E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma 9788842090823

"Rispetto alla città il Tevere va al contrario della Senna. La Senna si butta nella Manica, il Tevere nel mar Tirre

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E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma
 9788842090823

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Contromano

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

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Sandra Petrignani E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma

Chiara Valerio Spiaggia libera tutti DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Antonio Pennacchi Le iene del Circeo. Vita, morte e miracoli dell’uomo di Neanderthal

Sandra Petrignani

E in mezzo il fiume A piedi nei due centri di Roma

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria La cartina di Roma è stata realizzata da Luca De Luise

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9082-3

in ricordo di Nico Garrone che doveva raccontarmi i teatri d’avanguardia ma non ha fatto in tempo

Indice

Sul Tevere

5

Una gita in barca, p. 5 Ciriolando sugli argini, p. 9 Tesori e inondazioni, p. 14 Uno sguardo dal ponte, p. 16

«Rive droite»

21

Di qua, di là, p. 21 Trastevere uno e trino, p. 25 Fra pazzi e delinquenti, p. 30 Dove arrivano i piedi, p. 32

Piccolo cuore

43

Isola Tiberina, mon amour, p. 43 Pittore della domenica, p. 46 Una cupola quadrata e un ponte rotto, p. 49 Un’isola non è una barca, p. 52

«Rive gauche»

55

Due passeggiate, p. 55 Da via Giulia al Ghetto, p. 58 Il regno del barocco, p. 64 Ritorno al fiume, p. 70

Rive e derive

75

Ecce San Saba, quasi Testaccio, p. 75

VII

All’ombra dei cipressi e dentro l’urne, p. 78 La Roma è nata qui, p. 81 I cocci del Villaggio Globale, p. 84

Trastevere downtown

89

Vita scapigliata a San Cosimato, p. 89 La buona movida, p. 98 Quando c’era l’underground, p. 103 A via della Lungara ce sta..., p. 108

Simmetrie

113

Lo sparo dal Gianicolo, p. 113 Una stella nell’Orto, p. 117 La Bella Addormentata, p. 121 Arrivederci Roma, p. 124

Personaggi e interpreti (nel ruolo di se stessi)

131

E in mezzo il fiume A piedi nei due centri di Roma

Sul Tevere

Una gita in barca Trastevere è l’unico quartiere di Roma che ha un rapporto stretto col fiume. Lo si capisce solo vivendoci; perfino quando abitavo sull’altra sponda, quella di Campo de’ Fiori, il fiume non esisteva per me come non esiste per i romani in genere. È lontano, ininfluente, dimenticato. Ora lo so, ora che vivo nel quartiere, il fiume appartiene a Trastevere, tutt’uno con esso, tutt’uno con un’idea antica della città. È necessario innamorarsi profondamente di Roma per ricordarsi del Tevere, per riconoscerlo come il sangue nelle sue vene. Bisogna sapere di quando la città degradava verso l’acqua e si nutriva dei suoi pesci e il fiume non era stato ancora relegato nel fondo del canyon costituito dai muraglioni, ma erano tempi in cui esplodeva facilmente invadendo le case, distruggendo animali, oggetti, persone. Quando torno a casa le sere estive, dentro il Ponentino, il «venterello salato» di Pascarella, attraversando ponte Sisto – o ponte Garibaldi o ponte Fabricio – con il sinuoso abbraccio delle anse dell’acqua intorno, alzo gli occhi ogni volta su una bellezza diversa, clamorosa o discreta. Prima ama5

vo soltanto frammenti sparsi di questa città, ora ne ho conosciuto il cuore e tutto il resto si è risistemato in un insieme coerente. Intanto il Tevere è davvero biondo, non è una leggenda. «Così abbiamo visto il Tevere dorato...» scriveva Orazio. Io l’ho scoperto un giorno di primavera del 2004. Quando un’amica, Adriana Polveroni, che doveva fare i sopralluoghi per un documentario televisivo, mi ha invitata a una gita sul fiume a bordo d’un barcone turistico. «Non sapevo che si potesse vedere Roma dal fiume a meno di non essere un canoista che solca la corrente dritto come un fuso, e tu rabbrividisci. E se cade nell’acqua? Uno ha in mente il fatto che il Tevere è inquinato, se ci metti un dito pensi che si contamini all’istante, se poi ci cadi dentro non hai possibilità di uscirne vivo, tifo fulminante o chissà che altro», questo le avevo detto al telefono. Questo pensano i romani. Questo pensavo anch’io che a Roma vivo da quando facevo la seconda elementare. Sono inesperta del Tevere. So quello che sanno tutti: batteri, nitrati, bicarbonati, ammoniaca. E mulinelli. Li vedi a occhio nudo i mulinelli, anche solo affacciandoti da un ponte qualsiasi. E così Adriana m’invitò sul barcone e io accettai. L’aria era tiepida, le acque tranquille. M’imbarcai al ponte Duca d’Aosta, all’altezza del Foro Italico, con qualche turista straniero e la macchina fotografica. C’era anche chi usava il battello per scendere dopo una sola fermata, ma si trattava di un amico dell’equipaggio, in realtà prendeva un passaggio per risparmiarsi il traffico sul lungotevere. «Dunque il fiume di Roma è davvero biondo, fangosamente biondo» commentavo. «Ha un colore morbido» diceva Adriana. «Un colore screziato di bagliori dorati, qui e là virato al verde». 6

Molti alberi sorgono dall’acqua, mentre quelli in alto fanno pendere dalla strada fronde oscillanti giù per i muraglioni: tendono all’abbraccio, cercano l’intreccio dei rami gli uni con gli altri, un incontro, come a voler inghiottire l’intervento umano che ha creato quel muro di separazione, cancellando l’affondo diretto delle case nel fiume dove adesso guardavamo passare papere e canottieri. «Forse i depuratori fanno il loro mestiere, non deve essere proprio mortale il Tevere» rifletteva ad alta voce Adriana. Notammo anche i pescatori, seduti tranquilli con le loro canne e il senso del tempo infinito come tutti i pescatori del mondo. Cinque anni dopo Susanna Tamaro mi ha raccontato, mentre facevamo colazione in un bar di piazza San Cosimato, di un vicino di casa trasteverino che teneva le ciriole – così si chiamano i pesci che si pescano nel Tevere – a spurgare nella vasca da bagno, prima di cucinarsele. Lo ha anche scritto in un libro. Una volta nel Tevere c’erano storioni, cefali, spigole, non solo ciriole, che sono giovani anguille, dette anche fiumarole o chiavicarole. E c’è un verbo bellissimo del dialetto romanesco che oggi non si usa più, “ciriolare”. Vuol dire procedere sinuosi come un’anguilla, destreggiarsi nella vita, cavarsela insomma. Mentre la ciriola, ormai, è per tutti uno sfilatino, un panino tipicamente romano, che ha la forma di un pesce dalla grande pancia. «A ben guardare è un’enorme ciriola il Tevere stesso, con le sue anse pronunciate» disse Adriana quel giorno sul barcone. È vero, mica come il Tamigi che viene giù dritto sparato, o la Senna, maestosa e pomposa, per non parlare del Reno e del Danubio, fiumi larghi e solenni. «Il Tevere è sinuoso, femminile, tutto mammelloni che si insinuano nella città ad allattarla». 7

Così vuole la leggenda dei due fratelli, Romolo e Remo, allattati dalla Lupa, e la Lupa era Roma e Rumon era il suo nume, Rumon che era il Tevere prima di chiamarsi Tiber. Così parla la storia dei nomi se si risale indietro la loro corrente. «Ruma, la città del fiume» la chiamavano gli etruschi, poi la u si è chiusa graficamente in una o lunga, che si pronuncia stretta – così fanno le u nel corso del tempo. Ruma significava mammella. «Guarda il mammellone di fronte all’Isola Tiberina, per esempio» indicava Adriana mostrandomi un punto sulla mappa appesa dentro al battello. Col dito andava ridisegnando la forma tondeggiante dell’ansa, la curva a S del tratto di fiume che stavamo percorrendo. Proprio lì c’erano stati i primissimi insediamenti. E noi ci stavamo arrivando. «Rumina (Romina) era la dea dei poppanti» dissi, reminiscenza scolastica. La barca intanto arrivò all’ultima stazione, la Calata dell’Anguillara, davanti all’Isola Tiberina, quindi girò su se stessa per tornare indietro. Si ripartiva. «È diverso vedere Roma dal fiume, ti cambia tutta la prospettiva, sembra un’altra città». Il più imponente è il ponte di Castel Sant’Angelo, con i suoi angeli ad ali spiegate. Ce lo indicavamo l’un l’altra senza l’ombra d’un dubbio. È inconfondibile, anche visto dal basso. «Ai romani non capita mai di vedere la città dal basso, non hanno un rapporto familiare con il fiume. Non più», l’ho detto io? Non importa. È così. I romani vanno su e giù per i lungotevere, ma non scendono quasi mai le ripide scale che portano agli argini. Vanno in macchina in un traffico infernale, non passeggiano sui lungofiume con quella calma consuetudine che fa venire voglia di scendere verso l’acqua. Così ignorano il fiume, lo temono, lo lasciano a vagabondi, droga8

ti, clochard. Se vanno nei ristoranti sulle chiatte galleggianti, il fiume nemmeno lo guardano, il fiume che era la vita di Roma. L’avrei capito in seguito. Solo i trasteverini lo considerano ancora cosa loro, i trasteverini costretti a passare i ponti «per andare in città», i trasteverini che l’odore salmastro lo sentono nell’aria fino in casa, così come sentono e vedono i gabbiani, che riempiono i vicoli silenziosi di richiami. Trastevere è il cuore di Roma, perché è la parte antica che non cede, che resta stretta all’anima dell’agglomerato originario, popolano, superstizioso, paesano, bigotto. Fiumarolo. Aveva capito tutto di Roma Laura Betti, la grande amica di Pier Paolo Pasolini, che abitava in via Montoro, dietro Campo de’ Fiori: «È una città di campagna, dove puoi uscire di casa zoccolando» diceva. A Roma si zoccola e si ciriola. E se non lo sai fare, o – peggio – te ne vergogni, non potrai dirti romano.

Ciriolando sugli argini Un giorno prendo la bicicletta e vado. Entro a ponte Sublicio, dalla parte di Porta Portese, dove c’è una discesa comoda: si può arrivare, percorrendo gli argini, fino a ponte Milvio. Susanna era stata severa: «Il lavoro che hanno fatto è pessimo perché, se quel percorso fosse davvero una pista ciclabile, dovrebbe essere liscio e non tracciato scenograficamente sui sanpietrini». È vero, sobbalzo in continuazione, ma vado piano per non perdermi niente e così mi risparmio pericolosi inciampi e non lo trovo spiacevole. Procedo a zigzag per evitare pietre sporgenti e scalini di varia natura, ciriolo. Non m’imbatto nemmeno nei soliti rifiuti di cui sempre si parla quando si parla del Tevere. Due sono le cose: o oggi sono molto fortunata oppure il Comune comincia a farsi carico 9

della presentabilità del suo fiume. Voglio essere ottimista e scelgo la seconda ipotesi. Susanna Tamaro, prima di essere una scrittrice, è una naturalista. Mi ha raccontato così i suoi vagabondaggi sul fiume nei primi anni ’80, l’epoca in cui si è trasferita da Trieste a Trastevere: «Nel mese di maggio, quando le acque erano basse, al crepuscolo, mi piaceva andare a passeggiare nel prato tra ponte Garibaldi e il ponte di Porta Portese per ascoltare gli usignoli – sì c’era proprio un prato – e poi mi piaceva guardare i martin pescatori, quei piccoli meravigliosi gioielli cromatici, che si tuffavano a capofitto nell’acqua torbida. Tuttora, quando passo in bici o a piedi sul ponte Testaccio, mi fermo nella speranza di vederne uno. Visti dall’alto sono magnifici: un lampo di turchese pressoché perfetto. Le due rive allora erano incolte, piene di vegetazione spontanea, giovani platani, figli di quelli del lungotevere, salici bianchi, e le tipiche erbe di ripa. A volte ho visto degli aironi cenerini, delle garzette, o delle coppie di germani reali». Non vedo niente di tutto questo, adesso. Solo i soliti gabbiani, e poi i cartoni, quelli dei barboni, ordinatamente ripiegati sotto i ponti. I ponti, di nuovo l’ebbrezza di osservarli dal disotto con una sensazione che mi riporta le parole di Susanna: «Il frastuono della città si fa ovattato, si allontana. A un certo punto smetti di sentirlo. Non ci puoi credere: Roma e il suo caos sono là sopra e tu, lì sotto, immerso nella natura pacifica, silenziosa». L’acqua ti scorre di fianco verdedorata con la «rapina delle sue correnti» per citare l’inevitabile Giuseppe Gioachino Belli. Vedo il ferro del ponte Palatino, quello che i romani hanno ribattezzato ponte Inglese perché le auto, per semplificare il traffico, ci passano al contrario rispetto alla direzione consueta, come in Inghilterra. Subito dopo c’è ponte Rotto, 10

pittoresco moncone invaso dai rampicanti, quanto resta dell’antico pons Aemilius, il primo in pietra. Ed ecco l’Isola Tiberina con i suoi due ponti-gomene, Cestio e Fabricio, quasi che senza di loro potesse andarsene alla deriva. Dopo ponte Garibaldi, c’è il mio preferito, ponte Sisto, con le quattro arcate che si rincorrono e l’oblò di deflusso sul pilone centrale, da sempre usato come indicatore dell’altezza pericolosa dell’acqua. Chi ci cammina sopra non può vederlo quell’occhialone che è la sua caratteristica e che lo fa somigliare al disegno di un bambino. Un bambino un ponte se lo immagina così, un po’ storto, ben piantato dentro l’acqua, che ne sa lui di tufo e di travertino: quattro arcate disegnate sulla carta, un tondo buco centrale, la gente instancabile che ci cammina sopra e tanti cani che chiedono l’elemosina insieme ai loro padroni. Mi sembrano cani anche le sagome bianche disegnate lungo il parapetto, chi le avrà dipinte e perché? Quando sono comparse? Un suonatore di sax ti accompagna per tutto il percorso con la sua musica. Mi dice Roberto, che non ha fissa dimora, ma lo trovi sempre nella stessa piazzetta: «Seh! Adesso te piace de sentillo sonà, ma quanno che stavo sotto ponte Sisto, la notte era ’n incubo. Nun potevi dormì. E lui daje che sonava, e nun sapeva sonà, te faceva saltà i nervi, te faceva. Per questo me ne sò annato via dallì, che ce stavo pure bene. E me sò messo sotto ponte Fabricio...» La storia di Roberto, però, la racconto più avanti, adesso devo finire la mia passeggiata. Sotto ponte Sisto vedo dipinta sul muraglione dell’altra sponda, la sinistra, ancora una serie di “cani” bianchi, che giocano fra loro, nuovo elemento allegro su questi argini poco frequentati, dove la gente ha paura di essere aggredita, o peggio. Sono sempre più incuriosita. Sarà Viktoria von Schirach, un’amica tedesca che da 11

diversi anni vive a Roma e lavora nell’editoria, a rivelarmene l’origine: «È ciò che rimane di un’installazione dell’artista americana Kristin Jones, dedicata alle varie forme della Lupa, il simbolo di Roma, nel corso dei secoli. Le sagome saranno a poco a poco riassorbite dalla pietra nel tempo». Ma per ora vivono festose lungo il fiume e sul ponte. Col sole scintillante di oggi c’è qualcuno che corre solitario e rari ciclisti mi superano o pedalano nell’altro senso, tutti più veloci di me. Ecco che in un soffio mi lascio alle spalle il ricamo bianco di ponte Mazzini, colgo con la coda dell’occhio la cupola di San Giovanni dei Fiorentini al di là di lungotevere Sangallo e dunque deduco che sto per passare sotto ponte Amedeo d’Aosta. Il prossimo è ponte Vittorio Emanuele II, che corrisponde all’omonimo Corso, dunque il successivo è pons Aelius, detto poi ponte di Castello e oggi Sant’Angelo. Procedo più in fretta adesso. Ponte Umberto I: qui sotto, negli anni ’30, era ormeggiato il galleggiante di Eracle Tulli, noto in tutta Roma per il suo primato di salvataggi. Ponte Cavour, che era quello di Mister Okay, un ex campione olimpionico italo-belga. Nel 1945 inaugurò la tradizione dei tuffi dal ponte ogni primo dell’anno. Ma il Cavour è anche chiamato ponte dei Suicidi da quando un tal Augusto Formilli (9 luglio del 1890) ci ha scaraventato giù la moglie Rosa Angeloni e poi, per imitazione, hanno cominciato a buttarcisi i suicidi. Devono aver pensato che fosse un luogo abbastanza maledetto per morire. La mappa dei posti ideali per suicidarsi a Roma richiederebbe un altro capitolo. Preferisco restare sul Tevere, in bicicletta, di primavera. Verso ponte Regina Margherita incontro un gruppo di pescatori e case galleggianti. Un bar, un ristorante. Capisco a cosa servono i grandi anelli di ferro conficcati nel muro che mi sembravano ganci per i cavalli. Ma quali cavalli? Chi mai a 12

Roma verrebbe qua sotto a cavallo? Servono ad ancorare i barconi. Funi d’acciaio attraversano l’argine per tenere ferme le zattere galleggianti. Funi nemiche dei ciclisti, si rischia di lasciarci la testa. La fantasia della testa che finisce nel Tevere, mozzata di netto dal cavo, ha qualcosa di cinematografico, ma sì, l’episodio di Fellini in Tre passi nel delirio finisce proprio così. Rabbrividisco e supero ponte Pietro Nenni, dove passa la metropolitana di superficie. Mi concedo una sosta di fronte allo scalo Francesco De Pinedo, perché c’è una vecchia storia da raccontare, anzi due, una allegra e una triste. Se si vuole avere un’idea di com’era un porto di Roma prima dell’avvento dei muraglioni – dighe per difendersi dalle troppe intemperanze del Tevere, ma anche perdita del rapporto carnale fra i romani e il loro fiume – bisogna guardare questo “scalo” perché la sua struttura a rampe, elegante e armoniosa, riproduce pari pari quella del settecentesco porto di Ripetta, poco più giù, distrutto, appunto, dall’avvento degli argini. Era detto della Posterula, che vuol dire porticina – quella di via della Pila, accesso diretto al fiume – e veniva riservato all’attracco di piccole imbarcazioni, cariche di merci e legna, provenienti dall’Umbria e dalla Toscana. Ma ecco le storie: 7 novembre 1925, l’aviatore Francesco De Pinedo, alla guida dell’idrovolante Gennariello, conclude in questo punto, in mezzo all’acclamazione di una folla esultante, un felice volo transoceanico. Purtroppo è su questo stesso lungotevere Arnaldo da Brescia che un anno prima fu sequestrato e poi ucciso, da una squadra di cinque fascisti della polizia politica, il deputato socialista Giacomo Matteotti. La stele che Iorio Vivarelli gli ha dedicato, nel cinquantenario del delitto, domina le rampe dal ’74. Mancano ancora due ponti al traguardo, Risorgimento e Duca d’Aosta, per arrivare a ponte Milvio. Questo ultimo 13

tratto è piacevolissimo, finalmente la pista ciclabile è una vera pista ciclabile. Si può anche salire senza sforzo eccessivo sulla strada e percorrerne un bel pezzo sotto l’ombra fitta degli alberi. Da ponte Milvio partiva la gara di nuoto annuale organizzata dallo stabilimento balneare Ciriola, un galleggiante piazzato sotto ponte Garibaldi, che era il punto d’arrivo. Laura Del Pio, nata nel ’23 ai Banchi Vecchi, trasteverina dal 1935, di professione sarta, se lo ricorda, anche se non si ricorda il cognome del gestore: «Me pare se chiamasse Luigi, ma li cognomi qui a Trastevere propio nun esistono. Solo nomi e soprannomi. Era tutto de legno lo stabilimento. Mi’ fratello e mi’ padre c’annavano. Noi donne no. Noi donne se lavorava da mane a sera. Mentre loro sguazzaveno, noi s’annava a lavà li panni a la fontana der Cipresso. Nun ce l’avevo l’acqua ’n casa». Luigi “Ciriola” era un pescatore di anguille e gestiva capanne di canne per i bagni sul fiume. Un giorno acquistò un rimorchiatore in disarmo e ne fece il primo stabilimento galleggiante. La sua gara di nuoto, molto cara ai romani, durò fino al 1939. Poi la guerra fermò tutto.

Tesori e inondazioni Attraversavo piazza Santa Maria in Trastevere insieme a don Matteo, il parroco, che mi voleva far visitare un asilo per figli di immigrati della Comunità Sant’Egidio. L’asilo è esattamente dalla parte opposta della piazza rispetto alla chiesa, in un vicolo. Non è una cosa facile camminare con una celebrità come don Matteo Zuppi a Trastevere. A ogni passo si avvicina qualcuno che fa un saluto, che chiede qualcosa, che mostra il suo bambino. Don Matteo ha uno spicciolo, un indirizzo, una carezza, un’indicazione per tutti. Così si procede 14

lentamente e ci si trova al centro di un mondo di bisogni e riconoscenza, sorrisi e drammi, tessuto nascosto del quartiere. A un certo punto si è avvicinato un uomo molto alto, i capelli neri appena rigati di bianco raccolti in una lenta coda di cavallo, che portava con sé – una corda per guinzaglio – due grossi cani miti come lui. «Paolone del Tevere» me l’ha presentato don Matteo allungando una mano a stringergli la spalla. Lo si incontra spesso su e giù per i ponti, l’andatura dinoccolata, i cani attaccati ai talloni. Oggi è molto triste, gli hanno tolto i cuccioli appena nati. «Chi te li ha tolti?» chiede don Matteo. La domanda resta senza risposta. «Per poco non mi toglievano anche la madre, non so che avrei fatto se mi toglievano la cagna», lo dice come parlasse di sua figlia. Poi apre la mano sporca di fango e mostra qualcosa, che assomiglia a una grossa medaglia incrostata. È un sesterzio. Un’autentica moneta dell’antica Roma. Uno dei tanti sesterzi, mi racconta poi don Matteo, che il fiume restituisce e che Paolone, vivendo accanto all’acqua, raccoglie. Ho così la conferma di una leggenda: che il rapinoso Tevere sia ancora pieno di tesori, oltre quelli affiorati negli anni e fra i denti delle ruspe durante la costruzione di ponti e muraglioni. Ora riposano all’asciutto di un museo. Corpi di statue senza testa, o teste di sculture senza più il corpo; armi di fogge ed epoche diverse, dalle lance dei lanzichenecchi agli archibugi francesi alle pistole garibaldine, testimonianze delle guerre furibonde che sempre gli uomini si sono fatti e che il Tevere continua a restituire. Fino alla costruzione degli argini e dei muraglioni, durata cinquant’anni e conclusasi nel 1926, il Tevere era una belva 15

addomesticata, luogo di bagni estivi, risorsa pescosa, con porti affaccendati e molti mulini mobili sull’acqua. Ogni tanto però, circa due volte l’anno, la belva s’innervosiva, scuoteva il groppone buttando all’aria ogni cosa e, quasi sempre, piombava nelle strade contigue, distruggeva le casupole ammonticchiate sull’Isola Tiberina, penetrava nei conventi di via della Lungara, gettando il panico fra le suore e rubando dalle dispense pane e viveri, ogni sorta di oggetti. E così faceva dall’altra parte, nei vicoli del Ghetto e verso Campo de’ Fiori. Usciva a ponte Milvio inondando le campagne fino a Porta del Popolo. Anche di lì entrava in città. E la fontana della Barcaccia costruita da Pietro Bernini con il figlio Gian Lorenzo nel 1629, in piazza di Spagna, volle essere un ricordo della terribile inondazione del 1598, che trascinò una barca fino in quel punto, tanto distante dal fiume.

Uno sguardo dal ponte Il pittore Guido Strazza abita nel Ghetto, all’Arco de’ Cenci, e ha lo studio in Trastevere in via Peretti, fra la basilica di Santa Cecilia e il fiume. Prima stava in piazza Mercanti, sopra al ristorante Meo Patacca, una delle piazze più caratteristiche della Roma medievale. In genere, per passare da una sponda all’altra del Tevere, a piedi, percorre ponte Garibaldi. «Perché godo della vista migliore. A sinistra ponte Sisto, i pini giganti del Gianicolo, e la cupola di San Pietro, a destra l’Isola Tiberina, o viceversa. Non si contano più, in quasi cinquant’anni ormai, le volte che ho fatto questo percorso nelle due direzioni». È un toscano che ha vissuto a Venezia e a Milano prima di mettere radici a Roma, la città che gli è entrata nel sangue e nell’opera con le sue pietre e i suoi archi, trasformati in segni evocativi, essenziali. 16

«Pietre vive, che parlano di solidità e di cammino» dice. Chiacchieriamo nell’ampio studio, seduti comodi nella penombra fresca dei vecchi muri. Mi indica la base di una colonna, incastrata nella parete, che usa come tavolinetto d’appoggio. «Sono così queste vecchie case del Centro: ti spunta sempre fuori un’antica colonna, un’iscrizione di marmo, una pietra che rivive in un uso contemporaneo. Perché ha infinite vite. E non importa se non ne conosci la storia. Lo stesso per il linguaggio. Ho sentito vecchi romani dire: “Ti capiterà come a Canne”. Non sanno niente di guerre puniche e di come i romani si fecero massacrare da Annibale. Ma gli resta il ricordo di un’umiliazione, di una disfatta». Con il fiume, da giovane, aveva un rapporto fisico, andava a fare il bagno all’Acqua Acetosa. «Ora lo guardo dai ponti. Ma è comunque una presenza imprescindibile, quanto i sanpietrini. Qualcuno li detesta perché ci s’inciampa e ci si scivola, rendono il terreno irregolare e le strade sono tutte ondulate, ma senza i suoi antichi selci Roma non è più Roma». Mi spiega che si chiamano sanpietrini da quando nel 1725 furono utilizzati per lastricare piazza San Pietro. Mentre parla lo seguo in un piccolo ufficio del loft. Alla parete noto una poesia incorniciata di Rafael Alberti – trasteverino dal ’63 fuggendo il franchismo – dedicata all’amico Strazza che intanto ha trovato ciò che cerca, una litografia: il disegno di quel che vede dal ponte quando da Trastevere se ne torna a casa. Le arcate di ponte Sisto che si riflettono nell’acqua, la gobba d’asino, l’occhialone. Pochi segni forti e scuri tratteggiano gli alberi e sopra spunta il cupolone. Roma, acqua e pietra. Roma in cui le distanze improvvisamente s’accorciano, perché il suo fiume sinuoso e i suoi dislivelli fanno di queste magie. Avevo promesso la storia di Roberto, che vive in strada, nella piazzetta dove affaccia la porta di casa mia. La mattina, 17

quando esco, inciampo nel suo cane, Brenda, pastore maremmano bianchissimo con gli occhi neri, femmina, distesa sul mio zerbino. Ho fatto amicizia prima con lei, mi viene più facile fare amicizia con gli animali. «In ogni città c’è un punto d’incontro della gente che si sposta da una parte all’altra del mondo. I vagabondi lo sanno» mi ha spiegato Roberto. «Trastevere era, a Roma, questo punto strategico. Io sono arrivato qui che Francesco Rutelli era appena diventato sindaco e il movimento punk era forte, con Pippo e i suoi. Bei tempi. Mi sono anche divertito, ma il prezzo l’ho pagato tutto». «Era il ’93. Una manciata di anni, mica un’eternità. Cosa è cambiato?» «Non dico tutto, ma tanto. Sant’Egidio è diventata una potenza. Chi c’ha la vita impicciata non frequenta Sant’Egidio, lo beccano subito. Prima a Trastevere si ritrovavano gli sgangherati, i punk-a-bestia, i fricchettoni, i turisti di strada. Ora meno, c’è più rispettabilità. E alle mense dei poveri incontri soprattutto immigrati. Ho avuto una rissa con un gruppo di polacchi, che erano protetti da papa Wojtyła e avevano invaso Roma. Mi hanno rotto i denti davanti e alle mense non ci sono più andato. Ora ci stanno i rumeni». Roberto Di Feliceantonio è nato una quarantina di anni fa a Roma nel mio stesso giorno, il 9 di luglio. È cresciuto e ha studiato in Svizzera, infatti parla benissimo il tedesco e dice «sono uno dei pochissimi, fra quelli che vivono per strada, che ha studiato». I suoi genitori, operai emigrati, lo hanno lasciato troppo giovane per governare da solo un improvviso e tragico ribaltamento del destino. Il padre è morto suicida e lui ancora non glielo perdona: «È stata una vigliaccata. Se si è nati, bisogna tirare avanti fino alla fine: è una regola del gioco. Non puoi interromperla quando ti pare». 18

La madre si è ammalata di tumore al fegato. «Aveva paura di morire e io cercavo di confortarla come potevo. Cercavo una spiegazione. Ho incominciato a interrogarmi sul senso della vita: non è possibile che nasciamo solo per morire, no? E che stiamo a fare, a perdere tempo? Ma insomma, lei è morta e io mi sono trovato senza casa – era della ditta per cui lavorava – e con un po’ di soldi che m’aveva lasciato e che ho bruciato rapidamente. Ho interrotto gli studi e sono tornato in Italia, e qui... me sò perso». Espropri proletari, furto di energia elettrica, droga, okkupazioni (s’istalla illegalmente nella seconda torre delle Mura Aureliane a Porta Pinciana) e finisce in carcere a Regina Coeli. Poi il fiume e la strada. Brenda l’ha trovata al Pantheon, una cucciola di tre mesi, abbandonata come lui. «La strada è una guerra continua, ti possono rubare tutto, tutto il poco che c’hai, da un momento all’altro. Ma volano le pizze se vengono a prendermi le cose mie. È come in galera: ne acchiappi uno, lo massacri di botte e gli altri non ti toccano più. Però gli anni passano e non ho più la forza di prima. Se sto qui è perché ammazzarsi è peccato, ma se qualcuno m’ammazza mi fa un favore. Basta non soffrire: vorrei morire all’istante». Ha allenato Brenda a fare la guardia alle sue cose quando si allontana. Sparge croccantini per cani intorno e le ordina di non toccarli. Brenda è ubbidiente, non li perde d’occhio, ma non li mangia. Però se qualcuno si avvicina, temendo che voglia rubarle i croccantini, abbaia e arriccia i baffi come una furia. Roberto mi ha fatto promettere che, se mai a lui succedesse qualcosa, prenderò Brenda con me. Adesso un gruppo di solerti cittadini, organizzati da un avvocato che vuole fare carriera politica, si sta mobilitando per scacciare Roberto dalla sua postazione. «Lei non sa cosa ri19

schia a proteggere un simile individuo» mi ha minacciata al telefono. Ho capito l’idea che si è fatto: Roberto è senz’altro il mio pusher. Non è vero, ma effettivamente siamo complici in comportamenti fuori norma, ci diamo del tu e parliamo di piante, di cani, di gatti e di argomenti bislacchi come il possibile sbarco di extraterrestri, la sopravvivenza dell’anima, l’esistenza di un qualche dio. Se davvero Roberto verrà allontanato e una telecamera sarà istallata a sorvegliare la piazzetta, i ricchi potranno vivere tranquilli e Trastevere sarà un po’ meno Trastevere.

«Rive droite»

Di qua, di là Rispetto alla città il Tevere va al contrario della Senna. La Senna si butta nella Manica, il Tevere nel mar Tirreno, e dunque l’una si volge al nord, l’altro procede da nord a sud. Per questo la rive gauche di Roma, intesa come orientamento politico, è geograficamente la rive droite. E Trastevere, che incarna il quartiere intellettuale, artistico e bohémien della capitale – come a Parigi è Saint Germain, collocato a sinistra rispetto al corso della Senna – si trova invece sulla sponda destra. Ma questo è solo un divertimento, un gioco di parole, un bizzarro incrocio di mappe e concetti. Trastevere è, comunque, un a parte. Gli indigeni e quelli di una certa età, che hanno fatto in tempo a viverci prima dell’avvento degli americani, dei ricchi, degli intellettuali, non sentono il quartiere come porzione del centro di Roma. Hanno il forte orgoglio di essere altro, come se la città vera e propria cominciasse al di là del fiume. La signora Rina di vicolo del Cinque – la Laurina Del Pio che abbiamo già conosciuto – a un certo punto mi dice: «Quando ero giovane lavoravo al Centro, a via delle Convertite, dellà, dietro il Parlamento». «Come “al Centro”, questo non è pure il Centro?» 21

Mi guarda stupita e poi scoppia a ridere: «Questo è Trastevere!» Un posto sgangherato e meticcio, che è stato troppo povero, ed è ancora troppo pieno di poveri, per aspirare a essere Centro. Il Centro è nobile, è la Città Eterna, è “di là”. E poi la storia parla chiaro: Trastevere ha dovuto aspettare l’inizio del 1300 per essere considerato un rione di Roma, la sua alterità viene da lontano, affonda nel buio dei tempi. In età imperiale le mura di Roma erano sulla riva sinistra del fiume e l’avanguardia che valicava il Tevere per stabilirsi sull’altura del Gianicolo era fatta di militari, guarnigioni addette alla difesa, sentinelle. Le ville patrizie che vi sorgevano erano case di campagna, fattorie. Per duemila anni in questa sponda del Tevere si erano insediate colonie commerciali straniere, ebrei soprattutto – che solo nel Medioevo riusciranno a trasferirsi dall’altra parte, cioè a entrare in città. Fiume e commerci, porti e marinai, stranieri. Gentaglia. Dove sono i marinai, ci sono le prostitute. Quante prostitute a Trastevere, così come dall’altra parte, del resto. Prima della spaccatura creata dai muraglioni le due sponde del fiume non erano fortemente separate, la separazione cominciava più oltre, dellà era più in là. Fra il fiume e Campo de’ Fiori c’era un vicolo che si chiamava Calabrache, una specie di via a luci rosse, diremmo oggi. Ci stavano la camiciaie, povere donne cariche di figli che, per arrotondare il magro salario del lavoro onesto, vendevano sesso a pochi soldi. Ecco dove affonda le radici la caratteristica un po’ sordida che fino a oggi sopravvive in Trastevere. Non più intorno a Campo de’ Fiori, invece, dove l’eleganza nobile di via Giulia si è ormai riverberata sul rione e dove il famoso mercato della piazza, che era fra i più popolari ed economici della città, si permette adesso prezzi degni dei Parioli e di altri quartieri altoborghesi. 22

«Pensare che mamma mia», ancora la sora Rina di vicolo del Cinque, «andava a fare la spesa a Campo de’ Fiori per risparmiare! Era proprio la parte più povera dei poveri quella...» In un modo o nell’altro era diversa da Trastevere, era pur sempre un “di là”. Questa storia del «di qua, di là» mi diventa chiarissima quando conosco Stefania Innocenti nello storico forno in via della Luce, tramandato di padre in figlio da oltre un secolo. «Qui si sta come dentro una bolla protetta» racconta. «È tutto un altro vivere. Io, quando vado dellà, mi sento male, trovo tutto abominevole. E per quanto ti diranno che Trastevere non è più quella d’una volta, per quanti cambiamenti ci possono essere stati, dai retta a me, Trastevere non si smentisce, Trastevere è un’altra cosa». Aleggiava intorno a noi l’odore delle frappe – che altrove si chiamano chiacchiere, crostoli, bugie, cenci – perché si era a Carnevale. Mentre parlavamo, andavano e venivano i clienti, e non si limitavano a comprare e basta, si fermavano un po’, partecipavano alla conversazione, raccontavano quello che avrebbero fatto durante la giornata. Sembra che nessuno vada di corsa “di qua”, improvvisamente avviene questo miracolo: la fretta resta fuori della porta. Quel giorno a un certo punto è entrato pure Filippo Ceccarelli, che abita proprio sopra, «e passa anche solo per un saluto tutti i giorni» mi ha informato Stefania. Non lo vedevo da anni e ora scoprivo di essere venuta ad abitare a pochi metri da casa sua e di sua moglie, Elena Polidori, una coppia di giornalisti e veri trasteverini, non improvvisati come me. Elena, scoprirò, era compagna di scuola di don Matteo – il mondo è piccolo – e la ritroverò nelle antiche stanze del blocco di Santa Maria a tenere una conferenza sulla crisi econo23

mica. Matteo definisce queste attività “catechesi”, forme di riflessione sulla relazione fra l’essere cattolici e le vicende, anche mondiali, della realtà circostante. Sarà una conferenza amichevole e informale. Filippo parla quel romano strascicato e carezzevole che non si sente quasi più. Suo nonno Giuseppe è stato un grande conoscitore di cultura e folklore della città, noto come Ceccarius, direttore per tanti anni della rivista «L’Urbe». La Biblioteca Nazionale gli ha dedicato una sala che conserva il suo Fondo, mentre il figlio Luigi Ceccarelli ne continuò la tradizione “romanista”. Non così Filippo che, insomma, quel giorno di Carnevale è entrato nel Biscottificio Innocenti, come fa tutte le mattine, ha addentato una pastarella, perché Stefania insisteva che l’assaggiasse contro la protesta «sono a dieta!» e, pur dicendo «devo scappare al giornale», si è appoggiato a un tavolo dove sostavano anche altri avventori, e si è messo ad ascoltare di quando Marcello Mastroianni, che abitava «qui in Piscinula» e passava pure lui tutti i giorni a fare due chiacchiere, portò Sofia Loren che stava girando La ciociara. «Era bellissima, dio quanto era bella, non ci potevo credere». Ci siamo salutati dicendo sicuramente «ci vediamo» come si dice sempre a Roma. Ma lo sai che non succederà, o succederà solo per caso, come oggi. A proposito di Mastroianni, mi viene in mente Vittorio Gassman, che una volta sono andata a intervistare in una casa nei pressi di piazza del Popolo, e penso a quanto sia emblematico che il ciociaro Marcello, figlio di artigiani benestanti, fosse diventato trasteverino, mentre il genovese Vittorio, di famiglia aristocratica, fosse una presenza familiare in via del Corso. Due grandi attori che in un modo o nell’altro rappresentano Roma, le due facce di questa città, aperta ed esclusiva, le due sponde del Tevere, deqquà, dellà. 24

Trastevere uno e trino Ma poi Trastevere ha anche un’altra anima, devota, spirituale. Se no da dove verrebbero tutte le sue chiese, i suoi conventi, le tante case dei poveri, gli ospizi, gli ospedali? Fin dall’inizio, quando il cristianesimo era perseguitato, era in questa landa fuori porta che riparavano per nascondersi i primi cristiani. In una Babele di lingue, in mezzo a gente che sbarcava il lunario nei modi più fantasiosi, fra avventurieri, pellegrini e donne costrette dal bisogno alla promiscuità, metteva radici un credo che parlava d’amore, di riscatto, di perdono. Nei conventi le suore accoglievano le ragazze perdute. In molti casi le monache non erano propriamente delle sante; erano state, per la maggior parte, costrette al velo dalle famiglie e riversavano la sofferenza, in forma di tormento e sopruso, sulle disgraziate che prendevano rifugio presso di loro. E queste poverette che, in cambio dell’accoglienza, erano obbligate a monacarsi anche loro, cresciute nei conventi, nelle case di correzione, talvolta nei manicomi, come altro potevano consolarsi se non nutrendo dentro di sé la fede nel miracolo, un’idea di cambiamento che piove dal cielo? La storia di Trastevere è piena di miracoli, di statue di santi che piangono, di feste e processioni per ricordare qualche fatto straordinario. La sua vocazione umanitaria assistenziale è una delle caratteristiche più forti, e non solo per la presenza cruciale della Comunità di Sant’Egidio e per le mense dei poveri. Immigrati, senzafissadimora di diverse età e nazionalità, punk-a-bestia qui si mischiano, senza lo iato severo di altri quartieri, alla cittadinanza comune, che forse però tanto comune non è. «Certo che non lo è» si stupisce del mio stupore lo scrittore Mario Fortunato. «Dove altro trovi questo universo po25

polato da persone anomale, un po’ artistiche e un po’ popolane, interclassiste? Da ragazzino, a Crotone, vidi un film di Fausto Tozzi che s’intitolava Trastevere. Rendeva bene questo amalgama di irregolarità. M’innamorai del posto e decisi che, semmai fossi arrivato a Roma, avrei voluto vivere lì. Perché sei al centro della città, senza l’arroganza del Centro. Trastevere ha un’idea modesta di sé. È un mondo alla rovescia». Alla rovescia e diviso almeno in tre parti. Questo lo si capisce subito, appena arrivati a vivere nel quartiere. «Intanto c’è la lunga ferita di viale Trastevere che spacca il rione in due, come una mela», mi dice un’amica sociologa, Sara Bentivegna. Lei vive nella parte incasinata della mela, quella di Santa Maria. Io in quella tranquilla, dominata dalla basilica di Santa Cecilia. E anche se ognuno tende a starsene rifugiato nella sua porzione di quartiere, a noi di Santa Cecilia tocca di più attraversare il viale perché di là – ancora un altro dellà – ci sono i negozi importanti, le botteghe storiche, i supermercati, il mercato, le librerie più fornite, i ristoranti più frequentati, le farmacie. È come guadare un fiume, ogni volta. Ma non basta. Quel “di là” è a sua volta diviso in due poli d’attrazione: il primo è costituito dalla cerniera Santa Maria in Trastevere-piazza Trilussa giù giù fino a via della Lungara e all’Orto Botanico, il secondo è piazza San Cosimato e tutto ciò che le ruota intorno, dall’ospedale Regina Margherita, da una parte, alle pendici del Gianicolo dall’altra. Il quartiere si ricongiunge più o meno all’altezza di San Pietro in Montorio, su via Garibaldi, e subito si confonde e si smarrisce dentro un altro quartiere, che è Monteverde Vecchio. E mentre i trasteverini di Santa Cecilia sono i meno territoriali – forse perché questa era la parte portuale, chi viene e chi va, fatalista, marinara – quelli di là si contendono in modo sotterraneo, silenziosamente accigliato, il primato dei più “noantri”, 26

tanto che fino a non troppo tempo indietro quelli di via della Scala facevano la sassaiola con i sancosimatini e, a sentir loro, persino il dialetto avrebbe delle sfumature diverse. Io sapevo di sassaiole con i monticiani (gli abitanti del quartiere Monti, l’antica Suburra) che fino a tutto l’Ottocento si combattevano annualmente al Foro Romano. Ora scopro che la tradizione è più recente e intestina, e si tramanda con rivalità legate a piccole differenze di usi e costumi, oltre che linguistiche. Grande e sentito ancora oggi, poi, è l’antagonismo con i testaccini, gli abitanti del vicino quartiere Testaccio, dall’altra parte del Tevere. «Li testaccini sò proprio ’n’antra cosa» mi ha detto Franco Casavecchia, detto er Ciambella. «Ah, sì, e perché?» «Me chiedi perché? E che c’hanno loro? Giusto er campo de la Roma!» (Poi m’informerò: il nuovo Campo Roma è risorto nel 2000 nell’area dello storico Campo Testaccio, gloriosa arena della squadra calcistica dal settembre 1929 al giugno 1940). È insieme al Ciambella e a un gruppo di altri abitanti storici del quartiere, che un pomeriggio m’inoltro nel cuore del cuore di Roma. Siamo Da Biagio, al 64 di vicolo della Scala, una bottega che esiste dai primi anni ’50. Era un Sale e tabacchi, poi diventato vineria ed è rimasto intatto negli arredi di legno e soprattutto nella vita che vi scorre dentro. È finito anche in un film, Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio, senza che l’imprevista notorietà scalfisse minimamente le abitudini dei frequentatori, che si siedono a bere un bicchiere, a comprare l’olio, a fare due chiacchiere con Biagio, gestore dal ’72. È di Pescasseroli, ma è stato accettato dai romani come uno di loro, cosa piuttosto rara fra i trasteverini. 27

«È uno de noi: ladri, zoccole e delinquenti» grida ridendo Wilma. «Mica come li signori che se sò comprati tutto e c’hanno cacciati da le case nostre e mo’ vojono mescolasse co’ noi. Ma noi vivevamo co’ le porte aperte, le chiudevamo coi laccetti. Tutti ladri e delinquenti eravamo, ma nun ce rubbavamo fra de noi. C’era un grande rispetto, c’era». Ha i capelli bianchi tirati a crocchia, il viso strafottente e lo sguardo chiaro. «A noi ce rode propio er core» dice scuotendo la bella testa. Racconta che è riuscita a restare nella sua casa di vicolo del Bologna perché i parenti gliel’hanno comprata nel 1981 per venti milioni di lire. «E ’ndo’ annavo co’ tre fiji? Ma un sacco de gente è dovuta annà a vive in periferia, a morì de solitudine. Noi qui eravamo tutti ’na famija». La discussione s’accende sui tempi andati: «Te ricordi er Cacarella?» «Te ricordi le piscione?» «Te ricordi er padre de Claudio Villa che c’aveva la botticella?» La botticella è la carrozzella a cavalli, questo lo so, che oggi sopravvive per dare ai turisti l’impressione del passato con il clic-clac degli zoccoli sui sanpietrini. Ma il Cacarella, le piscione? Voglio sapere. Per tutta risposta ottengo una canzone, «la canzone del Cacarella, che c’aveva una trattoria», parla dei “fanatici” che alla Festa de Noantri si mettono tutto l’oro addosso per farsi invidiare. «Qui tutti abbiamo un soprannome» mi spiega Casavecchia. «E tanti li conosciamo solo per soprannome. Se me dici er nome, magara nemmeno li reconosco. Er Breccola, er Nasone, la Crostona. Mi’ fratello lo chiamano er Piccoletto». Sulle piscione esplode l’ilarità. «Per fare pipì senza perdere tempo, nelle processioni le 28

donne non si fermavano, si pisciavano sotto direttamente, tanto le mutande non le portavano» mi spiega sottovoce Roberto Pilas, di professione tuttofare, «per questo erano dette piscione». Mi regala anche un suo personale ricordo delle botticelle: «Vivo in via Garibaldi, sotto al livello stradale. Le carrozzelle tornavano la sera alle nove meno un quarto. Ci potevi caricare l’orologio. Sentivo il rumore delle ruote e mi tremava il soffitto: erano dirette alle stalle di vicolo dei Panieri e al Mattonato. Oggi sento le rotelle dei bagagli trascinati dagli ospiti del Bed&Breakfast». Quando entra Amelia, la parrucchiera più famosa di Trastevere perché sorella di Lando Fiorini, il cantante popolare che da una quarantina d’anni si esibisce al Puff, un cabaretristorante cuore del folklore romanesco, il discorso volge sulla cucina e su un leggendario Circolo (culinario) della Tavola Rotonda di cui il Ciambella e sua moglie sono fra i più insigni rappresentanti. Ma un po’ tutti sanno cucinare a Trastevere, conferma Amelia e racconta che ancora oggi, per la Festa de Noantri, in luglio, o per Sant’Antonio, il 13 giugno, ci si mette tutti a mangiare per strada in vicolo dei Panieri, come una volta, e le macchine non possono passare e chi vuole «se siede a magnà con noi. Come ’na vorta». Quando, se ti mancava una cipolla, bussavi al vicino e te la prendevi e poi magari restavi a cena da lui. Sapevi i fatti di tutti, perché dalle finestre aperte coglievi ogni respiro e le liti erano furiose e volavano parolacce a tutte le ore, ma non era grave. Era la normale vita trasteverina. C’è una sequenza in Roma di Federico Fellini in cui si vede una di queste scene tipiche della vecchia Trastevere e c’è un uomo che s’ingozza di pastasciutta. «Ecco, quello era mi’ marito» racconta la signora Rina entrata a comprarsi il vino. «E come te sbaji? Stava sempre a 29

magnà pe’ strada davanti a casa de Palmira, che abbitava sotto a noi! Fellini ce l’ha beccato subbito».

Fra pazzi e delinquenti Mi torna in mente all’improvviso, mentre percorro via della Lungara: mio padre ha studiato qui, intorno alla metà degli anni ’30. A palazzo Salviati c’era il Collegio Militare, ora è il Centro Studi Difesa. «A via della Lungara / fra pazzi e delinquenti / ci stanno le speranze / dei nostri reggimenti» è la filastrocca che ricorda ancora. Aveva sedici anni, oggi ne ha novanta. I pazzi, a sinistra del palazzo, erano quelli di via Sant’Onofrio, dove fino all’apertura del Santa Maria della Pietà, a Monte Mario, aveva avuto sede il manicomio di Roma, c’era morto anche Torquato Tasso. I delinquenti, invece, erano quelli di Regina Coeli, sempre in via della Lungara, a destra del Collegio dove mio padre ha passato i tre anni del liceo. La domenica tornava a casa, dall’altra parte della città, col tram che prendeva a piazza del Gesù. Ricorda una Trastevere di campagna e le ragazze che si affacciavano dal Gianicolo per spiare gli allievi militari mentre facevano ginnastica nel cortile interno del Collegio. Il 16 ottobre del ’43, in quello stesso cortile, intere famiglie di ebrei romani furono ammassate in attesa di partire per i campi di sterminio. Di mille persone ne sopravvissero sedici. Mi colpisce questa strana ricorrenza del numero sedici. «Erano camerate di sedici letti» dice ancora mio padre ricordando la sua giovinezza. Misteriosa concentrazione dei numeri. La popolazione trasteverina è segnata fin dalle origini dalle stigmate dell’eccentricità. Una piccola delinquenza tollerata e protetta dal quartiere, che solo nel caso della banda 30

della Magliana ha conosciuto le alte temperature della criminalità organizzata. Giancarlo De Cataldo – con Romanzo criminale ha eretto un monumento a quei risvolti di cronaca nera – mi indica i locali trasteverini che appartenevano ai membri della banda. Ha potuto conoscerli in carcere e durante i processi, perché prima di essere scrittore è magistrato. «Non è assolutamente possibile a un comune cittadino incontrare un malavitoso, non sono mondi comunicanti» mi spiega. E io ripenso a quel che mi aveva detto il Ciambella: «La banda non pesava su Trastevere. Avevano i loro locali, sì, tipo il ristorante Popi Popi, e c’era dentro Renatino, il figlio del fornaio, ma erano soprattutto chiacchiere da bar. Noi non la praticavamo la banda e ce ne stavamo in pace. Una sparatoria me la ricordo, ma a via del Pellegrino, dellà del Tevere». Mentre parlava nella testa mi passava la voce di Gabriella Ferri. È sempre così quando ascolto un trasteverino vero, la cadenza, la musicalità mi rimandano alle canzoni della Ferri, alla sua trattenuta, fatalistica malinconia. Con De Cataldo ci vediamo a San Cosimato, al caffè Picchiotto, un punto di osservazione privilegiato. Stai seduto per un po’ al bar e vedi passare la variegata umanità del rione. «Questo bar» dice De Cataldo «è anche il quartier generale dei fagiolini». E chi sono i fagiolini? «Ma come, non lo sai? I seguaci del guru della psicoanalisi Maurizio Fagioli, che è stato il “Maestro” di Marco Bellocchio. Abita lì» e fa un gesto vago verso un appartamento che affaccia sulla piazza. Continuiamo per un po’ a stendere l’elenco della gente famosa che ha messo le tende a Trastevere. Poi c’incamminiamo senza meta, ognuno credendo forse di seguire l’altro e che l’altro abbia un’idea precisa di dove sta andando. 31

«Se mi chiedi i nomi dei vicoli non li conosco, a me piace perdermi» mi dice. «Non faccio caso a quello che ho intorno, cammino e raccolgo le idee per scrivere». I trasteverini sono grandi camminatori. Stefano Benni, che anche lui gravita su San Cosimato da quando si è trasferito a Roma da Bologna, mi ha detto: «Non ho l’auto e mi piace arrivare fin dove arrivano i piedi. Non vado mai molto al di là di Trastevere». Da Benni ho capito che farsi carico dei senzatetto del quartiere è naturale. S’inciampa inevitabilmente nei problemi di questo o di quello, magari il suo cane ha litigato col cane di un passante e tu ti metti in mezzo a far capire al passante che deve farsene una ragione, perché non è successo niente di grave e non è proprio il caso di sollevare una questione tipo «bisogna ripulire la città da questi delinquenti, che si credono loro i padroni e non sono nemmeno italiani...» Il clochard sta zitto, segue la scena come se non lo riguardasse, ma intanto è fatta. «Io ne ho “adottati” sei sette» mi dice Stefano con una scrollata di spalle che intende togliere alla frase qualsiasi intenzione gloriosa. Non c’è posto migliore di Trastevere per capire che non si deve guardare troppo lontano per aiutare concretamente il prossimo bisognoso. Si chiama così, prossimo, proprio perché è sempre vicino, vicinissimo, così vicino che si riesce a non vederlo.

Dove arrivano i piedi Un giorno i piedi mi portano alla farmacia dei fratelli Enzo e Franco Pizzi, in piazza la Scala, che esiste da una trentina di anni nel vecchio chiostro dei Carmelitani Scalzi col pozzo in mezzo, all’interno del convento dove ancora resiste uno spa32

ruto gruppo di frati. Per chiudere il soffitto un pittore incaricato dal Vaticano ha disegnato una vetrata artistica con l’emblema dei Carmelitani. «Ma questo non è niente, è su che deve andare, nella farmacia antica, quella all’interno del convento. Provi a suonare» mi suggerisce Franco Pizzi. «Sarà un viaggio nel passato». E così faccio. Ma dovrò tornare tre volte per riuscire a entrare evitando le visite guidate di gruppo. Ci vado con Sara Bentivegna. È il 1550. La Chiesa costruisce un rifugio per donne di malaffare, Casa Pia, a Porta Settimiana, una casupola con l’icona modestissima di una Madonna detta “della Scala” per la sua collocazione. Presto l’immagine si mette a fare miracoli e così viene ribattezzata Madonna Miracolosa e trasferita di gran carriera in una chiesa costruita apposta per lei, Santa Maria della Scala appunto, e affidata ai Carmelitani che in seguito edificheranno l’annesso convento. A questo portone bussiamo Sara e io in un tardo pomeriggio di primavera. Ci apre padre Stefano, il priore, in sandali e vestiti qualunque, vecchi jeans, felpone. È lui che, con una calma d’altri tempi, ci fa strada su per una scala ripida e ci introduce in un mondo profumato di legno di noce e di porcellane raccontandoci la storia del convento e della Spezieria, anzi Spetieria, così sta scritto sull’architrave sopra la porta che immette nella vecchia farmacia. Tutto è rimasto intatto. Un mondo addormentato nel suo odore vegetale, creato nel 1615 da un padre esperto di medicina naturale, fra’ Basilio, ritratto fra i pazienti in un piccolo quadro che padre Stefano ci indica con affettuosa devozione. «Le spezie venivano in parte dall’Oriente, portate dai missionari e non escludo che la vicinanza dell’Orto Botanico abbia avuto un’influenza sulla nostra attività di speziali. Ma è 33

una diceria. Vero è invece che il convento aveva un orto suo, invidiabile, e un valetudinarium, un’infermeria insomma, che curava gratuitamente i poveri». Per tanti anni il convento era stato affollatissimo, oggi i padri sono rimasti solo in quattro, più qualche ospite di passaggio. E infatti intorno a noi è silenzio, le nostre voci rimbalzano contro il legno dei mobili e dei rivestimenti. Eccoci davanti a un vaso di coccio enorme che una volta conteneva la prodigiosa teriaca: una potentissima polvere contro i veleni. «Annusate, se ne sente ancora l’odore» ci invita padre Stefano. E noi inaliamo un gradevole aroma amarognolo. In una bacheca si vede Il libro dei semplici, bibbia di rimedi naturali, composta con la pazienza manuale perduta insieme a tanti segreti terapeutici. «Fu rubato nel 1975. Per fortuna è stato recuperato prima che prendesse la via della Svizzera...» Dentro una grande credenza dagli sportelli di vetro, le scaffalature sono state sagomate in modo da rendere visibili e raggiungibili tutti i vasi e i boccali di trecento medicine con le loro targhette, un capolavoro artistico oltre che geniale architettura dello spazio interno di un mobile. In tutto i locali della Spezieria sono quattro: la vera e propria farmacia con i banconi di legno, una grande cassa di ferro e un telefono a muro, uno dei primi numeri di telefono a Roma, Stefano non ricorda più se era il 16 o il 17; il laboratorio galenico dove il medico lavorava con lo speziale alla preparazione dei prodotti; un piccolo locale per il pronto intervento; e il magazzino. In questa piccola stanza sono conservate le statuette di salgemma che i frati a tempo perso si divertivano a plasmare. C’è anche una credenza dipinta, con dentro una specialissima collezione di scatole in legno di sandalo che 34

non hanno perso la fragranza. Contenevano foglie essiccate pronte per la preparazione dei rimedi e solo a immaginarne il rimescolato effluvio a ogni aprir di cassetto ci si sente meglio. Qui veniva spesso Trilussa che si sedeva nella Spezieria a fare due chiacchiere con i monaci. In una stanza accanto morì Luciano Manara, eroe risorgimentale, che con Garibaldi aveva difeso Roma dai francesi e fu ferito a morte a Villa Spada, su al Gianicolo. La farmacia ha resistito fino al 1957, fra alterne vicende di chiusure e riaperture reclamate a furor di popolo. «Ma fra’ Leonardo ha continuato a visitare fino al 1965, quando è morto. La gente se lo ricorda ancora, non volevano il medico, volevano lui». Siamo tornati nell’atrio, davanti alla porta della Spezieria. La farmacologia moderna ha distrutto la tradizione erboristica dei frati, ma qualcosa sopravvive. Non la pomata vermicida ottenuta dalle teste di vipere femmine del Nord Africa, antibiotico naturale, ma la Buonanotte dell’eremita sì. Padre Stefano mi consegna una boccettina dove posso leggere gli ingredienti: Alcole, Acqua, fiori di Luppolo, Agnocasto, Passiflora, Melissa, Salice, fiori di Arancio e Tiglio. Ci parla dell’Acqua della Scala, che fa passare il mal di testa, e dei Tronchetti del Bell’Aspetto per dimagrire. «Non c’è signora di Trastevere che se li faccia mancare». Tutti prodotti oggi appaltati a una ditta esterna che lavora con le vecchie ricette della Spezieria. «Ma non è più la stessa cosa...» «Non è più la stessa cosa» dice Luigina che ha ottantotto anni e lavora ancora nella pasticceria di famiglia, insieme al figlio Giovanni. Sono i proprietari della storica Valzani di vicolo del Moro. Mi ci portano i piedi insieme a Cristina Biagi, che non vive a Trastevere perché è fra quelli che non ne subiscono il fascino, ma come funzionario delle Belle Arti ha la35

vorato a lungo – dal 1982 al 2003 per essere esatti – al Museo del Folklore di piazza Sant’Egidio, oggi Museo di Roma, archivio delle tradizioni popolari della città, custode della memoria e degli oggetti appartenuti al poeta dialettale Carlo Alberto Salustri (anagrammato in Trilussa). Cristina ha fatto in tempo a conoscere una Trastevere in cui al mattino vedevi girare vecchiette in vestaglia e scialletto che andavano a fare la spesa, o che calavano il cestino dalla finestra e il salumaio di sotto glielo riempiva con l’ordinazione del giorno. La Trastevere delle sigaraie, che vendevano pacchetti di contrabbando nei vicoli, eredi ideali delle operaie della ottocentesca Manifattura Tabacchi di piazza Mastai. La Pasticceria Valzani di vicolo del Moro era una delle mete preferite di Cristina Biagi. E siccome quando ci siamo capitate insieme si era a Pasqua, ne abbiamo approfittato per comprare le uova di cioccolata, fatte artigianalmente, e abbiamo potuto infilarci dentro la sorpresa prima che venissero chiuse. «Ai miei tempi» dice Luigina «le uova si facevano a mano. Poi mio figlio ha inventato la macchina che sta di là nel laboratorio, andate a vederla. Negli anni l’ha perfezionata. La prima la fece con il motore di una lavatrice sfasciata». «Purtroppo stanno morendo ’sti lavori nostri» si lamenta Luigina approvando la nostra comune passione per le scagliette d’arancio rivestite di fondente, ne abbiamo acquistato una cartocciata. È seduta a sistemare i fiocchi intorno alle uova pronte e rievoca volentieri i tempi precedenti alle norme in vigore oggi. «L’igiene è una cosa importante, ma l’esagerazione attuale ha distrutto l’artigianato. Ci fanno diventare pazzi le norme! Il peso delle uova deve essere quello che dichiari, non un grammo di più. Ecco là che le uova vere te le scordi e ci met36

ti polvere liofilizzata. Sennò come fai a calcolare, come lo pesi un tuorlo, me lo dici tu?» Scuote la testa immalinconita. «Ma, ecco, oggi tutti pensano a produrre di più, a guadagnare di più. E cosa resta? Io ho sempre lavorato gratis e senza orario. Si lavorava tutti in famiglia e non a stipendio. Avere un’impresa significava questo: i soldi stavano dentro un cassetto. Mio padre diceva: “Questi soldi sono per i fornitori e per gli operai. Quello che resta è per noi”. Non sempre restava qualcosa per noi. Ma non ne ho mai sofferto». Siccome piove ci ripariamo dentro il negozio di parrucchiera di Amelia; mentre asciuga col phon i lunghi capelli di una cliente, chiacchiera con gli amici che passano a salutarla. Uno è Ettore, nipote di Cencio, il fondatore del celebre ristorante La parolaccia, nel vicino vicolo del Cinque. Ettore ci racconta la storia della trattoria dove i camerieri usano con i clienti il più greve gergo romanesco e condiscono le portate con stornelli e canzonacce di tradizione trasteverina. Fine anni ’50. Sua nonna, la sera, si metteva «fôri nel vicolo e cantava li stornelli sconci, facendo divertì tutti mentre se magnava». Una volta passò Massimo Serato, «quell’attore tanto bello» e fu subito invitato «a magnà co’ noi». Colpito dall’atmosfera, soddisfatto della cena, chiese: «Se torno con gli amici me lo rifate lo spettacolo?» E la nonna di Ettore: «E che nun te lo famo? Torna!» E lui tornò. «Co’ la Magnani, co’ Maurizio Arena, er sarto Emilio Schubert...» La nonna si fece prestare dai vicini piatti, tovaglie, posate. «E così nacque ’sto locale. Pe’ strada: bbona cucina e chitare, fisarmoniche, stornelli e male parole». Una sera ci capitò pure Soraya, che si faceva rivedere in giro per la prima volta dopo il ripudio dello scià di Persia. Era in compagnia del principe Orsini, e finirono tutti sui giornali. 37

Mentre riprendiamo la passeggiata, e per fortuna ha smesso di piovere, racconto a Cristina le disavventure di due mie amiche, Valeria e Laura, arrivate a Trastevere dal Nord, una da Milano l’altra da Vigevano, nel corso degli anni ’80. Furti, minacce, ruote della macchina tagliate, contenuti delle pattumiere rovesciati dai piani più alti sul terrazzo. «Era una forma di iniziazione» mi aveva spiegato Laura Maragnani, giornalista, come ora cerco di spiegare a Cristina. «Un crudele corso accelerato di istruzione per sopravvivere a Trastevere e perdere per sempre la propria milanesità» aveva sintetizzato Valeria Viganò, scrittrice. Ma Cristina scuote la testa e mi domanda: «E loro, le tue amiche, ce l’hanno fatta?» «Si sono integrate perfettamente e non potrebbero vivere altro che qui, ormai». «Io no. Non ci ho nemmeno mai provato. Se devo essere sincera mi fa orrore che una comunità si rivolti così contro quelli che considera intrusi». Oggi non succede più, ma fino ai primi anni ’90 andare a vivere a Trastevere era una scelta avventurosa. «Non eravamo benvoluti e posso capirlo» mi raccontava Laura. «Gli americani che nel dopoguerra hanno scoperto Trastevere si erano integrati senza difficoltà. Noi invece facevamo salire gli affitti, compravamo le case e buttavamo fuori gli indigeni. Oltretutto i codici di comportamento erano agli antipodi: tu nordico, riservato, precipitavi in un flusso di voci, di storie, di urla, di vita degli altri vissuta davanti a tutti. E se facevi lo sdegnoso o protestavi non avevi scampo. Dovevi conquistarti il tuo diritto allo spazio, all’esistenza, senza nascondere la tua fragilità, insomma metterti in piazza. Dopo, se venivi accettato, era una vita straordinaria, affettuosa, unica». 38

Così Valeria: «L’accoglienza fu questa: entrai nel Caffè San Callisto, sì quello che è sempre stato un po’ alternativo, chiamato “bar dei ladri”, e lessi un cartello a caratteri cubitali: “Milanesi tutti appesi”. Poi mi hanno svuotato casa. È stata un’iniziazione barbara, ma ho retto. Continuai a frequentare quel bar, finché il cartello fu tolto. Io avevo imparato a perdere la mia rigidità nordica, loro hanno apprezzato la mia sottomissione. Ora mi proteggono». Cristina non si fa convincere, mormora qualcosa come «per carità!» e proprio in quel momento qualcuno alle nostre spalle accelera il passo e ci raggiunge. È Roberto Pilas, che avevamo lasciato da Biagio. Lo riconosciamo con un certo sollievo, il vicoletto è buio e deserto. «Scommetto che non sapete niente del pozzo nel film Fantasia di Walt Disney. L’originale è nascosto in un posto qui vicino». Lo seguiamo incuriosite verso il ristorante La Cisterna, nella stradina omonima, uno dei più famosi di Roma, che conserva nei sotterranei un pozzo secentesco, risalente a quando il suolo stradale era molto più basso, prima che tutto il livello fosse rialzato per trovare protezione dalle inondazioni del Tevere. Walt Disney, durante una vacanza romana, vi prese l’ispirazione per ambientare la celebre scena di Topolino, in Fantasia, ispirata alla ballata di Goethe L’apprendista stregone: «E ora, vecchia scopa, vieni, / prendi gli stracci miseri! / [...] Sta’ ritta su due gambe, / ci sia una testa, sopra, / fa’ in fretta e vattene / con questa brocca!» E mentre scendiamo meravigliate la scala, così simile a quella del disegno animato, per calarci progressivamente nell’oscurità e nell’umido, il pozzo ci appare nella fioca luce dell’illuminazione scenografica come dovette apparire a Walt Disney. Così, davvero, manca solo Topolino col cappello da 39

mago che incita la scopa a trascinare nel pozzo i secchi d’acqua volteggiando sulle note di Paul Dukas. Le sorprese non finiscono mai, ho pensato la prima volta che, facendo la spesa alla Standa di viale Trastevere, ho incontrato uno dei più insigni musicologi italiani, Mario Bortolotto, intruppato nella fila alla cassa. «Di che ti stupisci» mi ha detto nel suo carnoso accento friulano e i modi bruschi, quando siamo emersi dal supermercato con le sporte cariche. «Io abito esattamente qui sopra, dove dovrei andare a fare la spesa, secondo te?» Ci conosciamo da diversi anni, ma ignoravo il suo indirizzo e comunque mi sentivo a disagio in una situazione così familiare. Mi parlava dei prezzi come una casalinga e si lamentava della dieta impostagli dal medico. «Il cibo è la cosa che m’interessa di più nella vita, capisci? E devo rinunciare a mangiare?» Intanto procedevamo su via San Francesco a Ripa diretti al negozietto biologico per comprare «qualche seme e il riso nero, orrendo» e poi finire davanti alla vetrina dell’Enoteca Bernabei a considerare le offerte del momento. «Ero un cliente abituale, finché potevo bere. E mai che la proprietaria, simpaticissima per altro, mi abbia fatto un euro di sconto!» Ci siamo lasciati con la promessa di una cena spettacolare, in cui per una volta sarebbero stati banditi limiti e divieti. A Trastevere le divinità scendono dal piedistallo, oppure comuni esseri umani ci salgono. Mi capitava spesso di incrociare nei vicoli una donna bellissima, dai lunghi capelli bianchi raccolti in una treccia, occhi intensamente azzurri, uno o due cani al guinzaglio o sciolti. «Chi è, la conoscete?» ho chiesto in giro agli amici. 40

Risposte vaghe: «Un’attrice», «Ah, sì, Anna». Ma Anna chi? «Anna. Non lo so il cognome». Una sera accendo la tv e te la trovo sullo schermo, che recita in una soap. Un’altra volta la vedo che fa pubblicità a una dentiera. Un’altra ancora corre in carne e ossa verso la fermata del tram per non perderlo e ci monta su trafelata. Finalmente un amico rimette le cose a posto. «Ma certo, ho capito di chi parli: Anna Orsi. Straordinaria. La conobbi oltre trent’anni fa, durante un’occupazione di case. Era impegnatissima politicamente, una barricadera. Ne ero innamorato. Tutti ne eravamo innamorati. La donna più bella del mondo». E non poteva avere che un cognome animalesco. Anche se l’orso è il simbolo di un’altra città, Madrid, e più tardi scoprirò che il simbolo di Trastevere è il leone. Ma non importa, sono pur sempre animali araldici.

Piccolo cuore

Isola Tiberina, mon amour Le isole fanno pensare al mare e al mare fanno pensare le navi. Che dire di un’isola a forma di nave? Un’isola, poi, che non sta in mezzo al mare, ma a un fiume. E il fiume è il Tevere, che spacca in due la città, e la città è Roma che pochi mettono in relazione con l’acqua. Eppure all’Isola Tiberina, in mezzo al fiume, nel centro della città, Roma è più intensamente Roma. Vado a passeggiare lì qualche volta. Vado verso la poppa dell’isola-nave – considerando la prua la parte appuntita “ancorata” al ponte Garibaldi – e mi siedo sulle vecchie pietre a guardare ponte Rotto. Avevo sempre frequentato l’Isola Tiberina per i suoi ospedali, quello Israelitico e il Fatebenefratelli. Sono due buoni ospedali, meno affollato il primo, caotico il secondo. Ma ottimi medici, e ambulatori ben organizzati in entrambi. Per molti l’Isola Tiberina è solo questo. Se vieni da un altro quartiere, hai pure il problema di dove mollare la macchina, ed ecco che l’isola ti appare come luogo inospitale e ospedaliero, da lasciare in fretta. Ricordo il senso di soffocamento che mi prendeva, quando Roma e la sua isola erano esclusiva43

mente la mia pratica medica da sbrigare, i suoi vecchi ponti un sentiero impervio in mezzo a una folla sbandata e maleducata. Volavo, folla permettendo, sui sanpietrini senza uno sguardo per l’acqua, infastidita da quel clima da bazar, appena appena sfiorata dall’incongrua presenza delle palme giganti accanto al Fatebenefratelli. La domanda «che ci fanno qui quelle palme», me la ponevo ogni volta, ogni volta arrestando il passo con il vago presentimento di un futuro amore possibile. Le palme esercitano su di me un potere speciale, faccio subito pace con un posto se ci sono le palme. Comunque, a quei tempi, non bastavano nemmeno loro, le rimuovevo subito, non appena varcata la porta dell’ospedale per ritrovarmi nel solito non-luogo di lunghe attese e camici bianchi. La prima volta in cui ho messo a fuoco l’isola di Roma è stato dopo il trasloco a Trastevere, ma non subito. Per qualche mese ho continuato a considerarla come un mezzo per raggiungere altro, ancora una volta l’ospedale o semplicemente l’altra sponda. Tornando a casa scendevo al capolinea del 630 a piazza Monte Savello, attraversavo il lungotevere e imboccavo ponte Fabricio senza nemmeno sapere che si chiama così, eppure cominciando sotterraneamente a subirne il fascino. Mi fermavo, per esempio, all’ingresso del ponte, a osservare le sculture che ornano i parapetti, a destra e a sinistra. Sono erme romane quadrifronti, smangiate dal tempo, volti porosi, erosi. È per questi busti che il ponte ha anche un altro nome, Quattro Capi, ma così ormai lo chiama solo qualche vecchio abitante del Ghetto o qualche irriducibile trasteverino, mentre come pons Judaeorum lo conoscevano nel Medioevo per la contiguità col quartiere ebraico o anche perché, superato il braccio di fiume che gli compete, si salda all’ospedale israelitico che è venuto a occupare un preceden44

te convento francescano, già abitazione – con la torre anteriore all’anno 1000 che è ancora in piedi – di due fra le famiglie più antiche e potenti di Roma, i Pierleoni e i Caetani. Le due erme sembrano sentinelle, all’erta sui quattro punti cardinali. Sbocciano ognuna da un unico blocco di travertino che si divide nelle quattro teste siamesi, saldate sulla nuca. Un abbozzo di treccioline pende lungo le tempie fino alle spalle. I visi non sono identici, non sai più se per effetto del logorio o pensati differenti fin dall’inizio; alcuni hanno ancora un ricordo di bocca appena accennato e due fossette al posto degli occhi, gli altri invece hanno completato il processo di riassorbimento di ogni aspetto umano e mostrano una faccia senza volto. Immagino quante volte il Tevere, nelle sue piene turbinose, abbia schiaffeggiato queste povere sculture fino a cancellare quanto aveva creato uno sconosciuto artigiano di tanti secoli fa. Roma è insieme durata e deperibilità, forza e debolezza della bellezza, ci fai i conti a ogni passo. Dunque io procedevo abbastanza in fretta verso l’altro ponte, il Cestio, dopo un rapido sguardo a un’altra attrattiva del luogo, la farmacia cinquecentesca con i suoi infissi di legno, ripromettendomi di dare dentro una sbirciatina prima o poi. E dal Cestio osservavo le persone distese a prendere il sole sugli argini. Un’immagine non romana, ma da paese del Nord, dove di sole ce n’è poco. Questo utilizzo spensierato dell’isola mi colpiva, facendomi intuire che esisteva anche un altro modo per godersela e, soprattutto, che non doveva essere complicato scendere a bordo acqua e farne il periplo. E poi accadde una cosa. Mi girai a guardare indietro, non so perché. Un’intuizione improvvisa, un richiamo. Mi voltai verso la sponda che mi ero lasciata alle spalle e la vidi: la cupola a quattro spicchi della Sinagoga, che spuntava chiara, serena, sui fitti rami dei platani, come se vi stesse appoggiata so45

pra. Fra le cupole della città, che ne vanta di molto più importanti, questa a me piace tanto. Ha un equilibrio calmo, una solidità sottotono, una forma leggera e leggiadra. Dall’Isola Tiberina la si vede in diverse prospettive, praticamente da ogni angolo, sempre sospesa sugli alberi, paralume gigante in volo. Non ero più né di corsa né di passaggio. Ero al centro di Roma, nel suo cuore di vecchia tenerissima pietra, nel bel mezzo della sua circolazione sanguigna fatta di acqua ribollente e canora.

Pittore della domenica Così venne il giorno, un giorno di inizio estate, né freddo né caldo. Niente visite in ospedale, solo pigrizia e tempo libero rubato ai soliti impegni. In spalla la borsa della macchina fotografica, con dentro una guida di Roma e il quadernetto per prendere appunti. A sinistra del Fatebenefratelli, sotto i pini, c’è una scaletta nascosta e ombrosa che porta al fiume. La gente prende il sole, parla, legge, lavora al computer sui larghi marciapiedi degli argini, la schiena appoggiata ai bastioni declinanti. Un gruppo, in costume da bagno, ha occupato la base del primo pilone del ponte, fissato alla terra da uno spiazzo aggettante, come fosse una zattera per prendere il sole. Due ragazze hanno persino messo le gambe nell’acqua. Non sospettavo tanta confidenza col Tevere, ma forse sono straniere. Una volta il paesaggio era diverso. L’isola era circondata di mulini mobili e i palazzi s’infilavano dritti nell’acqua come a Venezia. Mi metto a sedere anch’io al sole e sfoglio le figure della guida: stampe seicentesche, ottocentesche, incisioni del Piranesi. In tutte l’acqua è uno specchio trasparente che ri46

flette le case che lambisce. Roma a testa in giù, come oggi non possiamo vederla; Roma alla rovescia. Gli archi dei ponti formano cerchi congiungendosi alla loro immagine riflessa. E l’isola, quando è ritratta nella sua interezza, rivela la vera identità di barca con l’obelisco, che non esiste più, albero maestro piantato al centro e i due ponti gettati verso la terraferma. Una leggenda fa risalire la sua formazione alla cacciata di Tarquinio il Superbo, inizi VI secolo a.C. I romani avrebbero buttato nel fiume l’intero raccolto di farro perché sarebbe stato sacrilego consumarlo. Le ceste cariche di spighe s’arenarono dove l’ansa del fiume rallentava la corrente e, nel tempo, per sedimentazioni successive, impasto di melma e altri detriti, l’isola si consolidò diventando un posto dedicato alla cura e quindi sacro al dio della medicina Esculapio, anche per la presenza di una fonte d’acqua ritenuta salutare. Tracce di un tempio consacrato all’antichissimo medico greco – poi eternizzato in divinità – me le trovo davanti quando, compiuto un mezzo giro, arrivo nella parte meridionale e in ombra dell’isola, la meno frequentata, e sono già sulla sponda che guarda verso il Ghetto. Incastrati dentro il muro della casetta medievale ora sede della Polizia, ci sono grandi blocchi di marmo candido; hanno la forma della fiancata di una nave – tema che torna – e in uno di questi blocchi vedo nitidamente scolpita la traccia di un serpente attorcigliato intorno a un bastone, il simbolo del dio e del potere medicinale delle piante. Mi sorprendo di scoprire nel blocco successivo ancora un volto senza faccia, solo un ovale eroso dal tempo e dalle intemperie, con un piccolo fregio di riccioli sulla tempia sinistra. Esculapio in persona, o il suo fantasma, che continua a mostrarsi nei secoli. Camminando all’indietro per scattare una foto, non mi sono resa conto che stavo per travolgere un pittore con tutto il 47

cavalletto. Cappello di paglia in bilico negligente sulla nuca, cravatta allentata e maniche della camicia arrotolate. La giacca è appesa alla sediolina da campo su cui siede a gambe divaricate per stare più vicino alla tela su cui sta lavorando. Mi scuso e dò un’occhiata al quadro, una fedele riproduzione di quel che vediamo da quel punto: il ponte Fabricio, o Quattro Capi o «de li Giudii» – come l’ha chiamato lui in risposta alla mia silenziosa curiosità – con le due ariose arcate e una terza finestra a forma di archetto nel pilone centrale. Una pennellata veloce aggiunge qualcosa sul parapetto. «Sò le capocce» mi spiega «me ce piaciono». Approvo con un rapido cenno del capo anche se veramente da qui sotto le capocce, che sarebbero le erme, non si vedono. «Erano le teste de li architetti de Sisto V incaricati de restaurà er ponte. Finirono male. Er papa li fece decapità perché leticaveno sempre fra loro. Per questo ce sò rimaste solo le capocce!» Ride contento del mio stupore. Ma forse si sta inventando tutto. Alzando lo sguardo me la ritrovo di fronte, alta e lontana, ironica come sempre, la cupola della Sinagoga. Guardo l’incrocio delle linee che quel pittore della domenica mi ha fatto notare. Il ponte orizzontale sulle arcate tondeggianti, le fronde fitte e oblique sul lungotevere che per un effetto ottico sembrano appoggiate al parapetto, la verticalità delle costruzioni a sinistra, lo spicchio ampio di cielo azzurrissimo contro il verde degli alberi e il terracotta dei mattoni, il bianco della pavimentazione degli argini che rimbalza sulla cupola chiara. Guardando meglio, vedo una a una le linee grigie delle bordature in rilievo che la percorrono in verticale alleggerendone la fisionomia fino al tamburo quadrato. Il pittore intanto sta chiudendo la scatola dei colori, raccoglie tela, sedia pieghevole e cavalletto. 48

«È ora de pranzo» dice per giustificarsi. Svanisce in un attimo come fosse anche lui un’apparizione.

Una cupola quadrata e un ponte rotto Resto sola, sola come se oltre l’Isola Tiberina non ci fosse più una città. Riprendo la mia passeggiata. Sotto al ponte Fabricio l’acqua s’arrotola e scorre tempestosa. Completo il giro e mi ritrovo a settentrione, di fronte alla saldatura col ponte Garibaldi. E mentre realizzo che non mi piace questa parte dell’isola e che voglio tornare a sud, mi volto e la rivedo la “mia” cupola. Da qui riesco a scorgere anche due lati del tamburo con le tre finestre che sembrano occhietti e hanno tanto di fregio superiore, ciascuna il suo, quasi festoni carnevaleschi, o folti sopraccigli tondeggianti. Mi chiedo chi fosse l’architetto che l’ha progettata. Lo cerco sulla guida e trovo due nomi, Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa che si sono ispirati a motivi decorativi e architettonici assiro-babilonesi in ricordo della provenienza del popolo ebraico. Gli spicchi della cupola vengono chiamati tecnicamente “vele”. Leggo: «È composta da quattro vele che si concludono con una lanterna». La Sinagoga è stata eretta fra il 1899 e il 1904 e ha tutta la grazia della superficiale Belle Époque, il periodo storico che sento più affine al mio carattere nostalgico e ottimista, un’epoca consapevole di costeggiare l’orlo dell’abisso. Eppure, nonostante ciò o proprio per questo, spensierata. E siccome anche i piaceri sono fugaci, è bene che mi goda questa mattinata che sta finendo nel punto dell’isola più piacevole e bello. Ritorno indietro verso la poppa della nave. Mi siedo al fresco, sui gradoni, e ponte Rotto è talmente vicino che hai l’impressione di poterlo toccare allungando il braccio. Due giapponesi stanno scattando fotografie, discreti co49

me gatti. Se ne vanno con delicati saluti del capo, abbozzi degli inchini del loro passato cerimonioso. Le guide turistiche non danno molta importanza all’Isola Tiberina. Parlano delle sue chiese, San Bartolomeo eretta da Ottone III sulle rovine del tempio di Esculapio e oggi affidata alla gestione della Comunità di Sant’Egidio, e San Giovanni Calibita, attaccata al Fatebenefratelli, che sorge dove un tempo c’era il tempio di Giove Giurario (chiamato così perché preso a garanzia dei giuramenti). E parlano della Torre Caetani all’innesto col ponte Fabricio, perché è un’interessante costruzione medievale e racconta una storia di fortificazioni e dispute fra potere temporale e potere spirituale, Stato e Chiesa, quando l’isola era una roccaforte del papa. Nell’altra torre, quella di ponte Cestio, fu ospite nel 1087 la contessa Matilde di Canossa, venuta a Roma per incontrare Enrico IV. Ma più della storia antica, m’interessa la contemporaneità, e dentro la torre Caetani c’è uno dei ristoranti più famosi di Roma, il Sora Lella aperto nel 1959 da Elena Fabrizi, sorella dell’attore Aldo Fabrizi e attrice lei stessa, sono celebri le sue interpretazioni della vecchia romana attaccabrighe nei film di Carlo Verdone. Mi racconta una nipote, Cielo Pessione – figlia di una figlia di Aldo – che ora due suoi cugini ristoratori, Mauro e Simone Trabalza, sono sbarcati a New York, in Spring Street, fra Soho e Tribeca, dove hanno aperto un altro Sora Lella in cui la cucina romana tradizionale conosce vertiginosi sperimentalismi. Lei andrà a portarci la sua conferenza-spettacolo su Fabrizi, Caro nonno, che ha già girato parecchio in Italia. Cielo è un’artista che vive un po’ in Umbria, dove l’ho conosciuta, e un po’ in California. Del mitico nonno – al quale fra l’altro deve il bel nome poco comune – ha molti ricordi e li infila nella sua performance. 50

«Un carattere difficile, ma affascinante» evoca. «Nei vecchi film si portava la famiglia sul set a interpretare particine. Anche zia Lella cominciò con lui». Se la rivede nel ristorante, che all’inizio era un po’ angusto, «incastrata dietro la cassa. Ti chiedevi come avrebbe fatto a uscirne, bella grassa com’era». Sarebbe stata d’accordo sull’apertura del Sora Lella in America? «Avrebbe detto scorbutica alzando le spalle: “Annamo bene!”» Digressioni a parte, mi trovo sotto ponte Rotto, il primo in pietra della città, o ciò che ne rimane, seduta sui larghi e bassi gradini. Mi ci sdraio quasi, per godermi lo spettacolo di questo moncone di ponte che persino Michelangelo provò senza successo a tenere in piedi. Due vecchie fotografie della serie “com’era Roma e com’è” mi fanno prendere atto del processo di civilizzazione del paesaggio. La vecchia Isola Tiberina da questa parte presentava un lembo di terra selvatica, entrava nell’acqua con una scabra superficie di roccia e le barchette dei pescatori la circondavano sonnolente. Oggi c’è un lindo piazzale con una scalinata piatta e graziosa, uno spiazzo per i turisti che possono rimirare, senza graffiarsi le gambe, il troncone dell’antico ponte Emilio: quasi tutta l’isola non fosse altro che un’arena per contemplare quel che resta del passato. E quel che resta è un’arcata bianca, qui e là aggredita dal verde dei rampicanti, con due draghi a guardia, subito sotto il parapetto dalle pietre sbocconcellate. È addossato, o almeno questa è l’impressione dal mio punto di vista, alla struttura in ferro del ponte Palatino che l’ha sostituito nell’800 e che così si trova come incastrato, o incastonato, nella storia più antica, perché sulla sponda sinistra, in mezzo a un girotondo 51

di cipressi, sbuca il campanile romanico di Santa Maria in Cosmedin, col cielo azzurro dentro la trasparenza delle sue trifore, mentre in basso si vede il buco della Cloaca Maxima su una riva e della cloaca del Circo Massimo dall’altra. Roma è questo affastellarsi di pietre, rovine, stratificazioni, chiese, epoche, una sull’altra e nell’altra, da perdere la testa. È come con la musica, la si scopre un poco per volta, un poco meglio a ogni ascolto. A far crollare definitivamente Pons Aemilius, o Senatorio, o Santa Maria, o Palatino, fu l’inondazione del 1598, una delle più devastanti. Questo punto del Tevere è sempre stato molto turbolento e parte del suo fascino sta oggi nel gioco di cascatelle introdotto artificialmente, suppongo per governarne la violenza, che accelera la corsa dell’acqua sotto ponte Garibaldi e la rallenta dopo ponte Cestio. C’è anche chi pensa che la sua endemica fragilità si debba alla maledizione di Eliogabalo, il crudelissimo imperatore Marco Aurelio Antonino, che tentò di imporre a Roma il culto del Sole (El-Galab), ma fu ucciso e buttato nel fiume proprio da ponte Rotto.

Un’isola non è una barca Nel corso del tempo ci fu anche chi ebbe l’idea bizzarra, per fortuna subito rintuzzata, di distruggere l’isola, farla saltare in aria perché scomparisse dalla faccia della terra. Fu dopo il 1870, con l’avvento delle leggi unitarie dei piemontesi e di una commissione ministeriale incaricata di risolvere il problema delle inondazioni del Tevere, a riprova che il Nord ha fin dall’inizio trattato con rozza sufficienza, quando non con violentissima sopraffazione, il resto d’Italia, da Roma in giù. Ma l’isola è ancora al mondo, per quanto addomesticata, bonificata, cementificata. E non ha perso quella sua aria placi52

da da nave alla fonda che quando il Tevere si gonfia, finisce sott’acqua come ai vecchi tempi. Ne ha viste di tutti i colori, è stata lazzaretto durante le pestilenze e roccaforte della Resistenza. «Fate bene fratelli per l’amor di Dio» andavano gridando per la città i frati spagnoli che nel ’500 papa Gregorio XIII insediò nella chiesa di San Giovanni Calibita. La chiesa aveva al suo interno, già dal ’200, un’infirmeria, dove praticavano un’arte medica rudimentale – ma all’avanguardia – le suore Benedettine, poi dette Santucce (dalla Santuccia Terebotti di Gubbio, loro riformatrice). I Fatebenefratelli ne continuarono l’opera, facendo di quella vecchia infermeria il primo nucleo dell’ospedale, rinomato per tutto il ’500 e il ’600 per efficienza e pulizia, c’è persino la testimonianza di Martin Lutero. Erano tempi in cui nei grandi ospedali d’Europa si mettevano due malati per letto e si cambiavano le lenzuola tre volte all’anno. Poi c’erano le confraternite. Quella settecentesca dei Sacconi Rossi, detti così perché gli affiliati indossavano lunghe casacche rosse, con sede nella chiesa di San Bartolomeo, si dedicava soprattutto al recupero degli annegati nel Tevere. I Sacconi li ripescavano, li seppellivano e pregavano per loro. Appartenevano a famiglie benestanti e seguivano la regola di chiedere l’elemosina in silenzio. Di tanto misticismo qualcosa deve essere rimasto impigliato nelle pietre e nel continuo ribollire dell’acqua. L’imponderabile ha agito attraverso i secoli e confermato la vocazione mistica e umanitaria dell’isola. L’ospedale Fatebenefratelli diventò, fra il 1937 e il 1947, un centro di resistenza contro il fascismo. L’ha raccontato Adriano Ossicini nel libro autobiografico Un’isola sul Tevere: alcuni medici cristiani antinazisti, per segnalarsi reciprocamente gli ebrei ricoverati allo scopo di pro53

teggerli dalle razzie, scrivevano sulle cartelle cliniche «sindrome di K», che stava per Kesselring o Kappler, i responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Poiché la barca non salperà, ritorno ancora una volta sui miei passi. Mentre percorro ponte Cestio dagli eleganti lampioni, dalle pietre sconnesse, dai bianchi lastroni, lo sguardo mi va verso l’argine di Trastevere e leggo la scritta gigante che chissà chi ha istoriato con vernice bianca sul muraglione nero: «Ti amo da qui... alla fine del mondo... di nuovo da qui... all’infinito». È l’ultima immagine della passeggiata, e l’immagine si fa suono, quasi canzone, mentre l’isola me la lascio provvisoriamente alle spalle.

«Rive gauche»

Due passeggiate «Tu parti dal Gianicolo, dal Fontanone dell’Acqua Paola, che è da vedere assolutamente, scendi per via Garibaldi e ti fermi all’Ossario di Giovanni Jacobucci – è il sacrario dedicato ai caduti per Roma capitale nel ’48 – c’è una cripta. Un po’ più avanti San Pietro in Montorio col Tempietto del Bramante. Quindi scendi per la via Crucis sotto il Bosco Parrasio, dove imperò Metastasio e, in tempi recenti, Suni Agnelli. Giù ancora per via Garibaldi, un salto a Santa Maria in Trastevere, la prima chiesa cristiana a Roma – era stata un insediamento ebraico – e poi a piazza Trilussa, altra Fontana dell’Acqua Paola. Qui scavalli il Tevere su ponte Sisto. E naturalmente attraversi via Giulia e ti trovi in piazza Farnese, quindi a Campo de’ Fiori. Piazza Navona è un poco più in là. Prosegui per il Pantheon e finisci a piazza del Popolo. Dopo questo giro, hai capito Roma. Lo consiglio a tutti gli amici, che vogliono farsi una prima idea della città». Angelo Bucarelli, artista e organizzatore di eventi artistici, parla a una velocità almeno doppia del normale e probabilmente vive con la stessa rapidità. La passeggiata che suggeri55

sce richiede minimo una giornata intera e non è detto che l’esito sia solo positivo. Ginevra Bompiani ha compiuto una parte del percorso con un amico francese e il tour è andato a finire in modo inaspettato. «Premetto che questo amico è un poeta, e anche parecchio strampalato» mi dice nel bar trasteverino Ombre Rosse, che è il suo preferito – lei abita a Porta Settimiana e lavora al di là del fiume, in via Zanardelli, dove si trova la sede della sua casa editrice, la Nottetempo. «Ma insomma, la prima volta che è venuto a trovarmi a Roma, ho pensato di portarlo subito con me a fare delle compere perché vedesse cammin facendo qualcosa del Centro. Io lo precedevo di qualche passo e non guardavo il suo viso, mentre gli illustravo le strade e le piazze che attraversavamo. Così abbiamo superato ponte Sisto e ho sentito che commentava meravigliato le sponde a destra e a sinistra. A piazza Farnese continuava a dire “che meraviglia”, ma a piazza Navona non lo sentivo più. Mi sono girata a guardarlo e mi sono spaventata: era pallidissimo, stravolto. “Troppa bellezza affastellata in così poco spazio...” diceva. Aveva quella che si chiama la sindrome di Stendhal, non scherzo. Ho dovuto riportarlo subito a casa, ma era ormai entrato in una depressione tremenda e anche la storia d’amore che c’era fra noi ne è rimasta compromessa...» Può sembrare inverosimile e, da parte mia, avevo sempre sospettato che la «sindrome di Stendhal» fosse un’invenzione, o almeno un’esagerazione. Ma Roma è una città scioccante con le sue strane prospettive, gli affastellamenti di epoche, i repentini cambiamenti di scenario. Al Centro la modernità non è riuscita a infiltrarsi quel tanto che può ripristinare un equilibrio fra presente e passato. Si ha sempre l’impressione di uno sbilanciamento. 56

«Io vivo immersa nei due centri, di qua e di là del Tevere, da quarant’anni» mi dice l’artista Giosetta Fioroni, mentre ripercorriamo a nostra volta, ma in senso inverso – dalla rive gauche alla rive droite – in compagnia di Biri, il bastardino che lei ha salvato dalla strada e dalla malattia, un tratto della passeggiata consigliata da Angelo Bucarelli. Giosetta vive in via delle Zoccolette, di fronte al Ministero di Grazia e Giustizia, e invece in via Francesco di Sales ha lo studio – all’origine era un deposito per carrozze – contiguo alla presunta “casa della Fornarina” di proprietà dell’aristocratica famiglia Pallavicini. La leggenda vuole che Raffaello avesse sistemato lì, a pochi metri dalla Farnesina, la sua musa e amante. «Dunque se avessi sofferto anch’io della sindrome di Stendhal ne sarei morta!» scherza Giosetta. Dal lungotevere dei Vallati prendiamo ponte Sisto in direzione Trastevere, da piazza Trilussa scendiamo per via Santa Dorotea e imbocchiamo via della Lungara. Via San Francesco di Sales è la quarta a sinistra. Costeggia Regina Coeli, fa un gomito e confluisce su via delle Mantellate, un ferro di cavallo che ospita molti studi di pittori incorniciando il carcere. C’era quello di Mario Schifano e pure quello di Luigi Ontani fino a qualche anno fa, la galleria di Stefania Miscetti, al 14, è sempre attivissima. Agli Orti d’Alibert, la parallela successiva, c’era stato De Chirico. Ci sediamo nel giardino del grande studio di Giosetta. Lo si raggiunge salendo una ripida scala interna. È un posto segreto, chiuso fra le case vicine. Da fuori non ne puoi sospettare l’esistenza. Biri, cane piuttosto riservato, scorrazza con discrezione. «Mi piace qui, perché è spaesante» spiega la pittrice. «È la parte di Trastevere che si salda all’altra sponda, almeno fino a via Giulia, che è rimasta una strada tranquilla, protetta, con 57

i suoi antiquari, le sue gallerie d’arte, i suoi palazzi nobiliari. Basterebbe la meraviglia di Palazzo Sacchetti, una reggia... Oltre no, è da dimenticare. Tutta la zona intorno a Campo de’ Fiori è diventata sboccata, dolorosamente volgare. Sono zone violate. Come viale Trastevere, come Pigalle a Parigi». Via delle Zoccolette, strada senza uscita, ancora si salva perché non invasa dai commerci chiassosi di boutique, ristoranti trandy e folk, bar e baretti che hanno riempito Campo de’ Fiori e dintorni fino a piazza Navona e oltre. Ci affacciamo sul cortiletto attiguo, tutto piastrellato. «Era una meraviglia, un giardino antico con alberi di fichi e di limoni spettacolari, t’immaginavi la Fornarina che ci prendeva il fresco. Il nuovo padrone di casa l’ha conciato così...»

Da via Giulia al Ghetto «L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria? / Così è una piazza, spazio di città»: sono i primi due versi della poesia Aria pubblica che Patrizia Cavalli ha dedicato alla devastazione di Campo de’ Fiori. «Se è di tutti non può essere occupata» dice un altro verso. Invece Campo de’ Fiori lo è. La sera, la notte, nel fine settimana, è talmente piena di gente che non si può nemmeno attraversarla senza sostenere un corpo a corpo con gli altri. L’occupazione del suolo pubblico con tavolini che ingrossano gli affari dei ristoranti e dei bar e sottraggono spazio, aria ai cittadini, ai passanti, ha cancellato «la felice bellezza negligente» che la poetessa attribuisce alle piazze, ma che per me adesso diventa l’essenza stessa di una Roma perduta e che si ritrova improvvisamente in certe svuotate giornate domenicali o estive, o in certe ore fortunate, o in certi angoli poco frequentati. La bellezza è felicemente negligente quando ti permette di dimenticarla. Non hai bisogno di guar58

darla perché già la conosci. Ti fermi a parlare se incontri qualcuno, riparti, ozi, ti rifermi. La piazza deve essere per sua definizione larga, come un vestito che non tira e non stringe. Mi rendo conto che sto descrivendo e reinventando in prosa la poesia di Patrizia perché lei non ha più voglia di parlarne. Si barrica in casa – finestre chiuse e aria condizionata, si sottrae così al caldo e alla baraonda – la sua casa all’ultimo piano di cui ha conservato la struttura antica, fatta di stanze che s’inseguono una dopo l’altra e nell’altra, senza la razionalizzazione dei corridoi, e un bagno arrampicato sui tetti in cima a una scala erta. «Vorrei solo fargli i conti in tasca a questi gestori che nessun politico vuole riportare alla legalità. Sapere quanto esattamente guadagnano per ogni tavolino in più che ci toglie un pezzo di piazza e quanto esattamente sborsano per corrompere il vigile che non li multa» dice. Ma la politica non ha orecchie per queste proteste, le stesse che si levano inascoltate a Trastevere, diventata nei vicoli intorno a Santa Maria «una mangiatoia», come viene sinteticamente definita la crescita esponenziale di pizzerie, pub, trattorie, ristoranti che ne hanno stravolto la fisionomia. Patrizia Cavalli, però, non ha perso del tutto la gioia di vivere nel centro di Roma, ci sta dal 1972, anno più anno meno, e non andrebbe comunque a vivere altrove. Continua a fare la spesa al mercato di Campo de’ Fiori dai suoi verdurai di fiducia, frequenta al Portico d’Ottavia l’antico forno ebraico Boccione e Dolceroma, la pasticceria internazionale dove trova le delizie della tradizione austriaca e americana, quegli strudel o quei muffin ai mirtilli e all’arancia che poi ti offre con una tazza di tè. Se le chiedi di attraversare il ponte e venire a Trastevere fa un sacco di storie, perché il tragitto già le sembra troppo lungo. Si muove fra Campo de’ Fiori e il 59

Ghetto o verso il centro nobile di piazza di Spagna, dando le spalle al fiume, quasi fosse il muro di cinta della città, invalicabile. In questo molto simile a tanti altri abitanti della sponda sinistra che Trastevere semplicemente la cancellano dai loro itinerari, sentendola estranea. Come un altro poeta, Valerio Magrelli, che i ponti sul fiume non li valica quasi mai «già sufficientemente provato dalle trasformazioni del Ghetto» dove ha traslocato nel 1980. Dice di abitare la sua casa in guerra con ciò che lo circonda, «insidiato dall’avanzata dei pub». Perché la pedonalizzazione dell’area ha sì cacciato via le macchine, ma al loro posto sono arrivate le bancarelle. «Sei in balìa di una serie ininterrotta di molestie, da quello che ti suona la fisarmonica dentro le orecchie, mentre mangi, al vucumprà da spiaggia con le sue mercanzie, ai maledetti fortini apache». Resto perplessa, qui non lo seguo. Quali fortini apache? Mi sfugge qualcosa. «Io chiamo così quelle ringhierine, hai presente, che bar e ristoranti appongono sul suolo pubblico per delimitare la zona dove sistemano i loro tavolini. Ogni giorno impunemente più larga...» In vent’anni il Ghetto è stato completamente stravolto dal business della ristorazione, è diventato «mangiatoia», un lunapark del cibo acchiappa-turisti, tanto varrebbe farne una dichiarata zona di ristoranti, tradizionali e no, dalle diverse proposte economiche, e razionalizzare gli spazi oggi occupati abusivamente. «Tanto il sapore di prima è perduto» commenta Valerio. E il prima cui si riferisce non è nemmeno troppo lontano. «Il palazzo in cui abito era molto popolare quando mi ci sono trasferito. Pensa che la mia vicina di pianerottolo teneva una capra in casa. L’ingresso era una specie di antro. Adesso tut60

to il caseggiato si dà arie di lusso e poi scendi e trovi quello stesso androne invaso dalle siringhe». Quando lo lascio, faccio un giro nel rione. Non basta certo qualche vecchia merceria – dove comunque trovi l’introvabile – con le mercanzie che traboccano, come nelle fotografie e negli acquarelli ottocenteschi di Ettore Roesler Franz, panni, stoffe, vestiti appesi fuori, scatole impilate davanti alle vetrine, non basta a conservare o fermare il tempo, a rendere affascinante la passeggiata. Di fronte al Govinda, il centro Hare Krishna di via Santa Maria del Pianto, ho un sussulto. Le immagini della divinità, totalmente fuori posto in questo quartiere, propongono il nuovo kitsch indiano e suscitano reazioni di sconforto. Ripenso all’indignazione di Magrelli quando, poco prima, indicandomi il Govinda dalle finestre, mi raccontava che il sabato sera sale da lì musica a tutto volume e lo trattano da mentecatto se protesta. «Hanno impiantato un condizionatore sfondando il muro del palazzo antico. Ricoprono la strada di immondizie. È l’inciviltà totale, la religione intesa come sopraffazione. Da un ultrà di qualche tifoseria te lo aspetti un simile comportamento, ma da gente che predica tolleranza e fraternità proprio no!» Così m’infilo per consolarmi al numero 20, la bottega di alimentazione naturale L’Albero del Pane in cerca di qualcosa di sano e magari di qualche incontro casuale con gli amici che abitano in zona, tutti frequentatori di questi stipati ambienti dall’aroma speziato. Ne esco, come sempre, carica di cibi alla soia e dolcetti di cui non ho nessun bisogno. Poi, su via Arenula, tiro dritto evitando un’altra sosta per me irresistibile, ignoro insomma il fioraio, che travalica i confini del negozio e invade il marciapiede con piante di tutti i colori. Mi sento un po’ in colpa con Valerio e le sue giuste indignazioni, però, 61

pur dovendo scendere dal marciapiede perché i clienti del fioraio bloccano il passaggio, penso che l’aria improvvisamente parigina di una via per il resto massacrata da parcheggi selvaggi e binari del tram, non mi dispiace per niente. Per ritrovare l’incanto della Roma più autentica basta che torni sui miei passi, direzione Portico d’Ottavia, cercando di non perdere l’orientamento nel labirinto delle stradine, o magari perdendolo. È il tragitto più consigliabile, a piedi, per arrivare a piazza Venezia, remoto, appartato, una nicchia segreta della città. Ogni volta che lo percorro mi stupisco dei pochi turisti che incontro, smarriti e affascinati, capitati lì per caso, anche loro trascinati dai piedi. Sono di nuovo sotto casa di Valerio Magrelli, palazzo Santacroce, all’angolo. Sarà stato pure un caseggiato popolare, ma risale alla fine del ’400 ed è l’unico esempio di bugnato a diamante della città vecchia. Prendo via della Reginella, un budello con bei portali di antichi palazzetti fioriti di gerani e sbuco in piazza Mattei, rione Sant’Angelo, davanti alla cinquecentesca Fontana delle Tartarughe, la più aggraziata di Roma, progettata da Giacomo della Porta con le sculture di Taddeo Landini. «Mi piace moltissimo la Fontana delle Tartarughe» mi aveva detto Mario Bortolotto quando un giorno gli ho chiesto di elencarmi i monumenti, le strade, le chiese di Roma che gli piacciono di più. La prima cosa che gli è venuta in mente è stata questa fontana. «Perché?» gli ho chiesto, e lui: «Perché è bellissima con quelle figure allungate». C’è da chiederlo, era la domanda inespressa. Quattro giovani uomini dalla forma perfetta sospingono nella vasca superiore altrettante tartarughe (aggiunte berniniane, sembra). 62

«Per quasi un secolo era stata la Fontana dei Delfini» mi spiegò Bortolotto. Perché ci sono anche quattro delfini. È una fontana molto animalesca, e malgrado i quattro esili giovani nudi siano la presenza più forte nel loro movimento danzante, la fontana resta impressa per quelle tartarughe che si arrampicano faticosamente, aiutate dalle mani dei ragazzi. È giocosa, stravagante. Doveva essere collocata nel Ghetto davanti al mercato del pesce, sarebbe stata molto utile lì. Ma i potenti Mattei, una famiglia di duchi mercanti che controllavano i commerci sul Tevere, non resistettero ad avere tanta bellezza sotto le proprie finestre e ottennero che fosse sistemata nella loro piazzetta in cambio di un contributo alle spese di pavimentazione e di manutenzione. Ma perché furono aggiunte le tartarughe? Provo a modificare una leggenda improbabile che vuole la fontana costruita in una sola notte per desiderio di un duca scavezzacollo. Il duca aveva perso una fortuna al gioco e rischiava di vedere sfumare il suo matrimonio. Per stupire e convincere il suocero titubante, lo fece affacciare sulla piazza il giorno dopo, a guardare la fontana sorta come un fungo dall’umidità notturna. Ora immagino che furono solo le quattro tartarughe a essere aggiunte nottetempo. Ma erano così “maravigliose” e simili al vero da far crollare, sotto l’effetto dell’ammirazione, quel padre prudente e deciderlo a consegnare la figlia nelle mani di un uomo tanto estroso. La finestra da cui si erano affacciati venne murata, la si vede ancora oggi così cieca, perché mai più nessuno potesse guardare la fontana magica da quell’angolazione. A casa squaderno davanti a me due cartine: una rappresenta il Ghetto com’era, l’altra lo disegna com’è oggi. Ho usato non a caso il verbo disegnare: sono cartine un po’ infanti63

li che riproducono non solo le strade, ma anche le casette e i palazzi di ieri e di oggi. Le ho trovate in una piccola libreria trasteverina di via della Lungaretta, una libreria di libri usati soprattutto americani. In vetrina faceva bella mostra di sé questa doppia mappa del quartiere ebraico che ho acquistato proprio per il gusto vecchiotto della sua grafica. È molto chiara. Mi fa capire al primo rapido sguardo la differenza di epoca e urbanistica. Il vecchio Ghetto brulica di case ammassate l’una contro l’altra e sull’altra, quello di oggi, dopo la demolizione totale del 1870 per ragioni sanitarie e le successive demolizioni per la costruzione dei muraglioni sul Tevere, è stato ricostruito in una forma ariosa, organizzato in quattro blocchi, di cui uno coincide con la Sinagoga. Girando nel quartiere attuale non ci si capacita di come potesse contenere le tremila persone della comunità ebraica più antica d’Europa. Guardando l’asfittico aggregarsi di ieri degli edifici e la linea delle case dalle lunghe fondamenta che si bagnavano direttamente nel fiume, tutto diventa comprensibile. Anche le condizioni igieniche spaventose in cui gli ebrei erano costretti a vivere in soli tre ettari di città, reclusi entro le mura che papa Paolo IV Carafa fece erigere dopo la bolla Cum nimis absurdum (poiché oltremodo assurdo era per lui che «i deicidi» potessero mescolarsi ai cattolici). La sera le porte del Ghetto venivano chiuse a chiave. Le chiavi le detenevano i duchi Mattei; proprio loro, che avevano tanto gusto per le fontane.

Il regno del barocco Se Guido Strazza fa su e giù per i ponti, è perché il suo atelier si trova a Trastevere e la sua casa al Ghetto. Ma si sente trasteverino, a suo agio fra gli artisti falegnami e gli altri arti64

giani con cui gli capita di lavorare. A due passi da lui c’è lo Studio Forme, di Rita Rivelli e Giorgio Funaro, maghi restauratori del vetro, c’è lo scultore argentino Federico Buck, tutti “stranieri” per i vecchi trasteverini, ma comunque accolti e rispettati. «È una dimensione che al Ghetto si è perduta. Lì prevale ormai una realtà tutta commerciale. Non mi sono mai integrato sul serio, e non per colpa mia. Non essere ebrei pesa, è una discriminazione al contrario, anche comprensibile». Sono otto anni che vive all’Arco de’ Cenci, sui quaranta che ha passato a Roma, e non ha fatto un passo avanti nei suoi rapporti col rione. «Sono pur sempre le “mie” pietre, amo ogni sasso del Ghetto, però non mi sento accettato. È un’emozione negativa dovuta a gesti minimi, piccole disattenzioni appena percepibili. Nei negozi per esempio: è sempre come se uno capitasse a sproposito in mezzo a una riunione di famiglia, perché si avverte perfettamente la lieve differenza di trattamento e la mancanza di familiarità che hanno verso i gentili. Mi dico: è giusto così, però ciò non toglie che mi senta forestiero. Per le feste chiudono il rione, ma non sono le mie feste e il senso di reclusione mi dà una certa ansia». Una volta l’ho incontrato per caso nei vicoletti vicino al suo studio. Era ora di pranzo e siamo andati a mangiare in un ristorantino a prezzo fisso, calmo e pulito. Mi ha detto: «Se mi allontano da qui, anche solo per raggiungere piazza Navona o il Campidoglio, nella mia testa si formula il pensiero: “Vado in città”. E infatti non ci vado con piacere, ci vado solo se sono costretto». Mi sono ricordata che qualcosa del genere me l’aveva detta pure un’altra amica scrittrice, Francesca Marciano: «A piazza Argentina già ti senti nella confusione, quando poi ar65

rivi a piazza Venezia, è come se dalla navigazione su un placido fiumicello ti trovassi in mare aperto in mezzo a onde furiose». E faceva proprio i gesti di un molesto nuoto controcorrente, quasi che l’ipotetico navigatore solitario, giunto sotto al Vittoriano e tentando il difficile attraversamento fra autobus, macchine e motorini zigzaganti, venisse sbalzato giù dalla sua barchetta e cercasse faticosamente di procedere per i Fori Imperiali verso il Colosseo, o per il Corso verso piazza del Popolo, a forza di braccia. Allora mi aveva molto colpito questa immagine del paesello da cui esci controvoglia per affrontare il mare aperto della metropoli. Ma adesso la condivido in pieno e capisco le due forze contrarie che caratterizzano i due diversi attraversamenti della città: se dal centro della vecchia Roma vai verso i cerchi concentrici che ti portano sempre più in periferia o se dalle periferie ti muovi verso il centro sempre più stretto. In un caso vai verso il futuro ignoto, nell’altro verso il passato risucchiante. Piazza Argentina, con la libreria Feltrinelli e il suo bar interno, è un centro di incontri frequentato un po’ da tutti. Qui si confluisce dagli altri quartieri, anche periferici, e si riparte nelle varie direzioni della città. Le rovine al centro della piazza non le guarda mai nessuno, se si escludono i turisti forse più attratti dalla colonia di gatti, la più antica di Roma, piuttosto che dai soliti tronchi di colonne sopravvissute nel tempo o dall’ammasso informe di blocchi di tufo che furono la Curia di Pompeo, dove fu ucciso Giulio Cesare con ventitre pugnalate. Mentre attraverso la piazza diretta al Collegio Romano non posso non pensare che proprio in quel punto si è consumato uno dei più famosi tirannicidi della storia. Ci penso ogni volta che passo davanti al Teatro Argentina, costeggiando la balaustra che affaccia sul vecchio suolo sprofondato dove stanno le rovine, e penso alla macina del tempo sulle 66

edificazioni umane, al rimescolarsi delle pietre in stratificazioni successive. Nella libreria antiquaria Cesaretti, di via del Collegio Romano, dove sono andata alla ricerca dell’introvabile Guida di Roma dell’americana Georgina Masson, quella utilizzata da Elsa Morante per vedersi un quartiere a settimana, quando pensava ossessivamente di essere sul punto di diventare cieca, incontro un’amica persa di vista da qualche anno, Daria Galateria, una francesista che abita nei paraggi. L’avevo lasciata in via della Vite e la ritrovo che si è trasferita in via del Gesù. «Sono due Rome diverse» mi racconta mentre ci sediamo per mangiare qualcosa all’Enoteca Corsi, una vecchia trattoria, sotto casa sua, che esiste simile a se stessa dal 1940. «Intorno a piazza di Spagna, dove stavo prima, lo charme è perduto, è diventato centro commerciale, tutto una vetrina dove prevale la moda. E nemmeno alta, non solo almeno. Non che anche qui intorno, nel rione Pigna, non si pratichino i soliti commerci, ma conservano una fisionomia tradizionalmente romana. Prendi questa osteria, per esempio. I proprietari vengono da Leonessa. Danno del tu a tutti, il tu ciociaro. Aprono ristoranti ovunque nel mondo, persino in Australia, ma restano se stessi. Quasi un miracolo». E la cucina è quella classica, piatti molto conditi, saporitissimi. Niente di dietetico, non sia mai, ma comunque semplice, casareccio. «È diventato il quartiere dei politici ormai, questo qui» continua Daria che a dispetto della sua linea minutissima mangia tutto quello che le va. «C’è il Parlamento qua dietro e i politici si allargano, li incontri dappertutto. Eppure per me resta l’insula domenicana che era nel Seicento, un paesaggio urbano barocco, meraviglioso». 67

Mi prende sottobraccio e mi racconta la Roma che ama. In via Santo Stefano del Cacco mi dice ridendo che si era imbattuta per la prima volta in questa strada leggendo il Pasticciaccio. «Io credevo che Gadda se lo fosse inventato quel nome, che fosse una delle sue bizzarrie insomma, e invece, pensa, “cacco” viene da “macaco, macacco”: avevano scambiato la statua egizia di Anubis dalla testa di cane, rinvenuta durante gli scavi e ora ai Musei Vaticani, per una scimmietta». Ridiamo insieme di quel povero santo per sempre legato a una parola ridicola. Davanti al piede gigantesco di via del Piè di Marmo, che sembra infilato in un’enorme pantofola, ridiamo di nuovo: «Era un piede femminile, malgrado le dimensioni». Piede di Iside probabilmente, sopravvissuto anche questo al tempio egizio crollato, su cui poi fu edificata la chiesa di Santo Stefano. «E anche tutto questo riciclo di spazi, templi che diventano chiese, chiese che diventano palazzi, è divertente. Sdrammatizza la seriosità della religione, ti pare?» Quando approdiamo nella settecentesca piazza Sant’Ignazio le dico che anche io, non particolarmente appassionata di barocco, provo sempre una gioia profonda ad attraversare questa piazzetta che sembra una scena teatrale, tanto che modifico i miei itinerari a piedi pur di includerla e poterla rivedere ogni volta. «Forse è la piazza più bella di Roma» dico. Lei mi racconta che i tre palazzetti rococò sono chiamati burrò, e infatti c’è via dei Burrò. «Sai perché?» «Non ne ho la minima idea. Un nome di famiglia?» «Da bureaux, uffici. Era la via degli uffici via dei Burrò. Erano chiamati burrò i tavoli da studio...» Ora c’infiliamo dentro la chiesa di Sant’Ignazio e anche 68

qui Daria ha una storia da raccontarmi. Lo fa quando siamo nel punto migliore per osservare l’interno disegnato di una cupola che non c’è, è solo un trompe-l’oeil, uno dei più spettacolari inganni barocchi, geniale soluzione gesuita di un incidente diplomatico. «Perché vedi» mi dice «la cupola della chiesa dei gesuiti sarebbe andata a oscurare la domenicana Biblioteca Casanatense su via Sant’Ignazio! I domenicani giustamente si opposero, e così i gesuiti escogitarono questa soluzione spiritosa: invece di costruire una cupola ingombrante, ne crearono una immaginaria. Che bell’esempio di civiltà per risolvere un dissidio che era tutto politico!» Qualche incursione nei negozietti di borse e vestiti, nascosti nelle viuzze-canyon – dove le pareti del canyon sono sempre gli splendidi palazzi barocchi di questa parte di Roma – e siamo arrivate in piazza di Pietra, un’altra delle mie preferite, riuscendo a dare una sbirciata dentro il ristrutturato palazzo della Borsa che prodigiosamente ingloba le undici colonne superstiti dell’antico tempio di Adriano. In genere il palazzo è chiuso, ma era in corso una conferenza su un qualche tema economico e un portiere ci ha respinte perché non invitate. Noi avevamo solo allungato dentro la testa per curiosità e ci siamo subito allontanate. Tanto avevamo fretta. Daria Galateria, prima di lasciarmi per il suo corso di Pilates, voleva assolutamente portarmi allo studio di due restauratrici, Valeria Merlini e Daniela Storti in via del Gesù. E negli ampi spazi dell’atelier, rievocando le loro imprese (un Caravaggio della collezione Odescalchi e la Sacra Famiglia di Giulio Romano conservata in Santa Maria dell’Anima, tanto per dirne due celebri) in mezzo agli effluvi di misteriosi impasti, abbiamo trascorso il resto del tempo che ci restava da passare insieme. 69

Ritorno al fiume A piazza Argentina ho appuntamento con Stefania Caracci che vive al quartiere Talenti, insegna inglese, ha scritto un bel libro su Sylvia Plath ed è una persona gentile che attraversa in autobus la città per raggiungermi e ficcarsi con me in qualche cinema o teatro del Centro, in uno dei nostri bar preferiti, dal britannico Babington di piazza di Spagna, all’indiano Bibliothè di via Celsa, dal caffè al primo piano della Feltrinelli a quello della Mondadorilibri dietro Fontana di Trevi, quando non è il Caffè della Pace vicino a piazza Navona, o uno dei tanti di via del Governo Vecchio. Stavolta ci dirigiamo verso il fiume per visitare la Sinagoga al suo interno. Una signorina brusca ci mostra prima la piccola sinagoga dove si segue ancora il rito sefardita poi ci porta negli ampi spazi della sinagoga moderna. I banchi sono tutti di legno e hanno un cassetto chiuso a chiave che chi vuole può affittare per tenerci i paramenti sacri necessari al culto. I nomi scritti sulle targhette, però, sono lì solo per ricordare le famiglie che hanno subìto persecuzioni, non corrispondono ai proprietari dei banchi, che sono liberi. Ci sediamo perciò dove ci pare, proprio sotto la cupola. Grazie alle spiegazioni della nostra guida scopriamo che è di metallo, «un materiale molto utilizzato nella Belle Époque, ma purtroppo con un grosso handicap: d’estate s’infuoca e si muore di caldo!» Poi è coloratissima. A me sembra che prevalgano il verde e l’arancio, ma la guida assicura: «Ci sono tutti i colori dell’arcobaleno e il disegno imita le piume del pavone, altro elemento decorativo tipico dell’epoca». Sui quattro lati spuntano, proprio al centro, altrettante cime d’albero, le solite palme mi pare. La signorina però precisa: «Sono due palme da datteri e due cedri del Libano, simbolo di Israele». Sui 70

cieli stellati che decorano gli alti soffitti non ha voglia di soffermarsi. Ci comunica sbrigativa: «Un riferimento alla Torah» come se dovessimo saperne i contenuti. Ma non chiediamo altro. Stefania commenta: «Avessi immaginato che bastavano gli otto euro del biglietto per visitare un luogo di culto preso di mira da minacce e attentati come questo, lo avrei visitato prima». Dico che effettivamente anch’io pensavo fosse chiuso ai gentili. E come noi chissà quanti romani: i visitatori, infatti, sono pochissimi, ed esclusivamente stranieri. Le confesso anche la mia passione per questo tempio, un amore che non ha nulla di religioso, mi piace la sua forma, mi piacciono le palme e la cupola che domina Roma quanto la cupola di San Pietro. Quando ci ritroviamo fuori, per festeggiare le novità, ci compriamo i bruscolini di Boccione, il forno dell’antica tradizione ebraica, i più buoni di Roma, che a quest’ora pomeridiana sono appena tostati. Il negozio è angusto, c’è dentro una signora anziana dall’aria annoiata che sta servendo una ragazza a un ritmo lentissimo. Sparisce nel retro da cui emanano odori voluttuosi e ne torna con cartocci di biscotti pieni di canditi e di uva passa, mandorle, cannella. Li pesa e passano dieci minuti buoni. Quando finalmente fa il conto, la ragazza si accorge di non avere il portafoglio. Forse l’ha lasciato a casa, così spera, o forse gliel’hanno rubato in autobus. Inaspettatamente la signora dietro il banco le dice di prendere lo stesso i biscotti. «E come faccio a pagare?» chiede la cliente. «Non importa, sono dodici euro. Me li porterà un’altra volta». «Ma non ripasso prima di una settimana!» «Una settimana, due... quando ripassa di qui me li porta. Sono sicura che lo farà!» 71

«Trastevere ha un’aria da città dei balocchi, però mi ci sento lo stesso a mio agio, nei suoi cinema e nelle sue librerie. Campo de’ Fiori e piazza Farnese sono diventate radical-chic, per cui ormai i veri romani rimasti sono quelli grassi e linguacciuti del Ghetto». Così mi dice Giuseppe Scaraffia mentre ci facciamo a piedi una notturna traversata da via di Ripetta verso il Tevere, tagliando fuori il mammellone del Parione e spostandoci progressivamente a sinistra per il Pantheon e via Arenula. Abita, con Silvia Ronchey, proprio di fronte alla Sinagoga in un adorabile slargo di via Catalana, fra piazza delle Cinque Scuole e il Teatro Marcello, uno degli angoli più calmi e suggestivi di tutta l’area, forse per la presenza, ancora una volta incongrua, di quegli alberi che vogliono richiamare un’altra terra e un altro paesaggio e per la solida eppure leggiadra forma del Tempio. Quando Silvia Ronchey ha trovato l’appartamento di via Catalana, una ventina di anni fa, avrebbe preferito Trastevere, mi racconta, ma poi si è innamorata di questo spiazzo che non arriva a essere piazza, con due palme in mezzo e si è radicata nella rive gauche. Sono una coppia di intellettuali alla Fitzgerald, lei e Beppe, charme eccentrico a coprire sotterranei grovigli. Guardandoli, eleganti e mondani, t’immagini che non abbiano mai messo piede in una periferia se non per sbaglio e di passaggio. Beppe pensa che un intellettuale non possa vivere che in Centro, «perché ha un bisogno fisiologico della bellezza», così si divide fra la casa di Silvia e il proprio studio dalle parti di piazza di Spagna. «Ho sempre amato tutta la vecchia Roma» mi racconta Silvia Ronchey camminando magra e spedita sull’ala dei suoi sandali senza tacco. «Fra i sedici e i diciotto anni mi piaceva andarmene in giro a fotografarla, soprattutto a Trastevere. Erano i primi anni ’70, i ricchi e gli stranieri non si erano an72

cora impossessati in massa di questi quartieri, e ti mescolavi con le donne che ancora lavavano i panni nei lavatoi e li stendevano da una finestra all’altra. Quelle donne sedute fuori dalle case, vecchie grasse romane bellissime con i gatti intorno, antiche divinità, e bambine con le trecce. C’era un magnetismo che si è dissolto, eppure l’aria di paese non è scomparsa a Trastevere come al Ghetto: resiste lo spessore umano, solidale». Siamo arrivati all’altezza delle Cinque Scuole, qui ci separiamo. Proseguo da sola, la strada è quasi completamente vuota nella notte di fine luglio, caldissima notte romana che sembra una sauna. Mi fermo un po’ su ponte Garibaldi, nella terrazzetta semicircolare che sporge verso l’Isola Tiberina. Alle mie spalle la cupola rotonda di San Pietro, davanti la cupola quadrata della Sinagoga, in pace l’una con l’altra. Mi chiedo dove potrebbe collocarsi la larga cupola di una moschea – in realtà sepolta nella zona decentrata dei Parioli – per partecipare al gioco architettonico dell’equilibrio fra le tre grandi religioni. Marguerite Yourcenar le definiva le Tre Imposture. Per associazione mi tornano in mente le mura bianche di Gerusalemme con la loro difficile interna convivenza di templi e credi in lotta perenne. Gerusalemme arroccata, Roma a ciriola, sinuosa e sorridente. Guardo in basso, adesso, l’acqua così calma da dare l’illusione che nulla di tragico possa in un momento come questo accadere in nessuna parte del mondo.

Rive e derive

Ecce San Saba, quasi Testaccio Con Nanni Moretti ho appuntamento davanti al suo cinema, il Nuovo Sacher, che si trova ai margini di Trastevere a Porta Portese. Monto sulla sua macchina perché andiamo a mangiare – è l’una passata – in una tavola calda sotto gli uffici della casa di produzione a Testaccio. «Non è Testaccio» precisa lui «è San Saba». I confini sono netti, effettivamente: da una parte di via Marmorata, quella della Piramide, si stende Testaccio, dall’altra l’Aventino. La Sacher Film è un po’ più su, in via Annia Faustina, già nel rione Piccolo Aventino, o San Saba che dir si voglia, e più tardi, quando saremo negli uffici, Nanni mi mostrerà dalla finestra una splendida inquadratura della chiesa di San Saba, che domina dall’alto il colle con le inconfondibili colonnine bianche mentre una palma rigogliosa sembra farle vento di lato. «Vedi che siamo a San Saba?» dice con un sorrisetto paziente. Gli spiego che non vado così per il sottile, io ne faccio una questione di sponde del fiume, ancora una volta riva destra, riva sinistra e loro derive, ma verso l’entroterra. 75

«Allora...» si arrende allargando le braccia e sollevando una gonfia borsa impiegatizia che si trascina dietro. Prima di salire in macchina aveva telefonato alla tavola calda, la sua preferita, informandosi sul menu e trattando con il gestore. Mi pare che si era accordato per le lasagne. Nanni ascoltava deliziato al cellulare la descrizione delle pietanze come si trattasse di piatti eccezionali, non so se per soddisfare una fame infantile scoppiata nel sentire descrivere i cibi o per far piacere alle persone con cui stava parlando, che infatti erano più d’una: al telefono si succedevano altri componenti della famiglia di ristoratori verso i quali prima o poi ci saremmo diretti. E mentre la telefonata andava per le lunghe, io mi godevo una tipica scena da film morettiano, perché Nanni, con il mento spinto verso il cielo – che sembrava ancora più alto – chiedeva gli ingredienti uno a uno e voleva sapere se si trattava dello stesso piatto che aveva gustato qualche giorno prima o se erano state apportate delle varianti. Poi in auto, mentre attraversavamo ponte Sublicio, mi aveva spiegato che quella non è una tavola calda uguale alle altre, fa una cucina casalinga mica pasticciata e grassa come ti servono tutte le tavole calde, e «poi i proprietari sono simpatici». Guidava e parlava con la voce ad alto volume eppure afona, un poco velata, col tipico strascico degli anni sessantottini che non ha mai dismesso ed è talmente parte di lui da essere a questo punto semplicemente un modo di parlare morettiano, assertivo e belligerante. E pensavo che di Nanni Moretti mi piace il suo essere rimasto sempre uguale. Era così, ma proprio vestito e atteggiato così, quando l’ho conosciuto ai tempi di Ecce Bombo ed è rimasto così, prodigiosamente intatto. 76

«Sai, io i posti, i ristoranti, i bar, i negozi li scelgo non per come si mangia o perché sono rinomati, no: mi devo sentire a mio agio. Per me conta la familiarità, il calore, la situazione del suono, dei rumori. Quando trovo quello che mi piace, mi entusiasmo e vado soltanto lì. Tendo a frequentare sempre gli stessi posti, anche con i cinema lo stesso». La tavola calda dove mi porta, a me sembra frastornante e incasinata come tutti i posti del suo genere, e poi è l’ora di punta, per fortuna che ci hanno tenuto un tavolo. I componenti della famiglia con cui ha parlato al telefono vengono a coccolarlo, e Nanni esagera le lodi delle lasagne, un piatto che a me pare normalissimo, ma contagiata dalla sua sicurezza sono pronta a sostenere che fu davvero speciale. Speciale, invece, è camminare per Roma con lui, mentre intorno la gente, abituata alla sua presenza, sorprendentemente non lo disturba. Nato a Brunico per caso, ma senza dubbio intensamente altoatesino in qualche piega dei suoi cromosomi, Moretti è parte di Roma come lo erano Moravia e Pasolini, perfettamente integrato e a suo agio nel centro della città. «Se me lo chiedono, do l’autografo e mi faccio anche fotografare; ma in questo caso controllo se sono venuto bene...» Però l’Aventino non è il suo quartiere. Lo dice e lo ripete. E nemmeno Trastevere lo è. «Il mio quartiere è Monteverde Vecchio. Un quartiere di anziani, come me, come ero già nell’82 quando ci sono andato ad abitare». Nel 1982 non aveva nemmeno trent’anni, ma tant’è, uno è come si sente e poi eravamo una generazione che aveva fretta. La città, nella sua interezza, continua ad attraversarla in motorino come in Caro diario, «ma senza fermarmi». Santa Maria in Trastevere e Campo de’ Fiori lo mettono a disagio, «non so perché». E semmai un suo posto del cuore è la Rinascente di piazza Fiu77

me, perché ci andava spesso quando studiava al liceo Tasso e «ancora oggi ci vado a fare acquisti ogni tanto». E torna a parlare di Monteverde Vecchio, i suoi tre bar preferiti, uno proprio sotto casa, una certa pasticceria, Villa Sciarra dove accompagna il figlio a far passeggiare il cane Tempesta. «Vorrei parlare di Testaccio» dico io. «Possibile che non lo frequenti? Sta proprio in mezzo fra il Nuovo Sacher e la Sacher Film. E poi ti ho incontrato qualche volta nei ristoranti del quartiere...» «Sarà capitato, certo. Può essere..., ma come te lo devo dire che Testaccio nella mia vita è di passaggio? Ci passo facendo la spola fra il cinema e la produzione». Forse per risarcirmi delle mancate notizie mi fa vedere un pezzo da museo: il lettino da psicanalista che appare nella Stanza del figlio. È in una camera dalla porta chiusa e dalle imposte accostate della Sacher Film. M’immagino che Nanni ci si stenda a farsi venire le idee per le sue storie. Io invece mi rimetto in cammino, devo ancora fare il giro del rione. Me ne vado piena di pieghevoli sui film che ha prodotto e proiettato in tanti anni di attività. Li sistemo alla meglio nella borsa. Fortuna che porto sempre borse capienti.

All’ombra dei cipressi e dentro l’urne Ci sono libri che uno vorrebbe leggere e non lo fa, rimanda ogni volta per un motivo o per l’altro. Eppure sa che quel libro lo sta aspettando e prima o poi ci cadrà dentro e sarà al momento giusto. Così con i luoghi. Il Cimitero Acattolico alla Piramide Cestia – detto anche Cimitero degli Inglesi o Cimitero degli Artisti e dei Poeti – mi aspettava da anni. Meglio, ero io che da anni mi proponevo di andare a visitarlo. 78

Senza mai farlo, non saprei dire perché. Ci voleva l’occasione e la compagnia giusta. Eccola l’occasione, anzi due: questo libro e il fatto che Nicola Ravera Rafele da qualche mese ha preso casa a Testaccio e si è offerto di farmi da guida nel quartiere. Conosco Nicola, oggi trentenne, figlio di amici e amico di mio figlio, da quando faceva la prima elementare. Ha scritto il suo primo libro che non aveva sedici anni e vive facendo lo sceneggiatore. Camminiamo, guardiamo e la nostra passeggiata sotto i cipressi è piuttosto festosa. Ma non è per lo stato d’animo, è lo spirito del luogo a infonderci un’effervescenza affabile, una serenità chiacchierona. Non abbiamo abbassato la voce, parliamo senza la soggezione riverente che s’impone nei camposanti. Nella parte antica, appartata e vuota – almeno è questa la sensazione che viene dalle poche lapidi e l’ampio spazio erboso – facciamo subito visita a Keats e Shelley. «Una volta ho assistito a una visita guidata sotto forma di rappresentazione» dice. «Un attore nei panni di Shelley portava la gente di tomba in tomba a conoscere i personaggi sepolti, interpretati da altri attori che spuntavano fuori da dietro le steli funebri». Anche noi ci muoviamo adesso in una sorta di pellegrinaggio alla ricerca dei morti che ci interessano. Nicola vuole andare a rendere omaggio alla sepoltura del poeta beat Gregory Corso, io richiamo la sua attenzione sulla lapide di Carlo Emilio Gadda. «Ci sono anche i poeti Amelia Rosselli e Dario Bellezza» mi dice ricordandosi degli attori che recitavano le loro poesie durante la performance. «Sono più in là, nella zona numero due». Ma prima di arrivarci gli racconto la storia triste di Belinda Lee, attrice inglese morta in un incidente d’auto a ventisei 79

anni, anche lei fra i quattromila che dormono qui. Sempre camminando, gli leggo un elenco dei defunti che abbiamo preso all’ingresso. Antonio Labriola, Rodolfo Wilcock, Enrico Filippini, Bruno Pontecorvo, Emilio Lussu... A poca distanza dalla piccola discretissima lapide di Amelia Rosselli scopro quella di Luce D’Eramo, le conoscevo tutte e due e mi tornano in mente gli occhi scuri e pungenti di Luce, le feste piene di gente a casa sua, vicino a piazza Bologna; gli occhi chiari di Amelia e le tante visite nel suo appartamento in via del Corallo, da cui un giorno precipitò nel vuoto. Io e lei da sole, quasi sempre. Il pulviscolo degli anni si raccoglie ora nelle strisce di luce fra i cipressi del viale. Arriviamo all’elegante sepolcro di Gramsci sparso di rose, una stele e una piccola urna di marmo su cui sta seduta a fumare una ragazza, coprendo la scritta Cinera Antonii Gramscii. «C’è sempre gente così intorno a questa tomba» dice Nicola. «Così come?» «Come se si stesse recitando nella testa i versi di Pasolini domandandosi il da farsi». Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo? Prima di andarcene passiamo ad ammirare L’Angelo del Dolore, il monumento funebre che lo scultore americano William W. Story eresse per la tomba di sua moglie Emelyn, diventato il simbolo di questo cimitero: un bellissimo angelo inginocchiato e abbracciato al sepolcro, il braccio destro piegato a nascondere il viso, l’altro lasciato pendere inerme, le ali languide ai lati, i piedi teneri che si puntellano ai gradini. Sarà quel nome, Story, sarà la forza della scultura, mi sembra che nel suo pianto l’angelo non possa che recitare Le ceneri di Gram80

sci, il finale della poesia: «Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?»

La Roma è nata qui Quando ero piccola, nella mia famiglia borghese, se di qualcuno si diceva «è testaccino», lo si bollava come cafone, popolano, privo di educazione e forse anche ladro o mignotta. Testaccio era per Roma quello che Harlem era per New York, una deriva malfamata, una comunità irredenta, litigiosa, ma con una grande coesione interna. Domando a Nicola se è ancora così, se vivendo nel quartiere, si avverte questa atmosfera “selvatica”, che il resto della città però non riconosce più, avendo spostato nelle varie Torri (Tor Marancia, Tor Pignattara, Tor Bella Monaca...) e nelle periferie estreme ignominia, degrado, abbandono. «C’è senz’altro qualcosa che non trovi ormai nemmeno a Trastevere (e men che mai nelle estreme periferie dove la realtà sociale è di tutt’altro tipo): la romanità fiera di se stessa, persino esibita. E poi, come a Trastevere, l’anticonformismo popolare autoctono si amalgama bene all’anticonformismo di chi decide di prendere casa qui. Oggi Testaccio si è addomesticato nel mix ben riuscito fra indigeni e ultimi arrivati. Incontri Giuliano Ferrara, che abita al Cremlino, come il testaccino ancora comunista e sempre tifoso della Roma, che credevi estinto». Il “Cremlino” è il nome che è stato dato dal quartiere a un mastodontico ed elegante palazzo d’angolo di piazza Emporio, vista fiume, bel frutto di edilizia popolare Ina-case, dove hanno abitato molti pezzi grossi del Pci. E Ferrara è facile incontrarlo la sera, quando stacca dal «Foglio», il suo quoti81

diano con sede di là dal Tevere. Per tornarsene al Cremlino, si fa a piedi – l’inseparabile bassottina Libé al guinzaglio – i vicoletti bui fino al ponte Sublicio, che deve il suo nome alle travi di legno (le sublicae) con cui fu riedificato ai tempi di Anco Marzio. È il ponte più antico, anche se non resta nulla di quello originario, il primo a mettere in comunicazione le due sponde. Esisteva già prima dei re di Roma. Prima della fondazione stessa della città. Lo avevano costruito le popolazioni accampate sulla riva destra, dove poi si sarebbero asserragliati gli Etruschi aspettando il momento buono per attaccare la città fondata da Romolo. È il ponte che vide le imprese di Orazio Coclite per fermarli, gli Etruschi, e impedire la restaurazione del regno di Tarquinio il Superbo. È il ponte dei sacrifici umani in onore di Saturno. «Realtà molto diverse convivono e si amalgamano bene» continua Nicola. «Il cinema Greenwich con le sue proposte chic e il mercato rionale rimasto competitivo per qualità e prezzi e con dentro stili e personaggi scomparsi dal resto della città. Ti ci porto?» Mi colpisce la quantità di magliette di Totti appese in giro e Nicola, da tifoso qual è, comincia subito a discutere di calcio con Maurizio Mastroianni proprietario di un banco di pesce in controtendenza con la fama del posto che fa della carne il suo punto di forza, vista la vicinanza col mattatoio. L’attore Marcello era suo cugino, ecco perché stanno appese intorno fotografie in cui sorridono insieme abbracciati. «Marcello era una persona semplice, non solo un grande attore» ricorda Maurizio. Gli rispondo che è vero. «L’ha conosciuto?» «Superficialmente. L’ho incontrato due volte, nei suoi ultimi anni. Aveva un fascino avvolgente, affabile. Ricordo be82

ne la voce: affettuosa, molto romana». Una voce con lo “strascico” come lo definisco io: prolungava leggermente le parole trascinandosele dietro verso la frase successiva. «Un vero romano!» dice Maurizio. Già che siamo qui facciamo un po’ di spesa, fermandoci anche a curiosare in un banchetto di libri usati che contende senza scandalo lo spazio a formaggi e verdure. Noto che i prezzi sono più bassi che altrove. «Che ti avevo detto?» fa Nicola. «Testaccio conserva uno spirito autenticamente popolano. Vedi, per esempio, questa vecchia legatoria? Io vengo qui a comprarmi i quaderni, sono stupendi». Entriamo e lui si mette a chiacchierare col bottegaio, mentre io mi guardo in giro nello spazio piccolissimo e vedo versi romaneschi, scritti a mano, appesi alla parete: sono del Belli e di un poeta sconosciuto che, naturalmente, è lo stesso proprietario del negozio. In quella strada, via Branca, angolo via Querini, c’era anche un mitico fanclub della Roma, illustra Nicola, «ora trasferito in via Ghiberti». La notizia mi lascia fredda e vengo subito rimproverata. Se trascuro l’elemento sportivo, non posso capire il rione («Qui nasce la Roma nel 1927!»), non devo ignorare le gesta di Campo Testaccio! Tre novembre 1929: Roma-Brescia 2 a 1, partita inaugurale nello stadio di via Zabaglia che era in legno, dipinto di giallo e di rosso, i colori della squadra. Trenta giugno 1940, ultima partita che vi fu giocata: Roma-Livorno 2 a 1. Ormai Campo Testaccio non bastava più a contenere successi e tifoseria: si stava andando verso il primo scudetto, di lì a due anni, nel 1942. Sempre in via Zabaglia, altra reliquia storica: la sezione del Partito Comunista, oggi Casa della Sinistra. «Testaccio resta un quartiere rosso» sottolinea la mia guida. «Ha retto anche 83

durante la disfatta del 2008 che ha visto la vittoria di Berlusconi. Quartiere rosso. E giallo-rosso».

I cocci del Villaggio Globale Testaccio era una collinetta e un grande prato, una distesa di vigneti, un porto commerciale e una cava di marmo. Nel 1845 il primo omnibus a cavalli, inaugurato a Roma, partiva da piazza Venezia, attraversava via Marmorata e proseguiva fino alla basilica di San Paolo su via Ostiense. La pianura andava dalla Piramide Cestia fino al Tevere, da piazza dell’Emporio al Monte Testaccio. I romani venivano a farci scampagnate e a prendere il fresco, a scatenarsi in feste carnevalesche e a bere vino. E siccome nella forma il Mons Testaceus ricordava il Calvario, già nel 1200 era teatro di sacre rappresentazioni che riproducevano la crocefissione. Il nome deriva da testae, che vuol dire cocci, perché il cosiddetto monte è fatto di pezzi di vasi rotti sulla cui origine si raccontano storie diverse. Forse erano i frammenti di anfore mal riuscite, scarti delle vicine botteghe di vasai. Oppure, la versione più accreditata, sono i resti delle terracotte che contenevano i tributi dei sudditi da versare all’erario romano. Arrivavano in nave al porto Testaccio, dove venivano scaricati anche i ricchi materiali depredati alle terre conquistate, e subito si provvedeva alla dislocazione. Le anfore, svuotate e distrutte, anziché finire nel fiume dove avrebbero provocato intasamenti, venivano accatastate tutte insieme e mescolate a terriccio, perché non franassero. Nei secoli la discarica si consolidò in un montarozzo di cui ora, insieme a Nicola, percorro a piedi il perimetro lungo il ferro di cavallo costituito da via di Monte Testaccio, la più caratteristica del quartiere e la più modaiola. Ci sono i locali storici dove si suona il jazz, Caffè Latino e Radio Londra; 84

le discoteche, Alibi, Big Bang, Coyote... e c’è la Scuola popolare di Musica, che mi riporta indietro agli anni ’70: è nata nel 1975, uno dei migliori frutti – e duraturi – del ’68 creativo. Non so più in quale di questi locali, forse il Caffè Latino, Nicola mi invita a entrare perché io constati con i miei occhi che la parete bitorzoluta è costellata di cocci, i cocci delle vecchie anfore buttate via. Accarezzo con una certa apprensione la parete, è come se toccassi la pelle nascosta di Roma. Il Mons Testaceus, a cui tutti questi luoghi di ritrovo si sono attaccati come escrescenze, è un centro di irradiazione da cui sgorga la linfa invisibile della città, una corrente elettrica che attraversa velocissima la storia, trasmettendone l’umile, pagana sacralità. «Questo tour è stato emozionante» dico a Nicola. «È stato anche un viaggio nel tempo. Non solo nel Tempo grande, ma anche in quello piccolo della mia vita. Il paesaggio urbano è cambiato. Questa zona di Testaccio negli anni ’70 aveva un’aria finale e desolata. Un po’ ce l’ha ancora, ma meno. Frequentavo molto i teatri d’avanguardia e ce n’era qui uno, Spaziozero, fondato da Lisi Natoli, un antesignano, c’è ancora, ma non è la stessa cosa. Non sai che manica di spostati animava la realtà off di quelle cantine, tendoni, garage. C’era un’atmosfera catacombale e carbonara o apertamente antagonista. Gli spettacoli di Carmelo Bene, a Trastevere, finivano regolarmente con l’arrivo della polizia e al Beat ’72, in Prati, Dario Bellezza, invece di leggere poesie come prevedeva il programma della serata, improvvisava arringhe contro tutto e tutti, insolentiva i critici, scagliava oggetti contro la piccola platea appollaiata su sedili scomodissimi. Pareva che a teatro bisognasse soprattutto soffrire. Ma ci si divertiva pure molto. Tutto era happening, improvvisazione, slittamento del senso, ribaltamento delle attese». 85

È ora di pranzo, ci siamo meritati una sosta. La proposta è andare al self-service del Villaggio Globale, dove arriviamo continuando a seguire la traiettoria della strada a ferro di cavallo. L’ampio fortino della «Città dell’altra economia», come hanno chiamato la zona dell’ex mattatoio destinata al consumo verde, non è per me un posto ideale. Ci sono ancora i recinti dove tenevano prigionieri gli animali e la loro sofferenza aleggia nell’aria persino nella bellissima giornata di sole che ci è capitata. Ci sediamo fuori con i nostri vassoi carichi di cibi vegetariani e Nicola mi racconta che la sera il posto, ora quasi vuoto, si anima e non è per niente tetro perché danno concerti interessanti. Mentre la domenica mattina gli spazi sono invasi dal mercatino biologico «e improvvisamente scopri un’altra umanità, fatta di famiglie in felpa e jeans, con bambini nutriti e vestiti in modo ecologico, è il popolo del consumo alternativo insomma, quello che teorizza e pratica un nuovo pensiero economico». Il contrappasso, però, non è ancora riuscito a disperdere l’eredità brutale del mattatoio. Forse se l’ex sindaco Walter Veltroni avesse potuto portare a compimento il suo progetto di trasformare l’intera area in una specie di Covent Garden inglobando un ben più ampio quadrilatero fino alle costruzioni industriali intorno al Teatro India, da riconvertire in altrettanti teatri, e al gazometro che avrebbe dovuto ospitare una «Città della Scienza» sul modello della Villette parigina... forse. Ma così non è. Per ora tutto è fermo in attesa che passi la crisi economica e che Roma possa pensarsi un giorno non solo addormentata sulle rovine di un maestoso passato, ma anche metropoli del futuro, maneggevole, creativa. Dalla finestra del suo appartamento all’Ostiense, immortalato nei suoi film, Ferzan Ozpetek mi fa vedere il gazome86

tro, «meraviglioso Colosseo moderno» lo definisce, e in effetti nella luce azzurrina della sera la struttura cilindrica, che sopravvive alla sua necessità, ha un fascino spettrale, che valorizza l’area industriale circostante. Se non l’hanno ancora smantellato è anche grazie al regista, che dalla Turchia si trasferì a Roma nel 1967 e che a questa parte della città ha innalzato un monumento cinematografico. Lui è innamorato del suo caotico quartiere, io lo annetto come “deriva” al racconto solo in virtù del gazometro, un oggetto che fa parte della mia mitologia personale. Da piccola mi faceva pensare a tutta la gente che stava usando il gas in quel momento, il momento in cui passando in macchina diretta al mare, guardavo il cilindro interno alla struttura di ferro e ogni volta aveva un’altezza diversa, così immaginavo che il saliscendi dell’enorme stantuffo dipendesse dal consumo del gas di tutta quanta la città. Più persone accendevano il gas contemporaneamente, e più l’attrezzo scendeva, meno fornelli venivano accesi e più quella specie di pallone si gonfiava e andava a invadere l’intero cilindro velandone la trasparenza dentro la rete metallica. Il respiro di Roma. Erano anni in cui Testaccio era ancora vicino alla sua vocazione operaia e tutto il quartiere e le sue derive verso l’Ostiense sulla sponda sinistra, Porta Portese fino a piazzale della Radio dall’altra parte, avevano l’aria moderna e operosa di un mondo lanciato verso un magnifico futuro di benessere e di progresso, in espansione. Il quartiere era nato alla fine dell’Ottocento con questa prospettiva e una popolazione di quasi tremila operai che lavoravano e abitavano nel rione. Erano soprattutto scalpellini (quelli che fabbricavano i sanpietrini, caratteristica della città), erano minatori che estraevano pietre dalle cave di via Marmorata, erano vetrai, conciatori, e poi c’era il mattatoio. 87

I cantieri, gli arsenali fuori uso, i capannoni industriali degli anni ’30, l’ex fabbrica della Mira Lanza, per esempio, tornata a vivere come Teatro India alle soglie del nuovo millennio, hanno una fisionomia elegante che li rende perfetti per riconversioni museali o ricreative. E se non ci fosse stata la corsa sfrenata della speculazione edilizia degli anni ’60, che ha deformato il volto di Roma e pompato una crescita abnorme, avrebbero potuto integrarsi subito in una più armoniosa invenzione del nuovo sulle ancora vive macerie del dopoguerra. E Roma sarebbe rimasta fedele a se stessa irraggiando la sua anima in un graduale allontanamento dal Centro e dal fiume.

Trastevere downtown

Vita scapigliata a San Cosimato «Sei indolente a Roma, e a Trastevere ancora di più»: Beppe Sebaste è uno scrittore davvero bohémien, non sai di che vive e, quando non è a Parigi, lo incontri a tutte le ore a fare flanella in giro per Trastevere. Il suo quartier generale, però, è piazza San Cosimato, epicentro della popolazione trasteverina, autoctona e non: ci sono in mezzo alla piazza i giochi per i bambini, sul lato nord-est il mercato, e tutt’intorno bar e ristoranti fra i più quotati della zona e per tutte le tasche. In primavera Beppe va a godersi il tramonto fra i tavolini di legno dell’enoteca di fianco alla chiesa, fa un salto nella libreria di fronte, Nero su bianco, la più piccola di tutto il quartiere, e si fa un bicchiere di vino da Enzo, che ha un banchetto di frutta e verdura sulla propria Ape parcheggiata in via Santini. Fino a qualche mese fa, prima che chiudesse come succede a tanti ritrovi storici, comprava «il pane azimo più buono della città» nel panificio accanto al ristorante Spaghettari, dove è difficile trovare un tavolo libero. «C’è una rinnovata saldatura fra vecchi e nuovi trasteverini» mi spiega. «Al di là del caos che regna intorno a Santa Ma89

ria, con l’invasione serale di quelli che non sono del quartiere e vengono qui a mangiare o spesso solo a fare casino, Trastevere sta tornando a essere villaggio. Negli ultimi anni c’è stato un ritorno di figli e nipoti dei trasteverini che avevano venduto ai ricchi le loro case e molti giovani che fanno cinema, e scrittori e artisti sono venuti ad abitare nel quartiere, restituendogli lo spirito scapigliato e anticonformista degli anni ’70. Era la Roma dei poeti quella. Gli amici squattrinati trovavano casa al centro, perché si contentavano di appartamenti delabré, non sentivano il bisogno di restaurarli, e poi non avrebbero avuto i soldi per farlo! Io allora abitavo sulla Nomentana, ma ci si muoveva facilmente. Saltavo sul 60 e in pochi minuti ero a piazza Sonnino, nel cuore dei locali off, teatrini, cinema d’essai, cantine dove sentivi buona musica». «Villaggio, sì, nel senso del village, un posto dove ti aggiri fra artisti e gente comune che è comunque molto artistica» dice Mario Fortunato, una sera che si va tutti insieme a cena da Corsetti, dall’altra parte della piazza. «Trastevere è stato un quartiere capace di costruire una mitologia di se stesso, come Saint-Germain a Parigi e il Greenwich Village a New York. Una mitologia costruita non sul denaro, né sul successo, ma sull’essere diversi, artisti o ladri, famosi o ignoti, poveri o ricchi che vivono da poveri, in un modo o nell’altro comunque anomali. Ha ragione Beppe, il momento d’oro è stato vent’anni fa, negli anni ’70. Si era in confidenza con tutti, senza differenze di classe sociale, e si frequentavano luoghi bizzarri, impensabili in altre zone della città». Parte una gara del ricordo. Mario evoca lo Stardust, un bar vicino alla libreria americana di vicolo del Moro, che ora si è trasferito dietro piazza Navona. «La proprietaria era una vecchia radicale che aveva instaurato nel locale un andazzo allegro, molto alcolico. Era frequentato, forse grazie alla prossi90

mità con la libreria, soprattutto da inglesi e americani e dagli studenti della John Cabot University di via della Lungara. Dove c’è oggi il cinema Alcazar c’era un locale gay, uno dei primi della città. Si chiamava L’angelo azzurro, e poi ricordo il Max and You, che siccome era sempre deserto pensavi che Max fosse il proprietario e You eri tu!» Mimmo Rafele, che fa lo sceneggiatore e ha anche scritto un thriller con De Cataldo, in quegli anni voleva diventare regista e stava effettivamente per girare un film. «Trastevere, soprattutto per un ragazzo che veniva dal profondo sud, come me, era simbolo di libertà e anticonformismo» racconta mentre in tavola arrivano le tartares di tonno che abbiamo ordinato. «Trovai casa, inizialmente, a quattordicimila lire mensili, puoi immaginare cosa fosse: cadeva a pezzi! Lavoravo con Gianni Amelio, che abitava nel quartiere già dal ’65 in una casa di Peter Del Monte. Frequentavo la sezione del Pci in via della Penitenza e passavo la maggior parte del tempo al Filmstudio, in via degli Orti d’Alibert, che aveva aperto nel ’67, inaugurando una grande stagione cinematografica. Nanni Moretti si è formato lì. Ricordo la serata d’inaugurazione con Umberto Eco e uno spettacolo di cartoni animati eccezionali. Ci incontravi i Bertolucci, Giuseppe e Bernardo, Liliana Cavani, Antonioni, Bellocchio, Dario Argento...» Il Filmstudio era uno dei poli nevralgici del ’68, colto e cinéphile – l’altro era il Politecnico di via Tiepolo, sulla rive droite con orientamento fortemente politico, e i due gruppi si guardavano in cagnesco – e poi c’era L’Occhio l’Orecchio la Bocca, in via del Mattonato, pensato come centro polivalente. Oggi non esiste più. Continuano il Politecnico, diventato proprietà della casa di produzione Fandango, e il Filmstudio che ha riaperto nel 2000 dopo varie traversie. Ma lo spirito non è, e non può essere, quello del passato. Finito il senso di 91

scoperta, l’orgoglio di essere minoranza coesa pur nelle interminabili discussioni e divisioni, e finito quel clima catacombale e alternativo, che rendeva eroica la vita, e il cinema un fantastico surrogato della stessa vita poi non così eroica come la si sognava. «Non era eroica, no» dice Ferzan Ozpetek. «Era anche dura e i sogni ce li tenevamo nel cassetto. Io trent’anni fa, arrivato dalla Turchia, stavo sempre a Trastevere per avvicinarmi al mondo del cinema. Il cinema era qui, non a Cinecittà. Perché qui c’erano gli attori, i registi, le sale cinematografiche che davano i film che non volevamo perdere. La prima volta in assoluto che ci misi piede fu per ritrovare i posti felliniani. Scrivevo per una rivista specialistica e intervistai Bernardo Bertolucci, conobbi Amelio e Maurizio Ponzi. Ti sedevi al bar e Angela Molina veniva a sedersi accanto a te, mentre le comari pulivano la verdura davanti al portone di casa e ti guardavano con commiserazione, ma poi ti accettavano perché ti riconoscevano strano come loro, anche se in un modo diverso». «Loro erano il popolo e noi eravamo pop» dico io. «Appunto, uno la filiazione dell’altro, no?» «Per me il simbolo della Trastevere popolare di quegli anni era un bellissimo zingaro che si portava dietro tutta casa su una specie di carriola, masserizie e bambini» evoca Silvia Ronchey. «Come i clochard di oggi con i loro cani al seguito, conviveva tranquillamente con i matti americani, i cileni in esilio e quel mondo libertario fatto di comuni e case aperte, che era la sinistra sessantottesca, quella della contestazione studentesca, del nuovo cinema italiano e del teatro underground, una Roma diversa, contrapposta all’altra Roma artistica e altrettanto sballata, ma dove circolavano i soldi, che si aggirava al Pantheon proseguendo i fasti di via Veneto nel clima di Fellini 8 e mezzo...» 92

Si potrebbe andare avanti ore così, ognuno con le sue memorie e altri amici che passando – i tavolini del ristorante sono all’aperto – si fermano a fare due chiacchiere, a bere un bicchiere fumando una sigaretta, a dire la loro nella bella serata tranquilla non di fine settimana, perché dal venerdì alla domenica gli abitanti del villaggio si nascondono in casa o partono per il week-end, dal venerdì alla domenica Trastevere è ostaggio della movida e percorsa dagli inni guerreschi di un esercito forestiero. La «giungla tiepida» – così Mastroianni definisce Roma nella Dolce vita – trema e si camuffa, diventando irriconoscibile, territorio di caccia in cui, però, ben poco di autentico può essere scovato e distrutto, solo la pelle più superficiale, la coda di una lucertola che si stacca ogni volta per tornare a rinnovarsi sempre nuova e sempre la stessa. Perché davvero Roma continua a essere come la volle Fellini: «...una specie di giungla tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene». E la domenica mattina, un campo dopo la battaglia, restano gli avanzi del baccanale del fine settimana, proprio la domenica mattina, che è invece il momento delle famiglie, delle processioni dentro al suono delle campane, dei canti religiosi intonati in tutto il quartiere. I pellegrini che vengono a visitare le chiese devono fare lo slalom fra le immondizie. C’è movida e movida. Quella che si abbatte regolarmente sul centro di Roma il sabato sera non ha niente di allegro e di trasgressivo che richiami in qualche modo lo sfrenato movimento spagnolo esploso nel 1975, alla fine del franchismo, e che trasformò le notti in baldoria e la vita artistica in una sarabanda di improvvisazioni, invenzioni, colori. «Non c’è nulla di artistico in chi viene a Trastevere per ubriacarsi, schiamazzare, pisciare e vomitare nei portoni, compiere qualche atto vandalico, tipo rigare le macchine, storcerne i tergicristalli, insoz93

zare i vicoli con lattine e cartacce» protesta Valeria Viganò che per non assistere a quello sfregio rituale ogni settimana, estate e inverno, il venerdì, come tanti, cerca di scapparsene al mare. Nell’indispettirsi i trasteverini ancora una volta sono uniti, quelli d’importazione e quelli antichi, sono clan, sono villaggio. Quando la signora Rina si lamenta: «Mo’ nun se dorme più», pensa a un’epoca in cui non si dormiva solo durante i quindici giorni della Festa de Noantri, quando si portava in processione «a spalla» la Madonna dei cicoriari. «Qua ‘ntorno ce stavano li prati e ce s’annava a fà la cicoria. La statua fu trovata in mezzo ar prato e sistemata a Sant’Agata». Era quando due famiglie dividevano un appartamento di due stanze, una stanza per famiglia, e gli abitanti del quartiere erano quarantamila non diciannovemila come oggi. «Capito? Quarantamila votanti, bambini esclusi» sottolinea. Lei lo sa, lei è entrata nel partito nel ’46 a ventidue anni. «Ero la più giovane, me facevano trottà come ’n somaro. Tutta ’sta folla, ’sta confusione de li giorni de festa, ’sta movida come la chiamate mo’, è fasulla. Gente forestiera. Il quartiere s’è svotato. Non dico ch’è male. Prima ce stava la miseria nera, la fame vera e propia. Però mo’ ce sta la solitudine. E più gente vedi in giro de sabbato, più solo te senti e te n’accorgi che sò tutti soli pure loro, ’sti ragazzi che vengono qui a sballasse». Anche negli anni ’70 si veniva qui a sballarsi. Ma si era in pochi, seduti sugli scalini della fontana di Santa Maria, in notti quiete, disturbate solo dalle chitarre e da qualche schiamazzo nei vicoletti. E qualche volta una finestra si apriva e un catino rovesciato sulle nostre teste ci inondava d’acqua, o qualcosa di peggio. Con Stefania Scateni, capo del servizio cultura e spettacoli all’«Unità», ma soprattutto trasteverina trentennale, mi ritrovo fianco a fianco, in via Sacchi, a guardare il portoncino 94

chiuso del Folkstudio. Mi racconta che lei quando Giancarlo Cesaroni ne trasferì qui la sede da via Garibaldi abitava nello stesso edificio. «Sotto si suonava, sopra, dietro questa finestra, c’era il mio letto!» Io ho ricordi confusi, perché sono i più lontani delle mie frequentazioni trasteverine. Si scendevano dei gradini e ci si ritrovava in un’affollata cantina. C’era un lungo bar se non sbaglio e, dietro una tenda, la saletta col palcoscenico minuscolo. Là sopra i musicisti stavano uno addosso all’altro, Antonello Venditti al pianoforte, Francesco De Gregori alla chitarra. Là sopra dicono che si fosse esibito anche un giovanissimo Bob Dylan ancora sconosciuto. Ma è leggenda. «Veramente» precisa Stefania «Dylan si esibì a via Garibaldi». «Ma allora è vero?» «È stato detto così tante volte che è come se lo fosse». Cesaroni me lo ricordo. Riceveva gli habitués sulla porta, diceva due parole sugli artisti che si dovevano esibire nella serata. Era un chimico con la passione della musica. Aveva aperto il locale di via Garibaldi con un amico americano, un musicista nero, Harold Bradley, che poi era tornato negli States facendo perdere le tracce. Erano anni così. Qualcuno inventava qualcosa di geniale che aveva anche successo, ma mollava per inseguire altre avventure o anche solo la propria autodistruzione. Erano anni pieni di entusiasmo e di disperazione. Al Folkstudio si andava a sentire il jazz e i cantautori, De Gregori, Venditti, Rino Gaetano, Francesco Guccini che pochi conoscevano e già veneravano. Oppure musica folk, italiana e straniera, tutto quello che non era televisivo. Eppure il kitsch televisivo era costituito al massimo dalle gemelle Kessler. C’era il senso forte dell’alternativo, il contrario del patinato che piace oggi. Uno prendeva la chitarra e si met95

teva a suonare e, se era bravo, dai gradini di Santa Maria scendeva nella cantina del Folkstudio per risalirne alonato di fama, ma solo fra iniziati. E chi frequentava il Folkstudio, te lo ritrovavi nei teatri e nei locali off. Alla fine, almeno di vista, ci si conosceva tutti. Dico a Stefania che è la prima volta che vedo il Folkstudio di giorno e con la porta chiusa. Infatti stento a riconoscerlo. Non mi ero resa conto, nel passato, che si trattasse di un qualsiasi scantinato in un anonimo vecchio palazzo. «Proprio così» ride lei. «È sempre lo stesso, ma solo in apparenza. Cesaroni a un certo punto fu sfrattato. Riuscì a riaprire il locale dalle parti del Colosseo, ma durò poco. È morto improvvisamente nel ’98, a sessantacinque anni. E qui c’è stata una ristrutturazione, vedo delle luci ogni tanto, quando passo davanti alle finestre. Dicono che ne faranno l’ennesimo ristorante o un qualche negozio per vendere vestiti di cui proprio non si sentiva il bisogno». Mi ritorna in mente il logo del vecchio locale: Black&White Together, come cantava Joan Baez, con il disegno, rudimentale, di una chitarra sostenuta da due mani, una nera, una bianca, quelle dei due amici, Harold e Giancarlo. «Chissà che fine ha fatto Bradley» ci siamo domandate. Lo avremmo scoperto pochi mesi dopo, quando il 24 ottobre 2009 magicamente Harold Bradley si è materializzato a Roma, al Caffè Latino di Testaccio, per festeggiare i suoi ottant’anni e mettersi a cantare con la sua band. Ce n’è una traccia su Second Life, nel “Virtual Folkstudio” che qualcuno ha aperto, ricostruendolo tale e quale – virtualmente parlando – perché l’avventura del locale trasteverino potesse tramandarsi e continuare a esistere in qualche modo. Seguo Stefania in un passaggio “segreto” che ci porterà in via Garibaldi. Ha la chiave di un condominio inerpicato sul96

la collina che sale da una pressoché invisibile via Tiburzi verso il Gianicolo. Un angolo di Trastevere nascosto e meraviglioso, appartamenti celati nel verde di alberi secolari. Saliamo un bel numero di scalette fermandoci di pianerottolo in pianerottolo ad ammirare terrazze e giardinetti. «Ma qui possono abitare solo persone sportive» dico io. «Lo credi tu! Ci stanno anche vecchi trasteverini, che pur di non allontanarsi da questo posto si arrampicano tutti i giorni con le borse della spesa». Non c’è traccia del disegno uniforme di un architetto, vince l’improvvisazione. Ogni casa con l’impronta del suo proprietario, case di paese, non di città, case tenere, dove il tempo si è fermato. Arrivate in cima entriamo nel baretto di via Garibaldi accanto alla Rampa di Monte Aureo – dunque si chiama così la collinetta del condominio più bello del quartiere –, ma stanno facendo le pulizie e ci mandano via. Allora torniamo verso San Cosimato con un ampio giro: non si viene a vivere a Trastevere se non si è gran camminatori, questo lo so già. In via del Mattonato passiamo a trovare il liutaio Mohssen Kasirossafak in una minuscola bottega invasa da strumenti musicali e gatti che ci danzano in mezzo. Ci fermiamo a prendere il caffè al Bar del Cinque. Una volta tutti lo chiamavano “Amerigo”, ma Amerigo non c’è più. C’è suo nipote Giancarlo. Resta intatto il bancone di legno e marmo, come una volta. E le foto degli attori che lo frequentavano, che lo frequentano. «Se proprio dobbiamo andare sull’amarcord» riprende Stefania pronta col suo catalogo di lamentazioni «allora devo dirti che mi manca tanto la panna montata del bar Sacchetti e lo zabaione della pasticceria Cecere. Accanto a Cecere c’era anche un meraviglioso biciclettaio e ora, per far riparare le bi97

ci, e a Trastevere ce ne sono tante, bisogna andare a sbattere a Porta Portese...» (È così che faccio quando mi si rompe la bicicletta. Vado a Porta Portese, dove trovo un uomo anziano che mi dice: «Ora non ho tempo, la lasci e torni nel pomeriggio». Nel pomeriggio la bicicletta è a posto. E quando quest’uomo non ci sarà più?) Cercasi biciclettaio, urgentemente, a Trastevere.

La buona movida C’è movida e movida. Quella degli appassionati di cinema e di teatro è articolata e tranquilla. Dunque, se verso il fiume, al suo Capo Nord per dir così, la Trastevere dei cinema si apre con il Filmstudio, all’estremo opposto, al Capo Sud di Porta Portese, chiude con il Nuovo Sacher. In mezzo fra l’uno e l’altro non ci sono solo due chilometri abbondanti, ma anche una ventina d’anni abbondanti. «L’abbiamo inaugurato nel 1991 con Riff Raff di Ken Loach in esclusiva» mi dice Nanni Moretti. «In questi giorni stiamo programmando il suo nuovo film, Il mio amico Eric, che a Roma è uscito in dieci sale. Niente più esclusive, oggi le cose funzionano diversamente e la vita di un film è più breve». Siamo in Largo Ascianghi e guardiamo da fuori il giardinetto su cui si apre la sala (314 poltroncine). È mattina, il cancello è chiuso con un lucchetto e Nanni ha dimenticato la chiave. Ma non importa. Sono anch’io una frequentatrice affezionata del Nuovo Sacher, lo conosco bene. Comprato il biglietto, prendo qualcosa al baretto interno e mi aggiro distrattamente nella piccola libreria della hall. Ricordo le lunghe file dei tempi d’oro, nelle grandi occasioni, per prendere un buon 98

posto. Ricordo l’emozione, mai più replicata, dell’appuntamento settimanale con i tredici episodi di Heimat 2. Cronaca di una giovinezza di Edgar Reitz in versione originale sottotitolata. Era il febbraio del ’93, si andò avanti fino a maggio. Nanni sorride con gli occhi: «Heimat 2 è stato il momento più felice di tutta la programmazione. Il Nuovo Sacher fu il primo cinema in Italia ad accettare la sfida di quelle ventisei ore di pellicola. Lo dico da esercente e da spettatore, era una malia. In genere la gente sceglieva sempre lo stesso giorno della settimana per vedere il film, così si ritrovava con le stesse persone della puntata precedente. Ma chi aveva perso i primi episodi, o per qualche motivo era costretto a saltarne qualcuno, si sentiva male. Allora decidemmo di replicarlo la domenica mattina. Per i ripetenti!» «Io c’ero anche quando, in aprile, venne Reitz con Hermann e Clarissa, i protagonisti» gli racconto. «Li circondammo per fare domande. Era strano, come se i personaggi del film fossero scesi fra il pubblico direttamente dallo schermo. Potevamo toccarli, guardarli negli occhi, sorprenderci che Hermann fosse bassino... Ma tu dov’eri? Non c’eri quella sera». «Ero alle Eolie a girare Caro diario. Non parlo nessuna lingua straniera e non ho potuto dire a Reitz, nemmeno al telefono purtroppo, quanto amassi il suo film». Poi riflettiamo su quanto siano cambiati i tempi. Mi dice che, mentre una volta lo spettacolo più frequentato era quello serale delle dieci e trenta, grazie alle abitudini dei cineclub che programmavano i film anche alle undici di sera, oggi parecchia gente preferisce il pomeriggio. Soprattutto gli anziani. E dice che purtroppo non c’è ricambio generazionale e che i giovani bisogna attirarli con «l’evento, come lo chiamano i giornali», e che il Nuovo Sacher prima era un punto di ri99

ferimento della città, oggi è inevitabilmente un cinema di quartiere. «I giovani» dico io «li attiri pure con le multisale e i popcorn». «Ma io non sono contro le multisale, basta che la proiezione sia buona. E che si mangi pop-corn non mi dà nessun fastidio. Sono leggende, come la storia del dibattito». «Quale dibattito?» «Ma sì, la frase “il dibattito no!” di Io sono un autarchico. Mi piacciono, invece, i dibattiti con i registi». «Alla Libreria del Cinema, però, non vai mai, agli incontri dei Centoautori...» «Non ci vado, ma mi piace che ci siano. E mi piace tanto cinema italiano. Matteo Garrone è nato al Nuovo Sacher!» Più tardi riceverò per e-mail dalla produzione – Moretti è refrattario alle nuove tecnologie – una pagina del suo diario sull’episodio di Reitz a Roma: «Giovedì, 22 aprile. Lipari, in albergo. Che vergogna: ho appena telefonato al Nuovo Sacher, dove c’era Edgar Reitz per un dibattito col pubblico su Heimat. Mi ero preparato un bel discorso, e invece sono riuscito solamente a dirgli: “Edgar: danke schön” e lui: “Bitte schön”. Che vergogna: avrei voluto dirgli, se avessi parlato decentemente una lingua qualsiasi, grazie per il tuo film, è bellissimo, sono molto invidioso di quanto sei bravo, ma sei talmente bravo che non sono più invidioso». Di cinema a Trastevere ce ne sono sempre tanti, l’Alcazar dalle proposte raffinate, il Roma di cui per un periodo ha curato la programmazione Carlo Verdone, il Reale più commerciale, l’Intrastevere multisala, che una volta era un teatro con tre salette dove si faceva avanguardia... Non ci sono più l’Induno, il Garden e, soprattutto, il Pasquino, in vicolo del 100

Piede, dove davano sempre film in versione originale inglese, ma ogni tanto anche in francese e spagnolo. È una perdita di cui si lamentano un po’ tutti nel quartiere, sia gli stranieri sia gli italiani che sanno le lingue. A essere in caduta libera sono i teatri che non hanno più la centralità degli anni ’70. Li chiamavamo “teatrini” o “cantine” per contrapporli agli Stabili e alle sale convenzionali dove ammuffivano le eterne repliche di classici sempre più logori e si spendevano un mucchio di soldi al servizio di poche idee. Resistono l’Argot, di Maurizio Panici, a via Natale del Grande, che comunque è più recente (metà anni ’80), e Spazio Uno di Manuela Morosini in vicolo dei Panieri. Lei lo racconta così: «Nel 1968 Trastevere era irresistibilmente vivo. Sui gradini della fontana di Santa Maria tutte le notti si alternavano esibizioni canore, scontri ideologici, scambi di bottiglie, libri, spinelli. Nei vicoli del quartiere i turisti stranieri aggrappati alle proprie borse lanciavano grida di gioia quando riuscivano a salvarle dagli scippi. Si disperdevano negli stessi vicoli giovani in eskimo che sfuggivano alle cariche della polizia. Gian Maria Volonté affascinava gli abitanti del quartiere con comizi in difesa delle loro case prese di mira dai miliardari stranieri. In vicolo dei Panieri dall’ultima stalla uscivano puledri, cavalli, carrozze. Accanto, in un angolo diroccato e apparentemente abbandonato, gli stallieri facevano abbeverare i propri animali. In quel luogo ho fatto nascere Spazio Uno, tra volantinaggi con massime di Mao e inevitabili curiosità per gli spettacoli del teatro ufficiale, dove affogavo nella noia. Il bagno di Majakovskij è stata la mia prima produzione, recitavo accanto a Carlo Cecchi, attore e regista. Non dimenticherò mai la gioia provata nel farmi dirigere da Enrico Job nella Medea di Heiner Müller, e nella Alcesti, che Elio Pecora aveva scritto per me». 101

Il teatro negli anni ’70 era un modo di stare insieme, tanto gli spettatori di quegli spettacoli erano sempre gli stessi. Si andava a correre un’avventura, non sapevi mai cosa poteva succedere, la quarta parete era caduta e spesso l’happening travalicava il palcoscenico e invadeva lo spazio fra le sedie e le panche scomode della platea. Quando non erano rappresentazioni indimenticabili – poche a essere sinceri – erano almeno imprevedibili: gente che litigava, gente che si spogliava, gente che metteva in piazza il proprio malessere, qualche personale pazzia, qualche indecenza. Questo era in sostanza il teatro in quei giorni. Lidia Ravera non aveva ancora scritto Porci con le ali quando arrivò nel rione da Milano. «Ero in subaffitto in via Roma Libera al settimo piano senza ascensore, senza riscaldamento e con il bagno sul ballatoio. Pagavo settantamila lire al mese ed ero felice. La vita trasteverina sembrava un’eterna vacanza». E un po’ è ancora così, dopo sette traslochi e la certezza di non poter vivere altro che nel centro della città. «Questo è un quartiere dove puoi dimenticarti la macchina, e per una che non guida, come me, è fondamentale». Una volta tanto siamo in un locale, Dolce Trastevere, che a dispetto del nome non è tipicamente trasteverino, anzi, già nella struttura (bar al pianoterra e ristorantino al primo piano con finestre e terrazza sulla strada) assomiglia a ritrovi nordici. Lo gestiscono due cugine, di cui una, piacentina come me, cucina meravigliosamente e si fa arrivare le materie prime dall’Emilia: le zucche della Val Padana, per dire, non sono paragonabili a nessun’altra zucca, bitorzolute e farinose, si amalgamano nei risotti con una pastosità che fa godere lingua, palato e denti insieme. Speriamo non siano costrette a chiudere, come tanti altri posti, per il lievitare degli affitti. A Lidia piace nutrire gli altri più che se stessa e mangia di102

strattamente la sua insalata, mentre mi racconta delle campane di Santa Cecilia, «campane vere, non registrate» che sente quotidianamente dalle finestre. Mi mette fretta, perché dobbiamo andare al cinema. E prima, quando diceva che può fare a meno della macchina, si è dimenticata di dire che del cinema invece non può fare a meno: due motivi per vivere a Trastevere, dove la densità di sale cinematografiche è altissima, senza contare che per camminatrici come noi non sono lontani nemmeno il Greenwich di Testaccio o il Metropolitan di Piazza del Popolo. Conoscendo le scorciatoie, naturalmente.

Quando c’era l’underground Ci diamo appuntamento in via dei Fienaroli, da Bibli, una libreria con annesso delizioso ristorantino al chiuso e all’aperto, dove si mangiano a buffet cous-cous, torte rustiche e dolci appassionanti. Lucia Poli però beve solo tè. È sottile e socievole, un po’ infreddolita nella primavera che non vuole ancora staccarsi dall’inverno. Come tanti interpreti comici, è una persona serissima, e anche un po’ malinconica. Mi racconta di quando, intorno al ’70, arrivò a Roma da Firenze e andò a vivere per un po’ in via del Governo Vecchio, vicino a piazza Navona, nell’appartamento del fratello maggiore, Paolo Poli, che l’aveva preceduta in città come nelle sale teatrali. Nel ’75 Lucia avrebbe fondato l’Alberico, nel quartiere Borgo, a due passi da piazza San Pietro, un altro dei teatri leggendari della Roma beat. Ci esordì anche Roberto Benigni. Facciamo insieme una ricognizione dei vari posti. Tutto era cominciato proprio a Trastevere, in via Roma Libera, quando un Carmelo Bene ventiseienne mise in scena al suo Teatro Laboratorio, nel cortile interno dei vecchi palazzi di 103

San Cosimato, un dissacrante happening in cui successe di tutto. S’intitolava Cristo ’63. Un attore ubriaco, poi morto suicida, urinò sul pubblico. Il locale venne chiuso, ma era nata clamorosamente l’avanguardia teatrale italiana. Nei tre anni che durò quell’esperienza erano frequentatori assidui Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Angelo Maria Ripellino, Elsa Morante e Sandro Penna. «In via dei Riari c’era La Ringhiera, in via Zanazzo La Comunità» elenca Lucia. «Il Teatro Studio in via della Paglia, il Torchio in via Morosini e il Cedro nell’omonimo vicolo... i vicoli umidi e bui avevano un certo fascino. Lo conservano ancora. Ma erano tutti posti disagiati. Si stava su panche dure, al freddo. Tempi eroici!» «Insomma tanti, e tutti concentrati in questo quartiere...» «Sì, ce n’erano parecchi. Anche La Fede di Giancarlo Nanni era in zona, a Porta Portese. Però l’Alberico e il Beat ’72 erano dislocati altrove, e si facevano la guerra. Il teatro La Piramide di Memé Perlini stava all’Ostiense. Lui, che veniva dal Beat ’72, fondò il teatro-immagine. Noi eravamo teatro di parola». «La solita divisione fra i politicizzati e i sostenitori dell’arte per l’arte». «Non sai le polemiche quando esordii con il monologo Liquidi, prima all’Intrastevere e poi all’Alberico. Persino le femministe ebbi contro, quelle fondamentaliste. C’era molta furia, c’erano grandi divisioni. Odio e amore, e tanta competizione. Se da noi veniva Giovanna Marini, al Beat facevano musica contemporanea astratta, Alvin Curran, John Cage... così. Se noi dedicavamo serate alla poesia, loro la poesia la prendevano a calci, la scomponevano, la facevano a pezzi». Ricordo benissimo certi dopocena sconclusionati al Beat dove gli spettacoli non cominciavano mai in orario e, quando 104

cominciavano, andavano spesso a finire in rissa: litigavano gli attori fra loro, gli attori contro il pubblico. All’Alberico si andava a ridere, era più rilassante. A Trastevere, dopo gli spettacoli nelle cantine, ricordo le feste a casa dello scrittore Aldo Rosselli, cugino della poetessa Amelia. Abitava in un grande appartamento di piazza in Piscinula e quelle feste, piene di artisti e di americani, sembravano continuare gli happening teatrali. «C’era una scrittrice, che invece della borsetta, girava con una teiera, perché diceva che poteva bere solo il suo tè». «Era Barbara Alberti!» «Sì, lei. Voleva incarnare così lo spirito del tempo: bisognava essere originali a tutti i costi, anticonformisti e imprevedibili». «In teatro il tutto si traduceva spesso in una totale mancanza di professionalità» conclude Lucia, ma il tono contiene una sfumatura di rimpianto. Non faccio in tempo a chiedere conferma. È arrivato Elio Pecora, il poeta, presenza fissa della libreria, dove di pomeriggio e di sera si tengono incontri, mostre, presentazioni di libri, seminari. Elio spesso cura le serate letterarie o tiene reading di poesia. Si siede con noi per qualche minuto. «Io in questa libreria ho messo radici, ricevo persino la posta» dice. A Bibli, una volta, i soci erano ventisei, ora sono rimaste in due, Agnese Andreoli e Gabriella Maggiulli. «L’entusiasmo era tanto» raccontano «ma tutti facevano tutto e questo non funzionava per niente. Venivamo da professioni diverse, accomunati solo dall’essere di sinistra. Ma applicare il “comunismo” alla quotidianità è un’altra cosa. E finiva che la maggior parte si occupava solo delle attività più piacevoli». Gli scrittori del quartiere, che sono tanti, passano di continuo. 105

«Anche Nanni Moretti si vede spesso». C’è una ragazza depressa che resta ore a leggere a un tavolino e si sente meglio, protetta. C’è una coppia che si è riconciliata in questi spazi dopo una rottura: «La festa di matrimonio è stata organizzata qui, naturalmente». Ma ora il canone d’affitto è stato raddoppiato e Agnese e Gabriella sono molto provate. Le librerie chiudono nell’indifferenza o si trasformano in strani luoghi meticci dove il libro è uno degli oggetti in vendita, e non il principale. Sono in quindici invece i soci della Libreria del Cinema, nella stessa strada, sorta al posto della storica Libreria delle Donne nel 2004. Ci passo una sera a bere qualcosa e incontro Giuseppe Piccioni, uno dei quindici: non sono tutti registi come lui, ma sceneggiatori, produttori, montatori e un musicista, Ludovico Einaudi. Giuseppe mi racconta i sogni («un posto che sia davvero una fucina di nuove idee, scambi, proposte nel campo che ci interessa») e la concretezza («non si guadagna sui libri, ma su attività collaterali, sul bar, sul ristorante...»). Lo lascio appoggiato al bancone a guardare il suo bicchiere di vino come in un quadro di Hopper, immagine emblematica della solitudine dell’artista. Pochi metri più avanti, sulla Lungaretta, c’è un’altra piccola libreria. Appartiene alla casa editrice Minimum Fax, di Marco Cassini e Daniele Di Gennaro. È una stanza quadrata, dove riesci miracolosamente a trovare di tutto. Già la porta e la vetrina ti sorridono e dentro c’è sempre un’aria allegra e colorata che assomiglia alla casa editrice, nata nel ’93. Conosco Marco da allora, mi piace che resti fedele, jeans sformati e barba compresi, a un immarcescibile ideale beat. E la Minimum procede bene nonostante tutto, va in controtendenza nella crisi generale della lettura riuscendo a imporre buoni libri nella lotta quotidiana contro lo strapotere dei grandi editori. Spin106

go la porta che fa din-don e ho la sensazione di ritrovarmi in un tempietto intatto come la sua barba. Elio Pecora una sera mi porta con sé con aria di mistero. Lo seguo nei vicoli fino alla chiesa di Santa Maria. Mi annuncia: «Preparati. Vedrai che atmosfera!» Tutte le sere, alle sette e mezza, la Comunità di Sant’Egidio si raccoglie a cantare. Arrivano in tanti, si salutano, prendono il messale sulla panca all’ingresso e si sistemano nei banchi. È una preghiera aperta a tutti. «Trovo straordinario che la gente, prima di ritirarsi a casa, passi di qui a compiere questo rito collettivo» sussurra Elio nell’ondeggiante luce delle candele. «È un modo poetico di vivere, che ti fa stare meglio al mondo. Una meditazione che non esclude nessuno». Anche questo è Trastevere downtown, se “downtown” è il cuore antico di una città, là dove ritrovi le sue radici, lo spirito degli antenati. Ed è “village”, un a parte anticonformista rispetto all’andazzo generale: il mondo corre, qui ci si ferma, il mondo è ateo, qui umilmente ci si inginocchia, il mondo è intollerante, qui si aiuta il prossimo. «Qualcuno sostiene che Trastevere è pieno di poveri, perché ci siamo noi di Sant’Egidio» mi dice don Matteo. «Ma i poveri ci stanno perché ci stanno. Punto. C’è un bisogno? Cerco di dare una risposta, trovare una soluzione. A questo dovrebbe servire il pensiero politico. Ma le risposte politiche non arrivano e la beneficenza non basta. I poveri hanno individualità difficili, difficoltà psichiche spesso, devi non solo soccorrerli, ma curarli. Aiutarli a inserirsi in circoli virtuosi, dare senso, motivazioni. Manca l’essenziale: un centro diurno, per esempio, dove chi vive per strada possa lasciare le sue cose senza paura di essere derubato del poco che possiede». Mi risuona una frase di Roberto Di Feliceantonio: «Ogni 107

giorno, se raccolgo li sordi dell’elemosina, magno e se no, no. Poi dicono che la fame a Roma nun ce sta. Ce sta eccome, te core appresso col Ferrari».

A via della Lungara ce sta... «A via della Lungara ce sta ’n gradino / chi nun salisce quelo nun è romano / nun è romano e né trasteverino» dice la filastrocca popolare. Sì, a via della Lungara c’è il carcere e c’è anche la Casa delle Donne Buon Pastore e uno dei condomini più ambiti e chic dentro il cinquecentesco palazzo Torlonia, e l’Accademia dei Lincei e l’Università americana John Cabot e Palazzo Corsini e la Farnesina. Via della Lungara è una strana strada, elegante e popolare insieme. Una strada a metà, perché l’antico progetto del Bramante, commissionato da papa Giulio II, che la voleva gemella di via Giulia dall’altra parte del fiume, fu rivoluzionato dalla costruzione dei muraglioni e ora appare soffocata, incassata com’è sotto il lungotevere e strozzata dal monte del Gianicolo. L’aveva notato Fernanda Pivano nel libro La mia kasbah: «il mondo si divide in due parti a via della Lungara» quello che si raccoglie intorno ai Lincei e quello intorno al carcere, che «non è la parte peggiore». Abitava anche lei a palazzo Torlonia, quando da Milano veniva a stare un po’ a Roma, in un delizioso appartamentino a due piani dove una volta, prima che i Torlonia le acquistassero, c’erano state le scuderie del contiguo Palazzo Corsini. Nanda era una presenza familiare nel quartiere, fedele ai ristoranti che amava, ai negozietti di via Garibaldi e dintorni. Ma a raccontarmi qualche dettaglio in più sul condominio di via Lungara 3 è Pasquale Chessa, pure lui – con la moglie Muriel Drazien, psicanalista – fra i fortunati affittuari. 108

«Intanto» gli domando per cominciare «come si fa a venire ad abitare qui?» «Raccomandazioni. Soltanto per raccomandazione» mi risponde nel suo spiccato accento sardo. «Dunque anche la Fernanda e te, e Muriel, che ha pure lo studio qui, e Bernardo Bertolucci e il filosofo Giorgio Agamben e il compositore Tito Schipa junior e Ginevra Bompiani e Ivan Cotroneo, lo sceneggiatore, e quell’artistico personaggio, Ottavio Rosati, che in casa ha trasformato una stanza in voliera e gira per il quartiere con un pappagallo bianco, il socievole Teto, sulla spalla, e il medico Guido Sabatini da cui va mezza Trastevere... tutti raccomandati?» «Sì, tutti. Qui se non conosci non entri, c’è una lista d’attesa lunghissima. Gli affitti non sono alti ed è un caseggiato molto curato, con un preziosissimo portiere» interviene Muriel che sta apparecchiando la tavola in terrazzo. Non posso non ammirare nel frattempo le sue piante e i suoi fiori. «Li seguo io personalmente» m’informa. Il suo accento non è sardo, è molto più pittoresco. È un’ebrea newyorkese, di origini bielorusse, che ha vissuto soprattutto a Parigi, dove si è formata con Jacques Lacan, diventando una dei suoi allievi preferiti. «Con l’Orto Botanico a due passi capita che qualche seme esotico alligni nei miei vasi. Anzi non “qualche”, una quantità!» «Anche questa fortuna...» Ma Pasquale scalpita per raccontarmi la storia del palazzo e richiama la mia attenzione. «In passato» comincia «aveva ospitato i seicentoventi pezzi della collezione di statue antiche dell’Alessandro Torlonia, grande banchiere e collezionista, citato da Stendhal in Passeggiate romane. Nei primi anni ’60 un erede stipò quella meraviglia da qualche parte nel palazzo per restaurare l’edificio e ricavarne i novantasei appar109

tamenti che affitta. Sono statue molto interessanti te lo assicuro: le ho viste in fotografia una trentina di anni fa, lavoravo all’“Espresso” e feci un’inchiesta su questa misteriosa collezione. Ci furono diversi tentativi di convincere il Torlonia a farne un museo. Macché, giacciono ancora sepolte nei garage sotto al mio terrazzo!» Nel pomeriggio accompagno Muriel alla Casa delle Donne, al numero 19, dove c’è la presentazione di un libro che interessa tutte e due. La sala è piena. Gli uomini sono pochissimi. Alcuni visi sono quelli di sempre, quelli delle femministe che negli anni ’70 avevano occupato per dodici anni prima gli edifici al numero 39 di via del Governo Vecchio e poi i diecimila metri quadrati del complesso Buon Pastore dell’Opera Pia fino a un assegnamento semidefinitivo nel 1983, oggi rimesso in discussione da un debito di affitti pregressi col Comune. Diamo il nostro obolo per la colletta che permetterà alle donne di continuare fino al 2021 ad avere questa sede elegante per le oltre quaranta associazioni che vi si riconoscono, per i tanti incontri, corsi di Yoga, di Tai Chi, letteratura, lingue, iniziative per i bambini e chi più ne ha più ne metta. Approfittiamo anche di una pausa per fare acquisti nella botteguccia equo solidale, stipata di irresistibili oggetti per la casa. Dei due mondi di cui parlava Fernanda Pivano, il Buon Pastore partecipa a buon diritto a entrambi. Era stata una casa di correzione per giovani deviate dal 1835 al 1895, già sede del poverissimo monastero della Santa Croce gestito dalle Oblate della Penitenza, mentre a Regina Coeli c’erano le Carmelitane e le Visitandine che provenivano da famiglie ricche. «Le mantellate sò delle suore... / Ma Cristo nun ce sta dentro a ’ste mura» dice la canzone di Giorgio Strehler e Fiorenzo Carpi, mantellate perché le Serve di Maria, che si occupavano nell’800 dell’assistenza carceraria, portavano lunghi man110

telli. La scelta religiosa non si coniugava con la bontà, salvo casi eccezionali, anche perché non era quasi mai una libera scelta. Le ragazze povere erano costrette dal bisogno a restare in convento dopo esservi cresciute come orfane o peccatrici da redimere. Le famiglie nobili, invece, concentravano il patrimonio nelle mani dei primogeniti e le doti riservate alle altre figlie non bastavano ad attrarre mariti all’altezza. I cadetti maschi avevano alternative più allettanti, la carriera militare per esempio. Nei reclusori le detenute preparavano i preziosi corredi per le fortunate che andavano spose, torte, conserve. Certo era più allegra la sorte delle romane, povere, belle e libere che si guadagnavano da vivere, già nel ’500, come modelle per i pittori di via Margutta (si chiamava così dal teatro del saracino detto Margutte). Ma, insomma, è curiosa questa convergenza nello stesso quartiere di una vocazione artistica e di una vocazione assistenziale e carceraria o forse è la logica della devianza, il suo spiritus loci. Come forse c’è una logica misteriosa, o un risarcimento, nel fatto che l’antico reclusorio, trasformato nel 1838 dalla suora riformatrice Maria di Santa Eufrasia Pelletier in un convento di convertite coatte – in parole povere: alle recluse veniva sospesa la pena se decidevano di monacarsi – sia oggi il brillante ritrovo di tante donne indipendenti, un centro di studi e di scambi, radicato nel quartiere, che aiuta concretamente le più bisognose, da chi subisce violenza alle emigrate con i loro bambini. Questo cortocircuito di interessi culturali e impegno sociale converge in qualche modo in un’altra caratteristica, inclassificabile, folkloristica, superstiziosa: l’alto tasso di maghi e guaritori, indovini e astrologi che si trovano a Trastevere e che contribuiscono alla sua immagine irregolare. 111

Ne ho contati quattro solo a vicolo del Cedro: la sensitiva Mariangela, l’imprevedibile Morena, la professionale Fiorella e la colta Laura Levi, che le carte non me le fa, ma mi racconta la sua conversione alla cartomanzia e alla terapia reichiana, dopo un’educazione razionalistica sconfitta d’improvviso dall’incontro con le tre madrine suddette e un padrino, tal Pierluigi, conosciuto a via della Scala, attore di teatro con la passione delle predizioni. A lui chiese lezioni e «le carte mi sono scoppiate in mano». Dice proprio così e io non domando spiegazioni, mi basta e mi piace questa immagine incendiaria. Mi piace la sua casa, ex basso restaurato e ampliato grazie a uno scavo che ha rivelato altri ambienti sotterranei, con un cortiletto interno dove una volta tenevano le galline. «E con le galline lo si vede nel film Trastevere. Io già abitavo qui, ma le galline non ce le tenevo più. Sono state rimesse per il set». Carte te ne fanno quante ne vuoi nei vicoli intorno a Santa Maria, la sera, se ti avvicini ai precari tavolinetti illuminati dalle candele. E c’è anche un bugigattolo sempre aperto il sabato notte su via Benedetta, dietro il fontanone di piazza Trilussa. All’interno, in mezzo a un décor stregonesco con sfere di cristallo e marocchinerie ti accoglie Pina Reginè, bruna e malinconica. Ma è difficile trovarla libera, meglio prendere un appuntamento.

Simmetrie

Lo sparo dal Gianicolo Quando Marina Astrologo, che fa la traduttrice, si è trasferita da Trastevere a Monteverde dicendo che aveva bisogno d’aria e di luce, sono rimasta perplessa. «Vicino al fiume, mi sentivo soffocare, non ne potevo più» era la spiegazione che mi diede mentre spingevamo i carrelli nel supermercato biologico del Cae (Città dell’altra economia) a Testaccio. Poi la stessa cosa me l’hanno detta altre persone che vivono in alto, stabilendo una precisa linea di demarcazione fra salute e malattia, luce e ombra, alto e basso. Io avevo creduto che Trastevere comprendesse tutta via Garibaldi e che anche quelli di via Dandolo o di viale Glorioso si sentissero del quartiere. Macché. Loro si sentono montanari, superiori, dominanti. A Trastevere «scendono», e con una certa degnazione. «Perché quassù ti senti separato, non è una zona di passaggio» ammette Patrizia Zappamulas. «Ma c’è quest’aria leggera che ti fa scoprire una Roma leggiadra, chiara e serena, la dimensione della villa, della villeggiatura». Lei, milanese, vagabonda come tutte le attrici di teatro, ma anche stanziale perché si concede «ogni tanto il lusso di scrivere un libro», aveva bisogno di un posto «aperto, da cui senti di lon113

tano l’odore del mare. Magari non è vero, non lo senti il mare, però puoi immaginartelo. E comunque ti affacci e guardi. Il Gianicolo, precisamente piazza Pilo, è il punto più alto di Roma, lo sapevi?» Io soffro di vertigini, non sto tanto bene in alto, ma certo l’aria e la luce sono speciali. «Che vasta luce fine...», mi viene in mente il verso di Caproni, «in questa ampia mattina al Gianicolo...» Ed è mattina e siamo al Gianicolo. Patrizia mi presenta Luigi Valzer, un torinese dal bel nome danzante che fa il restauratore di mobili pregiati, e abita in una casa bellissima di fronte a Porta San Pancrazio. «Il segreto del quartiere è un buon feng-shui» ci spiega «come tutte le zone con grandi passaggi d’acqua». Siamo davanti alla maestosa vasca dell’Acqua Paola, detta familiarmente il Fontanone. «Vi arriva un acquedotto romano che dava l’acqua alla città» dice Luigi alzando la voce per imporsi sugli scrosci. Superiamo San Pietro in Montorio, «la chiesa preferita dai romani per sposarsi» e ci facciamo pure le foto davanti al Tempietto del Bramante, ma poi ci affacciamo e lo sguardo si perde fino all’Aventino, fino al Giardino degli Aranci e quindi scende sul Foro. «Pensa che ancora oggi» dice Patrizia «dal faro del Gianicolo i parenti dei carcerati vengono a parlare con i reclusi di Regina Coeli». Luci, ombre, di nuovo luce, a seconda che camminiamo sotto gli alberi o ne emergiamo. Quando passiamo davanti al cannone di mezzogiorno, ho un improvviso flashback. Ricordo che sentivo lo sparo da Città Giardino, dove abitavo quando da Piacenza venivo a trovare i nonni di Roma, e mi spaventavo un po’ tutte le volte, ma anche provavo il sollievo degli eventi che si ripetono sempre uguali. 114

«Il cannone non spara più per annunciare le dodici?» domando sicura di doverlo archiviare nel passato. Mi chiedo da quanto tempo non lo sento più, tanto che lo avevo dimenticato. «Da piccola segnalava che era quasi ora di pranzo. La nonna si metteva a cucinare quando lo udiva e il suono attraversava tutta la città». Patrizia e Luigi mi assicurano che spara sempre, spara ancora. Ma c’è troppo chiasso nell’aria e la sua voce è sovrastata dal suono del traffico cittadino. «Era il quartiere dei poeti» mi aveva raccontato Lucia Poli. «Ci hanno abitato Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. Per un periodo Pasolini e Bertolucci hanno vissuto nello stesso stabile. Se Trastevere è il cuore di Roma, Monteverde Vecchio ne è il lato più romantico. E la tradizione continua: non ci vive anche la poetessa Antonella Anedda?» Poeti e parchi, la romanticissima Villa Sciarra, Villa Doria Pamphili, il Gianicolo. Lucia a Villa Pamphili pratica Tai Chi col suo gruppo, «ma non disdegno affatto la zona sottostante!» ha tenuto a farmi sapere. Ha un figlio musicista, Andrea Farri, che si è formato alla Scuola di Testaccio e, quando non aveva ancora il pianoforte, andava a esercitarsi, la sera, sullo strumento a coda di Bibli intrattenendo i frequentatori. «Mi sento a casa in tutti e tre i quartieri, veramente». Lei forse sì, ma non ce lo vedo Alfredo Reichlin a suo agio per i vicoletti maleodoranti di Trastevere. Abita sulle pendici di Monteverde con Roberta Carlotto in un appartamento a due piani. Per entrare devi scendere alcuni gradini e ti ritrovi in una piccola giungla fresca e profumata di fiori in ogni stagione. Un’intellettuale, Roberta, che è diventata una giardineria autodidatta e ha il gusto degli accostamenti fra piante diversissime. Nel suo giardino fitto di cespugli multicolori svetta anche 115

una palma. E se Alfredo ti guida nelle stanze chiare della casa ad ammirare la vecchia foto ingrandita e incorniciata dei funerali di Togliatti, Roberta ti prepara un germoglio che trapianterai sul tuo terrazzo con risultati mortificanti. Bernardo Bertolucci racconta un aneddoto che lo intenerisce ogni volta: quando, intorno alla metà degli anni ’60, lui poco più che ventenne andò ad aprire la porta e si ritrovò di fronte un tipo poco raccomandabile che cercava suo padre. Richiuse immediatamente. Rincrescimento di Attilio che accorre rimproverandolo: «Hai chiuso la porta in faccia a un grande poeta!» ma il povero Bernardo non ne sapeva niente, non lo aveva mai visto prima, Pasolini non era ancora di casa e pochi lo conoscevano. Lucia Poli per molti anni è stata la compagna di Giuseppe Bertolucci. «Con lui ho scoperto Trastevere, però insieme andammo a vivere in zona neutra, in Prati, per allontanarci dall’incombere della famiglia e di tante personalità condizionanti. Ma quando ho scelto il “mio” posto, ho preferito Monteverde». Monteverde con i suoi giardini, coi rampicanti che ne percorrono i muri ocra, i suoi villini tranquilli. Almeno in certe strade sinuose dove il tempo è fermo, pochi i passanti, lento l’autobus che s’arrampica. Mentre racconto questi aneddoti a Patrizia e Luigi, a mezzogiorno lo sento sul serio, lo sento tuonare dopo tanti anni il cannone del Gianicolo. Ci tappiamo persino le orecchie tutti e tre. «È lì dal gennaio del 1904» c’informa Luigi Valzer. «Interruppe il suo sparo a salve solo durante la guerra». Effettivamente lo sparo fu sospeso durante l’ultima guerra, ma fu ripristinato solo nel 1959 per il duemilasettecentododicesimo anniversario della fondazione di Roma. Scopro anche che risale al 1847, ma era posizionato a Castel Sant’An116

gelo. Lo volle papa Pio IX, irritato per l’anarchia delle campane romane che annunciavano il mezzogiorno in uno spensierato disordine orario, una dopo l’altra, anziché tutte insieme. Il cannone, come un direttore d’orchestra, le irregimentò una volta per tutte. Nel 1903, per un annetto, fu sistemato a Monte Mario, finché trovò la sua sede definitiva sul Gianicolo, sotto piazzale Garibaldi, in un vecchio deposito da cui fu fatta sloggiare la famiglia che ci si era acquartierata come in un basso napoletano o trasteverino. Solo una volta ha sparato a mezzanotte, durante i festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, fra il 26 e il 27 marzo del 1911.

Una stella nell’Orto Il mio bisogno di simmetria mi fa ridiscendere in basso. Trastevere, quando piove, si trasforma in palude. Le irregolarità dei sanpietrini formano pozzanghere che in certi casi sono piccoli stagni dove i piccioni fanno il bagno e i gargarismi. Si cammina sbilanciati dagli ombrelli e attenti a dove si mettono i piedi. In queste condizioni sono andata all’Orto Botanico per non perdermi lo spettacolo della sua magnificenza umida e zuppa. In genere lo vedo asciutto e pieno di mamme con i bambini in carrozzina, una specie particolare di asilo nido. Pago i quattro euro all’entrata e mi addentro. Non piove a dirotto, anzi in realtà spiove e già spunta un raggio di sole dietro le nuvole. Sono sola fra piante dall’aspetto felice, l’aspetto che hanno sempre le piante ubriache d’acqua, fragranti di odori esplosi tutti insieme. Ecco un altro dono del quartiere in riva al fiume che i romani trascurano e ignorano, questa giungla vera dentro la giungla di pietra, questo a parte strappato alla baraonda, que117

sto silenzio rotto da una musica di trilli. Cince, fringuelli, cardellini, passeri, picchi, rampichini ringraziano la pioggia di essere caduta e di essere passata, invitano il sole ad asciugarli adagio. Procedo senza fretta, sarebbe un controsenso averne in un luogo che appartiene più all’universalità che alla contingenza, sosto a contemplare l’enorme radice contorta di un albero caduto. Tutto ha forma gigante, anche le canne di bambù di diversi spessori e le palme, tante palme alte e scapigliate. I prati sono disseminati di sculture primitive, modellate in blocchi unici di pietra: mi rimandano alle sculture che faceva Carl Gustav Jung dando forma alla sua anima e che teneva nel giardino di casa sulle rive del lago di Zurigo. Guardo verso il cielo e vedo la fiamma di una chioma arancione che si fa largo in mezzo al verde, guardo in basso: il terreno ha qualcosa di carnevalesco con le foglie cadute che sembrano grossi coriandoli. È bellissimo l’Orto Botanico. Bello con il tempo buono, addirittura splendido in questo grigio tentato da improvvisi luminosi, persino azzurri. Gli scenari si susseguono sempre diversi: macchia mediterranea, giardino giapponese, orto dei semplici. Mi dirigo verso la Fontana degli Undici Zampilli. Sì, li ho contati, sono undici, arrampicati sulla scala a sei vasche della fontana che spezza in due un’ampia gradinata. Cinque vasche hanno due zampilli, che ora sono chiusi; la sesta, la più piccola, in cima, ne ha uno, ma in funzione. Sembra sostenere da solo la responsabilità dell’acqua che cola tenue da una vasca all’altra. Concludo il mio giro nell’orto dei semplici per ciechi, fatto a forma di stella, aperto su un lato. È una costruzione piuttosto grande di mattoncini rossi, grigi, bianchi, chiazzati di muschio, alta fino alla vita e riempita di terra, dove sono col118

tivate le erbe officinali. Ritaglia una fetta di spazio quasi privato nella vastità del giardino, una zona di meditazione. Sosto anche qui, sulla panca quadrata che segna il centro, di mattoncini pure questa, con nel mezzo un vaso delle stesse pietre anch’esso quadrato, che funge da spalliera con in cima un ciuffo di salvia. Mi siedo sul bagnato, voglio sui vestiti un ricordo di licheni e di muschio. «Gli animali non possono entrare, all’Orto Botanico non è permesso portare cani, nemmeno al guinzaglio» si lamentano i padroni di cani. Ma è l’unico posto a Trastevere dove non li vedi. Di cani è pieno il quartiere, e di gatti, allegramente, affettuosamente pieno. C’era una gattara, che da qualche mese non vedo più, che arrivava ogni giorno da piazza Vescovio per nutrire Stellina, Iuri, la vecchia Pallina e altri mici compresi nella sua giurisdizione. Si chiamava Maria Giovanna. La sentivi arrivare da lontano per i suoi richiami squillanti. Ben vestita, truccata con cura esagerata. Una signora bizzarra sui settant’anni, che potevano essere anche ottanta. «Vengo a Trastevere tutti i giorni» mi aveva detto. «E come mai? È nata qui e poi si è trasferita?» «Mai abitato qui. Mi piace e ci vengo. Faccio la spesa alla Standa». «Ma i prezzi non sono meno alti che a piazza Vescovio. Perché viaggiare in autobus con le sporte?» «Perché amo il quartiere. Lo faccio da trentacinque anni». Quella anomala figura di intellettuale e di astrologa che è Luciana Marinangeli, autrice di un libro che ho molto amato, Risonanze celesti, la sa lunga sugli animali di Trastevere. Mi parla di altre gattare, più note di Maria Giovanna, e mi dice che un animale è il simbolo del quartiere, un Leone in campo rosso, «che è poi il leone di Androclo» e mi racconta la vecchia storia. Lo schiavo Androclo fugge nel deserto in cer119

ca di libertà. Incontra un leone dolorante per una grossa spina infilzata nella zampa. Invece di spaventarsi, toglie la spina al leone e lo cura. Poi i due si separano. Androclo viene catturato e portato a Roma, condannato a essere sbranato dalle belve. Ma fra le belve c’è il suo leone, che lo riconosce e gli si avvicina mansueto. Il miracolo colpisce i romani, che liberano sia Androclo sia il leone. «Il segno zodiacale di Trastevere è il Leone» dice Luciana sicura del fatto suo. Mi chiedo come faccia a stabilirlo. «È impresso su tanti vecchi palazzi. E lo capisci dal carattere superbo e rissoso dei trasteverini. Spirito di corte, amore per gli spettacoli, pensa a quanti teatri ci sono. Un elemento esibizionistico si ritrova anche nell’abbigliamento, sempre un po’ stravagante se ci fai caso, che convive tranquillamente con la spinta al ritiro, alla spiritualità, al nascondersi nei boschi, da cui l’Orto Botanico e i tanti orticelli celati nei cortili interni. Mentre la vocazione alla cura di Androclo torna negli ospedali e negli ospizi che ci sono sempre stati nel quartiere. A San Francesco a Ripa trovi ancora una lapide: ricorda la prima distribuzione di latte alle partorienti che non ne avevano». Quando mi parla degli animali più comuni, i cani e i gatti, mi rivela un retroscena che ignoravo. «L’invasione recente dei cani dei barboni è la causa del grosso ridimensionamento delle colonie storiche di gatti. Sono stati decimati, sbranati, o costretti, i più fortunati, a ritirarsi dentro le case per sopravvivere». Luciana si schiera dalla parte dei gatti, io ho il cuore diviso. Ma pensando che da un po’ di giorni non vedo più due mici che di tetto in tetto arrivavano a salutarmi dall’alto del muro del giardino, sono attraversata da un amarissimo sospetto.

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La Bella Addormentata È sempre stata la mia scultura preferita e ora, che vivo a cinquecento metri da lei, vado ogni tanto a farle visita: Santa Cecilia di Stefano Maderno, dentro l’omonima sontuosa basilica, addormentata per sempre nella postura in cui l’ha lasciata il colpo mortale subìto. Un giorno mi viene l’idea di chiedere a Claudio Strinati di accompagnarmi. Farmi raccontare la statua da un esperto del manierismo e del Caravaggio mi esalta, lui si schermisce: «Ma falla finita!» Poi, davanti alla statua, sembra dimenticarmi e parla come fra sé. Stento a stargli dietro, mentre intorno a noi, un po’ a distanza, si forma un gruppetto di gente interessata ad ascoltare quella guida stravagante. «È stata restaurata benissimo, il marmo è rimasto molto morbido» dice per prima cosa. Io guardo guardo guardo, come potessi con lo sguardo penetrare tutti i segreti che lui sa e io non ancora. Io vedo questa ragazza uccisa dai nemici della nuova religione, nel II secolo d.C., vedo la sua gola attraversata dalla profonda ferita di una lama, e altre due più piccole, tre furono i tagli dice la leggenda, tre volte la sua testa resistette alla mannaia e tre giorni sopravvisse, sicché la gente venuta a visitarla si convertì in massa. Tre è il numero che le sue dita indicano in eterno, come un grido di dolore durante l’agonia. Claudio Strinati si preoccupa di collocare la scultura cronologicamente. «È l’ultima statua del ’500. Cominciata nel 1599, fu terminata allo scoccare del 1600. Lo sai quale fu la prima?» No, non lo so. «La Pietà di Michelangelo. Passano cento anni fra l’una e l’altra, ma tutte e due sono ancora destinate a una visione 121

frontale. Solo con Bernini si comincerà a girare intorno alle statue. Eppure, eppure...» «Sì...?» «Un’idea di tridimensionalità c’è. Vedi, Cecilia si riflette un po’ nel nero della nicchia che la protegge e dunque… un accenno di specchio, che qualcosa fa intuire del retro. E poi sulla schiena c’è un fiocchetto nella cinta, inutile orpello, perché frontalmente non è visibile, un dettaglio che appartiene al privato dell’artista, alla sua commozione. Si racconta che Maderno abbia avuto la possibilità di vedere il corpo riesumato per pochi istanti prima del dissolvimento, e che abbia riprodotto ciò che vide». «E il volto? Avvolto nel drappo e girato all’indietro, misteriosissimo». «Il martire è un simbolo, non deve avere un volto. Devi pensare che questa statua celebra il nuovo secolo: il 1600 si aprirà con il Giubileo. La Chiesa è appena uscita dalla tempesta luterana: propone con la tenera Cecilia una sobrietà cattolica da contrapporre al rigore protestante. Maderno richiama nella purezza dello stile la purezza della santa e della fede. La scolpisce con tagli prismatici. Era stato affascinato dal Caravaggio, pittore della luce, e vuole usare anche lui il gioco caravaggesco di luce e ombra. Guardati intorno, vedi le tarsie di marmi colorati pregiatissimi, scuri fino al nero, con quale effetto contrastano il bianco abbagliante di Cecilia? Maderno concepì anche l’insieme dell’altare in cui la statua s’inserisce: la ricchezza degli ori e dei lapislazzuli si oppone alla purezza candida di lei». «Sembra essersi innamorato della sua creatura». «Certo, è il suo capolavoro. Oltretutto la chiesa sorge sui resti della casa di Cecilia, questo aggiunge pathos». «E anche se il volto non si vede, ha scolpito anche quello». 122

«Sì, un volto classico che somiglia alle teste ellenistiche, quei nasi diritti, quelle labbra socchiuse. Non lo vedi, ma lo senti. E la cancellazione del volto – lo vedi senza vederlo – rende la statua moderna, perché ambigua. La dolcezza del volto è implicita, la immagini. Hai presente la potenza di certi visi bui di Caravaggio? Hai l’impressione di coglierne lo sguardo, ma è solo un’impressione, in realtà il pittore non l’ha dipinto lo sguardo, non ha dipinto gli occhi! Sono anni di grande interiorità quelli in cui quest’arte si esprime, e di clamorose esecuzioni pubbliche. La morte per decapitazione di Beatrice Cenci, sulla piazza di Castel Sant’Angelo, avvenuta nel settembre del 1599, non dovette lasciare Maderno indifferente. Ed era nell’aria il rogo di Giordano Bruno, a Campo de’ Fiori, nel febbraio del 1600». Mentre percorriamo la navata centrale per uscire all’aperto, Strinati ancora riflette ad alta voce: «Sicuramente c’era in Maderno l’ambizione di competere con la Pietà di Michelangelo. Il tema è lo stesso: quello della morte pietosa. Non si vuole suscitare pietà, ma indicare un’entrata nella morte dolce, che susciti pietas». Cerco di capire la sfumatura e siamo già nel discorso del passaggio, della soglia, che più gli sta a cuore. Siamo seduti sulla fontana del giardino che fa da ingresso alla chiesa. L’acqua alle nostre spalle è il sottofondo musicale. «In questo caso la soglia della morte è anche soglia storica, passaggio da un’epoca a un’altra, irrompe il barocco» dice. «A te personalmente cosa ispira la statua di Santa Cecilia?» gli domando. «Mi fa venire sempre in mente “la profondissima quiete” di Leopardi e per questo la sento come un’opera preromantica». Poi un’immagine personale di quando era Sovrintendente 123

al Patrimonio Storico e Artistico di Roma: «Ricordo i restauratori con quanto affetto mettevano le mani su questa statua, quasi fosse viva, quasi potessero farle male».

Arrivederci Roma Quando ero piccola, per il mio compleanno, mio padre mi portava a fare un giro in carrozzella. Era per me l’avvenimento più emozionante della giornata, atteso con l’ansia dei bambini che non amano le sorprese, ma la ripetizione della sorpresa. Roma nei primissimi anni ’60, a piazza Venezia, dove le carrozzelle sostavano in massa, aveva ancora l’odore di stalla, un odore di campagna. I cavalli sbuffavano, zoccolavano, scuotevano la criniera e aspettavano i clienti col tondo occhio vigile per poi “far ciriola” con loro. La scelta era complicata: questa no perché ha la capottina un po’ scrostata, quell’altra forse... ma il cavallo sembra nervoso. Ecco, questa! Non era come oggi col taxi, che sei obbligato a rispettare la fila. La carrozzella si poteva scegliere. Mi ci accomodavo come dentro una conchiglia e si partiva, le ruote scricchiolavano sulla strada, la brezza del movimento mitigava l’afa di luglio. Mi piaceva ogni volta imboccare ponte Sant’Angelo diretti al castello, entrare nella sfarzosa scenografia berniniana con la doppia parata di angeli, dieci in tutto, aspettandomi di vederli incrociare le spade sulle nostre teste al nostro passaggio. Veramente la spada la possiede solo quello che negli anni è diventato il mio preferito, ma non è di marmo bianco, è di bronzo verdastro, e non è sul ponte. Non è nemmeno un angelo; è l’arcangelo Michele, che svetta sul tetto del castello e la spada la sta rinfoderando per annunciare la fine di un’antica pestilenza. La visione migliore si ha arrivando da via del124

le Fosse, in macchina, fermi al semaforo, possibilmente appena dopo il crepuscolo. L’angelo sembra sfiorare con i piedi le cime dei pini altissimi e il movimento danzante delle ali, delle vesti, del gesto, suggerisce un’impennata, l’improvviso possibile balzo per prendere il volo dentro l’azzurro che si sta facendo nero. È bellissimo. Gli alberi, come gli angeli, in genere si guardano dal basso, ma un giorno mi viene voglia di montare su un autobus per turisti di quelli a due piani, scoperchiati al piano di sopra. Chiedo a un amico fotografo, Pasquale Comegna, di accompagnarmi. Partiamo dalla fermata di Monte Savello, di fronte all’Isola Tiberina, in mezzo a un traffico parossistico. Mi racconta di sé. Non c’è niente di più appropriato che una situazione stagnante per parlare di se stessi. Fra amici ci si dà per scontati, ci si accontenta di biografie sintetiche. Pasquale considera Roma la sua città, ma è nato a Capracotta, «luogo sperduto dell’alto Molise» mi spiega. Non sapevo nemmeno questo. Naturalmente ha l’inseparabile macchina fotografica con sé e ogni tanto inquadra e scatta e diventa distratto, non risponde alle domande, nemmeno mi sente. Tanto più che la gente parla a voce alta intorno a noi per superare il rumore del traffico. Per riuscire a dialogare bisogna stare fermi e vicini. Parliamo della piazza del Campidoglio, di come il disegno michelangiolesco, leggermente trapezoidale e il merletto della pavimentazione diano l’illusione di una grandezza che non c’è. «Non sono mai salita sulla scala monumentale dell’Aracoeli» dico indicandola. «Mia nonna si vantava di averla fatta tutta in ginocchio per chiedere una grazia». «E l’ha avuta?» «Penso di sì. Era molto devota mia nonna e aveva un rapporto d’intimità con alcuni santi. Era sicura di aver ricevuto 125

nella vita più di una grazia. In particolare venerava la statua del Bambinello custodito nel santuario dell’Aracoeli. Ora che ci penso, mi portò una volta dentro la chiesa. Mi fece un’impressione orribile quel bambino insalamato dentro fasce dorate strettissime. Ne provai un senso di pena». «A un certo punto l’hanno rubato» ricorda Pasquale. «È vero, una quindicina di anni fa. Non è stato più ritrovato. Lo hanno sostituito con una copia. Chissà quali previsioni nefaste per le sorti del mondo ne avrebbe tratto mia nonna». «E magari non avrebbe avuto tutti i torti. Magari siamo sotto scacco di una setta satanica che sarà sgominata solo il giorno in cui ritroveranno la statua del Santo Bambino». «Mia nonna lo chiamava “il Pupo” e sosteneva che il legno d’ulivo in cui era scolpito veniva dal Getsemani, il tocco finale lo avrebbe dato un angelo in persona». «Così si spiegano i miracoli che faceva». «Non quello di liberarsi e tornare fra noi, però». L’autobus si libera dal caos capitolino e attraversa spedito il Vittoriano. Nessuna sosta, qui, peccato. Sarei scesa volentieri ai Mercati Traianei. La Roma più antica, la Roma caput mundi è quella che m’interessa meno. Mi piacciono i Mercati di Traiano perché sono un raro esempio di riconversione delle rovine. Le mostre contemporanee che vi si tengono stabiliscono una ossigenante relazione fra epoche lontanissime. Siamo di nuovo imbottigliati sul lungotevere quando chiedo a Pasquale qual è l’aspetto di Roma che lo colpisce di più. «La luce» risponde. «Che altro può dire un fotografo?» «Sai che Roma ha spesso cieli cupi?» Mi meraviglio, a me sembra una città luminosa, chiara. «Non è proprio così. Ma effettivamente le sue nuvole han126

no spesso squarci da cui filtra la luce con un bagliore che va a colpire direttamente certi dettagli. Fotograficamente è molto interessante». «Io credevo che Roma fosse famosa per i tramonti». «Certo, anche. A Roma colpiscono i rossi. Ha cieli passionali al tramonto, con rossi molto accesi. Scenari caldi, che si trasformano all’improvviso. Forse c’entra anche lo smog nella composizione dei rossi romani. Roma ha molto marmo e molto smog, due elementi che influiscono sulla qualità della sua luce. La luce migliore, comunque, la vedi dal Gianicolo, anche se i tramonti preferisco guardarli dal Quirinale, dove la luminosità è avvolgente». «Raccontami meglio gli squarci nelle nuvole». «Pensa al volto delle statue. I raggi che filtrano negli squarci delle nubi magari vanno a colpire una guancia, la cavità dell’occhio, e il resto rimane in ombra. Allora aspetto che la luce si sposti finché cade precisamente sul particolare che mi sta a cuore. Così la statua nella fotografia diventa viva». Quando gli chiedo: «Di che colore è Roma per te?» mi aspetto che risponda «ocra», invece dice: «Roma è bianca, domina il bianco del marmo. I vicoli stretti sono ocra, poi però sbuchi sempre, prima o poi, in una piazza come in un bagno di luce e la piazza è bianca, le fontane nelle piazze sono bianche». Guardo di nuovo la città e vedo il bianco, un mare di bianco. «Roma è particolarmente fotogenica e musicale» sta dicendo Pasquale. «Il segno grafico del barocco è musicale». Io sono sempre lì che penso al bianco. «Anche le cupole sono bianche» dico. Mi smentisce subito. «Ma no, le cupole di Roma sono celesti!» «Celesti?» 127

Ci stiamo avvicinando a San Pietro e ne indica la cupola armoniosamente appoggiata sulle sedici finestre del tamburo: «Guarda bene. Non farti condizionare dal pregiudizio. In questo caso il pregiudizio è che le cupole delle chiese cattoliche siano sempre bianche». «Bianca... No, è azzurrina. Hai ragione». «Fosse gotica sarebbe nera e la relazione fra cielo e cupola sarebbe diversa. Qui è celeste su celeste. Anche le pietre di Roma sono bianche, ma non bianchissime. Queste sfumature sono fondamentali per caratterizzare una città». Alla fermata di San Pietro, l’autobus si svuota. Ma altrettanta gente sale. Si riparte dopo una lunga sosta. Torniamo a parlare del bianco davanti a un monumento che è al centro di virulente contestazioni, l’Ara Pacis, incapsulata nella candida teca progettata da Richard Meier. Nel prossimo futuro l’architetto statunitense dovrà ripensarla, perché l’intera area intorno al Tevere verrà rivoluzionata. Dico a Pasquale che a me, così com’è, piace molto. «Anche a me piace. Non è così bianca a caso. È concepita per catturare una luce dinamica, viva. All’interno della teca è molto interessante la danza di luce e d’ombra che si crea grazie alle grandi vetrate». Il traffico adesso si è un po’ sciolto. Pasquale ha ripreso a fotografare e l’autobus prosegue ancora per ore nel tour che tocca i luoghi più significativi della città, quelli che meglio incarnano la sua immagine riconoscibile in tutto il mondo, Fontana di Trevi, il Colosseo, i Fori. Negli auricolari Renato Rascel sta cantando una canzone che non ascoltavo da anni: «Arrivederci Roma, good-bye, au revoir...» Quando finalmente scendiamo, alla fermata di Monte Savello, richiamo l’attenzione di Pasquale sulla Sinagoga. 128

«Guarda, questa cupola non è celeste! È bianca, sul grigio forse, anzi decisamente grigia!» «Infatti non è di marmo, è di metallo, no?» «Sì, è così» rispondo sorpresa che lo sappia, credevo fosse una specie di segreto fra me e la Sinagoga. Ma una città come Roma ha pochi segreti. È lì per tutti, a braccia aperte: ponti, cupole, colonne, sanpietrini, rovine, angeli. E il fiume, naturalmente.

Personaggi e interpreti (nel ruolo di se stessi)

Alla fine in genere l’autore ringrazia tutti quelli che hanno contribuito al suo lavoro con sostegno e consigli. In questo libro tutte le persone che vi compaiono e che mi hanno generosamente regalato un’immagine, una passeggiata, un ricordo privato della città, sono diventate i protagonisti di un racconto che ho voluto il più possibile corale. Il mio ringraziamento, dunque, va a tutti loro non solo per le informazioni che mi hanno passato, ma soprattutto per la complicità con cui si sono prestati al mio gioco. E mi scuso con quelli che non ho avvertito, ma ho lo stesso voluto che attraversassero queste pagine. Eccoli in ordine di apparizione: Adriana Polveroni, Susanna Tamaro, Roberto Di Feliceantonio, Viktoria von Schirach, Laura Del Pio, don Matteo Zuppi, Paolone del Tevere, Guido Strazza, Stefania Innocenti, Filippo Ceccarelli, Elena Polidori, Mario Fortunato, Sara Bentivegna, Franco Casavecchia, Biagio, Wilma, Roberto Pilas, Amelia, Enzo Petrignani, Giancarlo De Cataldo, Stefano Benni, Franco Pizzi, padre Stefano, Luigina Valzani, Cristina Biagi, Ettore, Laura Maragnani, Valeria Viganò, Mario Bortolotto, Anna Orsi, Pittore Anonimo, Cielo Pessione, Angelo Bucarelli, Ginevra Bompiani, 131

Giosetta Fioroni, Patrizia Cavalli, Valerio Magrelli, Rita Rivelli, Giorgio Funaro, Federico Buck, Francesca Marciano, Daria Galateria, Valeria Merlini, Daniela Storti, Stefania Caracci, Giuseppe Scaraffia, Silvia Ronchey, Nanni Moretti, Nicola Ravera Rafele, Giuliano Ferrara, Maurizio Mastroianni, Ferzan Ozpetek, Beppe Sebaste, Mimmo Rafele, Stefania Scateni, Mohssen Kasirossafak, Giancarlo, Manuela Morosini, Lidia Ravera, Lucia Poli, Aldo Rosselli, Barbara Alberti, Elio Pecora, Agnese Andreoli, Gabriella Maggiulli, Giuseppe Piccioni, Pasquale Chessa, Muriel Drazien, Laura Levi, Marina Astrologo, Patrizia Zappamulas, Luigi Valzer, Antonella Anedda, Andrea Farri, Alfredo Reichlin, Roberta Carlotto, Bernardo Bertolucci, Maria Giovanna, Luciana Marinangeli, Claudio Strinati, Pasquale Comegna.