Educare ad un mondo futuro. Alleanze interculturali, dialoghi interreligiosi e sviluppo della cultura di pace 9788820450939

L'impegno educativo del nuovo millennio è costruire e diffondere la cultura della pace: una sfida continua il cui s

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Educare ad un mondo futuro. Alleanze interculturali, dialoghi interreligiosi e sviluppo della cultura di pace
 9788820450939

Table of contents :
Indice......Page 160
Frontespizio......Page 3
Il Libro......Page 2
Dedica - Esergo......Page 7
Prefazione di Simonetta Ulivieri......Page 9
1. Intercultura, integrazione, educazione inclusiva......Page 19
1.1. Dall’integrazione all’inclusione......Page 30
1.2. Come parlare di intercultura e educazione di genere......Page 39
2. Costruire alleanze interculturali......Page 44
2.1 La ricerca dell’autenticità nel dialogo interculturale......Page 49
3.1 Relazioni interculturali nella cooperazione internazionale......Page 57
3.2 Le Comunità di Pratiche per creare alleanze interculturali......Page 61
1. Il dialogo interreligioso fuori del religioso......Page 67
1.1 Il dialogo interreligioso nelle strategie europee......Page 72
2. Società laica e pluralismo religioso......Page 80
2.1 La realtà italiana e la presenza delle tradizioni religione......Page 88
2.2 Educazione al pluralismo religioso......Page 93
3. Pratiche interreligiose ed esperienze di incontri......Page 97
3.1 Dialogo interreligioso e Learning to live together......Page 98
3.2 Dialogo interreligioso dentro i conflitti sociali e politici......Page 101
1. L’impegno internazionale per l’educazione alla pace......Page 105
1.1. La Dichiarazione di Siviglia contro ogni forma di giustificazione della guerra......Page 107
2. I processi che portano alla cultura di pace......Page 111
2.1 Human Security......Page 117
2.2. Sviluppo umano......Page 121
2.3 Sviluppo sostenibile......Page 125
3. Pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali......Page 130
3.1 Un weekend di navigazione e di educazione alla coesistenza pa- cifica 65......Page 144
3.2 Vivere la pace facendo sport con i nemici......Page 148
Bibliografia......Page 153

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Educare ad un mondo futuro Alleanze interculturali, dialoghi interreligiosi e sviluppo della cultura di pace Silvia Guetta

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4

A mio padre, amante della pace tra i popoli

Non sta a te terminare l’opera intrapresa, ma non perciò sei esonerato dall’iniziarla Pirke’ Avoth2,21

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Prefazione

Il saggio di Silvia Guetta nasce dall’idea originale di coniugare l’educazione alla pace. In un mondo contraddistinto da un livello conflittuale altissimo, in una società che guarda con non curanza a violenze perpetrate sia all’interno della famiglia che nel rapporto di lavoro, risulta necessario educare i giovani ad una “cultura di pace”. La pace, come del resto purtroppo la guerra, è una modalità di stare nel mondo e in rapporto con l’altro, essa deve essere insegnata perché è vitale per la sopravvivenza del genere umano che venga appresa. Per questo motivo il testo risulta significativo in un panorama di produzione pedagogica che, molto spesso, è dedicata a temi professionali e meramente disciplinari, dimenticando che il pensiero pedagogico è anche contraddistinto da una vena utopica e di progettualità nel futuro. Il testo di Silvia Guetta attraversa tre aspetti integrati della cultura di pace: le progettualità interculturali, il dialogo interreligioso e le problematiche educative necessarie per apprendere a vivere. Esso è costruito su tre capitoli: - Dall'integrazione all'alleanza interculturale: significati e modelli. - Dialogo interreligioso come contributo alla reciproca conoscenza. - Educare alla cultura di pace: nuovi paradigmi dell'educazione sociale e proposte operative. Nel volume ci si occupa di: intercultura, integrazione, educazione inclusiva, costruzione di alleanze e pratiche interculturali ed esperienze di progettazione. Aspetti molto dibattuti sono anche: il dialogo interreligioso, il rapporto tra società laica e pluralismo religioso, lo sviluppo umano e la human security. Infine si guarda all’impegno internazionale per l'educazione alla pace, ai processi che portano alla “cultura di pace”, alle pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali. Nel considerare gli aspetti che caratterizzano i processi che attendono all'educazione interculturale, il testo mette in evidenza i passaggi teorici e metodologici in base ai quali si sta passando dal modello dell'integrazione a

quello dell’inclusione, sottolineando come quest’ultimo apra ad una maggiore e più articolata percezione della condivisione e del saper vivere nel rispetto reciproco dei diritti umani, della solidarietà e della partecipazione. Scrive Silvia Guetta: ‹‹Come esperienza di sviluppo di nuove forme di qualità di vita, la tematica dell'intercultura trova la sua origine anche nella ricerca di solidarietà, uguaglianza e parità dei diritti che i processi di globalizzazione e di apertura ai saperi planetari, definitisi negli ultimi decenni dalle tecnologie e dai mezzi di trasporto, hanno sempre più richiamato. Dialogo, incontro e solidarietà diventano, quindi, alla luce dei processi di globalizzazione che vedono le forme di sfruttamento economico, ambientale e umano, percorsi prioritari per lo sviluppo di progetti interculturali. Progetti che si rifanno anche ad una cultura maturata nell'impegno della società civile, a sostegno delle forme di convivenza pacifica, di attenzione per le fasce deboli della popolazione e della continua tensione che si genera tra sviluppo, benessere/povertà e mondialità›› (p.19). Da qui la proposta dell’Autrice di pensare alla tematica interculturale, individuando anche alcuni aspetti legati alla pedagogia di genere e agli interventi sulle pari opportunità. All'interno dei processi di inclusione educativa e didattica, emergono sempre più scenari contraddittori e complessi caratterizzati dalla diversità con la quale le bambine, le ragazze e le donne hanno compiuto e stanno ancora compiendo il loro processo di crescita e il loro pieno inserimento nel mondo culturale, sociale e professionale di accoglienza. Vengono anche prese in esame le pratiche interculturali come esperienze di confronto e intervento in contesti di partenariato internazionale e di costruzione di network di comunità di apprendimento per lo scambio e la condivisione di buone pratiche educative. Entrambe le esperienze mettono in evidenza come la formazione al pensare e al sentire interculturale costituisca un bisogno formativo che comprende, oltre alle emergenze dell’accoglienza e dell’integrazione, anche la formazione di formae mentis. L’Autrice considera il tema del religioso nel suo divenire storico-sociale e nella specificità del dialogo. Sostiene, mettendo in evidenza i rapporti tra stato italiano e diverse comunità religiose, che solo attraverso il paritario riconoscimento delle differenti appartenenze religiose è possibile avviarsi verso una società veramente laica e capace di fare crescere in modo democratico lo sviluppo dei saperi nel rispetto della specificità delle tradizioni. Come evidenzia Silvia Guetta ‹‹Ogni riferimento alla libertà religiosa mette, quindi, in evidenza sia la libera costruzione dell’identità dei credenti appartenenti alle molteplici tradizioni religiose che l’identità di chi credente non è e come persona atea, scettica, agnostica, o indifferente, segue esperienze di vita altre ma, ugualmente profondamente significative. Quello

che unisce in un interesse comune non è tanto il ritrovarsi dentro una fede o un credo che indichi all’essere umano cosa fare e come comportarsi, cosa credere e cosa pregare, quanto salvaguardare in ogni contesto sociale umano, sia le comunità religiose, sia i diritti umani, che lo sviluppo e il miglioramento della democrazia e la promozione dei valori fondamentali come pace, educazione alla libertà, dialogo e solidarietà. La pace tra le religioni è quindi un preludio importante e fondamentale per la pace tra i popoli›› (p.68). Strumento di dialogo, ma anche di conflitto e di radicamenti di estremismi e intolleranze, il tema del religioso è anche uno strumento utilizzato dalle organizzazioni internazionali per rapportarsi alle comunità ed ai gruppi, per avviare dall’interno processi di salvaguardia del patrimonio immateriale della cultura e per sostenere l’alfabetizzazione delle bambine e dei bambini. Considerando il dibattito europeo sulle strategie e sulle politiche del dialogo interreligioso, vengono analizzati alcuni documenti fondamentali che meglio supportano le politiche e le pratiche del dialogo e della reciproca conoscenza. Giustamente viene notato che: ‹‹Da lungo tempo, le tradizioni religiose hanno creato separazione tra fedeli e non fedeli, tra credenti e atei, tra coloro che appartenevano ad una tradizione e coloro che non ne facevano parte. Pratiche di esclusione che tutt’oggi rischiano di entrare implicitamente dentro le relazioni sociali e culturali delle collettività e di continuare a far percepire una sorta di ostilità e di intolleranza, di pregiudizio che porta a diffondere con facilità forme dii antisemitismo e di islamofobia›› (p. 74). Il volume presenta, nella terza parte, due esperienze di dialogo interreligioso: la prima come esperienza educativa del learning to live together e la seconda come strumento per coinvolgere le comunità religiose nei processi di pace nell’area israeliana e palestinese. L’ ultimo capitolo affronta il tema dell’educazione alla pace partendo dall’impegno assunto dalle organizzazioni internazionali, ma per lungo tempo poco recepita dagli Stati membri, per focalizzarsi sugli studi e le ricerche che hanno contribuito a fare emergere la necessità di ripensare alla scienze dell’educazione nella prospettiva del benessere planetario piuttosto che della distruzione del pianeta. È quindi necessario comprendere come l’educazione alla pace non si riferisce a particolari proposte di contenuti scolastici da svolgere nelle scuole e a problematiche che riguardano i paesi dove sono presenti conflitti armati. L’educazione alla pace considera che il dramma del conflitto e della violenza non risieda solo nelle azioni belliche, ma sia intrinseco in ogni società, in ogni gruppo come pure in una dimensione sia pubblica che privata. La manifestazione di questa violenza è visibile attraverso le forme di esclusione, di sfruttamento, di abuso e di manca-

to rispetto dei diritti umani. Con il riferimento alla pace, l’educazione si carica di un nuovo significato, come impegno sociale, civile e culturale assumendosi la connotazione di un modello educativo alto, di fronte alle nuove e future generazioni. In questo senso l’educazione alla pace diventa come una forma di resistenza gandhiana al conflitto e alla violenza diffusa. L’educazione alla pace promuove non solo il successo personale e forme di alfabetizzazione diffuse tra tutti i popoli, soprattutto in quelli ai margini del sistema economico occidentale, ma pone il problema di come rendere la formazione individuale un successo e una risorsa per l’ intera comunità umana. La necessità ad apprendere gli strumenti e le pratiche della convivenza pacifica, tema che attraversa tutto l’itinerario espressivo del volume, è una questione che pone interrogativi nuovi su come e quanto i contenuti delle discipline studiate a scuola, i metodi e le pratiche di apprendimento siano espressione di culture di guerra o di pace, di conflitto o di convivenza pacifica. Da qui la consapevolezza piena che l’educazione rappresenta uno dei principali aspetti che formano alla cultura della pace. Essa può evolversi ed affermarsi se vengono ugualmente e contemporaneamente attivati altri principi fondamentali come l’uguaglianza dei diritti e delle responsabilità tra donne e uomini, il rispetto dei diritti umani, il sostegno alla partecipazione democratica e alla cittadinanza attiva, la promozione di sviluppi economici e sociali sostenibili, la libera circolazione dell’informazione e della conoscenza e la promozione della pace internazionale e della sicurezza per tutti i popoli La Human Security, insieme allo sviluppo umano e allo sviluppo sostenibile vengono analizzati nel saggio come alcuni dei processi considerati oggi sempre più significativi per affermare la cultura di pace. Infine l’Autrice si focalizza sulle pratiche di costruzione di competenze sociali come necessità priorità per il successo dell’educazione alla pace. Riflette l’Autrice: ‹‹L’osservazione che gli ambienti educativi, le strutture scolastiche, i contenuti e le metodologie utilizzate possano essere catalizzatori di conflitti violenti è diventata sempre più una preoccupazione della comunità internazionale. Un rapporto che per lungo tempo era stato letto ed interpretato in modo solo unidirezionale: la guerra causa l’analfabetismo perché distrugge le opportunità educative per la popolazione. Tale interpretazione poneva l’educazione e il sistema di istruzione ad essa collegata, in una posizione di mancata responsabilità nei confronti dei conflitti e delle instabilità sociali›› (p. 131). Ecco quindi delineato un impegno nuovo della scuola che dal 2007 lancia il programma “La pace si fa a scuola”, con l’obiettivo di promuovere il dialogo tra culture e religioni, di formare alla solidarietà tra i popoli e all’impegno per una cittadinanza attiva e partecipata.

Il volume rappresenta un valido strumento di interpretazione delle relazioni tra i popoli e indica le strade per superare i conflitti attraverso l’educazione alla pace. L’Autrice, sull’onda di un pensiero pedagogico che guarda ad una dimensione altra, oltre le ricette tecnologiche e le pratiche meramente didattiche, inquadra il suo lavoro in un percorso di “pedagogia alla libertà” che ha rappresentato e rappresenta uno degli aspetti più significativi del pensiero pedagogico italiano, che, da Lamberto Borghi ad Aldo Visalberghi, da Raffaele Laporta a Piero Bertolini, ha guardato alla costruzione nel nostro Paese di una nuova democrazia più diffusa e partecipata.

Simonetta Ulivieri

Introduzione

La volontà e il desiderio di riflettere sui continui possibili, e non scontati, intrecci e soluzioni aperti tra i modelli di interculturalità, di dialogo interreligioso e di cultura di pace, si sono alimentati in questi anni in sintonia con lo sviluppo di ricerche, di progetti e di esperienze realizzate in differenti ambiti nazionali e internazionali. È nella consapevolezza di sapere, con la meraviglia e la curiosità, che niente è come appare, fermo e stabile, ma piuttosto un continuo evolversi che si fa momentaneamente concreto e visibile dentro gli spazi degli incontri, degli scambi e della partecipazione esplorativa del conoscere, che sollecita a riflettere a un’educazione di qualità fondata sui principi dei diritti umani, scientificamente e spiritualmente scelta, come contributo imprescindibile alla costruzione di un futuro planetario migliore. Nell’educazione non è implicito il senso della pace: sono gli esseri umani che rendono l’educazione una educazione per, in e con la pace. Il bisogno di continuare ad esplorare quali possano essere le migliori pratiche che nelle relazioni umane facilita il vivere e condividere il benessere e quali siano i contributi teorici e metodologici nazionali e internazionali che aprono alle scelte di educare alla cultura della convivenza pacifica, è stato ciò che ha motivato la stesura di questo libro. Il libro è attraversato proprio da questa tensione che vuole, proponendo una lettura critica e contestualizzata, considerare il progettare, il fare e l’essere in educazione come un impegno per la pace. I tre richiami, inter/intra-cultura, inter/intra-religioso e pace sono percorsi intrecciati, vissuti che si interrogano reciprocamente per trovare il punto di coerenza che li sostiene, li rende espliciti e li legittima. È la ricerca di intrecci e integrazioni di coerenza che la relazione educativa stessa è in grado di mettere in discussione, decostruire, ma anche riproporre in prospettive nuove perché arricchite di interpretazioni della realtà sempre più profonde e inedite. Questo significa stare dentro la comprensione di ciò che porta alla costruzione dei significati che diamo alla realtà vissuta anche nel conflitto, gli strumenti necessari per decostruire quello che limita e ostacola

la relazione e il dialogo. Significa anche ricercare come attivare quella flessibilità cognitiva, emotiva, affettiva e spirituale, e sicuramente inclusiva, che permette la ricomposizione dei saperi interculturali necessari allo sviluppo del dialogo tra tradizioni religiose diverse in prospettiva di nuove convivenze pacifiche. Come ogni progetto ed esperienza educativa, riconsiderata e valutata pedagogicamente, tutto questo si presenta come una sfida contro ogni forma di condizionamento e adattamento passivo alla realtà che, spesso ci coglie impreparati dentro un mondo che si fa sempre più complesso, globalizzato, conflittuale e autodistruttivo. Un mondo dentro il quale, come attori storici del presente, condividiamo la quotidianità, viviamo anche le logiche della separazione, dell’annullamento delle categorie spazio-temporali. Modelli di significati semplici e lineari che collimano con la loro facile comprensione a vedere nell’Altro il nemico, il diverso da escludere, colui che disturba perché ci coinvolge nel ripensamento di ciò che siamo. Come è allora possibile dare spazio, dentro e fuori di noi, alle esperienze del dialogo. Come ricercare l’autenticità dell’Io e dell’Altro interagendo con le altre forme di comunicazione. Con il dialogo è possibile esplorare le innumerevoli sfumature del comunicare che ci pongono in relazione con il benessere che sta dentro la convivenza. È nell’educare a questa continua e profonda esplorazione di noi che porta, secondo Buber, a comprendere i differenti tipi di dialogo, autentico, tecnico e monologo che sono poi “gli ambiti della vita dialogica e monologica [e] non sempre coincidono con quelli del dialogo e del monologo. […] C’è anche un dialogo che non è vitale, cioè ha l’apparenza del dialogo, ma non l’essenza. Talvolta sembra addirittura che esistono ormai solo di questo tipo”1. Tre contesti di profonda problematicità che, percorsi dal fil rouge della relazione/opposizione dell’Altro e del Noi, intendono valorizzare la riflessione su cosa significhi educare alla complessità ed esplorare i valori, le attitudini, i comportamenti e i modelli di vita che rigettano la violenza. Tre piste che si aprono come creative prevenzioni all’orientamento positivo dei conflitti. Negli ultimi anni, a seguito del diffondersi degli studi e delle ricerche sulle tematiche relative alla pace e ai conflitti, è emerso, in modo sempre più chiaro, quanto sia necessario formare gli educatori e gli insegnati, alla conoscenza e alla progettazione di proposte educative che sappiano cogliere, adattandoli a specifici contesti, la pluridimensionalità di queste tematiche. Da qui anche la riflessione sull’importanza del dialogo, considerato per la sua capacità e potenzialità di cambiamento/trasformazione del pensa1 M.

Buber, Sul dialogo. Parole che attraversano, Cinisello Balsamo, BUC, 2013, p. 45.

re, un dispositivo interessante per la disponibilità e l’apertura al confronto, all’ascolto e al decentramento intellettuale. Il tema dell’intercultura si pone in questa riflessione come pratica necessaria allo sviluppo dei possibili e molteplici dialoghi che si attualizzano e realizzano non solo in differenti abiti dell’agire umano, sia esso sociale, culturale o politico ma, anche, nelle questioni che hanno un impatto planetario e che riguardano il genere umano nella sua presenza attuale e futura. L’intercultura si rapporta alla educazione per lo sviluppo della cultura di pace quando si pone il problema di promuovere e sostenere la convivenza pacifica e costruire, partendo dal riconoscimento dei diritti umani, delle pari opportunità e delle questioni di genere, una relazione con l’Altro finalizzata a decostruire gli stereotipi culturali responsabili di razzismi, marginalità e diseguaglianza. L’intercultura diventa anche una riflessione sul conflitto e sui conflitti che, in primis, dentro di noi, contribuiscono alla positività e all’autenticità della relazione con l’Altro e con il mondo. Comprendere con attenzione le risposte e le scelte personali che legano all’appartenenze culturali apre alla possibilità di costruire alleanze interculturali. Le alleanze intercultuali sono pensate nella logica del dialogo a pari livello e come condivisione delle molteplici risorse umane capaci di far fronte ai problemi e alle questioni che preoccupano il pianeta sia a livello globale che locale. Questa ipotesi relazionale, può essere pensata come un progetto da realizzare, dove gli obiettivi di questa alleanza sono compresi, pattuiti, partecipati e gestiti da tutti coloro che ne sono coinvolti. È questa la nuova sfida di inclusione sociale e culturale che l’Europa ha davanti a sé. Una sfida aperta a riconsiderare ogni azione educativa, guardando con le lenti della pace dentro la luce dei suoi valori fondamentali e, e dare all’educazione alla pace quella priorità sulla quale costruire i processi di reciproca conoscenza e di inclusione, ricomprendendo dentro di sé ogni tipo di differenza. È, quindi, dentro questa sfida che il religioso, come esperienza educativa, viene ripensato e vissuto dentro gli spazi del laico che dialoga con quella spiritualità che porta gli esseri umani ad interrogarsi sulla natura e i misteri della vita. Un esserci critico e costantemente teso verso la ricerca di forme di pluralismo che si possono realizzare con l’impegno di un sentire comune capace di coinvolgere i punti di forza e di debolezza delle differenti tradizioni religiose, di coloro che ad esse appartengono, di coloro che in queste non si identificano e di coloro scelgono di stare fuori da ogni appartenenza. È, come sostiene Sen la possibilità, che è anche ricchezza, di stare dentro identità multiple che assumiamo, costruiamo e valorizziamo lungo il

cammino della nostra esistenza e in funzione delle relazioni implicite ed esplicite che costruiamo2. L’educazione al dialogo interreligioso si oppone a ogni forma di fondamentalismo e di estremismo ed ha un importante ruolo per lo sviluppo dei diritti umani, della giustizia, della solidarietà, della diversità e della pace. È sempre più necessario fare in modo che i differenti mondi religiosi trovino come ripensarsi e riconoscersi attraverso il dialogo anche con ciò e con chi religioso non è, per poter crescere insieme, aprirsi a confronti in grado di valorizzarsi, nel reciproco rispetto. È sempre più urgente comprendere come l’incontro tra le tradizioni religiose e l’educazione costituisca una riflessione pedagogica su come valori, prospettive, ricerche possano dialogare alla pari nell’educazione, su quali siano gli apporti significativi per lo sviluppo di forme di sapere, ma anche riconoscere con chiarezza quali di questi valori limitano e condizionano il conoscere, il benessere e lo sviluppo degli esseri umani. Come ogni modello e forma culturale, anche la cultura di pace si realizza da ciò che ogni essere umano creativamente sceglie, desidera e vuole.

2 Cfr.

A. K. Sen, Identità e violenza, Roma, Laterza, 2008.

1. Dall’integrazione all’alleanza interculturale: significati e modelli

1. Intercultura, integrazione, educazione inclusiva L’attenzione verso la tematica dell’intercultura si caratterizza e si definisce in Italia in relazione e in risposta all’arrivo e alla presenza di persone immigrate che provengono da contesti e zone di pericolo, di guerra, di carestia, di persecuzioni. L’idea di intercultura è una risposta progettuale alla compresenza, ma non sempre una convivenza pacifica e costruttiva, di differenti gruppi culturali ed etnici all’interno di uno stesso territorio. L’intercultura non è una situazione dalla quale è possibile partire, quanto una meta alla quale è necessario giungere attraverso un condiviso impegno di negoziazione, rispetto dei diritti umani, cooperazione e dialogo. Il prefisso inter rimanda a delle azioni che mettono in comunicazione attraverso lo scambio, l’incontro, l’interazione il confronto e il cambiamento reciproco. Come esperienza di sviluppo di nuove forme di qualità di vita, la tematica dell’intercultura trova la sua origine anche nella ricerca di solidarietà, uguaglianza e parità dei diritti che i processi di globalizzazione e di apertura ai saperi planetari, definitisi negli ultimi decenni dalle tecnologie e dai mezzi di trasporto, hanno sempre più richiamato. Dialogo, incontro e solidarietà diventano, quindi, alla luce dei processi di globalizzazione che vedono le forme di sfruttamento economico, ambientale e umano, dei percorsi prioritari per lo sviluppo di progetti interculturali. Progetti che si rifanno anche ad una cultura maturata nell’impegno della società civile, a sostegno delle forme di convivenza pacifica, di attenzione per le fasce deboli della popolazione e della continua tensione che si genera tra sviluppo, benessere/povertà e mondialità1. La questione interculturale si delinea, soprattutto intorno ad un tipo di immigrazione che, per niente unitaria e composita, si presenta tuttavia pro1

Cfr. F. Cambi, Intercultura. Fondamenti pedagogici, Roma, Carocci, 2001; Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Roma, Carocci, 2006.

blematica e ricca di scenari complessi. Ciò che appare subito evidente è la novità dell’incontro che si comincia ad avviare tra saperi e pratiche culturali differenti. Lingue, religioni, modelli sociali, pratiche comunitarie, significati e valori, ma anche aspetti legati alla salute e all’educazione cominciano ad entrare, dall’inizio degli anni Ottanta, prima in forma piuttosto graduale e poi, a partire dagli anni Novanta, con una accelerazione che caratterizzerà il fenomeno come una situazione di continua emergenza. Rispetto agli Stati europei, come la Germania, il Belgio, la Svizzera che, a partire dal Secondo Dopo Guerra, sono diventati poli di attrazione per lavoratori provenienti soprattutto dall’Europa mediterranea, l’Italia ha visto le prime presenze di immigrati quasi vent’anni più tardi. Un’immigrazione, quella in Italia, caratterizzata da una provenienza asiatica, soprattutto indiana cinese e africana, in particolare magrebina e sub-sahariana che ha portato una rapida crescita di nuovi potenziali cittadini e che ha modificato l’assetto di molte realtà locali. Benché la distribuzione delle persone immigrate non sia uniforme in tutta la penisola la loro presenza è pressoché distribuita su tutta la penisola. Differenti sono, comunque, le realtà di aggregazione dei gruppi e il modo di considerare e di vivere il processo migratorio, di mantenimento dei contatti con il contesto di provenienza, di disponibilità alla integrazione e alla convivenza con le realtà locali. Altrettanto differenti e varie sono state le pratiche di accoglienza e integrazione promosse ed attivate dalla popolazione e dalle istituzioni pubbliche e private, presenti sui territori interessati al fenomeno. La natura geografica della penisola italiana ha visto interessate diverse zone di confine come apertura ed entrata di persone in cerca di un nuovo posto dove vivere e garantire anche la sopravvivenza della propria famiglia. Zone di confine dove le popolazioni locali, tentando di rispondere al fenomeno, sono state direttamente coinvolte cercando di sviluppare, nel corso degli anni, pratiche di accoglienza e di integrazione. Il mare è un’ampia zona di confine ed è stato uno dei canali che, in moltissimi casi però, ha distrutto le speranze di coloro che avevano intrapreso il viaggio con la speranza di raggiungere ciò che desideravano. Le prime presenze straniere sono giunte dalla sponda africana del Mediterraneo. Sono soprattutto uomini che cercano un lavoro, una via di fuga verso l’Europa passando dall’Italia. Oggi si conta che le nazionalità di provenienza sono più di cento e nonostante siano presenti dei gruppi più numerosi come i romeni, i cinesi, i marocchini e gli albanesi, la distribuzione delle comunità, la realtà italiana si presenta come policentrica, costituita, cioè, da vari gruppi nazionali ed etnici. La natura del fenomeno immigratorio si è negli anni modificata sia per l’aumento dell’arrivo dei gruppi, sia per la tipologia delle persone interessa-

te, sia infine per gli scenari internazionali di conflitti armati e di emergenze naturali (carestie, terremoti, maremoti) che colpivano le differenti zone del pianeta. Gradualmente sono apparse le donne, i bambini e i ragazzi. Questi ultimi, in moltissimi casi, anche da soli. I minori che giungono in Italia senza la famiglia sono la testimonianza ancora più evidente e profonda della sofferenza che colpisce i bambini e gli adolescenti che vivono in contesti di conflitto e di grave crisi economica e umanitaria. In tali contesti le convenzioni internazionali, prima tra tutti quella sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, vengono ampiamente disattese e calpestate e il pericolo per la sopravvivenza dei figli spinge spesso le famiglie ad allontanarli per inviarli in luogo sconosciuto e lontano, con la speranza che in qualche altro posto possano vivere un futuro migliore. La questione dei minori stranieri non accompagnati è un fenomeno che ha preso forma agli inizi degli anni Novanta ed è andato gradualmente aumentando interessando tutta l’Europa. I minori stranieri non accompagnati sono soggetti fortemente vulnerabili e necessitano di una protezione e di una tutela che ne garantisca sia la protezione dai pericoli, ma anche lo sviluppo della persona come indicato nella Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La realtà mostra, invece, che in molti contesti dell’Europa democratica i bambini e gli adolescenti che vengono da lontano senza la famiglia, sono trattati con misure di sicurezza e controllo, in linea a normative di politica migratoria, al pari degli adulti subendone, in molti casi, le stesse restrizioni e sistemi di punizione ed espulsione2. È indubbio che i ragazzi stranieri che arrivano in Italia senza la famiglia o il supporto di qualche parente che può prendersi cura di loro e che garantisca anche per il loro riconoscimento, nome, provenienza età, condizioni di salute, rappresenta una ulteriore sfida culturale e sociale sia per quanto riguarda le pratiche di assistenza e accoglienza presenti nelle comunità locali, che per l’impegno e l’investimento educativo che le istituzioni formali e non formali devono svolgere nel rispetto della persona. Un progetto interculturale, quello sollecitato dai bambini e dai ragazzi, che si caratterizza anche per ciò che viene considerato cultura e per come questa presenti potenziali strumenti per incontrarsi, comunicare, riconoscersi e creare nuova cultura. Le giovani generazioni che sono cresciute nei contesti educativi della scuola per tutti e che hanno vissuto la costruzione dei saperi negli spazi sociali delle tante diversità testimoniano come l’immigrazione sia stata anche un progetto per il futuro. Nuovi saperi interculturali si sono creati grazie a questi incontri e alle molteplici esperienze 2

Cfr. G. Campani, O. Salimbeni, (a cura di), La fortezza e i ragazzini: la situazione dei minori stranieri in Europa, Milano, Franco Angeli, 2006; O. Salimbeni, Storie minori. Realtà ed accoglienza per i minori stranieri in Italia, Pisa, ETS, 2011.

condivise nella quotidianità. Le esperienze delle nuove generazioni e di quelle che oggi vengono chiamate le seconde generazioni fanno pensare che il modello multiculturale, che considera la coesistenza di gruppi, delle culture, delle religioni, l’uno accanto all’altro, ma separati e senza necessità di riconoscimento reciproco, è stato superato da quello interculturale dove prevale l’interazione tra le persone portatrici di molteplici riferimenti culturali e il riconoscimento-valorizzazione delle diversità. Le nuove generazioni, quelle che sono figlie dei processi migratori e quelle che hanno sperimentato i giochi, le quotidianità, le difficoltà di una scuola che accoglieva altre lingue e tutto ciò che poteva sembrare diverso, sono entrambe portatrici di saperi nuovi, di incontro e scambio È a partire dagli anni Novanta che nella scuola italiana comincia a delinearsi la tematica e poi il paradigma dell’intercultura che, per quanto in un primo momento sia impegnata a rispondere a specificità come l’emergenza, l’accoglienza, le differenti madrelingue , la diversità e lo svantaggio, con gli anni si rinforza il riferimento alla diversità come risorsa umana positiva, dell’educazione al dialogo, alla reciprocità e alla costruzione condivisa di convivenze sociali. Per diversi anni la percezione dello svantaggio è stata associata all’idea che i bambini, essendo privi di riferimenti linguistici e culturali richiesti dalla realtà di accoglienza, dovessero conseguentemente trovarsi in una condizione di limitate possibilità di apprendimento. Ciò ha reso possibile il grande investimento, con altrettanta preoccupazione per i risultati, nei confronti dell’insegnamento dell’italiano, chiamato L23 come aspetto centrale della tematica interculturale. Solo dopo il superamento di una visione prettamente assimilatoria che, talvolta impediva, di considerare realmente gli aspetti, i bisogni e le differenti potenzialità dei bambini appena giunti in Italia4 e che, sottovalutando le differenze culturali, ha portato ad alti tassi di insuccesso e abbandono scolastico, si è diffusa la cultura dell’accoglienza e della attenzione nei confronti della diversità. Una diversità considerata e elaborata essenzialmente a livello etno-culturale che ha dato comunque modo di iniziare ad avviare un rapporto con l’Altro capace di passare attraverso gli aspetti relazionali e comunicativi della tolleranza e della solidarietà. Elementi, questi ultimi, considerati prioritari per combattere il ripresentarsi delle forme di razzismo, xenofobia e antisemitismo. In pratica, almeno per alcuni anni, non solo l’idea dell’intercultura si costruiva 3 La lingua italiana è seconda rispetto alla prima appresa considerata come lingua materna o linguamadre. 4 Cfr. D. Demetrio, G. Favaro, Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia, 1997. B. Iori, (a cura di), L’italiano e le altre lingue. Apprendimento della seconda lingua e bilinguismo dei bambini e dei ragazzi immigrati, Milano, Franco Angeli, 2005.

su quella della presenza degli immigrati, ma si concentrava su una sola categoria di diversità senza riuscirne a cogliere le complessità che stanno dentro le stesse diversità. Questo approccio, costruito soprattutto in considerazione della diversità di tipo etnico ha generato, d’altra parte, una forma di separazione che può esprimersi nella forma noi e gli altri dove, nel contenitore degli altri, vengono posti tutti coloro che non appartengono alla cultura occidentale, in senso generale, e italiana in particolare. In questo senso si definiscono dei confini culturali che contraddicono pienamente la natura stessa della cultura rendendola, il contrario di quella che è, rigida, circoscritta e limitata ai confini dei paesi di provenienza delle persone. D’altra parte è entrato in gioco un altro stereotipo rappresentativo: la considerazione che gli autoctoni fossero tutti uguali e che solo gli immigrati fossero carichi di diversità. Questo ha generato dei falsi luoghi comuni e non ha dato modo di poter esplorare altre forme di diversità che sono presenti e caratterizzano le realtà. Ci riferiamo alle diversità di genere, quelle socio-economiche, quelle ecologiche individuabili negli ambienti, biologiche, religiose ecc. ‹‹Inoltre anche i temi come la fame nel mondo, la povertà, la gestione dei rifiuti, le forme di inquinamento, la gestione dell’acqua, non sono considerati come questioni culturali che possano trovare soluzioni di tipo interculturale. Infine, quando si osserva che la presenza di immigrati produce atteggiamenti xenofobi e discriminanti, la riflessione si concentra spesso quasi esclusivamente su aspetti riguardanti l’origine etnica e religiosa: altre forme di discriminazione, motivate dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’handicap, non sono considerate come problematiche interculturali e quindi non rientrano nell’orizzonte dell’educazione interculturale››5. Una tale miopia ha distorto anche la natura stessa del discorso interculturale, costruendo percorsi con questa tematica solo in presenza di bambini immigrati. Fortunatamente questa impostazione si è andata perdendo aprendo la strada all’educazione interculturale come educazione alla democrazia, ai diritti umani, alla solidarietà e alla tolleranza. Così, in Italia, come in altri contesti europei, l’educazione interculturale si caratterizza sempre più come una necessità più che una emergenza o una opzione. Per quanto non sia possibile generalizzare, è possibile considerare che nella scuola italiana, a partire dagli anni Novanta si siano succedute tre macrofasi che caratterizzano il rapporto tra educazione e intercultura. Queste si definiscono come: la scuola risponde all’emergenza e fa posto agli alunni stranieri; la scuola si organizza, attivandosi per l’integrazione 5 E. Elamé, J. David, Educazione interculturale per lo sviluppo sostenibile, Roma, EMI, 2006, p. 17.

degli alunni stranieri; la scuola elabora una nuova prospettiva interculturale nella prospettiva dell’inclusione e dello stare insieme. La prima fase è stata quella di far fronte ad una situazione inaspettata e alla quale gli insegnanti e lo stesso sistema scolastico non erano preparati. In risposta alla presenza di nuovi volti, colori, linguaggi e storie di vita c’è stato, in gran parte dei casi, un immediato tentativo di cercare di comprendere le problematiche e le difficoltà e di rispondere, talvolta, con grande spirito umanitario, alle nuove richieste sociali. Dall’altro c’è stato un percorso più elaborato di investimento progettuale che è consistito nell’organizzare e ideare nuove sperimentazioni collegandosi direttamente alla ricerca pedagogica. L’educazione interculturale viene riconosciuta come aspetto e impegno della scuola nel 1990 con la circolare ministeriale n. 2056 che fornisce indicazioni operative per l’inserimento degli alunni stranieri nelle scuole. È quindi già a partire dagli anni che precedono l’Autonomia scolastica del 20007, che si guarda al dibattito interculturale come una interessante proposta di rinnovamento per la progettazione di un nuovo modello di sistema formativo integrato. Le associazioni, il mondo dell’educazione non formale, gli enti locali, ma anche il mondo dell’editoria e della formazione degli operatori-educatori, si attiva per comprendere e rispondere al bisogno di realizzare innovazione educativa. Il Ministero dell’Istruzione si adopera per la creazione di una commissione sull’educazione interculturale che pur avendo vita breve, realizza anche la rete televisiva progettando un corso a distanza RAI-LAB sulla educazione interculturale8 ancora attivo e aggiornato sulle normative e sui significati in trasformazione oltre che sulle problematiche da affrontare. La scuola ha dovuto rispondere, con i mezzi e le risorse che possedeva, alla necessità di costruire gli spazi dell’integrazione e dell’accoglienza. Doveva prepararsi alla novità dello scambio e della diversità che passava attraverso le differenti lingue che, gradualmente, coloravano di nuovi suoni le aule e i giochi dei bambini. Esperienze importanti e significative per tutti. Esperienza di messa in discussione dei pregiudizi e degli stereotipi che, spesso, si infiltravano in modo silenzioso e sotterraneo, procurando un danno profondo, insidioso e duraturo nella relazione e nella formazione delle persone. Stereotipi e pregiudizi che si scontrano con l’idea di appartenenza ma, meglio dire delle appartenenze, e che ne delimitano, molto spesso il lo6

Circolare n. 205, 26 luglio 1990, La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale. 7 D.P.R. 8.3.99 n. 275, Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche. 8 RAI EDU LAB Educazione interculturale, http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/default.htm

ro stesso riconoscimento. Appartenere ad un gruppo, fosse esso religioso, etnico, nazionale, ha delimitato, per diverso tempo, almeno per i primi anni dell’inizio del fenomeno, una percezione complessa e dinamica delle relazioni tra le persone. Per semplicità gli immigrati venivano ricondotti ad una tipologia di diversità. Questo ha poi creato la base per la costruzione di stereotipi, che apparivano utili per facilitare la comprensione e le caratteristiche dell’Altro. Definire e delimitare l’identità dell’Altro alla propria prospettiva ed a un modello definito a priori, assicurava di poter gestire la relazione con linearità e della semplicità. Pertanto i bambini marocchini, indiani o tunisini, non solo hanno rappresentato, agli occhi di molti insegnanti il Marocco, l’India, la Tunisia, ma sono stati considerati per molto tempo, gli ambasciatori culturali dei loro Paesi. Gli insegnanti ritenevano che i bambini immigrati potessero essere fonte di conoscenza ed in grado di esprimere le caratteristiche dei tanti mondi di provenienza, delle storie dei loro paesi e delle tradizioni locali. Viene così a definirsi un primo modello di integrazione che riaffermava lo stereotipo della diversità come opposizione, come appartenenza singola altra, comprensibile se semplificata e pertanto legittimata. E anche il modello di integrazione proposto, risentiva in qualche modo di questo presupposto mono-etno-autoreferenziale. Risultava sicuramente più facile e realizzabile chiedere a chi era portatore di una appartenenza semplice, per come questa veniva rappresentata dal paese accogliente, di integrarsi ad una realtà più complessa, sicuramente più dinamica, ma soprattutto più ricca di saperi e più evoluta. La particolarità del rapporto della scuola italiana ( utilizziamo qui un riferimento generale pur sapendo che importanti e significative azioni educative non possono essere inserite in questo quadro) è stato quello di vivere in modo paradossale le esperienze e l’evolversi della multicultura e dei progetti per la costruzione di dinamiche interculturali. Da una parte una rappresentazione semplice e lineare delle appartenenze e dall’altra la disponibilità ad accogliere le diversità. D’altra parte il modello di accoglienza, seguito da quello di integrazione, che veniva proposto, risentiva di una tradizione culturale italiana poco abituata e disponibile ad accogliere il punto di vista, le esperienze, ma soprattutto le tradizioni culturali e religiose. Questo è testimoniato dal fatto che i saperi storici non hanno considerato la presenza di minoranze, come quelle religiose, etniche, linguistiche un arricchimento dello stesso scenario culturale. Una scarsa attenzione che ha reso insensibile la popolazione italiana anche di fronte agli spostamenti migratori interni, avvenuti a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso con l’assorbimento nelle industrie e fabbriche del nord Italia della manodopera proveniente dal sud.

Solo le minoranze linguistiche sono state tutelate con leggi9, senza tuttavia avviare politiche di incontro, riconoscimento reciproco e scambio culturale. L’evolversi delle politiche e delle economie mondiali che hanno determinato tipologie differenti di movimenti migratori, dovuti ad un’ampia gamma di necessità, bisogni, attese e desideri, intrecciati ad una molteplicità di risorse umane specifiche ed originali di ogni singola persona, ma anche del gruppo di riferimento, ha aperto la strada ad una visione nuova del problema, introducendo, almeno sul piano teorico, il bisogno di parlare di pluralismo, accoglienza, empatia, confronto e dialogo. Termini questi che nel corso degli anni hanno iniziato a colorarsi di significati specificamente orientati verso i differenti problemi e aspetti delle società multiculturali. Già a partire dalla fine degli anni ‘90, anche il Consiglio d’Europa10 ha focalizzato la propria attenzione sul problema delle identità miste, del pluralismo culturale e del métissage. A questo si è aggiunta la necessità di fare fronte agli episodi di razzismo e di antisemitismo ancora largamente diffusi sia nei comportamenti delle persone, che nelle politiche di alcuni Stati. Da allora si è andata sempre più affermando la nuova identità di cittadino europeo caratterizzata da una appartenenza fatta di molteplici appartenenze11 non necessariamente in conflitto tra loro, o causa di conflitti, ma anche arricchimento reciproco di cittadinanze diverse e nuove sfide per la democrazia. Su questa nuova idea di incontro tra le appartenenze e della loro possibile risorsa per nuove forme di democrazia, si costruisce, la necessità di abbandonare definitivamente il modello di assimilazione sociale e culturale delle minoranze, nonché, sicuramente simile a questo, quello dell’integrazione forte12. Nella maggior parte dei casi l’integrazione è vista come un’azione che deve compiere chi si trova in una situazione che la società ritiene “di diversità” (immigrazione, disabilità, religione ecc.). I “diversi” devono avvici9 Legge

15 dicembre 1999, n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. 10 Consiglio di Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale. Vivere insieme in pari dignità, Strasburgo, 2008. 11 Il 1996 rappresenta per l’Unione Europea una prima tappa per l’avvio di un’affermazione e attenzione continua nei confronti delle problematiche interculturali, interreligiose e di rispetto dei diritti umani. Durante questo quasi ventennio, gli stati membri sono stati più volte coinvolti a far fronte alle loro responsabilità innanzi a continui episodi di xenofobia, razzismo, antisemitismo ed esclusione. Il 2000 vede attivarsi, anche dopo il trattata di Amsterdam del precedente anno, trattato che regolamenta le nuove entrate nell’Unione Europea e i rispettivi obblighi comunitari degli stati membri, la lotta contro le differenti forme di discriminazioni che colpiscono non solo le diversità etniche, culturali, di cittadinanza e religiose, ma anche di genere età e condizione fisica. CES/96/51 http://europa.eu/index_it.htm. 12 Cfr. G. Campani, Dalle minoranze agli immigrati. La questione del pluralismo culturale e religioso in Italia, Milano, UNICOPLI, 2008.

narsi e inserirsi nelle norme e nelle regole sociali, culturali, scolastiche, allo scopo di integrarsi alla maggioranza. Nel processo di integrazione non sempre viene vista la complessità che sta dietro, se prendiamo ad esempio l’immigrazione, tutte le fasi con la loro ricchezza di esperienze, che le persone ed i gruppi hanno vissuto. Una dinamica significativa che gioca su tre cardini: le caratteristiche di vita nella società di provenienza, l’esperienza del viaggio per immigrare e le caratteristiche della società di arrivo, che è comunque la società ospitante anche se non sempre l’unica. Condizioni diverse sono proprie anche delle differenti condizioni o status degli immigrati (regolari, irregolari e clandestini), che sono coinvolti in modo differente dentro i processi di integrazione. Rispetto al secondo punto, il tema dell’integrazione diventa sempre più centrale nelle pratiche scolastiche e nei riferimenti legislativi ministeriali. L’integrazione diventa l’obiettivo intermedio e, soprattutto, finale del percorso scolastico dei bambini stranieri. Tutto ruota intorno al buon esito del percorso scolastico perché un eventuale fallimento potrebbe condurre a forme di disagio e di marginalità. Oggi questo aspetto viene visto attraverso una prospettiva più ampia e complessa, comprendendo le molteplici dinamiche relazionali e culturali che la scuola contribuisce a stimolare sia tra pari che tra adulti e alunni e studenti. Tuttavia rimane ancora forte il paradigma dell’integrazione unidirezionale che vede e valuta come e quanto il bambino/a con “diversità” come i bambini con bisogni speciali, con disturbi specifici di apprendimento, appartenenti a tradizioni religiose diverse e che vivono in condizione di esclusione sociale, si integrano al gruppo classe. Sicuramente la riflessione posta dalla pedagogia interculturale sui bisogni che caratterizzano i processi di integrazione nella scuola, ha aperto nuove prospettive, sviluppato importanti indagini e costruito modelli e strumenti in grado di offrire ai bambini, ai loro genitori e agli insegnanti, aperto esperienze di incontro e collaborazione capaci di coinvolgere, senza la percezione del maggioritario e minoritario, tutte le differenze. L’integrazione è un diritto che richiede, per essere realizzato, tempi e spazi, pratiche, azioni ed interventi. Come diritto è anche un dovere che deve essere assunto da tutte le parti coinvolte nel processo. Questo secondo aspetto viene scarsamente riconosciuto e agito. L’integrazione è un processo che, nel guardare in prospettiva futura, mantiene la percezione del qui ed ora, percezione che ostacola il riconoscimento che le persone sono portatrici di saperi, emozioni, vissuti, esperienze, conflitti e difficoltà che li fanno essere ciò che nelle situazioni e relazioni sono. Ogni persona coinvolta nel processo in atto è portatrice dei tanti vissuti e delle tante modalità relazionali e comunicative sviluppatesi in rapporto ai contesti culturali di prove-

nienza. Ecco perché parlare di accoglienza significa considerare una complessità di elementi che entrano in azione simultaneamente con una carica di problematicità e di potenzialità specifiche e originali che si vanno ad incontrare con aspetti del contesto e del territorio: l’organizzazione scolastica, l’apprendimento della lingua italiana (L2), la disponibilità e l’apertura alla diversità alla novità e la curiosità per quello che la nuova esperienza può portare. Ogni aspetto deve essere libero da forme di giudizio e di valutazione, soprattutto se, implicitamente, vengono utilizzati parametri di riferimento non adatti alla situazione. Il rischio è, infatti, quello di costruire una rappresentazione del bambino come soggetto difficile, o portatore di difficoltà, senza che venga adeguatamente considerato che la difficoltà è spesso dovuta all’insegnante che deve ricercare strumenti e metodi differenti da quelli comunemente usati per reinterpretare e trasformare relazioni e modelli comportamentali. Molti sono gli elementi di criticità che limitano il successo dei percorsi di integrazione. Tra questi possono essere considerati quelli relativi alla non corrispondenza tra classe di inserimento e età anagrafica, la mancata organizzazione di corsi di lingua italiana fuori dall’orario scolastico e, soprattutto, in periodi di sospensione delle attività didattiche, la scarsa fiducia nelle possibilità scolastiche dei bambini immigrati perché non ritenuti capaci di superare i gap di inserimento, l’idea che la non conoscenza della lingua italiana equivalga ad una mancanza di ogni tipo di conoscenza linguistica e che la sua mente fosse tabula rasa. A questo proposito è talvolta presente ‹‹una incapacità della scuola rispetto al compito dell’insegnamento della L2. Vengono sottolineati, talvolta drammatizzati, i bisogni comunicativi propri della prima fase dell’inserimento (non parla una parola di italiano) ma non vi è sufficiente consapevolezza sulla portata dello sforzo richiesto dall’apprendimento dell’italiano per lo studio: compiti richiesti all’apprendente, durata nel tempo, necessità di facilitazioni linguistiche protratte da parte di tutti i docenti curriculari››13. Indubbiamente l’apprendimento della lingua italiana è un importante elemento facilitatore, forse il più importante per integrarsi nella scuola ed apprendere i contenuti, ma non è l’unico. I buoni risultati riguardo alla conoscenza della L2 o anche la conoscenza pregressa della lingua, per il fatto di aver ricevuto una educazione bilingue o plurilingue, non determina automaticamente un adattamento positivo ed un successo scolastico. In alcuni casi i bambini che parlano la lingua del paese ospitante, acquisita da uno dei genitori, hanno comunque difficoltà ad inserirsi nel gruppo dei pari ed a 13

G. Favaro, A piccoli passi. Osservare le dinamiche dell’integrazione a scuola, in G. Favaro, L. Luatti (a cura di), L’intercultura dalla A alla Z, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 101.

comprendere le prassi, in gran parte implicite, che la vita e il sistema scolastico ed educativo richiedono. In questo caso si presenta il paradosso che gli insegnanti, convinti che il bambino capisca ciò che loro dicono perché esiste una conoscenza linguistica, non considerano che il bambino, non riconoscendo le pratiche culturali e i significati impliciti attribuiti dagli insegnanti, possa entrare in difficoltà e sentirsi disorientato. La conoscenza della lingua del luogo non dà garanzie sulla condizione di benessere dei bambini nella scuola o in qualsiasi altro luogo a loro non familiare. La conoscenza della lingua, soprattutto se insegnata all’interno del contesto familiare, come espressione calda di affetti, sentimenti emozioni e condivisioni, ha bisogno di tempo per maturare ed essere veicolo/strumento di comunicazione anche nei contesti di educazione formale. Può succedere che i bambini che entrano a far parte di una realtà scolastica, per loro completamente nuova, si trovino, al primo impatto, fortemente disorientati dalla richiesta di incarichi, anche semplici che, tuttavia, richiedono una conoscenza e comprensione delle modalità culturali di riferimento. È sempre necessario accompagnare questi casi con specifici interventi di mediazione per favorire l’acquisizione di strumenti utili alla comprensione di quello che va oltre le parole ed è componente fondamentale del sistema sociale. Per i bambini bilingue o plurilingue si apre un nuovo mondo e l’impatto con questo li mette a dura prova. Il bambino deve, non solo essere sostenuto, accompagnato e orientato, deve anche fare ricorso a tutte le sue risorse e potenzialità per comprendere ed individuare come relazionarsi con i pari e con gli adulti. Sono momenti molto delicati che possono generare nei bambini, a causa delle difficoltà relazionali e di reciproca comprensione, una percezione di sé negativa, non adatta e non competente di fronte alla nuova situazione. Sono momenti in cui può essere messa in gioco l’autostima, il senso di competenza o la stessa motivazione ad apprendere. Ogni bambino utilizza le proprie risorse e le proprie potenzialità, i propri sapere pregressi e abilità comunicative; talvolta i bambini e i ragazzi desiderano, consapevoli delle differenze con le quali sono visti, far uso di queste e utilizzarle in modo positivo. Altri non hanno alcun piacere a sentirsi diversi e amano essere considerati uguali agli altri ed annullare tutte le differenze. Dinamiche diverse che vengono vissute dai bambini e dai ragazzi, anche per l’esperienza familiare che vivono, in modo completamente personale. È possibile notare il modo differente con cui i fratelli si rapportano allo stesso contesto educativo. Allo scopo di essere coerenti con un modello di educazione interculturale partecipata, capace di costruire differenti pratiche di alleanze e di condivisione degli obiettivi di benessere sociale e ambientale tra le persone, è necessario coinvolgere tutti gli interessati ai processi di cambiamento e mi-

glioramento del contesto. Ogni membro della comunità coinvolta nel processo deve partecipare attivamente e in modo trasparente, senza che venga attuata alcuna forma di discriminazione. La partecipazione è essenziale in ogni fase del processo che l’organizzazione scolastica o educativa intende intraprendere. Si tratta di seguire, in modo partecipato, i processi di analisi dei problemi, di progettazione degli interventi, di accompagnamento alla realizzazione delle fasi, di implementazione e valutazione. L’esperienza diventa la costruzione di una comunità inclusiva dove ogni persona partecipa indipendentemente dall’etnia, dall’età, dall’orientamento sessuale, dall’appartenenza religiosa o dalle condizioni fisiche. Per sostenere i legami tra scuola, famiglia e comunità, non è sufficiente creare spazi o tempi specifici dove potersi incontrare, è necessario adottare metodi di partecipazione e di inclusione che garantiscano a tutti di trovare spazi di ascolto, di comunicazione e di reciproco riconoscimento in grado di trasformare i problemi in progettualità condivise per la crescita dei saperi, della cultura e del benessere della comunità stessa.

1.1. Dall’integrazione all’inclusione Per quanto ampiamente importanti e significative possano essere le pratiche dell’integrazione e i modelli a cui queste si riferiscono, è necessario porsi alcune domande: a quale scopo è pensata l’integrazione e quali sono i suoi obiettivi finali? L’integrazione è un processo continuo o limitato nel tempo? La prima domanda può trovare una risposta negli aspetti che sono propri della società di riferimento di cui il sistema educativo ne è parte. Il modello di integrazione, per quanto carico di pratiche e di aspettative differenti da contesto a contesto, si collega al bisogno di rendere un po’ meno diversi gli immigrati. In pratica si considera che la diversità riconosciuta nei bambini stranieri può essere superata, o forse anche annullata, se il bambino straniero supera le difficoltà e gli ostacoli presenti nel nuovo contesto e diventa simile ai bambini autoctoni che vengono rappresentati come una unità separata ed indifferenziata. Per altri aspetti, l’integrazione parte dal considerare i bambini stranieri come coloro che, in qualche modo, sono fuori dalla norma, intesa, quest’ultima, come una serie di pratiche, di condotte, di comportamenti accettati e condivisi implicitamente ed esplicitamente dal senso comune e nei contesti formali. Pertanto, l’integrazione viene considerata una possibilità per coloro che la rappresentazione sociale pone fuori dalla norma ed emarginati, di trovare la strada per ritornare o arrivare centro sociale, culturale e normativo, garanzia di normalità. Il riferimento a

questo modello di integrazione, benché sia ancora presente come pratica sociale, viene gradualmente superato da interventi che spostano l’attenzione dal recupero dei bambini stranieri e dei bambini immigrati considerati come bambini-problema ad un approccio che vede il coinvolgimento di tutta la classe e che mette a fuoco gli aspetti relazionali della classe. In molti casi, nonostante sia presente la consapevolezza di quali problemi, conflitti, lacerazioni, ostacoli, paure e dilemmi i bambini affrontano durante il processo migratorio, permane in alcuni contesti, il bisogno di garantire il mantenimento di una situazione di controllo e di equilibrio all’interno della classe. Le riflessioni sugli aspetti dell’integrazione a scuola, analizzati e ben presentati nel contributo della Favaro14, hanno sicuramente e concretamente aperto la riflessione sulla delicatezza delle questioni che queste pratiche richiedono e sulla necessità di attuare continui processi di decentramento cognitivo ed emotivo, oltre che percettivo e valoriale, per offrire ambienti accoglienti ai bambini e alle loro famiglie. Benché questi riferimenti e attenzioni siano raccomandabili e utilizzabili come prassi necessarie, l’integrazione rischia di rimanere obiettivo di una scuola che pensa a questa come necessaria al mantenimento dell’ordine e della normalizzazione scolastica. Richieste esterne, in primo luogo quella dei genitori dei bambini che hanno in classe bambini stranieri, le prove standardizzate che le scuole sottopongono a tutti i bambini, i ritmi e le modalità di apprendimento che si riferiscono ad uno specifico modello di educazione rivolta al pensare e poco al fare, caratteristico della scuola italiana, fanno pensare che alla fine chi può beneficiare dell’integrazione è soprattutto l’istituzione. Riguardo agli obiettivi dell’integrazione la Favaro15 individua alcuni indicatori considerati basilari per monitorare l’apprendimento, le interazioni e le identità personali. Questi possono essere: l’inserimento e l’andamento del percorso scolastico, l’acquisizione in progress delle competenze della lingua italiana, la qualità delle relazioni in classe, gli ambienti, il tempo e gli spazi dell’extrascuola, il mantenimento all’uso e al riferimento alla lingua materna e infine, la continua attenzione agli aspetti motivazionali e di autostima. L’integrazione è uno scenario in trasformazione e tutti coloro che ne fanno parte e vi partecipano, sono portati ad agire insieme, mettendo in sintonia la stessa intensità di bisogni, aspettative e desideri, anche se con contenuti differenti, per il raggiungimento di obiettivi condivisi di benessere e sviluppo. L’integrazione deve coinvolgere tutti i partecipanti al cambiamen14

Cfr. G. Favaro, L. Luatti, op. cit. 15 Ivi, p. 99.

to, aprendo gli spazi per stare dentro il confronto, lo scambio, la scoperta, la sorpresa e la reciproca conoscenza. Ma sta anche nella possibilità di sviluppare e migliorare le pratiche e le competenze cognitive ed emotive come rappresentazione della realtà flessibile e migrante16 e come consapevole conoscenza e uso delle proprie competenze per la trasformazione di questa. Che percezione hanno i bambini delle loro potenzialità di trasformazione della realtà, degli strumenti che già posseggono per natura e di quelli che possono costruire giorno per giorno scoprendo se stessi nella relazione con gli altri? Quanto si rapportano integrazione e trasformazione? È importante che sia fatta chiarezza riguardo ai processi e agli obiettivi posti per facilitare ed assicurare uguali opportunità ai bambini che vengono da lontano, a quelli che richiedono speciali attenzioni, a quelli che hanno fatto esperienza di vita in contesti di svantaggio culturale e sociale. Il processo di integrazione non può essere considerato uguale per tutti. Ogni esperienza di relazione educativa è una nuova emozionante, creativa e irripetibile avventura nel mondo degli apprendimenti. Tutti i bambini e le bambine devono essere accolti dando spazio ai loro bisogni, aspettative e risorse in modo che possa essere vissuta un’ integrazione calda. Un’integrazione capace di collegare tra loro espressioni e contatti di piacere, curiosità, affetti e passioni per tutto ciò che già è conosciuto e di nuovo viene appreso. A questo punto è necessario fare un salto ed andare oltre l’integrazione per entrare nella prospettiva dell’ inclusione. L’inclusione guarda con uno sguardo più ampio al processo di relazione scolastica, educativa e formativa. Il principio che tutti i bambini hanno uguali diritti e devono avere uguali opportunità dentro ogni ambiente educativo, si integra con l’obiettivo di lavorare anche per la trasformazione delle condizioni e delle soluzioni educative per il miglioramento della qualità delle relazioni e la sostenibilità degli apprendimenti. Diventa allora fondamentale individuare le modalità migliori per coinvolgere i saperi di tutte le culture che entrano nelle dinamiche dei contesti educativi. I differenti saperi culturali sono portatori di pratiche educative, di politiche e organizzazioni scolastiche, da quelle burocratiche a quelle delle norme che regolamentano le relazioni tra scuola e mondo esterno, di esperienze di incontro, scambio e dubbi, di rappresentazioni del sapere e del suo uso in modo vario e articolato. Con l’educazione inclusiva è possibile riportare l’attenzione sul fatto che ogni bambino, in situazione di apprendimento, è un soggetto modificabile ma, che il miglioramento delle capacità e competenze di apprendimento è dipendente dalla qualità della relazione educativa proposta. In linea con questo orientamento devono essere garantiti i metodi e le didattiche, così 16 Cfr.

F. Pinto Minerva, L’intercultura, Roma, Laterza, 2003.

come le tecniche e gli strumenti che favoriscano l’ inclusione di tutti bambini. Fuori campo devono essere posti quelli che privilegiano il personalismo, l’esibizionismo, l’antagonismo e la competizione escludente. Un approccio di educazione inclusiva non si crea sui sentimenti di ansia e di preoccupazioni che, spesso, disorientano e rendono difficili le relazioni. Esso si costruisce, invece, sulle domande che aprono alla relazione del tipo: con quali metodi e con quali strumenti è possibile facilitare la partecipazione di tutti alla vita scolastica che stanno vivendo? Com’è possibile riconoscere e rendere reciproco il riconoscimento delle risorse e delle potenzialità dei bambini che sono coinvolti nel gruppo classe? Com’è possibile considerare la specificità di ogni bambino e creare gruppi cooperativi capaci di favorire l’apprendimento di competenze sociali sollecitando la motivazione ad apprendere? Come può essere compreso dai bambini il lavoro educativo svolto dagli adulti? In primo luogo è necessario individuare quali sono le barriere che limitano o impediscono la partecipazione e l’apprendimento individuale e quello cooperativo e quali sono i bambini o i ragazzi che per vari motivi hanno difficoltà a vivere queste esperienze di apprendimento. Quale natura hanno gli ostacoli e come è possibile dare ai bambini gli strumenti per costruire le strategie utili a superarli. Non è necessario pensare agli ostacoli solo in senso negativo o limitante. Essi, è ben saputo, devono essere valutati ed utilizzati attentamente dagli insegnanti e dagli educatori con un approccio risolutivo piuttosto che limitativo. La loro presenza può essere dovuta a molti fattori e cause, che si presentano separatamente o singolarmente, in modo momentaneo o permanente. Essi possono derivare da fattori esogeni, che dipendono dalla relazione con l’ambiente di vita e altri che possono essere definiti come endogeni, ma entrambi ‹‹possono determinare soglie di stimolazione e di reazione diverse, diversi livelli di sensibilità agli stimoli e via dicendo. Questo è per esempio il caso di molti bambini tranquilli e apatici, con i quali è necessaria una stimolazione di intensità, frequenza, ampiezza elevate per raggiungere la loro soglia di recettività››17. I disturbi emotivi che possono derivare da rapporti problematici con i genitori o con i contesti affettivi primari di riferimento, sono, molto spesso, responsabili delle barriere che si frappongono tra il bambino e l’ambiente.

17

R. Feuerstein, R. Feuerstein, Y. Rand, L. Falik, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein. Fondamenti teorici e applicazione pratiche, Trento, Erikson, 2008, p.160.

Feuerstein, utilizza due criteri della mediazione18 che possono essere significativi per lavorare nei processi di inclusione educativa. Il primo viene chiamato Mediazione del comportamento di condivisione, il secondo a cui viene fatto riferimento è la Mediazione dell’individualità e della differenza psicologica19. La mediazione del comportamento di condivisione prepara il bambino e il ragazzo a riconoscere il bisogno, la necessità e l’importanza di cooperare con gli altri uscendo dal proprio sé ed accettare, allo stesso tempo, che gli altri partecipino alle sue vicende. La mediazione è costruita sugli aspetti che riguardano le competenze di ascolto reciproco e di empatia, l’attenzione verso i bisogni e il sentire del prossimo, il rispetto reciproco e la capacità di sapersi porre nei confronti dell’altro con la comprensione, ma anche con la capacità di individuare le risposte più idonee e adatte alla relazione. La condivisione è una competenza presente nelle esperienze dei bambini, competenza che può essere sviluppata nella relazione affettiva, di intimità, di contatto fisico e di reciprocità emotiva che i bambini hanno con gli adulti e i coetanei. La condivisione si può muovere su diversi piani perché gli ostacoli o i bisogni di ascolto e comprensione possono riguardare differenti aspetti della realtà. Ci può essere una sofferenza emozionale, sociale o fisica, o anche alcune di queste che si presentano integrate. La comprensione dei differenti modi con i quali può essere espressa una richiesta di condivisione, più che di aiuto, orienta a poter scegliere con maggiore attenzione le risposte da dare. Lo sviluppo della condivisione parte dalla vita del bambino, ogni gesto o atto educativo può essere mediato come una condivisione o come un’esclusione: tutto dipende dalla intenzionalità operativa che gli educatori (genitori o altri adulti che sono con il bambino) apportano. ‹‹Il comportamento di condivisione è un bisogno fondamentale 18 Con la mediazione, meglio definita come Esperienza di apprendimento mediato, Feuerstein sottolinea la necessità di stabilire delle relazioni educative che siano capaci, non solo di trasmettere ai bambini e ai ragazzi le informazioni e le conoscenze utili per conoscere e potersi adattare all’ambiente presente e prossimo, ma tale concetto si riferisce ad un’ azione educativa intenzionale e reciproca impegnata ad offrire ai soggetti in educazione ‹‹gli strumenti e i prerequisiti necessari per renderlo capace di imparare ad imparare. Trascende l’immediatezza di un evento particolare diventando un’occasione per una generalizzazione e per un ulteriore sviluppo. Più mediazione riceve il bambino, più diventa capace di imparare dalla futura esperienza e di riceverne un mutamento: sviluppa un bisogno per la mediazione, si aspetta che gli eventi abbiano un significato, ricerca, va oltre l’informazione ricevuta attraverso i sensi di un dato momento››. R. Feuerstein, Y. Rand, R. Feuerstein, La disabilità non è un limite. Se mi ami, costringimi a cambiare, Firenze, LibriLiberi, 2005, p. 32. 19 Cfr. R. Feuerstein, Y. Rand, R. Feuerstein, La disabilità non è un limite. Se mi ami, costringimi a cambiare, Firenze, LibriLiberi, 2005; R. Feuerstein, R. Feuerstein, Y. Rand, L. Falik, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein. Fondamenti teorici e applicazione pratiche, Trento, Erikson, 2008; S. Guetta, Il successo formativo nella prospettiva di Reuven Feuerstein, Napoli, Liguori, 2001.

dell’individuo e probabilmente dell’organismo umano, anche una risposta a sentirsi in sintonia con gli altri. Questo fa sì che il bambino agisca molto precocemente per apprendere comportamenti di condivisione, inizialmente attraverso l’azione dell’indicare. Il bambino indica qualcosa, così che la madre o un’altra persona, partecipi all’esperienza e ne diventi partecipe››20. La partecipazione e la condivisione nascono dalle esperienze concrete che si alimentano nei contesti affettivi dove vivono i bambini ed i ragazzi. Questo permette di sperimentare il sentimento di inclusione nel gruppo di appartenenza, grazie alle differenti forme di ascolto e di relazione che si possono sviluppare. Talvolta l’incoraggiamento dei bambini alla partecipazione avviene in senso unico: gli adulti chiedono di entrare in un gruppo o di condividere le esperienze con gli altri. Chi non risponde positivamente a queste sollecitazioni viene rappresentato e descritto come un bambino chiuso, introverso, timido, poco attivo. Ma la partecipazione è questione di reciprocità. I bambini per apprendere come si condivide, hanno bisogno di vivere l’esperienza e con qualcuno che non si limiti a dire che bisogna imparare a condividere. La partecipazione può essere costruita solo nella reciprocità del sentire del pensare e del fare. Il secondo criterio da considerare è quello della mediazione dell’individualità e della differenza psicologica, un indicatore questo, importantissimo, erroneamente considerato opposto al precedente, perché pone importanza sulla necessità di distinguersi dagli altri. Se nel precedente contesto relazionale veniva richiesto di apprendere gli strumenti e i modi per sentirsi in sintonia e in armonia con gli altri, in questo caso l’attenzione educativa è rivolta a dare modo ai bambini di sentirsi individui distinti dagli altri. Questo comporta anche la necessità di prendersi cura, ascoltare, credere in se stessi perché questo è il punto di partenza per trasferire ciò che di positivo è nella propria persona agli altri. Per poter stare bene con gli altri è necessario quindi stare bene con se stessi. Attraverso la mediazione è possibile sollecitare fin dai primi anni di vita, l’espressione dei sentimenti differenti percepiti dai bambini, così come i differenti modi di comportarsi, di esprimersi e di sentirsi parte del gruppo. ‹‹il processo di individualizzazione comporta la definizione dell’unicità di ogni essere umano e stabilisce un confine tra se stessi e gli altri. Incoraggia l’autonomia, la responsabilità personale e l’accettazione delle differenze tra gli individui ed è essenziale in quanto permette a ogni singolo di svolgere il proprio ruolo nella società. Tuttavia, il valore dato all’individualizzazione dipende dal sistema di valori e dalle caratteristiche di una determinata cultura››21. Lo sviluppo di un sé 20

R. Feuerstein, R. Feuerstein, Y. Rand, L. Falik, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein, cit., p. 120. 21 R. Feuerstein, Y. Rand, R. Feuerstein, La disabilità non è un limite, cit., p. 52.

articolato e separato dagli altri favorisce la comprensione dell’unicità di ogni singola persona e sottolinea, allo stesso tempo, l’importanza del riconoscimento delle differenze individuali e della necessaria elaborazione per costruire la condivisione e la partecipazione attiva nella relazione. Per alcuni educatori il riferimento all’unicità della persona è talvolta espresso attraverso un senso di giudizio negativo, piuttosto che di apprezzamento, stima e fiducia, che mette in evidenza le mancanze o i difetti del bambino. La mediazione lavora, invece, sulla consapevolezza che è necessario riconoscere le potenzialità e le caratteristiche della persona nella loro complessità, dimostrando così rispetto per la sua dignità e la sua privacy, la partecipazione all’ascolto ed alla comunicazione, alle sue scelte ed a trovare cosa gli permette di stare bene e sentire la dimensione del piacere. I due criteri sono complementari, entrambi necessari per favorire le dinamiche che interessano i processi di inclusione, di rispetto e di dialogo con le diversità. In conclusione è importante sottolineare che la riflessione sulle prassi dell’inclusione si rapportano ad una visione di complessità delle relazioni educative e di apprendimento che si attivano nella scuola. C’è anche la consapevolezza che le persone considerate dal senso comune fuori dalla norma, sono percepite come soggetti diversi come se tale diversità fosse una caratteristica naturale ed intrinseca delle persone. Tutto ciò impedisce di considerare che chi osserva dall’esterno attribuisce arbitrariamente, sulla base della sua percezione, gli elementi che creano differenza. È la relazione che fa la differenza, ogni persona con il suo agire può influenzare le altre, può attivare forme di comportamento, relazione, cambiamento, che non si sarebbero potuti avere senza la sua presenza. Sta ad ogni singola persona arricchirsi nella diversità costruendo la condivisione e la partecipazione piuttosto che l’opposizione, il protagonismo, la competizione escludente. La scuola, come ogni altro contesto educativo, nel cercare di consentire ai bambini la ricerca e l’espressione delle tante potenzialità, sviluppando le capacità cognitive, emotive, creative e comunicative, deve saper offrire un vasto repertorio di metodi di lavoro e di apprendimenti cooperativi ed individualizzati ed evitare ogni forma di separazione e competizione aggressiva nel gruppo classe. La scuola dell’inclusione mette come priorità la costruzione di processi formativi di qualità capaci di coniugare i successi negli apprendimenti con la diffusione di una cultura dei diritti e della pace, del saper vivere insieme attraverso la reciproca conoscenza, la valorizzazione di tutti, la cooperazione e la partecipazione responsabile e decisionale del gruppo classe. A questo si aggiunge l’importanza di educare ad una visione ottimistica in grado di guardare al futuro con gli strumenti della criticità e della scelta.

Ogni persona può scegliere se orientarsi verso un’alternativa pessimistica o ottimistica della vita22, la prima scelta può portare a situazioni di difficoltà, di passività e di progressiva scarsa autostima, a credere che le vicende della vita accadano per fatalità o per un destino sfavorevole e che non siano dipendenti dalla scelte personali. Orientarsi verso l’alternativa ottimistica, d’altra parte, dipende dalle qualità relazionali ed educative ricevute, muovendosi facendo forza sulle risorse personali perché possano essere raggiunte le soluzioni sperate con risultati positivi. ‹‹Mediare la scelta ottimistica ad un bambino significa cercare quegli elementi positivi che daranno concretezza e validità a tale scelta. Un’alternativa negativa non richiede alcun impegno . Riconoscere l’esistenza di un’alternativa ottimistica significa credere nella possibilità di risolvere i problemi, di superare gli ostacoli, di rimediare alle mancanze o di curare le malattie. [Essa incoraggia a] riesaminare una situazione problematica, trovando indizi che in precedenza possono essere sfuggiti; andare in cerca di dati aggiuntivi; sviluppare nuove strategie; rintracciare esperienze che nel passato si sono dimostrate rilevanti; fare confronti tra alternative; mettere in atto un pensiero ipotetico e altri processi mentali che sviluppano il funzionamento cognitivo››23. Se, quindi, l’inclusione, sostenuta dall’alternativa ottimistica, viene assunta come principio guida del lavoro educativo, deve essere attivato un cambiamento nella formazione dei sistemi, un cambiamento che sicuramente richiede sfide, perché richiede una variazione anche a livello sociale e culturale: è necessario cambiare anche la cultura della classe, della scuola, del territorio fino ad arrivare a livello ministeriale. Sono processi che richiedono tempo, convinzione e solidarietà, ma che proprio per questo devono essere avviati anche nel piccolo delle esperienze quotidiane per costruire competenze utili a superare diversi ostacoli come: gli atteggiamenti e valori esistenti che pongono forti resistenze al cambiamento che rende autonome le persone; la mancanza di comprensione verso ciò che viene richiesto, verso i cambiamenti in atto, verso una visione più complessa dei problemi; la mancanza delle competenze necessarie per affrontare nuovi progetti che richiedono di superare modelli standardizzati di relazione educativa; un’organizzazione che rende difficile condividere e trasformare prassi consolidate in nuove proposte d’inclusione educativa. Se coloro che sono impegnati nel cambiamento e sono consapevoli dei benefici che questo approccio apporta non solo verso i bambini e la scuola, ma verso la comunità nella sua complessità, è più probabile che possa attivarsi un impegno che porta la comunità tutta ad apprendere dalle nuove e 22 Cfr. 23 Ivi.

R. Feuerstein, Y. Rand, R. Feuerstein, La disabilità non è un limite, cit. p. 64.

differenti esperienze che vengono condivise con gli alunni e gli studenti, allo stesso modo con cui si aspettano che gli alunni apprendano dalle proposte formative da loro proposte. Una reciprocità importante che può riflettersi sul modo di motivare e di influenzare l’apprendimento dei bambini. È possibile considerare alcuni elementi che facilitano la riuscita positiva di queste pratiche24. L’educazione inclusiva è quindi vista come un processo costantemente orientato a rispondere ai differenti bisogni di attenzione, ascolto, relazione e intervento di ogni soggetto come parte della comunità. La partecipazione diventa un’esperienza di apprendimento che è parte della cultura della comunità di appartenenza. Allo scopo di decostruire e prevenire le forme di esclusione dentro l’educazione stessa, vanno individuate strategie, strutture e condizioni di benessere operativo e di tensione verso il miglioramento che si realizza nelle progettualità e nella quotidianità delle pratiche. Pertanto l’approccio inclusivo sostiene la uguale partecipazione di tutte persone a ciò che riguarda il proprio interesse e quello della collettività ma, lascia anche aperta la porta della scelta personale e delle cure particolari nel rispetto delle richieste e dei bisogni individuali. L’inclusione sostiene le progettazioni educative capaci di affrontare con risposte efficaci il rischio di emarginazione, di esclusione dalla scuola o da altri contesti sociali frequentati dalla popolazione giovanile. È importante considerare che deve essere sempre implementata una visione olistica di tutto il sistema educativo, in particolare quello della scuola che è anche soggetto pubblico. In molti contesti, dove le forme di privatizzazione scolastica sono sempre più in aumento, si crea competizione e squilibrio sociale e culturale e viene avvertito il rischio che le scuole pubbliche abbiano la funzione di continuare a perpetuare e legittimare un dislivello sociale che non fa altro che rendere il sistema fragile, aumentando le diseguaglianze e la chiusura dell’offerta pubblica che è invece la garanzia dell’incontro tra le differenze.

24 UNESCO, Guidelines for inclusion: Ensuring Access to Education for All, Paris, UNESCO, 2005.

1.2. Come parlare di intercultura e educazione di genere Sono ormai molti anni che le riflessioni sulla pedagogia di genere e gli interventi sulle pari opportunità si sono incontrati negli spazi nella letteratura pedagogica interculturale25. Se, in un primo momento, è stata messa in evidenza la necessità di indagare il fenomeno migratorio che ha caratterizzato il mondo femminile, disegnando le traiettorie percorse, le origini culturali e le differenti modalità di inserimento nel mondo del lavoro, negli ultimi anni è emerso anche il bisogno di indagare sul contributo di questo al rinnovamento e al pluralismo nei differenti ambiti della società. È stato recentemente calcolato26 che circa cento mila donne straniere hanno dato vita ad altrettante imprese nelle differenti regioni, investendo sul terziario. Entrate nei differenti settori dell’impresa le donne hanno più successo ed hanno resistito al colpo inferto dalla crisi economica e dei mercati. Nonostante la presenza diffusa in tutte le regioni di queste esperienze, che si intrecciano comunque con quella dell’imprenditoria femminile delle donne italiane, rimane ancora molto diffusa la rappresentazione della donna straniera lavoratrice impegnata soprattutto nelle professioni di cura e di assistenza. Per quanto le organizzazioni internazionali siano impegnate da anni a sostenere che l’uguaglianza di genere è una priorità sia globale che locale, sono ancora molto diffuse le forme di discriminazione nei confronti del genere femminile, discriminazioni che si concretizzano in diverse forme di violenza culturale e strutturale, praticate spesso fin dalla nascita con modalità e intensità differenti in relazione ai contesti ed ai modelli culturali che le producono27. La questione di genere mette quindi in evidenza, gli sforzi e le strategie orientati a promuovere il diritto di tutti all’istruzione e volti a supportare in ogni contesto il diritto al benessere, alla salute, al raggiungimento del successo personale e alla libertà di pensiero e di parola. Impegni importanti che vengono esplicitati chiaramente nella descrizione degli otto obiettivi per lo sviluppo del Nuovo Millennium,28 e che considerano prioritario 25 Cfr. S. Ulivieri, Educare al femminile, Pisa, ETS, 1995; C. Covato, S. Ulivieri (a cura di), Itinerari nella storia dell’infanzia: bambine e bambini, modelli pedagogici e stili educativi, Milano UNICOPLI, 2001; S. Ulivieri, Educazione al femminile. Una storia da scoprire, Milano, Guerini Scientifica, 2007; F. Cambi, G. Campani, S. Ulivieri (a cura di), Donne migranti. Verso nuovi percorsi formativi, Pisa, ETS, 2003. 26 Confcommercio. Impresa per l’Italia 10.06.2011 http://www.confcommercio.it/-/leimprenditrici-straniere-investono-sul-terziario 27 Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità, http://www.pariopportunita.gov.it/index.php/home/dossier 28 Women Children first http://www.womenandchildrenfirst.org.uk/what-we-do/keyissues/the-millenium-development ; UN Millennium development goals 2015 http://www.un.org/millenniumgoals/

intervenire per migliorare e garantire le opportunità di vita delle donne e il loro successo personale perché la loro condizione di benessere è considerata una garanzia per il futuro a breve e lungo termine. Nel contesto italiano il problema si incentra sulla qualità del lavoro educativo che deve mirare ad affrontare con sistematicità e impegno quotidiano, la decostruzione di stereotipi maschili e femminili che condizionano le relazioni, le esperienze di crescita e i vissuti dei bambini e degli adolescenti. Stereotipi che poi diventano modelli che gli stessi mass media fanno propri per diffondere a rinforzare forme di controllo e di malessere sociale che rimangono, impunemente nascosti nella violenza domestica, nello sfruttamento e nell’abuso familiare. Far acquisire una chiara consapevolezza sul problema della violenza tra le mura domestiche, nel luogo di lavoro, per la strada, negli ambienti sportivi e nei luoghi religiosi, è sempre più necessario per creare l’empatia contro l’omertà e contro la paura che rende immobile e passiva la vittima. La pedagogia di genere ha anche fatto luce su come, nell’incontro tra culture diverse, sia necessario riflettere sui diritti di libertà, di scelta e di parola, sulle pari opportunità, sulla partecipazione, sul successo, sulla maternità responsabile, sulla ricerca dell’autonomia, e dell’autorealizzazione di se stessi come diritti fondamentali. Nell’incontro tra le culture emerge spesso la discordanza tra comportamenti e azioni che nel favorire i processi di integrazione, non ravvisano la presenza di rigidità di certi modelli culturali che mantengono in condizione subalterna e di violenza culturale, fisica e psicologica le donne. Considerare le questioni relative al genere, all’interno del dibattito interculturale richiede che ci si interroghi anche su come coinvolgere e dare spazio alle differenti presenze etniche e culturali che abitano e sono parte del territorio, anche se queste si rifanno, talvolta, a regole e sistemi che sostengono forme di discriminazione nei confronti delle bambine, delle donne ma anche dei bambini e dei giovani in senso più ampio. ‹‹Se lo si analizza più accuratamente, risulta difficile conciliare il multiculturalismo con le convinzioni egualitarie. In fondo, alcune culture non accettano, nemmeno in linea teorica, il principio secondo cui le persone hanno diritto allo stesso rispetto e alla stessa cura (e, comunque non esiste una cultura che mette pienamente in pratica questo principio). Appaiono inoltre particolarmente acute le tensioni rispetto ai modi adeguati di trattare le donne››29. Il riferimento alla differenza di trattamento delle bambine, delle ragazze e delle donne implica la necessità di tenere conto delle pratiche quotidiane, come quelle che riguardano la nutrizione, la salute, il lavoro, la 29 J. Cohen, M. Horward, M. C. Nussbaum, Introduzione, in S. M. Okin, (a cura di), I diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina Editore, 2007, p. XVIII.

libertà di scelta, i diritti patrimoniali, la negazione delle opportunità formative, sapendo anche delle gravi situazioni di violenza e di sfruttamento sessuale e non, alle quali molte bambine sono sottoposte fin da piccole30. Problemi di violenza e discriminazione sono ancora largamente diffusi su tutto il pianeta. Una pratica sociale che riguarda circa 70 milioni di bambine nel mondo, Cina esclusa, è quella del matrimonio precoce. Nonostante sia una pratica proibita dal diritto internazionale31 e dai singoli Stati, il fenomeno è molto esteso a causa di norme sociali, consuetudini culturali ed indicazioni religiose. Il matrimonio precoce implica tutta una serie di aspetti che ledono i diritti delle persone interessate e che esprimono chiaramente l’attualizzarsi di pratiche di violenza strutturale e culturale. Lo sposarsi in giovane età ha delle conseguenze sullo sviluppo della bambina e della ragazza. Diverse sono le sofferenze a cui tale situazione condanna la persona32. Il punto di vista pedagogico, oltre a considerare i gravi danni che queste violenze hanno sulla formazione della persona, evidenzia anche che tali condizioni impediscono che si realizzi un processo di sviluppo di conoscenze e competenze necessarie e utili per la realizzazione di vite autonome e autodeterminate, capaci di rendersi libere da dipendenze e costrizioni. La priorità data al collegamento tra parità di genere e educazione deve quindi articolarsi e definirsi secondo i differenti contesti. Questo significa che devono essere considerate, sia le difficoltà che e gli ostacoli che impediscono soprattutto alle bambine e alle ragazze l’accesso all’educazione formale, ma anche gli aspetti di potenzialità presenti e operanti nelle culture di riferimento. Significa altresì comprendere quali modelli, contenuti e metodologie l’educazione formale trasmette ed utilizza nel suo fare scuola. Il rispetto numerico dell’uguaglianza di genere nella scuola, non è sufficiente a garantire una cultura di parità sia di genere che di opportunità. Diventa quindi essenziale chiarirsi su quali aspetti viene considerata l’uguaglianza e se, su questa uguaglianza, vengono posti dei parametri che implicano una nega30

La necessità di dedicare una giornata mondiale al problema delle bambine e delle ragazze, il cui lancio del programma è avvenuto lo scorso 11 ottobre del 2012 a Ginevra http://www.un.org/en/events/girlchild/ 66/170 International Day of the Girl Child, il tema che è stato scelto per l’anno in corso è quello di salvare le bambine dalla piaga sociale del matrimonio precoce. Tale pratica risulta ancora presente anche nella realtà italiana soprattutto in quei contesti dove le bambine, non essendo riconosciute come cittadine italiane, entrano nel circuito delle pratiche tradizionali dei contesti di provenienza. UNICEF - Bambine non spose - iniziativa UNICEF contro i matrimoni precoci: http://www.unicef.it/doc/4605/matrimoni-precoci-una-violazione-dei-diritti-umani.htm. 31 UNHR, Convention on Consent to Marriage, Minimum Age for Marriage and Registration of Marriages, 521 U.N.T.S. 231, entered into force, Dec 9, 1964. http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/MinimumAgeForMarriage.aspx 32 Digest Innocenti, Il matrimonio precoce, n.7, marzo 2011, Firenze, UNICEF.

zione stessa degli obiettivi della progettazione e degli interventi. Quando i modelli culturali di riferimento o i contenuti presenti nei testi scolastici continuano a tramandare e comunicare riferimenti di diseguaglianza e disparità di genere, o anche di riferimento a ruoli specifici, allora l’obiettivo di sradicare l’analfabetismo risulta parziale al raggiungimento della parità di genere. Questi aspetti sono poco visibili e, comunque, presenti con modalità diverse a seconda delle pratiche tradizionali e culturali utilizzate, anche nella realtà italiana dove si sono verificati casi di trasferimento di bambine perché promesse in sposa in qualche luogo lontano. La riflessione su questa tematica, che apparentemente sembra marginale dato che i casi sembrano essere alcune decine, deve comunque mettere in allarme tutta la società per impedire e punire ogni tipo di comportamento, come sancito nel Protocollo opzionale alla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia, che non tuteli le bambine che “maggiormente sono esposte al rischio di sfruttamento sessuale”33. Nelle tematiche dell’educazione interculturale questo tema appare scottante perché affronta gli aspetti della sessualità, dell’organizzazione della casa, del matrimonio, del divorzio, dell’educazione dei figli. Chi entra in questi dibattiti, sa che può toccare dimensioni difficili da trattare anche per le stesse donne. Nel processo migratorio e di cambiamento culturale e sociale, le donne vivono non solo una doppia condizione di sfruttamento, ma sono anche impegnate, sicuramente più degli uomini a fare fronte a dei profondi conflitti che la nuove esperienze di incontro culturale possono aprire. Molte donne, madri, nonne hanno bisogno di spazio e tempo per chiarire quali sono i loro comportamenti, le abitudini, le pratiche dove queste vengono evitate e condannate. I significati attribuiti ai gesti e alle pratiche sono differenti da situazione a situazione, da caso a caso. Le culture non sono monolitiche, nel loro interno si presentano con tanti percorsi e con tanti significati diversi, che solo una visione stereotipata che vede tutto un gruppo utilizzare un solo modello di comportamento, blocca in modo rigido. Le motivazioni per cui le donne musulmane portano il velo34, le varie forme di copertura del volto e dei capelli sono differenti da situazione a situazione e come è stato già accennato, i significati attribuiti sono molteplici e diversi. Il bisogno di sentirsi in qualche modo protetta, di sentirsi a proprio agio sotto qualcosa che nasconde, di mantenere il rispetto per la tradizione o per l’appartenenza ad 33 Nazioni Unite, Protocollo Opzionale alla convenzione sui diritti dell’infanzia, sulla vendita dei bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante i bambini, 2000, ratificato in Italia con la legge 11 marzo 2002. 34 Cfr. G. Campani, Perché siamo musulmane: voci dai cento Islam in Italia e in Europa, Milano, Guerini studio, 2002.

un gruppo, di differenziarsi tra una generazione all’altra, di rimarcare la provenienza territoriale ecc. caricano il velo di molteplici significati. Perché il velo non viene visto come un problema dalle donne che scelgono di mettere il velo per riconoscersi appartenenti ad un ordine religioso? Sostanzialmente anche loro si coprono allo stesso modo con cui alcune donne musulmane utilizzano lo hijab. ‹‹All’interno del pensiero femminista le donne non occidentali non trovano spazi per esprimere lo loro esperienza, anzi, sono sempre stereotipate: la donna asiatica, specialmente se musulmana, è vista come passiva, vittima di pratiche oppressive all’interno della famiglia; la donna Afro-caribena è invece dominante, capo-famiglia, ma, nonostante la sua forza, è vittima del sessismo che caratterizza le relazioni tra gli uomini e le donne nel Caribe. Le donne non occidentali fanno fatica a capire l’isteria nel movimento delle donne occidentali intorno a temi come i matrimoni combinati, il velo, le famiglie monoparentali (con la donna capofamiglia). In realtà questo atteggiamento dipende da una certa idea - occidentale- di quello che è il bene o il male per la donna e per la famiglia. Purtroppo il tema della famiglia è estremamente rivelatore delle contraddizioni e del rischio di stereotipare in cui un certo tipo di femminismo può incorrere››35. Rimane, sullo sfondo, il problema di comprendere come certi modi di vedere e certe rappresentazioni dell’altro entrino in azione dentro le relazioni educative nella scuola come in altri contesti non formali. Così come avviene nel mondo adulto, il processo di integrazione richiede spesso, anche alla luce della tolleranza, che chi è considerato diverso intraprenda il percorso che lo porta ad adeguarsi alle forme culturali ospitanti. Utilizzare forme di controllo, esclusione e separazione sociale, piuttosto che di coinvolgimento e partecipazione, è indicatore di debolezza, scarso rispetto del pluralismo e dei principi democratici. ‹‹Se la questione del velo [per riprendere sopra] sia un problema di simboli oppure un obbligo religioso può essere oggetto di deliberazione isolata di ciascuno degli attori, - persone, gruppi, istituzioni - coinvolti nei problemi nei vari contesti, dalla Francia alla Turchia, dall’ Egitto allo Yemen, ma il significato storico concreto della pratica e del suo divieto viene costruito nel confronto e nello scontro tra i diversi attori che danno senso, nella loro esperienza quotidiana, alle prati- che e ai simboli oggetto del conflitto [...] Le situazioni in cui ci troviamo immersi nella vita quotidiana non sono dati oggettivi su cui ogni spassiona- to osservatore potrebbe dare il suo giudizio. Sono invece contesti in cui so35

Cfr. G. Campani, Genere, etnia e classe: categorie interpretative e movimenti femministi, in F. Cambi, G. Campani, S. Ulivieri (a cura di), Donne migranti. Verso nuovi percorsi formativi, Pisa, ETS Edizioni, 2003, p.65.

no presenti opportunità e rischi che i differenti agenti colgono a seconda delle risorse che sono in grado di mobilitare››36. Riflettere sulle problematiche interculturali porta a considerare la necessità di fare luce anche sugli stereotipi maschili e femminili che stanno dentro le quotidiane azioni educative. Le diversità possono anche dare gli elementi per la formulazione dei pregiudizi negativi che, trasformarti in stereotipi, giustificano le differenti forme di discriminazione. È questo un modello facilmente trasferibile nel trattare ingiustamente una persona o un gruppo. Le bambine, le ragazze e le donne sono spesso, ancora in molte zone del pianeta, le prime ad essere sottoposte a forme di discriminazione, esclusione, abuso e sfruttamento, sia durante i conflitti armati che in assenza di questi. Anche l’Unione Europea37, con la Carta europea per l’uguaglianza di donne e uomini e nella vita locale e regionale e con la promozione di attività e di strategie rivolte al sostegno delle uguali opportunità tra donne e uomini considera prioritario investire sullo scambio tra gli stati membri, di esperienze e buone pratiche, al fine di adottare nuove e più efficaci politiche di genere. È sempre più urgente un intervento capillare e diffuso di nuove progettazioni educative e formative che, entrando in tutti gli spazi del sociale e del culturale sappiano realmente promuovere e perseguire la parità di diritti, di rappresentanza sociale e di conoscenze e competenze per le donne e per gli uomini.

2. Costruire alleanze interculturali Il tema del dialogo interculturale si estende ai contesti di scambio che vanno oltre la scuola e i processi di integrazione e inclusione dei bambini immigrati. Le competenze interculturali, sono oggi necessarie per potersi relazionare in modo attivo, consapevole, critico, partecipativo e costruttivo, nella relazione con altri mondi dove le persone sono sempre e comunque costruttori e portatori di saperi. Proprio per il fatto che le culture e gli esseri umani che le producono, non sono chiuse in se stesse e non possono essere viste come entità statiche, ma entità in continuo movimento, capaci di spostarsi nei diversi luoghi grazie alle tante forme di comunicazione, produzione, scambio, è necessario essere consapevoli dei possibili nuovi scenari che si generano, si trasformano continuamente e si diffondono, nonostante 36 G. Mantovani, Intercultura. È possibile evitare le guerre culturali? Bologna, Il Mulino, 2004, pp.147-148. 37 European Commission, Gender Equality, http://ec.europa.eu/justice/genderequality/other-institutions/advisory-comittee/index_en.htm

le opposizioni e gli ideali sbarramenti posti in difesa di attacchi e di rischio di perdita di identità. Negli ultimi decenni le competenze interculturali sono state richieste nel campo della cooperazione internazionale, del volontariato, dell’incontro tra mondi scientifici accademici e commerciali, oltre che nei numerosi ambiti del non formale e della comunicazione. La sola traduzione delle lingue, o la presenza di mediatori-facilitatori, figure sicuramente fondamentali per il supporto che possono dare alle relazioni, non coprono il quadro delle questioni che si presentano quando si incontrano persone formatesi in relazione a modelli e contesti culturali diversi. La tecnologia può avere dato l’impressione di aver avvicinato le persone, questo è avvenuto sicuramente in molti ambiti, ma non è sufficiente, o per lo meno rimane solo un’esperienza parziale e limitata, sicuramente un interessante supporto, a promuovere e sostenere dialoghi e incontri creativi e sostenibili. Un incontro che rimane nei confini del virtuale e che ha bisogno della realtà tangibile e concreta per essere il più autentico possibile. C’è sempre il rischio che si percepiscano le altre culture, e le persone che pensiamo possano rappresentarle, come entità fisse, delimitate da linee immaginarie considerate, nella rappresentazione personale che si crea, assolute e vere. Linee che sono spesso il prodotto di etnocentrismi e proiettano sugli altri il bisogno di difendersi per paura di perdere se stessi. Queste linee immaginarie possono anche essere il prodotto di ideologie o credenze che realtà politiche, talvolta anche democratiche, attivano in risposta a confronti e conflitti. Attraverso i secoli, gli scambi tra i saperi e le produzioni locali, le lingue, le tradizioni religiose ecc., avvenuti attraverso viaggi, commerci, hanno in qualche modo permesso che si verificasse una traduzione utile per lo scambio. Tuttavia oggi, grazie anche alla complessità dei modelli di riferimento, alla comprensione della molteplicità di appartenenze, alle differenti esperienze di contatto che possono avvenire, non è più possibile pensare che la costruzione di queste pratiche sia lasciata alla sola forza dell’esperienza. Sono pratiche che hanno bisogno di ridefinirsi sempre, riprogettarsi per riproporsi rinnovate e più adatte dentro le numerose esperienze di scambio e di incontri. Il problema non sta solo nella comprensione delle lingue, ma alle molteplicità e varietà di esperienze culturali che le persone fanno e con le quali si rapportano alla realtà38. 38 L’UNESCO ha reso visibile questa mescolanza di culture che attraverso gli anni ha trovato espressione in una molteplicità di forme culturali e pratiche umane. L’importanza e la ricchezza di queste pratiche ha dato modo di sviluppare un impegno preciso per la difesa e il sostegno dell’eredità culturale intangibile dell’umanità. Partendo dalla Convenzione del 2003, è stato dato avvio alla costruzione di una Rappresentative List per la conservazione di tradizioni orali, pratiche sociali, produzioni artistiche e artigianato locale, trasmessi di gene-

Le relazioni costruite, riflettendo sulle alleanze interculturali sono cariche di aspetti che si fondano sul rispetto reciproco, pari responsabilità e diritti, coinvolgimento e interesse per il bene comune. Pensare all’alleanza, significa in primo luogo capire il senso e i significati che essa comporta. In questo contesto interessa mettere in evidenza l’aspetto di cambiamento e miglioramento che da tale pratica può emergere. La forza e l’impegno che grazie all’alleanza si attivano tra le persone o tra i gruppi sono pensati come strumenti per la realizzazione di pratiche di coesistenza pacifica e democratica, comprendendo il senso del limite e della necessaria parità di posizioni, di reciproco aiuto e della possibilità per tutti e insieme a tutti di trasformare la realtà. Troviamo il duplice aspetto dell’ impegno a riconoscere reciprocamente tutti coloro che partecipano all’alleanza e a richiedere che i suoi principi siano rispettati all’interno delle collettività che vi partecipa. Un principio di partecipazione che, oltre a poter essere un contributo importante per le decisioni e i cambiamenti da proporre, si carica di una dimensione di sostenibilità in quanto, le conseguenze delle azioni che sono prodotte dal patto di alleanza, hanno continuità anche nel futuro. Nel patto di alleanza c’è sempre lo scambio di qualcosa che deve essere finalizzato a far raggiungere a tutti gli obiettivi condivisi. Lo scambio implica che si prenda atto in modo positivo ed attento delle diversità e delle risorse che solo con l’alleanza è possibile sviluppare e arricchire. Ci sono, pertanto, dei contenuti e degli aspetti operativi che ogni contesto deve trovare per costruire alleanze interculturali. È necessario partire da un processo di sensibilizzazione e di mediazione che permetta l’avvicinamento alla percezione del problema e al bisogno di risolverlo attraverso forme di cooperazione, condivisione e partecipazione. Condividere i problemi è un processo piuttosto complesso perché i saperi e i significati culturali sono sempre mediati in modo differente dalle persone. La percezione della realtà ed anche questioni che apparentemente sembrano essere condivisibili e necessarie per tutti, come quelle relative alla violenza o al rispetto dei diritti umani, possono essere declinate in molti modi e con strumenti e significati interpretativi differenti. L’alleanza ha bisogno di essere rinnovata e arricchita di nuovi interessi e significati: è legata all’azione ed alla negoziazione perché niente può rima- nere fermo, ma si trasforma nelle necessità poste dai cambiamenti sociali. Il rinnovo rafforza i rapporti, ma anche la fiducia, il sostegno, la sicurezza.

razione in generazione, costantemente migliorate e condivise a livello comunitario con il senso di identità e di continuità. UNESCO, Investing in Cultural Diversity and Intercultural Dialogue, Paris, UNESC0, 2009. Http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011

I contenuti sono dati da contenuti/pratiche che chi partecipa all’alleanza mette a disposizione per arrivare al consolidamento del patto/accordo. Questo richiede impegno e rispetto da parte di tutti. Il patto, oltre ad essere un impegno, è un modo di prendersi cura dell’altro se per cura intendiamo l’esperienza di sé e della formazione di sé, nell’esperienza di condivisione e di fiducia nel fare in una prospettiva sociale che non risponde solo al sé ma che è anche responsabile per gli altri39. Certe forme di alleanze sono caratterizzate da radicati elementi di interculturalità dovuti al necessario scambio tra persone, gruppi, tribù, nazioni, al fine di trovare i modi e le strategie per raggiungere obiettivi condivisi. Nella prospettiva qui considerata, però, l’accento è posto sul tema della convivenza pacifica capace di garantire a tutti il maggiore benessere possibile e la condizione di successo sociale e personale. L’alleanza non ha quindi un obiettivo competitivo, ma cooperativo, centrato su quello che se viene fatto insieme permette un miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Non solo di condizioni economiche, ma anche di salute, lavoro, benessere, produzione, vita sociale. E’ prioritario sperimentare nuovi modelli di educazione sociale che oltre alle proposte di integrazione e inclusione, sappiano aprire alle esperienze di alleanze interculturali per il reciproco rispetto della dignità umana. Le esperienze interculturali e il dialogo come una delle forme di comunicazione che può essere attivata tra i soggetti coinvolti, richiede che siano costruite delle competenze sociali capaci di creare osmosi, scambio, creatività e positività per tutti i partecipanti. Già nel paragrafo precedente si e’ accennato a quanto la riflessione e il lavoro su se stessi debba precedere ed accompagnare il dialogo nel suo presentarsi ed evolversi. In questo ambito viene approfondito il contributo dato dall’UNESCO relativamente alle competenze interculturali definite come un complesso di abilità necessarie per favorire, realizzare e sostenere interazioni possibili tra persone e gruppi linguisticamente e culturalmente differenti40. Molte di queste abilità utilizzate in modo naturale, se non vengono considerate all’interno del contesto del dialogo, possono rischiare di fornire delle percezioni stereotipate della realtà diventando così uno strumento di scontro, ma d’altra parte, se ben formate possono invece essere un valido strumento per un’alleanza di civiltà. C’è quindi da augurarsi come sostiene l’UNESCO che le competenze interculturali diventino presto un indispensabile elemento nei curricula scolastici dentro un’ampia rete di formazione all’alfabetizzazione culturale41. 39 Cfr. F. Cambi, La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, RomaBari, Laterza, 2010. 40 UNESCO, Guidelines on Intercultural Education, Paris, UNESCO, 2006. 41 UNESCO, Investing in Cultural Diversity and Intercultural Dialogue, cit.

L’UNESCO individua tre specifiche macro competenze necessarie per costruire una propensione positiva alle differenti forme di incontro tra persone che esprimono riferimenti culturali diversi. Queste sono: l’ascolto, il dialogo, la richiesta a se stessi42. Con l’ascolto si intende entrare in risonanza con un’esperienza in qualche modo simile a ciò che si intende per osservazione partecipata che interessa più una predisposizione e una apertura del cuore piuttosto che solo della mente. L’ascolto non è solo empatico e attivo, ma anche reciproco e partecipato, capace di giocare sulla doppia posizione degli interlocutori e di lasciare spazio a reciproche influenze, cambiamenti e trasformazioni andando oltre le risposte alle domande richieste, ma lasciando che siano toccati e confusi i presupposti di partenza, le gerarchie di idee, le risposte implicite. L’ascolto viene pensato come uno degli strumenti più potenti per riuscire ad avvicinarsi reciprocamente per poter creare un contemplative listening43 dell’altro che viene visto e sentito come un essere umano con la sua natura umana interiore, al di là degli elementi esteriori che ne bloccano e limitano la percezione e nelle sue potenzialità di persona. Il dialogo apre, grazie all’ascolto, la possibilità di comprendere quale risonanza ha la relazione con l’altro dentro di noi stessi e con coloro con i quali siamo in relazione. Attraverso il dialogo è possibile attivare una comprensione dall’interno proponendo, come già affermato, una continua riflessione interiore sia come esercizio di preparazione che come competenza meta-relazionale da mantenere presente durante il dialogo per facilitare la comprensione dell’altro per come è e non per come si intende vederlo. Infine l’interrogarsi dentro, il domandarsi e l’essere curioso di ciò che è l’altro, non per categorizzare o segnare con giudizi valutativi che aumentano le distanze e le differenze, ma come capacità di essere toccato dalle differenze, uno stato della mente che percepisce di essere continuamente dentro un processo di formazione e trasformazione, costruzione di saperi, dimensioni superiori di connessione con gli altri che non sempre possono essere espresse a parole. Momenti di intuizione, sintonizzazione e condivisione dei sentimenti, degli stati d’animo, dei bisogni e delle trasformazioni. È l’entrata in contatto di differenti aperture che non sempre avvengono nello stesso momento ma che, ugualmente, sono significative perché esprimono il bisogno di accettare i tempi differenti del dialogo e dell’ascolto. Quando cominciamo a pensare che siamo in possesso di competenze interculturali certe, è il segnale che ci stiamo chiudendo in noi stessi e non 42 I tre termini utilizzati sono: listen, dialogue, wonder. Quest’ultimo non ha una traduzione letterale in italiano, esso implica molti significati. Tuttavia è possibile tradurlo con chiedere a se stessi, domandarsi, essere curioso di qualcosa. 43 UNESCO, Investing in Cultural Diversity and Intercultural Dialogue, cit., p. 45.

siamo più in grado di metterci alla prova e disponibili, in modo autentico, a nuove alleanze44. Nessuna competenza è mai acquisita nella sua totalità. Questi sono processi che devono essere pensati e percorsi in tempi lunghi, e in tempi diversi di evoluzione, maturazione, attese e rimandi. Quando riusciamo a smettere di percepirci nella relazione dentro termini, categorie, spazi e tempi fissati in modo unilaterale, le potenzialità per un dialogo interculturale autentico possono cominciare a svilupparsi in modo significativo e il dialogo diventa la percezione di un movimento che trasporta dentro la dimensione del reciproco arricchimento.

2.1 La ricerca dell’autenticità nel dialogo interculturale Il significato, l’importanza e il farsi del dialogo interculturale e interreligioso nascono da un bisogno sociale e relazionale che si è andato definendo e chiarendo in questi ultimi decenni come nuova prospettiva per l’avvio delle risoluzione di conflitti e dei problemi che riguardano la vita di tutta l’umanità. Come viene sostenuto nel «Libro bianco del dialogo interculturale – Vivere insieme in pari dignità»45, ciò che oggi richiama la nostra attenzione sul dialogo interculturale è soprattutto il bisogno di saper gestire in modo democratico la società complessa. Se è vero, come sostiene Morin, che il processo dell’era planetaria trova le sue origini nel momento in cui i popoli mediterranei passano le colonne di Ercole46 e vanno ad esplorare, invadere, sottomettere e sfruttare nuovi mondi e che le forme di colonialismo, strettamente collegate alla crescita del nazionalismo europeo, si sono poi avviate verso altre forme di controllo, meno territoriale, ma più economico e tecnologico, oggi più che mai è necessario per la sostenibilità del pianeta e per la gestione democratica delle società complesse, educare al dialogo in tutte le sue forme per differenti contesti. Il 1990 può rappresentare l’inizio dell’era della globalizzazione, considerato come il fenomeno «che ha insediato un unico mercato mondiale sotto la legge del liberalismo economico e, nello stesso tempo, ha generato

44Ivi,

p. 46. of Europa, Libro bianco del dialogo interculturale . Vivere insieme in pari dignità, 2008. Http://www.coe.int/t/dg4/intercultural/Source/Pub_White_Paper/WhitePaper_ID_ItalianVers ion.pdf 46 Cfr. G. Bocchi, M. Ceruti, E. Morin, L’Europa nell’era planetaria, Milano, Sperling & Kupfer, 1991. 45 Council

una rete di comunicazioni estremamente ramificata»47. Il tentativo di rispondere ai cambiamenti sociali, relazionali, culturali ed economici ha orientato istituzioni sistemi e pratiche verso la ricerca di risposte che sapessero coniugare il rispetto per i valori della democrazia con quelli del diritto della persona come sancito dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948. Modelli diversi si sono originati sulla base di differenti esperienze di rapporto con la diversità, generata dalla presenza dell’altro e dalla condizione territoriale ed economica del paese. Modelli diversi hanno dato luogo a riflessioni e pratiche di dialogo che guardano alla necessità di costruire società capaci di superare la pratica della tolleranza per andare in modo consapevole verso costruttive alleanze tra tante diversità. Il pluralismo, la tolleranza e la disponibilità all’apertura rappresentano tre condizioni necessarie per l’avvio del dialogo interculturale. Tali condizioni sono state il principio delle trasformazioni culturali, politiche e sociali che si sono avute in Europa nel corso degli ultimi secoli. Tuttavia, non sempre hanno portato a soluzioni di rispetto dei diritti umani anche se hanno dato l’opportunità di avviare le strade della convivenza pacifica individuando quegli spazi e quei metodi che permettessero la risoluzione pacifica dei conflitti. Il pluralismo48 ha preso sempre più senso come categoria esistenziale dovuta alla necessità di avere la capacità di poter rispondere alle continue opzioni date dalla relazione con gli eventi e i fenomeni della quotidianità. La relazione che si muove dall’uno al molteplice viene superata per cercare di cogliere non più una relazione oppositiva o contrapposta quanto una contemporaneità di aspetti. Una possibile coesistenza che non sempre si interfaccia positivamente con modelli del vivere sociale, culturale e religioso delle collettività. La sua accettazione significa anche accettare la perdita di ogni riferimento gerarchico e di affermazione dell’unicità. La tolleranza si pone spesso come condizione di accettazione della diversità nella misura in cui viene sopportata fino a quando la stessa diversità viene a cadere. Non va dimenticato, come le esperienze storiche hanno mostrato, che per lungo tempo l’obiettivo e le ragioni della tolleranza erano quelle di arrivare a situazioni in cui l’assimilazione alla cultura di maggioranza vinceva sulla diversità. La tolleranza dovrebbe essere, invece, un esercizio continuo di pratiche sul sentire, vivere, condividere la differenza, sull’esperienza di come stare con gli altri attivando forme di reciproco rispetto e di difesa dei diritti altrui anche quando questi sono percepiti come

47 E.

Morin, Lectio Magistralis, Educare all’era planetaria, Università di Bergamo, http://www.unibg.it/static_content/presentazioneateneo/lhmorin.htm#lectiomagistralis 48 Il pluralismo è una categoria ampiamente studiata all’interno di differenti campi disciplinari, da quello filosofico a quello politico, da quello antropologico a quello religioso.

distanti. Una condizione possibile per avviare i processi dell’inclusione sociale, andando oltre quelli dell’integrazione. L’interscambio tra culture o tra pratiche culturali non è solo uno scambio tra due parti in situazione di convivenza o di conflitto. L’interscambio mette in azione e in trasformazione aspetti differenti dell’agire umano. Anticamente accadeva che le vie commerciali, quando non erano sostenute o spinte dalla conquista e dalla violenza, rappresentassero percorsi originali e irripetibili di elaborazione di idee, scoperte, pratiche inconsuete. «La comprensione umana ha bisogno della cultura delle persone, e questa idea dà il senso della pace»49. Oggi la tecnologia, a supporto della comunicazione, apre nuove possibilità, sostenendo e favorendo il contatto e lo scambio di informazioni e conoscenze sia tra persone che tra gruppi, riuscendoli a coinvolgere in tempi e spazi incredibilmente ridotti. Il mondo virtuale offre molteplici forme di comunicazione, quello della comunità di pratiche ad esempio, il sistema delle reti, i social network che tendono a facilitare la costruzione di gruppi di differente interesse e orientamento. Lo studio dei social network, rappresenta una nuova frontiera di comprensione delle dinamiche sociali, della costruzione delle competenze comunicative e delle esperienze di scambio culturali. Già differenti teorie50 hanno posto in evidenza come i social network abbiamo un ruolo importante nella diffusione dei contatti tra persone che vivono in realtà lontane e culturalmente realtà differenti. Un contesto, quello della comunicazione virtuale, dove lo spazio occupato dalla distanza e dai prodotti della cultura materiale, è completamente assente. Inoltre i contatti o i collegamenti tra individui, assumono caratteristiche e forme in base alla struttura del social network. L’obiettivo che il dialogo interculturale oggi si pone è quello di superare i modelli e gli approcci tradizionali utilizzati per la gestione della diversità culturale. In pratica i modelli nati nell’emergenza e specificità dei differenti contesti sociali ed economici devono essere superati da un approccio trasversale che sappia sfidare il tempo della contingenza e imporsi per la gestione democratica del rispetto dei diritti umani. Il dialogo è una sfida che cerca di farsi spazio nei conflitti e negli ambienti dove si alimentano incomprensioni e opposizioni, è un potente strumento per lo sviluppo della società inclusiva. Quali sono i valori che possono essere condivisi per promuovere attraverso le molteplici forme di comunicazione e di dialogo un’identità comune

49 F. Morace, (a cura di), Dialogo: l’identità umana e la sfida della convivenza / Edgar Morin, Libri Scheiwiller, Milano, 2003, p. 35. 50 Cfr. W. B. Gudykunst, Theorizing about intercultural communication, London, Sage Publication, 2005.

planetaria che rispetti quella individuale e che tenga conto di una gestione democratica della diversità? Il dialogo interculturale e interreligioso ha il duplice scopo di essere uno strumento di prevenzione alle scissioni e ai conflitti violenti e nello stesso tempo un possibile stabilizzatore delle pratiche di incontro e di scambio. Per il dialogo è necessario promuovere la governance democratica nella società della diversità culturale e riservare spazi per il dialogo e per l’incontro51. Il dialogo è possibile se basato sui valori fondanti della democrazia, dei diritti umani, della nonviolenza del diritto e della ricchezza che è propria di ogni essere umano. L’educazione non può fare a meno di rifarsi ad un collegamento stretto tra la dimensione etica, i valori e le pratiche che pongono in azione le condizioni per la realizzazione del benessere di tutti, come appartenenti alla stessa realtà planetaria e cosmica. Il dialogo è volto a fare capire le differenti visioni del mondo, le abitudini e i rapporti con la natura, la cultura dell’agire come pratica quotidiana. Oggi che il modello della globalizzazione economica impera e annulla sia le diversità che le possibilità di azioni autonome e sostenibili, non è più possibile tacere ed ascoltare un’unica voce. Le tecnologie abituano ad una sola lingua, l’assenza di spessore e di profondità della rete, atrofizza le menti lasciandole agire soprattutto nel tempo del qui e ora. Il dialogo interculturale ci porta, invece, sul piano della scambio della relazione possibile con la diversità, di quella diversità che è percepita come vicina, come espressione di una ricchezza comunitaria, che stando con gli altri è possibile respirare e vivere. «Concepire il pianeta come una grande comunità e come un bene comune inalienabile a tutte le forme di vita che lo popolano significa porre in correlazione il particolare e l’universale, le diversità specifiche e gli aspetti comuni, le dimensioni del locale e del globale, richiamandosi a quella che in India viene descritta coma vasudhaiva kutumbkham, la «famiglia terrestre, l’insieme di tutti gli esseri viventi che traggono sostentamento dal nostro pianeta»52. La capacità di dialogare con l’altro e nello stesso tempo di riconoscerci tutti appartenenti alla stessa comunità planetaria, è possibile se formiamo il pensare e il sentire dentro le trame della complessità e della relazione. Per tornare al pensiero di Morin, c’è bisogno di una riforma del pensiero, che possa permettere a tutti i cittadini di poter cogliere il contributo e il significato delle scienze che sempre più interessano gli aspetti del vivere quotidiano e ne caratterizzano anche gli aspetti politici della quotidianità. Per avviare un nuovo modo di dialogare con le diversità e organizzare in modo 51 Cfr. 52 V.

M. Callari Galli, Lo spazio dell’incontro, Roma, Malteni, 2000. Shiva, Il bene comune della terra, Milano, Feltrinelli editore, 2006, p. 7.

etico e relazionale le conoscenze, «c’è bisogno di una struttura di pensiero, che è il pensiero complesso, non fosse altro come pensiero sistemico per rilegare insieme gli elementi che fanno parte di uno stesso sistema»53. Il tema dell’educazione alla complessità e al pensiero complesso oltrepassa la dimensione del solo sapere e del solo conoscere. Esso guarda al futuro ponendosi la domanda del «destino comune». All’interno di questo scenario è necessario oggi ripensare la democrazia, sganciarla dalla sola dimensione della partecipazione e della cittadinanza attiva. L’impegno sociale, politico, scientifico, in altre parole umano è, per Morin, la formazione di una democrazia cognitiva, che faccia percepire alla stessa umanità, di essere una comunità di destino54. Non creare le condizioni per la costruzione e lo sviluppo del dialogo, come privare le persone e i gruppi di questa preziosa risorsa, creando separazioni, emarginazioni, esclusioni e paure su diversità gestite al negativo, significa non difendere le persone, quanto privarle di preziose possibilità di scambio, di crescita e di sviluppo. La negazione del dialogo fatta da coloro che paventano la difesa delle proprie radici culturali, è una mancanza di rispetto dei diritti umani. Negare il dialogo e l’incontro significa negare la formazione dell’identità planetaria. Il dialogo interculturale è lo strumento per il rispetto e la salvaguardia dell’ecologia, per la formazione di una coscienza ecologica perché questa è oggi la questione planetaria55. Ogni esperienza di dialogo che sia con gli altri o con il mondo naturale o con il mondo materiale della cultura, richiede un forte impegno ed un chiaro percorso formativo per essere realizzato. Considerare il dialogo come una pratica di scambio, di ascolto, di cambiamento e trasformazione, permette di vedere le tante simbologie presenti nelle relazioni umane contestualizzate. L’aspetto affascinante e anche paradossale è che esso, se veramente autentico porta sì all’incontro, attraverso la possibilità di stare in ascolto e l’apertura nell’accogliere i messaggi che a più livelli le persone si scambiano, ma non implica mai una richiesta di cambiamento come adeguamento. Il cambiamento e la trasformazione avvengono dentro i saperi e le rappresentazioni delle persone che attraverso questa forma di comunicazione si mettono a disposizione di nuove costruzioni di conoscenza. Il piacere del dialogo sta anche nella capacità di cogliere la percezione della trasformazione che si attiva e nell’incontro di possibili e diversi mondi. Mondi tutti possibili, come possibili sono i futuri che possono essere creati e com53 E. Morin, Educare gli educatori. Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, Roma, EDUP, 2005, p. 30. 54 Cfr. E. Morin, C. Pasqualini, Io, Edgar Morin. Una storia di vita, Milano, Franco Angeli, 2007. 55 Cfr. E. Morin, L’anno I dell’era ecologica, Roma, Armando Editore, 2007.

presi nel dialogo e nella condivisione. Per la sua potenzialità di creare forme di relazioni, autentiche o meno, il dialogo è azione, movimento, capacità di saper stare con se stessi e con gli altri. Il dialogo può aprire oltre, alla complessità delle situazioni in cui il nostro come l’altrui dialogo si situano, alla natura degli oggetti simbolici e reali che stanno per incontrarsi, alla possibilità e/o alla difficoltà che viene sperimentata di potersi mettere in relazione e in sintonia con l’Altro e con gli Altri. Mondi paralleli, con percorsi e storie di vita ricchi di esperienze e significati che nel momento dell’incontro si possono presentare capaci di evolversi allontanandosi dalla rigidità del proprio punto di vista del modello etnocentrico del quale molti anche in modo inconsapevole si avvalgono. Stereotipi e pregiudizi sono dentro i comportamenti, le relazioni, i linguaggi, il pensare ed il sentire. Nessuno ne è immune, le culture alimentano anche le rappresentazioni parziali delle realtà, con miti leggende ed immaginari che spesso bloccano le menti dentro un sapere che vuole essere sicuro e chiuso. Sapere che ogni essere umano può essere bloccato in questa prospettiva può rendere comprensibile che l’orizzonte di ciascuno rischia di essere un orizzonte ristretto. Quale racconto, come il mito della caverna, può spiegare meglio la percezione della prospettiva limitata, costretta e bloccata. Miti e leggende che passano attraverso la storia i simboli, le credenze e le usanze. Il dialogo interculturale ha come condizione di partenza la rinuncia all’etnocentrismo occidentale, che è parte integrante della nostra storia e del nostro sistema educativo. Basta pensare al modo in cui le società altre sono presentate nei testi scolastici, al modo con cui vengono sistematicamente occultati gli aspetti oppressivi delle guerre, delle rivoluzioni e delle imprese coloniali. Trovare nel dialogo il livello della relazione simmetrica senza essere colti dal bisogno di pensare di avere riferimenti moralmente, culturalmente o intellettualmente superiori significa cogliere anche la possibilità di decentrarsi, di uscire dal proprio ego per guardarsi da fuori, osservando i significati dei messaggi che nel dialogo vengono pensati ed agiti. Il dialogo è fondamentale per garantire, sostenere diversità circolanti, per poterne avere i benefici è necessario anche ampliare i campi di implicazione investendo per esempio in progettualità politiche e sociali e dare respiro alla possibilità di favorire incontri complessi e non standardizzati da modelli interpretativi culturali stereotipati. La diversità culturale, senza assumere con questo riferimento, la categoria che utilizza il paradigma della diversità feconda delle culture, che spesso delimita le appartenenze culturali dentro i confini degli stati nazionali, ma piuttosto quella della diversità culturale come un risultato di costanti processi di cambiamento e di scam-

bio tra i popoli, idee e creatività56, si arricchisce quindi nella possibilità del dialogo e del confronto di buoni strumenti per esercitarsi e scoprirsi come un percorso in cambiamento, trasformazione, o come direbbe Morin, di metamorfosi57. Il tema appare ancora di più interesse all’interno delle complessità, degli incontri, delle esperienze virtuali, dei bisogni locali che circolano e cercano risposte nei tempi delle crisi globali. Il rapporto con il globale non permette e non facilita, per quanto possano sembrare più facili i contatti, grazie alla tecnologia sempre più avanzata, costruttivi dialoghi interculturali. La globalizzazione tende, infatti, a concentrare e modellizzare sotto categorie standard ciò che caratterizza le appartenenze. Niente si distingue dentro il processo di omologazione e il contatto, più che essere un primo strumento di dialogo, diventa quello che introduce alla facile omologazione. Un contesto dove le espressioni di identità culturali sono, talvolta, fonti di frammentazione frustrazione e etnocentrismo. Da qui l’alimentazione di comportamenti xenofobi che escludono, di razzismi che stigmatizzano ed opprimono, di emarginazione di minoranze e di sfruttamento di chi è considerato debole e oggetto di potere. Situazioni difficili che producono insicurezza collettiva, indebolimento delle forme di garanzia sociale e legislativa, minando il sistema di costruzione di fiducia per la condivisione e la cooperazione Dentro questo processo c’è il rischio di perdere innovazione e creatività, capacità di sentire empaticamente e di creare processi e forme di solidarietà. Sono gli esseri umani che nella loro specificità e originalità creano cultura, non sono le culture che definiscono i gruppi in modo univoco monolitico. Espressioni umane diverse si incontrano in modo originale grazie alle appartenenze nelle quali possono identificarsi, ma che non li limitano nella scelta e nella possibilità di scambio e crescita innovativa. Nel dialogo stanno la volontà e il desiderio di trovare connessioni, sintonie, condivisioni che non sono mai il tutto dell’incontro, non rappresentano la totalità disponibile delle risorse delle persone ma, sono punti luce di energie e forze talvolta anche irripetibili. Il dialogo interculturale, come in parte anche quello religioso, sembra riprendere per certi aspetti il lavoro che il cervello umano compie quando fa circolare un’informazione e quando questa entra nel circuito della mente: attiva sinapsi di collegamento e di scambio. Sinapsi che permettono tipologie differenti di informazioni e collegamenti grazie alle innumerevoli connessioni attivabili. Come l’esperienza del dialogo trova il suo miglioramento nella possibilità di sperimentare e esercitare le competenze e gli strumen56

UNESCO, A new cultural policy agenda for development and mutual understanding, Paris, UNESCO, 2011. 57 Cfr. E. Morin, La via per l’avvenire dell’umanità, Milano, Raffaello Cortina, 2012.

ti cognitivi, emotivi e comunicativi, così anche le comunicazioni i contatti e le connessioni del cervello umano richiedono interventi educativi di qualità per potersi sviluppare e diramare aprendo nuovi circuiti. Pur essendo questo un focus che compete ad altri settori scientifici, interessa solo considerare che un certo modello di studio del funzionamento del cervello, può essere considerato di riferimento ad una prassi che umana è ma, a differenza del cervello che si muove per leggi naturali, il dialogo è una importante costruzione di competenze culturali. Secondo alcuni modelli alla base di ogni possibilità di dialogo sta la promozione di una continua riflessività interiore e la capacità di esprimere tale riflessione esplorativa attraverso la capacità di essere conviviali 58, insieme ad una predisposizione al cambiamento dei punti di riferimento e delle pratiche di convivenza tramandate e non più capaci di sostenere la complessità delle relazioni umane. Per incoraggiare la riflessività interiore è necessario progettare processi educativi e formativi transdisciplinari, capaci di allargare le prospettive di analisi dei problemi e delle questioni utilizzando non solo le risorse disciplinari, ma i metodi di analisi e di ricerca che le discipline utilizzano. La prospettiva del dialogo è quindi sostenuta da molteplici fattori che ancora prima di essere utilizzati nella relazione con gli altri devono diventare esperienza interiore di dialogo, ricerca ed esercizio continuo. Il dialogo non è una relazione che si improvvisa o si realizza perché ci sono dei contenuti da comunicare. Esso richiede anche esercizi di decentramento cognitivo, emotivo, spirituale e fisico. È necessario acquisire l’abitudine ad essere proattivi piuttosto che reattivi, per poter cogliere con attenzione e disponibilità, ciò che una reazione immediata taglia fuori dalla comunicazione e dallo scambio. Essere reattivi significa essere passivi, funzionare da effetto piuttosto che da causa-motore di scelte personali; significa non scegliere liberamente e non fare uso del libero arbitrio ma, rimanere condizionati per l’incapacità di saper gestire la propria emotività ed impulsività. La reazione impedisce che il dialogo possa accedere a livelli più alti dove ciò che viene dato nella reciprocità della situazione, non è seguito da qualcosa che viene ricevuto, ma dalla condivisione. La condivisione può essere attiva e positiva non perché coloro che partecipano al dialogo hanno cambiato le proprie idee e convinzioni ma, perché percepisco l’apertura interiore, la sensazione di benessere, di disponibilità all’ascolto e all’accoglienza che l’esperienza dà. La riflessività interiore si muove sia sul piano degli esercizi di decentramento attivati dal pensiero flessibile e complesso, che su quello del continuo rapporto tra dialogo con se stessi e con gli 58

cit.

UNESCO, A new cultural policy agenda for development and mutual understanding,

altri. Per quanto possa sembrare che queste pratiche siano semplici e facili da realizzare, in realtà ognuno dei passaggi menzionati richiede molta volontà, autocontrollo e capacità di resistenza. Stare e so-stare nella diversità apre alla ricerca interiore delle strategie e risorse possedute ed utilizzate per l’incontro. Come la riflessione interiore anche la competenza di convivialità può essere acquisita grazie ad un percorso formativo che fornisca i metodi e gli strumenti capaci di incoraggiare e alimentare queste azioni. La convivialità non richiede che nelle relazioni interpersonali, per andare d’accordo con una persona o con un gruppo, sia necessaria l’accettazione completa della loro visione del mondo. Se questo dovesse avvenire, dovremmo parlare di un fondamentalismo culturale che vuole riportare i modi di essere, le credenze, il sentire, il pensare e l’agire, ad un’unica visione del mondo. Infine la disponibilità al cambiamento all’apertura dei propri orizzonti richiede volontà e un forte impegno di adattamento creativo che non si accontenta di ciò che viene passato attraverso le strutture non formali del sapere. L’adattamento creativo viene, in realtà, minacciato dalla tecnologia digitale e dalla saturazione che i mass media fanno della vita quotidiana. Questa crescita esponenziale delle conoscenze apparenti e superficiali, contrassegnata anche dai flussi della globalizzazione, non porta al cambiamento vissuto scelto e agito. Forme di comunicazione che possono generare situazioni di passività e dipendenza, di restringimento e irrigidimento di prospettiva e di analisi critica e assunzioni di modelli sociali semplici ma, di facile comprensione, per appartenere a gruppi gerarchicamente e violentemente organizzati. L’adattamento creativo è una competenza culturale che fa propria la capacità di aprire esperienze di dialogo, incontro e trasformazione a più livelli e su più campi59. Questo porta a riflettere sulla necessità di creare nuovi approcci per il dialogo interculturale che sappiano andare oltre i limiti del dialogo tra i paradigmi delle civilizzazioni.

3. Pratiche interculturali e esperienze di progettazione 3.1 Relazioni interculturali nella cooperazione internazionale Il tema dell’intercultura rappresenta oggi un riferimento importante anche per lo sviluppo delle pratiche di cooperazione internazionale e per le politiche di sviluppo sostenibile. C’è un forte intreccio sia teorico che ope59 Ibidem.

rativo tra questi campi di azione. Naturalmente la loro relazione implica la considerazione di altri aspetti ed elementi ad essi correlati. Le tematiche dello sviluppo sostenibile si intrecciano con quelle della lotta contro l’analfabetismo, la tutela dei patrimoni ambientali e culturali, sia materiali che immateriali. In una prospettiva di condivisione comune alla salvaguardia del pianeta, c’è bisogno di creare quelle condizioni possibili e migliori per la comunicazione e la comprensione di esigenze e prospettive differenti al raggiungimento di qualcosa che è in comune. Oggi quindi sia il focus dell’intercultura che l’educazione interculturale, diventano il passaggio necessario per la possibilità di rendere la realtà della vita di ogni essere umano, feconda e promotrice di sostenibilità, di cambiamento nel rispetto del benessere e del successo individuale e comune. Altrettanta attenzione deve essere posta perché pratiche e interventi efficaci possano, attraverso contenuti, mezzi e strumenti che appartengono ai molteplici saperi culturali, mantenere la propria originalità e nello stesso tempo beneficiare dello scambio. Con questa consapevolezza delle differenti specificità e originalità culturali che accompagnano le evoluzioni e i processi di vita di ogni essere umano e di ogni gruppo, emerge anche la necessità di riconoscere le modalità per potersi mettere in relazione con gli altri, avviare uno scambio e un reciproco e rispettoso riconoscimento. Esperienze queste fondamentali per coinvolgere le culture a scoprire e recuperare i propri saperi per elaborarli nell’esperienza dell’incontro con altri saperi culturali e modelli di convivenza pacifica. Nessun gruppo o comunità può essere considerato come minore o maggiore, meno sviluppato o più sviluppato. Non si tratta di condividere forme di relativismo culturale, quanto piuttosto di scegliere un percorso di reciproca consapevolezza di essere abitante del pianeta Terra. Non c’è più uno scarto quantitativo che artificiosamente imprimeva anche un giudizio di valore, ma soprattutto di potere. La diversità infatti, come affermato nella Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali60, è una caratteristica inerente dell’umanità e come tale rappresenta un patrimonio comune di tutto il genere umano. Questo senso alto del rapporto con la diversità richiede una interculturalità capace di educare alla democrazia e ai diritti umani. Implicito nella relazione tra le culture sta infatti il bisogno di comprendere il funzionamento delle società, l’organizzazione delle sue istituzioni e i valori che le attraversano e che promuovono le spinte per i cambiamenti sociali e culturali. L’UNESCO considerando centrale ad ogni azione la pace, l’educazione, la cultura, la scienza, e il loro prendere particolare forma nei rapporti e nel60 UNESCO,

Convention on the protection and promotion of the diversity of cultural expressions, Parigi, 2005. Ratificata dall’Italia il 19 febbraio 2007 con Legge n. 19 http://www.unesco.it/cni/index.php/cultura/diversita-culturale

le relazioni tra persone e tra differenti comunità e collettività, sollecita e promuove l’integrazione di questi con la salvaguardia dell’ambiente del pianeta a garanzia del mantenimento di una convivenza pacifica tra i popoli. Nella prospettiva di una educazione alla pace e alla convivenza pacifica, è necessario comprendere anche le innumerevoli e complesse relazioni che gli esseri umani stabiliscono in modo creativo e originale con i contesti culturali, formativi, spirituali, ambientali economici e valoriali. Ecco che il tema dell’intercultura si sposta, da una visione di accoglienza/integrazione delle persone immigrate a quello della condivisione di scelte, di modelli, di politiche, di strategie e di interventi, a sostegno dello sviluppo del genere umano, nella terra che gli è dato da abitare 61. L’esperienza di cooperazione a livello locale, nazionale e internazionale mette bene in evidenza l’esigenza di utilizzare delle buone pratiche di tipo interculturale. L’incontro di mondi diversi, caratterizzato dalla complessità delle identità individuali e di gruppo che orientano comportamenti, decisioni e attese, richiede abilità e competenze di decentramento, pensiero flessibile, problem solving, creatività e umiltà. Non è facile considerare un atteggiamento di umiltà insieme a queste pratiche. In realtà la capacità di relazionarsi con un atteggiamento umile permette alle persone di stare in ascolto dell’altro senza alcuna pretesa di voler, o saper interpretare il volere dell’Altro. Questa disponibilità richiede buone competenze cognitive ed emotive per essere sviluppata e rappresenta un punto di contatto importante per poter lavorare nell’incontro tra culture diverse. La cooperazione è spesso deficitaria di una dimensione di autentica reciprocità, intendendo per reciprocità la disponibilità a non anteporre la propria posizione o il proprio approccio su ciò che viene detto e fatto, e mantenere allo stesso tempo una semplicità di comunicazione e di scambio. Ogni forma di partenariato deve ben guardarsi dal creare situazioni in cui un gruppo dominante, linguisticamente, economicamente e/o etnicamente, si appropri di ruoli di controllo e di gestione del gruppo. Anche la leadership, che rappresenta una sintesi essenziale delle relazioni interculturali, richiede competenze di condivisione e di partecipazione democratica capaci di prevenire e di proteggere da forme di prevaricazione e controllo. Sono questi aspetti che mettono alla prova la coerenza della stessa cooperazione, la costruzione di un network di partner. La cooperazione vuole che venga fatto un sostenibile investimento di energie, tempi e scambi per creare reti di condivisioni progettuali e di potenziamento delle risorse umane. La costruzione del partenariato e di una originale organizzazione degli in61

2001.

Cfr. E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, R. Cortina,

terventi per il sostegno dei cambiamenti sociali, culturali e locali, implica la consapevolezza di dovere studiare e comprendere le specificità dei riferimenti, dei modelli e delle rappresentazioni sociali che le persone portano nei loro saperi, nei loro comportamenti e nelle loro idee quando progettano la trasformazione della realtà. Ogni nuovo gruppo è un incontro originale di persone con differenti provenienze ed esperienze culturali. È anche possibile immaginarlo ‹‹come un sottoinsieme socioculturale e, come tale è possibile riscontrare nel suo interno i tratti essenziali del sistema socio-culturale complessivo di riferimento. L’organizzazione non è semplicemente un luogo di imitazione, di ciò che passa e costituisce la cultura globale di riferimento, bensì un particolarissimo cultural bearing milieu, un luogo […] ove vengono prodotti e riprodotti simbologie, valori e modelli di azioni specifici che hanno legittimato e caratterizzato l’esistenza nei confronti del ‘mondo’, ma anche fornito la ‘bussola’ interna di riferimento all’azione››62. Ogni partenariato, pensandolo come un’ organizzazione è, in sé, un microcosmo che nel suo processo di consolidamento interno, di intesa e di reciprocità attiva processi per passare dalla dimensione multiculturale a interculturale mostrandosi così coerente con gli obiettivi stessi della cooperazione. Entrare in relazioni cooperative significa adattarsi a prospettive diverse, accettare aspetti, questioni, e visioni, talvolta non comuni e lontane dalla propria prospettiva. Significa riflettere criticamente su quali sono le prospettive culturali con le quali vengono osservati, sentiti e comunicati i problemi. La scelta della lingua che i partner decidono di adottare per lo sviluppo delle idee progettuali, le ricerche ad esse collegate e la comunicazione interna al gruppo o ai gruppi che fanno parte del network, è anch’essa carica di elementi importarti per la messa alla prova delle competenze interculturali. ‹‹Entrare in un sistema culturale diverso presuppone comunque un cambiamento, un allineamento, una traduzione, in altri termini, l’adattarsi è un processo complesso che dipende da tanti/differenti fattori: di sistema, come il grado di distanza culturale, le politiche interculturali, il supporto ricevuto ecc.; interpersonali come le forme/modalità di comunicazione a tutti i livelli, le reti sociali; individuale come il sistema bisogni/motivazioni/ aspettative, le conoscenze, la personalità››63. Essenziale per questo passaggio risulta la chiara comprensione delle caratteristiche, delle risorse e delle potenzialità di ogni membro della cooperazione, sia esso istituzione o singolo individuo, non solo in relazione a ciò che si mette a disposizione nella cooperazione, ma anche come questo potrà 62 P. Malizia, Mettere insieme. Multiculturalità, organizzazioni complesse e azione formativa, in G. Spagnuolo, Il magico mosaico dell’intercultura. Teorie, mondi ed esperienze, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 34. 63Idem, pp. 35-36.

arricchirsi e modificarsi grazie alle finalità della stessa cooperazione. Un’articolata e curiosa conoscenza di questi aspetti può rappresentare uno degli elementi per la sostenibilità delle relazioni interculturali interne alla cooperazione. Questo significa, inoltre, fare in modo che ci sia una conoscenza partecipata tra i partner, che le relazioni e gli scambi non siano solo virtuali o motivati dalla finalità dei progetti. A questo si accompagna la necessità di sviluppare contemporaneamente processi di formazione e autoformazione che sappiano guidare e sostenere, in modo coerente, il lavoro stesso della cooperazione. Nella considerazione, come sopra presentata, che il lavoro di più persone e gruppi, rappresenta un costante incontro tra mondi diversi, la necessità di conoscersi e di formarsi in una prospettiva interculturale per il raggiungimento di obiettivi comuni, significa dare alla cooperazione anche il riconoscimento di luogo di formazione e autoformazione.

3.2 Le Comunità di Pratiche per creare alleanze interculturali Una comunità di buone e trasferibili pratiche educative64 può rappresentare uno spazio d’incontro interessante, creativo e utile per dare conferma della qualità dei metodi e dell’efficacia delle azioni svolte dagli operatori per lo sviluppo del dialogo interculturale65. Esso rappresenta un luogo metaforico, virtuale ma anche reale e concreto dove le idee, le proposte e le esperienze realizzate circolano liberamente con l’obiettivo di lasciare una testimonianza visibile delle esperienze educative svolte e di fare circolare ma, lanciare, nuove idee e proposte in luoghi lontani e apparentemente irraggiungibili. Nella Comunità di pratiche le molteplici appartenenze si muovono per la costruzione di identità complesse e plurali. Ciò che caratterizza questa proposta è l’attenzione posta nei processi sociali, considerati contesti specifici di apprendimento. La Comunità di pratica è quindi un contesto che, facilitato dagli strumenti proposti dalle nuove tecnologie, permette lo scambio di esperienze e percorsi, ma nello stesso tempo attiva nuovi processi conoscitivi e formativi che rinforzano e qualificano il sapere professionale. Questo contesto di condivisione dei saperi e delle pratiche è 64

Cfr. S. Guetta, A. Verdiani, The community of practices (cop) of UNESCO Chairs for interreligious and intercultural dialogue for mutual understanding, FUP, Firenze, 2011. Il primo modello di Comunità di Pratiche venne delineato da Lave e Wenger agli inizi degli anni ‘90 e incontrò particolare attenzione per la possibilità di essere considerato un originale contesto di apprendimento della società della conoscenza, J. Lave, E. Wenger, Situated learing: legitimate peripheral partecipation, Cambridge UK, Cambridge University Press, 1991. 65 Ibidem.

costruito sulla capacità di stare dentro un sistema di coordinamento gestito in rete su un piano orizzontale. Le relazioni avvengono a pari livello senza la necessità di un controllo gerarchizzato. La collaborazione permette di muoversi dentro le dinamiche tra questioni e priorità locali e globali. Ciò che sta alla base di questa operazione è la condivisione di interesse o una passione per degli aspetti di vario genere, come quelli educativo, sociale e culturale, che sollecitano interazioni regolari che possono essere di aiuto per il miglioramento della qualità delle proposte e degli interventi educativi. Gli operatori/partecipanti, sono responsabili delle pratiche messe a conoscenza del gruppo, ma anche della qualità e del loro carattere di trasferibilità. L’operatività della Comunità di buone Pratiche permette di rendere attivo l’apprendimento situato che si caratterizza in senso sociale66 e, nello stesso tempo, ciò che viene costruito come nuovo sapere diventa elemento di socializzazione e socialmente apprezzato. Come contesto di messa in comunità di conoscenze e pratiche di differente tipologia, esso dà spazio alla gestione dei conflitti e delle tensioni emotive particolarmente funzionali per conoscenza di esperienze educative di culture diverse. L’incontro è in sé un’occasione e anche un salto di qualità nel rapporto tra i popoli. «Lo spazio dell’incontro è il modello, oggi, più maturo di lavoro interculturale. Esso va studiato analiticamente e va posseduto nella sua complessa struttura. Va anche posto come fattore-chiave del lavoro pedagogico educativo che l’intercultura reclama sempre, con sé»67. Il tema della pratica e del suo utilizzo in ambito educativo si sviluppa grazie alle riflessioni sul modello della teoria sociale dell’apprendimento. Per il riferimento alla dimensione sociale questo tipo di apprendimento è considerato come prospettiva interessante per la formazione dei futuri professionisti dell’educazione e della formazione e per il rafforzamento delle esperienze già in atto. Il modello della teoria sociale dell’apprendimento evidenzia come la conoscenza si rapporti ad una serie di attività che il contesto sociale, culturale e scientifico ritiene idonea e adatta, e che il conoscere significhi partecipare operativamente e concretamente ad attività socialmente apprezzate. L’apprendimento è quindi reso possibile, secondo questa prospettiva grazie alla possibilità di disporre di continue relazioni umane e ambientali, che si integrano con specifiche e personali relazioni culturali, sociali, spirituali e ambientali. In sostanza, benché il nostro progettare educativo sia ancora fortemente impregnato di individualismo, separazione e solipsismo, in realtà c’è la consapevolezza che ‹‹l’apprendimento [sia]in buona sostanza 66

Cfr. G. Alessandrini (a cura di), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Roma, Carocci, 2005. 67 F. Cambi, Incontro e dialogo, Roma, Carocci, 2006, p. 18.

un fenomeno fondamentalmente sociale che riflette la nostra natura profondamente sociale di essere umani in grado di conoscere››68. Il nostro vivere è caratterizzato ed è possibile grazie alla presenza di altri individui quindi ogni persona è un essere sociale che apprende grazie alla diversa natura di esperienza con la quale si rapporta. È possibile considerare la conoscenza come qualcosa che oltre a essere una elaborazione e una costruzione della persona è anche una competenza socialmente e culturalmente apprezzata e necessaria per la sopravvivenza della specie umana. Wenger sostiene che conoscere (knowing) significhi ‹‹partecipare al proseguimento di queste attività socialmente apprezzate, ossia assumere un ruolo attivo nel mondo››69. Il sapere diventa pratica attraverso la condivisione e la partecipazione nella comunità di appartenenza che, d’altra parte indica, implicitamente ed esplicitamente, lo sviluppo e il definirsi degli oggetti di apprendimento. La comunità di pratiche, intesa come contesto socio-culturale di riferimento e come contesto professionale, storico e politico, indirizza verso contenuti di apprendimento che essa stessa legittima e sostiene. Questa considerazione apre agli aspetti etico morali della conoscenza e delle sue pratiche e agli aspetti relativi al ruolo e alla responsabilità che la comunità di pratiche ha sulla buona costruzione dei processi di apprendimento, cioè sui modi con i quali gli apprendimenti vengono costruiti. È possibile considerare che oltre alla definizione dei contenuti dell’apprendimento, la comunità, in quanto formata da singole persone che intenzionalmente, svolgendo un ruolo sociale ed educativo, media, più o meno intenzionalmente, anche le modalità con le quali sono costruiti i saperi. La pratica è un apprendimento legato al fare ‹‹riferibile alle risorse sociali ai modelli e alle prospettive condivise che possono sostenere il mutuo coinvolgimento dell’agire››70. Per il suo carattere attivo, questa modalità di apprendimento, attribuisce molta importanza alle esperienze e all’investimento di significato che queste hanno nel processo di elaborazione e costruzione dei saperi. Una intenzionalità educativa che si struttura sulla attivazione di esperienze , come quella che vede il soggetto capace di poter gestire anche fuori dal contesto di origine della pratica. Riteniamo, infatti, che una pratica possa essere considerata buona quando è sostenuta da una significativa e originale esperienza educativa e quando è frutto di un buon processo di apprendimento e nel68 E. Wenger, Comunità di Pratica, Apprendimento, significato e identità, Milano, Cortina, 2006, p. 9. 69 Ivi, p.11. 70 G. Trentin, Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 88.

lo stesso tempo apre ad altrettanti processi di apprendimento di qualità. Non è esaustivo parlare di buone esperienze se non si è consapevoli dei processi che sono implicati nella costruzione della pratica. Ancora più precisamente possiamo dire che il concetto di pratica connota il fare che è tale perché riferito ad un contesto storico-sociale che ne definisce il significato e dà struttura alla pratica stessa, ‹‹in questo senso, la pratica è sempre una pratica sociale. Questo concetto di pratica include sia l’esplicito che il tacito, include ciò che viene detto e ciò che non viene detto, include ciò che viene rappresentato e ciò che viene assunto per ipotesi. Include il linguaggio, gli strumenti, i documenti, le immagini, i simboli, i ruoli ben definiti, i criteri specifici, le procedure codificate, le normative interne e i contratti che le varie pratiche rendono espliciti per tutta una serie di finalità›71. Una pratica si definisce tale quando in un contesto sociale, di qualsiasi tipo esso sia, familiare, lavorativo, sportivo ecc., quando viene fatto qualcosa che ha un significato e genera soddisfazione in chi la realizza. La pratica, può anche essere pensata come la messa in azione di una o più competenze. Queste, in quanto considerate la sperimentazione delle conoscenze teoriche, rimandano sempre ad un sapere teorico. Per quanto si voglia sottolineare questa stretta connessione tra conoscenza e pratica, passando dalla competenza, non vogliamo con questo affermare che la pratica non riguardi anche il teorico. Il ‹‹concetto di pratica non si schiera per uno dei due poli delle dicotomie tradizionali che distinguono l’agire dal conoscere, l’attività manuale dall’attività mentale, il concreto dall’astratto. Il processo di coinvolgimento nella pratica riguarda sempre la persona nella sua totalità in quanto soggetto che agisce e conosce nello stesso tempo. In realtà la cosiddetta attività manuale non è disgiunta dal pensiero e la cosiddetta attività mentale non è separabile dalla fisicità del corpo››72. Questo aspetto ci informa su cosa sia una buona pratica: essa è infatti un agire che è capace di guardare alla circolarità a alla complementarietà del pensare, del fare e del sentire. Ciò che caratterizza una pratica è anche la sua capacità di essere in parte riproposta, una volta valutati criticamente i suoi risultati, in altri contesti . La pratica è buona anche quando, non più proponibile, risulta comunque essere una fonte di ispirazione, una sollecitazione per nuove pratiche di intervento. Una buona pratica è quella che sa essere facilmente compresa e appresa, oltre che confrontata con le esperienze pregresse dei soggetti coinvolti. 71 72

E. Wenger, op.cit, p. 59. E. Wenger, op.cit, p. 60.

Quando le proposte di intervento risultano troppo articolate e poco chiare nella definizione degli obiettivi da raggiungere e delle procedure utilizzate, non possono essere facilmente considerate come nuovi saperi. Essa richiama a sé anche il monitoraggio della qualità dell’interazione del gruppo che può essere esercitata da discussioni, lavori di gruppo e l’aiuto reciproco. Buone pratiche sono, inoltre, quelle che generano cambiamento, che smuovono lo status quo, che sollecitano l’azione e la creatività delle persone. Ancora la buona pratica è quella che tiene articolate in sé differenti competenze e si presenta originale rispetto ad altre esperienze e offre spunti innovativi per la progettazione di nuovi interventi. Infine la buona pratica è anche la capacità di sapersi integrare costruttivamente ad altre esperienze, in modo tale da costruire una opportunità variegata di interventi originali, strategicamente efficaci e, dal punto di vista formativo in grado di aprire nuovi saperi.

2. Dialogo interreligioso come contributo alla reciproca conoscenza

1. Il dialogo interreligioso fuori del religioso Il nostro pianeta è ricco di grandi esperienze e percorsi di natura religiosa. Diversità di concezioni e visioni del significato e dell’agire umano che rimandano e influenzano anche ricerche laiche sullo scopo dell’esistenza e i misteri che la sua natura racchiude. Esperienze che hanno attraversato secoli e continenti, molto spesso influenzandosi reciprocamente, pur mantenendo una propria peculiarità o dando origine a nuove forme di esperienza e cammino spirituale. Nell’interesse per questa ricchezza di saperi e per la ricerca di risposte ai misteri dell’essere umano, si trova la chiara consapevolezza dello stretto legame che, nella storia dell’umanità, ha intrecciato il riferimento al religioso con le lotte, le guerre, la violenza e la sottomissione dei più deboli e indifesi. Spesso la religione è stata strumentalizza al fine di giustificare radicalizzazioni, fondamentalismi, emarginazioni, discriminazioni e annientamenti. Le guerre di religione hanno messo gli uni contro gli altri gli esseri umani, dando legittimazione ai conflitti tra etnie e culture, giunti anche a inaccettabili bagni di sangue. Quando la religione diventa questo e accetta di assumere il ruolo di detentrice e paladina della verità piuttosto che ricerca continua di spiritualità, allora ogni suo contributo rischia di perdere significato perché il suo essere è garantito da ciò che viene affermato e non da ciò che viene vissuto nel profondo. Interessa quindi aprire alla conoscenza del religioso come esperienza spirituale dell’essere umano che in virtù della sua complessità e ricchezza di strumenti del pensare e del sentire, sa coniugare il sapere religioso con quelli cognitivi, emotivi ed intuitivi. Una costruzione di saperi che alimentano la tolleranza che si apre al rispetto dell’Altro e alla fondazione di un’etica della convivenza pacifica tra tradizioni, culture ed etnie diverse. Sono stati necessari molti secoli di guerre e annientamenti in nome di false e ideologiche giustificazioni religiose, e molte azioni di non violenza e di esperienza di rispetto dei diritti delle persone, per comprendere e af-

fermare la libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Cambiamenti importanti che hanno dato origine ad organismi internazionali e a documenti di interesse planetario come la Dichiarazione sui diritti umani, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e, nel caso più specifico, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le singole e numerose costituzioni degli Stati. Affermazioni e principi importanti e imprescindibili che tuttavia non sono stati sufficienti a debellare la piaga delle guerre o del terrorismo, delle azioni di violenza e discriminazione fatte in giustificazione di una appartenenza religiosa che ne renderebbe lecite le azioni. La quotidianità ci impone di guardare al problema con attenzione critica e strumenti di analisi che sappiano comprendere l’assurdità di tale pratica di violenza. Sono avvenimenti quotidiani che arrivano carichi di intolleranza, di imprecisione terminologica1 e violenza, anche solo di tipo emotivo, che perpetuano la circolarità dell’aggressione, del disagio e della giustificazione della forza delle armi per mantenimento dell’ordine. Ogni riferimento alla libertà religiosa evidenzia sia la libera costruzione dell’identità dei credenti appartenenti alle molteplici tradizioni religiose che l’identità di chi credente non è e come persona atea, scettica, agnostica, o indifferente, segue esperienze di vita altre, ma ugualmente profondamente significative. Quello che unisce in un interesse comune non è tanto il ritrovarsi dentro una fede o un credo che indichi all’essere umano cosa fare e come comportarsi, cosa credere e cosa pregare, quanto salvaguardare in ogni contesto sociale umano, sia anche le comunità religiose, i diritti umani, lo sviluppo e il miglioramento della democrazia e la promozione dei valori di fondamentali come pace, educazione alla libertà, dialogo e solidarietà. La pace tra le religioni è quindi un preludio importante e fondamentale per la pace tra i popoli. L’UNESCO considera il programma per lo sviluppo e la diffusione del dialogo interreligioso una componente essenziale del dialogo interculturale. Per quanto ritenuti molto simili e spesso compresi come un’unica realtà all’interno di interventi orientati all’incontro tra persone con origini differenti, è necessario separare in modo chiaro le due condizioni. La prima è infatti orientata a promuovere lo scambio di prospettive che le tradizioni religiose hanno costruito nel corso dei secoli, la seconda a mettere a confronto le tante appartenenze con lo scopo di costruire nella reciprocità la molteplicità dei saperi culturali delle persone. Il dialogo interreligioso vuole quindi dare modo di esplorare quali motivazioni, domande, inquietudini, ricerche stanno dentro le credenze, le convinzioni e i fatti religiosi. L’attenzione viene quindi portata verso la ricerca di incontro, interazione, 1 Si

pensi all’uso improprio di arabo e islamico/musulmano, ponendoli come sinonimi.

scambio e cooperazione tra persone appartenenti alle differenti religioni. Appartenenza che, per l’età adulta, è caratterizzata da una scelta personale. Diversamente il dialogo interculturale mette in luce lo scambio tra specificità e diversità di appartenenza comunitaria e collettiva, guarda allo sviluppo della cittadinanza democratica e partecipata e apre alla capacità di realizzazione di forme di governance per una cittadinanza laica e inclusiva. Gli aspetti del religioso sono comunque implicitamente presenti, con forme e intensità differenti, anche nei saperi culturali. In tal molo è possibile evidenziare come, all’interno delle appartenenze culturali, i riferimenti alla tradizioni religiose possono essere diverse. Maggiori e sofisticati sono gli strumenti con i quali ci relazioniamo alle realtà umane e molteplici saranno gli scenari che è possibile cogliere. Niente è lineare, chi vede nelle appartenenze religiose un unico modo di pensare e di essere, anche se la sua è una percezione positiva, ripropone un pensare per stereotipi e pregiudizi. Nonostante il forte bisogno di riconoscere pari dignità e diritti a tutte le religioni, nel rispetto della salvaguardia dei diritti umani le organizzazioni internazionali, interessate alla pace e alla educazione nonviolenta, arrivano piuttosto tardi, solo negli anni Novanta, a definire in modo programmatico le azioni da attuare in favore del dialogo interreligioso2. L’avvio del programma UNESCO per lo sviluppo del dialogo tra le religioni e le fedi prende corpo nel 1996 come risultato sulla riflessione posta dalla Dichiarazione di Barcellona del 1994, che si interrogava sul ruolo che le religioni hanno per la promozione della cultura di pace. La Dichiarazione di Barcellona ha dato inizio ad altri importanti momenti di riflessione come le Proposte di Rabat dell’anno successivo, 1995, dove l’incontro promosso per avvicinare esperti e progettisti, si è formalizzato nella proposta di Roads of Faith3, e a qualche anno di distanza, nel 1999 alla dichiarazione delle UN con il programma per lo sviluppo della cultura di pace. Nel 2001 viene approvata la Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale e si apre la 2 Va comunque considerato che già alla fine del XIX secolo viene avvertita l’esigenza di creare un Parlamento Mondiale delle Religioni. L’esperienza risale al 1893 e si realizza negli Stati Uniti. L’iniziativa, per quanto limitata e criticabile per la mancata inclusione di alcune tradizioni religiose come quelle dei nativi di America, mette tuttavia in movimento la consapevolezza dell’importanza del dialogo tra le religioni del pianeta. Questa iniziativa ha inoltre favorito la comprensione di differenti approcci alla fede anche se in alcuni casi, l’interpretazione che ne è stata data ha successivamente influenzato la rappresentazioni di quelle meno conosciute come l’induismo e il buddismo. Questa prima esperienza di incontro darà quindi inizio ad un processo di apertura, di dialogo e di reciproco rispetto. Nel corso dei decenni successivi, il richiamo alla necessità di costruire contesti di armonia interreligiosa, come quella sostenuta da Gandhi, diventerà un aspetto basilare per la ricerca di un mondo di pace. 3 Culture of Peace, The Rabat Proposals, Meeting of Experts on the Roads of Faith Project, 23 June 1995.

decade a sostegno della Cultura di pace e della non violenza per i bambini del mondo4. Il programma dell’UNESCO si definisce con maggiore chiarezza nel corso del decennio che segue l’esperienza di questi ampi dibattiti, fino ad arrivare a una concreta formalizzazione programmatica di network di cattedre UNESCO. È nel marzo del 2006 che viene firmato un accordo per il lancio della rete UNESCO Chairs of Interreligious Dialogue for Intercultural Understanding5. L’obiettivo della rete è quello di promuovere le ricerche e gli studi per facilitare la reciproca comprensione tra differenti religioni, dare impulso allo scambio di interessi comuni, condividere la necessità di dare risposte significative per realizzare concretamente delle azioni di aiuto, sostegno e sviluppo alla cultura di pace. L’UNESCO cerca di rispondere alle inquietudini che circolano nell’Europa degli anni Novanta con il conflitto tra le popolazioni della ex Jugoslavia e il diffondersi di estremismi e razzismi, attraverso la cultura del dialogo che sappia trovare gli strumenti per fermare ed impedire il continuo dilagarsi di stragi, soprusi, violenze commesse in nome della religione. L’impegno è quello di responsabilizzare le comunità di credenti e appartenenti alle religioni coinvolte nei conflitti per dibattere e confrontarsi sui principi della pace e della comune convivenza piuttosto che all’uso della guerra e della forza come strumento inaccettabile per imporre una fede su un’altra. È sempre più necessario investire su strategie politiche e sociali che si adoperino per l’apertura di spazi per il dibattito e il confronto, superando e decostruendo i principi dogmatici che ne limitano la realizzazione. La mancanza di strumenti, di conoscenze e di competenze di impostazione laica, utili ad interagire con persone di differenti tradizioni religiose aumenta il rischio della separazione e allontanamento dei problemi. E da qui al maturarsi delle strumentalizzazioni, estremismi e scontri violenti, la distanza è breve6. Tra coloro che vogliono confinare l’identificazione religiosa all’interno della sfera del privato, allontanandola dalla sfera del pubblico e del civile, del dibattito e del confronto democratico, favoriscono il diffondersi dei pregiudizi e delle ostilità nei confronti dei saperi e delle tradizioni che sono patrimonio culturale delle persone7. Allontanare questi saperi dalla sfera 4 UNESCO, International Decade for a Culture of Peace and Non-violence for the Children of the World (2001-2010): http://www3.unesco.org/iycp/uk/uk_sum_decade.htm 5 Cfr. S. Guetta, A. Verdiani, The community of practices (cop) of UNESCO Chairs for interreligious and intercultural dialogue for mutual understanding, FUP, Firenze, 2011 e UNESCO Interreligious Dialogue: http://www.unesco.org/new/?id=51241 6 Ne sono in parte coinvolti alcuni paesi del Magreb, ma anche la Nigeria, la Mauritania, la Somalia, Kenia, ecc. 7 UNESCO, World Report, Investing in Cultural Diversity and Intercultural Dialogue, Paris,UNESCO, 2009.

della discussione e del dibattito, significa rinforzare il possibile irrigidimento delle identità e aumentare il rischio di estremizzazioni e di fondamentalismi che hanno presa facile in contesti di conflitto, povertà, deprivazione e forte diseguaglianza sociale. Le molteplici tradizioni religiose possono offrire diversificate prospettive attraverso cui esplorare il senso dell’umano e dell’umanità, le potenzialità e le debolezze della quotidiana esperienza di vita, il modo con cui gli esseri umani cercano di sentirsi parte di un tutto vivendo questa esperienza con gli altri. L’UNESCO ha cercato di promuovere la reciproca interazione tra tradizioni religiose e spirituali da una parte e, dall’altra, il bisogno di promuovere la reciproca comprensione sfidando e combattendo i pregiudizi che spesso alimentano forme di esclusione, espulsione e violenza nei confronti di chi appartiene a tradizioni diverse da quelle ammesse all’interno degli Stati. Un coinvolgimento comunque che trova i suoi limiti quando si rivolge a solo una parte della popolazione delle comunità che possono essere interessate al dibattito, al miglioramento e alla ricerca di un cambiamento delle forme di controllo sociale e culturale. La partecipazione femminile è pressoché assente per il fatto che, in molte tradizioni religiose, soprattutto quelle monoteiste, le donne non hanno diritto di accedere ai vertici e di rappresentare la comunità8. Aspetti questi importanti da considerare nella prospettiva della coerenza tra obiettivi, metodi e strumenti per lo sviluppo del dialogo democratico e pluralista. A sostegno del dialogo interreligioso è stato tuttavia aperto uno spazio specifico di ricerca all’interno dell’UNESCO. Attraverso la rete delle Cattedre interessate appunto a questo tipo di ricerche, sono stati avviati studi e scambi tra esperti, ricercatori e operatori sul campo al fine di coinvolgere ambiti sociali di differente livello e appartenenza ad un dibattito laico sul religioso9. La conoscenza di esperienze diverse, non solo permette di uscire dall’isolamento delle problematiche da affrontare creando una condivisione delle questioni più urgenti e spesso di emergenza, ma permette di individuare dei criteri di base, flessibili e generali utili a proporre metodologie e

8 Questo è vero per la tradizione cristiano-cattolica, ebraica ortodossa e islamica anche se per quest’ultima il Marocco ha avviato un programma per la formazione delle donne come guide spirituali. 9 All’interno di queste strategie si inserisce il progetto di ricerca Comunità di Pratiche per il dialogo interculturale e interreligioso, realizzato all’interno della Cattedra Transidisciplinare UNESCO di Firenze interessato a creare una rete per la condivisione delle esperienze realizzate in particolare nelle Cattedre UNESCO impegnate nella pace e nel dialogo interreligioso. S. Guetta, A. Verdiani, The community of practices (cop) of UNESCO Chairs for interreligious and intercultural dialogue for mutual understanding, Firenze, FUP, 2011.

attività appropriate per promuovere l’insegnamento del dialogo interreligioso in modo adatto alla realtà dei diversi Paesi. Inserire la riflessione del rapporto tra tradizioni religiose che si realizzano nell’esperienza dello scambio di saperi, non solo a livello locale e comunitario, ma piuttosto sul piano internazionale, ha il merito di dare visibilità ai dibattiti per espanderli oltre il campo circoscritto del religioso, per confrontarsi con tutto ciò che possa garantire i diritti fondamentali dei bambini, delle donne e degli uomini.

1.1 Il dialogo interreligioso nelle strategie europee Anche l’Unione Europea ha condiviso le politiche e le strategie del dialogo, ritenendo opportuno e significativo promuovere studi, ricerche e dibattiti oltre che principi programmatici che tuttavia devono trovare delle concrete strade di applicazione. La controversia sui riferimenti religiosi, era stato un focus importante nel dibattito che doveva dare avvio al trattato costituzionale dell’Unione Europea. Il problema nasceva dalla proposta di affermare la presenza di principi e di valori religiosi nel tessuto sociale e istituzionale europeo, e di collegare questo a delle comuni radici giudaicocristiane10. Una questione che ha messo in movimento sia le tradizioni religiose chiamate in causa, quella ebraica e quella cristiana e le voci del pluralismo e delle altre comunità di credenti che si sono viste negare il riconoscimento del contributo dato alla storia europea e alla sua crescita culturale, sociale ed economica. Un dibattito che sicuramente andava contro corrente rispetto ai processi di trasformazione in atto nei vari Stati a seguito dei processi migratori e dell’incontro con altre esperienze di fede. La necessità di considerare la natura di tali radici sembra, invece, voler riaffermare una appartenenza religiosa unica e comune che non riconosce con la presenza delle tradizioni religiosa di differente origine11. 10 Cfr. F. Arcelli (a cura di), Le radici giudaico-cristiane nella costituzione europea, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino editore, 2004; G. Scibona , Il mondo delle idee. Dai greci al nostro tempo. Le idee costruiscono il mondo e lo distruggono, Roma, Armando, 2010. 11 Il gruppo ebraico, ad esempio, ha rappresentato una presenza che non può essere circoscritta al solo riferimento della tradizione religiosa. Essa ha avuto un percorso storico che risentiva di una serie di circostanze politiche economiche culturali sicuramente non riferibili alla sola dimensione religiosa. ‹‹Si può dire che nel corso dell’Ottocento e del Novecento, gli ebrei siano stati, almeno dal punto di vista geografico, una popolazione prevalentemente europea. Dal punto di vista culturale il problema è molto più complesso. Credo che sia meglio affrontarlo partendo innanzi tutto da un dato oggettivo di semplice rilevazione: le lingue, sia quelle usate come letterarie sia quelle parlate quotidianamente dagli ebrei››. A. Luzzatto, Il posto degli ebrei,Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, p. 32.

Si deve notare che all’inizio del nuovo millennio, la complessità del fenomeno della convivenza tra più religioni, ha preso campo nelle strategie dell’UNESCO e dell’Europa, rispondeva alle presenza della pluralità culturale e religiosa, con una prospettiva obsoleta e carica di pregiudizi. Il tema del dialogo tra le differenti tradizioni religiose, che lasciava comunque fuori tutto ciò che riguardasse la sfera della spiritualità non necessariamente legata ad un credo riconosciuto, è stato poi recuperato in una Europa delle controversie con l’istituzione dell’Anno europeo del dialogo interculturale12, facendo propria una prospettiva ampia del problema che chiamava a sé anche gli aspetti connessi alle diversità linguistiche e religiose. A sostegno dell’impegno per la scoperta della ricchezza che l’Europa ha ereditato dalla storia riguardo a questo tema e di fronte alle questioni poste dalle guerre, non ultime quelle dei Balcani, dai processi migratori, dalle forme di razzismo, antisemitismo e xenofobia, riproposte da alcuni gruppi contro la presenza delle persone immigrate, ma non solo, deve essere considerata la dichiarazione di Berlino sul dialogo interreligioso del marzo 2008. Una dichiarazione che risente della presenza dei leader delle comunità religiose chiamati a condividere il sostegno a iniziative comuni per la diffusione e la sollecitazione del dialogo all’interno degli Stati membri dell’Unione. La prospettiva attraverso la quale si analizza il pluralismo religioso rimane, tuttavia, ristretta. Ancora una volta vengono coinvolti i soli leader delle comunità e, nuovamente, il dialogo viene limitato alle tre religioni monoteiste, affermando, riprendendo il riferimento alla costituzione europea, che il cristianesimo, l’islam e l’ebraismo, in pratica le tre tradizioni di fede che appartengono al ceppo abramitico (le altre sembrano non entrare nell’interesse della dichiarazione) sono parte della storia dell’Europa perché sono visibili attraverso i loro luoghi di culto distribuiti in tutto il continente13. 12 Anno

Europeo del Dialogo Interculturale2008, http://europa.eu/legislation_summaries/culture/l29017_it.htm 13 Berlin Declaration on Interreligious Dialogue, 5 March 2008, http://www.rfp-europe.eu/index.cfm?id=216896 anche qui è possibile evidenziare un approccio limitato e poco aderente alla realtà quando nella dichiarazione viene affermato: Punto 1. Religion permeates Europe. Christianity, Islam and Judaism are part of European history. Today other great religious traditions have also found a place in the continent. In every town or village in Europe there is at least one house of worship: a Church, a Mosque or a Synagogue. To ensure a prosperous and harmonious future for Europe, people of different faiths must live peacefully together. Un’ affermazione sicuramente poco attinente alla realtà dei fatti perché, se solo viene considerata la parte ebraica, la presenza numericamente limitata, è da rintracciare nelle grandi città, non in tutti gli stati europei e comunque non equamente distribuiti sul territorio. Prendiamo il caso dell’Italia dove in gran parte del sud della penisola e nelle isole non ci sono ebrei. Probabilmente questo non vale per la tradizione cristiana che nelle sue varie forme riesce ad essere presente veramente in ogni città e in ogni paese.

La Dichiarazione sostiene, inoltre 14, che è attraverso il dialogo interreligioso che ci si apre alla possibilità di vedere gli altri, come esseri umani con fedi diverse, con esperienze, bisogni e desideri che trovano risposte interagendo tra tradizioni religiose e contesti sociali. Da lungo tempo, le tradizioni religiose hanno creato separazione tra fedeli e non fedeli, tra credenti e atei, tra coloro che appartenevano ad una tradizione e coloro che non ne facevano parte. Pratiche di esclusione che tutt’oggi rischiano di entrare implicitamente dentro le relazioni sociali e culturali delle collettività e di continuare a far percepire una sorta di ostilità, di intolleranza e di pregiudizio che portano a diffondere con facilità forme dii antisemitismo e di islamofobia15. Stare nella diversità significa capire cosa nel profondo si muove, comprendere i sentimenti e le percezioni che i buoni discorsi e i migliori propositi in molti casi non riescono ad affrontare. Il dialogo è sentito come un impegno e una partecipazione di tutti. Valori e principi differenti devono incontrarsi per comprendere la ricchezza dei punti di vista con cui vengono affrontate questioni simili, ogni riferimento a ciò che viola i diritti delle persone, come il diritto alla vita, alla libertà di pensiero e di espressione e allo stato di diritto, è nemico e ostacolo del dialogo. La Dichiarazione inserisce, tra i suoi punti, il richiamo alla necessità di coinvolgere le donne e i giovani per le potenziali risorse di rinnovamento che possono dare al dialogo16. Esiste, tuttavia, la chiara consapevolezza che, i rapporti tra tradizioni religiose, sono profondamente influenzati dalle dinamiche di potere e di controllo culturale e sociale dei territori. Differenti fattori entrano in azione nel creare squilibri e rapporti asimmetrici tra culture religiose differenti. Il sostegno politico e la legittimazione sociale si integrano, con il radicamento di una fede nella storia locale, o la forza economica o la capacità di coinvolgere un numero alto di persone. Non tutte le tradizioni religiose hanno la stessa presenza o una garantita rappresentazione negli scenari del sociale. I processi avviati con il dialogo hanno lo scopo di porre in evidenza queste discordanze, non certo nasconderle nell’idea di una falsa accettazione, per poterle decostruire per ripartire con una prospettiva democratica e priva di privilegi, dove le conoscenze, i valori, le questioni e le interrogazioni profonde trovano un comune spazio di espressione e ascolto. La Dichiarazione Ma così non è per le altre due religioni, e solamente a pensarlo ed affermarlo, rischia di offrire un contributo alla formazione dello stereotipo. 14 Berlin Declaration, Punto 2. 15 Cfr. M. Massari, Islamofobia. La paura dell’islam, Roma-Bari, Edizioni Laterza. 2006. 16 Berlin Declaration, Punto 4.

raccomanda quindi che, attraverso il dialogo, possano essere affrontate le preoccupazioni comuni, anche quelle che trovano, spesso, un disaccordo tra la posizione delle differenti tradizioni religiose e gli sviluppi in campo scientifico e tecnologico, come quello della biologia, della medicina e delle comunicazioni17. Pur rimanendo legata a certe letture distaccate, che sembrano confermare il modello gerarchico delle tradizioni chiamate a dialogare, la Dichiarazione sollecita la necessità di modificare i paradigmi relazionali che hanno per lungo caratterizzato i rapporti tra poteri religiosi diversi. La Commissione Europea ha considerato prioritario per lo sviluppo del dialogo, promuovere progetti per adolescenti e giovani18. Il coinvolgimento di questi target è una strategia che sicuramente ha un forte impatto sulla formazione e sull’acquisizione di competenze per coloro che vorranno essere futuri leader laici e democratici del dialogo interreligioso e interculturale. I giovani sono coinvolti dentro forme di partecipazione attiva a meeting che prevedono non solo la conoscenza reciproca delle differenti appartenenze, ma anche la sperimentazione delle azioni del partenariato, ma soprattutto la comprensione delle differenti forme in cui si esprimono comportamenti di intolleranza e di discriminazione contro le religioni. Se formati attraverso un percorso capace di dare competenze di comunicazione per favorire il coinvolgimento e la comunicazione, i leader hanno una funzione nell’esperienza del dialogo, ma non ne soddisfano tutti gli aspetti. È vero che i leader hanno un’influenza morale sulla comunità e possono anche essere coloro che ricevono la fiducia e la delega da parte dei membri comunitari. Chi ha esperienza in questo campo deve essere consapevole del ruolo che assume anche in relazione a come viene nominato. All’interno delle comunità religiose i leader sono incaricati con modalità diverse che possono variare da una scelta democratica, operata direttamente dai membri della comunità oppure, per volontà e decisione stabilita dall’alto. Si deve poi considerare che i leader, per alcune comunità, possono essere rappresentati dal ministro di culto e, se presente, dal rappresentante laico della comunità, eletto tra i suoi membri. I leader possono favorire la riuscita dello sviluppo della reciproca conoscenza e cooperazione, se operano un modellamento dei valori sociali in quella direzione, d’altra parte possono, invece, aumentare o fomentare le ostilità sostenendo la propria superiorità di fronte alla giustizia e alla verità uniche. Proprio perché si presentano come arricchenti e competenti comunicatori, i leader devono essere ben formati sulla gestione del proprio ruolo, promuovendo il dialogo come processo e come risorsa per lo sviluppo 17 Punti

7-8 della Dichiarazione di Berlino. Commission, Pluralism and religious diversity, social cohesion and integration in Europe, Luxemburg, Publications Office of the European Union, 2011. 18 European

umano. Essi possono quindi essere portatori e attivatori di importanti canali di comunicazione e trasformazione sociale. L’educazione dei giovani insegnanti, educatori e formatori al pluralismo religioso e culturale, sostenuto da un percorso interdisciplinare e innovativo, deve essere considerato un prioritario investimento formativo19. Il dialogo interreligioso, può essere avvicinato alle questioni relative all’intercultura, tuttavia come è già stato visto, ha le sue peculiarità e questo richiede una specifica prospettiva di analisi, progettazione ed intervento se l’obiettivo non è solo quello della conoscenza reciproca, ma piuttosto quello di decostruire forme di ignoranza che conducono, spesso, all’ intolleranza e alla discriminazione. Oltre al tema della tolleranza e della coesione sociale, è importante considerare come, e se, all’interno degli Stati, la religione entra nel curriculum scolastico e a quale livello. Il caso italiano è esplicativo della mancata applicazione delle indicazioni europee, perché all’interno del sistema scolastico la presenza della religione cattolica non solo genera forme di discriminazione e di non parità dei diritti, sia per gli insegnanti che per gli alunni, ma produce confusione intellettuale e culturale quando, nell’intento di voler cogliere i processi di trasformazione in atto nella società multiculturale, tenta spesso di dare una conoscenza anche delle altre tradizioni religiose20. Esperienze come queste possono quindi scontrarsi con i buoni propositi e le raccomandazioni europee, perdendo importanti opportunità di formazione delle nuove generazioni al dialogo. L’imposizione di una sola religione dentro il panorama scolastico, può essere un elemento di conflitto e non di sostegno alla pluralità e alla diversità. Nell’esperienza del dialogo è importante coinvolgere le comunità, non tanto come entità unitarie e compatte, ma per la complessità che esprimono e che dall’esterno non sembra esistere. Stare dentro le comunità e dialogare con loro significa entrare dentro le dinamiche dei comportamenti, delle abitudini, dei riti e dei significati che hanno accompagnato la partecipazione individuale e collettiva alla tradizione. Questa dimensione dell’agire e del fare viene esclusa anche dalla visibilità dell’ esperienza educativa. La mancata abitudine all’esercizio del fare, implica il formarsi di una debole curio19 Per l’UNICEF il 2011 è stato The International Year of Youth Interfaith and Mutual Understanding¸ questo ha significato coinvolgere praticamente giovani e comunità a sviluppare azioni di incontro, di analisi, e di progettualità a livello locale e internazionale. UNICEF, Partnering with Religious Communities for Children, NY, UNICEF, 2012, https://www.youtube.com/watch?v=ZkaUMrHAmxw. 20 Cfr. C. Betti, La religione a scuola tra obbligo e facoltatività, Firenze, Manzuoli, 1989; A. Mannucci, I protestanti e la religione a scuola, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1994; A. M. Piussi (a cura di), E li insegnerai ai tuoi figli. Educazione ebraica in Italia dalle leggi razziali ad oggi, Firenze, Giuntina, 1997.

sità per l’esperienza concreta di vita che sostiene le differenti appartenenze religiose. Ogni tradizione, non solo spirituale e religiosa, è accompagnata da comportamenti, gesti, riti, simboli che mettono in comunicazione le persone con la tradizione stessa. Se il dialogo interreligioso non comprende queste dimensioni, non le fa emergere, anche se talvolta sono in contrasto con le evoluzioni e i cambiamenti sociali, non può avvenire un autentico incontro tra esperienze di vita differenti. L’impegno dell’UNICEF si caratterizza per due aspetti: quello dei progetti in favore del miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e delle famiglie e quello più operativo che presenta gli strumenti educativi e le proposte di materiali didattici utili allo sviluppo delle modalità più attive e interessanti per coinvolgere i bambini e progettare percorsi di inclusione, partecipazione e consapevolezza dei diritti. Le due macroaree di intervento creano contesti e situazione differenti ed entrambe sono strettamente collegate ai principi posti dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in particolare agli articoli che trattano gli aspetti dello sviluppo spirituale del bambino come un elemento che si integra pienamente agli altri. Nella Convenzione viene affermato che i bambini e degli adolescenti hanno il diritto di essere educati in olistico, dove lo sviluppo spirituale, si accompagna e si accorda con lo sviluppo cognitivo, affettivo e fisico, in funzione del raggiungimento di un benessere che comprenda la dimensione morale sociale e culturale. Nell’art. 14 della Convenzione viene indicato l’impegno che gli Stati membri e le comunità locali devono avere nei riguardi delle differenti credenze e appartenenze religiose dei bambini e degli adolescenti. Gli Stati devono altresì rispettare i diritti e i doveri dei genitori, o di chi li rappresenta legalmente, ad accompagnare e guidare la crescita del bambino, operando con rispetto e con ogni risorsa disponibile, per uno sviluppo armonico e integrato di tutte le potenzialità. In particolare deve essere garantito lo sviluppo delle ‹‹sue capacità, la libertà di manifestare la propria religione o convinzioni [che] può essere soggetta unicamente alle limitazione prescritte dalla legge necessarie ai fini del mantenimento della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità e della moralità pubbliche, oppure delle libertà e diritti fondamentali dell’uomo››21. Un breve accenno allo sviluppo della dimensione spirituale viene sollevato anche nell’art. 23 che considera prioritariamente gli aspetti di interesse per la progettazione educativa per i bambini con disabilità e nell’art. 27 nel quale viene sottolineata la garanzia del diritto ad avere una famiglia che tu21 Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 20 novembre 1989, UN, New York, ratificata dallo Stato italiano il 27 maggio 1991.

teli ed educhi il bambino secondo parametri di vita, al fine di garantire ogni suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale. Infine, l’ultimo richiamo che riguarda questo aspetto è per l’art. 32, dove è sottolineata la necessità di proteggere il bambini contro gli abusi, le violenze sessuali e gli sfruttamenti lavorativi allo scopo di salvaguardare il bambino e farlo crescere proteggendo la sua salute e lo sviluppo fisico, mentale spirituale, morale e sociale. L’UNICEF coglie i molteplici aspetti del dialogo, mettendo in evidenza la differenza di interventi educativi tra bambini e adolescenti. La complessità e la multiculturalità diventano, allora, terreni di interesse di aspetti che riguardano l’esperienza spirituale piuttosto che quella necessariamente religiosa. Gli incontri con tradizioni diverse hanno messo in evidenza che è possibile cogliere degli aspetti trasversali che stanno alla base delle credenze, ma che, non necessariamente, si devono identificare in nessuna di queste. È ancora difficile, in particolare sul piano educativo, comprendere e dialogare con i piani della spiritualità senza doverla necessariamente collegare a qualche fede. Separare le due esperienze crea spazio anche per l’educazione alla pace: entrambe si incontrano sulla visione positiva e libera dell’essere umano, sulla ricerca del bene comune e di positive forme di comportamento come esperienza di vita. Spiritualità come esperienza creativa, capace di aiutare a sviluppare competenze importanti della mente umana come l’immaginazione, la creatività e i sogni. Competenze che la cultura della guerra, presente nelle quotidiane esperienze del vivere sociale. Esperienze spirituali come esercizi spirituali per cogliere nel profondo il senso di unitarietà e appartenenza della specie umana. Avvicinare il bambino alla spiritualità, può aiutarlo a comprendere il mondo che lo circonda, ad interagire con questo, imparando a rispettarlo. Il rispetto e la cura per l’ambiente possono essere considerati percorsi di apprendimento interessanti e ricchi di suggestioni per l’avvio di dialoghi tra religioni e tra queste e le culture. Quale rapporto c’è tra religione e natura o tra religioni, culture e natura; quali sono le indicazioni che le tradizioni danno per instaurare un buon rapporto con l’ambiente e con il mondo circostante, spazi di riflessione di interesse comune che facilitano la reciproca comprensione oltre che la crescita di nuovi saperi. Benché vengano riconosciute alla dimensione spirituale, potenzialità significative per l’avvicinamento al dialogo ed alla convivenza pacifica, sono le comunità religiose ad essere considerate i migliori alleati per intervenire sulle condizioni di vita dei bambini e coinvolgere le popolazioni più emarginate che vivono in condizioni di povertà e di esclusione, soprattutto dai processi formativi. Le comunità di appartenenza sono spesso anche fonte di importanti informazioni su come rispettare le usanze e le consuetudini loca-

li, per sviluppare nuovi saperi, rispetto reciproco e salvaguardia del benessere collettivo. Rappresenta, sicuramente, una sfida far incontrare tradizioni delle comunità religiose con i programmi proposti alla protezione dei bambini come quelli riguardanti la salute, l’istruzione, la nutrizione e la difesa dall’HIV/AIDS. Un impegno che non esclude la consapevolezza della difficoltà di tale rapporto dovuta spesso alla presenza di pratiche associate a credenze religiose che danneggiano i bambini sia fisicamente che emotivamente. Pratiche che diventano ancora più nocive nei confronti delle bambine che vengono, in molti contesti, escluse fin da piccole da ogni forma di partecipazione sociale e destinate a ruoli e compiti che le rendono schiave e vittime di sfruttamenti e abusi . Il rapporto con le comunità locali risponde a una tradizione di lavoro sul territorio svolta dall’UNICEF. Esse rappresentano, inoltre, un livello sociale allargato rispetto a quello familiare, anche se spesso sono portatrici degli stessi modelli di controllo. In considerazione dell’enfasi posta dalla Convenzione del 1989 sull’importanza di garantire con tutti i mezzi possibili la crescita e lo sviluppo dei bambini all’interno delle loro famiglie e, richiamando l’attenzione verso il bisogno di sostenere queste insieme ai bambini, piuttosto che direttamente i bambini, l’UNICEF sollecita le comunità religiose a farsi carico di aiutare economicamente e moralmente le realtà più vulnerabili, fragili ed emarginate. Il chiamare in causa le comunità religiose può essere significativo, ma talvolta limita o anche crea separazione. Il rischio è quello di generare diseguaglianze nei contesti sociali dove i sistemi educativi formali non sono regolamentati nell’interesse di tutta la popolazione. Per l’UNICEF le comunità possono diventare lo spazio del dialogo se sono in grado di assumere una percezione olistica ed un approccio relazionale alla comprensione dei bisogni dei bambini nelle diverse situazioni, condizioni di vita, fasi dell’evoluzione individuale e collettiva22. L’UNICEF sostiene che la religione e, soprattutto la spiritualità, possono avere un’enorme influenza sullo sviluppo dei bambini: queste, se non sono causa di comportamenti passivi e dipendenti, permettono la costruzione di un senso di protezione che aiuta a trovare le modalità per poter rispondere alle eventuali sofferenze che i bambini possono vivere. Credere con sicurezza in qualcosa che possa aiutare nei momenti difficili rappresenta per i bambini un rifugio simbolico che alimenta la resilienza di fronte ai pericoli ed agli attacchi che purtroppo il mondo degli adulti rivolge loro23. 22 UNICEF,

Partnering with Religious Communities for Children, cit. J. E. Bellous, (a cura di), Children, Spirituality, Loss and Recovery, London, Routledge, 2010. 23 Cfr.

Con queste riflessioni l’UNICEF intende mantenere un rapporto aperto con le comunità religiose sia per poter avere una via di accesso più capillare nell’intervento di aiuto e sostegno delle popolazioni più sofferenti ed emarginate, sia per poter avere degli spazi di intervento in quei contesti dove le diseguaglianze sono provocate dai modelli sociali conformi alle tradizioni religiose.

2. Società laica e pluralismo religioso Più le tradizioni religiose sono riconosciute, garantite dalle leggi dello Stato, considerate per il loro contributo culturale, coinvolte nella crescita del benessere sociale, più si ha garanzia che la società in cui esse sono presenti sia una società laica. Più viene dato pari riconoscimento giuridico alle differenti espressioni di fede, evitando rapporti privilegiati con alcune piuttosto che con altre, e maggiore è l’esperienza concreta di democrazia che può essere realizzata24. Fino a quando il concetto di laicità rimane strettamente collegato a quello di anticlericalismo o a quello che viene assunto come non ecclesiastico, come avviene spesso nel dibattito italiano, il riferimento stesso al concetto di laicità rischia di essere inficiato. In Italia, la storica presenza di una tradizione religiosa di maggioranza ha creato qualche confusione concettuale portando così ad utilizzare come sinonimi religioso e cattolico. Una non chiarezza che ha contribuito, fino agli ultimi decenni del secolo scorso, a rendere poco visibile il pluralismo religioso presente sul territorio ed a dare scarso significato ad una dimensione spirituale che va al di là del religioso stesso. Lo sviluppo del dialogo interreligioso ha infatti preso avvio all’interno di un mondo tutto cristiano con il Concilio Ecumenico Vaticano II25. Con il documento la Nostra Aetate26 inizia la fase del riconoscimento dell’esistenza, come possibili interlocutori sul piano della fede, di altre religioni che non facevano riferimento al Cristianesimo, religioni che in modo generico sono definite nella dichiarazione, come non 24 Cfr.

B. Bellante, Laicità e religione. Spunti e appunti, in F. Cambi (a cura di), Laicità, religioni e formazione: una sfida epocale, Roma, Carocci, 2007. 25 Il Concilio Ecumenico Vaticano II iniziato nel 1962 per volontà del pontefice Giovanni XXIII e concluso nel 1965 con il pontefice Paolo VI, parte con l’intenzione di trovare le migliori forme del dialogo e dell’incontro nel variegato mondo cristiano. Il cambiamento dei tempi e il bisogno di avviare processi di riconciliazione e di rinnovamento anche all’interno della Chiesa Cattolica, hanno contribuito a dare la spinta perché si chiudesse il capitolo del primo Concilio, quello di Trento che aveva dato origine alla Controriforma. 26 La Dichiarazione Nostra Aetate del 1965 è l’affermazione della prospettiva con la quale la Chiesa Cattolica guarda al rapporto con le altre religioni che vengono accorpate sotto al definizione di non cristiane.

cristiane e che la Chiesa presenta e interpreta all’interno della propria prospettiva. Al di là delle riflessioni su questo documento, ciò che emerge è il bisogno di uscire da un confine di appartenenza e di riferimento che già alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, veniva avvertito come troppo stretto. Il documento sarà comunque un prezioso modello di ispirazione per gli anni successivi. Un modello che tuttavia risente del ruolo centrale assunto dalla Chiesa Cattolica alla quale fa giungere le altre confessioni con le quali intende stabilire rapporti non sempre di reciprocità. Si apre così anche la questione relativa a comprendere quale rapporto hanno e come si relazionano religione, laicità e spiritualità. La prima domanda l’una esclude l’altra o possono mantenere una compresenza. Un’ulteriore riflessione porta a chiedersi se per essere laici, per pensare e comportarsi da laici è necessario essere liberi da ogni appartenenza religiosa o, se per essere religiosi, è necessario riferirsi ad una tradizione di fede, mostrando, in modo deciso, un’appartenenza che può limitare la libertà di pensiero e di scelte. I confini non sono così netti e, talvolta, le scelte poste dall’esterno vengono percepite come personali colpendo il senso profondo del sentire e del vivere delle persone. Se è vero che il ‹‹concetto di laicità resta fluido››27 esso deve trovare il modo di sapersi interrogare e proporre con modalità più attuali in corrispondenza dei cambiamenti e delle trasformazioni culturali che le scienze e le nuove tecnologie oggi invitano a considerare. Con il diffondersi degli strumenti della comunicazione e il perfezionamento delle tecnologie che ne permette la realizzazione, il sapere può viaggiare su diversi piani. Uno di questi è quello planetario. Questo crea potenzialità inesplorate che possono condurre a percezioni, intuizioni e conoscenze non viste o al recupero di abilità intuitive di cui ogni essere umano è ricco. Laicità come autonomia, indipendenza dello Stato da tutte le religioni e come piena affermazione del libero arbitrio e del rispetto della dignità umana. Nel contesto culturale italiano il dibattito sulla laicità si è costruito in relazione ad un sistema di significati che include nella categoria del religioso quella cattolica o, in senso più ampio, quella cristiana. Nella complessità degli aspetti che questo richiama, per quanto sia comprensibile questa dinamica, in particolare per le evoluzioni culturali e storiche che la riguardano, essa evidenzia il limite di tale lettura. La complessità della realtà, sempre più caratterizzata da presenze di tradizioni religiose e culturali diverse, capaci di arricchire la disponibilità alla ricerca di fede e a mettere in discussione modelli per lungo tempo accettati e consolidati, richiede oggi 27 Cfr.

2009.

E. Bianchi, M. Cacciari, D. Del Giudice, Elogio della politica, Milano, Rizzoli,

di aprire a molteplici spazi di dialogo. È necessaria che la progettualità sia pluridirezionale, non solo a senso unico, impegnata a dialogare con una tradizione religiosa, ma che sappia essere capace di creare gli spazi dell’inclusività garantendo a tutte un uguale, simmetrico e reciproco rapporto con lo Stato. Laicità come pluralismo e valorizzazione dell’inclusione e delle diversità e delle appartenenze come legami e modalità di incontro particolari. La laicità può essere intesa come una situazione in cui lo Stato si ‹‹atteggi come neutrale e imparziale rispetto alle Chiese, dalle quali prende, per così dire le stesse distanze, con una separazione che può presentarsi come indifferente, ostile o cooperativa, ma che tutela comunque la libertà religiosa››28. Come è già stato considerato, la contrapposizione con il riferimento al religioso, condiziona infatti la prospettiva con il quale si guarda e ci si riferisce al concetto di laico. Ma va pensato che il mondo dei laici è composito e non può essere rappresentato in modo unitario e monocromatico, come le realtà religiose testimoniano un’ampia variazione di forme ed espressioni, anche i contesti di laicità sono molteplici e articolati. Il sostegno alla laicità è espressione di potenzialità di incontri, aperture, scambi e mediazione. Il mantenimento delle divisioni e delle separazioni tra i differenti culti religiosi non facilita la crescita laica della società. Quando viene posto l’accento sul principio della separazione a scapito di quello della mediazione, vengono poste le basi per opposizioni, prevaricazioni, pregiudizi ed esclusioni. Quando nelle società prevalgono i processi di globalizzazione e di omologazione e la cultura della storia come comprensione della ricchezza del passato si perde insieme alla memoria culturale, lasciando il posto al presente immediato, oppure si cristallizza dentro a ciò che era e non è più, è necessario tornare a riflettere sulle pratiche educative interessate alla modalità con le quali vengono costruiti i saperi. ‹‹Anche sul terreno del religioso la società lascia tracce indelebili: spinge le fedi al confronto reciproco, impone ad esse la co-esistenza, e quindi, la tolleranza, l’apertura il dialogo, reclama in ciascuna, una rilettura difensiva o di attacco, bensì, più problematicamente aperta, a partire dall’esperienza del sacro, del religere, dell’appartenenza confessionale, relativa anche al ruolo dei dogmi e delle pratiche rituali››29.

28 L. Elia, Annuario 2007. Problemi pratici della laicità agli inizi del XXI sec., Atti del XII Convegno Annuale, Napoli, ottobre 2007, a cura dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Padova, 2008, p. 5. 29 F. Cambi, Religioni siate laiche. Una prospettiva epocale, un compito, una sfida, in F. Cambi, (a cura di), Laicità, religioni e formazione, cit., p. 30.

Le religioni presentano dei riferimenti etici importanti per la riflessione sulla convivenza, sulla natura degli esseri umani e sul senso del sacro e del rapporto con la natura, ma non sono certamente le uniche risorse per il dialogo e il confronto. Sono opportunità etiche che stimolano il confronto, ma che richiedono ‹‹un vivere il religioso come un problema, più che come certezza. […]E anche di rivederlo nel dialogo con altre fedi e con la stessa posizione irreligiosa e atea. Si esige, quindi, di imparare a stare nella ricerca del religioso stesso, il che non implica il rifiuto di ogni appartenenza, quanto la sua costante problematizzazione e il saper stare nel confronto, anche e proprio per capire meglio se stessa e disporsi a far propria una religiosità aperta, che, appunto, al dogma anteponga la fede. E una fede come ricerca››30. Trovarsi insieme per il dialogo significa quindi ricerca comune di risposte che aprono a nuove domande, questioni che si ridefiniscono nel- le accezioni di cambiamenti storici sociali e culturali. Troppo spesso invece il dialogo è stato presentato come una platea dove si incontrano persone chiamate a rappresentare con le differenti posizioni o differenti comunità di appartenenza. Il richiamo è sul tema che pone la democrazia di fronte all’ormai consolidato pluralismo religioso. In considerazione dei differenti modelli di organizzazione della società civile che l’Europa ha proposto negli ultimi secoli e, osservando come l’aspetto del religioso richieda ancora la ricerca di soluzioni idonee per prevenire forme di stereotipo e di esclusione, l’educazione sta cercando di individuare quali scelte sono più coerenti ad un sistema democratico per garantire, ai cittadini appartenenti alle differenti tradizioni religiose, uguale riconoscimento e parità dei diritti di fronte alla legge. In quale modo negli spazi della democrazia la cultura e i saperi danno uguale riconoscimento e sostengono la partecipazione decisionale di tutti i cittadini. Come evitare che il richiamo all’identità storica e numericamente maggioritaria, non sia lo strumento per una riaffermazione rigida di credenze e tradizioni che non vengono messe in discussione per la difesa di appartenenze che altrimenti rischierebbero di perdersi. Come favorire una crescita personale interiore, capace di saper cogliere, dalle differenti appartenenze, il senso del proprio essere e di stare con il mondo, di percepire le proprie sintonie nella comprensione della ricchezza e dell’originalità di ogni essere umano. L’identità non è una risposta all’incertezza, la paura di sentirsi debole di fronte alla complessità. È la ricerca continua che si alimenta della relazione culturale che è data dal contesto materiale e immateriale, che viene elaborato da ogni essere umano attraverso gli strumenti della mente. Ogni identità 30 Ivi,

p. 31.

si va costruendo in modo originale e creativo, essa è unica e irripetibile. Anche se la sua costruzione è collegata ai contesti di riferimento, ai modelli educativi e culturali che contribuiscono a darle forma, le caratteristiche che assume sono in evoluzione continua e mai statiche, originali e dinamiche. È necessario far fronte a quel senso comune che entra, talvolta, nelle analisi e nelle ricerche sociali e che tende a dare una rappresentazione superficiale delle realtà di ciò che viene considerato, come in questo caso, l’appartenenza religiosa comprendente tutti dentro un’unica identità. È possibile affermare, invece, che, all’interno di una stessa appartenenza, le persone hanno identità diverse e la costruzione dei gruppi è articolata. Una ricerca sul significato di religione e religiosità e sulla considerazione che le nostre esperienze culturali e di ricerca di significato non si rapportano esclusivamente ad una religione, ‹‹la religione al singolare, ma le religioni al plurale e, per quanto chiusi possiamo essere nella religione nostra, non siamo comunque mai autorizzati ad ignorare le religioni degli altri››31 . Risulta quindi anche importante riflettere sul superamento della visione dualistica dell’essere umano in ragione della prospettiva data dalla assunzione della complessità umana che si interroga dentro lo stare storico degli eventi, dei fenomeni in cerca di risposte al di là del disaccordo tra laicità e religiosità. Il modello del mondo bipolare, della contrapposizione tra il bene e il male, non è solo un paradigma del pensiero religioso, è, anche, la forma del razionale laico che mette il religioso e lo spirituale come struttura contrapposta, antitetica, quasi incomunicabile. Il superamento della divisione, del dualismo, apre non solo alla possibilità del dialogo, ma anche alla dimensione comune del destino umano, destino planetario32, destino della specie33, destino cosmico34. Il problema è uno solo: l’unità e l’unicità del genere umano nel suo continuo e spirituale rapporto con tutto ciò che è e sta nel mondo. Un’unità del genere umano che sta sopra le appartenenze religiose35. Fino a quando le culture e le tradizioni religiose, le differenti dimensioni dello spirituale e del vivere democraticamente si oppongono e si percepiscono estranee e lontane, percorrendo la strada del conflitto per affermare la propria forza, potenza e superiorità, il traguardo del benessere comune sarà sempre di più lontano e irraggiungibile. Si rafforzano invece gli squiliCalogero, “Introduzione”, in J. Dewey, Una fede comune, Firenze, La Nuova Italia, 1959, p. IX. 32 Cfr. E. Balducci, L’uomo planetario, Brescia, Camunia, 1985. 33 Cfr. E. Morin, Oltre l’abisso, Roma, Armando, 1990. 34 Cfr. R. Panikkar, La torre di Babele, pace e pluralismo, Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1990. 35 Cfr. L. Martini, Mare di guerra, mare di religioni, Fiesole, Edizione Cultura di Pace, 1994. 31 G.

bri, le prevaricazioni, lo sfruttamento e le forme di integralismo che aprono la strada al fondamentalismo, alla violenza dell’affermazione di una verità ritenuta assoluta e considerata superiore all’altra. Se la laicità non agisce nella prospettiva di creare lo spazio del dibattito per superare quelle logiche che le tradizioni religiose avanzano per limitare, controllare, indebolire e negare l’alterità e che le rendono facili strumenti di rivendicazione, piuttosto che sostenere un’apertura, ai diritti, ai principi democratici e alla ricerca della libertà individuale e collettiva, allora la cultura della guerra continua ad essere prevalente. Il rischio della frammentazione in tanti localismi, in tante piccoli necessari riferimenti, nasce dall’incapacità di stare dentro la dimensione comune, garantendo il mantenimento dei punti di contatto tra le differenti tradizioni, le molteplici storie di appartenenza e significati culturali che gli esseri umani esprimono. Si corre il rischio che, se questa frammentazione non viene a ricongiungersi dentro una possibilità laica dell’incontro, l’ego umano e ogni forma di egoismo conduca alla nullità della relazione, del contatto, dell’apertura all’altro. Scenari che, quotidianamente, entrano e stanno dentro le esperienze umane, dentro le case e abituano il pensiero ad accettare la separazione e la violenza causata dalle molteplici forme di incapacità di prendersi la responsabilità della scelta personale verso il dialogo, lo stare in ascolto, la ricerca della condivisione. Una responsabilità che, anche le religioni sono chiamate ad assumersi, andando oltre il reciproco riconoscimento. Una responsabilità di tutti costruita sulla formazione democratica che crea svolte culturali e richiama l’attenzione su una preparazione delle nuove generazione perché siano formate con quegli strumenti del sapere che permettano di elaborare il passaggio da una civiltà che ha assunto la competizione, l’antagonismo, la vittoria sull’altro a fondamento del suo essere e del suo sviluppo, ad una civiltà che ponga le sue radici nella reciprocità comune, nella cooperazione, nella solidarietà, nel bene comune. La formazione delle nuove generazioni si deve aprire a modelli nuovi, costruttori di saperi intensi e profondi, partendo da una memoria storica non più vincolata e strumentalizzata dal sapere dominante: quella memoria storica che ha generato la legittimità dei conflitti, dell’esclusione, del potere di esseri umani sugli altri e che affida il significato dell’esistenza umana, qualsiasi cultura essa rappresenti, alla vittoria operata di un gruppo sull’altro e dell’uomo sulla natura, sul mondo. Una storia che si dimentica degli esseri umani, che non insegna come le differenze culturali abbiano contribuito, attraverso l’interazione, a far crescere e sviluppare saperi, scoperte scientifiche, sistemi economici. Il modello con il quale viene letto il passato, continuerà ad essere utilizzato per rappresentare il presente e immaginare il futuro.

C’è, pertanto, bisogno di una rilettura coraggiosa delle modalità con le quali viene individuato, conosciuto e insegnato il patrimonio culturale di ogni cultura, ma c’è anche bisogno di dare gli strumenti del pensiero critico, flessibile e pluralista, dentro la lettura dell’esperienza religiosa, spirituale, laica, democratica: terrestre. Adottare questa nuova prospettiva di incontro, significa far conoscere i nuovi percorsi che il dialogo tra religione e scienza sta esplorando, far cogliere la dimensione umana verso cui si orientano le domande sul senso e il significato della vita, del suo esistere, delle forme differenti del presentarsi della natura nella sua complessità. Un dialogo importante che oltrepassa questioni etiche. Numerose esperienze di scambio tra tradizioni religiose e percorsi della ricerca scientifica, creano una interessante osmosi tra mondi interpretativi differenti. Come per la fisica, che cerca di spiegare la nascita, il formarsi, l’evolversi e il trasformarsi dell’universo e della materia, la ricerca della dimensione spirituale esplora, con la legge dell’unicità come tutto ciò che è nell’universo ha un’unica origine. Così come oggi viene studiato il rapporto tra il messaggio che sta dentro la sapienza kabbalistica e la fisica quantica36 o le saggezze spirituali delle tradizioni religiose che si ricollegano per riaprire prospettive di altre forme di guarigione fisica, il benessere della persona37, così si esplora come gli stati mentali possono cambiare in relazione alle pratiche meditative o alla recitazione delle preghiere-mantra. Con la vicinanza tra mondo kabbalistico e quello della matematica e della fisica, viene colta la necessità di aprire un dialogo, non certo facile da realizzare, per indagare i differenti approcci e aspetti dei problemi che possono aiutare entrambi a considerare elementi o questioni rimaste in ombra. Prospettive diverse si pongono in contatto con i mondi della spiritualità come quelli della interconnessione tra tutti gli esseri umani, il rapporto con il mondo energetico invisibile ma capace di trasformare e di elevare al bene. D’altra parte la scienza non rappresenta, alla luce di questa riflessione, come veniva considerato in passato, l’unica via per raggiungere il benessere, ma solo una possibile soluzione in quanto i suoi risultati non sono sempre certi. Il dialogo con il mondo spirituale può essere visto come un’ulteriore possibilità che l’essere umano ha di conoscere se stesso e di scegliere per il cambiamento e l’evoluzione. Oltre alla fisica, alla medicina e alla biologia, un ulteriore e interessante campo di incontro e convergenza è quello tra le pratiche che i percorsi spi36 Cfr. M. Laitman, Una guida alla saggezza nascosta della Kabbalah, Livorno, Belforte, 2011. 37 Cfr. Abravanel D., La Cabalà e i Quattro Mondi ella Guarigione, Milano, Mamash, 2011.

rituali e religiosi orientano a fare e gli studi sulla natura della mente, le sue funzioni il suo incontrarsi con lo sviluppo dell’intelligenza emotiva. Un incontro importante, solo per accennare all’esperienza che da anni avviene anche tra i saperi e le pratiche del buddismo e il mondo della scienza, attraverso percorsi che coinvolgono entrambi nella ricerca della verità come possibile spiegazione della realtà vissuta. Entrambi partono, infatti, dal bisogno di investigare i fenomeni della realtà. Ciò che interessa evidenziare è il confronto tra modelli di indagine differenti, integrati con la definizione di obiettivi simili da raggiungere sulla comprensione di come lavora la mente umana. ‹‹Ad esempio, per quel che riguarda il funzionamento della mente, il buddismo possiede una scienza interiore vecchia da secoli che si è rivelata utile ai ricercatori nel campo delle scienze cognitive e delle neuroscienze, e anche nello studio delle emozioni, offrendo contributi significativi alla loro comprensione. Dopo aver partecipato alle nostre discussioni, molti scienziati sono ripartiti con nuove idee per la ricerca nei rispettivi campi di indagine››38. Questioni simili, approfondimenti condivisi, come quelli posti dalla scienza nei confronti delle emozioni distruttive, responsabili, secondo il Dalai Lama39, di accendere la rabbia, la collera e trasformarsi in forme di violenza diretta. Attraverso un libero confronto è possibile comprendere meglio come, pur essendoci una eredità comune del genere umano predisposta alla percezione delle emozioni, il valore che viene dato al modo con il quale vengono espresse, varia da cultura a cultura. La riflessione, particolarmente interessante per lo sviluppo della cultura di pace e lo sviluppo del dialogo tra appartenenze diverse, è quella della comprensione della natura delle emozioni distruttive e le proposte di intervento date dalla scienza e dalla tradizione buddista a queste. Un percorso che mette in collegamento, la ricerca della trasversalità del messaggio spirituale con altre tradizioni antiche impegnate a fare dell’educazione un impegno di sviluppo sociale40. Una capacità educativa che stimola l’ascolto interessato, curioso e ricco di possibili questioni aperte, la comprensione reciproca attraverso la ridefinizione dei differenti punti di vista, delle soggettive forme di narrazione e del senso che ogni esperienza umana dà al suo farsi quotidiano. In molti sistemi educativi, sia nei contesti in conflitto che in quelli delle società democratiche che vivono lontane dal conflitto armato e che, in qualche modo, per la presenza nei conflitti nel mondo e gli aspetti strutturali della violenza, sono comunque implicate, sono presenti dei gap responsabili di generare un flusso di incomprensioni tra tradizioni religiose, appartenenze etniche 38 Cfr. Dalai Lama, D. Goleman, Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione, Milano, Oscar Mondadori, 2004. 39Mind and Life Institute, Hadley, Massachusetts, http://www.mindandlife.org/sri/ 40 Cfr. D. Abravanel, La Cabalà e i 4 mondi della guarigione, cit.

e contesti in conflitto. Vi è la necessità di costruire progetti per il dialogo interreligioso dentro la dimensione laica e interdisciplinare dei saperi formali della scuola, senza quindi lasciare o delegare agli insegnanti di religione (cattolica, come nel caso italiano), la lettura della complessità che l’argomento richiede. Anche nei contesti dell’educazione non formale, come quelli delle associazioni, del volontariato, della partecipazioni a percorsi formativi diversi, è necessario investire nelle politiche del dialogo e creare lo spazio per l’apertura e per il dibattito, lo scambio e la percezione della crescita del benessere che sta dentro aver decostruito rappresentazioni rigide, ricche di pregiudizi e stereotipi, che limitano, mettendo appunto un muro, la conoscenza dell’altro. Ogni passaggio del dialogo, dell’incontro, della comprensione per quello che viene detto e fatto, è un’esperienza forte che richiede dedizione impegno e sforzo. Mettersi in gioco, criticare e dubitare delle proprie certezze, affermazioni, riferimenti, richiede esercizio di decentramento, apertura, pulitura interiore, fiducia nell’altro per il significato umano del quale ogni essere è testimonianza ed espressione; è anche la volontà di impegnarsi a cercare il dialogo con se stessi nello scambio con gli altri, con ciò che caratterizza la cultura di appartenenza e che mette in comunicazione con il mondo. Un mondo che è in movimento e che lascia fuori dell’esperienza educativa la possibilità dell’incontro attraverso l’azione, il vivere in ambienti energicamente positivi come quelli offerti dai molti luoghi naturali, il viaggio, lo spostamento, l’attraversamento41.

2.1 La realtà italiana e la presenza delle tradizioni religione Nella storia del secondo dopoguerra è stato posto l’accento sull’importanza delle libertà individuali e, tra queste, quelle che riguardano l’opinione e l’ espressione religiosa. Un principio che si è andato definendo dentro un contesto culturale che ha visto mantenere un maggiore riconoscimento di una tradizione religiosa sulle altre, favorendo così il formarsi di paradigmi sociali e culturali della società civile culturalmente orientati. ‹‹Quella religiosa -è bene ricordarlo- è stata la prima libertà ad essere rivendicata come diritto nei confronti dello Stato, e l’indispensabile contesto per qualsiasi azione che rivendichi la liberà religiosa è la lotta per la libertà di tutti i cittadini››42. 41 Cfr. S. Guetta, (a cura di), La voce della pace viene dal mare. Esperienze di cooperazione e ricerche internazionali per la convivenza tra le culture, i diritti e lo sviluppo umano, Roma, Aracne, 2012. 42 G. Disegni, Ebraismo e liberà religiosa in Italia. Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.

Negli ultimi decenni, con la venuta e la compresenza di tradizioni religiose altre rispetto a quelle cristiane ed a quella ebraica, si sono aperti altri spazi di confronto, anche se non è ancora stata messa in discussione la legislazione che regola i rapporti tra lo Stato e le differenti confessioni religiose presenti sul territorio. La Chiesa cattolica ha sempre avuto43, un ruolo egemone per lo sviluppo della cultura italiana e nei confronti delle altre comunità di credenti e per il controllo esercitato, attraverso l’affermazione di un sistema piramidale di ruoli e di poteri che hanno spesso prodotto, nel corso della storia, la costruzione di rappresentazioni dell’Altro come l’alterità negativa tollerabile solo se disponibile alla conversione. Per lungo tempo la forte spinta all’assimilazione che la religione di maggioranza imponeva in varie forme sulle minoranze si è intrecciata anche con le forme di emarginazione ed espulsione delle altre fedi. L’esperienza plurisecolare di chiusura della popolazione ebraica dentro i ghetti e il confinamento delle comunità protestanti in zone che fossero lontane dai centri urbani, ha favorito la costruzione di modelli di negazione della diversità. Nel 1848 quando lo Statuto Albertino si impegnava a riconoscere come culti ammessi l’ebraismo e il protestantesimo, la realtà europea aveva di fatto già abolito, anche sull’onda delle idee rivoluzionarie francesi, le forme di restrizione che obbligavano la popolazione ebraica a vivere nei ghetti. Il riferimento alla tradizione cattolica è, tuttavia, rimasto radicato nella cultura del XIX e XX secolo, tanto che i culti ammessi mantenevano con questa un rapporto di minoranza e soprattutto di dipendenza simbolica. Per quanto organizzate differentemente, gli strumenti e gli indicatori utilizzati per avviare il loro riconoscimento era impostato sul modello culturale cattolico, dentro in quale le altre tradizioni religiose non potevano in alcun modo riconoscersi. Il riferimento alla verità di fede, ad esempio, che la Chiesa ha come dogma, non è riconoscibile negli stessi termini nelle altre tradizioni religiose. ‹‹La coscienza e l’intelletto sono liberi di riconoscere e di accettare ma non di mettere in discussione: riconoscere parità di diritti agli altri culti avrebbe significato riconoscere il falso alla luce del clima di assolutismo confessionalista che aveva generato lo Statuto. Con la supremazia del culto cattolico, vengono così a mancare stabili garanzie per le altre confes-

43 La storia viene costruita sull’Editto (o donazione) di Costantino del 313, considerato poi un falso storico dal Valla nel 1440, che conferiva alla Chiesa la potestà sulle provincie dell’Impero di Occidente. Ciò che è invece poco conosciuto è che nel 321 Costantino emanò il Codex Judaeis, la prima legge penale contro gli Ebrei. Con questo documento gli Ebrei vengono accusati di essere il popolo deicida. Accusa che verrà annullata nel 1965 con la Nostra Aetate.

sioni e si determinano gravi limitazioni alla liberà di coscienza e di culto››44. La legge delle Guarentigie del 1871, all’indomani dell’annessione di Roma allo stato unitario e la connessa apertura del ghetto, dando finalmente modo alla popolazione ebraica romana di entrare gradualmente a fare parte della società civile, fu un’azione unilaterale stabilita dal governo italiano al fine di regolamentare i rapporti con la Santa Sede. La legge assicurava al pontefice una serie di condizioni e concessioni tra i quali il libero esercizio del potere spirituale, l’inviolabilità e l’immunità dei luoghi di residenza. Una legge non accettata dalla Chiesa che, nel rifiutarla creava un vuoto nei rapporti tra Stato e Chiesa e un forte conflitto all’interno della stessa comunità di credenti. Una posizione di non dialogo, di reciproche rigidità, che si rivelarono funzionali per la ricerca di un accordo e di una normativa che soddisfacesse entrambe le parti. Il 1929, con i Patti Lateranensi, vede quindi ritrovare l’accordo tra Stato e Chiesa, creando così l’avvio di una anomalia costituzionale, il cui squilibrio è ancora presente, nonostante il concordato del 1984 soprattutto all’interno del mondo scolastico. Un accordo che, per quanto riconoscesse la reciproca indipendenza sul territorio nazionale, era, di fatto, l’ammissione di un credo religioso superiore agli altri, in particolare a quello ebraico e protestante. Un impegno tra le parti che ha condizionato molti aspetti culturali e legislativi della realtà italiana e che interessa anche il modo con il quale vengono oggi espressi i valori della laicità, della democrazia e della libertà. Un privilegio che ancora oggi, a seguito de Concordato del 1984, crea disuguaglianza e incomprensioni culturali, se non proprio pregiudizi, che impediscono di vedere la realtà nella quale quotidianamente viviamo. In riferimento al Concordato del 1984 lo Stato ha poi avviato con le altre confessioni i tavoli di confronto per l’avvio di intese parallele senza tuttavia procedere per una riforma e la definizione di una legge quadro in grado di riportare il rapporto tra Stato e libera espressione religiosa con lo scopo di garantire la presenza di un pluralismo religioso paritario. Per molti anni quindi i mass media, così come le forme di sapere diffuso, hanno chiaramente agito per l’invisibilità di tradizioni religiose altre rispetto a quella cattolica. Negli ultimi anni c’è stata una evoluzione delle dinamiche e delle relazioni, sia per la necessità di fare spazio ad una forte presenza islamica, sia per adeguarsi alle richieste di dialogo che i bisogni sociali e culturali esprimono. Per questo appare necessario rivedere il significato dell’art. 7 della Costituzione italiana che afferma: ‹‹Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono 44 G.

Disegni, Ebraismo e liberà religiosa in Italia, cit., p. 23.

regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale››. Da qui emerge chiaramente lo spazio ancora concesso alla presenza, alla tradizione e alla cultura cattolica giustificata anche da un radicato mantenimento di costumi e usi che sono stati utilizzati anche come strumento di identità nazionale, lasciando fuori da questa identità coloro che in quegli usi e costumi non si riconosce. Un rapporto particolare, quello espresso nell’articolo in questione che mostra come lo stato italiano sia di fatto, almeno in questa materia, con una influenza sul sistema educativo nazionale, orientato a mantenere rapporti privilegiati con una confessione impedendo di fatto la piena realizzazione delle pari opportunità per tutti i cittadini dello Stato. È solo nel successivo art. 8 che la Costituzione considera le altre tradizioni religiose affermando che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Si ripete quindi che ogni rapporto deve adeguarsi e fare riferimento alla religione cattolica sostenendo che le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, stabilendo con questo un rapporto giuridico di diversa natura che poi significa di differente peso politico. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Anomalie importanti, che tendiamo a rimuovere o a sottovalutare, ma che esprimono una mancata coerenza nei valori di laicità e democrazia. Tanto che la stessa cultura legislativa si è fatta carico del problema di stipulare le intese senza un serio impegno politico. Ci sono voluti quasi trent’anni di consultazioni, incontri, dibattiti per aver quasi risolto il problema delle intese con le tradizioni religiose diverse da quella cattolica, ma manca ancora all’appello l’intesa con il mondo islamico. Di fronte a questa chiara disparità di riconoscimento e di partecipazione nella società civile, emerge l’importanza di aprire spazi di riflessione nei contesti formativi, al fine di rendere reale e operativa l’apertura e la disponibilità alla conoscenza reciproca e alla circolazione dei saperi. La prima questione da porre è quella di individuare, come accennato sopra, il rapporto tra lo Stato italiano e le diverse confessioni religiose per capire come sono stabiliti i rapporti formali tra comunità di fedeli diverse da quella cattolica e lo Stato italiano. In genere il processo di stipula di una intesa è un processo lungo che parte dal riconoscimento formale dello Stato dei soggetti chiamati a rappresentare quella confessione religiosa oggetto dell’intesa. E’ necessario che coloro che siedono intorno al tavolo degli accordi sia considerato rappresentativo dalla loro stessa comunità di appartenenza. Nonostante le difficoltà poste dalla firma del nuovo Concordato, in materia di educazione e della presenza dell’ora di religione cattolica nella

scuola pubblica italiana che, di fatto, confermava la disparità di trattamento tra gli alunni, gli studenti e gli insegnanti della scuola e dello Stato. Le prime consultazioni avviate furono con le comunità già storicamente presenti nella realtà sociale e culturale italiana come quella cristiana rappresentata dalla Tavola Valdese e successivamente quella ebraica. La prima intesa che viene firmata successivamente al nuovo Concordato del 1984, è quella con la Tavola Valdese (valdesi e metodisti) 1984, intesa che farà da modello di riferimento per quelle che si presenteranno negli anni successivi. A seguire quella con le Chiese Cristiane Avventiste del settimo giorno e con le Assemblee di Dio, 1986. Nel 1987 viene raggiunto l’accordo con l’Unione delle Comunità Ebraiche (prima israelitiche come voluto dalla Legge Rattazzi del 1857). L’intesa con l’allora Unione delle Comunità Ebraiche fu la prima delle intese firmate con una comunità non appartenente al mondo cristiano che definiva l’impegno dello Stato a riconoscere le molte peculiarità che sono presenti nella cultura e nella tradizione ebraica, dall’alimentazione al riconoscimento del rispetto per l’osservanza delle festività. Nel 1993 si conclude quella con l’Unione Cristiana Evangelica Battista e, successivamente, quella con la Chiesa Evangelica Luterana. Le trattative con le altre tradizioni religiose che hanno cominciato essere maggiormente visibili negli ultimi decenni del secolo scorso, prendono avvio agli inizi degli anni Novanta per concludersi, con le comunità buddista e induista nel 2013. Infine va considerato che, per quanto sia sempre più numerosa la presenza in Italia degli appartenenti alla tradizione islamica, rimane ancora aperto il processo di consultazione con la questa comunità. In questo senso lo strumento del dialogo riesce a dare maggiore visibilità, non solo alle presenze di differenti culture religiose e al significato che queste rappresentano nel dibattito culturale e scientifico del paese, ma anche per rendere consapevole la società civile dei cambiamenti in atto, che non si attestano solo sul problema dell’intercultura nelle scuole e dell’accoglienza dei tanti immigrati nelle strutture dello Stato, ma anche nella garanzia del diritto di pari riconoscimento, pari opportunità, pari spazio di espressione per tutte le tradizioni religiose. Problematiche che mettono bene in luce come in Italia manchi una legge, conforme alle evoluzioni sociali e culturali in atto, capace di garantire la libertà religiosa e di promuovere il dibattito a sostegno della crescita della società civile che deve investire nel pluralismo piuttosto che nella omologazione. Ciò che deve essere finalmente realizzato è il varo45 di una legge quadro, basata su elemenIl riferimento alla proposta di DDL sulla “Libertà religiosa in Italia” presentata dall’Onorevole Domenico Maselli e decaduta alla fine della XIII legislatura, nell’agosto 2001. 45

ti comuni già trasversali alle intese, in grado di garantire, superando la logica della separazione e della uni direzionalità dei rapporti, la libertà religiosa e le pari opportunità.

2.2 Educazione al pluralismo religioso Più che considerare l’educazione religiosa che ha come scopo quello di far apprendere gli aspetti che caratterizzano la religione di appartenenza, l’educazione al dialogo interreligioso è orientata a formare le persone in modo attivo, critico e a stimolare la partecipazione all’ascolto e allo scambio di saperi ed esperienze che traggono significato da presupposti culturali differenti. Il contributo culturale che le religioni, le fedi e gli atteggiamenti di spiritualità hanno espresso nella storia delle comunità locali, esprime chiaramente come possono svilupparsi ed evolversi le esperienze di vita delle persone, sia come singoli individui che come collettività. Interagire con valori e con pratiche riferite a presupposti differenti da quelli comunemente condivisi, porta ad interagire anche sul piano dell’intercultura, pur non confondendosi con questa, e mantenendo una sua specificità in quanto coglie degli aspetti di appartenenza e di spiritualità differenti da quelli evidenziati nella prospettiva culturale. La riflessione sull’intercultura che elabora gli aspetti educativi di una società sempre più multietnica e multiculturale, si deve accompagnare ed integrare con lo sviluppo di una componente specificamente preposta a cogliere e sviluppare dal multi-religioso, dentro una cornice laica, progetti di dialogo interreligioso. L’ampio ventaglio di tradizioni presenti oggi in Italia si interroga, dal punto di vista educativo, su alcune questioni circa la conoscenza data nelle scuole di questa ricchezza culturale; le modalità con cui integrare le differenti appartenenze; quali sono i principi educativi delle tradizioni religiose e in quale modo questi sostengono la coesione comunitaria. Questioni probabilmente nuove per la tradizione pedagogica che, in genere, non ha dato molto spazio alla lettura e analisi di modelli diversi da quelli proposti dalla cultura della maggioranza. Nella storia dei saperi educativi i gruppi considerati minori, soprattutto le tradizioni ebraica e protestante, pur essendo parte del tessuto sociale da secoli, sono stati compresi nella riflessione pedagogica italiana in modo molto marginale. Una mancanza di attenzione che ha, in qualche modo, una responsabilità anche per lo sviluppo del dialogo. Esplorare le caratteristiche di modelli educativi diversi che sono stati parte della storia sociale dei gruppi e delle comunità locali favorisce la costruzione di una forma mentis flessibile e capace di cogliere all’interno di una quadro unitario elementi disomogenei e caratterizzanti altre specificità.

Da qui il bisogno di individuare nella scuola un’organizzazione dei contenuti disciplinari che dia gli strumenti per conoscere la molteplicità delle presenze anche in prospettiva storica e interdisciplinare, e nono solo, come sta avvenendo da diversi anni, come un’incalzante e imprescindibile emergenza sociale. Conoscere e capire, anche attraverso la presenza e il contributo di quelle che genericamente sono state definite minoranze, è una prevenzione alla costruzione dei pregiudizi e stereotipi e rende disponibile all’ascolto. Ogni tradizione religiosa si colloca all’interno della storia e della cultura generale. Non darne visibilità significa limitare la costruzione di strumenti cognitivi necessari a poter cogliere la complessità sociale. L’opportunità di questo decentramento aiuta a comprendere la possibilità di pensare che, problematiche trasversali, possano essere affrontate con prospettive valoriali differenti. Tematiche come la sessualità, le relazioni familiari, l’educazione di genere, per considerarne solo alcune, vengono lette ed interpretate, nelle tradizioni religiose, con prospettive e significati diversi46. È sicuramente un contributo alla formazione quello di introdurre, fin dalla prima infanzia, percorsi educativi che aprano alla reciproca conoscenza dei valori condivisi e contenuti nel messaggio che le tradizioni religiose e spirituali hanno elaborato nel corso dei secoli. In certi contesti l’identità nazionale, religiosa, linguistica ecc. è diventata il rifugio per molti individui e gruppi che vedono la globalizzazione e le trasformazioni culturali, che si realizzano sia a livello micro che macro, come una continua e sottile minaccia ai loro modelli di vita. È sempre più evidente il bisogno di ideare progetti innovativi con metodi, strumenti e materiali didattici in grado di alimentare un dibattito sulle migliori pratiche per realizzare strategie educative capaci di promuovere anche in questo campo, la reciproca comprensione, il rispetto e la tolleranza attiva sviluppando nuovi approcci di convivenza pacifica. La scuola ha anche il compito di promuovere, nel rispetto delle differenze, un sapere flessibile che riconosce il rispetto tra i popoli di diversa appartenenza religiosa e, soprattutto, attivare le forme democratiche della libertà di culto strettamente interconnessa con la libertà di espressione e di pensiero. Un impegno 46 Cfr. S. Guetta, A. Mannucci I tuoi seni sono grappoli d’uva. La sessualità nella Bibbia, Tirrenia, Del Cerro, 2006; S. Guetta, Il contributo ebraico ad una educazione sul valore e il significato della fine della vita, in A. Mannucci (a cura di), L’evento morte come affrontarlo nella relazione educativa e di aiuto, Riflessioni per educatori professionali, operatori sociali, operatori infermieristici, medici, volontari, insegnanti, Tirrenia, Del Cerro, 2004; S. Guetta, Educare, insegnare, ricordare: come la tradizione ebraica spiega la loro integrazione, in R. Quaglia, L. Ferro, M. Fraire (a cura di), Religione Scuola Educazione Identità, Lecce, Pensa Multimedia, 2008; S. Guetta, Percorsi di educazione alla riflessione interreligiosa, in C. Marchese (a cura di) Rangzen, Firenze, Arnaud, 2012.

quello educativo che è capace di ripercorrere la storia delle culture e dei popoli per analizzare, nel profondo, come le opposte appartenenze religiose, siano utilizzate per promuovere guerre e scontri, in nome di una presunta autoproclamata superiorità e una certezza di verità. Il dialogo interreligioso, come è sentito anche all’interno dei progetti di educazione interculturale, sollecita all’incontro tra rappresentazioni mentali differenti come pratica di aiuto a comprendere meglio come si formano e decostruiscono stereotipi e pregiudizi e a trovare soluzioni originali di mediazione a problemi e ai conflitti. L’immaginazione è molto utile per aiutare la persona a trovare soluzioni adeguate ai problemi interpersonali. Se è chiaro che la presenza dell’Altro non è mai qualcosa di scontato o di definito in partenza, la relazione e la volontà di conoscere diventano, allora, qualcosa di inedito, di esplorativo e innovativo. Una esperienza formativa che produce cambiamento e nuovi saperi. Lo scambio genera altre idee, altre conoscenze, altre emozioni, grazie alla possibilità che viene data, di creare una tensione continua tra l’avere qualcosa da condividere che si incontra con l’inedito e il non conosciuto. Lo spazio per aprire il dialogo sta in questa tensione oltre che nella volontà e nel desiderio di capire e scoprire quella dimensione che occupa l’essere vicini e lontani, simili e diversi. Nel dialogo interreligioso come in quello interculturale, il rapporto con l’Altro ha rappresentato, in questi anni, un costante impegno orientato al superamento di ostacoli, opposizioni, visioni stereotipate. La formazione al dialogo interreligioso è stata anche oggetto di esperienze che hanno come obiettivo la formazione delle competenze utili per vivere insieme. Il riferimento a questo approccio è rintracciabile in quel filone di riflessione sull’educazione che, dagli anni Novanta del secolo scorso, pone l’attenzione sullo sviluppo integrato di competenze sociali, conoscenze e saperi. Un documento che spiega il senso e il significato di questa integrazione e dell’avvio della riflessione è quello preparato da J. Delors 1996 per l’UNESCO. Il rapporto che venne presentato aveva lo scopo di individuare le migliori strategie educative da realizzare nel nuovo millennio. Oltre a rendere visibile la necessità di pensare all’educazione in senso ampio, e non solo concentrata o realizzata nell’ambito scolastico quanto, piuttosto, nella continua osmosi tra processo di apprendimento che dura per tutta la vita e contesti sociali, locali e globali di riferimento. Il rapporto considera, con attenzione, la necessità di educare ad alcune competenze che assicurano e garantiscono la sostenibilità del processo stesso di apprendimento. Nella seconda parte del rapporto viene dato spazio alla presentazione di queste competenze definite come i 4 pilastri dell’educazione, tra questi, quello del Learning to live together, (learning to know, learning to do, learning to be), è il più significativo per la formazione al dialogo e alla

convivenza pacifica. Learning to live together fa riferimento alle nuove sfide sociali e culturali, ma anche economiche e ambientali, prodotte dalle trasformazioni planetarie e dalla circolazione di saperi, di etnie, culture e religioni differenti. Il ruolo assunto da questo pilastro, strettamente collegato agli altri tre, è quello di agire per pieno sviluppo della mente e del corpo, facendo in modo che ogni è persona possa ricevere, fin dall’infanzia, un’ educazione che sappia coniugare sviluppo dell’intelligenza, della sensibilità, l’apprezzamento estetico per la vita, il mondo naturale e le espressioni culturali e la spiritualità. L’essere umano viene visto né come sola mente cognitiva che apprende né come corpo fisico che agisce ma, come potenzialità ed energia mentale, fisica e spirituale che agiscono integrandosi. Ciò che viene sottolineato è il pensare alla responsabilità che l’educazione ha nei confronti dei saperi delle nuove generazioni e della realizzazione di una società dove la presenza della violenza riesce a decrescere per lasciare spazio alla crescita della condivisone e della cooperazione. Tra i principali compiti, dei quali l’educazione deve farsi carico, c’è anche quello di permettere che ogni persona costruisca le competenze necessarie e si attrezzi di strumenti idonei per poter sempre più creare esperienze di cooperazione e di ricerca condivisa del benessere, sapendo trovare le modalità migliori per risolvere i conflitti sia personali che sociali. C’è anche la consapevolezza che, nonostante ci sia una dichiarata manifestazione delle politiche scolastiche e dei metodi utilizzati per promuovere l’educazione non violenta, in realtà, le scuole, gli insegnanti e tutto il sistema, lasciano sulla carta questo principio dimenticando che esistono i diritti umani e quelli dell’infanzia e dell’adolescenza. Ci vuole un profondo impegno e una chiara intenzionalità per poter passare, soprattutto in questo ambito, dalla teoria alla pratica, perché il cambiamento richiede un articolato lavoro di autoeducazione alla comprensione delle dinamiche relazionali, al riconoscimento dei limiti posti dai pregiudizi personali e alla capacità di utilizzare ogni tipo di approccio che faccia riferimento alla comunicazione gentile, accogliente e costruita sul modello dell’Equivalenza47. Nel rapporto di Delors viene espressa con chiarezza la necessità di utilizzare approcci e metodi cooperativi e partecipativi per educare le persone a saper lavorare insieme su progetti che possano essere di interesse comune. Il coinvolgimento personale, il senso di responsabilità, la comprensione del sentirsi insieme agli altri, aiutano a definire e condividere strategie per risolvere i conflitti. Spesso gli insegnanti presentano i saperi in modo dogmatico, facendo gradualmente decrescere ogni espressione di curiosità ed 47 Cfr. P. Patfoort, Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Pisa, University Press, 2012.

interesse personale. Il modello che viene trasferito, attraverso questo approccio, può causare danni permanenti nelle persone, portandole a rappresentarsi la realtà in modo rigido e non disponibile alla mediazione. Una chiusura, dice Delors, che impedirà di affrontare le inevitabili tensioni tra individui, gruppi e nazioni, mentre uno degli strumenti essenziali per l’educazione del XXI secolo sarà la realizzazione di un forum permanente per il dialogo e la discussione.

3. Pratiche interreligiose ed esperienze di incontri Molti progetti di intervento sociale e cooperativo si stanno muovendo per riconoscere l’Altro non più solo come ciò che io non sono o ciò che di diverso c’è nella persona, ma come luce di dialogo e di cooperazione. Una riflessione attenta al confronto interreligioso e alla necessità di creare situazioni e spazi per il dialogo, ha iniziato a delinearsi, concretamente, negli anni a cavallo tra il XX e il XXI secolo48. Tuttavia è ancora assente, in molti contesti educativi, al di là delle nuove presenze arrivate con i processi migratori, il riferimento all’alterità come valore e diritto capace di garantire il pluralismo e la democrazia. Per molto tempo è stata trasmessa una cultura che vedeva nello straniero/diverso, l’avversario, il nemico il sovvertitore dell’ordine, il responsabile del malessere sociale. Molte generazioni hanno studiato nei libri di storia, come l’Altro, che fosse singolo e/o popolo, potesse costituire una minaccia all’integrità o alla sicurezza del proprio gruppo. Molti conflitti armati hanno sfruttato questo modello, appellandosi poi alle religioni perché ne sostenessero e giustificassero le azioni49. ‹‹La paura dell’Altro, l’ossessione iden48 Il bisogno di aprire un dialogo tra le religioni, viene datato nel 1893 quando a Chicago si incontrano ufficialmente le rappresentanze spirituali del mondo occidentale e orientale. È l’avvio di quello che quasi un secolo dopo si definirà come Parlamento Mondiale delle Religioni e che oggi viene riconosciuto come uno dei contesti internazionali di sviluppo del dialogo interreligioso. http://www.parliamentofreligions.org. Il Concilio per la formazione del Parlamento Mondiale delle Religioni verrà costituito quasi un secolo dopo, nel 1988, quando un gruppo di leader religiosi, uomini di cultura, studiosi e rappresentanti della società civile di Chicago, si riuniscono per organizzare la celebrazione del centenario del Congresso Mondiale delle Religioni del 1893, nel 1993 nasce a Chicago il Parlamento Mondiale delle Religioni che si riunisce in differenti città del mondo con una cadenza quinquennale. Il prossimo incontro sarà a Bruxelles nel 2014. Nel mondo della cristianità l’apertura al dialogo ecumenico è stata aperta dal Concilio Vaticano II con il decreto conciliare del 21 novembre 1964 dove vengono enunciati i principi dell’ecumenismo e la ricerca del dialogo con le Chiese cristiane. 49 Cfr. R. Toscano, Il volto del nemico. La sfida dell’etica delle relazioni internazionali, Guerini Associati, Milano, 2000; D. Bar Tal, Y. Teichman, Stereotypes and prejudice in

titaria, la passione per una purezza pericolosa e sovente solo immaginaria, nascono dagli stereotipi, dalle incomprensioni, dall’ignoranza subita e talora incoraggiata e, infine dalla pigrizia. La paura dell’Altro mette le radici se manca la speranza di vita; una persona che ha una visione brutale del realismo, e non è sostenuta da alcuna confidenza nel futuro, è condotta a vedere l’Altro uno strumento, o una minaccia e non una integrazione della persona››50. La paura dell’Altro si coniuga e diffonde bene nelle crisi economiche della globalizzazione, nelle dinamiche migratorie che stanno accompagnando questi decenni di storia, crisi che sollecitano la ricerca di risposte nuove per una sostenibilità ambientale come responsabilità condivisa di tutti gli esseri umani. È chiara la consapevolezza che il post moderno e la tecnologia non risolvono magicamente e naturalmente i problemi di convivenza tra persone e gruppi. E’ necessario ricomprendere questo rapporto con l’Altro attraverso una nuova esplorazione dei modelli e delle azioni che sostengono i processi educativi dentro le società, le culture e le religioni. Il rapporto con l’Altro è, come è stato qui introdotto, carico di dinamiche relazionali controverse, di rischi di mitizzazione, forme di buonismo e pace, di stereotipi e pregiudizi culturali che diventano orientativi, di legittimazione di processi di esclusione, sottomissione, sfruttamento per dirla con una espressione: di violenza. Tutto ciò richiede impegno e responsabilità da parte degli educatori che in primis hanno il ruolo di educare alla cultura del rispetto, della reciprocità e della convivenza pacifica planetaria.

3.1 Dialogo interreligioso e Learning to live together Su questa linea si presenta l’esperienza Learning to live together. An intercultural end Interfaith Programme for Ethics Education51, che propone una riflessione su come gli educatori e gli insegnanti possono costruire competenze per migliorare la qualità del vivere insieme agli altri e offre strumenti utili per avviare progetti in tal senso. L’inaugurazione, nel 2000 della rete Globale delle Religioni per i bambini (GNRC)52, sostenuta dalla fondazione Arigatou e in collaborazione con l’UNICEF e l’UNESCO, ha conflict: representations of Arabs in Israeli Jewish society, University of Cambrige, UK, 2005. 50 M. Raveri, op. cit, p. 23. 51 Cfr. Airgatou Foundation, Learning to live together. An intercultural and Interfaith Programme for Ethics Education, Geneva, NB Media, 2012. 52 Global network of religions for children http://www.gnrc.net/en/

creato uno spazio per promuovere la cooperazione e per soddisfare i bisogni dei bambini nello sviluppo delle loro esperienze spirituali e religiose. In particolare la rete cerca di favorire un movimento globale per creare i migliori ambienti di scambio e di dialogo in vista degli obblighi educativi per il terzo millennio. L’educazione interculturale e interreligiosa viene promossa attraverso un impegno etico al fine di aiutare le comunità e le società a costruire modalità per vivere insieme pacificamente, nel rispetto degli altri. L’educazione etica si integra quindi con le competenze del learning to live together e con la promozione del dialogo interreligioso. Imparare a vivere insieme richiede un impegno globale per la tutela del rispetto di ogni dignità umana. Gli obiettivi che il programma si propone sono orientati a rafforzare nei bambini la costruzione degli strumenti che portano a comprendere e realizzare la giustizia, il rispetto dei diritti umani e la costruzione di relazioni di armonia con ogni collettività e con le singole persone. All’interno del programma si d ampio spazio e significato al legame esistente tra valori etici e tradizioni religiose, sostenendo anche l’importanza di educare a questi valori già nella famiglia e nella comunità di appartenenza. È soprattutto con i legami primari, con la famiglia, le esperienze di affetto, di amore e di ascolto empatico, che vengono date le premesse per lo sviluppo di una formazione e per un comportamento umano etico. E’ presente anche nel legame con la famiglia, la possibilità di creare situazioni di ostilità e di odio piuttosto che di amore e di condivisione. Sono frequenti gli esempi in cui le famiglie, come gli insegnanti sollecitano e insegnano a vedere gli altri come nemici, incoraggiando all’uso di comportamenti violenti nell’affrontare i conflitti e a mostrarsi insensibili di fronte ai bisogni ed ai sentimenti degli altri. Per molti educatori questa modalità viene giustificata, in particolare, per i bambini maschi, come una necessaria preparazione per vivere in un mondo aggressivo, competitivo orientato a garantire il soddisfacimento del piacere economico e il raggiungimento di ruoli di potere. Il programma, per rispondere a questa deviazione dei processi educativi, richiama l’attenzione a quattro tipi di responsabilità: 1. L’impegno di tutte le tradizioni religiose, nella consapevolezza di essere strumenti di educazione, garanti di valori centrati sul rispetto dell’altro e dell’alterità. Ai bambini e ai giovani si insegna a relazionarsi, in particolare, con coloro che appartengono ad altre tradizioni, credenze e fedi al fine di prepararsi a vivere, anche religiosamente, in un mondo plurale. 2. L’impegno delle tradizioni religiose a promuovere quei valori di trasparenza, onestà e compassione verso tutti gli esseri umani, valori che devono essere trasmessi ai bambini fin dai primi momenti di vita.

3. La necessità di trovare nelle differenti tradizioni punti in comune per condividere l’impegno sociale, dimostrando, allo stesso tempo, la comune e interdipendente appartenenza al genere umano. 4. La consapevolezza che l’educazione non può soffermarsi solo sulla conoscenza della fede di appartenenza. La formazione risulterebbe limitata e sterile perché non permetterebbe di comprendere l’eredità immateriale di saperi e significati che sono sfide continue e quotidiane poste dagli incessanti processi di trasformazione e cambiamento. Il programma sostiene, inoltre, la necessità di fare riferimento al rapporto tra i significati, le esperienze, i saperi e gli aspetti che sono propri della laicità e di come questi possono incontrarsi e confrontarsi con quelli religiosi, creando la possibilità di uno scambio e di un reciproco sostegno senza alcuna interferenza. Ma ciò che viene anche riconosciuto e ciò che va oltre il riferimento religioso, come dimensione trasversale che può unire le fedi, è la spiritualità. Il programma sostiene che i bambini hanno profonde attitudini alla spiritualità che sperimentano continuamente quando viene data loro la possibilità di relazionarsi con entusiasmo e curiosità al mondo nel quale vivono. In particolare un rapporto costante e interessato verso il mondo naturale che li circonda, può aprire il cuore e non solo le menti dei bambini, aiutandoli a cogliere e a vivere le esperienze spirituali in modi diversi, ma soprattutto in modo personale senza necessariamente rifarsi a comportamenti o insegnamenti imposti dalle tradizioni. Molti parametri che gli adulti utilizzano nel loro vivere quotidiano, come il tempo e lo spazio, hanno per i bambini riferimenti completamente diversi. Il tempo, in particolare, assume dilatazioni e inconsistenza nella vita dei bambini. Esso è infatti collegato a tutto ciò che fa parte della vita materiale che i bambini dovrebbero percepire gradualmente come e non solo come unico approccio alla realtà. L’esperienza del dialogo interreligioso proposto dal learning to live together di questo programma vuole partire dalla innata capacità di sviluppo spirituale dei bambini facendo in modo che questa crescita e questa apertura possano stimolare la creatività e l’intelligenza ed essere un contributo al benessere di tutta la comunità. Ogni aspetto della spiritualità, così come ogni capacità della mente, deve essere educato e sviluppato attraverso processi che aprono alla riflessione critica, all’integrazione tra conoscenze e competenze e alle relazioni positive e di qualità. È chiaro quindi che spiritualità e religione non esprimono la stessa cosa, non sono sinonimi e talvolta entrano in contrasto tra loro soprattutto quando le pratiche del religioso non sanno riconoscere il senso della ricerca interiore che non si risolve nell’adeguamento a pratiche e comportamenti, ma che guarda alla connessione diretta e continua tra l’essere umano e l’universo. Qualcosa che porta oltre

ciò che siamo e che viviamo nel presente, ciò che va al di là dei fenomeni che sperimentiamo. È la possibilità di percepire altro, pur rimanendo sintonizzati con la realtà e sentendoci parte del genere umano e dell’universo. È la possi- bilità di utilizzare approcci proattivi piuttosto che reattivi avendo la capacità di andare oltre alla risposta che lo stimolo potrebbe indurre a fare immedia- tamente. Il tempo nell’esperienza spirituale si dilata, esce dai suoi parametri e supera il senso dell’immediatezza, le risposte e i comportamenti non sono immediati, impulsivi e le sole risposte alle tante domande non soddisfano il bisogno di scendere in profondità. C’è sempre una dimensione spirituale nel- la ricerca delle cose, una dimensione che viene da dentro che non può essere ricondotta alla sola motivazione e al solo interesse. La spinta che la spirituali- tà può dare va oltre i limiti e i confini, per questo non può essere circoscritta dentro modelli stretti di appartenenze religiose. La spiritualità è un’ulteriore possibilità che le persone percepiscono e vivono nell’esperienza di apparte- nenza comunitaria orientata al benessere, alla crescita e all’evoluzione sia come singolo che come gruppo. L’invito desidera per il prossimo quello che desideri (ami)per te stesso, che riprende il verso biblico53 è la sfida, la scommessa e la possibilità che ogni essere umano ha di andare oltre il pro- prio essere e il proprio sentire per vivere nella dimensione di armonia, compassione e amore con l’universo. È possibile amare il nemico? Nel far- ci questa domanda ci apriamo alla possibilità stessa54 di porci in relazione con noi stessi e con il mondo in modo autentico.

3.2 Dialogo interreligioso dentro i conflitti sociali e politici Un altro esempio di buone pratiche del dialogo interreligioso è quello sviluppato dalla Interfaith Encounter Association in una delle terre più ricche di esperienze religiose, spirituali, ma anche di conflitti armati. L’obiettivo dell’associazione è quello di promuovere la costruzione di una pace di riconciliazione e di cooperazione anche attraverso lo strumento dell’incontro e del dialogo tra le tante componenti religiose che convivono nella zona. Il dialogo si connota, per certi aspetti, come un efficace strumento politico di scambio e di reciproca conoscenza. Queste esperienze forniscono dei buoni strumenti per un cambiamento di percezione, di attitudini e di comportamenti, tra israeliani e palestinesi, musulmani ebrei e criCfr. Pentateuco, Levitico, 19,18, ‹‹ Il forestiero dimorante con voi deve essere per voi uguale al vostro indigeno, e amerai per lui quello che amerai per te stesso››, Levitico, 19,34. Il testo viene poi ripreso nel Vangelo ‹‹Amerai il prossimo tuo come te stesso››, Mt 22,39; Mc 12, 28b34; Lc 10,25-37. 54 Airgatou Foundation, Learning to live together, cit. p. 20. 53

stiani. Al di là della considerazione generale che vede la presenza degli aspetti legati al religioso come una componente che blocca i rapporti e rende il conflitto più acuto, le esperienze di alcune associazioni e Organizzazioni Non Governative (NGO), così come alcune ricerche accademiche55, dimostrano che la religione può risultare, al contrario, un’ opportunità di incontro al fine di moderare i conflitti e non solo per accenderli. Tuttavia, per lo sviluppo e la crescita delle relazioni e degli scambi tra i gruppi è necessario tenere presenti quattro fattori che possono fare in modo che gli incontri tra gruppi abbiano successo56: la condizione di pari dignità tra i gruppi, costruzione di un ambiente curato e caldo la percezione di un incontro sempre appositamente organizzato, l’interesse per la cooperazione (piuttosto che la competizione nelle relazioni), lo sforzo per ottenere supporti istituzionali. A sostegno dell’organizzazione che deve essere sempre ben curata e supportata in tutti gli aspetti per favorire la percezione per tutti di sentirsi a proprio agio, deve intervenire anche un senso di potenziale amicizia e di opportunità per la costruzione di autentiche relazioni interpersonali. La Interfaith Encounter Association afferma che la religione, piuttosto che essere causa dei problemi, potrebbe diventare la soluzione dei conflitti in Medio Oriente57. Attraverso gli incontri tra persone appartenenti a gruppi religiosi ed etnici diversi, l’associazione intende rafforzare le esperienze del dialogo per promuovere esperienze di solidarietà giustizia e pace. Gli incontri che si realizzano con tematiche diverse sono rivolti ad ogni genere di popolazione e trovano spazio in differenti luoghi delle due realtà territoriali. Dagli incontri dovrebbe emergere che l’alterità non è solo accettata ma che viene valorizzata compresa e rispettata nella ipotesi prossima di una convivenza pacifica nell’area, del rispetto di tutti i suoi abitanti e dell’ambiente. Le attività proposte dall’associazione variano tra corsi di studio, seminari, incontri e dialoghi. Il focus è la ricerca modalità per sostituire la paura, l’ignoranza e la diffidenza con la conoscenza, la tolleranza e la condivisione. Il passaggio di questi sentimenti ed emozioni avviene attraverso le esperienze concrete dell’incontro con l’altro, nel condividere la stessa esperienza e di sentirsi in una situazione di sicurezza anche sedendo accanto al nemico. In questo contesto il dialogo interreligioso viene considerato come uno strumento attraverso il quale i differenti gruppi, espressione anche di appartenenze sociali e politiche diverse, possono trasformare la rappresentazione che si sono fatti dell’altro e orientarsi verso un nuovo modo di sen55Cfr. 56 Cfr.

Y. Iram, Educating toward a culture of peace, Greenwich, Age Publishing, 2006. Y. Amir, ‹‹Contact Hypothesis in Ethnic Relations››, in Psychological Bulletin, n.

71, 1969. 57 Interfaith Encounter Association http://interfaithencounter.wordpress.com /about/ourvision/.

tire, per sostituire l’ethos della guerra a quello della pace58. Gli incontri coinvolgono i differenti gruppi ad ogni livello. Ai capi spirituali, religiosi e politici viene tolta la centralità dello spazio per favorire le partecipazioni dal basso che rendono più partecipato, stimolante ed atteso il dibattito. L’approccio con il quale lavora l’AIE è sostanzialmente basato su una proposta operativa che si muove su tre livelli o tre cerchi di lavoro interconfessionale: il primo è all’interno dell’area israeliana promuovendo incontri tra ebrei, musulmani, cristiani, drusi e baha’i; il secondo livello è quello dell’incontro tra israeliani e palestinesi dove l’associazione lavora in collaborazione con otto organizzazioni palestinesi presenti nei Territori dell’Autorità Nazionale Palestinese; il lavoro al terzo livello si estende alla regione del Medio Oriente partecipando a interventi anche nei paesi del Maghreb, in Libano e in Iran. L’esperienza del dialogo religioso, rivolto a tutti i segmenti della società, ha generato un’attenzione particolare verso le esperienze di partecipazione delle donne. A causa di molte pratiche religiose che escludono le donne dalla partecipazione attiva agli incontri ed al sociale in generale, è stato necessario tenere conto di questa difformità sia per la promozione di un dibattito interno che per agevolare le donne a partecipare agli incontri. L’incontro interreligioso per donne (WIE) è stato lanciato nell’inverno del 2001 per affrontare questa necessità e per rettificare questo potenziale problema nel lavoro di base interreligioso. Un’altra sfida importante è rappresentata dal coinvolgimento dei giovani e la promozione di uno spazio specifico dedicato a loro. Tra i giovani si presentano problemi diversi da quelli delle donne, perché è meno sentito il coinvolgimento e sono necessari strumenti e aspetti organizzativi che meglio sanno comunicare dinamiche e percezioni individuali e collettive. Tuttavia i giovani sono proprio coloro che animano e stimolano il processo, mettendo in circolazione le idee e i nuovi bisogni emergenti. Sul piano operativo, la AIE sta realizzando progetti orientati alla costruzione della cittadinanza attiva e partecipata, coinvolgendo i differenti gruppi religiosi e nazionali. Un corso interconfessionale per gruppi è organizzato in differenti centri del Paese con l’obiettivo di sensibilizzare le comunità locali e condividere le esperienze anche nei contesti di educazione formale. Ogni centro è guidato da un team di coordinamento interreligioso in grado di sviluppare la comunicazione e la relazione su modelli di parità e partecipazione. L’obiettivo di questo intervento è quello di sviluppare una minicomunità59 che favorisce i rapporti di amicizia e di rispetto reciproco, raf58 Cfr.

S. Guetta, La voce della pace viene dal mare, cit. P. Kennedy, Putting Our Differences to Work: The Fastest Way to Innovation, Leadership, and High Performance, San Francisco, Berrett Koheler, 2009; D. Gavron, Holy 59 Cfr.

forzando l’identità unica di ogni comunità. Questi gruppi poi si comportano come modelli per le comunità di appartenenza, ma implementano le modalità sperimentate del condividere insieme, utili allo sviluppo della cultura di pace. La centralità del lavoro si focalizza nell’esperienza della sessione mensile di studio congiunto. Durante questo periodo i partecipanti individuano temi di studio da presentare alle sessioni di lavoro con l’obiettivo di mettere in discussione, sulla base dei problemi reali e contingenti, le credenze, le pratiche, le fonti religiose delle tradizioni di appartenenza. Incontri interreligiosi tra donne (WIE), musulmane, cristiane, druse ed ebree sono organizzati per promuovere lo scambio e lo studio di problematiche del mondo femminile, all’interno delle differenti prospettive religiose. Non solo lo studio interreligioso è utilizzato come veicolo per la comprensione, l’accettazione e il rispetto reciproco ma, anche come modo per approfondire la conoscenza delle questioni che, all’interno della propria religione, creano separazione, controllo e impedimenti. Gli incontri alimentano un sostenibile empowerment femminile capace di valorizzare cambiamenti sociali e culturali.

Land Mosaic: Stories of Cooperation and Coexistence Between Israelis and Palestinians, Maryland, Rowan & Littlefield Publishing Group, 2008. Http://interfaithencounter.wordpress.com/groupseventsprojects/projects/

3. Educare alla cultura di pace: nuovi paradigmi dell’educazione sociale e proposte operative

1. L’impegno internazionale per l’educazione alla pace È a partire dalla seconda metà del XX secolo che la riflessione sulla necessità di pensare che i rapporti tra le nazioni dovessero avvenire attraverso vie diverse da quelle che avevano caratterizzato la storia, comincia a prendere forma. Le atroci e devastanti conseguenze dei due conflitti mondiali, l’insensato numero di perdite di vite umane, la distruzioni di ambienti naturali ed antropizzati e il potere incontrollato della scienza a servizio degli armamenti, hanno determinato il bisogno di richiamare le popolazioni ad un nuovo impegno sociale e collettivo che potesse fare da scudo a tanta distruzione. Per tutto il secolo dei due conflitti mondiali ha prevalso la logica della guerra con i suoi valori, simboli e strumenti di violenza, aggressione, sottomissione, devastazione e sterminio: l’ethos della guerra aveva preso campo entrando dentro ogni forma istituzionale, culturale e sociale. ‹‹le devastazioni della guerra e della Shoah, gli orrori dello sterminio, le immagini apocalittiche di Hiroshima e Nagasaki avviano un ampio processo di riflessione sul quel naufragio della ragione a cui collegare l’assurdità e il non senso di tanta crudeltà››1. La Seconda Guerra Mondiale, divenne uno spartiacque per la storia umana. La logica della guerra per la conquista dei territori e del potere economico si coniugava con la nuova logica della guerra dello sterminio programmato, realizzato sia attraverso la sistematica fabbrica della morte dei campi di sterminio, che con l’uso della bomba atomica. Uno sterminio di popolazioni, di uomini, donne e bambini, considerate diverse/nemiche e oggetti, sulle quali poter sperimentare la razionalità della guerra avvalendosi dell’esercizio del potere, della forza e della violenza.

1 F. Frabboni, F. Pinto Minerva, Introduzione alla Pedagogia Generale, Bari, Laterza Edizioni, 2008, p. 6.

La consapevolezza dei disastri planetari, dei drammi e delle profonde sofferenze vissute dalle popolazioni di tutta la terra, dette vita a organizzazioni internazionali orientante a garantire una giustizia sovranazionale tra gli stati, (ONU 1945), e una nuova cultura dell’educazione e delle scienze per sviluppare la pace tra i popoli (UNESCO 1948). Organizzazioni internazionalii importanti il cui scopo era quello di impegnare gli Stati membri a nuove politiche capaci di risolvere i conflitti attraverso le vie della diplomazia e della mediazione, piuttosto che il conflitto armato2. L’entusiasmo per una sperata convivenza pacifica del pianeta si spense presto di fronte alle nuove ondate di conflitti che iniziarono nei differenti continenti. La fine del conflitto mondiale aveva anche ridisegnato alcune aree geografiche e generato il processo di decolonizzazione dei paesi africani, processo che iniziò intorno agli anni Cinquanta e si concluse alla fine degli anni Ottanta. Si strutturarono intorno a quegli anni, anche le lotte contro le discriminazioni, le forme di razzismo e di apartheid. Con gli studi sulla formazione del pregiudizio e dei criteri di emarginazione, esclusione, discriminazione ed eliminazione, iniziò a farsi strada la consapevolezza che il dramma del conflitto e della violenza, non risiedesse solo nelle azioni belliche, ma fosse intrinseco nella società e da questa operato continuamente. Nel mondo quindi, i conflitti non cessarono e presto fu chiaro quanto fosse limitato il potere dell’ONU di prevenire conflitti bellici che continuavano a decimare le popolazioni, portando violenze sulle donne e sui bambini, e a causare di povertà, emigrazioni, squilibri sociali ed economici, con disastri ambientali dei quali ancora oggi non se comprendono appieno le conseguenze. L’obbligo di individuare nuovi paradigmi e modalità di rapporto tra le nazioni, le collettività e gruppi di persone, rappresentava allora una sfida culturale. Era quindi necessario riflettere sulle modalità con cui le relazioni umane vengono costruite piuttosto che pensare solo a individuare chi dall’alto dovesse stabilire ordine e tranquillità. Ciò ha quindi chiamato in causa l’educazione, per la sua imprescindibile e inevitabile carica di responsabilità sociale e culturale nella formazioni delle giovani generazioni e delle esperienze in età adulta. Ci vuole quindi un forte impegno culturale, scientifico ed educativo per smontare credenze, convinzioni, comportamenti e attitudini costituiti sul modello della cultura della guerra, perché, nonostante la consapevolezza

2 L’Organizzazione delle Nazioni Unite dette vita a dichiarazioni come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1848, alla realizzazione del piano Marshall per ricostruzione post bellica, alle risoluzioni per la garanzia delle sovranità territoriali e la fine dei mandati francesi e britannici in Medio Oriente e in Asia.

dei disastri e dei dolori che questa provoca, viene ancora considerata uno degli strumenti necessari per stabilire la pace ed esportare la democrazia. Si arriverà quindi solo negli anni Novanta ad avere delle Dichiarazioni internazionali significative che contribuiscono alla nascita del concetto di cultura di pace.

1.1. La Dichiarazione di Siviglia contro ogni forma di giustificazione della guerra Nel 1989 la conferenza generale dell’UNESCO, sottoscrisse un documento fondamentale per avviare una nuova riflessione sul significato umano della guerra, le responsabilità che gli uomini e le donne hanno nei confronti di questa, le false ideologie e credenze che la sostengono, nonché le ingannatrici e infondate affermazioni scientifiche che sono ancora saldate nella cultura e nei contenuti scolastici. La Dichiarazione di Siviglia sulla Violenza3 è un documento redatto da un gruppo di studiosi, provenienti da varie parti del mondo ed afferenti a diversi settori disciplinari, che mette bene in evidenza come i falsi luoghi comuni o le affermazioni pseudoscientifiche sulla natura violenta dell’essere umano non abbiano alcun senso. Gli scienziati firmatari del documento sono consapevoli che nel corso degli anni molti risultati scientifici, da quelli della biologia a quelli della fisica, delle comunicazioni e della chimica, sono stati strumentalizzati o nati per necessità belliche e messi al servizio della violenza e del potere. La Dichiarazione mette ben in evidenza la chiara consapevolezza della non neutralità della scienza, della cultura e dell’educazione nei confronti dello sviluppo della cultura della guerra. La stretta connessione con il tessuto sociale e con le dinamiche storiche, economiche e politiche, genera la strumentalizzazione dei contenuti del sapere umano che poi va ad influenzare e orientare i rappor- ti tra le cose, le persone e il mondo. Se la cultura, la scienza e l’educazione non sono neutrali, ma si vestono di significati che condizionano di vita della collettività, affermando e giustificando la violenza e sono esse stesse porta- trici di violenza, allora è necessario decostruire certe dinamiche al fine di evitare le continue strumentalizzazioni utili a giustificare la guerra.

3 Conferenza Generale UNESCO è stata preceduta dall’incontro del 1986, dove vengono delineate le posizioni degli scienziati diventate poi oggetto di dichiarazione il 16 novembre 1989, Dichiarazione di Siviglia sulla Violenza. Http://www.unesco.org/cpp/uk/declarations/seville.pdf La Dichiarazione era stata affiancata da un altro evento fondamentale per la nascita della cultura di pace: l’iniziativa promossa in Perù chiamata Cultura de Paz, nel 1986.

Per quanto le pratiche di giustificazione della guerra abbiano sempre fatto ricorso all’uso improprio e strumentalizzato di teorie, scoperte e dati, dopo gli avvenimenti del secolo scorso, non è più possibile accettare, assecondare e giustificare tali pratiche. Non sono mancate, nella storia dei grandi massacri, che succedevano alle conquiste, le scusanti fondate su false credenze che l’essere umano con la pelle chiara, fosse superiore a quello con la pelle scura, che la sopravvivenza della specie fosse garantita dalla legge del più forte, che le donne dovessero essere sottomesse perché considerate più deboli e meno capaci. Una lunga serie di misure discriminatorie che le culture hanno assorbito all’interno dei loro saperi. Le imprese coloniali che hanno visto la devastazione delle culture locali di tutti i continenti, non rispondevano a dei conflitti, ma solo all’ideologia etnocentrica europea della superiorità di un essere umano, semplicemente per il colore della pelle. Giustificazioni insensate che però hanno dato vita a guerre, colonialismi, stermini e devastazioni ambientali. Da qui emerge chiaramente che, la responsabilità di ogni progettazione e azione di guerra, non sta nel conflitto, quanto nella cultura e quindi negli esseri umani stessi che sono produttori della stessa cultura di cui si alimentano. Una convinzione così profonda e radicata in molte culture che genera ancora molto razzismo e discriminazione. Sia il razzismo, che la discriminazione sono frutto di un pensiero semplice e lineare, facile da comprendere, che non impegna troppo la mente e porta ad interpretare la realtà attraverso il modello della contrapposizione dualistica. Per confutare le costruzioni pseudoscientifiche sostenitrici di una giustificazione della guerra come espressione naturale dell’aggressività umana, la Dichiarazione di Siviglia presenta chiaramente cinque enunciati che cercano di chiarire e di rispondere anche all’annoso problema sulla natura violenta dell’essere umano4. La natura delle risposte date a questo quesito ha una profonda incidenza su modelli, prassi e strategie educative. Per rispondere a questo dilemma che ha coinvolto anche pensatori, filosofi, educatori e religiosi5 sono state individuate cinque proposizioni6. La prima mette in evidenza la scorrettezza della assunzione che gli esseri umani abbiano ereditato dagli animali la tendenza a fare la guerra. Ogni azione di guerra è un prodotto culturale e non una azione mossa dall’istinto di difesa. Per realiz4

Cfr. A. L’Abate, Per un futuro senza guerre. Dalle esperienze personali ad una teoria sociologica per la pace, Napoli, Liguori, 2008. 5 Se nel corso dello sviluppo del pensiero, questo tema ha orientato modelli interpretativi del vivere sociale e pedagogici, si pensi ad Hobbes oppure a Rousseau, la scelta per una visione piuttosto che un’altra è fortemente presente nella interpretazione religiosa della natura umana. Interpretazione che influenza poi le pratiche, i modelli e le relazioni all’interno della stessa comunità religiosa. 6 UNESCO, Dichiarazione di Siviglia.

zare la guerra vengono messe in pratica delle prassi culturali che ne permettono l’organizzazione e la realizzazione. Ne sono la dimostrazione le tecnologie, gli sviluppi scientifici, le strategie, i linguaggi elaborati, nel corso dei secoli, dai sistemi politici e militari. Gli investimenti economici che hanno sostenuto lo sviluppo dalle scienze a scopi bellici hanno portato ad affinare sempre più la costruzione degli strumenti di distruzione e di annientamento delle popolazioni. Pertanto, mentre negli esseri animali le azioni violente sono il risultato di evoluzioni biologiche, negli esseri umani, le azioni violente che conduco alla guerra sono sempre il frutto di scelte e di volontà razionali. Il secondo enunciato mette in evidenza la falsa credenza che la natura umana sia programmata per un comportamento violento. Ogni essere umano, viene detto, ha un bagaglio genetico che lo caratterizza, c’è una predisposizione ad essere influenzati dalle esperienze di vita, ma ciò che orienta lo sviluppo delle persone, sono le interazioni con gli ambienti antropizzati e la costruzione di significato che a questi vengono dati. In pratica le caratteristiche genetiche delle persone, a meno che non si presentino situazioni patologiche, non sono predisposte alle azioni violente e non è programmato per alcun risultato prestabilito. Esiste sempre una interazione tra ciò che una persona eredita dal punto di vista biologico, i contesti culturali dove sviluppa la sua formazione, le interazioni con l’ambiente, inteso in senso ampio umano e naturale, e i cambiamenti che questi processi producono. Ciò che la proposizione sostiene è che sia la teoria darwiniana che le ultime scoperte della genetica sono servite, in modo strumentale, per sostenere la natura aggressiva e violenta degli esseri umani. Tuttavia, oltre ad essere una lettura semplicistica che fa trasmigrare il comportamento animale a quello umano, questa ipotesi non riconosce le potenzialità di cooperazione, condivisione, empatia di cui ogni essere umano è ricco. Il terzo enunciato, riferendosi ancora al modello evoluzionistico, intende confutare l’assunto che, nel corso della storia dell’umanità, il comportamento aggressivo abbia avuto maggiori rinforzi rispetto ad altri e per tale motivo se ne sono giustificati la presenza e il mantenimento. L’osservazione di certi comportamenti animali ha dimostrato, dice la proposizione, che per quanto sia necessaria per la sopravvivenza della specie, l’aggressività, se non è potenziata artificialmente, non arriva a misure che vanno al di fuori del controllo dell’essere vivente. Inoltre, il comportamento degli animali dimostra che nel gruppo si può creare anche cooperazione, cosa che invece viene poco valutata, o esclusa da coloro che danno valore al solo elemento di violenza perché considerato un comportamento simile a quello degli esseri animali. Il porre scarsa attenzione alle pratiche di cooperazione e collaborazione che nelle esperienze sociali di tutti i popoli sono presenti è una precisa scelta culturale. Essa infatti mettendo in evidenza solo una dimensione del modo con il quale si possono

esprimere le relazioni umane, offre una legittimazione della violenza, la giustifica e la rende naturale, escludendo ogni altro tipo di possibile comportamento e alimentando, allo stesso tempo, la circolarità della violenza. Il quarto enunciato considera la nullità dell’affermazione che gli esseri umani hanno un cervello violento. Se è vero che l’apparato neuronale può reagire in modo violento a degli stimoli, questo non vuol dire che sia stato programmato per un comportamento sempre distruttivo o, che, quel comportamento non possa essere educato, gestito e mediato. Prima di reagire, i sistemi biologici che permettono agli esseri umani di vivere e di sopravvivere, filtrano e selezionano gli stimoli. La reazione non è così immediata. Oltre ad un sistema complesso che filtra gli stimoli e le informazioni che possono provocare delle reazioni impulsive, entrano in gioco anche altri fattori come la volontà e la consapevolezza che possono orientare in una direzione piuttosto che in un’altra il comportamento umano. Per superare la reazione, tuttavia, è necessario che oltre alla volontà e alla consapevolezza, agisca l’educazione che permette di elevare un comportamento da reattivo a proattivo, che è poi la possibilità che ogni essere umano ha di scegliere come comportarsi in relazione agli eventi. Le reazioni di rabbia o di collera, considerate da coloro che sostengono la natura violenta del cervello un comportamento umano, viene considerata una reazione non mediata dalla scelta, ed ancora prima da una educazione alla scelta, che dà gli strumenti per non lasciarsi prendere dalla frustrazione o dall’impazienza, o da altri sentimenti che possono accendere reazioni aggressive. Infine, il quinto enunciato sostiene la scorrettezza dell’affermazione che la guerra è causata dall’istinto o da una specifica motivazione. In realtà, come già sostenuto, la guerra richiede una preparazione razionale, tecnica, operativa, che viene sostenuta dall’organizzazione degli apparati istituzionali e dal sistema che lo sostiene. In questo senso i fattori che entrano in gioco sono diversi, ma nonostante ci sia una complessità di elementi che potrebbero alimentare situazioni di tensione e di violenza, come quelli culturali, religiosi, economici ecc., questi non sono di per sé fattori causa dei conflitti. Chi è interessato a mantenere l’ethos della guerra, manipola la percezione di questi fattori rendendoli responsabili del conflitto, togliendo agli esseri umani sia la responsabilità personale che la possibilità di scelta e di cambiamento giustificato dal fatto che ogni intervento, di fronte a forze superiori, sarebbe fallimentare. Le problematiche di cui vengono caricati questi fattori non possono essere considerate le cause del conflitto, ma le conseguenze di scelte compiute dagli esseri umani. È necessaria una formazione che sappia riconoscere le osmosi, le complessità, gli orientamenti e le specificità che intervengono nell’evolversi dei fenomeni stessi. Le azioni esprimono anche la volontà e la responsabilità

degli essere umani. Quello che gli esseri umani producono è il risultato delle loro azioni, come sono il risultato delle loro responsabilità i disastri ambientali che distruggono e generano squilibri catastrofici. Nella prospettiva dell’analisi delle guerre, bisogna andare oltre le cause superficiali che inducono a dare facili spiegazioni, quanto piuttosto, vagliare la pluralità di elementi che entrano in azione, il loro modo di presentarsi, così come la loro evoluzione, per comprendere le ragioni del conflitto. Le conclusioni della Dichiarazione di Siviglia affermano pedissequamente che non può esserci alcuna giustificazione scientifica, letta in termini biologici o antropologici, sociali o ambientali, che giustifica e/o condanna gli esseri umani alla guerra perpetua. Tutto ciò è in linea con la posizione assunta dall’UNESCO e con l’affermazione che le guerre iniziano nella mente degli esseri umani, ma va anche considerato che anche la coesistenza pacifica tra gli esseri umani e tra esseri umani e natura, nasce nella mente delle persone e che entrambe sono il risultato di processi educativi.

2. I processi che portano alla cultura di pace In questa prospettiva culturale il presupposto di fondo è quello che la pace è più che assenza di guerra. La pace quindi non è necessariamente legata alla conclusioni di azioni belliche e non dipende da queste. In questa accezione culturale, pace significa trovare le forme per garantire a tutte le persone giustizia, equità e diritti. Ciò significa la scelta di individuare le modalità migliori per tutti per vivere in armonia e liberi da ogni forma di violenza. Promuovere la cultura di pace significa riflettere e soffermarsi sull’impegno che gli esseri umani hanno messo in atto per cambiare i modelli e i sistemi educativi, comunicativi, relazionali che per secoli hanno continuato a tramandare la cultura della guerra. Per sostenere il diffondersi della cultura della pace è necessario un impegno profondo ed una volontà capillare, oltre che un coraggio e una perseveranza capaci di opporsi a tutto ciò che si presenta come ingiustizia e violenza. Sostenere la guerra non richiede lo stesso coraggio che sostenere ed agire per la pace. Coloro che lavorano per la creazione della cultura della pace, sanno bene quale sforzo umano e quali rischi questo richieda. Ciò implica che le buone pratiche della pace e della non violenza siano insegnate in tutti gli ambiti educativi ed in ogni contesto sociale, indipendentemente dalla tipologia di persone coinvolte. Ma richiede anche che venga fatto un intervento deciso e ampio di formazione dei formatori e degli educatori e la creazione di nuovi corsi di studio allo scopo di favorire la costruzione di competenze coerenti con il significato stesso di cultura di pace.

Il concetto di cultura di pace fu formulato nel 1989 facendo esplicito riferimento alla Dichiarazione di Siviglia che metteva in evidenza la chiara e imprescindibile responsabilità umana nella scelta della guerra piuttosto che della pace, l’entusiasmo prodotto dalla caduta del Muro di Berlino7 e le speranze alimentate dalla conclusione della Guerra Fredda. Tuttavia già nel preambolo della Costituzione dell’UNESCO, del 1945 era chiara la consapevolezza che ‹‹poiché le guerre cominciano nelle menti degli uomini, è nella mente degli uomini che si devono costruire le difese della pace8››. Un’affermazione importante che risentiva ancora della necessità di contrapporre i due eventi facendo propria l’idea che il secondo dipendesse dal primo. Era già chiaro il riferimento di un impegno decisivo dell’UNESCO alla costruzione di una nuova visione della pace che non si riferisse solo ad interventi unidirezionali e circoscritti a singoli casi, ma che avesse il respiro più ampio per lo sviluppo di una cultura fondata sui valori universali di rispetto per la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà la tolleranza, i diritti umani e l’uguaglianza tra donne e uomini. Tra il 1992 e il 1994 viene delineato il programma che definisce le caratteristiche della Cultura di Pace e lanciato il primo Forum internazionale ospitato in San Salvador, mentre l’anno successivo la Conferenza generale dell’UNESCO individua le strategie a medio termine del programma. Tra il 1996 e il 2001, il programma della cultura di pace fa un salto di qualità assumendo le caratteristiche di un progetto a carattere transdisciplinare denominato Towards a Culture of Peace9. La nuova proposta di azione è finalizzata al coinvolgimento di una vasta gamma di interventi istituzionali, governativi e non per il sostegno della cultura di pace nel mondo. Il programma si rivolge in modo esplicito anche alle NGO’s, alle associazioni impegnate nel supporto della società civile, ai giovani, alle donne, ai networks ai media ai leader religiosi, in pratica a tutti coloro che hanno la possibilità di essere in contatto con la società civile. Il 1999 è l’anno che vede il varo della Dichiarazione e del Programma di Azione per la cultura di pace e l’ enunciazione delle otto aree di azione 7 Cfr.

S. Guetta, La voce della pace viene dal mare, cit. Solo recentemente l’UNESCO ha inserito il riferimento alle donne perché originariamente il richiamo portava solo il temine men. Questo cambiamento è significativo per due motivi: il primo riguarda la consapevolezza della parzialità del temine uomo, da non intendersi più in senso universale; la seconda considera anche il coinvolgimento delle donne, attraverso la loro presenza nei contesti educativi formali non formali e informali alla costruzione di un mondo di pace. Si allarga così la prospettiva del coinvolgimento di differenti attori alla realizzazione della pace, non solo degli uomini, senso non generico ma maschile, che per gran parte, sono responsabili di tutto il processo che sostiene i conflitti armati: www.unesco.org. 9 Towards a Culture of Peace: http://www.unesco.org/cpp/uk/ 8

del programma stesso10. Il 2000 viene dichiarato dalle Nazioni Unite, l’anno internazionale per la cultura di pace con l’obiettivo preciso di incoraggiare, promuovere e sostenere ogni forma e trasformazione culturale in linea con gli otto punti della dichiarazione. I risultati di questa prima sensibilizzazione che, tuttavia, si incontrava con le già numerose esperienze di movimenti per la ricerca di innovative forme di convivenza tra le persone, fu l’emergere di un movimento globale capace di coinvolgere migliaia di organizzazioni di differente livello e tipologia, con un numero di individui stimato intorno ai 75 milioni. Un impegno profondo che comportava la costruzione della fiducia e della comprensione tra le differenti culture e civiltà, ma anche nazioni, comunità e individui, specialmente in situazioni di conflitto acuto e di post conflitto. La difesa della pace è un processo che inizia per volontà, nella mente degli uomini e delle donne e deve essere alimentata dalla speranza per il futuro, specialmente per le generazioni che verranno. Il successivo periodo 2001-2010 è proclamato Decade internazionale per una cultura di pace e non violenza per i bambini del mondo su suggerimento del premio nobel per la pace e la decade coinvolge il sistema delle Nazioni Unite, gli stati membri e la società civile attraverso una partnership e uno scambio di informazioni. Gli otto punti posti dal programma sono presentanti dall’UNESCO nella formula riportata nella tabella1. Lo sviluppo e la condivisione della cultura di pace viene sostenuta e diffusa attraverso diversi canali, ognuno dei quali deve trovare il modo di sintonizzarsi con gli altri al fine di poter trasmettere, informare e formare integrandosi con i differenti saperi culturali delle persone. In questo contesto il tema dell’educazione per la pace assume un ruolo preciso, potendo essere un punto di riferimento importante per l’avvio della formazione integrata di ciascuno dei punti sopra menzionati. Costruire una cultura di pace significa individuare quali sono e come si articolano le forme di svantaggio, esclusione, discriminazione presenti nella società. La società sono portatrici di sistemi di violenza strutturale che come tale, causa nelle persone sofferenza, paura, dolore sfruttamento ed eliminazione. Significa considerare che l’accesso all’istruzione, all’educazione di qualità e alle differenti forme di apprendimento è la condizione necessaria, ma non sufficiente, per garantire la cultura di pace. La formazione deve essere considerata in una prospettiva globale in grado di contenere sia una progettualità trasversale e longitudinale di lifelong learning che una visione integrata dei differenti ambiti, formale, non formale e informale allo scopo di accompagnare e sostenere i successi formativi di ogni persona. 10 Culture of Peace and Declaration of Culture of Peace, UN A/53/243 Fifty-Third Session, http://www.unesco.org/cpp/uk/declarations/2000.htm.

Tab. 1 Programma UNESCO «Decade internazionale cultura di pace e non violenza».





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Fostering a culture of peace through education by promoting education for all, focusing especially on girls; revising curricula to promote the qualitative values, attitudes and behavior inherent in a culture of peace; training for conflict prevention and resolution, dialogue, consensus-building and active nonviolence. Promoting sustainable economic and social development by targeting the eradication of poverty; focusing on the special needs of children and women; working towards environmental sustainability; fostering national and international co-operation to reduce economic and social inequalities. Promoting respect for all human rights by distributing the Universal Declaration of Human Rights at all levels and fully implementing international instruments on human rights Ensuring equality between women and men by integrating a gender perspective and promoting equality in economic, social and political decision-making; eliminating all forms of discrimination and violence against women; supporting and aid in women in crisis situations resulting from war and all other forms of violence . Fostering democratic participation by educating responsible citizens; reinforcing actions to promote democratic principles and practices; establishing and strengthening national institutions and processes that promote and sustain democracy Advancing understanding, tolerance and solidarity by promoting a dialogue among civilizations; actions in favor of vulnerable groups, migrants, refugees and displaced persons, indigenous people and traditional groups; respect for difference and cultural diversity . Supporting participatory communication and the free flow of information and knowledge by means of such actions as support for independent media in the promotion of a culture of peace; effective use of media and mass communications; measures to address the issue of violence in the media; knowledge and information sharing through new technologies. Promoting international peace and security through action such as the promotion of general and complete disarmament; greater involvement of women in prevention and resolution of conflicts and in promoting a culture of peace in post-conflict situations; initiatives in conflict situations; encouraging confidence-building measures and efforts for negotiating peaceful settlements.11

L’educazione che sostiene lo sviluppo della cultura di pace, oltre a fornire gli strumenti per la conoscenza dei saperi utili per un adattamento creativo, segue, nel suo farsi, il riferimento ad un approccio olistico12, relazionale 11 Peace in our hands, Culture of Peace, http://www3.unesco.org/iycp/uk/uk_sum_cp.htm 12 Education for a culture of peace, http://www.unesco.org/education/ecp/ index.htm

e disponibile al confronto con differenti forme di comunicazione e con i diversi contesti d’esperienza. I metodi educativi devono quindi rifarsi a modelli partecipativi, creativi e cooperativi capaci di fare prevenzione alle forme di intolleranza, pregiudizio, discriminazione, esclusione e razzismo. La trama sulla quale viene intessuta l’educazione alla pace è quindi fatta di relazioni interpersonali amichevoli, partecipate, fondate sui diritti, la democrazia, la tolleranza e il sostegno all’intercultura e al dialogo interreligioso e di diversità linguistica, culturale, fisica e mentale. Pertanto è parte integrante della proposta dell’educazione alla pace, la promozione di ogni forma di dialogo e di pensiero flessibile, critico e divergente capaci di sostenere la sperimentazione di ipotesi risolutive diverse da quelle che in modo semplice e lineare potrebbero essere considerate e usate. A tutto ciò contribuiscono anche l’educazione allo sport per lo sviluppo e la cooperazione e alla sostenibilità dell’ambiente per il rispetto alle biodiversità e all’armonia che gli esseri umani stanno sempre più distruggendo. Entrambi sono aspetti poco considerati, lontani dalla prospettiva, spesso troppo intellettualizzata dell’educazione alla pace. Una prospettiva che non tiene sufficientemente conto che l’educazione inizia dai sentimenti, dalla consapevolezza e dalla capacità di gestione dei conflitti che i differenti sentimenti alimentano. Lo sport e l’esperienza con il contesto di ambiente naturale, invece, possono essere strade per sviluppare, prima di tutto, una sana relazione con se stessi e con la ricchezza del proprio mondo interiore. Lo sport è visto dall’UNESCO13 come un prezioso supporto per lo sviluppo dell’etica, del fisico, del benessere generale, dell’autostima, del senso di unione e collaborazione. Lo sport, come ogni attività orientata a promuovere il movimento fisico per il benessere può essere uno strumento di pace in mano a tutti. Lo sport, quando non viene macchiato dalla prevaricazione, dalla violenza e dall’antagonismo, manifestazioni, queste, che è possibile trovare anche negli ambienti scolastici, ha gli strumenti per promuovere la cultura di pace a più livelli, come esploratore dei numerosi linguaggi del corpo e mediatore dei conflitti. Mettendo in gioco se stessi e le proprie abilità e competenze vengono attivati processi di mediazione che implicano continui sforzi di negoziazione, di cooperazione e alleanze. Attraverso lo sport è possibile far riconoscere i modelli di conformismo e di omologazione che la società diffonde nelle differenti forme e la lotta alla eccessiva commercializzazione, così come la lotta contro ogni uso di doping e di violenza. Lo sport deve essere una offerta formativa stabile che interessa la scuola, ma anche il mondo extra scolastico e l’educazione per-

13 Ibidem.

manente per il suo contributo allo sviluppo di una cultura di parità di genere, e dell’integrazione sociale. Nel contesto europeo lo sviluppo della cultura di pace si esprime attraverso il sostegno di progetti educativi di intervento nelle zone sofferenti di conflitti armati. L’educazione è vista come un importante strumento per ridurre la povertà e promuovere l’inclusione sociale. L’Unione Europea si è impegnata a sostenere economicamente il programma EFA dell’UNESCO in almeno 42 Paesi all’interno di un periodo che va dal 2007 al 2013. Gli obiettivi principali del finanziamento sono stati quelli di favorire l’accesso dei bambini alla scuola primaria, intervenire per qualificare la formazione degli insegnanti e sostenere l’iscrizione delle ragazze alle scuole superiori. Il sostegno alla realizzazione dell’EFA e al raggiungimento degli obiettivi del nuovo millennio14 accompagna anche iniziative che finanziano la ricerca nei paesi in situazione di crisi, avviando anche nuovi spazi di incontro per il rafforzamento del dialogo per uno sviluppo condiviso. Dare accesso alle opportunità di apprendimento favorisce la riduzione delle diseguaglianze sociali e promuove la cultura della convivenza nel pari riconoscimento dei diritti umani e di quelli dell’infanzia e dell’adolescenza. Così come è necessario investire perché ci sia una attenta garanzia del rispetto dei diritti della persona, ancora prima che la persona nasca. Assicurare un ambiente idoneo alla crescita ed allo sviluppo delle nuove generazioni è una delle possibili prevenzioni per favorire uno il concretizzarsi del benessere e non solo della salute. Un aspetto questo che si integra pienamente con i bisogni di istruzione e di accompagnamento allo sviluppo dei saperi anche in età adulta. La Commissione Europea ha cercato di favorire la diffusione della cultura di pace, attivandosi per promuovere su più campi e livelli, la formazione di reti di giovani i cui obiettivi erano quelli di incoraggiarli ad essere cittadini attivi e partecipare creativamente allo sviluppo della società15. Lo sviluppo della cultura di pace deve accompagnarsi a riflessioni che talvolta rischiano di rimanere marginali, ma che in realtà rivestono una grande importanza per l’incidenza che hanno sul benessere delle persone e 14 Gli

otto obiettivi del Nuovo Millennio MDG che si integrano con il programma EFA e che rappresentano chiaramente il bisogno di leggere le problematiche all’interno di una complessità di elementi per progettare interventi adeguati sono: sradicare la fame e dimezzare i tassi di povertà estreme, arrestare la diffusione dell’HIV/AIDS, fornire l’istruzione primaria universale, promuovere la parità di genere e l’empowerment delle donne, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna, assicurare un ambiente sostenibile, creare la partnership per lo sviluppo, http://www.un.org/millenniumgoals/ 15 Council European Commission, ‹‹Joint Report of the Council and the Commission on the implementation of the renewed framework for European cooperation in the youth field (2010-18)››, Official Journal of EU, 20.12.2012, C394/6.

della collettività. Pertanto è necessario considerare, integrato al tema della pace, anche quello della Human Security, dello Sviluppo Umano e della Sostenibilità dell’Ambiente. Come sostiene anche l’UNESCO, pace e sicurezza sono fondamentali per la dignità umana e per lo sviluppo. Il conflitto armato non colpisce solo le persone nella contingenza della situazione ma, ha delle ripercussioni a lunga durata capaci di danneggiare fortemente anche le generazioni future che non potranno beneficiare dell’ambiente di cui hanno bisogno. L’educazione deve scendere nel profondo di queste problematiche, avviando una trascendente responsabilità per ciò che viene fatto e compiuto. La trascendente responsabilità è sicuramente una competenza del pensiero che deve essere formata attraverso la mediazione16 offerta dall’educazione. Essa fa riferimento sulla capacità di trascendere il qui ed ora tipici di un pensiero rigido e autoreferenziale sostenuto anche da forme di egocentrismo che ostacolano la possibilità di decentramento e di costruzione di ipotesi. La comprensione della trascendenza pone, accanto alla consapevolezza della realtà, nel modo di pensare occidentale, l’attenzione per ciò che può succedere e accadere oltre il tempo attuale e permette di elaborare la capacità di non dipendenza dalla situazione contingente. La trascendenza della responsabilità rimanda alla necessità di acquisire sempre e non solo un senso di responsabilità che talvolta può essere utilizzato per giustificare un intervento violento anche di difesa, ma ad avere chiaro che quella responsabilità deve essere sostenibile anche in futuro e avere dei risultati che possano garantire alle persone di vivere nel rispetto dei loro diritti. Nei conflitti violenti, infatti, la distruzione di case, scuole, di intere comunità con la presenza di sfollati e rifugiati e drammi umani ricevono un interesse solo parziale e molto limitato rispetto alla drammaticità delle situazioni. Anche nel modo con cui vengono gestite le informazioni e mostrati i fatti ci sono precise volontà di speculare sulle sofferenze umane, i disastri ambientali e la distruzione del pianeta. Questo è ancora un modo di stare dentro la cultura della guerra.

2.1 Human Security L’inserimento del riferimento alla Human Security nelle tematiche della pace, si ha a partire dal 1994. Esso compare come riferimento preciso

16 Il riferimento è in parte ripreso dal secondo criterio della mediazione Mediazione della Trascendenza presentato da Feuerstein nell’Esperienza di Apprendimento Mediato. R. Feuerstein, R. S. Feuerstein, L. Falik, Y. Rand, Il programma di arricchimento strumentale di Feuerstein, Trento, Erikson, 2008.

all’interno della documentazione prodotta dall’UNDP17 poi esteso dalla commissione di sicurezza nel 2003. Esso emerge più tardi rispetto ai concetti di diritti umani e di sviluppo umano ma è, comunque, con questi in stretto collegamento, collegamento che li rinforza continuamente. Il centro del discorso è quindi l’essere umano, in quanto soggetto agente e ricevente dei diritti dello sviluppo e della sicurezza. Aspetti che conducono a mantenere sempre come primario il riferimento al valore della dignità umana, in particolare modo, di fronte alle situazioni di emergenza, di crescita della vulnerabilità e dello sradicamento dalle proprie radici culturali, sociali e umane. A questo si collega anche il concetto di sicurezza che deve essere garantito, riportando le parole di Kofi Annan, in stretta connessione ai processi di sviluppo: non ci può essere sicurezza se non c’è sviluppo e viceversa, ed entrambi non possono essere soddisfatti senza fare riferimento ai diritti umani18. Il concetto che sostiene l’interesse per la sicurezza umana, è di porre attenzione al problema della sicurezza delle persone dalle croniche minacce che ledono i loro diritti, indeboliscono la capacità di scelte e di azioni autonome e condannano alla dipendenza di forme di violenza e di potere. Le forme croniche di minaccia possono essere identificate nella fame, nella diffusione di malattie, di devastazioni ambientali, nell’insicurezza abitativa, nel rischio di povertà, nell’impossibilità di soddisfare i bisogni di sopravvivenza umana, come nel caso della mancanza di acqua ed altre forme che possono garantire il soddisfacimento dei bisogni primari per la persona e per coloro con i quali sussistono legami affettivi. La necessità di pensare nei termini della Human Security nasce dalla comprensione che situazioni di stress, paure, condizioni di povertà sono cause di conflitto e di violenza oltre che di dipendenza, sfruttamento e abuso. Anche se è ancora oggi maggiormente percepito e diffuso il concetto della sicurezza nazionale, erede di una cultura della guerra che pone al primo posto la necessità di difendere il proprio territorio attraverso la forma conflitto armato, piuttosto che una soluzione di mediazione, il tema della sicurezza umana si collega in parte a questo, ma ha specificità diverse. Il concetto va oltre la sicurezza del territorio che per certi aspetti si ricollega a quella nazionale, dal timore delle aggressioni esterne ma anche dalla minaccia dei disastri causati dall’esplosione del nucleare. La sicurezza umana è considerata multidimensionale e si rivolge alla dignità e al senso di autostima delle persone così come ad ogni forma di preoccupazione materiale e fisica. Essa considera 17 United Nations Development Programme, Organizzazione internazionale per lo sviluppo dei programmi per lo sviluppo umano, delle Nazioni Unite. 18 Cfr. K. Annan, In larger freedom: towards development, security and human rights for all, New York, Report by Secretary General Nation, 2005.

anche la necessità di proteggersi da ogni forma di egemonia che può essere agita da governi, istituzioni, organismi o singole persone. Alcuni specialisti ritengono che la povertà e la disuguaglianza sono impedimenti che minano alla radice umana della sicurezza. Nel 1994 il report sullo sviluppo umano HDR (Human Development Report) conteneva un progetto dal titolo Carta Mondiale Sociale nel quale veniva fatto carico alle Nazioni Unite di provvedere alla garanzia della pace e di diventare ‹‹custode principale della sicurezza umana globale››19. Ciò rimanda il problema della responsabilità civile e la trascendenza di questa perché piuttosto che chiedere che venga fatto il controllo dall’alto, è necessario creare una consapevolezza partecipata che possa responsabilizzare a tutti i livelli sia le persone che le istituzioni coinvolte nei problemi, beneficiando della diversità dei soggetti interessati. La deresponsabilizzazione delle persone è uno dei modi per alimentare la dipendenza e quindi il controllo dei soggetti. Questa dinamica non avviene solo nei contesti di conflitto o di problematiche di sicurezza umana di ampio interesse, ma si manifesta anche nei contesti quotidiani e locali dell’agire educativo, dove i limiti posti al coinvolgimento delle persone alla realizzazione degli obiettivi per il benessere comune e delle singole persone, crea ostacoli allo sviluppo dell’autonomia e della autostima delle persone che, non formate al senso di responsabilità, non costruiscono strumenti efficaci per poter scegliere in modo creativo. Il concetto di sicurezza deve essere considerato in una prospettiva ampia e interdipendente. Nel XXI secolo, Human Security è diventata una misura prioritaria di sicurezza globale per tutto il pianeta. La sicurezza è il segno distintivo della libertà dalla paura, mentre il benessere è l’obiettivo di libertà dal bisogno. Sicurezza umana e sviluppo umano dovrebbero rafforzarsi reciprocamente poiché senza l’ambiente favorevole del primo non si realizza pienamente l’altro. La Human Security è sia un obiettivo delle politiche della globalizzazione che una condizione necessaria per garantire la sostenibilità del benessere e dello sviluppo umano. Le maggiori forme di insicurezza trovano origine nella quotidianità delle persone: la mancanza di lavoro, la continua paura della povertà e la condizione di povertà stessa dovuta a fattori che non sono casuali ma piuttosto l’effetto di precise volontà di scelte economiche, sociali e politiche che vanno poi a ricadere sulla parte più debole della popolazione. L’idea della Human Security, può diventare un potente strumento di cambiamento per la società del XXI secolo20. Il concetto di sicurezza umana na19 UNDP,

cap. II. 20 Ibidem.

Human Development Report 1994, New York, Oxford University Press, 1994,

sce in risposta a preoccupazioni e paure che colgono i soggetti sia nella dimensione locale che globale: dalla condizione di povertà, all’inquinamento del pianeta, dalla droga alla violazione dei diritti umani, dalla violenza sulle bambine e sulle donne al pericolo della mancanza di acqua per i popoli della terra. Il tema della sicurezza umana non deve essere misurato per la sua intensità perché in ogni contesto possono essere avvertite minacce diverse. Gli aspetti che caratterizzano la sicurezza umana sono interdipendenti e aspetti che interessano gruppi di persone apparentemente isolate, si propagano a raggiera interessando comunque altre realtà spesso anche molto lontane. È facile comprende come l’interconnessione dei fenomeni a livello locale e planetario, ad esempio le carestie, le malattie ambientali, il traffico di droga, il terrorismo ed altro ancora, possano generare e alimentare violenze e percezioni/condizioni di insicurezza umana anche al di là dei confini dei Paesi e dei luoghi interessati al fenomeno. È quindi più facile, oltre che più economico, assicurare il benessere e la tranquillità attraverso gli investimenti nella prevenzione che nell’intervento. Questo è attuabile in ogni ambito del sociale, dalla difesa dei diritti umani, alla prevenzione delle malattie e alla tutela del benessere ambientale. Strutture politiche attuali hanno difficoltà ad accettare una più ampia partecipazione di attori diversi per affrontare i temi della sicurezza umana e della dignità umana. Molte organizzazioni internazionali, insieme alle organizzazioni non governative impegnate nel sostegno della pace e dei diritti umani corrono il rischio di trovarsi coinvolte in azioni di parte invece di utilizzare gli strumenti della mediazione e dell’aiuto umanitario per garantire la costruzione di programmi capaci di affrontare le radici delle disuguaglianza, dell’odio e della violenza come responsabili della mancanza di sicurezza nelle regioni di competenza. C’è una correlazione stretta tra la costruzione della convivenza pacifica e gli aspetti di sicurezza umana come quella economica (libertà da povertà e sfruttamento, l’accesso al lavoro e alle risorse necessarie per salvaguardare la propria esistenza e per migliorare la qualità materiale della vita della comunità), quella alimentare (accesso a cibo nutriente a prezzi accessibili), quella sanitaria (accesso a un’assistenza sanitaria di qualità a prezzi accessibili e la protezione dalle malattie), quella ambientale (protezione da tali pericoli come l’inquinamento ambientale e l’esaurimento), quella personale (sicurezza fisica dalla tortura, la violenza, il terrorismo di guerra, attacchi criminali, la violenza domestica, l’uso di droghe). Le comunità non rappresentano sempre luoghi di tranquillità e di sicurezza. La mancanza di libertà da ogni forma di discriminazione in base al sesso, età, etnia o status sociale, come le difficoltà di accesso a reti di sicurezza, ma anche il timore che culture, tradizioni, lingue locali e gruppi etni-

ci siano soppressi da nemici potenti, pone le popolazioni in una condizione di vulnerabilità e fragilità che mette a rischio la stessa sicurezza fisica di questi gruppi e la fiducia politico / legale / giudiziario, come il godimento dei diritti civili e il diritto di rappresentanza, autonomia (libertà), la partecipazione, il dissenso e la libertà dalla oppressione politica. Per garantire una coerenza di approcci tra gli aspetti che riguardano la sicurezza umana e le azioni che la sostengono, devono essere attivate dinamiche di relazioni umane impostate sul modello win-win, di soli vincitori e nessun perdente. La Human Security, come la pace, non deve più essere dipendente dai risultati finali delle guerre. La cultura della guerra ha sempre sostenuto, in modo piuttosto paradossale, che la sicurezza delle persone e dei popoli è garantita solo attraverso l’eliminazione del nemico, di colui che, in altri termini, viene accusato di essere il responsabile dell’insicurezza che le persone avvertono e vivono. Le povertà, le violenze, le perdite che le guerre comportano sembrano non avere peso e significato in rapporto a vittorie e conquiste. Human Security e cultura di pace, devono combattere insieme i luoghi comuni che sostengono le culture della violenza. Questo richiede di avere uno sguardo ampio e interdisciplinare, capace di accogliere al suo interno l’educazione, la salute, la democrazia, i diritti umani e la protezione contro la degradazione ambientale e il proliferare delle armi nucleari e di distruzione di massa21. Concetti che, come presentato sopra, sono strettamente interrelati e beneficiano del reciproco rinforzo.

2.2. Sviluppo umano Come la Human Security, la definizione di Human Development comincia a prendere corpo alla fine della Guerra Fredda e compare per la prima volta nel report della UNDP nel 1990. La prospettiva con la quale viene visto l’essere umano è quella che vuole restituire e mettere bene a fuoco le sue potenzialità, capacità, risorse e attese. Una prospettiva che aiuta anche a vedere i problemi dal basso e dal basso fa nascere e maturare le risposte affinché queste restituiscano autonomia e autodeterminazione oltre che emancipazione e cambiamento. Il riferimento allo Human Development non si rapporta necessariamente ad aspetti di tipo economico e quantitativo, piuttosto ad un maggiore accesso per tutti gli abitanti del pianeta terra, alla conoscenza, alla padronanza del know how e delle competenze partecipati21

Cfr. K. Annan, Presentazione, in R. McRae, D. Hubert, Human security and the new diplomacy, protecting people promotion peace, Quebec, McGill-Queen’s University Press, 2001.

ve e decisionali. Fattori che permettono di aumentare o di creare un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita locali e globali. Un miglioramento che tuttavia deve essere garantito attraverso lo sviluppo dei saperi e delle conoscenze locali delle persone e la loro integrazione con saperi nuovi che, attraverso un approccio cooperativo, ne innalzano la qualità e l’operabilità. Uno dei principali obiettivi dello Human Development è quello di sostenere la costruzione condivisa di un ambiente di benessere per le persone e di garantire a tutti un continuo miglioramento delle conoscenze e della qualità di vita, prolungando le aspettative di vita. Questo obiettivo si differenzia dalle precedenti strategie di sviluppo, caratterizzate da una prospettiva di basso contenuto umano, che ritenevano accettabile la soddisfazione per il raggiungimento degli standard di qualità di solo un quinto della popolazione mondiale. Questo determinava una mancanza di preoccupazione per l’andamento globale e le ripercussioni che le disparità sociali e culturali avrebbero avuto nel futuro. Una prospettiva simile escludeva la lettura di una parte della popolazione mondiale, aumentava la presenza della disparità tra le popolazioni contribuendo così a far degenerare in violenza e prevaricazione le normali tendenze umane alla competizione e all’egoismo non equilibrandole con le tendenze alla cooperazione e partecipazione alla vita sociale. Questi modelli hanno una radice comune: un difetto di partecipazione effettiva della maggior parte dei cittadini e cittadine ai processi di sviluppo. Le linee programmatiche di Sviluppo Umano sono sintetizzate nella Dichiarazione e Programma d’Azione del Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sociale tenutosi a Copenaghen nel marzo 1995, che è sottoscritta da tutti i Governi del mondo. La Carta di Copenaghen costituisce dunque un solenne impegno politico che tutti sono tenuti a rispettare. Sempre, in riferimento allo sviluppo umano troviamo la categoria della sostenibilità. Il concetto di sostenibilità non viene quindi considerato solo in riferimento allo sviluppo ambientale, ma è piuttosto il modo con il quale gli esseri umani scelgono di vivere la propria vita in quanto gli indirizzi presi avranno anche in futuro delle conseguenze per la vita delle future generazioni. Anche in questo contesto, la percezione e i valori che ne conseguono si coniugano nella prospettiva della trascendenza come competenza di comprendere che ciò che viene fatto nella nostra quotidianità ha degli effetti sui miliardi di popolazione del futuro prossimo e del lontano futuro. Ci sono teorie che si spingono anche più a fondo, sostenendo che la partecipazione ai cambiamenti nel mondo non avviene solo attraverso le azioni ma anche attraverso il pensiero e le forme di pensiero che sono comunque parte del cosmo al quale tutti appartengono senza alcuna distinzione e differenza. Al di là di riferimenti più spirituali è indubbio che il concetto di sviluppo umano introduca un salto di qualità in molti ambiti dei saperi, anche di quelli

che in modo indiretto si occupano degli aspetti umani. ‹‹La comunità di destino della specie umana di fronte a problemi vitali e mortali comuni richiede una politica dell’umanità. Questa si dovrebbe fondare sul concetto di TerraPatria, che porta in sé la coscienza del destino comune, dell’identità comune dell’origine terrestre comune dell’umanità. La Terra-Patria lungi dal negare le patrie singolari, dovrebbe integrare in una grande patria comune. Gli internazionalismi ignoravano l’importanza delle diversità culturali e nazionali. La Terra-Patria ingloberebbe la preoccupazione di salvaguardare indissolubilmente l’UNITÀ/ DIVERSITÀ umana››22. La diversità e l’unità rappresentano anch’esse un legame forte ed un reciproco sostegno che tuttavia si deve tradurre, per lo sviluppo umano, anche nei termini di legame diretto con la sostenibilità ambientale se desideriamo che le generazioni future migliorino la loro qualità di vita e di benessere individuale e sociale. Nonostante la presenza di strategie e dichiarazioni internazionali che coinvolgono gli stati membri delle organizzazioni sono ancora pressanti e assolutamente poco aiutate le realtà svantaggiate che si trovano costrette a vivere differenti forme di deprivazione e di degrado, come quello ambientale e culturale. Condizione di difficoltà estrema alla quale si somma l’aumento della minaccia di sfruttamento e di diseguaglianza sociale come azioni interessate e volute della globalizzazione. Effetti pericolosi che aumentano di intensità quando toccano le vite delle donne, dei bambini e degli anziani, perché le condizioni ambientali, la carenza sei servizi alla salute e di idonee strutture igieniche concorrono, con altre mancanze, a causare malattie, sofferenze e mortalità. Situazione che contribuisce ad aumentare i meccanismi di esclusione e disparità all’interno dei Paesi non solo in quelli con economie deboli, generalmente chiamati in via di sviluppo23, ma anche quelli che dalla fine del primo decennio del XXI secolo stanno vivendo le debolezze e le fragilità delle crisi economiche. Crisi che, accompagnate a un mancato investimento nell’educazione e nella formazione delle nuove generazioni, determinano in modo esponenziale condizioni di povertà, violenza, malattia e degrado. 22 E.

Morin, La via, cit. p. 33. Il termine Paesi in via di sviluppo è carico di pregiudizi e di una rappresentazione etnocentrica, la cui assunzione appare poco coerente con l’impostazione del discorso che qui viene presentato. Tale riferimento non rispetta la valorizzazione della diversità e considera i paesi con una sistemi economici limitati a causa, soprattutto, di un passato di Paese colonizzato. Non pare possa essere garanzia di rispetto per l’Altro assimilare il riferimento allo sviluppo economico a quello di inferiorità culturale. Inoltre è da ricordare che l’ideologia dello sviluppo ha danneggiato, piuttosto che favorito, esperienze umane e culturali, focalizzando l’attenzione e l’ottenimento dei risultati solo su un aspetto, in particolare quello economico, dei cambiamenti e dei miglioramenti della società senza fare alcun riferimento, ad esempio, alle caratteristiche intrinseca e alle tradizioni profonde delle collettività. 23

È significativo come lo Sviluppo Umano assuma un indice di sviluppo che non si accorda con gli indicatori considerati nel PIL. Per lo sviluppo umano, infatti, integrati al dato del reddito nazionale, si presentano quello del tasso di alfabetizzazione e di aspettativa di vita. Indicatori che comprendono in sé riferimenti importanti riguardanti l’investimento nella qualità dell’educazione e nella garanzia del benessere e nella salute della persona. ‹‹l’approccio allo sviluppo umano ha profondamente influenzato un’intera generazione di politici ed esperti di sviluppo anche nell’ambito delle Nazioni Unite in generale. La crescita economica non agisce di per sé, migliorando automaticamente la qualità di vita in particolare rispetto a settori cruciali come la sanità e l’istruzione››24. Il riferimento alla formazione, integrato con gli altri aspetti risulta, quindi, essere fondamentale. Esso, infatti, può essere responsabile delle modalità di costruzione dei saperi delle persone e del conseguente processo di cambiamento, orientato verso il miglioramento, implicando, allo stesso tempo, la creazione, la diffusione e lo sviluppo delle culture. L’educazione gioca quindi un ruolo fondamentale nei processi che accompagnano e sostengono lo sviluppo umano. L’UNESCO, nel rafforzarne il significato e il compito, collega quanto considerato da Delors, circa i quattro pilastri dell’educazione, con le conoscenze e le competenze di base per impostare un percorso di sviluppo umano integrato alla promozione dei diritti umani e della cultura di pace25. I quattro pilastri vengono quindi concepiti come contesti per lo sviluppo di competenze specifiche che possono sostenere lo sviluppo umano, in quanto competenze che si rinnovano nel corso della vita. Le competenze vengono considerate sia come messa in azione delle conoscenze che consapevolezza della possibilità di poter gestire, in modo creativo e personale, strumenti attraverso i quali è possibile creare il cambiamento di sé stessi e del mondo. L’attitudine viene considerata, in questi contesti26, come una fonte di azione che può essere individuata in relazione ad un ampio ventaglio di proposte che si presentano nelle differenti situazioni e circostanze della vita. Queste attitudini, tuttavia, non sono innate, ma vengono formate da chi apprende attraverso il modo con il quale apprende e dà significato alla realtà. Questo può rappresentare un atteggiamento di fondo che fa da substrato educativo, che permette e favorisce lo sviluppo di competenze idonee per lo sviluppo umano, la relazione con gli altri e il rapporto con la realtà. Pertanto, tenendo presente il riferimento ai quattro pilastri dell’educazione indicati da Delors, è importante considerare due aspetti: chi sono le nuove generazioni e quale tipo di 24 G. Alessandrini, La formazione al centro dello sviluppo umano. Crescita sviluppo e innovazione, Milano, Giuffrè editore, p. 181. 25 Educazione e sviluppo umano, UNESCO, Brasile. 26 Ibidem.

educazione li sta preparando. Il paradigma dello sviluppo umano può orientare i processi educativi in prospettiva della società del XXI secolo, perché alla sua base è presente la consapevolezza che lo sviluppo di una comunità e delle singole persone che la compongono, dipende molto dalle conoscenze che le persone hanno costruito, ma anche dalle possibilità di attualizzare in competenze le conoscenze, di trarne beneficio e gratificazione personale, anche attraverso l’investimento per il loro miglioramento. Lo sviluppo delle potenzialità educative deve essere compreso come elemento trasversale e non può essere sostituito da nessun altro. Alcune opportunità possono assicurare la sopravvivenza altre aiutano a conservare elementi importanti per l’integrità della persona, ma le uniche opportunità che veramente sviluppano il potenziale degli esseri umani sono quelle educative che devono essere accompagnate e sostenute attraverso idonei e qualificati ambienti di apprendimento. In considerazione del paradigma dello sviluppo umano, quindi, solo l’educazione intenzionale e mediata, può essere considerata il dispositivo in grado di trasformare le potenzialità dei bambini e dei giovani, in competenze per la vita. All’interno di questa prospettiva di azione, viene sostenuta l’idea che il sostegno allo sviluppo umano parte dal momento in cui vengono attiviate forme concrete di intenzionalità educativa per le nuove generazioni, creando pratiche e contenuti, metodi e strumenti che possano stimolare la costruzione di competenze situate ed efficaci per la trasformazione immediata dei contesti.

2.3 Sviluppo sostenibile Sia l’educazione alla pace che il processo che accompagna e sostiene la cultura di pace devono essere collegati strettamente alla tematica dello sviluppo sostenibile. Il tema dello sviluppo sostenibile, come evidenziato in precedenza si integra anche con i percorsi di Human Security e di Human Development, e come per questi anche le organizzazioni internazionali sostengono lo stretto legame con l’impegno per la costruzione della pace. Lo sviluppo sostenibile è un concetto ampio, articolato e ricco di significati, oltre che di possibili strumentalizzazioni. Esso appare anche come un concetto in evoluzione caratterizzato da interpretazioni talvolta divergenti tra loro. I suoi usi e significati dipendono dal contesto dentro il quale prende forma, ma anche dai riferimenti culturali, credenze e conoscenze che le culture hanno nei confronti dell’ambiente. I due concetti, sviluppo e sostenibilità non sono essi stessi portatori di significati univoci. Tuttavia a partire dagli anni ’90, si è fatta sempre più presente la necessità di ‹‹costruire e praticare uno sviluppo partendo dalla gestione sostenibile delle risorse loca-

li, dalla lotta radicale contro le forme di inquinamento e dalla gestione pacifica delle diversità umane presenti sul territorio››27. L’UNESCO28 dà spazio a questa idea, sostenendo che l’educazione allo sviluppo sostenibile è costruita in coerenza con questo approccio, contribuisce alla costruzione di conoscenze e competenze necessarie per preservare, difendere e migliorare il mondo di oggi come eredità da dare alle nuove e future generazioni. La decade 2005-2014 è quella dedicata alla educazione e allo sviluppo sostenibile, come impegno educativo alla formazione dei problemi sia emergenti che di lunga durata che riguardano il pianeta terra nel suo insieme, ma anche la ricerca continua di soluzioni creative e alternative ai problemi attuali e alle questioni di domani. Come le precedenti questioni anche il tema dello sviluppo sostenibile deve entrare nella quotidianità dell’educazione ed attraversarla nei differenti campi e livelli al fine di comprendere, con consapevolezza, le necessità attuali e l’influenza che le risposte di oggi avranno per il futuro. Ci sono tuttavia delle tematiche che sono peculiari di questo ambito di riflessione e riguardano, il cambiamento climatico, la riduzione del rischio delle catastrofi, la comprensione e l’arricchimento dato dalle biodiversità, il mantenimento del patrimonio ambientale, ma anche quello culturale che ad esso si collega, la salvaguardia delle fonti energetiche e un cambiamento del paradigma relazionale del rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente. Questo significa, in primo luogo, riconoscere in quale modo viene visto l’ambiente e quali tipologie di relazione è possibile stabilire. La Dichiarazione di Belem del 1998, ha messo chiaramente in evidenza la necessità di considerare lo stretto collegamento tra diversità biologica e culturale, sottolineando come attraverso un reciproco coinvolgimento ed un interdipendente rinforzo tra questi due riferimenti essenziali della diversità sia possibile garantire il rispetto, oltre che per gli esseri umani, anche per la natura, gli animali e l’ambiente nel suo complesso, in considerazione del fatto che la terra appartiene all’intera umanità29. In linea con gli aspetti che caratterizzano la natura della cultura di pace, primi, tra tutti il rispetto per l’altro e la valorizzazione delle specificità e delle diversità, il focus dello sviluppo sostenibile apre anche alla comprensione dell’ambiente. Le questioni inerenti la natura e l’evoluzione delle bio 27 E.

Elamè, J. Davd, L’educazione interculturale per lo sviluppo sostenibile, Bologna, EMI, 2006, p. 30. 28http://www.unesco.org/new/en/education/about-us/who-we-are/whos-who/division-ofeducation-for-peace-and-sustainable-development/esd/ 29 La Dichiarazione di Belem (Brasile) ha dato anche un forte impulso alla ricerca della collaborazione e del rapporto tra popolazioni indigene e comunità locali. S. A. Laird (a cura di), Biodiversity and Traditional Knowledge: Equitable Partnerships in Practice, New York, Routledge, 2013.

diversità, così come le risorse necessarie e le risposte alternative ai bisogni ed ai cambiamenti ambientali, sono aspetti che rimangono secondari nei processi di formazione e di educazione al dialogo interculturale e interreligioso. È comprensibile, invece, come ci sia una stretta relazione tra la proposta di progetti interculturali e l’acquisizione di competenze per la comprensione della complessità che sta dentro la diversità e che trova forme differenti di espressione. Attraverso uno sguardo alle conoscenze delle tradizioni di fede vengono colte le differenti visioni e relazioni che i testi delle tradizioni religiose hanno riguardo all’ambiente, come questo viene compreso nelle pratiche di vita e la simbologia che può assumere nel rapporto con la spiritualità e l’appartenenza cosmica. ‹‹Mentre le società arcaiche e poi le società tradizionali si sentivano integrate alla vita del Cosmo, e la maggior parte delle religioni, fra cui l’induismo e il buddhismo, immergono l’essere umano nel ciclo delle riproduzioni del mondo vivente, il monoteismo ebraico e poi quello cristiano e islamico, ha disgiunto l’essere umano dal mondo animale attribuendogli il privilegio supremo di essere stato creato a immagine divina››30. Più è ampia la prospettiva con la quale viene visto l’aspetto della diversità e di come questa si inserisce nei contesti, generando modalità di vita specifiche, più è possibile creare la disponibilità all’ascolto, all’ osservazione e alla comprensione di quale ruolo hanno le sfide dell’ambiente nella vita degli esseri umani, nella realtà contemporanea e nel futuro. In genere, il tema dell’ambiente, sia in riferimento alle catastrofi che alla sua sostenibilità ha interessato, in particolare, la ricerca in ambito tecnologico e scientifico, ma poco è stato esplorato, per ciò che riguarda l’attenzione e la comprensione per le pratiche culturali, quali patrimonio dei saperi locali delle persone e delle collettività. Pratiche che hanno permesso la sopravvivenza delle popolazioni e che spesso sono entrate in crisi a seguito dei cambiamenti avvenuti con la crescita continua dell’industria e dei suoi sistemi economici e organizzativi, e dalla continua perdita di rispetto per l’equilibrio tra la vita degli esseri umani e l’ambiente. D’altra parte, è anche possibile considerare come la cultura sia, inoltre, il dinamico prodotto del rapporto tra ambiente e bisogni umani e come le condizioni ambientali siano la spinta dell’agire, in senso positivo e negativo, di persone e di collettività. La natura fertile di un territorio, così come la presenza di condizioni di carestia, muovono ed hanno sempre mosso le persone fin dalla notte dei tempi, nelle diverse direzioni. Il distacco che oggi si è verificato, in particolare, nei contesti dove sono prevalenti le economie industriali e terziarie, ha completamente allontanato la percezione del continuo intrecciarsi tra la storia della natura e quella uma30 E.

Morin, La via, cit. p. 67.

na; ciò ha provocato la scarsa attenzione, nella società della conoscenza, all’influenza e alla relazione tra dinamiche dell’ambiente naturale e costruzione dei saperi. È importante considerare, poi, il contributo del sistema di ICT31 allo sviluppo ed alla ricerca di soluzioni alternative a sostegno della rigenerazione dell’ambiente e dell’individuazione di nuovi equilibri. L’utilizzo di questi strumenti è applicato ormai in differenti ambiti scientifici e umanistici, utilizzo che ha portato una significativa velocizzazione nella rilevazione dei problemi e degli interventi, sottolineando la possibilità di leggere e di intervenire sui fenomeni che riguardano la vita umana, in modo distaccato, oggettivo, scientifico. Il contributo del sistema di ICT, dà, sicuramente, un valore aggiunto a tutto quello che la scienza sta esplorando e può potenzialmente mettere al servizio dello sviluppo umano. Questa prospettiva, tuttavia, deve integrarsi con il recupero di un dialogo diretto e continuo, orientato anche in questo caso alla comprensione reciproca e al reciproco scambio, con l’ambiente. Il sostegno ad ogni forma di sviluppo delle tecnologie, che consente le applicazioni delle differenti forme di e-Learning, e-Health, eDemocracy, e-Partecipatory, deve essere compreso dentro una lettura olistica delle possibili relazioni che si aprono tra esseri umani con se stessi, con gli altri e con l’ambiente. Per alcuni aspetti la storia dello sviluppo delle tecnologie e di come il loro uso sia stato uno dei volani che ha favorito l’espandersi e affermarsi dei sistemi industriali e la riuscita economica dei Paesi considerati dell’area occidentale, ha messo in ombra o ha declassato la storia dei sistemi economici che a questo motore non si sono agganciati e che sono rimasti in una condizione di sottosviluppo. Un modello di potere e di supremazia culturale che si inserisce, implicitamente, nei saperi scolastici che vengono trasmessi alle nuove generazioni. Un modello che viene poi assunto come mappa concettuale di interpretazione dell’ordine e del sistema delle relazioni umane tra singoli e tra gruppi. La guerra, nelle modalità con cui viene trattata dalla storia studiata nelle scuole di tutti gli ordini e gradi, è ancora considerata lo strumento primario che regola i rapporti tra le comunità locali e/o tra le entità statali. La storia legittima la guerra come conquista, appropriazione del territorio, distruzioni e depauperamenti. La guerra che semina, distruzione attraverso lo sfruttamento dei territori agricoli in campi minati, come azione criminale che sta distruggendo molte aree del pianeta e che rappresenta una vera e propria emergenza planetaria. Le differenti espressioni culturali non sono solo forme molteplici di come la creatività umana si è evoluta nella relazione con all’ambiente, ma an31 Information

Communication Technologies.

che la manifestazione delle differenti forme con le quali gli esseri umani costruiscono le interpretazioni del mondo e della realtà32. L’apporto dato dalle conoscenze e dalle pratiche locali deve essere recuperato come ricchezza culturale, al fine di trovare nuovi approcci per intervenire o di recuperare di quelli che sono rimasti nascosti dalla colonizzazione tecnologica,per intervenire in modo olistico e non dualistico, a sostegno di una attenzione alla sostenibilità dell’ambiente. La miglior via, per procedere a questo riguardo, è rendere le persone partecipi, attraverso i loro saperi e le loro competenze ambientali, che sono stati in grado di conservare per lungo tempo la forza e le potenzialità della vita. In questo quadro ogni riferimento all’ambiente deve essere considerato in modo dinamico e con un approccio interdisciplinare capace di cogliere gli aspetti di complessità che sono propri dell’ambiente stesso. La rappresentazione che viene data all’ambiente, infatti, non è univoca e dipende dalle prospettive di osservazione, dalle questioni sollevate dai bisogni della collettività, dalle capacità e competenze umane di poter dialogare con l’ambiente. Il modello dello sfruttamento o dell’ambiente a servizio degli esseri umani per garantirne la sopravvivenza è un lettura che mette in evidenza lo sfruttamento avvenuto soprattutto negli ultimi secoli attraverso le modalità di produzione e di consumo delle società industrializzate. Un rapporto di forza che si esprime anche attraverso la rappresentazione di un ambiente pericoloso o fragile, capace di creare e distruggere a suo piacimento e per questo è necessaria la forza dell’azione umana per controllarne i movimenti. D’altra parte, l’ambiente può essere visto come un simbolo della qualità di vita, di benessere, di equilibrio costante interrotto solo dalla forza della produzione industriale e del conseguente sfruttamento e depauperamento dei territori. ‹‹Per meglio comprendere e delineare il concetto di ambiente bisogna distinguere tra micro-ambiente e macro ambiente e percepirlo come un sistema eco-sociale. È importante avere una visione planetaria dell’ambiente che si presenta come un sistema complesso e elementi strutturali, in interazione››33. È necessario comprendere che le soluzioni ai problemi ambientali, per quanto possano apparire limitate e locali, devono essere sempre valutate attraverso una prospettiva planetaria, prospettiva che, tuttavia, richiede, implicitamente, la capacità di saper gestire, in modo partecipativo, le competenze interculturali e interreligiose per poter comprendere in modo autentico sia i reciproci bisogni e contributi alla risolu-

32

UNESCO World Report, Investing in Cultural Diversity and Intercultural Dialogue,

33

Cfr. E. Elamè, J. Davd, L’educazione interculturale per lo sviluppo sostenibile, Bolo-

cit.

zione dei problemi, sia l’impegno e la responsabilità per la messa in pratica di concrete azioni di cambiamento. In questo contesto l’educazione svolge un ruolo di primaria importanza oltre che di sensibilizzazione alle problematiche per la costruzione di competenze di osservazione e analisi sulle differenti forme di relazioni tra esseri umani e ambiente. La formazione ha la responsabilità civile e sociale di contribuire alla creazione di formae mentis capaci di trovare soluzioni creative e innovative.

3. Pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali Un impegno attento ai contenuti ed ai significati dell’educazione alla pace è stato, nel corso degli ultimi decenni, sviluppato dall’UNESCO34 in diversi modi e con differenti materiali di supporto. La dichiarazione di Siviglia ha ben chiarito l’assunto fatto proprio dall’UNESCO che la guerra e la pace sono pensate, sentite ed agite dalle persone, come scelta e come mission della propria vita. Tutti sono responsabili, in modo interconnesso, degli eventi, e in quanto esseri umani, è stata data la possibilità di scegliere se essere causa o effetto degli eventi. Questo porta a considerare anche il collegamento tra educazione e conflitto armato, aspetto questo che è stato ben affrontato nelle strategie dell’UNESCO dentro il programma Education for All (EFA)35. Già a partire dai primi anni ‘90, tuttavia, era emersa una attenzione particolare nei confronti dell’interpretazione data al rapporto tra educazione e conflitti armati. L’osservazione che gli ambienti educativi, le strutture scolastiche, i contenuti e le metodologie utilizzate, possano essere 34 Convention

against Discrimination in Education 1960; UNESCO Recommendation concerning Education for International Understanding, Cooperation and Peace and Education relating to Human Rights and Fundamental Freedoms 1974; Integrated Framework of Action on Education for Peace, Human Rights and Democracy 1995; http://www.unesco.org/new/en/bureau-of-strategic-planning/themes/culture-of-peace-andnon-violence/ 35 Fino dagli anni ‘90 è stato avvertito l’impegno globale di intervenire a favore di un innalzamento delle possibilità educative e di qualità degli interventi educativi per tutte le popolazioni del pianeta, ma, in particolare per coloro che vivono ancora la condizione di analfabetismo, di povertà, di esclusione sociale, con un occhio particolare per le bambine, le ragazze e le donne e tutti coloro che presentano bisogni speciali nell’apprendimento. Il lancio del programma integrato con gli obiettivi del nuovo millennio, venne fatto nel Forum Mondiale dell’educazione di Dakar nel 2000. Il Forum, considerato uno degli eventi più importanti sull’argomento, coinvolse gli stati membri ad impegnarsi in politiche e interventi per fornire una educazione di base di qualità per tutti i bambini, i giovani e gli adulti.

catalizzatori di conflitti violenti è diventata sempre più una preoccupazione della comunità internazionale anche dentro il programma EFA. Un rapporto che, per lungo tempo, era stato letto ed interpretato in modo solo unidirezionale: la guerra causa l’analfabetismo perché distrugge le opportunità educative per la popolazione. Tale interpretazione poneva l’educazione e il sistema di istruzione ad essa collegata, in una posizione di mancata responsabilità nei confronti dei conflitti e delle instabilità sociali. Tuttavia, con la fine del mondo bipolare avvenuta a seguito della caduta del Muro di Berlino, è apparso sempre più evidente che i conflitti violenti, non sono i soli ostacoli che impediscono l’accesso all’educazione di qualità per tutti, ma che ci sono più sottili, talvolta invisibili e complessi collegamenti tra educazione e conflitto armato. In particolare emerge, in modo sempre più evidente, che è necessario distinguere tra educazione come processo che è complice del mantenimento delle forme di violenza e discriminazione sociale e culturale e che ha un ruolo nella generazione e nel radicamento dei conflitti armati, e l’educazione che, a causa della presenza dei conflitti, rimane vittima della violenza36. Le pratiche educative possono rivelarsi distruttive, nel senso che acuiscono i contrasti, gli stereotipi, aumentano il senso di paura, dell’insicurezza e del bisogno di difesa attraverso la forma violenta piuttosto che quelle dell’esplorazione delle possibili differenti soluzioni. Anche la condizione di esclusione, la scarsa qualità del sistema stesso, la disparità tra offerte educative presenti sullo stesso territorio, la non regolarità del servizio e dell’offerta scolastica, rendono la realtà educativa uno strumento di fragilità politica e sociale. È necessario studiare l’educazione come strumento, attraverso il quale, il sistema politico e sociale mantiene non solo il controllo e l’ordine, ma alimenta la cultura della guerra radicalizzando nel profondo delle persone i sentimenti di paura, opposizione, odio e terrore del nemico. È necessario comprendere in quale modo, perché e quanto l’educazione è implicata nel verificarsi dei conflitti e dell’uso di forme di violenza. Questa osservazione non è diretta solo verso la comprensione dei conflitti armati, ma è un paradigma di riferimento anche per comprendere le forme di violenza presenti nella quotidianità all’interno delle società in generale e, delle collettività, in particolare. D’altra parte è possibile considerare anche che cosa è necessario fare, attraverso l’educazione, per prevenire la presenza della violenza e dei conflitti tra gruppi e tra Stati. La comprensione delle debolezze delle strutture educative e la loro corresponsabilità al determinarsi del conflitto, rende più esplicita la preoccupazione su come intervenire 36 Cfr.

2004.

S. Tawil, A. Harley, Education, Conflict and Social Cohesion, Geneva, UNESCO,

per decostruire relazioni e rappresentazioni sociali, patrimonio dei saperi diffusi, e su come apportare i saperi della riconciliazione e ricostruzione. La mancata analisi del peso che l’educazione ha nel processo generale di cambiamento e riconciliazione, rende debole ogni tipo di intervento e aumenta il rischio di far fallire i progetti finalizzati al cambiamento del sistema, dei contenuti e dei metodi. Una analisi approfondita per individuare le forme del cambiamento e dell’avvio dei processi di prevenzione e di riconciliazione, deve assumere un’ampia prospettiva di analisi, per poter esplorare la natura delle politiche e pratiche educative nella misura della loro potenzialità ad aggravare o risolvere i conflitti37. Intervenire nella comprensione di quali aspetti del curriculum scolastico possono esacerbare il conflitto ed intervenire per rimuoverli con una precisa volontà di cambiamento e di rinnovo, viene considerata una delle prime forme di intervento per avviare un processo di integrazione tra sistema scolastico e sistema sociale38. Se il rinnovamento curriculare è il punto di partenza di ogni processo di riforma scolastica, ciò che ne permette la realizzazione è la riflessione su quale rapporto esiste tra sistema scolastico e sistema sociale e in quale modo la società è cambiata a seguito del conflitto, o vederne i cambiamenti in atto se la fase di chiusura del conflitto è transitoria. Devono essere chiaramente esplorati, per valutarne la pericolosità o la sostenibilità per ogni tipo di intervento a sostegno della coesione sociale, quali tipi di valori, conoscenze, competenze, atteggiamenti e comportamenti sono stati utilizzati prima e quali necessitano di cambiare per incoraggiare ogni forma di rispetto per la dignità umana, la diversità all’interno dei contenuti e delle discipline scolastiche, ma anche nelle questioni talvolta considerate marginali, ma importanti per la diffusione dei processi di identificazione e di appartenenza, della memoria collettiva o di amnesia collettiva, come di senso di cittadinanza e di destino comune39. Anche l’approccio con il quale viene svolta l’analisi e vengono impostate nuove soluzioni di interventi e contenuti scolastici e di altre forme di sostegno al processo di cambiamento che con questi si integra, deve seguire, per essere coerente con il fine che vuole raggiungere, un approccio dialogico e partecipato. Essenziale è lo spazio da dare al dialogo per ogni forma di negoziato sociale perché è necessario coinvolgere, in primo luogo, tutti i diretti interessanti alla definizione dei nuovi obiettivi sociali e culturali per la formazione alla nuova realtà che viene pensata. La sensibilizzazione ai problemi educativi e il raggiungimento del consenso e della partecipazione 37 Ibidem. 38 International

Bureau of Education, Curriculum Change and Social Cohesion in conflict affect societies, Geneva, IBE, 2003, UNESCO/IBE/03/CPB/SocCo/CR 39 Ibidem.

contribuiscono in modo rilevante alla costruzione della convivenza pacifica, se il tutto viene pensato come un continuo processo osmotico di scambio e di rafforzamento reciproco, all’interno di una prospettiva di complessità. I risultati del dialogo sociale della contrattazione e della negoziazione devono essere utilizzati, oltre che per capire le problematiche sociali, culturali e storiche delle diverse realtà che partecipano alla comunità locale, anche per individuare le direzioni del programma e delle nuove proposte legislative. A sostegno della partecipazione deve essere posta l’attenzione verso quella che viene chiamata la sensibilità al conflitto. Con tale riferimento si viene a delineare una precisa riflessione sull’educazione sensibile al conflitto che considera come concetti chiave la comprensione dei contesti nei quali l’educazione si svolge e si realizza, l’analisi dei processi di integrazione tra contesti, politiche, programmi, forme e modelli educativi e le azioni per ridurre al minimo gli impatti negativi e massimizzare gli impatti postivi delle politiche educative e dei programmi sui conflitti.40 Il punto centrale è anche quello di evitare la ricostruzione, in situazione di post conflitti, replicando strutture educative che possono aver contribuito al conflitto appena risolto. Oltre a questa attenzione, l’analisi dei processi e dei contenuti presenti delle strutture e nei curricula, dà l’opportunità di definire degli indicatori per educare, nel modello dell’inclusione e della partecipazione, ad una diversità sensibile come strumento di comprensione dei processi sociali e culturali che convivono e agiscono su uno stesso territorio. Creare un contesto educativo sensibile e responsabile nei confronti del conflitto, ha significato analizzare le dinamiche che sono entrate in gioco nel processo e, come queste sono implicate in altri processi critici che hanno costruito le cause del conflitto. L’analisi è comunque un passaggio piuttosto critico, perché deve avere la cura di ripercorrere ed esplorare, attraverso una ricerca sistematica, i background, le storie, le radici delle cause, gli attori coinvolti e le dinamiche che hanno contribuito a fare crescere i conflitti trasformandoli in forme violente piuttosto che in possibili soluzioni di convivenza pacifica e la loro interazione con i programmi o le politiche educative41. L’analisi è poi seguita dalla considerazione circa l’influenza che il contesto può avere sull’educazione. La definizione di contesti fragili deriva dalla necessità di comprendere le situazioni problematiche, al fine di investire sulla prevenzione al conflitto. La condizione di fragilità è dovuta, in primo luogo, alla considerazione che ogni ambiente di apprendimento, formale e non formale, anche nella prospettiva dell’educazione continua, 40 Cfr.

INEE, Conflict sensitive education, New York, INEE, 2013.

vive in modo instabile, e che può essere o è stato distrutto dalla violenza o dal conflitto armato. Fragile è anche il contesto che non riesce a rispondere in modo democratico e partecipativo, rispettando i diritti degli adulti dei ragazzi e dei bambini, ai bisogni sociali e alle forme di esclusione e povertà dovute al conflitto ed alle sue conseguenze o al sistema politico debole ed incapace di vivere autonomamente. Un ulteriore passaggio che riguarda il processo di educazione sensibile al conflitto, considera anche la interconnessione tra l’approccio del peacebuilding e la sensibilità al conflitto. Essi si muovono su piani diversi ma concorrono per la costruzione della svolta e del cambiamento. Un approccio di peacebuilding ha la specificità di promuovere relazioni pacifiche, rafforzare gli impegni politici, socio-economici e culturali delle istituzioni e rinforzare altre dinamiche che possono creare o supportare le condizioni necessarie per una pace sostenibile42. L’educazione alla pace, in linea con quanto già considerato rispetto alla definizione di cultura di pace, comprende la formazione di competenze costruite in primo luogo sui principi dei diritti umani e dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La formazione deve essere accompagnata da competenze e abilità capaci di riconoscere ed intervenire con soluzioni di mediazione creative ai conflitti intra e interpersonali. Mediazione che è possibile costruire solo a partire dalla capacità di rispettare se stessi e gli altri senza creare alcuna condizione di sottomissione o di dipendenza. Fondamentale è, quindi, la comunicazione che si esprime attraverso il dialogo e lo scambio reciproco. L’educazione alla pace è la vera e concreta prevenzione ai conflitti violenti che i bambini e i ragazzi esprimono ed agiscono anche nelle strutture scolastiche. Essa richiede un impegno continuo e profondo per la ricerca costante di espressioni alternative alla violenza che, anche con l’influenza dei modelli educativi non formali, possa arrivare in modo diretto e più intenso a colpire l’attenzione dei bambini. L’educazione alla pace passa, quindi, prima dall’ essere poi da fare e infine dal dire. Il punto di partenza è quanto gli insegnanti e la scuola stessa siano consapevoli della natura delle strutture educative e quali siano gli stereotipi e i pregiudizi che, talvolta con estrema leggerezza vengono manifestati ai bambini. L’essere nella disponibilità di cambiare e di approfondire la comunicazione e il dialogo sono aspetti costruttivi dell’educazione alla pace. Il fare rende, infatti, esplicito il percorso interiore e l’autenticità del messaggio che vuole essere trasmesso. Il fare significa anche costruire insieme gli strumenti della pace,

della convivenza pacifica, secondo il processo che sostiene il learning to live together43. Questi fenomeni sono dovuti anche, soprattutto a livello micro e meso dei conflitti, a una mancanza di dialogo tra le persone di diversa religione, cultura etnia lingua e stato sociale. Il non conoscere gli altri genera emozioni e sentimenti che influiscono in modo decisivo sui nostri saperi e sui nostri rapporti con la realtà. Pertanto la mancanza di incontro e di dialogo tra le molteplici esperienze di vita e di cultura prepara solo ad un ambiente adatto alla crescita del pregiudizio e delle incomprensioni e, conseguentemente, paure, atteggiamenti di rifiuto, esclusione, non accettazione e intolleranze. Il crollo di alcune ideologie secolari, di separazione e discriminazione e le nuove possibilità date dalle tecnologie e dagli strumenti mass mediatici ha fatto anche pensare che si potessero finalmente creare nuovi spazi per le pacifiche convivenze delle culture e tradizioni44. Appare sempre più evidente come molti fattori, come i processi migratori, gli scambi economici, le nuove forme di comunicazioni e i social network diano l’impressione di vivere in una realtà di globalizzazione. Di fatto, interventi e dinamiche economico-politiche hanno aperto a forme di relazione e scambio pseudo interculturale. L’idea di essere tutti cittadini di un unico villaggio, tutti uniti dall’essere abitanti di questa terra, è risultato utile all’economia dei grandi cartelli e delle forti concentrazioni per allargare il controllo del mercato mondiale. Il riferimento al dialogo interculturale si è perso dentro luoghi comuni di incontro tra le diversità, nel tentativo di recuperare la ricchezza dei saperi locali che si va perdendo nelle forme di un modello mass mediatico di impronta occidentale da diffondere nel villaggio globale, o di relativismo culturale considerato da alcuni una degenerazione del principio di tolleranza inscritto nella democrazia liberale mentre al contrario, la degenerazione della tolleranza, può essere considerata una conseguenza del relativismo moderno che separa tra loro le culture, isolandole nelle loro aree, generando così sia un nichilismo di senso che una separazione peraltro altamente artificiale. Le culture, infatti, non sono separate tra loro da confini come quelli territoriali o geografici. Se sul piano geografico ciò è avvenuto, ricordiamo le spartizioni e la definizione dei confini dei due periodi post confitto mondiale, sul versante umano i confini non possono essere così netti e precisi. Le culture sono per loro natura oggetti vitali, dinamici, non contenibili in spazi chiusi, vivono di osmosi e di scambio. Chi lavora nei contesti sociali, edu43 Cfr. 44 Cfr.

2001.

S. Guetta, La voce della pace viene dal mare, cit. V. Cesareo, (a cura di), Per un dialogo interculturale, Vita e Pensiero, Milano,

cativi e formativi, dove la marginalità e l’esclusione attestano la falsa presenza della uguaglianza dei diritti e delle pari opportunità e dove la tolleranza, attiva e passiva che sia, non ha fatto altro che accettare e sopportare anche coloro che, in realtà non erano più parte, o non lo erano mai stati, dei processi produttivi e di sviluppo economico, deve piuttosto trovare gli strumenti e le strategie idonee e coerenti con il rispetto dei diritti umani, per favorire la creazione di convivenze pacifiche tra persone di differente cultura, storia e tradizioni45. L’educazione alla pace richiede una costruzione continua di modelli e strumenti da adattare alle situazioni e alle questioni da affrontare nella quotidianità, spiegando bene come la pace sia un processo che non ha fine, che deve coinvolgere tutti e che può essere sempre messo in discussione. È più facile e rapido distruggere che costruire. Costruire percorsi di pace e di convivenza pacifica richiede progettualità, impegno costanza e capacità di gestione delle situazioni di conflittualità a più livelli e a più dimensioni. La distruzione è, invece, una risposta immediata, violenta, semplice e lineare. La pace non è una conseguenza della guerra, o l’assenza di questa. Essa non trova la sua origine nella giustificazione della guerra, così come la guerra non può giustificare la pace. Questo pensiero lineare è tuttavia quello ancora presente nelle realtà educative che ritengono non necessario parlare di pace, se non per quei popoli o quelle realtà che stanno vivendo situazioni di conflitto i cui effetti vengono percepiti attraverso i mass media e vissuti attraverso la ricerca, da parte di gruppi di persone in fuga che richiedono rifugio e assistenza. Una forma di scetticismo è spesso presente tra gli insegnanti e gli educatori riguardo alla necessità o opportunità di introdurre il tema della pace in altre prospettive. Troppe sono le forme di violenza che convivono nella società, troppo lontane possono essere le prospettive di pace, insignificanti sono le piccole cose che possono essere fatte a scuola di fronte ai grandi conflitti distribuiti sul pianeta. Un percorso educativo sulla pace non può sicuramente sradicare tutti i mali del mondo, così come non può prevenire le forme di oppressione delle minoranze ed ogni altra forma di discrimina45 A

questo riguardo va annotata la prospettiva fortemente critica con la quale Mark Duffield, nel suo libro Guerre postmoderne, l’aiuto umanitario come tecnica politica di controllo, Firenze, Il Ponte, 2004, guarda alle guerre periferiche, sostenendo che queste non sono processi che aprono a nuove possibilità di cambiamento politico sociale. In questi nuovi conflitti si va perdendo il potere dello stato e delle istituzioni, per far posto al paternalismo autoritario dei leader etnici e dei signori della guerra, p. 7. Per l’autore i processi di instabilità delle periferie sono da mettere in collegamento alle politiche di sostegno e aiuto volte soprattutto al cambiamento dei comportamenti e delle mentalità delle aree instabili, e all’arruolamento delle NGO e delle altre associazioni umanitarie nelle nuove politiche di aiuto e sviluppo, p. 9.

zione. L’educazione alla pace non si fa stringere da questa prospettiva, essa mira in primo luogo alla formazione di ogni singolo essere umano per le sue potenzialità di essere di pace. Nessuno da solo può risolvere i grandi problemi, ma la collettività può portare a grandi cambiamenti, smuovere opinioni. È essere un soggetto attivo e non dipendente dai mali e dalle sofferenze del mondo che favorisce la circolazione di idee, progetti azioni, interventi sulla pace. Le persone non hanno il compito di risolvere i grandi mali del mondo, ma contribuire al benessere della specie umana e del pianeta attraverso la molteplicità di forme che la creatività culturale delle persone sanno e possono esprimere. Con la pace è possibile costruire un mondo migliore. L’educazione alla pace deve essere attivata fin dalla prima infanzia, come sosteneva Maria Montessori46, per assicurare il benessere e la piena realizzazione delle proprie potenzialità. Una visione sicuramente precoce e profonda che deve oggi essere integrata da una maggiore attenzione alla formazione delle competenze sociali ed alla capacità di saper riflettere, con un approccio meta cognitivo e, nello stesso tempo, spirituale, intendendo con questo un modo di saper ascoltare la voce del cuore, come partecipazione attiva alla crescita e alla dinamicità dell’universo. Forme differenti di violenza colpiscono i bambini di ogni età in casa, nella scuola e negli ambienti vissuti quotidianamente. La pressione della violenza arriva anche con le immagini dei mass media che i bambini assorbono in modo passivo, ma profondamente invasivo. Forme di violenza che si radicalizzano e si strutturano in rappresentazioni e modelli di riferimento a cui far ricorso per la risoluzione dei conflitti e dei problemi interpersonali. L’influenza che le forme di violenza hanno nei bambini è anche dovuta alla disponibilità della mente dei bambini ad essere sensibilmente condizionata dalla natura di stimoli esterni, dalle esperienze ludiche, anche quelle virtuali o simboliche, dalla relazione più o meno favorevole con l’ambiente, dalle difficoltà di scolarizzazione. Questa responsabilità per l’educazione e la cura nella prima infanzia, ha fatto porre l’attenzione su come, attraverso questi stimoli e l’ambiente di vita quotidiana, potesse essere sviluppata una positiva attitudine verso il mondo. Per attivare tale attitudine vengono proposti curricula costruiti sull’integrazione di diversi fattori: in primo luogo il sostegno alla cooperazione, comprese le abilità del problem solving e della ricerca creativa di soluzione di fronte al succedersi dei conflitti; il rispetto per se stessi e gli altri, considerando proprio che se non si ha cura di se stessi non è possibile avere cura degli altri e, in altre parole non è possibile dare agli altri quello che non abbiamo neppure per noi. Questo elemento 46

M. Montessori, Educazione e pace, Roma, Opera Nazionale Montessori, 2004

mette bene in evidenza quanto sia necessario saper conoscere se stessi nel profondo per potersi relazionare agli altri in senso autentico e non solo con la mente. Un terzo fattore è saper riconoscersi diversi e riconoscere la diversità degli altri come esperienza di scambio e di apprezzamento. Modelli educativi di omologazione e centrati sulla continua comparazione tra chi sa più e meglio e chi non riesce a raggiungere “quell’ipotetico livello” di prestazione, distruggono ogni buon proposito di aprire alla diversità e all’intercultura. La consapevolezza di essere diverso dal padre e dalla madre, come dai fratelli e/o dai compagni e coetanei, favorisce la maturazione della condivisione, dell’autonomia e dell’autostima. È necessario per tutti i bambini sapere di essere esseri umani distinti dagli altri47 perché ciò favorisce l costruzione del rispetto e della dignità per l’Altro. Un quarto fattore che può entrare nei curricula per la prima infanzia è la consapevolezza del ruolo pervasivo, centrato su una cultura della violenza e della guerra, che hanno gli strumenti di diffusione dell’informazione, ma anche i giochi elettronici che simulano azioni di guerra, di combattimento e di morte. È di aiuto all’educazione alla pace nella prima infanzia anche un continuo e diretto scambio con la vita della natura, la comprensione delle sue trasformazioni, delle bellezze che ci sono e del rispetto che, come nei confronti di ogni essere umano, deve essere vissuto e tutelato. Il rispetto che la natura potrà essere espresso se i bambini vengono educati al suo linguaggio e al suo ascolto. Infine, anche se altri fattori trovano sicuramente posto in questa presentazione sintetica, la stimolazione dell’immaginazione e della creatività dei bambini attraverso ogni possibile espressione di forma artistica, partendo dal corpo come prezioso strumento, per poi entrare in contatto con la realtà e percepirla attraverso ogni sua parte. Galtung48 riflette, invece, sul come deve essere considerata l’educazione alla pace nelle scuole e sottolinea il fatto che, quando prese avvio il movimento di ricerche sulla pace, intorno agli anni ‘50 del secolo scorso, le università non si mostrarono molto accoglienti nei confronti di questo campo di investigazione. Né, d’altra parte, mostrarono molto interesse le organizzazioni degli insegnanti, tanto che furono più gli istituti di ricerca che cominciarono ad interessarsi dell’argomento. Nonostante una difficile partenza è possibile verificare, come con il passare del tempo, sostiene Galtung, il movimento della ricerca abbia ricevuto un forte impulso, mentre sia rimasta ancora debole la parte delle azioni concrete su piano educativo. Questa de47 Questo concetto può essere ampliato riprendendo il criterio della mediazione di Feuerstein, Mediazione della individualità e della differenziazione psicologica; R. Feuerstein, Y. Rand, R. S. Feuerstein, La disabilità non è un limite, se mi ami costringimi a cambiare, Firenze, LibriLiberi, 2005. 48 Cfr. J. Galtung, Peace: Research, Education, Action, Bucarest, CIPEXIM, 1975.

bolezza di azione in ambito educativo può dipendere da differenti fattori tra i quali le forme di imposizione che le politiche hanno nei differenti paesi, la scelta di mantenere il controllo dei contenuti per assicurarsi la continuità del sistema anche in futuro ed educare ad una conformità di pensiero a ipotesi di una tranquillità sociale. Pertanto, è stato visto che l’educazione alla pace entra con difficoltà nelle proposte formative scolastiche, posizionandosi soprattutto su un piano inferiore rispetto a quanto sviluppato nell’ambito della ricerca e dell’azione sociale. D’altra parte è necessario, per la sostenibilità stessa del campo di ricerca, mantenere un armonico rapporto tra questi tre differenti ambiti per poterne continuamente rinforzare ed approfondire gli aspetti. È importante saper collegare questi aspetti nelle esperienze di apprendimento, utilizzando contenuti che meglio possano fare capire le azioni di pace compiute nel passato, comprenderne le conseguenze e vederne gli effetti ancora a distanza di tempo. La ricerca l’azione e l’educazione sono processi che entrano a pari titolo e importanza nella formazione al pensiero non convenzionale e come continuo esercizio per la creatività che è possibile cogliere negli aspetti contraddittori e complessi che sono dentro gli eventi ed i fenomeni. L’importanza di questo collegamento sta nel rendere possibile e cogliere gli aspetti umani di scelta, decisione e azione verso una direzione di mediazione, incontro, dialogo e negoziazione, piuttosto che di conflitto violento. Questo sta ad indicare la necessità di fare un interattivo collegamento tra ricerche per la pace ed educazione alla pace al fine di progettare azioni di pace. Pertanto non è sufficiente inserire nei curricula scolastici i contenuti ed i riferimenti all’educazione alla pace se questa non si trasforma in azioni di pace concrete che rendono esplicito l’evolversi dei processi e dei cambiamenti che impegnano responsabilmente le persone. In ambito educativo la proposta della pace si deve accompagnare all’approccio utilizzato per favorire lo sviluppo delle conoscenze dei saperi, delle emozioni e delle relazioni interpersonali. Ogni modello che viene presentato, relativo alla pace, deve essere coerente con l’idea di pace e deve pertanto escludere ogni forma di violenza49 soprattutto quella strutturale, 49

J. Galtung si riferisce, in questo contesto alla violenza diretta e alla violenza strutturale. La violenza è presente, in senso generale ‹‹quando gli esseri umani sono esseri influenzati in modo che le loro effettive realizzazioni somatiche e mentali siano inferiori rispetto alla loro potenziale realizzazione››. Ivi, p. 117. La violenza diretta fa riferimento all’uso del corpo come primo strumento utilizzato per arrivare infine alle armi o agli oggetti e strumenti che infliggono dolore e sofferenza. La violenza strutturale è data dalla presenza di ineguaglianza tra le persone riguardo alla distribuzione del potere. La capacità di sopravvivenza è ciò che, per Galtung, permette di tenere testa alla ineguaglianza, ma se quest’ultima persiste allora è necessario chiedersi, quali fattori, esclusa la violenza personale tendono a sostenere l’ineguaglianza. La violenza strutturale è intrinseca nella società e può coinvolgere attori

presente nelle strutture educative e nella società. Le forme di gerarchizzazione e di relazioni asimmetriche, gestite dal controllo e dal giudizio che impediscono le forme di sviluppo della persona e influenzano verso comportamenti che limitano l’essere umano, sono forme chiare di violenza presente nelle strutture scolastiche ed educative. Queste forme si intrecciano spesso con i contenuti scolastici presenti soprattutto nelle discipline insegnate e nei libri di testo. L’educazione alla pace deve quindi essere promossa attraverso un’azione diretta alla comprensione dei messaggi e dei significati di violenza implicita e strutturale che viene trasmessa e legittimata. Forme, contenuti e metodi devono quindi trovare una loro costante coerenza, ma soprattutto devono essere adattati ad ogni livello di istruzione nella garanzia di poter offrire a coloro che sono in formazione, la possibilità di poter conoscere e sperimentare, durante il processo di crescita, forme differenti di educazione alla pace. I contenuti e le forme, sostiene ancora Galtung, non sono separati e non è possibile pensare che i contenuti siano più importanti delle forme, è facile invece pensare che le forme possano spesso essere più importanti dei contenuti50. Molte sono le forme presenti nel sistema educativo formale che Galtung vede come elementi che impediscono la realizzazione piena dei processi e delle azioni dell’educazione alla pace. Le prove di fine percorso scolastico o il sistema di verifica, come il sistema di antagonismo o di competizione, oltre che l’incapacità di un ascolto attivo e partecipato sono tutte forme che annullano, qualora ci fosse, ogni contenuto di educazione alla pace. Galtung51, come altri autori che si sono interessati del contributo dell’educazione alla cultura di pace, apre la riflessione sul significato del conflitto, della sua natura e della necessità di includerlo dentro i modelli di educazione alla pace. Il conflitto, infatti, non si contrappone alla pace, in quanto non deve essere assunto nel significato di guerra, ma rappresenta, piuttosto, una parte centrale del percorso di pace per la sua capacità di esprimere situazioni di opposizione e di contrarietà evitando la situazione di scoppio. Essere nel conflitto e ‹‹litigare è un diritto dei bambini››52. È attraverso il litigio che è possibile comprendere i conflitti e sperimentare i limiti della propria e dell’altrui capacità di stare nella relazione. Evitare o diversi soprattutto presenti nel tessuto sociale, anche attraverso divieti, come quello di proibire ai bambini la possibilità di frequentare i giardini pubblici o la strada come luogo di gioco, e ciò influenza le effettive realizzazioni dei bambini oltre a ledere il diritto al gioco libero. 50 Ivi, p. 319. 51 Cfr. J. Galtung, Peace by Peaceful Means: Peace and Conflict, Development and Civilization, London, Sage Publication, 1996. 52 Cfr., D. Novara (a cura di), Litigare per crescere. Proposte per la prima infanzia, Trento, Erickson, 2010.

impedire che si presentino queste forme di scambio e di reciproca conoscenza, è porre un limite allo sviluppo degli apprendimenti. ‹‹Il conflitto è relazione sana, è separazione possibile, è autonomia. È legittimo costruire una teoria della relazione educativa basata sul so-stare nel conflitto, sulla capacità di attribuire al conflitto una valenza sana. I figli sani si ribellano, si oppongono, contestano, aggrediscono il mondo adulto: è necessario! […] Nel conflitto si impara. È un apprendimento difficile. L’acquisizione della competenza al conflitto è una acquisizione interiore molto lunga: ognuno di noi compie un cammino di crescita, un percorso che presenta tante difficoltà. Non bisogna farsi tentare dalla sirena del benessere e dell’armonia. Il conflitto si impara vuol dire imparare la negoziazione e la mediazione››53. Esperienze come queste possono iniziare già dalla prima infanzia attraverso le attività ludiche se, attraverso queste, vengono aperte esperienze di giochi cooperativi dove viene sperimentata la potenzialità del divertimento e del piacere attraverso la partecipazione piuttosto che la vittoria e la sconfitta su uno o più avversari. La scuola, il mondo degli adulti in generale, si stanno dimenticando che i bambini amano giocare e che, nonostante sia uno dei diritti chiaramente espressi dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, gli spazi, i tempi e la libertà per questa naturale attività, vengono sempre più negati. È attraverso il gioco che è possibile imparare a saper rispondere in modo creativo e con fantasia alle situazioni complesse, a scoprire linguaggi nuovi, ad entrare in empatia con i compagni. I giochi cooperativi, soprattutto dove l’obiettivo non è vincere, ma costruire alleanze, accordi e condivisioni, sono particolarmente adatti per divertirsi acquisendo anche gli strumenti della mediazione e della negoziazione54. Attraverso i giochi cooperativi possono essere appresi significati diversi riguardo alla relazione positiva e costruttiva tra le persone. Spesso sono gli stessi adulti che sollecitano i giochi di competizione, sfida, aggressività e forza. Interessante è comprendere l’importanza del gioco individuale e di quello cooperativo intendendo con questo l’attività ludica che non prevede la conclusione con un vincitore, dove lo scopo è quello di stare insieme e divertirsi e di imparare dagli altri e con altri nuove strategie di movimento e di abilità motoria e strategica. Nel gioco cooperativo55 i bambini non si arrabbiamo, provano e sperimentano senza il timore del giudizio o di non riuscire ad essere all’altezza. È una esperienza che permette di far percepire ai bambini quanto sia importante e costruttivo che tutti possano partecipare.

53 Ivi,

p. 26. MCE, Il laboratorio dei giochi cooperativi, Bergamo, Junior, 2009. 55 Cfr. E. Passerini Fra cooperazione e conflitti, giochi per crescere, in D. Novara (a cura di), Litigare per crescere, cit. 54 Cfr.

La gestione positiva e creativa dei conflitti può essere considerata un vero percorso che, partendo dalla prima infanzia arriva fino al liceo, favorisce la formazione e l’uso delle competenze anche per lo sviluppo di un pensiero critico nei confronti dei contenuti disciplinari e delle problematiche più ampie come quelle dello sviluppo umano e della Human Security. Un approccio di continuità scolastico, come quello altrettanto trasversale dell’Osservatorio dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Proposte importanti che trovano spazio solo in isole felici anche se, talvolta, non viene colto il bisogno che i giovani hanno di comprendere i conflitti e di formare competenze solide e flessibili per sapere rispondere a questi in modo costruttivo e creativo, sapendo analizzare con chiarezza le questioni poste ma stando nella comprensione nella tolleranza e nella disponibilità a chiarire le dinamiche implicite e nascoste che entrano in gioco. Un esercizio del pensare e del sentire, dello stare e del trascendere, che è ostacolato dalla sempre più radicata abitudine di una comunicazione veloce, segmentata e messaggiata. Nell’esperienza italiana, il rapporto tra educazione alla pace e scuola, fatica a decollare sia per lo scarso investimento culturale e politico, che per il mantenimento di una tendenza piuttosto conservatrice e attenta ad individuare degli standard medi di comportamento e di apprendimento, piuttosto che promuovere un contesto di innovazione e di sperimentazione di proposte educative interessate alla formazione sociale oltre che culturale. Il MIUR muove i primi passi nel 2007 firmando un protocollo di intesa con la ONLUS Save the Children con l’intenzione di collaborare e lavorare in sinergia per fare diffondere la cultura di pace, l’educazione non violenta e il rispetto dei diritti umani coinvolgendo tutti gli ambienti di vita dei bambini e dei giovani56. A distanza di pochi giorni il ministro dell’istruzione Fioroni, in occasione delle celebrazioni di Assisi del 4 ottobre 2007, presenta il programma nazionale La pace si fa a scuola dove vengono indicate le linee guida sull’educazione alla pace e i diritti umani57. Maggiore attenzione è stata posta al tema dell’intercultura58 che, comunque è parte integrante dell’educazione alla pace. D’altra parte anche la stessa educazione interculturale rischia di rimanere sterile se non si attrezza per 56

Accordo tra il Ministero della Pubblica Istruzione e l’Organizzazione Save the Children Italia Onlus, 01.10.2007. 57 Nota prot. n. 4751 del 4 ottobre 2007, Programma Nazionale ‹‹La Pace si fa a Scuola››, 4 ottobre giornata nazionale della Pace a Scuola. 58 Circolare Ministeriale n. 205, 26 luglio 1990, che garantisce la scuola dell’obbligo agli alunni stranieri e la successiva circolare per l’educazione interculturale n. 73 del 1994, che riprende le indicazioni europee emanate nella risoluzione firmata dai ministri dell’istruzione del 1988 in materia, ed è stata poi seguita dal Libro verde della commissione delle comunità europee del 1993, dove vengono illustrati gli obiettivi, le strategie, i soggetti e le caratteristiche dell’educazione interculturale.

viaggiare con l’educazione alla pace e il dialogo interreligioso, anche questo, come è stato visto, assolutamente emarginato da ogni proposta innovativa. Una educazione interculturale che non si sviluppa attraverso strumenti della negoziazione e della mediazione dei conflitti, ma rimane funzionale al sistema scolastico centrato sull’obiettivo di valutare i risultati, piuttosto che i processi, solo di tipo contenutistico disciplinare. Con riferimenti sparsi, individuabili nelle edizioni dei programmi scolastici vengono enunciati principi importanti che si legano alla tematica della pace, come quello della partecipazione del dialogo e partecipazione al bene comune59 o il riferimento alla necessità di fare maturare nei ragazzi la consapevolezza delle responsabilità civili, morali, politiche, sociali e comunitarie comprendendo i problemi dell’umanità60. L’avvio di un nuovo approccio sembrava essere quello che vedeva realizzarsi, nel 2000, un protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione, il coordinamento degli enti locali per la pace e i diritti umani61 e la Tavola della Pace, in linea con le proposte internazionali riferite alla decade per l’educazione alla cultura di pace, sostenendo che l’educazione alla pace, integrata con l’educazione interculturale, i diritti umani, la non violenza la solidarietà, è considerata parte integrante dei percorsi proposti dalla scuola. Un’intesa che vuole coinvolgere, almeno sulla carta, non solo coloro che operano sul campo, ma anche gli enti locali, gli insegnanti, gli studenti e i rappresentanti della società civile. Dal protocollo di intesa è poi nato nel 2001, il progetto La mia scuola per la pace62 che, nel corso degli anni ha visto aderire molte scuole di ogni ordine e grado. Primo obiettivo del progetto è di rendere la scuola un luogo di pace, sostenendo gli insegnanti e i dirigenti scolastici a fare in modo che la scuola sia lo spazio di pace dove si sperimenta e si insegna anche la pace e dove le esperienze hanno realmente una continuità sostenibile. Le giovani generazioni vengono sempre più private di strumenti idonei per comprendere ed adattarsi, in modo attivo e creativo, ai cambiamenti sociali, e vengono sempre più formate all’indifferenza che è, sicuramente, una delle grandi alleate della guerra. In una intervista Liana Millu, sopravvissuta alla Shoah63 sostiene: ‹‹Scongiurare la guerra è impossibile, ma la si può combattere in varie maniere. Di Auschwitz parlo pochissimo, ma ai giovani cerco di fare capire che le forze che lo crearono sono presenti nelle nostre giornate e nella no59 Programmi

didattici per la scuola primaria, 12.2.1985. di insegnamento per la scuola media statale 1979. 61 Istituita nel 1986. 62 http://www.scuoledipace.it/interno.asp?codiceprogetto=8 63 Cfr. L. Millu, Il fumo di Birkenau, Firenze, La Giuntina, 1986. L’Autrice è sopravvissuta al lager nazista di Auschwitz. 60 Programmi

stra vita. Allaccio la presenza del passato al nostro presente. I giovani che sono il futuro devono sentire che sono coinvolti e comprendere che violenza, indifferenza, disprezzo sono presenti nella loro vita quotidiana››64.

3.1 Un weekend di navigazione e di educazione alla coesistenza pacifica 65 L’esperienza che viene presentata è la proposta di integrazione tra modelli teorici e metodologici dell’educazione alla pace. Sul piano teorico c’è il riferimento alla costruzione sociale dei saperi inteso come esperienza di continua trasformazione delle conoscenze resa possibile da scambi autentici e pluriesperenziali, fisici, cognitivi emotivi, spirituali, affettivi e percettivi, mediati da un contesto che coniuga il naturale allo strutturato della barca a vela. I metodi maggiormente utilizzati, sono quelli che agiscono in modo coerente con le linee dello sviluppo del saper vivere bene con gli altri e dello sviluppo di competenze adeguate. Il Cooperative Learning, l’Outdoor Education e la Ricerca Azione Partecipativa, sono stati quindi i modelli di riferimento della proposta di educare alla pace attraverso l’esperienza della navigazione in barca a vela. La realizzazione del Progetto Pilota A Weekend of Sailing and Peace è avvenuta nel mare di Tel Aviv grazie alla condivisione e allo sforzo congiunto di molte persone che, sollecitate dalle idee e dalle azioni concrete di Rami Andrei Rodan, direttore della NGO Peace Sails, hanno permesso che l’incontro sul mare tra ragazzi/ragazze israeliani e palestinesi ed educatori da entrambe le parti, avvenisse realmente e permettesse a tutti di constatare quanto fosse valida, originale e positiva questa esperienza, condotta in sinergia dall’NGO Peace Sails con la Palestinian Peace Society di Hebron, Palestina, e con la Cattedra Transdisciplinare UNESCO dell’Università di Firenze, che ha rappresentato la fase conclusiva di una prima serie di incontri marini di educazione alla pace. Il percorso svolto ha delineato la fase preparatoria e di lancio del progetto più ampio di Educatore di Comunità di pace di vele di Pace. Per lo svolgimento di questo incontro è stato necessario che i responsabili delle NGOs e le organizzazioni partecipanti, nonché tutti gli educatori, si attivassero per tempo per avviare le procedure richieste dalle autorità locali. Pertanto, l’avvio dei contatti formali è iniziato circa due mesi prima della realizzazione del progetto pilota e fino all’ultimo 64 C. Scaglioso, (a cura di), La pace come progetto di scuola. Itinerari culturali e pratiche scolastiche, Firenze, Regione Toscana, 2002, p. 38. 65 L’esperienza è stata presentata nel testo: S. Guetta (a cura di), La voce della pace viene dal mare, cap. II, cit.

momento niente era garantito. Questi aspetti rientrano nelle esperienze del lavoro di pace. Essi mettono alla prova tutti, sia sul piano della condivisione degli obiettivi da raggiungere che su quello della capacità di poter e saper gestire cambiamenti improvvisi del programma che possono determinare il fallimento di tutto. La realtà israelo-palestinese è messa alla prova anche in questo senso, e ciò mette in luce quanto investimento di volontà, energie, passione e speranza debbano essere messe negli interventi che vengono progettati per permettere alle azioni di pace di realizzarsi. Anche nella fase pilota, il gruppo di progettazione ha cercato di coinvolgere differenti tipologie di giovani studenti e non, impegnati nelle attività sociali e di peacebuilding, appartenenti a contesti e religioni diversi. I giovani sapevano che stavano partecipando ad un’esperienza pilota, e che questo avrebbe richiesto loro, oltre che la partecipazione alle attività, anche un feedback critico sul percorso. In questo modo il gruppo di organizzazione avrebbe potuto rivedere criticamente quanto proposto nella fase di presentazione delle attività. Da parte di tutti gli studenti e degli educatori era richiesta una disponibilità di base all’incontro e allo scambio, pur sapendo che in alcuni casi le famiglie avevano ostacolato e fortemente criticato l’esperienza. La sede dell’incontro e dei lavori è stata la Marina di Tel Aviv, gentilmente messa a disposizione dall’amministrazione locale, e la barca a vela Myro, concessa da un membro della NGO Peace Sails. La barca, durante le ore di navigazione, ha percorso il litorale da sopra Herzliya a sotto Jaffo. Ogni esperienza ha visto la partecipazione dei membri del consiglio delle NGOs, del personale delle due associazioni, dei giovani impegnati negli studi o nelle attività per la pace e di un rappresentante della Cattedra Transdisciplinare UNESCO. Le esperienze di incontro interpersonali fra ogni partecipante, ma soprattutto con i giovani hanno rappresentato uno dei focus del progetto. Per quasi tutti i giovani questa era la prima esperienza di incontro con l’Altro, quello dell’altra parte, il nemico o colui che lo rappresenta. Da più di 15 anni le separazioni e i blocchi hanno impedito scambi e conoscenze reciproche. Ci vuole molta volontà, fiducia e speranza, perché quello che sembra impossibile si possa realizzare, anche solo in parte, ma ogni piccolo progresso è comunque importante per l’avvio del cambiamento. Gli organizzatori del progetto delle due parti coinvolte hanno considerato necessario preparare bene questi incontri, al fine di poter avviare esperienze relazionali sinceramente condivise e capaci di sostenere ogni esperienza e ogni aspetto della quotidianità per due giorni interi. Incontri essenziali quindi per avviare esperienze di comunicazione non violenta, disponibilità allo scambio, alla conoscenza reciproca, al rispetto e alla tolleranza

attiva per le idee, le emozioni, le richieste e le proposte che circolavano. In realtà questi incontri interpersonali hanno contribuito a far diminuire i pregiudizi, gli stereotipi e le angosce che israeliani e palestinesi proiettavano reciprocamente l’uno nei confronti dell’Altro. Come già presentato nel progetto generale, l’esperienza di formazione, anche se ridotta a poche ore, si basava su metodi educativi olistici e sui contenuti e competenze dell’Outdoor Education che sostenevano il ruolo del mare e della navigazione in barca a vela come un luogo dove possono avvenire cambiamenti e trasformazioni sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale, in modo più coinvolgente di quanto possa avvenire in aula o in situazioni di educazione formale. È stato visto che riunioni svolte di fronte al mare e a bordo della barca a vela, hanno favorito lo sviluppo di nuove amicizie e contatti che potranno dare il loro beneficio anche in seguito. Descrizione dell’azione: le attività praticate durante gli incontri del fine settimana sono state un’integrazione di momenti formativi sulle esperienze di scambio per la conoscenza reciproca e per una prima e leggera esplorazione dei pregiudizi, delle paure e delle attese/speranze, con le esperienze a bordo della barca a vela. Queste ultime si sono svolte attraverso una serie di esercizi di base utili per la navigazione, con i principi di educazione alla pace e le buone pratiche interculturali. I partecipanti da entrambe le parti hanno, secondo i loro tempi e differenti modalità, espresso i loro commenti e descritto quali sentimenti di libertà hanno avvertito mentre viaggiavano in barca a vela. Questo sentimento di libertà ha aiutato e favorito una migliore comunicazione tra i differenti partecipanti, consentendo che si aprissero momenti di discussione non guidati e molto personali. Questo ha fatto in modo che si creasse una giusta atmosfera per affrontare argomenti sensibili come la complessità delle questioni politiche e storiche. Tra le attività praticate nella fase marittima/navigazione possono essere segnalate:  introduzione alla barca, alla sua struttura, alle sue potenzialità, risorse e pericoli  introduzione ai principi della navigazione in barca a vela e alle regole del mare  come garantire la sicurezza personale e degli altri quando siamo a bordo di una barca a vela  come issare e ammainare le vele (con la proposta di un lavoro a coppie miste palestinesi e israeliani) sulle manovre di base della vela (Randa, Fiocco / Geova)

 prerequisiti di base della navigazione in barca a vela come: mantenimento della navigazione in linea retta, tenendo conto che il vento cambia  conoscere e sperimentare come fare i nodi e sperimentarli con la pratica delle vele  come proporre e attivare il lavoro di squadra per un viaggio sicuro e di successo relazionale ed esperienziale. In questa fase pratica di navigazione i partecipanti sono stati sollecitati a lavorare sempre in coppie miste di israeliani e palestinesi. Veniva quindi chiesto alle coppie di condividere le responsabilità delle loro azioni e ogni singolo partecipante era sollecitato a riflettere sugli sforzi fisici che aveva sostenuto per portare a termine lo svolgimento delle attività di vela. Veniva inoltre richiesto che facessero attenzione a quali strategie, emozioni e sentimenti erano stati attivati per sviluppare la fiducia di base nei confronti dell’altro/a, lo spirito di squadra e la cooperazione. Parte della formazione è avvenuta in aula ma, sempre nei locali del porto, precisamente al Centro di Formazione Marittima di Tel Aviv dove i partecipanti hanno sperimentato i differenti modelli del dialogo interculturale, della risoluzione non violenta dei conflitti e delle buone pratiche della comunicazione non violenta. In particolare, in questa fase, i partecipanti hanno provato ad individuare, negli aspetti pratici delle attività necessarie per la navigazione dei collegamenti con le esperienze quotidiane di relazione con gli altri e di impegno di educatori. Per fare un esempio, la pratica del come usare le corde, o di come intrecciare le corde per fare i nodi marittimi, ha attivato riflessioni importanti sugli aspetti relazionali e su alcuni simbolismi sociali e culturali che orientano o legano i modi di pensare e di comportarsi. Per quanto riguarda la cooperazione e le dinamiche dei gruppi, i partecipanti hanno analizzato i benefici e gli aspetti problematici della cooperazione, attraverso una serie di attività di dinamiche di gruppo. Queste buone pratiche possono essere poi sperimentate nella cooperazione e nelle situazioni dove sono forti le pressione sociali e il controllo politico, ma anche quando viene a mancare la possibilità di un dialogo chiaro. Un altro aspetto considerato nella formazione è stata la riflessione su che cosa noi abbiamo in comune l’uno con l’Altro. Per questa attività i partecipanti hanno scritto una breve descrizione del partner di navigazione, cercando, fin dove era possibile, di ricostruire i fatti e i dettagli dei contatti. Così ogni partecipante ha raccontato alcuni dettagli del suo o sua partner in barca a vela e ha provato a fare somiglianze con la propria storia, cercando di definire al meglio quelle abilità che avrebbe fatto loro piacere avere o imparare in futuro.

Un’altra proposta di apprendimento è stata indirizzata verso l’individuazione di strategie per imparare a gestire le interazioni problematiche attraverso attività personali e di gruppo. Ogni partecipante ha descritto quali erano state le problematiche emerse nell’interazione con le persone estranee e culturalmente distanti, come aveva superato le difficoltà e se aveva o meno, avviato un momento di collaborazione. Questo ha portato ad apprendere come può essere costruita una relazione di fiducia anche con colui/colei che fino a poco prima era considerato un avversario. Nelle discussioni di gruppo e durante quelle in plenaria, sono stati presentati i punti emersi e le soluzioni personali adottate dai partecipanti. Questi contributi sono stati lo stimolo per avviare la discussione su come affrontare le interazioni problematiche in tempo di conflitti. Il percorso di formazione si è concluso con una sintesi di valutazione individuale e di gruppo del percorso fatto e con le raccomandazioni per sostenere questo progetto. I partecipanti hanno, infatti, espresso il loro entusiasmo e il loro sostegno per le differenti metodologie utilizzate durante l’attività svolta durante il weekend di convivenza in barca e nel porto. Hanno considerato che, per quanto siano necessarie molte competenze per seguire questo tipo di approccio, il mare, la barca e la vita del porto offrono delle potenzialità e sono delle risorse stimolanti per l’educazione alla pace. Purtroppo il tempo dell’incontro è stato breve e questo non ha permesso di dare tutte le risposte alle attese, alle curiosità e alla volontà imparare nuovi modelli relazionali e di conoscere gli altri, Sarebbe stato necessario avere a disposizione più barche, questo avrebbe permesso di coinvolgere un numero maggiore di giovani e di educatori nell’esperienza e di riportare, con più facilità nella comunità di provenienza, i benefici della formazione svolta. In ultima analisi è stata, comunque, condivisa da tutti l’idea di coinvolgere le risorse, le potenzialità e le capacità degli adolescenti e dei giovani per diffondere la cultura della pace nella regione. I partecipanti hanno poi definito e approvato una proposta operativa che prevedeva la creazione di una rete attiva, attraverso una e-mailing ed eventualmente attraverso una e-community dei partecipanti, al fine di mantenere aperti i contatti e l’avvio dei i successivi steps del progetto.

3.2 Vivere la pace facendo sport con i nemici Ambiente e sport sono dei buoni alleati per promuovere esperienze di educazione alla pace perché coinvolgono direttamente i giovani e le comunità di appartenenza, in azioni di incontro, scambio e reciproca conoscenza. Quanto sia importante lo sport per promuovere la costruzione di competenze sociali di

squadra, di gruppo, di condivisione, ma anche di leader partecipativo, di impegno, perseveranza, autostima e rispetto dell’altro, non è ancora abbastanza esplorato all’interno di una prospettiva complessa dell’educazione. Tanto che continua ad essere tenuto ai margini dell’esperienza educativa formale e poco inserito tra il riconoscimento delle competenze del saper essere e del saper fare dei bambini e dei giovani. Per la capacità di utilizzare come l’arte e come la relazione con l’ambiente, un linguaggio universale che parla non solo alla mente, ma anche al corpo, ai sensi, ai sentimenti ed alle emozioni, lo sport può essere lo spazio per la sperimentazione significativa e profonda dell’incontro concreto tra persone che vivono il conflitto. Come nell’esperienza della barca a vela come spazio ristretto di convivenza anche nello sport lo spazio diventa neutro e il campo da gioco diventa il luogo dell’azione e dell’incontro. Fare attività sportiva significa conoscere e stare dentro delle condotte che facilitano e permettono il funzionamento delle attività, condotte che, proprio perché condivise con le persone che vivono nel conflitto, sembrano non essere parte dell’altro perché rappresentato spesso come il nemico portatore solo di regole negative. Lo sport diventa allora un buon strumento per combattere stereotipi consolidati. Nell’esperienza diretta di correre con o contro l’altro per cercare di raggiungere un traguardo o prendere un pallone, in ogni caso, qualsiasi sia l’esperienza fatta, i bambini ed i ragazzi devono essere portati a considerare che stanno vivendo la stessa esperienza, respirando la stessa aria e correndo sullo stesso terreno. Cose non sempre scontate quando le generazioni vivono ed apprendono modelli educativi dentro l’ethos della guerra. Non è lo sport dello spirito nazionale dei grandi sistemi economici e di controllo delle masse, ma lo sport di bisogni ed esperienze quotidiane che dà il senso del piacere perché vissuto da protagonista e non da spettatore. Uno sport che sostiene la formazione di uno spirito di partecipazione di positiva e reciproca tolleranza. Nel piacere e nell’interesse condiviso per l’attività è possibile comprendere la percezione dell’altro e degli altri come persone che vivono emozioni e sentimenti simili. Esperienze che se mediate e rielaborate attraverso approcci critico- partecipativi, approcci capaci di farsi carico dei conflitti e nello stesso tempo far utilizzare a tutti gli strumenti creativi della mediazione, facilitano l’apertura di percorsi di pace e di convivenza. L’esperienza che qui viene sintetizzata si inserisce all’interno delle attività promosse dal Centro Peres per la Pace66 di Jaffa, Israele. Il Peres Center for Peace è una organizzazione no profit che si adopera per la promo66 Peres Center for Peace, http://www.peres-center.org/ ; U. Savir, Peace first. A New Model to end War, San Francisco, Berret Koehler, 2008;

zione della peacebuilding tra gli israeliani, gli arabi e i palestinesi. Il suo impegno è quello di avvicinare e coinvolgere in modo diretto, operativo e costruttivo, un numero sempre più ampio di persone arabe ed ebree che abitano in Israele, così come le persone israeliane e palestinesi. Il centro fu fondato nel 1996 grazie alla donazione fatta dal Premio Nobel per la Pace, Shimon. L’organizzazione della struttura è complessa e sostenuta da una partecipazione attiva, interna ed esterna, di tutti i soggetti coinvolti nella ricerca delle possibili soluzioni per la convivenza pacifica e della cooperazione nella gestione delle differenti necessità sociali come la salute, l’economia, social media e l’agricoltura. All’attività del centro partecipano sia israeliani che palestinesi, sia ebrei che arabi. Tra i progetti attivi del centro quello di Twinned Peace Sport Schools67 coinvolge ogni anno circa 2000 bambini e adolescenti, maschi e femmine, israeliani e palestinesi, ebrei ed arabi. Il programma è stato lanciato nel 2002 e nel 2012 il numero dei partecipanti maschi e femmine ha raggiunto la parità. Attraverso il programma vengono attivati dei gemellaggi tra comunità israeliane e palestinesi. Il programma ha diversi obiettivi, tra i quali: promuovere il dialogo per decostruire stereotipi e pregiudizi sull’Altro, considerato nemico, creare lo spazio dell’incontro e della partecipazione per il raggiungimento di mete comuni, stimolare i giovani a impegnarsi e divertirsi in attività sportive sostenere l’apertura di centri e di luoghi finalizzati all’incontro sportivo e al benessere dei bambini e dei ragazzi. L’esperienza sportiva è pensata come una vera e propria attività formativa, oltre che ricreativa, anche per la possibilità che viene data di apprendere dentro un contesto plurilinguistico. Il programma segue il calendario scolastico, da settembre a giugno, con due incontri settimanali finalizzati alla preparazione dell’incontro mensile che viene fatto tra le scuole gemellate. Vengono così organizzate squadre miste, ma anche l’uno contro l’altro per poter comprendere che l’avversario non è il nemico dal quale è necessario difendersi. L’avversario viene quindi conosciuto attraverso il gioco, con un rapporto leale e di rispetto, uno scambio alla pari dove vengono messe in azione le risorse e le capacità della mente e del corpo di ogni singola persona e del gruppo. Per la sua capacità di coinvolgimento dei giovani e della comunità di appartenenza, genitori, parenti e insegnanti, c’è un forte impegno a rendere continuativa la partecipazione negli anni al programma.

67 M.

Gilbert, The Routledge Atlas of the Arab-Israeli Conflict, New York, Routledge, 2012

Nello specifico, per le esperienze di educazione alla pace, vengono utilizzate attività e giochi dove vengono sperimentati i valori della tolleranza, della convivenza della comprensione reciproca, del rispetto e della costruzione del lavoro di squadra68. Ogni aspetto dell’identità e della diversità, religiosa, culturale, etnica, di genere, viene messo in campo ed i bambini apprendono a stare in un ambiente educativo dove lo scopo è quello di sviluppare coesione, impegno comune e gioco di squadra. In considerazione della particolarità degli ambienti di provenienza, sia da parte israeliana che palestinese, molte energie vengono indirizzate per il coinvolgimento e la partecipazione delle bambine e delle ragazze. Il programma, che prevede un evento finale dove le ragazze si incontrano per giocare in torneo di squadre miste, intende proprio sollecitare l’attenzione e la partecipazione dei gruppi emarginati o particolarmente religiosi dove le bambine e le ragazze vivono più direttamente l’esclusione e non vengono sollecitate alle esperienze di, negoziazione, mediazione dei conflitti e costruzione di pace. Con l’organizzazione di una squadra di calcio femminile, oltre che a quella della palla a volo, le ragazze instaurano contatti ed amicizie, attraverso i quali si aprono più facilmente le porte per la comprensione reciproca e una visione critica nei confronti di modelli stereotipati di rappresentazione dell’Altro, da entrambe le parti. Senza questi spazi di diversità nella storia e nella cultura è difficile arrivare a parlare, nella situazione attuale, di contenuti e di didattiche interculturali, come se il rapporto con le diversità fosse l’esperienza e l’emergenza di questi ultimi decenni. Questo, d’altra parte, oltre a creare una sorta di vuoto culturale, diventa un possibile contesto di formazione di pregiudizi, o il mantenimento di questi che hanno radici storiche molto lontane, che tutt’oggi continuano a circolare anche negli ambienti culturali più alti. Nella consapevolezza di dover ampliare le conoscenze in materia di cultura religiosa, il MIUR ha firmato un protocollo di intesa con BIBLIA, l’associazione laica di cultura biblica sull’educazione interculturale e il dialogo interreligioso, orientato a ‹‹favorire iniziative di informazione e aggiornamento sui temi biblici, in un’ottica di informazione interculturale, indirizzate a studenti e docenti delle scuole secondarie di I e II grado del territorio nazionale››69. Il tema del pregiudizio, in particolare quello negativo anche se talvolta, come nel caso degli ebrei sono presenti anche quelli positivi, è infatti uno degli aspetti centrali delle problematiche interculturali perché si basa su vari elementi che messi insieme creano una convinzione salda che richiede 68 Twinned

Peace Sport Schools , http://www.peres-center.org/twinned_peace_sports_schools 69 Protocollo d’Intesa MIUR-BIBLIA, 2000, art. 1.

tempo, volontà, apertura e decentramento. Il pregiudizio è anche responsabile della rappresentazione che abbiamo degli altri e questo ha poi significato per la relazione che viene costruita. L’assenza di una visibilità nella ricostruzione e rappresentazione della storia di come le differenti presenze religiose abbiano contribuito allo sviluppo culturale e siano state portatrici di altri modelli sociali ed educativi, impedisce che si possa veramente pensare in termini interculturali. Se il riferimento passato è caratterizza da una visione monoprospettica, dove le zone delle differenze continuano a rimanere silenziosamente in ombra, è difficile educare ad una forma mentis interculturale e interreligiosa. Questo silenzio storico, lascia passare un’implicita visione di disparità di qualità e significatività culturale tra i gruppi e rinforza la rappresentazione che la maggioranza sia migliore rispetto alla minoranza vista anche come diversità. ‹‹Il preoccupante antisemitismo riapparso recentemente in Europa ripropone questi vecchi quesiti, forse mai affrontati e pienamente risolti dalla cultura europea. Solo per citare un esempio, pensiamo alla confusione che si ha ancora oggi riguardo ai termini usati per designare gli ebrei, parola usata intercambiabilmente con giudei, israeliti, israeliani, sionisti considerati tutti erroneamente sinonimi. Oppure si pensi al modo spregevole in cui a volte si usa la parola ebreo in quanto attributo riferito all’avaro, all’usuraio, al rivoluzionario, al massone, o usato semplicemente come epiteto offensivo››70.

70 A.

Castelnuovo, G. Pons, G. Rustici, Ebrei e protestanti nella storia d’Italia, op. cit. p. 30

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Peace ‫ שלום‬Pace ‫ﺍﻟﺴﺎﻟﻢ‬

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Frontespizio Il Libro Dedica - Esergo Prefazione di Simonetta Ulivieri 1. Dall’integrazione all’alleanza interculturale: si- gnificati e modelli

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2. Dialogo interreligioso come contributo alla reci- proca conoscenza

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1. Intercultura, integrazione, educazione inclusiva 1.1. Dall’integrazione all’inclusione 1.2. Come parlare di intercultura e educazione di genere 2. Costruire alleanze interculturali 2.1 La ricerca dell’autenticità nel dialogo interculturale 3. Pratiche interculturali e esperienze di progettazione 3.1 Relazioni interculturali nella cooperazione internazionale 3.2 Le Comunità di Pratiche per creare alleanze interculturali 1. Il dialogo interreligioso fuori del religioso 1.1 Il dialogo interreligioso nelle strategie europee 2. Società laica e pluralismo religioso 2.1 La realtà italiana e la presenza delle tradizioni religione 2.2 Educazione al pluralismo religioso 3. Pratiche interreligiose ed esperienze di incontri 3.1 Dialogo interreligioso e Learning to live together 3.2 Dialogo interreligioso dentro i conflitti sociali e politici

3. Educare alla cultura di pace: nuovi paradigmi dell’educazione sociale e proposte operative 1. L’impegno internazionale per l’educazione alla pace 1.1. La Dichiarazione di Siviglia contro ogni forma di giustificazione della guerra 2. I processi che portano alla cultura di pace 2.1 Human Security 2.2. Sviluppo umano 2.3 Sviluppo sostenibile 3. Pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali 3.1 Un weekend di navigazione e di educazione alla coesistenza pa- cifica 65 3.2 Vivere la pace facendo sport con i nemici

Bibliografia

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