Una religione dell’atto cruento. I misteri di Mithra

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ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose

Giuseppe Lampis una religione dell’atto cruento I misteri di mithra

mythos edizioni

ÁTOPOn R ! ivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose

ISSN 1126–8530 Direzione: Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele Redazione: Giuseppe Lampis, Maria Pia Rosati, Claudio Rugafiori, Marina Plasmati, Lorenzo Scaramella Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries

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Edizione Mythos 2001 Edizione elettronica riveduta e corretta 2018

© « átopon » (Rivista di Psicoantropologia Simbolica) ‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale Via Guareschi 153 – Roma 00143 www.atopon.it – [email protected]

INDICE Prefazione Maria Pia Rosati

5

Introduzione

12

1. Un mistero romano con maschere

22

2. Gradi iniziatici e astrologia

51

3. Mithra solare

86

4. Il sacrificio del toro

108

5. Mithra e Ahriman

136

6. Mithra ermetico

162

Bibliografia delle citazioni

180

A Jean Servier Chi è sapiente in queste cose è un uomo del dèmone Platone Simposio 203 A

PREFAZIONE Maria Pia Rosati

La religione di Mithra è misterica, poco incline per questo motivo a fornire una documentazione diretta della propria dottrina esoterica, inoltre fu oggetto di una repressione e di una damnatio memoriae particolarmente radicali. Da ciò derivano i molteplici problemi che hanno affaticato gli ultimi studiosi. Alcuni, esaminando il rapporto tra il suo nucleo originale e l’aspetto astrologico con cui si presenta fra i romani, stimano che la cornice filosofica astrologica sia coessenziale con il messaggio autentico del dio. Altri propendono a vedere nell'astrologia una sovrapposizione sincretistica e ritengono che il mitraismo, che nella sua fase matura apparirebbe catturato e dialettizzato dal platonismo, fosse da questo snaturato e svirilizzato. Il saggio di Giuseppe Lampis offre un interessante orientamento. Per l’autore,

la religione mitriaca propone un itinerario di liberazione dal destino basato sulla capacità di sacrificio di sé. I gradi dell’iniziazione mitriaca rappresenterebbero simbolicamente le tappe di un viaggio interiore che fornisce una chiave per affrontare e risolvere l’ordine dei pianeti e, mediante successive integrazioni, abilita al dominio delle potenze esterne. I pianeti, grazie alla credenza in uno stretto rapporto analogico tra macrocosmo (l’universo) e microcosmo (l'uomo), non sono vissuti come realtà esclusivamente esterne e oggettive; decifrati in esperienze interne, ad essi corrispondono suoni, colori, emozioni, passioni, immagini. Un discorso affine, in estrema sintesi, tornerà con l’astrologia esoterica islamica di Albumasar e con la magia di Giordano Bruno. Per l’astrologo islamico la passività del rapporto con i pianeti può essere rovesciata. Il saggio può fare gli astri oggetto di interrogationes, può interrogarli e costringerli a rispondere; egli deve conoscere i loro programmi per poter

modificare e orientare diversamente il loro influsso. Bruno pensa che un severo e complesso esercizio di controllo della mente metta l’uomo in grado di controllare il mondo in cui vive. In particolare egli si dedicò all’esercizio evocativo della memoria. Le immagini che vivono nell’uomo non sarebbero eventi puramente interiori bensì proiezioni del cosmo, e colui che le sa governare può anche governare il cosmo e rendersi libero. Il presente saggio ipotizza una corrispondenza tra l’astrologia del mitraismo e l’alchimia ermetica. Colui che abbia raggiunto il controllo di sé per mezzo del sacrificio e della trasformazione acquista il potere di governare il destino e raggiunge la liberazione e la salvezza dal male. Il punto cruciale è rappresentato dal sacrificio, costituito da un atto di sangue, un atto di morte. Al centro del mitraismo sta il tema formidabile del sacrificio del toro, cavalcato, sfiancato e infine iugulato senza tracotanza dal dio sereno e forte.

Nel sacrificio, la morte non si presenta volgare decadenza subìta, ma atto di creazione e di intensa padronanza della vita. Chi poteva essere l’eroe protagonista d’una simile impresa? La figura di Mithra si apre sullo sfondo dell’universo religioso, culturale, psicologico dei cacciatori per i quali l’uccisione stabilisce nel tempo stesso la propria identità, istituisce la comunità, garantisce la vita. Al confine orientale dell’Impero romano, nell’avamposto fortificato di Dura–Europos, sull’Eufrate siriano di fronte ai Parti, due affreschi del mitreo mostrano uno splendido dio cacciatore in costume persiano accompagnato da un serpente e da un leone mentre dal cavallo in corsa colpisce con le frecce dei cervidi in fuga. Il tema è l’incontro con la morte, e arcaicamente ogni morte è un’uccisione. La morte, la morte data, è l’atto eminentemente sacro e creativo, che investe l’essere realissimo. Su questo scenario si è sviluppata l’immensa problematica del sacrificio.

Per Walter Burkert (I Greci 1977, tr. it. 97) nel sacrificio greco l’animale è associato particolarmente all’uomo; un animale viene ucciso « al posto » di un uomo; le interiora (splànchna) portano immancabilmente gli stessi nomi nell’uomo e nell’animale; le vittime del rito sono quelle a sangue caldo. Tutto ciò è peculiare delle comunità dei cacciatori arcaici. Il sacrificio è un’uccisione ritualizzata che si conclude con un banchetto. Eppure l’intercambiabilità uomo– animale per la vittima del sacrificio non è soltanto greca, anzi proprio su questa base si possono studiare le radici non « greche » della grecità. Già nel Veda l’uomo è la vittima per eccellenza e la filosofia indiana nasce con la riflessione sul sacrificio delle Upanishad. Walter F. Otto arrivò a dire che presso i greci « il dramma atroce dell’animale che muore dissanguato è espressione di uno stato d’animo la cui grandezza trova confronto solo nelle opere dell’arte più eccelsa » (Dionysos 1933, tr. it. 26).

Questa emozione aveva per il mondo antico una carica dirompente che oggi ignoriamo in quanto l’industria alimentare con i suoi procedimenti tecnici e asettici ha sottratto il tremendum dell’esperienza diretta del sacrificio. Lo studio di Lampis prende in esame una religione che contempla il sacrificio per suo simbolo principale. L’uccisione del toro o del Grande vivente rappresenta, in essa, l’inizio e insieme la conclusione. Dal sangue che sgorga prende inizio una nuova umanità salva; et nos seruasti aeternali sanguine fuso, si leggeva nel mitreo di Santa Prisca a Roma. Ma nessuno si salva se non sa percorrere il duro itinerario iniziatico, se non riesce ad avviare la trasformazione e il sacrificio di sé. L’uccisione per eccellenza vede l’uomo al centro, vittima e sacrificatore, animale e cacciatore, morto e vivo. Le forze elementari che spingono alla caccia e ad aggredire la vittima in fuga sono le stesse che spingono a nutrirsi e a stringere il patto fra solidali che condividono il destino. Sussiste un circolo inscindibile tra istinto di vita e istinto di

morte, tra creazione della morte e creazione della vita. Il mitraismo ha lasciato un importante messaggio. I misteri di Mithra ci pongono in contatto con la presenza radicale e archetipica di forze terribili che, se ignorate e negate, immancabilmente ci travolgono; dobbiamo, invece, conoscere e apprendere la loro costituzione e divenire pronti e capaci di cavalcarle e domarle, fino al punto in cui la mano ferma sappia trarne la vita. L’associazione di Jean Servier « anima–animale » ci sembra giustamente esplicativa, la storia dello spirito ha una base pre–spirituale. I Misteri introducevano a quel sapere e a quell’arte. Si trattava, beninteso, di un sapere arduo e di un’arte severa che aspiravano ad aprire una strada di speranza in un periodo di angoscia. Tuttavia le religioni, anche dopo il loro tramonto, lasciano un insegnamento valido per ogni analogo tempo di smarrimento e di inquietudine. Sta a noi ascoltarlo e adattarlo alla nuova forma dei problemi.

Introduzione Nella Roma inquieta del primo secolo si affacciò una religione che proveniva di lontano da una delle società più tradizionali e severe, l’Iran. Le armate romane non erano riuscite nell’impresa più volte tentata di abbattere e annettere quell’antichissimo nemico agli estremi confini orientali. I persiani con cui Roma si scontrò erano gli eredi d’una delle più importanti civiltà indoeuropee. Se vogliamo misurare l’altezza della cultura e della religione dell’Iran, può bastare un esempio clamoroso per gli occidentali più sussiegosi. Martin L. West ha sostenuto che la speculazione dei primi filosofi greci, che notoriamente si accende all’improvviso nelle città ioniche dell’Asia minore, dopo la conquista persiana di Ciro, fu innescata da un’irrespingibile superiore influenza culturale delle classi sacerdotali, i Magoi, dei dinamici conquistatori. Non c’è bisogno di accettare in toto le singole tesi del grecista

oxoniense, di recente riprese da Walter Burkert, per affacciarci su uno scenario completamente rovesciato rispetto ai permalosi e acquietanti giudizi della grecità che la sognano sbalzata adulta e armata dalla sutura sagittale del genitore signore dell’Olimpo. Giusto per un esempio rivelatore, nella riflessione ermetica di Eraclito sulla metafisica del fuoco è evidente un nesso con la sua sacralità nella religione iranica. Inoltre, uno dei re dell’Iran antico porta il nome di Artaserse, appellativo composto di due parti: accanto a Serse che risponde al sanscrito kshatriya e che significa re–guerriero, si coglie un arta a cui si ricollega la parola greca alétheia, gravida di destino in occidente (a partire da Parmenide). Ne viene che il nome di Artaserse significa « potenza della parola vera », e designa il re–guerriero che combatte la menzogna e la tenebra dalla parte del Signore della luce e della saggezza, Ahura Mazda. Mithra si riannoda all’essenza di questa tradizione; egli è il dio che combatte contro la non–verità, contro la

tenebra; è il dio del patto fra amici solidali che combattono dalla parte giusta. Dopo duemila anni di cristianesimo, la religione d’un dio guerriero sanguigno può apparire crudele e barbarica. Forse contro nessun’altra religione la persecuzione dei cristiani vittoriosi con Costantino fu spietata e radicale nella misura usata contro il mitraismo. I cento mitrei di Roma, questo è il numero ipotizzabile nel periodo della massima diffusione, sono stati spazzati via. Di alcune unità, seppellite sotto chiese cristiane, gli scarni elementi non metabolizzati hanno rilasciato deboli risposte agli studiosi del secolo scorso. Queste risposte, seppure esigue, configurano, insieme con i documenti iconografici pazientemente raccolti, un disegno robusto che spiega l’antinomia inconciliabile dei cristiani imperiali. Perfino le scarne notizie che traspaiono in filigrana dalla propaganda di disinformazione repressiva confermano che il paganesimo dei mitraisti non era una sciagurata grossolanità.

Anzi, l’inesorabile ostilità si spiega con il fatto che le due religioni condividevano credenze comuni su vari aspetti: Mithra nasce in una grotta il giorno del solstizio d’inverno; si presenta nella veste del Salvatore nell’imminente fine dei tempi; al momento del giudizio finale dividerà i reprobi dai giusti; il rito si svolge attorno a un banchetto comune con pane in forma di croce e vino. Il dio Mithra non funge da vittima sacrificale per riscattare una colpa. Nel mitraismo non c’è ombra del sentimento della colpa. Soprattutto, l’eroe divino non è un dio che muore. La salvezza che da lui promana verso gli uomini non dipende dalla sua morte, al contrario dipende dal fatto che egli dà la morte – qui in radice la contraddizione con il cristianesimo. Al centro della vicenda di Mithra campeggia l’icona del dio giovane, forte, bello, equilibrato, che uccide per dare vita. Egli è colui che compie il gesto cruento paradigmatico; l’uccisione originale che scatena le potenze della morte sacrificale.

Pertanto, la vittima che da lui viene uccisa è, per rigorosa consequenzialità, la vittima esemplare, quella dalla cui morte può scaturire la vita e la salute. Nel mio lavoro esaminerò l’identità di questa vittima, per decifrare in che senso dalla sua morte cruenta può nascere la vita. Posso anticipare che il mitraismo riprende e rinnova la riflessione sul pathos del sacrificio eroico. Uno dei riti centrali della liturgia romana, egualmente a quella greca, indiana, iranica, si svolge attorno al gesto sacro dello spargimento del sangue. Il mitraismo trova un’affascinante soluzione del problema della non–morte. L’immortalità mitriaca consiste in un’inversione del tempo che ne realizza il dominio. Dominio del tempo non è un prolungarsi indeterminato non qualitativo. La risurrezione non concerne un evento post mortem, equivale invece a una trasformazione di questa vita. La liturgia mitriaca, deducibile dalla scala dei gradi iniziatici, è un percorso di progressiva rottura delle forze che

comprimono l’uomo e lo spingono a subire il destino, lungo una successione di potenziamenti finalizzati alla perfetta padronanza di sé. Il culmine dell’itinerario sta nella contemplazione e nella riattualizzazione dell’uccisione esemplare del toro. Per i mitriaci, in breve, si instaura un circuito in cui l’uomo capace di compiere il gesto sacrificale si trasforma e libera, e reciprocamente è capace di compiere il gesto supremo solo chi si trasforma e libera. In ultima analisi, si libera solo chi è disposto a essere sacrificato. Un’ideologia severa, da reggitori e da soldati: il supremo atto di dare la morte – atto per eccellenza sacro – presuppone un’ascesi rigorosa per raggiungere la riappropriazione e la reintegrazione di sé. Le doti di equilibrio, dominio di sé, coraggio, attenzione non disincarnata e lunare per il mondo della laboriosa prassi, erano e sono le doti dei reggitori, tipiche di coloro che sono consapevoli che l’autentica arte del governo comporta un combattimento tra bene e male.

E’ perfettamente comprensibile che una religione severa della trasformazione sacrificale di sé dovesse attrarre i militari e le cerchie legate al culto della sacralità dell’ordine imperiale. Ci siamo interrogati sui motivi per i quali i romani abbiano potuto accogliere un dio persiano, a cui non fu cambiato nemmeno il nome. I cristiani, dal canto loro, non intitolarono la loro fede con il nome di Gesù. Pur risultando il Mithra romano ampiamente ripensato e riformulato rispetto alla lontana figura originale, seguendo itinerari che sono oggetto di studio da parte degli storici delle religioni, un nucleo essenziale della struttura antica del dio si è conservato ed è andato a incontrarsi con perfetta congenialità con un'intima disposizione dell’animo romano. Intendo riferirmi alla squisitamente romana temperantia. La temperantia latina traduce la greca sophrosyne. E, similmente a ogni traduzione, il latino un po' toglie e un po'

aggiunge. Nel greco troviamo l’unione del phren (l’organo fisiologico delle decisioni) con il sos (l’essere sano, in buona salute). Nel latino entra il fattore tempo, la sua arte e il suo lavorio. Un eco della fisicità del concetto latino – e stoico – si è prolungato nell'italiano temperare, che va dal mescolare al correggere, ragione per cui possiamo trovare temperato un clima dolce, un suono armonioso, una forte lega di metalli, un riuscito taglio di vini; e infine ogni persona ha un temperamento. Un altro caso, questo, in cui la civiltà morale di Roma pagana va disciolta dalle sovrapposizioni cristiane che l’hanno inquadrata in una prospettiva rovesciata rispetto a quella stoica. Il dominio di sé e l’attitudine alla sobrietà non ha niente a che vedere con il sentimento della colpa del vivere e con la mortificazione, al contrario essi celebrano un gusto pieno della libertà nel mondo per il mondo e certo non dal mondo. Il Marco Aurelio che elogia la temperanza non è un moralista e un intimista, è un uomo di stato.

La temperantia è la severità, la sobrietà, l’operosità efficace e equilibrata di colui che tempera. Dalla parola, dicevo, veniamo portati al tempus, il tempo. La temperanza si riferisce al lavorìo del tempo; essa è l’arte del tempo, la sua capacità di cuocere, rifondere, ridistribuire, preparare nel suo vaso. Il tempo si basa sul ritmo e sull’ordine. E’ temperante colui che ha il sentimento del tempo. Nessuna lentezza, nessuna fretta, nessuna eccitazione; piuttosto l’azione pacata e ferma che scaturisce dal dominio degli impulsi interni e degli impulsi esterni, dall’educazione a non cedere alle emozioni e alle passioni. E non deve nemmeno riferirsi a un tempo estraneo e oggettivo, al giro degli astri di fronte al quale si sta passivi e che si subisce; il tempo deve essere governato e riavviato con creatività e originalità. Una simile forza non si guadagna con un atto istantaneo, essa esige un complesso e doloroso itinerario iniziatico di scioglimento.

Il mitraismo, ultima propaggine d’una religione eroica basata su società segrete di uomini, forse era condannato fin dal principio a soccombere nell’epoca che si andava aprendo alle nuove nationes. Chi doveva decidere non credette che la conservazione dell’Impero nella sua dilagante dimensione popolare potesse reggersi su una religione esoterica e aristocratica, però riuscì soltanto a prolungarne l’agonia. Non solo la nascita delle religioni costituisce un problema inquietante, lo è anche la loro morte.

1 Un mistero romano con maschere Per quale ragione il mitraismo raccolse ampi consensi fra i romani, penetrando nei semplici militari e nelle classi dirigenti della cerchia imperiale, pure essendo la religione d’un dio degli irriducibili nemici persiani? E’ chiaro che esso doveva recare un messaggio compatibile e congeniale con la difesa e il rinnovamento dell’Impero. Oltre la programmatica distruzione e distorsione da parte dei cristiani vincenti, restano i contorni d’una severa religione esoterica basata su società segrete orientate al combattimento finale mediante una rigorosa iniziazione e trasformazione degli aderenti. Il nome del dio Mithra (il sanscrito mithros significa amico) richiama l’alleanza e i patti. Il Mithra iranico, dio celeste che tutto vede, associato alla luce e alla verità e contrario alle tenebre, è il garante dell’amicizia sincera basata sulla lealtà.

Un dio Mitra compare nei Veda associato a Varuna, con il quale condivide l’esercizio della più alta funzione sacrale, la sovranità magico–religiosa. Georges Dumézil (Les dieux souverains des Indo– Européens, Paris 1977) ha studiato i rapporti e la distribuzione reciproca dei compiti interni di quella funzione primaria: mentre Varuna assume su di sé il compito notturno di guerriero punitivo e dell’incanto magico, Mitra esplica quello solare e radioso di garante della pace. Egli incarna la funzione regale sotto il profilo della benevolenza magnifica. Eppure è combattivo e all’occorrenza violento e feroce. Nel quadro della riforma monoteista promossa da Zarathustra (o Zoroastro, nella tradizione classica), allorché Ahura diventa il dio supremo e unico, Mithra associa a sé le funzioni precedentemente esplicite in Ahura, quali la magia e il combattimento. Successivamente, liberato dai tratti guerreschi, si accentua la sua funzione di giudice delle anime al servizio del Signore Sapiente (Ahura Mazda).

La sua identificazione con la luce, e con quella del Sole in particolare, è rimasta costante. Questo si connette con il suo lontano carattere originale di legatore di nodi e di garante dei contratti. La ragione per la quale una simile funzione possa appartenere alla struttura d’un dio solare sta nell’idea che luce e verità, stabilità dei patti e sincerità, formino un tutt’uno. In Iran la parola vera ha un rilievo di autentico potere cosmico ed è una proiezione del sommo Signore Sapiente nella battaglia ingaggiata contro lo spirito della tenebra. In occidente, l’ultima volta che la suddetta associazione immediatamente scultorea si è presentata ricorre nel poema di Parmenide, venerando e terribile. La religione di Mithra viene segnalata entro i confini dello stato romano nel I secolo. La prima menzione conosciuta risale al poeta Stazio, mentre le iscrizioni più antiche sono di poco anteriori all’epoca di Traiano; si riferisce inoltre che l’arsacide

Tiridate, devotissimo di Mithra, venuto a Roma a ricevere da Nerone l’investitura del regno di Armenia, avesse iniziato l’imperatore al sacro banchetto del rito mitriaco. Ciò configurerebbe solo gli elementi d’un « preludio sporadico » (Raffaele Pettazzoni I Misteri. Saggio d’una teoria storico–religiosa, Bologna 1924, n.va ed. Cosenza 1997, 169 n. 35). Mentre per Robert Turcan (Mithra et le mithriacisme, Paris 1981, 19932, 33 e 127) la collocazione emblematica del nome del nuovo dio nel poema di Stazio è indizio d’un forte radicamento di Mithra nella corte imperiale dell’ultimo quarto del primo secolo. Il mitraismo comincia a essere archeologicamente documentato solo dal II secolo – età degli Antonini – ma è oggetto di discussione se quello emerso in questa fase sia lo stesso di quello apparso nel primo secolo a. C. in Asia minore. Gli studiosi hanno giudicato di trovarsi dinnanzi a una religione formatasi a più strati e hanno concentrato la ricerca sul genere degli apporti che via via si sono

aggiunti al primitivo dio iranico e che hanno permesso al mitraismo di doppiare il limite critico della penetrazione nel mondo romano. In altre parole, si discute sulla storia e sulla qualità della reinterpretatio. La massima diffusione (dal Vallo adriano all’Indo) fu raggiunta in concomitanza con il verificarsi di particolari condizioni ideali e politiche verso la metà del III secolo (Aureliano) e agli inizi del IV (Diocleziano). Sul finire di quest’ultimo secolo, assunto il cristianesimo a religione di stato, e dopo una breve ripresa sotto Giuliano (ai suoi tempi il mitraismo era in gran parte rifluito e in molte regioni aveva subito i guasti delle invasioni barbariche), i mitrei vengono distrutti (persecuzioni di Graziano e Teodosio). La consistenza delle comunità mitriache, dedotta dalla modestia degli spazi interni dei suoi santuari (sono rarissimi i casi in cui potevano accogliere un cinquanta adepti, mentre nella maggiore parte si arrivava a una ventina), era numericamente inferiore a quella dei cristiani. Il mitraismo, che non era mai

divenuto religione ufficiale e non fu moltiplicato artificialmente dal favore del principe, si identificò con quella religione del divino Sol inuictus (Franz Altheim Der unbesiegte Gott, Hamburg 1957; tr. it. Il dio invitto, Milano 1960) nella quale nel secondo Impero fu concentrata la devozione alla sacralità dell’autorità. In un periodo storico in cui si andava intensificando il culto del genius del sovrano, il mitraismo fornì una sorta di legittimazione alla divinizzazione del potere personale del principe; pure esso rimase circoscritto in ambito privato sebbene gli aristocratici si vantassero pubblicamente dei titoli mitriaci dei quali erano insigniti. Il problema delle linee seguite dalla diffusione del mitraismo fa tutt’uno con il problema della sua interpretazione. Alcuni hanno sostenuto che lo snodo critico è individuabile in una formazione orientale più recente del Mithra originale, prodottasi in Cappadocia e nella Commagene: dopo l’incorporazione di queste province anatoliche essa sarebbe passata a Roma con le milizie che se ne

traevano. In alternativa altri hanno puntato a una formazione romana particolare. Questa tesi, netta da parte di Stig Wikander, non deve essere considerata stravagante. Riflettiamo sulla stessa affermazione del cristianesimo a Roma alla quale non fu estraneo il robusto contributo di politici, intellettuali e circoli religiosi interni. La tesi della formazione romana del mitraismo ha acquistato un certo diritto di cittadinanza dopo mezzo secolo di dominio delle tesi iranizzanti di Franz Cumont. L’opera di contrasto nei riguardi della linea di Cumont non si è limitata al carattere agrario da lui attribuito al culto mitriaco e si è andata a collocare in un più vasto fronte avverso all’assegnazione della matrice iranica da parte della Religionsgeschichtlicheschule agli inizi del secolo allo gnosticismo, al cristianesimo, al mitraismo. (Sull’indirizzo della scuola C. Colpe Die Religiongeschichtlicheschule, Göttingen 1961. I maggiori rappresentanti furono Richard Reitzenstein e Wilhelm–G. Hugo Bousset).

Per un esempio dei risultati di questa corrente e dei problemi che sollevarono, ricordo che in una certa fase si ritenne che mitraismo e cristianesimo potevano entrambi in origine essere stati un’unica corrente, successivamente divaricatasi in due direzioni, l’una aristocratica e l’altra democratica. Il pendolo non si è ancora stabilmente fermato. A ogni conto, è apparso strano che le élites romane abbiano adottato una religione dei persiani; addirittura uno dei gradi più alti della gerarchia misterica, vedremo meglio in seguito, porta il nome di « Persiano »; né va trascurato che il dio mantenne irriducibilmente il nome originale, proprio quello usato dai nemici – John R. Hinnells Introduction: the questions asked and to be asked, in Hinnells (ed.) “Studies in Mithraism” (XVI Congress of the IAHR, Roma 1990), Roma 1994, 15. Non è chiaro se al riguardo è sufficiente controdedurre che il mitraismo si presentò in veste ellenizzata (pur non riuscendo a penetrare in Grecia). Inoltre la

ricerca ha mostrato che l'innalzamento di Mithra a dio di salvezza appartenne a una riscossa tradizionalista della civiltà iranica. Perciò, delle due l’una: o la società romana imperiale era permeabile da ogni soteriologia esotica per incapacità d’una risposta creativa o la religione di Mithra era compatibile con la difesa più gelosa della romanità. In relazione al dilemma, gli studiosi hanno assegnato una certa importanza alla stratificazione ideologica della religione mitriaca, alla composizione sociale degli adepti, all’articolazione geografica delle comunità. Come che sia, nel mitraismo fu percepito un orientamento che coglieva la sacralità dell’Imperium. I romani sentivano nemiche, e infette del germe della dissoluzione della lex e dell’autorità, solo le ideologie antitetiche alla devozione alla virtù unificatrice del reggimento della storia e del mondo. Niente di tutto ciò riguarda il mitraismo.

Le notizie sul mitraismo sono pervenute nella maggior parte da appartenenti alla religione vincitrice – di solito accade con le religioni represse dal potere dominante. Gli scrittori pagani danno notizie molto frammentarie e deformate dalla loro prospettiva filosofica, il che porta a giudicare, a esempio, di Porfirio assai contraddittoriamente: o un inattendibile deformatore o un teorico vicino al nucleo maturo della dottrina mitriaca. Le cose, infine, sono rese più complicate dall'esoterismo del mitraismo. Dovrebbe essere questo il motivo per il quale mancano testi provenienti dall’interno (salvo forse un’eccezione che vedremo nel capitolo IV), e sulla liturgia e sulla dottrina. Disponiamo nondimeno d’un ingente materiale archeologico. Data la forte penetrazione presso l’esercito romano, l’estensione del culto segue in pratica la geografia della dislocazione strategica delle legioni, a Roma, nei porti principali e lungo gli assi del limes.

Nei trovamenti è compresa una robusta massa di iscrizioni. Il tutto fu raccolto e commentato da un eminente studioso, il professor Maarten J. Vermaseren (Corpus inscriptionum et monumentorum religionis mithriacae, voll. 2, Den Haag 1956). L’opera, iniziata da Cumont a cavallo dei due secoli, a sessant’anni dalla pubblicazione andrebbe aggiornata e integrata. Le testimonianze – mai dirette, ripeto – purtroppo spesso non concordano con i documenti archeologici e epigrafici rendendo assai ardua la conoscenza della dottrina. Non è facile ricostruire con sicurezza la dottrina dei misteri di Mithra dai documenti archeologici e dalla scarsa letteratura indiretta. La conoscenza del contesto religioso e culturale dell’epoca è di notevole importanza, e impegna a discriminare con precisione fra i vari misteri dell’epoca. L’impresa è possibile a patto di individuare con attenzione i caratteri essenziali del dio e delle sue azioni esemplari.

Mithra nasce da una roccia– montagna (saxigenus). Mithra e il Sole combattono insieme da compagni di Ahura Mazda nella battaglia tra luce e tenebre. La prima creatura di Ahura Mazda fu il toro selvaggio, Mithra lo cavalca sfiancandolo poi se lo carica in spalla e lo riporta nella caverna. Il toro era fuggito e il Sole aveva mandato il corvo sulle sue tracce. Mithra lo cercò con i suoi cani e trovatolo lo afferrò per le zampe posteriori e lo trascinò all’indietro alla caverna dove gli torse la testa stringendogli le narici con la mano sinistra e con la mano destra gli piantò un pugnale in gola. Dal sangue del toro germogliarono il grano e altre piante. Ahriman, spirito delle tenebre, inviò i suoi servi, lo scorpione, la formica, il serpente, per leccare il sangue apportatore di vita, invano perché il sangue si diffuse su tutta la terra. Il Sole riconobbe la supremazia di Mithra, si inginocchiò davanti a lui, Mithra lo incoronò e i due strinsero un patto solenne. Per altre versioni, Ahriman cerca di sommergere il mondo con un diluvio e Mithra salva l’umanità. Oppure Ahriman invia una tremenda siccità e Mithra

colpisce una roccia con una freccia e ne fa scaturire una sorgente inesauribile. Comunque sia andata, Mithra – salvatore e fondatore dell’umanità – prende infine congedo dal Sole, suo alleato, con un banchetto sacro, che viene commemorato con il pasto rituale dei devoti. I devoti erano organizzati in una gerarchia di sette gradi (rilevo l’analogia con il sette dei sacramenti dell’ortodossia cristiano–cattolica): Corvo, Sposo, Soldato, Leone, Persiano, Corriere del sole, Padre. I mosaici del mitreo di Felicissimus a Ostia informano sulle corrispondenze dei gradi con i pianeti e sulle insegne che loro rispettivamente competono; gli affreschi di quello di Santa Prisca informano su costumi e funzioni – differenziandosi in parte dal mitreo ostiense sull’attribuzione di alcune tutelae planetarie –. Turcan, che ritiene posticcio lo strato dottrinale astrologico, considera il settenario dei gradi iniziatici una formazione tarda, istituzionalizzata solo

nella seconda metà del II secolo, per far quadrare la serie degli astri con la scala dei gradi; a suo avviso i titoli sicuramente primitivi sono Corvo e Leone (cit. 82–83), gli unici peraltro a portare le maschere dei rispettivi animali. Il primo grado contiene un riferimento al corvo che aveva trasmesso a Mithra l’ordine d’immolare il toro, esso viene associato al dio dei messaggi Mercurio e si fregia del caduceo. Ai Corvi spettava di servire la carne e la bevanda nei banchetti sacri. Segue il nymphus; però è sembrato che il nome da leggere sulle iscrizioni sia cryphius, che in greco significa occulto – e che, per Turcan, vuole dire « iniziato della cripta » (cit. 75). Porta un diadema e una lampada, al momento della consacrazione gli toglievano il velo e gli rivolgevano l’appellativo di « luce nuova ». Mostrare gli occulti è una formula che si legge nelle iscrizioni e che probabilmente richiama questo rito. Circa il grado di nymphus (inequivocabilmente connesso con il pianeta Venere) è opportuno tenere conto

che nei riti iniziatici maschili la nuova nascita mistica dell’adepto comporta una preliminare ricomposizione androginica. Eppure, per l’ambivalenza dei simboli, quella stessa androginia che equivale a un regresso allo stato potenziale e indistinto si rovescia in uno stato d’integrazione e autosufficienza che richiama la perfezione del primo uomo. Sarebbe da considerare che nel viaggio del proemio di Parmenide (I, 24) la dea accoglie il novizio appellandolo « giovane sposo (συναορος) d’immortali aurighi »: l’integrazione con i poteri delle Figlie del sole, alla guida del carro della sua ascesa, consente al viaggiatore parmenideo il distacco dalla via del falso sapere e il superamento della soglia oltre la quale si spalanca la visione della verità. Il miles, riferisce Tertulliano, veniva prima battezzato, poi segnato in fronte (De praescriptione haereticorum 40, 4; possiamo supporre che venisse tatuato con il fuoco), infine tentato col famoso rito dell’offerta della corona: « Gli viene presentata una corona, collocando tra

questa e il candidato una spada; gliela si aggiusta sul capo e egli è avvertito che deve farla cadere magari sulla spalla, dicendo che Mithra è la sua corona » (De corona 15, 4). La cerimonia comportava un’aggressione e molto probabilmente delle ferite e si racconta che fu in una simile circostanza che Commodo uccise uno che odiava, per quanto la testimonianza può dipendere da un equivoco dato che fra le prove tipiche dell’accoglimento nelle società segrete ricorre l’esperienza d’una morte fittizia. Da Porfirio apprendiamo che nelle mani dei Leoni versavano del miele e che ancora con il miele lavavano la loro lingua purificandola da ogni peccato. Tali atti richiamavano l’importanza del rispetto della verità e dei patti per i combattenti nell’esercito della luce e del fuoco. Sono i Leoni che recano a Mithra le offerte sacrificali e bruciano incensi; la funzione di accostarsi al fuoco fa sì che il loro attributo sia la pala per il fuoco. Anche le mani del Persiano venivano purificate col miele. Egli portava l’appellativo di « custode dei frutti » e ciò

lo poneva sotto la protezione della luna, l’astro cui era attribuita una produzione di miele. Dal miele si traeva una delle bevande fermentate inebrianti primordiali, anteriormente alla scoperta del vino; i liquori divini della vita immortale, quali soma o haoma, sono collegati con la luna, principio immortale della vita mobile rinascente, e chi ne beve assume il potere sacro della vegetazione e dell’acqua concentrato sulla luna (Mircea Eliade Traité d’histoire des religions, Paris 1948; tr. it. Trattato di storia delle religioni, Torino 1976, 167–168). Annotiamo che sussiste uno stretto collegamento simbolico tra toro e luna. Nella luna era riconosciuta la causa della crescita dei vegetali e in particolare dei cereali. Il Persiano porta la falce da mietitore, e la falce rappresenta la luna. Il Corriere del sole ha per insegne torcia, frusta e corona. Un simile Corriere compare in una pittura di Santa Prisca vestito di rosso con una cintura gialla, con un’aureola raggiata caratteristica del pianeta al quale è dedicato, il sole, e con in mano una sfera azzurro scuro che pare

designi il cosmo notturno. L’attributo della torcia riporta i Corrieri del sole alle figure di Cautes e Cautopates (v. più sotto) e permette di ricostruire che nelle cerimonie svolgevano il ruolo di portatori di torce. Il grado più alto e finale, il capo della comunità, è quello di Padre; abbiamo altresì notizia d’un Padre dei leoni. Suoi attributi sono bacchetta, anello e la mitra frigia a fanoni, un copricapo con il nome del dio; noto di sfuggita che quello dei vescovi cristiani ha stesso nome e stessa foggia – (sul simbolismo del pesce René Guénon Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Paris 1962; tr. it. Simboli della Scienza sacra, Milano 1975, 19902, in particolare 138). E’ lui che accetta i novizi e li consacra, dopo averli addestrati nella fase preparatoria. Un Padre dei Padri, che ha la sua sede in Roma, è il sommo pontefice dell’intera ecclesia mitriaca, o almeno di quella dell’Urbe. Le persone insignite dei gradi del sacerdozio svolgevano attività militari e civili nella vita comune e va notato che è

tipico dello spirito romano il fatto che non costituissero un clero separato. Le donne non erano ammesse alla liturgia e non ne conosciamo con certezza alcun nome fra i mitraisti, comunque gli adepti potevano sposarsi (il Padre dei Padri lo poteva fare solo una volta). I templi mitriaci in origine erano antri (la nicchia dell’abside con la statua del dio viene sistemata da sembrare una grotta naturale) e continueranno a denominarsi antri pure quando saranno costruiti all’aria aperta dove la conformazione del terreno non offre cavità o non consente scavi artificiali (accadde a Ostia, dove sono stati trovati poco meno d’una ventina di templi). Per il loro simbolismo dobbiamo fare riferimento alla caverna iniziatica, autentico cuore della montagna cosmica (sulla simbologia della caverna Guénon cit. 175). La montagna cosmica, ripresa nelle ziqqurat mesopotamiche, è disposta su sette livelli o piani corrispondenti ai sette pianeti.

« All’interno, la disposizione dei mitrei non varia quasi mai: un corridoio centrale conduceva alla statua – a volte racchiusa in una nicchia – di Mithra tauroctono, tra due file di banchi parallele. Questa nave era spesso preceduta da un pronaos, che fungeva da sagrestia per sistemare gli abiti sacerdotali e gli oggetti del culto. Dal lato dell’ingresso c’era una vasca o cratere analogo alle nostre acquasantiere (i mitrei sono di massima collocati in prossimità d’una fonte o d’un corso d’acqua). All’altra estremità della cripta ardevano di fronte alla nicchia uno o due altari; illuminavano la nave delle lampade sospese alla volta con catene o poggiate sul bordo delle panchine. La volta, immagine del cielo, è di frequente decorata con stelle o personificazioni sideree. Cautes e Cautopates, geni del Sole levante e del Sole al tramonto, accoglievano i fedeli accanto alle panchine laterali, lungo le quali essi si disponevano per prendere parte ai pasti sacramentali. Altre statue, in ispecie quella del Tempo divinizzato, si ergevano o all’entrata o dietro quella di Mithra tauroctono. Certe grotte erano adorne di ricche pitture (a

esempio, quella di Santa Prisca, sull’Aventino, o quella di Dura–Europos in Siria sull’Eufrate) o di mosaici (Ostia). Oltre il limite dell’area sacra si scavavano fosse per interrarvi le carcasse delle vittime sacrificate » (Turcan cit. 74). Gli iniziati sedevano, si inginocchiavano o stavano distesi su sedili di pietra a uso di triclini scolpiti longitudinalmente lungo le pareti laterali della cappella–caverna, con i vestiti del loro grado. In Porfirio, i primi tre gradi, i più bassi, sono denominati Servitori, gli altri quattro, i più alti, Partecipanti. (Per Turcan cit. 86, il solo fatto che gli affreschi di Santa Prisca mostrano chiaramente che anche i Leoni servono, dimostra la superficialità e l’inattendibilità di Porfirio o delle sue fonti). Che i due gruppi fossero scanditi in siffatto modo induce a pensare che la dottrina riservata contemplasse due cicli e due punti di partenza, uno da Mercurio e un altro in apparenza da Giove, – spiegheremo che tutto dipende dalla forma effettiva del percorso. Taluni comportavano

passaggi prove di

di grado resistenza al

dolore, in particolare alla fame e al freddo. Abbiamo visto che il grado di Leone prevedeva la purificazione della lingua e delle mani con il miele. Oltre quest’ultima purificazione – più sopra ho detto dello svelamento dello Sposo, e del battesimo e della segnatura del Soldato – non ne conosciamo altre sebbene solitamente nelle società segrete l’accesso ai vari gradi preveda vari livelli di purificazione mediante forme di sofferenza. Il miele è l’ingrediente per una bevanda inebriante arcaica; Crono è stato inebriato con il miele da Zeus quando lo trasportò detronizzato ai confini del mondo; i greci continueranno ancora a mischiare il miele con il vino e non certo soltanto per addolcirlo. Non possiamo escludere che gli altri gradi prevedessero l’assunzione, se non di droghe, almeno di alimenti o bevande dal potere mistico. È abbastanza sicuro che i convenuti cantassero inni. Fra i riti risalta un banchetto comune in memoria del banchetto di commiato tra Mithra e il Sole, un’agape con il vino e focacce a forma di

croce, e un patto solenne con la famosa stretta della mano destra (dexiosis). Un’iscrizione del mitreo di Santa Prisca reca: « et nos seruasti (a)eternali sanguine fuso », e tu ci hai salvato con lo spargimento del sangue eterno. Il verso, leggibile nell’essenziale, è ricostruito in parte da un’eccellente congettura. Il mito del sacrificio del toro occupa il centro della dottrina mitriaca, vuole dire ciò che nei mitrei sgozzassero tori? Il posto occupato dal taurobolion – la cui pratica è però solo per Cibele, culto spesso ospitato nei mitrei – è controverso dato che la maggior parte dei mitrei non contiene un posto ad hoc (salvo forse quelli di Treviri e delle Terme di Caracalla). Invece ricorre costante una lustratio battesimale con acqua, il che richiama, senza che sia scontato, analogie della specie dei culti apocalittici mandei e dei cristiani. E’ credenza comune generale dei misteri che l’iniziato, nel rinnovare sé stesso, rinnovi il mondo e la comunità.

Entro questa cornice si muovono le religioni dell’epoca, cristianesimo e mitraismo compresi. L’idea è presente nel pensiero vedico e iranico, nonché presso latini, egizi, cinesi; eppure credere che la rinascita degli individui – in particolare la rinascita della classe dei maschi adulti, dei governanti e dei guerrieri, ovvero soltanto del sovrano in cui si riassume la società intera – si ripercuota in una rinascita generale appartiene a un bacino ancora più arcaico, del quale è stato riconosciuto tributario lo stesso pensiero indoiranico. In ambito etnologico è proprio quello che trova espressione nei riti introduttivi alla nascita dei veri uomini di cui sono depositarie le confraternite maschili, le società segrete delle maschere, i Männerbünde. Nella cultura persiana le società segrete di guerrieri godono di alta stima ed è noto che presso di esse è coltivato in sommo grado il peso della lealtà reciproca, del mantenimento della parola data, della fedeltà al giuramento agli dèi. Altrettanto nota è l’importanza nella cultura indoiranica della mano destra, sede

dell’energia della persona e di essa rappresentante impegnativa. Nella Commagene, regione nella quale sembra potersi rintracciare l’anello intermedio tra il Mithra originale iranico e il greco–romano, uno dei simboli principali del culto del re era la stretta della mano destra (dexiosis) tra lui e Mithra, la stessa che ritroviamo al centro del rito e dell’immaginario mitriaco greco–romano, autentico sacramento dell’alleanza con gli dèi, essenziale parimenti alla romana pax deorum. Per il mitraismo, l’umanità non è metafisicamente separata dalla divinità e esclusa da un destino divino; al contrario una sua parte può partecipare alla vicenda cosmica in stretta alleanza con divinità amiche – con Mithra – in contrasto con altri uomini e divinità nemiche. In tale scenario, oltre a divinità alleate nella lotta per il pieno sviluppo delle profondità dell’uomo e per il suo ritorno alla perfetta espressione delle sue doti, possono esserci divinità avverse. La fase cosmica in atto è segnata da un drammatico conflitto; l’uomo, che rischia di rimanere

inchiodato nell’irrigidimento e precipitato nell’oscurità, deve alzarsi e combattere. Il mondo attuale è l’arena della lotta. Richiamando i poteri suggellati nelle maschere, l’uomo può farcela; può farcela acquistando nature vie più ricche. Del resto, una volta accertata la presenza qualificante delle maschere nel nucleo primitivo del mitraismo, se ne deve dedurre che ciò rechi con sé la retrostante ideologia (Giuseppe Lampis Maschera e daimon, “Átopon” IV, Roma 1996, 17–32; e Maschere e dèmoni voll. 2, Roma 1999). I misteri di Mithra riesprimono gli elementi essenziali di un’antica dottrina: l’uomo attuale deve affrontare l’ardua prova della traversata di questo mondo e salvarsi rinnovando e integrando la sua vera natura. Natura consustanziale con il sole e con il fuoco. Qui giungiamo escludendo dalla dottrina lo scenario astrologico. Se invece lo assumiamo per essenziale dell’ideologia

mitriaca, il combattimento acquista ulteriori connotazioni. Per liberarsi l’uomo deve ripercorrere a ritroso le tappe del suo avvitamento nella distretta attuale e dissuggellare uno dopo l’altro i legami con cui è stato annodato. La distretta non dipende dall’incarnazione bensì dalla passività nei suoi riguardi, non si deve fuggire dal mondo ma rovesciarne il verso e governarlo. Questo processo eroico esige un’aristocratica attitudine ad affrontare il dolore e il rischio. I passaggi critici dell’inversione e del ritorno sono molteplici e tremendi, gli ostacoli sono interni e esterni, le forze che hanno spinto verso il basso non hanno lasciato intatto il cuore dell’uomo, sono penetrate in lui infettandolo e appesantendolo. La risalita e la rinascita esigono una lotta su più piani, contro i guardiani delle porte di accesso alle regioni in cui via via l’eroe si propone di entrare e contro i dèmoni psichici che corrodono la sua volontà. La saldatura tra oppositori interni e esterni è tanto stretta che presupposto necessario

affinché lo scontro possa riuscire vittorioso è che l’iniziando prenda coscienza della loro corrispondenza e identità. Le forze di cui vado dicendo, a mano a mano che il risveglio procede, da ostacolo vengono convertite in alleate potenti e, con la stessa energia con cui provocavano la discesa, moltiplicano la spinta a risalire. L'acceso combattimento nel quale consiste il viaggio eroico assume la forma d’una rivoluzione etica, la quale può essere descritta nella forma d’un conflitto metafisico per la coincidenza di microcosmo e macrocosmo. L'intero processo può essere guardato nell’ottica d’una procedura di successive integrazioni in stati di esistenza abbandonati o caduti in latenza. Da quanto sappiamo del mitraismo, il conseguimento dei gradi era vissuto nel rito quale trasmutazione in forme speciali e assunzione correlativa di maschere demoniche, al fine di acquistarne i poteri specifici. Si configura, insomma, un complesso religioso relativamente recente in cui la metafisica della maschera si

presenta ancora in primo piano e con un ruolo centrale.

2 Gradi iniziatici e astrologia La gerarchia dei gradi iniziatici mitriaci corrisponde a una procedura astrologica esoterica. Il potenziamento progressivo degli affiliati dipende dall’integrazione con i poteri concentrati nei vari pianeti. La comprensione dei passaggi è difficile ma è possibile affermare che la scala misterica contiene l’itinerario d’un rovesciamento dell’ordine condizionante del destino, basato sul sistema planetario oggettivo. Il rovesciamento si incentra sull'esaltazione del potere liberatorio del Sole. Ho accennato all’opera di revisione della tesi di Cumont, risalente nel suo disegno sostanziale agli ultimi anni del XIX secolo. Importanti novità critiche furono introdotte negli anni settanta del 1900 da Richard L. Gordon e da una corrente che si riferì all’astronomia ellenistica per spiegare l’immaginario del mitraismo.

Non tutti hanno seguito questa strada. Turcan a esempio, applicandosi in un quadro neocumontiano, non stima che la tauroctonia, archetipo centrale del mito, si sia formato a partire da un’esigenza astrologica. Egli nega che la filosofia neoplatonica, la cui simbologia astrologica è una componente indisgiungibile e significativa, appartenga coerentemente all’essenza del mitraismo. In particolare Turcan non vede nel mitraismo nessun atteggiamento anticosmico e nessuna traccia della caduta dell’anima e della negatività dell’incarnazione, e piuttosto ricava – prevalentemente dai dati archeologici, iconografici e epigrafici – i contorni d’un sincretismo tra elementi orfici (la nascita del mondo da Aiôn) e stoici (il fuoco eterno circolare). Sennonché l’apporto stoico solleva problemi: non sono chiari i motivi generali o le correnti determinate che entrerebbero in causa o all’epoca della sua formazione in Asia minore o quando ormai uscito dalla « crisalide iranica » (cit. 29) appare nell’orbita romana.

Turcan ritiene, dal canto suo, che l’autore da cui provengono gli elementi stoici aggiunti alla figura originale di Mithra sia Posidonio, influente amico di eminenti romani (Pompeo, Cicerone), e tra l’altro forse maestro di Plutarco. Posidonio, da quanto se ne ricava dalle fonti, testimonierebbe d’uno sbocco della scuola stoica nel platonismo. La sua vocazione escatologica e il pensiero d’un calore proveniente dalle stelle che trapassa tutto il cosmo ne fa un fondatore del neoplatonismo. Per contro, si deve notare che in ambito neoplatonico vanno prendendo corpo robuste propensioni teurgiche (culminanti in Giamblico, III secolo) e un accentuato apprezzamento delle proiezioni cosmiche dell’atto eroico. Passo a leggere direttamente Franz Cumont (Astrology and religion among Greeks and Romans, New York–London 1912; tr. it. Astrologia e religione presso i Greci e i Romani, Milano 1990, 150–151):

« ... quando il paganesimo rinunciò all’idea che il Sole fosse il sovrano del mondo, la Causa Prima, l’Essere Supremo oltre i limiti del mondo sensibile, situandolo al di sopra delle sfere planetarie e al vertice dei cieli, la dimora dei beati fu naturalmente trasferita nella sede di tale divinità; e una teoria, più complicata di quella dell’immortalità solare, ma senza dubbio derivante da essa, prevalse verso la fine dell’Impero Romano. Questa sorta di psicologia, che deve il suo trionfo ai culti astrologici dell’Asia, stabilì una divisione dell’anima in sette parti, a cui faceva corrispondere sette creazioni. Essa insegnava che la nostra anima discende dal vertice del cielo a questo mondo sublunare, passando attraverso le porte delle sfere planetarie, cosicché alla nascita l’anima acquista le disposizioni e le qualità peculiari di ognuno di quegli astri. Dopo la morte, essa riguadagna la propria dimora celeste passando per la stessa strada. Nel viaggio a ritroso, mentre l’anima riattraversa gli strati del cielo, disposti uno sull’altro, si spoglia delle passioni e delle facoltà che aveva acquistato durante la sua discesa

sulla terra, come dei vestiti [chitones – Proclo Elementa theologiae 209]. Alla Luna, essa riconsegna la sua energia vitale e alimentare, a Mercurio la sua cupidigia, a Venere i suoi amorosi desideri, al Sole le capacità intellettuali, a Marte il suo ardore guerriero, a Giove i suoi sogni ambiziosi, a Saturno, le sue tendenze infingarde. E’ nuda, sgravata da ogni sensibilità, quando raggiunge l’ottavo cielo, luogo della gioia, per godervi un’essenza sublime, nella luce eterna dove vivono gli dèi, una felicità infinita. Tutte queste dottrine, sia pure con differenze nei dettagli, insegnavano che le anime, discendendo dalla luce di lassù, si innalzavano poi di nuovo alla regione degli astri, dove dimoravano in eterno con le raggianti divinità. Questa escatologia, di origine caldea, sostituì gradualmente le altre nell’Impero. I Campi Elisi, che non solo gli antichi Greci ma anche i fedeli di Iside e Serapide collocavano ancora nelle profondità della terra, furono trasferiti nell’etere che bagna gli astri, e il mondo sotterraneo per l’avvenire divenne la tenebrosa dimora degli spiriti maligni. Questa concezione, una novità per

l’Europa, era stata a lungo propria del dualismo persiano, che i Misteri di Mithra portarono in occidente. Quest’ultima teoria pone in sistematico contrasto le tenebre infernali con le luminose dimore degli dèi e degli eletti. » In questo quadro, il passaggio dell’anima negli elementi, serve ad alleggerirla dagli strati di pesantezza che la raffrenano, affinché conquisti quello stato di rarefatta materialità, non impedita e libera, che le permette di dimorare nei luoghi della luce. « C’è un’opinione molto antica, secondo la quale l’anima è un soffio e, nel momento in cui essa fugge attraverso la bocca d’un moribondo, viene portata via dai venti. Così, l’atmosfera fu riempita di anime erranti, che divennero dèmoni col potere di soccorrere o nuocere ai mortali. L’origine di queste credenze deriva dal più primitivo animismo. Ma i Misteri vi introducono l’idea della purificazione. Le anime gettate nei vortici del vento sono

liberate dai legami contratti in vita, proprio come il lino sospeso nell’aria è candeggiato e perde ogni odore. Quando, dopo essere state in tal modo schiaffeggiate e portate via dai venti, le anime sono purificate d’una parte dei loro peccati, esse ascendono alla zona delle nubi, dove si impregnano di pioggia e si immergono nell’abisso delle acque superiori. Così, purificate delle macchie che le insudiciavano, esse raggiungono infine i fuochi del cielo, il cui calore le brucia. Soltanto dopo essere state sottoposte a questo triplice processo, durante il quale esse passano innumerevoli anni di crudeli espiazioni, le anime trovano così la pace nella serenità dell’etere » (Cumont cit. 147). Nella teologia dei misteri l’anima si purifica con la restituzione di sé ai tre elementi dai quali è composta, aria acqua fuoco – la terra riguarda solo il corpo –, con una gradualità che la prepara a entrare nel più alto e divino, l’etere–luce, con la parte di sé congenere con esso. L’anima era entrata nel mondo delle incarnazioni dalla porta solstiziale del

Cancro e usciva dal ciclo della pesantezza e della colpa dalla porta solstiziale del Capricorno, se era stata capace di liberarsi dalle passioni incatenatrici indotte dalle potenze planetarie: pigrizia–Saturno, ira–Marte, lussuria–Venere, avarizia– Mercurio, ambizione–Giove. Sulla simbologia delle due porte, le vediche Porta dei padri e Porta degli dèi, valgono gli studi sul simbolismo zodiacale di Guénon cit. §§. 29–38. A proposito della direzione del percorso, si osservi ancora una volta che la porta dell’uscita, simbolicamente in alto, appare allocata fisicamente in basso. Fin dal soggiorno terrestre l’anima ha l’opportunità di operare per liberarsi; alla morte, angeli e dèmoni lottano per prendersela mentre Mithra fa da arbitro e giudice. Se vincono gli angeli, essa esce dal Capricorno ripercorrendo al contrario i sette pianeti, perdendo a ogni passaggio le scorie di cui ciascuno di questi la gravò. A ogni porta deve convincere i doganieri, con formule magiche e preghiere da ricordare accuratamente, a farla passare. Analogamente, per i cristiani c’è un

doganiere del cielo con le relative chiavi, San Pietro, delegato del Cristo che ha disserrato l’umanità dalla precedente condizione di prigionia irreversibile nella terra. La teoria che attribuiva la risalita dell’anima e il salto finale a un’attrazione da parte del Sole ebbe maggiore successo filosofico. Si riteneva che il dio agisse irraggiando su tutto l’universo penetrando negli strati più bassi e profondi e che il suo influsso eccitasse il risveglio della latente natura solare dell’anima promuovendone il ritorno alla sua antica sorgente. Il neoplatonico Plutarco (De facie in orbe lunae 26) immagina che, con la morte del soma, il complesso psyche– nous si sciolga e che, mentre la psyche resta a purificarsi nella sfera della luna, il nous ritorna al suo principio solare. « Questa concezione sopravvisse sotto l’Impero, nella teologia dei Misteri. Le anime discendevano fino alla terra e riascendevano dopo la morte in direzione del cielo, grazie ai raggi del sole, che

fungevano da mezzi di trasporto. Nei bassorilievi mitriaci, uno dei sette raggi che sormontano il capo del Sol inuictus è raffigurato in modo sproporzionatamente prolungato verso il toro morente per risvegliare la nuova vita che si sta sprigionando dalla morte dell’animale mitologico. Ma questa antica credenza venne posta in relazione con una teoria più generale sostenuta dai Caldei. ... agli occhi degli astrologi l’anima umana era un’essenza ignea, della stessa natura dei fuochi celesti. Il Sole raggiante rilasciava continuamente particelle del suo risplendente orbe, che discendevano nei corpi che egli chiamava alla vita. Di converso, quando la morte dissolveva gli elementi di cui l’essere umano è composto e l’anima abbandonava il rivestimento di carne nella quale era stata imprigionata, il Sole la traeva nuovamente a sé. Allo stesso modo che il suo capo ardente spinge tutte le sostanze materiali a levarsi dalla terra, il Sole conduce a sé anche l’essenza invisibile che dimora in noi » (Cumont cit. 145–146).

Nel mosaico del mitreo ostiense di Felicissimus a cui mi sono riferito, il settenario dei gradi viene messo nella seguente corrispondenza con i pianeti: corax Mercurio, nymphus Venere, miles Marte, leo Giove, Persa Luna, heliodromus Sole, pater Saturno. A Santa Prisca, invece, Mercurio protegge i Persiani e la Luna i Corvi. Ai misti veniva mostrata una scala a sette porte con in cima un’ottava, da cui si accedeva al cielo delle stelle fisse ovvero a una dimensione trascendente il cosmo temporale del movimento planetario. Ognuna delle sette porte era fatta d’un metallo o d’una lega particolare in rapporto a ciascuno dei sette pianeti (mitreo delle Sette Porte a Ostia). I sette gradini, in Celso (Origene Contra Celsum VI, 22 = Alethes logos III, 72), seguono quest’ordine: Saturno, Venere, Giove, Mercurio, Marte, Luna, Sole. L’ordine settimana a l’hebdomade

ha l’apparenza d’una ritroso, « l’ordre de temporelle inversée »

(Turcan cit. 82, 110, 147 – e Mithras platonicus: Recherches sur l’hellénisation philosophique de Mithra, Leiden 1975). Questo ci fa pensare che la settimana comprende giorni fasti e giorni nefasti e che la religione mitriaca la volle culminante con il fasto della luce solare. Riporto integralmente il passo di Celso che ha acceso una serrata discussione: « Platone ha insegnato che per discendere dal cielo in terra o per salire dalla terra al cielo, le anime passano per i pianeti. I persiani rappresentavano la medesima idea nei loro misteri di Mithra. Hanno una figura che rappresenta i due movimenti che si compiono nel cielo, quello delle stelle fisse e quello degli astri erranti, e un’altra figura analoga per simboleggiare il viaggio dell’anima attraverso i corpi celesti. Questa è un’alta scala composta di sette porte, con un’ottava al di sopra delle altre. La prima porta è di piombo, la seconda di stagno, la terza di rame, la quarta di ferro, la quinta d’una lega di metalli, la sesta d’argento, la

settima d’oro. Attribuiscono la prima a Crono, simboleggiando col piombo la lentezza di questo astro; la seconda ad Afrodite, che richiama lo stato e la morbidezza dello stagno; la terza che, fatta di rame, non può essere se non ferma e solida, a Zeus; la quarta a Ermes, che fra gli uomini ha fama di sopportare la fatica e di realizzare molti lavori utili, quale la lavorazione del ferro; la quinta che, composta di metalli diversi, è irregolare e varia, ad Ares; la sesta alla Luna, che ha la bianchezza dell’argento; la settima al sole, i cui raggi ricordano il colore dell’oro. Questa disposizione degli astri non è opera del caso, ma obbedisce a rapporti musicali. » Per intendere questa testimonianza cominciamo con il tenere presente che: 1) l’ordine normale della settimana in vigore dipende da un’idea caldea, 2) l’ordine di Celso è l’inverso della settimana caldea, 3) l’ordine delle tutelae non corrisponde a niente di noto e tanto meno alla scala di Celso.

A puro titolo di nota utile, riporto gli ordini – geocentrico: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno; – eliocentrico: Sole, Mercurio, Venere, Terra (con Luna intorno), Marte, Giove, Saturno. (Urano, Nettuno, Plutone, non ancora visibili nell’età antica, saranno scoperti con le tecniche moderne, dal cannocchiale galileiano in qua). L’ordine geocentrico è precisamente l’ordine caldeo, o ciceroniano, o tolemaico, attribuito anche ad Archimede e preferito da Ipparco da Nicea e in ultimo da Proclo. Per esso, i pianeti tra la terra e il cielo delle stelle fisse si distribuiscono in ragione della velocità della loro rivoluzione, ovverosia del tempo impiegato a ritornare nella stessa posizione equinoziale sullo Zodiaco. Infatti Luna, Mercurio, Venere, Sole e Marte ripassano rispettivamente dopo giorni 29 e mezzo, 88, 225, 365, 687; Giove in 12 anni circa e Saturno dopo 30.

Ioan P. Culianu, osservata la non corrispondenza dell’ordine delle tutelae ad alcun ordine noto dei pianeti nell’universo, concorda con Turcan e afferma che i « misteri di Mitra non celebravano alcuna ascensione attraverso le sfere e Celso con diexodos (viaggio dell’anima) intendeva altra cosa » (Expériences de l’extase, Paris 1984; tr. it. Esperienze dell’estasi dall’ellenismo al medioevo, Bari 1986, 19892, 85). A suo avviso, mentre per Turcan il platonismo ha falsato l’essenza del mitraismo, qui emergerebbe la concezione filosofica platonica d’un « tempo arrovesciato » (cit. 89). Platone dice nel Timeo (39 D 2–7) che, quando gli astri si allineano nella posizione occupata all’inizio del cosmo, tornano le stesse cose nel mondo; e soprattutto nel Politico (272 D–E) traccia la teoria dell’inversione periodica del corso del mondo, con un movimento simile alle oscillazioni del pendolo. In breve, Mithra è per Culianu il dio che governa il centro in cui avviene l’eterno ritorno dell’eguale, luogo

altamente critico, dove la fine si converte nell’inizio. Roger Beck (In the place of the Lion: Mithra in the tauroctony, in Hinnells (ed.) cit. 29; e specialmente Planetary Gods and Planetary Orders in the Misteries of Mithras, Leiden 1988) perviene a un risultato paradossalmente simile, intravedendo nella simbologia dei Misteri di Mithra l’indicazione d’una terza porta lateral (aperta lungo una strada senza profondità o altezza, cit. 30) diversa dalle porte solstiziali, oltre le quali l’anima può compiere il viaggio trasformativo già in questa vita. Oltre al viaggio fra i pianeti, il famoso passo di Origene–Celso riferisce d’un percorso fra le stelle fisse. Per Beck riguarda lo Zodiaco: una religione per la quale il dio principale è il Sole e i poteri principali sono la Luna e gli altri pianeti non può non pensare che la strada privilegiata sia proprio quella che essi percorrono (cit. 41). Esaminando l’iconografia sulla base della simbologia di

Porfirio (De antro nympharum 29), lo studioso ritiene di avere trovato la via delle stelle fisse nell’icona della tauroctonia, la quale gli si dimostra per una star map (cit. 42) con Mithra nella posizione del Leone e la Luna in quella del Toro. Le anime scendono nella genesi e risalgono nell’apogenesi lungo l’asse dei solstizi ma, per Beck, la strada privilegiata si impone essere l’eclittica–Zodiaco, essendo quella che viene percorsa dal Sole, dalla Luna e dagli altri pianeti. La mappa stellare della tauroctonia rappresenterebbe l’incontro di Sole e Luna nel Cancro. Ora, la culminazione di Cancro e Leone è il centro decisivo dell’apokatastasis ovvero del « ritorno di tutti i pianeti a un solo grado di longitudine dalla fine d’un ciclo cosmico », un’autentica terza porta per la salita delle anime. « Collocando il solare Mithra nel Leone e il Toro lunare nel Cancro, la tauroctonia allude alla creazione del mondo, e insieme all’apokatastasis della sua fine » (cit. 47).

Anche i mitraisti, anticipati dagli stoici, credevano che la fine avvenisse nella conflagrazione del fuoco. In definitiva, la tauroctonia costituirebbe un oroscopo escatologico di forte significato salvifico. La congiunzione (una syzigya o un’eclisse) Sole–Luna apre una via alle anime prima della morte. Plutarco descrive (De genio Socratis 591) le anime che vanno e vengono lungo il fiume di ombra gettato sulla Luna dalla Terra in occasione di un’eclisse, riconoscendovi il mitico oltremondano Stige. Queste prime anticipazioni di Beck lasciano aperte varie questioni. La terza via da lui rintracciata, lungi dall’essere una nuova via d’uscita, sembra rivelarsi semplicemente per la porta solstiziale dell'entrata nel ciclo della generazione, ovvero la porta del Cancro, dalla quale il Sole inizia il suo mezzo anno calante. Il polo (il nord) al contrario è rappresentato dalla porta opposta, il Capricorno, l’istante del solstizio d’inverno

dal quale il Sole comincia a salire ovvero nasce. A morire nel Cancro, in breve, sarebbe il Sole e non il Toro–Luna. La porta che si apre sul cielo delle stelle fisse viene esplicitamente definita da Origene–Celso un’ottava porta e per Porfirio conduce oltre il mondo sensibile in quello intelligibile (De antro nympharum 29). E’ giusto pertanto non concepirla della specie degli altri gradini e ritenerla aperta su una dimensione eterogenea; per la stessa ragione è egualmente giusto dire che dovrebbe trovarsi al culmine d’un percorso, purché si intenda correttamente il concetto della culminazione. Tra l’altro, il viaggio liberatorio si svolge lungo una verticale simbolica e non lungo una linea orizzontale. Con l’orizzontale si rappresenta il ciclo più mondano e materiale; l’asse verticale nord–sud è, invece, la proiezione dell’axis mundi. La simbolica dell’asse est–ovest mantiene intatta la sua apparenza sensibile immediata, mentre l’asse nord–sud si distacca dall’apparenza fisica: nell’axis mundi il basso fisico (il Capricorno, il sud cosmico, il solstizio

basso scuro invernale) cela in sé l’alto simbolico e mistico (il Sole nasce lì). Interviene, dunque, una maggiore e più radicale difficoltà a rendere poco convincente l’uso soprariferito della star map. I percorsi orizzontali non sono liberatori, rappresentano semmai la trama d’una felice permanenza nel ciclo mondano. Se è vero che lungo la linea orizzontale si trova una porta, questa si apre però sull’incrocio con l’asse nord– sud, l’asse della risalita. La risalita dell’asse cosmico non è fisica, estrinsecamente interplanetaria, quasi con un veicolo spaziale (ha perfettamente ragione Culianu). L’anima che si libera non sale nello spazio, ma abbandona la spazialità e la trascende; la risalita è piuttosto una conversione verso il centro, oltre l’incrocio dei quattro punti cardinali che costituiscono pur sempre la mondanità. I neoplatonici hanno assai allegorizzato e sviato, ciò nonostante non c’è dubbio che Mithra uccide il Toro al centro e non in alto.

In conclusione, la stessa verticalità va decifrata correttamente; l’ascensione deve essere letta per un’uscita dalla porta giusta dalla condizione attuale al fine di tornare in una diversa e antica condizione. Il fatto si è che il mitraista, riassorbiti gli astri–dèi nell’ascesa lungo la sequenza misterica, raggiunge una diversità qualitativa perché egli stesso si è trasformato radicalmente. Ciò viene soltanto adombrato da Beck quando chiama lateral la porta. Il passo di Celso citato da Origene riporta una scala che corrisponde alla settimana caldea rovesciata. Il motivo del rovesciamento costituisce un primo problema. Per memoria, richiamo nuovamente la scala di Celso che rovescia la settimana in vigore (caldea): Saturno, Venere, Giove, Mercurio, Marte, Luna, Sole. La settimana caldea (affermatasi nel II sec.) non è l’ordine caldeo, il geocentrico; è una sua interpretazione

astrologica costruita denominando ciascun giorno con il pianeta che ne regge la prima ora, a partire dalla Luna, il primo pianeta. Con tale scelta viene individuato all’interno del sistema geocentrico un ordine mistico di particolare importanza: in esso i giorni si susseguono l’uno all’altro secondo il pianeta che ne segna la prima ora. Sicché il loro settenario configura una sorta di alba primordiale. L’allineamento non è opera del caso – direbbe Celso, dato che non lo è il suo inverso –; i Caldei vi hanno scorto il ritmo del tempo degli uomini; per i mitraisti era la sequenza dell’irrigidimento e della soggiacenza al destino da cui liberarsi procedendo a rovescio. I rapporti musicali che governano la congiunzione degli astri nella settimana compongono una melodia che nel sentire dei mitraisti deve essere variata per inversione. In loro, evidentemente, l’alba del vero inizio si schiude nella direzione opposta. E questa rappresenta il percorso vittorioso del Sole levante a partire dal sonno saturnino per entro le altre luci. La scala di Celso indica l’uscita irresistibile

del Sole dalla caverna cosmica (dal cuore del cosmo o della montagna cosmica) e traccia il modello del viaggio liberatorio dell’anima. Ciascun pianeta, avendo una doppia polarità, offre opportunità opposte in relazione alla direzione dalla quale lo si incontra. L’uomo si trova in uno stato dal quale si lega o scioglie con opera appropriata su ciascuno di quei centri. Nell’astrologia mitriaca l’anima deve conseguire la liberazione raggiungendo e superando sette sfere guardate ciascuna da un dio. I pianeti sono decodificati in gradi di colore e luce; generi di metalli e materia – risulta da uno dei mitrei di Ostia oltre che dal passo di Celso –; centri di forza insieme umana e non umana; potenze demoniche divine, o arcontiche; stati passionali e psichici. Date queste valenze esoteriche, è evidente che l’ordine del percorso, che risale in essi a uno a uno per la trasformazione e la rinascita, assume la massima importanza.

Molti indizi sollecitano a pensare che nel mistero mitriaco la salvezza verrà quando tutti i pianeti potranno essere decifrati e interpretati come gradi e epifanie d’una sola luce, con la quale l’uomo eroico scoprirà di essere congenere. Solidarietà e analogia tra stati dell’essere e stati della coscienza, fanno sì che il processo di autointegrazione di uomo e creazione si equivalgano. Cosmogonia e iniziazione si rivelano l’una il corrispettivo dell’altra. L’uomo mitriaco si colloca al centro dell’incrocio delle forze cosmiche e si appropria delle loro energie obbligando gli dèi a seguirlo. Egli vive il risveglio e lo scatenamento di sette forme trascendentali della coscienza bloccate dal sonno saturnino. L’iniziazione nei vari gradi, nella sua forma matura, sembra configurarsi nel passaggio da un settenario inferiore – la soggiacenza al destino – a un settenario superiore. L’intero processo della trasformazione mitriaca appare finalizzato all’acquisto delle capacità indispensabili a superare gli sbarramenti e i loro guardiani.

Per liberarsi l’uomo deve ripercorrere a ritroso le tappe del suo avvitamento nella distretta attuale e sciogliere in successione i legami con cui è stato annodato. La distretta non dipende dall’incarnazione bensì dalla passività nei suoi riguardi: non si deve fuggire dal mondo ma rovesciarne il verso e governarlo. Un ulteriore problema che sorge a proposito dell’astrologia mitriaca concerne il significato riposto della serie dei pianeti collegati con i livelli dell’iniziazione (mitrei di Ostia e di Santa Prisca). L’associazione delle tutelae planetarie ai vari gradi forma una scala senza alcuna apparente corrispondenza con quella riferita da Celso. Orbene, se la scala di Celso indica il percorso liberatorio, per quale motivo la gerarchia delle tutelae non la ricalca? Jean Flamant ha notato che la settimana rovesciata e i gradi diventano sovrapponibili solo procedendo a un paio di trasposizioni (Luna e Sole spostati dopo Giove e prima di Saturno).

I dubbi devono tuttavia essere ancora sciolti con piena persuasività. Lo status quaestionis si riassunto egregiamente in Culianu.

trova

In particolare egli riferisce (1984 cit. VII, 140) della spiegazione di Jean Flamant (Macrobe et le néo–platonisme à la fin du IV siècle, Leiden 1977) semplice e risolutiva, con la quale sotto un certo aspetto si mette « ordine nelle sfere » regolate in modi molto diversi dalle tradizioni astronomiche nel corso della storia. Flamant ha osservato che la pluralità degli ordini planetari sostanzialmente dipende dalla collocazione di Mercurio e Venere rispetto al Sole. Mercurio e Venere vengono registrati almeno in quattro posizioni diverse, due sopra e due sotto il Sole – anche nel sistema geocentrico, girano attorno al Sole e non attorno alla Terra e perciò possono presentarsi sopra o sotto di esso. Nell’ordine caldeo stanno sotto il Sole (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) e nell’ordine egizio,

così denominato pur essendo dovuto a Platone, stanno sopra il Sole (Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno). Due ulteriori varianti, invertendo i due pianeti inferiori rispettivamente nei due ordini citati, rispondono a altri ordini più rari, noti nell’antichità. Ioan P. Culianu è tornato sull’argomento nel 1994 (The Mithraic ladder revisited, in Hinnells (ed.) cit. 75– 91) per sottolineare che fu l’astronomo Eudosso di Cnido, contemporaneo di Platone, a dare « profondità fisica » al cielo. In precedenza, i Babilonesi avevano concepito il cielo a più strati (di solito tre), con i pianeti a scorrere su uno solo degli strati (movimento complanare), e bisognò attendere Eudosso perché la profondità dello spazio celeste fosse collegata con il movimento dei sette pianeti. L’ordine caldeo, il geocentrico, rappresenta una delle soluzioni date al problema del rapporto tra profondità (distanza dalla Terra) e natura (velocità) dei pianeti.

La chiarificazione relativa alla posizione della coppia Mercurio–Venere torna assai utile per orientarsi fra le speculazioni astrologiche, perché le deduzioni riguardo alla vita degli uomini devono partire da una base oggettiva, rappresentativa della realtà, accertata e fissata nell’ordine dei pianeti. Se ci attendiamo dal Sole la soluzione decisiva del problema principale, risulterà essenziale conoscere la posizione oggettiva dalla quale inizia la sua azione, dal momento che è questa posizione a costituire il problema su cui si appunta per svilupparlo e risolverlo. La scala di Celso segna il percorso liberatorio e trionfale del Sole, con cui si apre la possibilità di rovesciare il ritmo ordinario della condizione umana. Ritmo rappresentato dalla settimana, la quale esplicita una conseguenza astrologica dell’ordine planetario oggettivo – il geocentrico, con il Sole insediato al centro del cosmo. Il significato dello schieramento delle tutelae dei gradi dei mitraisti rispetto a questa possibilità di rovesciamento

dovrebbe dipendere dalle proprietà e dal genere d’influenza che nei misteri di Mithra venivano assegnati esotericamente ai vari pianeti. Nell’astrologia dei mitraisti emerge il nesso di solidarietà che stringe la visione eliocentrica e l’etica dell’uomo che lotta per la liberazione. Non sarebbe contraddittorio ipotizzare la pratica di riti teurgici; sfortunatamente, le tracce sono troppo generiche e sbiadite; in fondo, poi, l’atto teurgico paradigmatico è compiuto da Mithra e i suoi devoti seguaci possono essersi limitati a riceverne le benefiche e salvifiche ripercussioni. In attesa che i filologi sbroglino la matassa aggrovigliata dalla testimonianza di Celso e colmino le lacune, formulo un’ipotesi. A me pare che la settimana a rovescio (la scala di Celso) potrebbe indicare la sequenza d’un percorso d’uscita del Sole dalla caverna, a partire dalla sua posizione centrale fra gli altri pianeti nel sistema geocentrico caldeo,

assunta per effettiva e pertanto tipica del destino concreto attuale. E’ chiaro tuttavia che, a tal fine, occorre preliminarmente ammettere che la posizione centrale del Sole fra tre pianeti superiori e tre inferiori simboleggi il suo insediamento nella caverna, nel cuore del cosmo o della montagna cosmica. Vediamo la via lungo cui si dovrebbe svolgere il percorso d’uscita. Esso procederebbe nella figura d’una spirale (labirintica) e inciderebbe sull’allineamento oggettivo geocentrico che, con il Sole incastrato al centro, rappresenta la sua notte, la notte saturnina dalla quale bisogna uscire, e non l’alba del mondo. Nella mia ipotesi, il Sole comincia con il lasciare la sua posizione centrale iniziale e scende a toccare la Luna (a diventare la Luna), primo pianeta; potenziato da ciò, risale d’un gradino rispetto alla posizione centrale labirintica in cui si trovava e prende Marte, poi cala a riprendere quello che – tolta la Luna – è diventato il più basso, Mercurio; infine, risalendo e calando a turno d’un gradino,

tocca e prende Giove, conclusivamente Saturno.

Venere

e

Saturno, rivitalizzato, coincide con il Sole al culmine del suo percorso di riassorbimento e suscitamento delle altre potenze planetarie. Riassumendo, il percorso mitriaco liberatorio risulta, a partire dal Sole, dal centro, proiettando ortogonalmente le tappe della spirale su una retta: Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno. La settimana in Celso si presenta a rovescio poiché trascrive l’ordine rovesciato in cui si svela il vero percorso misterico, il quale procede dall’inversione e dalla trasformazione di Saturno in Sole. Le suddette speculazioni attorno alla posizione e alle virtù del Sole possono trovare conferma se si mettono a confronto il sistema geocentrico (più esatto dire geoeliocentrico o eliosatellitare) e il sistema eliocentrico, intendendo nel primo l’incorporazione passiva e nel

secondo lo sprigionamento delle energie solari insite nella corporeità cosmica. La spinta della scienza del Rinascimento verso l’eliocentrismo nasce pour cause in seno al platonismo. Dietro la scelta tra geocentrismo o eliocentrismo non c’è una mera divergenza astronomica, c’è una radicale contrapposizione nel concepire il destino e l’etica. Lo stesso Eudosso pare si muova nel quadro della matematica pitagorica, il che permette di intravedere nella costruzione degli scenari astronomici greci un antico movente orfico. Nell’ordine geocentrico il Sole è prigioniero al centro della caverna o labirinto cosmico; nell’ordine eliocentrico governa dalla prima posizione e il centro è occupato dalla Terra (rinnovata): e qui il Sole sostituisce la Luna, la luce bianca e passiva, con la sorgente vera e autentica della luce, quella del fuoco rosso. Infatti, se prendiamo l’ordine caldeo (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e non, si badi, la settimana) e lo trasformiamo in una spirale d’uscita dal labirinto; se assumiamo il Sole

a vera base centrale di partenza e lo seguiamo in un percorso liberatorio di trapassamento alternativamente in basso (Luna ecc.) e in alto (Marte ecc.) dei pianeti, avremo MARTE↓

GIOVE↓

SATURNO

SOLE↓ LUNA↑

MERCURIO↑

VENERE↑

Ecco in chiaro la scala geocentrica decodificata nella proiezione ortogonale su una retta delle posizioni dei pianeti lungo una spirale e pertanto trasformata con il Sole esplicitamente collocato in posizione egemone. In essa si mostra che il vero centro (il Sole) non è chiuso quale pianeta fra i pianeti ma ne governa l’inizio (figura 1). Ma la decodificazione dell’ordine caldeo dà la settimana caldea! In sintesi, possiamo affermare che la settimana caldea (la prima ora) contiene una duplicità e descrive una discesa o una risalita secondo il rispetto dal quale la consideriamo; presso i Babilonesi indica

una congiunzione positiva mentre nella speculazione filosofica ellenistica sul destino ha un senso problematico (che si fa decisamente negativo solo presso gli gnostici) e indica un impedimento da risolvere. Il mitraismo ellenizzato e neoplatonizzante, intriso delle riflessioni sul ruolo etico–liberatorio del Sole, presenterebbe una riforma in senso solare di quella congiunzione, tale da rovesciarne il senso corrente. Un’ultima questione riguarda il perché Luna e Sole, che nell’ordine caldeo occupano la prima e quarta posizione, poi nella scala liberatoria delle tutelae mitriache compaiano spostati tra Giove e Saturno (= Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole, Saturno). Ne tratterò nel capitolo finale.

Figura 1

SOLE↓ LUNA↑

MARTE↓

MERCURIO↑

GIOVE↓

VENERE↑

SATURNO

il Sole,

dal centro, scende e risale il suo movimento a spirale visto su un piano la sequenza proiettata su una retta spezzata

3 Mithra solare L’inversione del destino, mediante il potere liberatorio del Sole, culmina con l’uccisione del toro da parte dell’eroe. Ma l’uscita dalla caverna del mondo non è una linea retta e segue uno schema labirintico a spirale. Circa la forma e il significato del viaggio iniziatico uno dei problemi principali riguarda Saturno–Kronos. In che rapporto si trova Mithra, dio solare, con il plumbeo e notturno Saturno?

La scala dei gradi iniziatici rappresentata nel mosaico ostiense, che non corrisponde né alla scala planetaria di Celso né ad altra sequenza conosciuta dei pianeti, costituisce un ulteriore problema da decifrare. D’altronde, la stessa varietà nell’ordine delle gerarchie planetarie, testimoniando una diversità delle vie seguite, indica una diversità delle forze

assegnate a ciascuna di esse e dipende in ultima analisi dallo specifico orientamento del mistero in questione. Ciascun pianeta si presenta con una faccia della sua doppia polarità in relazione alla provenienza da cui lo si incontra. L’uomo si trova in uno stato dal quale può legarsi o sciogliersi interpretando con opera appropriata ciascuno di quei centri. L’astrologia mitriaca pone che l’anima deve conquistare la liberazione raggiungendo e superando sette sfere guardate ciascuna da un dio. A ogni porta corrisponde uno dei sette livelli della procedura dell’iniziazione. L’iniziazione configura una successione di salti di esistenza e d’integrazione con i poteri rappresentati dai pianeti. Al culmine del processo si colloca il mistero dell’uccisione del toro da parte del dio. I sette passaggi appaiono altrettanti accostamenti al mistero della morte–uccisione da cui prorompe la vita universale. Non bisogna trascurare, peraltro, che nell’esoterismo tradizionale i pianeti sono intesi a volta a volta per gradi di

colore e di luce. Di solito: Saturno – nero, Giove – giallo, Marte – rosso, Sole – porpora, Venere – bianco, Mercurio – azzurro, Luna – verde. Il mitraismo di cui in Celso stabilisce altre associazioni e si riferisce a una tradizione diversa. E, ancora, per generi di metalli e materia – da uno dei mitrei di Ostia e dal passo di Celso –; per livelli di conoscenza e memoria; per centri di forza insieme umana e non umana; per potenze demoniche divine o arcontiche; per stati passionali e psichici. Date queste proprietà, è evidente che l’ordine del percorso, con il quale si devono risalire a uno a uno per ottenere la trasformazione e rinascita, assume la massima importanza. In ognuno dei principî planetari sono compresi gli altri, prospetticamente impliciti sotto la dominante esplicita. Ognuno dei pianeti non costituisce un’entità indipendente e separata e si lega agli altri in un insieme coordinato e omogeneo; ne consegue che l'intero attraversamento riuscirà a patto di seguire la loro unitaria riposta logica interna.

Dice Jakob Böhme: « I sette non sono separati, come si vede per le stelle del cielo: ma sono tutti gli uni negli altri come un solo spirito » (Morgenröte X, 40). Molti indizi ci inducono a pensare che per il mistero mitriaco la salvezza verrà nel preciso momento in cui i vari pianeti potranno essere decifrati e compresi come gradi e epifanie d’una sola luce. In definitiva, quando i pianeti si ritroveranno allineati, il tempo sarà finito e sospeso (Platone Timeo 39 D) e l'umanità avrà raggiunto la purificazione (Timeo 22 D). Il percorso mistico della liberazione mitriaca potrebbe non seguire una linea retta. La scala dei gradi, nel corrispondere a un corridoio occulto di uscita dalla caverna, potrebbe seguire una spirale labirintica. Lo schema del labirinto è la curva della greca, forma cretese e poi ellenica dello swastika vedico; lo swastika rappresenta la corsa in ginocchio del Sole, e trascrive in uno schema geometrico– matematico l’aprirsi del cosmo da un centro che simultaneamente lo regge. Il

labirinto è la rappresentazione solare del simbolo, lo swastika quella polare: ne vedremo successivamente le reciproche implicazioni. La spirale andrebbe immaginata con sette volute che si sciolgono a partire da un centro occupato dal pianeta culminante, in forza del fatto che nel centro del labirinto insistono sia l’entrata sia l’uscita e che pertanto in esso deve trovarsi la base di partenza nonché di arrivo. Ciò convince a immaginare gli altri sei pianeti disposti tre sopra e tre sotto di esso (fig. 1). Essi formerebbero tre coppie dalle polarità complementari dimodoché, per ognuna delle coppie, al pianeta collocato in alto corrisponderebbe un altro pianeta simmetricamente collocato in basso. La spirale configurerebbe un processo nel quale ogni ascesa sia obbligata a passare per una corrispondente discesa. Sia notato per inciso che, nella suddetta organizzazione, i livelli esterni al sole da sette si riducono a tre – si risolverebbe così la vexata quaestio dei tre

livelli della tradizione iranica e dei sette della babilonese. Ciascuno dei tre livelli è bipolare e si affaccia rispettivamente verso l’alto e verso il basso. Dispone dei due versanti yin e yang. La bipolarità cosmica sta alla base della metafisica della maschera che suggella e stringe in sé alto e basso, invisibile e visibile. Per adesso debbo limitarmi a un mero annuncio generale, perché al fine di spiegare l’ipotesi finale (all’ultimo capitolo) è necessario allargare l’analisi dei dati, in assenza di esplicite informazioni circa il senso della sequenza. Il primo e il quarto grado, corax e leo, Corvo e Leone, indossavano le maschere degli animali corrispondenti (bassorilievo di Konjic, presso Sarajevo in Bosnia) e, gracchiando e ruggendo, ne imitavano il verso. Anche i Traci si mascheravano in occasione del sacrificio del toro (Pettazzoni cit. 159–160). Indossare una maschera è della massima importanza nell’ambito dei riti principali delle società segrete iniziatiche.

Il corvo è un messaggero del sole, il cui tentativo di trovare il toro fuggito fallisce. Il leone è un simbolo solare e, assodato che nei simboli abita una duplice tensione, potrebbe anche rappresentare un dèmone negativo e contrario. L’arcangelo Michael e l’evangelista Marco hanno la testa di leone, similmente all’arconte malvagio Ialdabaoth. Un eminente eroe liberatore – dal profilo strutturale arcaicissimo –, Herakles, indossa abitualmente uno strano elmo composto dalla testa a fauci aperte d’un leone. Nello strato più remoto del mito che lo riguarda affiorano i profili d’un Signore degli animali (Walter Burkert Structure and History in Greek Mithology and Ritual, University of California 1979; tr. it. Mito e rituale in Grecia: Struttura e storia, Bari 1987, 19962, IV, 125–156). Ovvero d’una primordiale divinità con la forza di trarre gli animali dal mondo dell’invisibile. Dal Paleolitico gli animali, parimenti a ogni ente che nasce alla vita e l’alimenta, spuntano dal regno dell’oscuro, dalle viscere del mondo, dalle caverne.

Hermes, il trickster, ruba i buoi del fratello Apollon trascinandoli a ritroso, nel verso in cui conviene agire liberando le ricchezze di cui l’aldilà – il rovescio dell’aldiqua – abbonda. La procedura contiene tuttavia un’aura di ambiguità; il cammino all’indietro potrebbe indicare che l’armento sta tornando nel luogo suo proprio e da ciò emergerebbe l’ambiguità di Apollon– Helios il quale, riuscendo a vedere quanto è stato ricondotto nell’aldilà, mostrerebbe di estendere il suo dominio sia sul luminoso sia sul tenebroso. Anche per il grado di heliodromos è stata avanzata l’ipotesi che sia stato usato il nome d’un animale (Richard L. Gordon Mystery, metaphor and doctrine in the Mystery of Mithras, in Hinnells (ed.) cit. 111). Un uccello indiano che imita fedelmente il sole perché dalla nascita si alza da oriente e scende a occidente in una vita che dura esattamente un anno. Il suo comportamento racchiuderebbe e la corsa diurna e la corsa annuale del sole. Gordon trae la notizia da un’esotica enciclopedia di magia ermetica, il Kyranides. In proposito, vorrei sottolineare

che l’utilizzo dell’ermetismo pare risulti particolarmente proficuo se applicato al mondo metaforico dei misteri di Mithra, per il loro carattere di misteri operativi, e mi riservo di presentarne le possibilità ermeneutiche nella parte conclusiva. Che i Misteri prevedessero la presenza di animali, almeno per i gradi che occupavano i sedili, risulta a Gordon dall’uso del termine praesepia (Ostia, Aldobrandini): in esso lo studioso preferisce leggere (cit. 115), invece dell’omonimo gruppo stellare posto nella costellazione del Cancro, mangers, greppie, o stalls or byres, ricoveri per bestie. Quanto sopra rinvia però a una nozione più generale. Una volta preso atto che la nuova e fresca metafora locale del gruppo di Ostia rinvia a un pre–existing complex of established Mithraic metaphors wich speak of human beings in terms of animals, bisognerà decifrare il codice con il quale sono stati organizzati e trasvalutati specificatamente uomini in animali e animali in dèi e in stelle.

Beck (cit. 29), riconoscendo che la linea astrologica immette in un campo altamente simbolico, attribuisce particolare importanza ai testi del neoplatonico Porfirio (De antro nympharum e De abstinentia), rappresentante d’una filosofia spiccatamente esoterica. Per la stessa ragione Porfirio viene considerato inattendibile da Turcan, che lo prende per uno che filosofeggia piuttosto generico e deforma i misteri invece che per un testimone ravvicinato del mitraismo. Gli studiosi propensi per la tesi astrologica debbono fare i conti con le testimonianze neoplatoniche. Gordon taglia corto: Plutarco e Porfirio portano al caos (cit. 117) perché non distinguono più tra esegesi e mito, mentre Origene (Contra Celsum 1, 12) almeno si lascia sfuggire che « fra i persiani (= i mitraisti) ci sono riti d’iniziazione che vengono spiegati logikôs dagli eruditi ma messi direttamente in atto da gente di livello popolare. » Per Gordon, neanche Origene era più in grado di distinguere λογικϖς (= filosoficamente, nella sua traduzione) tra il mito e la speculazione sacerdotale non

greca che di solito interessa i filosofi (cit. 115). Tuttavia, paradossalmente, è proprio l’impossibilità di distinguere tra misteri veri e filosofia neoplatonica (cit. 121) che impedisce di prescindere dalle allegorie neoplatoniche. Esse (e il loro complex) costituiscono a suo avviso un passaggio obbligato per ogni tentativo di raggiungere un nucleo del mistero più genuino e meno sofisticato eventualmente sottostante alle rielaborazioni romane. Tocca a noi, insomma, di fare quello che i contemporanei del mitraismo non hanno fatto: discriminare nell’universo delle allegorie. La tesi origeniana, che lo strato più colto dava una spiegazione colta dei misteri mentre i più semplici li applicavano direttamente (enacted directly), suggerisce a Gordon d’individuare le metafore non istituzionalizzate (established) presso i lessici locali. In breve, si affaccia un criterio volto a spiegare la stratificazione delle metafore del mitraismo mediante l’articolazione dei

livelli sociali degli adepti, articolazione che si proietterebbe in una sorta di dualismo nel culto e nella dottrina, una religione passiva per il popolino (common, rather shallow, people) o la truppa e una filosoficamente sofisticata per le classi colte. Non è chiaro se Gordon spingerebbe la sua esegesi del passo di Origene fino ad affermare che una traccia intatta del mistero originale potrebbe essersi conservata presso i mitraisti più naïves, a causa della loro passività; mentre il culto affermatosi a Roma sarebbe ben altro, ripensato da ambienti culturalmente dinamici impegnati a celebrare, adeguare, assimilare una divinità esotica, o le divinità esotiche in genere. Circa la forma e il significato del viaggio iniziatico, uno dei principali problemi concerne la posizione di Saturno, il quale figura nel grado supremo dell'elevazione in flagrante contraddizione con il plumbeo e l’oscuro della sua sfera.

Saturno rappresenta, nell’ermetismo egizio, un oro nascosto da scoprire, oro che soltanto alla fine del percorso viene riconosciuto nella vera intima virtù dentro la materialità della terra attuale. Anche Giove e Saturno portano il nome solare (Platone Epinomide 987 C), all’uso dell’oriente, e saranno successivamente considerati phaeton, nome che in origine competeva solo alla stella di Afrodite (Károly Kerényi Die Mythologie der Griechen, Zürich 1951; tr. it. Gli dèi della Grecia, Milano 1963, 164). Che il Saturno della tradizione ermetica sia insieme ambiguamente oro e piombo, arrivo e partenza, rivela che il paradiso si trova qui e adesso, hic et nunc, nella concretezza di questa terra e che l’uomo rigenerato e rinato può riuscire a riconoscerlo e raggiungerlo sotto i suoi piedi. « I mitriaci adoravano un dio panteo dalla testa di leone, con quattro ali, stretto da un serpente e con in mano delle chiavi, talvolta uno scettro. Un rilievo lo mostra mentre sputa del fuoco. E’ il fuoco eterno, l’Aiôn o il Tempo che tutto divora,

identificato con Kronos. Poiché certe statue avevano una cavità, vi si poteva far ardere effettivamente un fuoco, le cui fiamme sprizzavano fuori dalla bocca o dagli occhi del mostro » (Robert Turcan Les religions orientales dans l’Empire romain, in Henri–Charles Puech (ed.) Histoire des religions, Paris 1970; tr. it. Le religioni orientali nell’Impero romano, in Puech (a c. di) Storia delle religioni IV, Bari 1977, 78–79). « Il tempo leontocefalo dei mitraisti è un dio del fuoco e del cielo, signore dei pianeti, dello Zodiaco, delle stagioni. ... Come per gli Stoici, il mondo viene dal fuoco celeste e si scioglierà in esso: lo stesso Aiôn sta all’inizio e alla fine del ciclo ... eterno ritorno » (Turcan Mithras et le mithriacisme cit. 99–100). In verità, Chronos era immaginato dagli Orfici in figura di serpente avvolto attorno alla terra. Lo stesso grande dèmone gnostico Ialdabaoth, identificato con Saturno, è leontocefalo: esso è il primo dei sette arconti che stringono inesorabilmente la creazione nel destino di morte, anzi lui

stesso coincide con l’avvento della Morte. A ogni modo, gli gnostici accentuano le proprietà malvagie dei pianeti e si dispongono pertanto da una prospettiva antiastrologica. Le chiavi alludono al potere di chiudere e aprire, così in Giano; esse solitamente sono d’argento e d’oro, in corrispondenza dei due misteri, i piccoli e i grandi. Gli iniziati ai misteri di Mithra si articolano in due gruppi, l’inferiore con i primi tre gradi detto dei serventi e il superiore con gli altri quattro detto dei partecipanti, υπηρετουντες e µετεχοντες (Porfirio De abstinentia 4, 16). Turcan, notando negli affreschi di Santa Prisca che anche i leones servono – in particolare, gli incensi – ritiene questo sufficiente a far emergere la non attendibilità di Porfirio o almeno delle sue fonti. Ammetto che la testimonianza, nello specifico, si presta a qualche dubbio; d’altronde Porfirio potrebbe avere frainteso la circostanza che il candidato, prima di acquisire a pieno titolo un grado, passava un periodo di prova, e che pertanto per ogni grado c’era una sorta di grado inferiore e preparatorio,

sebbene ciò non escluda in assoluto l’esistenza dell’articolazione suddetta. Il possessore delle due chiavi è il signore delle due direzioni del tempo, il signore delle epoche; nel quadro della metafisica di cui sto dando il disegno schematico egli è la sorgente della luce sempiterna. In tempi lontani, l’arcaizzante esoterico Eraclito aveva definito il cosmo un fuoco « semprevivente » che « fu sempre ed è e sarà » (B 30). In Saturno si impersona un’entità cruciale. Chi è, che valore ha? Il sanscrito sat traduce essere, esistenza assoluta. Appare chiaro nei latini satur (pieno) e satis (abbastanza), nonché in satus (seminato): dalla radice indoeuropea *sat si presenta la pienezza compatta, la densità indiscriminata, la gravidanza portatrice di ogni seme. Nella semantica della parola sanscrita, la pienezza fisica attira lo stato concreto e reale della verità nella sua immediatezza. Nella stessa voce, essere e pensare, fatto e concetto, si mostrano saldati nell’esistenza assoluta, compatti

nel sat. Ancora una volta, ripensiamo all’essere di Parmenide. Per queste ragioni, alle domande avanzate potremo rispondere che Saturno è l’età dell’oro, lo stato di ricca pienezza delle origini, il satya–yuga, l’era dell’inizio, il grande sonno – o sogno – (Plutarco De facie in orbe lunae 26, 941 F). Cominciamo a intravedere un’altra sua identità: egli, dio dell’immediata verità, richiama quell’altro dio della fede ai patti e della parola vera che è Mithra. L’etimologia plotiniana che scioglie il nome latino del dio in satur–nus, intelletto gravido dei semi delle cose, fantastica sul modello delle etimologie del Cratilo, nondimeno coglie il valore filosofico di Saturno. Mithra sacrifica il toro tenendo il capo voltato « come a guardare dietro di sé, e sovente con una singolare espressione di tristezza; di solito un corvo, sulla sinistra, si volge dalla sua parte; spesso nell’angolo di sinistra si trova la figura del Sole, a destra quella della Luna;

in basso è rappresentato un cane, oppure un serpente, in atto di gettarsi sul sangue che sgorga dalla ferita; uno scorpione pizzica i testicoli dell’animale morente e la punta della sua coda; talvolta partecipa al banchetto anche una formica. Al di sopra del toro si possono trovare raffigurati invece un cratere e un leone che sembra volerlo custodire, oppure abbeverarvisi, mentre dall’altra parte, il serpente ha l’aria di fare altrettanto ... la coda del toro, sollevata, termina con un ciuffo di spighe: in alcuni monumenti, invece del sangue, si vedono spighe che scaturiscono dalla ferita del toro » (riassumendo Franz Cumont Les mystères de Mithra, Bruxelles 1913). Le spighe hanno fatto pensare a un motivo agrario, e del resto in un altro importante mistero, l’eleusino, compaiono spighe in collegamento con Demetra. Gli studi hanno comunque smentito che il rito eleusino e il mito di Demetra–Kore siano in relazione con l’anno agrario e per di più la teoria dominante agli inizi del secolo (da Mannhardt a Frazer, e allo stesso Cumont) circa l'inquadramento agrario delle religioni della salvezza (lo spirito del

grano che rinasce, ecc.) ha perso prestigio. Anche negli studi mitriaci, ci si è scagliati contro le tesi iranizzanti e si è combattuto contro quelle agrarie (che vedono nel sacrificio del toro il rito tipico d’una religione agraria) a favore piuttosto d’una soluzione cosmologico–astrologica. Mithra non è un dio connesso con il ciclo vegetale e agrario, in particolare perché non è un dio che muore e rinasce. Non lo hanno sostenuto neanche gli agrari, che semmai lo vedevano associato – da dio inequivocabilmente celeste – all’esaltazione d’un sacrificio agrario (il toro lunare è associato al ciclo vegetale). Seppure questo dio si celebri con un banchetto comune a base di pane e di vino, ciò non deve indurci a dimenticare che i temi agrari diventano autenticamente tali in dipendenza della loro collocazione in uno specifico scenario e che non bisogna attribuire l’ethos culturale dell’agricoltura a ogni tema agrario. Il pane di vita e il vino di vita si condividono nel banchetto: si spartiscono con il dio e non sono i suoi sostituti transustanziati dell’eucaristia cristiana.

L’iniziato a Mithra non diventa Mithra e il banchetto non serve all’identificazione con lui; il dio resta un mediatore che accompagna l’anima nell’ascesa, in quel transitus fra i mondi che rimane certamente la sua impresa maggiore – e ne permetterà l’identificazione con Mercurio, un dio quasi medius currens per l’etimologia varroniana. Il problema dei rapporti con il cristianesimo non si esaurisce in una pura e semplice distinzione e contrapposizione, e andrebbe ulteriormente studiato senza pregiudizi; soprattutto meritano di essere presi in considerazione gli elementi in definitiva comuni ancorché diversamente significanti. I teorici della comune origine iranica del cristianesimo e del mitraismo, insieme con i sostenitori delle comuni origini agrarie dei misteri, si erano spinti a vedere nelle due correnti religiose due sviluppi divergenti da un medesimo tronco. La questione è molto complessa e non si può riassumere in poche battute. A noi, per adesso, basterà pensare che i bisogni religiosi della Tarda Antichità si sono

espressi in un'intuizione egualitaria democratica e in un'intuizione aristocratica iniziatica e che i motivi delle due non sono rimasti distinti di netto in sfere esclusive. Nello stesso cristianesimo permangono tracce importanti di elementi esoterici e, dopo la sua elevazione a religione imperiale, abbiamo avuto un’accentuata solarizzazione della figura del Cristo. Cumont fa propria la definizione del poeta Nonno (Dionisiache 21, 250–251): « Mithra, un Fetonte assiro in Persia, Μιθρης Ασσυριος Φαεθων ενι Περσιδι ». La sua tesi è che i Magoi persiani abbiano adattato l’astrologia caldea a un nucleo dottrinale esoterico concernente l’immortalità dell’uomo e il suo rapporto con gli dèi. Facendo perno sul lato astrologico, il tutto sarebbe stato inserito in un’ottica stoica perché potesse accadere che un culto iranico con integrazioni babilonesi fosse adottato, nella veste ellenizzata, dalle classi militari romane divenendo la religione delle élites legate al culto solare dell’imperatore. Mithra, presso i romani, viene accostato al Sol inuictus. Nel rilievo di

Virunum, Mithra sale sul carro del Sole, novello Fetonte. E, essendo i pianeti del settenario altrettanti soli, cominciamo a comprendere che l’iniziazione consisteva in una progressiva integrazione con il Sole e con i gradi della luce. La procedura ricalca persino lo schema delle prove post mortem del remoto lamaismo tibetano e il più vicino viaggio egizio di Osiride morto, e soprattutto descrive lo scenario misterico dell’orfismo pitagorico (e del platonismo da esso proveniente) per il quale già questa vita costituisce un percorso infero da volgere alla luce. Nel mitraismo l’accento cade, invece, fortissimo su questa vita: il viaggio mitriaco non è un viaggio post mortem, perché lo stato di morte coincide con questa vita.

4 Il sacrificio del toro

La liberazione dal destino culmina con l’uccisione del toro da parte dell’eroe divino. Perché mai questo gesto esemplare è capace di rinnovare e salvare l'umanità? Per rispondere occorre spiegare l’identificazione di Mithra con il potere ambivalente del Sole. Il sacrificio del toro è l’episodio culminante del mito di Mithra. In vero, il rito del taurobolion è centrale nella religione della Magna Mater Cibele, però nel rito mitriaco celebrano un sacrificio del dio e non al dio. Dai primordi il toro è stato simbolicamente connesso con il cielo nel suo aspetto uranico, sia da cielo notturno stellato sia da figura determinata dello Zodiaco. I greci vedevano giacere sulla groppa del toro celeste le Pleiadi, la costellazione delle colombe cacciate da

Orione–Scorpione. Un’identificazione di Mithra con Orione nel quadro degli studi che hanno preferito la decifrazione astrologica della principale scena del culto mitriaco è stata riproposta da Michaël P. Speidel (Mithras–Orion: Greek Hero and Roman Army–God, Leiden 1980). La figura del toro si specializza in rappresentazione del lato notturno del sole e arriva a essere associato con l’astro lunare dalle corna falcate del quale segue le vicende patetiche. La luna è l’astro vagante per eccellenza e viene considerata sede delle acque e dei semi della vita. Nei rilievi mitriaci del tipo danubiano ricorre un particolare caratteristico: il toro seduto nella navicella lunare a forma di falce, scapha lunaris. L’uccisione del toro rientra, ancorché con segni rispettivamente diversi, negli scenari ideali sia dell’agricoltura sia dei cacciatori. Il toro vittima del sacrificio agrario incarna il maschile fecondo, o paredro della Grande Madre o figlio che per rinascere deve morire e che viene offerto alla morte in ultima analisi dalla sua

stessa genitrice. Immortalare uccidendo è mitica procedura iniziatica. Al contrario, il sacrificio delle culture non agrarie non s’incentra affatto sul trionfo della femminilità, anzi le donne sono rigorosamente escluse dai riti principali delle società di maschere. Presso i cacciatori, fra i preliminari per il successo della caccia, vitale per l’intera comunità, ricorre il tabù del contatto con la donna. Questo casto allontanamento dal mondo femminile, che per taluni casi può addirittura spingersi alla castrazione rituale, corrisponde d’altronde ai fini del processo d’iniziazione maschile. In esso il giovane recide definitivamente il rapporto confusionale con l’universo delle madri – il non iniziato viene considerato alla stregua d’un aborto o d’un essere indeciso – e si libera del sangue femminile che gli circola in corpo e ne acquista uno nuovo, nascendo nella vera nascita. Presso i Dogon il taglio del prepuzio è assunto come la liberazione dalla vagina che avvolge il sesso maschile. Tutto dipende dall’intuizione della femminilità, o Grande Madre in trono o

forza vitale cieca e indistinta da evocare e governare. La prova principale a cui deve sottoporsi l’eroe cacciatore e guerriero consiste nel dimostrare la sua capacità di dominio dell’animalità elementare intesa femminile. Non mi riferisco solo alla Shakti dormiente che Shiva eccita dai propri centri interni (secondo le varie scuole yogiche, i cakra possono essere tre, cinque, sette, nove) e che, una volta scatenata, egli cavalca per conquistare il dominio della gamma completa delle proprie forze oscure. Tematica sofisticata ricollegabile con il quadro dell’alchimia mistica, e penso anche ai remotissimi affreschi rituali delle grotte paleolitiche dove maestosi bovidi rappresentano doviziose entità femminili in dialettica con altre entità maschili – André Leroi–Gourhan Les religions de la préhistoire, Paris 1964, 19904, IV, 79; e, più ampiamente, Le geste et la parole, I Technique et langage, Paris 1964, II La mémoire et le rythmes, Paris 1965; tr. it. Il gesto e la parola, Torino 1977, di cui in particolare XIV, 421.

Nel mito greco, Teseo uccidendo il Minotauro cretese (considerato Asterion re delle stelle) aveva aperto il cosmo stellato e impresso il movimento. Nello scenario greco ricorre un altro dio–toro ucciso da esseri primordiali uranici e stellari: Dioniso sacrificato dai Titani. Prima di soccombere, Dioniso lotta assumendo nell'ordine le forme di leone, serpente e toro. L’uccisione del torello dionisiaco ha un'efficacia cosmogonica, e i Titani rappresentano un’umanità eroica fatta di fuoco. Prima di Teseo, a Babilonia, il viaggiatore Gilgamesh aveva già ucciso il toro celeste. L’uccisione del toro, in sostanza, ha i lineamenti dell’atto eroico esemplare. Riguardo a Mithra, da una parte non bisogna perdere i contatti con le strade reali percorse dal suo mito di origine non greca e dall’altra bisogna tenerci stretti ai documenti. Mithra, nel compiere il suo atto supremo, quando affonda il pugnale tra la spalla e il collo del toro, non guarda la vittima a cui pure torce il muso volgendolo

a sé. L’espressione che viene fissata sul viso del giovane dio non è del trionfo, che sarebbe normale in chi avesse prevalso su una forza indomita. Cumont la considera di tristezza, quasi l’atto venisse compiuto malvolentieri, e attribuisce l’archetipo iconografico a uno scultore della scuola di Pergamo, tipica per il patetico e il drammatico, scultore che si sarebbe rifatto al modello della Nike bouthutousa (la Vittoria che sacrifica il toro) del tempio di Athena sull’Acropoli. Turcan ritiene invece che il viso del tauroctono sia solo « teso e ispirato » (cit. 49); del resto egli vede la vittima bardata conformemente alle regole del sacrificio romano (con la tipica dorsuale ricamata che lo ricinge, cit. 139) e giudica che l'immolazione si compia all’interno d’un rito pacato. Cumont distingueva, in luogo della citata dorsuale, la cintura dei tori da combattimento e, in effetti, il toro sembra opporre una selvaggia resistenza e essere stato preso di slancio (indignata sequi torquentem cornua – canta Stazio Tebaide 720).

La discussione sull'icona archetipica è del massimo interesse perché in essa non può non essere conservata la chiave per decifrare la struttura del dio. Comunque vada intesa la maschera di Mithra, un tratto permanente è che egli non guarda il toro mentre lo uccide e che si gira dall’altra parte; il tema del rovesciamento nel rapporto con il toro è ricorrenza caratteristica sia nell’episodio culminante (in cui sono rovesciati la testa del toro e il volto dell’eroe) sia in quello anteriore e altrettanto peculiare della cattura, per il verso a ritroso con cui il toro viene trascinato nell’antro. In verità, nell’immaginario classico c’è un eroe, splendidamente solare, che affronta la vittima con la testa girata, senza guardarla direttamente per non restarne attratto e impietrito. Egli è Perseo, il mitico fondatore della nazione persiana, pur non essendo il suo stile prova sufficiente per un’identificazione con Mithra. La coincidenza di Mithra con Perseo è stata sostenuta, sulla base di argomenti astronomici, da David Ulansey (The

Origins of the Mithraic Mysteries: Cosmology and salvation in the Ancient World, New York–Oxford 1989), il quale ha attribuito la formazione della nuova religione al turbamento provocato dalla scoperta della variabilità degli equinozi e cioè del corso stesso degli astri, la zona più divina del cosmo. Gli astronomi si erano accorti da tempo della precessione degli equinozi, negata per ragioni di principio dai sostenitori della fissità del ciclo cosmico, e una corrente attenta allo studio delle proprietà religiose dei segni degli astri ne avrebbe fatto il suo tema principale. Per l’oscillazione conica dell’asse terrestre che provoca la precessione degli equinozi, la primavera veniva a cadere sotto l’Ariete (aprile) e non più sotto il Toro (maggio). Orbene, era inaudito e sconcertante che l’inizio dell’anno fosse anticipato da una variazione dell’axis mundi, in cui si prolungava, nel sistema geocentrico, l’asse terrestre. Le costellazioni corrispondenti agli animali dell’icona archetipica (cane, serpente, corvo) comparivano sopra

l’equatore, mentre si vedeva il Toro soccombere sotto la costellazione di Perseo, alla quale sarebbe stato attribuito il nome di Mithra in onore di re Mitridate VI Eupatore che rivendicava di avere Perseo per antenato. C’è da aggiungere che l’attribuzione risultava coerente con la credenza che Mithra, dio del Sole levante, reggesse emblematicamente l’equinozio primaverile. Turcan obbietta che la suddetta precessione non avrebbe affatto sconvolto le menti (cit. 107), e incalza osservando che la teoria di Ulansey « ne rend pas compte de toute l’imagerie mithriaque, en particulier des épisodes qui suivent ou précèdent la mise à mort du taureau. Pour être crédible une exégèse doit être totale » (cit. 108, un’esegesi plausibile deve spiegare l’intero svolgersi delle raffigurazioni concernenti il sacrificio del toro). Turcan ha sostenuto che sulle steli a figure multiple del tipo retico–renano si trova il racconto d’una vera e propria storia

del mondo. In particolare, prendendo a base la scultura di Osterburken (museo di Karlsruhe) e integrandola con iconografie d'altra provenienza, egli così riassume la storia (cit. 95): – nascita del Tempo (Kronos– Chronos) dal caos, « qui, en créant l’histoire, dévore et détruit – comme le feu des stoïciens »; esso è Aiôn leontocefalo, Saturno; – da lui nascono Cielo e Terra e da questi le tre Parche, il destino; – Kronos consegna la folgore a suo figlio Zeus–Oromasdes; egli se ne serve per atterrare mostri incarnazione del Male, principio antagonista, anguipedi; – ma l’ordine di Zeus–Giove non è definitivamente acquisito e allora interviene Mithra; questi non proviene dalla coppia originale, Cielo e Terra, e sorge completamente armato dalla roccia, in testa porta il berretto frigio, nelle mani una torcia accesa e il pugnale famoso; alcuni pastori assistono alla nascita e talora tirano su il dio per le braccia;

– successivamente si trova Mithra mentre miete il grano, vicino a un albero o dentro di esso, da guardiano dei frutti e in genere della vita; – Mithra scaglia una freccia contro una roccia provocando lo sgorgare d’una copiosa sorgente; un pastore simile a quelli che lo hanno assistito alla nascita si abbevera; se ne deduce (prosegue Turcan) che i principî del male hanno minacciato di annientare i viventi disseccando il mondo, come fece Fetonte (che lo studioso ritiene contrapposto a Mithra nel rovescio della stele di Dieburg); – inseguimento del toro che figura in una navicella a forma di luna croissante (scapha lunaris); – in un primo momento il toro ripara in una capanna dal tetto a doppio rampante ma due pastori vestiti da Cautes e Cautopates danno fuoco al rifugio; – Mithra riesce a cavalcare il toro tenendolo per le corna; – lo afferra per le zampe posteriori e lo trasporta in spalla a testa in giù o lo trascina a ritroso nella grotta dove il corvo,

messaggero ucciderlo;

del

Sole,

gli

ordina

di

– accorrono un serpente e un cane a suggere il sangue della ferita, uno scorpione, talvolta un granchio stringe i testicoli della vittima; un leone è presente, vicino a un cratere; spighe di grano nascono dalla ferita o dalla coda; la scena può talvolta svolgersi fra due alberi invece che nella grotta; – dopo la tauroctonia sembra essersi verificato un dissidio tra il Sole e Mithra, lo deduciamo dal fatto che si vede il Sole, con la corona a raggi giacente ormai a terra, in ginocchio davanti a lui che brandisce un sacco da soldato; il Sole riconosce la preminenza di Mithra e si fa iniziare al grado di miles; – i due si stringono la destra sopra l’altare, su cui il corvo porge della carne, e siedono a banchettare sulle spoglie del toro; – Mithra sale sul carro del Sole; – la sequenza finisce con un dio barbuto cinto da un serpente, identificabile

con Kronos–Aiôn; il ciclo che si era aperto con Saturno si chiude con il suo ritorno. Dal nastro delle scene suddette, Turcan ricava nietzscheanamente che quella del mitraismo è la religione dell’eterno ritorno. Osservo al riguardo che, non essendo Mithra un dio del destino ma un dio dell’intervento attivo modificatore, il concetto di eterno ritorno andrebbe approfondito adeguatamente, in un confronto inevitabile con le speculazioni neoplatoniche (v. sopra, capitolo 2) e con l’astrologia. Ciò per la necessità di esaltare l’inversione e il riscatto introdotti dalla rottura dovuta al gesto esemplare del dio eroico. E infatti, dal canto suo, Ulansey ha ulteriormente precisato (Mithras and the hypercosmic sun, in Hinnells (ed.) cit. 257–264) che nel dio del mitraismo andrebbe riconosciuto il sole iperuranio dei platonici, forza che non può essere contenuta nella caverna cosmica e che ne erompe e la governa, un dio eroico con il potere di sovrastare e d’invertire il corso degli astri.

In proposito, giova rilevare che quello stesso Posidonio, da cui Turcan ritiene che provengano gli elementi stoici aggiunti al Mithra originale, viene considerato un pensatore di sintesi tra stoicismo e platonismo. Se dietro il toro si celasse Saturno– Aiôn, la tauroctonia corrisponderebbe alla mitica mutilazione con la quale irrompe l’ordine attuale, separando le stagioni e scandendo i ritmi di cose uomini e dèi. Essa si imporrebbe con il merito del gesto instauratore della suprema giustizia attuale, il taglio che ha deciso il mondo sacrificando Saturno, l’immobile eternità passiva e pesante. Alcuni studiosi hanno ritenuto che Mithra entra in contrasto non con Crono– Saturno bensì solo con Ahriman, dio di questo mondo, e nella figura con la testa di leone circondata da segni zodiacali hanno preferito vedere quest’ultimo. Una simile lettura comporta che l’uccisore del toro (saturnino) sia Ahriman.

La questione è assai complicata e va esaminata con cura. « L’immolazione del toro avviene nella caverna, alla presenza del Sole e della Luna; la struttura cosmica del sacrificio è indicata dai dodici segni dello Zodiaco o dai sette pianeti, e dai simboli dei venti e delle quattro stagioni. Due personaggi, Cautes e Cautopates, vestiti come Mithra, ognuno con una fiaccola accesa in mano, osservano con attenzione l’impresa del dio; essi rappresentano altre due epifanie di Mithra in quanto dio solare. Lo Pseudo Dionigi parla di triplice Mithra (Epist. 7) » (Mircea Eliade Histoire des croyances et des idées religieuses II, Paris 1978; tr. it. Storia delle credenze e delle idee religiose II, Firenze 1980, 324). Ai lati dell’immagine del sacrificio del toro, Cautes tiene una torcia accesa sollevata verso l’alto e Cautopates tiene la torcia rivolta verso il basso; associati il primo al segno zodiacale del Toro e il secondo al segno dello Scorpione, simboleggiano rispettivamente la metà ascendente del percorso del sole, alba e primavera, e la metà calante, tramonto e

autunno. Il quadro è quello della lotta tra luce e tenebre. Aggiungo che la triformità d’un dio indica che il suo dominio e il suo raggio d’azione si estende su più mondi oltre il nostro terreno. Mithra, in effetti, viene giudicato un mediatore (Plutarco De Iside et Osiride 46). Collocato tra il sole superiore e il sole inferiore (Cautes e Cautopates), celebra il trionfo della faccia diurna e vitale del sole su quella mortifera e notturna. Nato nel solstizio d’inverno (saturnino), si afferma nell’equinozio di primavera, sede privilegiata della mondanità trionfante. La sua non è la vittoria d’un dio lontano; al contrario, egli è nel mondo e lo governa, lo regge, lo salva. È il dio esemplare della vita attiva, non muore e non deve risuscitare; semplicemente è, da giovane in eterno, un combattente vittorioso. Rispetto alle altre religioni della salvezza, agli altri misteri contemporanei, il mitraismo si presenta con un’identità inconfondibile nella quale sta la sua

fortuna e la sua sfortuna. In esso riaffiora un ultimo lascito (ormai inattuale) d’una religione eroica e del demiurgo eroe. Il centro essenziale del mitraismo si mostra nel simbolo più ricorrente e programmatico: esso è una religione della creatività del gesto cruento, dell’uccisione capace di dare la vita, del sacrificio. Tanto esso proclama in un’epoca nella quale l’azione andava svalutandosi a favore dell’interiorità inattiva e dello scetticismo. Non disponiamo di notizie complete e argomentate sul mito di Mithra, tanto meno dall’interno della confraternita dei mitraisti, salvo da Tertulliano che pare fosse stato iniziato ai misteri mitriaci in Roma prima che, sul finire del II secolo, si convertisse al cristianesimo. Le notizie più estese che quest’autore ci rimanda sono circoscritte al rituale di consacrazione dei gradi di miles e di leo. In ogni caso, la sua attendibilità è oggetto di riflessione preoccupata, nel passo in predicato (De praescriptione haereticorum 40) compare l’inquietante affermazione che il diavolo offriva agli iniziati un’immagine della

risurrezione (« imaginem resurrectionis inducit »). Accogliamo tuttavia la notizia, a ogni buon conto proveniente dall’interno, che i mitraisti si concentravano su un’icona della risurrezione. Il concetto di risurrezione va preso con la massima cautela e però è interessante trovarlo in relazione con l’uccisione compiuta dall’eroe, padrone – diremmo – della vita essendo padrone di quell’atto di morte. Tra gli elementi d’un mito che doveva avere una sua complessità, spiccano la nascita dalla roccia; l’aver provocato con un colpo di freccia sulla roccia lo sgorgare d’una copiosa sorgente vitale per gli uomini; un’impresa ardua – definita transitus dei – che comprende la cavalcata del toro, il trascinamento (tauroforia) e il trasporto in spalla dentro l’antro; l’episodio culminante ampiamente documentato della tauroctonia (non è sicuro che l’usato sinonimo taurobolion corrisponda alla stessa azione). Il dono delle acque, dissuggellate dalla montagna con la forza magica delle proprie armi, potrebbe riferirsi allo strato

più antico della figura di Mithra, a quel ruolo di mediatore psicopompo che abita la vetta del mitico monte Hara (vertice della terra per gli iranici), sulla quale scende l’arcobaleno che fa da ponte tra la terra e il cielo. Le acque benefiche che si rendono disponibili in terra (Gange, Nilo e gli altri principali fiumi) provengono da ampi bacini celesti lungo misteriosi canali dall’alto, principalmente l’arcobaleno o la strada aperta da grandi dee (Ishtar) o dèi dalla loro sede urania, localizzata spesso sulla luna. Il Mithra antico iranico abita l'altezza da cui prende slancio questo trasferimento di vita e il colpo della freccia miracolosa – che somiglia molto da vicino a un atto da sciamanico mago della pioggia – garantisce il collegamento con il cielo. Mithra è infatti il giudice delle anime per delega del Signore Sapiente e constatiamo che, perfino nel quadro monoteistico imposto da Zarathustra, non gli si è potuta sottrarre l’essenziale funzione. Se è vero che l’arma più nota di Mithra sembra essere il pugnale a lama larga affondato nella gola del toro, questo non deve impedirci di dare il dovuto peso

alla freccia, la quale sotto un certo aspetto tende a restare nell’ombra d’un episodio secondario mentre invece illustra significativamente la figura del dio eroico. La freccia va lontano e colpisce oltre le distanze. Nello stesso termine di taurobolion (alla lettera, uccisione del toro mediante un colpo lanciato da lontano, Burkert cit. 191) si allude a un rituale diverso dallo sgozzamento, più da recinto sacro e più circoscritto. Un rituale dell'uso più arcaico dei cacciatori paleolitici proiettati nelle aperte praterie a inseguire circondare sfiancare i tori selvaggi, in una delle cacce più difficili e selettive. Burkert considera (cit. 191) la pittura parietale del santuario di Çatal Hüyük in Turchia (fine VII millennio a.C.) una « conferma » del rituale arcaico, peraltro collegato con personaggi mascherati. La considerazione non depone a favore della tesi di Turcan che la tauroctonia sia un sacrificio ordinario. Il trascinamento a ritroso di animali da armento sembra a prima vista un comportamento furbesco di abigeatari che vogliano ingannare il legittimo proprietario.

Hermes, nell’inno omerico a lui dedicato, trafuga con siffatto artificio la mandria del fratello. Similmente si comporta il gigante Cacus sottraendo a Herakles sette capi di bestiame e trascinandoli per la coda nella grotta dell’Aventino. Il paragone di Mithra con Cacus è noto al poeta latino cristiano Commodiano, del III secolo (Turcan cit. 97). Mithra viene peraltro denominato ladro di buoi (sprezzantemente: bouklopos, in Firmico Materno). Il collegamento con lo scenario dei cacciatori e razziatori arcaici illustra un tratto della figura primitiva di Mithra; in quella ideologia, gli animali selvaggi sono proprietà delle potenze invisibili dell’aldilà e solo un eroe che abbia ottenuto il soccorso di dèi potenti può andarseli a prendere vincendo i guardiani. Herakles costringe il Sole ad aiutarlo, in ispecie nel percorso oltremondano, e sulla coppa del Sole trasborda nell’aldiqua i buoi del triplice Gerione infero. Il Sole, dicevo, è ambiguo e ha due facce. Anche Mithra fruisce dell’aiuto del Sole – o lo costringe?

Il percorso dell’impresa faticosa del dio, capace di catturare il toro, sfiancarlo, trascinarlo per le zampe posteriori, trasportarlo in ispalla nel suo antro, e infine farne un’offerta esemplare, va studiato con attenzione. Infatti, non quadra completamente. Il suo sacrificio non è eseguito all’aria aperta, egli agisce nella caverna, come se la vittima fosse stata riportata lì indietro, dopo una fuga indebita, nella sede consueta dal vero proprietario. Quando (raramente) il sacrificio è raffigurato fra due alberi, questi possono rappresentare il giardino mitico dei primordi, che è pur sempre un aldilà. Il toro viene fatto rientrare nella caverna, sede appropriata alle mandrie infere. E il rovesciamento forzato della direzione di marcia indica un ritorno. Inoltre, il dio sta di casa (mito della nascita) nella caverna, configurando nel tempo stesso un Signore degli animali e un Signore del labirinto. Il toro appartiene alla sua giurisdizione, e solo lui dimostra di poterne trarre le potenze intrinseche.

Il mito primitivo contempla che il toro era fuggito e che il benefattore lo aveva ripreso per sé in qualità di legittimo proprietario. Del resto, nell’ideologia dei paleocacciatori, una caccia è fortunata a condizione che la preda sia riconsegnata (anche simbolicamente, pars pro toto) al terribile proprietario Signore o Signora degli animali, gli unici a disporre della preda selvaggia. Il fatto si è che nella mente arcaica il legittimo proprietario d’un bene desiderato è chi riesce a prenderselo, in ispecie se entra in gioco del bestiame. Ancora nel secolo XIX era lecito ai facchini della tonnara dell’isola di San Pietro di appropriarsi del carico purché non venissero scoperti prima dell’arrivo alla loro baracca – Valery (pseudonimo di Antoine–Claude Pasquin) Voyages en Corse, à l’île d’Elbe, et en Sardeigne II, Paris 1837; tr. it. Viaggio in Sardegna, Nuoro 1996, 188. Il furto (o la rapina), lungi dall’essere un delitto, è la forma più diretta di procacciamento della ricchezza, la quale non è di alcun altro che non sia il dio del

vasto e capace aldilà. Herakles in una delle varianti del mito tira a sé a rovescio i buoi di Gerione, del pari a Hermes e a Cacus. Se dovesse risultare che tutti coloro che rubano o catturano mandrie selvagge debbono tenere un analogo comportamento, ne verrebbe che le mandrie selvagge possono diventare proprietà legittima di chiunque sappia portarle agli inferi di nuovo. Nessuno che sia incapace di porsi come dio della caverna può appropriarsi della forza ivi custodita. Ecco, Mithra pare specialmente congiunto con l’ambivalenza del Sole. Egli è anche il Sole che abita nella caverna, ovvero l’altra faccia del Sole. Versato sulle due regioni che costituiscono l’una il rovescio inscindibile dell’altra, di esse mediatore, il duplice Mithra, mortale e vitale, uccisore e creatore, si colloca sul confine di passaggio e d’inversione tra visibile e invisibile. Mithra è giustamente accostato al leone, maschera della bipolarità del Sole.

Sottolineo di sfuggita che la figura del dio che assalta il toro ricalca fedelmente l’iconografia esemplare del leone che caccia il toro, si avventa sulla sua groppa e lo azzanna al collo per atterrarlo. Sulle teorie del nesso astrologico tra le due omonime costellazioni ho riferito. Non è secondario e estrinseco che il culto mitriaco comprenda l’uso delle maschere da parte d’una società segreta maschile di guerrieri. Al centro di una religione misterica sta la preparazione ad affrontare il terribile e sconvolgente incontro con le potenze dell’invisibile, per appropriarsene a integrazione di sé. Il Mithra abitatore del centro della montagna, che ne conosce e garantisce l’uscita, che domina le forze da essa custodite non è un dio agrario, bensì un cacciatore coerentemente inscritto in uno scenario astronomico. Nell’ideologia dei nomadi cacciatori, che si stende alle spalle dell’intero quadro indoeuropeo, gli animali sono stelle e gli antenati degli uomini sono stelle. E’ evidente che a un’entrata rovesciata rispetto alle apparenze e alle

regole del mondo sensibile dovrà corrispondere un’uscita simmetricamente inversa; del resto, è assodato che quanti entrano o rientrano nella caverna sono poteri di varia specie e densità – antenati animali stelle – e che il percorso del bestiame non è qualitativamente diverso da quello degli uomini. Così, il toro deve entrare a rovescio nella caverna come le anime liberandosi risalgono i poteri planetari lungo la scala di Celso e cioè a rovescio di quel rovescio. Esse, infatti, per liberarsi debbono sciogliere i nodi nell’ordine inverso a quello con cui sono stati stretti dai poteri che dominano il mondo. Su un sarcofago (Louvre, Parigi) Mithra e il Sole appaiono distesi a banchettare sulla pelle del toro sacrificato che forma una specie di caverna. Il toro qui si presenta nella forma del Grande Vivente, cosmo, mondo dell’incarnazione e delle nascite, il contenuto molteplice innumerevole sotto il cielo stellato.

L’esigenza d’una rigenerazione integrale del mondo e del ciclo temporale è alla base del sacrificio cosmogonico. Questo è il fine del rito vedico del sacrificio del cavallo, lo ashvamedha, che esige una procedura iniziatica (Rigveda VIII, 48, 3: « siamo diventati immortali, abbiamo visto la luce, abbiamo trovato gli dèi »). Chi la conosce e si appropria del suo mistero diventa simile agli dèi immortali. « Questa coincidenza fra la conquista dell’immortalità e la ripetizione dell’atto della creazione è importante; il sacrificante supera la condizione umana e diventa immortale mediante un rituale cosmogonico. Ritroveremo la stessa coincidenza fra iniziazione e cosmogonia nei misteri di Mithra. ... Il cosmo non è creato ex nihilo dalla divinità suprema, riceve la sua esistenza dal sacrificio (o l’autosacrificio) d’un dio (Prajâpati), d’un mostro primordiale (Tiamat, Ymir), d’un macrantropo (Purusha), o d’un animale primordiale (il toro Ekadath degli Iranici).

All’origine di questi miti si trova, reale o allegorico, il sacrificio umano ... che sempre si compie in relazione con le cerimonie d’iniziazione e con le società segrete. ... il sacrificio indiano del cavallo ha sostituito il sacrificio più antico del toro (il toro era sacrificato nell’Iran, e il mito cosmogonico parla d’un toro primordiale; ... “Prajâpati è, infatti, il grande toro” – n.2: Shatapatha–Brâhmana IV, 4, 1, 14 – » (Eliade Traité, 108–109; sottolineature mie). L’istituzione del primo sacrificio, che precipita nell’elargizione del pane e del vino agli uomini, sta a rappresentare l'instaurazione della nuova comunità umana e non dell'inaugurazione del ciclo agrario. L’umanità eroica deve nascere da un sacrificio eroico.

5 Mithra e Ahriman Mithra, il mediatore, il combattente, deve incrociarsi con il nemico e accettare di entrare in contatto con il male. Egli è il re salvatore che non si stacca dal mondo ma vi s’immerge fattivamente. La metafisica del conflitto coinvolge il tema del potere salvifico del gesto cruento: questione eminentemente tipica delle classi di governo e militari. Lo Scorpione, l’avida bestia di Ahriman che attacca i genitali del toro sacrificato – per sterilizzarne l’effusione benefica del seme? – nella simbologia esoterica astrologica raffigura la coda della Bilancia, dalla quale è stato separato solo in tempi successivi dopo avere anticamente composto con essa un’unica costellazione. La Bilancia, sotto il cui dominio il Sole si colloca nell’equinozio di autunno (inizio della metà oscura dell’anno), è il

segno di Saturno: l’eterno, l’indifferenziato, l’indefinito, lo stato primordiale di equilibrio e d’immobile indistinzione di notte e dì. Questo stato di pienezza atemporale ne ha fatto il re dell’età dell’oro e del paradiso perduto. Per ciò stesso egli è un prius metafisico, lo scuro, il fondo ultimo ontologico e psicologico, oltre cui non si può scendere e da cui è giocoforza ripartire per ogni trasformazione che si voglia creare; l'ineliminabile e perdurante residuo (il resto), il piombo. Vedremo più avanti la straordinaria importanza di questa qualità all’interno della Grande Opera (Opus magnum) che ha Mithra per protagonista. Però la Bilancia è altresì la sanscrita Tulâ, collegata con il polo (Guénon Le Roi du Monde, Paris 1958; tr. it. Il Re del Mondo, Milano 1977, 96–97). Tulâ nella tradizione iperborea è l’Orsa maggiore e nella tradizione atlantidea, cui si rifà il mito greco delle sette sorelle figlie di Atlante, è le Pleiadi. Fra le figure che Efesto scolpisce sullo scudo di Achille (Iliade XVIII 487)

spicca l’Orsa con le colombe – pleiades, Pleiadi – che Orione cacciatore voleva abbattere. Le Pleiadi–colombe portano la bevanda dell’immortalità, l’ambrosia, al banchetto degli dèi sfuggendo allo sbarramento degli scogli cozzanti (le Symplegadi) con un balzo di fulmine. Nel polo, termine alto dell’axis mundi, si trova il passaggio per l’atemporale. L’astrologia greca, in breve, conosce bene il nesso polare che connette Orsa (= Pleiadi), Bilancia, Scorpione. Nel mito greco lo Scorpione celeste riflette la trasformazione in stella, katesteria, del selvaggio cacciatore. Un’identificazione di Mithra con Orione nel quadro degli studi orientati a preferire la spiegazione astrologica della principale scena del culto mitriaco è stata proposta, lo ripeto, da Speidel (Mithras– Orion). Orione è un Titano e i primordiali Titani sono uranici e stellari. Egli è sorto dalla terra inseminata da tre dèi potenti

mediante un toro; aggredisce la propria madre e si rende colpevole d’un peccato che comporta la cecità, poi guarisce da questa pena perché, guidato dai fabbri divini, incontra il sole. Infine è colpito da Artemide, o dalla sua freccia o dal suo scorpione, e torna fra le stelle a quello che era in origine. Per i Dogon lo scorpione è la clitoride escissa, la parte aggressiva della femmina ancora nello stato androginico. La base del mito contiene il riferimento a un sacrificio propiziatorio arcaico, di cui è traccia l’accecamento rituale del cacciatore, alla Signora degli animali. Sulla Bilancia va ulteriormente annotato che l’equilibrio equinoziale dei suoi piatti in orizzontale è retto nel mezzo dall’ago in verticale, ago o spada, asse polare. In conclusione, il simbolismo della Bilancia si duplica nella facies orizzontale e in quella verticale e si articola nelle corrispondenti valenze solare e polare.

Le due valenze non sono metafisicamente separate (d’altronde tutte le direzioni cardinali si implicano e fondano a vicenda), ciò nonostante comportano differenze di prospettiva assai importanti. Il polo ruota sul medesimo e il sole sulla differenza (parafrasando Timeo 36 C). Il polo sta a nord sull’inizio solstiziale dell’inverno, il livello più basso e nascosto raggiunto dal sole, il luogo d’un principio fra i meno visibili, presumibilmente il più prossimo all’invisibile. Dal canto suo, a est sull’equinozio di primavera sta l’inizio luminoso della vita appariscente e più visibile del sole. La funzione solare, patrimonio del re (il sole levante dal vertice del monte Hara, a oriente), focalizza l’inizio della manifestazione, l’entrata nel molteplice e il suo governo: è il carisma che prevale nella figura di Mithra. La funzione polare, patrimonio del sacerdote (il sole che abita nella caverna, a nord), focalizza l’unità del molteplice ancora raccolta e compatta

nell’invisibile: saggio.

è

Saturno

dormiente

e

In sintesi, nel simbolismo della Bilancia si esprime la tensione della compresenza di due modi di concepire l’inizio, il principio. Inizio giacimento in attesa e inizio rottura creativa. Inizio pre– umano non–umano indifferente all’uomo e inizio atto dell’uomo. In ciò ritroviamo l’oscillazione interna al complesso Saturno–Sole, che va a incarnarsi nella figura di Mithra – del triplice Mithra – e nella sua tensione interna di mediatore. In valori neoplatonici, che presso circoli magici teurgici possono complicarsi in sofisticate riflessioni sulle procedure dell’Opus Magnum, egli svolge il ruolo dell’anima mundi, mediana tra il nous saturnino e la sfera del sensibile. Quindi Saturno è Mithra e viceversa. Di sfuggita, rammento che i cristiani neoplatonici vollero vedere nel Cristo il Verbo e non l’Anima; la vittima da sacrificare (a opera del Padre?) e non il sacrificatore. La contrapposizione fra le

due religioni investiva questioni più radicali della democrazia dei suoi gradi. Risulta del massimo interesse avere colto che Saturno coincide con il Polo, ossia con l’Orsa maggiore. E c’è dell’altro. La bilancia è un attributo del re e degli kshatriya e ne designa la funzione amministrativa di governo; insieme con l’altro attributo, la spada, ne rappresenta la funzione militare. Ora, Mithra è sia un pesatore di anime sul ponte Shinvat sia un sovrano guerriero. In tale veste compie l’atto creativo perfetto, atto cruento. Il suo mistero contempla la creazione nascente da un’uccisione e da un versamento di sangue primordiale. L’escatologia iranica ci è pervenuta da testi redatti in epoca relativamente tarda dai riformatori zoroastriani, tuttavia non sono da sottovalutare quelli ancora più recenti dei controriformatori i quali, reagendo alle innovazioni spiritualiste di Zarathustra, con ogni probabilità hanno

ripresentato idee più primitive tratte dalla tradizione. I riformatori hanno spesso cura di avvolgere le loro accelerazioni in arcaismi altrettanto autentici – vale per gli Orfici, vale per i vangeli cristiani – al fine di potersi presentare da realizzatori della vera tradizione. Nella religione dell’Iran antico sono stati proposti due salvatori, uno è Zarathustra (Saoshyant, alla fine dei tempi, nasce dal seme di Zarathustra conservato in un lago dove si bagnerà una vergine che ne resterà fecondata), l’altro è Mithra. Un'accentuata glorificazione di Mithra è, dunque, congeniale con una riscossa reazionaria tradizionale (nello zoroastrismo ortodosso egli è soltanto un dèmone positivo aiutante di Ohrmazd) e, se l’iniziativa di Zarathustra rientra nell'ondata di svalutazione del rito a favore della maggiore potenza dell’interiorità, Mithra è di nuovo il mitico signore dell’azione, il modello dell’azione sacra, colui che recupera il peso insopprimibile del rito. Mentre per Zarathustra il rito prolunga l’efficacia delle forze cosmiche

dominanti nel mondo e va pertanto ridimensionato, Mithra insiste in particolare sulle possibilità di salvazione scaturenti dall’incontro–scontro con le forze infere. Sembra che, alla fin fine, meriti credito la notizia di Plutarco (De Iside et Osiride 46) che la religione persiana prevede il culto di due divinità avversarie, alle quali si tributano due generi di sacrifici – su prescrizione del mago Zoroastro. L'attribuzione è stata giudicata erronea, eppure dietro il nome famoso potrebbe celarsi una casta e una funzione collettiva e non soltanto il profeta riformatore, e non ci sarebbe errore. Dal momento che Mithra si colloca tra i due principî confliggenti del bene e del male in qualità di mediatore, questo suo ruolo dovrebbe esercitarsi nel rito. Resterebbe da capire per quale via il sacrificio eseguito da Mithra contenga un incontro mediatore con il dio del male. La questione investirebbe direttamente il nucleo essenziale del mistero. Nel Bundahishn, libro della cosmogonia in 36 capitoli, redatto in lingua sacerdotale pahlavi nel IX–X secolo

durante il dominio abasside dopo la conquista araba dell’Iran, troviamo una rielaborazione letteraria della dottrina zoroastriana. Un passo afferma che il sacrificio del toro fu compiuto all’inizio da Ahriman. In altro luogo, il testo avestico prevede che il Salvatore (il Saoshyant, cioè Mithra) alla fine ucciderà anche egli un toro per comporre la bevanda d’immortalità « mescolandone il grasso con lo haoma ». Nell’iscrizione di Santa Prisca leggiamo che il sacrificio è già avvenuto (seruasti è un perfetto) e forse dobbiamo intendere che per i mitraisti è entrata l’epoca della fine dei tempi; del resto, è peculiare delle escatologie di ripetere gli atti dell’inizio al fine di revocarne e mutarne le conseguenze. La tardività della redazione pahlavi non è sufficiente per ritenere non appartenente alla tradizione iranica la dottrina che il sacrificio cosmogonico sia stato compiuto da Ahriman. In attesa che i filologi decidano inequivocabilmente sulla questione, possiamo ammettere che la struttura del dio Mithra non sarebbe

modificata dal fatto che in illo tempore il toro sia stato ucciso dallo spirito antagonista. E’ evidente che la presenza delle due varianti circa l'uccisore del toro appare intollerabile solo a partire da un presupposto monoteista. Anzi, le apparenti oscillazioni possono costituire segnali rivelatori d’una tensione antimonoteista (nelle dottrine più arcaiche il creatore primario viene contrastato da un avversario). Zarathustra, autore epocale di un’energica intensificazione monoteista, proibì il sacrificio cruento, eppure non riuscì a eliminare quello dello haoma la cui preparazione prevede l’uso del grasso (o del sangue?) del toro e pertanto comporta che un toro venga ucciso. La svalutazione dei sacrifici rientra in un disegno di spiritualizzazione del conflitto con il male. Zarathustra, negato al male lo statuto ontologico di forza indipendente e oggettiva, lo riduce a un’opzione dell’interna dialettica dell’unico vero Signore dell’universo. Il male diventa una proiezione del dio unico e non è più un altro dio a lui irriducibile e

contrapposto. Per questa ragione il combattimento si svolge sul piano spirituale e non può venire deciso con i sacrifici, i quali incrociano sul piano fisico. Inoltre il riformatore, per lo stesso coerente disegno, proibì l’antica usanza di sacrificare al dio del male. Però, per Turcan (cit. 105), il rimprovero di Zarathustra ai sacrificatori di buoi di volere allontanare da sé la morte con il loro gesto (Gatha Y 32) rivela che un sacrificio positivo non legato ad Ahriman era attivo nella ritualità più antica. Anche il sacrificio mitriaco rientra nel quadro innovativo dovuto alla crisi del sacrificio tradizionale. La sua celebrazione è simbolica (va così presso neopitagorici e neoplatonici) e non concreta. Sul concetto bisogna tuttavia intendersi, simbolico non equivale a fittizio; perfino il sacrificio della messa cristiana è simbolico e nondimeno viene considerato reale dai suoi praticanti. Incontriamo un aspetto basilare: il luogo in cui per i mitraisti si realizza l’efficacia dell’atto esemplare cessa di

essere esteriore e si fa interiore. Sarà per questa ragione che nel mitraismo entrano in gioco, contrariamente all’opinione di Turcan, le filosofie della potenza dell’interiorità, le filosofie che assegnano all’anima una capacità di proiezione esterna. I mitrei non sono templi del dio ma di uomini che lo commemorano, e non tanto con il compiere essi stessi un’immolazione quanto con il ricordo di quella esemplare compiuta da lui. Turcan sostiene che il sacrificio mitriaco è fortemente innovativo rispetto alla consuetudine greco–romana per il fatto che l’altare sta dentro l’antro, al chiuso, e non fuori del tempio all’aria aperta (sub diuo). Eppure quell’interno è una imago mundi; di frequente sul suo soffitto è raffigurato il firmamento e nella volta del mitreo di San Clemente sette fori rappresentano i pianeti. Non c’è differenza sostanziale tra i luoghi della nascita di Mithra e del suo atto supremo di libertà. Bisogna infine considerare che nella tradizione liturgica classica esiste un sacrificio notturno agli eroi, cosicché non escluderemmo che il rituale mitriaco si

innesti su una rilettura di quell’arcaica consuetudine. A dispetto dell’autenticità della tradizione che fa uccidere il toro da Ahriman, rimane assolutamente indubbio che anche Mithra uccida il toro e, ove non bastassero le notizie sulla dottrina, soccorrerebbero numerosissimi documenti archeologici. Mithra riassume forse su di sé Ahriman per mutarlo di segno? Eppure egli non era e non è un dio privilegiato dal monoteismo con il compito di eliminare il dualismo (o il diteismo) assorbendolo in sé, come appartiene alla figura zoroastriana rielaborata del Signore Sapiente. Forse Mithra e Ahriman hanno elementi essenziali in comune? Le due varianti del testo avestico possono essere entrambe autentiche salvo prova contraria; a ogni modo, difficilmente possiamo immaginare che il mitraismo a Roma fosse un culto nero, ancorché apotropaico. Plutarco (De Iside et Osiride 46) sostiene

che il mago Zoroastro insegnò che si dovessero « celebrare riti lugubri e apotropaici » a Arimanios, dio dell’oscurità e dell’ignoranza. Il Mithra introdotto a Roma soddisfa un’esigenza romana diffusa e, se un qualche elemento di base della sua storia lo accomunasse al dio del male, perfino questo dovrebbe soddisfare la stessa esigenza. Sgombriamo in via preliminare il campo dal sospetto che un’eventuale componente rituale dei misteri di Mithra rivolta alle tenebre e al male (il versante nero di Saturno?) possa venire confusa con una grossolana superstizione. La componente, se ci fosse, andrebbe individuata nella struttura stessa del dio salvatore. Mithra risulta innanzitutto essere un mediatore, a partire dalla funzione di stringitore di contratti. E, nel quadro in cui agisce, il principale problema della mediazione concerne la principale divaricazione dualistica in atto, tra il Signore Sapiente, Ormazd, e il suo avversario cosmico, Ahriman.

Bisogna afferrare in tutti gli aspetti e in tutte le relazioni interne il complesso religioso mitriaco riflettendo sull'intimo del « Mithra iranico, il µεσιτης, il mediatore – Plutarco De Iside et Osiride 46 –, colui che osserva e promuove il trattato regolante il conflitto tra Ormazd e il suo nemico, e che è nello stesso tempo e per la medesima motivazione giudice e combattente contro il male e il maligno » (Ugo Bianchi Il dualismo religioso, Roma 1966, 19912, 168). Per Turcan (Mithras platonicus cit.) la definizione di Plutarco rappresenta una tappa dell’influsso della dottrina platonica della mediazione che spinge la figura di Mithra fuori dall’originale iranico facendone un demiurgo. Il mediatore platonico per antonomasia è Hermes– logos, e da tempo Varrone aveva letto nel nome Mercurio (con cui fu identificato lo Hermes greco) un dio medius currens. Turcan prende le mosse dalla tesi di Wikander che aveva decifrato e sciolto l’attributo di Mesoromasdes, con il quale il Gran Re persiano invocava il sole a mediatore tra il mondo della luce e il

mondo delle tenebre, in Mithra–Ohrmazd. Il documento essenziale dell’avvenuta affermazione d’un Mithra mediatore si ritroverebbe nell’equazione Apollon– Mithra–Helios–Hermes con la quale viene designata (I secolo a. C.) una statua del tempio di Nemrud Dagh, nella Commagene, sede d’un culto a forte caratterizzazione astrologica del re defunto divinizzato. Stabilire legami con il male non conduce alla sottomissione; il male, anzi, si può combattere efficacemente solo incrociandolo in un contatto stretto e costringendolo entro delle regole. Non va dimenticato che, per Zoroastro, Ohrmazd ha creato il mondo per attirarvi Ahriman in combattimento votandolo segretamente alla catastrofe, onde il semplice rispetto delle regole che trattiene Ahriman in quel campo di battaglia contiene un esito per lui negativo. Il grande demiurgo si impone soprattutto in veste di supremo detentore della potestà regale e della connessa ars regia, l’arte privilegio della funzione

sovrana e magica (Dumézil cit.) manipolare vittoriosamente il male.

di

Guardando, sotto la superficie, il profilo filosofico esoterico (quello forse che attira di più i romani), Mithra e Ahriman hanno un quid in comune che giustifica e spiega il patto. La creazione, l’uccisione del toro, può essere imputata sia all’uno sia all’altro, perché la creazione è insieme rottura e ricomposizione. Il sacrificio del toro delle origini assume una duplice proiezione cosmica: inizio e fine, all’inizio opera del male, alla fine opera del bene. E’ rottura perché il mondo del molteplice manifestato si rende esplicito e esce alla luce rompendo l’unità del principio; però la molteplicità non può distendersi fuori del principio perché il principio è tutto e fuori del tutto non può esserci niente. L'avvenimento della differenziazione del molteplice (in vari gradi, dal nous all’essere, dall’anima alla physis) avviene rigorosamente all’interno dell’Uno. Tale è l'argomento della filosofia di Plotino e dei neoplatonici, per i quali la rottura del principio coincide con la sua

ricomposizione. Nel loro sistema, la suprema legge è la coincidentia oppositorum, per cui l’allontanamento è insieme un avvicinamento, la discesa una salita, l’andata un ritorno. Il mistero mitriaco, coerente con la filosofia neoplatonica, lascia intravedere di essere imperniato specialmente sul governo delle contraddizioni. Affermerei addirittura che una delle principali basi del suo successo consisteva nell’acutezza della sua risposta all’ambiguità del bene e del male. Un elemento distintivo introdotto dal neoplatonismo dell’epoca consiste nell’esaltazione della teurgia; con esso si perviene a una certa eroizzazione dell’etica, cosa più congeniale con l’esaltazione del genio personale del principe a confronto della severità dei moralisti stoici dell’età imperiale. Nella metafisica neoplatonica, l’inizio del male (la rottura) costituisce insieme la fonte da cui si sviluppa il trionfo della salvezza (la ricomposizione). Sicché chi si colloca dove si compie l’atto cardinale può essere spirito di rottura o spirito di salvezza. La differenza fra i due non è

data dal mero compimento di atti diversi, perché l’atto rimane il medesimo, l’uccisione del toro cosmico; la differenza è data dal senso impresso al medesimo atto. Se sull’oggettività del rito prevale la soggettività con il quale lo si celebra, allora la sua efficacia salvifica è decisa dalla qualità di chi lo compie e dal suo orientamento spirituale. L’esigenza di andarsi a collocare in quel nodo cruciale non è d'uno spirito volto alla contemplazione, o sacerdotale, spetta invece a uno spirito squisitamente attivistico e regale. Il centro, dal quale il mondo può disperdersi e può salvarsi, viene occupato da un dio dell’azione e non da un dio otiosus e inoperoso. Non può riguardare un sovrano refrattario agli affari complessi e attuali del governo, è pregio di un re che sappia affrontare le penose fatiche dell’azione e le terribili inevitabili battaglie. Il dio che sta dietro la funzione regale, dietro la funzione che si immerge fattivamente nelle vicende del mondo degli uomini, dietro la mediazione, è un dio della morte. Esso può essere Ahriman, ma può essere Mithra il Saoshyant.

Il sangue può alimentare gli animali immondi e può accendere le stelle. Nel mitraismo si presenta un ennesimo tardivo episodio d’un antico tema, la riflessione sul sacrificio, sull’atto perfetto. Questa riflessione, profonda e complessa e con esiti diversi nel mondo vedico e iranico, appartenne ancora alla Roma imperiale, soprattutto alle classi angosciate dal rischio della catastrofe imminente. Tutte le religioni che accorrono a Roma sono richiamate dal sentimento dell’incombere della fine e che sui colli fatali sia giunto il momento in cui bisogna « o negare tutto o affermare tutto » (Albert Camus La peste, 1947; tr. it. 1948, 143). E’ vitale trovare la strada per riaccendere il fuoco che sta per spegnersi nella catastrofe periodica. Questo è il compito essenziale del sovrano, il quale – depositario della forza accrescitiva o augurium – deve essere capace di rigenerare l’ordine imperiale, e rimettere in moto il mondo salvandolo. Antico compito il suo, ben noto in oriente dalla Cina all’Egitto, e in occidente a cominciare dai Latini arcaici (il re d’Alba).

Mithra è in stretta relazione con questa valorizzazione escatologica e cosmogonica del sovrano imperiale (Robert Turcan La royauté de Mithra, in G. Sfameni Gasparro (a c. di) Studi storico– religiosi in onore di Ugo Bianchi, Roma 1994, 361–372). Il salvatore Mithra è il vero alimento dell'energia del sovrano e di quanti combattono per la salvezza dello stato. Il salvatore, per il mitraismo, è il vero sovrano. Il suo Messia sarà un re sanguigno e politicamente attivo, non un sacerdote contemplativo sostanzialmente distaccato dal mondo. Il problema del destino era diventato acutissimo. Nei primi secoli della nostra era si verifica un’intensa circolazione di testi e credenze che annunciano un salvatore solare, un nuovo mondo di luce, dai Libri Sibillini agli oracoli del Vasaio e di Histaspe redatti dai magi iranici hellénisés, alla IV egloga di Virgilio. Nell’incendio finale (ekpyrosis) che affonderà il mondo, il Giudice Mithra farà risorgere gli uomini e li dividerà in definitivamente mortali e immortali, resi tali

dalla bevanda d’immortalità, la più regale delle bevande, il vino, acqua di vita, simbolo del sangue del toro sacrificato. L’ideologia mitriaca riguarda il conflitto paradigmatico e attiene alla scelta della parte dalla quale combattere. Nelle tradizioni arcaiche, la simbologia dei combattenti si colloca in uno schema ideologico che investe un complesso molto articolato di piani, dalla fisiologia del corpo e dei gesti alle armi di cui occorre dotarsi, dalla natura dei nemici che si incontrano alla conoscenza delle modalità di mobilitazione delle potenze alleate. Una metafisica del conflitto tocca, poi, il problema nodale del valore dell’uccisione e del gesto cruento correttamente orientato. Le filosofie degli kshatriya, depositari della funzione solare (mentre la classe dei sacerdoti è legata a quella polare), ruotano sul significato della morte. E’ necessario chiarire bene la specificità dell’atto con il quale culmina il

mito mitriaco e lo faccio con due connessioni di cui siamo in possesso. Sappiamo che dietro la Bilancia– Tula si dispone il settimo pianeta, Saturno, e che dietro la stessa Bilancia–Tula si dispone la funzione regale–guerriera, ossia Mithra. Ciò mette allo scoperto il peso della connessione mistica di Mithra con Aiôn– Saturno, cioè che l’axis polare dell’Orsa– Bilancia–Mithra va a incidere in ultima analisi su sé stesso. Mithra re della Bilancia uccide Aiôn– Saturno introducendo il tempo, eppure Saturno è lui stesso perché Saturno è la Bilancia. Il mito mitriaco sottintende che Saturno, quando viene ucciso e costretto a trasformarsi nel ritmo rotatorio ordinato del tempo, si rivela essere il Toro sacrificale, la costellazione sulla quale va appunto a incidere direttamente l’atto cruento della spada dell’axis polare dell’Orsa–Bilancia– Mithra. Tradotto metafisicamente, diremmo che il Principio per farsi creazione e

mondo, squadernandosi nella molteplicità della manifestazione, deve sdoppiarsi in Mithra e in Toro. L’identità di Mithra e del toro è stata sostenuta da Alfred Loisy, d'altro canto essa non coincide con l’identità di uccisore e vittima degli altri misteri, di Dioniso, Attis, Cybele. E insieme potremmo dire che la creazione e il mondo, per ricongiungersi con il Principio, devono passare per l’azione di Mithra. Questa intuizione sapienziale viene tradotta nel mitraismo in un rito che prepara l’uomo d’azione e di governo a svolgere un intenso e imprescindibile ruolo al centro della vicenda mondana e creativa. L’uomo ha il dovere di entrare nella sua vera parte di combattente. Un compito immane che comporta una sofferenza e uno scontro con le forze che resistono allo sviluppo e che, per di più, esige che si purifichi e trasformi divinizzandosi. Nel mitraismo si presenta una religione filosofica dell’autosacrificio, del sacrificio di sé – atto creativo perfetto

senza residui, essendo l’unico nel quale sacrificatore e vittima sono una stessa persona.

6 Mithra ermetico L’azione di dominio delle forze planetarie del destino condotta a termine da Mithra è un autentico Opus Magnum alchemico: le forze scatenate, cavalcate e domate non sono estrinseche e oggettive, sono presenti nell’uomo. Per questa ragione colui che sarà disponibile al sacrificio e alla trasformazione di sé potrà vincere il male e liberarsi. Una disponibilità eroica e rara. Il mitraismo fu un estremo tentativo aristocratico per rinnovare i singoli e la città, ma s’era fatto tardi e il secolo aveva preparato altri sbocchi. Per avvicinarci finalmente più dappresso al significato dei gradi iniziatici nelle sue analogie planetarie, dobbiamo prendere le mosse dal fatto che per i mitraisti la sequenza misterica dei loro gradi corrisponde evidentemente a un percorso liberatorio e risolutivo.

Se la gerarchia normale dei poteri dell’heimarmene (destino) equivale alla figura della distretta dalla quale è necessario uscire, non sarà sufficiente il suo semplice rovesciamento in linea retta apparente, occorrerà procedere allo scioglimento dei nodi nel verso con cui sono stati annodati, seguendo il percorso segretamente riconosciuto nei misteri. Teniamo fermo che la sequenza apparente non indica mai l’ordine autenticamente liberatorio; l'allineamento di giorni e pianeti in fasti o nefasti è relativo alla combinazione in cui sono inseriti e che solo l’iniziato al grado supremo conosce; la vera direzione da prendere in ognuno di quei giorni è nota solo a lui. Vale, in sostanza, anche per il mitraismo la tradizione che vuole che per ogni tempo ricorra l’azione adatta e, se sarà consigliabile e opportuno procedere a una determinata impresa (sposarsi a primavera, cominciare la guerra in estate...) in certe congiunzioni, nelle stesse non sarà né opportuno né consigliabile intraprenderne un’altra.

La scala raffigurata nei mosaici del mitreo di Felicissimus in ultima analisi potrebbe indicare che la settimana va riletta richiamando per ognuno dei suoi giorni un altro pianeta mediante un determinato agire teurgico. Così, al posto della Luna va chiamato Mercurio, eccetera. Siamo di fronte a un’opera d’inversione delle potenze, manipolate e convertite l’una con l’altra per raggiungere il culmine della liberazione. La scala di Celso (la discesa delle anime) è controbilanciata dalla scala iniziatica. La prima rappresenta il destino (heimarmene), la seconda la liberazione dal destino. I romani non erano estranei allo studio degli oroscopi e alla devozione ai segni celesti. Appartiene all’autentica tradizione romana, tributaria della religione etrusca per quest’aspetto, un acuto interesse per i fitti vincoli che legano la città e le sue classi all’ordine cosmico. I mutamenti che intervengono nella scienza, e cioè nella conoscenza dei tratti principali

dell’ordine astronomico, si ripercuotono sull’etica e sulla religione. Da questa premessa tento una spiegazione della trasposizione della quale aveva fatto cenno Flamant. La scala iniziatica, rappresentativa del percorso liberatorio immortalante dei misteri, va messa a confronto con la scala oggettiva del destino; ossia con l’ordine del sistema geocentrico caldeo e non con la settimana caldea che dal canto suo rappresenta un diverso tentativo di liberazione. In breve, la settimana e la scala dei gradi sarebbero complementari, l’una il problema, l’altra la soluzione. La settimana indicherebbe la situazione dalla quale occorre uscire: essa allinea i pianeti sulla base dell’entrata del Sole nella caverna, svelando il percorso del Sole mistico fra i (e nei) pianeti oggettivamente visibili. Il percorso iniziatico, invece, indicherebbe l’uscita dell’eroe solare che si potenzia via via con le luci dei pianeti. Stante che la scala di Celso rappresenta un rovesciamento e che il

percorso deve riuscire a tanto, tocca chiarire con quale passo la gerarchia sia in grado di avviarlo. Al riguardo, il percorso va confrontato con la scala geocentrica e non con la scala settimanale che è una reinterpretatio – ripeto – della scala geocentrica. Per il confronto, comincio dalla doppia trasposizione notata da Flamant. Il primo pianeta–potere della triade iniziale Luna–Mercurio–Venere e il primo pianeta–potere del successivo quaternario Sole–Marte–Giove–Saturno vengono tolti (avverto ancora che stiamo prendendo a base l’ordine oggettivo geocentrico) e collocati dopo Giove e prima di Saturno. Evidentemente l’iniziazione mitriaca contiene l’idea che i poteri di Luna e Sole, disincagliati dal settenario oggettivo vanno a raddoppiare l’azione di Giove su Saturno. Quale fosse questa azione ben lo sappiamo: è l’evirazione–detronizzazione– trasformazione. Il cospicuo significato di questa trasformazione sarà apprezzabile a cominciare da ciò che Saturno–Krono

rappresenta e che ho illustrato a proposito della Bilancia. Dagli studi più recenti sulla religione iranica, emerge che esso simboleggia il cielo nello stadio primevo in cui è una pietra che trattiene, schiaccia e impedisce il libero sviluppo della creazione alla luce. Philiph G. Kreyenboeck (Mithra and Ahreman in Iranian Cosmogonies, in Hinnells (ed.) cit. 173–182), ritiene Mithra autore del sacrificio positivo con il quale si apre la creazione in un mito indoiranico prezoroastriano che avrebbe conservato la tradizione originale della cosmogonia: Yasht 13 « contiene tracce d’un mito cosmologico che si distacca nel fondo dai racconti molto zoroastrianizzati del Bundahishn e si accorda con l’evidenza vedica per la quale l’attuale stadio del mondo (il secondo) è emerso per un atto di liberazione, e per la quale il primo stadio è inferiore a questo » (cit. 177). Durante il primo stadio, il cielo schiacciava la terra e i prototipi della creazione stavano immobili in uno spazio stretto.

Per la stessa religione zoroastriana, all’inizio, prima del secondo atto creativo (quello dell’attacco di Ahriman, a causa del quale il mondo cade nella mescolanza con le tenebre), il cosmo è immobile. La differenza con lo zoroastrismo consiste nel fatto che, mentre nel suo quadro il secondo atto creativo apre una fase di caduta – ed è opera del principio del Male, di Ahriman che fra l’altro uccide il Toro, nella tradizione più antica il secondo atto inaugura il regno della luce – ed è opera di Mithra. Nel Veda (dove Indra finirà per assorbire le funzioni creative originali di Mitra), in principio il Sole e le Vacche erano chiuse nella pietra – ashman; allora il cielo era considerato di pietra e l’affermazione del RigVeda 7. 88. 2 riguarda un cielo di pietra che serrava il Sole e le Vacche, sotto una specie di caverna (cit. 178–9 e nn. 21 e 22). Il ruolo di Mithra signore delle vaste praterie (del cielo) di esemplare apritore del regno della luce, in definitiva di Sole levante, è ampiamente confermato dagli studi (Jean Kellens La fonction aurorale de

Mithra e la daênâ, in Hinnells (ed.) cit. 165–171). Il Saturno in cui culminano i gradi mitriaci deve essere il Saturno trasformato e rinato, girato da piombo in oro, il sole rosso e non più il pianeta nero. Il Saturno plumbeo e pesante, segno della terra e della corporeità vincolante, è il problema che si risolve percorrendo la scala. Agendo su di esso con crescenti distacchi si perviene, con il passaggio delle varie età, a quella immortale.

La bipolarità della scala dei gradi mitriaci è facilmente riscontrabile mettendola in relazione con il suo rovescio analogico implicito. Dato il carattere simbolico delle posizioni, uno dei modi per esplicitare il loro essenziale bipolarismo può essere lo schema seguente: a sinistra dal basso in alto la scala delle tutelae mitriache, a destra dall’alto in basso l’ordine geocentrico caldeo variato dallo spostamento di Luna e Sole fra Giove e Saturno Mercurio

Saturno

Venere

Sole

Marte

Luna

Giove Luna Sole Saturno

Marte Venere Mercurio

Dallo schema, da dinamicamente, vediamo controbilanciamenti dei poteri.

intendersi bene i

Giove, il detronizzatore, l’eviratore, tiene da tauroctono il centro dell’azione conclusiva. E all’inizio Mercurio interagisce con Saturno, nella più nota delle operazioni alchemiche, con la quale prende avvio la trasformazione, la nigredo. La sequenza dinamica dei gradi dei misteri mitriaci corrisponde a un esempio di opera ermetica alchemica, con l'innesco acceso da Hermes–Mercurio. L’azione di Hermes–Mercurio in alchimia è quella scatenante. Il distacco di Hermes–Mercurio dalla pesante corporeità terrestre libera e slaccia le forze vitali, che riattraversano violentemente gli elementi (o i pianeti). Con tale slacciamento inizia la corsa del toro, la dissoluzione–liberazione delle forze vitali che devono essere cavalcate per l’acquisto d’una nuova individuazione. Le tappe principali sono costituite da tre opere rispettivamente al nero, al bianco, al rosso. Esse sono introdotte da

azioni preparatorie sulle quali in questa sede non mi soffermo in dettaglio. Lo scatenamento è l’ermetica opera al nero, o nigredo. Dopo si entra nella fase superiore, nell’opera al bianco, o albedo. Con essa, avendo Giove detronizzato il vecchio Saturno, lo spirito liberato si manifesta in una nuova luce (la Luna). Tuttavia, giunti qui, ci troviamo nel percorso preliminare dei piccoli misteri, all’interno del circuito mediante il quale si accede a un’immortalità non di qualità superiore perché chiusa nell’unilaterale orizzonte della vita manifestata. L’autentica immortalità è acquistata soltanto nella terza fase, l’opera al rosso, o rubedo. È lo stadio in cui il fuoco supera la luce e si impone origine della luce visibile. In esso si guadagna l’uscita dal dominio del cosmo e ci si appropria del principio metafisico, di quel centro che prepara e origina ogni manifestazione. I grandi misteri concludono la reintegrazione dell’antico regno dell’oro e

Saturno–piombo viene esplicitato in oro– Sole. In astrologia i pianeti sono simbolo di precise operazioni ermetico– alchemiche. Astrologia e alchimia si richiamano strettamente in forza dell’analogia tra micro e macrocosmo. I riti alchemico–teurgici aprono all’uomo la possibilità di passare nell’esperienza d’un dio dopo l’altro e di acquistarne i poteri introducendosi nei misteri dei vari livelli della creazione cosmica; ogni dio è un metallo, un cielo, un corpo più o meno denso o sottile, un mondo. L’anima si unisce alle potenze che determinano gli avvenimenti e domina il punto in cui si forma la storicità fino a liberarsene. L’io inverte il processo a causa del quale si è individuato per destino passivo e si riappropria delle chiavi della creazione di sé. La solidarietà e l’analogia che intercorrono tra stati dell’essere e stati della coscienza, fanno equivalere il processo dell’autointegrazione dell’uomo e

quello della creazione. Cosmogonia e iniziazione sono l’una il corrispettivo dell’altra. L’uomo mitriaco si colloca al centro dell’incrocio delle forze cosmiche e si riappropria delle proprie energie dormienti obbligando gli dèi a seguirlo. Egli vive il risveglio e lo scatenamento di sette trascendentali forme della coscienza bloccate dal sonno saturnino. L’intero processo mitriaco va a rompere i suggelli che bloccano il passaggio dal settenario inferiore al settenario superiore in un complesso rituale di autosacrificio, creazione e uccisione di sé, trasformazione e integrazione. Un’astrologia filosofica concorre a costruire l’impalcatura del mitraismo. In questo la sua forza e insieme la sua debolezza. Il presupposto dell’impasto era venuto meno, erano venuti meno l’ethos e la disposizione dell'animo che innalzano i candidati all’altezza della posta. Ricordo il nodo cruciale: che può innalzarsi ad attore del rinnovamento soltanto colui che in definitiva sia disposto al sacrificio di sé.

Era questo il nucleo primitivo essenziale, severo e ferino, del mitraismo. Questa l’ispirazione che sostiene l’approdo, nella sua maturità, a un’elaborata riflessione liturgica e mitologica sulla forza liberatoria dell’atto di morte. Colui che aspira a salvarsi ha il dovere di farsi combattente e di allearsi con il dio del combattimento; l’assunzione di questo dovere comporta le sofferenze dello scontro con le forze nemiche e soprattutto esige che egli sia disposto al sacrificio e alla trasformazione di sé stesso. Il mitraismo dimostrò di essere un estremo tentativo di fermare un processo storico inarrestabile. Si era aperta un’epoca in cui la filosofia dominante, il neoplatonismo, era approdata a un ideale teurgico eroico. Molti storici descrivono le vesti e le formulazioni orientali dell'idea e tuttavia, inconsapevolmente ancora suggestionati dalla sentenza di Orazio (« Graecia capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio », Epistulae II, 1, 156 – la

Grecia vinta vinse il barbaro vincitore e portò le arti nel rozzo Lazio), si lasciano sfuggire che anche l’occidente e il mondo latino conservava sotto l’ellenismo delle classi alte un eco dei suoi moventi originali. L’ellenizzazione offriva, con una filosofia e una sapienza prestigiosa, una riformulazione all’antico e mai tramontato anelito romano alla pace con gli dèi (pax deorum). E’ vero inoltre – Culianu The Mithraic ladder revisited, in Hinnells (ed.) cit. 77 – che lo sviluppo della speculazione sull’ecstasi, ovvero sulla risalita dell’anima caduta nel destino, acquistò in sede ellenistica un andamento spiccatamente scientifico. Sulla portata di questo concetto presso stoici e neoplatonici, bisogna intendersi bene; ciò che essi ritengono è che alla liberazione dell’anima sia essenziale il deciframento della struttura riposta del mondo in cui ci troviamo, o numero o logos armonico. Senza lo sviluppo delle valenze mistiche, musicali, politiche, astronomiche, magiche del numero, nessun liberatore potrebbe

incidere sulla realtà. La casta degli kshatriya si dedica allo studio delle scienze, per ragioni intuitive. L’artefice rigoroso, il signore del gesto perfetto, colui che pratica l’arte della vita e della morte, innanzitutto ha da cogliere la concreta configurazione del problema. Le aristocrazie militari romane erano ossessionate, fra le classi dirigenti più consapevoli e colte, dall’incertezza della fine. Tale la tonalità religiosa con cui era sorto l’Impero e che si era riaffacciata senza requie dopo la lunga stagione della stabilizzazione augustea. Un notevole sforzo intellettuale religioso e politico era stato indirizzato a indovinare nella crisi l’imminenza d’una rinascita e l'avvento d’un nuovo ciclo. Ogni segno veniva scrutato e oroscopi considerati di alta capacità rivelativa occupavano il centro dell’attenzione. A uno stato universale competevano indicazioni universali contenute nel cielo e nelle stelle. A Roma viveva una religione squisitamente politica; circa il senso autentico dell’orientamento, possiamo vedere che lo stesso cristianesimo

imperiale fu una religione della città. Non possiamo avvicinarci all’essenza del cristianesimo, di quello affermatosi largamente nella storia universale, senza riconoscere fra le sue basi l’idea della sacralità della Città. D’altro canto, nelle culture tradizionali la città dev’essere una proiezione del cielo in terra, mappa delle stelle, imago mundi, con i quartieri in corrispondenza delle quattro zone definite dall’incrocio dei punti cardinali dello Zodiaco – tra l’asse solstiziale–polare nord–sud e l’asse equinoziale–solare est– ovest (a Roma il cardo e il decumanus) – e cioè dei colori, dei poteri, degli astri, degli animali divini che occupano le più alte zone celesti. Molti tentarono, in un’epoca di teurgia, di collocarsi nella posizione giusta per rimettere in moto il processo. L’astrologia filosofica offriva una via per rendere l’azione umana creativa e efficace a rinnovare l’energia che si consumava. Dal salvatore attendevano che respingesse l’assalto degli animali maligni

accaniti a sottrarre la nuova vita che spiccia dal suo gesto. Et nos seruasti (a)eternali sanguine fuso, si auguravano i devoti. Pensavano a un prodigio provocato, invocato, atteso, anticipato nei loro antri che salvasse i singoli, la città, l’epoca. Ma l’irreparabile era accaduto, il secolo era andato troppo avanti e i dèmoni antichi interrogati cessarono di rispondere.

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