Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema 8875211469, 9788875211462

Tra gli autori della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard è il più sperimentale e critico: la sua riflessione teorica sul cin

140 111 6MB

Italian Pages 320 [324] Year 2007

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema
 8875211469, 9788875211462

Citation preview

Godard

Due o tre cose che so di me Scritti e conversazioni sul cinema a cura di Orazio Leogrande prefazione di Enrico Ghezzi

minimum fax

Jean-Luc Godard Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema titolo originale: Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard traduzione di Orazio Leogrande e Andreina Lombardi Bom Questo libro è stato pubblicato con il contributo delPAmbasciata di Francia/B.C.L.A. e del Ministero degli Affari Esteri francese

La traduzione è stata realizzata grazie al contributo della Comunità Europea

Istruzione c cultura

Cultura 2000 © Éditions Cahiers du cinema per la prefazione: © Enrico Ghezzi © minimum fax, 2007 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax piazzale di Ponte Milvio, 28-00191 Roma tei. 06.3336545 /06.3336553 -fax 06.3336385 [email protected] www.minimumfax.com

I edizione: ottobre 2007 ISBN 978-88-7521-146-2 Composizione tipografica: Sabon (Jan Tschichoid, 1967)

Jean-Luc Godard

Due

o tre cose CHE SO DI ME

Scritti

e conversazioni sul cinema

edizione originale a cura di Alain Bergala edizione italiana a cura di Orazio Leogrande

Orazio

traduzione di Leogrande e Andreina Lombardi Bom prefazione di Enrico Ghezzi

GODARD: LIRE SA VIE di Enrico Ghezzi

Un pittore che racconta all’infinito i dati gli istanti i punti i pixel dei proprio autoritratto, per non arrivare a compierlo. Godard mi ap­ pare così, in veste di Sheherazade di se stesso, intento a rinviare il momento in cui l’autoritratto ovale (immagine, mi rendo conto, vertiginosa) sarà terminato. Forse la scena più intensa di «lettura» nel suo cinema è quella dedicata al «ritratto ovale» di Poe in Vivre sa vie (sottotitolo: Film en douze tableaux, film in dodici quadri). Lo stesso film in cui avviene tra Anna Karina e la Giovanna d’Arco/Falconetti di Dreyer, al cinema, uno scambio sublime mediato dal velo della lacrima. L’ultimo soffio che segna il passaggio da uno stato di vita all’altro («l’arte a partire dalla vita»?), nell’indifferenza tecnica (anzi nel­ l’entusiasmo tecnico) del pittore teso senza saperlo né volerlo a tra­ sferire il sembiante «vita» nel sembiante del sembiante, ri-tra(d)endo la vita, è già fatalmente scontato nel titolo del primo lungome­ traggio, À bout de souffle. Che, lo leggiamo nell’intervista che apre questo libro, è anche il metodo confessato di produzione dei suoi

(51

scritti e poi del suo cinema stesso. Mai pronto, sempre pronto. Al­ l’ultimo momento, contando sulla flagranza dell’obbligo del set o della tipografia, rinviando fino all’impossibile (e concentrandola lì) la collisione con il doversi fare economico-produttivo, con le sue leggi fisiche e politiche.

Ci sono molte tracce scritte di Godard. La sua pratica di critico. E negli anni lui stesso ha reso quasi corrente la pratica di dare anche una veste «scritta» ai suoi film. Non sceneggiature, ma i «testi», le parole dei film, tradotte nel libro. In altre occasioni (l’operazione magnifica con Nouvelle Vague per l’etichetta discografica ecm) la riproduzione delle diverse «colonne» (bandes) di «scrittura» ha ri­ guardato il sonoro. Fino alla confluenza nella storia di storie del ci­ nema (Histoire(s) du cinéma) che segna in Godard il passaggio tra un millennio e l’altro, e che possiamo davvero considerare «esisten­ te» solo nel suo vagare da un supporto e da una sostanza e da una registrazione all’altra, video tv libro audio dvd, moltiplicazione di sembianti di una «cosa» sempre più mentale: un confronto appas­ sionato con l’ambiguità dell’immagine, che lascia tracce in un vi­ luppo appassionante di registrazioni diverse, dove l’immagine stes­ sa mostra la sua persistenza di fantasma tenace, di letterale bande à party talmente semplice e immediata da non poter essere circoscrit­ ta, identificata, appiccicata a un «senso». Emoziona «assistere» al dibattersi di Godard nella scrittura, nei suoi intrecci e nelle sue seduzioni. La fatica di trovare un’immagine da raccontare e un’immagine scritta in cui sintetizzare un film. La lotta costante e perdente rispetto al desiderio di «accordo» nel cine­ ma o mediante il cinema, mentre il cinema è la scissione codificata del vivere, la certezza più che il sospetto che quella che si vive non sia la nostra vita. E una certa delusione/sfiducia dello scriversi stes­ so, rispetto al desiderio del desiderio. La tenera ossessione per il vo­ ler essere «scrittori» e pubblicare dei romanzi da Gallimard, che è/fu in forme diverse sua e di Rohmer e di Chabrol e di Truffaut. E insieme già toccati dal cinema, lanciati - rispetto al non sapere qua­ 16]

le Je scriva o sogni nello scrivere (Blanchot) - nell’orbita dei mille occhi di tutti e di nessuno, nell’ossessione magnifica terribile del­ l’orbita troppo vuota troppo piena, obbligati a sentire «proprio» esattamente l’impersonale (ovvero l’esperienza di sentirsi nella vi­ sione parte di un tessersi di essa; vedersi visti nel vedere, forse esse­ re (nel)la visione stessa; la descrizione più precisa e da brivido di questo stato si trova forse in poche righe de L'esperienza interiore di Bataille). Nel corso di una lezione (bisogna riconoscere che il meglio dello scriversi godardiano è forse, più che nelle cose scritte e pubblicate, in queste conversazioni e interviste, nelle improvvisazioni da confe­ renza stampa, nelle trascrizioni di interventi pubblici; insomma, in una sorta di registrato riascoltato rivisto da altri o da se stesso) Go­ dard lanciò: «Il cinema è il contrario della cultura». Frase di saggezza straordinaria e iconoclasta. Il cinema, se è cul­ tura (stratificazione, pensiero sedimentato, banca dati, rielabora­ zione), non è nostro. È Monument Valley di cui possiamo fare un set, non un paesaggio nostro. La più banale e semplice e riconosci­ bile delle immagini, o delle inquadrature Lumière, ci eccede e ci sor­ passa. Per tener testa alla sua velocità della luce, o anche solo per giocarci, dovremo mutare, trovare un’altra velocità, lanciare le bo­ bine contro la nostra testa per attivare altre alchimie. Allora, tutto il cinema di Godard appare una sorta di macchina­ zione estrema ed estremamente inane, un gioco beffardo e «vero» con/tro la situazione cinema. Ci sembra che non sia mai esistita un’opera filmica così personale e pensata e pensante, così determi­ nata nel pensarsi e così determinante nell’illuderci/si che il cinema sia un linguaggio, e che certo cinema sia un nuovo linguaggio. E in­ vece il suo autore non ha aspettato di filmare lo Scenario della Pas­ sione per porsi sovranamente nella situazione del veggente a occhi chiusi, del pittore accecato dall’immagine con cui si abbaglia. Non i detour e i détournement del linguaggio e dello scriversi sono il gio­ co di Godard, o meglio se quello è il gioco non ne è la regola. Go­ [71

dard è subito e prima di tutto un gigantesco pittore. Il suo cinema capta istanti spaziali, anche quando appare nervoso e contorto e straparlante sta semplicemente registrando per noi il dispiegarsi istantaneo della fissione/immagine. Le parole dette e scritte, sfavil­ lanti di intelligenza e di ottusità, le godiamo, le seguiamo imperdo­ nabilmente sedotti e irritati, le leggiamo per cogliere il disegno dei meandri e il tracciato delle citazioni mascherate dei prestiti dei fur­ ti dei plagi lautreamont/debordiani. E le perd(on)iamo, perché non sanno quello che fanno, anche se giocano a dirci che lo sanno. (Ma anche qui. Azzardo l’ipotesi - forse perfidamente debordiana, per citare il cineasta e situazionista Guy Debord, di cui Godard è stato una sorta di inconfessato «doppio» pubblico (o di traduzio­ ne intellettualmente divulgata) per decenni; Debord lascia un’opera fìlmica sublime, assoluta e minoritaria, praticamente e quasi pro­ grammaticamente «maivista» e «sempreletta», depositata ancora oggi più nello straordinario libro Opere cinematografiche complete (tutto il detto/scritto dei suoi bellissimi film) che nei film stessi, pur infine debitamente disponibili in dvd; momento commovente è in­ fatti l’affiorare di un’immagine di Debord all’interno di una delle in­ tensissime recenti confessioni agostinian/rousseauiane di Godard che nei confronti anche della stessa scrittura letteraria, quello godardiano sia più un «leggere» la scrittura, un vedere lo scriversi e lo scritto. Che il «vivere» la propria vita sia allora già un leggerla, un vederne fluire il ritratto scritto. La citazione/plagio, atto mai man­ cante e anzi spesso esibito in Godard, è il trasalimento di scoprire in un testo scritto da un altro un tratto preciso del proprio tracciato di vita, la scrittura come profezia, immagine dell’immagine quale ana­ gramma della profezia.) L’immagine/Godard fa invece, preziosa e inestimabile, intravede­ re quel che non sappiamo dell’immagine, la sua bellezza che non ci appartiene, che ci parla muta mentre ci include. Solo Straub (e Huillet) potrebbero filmare lo scriversi del parlare di Godard, il suo tac­ cuino di pittore, la sua cronaca videotelevisiva dell’immagine/mondo che non ha più bisogno di avere un supporto e di fissarsi su di es­ [81

so, avvicinandosi piuttosto al dis/farsi e risentirsi come sentirsi nu­ do registrato del registrarsi mentale. Godard ha fatto suo, citandolo, un aforisma enigmatico e nitido di Kafka: «Compiere il negativo ci è ancora imposto, il positivo ci è già dato». Il già dato, il «positivo», è filmato da Godard con una gloria che pochi al mondo hanno toccato. Il «negativo», in cui il cinema fi­ no a oggi si è automaticamente (ri)prodotto, e che del cinema è in qualche modo il «già dato», è rifatto godardianamente in una sorta di inseguimento forsennato e linguistico delle volute invisibili del­ l’automatismo tecnico. Ecco, Godard forse non accetta che il cine­ ma parli per lui (Schifano vide bene filmando uno schermo godardiano mentre veniva lacerato da un bambino), e tenta titanicamente/comicamente di scriverlo/parlarlo lui. Ma è straordinario nella capacità di farci vedere il cinema nell’atto in cui esso ci parla. Nou­ velle Vague. Definizione. E titolo di un film stupefacente in questo senso. Accettiamo e attraversiamo tutto lo scrivere di Godard, la «ruminessenza» del suo pensare l’immagine, di fronte al gesto in­ tensissimo di «ritirarsi da sé», di congedarsi dall’autoritrarsi co­ stante della propria scrittura e della consapevolezza di linguaggio, lasciando che nell’immagine spessissima e sovrimpressa fino all’annullarsi da «capolavoro sconosciuto» balzachiano possiamo intui­ re i lineamenti del «tutto» dissolto e mai (del tutto o abbastanza) perso che è (e così solo può essere; altrimenti, mai fu e mai sarà) il ci­ nema, capolavoro sconosciuto.

INTRODUZIONE dì Orazio Leogrande

Il cinema avrebbe conservato la sua forza anarchica e destabilizzan­ te se non si fosse spezzato l’incantesimo del cinema muto. Prima che si iniziasse a commentare i film muti in diretta, e prima ancora del­ l’arrivo del sonoro, nella sala buia gli occhi potevano viaggiare e scoprire i lati inaspettati e sconosciuti di ogni mondo esistente, inti­ mo o reale. È risaputo che il cinema sonoro esisteva già nei primi an­ ni del Novecento, e che è un errore far risalire la sua invenzione al 1927. Come al solito, il gusto del pubblico e gli interessi o velleità degli industriali risultano tra i fattori più determinanti nella storia delle arti. La parola, la sceneggiatura, la finzione arrivarono tempe­ stivamente - come decisioni autoritarie - ad arginare l’energia de­ bordante del cinema delle origini, spettacolo eminentemente popo­ lare che doveva soddisfare più i sensi che i sentimenti o l’intelletto, e che si era nutrito in primo luogo del varietà, del circo e del cabaret. All’epoca delle nouvelles vagues, ribellarsi alla scrittura voleva dire restituire al cinema la sue pericolose potenzialità espressive, af­ francandolo dalla letteratura e dagli sceneggiatori, facendo della l ii 1

macchina da presa la penna dell’autore cinematografico (la camerastylo), riannodando la finzione al documentario. Tra tutti i registi venuti fuori dalla Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard è senza dubbio il maggior sperimentatore, l’unico ad aver esplorato il cinema in ogni direzione. Era inevitabile dunque che prima o poi Godard fa­ cesse i conti con il linguaggio verbale, che assume via via un ruolo fondamentale nel suo cinema, dalle didascalie brechtiane degli anni Sessanta al vertiginoso citazionismo delle ultime opere. Nei suoi film, come nei testi qui raccolti, capita spesso di ascoltare parole che agiscono diversamente dal solito, che non spiegano ma cortocircui­ tano, che non leggono il mondo ma lo vedono. Una citazione, una battuta sarcastica, un gioco di parole: sono queste le sue armi mi­ gliori per minare il linguaggio stesso di cui fa uso. Ogni testo, come l’intera raccolta, rivela l’insofferenza a restare entro i limiti presta­ biliti della comunicazione e dei suoi codici, cercando di scoprire continuamente lo spazio in cui ci troviamo, i suoi margini... e di ol­ trepassarli. Una delle sue battute giustamente famose era che non bisognava «fare film politici, ma i film politicamente», interrogan­ dosi quindi sui rapporti che si instaurano nella realizzazione di un film, ma soprattutto organizzando una Rivoluzione del Linguaggio: «A volte la lotta di classe è la lotta di un’immagine contro un’im­ magine e di un suono contro un altro suono. In un film è la lotta di un’immagine contro un suono e di un suono contro un’immagine». Dal periodo dei Cahiers agli anni con Anna Karina, dal ’68 al vi­ deo, Godard non ha mai interrotto la sua riflessione sul cinema, che invece si è sempre più intensificata fino alle recenti Histoire(s) du cinétna, dove fa i conti con la storia del cinema e con la storia del suo secolo, il Novecento. Ma nemmeno oggi Godard riesce a trovare quell’equilibrio, quel distacco che ogni vero storico dovrebbe pos­ sedere e che l’età preserva un po’ a tutti. Ed emerge continuamente il provocatore, il critico formatosi nella Parigi del dopoguerra, e ri­ troviamo in lui non solo il custode della memoria di celluloide, ma anche uno dei più lucidi demistificatori della televisione e di ogni al­ tra discarica della cultura.

I ni

Con la fine degli anni Sessanta Godard non avrebbe più cono­ sciuto grandi successi, perseguendo una ricerca espressiva che lo avrebbe allontanato dal grande pubblico. Ma se i critici e gli spetta­ tori hanno adorato, hanno riconosciuto e si sono riconosciuti in un autore come Truffaut, diffidando di Godard - troppo intellettuale, troppo pretenzioso - è semplicemente perché Truffaut ha risposto in modo sempre più puntuale ai valori dello spettatore medio e agli schemi di uno spettacolo borghese logoro e riconciliato. In questa raccolta di scritti e interviste si potrà scoprire un lato in ombra ma importantissimo di Godard, che in quanto regista-critico, o regista-saggista, non ha mai separato Parte dalla teoria sull’arte. Questa antologia è una selezione dei testi raccolti in Godard par Go­ dard, pubblicato in Francia in due volumi (usciti rispettivamente nel 1985 e nel 1998), a cura di Alain Bergala. Dovendo fare una cernita dei numerosi pezzi riuniti nell’edizione originale, abbiamo pensato di ripercorrere alcuni momenti della sua produzione e della sua ri­ flessione, senza poter rinunciare, nella scelta, a gusti personali e, nel­ le omissioni, a necessità editoriali. Sono state privilegiate le intervi­ ste, ma sono presenti anche diverse conferenze, oltre che una lettera, una poesia e alcuni articoli di autocommento. Mancano le sceneg­ giature, i progetti e le recensioni, avendo scelto di raccogliere i testi in cui Godard riflette sui propri film, sul cinema o su altri argomen­ ti congeniali, come la critica o la comunicazione. Si è fatta attenzio­ ne a scartare i testi essenzialmente teorici, oppure le interviste sui propri film che si soffermavano troppo a lungo su alcuni aspetti par­ ticolari. Insomma, lo abbiamo seguito nelle sue imprevedibili devia­ zioni verso Parte, la politica, la storia, nei suoi discorsi-piroetta co­ me nei suoi smussati aforismi. Godard è un intellettuale a cui piace citare e citarsi, e tra una pagina e l’altra ci si imbatte spesso in alcu­ ne formule - non vuoti ritornelli, bensì bombe che incendiano il sen­ so facendo crollare il discorso. E il collage, il montaggio di parole e immagini, si frantuma in mille direzioni, rendendo il suo lettore, co­ me il suo spettatore, nuovamente libero di vedere le cose e pernotta­ re in un significato.

I G 1

Leggere questo libro vuol dire ripercorrere mezzo secolo di storia attraverso l’obiettivo del regista cinematografico più originale e con­ troverso dei nostri tempi. Un enfant terrible ormai anziano ma anco­ ra troppo irriverente per poterlo accettare serenamente per quello che è: un maestro. Un maestro che col suo esempio ci incoraggia a perseguire un’inesauribile promiscuità, mescolando di volta in volta teoria e parodia, paradosso e commento politico, calembour e afori­ sma, ricordo autobiografico e memoria storica. Un maestro che non si è mai stancato di insegnarci a disobbedire, a cercare nuove strade ma anche a ricordare e fagocitare il passato. Un maestro che, a dire il vero, è molto più che un maestro. Come Picasso per la pittura, Go­ dard è stato per il cinema lo spartiacque tra il classico e il moderno. Dopo di lui il cinema avrebbe perso la sua innocenza, ma avrebbe an­ che incominciato a mostrare i segni di una prossima fine.

114 1

Due O TRE COSE CHE so

di me

L’ARTE A PARTIRE DALLA VITA Intervista di Alain Bergala

Dove ha cominciato a scrivere? Ci avevo provato alla Revue du cinéma, dove scrivevano DoniolValcroze, Lo Duca e André Bazin, ma i miei articoli furono rifiutati. A quell’epoca conoscevo Doniol-Valcroze perché era figlio di un’a­ mica di mia madre. Poi ho provato con Objectify e con un gior­ nale che si chiamava Ciné-Club du Quartier Latin, dove ha scritto Rivette, non io. Credo che il mio primo testo pubblicato sia appar­ so sulla Gazette du cinéma, un articolo sul cinema russo che si inti­ tolava «Per un cinema politico». Andai a mostrarlo a Bazin, che in quel momento era malato. In seguito ci fu Arts, poi i Cahiers quan­ do furono rifìnanziati da Keigel. Il mio primo articolo sui Cahiers fu un pezzo su un film di Rudolph Maté con Margaret Sullavan. Perché ha cominciato a scrivere sotto lo pseudonimo di Hans Lu­ cas? Non so, era per firmarmi Jean-Luc, perché Hans Lucas è Jean-Luc in tedesco. Certamente è segno che volevo nascondermi, o essere 117 1

prudente. Ma non aveva niente a che vedere con la mia famiglia, era più che altro un vezzo letterario, perché in quel periodo la mia am­ bizione era di pubblicare un romanzo con Gallimard. Ammiravo Astruc perché c’era riuscito.

Come è arrivato ai Cahiers? Tramite Truffaut e il Cineclub del Quartiere Latino. Infatti il Ci­ neclub del Quartiere Latino, il cui fondatore si chiamava F.-C. Froeschel, era animato più che altro da Rohmer e in seguito anche da Ri­ vette. Ricordo che, quando parlava di loro, Doniol li chiamava «la gang Scherer».' In quel periodo non conoscevo Rohmer, ma lui ave­ va scritto il primo articolo su quello che per noi era l’impegno del ci­ nema moderno: «Il cinema come arte dello spazio», un articolo su Murnau apparso sulla Revue du cinéma. In Rohmer a quell’epoca c’era un aspetto destrorso che doveva dare un po’ fastidio a Bazin, un ultralaico. Rivette, dal canto suo, rappresentava una sorta di ter­ rorismo cinematografico. Io ho sempre scritto dopo gli altri, ho sempre lasciato fare prima agli altri. Anche i film, perché Rohmer e Rivette hanno cominciato a girare per primi. Soprattutto Rohmer ha fatto molti film in i6mm con Gégauff; ricordo La Sonate à Kreutzer, muto, perché allora non c’era il i6mm sonoro.

Rohmer era più anziano degli altri. Questo gli dava un’autorità su di voi? Per me Rohmer e Rivette erano l’autorità. Rivette sapeva teoriz­ zare meglio, Rohmer era più profondo. Rispetto all’ortodossia baziniana, leggendo i suoi testi sembra che lei fosse una specie di franco tiratore... Non aveva il culto del piano sequenza, faceva l’elogio del montaggio... Ho sempre avuto un forte spirito di contraddizione, dipende dal i. Eric Rohmer per molto tempo ha firmato i suoi articoli con il nome di Maurice Scherer.

I i8|

modo in cui sono stato educato. Mi dicevo: loro dicono «verde», ma non si potrebbe dire il contrario? Bazin diceva «piano sequen­ za», io mi chiedevo se nel découpage classico in fondo non ci fosse qualcosa di valido. Ci mostravamo a vicenda i nostri articoli. L’opi­ nione degli altri era molto importante, era una sorta di imprimatur, come i padri della chiesa che si mostravano reciprocamente i loro te­ sti. Era questo ad avere valore di giudizio, più di quello che poteva dire Bazin. Ricordo di avere scritto un articolo sull’Uowo che sape­ va troppo, la seconda versione, che aveva mandato su tutte le furie Scherer. Secondo lui era raffazzonato, fatto un po’ come veniva. An­ che il parere di Doniol contava, ma lui aveva un lato più gioviale, più umanista, più viveur. D’altronde è probabile che senza Doniol tutto questo non sarebbe esistito.

In quel momento, cosa rappresentava per voi Bazin? Era un critico cinematografico. Prima di lui c’era stato Roger Leenhardt, o James Agee negli Stati Uniti. Era uno che vedeva il ci­ nema in modo diverso da come lo vedeva la gente, e che parlava in modo diverso da Bardèche o Sadoul. Erano loro i nostri genitori, gli zii, i predecessori. Bazin era un cineasta che non girava film ma che faceva cinema parlandone, come un venditore ambulante. L’ho co­ nosciuto molto poco, abbiamo avuto di rado occasione di parlare perché è morto molto presto. Ora, quando rileggo i suoi testi, mi rendo conto che con lui avrei potuto parlarci. Ma era di tutta un’al­ tra generazione, veniva da un’altra epoca, che io ho conosciuto so­ lo dopo. Bazin, Kast, Doniol hanno fatto parte di quel movimento dopo la Liberazione... Doniol e Kast avevano fatto la Resistenza, credo. All’inizio ho avuto rapporti soprattutto con Rivette, poi con Rohmer, poi con entrambi e in alcuni momenti più con l’uno che con l’altro. Truffaut è venuto dopo, con un rapporto che era più che altro professionale e di amicizia. In alcuni momenti, per un anno o due, abbiamo avuto un rapporto da «bambini abbandonati», ma mai a lungo. Avevo un punto in comune con Truffaut, e cioè il gusto per i film francesi medi. 119 1

In quel periodo lei scriveva articoli su tutti i film di Carbonnaux. Mi piaceva molto Carbonnaux, a Truffaut piaceva molto Joffé. C’era un mucchio di piccoli film francesi che andavamo a vedere per gli attori. Non c’era alcun legame con la qualité fran^aise, era la par­ te migliore del piccolo cinema francese, vicina a Renoir... Quando era addetto stampa alla Fox, dove aveva preso il posto di Chabrol, lei scriveva dei dossier sui film. A chi erano destinati? Erano destinati a fornire il maggior numero di informazioni alla stampa. La Fox lo faceva meglio di tutti perché noi, da cinefili, scri­ vevamo le schede più complete. Da questo punto di vista, oggi le co­ se non sono cambiate molto: i giornalisti parlano di ciò che gli si sus­ surra all’orecchio. Se un film ha una buona cartella stampa è certo che se ne parlerà ovunque.

Leggendo i suoi testi si ha l'impressione che ai Cahiers fosse abba­ stanza autonomo rispetto alle lotte per avere maggiore influenza... Suppongo di sì. Ma allo stesso tempo è vero che io non osavo troppo, aspettavo sempre un po’ prima di scrivere. Se mi piaceva molto un film e Rivette diceva: «È una stupidaggine», anch’io fini­ vo per pensarla come lui. C’era un lato staliniano in quei rapporti. Era come se Rivette detenesse la verità cinematografica, diversa da quella degli altri, e per un certo tempo questo l’ho accettato. Ma ri­ spetto agli altri ero più indipendente, scrivevo anche delle recensio­ ni più soggettive con le quali esordivo nella scrittura per il cinema. Scrivere era fare dei film. Un’originalità come quella che avevamo noi non si è più vista, in seguito. Nei suoi giudizi critici lei sembra più libero degli altri, come Roh­ mer per esempio, che scrive su tale film pensando a tale articolo già apparso, tenendo un occhio su Bazin, e così via. Rohmer viene dall’università francese, dove vige una tradizione che vuole che Bergson risponda a qualcuno, il quale a sua volta... e via dicendo. Per Rohmer tutti avevano detto: «Il cinema è l’arte del I io )

tempo», e lui allora rispondeva: «No, è l’arte dello spazio». Mentre per me scrivere era solo un pretesto per chiedermi che cosa ne pen­ savo personalmente del controcampo e cosa avevo voglia di dire in proposito. Non scriveva per inserirsi in qualche rete di potere? No, anche se, per forza di cose, a volte succedeva. Quando tutti parlavano male di un film o di un regista, dicevo tra me e me: io ne parlerò bene nella misura in cui ne penso bene. Credo che la stessa cosa possa succedere nel caso di Stranger Than Paradise: è un film di cui la gente parlerà bene per affermare la propria esistenza, e l’esi­ stenza di tutti gli stranger-than-paradise che siamo noi. C’era questo aspetto nei miei articoli.

Nei suoi articoli, a differenza di altri, lei valutava spesso il sogget­ to dicendo: il soggetto è o non è moderno, è o non è buono... Ricordo di avere scritto una lettera ai Cahiers, che è stata rifiuta­ ta e che non è mai stata pubblicata, a proposito di Les Mauvaises rencontres. Era il periodo in cui avevo lasciato Parigi. Avevo preso dei soldi dai Cahiers, me n’ero tornato in Svizzera per due o tre an­ ni per girare il mio cortometraggio. Il film di Astruc piaceva a tutti, e soprattutto a Rivette. Ecco una cosa che riesco a capire oggi: quel film possedeva la dimensione astratta che piaceva a Rivette e che una volta avevo difeso in Une Vie di Astruc; è uno dei miei articoli migliori, uno di quelli che si ha veramente voglia di scrivere... Ma per tornare a Les Mauvaises rencontres, per una volta non ero della loro opinione e avevo osato dirlo. La mia tesi era che non era un sog­ getto, che la provincia non era così e nemmeno Parigi, che la sce­ neggiatura era brutta e la storia non avrebbe dovuto essere girata. Nelle recensioni era molto sensibile ai soggetti dei film. E curio­ samente, quando girava Fino all’ultimo respiro, dichiarava di ave­ re l’impressione che il film non avesse un soggetto. Cosa ne pensa oggi?

I

ìi

1

Effettivamente credo che quasi nessuno dei miei primi film abbia un soggetto. Poi vi sono tornato nel periodo di Eranceltourlde­ tourIdeuxlenfants e di Si salvi chi può... la vita. Prima il soggetto era il cinema, con l’eccezione forse di Due o tre cose che so di lei, dove il soggetto per me era la regione parigina, anche se non sapevo bene co­ sa potesse offrire come soggetto di un film. Mentre, sempre in quel periodo, Una storia americana o II bandito delle undici non hanno altro soggetto che il cinema stesso e il suo modo di trattare le cose. Il bello del cinema rispetto alle altre arti - ed è un aspetto che mi ha sempre meravigliato - è che ci si può lanciare con niente. Non capi­ sco perché la gente scriva delle sceneggiature che poi nessuno legge, tranne gli attori, un poco, per sapere quante righe devono dire e quel­ lo che devono fare. Ciò che è piacevole nel cinema è che si può ini­ ziare con quello che si ha a disposizione.

Era questo che le piaceva di certi film americani di serie b, il fatto che cominciassero senza sapere dove andare e che trovassero il pro­ prio soggetto cammin facendo. È una cosa che troviamo fin dall’inizio del cinema. Giglio infran­ to non ha un soggetto. Intolerance o Nascita di una nazione sì, quel­ lo fornito dal titolo. Invece lo stesso titolo Giglio infranto dice chia­ ramente che non si tratta di un soggetto ma di un quadro. Nei suoi articoli dei Cahiers lei utilizza due generi di scrittura. A volte vi si ritrova la retorica un po’ letteraria dei Cahiers dell'epoca, la scrittura critica come scrittura nobile. Allora vigeva nei Cahiers l’idea del «bel linguaggio» che veniva dal Settecento, benché io abbia iniziato curiosamente con i moder­ ni, leggendo Céline prima dei classici. Ma per noi scrivere sui Ca­ hiers era una vera e propria attività letteraria.

Ma in altri articoli non si lascia impressionare da questo tono letterario e trova un suo stile personale, fatto di cortocircuiti, di collisioni... I

1

Sì, cercavo di trovare la mia strada. Era il mio piacere creativo, scrivere più come un romanziere...

Scriveva velocemente o era faticoso? È stato sempre faticoso e all’ultimo minuto. Ma con un godimen­ to in quell’ultimo minuto, come nel piacere sessuale.

Prova la stessa cosa quando fa un film? Non sono cambiato, aspetto sempre l’ultimo momento, anche quando cerco di scrivere delle battute per le sceneggiature. È il pia­ cere della creazione o del parto. C’è un certo dolore che tuttavia può essere superato dal piacere che si prova in ogni atto creativo: prima non c’è nulla e poi all’improvviso arriva qualcosa. Ma lo stesso pia­ cere è senz’altro presente anche quando si cucina o si fa un gol a cal­ cio. Per me questo accade all’ultimo minuto, lascio passare il tem­ po, inconsapevolmente, affinché ci siano degli elementi quando bi­ sogna iniziare. Abbiamo almeno la vita vissuta prima, e non c’è mo­ tivo di avere paura...

E durante le riprese succede lo stesso? Magari fosse così! Ma in quel caso l’esperienza va condivisa un po’ con gli altri. A volte parto per un film come per una passeggiata, con un certo numero di elementi; ho fiducia nella foresta, nel tem­ po, nella mia capacità di camminare, nel fatto di essere con due o tre compagni. Ed è per questo che faccio poche passeggiate, perché le faccio nei film. Quando scriveva così, all’ultimo minuto, non era anche per non avere il tempo di correggere o di riscrivere? Certamente. E poi c’è anche la convinzione che, qualunque disa­ stro uno abbia combinato prima, una parte delle forze migliori arri­ va sempre in quel momento. Quanto ai film ho anche fiducia nel fat­ to che, se ci sono abbastanza elementi, al montaggio sarà un vero spasso. D’altra parte è proprio al montaggio che ci si accorge se le

1

1

riprese sono un po’ raffazzonate, se non è stato centrato il soggetto, se il film non tiene e bisogna «farlo» tenere. Che fa in tal caso? Spesso elimino molte inquadrature, a costo di distruggere la cre­ dibilità del film. Ma quando c’è il soggetto, appunto, si corre meno il rischio di distruggerla. O quando c’è questa componente di «do­ cumentario» che ho sempre molto rispettato nei film: nei western di Anthony Mann, per esempio. Dopo il film sulla diga, ho desiderato a lungo fare un film su un ragazzino, come Louisiana Story di Ro­ bert J. Flaherty. Nei documentari c’è spesso un lato volontaristico che in Flaherty non si ritrova, e fu per questo che riuscì a intendersi con Murnau. In Tabù c’è tanto Flaherty quanto Murnau, solo che il film Flaherty non l’avrebbe fatto così.

È questo che l’ha trascinata nell’avventura di One American Mo­ vie con Leacock, e Pennebaker? Sì, c’era questa idea, ma all’epoca, subito dopo il ’68, era molto teorica, ed era troppo tardi. Ho cominciato molti progetti del gene­ re, a Cuba, in Canada... che non ho mai finito. Nelle scelte critiche c’è qualcuno che per lei ha contato molto, ed è Nicholas Ray. Ci sono molti registi che ho amato a causa di ciò che ne dicevano gli altri nei Cahiers, ma senza capirli bene... Ora capisco meglio, ma mi ci è voluto molto tempo, ad esempio, per comprendere e apprez­ zare Hitchcock. Mi ha aiutato uno dei suoi film meno commerciali, Il ladro. A toccarmi è stato l’aspetto religioso-documentario, e l’i­ dea che il cinema potesse fare anche questo. In Nicholas Ray senti­ vo forse di più l’impronta della sua personalità in ogni film, era co­ me un James Dean della regia. La gente amava di più James Dean, io preferivo Nicholas Ray. Cosa non la convinceva in Hitchcock? [Ml

Credo fosse quello che ne dicevano gli altri, anzitutto Chabrol e Rohmer. Mi sembrava letterario, e loro non mi sembravano a pro­ prio agio. Anche Truffaut parla con lui soprattutto di temi, di sce­ neggiature. Mentre dopo ho scoperto che era un creatore di forme, un pittore, e che bisognava parlarne come del Tintoretto, discutere con lui non solo di sceneggiatura, di suspense o di religione. L’ho ca­ pito quando ha realizzato, uno dietro l’altro, sette, otto grandi film: allora è diventato un vero creatore, ha trovato se stesso. Spesso mi chiedo quali siano le inquadrature che si ricordano dei vari film. Di lui si ricordano le inquadrature di oggetti o di paesaggi, il mulino, la chiave, il bicchiere di latte. Bazin all’epoca diffidava di Hitchcock perché pensava che nei suoi film non ci fosse «soggetto». All’epoca si parlava di soggetto del film quando il film «trattava» un argomento. Noi ci siamo presentati con l’idea di mise en scène, teorizzata da Rivette, un termine proveniente dal teatro e che lui ha imposto al cinema. Bazin aveva l’idea classica che deve esserci un soggetto e che deve essere valorizzato. Ma con Bazin capitava di ra­ do che discutessimo in maniera profonda.

Non è che lei provava una maggiore affinità con i soggetti dei film di Nicholas Ray che con quelli di Hitchcock? Infatti Nicholas Ray è uno che lavora sul soggetto in maniera così personale da interiorizzarlo totalmente, ed è per questo che a volte si confonde col soggetto, ne soffre e tutti i suoi film sono malriusciti. E spesso ho preferito difendere i film malriusciti. Mi ricordo di un film di Becker, Montparnasse, che mi era piaciuto molto perché era mal­ riuscito e perché in quel riuscire male c’era molto più di quello che era Becker e il suo cinema. Era di questo che bisognava cercare di parlare: Il paradiso dei barbari, Il dominatore di Chicago sono dei film malriusciti, degenerescenti: ci si serve ancora di vecchi modelli, di una vecchia amante o di una vecchia passione, è una cosa passata ma vi si ritorna sempre, come un ubriacone che fa una bella arringa.

1151

Pensavo che la predilezione per i film di Nicholas Ray derivasse da quello che accade tra uomini e donne. Anche da questo, ma è inconscio. L’aspetto «albatros», per dirla con Baudelaire. Ray era uno che adesso potrei paragonare a Nico­ las de Staèl. Erano dei giganti, fisicamente. Una volta avevamo scrit­ to un articolo favorevole su uno dei suoi film e vediamo una specie di gigante entrare nella redazione dei Cahiers e chiedere se poteva fare una telefonata. Telefona e se ne va. Dopo abbiamo capito che era Nicholas Ray. Credo che volesse vedere il posto in cui si parlava bene di lui. Lei era molto presente negli uffici dei Cahiers di allora? Era il nostro unico focolare, e io ci stavo quasi più degli altri. A partire dalle due andavamo ai Cahiers, poi al cinema, e vi tornava­ mo la sera. Per molto tempo ho impacchettato le riviste da spedire agli abbonati insieme a Lydie Mahias e Doniol-Valcroze, a cui pia­ ceva ancora sbrigare queste incombenze. Gli altri pensavano che si trattasse di compiti da subalterni. Rohmer a volte dava una mano quando c’era una grossa spedizione, ma io lo facevo ogni mese.

C’è un articolo in cui contrappone Bergman a Visconti. Ho mantenuto questa preferenza, sebbene adesso forse capisca meglio Visconti, soprattutto l’ultimo, al contrario dell’ultimo Berg­ man. Ma preferisco il senso del cinema che mi ha dato Bergman ri­ spetto a quello che mi ha dato Visconti. All’epoca metteva sempre i film di John Ford in buona posizione, nelle classifiche di fine anno. Però non si capisce molto bene che le­ game possa avere lei con il cinema di Ford. In Ford c’è l’idea che il cinema non è altro che cinema, che è sem­ plice. Ed è uno che ha sempre trattato gli stessi soggetti, cosa che lo rendeva più scrittore o più europeo. È anche per il suo lato documen­ tario: un cavallo, un tizio che beve, una ragazza, un paesaggio... ed è tutto. Ha fatto questo per tutta la vita. Per certi versi è un regionalista.

U6|

In quali circostanze ha scritto quelle false interviste con cineasti tanto famosi come Renoir e Rossellini? Fu per Arts. Bisognava fare delle interviste e le persone rifiutava­ no o era difficile ottenerle. Siccome l’idea era stata bene accolta al giornale, le inventavo dicendomi: le idee non saranno false... Per tre anni scomparve da Parigi, non scrisse più... In realtà sono sempre stato tra la Svizzera e la Francia. Ho sem­ pre avuto due paesi, fin da quando ero piccolissimo. Sono nato a Pa­ rigi, sono venuto ad abitare qui in Svizzera all’età di un anno. A tre anni sono tornato a Parigi. Poi sono tornato qui, dove sono andato a scuola fino a tredici anni. In seguito sono andato al liceo Buffon fi­ no a vent’anni. Sono sempre stato un po’ qui e un po’ là... In quel pe­ riodo, dunque, avevo bisogno di diventare autonomo perché vivevo ancora a spese dei miei genitori che non volevano più... Forse ho sempre avuto questi momenti di sosta, di spaesamento e di riam­ bientamento, di rimboschimento... come quando ho lasciato Parigi per andare a Grenoble. Mi accade pressappoco ogni quindici anni, perciò starà per accadere anche ora.

È andato su quella diga per fare un film o per lavorare? Ci sono andato per viverci, avendo allo stesso tempo la possibi­ lità di mettere dei soldi da parte. Poi mi è venuta l’idea di fare quel film, visto che mi trovavo lì. Di non andare a girare film a Parigi, ma lì dov’ero. L’ha prodotto lei quel film? Sì, avevo assunto un operatore indipendente, ed è tutto. In segui­ to l’ho venduto alla società della diga e questo mi ha permesso di avere dei soldi per uno o due anni, spendendo un tanto al mese. Mi dicevo che durante quei due anni sarei riuscito a combinare qualco­ sa. Allora pensavo di girare il mio primo lungometraggio a venti­ cinque anni, l’età in cui Orson Welles aveva realizzato Quarto po­ tere. Le cose richiedono sempre il doppio del tempo che pensiamo

117 1

noi. Quando il dottore dice: «Tra due settimane sarà tutto a posto», se ne possono tranquillamente calcolare quattro. Durante questo periodo si è occupato anche di montaggio. Sì, ho fatto un po’ di montaggio per Braunberger, dei documenta­ ri. Credo che sia stato il mio vero esordio nel cinema professionale. Montavo anche, per l’editore Arthaud, alcuni film che venivano proiettati al Pleyel, dei film di viaggio. Tutta la mia astuzia consiste­ va nel cercare in quei documentari del materiale che permettesse di organizzarli come nella regia classica. Quando era possibile facevo un découpage classico. Se c’era qualcuno che guardava a destra, cer­ cavo l’immagine di un altro che potesse incrociare questo sguardo. Realizzavo un montaggio parallelo. Ai miei committenti piaceva molto. L’ho fatto per un anno. Lavoravo su immagini imposte e i film erano muti perché il commentatore, in sala, parlava in diretta sulle immagini. Ma prima faceva le prove su quello che doveva dire, e questa era un’ottima cosa.

Ha scritto anche dialoghi per altri registi. Mi piaceva molto scrivere dialoghi, partire dai dialoghi per scri­ vere la sceneggiatura. L’ho fatto per uno o due film di Molinaro, ma poi sono stati rifiutati. L’ho fatto per un film di Mocky che non è mai stato girato, Mourir à Berlin, prima della Fossa dei disperati. All’e­ poca eravamo un po’ amici.

Stranamente questo lavoro di scrivere dialoghi preliminarmente poi non l’ha fatto per sé. No, ma potrei farlo per altri. Non posso scriverli preliminarmen­ te perché il dialogo fa parte dell’insieme, va tutto insieme. È stato in veste di dialoghista che ho conosciuto Beauregard, ho scritto per lui i dialoghi di Pècheur d’Islande e ho anche assistito all’inizio delle ri­ prese, ma in seguito hanno cambiato tutto. Rileggendo ciò che scriveva in quel periodo ci si rende conto che, l.x8 1

a dispetto di tutti i pregiudizi sul suo gusto per il cambiamento, c'è una grande fedeltà a se stesso, a quello che lei sarebbe diventato co­ me regista, a una certa idea di cinema. Per esempio l'idea che si ca­ pisca ciò che si vuole fare proprio facendolo. O l'idea che riprenderà più tardi nel Bandito delle undici, attraverso una citazione di Elie Faure su Velazquez, che non bisogna filmare le cose ma quello che c'è «tra le cose». O (incora l'idea che le piace realizzare dei film in cui ci sia al tempo stesso l'arte e la teoria dell'arte, la bellezza e il segre­ to della bellezza. Ora dovrei essere sul punto di terminare quel «programma»; è stato applicato, e direi, se fossimo nel campo dell’informatica, che c’è un software da rifare tenendo conto che le cose sono più diffìcili di prima, poiché il cinema non è più quello che credevamo che fos­ se. Ci rendiamo conto che il cinema che abbiamo conosciuto, quel­ lo proiettato in sala, sta sparendo. Adesso, con la televisione, è di­ ventato qualcos’altro, e bisognerebbe scoprire cosa. Per il momen­ to questo «qualcos’altro» è ostacolato dalla realtà del mezzo televi­ sivo, perché nessuno ha inventato per la televisione un altro modo di fare film. Di qui un po’ di pessimismo e di delusione, ma allo stes­ so tempo mi dico che bisogna cambiare un po’ la propria vita - ben­ ché neanche questo sia facile - e ritrovare un fondo di curiosità che deve ancora esserci e che non si trova nei computer, con cui si in­ ventano solo cose previste.

Chi ha terminato il suo programmai Lei o il cinema moderno? Ho la sensazione che l’abbiamo terminato un po’ tutti. In alcuni film si vedono sequenze in cui si sente l’entusiasmo, l’energia, ma re­ stano dei casi isolati. Probabilmente dipende anche dalla vita che facciamo, cosa di cui prima ero meno convinto. Ma in effetti la di­ sillusione di oggi è la stessa che hanno conosciuto i pittori o i musi­ cisti moderni che si sono fermati molto presto. Siamo entrati in un’altra epoca, che appartiene più ai militari, alla scienza. Dobbia­ mo trovare nella nostra vita individuale altre strade, come riparten­ do veramente da zero, con l’idea che il più delle volte le immagini [ *9 1

non servono a niente. Abbiamo creduto più degli altri che le imma­ gini servissero a qualcosa, ma si parla sempre di più, i libri vanno be­ ne, è come se la sorella minore avesse preso il potere. Questo potere non è fatto per comunicare, ma soltanto per instaurare uno stile di comunicazione che funziona come una regola ma che non è adatto a vedere le cose. Dì questa svolta, avvenuta agli inizi degli anni Ottanta, lei ha par­ lato con altri registi moderni, come Wenders, che Vha gestita a mo­ do suo... C’è un’angoscia profonda, che provano tutti. Bisognerebbe par­ lare della parte invisibile dell’iceberg, che Freud o un buon analista saprebbe vedere, ma di cui non si parla. Non possediamo i mezzi per parlarne in un’intervista. È quella parte invisibile dell’iceberg, la vi­ ta privata, che ha determinato i cambiamenti. Io non ne so parlare, perché per me il cinema è stato una sorta di analisi esteriore, mentre la gente compie invece analisi interiori. Sono sempre sorpreso dal fatto che l’esteriore serva così poco, ma tra interiore ed esteriore ci sono degli scambi. I pittori si basano molto di più sull’esteriore, so­ no ricettivi. In seguito diventano spesso intolleranti, come gli uomi­ ni di religione, perché hanno ricevuto il Verbo e lo trasmettono ma­ le. Come nei film di Bergman o Dreyer dove la storia personale tra il prete e la sua cameriera rimane non raccontata, nel momento in cui il Verbo autentico deve venir fuori nel rapporto fra l’interiore e l’e­ steriore. Quanto alla gente di cinema, ce ne sono alcuni più garbati di altri, ma io non parlo con Wenders più che con Tavernier. A pre­ scindere dalla provenienza geografica, è chiaro che nelle riviste e nei festival ormai del cinema c’è solo una ridicola imitazione. Guardi come sono diventati i festival. La prima volta che sono andato a Cannes, con Jacques Rozier; era veramente una grande gioia, si po­ teva andare ai cinema durante il festival. Oggi è impossibile se non si è ben programmati. All’epoca Nicholson portava le prime bobine del film in cui aveva recitato: immagini un attore di oggi che porta in valigia il proprio film! I 3° 1

A proposito della parte sommersa dell’iceberg, Eric Rohmer dice che all’epoca del gruppo dei Cahiers questa era davvero invisibile, che «la vita era lo schermo» e che si poteva parlare solo di cinema. Era un po’ come nelle vecchie famiglie protestanti, parlavamo po­ co della nostra vita. Ciò non toglie che alcune cose le vivevamo e che ci tenevamo al corrente, ma facevamo come se non esistessero. Sa­ pevamo che Tizia era la ragazza di Caio, ed era tutto, ciò che si dice­ vano tra di loro era un altro mondo. Avevamo un’originalità, e chi sapeva vederla poteva vedere quest’altro mondo nei film, o vedere che non esisteva, ma in un modo molto diverso da Duvivier o Moli­ naro. Se ci piacevano molto i film di Renoir e di Nicholas Ray era an­ che per il fatto di sapere che con quella ragazza che vedevamo nel film loro erano riusciti ad avere una storia, oppure no. È una cosa che mi è rimasta: lavorare con un’attrice, farla recitare in un film e vivere con lei, anche se l’ho fatto male. Tutta questa parte era vissu­ ta ma non detta. Gégauff era più franco, forse perché era un de­ strorso convinto. Ma è vero che era un tabù. Io sapevo di Rivette e di una tizia, lui sapeva di me e di Anna, un giorno uno di noi due ve­ deva l’altro in lacrime e gli diceva: «Ah, io credevo che andasse tut­ to bene». Ma questo non impediva che le lacrime potessimo vederle nel film successivo, cosa che con gli altri registi non succedeva. Tra Scherer e me era diverso, ognuno sapeva i fatti dell’altro ma non ne parlavamo. Eravamo come gente di chiesa - ciò che si definisce una conventicola: san Paolo e san Matteo parlavano forse delle loro ten­ tazioni? In ogni caso, è falso dire che non vivevamo. Io ho vissuto co­ me ha vissuto Werther, o come Baudelaire. Truffaut era più sano, in un certo senso, ma poi è cambiato. Il mio screzio vero e proprio con Truffaut è avvenuto quando una volta, per criticare Effetto notte, gli ho detto stupidamente che nel film mancava un’inquadratura in cui lo si vedesse entrare in un ristorante con Jacqueline Bisset, come l’a­ vevo visto per caso una sera. Lui mi ha spedito una lettera piena di insulti, ma quello che volevo dire è che nel suo film non vedevamo la parte nascosta dell’iceberg. Il primo articolo di Rivette, sul notizia­ rio del Cineclub del Quartiere Latino, si intitolava: «Non siamo più

l 31 1

innocenti». Potremmo dirlo anche oggi, ma lui lo diceva con un to­ no allegro, mentre oggi bisognerebbe dirlo in tono triste. Siete stati la prima generazione di registi a essere anzitutto cinefi­ li, e stranamente questo non vi ha bloccato, al contrario, vi ha dato più libertà. Un tempo in pittura c’era tutta una tradizione della copia. Un pit­ tore partiva per l’Italia e dipingeva i propri quadri ricopiando o stu­ diando quelli dei maestri. Noi abbiamo ricollocato il cinema al suo posto nella storia dell’arte. Gli americani pensavano che Hitchcock, a modo suo, non valesse meno di Velazquez. L’abbiamo solo ricol­ locato al suo posto. Oggi si fa ancora cinema, ma il cinema scom­ parirà quando non si proietteranno più film. Diventerà un’altra co­ sa... In realtà non scomparirà per davvero, si stabilizzerà fra i tren­ ta spettatori del Grand Café e i seicento milioni della sua età dell’o­ ro, finché durerà questo desiderio di proiezione.

Il periodo ’60-67 è chiaramente il più povero di testi perché lei gi­ rava molti film, a volte due o tre all’anno. Quando ha realizzato Fi­ no all’ultimo respiro l’ha pensato come un film che le permettesse d’imporsi? Non ne avevo la minima idea, è venuto fuori così. C’era solo il ter­ rore di non riuscire a farne un altro in seguito, come il terrore di non riuscire a trovare da mangiare. Ho sempre rispettato questo princi­ pio: appena terminato un film, propongo allo stesso produttore, se non è scontento, di farne un altro che costi la metà. Fino all’ultimo respiro non era costato poi tanto, quaranta milioni, e così ho pro­ posto Le Petit soldat per venti milioni. All’epoca il budget normale di un film era di ottanta, cento milioni. Le Petit soldat è stato girato prima dell’uscita di Fino all’ultimo respiro. Truffaut è stato il primo ad avere un successo intemazionale a Cannes con 1400 colpi. Lei lo ha invidiato per questo? Per niente. Eravamo molto più sani di oggi. Eravamo invidiosi, a 132.1

volte, ma in senso buono. Ricordo di essere stato invidiosissimo di Hiroshima, mon amour; ci dicevamo: è un bel film e ce lo siamo la­ sciati sfuggire. Ed era un francese, quindi qualcuno allo stesso tem­ po molto vicino. Eravamo in buona fede. Quando ho visto Deserto rosso mi è piaciuto molto, anche se Antonioni non mi piaceva gran­ ché, ed è in buona fede che sono andato a intervistarlo per i Cahiers. Per me era un modo di fare cinema senza essere invidioso né triste. Dopo Fino all’ultimo respiro ha mantenuto il legame con i Cahiers... Sì, per molto tempo. Andavo ai Cahiers ogni sera, era la mia vera casa. Anna non era contenta perché andavo ai Cahiers come altri vanno al bar o a giocare a biliardo. Ci tenevo molto, era un modo per «tenersi al corrente». È stato lo stesso per gli altri? Credo di sì, più o meno fino al ’68. Anche per Truffaut, a suo modo.

Durante questo periodo la scrittura le serviva per progettare film. Mi ha sorpreso tantissimo la sceneggiatura del Disprezzo, che è una sceneggiatura allo stesso tempo molto scritta e molto programmati­ ca, dove lei espone chiaramente come saranno i personaggi, la regia, l'estetica e via dicendo. C’era senz’altro una certa soddisfazione nell’annunciare che il film sarebbe stato girato a colori, e’nel modo più classico. Sicura­ mente c’entra anche il fatto che gli attori, a parte Jack Palance, era­ no molto volenterosi: Lang, Piccoli, la Bardot. E inoltre è stato l’u­ nico film «classico» che ho avuto occasione di fare, all’interno del sistema: film di prestigio, autore conosciuto, divi conosciuti, regista originale. Era un film un po’ hollywoodiano. Ma per gli altri film di questo periodo che forma prendevano i suoi progetti? Suppongo che un film come Una storia americana non sia quasi stato scritto. (33 1

Per Una storia americana c’erano delle condizioni particolari. Dovevo girare Due o tre cose che so di lei quando Beauregard mi chiese se potevo fargli un film molto velocemente perché gli avreb­ be permesso di allestire una produzione, di avere dei soldi. Ero a Nizza, in quel momento ero vagamente innamorato di Marina Vlady, con la quale dovevo girare Due o tre cose che so di lei, ed ero andato a trovarla a Saint-Paul-de-Vence, senza grande successo. Dissi a Beauregard che sarei andato a vedere in una libreria se tro­ vavo un romanzo poliziesco e che gli avrei dato la risposta l’indo­ mani. Trovai un poliziesco di Richard Stark intitolato Hai perso il morto, Parker! Abbiamo girato i due film l’uno dopo l’altro, con la stessa troupe. Ci sono perfino alcune inquadrature girate per un film che poi ho inserito nell’altro, e i due film sono stati montati con­ temporaneamente, nella sala Washington, con due montatrici. Me ne ricordo perché fu allora che comparve per la prima volta lo scotch da montaggio, e una delle montatrici usava lo scotch mentre Agnès Guillemot preferiva la colla. Era un’epoca bizzarra in cui mi chiedevo: cosa si può fare? è stato fatto tutto? Ci voleva il ’68 per spazzare via un po’ di polvere. È il momento in cui i suoi film assumono un aspetto da inchiesta stile Nouvel Observateur. Sì, leggevo molto ed ero interessato a quel tipo di inchieste. In quel periodo mi ero comprato una televisione, ricordo che Truffaut mi aveva detto: «Dovresti comprarti una televisione per vedere gli attori e le cose che non si vedono al cinema, potrebbero fornirti del­ le idee». In quel periodo forse pensava che il soggetto fosse nella realtà, che il divenire della regione parigina potesse essere il soggetto di un film. Sì, ad esempio la storia di qualcuno o un fatto di cronaca. Lo si prende sotto forma di oggetto e può essere trattato. In seguito le co­ se si sono ribaltate, con La cinese, Week-end e il maggio ’68.

I 34 1

In seguito let avrà sempre una base da qualche parte, a Grenoble, a Rolle, ma in quel periodo, in cui realizza molti film, non sembra provare questo bisogno, come del resto non sembra avere bisogno di lavorare con qualcun altro, bisogno che apparirà fortemente in se­ guito. No, tutto questo è accaduto dopo il ’68. In quel periodo ero im­ merso nel cinema. Mi sono reso conto dopo che bisognava stare da una parte precisa. O, meglio, che ci si trovava da qualche parte e che bisognava scoprire qual era. Ma che per scoprire dove ci si trova bi­ sogna anzitutto andarci. All’epoca dell’incontro con Gorin o del co­ siddetto periodo della militanza, ho creduto di trovare una parte e mi sono reso conto che la gente non stava da nessuna parte, ancora più di prima. Naturalmente quelli che non stanno da nessuna parte mi interessavano. All’epoca di J’accuse, prima di Liberation, spesso mi è capitato di dover litigare per far pubblicare gli articoli di per­ sone che non stavano da nessuna parte, e che venivano rifiutati: un tizio della metropolitana che scrive racconti... Poi c’è stato l’incon­ tro con Anne-Marie Miéville, che aveva bisogno di stare da qualche parte e che mi ha spinto a muovermi. Rivedendo i suoi film di quel periodo, come La donna è donna o Questa è la mia vita, si direbbe che allora riusciva a filmare la bel­ lezza in maniera «innocente». La donna è donna oggi non mi piace granché. Questa è la mia vi­ ta è un film in cui io e Anna pensavamo di stare da qualche parte, c’è stato un movimento da parte sua e da parte mia che dà al film qual­ cosa di buono. Perché quella «grazia» oggi è diventata impossibile? La donna è donna è un film girato in studio, ed è stato piacevole farlo. Era la prima volta che lavoravo in studio, ed è lì che si lavora meglio se si ha un po’ di tempo. Per un paio d’anni ero stato amico di Jean-Pierre Melville, quando aveva gli studi Jenner, in un modo quasi più fìsico che con Rossellini o con altri. In seguito si è arrab­ 1351

biato perché ho parlato male di uno dei suoi film, ma di lui conser­ vo un buon ricordo. Con lui potevo parlare di donne, così alla buo­ na, ma alla fine mi trovava una ragazza se ne avevo bisogno, non aveva tabù in proposito, e questo mi ha influenzato. In Prénom Carmen lei dice: «La bellezza è l'inizio del terrore che siamo capaci di sopportare». È una frase di Rilke che avevo trovato durante Si salvi chi può... la vita e che avevo mandato a Isabelle Huppert con una foto del film, dopo il film. È una di quelle frasi paragonabili a un corridoio con tante porte, tante camere da aprire. Non abbiamo ancora comin­ ciato ad aprirle e già ci diciamo: quante cose da scoprire!

Ma in quel periodo, tra il '§9 e il ’67, il terrore non si mescola al­ la bellezza. Ci sono inquadrature con il terrore e inquadrature con la bellezza. Adesso sono collegati. Perché se siamo capaci di sopportare, sia­ mo capaci di proiettare, quindi di immaginare e mostrare. È per questo che oggi per filmare la bellezza è costretto a mettere qualcosa tra lei e la bellezza. Penso all'inquadratura dell’aereo che atterra in Je vous salue Marie, con quei tralicci fra l'aereo e la mac­ china da presa. Volevo un aereo che atterrasse, ma che atterrando desse l’impres­ sione di decollare. Lì è stata l’influenza di Rossellini a farsi sentire, non ci sono trentasei posti dove mettere la macchina da presa, ce n’è solo uno e se davanti alla macchina da presa c’è un traliccio, eccoci ricompensati... In quel momento l’immagine può anche diventare metaforica per chi vuole che lo sia, è piena, aperta a mille cose. Ma possiamo anche vederne solo una, non importa... Tuttavia questo dice anche che non possiamo più guardare in fac­ cia la bellezza, che di innocenza non ce n'è più abbastanza. Certamente. Ho sempre voluto fare un remake di Angèle, ma non 136 1

è più possibile, non ci sono più gli attori adatti, non c’è più la sor­ gente. Forse potrei girarlo in Nord Africa, ma sarebbe una trasposi­ zione. C’è anche un libro che mi ha tentato per molto tempo, così co­ me ha tentato molti altri registi: La bellezza sulla terra di Ramuz...

Oggi, quando rivede i film di quel periodo... Non li rivedo. Non li guardo quando li trasmettono in televisione. Inoltre ho una reticenza, mi rifiuto assolutamente di programmare il videoregistratore. A volte registro qualche film, una piccola scelta di film che amo e che forse sarò curioso di rivedere fra tre anni. Esito a compiere il gesto di registrare, che a mio avviso non fa bene, tranne che se me lo chiede qualcuno. L’altro giorno non volevo registrare Toni, ma siccome ne avevo parlato spesso ad Anne-Marie, ho pen­ sato che le avrebbe fatto piacere vederlo e l’ho registrato. Ho regi­ strato Il fiume ricordandomi che a Rivette piaceva molto, forse un giorno lo rivedrò, magari tra un anno. Ma non rivedo mai i miei film in televisione, né al cinema, peraltro; provo un certo fastidio... Se si paragonano i film del periodo *59-67 con quelli fatti a parti­ re da Si salvi chi può... la vita, che rappresentano una sorta di se­ condo periodo nella sua carriera cinematografica, si ha l'impressio­ ne che gli ultimi quattro traccino una specie di progressione in cui possiamo vedere come procede e cosa cerca. Tra Fino all’ultimo re­ spiro e La cinese è molto più difficile trovare un filo conduttore da un film all'altro, ragione per cui è difficile situarli in una cronologia. Anche per me! A volte non me ne ricordo più, anche se non è pas­ sato molto tempo. Ma effettivamente questi quattro film delimitano un’epoca. Adesso però è il momento di cambiare, e la scorciatoia per questo cambiamento è Detective. Ma cambiare come regista, ora, è qualcosa che deve necessariamente passare per la vita, non posso lasciarmi trascinare così da una nave all’altra, altrimenti alla fine faccio affondare tutti. Forse è colpa degli altri, ma se mi trovo sempre su navi che affondano per errori altrui, forse in qualche mo­ do dipende da un mio desiderio. E inoltre ho la sensazione che pol 37 1

trei fare tutt’altro, qualcosa che - lo dico senza presunzione - sareb­ be più straordinario. Non vado a vedere i film di Straub o di Rivette perché so già che impressione ne avrò: che quello che fanno è una cosa a parte rispetto a quello che potevano fare. Ho la sensazione che i nostri film avrebbero potuto essere qualcos’altro, così come ci si dice sempre che la vita sarebbe potuta essere diversa, che i camion di viveri sarebbero potuti arrivare in Etiopia dove c’è la fame. La gente manda i camion, e i camion non arrivano. Ho la stessa sensa­ zione su tutto: dovremmo essere capaci di parlare naturalmente del­ la parte nascosta dell’iceberg, e allora un rapporto intimo con qual­ cuno sarebbe diverso dai litigi, o dall’amore sincero ma difficile. Con Si salvi chi può... la vita c’era un desiderio di sbarcare: è un film di pionieri, si sale sul carro, si prendono a fucilate gli indiani... In Passion c’era ancora una certa utopia. Ma per gli altri due che io avvicino a questi, Prénom Carmen e Je vous salue Marie, è stato più difficile: siamo saliti sulla nave, avevamo in programma di andare in Marocco e qualcuno ha detto: «No, io resto a Saint-Tropez, non mi muovo», e alla fine la nave è affondata. In Je vous salue Marie la co­ sa è divenuta ancora più evidente, perché c’era questo grosso libro che nessuno ha letto ma che tutti conoscono, la Bibbia, ed era posto «a confronto». E questo suscita una reazione, c’è perfino chi si indi­ gna, e ci sono altre persone sincere che capiscono che c’era un desi­ derio di andare da qualche parte, di andargli incontro. Prima del ’67 ciascuno dei suoi film cercava qualcosa di diverso. Questi ultimi quattro cercano la stessa cosa. Sono più accomunati, è vero. C’è un po’ più di tenuta, di peso; c’è un centro di gravità che corrisponde a una base sociale che abbiamo cominciato a trovare un po’ a Grenoble, poi qui, e che corrisponde alla mia collocazione tra la Francia e la Svizzera. Dunque significa­ va anche ritrovare il mio stato naturale, che ognuno finisce per ri­ trovare, come in una coppia. Per me era una coppia di paesi, non era sufficiente, ma comunque era una piccola base. La maggiore omo­ geneità è legata anche al fatto che ho cominciato a fare di più il pro-

[38]

dlittore. Forse è questo che mi era piaciuto di Melville, il fatto che fosse produttore-regista.

Questa straordinaria velocità che caratterizza il periodo ’59-67, durante il quale lei aveva un progetto per ogni film, era stimolante per lei? La viveva bene? Era stimolante ma troppo faticosa perché la vivevo sicuramente di testa. Il corpo sopportava male, i rapporti personali con chi mi stava intorno erano quasi inesistenti, erano rapporti commerciali.

Come mai? Perché questo ciclone di cinema aveva invaso tutto lo spazio della sua vita? Sì. E io credo ancora, con Delluc, che se l’arte è la vita, la vita è an­ che un aspetto dell’arte. I pittori spesso sono diventati pazzi, oppu­ re hanno vissuto normalmente dipingendo nei quadri una vita di­ versa da quella che vivevano in famiglia. Tranne Auguste Renoir. La vita di Rubens non ha nessuna relazione con i suoi quadri. La vita di Van Gogh ha una relazione con i suoi quadri ma possiamo dire che non aveva una vita. Non è vita starsene in una cameretta ad Arles, la mattina andare a dipingere e la sera scrivere al fratello per chiedergli soldi. Ora vorrei cercare di praticare meglio l’arte e la vita, con per­ sone che siano interessate all’arte a partire dalla vita. Le forme cul­ turali sono quelle più profonde, ma derivano dalla vita individuale di ogni giorno, in cui provo una pena incredibile. Ma Je vous salue Marie era la fine di un’epoca, e andava bene così. Quando voglio es­ sere ottimista mi dico che ho solo venticinque anni di film. Venticin­ que anni sono la gioventù, ed è questo che bisogna preservare, deve trattarsi di un’opportunità di essere vecchio e giovane allo stesso tempo, di continuare la giovinezza mentre comincia la vecchiaia. Possiamo dire che Si salvi chi può... la vita, Passion, Prénom Car­ men e Je vous salue Marie sono come i quattro pioli di un’unica sca­ la, mentre prima del ’68 ogni film era il piolo di una scala diversa. Ora ho la sensazione di dover cambiare scala.

I 39 1

Anche se quelle scale erano corte, perché costituivano un solo film, lei ha messo comunque delle scale dappertutto. In fin dei conti nell’arco di pochi anni, tra il ’59 e il ’67, ha esplorato il cinema in tut­ ti i sensi. Pochi registi nella storia del cinema hanno fatto un simile lavoro di invenzione di forme. Onestamente sono molto sorpreso da ciò che dice, perché oggi mi sembra che in quel periodo io abbia inventato poco. Questa im­ pressione proviene molto più da quello che è stato scritto a riguar­ do, e che peraltro non mi sono preso il disturbo di far scrivere. Ma in effetti cerco sempre di andare fino in fondo, non solo dove più lontano non si può ma dove si vede che più lontano non si può. An­ che con le storie d’amore, lascio che si trascinino fino al momento in cui sono così stanco di aver scritto cinquecento lettere che mi dico: se non dovrò scrivere la cinquecentunesima, sarà un bel sollievo! Ma non riesco affatto a visualizzare quello che ho potuto inventa­ re in quel momento, non me ne rendo conto, e perciò ho la sensazio­ ne di non avere niente, di non avere fatto niente. A volte mi dico che se avessi difeso meglio i miei diritti, come ha fatto Truffaut, sarei un po’ più ricco. Non farei niente per un anno, ne approfitterei, potrei pagare le tasse e vivere dignitosamente, con un’auto, una vasca da bagno, qualcosa per comprarmi da mangiare, e potrei fare come gli altri, fantasticare su un soggetto, prendere contatti con le persone. Ma allo stesso tempo mi dico che sono fatto così, non ho nessun rim­ pianto e nessuna invidia. Ho un po’ di controllo sulle mie ultime pro­ duzioni, a partire da Crepa padrone, tutto va bene, ma dai film di pri­ ma non prendo più un soldo, salvo i diritti d’autore automatici che sono tutelati per legge. Del resto, pazienza, non ci si può occupare di venti film, per me sarebbe un guaio. Mi piacciono gli affari, ma non doverli gestire.

Cosa è successo con Francois Truffaut a proposito della sceneg­ giatura di Fino all’ultimo respiro? In realtà Francois aveva scritto una sinossi su un fatto di cronaca. Il suo trattamento aveva il vantaggio di esistere, di fornire delle paI 40 ]

gine. In seguito è stato completamente rifatto. Gli ho chiesto consi­ glio un paio di volte. Avendo avuto successo con 1400 colpi ha con­ tribuito, insieme a Melville, a convincere Beauregard, che era agita­ tissimo, a non interrompere le riprese. Venivano tutti e due alla proiezione dei giornalieri.

La cosa strana è che questa sceneggiatura, che ha origine da un te­ sto non suo, annuncia nei rapporti uomo-donna qualcosa che attra­ verserà in seguito i suoi film e che non è truffautiano. Allora non ha avuto bisogno di inventare quella storia perché fosse sua? Ogni storia appartiene a tutti, e possiamo ritrovarci in tutte le sto­ rie. Altrimenti non compreremmo libri, non andremmo al cinema, e appena Shahrazad comincia a raccontare tutti se ne andrebbero. Truffaut non si è mai servito della vita personale nei suoi film e a un certo punto deve averne sentito la mancanza, come è successo a Romy Schneider. Io ho esagerato nell’altro senso, ma quando mi di­ cono: «Perché sempre questa storia dei rapporti che hai con le don­ ne?», mi è di grande aiuto perché posso rendermene conto.

Veniamo agli anni ’68-74. periodo lei crede più alla scrit­ tura come arma politica. E parallelamente sconfessa la definizione di Autore che le viene attribuita, come appare chiaramente in un’inter­ vista in cui parla di tradimento a proposito del concetto di autore. Lo dico anche adesso, ma non più allo stesso modo, senza co­ spargermi troppo il capo di cenere, cercando di gestirlo meglio dal punto di vista morale. In quegli anni scrive insieme a Gorin Letter to Jane, che è il suo unico testo teorico, lungo, pedagogico, ben articolato. Come è stato scritto questo saggio in cui lei sembra credere di colpo alla virtù di­ scorsiva della scrittura? È stato scritto dopo il mio incidente e dopo Crepa padrone, tutto va bene. Evidentemente provavo il desiderio di scrivere una volta tanto un testo teorico per porre delle basi. Ma era già (’inizio della

1411

fine dell’esperienza militante. C’erano alcune cose vere ma che non andavano dette così. È un testo tipo «programma comune», per co­ sì dire. Porta ancora le tracce dell’influenza di Gorin.

Conte è avvenuta, in quel periodo, l'alleanza con Gorin? Era l’inizio del ’68. Gorin era uno che voleva fare cinema ma che allo stesso tempo esitava a farlo, che aveva bisogno di un padre. Tut­ te le persone che hanno lavorato con me avevano bisogno di un pa­ dre. Allo stesso modo, da qualche tempo, quando lavoro con le attri­ ci ho il desiderio di avere una figlia e di fare qualcosa in famiglia, lad­ dove per me la famiglia è il cinema. Ma l’errore era anche questo, perché il cinema non è una famiglia come le altre, non è una vera fa­ miglia. Bergman forse è riuscito a fare nel teatro quello che io ho sem­ pre cercato di fare nel cinema. Con Gorin doveva essere così all’ini­ zio, poi lui ha acquistato potere, potenza. Mi interessava perché sta­ va andando in un’altra direzione e perché mi contestava in quanto re­ gista. E inoltre con lui ogni tanto si parlava di cinema in un modo che mi sembrava più reale di come ne parlavo con i vecchi cinefili. Con i suoi interlocutori di allora parlava di cinema o di realtà? Si parlava di cinema, o di realtà attraverso il cinema. Ma poi ho scoperto anche che erano dei figli di borghesi che non venivano da dove dicevano di venire. Avevano voglia di fare cinema, di diventa­ re famosi, di fare i registi, di firmare un film.

Perché ha avuto bisogno di qualcuno come Gorin? Per essere in due. Ho sempre fatto cinema a due o con molti. An­ zitutto c’è stato Scherer, poi Rivette, in seguito i Cahiers, dove c’era chiunque, come in un gruppo musicale. Poi per un po’ non c’è stato nessuno: con le donne con le quali ho vissuto non siamo riusciti a formare né una coppia sentimentale né una coppia creativa. Perciò in quel momento deve esserci stato il desiderio di avere un fratello o un nipote.

I 411

Dall’esterno, questo passaggio è stato vissuto come una rinuncia al cinema. Ma in realtà abbiamo lavorato quasi più di prima. Non ho mai sentito quel momento come una rinuncia. Mi sentivo un po’ smar­ rito e non mi disturbava il fatto di avere una posizione ideologica, perché mi permetteva di collocarmi, e in seguito di ritrovare una strada.

Now ha avuto rimpianti per quello che ha dovuto lasciare per en­ trare nella militanza? Per avere perduto il potere che le conferiva il suo status di autore per entrare in una condizione di relativa po­ vertà? No, perché non avevo l’impressione di essere più povero, tranne un po’ durante Crepa padrone, tutto va bene. Anche Nedjar mi ha aiutato un tantino, subito prima di quel film. Per la prima volta ave­ vo una sala di montaggio mia, dove abitavo peraltro, che si trovava accanto agli studi di produzione della Auditel. Avevo la sensazione di essere un vero piccolo artigiano, dunque più povero ma anche più ricco, in qualche modo. Cominciava a esserci una piccola base, un piccolo ambiente di lavoro, cosa che non avevo mai avuto. In ogni modo, sono sempre stato molto emarginato nel mondo del cinema dove, à parte qualcuno, vedevo poche persone, e quindi per me le cose non erano cambiate molto. Pensavo al cinema tanto quanto prima. Cosa è accaduto in quel momento con la gente di cinema che co­ nosceva prima, in particolare con i produttori? Ho tagliato i ponti con tutti, molto in fretta. L’ho fatto io e l’han­ no fatto loro. Come quando si lascia la famiglia.

Ha trascorso quel periodo continuando a vivere del suo lavoro di regista? Come ha fatto? Non sapevo di cosa vivevano i militanti, alcuni vivevano in gros­ se ristrettezze economiche ma in generale, quando le cose non an­ I 43 1

davano bene, avevano tutti un papà e una mamma. A Natale io mi ritrovavo ancora più solo perché tutti andavano dalle loro famiglie. Ho approfittato del mio nome per farmi affidare dei lavori per la te­ levisione. I produttori non erano aggiornati e accettavano ancora di lavorare su programmi culturali girati da Godard. Poi hanno co­ minciato a tirarsi indietro, perché nessun canale trasmetteva i film che mi finanziavano. Ma questo mi ha permesso di vivere e di con­ tinuare a fare film senza fermarmi. In quel periodo ha girato filmati pubblicitari per guadagnare soldi ? Uno solo, ma non è mai stato trasmesso perché era troppo lungo. Qual è stato il ruolo di Gorin in lei et ailleurs? Si tratta di un film che è stato girato con Gorin e che poi entrambi abbiamo abbandonato. Ma siccome io porto sempre a termine le co­ se, l’abbiamo ripreso cinque anni dopo con Anne-Marie Miéville, a Parigi e a Grenoble. È un film in cui io e Anne-Marie siamo davvero coautori. Era un periodo in cui lei aveva molti progetti all’estero. Che cosa è accaduto a Cuba? La faccenda di Cuba risale al ’68-70, un po’ prima del film con Leacock. L’idea era di girare ogni volta la stessa scena negli Stati Uniti e a Cuba, un’immagine qui e un’immagine là. Il partner cuba­ no, che era I’icaic, aveva accettato il progetto. Ho avuto centinaia di progetti simili, non me li ricordo nemmeno più.

Visto oggi, quel periodo è stato per lei piuttosto felice o infelice? Non avevo il tempo di accorgermi che ero infelice. Le storie per­ sonali avevano un ruolo importante ma non intervenivano più di­ rettamente nei film. La parte sommersa dell’iceberg era ridiscesa an­ cora più a fondo, talmente a fondo che non ci pensavo nemmeno più. È tornata un po’ in superficie nel periodo di Numéro deux. Co­ me direbbe Rohmer, in quegli anni non ho vissuto. 144 1

Durante quegli anni ha continuato a leggere libri, ad ascoltare la musica che amava? Durante quegli anni, credo, ho smesso di fare molte cose senza rendermene conto: leggere, vedere film. La musica probabilmente era un piacere proibito, ma ne avevo ascoltata così tanta da posse­ derne una buona riserva...

A sentire come ne parla, non si direbbe un periodo molto felice. Sì, lo ricordo come un periodo di assenza, ma che è durato così a lungo che mi chiedo come sono riuscito a trascorrere dieci anni così. È come scavare in un terreno da cui non esce mai il petrolio e sentire gli amici che ti dicono: «Smettila di scavare, lo vedi che non esce».

Si è intestardito per dimostrare di avere ragione? Anche se avevo ragione, in quel modo finivo per avere torto. Ho avuto anche torto a coinvolgere persone che non se ne rendevano conto. Anch’io non sempre mi rendevo conto di quello in cui li coin­ volgevo. Le dava fastidio l'idea che accanto a lei continuasse il cinema «normale», che altri continuassero a realizzare i loro film? Per niente. Io seguivo quella strada, perciò era la mia. In un certo modo ero sincero.

Nel 1971 ha avuto un incidente. Ha trascorso qualche mese in ospedale e, curiosamente, nelle interviste ne parla come di un mo­ mento molto felice. Mi ha fatto bene, era un periodo che mi era necessario e che desi­ deravo, sicuramente. Il fatto che qualcun altro si occupasse di me. Come si è svolta l'avventura del film americano con Leacock e Pennebaker? Ci sono alcune parti che sono state girate ma che non sono state mai montate sul serio. Hanno fatto un montaggio provvisorio e [451

l’hanno distribuito sotto un altro nome. Io non l’ho mai visto. Il pat­ to era che io decidevo cosa bisognava fare, io mettevo in piedi le sce­ ne e loro le filmavano come volevano, cioè in un modo che detesta­ vo, e questa è una della ragioni per cui in seguito ho abbandonato il progetto. All’epoca della Cinese, erano stati loro a comprarlo per gli Stati Uniti. In un’intervista dichiara che alla fine di quel periodo si è stabilito a Grenoble per cercare di trovare la sua identità. Forse la mia identità l’ho ritrovata solo adesso, e posso fare i miei film invece che quelli degli altri. Per molto tempo ho fatto i film de­ gli altri invece che i miei, ho fatto i film che loro non facevano ma che avrebbero fatto meglio di me. Questo vale anche per Je vous salue Marie: avevo detto ai preti che avrebbero dovuto farlo loro. Vedendo Comment $a va?, che ha realizzato a Grenoble, avevo avuto l’impressione di vedere un film di rieducazione o di convale­ scenza. Come se avesse dovuto reimparare i gesti semplici del cine­ ma uscendo dagli anni militanti. Perché ha scelto Grenoble? Sicuramente perché seguivo Anne-Marie Miéville, per la quale Grenoble era una tappa intermedia tra lasciare Parigi e tornare in Svizzera, come avrebbe voluto. Ma l’idea di trasferirsi lì veniva da lei. E poi anche perché a Grenoble c’era Beauviala, abbiamo pensa­ to che lì avremmo avuto un amico.

Questa deviazione verso Grenoble era anche una deviazione ver­ so la tecnica video. Le nuove tecniche mi hanno sempre interessato, e la videocamera era davvero qualcosa che permetteva di affrontare il cinema in un altro modo. Ma avevo cominciato a pensare al video già prima, a Parigi, durante La cinese. Avrei voluto integrare la videocamera nel film come strumento, i personaggi si sarebbero filmati, guardati. In quel periodo la parola video e la voglia di video sono entrate nella coscienza collettiva, ma gli apparecchi non erano ancora disponibiI 46 ]

li. In seguito, negli anni ’68-74, abbiamo comprato tantissime pic­ cole videocamere da reportage che abbiamo dato ai palestinesi, agli operai, un po’ dappertutto, siamo stati dei grandi «diffusori» della ripresa in video... Come è riuscito a comprare questo materiale a Grenoble? Il materiale è stato comprato con i soldi fatti con Numéro deux e Comment ga va? Durante questo periodo «video» non ha perso la voglia di girare film per il cinema? Ho incontrato Tom Luddy, che già conoscevo; ogni tanto lavora­ va per Coppola, e ho pensato che forse avrei potuto girare un film in America. Ma dopo un anno la cosa non è andata in porto, e sono tornato. È stata Anne-Marie Miéville che mi ha spinto a girare un altro film normale, che è diventato Si salvi chi può... la vita.

Con Six fois deux e Francè/tour/détour/deux/enfants sembra che lei sia tornato al motivo dell*osservazione di qualcosa di «piccolo» (due bambini, un regista amatoriale, un contadino e via dicendo) per ottenere un'idea molto più generale. In Six fois deux credevo che l’argomento dovesse scaturire dal­ l’insieme dei temi. In France/'tour/détour/deux/enfants c’era un’idea più chiara degli argomenti di cui si parlava.

Di Six fois deux ricordiamo solo frammenti. Qual era il progetto globale? Non esisteva. Mi è stato commissionato, per conto di FR3, dall’ina, che mi ha chiesto se potevo girare un film da consegnare entro due mesi. Ho risposto che non si poteva fare un film di un’ora in due mesi, ma che era più facile farne dodici. Perché un’ora di intervista avrebbe richiesto un’ora, ma fare un film più classico che durasse un’ora, un film su qualcuno, avrebbe richiesto molto più tempo. Gli abbiamo presentato uno schema e loro hanno acconsentito. I 47 1

Quando sono state trasmesse in televisione, queste serie sono sta­ te altrettanto reali per lei dell'uscita in sala di un filmi1 Six fois deux sì, Lranceltourldétourldeuxlenfants per niente. È stato messo in programmazione come un film di Godard mentre non era stato fatto per questo. In quel momento ha riallacciato i rapporti con l’ambiente del ci­ nema? Con Marin Karmitz. E questo ha fatto sì che più tardi lui abbia col­ laborato a Si salvi chi può... la vita. Si è interessato a quello che aveva visto di mio in televisione e ha pensato che poteva lavorare con me. In questo periodo lei scriveva pochissimo. La ripresa video ridu­ ceva il bisogno di scrivere perché si poteva mettere direttamente in scena, parlare, e via dicendo. Infatti. Però c’è un testo che parla di me, in Six fois deux: si chia­ ma Jean-Luc.

Lei ha rilasciato pochissime interviste. I giornalisti non sono ve­ nuti a trovarla a Grenoble? Per loro la tecnica video era una forma inferiore di cinema. Mi pia­ ce ancora molto Lranceltourldétourldeuxlenfants. Quando l’abbia­ mo realizzato avevamo una vera fede nel video, nel legame tra cinema e video. Per le riprese di Si salvi chi può... la vita, abbiamo esitato per un mese tra film e video, abbiamo perfino fatto votare la troupe per scegliere tra le due opzioni. Avevamo fede nel fatto che la nostra sede e la società di produzione potessero funzionare, creare un movimen­ to. Forse era un’illusione che si è conclusa con Je vous salue Marie. In fondo si potrebbe dire che prima del ’68 c’è stato un periodo senza il­ lusioni e che in seguito c’è stato un periodo, più lungo, di illusioni. Le illusioni dell’epoca militante e dell’epoca del video? Sono un po’ la stessa cosa. Le ritroviamo nel progetto sul Mo­ zambico. (48 1

Durante questo periodo di Grenoble lei si prefigge di controllare rintera produzione: ha la sede, le apparecchiature, consegna il pro­ dotto finito. È l’unico guadagno: far parte della totalità. È per questo che ho cercato insieme a Sarde di avere altri rapporti. Fare in modo che le cose non siano divise, come lo sono nella maggior parte delle pro­ duzioni: sceneggiatura con alcune persone, riprese con altre, mon­ taggio con altre, laboratorio, uscita... Spesso l’addetto stampa non conosce nemmeno il montatore, e questi a sua volta non conosce l’assistente alla regia. A Grenoble lei riscrive quattro volte in due anni il progetto del film americano con Diane Keaton. Ha dato prova di grande tenacia in questo progetto. Come mai non è andato a buon fine? Ci ho messo un anno e mezzo a cercare di convincere Diane Kea­ ton. All’inizio ha detto yes, poi dopo un anno ha detto che yes non significava ok. Se lei fosse stata d’accordo la situazione si sarebbe sbloccata subito. Ci sono quattro versioni perché la sceneggiatura man mano si modificava, la storia cambiava, e anche questo l’ha spaventata parecchio.

Ci sono parti di questa sceneggiatura che sono state utilizzate in altri film? Non credo, era troppo americano.

Come è avvenuto il passaggio da Grenoble a qui, a Rolle? L’idea è quasi la stessa: avere una base, delle apparecchiature... C’era ancora la speranza del video. Ci eravamo associati con del­ la gente di Ginevra, ma i nostri progetti erano troppo diversi. Alla fine abbiamo ripiegato su una catena di produzione classica, ripar­ tendo dalla sala di montaggio e cercando di proseguire la costruzio­ ne di questa catena a partire dal suono piuttosto che dall’immagine. Il video la segue a Rolle ma diventa qualcosa di attinente al cinema. I 49 ]

La tecnica video mi ha insegnato a vedere il cinema e a ripensare il lavoro del cinema in un altro modo. Con il video si torna a ele­ menti più semplici. In particolare, il fatto di avere il suono e l’im­ magine insieme. Per la gente di cinema sono separati. Per me nel ci­ nema sono rimasti separati tecnicamente, però sono accomunati dal fatto che si hanno poche piste sonore ma ognuna contiene molte co­ se, ed è per questo che vengono trattate in lunghezza piuttosto che in spessore... Di conseguenza il missaggio con due piste richiede più tempo di quanto ne richieda quello con molte piste. Gli elementi che noi stessi abbiamo inserito ci colgono di sorpresa, e a volte si deve rifare il montaggio per preparare e modificare meglio alcune cose. Ho scoperto che Mahler faceva così a volte, rilavorava le sue parti­ ture dopo la prima esecuzione. Ma da quando si è stabilito qui a Rolle non c'è più una linea di produzione autonoma per il video, e la videocamera serve solo a preparare i film o a parlarne dopo. Mi sono reso conto che la gente di cinema e quella del video non erano pronte a lavorare insieme. È un po’ come la musica classica e il rock, non funziona, e allora non bisogna forzare le cose. Adesso, forse con Musy e Menoud, c’è l’idea di ripartire dal suono con ma­ teriale più sofisticato, di avere una macchina da presa tutta per sé e poter fare tutto, tranne che lo sviluppo delle pellicole. È la vecchia idea di Chaplin e di Pagnol. Alla fine l'idea della catena produttiva video si è spostata sul ci­ nema. Qui si può fare cinema senza farsi spaventare, senza subire le pre­ potenze che si subiscono altrove nella lavorazione di un film e che li­ mitano molto dal punto di vista estetico. Altrimenti è come se fossi­ mo condannati a fare ciò che possono fare le macchine e le persone che servono le macchine...

Ora sta montando Detective da solo. I 50 1

Sì, da solo. Avevo assunto una montatrice, ma c’è troppo poco da fare. Se si tratta solo di catalogare gli spezzoni è troppo poco. Con­ tinuo da solo, come ho fatto per gli ultimi tre film. È qualcosa che mi avvicina a Coppola, anche se da lui le cose si facevano con più me­ galomania, o semplicemente su scala più grande.

Ha girato una sequenza negli studi di Coppola, se non mi sbaglio. Sì, aveva ripreso il progetto del film americano, poi non se n’è fat­ to più niente. Ma nel suo studio ho girato una sequenza che si trova in Scénario du film Passion, perché per un momento ci siamo soffer­ mati sull’idea di girare Passion negli Stati Uniti. Quindi era una se­ quenza di prova. Un sabato aveva messo la sua troupe a mia dispo­ sizione. Per me è stato piacevole, è stata l’unica volta che ho girato a Hollywood, e ne ero felice. Dove trova i soldi per costruire questo strumento di lavoro, que­ sta catena di montaggio cinematografica? Un film che costa quattro milioni si può fare con tre. Si può inve­ stire un milione in materiale, ed è tantissimo. Credo che la nostra so­ cietà sia quella che investe più al mondo, in percentuale. Anche que­ sta è un’idea che deriva da Rossellini. (Intervista realizzata il 12 marzo 1985.)

[ 51 1

IL CINEMA GIOVANE HA VINTO

Appena finita la proiezione, nella saletta si sono riaccese lentamen­ te le luci. C’è stato qualche attimo di silenzio. Poi Philippe Erlan­ ger, inviato del governo, si è chinato verso André Malta ux: «È pro­ prio necessario che questo film rappresenti la Francia al Festival di Cannes?» «Ma sì, certo!» Ed è stato così che il ministro degli Affa­ ri Culturali ha ratificato la decisione del comitato di selezione, che aveva deciso di mandare a Cannes, come unico rappresentante uf­ ficiale della Francia, il primo lungometraggio di Francois Truffaut, 1400 colpi. L’importante è che per la prima volta un film giovane sia stato scelto ufficialmente dalle pubbliche autorità per mostrare al mondo intero il vero volto del cinema francese. E quello che possiamo dire di Francois Truffaut vale anche per Alain Resnais, Claude Chabrol (se / cugini fosse stato scelto per rappresentare la Francia a Cannes), per Georges Franju e La fossa dei disperati, per Melville e Le jene del quarto potere, per Jean Rouch e Moi, un Noir. E possiamo usare le stesse parole per altri Jean, fratelli e maestri di tutti loro: per Renoir

151]

e il suo Testamento del mostro; e per Cocteau, se Raoul Lévy si de­ cidesse finalmente a produrre II testamento d’Orfeo. Il volto del cinema francese è cambiato. Malraux non si è sbagliato. In fondo agli occhi dell’Antoine di Truffaut che si mette nervosamente in testa un cappello da uomo per rubare una macchina da scrivere in una Parigi addormentata, l’autore della Mannaie de l’Absolu non poteva non veder brillare la minuscola fiamma interiore, perché era la stessa che luccicava vent’anni fa sul pugnale di Tchen, nella prima pagina della Condi­ zione umana. Nessuno meglio del regista dell’Espoxr poteva sapere cosa signifi­ cava quel riflesso: oggi la caratteristica principale del talento consi­ ste nel dare importanza a ciò che si trova davanti alla macchina da presa invece che alla macchina stessa, nel rispondere anzitutto alla domanda «Perché?» ed essere poi capace di rispondere alla doman­ da «Come?» In altre parole, il contenuto precede la forma, la con­ diziona. Se il primo è falso, di conseguenza la seconda sarà pure fal­ sa, cioè inadeguata. E se da cinque anni a questa parte attacchiamo su queste colonne la tecnica fasulla di Gilles Grangier, Ralph Habib, Yves Allégret, Claude Autant-Lara, Pierre Chenal, Jean Stelli, Jean Delannoy, An­ dré Hunebelle, Julien Duvivier, Maurice Labro, Yves Ciampi, Mar­ cel Carnè, Michel Boisrond, Raoul André, Louis Daquin, André Berthomieu, Henri Decoin, Jean Laviron, Yves Robert, Edmond Gréville, Robert Darène... non vogliamo dirgli altro che questo: i vostri movimenti di macchina sono brutti perché i vostri soggetti non sono buoni, i vostri attori recitano male perché i vostri dialoghi non valgono niente; in poche parole: non sapete fare cinema perché non sapete più cos’è. E noi abbiamo il diritto di dirvelo più di chiunque altro. Perché se oggi il vostro nome compare come quello di una diva sui cartelloni dei cinema degli Champs-Élysées, e se si parla di un film di Henri Verneuil o di Christian-Jaque come di quello di un David Griffith, di un Jean Vigo o di un Otto Preminger, è solo grazie a noi. 153 1

Noi che, su queste pagine, sui Cahiers, su Positifo Cinema 59, po­ co importa, magari sull’ultima pagina del Figaro Littéraire o di France-Obseruateur, tra la prosa delle Lettres Frangaises e a volte perfino tra quella delle signorine dell’Express, noi che abbiamo con­ dotto, in omaggio a Louis Delluc, Roger Leenhardt e André Bazin, la battaglia in difesa dell’autore di film. Abbiamo vinto facendo ammettere, per esempio, che un film di Hitchcock è più importante di un libro di Aragon. Grazie a noi gli autori di film sono entrati definitivamente nella storia dell’arte. Ec­ co, di questa vittoria avete automaticamente beneficiato proprio voi che adesso attacchiamo. E noi vi attacchiamo perché avete tradito, perché vi abbiamo aperto gli occhi e voi continuate a chiuderli. Ogni volta che vediamo un vostro film, lo troviamo così brutto, co­ sì lontano esteticamente e moralmente da ciò che ci aspettavamo, da avere quasi vergogna del nostro amore per il cinema. Noi non possiamo perdonarvi di non avere mai filmato le ragaz­ ze che amiamo, i ragazzi che incontriamo ogni giorno, i genitori che disprezziamo o ammiriamo, i bambini che ci meravigliano o ci la­ sciano indifferenti, insomma le cose così come sono. Oggi si dà il ca­ so che abbiamo conseguito la vittoria. Sono i nostri film ad andare a Cannes per dimostrare che la Francia ha un bel volto, cinemato­ graficamente parlando. E l’anno prossimo sarà la stessa cosa. Pote­ te starne certi! Quindici nuovi film, coraggiosi, sinceri, lucidi, belli, sbarreranno di nuovo la strada ai prodotti convenzionali. Perché se abbiamo vinto una battaglia, la guerra non è ancora finita. (Pubblicato su Arts, n. 719,22 aprile 1959.)

I 54 1

FUOCO SU LES CARABINIERS

Téle 7 Jours (anonimo): «Questo film raffazzonato, che il suo auto­ re si permette di dedicare a Jean Vigo». Jean-Luc Godard: «È un film confuso, incoerente, volutamente bislacco, lungo, noioso, per niente commerciale». (Estratto da una recensione dell’Agenzia d'informazione Cinematografica dopo l'u­ scita di L’Atalante di Jean Vigo al Colisée) Le Figaro Littéraire (Claude Mauriac): «Per quanto riguarda gli orrori della guerra, la loro evocazione vi sembrerà non solo malde­ stra, ma disturbante, offensiva. Jean-Luc Godard non si è fatto scru­ polo di inserire nel suo film, come contrappunto, autentici spezzoni girati da corrispondenti di guerra che per realizzarli mettevano in pericolo la propria vita. La caricatura non diventa satira come spe­ rava lui; le nostre risate si raggelano. Poveri morti, morti veri, gio­ ventù sacrificata, amori distrutti: quelle spoglie vengono messe al servizio di una comparsala abominevole, e in che farsa miseranda! » Jean-Luc Godard: Considero queste righe un elogio vivissimo. Ma poiché è chiaro che non sono state scritte con queste intenzio­ I 551

ni, è incontestabile che da qualche parte dev’esserci un equivoco. Ho affrontato la trattazione della guerra seguendo uno schema molto semplice. Ho immaginato che occorresse spiegare a dei bam­ bini non solo cos’è la guerra, ma cosa sono state tutte le guerre, dal­ le invasioni fino alla Corea o all’Algeria, passando per Fontenoy, Trafalgar, Gettysburg e via dicendo. Per esempio, le prime inqua­ drature di guerra sono, nell’ordine: una corazzata, Ulysse e Michel-Ange, un aereo. Perché? Perché ci sono le forze armate di ma­ re, di terra e d’aria. Perché in quest’ordine? Per dare l’idea che Ulys­ se e Michel-Ange, queste iperboli matricolate, come dice Céline, abbiano già una loro collocazione. Ogni inquadratura, ogni se­ quenza corrispondeva perciò a un’idea precisa: l’occupazione, la campagna di Russia, l’esercito regolare, i partigiani e via dicendo. Oppure a uno stato psicologico preciso: la violenza, lo sbando, la mancanza di passione, la derisione, il disordine, la sorpresa, il vuo­ to. O ancora a un fatto, a un fenomeno preciso: il rumore, il silen­ zio e così via. In altre parole, un po’ come se si trattasse di illustra­ re i molteplici - e tuttavia sempre fastidiosamente simili - volti del­ la guerra per mezzo di stampe popolari infilate nella lanterna ma­ gica, secondo i principi dell’attualità ricostruita che erano cari ai cineoperatori di un tempo. L’equivoco deriva, credo, semplicemente dal fatto che io ho fil­ mato la guerra in maniera oggettiva a tutti i livelli, compreso quello della coscienza. Ora, la coscienza è sempre soggettiva, a un grado più o meno elevato. (Anche se viene trattata in quanto oggetto, nei film di Bresson, si tratta sempre di un oggetto la cui caratteristica è appunto la soggettività.) E su questo hanno sempre puntato tutti i film, in particolare i film di guerra. Questo spiega come mai lo stes­ so morto tratto da un cinegiornale disturba lo spettatore di Les Ca­ rabinieri mentre ammalia quello di Morire a Madrid. Gli dà fastidio perché rimane così com’è, insignificante, vale a dire privo di signifi­ cato; mentre in Morire a Madrid gli viene dato un significato, una vita forse simile, forse diversa dalla sua. È quello che io definisco «usare un trucco» - magari anche in maniera innocente - perché fa­ 156 1

re un film utilizzando immagini di repertorio non significa carpire la vita che dorme nei fortini delle cineteche, ma spogliare la realtà del­ la sua apparenza ridandole l’aspetto grezzo in cui basta a se stessa; cercando al contempo l’istante in cui essa avrà termine. Filmare per­ ciò non è altro che cogliere un avvenimento in quanto segno, e co­ glierlo in un preciso istante, quello in cui sommessamente - è una scena di Lola - brutalmente - è un’inquadratura firmata Fuller subdolamente - è un’immagine di Bunuel - logicamente - è una se­ quenza di Viaggio in Italia - il significato nasce spontaneo dal segno che lo condiziona e lo predestina. Il problema non è soltanto quello dell’onestà, ma anche quello dell’intelligenza. Dopo aver trattato, in Les Carabiniers, il motivo per cui sono morti tanti uomini, a mo’ di farsa improvvisata, mi sembra di aver dato prova di un minimo di decenza. Prendiamo l’e­ sempio dei campi di concentramento. L’unico vero film da realizza­ re sui campi - quello che non è mai stato realizzato, e che non lo sarà mai perché sarebbe insopportabile - dovrebbe rappresentare un campo di concentramento dal punto di vista dei carnefici, con i loro problemi quotidiani. Come far entrare un corpo umano lungo due metri in una bara lunga cinquanta centimetri? Come far evacuare dieci tonnellate di braccia e gambe in un vagone da tre tonnellate di capienza? Come bruciare cento donne con il carburante sufficiente per dieci? Bisognerebbe anche mostrare i dattilografi che fanno l’in­ ventario di tutto sulle loro macchine da scrivere. A essere insoppor­ tabile non sarebbe l’orrore sprigionato da queste scene, ma al con­ trario il loro aspetto assolutamente normale e umano, cvd. {CarabinierSy un film Veramente Dannoso.) La Croix (Jean Rochereau): «Non sono altro che inquadrature filmate alla meno peggio, montate così come veniva, infarcite di fal­ si raccordi». Jean-Luc Godard: Le riprese sono durate quattro settimane du­ rante un inverno che ci induceva al massimo rigore e, dalla sceneg­ giatura al missaggio, questa è stata l’insegna sotto la quale si è svol­ to tutto. Il sonoro, in particolare, grazie ai tecnici Ortion e Mau1 57 1

mont, è stato appositamente elaborato. Ogni fucilata, ogni esplosio­ ne è stata registrata separatamente, poi sono state remixate, quando sarebbe stato facile comprarle da Zanuck. A ogni aereo è stato asse­ gnato il rumore del suo motore autentico, e non abbiamo mai dato il rombo di un Heinkel all’immagine di uno Spitfire. Né, tantomeno, una raffica di Beretta quando si vede una mitraglietta Thomson. Il montaggio è durato più di quello di Fino all’ultimo respiro, e il mis­ saggio era simile a quelli di Resnais e di Bresson. La musica è stata re­ gistrata presso la serissima Schola Cantorum. Per quanto riguarda i falsi raccordi, ce n’è uno, splendido, commovente, ejzenstejniano, in una scena che fra l’altro contiene un’inquadratura presa direttamen­ te dalla Corazzata Potèmkin. Si vede in campo lungo un sottufficiale dell’esercito zarista togliere il berretto a una giovane partigiana bionda come il grano del suo kolchoz. Nell’inquadratura successiva si rivede, ingrandito, lo stesso gesto. E allora? Che cos’è un raccordo se non un passaggio da un’inquadratura all’altra? Questo passaggio può essere fatto in maniera del tutto fluida: ed è il tipo di raccordo messo quasi a punto in quarant’anni dal cinema americano e dai suoi montatori che, da un poliziesco a una commedia e da una commedia a un western, hanno instaurato e raffinato il principio del montaggio preciso sullo stesso gesto, la stessa posizione, allo scopo di non spez­ zare l’unità melodica della scena; in poche parole un montaggio pu­ ramente manuale, un processo di scrittura. Tuttavia si può anche passare da un’inquadratura all’altra non per ragioni di scrittura, ma per ragioni drammatiche, e questo è il montaggio di Ejzenstejn che contrappone una forma all’altra e le lega indissolubilmente con la stessa operazione. Il passaggio dal campo lungo al primo piano di­ venta allora come quello dal minore al maggiore in musica, per esem­ pio, o viceversa. Insomma, il montaggio è una specie di rima, e non è il caso di mettere in piedi una rissa stilistica per futili motivi. Basta sa­ pere quando, dove, come e perché. Carrefour (Michel Mohrt): «Una prova di questa incapacità di mostrare le cose è il ricorso al testo scritto, testo che è di una bana­ lità sconfortante». (58)

Paris-Presse (Michel Aubriant): «E non dimentichiamo, inoltre, la mistificazione per partito preso. Il regista elude le scene pericolo­ se intercalando nel suo racconto, o nel suo antiracconto, dei cartel­ li a stampa che riassumono ciò che lui non ha avuto il coraggio o la voglia di riprendere». Minute (Le Serpent): «Dopo che ha tanto vilipeso il cinema dei padri, eccolo utilizzate le transizioni più rifritte del muto: fra una scena e l’altra, una frase scarabocchiata su un cartello nero serve, al­ meno così ritiene lui, a far progredire l’azione. Ecco la massima con­ fessione d’impotenza tecnica della Nouvelle Vague». Jean-Luc Godard: Ulysse e Michel-Ange scrivono dal fronte, ri­ spettivamente, alla moglie e alla sorella. Il testo di queste lettere è stato copiato parola per parola da lettere di soldati assediati a Sta­ lingrado, da una lettera di un ussaro di Napoleone durante la cam­ pagna di Spagna, e soprattutto dalle circolari di Himmler ai vari ca­ pi delle sue pattuglie di combattimento, così come sono citate in una recente Storia della Gestapo di Jacques Delarue. Alcune frasi, inol­ tre, sono tratte da documenti pubblicati da France-Observateur e da\\'Express, relativi alla corrispondenza della squadra LacheroyArgoud-Godard (che ci posso fare?)1 ai loro tempi d’oro. La mag­ gior parte di questi testi sono effettivamente di una banalità terribi­ le, di una crudeltà triste e noiosa. L’Humanité (Armand Monjo): «Gli hitleriani scrivono hum A con il gesso sopra un edificio che requisiscono dopo aver fucilato la portiera». Jean-Luc Godard: Prima di fucilare la portiera, Ulysse scrive le proprie iniziali e quelle del fratello Michel-Ange sul muro di un edi­ ficio da lui requisito, il tutto preceduto da due crocette, una per cia­ scuno, in totale l’emblema del loro re, ossia: + + u.m a.

z. Charles Lacheroy, Antoine Argoud e Yves Godard (nessuna parentela con il regi­ sta) erano ufficiali francesi membri dell’oAS (Organisation Armée Secrète), un’orga­ nizzazione clandestina che nei primi anni Sessanta cercò, con mezzi anche terroristi­ ci, di impedire l’indipendenza dell’Algeria, [tt.d.t.j

I 59 1

France-Observateur (Robert Benayoun): «Godard si mette co­ modo adottando una fotografia sovraesposta». Paris-Presse (Michel Aubriant): «Si arroga il diritto di erigere a si­ stema la fotografìa sbagliata». Candide (anonimo): «Un film dalla fotografia frettolosa, in cui ogni immagine esprime l’intenso disprezzo dell’autore nei confron­ ti del pubblico». L’Express (Michel Cournot): «Questo film di fattura scadente, daH’illuminazione scadente, scadente in tutto». Jean-Luc Godard: Les Carabiniers è stato girato su negativi Ko­ dak xx, che è al momento la migliore pellicola sul mercato, la più densa, sottile come la vecchia Plus x, rapida come la tri x per una migliore definizione, insomma la pellicola più completa, in grado di soddisfare Richard Leacock e Russell Metty, quella che «sopporta» meglio, dicono i tecnici mostrandovi la sua curva sensitometrica. I negativi sono stati sviluppati alla gamma più alta possibile dai la­ boratori gtc di Joinville, culla del cinematografo, sotto la direzione del signor Mauvoisin che, alcuni anni or sono, è stato il primo a mettere a nostra disposizione una vasca speciale per trattare la pel­ licola Ilford hps di Fino all’ultimo respiro e l’Agfa Record di Le Pe­ tit soldat. La stampa della pellicola è stata effettuata semplicemen­ te su una pellicola Kodak speciale, detta «ad alto contrasto». Un trattamento del genere era necessario per ottenere, a torto o a ra­ gione, la densità fotografica dei primi film di Chaplin, per ritrovare il bianco e nero dell’ortocromatico di un tempo. Parecchie inqua­ drature, troppo grigie per natura, sono state controtipate di nuovo, in alcuni casi anche due o tre volte, sempre alla gamma più alta pos­ sibile, per raccordarsi alle inquadrature dei cinegiornali, anch’esse controtipate più del solito. Per quanto riguarda Raoul Coutard, do­ po cinque film girati insieme, è già al suo terzo gran premio della fo­ tografìa. (Pubblicato sui Cahiers du cinéma, n. 146, agosto 1963.)

|6o]

IL DISPREZZO

Il romanzo di Moravia è un romanzo volgare e grazioso, tipo quelli che si acquistano nelle stazioni ferroviarie, pieno di sentimenti clas­ sici e desueti, a discapito della modernità delle situazioni. Ma è da romanzi di questo genere che si ricavano spesso dei bei film. Io ne ho conservato la sostanza, e ho semplicemente trasformato alcuni dettagli partendo dal principio per cui ciò che viene filmato è automaticamente diverso da ciò che è scritto, quindi è originale. Non occorre cercare di renderlo diverso, di adattarlo in previsione dello schermo, occorre semplicemente filmarlo così com’è: limitar­ si a filmare ciò che è stato scritto, tranne qualche particolare, poi­ ché se il cinema non fosse anzitutto film non esisterebbe. Méliès è il più grande, ma senza la luce dei Lumière sarebbe rimasto nell’oscu­ rità totale. Qualche particolare, ho detto. Per esempio la trasformazione del protagonista che, dal libro allo schermo, passa dall’avventura falsa a quella vera, da una fiacchezza nello stile di Antonioni a una di­ gnità da Uomo di Laramie. Per esempio, ancora, la nazionalità dei l 61 ]

personaggi: Brigitte Bardot non si chiama più Emilia ma Camille e, come si vedrà, non per questo scherza con De Musset? Del resto cia­ scuno dei personaggi parla la propria lingua nel film, il che contri­ buisce, come in Un americano tranquillo, a dare l’impressione sen­ timentale di persone smarrite in un paesaggio straniero. Altrove, scriveva Rimbaud; quindici giorni, aggiunge Minnelli parecchi toni più sotto; qui soltanto due: un pomeriggio a Roma, una mattinata a Capri. Roma è il mondo moderno, l’occidente. Capri, il mondo an­ tico, la natura prima della civiltà e delle sue nevrosi. In poche paro­ le, Il disprezzo avrebbe potuto intitolarsi Alla ricerca di Omero, ma quanto tempo sprecato per snidare la prosa di Proust sotto quella di Moravia, e d’altronde non è questo l’argomento. L’argomento del Disprezzo sono delle persone che si osservano e si giudicano, poi sono a loro volta osservate e giudicate dal cinema, rappresentato da Fritz Lang che interpreta se stesso; insomma la co­ scienza del film, la sua onestà. (Ho girato io le scene dell’Od/ssefl che lui dirige nel Disprezzo, ma dato che interpreto il ruolo del suo assistente alla regia, Lang dirà che sono scene girate dalla sua se­ conda unità.) Quando ci riflettevo a fondo, oltre che la storia psicologica di una donna che disprezza suo marito, Il disprezzo mi appariva come una storia di naufraghi del mondo occidentale, di scampati al naufragio della modernità, che un giorno approdano, a immagine e somi­ glianza degli eroi di Verne e Stevenson, su un’isola deserta e miste­ riosa, dove il mistero è inesorabilmente l’assenza di mistero, vale a dire la verità. Mentre l’odissea di Ulisse era un fenomeno fisico, io ho ritratto un’odissea morale: dove lo sguardo della macchina da presa, puntato su personaggi alla ricerca di Omero, sostituisce quel­ lo degli dèi puntato su Ulisse e i suoi compagni. Film semplice e privo di mistero, film aristotelico, svuotato delle apparenze, Il disprezzo dimostra, in 149 inquadrature, che nel cine3. Camille è il nome della protagonista del dramma Non si scherza con l'amore di Al­ fred de Musset, fn.d.t.l

1611

ma come nella vita non c’è nulla di segreto, nulla da chiarire, biso­ gna solo vivere - e filmare. (Pubblicato sui Cahiers du cinéma, n. 146, agosto 1963.)

[63]

UNA DONNA SPOSATA

Ci sono diversi modi di fare un film. Come Jean Renoir e Robert Bresson, che suonano. Come Sergej Ejzenstejn, che dipinge. Come Stroheim, che scriveva romanzi sonori all’epoca del muto. Come Alain Resnais che scolpisce. E come Socrate - intendo Rossellini che si limita a fare della filosofia. Insomma, il cinema può essere tut­ to allo stesso tempo, giudice e parte in causa. Spesso sorgono dei malintesi perché ci si dimentica di questa ve­ rità. Si rimprovererà Renoir di essere un cattivo pittore quando nes­ suno direbbe questo di Mozart. Si rimprovererà Resnais di essere un cattivo romanziere quando nessuno si sognerebbe di dirlo a Giaco­ metti. Insomma, si confonderà la parte col tutto, negando all’uno e all’altro il diritto di escludersi o di appartenersi. È qui che comincia il dramma. Il cinema è catalogato o come una parte o come un tutto. Se fate un western, niente psicologia, mi rac­ comando. Se fate un film d’amore, mi raccomando, nessun pestaggio o inseguimento. Quando girate una commedia di costume, niente in­ treccio! E se c’è un intreccio, allora non approfondite i caratteri. (64]

Guai a me allora, che ho appena girato Una donna sposata, un film dove i soggetti sono considerati come oggetti, dove gli insegui­ menti in taxi si alternano alle interviste etnologiche, dove infine lo spettacolo della vita si confonde con la sua analisi; insomma, un film dove il cinema scorrazza libero e felice di essere soltanto quello che è. (Pubblicato sui Cahiers du cinéma, n. 159, ottobre 1964.)

[65]

PARLIAMO DEL BANDITO

Da cosa è partito esattamente per realizzare II bandito delle un­ dici? Da un romanzo in stile Lolita di cui avevo comprato i diritti due anni fa. All’epoca avrei dovuto girare il film con Sylvie Vartan, che ha rifiutato. Al posto di questo, ho girato Bande à part. In seguito, ho cercato nuovamente di realizzare il film con Anna Karina e Ri­ chard Burton. Purtroppo Burton si era troppo hollywoodizzato. Al­ la fine, la presenza di Anna e di Beimondo ha cambiato tutto. Ho pensato a Sono innocente. Mi è venuta voglia di girare, al posto del­ la coppia di Lolita o della Cagna, la storia dell’ultima coppia ro­ mantica, gli ultimi discendenti della Nouvelle Héloise, di Werther e di Hermann und Dorothea. Questo romanticismo oggi disorienta, così come a suo tempo è successo con quello della Regola del gioco. Si rimane sempre disorientati da qualcosa. Quindici giorni fa, una domenica pomeriggio, ho rivisto Ottobre! di Ejzenstejn alla 166]

Cinémathèque. C’erano solo ragazzini. Era la prima volta che an­ davano al cinema. Reagivano dunque come se fosse il primo film che vedevano. Forse erano sconcertati dal cinema, ma non dal film. Per esempio, non erano sconcertati dal montaggio rapido e sinteti­ co. Quando vedranno un film di Verneuil, allora sì che saranno sconcertati, perché diranno: guarda un po’, ci sono meno inquadra­ ture che in Ottobre! Prendiamo un altro esempio, in America, dove la televisione è molto più discontinua e frammentaria che in Fran­ cia. Là un film non lo si guarda affatto seguendolo da cima a fondo; si vedono quindici programmi contemporaneamente, facendo altre cose, per non parlare della pubblicità. Se mancasse la pubblicità, sa­ rebbe questo a sconcertare. Hiroshima mon amour e Lola Montès sono andati meglio alla televisione americana che nelle sale cinema­ tografiche.

In ogni caso II bandito delle undici piacerà ai ragazzini. Lo guar­ deranno tutti sognanti. Purtroppo il film è vietato ai minori di 18 anni. La motivazione? Anarchismo intellettuale e morale. Di sangue nel Bandito delle undici se ne vede parecchio. Non è sangue, è colorante rosso. D’altro canto, ho difficoltà a parlare di questo film. Non posso dire di non averlo elaborato, però non l’ho ideato punto per punto a priori. È venuto tutto insieme: è un film in cui non c’è stata scrittura, né montaggio, né missaggio, in­ somma, che giornate! Bonfanti non conosceva il film e lo ha mixato, senza preparazione. Con le sue manopole, reagiva come un pilo­ ta reagisce ai vuoti d’aria. Questo fatto corrispondeva benissimo al­ lo spirito delle riprese. Perciò la costruzione è venuta fuori in con­ temporanea al dettaglio. Era un susseguirsi di strutture che s’intrec­ ciavano immediatamente le une alle altre. Bande à part e Agente Lemmy Caution: missione Alphaville sono nati nello stesso modo?

I67I

Fin dal mio primo film, mi sono sempre detto: «Adesso lavorerò di più sulla sceneggiatura», e ogni volta mi accorgo di avere di nuo­ vo l’opportunità di improvvisare, di creare tutto durante le riprese, cioè senza applicare il cinema a qualcosa. Ho l’impressione che Demy o Bresson, quando girano un film, abbiano un’idea del mon­ do che cercano di applicare al cinema, oppure - che poi è la stessa cosa - un’idea del cinema che applicano al mondo. Il cinema e il mondo sono stampi per materie, mentre nel Bandito non c’è né stampo né materia.

Non c'è talvolta un'interferenza tra determinate situazioni, che esi­ stevano al momento delle riprese, e il filmi Per esempio, quando An­ na Karina cammina lungo la spiaggia ripetendo: «Cosa posso farei... Non so cosa fare... » Contese, in quel preciso istante, non sapesse dav­ vero cosa bisognava fare, l'avesse detto e lei l'avesse ripresa... Non è così, ma può darsi che il risultato sia lo stesso. Se avessi vi­ sto una ragazza che passeggiava in riva al mare dicendo: «Non so cosa fare», avrei potuto pensare di avere davanti la scena di un film. E partendo da là, avrei potuto immaginare ciò che viene prima, e ciò che viene dopo. Invece di parlare del cielo, del mare - il che non è la stessa cosa - invece di mostrare la tristezza, l’allegria, di girare una scena in cui la gente balla o mangia - e neanche qui è la stessa cosa - avrei provocato lo stesso effetto con questa sensazione finale. In realtà ciò non vale per questa scena, ma per un’altra, quella in cui Anna dice a Beimondo: «Come va, vecchio», e lui imita Michel Si­ mon. In quel caso è andata come dice lei. Si ha l'impressione che il soggetto appaia soltanto a film termina­ to. Durante la proiezione, ci si dice che il film parla di questo o di quest'altro e solo alla fine ci si accorge che c'era un vero soggetto. Ma è questo, il cinema. È la vita che si organizza. Magari non sap­ piamo bene che cosa faremo domani, ma alla fine della settimana, davanti ai risultati, possiamo dire: ho vissuto, come la Camille di De Musset. Allora ci accorgiamo che neanche col cinema si scherza. Ve­ [68]

diamo qualcuno per strada; su dieci passanti, ce n’è uno che guar­ diamo un po’ più a lungo, per un motivo o per un altro. Se è una ra­ gazza è perché ha gli occhi così, se è un uomo è perché ha l’aria co­ sà, e poi filmiamo la sua vita. Ne verrà fuori un soggetto che sarà la persona stessa, l’idea che quella persona si fa del mondo e dunque il mondo finale creato da questa idea, l’idea d’insieme provocata da tutto questo. Nella prefazione a uno dei suoi libri, Antonioni dice assolutamente la stessa cosa.

Si ha l’impressione che II bandito delle undici si sia svolto in due ri­ prese. La prima volta, la Karina e Beimondo sono andati in Costa Azzurra, senza troupe al seguito, perché la vita li aveva portati là, e poi, una volta arrivati, hanno incontrato un regista al quale hanno raccontato la loro storia e che gli ha fatto ricominciare tutto da capo. In una certa misura sì, perché tutto il finale è stato inventato sul posto, a differenza dell’inizio che rispondeva a un progetto preciso. È una specie di happening, ma controllato e padroneggiato. Detto questo, si tratta di un film completamente incosciente. Due giorni prima di cominciarlo, non ero mai stato così inquieto. Non avevo niente, proprio niente. Vabbè, insomma, avevo il libro. E un certo numero di sfondi. Sapevo che la storia si sarebbe svolta vicino al mare. Tutto è stato girato, diciamo, come ai tempi di Mack Sennett. Può darsi che io mi allontani sempre di più da una parte del cinema che si realizza oggi. Quando vediamo dei vecchi film, non abbiamo l’impressione che fossero realizzati in mezzo alla noia, senza dubbio perché allora il cinema era qualcosa di più nuovo, mentre oggi si tende a considerarlo vecchissimo. La gente dice: «Ho visto un vec­ chio film di Chariot, un vecchio film di Griffith»; non dice mai: «Ho letto un vecchio libro di Stendhal, o di Madame de la Fayette».

Lei ha l’impressione di lavorare più come un pittore che come un romanziere? Questa è una cosa che è stata spiegata benissimo da Jean Renoir, nel libro che ha dedicato a suo padre. Auguste partiva, sentiva il bi­ I 69 1

sogno di andare in campagna. E ci andava. Si addentrava nella fo­ resta. Dormiva nella locanda più vicina. Passava là quindici giorni e poi tornava, con il suo quadro finito.

I vecchi film ci danno notizie sull'epoca in cui sono stati girati. Nel 75 per cento dei film prodotti oggi, questo non avviene. Nel Bandi­ to delle undici la vita dell'epoca, il fatto che Beimondo tenga un dia­ rio, danno al film una dimensione autenticai Anna rappresenta la vita attiva e lui quella contemplativa. È per contrapporli l’uno all’altra. Dal momento che non vengono mai analizzati, che non esistono dialoghi o scene analitiche. Con la pro­ spettiva del diario, volevo trasmettere il senso della riflessione. I suoi personaggi si lasciano guidare dagli avvenimenti. Sono abbandonati a se stessi, sono dentro la loro avventura e den­ tro se stessi.

L'unico atto autentico che compie Beimondo è quando cerca di fermare la fiamma con la mano. Se avesse spento la miccia, dopo sarebbe diventato qualcosa di di­ verso. Somiglia al Piccoli del Disprezzo.

L'avventura coinvolge completamente lo spettatore, tanto che non si riesce a immaginare cosa succederà nella scena successiva. Il fatto è che si tratta più di un film sull’avventura che sugli av­ venturieri. Un film sugli avventurieri è Terra lontana di Anthony Mann, che fa pensare all’avventura perché ci sono gli avventurieri, mentre nel Bandito delle undici si pensa che si tratti di avventurieri perché viene descritta un’avventura. D’altro canto è difficile separa­ re gli uni dall’altra. Da Sartre in poi sappiamo che la libera scelta operata dall’individuo su se stesso si confonde con ciò che di solito è definito come il suo destino.

Più che nel Disprezzo, la presenza poetica del mare... I 70 1

Qui è davvero riconosciuta, molto più che nel Disprezzo. Era quello il soggetto.

Come se, appunto, gli dei fossero nel mare. No, è la natura, è il presente della natura, che non è né romantico né tragico. Sembra che oggi l’avventura sia scomparsa, che non abbia più di­ ritto di cittadinanza; da ciò Cospetto provocatorio dell’avventura al giorno d’oggi, e nel Bandito delle undici. La gente cataloga l’avventura. Dice: partiamo per le vacanze, l’avventura comincerà nel momento in cui saremo in riva al mare. Ma nel momento in cui compra il biglietto del treno ritiene di non stare ancora vivendo l’avventura, mentre nel film tutto è sullo stes­ so piano: comprare i biglietti del treno è appassionante come fare il bagno. Indipendentemente dalla loro elaborazione, quasi tutti i suoi film s’incentrano sullo spirito di avventura. Esatto! L’importante è sentire di esistere. Nell’arco della giorna­ ta, per i tre quarti del tempo, ci si dimentica di questa verità che ri­ compare all’improvviso, guardando le case o una fiammata rossa: a un tratto si ha la sensazione di esistere in quel momento. È così che Sartre ha cominciato a scrivere i suoi romanzi. La nausea, del resto, è stato scritto nello stesso periodo, quel grande periodo, in cui Si­ menon pubblicava Turista da banane e La fuga. Per me, si tratta di un’idea che non ha niente di moderno, è una sensazione molto clas­ sica, addirittura.

Il bandito delle undici è al tempo stesso classico - non ci sono trucchi di montaggio - e moderno, a livello di intreccio. Che cosa definite moderno a livello d’intreccio? Io preferisco par­ lare di una maggiore libertà. Rispetto ai miei film precedenti si tro­ va subito la risposta. Anche se mi faccio sempre meno domande, ne I 711

rimane una sola: non sarà grave non farsi più domande? Una cosa mi rassicura: i russi, all’epoca di Ottobre! e di Sinfonia del Donbass, non si facevano domande. Non si dicevano: cosa dev’essere il cine­ ma? Non si chiedevano se bisognava rifare il cinema tedesco oppu­ re rinnegare film come L’Assassinai du due de Guise\ No, esisteva un modo assai più naturale di farsi domande. È la sensazione che si prova davanti a Picasso. Porsi dei problemi non è un atteggiamento critico ma una funzione naturale. Se un automobilista si pone dei problemi di circolazione, di lui si dice semplicemente che guida, e di Picasso che dipinge.

Non crede che la maggior parte dei grandi film siano stati realiz­ zati da uomini a cui non piaceva farsi domande? Crederlo sarebbe un errore. Quando si vede un vecchio film di King Vidor, per esempio, ci si rende conto di quanto sia ancora in anticipo sulla Hollywood di oggi. Truffaut paragonava La folla a L’appartamento. Be’, Vidor aveva già trovato la famosa inquadra­ tura delle scrivanie, che del resto Wilder aveva ripreso da Lubitsch. Ebbene, questi grandi film non si possono più realizzare al giorno d’oggi, o quantomeno non nella stessa maniera. Allo stesso modo, il cinema muto era più rivoluzionario del cinema sonoro, e la gente capiva meglio, quantunque fosse un modo di parlare molto più astratto. Se oggi qualcuno dirigesse un film alla maniera di Chaplin, la gente non capirebbe altrettanto bene. Direbbero: ma che modo bizzarro di raccontare una storia. E non parlo dei film di Ejzenstejn. Per gran parte degli spettatori, il cinema esiste solo in funzione delle strutture di Hollywood, ormai divenute convenzionali, mentre i grandi film hanno tutti un’ispirazione molto libera. Il grande cinema tradizionale è Visconti rispetto a Fellini o a Ros­ sellini. È una maniera di selezionare certe scene piuttosto che altre. Anche la Bibbia è un libro tradizionale, poiché opera una scelta nel­ la descrizione. Se un giorno facessi un film sulla vita di Gesù, rac­ conterei le scene che non sono descritte nella Bibbia. In Senso, che

mi piace molto, avrei voluto vedere i momenti che Visconti occulta­ va. Ogni volta che volevo sapere quello che diceva Farley Granger ad Alida Valli, tac! Dissolvenza in nero. Il bandito delle undici, da questo punto di vista, è Tanti-Senso: tutti i momenti che non si ve­ dono in Senso, si vedono nel Bandito. La bellezza, nel caso del suo film, proviene forse dal fatto che si sente di più questa libertà. Il guaio, al cinema, è che ci viene imposta la lunghezza del me­ traggio. E se la libertà regna un po’ in tutti i miei film, è perché io non penso affatto alla lunghezza. Non so se quello che sto girando durerà venti minuti o due volte tanto, e si dà il caso che il risultato in genere corrisponda alla lunghezza commerciale. Io non rispetto nessun minutaggio. Riprendo quello che occorre, e mi fermo quan­ do ritengo di aver finito. Se penso di non avere ancora finito, conti­ nuo. È una lunghezza piena che ha dei doveri solo nei confronti di se stessa.

In un film classico, ci si sarebbe chiesti il perché di questa cornice da poliziesco. Il fatto è che i film classici sono diventati inferiori, dal punto di vi­ sta delTintreccio, persino ai romanzi gialli, per non parlare di perso­ ne come Giono, narratori nati, che vi tengono col fiato sospeso per giorni. Gli americani sanno raccontare molto bene, i francesi sono proprio negati. Flaubert e Proust non sanno raccontare. Quello che fanno loro è un’altra cosa. E anche quello che fa il cinema, ma par­ tendo da dove loro sono arrivati, da una totalità. I grandi film mo­ derni che funzionano si basano su un equivoco. Psycho piace perché gli spettatori pensano che Hitchcock gli racconti una storia. Per lo stesso motivo, sono sconcertati da La donna che visse due volte. Scomparsa nel cinema, quindi, la libertà si ritrova nei libri gialli. Ricorda La chiave di vetro? Il finale? No, non ne ho un ricordo preciso. Mi piacerebbe rileggerlo. I 73 1

Nel finale c'è un personaggio femminile, di cui non si è parlato molto, che a un tratto si mette a raccontare un sogno. Gli americani sono meravigliosi in queste cose.

E nel sogno c'è una chiave di vetro. Tutto qui, e il romanzo s'inti­ tola La chiave di vetro. E il libro termina con questo sogno. Se si procedesse così anche nel cinema, tutti griderebbero alla provoca­ zione. Questa reazione è tipica di un pubblico che possiede una pseudocultura cinematografica e che cionondimeno gioca a fare il terrorista. Ecco perché la Cinémathèque è una buona cosa. Perché vi si ve­ dono tanti film alla rinfusa, da un film di Cukor del’3 9 a un docu­ mentario del ’18.

Non ci sono dispute tra Antichi e Moderni. Niente affatto. Possono esserci dei progressi dal punto di vista tec­ nico, ma non ci sono rivoluzioni di stile, o perlomeno non ancora. Nel Bandito delle undici sembra di assistere alla nascita del cinema. La stessa sensazione che mi ha dato il film di Rossellini sul ferro, perché lui ricapitolava il mondo dal principio. È la sensazione che dà anche la televisione, in teoria. Grazie all’alibi culturale, non esi­ stono argomenti nobili e argomenti plebei. Alla televisione tutto è possibile. La situazione è diversa nel cinema, dove sarebbe impossi­ bile filmare i lavori per l’apertura del boulevard Haussmann perché per un distributore non è un argomento nobile.

Come spiega lei il fatto che si filmino determinate scene piuttosto che altre? Questa scelta definisce la libertà o conduce alla conven­ zione? Il problema che mi ha sempre preoccupato, ma che non mi pon­ go durante le riprese, è: «Perché fare un’inquadratura piuttosto che un’altra?» Prendiamo una storia. Un personaggio entra in una stan­ za, un’inquadratura. Si siede. Un’altra inquadratura. Si accende una l 74 1

sigaretta. Eccetera. Se invece di procedere così, si... il film sarebbe migliore o peggiore? Alla fin fine, che differenza fa se si continua un'inquadratura o la si cambia? Un regista, un tipo come Delbert Mann, probabilmente non deve ragionare in questa maniera. Lui segue uno schema. Cam­ po, il personaggio parla. Controcampo, qualcuno gli risponde. For­ se è per questo che II bandito delle undici non è un film, ma piutto­ sto una prova di film. E all’inizio, tutto quello che dice Fuller? Volevo dirlo da molto tempo. Gliel’ho chiesto io. Ma è stato lui a trovare il termine giusto: emozione. Paragonare un film alle opera­ zioni di un commando è - sotto tutti i punti di vista, finanziario, eco­ nomico e artistico - l’immagine migliore, il simbolo migliore di ciò che è un film nella sua totalità. Chi è il nemico? Bisogna tenere conto di due cose. Da un lato il nemico che vi as­ silla, e dall’altro l’obiettivo da raggiungere, dove forse si trova il ne­ mico. L’obiettivo da raggiungere è il film, ma, una volta terminato, ci si accorge che non era altro che il tragitto, il percorso verso l’o­ biettivo. Voglio dire che, una volta vinta la guerra, la vita continua. E forse è allora che il film comincia davvero. Ad ogni modo, questa libertà nel cinema non fa paura? Non più che attraversare la strada, sulle strisce o meno. Il bandi­ to delle undici mi sembrava al tempo stesso libero e limitato. Ma più di questa apparente libertà, ciò che mi preoccupa è qualcos’altro. Ho letto un testo di Borges che parlava di un uomo che vuole crea­ re un mondo. Allora crea case, province, valli, fiumi, strumenti, pe­ sci, innamorati, e quando sta per morire si accorge che «quel pa­ ziente labirinto di forme non è altro che il suo ritratto». Questa sen­ sazione l’ho avuta durante la lavorazione del Bandito.

I 75 1

Perché la citazione su Velazquez? È il soggetto. La sua definizione. Velazquez, alla fine della sua vi­ ta, non dipingeva più le cose definite, dipingeva quello che c’era fra le cose definite, e questa frase la ripete Beimondo quando fa l’imita­ zione di Michel Simon: non bisognerebbe descrivere le persone, ma descrivere quello che c’è fra di loro.

Se II bandito delle undici è un film dell’inconscio, ci si può chiede­ re perché ha dei collegamenti con la vita, con l’attualità. Deve averli per forza, dal momento che realizzare 11 bandito del­ le undici consiste nell’attraversare un avvenimento. Un avvenimen­ to è costituito a sua volta da altri avvenimenti, nei quali prima o poi ci si imbatte. In generale, realizzare un film è un’avventura parago­ nabile, lo ripeto, a quella di un esercito che avanza in un paese e vi­ ve alle spalle degli abitanti. Perciò si è stimolati a parlare di questi abitanti. È questa l’attualità. È al tempo stesso ciò che viene defini­ ta attualità in senso cinematografico e giornalistico, e anche gli in­ contri che si fanno quotidianamente, le letture, le conversazioni, la vita pratica insomma.

Quando l’attualità irrompe nel film, si ha l’impressione, ogni vol­ ta, di uno scarto di tono. Dove, per esempio? Per la guerra del Vietnam... A me non sembra. In un mondo violento, è la violenza stessa che fa evolvere le cose. Anna e Beimondo incontrano dei turisti ameri­ cani, e sanno come compiacerli. Stanno al gioco. Se avessero avuto a che fare con dei turisti russi o spagnoli, magari si sarebbero com­ portati in modo diverso. Detto questo, ovviamente sono stato io a decidere che quei turisti dovevano essere americani e non di un’al­ tra nazionalità. Inoltre, questo corrispondeva meglio al punto di vi­ sta del teatro improvvisato. Una persona di ritorno dalla Cina mi ha detto che là funziona così: all’improvviso, sulla piazza del mercato, (76]

arrivano cinque tizi e si mettono a recitare. Uno fa l’imperialista americano, e via dicendo. Come quando i bambini giocano a guar­ die e ladri. E poi, se ho riportato il Vietnam all’attualità, è per pura logica. Occorreva mostrare a Beimondo che avevano giocato, ma che nondimeno la materia del loro gioco era preesistente.

Viceversa, prenderebbe in considerazione l'idea di affrontare un soggetto politico che comportasse delle ripercussioni individuali? Un soggetto interamente politico è diffìcile da realizzare. Riguar­ do alla politica, bisogna arrivare a penetrare il punto di vista di quat­ tro o cinque persone diverse e al tempo stesso disporre di idee molto generali. La politica è al tempo stesso il presente e il passato. Leg­ gendo le memorie di Churchill, capiamo benissimo quello che succe­ de oggi. Ci diciamo: ecco cosa aveva in mente quando ha partecipa­ to a quella conferenza; però lo veniamo a sapere solo vent’anni do­ po. Per il cinema è più diffìcile, non ne abbiamo il tempo, perché ab­ biamo a disposizione solo il presente. M’interesserebbe invece la vi­ ta di uno studente, per esempio la storia di Clarté.* Ma un film sulla vita di un redattore di Clarté era possibile due anni fa. Adesso è trop­ po tardi, o troppo presto. Bisognava realizzarlo all’epoca, visto che le circostanze lo permettevano, disponendo di un copione piuttosto generico e lavorando sul sistema del cinéma-vérité nel momento stes­ so in cui si dirigeva, si organizzavano delle strutture.

Si dice spesso che questo modo di introdurre la politica in una sto­ ria come quella di Anna e Beimondo è dilettantesco. Gli rispondiamo semplicemente: anche leggendo Le Monde si può essere dilettanteschi oppure seri. Dipende, ma il fatto è che lo leggi, che fa parte della vita. Al cinema, in compenso, non occorre, se si è in una stanza, aprire la finestra e riprendere quello che sta succedendo fuori in quel momento. Gli insoddisfatti ci vedono una rottura di unità, ma se è per questo non vedono nemmeno dove sia 4. Il giornale detl’Unione degli Studenti Comunisti francesi dal 1956 al 1996. [n.d.t.]

I 77 1

l’unità. Si può pensare che nel Bandito delle undici l’unità sia pura­ mente emotiva, e allora ti si può far notare che esci da quell’unità emotiva, ma ti si può anche rimproverare che la presenza della po­ litica risulta insignificante, proprio perché l’hai inserita in quell’u­ nità emotiva. Così ritroviamo la famosa classificazione dei generi: un film è poetico, psicologico, tragico, ma non ha il diritto di essere semplicemente un film. È ovvio che se mettessi in scena l’affare Dreyfus, si vedrebbe pochissimo il processo e molto più le persone nei loro rapporti individuali. Allo stesso modo, quello che sarebbe interessante realizzare oggi è la storia di una dattilografa ad Ausch­ witz (con il montaggio di filmati di archivio, Michail Romm ha rea­ lizzato un documentario basato su questo principio, che si chiama Obyknovennyy fashizm [Il fascismo ordinario]). Però un film basa­ to su una dattilografa di Auschwitz sarebbe rifiutato da tutti. I veri cineasti di sinistra sono stati sempre criticati da coloro che si auto­ definiscono «la sinistra», tanto Pasolini e Rossellini in Italia quan­ to Dovzenko ed Ejzenstejn in Russia. All’inizio si può parlare solo dell’ambiente che si conosce, e in seguito questo’ambiente si allar­ ga per forza di cose man mano che si vive e si invecchia. È davvero curioso che in Francia non ci siano mai stati film sulla Resistenza. Certo, gli italiani avevano a disposizione la questione della Resi­ stenza e della Liberazione in termini politici perché le hanno vissu­ te in maniera molto più evidente, e il fascismo ha segnato più l’Ita­ lia che la Francia. Tuttavia, da un punto di vista emotivo, le vite di coloro che hanno dieci anni più di noi sono state sconvolte dalla guerra. Ma neanche su questo ci sono film. Non ci sono film sulle avventure dei fratelli Ponchardier, i veri fratelli James della Resi­ stenza. In Russia e in America, di film su Moulin o sui partigiani di Glières ce ne sarebbero stati una ventina. In Francia, c’è stato un film che ha tentato di rendere l’atmosfera del 1944, Les Honneurs de la guerre di Dewever. C’è mancato poco che lo vietassero. Appe­ na esce un film grosso modo onesto, subito si crea un clima di so­ spetto e di disprezzo.

I 78 1

Sembra che i francesi rifiutino di formulare in termini ideologici ciò che è stata la Liberazione. In Italia sono più aperti. In Francia, la politica è un problema vergo­ gnoso. È un peccato. È per questo che la politica francese non esiste. Non c'è un equivalente francese delle discussioni politiche che troviamo nel Terrorista, per esempio. È naturale. In Francia non si può far vedere né un poliziotto né un operaio, né colui che picchia né colui che viene picchiato. Non ci sono comunisti nel cinema francese. Non ce ne possono essere. Se qualcuno volesse fare un film sulla vita di un comunista, avrebbe le peggiori seccature con il partito. Gli direbbero quello che bisogna fare e quello che non bisogna fare. Mettiamo che il personaggio vende L'Humanité-Dimanche e a un certo punto va a bersi un bicchierino: farebbero notare al regista che non si può far vedere un venditore deWHumanité-Dimanche che va all’osteria. Sarebbe un’altra forma di censura. Con i suoi studenti il partito è severo quanto De Gaulle e Fouchet con i loro. La cosa sorprendente del suo progetto su Clarté è che, per la pri­ ma volta, un autore che descrive un ambiente sarebbe parte in causa. Avevo solo idee sui dettagli. Non li conoscevo abbastanza. E co­ me non riesco a girare in un luogo sconosciuto, sono incapace di ri­ trarre un ambiente sociale che non conosco. E se ho cominciato gi­ rando delle storie borghesi, è perché provengo dalla borghesia. Se fossi nato in un ambiente contadino, il mio cinema sarebbe stato probabilmente diverso. Ma per me è difficile operare in un altro mo­ do. Posso arrivarci solo per vie traverse. Per Una donna sposata, avrei preferito una coppia di estrazione inferiore, più disagiata. Il marito poteva essere un operaio specializzato, per esempio. Ma avrei rischiato quello che rimprovero al Verde prato dell'amore, di essere un’idea artificiosa, posticcia. Avevo paura di sbagliarmi. Cer­ to non su Macha Méril, assolutamente. Qualcuno ribatte: di perso­ I 79 1

naggi così, al mondo ne esiste uno solo. Sono d’accordo, anche se potrei trovarne dieci su Madame Express o su Elle. Se uno conosce solo le formiche non può realizzare qualcosa che parli dei coleotteri.

Ci sono delle prospettive che consentono di sfuggire alle catego­ rie sociali, permettendo allo stesso tempo di ritrovarle, come in Les Carabiniers. . Sì, se il soggetto è abbastanza astratto da consentirlo. In quel ca­ so si tratta di esserne coscienti, di ritrovare il realismo sotto l’astra­ zione. La confusione ideologica è tale che i giovani di oggi hanno paura di affrontare questo genere di problemi perfino quando li conosco­ no davvero: li mettono in dubbio, non hanno un'unica verità come in passato. Ci sono due aspetti: conoscere bene il problema, avere voglia di parlarne, ed essere abbastanza forti, avere l’impressione di padro­ neggiare il proprio mezzo espressivo abbastanza da poter affronta­ re il problema.

Questo ci conduce ai problemi che si presentano a coloro che vo­ gliono esordire nel cinema... Da un certo punto di vista, è più facile di quanto non fosse prima. Se oggi qualcuno vuole davvero girare il suo primo film, la pellicola 8mm costa meno di quanto costava prima. Certo, se come primo film uno vuole girare Spartacus, è comunque difficile, e sempre lo sarà. In fin dei conti noi abbiamo, per così dire, realizzato il nostro primo film scrivendo sui Cahiers. Quando è apparso il mio primo articolo su Arts, per me è stato altrettanto importante di quando ho realizzato Fino all'ultimo respiro. Se a uno sconosciuto viene data la possibilità di girare un documentario su Mont-Saint-Michel per il secondo ca­ nale, be’, è l’avvenimento più importante della sua vita. Però su que­ sto non tutti sono d’accordo. Sono sicuro che se un giovane russo ap­ pena uscito dalla scuola di cinema si vede accettare il progetto, gli de­ [80]

ve sembrare fantastico, perché finalmente avrà una macchina da pre­ sa tra le mani, un po’ di pellicola e degli attori. In Francia c’è la tele­ visione. È diffìcile che in capo a uno o due anni non si riesca a entrar­ vi, perché la televisione, al contrario del cinema, divora materiali e non è mai sazia. Anche un semplice documentario, presto o tardi, può permettervi di aprire qualche porta. I giovani confondono il fa­ re cinema con il fare un film. Il film dei tuoi sogni non capita mai. Né a Fellini ne a nessun altro. Se oggi un tizio vuole fabbricare un’auto­ mobile, se ha l’idea per un veicolo, gli sarà diffìcilissimo riuscire a im­ porlo e a farlo costruire dalla Renault, dalla Ford o dalla Citroen. Però deve essere chiaro che evadere, allargare il proprio universo, è molto più difficile per un operaio della Renault che per un giovane studente che ama il cinema: perché nel cinema non esiste la lotta di classe. In teoria, è più facile che qualcuno che vuole fare del cinema, anche uno sconosciuto, riesca a incontrare Contamine5 negli studi te­ levisivi, che un operaio o un saldatore riesca a ottenere un appunta­ mento con Dreyfus alla sede centrale della Renault. E questa è una differenza enorme, perché l’operaio ha l’impressione che farà per tut­ ta la vita la stessa cosa e che, se vuole evadere, si troverà in difficoltà, per quanto non sia affatto orgoglioso di quello che fa. Per vivere lui ha bisogno di fare un determinato lavoro, che è un lavoro di merda. Vive la maggior parte del suo tempo come un condannato, mentre nel cinema o nella televisione tu fabbrichi un’immagine, fai questo per vivere, ma anche se sei assistente, un giorno, che presto o tardi ar­ riverà, sarai tu il padrone, se vuoi, il padrone della tua immagine. Ci sono due categorie di aspiranti cineasti: quelli che vogliono mettere le mani su una macchina da presa e un po* di pellicola, e quelli che aspirano a realizzare un determinato film. Allora bisogna diventare i manager di se stessi, e si tratta di un’al­ tra questione. È evidente che, sia per colui che vuole realizzare un 5. Claude Contamine, direttore dal 1964 al 1967 del settore televisivo della l’agenzia nazionale radiotelevisiva francese, [n.d.t.j

[81 1

ortf,

determinato film, sia per colui che ha voglia di mettere le mani su una macchina da presa, si tratta in ogni caso di cinema. Dreyer, An­ tonioni, Rivette, Rohmer, Marker, Bresson non fanno e non faran­ no mai altro che il film che vogliono fare. Cominceranno le riprese solo se pensano di poter fare un determinato film e non un altro. Ma quando si realizza il primo film, si ha più voglia di fare cinema che di girare un film in particolare, oppure questo progetto di film è an­ cora troppo vago per non cambiare in seguito. Ad ogni modo, biso­ gna desacralizzare il cinema. Ivan il Terribile dev’essere altrettanto importante per il suo regista quanto un documentario sul petrolio dell’Aquitania. Al giorno d’oggi le forme del cinema sono moltepli­ ci, perciò girare è per forza di cose più facile. Basta scegliere tra do­ cumentari, film didattici o turistici, tutte categorie che un tempo erano meno numerose. Ieri, a Roma, ho incontrato Bertolucci. Sta­ va per partire per un viaggio di tre mesi in Oriente, per conto della Shell. Certo, non era al settimo cielo, ma non era neppure depresso. Il suo atteggiamento era quello giusto. In effetti, i frequentatori as­ sidui della Cinémathèque hanno altrettante idee preconcette quan­ te ne hanno coloro che distribuiscono i film di Gilles Grangier, su ciò che va bene, su ciò che non va bene, su quello che bisogna fare. È un atteggiamento negativo, a mio avviso, che fa torto al cinema. Di fronte all’opportunità di realizzare un cortometraggio sul jazz o una trasmissione sul teatro, saranno degli incapaci a prendere il tuo po­ sto. E un giorno, vedrai, sarà a loro che daranno Ubu o Le Persiane, e allora sarà troppo tardi per piangere. Lei ha detto che le prime recensioni che ha scritto sono state im­ portanti, per lei personalmente, quanto il suo primo film. Crede che il problema di esordire come critico si ponga nel 1965 nella stessa maniera del 1955? È esattamente la stessa situazione. Le riviste di cinema sono le ri­ viste più tolleranti, più aperte, anche se non hanno tutte le stesse idee.

1 82 ]

Ma forse per la critica di oggi le cose si presentano in maniera me­ no chiara di un tempo. Può darsi che sia più diffìcile, ma i problemi sono gli stessi. La cri­ tica ha raggiunto l’età della ragione. Prima, quando Jean-Georges Auriol parlava di un film, parlava solo di quello che gli era piaciuto, e andava benissimo così: era la critica di un uomo sensibile, intelli­ gente, cittadino del proprio tempo, che affermava che il cinema era importante quanto le altre arti. Poi Bazin ha cominciato ad analiz­ zarlo, ciò che gli piaceva. Questa analisi ha provocato una certa rea­ zione: ci si è soffermati a strutturare, a dare delle definizioni del cine­ ma che non erano state date prima. Poiché Jean-Georges Auriol non definiva il cinema, non diceva che Wyler era meno bravo di Ford o vi­ ceversa. L’unica cosa che diceva era: Loretta Young è più graziosa di Joan Crawford. All’epoca, andava benissimo. Con Bazin siamo arri­ vati a un’idea del cinema più meditata. E adesso si dice che il cinema non è neppure per forza questo, e che forse occorre rimettere tutto in discussione, che il cinema di cui si parla forse non è altro che una pic­ cola parte di un cinema più vasto, di cui si citano altri esempi. Bazin ha parlato di Chariot in funzione degli ultimi film di Chaplin, ma non ha mai tenuto conto del fatto che Griffith era suo contemporaneo, suo fratello, cosa che invece la Nouvelle Vague ha fatto. Ciò è dovu­ to senza dubbio al fatto che la critica era il nostro tirocinio per la re­ gia. Se oggi i giovani critici sono senz’altro più disorientati di noi, è perché hanno bisogno di fare uno sforzo di riflessione o di straniamento, e allo stesso tempo di vivere. Hanno bisogno di essere distan­ ti e insieme coinvolti, di vivere e di guardarsi vivere. Il che, forse, è più diffìcile per loro che per me, perché io non ho più bisogno di fare del­ la critica, io faccio dei film, e li faccio perché ho la possibilità di farli. Ciò che ha fatto la critica dieci anni or sono somiglia alla classifi­ cazione di Mendeleev: si credeva che esistessero soltanto sette o ot­ to elementi, e la Nouvelle Vague ha detto che non erano sette o otto, ma molti di più, duecento o trecento. È stato da lì che è nata la chi­ mica moderna. Adesso siamo in questa fase. (83 1

E bisogna superarla. Oltretutto questi punti di vista si sono pro­ pagati, adesso esistono in tutti i paesi. Adesso c’è una specie di livellamento della critica e delle opinio­ ni. Ma forse non è neanche un male, perché ci obbliga a pensare in primo luogo a tutto ciò che accade di nuovo nel cinema. Per noi è più interessante parlare di Skolimowski che di Hitchcock, e questo non vuol dire che preferiamo l’uno all’altro. Sì. La seconda difficoltà della critica oggi è una difficoltà di vocabo­ lario: il vocabolario della critica è talmente logoro, isterilito, che si è fatto ricorso al vocabolario della critica letteraria, il che non impe­ disce che si parli di tutto allo stesso modo, perché le parole non so­ no poi miliardi, e le si riutilizza in continuazione per film molto di­ versi. Quando ho scritto la mia prima recensione, ho scoperto il cinema e allo stesso tempo ho scritto il mio primo romanzo. Forse i giovani d’oggi dovrebbero tenere conto del fatto che scrivere è importante quanto il resto, che dovrebbe aiutarli, che scrivere è come fare un film, se hanno voglia di fare film, e che hanno bisogno di trovare il loro linguaggio: la scrittura non è semplicemente l’applicazione di determinati procedimenti.

Il problema è parlare di altri film che non siano quelli di cui si par­ la in continuazione, e di parlarne in maniera diversa. Proprio così. Per parlare dei film di Skolimowski, bisogna trova­ re un altro modo. Prima, per esempio, non si parlava mai di «in­ quadrature» in una recensione. Adesso si parla solo di questo, e la gente sa cos’è un’inquadratura come lo sa un attore o un produtto­ re. Ma il problema della critica cinematografica deriva dal fatto che questo genere non esiste in rapporto a se stesso, proprio come la cri­ tica d’arte: tutti i grandi critici d’arte sono stati poeti. Solo la critica letteraria esiste in rapporto a se stessa, perché l’oggetto si confonde

[ 84 ]

con il soggetto. Altrimenti, i testi critici interessanti, sulla pittura o sulla musica, sono stati scritti da grandi artisti di un altro ramo. Più o meno la stessa cosa succede per la critica cinematografica. Tuttavia scrivere e filmare non sono la stessa cosa. Si capisce, sono due cose diverse, ma collegate. La critica ha una funzione utile che non deve essere trascurata: possiede una virtù pu­ rificatrice. La critica va indirizzata anzitutto a se stessi, più che al ci­ nema. Quando si realizzano dei film, anche se non si scrivono più articoli non per questo si smette di pensarli. A mio modo di vedere io continuo a occuparmi di critica, solo che non la scrivo più, e mi è altrettanto utile, anche se non la faccio leggere alla gente.

Sarebbe come dire che la critica oggi è dentro il film. Film come II bandito delle undici o II testamento d’Orfeo è come se avessero due colonne, una di immagini, l’altra di commento che spiega il signifi­ cato deirimmagine. È il commento dell’immagine che fa parte deH’immagine. Allora si può concepire una critica che sia come i romanzi di Butor, che so­ no più che altro un commento critico di determinati avvenimenti. Si potrebbe concepire la critica di un film come il testo dei suoi dialo­ ghi, con delle foto e qualche commento: insieme formerebbero una specie di critica, di analisi del film.

È un po’ lo stesso principio dei racconti di Borges: partire da un testo o da un racconto già esistente e riformularlo in un’altra ma­ niera. È un’appropriazione: non si tratterebbe più di spiegare agli al­ tri che cos’è l’opera ma di costruirne un’altra, sovrapposta o affian­ cata alla prima. Ma niente affatto, perché il modo migliore per spiegare che cos’è Il testamento d’Orfeo è ugualmente, come ha detto Truffaut, forni­ re degli esempi. Io credo che oggi si debba arrivare a dire: ecco un film, cosa c’è di bello in questo film, perché è bello, tramite degli esempi. E questo con grande semplicità, come in una chiacchierata, 1 85 ]

in un dialogo diretto. Per molto tempo la critica è stata costituita so­ prattutto da articoli scritti, nei quali ci si preoccupava dei problemi di stile. Nei Cahiers, in ogni caso, quale che fosse lo stile utilizzato in tutti i generi, c’era sempre un aspetto letterario, con una ricerca di effetti. Mentre io credo che ora sia meglio fare critica didattica. Ovviamente, spiegare alla gente perché è bello Skolimowski presen­ ta delle difficoltà. Ma così si toma a rendere conto più delle proprie emozioni che del film... Questa emozione non si può trascurare. Se voi riuscite a spiegare le vostre stesse emozioni davanti a un film, di certo avrete parlato soprattutto delle vostre emozioni, ma la gente le avrà comprese e andrà a vedere il film per questo motivo. All’epoca in cui ho comin­ ciato a scrivere recensioni, stavamo scoprendo al tempo stesso il ci­ nema e la critica: era la nostra battaglia e insieme la nostra vita, era un’opportunità immensa. Lo stesso connubio si è prodotto all’ini­ zio del surrealismo: scrivere, per quegli artisti, faceva parte del loro sistema di vita, tutto si mescolava in una sorta di totalità. Non era più necessario compiere uno sforzo di riflessione per separare le due cose e capire a quale bisognava dare la preferenza. Senza dubbio è questa la coincidenza che è stata perduta. Però continua a riprodursi, ci sono dei periodi in cui si interrom­ pe e degli altri in cui si ritrova.

Adesso ci sono, secondo noi, dei cineasti da difendere, come Straub, Bertolucci, Skolimowski, e non sarà facile. Per Straub sarà diffìcile, per Skolimowski più facile, almeno al­ l’interno della cerchia dei cinefili, ma ovviamente sarà più difficile trovandosi di fronte dei critici tradizionali.

Neanche per i cinefili sarà tanto facile; c'è qualcosa di strano nel­ la loro posizione: adesso che hanno compreso e riconosciuto il cine­ [86 1

ina americano, non vogliono più sentire parlare di altri tipi di cine­ ma, e più il cinema americano sembra perdere la bussola più loro si fanno intolleranti. Skolimowski è il primo da difendere. Anzitutto perché è il più aperto. È un po’ come il jazz. E a me sembra più facile far capire Mingus che Stockhausen, Skolimowski che Straub. Ma il problema è anche che oggi si trovano molti cinefili a cui piacciono Hawks o Hitchcock, e per le stesse ragioni per cui lei li aveva difesi, ma che rifiutano tanto i suoi film quanto quelli dei gio­ vani'cineasti di cui parliamo. Non capiscono più: gli è stato detto, e loro lo ripetono, che il cinema è la mise en scène, mentre la mise en scène al giorno d'oggi non è altro che accademismo. È Castelli di sabbia oppure Lord Jim. Castelli di sabbia è un caso limite. È un vero film amatoriale su scala hollywoodiana. Una coppia di panettieri che si sono filmati a vicenda, una domenica dopo l’altra. Un super 8.

Ma bisogna anche tenere conto dei cinefili che ritengono questo film l'esempio principe della mise en scène. Minnelli non mette in scena, fa tutt’altro: lui mette in risalto.

Per dieci anni, i Cahiers hanno detto che la mise en scène esisteva. Adesso bisognerebbe piuttosto dire il contrario. Sì, è vero, non esiste... Ci siamo sbagliati! La mise en scène e la politica degli autori erano valide, ma in quanto cavalli di battaglia. La battaglia sembra vinta. La politica degli autori trionfa ovunque, i critici più refrattari ne tengono con­ to senza metterla in dubbio, come pure adesso parlano di mise en scène. Con alcuni la battaglia dura ancora. Bisogna continuare a difen­ dere la politica degli autori davanti a Chauvet o a Charensol, ma con altri non occorre più. È come una scuola: c’è la classe dei gran­

187 1

di e quella dei piccoli. Non si può parlare al primo della classe così come si parla all’ultimo.

Se lei oggi dovesse scrivere una critica, chi difenderebbe? I film che mi hanno stupito di più in questi ultimi tempi sono sta­ ti i due film di Skolimowski e La Desna incantata. Sono film dei qua­ li non ho niente da criticare, dai quali ho l’impressione di avere mol­ to da imparare. E il film di Rossellini sul ferro. Sono film che mi han­ no aperto completamente, mentre in altri vedo solo quello che c’è da prendere o da lasciar perdere. Mi dico che va benissimo, che io non riuscirò mai a fare qualcosa del genere. Non che io ponga questi tre film al disopra o al disotto degli altri, ma sono film di cui ho voglia di parlare perché non so di preciso cosa bisognerebbe dirne. Mentre so perfettamente cosa bisogna dire di Gertrud', non dico di avere senz’altro ragione, ma mi viene da commentare subito, per esempio, che è come gli ultimi quartetti di Beethoven. Invece mi interessereb­ be parlare di un film come Walk Over proprio per trovare qualcosa da dire in proposito. Ma dato che faccio dei film, quello che devo trovare lo cercherò in un film, non ho bisogno di parlarne.

Vede una relazione tra i suoi film e quelli di Skolimowski? No. O meglio, ne vedo molte e allo stesso tempo nessuna. Mi pia­ ce perché fa in continuazione la spola tra il particolare e il generale. Descrive allo stesso tempo l’individuo e quello che lo circonda, e lo fa forse meglio di chiunque altro. A New York gli hanno detto che i suoi film erano molto francesi. E lui ha risposto: «Mi dispiace, ma sono polacco e non ho mai messo piede in Francia». Secondo lei questi film troveranno, non dico un grande successo, ma almeno un certo pubblico o dovranno rimanere film «maledetti» ? Sono film diffìcili perché sono lontani dal cinema di stato, o anche da un cinema commerciale e tradizionale, che è la stessa cosa. Avranno la stessa sorte dei nostri film. Se il film di Straub ha un pun­ to di riferimento, questo è Muriel, il tempo di un ritorno di Resnais: 188]

basta vedere la fortuna che ha avuto Muriel. Il nuovo cinema è co­ minciato come reazione al vecchio. Adesso è completamente solo, con i suoi difetti, i suoi errori, le sue qualità. Non è più necessario di­ re: cerco di fare quello che non fanno La Patellière o Stevens.

La gente di cinema è proprio quella che capisce meno gli elemen­ ti di novità del cinema di oggi. Quelli che capiscono meglio il cine­ ma contemporaneo sono i poeti, come Aragon o Pasolini. Loro lo sentono, non hanno bisogno di conoscerlo. E soprattutto non hanno bisogno di trovarsi una collocazione rispetto al cinema, alla sua storia o alle sue tendenze. Per l’appunto il nuovo cinema, che è cominciato come un cinema «di riferimenti», ha superato que­ sta fase, dato che adesso pone addirittura il problema della critica, e questa è una gran seccatura per i critici cinematografici, che sono obbligati a trovarsi continuamente una collocazione rispetto a tut­ to il cinema. In realtà l’esercizio della critica è più interessante quan­ do ci si trova a combattere: la critica è l’intendenza, traccia le linee di comunicazione con le retrovie. Se la guerra è finita, non c’è più al­ cun bisogno di spiegare, non c’è più necessità. La critica cinemato­ grafica è quasi arrivata al punto in cui si trovano i critici d’arte e i critici musicali: informare non basta più, non c’è niente da spiegare, c’è meno bisogno di difendere e di attaccare... Forse la critica di oggi consiste semplicemente nello spianare il terreno, affinché nei concerti si possa continuare a suonare Stock­ hausen, per esempio. Perché i film dei giovani che vengono scoperti in Polonia, in Germania, in Italia, sono quasi sconosciuti in Francia. E questo pone un problema sul piano della distribuzione e della proiezione in sala. Ognuno di noi vorrebbe fare uscire i film che gli piacciono, e non ne ha i mezzi. Da questo punto di vista, un critico come Rissient, che non scri­ veva cose proprio egregie, è diventato un critico eccellente rispolve­ rando La città è salva e dicendo che è un film di Raoul Walsh e non di Bretaigne Windust. È un ottimo critico-distributore. Se è più fa­

[89]

cile di un tempo fare cinema, creare un’immagine animata, fare un film è sempre difficile, quale che sia il film. Però bisogna incanalare la voglia di fare un determinato film nell’idea di fare del cinema, punto e basta. Altrimenti fare il pittore o il romanziere. Perfino in quello che è più rivoluzionano, il cinema è anzitutto civile. Il fatto è che forse esiste una sorta di ottimismo del cinema. Si ha l’impressione che se Nicolas de Staèl fosse stato un cineasta, magari non si sarebbe suicidato. Lo penso anch’io. Il cinema è ottimista, perché tutto è sempre possibile, non c’è mai niente di proibito: basta essere in contatto con la vita. E la vita in sé è per forza di cose molto ottimista, altrimenti tutta la gente del mondo si suiciderebbe all’unisono. Lei parla spesso di pittura e di musica: perché la musica dei suoi film, con due eccezioni che sono Les Carabiniers e Una donna spo­ sata, è così spiccatamente musica da filmi Perché io non ho idee a proposito della musica. Ho sempre com­ missionato più o meno la stessa musica a musicisti diversi. E tutti hanno composto una musica più o meno simile, e io gli ho sempre chiesto grosso modo quella che viene chiamata «musica da film».

Se uno [’ascoltasse senza vedere il film... Non varrebbe niente. Eppure lei ha lavorato con un giovane musicista, Arthuys, per Les Carabiniers. Era musica alla rovescia, per così dire. Io ho detto ad Arthuys: cerchiamo di creare la musica che potrebbe immaginare l’attore protagonista, Juross, se nella sua testa ci fosse la possibilità della musica. È musica grossolana, alla rovescia, cavernicola. D’altro canto, tre quarti dei miei film potrebbero fare a meno della musica. Ce l’ho messa ma, se non ci fosse, il film non sarebbe diverso. In Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, la musica sembra es­ 190 I

sere in contrappunto e perfino in contraddizione con le immagini: ha un che di tradizionale, di romanzesco, che smentisce il mondo di Alpha 60. Il fatto è che la musica è un elemento del racconto: evoca la vita, è la musica dei mondi esterni. E dato che i personaggi parla­ no spesso dei mondi esterni, invece di filmarli ho fatto ascoltare la loro musica. Si tratta di suoni che hanno valore di immagini. Non ho mai utilizzato la musica in altro modo. Ha la stessa funzione del nero nella pittura impressionista. Se la musica ha un ruolo più importante, allora è il musicista che dovrebbe realizzare il film? Visto che Guitry ha realizzato dei film, non vedo perché non po­ trebbe farlo Boulez. O meglio, se si vuole usare la sua musica, o quella di Stravinskij, il film dovrebbero realizzarlo loro stessi. Io non andrò mai a chiedere a Stravinskij di compormi una musica da accompagnamento. A me basta qualche pezzo brutto di Stravinskij, perché se prendo un pezzo bello tutto ciò che ho girato non serve più a niente. È la stessa ragione per cui non riesco a lavorare con uno sceneggiatore: un musicista concepisce la propria musica attraverso il proprio mondo musicale, come io concepisco il mio film attraver­ so il mio mondo cinematografico. Se sommiamo l’uno all’altro, mi sembra che sia troppo. La musica, per me, è un elemento vivo, allo stesso modo di una strada o delle automobili. È qualcosa che io de­ scrivo, qualcosa di preesistente al film. Il colore nel Bandito delle undici.^ Per esempio i riflessi colorati sul parabrezza dell’auto... Quando si corre in macchina per Parigi di notte, che cosa si vede? Semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza disporli per forza come sono nella realtà. Piuttosto come re­ stano nel ricordo: macchie rosse, verdi, lampi gialli che passano. Ho voluto ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono.

I 91 1

Si riconosce il lavoro del pittore,.. Ma io credo che in questo senso si possa andare ancora più lon­ tano, senza tuttavia fare nel cinema ciò che fa Butor in letteratura. È troppo facile arrivare a questo, nel cinema. Gli scrittori hanno sem­ pre avuto Tambizione di fare cinema sulla pagina bianca: disporre tutti gli elementi e lasciare che il pensiero circoli liberamente dall’u­ no all’altro. Ma farlo al cinema è talmente facile! Contrariamente a ciò che dice Beimondo nel Bandito, al cinema Joyce non interessa a nessuno. Del resto anche il cinema muto ne è rimasto lontanissimo. Noi abbiamo perduto gran parte di ciò che il cinema muto aveva conquistato, ed è solo adesso che si comincia a riscoprirlo, perché si ritorna alla semplicità e perché l’influenza del cinema sonoro così com’è stato concepito comincia a svanire. Il grande cinema muto non era mai l’applicazione di un certo stile a un certo avvenimento. A mio avviso, il cinema dev’essere più poetico, e poetico in senso più ampio, e anche la poesia deve essere ampliata. Bisogna parlare di tutto. Due o tre anni fa, ho avuto l’impressione che tutto fosse già stato fatto, che oggi non restasse più niente da fare. Non trovavo da fare nulla che non fosse già stato fatto. Ivan il Terribile e Nostro pane quotidiano sono già stati girati. Ci dicono di fare film sulla folla, ma La folla è già stato fatto, perché rifarlo? In breve, ero pessimista. Dopo II bandito delle undici, non la penso più così. Sì. Bisogna fil­ mare tutto, parlare di tutto. Tutto resta ancora da fare. (Intervista realizzata da Jean-Louis Comolli, Michel Delahaye, Jean-André Fieschi e Gérard Guegan, pubblicata sui Cahiers du cinema, n. 171, ottobre 196s.)

1 9* 1

GRAZIE A HENRI LANGLOIS

Ho imparato a scuola che Goethe, sul letto di morte, aveva invoca­ to più luce. Era dunque nella logica delle cose che qualche anno do­ po Auguste e Louis inventassero ciò che oggi conosciamo sotto il nome di cinema, e che ne facessero la dimostrazione a Parigi, dal momento che questa città portava da molto tempo il loro nome.6 Da quel momento sono passati settant’anni, cioè il tempo che di­ vide l’ultimo Balzac dal primo Picasso, il primo Matisse dall’ultimo Faulkner, insomma niente. Ed è sicuramente per questo che l’onesto industriale lionese di­ chiarava allora ai giornalisti che la sua invenzione era senza avvenire. Se questa serata, signor ministro incaricato degli Affari Cultura­ li, è posta sotto il suo patrocinio, è perché ovviamente tutti noi sap­ piamo cosa si deve pensare di quell’umile profezia... profezia che, ne sono certo, anche ii ministro delle Finanze troverebbe modesta, da6. Tutto questo capoverso gioca sul significato del cognome Lumière, ossia «luce»; com’è noto, Parigi è soprannominata la Ville Lumière («la città delle luci»), [n.d.t.]

I 93 1

to che il fatto che sia stato stabilito un rapporto tra la percezione re­ tinica e la croce di Malta7 gli rende in media una trentina di miliar­ di all’anno. Mi piace pensare che sessant’anni fa ci fosse pressappoco lo stes­ so numero di spettatori riunito al Grand Café. Il nostro piccolo van­ taggio è che in quest’istante, alle 22.30, circa quattrocento milioni di persone in tutto il mondo stanno facendo la stessa cosa. Che si trovino in aereo, davanti alla televisione, nei cineclub o nei grandi cinema dei boulevard, che cosa fanno? Bevono parole. Sono affa­ scinati dalle immagini. In breve, come Alice di fronte allo specchio caro a Cocteau, sono meravigliati. Questa possibilità di meraviglia sarebbe stata impossibile - lo di­ co chiaro e tondo perché bisogna guardare le cose in faccia (e l’uni­ ca vera lezione di Lumière è che se una macchina da presa è munita di obiettivi è perché il cinema è alla ricerca dell’obiettività) - questa meraviglia sarebbe stata impossibile senza persone come Henri Langlois e la sua Cinémathèque. Infatti il cinema - e di qui la sua vocazione popolare - è un po’ co­ me il Terzo Stato: qualcosa che vuole essere tutto. Ma non dimenti­ chiamoci mai che un film non è nulla se anzitutto non è visto, quin­ di proiettato. Grazie a Henri Langlois i film di Louis Lumière diventeranno qual­ cosa: la Boston di Edgar Allan Poe, la Parigi di Marcel Proust e di Claude Monet, e moltissimo altro, e tutto dipenderà da voi. Dallo spettatore allo schermo, diceva Ejzenstejn, e dallo schermo allo spet­ tatore. E Merleau-Ponty: il film si rivolge al nostro potere di decifra­ re tacitamente il mondo o gli uomini e di coesistere con loro. Stasera quindi coesisteremo con il 28 dicembre 1895. Che colle­ gamento stupefacente! Spettacolo meraviglioso da un duplice pun­ to di vista: storico ed estetico. Quando dico storico, mi riferisco alla storia del cinema. 7. Nelle macchine da presa, l’otturatore che copre e scopre alternativamente l’obiet­ tivo ha la Forma della croce dei cavalieri di Malta, [n.d.t.j

l 94 1

Normalmente si distingue Lumière da Méliès. Si dice che Lumière è il documentario e Méliès il fantastico. Ma quando vediamo oggi i loro film, cosa vediamo? Vediamo Méliès filmare il Re di Iugoslavia ricevuto dal Presidente della Repubblica, cioè il cinegiornale. E nel frattempo vediamo Lumière filmare a casa dei suoi una partita a bri­ scola con lo stile di Bouvard et Pécuchet, cioè la finzione cinemato­ grafica. Diciamo più precisamente che quello che interessava Méliès era l’ordinario nello straordinario, e quello che interessava Lumière era lo straordinario nell’ordinario. Louis Lumière, tramite gli impres­ sionisti, era dunque il discendente di Flaubert e anche di Stendhal, il cui specchio lui portava per le strade. Capite ora perché questo grande inventore rifiutasse di parlare di avvenire. Perché il cinema era anzitutto arte del presente, e perché in seguito sarebbe divenuto ciò che avvicina la vita all’arte. Tutto questo non lo sapremmo ancora senza Henri Langlois. E senza i suoi sforzi giganteschi la storia del cinema sarebbe oggi quel­ la di Bardèche e di Brasillach, cioè delle cartoline postali certo pia­ cevoli, ma di scarsa importanza, che due allievi dell’École Normale ci hanno portato dal paese delle sale buie. Si intuisce immediatamente quale rivoluzione abbia potuto ap­ portare nell’estetica dell’immagine questa nuova visione della sua storicità. Non mi dilungherò a riguardo, farlo è compito dei critici. Diciamo solo che grazie a Henri Langlois sappiamo ormai, alla rinfusa, che le inquadrature dei soffitti non risalgono a Quarto po­ tere ma a Griffith e ovviamente a Gance, che il cinéma-vérité non co­ mincia con Jean Rouch ma con John Ford, la commedia americana con un regista ucraino e la fotografia di Metropolis con un anonimo operatore francese contemporaneo di Bouguereau. Sappiamo or­ mai che Alain Resnais o Otto Preminger non hanno fatto progressi rispetto a Lumière, Griffith o Dreyer, non più di Cézanne e Braque rispetto a David e Chardin: hanno fatto altro. E se le mie parole prendono bruscamente il tono di un grande scrittore che le è familiare, signor ministro, è semplicemente perché l 95 I

Henri Langlois ha dato ogni ventiquattresimo di secondo della sua vita per tirare fuori tutte queste voci dalle loro notti silenziose, e per proiettarle nel cielo bianco dell’unico museo in cui si incontrano fi­ nalmente il reale e l’immaginario. Sapete tutti che questo museo ci è invidiato da ogni nazione. Non è a New York che si può imparare come Sternberg inventò la luce di studio per mostrare meglio al mondo il volto di colei che amava. E non è a Mosca che seguiamo la triste epopea messicana di Sergej Ejzenstejn. È qui. Ed è sempre qui, in questo cinema di quartiere, che ogni domeni­ ca i bambini vengono a confrontare la loro giovinezza con quella dei capolavori. E se Proust passasse di qui, non esiterebbe a riconosce­ re Albertine e Gilberte tra le fanciulle sedute in prima fila, aggiun­ gendo così un nuovo capitolo al Tempo ritrovato. Grazie a Henri Langlois... La mia amicizia e il mio rispetto per quest’uomo non hanno limiti. Si dirà forse che esagero e provoco. Solo un po’, ve l’assicuro. E talvolta mi viene rabbia a pensare ai di­ spetti fatti a questo grande uomo di cinema, senza il quale non esi­ steremmo come la pittura moderna non esisterebbe senza DurandRuel e Vollard. Si mercanteggia con lui sul prezzo di qualche copia di cui ammi­ rerete subito la straordinaria trasparenza. Gli si rimprovera la scel­ ta di un laboratorio, quando a nessuno verrebbe in mente di cavil­ lare con i pittori dell’École de Paris che ridipingono il soffitto dell’Opéra. Grazie a Henri Langlois... Signore e signori, se mi sono permes­ so di parlare un poco più a lungo che di consueto, è perché ci tene­ vo a dichiarare pubblicamente il mio debito verso Henri Langlois e i suoi fedeli assistenti. È anche perché non sono solo. Tutt’altro. I fantasmi di Murnau e Dovzenko sono accanto a voi. Qui sono a casa loro, come Delacroix e Manet sono a casa loro al Louvre e aH’Orangerie. Ed è allo stesso tempo triste e confortante immaginare che se tren­ ta o quarant’anni fa la Cinémathèque Fran^aise fosse stata quello (96 1

che è divenuta oggi... ebbene, forse Jean Vigo si sarebbe potuto con­ solare delle sue disavventure con Gaumont, avrebbe ripreso le for­ ze, e anche Stiller, dopo le sue disavventure con la Garbo, e anche Stroheim. Chi tra voi ha visto passare in questi luoghi i volti emozionati e magnifici di Lang, di Welles, della Pickford, di Rossellini, capirà co­ sa sto dicendo. Per tutto questo, in nome del giovane cinema francese, e in fondo, perché no, di tutti, delle industrie tecniche come del sindacato degli attori, dei noleggiatori di macchine da presa come dei gestori delle sale di provincia, dei cinefili di periferia come dei produttori di Hol­ lywood, e ovviamente in nome di Auguste e Louis Lumière, grazie, Henri Langlois. (Discorso pronunciato alla Cinémathèque Fran^aise nel gennaio del 1966 in occasione della retrospettiva su Louis Lumière e pubblicato sul Nouvel Observateur, n. 61,12 gennaio 1966.)

I 97 1

LOTTARE SU DUE FRONTI

Manifesto Cinquantanni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il cinema americano regna sul cinema mondiale. Non c’è molto da aggiungere a questo stato di fatto. Tranne che, al nostro modesto livello, dobbiamo crea­ re anche noi due o tre Vietnam all’interno dell’immenso impero Hollywood-Cinecittà-Mosfilms-Pinewood-eccetera, tanto dal punto di vista economico quanto da quello estetico; cioè, lottando su due fronti, creare dei cinema nazionali, liberi, fratelli, compagni e amici.

Cartella stampa della Cinese, agosto 1967 A proposito della Cinese alcuni si chiedono se, a forza di impe­ gno, il film non rischi di dispiacere ai partigiani di ogni fazione e di rimandare, in fin dei conti, solo al cinema... Se fosse così il film sarebbe sbagliato e reazionario. D’altre parte questo si ricollega un po’ a quello che mi diceva Philippe Sollers, so­ lo che lui parte dall’idea che il film non rimandi affatto al cinema, e [ 98 ]

per dimostrarlo fa riferimento alla conversazione tra Anne Wiazemsky e Francis Jeanson. Ciò che gli sembrava reazionario in quel­ la scena è che, all’interno dello stesso dialogo, un discorso reale (quello di Jeanson, necessariamente reale per Sellers perché il per­ sonaggio si chiama appunto Jeanson) sia messo a confronto con un discorso fittizio pseudorivoluzionario e che sembra, diceva lui, che si dia credito al primo. Ha la sensazione che il film privilegi effettivamente uno dei due discorsi? Secondo me quello di Anne Wiazemsky, ma gli spettatori posso­ no credere al discorso che preferiscono.

Perché è ricorso a Francis Jeanson? Perché lo conoscevo. Anche Anne Wiazemsky lo conosceva, ave­ va studiato filosofia con lui, quindi potevano dialogare. E poi Jean­ son è uno a cui piace davvero parlare con gli altri. Parlerebbe anche a un muro... Ha quella forma di generosità di cui parlava Pasolini nella trasmissione di Fieschi, quando diceva di sentirsi imbarazzato nel dare del tu a un cane. Inoltre avevo bisogno di Jeanson piuttosto che di un altro anche da un punto di vista tecnico: Anne doveva ave­ re di fronte qualcuno che la comprendesse, che potesse organizzare il proprio discorso in relazione a lei. Soprattutto perché il testo - se lo possiamo chiamare così - non era suo: ero io a suggerirglielo. Tuttavia ho cercato di scegliere alcune formule che non suonassero troppo come slogan, e che bisognava collegare fra loro il meglio possibile. E per questo ci voleva l’abilità di Jeanson che, risponden­ do a discorsi completamente sconnessi, trovava sempre una rispo­ sta coerente e conferiva alla scena l’andamento di una conversazio­ ne coerente. Ci tenevo inoltre al riferimento all’Algeria, che contri­ buisce a dare una collocazione a Jeanson. È proprio questo a far in­ dignare Sollers. Altri prendono Jeanson per un cretino, ma è un er­ rore, visto che Jeanson ha accettato semplicemente di recitare men­ tre molti altri intellettuali rifiutano: ad esempio Sollers per il mio l 99 1

prossimo film, Barthes per Alphaville, e questo perché hanno paura di essere ridicolizzati, quando il problema non si pone assolutamente in questi termini. Francis ha questo di buono: sa che un’im­ magine è solo un’immagine. L’unica cosa che volevo era che le per­ sone ascoltassero. Che cominciassero ad ascoltare. Temo solo che di lui si dica, come per Brice Parain in Questa è la mia vita: «Ah! Quel vecchio chiacchierone imbecille...», e che lo si prenda in giro o che mi si accusi di averlo voluto prendere in giro. Ma il solo fatto del ri­ ferimento algerino mi impediva di farlo. Quando faccio un provino a qualcuno, la mia posizione è anzitutto tecnica, indipendentemen­ te dalle ragioni di amicizia che mi hanno fatto rivolgere a questo piuttosto che a quello. All’inizio, siccome Anne aveva seguito le lezioni di filosofìa di Jeanson, pensavo di filmarne una, cioè la nascita di un’idea filosofi­ ca, a proposito di Husserl o Spinoza, ma alla fine la scena è diventa­ ta quello che vediamo: l’idea era che Anne gli avrebbe rivelato alcu­ ni progetti che lui le avrebbe fatto promettere di non portare a ter­ mine ma che lei avrebbe comunque attuato. Sapere se questo ap­ partenga o meno alla sola finzione è un’altra cosa, ed è difficile dir­ lo. Quando vediamo una nostra foto siamo fittizi o no? Per avere un dibattito interessante al riguardo credo che ci sareb­ be bisogno di Cervoni da una parte e di qualcuno dei Cahiers marxistes-léninistes dall’altra. O di Régis Bergeron e René Andrieu. Si insulterebbero a vicenda ma alla fine forse si arriverebbe a qual­ cosa, a condizione, beninteso, che accettino di partire dal cinema prima di arrivarvi. La reazione che hanno avuto i marxisti-leninisti non era quella che lei si aspettava? No. All’ambasciata cinese erano costernati. Il rimprovero princi­ pale che mi hanno fatto è stato che Léaud non è ferito quando si to­ glie le bende. È chiaro che non hanno capito. Del resto ciò non to­ glie che abbiano ragione, ma al primo livello e non al secondo, o vi­ ceversa. Temono anche che i sovietici, per giustificarsi, si servano 1 IOO ]

del personaggio di Henri (personaggio che agli occhi di molti è di­ ventato assai più convincente di quanto non credessi al momento delle riprese). Non hanno completamente torto, perché André Gorz (del cui Socialismo difficile Henri legge alcuni passi nella prima in­ quadratura) mi ha detto: «Per la prima volta mi è piaciuto un suo film perché è chiaro, perché è continuo e non discontinuo, perché il concreto trionfa sull’astratto...» In fin dei conti, forse non ho sotto­ lineato abbastanza che i miei personaggi non facevano parte di un gruppo marxista-leninista vero e proprio. Non avrebbero dovuto definirsi marxisti-leninisti, ma guardie rosse. Avremmo evitato qualche equivoco. Così gli studenti marxisti-leninisti, quelli appun­ to che colpiscono per la loro aria seria, quelli che pubblicano i Cahiers marxistes-léninistes, forse non sarebbero stati irritati dal film come invece è accaduto. Perché non avrebbero dovuto esserlo. È una reazione epidermica, in fin dei conti analoga a quella dei gior­ nalisti del Figaro che dicono per esempio: «Guardate che ridicolag­ gine: vogliono fare la rivoluzione e discutono in un bell’apparta­ mento borghese», e via dicendo. Mentre questo genere di cose sono dette chiaramente nel film.

Come spiega la ragione profonda di questi malintesi? Senza dubbio la gente non sa ancora ascoltare e vedere un film. E in questo consiste il nostro lavoro principale oggi. Per esempio, le persone che hanno una formazione politica hanno di rado una for­ mazione cinematografica, e viceversa. Generalmente hanno o l’una o l’altra. Per quanto mi concerne, devo al cinema la mia formazione politica, una cosa che immagino si sia verificata di rado fino a oggi. Anche se, pensando a un regista come Louis Daquin, ci si rende con­ to che questi non ha fatto altro che portare nel cinema un’educazio­ ne preesistente e cattiva. Così ha fatto film mediocri al posto dei film validi che avrebbe dovuto fare. Allora, che posso dire del mio film dal mio punto di vista? Per me è chiarissimo che le due ragazze sono considerate con simpatia e te­ nerezza, che rappresentano il supporto di una certa linea politica e l

ioi

1

che è proprio a partire da loro che conviene trarre eventualmente la conclusione del film, che peraltro è la conclusione di Zhou Enlai: non hanno fatto passi avanti; la Rivoluzione Culturale è il primo passo di una lunga marcia che sarà diecimila volte più lunga dell’al­ tra. Riprendendo questa conclusione per conto suo, il personaggio di Anne Wiazemsky, armato com’è, dovrebbe evolversi abbastanza bene, come quello di Juliet Berto. Quanto a Léaud, lui si evolve be­ nissimo perché scopre la forma opportuna del teatro. Henri ha fat­ to una certa scelta. Torna allo status quo del pcf, resta bloccato al­ l’interno di se stesso (come lascia intendere il piano fisso senza stac­ chi), quindi secondo me lacerato da veri problemi, sempre a condi­ zione che per giudicare un film si parta anzitutto da un’analisi scien­ tificamente e poeticamente cinematografica e non dall’aneddoto ro­ manzesco. Solo Kirilov si arena veramente. Tutto questo è chiaro. In ogni modo, è il terzo mondo a dare una lezione agli altri. Il so­ lo personaggio equilibrato del film mi sembra il giovane nero. Per­ ciò gli ho fatto tenere quel discorso, discorso continuo sebbene composto da frammenti (tratti dalla prefazione di Althusser a Per Marx, da Mao, da Garde rouge9). Certo, in quel discorso c’era qual­ cosa di fastidioso, come ha notato Pierre Daix, perché le domande poste non si riferiscono direttamente alla situazione ma a problemi più generali. Ora, questo giovane militante ha accettato di essere fil­ mato, di presentarsi col suo vero nome e di fare quel discorso abba­ stanza particolare. Ma stiamo discutendo di persone dello stesso mondo, diciamo della stessa cellula. Il solo punto di vista interessante all’occorrenza sarebbe un punto di vista esterno, per esempio quello dei registi cu­ bani. Tra il cinema e la politica c’è davvero un abisso: quelli che san­ no cos’è la politica non sanno cos’è il cinema, e viceversa. Ho detto spesso che l’unico film che si sarebbe dovuto fare quest’anno in Francia - e su questo ero d’accordo con Sollers - era un film sugli scioperi allo stabilimento tessile Rhodiaceta. Sono un caso esem-8 8. Mensile dell’Unione della Gioventù Marxista-Leninista, (n.d.t.1

l tot ]

piare, più istruttivo degli scioperi di Saint-Nazaire, per dire, perché moderni rispetto a un tipo di sciopero più classico (senza contare la rispettiva durata), in quanto tirano in ballo rivendicazioni culturali insieme a quelle economiche. Però le persone che conoscono il cine­ ma non sanno parlare il linguaggio degli scioperi e coloro che cono­ scono gli scioperi sanno parlare meglio il linguaggio delle comme­ die di Gérard Oury che quello di Resnais o di Barnet. I militanti sin­ dacali hanno capito che le persone non sono uguali perché non gua­ dagnano lo stesso salario; bisogna capire anche che non siamo uguali perché, oltre al resto, non parliamo la stessa lingua. Due o tre anni fa ci disse che le sembrava diffìcile fare film politi­ ci perché avrebbero richiesto tanti punti di vista quanti sono i per­ sonaggi, oltre a un punto di vista superiore e distaccato che li inglo­ basse tutti. Che ne pensa oggi? Non la penso più così. Sono cambiato. Credo che si possa privile­ giare un punto di vista che è giusto a spese di altri che sono falsi. È ciò che la sinistra «elegante» chiama le «verità lapalissiane» del Libret­ to Rosso, che in realtà non hanno niente delle verità di La Palice. O fate una politica giusta o fate una politica sbagliata. Quando dicevo quelle cose pensavo di dover essere obiettivo (cioè concedere, sulla stampa per esempio, lo stesso spazio a tutti) o, come si dice, «demo­ cratico» . Però nel mio episodio di Amore e rabbia si dice che esiste da un lato la democrazia e dall’altro la rivoluzione.

E come giudica oggi il suo primo film che affronta la politica, Le Petit soldat? Era plausibile. Con questo voglio dire che è l’unico film che, nel­ le condizioni di allora, potesse fare qualcuno proveniente dalla bor­ ghesia e arrivato nel cinema. Lo prova il fatto che Cavalier, quando ha voluto fare un film sulla guerra d’Algeria, abbia scelto lo stesso tema. Non ce n’erano molti altri. Era un po’ il tema dei romanzi d’anteguerra, come Aurélien o Piccoli borghesi, perché il cinema era in ritardo sugli avvenimenti. Peccato che non ci siano stati film gira­ 11031

ti da altri: il film dell’area Jeanson, o quello del pcf... Sarebbe stato difficile farli, certo... Ripeto, se io non sapevo di cosa si dovesse par­ lare, le persone che lo sapevano non sapevano come parlarne. Il mio film era abbastanza giusto per il cinema e abbastanza falso per il re­ sto, una via di mezzo, quindi.

Perché ha ridotto al minimo tutto ciò che riguarda la storia d'a­ more tra Léaud e Anne Wiazemsky? Mi sono accontentato di qualche indicazione, bastava così. Ca­ piamo che hanno i problemi di tutti, ma di questo avevo già parlato in altri film. In questo caso non era necessario farne un dramma, quindi neppure farne un film. Torniamo alla frase che conclude La cinese.9 Il fatto che essa sia detta al passato remoto e con un tono «etereo» non rischia di ren­ dere chimerico tutto ciò che precede? È un passato remoto, non un passato complicato.10 Il tono non ha nulla di etereo: è la voce delle protagoniste di Bresson... Quanto al­ la chimera, è proprio il fatto di prenderne coscienza che permetterà a Véronique di trasformarla in qualcosa di diverso da una chimera. D’altronde, parla a bassa voce e tranquillamente come i cinesi. Al­ l’ambasciata cinese mi ha colpito vedere fino a che punto parlasse­ ro a bassa voce... Il tono di Véronique è quello del bilancio, si rende conto di non aver fatto un grande passo avanti - sebbene ne abbia fatti un sacco, arrivando perfino a uccidere colui che non ha mai scritto II placido Don - ma un passo molto più timido. Un film sulla Rhodiaceta permetterebbe di descrivere appunto una presa di coscienza molto diversa da quella descritta nella Cinese... 9. «Credevo di aver fatto un grande progresso ma mi resi conto, e dovetti ammette­ re, che erano solo i primi timidi passi di una lunghissima marcia». [n.d.t.J io. Gioco di parole intraducibile: in francese il passato remoto è chiamato passé sim­ «passato semplice», [n.d.t.]

ple, ossia

1 104 1

Sì, ma se oggi un cineasta facesse un film su questo non sarebbe il film che dovrebbe essere fatto. E se fosse girato dagli operai (che dal punto di vista tecnico ne sarebbero perfettamente in grado se gli si fornisse una macchina da presa e qualcuno che li aiuti un po’), dal punto di vista culturale non sarebbe affatto un’autorappresentazione giusta come quella che offrono durante uno sciopero. Ecco l’a­ bisso. Il regista deve cercare di fare da staffetta... Sì, bisogna imparare a superare la frazione, a passare il testimone in un altro modo, ad altre persone...

Nella Cinese, il cinema assume molteplici aspetti che possono an­ che contraddirsi fra loro... Il fatto è che una volta avevo molte idee sul cinema e ora non ne ho affatto. A partire dal mio secondo film ho smesso di sapere cos’e­ ra il cinema. Più si fanno film e più ci si rende conto che si lavora con dei preconcetti, o contro di essi - che è più o meno la stessa cosa. Per­ ciò considero criminale che non sia stato incaricato qualcuno come Moullet di realizzare I tre avventurieri o Segreti che scottano, come è criminale che ora Rivette, dopo tanti altri (sfruttati anche dalla lo­ ro Gestapo di strutture economico-estetiche instaurate dalla Santa Alleanza Produzione-Distribuzione-Gestione Sale), riduca un di­ scorso di cinque ore alla sacrosanta lunghezza di un’ora e mezzo. Pensa di avere inventato qualcosa nel cinema? Per conto mio, nel cinema ho fatto una sola scoperta, che consi­ ste nel saper passare agilmente da un’inquadratura all’altra parten­ do da due movimenti diversi, oppure, cosa più difficile, da un’in­ quadratura in movimento a un’inquadratura fissa. È una cosa che non fa quasi nessuno, su cui non si riflette mai; bisogna semplice­ mente riprendere il movimento nello stadio in cui è stato lasciato nell’immagine precedente. Così si può concatenare qualsiasi inqua­ dratura a qualsiasi altra, quella di un’auto a quella di una biciclet­ 11051

ta, quella di un coccodrillo a quella di una mela, per esempio. È qualcosa che si fa spesso ma un po’ alla buona. Se si esegue un mon­ taggio formale - e non a partire da cambiamenti di idee, come face­ va Rossellini all’inizio di India, un problema completamente diver­ so - quando si esegue un montaggio, dicevo, a partire solo da quel­ lo che c’è nell’immagine, dal significante e non dal significato, biso­ gna partire dal momento in cui la persona o la cosa in movimento è nascosta da un’altra, oppure ne incrocia un’altra, e inserire uno stacco in quel momento. Altrimenti si ha un piccolo contrasto. Se il contrasto è voluto tanto meglio, non si può fare diversamente. Le mie montatrici lo fanno da sole, adesso... È una cosa che ho sco­ perto con Fino all’ultimo respiro e che poi ho applicato sistemati­ camente. Non ha più idee sul cinema, e tuttavia nella Cinese il tema del ci­ nema è sempre presente... In effetti si discute di cinema, perché è il cinema a mettersi in di­ scussione. Non so proprio come farlo interferire di meno, sebbene in questo modo si tenda paradossalmente al narcisismo: da questo punto di vista, il film estremo sarebbe la macchina da presa che fil­ ma se stessa in uno specchio. Un po’ come ha fatto lei in Lontano dal Vietnam? Niente affatto, perché in quel caso non si poteva fare altro. Ci ero costretto. Visto che siamo tutti dei narcisisti, almeno a proposito del Vietnam, tanto vale confessarlo. Lei pensa, come i suoi personaggi, che i comunisti sovietici abbia­ no «tradito»? Ho fatto un film che si chiama La cinese e nel quale ho adottato le tesi degli scritti di Mao Zedong e dei Cahiers marxistes-léninistes contro quelle del pcf. Ripeto, il mio gesto è cinematografico, e que­ sto spiega come sia possibile che i Cahiers marxistes-léninistes ac­ cusino il film di «sinistrismo» e, allo stesso tempo, L’Humanité nou1106 |

velie lo accusi di «provocazione fascista». Ma credo che, se c’è del vero in queste opinioni, il problema non è così semplice, perché ri­ guardo al cinema è mal posto. Come spiega la forza che ha assunto agli occhi di molti la dichia­ razione di Henri, il revisionista? Non riuscivo a capirlo, ma ora me lo spiego benissimo. A un cer­ to punto lui è solo contro quattro, tutto qui. Se filmassi Guy Mollet" di fronte a quattro persone che gli si oppongono, sarebbe quel­ l’imbecille e farabutto di Guy Mollet ad avere l’aria di un povero agnellino. Henri è comunque Punico personaggio del film che si giustifica completamente. No, è l’unico personaggio di cui la gente pensa che si giustifichi completamente. Gli altri ne hanno meno bisogno perché per loro le cose sono più chiare. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che le persone tendono a favorire il personaggio che preferiscono, e che in ogni caso non ascoltano bene e che non tirano mai le somme di ciò che è stato detto.

Già Renoir metteva in discussione l’influenza immediata del ci­ nema: la guerra, osservava, era scoppiata subito dopo che lui aveva girato La grande illusione, un film a favore della pace... Ma certo! Il cinema non ha la minima influenza. Un tempo si cre­ deva che l’arrivo del treno in stazione avrebbe fatto paura. Ha fatto paura una volta, non due. Perciò non ho mai capito la censura, nean­ che ontologicamente. Essa parte dal principio che il suono e l’imma­ gine abbiano delle ripercussioni sul comportamento della gente.

11. Controverso uomo politico francese (1906-1975), di area socialista ma spesso al­ leato con il centrodestra; in francese è entrata nell’uso comune l’espressione molletisme per indicare il comportamento di chi proclama la propria appartenenza alla sini­ stra per vincere le elezioni, ma poi segue una linea fortemente conservatrice, [n.d.t.]

I 107 ]

Il fatto è che l’influenza dell’immagine non è facilmente indivi­ duabile... Probabilmente, ma né più né meno del resto, cioè di tutto. Perché tutto influisce, in un modo o in un altro. Se si esclude quella parte del cinema che si chiama televisione, possiamo dire che il cinema ha la stessa influenza delle ricerche di laboratorio, del teatro o della mu­ sica da camera. E questo diminuisce la sua fiducia nel cinema? Per niente. Al contrario. Ma bisogna rendersi conto che i milioni di spettatori che hanno visto Via col vento non ne sono stati in­ fluenzati, così come non lo sono stati quelli, meno numerosi, che hanno visto La corazzata Potèmkin. Per la delinquenza giovanile è stato incolpato il cinema, ma negli Stati Uniti più diminuiva l’af­ fluenza nelle sale e più aumentava la delinquenza giovanile. I socio­ logi non hanno mai studiato davvero il problema.

Perché il cinema cinese è così brutto? Perché, ad eccezione dei film-balletto, non sanno che fare. Si sono resi conto molto presto che i film che facevano erano film sovietici, e che i film sovietici che facevano per interposta persona erano film americani. L’ideologia di Doris Day (schema dei dialoghi, scenogra­ fia, chiaro di luna e via dicendo) regnava ancora nel cinema rivolu­ zionario cinese fino a quattro anni fa. E perciò hanno smesso. I primi due piani della Cinese sono veramente provinciali: le due inquadrature della campagna che accompagnano alcune riflessioni sui problemi contadini... Sì. SuWHumanité hanno scritto che erano immagini da cartolina. Io so solo che abbiamo intravisto un prato, delle galline e una muc­ ca, ci siamo fermati e abbiamo girato. Poi siamo tornati. Non vedo dove sia l’errore. Quelle inquadrature erano necessarie perché Yvonne veniva dalla campagna e perché uno dei personaggi parlava un po’ dei problemi rurali. [ 108 ]

Il personaggio di Juliet Berto è nuovo per lei... Non volevo mostrare solo parigini. Volevo qualcuno che venisse dalla provincia per illustrare un altro vizio della nostra società: la centralizzazione. Inoltre si tratta di una persona che rispetto agli al­ tri non possiede niente, è sprovveduta, sincera e sente che con quel piccolo gruppo qualcosa è possibile. Tramite loro accede alla cultu­ ra che le è stata negata. All’inizio crede che si tratti di un dono del cielo. In seguito comincia a leggere i giornali, poi a venderli: è il pri­ mo progresso.

Nella carrellata sul balcone, durante le relazioni teoriche, la divi­ sione dello spazio mediante tre finestre divide anche la classe in tre gruppi: il «professore», gli allievi e Yvonne, la cameriera, che lucida le scarpe o lava i piatti... Bisognava dimostrare che anche per chi vuole vivere senza classi, queste persistono. D’altronde è in quel momento che si sente la do­ manda: «Esisterà sempre la lotta di classe?» In realtà le prime due categorie - maestro e ascoltatori - possono interagire. Ma la terza è veramente tenuta fuori. La «proibizione» di partecipare alle discussioni è fìsica, e non mentale. O tattica, perché alla fine del film questo accesso non le è più vietato: va a votare, per esempio. E in fin dei conti lei si ritrova ad aver fatto un percorso più lungo per andare verso gli altri di quanto questi ultimi l’abbiano fatto per raggiungere le sue realtà che senza dubbio dovevano esplorare, ma il cui studio e la cui esplo­ razione sono stati rinviati a più tardi. Fra tutti i personaggi del film è questa contadina a percorrere il cammino più lungo. Subito dopo vengono Léaud, e Anne, e poi Henri. Il film è costituito da una serie di brevi sequenze che sembrano to­ talmente indipendenti le une dalle altre. È esclusivamente un film di montaggio. Ho girato sequenze auto­ nome, senza ordine, che ho organizzato in seguito.

1109 ]

Significa che l'ordine delle sequenze nel film sarebbe potuto esse­ re diverso? No. Perché penso che ci fosse un ordine, una coerenza da trovare. E che fosse proprio quella e non un'altra. Ma il montaggio è stato dif­ fìcilissimo. Abbiamo girato... secondo l’ordine delle riprese,,x mentre normalmente giro nell’ordine delle sequenze, in continuità, cioè con una certa idea preliminare della cronologia e della logica del film anche se mi capita di invertire intere sequenze. In questo film, per la prima volta le riprese non erano girate secondo un programma rigo­ roso. È chiaro, a volte quando giravo due inquadrature sapevo che sarebbero andate necessariamente insieme: due inquadrature di una stessa discussione, per esempio, ma non sempre... Nella maggior par­ te dei casi erano indipendenti. Sono state collegate in seguito, ragio­ ne per cui non sono più indipendenti, ma solidali, se non coerenti. Qual era il punto di vista che la guidava? Una coerenza essenzial­ mente logica, emotiva, o semplicemente plastica? Logica, sempre. Ma la logica può esprimersi in mille modi. Fac­ ciamo un esempio: uno dei testi letti è un discorso di Bucharin. Do­ po la lettura, una didascalia dice: «Questo discorso è stato pronun­ ciato da Bucharin», e così via. Si vede quindi la foto di colui che ac­ cusò Bucharin. Certo, si poteva mostrare il ritratto di Bucharin, ma non era necessario perché lo si era appena visto sotto forma di colui che lo rappresentava pronunciando il suo discorso. Bisognava dun­ que mostrare l’avversario, Vysinskij, cioè Stalin. Quindi: foto di Stalin. E siccome è un giovane a parlare in nome di Bucharin, mo­ striamo una foto di Stalin giovane. Questo ci riporta al periodo in cui Stalin giovane ce l’aveva già con Lenin. Lenin allora era già spo­ sato, e uno dei più grandi nemici di Stalin, che all’epoca già com­ plottava contro Lenin, era la moglie di quest’ultimo. Quindi dopo il 11. Cioè girando una dopo l’altra le varie sequenze che raggruppano determinati in­ terpreti in un determinato luogo, anziché seguire l’ordine cronologico in cui le se­ quenze si susseguiranno nel film terminato, (n.d.t.j

I no ]

piano di Stalin giovane, c’è un piano della Ulianova. È logico. E co­ sa viene dopo? Be’, dopo viene ciò che ha rovesciato Stalin: il revi­ sionismo. Quindi vediamo Juliet leggere un’inserzione di FranceSoir in cui la Russia sovietica fa pubblicità ai monumenti zaristi. Cioè subito dopo che abbiamo visto, da giovani, tutti coloro che avevano fucilato lo zar. È una sorta di teorema che si presenta sotto forma di puzzle: bisogna trovare il pezzo che combacia esattamente con l’altro. Bisogna inferire, andare a tentoni, dedurre. Ma in fin dei conti c’è solo una possibilità per far combaciare i pezzi, anche se per trovarla si devono tentare molteplici combinazioni. Significa fare durante il montaggio il lavoro che la maggior parte dei registi fa nella fase del decoupage, pianificando le inquadrature... In qualche modo sì. Ma è un lavoro che sulla carta non ha alcun interesse: se si vuole lavorare su carta perché fare un film? In questo la penso un po’ come Franju: una volta che il film è sognato ritengo che sia già fatto; lo posso raccontare, più o meno, e allora perché farlo? Per correttezza nei riguardi del pubblico, certo. Come dice ancora Franju: «Perché abbiano qualcosa da mettere sotto i denti». E aggiunge: «Una volta scritte le mie ottocento pagine, non vedo co­ s’altro ci sia da fare. Vogliono che giri il film? Va bene, lo giro, ma in tal caso finisco per buttarmi giù, mi vado a ubriacare». Per evitare questo l’unica soluzione è: non fare il découpage. Quindi gira un po’alla cieca, ma con una libertà assoluta ? Il problema non si pone in questi termini. Solo girando si scoprono le cose che bisogna girare. Come in pittura, bisogna mettere un colo­ re dopo l’altro. Dal momento che il cinema si fa con una macchina da presa, possiamo anche evitare il passaggio della carta. A meno che non si vada ancora più lontano e non si faccia come McLaren,0 una 13. Norman McLaren (1914-1987), regista e animatore canadese, ideò una partico­ lare tecnica di animazione che consisteva nel tracciare o incidere i disegni diretta­ mente sulla pellicola, [n.d.t.]

( ni 1

delle figure più grandi del cinema, scrivendo i film direttamente sulla pellicola.

In qualche modo girando lei mette insieme una collezione di og­ getti che in seguito dovrà classificare... No, perché non si tratta di oggetti qualsiasi: è una collezione che ha un certo obiettivo, una direzione precisa. Non si tratta nemmeno di un film qualsiasi, ma di un film particolare. Scelgo determinati og­ getti solo in funzione del bisogno che ne ho. Il mio prossimo film è un po’ il contrario: dal punto di vista della struttura è completamente organizzato. Nella Cinese dovevo solo collegare una serie di dettagli, molti dettagli. Per Week-end, invece, ho la struttura ma non i detta­ gli; le grandi idee, ma non le piccole. Naturalmente è angosciante: ho l’angoscia di non trovare la cosa giusta da fare, di non mantenere la promessa, poiché mi sono impegnato a realizzare un film in cambio della somma che mi è stata concessa. Ma anche questo si basa su un preconcetto, perché non è in termini di debiti e di dovere - nel senso peggiore - che ci si dovrebbe porre il problema del lavoro, ma piut­ tosto in termini di attività normale: di vacanze, di vita, di respirazio­ ne corretta. È necessario che il momento sia quello giusto.

Perché nella Cinese ha inserito una foto di Michel Deguy? Perché ho letto alcune sue poesie che mi sono piaciute molto. La sua foto rappresenta l’inventore. Aveva un bel volto, che ispirava fi­ ducia.

Condivide il parere di uno dei suoi personaggi secondo cui Michel Foucault confonderebbe le parole e le cose? Ohibò, il reverendo padre Foucault! Anzitutto ho letto l’inizio del suo ultimo libro: l’analisi delle Meninas di Velazquez, poi ho salta­ to qua e là: sapete che non so leggere come si deve. In seguito, cer­ cando gli esterni e gli interni nell’università di Nanterre, ho parlato con studenti e professori e ho scoperto i danni fatti da quel libro tra i docenti e i discenti. L’ho ripreso quindi in questa prospettiva e mi 1112. J

è sembrato molto discutibile. Mi sembra sospetta la moda delle «scienze umane» sostenuta dalla stampa. A un certo punto sembra­ va che Gorse volesse metterlo alla direzione dell’oRTF. Confesso che preferirei piuttosto Joanovici.'4

Cosa ne pensa, a questo proposito, del contributo della linguisti­ ca allo studio del cinema? Ne ho appena discusso a Venezia con Pasolini. Avevo bisogno di parlare con lui perché, come vi ho detto, non so leggere, o comun­ que non quello che persone come lui scrivono sul cinema: mi sem­ bra completamente inutile. Che a Pasolini interessi parlare di «cine­ ma di prosa» o di «cinema di poesia», d’accordo, ma quando si trat­ ta di qualcun altro... Ho letto il suo testo sul cinema e la morte ap­ parso sui Cahiers'3 perché è il testo di un poeta e perché parla di morte. Quindi è bello. È bello come è bello il testo di Foucault su Velazquez. Ma non ne capisco bene la necessità. Altre cose sarebbe­ ro ugualmente vere. Se non mi piace granché Foucault è perché di­ ce: «A quell’epoca le persone pensavano questo e quello, e poi a par­ tire da quella data si è pensato che...» Sono d’accordo, ma possiamo esserne davvero sicuri? È proprio per questo che tentiamo di fare dei film: affinché i Foucault futuri non possano affermare cose del ge­ nere con altrettanta presunzione. Nemmeno Sartre sfugge a questo rimprovero. Cosa ha risposto Pasolini? Che ero un coglione. E Bertolucci era della stessa opinione, cioè che ero troppo moralista. Ma tutto sommato non ne sono convin-14 15 14. Commerciante di ferro francese di origine ebraica, durante l’occupazione si ar­ ricchì rifornendo i nazisti ma finanziò al tempo stesso la Resistenza; a guerra finita, si diede al commercio con le truppe americane e pare sia stato anche un informatore del Komintem russo, finché nel 1949 non fu arrestato e condannato come collabo­ razionista. [n.d.t.]

15. Si tratta delle «Osservazioni sul piano sequenza», raccolto in Empirismo eretico (Garzanti, Milano 1972). [n.d.t.]

I 113 1

to... Significa ricadere nella filmologia così come è stata insegnata per qualche tempo alla Sorbona e rischiare di cadere ancora più in basso. Perché insomma, su questa storia del «cinema di prosa» e del «cinema di poesia» Sam Spiegel sarebbe assolutamente d’accordo con me. Direbbe semplicemente: «Io faccio cinema di prosa perché al grande pubblico il cinema di poesia fa cacare». È sempre la stessa storia, le idee seducenti sono riprese e snaturate da altri. Hitler che revisiona Nietzsche. Forse la mia opinione sulla linguistica è leclerchiana o, peggio, poujadista, ma sono d’accordo con Lue Moullet, che a Pesaro adottava il linguaggio del buonsenso...

Ma un intellettuale come Lévi-Strauss è per l’appunto il genere di persona che si rifiuta di usare a casaccio la terminologia linguistica, che la usa con la massima prudenza... Sono assolutamente d’accordo, solo che quando lo vedo prende­ re Wyler come esempio per parlare di cinema - che è un suo diritto mi rammarico, perché mi dico che se lui, tanto per usare termini et­ nologici, preferisce la tribù Wyler, io preferisco la tribù Murnau. Facciamo un altro esempio: Jean-Louis Baudry ha appena scritto un pezzo per Les Lettres fran^aises, e leggendo l’articolo mi sono detto: «Quest’articolo è ottimo, ecco uno che prima o poi dovrebbe scrive­ re un articolo su Persona, ne parlerebbe molto bene». Be’, l’articolo in linea di massima era proprio su Persona. Anche Metz è un caso strano. È il più simpatico perché va davvero a vedere i film e perché gli piacciono. Ma allo stesso tempo non riesco a capire bene cosa vo­ glia. In effetti parte dal cinema, ma poi prende subito un’altra dire­ zione. Poi ritorna di tanto in tanto a pescare nel cinema, ma se ne al­ lontana di nuovo senza rendersene conto. Se si trattasse di una ri­ cerca in cui il cinema fosse solo uno strumento non avrei obiezioni, ma se è quello l’oggetto della ricerca allora non capisco. Mi sembra che in questo caso non ci sia contraddizione, ma antagonismo. Però Metz, appunto, non si occupa della stessa cosa di cui ci oc­ cupiamo noi. I tu 1

Certo, ma c’è ugualmente una base comune sulla quale bisogne­ rebbe sempre poggiare, e mi sembra che spesso venga abbandonata. Capisco in generale le intuizioni da cui parte Pasolini ma non la ne­ cessità del discorso che sviluppa in seguito. Capisco perfettamente che lui trovi prosastica un’inquadratura di Olmi e poetica un’in­ quadratura di Bertolucci, ma obiettivamente potrebbe anche dire l’esatto contrario. È un po’ l’atteggiamento di Cournot che rifiuta una parte del cinema perché secondo lui non è «cinema». Così arri­ va a rifiutare Ford, che non riesce a distinguere da Delannoy! Non possiamo dire che in questo modo si chiarisca qualcosa. Tutto questo mi fa pensare al libro di Barthes sulla moda. È illeg­ gibile per una semplice ragione: perché legge un fenomeno che deve essere visto e sentito in quanto indossato, dunque vissuto. In que­ sto caso i rimproveri di Sartre sono fondatissimi. Penso che a Barthes non interessi veramente la moda, che non gli piaccia in quanto tale ma in quanto linguaggio già morto, quindi decodifica­ bile. A Pesaro era lo stesso. Rimproverava Moullet come farebbe un padre con i figli. Ora, noi siamo i figli del linguaggio cinemato­ grafico. E non sappiamo che farcene del nazionalsocialismo della linguistica. Notate che torniamo sempre sulla stessa difficoltà: quel­ la di parlare della «stessa cosa». In scienza, in letteratura, mi sem­ bra che il gruppo di Tel Quel sia capace di scoprire alcune cose fon­ damentali, ma quando si tratta di cinema qualcosa gli sfugge. Il modo in cui ne parlano quelli che conoscono il cinema è assolutamente diverso, che si tratti di voialtri dei Cahiers, di Rivette e di me quando parliamo degli ultimi film usciti, di quelli di Positif quan­ do parlano di Jerry Lewis, di Cournot quando parla di Lelouch e dice che non è né emozione né pensiero. Ripenso alla mia discus­ sione con Sollers. Mi rimproverava di parlare per esempi, di dire sempre: «così come...», «è come...» Ma in realtà io non parlo per esempi, parlo per inquadrature. Come un regista. Quindi non pote­ vo farmi capire da lui. Avrei dovuto fare un film e in seguito ne avremmo dovuto discutere: forse ciò che per lui sullo schermo è significato, per me è significante. C’è qualcosa che non è stato chia­ 11151

rito in proposito, ma che in fondo è molto semplice, probabilmen­ te. In pittura è un po’ la stessa cosa; Elie Faure ci emoziona perché parla di pittura in termini da romanzo. Bisognerebbe davvero tra­ durre una volta per tutte i venti volumi di Ejzenstejn che nessuno conosce, perché parla di tutto questo, in un’altra maniera... E anche lui è partito dalla tecnica, da problemi semplici per arrivare a quel­ li più complessi. È andato dalla carrellata al Nò per tornare a spie­ gare la scalinata di Odessa. È dalla tecnica che può derivare un’i­ deologia. Proprio come Régis Debray fa derivare dalla guerriglia la rivoluzione in America Latina. Solo che il cinema è talmente mar­ cio dal punto di vista ideologico che in questo campo fare la rivo­ luzione è molto più difficile che in ogni altro. Il cinema è una di quelle cose che esistono in modo essenzialmente pratico. E, di nuo­ vo, è accaduto che la forza economica ha prodotto una certa ideo­ logia che ha eliminato poco a poco tutte le altre. In questo momen­ to stiamo assistendo a una rinascita di tutte queste altre ideologie, tra le quali figurano le migliori. Da questo punto di vista sono interessanti alcuni testi di Nòel Burch: ciò che dice sui raccordi è essenzialmente pratico, e si avver­ te che è il discorso di qualcuno che ha messo in pratica queste tecni­ che e vi ha riflettuto su, e che dalle sue rielaborazioni ha tratto alcu­ ne conclusioni. Con un lavoro d’insieme, serio, coerente, tutto si po­ trebbe facilmente inventariare, catalogare. Da questo punto di vista possiamo dire che un paese giovane può benissimo cominciare facendo un’operazione del genere. Bisogna solo comprare dei buoni film, costruirsi una cineteca e studiare i film. Più avanti faranno cinema. Nell’attesa impareranno. Prima di affrontare scientificamente il cinema, come dei linguisti, bisogne­ rebbe iniziare con il raccogliere ogni fatto scientifico del cinema. Non sono mai stati raccolti, anche se è possibile farlo. È ancora pos­ sibile, poiché la proiezione dei Lumière al Grand Café non è tanto lontana, e poiché la prima copia di Niepce esiste ancora a Chalon. Ma se aspettiamo troppo non sarà più possibile. Perché i film scom­ paiono. I libri stanno già scomparendo, ma i film non durano nem­

I

1

meno quanto i libri. Fra duecento anni i nostri film non esisteranno più. Resteranno alcuni spezzoni di film belli come di film brutti, per­ ché non sarà ancora stata istituita una legge per proteggere i primi. Quindi lavoriamo in un’arte veramente effimera. Quando ho co­ minciato a fare cinema, pensavo al cinema in termini di eternità. Ora lo considero davvero qualcosa di effimero. Non crede che, in fondo, tra la gente di lettere e quella di cinema esista un'incompatibilità di linguaggio simile a quella che c'è tra i ci­ neasti e gli operai della Rhodiaceta, anche se i letterati hanno già scritto abbastanza sul cinema? Se lo hanno fatto, spesso lo hanno fatto nella misura in cui era possibile talvolta riferirsi a forme, o ricorrendo chiaramente a cita­ zioni letterarie. Crede che, quando Aragon scrive su di lei, sia per via dei «collage» ? Forse sono le digressioni ad attirarlo, il fatto che qualcuno se ne serva come digressioni propriamente dette oltre che come metodo di costruzione. In ogni modo Aragon è uno di quei poeti che sanno rendere bello tutto ciò che dicono. Se non si parla di cinema in ter­ mini poetici, bisogna farlo in termini scientifici. Non siamo ancora arrivati a tanto. Basta notare un semplice fatto: la gente entra in una sala cinematografica senza mai chiedersi perché, mentre non c’è nessuna ragione per cui i film siano proiettati nelle sa­ le. Questo semplice fatto è rivelatore. Certo, allo stato attuale delle cose c’è bisogno delle sale, ma dovrebbero esistere solo come chiese sconsacrate, o come stadi. Le sale continuerebbero a esistere e la gen­ te vi andrebbe a vedere di tanto in tanto i film per il desiderio di ve­ derli sul grande schermo, allo stesso modo in cui l’atleta va ad alle­ narsi da solo un giorno alla settimana, lontano dalla follia della com­ petizione, del rumore e della droga. Ma normalmente dovremmo es­ sere in grado di vedere i film a casa nostra, con un televisore o su un muro. Tutto questo è possibile, ma non si fa nulla per realizzarlo. Per esempio, già da molto tempo dovrebbero esserci delle sale cinemato­ 1117 1

grafiche nelle fabbriche, e qualcuno avrebbe dovuto progettare Pingrandimento degli schermi televisivi, ma hanno paura.

Pensa che l'estetica del cinema sia legata ai modi di diffusione e ri­ cezione: sale, circuiti e così via? Se cambiassero queste condizioni cambierebbe tutto. Oggi un film è sottoposto a un numero incredibile di regole arbitrarie. Un film deve durare un’ora e mezzo, deve raccontare una storia... Sì, un film deve raccontare una storia, su questo sono d’accordo tutti: so­ lo che non si sa cos’è e cosa dev’essere questa storia. Oggi ci si ren­ de conto che il cinema muto era molto più libero di quello sonoro o, più esattamente, di ciò che è stato fatto diventare il sonoro. Si ha l’impressione che anche un regista senza genio come Pabst suonas­ se su un pianoforte gigantesco, mentre se si analizzasse oggi un re­ gista con lo stesso talento, si avrebbe l’impressione che suoni su un pianoforte piccolissimo. È solo una forma mentis. Per esempio, quando costruiscono una sala cinematografica non si preoccupano di consultare un operatore o un regista. Non ci pensano neanche. E non chiedono il parere dello spettatore. Per cui i tre soggetti più in­ teressati alla cosa non hanno mai la possibilità di far conoscere i propri desideri. Vero è che anche le case sono costruite con lo stesso principio, ma gli architetti che progettano i cinema non li batte nes­ suno. In ogni caso è gente che non va al cinema. Cosa si dovrebbe fare a breve termine per cercare di cambiare tut­ to questo? La cosa migliore che si può fare attualmente è affrontare i pro­ blemi tecnici, tutto ciò che riguarda l’economia, la produzione, la proiezione, i laboratori e via dicendo. Ai giovani che cominciano a farsi strada nel cinema non occorre sapere tutto. Possono benissimo cominciare senza conoscere Lumière o Ejzenstejn. Un giorno li co­ nosceranno, come Picasso conobbe l’arte negra a trentanni. Se non l’avesse conosciuta allora, be’, allora avrebbe dipinto Les demoisel­ les d’Avignon più tardi e nel frattempo avrebbe fatto qualcos’altro. I u8 1

I giovani hanno la fortuna di poter ricominciare. Altre persone han­ no lavorato per loro, anche se questo lavoro è stato confuso e disor­ dinato. Quello che devono fare loro adesso è compilare una lunga lista di cose che non vanno nel cinema, dalle più insignificanti alle più grandi, dalle poltrone (quelle delle sale d’essai sono le peggiori) ai banchi di montaggio... Recentemente mi sono comprato un banco di montaggio e mi so­ no reso conto che tutti i problemi erano mal formulati. Questi ban­ chi sono fabbricati da persone che, appunto, non si occupano di montaggio. Lo conservo sperando di farmelo rimontare in maniera più funzionale, quando avrò più soldi. Perché è concepito male? I banchi di montaggio sono costruiti in funzione di una certa este­ tica, sono stati sempre considerati come piccoli apparecchi di proie­ zione. Questo va benissimo per chi ritiene che il montaggio consista nel fare dei segni con la matita. Il regista arriva il lunedì mattina e di­ ce alla montatrice di fare i tagli e di incollare. La montatrice tira fuo­ ri la pellicola dall’apparecchio e fa il lavoro richiesto su un altro banco, o lo fa perfino di testa sua quando si tratta del tipo di regista, come Grangier o Decoin, che non si scomoda ad andare di persona. A Hollywood accade la stessa cosa, salvo che i montatori sono mi­ gliori. In ogni modo il montaggio si fa a parte. Ma ci sono altri regi­ sti (Ejzenstejn è stato il primo, Resnais il secondo, io il terzo) che montano, ognuno ovviamente in modo diverso, ma al banco, con l’immagine e contro il suono. I problemi pratici non si pongono af­ fatto allo stesso modo. Io faccio andare senza sosta la pellicola avanti e indietro, e incollo senza togliere le bobine. E se il banco non è pensato per questa operazione non è comodo. In fondo si tratta di un semplice fatto economico che denuncia un’ideologia. I banchi di montaggio sono costruiti così perché i tre quarti dei montatori si sono abituati a montare in un certo modo. E in fondo nessuno ha mai detto ai costruttori di banchi di montaggio di lavorare in un altro modo. Ho fatto l’esempio del montaggio, ma l 119 ]

lo stesso vale per tutto il resto. Se si fa un cinema rivoluzionario e si usa un banco di montaggio inventato dai reazionari sicuramente c’è qualcosa che non va. È ciò che rimproveravo a Pasolini: la sua lin­ guistica è un magnifico banco di montaggio reazionario. D’altronde più faccio film e più mi rendo conto che un film è qual­ cosa di molto fragile, che ha una genesi molto difficile e poi trova al­ trettante difficoltà a essere visto, che insomma è tutto falsato. Cre­ do che se si risolvessero anzitutto questi problemi - cosa che proba­ bilmente non accadrà mai in Occidente - allora si potrebbero tro­ vare altri modi di lavorare, di fare qualcosa di veramente nuovo. Nuovo come quello che è stato scoperto agli inizi del cinema. È sta­ to tutto inventato nei primi dieci o venti anni del muto, quando la tecnica progrediva di pari passo con la creazione e la diffusione. Ora, invece, abbiamo perso di vista le relazioni tra le cose, ognuno va per conto suo... ammesso e non concesso che si stia andando da qualche parte. L’unico articolo che avrei voglia di scrivere sui Cahiers - anche se mi ci vorrebbe molto tempo per farlo, tanto più che scopro ogni giorno qualcosa in proposito - riguarderebbe i nuo­ vi possibili debutti cinematografici. Sotto forma di problema da porre a un giovane africano: «Il suo paese ha appena conquistato l’indipendenza; lei, insieme ad alcuni colleghi, è stato incaricato di istituire una cinematografia, perché finalmente siete liberi di averne una. Liberate le vostre sale cinematografiche da Jacquin e dalla Comacico,'6 dal momento che anche in Guinea, il paese più rivoluzio­ nario, i cinema appartengono alla Comacico e che in Algeria il cine­ ma, pur essendo stato nazionalizzato, è stato restituito ai distribu­ tori e così molto presto tutto apparterrà nuovamente ai privati, tut­ to sarà come prima. Avete deciso di avere una cinematografìa, di realizzarla davvero. Ciò vuol dire non importare più i film di Ange-

16. La Compagnie Africaine Cinématographique Industrielle et Commerciale, com­ pagnia di produzione e distribuzione cinematografica fondata dal francese Maurice Jacquin, ha gestito fino alla metà degli anni Settanta buona parte del mercato cine­ matografico di ben nove paesi africani, [n.d.t.]

1 no 1

lica, ma prendere anzitutto i film di Rouch o di questo o quel giova­ ne africano formato da Rouch, o qualsiasi altra cosa che abbia per voi un interesse autentico, e se lavorate con De Laurentiis obbliga­ telo a costruirvi degli studi invece di andare nei suoi. Insomma, do­ vete fare tutto, approfittatene. Dovrete anche studiare tutto ciò che riguarda la produzione e la circolazione dei film, dovrete costruire o ricostruire le vostre sale cinematografiche o ciò che le rimpiazzerà nel cuore e negli occhi dei vostri spettatori militanti e via dicendo». È impossibile fare una lista di tutte le stupidaggini da eliminare, di­ venterebbe sterminata come gli inventari di Rabelais o Melville. Sarebbe, questa, una vera ridefinizione del cinema. Per riprendere l’esempio algerino, provare a utilizzare i soldi guadagnati nelle coproduzioni per costruire laboratori invece di finanziare i film di Jacquin accanto a una o due cose come Le Vent des Aurès. È incredibi­ le, ma L’Angelica avventuriera è per metà finanziato dalla cinemato­ grafìa algerina, che non possiede nemmeno un laboratorio di svilup­ po e manda a sviluppare i suoi cinegiornali in Francia o in Italia con Air France o Alitalia, che gli sembrano più sicure di Air Algérie.

Purtroppo a volte constatiamo anche che quando i registi dei pae­ si in via di modernizzazione realizzano il loro primo cortometrag­ gio, cercano di imitare i modelli peggiori del nostro cinema. Certo, il problema è anche individuale e mentale, ma per comin­ ciare bisogna basarsi su una cosa non mentale: la tecnica. È da lì che deriva una nuova mentalità. Chiaramente le cose non sono così fa­ cili; il direttore del Centre du Cinéma Algérien è persuaso, per esem­ pio, che sia meglio che i suoi film siano distribuiti da Jacquin o Ténoudji. È il dramma del terzo mondo, bloccato ovunque, pressato dai problemi economici. Tutto gli è contro, come succede con i di­ soccupati. Ecco perché in Algeria si producono film italiani invece che film di giovani algerini: ad alcuni giovani avevano dato un po’ di pellicola, e loro l’hanno usata per fare delle stupidaggini. Allora è meglio fermare per un certo periodo la produzione nazionale, da­ re ai giovani la possibilità e il tempo di dedicarsi allo studio e alla ri­

l ni 1

cerca, di vedere il maggior numero possibile di film validi. La crisi passerà. Li si può anche far lavorare in televisione o nei laboratori, impiegarli nel doppiaggio, e via dicendo. Sarebbe utilissimo, tanto più che dal momento che in genere i registi non sono mai, in nessun paese, al corrente di ciò che accade in una sala di montaggio o in un laboratorio. Nel cinema tutti dovrebbero fare uno stage nel settore adiacente a quello in cui lavorano loro. Gli operatori, per esempio, certe cose le imparano a scuola, ma non fanno stage nei laboratori di sviluppo. Il risultato è che l’operatore e il laboratorio non si capi­ scono fra loro. Se fate un film con un operatore che è un maestro del­ la luce e che conosce molto bene tanto la luce di Renoir quanto quel­ la di Rembrandt, quel film verrà standardizzato da qualcuno che non ha nessuna idea di ciò che è la luce, né in Renoir né in Rem­ brandt: il risultato sarà troppo scuro o troppo chiaro, in ogni modo sarà appiattito, semplicemente perché il tecnico del laboratorio non ha nessuna idea di ciò che può e che deve fare. O viceversa. Mi ri­ cordo di Matras a Madrid. Invece di andare al Prado, inviava alla moglie delle cartoline postali colorizzate in mexichrome. Avviene lo stesso in tutti i livelli del cinema: la gente non è educata. Perché è una questione di educazione. In Francia abbiamo tutto quello che occorre per lavorare bene, ma le persone che organizzano il lavoro sono dei fannulloni o dei delinquenti. Impiegano persone oneste ma senza formarle, senza assegnargli responsabilità, facendoli diventa­ re nient’altro che ingranaggi del sistema. Infatti quelli che lavorano nel cinema sono sempre ben intenzionati, pensano di fare bene, so­ lo che a loro insaputa sono rinchiusi in un sistema di pregiudizi este­ tici o economici. Allora basterebbe spiegargli alcune cose in genera­ le. Spiegare per esempio a un proiezionista che è inutile che apra e chiuda il sipario perché il cinema non è il teatro. Altro esempio: la Commission Supérieure Technique, che per principio dovrebbe ga­ rantire il rispetto di alcune norme di qualità durante le proiezioni. Il principio è ottimo, Tapplicazione è scarsa e inefficace. La cst non è capace nemmeno di ottenere un miglioramento anche minimo da una sala che rovina le proiezioni. Non ci riesce perché i proiezioni­ l in 1

sti sono pagati poco, e perché nella commissione regna un giro di in­ fluenze. E i proiezionisti sono pagati poco perché si crede che il loro lavoro non sia di primaria importanza. Nei loro confronti c’è lo stesso disprezzo che si ha nei confronti dei macchinisti o dei tecnici del suono. Un macchinista sa molte cose, e spesso parla di cinema meglio del suo regista, ma nel cinema si presume che non conti nul­ la. Quanto ai tecnici del suono, sono pagati peggio dei tecnici della fotografia. Perché? Questo deriva da una certa ideologia. Si dice: «Perché il tecnico del suono dovrebbe essere pagato quanto il diret­ tore della fotografia, dal momento che il cinema è l’arte dell’imma­ gine?» È chiaramente falso. Ma il tecnico del suono continua a gua­ dagnare la metà dell’operatore e a ritenere questa discriminazione una cosa normale. Per tornare ai proiezionisti, bisogna solo pagarli bene e in seguito, se non fanno bene il loro lavoro, li si potrà multa­ re! Insomma, basta immaginare la stessa cosa in tutti i campi del ci­ nema e fare poi una somma: ne esce fuori un quadro penoso. E quando dico tutti i campi non escludo neanche le pubblicazioni di cinema: così sull’Avant-Scèney dove si cerca di fare le cose molto se­ riamente, i film sono visionati alla consolle di montaggio prima di pubblicarne la sinossi. Solo che la persona che visiona i film a volte ignora la differenza tra carrellata e panoramica, cosicché quando leggiamo la sinossi di Quarto potere troviamo per esempio una car­ rellata in avanti là dove uno che conosce bene il film si ricorda che in realtà si tratta di una panoramica. Eppure il lavoro è fatto con cu­ ra, solo che la gente certe cose le ignora. C’è anche un altro problema, se vogliamo parlare della diffusio­ ne, ed è quello dei distributori. Semplicemente queste persone non dovrebbero esistere. Il cinema è nato senza di loro, è nato con un re­ gista e con un operatore. Che ha fatto Lumière? È andato a trovare direttamente il padrone del Grand Café e gli ha portato il suo film. Solo più tardi la distribuzione è diventata un commercio. Gli inter­ mediari, i distributori insomma, sono persone pigre, che non fanno niente, ma che dicono e si dicono: noi siamo indispensabili, bisogna passare attraverso di noi. Sono nati dalla pigrizia degli altri e di que­

sto vivono, dei gestori di sale che non vogliono fare nemmeno un passo per andare a cercare il prodotto, dei produttori che non vo­ gliono fare nemmeno un passo per portarglielo. A quel punto c’è bi­ sogno di una terza persona che in fin dei conti li frega. In ogni modo la parola exploitant, che vuol dire tanto gestore di sala quanto sfrut­ tatore, è inquietante: c’è quindi bisogno di un exploité, uno sfrutta­ to, ossia lo spettatore...

E all’estremo opposto c’è il Centre National de la Cinématographie che traumatizza un po’ igiovani registi, come ha fatto l’Office National du Film con i canadesi... Tranne che, almeno in linea di principio, I’onf è meglio. Il Cen­ tre è il kapò, e inoltre è formato da persone che non conoscono il ci­ nema. Meno film si fanno in Francia, più aumenta il numero di fun­ zionari al Centre. È un organismo politico che nuoce allo stesso tempo sia all’industria che all’estetica del cinema. Ed è il motivo per cui perfino in Russia il cinema è diventato quel­ lo che è... È un cinema di stato, ma nel senso peggiore del termine, in quanto è stato nazionalizzato nelle idee ma non nella forma, se non altro perché la gente continua a pagare per andare al cinema, perché i film che incassano ne rendono possibili altri dello stesso ge­ nere, ma non quelli che non incassano. Senza contare che lì, come altrove, si importa il peggio che c’è nel cinema occidentale. E come se non bastasse in Polonia si proibisce l’ultimo film di Skolimowski, Mani in alto! Se dovessi definire il cinema, direi che il cinema è diventato l’agitprop del capitalismo. Il virus per eccellenza. E la prova che il cinema sia la migliore propaganda del capitalismo è il fatto che nessuno se ne rende conto. Basta dare un’occhiata alla lista dei film che vedono i capi di stato. Solo Lenin si salvava. Tuttavia lei dice che bisogna continuare a fare film. Sicuramente, ed è proprio questo il dramma. Vogliamo fare film diversi, e dobbiamo farli con le persone che disprezziamo e che non 112.4 1

vogliamo vedere invece di farli con chi ci piace e chi vediamo. Tutta l’infrastruttura è marcia, dal laboratorio di sviluppo fino al mo­ mento in cui il film arriva al pubblico... se ha la fortuna di arrivarci. Certo, a volte qualcosa si muove. Hyères, per esempio, è meglio di Cannes, non è l’ideale ma è meglio; e Montreal è meglio di Venezia. Bisogna continuare a fare passi avanti. Un esempio, interessante è quello del cinema canadese. L’onf è una straordinaria fabbrica di film, anche più dell’attuale Holly­ wood. Qual è il risultato? Niente, non si vede niente, i film non esco­ no. Una delle prime cose che dovrebbe fare Daniel Johnson sarebbe nazionalizzare tutte le sale del Quebec. Ma non lo farà. L’unica cosa che sa fare è accogliere De Gaulle sugli schermi della Metro. Anche laggiù il cinema è sottomesso a una certa forma di imperialismo che regna ovunque. Noi che cerchiamo di fare film in maniera diversa dobbiamo essere la quinta colonna che cerca di demolire il sistema. Un certo cinema è già fuori dal sistema... Sì, certo. Bertolucci non fa cinema americano, né lo fa Resnais, e neanche Straub, Rossellini o Jerry Lewis. Ma quest’altro cinema, buono o cattivo che sia, rappresenta un decimo o addirittura un centesimo di ciò che si fa.

Ma esiste ancora, davvero, un cinema americano? No, non c’è più un cinema americano, ma solo un falso cinema che si fa chiamare americano e che non è altro che la pallida ombra di ciò che era. Lavorerà ancora con una casa di produzione americana? Non chiedo di meglio, se questo è il modo per fare film. O se aves­ si la possibilità di girare un film costoso, sul tipo di Michael, cane da circo di Nicolaescu, dove cioè i soldi vanno più nell’immagine che nelle tasche dei divi. Ma questo non è in contraddizione con le mie opinioni sull’America e sulla politica imperialista delle grandi case di produzione. Anzitutto perché ci sono americani e americani. In 1115 1

secondo luogo perché anche lì si deve costituire una quinta colonna, e dare alle produzioni americane la voglia, l’idea di fare un altro ci­ nema: con un film di successo, per esempio, si può riuscire a fargli cambiare il sistema poco a poco. Ma è difficile, perché ci si scontra fisicamente con l’imperialismo a tutti i livelli della produzione e del­ la distribuzione. Tuttavia bisogna continuare a sperare che la gente possa cambiare. E inoltre qualcosa si sta già muovendo in America: lo vediamo con i neri, o con l’opposizione alla guerra in Vietnam. Quanto al cinema, ci sono le università che cominciano a distribui­ re film, che sono dei circuiti eccezionali. Si formano nuove catene di distribuzione. Ho venduto La cinese a Leacock. Comunque non c’è solo l’America a questo mondo, e se metto gli americani e i russi sul­ lo stesso piano è perché i loro sistemi sono pressappoco identici. In entrambi i casi i giovani registi sono maltrattati. Tutti i registi ame­ ricani che ammiriamo sono entrati giovanissimi nel cinema; ora so­ no anziani, ma nessuno prende il loro posto. Quando Hawks ha ini­ ziato aveva l’età che ha Goldman adesso, ma Goldman è solo. Ov­ viamente a Hollywood continuano ad arrivare giovani, ma il loro contributo in termini di idee non è paragonabile a quello, per esem­ pio, di Hawks. Si sono formati in strutture ormai decadenti che non hanno mai osato minare. Non sono nati liberamente nel cinema. Non sono nati nemmeno nella miseria, che sia estetica o di altro ge­ nere. Non sono più né ricercatori né poeti dell’avventura cinemato­ grafica. Mentre tutti coloro che hanno creato Hollywood erano dei poeti, quasi dei banditi, che si sono impossessati di Hollywood con la forza per dettare la loro legge poetica. Attualmente il più corag­ gioso, l’unico che è riuscito a cavarsela, è Jerry Lewis. È l’unico, a Hollywood, che riesca a fare qualcosa di diverso e a sfuggire alle ca­ tegorie, alle norme, ai principi. È proprio ciò che ha fatto per molto tempo Hitchcock. Lewis è il solo oggi a fare film coraggiosi, e credo che se ne renda perfettamente conto. E ci riesce grazie al proprio ge­ nio. Ma chi altro c’è? Nicholas Ray è un caso assolutamente tipico della situazione del cinema americano: e la cosa più triste è vedere tutti quei registi che non hanno retto al colpo, che diventano alco­ I 116 ]

lizzati, e che ora vagabondano per il mondo. La parte migliore del cinema americano ha seguito la strada di Nicholas Ray. Quanto ai newyorkesi, neanche il loro caso è molto incoraggiante: sono già sotterrati, e si vogliono sotterrare ancora di più dandosi al cinema underground, senza una valida ragione. Se i russi non aiutano Ha­ noi a bombardare New York, perché vivere sottoterra? Ci saranno altri grandi registi americani (ci sono già Goldman, Clarke, Cassavetes). Bisogna aspettarli, aiutarli, provocarli. Ho ac­ cennato poc’anzi alle università; si fa cinema, o si comincia a farlo, in posti in cui prima non si faceva, ecco la cosa importante. Il cine­ ma deve andare ovunque. Bisogna fare la lista dei luoghi dove non c’è ancora e farcelo arrivare. Se nelle fabbriche non c’è, deve anda­ re nelle fabbriche. Se nelle università non c’è, bisogna portarcelo. Se nei bordelli non c’è, deve andare nei bordelli. Il cinema deve lascia­ re i luoghi in cui si trova e andare in quelli in cui non si trova. Dunque il cinema ha anzitutto, per il solo fatto di esistere, una di­ mensione politica... Sempre. Una volta questa dimensione politica era inconscia, ora tende a diventare conscia, o meglio diciamo che si cerca di impara­ re il linguaggio di questo inconscio. Con Le Révolutionnaire Lefebvre ha voluto fare anche opera di provocazione morale, politica, economica, estetica... Pensa che ci siano delle relazioni tra il suo film e La cinese? Senza dubbio ce ne devono essere, ma allo stesso tempo i due mo­ di di procedere sono completamente diversi, anche dal punto di vi­ sta tecnico, sono uno il contrario dell’altro. Il film di Lefebvre è più vicino a Brigitte et Brigitte di Moullet. Quello sì che è un film rivo­ luzionario, e se non lo è non capisco quale altro film potrebbe esser­ lo. I film che attualmente sono girati da registi come Quine o i film della Gaumont dovrebbero essere affidati a gente come Moullet e ad altri come lui. È Moullet che dovrebbe fare cinema «commerciale». In ogni modo assistiamo a un certo ringiovanimento della profes­ [ 12.7 1

sione. È un dato di fatto che Duvivier oggi giri meno film di Serge Korber, per fare un esempio. Ed è comunque preferibile che sia Kor­ ber e non Duvivier a girare brutti film. È una sorta di progresso. Ma il più grande progresso in Francia può avvenire tramite enti come i cineclub, di pari passo con il lavoro della Cinémathèque e di Henri Langlois. Anche Jacques Robert, della Fédération Franose des Ciné-clubs, fa un buon lavoro. Coloro che vogliono fare dei buoni film rappresentano all’inter­ no del cinema l’equivalente del terzo mondo: rinchiusi nelle con­ traddizioni totali, indipendenti, ma colonizzati di nuovo, in modo diverso, dal momento in cui sono presi per il collo e obbligati a pas­ sare dove non vorrebbero, e spinti o a rilanciare o a cedere. Lei ha detto che i registi giovani dovrebbero costituire una quin­ ta colonna. Conte vede la cosa in Francia, a partire, diciamo, dall’e­ sempio di Moullet? Crede possibile che altri registi si adattino al suo metodo? Sicuramente molti potrebbero. È uno sforzo che bisognerebbe fa­ re. D’altro canto, alcuni lo fanno. E se non dipende dal proprio ca­ rattere, com’è il caso di Moullet, allora deve avere origine da una presa di coscienza attraverso la quale si raggiungerà un metodo ana­ logo. Del resto non vedo come si potrebbe fare altrimenti. Una vol­ ta per tutte bisogna mettersi in testa l’idea che non si fa mai il film che si vuole fare. Sebbene per altre ragioni, i pittori e gli scrittori rea­ lizzano di rado il libro o il quadro che vorrebbero realizzare. E al ci­ nema accade ancor meno. Per ragioni essenzialmente tecniche o economiche, mentre per gli altri si tratta di ragioni arbitrarie. Che in fondo sono le stesse, ma nel cinema prendono forma concreta.

Per lei e per chi ha iniziato nel suo stesso periodo, il percorso è sta­ to Finverso: siete partiti prima di tutto da idee generali sul cinema e poco alla volta avete scoperto i problemi pratici. A seconda dei casi e dei paesi si affronta il cinema in modo diver­ so. In Francia non si era mai riflettuto sul cinema. Un giorno sono 1 ix8 1

arrivate delle persone che hanno detto: bisogna riflettere perché il cinema è qualcosa di serio. Allo stesso modo bisognava dire che le opere esistono. Oggi penso che le opere non esistano... ed è la con­ sapevolezza che si raggiunge alla line di una riflessione un po’ più profonda sull’arte. Un’opera non esiste, anche se è chiusa in una scatola o impressa sulla carta, allo stesso modo di un essere o di un oggetto. Eppure allora era quello il primo passo da compiere: far di­ ventare la gente consapevole dell’esistenza dell’opera, anche a costo di dirgli ora, appunto, che quella riflessione va approfondita. Allo stesso modo direi che non esiste l’autore. Ma affinché si capisca in che senso si possa dir questo, bisogna anzitutto ripetere continuamente che gli autori esistono. Perché il modo in cui prima si pensa­ va che gli autori non esistessero non era quello giusto. È una que­ stione di tattica. Che ne pensa del progetto di Lelouch di cui si è parlato per un po’: creare una sorta di centro dove una giuria esamini le sceneggiature, poi ne scelga una, ne faccia girare cinque minuti a un regista e, se il risultato è buono, produca tutto il film? Perché cinque minuti? No, o si produce tutto il film o niente. È co­ me se si facessero cinque minuti di un bambino, giudicando dalla forma del braccio se ha o meno il diritto di vivere. È come sottopor­ lo a un esame per vedere se ha diritto alla vita. Che si tratti di Bénazéraf o di Ejzenstejn, bisogna produrre l’intero film.

Lei ha prodotto il film di Eustache, adesso sta per produrre il film di Bitsch. Produrre film è diventato qualcosa di importante per lei oggi? Fa parte del cinema, e produrre significa anche uscire dal mondo in cui ci si trova. Vedere gente, vedere il mondo, dialogare. Se avessi più soldi produrrei di più. Per esempio per due anni, e poi per cambiare girerei un film. Allo stato attuale delle cose, se vo­ glio produrre devo trovare dei soci per condividere le spese.

[ 119 I

Lo farebbe a partire da una sceneggiatura? E perché? Il film di Bitsch, Le Dernierhomme, lo produco così. Possiamo dire che non l’ho nemmeno letto. Trovo che l’idea sia buo­ na, e questo mi basta. Non ho letto la sceneggiatura dettagliatamente, non ci riesco mai. E comunque è inutile leggerla. È come con gli attori. Perché fare dei provini? Il provino consiste nel parlarci. Se a quel punto ancora non si capisce con chi si ha a che fare, non lo si capirà mai. La sceneggiatura è solo uno strumento per convincere. Se ci fa piacere possiamo leggerla, ma non è indispensabile.

Sembra influenzato sempre più dal teatro. Bisogna fare teatro al cinema, mescolare le cose. Anche e soprat­ tutto nei festival. Trovo grottesco che a Venezia il festival di cinema non si svolga contemporaneamente a quello di musica o di teatro. Ci dovrebbe essere una serata per la musica, una per il cinema e co­ sì via. Vi ricordate quelle serate a Pesaro in cui dopo aver visto un film si andava a sentire jazz?... Abbiamo passato dei bei momenti. Qui tocchiamo uno dei grandi tabù del pubblico, la fusione dei generi, e ci si rende conto dei danni che hanno potuto fare alcuni teorici del cinema di trenta o cinquantanni fa che decretavano che quello era teatro e non cinema, e via dicendo. Molti registi ora hanno voglia di parlare di teatro: Rivette nell’Amour fou, Bertolucci e molti altri. Anche Persona, Blow-up e Bella di giorno hanno qualcosa a che fare col teatro, e pure Shakespeare Wallah, che è un film bellissimo. Probabilmente gli artisti che sono rimasti troppo chiusi nel pro­ prio modo di espressione hanno voglia di uscirne un po’ (questo chiaramente non vale per Bergman, che ha fatto teatro per tutta la vita, e anche più di quanto abbia fatto cinema). Anch’io ho da molto tempo voglia di fare un film didattico sul tea­ tro partendo da Lucrezia di Jean Giraudoux. Si vedrebbe la ragazza che interpreta Lucrezia scendere da un taxi per recarsi alle prove, per partecipare a un’audizione. In seguito si andrebbe avanti col lavoro 1 130 1

teatrale mostrando man mano un'audizione o una prova o una sce­ na recitata davvero. E in alcuni momenti ci sarebbe la critica del la­ voro. Alcune scene sarebbero recitate più volte, per ragioni attoriali o di messa in scena. Potrebbero essere recitate a turno da attrici di­ verse: Jeanne Moreau, Brigitte Bardot, Anna Karina e via dicendo. E il regista, insieme alla compagnia, passerebbe in rassegna le sette o otto grandi teorie teatrali: da Aristotele alle tre unità, dalla prefazio­ ne al Cromwell alla Nascita della tragedia fino a Brecht e Stanislavskij, ma progredendo sempre nel lavoro teatrale. Alla fine si vedreb­ be morire colei che abbiamo visto arrivare all’inizio, perché si tratta della morte di Lucrezia. Quella sarebbe l’ultima inquadratura, e ci troveremmo allora nella finzione. Un film del genere sarebbe desti­ nato anche a insegnare agli spettatori che cos’è il teatro. Le «letture», per esempio, sono straordinarie. Alla fin fine credo che la cosa più straordinaria da filmare siano delle persone che leg­ gono. Perché nessun regista lo fa? Filmare qualcuno che legge sa­ rebbe già più interessante, molto più interessante della maggior par­ te dei film che si fanno. Perché il cinema non potrebbe ridursi sem­ plicemente a filmare persone che leggono bei libri? E perché non lo si dovrebbe far vedere in televisione, soprattutto adesso che non si legge più? E chi sa raccontare e inventare, come Polanski, Giono, Doniol, potrebbe inventare e raccontare davanti alla macchina da presa. E li ascolterebbero, perché se qualcuno racconta una storia che piace lo si ascolta per ore. Il cinema riacquisterebbe così la tra­ dizione e la funzione del narratore orientale. Si è perso tantissimo il giorno in cui si è cessato di interessarsi ai narratori. Ma l’ideologia che definisce ciò che «deve» essere lo spettacolo è così forte, così ra­ dicata che gli spettatori di cinema, seppure appassionati della storia che gli racconterebbero al Gaumont-Palace o all’Ambassade, all’u­ scita diventerebbero pazzi furiosi all’idea di essere stati presi in giro, di essersi fatti fregare i soldi!

D’altro canto ciò che dice non rimette in discussione il concetto di spettacolo... I

1

Ovviamente no. Quando si guarda qualcosa è sempre uno spetta­ colo, anche se si guarda un muro. Voglio fare un film su un muro: guardiamo un muro e poi finiamo per vederci delle cose... Vedendo «L’amore nel 2000», l’episodio dell’amore attraverso i secoli, sembra che ci sia una certa volontà di distruzione dell’imma­ gine stessa in quanto supporto realistico. La cosa seccante è che si riconoscono troppo gli attori. Ma all’i­ nizio non avevo idee del genere. Poi ho pensato di dare al film un aspetto, diciamo, biologico, come plasma in movimento. Un pla­ sma parlante, però. Così facendo ha raggiunto un effetto quasi di sacralità: l’immagi­ ne cinematografica precisa, netta, piena. Ma l’immagine resta immagine, a partire dal momento in cui vie­ ne proiettata. In realtà io non distruggo proprio niente. O meglio di­ struggo solo una certa idea dell’immagine, un certo modo di conce­ pirla. Ma non ho mai pensato a questo processo in termini di di­ struzione... Ciò che volevo, invece, era passare all’interno dell’im­ magine, giacché la maggior parte dei film sono fatti all’esterno del­ l’immagine. Cos’è l’immagine in sé? Un riflesso. Un riflesso su un ve­ tro ha uno spessore? Normalmente al cinema si resta al difuori di questo riflesso, al suo esterno. Io volevo vedere il rovescio dell’im­ magine, volevo vederla da dietro, come se ci si trovasse dietro lo schermo e non davanti. Invece di trovarsi dietro lo schermo reale, ci si trova dietro l’immagine e davanti allo schermo. O meglio, all’in­ terno dell’immagine. Allo stesso modo in cui alcuni quadri ti danno l’impressione di trovarti al loro interno, oppure di non riuscire a ca­ pirli finché resti all’esterno. In Deserto rosso mi sembrava che i co­ lori non fossero davanti ma nella macchina da presa. Ai contrario del Disprezzo, dove i colori sono davanti alia macchina da presa. Si ha davvero la sensazione che sia stata la macchina da presa a inven­ tare Deserto rosso. Nel Disprezzo c’era da un lato la macchina da presa e dall’altro gli oggetti che ne erano al difuori. Ma credo di non I132. ]

saper inventare un film del genere. A meno che, forse, non me ne venga il capriccio. Un capriccio di cui Una storia americana è stato il primo esempio. Ed è il motivo per cui non è stato capito: gli spet­ tatori lo hanno giudicato un film di rappresentazione, mentre era qualcos’altro. Erano chiaramente smarriti, perché cercavano di se­ guire una rappresentazione, cercavano di capire ciò che succedeva: in realtà comprendevano molto facilmente ma senza sapere di com­ prendere, pensando al contrario di non capire nulla. Ciò che mi ha colpito, per esempio, è che Una storia americana piaccia molto a Demy. E io ho sempre pensato che fosse un film «cantato», in con­ fronto alla Cinese che è un film «parlato»! Il film a cui Una storia americana somiglia di più è Les Parapluies de Cherbourg. La gente non canta, ma il film sì.

A proposito di interferenze, non le sembra che ce ne siano diverse tra Persona e i suoi film recenti? No, non credo. In ogni modo credo che a Bergman non piacciano molto i miei film. Credo che lui non tragga la minima ispirazione da me o da altri. E dopo Come in uno specchio, Luci d'inverno e II si­ lenzio non poteva fare altro che Persona. In Persona ci sono più audacie stilistiche rispetto ai suoi film pre­ cedenti, come la ripetizione del testo... No, credo che la scena del monologo sia esteticamente il seguito o l’approfondimento della lunga inquadratura di Ingrid Thulin in Luci d'inverno, quella in cui si confessa. Ma in Persona colpisce di più, è quasi un’aggressione formale. Colpisce in quanto procedi­ mento, e a tal punto che quando lo vediamo siamo tentati di dire: è così bello che devo usarlo nel mio prossimo film. È così che la prima inquadratura del mio prossimo film mi è venu­ ta in mente dopo aver rivisto Persona. Mi sono detto: bisogna fare un’inquadratura fissa di gente che parla del proprio sesso. In un cer­ to senso mi ricorda Questa è la mia vita, dove sono rimasto alle spal­ le della coppia, anche se sarei potuto passare davanti. Per me è un po’ 11331

l’equivalente di un’intervista. In Bergman è molto diverso, ma alla fi­ ne si torna sempre su questo desiderio di rappresentare un dialogo. E arriviamo così a Beckett. A un certo punto avevo l’intenzione di girare Giorni felici. Non se n’è fatto nulla perché volevano che pren­ dessi Madeleine Renaud mentre io volevo dei giovani. Mi sarebbe piaciuto perché avevo già un testo, bisognava solo girare. Avrei fatto un’unica carrellata. Una carrellata che partiva da lontano per con­ cludersi in un primo piano. Sarei partito da molto lontano per arri­ vare al primo piano dopo un’ora e mezzo, nel momento dell’ultima frase del testo. Era essenzialmente un problema di aritmetica da quar­ ta elementare, basato su un piccolo calcolo di velocità e di tempo. Ma come recepisce tutto ciò che, in Persona, ricorda allo spetta­ tore che si tratta di un film? Non ho recepito nulla di Persona. Assolutamente nulla. Ho guar­ dato bene il film e vedo la cosa in questo modo: è Bibi Andersson a essere malata e l’altra è la sua infermiera. Tutto sommato credo sempre nel «realismo». Per cui, quando il marito crede di ricono­ scere sua moglie, dal momento che la riconosce per me le cose stan­ no davvero così. Se non ci si basasse sul realismo non si potrebbe far nulla, e per strada non oseremmo nemmeno più salire su un taxi, ammesso che ci si arrischi a uscire. Io credo a tutto. Non ci sono due piani, quello del «reale» e quello del «sogno», ce n’è uno solo. Bel­ la di giorno è magnifico. E in certi momenti è come in Persona: be­ ne, ci diciamo, d’ora in poi seguirò con attenzione le cose per sape­ re esattamente su che piano stiamo. E poi improvvisamente: cazzo! è fatta! ...e ci accorgiamo di essere passati sull’altro piano. È come non volersi addormentare per non dormire nel momento in cui ci si addormenta. È il problema che pongono questi due film. Ormai, e da parecchio tempo, Bergman è arrivato a un punto in cui il film è creato dalla macchina da presa, sopprimendo tutto ciò che non è immagine. Questo dovrebbe essere uno degli assiomi da cui si parte per il montaggio, invece di partire da cose come «biso­ gna unire i pezzi correttamente in funzione di questa e quell’altra re­ l 134 I

gola». Si dovrebbe dire: bisogna sopprimere tutto ciò che può esse­ re detto a parole invece che con le immagini. Liberi poi di capovol­ gere l’assioma per applicare l’altro principio: bisogna conservare solo ciò che è detto a parole - come fa Straub, per esempio. Nella Ci­ nese è stato conservato soprattutto ciò che è detto, ma il risultato è fondamentalmente diverso da Straub, perché non vengono dette le stesse cose. Bunuel invece ha soppresso tutto ciò che era detto per­ ché anche ciò che è detto si vede. E c’è una libertà straordinaria in quel film, sembra che Bunuel faccia musica con il cinema, come Ba­ ch doveva fare musica d’organo al termine della sua vita.

Che ne pensa del sistema teatrale «porta a porta» che Léaud adot­ ta alla fine della Cinese? Credo che non sia capito molto bene dal pubblico, probabilmente non è abbastanza esplicito. In realtà non è solo lui in discussione, non è una soluzione individualistica. La mia idea era di mostrarlo assie­ me ad altri, uno che strimpellava la chitarra, un altro che cantava o disegnava, come fanno i beatnik nei caffè, ma in quanto comunisti questa volta. Avrebbero fatto un lavoro vero e proprio adattando il loro testo a ogni data situazione, andando da Racine a Sofocle a chiunque altro. Sarebbe dovuto essere un gruppo di diverse persone, a volte si sarebbero bloccati sulla risposta da dare, si sarebbero mes­ si a discutere per trovare quella buona. Potevano anche parlare con la gente che si trovavano davanti, cominciare un vero dialogo. Del resto, invece di recitare testi teatrali, avrebbero potuto benis­ simo leggere Platone. Non ci devono essere limiti, tutto è teatro, tut­ to è cinema, tutto è scienza e letteratura. E se si mescolassero un po’ di più le cose, sarebbe meglio. Per esempio all’università le lezioni potrebbero essere lette da attori, visto che i professori parlano sem­ pre come dei cani. Se ne approfitterebbe per studiare come leggere e recitare un testo. E non sarebbe importante soltanto la deduzione della sesta Meditazione di Cartesio, e non si parlerebbe solo di que­ sto agli esami, ma anche del tempo che dura, del suo movimento, quindi del vissuto di Cartesio. Non dico che questo sia l’unico lavo­ l 1351

ro da fare, ma visto che ci sono migliaia di cose da cambiare tanto vale tentare con una o due senza decretare arbitrariamente che sia buona o cattiva, in modo definitivo.

Pensa che gli attori dovrebbero, come i registi o i tecnici, studiare di più, o esercitarsi... Esercitarsi, certamente. Come facevano una volta gli attori ame­ ricani. Se tenessi un corso per attori, gli farei fare solo esercizi fisici o intellettuali: «Ora farete un po’ di equilibrio; adesso ascolterete un disco per un’ora...» Gli attori sono pieni di pregiudizi in ambito fisico e intellettuale. Per esempio, quando giravo Due o tre cose che so di lei, Marina Vlady mi ha detto un giorno: «Che devo fare? Non mi dici mai niente». E visto che lei abita a Montfort-l’Amaury, le ho risposto: «Invece di prendere un taxi per venire alle riprese, devi ve­ nire a piedi. Se vuoi davvero recitare bene è la cosa migliore da fa­ re». Ha pensato che la prendessi in giro e non l’ha fatto. Le ho sem­ pre serbato rancore per questo, e, del resto, gliene serbo ancora un po’. Forse l’avrebbe fatto se le avessi dato delle spiegazioni. Ma l’a­ vrebbe fatto una volta sola e l’indomani avrebbe voluto che le dessi un altro consiglio. Quindi non valeva la pena di spiegarglielo. L’u­ nica cosa che volevo era che pensasse a quello che diceva. Ma pen­ sare non significa per forza riflettere. Volevo semplicemente che pensasse a quello che diceva. Se doveva posare una tazza sul tavolo, doveva avere in mente l’immagine di una tazza e di un tavolo di le­ gno. Il semplice esercizio di venire ogni giorno a piedi alle riprese l’avrebbe fatta agire e parlare in un modo che per me era giusto. Ciò che le chiedevo era molto più importante di quanto potesse credere, perché per riuscire a pensare bisogna fare cose molto semplici che vi mettano in buone condizioni. Si sa che i ballerini non possono dan­ zare se non si allenano ogni giorno a sollevare le gambe. Ma questa necessità di «allenamento» sta già scomparendo tra gli attori di tea­ tro. E gli attori di cinema non hanno più alcuna idea di ciò che do­ veva essere quest’allenamento. E si dicono: visto che non dobbiamo sollevare le gambe, è inutile esercitarsi. Prima della Cinese ho chie­ 1136 1

sto a Jean-Pierre Léaud di mangiare; gli ho dato dei soldi per questo, con il divieto di spenderli alla Cinematheque, affinché andasse a mangiare in tutta tranquillità per un’ora e mezzo, ogni giorno, sen­ za leggere il giornale e senza fare altro che mangiare in un ristoran­ te normale un pasto normale; era ciò di cui aveva bisogno per La ci­ nese. Questo genere di esercizi è un po’ uno yoga alla rovescia. Quello che i surrealisti chiamavano «esercizi pratici». Ce n’è biso­ gno in tutti i campi e per tutti i casi. Gli attori non pensano mai al fatto che sono pagati per lavorare otto ore al giorno. Esattamente come un operaio. Solo che un operaio quando entra in fabbrica la­ vora davvero per otto ore, senza barare. L’attore, come molti liberi professionisti, evade spesso dalla sua attività e non lavora otto ore al giorno, anzitutto perché non si gira ininterrottamente per otto ore. Tutto ciò che gli chiedo è di lavorare di più tra le riprese e meno durante. Perché se ha lavorato prima della ripresa so che andrà be­ ne. E lavorare durante non serve a nulla. Solo che questa è la cosa più difficile da ottenere dagli attori. Detto questo, per quanto ri­ guarda La cinese se la sono cavata tutti: formavano un piccolo gruppo bene affiatato e insieme svolgevano una certa forma di la­ voro che li metteva in condizione di girare. È andata meglio che con Il maschio e la femmina. È chiaro che quello che ho appena detto va­ le tanto per gli attori professionisti quanto per gli altri. In ogni caso né gli uni né gli altri sono disposti a piegarsi a un certo tipo di alle­ namento. Anna Karina da questo punto di vista non era diversa dai suoi colleghi. Spesso le dicevo: «Ti chiedo soltanto di leggere ogni mattina, ad alta voce, tranquillamente, l’editoriale del Figaro o quello delVHumanité». Credo che fosse tanto semplice e utile quan­ to chiedere a un cantante di fare dei vocalizzi. Ma neanche lei ha ca­ pito. E invece questo genere di dettagli ha un’influenza diretta sul modo di recitare. È l’esatto equivalente del riscaldamento per l’atle­ ta, delle scale per il pianista o dello scioglimento per l’acrobata. Ma il grande problema degli attori di cinema è che sono spesso orgo­ gliosissimi. Bisogna quindi insegnargli l’umiltà, come bisogna inse­ gnare l’orgoglio a chi è troppo umile. Come dice Bresson: «Dare e 1137 1

ricevere». E da questo punto di vista non vedo nessuna differenza tra professionisti e non professionisti. Ci sono ovunque delle persone interessanti. Ma Bresson parla de­ gli attori come i russi dei cinesi. Io gli dicevo: «Hanno degli occhi, una bocca, un cuore...» E lui rispondeva: «No!» Se avessi detto: «Ma Jouvet, quando era ancora nella pancia di sua madre...», mi avrebbe risposto: «Ah, sa, la predestinazione...» Con gli esercizi che lei raccomanda si pone un problema più gran­ de, quello dell’istruzione. Per esempio, nella Cinese, i personaggi provengono dalla borghesia, gli è stata data un'istruzione che loro rimettono in discussione... Infatti tutto deriva dal modo in cui hanno attinto al sapere: la lo­ ro è un’istruzione di classe. Si comportano in funzione della loro classe, come persone della loro classe. Tutto ciò, del resto, è detto nel film. A proposito dell’istruzione classista che abbiamo in Fran­ cia, ho proprio qui poche righe che ho ritagliato l’altro giorno da un giornale e che ho conservato, perché voglio fare un film sull’Emilio di Rousseau. Missoffe - il nostro ministro della Gioventù - ha scrit­ to nel suo libro bianco: «La scuola dovrà rispecchiare i rapporti so­ ciali organizzando la formazione astratta e di lungo periodo dei ra­ gazzi destinati per la loro origine familiare a occupare essenzial­ mente i posti più alti nella direzione e nell’amministrazione della so­ cietà. In seguito ci si occuperà di una formazione più breve e sem­ plificata per i figli degli operai e dei contadini, la cui entrata nel mondo professionale sembra richiedere una formazione limitata». Non aggiungo altro.

Cosa sarà il suo Emilio? Un film moderno: la storia di un ragazzo che si rifiuta di andare al liceo perché la sua classe è sempre piena, e che comincia a imparare all’esterno, che osserva le persone, va al cinema, legge, ascolta la ra­ dio o guarda la televisione. L’istruzione, come il cinema, è una somma infinita di tecniche da

1138 1

ritoccare e correggere. Si deve ritoccare tutto. Che succederà al figlio dell’operaio che vuole studiare? Avrà subito dei problemi di soldi che non gli permetteranno di continuare. Torniamo al caso del terzo mondo. Lo stesso sistema delle borse di studio è profondamente im­ morale. Sono i meritevoli a beneficiarne. Ma quelli che definiamo «meritevoli», chi sono? Siccome nelle facoltà ora si fa l’appello come nelle caserme, e siccome chi non risponde all’appello non ha il dirit­ to di sostenere gli esami, i meritevoli sono coloro che sono sempre presenti, assidui, e quindi che ne hanno i mezzi, che non sono co­ stretti a lavorare allo stesso tempo per pagarsi gli studi. Anche se poi non è detto che chi segue le lezioni impari più di chi si assenta rego­ larmente. E i professori sono pagati poco. Non dico che il problema sia semplice, ma ci sono troppe cose inammissibili fin dal principio.

Ma lei crede che sia un problema senza soluzione? Ah, no! Perché in ogni modo né in America né in Russia né in Al­ bania accadono le cose che si vedono in Francia. Anzitutto i finan­ ziamenti per l’istruzione sono molto superiori. E in Francia questa scarsità di finanziamenti deriva da una politica deliberata, cosciente: si veda quel che ha detto Missoffe. E sentite quel che ha appena det­ to De Gaulle ai canadesi: «Avete il diritto di formare le vostre élite...» In questa frase si riassume integralmente la mentalità governativa. Non ha pensato neppure per un attimo di dire: «Avete il diritto di formare più professori, più ricercatori...» No, ha detto: «le élite»! Solo che le élite sono già formate. Non è affatto necessario che il Quebec sia libero per formare le élite canadesi.

Nei paesi dell’Est ci sono grandissime possibilità di accedere all’i­ struzione, ma contemporaneamente si forma un campo riservato al­ le élite. Un ragazzo di trentanni che fa un lavoro manuale non può assolutamente sperare di fare cinema un domani: bisogna passare per la scuola di cinema. Il lavoro manuale e intellettuale sono diversi dal punto di vista quantitativo ma non da quello qualitativo. Non siamo mai stati l 139 ]

messi sullo stesso piano, e perciò non possiamo dire o fare niente in comune. Un operaio non potrà insegnarmi nulla, e neanch’io potrò insegnare nulla a lui. Dovrebbe essere esattamente il contrario: do­ vrei avere molto da imparare da lui e lui da me, invece che ognuno di noi dai nostri colleghi. Alcuni - come i cinesi, diciamo, o perlo­ meno alcuni cinesi - vogliono cambiare questo stato di cose. E que­ sta speranza di cambiamento non è utopica se si può fare affida­ mento non su qualche anno, ma su qualche secolo. Le civiltà dura­ no a lungo. Perché si pretende che il processo di formazione della nuova civiltà, cominciato con il comuniSmo un secolo e mezzo fa, si concluda tutt’a un tratto? Ci vorranno mille anni, o forse duemila. L’ultima «rivoluzione culturale» risale infatti a duemila anni fa: la rivoluzione cristiana. Sta finendo solo adesso, e ha prodotto solo reazionari. E le indu­ strie deH’immagine e del suono sono ancora i suoi mercenari più fe­ deli. (Intervista a cura di Jacques Bontemps, Jean Comolli, Michel Delahaye e Jean Narboni, pubblicata sui Cahiers du cinema, n. 194, ottobre 1967.)

1 Mo 1

/ IL GRUPPO «DZIGA VERTOV»

Jean-Luc Godard parla a nome dei suoi compagni del gruppo: JeanPierre Gorin, Gérard Martin, Nathalie Billard e Armand Marco. Quando e come si è costituito il gruppo «Dziga Vertov»? Dopo il maggio parigino, ho incontrato un ragazzo, un militante della Gioventù Comunista Marxista-Leninista, che si chiamava Jean-Pierre Gorin: è stato l’incontro di due persone, l’una provenien­ te dal cinema normale, l’altra un militante che aveva deciso che fare cinema fosse uno dei suoi compiti politici per dare una base teorica al maggio parigino e allo stesso tempo per metterlo in pratica, mentre io volevo entrare in contatto con qualcuno che non provenisse dal ci­ nema. Insomma, uno voleva fare cinema, l’altro desiderava allonta­ narsene, e questo equivaleva a cercare di costruire una nuova unità fatta di due contrari, secondo la concezione marxista, e dunque a cer­ care di costituire una nuova cellula che non facesse cinema politico, ma che cercasse di fare cinema politico in maniera politica, il che era abbastanza diverso da quello che facevano gli altri cineasti militanti.

I mi 1

Siamo rimasti negli Stati Generali dopo la scissione seguita al maggio parigino, dopodiché ci siamo distaccati. Abbiamo preso il nome di Dziga Vertov non per applicare il suo programma ma per adottarlo come alfiere rispetto a Ejzenstejn che, a volerlo analizzare, è già un cineasta revisionista mentre Vertov, agli inizi del cinema bol­ scevico, aveva teorie completamente diverse che consistevano sem­ plicemente nell’aprire gli occhi e mostrare il mondo in nome della dittatura del proletariato. In quel periodo il termine «Kino-Pravda» non aveva niente a che vedere con il reportage o con la candid ca­ mera., ai quali Dziga Vertov è oggi illecitamente assimilato sotto il concetto di cinéma-vérité', si trattava di cinema politico. Per noi, la cosa più importante era dedicarci ai compiti di produzione prima che a quelli di distribuzione. Mentre tutto il cinema militante si defi­ nisce come un tentativo di diffondere i film in maniera alternativa, secondo noi questo non era fattibile e si è sempre risolto in una serie di insuccessi; viceversa, in quanto marxisti, noi pensiamo che sia la produzione a dover regolare la distribuzione e il consumo, che sia la rivoluzione a dover regolare l’economia, se vogliamo, e che perciò, per quanto riguarda il cinema, solo quando si sapranno produrre dei film nelle condizioni specifiche di un paese capitalista, sotto il giogo delPimperialismo, si saprà come diffonderli in seguito. Allo stesso tempo, l’unità produzione-distribuzione è la lotta fra due contrari ed è un’unità inscindibile: ma anziché considerare la di­ stribuzione come la contraddizione principale, come facevano i ci­ neasti militanti - ed era su questo che finivano regolarmente per are­ narsi - noi abbiamo ritenuto che la contraddizione principale stesse nella produzione: produrre un film nella maniera giusta, politicamente, deve indicarci in seguito il modo giusto per diffonderlo, po­ liticamente. Però non ci siamo ancora, assolutamente no. Tutta la nostra evoluzione si è compiuta nell’arco di due anni. In questo mo­ mento ci troviamo di fronte ad alcune grosse contraddizioni riguar­ danti il film sulla Palestina: per trattare questo problema molto con­ creto abbiamo sentito il bisogno di smetterla con le teorizzazioni a tavolino e di cominciare a lavorare a contatto con le masse. Ma 1 Hi 1

quando si lavora nell’industria cinematografica - anche approfit­ tando del mio nome - giocando sulla contraddizione, ci si fa un po’ divorare da questa stessa contraddizione. Per esempio, per pagare il film sulla Palestina bisogna realizzare un filmato pubblicitario, e quindi un prodotto che segue la logica dell’ideologia pubblicitaria borghese: se uno fa questo la mattina, gli riesce difficile lavorare di pomeriggio seguendo un’ideologia che si vorrebbe più proletaria; non può piantare tutto a mezzogiorno, lasciare gli abiti borghesi e mettersi nei panni di un proletario, non è così semplice. Allora, produrre un film nei paesi capitalisti oggi costituisce una contraddizione tale che è difficilissimo venirne fuori. Ci si è anche resi conto che dei militanti potevano anche militare nel modo giusto ma, nel momento in cui mettevano mano a una macchina da presa, non si rendevano conto che la loro arma ideologica, il cinema, non era neanche uno schioppo, era a malapena un forcone; che il cine­ ma, anche nella sua fase migliore, è solo sul punto di iniziare la sua rivoluzione borghese; mentre il cinema commerciale è ancora nella fase del feudalesimo. Mi ha spinto a riflettere a fondo il fatto che, da un lato, nello stesso momento in cui in Cina hanno chiuso le uni­ versità hanno anche bloccato il cinema e, dall’altro, durante il mag­ gio parigino l’assemblea dei cineasti si è data il nome di Stati Gene­ rali del Cinema: in quel momento, dunque, il cinema ha cominciato a intravedere una possibilità di rivoluzione borghese. Oggi la srf'7 cerca di mettere in atto la propria rivoluzione borghese, vale a dire che è in ritardo di duecento anni sugli eventi, e questa è attualmen­ te la legge di quasi tutto il cinema mondiale. Un’altra cosa: durante il maggio parigino, le produzioni si sono interrotte, il Festival di Cannes è stato sospeso, ma i cinema hanno continuato a lavorare. Truffaut non vedeva alcuna contraddizione fra sospendere Cannes e continuare a far proiettare il film che aveva prodotto o acquistato. Su tutti questi problemi bisogna riflettere, tenendo presente che siamo in Francia e che i problemi non sono gli stessi a Novosibirsk17 17. Società des Réalizateurs de Films (Società dei Registi Cinematografici), [n.d.t.]

I M3 1

o a Buenos Aires. Ecco la vera questione per i cineasti militanti, e qualcuno la risolve decidendo di smettere di fare cinema. Noi, per il momento, riteniamo che il cinema sia un compito secondario nella rivoluzione, ma che questo compito secondario sia attualmente im­ portante e che perciò sia giusto farne la nostra attività principale.

Dopo il maggio 1968, considera i suoi film come opere di ricerca non destinate al «consumo»? Sapevamo in ogni caso che i primi non li avrebbe visti quasi nes­ suno. Dopo che io stesso, comunque, ero stato respinto dal cinema normale, dove non riuscivo più nemmeno a portare avanti la mia ri­ volta, dove ero considerato un teppista o un anarchico, anche se mi guadagnavo da vivere eccome, in occasione del maggio parigino ho capito meglio dove mi avrebbe portato la mia rivolta spontanea che poco a poco mi aveva estromesso dal sistema. Era una rivolta indi­ viduale, e allora ho capito, molto in ritardo, che dovevo legarmi di più ai grandi movimenti sociali. Il cinema è un mondo compietamente chiuso, che ti taglia fuori dalla realtà in maniera incredibile. Riflettendo sui mezzi di produzione, sapevamo che probabilmente saremmo stati impossibilitati a diffondere i nostri film, che li avreb­ bero visti solo due o tre amici, che si trattava di una situazione piut­ tosto insostenibile e che tuttavia avremmo dovuto sopportarla per almeno un paio d’anni, ma era inevitabile. Allora abbiamo cercato di approfittare di un’altra contraddizione, riguardante il mio nome e il fatto che, pur essendo stato respinto dal cinema normale, alcune reti televisive mi accoglievano a braccia aperte; ma neanche questo è durato a lungo, visto che abbiamo girato un film per la BBC che ce lo ha rifiutato dopo avercelo ordinato, poi un altro per la rai che pure ce lo ha rifiutato. Al momento la televisione tedesca mi ha pro­ posto un contratto per due o tre film, ma questo deriva dal fatto che, data la situazione in Germania, le contraddizioni del liberalismo permettono di andare molto più lontano che in Francia, in Inghil­ terra o in Italia, e inoltre perché si tratta di soggetti che non toccano da vicino la Germania. Perfino il film sulla Cecoslovacchia - che non I 144 1

è venuto affatto bene, ma questo è un altro discorso - è stato ritira­ to dalla programmazione perché era troppo politico, nel periodo delle elezioni tedesche: perfino una televisione ultraliberale si è tira­ ta indietro. Non credete nella distribuzione parallela? Eppure è importante. No, non molto, perché pensiamo che i film prodotti male, come nel caso di quelli distribuiti in questo modo, non facciano altro che cercare di evangelizzare chi è già credente. La distribuzione dev’es­ sere legata a un lavoro politico: io credo in una distribuzione di mas­ sa quando c’è un partito di massa. Questo è il caso della Cina, ma i cinesi cominciano appena adesso a porsi i problemi che riguardano il cinema, e del resto non avevano motivo di porseli prima. Il cine­ ma è uno strumento di partito, e noi ci troviamo in paesi nei quali il partito rivoluzionario è ben lontano dall’esistere e dove il lavoro ri­ voluzionario consiste nel fondarlo, e questo lavoro può richiedere molto tempo. Perciò la diffusione di migliaia di copie di un film militante non porterà avanti la rivoluzione neanche di un passo. Oggi gli unici film in cui i proletari credono davvero sono La corazzata Potèmkin e II sale della terra: sono gli unici che li toccano profondamente, il film di un borghese trascinato dalla rivoluzione e quello di un liberale americano. Questi film erano sorretti da un movimento di massa, e il proletario vi si riconosce: ma, allo stesso tempo, è come se gli des­ sero in mano un vecchio schioppo, perché se vede lo sciopero nel Sa­ le della terra nel momento in cui sta scioperando contro le fabbriche automobilistiche Berliet, questo gli solleva il morale ma non gli dà nessuna indicazione sulle forze politiche in gioco nell’ambiente in cui si trova a lottare. Pensa che [’elemento «spettacolo» possa permettere a un vasto pubblico di accedere al film politico? Perché faccia davvero effetto, dovrebbe essere uno spettacolo che non soffochi la dialettica. Lo vediamo nel caso di Brecht: date le 1 M51

condizioni in cui viveva, non è mai stato messo inscena come si de­ ve; solo in Cina avrebbe potuto perfezionarsi e al tempo stesso ave­ re una certa influenza, poiché Brecht faceva un teatro dialettico. Ma quelli che mettevano in scena i suoi lavori hanno sempre annegato la dialettica nello spettacolo. E quindi il pubblico non riesce a riflet­ tere. Brecht scriveva per i proletari, e i proletari riescono a com­ prenderlo se è messo in scena come si deve, vale a dire se è messo in scena da proletari. Invece viene messo in scena da borghesi, e i bor­ ghesi lo vedono come uno spettacolo assai palloso. Ecco le contrad­ dizioni in cui ci troviamo, e noi riteniamo che valga la pena trascor­ rere qualche anno a cercare di superarle, se si riesce a reggere dal punto di vista economico, il che è in effetti sempre più difficile. Al­ lora pensiamo che si debba teorizzare e al tempo stesso fare in mo­ do che questa teoria abbia più presa sulla realtà per cominciare a diffonderla un poco e quindi raccogliere le idee delle masse per poi restituirgliele attraverso i film: è il caso del film sulla Palestina, che solleva un problema i cui elementi si possono trovare anche qui, fra i lavoratori immigrati, e che può a sua volta fornire agli immigrati stessi qualcosa che li aiuti nelle loro lotte. Quindi non siamo affatto contrari per principio allo spettacolo, pensiamo tuttavia che occor­ ra esserlo in certe circostanze, con nostro grande dispiacere.

In quanto cineasta militante, non dovrebbe mirare all'efficacia immediata e sacrificarle la ricerca di nuove forme espressive? Ma noi non cerchiamo nuove forme, cerchiamo nuovi rapporti. Questa ricerca consiste anzitutto nel distruggere i vecchi rapporti, non fosse altro che sul piano formale, e poi nel rendersi conto che se sono stati distrutti sul piano formale è perché questa forma deriva­ va da determinate condizioni sociali di esistenza e di lavoro in co­ mune che implicano delle lotte fra opposti, quindi un lavoro politi­ co. Ciò si ricollega alle difficoltà dei gruppi rivoluzionari in Francia, che non riescono a trovare un’unità, anche su questioni banali. Ma tutto questo non è semplice.

I 146 1

A che punto siete col vostro lavoro? Il film sulla Palestina è in fase di montaggio. L’abbiamo dovuto abbandonare per qualche tempo, dovevamo realizzare per la tv te­ desca un film dal titolo Vladimir et Rosa, un incarico ben remune­ rato che abbiamo accettato come tale decidendo che ci saremmo po­ sti meno problemi. Questo ci ha mostrato la difficoltà di rimetterci a fare un film narrativo, con degli attori, che fosse un film materialista. È una domanda che i cinesi cominciano a farsi: lo svantaggio che abbiamo nei loro confronti è che da noi non c’è stata né la rivo­ luzione né la rivoluzione culturale. Bisogna lavorare su questo per­ corso seguendo delle forme nuove, non molto teorizzate. Come concepite il lavoro di gruppo? Non lo concepiamo: non ci riusciamo! Arrivare a lavorare politi­ camente in due su un film è molto diffìcile. Per forza di cose, in un lavoro collettivo viene un momento in cui deve occuparsene una persona sola, più qualificata di altri, per portarlo a termine. Non bi­ sogna lasciarsi andare all’utopia dell’egualitarismo assoluto, in par­ ticolare nell’ambito economico dove l’uguaglianza dei compensi non risolve i problemi perché non tutti vivono nelle stesse condizio­ ni: occorre perciò discutere delle condizioni di vita di ciascuno e quindi agire politicamente a tutti i livelli.

Cosa ne pensa dell’elemento didattico nei film politici? Ci sono due tipi di fìlm militanti: quelli che noi chiamiamo i film «da lavagna» e i film «da Internazionale», dove il secondo equivale a cantare L’Internazionale durante una manifestazione, mentre il primo dimostra e permette a qualcuno di applicare nella realtà ciò che ha appena visto, o di andare a riscriverlo su un’altra lavagna perché anche altri possano applicarlo. Questi sono i due aspetti contrari di una stessa unità, ma è molto difficile portare a buon fine questa unità, è difficile che La corazza­ ta Potèmkin sia al tempo stesso un insegnamento sull’agire rivolu­ zionario e un canto che risollevi gli animi. In effetti, siamo costante­ 1147 1

mente combattuti fra queste due tipologie. I film politici di grande spettacolarità, come Z, forgia del potere, non possono essere liqui­ dati sommariamente: bisogna vedere quale stadio della contraddi­ zione rappresentano nella situazione attuale. Può darsi che un film come Z, che in Francia fa regredire la coscienza rivoluzionaria dan­ do alle persone poco politicizzate una finta patina di impegno o mettendogli la coscienza a posto, in un altro momento o in un altro paese sarebbe un elemento di mobilitazione. In questo caso non penso più a Z ma a certi film brasiliani, cubani, al film boliviano Sangue di condor.

Tra i film politici recenti, ce ne sono alcuni che si avvicinano a quello che voi volete fare? Ma non sappiamo ancora bene quello che vogliamo fare, non sappiamo nemmeno se lo faremo, se andremo avanti. Io penso che si debba approfittare delle contraddizioni per insinuarvisi dentro e farle esplodere: ma il terreno è ben sorvegliato! Questo sarà possi­ bile tra qualche anno, con lo sviluppo dei videoregistratori a casset­ ta, che forniranno ai militanti uno strumento audiovisivo che con­ sente un lavoro politico più efficace. Non ci sarà più bisogno del ci­ nema normale, ma io penso che anche questo settore sarà strettamente sorvegliato dalla borghesia: i privati avranno il diritto di te­ nere a casa loro delle unità di produzione? Allora occorrerà utiliz­ zare le contraddizioni dovute alla rivalità fra le aziende capitaliste, ottenere dalla Sony quello che la Gaumont, per esempio, ci potreb­ be negare.

Lei rifiuta l'idea di tornare a realizzare un film che potrebbe tro­ vare posto nel mercato commerciale? Assolutamente no! Ma nessuno me lo offre, e io non ho i mezzi per realizzarlo. Anche in passato, dopo il successo di Fino alfultimo respiro, non ho mai ricevuto delle proposte: ho dovuto convincere io alcuni produttori, pochissimi per la verità, che finivano per di­ ventare miei amici e che, dopo il maggio parigino, hanno smesso di I 148 1

esserlo. Ma è impossibile realizzare un film politico all’interno del sistema: non appena il budget supera i cinquanta milioni, comincia­ no a mettere le mani nella sceneggiatura. Cinquanta milioni ve li danno se fate Easy Rider o More... E Camarades non costituisce una simpatica eccezione? Penso che Karmitz non possa fare due volte di seguito la stessa co­ sa, e che il suo film rientri nel genere, non di Z, ma di Sangue di con­ dor. ritengo che in questo caso sia inefficace. Non aiuta nessuno a combattere, si limita a constatare: è come La bella brigata, che ai tempi del Fronte Popolare aveva forse un senso ma oggi non può più averlo, perché non siamo più nel 1936. Non metto in discussione la sincerità di Karmitz, ma l’efficacia del suo film: per i proletari va me­ glio Il sale della terra. Si ha l’impressione, da due anni a questa parte, che lei si stia arren­ dendo a una certa impossibilità, forse momentanea, di esprimersi... No, mi esprimo molto meglio e molto di più, ma in un altro mo­ do, in maniera dialettica. Però è vero, è difficile esprimersi oggi in Francia, un palestinese o un nero oppresso degli Stati Uniti riescono a esprimersi meglio di me. Io mi esprimo, male, ma non ho perso la volontà di esprimermi, di trasformare il mio modo di esprimermi per esprimermi sempre meglio... (Intervista realizzata da Marcel Martin, pubblicata su Cinema 70, n. 151, dicembre 1970.)

[ M9 1

FARE I FILM CHE SONO POSSIBILI DOVE CI SI TROVA

Allora, è un ritorno? Mai partito. Ho sempre fatto due o tre film all’anno nel sistema industriale, ma non solo in Francia o nei cinema. Per me, per esem­ pio, la vera influenza del maggio ’68 è stata di aprirmi all’informa­ zione in generale, tenendo conto che per ciò che mi concerne - im­ magini, suoni, una retribuzione - questa si irradia tanto dalla tv quanto dal cinema. La singolarità di Numéro deux è di essere un film concepito per la televisione ma vestito dal cinema. Singolarità e sfortuna, perché gli abiti non si adattano al bambino. La televisione per la quale è stato concepito questo film non esiste abbastanza, e il cinema esiste trop­ po. Tutti sanno che la televisione non permette l’originalità e che il cinema autorizza solo i preconcetti. Accettare questa contraddizione pur continuando a guadagnarsi da vivere ti spinge a correre dei rischi. Per me, regista, confessare che balbettiamo, che siamo mezzi ciechi, che sappiamo leggere ma non scrivere, nel nostro ambiente quotidiano - cioè immagini, suoni, 1150 1

una retribuzione - significa rispondere in termini più onesti a quel­ la famosa questione della «comunicazione». Come comunicare? La comunicazione è ciò che si muove quando non si muove nien­ te, è la pornografia. Un’immagine o un suono si muovono non per un movimento, o per la sua assenza, ma perché prima e dopo di que­ sto c’è qualcosa. Si dà il caso che questo qualcosa siano uomini e donne, e tra loro ci sono la televisione, le cartoline postali, le lettere d’amore, i telegrammi, gli sos, il cinema, cioè i mezzi di comunica­ zione. Saper comunicare significa porsi la questione dei mezzi. Per esempio, se voglio chiedere alla mia amata che è in vacanza notizie di lei e della figlia, scrivo una cartolina postale. Ma se non ho soldi per comprare il francobollo tutte le mie grandi parole d’amore re­ steranno lettera morta. Fare cinema o televisione, tecnicamente, significa inviare venti­ cinque cartoline postali al secondo a milioni di persone, sia nel tem­ po che nello spazio, cosa che non può non essere irreale. Nessuno ne ha i mezzi, salvo chi è allo stesso tempo tutto e nessuno, come in Francia, per esempio, la ortf, la Thompson o la Publicis. Il nostro problema, dunque, non è tanto avere idee nuove, o an­ che vecchie, ma semplicemente avere idee, poterne avere e volere questo potere. Fare film diversi significa vivere il lavoro di fare un film diversamente, sia dal punto di vista economico che da quello psicologico. Si­ gnifica partire da dove ci si trova invece che da dove non ci si trova. Non è dire: «Vado a vedere cosa accade in Portogallo», ma avere la possibilità di dire risolutamente: «Sono partito da qui, ed ecco i pro e i contro di questo altro posto rispetto a quello in cui mi trovo».

Concretamente? L’«altrove» può benissimo essere un posto tipo il Portogallo o la Palestina, ma allora il «qui» dovrà essere del tipo «mia moglie a let­ to con un altro», vero o falso che sia. Il «qui» potrà benissimo esse­ I 151 1

re un operaio dell’industria libraria che supplica il padrone di con­ servargli il posto, ma bisognerà fargli corrispondere il suo vero «al­ trove», che è: «Che modo strano d’impiegare il tempo, per un ope­ raio, stampare cose che danneggiano la classe operaia». Se non col­ leghiamo il «qui» e l’«altrove» limiteremo il movimento al suo pun­ to di partenza, o di arrivo.

E nel suo film? Ci si muove, perché non ci si fissa né sul punto di partenza né su quello d’arrivo ma solo sul movimento, sui rapporti, sugli andiri­ vieni. Non c’è sesso ma solo sessualità. Si può insomma descrivere la crisi di una coppia non mostrando una donna e un uomo - come in tutti i film classici, pornografici o meno - ma facendo vedere che questa coppia vive in simbiosi con altre coppie altrettanto fonda­ mentali: la coppia genitori-figli, piccoli-grandi, ragazza-vecchia, fabbrica-casa. In tal modo, con dei mezzi di una semplicità assoluta - per esempio una bambina che chiede: «Tutte le bambine hanno un buco?» - possiamo inventare una risposta: «Sì, è da lì che proviene la memoria», e far sì che un vecchio osi infine ricordarsi ad alta vo­ ce delle folli giornate dell’Internazionale Comunista, tutte piene di desiderio e di sessualità non detta, di spese non contabilizzate. Numéro deux quindi vuol dire un po’ tutto questo? Numéro deux indica con il suo titolo un nuovo stato di fatto, un programma, delle direzioni. Non si tratta tanto di fare un film inve­ ce che un altro, ma di fare i film che sono possibili dove ci si trova. Per sapere dove ci si trova bisogna cominciare a guardarsi attorno. E si comincia vedendo degli elementi della società, le donne, gli uo­ mini, i bambini, il lavoro, la cucina, i vecchi, la solitudine, e tutto questo a ritmi quotidiani. Essere vicini al pubblico è bellissimo; noi non ci siamo ancora riusciti, ma almeno con Numéro deux partia­ mo da qui: è lui, il pubblico, a inventare quei ritmi quotidiani du­ rante la sua giornata.

[ 1511

Il punto in cui si trova lei oggi non è soprattutto nei rapporti ma­ schio-femmina? È il punto in cui si trovano tutti. Qui, come in Cina e nel pensiero di Marx, i rapporti tra gli uomini passano sempre attraverso i rap­ porti tra uomo e donna. Ma la novità ancora maldestra di Numéro deux è di essere interamente costituito da un discorso di donna (la produttrice del film, una bambina e Germaine Greer) registrato più o meno bene - e in maniera costante - da un uomo, non avendo le donne ancora accesso ai mezzi materiali di comunicazione. Quando incontrate dei turisti, guardateli: è sempre l’uomo a portare la mac­ china fotografica o la cinepresa. Però il cinema, come molte altre co­ se, senza le donne non esisterebbe. E io voglio che esista, e che esista diversamente. Filmare diversamente, come nessuno cerca di fare, lontano da Hollywood, lontano dalla Nouvelle Vague. Poco importa oggi che un film dica «questo va bene» o «questo va male»: un film non ha nessun potere, se non quello di mostrare come va. Bisogna lavorare ancora per conquista­ re questo potere. (Intervista a cura di Yvonne Baby, pubblicata su Le Monde, 25 settembre I975-)

I 153 1

VIVERSI, VEDERSI

Non ho mai lasciato la Francia, sono franco-svizzero, di una regio­ ne ben precisa tra l’Alta Savoia e la Svizzera romanda. Ho lasciato Parigi cinque o sei anni fa. Poi - in provincia era troppo difficile - so­ no tornato sulle rive del lago di Ginevra. In provincia era difficile perché si trattava della provincia francese: noi restavamo nell’hinterland, mentre tutto passava per la capitale. Se proprio dovevo essere straniero, tanto valeva esserlo veramen­ te. La Svizzera è l’Israele d’Europa. Se proprio dovevo restare in esi­ lio, tanto valeva essere in esilio a casa mia. In Svizzera sono uno straniero: dico sempre testa quando è croce, croce quando è testa, e agli altri questo dà fastidio. E poiché sono una croce, faccio perde­ re la testa agli altri. E se proprio dovevo restarmene da solo, tanto valeva restare da solo in posti dove ci sono il lago, le montagne, l’er­ ba, e anche la città. Il cantone di Vaud è grande quanto una Los An­ geles che in mezzo ai palazzi abbia anche la foresta e qualche lago. Il documentario [France/tour/détour/deux/enfants] è la Francia: avrei potuto chiamarlo «Europa», ma si chiama «Francia» per via 1154 1

del libro.1819 Una parte è stata girata a Parigi. Una Francia di quartie­ re, un quarto di Francia, come si potrebbe dire «un quarto di luna». Per i bambini, a Parigi, la televisione è un oggetto familiare, meno sacro che in provincia. Quanto a me, ero un professore che gli avrebbe fatto fare dieci minuti in più di lezione. Six fois deux aveva destato una certa sorpresa, La gaia scienza era un po’ infantile, provocatorio, però mi ha meravigliato il fatto che non sia stato accolto come un lavoro serio, che qualcuno abbia cer­ cato la provocazione là dove non c’era. Un lavoro sulla lingua fran­ cese, sì, come una raccolta di canzoni di altri tempi: non un viaggio .nella lingua francese, ma un viaggio nelle espressioni. Siamo risaliti fino a Cartesio, ad Aristotele, ho interrogato sistematicamente i due ragazzini dicendo: «Oppure...? Oppure...?» Dopo tre puntate avevano sviluppato delle tattiche; la bambina diceva: «Non lo so», e il bambino: «Un po’ tutte e due le cose». Li mettevamo in situazioni in cui ciascuno era obbligato a fare una scelta perché si potesse vedere la sua inventiva, la sua capacità di de­ cisione, senza molto tempo per riflettere. Questo la televisione lo permette, e il cinema dovrebbe imparare a trarne profitto: viversi e vedersi in televisione, e poi al cinema si possono creare delle storie. Si salvi chi può... la vita è un inizio di storia. Non c’è nulla che io ami più delle storie, eppure mi hanno detto che le distruggevo. Ci ho messo vent’anni per farmi avanti, per riuscire a cominciare. È dura. Quello che ti impediscono è proprio di raccontare delle storie. A boy meets a girl... tutta un’altra cosa rispetto a quello che di solito si vede al cinema. I miei progetti? Realizzare il seguito, sotto forma di film, di In­ troduzione alla vera storia del cinema,'9 mostrare gli aspetti scono­ sciuti di questa storia: il primo aspetto, vedere il cinema piuttosto 18. Le tour de la France par deux enfants, un classico libro di lettura per bambini a cui allude il film di Godard, girato nel centenario della sua pubblicazione, (n.d.t.I

19. Libro di Jean-Luc Godard, pubblicato in Italia da Editori Riuniti, Roma 199Z.

I n.d.t.]

I 155 1

che leggerlo. È l’unica storia che si possa vedere; l’altra la si può in­

ventare. Il fatto di vedere è considerato di per sé pericoloso, riprovevole. In tutti i paesi alfabetizzati si dice che la letteratura rende liberi. Io non credo che sia così. In certe situazioni la scrittura può non esse­ re una priorità. Ma poi riescono a far passare la letteratura, a far leggere il testo di un televideo su uno schermo televisivo. Ci si rovi­ nano gli occhi, si ha paura del loro potere. Se solo potessero impor­ re l’alfabeto ai bambini di due mesi... Sì, le cose che ci mettono davanti agli occhi sono sempre di più, ma le cose che vediamo sono sempre di meno. Le immagini televisi­ ve sono come la musica che si sente dentro gli ascensori. Un film non si può raccontare, va visto. Io prendo una quantità di appunti, ma non per descrivere quello che sta per succedere, come quelli che scrivono le sceneggiature, come quelli del Pentagono: un film che ha successo non lo deve alla sceneggiatura, il che non vuol dire che io sia contro gli sceneggiatori. L’idea è di mostrare dei fatti reali e far vedere come si è riusciti a trasformarli in leggende. Non è importante che Griffith abbia inventato il primo piano, ma che a un certo momento il piano sia stato tagliato. Così come a un certo mo­ mento, con Rimbaud, Joyce, Picasso, è stato fatto un salto. Il cinema muto, che era popolare perché mostrava le cose senza raccontarle, era molto potente. Walter Benjamin ha detto lo stesso a Adorno: l’inconscio dell’industria si è spaventato, ed è nato il so­ noro. Il cinema muto era la scoperta del montaggio. Il cinema non è fo­ tografia in movimento, ma tre fotografie da giudicare, da mettere a confronto. Lo dimostrerò come un fatto scientifico: Ejzenstejn ha fatto questo, questo e questo, e questo dimostra quest’altro. Con il cinema sonoro, bisognava smettere di vedere, di pensare, di immaginare. Con il muto, la gente apriva gli occhi, tutta insieme. Davanti all’immagine sono tutti sullo stesso piano: il cinema, i suoi occhi, sono alla nostra altezza, meno tabù che nel sesso, ma da na­ scondere, potenti, da controllare. Tutti i grandi del cinema sonoro 1156 1

sono muti. Per questo prenderemo degli esempi del muto e di quel­ lo che è diventato all’epoca del sonoro. Hitchcock ti faceva morire di paura mostrando una fila di botti­ glie, e non una fila di cadaveri. Gli serviva una potenza incredibile, ma nell’immagine prima e in quella dopo. È qui che si vede la verità. È così che si rende giustizia. È chiaro, non c’è bisogno di dire nien­ te, si vede. Vedere la storia piuttosto che raccontarla. Il cinema è l’unico am­ biente in cui si può fare una cosa del genere. Se l’unica persona che può dire la verità non la racconta, deve pur esserci una ragione. Al­ lora s’impiega un altro mezzo. Si dice: basta mostrare. Io penso che spesso lo si impedisca. Oggi quello che conta nei film non è più ve­ derli, ma parlarne. Fare i critici significa questo, e tutti noi della Nouvelle Vague eravamo più vicini a Henri Langlois che a chiunque altro. Langlois era un cineasta che girava i suoi film con i proiettori invece che con le macchine da presa. Lumière ha inventato prima il proiettore e poi, dopo, la macchina da presa. Dato che c’è un proiet­ tore, bisogna inventare qualcosa con cui alimentarlo: tra Auguste e Louis dev’essere successo qualcosa del genere. In televisione, hanno inventato i telespettatori prima dei pro­ grammi. La televisione è una specie di cinema su scala industriale. La gen­ te di cinema si è rifiutata di sottomettersi al controllo della gente del Ministero delle Telecomunicazioni. Ma quelli del ministero aveva­ no le loro idee sui film che vedevano, e su come si facessero i film. Quelli del ministero hanno sì visto qualcosa, ma qualcosa in cui ri­ troviamo una grande rigidità, perché su scala industriale tutti i mo­ di di fare cinema commerciale in fondo sono identici, col loro cor­ porativismo, le specializzazioni... quando addirittura non si finisce per ritrovare sempre-le stesse persone. Il cinema marginale è un sal­ timbanco, uno zingaro: Verneuil è uno zingaro rispetto al direttore di FR3. Insomma, in confronto a lui... Quanto alla tecnica video, utilizzarla come farebbe uno che lavo­ ra nel cinema, e utilizzare il cinema come farebbe uno che lavora in I 157 1

televisione, significa fare una televisione che non esiste, un cinema che non esiste più. Chi lavora nel cinema rifiuta assolutamente la tecnica video. Tut­ tavia il vantaggio è che si può vedere l’immagine da realizzare prima di realizzarla, e decidere se tenerla oppure no. Se un’immagine fun­ ziona posso mostrare la mia angoscia e il pubblico non avrà niente da ridire. Ma i tecnici sono degli stregoni, e quando dico questo la stregoneria svanisce, li ho smascherati, e non c’è motivo di pagarli 5000 franchi. Quello che assolutamente non vogliono è la desacra­ lizzazione. Rifiutano di vedere le cose nel loro complesso. Al giorno d’oggi ci sono più litigi che nel Medioevo, perché gli in­ namorati non si sforzano di vedere le cose come stanno, e poi arri­ vano i drammi e le sofferenze. C’è la televisione a separarli, non rie­ scono più a parlare per chiarire le questioni che contano. Se parla­ no, ci sono tonnellate di cose che vanno in cortocircuito, e loro fini­ scono per lasciarsi, e non resta niente. In Francia abbiamo vissuto anche la fine di un’illusione: non si fa televisione da soli, ed è questo il suo vantaggio rispetto al cinema, che si può fare da soli. Un programma che non viene trasmesso è peggio di un film che non viene proiettato. E coloro che hanno in mano il potere sono quelli che in televisione ci vanno diverse volte al giorno, per tutta la settimana. Il cinema ha una potenza straordi­ naria quando va in televisione, per esempio quando un film viene trasmesso nove volte al giorno come alla televisione americana, è qualcosa di miracoloso. È il ritorno del figlio! prodigo, il padre che l’aveva cacciato adesso gli concede la sua complicità, e il pubblico fa festa, perché neppure i peggiori film di Louis de Funès sono mini­ mamente paragonabili alle serie televisive: nel cinema rimane una traccia di libertà, di romanzesco. Ma insomma la potenza è quella di chi scrive o racconta ciò che ha visto. Mosè ha preso in custodia le tavole della Legge, ha visto cose e ne ha tratto profitto. Socrate parlava senza scrivere, spingeva la comunicazione un po’ troppo in là, ed è stato sfruttato da Plato­ ne. Quanto a Gesù, a modo suo, su di lui hanno dovuto fare un li-

1158 1

bro. I discepoli vengono dalla letteratura, non ci sono discepoli nel cinema. Ci sono solo altri grandi cineasti. La letteratura invece per­ mette di copiare, e infatti i romanzieri originali diventano pazzi, muoiono di solitudine. Il cinema può trovare soluzioni, ma si vedono solo problemi. Da vent’anni a questa parte io cambio delle cose nel cinema, mentre il pubblico non ci è ancora arrivato. Dovrebbe essere possibile farlo, ma non funziona, le resistenze sono troppo forti. In televisione nessuno fa niente, tranne gli operai che allestiscono lo studio. No, non c’è nemmeno l’energia. Due giornalisti come Zitrone e Couderc facevano qualcosa, ma che ne è stato di loro? In te­ levisione nulla si crea, nulla si distrugge, nulla si trasforma. Siamo pieni di mezzi di comunicazione, ma non c’è più comuni­ cazione. Ho avuto grandi difficoltà a considerare il cinema e la tele­ visione come mezzi di comunicazione. Bisogna chiedersi: «Di cosa ci si può servire, e perché?» (Commento raccolto da Claire Devarrieux, pubblicato su Le Monde, 30 marzo 1980.)

I 159 1

ECONOMIA POLITICA DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA Dibattito tra Jean-Luc Godard e Pauline Kael

Godard: In vista di questo incontro, ho cercato di prepararmi leggendo alcuni suoi articoli su film recenti, in modo che potessimo avere almeno qualcosa in comune con il pubblico. Ho letto qualco­ sa su Una volta ho incontrato un miliardario, Toro scatenato, I can­ celli del cielo, e volevo parlarne con lei, così come di un articolo che ha scritto sei o sette mesi fa, intitolato «Perché il cinema è così brut­ to».10 Forse possiamo cominciare da qui. kael:

Per me va bene. Mi è sembrato che ci fosse una insinuazio­ ne negativa quando ha detto che si è preparato cercando di leggere alcuni miei articoli. (Risate.) Da noi vuol dire che non li ha digeriti, ma spero che non sia questo il caso. No, no, è perché non parlo bene l’inglese o Pamericano, (risate) e io. Il titolo dell’articolo è in realtà: «Why Are Movies So Bad? or, The Numbers» («Perché i film sono così brutti? o Le cifre» ], The New Yorker, voi. 56, n. 18,23 giu­ gno 1980.

I 160 ]

cerco veramente di ascoltarla e di ascoltarmi parlare in una lingua straniera; oggi, dopo trent’anni nel cinema, ho una conoscenza più approfondita e pratica in materia, e quindi è ancora più diffìcile per me discuterne in una lingua straniera.

Mi avevano detto che parlava inglese abbastanza bene da sentirsi a proprio agio. Mi piacerebbe che lei mi desse una sorta di punto di appoggio dicendomi che cosa pensa di ciò che ho scritto in questi ul­ timi mesi. Be’, solo cinque minuti fa lei mi ha detto che non dovevo consi­ derarla responsabile di tutta la critica americana, ma penso che lei lo sia, in un certo modo, esattamente come io mi sento responsabi­ le dei film che vedo, anche se non li ho fatti io. Ah, no, questo non lo accetterei. Non posso credere che lei si sen­ ta personalmente responsabile del lavoro di un cineasta che di­ sprezza. Prendiamo questo articolo, per esempio. Lei ha cercato di scopri­ re perché i film sono così brutti, e attacca (e non sono d’accordo con lei) una brava persona di cui fa il nome, che era vicepresidente di non so quale gruppo. Ne fa il responsabile di tutto ciò che va male nel cinema. E io mi sono detto: «Come è possibile che un’unica per­ sona sia responsabile di...?» Un film è fatto almeno da cento perso­ ne. È come la guerra. Nixon è responsabile, ma gli americani sono responsabili dell’elezione di Nixon. Bene, mi lasci spiegare cosa intendo quando dico che i capi han­ no tutta questa influenza. Dal momento che le persone che sono a capo di una produzione non si interessano di cinema ma vengono da agenzie o da piccole ditte, o direttamente dal mondo degli affari, se, come molti di loro, hanno fatto la Harvard Business School, se sono impegnati a razionalizzare l'impresa e se considerano un progetto rigorosamente in termini di profitto prima di iniziarne la produzio­ ne - facendo cioè affidamento sulla televisione, sulle reti straniere,

sulla tv vìa cavo, sulle videocassette - sanno benissimo che per fare più soldi ci vogliono le star o i diritti di un grande bestseller. Questi sono i film più facili da lanciare sul mercato, e così sono le decisioni di marketing a determinare quali film faranno. E spesso, se capita un film su cui non contano molto e che non sono proprio riusciti a ven­ dere in anticipo, non muovono un dito per difenderlo, di modo che film come Una volta ho incontrato un miliardario o, diciamo, All Night Long o Atlantic City, usa, non hanno alcun diritto a una pro­ mozione paragonabile a quella dei film di cui sono sicuri. In realtà, gli dà fastidio essere legati a questi film, perché ritengono che saran­ no dei fallimenti commerciali, e così, per la loro negligenza, li fanno fallire. Sì, ma non è una buona ragione. È giusto, ma questo non descri­ ve la realtà della realizzazione di un film. Non sono gli unici a fare film, i film sono fatti dal pubblico, i film sono fatti dagli operatori, dai sindacati: tutti sono responsabili... Perché, per esempio, le auto­ mobili americane oggi non vendono più? Jean-Luc, diciamo le cose in un altro modo... No, il problema è: chi obbedisce a quest’ordine? Io cerco di non obbedirvi mai. Ecco perché... Lei non lavora nel sistema di un grande studio cinematografico. Mi piacerebbe molto.

Ma io sto cercando di spiegarle la ragione per cui non può. Per questa stessa ragione un Godard americano non potrebbe lavorare nel sistema di un grande studio cinematografico. Ma non è una ragione valida per non affidarmi un film da realiz­ zare. Cerco di spiegare un po’ come vengono realizzati i film nella struttura hollywoodiana. Non parlo di voi, cineasti regionali o indi­ pendenti. Perché di fatto il modo in cui lavora lei è molto più simile

1162 1

a quello in cui lavorano i cineasti regionali o indipendenti in questo paese. Nessuno dei suoi film è stato costretto ad avere un successo di massa per rifarsi delle spese, tranne forse II disprezzo, e penso che quella sia stata probabilmente la sua ultima esperienza con qualco­ sa che rassomiglia al sistema dei grandi studi. No, era la mia prima esperienza con un produttore americano, ed ecco perché... (Ride.)

Ma non sarebbe d’accordo... Sto cercando di spiegare che il titolo del suo articolo avrebbe do­ vuto essere: «Perché i film sono così brutti?» Lei, come critico, e an­ che io stesso siamo responsabili. Ma in America credo che, se un film è brutto, la responsabile sia soprattutto lei. Perché i critici han­ no molto potere qui, e non lo usano; o meglio, usano il loro potere nello stesso modo in cui lo usano gli uomini di affari del cinema. Penso che in una certa misura questo sia vero, perché in primo luogo lavorano per gli stessi grandi gruppi che possiedono le case di produzione e sicuramente anche perché tendono a lasciarsi impres­ sionare dai registi di fama invece di vedere le qualità di un determi­ nato film. Ma non vale per tutti i critici americani, come non è vero che tutti i registi americani che lavorano nel sistema degli studios si lasciano sottomettere. Molti di loro si battono e tengono alla conce­ zione che hanno del proprio film. Ma torniamo all’analisi delle ra­ gioni per cui i film in questo paese sono generalmente tanto brutti, e sembrano doverlo diventare ancora di più con l’arrivo di tutta que­ sta televisione via cavo e con le grosse vendite alla televisione com­ merciale: questi ultimi anni sono anche peggio, secondo me adesso ci sono ancora meno possibilità che un progetto non convenzionale trovi un finanziamento, perché gli studi cinematografici si alleano per consolidare il loro controllo. Sì, ma allora bisogna dimenticare questo modo di fare film e farli in un altro modo. E se negli Stati Uniti non è possibile, si va altrove.

I 163 J

Lei sa che non è cosi semplice. C’è un mucchio di gente che ha del­ le idee e che vede le cose in grande. Da dove vengono queste idee? Be’, lei adesso è associato con Coppola, che è l’esempio di chi la­ vora davvero meglio in grande, non necessariamente nelle propor­ zioni di Apocalypse Now, ma possiede una sorta di visione epica ve­ ra e propria. Non è certo un tipo da filmettini. Non credo che La conversazione sia il suo film migliore, e di certo non lo è Non torno a casa stasera. Chiaramente dipende dal sistema di finanziamento e di distribuzione degli studi cinematografici. Mi aspettavo che man­ tenesse la propria indipendenza, ma non ci è riuscito. Lei lavora in modo diverso e crede che questo sia alla portata di tutti. Ecco il pro­ blema quando si parla con gli artisti. Pensano che il loro modo di la­ vorare sia l’unico possibile. No, niente affatto, ma è l’unico modo per continuare a esistere, l’unico. Io non ho mai fatto un film, non ho mai sognato di fare un film, ho sempre fatto ciò che era possibile fare. Ma c’è gente che si batte contro il sistema, e che vince. Da Hol­ lywood sono usciti bei film. Questo è vero. La maggior parte dei cineasti che iniziano a lavorare a un proget­ to sperano di essere in grado di fare bei film come quelli. Per un ver­ so non vogliono prendere la strada seguita dai registi regionali o in­ dipendenti, cioè fare un film e poi dedicare due anni a difenderlo fa­ cendo il giro del paese per recuperare le spese. Questo atteggiamen­ to spesso è terribilmente autodistruttivo. Con uno studio cinemato­ grafico avrebbero avuto una garanzia di distribuzione, almeno la speranza di una distribuzione, ma se lavorano da soli è una cosa dav­ vero negativa per loro passare il proprio tempo a distribuire il film. Prendiamo per esempio un film che tutti, credo - me compreso, anche se mi piacerebbe difenderlo - considerano un brutto film, I 1164 ]

cancelli del cielo. Non so cosa abbia detto lei su questo film, ma ho letto alcuni articoli di Vincent Canby e altri ancora, e mi sembra che abbiano parlato molto bene del Cacciatore che secondo me non era poi così bello, così come I cancelli del cielo non è poi così brutto. (Ri­ sate.) Anche se è un insuccesso, secondo me è molto più interessan­ te del successo, è come un corpo malato. Possiamo guardarlo, esa­ minarlo e poi dire cosa c’è che va o che non va. Credo che I cancelli del cielo sia un ottimo esempio. Ha una quantità di spunti magnifici che il regista non ha saputo reggere fino in fondo, per alcune ragioni del tutto evidenti che possiamo analizzare. Ma i critici questo non lo dicono mai, e non cercano mai di aiutare, neppure uno molto arro­ gante come Cimino, a fare un film migliore la volta seguente. Mi lasci dire anzitutto che II cacciatore non mi ha entusiasmato tanto quanto la maggior parte dei miei colleghi, e non sono stata nemmeno così negativa riguardo ai Cancelli del cielo. Ho detto che secondo me il film era un fiasco, ma che era stato fatto da un artista. Cimino è una persona piena di talento. D’altra parte quando dice che un fiasco è più interessante di un successo, se si tratta di un fia­ sco da quaranta milioni di dollari la questione che si pone è di sape­ re chi ritiene interessante questo fiasco. Io, perché con quaranta milioni potrei fare quaranta film. (Risa­ te, applausi.) Questa è una delle ragioni deU’ostilità nei confronti di Cimino. Un film da un milione di dollari è un film carissimo per me. Il mio avvenire sarebbe garantito per il resto dei miei giorni.

Sta cambiando strada. No, sto pensando che la cosa interessante di questo film è che chi lo ha realizzato si è perso per strada. Mi farebbe piacere parlarne con lei, perché ciò mi riguarda in quanto regista, e perché mi inte­ ressa l’America, dove mi sento a casa per via dell’ambiente e del le­ game con Francis: lui ha uno studio e cerca di farne una casa, men-

tre io ho una casa di cui mi piacerebbe fare uno studio. È l’unico le­ game che ho con Francis. Ma credo che tutti i buoni registi ameri­ cani - Scorsese, De Palma, tutti quelli famosi - siano svampiti quan­ to me: non facciamo i film che potremmo fare. Io potrei realizzare film molto migliori, come pure Martin, e anche Francis, ma non li facciamo. Anche Michael Cimino potrebbe fare film migliori, ma non ci riesce. Quando ho visto I cancelli del cielo due giorni fa, ho pensato che cercava di realizzare un film in America, mentre fare un grande film - come quelli di Griffith - non è più possibile. È come ve­ dere un artista paralizzato ma che non sa di esserlo. È molto inte­ ressante perché Michael inventa man mano che procede, è capace di produrre solo qualche inquadratura veramente significativa all’in­ terno di un film di tre ore, ma quelle poche inquadrature sono mol­ to più interessanti di un mucchio di inquadrature di altri registi, per­ ché fanno capire cosa vuol dire realizzare un film. Cerca di fare un film americano, e questo è molto interessante.

Non riesco a seguirla, sta dicendo che queste persone non sono capaci di fare i film che sarebbero capaci di fare,.. Proprio così.

In questo caso si tratta di un paradosso. Allora prendere o lasciare. No, i registi in Europa oggi peccano di superbia, che siano italia­ ni o spagnoli: più sono bravi e più esagerano. Francis esagera, si pre­ parava a realizzare una piccola commedia carina per gli studios, fi­ nanziariamente era coperto, non c’era nessun problema, il film alla lunga avrebbe riguadagnato il denaro di Apocalypse Now, poi im­ provvisamente un film da quattro milioni di dollari si trasforma in un film da venticinque milioni. È segno che sta accadendo qualcosa, e dobbiamo stare attenti perché si tratta del nostro avvenire... alme­ no dei mio, in quanto cineasta. Anche De Palma, che è molto dota­ to, pecca di superbia quando investe il suo talento in una sceneggia­ tura così brutta.

I 166 ]

Penso che De Palma lavori in modo relativamente poco costoso, quindi non capisco esattamente cosa vuole dire. La maggior parte dei film di De Palma, salvo Fury che pure aveva un costo moderato rispetto agli standard hollywoodiani, sono stati fatti con pochissi­ mi soldi. Esagera, nel senso che non si preoccupa della sceneggiatura, e se facesse più attenzione alla sceneggiatura per lui sarebbe un’ottima cosa. Tuttavia ha scritto lui stesso la sceneggiatura per il film, e a me è sembrata abbastanza buona. Io invece penso che si sbagli, pecca di superbia, specialmente nel­ l’ultimo, Vestito per uccidere. Mi piace De Palma perché lavora ve­ ramente con l’immagine, e questo va benissimo, ma non dovrebbe trascurare la storia fino a questo punto.

Hitchcock era simile. No, no, non è vero, almeno per quattro o cinque dei suoi film mi­ gliori. Direi che la maggior parte dei film che ha realizzato negli ultimi ventanni della sua vita si basano su sceneggiature molto mediocri. E anche in alcuni film degli inizi, lui voleva inserire determinati epi­ sodi e lo sceneggiatore manovrava la sceneggiatura a questo scopo (poiché la sceneggiatura era lasciata al povero sceneggiatore). Se pensiamo a film come Sabotatori o II prigioniero di Amsterdam, ci accorgiamo che la sceneggiatura non fa che girare intorno a degli episodi. Ma questo ci sta portando fuori strada, mi sembra. Conti­ nuo a non capire dove vuole arrivare quando dice che i registi ame­ ricani esagerano, o peccano di superbia. Non capisco se intende sot­ to raspetto economico, tecnologico o cos’altro, dal momento che tra De Palma e Coppola c'è un abisso. Sotto tutti gli aspetti. Fanno film che sono troppo grandi o trop­ po piccoli per loro, e non hanno un rapporto normale con la loro 1167 1

creazione. È come qualcuno che ha cose importantissime da dire ma parla così in fretta che non lo capisce nessuno. Ma cos’è un rapporto normale? Come fa un artista a determinar­ lo? La maggior parte passa da un progetto all’altro; Coppola ha la­ vorato in grande, ma ha lavorato anche in piccolo. Sembra che ades­ so, per una questione di carattere, lavori su scala più vasta. Ma co­ me si può chiedere a un uomo di andare contro il proprio carattere? Forse la sua opera principale la farà su scala più grande. Per me se si spendono quaranta milioni di dollari per un film co­ me 1 cancelli del cielo o Apocalypse Now non si tratta di grande sca­ la, ma di piccola. Quaranta milioni di dollari per Apocalypse Now... un’ambasciata americana a Saigon ne spende molti, di soldi, ogni mattina. (Risate.) Io sono diventato molto presto il produttore di me stesso. E realizzando film ho scoperto che i film non sono fat­ ti per guadagnare. (Risate.) D’accordo, credo che ci sia del vero in ciò che dice, anche dal pun­ to di vista degli studios. E Francis è un grande spendaccione. (Risate.)

Però c’è una sorta di magnificenza in questo. Certi registi hanno fatto incassare somme enormi agli studios. Spielberg e Lucas, per esempio, e molti altri, hanno reso agli studios centinaia di milioni di dollari. Dunque, se hanno molte idee e vogliono sperimentarle, e se il film diventa più costoso, loro hanno una giustificazione morale. Sanno anche che quando un film fa buoni incassi, i soldi non saran­ no reinvestiti nel cinema. La produzione comprerà un’altra indu­ stria, o un’azienda da qualche parte, una cartiera o un calzaturificio. Quindi non mi preoccupo troppo per le perdite della Transamerica. con I cancelli del cielo, perché la Transamerica ha ricavato enormi profitti da altri film. Se fosse una questione di soldi... se quei qua­ ranta milioni di dollari sprecati fossero stati suoi o di qualche altro regista, sarebbe un discorso ben diverso. Ma adesso è molto diffici-.

1168]

le controllare un certo tipo di artista. Uno come Cimino è un regista visionario. Nel caso dei Cancelli del cielo, durante la produzione tutti avevano una paura tremenda. Ma non c’era modo di control­ larlo perché non si può licenziare un regista che ha il film in testa. Non è più come una volta, quando si poteva licenziare un regista e rimpiazzarlo con un altro sotto contratto che riprendeva la sceneg­ giatura dal punto preciso in cui Vaveva lasciata il primo e si metteva a girare. Non c’era alcun mezzo per fermare il film. Dunque biso­ gnava lasciar continuare Cimino. Chiaramente hanno cercato di te­ nergli la briglia corta. Avrebbero potuto farlo, ma non volevano. Erano molto impa­ zienti per aver speso tutto quel denaro. Probabilmente hanno gua­ dagnato un sacco di soldi con gli interessi, perché la banca che ha prestato il denaro è controllata da loro. (Risate, applausi.) No, non credo che sia andata così. E credo che i capi si prendano una bella strizza quando un film sfora il budget in questo modo, per­ ché è possibile che in seguito cadano alcune teste. Tutti sanno che i capi hanno una paura matta quando un film comincia ad andare a ruota libera, come in questo caso. Ricordo che più di un anno prima dell’uscita, tutti a Hollywood parlavano a voce bassa di quello che stava accadendo ai Cancelli del cielo, dal momento che la produzio­ ne aveva semplicemente perso il controllo sul regista ed erano ob­ bligati ad andargli dietro nella speranza di tirarne fuori qualcosa. Ma credo che lei sia un po’ ingiusto anche nei confronti dei critici, a proposito dei Cancelli del cielo. In effetti l’articolo di Canby era ab­ bastanza brutale. D’altro canto, è anche vero che il film non ha nep­ pure una scena buona, non ha neppure un personaggio buono, e du­ ra diverse ore. (Risate.) Io lo trovo molto interessante sotto l’aspet­ to visivo, ma non c’è niente che possa conquistare il pubblico. Se la casa produttrice avesse pensato che i critici si sbagliavano, avrebbe investito milioni nella pubblicità e avrebbe forse recuperato le per­ dite. Un mucchio di brutti film vanno bene se le case produttrici ci credono davvero. Ma in quel film non ci credevano, e non ci hanno [ 169 ]

creduto perché hanno dato retta alla stampa. Prenda un film come Laguna blu: sotto tutti gli aspetti è assolutamente peggiore dei Can­ celli del cielo, ma in quel film c'è qualcosa che possono vendere, pos­ sono spacciarlo come prodotto romantico per i preadolescenti e gli adolescenti. Ed è questa la ragione per cui hanno investito circa quindici milioni di dollari per difendere quel film penoso, e lo han­ no venduto molto abilmente giocando la carta delle associazioni re­ ligiose o delle associazioni dei genitori, dicendo ai genitori che il film avrebbe mostrato ai figli un amore meraviglioso, pulito, naturale. E pazienza se non è andato bene, e se qualche mese dopo averlo stron­ cato (come praticamente tutti), ho cominciato a ricevere lettere di lettori che si lamentavano del fatto che gli avevo rovinato quella ma­ gnifica esperienza che significava tanto per la loro famiglia. (Risate.) Il potere della pubblicità è enorme, e penso che con I cancelli del cie­ lo avrebbero potuto cavarsela se lo avessero sostenuto, come i pes­ simi film che fanno uscire in un migliaio di sale contemporanea­ mente affinché il passaparola non abbia il tempo di diffondersi. (Ri­ sate.) Avrebbe potuto funzionare per la prima settimana, forse per la seconda. Ma loro erano costernati perché si rendevano conto che i critici avevano detto alcune cose giuste, e cioè che in quel film non c'è nulla. Ma dato che lei scrive per una rivista, non le sembra di far parte della catena della pubblicità, e quindi dell’industria del cinema? Co­ me può scrivere in una colonna così piccola, tra due inserzioni? (Ri­ sate, applausi.) Non c'è nessuna pubblicità lì. Ho perso la pubblicità di cinema sul New Yorker già da diversi anni. Non le pubblicità di cinema, le altre.

Se osserva le pubblicità del New Yorker vedrà che sono tutte pub­ blicità per prodotti di consumo. La rivista ha perduto tutte le com­ pagnie chimiche pubblicando gli articoli di denuncia di Rachel Carson. Ogni volta che pubblicano qualcosa che fa scalpore perdono l 170 1

un'industria. Di altre, conte quella del tabacco, non accettano la pubblicità. Ci sono abbastanza boutique, abbastanza rivenditori di merci di lusso per far sì che la redazione di questa rivista conservi la propria libertà. Ecco perché è la migliore rivista al mondo. Le rivi­ ste libere sono pochissime. Quando scrivevo, in Francia, nel giornale per cui scrivevo non c’e­ ra neppure una pubblicità. Mentre venivamo qui mi ha detto che ha avuto un problema, che le hanno chiesto di tagliare due o tre righe.

Ma è una questione di spazio, non di pubblicità. Cos’è una questione di spazio? Esistono gli impaginatori, sa. Io scrivo su un settimanale, per al­ cune persone che fanno una rivista bellissima. Non avevano venti­ cinque righe per me e quindi ho dovuto tagliare. Ovviamente le cri­ tiche dei film e le altre recensioni vengono consegnate all'ultimo mi­ nuto, le altre cose sono già pronte. Se la recensione viene troppo lun­ ga bisogna tagliarla. Ecco perché ieri ero un po' indaffarata a ta­ gliare l'articolo, quando dovevo prendere l'aereo per venire qui. Ma non mi è stato mai, mai chiesto di cambiare un'opinione, o di com­ piacere in qualche modo gli inserzionisti. Ed è una cosa rara, per me come per molti altri scrittori. Bene, guardi come funziona l’industria. Anche se lei non è para­ gonabile a un critico di Time (anche Time fa parte del cinema), lei fa comunque parte dell’industria. La creazione di un giornale fa parte dell’industria, fa parte della cultura.

Jean-Luc, i suoi film attirano gente colta, ricca. A vederli non ci vanno i lavoratori, ma questo non vuol dire che noi lì respingiamo per colpa del suo pubblico. Più i suoi film sono diventati marxisti, più il suo pubblico è diventato borghese. (Risate.) Ma noi non di­ ciamo che questo pregiudica la qualità di ciò che lei fa. In quanto critico sono assolutamente libera di dire ciò che credo. Quale altra libertà deve esigere un critico? 11711

Io credo di non avere nessuna libertà, e non porrei affatto il pro­ blema in questi termini.

Oh, la finisca con le frottole! (Risate.) Lei è libero... I film che fa sono all'altezza delle sue possibilità, o sbaglio? Sì, certo, sono libero di battermi. Ecco qua. Ma credo che se i film americani oggi non sono poi tanto belli do­ vrebbe esistere un modo diverso di scriverne. Non so se sia possibi­ le: a sentire quello che ha detto lei, non lo è. Lei non è libera, per esempio, di scrivere regolarmente articoli su film sconosciuti. Il suo direttore la licenzierebbe. Lei non è libera... mi lasci spiegare. Ho vi­ sto gli articoli che ha scritto questi ultimi due anni sul New Yorker (non la voglio attaccare personalmente); lei, in una certa misura, ha cercato di essere diversa dagli altri. Mi ha parlato per esempio di Kagemusha, del fatto che ha cercato di recensirlo dopo che l’aveva­ no fatto tutti. Ma perché non due anni dopo? Perché non due anni prima? Perché non parla di un film prima che sia terminato? Lei è un critico cinematografico. Un critico cinematografico non è solo un giornalista. Lei decide di scrivere di un film della Paramount quan­ do la Paramount decide di farlo uscire: dov’è allora la libertà? (Ap­ plausi.) Diciamo le cose in un altro modo. Io potrei scrivere... No, io non voglio attaccarla su questo. Il problema è che lei non può scrivere un articolo su un film italiano il giorno in cui la Para­ mount o la United Artists fa uscire I cancelli del cielo, perché in quél caso parlerebbe di un film che forse qui non vedranno mai.

No, in realtà io posso parlare di qualsiasi film, quando voglio. Il mio direttore sarebbe lietissimo se io recensissi film sconosciuti o poco conosciuti, perché in tal caso ci sarebbero meno lettere contro di me, trattandosi di un film che non ha visto nessuno. È una mia

I vi]

scelta criticare ciò che critico. Ho un'idea molto precisa dei film di cui le persone vogliono sentire parlare, e dal punto di vista giornali­ stico è una pura idiozia recensire film che non si possono vedere in provincia. L'ottanta per cento dei lettori del New Yorker abita fuo­ ri New York. Cerco di parlare di film che almeno sono o saranno in circolazione, in modo che ci sia una possibilità che la gente ne senta parlare. Quando scrivo di un film come La fantastica sfida, so che non lo daranno più a New York, tranne che in qualche piccola sala. Ma forse alcune persone in provincia avranno la fortuna di vederlo, oppure lo vedranno in televisione. No, credo che ci sia molta più li­ bertà. Credo che lei voglia vedere il sistema più oppressivo di quan­ to non sia, e forse questa è una delle cose che non sono piaciute al pubblico nei suoi ultimi film. Lei adotta un punto di vista così radi­ calmente negativo da non lasciare alla gente nessuna via d'uscita. No, non è un problema mio. Il mio problema è legato strettamente ai critici. Io cerco di far uscire il film (ci riproverò con il pros­ simo) altrove, non a New York. Tutti i gestori hanno rifiutato di­ cendo: «Fatelo uscire a New York e poi vedremo. Che ne diranno a New York, sul Time e sul New Yorker, o in altri ambienti del gene­ re? Se ne parlano bene lo prenderemo». Il vero produttore dei miei film e di molti film europei secondo me è lo stesso, perché qui in America non accettate facilmente i prodotti stranieri. E io non sono bravo come i costruttori di automobili giapponesi... Il vero produt­ tore per me non è Barry Diller della Paramount, o qualcun altro di qualche altra casa produttrice, ma è lei, è Vincent Canby, è Andrew Sarris, è la gente come voi che fa...

Penso che il nostro mondo sia assolutamente inoffensivo. A mio avviso, spesso i miei colleghi sono fin troppo generosi, piuttosto che avari di elogi; dato che se sei sempre duro con i film, o se li stronchi spesso, i lettori pensano che in te ci sia qualcosa che non va. Pensa­ no che sei malato, o che hai qualche fissazione. Ma non credo che lei stia afferrando completamente il problema. Nessuno vuole far usci­ re un film senza le recensioni newyorkesi semplicemente perché il I 1731

pubblico non si prenderà il disturbo di muoversi se non ne avrà sen­ tito parlare, preferendo restare a casa a guardare la televisione, che non costa niente. Perché la gente vada a vedere un film è necessario che qualcosa li attiri, e se non ne hanno sentito parlare, se non han­ no visto la pubblicità in televisione, né sentito o visto recensioni, ne deducono che è un film che non vale niente, un pessimo film, altri­ menti qualcuno ne avrebbe parlato, e per questo non compreranno il biglietto. Ecco perché un film come Smile è stato un fiasco. Smile, Il lungo addio... sono tantissimi i film che non sono sopravvissuti perché sono usciti senza le recensioni newyorkesi. Penso che alcuni di quei film sarebbero potuti andare benissimo se avessero ottenuto le recensioni di New York. E a New York si possono ottenere ma­ gnifiche recensioni. (Risate.) Non sempre (risate), lei esagera. Soprattutto in America, che è un grande paese, un vasto territorio, l’ordine di andare a vedere qualco­ sa proviene da un luogo minuscolo. Ma questo non rappresenta nem­ meno il venti per cento delle ragioni per cui i film sono così brutti.

Non credo che questo sia del tutto vero. A Washington, il critico del Washington Post ha una notevole influenza. A Los Angeles ci so­ no critici molto influenti. Fanno veramente la differenza per certi pubblici. Sì e no. Un film non uscirebbe mai a New York perché un critico di Wichita ha detto che...

No, no, è vero. Ebbene, ecco qualcosa che fa in modo che il cinema sia brutto. No, un film può avere delle recensioni negative a New York, e tut­ tavia avere successo presso un certo pubblico se c’è un critico dav­ vero attivo in un giornale influente. In questo modo si sono salvati numerosi film che le recensioni di New York avevano fatto fuori. Ma credo che lei sia pessimista sotto troppi punti di vista. Si ostina a ve­ dere un potere centrale che non c’è. Il vero potere nel cinema è quel­ 1 174 1

lo dei pubblicitari, della gente del marketing, che non solo determi­ nano quale film debba essere finanziato, ma anche quale venderan­ no. E questo lo stabiliscono ben prima che la produzione sia finita. Quando pianificano una campagna strategica, la gente sente parla­ re del film così tanto che lo vanno a vedere credendo che sia incen­ sato dalla critica. Io recensisco molti film che quasi nessuno va a ve­ dere perché non sono sostenuti da una massiccia pubblicità televisi­ va. È un sistema molto complesso, ma c'è un modo per combatter­ lo. Almeno racchiude qualche speranza, mentre io credo che lei in un certo senso voglia averne una visione del tutto negativa. (Risate.) (Trascrizione parziale di un dibattito tenutosi il 7 maggio 1981 a Mill Val­ ley, in California, al Marin Civic Center, pubblicato su Camera Obscura nn. 8-9-10.)

[ 175 1

DANS MARIE IL Y A AIMER”

Mi sembra di essere molto più scemo di prima. Per questo parlo di tutto e di niente, cerco di andare in tutte le direzioni: per darmi l’im­ pressione di fare ginnastica. Ma a volte mi trovo in un tale stato di abbrutimento: un’intelligenza addormentata. Ho la sensazione di utilizzare il dieci per cento delle mie capacità. Sono un labirinto ambulante, un po’ infelice. Sono troppo vasto per me stesso, lo ammetto, ne sono infelice. Gli altri non lo dicono o hanno una forza che io non ho, e riescono a condensare questa va­ stità, a metterla da parte. A volte mi chiedo che senso abbia pren­ dermi cura del mio corpo, occuparmene. Ora che sto invecchiando resterà un bel vuoto. Mi sentirò più felice, ma ci sarà qualcosa di cui rimarrò privo: Van Gogh, che non posso considerare completamen­ te pazzo, in cui c’era qualcosa di vero che a causa delle circostanze non è riuscito a esprimersi, forse perché era troppo solo o troppo le­ gato alla sua famiglia. O un’altra persona abbastanza sana come 2i. Letteralmente: «In Maria c’è amare». Aimer è l’anagramma di Marie,

1 176 ]

[n.d.t.}

Artaud, che però agli occhi della società era matto o malato. E quando leggiamo i suoi testi, capiamo che è abbastanza normale che fosse così. Ne ho inseriti un bel po’ in Je vous salue Marie, testi mol­ to più chiari di quelli della Bibbia. Ma non ho per niente voglia di lamentarmi. Con Anne-Marie Miéville abbiamo deciso all’inizio dell’anno di interessarci al cam­ biamento di secolo. Mi ha sempre interessato non il modo in cui le cose accadono, ma il momento in cui accadono. Ed è per questo che le persone hanno un approccio diffìcile con me, perché nel momen­ to in cui mi parlano mi chiedo sempre come è possibile che parlino ed è di questo che vorrei parlargli, ma loro si bloccano immediata­ mente. Mi dicono che ho un brutto carattere, o un carattere solita­ rio, poi smettono di farmi domande. A volte faccio fatica a seguire la conversazione corrente, che mi sembra piacevolissima, e sviluppo sempre un doppio discorso. Sono sicuro che Wittgenstein si sbron­ zava in un caffè con i suoi studenti, ma si chiedeva anche: come è possibile che si pronunci la frase «andiamo al caffè»? Qui a Rolle siamo in una situazione molto speciale e paradossale. Io e Anne-Marie siamo di nazionalità svizzera e francese, lei per ma­ trimonio, io per nascita e di cuore. Abbiamo una società francese grazie alla doppia nazionalità di Anne-Marie - che preferisce lavo­ rare, diciamo manualmente, in Svizzera. Viviamo qui spendendo franchi francesi, con il controllo dei cambi e con l’autorizzazione della Banque de France. Una cosa che sembrava a tutti inverosimi­ le, vista la debolezza del franco francese rispetto al franco svizzero. Eppure riusciamo a stare bene in questa situazione rovesciata. Non potremmo vivere diversamente. È come se vivessimo in noi stes­ si il vero dialogo nord-sud, anche se lo viviamo tra l’est e l’ovest. E non cambia niente se ogni giorno per questo diminuisce l’acqua cal­ da in bagno o se invece di prendere tre pezzi di pane ne prendiamo due. La vita non cambia assolutamente: non dimagriamo, non in­ grassiamo nemmeno perché non possiamo. Basterebbe che ogni sa­ lario al disopra dei settemila, ottomila franchi a testa fosse ridotto di I 177 ]

mille franchi. La gente potrebbe viverci benissimo senza che la loro vita sia minimamente modificata: avrebbero lo stesso numero di og­ getti. Ma non viene fatto. E noi dimostriamo che si può fare e che produce una ventata d’aria fresca. E una solitudine, anche, ma non molto più grande. Questo esilio, Grenoble, poi la Svizzera, è avvenuto per noi come per molte aziende che non riescono più a lavorare a Parigi. Per me, ad esempio, significa poter vedere le persone, vedere i fenomeni na­ turali e industriali. Fare un film consiste nel fare fotografie in un cer­ to modo. Ebbene, se ci sono sempre più apparecchi, ci sono sempre meno cose da fotografare. In una strada di Parigi ci sono molte me­ no cose rispetto all’epoca della Nouvelle Vague. Non ci sono più animali, per esempio. Oggi i film sono concepiti negli uffici. Il fallimento della Gaumont è dovuto semplicemente al fatto che stanno rinchiusi nei loro uffici. In televisione è lo stesso, a parte qualcuno, tutti quelli che la fanno vivono dentro gli uffici. Solo gli sceneggiatori sono pagati per anda­ re, come si dice, a isolarsi nel verde. Ma per me la forza del cinema è ancora che non lo si può creare negli uffici. E la creazione significa trovarsi nel verde senza essere isolati. E questo, a Rolle, ha un lato essenzialmente pratico. Se voglio fil­ mare un cavallo, posso farlo; se voglio filmare una ragazza innamo­ rata, posso fare anche questo. Così come posso filmare un’automo­ bile, una fabbrica, un aeroporto. C’è semplicemente una scelta più ampia di soggetti e una possibilità umana di raggiungerli. Per anda­ re a riprendere un capoufficio devo attraversare una foresta. A Pari­ gi non ci sono foreste. Non c’è acqua, non c’è aria. Non ci sono più i quattro elementi naturali. Non so se sono in grado di fare film ma ad ogni modo in città non ho gli elementi che mi servono. Il luogo su cui abbiamo ripiegato, se si può dire così, è un piccolo passaggio in cui le persone sono chiusissime ma dove ci sono comunque delle correnti d’aria. Sul lago soffiano una trentina di venti diversi. Ci de­ ve essere qualcosa di simile a un corridoio tra la Francia e il Giura che fa sì che qui ci sia lo stesso tempo che c’è in Francia, però due

l 178 1

giorni dopo. Una specie di microclima all’interno di una regione che è già un microclima. Uno spazio più grande nel quale ci sono più co­ se che si trovano meno distanti le une dalle altre. Mi piace molto questa sistemazione tra la Francia e la Svizzera. In biologia potremmo paragonarla alla trasmissione del messaggio at­ traverso I’rna - a cui non credeva nessuno, allora, e di cui io ero ve­ nuto a conoscenza quasi da solo - in cui l’informazione stessa è su­ scettibile di creare vita in un dato momento. Questa doppia vita, questo volontario decentramento, è un atto di resistenza che i mez­ zi legali non permettono. I miei nonni avevano una grande tenuta con cinque case qui di fron­ te. La famiglia di mio padre era meno ricca ma benestante, avevano soltanto una casa dall’altra parte, in Svizzera. Ci si vedeva da una casa all’altra. Ci si poteva vedere con un cannocchiale. Quando ci andavo in vacanza ci si salutava prima di pranzo. C’erano dei riti, delle cerimonie. Mio padre aveva una barca che si chiamava Le Trait dTJnion. Dunque tutto questo deve avermi segnato molto. Io sono soltanto un trait d’union. Ho anche un doppio nome di batte­ simo. Certe sere la riva francese si vede molto, molto nitidamente. Sembra quattrocento metri più in là. A volte guardo la Francia e mi dico: «Ah, eccola lì la Francia!» Sono molto riconoscente ai miei genitori per avermi fornito una sicurezza grazie all’istruzione. Ne avevano i mezzi, ma credo che non sia solo questione di mezzi. Detto questo, è stata comunque un’infanzia piacevole. Per questo oggi non desidero affatto posse­ dere una tenuta in riva al lago, mi sarebbe di grande impaccio. Op­ pure bisognerebbe farne uno studio di produzione cinetelevisiva, o magari un centro di ricerca finanziato dall’industria farmaceutica Hoffmann-La Roche, il che sarebbe piacevole. Però se riguarda me personalmente, allora no, perché ce l’avevo già quando ero piccolo, non ho bisogno di averla di nuovo. Nella mia famiglia non ci hanno insegnato niente, ma erano molto tolleranti. Era una famiglia di col­ laborazionisti; la prima volta che andai al cinema fu a Vichy, avevo I 179 1

dieci anni. Ricordo che durante la guerra ascoltavamo alla radio gli editoriali di Philippe Henriot. Io leggevo i romanzi di Paul Chack, che mi piacevano molto. Ce ne sono alcuni da cui mi piacerebbe trarre un film: Trafalgar, Des Dardanelles aux Cótes-du-Nord. Il giorno in cui fu fucilato Brasillach fu un lutto in famiglia. Non è qualcosa che mi abbia particolarmente segnato. Anzi, for­ se in seguito ho cercato di chiarirmi le idee in merito, perché non ne sapevo niente. Ma comunque sia, lo trovavo un clima democratico, tollerante. Mio nonno paterno era banchiere, credo che un tempo fosse uno degli amministratori di Paribas. Era diventato amico di Paul Valéry. In una stanza chiamata Valerianum aveva tutte le ope­ re di Valéry. Se non fosse morto penso che avrebbe pubblicato degli scritti inediti. Ci sono persone così, che magari non scrivono la bio­ grafia di qualcuno, ma che, non so, vivono con... So con certezza che Valéry ci diede lezioni di latino, ma non ne conservo più alcun ricordo. La famiglia da parte di mia madre era numerosa: ho sette o otto zii e una zia. Era una famiglia dedita alle opere di beneficenza, come ce n’erano una volta, tra i ricchi e tra i poveri. Anche Le ultime va­ canze di Leenhardt, un film che mi è piaciuto molto, ha questo aspetto dell’etica protestante. I catari e gli ugonotti sono emigrati nel cantone di Neuchatel, dove ci sono tutte queste grandi famiglie di origine protestante come quella da cui proveniva mia madre, che era una Naville. Un amico mi ha detto che l’aspetto molto riservato degli svizzeri è dovuto al fatto che non hanno mai amato la Svizzera e che avrebbe­ ro voluto emigrare verso sud, appunto. Cesare glielo ha impedito di­ cendogli: no, voi mi servite, non vi permetterò di andarvene. Ci han­ no provato una volta, non lontano da Ginevra, e Cesare li ha aspet­ tati... E da quel giorno sono tornati e hanno dovuto ringoiare il loro desiderio. È una cosa tipica degli svizzeri: sono persone che ingoiano e sputano sempre. Per dare una definizione della bandiera svizzera ho detto una volta: è il sangue degli altri, e ci facciamo una croce so­ pra. E ancora: gli altri hanno il conto bancario in rosso e noi abbia­ 1 180 ]

mo un di più. Il vecchio Siritzky, il distributore di Prénom Carmen, diceva: la Svizzera sarebbe un grande paese se potessimo stirarlo. Se nel cinema si potessero emanare decreti alla Caligola - che non sarebbero crudeli perché essenzialmente culturali - Jack Lang do­ vrebbe vedere tutti i film fatti negli ultimi quattro anni e mandare al confino la maggior parte dei registi che li hanno realizzati. Gli da­ rebbe i mezzi per girare altri film, ma dovrebbero girarli nelle condi­ zioni in cui si trovano. Lei, Gilles Béhat, fa Rue Barbare e vuole gi­ rarlo a Lille? Ebbene, lei andrà ad abitare tre anni a Lille e poi lo gi­ rerà lì. A Parigi lo presenterà dopo che sarà uscito a Lille. E così il film di Béhat sarà leggermente migliore di quello che è, ed essendo migliore, anche il mio sarà migliore e anch’io sarò leggermente mi­ gliore. Ma quando Gilles Béhat va da Parigi a Lille per le riprese av­ viene uno sfruttamento della provincia tipicamente agricolo, è il si­ gnorotto di campagna che arriva, o è il lato agricolo di uno come Francois Guillaume, che è nobile e proprietario terriero. Dovrebbe essere la televisione pubblica regionale a realizzare film in provincia, film diversi. Documentari come Farrebique e Biquefarre avrebbe do­ vuto produrli FR3 Cévennes, e FR3 Rhóne-Alpes avrebbe dovuto produrre La Trace. E poi sarebbero usciti a Mulhouse, o a Parigi. All’epoca della Nouvelle Vague si diceva ingenuamente: sarebbe bello che il cinema fosse insegnato a scuola. E tutti i registi america­ ni, Lucas, Spielberg, provengono da quelle scuole perché gli Stati Uniti si sono resi conto che occorreva trasformare la cultura in forze economiche dirette. In Francia si preferisce dare quattrocentomila franchi a Marguerite Duras per girare un film, anche se non le manca la possibilità di produrlo da sola, soprattutto adesso. Ma sarebbe molto meglio che il Ministero dell’istruzione comprasse le sue video­ cassette e ne facesse una distribuzione sicura. Dunque si preferisce dettar legge senza neppure avere davvero il desiderio di dettar legge... Ci sono cineasti che mi fanno venir voglia di lodarli senza aver vi­ sto i loro film. Non ho bisogno di farmeli piacere ma è importante che loro facciano cinema: non è affatto la stessa cosa. Si tratta di un 1181 ]

certo numero di persone che dovrebbero avere un compenso mensi­ le dallo stato, con l’obbligo di fornire alla televisione un prodotto di due ore, una volta all’anno o ogni due anni, il che li costringerebbe ad avere un pubblico, una minima attenzione. Ciò che manca di più è un pubblico. Quando ho chiesto al Centre National de la Recher­ che Scientifique di annettersi la mia società e di pagarla annualmen­ te, non mi hanno nemmeno risposto. E quando abbiamo chiesto di incontrare Gajos per Je vous salue Marie - e lui è un distributore che certe cose le ha fatte, che ha riaperto alcune sale in provincia, e la co­ sa funziona, la gente vede qualche film di Beimondo - abbiamo at­ teso 1’incontro per un mese e lui non è venuto. Prendo regolarmente appunti per un progetto che dobbiamo con­ segnare l’anno prossimo al Ministero della Cultura, su quello che io definisco il «modello cinema», il cinema considerato come un siste­ ma esperto. Un film è il migliore sistema esperto che esista, non im­ porta che sia mio o di Zidi, sono fatti pressappoco allo stesso modo. Il vantaggio del cinema è che è a grandezza naturale, perché un film è quasi come un batterio. Avete tutto in vivo: dal miliardario alla bel­ lezza antiquata della star, dalla sessualità al denaro. Avete tutto que­ sto in un piccolissimo spazio per tre mesi. È il sistema esperto più me­ raviglioso che ci sia. E basta vedere, non c’è alcun bisogno di parla­ re. È una cosa che ho proposto ma che devo fare un po’ da solo e che si riassumerà forse in qualche foto, che non costituirà un vero studio. Ieri su Le Monde c’era un articolo che parlava di cultura e agricoltu­ ra. C’è una contrazione del mondo culturale e anche del mondo agri­ colo. L’autore scrive, per esempio, che la società agricola si è ridotta come la pelle di zigrino del romanzo di Balzac, e la società moderna si è sviluppata su questa riduzione. Dipende da come si vedono le co­ se. Si può dire che c’era una grande superficie e che poi l’agricoltura è stata distrutta. Ma se leggiamo bene significa anche che l’agricoltu­ ra è venuta meno e che la cultura tecnica moderna non ha occupato subito il vuoto. Si è sviluppata su quell’assenza, in maniera eccessiva, e poi è andata a occupare degli spazi troppo grandi che non era in 1 i8x]

grado di riempire. Siccome non c’erano macchine, per occupare que­ gli spazi era necessario il discorso sulle macchine. Allora hanno svi­ luppato quello, e lo spazio è stato occupato dai discorsi. Non dai ro­ bot, che in una fabbrica occupano uno spazio piccolissimo, e in ogni caso inferiore a quello degli uomini. In compenso deve esserci un’e­ norme zona vuota, poiché il discorso sui robot occupa uno spazio grandissimo. È questo a sopprimere i posti di lavoro: il tempo è oc­ cupato dalle chiacchiere. C’è un’eccedenza di agricoltura, e questa eccedenza fa sì che dall’altra parte, pur trovandoci nell’epoca delle comunicazioni, ci sia un’insufficienza di prodotti e che non si riesca nemmeno a trasportare un sacco di patate in Mozambico. Nello stesso articolo sull’agricoltura è citato Bourdieu: «Le classi dominate non parlano, sono parlate». Magari fosse solo questo. Ma anche le classi dominanti sono parlate, parlate dal loro stesso potere di far parlare gli altri. Se fosse solo quello ci troveremmo sotto Luigi xiv, quando c’era il re che parlava e il servo, col suo aratro, se ne ave­ va uno, che non parlava. Ma non si tratta affatto di questo. L’impie­ gato del Ministero dell’Agricoltura parla come Mitterrand o come Depardieu. È questo che non va, ed è per questo che alla gente non in­ teressa parlare per comunicare. Il re o non diceva niente o si rivolge­ va al popolo una volta ogni dieci anni, ma ne aveva bisogno. Quan­ do Mitterrand parla in televisione, ha forse bisogno di parlare? E co­ munque lui è parlato da se stesso in quanto presidente della Repub­ blica. Tutte le persone al potere hanno questo aspetto che mi ha sem­ pre molto meravigliato, il fatto di dire sempre: «In quanto uomo so­ no contro, ma in quanto capostazione sono obbligato a obbedire». Dov’è allora il capostazione? Se almeno ci fosse in tv un programma per il buffone. Ma abbiamo visto chiaramente che quando Coluche11 ha voluto fare un po’ il buffone, è stato severamente liquidato.

22. Attore e comico (1944-1986) molto amato in Francia anche per l’attenzione ri­ volta ai problemi sociali. Nel 1980 annunciò di volersi candidare alle elezioni presi­ denziali, scatenando le ire di una parte della classe politica; in seguito all’ostracismo dei media e a una serie di minacce anonime ritirò la sua candidatura, [n.d.t.]

1 183]

Quanto ai giornalisti, non si arrischiano molto. Sarebbe necessario che, di tanto in tanto, chi firma gli editoriali scrivesse un articolo e, viceversa, i giornalisti dovrebbero essere obbligati a scrivere degli editoriali. A July di Libération, per esempio, farebbe bene scrivere un articolo ogni tanto. È vero, talvolta si dilunga e scrive verbosi editoriali sotto forma di articoli. Ma in realtà questo gli permette soprattutto di parlare di Mitterrand e Reagan o di missili, cose sul­ le quali non ne sa più di me. In generale, i giornali dovrebbero rin­ graziare gli uomini politici e i governi di cui parlano male, perché senza di loro passerebbero da diciotto pagine a tre. O, ancora, vediamo Mitterrand auspicare che le cose vadano meglio, che la gente combatta di meno, e subito dopo veniamo a sa­ pere che c’è stato un attentato, una strage, e che a Beirut sono ri­ prese le ostilità. E nessuno dice che questo è successo grazie alle ar­ mi gentilmente vendute dalla Francia, mentre Mitterrand ha appe­ na auspicato il contrario. Perché? Non può auspicare, oppure do­ vrebbe dire: auspico due cose. Ma scomparirebbe in quanto uomo politico. E con lui tutti gli altri personaggi che la gente guarda e in­ vidia solo perché stanno lì. E sicuramente ognuno di noi è fatto un po’ così, ha le sue contraddizioni. È questo che il cinema può mo­ strare, è per questo che interessa sempre. Ma diciamo che lo si po­ trebbe fare anche in maniera un po’ diversa, che non ci sono affat­ to i mezzi ma neanche la volontà, e bisogna tenerne conto. A un certo punto sono scomparsi gli anfibi ed è arrivata una certa specie di uccelli: dovrebbe andare così anche per questo genere di cose. Ho letto una cosa sugli alberi: quando ci sono delie radure e si pian­ tano due tipi di alberi, dopo sei anni uno elimina l’altro, i faggi sop­ piantano i castagni. Per molto tempo non l’avevo capito, non ci avevo nemmeno fat­ to attenzione. Solo adesso, dopo cinque o sei anni, ho capito cosa dev’essere accaduto alla maggior parte dei registi all’epoca dell’av­ vento del sonoro. O meglio del suo insediamento economico, per­ 1184 1

ché il cinema sonoro avrebbe potuto esistere fin dai tempi di Edison, se lo avessero voluto, e invece si è diffuso solo quarant’anni dopo. Cosa può essere accaduto: deve esserci stata la sensazione di una grandissima perdita di possibilità, ma che era conveniente per mol­ ti. Oppure cos’è accaduto a un grande inventore di forme come Hitchcock, che a un certo punto ha provato ad andare in televisio­ ne e ha preso un granchio, ha perduto il suo potere. Al contrario di Matisse, che man mano ha trovato il gesto necessario, Hitchcock man mano l’ha perso, anche se erano due persone molto simili per quanto riguarda la pura creazione delle forme. Io non ci avevo mai pensato, ma ora mi dico che dobbiamo scomparire come creatori di una certa forma, perché non siamo riusciti a raggiungerla. A un cer­ to punto una specie di lucertole scompare, e allora chi se ne nutre deve scomparire, o cercare altre lucertole. Per questo motivo, nei movimenti politici, mi sono sempre interessato alle persone un po’ sradicate, ero sensibile a interi popoli che mi sembravano nella mia stessa condizione. Magari me lo immaginavo, che fossero i palesti­ nesi o i vietnamiti. Ora mi paragono più ai vietnamiti. A modo mio sto facendo nel cinema ciò che il Vietnam ha fatto con la Cambogia: m’impiccio in affari che non mi riguardano. Ho l’impressione che tutto questo mi riguardi, che riguardi la possibilità, per una piccola società come la nostra, di vivere, sopravvivere e investire. Perché si può dire che noi non siamo altro che investimenti: il 95 % del nostro fatturato. Nel cinema si vede molto chiaramente come l’oggetto - la mac­ china da presa per esempio - sia la traccia di una struttura tecnica sociale: si obbedisce a una traccia. E resta un desiderio di creazione che deve essere più grande, più folle di prima, e ci si augura di non obbedirgli troppo... Come dicevamo prima: ci sono più malattie culturali che altro, ma non vengono studiate. Si preferisce studiare un po’ le malattie fisiche - non tanto, ancora - e le malattie sociali, ma le malattie culturali vengono definite «gusti» e «colori». È segno di buona salute o di malattia? Credo che oggi sia piuttosto segno di malattia. Non è sempre stato così. 1 185]

Per me la carestia culturale nell’Europa industriale e in America è questa: un’angoscia enorme e inconfessata da parte delle persone, che le spinge a ingozzarsi di ciò che definiscono immagini, diciamo di diapositive, come se fossero cioccolata. E per me questo ha un le­ game assolutamente diretto con una carestia fisica. Se si dice a un tecnico televisivo di realizzare un tot di effetti per i titoli di testa, eb­ bene, questo provocherà un tot di bambini morti in Etiopia. Non che i soldi sarebbero potuti servire a qualcos’altro, ma il legame è assolutamente diretto. La vecchia legge di Lavoisier è ancora valida: ciò che si fa qui si trasforma altrove. E in più oggi la malattia prende l’aereo, il telex prende la fotocopia e via dicendo. Io ne ho avuto qualche prova: lo abbiamo visto una volta in Mozambico quando abbiamo cercato di fare qualcosa lag­ giù. Diamo la macchina da presa a uno che non l’ha mai usata. Gli mostriamo come premere il bottone. Lui filma il suo presidente che riceve una delegazione all’aeroporto e fa un reportage identico a quello di Antenne z. Filma le stesse cose: il tappeto rosso, in modo impeccabile, le stesse inquadrature. Quindi la «malattia» è arrivata con l’aereo. Abbiamo fatto credere che la televisione fosse il trionfo dell’immagine. C’è stato un imbroglione che è servito anche a que­ sto, si chiamava McLuhan. In realtà ci sono sempre più foto e sem­ pre meno immagini. C’è una quantità infinita di brevi sequenze ri­ prodotte che non mostrano niente. Se mi dite di aver visto un’imma­ gine dell’Afghanistan in televisione, vi dico che avete visto solo l’im­ magine di un tipo col turbante. Per dare un’immagine dell’Afghani­ stan sarebbe necessario che ci fosse almeno una trinità e che la per­ sona in televisione giocasse un ruolo in questa trinità. Altrimenti non c’è immagine, il bambino non nasce. Ma con la parola possiamo far­ lo nascere, non ce ne priviamo. È questo che una giornalista televisi­ va come Christine Ockrent chiama informazione. E di questa paro­ la, anche se a un certo punto diventa faticosa, la gente ha bisogno. La televisione serve a tenere sotto controllo l’angoscia. Le persone possono essere più o meno responsabili, ma esiste una fissazione per I 186]

l’angoscia che a volte diventa troppo forte. Allora bisogna espellere l’angoscia dal corpo, così da eliminarla. In quel momento il corpo può andarsene in vacanza. Effettivamente è una grossa fatica, ci si sente un po’ troppo soli se non si riceve posta a casa, talvolta è una sofferenza. Io sono felicissimo di vedere Dallas. Ne studio alcuni frammenti. E mi rendo conto che mi sto rimettendo in moto. Dun­ que anch’io ho bisogno di scaricare la mia angoscia in qualcosa di collaterale. Per molto tempo abbiamo avuto paura della merda, adesso l’accettiamo. Forse è significativo il fatto che in quest’epoca di cambiamento ci sia meno paura della merda. E la merda a invaderci, non le immagini. Se fossero le immagini, le persone non potrebbero più vedere ciò che vedono. Nel momen­ to in cui compare un’immagine un po’ differente, questa strappa il consenso generale, ma toglie spazio al resto. Le foto dei campi di concentramento, per esempio, in occasione dell’anniversario della loro liberazione. Adesso ci si appresta a giudicare Barbie,13 magari di fronte alle telecamere della televisione, ma non si vogliono mai far vedere le foto dei lager. Tuttavia su una sola di quelle foto si po­ trebbe girare un film di un’ora e proiettarlo durante il processo. A quel punto Vergès scomparirebbe. I lager sono stati sicuramente filmati in lungo e in largo dai tede­ schi, perciò da qualche parte ci devono essere gli archivi; sono stati filmati dagli americani, dai francesi, ma non vengono mostrati, per­ ché se li si mostrasse qualcosa cambierebbe. E non c’è bisogno che cambi. Si preferisce dire: non deve succedere mai più. Se lo si dice si può essere sicuri che non succederà più, visto che «mai» va insieme a «sempre» e che siamo nell’era digitale e va bene, sarà sempre co­ sì... senza giochi di parole. E si dice anche: be’, le cose sono sempre le stesse. Per cui credo che oggi possiamo dire perfino: «La sinistra ha vinto, il fascismo non passerà». E infatti non è passato, è rimasto 23. Klaus Barbie, criminale di guerra nazista; fu estradato in Francia e condannato nel 1987 per crimini contro l'umanità. L’avvocato Jacques Vergès fu il suo difensore al processo, (n.d.t./

I 187 1

dov’era. È quello che la sinistra voleva, e perciò ha vinto. Allora per­ ché si lamenta? Sui lager. Ho provato a fare un film partendo da un libro di Lacaze, Il tunnel^ che è uno dei rari libri allegri sull’argomento; lo si potrebbe immaginare interpretato da Depardieu, se qualcuno lo volesse fare. A volte mi chiedo se un giorno lo gireranno davvero. Possiamo pensare a Zidi, a Verneuil... Gli americani forse, Steve McQueen, ma non è più periodo. E poi non potrebbero, questa sto­ ria ha un lato molto francese. Tratta l’aspetto teppistico, l’omoses­ sualità. È ciò che aveva fatto Renoir nella Grande illusione e che spiegava il notevole successo del film. Una cosa che mi piace molto è la storia deìVautobahn. Quando si portavano i prigionieri dal bar­ biere, gli si diceva: «Andiamo a farti Vautobahn», cioè l’autostra­ da, che significava rasare in un attimo la testa con la tosatrice. Sa­ rebbe stata la prima immagine del film, e la seconda quella dei turi­ sti tedeschi che partono in autostrada per la Iugoslavia. Ma in televisione non si tratta più di mostrare le cose, si tratta so­ lo di parlare, è una sorta di perversione innocua. È il trionfo stesso del nazismo, di tutto ciò che è stato fatto da Hitler. Con i disoccu­ pati e con il terzo mondo oggi si riesce a ottenere ciò che a Hitler non era riuscito con i suoi lager, cioè far lavorare la gente gratis. Però si commette un errore che i nazisti avevano capito, alla fine: non si può eliminare totalmente il costo del lavoro perché poi la gente muore, bisogna sbarazzarsi dei cadaveri e questo sottrae tem­ po alla produzione. Lo stesso vale per gli animali che si cerca di modificare, molto stu­ pidamente, perché questo genera sovrapproduzione e infelicità. Si deve veramente avere un desiderio di sofferenza per generare infeli­ cità, anche se in nome della felicità. Agli animali sono state imposte sofferenze spaventose, cambiando le loro leggi naturali. Fare in­ grassare una gallina o una mucca genera infelicità anche nell’agri­ coltore. Una serie interminabile di infelicità che inizia dall’animale. Quindi bisogna cambiare questo stato di cose, deve cambiare sicu­ ramente. [188]

Per quanto riguarda i computer e i software, è peggio di prima. Se comprate un computer Per imparare a scrivere, come si fa nelle scuole, questo scrive tutti > modi di dire «piove», e scrive anche «spiove». Ma se proviamo a digitare «io piovo», il computer non ne vuole sapere. Potevano lasciarlo: «io piovo, tu piovi, noi pioviamo», dopotutto è carino- Potevano lasciarlo, per spirito democratico... Siamo i soli ad aver notato - non Pha notato nessuno - che l’in­ venzione, la creazi°ne s* ^a sempre in analogico. Forse le cose cam­ bieranno. II digitale mi interessa come caso particolare o come tecni­ ca, ma non come presupposto. Il digitale sta diventando il presuppo­ sto e l’analogico sta scomparendo. Sicuramente c’è una forte resi­ stenza della natura, ma gli alberi per esempio cominciano un po’ a cedere. Gli alberi operavano in analogico tra cielo e terra, ma dopo trecento anni hanno rinunciato. Tutte le foreste cadono in rovina. Qui un po’ meno, perché c’è più vento. È come il cancro. Il digitale può essere utile come applicazione, può guarire il cancro, ma non può servire a scoprire come ha origine. Dico tra me e me che il cine­ ma è una proiezione all’esterno e all’interno, e che il digitale e la tele­ visione non hann0 alcun rapporto con questo e non vogliono averlo. Perché la televisione non progetta più, così come le persone non hanno quasi più progetti. Non essere disoccupati non è un proget­ to, andare in vacanza non è un progetto. La proiezione, questo fenomeno che fa sì che la gente esca di ca­ sa, è stata rivoluzionata dall’impatto della televisione. La quantità di immagini che si possono ricevere grazie alla tv ostacola la proie­ zione indipendentemente dal fatto che le si riceva o meno: sono già potenzialmente nell’apparecchio. La proiezione sussiste in un altro modo, molto impoverito, cioè nel fatto di potersi vedere una video­ cassetta. I compratori ne hanno bisogno, se le passano tra loro. Un film di kung fu che un barista passa al suo cliente è come un samiz­ dat. E tuttavia deve esserci qualcosa di antico che viene da lontano - che forse scomParirà tra sessantamila anni - e determina questo 1189 ]

desiderio di proiezione, di continuare a guardare il cielo e la terra. Bisogna quindi esaltare questo fenomeno, però controllandolo. Il cinema deve essere la possibilità di dire che le cose vanno male e allo stesso tempo di dirlo con una certa profusione. È per questo che ci sono sempre più riviste di cinema: tre Cinémonde, dodici Ciné-Revue, è incredibile. È necessario che il pubblico prenda gusto a questa cosa strana che funziona in modo anacronistico. Una sor­ ta di inferno vissuto come un paradiso o un paradiso che conserva la possibilità dell’inferno. È più chiaro nel cinema che nella televi­ sione, che è come la cucina industriale. Inoltre, è chiaro che nel ci­ nema permane un fondo di onestà, l’idea che non si possa far lavo­ rare qualcuno senza pagarlo. Da questo punto di vista nella televi­ sione si è oltrepassato da tempo il limite tollerabile. Io so quanto co­ sta una telecamera, una sedia, un tavolo, un vaso di fiori... È per questo che la televisione ha sempre grossi problemi a fine an­ no, quando deve dichiarare di aver avuto sia dei guadagni che delle perdite enormi. La mia opinione è che hanno avuto dei guadagni enormi e che non possono dirlo. È ovvio che guadagnano, se si tiene conto delle entrate, del canone, della pubblicità, e di quanto costano le cose. Non si sa dove vanno i soldi. Io credo che tornino allo stato. È per questo che lo stato è così vicino alla televisione, perché gli rende tantissimo. Ma non può dichiararlo. Il cinema, che è più forte che mai, deve rappresentare qualcosa che non può essere intaccato. E in un certo senso è meglio che i film siano brutti, perché conservano meglio l’idea che il cinema possa es­ sere bello. L’insieme dei film brutti: i film tv, i film di kung fu, non possiamo nemmeno dire il porno perché il porno è stato rapida­ mente ghettizzato, tassato ed è un esempio della stagnazione degli altri film che sono incapaci di rappresentare una scena d’amore. La Deneuve non sa dire «ti amo», ed è per questo che si girano i film porno, in cui del resto «ti amo» non lo sa dire nessuno. E allora fra i due deve esserci un andirivieni che sfinisce, e forse allo spettatore piace sfinirsi, ma ogni tanto bisogna darsi una calmata.

[ 190 1

Insomma, questo deve essere il momento in cui si scopre non la reli­ gione - io mi considero tanto laico che il mio film a Michel Polac non è piaciuto perché hanno detto: Godard si è dato alla religione ma che forse è il cielo a cadervi addosso. E in Je vous salue Marie c’è anche un cielo scientifico: ci tenevo a mettercelo, anche solo come discorso espresso male, e lì, stranamente, non fa effetto mentre in te­ levisione ci crederemmo. Fred Hoyle è uno studioso originale, ha ar­ gomenti da esperto di astronomia che dice: esiste un batterio che ha cinquecento milioni di anni, questa è una prova. Non è la prova di Teilhard de Chardin contro Darwin, è un’altra cosa. Ma sono argo­ menti diversi per arrivare alla stessa conclusione: il caso non esiste. Christine Ockrent, se ha bisogno di trovare il punto in ogni cosa è perché non riesce più a farlo, il punto. Alla fine lo dice, ma... Tutto quindi doveva essere tenuto a una giusta distanza, ma quale? In certi momenti questa distanza è espressa dalla musica, dal dialogo. Dove­ va esserci più musica, ma ci siamo resi conto che molta l’avremmo dovuta eliminare. Comunque l’idea mi piaceva, perché così il film di­ ventava un’opera lirica. È per questo che ci sono molti tagli. Era ne­ cessario che la musica ci fosse. Dovevamo darci all’opera e poi, due secondi dopo, bisognava negare l’opera, ma non in modo brutale. Fa­ re questo film significava seguire una stella. Se i pastori l’hanno se­ guita è perché a loro modo ci credevano, perché sicuramente qualcu­ no gliene aveva parlato e poi un giorno dovevano essersi trovati nel­ la condizione adatta... Per cui chiedevo stupidamente ai tecnici: voi che stella seguite? Ognuno può parlarne, un po’, anche a un livello elementare: quali sono le vostre ambizioni, i vostri dolori. Bisogna convincersi che si segue una stella, come secondo una leggenda, altri­ menti la troupe si annoia e diventa tutto molto penoso, perché sono lì a obbedire a uno stregone che è tutto tranne che uno stregone.

È strano a dirsi: noi della Nouvelle Vague non ci siamo mai conside­ rati autori. Abbiamo detto che colui che a un dato momento si occu­ pa della mise en scène - se si chiama Hitchcock, Rossellini, Hawks, Abel Gance - diventa importante quanto Gaumont o il direttore del[ 1911

la Metro-Goldwyn-Mayer. Oggi gli operatori o gli attori si sentono disprezzati. Io non mi sento superiore o inferiore a un attore, maga­ ri posso trovarlo un mestiere più interessante, di più ampio respiro, e a volte mi viene voglia di fare l’attore. Invece gli altri hanno biso­ gno di compensare un vero e proprio senso di inferiorità. Per cui tut­ ti oggi si considerano autori. Chi sceglie i costumi si considera l’au­ tore dei costumi. Mi piace molto fare un film tenendo conto degli al­ tri, anche se si dice che li disprezzo. Quindi si sfruttano tutte le pos­ sibilità finanziarie, tutte. Non posso farci niente se quando mostro a quattro attori II vangelo secondo Matteo di Pasolini mi aspetto una reazione ma non arriva nulla. La felicità non posso dargliela così, gli fornisco alcuni elementi. Durante la lavorazione di Prénom Carmen Maruschka Detmers mi diceva: «Senti, per lavorare bene ho bisogno di essere felice». Non ho saputo consigliarle altro che leggere Mérimée. E poi le ho dato discretamente una cassetta di Beethoven di­ cendole di fare lo sforzo di ascoltarla cinque minuti al giorno per tre giorni di seguito. Così le avrei potuto dire: «Fai attenzione a questo passaggio della sinfonia, è fatto in questo modo, e tu muoviti in que­ sto modo». Sarebbe bastata un’ora. E ciò che chiedeva in più di feli­ cità e dolcezza glielo avrei potuto dare. Ma questo momento di sere­ nità non lo abbiamo avuto. In teatro è diverso. In teatro lei avrebbe accettato un’imposizione del genere da parte di Resnais, di Zulawski, da parte mia. Perché c’è un focolare, un luogo sociale. Credo che sia per questo che il teatro riesce a sopravvivere. Il risultato nel film è che lei faceva ciò che pensava di dover fare, ed è rimasto solo questo. Io e lei non abbiamo fatto il film insieme. Ne deriva che sul numero complessivo degli spettatori ce ne sono 50.000 che vengono per lei e altri 50.000 che vengono per me, e poi basta. NeirAmtco sfigato c’è una relazione sentimentale, che è quel­ lo che è, ma perlomeno esiste. Di tutti i documenti che mi sono serviti per Je vous salue Marie nemmeno uno è venuto dalla troupe. Per Prénom Carmen l’assi­ stente operatore mi aveva dato i taccuini di Beethoven, che sono confluiti direttamente nel film. Come se l’arte non dovesse essere 11911

frutto di un’elaborazione... Il risultato ovviamente è che gli artisti di­ ventano dei rompipalle tremendi, mentre non dovrebbe essere così. lo dico sempre alla gente: trova qualcosa da aggiungere, una co­ sa tua che abbia un rapporto col soggetto. Non ci conosciamo bene, non mi dire per forza delle cose intime se non vuoi. Anche se le cose intime a volte sono quelle più facili da raccontare a persone che non si conoscono. E poi, dopo la prima ne viene fuori un’altra. Ne ba­ stano cinque, in matematica con una permutazione a cinque si tira­ no fuori cento idee. E da cento idee si tira fuori un film o una possi­ bilità, perché in seguito una o due idee devono essere determinanti. Ma questo non succede mai. Nel cinema l’atto creativo non è più collettivo, salvo che per gli americani, ed è per questo che sono loro i più forti. In loro c’è anco­ ra questo aspetto da squadra di calcio che vuol fare gol. Credo che gli scienziati, quelli veri, parlino in modo molto più pacato di noi perché toccano dei corpi. Anche al cinema si toccano dei corpi. Ma si avverte che c’è una relazione di potere ai limiti dell’isterico. E che l’altro resiste per mantenere il suo potere di creazione. Mentre la madre sa bene che il suo potere di creazione non è messo in discus­ sione dal regista che l’assisterà durante il parto. Il cinema deve fare spettacoli come Cotton Club o L’amico sfigato. Deve farli perché in quelli sta il suo rapporto reale con il conscio e l’inconscio del pubblico. Ma deve fare anche tutto un altro lavoro. Ci sono ancora mondi da scoprire. Ma riuscirà a farlo, è abbastan­ za attrezzato per farlo? Per esempio, nel momento in cui Heisenberg inventa una defini­ zione, le relazioni di incertezza, cosa sono i giornali che legge se non giornali privi di certezze assolute? Quindi il significato che lui stes­ so dà all’espressione che usa diventa tutt’altro, e ci vuole molto tem­ po per elaborarlo in maniera precisa, quasi un secolo. Le immagini che si utilizzano in biologia e in ogni altro campo sono immagini che vediamo ogni giorno in televisione, immagini industriali. C’è chi se ne serve, e in seguito lo studioso le riordina e va avanti con la sua vi­ 1