Elogio del moralismo [2 ed.]
 8858106172, 9788858106174

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Economica Laterza 639

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Elogio del moralismo

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2011 Nella «Economica Laterza» Prima edizione marzo 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0617-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice

Piccola premessa personale

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Moralismo: perché

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Una moralità costituzionale

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Quando morì la moralità pubblica

31

Tempo di scandali, p. 32 - Un’assise sulla corruzione, p. 37 - Una continuità perversa, p. 41

Nuova eversione quotidiana

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Senza controllo

49

Verso l’estinzione dello Stato, p. 49 - Povero Parlamento, p. 54 - L’uomo del fare, p. 58 - Il senso delle istituzioni, p. 63 - Un deserto istituzionale, p. 66

Il diritto alla verità

71

La scuola pubblica: un «organo costituzionale»

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V

Esercizi di decostituzionalizzazione

81

Ancora uno sforzo, moralisti!

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Fonti

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Elogio del moralismo

Piccola premessa personale

Sono un vecchio, incallito, mai pentito moralista. La parola mi piace, perché richiama non una moralità passiva, compiaciuta, contemplativa e consolatoria, ma una attitudine critica da non abbandonare, una tensione continua verso la realtà, il rifiuto di uno storicismo da quattro soldi che, riducendo a formula abusiva l’hegeliano «tutto ciò che è reale è razionale», spalma di acquiescenza qualsiasi comportamento pubblico e privato. Il moralista non mugugna, non si appaga del racconto delle barzellette antiregime. Esce allo scoperto, e non è frenato dal timore d’essere sgradito, o sgradevole. Non si fa incantare dal realismo di chi invoca la natura ferrigna della politica come un salvacondotto che legittima qualsiasi azione, anche quando il tornaconto personale è l’unica molla. E quindi diffida di Machiavelli quando Il Principe viene pubblicato con prefazioni di Benito Mussolini o di Bettino Craxi o di Silvio Berlusconi. Di che cosa sia il moralismo si può certo discutere, ma la critica non può trasformarsi in pretesto per espellere dal discorso pubblico ogni barlume di etica civile. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripul3

sa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione pubblica, derubricandoli a ininfluenti vizi privati, annegandoli nel «così fan tutti» (e tutte, non tanto per tornare alla corretta citazione mozartiana, ma per alludere a recentissimi costumi). La caduta dell’etica pubblica, indiscutibile, è divenuta così un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità, ad una sua legittimazione sociale. Rifiutata, appunto, come manifestazione di fastidioso moralismo, l’aborrita «questione morale» si è via via rivelata come la vera, ineludibile «questione politica». Quando gli ex comunisti, invece di riflettere seriamente sulla loro storia, cominciarono a chiedere scusa a destra e a manca, omisero di fare le loro scuse proprio a chi aveva colto questo rischio mortale per la democrazia italiana: Enrico Berlinguer. In quella sua tesi, associata com’era ad una richiesta di austerità, si volle vedere un’idea triste della politica, in contrasto con la spensieratezza dell’incipiente «Milano da bere»; e la rivendicazione di una diversità del Pci come una mossa d’orgoglio che rivelava la pretesa di essere comunque migliori degli altri. Interpretazioni entrambe riduttive, appiattite com’erano su contingenza e convenienze, mentre oggi possiamo cogliere il vero nocciolo di quella proposta: la sottolineatura del carattere proprio di un partito soprattutto per renderlo consapevole della responsabilità che gli spettava, con una indicazione volta ad evitare che si consolidasse quella che appariva come una pericolosa anomalia italiana. Nessun discorso nostalgico, allora, ma la presa d’atto dell’accantonamento colpevole di un tema politico centrale, causa non ultima della crisi di cui siamo vittime. Riprendendo in mano alcuni miei scritti anteriori al 17 febbraio 1992, giorno in cui si aprì la stagione di 4

Mani Pulite, sono stato colpito dalla loro «attualità», dal fatto che sembrano tagliati sulle vicende che stiamo vivendo. E mi hanno posto un interrogativo, che mi inquieta. Se quegli scritti sembrano senza tempo, capaci di descrivere la realtà di ieri come quella di oggi, non sarà vero che l’assenza di spirito civico e la propensione all’illegalità appartengono a un invincibile carattere degli italiani, sì che le polemiche attuali sarebbero, nei toni e nelle pretese, inutili o eccessive? Ma questa spiegazione antropologica non è convincente, anzi rischia di offrire una giustificazione e una legittimazione ulteriore a chi vuole sottrarsi agli imperativi della legalità e della moralità pubblica. In questi anni, infatti, il degrado politico e civile è aumentato, ha conosciuto accelerazioni impressionanti, si è dilatato ben al di là delle frontiere segnate al tempo di Tangentopoli. Sono cresciuti il livello della corruzione e l’accettazione dei comportamenti devianti, con un mutamento profondo del contesto. Le inchieste di Mani Pulite avevano confermato la giustezza delle analisi qui riproposte, e la rivelazione pubblica dell’illegalità, accompagnata com’era da una diffusa reazione sociale, aveva fatto sperare in un rinnovamento della politica innervato da un rinnovato senso della legalità e dello spirito pubblico. Speranza delusa. Due sole testimonianze, tra le tante possibili. Lasciando la diocesi di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, in una intervista a Famiglia Cristiana, ha dichiarato: «Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità». In un bel libro sulla politica «negata», Nello Preterossi descrive aspetti della situazione attuale parlando di un «compromesso permanente tra legalità e 5

illegalità». Ecco il punto. In questi anni abbiamo assistito al consolidarsi pubblico delle situazioni di illegalità e immoralità, con l’appannarsi di una politica che ha pensato di poter trarre profitto dall’affrancarsi da ogni controllo e da una assuefazione/mitridatizzazione della società, senza avvedersi che in tal modo non esorcizzava il moralismo, ma si negava come politica, preparando i contraccolpi che sono poi puntualmente venuti. All’inizio di Moby Dick, Herman Melville descrive New York e dice che «il commercio la cinge con la sua risacca». Se vogliamo adoperare una metafora marinara anche per l’Italia di oggi, possiamo solo riconoscere che la corruzione la sommerge con le sue ondate. Ma bisogna aggiungere che, di fronte a questa realtà, non vi è solo chi accetta di annegare o grida al «si salvi chi può». Anzi, negli ultimi tempi, si assiste a vere e proprie manifestazioni di rivolta, al grido di «tutti ladri». Un atteggiamento pericoloso e distruttivo, che ha le sue origini proprio nella cancellazione della moralità nella politica, anzi della politica in quanto tale. Lo spettacolo della corruzione non è più lontano, appannaggio di gruppi ristretti, giustificato con qualche ragion politica che l’associava non all’interesse privato, ma al bisogno di dotare un partito di mezzi necessari per poter svolgere la sua azione pubblica. Tesi, questa, in sé inaccettabile, proposta com’era per sottrarsi alle responsabilità penali, ma che almeno appariva come un tentativo di circoscrivere il campo della corruzione, di non offrire sponde all’arricchimento personale, che pure s’era rivelato troppe volte inestricabilmente legato alla «contribuzione» per i partiti. Oggi la presenza della corruzione è in ogni dove, negli appalti e negli ospedali, nei ministeri e nei comuni, è esibita e giustificata, e lo scandalo non si 6

vuole ritrovare in questo, ma in chi, moralisticamente e testardamente, descrive e denuncia la drammaticità di una condizione civile. In questo rovesciamento delle parti, cogliamo le dimissioni della politica, la sua preoccupante incapacità di cogliere lo spirito del tempo, il suo distacco non solo da legge e moralità, ma dagli stessi principi della democrazia. Tra una politica che affonda e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare la moralità delle regole, che è cosa lontanissima da ogni suggestione di Stato etico, trovando in primo luogo il suo fondamento in una politica «costituzionale», come si dirà più avanti. E il moralismo non è la rivolta delle anime belle, la protesta a buon mercato, fine a se stessa. S’incarna sempre di più in azione, e si fa proposta politica. Stanno comparendo i moralisti «attivi», che cominciano a trasformare il loro disgusto non in semplici esecrazioni, ma nell’attenzione minuta per i fatti, nel tallonamento continuo degli «immorali». Lo hanno fatto, ad esempio, i cittadini di Parma manifestando incessantemente in strade e piazze contro l’illegalità e l’immoralità della giunta comunale, fino a travolgere con la loro iniziativa quotidiana sindaco e assessori. Dove la politica ufficiale era distratta o complice, la loro voce è stata determinante. Certo, poi è venuta la magistratura con i suoi arresti. Ma prima v’era stata la politica. Esattamente quella mancata in questi anni, e che ha lasciato alla sola magistratura un ruolo che, invece, proprio la politica avrebbe dovuto ricoprire. Prepotenza dei giudici o assenza dei politici? Il moralista può contribuire al rafforzamento degli anticorpi democratici, ed è questa la piccola ambizione di questo piccolo libro. Anche per passare dall’indigna7

zione (che, come ci dice proprio la vicenda di Tangentopoli, può repentinamente convertirsi in delusione) alla lunga lena che l’esercizio quotidiano della moralità può consentire.

Moralismo: perché

«Moralismo», dicono i dizionari, è la «tendenza ad attribuire prevalente o esclusiva importanza ad astratte considerazioni d’ordine morale». «Moralista», dunque, è chi «tende a ricondurre i propri giudizi ad una rigorosa e talvolta eccessiva dipendenza da un ordine di principi morali». Con un sottinteso reso sempre più esplicito: ben può il moralista coltivare in segreto i vizi che pubblicamente condanna, coprire con una intransigenza di facciata imbrogli, trame, intrighi. Il moralista assume così, irresistibilmente, il volto dell’Alberto Sordi degli anni Cinquanta. Ma – ci ricorda Giovanni Macchia – esistono «due tipi principali di moralisti: il moralista ‘pratico’, la cui scienza è rivolta a difendersi e a conquistare il mondo in cui vive (e accade che egli diventi un politico); e il moralista ‘puro’. Al piacere non di rado acre dell’osservazione quest’ultimo unisce la volontà di dare un senso allo spettacolo cui assiste (e non è raro il caso che egli diventi un filosofo, o una grande anima religiosa). Mezzo espressivo del primo è il precetto, ma il mezzo espressivo del secondo è la riflessione». Lasciamoci per un momento alle spalle definizioni e 9

classificazioni, e immergiamoci in una realtà nella quale ogni giorno cogliamo la distanza tra azione ed etica pubblica, l’abbandono di quei principi di riferimento che dovrebbero riscattare almeno in parte le imprese condotte in nome d’un potere senza aggettivi o d’un interesse senza idealità. Si riscopre un bisogno di moralità: verso il quale può sospingere anche una pratica costante, insistente, fastidiosa addirittura, di moralismo. Credo che sia tempo di correre consapevolmente questo rischio, e di ridare al moralismo la forza d’essere termine di denuncia e di paragone, riflessione impietosa su quanto ci circonda e, insieme, precetto: magari non vincolante formalmente, ma capace di suscitare, se non rispetto in coloro ai quali si rivolge, riprovazione in quanti assistono all’inverecondo spettacolo. Istituzioni e uomini non vengono più rispettati quando non appaiono rispettabili. E più questo fenomeno si allarga, più diventa impossibile il consenso, che viene sostituito con la connivenza, la complicità. Il grande corruttore ha bisogno d’una rete di piccoli corrotti, perché la sua non sia soltanto una pratica, ma un esempio. Una «cultura», come ormai s’usa dire. Sono da rimpiangere i tempi in cui la corruzione s’ammantava di riservatezza, la doppia morale imperava, e almeno s’aveva il pudore del «si fa, ma non si dice»? Avevamo abbandonato, o volutamente perduto, un’altra parola: «rispettabilità» – alla quale non volevamo più ricorrere perché sembrava veicolo di ipocrisia piccolo borghese, sacrificava l’essere all’apparire, copriva vizi e non svelava virtù. Ma l’avevamo rifiutata perché volevamo che alla forma corrispondesse la sostanza, non per approdare alla spudoratezza. Dobbiamo allora rivalutare, e quasi indicare come un traguardo difficile, pure 10

quella miserevole rispettabilità che almeno non esibiva i propri vizi, non pretendeva di elevarli a modello, e così custodiva nella società un simulacro di valori? C’è una trasparenza sociale della quale volentieri avremmo fatto a meno: quella minuziosamente, quotidianamente, incarnata da comportamenti che esibiscono la forza in luogo del diritto, la sopraffazione al posto del rispetto, l’impunità invece della responsabilità. E dunque forza, sopraffazione, impunità diventano regole e indirizzi, di fronte ai quali non può esservi solo frustrazione o acquiescenza. Proprio perché una vera reazione diventa più difficile, la scossa del moralismo può essere salutare. E questo rimane ancora necessario, forse ancora più necessario, anche dopo che la lotta alla corruzione ha segnato un’intera fase della vita italiana. Nudi patti di potere ancora ci avvolgono, indifferenti agli uomini e ai principi. Anche questa può essere, ed è, politica. Ma il suo prezzo si è fatto sempre più alto. Per praticarla, per imporre le sue regole ferree, non basta la tendenza insistita verso la cancellazione d’ogni forma di controllo – dei parlamenti, dei giudici, del sistema dell’informazione. Bisogna dimostrare visibilmente, ostentatamente addirittura, che ogni pretesa di far valere interessi generali, logiche non proprietarie, valori culturali, diritti dei cittadini è ormai improponibile: e c’è spazio solo per negoziazioni, accordi, sopraffazioni magari, ma solo tra soggetti forti, che creano essi stessi le regole, affrancati ormai da ogni legge o codice. Nozioni come pubblico e privato, Stato e sistema delle imprese, lecito e illecito perdono senso. Le frontiere vengono cancellate, la contesa è intorno al modo di consolidare un comune governo oligarchico, di stabilire le regole d’ingresso in un circolo sempre più ristretto. 11

Questa non è solo una storia di appetiti scatenati, di «spiriti animali» che una teoria dei sentimenti morali può volgere al bene. È anche l’effetto di una vicenda culturale che ha visto due grandi metafore di questo secolo – la dottrina pura del diritto e l’autonomia del politico – piegate ad un uso volgare, e vantaggioso. Con esse si volevano sottolineare la forza e la logica interna del diritto e della politica, non conoscibili ricorrendo ai canoni di altri sistemi di regole o di azioni. Ma la purezza del diritto non poteva significare né l’inconsapevolezza dei suoi usi, né la sua riduzione a mera tecnica, ad instrumentum regni di una corporazione o di un gruppo di potere. E l’autonomia della politica non poteva essere tradotta nell’assoluzione di qualsiasi pratica, nella sua definitiva separazione da tutto quanto la vicenda sociale porta con sé. È dunque a una storia di abusi – politici, personali, concettuali – che bisogna reagire. Raccogliendo i cocci di costruzioni culturali frantumate, ma senza la pretesa di rimetterli ad ogni costo insieme. Bisogna ricostruire, per quelli che sono oggi, i nessi tra azione personale e sociale, tra interessi e valori, tra comportamenti e regole. Muovendo verso questo difficile orizzonte, può darsi che si offuschi la nettezza d’una distinzione tra chi si fa politico e chi si fa filosofo o portatore d’una spinta religiosa. Ma forse un moralista, puro e pratico insieme, può dare una mano a chi si accinge a questa più lunga e impegnativa impresa, tenendo l’occhio aperto sulla folla dei fatti minuti e indecenti: registrandoli, denunciandoli e sapendo che la speranza di cambiare il mondo nasce sempre da un comune rifiuto delle deformazioni di quello in cui viviamo. dicembre 1991 12

Una moralità costituzionale

Perché si sentì il bisogno di scrivere, nell’articolo 54 della Costituzione, le parole «disciplina e onore», vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche»? Letta oggi, quella norma manifesta una volta di più la sensibilità dei costituenti per un ordine giuridico che si affidava non soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le «virtù repubblicane». Coglievano, come in altre norme della Costituzione, un limite del diritto, erano dunque consapevoli che «il diritto non permette di economizzare l’etica», come ha scritto Luigi Lombardi Vallauri. Colti e lungimiranti com’erano, quei costituenti guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo a un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del «mostruoso connubio» tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa, e che faceva tristemente osservare a Ruggiero Bonghi che la pubblica amministrazione era divenuta non il luogo dell’imparzialità, ma l’«ancella della classe politica». Siamo nel 1886, e Bonghi aggiungeva: «Non un impiego conferito senza 13

raccomandazione di deputati, non una promozione, quasi, accordata senza vista dell’interesse politico (...); non un contratto stipulato dal governo, senza che chi lo stipula sia stato presentato da un deputato». Parole sconsolate, e ancora familiari, che ci dicono come possa essere cancellato il cittadino, e al suo posto comparire neppure il suddito, ma solo il cliente. Nuovi connubi mostruosi ci accompagnano, tra politica e amministrazione, politica e economia. La società viene corrosa, corrotta. La politica perde ogni nobiltà, e diviene essa stessa ancella dei più disparati interessi, guidata com’è dalla dittatura dell’economia e dal prevalere dell’impulso all’arricchimento privato a spese del pubblico. È moralismo invocare le parole della Costituzione, richiamare al loro rispetto chiunque abbia a che fare con le istituzioni? Purtroppo sembrano parole logorate, poiché altre parole hanno preso il sopravvento, prime tra tutte quelle con le quali si respinge ogni invito a correttezza e senso di responsabilità: «non è questione penalmente rilevante». Di questa formula, frutto di miserabile astuzia, si parlerà più avanti. Ma essa irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: ‘Ah!’, dice, ‘ma non sono in triplice copia!’». Ritratto ante litteram di quella figura della nuova antropologia (bestiario?) dell’Italia contemporanea – il faccendiere. Inutili illusioni, quelle ingenuamente alimentate dai costituenti, presto frantumate dalla durezza della sto14

ria? Ma dall’articolo 54 della Costituzione emergono i «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche», categoria che va ben al di là dei confini della pubblica amministrazione. Con quasi trent’anni d’anticipo rispetto alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, la Costituzione italiana delinea così la categoria delle «figure pubbliche» che, ad esempio, hanno una più ridotta «aspettativa di privacy» affinché su di loro possa posarsi l’occhio attento non solo del detestato moralista, ma d’ogni cittadino, così messo nella condizione di vigilare sull’esercizio concreto del pubblico potere. Queste indicazioni costituzionali possono aiutarci a dipanare l’intreccio altrimenti inestricabile tra illegalità e immoralità, reato e peccato, responsabilità penale e responsabilità politica, astutamente mescolati per sfuggire ad ogni controllo e poi accettati da una cultura politica che in questo gioco di specchi ha trovato ogni volta la via per sfuggire a qualsiasi controllo. È una storia lunga, che accompagna diversi momenti della storia della Repubblica e diviene parte della discussione sul modo di riformarne le istituzioni. Negli anni Settanta e Ottanta l’uscita da una corruzione ormai conclamata era stata promessa non con l’impegno a rendere più efficienti i controlli e a punire i colpevoli o con uno scatto di orgoglio che consentisse alla politica di recuperare moralità, e con essa la fiducia dei cittadini. Ci si affidò, invece, ad una mossa «politologica». La tesi era questa. La corruzione è il frutto avvelenato, ma inevitabile, di un sistema bloccato. Ripristiniamo, o meglio creiamo finalmente le condizioni per un’alternanza tra partiti diversi alla guida del governo, e avremo così la bacchetta magica che farà sparire la cor15

ruzione e tacere i moralisti, perché la fine dell’inamovibilità dal governo, legata alla possibilità dei cittadini di punire i partiti dei corruttori, sarà un potente disincentivo contro la prosecuzione delle pratiche corruttive. La storia ci mostra che si trattava di una ricetta sbagliata: gli anni passati hanno sì visto alternarsi al governo, e nelle amministrazioni locali, coalizioni politiche diverse, ma la corruzione, invece di diminuire, si è radicata ancor più profondamente nelle istituzioni, diffondendosi in tutte le direzioni nella società italiana. Potere corrotto, nazione infetta, si potrebbe dire, riprendendo il famoso titolo di un’inchiesta apparsa sull’Espresso dell’11 dicembre 1955, Capitale corrotta, nazione infetta, con la quale si denunciava il comportamento dell’amministrazione democristiana e del sindaco Salvatore Rebecchini per le facilitazioni di cui godeva la Società Generale Immobiliare, di proprietà del Vaticano, per ottenere varianti ai piani regolatori particolareggiati. Quante altre «varianti» hanno accompagnato in questi anni l’attività di infinite amministrazioni comunali? Quella ricetta, dunque, non ha funzionato. Semplice imprevidenza, ennesimo errore di quegli «ingegneri costituzionali» ai quali troppe volte la politica si è consegnata proprio per sfuggire all’obbligo di scelte che la riguardavano direttamente? No, di nuovo furbizie, per costruire intorno alla politica corrotta una robusta rete di protezione, rimandando addirittura ad altri tempi la semplice discussione del problema. Sempre in quegli anni, infatti, il Parlamento era stato prodigo di assoluzioni «sociologiche» di politici e partiti che si «approvvigionavano» con risorse pubbliche di quanto era necessario al loro funzionamento. Fondi 16

«neri» dell’Iri, dell’Italcasse, vennero così ricondotti ad una perversa fisiologia del sistema, una prassi illegale venne accettata e metabolizzata. Questa rete di protezione venne poi progressivamente rafforzata attraverso varie strategie, prima tra tutte la negazione sistematica delle autorizzazioni a procedere per salvare parlamentari coinvolti in affari a dir poco dubbi. Ma il passaggio chiave fu rappresentato dalla scelta di una linea che subordinava al definitivo accertamento giudiziario di eventuali responsabilità penali qualsiasi forma di sanzione nei confronti di politici coinvolti in vicende anche clamorosamente rivelatrici della violazione d’ogni regola. In questo modo si allontanava nel tempo – e forse definitivamente – il rischio di una sanzione, poiché i ritmi della giustizia sono lentissimi e perché non tutti i comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reati. Al tempo stesso, però, non ci si avvedeva dell’enorme ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo «tribunale della politica». E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati. È stata, dunque, la politica stessa ad affidarsi ai giudici come «decisori finali», azzerando in questo modo per se stessa ogni vincolo di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa astuzia ha via via rivelato i suoi prezzi, che una classe politica imprevidente, tutta intenta a garantire la propria sopravvivenza, non era stata in grado di calcolare. Il conflitto tra politica e magistratura nasce proprio da qui, dal tentativo della 17

politica di ritirare la «delega» che essa stessa aveva dato alla magistratura. Davvero un comportamento da apprendista stregone. Quella delega, infatti, era stata attribuita in tempi in cui, da un lato, si faceva affidamento sui tempi lunghi della giustizia – un dato, questo, rimasto costante; dall’altro, però, si contava su altri due fattori che le vicende degli anni successivi hanno progressivamente smantellato: la possibilità di continuare ad usare l’immunità parlamentare come strumento per respingere qualsiasi iniziativa della magistratura; e la complicità di alcuni uffici giudiziari. L’immunità parlamentare venne travolta dall’onda di Mani Pulite, abbattutasi su di un Parlamento attonito, che improvvisamente si accorse di aver creato esso stesso le condizioni di indifendibilità di quell’istituto di garanzia, abusandone in ogni modo (si respingevano persino le richieste di autorizzazione a procedere della magistratura in casi di guida senza patente). E al posto della procura di Roma, «porto delle nebbie» dove si facevano docilmente approdare inchieste imbarazzanti perché se ne perdesse la memoria, ecco comparire la procura di Milano, ben diversamente consapevole dell’autonomia e dell’indipendenza che la Costituzione indica come attributi di una vera magistratura. La politica si è così trovata improvvisamente nuda, priva delle risorse indispensabili per la sua legittimazione, prigioniera della trappola in cui si era cacciata per sua propria, imprevidente scelta. La «giurisdizionalizzazione» della politica nasce appunto dal congiungersi di una serie di fattori, che smagliano una rete di protezione pazientemente, e impudentemente, costruita. Senza il presidio dell’immunità parlamentare, senza gli abituali 18

collateralismi di pezzi della magistratura, dopo la volontaria rinuncia a rendere possibile la responsabilità politica e l’allontanamento da sé d’ogni pubblica moralità, ecco che il ceto politico sbanda, e le sue parti più compromesse altra via non trovano che quella di azzannare ferocemente quella magistratura alla quale, per propria convenienza, si erano volontariamente consegnate. Le risposte polemiche, spesso dettate dalla disperazione, valgono poco. Ci si è chiesti dove fosse la procura di Milano quando già erano noti alcuni dei fatti che poi furono al cuore di Tangentopoli. Un solo esempio. Prima del fatidico 17 febbraio 1992, data di nascita di Mani Pulite, la procura di Milano aveva indagato il socialista Antonio Natali, gran maestro delle tangenti milanesi che avevano coinvolto tutti i partiti. Dopo il suo arresto, Bettino Craxi lo aveva visitato in carcere e lo aveva poi fatto eleggere in Senato dove, nel maggio del 1990, era stata respinta la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti, avanzata appunto dalla procura di Milano. Adolfo Beria d’Argentine, allora procuratore generale, così commentava la vicenda: «Questi erano i sistemi con i quali l’esecutivo disinnescava l’azione dei giudici. Ce ne sono stati altri, anche più pesanti». Cambiato il clima, gli inquirenti milanesi poterono finalmente svolgere il lavoro al quale si erano a lungo preparati. E, senza pretendere di fare la storia con i se, sembra giusto chiedersi che cosa sarebbe accaduto se quei magistrati avessero potuto concludere le indagini nei tempi giusti, sì che non vi sarebbe stata contemporaneità tra le iniziative giudiziarie contro Tangentopoli e il terremoto politico seguito alla caduta del Muro di Berlino, con gli inevitabili suoi effetti sul sistema politico italiano. 19

Inoltre, per criticare i comportamenti della magistratura, si è proposta una ricostruzione idilliaca della sua storia, una sorta di «età dell’oro» in cui trionfava l’indipendenza dal potere politico, interrotta dall’irrompere di «pretori d’assalto» e di «toghe rosse». Ma tutta la ricerca storica ha messo in evidenza come, per un insieme di fattori, dall’Unità in poi si fosse determinata una forte politicizzazione della magistratura, per i suoi legami anche istituzionali con l’esecutivo. Legami sopravvissuti alla stessa entrata in vigore della Costituzione repubblicana, con una perversa continuità che cominciò ad essere spezzata a metà degli anni Sessanta, proprio grazie ad un rinnovamento culturale interno al mondo della magistratura, che avviò un benefico processo di rottura di un altro mostruoso connubio: quello che, in troppi casi, aveva avvinto politici e magistrati. Ricordo questi esempi non per proporre un’opposta versione angelicata della storia della magistratura, ma per cercare di mettere meglio a fuoco la questione del rapporto tra politica e giustizia. Ho già sottolineato come il tentativo di strumentalizzare la magistratura per allontanare il giudizio dai politici si sia rivoltato contro chi lo aveva pazientemente messo a punto. Aggiungo ora che la critica ai provvedimenti della magistratura rimane un punto fermissimo, indispensabile per lo stesso funzionamento della magistratura. E che proprio intorno a questo tema, nel 1969, i magistrati si divisero in quanto rivendicavano anche per loro stessi il diritto di criticare i provvedimenti dei propri colleghi. Ma esiste una differenza profonda tra le critiche, anche assai aspre, in particolare degli anni Settanta e Ottanta e quelle che oggi occupano la scena pubblica ad opera del centrodestra e dintorni. 20

Allora si tenne sempre ferma la distinzione tra i singoli magistrati e la magistratura come potere giudiziario. Oggi, invece, le critiche a specifici provvedimenti o singoli magistrati sono costantemente accompagnate dal centrodestra con una radicale messa in discussione dello statuto dell’intera magistratura, anche se si fa qualche distinguo ipocrita parlando di una sua parte «buona», che però verrebbe anch’essa travolta qualora avessero successo gli assalti frontali che si ripetono da anni. L’intento è chiaro. I casi singoli forniscono l’occasione per cercare di «normalizzare» il controllo giudiziario, una volta spento il controllo parlamentare, ridotto quello del sistema dell’informazione, aggredito con i tagli a cultura e scuola quello che si esprime nello spirito critico. Pesanti, in ogni caso, sono stati i prezzi pagati dalla magistratura. Il protrarsi negli anni dell’attacco frontale ha obbligato i magistrati ad una estenuante guerra di trincea, ed ha finito col logorarli. Obbligati a difendersi, hanno visto ridursi anche gli spazi di elaborazione culturale che avevano permesso di liberare la magistratura dalla soggezione alla politica. Una elaborazione che, con il mutare dei tempi, è sempre più necessaria, perché si sono oggettivamente allargati, ovunque, ruolo e funzione della giurisdizione. Ed è evidente che un tema così impegnativo, e direttamente legato con la concezione della democrazia, non trova le condizioni propizie a una serena discussione quando ogni sottolineatura dell’importanza dell’attività giudiziaria è immediatamente travisata e polemicamente aggredita per una asserita sua intima vocazione a contrapporsi alla sovranità popolare. In questo deserto non v’è spazio per l’etica pubblica, per l’esercizio concreto della moralità persona21

le, e per la stessa politica. E, infatti, la responsabilità politica è scomparsa. Certo, si tratta di uno strumento scomodo, prima che impegnativo, perché si fonda sul «giudizio dei pari», sull’obbligo della politica di giudicare se stessa attraverso il giudizio sui singoli politici. Ma si tratta di una risorsa dalla quale la politica non si può impunemente separare. Perché, in altri paesi, l’establishment politico è impietoso nei confronti dei suoi membri che tengono comportamenti che ne incrinano, sia pure marginalmente, l’immagine? È effetto del moralismo l’espulsione dal circuito degli incarichi pubblici del ministro tedesco autore di un plagio per la sua tesi di dottorato, del presidente della Bundesbank reo di essersi fatto pagare il soggiorno di una notte in un grande albergo di Berlino, del deputato inglese che ha destinato qualche sterlina del suo fondo pubblico per noleggiare una cassetta pornografica, del candidato alle primarie per le elezioni alla presidenza degli Stati Uniti costretto ad una ritirata precipitosa per quella che qui chiameremmo bonariamente una «scappatella» extraconiugale? L’elenco potrebbe essere assai più lungo, ma la sostanza non cambierebbe. Se un ceto politico non vuole trasformarsi in una «casta» deve mantenere legittimazione pubblica e fiducia dei cittadini. Non consoliamoci invocando una nostra presunta superiorità, una nostra vocazione a non farci possedere dal moralismo. Guardiamo, piuttosto, a come è andata a finire. La responsabilità politica riguarda il modo in cui la persona ha esercitato un potere che gli è stato attribuito. Può scattare, deve scattare, anche quando non vi sia una responsabilità penale, per il solo fatto di essersi comportati in maniera contrastante con la correttezza legata all’esercizio di una carica, alla gestione di un affa22

re di Stato, al maneggio del pubblico denaro. È per questo che l’articolo 54 parla di «disciplina» e, soprattutto, di «onore», dunque di etica pubblica, non di codice penale. Per questo è inaccettabile l’assoluzione politica fondata sulla formula «nulla di penalmente rilevante». Che, peraltro, è una formula traditrice, perché lascia intendere che possa esserci qualcos’altro che, pur non avendo i caratteri del reato, tuttavia non è coerente con il modo in cui il potere dovrebbe essere esercitato. Ai vecchi tempi v’era una frasetta che portava almeno alla stigmatizzazione sociale di chi viveva «ai margini della legge». Oggi la frontiera tra legalità e illegalità viene continuamente e allegramente attraversata da truppe sempre più numerose, tra il plauso di chi si bea d’una definizione della politica come «merda e sangue», che è una maniera per svilire la questione, serissima, della politica come forza. Siamo nel cuore del groviglio ricordato prima. Prima di arrivare al reato esiste una intera gamma di comportamenti politici meritevoli di una sanzione, che può avere gradazioni diverse. Le dimissioni dalle cariche infedelmente esercitate, l’espulsione dal partito o movimento o associazione o gruppo, l’esclusione da ogni futura candidatura elettorale o da qualsiasi funzione pubblica, le esplicite scuse. La responsabilità politica contribuisce così a segnare un confine, e individua pure lo spazio proprio dell’iniziativa della magistratura. Se la politica fa la sua parte, ha maggiore legittimazione anche nel suo dialogo con i giudici. Altrimenti lo stesso processo penale risulta caricato di aspettative improprie, poiché si presenta come l’ultima spiaggia, come l’unico luogo e l’unica opportunità per chiarire il modo d’essere di politica e politici, per rispondere in maniera 23

compiuta alle questioni che definiscono la personalità del politico imputato. È del tutto naturale che, in questa lunga attesa, l’opinione pubblica accompagni istruttoria e processo con una attenzione che non è semplicemente rivolta, come dovrebbe essere, ai soli aspetti penalmente rilevanti, ma anche a tutti quelli che le cronache hanno lasciato in una sorta di limbo, aspettando che la luce della sentenza definitiva (dieci anni dopo? mai, per l’intervenuta prescrizione?) dia a ciascuno di essi il giusto significato. Un magistrato intelligente ha detto che questa lunga durata, questo accumulo di attese infinite, finiscono con l’attribuire al momento giudiziario un prevalente valore «sociologico», dissociato com’è dalla possibilità di adempiere alla sua funzione propria, l’accertamento di una responsabilità penale personale. Tutte queste distorsioni scomparirebbero, o sarebbero comunque fortemente ridimensionate, se l’accertamento tempestivo della responsabilità politica avesse già sgombrato il campo da una serie di questioni. A maggior ragione questa logica dovrebbe valere nei casi in cui l’aspetto giudiziario sia del tutto assente. La fin de non-recevoir del «nulla di penalmente rilevante», infatti, non risolve il problema della eventuale presenza del comportamento non «onorevole», dell’indegnità morale, testimoniati dal modo in cui un potere è stato esercitato. Con questa «eccedenza» si misura la responsabilità politica, che non si può eludere. Per questo gli establishment politici ricordati prima sono così attenti e reattivi su questa mobile frontiera, perché dalla maniera in cui reagiscono dipende la loro stessa legittimazione sociale. Ma qui s’incontra l’altro ostacolo al pubblico riconoscimento d’una responsabilità – la difesa della pri24

vacy. Sacrosanta, ma di cui si è abusato, cercando di trasformarla in bastione di posizioni indifendibili. Le caratteristiche di questo atteggiamento sono diverse dai casi appena esaminati, dove i fatti erano noti, ma di essi non si voleva tener conto. Ora è alla stessa pubblica conoscenza dei fatti che ci si oppone. È legittimo? Cerchiamo la risposta in una norma chiarissima, nell’articolo 6 del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, che non è una serie di benevoli consigli a chi si muove nel mondo dell’informazione, ma un insieme di vere e proprie norme giuridiche. Le parole di quell’articolo sono chiarissime: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie e i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Insisto: alcun rilievo. E ciò vuol dire che in questi casi vi è una ridotta aspettativa di privacy, che l’interesse pubblico alla conoscenza prevale su quello privato alla riservatezza. Perché una limitazione così pesante? Perché la democrazia non è semplicemente «governo del popolo», ma «governo in pubblico». Perché la democrazia esige che tutti i cittadini siano messi in condizione di partecipare al governo della cosa pubblica, in primo luogo come titolari di un potere di controllo diffuso, fondato proprio sulla conoscenza. Perché «la luce del sole è il miglior disinfettante», come diceva, con una espressione che è diventata quasi un proverbio, il giudice americano Louis Brandeis, riferendosi proprio alla necessità della trasparenza come strumento principe per la lotta alla corruzione. È evidente, allora, che le informazioni che possono e devono essere rese pubbliche non sono soltanto quelle 25

penalmente rilevanti, ma tutte quelle che consentono l’esercizio del controllo da parte dei cittadini. Prima si è potuto distinguere tra responsabilità penale e responsabilità politica. Ora la distinzione riguarda la responsabilità penale e quella sociale, attivata dalla collettività, dall’opinione pubblica. Il groviglio comincia a dipanarsi. E proprio perché la responsabilità sociale è rimessa alle molteplici valutazioni e iniziative dei cittadini – non votare più un candidato, sbattere in strada piatti e bicchieri per far dimettere un sindaco, diffondere le informazioni in rete –, giocano le loro sensibilità, i loro principi. In sintesi, il modo in cui tutti e ciascuno interpretano l’etica pubblica, costituendosi così in soggetti portatori di una moralità non affidata né al tribunale esterno dei giudici, né al tribunale interno della politica. Non è una aggressiva giustizia di popolo, non sono le tricoteuses sedute sotto la ghigliottina in attesa che cadano le teste. È la voce dell’opinione pubblica democratica che entra a far parte di un concerto che consente di tenere insieme politica, legalità, moralità. Possono così essere sciolti i legami pericolosi che uniscono rifiuto dei controlli e accettazione dell’immoralità. Quanto al peccato, questo davvero appartiene ad un altro ordine di valutazioni, riguarda il rapporto tra regola che ciascuno si dà e dimensione trascendente dalla quale la regola viene attinta. Per questo mi sembra impropria la richiesta politica rivolta alle autorità religiose di condannare o assolvere determinati comportamenti politici. Questo è nelle loro facoltà, rientra nel loro magistero, e in questo senso il dialogo con il popolo dei credenti diventa uno degli elementi che possono potentemente contribuire alla costruzione di un’etica civile, così come può divenire elemento pericolosamente disgregante 26

quando quelle autorità producono acquiescenza, collateralismo, convenienza. Diverse sfere dell’agire si manifestano con intrecci che a qualcuno possono apparire sorprendenti, ma che appartengono invece alla ridefinizione ormai incessante dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata. Assistiamo ad una pubblicizzazione della sfera privata, quando ciò è indispensabile perché la democrazia possa funzionare senza che si creino zone di opacità che precludono, insieme, la conoscenza e il controllo: tra l’altro, o forse in primo luogo, Internet ci ha aperto un’altra dimensione, e dobbiamo frequentarla. Assistiamo, invece, a una inammissibile privatizzazione della sfera pubblica, non solo attraverso il brutale impadronirsi delle risorse comuni per soddisfare interessi privatissimi, ma anche, e forse soprattutto, perché le istituzioni vengono intensamente piegate al tentativo, mai abbandonato, di creare una rete di protezione rinnovata e più resistente a tutela di corrotti, corruttori, immorali. Le mosse le conosciamo. Leggi ad personam, bavagli all’informazione, azzeramento d’ogni controllo. Una inquietante fenomenologia italiana che, al di là delle sue specifiche manifestazioni, è testimonianza di un degrado culturale prodotto dall’associazione tra prepotenza politica e, appunto, cattiva cultura. Questo lascito durerà a lungo. Al di là di auspicati mutamenti politici, serviranno tempo e forza morale per risalire una china che si fa ogni giorno più ripida. Tutto questo è avvenuto in un contesto in cui la politica aveva allontanato da sé la responsabilità di fare i conti con il cambiamento, con un’altra astuzia, la conversione dell’intera questione politica in questione istituzionale, i cui frutti avvelenati sono già stati ricor27

dati parlando della tesi secondo cui riforme volte all’alternanza di governo avrebbero eliminato alla radice le cause della corruzione. Molte commissioni bicamerali per la riforma della Costituzione, poche o del tutto assenti le iniziative per restituire a politica e partiti una capacità di rinnovamento della democrazia nel profondo mutamento dei tempi. E questa è una vicenda che non piomba sulla società italiana dopo le iniziative della procura di Milano al tempo di Mani Pulite. Covava da tempo nel cuore del sistema politico-istituzionale. Le autocitazioni sono sempre poco eleganti. Ma le parole da me pronunciate alla Camera dei deputati il 19 giugno 1991 vennero poste da Giampaolo Pansa a conclusione del suo libro Il regime, per descrivere il clima dell’epoca: «Questi sembrano tempi propizi a dire che tutto deve essere dimenticato. L’antifascismo e Gladio. Le stesse leggi dello Stato che hanno condannato la P2. La cultura delle garanzie e il detestato Sessantotto. C’è in giro una gran voglia di rivincita. Si prepara una restaurazione e la chiamano riforma costituzionale. Come ogni restaurazione che si rispetti, irresistibilmente assume caratteri reazionari. E come ogni reazione che si rispetti, è destinata a incontrarsi con il potere personale». Così sono andate le cose, all’insegna di un realismo che spegneva, insieme, politica e moralità. Possono essere utili a questo punto due riflessioni finali (ma non conclusive). La prima riguarda il fatto che più d’uno, anche legittimamente, potrebbe risentirsi per l’insistito riferimento ad una generica «politica», che non distingue tra buoni e cattivi, coinvolge tutti nella stessa maniera, e così dà una mano all’incombente antipolitica. Spiego questa scelta in un modo molto semplice. Da anni conviviamo con vizi privati senza 28

pubbliche virtù, ma questa lunga convivenza non è stata contrastata con tutta la determinazione necessaria, non è entrata tra le priorità, non campeggia nell’agenda politica di questo e di quello, perché le convenienze premono e pertanto diventa comodo liberarsi d’ogni imperativo con l’argomento «non si può cedere al moralismo», che si presenta in micidiale accoppiata con l’altro, già ricordato, «non è questione penalmente rilevante». E così ci si autoassolve. E così si attende, si delega, si assiste ai crolli, si trasferiscono le responsabilità all’esterno. È pericoloso, ad esempio, costituire i magistrati come «custodi della virtù», quando si fatica sempre di più a ritrovare in casa propria una vera, convinta professione di virtù, non affidata ad un ambiguo cielo di valori, ma calata nella faticosa prassi d’ogni giorno. Qui è la radice d’un conflitto tra politica e giustizia che non si affronta con mosse soltanto istituzionali, riforme o restaurazioni che siano. La politica perde se stessa fino a che non torna a farsi politica «costituzionale», nel senso pieno del termine, dunque capace di cogliere qualcosa che la proietti al di là della pura forza, e le consegni un supplemento di legittimazione. E questa è una mossa che riguarda e impegna la politica in quanto tale, l’antidoto vero ad una antipolitica che non si combatte accettandone la logica e pensando così di addomesticarla. Detto questo, la seconda riflessione potrebbe anche essere omessa, se il moralista rinunciasse, alla fine, a riaffermare prepotentemente la propria identità. Ma, percorrendo i molti sentieri qui indicati, si inciampa sempre nel problema del modo in cui la stessa politica riesce a manifestare la sua forza e a legittimarsi nella società. Serve un’energia profonda, che può nascere solo dalla convinzione di una politica che non si autolegitti29

ma, e dunque può essere qualsiasi cosa. Il consenso, che concretamente deve accompagnarla, esige l’esistenza di progetti nei quali sia possibile riconoscersi, e nei quali si condensi una esigenza condivisa. Un public commitment, un impegno che ci riscatti e ci costituisca come parte attiva di una comunità politica, non può nascere soltanto da una registrazione di rapporti di forze. Deve essere sorretto dai fuochi che possono sprigionarsi dalla trasformazione dei principi costituzionali in una spinta insieme politica e morale, che riscatti tutti dalla «stanchezza civile» e renda ineludibile quell’inflessibile controllo di legalità che è la sola via per evitare che tutti, nella politica, siano considerati perversamente eguali. Quando si associa alle virtù civiche, il moralismo diventa una potente risorsa, che vale la pena d’impiegare con convinzione.

Quando morì la moralità pubblica

Nella seconda metà degli anni Ottanta appariva sempre più nitida, per chi avesse voglia di vederla, la presenza di una corruzione diffusa, che attentava ormai al funzionamento stesso della democrazia. Rispetto al tempo precedente, v’era non solo un mutamento quantitativo, ma qualitativo. Come già si è detto, si esibiva la corruzione come fatto da accettare politicamente, si cercava persino di darle qualche giustificazione «etica», si pretendeva che la società la metabolizzasse. Mani Pulite fu un brusco risveglio, ma non fu in grado di avviare un ciclo virtuoso. La politica subì quella vicenda, ma non volle trarne le giuste conseguenze. Via via che si accreditava la tesi di un golpe giudiziario, si perdeva la sostanza dell’iniziativa della magistratura: il ritorno alla legalità. E così, al riparo di questa deformazione della storia, tornarono gli usati costumi e vennero alla ribalta vecchi e nuovi saccheggiatori di risorse pubbliche, nuove e miserabili generazioni di rampanti. È la storia recente, e non conclusa. Le pagine che seguono vogliono essere una piccola documentazione delle diverse fasi: la diagnosi della situazione prima ancora dell’avvio di Mani Pulite (Tempo 31

di scandali, 1991); una proposta, inascoltata, per una iniziativa pubblica della politica (Un’assise sulla corruzione, 1992); una riflessione sconsolata sulla continuità delle abitudini illegali (Una continuità perversa, 1997). TEMPO DI SCANDALI Già nelle cronache degli anni Ottanta comparivano storie di ordinaria corruzione. In esse non si rifletteva una patologia, ma quella che ormai stava diventando (era già diventata?) la fisiologia dell’intero sistema politicoamministrativo dell’Italia repubblicana. Sono da tempo convinto che di queste cronache abbiamo grandissimo bisogno, per sottrarre i fatti che narrano alla dimenticanza, alla vita effimera d’una pagina di giornale o a quella, inaccessibile per i più, di un atto giudiziario. Solo così si può mostrare come il singolo scandalo, conosciuto magari distrattamente attraverso il racconto d’un processo, non sia un caso eccezionale, ma la rivelazione d’una abitudine, di un tessuto di relazioni tutte identiche, in una parola d’un costume politico che si candida ad essere l’unica ineludibile legge di questo paese. La corruzione si è fatta da tempo metodo di governo. Negli ultimi anni è divenuta qualcosa di più: cultura diffusa, che ispira comportamenti politici e stili di vita di un’intera classe dirigente politica, amministrativa, imprenditoriale, la quale ostenta con durezza i panni del realismo e disprezza il moralismo. Corrotti e corruttori possono essere scoperti. Ma diventa sempre più difficile rivolgere verso di essi una vera riprovazione sociale. Perché tutto questo sta avvenendo, è avvenuto? Ci sono ragioni specifiche del nostro paese, ed altre che ci 32

accomunano, non onorevolmente, a quel che sta accadendo pure altrove. Non basta un riferimento all’ampiezza della corruzione per cogliere qualità e caratteri della vicenda italiana. Ci sono paesi di lunga tradizione democratica che da sempre convivono con una corruzione politica e amministrativa non indifferente, che conoscono i legami tra politici e gruppi di pressione, e tuttavia non hanno visto crescere la qualità della corruzione fino a divenire uno dei segni distintivi del sistema politico. Questo perché in quei paesi sono ancora in onore due criteri, quello del «si fa, ma non si dice» e quello della difesa della rispettabilità formale della classe dirigente. Il primo sarà pure ispirato ad una detestabile ipocrisia, ma almeno non porta alla pubblica giustificazione del vizio. Inoltre, le classi dirigenti, per sincera abitudine o vecchia furbizia, sanno di dover mantenere una sia pur minima legittimazione di fronte all’opinione pubblica così che, magari per puro istinto di autoconservazione, reagiscono espellendo dal loro seno almeno i responsabili dei comportamenti più scandalosi, anche quando ricoprono altissime cariche politiche. In Italia, no. Il nostro ceto di governo ha via via sviluppato una attitudine esattamente opposta. Ha badato alla propria coesione interna, più che alla sua rispettabilità pubblica. E così ha fatto quadrato intorno ai propri ladri, malversatori, tangentari, procacciatori, finanziatori. Ha rifiutato di accettare la distinzione, ovvia, tra accertamento giudiziario di un reato e comportamenti che, sia pure sfuggiti in qualche modo tra le maglie della giustizia, rimangono politicamente inaccettabili, ed ha mantenuto al loro posto anche persone colpite da un paio di condanne, sebbene non definitive, o assolte in modi acrobatici. Ha trasformato in indebita persecu33

zione la sacrosanta richiesta di non affidare la gestione di pubbliche risorse a chi sia stato sospettato di attività illecite. Ha urlato contro le opposizioni che invocano pulizia. Ha presentato come disturbatore o irresponsabile chi adempiva all’ovvio dovere di denunciare i casi di corruzione (ne sa qualcosa Diego Novelli per non essersi arreso alla corruzione torinese). E così ha mantenuto al loro posto, o reintegrato allegramente o riciclato in maniera vantaggiosa, personaggi che qualsiasi sistema politico democratico avrebbe espulso senza esitare. Ma questo ceto di governo ha fatto di più. Ha prodotto teorizzazioni che dovrebbero provare la modernità piena, e dunque la superiorità, di un atteggiamento che non si attarda nel cercare di scoprire e colpire la corruzione, ma va dritto verso obiettivi di efficienza. Personaggi autorevolissimi hanno divulgato senza pudore la «metafora del supermercato»: il gestore di un supermercato sa benissimo che molti frequentatori rubano o rubacchiano. Ma sa altrettanto bene che servizi di controllo e apparati di sicurezza non riusciranno mai ad evitare del tutto i furti. E che un controllo troppo rigido sulle persone, con perquisizioni o simili, rischierebbe di allontanare i clienti da quel supermercato. Ecco, allora, che l’accorto gestore contabilizza i furti, e ne scarica l’incidenza sui prezzi. Profitti e immagine sono salvi, all’insegna del calcolo economico e del realismo. Questa lezione della «modernità» manageriale dovrebbe essere messa a profitto anche dalla classe politica, che dovrebbe spogliarsi di moralismi arcaici e andare dritta allo scopo, senza preoccuparsi troppo se briciole o intere forme di pane finiscono in qualche impropria bisaccia. Per questo ho usato un termine come «cultura». Senza tutto questo apparato di comportamenti e di giu34

stificazioni sarebbero inesplicabili le molte vicende di tutti questi anni, che si sono venute componendo in un grande collage, dove si colgono impreviste connessioni, schemi collaudati d’azione, esercizio tracotante del potere, sicurezza d’impunità. Tutto questo impressiona, ma non suscita la necessaria indignazione. Una corruzione così penetrante, avvolgente e dichiarata produce sicuramente un effetto di mitridatizzazione, ed ha coinvolto una schiera sempre più larga di persone nella politica delle tangenti e delle piccole mance, alle quali non si è disposti a rinunciare perché compongono ormai redditi ordinari e connotano stili di vita. E v’è una ragione più generale, e davvero non soltanto italiana. L’irresistibile fascino della corruzione è alimentato da un modello che misura tutto con il denaro. Un denaro che, sciolto da ogni criterio o moralità, «impazzisce». La Germania assiste sconsolata ai suoi scandali finanziari, la Francia è attonita perché il denaro insidia le virtù repubblicane e spinge pure i grands commis verso le più pingui rive dell’imprenditoria privata. In altri paesi, tuttavia, la capacità di reazione non è perduta. Ne fanno fede la rapida e severa giustizia che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno saputo esercitare contro le manifestazioni più spregiudicate della speculazione finanziaria. Da noi tutto è molle, gli speculatori hanno solidi legami con il ceto di governo, quando addirittura non ne fanno parte, e a qualcuno può anche arridere la ventura d’essere additato come salvatore della patria. Aggiungo che la stessa metafora del supermercato non funziona, si rivela l’ennesimo imbroglio. Troppe vicende mostrano che la corruzione non va a braccetto con l’efficienza, che non è un modo per oliare i cardini arrugginiti della burocrazia o della politica. È divenuta 35

motore di inefficienza, di privatizzazione delle risorse, di sottrazione di energie e mezzi a imprese collettive. Ha creato rapporti tra politica e affari, tra politica e amministrazione sempre più distruttivi non solo delle regole, ma dello stesso costume civile. Si dirà che non tutti i componenti del nostro ceto politico si comportano in questa maniera. Ed è vero. Ma la loro colpa è quella di essere vittime del realismo, di coltivare l’omertà di partito, di essere prigionieri della logica «ma così si fa il gioco degli avversari». Qualche sussulto di dignità, qualche pallida dissociazione pubblica sono la prova di onestà personale, non dell’affiorare di comportamenti politici che possono far sperare in una pacifica rivolta contro la corruzione. Riflettendo su tutto questo, si capiranno anche le ragioni di continue e forsennate campagne contro i giudici che, travestite talvolta da gridi di dolore per le condizioni dell’amministrazione della giustizia, cercano in realtà di azzerare il controllo giudiziario. Che, bene o male, rimane ancora uno dei pochissimi strumenti in grado non dico di fronteggiare, ma almeno contrastare qualche volta i protagonisti di questo spudorato modo d’intendere la gestione del potere. In un tempo in cui l’etichetta della «governabilità» è usata per coprire qualsiasi prevaricazione, e si trasforma nella richiesta di avere mano libera, qualsiasi forma di controllo diventa inaccettabile, quello dei giudici come quello del Parlamento o dei mezzi d’informazione. Ma la giustificazione della corruzione, o meglio la sua legittimazione, segue ormai strategie più sottili. Considerata uno dei tanti frutti di un sistema politico bloccato («fiorisca l’alternativa, e pure la corruzione sparirà»), ha fatto in modo di rinviare ad altri tempi e 36

ad altre stagioni politiche una lotta efficace contro corrotti e corruttori, quasi che le regole del codice penale fossero divenute anch’esse – per effetto del blocco del sistema politico – inapplicabili. Troppe cose, insomma, inducono a temere che neppure le denunce documentate riescano a produrre l’indignazione che muove le montagne. C’è il rischio, anzi, che di fronte ad un panorama così largo e così desolante qualcuno si convinca che davvero non si può far nulla. E tuttavia buone azioni civili devono essere fatte, senza preoccupazioni, senza badare alla convenienza. Quando illegalità e abusi vengono documentati, c’è sempre la speranza che qualcuno almeno si vergogni; e che altri comincino a rendersi conto che proprio da qui deve iniziare una reazione e che la ricostruzione della moralità pubblica è, oggi, il più ricco dei programmi politici e la più grande delle riforme. UN’ASSISE SULLA CORRUZIONE L’inchiesta milanese sulle tangenti ha imboccato la strada, tutt’altro che imprevista, delle alte responsabilità politiche. Se questa linea sarà confermata, si potrà stabilire quali partiti abbiano avuto un ruolo da protagonisti in queste vicende. Cominciano, comunque, a delinearsi livelli di coinvolgimento e di responsabilità tra loro assai diversi. E questo è il momento di iniziative chiare e coraggiose. Durante la riunione della direzione, e prima degli ultimi arresti milanesi, avevo proposto che il Pds convocasse al più presto una sorta di assise nazionale sulla corruzione, con una larga partecipazione degli ammi37

nistratori locali. Non sono così sciocco da credere che basti una riunione pubblica per mutare clima e comportamenti. Ma sono sempre più convinto della necessità di affrontare in modo esplicito e globale il tema della corruzione, ormai divenuto questione politica determinante, e non solo in Italia. Basta riflettere su vicende recentissime di Francia, Spagna e Germania per avere una conferma di tutto questo e per rendersi conto della gravità del dilagare di un fenomeno che incrina la fiducia nella democrazia e ferisce soprattutto l’immagine dei partiti di sinistra, intimamente e polemicamente legata a un’idea di governo nell’interesse generale, di dedizione ad una «causa» e, quindi, di disinteresse personale. Non è certo per caso che il nuovo primo ministro francese, il socialista Pierre Bérégovoy, abbia cercato di rispondere al malessere della società anche con la costituzione di una «commissione per la prevenzione della corruzione», che dovrà presentare le sue prime proposte già il prossimo 25 giugno. Insisto, allora, sulla mia proposta e cerco di renderla almeno più comprensibile. Un partito come il Pds –  che non è tra i produttori dell’attuale cultura della corruzione, anche se da essa non è rimasto interamente al riparo – non può limitarsi a sacrosante operazioni di isolamento dei corrotti, usando una durezza che altri partiti si guardano bene dall’adoperare. Deve riconoscere, nel modo più solenne e pubblico, la gravità del problema, analizzarlo senza reticenze, proporre rimedi, ma soprattutto indicare comportamenti politici adeguati. E poiché queste ricette devono valere innanzitutto per sé, deve riconoscere che la lotta alla corruzione rappresenta ormai un obiettivo politico preminente, al quale devono essere subordinati tutti gli 38

altri, compreso quello della sopravvivenza dei governi locali di sinistra. Negli anni passati, infatti, via via che cresceva la consapevolezza del dilagare della corruzione, prendevano piede due atteggiamenti: uno difensivo, per cui la corruzione era solo affare degli altri; e l’altro di realismo politico, che portava a giustificare il silenzio di fronte ai comportamenti scorretti dei compagni di giunta o di cordata in nome del superiore interesse a stare nei governi locali o a non essere esclusi da vicende politicamente o economicamente importanti. Ci si illudeva che la propria purezza avrebbe evitato il biasimo e le tentazioni. Chi ragionava diversamente rischiava di passare da ingenuo o moralista. Per carità, non che non si avvertisse la degradazione terribile. Ma si stentava a credere che la questione morale sopravanzasse davvero tutte le altre. E alla ricerca di una spiegazione di una corruzione così massiccia, si accettava la tesi che tutto fosse imputabile alla mancanza di ricambio nel sistema politico, sicché l’intera questione finiva con l’essere affidata ad una futura riforma elettorale. Tesi, questa, vera solo in parte, e che, comunque, non spiega la profonda corruzione nei comuni, dove l’alternanza tra diversi schieramenti politici funziona da quasi vent’anni. E che ha finito con l’offrire un alibi a chi era riluttante ad affrontare subito il problema, quasi che il blocco del sistema politico avesse reso inapplicabili pure le norme del codice penale. Così, non si è visto quel che era sotto gli occhi di tutti, e cominciava ad apparire nei libri. Sulla «Milano degli scandali» di libri ne sono stati scritti ben due. Chi li ha letti, chi ne ha scorso l’indice dei nomi? Per uno di quei libri scrissi la prefazione: e a qualcuno, pure nel Pds, sembrò che 39

lo scandalo non fosse nei fatti denunciati, ma in quelle mie pagine indignate e sfiduciate. Oggi la crosta protettiva del gran sistema della corruzione comincia a rompersi. La complicità diffusa, che aveva assicurato consenso e tenuta a quel sistema, si sta rovesciando in una ripulsa sociale della quale già si sono misurati gli effetti nelle ultime elezioni. Nasce così un problema politico: offrire a quella protesta la possibilità di uno sbocco diverso da quello leghista. Ed un problema istituzionale: far sì che l’azione della magistratura possa proseguire al riparo da qualsiasi condizionamento. Come altre volte nella storia di questa Repubblica, sono stati i vituperatissimi magistrati a ridare respiro alla democrazia, a lasciarci almeno credere che l’illegalità non è destinata inevitabilmente a prevalere. Ma provate a immaginare che fine avrebbe fatto l’inchiesta di Milano se i giudici che indagano fossero stati sottoposti – come qualcuno continua a chiedere – a qualche forma, sia pure indiretta, di controllo politico. Si muova, dunque, il Pds. Ripeta a voce altissima, mentre si parla di programmi di governo, che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non si toccano. Faccia parlare i suoi amministratori e, dove esistono situazioni sospette, non esiti a tirarsene fuori. Dimostri con i fatti di meritare un nuovo consenso, e chieda ai cittadini di accompagnarlo nella difficile impresa di restituire moralità alla politica.

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UNA CONTINUITÀ PERVERSA Che cosa siano stati gli anni Ottanta in Italia continuano a raccontarcelo le squallide cronache degli anni successivi. E da lì bisogna sempre partire, da quelle radici mai del tutto recise, per comprendere davvero che cosa accade oggi. Allora venne lanciato un richiamo, «Arricchitevi!», e risposero in massa politici e faccendieri, amministratori pubblici e imprenditori privati, magistrati e generali. Quando si vorrà dare un nome a quel periodo, si dovrà dire che in quel tempo morì la moralità pubblica in questo paese. Non fu soltanto la corruzione a diffondersi. Furono il sistema che la sorreggeva e la legittimazione che l’accompagnava a conferirle un nuovo e forte statuto sociale. Vennero edificati, insieme, un minuzioso sistema di spartizione di tangenti ed una solida rete di protezione per corruttori e corrotti. In Parlamento erano sistematicamente respinte le richieste di autorizzazione a procedere provenienti da quei pochi magistrati (milanesi per lo più) che non si erano rassegnati ad abbandonare ogni forma di controllo di legalità. Quando ci si chiede perché Mani Pulite cominciò così tardi rispetto al diffondersi della corruzione, sarebbe il caso di riflettere su questa vicenda, come pure sui molti voti con i quali le Camere bloccarono i tentativi di costituire commissioni d’inchiesta su fondi neri e ruberie varie o santificarono i finanziamenti illeciti ai partiti. Una maglia forte di quella rete di protezione fu costituita da una parte della stessa magistratura, volta a volta spettatrice silenziosa o protettrice non disinteressata (lo testimoniano note vicende di alcuni uffici giudiziari e magistrati romani). L’esempio veniva dall’alto. Ministri potenti propo41

nevano ufficialmente e senza pudore la legalizzazione della tangente. Altri diffondevano la metafora del supermercato. Le ricchezze clamorosamente illegittime venivano clamorosamente esibite. Erano segni del potere, e non dell’impudenza: e dunque suscitavano non ripulsa, ma ammirazione e, soprattutto, accettazione. Non si assisteva soltanto alle gesta di quei potenti. Si voleva imitarli, ed essi stessi spingevano all’imitazione, perché così crescevano il consenso sociale alla corruzione e la rete delle complicità. Qualcuno chiamava tutto questo capacità di un ceto politico moderno di non isolarsi, di vivere in sintonia con una società dinamica, ricca e complessa. Certo, la storia della corruzione in Italia non cominciò allora. Il regime democristiano ne era stato impastato. Le accuse a Campilli, lo scandalo delle banane con il ministro Trabucchi, lo scandalo Lockheed che sfociò in un processo davanti alla Corte costituzionale: questi sono soltanto alcuni dei segni di un sistema che si era ben ramificato. Già a metà degli anni Settanta, Cesare Merzagora proponeva una amnistia per i ladri di Stato, illudendosi che un colpo di spugna sul passato avrebbe consentito l’avvio di un’era nuova. Ma fu negli anni Ottanta che si ebbe un cambiamento di registro. L’uso disinvolto delle risorse pubbliche, la commistione tra affari pubblici e privati, in una parola quel furto di Stato che la Dc aveva praticato con ipocrisia, quasi che continuasse ad avvertirne la riprovazione sociale, vennero clamorosamente portati in pubblico dal nuovo Psi, determinando così un vero mutamento culturale. Perché ricordare tutto questo? Perché una volta abbiamo scoperto lo squallore di un generale della Fi42

nanza troppo disinvolto o le gesta di un commercialista con troppe amicizie? La vera ragione è un’altra, e porta con sé un altro interrogativo: oggi la società italiana, il suo sistema politico, stanno davvero producendo anticorpi che possono consentire loro di reagire al ritorno di quelle abitudini? La mia risposta è no. Non metto in dubbio la moralità privata di questo o di quello. Parlo di comportamenti politici, di quelli che si chiamano i «segnali» inviati alla società. E questi non sono confortanti. Le proposte di controllo della magistratura, il fatto di presentarla come protagonista di un grande complotto, le accuse di «accanimento giudiziario» vengono usate per trasformare tutti gli imputati di Tangentopoli in perseguitati politici, con un oblio improvviso dell’indecente e provatissima trama di ruberie di cui furono artefici. Al grido di «così fecero tutti», ormai si esibisce come titolo di merito e d’assoluzione l’aver rubato per il partito, e si propone di depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti. E non ci si avvede dell’enormità di questa affermazione in situazioni nelle quali il finanziamento illecito altera la competizione democratica ed apre la via alle ruberie private. Il clima è questo. Nel mondo politico serpeggia il fastidio: non si può eternamente vivere sotto il peso di un passato che non passa. E una magistratura che tenta ancora di scavare nella corruzione viene spesso presentata come un «soggetto politico» che vuole alterare gli equilibri politici. Ma, così ragionando, non ci si è accorti che stavano riemergendo non soltanto i vecchi attori, ma pure le vecchie abitudini. Che fare? Per ricostruire una moralità pubblica, prima ancora di porre mano a regole più severe, bisogna 43

praticare una sana intransigenza, non difendere ad ogni costo i propri fedeli perché fuori è accampato il nemico, non camuffare i rapporti d’affari intrattenuti dai politici da legittime relazioni professionali o sociali. So che parlare di questione morale disturba. Ma è la grande questione politica aperta e irrisolta. Se davvero la politica vuole riprendere il sopravvento, deve rendersi conto che le sue regole devono essere assai più severe di quelle del codice penale.

Nuova eversione quotidiana

Siamo di fronte a un nuovo dato di realtà: l’eversione quotidiana. Un dato che può essere colto se si riflette su una domanda che molti si sono posti negli ultimi tempi: vi è una differenza tra il tempo di Mani Pulite e la nuova ondata di corruzione che è davanti ai nostri occhi? Questa differenza esiste, ed è profonda. Non siamo soltanto di fronte al prepotente ritorno di una corruzione alla quale l’azione giudiziaria aveva cercato di porre un argine, e che aveva sostanzialmente le sue radici in un bisogno della politica di «approvvigionarsi» di risorse finanziarie, con ovvie contiguità con il mondo degli affari e arricchimenti privati che accompagnavano il flusso di denaro verso i partiti. Oggi le cose sono diverse, e il caso Brancher, tra i tanti, lo illustra nel modo più eloquente. Si è nominato un ministro soltanto per provvederlo di uno «scudo istituzionale» in grado di sottrarlo all’accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Ecco il cambiamento. Mentre i comportamenti del passato rimanevano comunque nell’area dell’illegalità, ora si costruisce una «legalità speciale» che serve a far rientrare in un’area lecita quel che dovrebbe invece rimanerne 45

fuori. Si distorce così il significato del ricorso alla legge, non più garanzia ma scappatoia. E all’ombra di questa legge distorta si pratica l’eversione quotidiana, uno stillicidio di comportamenti che stravolgono il funzionamento delle istituzioni e dell’intera vita pubblica. Certo, si è evitata almeno la conseguenza più scandalosa dell’affare Brancher, il ricorso al legittimo impedimento per sottrarsi al processo, grazie alle proteste dell’opinione pubblica e di una parte del mondo politico, accompagnate in modo decisivo dai potenti anticorpi istituzionali prodotti dall’azione del Presidente della Repubblica. Ma proprio l’intera ricostruzione dei fatti rivela altri aspetti inquietanti, che mettono radicalmente in dubbio la possibilità che Brancher rimanga al suo posto di ministro. Inoltre, questo caso non è isolato, né rappresenta una eccezione, visto che trova la sua origine in una delle più clamorose leggi fatte per la persona di Silvio Berlusconi, appunto quella sul legittimo impedimento. Ma il fondamento della nuova eversione non è qui soltanto, come testimonia tutto quello che è emerso intorno alla Protezione civile, alle grandi opere, alla gestione di vere o presunte emergenze, alla privatizzazione del pubblico perseguita attraverso la creazione di società per azioni. Le vicende scandalose non sono l’effetto esclusivo di «deviazioni» personali. Sono rese possibili proprio dall’esistenza massiccia di una legalità speciale, di leggi congegnate per far crescere l’opacità dei comportamenti pubblici, oltre che di ordinanze sottratte a ogni controllo, che hanno sconvolto il sistema delle fonti del diritto, che hanno creato sacche di oscurità e di arbitrio, denunciate istituzionalmente nelle ultime settimane in particolare dalla Corte dei conti e dall’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. 46

Abbandonata la lotta alla corruzione si è passati alla manipolazione istituzionale, che ha come fine proprio quello di legittimare formalmente comportamenti che ogni giorno cancellano ogni confine tra pubblico e privato, che fanno apparire superflua la moralità pubblica, che consentono tranquille e stupefacenti ammissioni di uso privato del potere da parte di personalità pubbliche. È questa l’eversione quotidiana, che corrompe istituzioni e costume, e fa venir meno quella fiducia dei cittadini che rappresenta il carburante indispensabile per il buon funzionamento della macchina democratica. Se ai tempi di Mani Pulite almeno si tentava di bonificare il terreno sul quale era fiorita la corruzione, oggi il terreno istituzionale viene pazientemente concimato perché comportamenti nella sostanza illeciti possano essere praticati legittimamente e alla luce del sole. Proprio la trasparenza impudica, che sfida con la sua esibizione legalità e rispetto dei cittadini, attribuisce a queste vicende un carattere eversivo. È nato così un nuovo «mostruoso connubio» tra politica, amministrazione e affari, tale da far impallidire quello denunciato nel 1880 da Silvio Spaventa, che vale qui la pena di citare: «La protezione giuridica e la protezione civile, chiamando così tutti gli altri beni che i cittadini hanno diritto di chiedere allo Stato, oltre alla tutela del diritto, dev’essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L’amministrazione dev’essere secondo la legge e non secondo l’arbitrio e l’interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti». La maggior gravità della situazione di oggi, rispetto ai tempi di Spaventa e di Mani Pulite, sta nel fatto che 47

l’eversione quotidiana fa sì che neppure la legge possa essere invocata, non avendo la funzione di perseguire giustizia ed eguaglianza, ma quella, opposta, di offrire impunità e privilegio. Democrazia ed eversione quotidiana non possono convivere. Troppi guasti, tutti italiani, derivano da questa convivenza che dura da troppo tempo.

Senza controllo

VERSO L’ESTINZIONE DELLO STATO La deriva verso una italianissima forma di estinzione dello Stato costituzionale di diritto ha conosciuto in più occasioni una potente accelerazione. Parlo di «deriva» e di «accelerazione» perché si tratta di una vicenda che non è esplosa all’improvviso, che conosce una lunga incubazione e verso la quale non è stata mai elaborata una adeguata strategia di contrasto, politica e culturale. Mai, però, si era manifestata con tanta nettezza, ampiezza e brutalità, mettendo in discussione l’intero impianto dello Stato repubblicano. E l’attacco è frontale, vuole colpire lo stesso patto fondativo della Repubblica: la Costituzione. La Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige una particolare attenzione. Dice l’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la nostra «forma repubblicana» e che non possono essere modificate senza 49

passare ad un regime diverso. È una linea che la Corte costituzionale ha indicato fin dal 1988, quando ha affermato con forza che vi sono «principi supremi» che non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale». Non è vero, dunque, quel che va confusamente ma aggressivamente dicendo il Presidente del Consiglio, quando proclama il suo diritto di imporre qualsiasi cambiamento della Costituzione. Guardiamo alle proposte e alle iniziative. Si vuole passare da una Repubblica parlamentare a una presidenziale. Si vuole passare da un sistema di scelta dei rappresentanti a uno di investitura diretta del premier, con una personalizzazione estrema del potere che assume inevitabilmente caratteri autoritari. Si vuole passare da un sistema di mediazioni istituzionali ad uno che si organizza intorno al rapporto diretto tra capo e popolo, e così assume una innegabile natura plebiscitaria. Si vuole passare da un sistema di separazione dei poteri, di pesi e contrappesi, ad un sistema di concentrazione del potere che sostanzialmente cancella ogni forma di controllo. Si vuole passare definitivamente ad un sistema dove i circuiti istituzionali sono sostituiti da quelli della comunicazione, sì che il controllo totalitario di questi ultimi viene presentato come una necessità perché il governo possa realizzare senza inciampi il suo programma, con l’inevitabile conseguenza che chiunque usi i mezzi di comunicazione per esprimere critiche venga considerato come un oppositore illegittimo perché non accreditato dal voto popolare. In definitiva, si vuole passare ad un sistema che concentra la legittimazione politica in un solo luogo, nelle mani del premier. E in questo modo si vanificherebbero anche le garanzie delle libertà e dei 50

diritti contenute nella prima parte della Costituzione, che ipocritamente si dice di non voler toccare. Ho elencato sinteticamente l’insieme delle proposte perché il senso di quel che può accadere, e in parte sta già accadendo, può essere colto solo se si hanno presenti gli effetti cumulativi che si determinerebbero se andassero in porto le «riforme» di cui si sta parlando. Abbiamo di fronte un bricolage costituzionale realizzato anche attraverso la scelta in diversi sistemi stranieri di strumenti di tipo autoritario, senza tener conto di quello che, negli stessi sistemi, rappresenta contrappeso o garanzia. Il risultato sarebbe una forma di Stato e di governo che costituirebbe davvero un unicum, senza alcun possibile paragone con i modelli presenti negli altri paesi democratici. È bene ricordare che un progetto di riforma costituzionale assai più blando di quello oggi prospettato venne respinto con un referendum, nel giugno 2006, dal 61,3% dei votanti – quindici milioni di cittadini contro nove. Non nei tempi terribili della Prima Repubblica, dunque, ma dopo cinque anni di governo berlusconiano, la Costituzione repubblicana venne massicciamente confermata da una vera consultazione popolare, non da un sondaggio. Da parte di chi invoca contro tutti e tutto la volontà del popolo, ci si poteva attendere una qualche memoria di quell’evento. Ma, evidentemente, la volontà popolare funziona a corrente alternata, e vale solo quando produce risultati congeniali ai desideri degli attuali governanti. Altrettanto insincero è l’argomento dell’efficienza istituzionale, così spesso evocato per giustificare la richiesta di riforme radicali. Se, infatti, vi è in Italia una istituzione che ha sempre funzionato in maniera 51

efficiente, questa è la Corte costituzionale. Parlare oggi di una sua riforma risponde ad una finalità affatto diversa, appunto quella di liberarsi di una istituzione di garanzia che ha le sue radici in una tradizione liberaldemocratica ormai consolidata, che ha indicato nella Costituzione un limite che il Parlamento non può superare con la legislazione ordinaria e, quando si tratta di principi, neppure attraverso la revisione costituzionale. All’Assemblea costituente si era ben consapevoli della necessità di frenare la «tirannia della maggioranza», di non considerare il voto con il quale i cittadini eleggono deputati e senatori come un salvacondotto, tanto che Palmiro Togliatti, legato a una idea di sovranità popolare tutta risolta nel Parlamento, definì la Corte costituzionale «una bizzarria». Questi esempi mostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, non solo la pericolosa strumentalità delle proposte in circolazione, ma la scomparsa della cultura costituzionale. Basta riflettere un momento sulla pretestuosità degli attacchi alla «politicità» della Corte costituzionale, con argomenti e conteggi che ignorano gli stessi dati di fatto. Il Presidente del Consiglio ha parlato di «undici giudici di sinistra nominati dagli ultimi tre Presidenti della Repubblica», dimostrando così di non aver mai letto l’articolo 135 della Costituzione, che fissa in cinque il numero dei componenti della Corte di nomina presidenziale; e di non sapere che, comunque, Napolitano ne ha nominato uno solo, certamente non ascrivibile alla sinistra, che nessuno di quelli scelti da Scalfaro fa più parte della Corte e che almeno uno di quelli nominati da Ciampi ha votato a favore del Lodo Alfano. È una contabilità necessaria per chiarire quale sia la realtà, ma è estremamente mortificante, perché 52

riduce i giudici della Corte a pedine mosse dall’esterno. Ignoranza e manipolazioni a parte, l’argomento della politicità della Corte serve per rimettere in campo la tesi secondo la quale dovunque vi sia direttamente o indirettamente politica deve valere l’allineamento alla maggioranza del momento. Questo è, appunto, un argomento distruttivo della logica costituzionale. Se l’unica misura è l’investitura popolare, se questa scioglie i governanti persino dal rispetto delle leggi, se tutte le istituzioni devono allinearsi, se la funzione di garanzia diventa «eversiva», a che cosa serve la Costituzione? Siamo ormai a questo punto, dobbiamo renderci conto che nelle ultime settimane è stato varcato un confine estremo, che una reazione continua e consistente è indispensabile per evitare il punto di non ritorno. Spero che questa traumatica esperienza faccia rinsavire quanti, a destra e a sinistra, da molto tempo hanno colpevolmente perduto il senso profondo del valore della Costituzione e, dentro e fuori da commissioni bicamerali, la hanno ritenuta un documento giuridico come gli altri, che poteva essere piegato a fini congiunturali, spogliandola così di quel significato simbolico nel quale pure risiede la sua forza. Per questo, all’inizio, parlavo di una deriva che viene da lontano. Ma Berlusconi annuncia una strategia difensiva che aumenterebbe il degrado costituzionale. Non soltanto ha proclamato l’attacco finale ai giudici. Ha parlato di una difesa non solo in sede giudiziaria, ma anche e forse soprattutto attraverso i mezzi d’informazione. Alcune altre domande, allora. Ha mai avuto sentore dell’esistenza di un Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle 53

trasmissioni radiotelevisive, firmato il 21 maggio del 2009 anche dal dottor Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset? Vorrà dare un’occhiata a quel che vi è scritto, in particolare a quel che riguarda il rispetto del «principio del contraddittorio»? Poiché ha annunciato di voler rivelare di quale «pasta» siano fatti i suoi contraddittori, si rende conto che si tratterebbe di giudici che, per rispetto delle regole della loro professione, non potrebbero farlo inseguendolo in questo o quel talk show? Consapevole di tutto ciò, e dell’alta funzione pubblica che ricopre, non dovrebbe rinunciare a questo suo proposito, affidandosi alla difesa tecnica e limitando le sue personali difese alla sola presenza nelle aule di giustizia? POVERO PARLAMENTO Che effetto fa vivere in un paese dove il Presidente del Consiglio dichiara di voler chiudere il Parlamento? Non lasciamoci rassicurare da chi dice che questa proposta «cadrà nel vuoto». Non banalizziamo, non derubrichiamo a battuta occasionale un’affermazione così pesante, secondo un costume invalso da un po’ di tempo e che ha portato al degrado del linguaggio e della politica. Le parole aggressive della Lega sono state un potente veicolo di promozione degli spiriti razzisti. Lo stillicidio delle dichiarazioni di Berlusconi contribuisce a distruggere gli anticorpi che consentono ad un sistema di rimanere democratico. Soprattutto, non isoliamo queste affermazioni del Presidente del Consiglio da un contesto ormai caratterizzato da un quotidiano attacco alla Costituzione. 54

Si vogliono mettere le mani sulla prima parte della Costituzione, proprio quella che, a parole, si dice di voler tenere fuori da ogni proposito di riforma. La legge all’esame del Senato sul testamento biologico viola la libertà personale e l’autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale, con una sentenza della fine del 2008, ha dichiarato essere un «diritto fondamentale». Si mettono in discussione la libertà d’espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati con la legge sulle intercettazioni telefoniche. Si nega il diritto alla salute come elemento essenziale della moderna cittadinanza quando si propone che i medici possano denunciare un immigrato irregolare la cui unica colpa è la richiesta di cure. Si privatizza la sicurezza pubblica legittimando le ronde, con una pericolosa abdicazione dello Stato a una delle funzioni che ne giustificano l’esistenza. Si avanzano proposte censorie che riguardano Internet. Si erodono le garanzie della privacy per improprie ragioni di efficienza. Non era mai accaduto che il nostro sistema politico vivesse quotidianamente ai margini della legalità costituzionale, che si dubitasse della costituzionalità di tutte le leggi di qualche peso in discussione alle Camere. Si altera così il funzionamento del sistema istituzionale, e si trasferisce l’intero compito di garantirne il corretto funzionamento ai «due custodi», il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, di cui si accentuano le responsabilità e la politicità. E si dimentica che proprio la cultura costituzionale segna la politica e la civiltà di un paese. Distogliamo per un momento lo sguardo dalle nostre lacrimevoli vicende, e rivolgiamolo agli Stati Uniti. Barack Obama non sta soltanto liberando il suo paese 55

da inammissibili vincoli, come quelli sul divieto del finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, mostrando come sia possibile e necessaria una politica lungimirante e svincolata da ipoteche fondamentaliste. In un documento indirizzato a tutti i responsabili dell’amministrazione federale, Obama ha scritto che, «esercitando la mia responsabilità nel decidere se una legge sia incostituzionale, agirò con prudenza e misura, basandomi unicamente su interpretazioni della Costituzione che siano solidamente fondate». Qui è evidente l’imperativo di allontanarsi dalle pratiche lesive dei diritti dell’amministrazione Bush, proprio per ricostituire quegli anticorpi democratici la cui distruzione stava minando la coesione interna e la stessa credibilità degli Stati Uniti. Quale distanza, quale abisso ci separano da questa volontà di ridare la bussola costituzionale al funzionamento dell’intero sistema politico, e quale deriva ci sta travolgendo proprio perché stiamo abbandonando quella bussola. Grande, allora, diviene la responsabilità della cultura che si cimenta con il tema della Costituzione, e con il modo in cui oggi si deve guardare ad essa. Le reazioni, gli atteggiamenti sono diversi. Si è diffidenti verso una difesa della Costituzione che sembra fine a se stessa, che non tiene nel giusto conto la dimensione della politica. Giusta preoccupazione a condizione, però, che la sacrosanta invocazione di una politica non più latitante abbia quei solidi fondamenti che, per le ragioni appena accennate, debbono essere trovati proprio nei principi costituzionali. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica «costituzionale». Della legittimità stessa di questa politica si dubita quando si mette in evidenza che proprio la prima parte 56

della Costituzione, quella delle libertà e dei diritti, è segnata da un inaccettabile statalismo, dall’accentuazione di una funzione protettiva delle istituzioni pubbliche che apre la porta alle tentazioni stataliste. È singolare, o rivelatore, il fatto che questo atteggiamento ritorni giusto nel momento in cui i guasti enormi della economia deregolata hanno fatto emergere una imperiosa richiesta di regole. Disturba, ad esempio, il fatto che si adoperi la parola «tutela» quando ci si riferisce al compito della Repubblica in materia di salute. Riattraversiamo nuovamente l’Atlantico e approdiamo ancora una volta negli Stati Uniti dove, proprio in materia di salute, si è verificato un gigantesco fallimento del mercato, che ha combinato la crescita dei costi con l’esclusione dalle garanzie di un quinto della popolazione americana (con conseguenze al momento drammatiche, visto che la disoccupazione porta con sé anche la perdita dell’assicurazione per la salute, agganciata com’è al contratto di lavoro). Non è un caso che la riforma del sistema sanitario sia stata un punto chiave del programma del nuovo Presidente. Dovremmo abbandonare gli approdi sicuri di cui disponiamo per veleggiare verso i lidi di un qualche liberismo? Si torna, poi, a ripetere che la nostra Costituzione dovrebbe essere modificata perché non dà spazio adeguato al riconoscimento del mercato. Ma è davvero qui l’ostacolo alle politiche economiche? Che cosa dovrebbero dire, allora, i tedeschi? Nella loro Costituzione si parla di una proprietà che impone obblighi e il cui «uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività», e si conserva una norma che prevede la «socializzazione» dei mezzi di produzione. La verità è che rimane forte il fastidio per un contesto che vuole il mercato rispettoso 57

dei diritti fondamentali. Non dimentichiamo che, in un paese segnato dalle morti sul lavoro e che poggia sullo sfruttamento del precariato e del lavoro nero, si è arrivati a proporre l’abrogazione dell’articolo 41 della Costituzione, che stabilisce che l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Statalismo o soglia minima di civiltà? La spallata berlusconiana al Parlamento nasce in tempi di costituzionalismo debole e ha come fine, insieme alla cancellazione del sistema parlamentare, l’azzeramento delle garanzie. Non si può protestare contro questa sortita del Presidente del Consiglio senza dichiarare e praticare in modo esplicito e rigoroso l’opposizione fermissima al quotidiano smantellamento del sistema costituzionale dei diritti. L’UOMO DEL FARE Berlusconi è silenzioso ed eloquente. Non risponde all’invito sacrosanto di rientrare per un momento almeno nella correttezza istituzionale e di riferire nelle sedi proprie sul malaffare e sul degrado civile rivelati dalle inchieste giudiziarie e che toccano il suo governo e i suoi uomini. Ha chiuso il Parlamento, perché dovrebbe riaprirlo? Accettare la discussione, sottoporsi a una parvenza di controllo pubblico non rientra nella sua natura di «uomo del fare» per eccellenza, che tenacemente, in tutti questi anni, ha dato l’impressione della modernità usando con aggressività il sistema della comunicazione ma che, con altrettanta aggressività, ha operato perché l’intero Stato fosse modellato secondo una logica preca58

pitalista: quella, cioè, di un padrone delle ferriere che, secondo il vecchio detto, ferma la democrazia alle porte dell’impresa. Al tempo stesso, Berlusconi è prodigo di dichiarazioni informali, invettive, minacce. Tanta eloquenza, tuttavia, non corrisponde alla rottura del silenzio. Al contrario, indica una strategia volta a chiudere le falle che si sono aperte, ad impedire che in futuro uno sguardo indiscreto violi gli sgangherati santuari dove si celebrano i riti di una corruzione quotidiana, capillare, miserabile, e proprio per questo distruttiva di ogni moralità pubblica e privata. Vale la pena, allora, di considerare da vicino alcune di queste dichiarazioni, per cogliere anche il disegno complessivo che esse compongono. Due appartengono al repertorio ben noto del Presidente del Consiglio. I pubblici ministeri dovrebbero «vergognarsi», deve cessare l’«indecoroso spettacolo delle intercettazioni». La consegna del silenzio, appunto. Ma, poiché Berlusconi non ha timore di dire tutto e il suo contrario, ecco che s’improvvisa bardo della moralità politica e annuncia un disegno di legge per fermare le candidature di chi sia coinvolto in indagini. Un annuncio con il quale, evidentemente, si riconosce che i pubblici ministeri non devono essere tanto impudenti, né le intercettazioni tanto indecorose, se determinano una mossa nelle apparenze così impegnativa. Solo nelle apparenze, però. Quel disegno di legge, infatti, compare e scompare, si scontra con una realtà impastata di illegalità grandi e piccole che la dice lunga su che cosa sia stato in questi lunghi anni il «buon governo» berlusconiano. Si rinvia, si cercano aggiustamenti che consentano di presentarsi all’elettorato con una patente di moralizzatori. 59

Ma, nel groviglio di azioni parallele che caratterizza l’opera del governo, davvero tout se tient. Mentre si annuncia quel disegno di legge, si ribadiscono i propositi riguardanti la riforma della giustizia e la legge sulle intercettazioni. Ricordiamo che si vogliono limitare proprio i poteri d’indagine dei pubblici ministeri. Ricordiamo che le nuove norme sulle intercettazioni avrebbero come effetto quello di rendere più difficile, in alcuni casi impossibile, l’accertamento di reati gravi e bloccherebbero la possibilità di informare l’opinione pubblica, potente forza di controllo diffuso in un sistema che voglia mantenere i connotati di una democrazia (se quelle norme fossero davvero approvate, i mezzi d’informazione dovrebbero ricorrere alla disobbedienza civile). Conclusione: anche se venisse davvero approvata, la nuova legge sulla corruzione avrebbe effetti limitati perché sarebbe più difficile individuare i corrotti. Appena si guarda oltre la facciata, è sempre la strategia del silenzio a prevalere. Altre due dichiarazioni riferite al Presidente del Consiglio sono ancor più inquietanti e rivelatrici. La prima riguarda i servizi di sicurezza: come mai «non hanno saputo intercettare in anticipo quello che stava accadendo in certe realtà come Milano»? L’altra, le indagini dei carabinieri: «come è possibile che i Ros indaghino su di noi e non esca un solo fiato in un paese in cui parlano tutti»? Qui emerge la concezione proprietaria dello Stato, la considerazione degli apparati pubblici come scudo protettivo del Presidente del Consiglio e dei suoi, non come organismi ai quali spettano compiti di tutela della legalità. Che cosa vuol dire «intercettare in anticipo» quel che stava accadendo a Milano? Scoprire i corrotti prima 60

dei magistrati? E perché, se i magistrati hanno mostrato di far bene il loro lavoro? O vuol dire comunicare «a chi di dovere» che vi erano indagini in corso, rendendo così possibili occultamenti, depistaggi, in una parola mosse capaci di impedire la scoperta dei corrotti o almeno di permettere la messa a punto preventiva di una qualche rete di protezione? Che cosa vuol dire non aver saputo che i carabinieri indagavano «su di noi»? Una pretesa di intoccabilità? Un invito a non a rispettare le regole del segreto da parte di chi indaga, di nuovo mostrando di avere una idea della legalità subordinata ai propri interessi? Qui è la radice vera di una corruzione profonda, ben più grave dell’aver intascato una mazzetta, e che ci dice quali siano i lidi ai quali si vorrebbe approdare. Non dimentichiamo, infatti, che quelle dichiarazioni non possono essere considerate una semplice reazione irata a vicende sgradevoli. Riflettono la logica secondo la quale si vuole riformare il processo penale, sottraendo ai pubblici ministeri la disponibilità della polizia giudiziaria. Sarebbe la polizia, infatti, a svolgere autonomamente le indagini, decidendo poi che cosa merita d’essere comunicato al magistrato. In questo modo, senza dover stabilire una formale dipendenza dei pubblici ministeri dal controllo politico, questo controllo diverrebbe concretamente operante, perché le forze di polizia, rispetto al governo, non godono dell’autonomia e dell’indipendenza riconosciute alla magistratura. La strategia, allora, non è solo quella di sottrarsi ai controlli. Va oltre. Disegna uno Stato dove l’unico potere riconosciuto è quello dell’esecutivo o del Capo eletto direttamente dal popolo (rispunta il presidenzialismo come cardine della riforma costituzionale) che, a sua 61

volta, lo distribuisce in forme tali da garantire che questo potere spezzettato non possa mai essere esercitato in contrasto con la volontà sovrana. Neppure feudatari, ma vassalli, che in qualsiasi momento possono essere richiamati all’ordine. Non è forse questa la strategia presente nelle logiche che hanno portato a governare per ordinanze e al tentativo di sostituire con società per azioni le stesse strutture ministeriali? Uno Stato a pezzi, risultato di una progressiva erosione di tutti i principi riguardanti il bilanciamento dei poteri e la responsabilità pubblica. Non una «privatizzazione», dunque, come si è detto sbrigativamente visto che si adottava la forma della società per azioni. Epperò questa forma serve a far sì che vengano azzerati i controlli pubblici, senza che operi la logica privatistica, quella del mercato, perché quelle società sono tutte nelle mani dello Stato. Forse questa strategia ha subito una battuta d’arresto proprio per la scoperta della corruzione prodotta da questo modo di «riformare» le istituzioni. La forza delle cose, e il lavoro della vituperata magistratura, hanno così riproposto la questione morale come essenziale questione politica. Lo ha dovuto riconoscere lo stesso Berlusconi con l’annuncio di una legge sulla corruzione. Perché tutto questo non rimanga un episodio, sarebbe necessario tornare ad una storia politica troppo facilmente accantonata, che porta al nome di Enrico Berlinguer e alla necessità di una radicale rifondazione della moralità pubblica. Sarebbe un bell’esempio in un tempo che ci ha portato il ricordo di quel che disse alla Camera Bettino Craxi, che non fu la denuncia di un malcostume bensì una chiamata in correità, un serrate le file, dunque l’opposto di quel che 62

serve per combattere la corruzione. Ed è una tentazione che ritorna quando si dice che i corrotti sono da tutte le parti e, comunque, costituiscono una minoranza. Anni fa, un senatore brasiliano, tanto spudorato quanto sincero, aveva adottato questo slogan: «Rubo, ma faccio». Un uomo del fare, appunto. IL SENSO DELLE ISTITUZIONI Le mosse di Berlusconi sono da tempo prevedibili, perché appartengono ad una logica che egli ha trasferito nel mondo della politica senza mai farsi contagiare dal «senso delle istituzioni». Non può sorprendere, quindi, che abbia detto: «dobbiamo cambiare la composizione della Corte costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del Presidente del Consiglio». Proprio le ultime parole sono rivelatrici. Scompare il «Governo della Repubblica», di cui parla l’articolo 92 della Costituzione. Al suo posto viene insediato il «Governo del Presidente del Consiglio», una formula che esprime la logica proprietaria dalla quale Berlusconi non ha mai voluto separarsi. L’imprenditore è fedele alle sue origini, e nel suo modo d’agire si ritrova la vecchia e di nuovo vitale formula secondo la quale «la democrazia si ferma alle porte dell’impresa». Governare è esercizio di potere assoluto. Chi si presenta come un intralcio lungo questo cammino deve essere eliminato. Inutile dire che in tal modo si può entrare nei territori della democrazia «autoritaria», ma si esce certamente dalla Costituzione. 63

Prevedibile o no, l’affermazione del Presidente del Consiglio inquieta, assomiglia ad un assalto finale. Gli ostacoli li conosciamo. Magistratura a parte, nell’ultima fase della storia della Repubblica le garanzie si sono concentrate in due istituzioni: il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma ciò non dipende da una impropria volontà di potenza. Discende da un progressivo indebolirsi del sistema dei controlli, dei pesi e contrappesi che caratterizzano l’architettura costituzionale e dei quali non ci si è preoccupati quando è cominciata la stagione delle «spallate», delle manipolazioni delle leggi elettorali, del bipolarismo ad ogni costo, della «governabilità» senza aggettivi. Troppi apprendisti stregoni hanno lastricato la strada che oggi Berlusconi si ritiene legittimato a percorrere senza scrupoli. Così, nel deserto istituzionale, le funzioni di garanzia, ineliminabili in democrazia, si sono rifugiate nelle due istituzioni che il Presidente del Consiglio ha pubblicamente rifiutato con questa sua affermazione. Un’affermazione che ha alzato il tiro di molto rispetto al passato, per colpire deliberatamente il Presidente della Repubblica. Malumori, reazioni violente lasciate deliberatamente trapelare, senza tuttavia trasformare in conflitto aperto una relazione difficile. Ebbene, le cautele vengono ormai abbandonate. Così com’è, il Presidente della Repubblica non è più accettabile. Le ragioni di questa mossa sono nitide. Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la crescente fiducia riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano. Inammissibile il quotidiano rivelare le lacerazioni del tessuto istituzionale per chi vuole manipolarle impunemente. Oltraggiosa la pretesa di custodire la legalità costituzionale per chi 64

vuole trasformare l’investitura popolare in un «lodo» che lo pone al disopra delle leggi. Berlusconi sa perfettamente che una riforma costituzionale che azzoppi in un colpo solo Presidente della Repubblica e Corte costituzionale esige tempi lunghi. Ma non gli importa. Nel momento in cui dice esplicitamente che i poteri del Presidente della Repubblica devono essere ridotti, lascia intendere che sono male utilizzati. Invita così ad una pubblica «sfiducia» nei confronti di Giorgio Napolitano, facendo diventare asse della sua politica il copione che l’informazione di rito berlusconiano aveva già cominciato a scrivere. Vuole demolire l’immagine del Presidente super partes, mostrarlo non come un garante, ma come l’espressione di una parte. Napolitano parla anche perché troppi sono silenziosi, o ridotti al silenzio. Ma la voce delle istituzioni non può spegnersi. Da esperto della comunicazione, Berlusconi è inquieto perché sa che quella non è una voce che parla nel deserto, ma trova ascolto perché dice verità e concentra così sulla Presidenza della Repubblica l’attenzione dei cittadini consapevoli della gravità di una situazione che Berlusconi e i suoi gabellano come il migliore dei mondi. Una relazione non populista con i cittadini insidia lo stesso modo d’essere di Berlusconi. Ma questo manifestarsi d’una opinione critica diffusa appare monco, perché rivela gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì di essere parte di una difficile discussione pubblica, di testimoniare almeno quelle «ingenue idealità etiche» alle quali, contro il realismo politico, si richiamava nel 1929 Benedetto Croce votando contro il Concordato. 65

UN DESERTO ISTITUZIONALE Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato? L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano e si corrompono in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere, il tramonto della moralità pubblica, la rottura dei legami sociali, il rifiuto dell’altro. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo «stato d’eccezione», una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale, una parentesi che sarà possibile chiudere, una vicenda che si discosta da una normalità peraltro rispettabile. Come si è parlato di «emergenza permanente», per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno «stato d’eccezione permanente». Viviamo prigionieri di ossimori, che descrivono meglio di ogni analisi ragionata la devastazione continua di Stato e società. 66

Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il Lodo Alfano proprio perché in contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo quando si propone di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: posizione insostenibile, perché anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca quello dell’eguaglianza tra i cittadini. Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di «sottocittadini». Nella vergogna del «processo breve» vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. E il sottosegretario Giovanardi ha liquidato il drammatico caso di Stefano Cucchi come la morte di un drogato, ignorando maltrattamenti e percosse (per poi scusarsi, ma la cosa era stata detta). Immigrati e tossicodipendenti, dunque, confinati tra i senza diritti – vite «infami» avrebbe scritto Foucault, vite «di scarto» direbbe Bauman. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano. Una volta messi da parte i principi, e ridotta ogni cosa alle pulsioni e agli interessi, la distorsione del si67

stema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal Presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di «Stato patrimoniale», dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario. Così si è venuto ristrutturando il potere in Italia: qualsiasi riflessione sulle riforme istituzionali non può prescindere da questo contesto. Un potere che si è progressivamente concentrato nelle mani di pochi, che si vorrebbe chiudere in un cerchio ancora più ristretto, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che va travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una «serrata» di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare. Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi, e che è stato accolto passivamente anziché indurre a chiedere, per esempio, un immediato dibattito sulle ragioni della lenta agonia del Parlamento o una sessione per esercitare quei poteri di controllo che le Camere non hanno ancora perduto. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del governo attraverso i decreti legge e le 68

leggi delega, e grazie al diffondersi delle «ordinanze di protezione civile», sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata. La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che quasi per ogni legge si discute se il Presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea. Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro delle Camere e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. Al contrario, il permanere delle occasioni di attacco alla «casta» e al Parlamento improduttivo offre ottimi appigli per invocare riforme costituzionali che cancellino la democrazia parlamentare a beneficio del presidenzialismo. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro «ragionevole durata», sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito «una catastrofe sociale». Così 69

sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E ora vuole profittare di questa situazione, di cui è corresponsabile, per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura. Se a questo si aggiunge il quotidiano stillicidio di iniziative volte a mortificare il pluralismo informativo, è l’intero sistema dei controlli e dei contrappesi costituzionali, formali e informali, ad essere in pericolo. Un «dialogo» sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare l’articolo con cui si conclude la Costituzione, che di questi tempi esige particolare attenzione. Recita l’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, secondo una lettura semplicistica, che non si può tornare alla monarchia, ma che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la «forma repubblicana» e che non possono essere modificate senza che si passi ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica.

Il diritto alla verità

Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell’era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell’impietosa radiografia mediatica d’ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato «la privacy è finita. Rassegnatevi»? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell’uomo pubblico? Quale dev’essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale? «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai sta71

ta annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hannah Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all’espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull’esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l’affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna. Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l’ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l’identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno 72

producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica incentrata sul guardare nel buco della serratura? Chi ragiona così sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta «aspettativa di privacy», proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il Presidente del Consiglio sembra tenere tanto. Chi, allora, ha «diritto alla verità»? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal Presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l’accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene. 73

Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il Presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt’altro che pretestuose in quanto riferite a dati precisi, assomiglia molto a quella «facoltà di non rispondere» di cui giustamente può giovarsi l’indagato o l’imputato. «Nemo tenetur se detegere», recita un’antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al Presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa? Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in tempi in cui la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo «in pubblico». Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l’inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.

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Sono state proprio le troppe compiacenze e assoluzioni a buon mercato dei potenti a dare una spinta decisiva all’antipolitica, a creare un clima politico che ha spalancato le porte a una ricerca del consenso che fa leva più sui vizi che sulle virtù repubblicane. Illegalità sempre blandita, razzismo sempre meno strisciante, frequentazioni a dir poco disinvolte hanno legittimato un clima diffuso che costituisce un brodo di coltura che certo non fa bene alla democrazia. Qui è il punto. La vicenda delle frequentazioni di Berlusconi, che nessun criterio consente di confinare nel privato, dev’essere chiarita per evitare che, per l’ennesima volta, la resistenza passiva dei politici, il loro «ha da passà ’a nuttata» o «càlati juncu ca passa la china», alla fine trionfino, non solo garantendo impunità, ma dando un pessimo esempio sociale. Non si tratta di andare alla ricerca di responsabilità penali, ma di rimettere in onore la responsabilità politica, praticamente cancellata in questi anni. È una impresa impegnativa, perché il fronte della responsabilità politica deve essere presidiato da molti soggetti. Quanta parte del sistema dell’informazione ha fatto il suo dovere? Quanta parte del ceto politico non vede l’ora di chiudere la «parentesi moralistica» per tornare agli usati costumi? Se attingiamo alla cultura pop, ci imbattiamo in Caterina Caselli: «La verità ti fa male, lo so... Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu». Probabilmente queste sono oggi le fonti, consapevoli o no, alle quali ci si ispira in un momento che esigerebbe meno leggerezza e maggiore consapevolezza di che cosa voglia dire far politica in un sistema democratico. Non suggerisco altre canzoni o altre letture. Richiamo il senso della verità in politica, 75

che è componente essenziale della legittimazione stessa delle istituzioni, e che non può essere accantonato con una mossa cinica o di malinteso realismo politico (che, peraltro, non ha finora dato alcun profitto alle opposizioni). L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini. Nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu si afferma che «ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere». Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo di conoscenza aperto, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico, che vuole invece escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. Proprio questa ovvia considerazione ci dice che la partita in corso intorno alle mille verità, contraddizioni, reticenze, bugie sulla vicenda personale del Presidente del Consiglio deve concludersi in modo da evitare ogni inquinamento del sistema democratico. Aspettiamo pazienti. Ma della pazienza si può abusare, come si disse per quel Catilina citato a sproposito nei paraggi berlusconiani. Perché l’abuso non si consolidi fino a diventare regola, bisogna non stancarsi di insistere.

La scuola pubblica: un «organo costituzionale»

In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all’attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell’Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l’essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt’altro che inclini all’indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e unicamente votata alla «formazione al settore produttivo» (queste le larghe vedute del governo). La scuola pubblica è un’altra cosa. Le sue ragioni 77

sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica. Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno perciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all’Altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento. Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di «appartenenza» – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma un tempo nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall’Altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente gli uni agli altri. Si rischia così una società nella quale nessuno viene educato alla conoscenza degli altri, ma solo a quella dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo 78

una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza. Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come «organo costituzionale». Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell’intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Per Berlusconi, non v’è più nulla nelle istituzioni che meriti d’essere rispettato, all’infuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si «inculca» qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro: docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al «dirottamento» dei fondi pubblici verso le scuole private. Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l’obbligo dello Stato di istituire «scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (articolo 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico. Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. L’innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per 79

una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se, al contrario, l’attenzione viene sempre più rivolta al «settore produttivo», si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Esercizi di decostituzionalizzazione

La Repubblica italiana sta prendendo congedo dall’Europa e dalla sua stessa Costituzione. Sta tagliando le proprie radici. Non siamo solo di fronte ad una crisi istituzionale e politica, pur profondissima. Sprofondiamo in un tunnel oscuro, diviene sempre più evidente una «tirannia della maggioranza» ben al di là dei timori manifestati da Alexis de Tocqueville, perché la perversa legge elettorale maggioritaria e la sciagurata deriva verso il bipolarismo hanno separato i «designati» dai cittadini, hanno fatto perdere al Parlamento la sua virtù rappresentativa. Ha scritto un filosofo liberale, Ronald Dworkin, che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far rispettare il diritto, deve essere ancor più sincera». Questi principi non scritti, ma fondativi della città democratica, sono ormai estranei al modo d’essere dell’attuale maggioranza. E forse la stessa nozione di maggioranza parlamentare ha perduto il suo significato storico, poiché siamo di fronte ad una 81

semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale. Compiuta la prima fase della sua alta missione con l’edificazione di un muro a tutela della sua persona, il Presidente del Consiglio annuncia una inquietante e pericolosa «fase due». Possiamo legittimamente chiamarla «decostituzionalizzazione». Questo è il tratto che unisce le proposte che dovrebbero segnare la stagione legislativa, nella quale si vuole sfruttare la spinta propulsiva delle radiose giornate del processo breve. Si tratta dell’«epocale» riforma costituzionale della giustizia, del minaccioso ritorno della legge bavaglio sulle intercettazioni, della disciplina ideologica e proibizionista del testamento biologico. La riforma della giustizia, infatti, vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l’intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie attualmente affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell’articolo 112 della Costituzione si stabilisce che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». La riforma proposta dal governo aggiunge le parole «secondo i criteri stabiliti dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell’articolo 109 si stabilisce che «l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». La riforma pro82

posta dal governo prevede che «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge»: sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l’autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca. Ed è sempre la decostituzionalizzazione a comparire negli altri casi. Sappiamo bene che la stretta sulle intercettazioni colpisce uno dei fondamenti della democrazia, la libertà d’informazione di cui parla l’articolo 21. E la proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (il testamento biologico) è congegnata in modo tale da espropriare ogni persona del diritto fondamentale all’autodeterminazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale sulla base degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione. Per chiudere definitivamente questa partita, l’obiettivo finale è indicato appunto nell’odiata Corte costituzionale, con la quale il Presidente del Consiglio annuncia un definitivo regolamento di conti, probabilmente affidato ad una legge che escluderebbe la possibilità di decidere con il voto della maggioranza dei suoi componenti, sostituito da un quorum particolarmente elevato. Una mostruosità sconosciuta a qualsiasi civile sistema giuridico, che produrrebbe l’assurdo effetto di mantenere in vigore leggi che la maggioranza dei giudici costituzionali ha ritenuto illegittime. Il risultato complessivo di tutte queste mosse sarebbe la scomparsa di un effettivo sistema di garanzie, una alterazione degli equilibri 83

costituzionali che ci porterebbe verso un mutamento di regime. Quest’orizzonte ravvicinato, realistico e ineludibile, è quello al quale si deve guardare per individuare le strategie possibili per opporsi a questa ascesa, alla quale secondo alcuni non si è più in grado di resistere con i mezzi ordinari della democrazia. Ma immaginare rovesciamenti del tavolo rischia di distogliere l’attenzione dalla faticosa ricerca di quel che deve essere fatto qui e ora. Dicevo che la fase due, quella della decostituzionalizzazione, è inquietante, ma pure pericolosa. Ci troviamo infatti davanti a proposte che potrebbero dividere il fronte delle opposizioni. Quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei «sedersialtavolisti». Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo? Mi auguro che la lezione del processo breve alla Camera sia servita a dissuadere gli «aperturisti» ad ogni costo, convincendo tutti della necessità di mantenere saldo un fronte comune. Al medesimo spirito l’opposizione dovrebbe ispirarsi in tutti gli altri casi, compreso quello del testamento biologico dove qualche cattolico potrebbe essere sedotto dall’ingannevole richiamo a valori non negoziabili. Nel tempo Berlusconi ha costruito un conglomerato di cui non possono essere denunciate soltanto le modalità corruttive e i rischi grandi che fa correre al paese senza accompagnare questa diagnosi con una strategia politica conseguente: parlamentare, sociale, elettorale. E allora? Bisogna riprodurre in tutte le occasioni par84

lamentari i comportamenti tenuti sul processo breve, sfruttare ogni spazio parlamentare per far discutere le proposte dell’opposizione. Può reggere la maggioranza di fronte a una mobilitazione permanente che coinvolga l’intero governo? Non ci si deve chiudere in Parlamento, troppe cose avvengono nel paese. Bisogna costruire una solida sponda politica per il crescente numero di cittadini che non si limitano a manifestare nelle piazze reali e virtuali ma, così facendo, costruiscono una concreta agenda politica. Ma, soprattutto, per le opposizioni scocca l’ora obbligata dell’unione, la sola a poter ricostruire le condizioni per una vera dialettica democratica. Forse solo la saggia parola alle Camere del Presidente della Repubblica può ricordare a tutti che la politica deve essere sempre «costituzionale».

Ancora uno sforzo, moralisti!

Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto in cui scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un’anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta dal Presidente del Consiglio a schiere di ragazze fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali. Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d’una confessione? Il catalogo è questo, ed è lungo. L’abbiamo visto. Tutto comincia con la pretesa dell’impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel Lodo Alfano 87

e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla di conflitto d’interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d’ogni regola: «di conflitto d’interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell’irrilevanza politica e giuridica quel conflitto». Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E quando finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s’infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà. Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte. Campagna all’americana si disse, ovviamente. Ma l’America è un’altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore «aspettativa di privacy», dove, sull’onda di uno scandalo che ha colpito le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell’etica 88

pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l’imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali. «A casa mia faccio quello che mi pare», diceva il Presidente. «A casa mia invito chi mi pare» (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell’Inquisizione, fautore della società della sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un’occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le «figure pubbliche» hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno «alcun rilievo» per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull’attività giornalistica in tema di privacy). Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l’attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell’esistenza di un forte interesse a conoscere; così come è clamoroso, per fare solo un esempio, che vi sia stata una cena «privata» tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso «lodo» e due tra i giudici ai quali è stato affidato il compito di valutare la costituzionalità della 89

più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico. Proviamo di nuovo a dare un’occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un’altra formula eloquente: «commensale abituale». Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha affermato che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma ciò non significa che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici. Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell’etica pubblica? Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo dopo pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l’essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s’incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un intoppo del quale liberarsi. Interviene qui la questione del moralismo, sul quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e di cui torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le 90

miserie dei tempi che corrono invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti «moralisti classici». Registro due fatti. Il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo di esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. È una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro. Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l’annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una «svolta personale». Ancora uno sforzo, moralisti!

Fonti*

Moralismo: perché (Elogio del moralismo, in S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 257-259) Tempo di scandali (Prefazione a G. Barbacetto-E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. VII-XI) Un’assise sulla corruzione («l’Unità», 3 maggio 1992) Una continuità perversa (12 agosto 1997) Nuova eversione quotidiana (18 aprile 2011) Verso l’estinzione dello Stato (11 novembre 2009) Povero Parlamento (12 marzo 2009) L’uomo del fare (23 febbraio 2010) *Gli scritti di cui è segnalata la sola data sono stati originariamente pubblicati sul quotidiano «la Repubblica».

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Il senso delle istituzioni (11 maggio 2011) Un deserto istituzionale (20 novembre 2009) Il diritto alla verità (26 maggio 2009, 13 luglio 2009) La scuola pubblica: un «organo costituzionale» (3 marzo 2011) Esercizi di decostituzionalizzazione (18 aprile 2011) Ancora uno sforzo, moralisti! (10 luglio 2009)