Economia dei media
 9788842089483

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Libri del Tempo Laterza 463

Temi della comunicazione Serie diretta da Paolo Mancini

volumi PUBBLICATI

Modelli di giornalismo. Mass media e politica nelle democrazie occidentali

di Daniel C. Hallin e Paolo Mancini

Il sondaggio

di Paolo Natale

Mass media e discussione pubblica. Le teorie dell’agenda setting di Rolando Marini

Comunicazione interculturale. Il punto di vista psicologico-sociale di Angelica Mucchi Faina

La comunicazione delle pubbliche amministrazioni di Graziella Priulla

Piccolo manuale del giornalismo. Che cos’è, come si fa di Vittorio Roidi

La notizia. Come si racconta il mondo in cui viviamo di Enrico Caniglia

La comunicazione d’impresa di Mauro Pecchenino

Le relazioni pubbliche e il lobbying in Italia di Marco Mazzoni

Giuseppe Richeri

Economia dei media

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8948-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Economia dei media

Parte prima

I

I caratteri distintivi dell’economia dei media

1. Introduzione L’economia dei media riguarda un’ampia gamma di attività destinate in modo specifico a produrre, distribuire e vendere contenuti editoriali che possono assumere varie forme, tra le quali predominano i testi scritti, sonori e audiovisivi. Per affrontare questo tema è necessario prima di tutto circoscriverne il campo mettendo in evidenza le sue caratteristiche principali insieme ai fattori che lo distinguono dalle altre attività di comunicazione, e più in generale dalle altre attività economiche. Incominciamo quindi il nostro percorso mettendo a fuoco cinque aspetti che consideriamo indispensabili per affrontare l’economia dei media. Il primo riguarda il modo in cui l’industria dei media si colloca nel campo delle comunicazioni e il suo ambito specifico di attività. Il secondo riguarda le caratteristiche che distinguono l’economia dei media da altri settori dell’attività economica. Il terzo riguarda le principali fasi di creazione del valore economico nell’industria dei media. Il quarto riguarda le condizioni e i comportamenti di consumo dei media. Il quinto, infine, riguarda la fase della regolazione. 2. I media e il campo delle comunicazioni Storicamente i temi che riguardano l’economia dei media e, più in generale, l’economia delle comunicazioni hanno ricevuto da parte dei ricercatori un’attenzione minore rispetto agli aspetti politici e socio-culturali. Solo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ­­­­­4

l’economia dei media e delle comunicazioni è stata studiata in modo meno sporadico e frammentario e questa nuova attenzione è dovuta a diversi fenomeni interconnessi e di particolare rilievo. Innanzi tutto, negli ultimi due decenni c’è stata una forte crescita e diversificazione della domanda di servizi e prodotti di comunicazione, parallelamente a una maggiore concorrenza e internazionalizzazione dei mercati. Inoltre, le imprese del settore hanno assunto un ruolo crescente nella trasformazione più generale dell’economia mondiale. Questi fenomeni sono stati poi assecondati dalle politiche di liberalizzazione adottate dai governi di vari paesi in settori come quelli delle telecomunicazioni e della radiotelevisione, che in molti casi erano prima gestiti in forma di monopolio. Oggi l’industria dei media si presenta sempre più vincolata ad altri due settori industriali, l’informatica e le telecomunicazioni, che hanno assunto un ruolo centrale nel processo di produzione, distribuzione e consumo dei contenuti editoriali. Per questa ragione si tende a individuare un unico macro-settore economico e industriale della comunicazione, composto da: • editoria, che comprende le attività delle imprese impegnate nella realizzazione di contenuti di comunicazione, tra cui giornali, libri, dischi, film e altri prodotti audiovisivi; • telecomunicazioni, che comprendono le attività delle imprese impegnate a fornire le infrastrutture e i servizi di trasmissione dei contenuti; • informatica, che comprende le attività delle imprese impegnate a fornire hardware e software per il trattamento automatico delle informazioni e le loro applicazioni sul fronte della produzione, della distribuzione e del consumo dei contenuti audio-scritto-visivi. Queste tre attività industriali sono nate in epoche diverse e si sono sviluppate con tempi e modalità distinti e indipendenti. L’industria editoriale moderna è decollata nella seconda metà del XV secolo sfruttando la tecnica tipografica messa a punto da Johann Gutenberg; l’industria delle telecomunicazioni moderne (elettriche) si è sviluppata nella prima metà del XIX secolo con il servizio telegrafico, che sfruttava la tecnica messa a punto da Samuel Morse; l’industria informatica è decollata nella seconda metà del XX secolo sviluppando le applicazioni militari della tecnica messa a punto da John V. Atanasoff e Clifford Berry. Nell’arco del secolo scorso abbiamo assistito alla combinazione dell’editoria e delle telecomu­­­­­5

nicazioni, dalla quale sono nate la radio e in seguito la televisione. Negli anni più recenti, poi, si è realizzata la combinazione tra telecomunicazioni e informatica, dalla quale è nata la gamma di servizi telematici, tra cui il teletext e il televideo. Poco dopo si è verificata la combinazione tra editoria e informatica, che ha generato nuovi prodotti come cd-rom e dvd. Negli ultimi due decenni i tre settori hanno seguito un processo di integrazione che ha portato alla costituzione di un unico macrosettore caratterizzato da una nuova tipologia di servizi basati sulla combinazione dei loro rispettivi apporti. La domanda crescente di mezzi e servizi di comunicazione legata alle trasformazioni economiche e sociali di questo periodo ha accelerato lo sviluppo delle tecniche digitali applicate al trattamento, alla trasmissione e al consumo dei contenuti informativi ed editoriali. Ciò ha creato le condizioni per aumentare le interrelazioni funzionali ed economiche tra le imprese dell’informatica, delle telecomunicazioni e dei media, favorendo quell’intreccio operativo che si indica col termine convergenza. I servizi più importanti prodotti dalla convergenza, che si sono aggiunti ai vari prodotti e servizi già esistenti nel campo dei media, sono stati finora due. Il primo è Internet, che permette di trasmettere e ricevere, attraverso le reti di telecomunicazioni, contenuti editoriali (ma non solo) messi in forma, selezionati e indirizzati per mezzo di apparati informatici. Il secondo è la televisione digitale, di cui si parlerà ampiamente in seguito. Dal punto di vista economico, le principali componenti del macro-settore delle comunicazioni, di cui fa parte il settore dei media, sono le seguenti: • servizi di telecomunicazione: telefonia fissa e mobile, trasmissione di testi, immagini, dati e altri contenuti; • strumenti di telecomunicazione: le componenti per la trasmissione, il trasporto e il consumo dei contenuti che costituiscono le reti pubbliche e private; • hardware informatico: i computer e altri terminali per trasmissione dati; • software informatico: i programmi che fanno funzionare i computer secondo le applicazioni prescelte; • contenuti mediali: editoria a stampa, musicale e audiovisiva, radio-tv, video, cinema; • elettronica di consumo: terminali, lettori, registratori, ecc. ­­­­­6

Non esistono stime dell’insieme del mercato mondiale delle comunicazioni, ma solo di una sua parte rilevante, quella costituita dai servizi e dagli strumenti di telecomunicazione, dall’hardware e dal software informatico, dai media elettronici. Secondo l’Idate, quotato istituto di ricerca internazionale, nel 2010 il totale di queste attività economiche ha superato i 3,2 mila miliardi di euro, pari a oltre il 7% della ricchezza mondiale prodotta in quell’anno (Idate, 2011). La Tabella 1 offre una stima del peso che ciascun comparto ha nel mercato mondiale. Tabella 1. Mercato mondiale della comunicazione digitale nel 2010 (miliardi di euro) Servizi di telecomunicazione Mezzi di telecomunicazione Software e servizi informatici Hardware informatico Servizi televisivi Elettronica di consumo

1.150 274 802 341 354 290

Totale

3.211

(35,8%) (8,5%) (25%) (10,6%) (11%) (9,1%)

Fonte: Idate, 2011.

Ciascuna delle componenti di questo macro-settore presenta caratteri e dimensioni economiche propri, che si prestano ad analisi specifiche. Per circoscrivere l’ambito di riferimento del nostro lavoro occorre però fare un’ulteriore distinzione all’interno del macrosettore della comunicazione, distinzione che riguarda due diversi tipi di attività comunicativa. L’industria dei media in senso stretto – quella che verrà analizzata nelle pagine seguenti – consiste nella produzione, attraverso attività professionali, di contenuti destinati ad essere trasmessi nello spazio e nel tempo per mezzo di supporti fisici o reti di telecomunicazione e ad essere scambiati in base a valori economici diretti o indiretti. L’attività tipica, in questo caso, è quella delle imprese editoriali giornalistiche, librarie, discografiche, radiotelevisive, cinematografiche e simili. La seconda – di cui invece qui non ci occuperemo – è l’attività di comunicazione di contenuti che non sono «prodotti economici» e che sono trasmessi nello spazio e nel tempo con supporti fisici o reti di telecomunicazione per essere scambiati in base a valori socia­­­­­7

li. L’attività tipica in questo caso è la comunicazione interpersonale mediata (via telefono, via Internet, ecc.). Occorre però osservare che i due tipi di comunicazione non sono circoscritti perfettamente e in alcuni casi c’è sconfinamento tra gli uni e gli altri. Possiamo dire che nelle comunicazioni mediali l’attività economica centrale è quella di fornire i contenuti. Nella comunicazione interpersonale attraverso i mezzi di comunicazione, invece, il contenuto non ha alcun valore economico, ma ad averne è l’uso del contenitore: le reti di telecomunicazione (o postali) e i servizi di interconnessione e di trasmissione. L’industria della comunicazione mediale – che in seguito chiameremo industria mediale – è dunque il settore di attività costituito da due componenti distinte che possono essere gestite da soggetti economici diversi, ma che sono funzionalmente integrate. Da una parte si tratta di attività destinate a realizzare contenuti editoriali, dall’altra di attività destinate a trasferire i contenuti editoriali nel tempo e nello spazio a chi intende utilizzarli. Al centro della prima componente c’è un’attività tipicamente immateriale che realizza contenuti vari sia per genere espressivo, sia per complessità intellettuale e creativa, sia per funzione (informare, educare, intrattenere). La vita di questi prodotti è determinata da due tipi di valori incorporati: quello economico e quello culturale. Al centro della seconda componente c’è un’attività tipicamente materiale che realizza supporti e reti di trasmissione e di distribuzione. La vita di questi prodotti segue le regole economiche della produzione industriale, soggetta a economie di scala, guadagni di produttività e forte influenza dell’innovazione tecnologica. Le due componenti, il contenuto e il contenitore, hanno caratteristiche economico-produttive e funzioni distinte in costante evoluzione. Devono però presentarsi in modo da costituire un prodotto/servizio unico nel momento in cui il consumatore intende usare i contenuti. Per quanto riguarda i caratteri economici distintivi delle reti e dei supporti di trasmissione rimandiamo alla letteratura specifica (Curien e Gensollen, 1992; Curien, 2000; Shy, 2001), mentre per i contenuti metteremo in evidenza quei caratteri distintivi particolarmente rilevanti per capire il funzionamento dell’industria dei media.

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3. I caratteri economici distintivi Per definire con maggiore precisione il profilo dell’economia dei media è necessario mettere in evidenza i principali elementi che la distinguono da altri settori dell’economia. La loro conoscenza serve a capire perché i media devono essere considerati oggetti particolari che implicano scelte produttive, distributive e di consumo specifiche. Si tratta di caratteristiche che riguardano vari aspetti dell’attività economica, tra cui i costi di produzione, gli investimenti, la misura del valore dei prodotti, l’innovazione dei contenuti e la flessibilità della loro distribuzione, il loro ciclo di vita commerciale, l’incertezza dei mercati, il rischio delle imprese. Vediamo in dettaglio le caratteristiche che meglio evidenziano le specificità economiche del campo dei media. 3.1. La produttività del lavoro Nella produzione dei contenuti che attiene alle imprese cinematografiche, discografiche, librarie e, più in generale, a tutte le imprese che fanno parte dell’industria dei contenuti mediali, il lavoro che genera la parte più rilevante del valore economico è quello di tipo artistico, creativo e intellettuale (attori, registi, sceneggiatori, musicisti, romanzieri, giornalisti, ecc.). Si tratta di attività diverse tra loro, ma con due caratteristiche in comune. Da una parte, nell’industria dei contenuti i professionisti in grado di svolgere queste attività con esiti positivi sono considerati risorse strategiche scarse. Sono quindi molto contesi e i compensi, per questa ragione, tendono a crescere. Inoltre la possibilità di aumentare la produttività del loro lavoro è molto limitata o nulla, dal momento che, a differenza della produzione agricola, di quella manifatturiera e di quella destinata alla realizzazione di molti servizi, in questo caso è difficile se non impossibile automatizzare il lavoro, ovvero sostituirlo con le macchine. Infatti nella produzione agricola, manifatturiera e di vari servizi si è assistito storicamente a una costante sostituzione del capitale (macchine) al lavoro, e il lavoratore in molti casi è diventato il controllore delle macchine che compiono il lavoro da lui svolto in passato. Quali sono invece le macchine che potrebbero sostituire il regista, lo sceneggiatore, l’attore, il musicista o il cantante? È vero che negli ultimi decenni l’applicazione delle tecnologie elettroniche e digitali in vari passaggi del processo ­­­­­9

produttivo delle imprese mediali (giornali e libri, dischi, cinema, radiotelevisione) ha permesso di migliorare complessivamente la produttività del lavoro di queste categorie; tuttavia, dove ciò è avvenuto non si sono mai avuti tassi di crescita della produttività vicini a quelli mediamente registrati nell’insieme dal sistema economico di riferimento. Ciononostante l’aumento dei salari nell’industria dei media segue quello degli altri settori industriali e, in vari casi, lo supera. La scarsità di professionisti di successo e i bassi incrementi della produttività del lavoro determinano nell’industria dei media una situazione di costi crescenti (Baumol e Baumol, 1976). Pertanto le singole imprese, per compensare la crescita della remunerazione a parità di produzione, devono aumentare anno dopo anno le entrate, vendendo di più o aumentando i prezzi. 3.2. La forma immateriale dei prodotti I film, i romanzi, le canzoni e tutti gli altri contenuti dell’industria dei media hanno una costituzione immateriale (non fisica), ma per essere memorizzati, distribuiti e consumati devono passare attraverso supporti fisici. Nel caso del film, del libro, del dvd, ecc., il contenuto immateriale è fissato su una base materiale (pellicola, carta, vinile, ecc.) che viene trasferita fisicamente al consumatore finale attraverso la rete di distribuzione e vendita. Per utilizzare il contenuto immateriale – che in questo caso viene detto off line – del libro, del disco, del dvd, ecc., è necessario ‘estrarlo’ dal suo supporto con l’aiuto di tecniche, come la lettura, o di apparecchi specifici, come il lettore di cd e di dvd. Nel caso dei contenuti fruibili attraverso radio, televisione o via Internet, si tratta di prodotti non fissati su un supporto fisico, ma messi in forma elettronica o digitale in modo che si possano trasmettere e ricevere attraverso una rete di telecomunicazione e dei relativi terminali. Negli ultimi anni la gamma di reti di telecomunicazione a disposizione dell’industria dei media è sensibilmente cresciuta, offrendo così varie modalità di trasmissione. In questo caso si parla di contenuti on line che, scegliendo la rete opportuna, possono essere offerti secondo tre principali modalità: • la diffusione in forma monodirezionale da un punto di trasmissione verso una massa indeterminata di punti di ricezione, come nel caso della radiotelevisione; ­­­­­10

• la distribuzione in forma monodirezionale da un punto a un gruppo limitato e predefinito di punti, come nel caso della televisione via cavo; • lo scambio in forma bidirezionale o interattiva tra due punti della rete con modalità di trasmissioni sincrone o differite, e con capacità comunicative simmetriche o asimmetriche (contenuti a richiesta). Nel caso dei media on line il consumatore, per utilizzare i contenuti immateriali, deve essere allacciato alla rete attraverso cui riceverli e deve disporre di un apposito terminale, oltre a remunerarli quando si tratta di prodotti a pagamento. 3.3. Beni pubblici, beni misti e beni privati I media, come si è detto, sono costituiti da contenuti e contenitori. I contenuti sono immateriali, ma per utilizzarli occorre fissarli su un supporto fisico (off line) oppure trattarli in modo da trasmetterli attraverso una rete di telecomunicazione (on line). I contenuti, immateriali, appartengono alla categoria di prodotti detti «beni pubblici», mentre i contenitori, materiali, appartengono alla categoria dei «beni privati». Due caratteristiche dei beni pubblici (Samuelson, 1954) sono la non rivalità e la non escludibilità del consumo. Per esempio, i beni pubblici classici dotati di entrambe le caratteristiche sono la protezione che la Difesa nazionale garantisce a tutti i cittadini, oppure il servizio fornito da un faro per orientare i naviganti in mare. In entrambi i casi il servizio utilizzato da un individuo non riduce l’uso che un altro individuo può farne, così come nel momento in cui il servizio è erogato non è possibile escludere qualcuno dal suo uso. Alcuni contenuti mediali sono dunque considerati beni pubblici perché hanno le due caratteristiche della non rivalità e della non escludibilità del consumo. Si tratta per esempio della radio e della televisione in chiaro, oppure dei manifesti affissi in luoghi pubblici. Dal momento in cui si trasmette un programma radiofonico o televisivo in chiaro destinato a coprire un’area geografica, oppure si affigge un manifesto in una piazza, l’uso da parte di un individuo di questi mezzi di comunicazione non riduce o elimina la possibilità che essi siano usati contemporaneamente o successivamente da altri: è anzi impossibile, o tecnicamente impraticabile, escludere qualcuno dal loro uso. ­­­­­11

Tra i contenuti mediali ci sono anche quelli che rientrano nella categoria dei «beni misti», che posseggono solo una delle caratteristiche dei beni pubblici. Gli spettatori di un film in un cinematografo non hanno alcuna forma di rivalità nel consumare il film, ma da questo consumo si può escludere chi non paga il biglietto. La stessa cosa vale per i servizi di tv a pagamento, o per la stampa periodica e libraria a pagamento. Data la caratteristica immateriale dei contenuti mediali, il loro valore non si esaurisce nel momento in cui sono consumati. Poiché il valore del contenuto di un film, di un libro, di un disco non viene esaurito dal consumo, lo stesso contenuto può essere riproposto molte volte a un numero sempre più grande di persone (Doyle, 2002). Invece, il contenitore o supporto utilizzato per distribuire il contenuto mediale è un bene privato e qualcuno può appropriarsene escludendo dal suo uso altre persone (Dubini, 2001). Inoltre, mentre il contenuto immateriale non deperisce, il supporto materiale con l’uso ripetuto e col tempo deperisce fino all’esaurimento. La caratteristica di bene pubblico dei contenuti mediali è alla base delle norme destinate alla protezione degli autori e degli editori: dal diritto d’autore al copyright (Doglio, 2007). Acquistando un giornale, un libro, un disco, posso utilizzarne i contenuti senza consumarli e, senza privarmene, potrei anche rivenderli ad altri, se non ci fosse la protezione del diritto d’autore che me lo impedisce. 3.4. Il doppio valore del prodotto Come abbiamo detto, l’industria dei media produce contenuti caratterizzati da due tipi di valore, quello economico e quello culturale, che si misurano con criteri tra loro diversi. Entrambi i valori concorrono a determinare il mercato dei contenuti e talvolta ciò avviene in modo non omogeneo. Il valore economico si può indicare in termini quantitativi perché è legato al costo di produzione del prodotto e ai suoi risultati di vendita. Il valore culturale (artistico, comunicativo) è legato ai caratteri formali e contenutistici del prodotto e si può indicare solo in termini qualitativi. Ci sono molti casi di film, romanzi, brani musicali che hanno avuto un grande successo commerciale, ma sono stati considerati di basso valore culturale, così come molti contenuti sono stati un fallimento commerciale, ma hanno riscosso un vasto successo culturale. Molto spesso la presenza prevalente di ­­­­­12

uno o dell’altro tipo di valore determina anche il tipo di circolazione e di mercato del prodotto (film). Non solo. In molti paesi gli interventi istituzionali che riguardano settori dell’industria e del mercato dei media sono programmati tenendo conto dei due tipi di valore e adottano strategie distinte per proteggere e sostenere l’uno o l’altro. Il fatto che i contenuti mediali incorporino un doppio valore spiega, per esempio, alcuni tipi d’intervento pubblico nel campo della televisione, dell’editoria a stampa periodica e libraria, del cinema. La rilevanza di questa caratteristica e le sue conseguenze sono apparse con evidenza in sede di Organizzazione mondiale del commercio (Omc) quando si è trattato di definire le regole per il commercio internazionale dei prodotti mediali. La funzione principale di questa organizzazione, nata nel 1995 per succedere al Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) e a cui partecipano oggi oltre 150 paesi, è quella di favorire la competizione commerciale su scala internazionale. Tra i suoi obiettivi, quello di promuovere la riduzione/abolizione delle barriere doganali nazionali e delle altre forme protezionistiche e l’adozione di misure in grado di garantire forme di competizione commerciale corrette. Tra queste misure c’è, per esempio, l’imposizione a tutti i paesi che accettano di far parte dell’Omc di adottare norme internazionali standard su vari fronti, come il lavoro minorile, l’inquinamento, i diritti sindacali, Molti paesi che fanno parte dell’Omc, e tra essi soprattutto quelli dell’Unione Europea, hanno chiesto una deroga alle regole, detta eccezione culturale (concetto che si è modificato nel tempo e che oggi è indicato con l’espressione diversità culturale), per poter applicare ai propri prodotti culturali forme di protezione doganale e di sostegno economico da parte dello Stato. Dunque l’affermazione del libero scambio commerciale, pur costituendo il fondamento e la finalità dell’Omc, non si applica ai prodotti mediali, ai quali si riconosce in generale anche un rilevante valore culturale. Tra questi spiccano i prodotti dell’industria cinematografica, audiovisiva e musicale, che molti paesi europei intendono proteggere e sostenere poiché si tratta di prodotti considerati espressione rilevante delle culture nazionali, in grado di creare e diffondere elementi identitari condivisi, di rafforzare la coesione sociale e la memoria storica di un paese. In altre parole, si vuole rafforzare l’industria dei contenuti nazionali ed europei per contrastare la crescente concorrenza dei prodotti di origine extraeuropea, che rischia di emarginarli negli stessi paesi d’origine. ­­­­­13

Un caso emblematico è quello della produzione cinematografica e audiovisiva europea, che da anni occupa una posizione minoritaria nei singoli mercati nazionali d’origine e nell’insieme dell’Unione (Pilati e Richeri, 2000). La manifestazione più diretta dell’azione protezionistica europea in difesa dei prodotti audiovisivi dei paesi membri, quella che all’epoca della sua adozione provocò le maggiori ostilità soprattutto da parte degli Stati Uniti, è rappresentata dalla direttiva europea Televisioni senza frontiere, del 1989, in seguito più volte aggiornata. Com’è noto, tale direttiva impone alle imprese televisive pubbliche e private di utilizzare prodotti di origine europea per coprire almeno il 50% della propria programmazione di fiction (film, telefilm, serie, ecc.). L’azione più significativa per sostenere l’industria audiovisiva dei paesi membri, che si è aggiunta alle iniziative dei singoli Stati, è invece riassunta nel Programme Media (Mesures pour encourager le développement de l’industrie audiovisuelle), lanciato nel 1991 e anch’esso successivamente aggiornato. In questo caso si tratta di misure destinate a migliorare alcune fasi della produzione e della distribuzione dei prodotti europei, nonché la loro circolazione al di fuori dei confini nazionali d’origine, sostenendo in particolare la cooperazione tra i vari partner. Entrambe le iniziative sono state prese sulla base di una forte consapevolezza del doppio valore economico e culturale dei prodotti dell’industria editoriale e dei media e hanno influenzato sensibilmente i comportamenti delle imprese (Candeloro e Richeri, 2004). 3.5. La produzione di prototipi La struttura dei costi è un altro fattore distintivo dell’industria dei media. In generale i costi di produzione totali sono composti dai costi fissi, che sono indipendenti dalle quantità prodotte, e dai costi variabili, che invece cambiano a seconda della quantità prodotta. L’industria dei media è caratterizzata da un regime di costi fissi molto elevati e di costi variabili molto bassi o nulli. Ciò significa che più alto è il numero di copie di un film, di un libro, di un disco o di un giornale, più basso è il costo di ogni singola copia, dal momento che i costi fissi si ripartiscono su un numero crescente di copie. L’investimento necessario a produrre un contenuto mediale si concentra nella fase di realizzazione del prototipo o numero zero. Questa fase assorbe la maggior parte delle risorse produttive strategiche e deter­­­­­14

mina le caratteristiche di un prodotto, che poi è difficile modificare. I contenuti hanno costi elevati di produzione, ma bassi o nulli di riproduzione. Per esempio, la copia di un dvd o di un giornale costa quasi nulla rispetto al costo di produzione del suo contenuto, così come a ciascuno spettatore costa quasi nulla l’accesso a un film in sala o con il televisore domestico. La distribuzione del contenuto necessaria per raggiungere il risultato economico atteso richiede anch’essa un investimento fisso più o meno elevato, rappresentato dai costi degli apparati di riproduzione o delle reti di trasmissione. Ciò vale nel caso in cui si debba realizzare un impianto di riproduzione del prototipo su supporti fisici (off line), come succede con la rotativa per stampare le copie di un giornale o con l’impianto per riprodurre le copie di un dvd o di una pellicola cinematografica. Vale altresì nel caso in cui il prototipo è distribuito attraverso una rete di telecomunicazione, come quella radiofonica o televisiva (on line). Al contrario, il costo della singola copia di un contenuto off line è basso e decresce con l’aumento del numero di copie riprodotte, così come è basso il costo della trasmissione di un contenuto on line. Su questa base si può affermare che i costi sostenuti da un’impresa mediale per fornire a un cliente aggiuntivo il contenuto editoriale si riducono progressivamente, mentre aumenta il margine di guadagno. Gli investimenti per produrre il prototipo sono indipendenti dalle dimensioni del mercato e dal risultato economico potenziale del romanzo, del film o del disco, e sono normalmente irrecuperabili in caso di insuccesso; quelli destinati alla distribuzione, invece, possono essere modulati secondo l’andamento dei risultati commerciali. Se un romanzo ottiene buoni risultati di vendita nei primi giorni di uscita nelle librerie si può aumentare il numero di copie stampate e si può allargare l’area geografica e la capillarità della sua distribuzione; lo stesso può avvenire nel caso di un disco o di un film. La produzione del prototipo è caratterizzata da un’alta intensità di lavoro intellettuale (soprattutto artistico e creativo), da un incremento basso o nullo della produttività, da basse economie di scala e da costi crescenti. La riproduzione del prototipo in più copie è caratterizzata, al contrario, da un’alta intensità di capitale, da una crescente produttività del lavoro, da economie di scala elevate e da costi decrescenti. ­­­­­15

3.6. L’innovazione e la flessibilità Quella dei prototipi è una produzione di pezzi unici che non offre margini all’innovazione e alla diversificazione di prodotto. Normalmente il prototipo di un film, di un romanzo, di un brano musicale è uguale per tutto il pubblico a cui è destinato e non può essere diversificato per adattarlo alle diverse categorie di consumatori. Inoltre, quando un contenuto mediale è prodotto, riprodotto, promosso e messo in circolazione sul mercato le possibilità di modificarlo sono molto limitate: quando il film arriva nelle sale, il romanzo nelle librerie, il disco nei punti vendita, normalmente non può più essere ritirato dal mercato e modificato (anche se non mancano eccezioni). Questo aspetto distingue l’industria dei media da altri settori. Il produttore di un’automobile, per esempio, può offrire versioni personalizzate di un modello, può migliorarne alcune caratteristiche nella fase riproduttiva, può innovarlo successivamente modificandone alcune parti (motore, carrozzeria, optional, ecc.). In altre parole, ha ampi margini per adattare uno stesso prodotto ai vari pubblici di riferimento, secondo le reazioni e l’evoluzione del mercato, cosa che, come si è detto, non è possibile nell’industria dei media. La situazione invece cambia nel caso della distribuzione dei prodotti mediali, che offre una maggiore flessibilità rispetto ad altri tipi di prodotti. Uno stesso contenuto può infatti essere distribuito attraverso reti e supporti diversi e diverse modalità commerciali. Un film può essere distribuito nelle sale cinematografiche, su cassette o dvd, attraverso i servizi di accesso a richiesta in rete (video on demand), in canali tv a pagamento, in canali tv gratuiti. Un romanzo o un saggio possono essere offerti al pubblico in edizione di lusso, popolare o tascabile, oppure in forma di capitoli pubblicati su giornali e periodici, o in forma di dispense, che poi vengono raccolte in un unico volume e commercializzate successivamente in forma di libro. Il libro è distribuito, oltre che da una rete di punti vendita specializzati, come le librerie, nelle edicole e nei supermercati, per corrispondenza o attraverso Internet, e in altri modi ancora. Un brano musicale può essere lanciato come parte della colonna sonora di un film, sfruttato in un programma radiofonico e commercializzato attraverso Internet o nella classica forma del disco. Questa larga gamma di modalità distributive permette di offrire lo stesso prodotto a diverse categorie di consumatori che si differenziano per i tempi e i modi di accesso, ­­­­­16

oltre che per l’impegno economico sostenuto. C’è poi un’ulteriore variabile. Lo stesso contenuto può essere messo in forma con modalità espressive e comunicative molto diverse: i contenuti di un romanzo, per esempio, possono essere rappresentati in forma di film, di sceneggiato televisivo, di spettacolo teatrale, ecc. 3.7. Il mercato dei best seller Tra i romanzi, i dischi, i film prodotti da un’impresa mediale solo un numero limitato ottiene un successo commerciale, mentre la maggior parte non riesce neppure a coprire i costi di produzione e distribuzione. Ciò è dovuto al fatto che i gusti e le scelte del pubblico, come si è detto, sono difficili da prevedere e solo dopo che il prototipo è riprodotto e reso accessibile al pubblico si può sapere se e quanto abbia ottenuto successo. È per questo che si parla di mercato dei best seller. I risultati raggiunti dai prodotti che sono stati venduti meglio, quelli che hanno incassato di più, oltre a far recuperare i loro costi, permettono all’editore di avere le risorse necessarie per coprire le perdite dovute agli insuccessi degli altri prodotti e di ottenere in complesso risultati positivi per l’impresa. Le imprese di medie e grandi dimensioni, che sono in grado di produrre un elevato numero di titoli e di rafforzare la loro promozione e distribuzione, hanno maggiori opportunità di realizzare quei prodotti che corrispondono ai gusti dei consumatori, raggiungendo così lo stato di best seller. Questa caratteristica, che nel mercato dei media si manifesta normalmente, già nel 1906 era stata descritta da Vilfredo Pareto, nel suo Manuale di economia politica, come un modello comune a vari fenomeni economici e sociali (Pareto, 2006). Essa viene definita sinteticamente «legge del 20/80» e nel nostro caso indica che il 20% dei prodotti genera l’80% del fatturato. Gli editori hanno adottato specifiche forme commerciali per fare in modo che il best seller faccia da traino alla vendita di prodotti che non hanno ottenuto sufficiente successo economico. È il caso, per esempio, dei produttori cinematografici, che vendono alle reti televisive i diritti di trasmissione non dei singoli film, ma di «pacchetti» che contengono sia titoli di successo sia film che non ne hanno ottenuto. Qualcosa di simile esiste per i successi musicali, che vengono «impacchettati» con altri brani meno o poco attraenti e venduti con essi nello stesso disco. ­­­­­17

3.8. La varietà delle risorse economiche Una parte rilevante delle imprese mediali realizza due tipi di prodotti, che sono destinati a due mercati distinti (two-sided markets). Il primo riguarda la realizzazione e distribuzione dei contenuti, il secondo riguarda la formazione di audience: è cioè la fase in cui il pubblico consuma i contenuti. In alcuni casi entrambi i prodotti generano risorse economiche (Picard, 1989). L’editore di giornali e periodici vende il suo prodotto ai lettori e vende agli inserzionisti pubblicitari l’attenzione che i lettori rivolgono potenzialmente al suo prodotto. L’impresa televisiva pubblica ‘vende’ la sua programmazione – considerata un servizio d’interesse collettivo – allo Stato, che la remunera con le risorse derivate dalla riscossione di una tassa (il canone) pagata dai potenziali telespettatori. In vari paesi, inoltre, la televisione pubblica vende agli inserzionisti pubblicitari l’attenzione potenziale dei telespettatori alla programmazione, che comprende anche i loro annunci. Nel caso della televisione privata in chiaro l’impresa offre gratuitamente ai telespettatori la sua programmazione, che comprende anche gli annunci pubblicitari, e vende agli inserzionisti pubblicitari l’attenzione dei telespettatori che riesce ad attrarre. La remunerazione congiunta del contenuto e dell’audience si combina in vari modi, secondo il modello economico prescelto. In generale possiamo dire che l’aumento, oltre certi limiti, degli spazi pubblicitari su un giornale può provocare l’insoddisfazione dei lettori e una conseguente contrazione delle vendite. Ma questa contrazione può essere contrastata dalla riduzione del prezzo del giornale, che si può sostenere grazie ai maggiori introiti pubblicitari ottenuti. Più aumenta l’affollamento pubblicitario più si abbassa il prezzo di acquisto o di accesso; più si abbassa l’affollamento pubblicitario più aumenta il prezzo. I punti estremi sono rappresentati da una parte dalla stampa e dalla televisione, che l’utente ottiene gratuitamente perché finanziate dalla pubblicità, dall’altra dalla stampa specializzata (per esempio newsletter) e dalla pay-tv, che l’utente ottiene dietro un pagamento elevato, ma dove la pubblicità ha una presenza marginale o nulla. Come si è detto, a queste due tipologie di risorse economiche se ne aggiunge, soprattutto in Europa, un’altra, rappresentata dal finanziamento pubblico, che assume, a seconda dei media e delle istituzioni interessate, varie forme. Ad alcuni media, infatti, si rico­ nosce il merito di svolgere una funzione culturale, civile, democrati­­­­­18

ca (merit goods). Questa è la ragione per cui in molti paesi le istituzioni pubbliche intervengono in vari modi per sostenere le attività delle imprese mediali che operano in settori come il cinema, la stampa e la radiotelevisione, a prescindere dai loro risultati di mercato (Hoskins et al., 2004). O meglio, si tratta di beni che, se lasciati al settore commerciale privato, sarebbero forniti in quantità scarsa o nulla. Le istituzioni pubbliche intervengono allora affinché l’offerta sia sufficiente (Musgrave, 1959; Doyle, 2002). L’intervento pubblico può assumere la forma di finanziamento diretto o indiretto. Il primo caso comprende, ad esempio, il finanziamento della televisione pubblica in ciascun paese europeo, che quasi ovunque è coperto da una specifica imposta, o il finanziamento di alcune attività produttive e distributive dell’industria audiovisiva da parte dell’Unione Europea (Programme Media) o dei suoi singoli partner. Nel secondo caso rientrano le tariffe postali agevolate per gli abbonamenti alla stampa, le sovvenzioni per l’acquisto della carta dei giornali, le condizioni fiscali agevolate per la produzione cinematografica. Inoltre, in alcuni paesi europei le istituzioni pubbliche finanziano programmi radiotelevisivi che hanno funzioni speciali, come quelli scolastici, quelli cultural-promozionali verso i paesi stranieri, quelli destinati alle comunità nazionali residenti all’estero. In sintesi, l’industria dei media si basa su quattro modalità di finanziamento: pubblicità, pagamento diretto e spontaneo, finanziamento pubblico stabilito per legge, finanziamento pubblico su commessa. Un quinto tipo di risorse deriva da attività specifiche, come la vendita di prodotti «collaterali» – libri e altri oggetti (vedi cap. VI) – da parte di quotidiani e periodici, oppure l’affitto di spazi di programmazione televisiva a società specializzate in televendite. La quantità e la qualità di queste forme di finanziamento variano a seconda dei media e dei paesi di riferimento. Per esemplificare consideriamo alcuni casi presenti nella situazione italiana. In Italia gli editori di quotidiani e periodici possono attingere a cinque tipi di risorse: la vendita di copie, la vendita di prodotti «collaterali», la vendita di spazi pubblicitari, i sussidi pubblici diretti – destinati soprattutto ai giornali dei partiti politici e alle pubblicazioni di «valore culturale» –, gli aiuti pubblici (per l’acquisto della carta, tariffe postali speciali, ecc.). La radiotelevisione pubblica riceve dallo Stato le risorse raccolte attraverso il canone, a cui si aggiungono le risorse derivate dalla pub­­­­­19

blicità e dalle sponsorizzazioni. Inoltre, riceve ulteriori risorse pubbliche per la fornitura di alcuni servizi specifici, come l’allestimento di programmazioni radiotelevisive destinate all’estero o aventi specifiche funzioni d’interesse educativo e culturale. Le radio e le televisioni private a copertura nazionale attingono prevalentemente al finanziamento degli inserzionisti e degli sponsor, oltre che a quello delle imprese che acquistano «tempo d’antenna» dedicato alla promozione e offerta diretta al pubblico dei propri prodotti. Le radio e le televisioni private a copertura locale che offrono anche programmi informativi, oltre che dalla vendita di spazi pubblicitari e di «tempo d’antenna», ricavano finanziamenti anche dallo Stato per la loro funzione d’interesse generale. La tv a pagamento è finanziata soprattutto dall’abbonamento spontaneo, pagato periodicamente da chi è interessato alle sue trasmissioni; ad esso si aggiungono gli introiti pubblicitari. La possibilità di attingere a varie fonti di finanziamento rappresenta un vantaggio dell’industria dei media rispetto ad altri settori industriali, ma pone anche dei vincoli. In alcuni casi la compresenza di più fonti di finanziamento può generare squilibri. I criteri di programmazione che la televisione pubblica dovrebbe adottare per rispettare le condizioni del finanziamento pubblico non coincidono, per esempio, con quelli che dovrebbe adottare per massimizzare i finanziamenti pubblicitari. 3.9. Il ciclo di vita dei prodotti I prodotti mediali si possono distinguere in due grandi categorie a seconda della durata del loro ciclo di vita economica. I prodotti di stock, detti anche ad utilità ripetuta, sono quelli che possono essere utilizzati più volte nel tempo, continuando a generare risorse economiche. Appartengono a questa categoria i film, i romanzi, i brani musicali e altri contenuti il cui mercato può durare anche molto a lungo nel tempo. Gli autori e gli editori, o eventuali altri detentori, possono sfruttare in esclusiva i diritti di proprietà nell’ambito di una fase temporale stabilita per legge, al termine della quale l’uso dei contenuti è libero. Il loro valore economico, però, non si esaurisce finché continua ad esserci un pubblico disposto a pagare per poterli consumare. Si pensi alle opere della cultura classica greca e latina, e a tutte quelle di altre epoche, che sono ancora oggi stampate e vendute; o all’edizione discografica della musica classica e sinfonica dei secoli passati; oppure, ­­­­­20

per venire a opere più recenti, ai film e alla musica leggera degli ultimi decenni, che sono trasmessi ripetutamente in televisione. L’altra categoria è quella dei prodotti di flusso, quelli che perdono rapidamente la loro capacità di generare interesse nel pubblico. Il loro valore commerciale svanisce appena sono diffusi, o comunque nell’arco di un tempo molto breve. A questa categoria appartengono, da un lato, i giornali radio e i telegiornali, i talk show e i programmi a quiz, la maggior parte delle trasmissioni di eventi sportivi in diretta e tutti quei programmi che, una volta trasmessi, non hanno possibilità di ripassare in radio o in televisione una seconda o terza volta (anche se qualche loro frammento è talvolta utilizzato come testimonianza o rievocazione); dall’altro lato, nell’ambito della carta stampata, i quotidiani e i periodici, che concludono la loro vita economica nell’arco di un giorno, di una settimana, di un mese. A questi prodotti si possono assimilare gli instant books, che sono realizzati in tempi molto brevi per sfruttare il richiamo a fatti di cronaca, o certi film stagionali, che difficilmente hanno una vita economica oltre le prime settimane di uscita nelle sale. Il ciclo di vita del prodotto determina sia le caratteristiche della sua rete distributiva sia le strategie di marketing dei suoi contenuti. Per i prodotti di flusso, che hanno un ciclo di vita molto breve, è necessaria una rete distributiva che renda il contenuto accessibile al maggior numero potenziale di clienti e nel modo più rapido. Per esempio, il telegiornale ha bisogno della televisione per arrivare istantaneamente in modo capillare in tutto il territorio di riferimento; il film invece viene distribuito nelle sale, che coprono il territorio in modo meno capillare ma offrono condizioni di accesso più flessibili e di consumo più gradevoli. Il giornale deve arrivare nelle edicole nelle prime ore della mattina e i tempi di offerta al pubblico si esauriscono nell’arco della giornata, insieme al suo valore economico. Il libro, al contrario, arriva nelle librerie in tempi meno rapidi, e le librerie sono meno capillari delle edicole, però offrono condizioni di accesso al prodotto prolungate, a cui corrisponde un ciclo di vita economica del prodotto più esteso. 3.10. I beni esperienza I prodotti mediali appartengono alla categoria dei «beni esperienza», il cui valore è percepibile e apprezzabile solo dopo che il con­­­­­21

sumatore ha potuto conoscerne il contenuto, ovvero dopo che ne ha avuto esperienza (Shapiro e Varian, 1998). L’utilità e il valore attribuiti dal consumatore al prodotto mediale dipendono, più che in altri settori del consumo, dalla sua esperienza passata e da come l’esperienza derivata dal consumo di quel bene può essere valorizzata, per esempio in quanto fattore di distinzione o di condivisione nei rapporti sociali. Il libro, il film, il concerto registrato possono essere valutati dal consumatore solo dopo un suo investimento di tempo, di attenzione, di energia intellettuale. È solo alla fine del lavoro di consumo che una persona può sapere se l’investimento economico le ha fornito un prodotto che corrisponde alle sue attese. Ma se il lavoro di consumo di un giornale, di un libro, di un film o di un brano musicale aumenta la competenza, affina la sensibilità e la capacità interpretativa del consumatore – quindi crea le condizioni affinché le esperienze future di prodotti giornalistici, librari, cinematografici o musicali abbiano maggior valore –, la ripetizione del consumo di uno stesso contenuto è soggetta alla «legge del piacere decrescente», definita da Hermann Heinrich von Gossen in riferimento alle opere d’arte (citato in Perretti e Negro, 2003), in base alla quale il piacere generato da un’esperienza decresce in modo direttamente proporzionale al numero delle sue ripetizioni e alla brevità degli intervalli in cui le ripetizioni si succedono. Per questo motivo il produttore cinematografico o televisivo, l’editore di libri, di dischi o altro hanno poche possibilità di prevedere la reazione del pubblico, di sapere in anticipo se e quanto i loro contenuti saranno apprezzati. Il solo mezzo per ovviare a questa difficoltà è quello di limitare l’incertezza del consumatore e rendere più facile la sua scelta. Un modo utilizzato per rispondere a questa esigenza è quello di continuare a usare, nella realizzazione di un nuovo film, di un romanzo, di un brano musicale, ingredienti e formati che abbiano già avuto successo in prodotti precedenti. Un esempio classico è la lunga serie dei film di James Bond, ma i casi analoghi sono molti, come la serie di film Lo squalo o Star Wars, oppure le serie di libri polizieschi centrati su figure già consolidate quali un ispettore, una donna commissario, un investigatore, o altri personaggi ancora. Altri modi per ridurre l’incertezza del consumatore si basano sull’ingaggio di autori, registi, attori, cantanti che hanno già riscosso successi rilevanti e su ­­­­­22

forti investimenti nella promozione e nel marketing dei film, dei romanzi, dei dischi. 3.11. Il rischio economico Come si è detto, nell’industria dei media la maggior parte delle risorse economiche è concentrata nella realizzazione del prototipo, mentre la sua riproduzione e distribuzione ha un costo unitario molto basso, che si riduce all’aumentare del numero di copie. Gli investimenti nella produzione del prototipo sono considerati a rischio elevato perché le risorse necessarie per realizzarlo sono investite prima che si sappia se avrà o no successo commerciale. Ma si tratta di risorse che una volta investite non sono recuperabili (sunk costs) e in caso di insuccesso una loro parte, più o meno consistente, si perderà. Ci sono diversi modi per contenere il rischio di insuccesso commerciale, legati soprattutto ad attività di promozione e di marketing, ma non sono sufficienti per eliminare le incognite o ridurle in modo sistematico. Le difficoltà di ridurre o eliminare il rischio trovano un caso emblematico nell’industria cinematografica hollywoodiana, dove si fanno investimenti dell’ordine di centinaia di milioni di dollari per produrre film che in vari casi diventano grandi insuccessi (de Vany, 2004). Si è visto prima che questa è la caratteristica del mercato dei best seller. I piccoli e medi editori hanno pochi strumenti d’intervento per limitare il rischio: ricerche di mercato, promozione e marketing, e poco altro. Gli editori e, in particolare, i produttori cinematografici che sono in grado di fare prodotti ad alto costo e che operano in mercati di grandi dimensioni seguono una logica più di tipo finanziario che produttivo. Un produttore cinematografico hollywoodiano mette in lavorazione dieci film e si aspetta che due riescano ad avere un grande successo mondiale con incassi molto alti, tre riescano a coprire i costi e gli altri cinque producano delle perdite economiche (Hawkins e Vickery, 2008). 4. Le fasi della creazione del valore economico In questo paragrafo prenderemo in esame le principali fasi attraverso le quali nell’industria dei media si crea valore economico. Si tratta di quattro fasi che possono essere separate e gestite da imprese di­­­­­23

stinte, o possono essere gestite integrando due o più fasi nella stessa impresa. Esse riguardano: • la produzione; • la confezione; • la distribuzione; • la vendita. In ciascuna di queste fasi l’imprenditore dev’essere in grado di gestire variabili specifiche che riguardano i fornitori e i clienti, i concorrenti e le dimensioni del mercato, ecc. Un caso evidente è quello del cinema, dove il mercato di riferimento del produttore normalmente è quello internazionale, il mercato del distributore è quello nazionale e il mercato dell’esercente della sala cinematografica è quello locale. In ognuna delle quattro fasi si crea normalmente una parte del valore economico del prodotto mediatico che, semplificando, si misura attraverso l’ammontare dei salari e dei compensi corrisposti ai vari tipi di apporti lavorativi, da quelli più semplici e ripetitivi a quelli artistici, creativi e manageriali, a cui si aggiunge la remunerazione di altri fattori, come le materie prime, gli immobili, la strumentazione e le tecnologie, i trasporti, la promozione e la vendita, insieme ad altri tipi di servizi. A queste voci di costo si deve aggiungere poi il profitto d’impresa. Tutto ciò costituisce il valore economico del prodotto mediale nel momento in cui arriva al consumatore finale. In alcuni casi tale valore potrà variare a seconda dell’attrattività del prodotto, misurata dai primi risultati commerciali. Per esempio, se un film nelle prime settimane di programmazione ottiene un grande successo di pubblico il valore economico su cui si baseranno le sue fasi successive di commercializzazione (home video, pay-tv, tv in chiaro, ecc.) potrà aumentare, mentre potrà ridursi in caso di insuccesso. A volte ognuna delle fasi è gestita da imprese distinte, in altri casi un’unica impresa cura due o più fasi. Nell’industria cinematografica, per esempio, le quattro fasi sono spesso gestite da imprese distinte. Nell’industria televisiva, invece, ci sono casi, come quello italiano, in cui la stessa impresa gestisce tutte le fasi: le imprese televisive italiane pubbliche e private nazionali gestiscono direttamente una parte della produzione, la fase di confezionamento (la programmazione) e quella di distribuzione (reti di telecomunicazione circolare) e vendita. La Rai negozia con lo Stato la qualità e la quantità della sua programmazione per ottenere il finanziamento pubblico, Rai e Mediaset gestiscono la vendita degli spazi pubblicitari attraverso le loro ­­­­­24

rispettive filiali Sipra e Publitalia. In campo editoriale, Mondadori gestisce direttamente la fase produttiva, quella del confezionamento (tipografia, ecc.) e in parte quella della distribuzione e della vendita attraverso la propria rete di librerie. Un’impresa mediale che svolge direttamente più di una funzione è detta «integrata verticalmente». Se si tratta di un’impresa di confezionamento, come un’impresa televisiva, che svolge anche un’attività di produzione di programmi, si parlerà di integrazione verticale a monte; nel caso, invece, in cui l’impresa svolga un’attività di distribuzione o di vendita si parlerà di integrazione verticale a valle. 4.1. L’attività di produzione Nella fase della produzione l’imprenditore compie generalmente una serie di attività, le principali delle quali sono: • l’analisi del mercato e l’individuazione della tipologia di prodotto adatto a essere commercializzato; • la selezione dell’idea da trasformare in un prodotto mediale e dell’autore a cui affidarne lo sviluppo; • l’organizzazione delle risorse artistiche, tecniche, professionali necessarie a trasformare l’idea selezionata in forma di prodotto, a realizzare cioè il prototipo; • l’organizzazione delle risorse finanziarie necessarie a remunerare l’attività produttiva fino alla realizzazione del prototipo; • la promozione del prodotto fino alla stipula degli accordi con chi gestisce la fase della confezione e della distribuzione. 4.2. L’attività di confezione La fase della confezione riguarda l’attività necessaria a trasformare il prototipo in modo da poterlo commercializzare. In alcuni casi questa attività è svolta direttamente dal produttore, in altri casi da un’impresa distinta, in altri ancora da imprese che gestiscono insieme il confezionamento e la distribuzione. Le imprese televisive sono delle tipiche imprese di confezionamento, il cui ruolo principale è quello di allestire la programmazione selezionando e assemblando prodotti audiovisivi in alcuni casi acquistati dal produttore, in altri casi prodotti direttamente (ma per l’impresa televisiva la produzione, come diremo in seguito, è un’attività opzionale). Nel caso delle piattafor­­­­­25

me televisive multicanale l’impresa confeziona bouquet di canali, da offrire a chi intende abbonarsi, forniti da imprese terze, che a loro volta confezionano le loro programmazioni con contenuti acquistati da produttori. Anche gli editori di quotidiani e periodici gestiscono la fase di confezione del prodotto, in cui assemblano contenuti realizzati in proprio (dalla redazione) o acquistati da produttori terzi (agenzie, free lance). Per quanto riguarda libri, dischi, quotidiani e periodici la fase della confezione è affidata all’esterno nel caso di editori di dimensioni medie e piccole, mentre i grandi editori hanno spesso una struttura integrata che comprende, oltre alla produzione dei contenuti editoriali, anche la stampa delle copie, insieme alla definizione dei vari aspetti formali – dalla grafica al tipo di supporto, dai contenitori alle etichette. Nell’industria cinematografica la confezione del prodotto è compito del distributore, che acquisisce il prototipo dal produttore anticipando normalmente una parte degli introiti futuri. Decide poi il numero di copie da tirare, l’eventuale doppiaggio, talvolta il titolo, e in alcuni casi propone interventi sul prototipo per confezionarlo in modo che sia più adatto al mercato a cui è destinato. Il distributore realizza inoltre i materiali e le iniziative di promozione e marketing con cui accompagnare il lancio del film nel mercato di riferimento. 4.3. L’attività di distribuzione Anche la fase della distribuzione può essere svolta in modo integrato dall’impresa mediale, oppure essere affidata a imprese specializzate indipendenti. Ciò dipende non solo dalle dimensioni delle imprese, ma anche dalle scelte strategiche, dalle opportunità del mercato o dalla legislazione vigente. Nel caso della stampa quotidiana l’acquisto del giornale avviene in molti paesi per abbonamento e la distribuzione delle copie agli abbonati è affidata al servizio postale. Una delle ragioni per cui in Italia gli abbonamenti ai giornali quotidiani sono pochi, rispetto a molti altri paesi europei, è il cattivo funzionamento delle poste, che non sono mai state in grado di garantire la consegna a domicilio dei giornali in tempo utile. In altri paesi i punti vendita dei giornali sono molti e sono distribuiti in modo capillare su territori di grandi dimensioni. L’attività distributiva richiede quindi una struttura complessa e costosa, che può essere remunerata soltanto aggregando la distribuzione di più testate, talvolta concorrenti. Si tratta perciò di un’attività più adatta a un’impresa indipendente ­­­­­26

dall’attività editoriale. Anche nella distribuzione dei libri ci sono varianti da paese a paese. In molti casi i grandi editori gestiscono direttamente la rete distributiva dei propri libri fino alla rete dei punti vendita. I piccoli e medi editori, invece, devono generalmente ricorrere a imprese specializzate nella distribuzione per alimentare i punti vendita con i propri prodotti. In generale la distribuzione nel territorio italiano di prodotti off line, quindi di supporti fisici, ha sempre presentato notevoli difficoltà, per due ragioni soprattutto. La prima riguarda la struttura geografica del paese, che rende complessa e costosa la distribuzione fisica per quei prodotti che hanno un ciclo di vita breve, come nel caso dei quotidiani. Il secondo problema è costituito dalla distribuzione della popolazione italiana sul territorio nazionale. Larga parte degli italiani risiede in comuni con non più di 30.000 abitanti e di dimensioni non sufficienti a mantenere in vita negozi specializzati nella vendita di libri, dischi e altri prodotti editoriali. Questo significa che una parte importante della popolazione non si trova in condizioni favorevoli per accedere ai punti vendita (librerie, negozi di dischi, ecc.) dove poter scegliere e acquistare i prodotti. La prova del fatto che questo elemento costituisce un limite strutturale è data dal grande successo ottenuto dalla vendita di libri, dischi e video nelle edicole, che sono invece presenti in modo capillare in quasi tutto il territorio nazionale, compresi i comuni di piccole dimensioni. Le edicole sono strutture specializzate nella vendita di prodotti editoriali con un ciclo di vita breve, come i quotidiani e i periodici; non sarebbero adatte, quindi, a soddisfare le esigenze di prodotti come il libro, il disco o la videocassetta, che hanno bisogno di spazi e tempi di esposizione diversi da quelli dei prodotti a ciclo breve, così come diverse sono le modalità di selezione e di scelta da parte dell’acquirente. Tuttavia attraverso le edicole, nonostante la loro inadeguatezza, è stato venduto per vari anni un elevato numero di volumi, in larga parte ad acquirenti che non avevano l’abitudine di frequentare le librerie. Questi ‘nuovi’ acquirenti sono stati attirati sia dalla grande accessibilità del punto vendita sia dai prezzi, che hanno potuto essere ridotti grazie alla maggiore tiratura determinata dalla capillarità della rete dei punti vendita, rappresentata da oltre 30.000 edicole. Sono pochi, infatti, in Italia i comuni che non hanno almeno un’edicola, mentre sono una larga maggioranza quelli che non hanno almeno un punto vendita specializzato per i libri e ancor meno per i dischi e i video. ­­­­­27

Nella maggior parte dei paesi europei le imprese televisive affidano la diffusione della programmazione a società che gestiscono le reti di telecomunicazione adatte a trasmettere i segnali televisivi (diffusione via etere, via satellite o via cavo). L’Italia è il solo paese in cui le imprese radiofoniche e televisive sono anche proprietarie delle reti di diffusione, e questo comporta la necessità di svolgere un’attività di telecomunicazione eterogenea rispetto a quella di un’impresa mediale, insieme all’impegno di grandi investimenti in un’attività che potrebbe essere favorevolmente esternalizzata. Ogni rete offre caratteristiche e costi di trasmissione distinti. Le reti di trasmissione via etere terrestri – quelle che hanno per molto tempo dominato il campo – hanno costi di installazione che variano a seconda delle dimensioni e della complessità orografica del territorio da coprire. Offrono condizioni di accesso che possono essere facilmente garantite anche su scala di massa, ma fino a tempi recenti hanno potuto trasmettere un numero limitato di canali televisivi a causa della scarsità di frequenze hertziane disponibili. Questo limite si sta superando con il passaggio alle trasmissioni televisive terrestri in tecnica digitale, che si concluderà, secondo le previsioni, entro il 2012 in tutta Europa (vedi cap. VIII). In Europa le televisioni pubbliche hanno l’obbligo istituzionale di coprire tendenzialmente l’intero territorio nazionale di riferimento per garantire il servizio televisivo a tutti i cittadini, senza discriminazioni; le televisioni private, invece, non sempre hanno interesse a coprire con il loro segnale le aree marginali poco popolate. La diffusione televisiva via cavo, quasi assente in Italia, è molto sviluppata in alcuni paesi europei, come la Germania, l’Olanda, il Belgio e la Svizzera, mentre è presente in misura minore in Francia e nel Regno Unito. Si tratta di una rete di trasmissione prevalentemente di tipo urbano, che offre oggi un grande numero di canali, ma richiede investimenti elevati, che possono essere remunerati solo in aree densamente popolate. Le reti di telecomunicazione a banda larga, in fase di sviluppo in tutta Europa, offriranno, insieme ad altri servizi, condizioni di accesso ai servizi televisivi assimilabili a quelli tradizionalmente offerti dalle reti televisive via cavo, con l’aggiunta di servizi televisivi interattivi. La diffusione televisiva via satellite, che in Europa avviene ovunque in tecnica digitale, ha il vantaggio di coprire in modo capillare aree più vaste dei singoli territori nazionali, offrendo un’ampia gamma di canali, e di avere un costo di ­­­­­28

trasmissione per canale contenuto (attualmente dell’ordine di 4 milioni di euro all’anno) e assai più basso di quello dei canali terrestri analogici via etere. La diffusione via satellite comporta la dotazione, da parte degli utenti, di antenna e apparato specifici, più costosi e più difficili da installare rispetto alle tradizionali antenne televisive. Attualmente in Italia la quasi totalità delle famiglie – oltre 23 milioni – riceve i canali televisivi analogici pubblici e un numero un po’ più basso riceve i canali analogici privati nazionali. Le famiglie che ricevono i canali televisivi via satellite in chiaro o codificati sono quasi 9 milioni, mentre quelle che ricevono canali attraverso le reti di telecomunicazione a banda larga sono oltre 2 milioni. 4.4. L’attività di vendita Questa fase riguarda il punto conclusivo del processo economico, ovvero la vendita all’utilizzatore finale. Nell’industria cinematografica l’imprenditore che gestisce questa fase è l’esercente dei cinematografi. Il suo ruolo è quello di disporre dell’immobile, di allestirlo con arredi e macchinari appropriati al consumo cinematografico in sala, di coordinare il flusso di prodotti provenienti dai vari distributori e la programmazione della sala, di gestire la biglietteria ed altri eventuali servizi, di promuovere i film nel suo mercato di riferimento. L’esercente deve inoltre gestire l’incasso, trattenendone una parte e trasferendone un’altra al distributore del film, che a sua volta ne trasferirà una parte al produttore. Lo schema è simile nel caso degli altri media, anche se in realtà molti dettagli sono differenti. Le funzioni e le pratiche del libraio, dell’edicolante o di chi gestisce un video club o un negozio di dischi hanno caratteri tipici (investimenti, logistica, gestione e offerta del prodotto al pubblico, flussi finanziari, rapporti con i distributori, gli editori, ecc.), anche se si tratta normalmente di attività imprenditoriali indipendenti o che comunque richiedono investimenti, competenze e rischi specifici. La fase di vendita può compiersi anche con modalità a distanza, cioè per posta o attraverso le reti di telecomunicazione (media on demand). Si tratta di forme di vendita gestite direttamente dall’editore oppure da imprese specifiche (per esempio Amazon). Altre forme di vendita sono quelle per abbonamento, utilizzate prevalentemente per la stampa quotidiana e periodica o per i canali televisivi. ­­­­­29

5. La fase del consumo Perché i contenuti mediali prodotti, confezionati e distribuiti siano venduti non è sufficiente che ci siano persone intenzionate ad usarli, ma è necessario che queste persone siano dotate di alcuni prerequisiti, che sono di vario peso e di crescente rilevanza dal momento che i mercati dei media su scala locale, nazionale e internazionale sono sempre più complessi. Possiamo individuare quattro categorie principali di prerequisiti la cui esistenza è necessaria per poter utilizzare, a seconda dei casi, l’uno o l’altro prodotto dell’industria mediale: a) dotazione culturale: occorre possedere diversi tipi di alfabetizzazione, a seconda dei contenuti che s’intendono consumare. Per esempio, nel caso di un programma televisivo basta conoscere la lingua utilizzata; per un giornale o un libro occorre conoscere la lingua utilizzata e saper leggere; per i documenti o le informazioni accessibili via Internet occorre conoscere la lingua usata, saper leggere e scrivere e sapere come si usa un computer; b) dotazione tecnica: in vari casi per consumare un contenuto è necessario essere dotati di apposite apparecchiature. Per esempio, nel caso di contenuti off line occorre il videoregistratore, il lettore cd-rom, la console per videogiochi; nel caso di contenuti on line biso­ gna disporre di apparati di connessione, come antenne e parabole, a cui vanno aggiunti televisore, decodificatore, computer; c) dotazione economica: in vari casi occorre avere le risorse economiche per acquistare i terminali (hardware) e poi i contenuti (soft­ware); d) dotazione di tempo: per consumare televisione, giornali, cinema occorre investire del tempo, che per molte persone è una risorsa scarsa e il cui uso dev’essere negoziato, come nel caso delle risorse economiche, con possibili usi alternativi, come praticare attività sportive o stare con gli amici. Quella dei media è un’industria soggetta a una continua innovazione tecnologica, che offre nuovi prodotti e servizi e nuove opportunità di accesso a condizione di dotarsi di nuovi apparecchi e di sostenere nuove spese. Ciò vale oggi per l’accesso e l’uso di prodotti mediali alfanumerici (come l’e-book), audio (come l’i-pod), televisivi (come la tv digitale) e altro. Lo sviluppo del mercato dei contenuti mediali dipende dal ritmo con cui questi apparecchi vengono adottati dalle persone o dalle famiglie. ­­­­­30

5.1. Modalità di adozione dei mezzi di comunicazione domestici Le prime riflessioni di riferimento sulle modalità di adozione, presso le famiglie, di beni durevoli innovativi risalgono agli anni Sessanta (Rogers, 1962; Bass, 1969), ma solo negli anni più recenti sono apparsi diversi studi relativi a casi concreti di adozione di mezzi di comunicazione (tv color, videoregistratori, antenne paraboliche, ecc.), studi che hanno preso in esame le principali variabili in gioco, il loro comportamento nel tempo e le loro correlazioni per tentare di modellizzare il processo (Khilnani, 1998; London Economics, 1999). Il punto di partenza di molte analisi sulla diffusione delle nuove tecnologie è che il processo di adozione, rilevato osservando il comportamento della popolazione nel tempo, tende a seguire uno stesso modello, che può essere rappresentato da una curva a forma di ‘S’ più o meno allungata. Mentre il livello di saturazione e il tempo impiegato per raggiungerlo variano anche considerevolmente, la forma della curva non varia, e può essere descritta in sintesi come segue: • un periodo iniziale in cui le adozioni sono basse e aumentano lentamente; • un secondo periodo in cui le adozioni aumentano a tassi crescenti; • un terzo periodo in cui le adozioni aumentano, ma a tassi decrescenti; • un periodo finale in cui le adozioni sono ormai elevate e crescono lentamente (Figura 1). Si tratta di un processo di adozione particolare, distinto da altri possibili modelli, che manifesta una somiglianza con il modello di diffusione delle malattie contagiose, dove il numero di persone contagiate (nel nostro caso quelle che adottano una nuova tecnologia) cresce proporzionalmente al numero di persone già contagiate (che l’hanno già adottata), ecc. La probabilità di acquisizione cresce con la penetrazione della nuova tecnologia, ma nello stesso tempo il numero di potenziali nuovi clienti decresce. L’analisi della curva di adozione può essere riferita anche ai tassi d’incremento di adozioni nell’unità di tempo. Nella prima fase le adozioni aumentano a un tasso crescente, mentre nella seconda fase crescono a un tasso decrescente, fino alla saturazione. ­­­­­31

Figura 1. Curva di adozione domestica delle tecnologie

Penetrazione (%)

Livello di saturazione

Tempo

Nuove adozioni (%)

Figura 2. Comportamenti di adozione domestica delle tecnologie

Innovatori

Anticipatori

Pronti

Ritardatari

Indifferenti

Tempo

Fonte: elaborazione da Rogers, 1962.

L’analisi di esperienze passate di diffusione di nuove tecnologie domestiche ha permesso di individuare il comportamento nel tempo di diverse categorie di individui (Figura 2). In generale si possono distinguere tra il pubblico cinque categorie di comportamento, le cui dimensioni variano da caso a caso e che noi indichiamo a titolo d’esempio, senza riferimento a casi concreti: ­­­­­32

a) gli innovatori rappresentano una piccola percentuale del mercato (7-10%): sono coloro che hanno una spiccata propensione per i prodotti «tecnologici», che acquistano per la passione della novità, senza considerare eccessivamente la rilevanza dei servizi che con essi si ottengono; costoro adottano il prodotto nella primissima fase di commercializzazione, pur sapendo che è suscettibile di miglioramento e di riduzione del prezzo. Si tratta di una categoria di acquirenti che non considera neppure i rischi di eventuale fallimento, come ben evidenzia, per esempio, il caso di coloro che acquistarono per uso domestico videoregistratori betamax, laser disk, ecc.; b) i precoci rappresentano una percentuale più ampia, ma ancora contenuta, del mercato (15-18%): per loro il prezzo della nuova tecnologia non rappresenta un vincolo all’acquisto, sono convinti della sua utilità e interesse nonché della sua stabilità tecnica; c) i pronti rappresentano una quota ampia del mercato (25-30%): sono coloro che adottano la tecnologia quando ha ormai raggiunto le reti di distribuzione di massa e un prezzo ridotto, le sue funzioni sono ampiamente note e apprezzate, il suo ciclo di vita riguarda il medio-lungo termine; d) i ritardatari rappresentano una percentuale spesso simile a quella dei pronti (25-30%): sono coloro che per minor interesse, per difficoltà economiche o altro rimandano l’adozione; e) gli indifferenti (10-20%) sono coloro che per varie ragioni non hanno bisogno della nuova tecnologia, non sono interessati o attratti da ciò che essa offre. Il comportamento di adozione varia da caso a caso, ma può essere influenzato da alcuni fattori generali, come: • il costo di acquisto della tecnologia (hardware) e dei supporti di funzionamento; • il prezzo di tecnologie sostitutive (per esempio cavo e satellite); • la qualità e la varietà dei prodotti e dei servizi accessibili attraverso la nuova tecnologia; • il prezzo dei prodotti o servizi (abbonamento tv, videocassette pre-registrate, ecc.); • la capacità di promozione e marketing delle società che offrono la tecnologia e i prodotti o servizi associati ad essa; • il reddito disponibile delle famiglie. Studi disponibili su esperienze passate hanno potuto misurare in particolare il peso dei fattori economici, come il prezzo della tecno­­­­­33

logia e dei servizi associati, mettendo in evidenza come un suo livello maggiore o inferiore ai loro valori reali avrebbe rispettivamente rallentato o accelerato le adozioni. Si possono fare alcuni esempi usando come termine di paragone l’esperienza inglese, che è stata attentamente studiata per quanto riguarda i televisori a colori, il videoregistratore e il cavo/satellite (London Economics, 1999). In Italia il servizio televisivo è iniziato nel 1954 e i televisori in bianco e nero hanno impiegato 12 anni per essere adottati dal 50% delle famiglie e altri 8 anni per superare la soglia del 90%. La televisione a colori si è resa disponibile nel Regno Unito a partire dal 1969 e ha impiegato circa 7 anni per essere adottata dal 50% delle famiglie e altri 6 anni per arrivare all’80%. In Italia la tv a colori è arrivata nel 1977 e ha impiegato circa 10 anni per entrare nel 50% delle famiglie. L’adozione del videoregistratore è iniziata in Italia e nel Regno Unito a partire dal 1980 e ha raggiunto nel primo caso una penetrazione nel 50% delle famiglie nel corso del 1987, mentre nel secondo caso ci sono voluti più di 10 anni. Le curve di adozione da parte delle famiglie nei casi considerati si possono spiegare in buona parte, anche se non completamente, analizzando l’andamento delle variabili sopra citate: la variazione dei prezzi, la presenza di tecnologie alternative, la qualità dei servizi, le caratteristiche della promozione e del marketing (Cola et al., 2010). 6. La fase della regolazione L’intervento dello Stato nel campo dei media presenta caratteristiche distinte da paese a paese. Nell’esperienza europea, oltre a definire e aggiornare le regole che le imprese e i cittadini devono rispettare, esso ha riguardato iniziative dirette, come nel campo radiotelevisivo. In Europa, inoltre, c’è una solida tradizione di intervento pubblico per proteggere e per aiutare le imprese mediali anche in settori come la stampa e il cinema. Gli ultimi anni, però, sono stati caratterizzati da una generale tendenza alla riduzione dell’intervento operativo dello Stato nel campo dei media e delle comunicazioni e al potenziamento del suo ruolo di regolazione. A livello dei singoli Stati si è trattato in vari casi di norme riferite al settore radiotelevisivo, della stampa quotidiana e del cinema. In ambito internazionale si è trattato di ­­­­­34

norme che riguardano la protezione del diritto d’autore, i limiti alla concentrazione, la protezione e il sostegno all’industria audiovisiva, oltre che l’armonizzazione del mercato all’interno di aggregazioni di Stati, come l’Unione Europea (Seabright e von Hagen, 2007). Tradizionalmente l’intervento pubblico nel campo dei media ha assunto in Europa tre modalità distinte: la prima riguarda l’intervento dello Stato volto a definire regole per uno specifico settore dell’industria dei media; la seconda riguarda l’intervento dello Stato con attività dirette; la terza riguarda l’intervento dello Stato con iniziative volte a rafforzare lo sviluppo di un settore specifico. Nel caso della radiotelevisione sono stati utilizzati due dei tre tipi d’intervento pubblico: fin dai primi tempi della radio e poi dall’inizio della televisione, infatti, lo Stato ha definito le regole che dovevano disciplinare lo svolgimento delle trasmissioni e la scelta dei contenuti, ha stabilito che dovesse trattarsi di un’attività gestita in forma di monopolio pubblico, ha creato poi un’impresa pubblica per fornire il servizio e ha stabilito alcune caratteristiche che il servizio doveva garantire. Altre forme d’intervento pubblico si sono sviluppate per la stampa periodica e libraria, per il cinema e in altri settori dell’industria dei media. Ciò che giustifica l’intervento pubblico è il cattivo funzionamento del mercato rispetto agli interessi della collettività. In questi casi si parla di fallimento del mercato, che l’intervento dello Stato intende correggere per l’interesse generale. Il fallimento del mercato si verifica quando esso non è in grado di offrire ciò che s’intende necessario, utile, meritevole al fine di perseguire l’interesse generale. Per esempio, è considerato un fallimento del mercato l’offerta ridotta o insufficiente di programmi culturali, informativi, educativi, oppure l’esclusione di una parte della popolazione dalla lettura dei giornali a causa del prezzo troppo alto o della distribuzione troppo limitata. Ugualmente, il dominio del cinema nordamericano, che in Europa minaccia i prodotti europei, e la scarsa circolazione di prodotti di origine europea nei canali televisivi europei sono considerati un fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Le esternalità negative sono un altro fenomeno considerato come una forma di fallimento del mercato. Nel campo della comunicazione mediale, esternalità negative possono manifestarsi, per esempio, quando un’impresa televisiva trasmette programmi violenti, generando all’esterno costi aggiuntivi rispetto a quelli da lei sostenuti ­­­­­35

per l’acquisizione e la trasmissione di tali programmi, perché questi ultimi possono indurre comportamenti violenti o antisociali, con effetti negativi per la collettività: «Sono numerosi quindi i casi in cui un mercato della comunicazione completamente privo di regole potrebbe non essere in grado di ripartire le risorse in maniera efficiente o in accordo con i migliori interessi della società. Tocca quindi al governo intervenire con misure di indirizzo che correggono questi fallimenti» (Doyle, 2002). Un esempio classico dell’intervento pubblico nel campo dei media è costituito dal servizio televisivo, che in tutti i paesi europei è stato gestito per lungo tempo in esclusiva dallo Stato attraverso società pubbliche e che ancora oggi occupa una posizione di primo piano nei mercati televisivi nazionali di molti paesi. Un altro caso in cui l’intervento regolatore dello Stato nell’industria dei media è una prassi consolidata è il controllo del grado di concentrazione del mercato, con l’obiettivo di evitare la formazione o l’abuso di posizioni dominanti.

II

I fattori di trasformazione delle imprese mediali

1. Introduzione Nell’ultima fase del secolo scorso l’industria dei media ha manifestato in modo evidente alcune grandi tendenze in grado di influenzare il comportamento di molte imprese e dei maggiori mercati. Si tratta dell’integrazione delle funzioni svolte in precedenza da imprese diverse, della crescita delle loro dimensioni, della globalizzazione delle loro attività, della concentrazione della proprietà, della crescita dell’intervento pubblico. A queste tendenze negli anni più recenti se ne sono aggiunte altre due, di particolare rilevanza per la configurazione dei mercati, che saranno trattate nel capitolo sui nuovi media (cap. IX) e che qui ci limitiamo a segnalare. Una riguarda la frammentazione dell’offerta e del consumo di servizi e contenuti mediali; l’altra riguarda l’autonomia del pubblico rispetto ai vincoli spazio-temporali che condizionano l’accesso ai contenuti e il loro consumo. Questi fattori si sono manifestati spesso in modo interconnesso, cambiando il panorama generale del campo delle comunicazioni e spostando verso un ambito più ampio e complesso i punti di riferimento dell’economia dei media. 2. L’integrazione delle attività La prima tendenza riguarda l’integrazione in una stessa impresa di nuove attività o di altre imprese che operano nello stesso settore, oppure di imprese che operano a livelli diversi del processo di creazione del valore o, ancora, che operano in altri settori dell’industria dei media. Normalmente l’integrazione avviene attraverso l’acquisto ­­­­­37

di un’impresa da parte di un’altra, oppure tramite la fusione di due imprese distinte; non mancano, tuttavia, casi in cui essa avviene per sviluppo interno. Si tratta di un fenomeno che si è manifestato quasi ovunque nel mondo, che ha portato alla formazione di grandi gruppi mediali, spesso attivi su scala internazionale, e che in Italia ha interessato editori di giornali come Rizzoli-Corriere della Sera, La Repubblica e Il Sole 24 Ore, editori di libri come Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli e De Agostini, imprese televisive come Mediaset e Rai, case discografiche come Sugar, per restare ai nomi più noti. Tra le varie esperienze registrate a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma molto cresciute a partire dal decennio successivo, si possono individuare tre distinti tipi di integrazione. Il primo è quello dell’integrazione orizzontale: un’impresa che opera in un settore – per esempio quello televisivo, o dell’editoria periodica e libraria, o altro – acquista un’altra impresa attiva nello stesso settore. Anche in Italia il fenomeno si è manifestato in vari settori dell’industria dei media. Il caso più noto è quello di Fininvest, proprietaria della rete televisiva Canale 5, che nella prima metà degli anni Ottanta acquistò prima la rete televisiva Italia Uno dall’editore Rusconi, poi Rete 4, controllata dall’editore Mondadori. Non mancano però esempi nel settore dell’editoria libraria e periodica, delle radio e delle televisioni, anche locali. Il secondo tipo è quello dell’integrazione verticale, che si manifesta quando un’impresa che opera in un settore si integra con un’impresa che opera nello stesso settore, ma a un livello della catena di diverso valore. Si parla di integrazione verticale a monte nel caso in cui, per esempio, un’impresa televisiva assume il controllo di un’impresa che produce audiovisivi e che può fornire contenuti per la programmazione a condizioni migliori. Oppure di integrazione verticale a valle nel caso in cui – per fare un altro esempio – un editore di libri acquisisce una rete di librerie attraverso la quale può avere condizioni di vendita migliori per i propri prodotti. Esempi di questo tipo sono, in Italia, l’integrazione da parte di Mediaset dell’impresa di produzione cinematografica Medusa, fornitrice di contenuti cinematografici ai canali televisivi, e più di recente l’acquisizione di una quota di controllo di Endemol, fornitrice di format televisivi (integrazione verticale a monte), così come l’acquisto da parte di Medusa Cinematografica di alcune sale cinematografiche o la creazione di una rete di librerie da parte della casa editrice Feltrinelli (integrazione verticale a valle). ­­­­­38

Il terzo tipo di integrazione, detta trasversale, riguarda le imprese che integrano altre imprese attive in settori dell’industria mediale diversi dal proprio, come è avvenuto quando Fininvest ha acquistato Mondadori, o quando Il Sole 24 Ore ha creato una sua rete radiofonica nazionale. Ci sono stati anche vari casi d’integrazione di imprese attive nella produzione o nella confezione di contenuti da parte di imprese che operano nel campo dei contenitori. Il caso più ricorrente è quello delle imprese di telecomunicazione, come Telefónica (Spagna), British Telecom, Telecom Italia, AT&T (Usa), che hanno integrato attività nel campo radiotelevisivo. La crescita dimensionale e l’integrazione multimediale delle attività rafforzano la spinta verso i mercati internazionali, già largamente presente in alcuni settori dei media quali l’industria discografica e audiovisiva. Va notato che molti paesi, come l’Italia, sono soggetti a vincoli di legge con cui si vogliono evitare alti livelli di concentrazione del mercato dei media nelle mani di poche imprese, e ciò per salvaguardare non solo la concorrenza, ma anche il pluralismo informativo. Non mancano, quindi, i casi in cui iniziative di integrazione trovano un limite nel momento in cui portano a superare la soglia definita per legge. 3. La crescita delle dimensioni La seconda tendenza riguarda la crescita di dimensione delle imprese. Il processo di integrazione delle imprese mediali è avvenuto in una fase di forte espansione del mercato e ha favorito la costante crescita delle dimensioni di molte imprese. Ciò ha portato alla formazione di alcuni grandi gruppi in grado di esercitare una forte influenza sui mercati interni dei singoli paesi e su quelli internazionali. Il fenomeno, riscontrabile in tutti i paesi sviluppati, ha assunto dimensioni emblematiche negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, aperti dalla fusione di Time Inc. con Warner Communication – valutata all’epoca 14 miliardi di dollari – e chiusi nel 2000 con la fusione tra America on Line e Time Warner, valutata 166 miliardi di dollari. Nel decennio sono stati impegnati in operazioni di acquisizione e fusione tutti i maggiori gruppi nordamericani, europei e giapponesi, da Bertelsmann (Germania) a News Corporation (Regno Unito-Usa), da Sony (Giappone) a Time Warner (Usa) a Reed International (Regno Unito), da Viacom (Usa) a Vivendi (Francia), da Walt Disney (Usa) ad Hachette (Francia) a Fininvest (Italia) – per ­­­­­39

citare i nomi più noti –, a cui vanno aggiunte molte decine di altre imprese (Gershon, 2003; Musso, 2000). La crescita è avvenuta attraverso varie forme di integrazione, nell’ambito di una stessa impresa, di attività prima svolte da fornitori o clienti (integrazione verticale a monte o a valle), oppure da concorrenti (integrazione orizzontale) o da altri settori dei media (integrazione trasversale). Si è assistito così alla formazione di imprese che da una parte sono in grado di controllare l’intera filiera produttiva e distributiva di un singolo settore, dall’altra operano contemporaneamente in vari settori dei media, dall’editoria a stampa alla radio, dalla televisione al cinema, dalla musica a Internet (Doyle, 2002; Kunz, 2007). Le imprese perseguono, attraverso la crescita dimensionale, alcuni obiettivi evidenti. Tra questi il più diretto riguarda la maggiore forza contrattuale nel campo finanziario, destinata ad ottenere i capitali necessari a sviluppare nuovi progetti e ad entrare in nuovi mercati in un contesto sempre più competitivo. Progettare, produrre e promuovere film, serie televisive, lavori editoriali, dischi destinati al mercato internazionale richiede infatti investimenti sempre maggiori, che hanno esiti incerti e che possono essere ottenuti solo da istituti finanziari in cambio di garanzie costituite dalle dimensioni dell’impresa e del suo giro d’affari. Un secondo vantaggio derivato dalle grandi dimensioni di un’impresa mediatica riguarda lo sviluppo di economie di scala, ovvero la possibilità di distribuire su un maggior numero di prodotti i costi fissi, a partire da quelli riguardanti la realizzazione dei prototipi. Maggiori sono le vendite di un disco, un romanzo, un film, minori sono i costi per unità di prodotto, perché i costi fissi possono essere ripartiti su un maggior numero di acquirenti. In tal modo si possono abbassare i prezzi di vendita, allargare il mercato e aumentare il profitto. Questo tipo di vantaggio si può ottenere quando l’impresa cresce attraverso forme di integrazione orizzontale. Un terzo vantaggio della grande dimensione è che l’impresa può produrre un maggior numero di titoli e avere così più possibilità di trovare dei best seller. Inoltre può assorbire meglio le perdite dovute agli insuccessi, che invece un’impresa di medie e piccole dimensioni ha difficoltà a gestire. Anche le imprese che organizzano il proprio mercato attraverso Internet devono seguire la logica della grande dimensione, dal momento che «costruire la visibilità e la notorietà di un’impresa nel sempre più affollato mercato di Internet richiede investimenti sempre più grandi in marketing e pubblicità» (Croteau e Hoynes, 2001). ­­­­­40

Un quarto vantaggio riguarda le economie di scopo – che si possono raggiungere più facilmente con le grandi dimensioni –, in particolare quelle derivate da integrazioni di tipo verticale. In questo caso si tratta dei vantaggi che si ottengono quando «il costo totale per produrre due o più prodotti o servizi da parte della stessa impresa è minore rispetto a produrli in due o più imprese separate» (Hoskins et al., 2004). Economie di scopo si hanno, per esempio, quando la realizzazione di un prodotto comporta contemporaneamente quella di un altro prodotto, come nel caso del product placement, forma di promozione commerciale accettata recentemente anche dalle legislazioni europee. Il product placement indica l’inserimento del prodotto che si vuole promuovere in una o più scene di un film, come se fosse parte organica della narrazione: una bottiglia di vino, un paio di occhiali, un’automobile, o altro, con le loro marche. La produzione del film e la promozione del prodotto costituiscono un’unica attività che ha due scopi economici distinti, ma integrati. Un quinto vantaggio che si può ottenere aumentando le dimensioni di un’impresa è quello di accrescere le sinergie (Doyle, 2002; Kunz, 2007). Sinergia si ha quando diverse entità produttive, lavorando insieme, possono raggiungere risultati che nessuna di loro potrebbe raggiungere individualmente. Ottimizzare le sinergie significa, per esempio, sfruttare un singolo progetto per svilupparlo in diverse versioni, formati, supporti, media: un romanzo pubblicato a puntate su una rivista è poi stampato in forma di libro, da cui si sviluppa il soggetto per una serie televisiva e successivamente la sceneggiatura di un film, la cui colonna sonora è distribuita su disco e i cui personaggi animano un videogioco. Nel campo dei media, come si è detto, trovare l’idea di successo che permette di realizzare un best seller è difficile. Quando questa idea si trova e si sperimenta su un mezzo con buoni risultati solo le grandi imprese che hanno aggregato attività in vari settori dell’industria dei media sono in grado di sfruttarla al massimo e in ogni forma possibile. L’operare in vari settori permette inoltre alle imprese di ottenere vantaggi dalla promozione incrociata dei loro prodotti su un ventaglio di canali e supporti che esse controllano. Un altro caso di sinergia si ha infatti quando un’impresa multimediale è in grado di offrire spazi pubblicitari su più mezzi, in modo da favorire la pianificazione pubblicitaria di un cliente e unificare, semplificandola, la negoziazione delle tariffe pubblicitarie. Occorre però mettere in evidenza il fatto che le modalità con cui è avvenuta gran parte della crescita dimensionale hanno creato ­­­­­41

in molti casi una situazione di vulnerabilità delle imprese coinvolte. Quasi sempre la crescita non è avvenuta per sviluppo interno, ma per integrazione, attraverso l’acquisizione di altre imprese o la fusione con esse. Queste operazioni sono state finanziate con prestiti, spesso ingenti, ottenuti sul mercato dei capitali (banche, Borsa, ecc.). Il forte indebitamento che le imprese hanno contratto per finanziare la crescita dimensionale e la necessità di rimborsarlo hanno posto dei vincoli ai loro comportamenti. Da una parte, le banche hanno spesso acquisito un potere di condizionamento delle scelte strategiche delle imprese; dall’altra, le stesse imprese hanno avuto maggiori difficoltà ad assumere i rischi che ogni innovazione comporta. Sono molti i casi in cui le imprese fortemente indebitate, in seguito a una flessione degli incassi o a un’inversione di tendenza della congiuntura economica, non sono più state in grado di rispettare gli impegni presi con i creditori e sono state costrette a dismettere alcune attività per recuperare le risorse necessarie. La forte recessione degli investimenti pubblicitari che si è manifestata su scala internazionale a partire dal 2001 è stata uno dei momenti più critici per molti grandi gruppi mediali, come Aol Time Warner, Vivendi, News International, Viacom, Bertelsmann, che hanno dovuto rivedere varie loro iniziative; alcuni di questi protagonisti del mercato internazionale, come Vivendi, sono stati costretti a vendere parte delle loro attività per recuperare le risorse necessarie a remunerare i debiti che si erano accumulati in seguito alla forte politica espansiva del gruppo negli anni precedenti. 4. La globalizzazione delle attività La terza tendenza riguarda la globalizzazione del mercato, che caratterizza soprattutto le attività dei grandi gruppi mediali. La spinta in questa direzione è dovuta a varie cause. Alla base c’è uno degli elementi tipici dell’industria dei media, cioè la struttura dei costi e la possibilità di migliorare le economie di scala: più grande è il mercato in cui si opera, maggiori sono le opportunità di sfruttarle. C’è poi il fatto che spesso le imprese mediali sono spinte a operare su scala internazionale quando il mercato nazionale d’origine è saturo e non offre margini di crescita ulteriori. Oppure quando ci sono dei vincoli legislativi che impongono loro dei limiti sia per garantire l’esistenza di un mercato competitivo sia per garantire e proteggere ­­­­­42

Tabella 2. Le prime dieci imprese per dimensioni del fatturato nel 2009 Impresa

Paese

Fatturato (miliardi dollari)

Sony Walt Disney Time Warner News Corporation Direct Tv Vivendi Universal Nintendo NBC Universal Viacom CBS Corporation*

Giappone Stati Uniti Stati Uniti Stati Uniti Stati Uniti Francia Giappone Stati Uniti Stati Uniti Stati Uniti

30,2 25,5 22,8 22,7 21,6 17 15,5 15,4 13,6 10,7

* CBS Corporation è controllata da Viacom Inc., ma entrambe operano come due entità distinte. Fonte: Oea, 2010.

il pluralismo dell’informazione. Nella prima situazione si è trovata l’industria discografica di alcuni paesi, nella seconda quella della stampa quotidiana. Un’altra spinta all’internazionalizzazione si ha quando un’impresa per recuperare i costi di produzione, troppo elevati, deve sfruttare i suoi prodotti in un mercato più grande di quello nazionale d’origine, com’è il caso, da tempo, dell’industria della fiction cinematografica e audiovisiva. Ci sono poi le imprese che hanno sviluppato con successo nuovi prodotti e servizi nel proprio mercato d’origine e cercano di sfruttare la loro capacità innovativa e la loro competenza in altri mercati. Questo è stato, per esempio, uno dei principali motivi che ha spinto la francese Canal Plus a sviluppare il suo modello di tv a pagamento in altri paesi europei. I nomi delle principali imprese nel mercato dei media sono noti. Alcune sono imprese che hanno una lunga storia, altre sono salite alla ribalta in tempi più recenti. Il fatturato di alcune è prodotto in una molteplicità di mercati, in altri casi è concentrato prevalentemente in un solo mercato. Anche la gamma dei prodotti e servizi è più o meno estesa. Non è questa la sede per analizzare caso per caso i principali gruppi che operano nel mercato internazionale dei media, ma è significativo riportare la classifica mondiale delle prime dieci imprese per dimensioni del fatturato 2009 elaborata dall’Osservatorio europeo dell’audiovisivo (Oea; cfr. Tabella 2). ­­­­­43

5. La concentrazione della proprietà La quarta tendenza riguarda la progressiva concentrazione della proprietà dei media a livello locale, nazionale e internazionale. Si tratta di una tendenza che si può rilevare in quasi tutti i settori dei media e che è presente in vari contesti nazionali (Compaine e Gomery, 2000; Perrucci e Richeri, 2004). Su scala internazionale i due settori in cui la concentrazione ha raggiunto livelli più alti sono l’industria della musica e quella cinematografica. Il mercato mondiale della musica registrata nel 2009 è sceso a circa 17 miliardi di dollari e rimane sotto il controllo di poche imprese discografiche che ne detengono quasi il 76%: nell’ordine Universal (28%), Sony (23%), Warner (15%) ed Emi (10%). Negli ultimi anni il suo livello di concentrazione è ulteriormente aumentato con la fusione di Sony Music e Bmg, settore musicale del gruppo tedesco Bertelsmann. Il mercato mondiale del cinema nel 2009 ha quasi raggiunto i 30 miliardi di dollari, il 36% dei quali realizzato nel mercato nordamericano. Ma nello stesso anno i film prodotti negli Stati Uniti hanno occupato il 92% del mercato nordamericano, il 95% del mercato cinematografico australiano, il 66% del mercato europeo. Si stima che circa il 65% del mercato mondiale dell’industria cinematografica sia controllato da un piccolo gruppo di imprese – le cosiddette majors – concentrate a Hollywood (Burkart e McCourt, 2006). La tendenza alla concentrazione, però, è caratteristica anche di tutti i media su scala nazionale o locale. Il fenomeno è da tempo oggetto di analisi attraverso vari strumenti, tra cui quello più comune è il calcolo dell’indice di concentrazione (concentration ratio, CR) delle prime quattro o delle prime otto imprese per fatturato che operano in uno stesso settore. Per esempio, se le quote di mercato delle prime maggiori imprese editrici di libri raggiungono una percentuale, rispettivamente, di 20, 15, 10, 10, 7, 5, 3, 3, l’indice di concentrazione delle prime quattro imprese (CR4) è pari al 55%, mentre l’indice di concentrazione delle prime otto imprese (CR8) è pari al 73%. Normalmente si considera un settore industriale (Hoskins et al., 2004): • molto concentrato quando CR4 è uguale o superiore al 50% e CR8 è uguale o superiore al 75%; • moderatamente concentrato quando CR4 è compreso fra il 34 e il 49% e CR8 è compreso fra il 51 e il 74%; ­­­­­44

• poco concentrato quando CR4 è uguale o minore al 33% e CR8 è uguale o minore al 50%. Nel nostro caso hanno ciascuna il 15% del mercato totale. In realtà si può notare che questi due indici non sono in grado di registrare la disparità di dimensione tra le prime quattro o otto imprese. Considerando una situazione in cui CR8 è pari all’85% c’è una netta differenza tra il caso in cui l’impresa più grande ha il 50% del mercato e le successive hanno ciascuna il 5% e il caso in cui le prime sette imprese hanno ciascuna il 12% del mercato e l’ottava l’1%. Nel secondo caso le possibilità di concorrenza nel mercato sono assai maggiori che nel primo e le barriere all’entrata per nuove imprese sono più basse. Per tentare di risolvere questo limite si è creato un indice che è in grado di rilevare, insieme al livello di concentrazione, anche le differenze di peso tra le singole imprese e che può essere applicato al gruppo di quattro o di otto imprese: è il cosiddetto Hirschman-Herfindhal Index (HHI). Si tratta però di una procedura più complessa, che richiede la conoscenza delle quote di mercato di tutte le imprese del settore considerato, cosa complicata quando si tratta di molti soggetti (Albarran, 2002). Come si è detto, le legislazioni nazionali impongono regole e limiti ad alcune di queste tendenze al fine di garantire che nel mercato siano preservate le dinamiche competitive e che non siano ridotti oltre un certo limite il pluralismo dell’informazione, la varietà delle fonti e la diversità culturale. 6. L’intervento pubblico L’intervento pubblico nel campo dei media, come già ricordato nel primo capitolo, ha una lunga tradizione sia sul piano della regolazione sia su quello della gestione diretta. Un caso esemplare da questo punto di vista è la presenza pubblica nel campo radiofonico e televisivo. Negli ultimi due decenni in Europa si è avuta un’intensa attività normativa, su scala nazionale ed europea, rivolta a vari settori dei media. Non è il caso di evidenziare le specificità dei singoli Stati europei, ma occorre ricordare le dimensioni e le diverse forme che l’intervento pubblico sovranazionale ha assunto in Europa. I due principali fronti d’intervento dell’Unione Europea che qui interessano hanno riguardato le regole concernenti le attività delle imprese mediali e le misure di sostegno destinate nello specifico alle imprese audiovisive. ­­­­­45

Le iniziative dell’Unione Europea in grado di orientare la regolazione dei media dei paesi membri riguardano diversi ambiti, i principali dei quali sono la concorrenza, il pluralismo dei media, il diritto d’autore, le reti e i servizi di comunicazione elettronica, la protezione del consumatore. Si tratta di aspetti ricorrenti in tutte le legislazioni europee, che condizionano direttamente i mercati nazionali e che è opportuno esplicitare: 1) concorrenza: l’Unione Europea interviene definendo dei principi, validi per tutti i paesi membri, che hanno lo scopo di garantire una concorrenza senza distorsioni nel mercato interno. Il trattato della Comunità europea vieta gli aiuti di Stato che alterano la concorrenza favorendo talune imprese piuttosto che altre. Tuttavia, sono ammessi gli aiuti di Stato in favore di alcuni settori considerati d’interesse generale. Tra questi sono compresi, per esempio, l’industria cinematografica e i servizi pubblici radiotelevisivi. Per esemplificare il tipo di argomenti utilizzati a sostegno del finanziamento di Stato possiamo considerare il caso del servizio pubblico radiotelevisivo. Nel 1997 i finanziamenti a suo favore sono stati legittimati in base a un accordo, detto «protocollo di Amsterdam», nei termini seguenti: Considerato che il sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati membri è direttamente collegato alle esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni società, nonché all’esigenza di preservare il pluralismo dei mezzi di comunicazione, gli Stati membri dell’UE hanno convenuto le seguenti disposizioni interpretative, che sono allegate al trattato che istituisce la Comunità europea: le disposizioni del trattato che istituisce la Comunità europea non pregiudicano la competenza degli Stati membri a provvedere al finanziamento del servizio pubblico di radiodiffusione, nella misura in cui tale finanziamento sia accordato agli organismi di radiodiffusione ai fini dell’adempimento della missione di servizio pubblico conferita, definita e organizzata da ciascuno Stato membro e nella misura in cui tale finanziamento non perturbi le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità in misura contraria all’interesse comune, tenendo conto nel contempo dell’adempimento della missione di servizio pubblico;

2) pluralismo dei media: i provvedimenti volti a tutelare il pluralismo dei media possono limitare le partecipazioni private di maggioranza nelle imprese mediali e impediscono il controllo simultaneo di più imprese mediali da parte di uno stesso soggetto. L’obiettivo è quello ­­­­­46

di proteggere la libertà di espressione e di sorvegliare che i media rispecchino la diversità delle opinioni. La garanzia del pluralismo dei media è considerata dall’Unione Europea un compito essenziale degli Stati membri; 3) diritto d’autore: il Consiglio e il Parlamento europei hanno adottato una direttiva relativa ai provvedimenti e alle procedure volti a garantire il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, con l’obiettivo di armonizzare le normative nazionali, per quanto riguarda i mezzi con i quali far rispettare i diritti di proprietà intellettuale, nonché di definire un quadro generale per lo scambio di informazioni fra le competenti autorità nazionali; 4) reti e servizi di comunicazione elettronica: nel 1999 la Commissione europea ha modificato in maniera consistente il quadro normativo in materia di telecomunicazioni, al fine di rendere il settore maggiormente concorrenziale e più omogeneo ai progressi tecnologici e alle esigenze del mercato; 5) protezione del consumatore: il settore dell’audiovisivo è, così come gli altri settori economici, sottoposto a regole comunitarie in materia di protezione dei consumatori. Tali regole comprendono le disposizioni generali in materia di pubblicità ingannevole e bugiarda, nonché la recente proposta di direttiva-quadro sulle prassi commerciali sleali fra imprese e consumatori. Nel corso degli ultimi decenni l’industria audiovisiva, e in particolare la componente televisiva, è stata oggetto di due iniziative sistematiche e particolarmente intense: la prima ha riguardato la definizione di regole che ogni paese membro era tenuto a introdurre nella propria legislazione nazionale; la seconda ha riguardato l’allestimento di un programma di sostegno allo sviluppo del mercato audiovisivo europeo e di rafforzamento delle imprese audiovisive degli Stati membri. Questo settore offre quindi la migliore esemplificazione dell’attività sovranazionale europea, in cui gli obiettivi di regolazione si intrecciano con quelli di incentivazione per realizzare un mercato omogeneo su scala europea. 6.1. La regolazione dell’audiovisivo europeo L’industria audiovisiva diventa oggetto di attenzione per le istituzioni europee soltanto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando, in seguito alle iniziative di vari Stati membri, le trasmissioni ­­­­­47

televisive via cavo e via satellite, con la conseguente moltiplicazione dei canali disponibili, stanno per coinvolgere buona parte del continente (Richeri, 1981). La possibilità di sviluppare nuovi canali televisivi transfrontalieri va oltre l’esperienza di paesi come il Belgio e l’Olanda, e coinvolge ormai anche i partner europei più grandi. Da una parte si teme che questa prospettiva possa creare interferenze non desiderate nei sistemi televisivi nazionali e possa destabilizzare le tv pubbliche; dall’altra si guarda invece con favore alla creazione di canali televisivi a copertura europea. È proprio il Parlamento europeo che sollecita la definizione di un progetto di canale televisivo europeo, al fine di aumentare la copertura informativa e la visibilità delle istituzioni comunitarie. La Commissione europea s’interessa per la prima volta in modo sistematico dell’industria televisiva nel 1983, quando realizza uno studio approfondito per conoscere la situazione e le tendenze della televisione in Europa (Commissione europea, 1983). Lo studio contribuisce a mettere a fuoco i principali problemi e a individuare le strade da percorrere per affrontarli. Il primo problema è quello dell’integrazione verticale. L’industria audiovisiva europea ha molti punti deboli, dovuti al fatto che la televisione è nata e si è sviluppata quasi esclusivamente in regime di monopolio, impedendo da una parte la formazione di una produzione audiovisiva indipendente e di un mercato (le tv pubbliche producevano direttamente o in appalto ciò di cui avevano bisogno), dall’altra il ricorso all’industria cinematografica per la produzione di fiction televisiva, com’era successo invece negli Stati Uniti. In sostanza, in Europa manca la capacità di produrre contenuti audiovisivi in grande quantità, in tempi rapidi e a costi contenuti e la produzione seriale, fino a quel momento estranea all’industria audiovisiva europea, è vista da molti come una forma di americanizzazione della produzione e, implicitamente, di degradazione «commerciale» (Mattelart et al., 1983). Il secondo problema riguarda la crescita della domanda. Si stanno preparando le condizioni per una progressiva moltiplicazione dei canali televisivi, favorita da nuove infrastrutture di trasmissione come i satelliti a diffusione diretta e le reti di teledistribuzione via cavo. Ci si attende in conseguenza un forte aumento della domanda di prodotti audiovisivi per alimentare i nuovi canali, che l’industria audiovisiva europea non è in grado di soddisfare. ­­­­­48

Il terzo problema riguarda le prospettive dell’industria elettronica. Le nuove reti di trasmissione in fase di progettazione e decollo e le nuove forme di consumo domestico di audiovisivi (videoregistratori) comportano una forte domanda di apparati terminali prodotti dall’industria elettronica di largo consumo (parabole, decodificatori, convertitori, ecc.), che potrebbero rilanciare, almeno in parte, un settore che in Europa è da tempo in declino. Il quarto problema tra quelli individuati allora su scala europea riguarda la fine dei monopoli. Il trend verso la fine dei monopoli televisivi pubblici e l’apertura del settore all’iniziativa privata in Europa appare ormai evidente; i suoi possibili effetti sul mercato dei prodotti audiovisivi, in particolare di fiction, sono già osservabili in alcune realtà. L’Italia, dove lo sviluppo dei broadcasters privati è avvenuto in modo tanto rapido quanto privo di regole, in poco tempo è diventata il maggior importatore mondiale di prodotti di fiction da paesi extraeuropei (Richeri, 1986). 6.2. La televisione europea «senza frontiere» L’insieme degli elementi sopra elencati mise in evidenza non solo che l’industria audiovisiva europea non era in grado di rispondere alla crescente domanda di programmi, ma anche che la presenza di nuovi soggetti portava una maggiore competizione nei sistemi televisivi, che la programmazione era sempre più orientata alla conquista del pubblico e che aveva bisogno di alcuni generi televisivi – soprattutto la fiction – più adatti di altri a «fare audience». L’effetto, in sintesi, era che le risorse degli operatori televisivi destinate all’acquisto di programmi aumentavano, mentre diminuivano quelle destinate alla produzione diretta o in appalto, ed era inevitabile che gli acquisti si rivolgessero al mercato internazionale extraeuropeo (Sepstrup, 1990). La preoccupazione che si fece strada in quel periodo era che «i telespettatori europei [finissero] per guardare soprattutto programmi americani su televisori giapponesi». Questa prospettiva era determinata, oltre che dalle debolezze strutturali dell’industria elettronica e audiovisiva europea, anche dalla qualità dell’offerta extraeuropea che, a seconda dei casi, riguardava la varietà di programmi disponibili, le caratteristiche tecniche e produttive, i formati, i prezzi, ecc. (Lasagni e Richeri, 1986; Hoskins e Mirus, 1988; Hoskins, Mirus e Royeboom, 1989). ­­­­­49

Gli effetti negativi, secondo l’opinione allora prevalente, non pesavano solo sul fronte economico e industriale. L’idea che gli schermi televisivi europei fossero progressivamente ‘invasi’ da prodotti statunitensi e, più in generale, extraeuropei aveva almeno due altre implicazioni, considerate molto negative a causa dei loro risvolti politici e culturali. Da una parte, la televisione rischiava di diventare un potente mezzo di diffusione di stili di vita, di visioni del mondo, di immaginario collettivo in larga parte estranei alle varie tradizioni e realtà europee, mentre avrebbe potuto essere un potente mezzo per aumentare le reciproche conoscenze tra i partner, cosa indispensabile per costruire l’Europa. Dall’altra parte, appariva più difficile sfruttare la televisione per offrire contenuti da condividere, per promuovere la formazione di un’identità europea e una maggiore integrazione politica tra i partner, per creare uno spazio di comunicazione su scala europea (Schlesinger, 1988; Morley e Robins, 1995). La Commissione europea, sulla base dell’indagine condotta e delle riflessioni che ne seguirono, elaborò la proprie strategie, che furono rese pubbliche nel Libro Bianco sulla creazione di un mercato unico per la radiotelevisione (Commissione europea, 1984). L’industria audiovisiva entrava così a far parte del grande cantiere che si apriva a metà degli anni Ottanta con l’obiettivo di realizzare, entro il 1992, il mercato unico europeo. Per armonizzare le regole dei paesi membri al fine di eliminare tutte le barriere che impedivano la libera circolazione nel territorio europeo delle persone, dei prodotti e dei capitali sarebbe stato necessario definire oltre trecento direttive, tra le quali una delle più discusse divenne proprio quella denominata Televisione senza frontiere (TsF). 6.3. La produzione dell’industria audiovisiva in Europa L’iniziativa europea aveva due obiettivi principali da raggiungere in questo campo. Non si trattava solo di definire alcune regole condivise che garantissero la libera circolazione dei programmi televisivi in tutta la Comunità europea, ma era anche necessario favorire il rafforzamento dell’industria audiovisiva europea. Nel primo caso intervenne la direttiva Televisione senza frontiere, con il compito di armonizzare quelle regole che in alcuni paesi erano meno vincolanti rispetto ad altri, come nel caso delle modalità di trasmissione e dei ­­­­­50

contenuti della pubblicità, della protezione dei minori dalle trasmissioni a contenuto violento e pornografico, del copyright. Nel secondo caso la Comunità prestabilì un programma di sostegno all’industria audiovisiva europea, in particolare nell’area della fiction, che aveva già mostrato preoccupanti segni di debolezza a causa della forte importazione di prodotti extraeuropei e della scarsa circolazione di quelli europei fuori dai paesi d’origine. Alla fine degli anni Ottanta in media meno del 10% dei prodotti realizzati in singoli Stati membri varcava le frontiere nazionali d’origine per essere trasmesso in altre televisioni europee. Favorire la loro circolazione in Europa avrebbe determinato tre effetti positivi, rispetto alle preoccupazioni che muovevano la Commissione europea: a) rispondere con prodotti europei alla domanda crescente di fiction, riducendo il ricorso ai prodotti extraeuropei; b) creare un secondo mercato per i prodotti di fiction europei, favorendo nuovi sbocchi commerciali nei paesi della Comunità; c) aumentare la diffusione di contenuti televisivi europei, promuovendo una migliore conoscenza reciproca e la formazione di un’identità condivisa. 6.4. Le «quote» a difesa della fiction Il contenuto più innovativo della direttiva Televisione senza frontiere, che avrà un impatto forte sulle industrie audiovisive dei maggiori paesi europei, riguardava le quote di programmazione televisiva che ogni Stato membro doveva rispettare, ovvero la percentuale di prodotti di fiction di origine europea che doveva essere garantita nelle trasmissioni di ogni televisione europea. Questo punto suscitò molte critiche, e di vario genere, soprattutto da parte degli Stati più piccoli, che non avevano un’industria audiovisiva nazionale da difendere. Ci furono un lungo dibattito e una difficile mediazione prima che la direttiva fosse approvata, nell’autunno del 1989 (Marchetti, 1997; Krebber, 2001). Gli Stati Uniti, che fino ad allora avevano avuto in Europa il principale mercato di esportazione dei loro prodotti audiovisivi, reagirono negativamente alla direttiva, che sostanzialmente alzava una barriera all’entrata dei loro prodotti. Cercarono anche di farla abolire attraverso forti pressioni diplomatiche e minacce di azioni a danno dell’export europeo, ma non ebbero successo. L’articolo 4 della direttiva dispone: ­­­­­51

Gli Stati membri vigilano, ogniqualvolta sia possibile e ricorrendo ai mezzi appropriati, che le emittenti televisive riservino ad opere europee la maggior parte del loro tempo di trasmissione, escluso il tempo dedicato a notiziari, manifestazioni sportive, giochi televisivi, pubblicità o servizi di teletext [...] questa proporzione dovrà essere raggiunta gradualmente secondo criteri appropriati.

L’articolo 5, invece, stabilisce che le reti televisive devono riservare il 10% del loro tempo di trasmissione o il 10% del loro budget di programmazione a opere europee realizzate da produttori indipendenti. Le quote furono poi rese più vincolanti nella revisione della direttiva realizzata, come previsto, nel 1997. Il recepimento della direttiva nelle legislazioni nazionali ha visto in alcuni casi l’applicazione di vincoli più forti di quelli previsti su scala comunitaria (è il caso, per esempio, della Francia e dell’Olanda) e ha spinto le autorità nazionali a comminare in vari casi sanzioni economiche anche pesanti ai trasgressori. In generale, le critiche alla direttiva sono state molto forti sia da parte del governo e dei rappresentanti delle industrie audiovisive statunitensi – che, come abbiamo detto, hanno fatto anche pressioni diplomatiche per ridurre la portata «protezionistica» della decisione –, sia da parte delle televisioni commerciali europee, per le quali il facile accesso al prodotto americano semplificava le scelte di programmazione e riduceva sensibilmente i rischi economici. Nonostante ciò la direttiva è stata sostanzialmente applicata in tutti i paesi membri, ed è stata aggiornata prima nel 1997, senza sostanziali modifiche, poi nel 2007 e nel 2010. La nuova direttiva sui «servizi di media audiovisivi» transfrontalieri è destinata a permettere e assicurare il passaggio dai mercati nazionali a un mercato comune della produzione e distribuzione dei programmi e a garantire condizioni di concorrenza leale, senza pregiudicare la funzione di pubblico interesse che compete ai servizi di media audiovisivi. Rispetto alle precedenti versioni, che riguardavano esclusivamente le attività televisive, la nuova direttiva si riferisce a tutti i tipi di servizi audiovisivi mediali lineari (cioè i servizi diffusi, come la televisione tradizionale) e non lineari, cioè i servizi a richiesta, come il video on demand. Tra i punti più importanti trattati dalla direttiva, e anche tra quelli che hanno suscitato maggior dibattito, ci sono le regole che ­­­­­52

riguardano il product placement, di cui abbiamo già parlato come esempio di economia di scopo. Come abbiamo detto, si tratta di una forma di pubblicità o, meglio, di comunicazione aziendale volta a promuovere una marca o un prodotto inserendoli in un film, in una fiction televisiva o in altro testo audiovisivo. La caratteristica di questa forma di promozione commerciale rispetto, per esempio, ad uno spot televisivo «sta nel fatto che l’inserimento deve passare quasi inosservato allo spettatore: la marca o il prodotto dovrebbe essere considerato parte integrante della storia o della scenografia alla stregua di qualunque altro elemento filmico» (Dagnino, 2009). La direttiva sancisce un generale divieto di inserimento di prodotti nelle opere audiovisive destinate al pubblico. Ma i singoli paesi membri che intendono derogare a tale divieto possono farlo a condizione di rispettare alcuni parametri minimi entro i quali circoscrivere tale inserimento. I programmi in cui è permesso inserire prodotti da promuovere sono le opere di fiction realizzate per il cinema e la televisione (film e prodotti seriali), nonché i programmi televisivi di argomento sportivo e di intrattenimento leggero. Si prevede anche la forma del product placement gratuito, che è permessa in tutte le tipologie di programmi, compresi quelli per bambini. In questi casi un’azienda si limita a fornire gratuitamente propri prodotti, da utilizzare come oggetti di scena o premi, senza dare contributi monetari alla produzione. Viene invece sempre vietato, in qualunque forma, l’inserimento nei programmi di alcune categorie di prodotti la cui pubblicità è limitata o proibita anche in forma di spot pubblicitario, come nei casi di tabacco e sigarette, dei farmaci acquistabili solo dietro prescrizione medica, dei super alcolici. Per quanto riguarda le modalità di inserimento dei prodotti, il legislatore si è preoccupato di ricondurre tutte le norme al principio fondamentale di separazione fra contenuto commerciale e contenuto editoriale. In questo senso, infatti, alle aziende è fatto esplicito divieto di influenzare il contenuto e la programmazione dei media coinvolti. Inoltre, l’inserimento di prodotti nei programmi non deve mai incoraggiare direttamente l’acquisto o la locazione del bene o servizio, né deve dare indebito rilievo – ossia un’eccessiva, ingiustificata visibilità – al prodotto in questione. Il telespettatore deve essere sempre informato della presenza di inserimenti commerciali a pagamento mediante un avviso all’inizio ­­­­­53

e alla fine del programma e dopo ogni interruzione pubblicitaria; in caso contrario, l’inserimento di prodotti sarebbe da ritenere «occulto» e, in quanto tale, illegale. Quest’ultimo obbligo può non essere osservato qualora il programma all’interno del quale si ‘piazzano’ i prodotti «non sia stato prodotto né commissionato dal fornitore di servizi di media stesso o da un’impresa legata al fornitore di servizi di media». Il product placement è una pratica da tempo in uso nel mondo cinematografico, e in Italia è stata legittimata e regolata solo nel 2004. Ma la possibilità che anche nei programmi televisivi si possa utilizzare questa tecnica di promozione commerciale, pur generando molte critiche sul piano culturale e sociale, apre indubbiamente prospettive molto favorevoli per l’economia televisiva e per la comunicazione pubblicitaria. Prospettive che risultano ancor più evidenti se si considerano in particolare due delle principali tendenze in atto, la frammentazione dei media e l’autonomia del pubblico, di cui si parlerà in seguito. 6.5. Il «Programme Media» a sostegno della fiction Il secondo tipo di intervento comunitario importante è quello di sostegno alle imprese audiovisive per risolvere problemi quali la scarsa produzione europea di fiction, la bassa circolazione dei prodotti europei dal paese d’origine verso altri paesi europei, l’eccessiva presenza di prodotti di fiction soprattutto statunitense nel mercato europeo. L’imposizione di quote di fiction europea nella programmazione televisiva di tutti i paesi appartenenti alla Comunità ha fatto progressivamente crescere la domanda di prodotti europei, incentivando così sia la produzione realizzata direttamente dalle principali imprese televisive, sia quella realizzata in appalto o dai produttori indipendenti. Ma le istituzioni europee e nazionali sono intervenute anche per aiutare in vario modo l’attività produttiva sia sul fronte della fiction cinematografica che su quello della fiction televisiva. Su scala europea, i principali programmi di sostegno in questo campo sono Euroimages, un fondo creato dal Consiglio d’Europa per incentivare le co-produzioni europee; Eureka Audiovisuel, iniziativa intergovernativa destinata a promuovere la cooperazione tra industrie e professionisti europei dell’audiovisivo su progetti concreti; e Programme Media (Mesures pour encourager le développement de l’industrie ­­­­­54

audiovisuelle). Quest’ultimo costituisce l’intervento comunitario di maggiore spessore sia in termini finanziari sia in termini strategici, dal momento che copre l’insieme dell’attività audiovisiva: dalla concezione allo sviluppo dei progetti di produzione, alla distribuzione cinematografica e televisiva su scala europea, alla formazione delle principali figure professionali del settore (Marchetti, 1997). L’iniziativa è stata avviata nel 1987 con un finanziamento minimo, e solo dall’inizio degli anni Novanta ha potuto svolgere un ruolo strategico. Sottoposta ad una serie di verifiche, valutazioni e messe a punto, oggi è alla sua quarta edizione. La prima è stata Media 1 (1991-1995), che ha avuto un finanziamento equivalente a circa 200 milioni di euro, seguita da Media 2 (1996-2000), con un finanziamento equivalente a circa 310 milioni di euro. Nel 2000 si è deciso di dividere il nuovo Programme Media in due settori: Media Formazione, con un finanziamento di 59 milioni di euro e una durata di sei anni (20012006), e Media Plus, che riguarda le iniziative a sostegno dello sviluppo di progetti audiovisivi, della distribuzione e della promozione di prodotti, con un finanziamento di 454 milioni di euro e una durata di cinque anni (2001-2005). La maggior parte del finanziamento di Media Plus era destinato alle attività di sviluppo (almeno il 20%) e di distribuzione (almeno il 57%). In tutte e quattro le fasi del Programme Media i due obiettivi fondamentali hanno riguardato la cooperazione delle industrie su scala europea per rafforzare i prodotti europei sia sul mercato interno che su quello extraeuropeo e, soprattutto, la distribuzione dei prodotti europei tra i paesi membri. L’obiettivo prefissato di Media 1 era quello di arrivare a distribuire annualmente almeno il 20% della produzione europea anche fuori dai paesi d’origine. Ma i risultati sono stati deludenti, soprattutto sul piano della produzione e della distribuzione televisiva, e anche le varie verifiche dei risultati delle iniziative successive hanno messo in evidenza la difficoltà che in generale il Programme Media ha finora incontrato nel condizionare la struttura del mercato audiovisivo europeo. D’altra parte, emerge con evidenza la contraddizione di fronte a cui l’Unione Europea si trova ad operare in questo campo. Il mercato europeo è caratterizzato da un settore audiovisivo molto frammentato sul piano linguistico, culturale e, di conseguenza, professionale, e debole sul piano della struttura industriale, costituita prevalentemente da piccole e medie imprese. Favorire la formazione di grandi imprese in grado di ­­­­­55

competere con quelle statunitensi, che dominano tuttora il mercato europeo, significherebbe sostenere processi di concentrazione della produzione europea e di marginalizzazione di molte piccole e medie imprese, con effetti negativi sull’occupazione e sulla diversificazione della produzione tra i vari partner europei. Inoltre, per poter incidere sensibilmente sulla struttura del mercato sarebbero necessari investimenti di dimensioni assai più grandi di quelli messi finora a disposizione. Ma in tal caso l’intervento pubblico dovrebbe superare largamente le dimensioni compatibili con la ‘filosofia’ economica che orienta l’azione dell’Unione Europea. La doppia linea d’azione dell’Unione Europea, insieme alle ­iniziative nazionali, ha sicuramente avuto effetti positivi e ha inciso in particolar modo sulla produzione e la diffusione di fiction europea. Ma i grandi problemi del mercato audiovisivo europeo, e in particolare di quello dei programmi di fiction destinati alla diffusione televisiva, non sembrano sensibilmente migliorati dal 1990 a oggi. I due obiettivi che restano lontani da raggiungere riguardano l’aumento della circolazione dei prodotti europei nel «mercato unico europeo» e la riduzione della presenza di fiction statunitensi nella programmazione delle televisioni europee. Infatti continua ad essere insolito vedere sugli schermi televisivi di un paese europeo programmi di fiction provenienti da un altro pae­se della Comunità (unica eccezione quella della fiction tedesca), mentre negli ultimi anni l’Europa ha progressivamente aumentato le risorse economiche destinate all’acquisto di prodotti audiovisivi di fiction dagli Stati Uniti, senza incrementare le sue esportazioni in quella direzione. Sembra che le barriere all’entrata in Europa dei prodotti statunitensi continuino ad essere facilmente valicabili, ma quelle nazionali europee per i prodotti di fiction europei continuano ad essere molto elevate.

III

I mercati dei media

1. Introduzione I mercati dei media si sono sviluppati storicamente in modo segmentato e ogni impresa ha operato per molto tempo all’interno di uno specifico settore: giornali, libri, dischi, cinema, televisione, ecc. In ciascun segmento il mercato era spesso dominato da un numero limitato di imprese e in molti paesi europei la radiotelevisione era un monopolio pubblico. Nella maggior parte dei casi i confini del mercato di riferimento erano quelli locali o nazionali, e talvolta quelli dell’area linguistica di appartenenza; solo una parte dei prodotti cinematografici e discografici era realizzata avendo come riferimento un mercato internazionale; comunque, in ogni segmento la prevalenza dei prodotti era opera di autori, artisti, interpreti nazionali. Nel corso degli ultimi decenni, invece, le dimensioni internazionali dell’industria dei media si sono molto allargate e oggi buona parte dei contenuti audiovisivi, musicali e librari è concepita e prodotta per un mercato tendenzialmente mondiale. 2. I caratteri nazionali In realtà il mercato mondiale è ancora formato prevalentemente da mercati nazionali che si sono strutturati con caratteri specifici nel corso del tempo. Se solo consideriamo i paesi dell’Unione Europea, possiamo notare che la loro struttura varia sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda di prodotti editoriali. Un esempio significativo è costituito dal cinema. Nel 2009 i film nazionali hanno avuto il 37% del mercato in Francia, il 27% in Ger­­­­­57

mania, il 24% in Italia, il 16% nel Regno Unito e in Spagna, e ovunque in Europa i film statunitensi dominano i mercati nazionali, ma con percentuali che variano da luogo a luogo. Un altro esempio è quello della televisione tradizionale, che ancora oggi occupa la posizione più importante in ogni parte d’Europa. In Germania ci sono sette società televisive pubbliche che operano su base regionale (Länder) o interregionale; sono loro che gestiscono, anche in forma consortile, i due canali televisivi pubblici nazionali (Ard e Zdf). In Spagna la società televisiva pubblica centrale (Rte) opera con due canali nazionali, e varie società televisive pubbliche regionali indipendenti, dette autonimiche, operano esclusivamente nel proprio territorio di riferimento istituzionale. In Italia c’è una sola società televisiva pubblica che opera prevalentemente con tre canali nazionali, uno dei quali ha anche finestre di programmazione regionali. Le quote di mercato della tv pubblica variano anche sensibilmente da paese a paese, così come il grado di concentrazione del mercato. Altrettanto si potrebbe dire per il mercato della stampa periodica e libraria, dei dischi, dei video. Le differenze, anche marcate, esistenti tra i vari paesi europei sono legate in buona parte a fattori storici e sociali, che hanno prodotto regole e struttura dei mercati settoriali diverse da luogo a luogo. Nonostante le forti differenze tra le varie situazioni nazionali, come abbiamo visto nel secondo capitolo, vi sono oggi alcune tendenze che in modo più o meno forte caratterizzano l’evoluzione delle imprese e dei mercati dei media sia in Europa che altrove. 3. La struttura diversificata Nel mercato dei media possiamo ritrovare le quattro forme classiche del mercato dei beni e dei servizi: monopolio, oligopolio, concorrenza monopolistica e concorrenza perfetta, anche se quest’ultima forma in realtà appare raramente. Infatti nel mercato dei media le economie di scala e le sinergie che si possono ottenere sono maggiori rispetto ad altri settori, e ciò provoca una spinta più forte che altrove verso la concentrazione, con la conseguente riduzione della concorrenza. Nel caso del monopolio c’è un solo venditore di prodotti o fornitore di servizi. In assenza di alternative, l’acquirente o l’utente devono rivolgersi al monopolista per poter consumare il bene o il servizio da lui offerto. In questa situazione è il venditore a definire le ­­­­­58

condizioni di mercato e, in particolare, il prezzo, che viene stabilito per massimizzare il suo profitto, salvo quando lo Stato, per proteggere il consumatore e per garantire condizioni più favorevoli di accesso al bene o al servizio, interviene per mantenere il prezzo sotto una soglia definita. Nel campo dei media ci sono varie situazioni in cui si sono manifestate forme di monopolio, per decisione pubblica o per normali dinamiche commerciali. In quasi tutta Europa radio e televisione sono state gestite a lungo in forma di monopolio da parte di imprese pubbliche, dalla Rai all’inglese Bbc, dalla tedesca Ard alla francese Ortf/France Télévision-Radio France. La giustificazione del monopolio era basata su due fattori principali: la scarsità delle frequenze di trasmissione, che creava una sorta di «monopolio naturale», e il fatto che il servizio erogato era considerato di rilevante interesse generale, e non doveva quindi essere condizionato da interessi commerciali o di gruppi privati. Per questo il servizio era finanziato da una tassa speciale, il canone di abbonamento, mentre le entrate pubblicitarie, là dove erano ammesse, erano considerate un finanziamento secondario e dovevano rispettare precisi vincoli. Altro caso di monopolio tuttora presente in vari paesi è quello che regola la stampa quotidiana e la televisione in ambito locale. In molte città, province o regioni la cronaca locale è fornita da un’unica impresa editoriale, che ha quindi il monopolio dell’informazione locale a stampa o televisiva. Un terzo caso di monopolio o quasi monopolio presente in Europa negli anni più recenti è quello della televisione a pagamento, che ha riguardato o riguarda tuttora paesi come l’Italia, la Spagna, la Germania, il Regno Unito. L’oligopolio si distingue dal monopolio per la presenza nel mercato di più imprese, anche se in numero limitato. Questa definizione si estende anche ai casi in cui un piccolo gruppo di imprese domina un mercato in cui sono presenti imprese medie e piccole con quote di mercato marginali. Un caso assimilabile all’oligopolio è il mercato televisivo italiano, dove due imprese, Rai e Mediaset, hanno dominato per lungo tempo il mercato nazionale, offrendo al pubblico prodotti in buona parte simili. Tuttavia si tratta di due imprese che operano nel mercato della televisione in chiaro e rispondono a regole in parte diverse, trattandosi in un caso di impresa di servizio pubblica, nell’altro di impresa commerciale privata. I concorrenti di Rai e Mediaset su scala nazionale e locale sono vari, ma complessivamente detengono quote di mercato pubblicitario e di audience molto con­­­­­59

tenute. In realtà la trasformazione dell’industria televisiva italiana degli ultimi anni ha visto il successo della televisione a pagamento, che fa parte di un mercato televisivo considerato distinto rispetto a quello della televisione in chiaro. Ciò ha reso evidente quanto sia difficile circoscrivere con precisione singoli mercati, soprattutto nel campo delle industrie culturali e dei media, dal momento che, almeno in parte, i media competono tra loro per conquistare l’attenzione di pubblici e investitori pubblicitari che in larga parte coincidono o che comunque condividono molti interessi e desideri. Il terzo tipo di struttura del mercato, la concorrenza monopolistica, si ha nei casi in cui ci sono molte imprese che producono beni o servizi simili, ma che non sono perfettamente sostituibili e sono in grado di soddisfare, almeno in parte, interessi ed esigenze distinti. Questa situazione si verifica quando sul mercato c’è una pluralità di canali televisivi e radiofonici, di prodotti giornalistici e discografici, di film, ciascuno dei quali ha caratteri intercambiabili, come struttura, supporto, qualità, funzione e modalità dell’offerta, prezzo. Sul piano dei contenuti si tratta però di prodotti distinti, ciascuno dei quali ha una clientela fedele, che per abitudine o per inerzia non passa facilmente ad altri prodotti concorrenti. Ognuno dei media, infatti, si differenzia per alcune caratteristiche: nei giornali a stampa e radiotelevisivi può essere lo stile, la linea politica, la presenza di firme particolarmente apprezzate, la selezione e le dimensioni dei contenuti politici, culturali, di cronaca, e altro; per i canali televisivi si aggiungono la fiction, i varietà, i quiz; in quelli radiofonici la musica, ecc. Questi caratteri possono avere un impatto molto forte sul mercato, al punto da favorire nella competizione prodotti di imprese medie e piccole anche rispetto a grandi imprese, dotate di maggiori mezzi e in grado di offrire prodotti di maggior qualità. Per molti suoi lettori il giornale locale di una provincia italiana non può essere sostituito da un grande quotidiano nazionale, nonostante la qualità di quest’ultimo sia in molti casi di gran lunga superiore. La stessa situazione può presentarsi nel mercato televisivo o radiofonico, dove stazioni locali riescono a conquistare un proprio pubblico in concorrenza con i grandi canali nazionali, e in quello dei libri, dei dischi e di altri media. Il quarto tipo di mercato è quello in cui esiste una concorrenza perfetta tra un ampio numero di imprese che offrono lo stesso prodotto; si tratta però di una condizione che nell’industria dei media si incontra raramente, per le ragioni che abbiamo già detto. ­­­­­60

In ciascuna di queste quattro situazioni di mercato i prezzi del prodotto o del servizio hanno caratteri diversi. I due estremi sono rappresentati dal monopolio e dalla concorrenza perfetta. Nel regime di monopolio l’impresa, se non ci sono interventi esterni al mercato, ha maggiori margini nella scelta della qualità del prodotto da offrire e del prezzo di vendita, dal momento che non ci sono concorrenti che minacciano di sottrarle clienti. Il consumatore ha come unica alternativa quella di pagare quel prezzo o di rinunciare all’acquisto. Nel caso della concorrenza perfetta l’impresa definisce la qualità e il prezzo tenendo conto dei prodotti concorrenti. Poiché a parità di qualità un prodotto non può avere un prezzo superiore a quello di un prodotto concorrente, se l’impresa vuole conquistare nuovi clienti deve abbassare il prezzo o migliorare la qualità del suo prodotto, eventualmente insieme agli altri fattori che la rendono più conosciuta e attraente. Un altro elemento legato alla struttura del mercato riguarda le difficoltà che una nuova impresa deve affrontare per entrare nel mercato, ovvero le cosiddette barriere all’entrata. Normalmente anche tali barriere sono più alte nel caso della presenza su quel mercato di un monopolista, e tendono invece a ridursi andando verso la concorrenza perfetta. In Italia ci sono almeno due esempi emblematici su questo terreno: uno riguarda le barriere all’entrata nel mercato della televisione in chiaro, dove la struttura duopolistica dominata da Rai e Mediaset ha sostanzialmente impedito a nuove imprese di entrare o, a chi è entrato, di raggiungere risultati positivi; l’altro è quello della stampa periodica, dove la struttura del mercato è più competitiva, le barriere all’entrata sono più basse e i nuovi entranti sono in maggior numero e hanno più possibilità di ottenere risultati positivi. A questi elementi se ne aggiungono altri che sono specifici di ciascun settore. Per esempio, avviare un canale televisivo nazionale richiede notevoli investimenti iniziali e prospetta rischi assai più alti rispetto all’avvio di un canale radiofonico; entrambi, poi, richiedono maggiori investimenti di una televisione o una radio locali. Simili differenze si ritrovano anche negli altri media. 4. Evoluzione del mercato italiano L’evoluzione del mercato dei media in Italia ha avuto due caratteristiche principali, che sono state indicate con i termini «deregolazio­­­­­61

ne» e «convergenza». Il primo indica un processo di riduzione dei vincoli legislativi e, nel nostro caso, il passaggio da una situazione di monopolio all’apertura del mercato e alla concorrenza; il secondo termine – che abbiamo già definito nel primo capitolo – riguarda l’intreccio tra l’industria dei contenuti e quella delle telecomunicazioni e dell’informatica. Nelle pagine che seguono metteremo in evidenza come la deregolazione e la convergenza abbiano avuto un impatto che ha coinvolto direttamente sia il campo dei media, in particolare della televisione, sia quello delle telecomunicazioni. Osservare in parallelo l’evoluzione dei due settori è importante, dal momento che la  loro reciproca influenza è cresciuta nel tempo a tal punto che oggi la parte più innovativa del mercato dei media, anche se per ora non la più importante, è legata alle nuove opportunità offerte dalle reti di telecomunicazione tecnicamente aggiornate, ovvero le reti a banda larga e le reti cellulari per la comunicazione mobile. Le sorti economiche delle reti di telecomunicazione sono, a loro volta, sempre più legate all’offerta, la trasmissione e il consumo di contenuti mediali. Inoltre, tale osservazione è utile per mettere in evidenza come nel caso italiano la strategia dello Stato e delle imprese sia sostanzialmente mancata o, comunque, sia stata per lungo tempo incapace di favorire un’interazione virtuosa tra i due settori. Nei paesi europei la presenza diretta e indiretta dello Stato nel campo dei media e delle comunicazioni è stata per lungo tempo molto forte, anche se negli anni più recenti ha avuto importanti evoluzioni, alcune delle quali sono maturate con la messa a punto di una politica europea nel campo delle telecomunicazioni e dei media che ha portato, come si è detto, alla definizione di regole e linee d’intervento valide per tutti i paesi membri. L’azione dell’Unione Europea ha avuto un impatto particolarmente forte sull’industria delle comunicazioni non solo attraverso la direttiva Televisione senza frontiere e il Programme Media, di cui abbiamo già parlato, ma anche attraverso altre direttive. Particolarmente importante è stata la decisione di porre fine ai monopoli pubblici delle telecomunicazioni e alla presenza diretta dello Stato nel settore, decisione presa all’inizio degli anni Novanta e diventata operativa alla fine del decennio. Essa ha avuto un impatto anche nel settore dei media, nel momento in cui il processo di convergenza ha fatto delle telecomunicazioni uno strumento sempre più determinante per la trasmissione dei prodotti e dei servizi mediali e per le nuo­­­­­62

ve forme di accesso e di scambio in ambito nazionale e internazionale. Le nuove reti digitali via cavo, via etere e via satellite e i servizi associati a Internet hanno aperto per l’industria dei media un’epoca nuova, che ha imposto a tutte le imprese mediali preesistenti una forte pressione competitiva e una maggiore capacità creativa, oltre a offrire condizioni favorevoli all’ingresso di nuove imprese nel mercato. Il processo di deregolazione, in cui è maturata la fine dei monopoli pubblici nel campo televisivo e in quello delle telecomunicazioni, ha assunto in Italia alcuni aspetti particolari, che è importante osservare per spiegare la struttura del nostro mercato nei due settori. 4.1. La deregolazione Il termine deregolazione assume un significato specifico nel campo delle comunicazioni con la storica sentenza del giudice statunitense Harold Green (1982), che porta alla rottura del quasi monopolio della AT&T nelle telecomunicazioni americane (MacAvoy, 1996). Applicando le norme anti-trust, la sentenza impone alla società, a partire dal 1984, lo smembramento in società distinte e separate delle sue attività manifatturiere (produzione di apparati per le telecomunicazioni) e di fornitura di servizi di telecomunicazioni, e la separazione proprietaria di queste ultime tra i servizi di telefonia locale e quelli a lunga distanza e internazionali. Da allora il termine deregulation è diventato sinonimo di rottura dei monopoli, di liberalizzazione dei mercati e di maggiore competizione. Il termine ha assunto il significato di rottura dei monopoli pubblici non solo nel campo delle telecomunicazioni, ma anche in quello della radiotelevisione, in particolare in Europa, dove tra gli anni Ottanta e Novanta, per iniziativa autonoma dei singoli Stati e con modalità distinte da paese a paese, l’attività radiotelevisiva è stata aperta anche alle imprese private. Per le telecomunicazioni si è trattato invece di una decisione dell’Unione Europea che, con una direttiva specifica, aveva imposto a tutti gli Stati membri di aprire il campo, entro l’inizio del 1998, alle imprese private e di privatizzare le imprese pubbliche, che avevano gestito fino a quel momento il monopolio delle reti e dei servizi di telecomunicazione. I primi passi in questa direzione furono fatti dal Regno Unito, che nel 1984, anticipando di molto l’iniziativa dell’Unione Europea, privatizzò in larga parte British Telecom e decise che nel mercato ­­­­­63

operasse un secondo gestore privato, Mercury, in competizione con l’ex monopolista. In Italia, il processo di deregolazione è avvenuto rispettando i termini stabiliti dall’Unione Europea e seguendo, ancorché con caratteristiche nazionali, un percorso sostanzialmente simile a quello degli altri partner europei. Nel nostro paese gli effetti della deregolazione si sono fatti sentire in modo più diretto nel settore della telefonia mobile, che ha avuto una crescita molto rapida, fino a superare, dal 2003, la telefonia fissa per fatturato. La fine del monopolio pubblico nel campo della telefonia mobile risale al 1995, anno in cui Tim, con quasi 3,8 milioni di abbonati, controllava la quasi totalità del mercato. Il secondo operatore di telefonia mobile era Omnitel, con poco più di 60.000 abbonati. Nel periodo 1995-2009 la concorrenza ha prodotto i suoi effetti, portando la quota di mercato di Tim al 40,4%, seguita da Vodafone, diventato il secondo operatore mobile col 35,7%. Ma anche nella telefonia fissa, in seguito alla deregolazione, l’ex monopolista ha progressivamente ridotto il suo peso in favore dei concorrenti, che attualmente si dividono oltre il 45% del mercato. In Italia, inoltre, con la deregolazione i prezzi dei servizi di telecomunicazione fissi e mobili si sono ridotti in modo molto consistente e, in alcuni casi, sono attualmente inferiori alla media europea. Sul fronte radiotelevisivo, invece, il percorso italiano è stato unico ed esattamente opposto a quanto avvenuto nel resto d’Europa. Nella deregolazione radiotelevisiva l’Italia aveva anticipato tutti i partner europei. Infatti tra il 1974 e il 1976 la Corte Costituzionale aveva legittimato l’iniziativa privata nel settore della radiotelevisione locale prima via cavo e poi anche via etere, comprendendo dopo qualche anno nella liberalizzazione, attraverso vicende complesse (Grandi e Richeri, 1976), anche le attività a dimensione nazionale. Qual è dunque la differenza sostanziale tra l’Italia e il resto d’Europa? In tutti gli altri paesi europei la deregolazione del settore è stata una scelta politica consapevole ed è stata guidata da regole che hanno messo al centro dell’attenzione le norme anti-trust, norme dettate da preoccupazioni anche di tipo politico e socio-culturale, e non solo economico. In Italia, invece, la liberalizzazione non è stata il frutto di una decisione politica, ma è stata determinata da una scelta giuridica volta a garantire l’applicazione di alcune norme costituzionali e seguita dall’avvio di un numero crescente di nuove imprese radiotelevisive, il tutto nell’assenza totale e prolungata di ­­­­­64

qualsiasi intervento politico e legislativo volto a regolare il settore. Così mentre il resto d’Europa, a partire dagli anni Ottanta, si poneva il problema di come deregolare il settore per liberalizzarlo, evitando la formazione di posizioni dominanti, in Italia il problema si è presentato in modo sostanzialmente ribaltato. Si è trattato, infatti, di regolare il settore per eliminare l’eccessiva concentrazione del mercato, che era stata favorita da una liberalizzazione per molti anni senza regole. Tutta l’attività legislativa per disciplinare parzialmente o nel suo insieme il sistema, quindi il comportamento delle imprese e la struttura del mercato radiotelevisivo, ha sostanzialmente ruotato intorno a questo problema, ma senza risolverlo. Mi riferisco ai tentativi di regolare il comportamento delle imprese e la struttura del mercato radiotelevisivo pubblico e privato, dal primo tentativo della «legge Mammì», approvata nel 1990, all’ultimo disegno di legge approvato dal governo Prodi nel 2006, ma mai trasformato in legge. Infatti, il tasso di concentrazione del mercato televisivo in Italia e le barriere all’entrata di nuovi soggetti economici continuano ad essere i più elevati in Europa, tanto da generare ripetuti, e finora praticamente inascoltati, richiami da parte della Commissione europea. Questi fatti sono largamente noti, ma vanno messi in evidenza perché costituiscono il ‘peccato originale’ del mercato televisivo italiano, che ha determinato la sua struttura anomala per larga parte del periodo osservato; una situazione di stallo durata molto tempo, in cui il mercato televisivo è rimasto diviso in tre parti: due, molto consistenti, nelle mani di Rai e Mediaset; la terza, marginale, nelle mani di oltre 500 imprese televisive private a dimensione prevalentemente locale. Solo a partire dal 2003, con la fusione di Stream e Telepiù, le due imprese che offrivano servizi di tv a pagamento, si è formato un nuovo operatore televisivo con un fatturato in rapida crescita. Un successivo passaggio di proprietà ha portato la televisione a pagamento italiana, denominata ora Sky Italia, in mano al maggior operatore internazionale del settore (New International, controllata da Rupert Murdoch) e ne ha accelerato ulteriormente la crescita, fino a raggiungere dimensioni di fatturato dello stesso ordine di quello delle due principali imprese televisive. Ha cominciato così ad assumere consistenza quel «terzo polo» televisivo necessario a superare la struttura duopolistica che ha vincolato per oltre vent’anni il mercato televisivo italiano. ­­­­­65

Nonostante questo risultato, tardivo ma strutturalmente rilevante, il processo di deregolazione della televisione in Italia non è ancora approdato a una forma di mercato competitiva. Basterà osservare a questo proposito la situazione del 2010, secondo i dati pubblicati nella relazione annuale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom; vedi cap. VIII). Il mercato televisivo complessivo ha raggiunto quasi 9 miliardi di euro: Mediaset ha incassato il 31% delle risorse, Sky Italia il 29% e Rai il 28%; la pubblicità ha generato il 40% delle risorse totali del sistema televisivo ed è stata incassata per il 78% da due imprese, Mediaset (56%) e Rai (22%); gli abbonamenti alla televisione a pagamento hanno generato il 33% delle risorse televisive totali e sono stati incassati per l’83% da Sky Italia; il canone ha generato il 19% delle risorse televisive ed è stato incassato al 100% da una sola impresa, la Rai. In Italia, insomma, invece di definire le regole per liberalizzare il sistema radiotelevisivo, come nel resto d’Europa, si è trattato e si tratta ancora di definire le regole per risolvere le distorsioni prodotte da una liberalizzazione senza regole. Il dibattito politico che ha riguardato il campo televisivo, a parte le stagioni elettorali, si è sostanzialmente concentrato su questo aspetto, lasciando a margine i problemi che riguardavano la crescita e il rafforzamento di una componente strategica dell’industria della comunicazione come quella rappresentata dalla televisione e, più in particolare, dalla produzione di contenuti audiovisivi. Se negli ultimi anni ci sono stati alcuni risultati positivi su questo fronte, essi sono il risultato suprattutto delle norme protezionistiche imposte dalla direttiva europea Televisione senza frontiere a favore dei programmi di fiction di origine europea. Merito di Rai e Mediaset è stato quello di sfruttarle bene, aumentando progressivamente una produzione originale (Barca e Veronese, 2007) che ha ottenuto successo presso il pubblico televisivo nazionale e che, più recentemente, ha incominciato ad essere apprezzata anche sul mercato internazionale. Ma su questo fronte l’azione delle istituzioni pubbliche italiane è stata poco o per nulla incisiva. 4.2. La convergenza Il secondo fenomeno di dimensioni internazionali è quello della convergenza, che abbiamo definito nel primo capitolo: esso assume ­­­­­66

rilevanza nel campo delle comunicazioni quando la tecnica digitale inizia ad essere applicata progressivamente alla produzione, alla trasmissione e agli apparati di accesso dei contenuti di comunicazione alfa-numerica, sonora e audiovisiva, generando tra loro un effetto integrativo (Richeri, 1993). Con una stessa rete e una stessa interfaccia si è potuto così comunicare a distanza qualsiasi contenuto tradotto in forma digitale. A partire dai primi anni Novanta il processo di convergenza ha portato progressivamente anche nel mercato allargato delle famiglie le reti digitali integrate nei servizi – diventate oggi reti a banda larga –, Internet, la telefonia cellulare di seconda e terza generazione, la televisione digitale e in seguito la televisione mobile, la televisione via Internet, le reti di ultima generazione, sempre più veloci. Si è avviato così un nuovo ciclo di sviluppo per l’industria delle telecomunicazioni, dell’informatica e dei contenuti mediali (Klein, 2003). Date le relazioni funzionali sempre più strette fra questi tre settori, l’industria della comunicazione, come abbiamo visto, ha assunto un nuovo e ampio perimetro, che da allora comprende l’insieme delle loro attività e attribuisce all’intero settore un ruolo economicamente strategico. Il processo di convergenza ha un forte impatto sullo sviluppo e la diversificazione sia dei servizi di telecomunicazione su rete fissa e mobile, sia dei servizi televisivi offerti su varie piattaforme. Ma in Italia i suoi effetti nel campo delle telecomunicazioni e in quello televisivo divergono, data la struttura diversa dei due mercati. Le telecomunicazioni hanno visto crescere, dalla metà degli anni Novanta, il numero delle imprese e dei servizi insieme alla concorrenza, mentre il mercato televisivo è rimasto bloccato per quasi vent’anni nella sua struttura duopolistica. Sebbene la nostra attenzione sia rivolta all’economia dei media, è opportuno osservare anche gli effetti della convergenza nel campo delle telecomunicazioni, dal momento che l’evoluzione di questa componente del macro-settore delle comunicazioni favorisce l’innovazione progressiva delle imprese mediali, in particolare con il potenziamento delle piattaforme tecniche già sviluppate e la nascita di nuove opportunità. Alla fine del 1998, anno della liberalizzazione completa delle telecomunicazioni, l’Italia si trovava in una posizione arretrata rispetto ai maggiori partner europei dal punto di vista della penetrazione delle linee telefoniche, con 45 linee per 100 abitanti contro 58 linee in Germania, 56 nel ­­­­­67

Regno Unito e 52 in Francia. Una situazione simile, ma meno critica, si presentava rispetto alla digitalizzazione delle reti, che in Italia comprendeva il 93% delle linee telefoniche, mentre la Germania e la Francia avevano già raggiunto il 100% e il Regno Unito era al 97%. Per quanto riguarda la telefonia mobile, invece, l’Italia ha registrato un’accelerazione senza confronti su scala internazionale a partire dal 1995, anno in cui era iniziata la concorrenza nel settore, con il risultato che il numero di abbonati era cresciuto da 1,2 milioni del 1994 a oltre 20 milioni nel 1997, con una penetrazione del 35,5%, che era nettamente superiore a quella della Germania (17%), della Francia (19%) e del Regno Unito (22%). Il primato dura ancora oggi, con quasi il 90% di penetrazione, il che spiega anche il rallentamento degli ultimi anni nei servizi di telecomunicazione su rete fissa. Lo sviluppo di Internet, anche se favorito da una presenza molto larga di fornitori di accesso, è stato invece condizionato fortemente dalla scarsa penetrazione dei computer negli uffici e nelle case italiane rispetto ai principali partner europei. Basti considerare che solo nel 2000 la presenza domestica del personal computer ha superato il 30% delle famiglie. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha stimato che nel 1998 ci fossero circa 600 fornitori di accessi a Internet per poco meno di 1,5 milioni di utenti, il 50% dei quali era servito da un unico fornitore. In questa fase i servizi offerti da Internet rappresentarono una grande novità nel campo delle comunicazioni, e le sue potenzialità galvanizzarono l’attenzione del mondo economico e finanziario su scala mondiale (che però avrebbe presto ridimensionato le sue attese). Anche nel nostro paese intorno a Internet nacquero in quel periodo molte iniziative, ma nessuna si rivelò in grado di assumere dimensioni economiche di peso e, ancor meno, d’impatto internazionale. La difficoltà del decollo di Internet in Italia è dimostrata dal fatto che nel 1999 esso rappresenta per i gestori dei servizi di telecomunicazione solo l’1% del fatturato totale. È in questo periodo che gli operatori iniziano ad offrire forme gratuite di accesso a Internet e, per generare nuove risorse economiche, cercano di assumere il ruolo di «intermediatori di informazioni fornendo l’anello di congiunzione tra fornitori di contenuti, inserzionisti pubblicitari e consumatori finali» (Agcom, 2000). Anche l’avvio delle reti a banda larga non è stato rapido e ha visto l’Italia in posizione arretrata rispetto ai principali partner europei. ­­­­­68

Nel 1998 le connessioni a reti digitali integrate nei servizi (Isdn) erano poco più di un milione, contro gli oltre otto milioni presenti in Germania. Nonostante questa partenza rallentata, in Italia il bilancio degli effetti prodotti dalla convergenza nel campo delle telecomunicazioni è certamente positivo. Pur registrando ancora ritardi rispetto al resto d’Europa sul fronte della penetrazione di Internet e delle reti a banda larga (vedi cap. VIII), la convergenza ha tuttavia favorito nel campo un allargamento del mercato a nuovi operatori e a nuovi servizi, e ha generato nuove dinamiche competitive in linea con il resto d’Europa. Sul fronte televisivo la convergenza ha seguito percorsi diversi e ha avuto effetti economici divergenti a seconda delle piattaforme digitali considerate. Alla televisione digitale via satellite la convergenza ha offerto le condizioni per far decollare e potenziare i servizi di televisione multicanale a pagamento, portati poi al successo economico dalla nuova gestione che dal 2004 ha preso in mano il settore creando Sky Italia. Oggi oltre 8 milioni di famiglie accedono alla televisione digitale via satellite; si tratta in larga parte di abbonamenti ai servizi di tv a pagamento – intorno a 5 milioni –, che solo negli ultimi tempi hanno permesso a Sky Italia di superare il punto di equilibrio economico diventando remunerativi. Il settore della televisione digitale terrestre è decollato negli anni recenti ed è in grado di offrire alla larga maggioranza delle famiglie 60 canali diversi, vecchi e nuovi, in chiaro e a pagamento, nazionali e regionali, a cui si aggiungono i canali locali (vedi cap. IX). Si tratta quindi di un evidente allargamento dell’offerta televisiva, ancora in fase di crescita. Il modello adottato per avviare la televisione digitale terrestre ha però impedito di sfruttare pienamente la moltiplicazione dei canali disponibili per aprire le porte del mercato televisivo a nuovi operatori ed aumentare così la concorrenza nel settore. Infatti il 75% delle frequenze nazionali destinate alle trasmissioni digitali terrestri fisse è stato affidato a Rai e Mediaset, che già dominano il mercato della televisione tradizionale, e in parte a Telecom Italia Media, terzo operatore televisivo minore. Quindi, nonostante l’avvenuto decollo e l’avvio di un’offerta variegata, la televisione digitale terrestre, oltre a non aprire le porte del settore a nuovi operatori, non è stata per ora l’occasione né per attivare una domanda consistente di nuovi programmi, sviluppando così il settore della produzione ­­­­­69

audiovisiva, né per generare risorse economiche comparabili con il settore televisivo tradizionale. Solo gli operatori che offrono con la piattaforma digitale terrestre servizi a pagamento incominciano ad avere qualche soddisfazione economica, anche se con risultati non comparabili con i servizi digitali via satellite. A tutto ciò vanno aggiunti altri due aspetti del fenomeno che hanno contraddetto le attese: da una parte, lo scarso sviluppo di programmi e servizi interattivi, che per ora hanno trovato solo qualche applicazione nella pubblicità e nei giochi on line, ma sono ancora lontani dal generare risultati economici significativi; dall’altra, la scarsa attenzione al «dividendo digitale» costituito dalle frequenze che si libereranno quando, entro il 2012, si spegneranno definitivamente tutti i canali televisivi analogici ancora attivi. La scelta di destinare le frequenze ora occupate dalla televisione analogica allo sviluppo di nuovi servizi di telecomunicazione o, in alternativa, a nuovi canali televisivi digitali comporterà infatti dinamiche molto diverse sul piano delle imprese, dei servizi, del mercato e dei valori economici che l’uso di questa risorsa naturale scarsa è in grado di produrre. In conclusione, possiamo dire che la convergenza ha creato nel mercato delle telecomunicazioni risultati rilevanti sia sul piano della concorrenza sia su quello delle tariffe e dei fatturati, ma non si può dire che sia avvenuto altrettanto per il mercato televisivo. Infatti, la nascita, con Sky Italia, di un terzo operatore televisivo con reali capacità competitive è sì un risultato di rilievo, ma appare molto al di sotto di quanto si sarebbe potuto ottenere sfruttando appieno le opportunità offerte dalla convergenza per favorire la crescita e la diversificazione del mercato. 5. Vincoli al consumo dei media degli italiani Sul fronte dei consumatori, le due condizioni di base che concorrono a determinare il mercato dei media degli italiani sono il loro livello di istruzione e il loro livello di reddito. Sappiamo che in Italia il livello di istruzione medio è inferiore a quello dei principali partner europei ed è distribuito in modo squilibrato a livello territoriale. Senza entrare nel dettaglio, basti ricordare la ripartizione degli italiani secondo i titoli di studio, riferiti alle persone di 14 anni e oltre, e cioè a una popolazione di 51,4 milioni. ­­­­­70

Tabella 3. Popolazione residente in Italia di 14 anni e più per titolo di studio Milioni

%

Senza titolo di studio Licenza elementare Licenza media inferiore Licenza media superiore Laurea

2,5 9,8 18,3 16,1 4,6

4,9 19,1 35,7 31,4 8,9

Totale

51,3

100,0

Fonte: arrotondamenti su dati Istat.

Tabella 4. Lettura di giornali e uso di Internet per livelli di istruzione degli italiani (2008) % lettori di quotidiani

% utenti di Internet

13 30,6 43,7 52 63

1,5 8,5 41,4 69,6 80,2

Senza titolo di studio Licenza elementare Licenza media inferiore Licenza media superiore Laurea

Fonte: elaborazione su dati Audipress (quotidiani) e Banca d’Italia, 2010 (Internet).

I dati del censimento 2001 hanno messo in evidenza che il 24% degli italiani non è andato oltre la scuola elementare, e tra questi c’è anche un buon numero che non l’ha neppure conclusa. Un altro 35% degli italiani non è andato oltre la scuola media inferiore, e i laureati sono solo il 9% (Tabella 3). Da un’indagine più aggiornata realizzata da Eurostat su scala europea (2006) risulta che nella fascia di età compresa tra 25 e 64 anni i laureati in Italia sono quasi il 12% della popolazione, contro la media europea del 23%. Per valutare quanto il titolo di studio influisca sui livelli di consumo dei media si possono considerare due casi molto diversi tra loro: la lettura di giornali quotidiani e l’uso di Internet (Tabella 4). Altrettanto succede per il livello del reddito delle famiglie, che influenza la capacità di spesa per giornali, libri, dischi, supporti e contenuti audiovisivi, dai dvd alla tv a pagamento. Basta ricordare ­­­­­71

che oltre il 60% delle famiglie italiane ha un reddito annuo inferiore al reddito medio nazionale, che in termini reali nel 2008 era di poco inferiore a 30.000 euro. La distribuzione tra le famiglie dei media accessibili attraverso apposite tecnologie domestiche – tra le quali un ruolo sempre più importante è assunto da Internet – è diventata un indicatore essenziale della struttura dei mercati. Per di più da oltre un decennio l’Unione Europea attribuisce alle tecnologie digitali e a Internet un ruolo determinante nel migliorare la qualità della vita delle famiglie, nel ridurre le disuguaglianze socio-culturali e nel creare le condizioni utili alla crescita economica dei paesi membri. In particolare, nell’agenda europea e dei paesi membri trova spazio una preoccupazione che riguarda la frattura digitale (Sartori, 2006). In un primo momento questo fenomeno è stato analizzato in riferimento alla crescente distanza che separa i paesi sviluppati, sempre più «ricchi» anche d’informazione, da quelli più sfavoriti, sempre più «poveri» anche d’informazione. Successivamente la riflessione ha preso in considerazione anche la situazione interna ai paesi «ricchi». La frattura digitale, infatti, seppure con altre dimensioni, si produce con lo stesso meccanismo anche nei paesi sviluppati, penalizzando una parte della società e aumentando i problemi di disuguaglianza sociale, culturale ed economica e i rischi di marginalizzazione, esclusione, conflitto (Richeri, 1995b; Bentivegna, 2009). Risulta evidente anche per i paesi europei che senza una politica pubblica destinata, se non a risolvere, almeno a ridurre il problema la frattura digitale tende normalmente a crescere, visto che la parte di popolazione che non è nelle condizioni, per varie ragioni, di usare i mezzi di comunicazione digitali diventa sempre più povera di informazione (sapere, conoscenza, cultura) nei confronti di un’altra parte di società che grazie all’uso di quei mezzi può diventare sempre più ricca di informazione. Questo spostamento di fuoco del problema ha assunto ufficialità su scala europea all’inizio dello scorso decennio, quando i membri dell’Unione Europea, riunitisi a Lisbona per definire le strategie di sviluppo nel medio e lungo periodo, hanno messo in primo piano l’obiettivo di «far entrare tutti i cittadini europei nella società dell’informazione», ovvero di far sì che ogni cittadino sia in grado di accedere ai servizi multimediali e interattivi attraverso Internet e le reti digitali. Da allora i membri dell’Unione si sono impegnati a realizzare una serie di programmi per raggiungere questo traguardo nei tempi stabiliti. Si tratta di una serie di interventi con un obiettivo ­­­­­72

temporale che era stato fissato al 2010, e che riguardavano quattro principali aree: a) l’accesso alle reti a banda larga, da garantire potenzialmente a tutti; b) l’alfabetizzazione informatica di massa; c) l’interfaccia per l’accesso a Internet in tutte le case; d) gli incentivi all’uso di Internet, con il trasferimento in rete di un’ampia gamma di servizi normalmente erogati presso gli uffici dell’amministrazione pubblica. Senza entrare nel dettaglio delle iniziative messe in atto per perseguire questi obiettivi e delle cause dei ritardi registrati rispetto alle scadenze prefissate, va osservato che finora l’attenzione è stata prevalentemente dedicata all’impatto sociale e culturale da raggiungere. Occorre però tener conto anche del fatto che il successo degli interventi può avere ricadute economiche rilevanti sull’industria dei media: infatti, le componenti sociali che oggi non hanno accesso ai media digitali sono in buona parte potenziali utenti anche di prodotti e servizi editoriali in rete. Quindi tutte le iniziative volte a ridurre la frattura digitale contribuiscono – anche se questo non sembra essere il loro principale obiettivo – ad allargare il mercato dei media. Lo Stato italiano, in parallelo con altri partner europei – anche se talvolta con meno slancio e determinazione –, ha da tempo avviato iniziative su vari fronti, per favorire in particolare lo sviluppo e il potenziamento delle reti a banda larga fisse e mobili. L’obiettivo è di arrivare alla loro penetrazione capillare nel paese per offrire, a tutte le famiglie che desiderano accedere ai servizi di comunicazione via Internet, le condizioni migliori dal punto di vista sia della velocità che della qualità delle trasmissioni. Tra i servizi che hanno maggior bisogno di utilizzare le reti a banda larga ci sono quelli dei media audiovisivi. L’impegno che, dopo vari rinvii, ha raggiunto i risultati più rapidi ed estesi riguarda la televisione digitale terrestre – di cui parleremo in seguito –, che oltre a migliorare il servizio televisivo potenzia le funzioni dei nuovi televisori digitali, rendendoli atti a offrire l’accesso domestico a Internet. Nonostante questi impegni, però, la dotazione delle famiglie italiane presenta ancora punti di debolezza evidenti perché, come si è detto, le trasformazioni del mercato dei media in corso su scala internazionale legano sempre di più il mercato dei contenuti editoriali alla qualità delle reti di telecomunicazione e alla disponibilità nelle ­­­­­73

Tabella 5. Disponibilità di beni tecnologici di comunicazione nelle famiglie italiane nel 2010 (in percentuale) Tv a colori Telefono cellulare Lettore dvd Personal computer Videoregistratore Accesso a Internet Decoder tv digitale terrestre Connessione a banda larga Antenna tv satellitare Videocamera Console per videogiochi

96 89,5 64 58 53 54 52 43 35 28 21,5

Fonte: arrotondamenti su dati Istat, 2010a.

case di connessioni, terminali e altri apparati necessari ad accedere ai prodotti editoriali e a consumarli. La presenza nelle famiglie italiane, nel 2010, delle tecnologie di comunicazione è riassunta nella Tabella 5. Osservando più in dettaglio i dati forniti dall’Istat, risulta che la distanza dell’Italia dai maggiori paesi europei è ancora netta rispetto sia al possesso di Internet sia alla qualità della connessione. L’Italia è al ventesimo posto sia per quanto riguarda l’accesso domestico a Internet (con un tasso di penetrazione del 59%, rispetto a una media europea del 70%, tra le famiglie con almeno un componente tra i 16 e i 64 anni), sia per l’accesso con un tipo di rete più aggiornato, la rete a banda larga (con un tasso di penetrazione del 49% rispetto alla media europea del 61%). Da questo punto di vista la potenzialità del mercato dipende dalla presenza (quindi dal tasso di penetrazione) dei vari mezzi tecnologici nelle famiglie italiane, dato che possiamo osservare utilizzando le informazioni dell’Istat riferite al 2010 (Tabella 6). Osservando i tre indicatori di maggior peso – la presenza di personal computer nelle famiglie, l’accesso a Internet e la connessione a reti a banda larga – si nota che i loro tassi di crescita continuano ad essere sostenuti, ma le tappe per raggiungere la media europea, come si è detto, sono ancora molte. Inoltre, persiste una forte disuguaglianza sociale nella distribu­­­­­74

Tabella 6. Dotazione delle famiglie italiane (in percentuale)

Personal computer Accesso a Internet Connessione a banda larga

2009

2010

54 47 34,5

58 54 43

Fonte: arrotondamenti su dati Istat, 2010a.

Tabella 7. L’uso di Internet da parte degli italiani di 6 anni e oltre nel 2010 (valori percentuali) Posta elettronica Apprendimento Informazioni su merci e servizi Accesso a social network (Facebook, Twitter, Myspace, ecc.) Informazioni da amministrazione pubblica Inserimento messaggi chat, blog, forum di discussione Acquisti (persone di 14 anni o più)

78,5 68 63 45 38 37 26

Fonte: arrotondamenti su dati Istat, 2010a.

zione di questi mezzi. Le famiglie che occupano posizioni nettamente superiori alla media italiana sul fronte della dotazione tecnologica sono quelle con il capofamiglia dirigente/imprenditore/ libero professionista, oppure quelle in cui è presente un minorenne. Quelle più sfavorite sono le famiglie di soli anziani e quelle il cui capofamiglia è operaio, mentre la distanza tra Nord e Sud del paese rimane netta. Va osservato che le famiglie con accesso domestico a Internet superano il 54%, ma solo il 49% degli italiani (di 6 anni o più) lo usa abitualmente. Le attività più frequenti sono elencate nella Tabella 7. 6. Il mercato dei media in Italia Il mercato italiano dei media è stato oggetto di valutazioni periodiche da parte di associazioni di categoria come la Fieg per la stampa, l’Aie per i libri, la Fimi per la musica registrata, Univideo per gli ­­­­­75

audiovisivi registrati, l’Upa per la pubblicità, l’Anica per il cinema. Inoltre, da quando è stata istituita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ogni anno viene offerta una stima dei segmenti che rientrano sotto la sua tutela; dal 2007, infatti, l’Agcom è impegnata per legge a stimare il Sistema integrato delle comunicazioni (Sic), che comprende varie componenti dell’industria dei media. Prima di analizzare le ultime stime disponibili sulle dimensioni raggiunte dal Sic, è utile tracciare il quadro generale del mercato dei media italiani nella sua evoluzione storica. Senza entrare nei dettagli dei singoli settori – che in parte saranno analizzati nei capitoli successivi –, possiamo utilizzare a tale scopo i dati pubblicati dall’Istituto di economia dei media (Iem), che da anni svolge un lavoro di prima qualità in questo campo. Il rapporto dello Iem, realizzato da Andrea Marzulli (2008), traccia un percorso ventennale del mercato dei media in Italia a partire dal 1987; da esso si può rilevare il contributo che i vari mezzi hanno dato alla crescita del mercato in termini di dimensioni e di dinamicità, oltre che all’avvio di nuovi mezzi di diffusione come Internet e i terminali mobili. Il rapporto, inoltre, permette di valutare il ruolo giocato nella crescita del mercato dei media dalle due principali voci di finanziamento: la pubblicità e la spesa diretta del pubblico. I media presi in considerazione nel Rapporto sono: televisione, radio, cinema, audiovisivi registrati (home video), musica registrata, videogiochi, Internet e contenuti per accesso mobile (mobile content), stampa quotidiana, stampa periodica ed editoria libraria. Nel periodo compreso tra il 1987 e il 2006 il mercato dei media in Italia è più che triplicato, passando da quasi 8 miliardi di euro a oltre 24. Nel comparto audiovisivo il settore di maggior peso, e anche il più dinamico, è stato quello televisivo, che ha moltiplicato quasi per quattro volte le sue risorse, insieme all’home video, che è cresciuto in modo ancor più veloce, pur mantenendo una dimensione nettamente minore, pari nel 2006 all’11% di quella del mercato televisivo. Anche la stampa, nel suo insieme, ha contribuito alla crescita generale, ma con un apporto minore rispetto ai media audiovisivi. Nel periodo considerato il comparto è poco più che raddoppiato e la crescita è stata trainata dai giornali quotidiani, che hanno triplicato il loro mercato, mentre i periodici e i libri sono cresciuti in minore quantità. Oltre alla forte crescita del mercato, il dato d’insieme più significativo riguarda il peso dei primi due comparti. Nel corso del venten­­­­­76

nio considerato il mercato dei media ha visto un forte riequilibrio tra il peso economico della stampa (giornali quotidiani, periodici, libri) e quello dell’audiovisivo tradizionale (televisione, cinema, home video, radio). Nel 1987 la stampa pesava quasi il doppio dell’audiovisivo, mentre nel 2006 la differenza si è ridotta a poco meno del 3%. Il terzo comparto considerato dallo Iem è più eterogeneo e comprende la musica registrata, Internet (per quanto riguarda la pubblicità), videogiochi (sia le macchine sia i programmi) e i ­mobile content. In questo settore si concentra la maggior parte dei nuovi media, che hanno contribuito in maniera sensibile alla crescita complessiva del mercato. Questo terzo comparto, che all’inizio era rappresentato dalla musica registrata e dai suoi 178 milioni di euro di introiti, con le aggregazioni successive ha raggiunto nel 2006 oltre il 10% del mercato totale, pari a 2,6 miliardi di euro. I vent’anni presi in considerazione dallo Iem hanno registrato dunque cambiamenti di rilievo sia nella struttura del mercato dei media, sia nel peso specifico dei singoli settori, sia nelle principali forme di finanziamento. Una fase di questo intreccio complesso è ben descritta nel rapporto Iem: Nel 1987, il canone rappresentava la maggior fonte di spesa audiovisiva degli italiani, con circa il 60% del mercato. Nel 2006 questa percentuale è scesa al 26%. Altrettanto netto è stato il calo della percentuale del box office cinematografico: dal 28 al 10%, con una diminuzione, in particolare, di circa 10 punti tra il 1987 e il 1992, in corrispondenza della forte ascesa dell’home video. Questo, a sua volta, ha conosciuto fasi di diversa incidenza sulla spesa audiovisiva, con una punta massima del 25% nel 1992, un brusco calo nel periodo 1992-1994 (in corrispondenza con una forte ascesa della pay-tv) e una stabilizzazione successiva, con un ulteriore calo nel 2004-2006 (il 16,2% nel 2006, la percentuale più bassa dal 1989). La pay-tv, a sua volta, nata in Italia nel 1991, è cresciuta rapidamente nel 1992-1994 e poi ancora nel 1998-2000, fino all’impennata del 2004-2006, quando, dopo la nascita di Sky Italia, è divenuta la principale voce di spesa audiovisiva degli italiani (il 37,3% nel 2006) (Marzulli, 2008).

Altri due aspetti del periodo osservato che occorre rilevare riguardano le fonti di finanziamento del mercato dei media e, in par­­­­­77

Tabella 8. Variazioni delle fonti di finanziamento del mercato dei media, 1987-2006 (valori percentuali) Spesa diretta del pubblico

1987 1995 2000 2006

58 65 54,5 61

Spesa delle imprese (pubblicità)

42 35 45,5 39

Fonte: Marzulli, 2008.

ticolare, il rapporto tra pubblicità e spesa diretta del pubblico, soprattutto nel settore audiovisivo (Tabella 8). Il cambiamento di peso che le due fonti di finanziamento hanno avuto nel corso dei vent’anni considerati mette in evidenza l’instabilità del mercato dei media, soggetto all’influenza di molte variabili che spesso spingono in direzioni diverse. Tra queste, un peso determinante sulla pubblicità è giocato dall’andamento del ciclo economico, mentre sulle spese dirette del pubblico influisce non solo l’andamento dei redditi delle famiglie, ma anche l’ingresso nel mercato di nuovi mezzi e servizi, come l’home video prima e la televisione a pagamento poi. Nei vent’anni analizzati dallo Iem la spesa diretta dei consumatori per i contenuti audiovisivi, compreso il canone per il finanziamento della Rai, è aumentata di sei volte, passando da 1 miliardo a quasi 6 miliardi di euro, mentre la spesa delle imprese per la pubblicità sui contenuti audiovisivi è aumentata di quasi tre volte. Nel 1987 la spesa diretta era rappresentata per il 60% dal canone, per il 28% dal cinema e per il 12% dall’home video. Nel 2006 in testa c’era invece la televisione a pagamento, con il 37% della spesa, seguita dal canone con il 26%, dall’home video con il 16% e dal cinema con il 10%. 7. Il Sistema integrato delle comunicazioni Come si è detto, da alcuni anni in Italia l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha il compito di verificare le dimensioni del mercato delle comunicazioni mediali, con l’obiettivo di rilevare l’esistenza di livelli di concentrazione in grado di ridurre il pluralismo dei media oltre i limiti prestabiliti. ­­­­­78

I promotori di quest’idea muovevano dalla considerazione che nel mercato dei media ogni impresa che opera in un settore specifico – come televisione, stampa quotidiana e periodica, cinema e altro – sia in realtà in competizione con tutte le imprese che operano in un qualsiasi altro settore dello stesso mercato per conquistare almeno tre tipi di risorse scarse: l’attenzione, i soldi e il tempo dei clienti. Infatti, come si è già detto, l’attenzione che le persone investono nell’uso di alcuni contenuti esclude o comunque riduce la possibilità di usarne altri; i soldi sono spesi dalle persone per l’acquisto di beni e servizi mediali e dalle imprese per l’acquisto di spazi pubblicitari privilegiando alcuni contenuti rispetto ad altri, e lo stesso avviene per il tempo che gli individui dedicano al consumo di contenuti mediali. L’idea di considerare i vari media come componenti di un unico mercato, il Sistema integrato delle comunicazioni, su cui misurare gli indici di concentrazione e applicare i limiti anti-trust ha raccolto varie critiche nel mondo politico, e ha sollevato dubbi anche tra i ricercatori: Il Sistema integrato di comunicazione [...] ubbidisce a finalità oscure se l’obiettivo è quello di prevenire fenomeni di concentrazione: l’aggregato proposto è così ampio ed eterogeneo che, al suo interno, qualunque impresa appare come un piccolo o medio operatore, passando indenne dalle maglie troppo larghe stabilite dalla legge (Polo, 2010).

Il Sic è entrato a far parte del sistema di norme che regolano il mercato dei media italiano. La legge sul sistema radiotelevisivo, approvata nel 2004, detta «legge Gasparri» dal nome del ministro responsabile del settore, individua nel Sic il perimetro del mercato dei media italiano entro cui calcolare il livello di concentrazione che non si deve superare. L’Agcom ha avuto il compito di definire le componenti del mercato delle comunicazioni mediali italiano e di stimare annualmente le dimensioni economiche di ciascuna di esse e dell’intero mercato in modo da poter applicare le norme anti-trust, in base alle quali le imprese che operano nel mercato dei media non possono né direttamente né attraverso soggetti controllati o collegati conseguire ricavi superiori al 20% dei ricavi complessivi del Sistema integrato delle comunicazioni. Il Sic risulta composto da sette settori e dodici sotto-settori distinti e integrati: 1. servizi di media audiovisivi e radio; 2. stampa ­­­­­79

Tabella 9. Ricavi del Sic, 2008-2009 Settore

Ricavi (miliardi di euro)

1. Servizi di media audiovisivi e radio 2. Stampa quotidiana e periodica (ag. stampa) 3. Editoria annuaristica ed elettronica 4. Cinema 5. Pubblicità esterna 6. Iniziative di comunicazione di prodotti e servizi 7. Sponsorizzazioni Totale

%Sic

2008

2009

2008/2009

9,46 7,43

9,29 6,55

–1,8 –11,8

40,4 28,5

1,36 1,33 0,60 3,77

1,34 1,22 0,49 3,82

–1,5 –8,3 –18,3 1,3

5,8 5,3 2,1 16,6

0,29

0,27

–7,0

1,2

24,24

22,98

–4,2

100,0

Fonte: Agcom, 2010.

quotidiana e periodica (e agenzie di stampa); 3. editoria annuaristica ed elettronica, anche per il tramite di Internet; 4. cinema; 5. pubblicità esterna; 6. iniziative di comunicazione di prodotti e servizi; 7. sponsorizzazioni. Nel Sic non sono stati inclusi né il settore librario, né quello della musica registrata, mentre sono compresi settori come la pubblicazione di annuari e le attività editoriali legate a iniziative di promozione e marketing. Anche se i criteri di inclusioni ed esclusioni nelle attività afferenti al Sic e i criteri di definizione dei settori e dei sotto-settori che lo compongono non sono stati condivisi da una parte degli addetti ai lavori, questo è il risultato di un lungo lavoro che l’Agcom ha considerato sufficientemente omogeneo e chiaro per passare alla sua misurazione. L’obiettivo di circoscrivere e misurare il Sic è legato a ragioni di tipo politico e culturale, rappresentate dalla volontà di difendere il pluralismo delle idee, ma esso costituisce anche un utile parametro di riferimento ufficiale del mercato dei media. Nel 2009, secondo le stime dell’Agcom, i ricavi del Sic hanno registrato una flessione rispetto all’anno precedente, attestandosi intorno a 23 miliardi di euro (Tabella 9). Il ciclo economico negativo degli anni recenti ha esercitato un evidente influsso sul mercato dei media, che in alcuni settori non è cresciuto, in altri ha subito forti flessioni, specificatamente nelle ri­­­­­80

sorse pubblicitarie. La stampa quotidiana e periodica ha perso quasi il 12% delle risorse rispetto all’anno precedente, risultato su cui ha inciso soprattutto il comparto della stampa periodica. Ma anche il settore radiotelevisivo ha segnato il passo. Il risultato complessivo è stato determinato dalla forte contrazione della televisione in chiaro (–7%) e non sono bastati i risultati positivi della televisione a pagamento (+9%) per portare l’intero settore a un saldo positivo. Per verificare che nessuna impresa abbia superato il 20% del mercato, in ottemperanza alle norme anti-trust, l’Agcom ha valutato le dimensioni dei principali attori e le loro quote di mercato, da cui deriva la classifica seguente: a) Fininvest attraverso Mediaset (11,4%) e Mondadori (1,95%) ha una quota del 13,3% del Sic; b) Rai ha una quota dell’11,8%; c) News Corporation attraverso Sky Italia (11,3%) e Fox International Channels Italy (0,26) ha una quota dell’11,3%; d) Rcs Mediagroup ha una quota del 3,7%; e) Gruppo Editoriale L’Espresso ha una quota del 3,68%; f) Seat Pagine gialle ha una quota del 3,67%; g) altri operatori hanno complessivamente il 51,8% del Sic. Adottando come mercato di riferimento quello circoscritto dal Sic, nessun gruppo che opera nel mercato italiano rischia di varcare la soglia oltre la quale l’Agcom dovrebbe intervenire per tutelare il pluralismo. Alla luce delle tendenze individuate nel capitolo precedente, questo significa che nel mercato italiano ci sono ancora ampi margini per il rafforzamento di tendenze quali la crescita delle imprese, la loro integrazione o fusione con altre imprese e la concentrazione del mercato. Rispetto al quadro presentato sopra, dobbiamo fare almeno altre tre considerazioni, necessarie a fissare alcuni caratteri del mercato italiano. In Italia, secondo la normativa corrente, nel mercato dei media il pluralismo non è in alcun modo minacciato, visto che la principale impresa che opera nel Sic è assai lontana dalla soglia limite prevista dalla legge. Ma se si pensa che sei gruppi controllano il 50% delle risorse, va sottolineato che dal punto di vista economico il mercato ha un elevato livello di concentrazione. La seconda notazione riguarda il ruolo determinante della televisione come discriminante dei gruppi mediali: i primi tre gruppi ­­­­­81

in classifica hanno come attività centrale quella televisiva, e c’è una grande distanza tra le loro dimensioni e quelle degli altri gruppi. La terza osservazione riguarda la presenza pubblica nel mercato dei media e, più precisamente, in quello radiotelevisivo, che è in grado di esercitare una forte influenza sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta di contenuti audiovisivi: un’influenza orientata, secondo un’opinione diffusa, più da criteri di spartizione politica e clientelari che da criteri di servizio pubblico o di efficienza economica.

IV

La pubblicità e l’audience

1. Introduzione La pubblicità è una forma di comunicazione detta «commerciale» dal momento che l’obiettivo diretto di chi la promuove è quello di favorire la conoscenza di un prodotto o di un servizio presso i suoi potenziali clienti in modo da incrementarne la vendita. Il concetto di pubblicità comprende le forme di comunicazione che, anche se non sono finalizzate immediatamente a sollecitare il consumo di beni o servizi, promuovono comunque l’immagine dell’impresa o la notorietà di una marca presso il pubblico dei consumatori. Il mercato pubblicitario è caratterizzato dall’incontro di due attori: le imprese che producono beni di largo consumo, che cercano di attirare l’attenzione di potenziali clienti per informarli dei propri prodotti e promuoverne l’acquisto, e le imprese mediali, che con i loro contenuti editoriali «producono» audience, la cui attenzione è la merce di scambio. La struttura di questo tipo di mercato è quella «a due versanti» (two-sided market), di cui abbiamo parlato nel cap. I. Su un versante lo scambio avviene tra gli editori di quotidiani e periodici, le emittenti televisive e radiofoniche, i portali Internet ecc., che offrono i loro contenuti, e l’audience che intende utilizzarli. Sull’altro versante lo scambio avviene tra gli editori che offrono le loro audience e gli inserzionisti pubblicitari che intendono utilizzarle per promuovere i propri prodotti.

­­­­­83

2. Il mercato della pubblicità Affinché il mercato pubblicitario possa funzionare in modo efficiente è necessario che il prodotto audience sia misurato e se ne conosca la composizione nel modo più preciso possibile. In Italia operano varie società di rilevazione dell’audience, specializzate per i vari settori: Auditel per la televisione, Audiradio per la radio, Audipress per la stampa, Audiweb per la pubblicità su Internet (vedi infra, par. 4). Dalle loro informazioni dipendono la disponibilità degli inserzionisti a pagare gli spazi pubblicitari sui media e il prezzo di vendita. Le imprese mediali affidano gli spazi dedicati alla pubblicità a imprese concessionarie, che possono essere indipendenti o loro filiali. Le concessionarie hanno reti di vendita che negoziano con gli inserzionisti le condizioni economiche e le modalità di trasmissione dei loro messaggi e sono remunerate dall’editore con una percentuale del fatturato realizzato. In Italia le maggiori imprese mediali affidano la commercializzazione dei loro spazi pubblicitari a società controllate o a loro filiali. Nel campo televisivo, Rai e Mediaset affidano i loro spazi rispettivamente a Sipra e Publitalia; nel campo della carta stampata, il «Corriere della Sera» li affida a Rcs Pubblicità, «la Repubblica» alla Manzoni e «La Stampa» a Publicompass. In molti casi le concessionarie dei grandi media gestiscono anche la pubblicità di media indipendenti, come nel caso di Publicompass, che commercializza gli spazi pubblicitari di 21 quotidiani, 4 periodici, 6 canali tv satellitari, 3 tv e 5 radio locali e 16 siti web. Gli spazi pubblicitari possono essere venduti direttamente al cliente oppure negoziati attraverso i centri media, che svolgono anche l’attività di programmazione e pianificazione delle campagne pubblicitarie degli inserzionisti. Queste due attività, che precedono la campagna pubblicitaria, richiedono infatti competenze specifiche, indispensabili per pianificare gli investimenti pubblicitari del cliente, secondo la quantità e il tipo di consumatori potenziali che si intende raggiungere, e per programmare la campagna pubblicitaria sui vari mezzi. I centri media hanno inoltre il compito di valutare, a campagna pubblicitaria conclusa, i risultati ottenuti, in particolare la quantità e il tipo di pubblico raggiunto. In questo mercato operano anche le agenzie di pubblicità, che hanno la funzione di realizzare i contenuti delle campagne pubblicitarie su incarico degli inserzionisti. ­­­­­84

Tabella 10. Indicatori di investimento pubblicitario per i principali mercati, 2010 Totale investimenti (mezzi classici)*

Investimenti/Pil (%)

  16    35  10  14   7 102  44 110,5

0,6 1 0,5 0,7 0,5 1,8 0,8 0,8

Francia Germania Italia Regno Unito Spagna Cina Giappone Stati Uniti

* Stampa quotidiana e periodica, radio, televisione, cinema, affissioni, Internet. Dati arrotondati, in miliardi di dollari. Fonte: Upa su dati Nielsen Global AdView Pulse, Uda, Eurostat.

La vendita degli spazi pubblicitari avviene sulla base di tariffe predefinite, che hanno tuttavia un valore indicativo, dal momento che il prezzo si definisce in base a una negoziazione il cui risultato varia da caso a caso. In generale, il prezzo degli spazi pubblicitari è influenzato dal numero e dalla tipologia di consumatori che il mezzo di comunicazione riesce a raggiungere in una unità di tempo, dal potere contrattuale della concessionaria, nonché da quello dell’inserzionista e di eventuali intermediari, come i centri media. Le dimensioni economiche del mercato pubblicitario possono essere valutate osservando il confronto su scala internazionale elaborato su dati di varia origine dalla Utenti pubblicità associati (Upa), l’associazione dei maggiori investitori pubblicitari italiani (Tabella 10). 3. Pubblicità, economia e società Gli effetti della pubblicità sono visibili sia sul piano economico che su quello sociale. Sull’economia, la pubblicità incide influenzando il rapporto tra le imprese e il mercato: attraverso il suo doppio effetto «informativo» e «persuasivo», serve alle imprese per competere, per conquistare e consolidare quote di mercato, orientando il comportamento dei consumatori. Nel secondo caso, incide sulla società e la sua cultura influenzando il linguaggio, le mode, gli stili di comportamento e di consumo, i valori. ­­­­­85

Gli effetti della pubblicità sull’industria dei media sono altrettanto visibili, ma qui prevalgono aspetti del tutto diversi rispetto agli altri settori dell’economia. La pubblicità gioca infatti un ruolo essenziale nel finanziamento di gran parte dell’industria dei media, pur intervenendo in misura diversa a seconda dei settori coinvolti: può essere fonte economica unica, prevalente o aggiuntiva. In questo modo alcuni media, come la radio e la televisione, la stampa quotidiana e quella periodica, sono offerti al pubblico gratuitamente o a prezzi nettamente più bassi rispetto ai loro costi di produzione e diffusione/distribuzione. Il vantaggio che ne deriva per l’intera società è che la pubblicità contribuisce in modo sostanziale ad allargare l’accesso del pubblico alle informazioni, all’intrattenimento e alla cultura. Nel caso italiano, per esempio, la pubblicità rappresenta il 48% degli introiti dell’industria televisiva nel suo insieme, la totalità degli introiti dei canali tv commerciali in chiaro e il 37% di quelli della radiotelevisione pubblica, il 46% degli introiti dell’industria della stampa quotidiana. La teoria economica ha ampiamente trattato la funzione della pubblicità nel rapporto tra imprese e mercato, mettendo in evidenza una varietà di effetti possibili. Per esempio, è opinione diffusa che non sempre la pubblicità aiuti a sviluppare la concorrenza, ma che possa invece contribuire a consolidare situazioni di monopolio, rafforzando, in particolare, la notorietà e il potere attrattivo della marca leader di mercato, con l’effetto di alzare le barriere all’entrata per nuovi concorrenti. Inoltre, non sempre il costo della pubblicità ricade sul consumatore: l’aumento delle vendite indotto dalla pubblicità può infatti creare economie di scala tali da ridurre il costo medio del prodotto e il suo prezzo (Bagwel, 2001). Il legame tra investimenti pubblicitari, salute economica delle imprese mediali e circolazione di contenuti informativi, culturali e d’intrattenimento è molto forte. Si tratta però di un rapporto instabile, dal momento che varia al variare dei comportamenti di chi investe in pubblicità e di chi consuma i media. In entrambi i casi questi comportamenti sono influenzati da variabili talvolta imprevedibili, la cui incidenza sulle imprese e sul pubblico è solo intuitiva, poiché non si riesce a individuarne in modo soddisfacente le regole.

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3.1. Il Pil e la pubblicità negli ultimi tre decenni Se si osserva l’andamento degli investimenti pubblicitari in Italia negli ultimi decenni si notano variazioni interessanti. Nel decennio 19811990 il mercato della pubblicità a valori costanti è raddoppiato, con tassi di crescita mai visti né prima né dopo quel periodo; una crescita che è stata assai più rapida di quella del prodotto interno lordo (Pil). A conferma di ciò basti osservare che in quel decennio l’incidenza degli investimenti pubblicitari sul Pil è raddoppiata, passando dallo 0,33% del 1981 allo 0,63% del 1990. È normale che in situazione di Pil crescente crescano anche gli investimenti pubblicitari, ma in questo caso la crescita del Pil è del tutto insufficiente a spiegare le dimensioni e la velocità del fenomeno. Ciò che ha pesato in modo determinante su quanto avvenne allora è una relazione complessa tra quattro fenomeni verificatisi in quegli anni. La moltiplicazione delle grandi superfici commerciali (super- e ipermercati) modificò l’organizzazione della promozione e della vendita dei beni di largo consumo. La marca assunse così un ruolo determinante nell’orientare le scelte dei consumatori in sostituzione dell’assistenza del personale, che era presente invece nei piccoli esercizi commerciali. Per associare nella memoria dei consumatori la marca ai contenuti dei prodotti lo strumento più rapido e potente è la pubblicità, in particolare sui canali televisivi. Questo è il principale vettore che provocò un forte aumento degli investimenti pubblicitari, insieme alla nascita di molti nuovi prodotti e nuove marche. I nuovi canali televisivi poterono così sfruttare la forte domanda di spazi pubblicitari che la televisione pubblica da sola non sarebbe stata in grado di soddisfare. Negli anni Ottanta oltre la metà dell’incremento degli investimenti pubblicitari è stata indirizzata verso il mezzo televisivo, che è diventato da allora il supporto maggiormente utilizzato nella pianificazione pubblicitaria (Brigida et al., 2001). Nel decennio 19912000 il trend positivo degli investimenti pubblicitari è continuato, ma con un tasso medio annuo di crescita nettamente inferiore a quello del decennio precedente e con un’interruzione netta nel biennio 1993-1994, quando gli investimenti diminuirono in valore assoluto rispetto a quelli del 1992 (Tabella 11). Va ricordato che, secondo alcuni osservatori, sui risultati del 1993 hanno pesato, oltre al ciclo economico negativo, la guerra del Golfo e la sua influenza depressiva sulle attese delle imprese e dei consumatori. ­­­­­87

Tabella 11. Variazioni percentuali del Pil e degli investimenti pubblicitari in Italia, 1991-1995

Pil Investimenti pubblicitari

1991

1992

1993

1994

1995

1,5 5,5

0,8 5,2

–0,9 –2,4

2,2 0,2

2,8 5,6

Fonte: Ocse, Nasa Nielsen.

Tabella 12. Variazioni percentuali del Pil e degli investimenti pubblicitari in Italia, 2000-2005

Pil Pubblicità

2000

2001

2002

2003

2004

2005

 3,6 15

1,8 –3,6

0,3 – 4,2

0 3,3

1,1 7

0 3

Fonte: Ocse, Iem.

Quell’effetto negativo si fece sentire anche nel rapporto tra investimenti pubblicitari e Pil, che si ridusse progressivamente dallo 0,6% del 1991 allo 0,52% del 1995, per poi risalire lentamente allo 0,6 nel 1999. Nella prima metà degli anni Duemila si ripresenta una situazione simile – anche se molto più marcata – a quella della prima metà degli anni Novanta. Tra il 2000 e il 2005 (vedi Tabella 12) il periodo di rallentamento e stagnazione del Pil è imputabile alla crisi internazionale della new economy, che però da sola non basta a spiegare il crollo verticale degli investimenti pubblicitari. Secondo molti osservatori, anche in questo caso, come all’inizio degli anni Novanta, il crollo della pubblicità è dipeso in modo sensibile dagli effetti negativi, sul comportamento delle imprese e dei consumatori, di eventi drammatici come l’attentato alle torri del World Trade Center di New York e l’avvio della guerra in Afghanistan e in Irak. Gli investimenti pubblicitari hanno incominciato a decrescere in valore assoluto già nel 2001 e hanno continuato a farlo nel 2002, riprendendo a crescere solo nel 2003.

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Tabella 13. Variazioni percentuali del Pil e degli investimenti pubblicitari negli Stati Uniti e nel Regno Unito, 2000-2005 2000

2001

2002

2003

2004

2005

 3,7 15

0,8 –5

1,6 –2,4

2,5 –13

3,9 –1,6

 3,2 15

 3,8 10

2,4 –2,6

2,1 1,5

2,7 3,4

3,3 6,5

 1,9  2,6

stati uniti

Pil Pubblicità regno unito

Pil Pubblicità Fonte: Ocse, Oea.

3.2. Pil e pubblicità negli Stati Uniti e nel Regno Unito negli anni Duemila I casi degli Stati Uniti e del Regno Unito sono indicativi di come gli eventi politici internazionali abbiano prodotto sugli investimenti pubblicitari un effetto più diretto di quanto lo sia stato quello dell’andamento del Pil. Negli Usa il rallentamento della crescita del Pil è stato meno forte che in Italia, mentre il crollo degli investimenti pubblicitari è stato molto più profondo, essendo quel paese nell’occhio del ciclone degli eventi politici evocati sopra. Anche nel Regno Unito il rallentamento della crescita del Pil è stato molto più leggero rispetto all’Italia, mentre l’inversione di tendenza degli investimenti pubblicitari è stata altrettanto netta, anche se meno dilatata nel tempo (Tabella 13). Nonostante la diffusa opinione secondo cui esiste una correlazione positiva tra andamento generale dell’economia e andamento degli investimenti pubblicitari, appare evidente che si tratta di un rapporto più debole e incerto di quanto comunemente si ritiene, e che spesso sono fattori locali e internazionali di altra natura a giocare un ruolo più forte. Il Pil degli Stati Uniti è cresciuto in tutti gli anni Duemila, mentre, secondo i dati dell’Osservatorio europeo dell’audiovisivo, gli investimenti pubblicitari sono calati in valore assoluto per quattro anni consecutivi e hanno perso complessivamente il 21%, passando dai 131 miliardi di euro del 2000 ai 104 miliardi del 2004, per poi riprendere la crescita. Nello stesso periodo il Pil nel Regno Unito ha continuato a crescere di anno in anno mentre, secondo la stessa fonte, gli investimen­­­­­89

ti pubblicitari dal 2000 al 2003 sono diminuiti complessivamente del 14%. In Italia gli investimenti pubblicitari tra il 2000 e il 2002 sono diminuiti in valore assoluto del 7%, mentre la crescita del Pil si è sostanzialmente fermata dal 2003 al 2005. In altri casi si troverebbero situazioni ancora diverse. In realtà, osservando un periodo di anni abbastanza ampio in vari paesi ad economia avanzata, appare evidente che la correlazione tra l’andamento del Pil e quello degli investimenti pubblicitari non segue una regola generalizzabile. In prima approssimazione, e rimandando a verifiche più estese sia nel tempo che nei casi considerati, sembra che ad incidere sugli investimenti pubblicitari siano fattori più complessi del mero andamento economico. Tali fattori, oltre alle dimensioni economiche, comprendono dimensioni di tipo socio-politico, legate a specificità nazionali, che accrescono l’imprevedibilità del mercato pubblicitario e assoggettano l’industria dei media a un elevato grado di incertezza e vulnerabilità. 3.3. Scelte delle imprese e comportamenti dei consumatori Già negli anni Trenta del secolo scorso autori come Edward Chamberlin (The Theory of Monopolistic Competition, 1933) e Joan Robinson (Economics of Imperfect Competition, 1933) avevano incominciato ad occuparsi degli effetti che la pubblicità, a partire dai suoi contenuti comunicativi, esercitava sui comportamenti dei consumatori e sui rapporti tra imprese e mercato (Hood, 2005). Fin da allora si accese la discussione sulla funzione della pubblicità informativa e della pubblicità persuasiva, nonché sul rapporto tra pubblicità e prezzi, concorrenza e consumi. Ma ancora oggi il rapporto tra economia e pubblicità dal punto di vista macroeconomico è uno degli aspetti meno studiati dagli economisti. Non è chiaro quale sia la natura degli investimenti pubblicitari e quali siano i loro legami con l’insieme dell’economia. Come si è detto, sono frequenti i riferimenti al rapporto tra investimenti pubblicitari e Pil, ma si tratta di un indicatore molto impreciso, in grado di rispecchiare il comportamento solo di una parte molto circoscritta delle imprese e delle attività economiche che contribuiscono nel loro insieme alla ricchezza di un paese. La pubblicità, infatti, è il frutto degli investimenti di una parte limitata e ben identificabile di imprese: si tratta di quelle aziende ­­­­­90

Tabella 14. Peso percentuale degli investimenti pubblicitari dei primi sei settori merceologici in Italia nel 2000 Settori

% sul totale degli investimenti

Alimentari Telecomunicazioni e informatica Automobili Istruzione ed editoria Abbigliamento Bevande

11,1 10,6 10,3 8,7 5,9 4,7

Totale

51,3

Fonte: Nasa Nielsen.

che hanno già raggiunto dimensioni di fatturato consistenti, quote di mercato significative, estensione territoriale allargata, e che operano in un numero limitato di settori merceologici. Anche tra le imprese che producono beni di largo consumo sono molte quelle che non ricorrono agli investimenti pubblicitari per sostenere le loro vendite. Inoltre, larga parte degli investimenti pubblicitari si concentra in un numero ristretto di settori merceologici: in Italia, nel 2000, il 51,3% degli investimenti pubblicitari totali si riferiva a prodotti di imprese medie e grandi appartenenti a sei settori merceologici (Tabella 14). Nel 2010 la situazione non era molto cambiata: i primi sei settori merceologici per investimenti pubblicitari erano gli stessi di dieci anni prima, anche se le rispettive posizioni nella classifica per livello di investimenti erano un po’ cambiate, e tutti insieme coprivano oltre il 53% degli investimenti totali. Gran parte dei consumi in Italia, così come in altri paesi, riguarda invece prodotti poco o per nulla pubblicizzati. Inoltre, nel passato anche recente si è assistito ad accelerazioni degli investimenti pubblicitari indipendenti dal ciclo economico. Tra i casi più evidenti, che hanno avuto riscontri in tutti i paesi europei, c’è quello dei servizi di telecomunicazione che, in base a una direttiva europea, sono stati liberalizzati a partire dall’inizio del 1998, generando un flusso di investimenti pubblicitari di grandi dimensioni. Gli investimenti pubblicitari in questo settore, che nel 1994 rappresentavano solo il 4% degli investimenti pubblicitari totali, nel 2000 erano cresciuti al 10,6% e nel 2010 continuavano ad attestarsi su un livello rilevante, pari al 9,8% degli investimenti totali. ­­­­­91

Nel determinare la quantità e la qualità dei loro investimenti pubblicitari le singole imprese seguono una logica che risponde a comportamenti ripetitivi e abbastanza prevedibili. Tuttavia, come risulta da quanto abbiamo detto sopra, quel che è difficile prevedere – perché non se ne conoscono le regole e perché dipendono da fenomeni improvvisi – sono la crescita e la diminuzione degli investimenti pubblicitari nel loro insieme. Questa imprevedibilità, se non costituisce un problema per le singole imprese, che decidono autonomamente in base alle proprie convenienze, possibilità e obiettivi, rende invece molto vulnerabili le imprese mediali, come quelle che operano nel campo radiotelevisivo o in quello della carta stampata quotidiana e periodica. Il loro equilibrio economico dipende in buona parte dagli investimenti pubblicitari che sono, come si è detto, soggetti a variabili «sregolate». La netta riduzione degli investimenti pubblicitari negli Stati Uniti, avvenuta in modo del tutto inatteso dopo il 2000, era sensibilmente legata ad un evento imprevedibile come l’attentato alle torri del World Trade Center. Ne è derivata una situazione di crisi molto diffusa tra le imprese radiotelevisive e giornalistiche, che spesso hanno dovuto ristrutturarsi e rivedere le loro strategie, come nel caso di grandi gruppi quali Viacom, Walt Disney, Vivendi. 4. L’audience come prodotto A seconda del modello commerciale adottato, le imprese mediali vendono solo il contenuto al pubblico, come nel caso degli editori di libri; oppure vendono solo l’audience agli inserzionisti pubblicitari, come nel caso delle televisioni private in chiaro o della free press; o, ancora, vendono sia il contenuto che l’audience, come nel caso di larga parte della stampa quotidiana e periodica. Le risorse generate dal mercato dell’audience sono fondamentali per l’economia dei media, ed è necessario approfondirne il funzionamento osservando i quattro tipi principali di attori coinvolti. Il primo tipo è costituito dalle imprese mediali, che producono contenuti concepiti per attirare l’attenzione di un pubblico, dal momento che la pubblicità fornisce loro la totalità o una parte rilevante delle entrate economiche. Tali imprese comprendono molte delle emittenti radiofoniche e televisive pubbliche e private, le società che ­­­­­92

realizzano giornali e periodici e, negli anni recenti, anche quelle che realizzano contenuti accessibili attraverso Internet. I vari media sono in grado di «produrre» pubblici, ovvero audience, selezionati in base ai contenuti e all’area di diffusione dei loro prodotti. Le audience sono offerte agli inserzionisti pubblicitari interessati ad attrarre con i loro messaggi l’attenzione delle persone che le compongono, tra le quali ritengono ci sia un certo numero di potenziali acquirenti dei loro prodotti. In Italia, per esempio, nel 2010 il fatturato totale di Rti-Mediaset è stato coperto per oltre l’87% dalla vendita della sua audience agli inserzionisti, quello della Rai è stato coperto per oltre il 37%, quello di Sky Italia per oltre il 7%, mentre il fatturato complessivo delle imprese editrici dei giornali quotidiani è stato coperto dalla vendita dell’audience, ovvero i lettori dei giornali, per il 49%. In generale, nel finanziamento di un mezzo di comunicazione il peso dell’audience varia, oltre che secondo il modello commerciale scelto dall’impresa editrice, anche in base alle caratteristiche del mercato e del posizionamento dei contenuti. Per esempio, le imprese radiotelevisive pubbliche in alcuni casi, come in quello della Bbc britannica, non possono vendere la loro audience, perché per legge non possono trasmettere contenuti pubblicitari. Negli ultimi anni anche i governi francese e spagnolo hanno allineato le loro televisioni pubbliche alla Bbc, eliminando dalla loro programmazione la pubblicità. Nel caso di altre imprese televisive pubbliche, come Rai, France Télévisions o le tedesche Ard e Zdf, la pubblicità è presente nella programmazione, ma solo come fonte economica aggiuntiva al canone e con caratteristiche e vincoli predefiniti. Le televisioni private che trasmettono i loro programmi in chiaro, quindi accessibili a tutti, hanno invece come risorsa economica dominante la pubblicità, perciò la loro dipendenza dall’audience è totale. Anche nel caso dell’editoria quotidiana e periodica alcuni prodotti vivono solo sulla vendita dell’audience agli inserzionisti pubblicitari, per altri questa vendita rappresenta solo una parte degli introiti e per altri ancora è assente. L’obiettivo di fornire agli inserzionisti audience di varie qualità e localizzazioni è stato una delle molle che hanno spinto le imprese mediali verso forme di integrazione orizzontale e trasversale che hanno portato alla formazione di grandi gruppi multimediali. Il valore economico e il mercato delle audience cambiano a seconda della quantità e qualità del pubblico che le compone, e comunque ­­­­­93

gli inserzionisti pubblicitari sono interessati soprattutto all’attenzione di quelle categorie di pubblico in cui vi è una forte presenza di persone che già consumano i loro prodotti – per rafforzarne la «fedeltà» commerciale – o di persone che potrebbero essere interessate a farlo. Il secondo tipo di attore che agisce nel mercato dell’audience è rappresentato dalle organizzazioni che hanno il compito di misurare il pubblico di ciascun mezzo. Queste società forniscono dati quantitativi sulla composizione dell’audience secondo variabili socio-demografiche e territoriali e secondo le modalità di esposizione ai contenuti dei vari media. Come si è già detto, il valore commerciale dell’audience di ciascun media si basa sulle informazioni prodotte da tali organizzazioni. La garanzia della loro indipendenza e affidabilità è quindi necessaria non solo per l’impresa mediale che vende l’audience e per l’inserzionista pubblicitario che l’acquista, ma più in generale per tutti quegli operatori attivi nel mercato pubblicitario che hanno bisogno di dati certi per svolgere la propria attività: si pensi alle agenzie e alle concessionarie di pubblicità, ai centri media, agli enti di regolazione, ecc. La qualità e l’affidabilità di queste informazioni, però, dipendono dalla qualità dell’impianto e della metodologia di rilevamento e misurazione dell’audience. In alcuni paesi esistono organizzazioni specializzate nel misurare l’audience di diversi tipi di media: radio e televisione, stampa quotidiana e periodica, Internet. In altri paesi, invece, operano organizzazioni di rilevamento dei dati di audience distinte per ciascun mezzo. Quest’ultimo è il caso dell’Italia, dove, come si è visto nei paragrafi precedenti, il rilevamento dell’audience televisiva locale e nazionale è realizzato dalla società Auditel, quello delle radio da Audiradio, quello della stampa da Audipress, quello di Internet da Audiweb. La proprietà e il controllo di queste società sono ripartiti tra le categorie economiche interessate a garantire la qualità, la precisione e l’affidabilità dei dati sulle audience. Per esempio, i partner azionisti di Auditel sono le imprese televisive maggiori, l’associazione dei principali inserzionisti pubblicitari e quella delle principali agenzie pubblicitarie, così come tra i principali azionisti di Audipress figura, oltre ai rappresentanti delle varie categorie attive sul fronte pubblicitario (Upa, Assap, Unicom), la Federazione italiana editori giornali (Fieg). Auditel e Audipress sono le più importanti tra queste società, se consideriamo la dimensione delle risorse economiche che vengono orientate dai loro dati, quotidianamente dalla prima e stagionalmente dalla seconda. ­­­­­94

Auditel è nata nel 1986 e ha iniziato a rilevare i dati dell’ascolto televisivo a partire dal dicembre di quell’anno. Il principio su cui si basa la sua attività è «che operi super partes e che la sua attendibilità e obiettività siano garantite dalla struttura societaria nella quale sono rappresentati gli interessi diversi, spesso in competizione, di tutto il sistema televisivo e di tutto il mercato pubblicitario» (Baudi di Vesme e Brigida, 2009). Per garantire che questo principio sia rispettato la società è controllata con pari quote dai tre principali attori del mercato pubblicitario televisivo in Italia: televisione pubblica (Rai con il 33%), televisioni private (Mediaset con il 27% e altre), inserzionisti e agenzie pubblicitarie (Upa, AssoComunicazione, Unicom, Assomedia) con il 33% complessivo, a cui si aggiunge con l’1% la Fieg. I dati Auditel riguardano il consumo televisivo domestico di un campione di circa 5.200 famiglie, rappresentativo degli oltre 24 milioni di famiglie italiane. Queste famiglie, che contano complessivamente più di 14.000 individui di età superiore a 4 anni, e che hanno mediamente 1,7 apparecchi televisivi nella propria abitazione, sono state selezionate attraverso un numero molto ampio di interviste dirette e il 20% di loro è sostituito ogni anno da nuove famiglie. I televisori di ciascuna famiglia che fa parte del campione sono collegati attraverso un apparecchio speciale chiamato people meter, gestito dalla Agb-Italia, società specializzata che ha l’incarico della rilevazione. Senza entrare nei dettagli tecnici, basta dire che il people meter registra ogni minuto su quale canale è sintonizzato il televisore e, grazie a uno speciale telecomando azionato da ogni membro della famiglia campione, anche chi è davanti al televisore. L’Audipress realizza l’indagine quantitativa e qualitativa sulla lettura dei giornali quotidiani e periodici, e sulle caratteristiche di lettori e lettura, attraverso due rilevamenti annuali – uno in primavera e l’altro in autunno – su un campione di 20.000 individui, rappresentativo di tutti i cittadini italiani dai 14 anni in su. Il terzo tipo di attore nel mercato dell’audience è costituito dagli inserzionisti, ovvero dai soggetti che acquistano gli spazi sui media scelti come supporti per far arrivare al pubblico i messaggi informativi e promozionali sui loro prodotti o servizi. In questo gruppo si fanno rientrare anche altri soggetti attivi sul fronte pubblicitario, come le agenzie di pubblicità, che creano e mettono in forma i messaggi pubblicitari, o i centri media, che negoziano spazi pubblicitari sui media e pianificano gli investimenti degli inserzionisti sui vari supporti. ­­­­­95

Il quarto attore è costituito dal pubblico di consumatori a cui sono destinati i messaggi pubblicitari trasmessi dai media. I dati di audience rappresentano questo pubblico in termini quantitativi, ma non sono in grado di rappresentare in modo soddisfacente la varietà delle componenti e la complessità dei comportamenti. Vengono a mancare alcuni aspetti importanti per conoscere i consumatori: le forme di accesso ai contenuti, le risorse investite, lo stile di vita e le modalità di consumo, ed anche il loro grado di apprezzamento, comprensione e memorizzazione (Ang, 1991). I diversi attori che partecipano al mercato dell’audience esercitano condizionamenti reciproci più o meno intensi; quello più evidente riguarda il rapporto tra inserzionisti pubblicitari e imprese mediali. Infatti l’efficacia dei messaggi pubblicitari dipende non solo dai suoi contenuti e dal mezzo utilizzato, ma anche dal contesto comunicativo in cui il messaggio è inserito. Di conseguenza, non di rado accade che gli inserzionisti facciano pressioni sui giornali o sui canali radiotelevisivi per evitare la pubblicazione di articoli o la trasmissione di programmi in contrasto con i contenuti dei loro messaggi pubblicitari o, al contrario, per promuovere contenuti, struttura delle pagine e dei programmi. Accade pure che siano gli stessi inserzionisti a produrre direttamente contenuti, per esempio fiction concepite appositamente per promuovere i loro prodotti: il caso storico più noto riguarda le soap opera americane, realizzate per promuovere una marca o un prodotto (Lehu, 2007). Come si può vedere, dunque, la forza contrattuale dell’inserzionista è molto alta e le sue decisioni nei confronti di un’impresa mediale sono in grado di influenzare i contenuti che essa diffonde e talvolta di decretarne il successo o la crisi. I condizionamenti degli inserzionisti sulle imprese mediali, però, non dipendono solo da iniziative esplicite e dirette, ma fanno parte del meccanismo economico che lega i due attori. Normalmente, infatti, le imprese mediali operano scelte editoriali adatte a generare il più alto livello di entrate e profitti e sono quindi orientate a produrre contenuti in grado di attirare i segmenti di pubblico considerati più attraenti per gli inserzionisti (Owen e Wildman, 1992). Un altro tipo di influenza è quella esercitata dagli inserzionisti sulle imprese che misurano le audience. Spesso, infatti, essi hanno bisogno di avere dati e informazioni più dettagliati sul pubblico dei media per pianificare meglio i propri investimenti pubblicitari e ­­­­­96

quindi intervengono sulle decisioni che riguardano le dimensioni e la composizione dei campioni di rilevamento. Oppure chiedono di produrre informazioni più articolate sul pubblico, che siano in grado di arricchire i dati di audience che, come si è detto, spesso sono troppo sintetici e inadeguati a rappresentare in modo esauriente i caratteri e i comportamenti di consumo delle persone (De Blasio et al., 2007). Nello stesso tempo, però, anche le imprese mediali esercitano una certa influenza sulle società che misurano le audience, perché hanno bisogno di conoscere in modo più dettagliato e preciso l’audience di un determinato mezzo al fine di poterlo valorizzare meglio nel mercato. Per esempio, di recente varie imprese mediali hanno avuto necessità di rilevare i consumi radiotelevisivi anche in spazi diversi da quello domestico, in cui vengono misurati normalmente, come i bar e altri luoghi pubblici (Cola, 2012). 4.1. Le tre dimensioni dell’audience L’audience è un prodotto che si presenta in tre dimensioni distinte, ma interconnesse: l’audience prevista, l’audience misurata e l’audience reale (Napoli, 2003). Il mercato dell’audience di un determinato contenuto mediale inizia quando non è ancora possibile misurarla. Infatti la transazione commerciale tra il venditore (l’impresa mediale) e il compratore (l’inserzionista pubblicitario) si basa sulla previsione condivisa della probabile dimensione e composizione dell’audience negoziata. Ciò avviene prima che il contenuto – giornale, programma televisivo o altro – sia disponibile e sia offerto al pubblico e prima che si conoscano i dati di audience; quindi nessuno sa con precisione quale sarà l’audience che l’inserzionista pubblicitario acquista. La previsione si basa su vari elementi, che riguardano le caratteristiche del mezzo e i risultati ottenuti precedentemente da contenuti simili diffusi in condizioni di offerta analoghe (testata o canale, pagina o fascia oraria, giorno della settimana, stagione, ecc.). La possibilità di verificare il grado di approssimazione dell’audience prevista si ha quando il contenuto mediale è stato diffuso e la sua audience è stata misurata dalle apposite imprese di rilevamento. L’audience misurata non solo rappresenta il prodotto centrale nel commercio dell’audience, ma costituisce un elemento fondamentale per prevedere le dimensioni dell’audience di contenuti simili che saranno trasmessi nelle stesse condizioni in futuro. ­­­­­97

L’audience misurata normalmente non coincide con esattezza con l’audience reale, costituita dall’intero pubblico che ha consumato un contenuto, ma è il risultato di una sua stima basata sulla misurazione del consumo di un campione rappresentativo di utenti. Per esempio, per i 24 milioni di famiglie televisive italiane il campione rappresentativo è costituito, come si è detto, da 5.200 famiglie, ed è il loro consumo televisivo a essere realmente misurato. Analogamente, il consumo della stampa quotidiana e periodica si misura su un campione di cittadini italiani di 20.000 individui. I dati rilevati su questi campioni – come quelli rilevati sui campioni di Audiradio e Audiweb – vengono poi proiettati sull’intera popolazione di riferimento e offrono la stima totale dell’audience di un dato programma (o meglio delle sue variazioni nel corso del programma), dei lettori di un giornale, ecc. La precisione della proiezione è però condizionata dal comportamento dei componenti del campione di fronte al rilevamento dei dati: ad esempio, dall’accuratezza delle risposte ai questionari o della segnalazione della presenza davanti al televisore domestico. L’audience misurata certamente permette di uscire dall’incertezza dell’audience prevista, ma non necessariamente coincide con le dimensioni reali dell’audience. Tra il campione su cui si effettuano i rilevamenti e la popolazione che esso rappresenta esiste sempre una differenza, più o meno grande a seconda dell’accuratezza con cui si stabilisce il campione, delle sue dimensioni, della precisione con cui si comportano i suoi componenti, ecc.; questo scarto persiste comunque, e lascia sempre un margine di incertezza nei risultati. Le tecniche di rilevamento e di elaborazione dei dati sull’audience sono oggetto di continuo miglioramento, dato che i loro risultati determinano investimenti pubblicitari di grandi dimensioni e contribuiscono in modo insostituibile al funzionamento del sistema dei media. È quindi legittimo pensare che l’audience misurata offra un soddisfacente grado di conoscenza delle dimensioni e della composizione dell’audience reale, anche se dev’essere chiaro che i comportamenti dei pubblici che utilizzano i contenuti mediali non possono essere resi completamente noti con le tecniche della ricerca sull’audience. Nel caso in cui l’audience misurata sia diversa da quella stimata e sulla sua misura si sia stabilito il prezzo pagato dall’inserzionista, specifiche clausole contrattuali definiscono oltre quali margini d’errore dev’essere riconosciuto un risarcimento a chi ha subito un danno. ­­­­­98

Tabella 15. Investimenti pubblicitari nel 2010 (in miliardi di euro) Investimenti

Quota %

Var. % sul 2009

Totale stampa Stampa quotidiana Stampa periodica

2,290 1,460 0,830

28,8 18,4 10,4

–4,1 –3,6 –5,4

Televisione Radio Cinema Internet Affissioni

4,628 0,470 0,063 0,363 0,137

58,2 5,9 0,8 4,6 1,7

4,5 7,7 12,8 20,1 1,4

Totale

7,951

Fonte: Upa, Nielsen.

5. Il mercato pubblicitario italiano Un mercato pubblicitario nazionale è caratterizzato da vari elementi che normalmente, per poter ottenere un quadro d’insieme, devono essere raccolti da varie fonti. In questa sede utilizzeremo prevalentemente alcuni dati raccolti ed elaborati dall’Upa, che fornisce da molti anni, con regolarità, informazioni articolate e precise sul mercato della pubblicità italiana. L’elemento d’insieme da cui partire è l’investimento pubblicitario totale, che oltre ai media classici comprende anche altre forme, come la pubblicità postale, la sponsorizzazione e l’organizzazione di eventi, le relazioni pubbliche, le promozioni nel punto vendita. Questa seconda parte degli investimenti pubblicitari è più difficile da misurare e i dati variano a seconda delle fonti; inoltre, si tratta di investimenti che hanno un’incidenza nettamente secondaria sull’economia dei media rispetto alla pubblicità «classica», quella cioè che comprende stampa quotidiana e periodica, radio e televisione, cinema, affissioni di manifesti, pubblicità negli stadi e sui mezzi di trasporto pubblici. Da qualche anno, poi, alla pubblicità sui media classici si è aggiunta quella su Internet. In Italia nel 2010 l’insieme di questi media ha raccolto quasi 8 miliardi di investimenti pubblicitari (cfr. Tabella 15). Gli effetti della crisi economica degli ultimi anni sul mercato pubblicitario sono stati talmente forti da provocare per due anni di seguito non solo un rallentamento, ma una riduzione netta degli ­­­­­99

investimenti. La sola eccezione è costituita da Internet, che ha continuato a crescere, anche se lentamente. Solo nel 2010 ci sono stati i primi segni di ripresa, con una crescita del 3,4%, ma rimane ancora una forte distanza rispetto agli investimenti del 2008. I due principali elementi strutturali del mercato pubblicitario italiano sono la posizione dominante della televisione e la debolezza della stampa, confermati anche da un confronto con i caratteri del mercato pubblicitario nel resto d’Europa. La televisione ha infatti raccolto, nel 2010, quasi il 60% degli investimenti pubblicitari sui media, confermando una situazione consolidata da molti anni e che costituisce un fattore di squilibrio a scapito degli altri media, un forte limite alla concorrenza e un’elevata barriera all’entrata nel mercato di nuove imprese. I media a stampa, invece, occupano una parte del mercato pubblicitario nettamente minore rispetto alla media europea – e questa situazione è aggravata dal generale trend negativo, condiviso con molti altri paesi, che li caratterizza. In Europa, infatti, la distribuzione della pubblicità privilegia tuttora la stampa, mentre la televisione è in seconda posizione (Tabella 16). Sul fronte degli inserzionisti, si stima che in Italia le imprese che fanno investimenti pubblicitari siano circa 16.500. Si tratta però di un mercato molto concentrato, se si pensa che il 3% delle imprese è responsabile dell’80% degli investimenti pubblicitari. Le prime sette imprese italiane per dimensione d’investimenti pubblicitari nel 2005 e nel 2010 sono indicate nella Tabella 17. In testa alla classifica troviamo tre imprese che offrono servizi di telecomunicazione, un’impresa che offre prodotti per il corpo e per la casa e un’impresa che offre prodotti alimentari. La differenza rispetto al 2005 è che sono avanzate due imprese di telecomunicazione e sono uscite un’impresa automobilistica e una che produce prodotti alimentari e per il corpo. Seguendo la classifica dei primi 30 inserzionisti, troviamo le maggiori imprese automobilistiche europee e la General Motors, le maggiori imprese alimentari, come Barilla, Nestlè, Perfetti, Kraft, altre imprese di prodotti per il corpo come L’Oréal e Manetti&Roberts e le due principali imprese italiane dell’energia, Eni ed Enel. È interessante notare che oltre il 70% dei primi 30 inserzionisti pubblicitari è composto da gruppi stranieri. Le prime cinque categorie merceologiche per investimento pubblicitario coprono quasi la metà degli investimenti totali (Tabella 18). La televisione raccoglie la maggior parte degli investimenti di tre ­­­­­100

Tabella 16. Distribuzione della pubblicità tra i media classici in Europa occidentale nel 2009 (valori percentuali) Stampa Tv Radio

41,1 30,4  5,6

Cinema Affissioni Internet

0,7 6,3 15,9

Fonte: Agcom, 2010.

Tabella 17. Principali inserzionisti pubblicitari in Italia (in milioni di euro) Investimenti 2010

Telecom Procter&Gamble Ferrero Vodafone Wind Unilever Fiat

218 196 183 184 151 106* 143*

Investimenti 2005

185 161 139 125**  92** 178 161

* Presenti in classifica nel 2005, ma non nel 2010. ** Presenti in classifica nel 2010, ma non nel 2005. Fonte: arrotondamenti su dati Upa.

Tabella 18. Principali settori merceologici per investimenti pubblicitari nel 2010 Investimenti (milioni euro)

Investimenti (%)

Alimentari Automobili Telecomunicazioni Abbigliamento Bevande e alcolici

1.100 810 700 460 420

15 11,3  9,8  6,4  5,8

Totale

3.490

48,3

Fonte: arrotondamenti su dati Upa e Nmr Adex.

settori, alimentari (87%), telecomunicazioni (81%) e bevande/alcol (81%), mentre il settore automobile riserva alla televisione una quota minore (65%). L’abbigliamento invece destina quasi il 50% dei suoi investimenti ai periodici e investe in televisione solo il 25%. Sulle 23 categorie merceologiche che generano la quasi totalità degli investi­­­­­101

Tabella 19. Ripartizione delle imprese per classi di investimento pubblicitario nel 2010 Numero imprese

1° gruppo (20%) 2° gruppo " 3° gruppo " 4° gruppo " 5° gruppo "

14 39 102 327 16.014

Totale

16.496

Budget pubblicitario media (milioni euro)

105  37  14   4   0,1

Fonte: Upa.

menti pubblicitari, 9 investono meno del 50% delle loro risorse pubblicitarie nella televisione. Osservando gli investimenti pubblicitari dal punto di vista della pianificazione sui vari media, i due generi che investono la quota maggiore del loro budget sulla televisione sono i giochi e articoli scolastici (90%) e gli alimentari (87%). Quelli che investono il loro budget pubblicitario soprattutto sulla radio sono i motoveicoli (30%) e la distribuzione commerciale (13%). Per i quotidiani sono i servizi professionali (40%) e gli oggetti personali (28%). Per la stampa periodica l’abbigliamento (48%) e gli oggetti personali (35%). Dal punto di vista delle fonti di finanziamento, i maggiori investimenti pubblicitari destinati alla televisione provengono dal settore alimentare (21%) e da quello delle telecomunicazioni (12%); nella radio da automobili (23%), alimentari (8%) e telecomunicazioni (8%); nei giornali da abbigliamento (11%) e automobili (10%); nei periodici da abbigliamento (27%) e cure personali (10,5%). Altre informazioni fornite dall’Upa sono utili per avere una misura generale del livello di concentrazione degli investimenti. L’insieme delle imprese che hanno investito in pubblicità nazionale è ripartito in cinque gruppi, ognuno dei quali rappresenta il 20% degli investimenti pubblicitari (Tabella 19). Il primo gruppo comprende 14 imprese: sono i principali investitori pubblicitari, che pianificano i loro investimenti su tutti i media, con qualche eccezione nel caso delle affissioni e del cinema. L’ultimo gruppo comprende i 16.000 investitori pubblicitari più piccoli, dei quali solo una minoranza del 9% investe risorse nella pubblicità ­­­­­102

televisiva e il 15% su Internet, mentre la maggioranza utilizza soprattutto la stampa periodica (60%) e quotidiana (40%). In sintesi, le maggiori caratteristiche del mercato pubblicitario italiano, anche in comparazione con il resto dell’Europa occidentale, possono essere così individuate: • concentrazione degli investimenti sul mezzo televisivo; • debolezza della stampa; • sviluppo ritardato di Internet; • stabilità nella classifica dei principali investitori; • forte presenza di gruppi stranieri; • concentrazione degli investimenti tra un gruppo limitato di generi merceologici; • concentrazione degli investimenti pubblicitari in un gruppo limitato di imprese; • scarsa accessibilità del mezzo televisivo alla larga maggioranza delle imprese; • basso investimento pubblicitario pro capite; • basso contributo della pubblicità al prodotto interno lordo.

Parte seconda

V

L’industria del cinema

1. Introduzione Il ciclo economico dell’industria cinematografica è costituito tradizionalmente da tre fasi successive, gestite da tipi d’impresa che hanno profili nettamente distinti. Si tratta delle imprese che si occupano della produzione di film, della loro distribuzione e della loro offerta al pubblico attraverso le sale cinematografiche. A queste tre componenti principali si aggiungono poi alcune reti di distribuzione secondaria che integrano le sale cinematografiche, come l’home video (le edizioni su videocassette, sostituite poi dai dvd) e i vari tipi di canali televisivi, che nel complesso generano una parte rilevante delle risorse totali dell’industria cinematografica. 2. La produzione La prima fase, la produzione, è quella in cui un imprenditore, il produttore, prende l’iniziativa di realizzare il film e seleziona, organizza e finanzia la risorse necessarie. È il produttore che si assume quindi le responsabilità del processo produttivo e il rischio economico dell’impresa; sua è la proprietà dell’opera e a lui compete la gestione dei diritti di sfruttamento destinati a un mercato che normalmente è di dimensioni internazionali. Le decisioni che il produttore deve prendere sono molte, dal momento che deve trovare idee e soluzioni per definire il soggetto del film e i talenti artistici per rappresentarlo, le competenze e i mezzi tecnici per girarlo, le risorse economiche per finanziarlo. ­­­­­106

La realizzazione di un film può essere rappresentata schematicamente dalla successione di quattro fasi principali: sviluppo, preproduzione, produzione e post-produzione; ciascuna di queste fasi comprende a sua volta varie operazioni che richiedono competenze specifiche. La fase di sviluppo di un film parte da un soggetto, che può essere originale o derivare invece da un’opera già esistente. In entrambi i casi il produttore ne acquista i diritti di sfruttamento e organizza le competenze che, attraverso vari passaggi, lo sviluppano in forma di sceneggiatura. Quest’ultima rappresenta lo strumento che permette al produttore e a chi fornisce le risorse finanziarie di ottenere una prima parte delle informazioni utili a valutare il costo del progetto e l’interesse economico a realizzarlo. Dalla sceneggiatura si passa alla fase della pre-produzione, in cui si compiono scelte più precise sugli investimenti che si intende destinare alla produzione e sulle componenti artistiche e creative. Alcuni ritengono che maggiori sono gli investimenti disponibili, più famosi sono gli attori protagonisti e il regista, più alte saranno le probabilità del film di ottenere incassi elevati; i tentativi fatti per rilevare se questa correlazione esista non hanno però dato risultati univoci (Perretti e Negro, 2003). Occorre inoltre osservare che i modelli produttivi e i livelli d’investimento variano anche notevolmente da paese a paese. Normalmente quelli adottati in Europa, fra loro abbastanza omogenei, sono diversi da quelli degli Stati Uniti o dell’India, i due paesi in cui si concentra la maggior parte della produzione cinematografica fuori dall’Europa. Ormai solo le grandi strutture di produzione, come le majors statunitensi, contribuiscono a finanziare con risorse proprie una parte consistente di un film; in Europa, invece, le modalità di raccolta delle risorse necessarie sono varie. Uno dei modelli più diffusi si basa sul meccanismo della prevendita dei diritti di sfruttamento del film, cosa per la quale occorre che siano disponibili le informazioni relative agli elementi costitutivi del film stesso: oltre alla sceneggiatura, occorre avere individuato e in qualche modo coinvolto il regista, gli attori protagonisti e gli altri co-autori dell’opera; ciò permette a chi deve anticipare una parte del finanziamento di valutarne le potenzialità commerciali. Con questi elementi a disposizione, il produttore entra in contatto con i distributori e i rappresentanti delle altre reti commerciali (home video, televisione, ecc.), presenta il progetto e ­­­­­107

negozia la prevendita dei diritti di sfruttamento per i diversi supporti e territori. Generalmente la somma pattuita consiste in un minimo garantito che il produttore incasserà al momento della consegna della copia del film, con la possibilità di ulteriori incassi se il suo risultato economico nei cinematografi supererà la soglia prevista. I contratti di prevendita sono utilizzati come garanzia per le banche, che anticipano i finanziamenti necessari a realizzare il film. A queste risorse, in Europa, se ne aggiungono normalmente altre, costituite da finanziamenti pubblici o di altro genere, come finanziamenti automatici o selettivi, prestiti agevolati o forme di defiscalizzazione derivanti dai programmi di sostegno europei o dall’amministrazione pubblica nazionale e locale di singoli paesi, secondo una lunga tradizione europea. Il distributore che preacquista i diritti di sfruttamento di un film paga il compenso stabilito al momento in cui gli viene consegnata la copia del film; il principale rischio che corre è di non raggiungere i risultati commerciali attesi. La banca che anticipa i soldi alla produzione rischia invece di recuperarli con difficoltà o di perderli se la produzione del film non è portata a termine, come talvolta accade, o se il film ottiene risultati commerciali molto al di sotto di quelli previsti. Le banche o gli altri finanziatori del film possono però assicurarsi contro questi rischi presso società specializzate. La fase di pre-produzione, oltre a selezionare e ingaggiare le risorse professionali e tecniche necessarie a girare il film, è destinata a realizzare sopralluoghi per scegliere gli ambienti più adatti alle riprese e per verificare se ci sono sia i servizi necessari al soggiorno della troupe, sia i trasporti e gli altri servizi locali in grado di garantire che le riprese possano essere realizzate nei tempi e con le modalità previsti. La terza fase del processo produttivo è quella delle riprese, che riguarda la registrazione su pellicola, su supporto magnetico o digitale delle scene e dei dialoghi. Si tratta del passaggio più impegnativo, dal momento che qui si concentra la maggior parte dei costi. Questa fase comporta il lavoro coordinato di un numero molto grande di persone ed è soggetta a un certo grado di incertezza. È infatti sufficiente che le condizioni atmosferiche non permettano di realizzare le scene esterne previste nella sceneggiatura o che uno dei protagonisti non sia in grado, per ragioni fisiche o psicologiche, di recitare la sua parte nei momenti previsti, per aumentare i giorni di ripresa e far crescere i costi. Riuscire a contenere la fase delle riprese del film nel numero ­­­­­108

pianificato di settimane per non scostarsi troppo dai costi previsti rappresenta una delle principali preoccupazioni del produttore, ed è compito soprattutto del regista. La quarta e ultima fase è quella della post-produzione, che inizia al termine delle riprese e comprende diverse operazioni; le più importanti sono il montaggio delle scene, l’inserimento e la sincronizzazione delle parti sonore (dialoghi, musica ed effetti sonori), gli effetti speciali. Il direttore del montaggio lavora insieme al regista per selezionare, assemblare e mettere in forma narrativa il materiale realizzato nella fase delle riprese e quello appositamente commissionato, come la colonna musicale. Il risultato finale è il prototipo del film, che dev’essere approvato dal produttore e consegnato poi ai distributori. È evidente che la produzione cinematografica è un’attività in cui l’incertezza del risultato e il rischio economico sono molto alti: solo alla fine del processo produttivo, infatti, si ha modo di verificare il risultato finale e la sua corrispondenza al progetto iniziale. Questa verifica però avviene quando ormai il prodotto finale ha pochi margini di sostituzione o cambiamento, quando gli investimenti sono stati fatti e la maggior parte di loro è irrecuperabile. Inoltre può succedere che, una volta realizzato, il film non trovi un’impresa disposta a compiere gli investimenti necessari per distribuirlo. Ancora più spesso accade che, a distribuzione avvenuta, il film non abbia un successo di pubblico sufficiente a coprirne i costi. Anche per queste ragioni ogni produzione cinematografica è organizzata come un’impresa temporanea, in cui vari soggetti apportano le loro competenze specifiche col fine di realizzare un prodotto creativo complesso. Raggiunto l’obiettivo l’impresa temporanea finisce e, comunque sia andata, i vari soggetti sono liberi di iniziare una nuova produzione con altri partner e prospettive diverse. I costi di produzione di un film si distinguono in genere tra quelli destinati alle attività artistiche/creative e quelli destinati alle attività tecniche. Tradizionalmente i primi sono detti costi «sopra la linea» e i secondi costi «sotto la linea» e possono riguardare complessivamente molte decine di professioni e ruoli distinti. Quelli «sopra la linea» comprendono i diritti di proprietà letteraria e i compensi per chi realizza la sceneggiatura, la regia, la produzione, per gli attori e tutte le altre attività artistiche e creative. Quelli tecnici riguardano le attività di operatori, fonici, addetti alle luci, elettricisti, costumisti, truccatori e altro personale, oltre ai mezzi necessari al loro lavoro. ­­­­­109

2.1. I caratteri della produzione cinematografica in Italia L’Italia negli ultimi anni ha contribuito all’industria cinematografica europea con una quota compresa tra l’8 e il 12%. Nel 2009 la produzione europea ha realizzato quasi 1.200 film e il maggior contributo, oltre che dall’Italia con 141 film, è venuto dalla Francia con 182 film, dalla Spagna con 157, dalla Germania con 129 e dal Regno Unito con 76, considerando i film prodotti nazionalmente e coprodotti con quota maggioritaria. Nello stesso anno gli Stati Uniti hanno prodotto 680 film, la Cina 460 e l’India 820 (Oea, 2010). Dai dati riportati nella Tabella 20 si può osservare che il numero di film prodotti in Italia non ha seguito un trend costante, ma ha avuto un andamento stagionale condizionato soprattutto da due fattori: il ciclo economico e le politiche pubbliche del settore. Negli ultimi anni l’investimento complessivo nella produzione cinematografica si è aggirato intorno ai 300 milioni di euro, nonostante la parte di finanziamento pubblico abbia avuto una forte riduzione anche in seguito ai tagli del bilancio conseguenti alla crisi economica (Tabella 21). Si tratta di risorse che si frammentano su un numero forse eccessivo di film, la maggioranza dei quali ha budget troppo piccoli per poter competere nel mercato nazionale con molti dei film importati, e ancor meno può competere sul mercato internazionale. Infatti se si considerano tutti i film prodotti, il budget medio per film supera di poco i 2 milioni di euro; se invece si considerano solo le produzioni di maggiori dimensioni, quelle con un budget superiore a 1,5 milioni, che il budget medio sale a 4,5 milioni (Tabella 22). Anche se in altri paesi, come la Francia e il ­Regno Unito, gli investimenti medi per film sono più elevati di quelli italiani, la distanza tra Europa e Stati Uniti resta incolmabile: da una parte si tratta di milioni di euro, dall’altra di decine di milioni. Mentre, come si è detto, il numero di film prodotti in Italia nel corso degli ultimi decenni non ha manifestato trend significativi, gli investimenti nella produzione sono progressivamente aumentati. Da un’elaborazione realizzata dall’Anica, l’associazione dei produttori cinematografici italiani, risulta che gli investimenti totali nella produzione cinematografica in Italia tra il 1980 e il 2005 sono più che raddoppiati in valore reale.

­­­­­110

Tabella 20. Numero di film prodotti in Italia 2010

2009

2008

2000

1990

1980

Capitale italiano 100% Coproduzioni

114 27

97 34

123 31

86 17

98 21

130 33

Totale

141

131

154

103

119

163

Fonte: Anica.

Tabella 21. Investimenti nei film prodotti in Italia 2010

2009

2008

Investimenti privati Contributi statali

277 35

258 38

259 71

Totale

312

296

330

Fonte: arrotondamenti su dati Anica.

Tabella 22. Investimenti medi per film prodotti in Italia

Investimenti medi per film Investiment medi per film maggiori a 1,5 milioni

2010

2009

2008

2,2 4,5

2,2 4,5

2 2,3

Fonte: Anica.

3. La distribuzione La fase successiva alla produzione è quella in cui un imprenditore, il distributore, prende l’iniziativa di organizzare lo sfruttamento commerciale del film, circoscritto normalmente a un mercato nazionale o a un mercato linguistico omogeneo. Il distributore svolge quindi una funzione intermediaria tra il produttore, da cui acquista i diritti del film, e l’esercente della sala cinematografica, a cui fornisce il film da proiettare in sala. Lo svolgimento di quest’attività comporta quattro funzioni distinte che richiedono competenze specifiche. La funzione commerciale riguarda la pianificazione della distribuzione del film nelle sale e la definizione dei rapporti con gli esercenti. ­­­­­111

Si tratta di stabilire la data di uscita del film – che dipende da vari elementi, come la scelta della stagione più adatta –, le città e il numero di sale in cui lo si vuole lanciare, e di conseguenza il numero di copie da produrre. La funzione tecnica riguarda la riproduzione del film in un numero di copie sufficienti a servire tutte le sale che lo programmeranno contemporaneamente nei vari luoghi definiti dal piano di distribuzione. Questa fase comporta anche scelte tecniche ed eventualmente artistiche, quando sia necessario decidere e realizzare la traduzione della colonna sonora del film, in forma di sottotitoli o di doppiaggio vocale. La funzione promozionale riguarda le varie iniziative di marketing e pubblicità che preparano l’uscita del film nelle sale e mantengono alta l’attenzione, almeno nelle prime settimane di proiezione. La funzione amministrativa riguarda la gestione organizzativa, finanziaria, logistica. Anch’essa comporta una varietà di compiti: occorre infatti organizzare la fornitura delle copie alle varie sale nel momento prestabilito e successivamente il loro ritiro al termine del periodo di proiezione, gestire il magazzino delle copie di pellicole in catalogo che sono richieste per proiezioni secondarie, raccogliere dagli esercenti la parte di incassi secondo le percentuali prestabilite e trasferirne al produttore la quota a cui ha diritto. In alcuni casi, inoltre, riguarda, come si è detto, anche il pre-acquisto del diritto di distribuzione, con l’anticipo al produttore di una parte degli introiti attesi sotto forma di minimi garantiti. Oggi la distribuzione cinematografica si sta preparando a realizzare una trasformazione epocale, che porterà ad ­abbandonare progressivamente la pellicola cinematografica come supporto di trasporto e proiezione dei film nelle sale. Il nuovo sistema di distribuzione digitale, basato sulla trasmissione via satellite, può alimentare le sale cinematografiche dotate di videoproiettori in sostituzione dei proiettori tradizionali. In alternativa al satellite la distribuzione digitale può avvenire attraverso la fibra ottica o con altri supporti digitali. I vantaggi sono di vario tipo, ma quelli più rilevanti sono la velocità e capillarità della distribuzione di un film e l’eliminazione delle centinaia e migliaia di copie su pellicola, con la fine di una loro complessa gestione logistica fatta di magazzini, trasporti, controlli e recuperi, ecc. La distribuzione digitale porta vantaggi anche alle sale cinematografiche, che grazie ad essa sono in grado ­­­­­112

di programmare gli spettacoli con maggiore flessibilità e possono anche alternarli con la proiezione di diversi tipi di eventi a distanza, compresi quelli in diretta come i concerti dal vivo, gli eventi sportivi o di altro genere. Tecnicamente i mezzi sono già da tempo disponibili, ma ci sono vari aspetti che ne rallentano l’applicazione e per i quali non si è ancora trovata soluzione. Per esempio, non c’è ancora la scelta definitiva di un unico standard tecnico per gli apparati di trasmissione e di proiezione. L’aspetto più complesso, però, è quello che riguarda la copertura dei costi per attrezzare le sale: per i proprietari delle sale la dimensione dell’investimento risulta onerosa, e spesso sarebbero necessari molti anni per recuperarlo, senza avere una sufficiente certezza di poter aumentare gli incassi. L’eliminazione della produzione e della gestione delle copie su pellicola porterebbe i maggiori vantaggi economici ai distributori, che potrebbero sostenere gli investimenti per la parte trasmissiva del sistema a condizione che i cinematografi siano attrezzati per passare al cinema digitale. Il rischio che i distributori vogliono evitare è che il passaggio delle sale al cinema digitale sia troppo lento, obbligando a mantenere troppo a lungo un doppio regime distributivo, con conseguenti doppi costi. Varie istituzioni pubbliche, come l’Unione Europea e singoli governi o amministrazioni locali, si stanno muovendo per sostenere la transizione verso il cinema digitale, in particolare sul versante dei cinematografi, con risultati positivi anche se ancora molto lontani dalla meta. 3.1. I caratteri della distribuzione cinematografica in Italia Il mercato cinematografico italiano è caratterizzato da una presenza molto forte di società di distribuzione statunitensi (cfr. Tabella 23). Nel 2009 le filiali italiane delle majors hollywoodiane hanno distribuito 229 film, che hanno ottenuto oltre la metà degli incassi totali. I primi quattro distributori italiani hanno raccolto un altro 37% circa degli incassi; è rimasto meno del 10% del mercato per un terzo gruppo di distributori, fatto di piccole società che in alcuni casi hanno in catalogo decine di film, spesso di qualità. Sempre nel 2009, i primi 20 film hanno ottenuto il 60% degli incassi totali, e tra questi 12 erano distribuiti da filiali di majors hollywoodiane. A conferma del peso del cinema statunitense in Italia, si può osservare che nel 2009 in Italia, secondo i dati della Fondazione ente ­­­­­113

Tabella 23. Principali distributori cinematografici in Italia nel 2009 Numero film distribuiti

Quota di mercato (%)

Filiali delle majors Usa Universal Uip Warner Bros Sony Picture Disney Buenavista 20th Century Fox

56 56 35 38 44

12,9 13,8 3,7 10,7 13,7

Società italiane Medusa Film 01 Distribution Eagle Picture Filmauro

67 59 45 7

16,6 8,8 6,7 4,6

Fonte: Anica.

dello spettacolo, erano in distribuzione 857 film, dei quali 294 italiani e coproduzioni, 189 di altri paesi europei, 313 statunitensi e 61 di altri paesi. Il 65% erano film importati. 4. L’esercizio delle sale La terza fase dell’industria cinematografica è quella in cui un imprenditore, l’esercente della sala cinematografica, offre al pubblico lo spettacolo cinematografico e incassa il pagamento del biglietto. Il numero di biglietti venduti per ciascun film è misurato e certificato; in questo modo il distributore, il produttore, il fisco e anche l’amministrazione pubblica, per definire alcune forme di aiuto economico all’industria cinematografica, possono valutare i loro diritti e il loro intervento. Normalmente l’esercente della sala trattiene in media il 50% dell’incasso derivato dai biglietti venduti, quota che può aumentare sugli incassi del film che continua ad essere programmato oltre un certo periodo. La parte restante degli incassi è trasferita al distributore, che ne trattiene una percentuale corrispondente in media al 30% degli incassi totali; il resto rappresenta l’incasso del produttore. La sala cinematografica è la forma tradizionale di accesso ai prodotti cinematografici, e per molti decenni è stata anche l’unica ­­­­­114

condizione di consumo del film. Il cinematografo, gestito in forma d’impresa locale, può avere una o più sale di proiezione; anche il suo mercato di riferimento può variare, da quello cittadino a quello metropolitano e provinciale. Nel corso degli anni la sala cinematografica è stata progressivamente affiancata da nuove forme di distribuzione – innanzitutto la televisione, poi il videoregistratore –, che oggi nell’insieme generano la maggior parte degli introiti. Nonostante ciò, la distribuzione del film in sala svolge ancora una funzione economica centrale, dal momento che è in questa fase che si definiscono il successo del film, il suo impatto sul pubblico, la sua notorietà e il suo valore commerciale quando poi passa alle reti di distribuzione «secondarie». Le funzioni svolte dall’esercente richiedono varie competenze. Innanzitutto, egli deve saper definire la programmazione cinematografica da negoziare con i distributori, in modo da ottimizzare l’affluenza del pubblico in sala nel corso della stagione. Si tratta, in questo caso, di negoziare i film da proiettare, il momento in cui programmarli e per quanto tempo, anche se quest’ultima decisione dipende dal successo di pubblico che il film ottiene. Per svolgere queste attività l’esercente deve avere la capacità di interpretare e anticipare sia i comportamenti e le attese del pubblico locale, sia le strategie adottate dai concorrenti; si tratta di competenze basate su intuito ed esperienza, ma anche su strumenti più precisi, come le ricerche socio-demografiche. Le altre funzioni dell’esercente sono: la gestione dell’attività di marketing su scala locale attraverso mezzi pubblicitari, eventi e altri mezzi di promozione; la gestione tecnica e logistica, che riguarda l’allestimento e l’aggiornamento sia degli strumenti tecnici audiovisivi, sia degli spazi fisici (sala di proiezione e spazi annessi), da cui deriva la qualità del cinematografo; la gestione dei servizi accessori (biglietteria, modalità di prenotazione dei posti, forme di ristoro e offerta di altri prodotti); la gestione finanziaria degli incassi e l’eventuale accesso a forme di sostegno finanziario pubblico locale, nazionale o europeo per il rinnovamento tecnico o di altro tipo. Da almeno due decenni è in atto in Europa un cambiamento profondo nel settore delle sale cinematografiche, che vede la costante riduzione del numero delle sale con un solo schermo e la crescita di quelle con più schermi. Questo cambiamento genera ovunque condizioni di accesso migliori: il pubblico trova nei nuovi cinematografi ­­­­­115

la possibilità di scegliere tra vari film, sale di proiezione più curate e servizi aggiuntivi, come bar, sale d’attesa e parcheggio. Per gli esercenti delle multisale il vantaggio principale consiste nella possibilità di avere economie di scala che riguardano aspetti diversi, tra cui la biglietteria, il personale addetto alla proiezione, la promozione e il marketing, riducendo così il costo medio di gestione per schermo. Inoltre la disponibilità di sale di dimensioni diverse offre all’esercente la possibilità di gestire in modo più flessibile la programmazione: la dimensione della sala in cui viene proiettato un film si decide in base alle sue caratteristiche e al grado di affluenza del pubblico, che normalmente cala dopo alcuni giorni dalla sua prima uscita. Negli anni più recenti la crescita delle multisale è stata accompagnata da una trasformazione di tipo più tecnico, che riguarda il passaggio dal cinema ottico a quello digitale – di cui si è già parlato in riferimento alla distribuzione cinematografica. Un numero crescente di gestori, anticipando i tempi, ha adottato la tecnologia digitale, in buona parte sull’onda del successo dei film in 3D, ma anche per propensione all’innovazione e in molti casi utilizzando fondi pubblici di sostegno. All’inizio del 2011 in Europa si contavano oltre 10.000 sale digitali su un totale di 37.000 sale cinematografiche. I paesi più avanzati su questo fronte sono la Francia con 1.800 sale digitali, il Regno Unito con 1.350, la Germania con 1.200. 4.1. I caratteri delle sale cinematografiche in Italia Il parco italiano dei cinematografi si è ridotto progressivamente a partire dagli anni Sessanta, con un’accelerazione negli anni Ottanta in seguito allo sviluppo della televisione commerciale. Nel 1980 i cinematografi in Italia erano 8.500, nel 1990 si erano ridotti a 3.300, all’inizio di questo secolo erano diventati 3.000 e oggi sono poco più di 1.000. La chiusura delle sale più marginali, meno accoglienti e poco aggiornate tecnicamente, ha reso il sistema più efficiente e pronto a seguire con maggiore adesione le trasformazioni del settore. A partire dagli anni Novanta, mentre continuava la chiusura dei cinematografi, cresceva però il numero degli schermi, in seguito allo sviluppo dei cinematografi multisala. Sviluppo che in Italia è stato più lento che altrove, sia perché la gestione dei cinematografi è molto frammentata, fatta di piccoli esercenti con poca capacità d’investi­­­­­116

Tabella 24. Tipologia delle sale cinematografiche in Italia nel 2010 Cinematografi

Schermi

Numero

%

Numero

%

549 400 122

51,2 37,4 11,4

549 1.396 1.272

17,1 43,4 39,5

Monosale Tra 2 e 7 schermi Multiplex* Totale

1.071

100

3.217

100

* Cinematografi con 8 o più schermi. Fonte: Anica.

Tabella 25. Ripartizione di incassi e presenze tra categorie di cinematografi Incassi

Presenze

Milioni di euro

Monosale Tra 2 e 7 schermi Multiplex

 63,5 262,5 409

Totale

735

%

 9 36 55 100

Milioni di spettatori

 10,7  40,1  59,1 110

%

 9,7 36 54 100

Fonte: Anica.

mento, sia perché le norme che regolavano il settore non favorivano il cambiamento. Nell’ultimo decennio, insieme a una riduzione dei vincoli normativi, sono entrati in campo gruppi nazionali ed esteri in grado di compiere gli investimenti necessari per creare in molte aree metropolitane e nei capoluoghi nuove strutture cinematografiche, dotate di molti schermi, che hanno rapidamente mutato l’economia del settore in molte zone del paese. Nel 2010 quasi la metà dei cinematografi era una multisala (Tabella 24), colmando così la distanza dai principali partner europei. Tra le multisale, inoltre, i multiplex, che contano oltre 7 sale di proiezione, rappresentavano quasi il 40% degli schermi totali. Queste strutture negli ultimi dieci anni sono state in grado di produrre un cambiamento radicale nella struttura del mercato cinematografico italiano: nel 2000 raccoglievano il 3% degli incassi totali e dieci anni dopo hanno raccolto più del 50% degli incassi e degli spettatori totali (Tabella 25). ­­­­­117

Se si confronta il numero dei cinematografi multiplex e dei loro schermi con la quota di incassi e gli spettatori che hanno ottenuto, si può rilevare il loro grado di efficienza e di competitività, che li porta ad avere la maggioranza del mercato con l’11% dei cinematografi e il 39% delle sale. Oggi è in atto una seconda trasformazione dei cinematografi, che riguarda il passaggio al cinema digitale. Oltre ai vantaggi per la distribuzione, di cui abbiamo già parlato, la trasformazione tecno­ logica comporta vantaggi anche per i cinematografi, dal punto di vista della flessibilità della programmazione, della qualità della proiezione e dell’uso della sala per altri tipi di spettacolo audiovisivo. Anche su questo fronte in Italia, come nel resto d’Europa, c’è stata un’accelerazione, che nel 2010 ha portato al raddoppio delle sale digitali, che all’inizio del 2011 erano oltre 800, contro le 400 dell’anno precedente. 5. L’intervento pubblico nell’industria cinematografica L’Europa, come si è detto, ha una lunga tradizione di intervento pubblico nell’industria cinematografica. Si tratta di interventi che vedono le istituzioni pubbliche impegnate a vari livelli, da quello europeo a quello nazionale e locale; ogni istituzione ha settori, modalità e dimensioni proprie ed è difficile darne un quadro complessivo. Si possono però fare alcune distinzioni per capire meglio di cosa si tratti. Le grandi aree d’intervento riguardano infrastrutture, formazione, produzione, distribuzione ed esercizio. In molti paesi europei lo Stato e gli enti locali mettono a disposizione infrastrutture tecniche destinate a favorire la produzione cinematografica, e sostengono sia attività di formazione, per migliorare le competenze artistiche e gestionali del settore cinematografico e audiovisivo, sia attività di promozione, come i festival del cinema. Inoltre, finanziano le varie fasi dell’industria cinematografica per favorire la qualità della produzione, per aiutare la distribuzione dei film nazionali all’estero o per sostenere il rinnovo delle sale cinematografiche, ovvero di quelle sale che si prestano a programmare una certa quantità di film nazionali ed europei. L’intervento su scala europea riguarda in molti casi l’intero settore audiovisivo, dai film per le sale alla fiction per la televisione. Senza entrare nelle modalità specifiche, va ricordato che l’Unione Europea ­­­­­118

da più di vent’anni interviene con il Programme Media – di cui si è già parlato – per migliorare la formazione, soprattutto sul fronte gestionale, per favorire la distribuzione dei prodotti audiovisivi europei fuori dai paesi d’origine e verso i paesi partner e per incentivare la cooperazione tra le industrie cinematografiche dei paesi membri. Le risorse attribuite al Programme Media nel periodo compreso tra il 1991, anno del suo inizio, e il 2013, anno in cui si concluderà l’ultima fase deliberata, hanno superato 1,5 miliardi di euro. Sempre su scala europea, un altro programma destinato specificatamente a finanziare la produzione cinematografica è Eurimages, creato nel 1988 dal Consiglio d’Europa, che negli ultimi anni ha avuto uno stanziamento medio annuo di 21 milioni. In Italia, l’intervento pubblico nel cinema ha assunto varie forme e a vari livelli. Negli ultimi anni i finanziamenti su scala nazionale sono diminuiti, passando da un picco di 214 milioni di euro nel 2003 a 125 milioni nel 2009. Alla produzione sono destinati aiuti economici diretti – che nel 2010 hanno superato di poco i 70 milioni – e indiretti, attraverso il prestito agevolato, la defiscalizzazione degli utili, ecc. Dal 2008 sono stati introdotti due tipi di agevolazioni fiscali: una riguarda la defiscalizzazione degli utili che sono reinvestiti nella produzione cinematografica (tax shelter), l’altra riguarda i crediti d’imposta (tax credit) e consiste nella possibilità di compensare alcuni debiti fiscali (ad esempio i contributi previdenziali, assicurativi, l’imposta sul valore aggiunto) con il credito maturato in seguito a un investimento nel cinema. Possono ottenere questo sostegno i film di nazionalità italiana, i film d’interesse culturale, i film stranieri girati in Italia. Sono inoltre previste agevolazioni anche per i distributori, per gli esercenti e per altre categorie dell’industria del cinema. Nel periodo 2008-2010 le imprese interessate al tax credit hanno compensato 47 milioni di imposte. L’intervento pubblico nel campo delle infrastrutture, della formazione specializzata e della promozione vede un investimento complessivo medio annuo intorno ai 33 milioni, ripartito tra Cinecittà Luce, che offre in particolare servizi e infrastrutture alla produzione cinematografica; il Centro sperimentale di cinematografia, che si occupa della formazione ad alto livello nelle professioni del cinema, e in particolare di produttori, registi, sceneggiatori, scenografi, attori, montatori e tecnici; il Festival del Cinema di Venezia, destinato alla promozione della cultura cinematografica. ­­­­­119

Negli ultimi anni, oltre a questi finanziamenti nazionali sono cresciuti quelli a livello regionale, rivolti alla creazione di Film Commission che hanno la funzione principale di promuovere il territorio locale presso le produzioni cinematografiche nazionali e internazionali per ottenere ricadute economiche e turistiche. Sul fronte regionale, gli investimenti nella produzione cinematografica hanno superato nel 2009 i 15 milioni di euro (Iem, 2010). 6. La grande trasformazione Negli ultimi due decenni l’industria cinematografica è stata trasformata da alcuni fenomeni ‘pesanti’, che hanno origine negli anni Ottanta e negli Stati Uniti. Oggi queste trasformazioni caratterizzano tutti i principali mercati del cinema. Quattro fenomeni possono inquadrare con sufficiente precisione quanto è successo: 1. la forte crescita degli investimenti nella produzione, promozione e marketing dei film destinati al mercato internazionale; 2. la concentrazione degli incassi dei film su un numero sempre più ristretto di titoli; 3. la moltiplicazione delle sale che programmano lo stesso film contemporaneamente; 4. la concentrazione degli incassi nelle prime settimane di programmazione. Possiamo iniziare riflettendo su quanto sia cambiata la funzione delle sale cinematografiche. Qualche decennio fa, infatti, il p ­ eriodo di sfruttamento di un film durava molti mesi, e a volte poteva superare anche l’anno. In ogni mercato cinematografico locale il film, al momento della sua uscita, era programmato soltanto in uno dei cinematografi di «prima visione». Successivamente passava attraverso quattro o cinque categorie di sale, diverse, oltre che per la localizzazione urbana e geografica, per il prezzo del biglietto e per la qualità fisica della pellicola e delle attrezzature tecniche, della sala, dell’arredo, dei servizi e del comfort generale. Questi elementi si impoverivano via via che si passava dalle sale dei centri di grandi aree metropolitane alle sale più periferiche e di piccoli centri. Tale situazione è progressivamente mutata e la scena cinematografica ha assunto caratteristiche nuove. La struttura delle sale si è ­­­­­120

rinnovata, con la chiusura di quelle periferiche e di più bassa qualità e lo sviluppo delle multisale. Allo stesso tempo il ciclo di vita del film nei cinematografi si è accorciato sensibilmente e il suo sfruttamento si è concentrato in poche settimane, mentre lo stesso film viene programmato contemporaneamente in una molteplicità di cinematografi della stessa città. Il ciclo di vita del film nelle sale non è solo più breve, ma anche molto più intenso, al punto che molto spesso una larga parte degli incassi si concentra nelle prime due o tre settimane di programmazione. Tuttavia, mentre il ciclo di vita del film in sala si è accorciato, il suo ciclo di vita più importante dal punto di vista economico si è spostato – come si vedra più avanti – su altri mezzi e in altri luoghi. Questi cambiamenti derivano innanzitutto da «una concentrazione della domanda intorno alla data di uscita, dall’esigenza di novità e dalla rapida usura dei titoli nell’immaginario» (Forest, 2002). In realtà si tratta della conseguenza di un cambiamento più generale e profondo dell’industria cinematografica e del contesto in cui si muove, che è quello formato dalle industrie dell’intrattenimento, dei media, della comunicazione. Le componenti di questo mutamento sono varie e complesse. Al centro c’è il costante aumento dell’offerta di contenuti mediali e di risorse per il tempo libero, che ha caratterizzato gli ultimi decenni insieme alla diversificazione dei supporti e dei canali d’accesso. Il suo effetto è stata la crescita della concorrenza tra le varie forme di offerte dei contenuti per conquistare le risorse del pubblico: i soldi, il tempo e l’attenzione. La crescita e la diversificazione dell’offerta sono state molto rapide e ampie, mentre le risorse del pubblico sono cresciute più lentamente e in misura minore. Questa trasformazione ha interessato tutte le forme d’intrattenimento e di uso del tempo libero, ma l’industria cinematografica è forse il settore in cui gli effetti appaiono più evidenti. La forte concorrenza per conquistare un pubblico sottoposto a molte offerte ha imposto di aumentare sempre di più la notorietà, l’attrattività e la spettacolarità dei film, investendo nella produzione e nel marketing risorse sempre maggiori. Questo percorso, avviato dalle majors cinematografiche di Hollywood all’epoca dei primi film blockbuster (Cucco, 2010), è stato in parte seguito dall’industria europea. In Europa però non si sono raggiunti i livelli americani, per ­­­­­121

diversi motivi: mancanza dei mezzi necessari, ragioni strutturali – per esempio la debolezza dei mercati nazionali – e ragioni culturali – per esempio il conflitto tra una concezione del film come espressione artistica e culturale e un’altra che lo considera soprattutto un prodotto commerciale che deve ottenere successo di pubblico e d’incassi. Il nuovo modello adottato in generale dall’industria del cinema si basa su un forte investimento nella produzione, ma anche nella promozione e nel marketing del film per prepararne l’uscita e accompagnarlo nelle prime settimane di programmazione. Ma dal momento che la «potenza di fuoco» del marketing non può durare a lungo, per sfruttarne al massimo gli effetti occorre programmare il film contemporaneamente in un elevato numero di sale. Più si alza l’investimento produttivo e promozionale, più aumentano le copie in distribuzione, che sono passate – per restare ai principali mercati europei – dalle decine alle centinaia di copie. A ogni persona raggiunta direttamente o indirettamente dalla campagna di promozione del film, e quindi invogliata a vederlo, si deve offrire l’opportunità di trovare un cinematografo facilmente accessibile e non troppo affollato. Questi risultati sono sicuramente dovuti al cambiamento nelle modalità di promozione e commercializzazione di cui abbiamo parlato, ma anche al fatto che, riuscendo a concentrare un forte afflusso di spettatori in un periodo breve, anche l’effetto del passaparola assume una forza notevole che amplifica la funzione promozionale. Ovviamente, la condizione affinché questo effetto funzioni è che il film sia apprezzato. Riuscire a concentrare un forte afflusso di spettatori, oltre agli effetti positivi sugli incassi, produce anche un effetto decisivo sul valore economico del film nei circuiti di commercializzazione secondari, dall’home video alle varie forme di televisione e di accesso on line. Per questa ragione il passaggio del film nelle sale cinematografiche diventa il momento della verità per la sua vita economica, anche se non è più, ormai da tempo, la principale fonte di remunerazione. Più è grande il successo ottenuto dal film in questa fase, più alto sarà il suo successo potenziale quando passerà attraverso le reti di distribuzione successive, e di conseguenza più alto sarà il prezzo di vendita dei diritti agli editori di home video, di canali televisivi di vario tipo, di servizi di video a richiesta, ecc. Questa trasformazione è stata promossa e governata prevalentemente dalle maggiori società di produzione e distribuzione statu­­­­­122

nitensi da quando hanno imboccato la strada dei film blockbuster, grandi produzioni da centinaia di milioni di dollari. L’industria cinematografica europea ne è rimasta spiazzata: negli ultimi due decenni i paesi europei, già molto deboli all’estero nella competizione con i film hollywoodiani, hanno perso posizione anche in casa propria. 7. L’industria cinematografica di Hollywood e l’Europa Il primato dell’industria cinematografica statunitense si basa su vari elementi (che analizzeremo in seguito); tra questi, la forte concentrazione delle grandi produzioni nelle mani di un piccolo numero di case di produzione, dette majors, che hanno sede a Hollywood (Wasko, 2011). Si tratta di nomi assai noti: Paramount, Warner, 20th Century Fox, Disney, Universal, Sony Pictures. Ognuna di loro fa parte di società conglomerate assai più grandi che operano prevalentemente nell’industria dei media – Viacom, Time Warner, New International, Walt Disney Company, Vivendi, Sony Electronics –, il cui centro di attività è però nell’industria elettronica e digitale di largo consumo. Secondo i dati forniti dalla Motion Picture Association of America (Mpaa), che rappresenta le majors, e dall’Osservatorio europeo dell’audiovisivo (Oea), il mercato cinematografico mondiale ha raggiunto quasi 32 miliardi di dollari, quelli statunitense e canadese rappresentano insieme il 33% (Mpaa) e quello europeo il 27%. La differenza di dimensioni tra il mercato cinematografico europeo e quello statunitense non è molto grande, ma è molto forte la differenza delle quote di mercato che i film europei e americani hanno in ciascuno di essi: nel 2010 gli incassi dei cinematografi europei, secondo i dati dell’Oea, sono stati realizzati per il 67% da film americani e per il 27% da film europei. Negli Stati Uniti gli incassi dei cinematografi provengono per oltre il 90% da film nazionali e solo per il 6% da film europei. Queste proporzioni negli ultimi vent’anni non sono sostanzialmente cambiate. Nell’ultimo decennio l’Europa ha registrato un deficit medio annuo di 7-8 miliardi di dollari negli scambi di prodotti cinematografici e audiovisivi con gli Stati Uniti. L’Unione Europea, soprattutto con il Programme Media, e i singoli Stati membri cercano da molto tempo, con varie forme di aiuti, di proteggere e sostenere l’industria cinematografica europea e dei singoli paesi perché possa riequili­­­­­123

brare almeno parzialmente la situazione, ma finora non ci sono stati risultati economici evidenti. La forza del cinema americano è dovuta a vari fattori. Tra gli altri, il fatto che le majors cinematografiche, oltre a dominare la produzione direttamente o attraverso le filiali, sono integrate verticalmente con le imprese di distribuzione, che lavorano non solo nel mercato nazionale ma anche all’estero. Le majors hanno anche il vantaggio di potersi basare su un mercato nazionale di partenza che ha grandi dimensioni, mentre il mercato europeo è frammentato in tanti mercati nazionali, i produttori cinematografici sono prevalentemente locali, di piccole e medie dimensioni, e raramente sono integrati con imprese di distribuzione, che comunque operano anch’esse su scala non europea, ma nazionale. Occorre anche considerare che gli Stati Uniti non soltanto sono un grande mercato nazionale, omogeneo da molti punti di vista – tra cui la lingua –, ma i suoi abitanti frequentano i cinematografi molto più di quanto non facciano gli europei. I nordamericani, infatti, vanno al cinema in media quasi cinque volte all’anno, gli europei in media meno di due volte all’anno. C’è poi chi vede tra le cause della debolezza europea il fatto che in Europa da lungo tempo il film rappresenta innanzitutto un prodotto culturale; per questo motivo il cinema ottiene finanziamenti dalle amministrazioni pubbliche, che però rischiano di diminuire lo spirito competitivo dei produttori. Negli Stati Uniti, invece, il film è da sempre considerato un prodotto commerciale e il compito dei produttori è di generare profitti per la propria impresa, quindi di realizzare film che siano in grado di ottenere, prima di tutto, un buon risultato commerciale. A questi elementi, che hanno giocato sicuramente un ruolo importante nel successo dell’industria cinematografica americana, vanno aggiunti il suo forte rapporto con l’industria televisiva e la qualità dei suoi professionisti – a partire dagli attori e sceneggiatori – e delle scuole che li formano. Hanno poi contribuito alla forza del cinema americano due fattori di tipo politico. Un elemento importante è stato il sostegno diplomatico fornito dai governi statunitensi all’industria hollywoodiana, soprattutto dopo la fine della seconda guerra mondiale, per aiutare la sua espansione internazionale; ma forse ancora più importante è stata l’egemonia culturale e politica che gli Stati Uniti hanno eserci­­­­­124

tato in molti paesi europei e nei confronti di molte categorie sociali e che per molto tempo ha fatto dei prodotti e dello stile di vita statunitensi un modello apprezzato e da seguire. C’è un dato che sintetizza quanto sia difficile per i film europei il confronto con quelli americani: l’investimento medio per la produzione di un film di Hollywood supera i 70 milioni di dollari e quello medio per la promozione e il marketing supera i 30 milioni di dollari (Mpaa). L’investimento medio per la produzione di un film nel Regno Unito si aggira intorno ai 10 milioni di dollari, in Francia non supera gli 8 milioni e in Italia si aggira sui 3 milioni di dollari, mentre l’investimento medio nella promozione e marketing è compreso tra il 5% e il 15% dell’investimento nella produzione. Anche senza tener conto di tutti gli altri fattori, è evidente che se sul mercato competono due prodotti, uno dei quali si basa su un investimento che è fino a venti volte superiore all’altro, il risultato del botteghino raramente offrirà sorprese. Per riassumere, le ragioni della leadership dei film statunitensi nel mercato europeo sono legate, oltre che a fattori storici e contestuali, a tre punti di forza: la potenza produttiva, in particolare la dimensione degli investimenti e gli alti standard professionali; la forza distributiva, in particolare la presenza su scala europea delle società di distribuzione integrate alle majors hollywoodiane; la forza della promozione e del marketing, in particolare la sua capacità di operare su scala mondiale. 8. I film blockbuster Il termine blockbuster indica quelle pellicole ad alto costo, compreso tra 100 e 300 milioni di dollari – ma che in alcuni casi può andare anche oltre –, realizzate dall’industria hollywoodiana e destinate a conquistare incassi elevati nel mercato internazionale. Si tratta di un prodotto che ha preso forma a metà degli anni Settanta, a partire dalla produzione del film Lo squalo di Steven Spielberg (1975). Anche in precedenza l’industria del cinema di Hollywood si era cimentata nella realizzazione di pellicole tanto costose quanto spettacolari, che miravano a differenziare l’offerta cinematografica e l’esperienza della visione in sala dall’offerta televisiva nel salotto di casa. Tuttavia, è con il successo del film Lo squalo ­­­­­125

che le grandi produzioni iniziano ad adottare alcune caratteristiche comuni, in grado di garantire un successo su scala mondiale. I blockbuster si rivolgono a un pubblico soprattutto di giovani, ricorrono all’uso di tecnologie d’avanguardia e di effetti speciali fino al punto di ostentarli, prediligono quei generi cinematografici che basano la propria capacità d’attrazione sul potere dell’immagine (film d’azione, di avventura e di fantascienza), di solito molto più facili da esportare rispetto a generi che si basano di più sulla qualità dei dialoghi e l’uso della parola, come le commedie e i film drammatici. Oggi il blockbuster è una macchina concepita soprattutto per avere un successo d’incasso nelle sale cinematografiche, che deve consentire al produttore non solo di ottenere ampi margini economici rispetto al costo del film, ma anche di recuperare le perdite dovute a quelle altre piccole o medie produzioni che non sono andate bene in sala o che si sono arenate in fase di produzione (cfr. cap. I). Come abbiamo già anticipato, il successo dei blockbuster è dovuto in parte anche alla strategia di saturazione (saturation pattern) con la quale vengono distribuiti, che prevede l’uscita del film in un elevato numero di sale nel primo weekend di programmazione, e che è preceduta da un’intensa campagna pubblicitaria concentrata in sole 3-4 settimane. Celebri saghe come Harry Potter, Shrek, Pirati dei Caraibi, Iron Man e Batman sono uscite al loro debutto negli Stati Uniti in più di 4.300 cinema, raccogliendo più di 300 milioni di dollari di incasso nelle prime settimane di programmazione. A queste cifre si aggiungono i ricavi generati dai mercati esteri e dallo sfruttamento dei mercati secondari – home video, televisione a pagamento e in chiaro o altri – e gli incassi derivati dalla commercializzazione di prodotti collaterali al film, che seguono il suo successo. Film come Star Wars III e Harry Potter e il calice di fuoco hanno incassato nelle sale cinematografiche su scala mondiale 900 milioni di dollari ciascuno, a cui vanno aggiunti gli incassi derivati da tutte le altre forme di distribuzione. Ci sono poi altri due dati forniti dalla Mpaa che è interessante considerare: la maggior parte degli incassi dei blockbuster è realizzata all’estero, e inoltre un blockbuster incassa normalmente dall’home video la stessa cifra che incassa nei cinematografi, e a volte ancora di più. Si comprende quindi la rilevanza economica e strategica di queste produzioni per l’industria hollywoodiana (Cucco, 2010), ­­­­­126

produzioni con le quali l’industria cinematografica europea non è in grado di competere. 9. Le finestre di sfruttamento dei film La struttura del mercato cinematografico ha avuto storicamente varie fasi, legate, tra gli altri fattori, alle tecniche di distribuzione dei film. Dal suo inizio fino a metà del secolo scorso i film hanno vissuto la fase esclusiva dei cinematografi: lo spettatore doveva fisicamente uscire di casa per trovare la sala di proiezione del film che voleva vedere. La fase successiva comincia a metà del secolo passato ed è caratterizzata dalla televisione: lo spettatore riceve i film a casa, ma non può scegliere né quando né quale film vedere, perché questo dipende dalla programmazione del canale televisivo. La terza fase, quella del videoregistratore, inizia nella prima metà degli anni Settanta: lo spettatore può registrare il film trasmesso ad orario fisso in televisione e rivederlo quando e quante volte desidera. La quarta fase, quella dell’home video, comincia all’inizio degli anni Ottanta: lo spettatore trova in commercio un ampio catalogo di film tra cui scegliere quello che desidera. Nella fase successiva, all’inizio degi anni Novanta, la novità sono i canali televisivi a pagamento, specializzati in vari generi cinematografici. Nella fase di Internet lo spettatore può scegliere su catalogo un film e richiederlo a pagamento. Nella fase della banda larga fissa e mobile, infine, lo spettatore, attraverso la rete, dispone di un’ampia offerta di film su canali e servizi sia gratuiti che a pagamento. Queste modalità di consumo cinematografico, che si sono succedute in più di un secolo, hanno progressivamente diversificato le modalità di commercializzazione dei film, allargandone il mercato. Nel corso dell’ultimo decennio il rapporto tra mercato cinematografico e mercato delle tecnologie domestiche è stato sostanzialmente di reciproco aiuto. Lo spettacolo cinematografico ha favorito la penetrazione familiare della tv in bianco e nero e a colori, del videoregistratore, delle parabole satellitari, dei lettori dvd, fino a Internet, ai canali ad alta definizione e tridimensionali e alle reti a banda larga, dal momento che è sempre stato considerato uno dei contenuti audiovisivi più attraenti e in grado di promuovere, in molti casi, la dotazione tecnologica delle famiglie. ­­­­­127

Tabella 26. Ripartizione del mercato dei film negli Stati Uniti nel 2009 Cinematografi Home video Tv a pagamento e video on demand Tv in chiaro Tv mobile, Iptv, ecc. in chiaro

30% 30% 20% 15% 5%

Fonte: stime su dati Mpaa, Oea, Veronis Suhler Stevenson.

Nello stesso tempo, più le famiglie si dotavano delle nuove tecnologie più il mercato cinematografico si allargava. In conclusione, un tempo era la biglietteria dei cinematografi che generava il 100% delle entrate dell’industria cinematografica; oggi quelle entrate sono complessivamente cresciute e si ripartiscono tra varie fonti (le proporzioni della ripartizione nei mercati più sviluppati, come quello degli Stati Uniti, sono riassunte nella Tabella 26). Si tratta però di una ripartizione instabile, dal momento che nei prossimi anni si prevede una forte crescita della quota destinata alla tv a pagamento e ai servizi di video a richiesta e un forte calo di quelle destinate all’home video. La televisione nei suoi primi anni veniva considerata dall’industria cinematografica una concorrente pericolosa, capace di sottrarre spettatori alle sale cinematografiche. I produttori di Hollywood si rifiutarono di cedere i diritti di trasmissione televisiva dei loro film e impiegarono un po’ di tempo a capire che l’industria televisiva poteva essere, invece che un concorrente, un cliente. Bastava garantire che il film compisse il suo ciclo di vita nei cinematografi senza interferenze, e dopo poteva cercare un prolungamento del suo sfruttamento nella televisione. Con la televisione i cinematografi persero una parte dei loro spettatori, ma dalla televisione l’industria cinematografica ottenne nuove risorse, che aumentarono quando nel 1973 arrivarono i canali televisivi a pagamento. Per garantire i vantaggi di queste nuove ‘finestre’ di sfruttamento dei film senza danneggiare i cinematografi, e per ottenere i migliori risultati economici complessivi, i produttori stabilirono di diversificare i tempi di distribuzione dei film; lo stesso avvenne successivamente in tutti gli altri paesi. In Italia, le finestre sono stabilite nei tempi seguenti: • sala cinematografica in prima visione (punto 0); ­­­­­128

• 0 + 8 mesi: home video (noleggio, vendita ma anche video on demand); • 0 + 12 mesi: pay-tv; • 0 + 24 mesi: tv free (12 se la tv ha coprodotto l’opera). Innanzitutto il film passa nei cinematografi per quella fascia di pubblico che è disposto, per vedere il film nelle migliori condizioni, ad uscire di casa, recarsi al cinema e pagare il biglietto. Dopo otto mesi il film può essere distribuito su dvd, in affitto o in vendita, talvolta arricchito da materiale aggiuntivo, oppure offerto da un servizio on demand. Dopo un anno passa alla televisione a pagamento, per un pubblico un po’ meno motivato ma ancora disposto a pagare; solo dopo due anni è trasmesso dai canali gratuiti per quel pubblico che non è disposto a pagare per vederlo. Senza questi intervalli di tempo tutti i media potrebbero trasmettere contemporaneamente lo stesso film, col rischio che le forme di distribuzione che producono meno risorse per il distributore, come i canali televisivi in chiaro, sottraggano spettatori ad altre forme più redditizie, come il cinematografo. Questo meccanismo distributivo, che viene definito in ambito nazionale da un accordo tra le parti interessate, è oggetto di nuove contrattazioni nel momento in cui s’innesta nel mercato qualche nuovo elemento che ne rompe gli equilibri. Per esempio, in molti paesi i canali televisivi che offrono film a pagamento hanno stipulato accordi con alcune società di distribuzione cinematografica che, derogando alla regola generale, permettono di trasmettere a pagamento i film non appena hanno completato il loro periodo di programmazione sul grande schermo. 9.1. Cinema e home video Il mercato dell’home video – film su videocassette prima e su dvd oggi – costituisce per l’industria cinematografica una forma di distribuzione e una fonte di reddito diventate molto rilevanti, fino a rappresentare, in alcune stagioni, anche il 40% delle entrate totali. Oggi l’home video continua a occupare una posizione importante, sebbene in declino. La riduzione dei suoi fatturati dipende da molti elementi, tra i quali la crescita dell’offerta di spettacolo attraverso canali televisivi specializzati, nuovi supporti e, soprattutto, Internet e i servizi di video a richiesta, che sono i concorrenti diretti dell’home ­­­­­129

video. Un’altra causa delle difficoltà è rappresentata dal fenomeno della pirateria, la riproduzione delle copie di dvd clandestina, e dall’accesso illegale ai contenuti cinematografici attraverso Internet. Secondo le stime degli editori, circa il 57% del mercato dell’home video è costituito da contenuti cinematografici; vale dunque la pena di osservare com’è strutturato in Italia. La possibilità di distribuire i film in forma editoriale arriva in Italia nei primi anni Ottanta. La videocassetta è un nuovo supporto, che offre agli spettatori maggiore comodità rispetto alla sala cinematografica e maggiore flessibilità rispetto alla televisione. Nei primi anni la crescita del mercato è molto lenta; le cause sono varie, ma sicuramente importante è la concorrenza dei canali televisivi commerciali, che trasmettono decine di film al giorno saturando una buona parte della domanda di spettacolo cinematografico domestico. Nel 1990 le famiglie dotate di un lettore di videocassette sono il 27%, un tasso di penetrazione nettamente inferiore ad altri paesi europei. Negli anni successivi lo sviluppo dell’home video è molto legato all’andamento dei successi cinematografici, che fanno da traino alle vendite di videocassette, ma soprattutto allo sfruttamento di una nuova rete distributiva, le edicole, molto più capillare dei videoclub e in grado di offrire le videocassette a prezzi minori, come allegati dei giornali e delle riviste. La crescita del mercato dell’home video prosegue fino al 2005, e viene sostenuta dallo sviluppo di un nuovo supporto digitale, il dvd, che garantisce una migliore qualità, un minore ingombro e una maggiore quantità di contenuti. Negli ultimi anni il mercato dell’home video ha manifestato segni di difficoltà, provocate da un contesto reso più competitivo dalle varie offerte di spettacolo a domicilio, con i nuovi canali cinematografici a pagamento specializzati e le molte forme di accesso all’intrattenimento audiovisivo offerte da Internet, tra le quali è in crescita il video a richiesta. Nel 2010 il mercato totale dell’home video è stato di 590 millioni di euro, con una riduzione del 10% rispetto all’anno precedente, ma con una perdita del 34% rispetto al 2005. Il mercato è caratterizzato dalla prevalenza degli acquisti rispetto ai noleggi. Sono stati venduti 44 milioni di pezzi, con un fatturato di 501 milioni, e la vendita in edicola ha rappresentato il 28% delle vendite totali. Tra gli acquisti si è registrata una forte crescita dei dvd ad alta definizione (blu ray disc), che hanno rappresentato il 10% ­­­­­130

delle vendite totali, mentre i noleggi sono stati 33 milioni – in calo rispetto agli anni precedenti – e hanno prodotto il 15% del fatturato totale, pari a 88,5 milioni. Abbiamo già detto che, secondo le stime degli editori, i contenuti cinematografici rappresentano il 57% del fatturato totale del settore, pari a 340 milioni. Confrontando home video e cinematografi si può affermare che il contributo dato dall’home video al mercato dei film rappresenta quasi la metà del contributo fornito dalle sale cinematografiche. 9.2. Cinema e televisione Il prodotto cinematografico non è stato sempre un ingrediente centrale della programmazione televisiva. Abbiamo visto che negli Stati Uniti i produttori guardavano alla televisione come ad una pericolosa concorrente che minacciava di svuotare i cinematografi, e solo dopo molti anni il rapporto tra cinema e televisione è passato dalla concorrenza a un rapporto tra fornitore a cliente. In Europa, in tutto il lungo periodo in cui la televisione è stata gestita con obiettivi di servizio pubblico, i film non rappresentavano un contenuto strategico, dal momento che non era necessario alzare gli indici d’ascolto o conquistare spettatori in competizione con altri canali, usando contenuti spettacolari e particolarmente attraenti. Il cinema diventa un contenuto televisivo strategico solo quando in Europa iniziano a trasmettere le televisioni private in chiaro e a pagamento, che devono attrarre pubblico per aumentare i ricavi pubblicitari o il numero di abbonati. La presenza dei film nella programmazione televisiva è stata oggetto di regolazione specifica sia da parte di apposite leggi nazionali, come per esempio in Francia, sia da parte dell’Unione Europea che, come si è visto, con la direttiva Televisione senza frontiere ha indicato ai paesi membri un tetto alla trasmissione di fiction extraeuropea. Secondo i dati dell’Anica, in Italia nel 2010 i canali televisivi nazionali in chiaro hanno trasmesso quasi 4.000 film, alcuni dei quali sono stati programmati più volte, portando il totale delle trasmissioni a oltre 4.200. I contenuti cinematografici sono considerati, insieme allo sport in diretta, la parte più importante dell’offerta dei canali televisivi a pagamento. La loro capacità di motivare gli abbonati è anche dovuta ­­­­­131

al fatto che, come si è detto, possono trasmettere film recenti, con una notorietà ancora diffusa tra il pubblico, dopo il loro passaggio nei cinematografi. Sempre secondo l’Anica, nel 2010 il numero di film trasmessi dai canali a pagamento è stato di poco superiore a 3.000, ma i passaggi hanno superato i 50.000. Di questi, i film italiani costituivano circa il 20%, poco di più il numero di titoli e poco meno il numero di passaggi.

VI

L’industria dei giornali

1. Introduzione Il ciclo economico dei giornali è costituito da tre fasi distinte e integrate che normalmente sono gestite da imprese specifiche. La prima fase è quella della produzione del giornale e viene gestita dall’editore, che organizza la redazione incaricata di realizzare il prototipo e a volte anche la tipografia che stampa le copie. La seconda fase è quella della distribuzione, ed è gestita da una o più imprese il cui compito è di organizzare il trasporto e la consegna delle copie del giornale ai punti vendita. La terza fase è quella della vendita delle copie, e viene gestita dalle edicole o da altri esercizi commerciali che organizzano l’offerta dei giornali al pubblico. Ognuna di queste fasi ha aspetti economici e organizzativi propri, richiede competenze e professionalità specifiche e ha un mercato di riferimento che varia dalle dimensioni nazionali a quelle locali. 2. La produzione La produzione del giornale si basa su due attività molto diverse. La prima riguarda la produzione del contenuto immateriale del prodotto, costituito dalle informazioni; la seconda riguarda il trasferimento del contenuto immateriale sul supporto fisico – la carta –, necessario per poter trasmettere le informazioni ai lettori. Queste due fasi caratterizzano ancora oggi gran parte della produzione giornalistica, ed è utile considerarle distintamente. La prima fase continua infatti a seguire il modello tradizionale, mentre la seconda può godere delle nuove opportunità offerte dalle reti-mercato ­­­­­133

(vedi cap. IX), che permettono di sostituire la riproduzione e la distribuzione su carta con le funzioni distributive di Internet attraverso le reti di telecomunicazione. Come si è detto, la distribuzione in rete dei contenuti editoriali produce vantaggi rilevanti, ma crea anche complessi problemi di conversione che finora hanno creato difficoltà a molte imprese editoriali. L’attività tipica dell’impresa che realizza giornali quotidiani si concentra nella raccolta e nell’elaborazione di notizie e di altri tipi d’informazione, svolte da giornalisti professionisti che lavorano in modo coordinato in forma di redazione, e nella loro confezione giornaliera su carta o su base digitale. Il risultato di questa attività è il prototipo o prima copia del giornale, che è stata concepita in riferimento a gruppi di lettori caratterizzati da alcuni elementi predefiniti (l’area geografica di riferimento, l’orientamento politico, socio-culturale e professionale, gli interessi culturali o per attività sportive e del tempo libero, e altro ancora). Il prototipo viene poi trasferito ad un altro reparto dell’impresa, o a fornitori esterni, per la riproduzione a stampa delle copie e per la loro distribuzione e vendita al pubblico. Il lavoro delle redazioni giornalistiche ha trovato anche forme di distribuzione diverse da quelle su supporto cartaceo: si pensi alla radio, alla televisione e, più recentemente, a Internet. In questi casi il processo produttivo dei contenuti giornalistici mantiene i caratteri principali, ma cambiano nettamente alcuni aspetti, tra cui: • l’organizzazione temporale del lavoro, dal momento che radio, televisione e Internet hanno edizioni e aggiornamenti che si succedono più volte nell’arco della giornata, mentre i quotidiani escono generalmente una volta al giorno; • il ciclo di vita delle notizie, che non è più l’intera giornata, ma il tempo che separa un’edizione dall’altra; • la confezione delle notizie, che è sonora, audiovisiva o multimediale; • le forme di distribuzione, non più basate sulla rete fisica dei punti vendita o della posta, ma sulle reti di telecomunicazione specializzate e distinte, come quella radiofonica e televisiva, e sempre di più attraverso una stessa e unica rete fissa o mobile. A monte del lavoro della redazione c’è quello delle agenzie di stampa, che operano a livello nazionale o internazionale raccogliendo notizie che vengono poi vendute ad una molteplicità di giornali ­­­­­134

Tabella 27. Struttura dei costi dell’editore di un giornale quotidiano Personale (giornalisti+amministrativi) Produzione (carta+stampa) Costi redazionali (collaborazioni esterne, diritti, foto, ecc.) Spese generali Logistica e abbonamenti Promozione e marketing Totale

27% 23% 18% 10% 16% 6% 100%

Fonte: bilanci di varie imprese.

e di altri clienti tramite abbonamenti. Al lavoro delle agenzie si aggiunge, in modo più sporadico, quello degli uffici stampa delle imprese e degli enti pubblici e privati, che producono comunicati per fornire notizie sulla propria attività. Oggi una terza fonte è costituita da una gamma sempre più ampia e diversificata di fonti strutturate od occasionali, professionali o amatoriali, accessibili via Internet. Queste notizie normalmente rappresentano una sorta di materia prima, su cui i giornalisti lavorano per verificarne contenuti e fonti, per svolgere approfondimenti e per arricchirla con contributi originali. L’editore di giornali deve sostenere due tipi principali di costi. Il primo riguarda la redazione, quindi la produzione del prototipo; in questo caso si tratta di costi fissi, che sono indipendenti dal numero di copie stampate e non sono recuperabili nel caso di insuccesso del prodotto (sunk costs). Il secondo tipo di costi riguarda la riproduzione tipografica del prototipo nel numero di copie necessario a coprire il proprio mercato di riferimento. L’impianto tipografico rappresenta anch’esso un costo fisso (quello dei macchinari), mentre il costo delle copie varia in base al loro numero e a quello delle pagine che le compongono. Si può esemplificare il conto economico di un’impresa giornalistica prendendo il caso di un editore che pubblica un quotidiano stampato in 100.000 copie. Si stima che il suo incasso equivalga al 70% del prezzo di vendita del giornale e che il restante 30% vada al distributore e al rivenditore, e che la sua struttura dei costi sia divisa secondo le proporzioni riportate nella Tabella 27. In diversi casi le imprese giornalistiche presentano forme di integrazione verticale, orizzontale o trasversale. Nel primo caso si tratta ­­­­­135

di imprese editoriali che oltre ai contenuti gestiscono direttamente anche la loro riproduzione tipografica, la distribuzione delle copie o altro. Nel secondo caso si tratta di imprese che realizzano diversi giornali destinati allo stesso mercato geografico o a mercati separati. Nel terzo caso si tratta di imprese che, oltre ai giornali quotidiani, pubblicano periodici, libri, video, gestiscono radio, televisioni e media su altri supporti ancora. Queste forme di integrazione in molti paesi sono oggetto di regole specifiche volte a garantire la concorrenza e il pluralismo. Osservando il mercato dei quotidiani in Italia si nota una caratteristica importante: la concorrenza tra i prodotti si basa prevalentemente sulla qualità dei contenuti e non sul prezzo. Ciò determina una forte segmentazione del mercato sulla base di contenuti sostanzialmente diversi, che nella maggior parte dei casi hanno un basso grado di sostituibilità: per il lettore del «Mattino» di Napoli «La Stampa» di Torino non rappresenta un’alternativa, così come «il Giornale» non costituisce per il lettore un’alternativa alla «Repubblica» o «Il Sole 24 Ore» un’alternativa alla «Gazzetta dello Sport». Tre elementi distinguono in modo sostanziale i giornali tra loro. Il primo consiste nell’area geografica di riferimento, che può variare dall’ambito locale a quello nazionale. Il secondo riguarda i contenuti politici, economici, socio-culturali e il modo di trattarli. Il terzo riguarda le tipologie di destinatari, che in alcuni paesi determina una distinzione netta nel modo di selezionare, trattare e confezionare i contenuti: un caso esemplare da questo punto di vista è il Regno Unito, dove vige una evidente diversità tra i giornali «popolari» e quelli di élite. Quindi, per definire il prodotto che intende fare, l’editore deve basarsi su queste variabili: a) l’area geografica di riferimento; b) i generi informativi e il loro assortimento; c) le tipologie dei contenuti, ovvero la fascia di lettori a cui è destinato il giornale. La definizione di questi elementi serve per stabilire la dimensione e la composizione della redazione e le altre variabili necessarie a pianificare gli investimenti e i costi. L’editore deve inoltre considerare che opera in un mercato a due versanti: deve stabilire sia il prezzo del giornale sia quello dei suoi spazi pubblicitari, cercando di trovare l’equilibrio migliore. In un’indagine dell’Autorità antitrust italiana il problema è presentato nel modo seguente: ­­­­­136

Nella determinazione del prezzo di vendita, l’elemento distintivo del mercato della carta stampata, come anche degli altri ‘doppi mercati’, risiede nel possibile trade-off esistente fra i ricavi da vendita delle copie stampate e i ricavi da raccolta pubblicitaria. Laddove, infatti, si assuma un andamento tradizionale della funzione di domanda dei quotidiani (quantità domandata decrescente rispetto al prezzo), un aumento del prezzo di copertina (prescindendo da altre considerazioni) determina una contrazione nella circolazione del giornale con effetti depressivi sull’attrattività della testata per gli inserzionisti pubblicitari. All’opposto, un incremento del numero delle copie diffuse determinato da una riduzione di prezzo può ripercuotersi positivamente sulla raccolta pubblicitaria, oltre a coniugarsi con significative economie di scala (Agcm, 2009).

Nel mercato della stampa italiana la concorrenza, come si è detto, si basa però essenzialmente su contenuti, inserti ed allegati, e non sui prezzi, che, pur essendo stati liberalizzati nel 1987, non hanno manifestato da allora scostamenti sensibili dal prezzo medio. Su questo piano l’unica forte innovazione è stata l’apparizione di una nuova categoria di prodotti editoriali, la free press, costituita da giornali gratuiti, finanziati dalla pubblicità e destinati a un pubblico popolare composto in larga parte da persone che abitualmente non leggerebbero un quotidiano. Per un certo periodo si è pensato alla free press come a una buona occasione per formare una nuova fascia di lettori abituali che avrebbe potuto determinare anche un aumento di copie vendute, ma i dati non hanno confermato queste attese. Quando il lavoro della redazione è concluso e i vari contenuti che compongono il giornale sono stati selezionati ed impaginati secondo i criteri organizzativi e grafici che distinguono ciascun giornale, si passa alla stampa del numero programmato di pagine e di copie. Si tratta di un processo di produzione industriale organizzato in una serie di sequenze precise e in larga parte automatizzate: il prototipo delle pagine è trasformato in matrici che vengono fissate su cilindri a rotazione e inchiostrate per essere riprodotte in forma di stampa a grande velocità su rotoli di carta, per poi essere separate e riordinate fino a comporre le singole copie del giornale da consegnare alla distribuzione. La riproduzione tipografica dei giornali ha registrato negli ultimi decenni una serie di innovazioni in grado di aumentare notevolmente la velocità di stampa delle copie, e oggi i grandi giornali utilizzano impianti capaci di tirare in un’ora fino a 70.000 copie composte da 48 ­­­­­137

Tabella 28. Ricavi editoriali (in milioni di euro) 2008

2009

2010

Ricavi da vendita Ricavi da pubblicità

   928 1.000

   888 (–4,3%)    847 (–15,3%)

   846 (–4,7%)    840 (–0,8%)

Totale

1.928

1.735

1.686

Fonte: Fieg, 2011.

pagine (Prandelli, 1999), col vantaggio di poter anticipare in tal modo l’avvio della fase distributiva dal centro stampa ai punti vendita. L’impresa giornalistica non è solo impegnata a produrre le informazioni e a stampare, direttamente o attraverso imprese specializzate, le copie, ma svolge (direttamente o attraverso fornitori) anche altre tre importanti attività: la vendita degli spazi pubblicitari agli inserzionisti; l’analisi della composizione e del comportamento dei lettori e, più in generale, del mercato; la promozione e il marketing del prodotto. Il mercato in cui opera l’impresa giornalistica, come altre imprese mediali, è costituito da due fronti (two-sided market; vedi cap. I): sul primo, l’impresa vende il giornale ai lettori; sul secondo, vende spazi del giornale agli inserzionisti pubblicitari, ovvero vende l’attenzione potenziale che i lettori dedicano ai messaggi commerciali. Le dimensioni economiche del primo fronte dipendono dalla quantità di clienti che acquistano una copia del giornale, quelle del secondo dipendono dalla quantità di persone che leggono il giornale. Per massimizzare i risultati di entrambi i fronti l’impresa deve essere capace di analizzare e interpretare in modo sistematico aspetti significativi del contesto in cui opera, in particolare i comportamenti dei clienti (lettori e inserzionisti) e dei concorrenti, insieme all’evoluzione del mercato e delle regole. In Italia l’andamento dei ricavi derivati dalle vendite e dalla pubblicità è stato rilevato dalla Fieg, che ha preso in considerazione i dati forniti da 49 testate quotidiane per gli ultimi tre anni (Tabella 28). Nel gruppo di giornali considerati, che rappresentano la larga maggioranza delle testate vendute in Italia, la pubblicità ha generato nel 2008 il 52% dei ricavi complessivi degli editori; nei due anni successivi, rispettivamente il 48,8% e il 49,8%. Nel corso dell’ultimo decennio si sono ridotte le differenze tra i ricavi da vendita e quelli da pubblicità: nel 2000 la pubblicità rap­­­­­138

presentava la voce di ricavo nettamente prevalente, con il 56% delle entrate totali, mentre nel 2010 i ricavi derivati dalla pubblicità e dalle vendite sono stati sostanzialmente simili. Oltre ai ricavi derivati dalla pubblicità e dalle vendite gli editori fin dagli anni Novanta hanno creato una terza fonte di entrate: si tratta dei prodotti collaterali, costituiti soprattutto da libri, dischi, videocassette e poi dvd – ma anche da altri tipi di prodotti –, venduti insieme ai giornali. Nel corso dell’ultimo decennio i collaterali hanno assunto un peso importante, raggiungendo nel 2004 quasi il 30% dei ricavi totali (Agcom, 2007). Negli anni successivi però la loro importanza si è ridimensionata e nel 2009 il loro contributo ai ricavi totali degli editori si è ridotto al 9%. 3. La distribuzione La fase della distribuzione riguarda, come si è detto, una serie di attività i cui passaggi principali sono la raccolta delle copie dalla tipografia, il loro trasporto e la loro consegna ai punti vendita. Si tratta di attività articolate, organizzate secondo tre principali variabili: a) la quantità delle copie da distribuire; b) la quantità dei punti vendita da rifornire; c) la dimensione e le caratteristiche geografiche e infrastrutturali del territorio. Per analizzare le caratteristiche di questa fase del ciclo economico è necessario entrare nel merito del mercato italiano, perché esso presenta alcuni aspetti tali da rendere la distribuzione della stampa particolarmente complessa. Si tratta infatti di fornire quotidianamente le copie dei giornali a oltre 30.000 punti vendita, costituiti in larga parte dalle edicole, che coprono l’85% del mercato, a cui si aggiungono bar, supermercati e altre rivendite promiscue. Storicamente la conformazione geografica dell’Italia e le infrastrutture di trasporto disponibili non hanno permesso ai grandi giornali delle principali aree del paese di assumere un ruolo nazionale. Perché ciò avvenisse, sarebbe stata infatti necessaria la distribuzione capillare delle copie in tutto il paese e la loro presenza in tutti i punti vendita fin dalle prime ore del mattino, quando si concentra la maggior parte delle vendite. Questo problema è stato in buona parte superato nel corso dei passati anni Ottanta, quando il miglioramento delle reti e dei servizi di telecomunicazione ­­­­­139

ha permesso alle redazioni di trasmettere le pagine del giornale in fac-simile a centri stampa dislocati in varie zone del territorio da cui era più facile distribuire le copie ai punti vendita. Un secondo problema che ha creato difficoltà alla distribuzione dei giornali, e che tuttora non è risolto, riguarda il servizio postale. In molti paesi europei gli abbonamenti ai giornali rappresentano una quota rilevante delle vendite dei quotidiani; in questi paesi i servizi postali nazionali sono in grado di recapitare a domicilio agli abbonati le copie nelle prime ore del mattino, mentre l’Italia su questo fronte si trova in una posizione molto arretrata. In un recente rapporto la Federazione italiana editori giornali sottolinea il fatto che la bassa percentuale di copie vendute per abbonamento costituisce una forte penalizzazione per le imprese giornalistiche italiane su vari fronti: In quei paesi dove gli abbonamenti rappresentano lo sbocco commerciale largamente prevalente la stampa gode del grande vantaggio di una domanda conosciuta nelle sue dimensioni quantitative tale da consentire una programmazione della produzione meno esposta alle oscillazioni e agli umori del pubblico con benefici anche per la gestione finanziaria e per le strategie di marketing (Fieg, 2008).

Le continue oscillazioni del pubblico, infatti, impongono all’editore di stampare e distribuire un numero di copie sensibilmente più alto del numero di copie che poi saranno effettivamente vendute. Questo divario produce il fenomeno delle rese, tipico del mercato editoriale italiano, ovvero delle copie invendute che vanno ritirate dai punti vendita e portate al macero. Il peso economico di questo fenomeno per gli editori italiani è facilmente valutabile se si pensa che negli ultimi tre anni la quantità di copie rese ha raggiunto una media annua intorno al 26% delle copie stampate. La bassa percentuale di abbonamenti, oltre a gonfiare il fenomeno delle rese, sottrae agli editori italiani due altri vantaggi di cui godono molti dei loro colleghi all’estero: il primo è di ordine finanziario, dal momento che normalmente l’abbonamento è pagato con un anticipo di settimane o di mesi rispetto alla produzione del giornale; il secondo è di ordine commerciale, dal momento che l’abbonato è un cliente del giornale fedele e facilmente identificabile, verso cui l’editore può indirizzare campagne mirate per promuovere nuovi prodotti e servizi. ­­­­­140

3.1. L’organizzazione della distribuzione in Italia In Italia il processo distributivo dei giornali coinvolge gli editori, i distributori nazionali e quelli locali e si svolge in quattro fasi: la de­ finizione del piano di diffusionale primario, il trasporto al distributore locale, la fornitura alle edicole e alle altre rivendite e la gestione delle rese. La definizione del piano di diffusione primario riguarda il numero di copie che il distributore nazionale deve consegnare ai distributori locali. Ciò avviene sulla base di parametri predefiniti, quali i dati di vendita storici, il trend di vendita a breve e medio termine, le notizie contenute nel numero in uscita, oltre a particolari iniziative di marketing della testata o dei concorrenti. Nel caso dei quotidiani diffusi in tutto il paese, il distributore nazionale organizza ogni notte il trasporto delle copie dai centri stampa competenti per area di diffusione ai distributori locali, sulla base di una successione temporale prevista in base alla distanza del centro stampa e, in alcuni casi, in base all’edizione assegnata. La stampa del quotidiano, realizzata in poche ore, viene infatti effettuata contemporaneamente presso più centri stampa dislocati nel territorio nazionale. I distributori locali, ricevute le copie a loro destinate, provvedono a trasportarle e a consegnarle ai punti vendita presenti nel territorio di loro competenza, secondo un piano di diffusione locale (piano secondario) che tiene conto delle copie inviate dall’editore e delle richieste delle edicole. Il distributore locale ha anche il compito di ritirare dalle edicole le rese, che devono essere verificate prima di mandarle al macero, per stabilire il numero di copie venduto da ogni punto vendita e i relativi rimborsi dovuti ai distributori e agli editori. L’editore, infatti, riconosce al sistema distributivo il diritto di rendere le copie invendute e assume così il rischio di stabilire quante copie stampare per adattare nel modo migliore la sua offerta a una domanda che è incerta e che può avere oscillazioni quotidiane. Essendo l’editore a sostenere il rischio commerciale, spetta a lui stabilire il prezzo di vendita del giornale al pubblico e definire la strategia distributiva, che riguarda, tra le altre cose, la scelta del numero di copie da destinare a ciascuna area e della società di distribuzione a cui affidarle in esclusiva. Nel caso di giornali locali può succedere che l’editore non si rivolga a società di distribuzione specializzate e gestisca l’operazione con mezzi propri. ­­­­­141

Tabella 29. Quote di mercato dei distributori dei giornali quotidiani nel 2008 Distributore

Quota mercato (in percentuale)

M-Dis Press-Di Sodip A&G Marco Parrini & C. Altri

33 24 17 11 9 6

Totale

100

Nota: I dati non considerano l’attività di distribuzione svolta in proprio dai gruppi editoriali. Fonte: Agcm, 2009.

La distribuzione dei giornali italiani su scala nazionale ha un livello di concentrazione elevato, dal momento che quasi i 3/4 del mercato sono nelle mani di tre società specializzate (Tabella 29). Nell’industria della stampa italiana, oltre alla concentrazione della distribuzione, è elevato anche il grado di integrazione verticale. Le due principali società di distribuzione detengono insieme oltre la metà del mercato e sono controllate da società editrici di quotidiani e periodici. Il capitale sociale di M-Dis è infatti nelle mani di Rcs Media Group e De Agostini, ciascuno dei quali detiene il 45% del capitale sociale, e il resto è del Gruppo Rusconi; il capitale sociale di Press-Di, invece, è interamente controllato dal gruppo Arnoldo Mondadori Editore. La prima società distribuisce «Corriere della Sera», «La Gazzetta dello Sport», «Il Sole 24 Ore» e «La Stampa», oltre a altre pubblicazioni periodiche; la seconda distribuisce «il Giornale» e «Libero», oltre alle pubblicazioni periodiche della Mondadori. Il Gruppo L’Espresso distribuisce direttamente il settimanale e «la Repubblica». La distribuzione locale è anch’essa soggetta a un processo di concentrazione, che negli ultimi trent’anni ha ridotto il numero delle imprese da 600 alle attuali 150. Anche a livello di distribuzione locale sono presenti vari casi di integrazione verticale, come nel caso di M-Dis, principale società di distribuzione nazionale, controllata da Rcs-Corriere della Sera e De Agostini, che è presente nella distribuzione locale, oltre che in Lombardia, anche in Trentino, Piemonte e Liguria. ­­­­­142

4. Le edicole e i punti vendita Le funzioni che caratterizzano l’attività dei rivenditori, dalle edicole alle altre categorie di punti vendita, sono sostanzialmente quattro. La prima è quella di negoziare con il distributore la fornitura del numero di copie e degli altri prodotti in grado di soddisfare la domanda potenziale dei clienti abituali e occasionali; ciò avviene sulla base dell’esperienza e, in particolare, dei dati che riguardano i trend di vendita pregressi o di aspetti rilevanti di contesto (festività locali, manifestazioni, flussi turistici, ecc.). La seconda funzione è quella di predisporre e organizzare gli spazi fisici a disposizione per esporre i prodotti editoriali nel modo più adatto a richiamare l’attenzione dei clienti e a favorirne la scelta e l’acquisto. La terza funzione riguarda la gestione dei materiali in consegna, la fornitura delle informazioni commerciali che interessano ai distributori e agli editori e, in particolare, la contabilità delle copie invendute e la confezione delle rese da consegnare al distributore. La quarta funzione, che assimila l’edicolante all’esercente della sala cinematografica, è la gestione del flusso monetario: l’incasso del prezzo dei prodotti venduti e il rimborso periodico della parte che compete ai distributori e agli editori. Se consideriamo il caso di un giornale quotidiano a diffusione nazionale, il prezzo a cui è venduto è suddiviso, in base agli accordi prevalenti, nel modo seguente: il punto vendita trattiene il 19% del prezzo defiscalizzato del giornale venduto (su altri prodotti editoriali le percentuali variano a seconda dei casi); al distributore locale è riconosciuta una quota che varia tra il 4 e il 7% e al distributore nazionale una quota che varia tra il 5 e l’8%; all’editore, infine, va una quota tra il 66 e il 72%. Il numero di punti vendita della stampa quotidiana ha subito negli ultimi anni un sensibile ridimensionamento, passando dai 40.000 del 2000 ai poco più di 30.000 attuali. Il fenomeno è legato a varie cause, prima fra tutte la progressiva riduzione del numero di copie vendute e dei margini dei rivenditori. Ma i punti vendita, in particolare le edicole, hanno subito anche una trasformazione di tipo merceologico. Su sollecitazione degli editori e in seguito allo sviluppo dei prodotti collaterali, come i libri, i dischi, le videocassette e poi i dvd e altro ancora, che offrono nuove opportunità commerciali, le ­­­­­143

rivendite hanno cambiato sensibilmente l’assortimento dei prodotti in offerta senza in molti casi cambiare in modo conseguente la loro struttura fisica. Sono così passate dalla vendita specializzata di giornali e altre pubblicazioni periodiche, il cui ciclo di vita commerciale è molto breve (quotidiano, settimanale, mensile), anche alla vendita di prodotti editoriali con un ciclo ben più lungo, come nel caso delle videocassette prima e ora i dvd, dei dischi, dei libri. Lo spazio del punto vendita, che è nato per la stampa periodica, risulta meno adatto per gli altri prodotti editoriali, che per caratteristiche di prezzo e di contenuto implicano modalità di consultazione, tempi di scelta e di acquisto del tutto diversi. Il risultato è stato un sovraffollamento delle edicole e la presenza di prodotti mal esposti, spesso mal assortiti, che in varie situazioni ‘soffocano’ i giornali e i periodici, oltre a rendere la gestione logistica e amministrativa molto più complessa per il giornalaio. 5. Il mercato della stampa quotidiana in Italia In Italia il mercato della stampa quotidiana è caratterizzato dalla presenza di alcune grandi imprese che presentano varie forme di integrazione verticale, orizzontale e trasversale. I primi cinque editori di giornali quotidiani per dimensione dei ricavi sono: Gruppo L’Espresso, Rcs Mediagroup, Il Sole 24 Ore, Caltagirone, Poligrafici Editoriale. Nel 2009 i due principali gruppi, L’Espresso e Rcs, hanno prodotto complessivamente il 35% di tutte le copie destinate alla vendita. Il Gruppo L’Espresso, con 18 testate quotidiane, nazionali, regionali e locali, ha stampato complessivamente 406 milioni di copie; la sua testata più importante è «la Repubblica», che ha prodotto 193 milioni di copie e ne ha vendute 173 milioni. Rcs Mediagroup, con 17 testate nazionali, regionali e locali, in vendita e gratuite (9), ha stampato complessivamente 581 milioni di copie (114 milioni di copie gratuite); le sue due testate principali sono «Corriere della Sera», con 247 milioni di copie stampate e 190 milioni di copie vendute, e «La Gazzetta dello Sport», con 177 milioni di copie stampate e 119 milioni di copie vendute (Fieg, 2011). La diminuzione progressiva del numero di copie vendute e quella, più drastica, degli investimenti pubblicitari, che hanno colpito la ­­­­­144

Tabella 30. Ricavi delle principali imprese editoriali (milioni euro) Impresa

2008

2009

Gruppo L’Espresso Rcs Mediagroup Il Sole 24 Ore Caltagirone Poligrafici Editoriale

661 637 269 244 220

619 555 192 213 192

Fonte: elaborazione su dati Agcom, 2010.

Tabella 31. Variazione dei ricavi dell’editoria quotidiana (miliardi di euro) Anni

Ricavi editoriali*

Anni

Ricavi editoriali*

2007 2008

3,5 2,3

2009 2010

2,95 2,91

* Vendite+pubblicità. Fonte: Fieg, 2011.

stampa in concomitanza della recente crisi economica, hanno creato una situazione difficile per gli editori di giornali, che hanno subito una riduzione netta dei loro ricavi (Tabella 31). Per comprendere meglio le caratteristiche del mercato della stampa quotidiana in Italia, è però necessario fare un passo indietro, e analizzare alcuni fattori strutturali del paese che ne hanno storicamente condizionato lo sviluppo, influenzando la distribuzione e il consumo dei giornali e, più in generale, le risorse economiche a disposizione della stampa quotidiana. Per quanto riguarda la distribuzione, abbiamo già visto come le caratteristiche geografiche del paese e l’inefficienza del servizio postale, che penalizza le vendite per abbonamento, abbiano reso la distribuzione capillare delle copie difficile e particolarmente onerosa per tutte le testate a vocazione nazionale, limitandone le opportunità di crescita. Negli anni più recenti la possibilità di utilizzare centri stampa dislocati nelle principali aree del paese ha provocato due importanti cambiamenti: da una parte ha permesso alle testate nazionali di crea‑ re redazioni e pagine di cronaca locale in diverse città, aumentando la loro attrattività in aree del paese diverse da quella d’origine; ­­­­­145

inoltre, è stato possibile arrivare in un gran numero di rivendite nelle prime ore del mattino (anche se il problema non è stato ancora completamente risolto in tutt’Italia e per tutte le testate). Invece, il tentativo di rendere più capillare la rete distributiva, permettendo anche a esercizi commerciali non specializzati (come i bar e le librerie) di vendere i giornali, non ha prodotto l’aumento delle vendite sperato. Il secondo fattore strutturale che ha condizionato il mercato dei quotidiani in Italia riguarda la bassa propensione alla lettura degli italiani, che penalizza non solo i giornali, ma tutta l’editoria a stampa. Tra le cause principali possiamo individuare il basso livello di scolarizzazione rispetto alla maggioranza dei paesi europei e l’uso del dialetto, ancora molto diffuso in vaste aree del paese; questi elementi fanno sì che per un numero ancora rilevante di persone la lettura dell’italiano risulti oggi un’impresa faticosa. A tutto ciò si è aggiunta la concorrenza della televisione, dotata di un linguaggio più facile e immediato e di una maggiore potenza comunicativa; il risultato è che per molte persone la televisione rappresenta oggi un efficace surrogato alla lettura quotidiana del giornale. A quest’ultimo aspetto si lega il terzo fattore, che riguarda l’attrazione che la televisione esercita sugli investitori pubblicitari e che le permette di assorbire più della metà degli investimenti totali. Gli editori dei giornali accusano la televisione di concorrenza sleale perché vende gli spazi pubblicitari ad un prezzo troppo basso; gli editori televisivi accusano a loro volta i giornali di non essere capaci di attirare più pubblico in modo da aumentare l’interesse degli inserzionisti e il loro gettito pubblicitario. Il dato di fatto è che in nessuno dei principali paesi europei la televisione raccoglie una percentuale così elevata degli investimenti pubblicitari totali e la stampa una percentuale così bassa come in Italia. Ovviamente, il problema della concorrenza tra stampa e televisione nel mercato pubblicitario non è esclusivamente italiano. Però in molti altri paesi europei, nonostante non siano mai stati raggiunti gli eccessi italiani, il ruolo della stampa nel mercato pubblicitario è protetto attraverso due strumenti. Il primo esclude dalla televisione alcune categorie di inserzionisti pubblicitari tipici della stampa, come le agenzie di viaggi, i supermercati, le agenzie immobiliari (mentre in Italia questo tipo di protezione delle risorse pubblicitarie della stampa è assente). Il secondo strumento riguarda l’imposizione di ­­­­­146

un tetto alla pubblicità televisiva, che determina la quantità totale di introiti da non superare (modalità che in Italia è esistita per lungo tempo nel passato), oppure la quantità di tempo che si può destinare alla pubblicità in una programmazione televisiva. Questo limite in Italia esiste ma, secondo un’indagine svolta qualche anno fa dall’associazione Altroconsumo e dall’Osservatorio di Pavia, non viene fatto rispettare correttamente: I tetti orari di affollamento pubblicitario in tv stabiliti dalla legge Gasparri sono ignorati da Raiuno, Raidue, dalle tre reti Mediaset, e da La7 nella fascia oraria dalle ore 16.00 alle 22.00. Solo Raitre ha sempre rispettato i tetti previsti. Le regole sono calpestate anche quando i destinatari dei messaggi, sia per contenuto che per collocazione nel palinsesto, sono bambini o adolescenti: in fascia protetta sono andate in onda pubblicità di alcolici e di bevande energetiche; cartoni animati sono stati interrotti da messaggi pubblicitari.

La situazione di squilibrio che caratterizza il mercato della pubblicità in Italia è stata oggetto nel 2005 di un’inchiesta conoscitiva da parte del Senato sul «Sistema di reperimento delle risorse pubblicitarie dei mezzi di comunicazione di massa» in cui si confermavano i risultati dell’indagine predetta e si aggiungevano altre critiche, sintetizzate in un comunicato stampa della Federazione italiana editori giornali del 9 giugno dello stesso anno: Dopo aver sottolineato in maniera perentoria che il tema del reperimento e della ripartizione delle risorse pubblicitarie tra i diversi mezzi (stampa e televisione) ha «implicazioni dirette sul pluralismo dell’informazione» e che la stampa e la televisione «insistono sullo stesso mercato pubblicitario», l’indagine evidenzia come «l’ordinamento giuridico italiano si differenzi da altri ordinamenti europei per la mancanza di forme di asimmetria volte a proteggere gli investimenti pubblicitari nella carta stampata rispetto a quelli veicolati attraverso il mezzo televisivo». L’assenza di tali forme asimmetriche determina – a giudizio dell’8a Commissione del Senato – una pesante anomalia nella distribuzione delle risorse pubblicitarie con un rapporto tra pubblicità televisiva (circa il 54% delle risorse) e pubblicità sulla carta stampata (circa il 37%) che esiste «solo in Italia e in pochi altri paesi». L’indagine pone l’accento anche sugli attuali limiti di affollamento pubblicitario televisivo «non sempre rispettati» e sul relativo apparato ­­­­­147

sanzionatorio che, sia per come è stato congegnato, sia per come è stato gestito dall’Autorità garante, «avvalora negli operatori del settore la convinzione che le norme possano essere impunemente violate».

Negli anni passati c’è stato un periodo in cui la stampa quotidiana è riuscita, nonostante i limiti strutturali che già allora esistevano, a crescere rapidamente. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, gli editori hanno saputo sfruttare alcune nuove opportunità, avviando un ciclo nettamente positivo per il mercato dei quotidiani in Italia. In quegli anni sono aumentate sensibilmente le copie vendute, sono nate nuove testate e il conto economico delle imprese giornalistiche ha visto un netto miglioramento. Questo fenomeno fu favorito anche dalle nuove tecnologie (informatiche e di altro genere), che permisero di riorganizzare il lavoro delle redazioni e delle tipografie, con un miglioramento del processo produttivo e una riduzione dei costi. I risultati furono rilevanti, se si pensa che in dieci anni il numero medio di copie vendute al giorno passò dai 5,3 milioni del 1980 ai 6,8 milioni del 1990, picco massimo che resta insuperato, con una crescita nel periodo superiore al 28%. Nel decennio successivo il mercato ha avuto un andamento variabile, ma complessivamente in calo, e dal 2000 in poi il calo è stato costante per effetto soprattutto di due fattori: il primo è di tipo congiunturale, e riguarda i due cicli economici negativi – all’inizio e alla fine del decennio – che hanno inciso molto sugli investimenti pubblicitari, in particolare su quelli destinati alla stampa; il secondo è di tipo strutturale, e riguarda la crescente competizione delle informazioni e dei giornali via Internet, che ha iniziato a sottrarre lettori ai giornali stampati, con un effetto diretto sia sul numero di copie vendute che sugli investimenti pubblicitari. Insomma, il bilancio degli ultimi trent’anni, dopo una fase di rapida crescita seguita da una fase di lenta riduzione delle copie vendute, presenta un risultato negativo (Tabella 32). Un altro fenomeno che si è verificato nel corso del passato decennio, quello della stampa gratuita, secondo molte ricerche non ha inciso sensibilmente sul numero di copie vendute dai giornali a pagamento. Infatti i giornali gratuiti, attraverso una scelta mirata del formato, dei contenuti, del linguaggio e delle modalità di diffusione, si sono rivolti prevalentemente a quella parte del pubblico che non è abituata a comprare il quotidiano; quindi si può sostenere ­­­­­148

Tabella 32. Variazione del numero di copie vendute nel periodo 1980-2010 (milioni di copie) Anno

Vendita media giornaliera

1980 1985 1990 1995

5,3 6,1 6,8 5,9

Anno

Vendita media giornaliera

2000 2005 2010

6,1 5,4 4,8

Fonte: Fieg, 2011.

Tabella 33. Lettori medi giornalieri dei maggiori giornali gratuiti (in milioni) Testate

2008

2010

Leggo City Metro

2,3 2,0 1,9

1,8 1,9 1,5

Fonte: Audipress.

che la free press abbia aumentato complessivamente il numero di lettori senza sottrarne ai giornali a pagamento preesistenti. Comunque negli anni recenti anche la free press ha registrato in Italia un ridimensionamento delle copie e una riduzione netta del numero di lettori (Tabella 33). La riduzione degli investimenti pubblicitari che è seguita alla crisi economica degli ultimi anni ha avuto sulla stampa gratuita un effetto notevole che ha portato, tra il 2009 e il 2010, il fatturato netto del settore da 58,4 a 52 milioni di euro, con una perdita dell’11%. 6. Dimensioni e struttura del mercato dei quotidiani in Italia Le dimensioni del mercato della stampa quotidiana in Italia sono annualmente stimate dalla Fieg, che per il 2010 ha preso in considerazione le 57 testate giornalistiche principali distinguendole secondo la tipologia delle informazioni offerte e le dimensioni geografiche del loro mercato. Nell’insieme le 57 testate hanno stampato quasi 7 milioni di copie in media al giorno e ne hanno vendute quasi 5, con una resa di 1,8 milioni di copie, pari al 25% delle copie stampate, che sono state ­­­­­149

ritirate e mandate al macero. Tra il 2009 e il 2010 la riduzione delle copie quotidiane vendute è stata superiore al 7%. I giornali nazionali rappresentano il 58% delle vendite totali e comprendono quattro sottocategorie principali: informazione generale, sportivi, economici e politici. I giornali d’informazione generale vendono 2,7 milioni di copie, quelli sportivi 1,2 milioni e quelli economici 500.000. La geografia delle vendite mette in evidenza le forti differenze che esistono tra le principali aree del paese (Tabella 34), e che corrispondono in larga parte alle differenze tra i livelli di scolarizzazione e di reddito medi. Tali differenze sono influenzate anche dalla struttura distributiva e di vendita dei quotidiani, che in alcune aree del paese è meno capillare ed efficiente rispetto ad altre. Possiamo notare forti diversità non soltanto tra le macro-aree nazionali, ma anche tra le singole regioni. Quelle ai primi posti per vendite quotidiane ogni mille abitanti sono Liguria (137), Friuli Venezia Giulia (131) e Trentino (130). Le tre regioni in cui invece la media quotidiana di vendita per mille abitanti è più bassa sono la Campania (38), la Basilicata (39) e la Puglia (44). I cinque giornali che da molti anni sono ai primi posti per numero di copie vendute e per numero di lettori, nel giorno medio 2010 rappresentano il 35,5% del totale delle copie vendute (Tabella 35). Sono tutte testate a diffusione nazionale, anche se occorre osservare che «la Repubblica», «La Gazzetta dello Sport» e «Il Sole 24 Ore» hanno una diffusione più equilibrata dal punto di vista geografico rispetto al «Corriere della Sera» e alla «Stampa», che hanno una forte concentrazione di vendite nei capoluoghi e nelle regioni di origine. Come si è già osservato, la scarsa propensione alla lettura che caratterizza gli italiani rispetto alla maggior parte dei paesi europei è uno dei fattori di debolezza per l’industria dei quotidiani. La popolazione italiana di 14 anni e oltre supera di poco i 52 milioni di individui; di questi sono lettori abituali di quotidiani 24 milioni, in larga maggioranza uomini. Nel corso dell’ultimo decennio, però, si assite a un fenomeno in controtendenza: nonostante la vendita di copie sia progressivamente calata, il numero di lettori è aumentato, e questo in seguito a due fenomeni. Il primo riguarda lo sviluppo dei giornali gratuiti, di cui si è già detto, che nel complesso hanno contribuito a conquistare alla lettura una fascia consistente di non lettori. Il secondo riguarda lo sviluppo ­­­­­150

Tabella 34. Popolazione e vendite di quotidiani per aree geografiche (2009) Area

Pop. residente (in milioni)

%

Copie vendute (in milioni)

%

Copie per 1.000 ab.

Nord Centro Sud

27,6 11,9 20,9

 45,7  19,7  34,6

2,64 1,06 1,08

 55  22,2  22,7

96 89 52

Totale

60,4

100

4,78

100

79

Fonte: Fieg, 2011.

Tabella 35. Copie vendute e numero di lettori delle prime cinque testate nel 2010 Testata

Copie vendute (migliaia)

«Corriere della Sera» «la Repubblica» «La Gazzetta dello Sport» «La Stampa» «Il Sole 24 Ore»

453,2 412,6 298* 272  58

Lettori (milioni)

2,97 3,21 4,32 2,1 1,2

* L’edizione del lunedì vende in media 345 copie. Fonte: arrotondamenti su dati Ads (per le copie vendute) e Audipress (per il numero dei lettori).

di Internet, che ha visto crescere in generale l’offerta di informazioni «giornalistiche», e in particolare le versioni elettroniche dei giornali a stampa. Il fenomeno è diventato talmente importante che l’accesso ai quotidiani via Internet è oggetto di misurazioni periodiche da parte di società specializzate, tra cui la più nota in Italia è Audiweb. I dati raccolti nel 2010 hanno rilevato che nel giorno medio i siti web di notizie e informazioni gestiti da editori di quotidiani hanno avuto quasi 5,5 milioni di contatti e oltre 46 milioni di pagine visitate. I dati raccolti nell’ultima parte dell’anno vedono ai primi posti gli stessi giornali che sono in testa alla classifica delle vendite delle copie a stampa (Tabella 36). Va osservato che ormai i giornali on line possono essere considerati un’attività editoriale consolidata. Per gli editori le iniziative in questo campo hanno comportato investimenti rilevanti, che finora però non sono stati in grado di generare nuove risorse corrispondenti alle attese. Insomma, mentre i giornali on line cominciano ad attrarre ­­­­­151

Tabella 36. Accessi Internet nel giorno medio, fine 2010 (in milioni) Siti web quotidiani

«la Repubblica» «Corriere della Sera» «La Gazzetta dello Sport» «Il Sole 24 Ore» «La Stampa»

Utenti unici

1,46 1,17 0,5 1,1 0,26

Pagine visitate

14,6 12,7  3,7  6,6  1,9

Fonte: Audiweb.

pubblico, anche se in misura contenuta, gli investimenti pubblicitari finora incontrano difficoltà nel far pagare l’accesso alle loro informazioni e servizi. I ricavi degli editori di giornali, quindi, dipendono tuttora in modo prevalente dalle sorti del giornale stampato su carta, distribuito e venduto attraverso la rete di edicole e altre rivendite. In conclusione, si può affermare che in Italia gli editori devono confrontarsi con alcuni elementi strutturali che penalizzano il mercato dei quotidiani, tra cui la geografia del paese, il livello di scolarizzazione, la concorrenza pubblicitaria della televisione, oltre a dover affrontare quei fattori di crisi che con diversa intensità hanno toccato l’industria della stampa quotidiana in altri paesi. A questo si aggiunge il problema rappresentato da Internet, che può diventare un’opportunità per gli editori di carta stampata solo a patto di saper attuare gli opportuni rinnovamenti, perché altrimenti rischia di diventare un ulteriore fattore negativo.

VII

L’industria dei libri

1. Introduzione L’industria del libro realizza una vasta gamma di prodotti che hanno contenuti, dimensioni, formati, modalità di distribuzione e pubblici di riferimento distinti. Sono evidenti le differenze tra un saggio di storia, un romanzo e una raccolta di poesie; oppure tra un libro tascabile e un’enciclopedia e ancora tra un libro per il tempo libero, per l’aggiornamento professionale e per la scuola. Nonostante queste differenze l’industria del libro può essere rappresentata attraverso alcune sue caratteristiche generali che riguardano, come in altri casi già visti, la fase della produzione, la fase della confezione/ distribuzione e quella della vendita. Inoltre un aspetto che va considerato con attenzione è quello rappresentato dai comportamenti di consumo di chi acquista e di chi legge i libri, che nel contesto italiano presentano aspetti interessanti per capire l’evoluzione del mercato editoriale. Anche nel caso del libro ogni fase del processo industriale ha proprie caratteristiche e richiede competenze imprenditoriali distinte. Alcune imprese, soprattutto quelle più piccole, affidano a fornitori esterni molte funzioni, dalla promozione alla distribuzione, dalla confezione del libro alla gestione del personale dall’ufficio grafico a quello tecnico fino all’ufficio stampa. Altre invece tendono a sviluppare forme di integrazione verticale a vari livelli fino a gestire in proprio la produzione, la distribuzione e la vendita attraverso le librerie o via Internet.

­­­­­153

2. La produzione La fase della produzione è gestita dall’editore, che garantisce la disponibilità delle risorse economiche necessarie e svolge inoltre diverse funzioni; le principali sono l’individuazione di una scelta editoriale, la conseguente scelta degli autori e delle opere da pubblicare, il preventivo dei costi e dei ricavi, la preparazione dei testi, la scelta della confezione e delle componenti fisiche del libro fino alla completa messa a punto del prototipo, le scelte che riguardano la stampa. I ruoli svolti direttamente dalla redazione e le sue caratteristiche dipendono dalla dimensione della casa editrice e possono essere integrati con collaborazioni esterne. Il ciclo produttivo di un libro si avvia selezionando, tra un gran numero di proposte e progetti di varia origine, le opere che s’intende pubblicare o, più spesso, commissionando all’autore un testo da realizzare. Se si tratta di opere originali l’editore e i suoi collaboratori devono interloquire con l’autore per definire gli aspetti legali necessari all’acquisizione dei diritti e per accordarsi sui tempi e le modalità di realizzazione dell’opera oltre a verificare, dopo la consegna, che i contenuti corrispondano a quelli concordati. Nel frattempo devono anche definire preventivamente i costi di produzione e le vendite potenziali da cui dipendono il numero di copie da stampare e il prezzo per copia. La redazione interviene nei confronti dell’autore con consigli e osservazioni che possono riguardare anche l’organizzazione e i contenuti del testo, le eventuali discontinuità o incongruenze. Inoltre il suo compito è di «individuare errori nella grafia di nomi e luoghi, ripetizioni e cacofonia, passaggi poco chiari, terminologie improprie e snodi involuti, di risistemare la punteggiatura» (Ponte di Pino, 2008). Prima di passare alla stampa, la preparazione del testo prevede ancora il passaggio dall’ufficio grafico e dall’ufficio tecnico. Il primo ha il compito di progettare gli aspetti «estetici» e «comunicativi» delle pagine interne e della copertina, che comportano scelte sulla qualità e la dimensione dei caratteri tipografici, le eventuali illustrazioni, l’impaginazione. L’ufficio tecnico invece ha il compito di decidere gli aspetti che riguardano il supporto materiale: la carta, la copertina, la rilegatura, che verranno utilizzati nella fase della confezione. L’elaborazione del preventivo tiene conto dei costi e dei potenziali ricavi e, in particolare, distingue i costi fissi da quelli variabili. ­­­­­154

I costi fissi corrispondono ai costi di produzione del prototipo (sono quindi esclusi tutti i costi che riguardano la tiratura delle copie) e sono composti da due categorie principali. La prima è quella dei costi che riguardano la redazione fissa e i collaboratori esterni, l’ufficio grafico e l’ufficio tecnico, a cui si aggiungono quelli di altre funzioni relative agli aspetti legali, commerciali e altro ancora, fino agli impianti necessari per passare alla fase di confezionamento e riproduzione delle copie del prototipo. La seconda categoria riguarda i costi per l’infrastruttura (uso e gestione degli immobili) e i servizi (telefono, posta, ecc.). Com’è noto, i costi fissi si ripartiscono sull’intera tiratura di un libro in modo che all’aumentare della tiratura corrisponda la riduzione del loro peso su ciascuna copia, cioè sul prezzo di copertina. I costi variabili sono legati alla fase della commercializzazione del libro, dipendono dal numero di copie prodotte e riguardano la carta, la stampa, la rilegatura, ecc., oppure dipendono dal numero di copie vendute, come la percentuale del prezzo di vendita eventualmente destinata a remunerare l’autore. Il prezzo finale di un libro, dunque, è costituito dalle varie voci di costo, alle quali si aggiunge il «margine di redditività», ovvero il guadagno dell’editore 2.1. I caratteri della produzione in Italia L’Italia occupa il settimo posto nella classifica dei paesi produttori di libri, con quasi 59.000 titoli e 213 milioni di volumi stampati nel 2008. Si tratta di dimensioni che hanno registrato nel corso degli ultimi dieci anni oscillazioni evidenti, dovute soprattutto all’andamento del contesto economico, anche se emerge con chiarezza la tendenza a ridurre il numero medio di volumi stampati per ogni titolo (Tabella 37). Tra i titoli pubblicati si distinguono le prime edizioni dalle ristampe: nel corso degli ultimi anni le prime edizioni hanno regolarmente prevalso, con oltre il 60% dei titoli rispetto alle ristampe. La produzione libraria è costituita da tre grandi categorie di titoli: quelli destinati in generale agli adulti, che hanno rappresentato l’85% di tutta la produzione, seguiti a grande distanza dai titoli destinati alla scuola e all’educazione, con l’8%, e dai titoli per i ragazzi, col 7%. ­­­­­155

Tabella 37. Titoli e numero di volumi pubblicati Anno

Numero titoli

Numero volumi

Numero volumi per titolo

1995 2000 2004 2006 2008

49.080 55.546 52.760 59.743 58.829

289.200.000 272.825.000 242.639.000 268.097.000 213.163.000

5.892 4.912 4.599 4.487 3.623

Fonte: rapporti annuali Aie.

Tabella 38. Primi sei generi di libri per numero di titoli (2008) Genere

Romanzi Diritto Teologia, catechesi Storia Arte e fotografia Poesia e teatro

Titoli (%)

Numero volumi stampati (milioni)

12,6 6,9 6,6 6,4 4,3 4

46 7,3 13,9 7,1 4,6 1,3

Fonte: Aie, 2011.

Le traduzioni di libri per adulti da una lingua straniera sono il 20% del totale, il numero di volumi stampati per ogni titolo è però nettamente superiore (+37%) rispetto a quelli di autori italiani. Sia il numero di titoli che il numero di copie dei libri tradotti nell’ultimo decennio hanno avuto un trend negativo. I libri per adulti si suddividono in 34 diverse tipologie di contenuti. Tra queste, le prime sei per numero di titoli rappresentano complessivamente il 40% del numero di titoli stampati (Tabel­ la 38). Gli ultimi sei generi di libri per numero di titoli pubblicati rappresentano nell’insieme meno del 3% del totale. Si tratta di libri che riguardano l’informatica (0,7%), l’ambiente (0,7%), l’agricoltura (0,4%), la graphic novel (0,3%), l’ecologia (0,2%) e la moda (0,1%). Un ultimo dato rilevante, che lega la produzione alla distribuzione, riguarda il numero di titoli «vivi», ovvero disponibili in commercio. Si tratta di un numero che negli ultimi anni è tendenzialmente cresciuto, anche se a ritmo variabile (Tabella 39). ­­­­­156

Tabella 39. Titoli in commercio 2005-2009 Anno

Numero titoli

Variazione %

2005 2006 2007 2008 2009

491.337 545.762 581.038 609.287 647.334

11,1 6,4 4,9 6,2

Fonte: Aie, 2011.

In sintesi, osservando questi dati elaborati dall’Ufficio studi dell’Associazione italiana editori (Aie, 2011), si può dire che nel periodo 2000-2008 la produzione libraria italiana ha registrato un andamento instabile, senza sostanziali contrazioni per quanto riguarda il numero di titoli, ma con un trend in diminuzione del numero di copie stampate. La produzione è concentrata su un numero circoscritto di ge­ neri, tra i quali prevale nettamente il romanzo. Le traduzioni occupano una parte importante ma contenuta dei titoli pubblicati, e sono caratterizzate da una tiratura media di copie superiore agli altri. Un ultimo fatto rilevante è la forte crescita del numero di titoli in commercio, che negli ultimi quattro anni è aumentato di oltre il 30%. Il numero delle case editrici registrate in Italia supera le 8.000 unità, ma si stima che solo il 15-18% siano «vive», in grado cioè di generare un flusso costante di pubblicazioni. Nel mercato dei libri definiti come categoria «varia», che rappresenta la parte più importante della produzione editoriale italiana, i grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rizzoli-Corriere della Sera, GeMS, Giunti e Feltrinelli), con le loro filiali e società controllate, detengono una quota stimata al 62%, gli editori medi e mediograndi una quota del 26% e gli editori piccoli una quota del 12%. La Mondadori, la maggiore casa editrice italiana, è controllata dal gruppo Mediaset Fininvest. La sua divisione libri comprende varie case editrici, tra cui le più note sono Einaudi, Electa, Le Monnier, Sperling & Kupfer, Piemme, e ha una quota di mercato del 27%. Nel 2010 ha prodotto 7.720 titoli tra novità (31%) e ristampe (69%), per un totale di oltre 51 milioni di volumi, e ha prodotto un fatturato di 414 miliardi di euro. ­­­­­157

Il Gruppo Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera) ha una quota di mercato dell’11,8%; oltre alla Rizzoli comprende altre case editrici, le più note delle quali sono Bompiani, Sonzogno, Fabbri, Etas, Sansoni, Adelphi, Marsilio. Il Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS) comprende anch’esso varie case editrici, tra cui Longanesi, Garzanti, Guanda, Salani, Vallardi; inoltre controlla Messaggerie libri, il maggiore distributore indipendente italiano, e Internet Bookshop, la più grande libreria italiana via Internet. La sua quota di mercato è del 10,6% Il Gruppo Giunti controlla anch’esso altre case editrici e ha un’importante rete di librerie, con una quota di mercato del 7,7% Il Gruppo Feltrinelli, infine, comprende, oltre all’omonima casa editrice, l’editore Apogeo e la maggiore catena italiana di librerie. La sua quota di mercato è del 5,4%. 3. La confezione e la distribuzione La confezione è la fase in cui si realizza quanto era stato deciso nella fase precedente e si confeziona materialmente il libro per la sua distribuzione e vendita. Normalmente la confezione è realizzata all’esterno della casa editrice da imprese terze sulla base di scelte stabilite dall’editore. I due aspetti principali di questa fase sono la composizione fisica del prodotto – basata sulla carta, la stampa, la rilegatura – e la realizzazione del suo aspetto, basato sulla copertina, la grafica, i colori. Il ciclo di vita di un libro può comportare diversi tipi di edizione, a cui corrispondono diverse confezioni, diversi prezzi, e talvolta anche diverse reti distributive. Normalmente un libro viene prodotto inizialmente in un’edizione di qualità «superiore», che si distingue per il formato più grande, la rilegatura, la copertina rigida e l’eventuale sopra-copertina. Se il libro ha successo, quando le vendite del primo formato editoriale rallentano fino a stagnare, lo si riedita in un formato realizzato con materiali meno costosi (grafica, stampa, carta, copertina, ecc.) e a un prezzo più basso. C’è anche la possibilità di una terza fase commerciale in formato più «povero», che comporta costi e prezzi ancora più bassi, in grado di intercettare una domanda potenziale residua. C’è poi il caso di libri che vengono pubblicati direttamente ­­­­­158

in edizione economica e di altri che, dopo aver vissuto la loro vita commerciale normale, sono venduti a metà prezzo nei circuiti specializzati (bancarelle, remainder). Il numero di copie stampate dipende dalla rete di librerie e degli altri punti vendita, nonché dalle prenotazioni raccolte dalla rete di promozione e vendita dell’editore presso i librai e gli altri venditori, a cui si aggiungono le copie di scorta per coprire eventuali richieste ulteriori. Va infatti ricordato che le vendite di libri (e di altri contenuti mediali) sono caratterizzate da un elevato grado di incertezza – per le ragioni indicate nel primo capitolo – e solo dopo che i libri sono pubblicati e messi sul mercato si può constatare il grado del loro successo. La distribuzione fisica dei libri avviene attraverso servizi di trasporto gestiti in proprio o da imprese esterne – a seconda della dimensione degli editori – che forniscono le librerie direttamente attraverso depositi regionali intermedi. 3.1. I caratteri della distribuzione in Italia In Italia la fase della distribuzione è preparata dal lavoro dei promotori, o agenti, che presentano periodicamente ai librai e agli altri punti vendita le novità e raccolgono le prenotazioni, a cui seguirà, quando le copie del libro saranno stampate, la distribuzione fisica dei libri. Nella maggior parte dei casi le case editrici medie e piccole non dispongono di una propria rete di promotori e devono utilizzare reti terze che servono contemporaneamente vari editori, talvolta in concorrenza tra loro. La stessa cosa vale per la distribuzione fisica, e qui gli editori che hanno dimensioni tali da poter gestire una propria rete di distribuzione sono ancora meno; quindi la maggioranza di essi deve affidarsi a servizi esterni. La situazione particolare in cui si trova la distribuzione libraria in Italia, dovuta soprattutto alla conformazione geografica del suo territorio, è ben riassunta nelle seguenti parole: Il libro è una merce pesante e trattata in quantità assai limitate. Ne consegue che la distribuzione fisica del libro sia abbastanza penalizzata e che risulti veramente difficile fare in modo che il prodotto si trovi al posto giusto nel momento giusto e a un costo ragionevole. Il «magazzino virtuale», la consegna «in tempo reale» sono per il prodotto libro delle pure astrazioni teoriche (Cavalli, 1999). ­­­­­159

Come abbiamo visto, si tratta di un problema identico a quello che riguarda la distribuzione dei giornali, anche se nel caso di questi ultimi la possibilità di trasmettere le pagine a distanza in formato digitale permette ormai da molti anni di stampare il giornale in luoghi lontani dalla redazione e più vicini ai punti vendita a cui dev’essere distribuito. Il libro, invece, a differenza del giornale, che ha tirature alte e non ha problemi di confezione, ha tirature basse e la sua confezione è complessa (Cavalli, 1999). 4. La vendita La vendita dei libri può avvenire attraverso vari canali. La libreria continua ad essere considerata il canale privilegiato, ma i libri sono venduti anche nei supermercati e nei grandi centri commerciali, nelle edicole, per corrispondenza o via Internet (come nel caso di Amazon), per abbonamento (come nel caso del Club degli Editori) o porta a porta. Ogni canale ha caratteristiche particolari e talvolta è specializzato in un tipo di libro specifico, come nel caso delle enciclopedie e delle grandi opere editoriali, che hanno prezzi elevati e sono in buona parte offerte con forme di pagamento rateale e porta a porta, ovvero da venditori che le propongono direttamente nelle abitazioni o nei luoghi di lavoro ai potenziali clienti. La libreria è comunque considerata il punto vendita più importante, non solo per il suo ruolo tradizionale, ma anche per il peso che occupa nel mercato dei libri e per il fatto che il successo di un’opera è decretato dalle vendite in libreria. Questo primato della libreria continua a resistere, anche se negli ultimi anni le vendite a distanza tramite Internet sono cresciute notevolmente e in alcuni paesi sono diventate un concorrente temibile per tutti gli altri canali di vendita. I principali fattori che determinano i risultati commerciali delle librerie, oltre alla competenza gestionale, alla dimensione e alla struttura dei locali, alla loro posizione urbana, riguardano il cosiddetto assortimento, cioè la gamma di titoli, di editori, di generi, di prezzi che è in grado di offrire al pubblico (Montroni, 2006). L’assortimento di una libreria si valuta per la sua ampiezza e la sua profondità: l’ampiezza riguarda la quantità di generi che essa offre, per esempio la narrativa, la saggistica, i libri tecnici, i libri per ragazzi, le guide ­­­­­160

turistiche, i dizionari; la profondità riguarda la quantità di editori e di titoli presenti per ciascun genere di libri. Oltre all’assortimento, nell’attività della libreria è molto importante il modo di presentare il libro nello spazio a disposizione del pubblico: Il posizionamento di ciascun volume è fondamentale, in rapporto alla sua visibilità e vendibilità, ma anche perché caratterizza la libreria. Si crea una gerarchia, perché un libro si può trovare in varie posizioni, con una diversa visibilità e presenza (Ponte di Pino, 2008).

La posizione che un libro occupa nella libreria è un fattore importante in grado di influenzare la vendita, anche perché da indagini effettuate in vari paesi risulta che una larga percentuale dei libri sono scelti dopo che il cliente li ha notati e li ha potuti sfogliare, prendendoli dal banco o dallo scaffale e, in molti casi, senza che l’acquisto fosse previsto prima di entrare nella libreria. Le modalità di esposizione dei libri sono varie, e per ciascun libro occorre valutare quella più adatta, a seconda che si tratti di un best seller o di un libro di nicchia, di una novità o di un libro da catalogo; un’altra considerazione riguarda lo stadio del ciclo di vita commerciale in cui il libro da esporre si trova. Il libraio ha varie opportunità a disposizione per esporre i libri. La vetrina è la principale, ed è utilizzata generalmente per esporre le novità a cui s’intende dare la maggiore visibilità, mentre le copie dei best seller vengono ordinate in pile di dimensioni più o meno grandi a seconda del successo ottenuto. Sui banchi si dispongono le altre novità, in modo che la copertina sia ben visibile e il libro sia di facile accesso, per poter essere sfogliato. Gli scaffali sono normalmente dedicati ai libri che hanno una bassa rotazione e un ciclo di vita più lungo. In molti paesi il prezzo di copertina è stabilito dall’editore, è stampato sul libro e il libraio è tenuto a rispettarlo, con margini molto limitati per eventuali sconti. Il libraio acquista i libri con uno sconto rispetto al prezzo di copertina che varia da paese a paese, ma che normalmente è intorno al 30%, e ha il «diritto di resa» dei libri che dopo un certo periodo risultano invenduti. Ciò significa che il margine lordo della libreria consiste nel 30% degli incassi e con questo si devono coprire i costi di gestione (personale, logistica, infrastrutture, ­­­­­161

Tabella 40. Esempio di struttura dei costi di un libro Costo totale

Costo per copia

%

Costi redazionali

6.000

 0,60

  3,33

Costi industriali fissi    (lastre per la stampa)

1.000

 0,10

  0,56

Costi industriali variabili

11.000

 1,10

  6,11

Diritti d’autore (7% fino a 5.000 copie,    9% oltre le 5.000 copie)

14.400

 1,44

  8

Spese di commercializzazione e    distribuzione

104.000

 5,4

 30

Sconto libreria

104.000

 5,4

 30

5.400

 0,54

  3

28.800

 2,88

 16

Totale costi

274.600

17,46

  3

Totale fatturato

180.000

18

100

 0,54

  3

Pubblicità e promozione Costi di struttura e margine di redditività

Rendimento

5.400

Fonte: elaborazione su dati Ponte di Pino, 2008, p. 93.

ecc.) e il profitto d’impresa. Per osservare la struttura dei costi di un libro possiamo prendere il caso di un volume che ha venduto tutta la tiratura di 10.000 copie al prezzo di 18 euro (Tabella 40). La Tabella 40, che permette di individuare la ripartizione dei costi, consente anche di fare una valutazione sommaria di come cambia la struttura dei costi nel caso di un contenuto editoriale distribuito non più attraverso il supporto fisico – la carta stampata – ma in forma digitale attraverso la rete. In tal caso vengono eliminate le seguenti spese: costi industriali fissi (lastre); costi industriali variabili (carta, stampa, legatura); spese di commercializzazione e distribuzione (rete di promozione, distribuzione, logistica e lo sconto al libraio). L’insieme di questi costi rappresenta circa 2/3 del prezzo di copertina. Il passaggio alla confezione digitale e alla distribuzione in rete comporta però, a sua volta, nuovi costi sia per il produttore, legati soprattutto agli apparati tecnici digitali per la gestione dei testi e delle relazioni con il mercato in rete, sia per l’acquirente, che riguardano apparati tecnici, connessione alla rete e trasmissione ed eventuali costi per la stampa domestica. Il passaggio dal supporto fisico alla rete comporta dei vantaggi che è difficile quantificare, sia ­­­­­162

Tabella 41. Fatturato del mercato librario nel 2006-2009 Anno

Milioni di euro

Anno

Milioni di euro

2006 2007

4.158 4.160

2008 2009

3.959 3.850

Fonte: elaborazione su dati Ufficio studi Aie.

perché variano da una situazione all’altra, sia perché il cambiamento tecnologico è continuo; appare evidente, tuttavia, che esso offre ampi margini di riduzione del prezzo dei libri, oltre alla capillarità e alla velocità dell’accesso. 4.1. I caratteri della vendita in Italia La vendita dei libri, in Italia come negli altri paesi europei, avviene attraverso vari canali, che in alcuni casi hanno modi di organizzazione e di rapporto con i clienti molto diversi tra loro. Le dimensioni totali del mercato librario in Italia nel 2009, calcolato a prezzi di copertina, hanno superato i 3,8 miliardi (Tabella 41). Si tratta per il secondo anno consecutivo di un risultato negativo, legato soprattutto alla crisi dell’economia italiana ed europea. La cifra raggiunta è costituita dalle diverse forme di vendita dei libri, che comprendono quelle più tradizionali, come le librerie, e quelle più nuove, come Internet e i libri in formato elettronico (e-book), oltre ai libri venduti a rate, quelli venduti in edicola come allegati alle pubblicazioni periodiche, quelli venduti all’estero insieme ai libri usati, ecc. (Tabella 42). La libreria tradizionale rappresenta il canale di vendita principale, con il 29% del mercato totale, seguita dai canali di vendita dei libri scolastici, costituiti spesso da esercizi non specializzati, come le carto-librerie. Negli ultimi anni entrambi i canali hanno avuto un trend leggermente positivo, con una caduta solo nel 2008. Sono ormai diventati importanti anche altri canali di vendita che si sono aggiunti a quelli tradizionali in epoche più recenti, come i banchi di libri nei supermercati e nei grandi magazzini, l’editoria elettronica (cd-rom, dvd), i libri collaterali ai giornali e alle altre pubblicazioni periodiche, le librerie on line e le vendite tramite Internet. Il canale che negli ultimi anni è cresciuto più rapidamente è quello costituito da editoria elettronica, banche dati e servizi Internet, ­­­­­163

Tabella 42. Fatturato dei principali canali di vendita dei libri nel 2009 (milioni di euro) Vendite

Quota di mercato (%)

Librerie Libri scolastici (di adozione) Editoria elettronica (cd-rom, dvd) Grande distribuzione Collaterali (libri allegati a stampa periodica) Vendite a rate Collezionabili, fascicoli in edicola Vendite per corrispondenza Librerie on line e vendite tramite Internet

1.068 667 264 261 251 213 161 120 101

29 18  7,2  7,2  6,8  5,8  4,4  3,3  2,7

Totale

3.106

84

Fonte: arrotondamenti su dati Ufficio studi Aie.

che nell’ultimo anno è cresciuto del 30%, senza però superare finora la soglia dei 100 milioni di euro di fatturato, mentre quello che ha registrato il trend più negativo è quello dei collaterali, con una perdita di fatturato nell’ultimo anno del 31%. Nonostante la tendenziale riduzione dei piccoli esercizi commerciali, soprattutto quelli a conduzione familiare, nel corso degli ultimi anni il numero delle librerie ha sostanzialmente tenuto. Nel 2009 le librerie in Italia erano complessivamente 2.135, con un incremento di 87 unità rispetto al 2006. Questo numero comprende le catene di librerie appartenenti a gruppi editoriali (Mondadori, Feltrinelli, Giunti e altri), che nello stesso periodo sono aumentate di 134 unità, raggiungendo il 33% del totale. Contemporaneamente sono aumentate di 24 unità le librerie appartenenti a catene indipendenti (3,2%). Sono invece diminuite le librerie mono-negozio a conduzione familiare, che sono passate da 1.510 a 1.349, il 63% del totale. Il trend più rilevante riguarda l’aumento delle catene di librerie, che in alcuni casi assorbono le librerie indipendenti, e la quota del loro fatturato sul totale. Si tratta di un processo di modernizzazione in grado di produrre un cambiamento profondo dei principali punti vendita e di marginalizzare quelli che non sono capaci di innovare gli spazi, l’assortimento e le modalità di interloquire con i clienti. Il fenomeno è ben interpretato in una recente pubblicazione dell’Associazione italiana editori curata da uno specialista dell’industria libraria: ­­­­­164

Un fatto che è il prodotto di processi avviatisi 10-15 anni fa, e non riconducibili semplicemente a maggiori capacità delle catene, delle librerie on line, della Gdo [Grande distribuzione organizzata, N.d.R.] di effettuare politiche più aggressive sui titoli a maggior rotazione. Alla base c’è una maggior capacità – che ha certamente una sua componente finanziaria, di risorse umane ecc. – di comprendere meglio e con maggior tempestività i processi di cambiamento del lettore/cliente. Di portare nel punto vendita elementi innovativi nella gestione, nell’assortimento, nei modelli e nei format di libreria, di intercettare i nuovi comportamenti d’acquisto di un cliente che sta rapidamente cambiando. Di collocarsi senza timori nei nuovi luoghi del consumo: centri commerciali, aeroporti, stazioni ferroviarie. Di allargare l’assortimento verso prodotti non solo librari, ma dell’elettronica di consumo, della cartoleria, dell’oggettistica, del Dvd, videogiochi, ma anche prodotti alimentari.

Un’ultima osservazione su questo tema riguarda il rapporto tra il numero delle librerie e quello dei comuni in Italia: 2.135 librerie su 8.100 comuni. Se consideriamo che una buona parte delle librerie si concentra nelle aree metropolitane, nei capoluoghi di regione e di provincia, risulta evidente che nella maggior parte dei comuni – tra l’80 e l’85% – non c’è neppure una libreria. Ciò significa che per gran parte degli italiani non è facile accedere a una libreria che offra un’ampia possibilità di consultazione e di scelta, e anche questo contribuisce a spiegare il fatto che in Italia si vendono meno libri rispetto alla media europea. 5. La lettura di libri in Italia In questo paragrafo cerchiamo di dare una fotografia della propensione degli italiani alla lettura che, com’è noto, resta tra le più basse d’Europa, contribuendo così a inibire lo sviluppo dell’industria del libro. In aggiunta vogliamo mettere in evidenza quanto siano forti le differenze in materia di lettura tra le diverse categorie sociali, tra i territori e tra uomini e donne. L’opportunità è offerta da un recente rilevamento realizzato dall’Istat sulla lettura degli italiani con un’età di 6 e più. Tra loro solo il 46,8% dichiara di aver letto, esclusi i motivi scolastici o professionali, almeno un libro nei dodici mesi precedenti. La maggior parte delle donne legge (53%), mentre tra gli uomini i lettori sono una minoranza (40%); in generale si tratta però di lettori ­­­­­165

Tabella 43. Percentuale della popolazione di 6 anni e più che ha letto almeno un libro Regione

% di lettori

Trentino Alto Adige Friuli Venezia Giulia Val d’Aosta

Regione

57,9 56,3 55,7

Campania Sicilia Basilicata

% di lettori

33,3 32,8 31,4

Fonte: Istat.

Tabella 44. Lettori nella popolazione maggiore di 6 anni (in milioni) Lettori di almeno un libro

di 2-3

di 4-11

di oltre 12

23,026 25,546

11 11,52

 9,326 10,142

2,69 3,88

1999 2009 Fonte: Istat.

moderati, dal momento che in entrambi i casi più della metà ha letto meno di sette libri in un anno. Il livello di scolarizzazione e le condizioni sociali incidono nettamente sulla propensione alla lettura degli italiani. I laureati, i liberi professionisti e chi svolge una funzione direttiva leggono più della media degli italiani, mentre i tassi di lettura sono nettamente più bassi tra chi ha la licenza elementare o nessun titolo di studio, tra gli operai e le casalinghe: tra i laureati c’è l’81% di lettori, contro il 29% di chi ha la licenza media, e una differenza netta tra i due gruppi riguarda anche il numero di libri letti. Nel 2010 il 90,1% delle famiglie dichiara di avere libri in casa. La larga maggioranza delle biblioteche domestiche non supera però i 100 libri, mentre solo nel 16% delle case ci sono più di 200 libri. Quasi 2,5 milioni di italiani non hanno alcun libro in casa. Le differenze si manifestano anche a livello geografico, soprattutto tra le regioni del Centro e del Nord, dove la media dei lettori supera il 50%, e quelle del Sud e delle isole, dove i lettori si fermano al 37%. Nella Tabella 43 sono indicate le tre regioni prime in classifica per tasso di lettura della popolazione e le ultime tre. Nonostante i libri non incontrino un particolare favore da parte della maggioranza degli italiani, nel corso del tempo la situazione ha manifestato un lento ma progressivo miglioramento, che emer­­­­­166

ge mettendo a confronto alcuni dati relativi al decennio 1999-2009 (Tabella 44). Oltre al livello di scolarizzazione, al tipo di lavoro e agli altri fattori già visti, ci sono due elementi di contesto che sono in grado di influenzare positivamente la lettura: il comportamento di lettura dei genitori e la presenza di libri in casa. I giovani che vivono in famiglie in cui entrambi i genitori leggono hanno la probabilità di essere lettori nel tempo libero di 2,8 volte superiore rispetto ai giovani che vivono con genitori non lettori. I giovani che vivono in famiglie in cui sono presenti più di 200 libri hanno una probabilità di leggere 3,8 volte maggiore rispetto ai ragazzi che vivono in case senza libri. È interessante anche riflettere sui motivi per cui le persone non leggono. Una ricerca del 2006 offre alcune indicazioni utili (Morrone e Savioli, 2008) e mette in evidenza che ci sono due grandi categorie di persone: quelle che non hanno le competenze necessarie per poter leggere a causa di un basso livello di scolarizzazione e quelle che pur avendo le competenze non hanno l’abitudine o l’interesse a leggere. Come si è visto nel capitolo III, il numero degli italiani che non hanno titolo di studio o hanno solo la licenza elementare è intorno ai 23 milioni, e questo dato offre già una buona parte della spiegazione della difficoltà che molti italiani hanno a leggere un libro. La scarsa propensione alla lettura in questo caso dipende dalla carenza delle competenze, che rende la lettura difficile, faticosa o addirittura impossibile. Lasciando da parte questo primo gruppo, il 30% dei non lettori spiega il proprio disinteresse con il fatto che i libri annoiano e non appassionano, il 25% lo attribuisce alla mancanza di tempo e il 10% alla stanchezza che si ha dopo una giornata di studio o di lavoro. Per altri ancora il tempo libero è una risorsa scarsa e ci sono molte possibilità di usarlo alternative alla lettura: il 19% dei non lettori dichiara di preferire altri svaghi (Morrone e Savioli, 2008).

VIII

La televisione

1. Introduzione Il ciclo economico dell’industria televisiva, come nei media visti in precedenza, è costituito da tre fasi distinte: la produzione della programmazione, la trasmissione e la vendita. Ogni fase ha caratteristiche economiche e organizzative specifiche, che variano secondo il modello d’impresa e che possono essere gestite in modo integrato da una stessa impresa o da imprese separate. I principali modelli d’impresa televisiva si distinguono per la forma (unica o prevalente) delle risorse economiche che ne remunerano l’attività. Come vedremo, si tratta rispettivamente del finanziamento pubblico, della pubblicità o del pagamento diretto degli utenti del prodotto/servizio. 2. La produzione L’industria televisiva, in senso stretto, produce la programmazione di uno o più canali televisivi, ciò che in Italia viene chiamato palinsesto. Si tratta di un flusso di prodotti audiovisivi di generi (notizie, fiction, intrattenimento, spettacolo, ecc.) e formati diversi e di varia origine. Il palinsesto è organizzato secondo obiettivi economici e/o culturali che dipendono dal tipo di impresa ed è predisposto per essere trasmesso ai potenziali utenti di una determinata area geografica attraverso una o più reti di telecomunicazione che hanno basi tecnologiche diverse. Oltre alla programmazione, che è la sua attività centrale e distintiva, l’impresa televisiva può svolgere anche altre attività, secondo mo­­­­­168

dalità d’integrazione verticale a monte o a valle. Le principali sono la produzione di programmi audiovisivi, la vendita degli spazi destinati alle inserzioni pubblicitarie, la gestione delle reti di telecomunicazione per portare la programmazione ai telespettatori, la quantificazione e l’analisi dei telespettatori. Si tratta di attività accessorie, che nell’organizzazione di un’impresa televisiva possono assumere un peso importante e che possono anche essere affidate interamente a fornitori esterni. Ciò varia da paese a paese e dipende sia dalla regole vigenti in ciascuno di essi sia dalle strategie delle singole imprese. Il prodotto tipico dell’impresa televisiva, la programmazione, è definito da cinque elementi principali. Il primo riguarda l’estensione temporale a cui è riferita la sua struttura: essa può coincidere con l’intera giornata, con parte di essa o con un blocco orario che viene ripetuto varie volte di seguito, o ancora può essere riferita ad alcuni giorni della settimana o ad altre fasi temporali. Il secondo riguarda la tipologia e la varietà dei contenuti che compongono la programmazione, ovvero l’assortimento dei programmi. La tipologia si riferisce ai generi dei programmi, che possono essere destinati all’informazione, all’intrattenimento, alla formazione educativa e culturale, ai bambini, al pubblico dello sport o a quello della musica, in una gamma di contenuti e formati assai vasta. La varietà indica il grado di diversificazione dei generi che formano la programmazione: si va da situazioni in cui sono assortiti molti generi televisivi, come nei canali generalisti, ai canali tematici, che trasmettono invece un unico genere di programma: le news, il cinema, lo sport (o addirittura un solo tipo di sport), ecc. L’assortimento dei programmi può essere analizzato sotto due aspetti: l’ampiezza e la profondità (Dematté e Perretti, 1997). L’ampiezza dipende dal numero delle tipologie di programmi che compongono la programmazione, mentre la profondità dipende dalla quantità di programmi dello stesso genere che la compongono. Entrambe poi dipendono dal tipo di impresa televisiva e dalle sue fonti economiche. Normalmente le imprese televisive che per ragioni istituzionali – come le televisioni pubbliche – o per ragioni economiche – come quelle finanziate dalla pubblicità – mirano a raggiungere un pubblico eterogeneo e molto ampio privilegiano l’ampiezza, ovvero una programmazione detta «generalista». Quelle che per ragioni economiche mirano a raggiungere un pubblico specializzato, più circoscritto ­­­­­169

e motivato, privilegiano la profondità, ovvero una programmazione tematica o specializzata. Il terzo elemento riguarda la modalità con cui i contenuti sono assemblati e messi in sequenza, e ciò dipende dagli obiettivi che l’impresa intende raggiungere, ovvero dal suo modello economico. Nel caso delle televisioni di servizio pubblico, finanziate dal canone, l’obiettivo della programmazione è – o meglio dovrebbe essere – quello di offrire un «servizio universale» rivolto a tutta la popolazione e accessibile a tutti i telespettatori, in modo da favorire una ‘dieta’ televisiva molto varia. Nel caso delle televisioni private, finanziate dalla pubblicità, l’obiettivo della programmazione è quello di massimizzare il numero dei telespettatori in ciascuna fascia oraria. Nel caso delle televisioni a pagamento l’obiettivo è quello di soddisfare i desideri che hanno spinto le famiglie a pagare l’abbonamento, in modo da favorirne il rinnovo. Il quarto elemento che concorrre alla definizione della programmazione riguarda la collocazione temporale dei contenuti, ovvero come essi variano al variare delle fasce orarie, sapendo che nell’arco della giornata le categorie di telespettatori in grado di guardare la programmazione sono diverse. A questo proposito la maggiore differenza è quella tra i componenti della famiglia che escono per lavorare e quelli che restano a casa più a lungo, come i bambini, le casalinghe e gli anziani. La programmazione, soprattutto quella «generalista», deve tener conto di questo fattore, che struttura in modo abbastanza fisso il consumo televisivo quotidiano. In Italia, per esempio, il consumo televisivo nel giorno medio è caratterizzato da un andamento ondulatorio che vede nelle prime ore del mattino un numero basso, ma crescente, di telespettatori. La crescita ha un’accelerazione a metà giornata, fino a raggiungere un primo picco nella fascia oraria in cui si concentra il pranzo, che avviene in molti casi in famiglia e che fa quindi aumentare la presenza domestica. Segue un calo, prima lento e poi più rapido, nelle ore successive fino a metà pomeriggio, quando riprende la crescita dei telespettatori, che raggiunge un nuovo picco, nettamente superiore al precedente, nelle prime ore serali, a cui succede un rapido calo che nelle ore notturne porta la quantità dei telespettatori al livello più basso (Rizza, 1989). Il quinto elemento che definisce la programmazione riguarda le caratteristiche dei giorni della settimana e delle stagioni, ovvero come le persone usano il tempo secondo il calendario. Le differenze ­­­­­170

più forti della programmazione televisiva si riscontrano tra i giorni feriali e il fine settimana, quando con l’aumento del tempo libero aumenta la disponibilità delle persone al consumo televisivo, e nei mesi estivi, in cui il consumo televisivo si riduce in concomitanza di giornate più lunghe, di un clima più caldo e di un maggior numero di persone in vacanza fuori casa. Va osservato che la struttura quotidiana, settimanale e stagionale della programmazione televisiva varia da paese a paese soprattutto secondo gli stili di vita e il clima. Per esempio, nei paesi del Nord Europa la cena ha orari molto anticipati rispetto a quelli dei paesi del Sud Europa, il clima offre meno opportunità di utilizzare il tempo libero all’aperto, il periodo in cui le persone vanno in vacanza è meno concentrato. Osserviamo ora come il modello economico di un’impresa televisiva determini le modalità con cui si realizza la programmazione; per esemplificare questo rapporto prendiamo il caso di una televisione pubblica e di una televisione commerciale. Nella televisione pubblica il punto di partenza è il tipo di contenuto che s’intende trasmettere. Nel modello di servizio pubblico classico, quello caratterizzato dal monopolio di Stato, prima si definisce la varietà di contenuti che, secondo gli obiettivi culturali e sociali, s’intendono trasmettere, poi si scelgono le fasce orarie più adatte affinché ciascun programma possa ottenere il maggior numero di telespettatori. Nella televisione commerciale, invece, si prendono in considerazione le varie fasce orarie di programmazione e si sceglie il contenuto in grado di attirare la maggior parte possibile di telespettatori in ciascuna di esse. Nel primo caso la funzione d’interesse generale della televisione pubblica comporta che la programmazione sia composta da generi e contenuti destinati non tanto a massimizzare il numero di telespettatori in ogni fascia oraria, quanto a soddisfare desideri, gusti, interessi dei diversi pubblici che costituiscono l’insieme dei telespettatori. L’intenzione è di fare in modo che ciascuno di questi pubblici possa «incontrare» un programma di suo interesse. Nel secondo caso, invece, la funzione economica della televisione commerciale comporta che la programmazione sia composta da generi e contenuti in grado di soddisfare in ciascuna fascia oraria desideri, gusti e interessi della maggioranza dei telespettatori. Nel primo caso, dunque, si trasmettono anche programmi che costano molto, ma che sono destinati ­­­­­171

a un pubblico ristretto; nel secondo caso il costo del programma dev’essere proporzionale alla dimensione del pubblico potenziale a cui è destinato. In realtà occorre dire che questa distinzione oggi è sempre meno evidente e anche le televisioni pubbliche costruiscono la programmazione adeguando il costo del programma al pubblico potenziale che s’intende raggiungere in una determinata fascia oraria, giorno della settimana, stagione. In linea generale nella programmazione televisiva quotidiana possiamo distinguere tre sezioni principali: • la fascia giornaliera, che in Italia è compresa tra le 7 e le 19,45 ed è suddivisa a sua volta nelle fasce orarie mattutina, meridiana (in cui si raggiunge il primo picco di pubblico della giornata televisiva), pomeridiana e preserale; • la fascia serale, compresa tra le 19,45 e le 24 e suddivisa in prima serata, in cui si raggiunge il maggior picco di pubblico, seconda e terza serata; • la fascia notturna, compresa tra le 24 e le 7 del mattino. Riferendosi al caso italiano Dematté e Perretti offrono alcune stime indicative della ripartizione delle risorse economiche destinate alla programmazione, senza distinzione tra televisione pubblica e commerciale: In riferimento ai periodi dell’anno, le due stagioni televisive principali (autunno-primavera) assorbono l’80-90% del budget; in riferimento alla fascia oraria, al day-time (premattutina, mattutina, meridiana, pomeridiana e preserale) viene in genere destinato il 40% delle risorse, al primetime il 50% e al night-time il 10% e anche meno (Dematté e Perretti, 1997).

Tra gli elementi fondamentali che determinano le scelte di programmazione l’ultimo, ma non il meno importante, è il grado di competizione del sistema televisivo in cui l’impresa opera. Su questo terreno le imprese possono adottare due tipi alternativi di strategie da applicare a una parte o a tutta la programmazione, a seconda dei casi e delle risorse economiche a disposizione. La prima strategia è quella tipicamente competitiva, per cui l’impresa tenta di ottenere risultati migliori dei suoi concorrenti utilizzando in una determinata fascia oraria lo stesso genere televisivo ­­­­­172

rivolto a uno stesso tipo di pubblico. Ciò significa che si dovrà trasmettere un programma più attraente di quello dei concorrenti, il che può comportare costi superiori. Questo tipo di strategia richiede più risorse, è più rischiosa, ma è in grado di generare migliori risultati di pubblico. La seconda strategia è quella della contro-programmazione, che si basa sull’offerta di un genere televisivo diverso da quello preannunciato nella stessa fascia oraria dal concorrente: per esempio, un film «contro» un programma sportivo, o informazione «contro» entertainment. L’obiettivo di questa strategia è quello di attrarre i telespettatori non interessati all’offerta della concorrenza. 3. La trasmissione I contenuti audiovisivi che costituiscono la programmazione sono trasformati in impulsi elettrici adatti ad essere trasmessi attraverso le onde elettromagnetiche. I mezzi di trasmissione sono costituiti da reti di telecomunicazione che distribuiscono le onde elettromagnetiche nelle aree geografiche prestabilite. L’impresa televisiva può scegliere di utilizzare una o più reti di telecomunicazione in base al tipo di programmazione e al modello commerciale prescelto nel rispetto dei vincoli di legge. Le reti usate per distribuire la programmazione televisiva hanno avuto uno sviluppo storico che ha aumentato e diversificato progressivamente le opportunità delle imprese. In riferimento al contesto europeo tale sviluppo si può sintetizzare in quattro fasi successive (Grandi e Richeri, 1976; Richeri, 1981, 1995b). Nella fase iniziale, a cavallo degli anni Cinquanta, la televisione utilizza reti terrestri via etere costituite da un’infrastruttura di trasmettitori e ripetitori di onde elettromagnetiche installati nelle posizioni più adatte a coprire le aree geografiche predefinite. Queste reti sono in grado di trasmettere in un’unica direzione: da un punto centrale a una massa indeterminata di punti diffusi nel territorio. A loro è riservata una parte dello spettro elettromagnetico, risorsa naturale scarsa, il cui uso è regolato da accordi internazionali (Unione internazionale delle telecomunicazioni) e da leggi nazionali che limitano la quantità di canali, ovvero di programmazioni, disponibili in una stessa area geografica. ­­­­­173

In Italia negli anni Novanta, quando le reti di trasmissione televisiva di vecchia generazione, dette analogiche, raggiunsero il loro massimo punto di espansione, per coprire il 90% del territorio nazionale erano necessari circa 1.600 trasmettitori e 1.000 ponti radio; questo comportava l’uso di 2.500 frequenze distinte. In quegli anni l’esercizio delle reti Rai per la trasmissione dei suoi tre canali televisivi costava 190 miliardi di lire all’anno, e quella delle reti Mediaset circa il 20-30% in meno (Dematté e Perretti, 1997). Nella fase successiva, a cavallo degli anni Settanta, in Europa si aggiunge un secondo tipo di reti di trasmissione, quelle via cavo. I loro vantaggi principali sono due: le trasmissioni non sono soggette ai limiti dello spettro elettromagnetico e quindi il numero di canali trasmessi in una stessa area geografica può aumentare sensibilmente; inoltre la qualità delle trasmissioni è maggiore di quelle via etere, elemento importante soprattutto per le trasmissioni televisive a colori. I limiti delle reti televisive via cavo però sono diversi: ogni televisore dev’essere connesso fisicamente alla rete, il che comporta la realizzazione di una infrastruttura di rete capillare; i costi delle infrastrutture sono elevati, soprattutto nelle zone in cui devono essere interrate, e possono essere ammortizzati solo in aree densamente abitate; si tratta quindi di un tipo di reti adatte a servire aree geografiche limitate, tipicamente urbane. Si tratta anche in questo caso di reti televisive in grado di trasmettere in una sola direzione (monodirezionali): i programmi sono irradiati da un punto centrale, ma a differenza delle reti via etere, sono dirette a un numero circoscritto di punti definiti e identificabili. Nel corso degli anni Ottanta viene messa a punto una terza tecnica di trasmissione televisiva, che si aggiunge alle precedenti e che utilizza i satelliti artificiali geosincroni (la loro caratteristica è di ruotare intorno alla Terra alla stessa velocità con cui la Terra ruota intorno al proprio asse in modo da restare virtualmente fissi su una stessa area geografica con cui possono comunicare tramite postazioni fisse). Il satellite riceve dalle stazioni terrestri le trasmissioni televisive in forma elettromagnetica e le ritrasmette a terra verso le antenne paraboliche e i televisori domestici. I vantaggi principali della televisione via satellite sono la maggiore disponibilità di frequenze destinate a questo tipo di trasmissione, il che permette di aumentare il numero di canali disponibili in uno stesso territorio; inoltre il satellite può coprire in modo capillare grandi aree geografiche, (anche di dimensioni internazionali), in mo­­­­­174

do capillare e con costi molto inferiori a quelli di altri tipi di reti. I suoi limiti principali, invece, riguardano tre aspetti: il primo è il ciclo di vita di un satellite, normalmente più breve delle reti di altro tipo; il secondo è la sua vulnerabilità, dovuta al fatto che se il satellite entra in avaria spesso risulta impossibile intervenire da terra per risolverla; il terzo riguarda il costo degli impianti domestici per ricevere le trasmissioni, che sono nettamente più alti di quelli necessari per un’antenna tradizionale. Anche nel caso del satellite le trasmissioni sono di tipo monodirezionale, da un punto a una massa indeterminata di punti diffusi sul territorio servito. Negli anni più recenti alle reti terrestri, via cavo e satellitari si sono aggiunte le reti di telecomunicazioni terrestri digitali, fisse e mobili, che sostituiscono le reti telefoniche tradizionali e sono in grado di offrire un’ampia gamma di servizi di comunicazione, tra cui anche la televisione. Oltre all’elevato numero di canali televisivi resi accessibili con diverse modalità, questa tecnologia offre due principali vantaggi: da una parte, la possibilità di un’offerta integrata, in una stessa infrastruttura, di un’ampia gamma di servizi di comunicazione con elevati standard di qualità; dall’altra, l’offerta di servizi di comunicazione bidirezionali e interattivi. Il principale limite riguarda invece la grande dimensione degli investimenti necessari a rendere queste reti accessibili a tutti, per evitare che in uno stesso paese si producano fratture fra aree geografiche e fasce sociali. Ogni tipo di infrastruttura si distingue per le componenti e le dimensioni di costo, e per le opportunità economiche in grado di offrire alle imprese, ma anche per le leggi e i regolamenti che ne vincolano lo sfruttamento, e che variano da paese a paese. Oltre al tipo di infrastruttura usata, le trasmissioni televisive si distinguono anche per il loro standard tecnico. Un esempio puntuale è quello della televisione a colori, che è nata con standard di trasmissione diversi secondo i paesi: gli Stati Uniti, il Giappone e altri paesi delle Americhe e dell’Asia hanno adottato lo standard Ntsc; la maggior parte dei paesi europei il Pal; la Francia, i paesi dell’Europa dell’Est, del Nord Africa e altri il Secam. Lasciando da parte le distinzioni tecniche e qualitative, il fatto più rilevante da segnalare riguarda la reciproca incompatibilità degli apparati necessari a utilizzare ciascun tipo di standard e la conseguente frammentazione del mercato dei mezzi di trasmissione, dei televisori e dei videoregistratori. ­­­­­175

Una trasformazione radicale della modalità di trasmissione televisiva è giunta in Europa nella seconda metà degli anni Novanta con la tecnica di trasmissione digitale, utilizzata per rinnovare e potenziare dapprima i satelliti televisivi, poi le reti via etere terrestre e via cavo. Al di là delle specificazioni tecniche, che non ci competono, si tratta di un cambiamento radicale, che comporta la sostituzione completa di tutti gli apparati tecnici necessari al sistema di trasmissione, ricezione, registrazione e riproduzione televisiva, insieme ad un allargamento della quantità e qualità delle trasmissioni televisive e altro ancora, come si vedrà nel capitolo sui «nuovi media» 4. La vendita Le imprese televisive realizzano la loro programmazione per tre tipi distinti di clienti: lo Stato, le imprese, le famiglie. Il tipo di clienti, ovvero chi genera in prevalenza le risorse incassate dall’impresa televisiva, ne determina il modello economico, oltre al contenuto e alla conformazione della programmazione. Occorre sottolineare che in due casi su tre il cliente della programmazione – chi la paga – non corrisponde all’utente della programmazione, cioè a chi la guarda. Il primo modello televisivo è quello pubblico, finanziato esclusivamente o in prevalenza dallo Stato. Si tratta in questo caso di un cliente che finanzia o pre-acquista la programmazione, definendo alcuni criteri guida che l’impresa deve rispettare e alcuni obiettivi di natura sociale e culturale che deve perseguire. La televisione pubblica rappresenta un caso d’impresa insolito, perché il suo principale cliente coincide con il suo azionista di riferimento e in questo caso l’obiettivo dell’impresa non è quello di realizzare profitti economici, ma di sfruttare nel modo migliore le risorse ad essa affidate dallo Stato mantenendo il pareggio di bilancio. Questo modello, che ha resistito bene negli anni in cui l’attività televisiva era riservata in esclusiva allo Stato, negli anni successivi alla liberalizzazione del settore ha perso in parte le sue caratteristiche distintive, in modo più o meno evidente a seconda dei luoghi, per adottare quelle del modello commerciale. Il secondo modello è quello della televisione commerciale, finanziata dalle imprese con l’intenzione di sfruttare l’attenzione dei telespettatori attratti dalla programmazione televisiva. In questo caso ­­­­­176

l’oggetto al centro della transazione economica tra impresa televisiva e imprese commerciali non è la programmazione televisiva, ma l’audience che la programmazione riesce a «produrre» con la programmazione. L’impresa commerciale compra sostanzialmente l’attenzione dei telespettatori di un programma in una determinata fascia oraria in cui inserisce la pubblicità del suo prodotto (Smythe, 1977). Il terzo modello è quello della televisione a pagamento finanziata, secondo varie modalità, da coloro che intendono «consumarne» la programmazione. Questo è il solo dei tre modelli in cui al centro della transazione economica c’è la programmazione televisiva che viene venduta a chi desidera consumarla. I servizi di televisione a pagamento hanno sviluppato varie forme grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecniche di trasmissione. La più tradizionale è quella lanciata in modo stabile negli Stati Uniti nella prima metà degli anni Settanta e realizzata per la prima volta in Europa a metà degli anni Ottanta dalla francese Canal Plus. Le famiglie interessate dovevano pagare un abbonamento annuale per poter accedere a una programmazione in cui prevalevano due generi «forti» come i film e lo sport. Una sua evoluzione è il modello lanciato negli anni Novanta in Inghilterra da BSkyB, in cui l’abbonato può scegliere tra bouquet di canali televisivi tematici di vario genere e prezzo. Il passo successivo è stato compiuto con la pay-per-view, che offre il diritto di vedere a pagamento una trasmissione televisiva singola, come un evento sportivo o un film; negli anni più recenti il video on demand offre l’accesso a pagamento a un prodotto audiovisivo scelto via catalogo tra quelli disponibili in un archivio digitale collegato in rete. Alla base delle varie forme di televisione a pagamento c’è l’applicazione di tecniche di codifica o di criptaggio delle trasmissioni che solo chi è abbonato o chi ha «pagato per vedere» può rimuovere. Per i servizi di video on demand valgono le tecniche usate per gli acquisti di servizi e contenuti in rete. Abbiamo visto che l’impresa televisiva commerciale, per realizzare il suo obiettivo economico, ovvero ottimizzare il profitto, deve produrre un palinsesto in grado di attrarre la maggior quantità di pubblico possibile nelle varie fasce orarie, perché da ciò dipende il valore degli spazi pubblicitari venduti agli inserzionisti, anche se ci sono casi in cui conta non solo la quantità ma anche la qualità dei telespettatori, ovvero la presenza tra loro dei «responsabili d’acquisto» dei prodotti pubblicizzati. ­­­­­177

Per raggiungere lo stesso obiettivo l’impresa televisiva a pagamento deve allestire una programmazione televisiva, articolata su uno o più canali, in grado di vendere abbonamenti al maggior numero di famiglie e di motivarle per il successivo rinnovo; in numerosi casi, comunque, anche in imprese di questo tipo gli introiti pubblicitari hanno un peso consistente, seppur minore. Nel caso della televisione commerciale i risultati economici, oltre alla capacità competitiva dell’impresa, sono legati alla situazione economica generale, che quando è in espansione genera una crescita degli investimenti pubblicitari, mentre in recessione gli investimenti diminuiscono. In quello della televisione a pagamento i risultati sono legati in generale alla capacità di spesa delle famiglie. L’impresa televisiva pubblica si trova, dal punto di vista economico, in una situazione diversa e più complessa per quattro aspetti. Innanzi tutto, l’obiettivo che deve raggiungere con la programmazione non è economico, ma sociale; inoltre il suo impegno è di gestire bene le risorse ricevute dallo Stato, senza registrare deficit di bilancio, ma non è tenuta a realizzare profitti. Il secondo aspetto è che deve confrontarsi sul mercato con la programmazione delle imprese televisive private, che hanno una maggiore spinta competitiva, dal momento che per loro la conquista dei telespettatori è vitale per ottenere i risultati economici attesi. Il terzo elemento riguarda la verifica dei risultati, che per l’impresa televisiva pubblica sono difficili da misurare, mentre per gli altri tipi d’impresa corrispondono sostanzialmente alla differenza tra costi e ricavi. Il quarto aspetto è che l’impresa televisiva pubblica ha le risorse garantite dallo Stato, che non dipendono dai risultati di audience, almeno nel breve periodo. In vari paesi europei, però, al finanziamento pubblico si è aggiunta la pubblicità che, man mano che la concorrenza televisiva è cresciuta, ha assunto un ruolo sempre più importante, tanto che ormai la sua raccolta condiziona più o meno direttamente la programmazione, sempre più concepita per massimizzare il numero di telespettatori, come nella televisione commerciale. L’impresa televisiva pubblica, pur ridimensionata dopo la fine del monopolio, continua ad occupare una posizione centrale nel mercato televisivo di quasi tutti i paesi europei; visto il suo peso economico, vogliamo approfondire meglio la sua ragion d’essere.

­­­­­178

5. Perché un’impresa televisiva pubblica? Nella maggior parte dei paesi europei la televisione, in continuità con la radio, è stata fin dalla sua origine un’attività riservata allo Stato e gestita da imprese pubbliche. Come si è detto, la principale caratteristica di queste imprese è di incassare dallo Stato le risorse necessarie a coprire i costi della programmazione. Queste risorse sono raccolte dallo Stato attraverso il canone, una «tassa di scopo» che ogni famiglia in possesso di un televisore deve pagare annualmente. Ci sono anche paesi in cui il finanziamento della televisione pubblica è coperto dalla fiscalità generale o altri in cui il finanziamento pubblico è integrato con risorse derivate dalla pubblicità. Osservando gli statuti delle televisioni pubbliche europee si possono individuare almeno quattro principi fondamentali che si sono combinati o succeduti per giustificare l’intervento dello Stato nel finanziamento della televisione, attraverso le leggi adottate nei diversi paesi europei. La prima e la più «neutra» di queste motivazioni si basa su considerazioni di ordine tecnico. La scarsità dei canali disponibili per la diffusione del segnale televisivo, cioè delle frequenze hertziane, crea di fatto un «monopolio naturale» che dev’essere gestito in modo da garantire l’interesse generale, evitando lo sfruttamento per interessi di parte. L’obiettivo principale è quello di usare questo monopolio per estendere le trasmissioni televisive a tutto il territorio nazionale e per offrire a ogni cittadino pari opportunità di accesso ai programmi. In questo caso la televisione pubblica è concepita come una grande infrastruttura tecnica che deve garantire l’accesso universale. Il secondo principio è di ordine culturale, e assegna al servizio pubblico il compito di corrispondere ai bisogni informativi, educativi e di divertimento dei cittadini, oltre che quello di promuovere la cultura nazionale e l’insieme dei valori di civilizzazione. In questo caso la televisione pubblica appare come una grande agenzia educativa nazionale che affianca, integra e sviluppa le funzioni pedagogiche della scuola. La terza motivazione è di ordine politico, e si basa sulla volontà di garantire forme di partecipazione e di pluralismo intese come essenziali per la vita democratica. Il servizio pubblico ha il compito di stimolare la partecipazione politica e sociale dei cittadini, di garantire un’informazione indipendente, equidistante e pluralista e ­­­­­179

aperta alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali. La televisione pubblica è la grande agorà moderna in cui si forma e si manifesta l’opinione pubblica. La quarta motivazione è di ordine giuridico, e attribuisce alla televisione una funzione d’interesse generale, quella cioè di garantire il diritto alla libertà d’espressione e d’informazione sancito dalle carte costituzionali di tutta l’Europa. La televisione pubblica è un grande mezzo di attuazione di un diritto costituzionale, serve a renderlo effettivo e a presidiarlo. L’impresa televisiva pubblica è pagata dallo Stato per raggiungere questi obiettivi, ma deve avere piena indipendenza e autonomia nella scelta dei contenuti che compongono la programmazione, pur rispettando alcuni indirizzi generali. Da questi principi emerge con chiarezza la natura distintiva della programmazione pubblica e, in particolare, l’assenza di obiettivi economici nell’attività di questo tipo d’impresa. Se si osserva però la storia della televisione pubblica in Europa si possono rilevare non solo numerosi scostamenti da uno o l’altro di questi principi, ma anche una progressiva deriva di alcune imprese televisive pubbliche verso logiche di tipo commerciale. Infatti, dopo la fine del monopolio in alcuni paesi il confronto competitivo sempre più pressante ha allontanato, come si è già detto, le imprese televisive pubbliche dalla logica originale e le ha spinte ad adottare principi di funzionamento sempre più simili a quelli delle televisioni private. 6. Caratteri del mercato televisivo in Italia Le dimensioni principali che definiscono il mercato televisivo italiano sono periodicamente rilevate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom). Nel 2010 la stima degli introiti complessivi del mercato televisivo è di quasi 9 miliardi di euro, con una crescita del 4,5% rispetto all’anno precedente (le voci in cui sono suddivise le entrate e le rispettive dimensioni sono riportate nella Tabella 45). Come si può osservare, il ruolo della pubblicità nel sistema televisivo italiano è centrale, dal momento che genera quasi la metà delle risorse complessive. Per un lungo periodo, invece, essa aveva avuto nel mercato televisivo italiano un’importanza secondaria: il suo ruolo era stato quello di integrare il finanziamento pubblico, senza però diventare un elemento condizionante e in grado di disorientare le ­­­­­180

Tabella 45. Fonti di finanziamento dell’industria televisiva in Italia, 2010 Miliardi di euro

%

Var. % 2010/2009

Pubblicità Tv a pagamento Canone Altro

4,324 2,927 1,558 0,167

48 33 17 2

7,5 2,1 1,8 0

Totale

8,976

100

4,5

Fonte: Agcom, 2011.

finalità del servizio pubblico. La sua importanza è cresciuta progressivamente con l’ingresso delle imprese private nel mercato televisivo e nel corso degli anni Ottanta, quando i canali privati si sono consolidati, è diventata la principale fonte del sistema televisivo italiano Non solo, ma da molto tempo il suo contributo al finanziamento televisivo è in percentuale il più alto in Europa e questo è considerato un fattore di forte condizionamento dell’offerta complessiva. Il sistema televisivo italiano, però, ha un’altra caratteristica distintiva rispetto al resto d’Europa, che riguarda il livello di concentrazione del mercato. Infatti in Italia tre imprese controllano quasi il 90% delle risorse totali, mentre il restante 10% è frammentato tra le altre imprese nazionali e locali. La somma delle entrate di Mediaset, principale impresa privata nel campo della televisione in chiaro, di Sky Italia, principale impresa privata nel campo della televisione a pagamento, e di Rai, impresa concessionaria del servizio televisivo pubblico, raggiunge quasi 8 miliardi di euro su un totale di 9 miliardi (Tabella 46). Per capire la struttura del mercato è utile osservare la ripartizione dei telespettatori tra le diverse reti di distribuzione della programmazione (Tabella 47). La Tabella 47 mette in evidenza il cambiamento più rilevante del periodo considerato, e cioè il passaggio dalle reti televisive terrestri analogiche a quelle digitali terrestri. I telespettatori che ricevono i canali televisivi attraverso la rete digitale terrestre sono infatti passati dal 21% al 62%, e ciò evidenzia la forte accelerazione che, secondo le previsioni, porterà entro il 2012 al completo abbandono delle trasmissioni analogiche. L’importanza di questa innovazione dal punto di vista del mercato televisivo riguarda soprattutto il forte aumento dei canali a disposizione, le nuove modalità di offerta della programmazione e l’ingresso di nuove imprese (vedi cap. IX). ­­­­­181

Tabella 46. Ricavi delle principali imprese televisive (miliardi euro) Imprese

Ricavi

Variazioni % 2010/2009

Quote % sul totale 2010

2009

2010

Mediaset Pubblicità Pay-tv

2,563 2,251 0,311

2,77 2,413 0,357

8,1

30,9

Sky Italia Pay-tv Pubblicità

2,583 2,428 0,15

2,631 2,44 0,19

1,8

29,3

Rai

2,49 1,53 0,9 0,05

2,55 1,55 0,95 0,05

2,5

28,4

Telecom Italia Pubblicità Pay-tv

0,153 0,147 0,006

0,16 0,154 0,006

4,9

1,8

Altre imprese Pubblicità Pay-tv Altro

0,8 0,56 0,121 0,12

0,86 0,7 0,124 0,12

7,5

9,6

Totale

8,589

8,976

4,5

Canone Pubblicità Altro

100

Fonte: arrotondamenti su dati Agcom, 2011.

Tabella 47. Numero medio di telespettatori per tipo di rete nel marzo 2010 e 2011 (in milioni) Rete

Marzo 2011

Marzo 2010

Telespettatori

Quota %

Numero medio

Quota %

Analogica terrestre

2,4

21,3

5,1

48

Digitale terrestre

7

62,5

3,8

37

Satellitare

1,8

15,7

1,6

15,1

Iptv (tv via Internet)

0,03

0,3

0,03

0,3

Fonte: arrotondamenti su dati Agcom e Auditel.

Un altro aspetto della questione riguarda le reti satellitari. Le famiglie che ricevono programmi televisivi via satellite sono circa 6 milioni; la quasi totalità sono abbonati alla televisione a pagamento e generano poco meno del 30% delle risorse complessive del mercato ­­­­­182

Tabella 48. Composizione percentuale delle fonti di finanziamento del mercato televisivo italiano

1974 1980 1990 2000 2005 2010

Canone*

Pubblicità**

Pay-tv

Altro

Totale

73 53 31 24 21 17

27 47 69 70 57 48

– – –  6 21 33

– – – – 1 2

100 100 100 100 100 100

* Nel canone sono assimilati altri finanziamenti pubblici di peso marginale. ** Il dato della pubblicità riferito al 1974 e al 1980 comprende anche la pubblicità radiofonica Rai. Fonte: elaborazione su dati Upa, bilancio Rai, rapporti annuali Agcom, con arrotondamenti.

televisivo. Il terzo aspetto riguarda la marginalità allo stato attuale della televisione via Internet (Iptv). Come si è detto, abbiamo assistito nell’ultimo anno ad un forte aumento dei telespettatori passati dalla televisione analogica a quella digitale, il che ha comportato la possibilità di accedere ad un notevole gruppo di nuovi canali tematici in aggiunta ai canali tradizionali. Le decine di nuovi canali accessibili nelle «case digitali» hanno prodotto un cambiamento sensibile nel consumo televisivo, anche se però finora si tratta di risultati inferiori alle attese. I sei canali generalisti tradizionali – tre della Rai e tre di Mediaset – continuano ad attrarre la larga maggioranza dei telespettatori, che nel giorno medio superano il 73% del totale (2010), ma perdono rispetto all’anno precedente il 5% di telespettatori che sono passati ai nuovi canali digitali tematici. Possiamo osservare i cambiamenti rilevanti registrati dal mercato televisivo italiano negli ultimi decenni prendendo in considerazione com’è cambiata nel periodo considerato la composizione delle fonti di finanziamento (Tabella 48). Analizziamo le caratteristiche delle tre principali fonti di finanziamento, partendo da quella più tradizionale, il canone, che da tempo ha perso il suo ruolo trainante e manifesta ormai un trend stagnante. Il canone, come si è detto, è una «tassa di scopo» che ogni possessore di apparecchi televisivi deve pagare, a prescindere dall’uso che fa della televisione. Lo Stato, dopo averne trattenuto una parte, usa il suo gettito per finanziare il servizio televisivo pubblico gestito dalla ­­­­­183

Rai. La quantità di tale finanziamento non dipende però dai risultati di mercato, ma da scelte di natura politica. Dal momento che l’iniziativa di aumentare il canone è impopolare, perché è percepita dalle famiglie come un aumento fiscale, l’aumento avviene normalmente solo per recuperare, almeno in parte, l’inflazione. Nel 2009 e 2010 esso è stato infatti di 1,5 euro all’anno per abbonamento. Il problema non riguarda soltanto il fatto che l’aumento del canone è spesso inferiore al tasso di inflazione annuale, ma anche il fatto che è esso del tutto inadeguato rispetto all’aumento dei costi di produzione della programmazione. Inoltre, il finanziamento pubblico deve fare i conti con un problema «storico» di maggiori dimensioni, l’evasione del canone, che riduce sensibilmente le risorse incassate dalla Rai. Ancora oggi, come ieri, un gran numero di famiglie, di esercizi commerciali o di enti non paga il canone. Secondo stime recenti si tratta di circa il 25% delle famiglie e della maggioranza degli esercizi commerciali (bar, alberghi) e degli enti (circoli, ospedali, associazioni) in possesso di televisori. Il mancato pagamento da parte delle famiglie rappresenta una perdita di circa 600 milioni di euro all’anno, a cui si aggiungono 140 milioni per il canone non pagato dagli enti: una cifra che corrisponde nell’insieme al 30% del bilancio Rai 2010. È anche per questo mancato introito che la Rai è costantemente protesa a raccogliere il massimo delle entrate pubblicitarie concesso dalla legge. La pubblicità, fino a quando c’è stato il monopolio televisivo pubblico, svolgeva solo una funzione accessoria. In seguito, a partire dalla fine degli anni Settanta, con lo sviluppo delle imprese private, il suo ruolo nel finanziamento del mercato televisivo italiano è diventato sempre più importante. Nel corso degli anni Ottanta gli investimenti pubblicitari televisivi sono cresciuti a un ritmo dell’11% medio annuo in termini reali, facendo della pubblicità la principale voce di finanziamento del mercato televisivo. Negli anni Novanta e fino ai primi anni 2000 la pubblicità ha assicurato oltre i 2/3 delle risorse televisive totali, e il suo peso percentuale si è ridotto solo quando gli abbonamenti delle famiglie alla televisione a pagamento hanno incominciato ad assumere un peso crescente. Ciò ha portato la televisione a pagamento al 33% delle risorse televisive totali e ha ridimensionato il peso della pubblicità spostandolo al 48%. Mentre il gettito del canone dipende prevalentemente da decisioni politiche, quello della pubblicità, come abbiamo detto, dipende prevalentemente dalle decisioni delle imprese e dall’andamento del ­­­­­184

ciclo economico: cresce quando il ciclo è positivo e rallenta col ciclo negativo. Negli ultimi decenni abbiamo osservato tre momenti di netta recessione degli investimenti pubblicitari, che hanno avuto un forte impatto sul mercato televisivo e degli altri media: all’inizio degli anni Novanta, negli anni 2000 e nel 2009. Come si è detto nel capitolo dedicato alla pubblicità, ci sono però anche elementi più settoriali che possono incidere sugli investimenti, come il grado di competizione in un settore e la liberalizzazione di alcuni settori di attività. L’abbonamento ai servizi di televisione è il terzo tipo di risorsa televisiva, che si è aggiunta alle altre due solo in tempi più recenti. Il pubblico italiano ha potuto sfruttare questa opportunità a partire dall’inizio degli anni Novanta, ma il settore ha impiegato vari anni prima di decollare. Le sue difficoltà sono state causate da fattori di varia natura, ma almeno due vanno ricordati: da una parte la scarsa attrattività dell’offerta dei nuovi canali a pagamento rispetto a quelli gratuiti tradizionali, dall’altra l’inefficienza tecnologica dei sistemi di codificazione dei canali, che ha lasciato ampi spazi all’accesso clandestino. Il successo commerciale della televisione a pagamento si è manifestato appieno solo dopo che News International ha acquistato Stream e poi Telepiù, i due operatori nati nel corso degli anni Novanta, creando la nuova società Sky Italia. Il grado di concentrazione che caratterizza il mercato televisivo italiano appare evidente considerando anche il grado di assorbimento nel 2010 di ciascuna delle tre principali fonti di finanziamento: • Rai ha incassato il 100% delle risorse televisive generate dal canone; • Mediaset ha incassato il 56% delle risorse televisive generate dalla pubblicità; • Sky Italia ha incassato il 79% delle risorse generate dagli abbonamenti. Per ultimo, va segnalato il fatto che oggi l’offerta televisiva è accessibile attraverso varie piattaforme, alcune ancora in fase di decollo in Italia, come la tv via Internet e la tv mobile. Pur presentando un interessante potenziale di sviluppo, queste nuove forme televisive per ora non sono ancora in grado di generare risultati economici rilevanti. Infatti le tre piattaforme che fino al 2010 hanno avuto dimensioni economiche significative sono quelle tradizionali: la rete terrestre analogica, con il 21,3%; quella terrestre digitale, con il 62,5%; quella satellitare digitale, con il 15,7% (Agcom, 2011). ­­­­­185

IX

I nuovi media

1. Introduzione Il termine «nuovi media» indica un’area dell’industria dei media variegata e non ancora circoscritta con precisione, ma si applica in generale a nuovi contenuti e nuove modalità di distribuzione basati sulle tecnologie digitali. Il ventaglio è ampio e ciascuno di loro presenta alcune caratteristiche specifiche che qui non intendiamo approfondire. C’interessa invece mettere in evidenza alcuni aspetti più generali che meglio distinguono i «nuovi media» da quelli tradizionali e che possiamo far derivare dal processo di convergenza di cui si è parlato nel primo capitolo. Tra le molte opportunità aperte dalla convergenza ci sembrano di particolare rilievo quelle legate all’uso delle nuove reti di telecomunicazione per mettere in forma, trasmettere e rendere accessibili contenuti tradizionali e nuovi. A titolo d’esempio si pensi soltanto a quanto è successo nel campo televisivo: sul piano della qualità dei contenuti c’è la televisione ad alta definizione e tridimensionale, sul piano della quantità dei contenuti ci sono la televisione digitale e le reti a banda larga, su quello dell’accesso ci sono i servizi di televisione mobile e di video on demand. Le novità che hanno segnato il campo televisivo sono molte, la loro diffusione è però più lenta del previsto: le imprese stentano a sfruttarne i vantaggi creativi e commerciali, mentre i telepsettatori stentano ad adottarle abitualmente. Tra queste la televisione digitale terrestre richiede un’attenzione particolare perché è quella che ha un impatto più immediato e vasto sul mercato dei media. Essa coinvolge già larga parte dei telespetattori europei e alla fine del 2012 ­­­­­186

sarà estesa alla loro totalità. La sua rilevanza è dovuta non solo al fatto che ben presto la totalità delle famiglie europee sarà in grado di ricevere varie decine di canali, in larga parte nuovi, gratuitamente o a pagamento, ma anche al fatto che essa apre a tutte le famiglie l’accesso a servizi multimediali e interattivi, elemento che ne costituisce la novità più interessante, anche se per ora dagli esiti incerti. Il primo elemento su cui vogliamo riflettere trattando i nuovi media riguarda la funzione che le reti di telecomunicazione hanno assunto con lo sviluppo di Internet e che definiamo reti-mercato. 2. Le reti-mercato L’uso delle reti di telecomunicazione per distribuire al pubblico prodotti dell’industria editoriale e dell’intrattenimento ha avuto inizio verso la fine dell’Ottocento, quando in vari paesi le reti telefoniche, nate da poco, furono utilizzate anche per trasmettere contenuti informativi, musicali, teatrali e di servizio (Balbi, 2010). L’accesso al servizio era normalmente riservato agli utenti telefonici disposti a pagare un abbonamento supplementare; servizi di questo tipo hanno continuato ad esistere fino ai tempi nostri con il nome di filodiffusione. Nel secolo scorso le reti radiofoniche e poi quelle televisive resero la trasmissione di contenuti editoriali a domicilio sempre più estesa e capillare. Allora non si trattò più di un gruppo chiuso di utenti selezionati attraverso la riscossione di un abbonamento, ma si passò ad un servizio di tipo universale, tecnicamente accessibile a tutti coloro che erano dotati degli apparati tecnici necessari. In ogni caso, la distribuzione in rete avveniva in una sola direzione, dal punto di trasmissione verso gli utenti: l’accesso del pubblico ai contenuti era organizzato secondo una griglia oraria prestabilita e le scelte non andavano oltre la possibilità di «prendere o lasciare». Le modalità di trasmissione dei contenuti editoriali hanno seguito l’evoluzione delle reti di telecomunicazione, dal filo t­ elefonico all’etere, al cavo coassiale, al satellite, alla fibra ottica e alle reti mobili, giocando su una varietà di fonti economiche a seconda del modello amministrativo o commerciale prescelto. Ogni nuovo tipo di rete ha arricchito le modalità di distribuzione e di accesso senza eliminare le precedenti (Davemport e Beck, 2001). L’aspetto che in tutti i vari ­­­­­187

passaggi è rimasto invece immutato è la modalità della trasmissione dei contenuti editoriali, che fino alla fine del secolo scorso è stata monodirezionale. L’iniziativa di distribuire contenuti e le modalità con cui offrirli al pubblico erano sempre state competenze dell’editore radiofonico o televisivo, che assemblava contenuti propri o acquisiti da altri e li «spingeva» verso gli utenti. A partire dagli anni Novanta la trasformazione indotta dalla convergenza e, in particolare, dai servizi associati a Internet ha offerto nuove opportunità. All’inizio le imprese mediali manifestarono notevole incertezza su come sfruttarle e il fenomeno più evidente fu l’accesso illegale ai contenuti in rete, praticato da una parte non marginale di pubblico. Negli anni recenti, però, il mondo dell’editoria si è accorto che le condizioni di accesso più rapide e più flessibili offerte dalle nuove reti digitali e a banda larga e le opportunità di scelta assai più vaste offerte da Internet sarebbero state in grado di cambiare il mercato, incidendo su vari aspetti: dalla struttura dei costi di distribuzione ai rapporti con i clienti, dalla confezione dei prodotti al marketing, dai flussi finanziari alla difesa dei diritti di proprietà. La situazione è ben rappresentata dai cambiamenti avvenuti nel mercato della musica registrata degli Stati Uniti negli ultimi sei anni (vedi Tabella 49), uno dei punti più avanzati del fenomeno su scala mondiale. Tabella 49. Vendita di musica registrata su supporto fisico e on line negli Stati Uniti (in milioni di dollari)

Compact disc On line Totale

2005

2006

2007

2008

2009

10.520 421 10.941

9.372 878 10.250

7.452 1.251 8.703

5.471 1.711 7.182

4.274 2.030 6.304

2010

3.361 (60,2%) 2.230 (39,8%) 5.591 (100%)

Fonte: Recording Industry Association of America (Riaa).

La Tabella 49 mette in evidenza almeno tre aspetti interessanti: il costante calo delle vendite della musica registrata su supporto fisico (cd); la costante crescita delle vendite on line; il fatto che l’aumento delle vendite on line non è stato finora in grado di coprire le perdite delle vendite di cd. Le prime sono quintuplicate, mentre le seconde hanno perso i 2/3 (–68%). Il saldo non è certamente positivo, perché ­­­­­188

il mercato totale della musica registrata nel periodo 2005-2010 si è quasi dimezzato (–48%). Secondo gli analisti americani la diminuzione delle vendite di dischi è legata a vari fattori di tipo congiunturale – come la crisi economica – e strutturale – come i vincoli nella scelta dei brani musicali contenuti nel disco rispetto alla libertà e alla ricchezza di scelta dei brani. Ma sul fenomeno ha inciso in modo sensibile anche il fatto che la rete ha facilitato sia la pirateria sia l’accesso gratuito alla musica registrata. 2.1. I principali vantaggi I vantaggi che gli editori possono ottenere dalla distribuzione dei loro prodotti attraverso le reti di telecomunicazione riguardano almeno cinque aspetti rilevanti: la struttura dei costi, i flussi finanziari, il confezionamento dei contenuti, il rapporto col cliente, il ciclo di vita dei prodotti (Richeri, 1995a). Sul fronte dei costi la distribuzione in rete comporta l’annullamento del supporto fisico: non è più necessario, infatti, riprodurre le copie del prototipo, sia esso il giornale, il libro, il disco o il dvd. Si eliminano così non solo il costo del supporto e della riproduzione del prototipo, ma anche gli investimenti e i costi di gestione del magazzino e del punto vendita, insieme ai costi di trasporto dei prodotti e di recupero dell’invenduto. Nel caso dell’industria editoriale questo costituisce un vantaggio particolarmente rilevante, dal momento che il successo di un prodotto, come si è detto, non è prevedibile e si manifesta solo nel momento in cui si possono interpretare le reazioni del pubblico e della critica. Il rischio permanente delle vendite di contenuti editoriali su supporto fisico è dunque quello di sovrastimare il successo atteso e produrre un numero eccessivo di copie, dovendo poi sopportare i costi irrecuperabili dell’invenduto. Oppure quello di sottostimare il successo del prodotto predisponendo un numero limitato di copie, dover rinviare la vendita e, almeno in parte, rischiare di perdere clienti potenziali. La distribuzione in rete permette inoltre di ridurre o, in alcuni casi, di eliminare il costo di intermediazione, rappresentato dall’organizzazione commerciale territoriale che va dal distributore al punto vendita. I vantaggi dell’eliminazione delle copie fisiche e della disintermediazione commerciale rappresentano una riduzione dei costi che varia secondo il settore e il paese, ma che in media può superare ­­­­­189

il 50% del costo totale. I nuovi costi rappresentati dalla gestione del mercato in rete sono difficili da stimare, ma tendenzialmente non superano il 10-15% del costo totale. Essi riguardano soprattutto le tecnologie digitali necessarie a immagazzinare i prodotti, a gestire i rapporti con i clienti e i flussi finanziari. Va però osservato che una parte di questi costi viene in alcuni casi trasferita all’utente finale, che deve coprire quelli relativi ai terminali, all’accesso alla rete, alla trasmissione e alla riproduzione, nel caso di copia su carta o su altro supporto ad uso personale. La distribuzione e la vendita in rete comportano anche l’accelerazione dei flussi finanziari, dal momento che l’incasso del prezzo di vendita avviene in modo diretto o con costi marginali di intermediazioni e comunque in modo più rapido. Gli ampi margini di riduzione del prezzo dei prodotti editoriali distribuiti in rete offrono la possibilità di aumentare la vendita, dato che in molti casi si tratta di un mercato molto elastico. Ma su questo fronte c’è un’altra opportunità rilevante, legata al fatto che le reti di telecomunicazione hanno ormai raggiunto la copertura capillare del territorio e la continuità temporale di accesso, garantendo in tal modo una sensibile estensione del mercato in rete. Queste due caratteristiche sono particolarmente rilevanti in un mercato come quello italiano, in cui quasi metà della popolazione vive in comuni medi e piccoli e dove nella maggior parte degli ottomila comuni non ci sono punti vendita specializzati né per i libri, né per i dischi, né per i dvd. Ciò vuol dire che larga parte degli italiani ha difficoltà ad accedere a una libreria, a un negozio di dischi o di video, e ha quindi minori opportunità di conoscere, scegliere e acquistare i loro prodotti. Il mercato in rete, al contrario, trasferisce il punto vendita dal negozio a casa (tecnicamente equipaggiata). Altre opportunità offerte dalla distribuzione in rete riguardano la confezione e il marketing dei prodotti. Nel primo caso i vantaggi sono sostanzialmente di due tipi: da un lato, il prodotto è conservato in forma digitale e può essere facilmente aggiornato e reso accessibile in modo rapido, senza eventuali costi di sostituzione né per l’editore né per l’acquirente (ciò vale in particolare per i prodotti soggetti al rischio di obsolescenza parziale, come le enciclopedie, i contenuti scientifici, educativi e formativi); dall’altro lato, il prodotto può essere arricchito con materiale d’accompagnamento accessibile in forma ipertestuale o con rinvii ad altri contenuti complementari in rete. ­­­­­190

Il marketing editoriale in rete è avvantaggiato dalla possibilità di identificare il soggetto di ogni acquisto e di memorizzare e trattare in modo automatico le informazioni che lo riguardano. Si può così mappare la successione delle sue scelte e intuire i suoi gusti, come si vedrà in seguito. La promozione di nuovi prodotti può quindi avvenire in modo più selettivo e mirato, fino ad applicare le tecniche di marketing one-to-one. 2.2. I best seller e la «coda lunga» Nell’industria dei contenuti, come si è detto nel cap. I, normalmente i prodotti di successo costituiscono una netta minoranza e sono quelli che generano la maggior parte degli incassi. I titoli di romanzi, dischi, film e videogiochi che attirano un pubblico di massa procurano al loro editore le risorse necessarie a coprire i propri costi di produzione e quelli dei titoli che non hanno venduto abbastanza, oltre al profitto d’impresa. Le strutture di distribuzione e vendita di prodotti fisici per ottimizzare la propria attività devono gestire gli spazi disponibili in modo da esibire i prodotti più attraenti. Ciò significa escludere a priori, o dopo un breve periodo di esposizione, una grande quantità di prodotti considerati meno attraenti o senza un sufficiente riscontro commerciale. Dopo aver constatato che il mercato atteso di un prodotto è troppo limitato o che nella prima fase di esposizione nel punto vendita non ha ottenuto il successo atteso, le copie invendute vengono ritirate, per essere poi avviate nei circuiti di vendita a metà prezzo o definitivamente distrutte. Ogni anno milioni di copie di libri, dischi e dvd sono infatti mandate al macero. Il ciclo di vita di questi prodotti è dunque assai breve e il loro recupero da parte di chi fosse interessato è difficile o impossibile. Il passaggio dai punti vendita fisici al mercato in rete via Internet crea la possibilità al venditore di mantenere il prodotto in forma di prototipo digitale con un costo minimo. A questa condizione si può mettere in vendita una quantità di titoli molto più estesa rispetto a quella di un punto vendita fisico e renderli accessibili in un arco di tempo assai più lungo. In tal modo si recuperano sia i titoli che hanno concluso la loro fase di successo, sia quelli che non hanno avuto alcun successo, sia quelli che non sono neppure arrivati nel mercato dei prodotti fisici. ­­­­­191

Ma la rete offre vantaggi anche per la vendita di prodotti editoriali «fisici», che possono essere selezionati e acquistati a distanza via Internet presso negozi virtuali. In questo caso i costi per la gestione delle copie e del magazzino sono molto ridotti rispetto al punto vendita tradizionale, e i costi di trasporto del prodotto sono a carico del cliente. In tal modo anche i titoli di minor successo possono essere facilmente accessibili e restare sul mercato per un periodo prolungato. Il mercato in rete offre l’opportunità di affiancare ad un mercato di prodotti di massa un mercato costituito da una molteplicità di prodotti di nicchia; contemporaneamente, permette tempi di «esposizione» più lunghi di quelli offerti dai punti vendita fisici. Molti prodotti che vendono poco tutti insieme possono raggiungere risultati economici consistenti anche in confronto ai prodotti che vendono molto, ma che normalmente sono in numero assai più basso. Questo carattere del mercato in rete viene indicato con il termine «coda lunga» ed è stato teorizzato da Chris Anderson, direttore di «Wired Magazine», in un articolo del 2004, sviluppato poi in un libro del 2006: Secondo l’economia tradizionale del commercio al dettaglio, i punti vendita tendono a esporre prevalentemente i prodotti di successo perché lo spazio sugli scaffali è molto costoso. Ma i punti vendita on line (da Amazon a i-Tunes) possono esporre praticamente tutto e i prodotti di nicchia disponibili sono molto più numerosi dei prodotti di successo. Questa è la Coda Lunga: milioni di prodotti di nicchia, che fino a oggi sono stati abbandonati a favore dei successi di breve periodo (Anderson, 2006).

La teoria della coda lunga non è esente da critiche. Si fa osservare, per esempio, che gli effetti messi in evidenza da questa teoria sono reali solo se l’aumento delle possibilità di scelta e di accesso ai contenuti di nicchia genera un aumento dei consumi e della spesa. In altre parole, se la coda non «ingrassa», ma diventa solo più lunga, i contenuti che erano rimasti in ombra nel vecchio sistema dei media continueranno a restare in ombra anche nel nuovo e il loro risultato economico in sostanza non migliorerà (Napoli, 2010). 2.3. Alcuni limiti Nella distribuzione editoriale in rete sono presenti, assieme ai vantaggi – che riguardano soprattutto i costi, la capillarità della distribuzione e il ciclo di vita dei prodotti –, anche alcuni rischi, per evitare ­­­­­192

i quali finora non sono state trovate soluzioni e che sono ancora oggetto di preoccupazione e di tentativi di rimuoverli, almeno in parte. I rischi più evidenti riguardano la sicurezza che la rete può garantire. Il timore ancora oggi diffuso tra gli editori è quello di perdere il controllo del copyright e in generale dei diritti collegati al prodotto, che sembra diventare più evanescente rispetto al prodotto fisico. Finora le soluzioni tecniche capaci di impedire la riproduzione e la diffusione illegale del prodotto in rete non sono state perfezionate. Le soluzioni giuridiche sul piano dell’armonizzazione dei diversi regimi di protezione a tutela dei prodotti della creatività e dell’ingegno, così come l’aggiornamento delle norme per affrontare la nuova realtà del mercato in rete, hanno fatto negli ultimi dieci anni passi avanti, ma una soluzione definitiva non è ancora all’orizzonte. Va segnalata a questo proposito la difficoltà di circoscrivere nei confini nazionali il mercato in rete, e l’applicazione delle regole, anche là dove sono meglio definite, non sempre è garantita. Un secondo problema che ha riguardato per molto tempo la sicurezza della rete, ma che ora sembra in via di soluzione, si riferiva all’affidabilità dei sistemi di pagamento sia sul piano tecnico che su quello giuridico. Altri limiti ancora nascono dal possibile disagio creato dalla eliminazione della copia fisica del prodotto. Tra questi i più evocati riguardano i seguenti aspetti: • l’acquisto di un prodotto editoriale è spesso collegato al piacere-orgoglio di possedere/collezionare un oggetto fisico (il libro, il disco, il video, l’opera d’arte), con cui si stabilisce un rapporto di affettività quasi feticista (pride of ownership). Tale funzione appare difficilmente trasferibile in rete, a meno di ipotizzare che l’utente riproduca costantemente su un supporto fisico, e a sue spese, il materiale ricevuto on line, e che parallelamente il supporto «riprodotto» consenta un grado di soddisfazione analogo a quello «originale» confezionato dal produttore; • l’«effetto riverbero», o di attenzione periferica, che si produce nel punto di vendita tradizionale e grazie al quale l’acquirente è sollecitato contemporaneamente da vari prodotti, che può indagare e scegliere in modo facile e immediato, è difficile da riprodurre in rete; • infine, la navigazione attraverso negozi virtuali, per quanto ben congegnati e ricchi di contenuti accessori, non riesce a configurarsi come sostituto della tradizionale attività di «far compere». Il sempli­­­­­193

ce passeggiare davanti alle vetrine di negozi «reali» spesso, infatti, è all’origine di acquisti imprevisti e non pianificati. Un ulteriore problema nasce dalla modificazione del valore del prodotto percepito dal cliente. Il prezzo che l’acquirente paga per un qualsiasi prodotto equivale, in linea di principio, alla percezione del valore che egli ha del prodotto stesso, ma in tale percezione l’involucro fisico che accompagna il contenuto gioca senza dubbio un ruolo rilevante. Basti pensare, per esempio, che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso il costo per stampare e confezionare una copia dell’Enciclopedia Treccani su carta era di circa 800.000 lire e il prezzo di vendita al pubblico era intorno agli 8 milioni di lire. Il divario tra costo di riproduzione e prezzo al pubblico era evidentemente giustificato dalla necessità di recuperare gli investimenti elevatissimi che nel corso degli anni sono stati fatti per realizzare i contenuti. Il valore percepito dell’Enciclopedia si riduce drasticamente quando la sua confezione passa dalla versione fisica in forma di volumi alla sua versione digitale in forma di cd-rom e, ancor più, quando passa alla distribuzione in rete. Per l’editore, tra gli effetti negativi che la distribuzione in rete comporta c’è anche quello dello spacchettamento dei contenuti, che ne riduce le possibilità commerciali. Spesso i prodotti di successo fanno da traino alle vendite di quelli che non ne hanno avuto. Il caso classico è quello del disco con dieci-dodici brani, tra i quali normalmente solo tre o quattro sono successi, mentre gli altri, anche se non lo sono, vengono venduti ugualmente e possono in tal modo recuperare i loro costi di produzione. Per molti anni sono stati offerti nello stesso modo «a pacchetto» i titoli dei video ai rivenditori e dei film agli esercenti di sale. La rete offre invece al pubblico la possibilità di scegliere e acquistare il singolo prodotto, impedendo così all’editore di «piazzare» anche i prodotti che al pubblico interessano meno (Doglio e Richeri, 1996). 3. La frammentazione Nel corso degli ultimi decenni è costantemente aumentato il numero di mezzi di comunicazione attraverso cui si possono scegliere e consumare prodotti editoriali. Abbiamo assistito anche ad una generale moltiplicazione dei contenuti trasmessi attraverso le reti televisive via etere, cavo e satellite, attraverso supporti magnetici e digitali, ­­­­­194

attraverso le varie forme di carta stampata. Come si è visto nel paragrafo precedente, si sono aperte così nuove prospettive di circolazione e accesso che riguardano ogni tipo di prodotto editoriale. Oggi gli stessi contenuti si possono consumare attraverso piattaforme e supporti tecnici diversi: il caso dell’articolo di giornale che si può leggere sul foglio di carta, sullo schermo del computer, dell’iPad o del telefono mobile esemplifica quel che succede per ogni altro tipo di contenuto editoriale. In questa situazione la competizione è diventata più complessa e si sviluppa ormai a quattro distinti livelli: • tra mezzi diversi per il consumo di contenuti diversi: per esempio, una persona può usare il proprio tempo per guardare la tv o per leggere un giornale, ascoltare musica, vedere un dvd o altro; • tra contenuti diversi sullo stesso mezzo: per esempio tra un talk show su un canale e una fiction su un altro, ecc.; • tra lo stesso contenuto su mezzi diversi: guardo un film su lettore di dvd o su un canale a pagamento o su un telefono mobile, o con un video a richiesta tramite il computer, ecc. • tra servizi diversi sullo stesso terminale: se uso lo smart phone per telefonare, non posso inviare un sms; se uso il computer per la posta elettronica non posso leggere l’articolo di un giornale on line, ecc.; in questo caso, si verifica competizione perché ogni tipo di terminale, dalla tv al computer, dal telefono mobile all’iPad, è in grado di fornire tendenzialmente non solo ogni tipo di contenuto, ma anche ogni tipo di servizio di comunicazione. A questa crescente competizione tra contenuti, servizi, terminali e piattaforme corrisponde una crescente frammentazione sia dei media sia del loro pubblico. Si tratta di un processo facilmente osservabile, in cui è coinvolto un numero sempre più alto di persone, e che si può anche rilevare nelle sue manifestazioni più semplici. Si può prendere ad esempio la frammentazione dell’audience televisiva nel Regno Unito, che in Europa rappresenta la punta più avanzata di una tendenza riscontrabile in tutti gli altri paesi, non solo europei. Osservando i dati del Broadcaster’s Audience Research Board (Barb), a cui nel Regno Unito è affidato il rilevamento dell’audience televisiva e della sua distribuzione sui vari canali, si può tracciare il processo di frammentazione della televisione dal suo inizio ad oggi. Nel 1982 il Regno Unito aveva tre canali televisivi di servizio pubblico: due pubblici, Bbc1 e Bbc2, e uno privato, Itv. La loro audience complessiva, che allora comprendeva la quasi totalità dei telespetta­­­­­195

tori, si è ridotta progressivamente nel tempo man mano che cresceva il numero di nuovi canali trasmessi via satellite, via cavo e via etere analogico e poi digitale (Tabella 50). Tabella 50. Audience cumulata dei primi tre canali tv nel Regno Unito (in percentuale)

Bbc1+Bbc2+Itv

1982

1992

2002

2011*

99

85

62

43,5

* Primo trimestre. Fonte: Barb.

Nel primo trimestre del 2011 le tre «storiche» reti televisive terrestri in chiaro tutte insieme hanno avuto il 43,5% di audience: Bbc1 il 20,7%, Bbc2 il 6,8 e Itv il 16%. Altre due reti in chiaro, Channel 4 e Channel 5, che si sono aggiunte rispettivamente negli anni Ottanta e Novanta, hanno ottenuto insieme l’11% di audience. Il restante 45% si è frammentato su centinaia di canali trasmessi via satellite, via cavo o via etere terrestre digitale, ciascuno con un’audience variabile tra 0,1 e 1,1%. Solo in qualche caso l’audience è arrivata intorno al 2%, ma in molti altri casi è stata talmente piccola da non essere considerata statisticamente significativa. Lo stesso fenomeno riguarda più in generale tutti i settori del mercato dei media, dove si assiste al passaggio da una concentrazione di audience su pochi media a una sua frammentazione su molti media. Considerando il processo di crescita sia dell’offerta di contenuti che della frammentazione del pubblico, la Bbc, in un documento sulle prospettive del sistema dei media, ha osservato: La moltiplicazione delle opportunità di scelta nel campo dei media provoca la frammentazione del pubblico radiofonico e televisivo. La gente consuma una gamma sempre più ampia di servizi attraverso una gamma sempre più grande di supporti. Il risultato è che ci troviamo in un contesto mediatico multi-piattaforma in cui è sempre più difficile trovare due persone che consumano gli stessi media (Bbc, 2004).

Il processo di frammentazione del pubblico ha due effetti economici di rilievo, che possono essere analizzati mantenendo come esempio la televisione: da un lato, la frammentazione provoca la ridu­­­­­196

zione dell’audience media per canale, a cui di norma corrisponde una riduzione delle risorse che mediamente sono investite nella programmazione dei singoli canali. Dall’altro lato, la riduzione dell’audience di un canale incide negativamente sulle risorse pubblicitarie che il canale è in grado di raccogliere. 4. L’interattività Uno degli elementi che caratterizzano maggiormente i nuovi media è la possibilità di funzioni interattive, che si presentano con due modalità diverse: la prima riguarda la possibilità di interagire con il contenuto del prodotto editoriale, come nel caso degli ipertesti; la seconda riguarda la possibilità di interagire con la rete, come nel caso dei servizi di video on demand. Per entrare più in dettaglio, possiamo considerare il caso della televisione, che nella sua evoluzione attuale è in grado di offrire nuovi servizi interattivi alla totalità dei telespettatori. Lo sviluppo dell’interattività televisiva offerta dalle piattaforme digitali prospetta un ventaglio di opzioni molto vasto, che varia a seconda delle piattaforme (cavo, dsl, satellite, terrestre), dei terminali, dei servizi. Ci sono due punti di vista che ci aiutano a mettere a fuoco le implicazioni principali di questo sviluppo: il primo è quello che riguarda il fronte degli utenti, e i fattori di attrazione e di rallentamento dell’interattività associata alla tv; il secondo riguarda gli editori. Per gli utenti l’interattività, in generale, significa poter sfruttare cinque funzioni principali, componibili in vario modo: 1. partecipare direttamente a programmi televisivi, per esempio attraverso il voto, i giochi, le scommesse; 2. personalizzare i contenuti televisivi, per esempio attraverso la richiesta di approfondimenti delle notizie o di informazioni supplementari sui prodotti pubblicizzati; 3. scegliere contenuti televisivi da cataloghi, come nel caso del video on demand; 4. accedere tramite il televisore a servizi tipo Internet, come il commercio, l’insegnamento, la banca in rete; 5. inviare e ricevere contenuti editoriali in collegamento con altre persone. Le prime due funzioni sono strettamente associate alla pro­­­­­197

grammazione televisiva. La terza riguarda una forma più flessibile e personalizzata di home video che sostituisce l’accesso al contenuto audiovisivo sul supporto fisico (videocassetta, dvd) con quello attraverso la rete. Le ultime due funzioni derivano dal fatto che i televisori digitali connessi alla rete telefonica permettono di accedere ai servizi Internet attraverso lo schermo tv. BSkyB, la televisione a pagamento inglese, è stata la prima impresa televisiva in Europa a fornire servizi televisivi interattivi ai suoi abbonati, quando passò alle trasmissioni digitali. Questa è stata anche la prima occasione per osservare i comportamenti dei telespettatori, da cui è risultato che: a) il servizio interattivo più largamente utilizzato è quello della guida elettronica ai programmi, che permette di ridurre la complessità della scelta in un ambiente televisivo multicanale, dove la difficoltà di individuare e selezionare i contenuti desiderati cresce al crescere del numero di canali accessibili; b) le forme d’interattività più apprezzate sono quelle associate a programmi televisivi che permettono agli utenti d’intervenire esprimendo (per esempio col voto) le proprie scelte, partecipando a un gioco, scommettendo sui risultati di una corsa trasmessa in diretta e altro; c) altre forme d’interattività che ottengono successo presso un gruppo di utenti numericamente limitato, ma costituito da forti consumatori, sono i giochi on line via tv; d) le forme d’interattività non legate all’intrattenimento e al gioco suscitano nei telespettatori meno interesse e hanno maggiore difficoltà a diventare «familiari». Occorre sottolineare che in quest’ambito i comportamenti del pubblico non dipendono soltanto dai contenuti dei servizi, ma anche da altre variabili importanti, tra le quali: • la facilità d’uso del televisore e del telecomando per sfruttare le funzioni interattive; • la promozione e il marketing dei servizi; • il grado di coinvolgimento dell’utente; • il costo d’accesso e d’uso dei servizi. La televisione interattiva può assumere una funzione importante per allargare il mercato dei nuovi media verso fasce sociali meno dotate di tecnologie domestiche. Il televisore è un terminale d’uso quotidiano, presente nella quasi totalità delle famiglie e in grado di coinvolgere quelle categorie di telespettatori in larga parte estranee ­­­­­198

al personal computer e che hanno motivazioni deboli per usare i tipici servizi di Internet. Per queste categorie il problema è che l’uso dei servizi interattivi richiede un mutamento abbastanza forte nell’atteggiamento e nei comportamenti d’uso della tv. Ciò rende necessaria la messa a punto di servizi adatti a stimolare e «formare» comportamenti più attivi rispetto a quelli dei telespettatori tradizionali, servizi capaci di ridurre gli ostacoli tecnici, linguistici, grafici. L’attrazione che la televisione interattiva è in grado di esercitare è legata all’aumento della gamma di contenuti offerti, alla flessibilità dell’accesso e alla personalizzazione delle scelte di consumo. A ciò si aggiunge per il telespettatore l’opportunità di partecipare attivamente ad esperienze ed eventi insieme ad altri. Ma per sfruttare l’interattività occorre investire energie in modo assai più impegnativo di quanto implicato dal consumo televisivo «tradizionale». Inoltre, più aumenta l’interattività più l’uso dei servizi e dei terminali diventa individuale, a differenza della tv, che favorisce un consumo collettivo (con familiari, amici, affini, ecc.). La difficoltà principale per l’utente risiede nel fatto che nei servizi interattivi le attività di selezione e di scelta diventano centrali rispetto all’attività di consumo televisivo. Infatti, per essere sfruttata in modo sostanziale e soddisfacente l’interattività implica decisioni precise su obiettivi e strategie di consumo (decidere come e dove cercare ciò che si vuole ottenere), quindi conoscenze e competenze per trovare e selezionare ciò che si desidera in mezzo a una gamma di offerte molto estesa. Per l’editore l’interattività costituisce un modo per avere un rapporto più diretto e personalizzato con gli utenti, però presuppone anche investimenti consistenti, sia nella creazione e confezione dei contenuti che nella gestione dei servizi e dei clienti. 5. L’autonomia del pubblico Il forte aumento dell’offerta di prodotti editoriali e della varietà delle forme di accesso ha reso il consumo mediale più flessibile. Oggi una parte di pubblico, che tende a crescere, ha assunto un maggiore controllo nella selezione, nell’accesso e nel consumo dei contenuti in modo da poter scegliere con più libertà non solo un film, un ar­­­­­199

ticolo, un programma televisivo o altro, ma anche quando, dove e come consumarlo. A ciò si aggiunge il fatto che le persone si trovano in molti casi in condizione di produrre e distribuire, in modo occasionale e non professionale, contenuti destinati non solo a loro interlocutori diretti o a gruppi circoscritti di persone, ma anche a un pubblico di massa, come nel caso emblematico di YouTube. Questo è il risultato di alcuni fattori concomitanti, derivanti dallo sviluppo delle tecnologie digitali, i più rilevanti dei quali sono: • il potenziamento e l’ubiquità delle reti – in particolare quelle cellulari –, che coprono in modo capillare la quasi totalità del territorio; • la possibilità di memorizzare grandi quantità di informazioni e prodotti editoriali creando archivi digitali accessibili in rete; • la disponibilità di strumenti di produzione audiovisiva di standard elevato che possono essere usati anche senza un bagaglio di competenze professionali. Dal punto di vista del consumo, i risultati sono molteplici. Come abbiamo già osservato oggi si assiste alla disgregazione di contenuti che tradizionalmente erano offerti al pubblico in modo integrato, come gli album di canzoni, gli articoli di giornale, i programmi televisivi. Ora chi apprezza un cantante può acquisire via Internet, separatamente, le canzoni preferite, senza doverle comprare su un compact disc in cui sono incise anche altre canzoni che non interessano. La stessa cosa succede per un articolo di una rivista scientifica, o di un’altra pubblicazione. Ma anche la programmazione televisiva si può spacchettare, grazie al servizio di catch up tv o tv replay, che offre l’accesso ai programmi di un canale televisivo per un periodo di giorni successivo alla loro prima messa in onda. E i vincoli temporali della programmazione televisiva si possono superare ancora meglio con i servizi offerti ai telespettatori da società come l’americana TiVo. All’abbonato si propone un servizio di registrazione audiovisiva digitale a distanza, che «estrae» dai canali televisivi i programmi desiderati, eventualmente eliminando gli annunci pubblicitari, e li rende accessibili sul televisore con semplici funzioni di comando. Insomma, si può dire in generale che il pubblico ha maggiori strumenti per sottrarsi ai vincoli della programmazione e all’esposizione pubblicitaria (ricordiamo che già il vecchio videoregistratore negli anni Ottanta offriva la possibilità di registrare un ­­­­­200

programma per poi rivederlo fuori dalla sua collocazione televisiva originale, ma allora per un largo numero di telespettatori l’operazione non era sufficientemente agevole da renderla abituale). Un altro aspetto dell’autonomia che il pubblico ottiene dallo sviluppo dei nuovi media è rappresentato dal fenomeno osservato nella teoria della «coda lunga», di cui si è già parlato. L’accesso via Internet a prodotti editoriali riduce i vincoli del sistema di distribuzione e di vendita tradizionali perché offre al pubblico la possibilità di accedere a una quantità molto maggiore di prodotti, che restano disponibili per un periodo di tempo molto più lungo. 6. La tracciabilità dei consumi Una delle caratteristiche delle reti-mercato, come si è visto, è quella di offrire in forma interattiva l’accesso a contenuti editoriali che tradizionalmente sono distribuiti su supporto fisico. Tuttavia, mentre chi acquista un prodotto editoriale su supporto fisico in edicola, in libreria, al video club o in altro tipo di punto vendita, normalmente mantiene l’anonimato, non altrettanto succede a chi acquista i prodotti editoriali in rete. Ogni attività interattiva svolta attraverso i mezzi digitali in rete viene infatti registrata e memorizzata, in modo che si possa risalire direttamente o indirettamente a chi l’ha svolta o, meglio, al titolare della connessione Internet con cui si è realizzata la transazione. Il bancomat registra non solo le operazioni bancarie svolte, ma anche il luogo e l’orario in cui sono state eseguite. Il telefono cellulare registra non solo il numero degli interlocutori, ma anche l’ora e il luogo in cui è stato usato per qualsiasi tipo di comunicazione. Il set top box per i servizi televisivi interattivi registra l’ora, la durata e il tipo di servizio utilizzato. Succede la stessa cosa per tutte le attività svolte via Internet. Le imprese che forniscono prodotti editoriali via Internet hanno quindi l’opportunità di raccogliere dati molto più precisi di quanto non si è fatto finora con le metodologie di rilevazione delle audience radiotelevisive e della carta stampata. Il problema della tracciabilità dei comportamenti su Internet ha dei risvolti economici più generali, insieme a quelli politici e legali, che in questa sede non affrontiamo (Federal Trade Commission, 2009). Man mano che una parte crescente dell’accesso ai prodotti editoriali si sposta dai supporti e dalle reti tradizionali ai servizi ac­­­­­201

cessibili via Internet, ogni attività di consumo, ogni click da noi inviato lascia la sua impronta digitale e produce così un’informazione che ci riguarda. La raccolta e l’analisi dei dati di consumo diventano sempre più veloci, precise e personalizzate. Il risultato più rilevante per il mercato dei media è quello di poter tracciare il profilo di una persona partendo dai singoli contenuti consumati, risalendo alla sua dieta multimediale, fino a correlare queste informazioni con quelle relative alle altre attività svolte via Internet. Attraverso soluzioni informatiche sofisticate società specializzate sono oggi in grado di raccogliere informazioni su chi usa Internet, che comprendono le sue ricerche in rete, le pagine web visitate e i contenuti visti, oltre a informazioni geografiche, sugli stili di vita e sulle preferenze. Si possono così ottenere indicazioni sulle abitudini di consumo mediale dell’audience, sui contenuti preferiti, ed altro ancora. Questi tracciati, che sono rilevati e memorizzati automaticamente, comprendono anche le informazioni che emergono inevitabilmente dalla sequenza degli acquisti in rete. L’esempio classico, a questo proposito, è quello di Amazon, il maggior venditore di prodotti editoriali in rete, che per dar corso alle richieste dei clienti deve stabilire una loro identità attraverso i dati della carta di credito con cui effettuano il pagamento, oltre all’indirizzo postale e digitale, e in questo modo può sfruttare regolarmente il tracciato dei consumi dei propri clienti per promuovere nuovi prodotti. Per esempio, chi ha fatto acquisti di libri presso Amazon riceve abitualmente informazioni su nuovi titoli che trattano argomenti, o sono di autori, o hanno altri elementi che li associano ai titoli acquistati in precedenza. Tutto ciò è utilizzato ben oltre il mercato dei media, ed è ormai diventato il principale strumento per mandare pubblicità mirata al consumatore e, più in generale, per fornire informazioni utili alle attività di promozione e di marketing delle imprese interessate. I tracciati estratti da Internet che le società di ricerca specializzate offrono sono di due tipi: il primo, più puntuale, riguarda l’interesse che l’utente di Internet manifesta per singole categorie di prodotti secondo vari gradi di intensità; il secondo, più generale, riguarda le categorie socio-demografiche di appartenenza e gli stili di vita. Ma le società di ricerca specializzate estraggono abitualmente da Internet anche altri tipi di informazioni, utili alle imprese editoriali per tracciare mappe dei comportamenti di consumo attuali e di quelli attesi per il futuro. Queste informazioni non si basano soltan­­­­­202

to su dati quantitativi, ma intendono rappresentare anche aspetti qualitativi, come il livello di attenzione, di memoria, di emozione, oltre all’impegno, all’apprezzamento, alla fedeltà nei confronti di una serie televisiva, di una rivista o di altro tipo di contenuto editoriale. Negli Stati Uniti da tempo i blog, i social network, i gruppi di discussione e le altre forme organizzate di partecipazione e di scambio di opinioni via Internet sono regolarmente monitorati da società come BuzzMetrics, della Nielsen Online, Media Intelligence, BrandIntel, Optomedia, che forniscono ai propri clienti analisi di vario tipo sulla conoscenza, l’interesse, le previsioni di consumo, riferite a molti prodotti, compresi quelli editoriali. La tracciabilità dei consumi rappresenta una nuova risorsa non solo per le imprese mediali, ma più in generale per tutte le imprese che offrono i loro prodotti in un mercato di massa e che hanno bisogno di avere informazioni sempre più puntuali e attendibili sugli orientamenti e i comportamenti dei consumatori. Nello stesso tempo la tracciabilità pone problemi rilevanti dal punto di vista della protezione dei dati personali (Bimber, 2003). Questo aspetto è al centro dell’attenzione delle istituzioni pubbliche di molti paesi. In particolare la Federal Trade Commission, che ha il compito di salvaguardare la privacy e l’identità dei cittadini americani, ha promosso una serie di studi e documenti molto utili per cogliere non solo la dimensione che il fenomeno ha raggiunto in quel paese, ma anche la complessità delle tecnologie utilizzate per raccogliere e trattare queste informazioni e soprattutto la rilevanza economica che hanno assunto. 7. «User-generated content» Il processo di frammentazione del paesaggio mediale e la crescita dei contenuti prodotti dai consumatori sono due fenomeni non del tutto indipendenti. Da una parte questi contenuti e la loro distribuzione sono un elemento di tale processo, dall’altra costituiscono per le imprese mediali materia prima a costo zero. La produzione di contenuti di comunicazione fuori dalle imprese editoriali è sempre esistita come opera di autori occasionali a cui piaceva esprimere i propri sentimenti, raccontare storie, rappresentare la realtà e comunicare con i vari mezzi a disposizione. La grande quantità di materiale di questo genere è stata sempre considerata opera di tipo amatoria­­­­­203

le o dilettantesca e diventava di qualità professionale solo quando incontrava l’interesse di imprese editoriali che trasformavano questi contenuti artigianali in prodotti confezionati per avere una vita economica e commerciale. Nel tempo, ai mezzi tradizionali, come la scrittura o la pittura, se ne sono aggiunti altri, come la fotografia, il cinema e i registratori del suono; poi anche telecamere e videoregistratori sono diventati sempre più facilmente accessibili. Il fatto nuovo non consiste quindi nella produzione – che è sempre stata abbondante – da parte di autori dilettanti interessati alle dimensioni espressive e comunicative delle loro opere e non a quelle commerciali (Flichy, 2010). La novità è che tramite Internet questi prodotti sono diventati accessibili e hanno trovato anche forme di distribuzione organizzate sui media tradizionali e su canali specializzati (social network e altro). Uno dei fenomeni più noti in questo campo, insieme a Facebook e a Twitter, è YouTube, che è centrato proprio sui contenuti audiovisivi creati dagli utenti. Alcuni dati ufficiali forniti da YouTube, Google e Trackback permettono di osservare l’ordine di grandezza della sua attività: nel 2010 YouTube ha fatturato oltre un miliardo di dollari, ha offerto molte centinaia di milioni di video, ha avuto una media quotidiana di due miliardi di richieste, concentrate però per il 99% sul 30% dei video accessibili. Questi dati sintetici mettono in evidenza non solo le dimensioni del fenomeno, ma anche il fatto che esso riscuote molto successo sul fronte degli «autori», ma meno su quello degli utenti, dal momento che la larga maggioranza dei contenuti offerti riscuote un interesse marginale. I contenuti creati dagli utenti hanno riscosso anche un certo interesse da parte dei media tradizionali. Vari giornali, periodici e canali televisivi hanno creato rubriche e spazi nella programmazione per accogliere questo tipo di contenuti con più di un obiettivo. Innanzitutto l’idea è quella di vivacizzare i prodotti tradizionali con nuovi generi, con punti di vista originali e con linguaggi meno professionali e «più vicini al pubblico». Ma si tratta anche di poter ottenere informazioni e materiali su eventi e fatti di cronaca che le redazioni non sono in grado di coprire. Un terzo aspetto, meno esplicito ma spesso presente, è l’idea di poter alimentare una parte del giornale o della programmazione televisiva con contenuti a basso costo o gratuiti. I contenuti realizzati dagli utenti sono di vario genere e nascono ­­­­­204

da motivazioni diverse: persone che vogliono mettere in luce fatti che considerano d’interesse più generale, altre che cercano visibilità, altre ancora che cercano un pubblico per le loro canzoni o i loro racconti, o ancora che hanno il desiderio di esercitare la propria creatività e condividerla attraverso i mezzi di comunicazione. Un tipo di motivazioni più evidente che spinge gli utenti a investire energie nella produzione di contenuti si può rilevare osservando i comportamenti delle comunità di fan, i quali sono legati tra loro dal consumo di programmi e serie televisive, ne condividono l’esperienza, l’emozione, l’interesse per la trama, per i protagonisti e altro. In vari paesi il fenomeno dei fan ha assunto negli ultimi anni una visibilità estesa non solo per la quantità dei gruppi e per le dimensioni di alcuni di loro, ma anche per la loro attività pubblica. Infatti in vari casi gruppi di fan sono diventati interlocutori per le case di produzione dei programmi oggetto della loro passione, riuscendo a influenzarne le scelte. Nei gruppi di fan è spesso presente anche un’attività di produzione di contenuti di tipo amatoriale che si presentano in varie forme: dalla creazione di storie brevi o addirittura intere saghe in cui i personaggi della serie vivono nuovi intrecci e si interfacciano l’uno con l’altro in modi del tutto inediti, fenomeno quest’ultimo noto con il nome di fanfiction, alla produzione di video che recuperano il materiale andato in onda rimontandolo in maniera inedita o ancora a fenomeni come il fansubbing, che consiste nel fornire alla comunità episodi della serie sottotitolati in anticipo rispetto all’eventuale doppiaggio offerto dai canali televisivi (Benecchi e Richeri, 2012).

I contenuti realizzati dai fan rispondono a varie esigenze. In molti casi si tratta di un labor of love, ovvero la manifestazione della propria passione per la serie prediletta; la gratificazione che si ottiene deriva dai messaggi ricevuti dagli altri fan che condividono la stessa passione. In altri casi si tratta di un lavoro destinato a servire la serie per promuoverla nei confronti di un pubblico più largo o di arricchire la fruizione degli altri fan. Uno degli aspetti più interessanti è che spesso il contenuto nasce non dal lavoro individuale di un fan, ma dalla collaborazione tra più membri del gruppo, e il motivo è più legato ad aspetti sociali e comunitari che a quelli creativi. Rafforzare i legami che tengono insieme la comunità di fan, infatti, è spesso all’origine di questa attività. ­­­­­205

8. Nuovi rapporti tra media e pubblicità I caratteri distintivi dei nuovi media tracciati nei paragrafi precedenti aiutano a capire quanto si stia trasformando il rapporto del pubblico con i media tradizionali, dalla radiotelevisione alla stampa, e come ciò riguardi sia le forme di accesso che le modalità di consumo. Gli effetti di queste tendenze sul mercato pubblicitario sono ancora difficili da prevedere dal punto di vista dei tempi e delle dimensioni, ma è possibile individuarne la direzione. Analizziamo quattro elementi, che in prospettiva potrebbero provocare cambiamenti di rilievo. Le trasmissioni digitali, prima via satellite, poi via cavo e più recentemente via rete terrestre, hanno offerto alle imprese televisive già in campo e alle nuove entranti i supporti tecnici necessari ad allargare l’offerta tradizionale e a creare iniziative nuove. Le reti a banda larga sono in grado di accelerare questa tendenza, che ha favorito la frammentazione del pubblico televisivo; questo fattore, come si è visto, ha provocato la riduzione del pubblico dei pochi canali tradizionali in favore di una molteplicità di nuovi canali. In assenza di un aumento dei consumi televisivi medi e di nuovi telespettatori, si è avuta una riduzione dell’audience media per canale, cosa che crea difficoltà per la pubblicità e richiede revisioni nella pianificazione degli investimenti. Il secondo elemento riguarda il progressivo spostamento di tempo-attenzione di una parte crescente di individui dai media tradizionali (stampa e televisione) a quelli in rete. Si tratta di una tendenza rilevata in molti paesi, che specularmente spinge un numero crescente di imprese a spostare parti del loro budget pubblicitario dai media tradizionali ai contenuti e servizi offerti su Internet. Le stime dell’Interactive Advertising Bureau Europe indicano che la quota media degli investimenti pubblicitari su Internet in Europa sta raggiungendo il 20% e le previsioni di crescita a due cifre sono confermate per i prossimi anni da più fonti. La European Interactive Advertising Association nel 2009 ha rilevato che il 47% degli inserzionisti considerava la pubblicità on line un fattore essenziale, in forte aumento rispetto al 17% del 2006. Il terzo elemento riguarda le nuove forme di accesso ­interattivo, che permettono di richiedere a distanza contenuti editoriali a pagamento (media on demand). In questi casi, chi ha disponibilità econo­­­­­206

miche non deve più ricorrere a supporti finanziati dalla pubblicità per poter accedere a contenuti informativi, culturali e d’intrattenimento come i giornali e la televisione. Si creano così le condizioni per una crescente «scrematura» del pubblico più dinamico, istruito e benestante, dirottato dai media «pubblicitari» verso altre modalità di accesso che offrono una maggiore flessibilità in termini di tempo e di luogo e una maggiore gamma di contenuti sia dal punto di vista dei generi e dei contenuti, sia dal punto di vista della loro origine. Ma l’effetto della frammentazione sugli investimenti pubblicitari riguarda anche un altro aspetto importante. Oltre un certo limite, infatti, i sistemi di misurazione dell’audience non sono più in grado di fornire informazioni affidabili. Quando l’audience media di un canale o i lettori di un giornale scendono al di sotto di una certa soglia i loro comportamenti di consumo non sono più rilevabili. Per ottenere dati rappresentativi dal punto di vista statistico sarebbe infatti necessario allargare talmente tanto il campione che non si riuscirebbe a coprire i costi dell’indagine. Considerando il fatto che nei mercati televisivi più sviluppati, come gli Stati Uniti o il Regno Unito, oltre il 90% dei canali accessibili attraverso una delle varie piattaforme ha una quota di telespettatori stimata all’1%, si può affermare che la maggior parte di questi canali produce un’audience non misurabile in modo significativo. A conferma di questa situazione basta osservare che nel mercato televisivo statunitense il campione di 13.000 famiglie che Nielsen utilizza per misurare su scala nazionale l’audience dei canali televisivi via cavo è abbastanza grande per fornire dati rappresentativi del consumo dei 100 canali maggiori, ma non è sufficiente per misurare quella degli altri 400 canali che hanno un’audience troppo piccola, così come la Mediamark Research Inc. riesce a misurare solo l’audience di 232 periodici statunitensi rispetto agli oltre 5.000 regolarmente pubblicati (Napoli, 2010). Per gli inserzionisti comprare spazi pubblicitari su un canale che riesce ad avere audience di grandi dimensioni è più semplice e meno costoso che comprare spazi su tanti canali che hanno piccole audience. Oggi ci sono ancora molti media che hanno un pubblico di grandi dimensioni, ma si tratta di un pubblico in tendenziale diminuzione. In questo scenario i media tradizionali continuano a occupare uno spazio rilevante, ma è probabile che il loro «valore» pubblicitario sia progressivamente ridimensionato, con conseguenze dirette sulla ­­­­­207

loro struttura economica e il loro modello commerciale, così come sulla qualità dei contenuti e del pubblico di riferimento. 9. Il caso della televisione digitale terrestre Nell’arcipelago dei nuovi media il caso della televisione digitale terrestre (Tdt) è quello più significativo, per le ragioni a cui abbiamo già accennato e che cercheremo di spiegare più in dettaglio. Innanzi tutto va osservato che nel panorama attuale si tratta dell’unico caso di adozione di una nuova tecnologia che non avviene secondo modi e tempi scanditi dal mercato – come è il caso, restando in ambito televisivo, della televisione tridimensionale o di quella mobile –, ma imposti dallo Stato in tutta Europa. In Italia la sostituzione delle trasmissioni analogiche con quelle digitali è ormai estesa alla maggior parte del paese e sarà completata entro il 2012 secondo le indicazioni dell’Unione Europea. Ciò comporta che i telespettatori, se vogliono continuare a guardare i programmi televisivi, si dotino degli apparecchi necessari a riceverli in forma digitale. Ma in che modo la nuova tecnologia modifica e arricchisce l’offerta televisiva? E quali sono i motivi che hanno spinto gli Stati ad adottare e imporre questa scelta? Dal punto di vista dell’offerta la televisione digitale, rispetto a quella analogica, crea sostanzialmente cinque nuove opportunità. La prima riguarda la moltiplicazione tecnica dei canali televisivi disponibili a parità di frequenze radioelettriche impegnate. Ciò significa, per esempio, che le frequenze radioelettriche necessarie a diffondere una programmazione televisiva terrestre via etere possono diffondere cinque o sei programmazioni digitali. Il vantaggio quindi è duplice: da una parte i costi di trasmissione si riducono di cinque o sei volte, dall’altra aumenta potenzialmente il numero di canali accessibili col televisore. Il problema è che tutti gli apparati tecnici di produzione, trasmissione e accesso ai programmi, ovvero antenna e televisore domestici, devono essere rinnovati. La seconda opportunità riguarda l’aumento della qualità tecnica delle trasmissioni audio e video; in generale è per ora la meno rilevante, anche se in paesi dove le radiofrequenze sono sovraffollate potrà essere particolarmente apprezzata. La terza opportunità riguarda la possibilità di combinare la rete telefonica e la rete televisiva per trasformare il televisore digitale in ­­­­­208

un terminale d’accesso a Internet: lo schermo televisivo viene usato come quello di un computer connesso alla rete telefonica; questa opportunità apre il mondo della televisione all’interattività e a un ventaglio di servizi commerciali, educativi, d’intrattenimento e dell’amministrazione pubblica. La quarta opportunità è data dall’introduzione dell’interattività nella programmazione televisiva per offrire ai telespettatori maggiori possibilità non solo di partecipare in tempo reale ai programmi, ma anche di personalizzare le informazioni e, più in generale, i contenuti televisivi secondo i propri interessi. Ciò significa, per esempio, poter ricevere a richiesta informazioni e approfondimenti che riguardano i contenuti televisivi e quelli pubblicitari. La quinta ed ultima opportunità da ricordare è che con le trasmissioni digitali il televisore può ricevere in condizioni di mobilità, per esempio sui mezzi di trasporto. Il ventaglio di opportunità offerte dalla tv digitale appare assai più largo rispetto alle innovazioni tecnologiche che l’hanno preceduta, ma il suo processo di adozione domestica seguirebbe con ogni probabilità le stesse fasi e subirebbe le stesse condizioni incontrate dalle altre tecnologie domestiche di comunicazione. In tal modo nessuno sarebbe in grado di garantire, com’è avvenuto nei casi precedenti, i tempi di adozione né i tassi di penetrazione prestabiliti. 9.1. Una decisione politica Ma perché le amministrazioni pubbliche europee hanno stabilito i tempi di adozione della televisione digitale terrestre? Lo sviluppo «spontaneo» della televisione digitale si è incrociato verso l’inizio degli anni Duemila con l’elaborazione delle strategie dell’Unione Europea, definite a partire dalla Conferenza di Lisbona del 2000 e in altre conferenze successive, per favorire in Europa la realizzazione della «società dell’informazione». Tale strategia ha avuto varie tappe e obiettivi, a cominciare da quelli contenuti nel programma eEurope 2002. An Information Society for All, a cui sono seguiti eEurope 2005 e eEurope 2010. Si tratta di programmi molto ambiziosi e complessi che riguardano una molteplicità di campi di applicazione, dall’e-learning all’egovernment, agli aspetti tecnologici, economici e socio-culturali le­­­­­209

gati allo sviluppo delle reti, dei mezzi e dei servizi e dei contenuti di comunicazione. Per l’Unione Europea e i suoi Stati membri ci sono, tra gli altri, due passaggi obbligati per «garantire a tutti l’ingresso nella società dell’informazione» e per ridurre i rischi di digital divide. Uno è quello di rendere accessibile a tutti gli individui e a tutte le famiglie i servizi della società dell’informazione. Prima di tutto quei servizi offerti dalla pubblica amministrazione centrale e locale che storicamente sono sempre stati erogati faccia a faccia attraverso gli sportelli degli uffici pubblici e che in larga parte ora possono essere erogati via Internet. L’altro è quello di sfruttare in modo più efficiente lo spettro elettromagnetico, ormai saturo, per permettere alla crescente gamma di servizi di telecomunicazione mobile (da Internet alla tv) di espandersi. In questo quadro la televisione digitale è apparsa come il cavallo più veloce per portare Internet e i servizi interattivi in tutte le case e, contemporaneamente, per economizzare frequenze oggi destinate alle trasmissioni televisive. Da una parte è a tutti chiaro che se l’accesso a Internet – quindi ai servizi della «società dell’informazione» e, prima di tutti, a quelli dell’e-government – dovesse dipendere dalla presenza del personal computer in ogni casa l’obiettivo della «società dell’informazione per tutti» sarebbe difficile da raggiungere, o comunque lontano. Una minoranza delle famiglie, variabile da paese a paese ma ovunque consistente, sarebbe infatti esclusa dal progetto perché spontaneamente non acquisterebbe mai un computer, o lo farebbe solo in un lontano futuro. Dall’altra parte, la sostituzione della tecnica di trasmissione televisiva tradizionale (analogica) con quella digitale permetterebbe di destinare alla televisione solo una parte delle frequenze utilizzate per le trasmissioni televisive tradizionali, con la possibilità di aumentare sensibilmente il numero di canali televisivi trasmessi, e destinare il resto ai servizi di comunicazione mobile. Nei principali paesi europei i governi hanno adottato iniziative per il passaggio accelerato alla televisione digitale terrestre che variano da caso a caso. Senza entrare nel dettaglio dei singoli casi basta ricordare la tipologia d’interventi: • regole destinate a favorire il passaggio dalla tv analogica a quella digitale terrestre delle imprese televisive tradizionali, l’ingresso nella tv digitale terrestre di nuovi operatori, la varietà e l’attrattività dell’offerta televisiva digitale; ­­­­­210

• aiuti economici ai produttori, al fine di ridurre il prezzo dei decoder digitali da applicare ai televisori analogici per favorirne l’adozione da parte delle famiglie; • obblighi speciali e finanziamenti destinati alle imprese televisive pubbliche per realizzare nuove reti per trasmissione digitale terrestre a copertura nazionale e per creare nuovi canali digitali a diffusione gratuita; • finanziamento pubblico per la sperimentazione di nuovi servizi interattivi d’interesse generale; • finanziamento di campagne promozionali in favore della televisione digitale terrestre; • impegno di fornitura gratuita dei decoder digitali alle famiglie che entro una determinata data non li avranno acquistati spontanea‑ mente; • definizione della data entro cui abbandonare le trasmissioni televisive analogiche e realizzare il passaggio definitivo al «tutto digitale». 9.2. La televisione digitale terrestre in Italia In Italia il passaggio alla televisione digitale terrestre è stato preparato con una serie di leggi specifiche, di campagne promozionali, di interventi tecnici e amministrativi per creare le condizioni favorevoli alle imprese televisive vecchie e nuove intenzionate a partecipare con vari ruoli all’operazione. È stato poi necessario che l’insieme degli interventi preparatori garantisse che il passaggio al «tutto digitale» avvenisse senza creare troppi disagi ai telespettatori e rispettando le scadenze indicate dall’Unione Europea per portare a compimento l’operazione entro il 2012. La scelta è stata quella di procedere a «macchia di leopardo», coinvolgendo una regione dopo l’altra, in modo che la fine delle trasmissioni televisive analogiche e il passaggio obbligato a quelle digitali potessero avvenire con la necessaria flessibilità e con il minimo disagio. Il risultato è che alla fine del 2011 la grande maggioranza del paese è già passata alla Tdt e le regioni che restano – Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia – passeranno al digitale entro la metà del 2012, in anticipo quindi sui tempi indicati dall’Europa. L’associazione DGTVi, costituita da Rai, Mediaset, Telecom Italia Media e da altri partner per promuovere lo sviluppo della televi­­­­­211

sione digitale terrestre, offre alcuni dati salienti riferiti al luglio 2011, da cui risulta che la penetrazione della Tdt riguarda ormai l’84% delle famiglie italiane, i televisori in grado di ricevere le trasmissioni digitali sono circa 36 milioni e l’81% dei telespettatori guarda i programmi trasmessi sui canali digitali: il 64% del consumo televisivo totale è raccolto dalla Tdt e il 17% dalla televisione digitale via satellite, mentre solo il 19% guarda ancora le trasmissioni televisive analogiche. Complessivamente la Tdt offre alla larga maggioranza dei telespettatori italiani l’accesso a 55 canali nazionali gratuiti, che comprendono gli 11 precedentemente trasmessi in forma analogica più 44 nuovi. I cinque editori già presenti sulla tv terrestre con i rispettivi canali analogici, vale a dire Rai, Mediaset, Telecom Italia Media, Gruppo L’Espresso e Rete Capri, gestiscono 34 canali, mentre gli altri 21 canali sono gestiti da nuovi editori che sono entrati nel mercato televisivo grazie allo spazio aperto dalla Tdt. Si tratta quindi di un’operazione che ha prodotto novità rilevanti, portando nel mercato televisivo italiano un ampio numero di nuovi canali e di nuove imprese. Occorre però constatare che anche in questo caso il processo innovativo si manifesta in modo più lento di quello atteso. Infatti il successo dell’operazione è stato finora legato soprattutto alla televisione di tipo tradizionale e, più precisamente, ai canali televisivi «vecchi». Stando ai dati di DGTVi, sui 55 canali televisivi gratuiti offerti dalla Tdt gli 11 ereditati dalla televisione analogica hanno infatti l’88% degli ascolti, mentre i 45 canali nuovi hanno finora conquistato tutti insieme il restante 12%. E anche sul fronte dei servizi più innovativi i risultati sono al di sotto delle attese, ma come sappiamo i tempi di «domesticazione» dei nuovi media sono lenti e i percorsi di appropriazione complessi (Cola et al., 2010). Anche gli obiettivi più generali da raggiungere con il passaggio alla Tdt in Italia finora sono sembrati più difficili da raggiungere di quanto previsto. L’uso a cui destinare le frequenze che potrebbero essere «liberate» dalla televisione è ancora oggetto di discussione politica e le priorità non sono ancora chiare. Invece il contributo che la Tdt è in grado di dare agli italiani meno favoriti per accedere ai servizi della società dell’informazione, promossi dall’Unione Europea fin dai tempi della Conferenza di Lisbona, oggi sembra ormai diventato un aspetto marginale.

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Indice

Parte prima I.

I caratteri distintivi dell’economia dei media

4

1. Introduzione, p. 4 - 2. I media e il campo delle comunicazioni, p. 4 - 3. I caratteri economici distintivi, p. 9 - 4. Le fasi della creazione del valore economico, p. 23 - 5. La fase del consumo, p. 30 - 6. La fase della regolazione, p. 34

II. I fattori di trasformazione delle imprese mediali

37

1. Introduzione, p. 37 - 2. L’integrazione delle attività, p. 37 - 3. La crescita delle dimensioni, p. 39 - 4. La globalizzazione delle attività, p. 42 - 5. La concentrazione della proprietà, p. 44 - 6. L’intervento pubblico, p. 45

III. I mercati dei media

57

1. Introduzione, p. 57 - 2. I caratteri nazionali, p. 57 - 3. La struttura diversificata, p. 58 - 4. Evoluzione del mercato italiano, p. 61 - 5. Vincoli al consumo dei media degli italiani, p. 70 - 6. Il mercato dei media in Italia, p. 75 - 7. Il Sistema integrato delle comunicazioni, p. 78

IV. La pubblicità e l’audience

83

1. Introduzione, p. 83 - 2. Il mercato della pubblicità, p. 84 3. Pubblicità, economia e società, p. 85 - 4. L’audience come prodotto, p. 92 - 5. Il mercato pubblicitario italiano, p. 99

Parte seconda V.

L’industria del cinema 1. Introduzione, p. 106 - 2. La produzione, p. 106 - 3. La distribuzione, p. 111 - 4. L’esercizio delle sale, p. 114 - 5.

­­­­­219

106

L’intervento pubblico nell’industria cinematografica, p. 118 - 6. La grande trasformazione, p. 120 - 7. L’industria cinematografica di Hollywood e l’Europa, p. 123 - 8. I film blockbuster, p. 125 - 9. Le finestre di sfruttamento dei film, p. 127

VI. L’industria dei giornali

133

1. Introduzione, p. 133 - 2. La produzione, p. 133 - 3. La distribuzione, p. 139 - 4. Le edicole e i punti vendita, p. 143 - 5. Il mercato della stampa quotidiana in Italia, p. 144 - 6. Dimensioni e struttura del mercato dei quotidiani in Italia, p. 149

VII. L’industria dei libri

153

1. Introduzione, p. 153 - 2. La produzione, p. 154 - 3. La confezione e la distribuzione, p. 158 - 4. La vendita, p. 160 - 5. La lettura di libri in Italia, p. 165

VIII. La televisione

168

1. Introduzione, p. 168 - 2. La produzione, p. 168 - 3. La trasmissione, p. 173 - 4. La vendita, p. 176 - 5. Perché un’impresa televisiva pubblica?, p. 179 - 6. Caratteri del mercato televisivo in Italia, p. 180

IX. I nuovi media

186

1. Introduzione, p. 186 - 2. Le reti-mercato, p. 187 - 3. La frammentazione, p. 194 - 4. L’interattività, p. 197 - 5. L’autonomia del pubblico, p. 199 - 6. La tracciabilità dei consumi, p. 201 - 7. «User-generated content», p. 203 - 8. Nuovi rapporti tra media e pubblicità, p. 206 - 9. Il caso della televisione digitale terrestre, p. 208



Riferimenti bibliografici

213