ costumi, ed alle azioni degl’uomini il non essere sempre totalmente aperti. La dissimu­ lazione è quasi il lembo e la coda della segre­ tezza. Tre sono gli avvantaggi della dissimulazione. Il primo addormenta quelli che s’opporrebbono al­ le nostre intenzioni, quando fossero publícate. Il secondo riserva a noi medesimi, per ogni oc­ correnza, una bella ritirata: la quale non ci sa­ rebbe permessa, quando ci fossimo impegnati con manifesta dichiarazione; nel qual caso con­ verrebbe, o andar avanti, o intoppicare e cadere.

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Il terzo meglio scopre là mente altrui; ond'è il proverbio spagnuolo: « di* una bugia, e troverai una verità »; come se non vi fosse altra strada di scoprire Paltrui, che la dissimulazione. Tre pure sono i disavantaggi che pareggiano li suddetti vantaggi. Il primo: porta la dissimula­ zione seco una mostra di timidità, la quale in tutti i negozii spoglia de* vanni14 che direttamen­ te portano al segno. Il secondo: sdegna e rende perplessi i concetti di molti i quali cooperarebbono, e fa che Puomo in effetto resti solo a caminare al suo fine. Il terzo: priva Puomo d'uno de' principali stromenti dell'azione, che è il credito e la fama. Ricercano le regole della prudenza questa misu­ ra: che Puomo abbia un abito di segretezza; un credito di buona fede ed un abito a dissimulare e mascherare, quando la necessità non ammette altro rimedio. Chi mostra lieta la faccia e porta addolorato il cuore, altro non fa che sepelirsi vivo mancando di sepoltura.

dolore occulto .

doppiezza . La doppiezza si serve della lingua come di pennello da tutti colori.

Gli uomini doppii vivono della bugia come del quinto elemento. I cuori degPuomini sono tutti (dice Aristotile) della sinistra. Questo vuol dire che non è da meravigliarsi se, per ordinario, sono inclinati agli inganni e alle bugie. Chi ha due cuori non è costante. L ’unità ha sempre maggior fermezza. Tendono i due cuori in diverse parti; e l ’uno essendo d’impedimento all’altro, si genera perciò l ’incostanza. La doppiezza tanto più è doppia, quanto più semplice si dimostra. L ’età di Giano rinasce, poiché buona parte degli uomini di questo secolo si mostrano Giani: ma per doppiezza, non per prudenza. Anzi, ancor per prudenza: poiché oggidì la prudenza consiste nella doppiezza. Gli sforzati voltano le spalle a quel luogo ove s’incaminano con la voga. Così il demonio non va giammai al vizio sfacciatamente, ma il colori­ sce e cuopre di foglie; altrimenti, s’egli operasse troppo evidentemente, sarebbe una trappola sco­ perta ed un metallo falso che niuno vorrebbe impiegarvi la moneta. La doppiezza è una tinta che muta il chiarore della virtù in ispaventosa lama, in cui s’impau­ risce anche chi vi si specchia.

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Gli obliqui ed incrociati andamenti sono come il caminare del serpe, il quale va falsamente so­ pra il vento suo e non sopra i piedi. Senza dubbio la sceleraggine della falsità, del mancar di fede, non può essere più altamente espressa che col dire ch'ella sarà l ’ultima tromba che chiamerà il Giudizio di Dio sopra la genera­ zione degl’uomini: essendo stato predetto che, quando Cristo verrà, non troverà fede sopra la terra. Non v'è vizio che tanto più provi un uomo in­ fame, quanto l'essere trovato falso e perfido. E però un morale scrittore, ricercando la ragione per la quale la parola di bugia deve essere in tanta disgrazia ed in così odioso incarico, gentil­ mente osserva che, se sarà ben considerato, il dire che un uomo mente vaierà quanto dire ch'egli è bravo contra Dio e codardo contra gli uomini: perché la bugia viene in faccia a Dio, ritirandosi dall'uomo. Mennone di Tessaglia, per relazione di Senofon­ te, fu così doppio e finto che per giungere al­ l’imperio stimò non trovarsi strada più breve ch'il mentire, l'ingannare, e '1 pergiurare. Un altro re, di cui scrive Tacito, con filo di minor impietà tutto che di maggior sottigliezza per

guidar le cose sue, « a evidenza si vestiva delPamicizia di uno, e per vie occulte e fidate in­ clinava verso altra persona ».15 Più s'arriva a conoscere la natura de* bruti, che quella degPuomini. Le volpi sono sopra tutti gPanimali stimate scaltrite, astute e false. Tuttavolta, se trenta mille di quelle (dice Strobeo) si tracciassero, nelPindagarle ad una ad una tutte alla fine si scorgerebbero d’una medesima na­ tura. Tra noi (soggiunse egli) quanti individui, tante spezie: quanti corpi, tante diverse nature. Di­ cano i logici ciò che vogliono, ché la pratica sta in contrario. Tutti detestano le doppiezze, e pur alcuno ch’ab­ bia spirito non sa tralasciare il non fingere. Anzi, più prudente è stimato chi meglio sa destreg­ giare; e tanto più saggio chi coll'arte sa ottenere, che chi con la fortuna. Se gl'uomini fossero tutti leali, la slealtà e l'inganno non spacciarebbono le loro mercanzie. Se tutti fossero buoni, i cat­ tivi non regnarebbono. E se ognuno fosse come dovrebbe essere, dovrebbesi essere con esso co­ me si converrebbe essere. Ma gl'animi guasti non vogliono ragioni sane. Se '1 trattar leale e '1 procedere ingenuo incontrasse il bene, sarebbe 120

male; e si meritarebbe male, se si corrispondesse cogPinganni. Ma se la volpe persuade alla capra Centrare nel pozzo, e poi ve la lascia; se Puccellatore dice al merlo di fabricare una terra,16 e tende una rete: che si dee fare, per non restare nel pozzo e per non restar colto alla rete? La doppiezza è un male che ha facile il rimedio, ma ben difficile la conoscenza di quello. Il fingere di credere, e Pessere incredulo; il mostrarsi con­ tento, e non essere soddisfatto: è la contramina, che dàssi in tal proposito. E via più che si mo­ strerà di creder sempre, e sempre più dubitatassi, sarà la migliore delle massime che si pos­ sono insegnar per viver coperto dalPaltrui in­ sidie. Gli uomini liberi sempre sono esposti a* colpi di chi loro tende gPinganni. Doppii sono i marinari, i quali riguardano la poppa e fanno caminar la prora. Ma chi si trova tra questi tali, senza invidia o malignità? Alla nostra presenza, applaudono alle nostre operazioni: per dilacerare, lontani, la ri­ putazione. Hanno due faccie per ingannarci, e mille invenzioni per tradirci. Sono camaleonti che, fuori della modestia e della verità, non è cosa che non rappresentino. Tramutano le scene,

doppio , finto .

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partiti che sono i personaggi. Sanno adular i genii col presentar ad essi quell’azione ch’ha maggior simpatia con il loro umore. È detestabile la doppiezza e la simulazione ne­ gl’uomini, essendo scritto che lo Spirito Santo s’allontanata da coloro che fingono: essendo egli Spirito di verità. Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro il Grande, dava più parole che fatti. Misurava l’amicizia con la squadra dell’utile, e non della fede. Aveva la pietà e la perfidia come sorelle d’egual amore. Simulava amore nell’odio. Di due nemici tra loro, voleva d’amendue l’amistà; e, tenendo il piede in due staffe, voleva apparire nella prudenza il miglior cavallerizzo della Gre­ cia. I doppii, perché non sia tracciata la verità de’ loro pensieri, fanno come le pernici: le quali, mirando i cacciatori avvicinarsi al loro nido, 1’incontrano; e svolazzando or qua or là, fingen­ dosi zoppe o tarpate, lo sviano in luogo lontano. Ancor che tutto quello che si fa talora non si sappia, è però vero che, per cuoprire le magagne, bisogna che l ’occhio dell’animo sia come quello degli egizii: posto su la cima d’una verga. Non dorma, acciò non cada. Il pittore che nel disegno 122

sa prevalersi del chiaroscuro, facilmente adopera ogni colore. eco . « Cosa di più mirabile della natura », pieno di stupore disse Plinio dell'eco parlando: « die­ de la voce al sasso, che agli uomini risponde; che anzi controparla ».n Eco, muta imitatrice dcU’altrui voce, ancorché s'oda, non si vede. Ella è figlia della lingua e dell'aria, dice Ausonio: ha voce senza intelletto; abita nelle orecchie degli uomini; stando al var­ co, ruba l'ultime parole di chi ragiona. E va scherzando, col suo malinteso, l'altrui mal rice­ vuto parlare. L'eco è un'immagine che non ha faccia; una parlatrice che non ha lingua; una femmina che non ha corpo; un'amante che non ha cuore; che abita dove non è; risponde a chi non la chiama; finisce di parlare e non comincia; muore allora che na­ sce; nasce lontana da chi la partorisce. Non si può in somma né definire, né trovare: perché non è al mondo. L'ente supremo eh'è Dio, ed il termine opposto di lui ch'è il non ente , o vogliam dire il nullay non si possono definire: tutto che con termini negativi possono in qualche maniera descriversi.

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In persona di Eco, dice Sannazaro: Vidi, arsi, piansi; e triste repulsa (ahi sorte), disprezzata, sopportai; son ora voce, suono, aura, [nulla.18 Narra Poliemo, al primo de* Stratagemi, che Pan, capitano di Bacco nell’impresa dell’Indie (che fu primo trovatore delle falangi militari, e che con le corna dipingesi, per aver nelPesercito ordinato il destro ed il sinistro corno), avendo avuto aviso dalle sue spie che l ’inimico nella parte opposta della selva — piena di molte con­ cavità — s’era accampato, ordinò che tutto l’eser­ cito suo alzasse unitamente le grida. Fu ricevuto quel tumulto nel grembo delle vicine spelonche, ed in guisa di fecondissimo seme l’ingravidò di modo che da lui nacque in infinito moltiplicato. Onde, temendo i soldati che tutto il mondo in­ tero non si fosse trappiantato in quel campo, riposero nella velocità de’ piedi la speranza di vivere: già che non aspettavano dal valor della mano la gloria del trionfare. Così quella imbelle fanciulla, che non poté vivendo vincere l’osti­ nata volontà del giovanetto Narciso, divenuta guerriera mentr’era morta, sconvolse l’armate ordinanze: servendo a Pan di tromba, gli fece

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il pronostico della vittoria e prevenne colPapplauso il trionfo. fa l s o , f a l s it à . Di qual si voglia cosa, moltissi­ me sono le opinioni e molte volte accade che tutte sono bugie e falsità. La falsità ha delPinfinito: «nessun limite è al falso; un qualche limite è alla verità » (Seneca).19 Ha tanta forza la falsità che, una volta ammessa, si mettono subito mille verità in compromesso. finzione , fin g ere . Il sesso femminile, quando è in necessità di fingere, ha un grande impero sopra di se medesimo. « Riesce ad avere arte di polipo » ? di coloro si dice che sanno fingere ed accommodarsi alPumore degli altri ed a* bisogni del tempo. I l polipo (scrive Plinio) muta il proprio colore con quello della cosa che gli sta vicina. La finzione non proviene che da timore: « per essere il camaleonte animale sommamente pavi­ do, ecco che muta colore: così, quanti non pos­ sono contare sulla forza, è bene che si ritraggano nelle sfuggenti astuzie » (Plutarco).21 Il contrafare le passioni non può essere che di nocumento come i folgori a Salmoneo: accaden-

do sovente il trovarvisi soprapresi. E chi non ischiverà l ’incantatore, vedutolo morsicato dal serpe? Chi tocca la pece, resta macchiato. Chi ama il pericolo, perirà in esso: dice la Scrittura. Vibio (raccontano le istorie) impazzì da vero, volendo contrafare Pinsensato. QuelPaltro si vide veramente gottoso, mentre s’infingeva d’es­ sere. Procuri il contadino, con ogni industria possibi­ le, di raddobbarsi e incivilirsi: non può alla fine odorare che dell’aratro. S ’affatichi il gentiluomo per deporre la civiltà, e d’avvilirsi: conserva sempre un raggio di nobiltà nella fronte, a guisa di quella stella che marca i buoni cavalli, e lo distingue dalla piebaia. Solo l’ambizioso si contraía come egli vuole. Il malvagio non è mai peggiore, che quando finge l ’uomo dabbene. La verità viene da tante finzioni mascherata, che l ’occhio e ’1 giudizio, ingannati dalle sue apparenze, restano prigioni e cattivi.22 Grand’obligazione per certo a’ poeti tutti dob­ biamo: poiché, fingendo eglino nelle persone d’altri difetti e mancamenti particolari, hanno a noi data occasione di vedere in essi i nostri proprii costumi; e nella loro vita, parimente, di 126

mirare quella che ogni giorno meniamo. Il fingere nelle azioni di guerra è sempre utile. Questo è un laccio in cui pigliansi de’ buoni eventi. È stata la finzione dell’arte poetica introdotta, con questo che resti sempre occulta e segreta. Che s’ella si svela ed apparisce, resta tutta la disciplina dell’arte confusa. La poesia deve per­ suadere con diletto: che, se sarà conosciuta per menzogna, come potrà persuadere? E se Partifizio sarà publica to, come potrà dilettare? Poco o nulla s’apprezza la poesia, e pure tutt’il mondo vive di poesia: poiché in tutt’il mondo si finge. Coloro che dissero che la poesia recava danno alla politica, a giudizio de’ più intendenti non l ’intesero bene: perché la politica non è altro, nell’uso presente, che poesia, cioè finzione, simulazione, inganno e tradimento. Ma questa poesia imparasi da’ più forbiti, non da’ poeti: poiché i poeti hanno la poesia nelle penne, non nelle mani; nello stile, non nella mente; nel can­ tare, non nell’operare. Sono cigni: cioè candidi; cioè sinceri. Ma per vivere fra politici, non sono buoni poeti: chi non sa fingere non sa vivere. È vero, che spesse fiate dal fingere un gran danno si trae, ma bisogna errare per non errare. Colui 127

acquista più credito, che manco crede. Quegli che tiene gli amici per amici, li prova al fine o nemici segreti o manifesti; o pure che non hanno d'amico se non il nome. frode , fr a u d e . La frode è un latte di strega. È un latte avvelenato il quale, dopo un gira­ mento di capo, commove un sonno di letargo e mortale. Da uomini fraudolenti, che per vie storte ed impensate n'assaltano, non vi è riparo. Che l'adoperar frode sia dicevole ad un prencipe, non pure l'affermò Senofonte; ma disse neces­ sario. Il prencipato non può essere glorioso se non è sicuro; non può essere sicuro, se la frode non gli serve di scudo e di palladio: perché questa è la machina più sicura che distrugga l'inimico. Se questa difende i regni, i regi saran­ no sicurissimi; ed in conseguenza gloriosi. Quan­ do il publico bene la richiede (disse Plinio il giovine), la frode divien prudenza. Ulisse, sem­ pre fraudolente, acquistò il nome di saggio. Ed i Parti, in tanto non usavano le frodi, in quanto non tornava loro commodo il mantener la fede. Il trace ha per infallibile che la fede sia del de­ bito del mercante, ma non del prencipe. All'in­

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contro gli più saggi, sentendo diversamente, vo­ gliono che Tessere fraudolente sia tanto più lon­ tano dal prencipe quanto più il prencipe s’avvi­ cina a Dio: che, purissima verità, non ammette in se stesso inganno o frode. E che cosa è Tes­ sere mancatore e pergiuro, se non un uccidere la pietà, un sovertire la religione, un distrug­ gere le leggi della natura ed un togliere la vita alla società umana? Agesilao soleva dire che la dignità regia deve essere rilucente d’una bontà eccellente, non d’una fraudolente astuzia. Saiomone il sapientissimo affermava una bocca men­ titrice essere carattere d’animo scelerato, non di prencipe giusto. E qual publico bene può dalla frode provenire, se per se stessa è malvagia? Operar male, perché ne segua bene, è una poli­ tica che s’insegna nelTinferno. Gli egizi volevano che dal collo del loro prencipe pendesse, scolpita in un zaffiro, la Verità: affinché conoscessero Tessere veritiere essere la più nobile e più pre­ ziosa gemma ch’adorni l ’animo regio. ingannare. Vi vogliono molt’ombre per ingan­ nare molti occhi.

Se nelle scienze, le quali hanno per oggetto la verità, ingegnosamente s’inganna; mentre, nel 129

discorrere di esse, s'apprendono le fallacie degli argomenti e delle sofistiche cavillazoni: quali saranno gl'ingannamene degli uomini nel pra­ ticar fra gli uomini? Se s'inganna nel ragionare, che farassi nel negoziare? Se n'insidia il filosofo co' sofismi, che farà il trafficante con l'interesse? Se signoreggia l'inganno nelle teoriche, che sarà nelle pratiche? Ahi, la conversazione dell'uomo, ch'esser dovrebbe il trattenimento e manteni­ mento dell'uomo, è la rovina dell'uomo! È più sicuro il conversare con gli animali irragionevoli che con gli uomini. Quegli più pericola, che più si fida: « tra tanti errori umani, è rischioso vivere con la sola innocenza »j23 scrisse Livio. Il non fidarsi del vivere è necessario per fidarsi del vivere, cioè per vivere alla moderna. Tanto è più sicura la vita, quanto è maggiore la diffe­ renza. Oggi la fede del mondo è fede greca, per non dir chimerica. Quel faceto Pievano notava, nel libro d'errori, coloro che si fidavano. E vi scrisse il re di Na­ poli, che si era fidato d'un suo fedelissimo ser­ vidore: anzi, eziandìo per errore, la fedeltà dell'istesso ottimo servo; per accennare che og­ gidì l'inganno è divenuto virtù. « I nemici sono molesti, gli amici ancor più molesti »,24 rispose 130

Augusto a Livia, presso Dione: persuadendolo ch’esso non si dovesse fidare d’alcuno, quan­ tunque amico. Dicesi che l ’aria è piena di demonii, per ingan­ nare le opinioni degli uomini; e per riempirli di sogni e di scioccherie, sotto false apparenze. Non è gran cosa il far cadere negPinganni un essere pieno d’amore. ingannatore. I maggiori e più certi ingannatori sono quelli che si ricuoprono sotto il manto della pietà e dell’innocenza. È malagevole prendere una volpe vecchia, ma alla fine essa si prende; e chi la conduce alla trappola è più fino e trincato di lei. Il pesce lucerna ha la bocca splendente; ma i pesci incauti, che vanno alla sua volta, divora. Chi non vuol essere ingannato, non creda agli astrologi; molto meno a’ nemici; niente affatto al demonio, o a’ suoi ministri.

Chi vuol ingannare il mondo, inganna sovente se medesimo. L ’inganno è fabbro, spesse fiate, della propria rovina. Ma non può ingannare chi ha la sincerità per ascendente, per influsso l’onore, la fede per inganno.

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arme ucciditrici dell'incostanza. Con tutto ciò, insegna la prudenza d'ingannare talora, per non essere ingannato. I cuori degli uomini (dice Aristotele) sono tutti dalla sinistra: questo non dimostra altro, che inganni e frodi. Si tiene per bassezza di cuore non accommodare le sue parole al profitto, più tosto che alla giustizia ed alla verità. Ma bas­ sezza vera di cuore è il far mentire la parola al pensiero. L'esca e la canna sono strömend per prendere, ma non tutte le sorti di pesci. La bontà delPingegno, la cortesia e la sincerità della persona, tolgono affatto ogni sospizione d'inganno. II nibbio è più tosto ladro che combattente; non è perciò meraviglia se il gallo, animai gene­ roso ch'è solito a combattere a campo aperto, vedendolo teme: non per la forza, ma per gl'in­ ganni. ipo c r isia . L ’ipocrisia è la più falsa maschera che mai vesta animo scelerato. Tanto è più de­ testabile, quanto più cautelata e guardinga. Serve l'ipocrisia talora di balsamo, per non la­ sciar sentire la puzza del peccato occulto.

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La buona ipocrisia è sempre gravida di sceleraggini. È fuoco che non può contenersi nella pri­ gione dell’animo, onde è forza ch’esali il suo lampo e scoppi il suo tuono. Fu chi disse l ’ipocrisia essere una spezie di mi­ racoli del demonio: i cui miracoli, perché sonò falsi, non sono durevoli. Quel cadavero che, in virtù di Satana, esercita simiglianza d’opere vi­ tali: essendo o travedezza d’occhi, o delusione di fantasia, o altro fraudolente artifizio non va­ levole a supplire i propri effetti dell’anima in­ formante, bisogna che presto svanisca e cada. ipo c rita . Non è più perniziosa peste al mondo di coloro che, ingannando, vogliono esser tenuti per uomini dabbene. Fra tutte le cose, fa scoprire gl’ipocriti il vento dell’umana gloria. Bramano essi, e a bello studio procurano di far credere che la disprezzano; e tuttavia nel disprezzo istesso la ricercano. G l’ipocriti caminano sempre come gli orologi: con arte che non si vede, che diciamo a sosta o a molla. Può l’ipocrita chiamarsi lupo sotto pelle di pe­ cora: poiché, vago d’apparire con quell’innocen­ te sembiante, si fa divoratore delle proprie so-

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stanze. Ed è ben di ragione che, servendo per piacere il mondo, sodisfatto dal prezzo dell’aura che gli porge, perda il riscontro che può la virtù pretendere nelPeternità. Mentre compiace a se medesimo nelle lodi degli uomini, porta la croce; ma come Simone, non perché servendogli di feretro nella morte gli sia carro per la gloria. Colui che all’ombra della virtù s’accredita, al far de’ conti riesce a lui come a quei ricchi dor­ mienti: i quali in sogno maneggiano oro, e nella vigilia si trovano le mani piene di vento. Tutti gl’ipocriti sono scropolosi del demonio. Va Giuda per restituire i denari acquistati nella vendita di Cristo suo maestro, e il Collegio degli scribi e farisei con grand’iscropolo dice: « Non è lecito metterle nel tesoro sacro, perché son prezzo di sangue ».^ Si fanno scropolo di rice­ vere e d’incassare i denari, e non si fanno scro­ polo di sollevare testimonii falsi contro del medesimo e condannarlo innocente. Non v’è cosa ch’abbia maggior ascendenza, sopra i dominii del mondo e tutti i governi della terra, dell’ipocrisia o simulazione. Nembrotto, che fu il primo tiranno del mondo, acquistò la tirannia non cacciando le fiere, ma gli uomini al cospetto di D io ,26 cioè con simulazione : 27 fingendo pietà e 134

religione. Così il Caetano sopra il Testo. Per la medesima strada s’inviò Maomet, falso profeta e primo tiranno degli arabi. Leggansi Pistorie. lingua . Chi non ha che una lingua, invochi la fama che gliene appresterà ben mille. Una lingua generosa è una spada animata di eternità. La lingua del cielo, della terra, o delle pietre, ha bene spesso supplito all’ostinato nostro silenzio; ed ha rivelato la segretezza delle nostre impietà. La lingua sì picciola in apparenza, è miracolo grandissimo in natura. Co’ suoi veloci e regolari moti, Paria percuotendo, distingue la voce in pa­ role. È fida interprete dell’animo, e i suoi con­ cetti o sentimenti a meraviglia esprime. Di cose remotissime come se presenti fossero, anzi del cielo e dello stesso Dio, discorre: atta a dar per sé sola alPuomo sopra gli animali, sopra al mon­ do, la palma e lo scettro. Ne’ dolori e nelle gioie è la lingua di grandissi­ mo giovamento. Esala quegli spiriti che, non potendo svaporare, agitano e scuotono l ’anima con infinite passioni. È interprete del cuore, che non sa che col mezzo della voce palesare se stesso. I governatori devono udir tutto; né mai sprez­

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zar gli avisi, benché leggieri. Mercurio non può ricevere più grato sagrifizio della lingua. Le parole non abbattono i nemici. È fiacco quel valore che nella lingua fa pompa delle sue pro­ dezze. I metalli di più alto suono, sono di più vii prezzo degli altri. Avisato san Pietro dalla Maddalena della risurrezione di Cristo, non cre­ de alla lingua; ma corse in persona al monu­ mento, per vedere con gli occhi. La lingua spes­ so può ingannare. Gli occhi sono più sicuri. La natura (dice Aristotele) ha fatta la lingua agli uomini picciola, in riguardo degli altri mem­ bri; e l'ha situata in luogo nascosto e chiuso, perché parli poco o non trascorra così facil­ mente. È difficile il por freno alla lingua. Niuno degli uomini (dice san Giacomo) ha mai potuto do­ marla. Ha domata, l'industria umana, tutte le sorti d’animali per selvaggie e fiere che fossero; nelPimpiacevolire la lingua, ella ha consunta Popera e Poglio. Marc'Antonio frenò sotto al suo carro trionfale, in Roma, i leoni: così rife­ risce Plinio. Annone in Cartagine, per relazione di Eliano, avvezzò i medesimi eziandìo a por­ tare gravose some. In Egitto, gli aspidi furono addomesticati. Nell'India, le tigri: delle quali 136

una ne fu presentata ad Anastasio imperadore. Gli elefanti, i lupi, gli orsi, ed altri molti ani­ mali si sono resi ossequiosi agli uomini. La lingua sola è sempre stata indisciplinata e con­ tumace: quando che Dio (la cui potenza, come dicono i sagri oracoli, solo basti) non Labbia sottomessa; « spetta a Dio domare la lingua » (Prov. 16).28 Molti curiosi effetti, strane mutazioni e vaghe metafore, leggonsi della lingua appresso varii scrittori. La lingua, usata spesso di mangiare — scrive Alessandro d’Alessandro —, fa gl’uomini arditi e animosi. Quando nel primo secolo vol­ lero gli uomini far guerra a Dio coll’infedeltà, prima di dar compimento alla babilonica torre, si divisero le lingue. Il cavallo, per relazione di Plinio, nasce col veleno nella pelle; e la madre con la lingua lambendo, glielo toglie. Con la lingua l ’orsa dà forma all’orsatino. La lingua mozza, presso gli egizii, secondo Pierio, era se­ gno di silenzio. Pindaro, per cantare le lodi d’un uomo morale, pregò Giove a mandargli dal cielo la lingua celeste. La lingua (secondo Apollonio) posta nel fuoco, era gieroglifico di lieto sogno. Dipingevano gli antichi Mercurio, dio della sa­ pienza, con una lingua in mano. Racconta Ric137

cardo Brisciano che, se talora nelli sagrifizii il fuoco prendeva figura di lingua, era dagli auspici interpretato per segno di futura guerra. Riferisce Plutarco, nel Convito de* sette savii, come Amasi, re d'Egitto, mandasse in dono a Biante filosofo una vittima intera: con patto che indietro gli rimandasse, della medesima, la mi­ gliore e insieme peggior parte. Stette per al­ quanto tempo il savio sospeso nell'animo. Ed or s'appigliava all'occhio, come peggiore fra tutti i sensi, ma non gli pareva che fosse altretanto migliore. Or scieglieva la mano, ora il cuore: ma in tutti trovava ripugnanze. Si risolse alla fine e, troncata la lingua, diedela al messo con im­ porgli che quella portasse al suo re: per essere quel membro appunto ch'egli intendeva gli si rimettesse. Benedetta adunque la lingua, oracolo de' pen­ sieri, ostetrice dell'animo, stampa delle parole, chiave della memoria, mano della ragione, freno della prudenza e timone della volontà. La lingua è quel coltello delfico, col quale insie­ me si sagrificavano agli dei le vittime e si giu­ stiziavano gli uomini: « con essa benediciamo il signore, con essa malediciamo gli uomini » ? Ciò che abbiamo più profondamente impresso 138

nell’animo, è quello che ne’ gravi accidenti ne viene il primo alla bocca: operando egli per l’abbondanza del cuore. Non vi è affetto che più sciolga la lingua, del­ l ’ira. L ’amore ed il timore la legano. L ’ira la scioglie, e vibra come spada. Diedero tanta forza i gentili alla lingua, che la fecero chiave dell’inferno: onde di Mercurio, per cui intendevano l’eloquenza, finsero che col suo caduceo ora togliesse l ’anime dall’istesso in­ ferno ed ora ve le riponesse. Così Virgilio: P o i prende la verga: con questa d a ll’O rco egli evoca le pallide anim e, altre n el T artaro triste le manda, e dà il sonno e lo to glie; sigilla gli occhi di m o rte.30

La lingua, con le vele sciolte delle volubili sue parole, con l’aurea catena della sua felice elo­ quenza, co’ rapidi torrenti delle sonore sue voci, disarma del veleno gli angui; dà senso alle sel­ vagge piante; quieta l’orgogliose procelle; e de’ più duri cuori, volge e rivolge a suo piacer le chiavi. Il figliuolo di Creso, condannato dalla natura a perpetuo silenzio, vincitore di lei ma vinto dal timore, sciolse il nodo della lingua. 139

Malèdico è chiunque non vuol da altri udir il vero. Sono taluni ch'hanno la maledicenza per quinto loro elemento. Non vedono gli maldicenti in altri, altro che difetti. La loro fama è l ’infamare; la lode, il vituperare; la grandezza, il detraere. Né s'avvanzano, che col levar altrui. Ma, o bene o male parlino, non potranno col lor dire far mai che altri uomini siamo di quelli siamo. Gli uomini ordinarli e di bassa mano, lacerati da' maldicenti, ad altro non attendono maggior­ mente che al vendicarsi: non così, al certo, de' prencipi grandi, de’ Teodosii, de' Graziani e d'altri. Ma menati questi talora per le bocche de' sudditi, più s'impiegarono col pensiero a diventar migliori, avvisati de’ propri falli, che a castigar gli avvisatori. Questi sono mosconi importuni, che stridono con invettive attorno all'orecchie degli uomini; vespe fastidiose, che non si pretendono niente­ meno che pungere e trafiggere. Sono coloro di lingua più maledica ed oltraggio­ sa, la condizione de' quali è più sogetta agli scherni. Minacciata la statua di Pasquino da Adriano m a led icen ti .

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sesto d'essere gettata nel Tebro, fu per essa risposto che anche le rane gracchiano sotto acqua. MALEDiCENZA. Non si curano le maledicenze che danneggiar non possono. Il latrar de' cani non offende la luna. Uno ch'abbia l'animo generoso e nodrisca spi­ riti grandi, eguali a se medesimo, superiori ad ogni incontro, non si cura delle maledicenze de' suoi: certo dell'innocenza delle sue operazioni. Anche col fiato s'offendono gli più limpidi e tersi cristalli. Non si può arrestar il corso alla maledicenza, che non vomiti il suo tosco sopra a' più bei fiori. Non è cosa che più solleciti lo spirito che la maledicenza, per una malignità naturale che in­ clina al male. Chi si vede zappare d'intorno all'edifizio della propria fama e fortuna, non può dubitare che di qualche rovina. La maledicenza ha del continuo il veleno nella lingua, ed empie le orecchie di malvagio sangue. Non è cosa tanto vergognosa quanto intaccare o parlar contra una donna, che non ha altr’arme che le lagrime. Non v'è potenza collocata tant’alto, che non sia

esposta agli occhi dell’ingiuria o della maledi­ ce v a . L ’altezza dell’Olimpo non potrebbe sfug­ gire queste nubi gravide d’invenzioni e di bugie. Non è mancato chi con artifizio ha saputo tro­ var macchie nel sole, non però baste voli ad oscu­ rar i suoi splendori. È cosa ingiusta comperarsi la lode co’ biasimi altrui. Non può meritare colui che, co’ rimpro­ veri, pretende merito. Merita essere cancellato dal libro delle memorie chi, troppo crudele, col ferire l’altrui reputazio­ ne, quasi dalle piaghe di questa vuol trarne come da pianta aromatica — il balsamo, per ren­ dere incorrottibile il proprio nome e sangue; per inaffiare le proprie palme ed allori. Il permettere le maledicenze non è un lasciar opprimere i buoni ed aggrandir i tristi; no, per­ ché chi fa bene e di lui vien detto male, è mag­ gior lode che il dir bene: perché il dir male del bene è il maggior fregio che si dia alla lode del bene, essendo che le bellezze d’un volto appaio­ no sempre più perfette ove vengono pareggiate all’imperfezioni; e più che ’1 male, trovasi or­ nato di lodi: quasi ingrato viso, dispare tra la vaga conciatura di quelle lodi. Il Vualstaim,31 avvisato come un soldato lo cbia142

mava una bestia, chiamatolo a sé lo premiò di­ cendo: tu sei un buon filosofo, mentre conosci esservi degli uomini bestie; e però meriti, come virtuoso ed eccellente, d'essere premiato. Non vi è cosa ch’abbia maggior forza di quella che dimostrasi aver maggior credito; non vi è cosa ch’abbia minor vigore. La lingua ha della natura del fuoco: tanto ella arde della maledicenza, quanto dura la materia che la fa ardere. Chi in vece di gittar l’acqua dell’emenda, v’aggiunge l ’esca de’ nuovi errori, pazzo è se crede estinguerlo e non sentire il calore di queste fiamme. Non è maggior infamia, che dir male del suo signore. Sono insopportabile le ingiurie d’un suddito nel prencipe. Elleno da Giove furono sempre ne’ giganti fulminate. Non tutte le maledicenze sono figliuole dell’odio; alcune anche sono figliuole d’amore. È uso, in­ trodotto dagl’innamorati, il dir spesso male del­ la cosa amata. Simili maledicenze sono maledi­ cenze della lingua, non già del cuore. Altrimenti costoro lascieranno una volta, quello che biasi­ mano sempre. Non lasciano, perché amano: anzi, dicono male, perché amano. I lidii beffeggiavano Ercole, nel medesimo tempo che gli sagrifica143

vano. Con le parole servivano a quell’abuso, co’ fatti alla verità. Nel fine della commedia, ognuno si cava la maschera. Le cose del mondo hanno diversi volti, né facile è il sapere quale sia il vero: tanto l ’artifizio sa al vero imitar la natura. Il tolerato abuso del mondo mette la maschera su 1 volto, perché col portar due faccie riman­ gono gli uomini senza faccia; e sfacciatamente operando, col vestirsi dell’altrui volto perdono il proprio. Quattro sono i notabili effetti della maschera: rende la persona audace, per non essere cono­ sciuta; cuopre la povertà di quelli che sono mal­ vestiti; insegna di parlare a quelli che sono ver­ gognosi; e dona la libertà alle persone di gravità e di rispetto. Dileggia Svetonio la pazzia d’Ottaviano Augusto che, in un convito dalla sua magnificenza a* pri­ mi senatori apparecchiato, mascherò se stesso sotto le divise d’Apolline: dal cui esempio tutti gli di lui commensali, per adulare il suo genio, altre deità rappresentarono. Nata poscia fra poco grandissima carestia in Roma, il volgo di natura m a sc h er e .

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garrulo ed audace, schernendo la vanità d’Ottaviano e de’ senatori, disse che gli dei — lauta­ mente banchettati nella sua reggia — avevano mangiata tutta l ’annona di Roma. lingua . Deve più spesso Puomo servirsi delle orecchie che della lingua: consiglio di Seneca. A questo fine disse Biante aver la natura non sotto una serratura, ma sotto due, nascosta la lingua: prima dentro de’ denti, poi dentro le labbra; facendo alla medesima il muro e Pantemurale, perché come in fortezza stasse sicura, senza mostrarsi fuora. E Senocrate, molto prima, insegnò di udire assai e di parlar poco: in conformità della natura, che agli uomini ha date due orecchie ma una lingua sola. Aggiun­ gasi come a tutti i sensi ha la stessa dati due strömen ti: al vedere due occhi; all’udito due orecchie; all’odorato due nari; al parlare una sol lingua, e questa ben riserrata e chiusa non per altro che perché ella parli poco. Del mede­ simo sentimento fu Pitagora, che i suoi disce­ poli per cinque anni continui volle che prima tacendo l ’udissero: acciò eglino, pure ben par­ lando, insegnassero poi gli altri. orecchie e

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parlare E t a c er e . Il mistero delPinnocenzà andò male, perché Eva parlò troppo. Quello della redenzione camino benissimo, perché si co­ minciò con silenzio universale. I cani dell’India, i quali non assaltano che i leoni, nello scuoprire della fiera non abbaiano come gli altri: acciò, per lo romore, non fugga la preda. Infino il pazzo, tacendo è riputato savio. Quella ranoc­ chia, che con bocca stretta caminava verso le stelle, aprendola fuor di proposito cadde nel solito suo pantano. Se Alessandro suggella le labbra di Parmenione, per mantenere il segreto; e se Dio purga le nostre col carbone delPintendimentò: non sarà sciocchezza aprire quella for­ nace, dalla cui bocca insieme con le parole escono spesse fiate fiamme esiziali? Due cose principali (diceva Socrate) devono gli uomini imparare in questo mondo: Puna tacere, Paîtra párlar poco. A questo proposito molto vien lodato colui che dir soleva che, nel veder i fatti d’altri, desiderava d’esser cieco; nelPudirli, sordo; nel riferirli, muto. All’incontro biasimava quelli che, per vederli, udirli e riferirli, deside­ ravano d’aver cent’occhi, cent’orecchie, e cento lingue.

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religione sim u la ta . Per appagliare32 i tiranni la fraudolente loro dominazione, l’ammantano sempre con gli addobbi d’una simulata religione: perché il volgo, pessimo interprete delle cose, se vede alcun tiranno rivolto al cielo, lo crede timo­ roso di Dio e per conseguenza amator dell’equità: Intrusosi Adonia nel regno, vivendo anche il padre, ammazza incontanente arieti e buoi1; ed alla destra tiene il sacerdote, ed alla sinistra il duce degli eserciti. Di quello s’avvale per coprir con cortine di zelo la sua ambizione; di questo per ostentar con la forza le sue azioni. segreto . Il preziosissimo liquore (il segreto dico) ricerca un vaso capace, cupo, impenetra­ bile, intero; altrimenti, essendo picciolo e stret­ to, ridonda e trabocca fuora degli orli delle labbra. Cosa che si dice, forza è che si palesi; per molto segreta che sia. Chi non vuole che alcuna cosa si sappia, non la dica: ché ancora che si dica ad un solo, e molto in segreto, non passarà gran tempo che si saprà per tutto. Avendo il barbiere del re Mida vedute le sue orecchie asinine, ed essendogli da lui sotto gravi pene stato vietato il favellarne con altri, egli -

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crepar sentendosi, se non lo diceva — uscito dal­ la città e cavata una fossa, ivi inchinato sfogò il suo cuore ed a quella con alte voci palesò il segreto delle reali orecchie bigie, lunghe, pelose; ma ecco, meraviglia strana, s’ingravidò la tèrra dalle voci di lui; e, fra puoco tempo partorendo, ne nacquero canne, le quali percosse dal vento rendevano quel suono dal quale generate furono; e delle stesse prendendo alcuni pastori, e for­ matone sampogne, quando alle labbra per dar loro il fiato le accostavano pure le stesse voci risuonavano: in modo tale che, per tutto si spar­ se fama, avere il re di Frigia le orecchie d’asino. Gran caso scrivesi nel sagro Genesi . Ed è che « disse Esaù in cuor suo: si avvicinano i giorni del lutto per mio padre; allora ucciderò il mio fratello Giacobbe », e subito soggiungesi « ven­ nero riferite a Rebecca le sue parole ».33 Non dice Esaù ad altri che al proprio cuore segreto, e pure ciò che dice è riferito subito. Dunque non può altresì fidarsi del suo proprio cuore? Così è: perché il tuo stesso cuore, se gli comu­ nichi alcun segreto, sarà quasi forza che o con parole o con altri segni lo palesi, o ne dia almeno indizio. O r va’, e fidati d’altr’uomo se non puoi fidarti di te stesso! 148

sim ulazio ne . Sono più da temere gli uomini simulati che gli uomini aperti. Questi stanno esposti ignudi a’ colpi di chiunque li ferisce; quelli si riparano dagli assalitori dietro la trin­ cea, per sortir anche, quando è tempo di dar l ’assalto. Coloro che subintrano a qualche ricca eredità, con contento indicibile si vestono da scorruccio. Negli animi degli uomini sono molte ritirate ed ascondigli. Apra gli occhi chi tratta. La fronte, gli occhi, il volto, spesse volte mentiscono.

D ’ordinario i maggiori amici son quelli che tradiscono. Giuda, eletto da Cristo fra il numero de’ dodici più cari, e tesoriere anche deU’erario apostolico deputato, due enormissimi tradimenti commesse. L ’uno contro il di lui corpo naturale, agli scribi e farisei vendendolo per trenta denari; l ’altro contra il corpo sagramentato, cavandosi di bocca il pane nell’ultima cena consagrato e portandolo alli medesimi con irrisione come quello che fosse dello stesso chiamato corpo suo. Così Teofilato: « Giuda infatti prese il pane e non lo mangiò; ma lo nascose, per mostrare ai giudei che Gesù chiamava pane il suo corpo.34

tradimento .

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Quante fortezze, insuperabili agli assalti, sono cadute alle frodi d’una segreta intelligenza! Quanti, affidato il sonno in grembo alla sicu­ rezza, novelli Sansoni e Dalila, hanno sperimen­ tate le insidie; e, godendo i vezzi delle grazie, furono assaliti dal furore delle furie! Questo mancava alla nostra misera mortalità che, sotto il riso ancora, s’apportasse la morte; negli amici si provasse l ’infedeltà; ne’ domestici aves­ se luogo il tradimento. Chiude alle volte, che non si sa, coppa gemmata veleno mortale; al­ berga, che non si crede, tra i lieti fiori aspe mordace. Ma che il tuo caro, lo scelto da te per diletto e partecipe de’ tuoi più riposti e segreti negozii, ti manchi; ti tradisca e, co’ nemici tuoi stessi fatta lega e convenzione, sottoscriva la tua rovina: questo, per ogni parte, riesce detestabile. Miseri noi che, inavveduti, fomentiamo spesso la biscia in seno; impensati, palesiamo quel se­ greto che - rivelato - ne dà il tracollo. Ma che può farsi? L ’umana compagnia ricerca confidan­ za: fortunato chi coglie bene. Un amico è un incomparabile tesoro. Non però mai s’ha a sot­ toscrivere per tale, se una lunga pratica e spe­ rimentata occasione non l ’ha prima autenticato. Il tempo porge la conoscenza. IJO

Dal tradimento che contra Giosefïo concertaro­ no i suoi fratelli, col venderlo agli ismaeliti, trasse egli già l’ordine della grandezza propria a’ più eminenti onori dell’Egitto. traditore . È proprio de’ traditori il mascherare i loro volti con apparente afflizione e con giura­ menti, per accreditare i loro inganni.

Coloro che, per ambizione del dominare tradi­ scono gli altri, nel tradimento loro tradiscono se stessi. L ’uomo prudente è quell’Ulisse ch’ha prigionieri i venti. G li accidenti fortuiti non lo travagliano, ma l ’ossequiano.

uomo pru d en te .

N ote

1 Pietra filosofale. 2 «Tempora si fuerint nubila, solus eris» (Tristia, 1, 9, 6). Clizia è il girasole o « fiore elitropio ». 3 « Si quis autem in verbo non offenderit, hic perfectus in facto suo erit ». La citazione sintetizza un passo di Giacomo (3, 2). 4 « O insensati Galatae, quis vos fascinavit non obedire ventati? » (Paolo, A d Galatas, 3, 1). 5 « Calumnia conturbai sapientem et perdei robur cor­ dis illius... » (Ecclesiaste, 7, 8). 6 « In memoria aeterna erit iustus, ab auditione mala non timebit ». Riadattamento di Salmi> 112, 6-7. 7 « Ab improbis probi vocantur pessimi ». 8 « H oc mare magnum et spatiosum, illic reptilia, quo­ rum non est numerus ». 9 « Cor meum dereliquit me ». 10 « S i oculus tuus simplex fuerit, totum corpus tuum lucidum erit ». Riadattamento di Matteo, 6, 22. 11 « Tenebrae erant super faciem abyssi ». 12 « Profundum est cor hominis et inscrutabile ». Ria­ dattamento di Geremia, 17, 9. 13 « Inquietum est cor meum, donee quiescat in te ».

14 AH.

15 « Societatem unius induebat palam, et ad alterum per occulta et magis fida inclinabat». Riadattamento di Annaliy x ii , 13, 1. 16 Città. 17 « Quid natura mirabilius»; «D edit vocem saxis, hominibus respondentem, imo obloquentem ». 18 « V id i, arsi, flevi, tristemque (heu fata) repulsam /

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spreta tuli; sum nunc vox, sonus, aura, nihil» {Epi­ grammi, i, 71). 19 «N ullus terminus falso est; ventati aliquid extre­ mum est ». Riadattamento di Lettere a Lucilio, 11, 16, 9. 20 « Polypi mentem obtines ». 21 «Camaleón quia pavidissimum animai, subinde colorem mutât: ita qui viribus non pollent, ad varias artes confugiant necesse est » (De sollertia animalium, 978e).

22 Schiavi. 23 « In tot humanis erroribus, periculosum sola innocentia vivere». Riadattamento di Livio, 11, 3, 4. 24 « Hostes molesti, molestiores amici ». 25 «N on licet eos mittere in corbonam, quia pretium sanguinis est» (Matteo, 27, 6). 26 «Coram Domino». « E g li fu gran cacciatore nel cospetto del Signore », è detto in Genesi io , 9. E a questo luogo biblico si riferisce la glossa più avanti citata (« Così il Caetano sopra il Testo »). 27 « Simulate ». 28 «Dom ini est domare linguam». In Proverbi (16, 1) si legge però « gubernare ». 29 « I n ipsa benedicimus Deum et maledidmus fratres ». Gtazione contratta, riadattata dalla Lettera di san Giacomo (3, 9). 30 « Tum virgam capit; hac animas ille evocat Orco / palan tes; altas sub tristia Tartara mittit. / Dat somnos admitque et lumina morte résignât». Cfr. Eneide, iv,

32 « Appagliaiare », innalzare a guisa di pagliaio. 33 « D ixit Esau in corde suo: venient dies luctus patris mesi, et ocddam Iacob fratrem meum... nuntiatà sunt haec Rebeccae ». Riadattamento di Genesi, 27, 41-42. 34 « ludas enim panem accepit et non comedit, sed occultavit ut monstraret Judaeis quod panem corpus suum vocare Iesus ».

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Indice

Dar passione agli invisibili di Salvatore

S. Nigro Notizia

7 25

E logio della m enzogna Descrizione del silenzio di Celio Calea­

gnini

31

Note

49

La scienza nuova di Celio Malespini

31

Note

61

L'apologia della menzogna di Giuseppe

"battista

63

Note

83

Un vocabolario per la menzogna di Pio

Rossi

83

Note

133

Questo volume è stato stampato nel mese di giugno del 1990 presso la tipografìa Luxograph di Palermo su carta G rifo vergata delle Cartie­ re Miliani di Fabriano. La sovraco* perta è realizzata in carta Roma fab­ bricata a mano e appositamente allestita dalle Cartiere Miliani di Fa­ briano per la collana « Il divano ».

Il divano

1 Abate Dinouart. L ’arte di tacere 2 La volpe amorosa 3 Nino Savarese. Gatterìa 4 Kenelm Digby. La polvere di simpatia 5 Jean-Baptiste Pérès, Richard Whately e Aristarchus Newlight. L ’imperatore inesistente 6 Jean-François de Bastide. La petite maison 7 Enrique Vila-Matas. Storia abbreviata della lettera­ tura portatile 8 Choderlos de Laclos. L ’educazione delle donne 9 Herbert George Wells. Piccole guerre 10 Champfleury. Il violino di faenza 11 Gustave Amiot. La Duchessa di Vaneuse 12 Gustav W eil. Il racconto più bello del Corano