Tecnofilosofia. Per una nuova antropologia filosofica
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PER UNA NUOVA AN TROPOLO GIA FILOSOFICA

M im e sis E te ro to p ia

SOMMARIO

miìlmÌM Numero 17/18

Direttrice delle collana:

Tiziana Villani Progetto grafico:

Luciano Bobba

_

.

Comitato scientifico:

Nanni Balestrini Franco Berardi Bifo Aldo Bonomi Pierre Dalla Vigna Giairo Daghini Alessandro Dal Lago Ubaldo Fadini Carsten Juhl Teresa Macrì Primo Moroni Giammario Pascucci Gabriele Piana pfeTaÒ 'io Poggto

AleSpaCtJV°rmodeHÌ

• Premessa

P-

^

• Gilles Deleuze Istinti e istituzioni

p.

7

* Arnold Gehlen Disposizione

p.

1a

Su "Istinti e istituzioni"

p.

21

• Jean Baudrillard Simulacri e fantascienza

p.

25

p.

33

p.

49

p.

71

• Fabrizio Desideri II vincolo mimetico

p.

81

• Gianluca Bonaiuti Tropismi del rischio

p.

97

• Girolamo De Michele Natura e artificio

p.

109

p.

125

. Ubaldo Fadini

. A d a m S c h a ff

Disoccupazione strutturale • Ubaldo Fadini Tecnonomadismo • Tiziana Villani ^ Tecnofilosofte e territori urbani

• Patrizia Mello Meditazione tecnologica e carattere di transitività deglispazi ateP

i

i SEZI° NE DELEUZE

’ immanenza e filosofia . Roberto Gellnl "Troppo' tenera è la carne"

p. 157 p.

-j 57

PREMESSA

I saggi contenuti nel presente volume intendono affrontare i temi attinenti le trasformazioni tecnologiche proponendo una certa pluralità di sguardi e di approcci tesi a sviluppare questioni quali la mutazione antropologica, il divenire del linguaggio, le potenze degli affetti, il gioco delle istituzioni, le modificazioni territoriali. Tali riflessioni paiono particolarmente necessarie in un momento, come quel­ lo attuale, in cui ideologie mediatiche e vulgate di ogni sorta tendono a confon­ dere e a svilire la portata delle trasformazioni in atto e delle reali conseguenze che da queste derivano. Riflettere così sulle istituzioni, sul lavoro, sulla tecnica divie­ ne un utile esercizio che impone rigore sia dal punto di vista metodologico che concettuale al fine di restituire ai linguaggi, alle parole e ai corpi i luoghi a loro più propri. II presente volume è stato curato da Ubaldo Fadini.

GILLES DELEUZE

ISTINTI E ISTITUZIONI

iò che si definisce un istinto, ciò che si definisce un’istitu­ zione, designa essenzialmen­ te dei procedimenti di soddi­ sfacimento. Pertanto, reagendo per na­ tura a degli stimoli esterni, l’organismo trae dal mondo esterno gli elementi di una soddisfazione delle proprie tenden­ ze e dei propri bisogni; questi elementi formano, per i diversi animali, dei mon­ di specifici. Così, istituendo un mondo originale tra le proprie tendenze e l’am­ biente esterno, il soggetto elabora dei mezzi di soddisfacimento artificiali che liberano l’organismo dalla natura e lo sottomettono ad altre cose, e che tra­ sformano la tendenza stessa introdu­ cendola in un ambito nuovo; è vero che il denaro libera dalla fame, a condizio­ ne d’averne, e che il matrimonio rende superflua la ricerca di un partner, sotto­ mettendo ad altri compiti. Vale a dire che ogni esperienza individuale suppo­ ne, come un a priori, la preesistenza di un ambito nel quale è condotta l’espe­ rienza, ambito specifico o ambito isti­ tuzionale. L’istinto e l’istituzione sono le due forme organizzate di una soddi­ sfazione possibile.. È indubbio che nell’istituzione la ten­ denza si soddisfi: come nel matrimonio la sessualità, e l’avidità nella proprietà. Si potrebbe opporre l’esempio di istitu­ zioni come lo Stato, alle quali non cor­ risponde nessuna tendenza. Ma è chia­ ro che simili istituzioni sono seconda­ rie, che esse presuppongono già dei com­ portamenti istituzionalizzati che invo­ cano un’utilità derivata, propriamente sociale, la quale trova in ultima istanza il principio da cui essa deriva nel rap­

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porto del sociale con le tendenze. L’isti­ tuzione si presenta sempre come un si­ stema organizzato di mezzi. È proprio questa, d’altronde, la differenza tra l’isti­ tuzione e la legge: quest’ultima è una limitazione delle azioni, mentre la pri­ ma è un modello positivo di azione. Con­ trariamente alle teorie della legge che pongono il positivo fuori dal sociale (di­ ritti naturali) e il sociale nel negativo (li­ mitazione contrattuale), la teoria dell’isti­ tuzione pone il negativo fuori dal so­ ciale (bisogni) per presentare la società come essenzialmente positiva, inventi­ va (mezzi originali di soddisfazione). Una simile teoria ci darà infine dei cri­ teri politici: la tirannia è un regime in cui vi sono molte leggi e poche istitu­ zioni, la democrazia un regime in cui vi sono molte istituzioni e pochissime leg­ gi. L’oppressione si mostra quando le leggi si indirizzano direttamente sugli uomini, e non su delle istituzioni preli­ minari che garantiscono gli uomini. Ma se è vero che la tendenza si sod­ disfa nell’istituzione, l’istituzione non si spiega con la tendenza. Gli stessi bi­ sogni sessuali non spiegheranno mai le molteplici forme possibili del matri­ monio. Il negativo non spiega il positi­ vo, né il generale il particolare. Il “de­ siderio di stuzzicare l’appetito” non spiega l’aperitivo, poiché vi sono mil­ le altri modi possibili di stuzzicare l’ap­ petito. La brutalità non spiega per nul­ la la guerra; soltanto, essa vi trova il suo miglior strumento. Ecco il para­ dosso della società: noi parliamo di isti­ tuzioni, quando ci troviamo davanti a dei processi di soddisfazione che non scatenano e non determinano la ten­

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denza intenta a soddisfarsi - non più di quanto non la spieghino le caratteristi­ che della specie. La tendenza è soddi­ sfatta attraverso mezzi che non dipen­ dono da essa. Inoltre, essa non è mai senza essere costretta o vessata, tra­ sformata e sublimata. Al punto dal ren­ der possibile la nevrosi. Ben di più, se il bisogno non trova che una soddisfa­ zione indiretta, “obliqua”, non è suffi­ ciente dire “l’istituzione è utile”, biso­ gna domandarsi piuttosto: a chi è uti­ le? A tutti quelli che ne hanno bisogno? Oppure a qualcuno (una classe privile­ giata), o soltanto a coloro che fanno fun­ zionare l’istituzione (burocrazia)? Il problema sociologico più importante consiste dunque nel ricercare quale sia quest’altra istanza dalla quale dipen­ dono direttamente le forme sociali di soddisfazione delle tendenze. Riti di una civiltà? Mezzi di produzione? Qua­ le che sia, Futilità umana è sempre al­ tra cosa che un’utilità. L’istituzione ci rinvia ad un’attività sociale costitutiva di modelli, dei quali non siamo co­ scienti, e che non si spiega con la ten­ denza o con l’utile, poiché quest’ulti­ mo, come l’utilità umana, la suppone al contrario. In questo senso il prete, l’uomo del rituale, è sempre incoscien­ te di usarlo. Qual è la differenza con l’istinto? Qui, nulla supera l’utile, salvo la bel­ lezza. La tendenza era soddisfatta indi­ rettamente dall’istituzione, ma è soddi­ sfatta direttamente dall’istinto. Non ci sono impedimenti, né coercizioni istin­ tive, di istintivo non ci sono che le ri­ pugnanze. Questa volta, è la tendenza stessa, sotto forma di un fattore fisiolo­

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gico interno, che fa scattare un com­ portamento qualificato. E senza dubbio, il fattore interno, sempre uguale a sé stesso, non spiegherà come si determi­ nino dei comportamenti diversificati nel­ le differenti specie. Ma ciò vuol dire che l’istinto si trova all’incrocio di una du­ plice causalità, quella dei fattori fisio­ logici individuali e quella della specie stessa - ormoni e specificità. Dunque, si domanderà solamente in quale misu­ ra l’istinto possa rapportarsi al sempli­ ce interesse dell’individuo: in tal caso, al limite, non si potrebbe più parlare d’istinto, ma di riflesso, di tropismo, di abitudine e di intelligenza. O, forse, l’istinto non si può comprendere che nel quadro di un’utilità della specie, d ’un bene della specie, di una finalità biolo­ gica primaria? “A cosa è utile?” è una questione che qui ritroviamo, ma il suo senso è cambiato. Sotto il suo duplice aspetto, l’istinto si presenta come una tendenza lanciata in un organismo con reazioni specifiche. Il problema comune all’istinto e all’istituzione, è sempre questo: come si fa la sintesi tra la tendenza e l’ogget­ to che la soddisfa? L’acqua che bevo, in effetti, non rassomiglia agli idrati del quale il mio organismo manca. Più l’istinto è perfetto nel suo ambito, più appartiene alla specie, più sembra co­ stituire una potenza di sintesi originale, irriducibile. Ma più è perfettibile, e dun­ que imperfetto, più è sottomesso alla va­ riazione, all’indecisione, più si lascia ri­ durre al solo gioco dei fattori individuali interni e delle circostanze esterne, - più lascia spazio all’intelligenza. Ora, al li­ mite, come potrà una tale sintesi, che dà

alla tendenza un oggetto che le convie­ ne, essere intelligente, poiché essa im­ plica, per esser realizzata, un tempo che l’individuo non vive, delle prove al qua­ le egli non sopravviverebbe? Bisogna ritrovare l’idea che l’intel­ ligenza sia qualcosa di sociale più che di individuale, e che essa trovi nel so­ ciale l’ambito intermedio, il terzo am­ bito che la rende possibile? Qual è il senso del sociale in relazione a queste tendenze? Integrare le circostanze in un sistema di anticipazione, e i fattori in­ terni in un sistema che regola il loro ap­ parire, sostituendo la specie. E questo il caso dell’istituzione. È notte affinché si dorma; si mangia poiché è mezzogior­ no. Non ci sono tendenze sociali ma sol­ tanto dei mezzi sociali di soddisfazione delle tendenze, mezzi che sono originali poiché sono sociali. Ogni istituzione im­ pone ai nostri corpi, anche nelle loro

strutture involontarie, una serie di mo­ delli, e dà alla nostra intelligenza un sa­ pere, una possibilità di previsione come di progetto. Troviamo così la seguente conclusione: l’uomo non ha istinti, ma realizza delle istituzioni. L’uomo è un animale che sta cambiando la specie. Così l’istinto tradurrà le urgenze dell’ani­ male, e l’istituzione le esigenze dell’uo­ mo: l’urgenza della fame diviene nell’uomo la rivendicazione d’avere del pane. Finalmente, il problema dell’istin­ to e dell’istituzione sarà colto, nel suo punto più acuto, non nelle “società” ani­ mali, ma nei rapporti tra l’animale e l’uo­ mo, quando le esigenze dell’uomo si af­ fermano sull’animale integrandolo nel­ le istituzioni (totemismo e addomesti­ camento), quando le urgenze dell’ani­ male incontrano l’uomo, sia per fuggir­ lo o per attaccarlo, sia per ottenerne nu­ trimento e protezione.

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ARNOLD GEHLEN

DISPOSIZIONE Ethos della reciprocità

istinguiamo: 1. L’ethos sviluppatosi dalla reciprocità. 2. Una pluralità di rego­ lazioni istintuali, afferrabili in termini di fisiologia del comportamento, com­ presa l’etica del benessere e della feli­ cità (eudemonismo). 3. Il comportamento etico, riferito alla famiglia, unitamente agli amplia­ menti da ciò derivabili, fino all’umanitarismo. 4. L’ethos delle istituzioni, compreso lo Stato. (...) La reciprocità o mutuazione del comportamento è riconosciuta da tem­ po come un fondamento della condotta umana e originariamente venne com­ presa attraverso formulazioni di diritto naturale, con le quali si sottolineava tan­ to le qualità innate (istintive) dell’impulso, quanto quelle prossime al giuri­ dico. Si deve concedere reciprocità all’al­ tro. Il dovere non esprime altro che il funzionamento, considerato idealmen­ te appropriato alla situazione, di un im­ pulso istintuale, la cui qualità antropologica viene inclusa in tale considerazione/pretesa: si deve contraccambiare bontà con bontà; si sente però infine an­ che l’impulso ad abbandonarsi alla cat­ tiva coscienza dell’ingratitudine. Quel­ le forme del comportamento, adeguate alle situazioni e fondate istintualmente, contro la cui inosservanza la società in­ terviene drasticamente e la cui validità normativa viene in tal modo affermata, sono indicate dalla consuetudine o dal diritto. Il diritto naturale stabilisce nor­ me generalissime, simili ai dieci comandamenti, la cui forza coercitiva si

evidenzia come condizione della coo­ perazione pacifica di tutti; ciò spiega gli impulsi corrispondenti come naturali, vale a dire come innati, e rispetta co­ munque la loro realizzazione precaria, altrimenti non sarebbe necessario l’in­ nalzamento a norma consapevole con qualità riproduttiva. Thomas Hobbes ha enumerato - in De Cive ( 1647) - una serie di “leggi na­ turali” che si possono tutte ricondurre al motivo fondamentale della recipro­ cità: che non si violino i contratti e non si manchi di parola; che non si ponga il benefattore in una cattiva situazione o, in generale, accettare un beneficio sol­ tanto con l’intenzione che il benefatto­ re non senta il dono come obbligo; che ognuno si mostri gentile con gli altri e non come un importuno - con richiamo alla Humanitas ciceroniana, cioè al tat­ to, alla cortesia; che non si mostri a nes­ suno con gesti e risa, con parole o azio­ ni che lo facciano odiare o detestare; che ognuno venga considerato per natura uguale all’altro (!); chi pretende per sé dei diritti li conceda anche agli altri e così via. Queste formulazioni sono ovvie pro­ prio perché l’istinto della reciprocità si ri­ conosce qui nei modelli della trasparen­ za astratta. Si tratta di un diritto filosofico ideale, depurato, al quale si contrap­ pone però un consenso forzato, emotivo, un rinvio alle profondità psicologiche. La dimostrazione della validità fer­ rea della reciprocità nel commercio giu­ ridico concreto non avrebbe fine: qui vogliamo soltanto menzionare il con­ cetto “penalistico” della ritorsione. Com’è noto, la ricorrente vendetta tri-

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bale, rigorosamente in termini di reci­ procità, venne risolta mediante acco­ modamenti; in seguito, i “morti di am­ bo le parti (in conformità al verdetto del giudice arbitrale) vennero addebitati a queste ultime secondo numero e dignità, le ferite dei sopravvissuti secondo la lo­ ro gravità; un saldo in schiavi, bestia­ me, armi, tessuti o metalli preziosi, brac­ ciali o moneta coniata era da pagare in conto di una tribù rispetto ad altre” (B. Rehfeldt, Einf. in d. Rechtswissenschaft, 1962, 287). Il primo oggetto di ogni di­ segno giuridico è quindi la stima della penitenza. Del resto qui si tratta di rap­ porti già abbastanza progrediti; ancor più primitivo è il comando automatico aH’interno di gruppi privi di dominio, così come vengono descritti da Ch. Si­ grist nell’interessante libro Regulierte Anarchie (1967): “Il mantenimento di un ordine dato viene reso possibile me­ diante i meccanismi di reciprocità an­ che senza la mediazione di una istanza (cioè senza il giudice arbitrale e così via); la pressione degli interessi indivi­ duali conduce ad una riduzione del com­ portamento anomalo alla linea del com­ portamento atteso” (p.l 15). Allorquando si propagò il diritto con­ suetudinario, si diffuse inevitabilmente un problematizzare logico e così si ini­ ziò a discutere sulla “funzione della pe­ na” e si trovarono col tempo molte fi­ nalità: ricompensa espiatrice, intimida­ zione nei confronti di altri potenziali au­ tori, correzione del delinquente, difesa della società, la resa inoffensiva - e da poco si parla dell’“aiuto per il reinseri­ mento nella società”. In parte sono ma­ novre per eliminare il concetto della pe­

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na, poiché non si crede più alla colpa al di fuori dell’ambito politico. Piuttosto si presenta per la maggior parte degli uomini, nel caso dell’omicidio, il prin­ cipio della reciprocità, vale a dire la ri­ torsione nella sua forza di convinzione predottrinaria. Poiché qui si tratta di un crimine senza paragoni. Innanzitutto vie­ ne impedito per sempre alla vittima il risarcimento giuridico; poi sono i suoi parenti ad essere irrimediabilmente dan­ neggiati e infine si tratta di un crimine in cui coincidono la particolare riserva­ tezza e lo speciale effetto pubblico, in ciò simile all’alto tradimento - illumi­ nanti sono anche le parole di Hebbel: “L’omicida: la morte in sembianze uma­ ne non può andare in giro” (Tageb. n.2096, aug. 1840). Kant ha richiesto, nella sua teoria del diritto, che l’ultimo omicida che si trovi in prigione sia an­ ticipatamente giustiziato quando, ad esempio, il popolo di un’isola decides­ se di sparpagliarsi in tutte le direzioni. Troviamo dunque del tutto convincen­ te l’arringa immaginaria tenuta da Han­ nah Arendt in chiusura del suo Eichmann in Jerusalem (1964) e che culmi­ na nell’accusa: “ (...) come se Lei aves­ se avuto il diritto di decidere chi deve vivere sulla terra oppure no. Noi rite­ niamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri di abitare la terra con Lei. Questo è il motivo, l’unico, per il quale Lei deve essere impiccato”. L’istinto della reciprocità mostra la sua ubiquità tanto nelle situazioni diffi­ cili quanto in quelle senza problemi; co­ sì pure nell’ethos di relazione tra estra­ nei. Tra uomini qualunque, che si neu­ tralizzano l’uno con l’altro, indifferen­

ti, si trova senz’altro una base della re­ ciprocità, soprattutto la conversazione occasionale, che oggettivamente è po­ co produttiva, ma soltanto apparente­ mente è moralmente neutra, poiché la risposta negata alla parola rivolta da un estraneo è scostumata proprio come in­ differenza esibita; la reciprocità nel com­ portamento può perfino presentarsi al posto del linguaggio come una seconda via della comprensione. Già Erodono menziona lo scambio muto che si rea­ lizzava tra cartaginesi e libici - qui si presenta, con un procedimento eserci­ tato fin nella modernità, con indigeni intimiditi dal dispiegamento delle mer­ ci, il porre gli equivalenti presunti e i sovrappiù scambiati o sottratti in una re­ lazione di distacco, per la quale ogni volta i partner si ritraggono, finché pa­ re prodursi dappertutto l’equilibrio, un procedimento che “parla da solo”. Nel suo più ampio significato an­ tropologico, la reciprocità è stata pri­ ma riconosciuta da Marcel Mauss ed è statasvincolata dalla connessione del­ le idee di diritto naturale (Essai sur le don, forme et raison de Véchange dans le sociétés archaiques, “L’Année sociol.”, II sèrie 1923, 24; ristampato in: Sociologie et Anthropologie, Paris 1960, p. 145 e sgg.). Da allora la ricer­ ca sulle società primitive ha dimostra­ to che la reciprocità era proprio il loro principio di base, con una diffusione universale. L’efficacia incomparabile di questa regolazione si mostra nella sua simbiosi con relazioni originarie ancora analizzabili e non del tutto re­ presse. Nella naturale divisione del la­ voro tra uomo e donna, il matrimonio

ha semplicemente tanta importanza per gli individui quanta l’educazione dei bambini e quindi ha rilievo per la so­ pravvivenza della stirpe. Esso è perciò di interesse pubblico e le ragazze da matrimonio sono dunque dei “beni pre­ ziosi par excellence” (Lévi-Strauss). Si può ora risolvere, come acquisizio­ ne iniziale di parecchi sottogruppi so­ ciali, il problema della stabilità della società intera, insieme a quello dell’in­ teresse individuale al matrimonio, uni­ camente con l’istituzionalizzazione del­ le relazioni matrimoniali nel senso del­ la reciprocità. Allora lo scambio della ragazza è la figura chiave tra questi sot­ togruppi, in quanto esso determina le loro relazioni a lungo termine e per­ ché, detto in breve, il fratello può pre­ tendere per sé, per la sorella andata via, un’altra ragazza. Questo scambio di­ venta obbligatorio e quindi istituzio­ nalizza il divieto d’incesto (il rovescio dell’obbligo matrimoniale), e si com­ prende infine la diffusione universale di tale divieto. Tutti gli altri rapporti di scambio - merci, faide, culti funebri, doti, riti, feste e così via - possono es­ sere normati in ogni modo, accanto a nuovi rapporti, sulla base della reci­ procità. Lévy-Strauss afferma nella sua An­ tropologia strutturale (1958): “La teo­ ria della reciprocità non è in discus­ sione. Per il pensiero etnologico essa resta fondata su un supporto solido, co­ sì come la teoria della gravitazione nell’astronomia” (p.180). E inoltre: “Le regole di parentela servono ad assicu­ rare lo scambio delle donne tra i grup­ pi, così come le regole economiche ga­

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rantiscono lo scambio di beni e di ser­ vizi e le regole linguistiche la trasmis­ sione di informazioni”. Nel precedente e decisivo libro su Les structures élémentaires de la pa­ renti (1949), l’autore ha potuto analiz­ zare numerose società primitive, in con­ tinenti diversi, da uno stesso punto di vista: “La nostra interpretazione com­ plessiva dei sistemi di parentela si fon­ da sul concetto di scambio (échange), che rappresenta per essi la base comu­ ne fondamentale”. In sostanza si tratta di una delle più antiche e grandiose ope­ re culturali, cioè di trasformare le rela­ zioni di sangue, di origine biologica, at­ traverso un sistema sociologico di pat­ ti e di obblighi di scambio. Si dovreb­ bero vedere perciò, afferma l’autore, le regole matrimoniali e i sistemi di pa­ rentela come un tipo di linguaggio, cioè una struttura operazionale, che è rivol­ ta ad assicurare tra gli individui e i grup­ pi un determinato genere di comunica­ zione, una forma definita di integrazio­ ne sociale. I sistemi di parentela in via di attuazione sono quindi spesso estre­ mamente complessi o comunque inso­ liti per il nostro pensiero. Una struttura assai efficace scaturente dalla recipro­ cità è rappresentata dalle “metà” (moities), dai gruppi paralleli diffusi in mol­ te società dell’America, dell’Asia e dell’Oceania, la cui funzione si può de­ scrivere nel senso che essi soddisfano all’universale pretesa umana alla rego­ larità del comportamento nel mentre tut­ te le prestazioni pensabili vengono rea­ lizzate sulla base dello scambio appun­ to tra le “metà”, come matrimoni, feste, riti sepolcrali e così via. Così il gruppo

complessivo è ben integrato (Antropo­ logia strutturale, p.37). Tuttavia le “metà” si comportano spesso in modo competitivo e aggressivo, in quanto l’or­ ganizzazione incanala l’aggressività im­ manente, non deviata, verso l’esterno. Citavamo in Le origini dell'uomo e la tarda cultura (1964, seconda edizio­ ne, p. 46) Margaret Mead, la quale de­ scrive parimenti come lo scambio pos­ sa avere un aspetto non economico, di­ ventando cemento sociale e figura pri­ maria dell’essere obbligato, dell’in te ­ resse onnipresente”; esso è un doppio del linguaggio, fatto di un materiale me­ no labile, da cui si può misurare la profondità antropologica del tema. I con­ tenuti possono variare all’infinito. Per molte tribù dei bantu, il “lobola”, lo scambio in bovini, è il tramite essenzia­ le di qualsiasi relazione rituale: com­ pensa l’omicidio, serve come offerta per i defunti e come “dote”. In questo am­ bito il fratello della sposa ottiene a sua volta in cambio di una fanciulla i bovi­ ni, e dunque gli animali passano nuova­ mente nelle mani del nuovo cognato, che a sua volta compie lo stesso gesto, le mandrie di bovini migrano letteralmen­ te in senso inverso, come le fanciulle (Lévi-Strauss, op.cit., p. 577). Ci sono società in cui lo stesso cemento sociale viene per così dire commerciato, quan­ do semplici beni commerciali, con cui niente può essere scambiato, ad esem­ pio i monili composti di conchiglie, cir­ colano massicciamente in ambiti pre­ scritti, come una formula di obbligazio­ ne resasi autonoma. La dimostrata diffusione universale di tali forme dello scambio e il grande

significato sociale nell’età più tarda so­ no antropologicamente di superiore for­ za probatoria, tanto più che anche le re­ lazioni primitive con gli dei si articola­ vano in figure simili. Non appena si fuo­ riusciva dall’angustia del sentimento di onnipotenza sciamanico e dalla rappre­ sentazione dei demoni, non appena si associavano gli eventi non più al pro­ prio arbitrio, bensì a quello degli dei, si entrava con loro in un rapporto di “do ut des”, allorquando si rinfacciavano le preghiere degli oranti e si richiedevano delle contropartite. L’inclusione di que­ ste entità in determinate società sotto forma di antenati risale a tempi preisto­ rici, arcaici: il totemismo ha ancora tra­ smesso delle tracce di tutto questo. Nel libro Le origini dell’uomo e la tarda cultura abbiamo tentato di con­ cepire la reciprocità, osservata in alcu­ ne delle sue innumerevoli articolazioni, come una costante corrente stilistica dell’umano. Secondo tale ipotesi, si trat­ terebbe di una comunicazione dello spi­

rito sul piano istintuale, si constatereb­ be una “linguisticità” degli stessi im­ pulsi e bisogni. Quando l’assunzione della risposta e del comportamento dell’altro come aspettativa guida già il proprio discorso e il proprio agire, quan­ do il simbolo della parola, secondo G. H. Mead (M indSelf and Society, 1934), è la scintilla che accende lo scambio del contatto come evento spirituale, allora si può vedere l’avere la reazione di con­ ferma dell’altro come un bisogno di du­ rata, che è per così dire immagazzinato in tutti gli altri bisogni - oppure come se le pulsioni ridestate contenessero già le forme vuote, anche non ben definite, del loro adempimento, che viene rea­ lizzato dagli altri. Dato che gli impulsi umani devono essere soltanto orientati, allora essi sono rivolti, come il pensie­ ro, a trovare il loro sostegno pubblico. Così, esplorare le reazioni degli altri, in modo simile al linguaggio, riviverle e comprendersi in esse, è esso stesso un bisogno umano elementare.

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UBALDO FADINI

SU “ISTINTI E ISTITUZIONI” Una nota sui testi di Deleuze e Gehlen

resentare due testi di autori co­ sì distanti come G. Deleuze e A. Gehlen ha lo scopo di indi­ care modalità diverse di ap­ proccio al tema “classico” del rappor­ to tra le tendenze dell’umano, comun­ que raffigurate, e il dispositivo istitu­ zionale. Il testo deleuziano è l’introdu­ zione alla raccolta di contributi sul te­ ma Instincts et institutions (1955) e ri­ propone alcuni passaggi centrali dell’analisi sviluppata in Emiprismo e soggettivitcì. Saggio sulla natura uma­ na secondo tìume (1953). Particolarmente rilevante è la raffi­ gurazione dell’istinto e dell’istituzione come mezzi/procedimenti di soddisfa­ zione. Per quanto concerne l’istinto, si può dire che l’organismo (umano e ani­ male), rispondendo “naturalmente” a stimoli ambientali, estrae dal mondo ciò che gli permette di soddisfare le sue ten­ denze, i suoi bisogni: i mezzi di tale soddisfazione sono ciò che concorre, per i diversi animali, alla formazione di mondi “specifici”. Rispetto all’istitu­ zione, può valere questo tipo di ragio­ namento: la realizzazione di un mondo intermedio tra le tendenze soggettive e l’ambiente esterno è il risultato dell’ela­ borazione dei mezzi di soddisfazione “artificiale”, che liberano l’organismo dalla presa della natura collocandolo all’interno di un ambiente “secondo”, nel quale le tendenze vengono registrate con precisione e regolate nel modo mi­ gliore (per favorire la conservazione in vita). Qualsiasi esistenza presuppone un simile ambiente “derivato”, specifi­ co o istituzionale, con condotte di vita sicure, in una qualche misura predeter­

P

minate. È in questo senso che l’istinto e l’istituzione si presentano come “le due forme organizzate di una soddisfa­ zione possibile”. L’istituzione è sem­ pre legata a precise tendenze, come ad esempio quella della sessualità, che cer­ ca di soddisfare: anche quando si par­ la dello Stato, cioè di una istituzione “secondaria” a cui non corrispondono particolari tendenze, si deve dire che esso rinvia a comportamenti sociali ca­ ratterizzati da una “utilità derivata pro­ priamente sociale”, che ha come prin­ cipio il rapporto del sociale con le ten­ denze. Deleuze sottolinea poi - in ter­ mini che ritorneranno spesso, con gli opportuni cambiamenti, nelle sue suc­ cessive opere - come l’istituzione, in quanto sistema organizzato di procedi­ menti, si ponga come un “modello po­ sitivo” dell’agire, a differenza della leg­ ge, che si presenta sempre come limi­ tazione di quest’ultimo (l’istituzione ha anche il compito di impedire che le leg­ gi raggiungano direttamente gli uomi­ ni, fungendo così da loro garanzia di vi­ ta migliore). Altro motivo importante di questo breve e denso testo è un’ulteriore di­ stinzione tra l’istituzione e l’istinto: la prima soddisfa indirettamente la ten­ denza; il secondo la soddisfa direttamente, il che ci permette di intenderlo come un “fattore fisiologico interno” capace di produrre comportamenti “spe­ cifici” e altamente qualificati. L’istin­ to può essere considerato come una ten­ denza proiettata verso reazioni speci­ fiche. Ma “l’uomo non ha istinti” e crea invece delle istituzioni, vale a dire che lo si può individuare come “un anima­

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le che si sta spogliando della specie”. Il testo gehleniano - che è quasi in­ teramente il quarto capitolo di Morale e ipermorale, 1969 (“Disposizione. Ethos della reciprocità”) - si caratte­ rizza per una comprensione delle con­ dotte umane come un qualcosa di inne­ scato da dispositivi socio-morali radi­ cati a livello istintuale. Tra i gruppi di dispositivi che danno vita a tipologie comportamentali (Ethosformen) è fon­ damentale quello della reciprocità, che si presenta come una costante dell’esi­ stenza umana, senza la quale non si da­ rebbe socialità, in ogni sua dimensione. Accanto all’ethos fondato sulla reci­

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procità si hanno quelli delle virtù fisio­ logiche (si pensi alla cura dei bambini), dell’ethos familiare e dell’ethos istitu­ zionale. Ciò significa che la società si costituisce, in termini di comportamenti, a partire da differenti radici etiche, ri­ spetto alle quali non si deve operare nes­ sun genere di rimozione, in quanto il ri­ dimensionamento di una forma dell’ethos comporterebbe, secondo l’ot­ tica conservatrice di Gehlen, una riaf­ fermazione del pericoloso carattere di precarietà che contraddistingue l’esse­ re umano (in realtà povero di istinti e dominato da una inquieta e in fondo in­ quietante “plasticità pulsionale”).

JEAN BAUDRILLARD

SIMULACRI E FANTASCIENZA

%

Tre ordini di simulacri simulacri naturali, naturali­ stici, fondati sull’immagi­ ne, l’imitazione e la con­ traffazione, armoniosi, ottino alla restituzione o all’isti­ tuzione ideale di una natura a immagi­ ne di Dio; ) simulacri produttivi, produttivisti, fondati sull’energia, la forza, la sua ma­ terializzazione per mezzo della macchi­ na e in tutto il sistema della produzione - tendenza prometeica ad una mondia­ lizzazione e ad un’espansione continua, ad una indefinita liberazione di energia (il desiderio fa parte delle utopie relati­ ve a questo ordine di simulacri); 3) simulacri di simulazione, fondati sull’informazione, il modello, il gioco cibernetico - operazionalità totale, iperrealtà, progetto di controllo totale.

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Al primo ordine di simulacri risponde l’ordine immaginario deH’UTOPiA. Al secondo ordine corrisponde la science- fiction propriamente detta. Al terzo ordine corrisponde - c’è ancora un immaginario che risponde a questo ordine? Questa è la domanda che si può porre, e la risposta probabi­ le è che il buon vecchio immaginario della science-fiction è morto, e che qualcosa d’altro, che non è più scien­ ce-fiction, sta nascendo (e non solo nel romanzesco, ma forse anche nella teo­ ria e nei metalinguaggi “filosofici”). Uno stesso destino di fluttuazione e di indeterminazione colpisce la sciencefiction anche come genere letterario specifico.

Non si dà reale che a una certa di­ stanza, non si dà immaginario che a una certa distanza. Che accade allora quan­ do questa distanza, comprendendo anche la distanza fra il reale e l’immaginario, tende a scomparire, ad essere riassorbi­ ta a solo vantaggio del modellq^Ora, passando da un ordine di simulacri all’al­ tro, la tendenza irreversibile sembra es­ sere quella di un riassorbimento di que­ sta distanza, di questa differenza, di que­ sto scarto, che è quello che permette una proiezione ideale o critica: 1) Massimale nell’utopia, dove si di­ segna una sfera trascendente, un univer­ so radicalmente differente (il sogno ro­ mantico ne è ancora la forma individua­ lizzata, dove la trascendenza si disegna in profondità, fin nelle strutture incon­ scie, ma lo scollamento col mondo rea­ le è comunque massimo, è l’isola di uto­ pia opposta al continente del reale). 2) Questo scarto si riduce in modo considerevole nella science-fiction: que­ sta spesso non è che una proiezione smi­ surata, ma non qualitativamente diffe­ rente, del mondo reale della produzio­ ne. Prolungamenti meccanici o energe­ tici, le velocità o le potenze vengono elevate alla potenza n, ma gli schemi e le sceneggiature sono gli stessi della meccanica, della metallurgia, ecc. Ipo­ stasi proiettiva del robot. ' v [All’universo limitato e relativamente circoscritto dell’era preindustriale, l’uto­ pia oppone un altro universo chiuso e alternativo (piuttosto ideale). All’uni­ verso potenzialmente infinito dell’era della produzione, la science-fiction ag­ giunge appunto la moltiplicazione all’in­ finito delle sue stesse possibilità.]

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3) Questo scarto si riassorbe total­ mente nell’era implosiva dei modelli. I modelli non costituiscono più una tra­ scendenza o una proiezione, non costi­ tuiscono più un immaginario in rappor­ to al reale, sono essi stessi anticipazio­ ne del reale, e quindi non lasciano più spazio ad alcun tipo di anticipazione “finzionale” (fictionnelle) sono imma­ nenti, e quindi non lasciano più spazio ad alcun tipo di trascendenza immagi­ naria. Rimane aperto solo il campo del­ la simulazione in senso cibernetico, cioè il campo della manipolazione in tutte le direzioni di questi modelli (sceneggia­ ture, messa in opera di situazioni simu­ late, ecc.), ma niente allora distingue questa operazione dalla gestione, e dall’operazione stessa del reale: non c’è pix\ fiction. La realtà poteva sorpassare la fin­ zione: era il segno più sicuro del possi­ bile gioco al rialzo dell’immaginario. Ma il reale non può sorpassare il mo­ dello, di cui non è che l’alibi. L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo ret­ to dal principio di simulazione. Ed è pa­ radossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia - ma è un’uto­ pia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che so­ gnarne come un oggetto perduto. Forse la science-fiction dell’era ci­ bernetica e iperreale non può che con­ sumarsi nella resurrezione “artificiale” di mondi “storici”, cercare di ricostrui­ re in vitro, fin nei minimi dettagli, le pe­ ripezie di un mondo anteriore, gli av­

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venimenti, i personaggi, le ideologie passate, svuotate del loro senso, del lo­ ro processo originale, ma allucinanti di verità retrospettiva. Così in Simulacri di Ph. Dick, la guerra di Secessione. Gi­ gantesco ologramma in tre dimensioni, dove la finzione non sarà più uno spec­ chio teso al futuro, ma riallucinazione disperata del passato. Non possiamo più immaginare altri universi: la grazia della trascendenza ci è stata negata anche su questo terreno. La science-fiction classica è stata quel­ la di un universo in espansione; trova­ va del resto le sue vie nei racconti di esplorazione spaziale complici delle for­ me più terrestri di esplorazione e di co­ lonizzazione del XIX e XX secolo. Non c’è rapporto di causa ed effetto: non è perché lo spazio terrestre è oggi vir­ tualmente tutto codificato, cartografato, recensito, saturato: si è dunque in qualche modo rinchiuso mondializzan­ dosi (infatti un mercato universale, non solo di merci, ma di valori, di segni, di modelli, non lascia più spazio all’immaginario); non è precisamente per que­ sto che anche l’universo “esploratorio” (tecnico, mentale, cosmico) della scien­ ce-fiction ha smesso di funzionare. Ma i due fatti sono strettamente collegati, sono due versanti di uno stesso proces­ so generale di implosione, succeduto al gigantesco processo di esplosione e di espansione caratteristico dei secoli pas­ sati. Quando un sistema raggiunge i suoi limiti e si satura, si produce una rever­ sione: accade un’altra cosa, anche nell’immaginario. Finora avevamo sempre avuto una ri­ serva di immaginario e però il coeffi­

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ciente di realtà è proporzionale alla ri­ serva di immaginario che gli conferisce il suo peso specifico. Questo è vero an­ che per l’esplorazione geografica e spa­ ziale: quando non c’è più territorio ver­ gine, e dunque disponibile per l’immaginario, quando la carta copre tutto il ter­ ritorio, qualcosa come il principio di realtà scompare. La conquista dello spa­ zio costituisce in questo senso una so­ glia irreversibile verso la perdita del re­ ferenziale terrestre. Si ha emorragia del­ la realtà come coerenza interna di un uni­ verso limitato, quando i limiti di questo si allontanano all’infinito. La conquista dello spazio, venuta dopo quella del pia­ neta, equivale a derealizzare lo spazio umano, o a ribaltarlo in un iperreale di simulazione. Prova: due stanze/cucina/doccia elevato in orbita, elevato alla potenza spaziale si potrebbe dire, con l’ultimo modulo lunare. La quotidianità dell’habitat terrestre elevata al rango di valore cosmico, ipostatizzata nello spa­ zio - la satellizzazione del reale nella trascendenza dello spazio - è la fine del­ la metafisica, è la fine del fantasma, è la fine della science-fiction, è l’era dell’iperrealtà che comincia. A partire da questo, qualche cosa de­ ve cambiare: la proiezione, l’estrapola­ zione, quella sorta di dismisura panto­ grafica che faceva il fascino della scien­ ce-fiction, sono ormai impossibili. Non è più possibile partire dal reale e fab­ bricare Pirreale, l’immaginario a parti­ re dai dati del reale. Il processo sarà piut­ tosto l’inverso: si tratterà di realizzare situazioni decentrate, modelli di simu­ lazione e di ingegnarsi a dar loro i co­ lori del reale, del banale, del vissuto, di

reinventare il reale come finzione, pro­ prio perché il reale è scomparso dalla nostra vita. Allucinazione del reale, del vissuto, del quotidiano, ma ricostruito, talvolta fin nei dettagli di un’inquietan­ te estraneità, ricostruito come una ri­ serva animale o vegetale, esposta alla vista con una precisione trasparente, e tuttavia senza sostanza, derealizzata in anticipo, iperrealizzata. La science-fiction non sarebbe più, in questo senso, un romanzesco in espansione con tutta la libertà e il naif che le derivano dal fascino della sco­ perta, ma piuttosto evolverebbe implo­ sivamente, a immagine della nostra con­ cezione attuale dell’universo, cercando di rivitalizzare, riattualizzare, riquotidianizzare dei frammenti di simulazio­ ne, frammenti di quella simulazione uni­ versale che è diventato per noi il mon­ do che si dice “reale”. Dove trovare le opere che risponda­ no fin da ora a questa inversione, a que­ sto rovesciamento di situazione? Le ope­ re di Philip K. Dick visibilmente “gra­ vitano”, se così si può dire (ma non lo si può più dire con tanta sicurezza, per­ ché infatti questo nuovo universo è “an­ tigravitazionale”, o, se gravita ancora, lo fa attorno al buco del reale, attorno al buco dell’immaginario) in questo nuo­ vo spazio. Qui non si ha di mira un co­ smo alternativo, un folclore o un esoti­ smo cosmico né delle prodezze galatti­ che - siamo subito in una simulazione totale, senza origine, immanente, senza passato, senza avvenire, una fluttuazio­ ne di tutte le coordinate (mentali, di tem­ po, di spazio, di segni) - non si tratta di un universo parallelo, di un universo

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doppio, e neppure di un universo pos­ sibile - né possibile, né impossibile, né reale, né irreale: iperreale - è un uni­ verso di simulazione, che è tutt’altra co­ sa. E non perché Dick parli espressamente di simulacri (la science-fiction l’ha sempre fatto, ma giocava sul dop­ pio, sullo sdoppiamento o il raddoppia­ mento artificiale o immaginario), men­ tre qui il doppio è scomparso, non c’è più doppio, si è sempre già nell’altro mondo, che però non è più un altro, sen­ za specchio né proiezione né utopia che possa rifletterlo - la simulazione è in­ sormontabile, opaca, senza esterioritànon passeremo più neppure “dall’altra patte dello specchio”: quella era anco­ ra l’età dell’oro della trascendenza. Un esempio, forse ancora più con­ vincente, potrebbe essere quello di Ballard e della sua evoluzione. Dalle pri­ me opere molto “fantasmagoriche”, poe­ tiche, oniriche, spiazzanti, fino a Cra­ sh, che è senza dubbio (più che Igh o VIsola di Cemento) il modello attuale di questa science-fiction che non è più tale. Crash è il nostro mondo, niente vi è “inventato”: lì tutto è iperfunzionale, la circolazione e l’accidente, la tecnica e la morte, il sesso e l’obiettivo foto­ grafico, tutto è come una grande mac­ china sincrona, simulata: cioè accelera­ zione dei nostri modelli, di tutti i mo­ delli che ci circondano, mescolati e iperoperazionalizzati nel vuoto. È questo che distingue Crash da quasi tutta la science-fiction, che per la maggior par­ te del tempo gira ancora attorno alla vec­ chia opposizione (meccanica e mecca­ nicistica) funzione/disfunzione, che proietta nel futuro secondo le stesse li­

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nee di forza e le stesse finalità che so­ no quelle dell’universo “normale”. Qui la finzione può superare la realtà (o l’in­ verso: è più sottile) ma sempre secon­ do le stesse regole dei gioco. In Crash, non c’è più né finzione né realtà, l’iperrealtà le abolisce entrambe. Universo senza coscienza, ma anche sen­ za inconscio. Questo mondo mutante e commutante di simulazione e di morte, questo mondo violentemente sessuato, ma senza desiderio, pieno di corpi vio­ lentati e violenti, ma come neutralizzati, questo mondo cromatico e metallico in­ tenso ma vuoto di sensualità, ipertecnico senza finalità - questo mondo è buo­ no o cattivo? Non lo sapremo mai. È il miracolo di Crash: da nessuna parte af­ fiora quel senso critico, quello sguardo, quella profondità immaginaria che fan­ no ancora parte della funzionalità del vec­ chio mondo. Pochi libri, pochi film rag­ giungono questa risoluzione di ogni fi­ nalismo, di ogni negatività, questo splen­ dore opaco della banalità o della violen­ za. Nashville, Arancia meccanica? E lì, se ancora c’è, la nostra science-fiction contemporanea. Jack Barron o l ’eternità, certi passaggi di Tutti a Zanzibar. In questo senso in effetti la scien­ ce-fiction non è più da nessuna parte, ed è dappertutto, nella circolazione dei modelli, qui e ora, nella stessa assio­ matica della simulazione che ci cir­ conda. Essa può venir fuori allo stato puro, per semplice inerzia di questo mondo operazionale. Quale autore di science-fiction avrebbe “immaginato” (ma infatti queste cose non si “imma­ ginano” più) quella “realtà” delle fab­ briche-simulacro tedesco-occidentali,

fabbriche che reimpiegano i disoccu­ pati in tutti i ruoli e in tutti i posti di la­ voro del processo produttivo tradizio­ nale, ma che non producono niente, e la cui intera attività si esaurisce in un gioco di comandi, di concorrenza, di scritture, di contabilità, da una fabbri­ ca all’altra, all’interno di una vasta re­ te? Tutta la produzione materiale ri­ prodotta nel vuoto (una di queste fab­ briche-simulacro ha realmente fatto fal­ limento, licenziando una seconda vol­ ta tutti i propri disoccupati). Questa è la simulazione: non che queste fabbri­ che siano bidoni, ma proprio che siano reali, iperreali, e che di colpo esse rin­ viino tutta la produzione “vera”, quel­ la delle fabbriche “serie” , alla stessa iperrealtà. Ciò che qui affascina non è l’opposizione fabbriche vere/fabbriche bidone, ma al contrario la non distin­ zione fra le due, il fatto che tutto il re­ sto della produzione non abbia riferi­ menti o finalità profonde maggiori di questi “simulacri” di azienda. È questa indifferenza iperrealista che costituisce la vera qualità “fantascientifica” dell’episodio. E si vede che non c’è bi­ sogno di inventarlo: è là, sorto da un mondo senza segreti, senza profondità. La cosa più difficile è oggi senza dub­ bio quella di separare, nell’universo complesso della science-fiction, ciò che obbedisce ancora (ed è moltissimo) all’immaginario del secondo ordine, dell’ordine produttivo/proiettivo, e ciò

che invece dipende già da questa indi­ stinzione dell’immaginario, da questa fluttuazione propria del terzo ordine del­ la simulazione. Si può fare, per esem­ pio, una chiara distinzione fra le mac­ chine robot meccaniche, caratteristiche del secondo ordine, e le macchine ci­ bernetiche, ordinatori, ecc., che hanno attinenza, nella loro assiomatica, al ter­ zo ordine. Ma un ordine può benissimo contaminare l’altro, e l’ordinatore può benissimo funzionare come una supermacchina meccanica, un superrobot, macchina di superpotenza, esponente del genio produttivo dei simulacri del secondo ordine: non vi gioca come pro­ cesso di simulazione, e testimonia dun­ que ancora dei riflessi di un universo fi­ nalizzato (compresa l’ambivalenza e la rivolta, come l’ordinatore di 2001 o Shal­ maneser in Tutti a Zanzibar). Fra I’operatico (ossia lo status tea­ trale, di macchinario teatrale e fantasti­ co, (le grand opéra ’3 della tecnica) che corrisponde al primo ordine, I’opera TORIO (lo status industriale, produttivo, fattore di potenza e di energia) che cor­ risponde al secondo ordine, e I’opera zionale (lo status cibernetico, aleato­ rio, fluttuante della “metatecnica”) che corrisponde al terzo ordine, ogni inter­ ferenza può oggi ancora prodursi al li­ vello della science-fiction. Ma solo l’ul­ timo ordine può rivestire ancora un ve­ ro interesse per noi.

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ADAM SCHAFF

DISOCCUPAZIONE STRUTTURALE II problema sociale di base della nostra epoca

Titolo originale, Struckturelle Arbeitslosigkeit - das soziale Grundproblem unserer Epo­ che, 1999. T raduzione dal tedesco di U lrike Simon. Pubblicato per concessione d ell’A ., a cura di A ugusto Ponzio.

i nuovo disoccupazione strutturale? Ne ho scritto tal­ mente spesso che devo giu­ stificarmi, quando riprendo questo tema. Infatti ho l’intenzione di riprenderlo ancora qui, anche se in for­ ma mutata. Lo faccio per prima cosa perché ritengo molto importante questo problema e credo che meriti una di­ scussione approfondita. Secondo: sic­ come appartiene a quei problemi nei confronti dei quali domina il “closed mind”, non ci resta che ripetere sempre le nostre argomentazioni, nella speran­ za che riusciremo infine a trovare un punto debole nella “mente chiusa”, che ci permetta di penetrare dal suo interno. E poi, come ci insegna l’esperienza, crol­ lati i muri di sicurezza, troviamo un per­ corso verso la conoscenza della verità. Come faccio a saperlo? In base al mio lavoro di ricerca nel settore della filoso­ fia del linguaggio, in particolare dei pro­ blemi degli stereotipi. All’epoca, nella mia vita precedente, prima di dedicarmi pienamente alla problematica politico­ sociale, mi occupavo di queste doman­ de e venni addirittura considerato un’au­ torità in questo settore. Ebbene gli ste­ reotipi sono una costruzione molto inte­ ressante dal punto di vista della teoria della conoscenza e della linguistica, una costruzione che si contrappone fortemente a certi cambiamenti. Alcune persone so­ no addirittura dell’opinione che essa non possa essere assolutamente cambiata. Mi sono convinto che ciò non è vero. Si trat­ ta, infatti, solo di trovare una fessura nel­ la percezione, che permetta di penetrare nello spirito dogmaticamente chiuso, per mostrare a quella data persona che la sua

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fede nel valore assoluto delle sue con­ vinzioni è infondato. In questo modo si può conquistare la “fortezza”. Siccome è difficilmente comprensibile un’affer­ mazione espressa sinteticamente, voglio raccontare una storia - una storia vera -, la quale dovrebbe facilitare il lettore a comprendere di ciò che voglio dire. Que­ sta storia mi è stata raccontata all’epoca da un testimone oculare degli avveni­ menti - un filosofo, un marxista della Germania dell’Est, che in passato era un prete evangelico e che poi aderì alla si­ nistra in seguito alle sue esperienze du­ rante la guerra. Durante la guerra furono installati nell’Unione Sovietica dei lager parti­ colari per i prigionieri di guerra che ap­ partenevano alla SS, per proibire la lo­ ro influenza sui soldati semplici. A ca­ po di uno di questi lager, in cui si tro­ vava una divisione importante della SS, c’era uno scrittore già noto prima della guerra, un comunista tedesco, Friedri­ ch Wolf. Per influenzare i suoi “allievi” in modo educativo, gli teneva due vol­ te alla settimana una conferenza sulla storia della letteratura tedesca. Il tema sembrava talmente neutro da poter per­ mettere un contatto con i prigionieri di guerra. Ma la situazione era difficile. I giovani della SS, ai quali cercava di par­ lare, parlavano solo attraverso il loro co­ mandante che faceva da mediatore con lo scrittore e non rispondevano alle sue richieste di porre delle domande o di di­ scutere dopo la lezione. Da questo pun­ to di vista la situazione sembrava pro­ prio senza via d’uscita. La prima volta in cui tutto cambiò fu quando parlò du­ rante la sua lezione di Heinrich Heine.

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Tra l’altro, egli disse nella sua relazio­ ne che Heine era l’autore di quella poe­ sia nota ad ogni tedesco e considerata una canzone popolare, cioè la “Lorelei”. Questa volta, ed era la prima volta, in­ tervenne dopo la sua richiesta di do­ mande uno della SS - naturalmente an­ cora con la mediazione del suo coman­ dante - accusando Wolf di mentire. Era infatti noto a tutti che “Lorelei” fosse una canzone popolare, il cui autore mai e poi mai poteva essere l’ebreo Heinri­ ch Heine. Wolf rispose che avrebbe di­ mostrato la sua affermazione. Dal suo ufficio portò una raccolta di poesie di Heine, tra cui c’era anche “Lorelei”. Il libro di poesie passò di mano in mano tra gli uomini della SS, controllavano anche attentamente da quale casa edi­ trice proveniva. Quando risultò che era stato stampato a Mosca, dalla “Casa edi­ trice per letteratura straniera”, lo ricon­ segnarono affermando che si trattava evidentemente di una falsificazione co­ munista. L’ebreo Heinrich Heine sem­ plicemente non poteva essere l’autore di una tale poesia. Wolf era cosciente di essere arrivato ad un punto critico e ri­ fletteva in modo febbrile come convin­ cere i suoi ascoltatori della verità delle sue parole. Si ricordò di avere un libri­ cino di queste poesie della casa editri­ ce Reclam di Lipsia, la quale era già no­ ta prima della guerra e conosciuta da ogni tedesco medio colto. Tornò nella sua biblioteca e trovò il libricino. E an­ che questo passò di mano in mano. Nes­ suna poteva dubitare della sua autenti­ cità. Gli uomini della SS controllarono attentamente il libricino, verificarono anche se le pagine in questione non fos­

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sero state aggiunte in un secondo mo­ mento. Tutto si mostrò invece in per­ fetto ordine. Ed il risultato? Uno shock. Questa gente giovane, legata vita e mor­ te alla propria ideologia, doveva am­ mettere che era stata ingannata. E ciò costituì la prima apertura della loro di­ sposizione mentale. Successivamente l’intera divisione si associò al movi­ mento “Neues Deutschland” e fece par­ te in seguito del quadro di costruzione della Germania dell’Est. Perché ho fatto ricorso a questa sto­ ria (ripeto, una storia vera!)? Per dirla semplicemente, perché nonostante ab­ bia ripetuto già tanto spesso il mio pun­ to di vista su questa questione, il risul­ tato dei miei impegni certamente non è esaltante. Essendo profondamente con­ vinto dell’importanza del problema e della giustezza delle mie meditazioni, ci ritorno sempre e cerco questa spera­ ta “crepa”. Tenterò naturalmente di de­ scrivere lo stato di cose in modo diver­ so da come l’ho già fatto per vedere di superare le resistenze alla verità. Prima di fare questo, voglio però spiegare al lettore, come possa accade­ re, che delle cose, che secondo me so­ no ovvie, trovino una tale resistenza al­ la loro percezione. Mi dispiace vera­ mente di doverci ritornare sempre e di dover ripetere le mie argomentazioni, nonostante si tratti, come ritengo, di qualcosa di tanto semplice quanto l’af­ fermazione che due per due fa quattro. Anche questo fatto richiede una spie­ gazione e forse può esserci utile per su­ perare le resistenze che ci interessano. Il lettore mi perdoni questo “salto” in un settore completamente diverso, nel

settore della psicologia sociale, ma que­ sto salto si può mostrare utile, visto che si tratta di cose, che un profano in que­ sto campo non deve conoscere, nono­ stante siano di importanza vitale. Mi in­ teressano le cause di un rifiuto spesso irragionevole (da parte di uomini ra­ gionevoli) di verità che in fin dei conti sono ovvie. Esistono due teorie psicologiche, le quali dovrebbero essere conosciute an­ che da un profano a causa del loro si­ gnificato per la prassi: intendo la teorie del closed mind di M. Rokeach (1960) come pure la cognitive dissonance di Leo Festinger (1957, ted. 1978). Esse si riferiscono agli stessi fatti, benché si oc­ cupino del problema partendo da due punti diversi, sicché si completano a vi­ cenda. La teoria del closed mind è abba­ stanza semplice nonostante si occupi di cose apparentemente strane. Ci sono es­ seri umani - come ci insegna non solo l’esperienza di vita, ma anche come è stato verificato in modo sperimentale il cui modo di vedere, specie riguardo ad alcune domande (soprattutto si trat­ ta di quelle dell’ambito dell’ideologia) è dogmatico. Ciò significa che quei mo­ di di vedere nei quali credono, sono per loro immutabili e non possono essere messi in discussione da nessuna argo­ mentazione. Queste persone non pos­ sono essere convinte di niente, perché rifiutano sin dall’inizio ogni argomen­ tazione e non la vogliono neanche sen­ tire. Questo modo di fare sembra quasi una malattia mentale e lo è anche. Si tratta solo di capire che questa malattia appare nella vita più spesso di quanto

possiamo immaginare. Un esempio: quando Galilei propose ai suoi opposi­ tori della cerchia degli aristotelici di guardare il suo esperimento che con­ fermava le sue tesi, essi si rifiutarono semplicemente di assistere alla dimo­ strazione, perché il suo verificarsi, essi sostenevano, ledeva la dignità delioro maestro. Tali fatti succedono anche og­ gi, specie quando si tratta di questioni religiose, le quali vengono trattate in modo fanatico. Questo fenomeno è importante dal punto di vista dei problemi che ci inte­ ressano, ma in questo contesto è anco­ ra più interessante il secondo argomen­ to da noi menzionato, e cioè il fenome­ no della cosiddetta cognitive dissonan­ ce. Qui le cose sembrano quasi da ma­ nicomio. Ma nella vita avvengono spes­ so tali situazioni, e qualche volta ri­ guardano persone in apparenza com­ pletamente normali. Ciò costituisce un’argomentazione aggiuntiva per co­ loro (a cui appartengo) che difendono l’opinione che ogni persona è in un cer­ to senso “strana” - con la solo differenza tra quanto e dove uno sia un po’ “mat­ to”. Ma in questo caso si tratta di qual­ cosa di particolarmente interessante per l’importanza che queste cose hanno per il nostro comportamento e per mostrar­ ne la complessità. Siccome a chi non conosce la teoria di cui parlo potrebbe sembrare impos­ sibile qualcosa del genere, voglio ag­ giungere per maggiore prudenza che si tratta di una teoria scientifica, verifica­ ta varie volte, che sta semplicemente a confermare la mia tesi che una persona che sia completamente immune da que­

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sto punto di vista, dunque compietamente “normale”, deve essere conside­ rata in pratica piuttosto come un’ano­ malia. Consideriamo il seguente pro­ blema: se una persona viene a trovarsi in una situazione, nella quale le sue idee e la sua posizione (cioè il suo atteggia­ mento nell’azione) risultano in conflit­ to con la realtà oggettiva, ha a disposi­ zione tre possibilità di comportamento. La prima possibilità è quella di tra­ sformare questa realtà oggettiva in mo­ do tale che corrisponda alle nostre idee. Così si comportano i rivoluzionari, qual­ che volta con successo, ma la richiesta è molto difficile, perché questa realtà oggettiva è molto resistente nei confronti di ogni trasformazione. Perciò la per­ sona che si trova in tali situazioni di con­ flitto rinuncia spesso a tentativi di que­ sto genere. La seconda possibilità consiste nel cambiare le proprie idee e modi di ve­ dere, in modo che non conducano a nes­ sun conflitto con la realtà. In un certo senso è una via d’uscita più semplice, perché cosi facendo devo superare sol­ tanto la mia propria resistenza; ma in situazioni di importanza vitale, in particolar modo quando si tratta di un’ideo­ logia, la quale determina tutto il mio modo di procedere, ciò significa un fal­ limento ed anche un tradimento del pro­ prio essere. Questa via d’uscita appa­ rentemente più semplice si dimostra più difficile, almeno più costosa dal punto di vista della soddisfazione mentale del­ la persona, che ha preso tale decisione. Il segno di Giuda del tradimento è pro­ babilmente la cosa più difficile da sop­ portare per una persona. Perciò quasi

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nessuno si decide a favore di questa via d ’uscita; in ogni caso ciascuno si sfor­ za di evitare una tale situazione. E poi c’è un’altra via d’uscita, più incredibi­ le a prima vista, ma comunque real­ mente esistente, la terza via, la quale abbiamo indicato come cognitive dissonance. Consiste nell’accettare una si­ tuazione, nella quale contemporanea­ mente sappiamo e non sappiamo qual­ cosa. Un controsenso evidente, che è possibile se siamo schizofrenici e se conseguentemente soffriamo di una scis­ sione della coscienza, ma che non è pos­ sibile conciliare con il cosiddetto buon senso. Ma nonostante ciò questo feno­ meno appare più frequentemente di quanto possiamo immaginare. Possia­ mo anche sfuggire alla difficoltà di una contraddizione formale che qui fa par­ te del gioco, stabilendo che a proposi­ to di ogni giudizio osserviamo le cose da un punto di vista diverso, cosa che elimina la contraddizione logica tra que­ sti giudizi. Infatti, così facendo non di­ ciamo che accettiamo e contempora­ neamente non accettiamo una certa af­ fermazione, ma affermiamo soltanto che la comprendiamo intellettualmen­ te, ma la rifiutiamo nello stesso mo­ mento emotivamente, benché ne accet­ tiamo il contenuto. Così ad un certo pun­ to veniamo a trovarci in una situazione in cui abbiamo preso conoscenza di qualcosa senza poter accettare il con­ tenuto dell’affermazione. Perciò ci ri­ tiriamo rifiutando, come se non avessi­ mo in tal modo già deciso qualcosa che si oppone molto a ciò che diciamo. Insisto ancora su quest’argomento perché contiene una verità importante

per la nostra conoscenza, anche se mi rendo conto, nello stesso momento, che è difficile accettarlo. Come ho già det­ to il fenomeno è stato esaminato scien­ tificamente più volte, proprio a causa del suo carattere insolito, e ogni volta ha trovato conferma. Si è verificato per esempio in un istituto a Varsavia con un gruppo di infermiere piuttosto istruite. Erano donne cattoliche devote, che all’inizio della sperimentazione della durata di un anno scolastico, rispon­ dendo ad un questionario anonimo, nel quale erano distribuite con abilità do­ mande riguardo a differenti fedi reli­ giose, sostennero che il cattolicesimo fosse la religione più antica del mondo e che contava il maggior numero di fe­ deli. E dopo un anno di seminari sulla storia della religione, nel corso dei qua­ li risposero correttamente alle relative domande (tutte avevano tra l’altro già raggiunto la maturità in buoni istituti), ricevettero un nuovo questionario. Con­ teneva le stesse domande anche se po­ ste in maniera diversa ed il 50% delle stesse giovani donne rispose alle do­ mande nello stesso modo come all’ini­ zio della ricerca, come se quest’anno scolastico con tutte le sue cognizioni a loro trasmesse non avesse lasciato al­ cuna traccia. Che vogliamo dire con queste con­ siderazioni che apparentemente non c’entrano con il nostro tema? Intendia­ mo mostrare che l’accettazione di cer­ te tesi o il rifiuto di esse da parte nostra, non viene soltanto influenzato da un fat­ tore intellettivo, dalla conoscenza del tema, bensì anche, ed in certe situazio­ ni soprattutto, da un fattore emotivo, che

“chiude” la nostra mente alla conoscenza della verità. Come già detto ciò ricorda la schizofrenia, ma non quella indivi­ duale, bensì quella collettiva, sociale. E adesso torniamo al problema prin­ cipale delle nostre riflessioni: com’è pos­ sibile, che certe verità che riguardano problemi sociali e che, come ho già det­ to, sono così ovvie che sembra quasi in­ crescioso ripeterle a gente colta, venga­ no negate? Sostengo che qui non si trat­ ti tanto di mancanza di conoscenza ma piuttosto dell’influenza di ostacoli psi­ cologici per la conoscenza, quindi di una reazione di difesa nei confronti della ve­ rità temuta da tali persone per motivi di altra natura rispetto a quelli puramente intellettuali. Se consideriamo questo ele­ mento, diventa anche comprensibile, per­ ché questo rifiuto è così fortemente emo­ tivo, come possiamo spesso notare in si­ tuazioni di questo genere; molte volte esso degenera in un’aggressione nei con­ fronti dell’oppositore e infrange le nor­ me della comune convivenza. Questo fe­ nomeno ricorre nelle dispute di religio­ ne quando avvengono tra estremisti, ma purtroppo non raramente accompagna anche le discussioni politiche, quando le divergenze di opinione riguardano que­ stioni di principio. Ho già spesso formulato la tesi che in qualche “ortodosso” desta preoccu­ pazione, che per ottenere i primi suc­ cessi della sinistra, sia necessario capi­ re le regole funzionamento dell’attuale rivoluzione industriale. Essa si basa sul­ la nuova rivoluzione tecnico-scientifi­ ca. Il nocciolo del problema è rendersi conto dell’inevitabilità della disoccu­ pazione strutturale nella produzione e

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nei servizi, comprenderne i motivi e le conseguenze. Ho già ripetuto talmente spesso questo pensiero che mi sembra proprio penoso ripetere le argomenta­ zioni principali. Ma sono costretto dal fatto che la sua verità incontra ancora “menti chiuse” nonostante la sua sem­ plicità ed evidenza. Nel caso di alcuni, il motivo è che sono preoccupati del lo­ ro profitto e vorrebbero nascondere que­ sta verità; nel caso di altri invece - che evidentemente dovrebbero ex natura di­ fendere e propagandare tale verità - per­ ché non vogliono ammettere che devo­ no perdere quella che finora era la loro clientela, cioè il proletariato. Ciò con­ duce gli uni e gli altri a quella strana malattia della cognitive dissonance, del­ la quale si parlava sopra. Tutta la questione si può descrivere in modo molto semplice e breve, espo­ nendosi al rischio della resistenza delle “menti chiuse” sopra menzionate. Si trat­ ta infatti del fatto che l’attuale rivolu­ zione industriale si basa sul velocissi­ mo ed irreversibile processo dell’auto­ mazione e robotizzazione di prodotti e servizi. Di conseguenza le macchine di­ ventano job killers ed escludono sem­ pre più rapidamente ed in modo sempre più efficace la forza lavoro viva. La di­ soccupazione strutturale è quindi una conseguenza dell’attuale sviluppo tec­ nico, ed è irreversibile ed in continuo aumento. Un risanamento radicale di questa situazione, che in caso, di con­ tromisure mancanti porterebbe alla mor­ te per fame di una gran parte della po­ polazione mondiale - cosa illecita e che non dovrebbe accadere per vari motivi - richiede il passaggio dalla civiltà odier­

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na del lavoro alla civiltà dell’occupa­ zione, che deve essere organizzata e pa­ gata dal reddito sociale collettivo di tut­ ta l’umanità. Risulta evidente che ciò significa una rivoluzione molto profon­ da dei meccanismi odierni del convive­ re umano, il che richiede anche un pro­ cedimento adeguato da parte di tutta la popolazione mondiale (tale questione non si può risolvere nell’ambito di sin­ goli paesi). E questo in effetti è tutto. Naturalmente le singole tesi da me ci­ tate richiedono un’argomentazione det­ tagliata, che ho già dato più volte. Ma il senso del problema e dei provvedi­ menti da esso richiesti, che devono con­ tribuire alla sua soluzione, è pienamen­ te espresso in queste tesi. Ma a che co­ sa ci serve tutto ciò se queste tesi in­ contrano una totale incomprensione? O per pura stupidità (benché mi sia capitato di sentire persone generalmen­ te colte ed oneste difendere tale punto di vista, soltanto perché malate di co­ gnitive dissonance) di coloro che pen­ sano che tutto si aggiusterà in qualche modo, come è accaduto anche in pas­ sato durante le crisi di allora. In verità questo punto di vista non è molto im­ portante, ma siccome ha un effetto “cal­ mante”, soprattutto quando viene so­ stenuto da persone stimate, si deve di­ chiarare che abbiamo a che fare con l’in­ guaribile malattia logica del non sequitur: ciò significa che la deduzione è in­ giustificata, perché nonostante la sua ap­ parente logica, non consegue dalle pre­ messe: se in passato varie crisi sono sta­ te risolte in una maniera o nell’altra (che portava qualche volta al crollo di una intera civiltà), non significa affatto che

anche la crisi attuale trovi una tale so­ luzione. Oppure, per tornare alla questione precedentemente posta, in conseguen­ za del rifiuto della nostra tesi principa­ le, cioè che l’attuale rivoluzione indu­ striale - con il meccanismo sociale esi­ stente - porta inevitabilmente alla di­ soccupazione strutturale con tutte le conseguenze che ciò comporta. Questo rifiuto è sbagliato secondo me, ma è in­ teressante e merita perciò un’analisi più approfondita. Come ho già detto, ho riflettuto spes­ so su questa tesi. Voglio però tornare un’altra volta al problema, ma in modo diverso da come fin ora l’ho fatto. Mi perdonino tutti i coloro che conoscono la questione, se la forma del tutto sem­ plice con cui queste considerazioni si presentano dovesse ferisse la loro di­ gnità personale. Sicuramente non ho l’intenzione di offendere nessuno. Chie­ do solo comprensione, perché la malat­ tia della cognitive dissonance è una schi­ zofrenia sociale specifica, che nello stes­ so momento ci fa accettare e non ci fa accettare una certa affermazione, ed ogni anomalia psichica richiede uno specifi­ co provvedimento terapeutico che ci dia la possibilità di aprire una fessura nel muro dell’impermeabilità psichica nei confronti di argomentazioni logiche. Ab­ biamo già dato sopra un esempio come nel caso di stereotipi, che apparente­ mente sono resistenti a tutte le argo­ mentazioni logiche, le mura della dife­ sa psicologica crollano in determinate circostanze. Questo succede qualche volta quando il paziente deve accorger­ si che c’è un errore evidente o una bu­

gia nel suo mondo immaginario e que­ sto accorgimento fa esplodere il suo mu­ ro di difesa psichica. Credo allora che possiamo trovare nel nostro caso un ta­ le spiraglio, se smettessimo di darci del­ le arie facendo affermazioni generali che il paziente può “eludere” e ci mettessi­ mo sul piano di affermazioni talmente semplici che la loro negazione non fa­ rebbe assolutamente senso. Il risultato di un tale pensiero contrasterà allora con la fuga mentale provocata dalla cogni­ tive dissonance. E quindi non agitatevi, per piacere, se vi sembra che le domande abbiano un carattere primitivo, e se la loro risposta è evidente. Sono proprio queste che ci possono far avvicinare al fine desiderato. Riflettiamo un po’ sulla la risposta alle seguenti domande e vediamo se è giusta (benché esse si riferiscano a pro­ blemi economici, la loro risposta non ri­ chiede né la conoscenza della econo­ metrics né di altre teorie complicate, ma soltanto un po’ di sana ragione uma­ na, cosa di cui dispone ogni individuo normale). È meglio produrre e offrire servizi con maggiore o con minore spesa? La risposta è ovvia: con minore. E giusto che a pari condizione di qua­ lità di un prodotto o di un servizio, a pa­ rità di costo delle materie prime, a pa­ rità di affitti, tasse ed altre spese, il prez­ zo di un prodotto o di un servizio di­ pende dal costo del lavoro umano? La risposta è naturalmente: sì. E vero allora che è meglio avere me­ no operai (impiegati) e operai meno ca­ ri che averne di più e più costosi volen­ do migliorare la capacità di concorren­

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za del proprio prodotto o del proprio ser­ vizio sul mercato interno e nella con­ correnza internazionale? La risposta è naturalmente: sì. Una macchina, che esegue il lavo­ ro di una persona o addirittura il lavoro di più persone (alla condizione che non 10 svolga peggio ma, come spesso av­ viene, meglio di una persona e che le sue spese di acquisto e di esercizio pos­ sano essere ammortizzate in un perio­ do accettabile per l’imprenditore), un elemento che porta alla diminuzione dei costi di produzione (o di servizio)? La risposta è naturalmente: sì. In una tale situazione l’imprendito­ re i cui concorrenti sul mercato usano una tale forza lavorativa economica è costretto ad utilizzarla anche lui se vuo­ le evitare il fallimento? La risposta è na­ turalmente: sì. E vero che si provoca la disoccupa­ zione strutturale se una tale situazione sociale acquista un carattere generale e se il numero di persone, che vengono escluse dalla produzione e dai servizi a causa del progresso tecnico, aumenta (cioè una disoccupazione che non è la conseguenza di variazioni congiuntura11della situazione economica, che quin­ di può sparire con un miglioramento del­ la situazione economica, bensì una di­ soccupazione che è la conseguenza del­ la riduzione della richiesta di forza la­ vorativa viva)? La risposta è natural­ mente: sì. E giusto allora, per concludere la no­ stra serie di domande, che gli attuali pro­ blemi sociali economici sono legati al progresso tecnico, ma anche a quei mec­ canismi sociali che, nell’ambito dell’

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odierna economia di mercato non pos­ sono sopportare le conseguenze del pro­ gresso? La risposta è naturalmente: sì, se valgono le leggi della logica. Si trattava proprio di questa con­ clusione durante tutto questo gioco di domande e risposte. E se ne deduce ciò che segue: per falsificare il nostro pen­ siero si deve provare che non è giusta la nostra tesi che l’attuale progresso tec­ nico nell’ambito dell’automazione e del­ la robotizzazione è irreversibile ed è un killer di posti di lavoro (questo signifi­ ca che la macchina espelle il lavoro uma­ no vivo). Chi allora respinge la nostra tesi (dovendo citare fatti dallo sviluppo della tecnica moderna) o è un ignoran­ te o un falsificatore consapevole. Che si raccolga allora l’idea che ho lancia­ to! E non si tratta di una banalità bensì del riconoscimento della necessità di trasformare l’attuale ordine sociale (sì, anzi, la nostra civiltà) in un’organizza­ zione in qualche misura collettivista ed in questo senso socialista. È ciò che vo­ glio dimostrare nelle mie ulteriori ri­ flessioni. Una delle conseguenze sociali del processo, di cui si parlava sopra, è la ne­ cessità di impegnarsi per nuove forme di lavoro per tutti gli “uomini superflui” (e voglio far notare che di loro ci sono oggi più di un miliardo nel mondo), tro­ vando per loro una relativa “occupa­ z io n e organizzata e finanziata dalla so­ cietà. Chi promette alla luce della rivo­ luzione industriale odierna un ritorno alla piena occupazione, basata sul la­ voro tradizionale, o non comprende le regole dello sviluppo sociale odierno o manipola consapevolmente i fatti poli­

tici. Ma una soluzione mirata del pro­ blema non implica soltanto la trasfor­ mazione dell’ordine della società d’og­ gi, ma anche la sostituzione della odier­ na civiltà del lavoro con la civiltà dell’occupazione. Per dirla in modo più diretto ciò significa che se si vuole evi­ tare una catastrofe sociale bisogna in­ trodurre una nuova forma specifica di socialismo o - se qualcuno teme questa parola - di post-capitalismo. . Sostengo inoltre che la sinistra si de­ ve occupare delle conseguenze sociali della attuale rivoluzione industriale e che si può intendere per sinistra un mo­ vimento sociale che si occupi di ciò af­ frontando anche i problemi della disoc­ cupazione strutturale. La situazione sociale ci impone oggi la necessità di una GRANDE TRA­ SFORMAZIONE che coinvolge tutto il mondo. Infatti attraversiamo una nuova rivoluzione industriale, e come conse­ guenza all’automazione e robotizzazio­ ne morirà il lavoro (nel senso tradizio­ nale della parola), e come ulteriore con­ seguenza non morirà soltanto la classe degli operai di oggi, ma anche la classe dei capitalisti. Il post-ccipitalismo appa­ re già e con esso anche la post-economia del mercato, un fatto che ammettono an­ che i teorici dei paesi altamente indu­ strializzati che non appartengono alla si­ nistra. Questi processi si svolgono spon­ taneamente, ma, come abbiamo già an­ notato, è desiderabile l’intervento di for­ ze sociali che siano consapevoli delle ne­ cessità legate a questi cambiamenti per evitare il caos generale. Un tale intervento è necessario, per­ ché nessun mercato potrà risolvere da

solo questo problema. Infatti si tratta di dover offrire qualcosa di sostitutivo agli uomini che hanno perso le loro possibi­ lità di lavoro in conseguenza al progresso tecnologico: sia per assicurare loro una nuova fonte di mantenimento sia per da­ re ad essi un nuovo senso della vita, sen­ za il quale ogni persona è minacciata da confusione mentale. Ciò nessun merca­ to ce lo può dare; bisogna inventarsi qual­ cosa, anche contro la resistenza delle for­ ze che temono qualche perdita. Il neoli­ beralismo dimentica che la concorrenza può regolare l’andamento del mercato, distruggendo della merce, posti di pro­ duzione e di lavoro inutili, ma i proble­ mi della gente cacciata dalla produzio­ ne e dai servizi non si “regolano” in que­ sta maniera. Sémplicemente perché que­ sta gente non lo permetterà e nello sta­ to di miseria si in cui si troveranno ta­ glieranno la gola ai disgraziati rappre­ sentanti di tali “procedure risolutive”. Quindi meglio non provarci! La trasformazione della società d’og­ gi è quindi una necessità. Ma cornei Si tratta di qualcosa che non è una banalità: il passaggio dalla civiltà del lavoro alla civiltà dell’occupazione. Come si può realizzare questo materialmente e che co­ sa significa concretamente, dato che si tratta dell’introduzione dell’occupazio­ ne come nuova forma del lavoro? Se non potessimo rispondere a questa domanda, diventerebbe tutto un’utopia, della qua­ le si occupino pure gli amanti delle bel­ le lettere, ma non i politici sociali da pren­ dere sul serio. E ci rivolgiamo proprio a loro quando sosteniamo che conosciamo le risposte alle domande poste. Quali so­ no queste risposte?

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Iniziamo con la domanda più difficile per non tergiversare. Come può essere finanziata tutta l’impresa, in altri termini, chi sosterrà le spese di questa trasformazione e della sua realizzazione? È una faccenda difficile, perché pròvoca inevitabilmente la resistenza sociale di coloro che temono il peso dei nuovi oneri legati ad essa. Il problema della individuazione di nuove occupazioni socialmente utili, tra cui gli interessati potranno fare la loro scelta, è un compito non facile per l’intelletto, che anzi impegna la capacità creativa, ma nonostante ciò non deve provocare delle resistenze sociali contro la sua realizzazione, dato che in realtà risponde a determinate necessità sociali. Ma come deve essere finanziato? In verità questa domanda, con la sua attualità e drasticità, è oggi già al centro dell’interesse sociale, sia nella sua dimensione nazionale che in quella internazionale. Si tratta attualmente ancora di tentativi nel senso di trial and error, comunque se ne occupano già tutti in modo dichiarato. Si parte dalla formula più semplice della lotta alla disoccupazione attraverso la riduzione dell’orario lavorativo e la distribuzione del lavoro immaginata da un gran numero di laburisii (ma qui incontriamo già il problema di chi deve pagare ciò: gli imprenditori per niente entusiasti, oppure i lavoratori che rifiutano una tale soluzione?), per finire alla soluzione allo stato attuale completa, quella di un reddito di base senza obbligo di lavoro per le persone che non lavorano, cioè, in teoria, per tutti i cittadini, che restituirebbero questo “anticipo” come imposta sul red-

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dito, nel caso che dovessero disporre di un reddito superiore. In ogni modo, ri­ guardo a tutte queste iniziali soluzioni, si tratta di tentativi già introdotti in vari paesi per risolvere il problema che abbiamo di fronte. Vogliamo subito aggiungere che nessuno di queste prime iniziative, neanche la più radicale in forma di un reddito di base senza obbligo di lavoro, è capace di risolvere il nostro problema, riguardo alla sua minacciosa crescita quantitativa. Anche perché una reale applicazione a lungo termine di questo modello risolutivo - in particolar modo della sua forma più radicale porterà inevitabilmente a danni sociali, specialmente tra i giovani ai quali viene offerta una possibilità d ’esistenza senza nessun contraccambio, senza “rimborso”, cosa che potrebbe condurre necessanamente a devianze sociali. Non vogliamo occuparci in maniera più approfondità di questo problema socio-psicologico, perché in un certo senso è già un “lusso” paragonato al problema di base, cioè che, con l’attuale struttura sociale ed il suo funzionamento, mancherebbero i mezzi per soddisfare i bisogni che crescono a valanga, C’è una e soltanto una possibilità di soluzione: una nuova distribuzione del reddito sociale, per ottenere in questo modo dei mezzi per la soddisfazione di nuovi bisogni. L’idea è molto semplice - e voglio continuare a spiegarla - e sarà inevitabilmente realizzata, perché non c’è nessun’altra alternativa al caos che ci minaccia. Si tratta soltanto di stabilire quali saranno le spese nel periodo di passaggio alla realizzazione di quest’idea. Per tenerle possibilmente

basse, vale la pena di iniziare già oggi la lotta per la sua realizzazione e preparare le menti. Iniziamo con un’affermazione talmente semplice che suona quasi banale, Ma ci possiamo consolare con il fatto che proprio le verità semplici normalmente sono quelli più difficili da scoprire. E dopo svanisce il fascino, ma questo succede soltanto quando la verità è già riconosciuta. Ed ecco qui la nostra verità semplice, ma istruttiva: non c’è nessuna società nazionale, ma neanche nessuna comunità internazionale, che potrebbe distribuire più della somma del suo prodotto nazionale o internazionale. E gli uomini possono distribuire tra di loro soltanto questo prodotto mondiale. Non si dovrebbe contare sui miracoli. È vero che possiamo leggere nelle Sacre Scritture come il Signore abbia attenuato la fame del suo popolo prescelto, quando attraversava il deserto, mandandogli della manna dal cielo. Ma allora lo doveva fare, affinché i suoi prescelti non morissero di fame, perché altrimenti nessuno avrebbe potuto entrare in Terra Santa e quindi non si sarebbero potuti realizzare tutti gli avvenimenti preannunziati. Il Signore l’hafatto una sola volta ed in modo talmente misterioso che gli studiosi biblici si disperano ancora nel capire cosa sia accaduto realmente. Non c’è da fidarsi neanche dello zio ricco dell’America, primo perché i ricchi non sono così stupidi da dare qualcosa per niente. E secondo perché lo zio è diventato talmente povero nel frattempo che - al contrario di tutte le leggende a proposito di questo argomento - oggi è proprio il suo paese quel-

lo più indebitato del mondo benché a causa della confusione internazionale d’oggi gli si debba permettere di rafforzarsi con gli eurodollari a spese di tutti gli altri continenti, nonostante questi continenti inizino già a ribellarsi. Bisogna quindi vivere del proprio reddito nazionaie. Metaforicamente lo si può paragonare ad una grande pagnotta, che la società taglia in vari modi, secondo le relative leggi in vigore, attribuendo ad ogni gruppo della società la sua parte di bene comune. Allora, di tanto in tanto cambiano le regole di questa distribuzione, e quando ciò accade si tratta di cambiamenti di intere epoche storiche, Questo fenomeno lo chiamiamo rivoluzione economica, che non deve essere necessariamente una rivoluzione sanguinosa, ma significa un mutamento talmente basilare da introdurre una nuova epoca storica. Oggi ci troviamo di nuovo all’inizio di una tale nuova epoca, Senza le regole relative alla distribuzione della metaforica pagnotta, non si può risolvere niente nell’ambito dei nostri problemi sociali d’oggi, che sono lega­ ti all’introduzione della civiltà dell’occupazione. Dobbiamo trovare dei mezzi per far vivere la gente che esegue queste occupazioni, e questi mezzi si possono trovare soltanto nella nostra pagnotta comune. Dobbiamo quindi dividerla nuovamente per ricavarne anche un pezzo per i nuovi “portatori d ’occupazione”. E vogliamo subito affermare che non si tratta di qualcosa di straordinario e che già in passato abbiamo agito in modo simile, quando si trattava di certe categorie di funzionari o di impiegati statali o comunali (scienziati, fun-

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zionari della cultura e dell’amministrazione, militari, poliziotti, ecc.). E cambierà quindi soltanto il lato quantitativo dei fenomeno, nonostante le sue conseguenze saranno di natura qualitativa. Cominciamo di nuovo con un’affermazione talmente semplice che potrebbe sembrare addirittura un luogo comune. La specie homo sapiens ha svolto durante tutta la sua storia determinate attività - e lo deve fare per sopravvivere ncila sua lotta contro la natura, per assicurare la sua esistenza. Chiamiamo queste attività in generale appunto occupazioni, estendendo questa denominazione a tutte le azioni mirate, indipendentemente dalla loro forma. La forma cambia infatti nel corso della storia in corrispondenza allo sviluppo della cultura umana e delle circostanze che la accompagnano. Queste occupazioni, che richiedono un’erogazione di energia per assicurare i mezzi d’esistenza necessari all’uomo, possono essere chiamate però anche lavoro. Quando utilizziamo la parola “occupazione” come una denominazione generale che include varie forme del lavoro così come apparvero nella storia, ma anche quando distinguiarno per esempio, ancora oggi, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, lo facciamo per capire precisamente in questo settore di che cosa si tratta. Concretamente vogliamo però soprattutto stabilire una differenza tra il lavoro per un determinato salario, che viene eseguito da un operaio personalmente libero, e altre forme di occupazione, che ora ci attendono. Quando diciamo che l’automazione e la robotizzazione dei prodotti e dei servizi portano alla fine del la-

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voro, si tratta, in questo caso, di una forma specifica di occupazione, del lavoro salariato, che è stato creato dal capitali­ smo, e non si tratta di lavoro inteso come occupazione generale. Quando abbiamo capito questo, tutta la faccenda perde di drammaticità e diventa più comprensibile: nel corso della sua esistenza l’uomo ha svolto determinate occupazioni (e ha lavorato in questo senso largo della parola), ma per un salario ha la­ vorato soltanto durante un periodo relativamente corto, nel ordine sociale ca­ pitalista. Quindi non è niente di straordinario, se dopo il decesso di questo ordine sociale cambierà anche la forma del lavoro umano. E perciò è meglio, per non perdere di vista i tratti caratteristici di questo fenomeno, se applichiamo il termine più largo “occupazione” piuttosto che la parola “lavoro” gravata dalla tradizione degli ultimi secoli, Ma con questa affermazione abbiamo soltanto creato chiarezza per le nostre vere e proprie riflessioni. Perché la domanda fondamentale è: di quali occupazioni si tratterà in questo futuro prevedibile? Quali forme assumerà l’occupazione, dipenderà dalla nostra co­ noscenza riguardo a tale questione e dai relativi preparativi per questa nuova epoca della vita dell’umanità. E quasi impossibile dare oggi una risposta precisa e dettagliata a questa domanda. La questione dipende dall’ulteriore sviluppo della tecnica e della vita sociale degli uomini, che eseguiranno in futuro quest’operazione. Ma si può - e si dovrebbe - dare già oggi un contributo, anche se soltanto sotto forma di ri­ flessioni su tale problema.

È ovvio, che una parte delle occupazioni e professioni d’oggi continueranno ad essere svolte anche in futuro. Ma quali? Lo mostrerà il futuro. È altrettanto ovvio che una serie di occupazioni, che - secondo il mio parere - influenzeranno in modo determinante la vita della futura società, esistono già ora in germe, anche se certe difficoltà economiche ne ostacolano il pieno sviluppo. Qui si tratta di settori, intesi in senso largo, della scienza, della cultura, dell’arte, della previdenza sociale (i cosiddetti social workers), dello sport e dell’organizzazione del tempo libero in genere ecc. ecc. Se si considera la potenziale richiesta sociale di esperti in questi settori, si può notare sin da ora che essi in futuro non soltanto non sono minacciati dalla disoccupazione, ma che ci sarà in questi settori una penuria di forze lavorative (in tale senso nuovo). Vorrei indicare, anche se molto brevemente, un’occupazione, che - considerando il suo nuovo carattere (nella prassi, perché teoricamente se ne parla già da molto) ed il suo significato sociale - avrà in futuro sicuramente un ruolo enorme: intendo la formazione continua e permanente. Se secondo tutte le probabilità ogni cittadino di questa futura società otterrà un reddito di base senza obbligo di lavoro (che poi viene detratto nel futuro sistema fiscale), allora le relative istituzioni sociali non avranno soltanto il diritto ma anche il dovere di richiedere come contraccambio un certo tipo di attività socialmente utile da coloro che otterranno dalla società una tale sovvenzione. La forma socialmente più utile di

un tale “rimborso” sarebbe - e sono convinto che sarà così - il dovere di uno studio a vita. Bisogna considerare la necessità di un tale completamento conti­ nuativo ed ampio delle cognizioni. Riguarderà tutti i membri della società, che cambia continuamente e profondamente anche nel settore della conoscenza. Questo bisogno è avvertito già oggi in varie professioni (quali la me­ dicina, la tecnica, ecc); nella futura società con la sua tempesta informatica, che colpirà anche la scienza, l’aggiornamento continuo dovrà diventare regola. E la società sfrutterà sicuramente l’occasione che gli si offre per poter soddisfare tale bisognò. E così si apre un intero oceano di nuove occupazioni, ma anche di nuovi problemi, Nessun mercato potrà mai esserci d’aiuto in questo, e penso che anche i suoi sostenitori più ostinati non si accaniranno a sostenere una tale assurdità. A questa domanda devono pensare, rispondere e provvedere in maniera non superficiale proprio gli stessi uomini che se la trovano di fronte. Sicuramente ciò non avverrà senza difficoltà, forse neanche senza lotta. In ogni caso non bisogna semplicemente affidare questi problemi alle future generazioni. Considerando il loro carattere complicato, tra l’altro a causa della necessità di dover includere in essi sia la questione della varietà specificatamente culturale del programma delle future attività, sia quella della novità nelle sue forme di realizzazione, questi problemi devono essere affrontati già oggi. Ciò è soprattutto dovere dell’UNESCO, che in tale ambito non ha fatto neanche il primo passo. E il tempo stringe!

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Riferimenti bibliografici (del curatore) •

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Schaff, Adam; Sève Lucien 1975 Marxismo e umanesimo, Bari, Dedalo.

UBALDO FADINI

TECNONOMADISMO Espressioni del sapere e figure dell’umano

1. Per una antropologia del virtuale n Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie ( 1997) P. Lévy prende ancora una volta posizione

una “irrealtà” o comunque indichi una “realtà” in attesa di una sua realizzazione materiale. Sulla scia delle riflessioni di G. Deleuze, il virtuale non è visto in opposizione al reale, bensì all’at-

nei confronti di coloro che attribuiscono agli attuali sviluppi tecnoiogici, soprattutto nell’ambito delle comunicazioni, una valenza “disumanizzante”, non riuscendo a capire come tutto si giochi “nella scelta tra varie teenologie e tra i differenti usi delle stesse tecniche”. E ancora: “Si deplora la erescente confusione tra reale e virtuale senza aver capito niente della virtualizzazione che è tutto fuorché un depotenziamento della realtà del mondo, anzi è un’estensione delle potenzialità dell’umano” 1. Il rinvio è diretto ad un altro testo dello stesso Lévy, Il virtuale ( 1995), in cui il fondamento tecnico della virtualità, la digitalizzazione, viene indagato soprattutto in una prospettiva antropologica. Ma più importante è qui il complesso delle annotazioni con il quale Lévy presenta la nozione di virtuale, che può essere afferrata appunto secondo più sensi: un senso è quello tipicamente connesso con l’informatica, un altro è quello - pericolosamente - legato al senso “comune”, corrente, infine un ultimo senso è per così dire “filosofico”. Proprio quest’ultimo è particolarmente interessante perché indica nel virtuale “ciò che esiste solo in potenza e non in atto”, un campo di forze o di problemi che tende all’attualizzazione. Per Lévy, il virtuale è una dimensione - oggi “tecnicamente” sempre più importante - del reale e ciò contraddice l’idea diffusa che esso stia per

tuale, il che significa anche che virtualità e attualità sono due modi di essere, In quest’ottica va introdotta la distinzione tra possibile e virtuale tematizzata proprio da Deleuze, interprete acuto di H. Bergson, in maniera particolare nel suo Differenza e ripetizione (1968). Scrive Lévy: “Il possibile è già interamente costituito, ma rimane nel limbo, Si realizzerà senza cambiare nulla della sua determinazione e della sua natura; è un reale fantasmatico, latente. Il possibile è esattamente come il reale: gli manca solo 1’esistenza. La realizzazione di un possibile non è una creazione, nel senso pieno del termine, poiché la creazione comporta anche la pro­ duzione innovativa di una forma o di un’idea. La differenza tra possibile e reale è dunque puramente logica. Il virtuale, a sua volta, non si oppone al reale ma all’attuale. Contrariamente al possibile, statico e già costituito, il virtuale è come il complesso problematico, il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un evento, un oggetto o un’entità qualsiasi, e che richiede un processo di trasformazione: l’attualizzazione. Tale complesso problematico fa parte dell’entità considerata, anzi ne costituisce uno degli aspetti di maggiore rilievo. (...) Da un lato, Ventità ha in sé e produce le proprie virtualità: un evento, per esempio, riorganizza una problematica anteriore, ed è suscettibile di ricevere delle interpreta-

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zioni diverse. D all’altro, il virtuale co­ stituisce l ’entità: le virtualità inerenti a un essere, la sua problematica, il nodo di tensioni, di vincoli e di progetti che 10 animano, gli interrogativi che lo muo­ vono sono una parte essenziale della sua determinazione”2. L’attualizzazione è quindi la crea­ zione di qualcosa di nuovo (una forma, una idea, una soluzione...) a partire da una configurazione mobile di forze: Lévy rinvia alla dinamica dell’attualizzazione intesa come soluzione di un pro­ blema, il che vuol dire insistere sul com­ plesso problematico come portatore di una virtualità di cambiamento. Alla ri­ levazione del reale come qualcosa di si­ mile al possibile e dell’attuale come qualcosa di dissimile dal virtuale (data l’inventiva, la creatività, che lo fonda) si collega una comprensione del virtua­ le come pratica. Alla domanda su che cos’è la virtualizzazione si può allora rispondere in questi termini: “La vir­ tualizzazione può essere definita come 11 movimento contrario all’attua lizzazione. Essa consiste nel passaggio dall’attuale al virtuale, ‘nell’elevare a potenza’ l’entità considerata”. E im­ portante qui sottolineare che per Lévy la virtualizzazione non è, come molti ri­ tengono, la traduzione del reale in un insieme di possibili, non vuol dire cioè derealizzazione: essa implica invece un cambio di identità, “uno spostamento del centro di gravità ontologico dell’og­ getto in questione”, che non si defini­ sce più attraverso la sua attualità, il suo porsi come una “soluzione”, ma nel col­ locarsi all’interno di un campo proble­ matico, di una problematica generale,

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in modo tale da svilupparsi secondo le linee di orientamento di quest’ultima. Scrive Lévy: “L’attualizzazione proce­ deva da un problema alla sua soluzio­ ne. La virtualizzazione passa da una so­ luzione data a un (altro) problema. Es­ sa trasforma l’attualità iniziale nel caso particolare di una problematica più va­ sta sulla quale viene spostato l’accento ontologico. Così operando, la virtualiz­ zazione fluidifica le differenze istituite, aumenta i gradi di libertà, fa del vuoto che scava un elemento motore. Se la vir­ tualizzazione fosse solo il passaggio da una realtà a un insieme di possibili, sa­ rebbe derealizzante. Ma essa implica al­ trettanta irreversibilità nei suoi effetti, indeterminazione nel suo processo e in­ ventiva nel suo sforzo, quanto l’attualizzazione. La virtualizzazione è uno dei vettori più importanti della creazione di realtà”3. Se il passaggio dall’attuale al vir­ tuale ricorda il rapporto dell’atto con la potenza, si può anche affermare, a pro­ posito del virtuale come “nodo di ten­ denze e di forze che accompagna una situazione”, che i debiti filosofici (e teo­ logici) di una simile tematica pesano al­ quanto sulle potenzialità del suo dive­ nire. E stato E. Livraghi a mettere tra i primi in discussione radicale le caratte­ rizzazioni meto-fisiche dell’antropolo­ gia del virtuale delineata da Lévy, nel momento in cui l’attualizzazione viene vista come “un vero e proprio divenire che di rimando alimenta il virtuale stes­ so”. Livraghi ricorda anche come la vir­ tualizzazione si “presenti”, nell’ottica dell’autore di L ’intelligenza collettiva, come “eterogenesi, divenire altro, pro-

cesso di accoglimento dell’alterità”, visto poi che essa “fluidifica le difierenze istituite”. Ma da chi sono istituite le differenze? “Da dove parte tutto il processo, dove ha luogo tutto il movimento?” - E ancora: “C’è un sostrato che sostiene un tale divenire? (...) Dove si colloca l’entità originaria che conferisce movimento alla problematica e apertura alla richiesta” (rispetto a cui l’attualità di partenza si pone come risposta)? Lévy sembra indicarlo quando sostiene - sempre in II virtuale - che la virtualizzazione è “sorgente dei tempi, dei processi, delle storie”, in quanto essa “comanda”, senza però determinarle, le attualizzazioni (“la virtualizzazione esce dal tempo per arricchire l ’eternitcr). E rispetto a tutto ciò che si artieóla la critica di Livraghi: “Se il linguaggio ha ancora un senso, questa entità superiore - per la quale la virtualizzazione ‘esce dal tempo’, cioè dal divenire - si colloca, appunto, nell’eterno. È un oltre-mondo. Siamo, cioè, dalle parti dell’Ente incondizionato che reca in sé le differenze. O forse dell ’Ipercorteccia che governa i ‘circuiti’ (precablati, ovviamente), che è in ogni dove e in nessun luogo, come l’Uno di Piotino. O magari dalle parti di una Ragione Epistemica digital-elettronica, o di un ‘pensiero di pensiero’ interfacciato con il mondo ‘attualizzato’ e negato in quanto negativo, cioè in quanto ‘differenza fuori di sé’”4. Anche C. Formenti ha scritto delle pagine molto acute sulla nozione di “intelligenza collettiva” delineata da Lévy, che presenterebbe “il difetto di ricondurre il discorso sulla tecnica nell’ambito di

una mistica dell’evoluzione” (sostenuta dal richiamo alla elaborazione, fra il X e il XII secolo, di “un’interpretazione emanazionista e neoplatonica della metafisica aristotelica”: su ciò si veda il capitolo 5 della prima parte di L ’intelligenza collettiva, significativamente intitolato “Coreografia dei corpi angelici. Ateologià dell’intelligenza collettiva”). Giustamente Formenti ricorda questo lungo “passo” di Lévy, in cui l’autore si abbandonerebbe, dopo aver cercato di evitare derive ingenuamente mistiche, “a entusiastiche celebrazioni del mistero della “comunione virtuale ”: “Il mio cor­ po angelico nel mondo virtuale esprime il mio contributo all’intelligenza collettiva ola mia posizione particolare rispetto al sapere comune. Ora, questo corpo an­ gelico non raggiunge mai l’estensione completa del mondo virtuale che lo contiene e che è come ‘l’Angelo’ del collettivo. Nello spazio emanato dall’intelligenza collettiva, io incontro così l’altro essere umano, non più come un corpo di carne, una posizione sociale, un proprietario di oggetti, ma come un angelo, un’intelligenza in atto - in atto per lui ma in potenza per me. Se accetta di svelarmi il suo volto di luce, quando scoprirò il volto angelico dell’altro, contemplerò la sua vita nel sapere o il suo sapere di vita, la proiezione del suo mondo soggettivo sul cielo immanente dell’intellettuale collettivo. Del resto non so quello che l’altro sa, il nostro divenire è diverso, c’è in questo spazio una figura di desiderio singolare, incomparabile: il suo corpo angelico me la rivela come enigma e alterità. E così che l’altro mondo o il mistero - della teologia diventa il

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mondo dell’altro - o l’enigma - dell’antropologia”5. In una concezione della virtualizzazione che ne rifiuta la lettura in termini di derealizzazione, Formenti vede il tentativo di smarcarsi dalle critiche del virtuale appunto “come derealizzazione, espropriazione detta, fisicità del territorio del corpo”, che emergono nei lavori più recenti di J. Baudrillard e P. Virilio6: ma ciò che forse è più interessante è che per Lévy la virtualizzazione significa “nomadismo”, nel senso di un distacco dal “qui e ora”, in definitiva “deterritorializzazione”, così come emerge dagli esempi della comunità virtuale (un gruppo di persone che si emancipano dal vincolo della distanza geografica per lo -, sviluppo di certi interessi o per la nsolu,. , , . . ,, . . . zione di determinati problemi) e dell ìm. . . .. . presa virtuale, in cui la presenza fisica ... . . . . dei lavoratori nello stesso luogo mate. , . . naie viene sostituita dalla partecipazio. r , ne a una rete di comunicazione elettro. . . nica che favorisce la cooperazione sulr la base proprio dell’utilizzo delle risorse informatiche incessantemente ngenerate. In questo senso va considerata la proposta di Lèvy di far corrispondere alla deterritorializzazione costante dei flussi economici, umani e dell infoimazione - all emergenza complessiva di un nuovo nomadismo antropologico - una deterritorializzazione dell’umanizzazione stessa, vale a dire “la socializzazione generale dell’educazione, della formazione e della produzione di qualità urnane”, in grado di costituire un legame sociale a partire dal protagonismo pienamente dispiegato dell’intelligenza colletti va, della sua produzione.

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2. Elementi di tecnonomadismo Ma che cos’è l’intelligenza collettiva? Il suo fine e il suo fondamento - se­ condo Lévy - sono quelli del riconoscimento e arricchimento reciproco delle persone, ed essa può essere vista come “un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata temP° reale, che porta a una mobili­ tazione effettiva delle competenze , il cu*Pr°gett0 sembra essere quello della emersione di un nuovo spazio antropol°gico>quello del sapere, in cui 1 intelHSenza e H saPer fare deSH uomini ven~ Sano infme affermate come fonte di ogni ricchezza- E a questo punto che s’impone il rinvio alla teoria degli spazi anr . tropologici, che Levy delinea soprattutto ,, . , ,, in L intelligenza collettiva, laddove si . individuano gli spazi di significazione . , .\ . ... aperti dall umanità nel corso della sua . T . , . storia. Lo spazio del sapere sarebbe ap., . . . , punto il nuovo spazio antropologico che • „ , , .. . ,,, si sta delincando a partire dall assunzione deJ sapere come «prim0 motore» dj SV]luppo deiruman0 stesso e che suc_ cederebbe, senza però annullarli, agli spazi preCedenti: la Terra, il Territorio, lo Spazio delle merci Lèvy ci dice che j0 Spazj0 antropologico “è un sistema dj prossimità (spazio) proprio del mondo ornano (antropologico) e dunque dipendente dalle tecniche, dai significati, daj linguaggio, dalla cultura, dalle con­ venzioni, dalle rappresentazioni e dalle emozioni umane. Per esempio, secondo lo spazio antropologico del ‘territorio’, due persone che si trovino rispettivamente da una parte e dall’altra di una linea di frontiera sono tra loro più ‘lon-

tane’ rispetto a persone appartenenti allo stesso paese, anche se nello spazio della geografia fisica il loro rapporto è inverso”7. La Terra è il primo grande spazio di significazione aperto dalla specie umana e si basa sui tre elementi specifici deWhomo sapiens: “il linguaggio, la tecnica e le forme complesse di organizzazione sociale”. Vale anche in questo contesto un “tema”, caro alla tradizione dell’antropologia filosofica del Novecento (da M. Scheler a H. Plessner e A. Gehlen), che si sviluppa attorno alla coppia concettuale “ambiente/mondo”: gli uomini hanno infatti un “mondo”, una “Terra” costitutivamente “aperta”, fluida, in divenire, rispetto alla quale gli uomini delineano, attraverso i riti e i miti, le forme sempre instabili del loro abitarla e del loro identificarsi; gli animali vivono in “ambienti” rigidamente delimitati, in vere e proprie “nicchie ecologiche”. Il secondo spazio antropologico è quello del territorio e si disegna a partire dal Neolitico con l’agricoltura, la scrittura, le città e gli stati. Si tratta di uno spazio di sovrapposizione, sia pure parziale, a quello della Terra, in cui si tenta di istituire e rafforzare delle appartenenze ad entità territoriali definite secondo logiche di inclusione e di esclusione. Scrive Lévy, sempre particolarmente attento allo specifico - in termini di variazioni di identità, di regimi segnici, di figure del tempo e dello spazio - di ciascuno spazio antropologico: “In questo secondo spazio antropologico, le modalità di conoscenza dominanti sono fondate sulla scrittura: hanno inizio la storia e la diffusione dei saperi di ti-

po sistematico, teorico o ermeneutico, L’elemento cardine dell’esistenza non è più la partecipazione al cosmo, ma il legame con un’entità territoriale (appartenenza, proprietà ecc.), definita dalle proprie frontiere. Ancora oggi ciascuno, dopo il proprio nome, ha un ‘in­ dirizzo’, che di fatto rappresenta la sua identità sul Territorio dei sedentari e dei contribuenti. Anche le istituzioni all’in­ terno delle quali viviamo sono territori, o giustapposizioni di territori, con le loro gerarchie, le loro burocrazie, i loro sistemi di regole, le loro frontiere, le lo­ ro logiche di appartenenza e di esclu­ sione”8. Il terzo spazio antropologico - quel­ lo delle merci - si sviluppa a partire soprattutto dal XVI secolo, con l’apertura di ciò che può essere considerato un mercato mondiale, e il suo principio organizzatore è quello del flusso (“flusso di energie, di materie prime, di merci, di capitali, di mano d’opera, d ’informazioni”). Questo spazio è percorso da un movimento di “deterritorializzazione” (per riprendere la terminologia di Deleuze-Guattari e in particolare del ter­ zo capitolo di L ’anti-Edipo, intitolato “Selvaggi, barbari, civilizzati”) che conduce alla subordinazione dei territori ai flussi economici. La ricchezza non pre­ suppone più semplicemente il controllo dei confini, delle frontiere, bensì quello dei flussi. Si è ormai consolidato il “dominio” dell’industria, del trattamento incessante “della materia e dell’informazione”. La stessa scienza sperimentale è una modalità conoscitiva origi­ nanamente da riferirsi ai flussi del nuovo spazio antropologico, anche se essa

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si è ormai trasformata, “a partire dalla fine Seconda guerra mondiale”, in una “tecnoscienza”, “animata da una dinamica di ricerca e innovazione economica”: “Il binomio della scienza classica teoria/esperienza subisce la concorrenza di una progressiva diffusione della simulazione e della modellizzazione digitale, che rimette in discussione gli schemi abituali dell’epistemologia e fa presentire le illuminazioni di un quarto spazio. Possedere un’identità, esistere ali’interno dello spazio dei flussi mercantili, significa partecipare alla produzione e agli scambi economici, occupare una posizione nei nodi delle reti di produzione, transazione e comunicazione”9. Lévy indica come il delincarsi, comunque ancora incerto, di uno spazio antropologico caratterizzato dal protagonismo del sapere e dell’intelligenza collettivi porti con sé la problematizzazione ulteriore, rispetto al passato, della già complessa nozione di identità (sociale), soprattutto nel momento in cui le reti economiche e le potenze territoriali dipendono sempre di più “dalla capacità rapida di apprendimento e di immaginazione collettiva degli esseri urnani che le popolano”. Indubbiamente il saper fare dell’uomo specifica tutti gli spazi antropologici, la loro stessa artilla z io n e sociale, e allora bisogna individuare con chiarezza il perché della definizione del “nuovo orizzonte” di civiltà come appunto “spazio del sapere”, Dice ancora Lévy: “La novità in questo campo è perlomeno tripla: concerne la velocità di evoluzione dei saperi, la massa di persone chiamate a imparare e prò-

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durre nuove conoscenze, e riguarda in­ fine la comparsa di nuovi strumenti (quelli del cyberspazio) in grado di far apparire, al di sotto delle nebbie infor­ mazionali, paesaggi inediti e distinti, identità specifiche, peculiari a questo spazio, nuove figure storico-sociali”10, Di particolare rilievo è la rapidissima evoluzione delle scienze e delle tecniche, in grado di apportare la necessaria strumentazione per lo sviluppo dei “collettivi intelligenti”, delle moltitudini in­ ventive continuamente stimolate a imparare e a innovare per poter vivere all’interno di una realtà estremamente complessa. Questa velocità ha ricadute importanti sul quotidiano, sul lavoro, sulla comunicazione, sulle forme stesse della relazione con il corpo e con lo spazio: ciò che oggi emerge dalle dina­ miche di crescita del sapere non può che investire tutte le dimensioni della vita sociale. Considerato in questi termini, lo spazio del sapere è un progetto in fase di attuazione, mai però risolto, che richiede ad ognuno di dotarsi di “strumenti istituzionali, tecnici e concettua­ li” per “navigare” l’oceano immenso dell’informazione, in modo tale cioè da “orientarsi e riconoscere gli altri in funzione degli interessi, delle competenze, dei progetti, dei mezzi e delle reciproche identità all’intemo del nuovo spa­ zio”. Tenuto fermo il protagonismo dei gruppi umani in grado di costituirsi come intellettuali collettivi, di mettere cioè in comune la loro sensibilità, immaginazione, intelligenza, si può presentare quel particolare insieme di sviluppi tecnologici che è l’informatica della co­ municazione come una sorta di “infra-

struttura tecnica del cervello collettivo”, di “ipercorteccia delle comunità viventi”, che non va vista come il segnale dell’affermazione di un processo di sostituzione dell’umano (o di avvicinamento “a un’ipotetica intelligenza artificiale”), bensì come elemento capace di favorire la costituzione di collettivi intelligenti “in cui le potenzialità sociali e cognitive di ciascuno possano svilupparsi e ampliarsi reciprocamente”. Tutto ciò spinge, in un periodo di rinnovato nomadismo antropologico, a rifiutare forme di canalizzazione rigida della trasmissione di conoscenze specifiche che variano continuamente: “Alla deterritorializzazione dei flussi economici, umani e dell’informazione, all’emergenza di un nomadismo antropologico proponiamo, dunque, di rispondere con una deterritorializzazione dell’iniziazione e delfumanizzazione stessa. In nome della libertà, non c’è forse bisogno di strumenti che rafforzino l’autonomia e aumentino le potenzialità di quanti se ne servono piuttosto che abituarli alla dipendenza? Ecco perché la trasmissione, l ’educazione, l ’integrazione, la riorganizzazione del legame sociale devono cessare di essere attività separate. Devono essere compiute dall’intera società verso la sua stessa totalità, e potenzialmente da qualsiasi punto sociale in movimento verso qualsiasi altro, senza una canalizzazione preliminare, senza passare attraverso qualche organo preposto”11. La questione che va quindi posta è quella delle tecniche più adeguate per raggiungere nel modo migliore il risultato della organizzazione e della vaio-

rizzazione dei collettivi intelligenti (che ovviamente non necessitano soltanto di esse.. Lévy riconosce nello sviluppo delle tecniche contemporanee (con una particolare attenzione alle tecniche di comunicazione) un movimento che tende sempre di più a differenziare le tecniche “molari” (“che considerano i loro oggetti in blocco, alla cieca, in modo antropico e sommario”) dalle tecniche “molecolari”, che invece evidenziano un approccio molto “fine” agli oggetti e ai processi da esse investiti. Le tecniche molecolari, diversamente da quelle molari (si noti ancora un riferimento alla terminologia filosofica di Deleuze e Guattari), sono “economiche” (“riducono al minimo gli scarti e gli sprechi”) e si presentano come “ultrarapide”, in grado di agire “sui propri oggetti a livello di microstrutture, dalla fusione a freddo alla superconduttività, dalle nanotecnologie all’ingegneria genetica”. Prendendo in considerazione i tre grandi ambiti di sviluppo delle tecniche molecolari, vale a dire il controllo della vita, della materia e dell’informazione, Lévy articola un ragionamento acuto sulle dinamiche di trasformazione di questi settori fondamentali dell’attività umana che ha come fine quello di individuare la loro influenza sulle tecnologie politiche rivolte alla “massima valorizzazione delle qualità umane”, alla crescita e alla diversificazione delle “potenzialità d’essere”. Rispetto alla vita, Lévy osserva come ormai si debba aggiungere qualcosa alla rilevazione della selezione naturale e di quella artificiale. La prima è “una tecnologia che la vita applica a se stessa”, nel senso che

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la natura “crea e conserva le specie senza uno scopo predefinito”, con tempi che sono - una volta commisurati a quelli dell’esistenza umana - di “una lentezza infinita”: essa è la tecnologia biologica di partenza, per così dire, e viene seguita dalla seconda grande tecnologia biologica, quella appunto artificiale, che innova i meccanismi di base delia selezione naturale “'finalizzando e accelerando la formazione delle specie. I suoi processi (si pensi alla selezione deliberata e all’addomesticamento di animali e piante) sono più rapidi di quelli della selezione naturale, ma risultano comunque pur sempre estesi a più generazioni. Nel suo agire a livello di popolazioni (“con incroci e scelta dei riproduttori”), la selezione artificiale si rivela come una tecnologia molare, “lenta e imprecisa”, in quanto “controlla i caratteri degli esseri viventi solo in modo molto indiretto, quasi probabilistico”. A queste due tecnologie biologiche bisogna oggi affiancare quella biologia molecolare che consente di ottenere delle formidabili tecniche di controllo sul piano della scrittura fondamentale che governa/regola “le forme e le funzioni degli organismi”. Si inizia ormai a manipolare i geni e la creazione di una speeie, legata in precedenza a tempi geologici (selezione naturale) e a tempi storici (selezione artificiale), è oggi possibile in tempo reale (“le biotecnologie si calcolano in mesi-uomini, in attrezzature e in dollari”): “Le biotecnologie sono molecolari non solo per la scala su cui agiscono, ma anche concettualmente, perché promettono una modellizzazione operativa della materia vivente e

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delle sue produzioni, a partire da una comprensione raffinata delle micro­ strutture degli organismi e dei loro meccanismi di riproduzione, perché raggiungono esattamente i recettori delle molecole, perché agiscono sul dettaglio delle interfacce, su accoppiamenti specifici, su dinamiche di reazione di circuiti microscopici. La formula delle biotecnologie contemporanee potrebbe essere: gene per gene o molecola per molecola” 12. Per quanto concerne la materia, Lévy distingue tre grandi categorie di tecniche di controllo: meccaniche, a caldo e a freddo. Le tecnologie meccaniche sono state le prime a manifestarsi nella storia dell’umanità e controllano i punti di applicazione delle forze umane, animali, naturali, la loro trasmissione e infine l’assemblaggio dei vari materiali ottenuti. Le tecniche a caldo sono quelle che si sviluppano a partire dall’accensione e daH’alimentazione del fuoco. Con le tecnologie termodinamiche della Rivoluzione industriale della fine del XVIII secolo, con l’uso sempre più diffuso delle macchine a vapore e con l’affermazione della cosiddetta “civiltà del carbone e dell’acciaio”, si fanno dei passi in avanti veramente straordinari lungo la via del controllo sempre più proficuo della materia. È nel campo dell’industria chimica che si è avuta poi la maggiore utilizzazione delle tecnologie a caldo, che sono in grado di tra­ sformare la materia in grande quantità, Lévy osserva come le tecniche termiche possano essere considerate molari, senza dimenticare il fatto che le indu­ strie che le impiegano sono dispendio-

se dal punto di vista energetico e comunque inquinanti. Le tecnologie a freddo sono a un livello ancora iniziale, soprattutto se si guarda ai “progressi delle emulsioni”, alla “chimica delle superfici, della cristallografia, delle nuove ceramiche, dei ‘materiali intelligenti’ in genere”. Si può pensare allo sviluppo delle tecniche ultraraffinate della materia in termini di realizzazione delle operazioni classiche delle tecnologie meccaniche (controllo dei punti di applicazione delle forze, loro trasmissione e assemblaggio delle “risposte” materiali), con la decisiva differenza che cón le prime tecniche questi processi meccanici saranno applicati “a livello di atomi e molecole”. Gli “effetti” di questa applicazione “saranno uguali a quelli delle vecchie tecnologie a caldo: la modificazione delle qualità intrinseche dei materiali. In questo caso, però, le trasformazioni avverrebbero quasi senza errori e con un dispendio minimo di energia, utilizzata solo là dove è necessaria e al momento opportuno. All’incrocio tra la fisica, la chimica e la scienza dei materiali, le nanotecnologie sembrano annunciare un controllo della microstruttura della materia che nulla avrà da invidiare, quanto a precisione, ai suecessi dell’informatica e delle biotecnologie nei loro rispettivi nei loro rispettivi ambiti, che potrebbero anche esserne arricchiti di riflesso” 13. È possibile anche immaginare, vista la grande precisione di questa nuova ingegneria chimica (e “la prospettiva di una fabbricazione industriale di macromolecole citomo per atomo"), che quest’ultima potrà presto soppiantare la chimica industria-

le delle miscele a caldo e alcuni ricercatori “lasciano intravedere la p o ssie­ lità di microsensori, microcomputer e microrobot su scala molecolare, che innesteranno nei materiali del futuro intelligenza ‘ripartita’, dotandoli così di capacità di produzione e riproduzione autonoma, di reazione programmata ai mutamenti deH’ambiente” 14. Per il complesso delle tecniche di controllo dei messaggi vale la distinzione in tre grandi gruppi: le tecniche somatiche, quelle medianiche e quelle digitali. Le prime rinviano al protagonismo del corpo nella produzione di se­ gni: l’energia e la sensibilità corporee sono di fatto responsabili del carattere plurimo del messaggio somatico, strettamente connesso con il suo contesto di collocazione. Lévy sottolinea come la parola, ad esempio, sia sempre accompagnata dalla gestualità e dalla mimica facciale, così come la danza si percepisce sempre in una cornice sonora. De­ cisivo è però il fatto che la tecnica somatica non può mai riprodurre esattamente il messaggio somatico. Quest’ultimo, “sebbene sia riconducibile a tra­ dizioni e generi, è sempre unico poiché è inscindibile da un contesto mobile”, Le tecniche medianiche, che possono essere qualificate come molari, sono ri­ volte ad assicurare una fissazione e una riproduzione il più possibile soddisfacenti dei messaggi, che appunto possono continuare a essere emessi in assenza del corpo degli emittenti: decisivo è l’avvento della stampa, la quale permette la riproduzione e la diffusione massiccia di testi e immagini, inaugurando quell’epoca dei media che ha

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il suo culmine nel periodo che va dalla metà del XIX secolo alla metà del XX, con la fotografia, la registrazione sonora, il telefono, il cinema, la radio, la televisione. E proprio di questi media favorire una riproduzione e una diffusione dei messaggi in un ordine di grandezza non raggiungibile dai mezzi corporei, ma così facendo “li decontestualizzano, privandoli della capacità di adattarsi alle situazioni che essi avevano quando erano emessi da corpi viventi, Con l’eccezione, ma solo parziale, del telefono (un colpo di telefono raggiunge un solo ricettore), il messaggio mediatizzato non interagisce più in maniera costante con la situazione che gli conferisce senso. È questo il motivo per cui il significato trasmesso da questi messaggi viene recepito dalla maggioranza dei destinatari solo in proporzione ridotta. Sul versante della ricezione, si può rimediare a questo difetto con il dispiegamento di un’attività ermeneutica (la lettura come lavoro intensivo di ricreazione). Sul versante deH’emissione, ci si può limitare al minimo comune denominatore di coloro che compongono il ‘pubblico’. I media sono teenologie molari che agiscono sui messaggi solo dall’esterno, complessivamente e in modo sommario” 15. II carattere principale dei media “classici” è dato dal fatto che essi non generano segni, ma si limitano a fissare e a riprodurre/trasportare messaggi prodotti dal colpo. Lévy sottolinea però come la distinzione tra originale e riproduzione sia stata ben presto contestata dal cinema, in cui tutto proviene da una registrazione, ma il messaggio

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globale, il film stesso, risulta essere il prodotto di un’operazione di montaggio. È proprio dei media possedere anche delle potenzialità generative, che mettono in discussione l’idea di una loro semplice relazione, in termini di “re­ sa”, con determinati messaggi corporei “originali”. A ragione, lo studioso dt\Yintelligenza collettiva insiste sull’esempio di certa musica prodotta in studio, con l’utilizzo di tecniche di amplificazione o di missaggio particolarmente sofisticate16, ma ancor di più richiama proprio la scrittura come “medium archetipico”, come “cardine semiotico” di forme espressive e comunicative che non possono essere semplicemente ricondotte alla riproduzione della parola (alla scrittura “appartengono da sempre pratiche di montaggio, missaggio e combinazione spaziale”), Tutto ciò conduce all’affermazione che la tecnica digitale ha da sempre abitato l’ambito medianico, almeno come potenzialità, in quanto essa si pone come una sorta di “assolutizzazione del mon­ taggio”, vale a dire dell’operazione di incessante e sempre aperta combinazione dei “più minuscoli frammenti del messaggio”. Invece di montaggio, si parla, a proposito della tecnica digitale, di calcolo o trattamento dell’informazione, di computazione, ma si tratta ancora così delle vecchie operazioni della scrittura in un’ottica di accelerazione stimolata dall’intervento essenziale deila macchina. In questo senso, Lévy serive: “L’informatica è una tecnica molecolare perché non si accontenta di ri­ produrre e diffondere i messaggi (cosa che comunque fa meglio dei media clas-

sici), essa permette soprattutto di generarli, di modificarli a piacimento, di conferire loro capacità di reazione molto raffinate grazie a un controllo totale della loro microstruttura. La tecnica digitale consente la costruzione di messaggi, la loro modificazione e la loro interazione, atomo d’informazione per atomo, bit per bit” 17. Il rinvio ulteriore è ovviamente all’ipertesto digitale, alle banche dati, ai programmi di grafica, alle simulazioni interattive e così via, cioè a tutte quelle “potenzialità di testi”, di suoni, di qualità tattili che possono essere concretizzate/attualizzate quando e come si desidera. Lo sviluppo della tecnica digitale vede dunque un ritrovamento del carattere di sensibilità che specifica le tecnologie corporee, ma in un senso che ne esalta le potenzialità e ne rivela l’orizzonte di articolazione, sempre di più di-segnato dal con-fondersi dell’umano con il macchinino: “Il trattamento molecolare dell’informazione apre un cyberspazio che interconnette virtualmente tutti i messaggi digitalizzati, moltiplica i ricevitori e gli emittenti di segnali, generalizza le interazioni e i calcoli in tempo reale. Il cyberspazio tende a ricostruire su vasta scala il piano liscio, il continuum indivis, l’amnio vivente e fluttuante che unisce i segni e i corpi, come pure i segni tra loro, prima che i media isolino e fissino i messaggi. Ciascuna delle tecniche molecolari condiziona le altre. Senza i progressi nel campo dell’informatica, l’ingegneria genetica non sarebbe sicuramente capace di così alte prestazioni e le nanotecnologie non sarebbero state neppure immaginate. Inversa-

mente, le tecno-scienze dei materiali contribuiscono largamente al progresso del digitale”18. Interessante è il tentativo “politico” di Lévy di legare le risorse delle tecno­ logie molecolari, fini, al motivo della “regolazione dei gruppi umani”, al tema della costituzione di una collettività intelligente sempre più in grado, per via appunto tecnologica, di valorizzare il proprio patrimonio “qualità per qualità”, Sono proprio le tecnologie molecolari, con il loro rapido progresso nel trattamento della materia, dell’informazione e del vivente, a rendere possibile delle modalità d ’intervento particolarmente precise, mirate, realizzate in termini qualitativamente assai soddisfacenti. Una tale evoluzione costante dei mezzi (e anche dei fini) può essere affermata, a pa­ rere dello studioso delle “tecnologie dell’intelligenza”, anche nella “gestione degli affari umani”, a livello di “politica molecolare” o “nanopolitica”, capace di sostenere e rafforzare quella socialità degli esseri umani che vive de­ gli atti e delle qualità che questi ultimi riescono a concretizzare. E certamente il cyberspazio a delinearsi come la dimensione antropologica che tiene e stimola insieme il moltiplicarsi dei collettivi intelligenti, molecolari: nel momento in cui esso si rende accessibile e navigabile e le tecniche molecolari lo rendono più facilmente operativo (a basso costo), l’intelligenza collettiva nel suo complesso e in tempo reale trova pra­ prio in tale infrastruttura tecnica la possibilità di rinnovare il legame sociale, esaltandone la qualifica di immanenza (contro qualsiasi riproposizione di un

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potere di controllo nei confronti di per3. Dimensioni dell ’antropologia delsone e collettivi, in cui si manifesta la tecnica l’idea di un passaggio per la trascen­ denza). Le tecnologie molecolari, rifeTenendo presente il motivo della po­ nte all’umano, propongono strumenti litica molecolare sviluppato da Lévy, si che valorizzano persone e gruppi, fa- può ora prendere in considerazione l’anvorendo anche il riconoscimento reci- tropologia della tecnica delineata da H. proco e la comunicazione/trasmissione Popitz, con il suo tentativo di legare tra delle singole qualità: “Nel linguaggio loro l’attenzione tecnologica, quella bio­ proprio alle tecniche della materia, si logica e quella sociologica. Popitz in­ parla di controllo delle microstrutture, dividua sette tecnologie fondamentali ma passando alla politica molecolare si nel corso della storia dell’umanità. La tradurrà quest’idea nell’idioma del ri- prima è quella degli utensili, con i quaflessivo, del soggettivo, del rispetto li si scoprono i vantaggi dell’intervendeH’umano: sollecitazione dell’espres- to dei mezzi di produzione sul dato nasione attiva dei singoli, rilancio siste- turale, il che stimola poi a “creare anmatico delle creatività e delle compe- che mezzi di produzione per fabbricare tenze, trasformazione delle diversità in mezzi di produzione”. È in questo sensocialità.. .” 19. La politica molecolare so che la tecnica si fa sempre più indicosì come la nanotecnologia rispetto al- retta, sempre più mediata, e in tal mo­ la costruzione delle proprie molecole do produttiva, tanto che si può affermare “atomo per atomo” - stimola le proprie che “la storia della tecnica è la storia de“ipercortecce comunitarie” nella ma- gli aggiramenti produttivi”. Altre tre tecnierapiù precisa possibile, “qualità per nologie fondamentali si susseguono a qualità”, “favorendo la delicata con- partire dalla sedentarizzazione e sono nessione delle capacità cognitive, del- comprese sotto la nozione di “prima rile fragili fonti d’iniziativa e di imma- voluzione tecnologica”: la tecnologia ginazione”: “Come i messaggi del cy- dell’agricoltura (8.000 a. C.), quella delberspazio interagiscono e si chiamano la lavorazione, ceramica e metallurgia da un capo all’altro di una superficie (6.000 a. C.) e quella dell’edilizia urcontinua deterritorializzata, i membri bana (3.000 a. C.). Le ultime tre tecno­ dei collettivi molecolari comunicano logie essenziali, che danno corpo alla trasversalmente, reciprocamente, al di “seconda rivoluzione industriale”, si arlà delle categorie, senza passare per una ticolano in età moderna: la prima è quélforma gerarchica, piegando e ripiegan- la delle macchine (a partire dalla se­ do, cucendo e ricucendo, complicando conda metà del XVIII secolo), la sea piacere il grande tessuto metamorfi- conda è quella della chimica (prima co delle città pacifiche”20. metà del XIX secolo), la terza è quella dell’elettricità (seconda metà del XIX secolo). Il risultato più rilevante di que­ sta rivoluzione tecnologica, che si ac-

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compagna a radicali e profondi mutamenti sociali, è l’automazione della pròduzione, la maturazione e realizzazione di quelle tendenze all’autopoieticità che si presentano già all’inizio della macchinizzazione. È interessante osservare che nell’analisi di Popitz le più recenti evoluzioni tecnologiche non vengono “distaccate” dal complesso delle sette tecnologie fondamentali sopra richiamate. Questi sviluppi sono l’elaborazione microelettronica dell’informazione e le due tecnologie del nucleo (nucleo atomico e nucleo cellulare), di cui non si rimuove comunque la portata di - estrema - novità: “L’elaborazione microelettronica dell’informazione non solo accumula sapere - come libro - ma lo pròduce. Il computer produce un sapere che non gli ha trasmesso nessuno. Quando, provando diverse combinazioni dell’informazione già accumulata, la sintetizza ex novo, il computer riproduce il procedimento del pensiero. Si potrebbe anche dire che simula le capacità che furono necessarie per la sua costruzione, Questo fatto non si può più inquadrare nelle tecnologie produttive delle due già menzionate rivoluzioni tecnologiche. I risultati dell’informatica sono di natura cognitiva. Se qui si tratta di una linea collaterale dell’evoluzione tecnologica oppure di una dimensione destinata a diventare dominante, è cosa difficile da valutare oggi. La seconda alternativa mi sembra comunque più probabile”21. Per quanto concerne le due tecnologie del nucleo (il nucleo della natura inorganica e quello della natura organica), Popitz ne sottolinea le potenzialità e anche i rischi, ma lascia aperto il discorso rispetto ad

un loro inquadramento nei termini di una nuova tecnologia fondamentale come, ad esempio, quella veramente decisiva deH’elettricità. È chiaro che, nella prospettiva dello studioso della fenomenologia del potere, i processi di innovazione tecnologica - e insieme sociale - indicano una crescente artificializzazione della natura e della società, la quale è comprensibile anche a partire dalla forza di autodefinizione - in senso antropologico dell’uomo, da ciò che lo spinge ad oggettivarsi. Prima di affrontare in maniera più articolata questo tema della crescente artificializzazione della natura e della società è però opportuno ritornare brevemente alla antropologia della tecnica in senso stretto delineata da Popitz, il quale considera la tecnica - diversamentedaun A. Gehlen22-com eespressione non di una mancanza organica, bensì di una specifica capacità umana, È da qui che trova formulazione efficace il vero e proprio elogio della mano umana che caratterizza in gran parte lo studio sulla “irruzione della società artificiale”, rivolto a rimarcare come la capacità di agire tecnicamente si sia evoluta indubbiamente con la maturazione di certe facoltà psichiche (dalla memo­ ria al linguaggio), ma anche e soprattutto come tale capacità sia “già presente nella costituzione organica fondamentale dell’uomo” (e in particolare nella mano). La tecnica, perlomeno ai suoi inizi, è riferibile direttamente alla dimensione corporea, ma non tanto nei modi della compensazione di carenze, di mancanze, dell’organismo umano (messo a confronto con quello animale). Anzi, si

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può dire che originariamente la tecno- prio dalle esperienze nell’agire tecnolologia è una sorta di “tecnica di rafforza- gico. Così, dal collegamento delle famento della mano”, come si può vedere coltà motorie della mano con le facoltà prendendo in considerazione il fatto che psichiche nella direzione dell’azione l’utensile potenzia quella mano che si come ad esempio dalla sempre più pre­ mostra così come “un cattivo indicato- cisa coordinazione tra mano, occhi e cerre della deficienza organica di quest’ul- vello, facoltà di immaginazione e di timo”. Scrive Popitz, in maniera molto esplorazione - sorge una nuova e asso­ incisiva: “La mano afferra una realtà che lutamente unica ‘dimensione della relaresiste alla sua forza, ma la mano per- zione dell’uomo con il mondo’: la dicepisce anche le differenze di grado nel- mensione della intelligenza produttiva”24, la durezza dei diversi materiali. Ora sfrutÈ quindi l’agire tecnologico manuatando queste differenze la mano può su- le che sta alla base della proliferazione perare la resistenza delle cose: utilizza dei diversi modi dell’agire intelligente, le cose più dure come mezzo per le al- capace di articolarsi proprio in virtù di tre. Questa astuzia della mano, con la quelle facoltà dell’esplorazione e della quale essa impiega la superiore durezza rappresentazione che si concretizzano delle cose materiali contro le cose ma- nell’agire tecnologico. La mano viene teriali, è il primo atto di un’intelligenza considerata come Vorgano-guida nel tecnologica”23. Il progresso tecnologico contatto con il mondo inorganico e quelè in prima approssimazione legato lo organico, permettendo la relazione all’evoluzione organica dell’uomo ed è con il mondo esterno e con la stessa di­ condivisibile l’idea di capacità organi- mensione corporea di “appartenenza”: che che “dettano”, con i loro limiti “na- in questo senso si può parlare di essa coturali”, le condizioni di partenza del con- me “organo riflessivo”, oltre che “esplofronto tecnico con la realtà. L’evoluzio- rativo”, in quanto fa sentire all’uomo il ne tecnica segue quella biologica: Po- proprio corpo. La razionalità ha allora pitz lo sostiene riprendendo una bella nella mano il suo “fondamento”, nell’orimmagine di A. Leroi-Gourhan, che ve- gano più versatile e attivo (a differenza de gli oggetti tecnici come un qualcosa dell’occhio o dell’orecchio), e ciò va te­ di “sudato” dal cervello e dal corpo de- nuto presente soprattutto oggi, quando gli ominidi. Ma si può anche affermare “la relazione del produrre con il corpo - soprattutto oggi - che l’evoluzione tee- umano è largamente superata. La mano nologica influenza il configurarsi della ha perso il suo ruolo dominante. Certo, psico-fisicità dell’uomo. Riprendendo il all’ombra della moderna tecnologia, si protagonismo “iniziale” della mano, che continua a lavorare con utensili: nelle “anima” l’azione tecnologica e che sti- botteghe artigiane, nei lavori domestici, mola la psiche stessa a complessificare nell’agricoltura e perfino in alcuni ame approfondire le sue facoltà, Popitz seri- biti dell’industria. Alcune antichissime ve: “Le facoltà psichiche che guidano forme di strumenti e alcune antichissil’azione vengono prodotte e sfidate pro- me operazioni non sono cambiate quasi

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per niente. Ma soprattutto, oggi come ieri, confidiamo nello strumento manuale laddove intendiamo produrre qualcosa di singolare e forse di creativo, come accade dipingendo e disegnando, nel bricolage, col giardinaggio e in cucina. (...) Gli inizi dell’agire tecnologico sono ancora presenti e con questi il particolare sforzo e il particolare lavoro con i quali 1 essere umano si è costruito una relazione originale con il mondo, presenti come esperienze possibili della intelligenza produttiva umana, in grado di penetrare nei corpi con la mano e con gli strumenti che questa utilizza”26. Popitz insiste in modo particolare sulla sedentarizzazione, in cui si esprif me una nuova qualità nella storia della . v , . . società, con evoluzioni estremamente . , „ significative delle tecnologie e della stes. . .., sa struttura sociale. Rispetto all artifi... . ... „ . , ,. cializzazione della natura si deve dire , . , , „ che in essa prendono corpo due strate■„ , , .,. gie , che valgono in definitiva per 1 intera stona degli sviluppi tecnologici: la prima è quella della “trasformazione” della natura ovviamente finalizzata alla soddisfazione dei bisogni umani, di qualsiasi tipo; la seconda è quella della “presa di distanza” dall’ambiente naturale, il che significa realizzazione di un dominio sulla natura che si traduce nella costruzioni di artifici sempre più sofisticati. I primi passi sostanziosi sulla via della trasformazione della natura si compiono allorquando l’agricoltura investe massicciamente i processi organici, in una direzione di marcia che comporta. appunto una progressiva “marginalizzazione” della “natura naturale” rispetto a tutto ciò che non è artefatto,

L’artificializzazione della natura riesce nella misura in cui le strutture sociali si complessificano sempre di più: quest’ultima dinamica necessita della tecno-logicizzazione, nel senso proprio della artificializzazione della realtà nel suo insieme. Popitz indica nella sedentarizzazione la dimensione di formazione delle “strutture sociali artefatte”, caratterizzate da una distanza netta da tutto cj5 cjie £ “bisognoso biologicamente”, Le nuove strutture sociali sono intimamente costruttive, innovative, e ciò è correlato a, progresso tecnologico fino al punt0 da poter affermare che gli ar_ tefatti essenziali e le istituzioni fonda. . „ mentali sono sorti contemporaneat • mente : Con la sedentarizzazione si . . . v . ... costituiscono società che cristallizzano ... . . . . nella loro struttura sociale determinate . .v , . . v , ,, continuità: la continuità del lavoro, del,,, la discendenza e del legame con la ter. b ra coltivata. Dal che scaturisce la prima ^ Srande ^ e q u a z io n e della società urnana: rumcità dell’attivltà di una vita spa­ r*sce e stmtture della divisione del lavoro codegano prestazioni specializzate> ^n^ ne dimostra che gli uomini possono convivere non solo in piccoli grupPb dove conoscono tutti, ma anche grandi società, delle quali delineano strutture di potere al fine di attribuire a queste agglomerazioni una certa capacita di azione. La successione della costituzione di strutture sociali fondamentali - delle strutture della continuità sociale, della divisione sociale del lavoro e del potere amministrativo - la chiamo ‘l’irrompere della società artifidale’”26.

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4. Tecnica e lavoro Quello che mi sembra interessante dell’analisi di Lévy - una volta che si confronta con l’antropologia della teenica delineata da Popitz, attenta soprattutto a presentare gli attuali sviluppi teenologici in modo tale che essi non rappresentino una brusca soluzione di continuità, ma una fase del processo di trasformazione incessante della vita urnana e del legame so ciale-è la chiarezza con cui si colgono alcuni elementi decisivi della nostra situazione attuale: il cambiamento continuo delle tecniche, dei mercati, dell’ambiente economico in generale, la stessa tensione verso l’intelligenza collettiva, si accompagnano a forme di coinvolgimento pieno e di reale mobilitazione delle soggettività individuali, delle capacità d’iniziativa e di cooperazione attiva degli stessi componenti dei collettivi intelligenti, se si vuole mantenere questa terminologia di Lévy. Ciò vuol dire in effetti fare appello alle risorse intellettuali e affettive, a quella “talentuosità” dell’umano che si pone come condizione necessaria dell’attività economica (tanto che si può parlare - ancora per Lévy - di una convergenza dei bisogni economici con le esigenze propriamente “etiche”). Le ricerche sugli odierni sviluppi tecnoiogici, su 11’affermarsi delle tecniche molecolari, vengono strettamente connesse, in quest’ottica, con la possibilità di favorire una “economia delle qualità umane”, a cui agganciare un mutamento del legame sociale finalmente all’altezza delle potenzialità e delle movenze delle innumerevoli “nubi soggetti-

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ve”. Ancora in L'intelligenza collettiva si può leggere: “Nella nostra epoca, le tecniche disponibili consentono di fornire a tutti più del necessario. Si deve per forza ricavarne la conclusione che la penuria sia ormai prodotta social­ mente, e la miseria e l’esclusione siano organizzate, anche se non perseguite de­ liberatamente. Se la disoccupazione ha l’apparenza di una fatalità più o meno comprensibile all’interno dell’economia classica, nell’ottica di un’economia dell’umano rappresenta una distruzione sistematica delle ricchezze. Una società che ammetta esplicitamente i principi dell’economia delle qualità umane, riconoscerebbe, incoraggerebbe e preolierebbe tutte le attività sociali che producono e sostengono queste qualità, anche quelle che non entrano direttamente nei circuiti dell’economia di mercato. In questo modo, essa consentirebbe a chi non ha un impiego retribuito di costmirsi almeno un’identità nell’interazione con il collettivo. E aumenterebbe così le riserve di competenze e potenzialità umane che alimentano il dina­ mismo stesso del mercato”27, Una tale economia allargata delle qualità umane si presenta come una “produzione antropica del futuro”, tesa ad esaltare una “cultura” delle qualità umane stesse considerate base impre­ scindibile della costruzione di una società più vivibile. In definitiva l’economia dell’intelligenza collettiva riporta al centro della scena l’umano, “in tutta la sua estensione e varietà”, come “nuo­ va materia prima”: la garanzia della produzione di ricchezza, di prosperità per tutti, è data dalla coltivazione dell’in-

telligenza umana, dalla capacità di ricerca, di innovazione, di apprendimento rapido e di cooperazione etica. In questa prospettiva, Lévy, attento ai possiòdi “usi sociali delle nuove tecnologie”, parla di un “nuovo proletariato” che si sta formando per lavorare le relazioni di massa, per fornire gli strumenti indispensabili ad una sperimentazione deH’umano anche “a mani nude e a forzad’affetto”. Nel nuovo “territorio” della cybercultura l’umano viene riproposto come “criterio portatore di ogni valore: “Ora, proprio in un periodo di nomadismo antropologico, quando si passa da un mondo a un altro (anziché spostarsi su un territorio geografico), la trasmissione e l’integrazione non possono essere affidate esclusivamente alla famiglia o all’istituzione scolastica. Poiché sono pochi i saperi durevoli da trasmettere, a fronte di una variazione continua e massiccia delle conoscenze specifiche, la canalizzazione della trasmissione - utile in altri tempi - può diventare un freno o costituire addirittura una strettoia fatale. Alla deterritorializzazione dei flussi economici, umani e dell’informazione, all’emergenza di un nomadismo antropologico proponiamo, dunque, di rispondere con una deterritorializzazione dell’iniziazione e dell’umanizzazione stessa”28. L’obiettivo è quindi quello della realizzazione di una economia dell’umano ed è significativo, al di là della caratterizzazione eccessivamente “utopistica” fe] discorso complessivo di Lévy, che si rimetta così al centro dell’analisi il lavoro, con il suo “portato” di sapere e di relazionalità29. In un’ottica che non vuo-

le rinunciare alla “critica del capitalismo” ha comunque senso rilanciare l’idea marxiana del “lavoro vivo”, dei­ la cui potenza la tecnica stessa può es­ sere considerata un’espressione (laddove la tecnologia viene pensata come “ca­ pacità scientifica oggettivata”). Rispetto ora al “nuovo capitalismo”, al modo di produzione postfordista, è inevitabile il rinvio al brano dei Lineamentifon(lamentali della critica dell’economia politica (conosciuto come “Frammento sulle macchine” per via del titolo che gli fu dato in occasione della prima traduzione italiana del 1962, sulla rivista “Quaderni Rossi”), in cui Marx riflette in maniera estremamente lungimirante sulle tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico, proponendo la tesi del caratiere di forza produttiva principale del sapere astratto (scientifico, ma non solo...), il che vuol dire relegare sullo sfondo il lavoro parcellizzato e ripetitivo. Il sapere astratto è quello oggettivato nel capitale fisso, che si è “inferrato” nel si­ sterna automatico delle macchine. Marx utilizza la nozione di generai intellect, di intelletto generale, per raccogliere le conoscenze essenziali per la produzione sociale: “Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta - questa loro powerful ef­ fectiveness - non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende in­ vece dallo stato generale della scienza

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e dal progresso della tecnologia (...)• Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. (...) (L’operaio) si colloca accanto al pròcesso di produzione, anziché esserne l’agente principale. (...) le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso”30. La collocazione dell’operaio accanto al processo produttivo - e non più nella veste di agente principale di quest’ultimo - mette in crisi il ruolo del tempo di lavoro che diviene, rispetto alla preminenza sempre più accentuata del sapere, una “base miserevole”: ciò vuol dire che la “legge del valore” (il valore di una merce è dato dal tempo di lavoro in essa realizzato) è confutata da quello stesso sviluppo capitalistico che comunque insiste a misurare le “gigantesche forze sociali così create” sulla base del tempo di lavoro. È noto come questa impostazione porti Marx, nel “Frammento”, a imputare l’eventuale crisi del capitalismo non tanto agli squilibri dovuti alla piena affermazione della legge del valore (vedi la caduta del saggio di profitto), quanto invece alla contraddizione tra un processo produttivo fondato essenzialmente sul sapere e un’unità di misura della ricchezza che fa ancora riferimento alla quantità di lavoro incorporata nelle merci. L’approfondirsi di questa contraddizione porterebbe, per queste straordinarie pagine marxiane, al “crollo della produzione basata sul va-

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lore di scambio” e dunque al di là del capitalismo. Ora, quando si parla dell’epoca postfordista non si può che prendere atto che la tendenza indicata da Marx si è realizzata, senza che però sia avvenuto un qualche cambiamento radicale di struttura (produttiva). La sproporzione tra il protagonismo del sapere oggettivato nelle macchine e il ruolo sempre meno importante del tempo di lavoro si è tradotta in forme originali di dominio, che qualificano come “immiserito” il tempo in eccesso (dalla cassa integrazione alla disoccupazione per aumento di investimenti). Il persistere del lavoro sotto padrone fa sì che ciò che Marx in­ dica, nell’ultima parte del “Frammento”, come caratteri dell’individuo nella società comunista (tempo libero in abbondanza, ampio consumo culturale, “ca­ pacità di godere” in generale) possa essere imputato oggi, come trasformazione complessiva, proprio a quel processo lavorativo postfordista che riconfigura la crescente “capacità di godere” come mera mansione di lavoro. Rispetto a questo “rovesciamento” della pre­ visione marxiana, una variegata tradi­ zione di ricerca (da H. J. Krahl agli in­ terpreti italiani più recenti: M. Lazzarato, R Vimo, A. Zanini, tra gli altri) ha mosso obiezioni alla identificazione del generai intellect (del sapere come forza produttiva essenziale) con il capitale fisso, cioè con la “capacità scientifica oggettivata” nel sistema delle macchine, sottolineando come il generai intellect si presenti come lavoro vivo, cioè come il nesso di sapere e produzione non si esaurisca nel sistema delle macchine, articolandosi nell’interazione/cooperazio-

ne linguistica di soggetti molteplici e differenti. In questo senso, la nozione marxiana di generai intellect può essere allargata fino a comprendere conoscenze, fantasie, credenze, mentalità, giochi linguistici e così via, ed è proprio in questo ampliamento che può essere scorta una possibilità concreta di riconduzione politicamente conflittuale del sapere come forza produttiva alla dimensione dello stesso lavoro vivo31. A1 di là del carattere determinante per lo sviluppo dei processi produttivi e delle stesse usanze di vita - del generai intellect, di questa originale e operativa “astrazione reale” (che mette in discussione, tra l’altro, il tradizionale modo di intendere la divisione tecnica del lavoro), mi interessa comunque ritornare alle osservazioni di Marx sulla tecnologia come “capacità scientifica oggettivata” così come sono commentate da O. Negt nel suo ancora prezioso studio su Tempo e lavoro (1984), in cui si evidenzia come la “razionalizzazione del lavoro”, vale a dire l’applicazione piena della scienza all’ambito della produzione, chiami i lavoratori a svolgere un “lavoro comune”, in una situazione produttiva che vede l’aumento della quantità di lavoro “elaborato in precedenza”, assegnata a ciascun lavoratore. Merito di Negt è quello di insistere sul lavoro scientifico co-

me “lavoro sociale comune”, in una pro­ spediva che indica la “necessaria gene­ ralizzazione delle scienze applicate a li­ vello tecnico” e il loro “strutturale caradere pubblico”. E nel senso di marcia di queste argomentazioni che il dominio del “lavoro morto” si rivela come una sorta di “controsenso sociale” rispetto al “lavoro vivo”, in quanto le qualità lavorative assumono sempre di più un caradere “politico”, che deriva dal loro nesso con gli elaborati della scienza applicata, dal loro entrare a far parte della “forza produttiva comune”. Questa “pubblicità” del pensare, di ciò che si presenta - direbbero gli interpreti dell’epoca postfordista - come assolutamente “centrale” nella produzione, nella misu­ ra in cui appare comunque non completamente oggettivabile nel sistema delle macchine, può anche essere tradotta in questi termini: “La produzione della ricchezza sociale è più un prodotto di un’attività regolatrice e responsabile che l’espressione di un lavoro esclusivamente fisico-spirituale. Il lavoro, per la sua struttura, è diventato lavoro politico; os­ sia, una forma di attività il cui spirito di cooperazione è legato così fortemente al tutto che i rapporti di potere esterni possono, semmai, disturbare questa attività produttiva, ma sicuramente non possonopromuoverlci'n .

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Note 1 P. Lévy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, tr. di D. Feroldi, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. 227-228. 2 P. Lévy, Il virtuale, tr. di M. Colò e M. Di Sopra, Cortina, Milano, 1997, p. 6. 3 Ivi, pp.8-9. 4 E. Livraghi, Il silicio e l'episteme, in E. L. (a cura di), La carne e il metallo. Visioni, storie, pensiero del cybermondo, 11 Castoro, Milano, 1999, p. 92. 5 P. Lévy, L ’intelligenza collettiva. Per un ’antropologia del cyberspazio, tr. di M. Colò e D. Feroldi, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. 110-111 (Formenti cita questo passo di Lévy nel suo importante Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Intemei, Cortina, Milano, 2000, p. 77). Di Baudrillard cfr. Il delitto per ferro. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. a cura di G. Piana, Cortina, Milano, 1996 e IIparossista indifferente, tr. di C. Cardini, King Kamehameha Press, Cant§, 1998; di Virilio cfr. La bomba informatica, tr. di G. Piana, a cura di C. Formenti, Cortina, Milano, 2000 e La velocità di liberazione, tr. a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000. 7 P. Lévy, L ’intelligenza collettiva, cit., p. 148. Ivi, p. 28. 9 Ivi, p. 29. 10 Ivi, pp. 29-30. 11 Ivi, p. 54. 12 Ivi, p. 58. 13 Ivi, p. 59. 14 Idem. 15 Ivi, p. 61. 16 Cfr. P. Lévy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, cit., pp. 131-140 (importanti sono anche i contributi - pubblicati sul n. 13 di “Millepiani” - di M. De Dominicis e A. Faravelli). 17 P. Lévy, L ’intelligenza collettiva, cit., p.62. 18 Ivi, p. 63. 19 Ivi, p. 67. 20 Ivi, p. 68.

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H. Popitz, Verso una società artificiale, tr. di G. Auletta, con una prefazione di F. Ferrarotti, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 11. Cfr. A. Gehlen, L ’uomo nell’era della tecnica, tr. di A. Burger Cori, con una prefazione di A. Negri, SugarCo, Milano, 1984. Mi permetto qui di rinviare ai miei Principio metamorfosi. Verso un ’antropologia dell’artificiale, Mimesis, Milano, 1999 e Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Dedalo, Bari, 2000. H. Popitz, Verso una società artificiale, cit., p. 51. Ivi, p. 55. Ivi, p. 57. Ivi, p. 60. P. Lévy, L ’intelligenza collettiva, cit., p. 51. Ivi, p. 54. Rinvio, in questa prospettiva, a P. BarcelIona (a cura di), Lavoro: declino o metamorfosi?, F. Angeli, Milano, 2000 (si tratta di un fascicolo di “Democrazia e diritto” che contiene, tra gli altri, interventi di B. Amoroso, A. Cantaro, M. Deriu, A. Negri). Ricordo anche il saggio di R. Senne«, che ha aperto una proficua discussione su parte dei suoi contenuti, intitolato L ’uomofiessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, tr. di M. Tavosanis, Feltrinelli, Milano, 1999. Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. di E. Grillo, La Nuova Italia, 1970, voi.II, pp. 400-403. Ricordo qui M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Ombre corte, Verona, 1997 e A. Zanini, Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx, con una prefazione di G. Lunghini, Ombre corte, Verona, 1999. O. Negt, Tempo e lavoro, tr. di L. Lo Campo, Edizioni Lavoro, Roma, 1988, p. 156.

TIZIANA VILLANI

TECNOFILOSOFIE E TERRITORI URBANI

1. Abitare il pluriurbano el testo di Gilles Deleuze che apre il presente volume di “M illepiani”, le istituzioni - il piano delle istituzioni - vengono delineate come veri e propri spazi materiali in cui si producono non solo relazioni sociali dinamiche e mutevoli, ma veri e propri ambiti intensivi in cui gli affetti svolgono un ruolo prioritario. Ora, questi spazi, spesso troppo frettolosamente liquidati tramite una interpretazione fenomenica essenzialmente tesa ad esaltare la dimensionevirtuale, costituiscono la sfida complessa ed articolata dei mutamenti che più attraversano il nostro tempo. La centralità assunta dalla tecnica, anche e forse soprattutto in quanto nuova ideologia rivelatasi capace di sussumere le grandi narrazioni del secolo precedente, si afferma in modo decisivo nelle modalità e nelle trasformazioni che l’abitare odierno in contesti urbani sempre più plurali e per contro sempre più omologati, realizzano. Iniziamo allora con l’indicare i nuovi fenomeni connessi all’urbanesimo non più come dualità: centro-periferia, città-campagna, metropoli-provincia; quanto come tessere di un articolato inosaico in cui si producono fenomeni neoidentitari, diversi assetti economici e altre relazioni sociali. La tecnica in questo senso, soprattutto nella sua attuale fase di accelerazione produce uno slittamento di ampia portata di tutti questi elementi e significati. Ma a questo punto, è forse utile a ri-

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guardo riconsiderare la distinzione, più volte proposta da Foucault, tra technè e tecnologia, laddove la prima indica Tin­ sieme dei dispositivi di governo e la se­ conda pur non prescindendo da questo contesto tende a indicare un campo di analisi più ridotto inerente Tapplicazione di pratiche derivanti dalla razionalità scientifica, I mutamenti del primo campo inevitabilmente interagiscono con quelli del secondo anche se entrambi continuano a mantenere una loro profonda autono­ mia. Infatti, secondo Foucault: “il governo è anche funzione di tecnologie: il governo degli individui, il governo deile anime, il governo di se stessi su di sé, il governo delle famiglie, il governo dei bambini” 1-In questo senso possiamo rilevare la creazione di spazi nei quali simili pratiche divengono costitutive sia di istituzioni che linguaggi e luoghi. Ma per cogliere la natura di queste trasforinazioni occorre distanziarsi dal mitologema tecnologico che pervade la co­ municazione attuale, La diffusione della vulgata tecnologica come nuova ideologia rivela il lato ambiguo che ci permette di evitare la trappola che vorrebbe collocare l’insieme dei fenomi afferenti la tecnica, nell’ambito di una scientificità avulsa dai contesti sociali e spaziali, Il mutamento antropologico in atto, che coniuga tribale e futuribile, si iscrive nel contesto di una complessa rete di relazioni di idee, pratiche e innovazioni che delineano nuovi luoghi dell’agi­ re umano e questi luoghi in massima parte appartengono alla costellazione del pluriurbano.

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Con il proporre il concetto di piuriurbano, non si vuole tuttavia affermare la sparizione di luoghi altri, decisainente differenti dai processi di urbanizzazione prevalenti, quanto sottolineare la preponderanza che i segni, i modi e le pratiche connesse all’urbanesimo hanno assunto nell’oggi. In questo senso dev’essere indagato il campo di problemi in cui mezzi tecnologici si intrecciano con le tecniche che regolano le relazioni umane, ma anche i processi stessi di soggettivazione. I soggetti, i corpi, gli istinti sono chiamati a misurarsi non solo con i processi di sradicamento: sradicamento dai luoghi di origine, dalle culture, dagli usi e dagli affetti, ma anche con una dimensione spaziale le cui trasformazioni architettoniche, tecnologiche, lavorative ece. sono estremamente velocizzate. Questo passaggio è stato così chiarito da Paul Virilio: “accanto alla dilatazione permanente di un tempo ormai meno ciclico che sferico (dromosferico) non è solo la profondità del passato ad essere amplificaia, poiché oggi si assiste allo stesso processo per quella del presente, ma di un presente continuato, dilatato, che non è altro che la repentina mondializzazione del tempo reale delle telecomunicazioni; questo tempo superficiale di una telepresenza che giunge a rinnovarci la sorpresa, che dico! lo stupore che fu degli uomini del XVIII secolo, dinnanzi alla scoperta “geologica” di un tempo profondo di innumerevoli milioni di anni”2. La superficie, e nel nostro caso il pluriurbano come superficie, assume nuova valenza, la valenza di un piano orizzontale percorso da flussi materiali e im-

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materiali che ne determinano la figura. Infatti, il pluriurbano si da come nuova figura metamorfica del presente che at­ tualizza la stratificazione dei processi storici mutandone profondamente la natura, poiché nulla di ciò che è stato ritorna identico a se stesso, La rivoluzione cibernetica ha agito in modo profondo e pervasivo attraverso vari piani dell’esperienza umana tra­ sformandone non solo l’immaginario, ma anche le modalità concrete dell’agire quotidiano. In questo senso gli spazi, i luoghi dell’urbano si prestano ad essere sempre più l’espressione privilegiata di un esistere in cui tecnologie, sa­ peri, desideri, affetti e progetti si combinano in relazione ad un tempo vita la cui temporalità è radicalmente mutata, II tempo-vita che si produce negli at­ tuali spazi del plurale urbano è per lo più un tempo del presente dilatato, in questo senso è un tempo “animale” dó­ ve il passato si riversa nel presente spes­ so nella forma del mito e dove il futuro è una sorta di carpe diem gettato nella direzione asfittica di una durata sempre troppo breve. L’uomo ipertecnologico, l’uomoprotesi o l’immortale delle biotecnologie continua a custodire in sé la tragedia della fine, solo che questa tragedia è stata oramai espulsa dal rito e dal sentire collettivo e si è trasmutata in una colpa segreta di cui è fatto divieto per­ sino parlarne. La carne come residuo si trasforma in tessuto, un tessuto riproducibile, clonubile performativo similmente all’antico concetto di territorio costretto a cedere il passo all’odierno spazio virtuale

percorso non più e non solo dai tradizionali mezzi di trasporto, ma dalle odierne autostrade elettroniche. Corpo e territorio sono così chiamati ad essere le figure più plastiche dell’attuale rivollizione cibernetica. Secondo Steve Aukstakalnis e David Blatner: “nei prossimi dieci anni l’incredibile eccitazione e novità di questa passerà, e inizieremo a riconoscere la realtà virtuale come parte integrante del modo in cui conduciamo affari, di come comunichiamo e di come comprendiamo le massiccie quantità di informazioni che ci circondano3. Occorre per ora identificare le tensioni che però si stanno producendo tra le resistenze materiali e le sollecitazioni virtuali. Queste tensioni agiscono sul quotidiano e si rivelano propriamente nei territori dell’abitare siano essi strade, appartamenti, bar, ospedali, arterie ecc. Se film come L ’odio piuttosto che Crcish o tanti altri road mouvie ci hanno permesso di gettare lo sguardo sull’intollerabilità di vite circoscritte in percorsi sempre più omologati, vite che ad ogni tentativo di spezzare questo circolo vizioso finiscono in tragedia, forse la cronaca, gli episodi minori, i piccoli eventi che accompagnano i nostri passi di tutti giorni ci possono offrire qualcosa di diverso. Questa diversità, questa molteplicità di piccoli eventi è costitutiva da nuove relazioni, da istituzioni in potenza che si danno su di un territorio in cui lo spazio viene significato non più da un vivere periferico, ma da dimensioni plurali, molteplici, foriere di nuove gerarchie ma anche di nuove modalità espressive.

Società policentriche o modulari come suggerisce Manuel Castells o anco­ ra società “multirete secondo la definizione di Zygmunt Bauman che afferma: “Nella società multirete degli uomini e delle donne modulari, le attività dell’integrazione e del controllo sono state de­ regolamentate e privatizzate”4. Ma, lo scenario di questa deregolamentazione che richiede processi di definizione dell’identità pressoché infiniti è al con­ tempo quel territorio urbano plurale a cui ci si riferiva prima, Più che di una crisi dei modelli urbani o delle periferie diviene dunque opportuno pensare a una trasformazione dell’urbano che si è disseminato ovunque imponendo sicuramente modelli spesso uniformi, ma che è stato contaminato, destrutturato e cambiato dagli stili di vita e dai luoghi nei quali si è affermato. È forse questa nuova dimensione territoriale costituita da microappartamenti, fabbriche in disarmo, strade asserragliate, megasupermarket nel deserto la protesi più fattuale dell’oggi, quella più plastica, capace di connettersi con ogni mutamento e di forgiare, trasformando e autotrasformandosi, gli attuali spazi di vita e dunque il tempo-vita stesso, Il volto multiforme della produzione, le differenziazioni assunte dal capitale incontrano in questa trasformazione dell’urbano il loro corpo più proprio, La cosiddetta flessibilizzazione delle funzioni produttive agevolata dall’applicazione delle nuove tecnologie, ma soprattutto veicolata dal mitologema tecnologico delinea i nuovi paesaggi del vivere e dell’abitare. Paesaggi che rein-

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ventano in modo radicale fisionomie, aspirazioni e desideri scontrandosi in modo più o meno decisivo con i codici dell’omologazione. In questa tensione relazionale che mette in gioco gli spazi nel confronto con il loro utilizzo e quindi con le modalità di nuovo dominio, qualcosa di impalpabile si esprime: la tensione a liberare la vita dal giogo dei comportamenti e soprattutto del linguaggio dominante, Se poniamo in rapporto le destrutturazioni e movimentazioni dei linguaggi originatesi dapprima nelle periferie tradizionali dei grandi agglomerati metropolitani, con i mutamenti delle strutture abitative e degli arredi urbani, scorgiamo la forza di un gioco che costantemente non accetta la resa imposta dalle vulgate comuni.

2. Nuove tecnologie, nuovi linguaggi, nuovi territori I nuovi linguaggi, che si diffondono e continuano a mutare nel plurale urbano, non appartengono a gruppi dalla precisa fisionomia identitaria quanto alla creazione di nuove comunità in transito che attraverso l’invenzione di lingue “minori” realizzano nell’immediato quel legame istituzionale necessario a porre in discussione l’imperio cristallizzato delle leggi. Quest’atto di creazione di lingue è forse il frutto più umoristico che attraversa il diffondersi delle tecnologie. Linguaggi e spazi urbani condividono, come spesso aveva sottolineato Michel Foucault, quelle pratiche del farsi, del

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divenire in cui non è tanto possibile scorgere un andamento cronologico più o meno unitario, quanto un porsi in atto capace di incrociare comunicazione e territori attraverso il prodursi di eventi, Territori trasformati in protesi e linguaggi che si coniugano con le scritture e le parole dell’hi tech e dei computer. In entrambi i casi non ci troviamo dinnanzi ad un progetto prima pensato a tavolino e poi reso operativo, piuttosto ci troviamo in un ambito in cui mo­ dificazione di diversa portata realizzano un continuo lavorio che non persegue un disegno compiuto quanto implica una nuova e continua produzione, una produzione di piani, comunicazioni, de­ sideri. Foucault rileva infatti che “Quello che mi sembra deludente, ingenuo nelle riflessioni, nelle analisi sui segni, è che si presumono sempre già esisten­ ti, depositati sulla faccia della terra, o costituiti dagli uomini, e che mai si interroga l’essere stesso dei segni [...]. Bi­ sogna porre il problema dell’essere del linguaggio come compito per non ricadere a un grado di riflessione che sarebbe quello del XVIII secolo, al grado deH’empirismo”5. Ora, questa produzione, questo essere dei segni, è il frutto di quella tensione relazionale tra poteri, istituzioni, leggi che nell’attuale pseudo-imperio della tecnica ha assunto tutta una serie di nuovi significati. Sicuramente un ruolo privilegiato in questo contesto lo assume il controllo, Eppure sarebbe opportuno, in merito a questo piano di riflessione, separare il linguaggio, la narrazione dei dispositivi di controllo, dal controllo in quanto

pluralità di tecniche tese a realizzare nuovi piani di dominio. La narrazione, il metalinguaggio attivato dal controllo e nato con esso ci permettono di individuare tutta una serie di tessere che potremmo abbastanza facilmente riferire a quelle che vengono comunemente individuate come le “grandi paure collettive” del nostro tempo. Rispetto all’epoca precedente queste paure si incarnano in fantasmi spesso aleatori che nascono nello spazio piuriurbano cui facevamo cenno prima. Nel passaggio dalla metropoli e dal dualismo centro-periferia al nuovo spazio molteplice delineato dall’urbanesimo odierno le paure hanno modificato forme e contenuti e pertanto anche il linguaggio nato con loro. I timori connessi per lo più con gli spazi periferici, con l’ideologia più o meno progressista che contraddistingueva le periferie come spazi della segregazione e pertanto della violenza e del degrado, hanno lasciato il posto o meglio si sono sommati, a mitologie più recenti. Il labirinto urbano è una costellazione di percorsi a rischio, la sicurezza è l’ossessione del cittadino odierno al punto che lo spazio privato può e deve essere violato in qualunque istante per lasciar posto ai sistemi di sicurezza, controllo e polizia che fioriscono per ogni dove. Ma, il rischio più rilevante è connesso alla follia, alla devianza che essendo divenuta un fenomeno di massa dev’essere normata ad ogni costo al punto da indurre un invincibile senso di colpa in ciascuno per ogni aspetto, atteggiamento non confacente alla norma. La follia normata e

fungibile, è divenuta, in tal modo, la realtà del nostro quotidiano. Esigenze “normali” quali libertà, desiderio, tempo creativo vengono vissuti come territori a rischio che occorre assolutamente regolamentare. Il disagio è una patologia non estirpabile con la quale bisogna convivere canalizzandolo, laddove è possibile, nella “solitudine depressa” che caratterizza questa dimensione da cui viene svincolato il desiderio. Le nuove paure incontrano così il linguaggio nato da questo nuovo sentire: la paura di trasgredire, di non farcela, di non essere convinti della giustezza che ci è stata proposta come spartiacque del dove­ re, del pensare l’altrimenti, Questo altrimenti inquietante e disturbante è il fattore della crisi, dalla crisi emergono i fantasmi, soprattutto in territori chiamati continuamente a cambiare e ad essere al contempo fedeli a se stessi: ultima radice delle identità spezzate. Le nuove paure ineriscono allora la reinvenzione del territorio, un territorio del qui ed ora che si sente perennemente minacciato perché figlio dello sradicamento, un territorio abitato dalle nuove paure che condividono il mimimo comun denomitaore della perdita. Paure plurali per territori plurali, La lingua del controllo è il metalinguaggio di questo substrato di corpi, umori e linguaggi che sono chiamati ad attraversare questo sradicamento, In relazione a ciò e contrariamente a quanto sin qui rilevato, i dispositi, le tecniche del controllo si eleggono a nuove entità del patto sociale. Entità bifronti che giocano tra i terreni del consenso e

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quelli dell’omologazione forzata. L’interculturalismo, come ha ben evidenziato Mike Davis “è uno slogan ambiguo di questi tempi: definisce sia il prògramma delle istituzioni culturali dominanti [...], sia quello della guerriglia di opposizione (che sogna una inedita coalizione di artisti di strada provenienti dalle diverse comunità). Pur tenendo conto dei tradizionali avvertimenti - da Louis Adamic a David James - sul fatto che le opposizioni intellettuali e cuiturali nella capitale dell’Industria Cuiturale sono sempre congiunturali (se non congetturali), qualche credito deve essere dato alla osservazione di George Lipsitz: quando le culture di strada di Los Angeles vengono sfregate tra loro nel verso giusto, emettono una luce di straordinario calore e chiarezza”6. A fronte di simili opzioni il consenso richiede per sua natura tecniche sia rozze che sofisticate, il vecchio imperio del luogo comune è recuperato dal messaggio pubblicitario che si affida al presunto buon senso medio dell’improbabile cittadino comune. Ma è proprio a questo punto che la potenza del falso e dunque del media esprime la sua capacità di essere effettuale. L’improbabile cittadino medio, dotato di buon senso corrisponde perfettamente al folle normato cittadino globale. L’effetto massa diventa dirompente nei territori delle solitudini dell’abitare pluriurbano. Il consenso è dunque evocativo di un patto virtuale comune, il patto garantisce e sottoscrive l’agire normato del cittadino-utente. Tuttavia, la potenza mitologia del consenso non è sufficiente, entrano in

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gioco gli affetti e le pulsioni che, in territori come quelli del pluriurbano, non posseggono assolutamente contesti consolidati e tradizionali in cui esprimersi, La tradizione si configura piuttosto come residuo che si mescola disperatamente con i segni di veloce cambiamento del Moderno. È questo il crinale che apre il varco alle tecniche del controllo. L’oggetto privilegiato di questi apparati, non è il pensiero, questo pertiene al consenso, ma un’istanza ben più potente e ingovernabile: il corpo. Il corpo è un territorio difficilmente addomesticabile, perché il corpo può aprirsi alla potenza delle passioni, è la passione è una forma di intelligenza, di lucida follia che impone il piano del de­ siderio, foss’anche attraverso un processo doloroso. È questo il caso in cui sono chiamate ad intervenire le tecniche di controllo, tecniche dissuasive, re­ pressive, biopolitiche, La minaccia di emarginazione, di ri­ duzione a non-uomo sono il preludio della dissuasione: dell’invito a farsi da parte, a sottrarsi, a mettersi a lato perché non fungibili, terza fase la repressione medicalizzata dell’alterità, i farmaci, il ricovero, il rigetto. Questi di­ spositivi sono oggi ulteriormente rafforzati dalle tecniche, dai supervisori satellitari, dalle orecchie artificiali, bioniche, dai sistemi di polizia dei percorsi che supervisionano, schedano, catalogano, collocano l’intera popolazione modiale. “Il controllo è a breve termine e a rotazione rapida, ma è anche continuo e illimitato, laddove la disciplina era invece di lunga durata, infinita e di-

scontinua. L’uomo non è più l’uomo recluso, ma l’uomo indebitato”7. Ma è con questo indebitamento infinito simile a quello del sud del mondo, che le odierne tecnologie del controllo sono chiamate a confrontarsi; e dunque con il linguaggio destrutturante che appare a macchia di leopardo nell’universo pluriurbano. in ambiti diversi di questo territorio spesso si definiscono nuovi dispositivi istituzionali che affettano la “lingua maggiore” e le impongono di scardinare un linguaggio già dato. Non è pertanto improbabile che i dispositivi di controllo non siano chiamati ad una sfida che si combatte su terreni diversi, Questa sfida riguarda la forza della me-

tamorfosi a confronto con il lento persistere del bìos, che chiamato a mutarsi modifica il suo essere nel territorio, cittadino di nuove comunità plurali la cui identità è precaria, ma anche libera dai vincoli verso il passato, capace di mettere e rischio il presente, In definitiva, il rischio del presente è il rischio della vita, è questo il 1in­ guaggio che si afferma nel pluriurbano odierno, la consapevolezza di aver a rischio la vita senza fini ulteriori che questo. Ma il rischio della vita è il rischio della felicità del desiderio. Tecniche di controllo e desiderio di vita si confrontano sul territorio e sul lin­ guaggio, essendo questi i piani privilegiati del qui ed ora.

NOTE 1. M. Foucault, Eterotopie, Milano, MimesisEterotopia, 2000, p.53. 2. P. Virilio, La velocità di liberazione, Milano, Mimesis-Eterotopia, 2000, p. 144. 3. Aa. Vv., Miraggi elettronici, Milano, Feltrinelli, p. 338 4. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p.161.

5- M. Foucault, Le parole e le cose, 1966, in Archivio Foucault, Interventi, colloqui, interviste, voi. I, Milano, Feltrinelli, 1996, p.116. 6. M. Davis, La citici di Quarzo, Roma, Manifestolibri, 1993, p.79. 7. G. Deleuze, Pourparlers, Paris, E. de Minuit, 1990, p. 246.

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FABRIZIO DESIDERI

L VICOLO MIMETICO Saggio sulla questione della tecnica a partire da Walter Benjamin

ra gli scritti di Benjamin il saggio su L ’opera d ’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è senz’altro il più citato. Nello stesso tempo, però, è forse anche quello meno effettivamente interrogato quanto alle sue implicazioni filosofiche generali. Tra esse si annovera senza dubbio la possibilità di pensare la tecnica e il nodo del suo rapporto con l’identità umana al di là della patologica oscillazione tra misotecnia e filotecnia che affligge molta letteratura filosofica contemporanea. Da una parte, una lettura fortemente catastrofica che vede nell’attuale accelerazione e trasformante pervasività dello sviluppo teenologico una minaccia per il nostro destino e un oscuramento della stessa natura dell’uomo; dall’altra, un’interpretazione in chiave palingenetica che coglie nel medesimo fenomeno l’apertura di una nuova epoca, fortemente espansiva delle potenzialità umane. Entrambi gli atteggiamenti, sia quello che nasce da un senso di angosciata estraneità sia quello mosso da un’empatica identificazione, mancano di quella distanza senza la quale è impensabile cogliere la tecnica nei suoi essenziali confini. Distanza qui significa la possibilità stessa di misurare fino a che punto tali confini siano interni alla nostra natura. Pensare la tecnica implica interrogarsi sulla nostra stessa identità: sul significato (e sul limite) del nostro trascendere il contesto naturale. Nella tecnica si attesta, infatti, sia il vincolo che ci lega indissolubilmente a questo contesto sia la virtù non tanto di liberarsene, quanto piuttosto di allentarlo e di riannodarlo

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con saggezza. Con la tecnica l’uomo stringe un nodo problematico non solo con la natura che ha di fronte ma anche con la sua stessa natura. Appunto allo scopo di saggiare tale nodo, senza Fin­ genua pretesa di reciderne l’originaria tragicità, può essere utile riprendere da capo il famoso saggio benjaminiano, proprio adesso che sta conoscendo una nuova fortuna - proprio adesso che il nome di Walter Benjamin incrocia l’attualità e viene evocato come “padre di Internet”. Si capisce subito perché i nomadi abitatori della rete possano salutare in Benjamin un loro precursore. Benjamin, molto più dell’amico Adorno; Benjamin, piuttosto che Heidegger. Il primo evidentissimo motivo sta nel tipo di rapporto che il pensiero benjaminiano intrattiene con la tecnica: non un “feticciò del tramonto”, ma piuttosto “una chiave per la felicità”, come troviamo affermato in uno degli scritti più militanti di Benjamin (la recensione all’antologia curata da Ernst Junger, Krieg und Krieger1). Il difficile da capire qui è la misura di sobrietà implicata in quest’affermazione. Così dicendo Benjamin non intende affatto enfatizzare in­ genuamente la potenza taumaturgica dei­ lo sviluppo tecnologico2. La sua riflessione nasce piuttosto da una critica del vincolo sacrale che la tecnologia ha stretto con la guerra, intuendo come questo si radichi nel persistere di un rapporto magico nei confronti della natura, dove la distanza nei suoi confronti viene annudata. La sacralizzazione della tecnica non è altro che il complemento di quello che nel saggio sull’opera d’arte

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chiamerà “estetizzazione della politica”. Ad entrambe si contrappone la cifra della politicizzazione, che è qualcosa di più e di diverso del volgere in direzione di uno scopo piuttosto che di un altro il carattere strumentale (di puro mezzo) della tecnica. Alla tesi della neutralità Benjamin sembra tacitamente contrapporre quella della costitutiva ambiguità della tecnica. Al pari del pharmakon greco che è veleno e rimedio nello stesso tempo, la tecnica può significare distruzione o potenziamento (e in ultima istanza salvezza) per la natura umana, Se nel primo caso è il sapere del medico in relazione al corpo del paziente a decidere tale ambiguità, nel caso della tecnica il discrimine riguarda il modo dei rapporto tra sapere e corpo sociale, Ciò che decide in questo caso è la forma che assume quella “tecnica regia” che per Platone è costituita dalla politica. Una tecnica che non condivide lo specialismo delle altre (la logica interna del loro sviluppo) riguardando appunto il problema di governare il rapporto tra le singole tecniche e il comune destino degli uomini. Se da un lato lo sviluppo immanente alle tecniche ha un ritmo quasi naturale e comunque privo di governo, dall’altro l’istanza di governo, propria della politica, non può prescindere dalle trasformazioni del paesaggio umano che questo ritmo plurale di sviluppo produce. si tratta perciò di adeguare reciprocamente forma della politica e forme della tecnica. Questo implica armonizzarle in un rapporto di corrispondenza dinamica: il contrario di un ricorso all’arsenale mitico-estetizzante come dispo-

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sitivo di riduzione della complessità del nodo problematico nel quale è implica­ to sia il distacco della polis dall’ordine della natura sia la sua necessaria appartenenza a questo stesso contesto. Di fronte a questo problema, si potrebbe osservare, Benjamin muove da un assunto genuinamente kantiano ossia dalla constatazione di una permanente asimmetria tra progresso tecnico e progresso morale. È come - osserva Kant3 - se l’umanità avesse due gambe e con una procedesse spedita mentre con l’altra zoppicasse. Se il concetto di cumulatività rispetto alla scienza può sempre apparire come problematico, questo lo appare assai meno riguardo alla tecnica, Qui la differenza di paradigmi in con­ correnza è linearmente in funzione dell’effettività del progredire. L’inno­ vazione tecnologica mostra di essere una qualità intima all’autonomia della tecnica che, in ogni suo ambito e settore, spinge la sua trasformazione (in una sor­ ta di cieco finalismo interno) verso 1’ ‘automatismo’ di una seconda natura4. Il paradigma tecnico per eccellenza di­ viene così quello dell’automa: ciò che, nella sua essenziale contingenza, ha in sé il principio del proprio movimento, Nell’automatismo, che si configura come un processo produttivo caratterizzato dalla ripetibilità delle procedure e dalla riproducibilità dei prodotti, la tecnica piega la spontanea casualità del di­ venire (automaton=caso) in quasi naturale necessità5. E proprio questa deve governare quell’istanza della libertà che caratterizza la politica come una tecnica intrinsecamente non ‘automatica’. Di qui il suo dramma, esposto sempre alla

facies destructiva del quasi naturale automatismo della tedine. Tornando a Benjamin, tutta la recensione all’antologia jungeriana appare appunto percorsa dal problema dell’adaequatio tra i rapporti umani e l’automatismo pur sempre imperfetto del progresso tecnologico; appare percorsa, in breve, dall’urgenza di una correzione politica. “Se la correzione non riesce - osserva con lungimiranza Benjamin (ricordo che lo scritto è del 1930!) - due milioni di corpi umani saranno smembrati e distrutti dal gas e dal ferro.. .”6. Nella sobria coscienza di questa drammaticità politica il modo attraverso cui Benjamin pensa la tecnica non è ma! né riduttivo né enfatico. Enfasi e riduzione, del resto, vanno insieme. Pensiamo al caso di Heidegger: la tecnica qui può apparire come un destino che compie quello della metafisica per la semplice ragione che la tecnica è ridotta a qualcosa d’altro: l’essenza della teenica, afferma ripetutamente Heidegger nel famoso saggio su La questione della tecnica, va pensata come qualcosa di “non tecnico”7. Identificando l’essenza moderna della tecnica con un procedere impositivo che provoca la natura in vista di un impiego (con l’imposizione di un impianto - il Gestell - che riduce a “fondo” la natura), Heidegger contrappone ad essa il senso che risuona nell’origine greca del termine. Techne nella sua intima connessione con la dimensione del sapere (de\Vepisteme) indica qualcosa di ben più ampio del fare artigianale che si preoccupa principalmente della produzione di mezzi. Il suo produrre condivide con il sapere la

capacità di aprire, di disvelare e dunque significa anzitutto produzione-manifestazione della verità, dell’a-letheia. Per questo motivo, in quanto “modo del di­ svelamento”, la tedine concerne ogni dimensione produttiva del fare (anche quella inerente al sacro e all’arte superiore) e dunque appartiene all’ambito dellapoiesis. Ma questa convergenza di senso tra fare tecnico e fare poetico nella pro-duzione del vero vale solo per quell’unità originaria in cui l’arte stessa poteva portare “il semplice nome di techne”8. Il destino della tecnica moderna è piuttosto quello di oscurare e mascherare nel suo carattere di imposizione il senso della poiesis. Il paradig­ ma del prodotto tecnico, il modello capace di illuminare l’essenza della tecnica, diviene così l’opera d’arte. Quest’ultima - come sostiene nel saggio su L ’origine dell’opera d ’arte - può esse­ re spiegata iuxta propria principia. An­ che nell’epoca moderna, insomma, l’opera d’arte non ha la propria essenza fuori di sé: l’origine dell’opera non è altro che l’arte stessa. Questo privilegio - di essere compresa a partire solo da sé - non lo conosce invece la tecnica. L’origine di quest’ultima (e dunque, secondo la concezione heideggeriana, la sua propria essenza) viene o ricondotta all’atteggiamento metafisico del pensiero o dedotta dal fare poietico che fa dell’opera d’arte una “messa in opera della verità”: storicizzante apertura della lotta tra mondo e terra. In entrambi i casi, però, sussiste pur sempre uno scarto anche diacronico tra un senso originario della tecnica ed il suo senso attuale9. Così l’essenza della tecnica, in

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ultima istanza, è riconosciuta nella sua originaria verità o direttamente nella stol a dell’Essere (come un modo del suo accadere: di farsi evento e destino) o nel carattere aprente dell’opera d’arte (la quale eccede lo spazio della tecnica appunto in quanto ha in sé la propria origine, anzi è originante in senso proprio: iniziale e istitutiva). In entrambi i casi di quest’alternativa (rispetto alla quale il pensiero heideggeriano oscilla indeciso) quel che rimane sempre in ombra è paradossalmente proprio ciò che è teenico nella tecnica e, dunque, in ultima analisi la tecnica stessa. Un’enfasi analoga a quella heideggeriana la ritroviamo in Adorno, seppur con significativi spostamenti d’accento. La tecnica nell’opera adorniana è cifra del mondo amministrato: agente di un furore dell’oggettivazione che sempre più erode il terreno della libera soggettività. Ultimo asilo nei confronti della potenza di questa estrema forma dello spirito oggettivo hegeliano resta solo la dialettica negativa che la percezione può accendere all’interno della grande opera d’arte: quell’opera che al culmine del procedimento tecnico-compositivo e della volontà espressiva esibisce l’aporia dell’incompiutezza e l’enigma di ciò che resta inespresso. Di qui la sostanziale reiezione dall’ambito della grande arte di tutte quelle forme estetico-espressive dove l’elemento teenico riguarda non solo il principio della costruzione immanente all’opera, ma anche ed in maniera decisiva la natura stessa del loro farsi: quello che Benjamin definisce, appunto, come il loro esser essenzialmente riproducibili, ossia

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riproducibili dall’origine. Come se, per Adorno, nell’insediarsi della riproduci­ bilità nell’origine dell’opera d’arte venisse negata quasi a priori quella di­ mensione di mimesi negativa che co­ stituisce la tensione essenzialmente co­ stitutiva del rapporto tra arte e natura10, Mentre, come vedremo, è proprio il nesso tra il carattere di riproducibilità del procedimento tecnico e l’atteggiamento mimetico all’origine del fare artistico a rappresentare uno dei punti nevralgici del saggio benjaminiano. II novum nel rapporto tra arte e tecnica al centro della sua analisi è appunto l’emergenza ultra-moderna del principio della riproducibilità. Mettendo a fuoco questo tema, Benjamin - in un procedimento simmetricamente inverso a quello di Heidegger - proietta il problema del destino moderno dell’opera d’arte sullo sfondo politico-conflittuale di quello della tecnica. Coinvolgendo nell’intimo il processo del fare artistico, la riproducibilità rivela una ca­ ratteristica essenziale della tecnica mo­ derna: quella di saldare in unico pro­ cesso innovazione, comunicazione e ri­ produzione. La chance tecnologica, potremmo dire, sta nel caratterizzare in senso eminentemente riproduttivo la sua produzione. Qui l’istanza tecnico-produttiva compete effettivamente con l’autopoiesi della natura, mirando il suo finalismo interno a coinvolgere anche tale aspetto nell’automatica reiterabilità delle sue procedure. Così, proprio dove massima parrebbe la sua autonomia ‘concettuale’ nei confronti della natura, la tecnica - indipendentemente dal carattere perfettivo o mimetico dei suoi

prodotti e addirittura anche nel caso della loro perfetta artificialità - attesta il suo vincolo mimetico con il processo autogenerativo della physis. È quanto sembra invitarci a pensare Benjamin nel suo saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Per comprendere come, vale la pena ripercorrerlo nelle sue linee inteme. Le opere d’arte, osserva il nostro autore, sono ovviamente state sempre riproducibili per principio, ma finora lo sono state in funzione della salvaguardia della loro autenticità, mantenendo il carattere unico ed irripetibile della loro origine: l’originalità che le fa opere d’arte nel senso moderno del termine. Quel10 che muta radicalmente nello spazio di tempo che intercorre tra l’invenzione-diffusione della fotografia e quella del cinema è proprio l’idea di autenticità dell’opera: l’idea della sua originalità. L’opera d’arte in questo mutamento è come de-magizzata, sottratta al suo primitivo incanto quando prevalente era 11 suo valore cultuale. Il disincanto dell’arte è prodotto, insomma, dalla enorme dilatazione del suo “valore d’esponibilità”. Ed è appunto in virtù del peso assoluto assunto da quest’ultimo (ovvero del polo espositivo a detrimento di quello rituale) che “l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venire riconosciuta marginale” 11 . Ritengo che possiamo definire alcuni tratti di quella formazione completamente nuova in cui l’arte agli occhi di

Benjamin sta trapassando, solo se in­ tendiamo bene cosa significhi a questo punto la dilatazione della sua funzione espositiva. Il senso generale dell’esporre è quello di rendere accessibile, pubblico; quanto viene esposto cessa di essere segreto (di qui il tema della defascinazione, del disincanto), ma non per questo cessa di essere vero. Agisce qui evidentemente quello che Adorno aveva chiamato l’illuminismo di Benjamin (intimamente intrecciato, sempre secondo Adorno, con il suo misticismo) o se si vuole il motivo deH’“illuminazione profana” coniato nel celebre saggio sul Surrealismo. Quanto viene profa­ nizzato in questo caso è proprio il rapporto tra arte e tecnica. C’è una pars de­ struensdel saggio benjaminiano che corre tutta lungo questo filo tematico: di fronte agli sconvolgimenti percettivi indotti dall’opera d’arte per principio riproducibile - riproducibile nella sua stes­ sa origine - opporre come un argine le categorie tradizionali della filosofia dell’arte quali la creatività, il genio, la contemplazione, il carattere privilegiato della fruizione estetica (solo per citarne alcuni) significa agitare un inutile feticcio. Qui Benjamin non indulge minimamente ad una mitologizzazione dell’arte come ultimo asilo di un’esperienza autentica o di un accesso alla verità in opposizione al carattere degradato dell’esperienza quotidiana. Per un semplice motivo che si può desumere dalle sue osservazioni sul rapporto tra dadaismo e reclame: le categorie tradizionali della filosofia artistica nella pro­ fanizzazione moderna del rapporto tra arte e tecnica divengono, al pari delle

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opere, un articolo di massa. Hegelianamente, si potrebbe dire, queste categorie si realizzano, giungono al loro dispiegante compimento. È quanto Benjamin intende osservando come la distinzione tra autore e pubblico si avvìi a perdere il suo carattere sostanziale. Se il lettore “è sempre pronto a diventare autore” 12, d’altro canto ogni spettatore distratto può a buon diritto esercitare la funzione di critico. Se “la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte” 13, in questo processo è implicata pure una progressiva estensione al soggetto comune delle qualità del genio artistico o - se si vuole - una progressiva assimilazione della produzione estetica ad una procedura tecnica banale e comunemente accessibile. Un fenomeno, questo, che Benjamin forse intravede soltanto, ma che diventa quanto mai evidente nell’epoca del cyberspace. Alla tecnicizzazione della natura che produce il mondo in cui viviamo come un colossale artefatto, si potrebbe dire, corrisponde una crescente estetizzazione del mondo che finge la reale immediatezza della natura. Finge quella che nel “paese della tecnica” non è divenuta nient’altro che una chimera: “la vista sulla realtà immediata” e con essa la possibilità di stupirsi, di percepire come bella la sua apparenza. Fino, in breve, alla compenetrazione di questi due processi in quella produzione artificiale dell’immediatezza della sensazione che caratterizza la cosiddetta realtà virtuale. E un tema quest’ultimo che non può essere affrontato in questo contesto. Si può, però, almeno osservare come di

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fronte alle troppo liriche esaltazioni del virtuale che oggi vanno per la maggio­ re la riflessione benjaminiana può agire ancora come un salutare correttivo, La sua diagnosi relativa alla trasforma­ zione dell’arte nell’epoca della riproducibilità non significa una liquidazione. Piuttosto significa uno spostamento del terreno problematico della sua effettività e della sua funzione. Questo spostamento, che conduce a ripensare il senso stesso della tecnica, si potrebbe riassumere in una duplice formula. Per quanto riguarda l’opera d’arte in senso stretto: dalla sacrale separatezza poietica dell’opera all’ ‘orizzontale’ criticità dell’esperienza estetica14. Per quanto riguarda la tecnica in generale: dalla centralità dell’idea di ‘produzione assoluta’ a quella di “mimesi perfettiva” Con questa definizione (“vollendende Mi­ mesis”) Benjamin, in un appunto re n ­ tivo al saggio sull’opera d’arte, riassume la tesi secondo la quale “l’arte è una proposta di miglioramento alla natura, un imitare (Nachmachen) il cui più nascosto intimo è un far vedere come si fa (Vormachen)” L\ Nell’ineliminabile dimensione mimetica della tecnica c ’è dunque quell’astuzia (e quell’inganno) propri di una fare che nasce da un “sapere in anticipo”. Forse senza volerlo, nel gioco (non solo linguistico) tra Afachmachen e Vormachen Benjamin ricorda il carattere originariamente pro­ meteico della tecnica. Non è comunque quest’ultimo l’aspetto sviluppato nelle diverse stesure del saggio sull’opera d’arte e nel complesso di appunti e di varianti ad esse relative. La dimensione prevalente è piuttosto costituita

dall’innesto del tenore antropologico della riflessione su un platonismo di fondo che neanche nell’epoca tarda della formulazione dell’idea di immagine dialettica viene abbandonato. Ciò conduce Benjamin ad insistere sulla dimensione produttiva (poietica) deH’arte mimetica, ma anche la dimensione mimetica che segna fin dall’origine la produttività della tecnica. Tecnica ed arte vengono così unitariamente intese sullo sfondo di un rapporto mimetico con la natura. Se c’è una facoltà umana da cui scaturisce l’arte nel suo senso più ampio (ovvero la tedine), questa per Benjamin va individuata piuttosto che nella facoltà immaginativa in quella mimetica. Il “fenomeno originario di ogni attività artistica”, la sua stessa origine leggiamo nella seconda versione, non ancora tradotta, del saggio sull’opera d’arte - sta nella mimesis16. In questa facoltà e nell’impulso cui corrisponde come Benjamin aveva precisato nello scritto Sulla facoltà mimetica (del 1933) - non è in questione soltanto la capacità di assimilarsi e di conformarsi, ma soprattutto quella di produrre somiglianze17. Se nel primo caso la distanza rispetto all’estraneo è raccorciata fino all’identificazione-assimilazione, nel secondo si stabilisce un rapporto con esso, anzi si produce lo spazio di questo rapporto, quello spazio nel quale si gioca con l’alterità18. Di qui la polarità che, per Benjamin, domina l’atteggiamento mimetico: da un lato l’apparenza dall’altro il gioco. Il valore cultuale e quello espositivo non sono che derivati da questa coppia concettuale. Così quel che avviene nelle opere d’arte con “il depe-

rimento dell’apparenza ed il declino dell’aura” non sarebbe altro che un enorme guadagno di Spiel-Raum (di spazio di gioco)19. È qui, forse, che l’analisi benjaminiana si mostra anche analiticamente meno perspicua. Laddove, appunto, osserva come nel film “il momento dell’apparenza sia del tutto receduto a favore di quello del gioco”20, Osservare come le cose non stiano av­ fatto in questi termini sarebbe fin troppo facile. Già Adorno aveva avvertito l’amico che la sua analisi del declino dell’aura difettava di sviluppo dialetti­ co. C’è insomma un’aura tecnologica e dunque un persistere ed un risorgere potente del momento dell’apparenza già visibile nell’epoca pre-televisiva e pre­ informatica su cui Benjamin riflette (ma altre erano, come sappiamo, le urgenze storico-politiche da cui anche il saggio sull’opera d’arte è ispirato: quelle urgenze che troveranno una formulazione teorica nel testamento filosofico di Benjamin: le Tesi sul concetto di storia). Non è solo questione insomma di quella costruzione artificiosa dellapersonality al di fuori degli studi con cui il cinema risponde al declino dell’aura, Già la pretesa di ogni uomo contemporaneo a venire filmato contrasta la tesi di una revitalizzazione del momento cultuale (il culto del divo) fuori dell’opera (anziché nella produzione di apparenze in cui consiste). Se nel formulare quest’osservazione Benjamin pensa ai Tre canti su Lenin di Vertov o a Borinage di Ivens, quello che fa piuttosto è di anticipare la nota sentenza di Wahrol. Non è certo nell’assenza di un’esperienza americana che possiamo coglie-

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re il limite maggiore del saggio benjaminiano. Non è casuale del resto che proprio a Nuova York la sua pubblicazione produsse i primi dirompenti effetti. Tale limite sta forse nell’aver contrapposto così nettamente il tema dell’aura a quello della riproduzione, quasi vi si implicasse una sorta di filosofia della storia dell’arte. Hanno così buon gioco quei critici di Benjamin21che rilevano un’atteggiamento ambiguo ed oscillante nei confronti dell’aura: da un lato essa appare nel saggio come una sorta di paradiso perduto dell’esperienza, dall’altro la nostalgia per questa dimensione del passato è criticata come una residuale illusione. Il motivo di questa oscillazione, di cui Benjamin non sembra venire a capo qualora si considerino saggi contemporanei a quello sull’opera d’arte quale ad esempio quello su II narratore, non sta però tanto nella nozione di aura quanto piuttosto nella sua identificazione con l’idea di autenticità e di unicità. Sembra quasi, in base a tale identificazione, che via sia stata, un tempo, un’arte auratica irrimediabilmente destinata a scomparire con l’avvento dell’epoca della riproducibilità. Ma questa è una lettura assai superficiale del saggio benjaminiano, dei tutto dimentica se non altro della sua collocazione strategica all’interno del progetto del Passagenwerk. Se considerata in questa luce, la parvenza di uno schema di filosofia della storia relativo alla contrapposizione tra aura e riproduzione tecnica passa in secondo piano per far posto ad una riflessione sulla natura dell’esperienza e sul molo che al suo interno giocano percezione, me-

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moria e riproduzione. Per capire un possibile sviluppo di tale riflessione è opportuno allora richiamare una impor­ tantissima nota contenuta nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire. La nota in questione riguarda le Cor­ respondances di Baudelaire e consiste in una meditazione sull’idea di bello che riannoda i fili del discorso sviluppato molti anni prima nel saggio su Le affi­ nità elettive. L’interesse di Benjamin è mostrare come nella poesia di Baudelaire trovi espressione un’esperienza che cerca di “stabilirsi al riparo da ogni crisi”22. Un ambito del genere - osserva può essere cercato in prima istanza solo nell’ambito cultuale e qualora l’esperienza esca da questo ambito, può trovare asilo soltanto nel bello: “in esso appare il valore cultuale dell’arte”. Fin qui sembra che non ci scostiamo affatto dal­ lo schema di filosofia della storia soggiacente all’impianto del saggio sull’opera d’arte: prima il culto (la religione), poi l’arte come un suo succedaneo (anche se, va detto, nel saggio sull’opera d’arte la preponderanza del valore cultuale sembra indicare più qualcosa di simile alla religione artistica tematizzata da Hegel nella Fenomenologici che una secolarizzazione pura e semi­ plice dell’esperienza religiosa...), quindi un tertium ancora da definire dove la crisi della riproduzione artistica corre in parallelo alla crisi della percezione e, dunque, della stessa esperienza. Ma è nello svolgimento vero e proprio della nota che sono contenute le novità più interessanti. La definizione del bello si divide in due direzioni: in relazione alla storia e in relazione alla natura. In en-

trambi i casi “si farà valere l’apparenza” come “l’elemento aporetico del bello”. Quanto alla dimensione storica del bello Benjamin se la cava con poche battute: storicamente la sua esperienza si configura più che altro nel rispondere all’appello della tradizione che si è eoagulata attorno ad un’opera - è un “ad plures ire”, un ammirare quanto le generazioni precedenti hanno già ammirato. Si tratta, in altri termini, della dimensione passiva della formazione del gusto come conformità culturale. E uno dei modi, insomma, in cui l’apparenza storica si celebra come apparenza estetica. Il momento della discontinuità nell’habitus della percezione da Benjamin è assegnato piuttosto - e qui la presenza del Kant della Terza Critica è evidentissima - all’esperienza del bello in relazione alla natura. Non è in questione qui, ovviamente, una partizione oggettuale (relativa alla ‘materia’ del bello), quanto piuttosto una distinzione formale (relativa alla qualità dell’esperienza: al carattere d’immediatezza ed insieme di potenza critica inerenti alla percezione qui in gioco). In questo caso quello che Kant avrebbe chiamato il bello naturale si presenta come “ciò che rimane essenzialmente identico a se stesso solo sotto un involucro”23. Cosa intende Benjamin con questa definizione che trae, con una criptoautocitazione, dal saggio sulle Affinità elettive? Tra le molte cose possibili, senz’altro la natura di apparenza necessaria del bello, il suo carattere puramente relazionale. Non un’essenza che si cela dietro i fenomeni o (è lo stesso) che si manifesta in essi, quanto piuttosto qualcosa che si di-

spiega nella pura relazione percettiva ed insieme si sottrae ad ogni definizione, In questa relazionalità si celebra insieme la massima prossimità e la massima distanza con quello che in mancanza di parole si chiama l’oggetto dell’esperienza (la ‘cosa’ bella). Bello è, con le parole di Benjamin, “l’oggetto dell’esperienza nello stato della somiglianza”24, Uno stato - o meglio: un mai-stato da cui siamo comunque distanti. Come se, nel percepirlo, ce ne ricordassimo. E il motivo per cui ogni esperienza del beilo si gioca tra la sensazione del mai-visto prima e quella del familiare: tra la tonalità del puro inizio e quella del riconoscimento. Rispetto a quest’esperienza, il carattere di involucro del bello rappresenta già un’istanza riproduttiva: vale insomma come “l’elemento riproduttivo (imitativo) dell’opera d’arte”. Non è un’affermazione di poco conto. E Benjamin se ne accorge benissimo: quella di cui fa uso, nota, è certamente un’“abbrevazione ardita”. Con questa breve osservazione Benjamin scompiglia non poco la possibilità di leggere il saggio sull’opera d’arte come segnato da una contrapposizione diacronica tra un prima ed un dopo la ri­ producibilità tecnica dell’opera d’arte, Nell’opera d’arte in quanto riproduzione e mimesis - leggiamo nella nota al saggio su Baudelaire - consiste piuttosto il “concetto ermetico di arte”. Se questa è la tesi benjaminiana relativa all’arte ed al bello, la novitas costituita dall’epoca della riproducibilità tecnica viene alquanto ridimensionata. La ten­ sione tra la riproduzione tecnica (nella quale, osserva riduttivamente Benjamin,

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nel corso del saggio su Baudelaire il bello non avrebbe “alcun posto”25) e l’unicità-irripetibilità dell’opera d’arte cosiddetta ‘tradizionale’ (pre-tecnologica, tanto per intendersi) è una tensione assai meno problematica di quella tra il momento mimetico-riproduttivo del bel10 e l’oggetto (o piuttosto l’idea) che ad esso sempre si sottrae. Mettendo a giorno quello che l’arte è sempre stata ossia una variante della tecnica in generale, l’epoca della riproducibilità spinge piuttosto a chiedersi perché proprio in questo caso (nel caso della cosiddetta arte bella ovvero della tecnica il cui prodotto ha il proprio fine in se stesso) 11 momento della mimesi e della riproduzione sia prevalente rispetto a quello puramente produttivo e perfettivo delle altre technai. Forse appunto per il motivo che qui si tratta di produrre proprio l’irriproducibile. Quella che con un’abbreviazione ancora ardita si potrebbe chiamare natura: quella natura che noi stessi siamo e dunque quel carattere di aintenzionalità che sempre inerisce alla forma dell’esperienza come quanto, nel bene o nel male, non possiamo far altro che ricordare. La techne che mira al bello anche per questo motivo è detta da Platone techne mousikà. Appunto in quanto è techne ispirata dalle Muse, la sua mimesi (ri)produttiva nasce dalla intima solidarietà tra l’esperienza e la memoria. È la stessa ragione per cui la sua opera è diretta unicamente al percepire, aWaisthesis, ma ad un percepire paradossalmente riflettente e dunque capace di custodire il gesto del ricordare. Ecco: quanto forse ci troviamo a dover pensare nell’epoca della (ri)produ-

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zione digitale dell’opera d’arte è una ori­ si della memoria come effetto di un’inflazione percettiva. Nell’epoca post-traumatica che ci troviamo a vivere, nell’epoca di un anestetismo di massa per l’arte non è più questione di parare ( o ancor meno di provocare) chocs. L’interiorizzazione e la metabolizzazione del principio dello choc ha in qualche modo minato a priori l’autoconsistenza dell’opera, rendendo sempre più scheggiato e mobile il rapporto tra il suo contenuto di verità e la sua stessa forma; dunque il rapporto stesso tra i “momenti messianici” in cui per Benjamin consiste l’attualità dell’opera e quei “momenti ritardanti” in cui la percezione si arresta26. Forse andiamo verso una nozione più fluida (più legata all’immediatezza percettiva) ed insieme ancora più astrat­ ta (più mentale) di opera e di bellezza; in breve: verso quella concezione dell’arte più profana e, nello stesso tempo, più mistica intravista da Benjamin, Tutto ciò ha, d’altra parte, delle inevitabili conseguenze per il nostro mo­ do di concepire la tecnica e la sua drammatica connessione con la politica. In­ nanzitutto anch’essa, in quanto “seconda natura”, si fluidifica fino a dilatarsi in un ambiente dalle dinamiche difficilmente prevedibili. Ciò costringe a pensarla nella potenza della sua imma­ nente astrazione. Al punto che il pro­ blema politico relativo all’impatto sconvolgente dell’innovazione tecnologica sulla vita sociale sarà quello di governare non solo l’inevitabile tensione tra quest’ultima e la natura nel suo senso immediato, ma anche quella che si produce a partire dalla progressiva artifi-

cializzazione del contesto ambientale della vita umana. Ricordare il cuore mimetico del principio di riproducibilità in cui consiste la tecnica, può sottrarre la politica al mito della sua riduzione tecnicistica (del suo livellamento nell’orizzonte delle altre tecniche). Nella grande ripresa del mito di Prometeo contenuta nel Protagora platonico la tecime politikè non è annoverata tra le teeniche che sorgono dal gesto prometeico. Essa, ricorda Protagora, è un supplementare dono di Zeus che invia Hermes a distribuire tra gli uomini il rispetto e la giustizia. C’è dunque nell’arte politica un elemento di grazia (o, se volete, di felice contingenza) tale da sfuggire alle dinamiche di trasmissione di un sapere e dell’insegnamento di un’abilità tipiche di ogni tecnica (della sua intrinseca regolarità). D’altra parte senza questo dono divino gli uomini non riescono a “raccogliersi insieme” e a “saivarsi fondando Città” {Protag., 322b). Qui Protagora ha in mente la minaccia delle fiere e la necessità di imparare Parte della guerra che è parte della politica. C’è da aggiungere che nemmeno le tecniche demiurgiche, risorse della mera sopravvivenza umana, riescono a saivarsi: a stabilizzarsi e a trasmettersi senza politica. La contingenza che essa deve governare è dunque - e in epoca moderna in misura primaria -quella riflessa, alla seconda potenza, del corpo sociale, prodotto dalla pluralità delle technai e attraversato dal loro reciproco competere. L’aporia verso cui Socrate spinge il sofista Protagora convinto della perfetta insegnabilità a ciascun cittadino di quel sapere da cui nasce l’arte

politica sta nel costringerlo ad ammettere che quest’ultima suppone una ‘tecnica’ della misura (una techne metretikè) relativa al discernimento tra Tec­ cesso e il difetto in relazione a ciò che è bene e male. Questa techne, che deve sempre lottare con la dynamis dell’apparenza (con la potenza dell’effettività fenomenica)27, è quella che “ci salva” (Protag., 356e). Essa riguarda la dimensione meta-tecnica della psiche, dove il divenir-uno del governo di Sé com­ cide con la dimensione autointerrogativa della coscienza28. Proprio perciò questa tecnica non è insegnabile, non si tra­ smette: si può solo apprendere da sé; dunque, in ultima analisi, “non è una tecnica”29. Ma se è da essa che la stessa techne politikè dipende, vi è allora un ineliminabile conflitto tra il carattere in­ timamente irriproducibile di quanto la produce (la sua essenziale gratuità) e il destino-sviluppo delle tecniche istituite nel gesto prometeico. Tale gesto, che stringe in un’unica, necessaria connessione il sapere tecnico (quello che Pia­ tone nel Protagora chiama entechnon sophia) e la contingenza della natura (il fuoco carpito agli dèi), può dirsi il gesto istitutivo del dominio dell’artificio come unico ambito nel quale la natura umana può svilupparsi e addirittura semplicemente sopravvivere. D’altra parte questo stesso dominio è di per sé privo di governo e quindi sempre esposto al rischio di una anarchica autodistruttività. Il circolo tra innovazione, produzione e diffusione che ne detta il ritmo artificialmente evolutivo lo spinge verso una necessaria dismisura. Essenziale, in proposito, è ricordare che all’ori-

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gine di questa hybris produttiva c ’è quell’istanza della riproducibilità attraverso la quale la tedine dell’uomo gioca d’astuzia con la potenza generativa della natura. In tale istanza la teenica conferma la contingenza della sua origine e, con essa, la fragilità del furto mimetico che ne riassume il senso, Solo nel ricordo di ciò, nel ricordo del gesto necessariamente disarmonico con il quale l’uomo risponde alla sua non immediata adattabilità al ritmo della natura, la tedine può custodire nel suo intimo il vincolo della distanza non solo nei confronti della natura ma anche nei confronti di se stessa. La misura di questa doppia distanza la si percepisce, in maniera neanche tanto paradossale, già nel fatto che l’essere dell’uomo è inadatto sia alla natura che alla tecnica, Ciò rafforza Io stesso carattere metatecnico della politica, in quanto governo del mondo plurale e multiverso delle passioni umane, e rivela il circolo di una reciproca risoluzione tra identità umana e artificio come sommamente vizioso. In esso si affermerebbe un senso della tecnica perfettamente immemore della sua origine mimetica (una tecnica come produzione assoluta e dunque produzione dei suoi stessi presup-

posti). Che la possibilità di una tecnica letteralmente anarchica sia implicita nello stesso gesto prometeico, fa parte del suo carattere tragico. Questo non sarebbe tale se non contenesse, in uno, anche il suo opposto: la possibilità di convertire in senso virtuoso la circola­ rità tra artificio e natura come costitutiva dell’essenza dell’uomo. Tale possibilità, che non elimina certo la tragicità iniziale (questa è la forma stessa della tedine), è affidata in ultima istanza a quell’apertura della memoria e dell’esperienza da cui può nascere una buona politica. Il che vuol anche dire mantenere la stessa tedine nei suoi in­ terni limiti. E questo, per chi non lo avesse capito, significa pensare fino in fondo la tecnica come automaton ossia nell’unità polemica tra contingenza e necessità, tra innovazione e riproducibilità, tra chance e destino, tra evento e ambiente. Forse è proprio questo il lato tecnico della tecnica rimasto finora in ombra. Illuminarlo, significa intendere che l’essenza della tecnica è il puro artificio mimetico, caso e legge in uno, in cui essa si istituisce. Perfino nella memoria della sua origine, l’essenza della tecnica si conferma come qualcosa di tecnico.

Note 1 Cfr. W. Benjamin, Critiche e recensioni. Tra avanguardia e letteratura di consumo, tr. it., Einaudi, Torino 1979, p. 161 2 Per una discussione assai avvertita di questo tema cfr. il recente volume di U. Fadini, Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Edizioni Dedalo, Bari 2000.

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3 Cfr. ad esempio quanto affermato da Kant nel saggio su La fine di tutte le cose, in ld., Questioni di confine. Saggi polemici (17861800), a cura e con un Introduzione di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, p. 44. 4 Nella seconda versione del saggio sul Kunstwerk Benjamin caratterizza appunto in questi termini il significato moderno della tec-

nica in opposizione a quello magico-rituale. Mentre in quest’ultima accezione della teenica si mira ad una identificazione appropriativa, nella prima (quella propriamente moderna o comunque deritualizzata) si prende distanza dalla natura. Ma appunto questa, per Benjamin, è la condizione di poter intendere l’agire tecnico come cooperativo nei confronti della natura: un giocare con essa. E appunto attraverso l’attività mimeticoespressiva del gioco l’uomo prese distanza “con inconsapevole astuzia” dalla natura. Si veda per questo W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhàuser, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1972-1989, VII (1989), 1, p. 359-360. È questo, ovviamente, il punto di maggiore distanza dalla diagnosi heideggeriana. Ad un confronto tra il saggio Heidegger su L ’origine dell’opera d ’arte e quello di Benjamin è dedicato il capitolo 3 della Parte seconda di F. Desideri, La porta della giustizici. Saggisu Walter Benjamin, Edizioni Pendragon, Bologna 1995, pp. 101-117. 5 Appunto in quanto, come sostiene Aristotele in Fisica, II, 199b 26 e ss., al pari delia physis nemmeno la techne è governata da una volontà deliberante, che rappresenta piuttosto la causa esterna del suo processo produttivo. Quest’ultimo è quindi governato da una immanente legge al modo del suo prodursi (il suo finalismo interno) che l’assimila a quello della natura. In merito si veda quanto osserva M. Isnardi Parente in Tecline. Momenti del pensiero greco da Piatone a Epicuro, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 153 e ss. In queste stesse pagine l’autrice spiega bene come la dimensione aristotelica de\Y aut ornatoli corrisponda al senso della necessità (di ananke) di cui Piatone parla nel Timeo. W. Benjamin, Critiche e recensioni. Tra avanguardia e letteratura di consumo, cit., p. 161. 7 Cfr. M. Heidegger, La questione della teenica in Id., Saggi e discorsi, tr. It. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. Ivi, p. 26. 9 Qualcosa del genere potrebbe valere anche per la distinzione benjaminiana tra un senso magico-sacrale ed uno moderno della tecnica. Ma in questo caso la successione diacronica perde la sua rigidità e si sincronizza nell’attualità di un conflitto politico intorno

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al destino della tecnica, di cui Benjamin scorge precocemente gli esiti catastrofici, Per lo sviluppo di questo tema in Adorno rimando a F. Desideri, Mimesis e techne nella Teoria estetica, in “Nuova Corrente”, a. XLV (1998), n. 121/122, pp. 173-188 (numero monografico su Adorno) W. Benjamin, L ’opera d ’arte n ell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. It. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 28. Ivi, p. 36. Ivi, p. 38. Quanto le ingenue letture del saggio benjaminiano in chiave‘materialistica’ non hanno visto è che questo passaggio segnato dal venir meno della concezione magico-sacrale dell’arte è in strettissima connessione con il liberarsi del suo carattere mistico (nel senso appunto che la verità mimetica dell’opera vive nella percezione). Con le parole stesse di Benjamin: “la concezione dell’arte di­ viene tanto più mistica, quanto più l’arte si allontana dalla genuina utilizzabilità magica; quanto maggiore è invece questa utilizzabilità magica (e nell’epoca primitiva lo è al massimo), tanto più non mistica è la con­ cezione dell’arte” (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., I, 3, p. 1050). Nello stesso foglio viene chiarito anche il senso moderno del rapporto tra tecnica e po­ litica: “La tecnica liberata include il venire a capo delle forze sociali elementari come condizione per il venire a capo di quelle naturali (nei tempi primitivi vige la relazione inversa: il dominio delle forze naturali inelude quello di certe elementari forze sociali)” (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., I, 3, p. 1047). Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., VII, 1, p. 368 (nota). W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino 1995, p. 71. Quello che Benjamin non sottolinea in proposito, a motivo forse di un’ispirazione fourierista indubbiamente presente nella sua riflessione sulla tecnica, è la misura di violenza implicita in questo gioco. Questa emerge, però, in una annotazione del 1936 che costituisce un’importante variante alla sua teoria della mimesis del 1933: “La cono­ scenza che la prima materia in cui si cimenta la facoltà mimetica è il corpo umano sarebbe da rendere fruttuosa, con una forza mag-

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giore di quanto finora non sia avvenuto, per la storia originaria delle arti. Così ci si dovrebbe chiedere se la primitiva mimesi degli oggetti nella rappresentazione coreica e figurativa non poggi ampiamente sulla mimesi delle effettuazioni in cui l’uomo primitivo entrò in relazione con questi oggetti. Forse l’uomo dell’età della pietra disegna l’alce in maniera così incomparabile, poiché la mano che guidava lo stilo si ricordava ancora dell’arco con cui ha ucciso l’animale.” (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., VI, p. 127). 19 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., VII, 1, p. 368 (nota). 20 Ivi, p. 369 (nota). 21 Cfr. ad esempio quanto sostengono A. Hennion e B. Latour nel saggio L ’art, l'aura et la distance selon Benjamin, ou comment devenir célèbre enfaisant tant d ’erreurs à la fois... apparso in H.U. Gumbrecht - M.

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Marrinan, Mapping Benjamin: The Work o f Art in thè Digital Age, Stanford University Press, 1995. 22 W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 117 (nota). 23 Ivi, p. 118. 24 Ibidem. 25 Cfr. ivi, p. 124. 26 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., VI (1985), p. 126. 27 Cfr. Protag., 356d. 28 Per questa tematica rimando a F. Desideri, L ’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica, Feltrinelli, Milano 1998, in particolare alle pp. 80-104. 29 Per questa tesi relativa al Protagora platonico cfr. D. Roochnik, O f Art and Wisdom. Plato’s Understanding o f Tedine, The Pennsylvania State University Press, University Park , Pennsylvania 1996, in particolare pp. 211-231.

GIANLUCA BONAIUTI

TROPISMI DEL RISCHIO Tecniche d ’insicurezza

Vous ètez embarqué B. Pascal / ^

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a prima cosa che dobbiamo considerare è che il denaro che i gioJ catori hanno messo nel gioco non appartiene più a loro [...] Ma in cambio hanno ricevuto il diritto di aspettarsi ciò che la fortuna porterà loro, in accordo con le regole su cui si sono accordati all’inizio”. Così Pascal, preoccupato per il pareggiamento morale dei conti tra scommettitori in materia di gioco d’azzardo, risponde ai dubbi di Fermat1. Chi in vista di un premio vistoso non è disposto a rischiare resta con un sentimento di sicurezza rispetto ai propri averi, ma perde il bottino potenziale che alletta il giocatore. Detto altrimenti, non ci si può aspettare di realizzare grossi profitti senza correre il rischio di grosse perdite. Pascal precursore degli spericolati scommettitori di borsa? Forse: se non altro la sua risposta serve oggi a leggere l’allentamento dei confini tra scommesse d’azzardo e investimenti, le cui logiche la teoria economica classica teneva rigidamente separate, e spiega, se ancora ce ne fosse bisogno, come anche nei serissimi (quan­ to a conseguenze) scambi borsistici resti una componente ludica, di scommessa e di gioco, che male si adatta alla rigorosa tragicità delle conseguenze cui le sconfitte portano. In fondo la differenza fondamentale tra speculazione, in quanto attività orientata verso la percezione del futuro, e gioco d’azzardo (gambling) dipende in larga parte dal fatto che, di fronte alla prospettiva di forti perdite,

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c’è chi preferisce alzare la posta piuttosto che accettare una perdita sicura ma contenuta. La sensazione, ammesso che ci si trovi in presenza di un gioco, è quella di uno o più giocatori che finiscono troppo spesso giocati dal gioco. Certo non tutti i giocatori: c’è chi decide e chi nella scommessa è coinvolto senza saperlo e senza poter opporre alcuna resistenza. In questo caso la dimensione del rischio diviene così centrale ed autoevidente che la ricerca di tecniche di assi­ curazione prende campo fino a sopra­ vanzare il terreno delle scommesse dirette2. Anzi: essa stessa diviene territorio di scommessa. Il mercato dei prodotti derivati, di quei prodotti che servono a coprire le spalle dello scommettitore, è divenuto a sua volta un territorio di ulteriori controversie sul rischio, un campo di mediazione e attrito in cui la con­ troversia è tutta la materia del contendere. Su una cosa è sempre più arduo di­ scutere: sul fatto che qui (in campo finanziario) come altrove (ad esempio nei rischi ecologici delle alte tecnologie) siamo tutti sulla stessa barca e chi lo nega rischia di non capire dove il gioco comincia e dove finisce,

La vita significa essere in pericolo, l’esistenza significa rischio H. Plessner 1. Un secolo fa, scrive Bauman sulla scorta di Freud, chi avesse deciso di stilare un bilancio della civilizzazione avrebbe dovuto mettere in conto, come premio finale di un lungo processo di sviluppo, la sicurezza, magari a scapito

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della libertà. Dopo sessanta anni il bilancio va rovesciato: “I problemi e gli scontenti attuali più comuni sono, come i loro predecessori, prodotti di un tradeoff, ma questa volta è la sicurezza che è sacrificata giorno dopo giorno sull’altare della libertà individuale in costante espansione”3. Per quanto si possa discutere sulla caratura di tale libertà, sulla universalità o meno del guadagno che ne consegue, è indubbia la costanza di un richiamo su cui si insiste praticamente in ogni sfera della società. Bauman suggerisce l’utilizzo di una parola di derivazione freudiana per qualificare la condizione d’insicurezza che ne consegue: unsicherheit, parola in cui sono contenuti tutti insieme i significati di unaprecarizzazione delle condizioni di vita nel mondo occidentale. In una parola, insicurezza, incertezza, rischi per la salute, Una pluridecennale attenzione dedicata alla ricorrenza delle metafore nautiche, tanto nella letteratura filosofica che in quella scentifica, ha addomesticato la ricezione del rischio come dimensione inesauribile di senso per la vita. Un allenamento che almeno in termini metaforici funziona. La vita di ognuno starebbe sotto il segno del rischio, delle conseguenze che esso comporta. Almeno a partire dall’età moderna la riflessione di tale segno comporterebbe perfino la definizione dell’individualità. Dalla filosofia della vita alla filosofia dell’esistenza l’immagine del naufragio incarna la situazione limite deli’esperienza. Anzi, tanto il naufragio che l’osservazione a distanza della sua occorrenza ed emergenza determinerebbero fin nel dettaglio una soggettività

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capace di una risposta a sfida. E’ sufficente a tal proposito (il suggerimento è di Blumenberg in una pagina di commento a Simmel)4 menzionare la ricorrenza degli autoparagoni con Colombo di Nietzsche e l’influenza che hanno avuto su un secolo di autoriflessione sulla posizione originaria dell’uomo, Il rischio maggiore, se si segue questa linea di ricostruzione della metafora, sarebbe quello di scambiare la nave per una nuova casa, finire per credere che la nave sia la terra. Dare vita a quella forma di idealizzazione del naufragio, che fa della nave l’unico tema, senza in fondo preoccuparsi del fatto che restare sempre sulla nave, accompagnare il naufragio, ovvero la navigazione in nessun luogo, mette a dura prova la fi­ ducia del passeggero. Se mancano i punti di osservazione sicuri e privilegiati, se nessuno è solo spettatore e tutti nello stesso momento naufraghi potenziali, la fiducia tende a sparire. E ad essa si sostituisce la paura, Una volta affidatisi a questo campo metaforico è inevitabile fare una di­ gressione per chiedere da dove provenga il materiale alla deriva. Una volta a bordo, una volta salpato, il navigante dipende dalla nave più radicalmente di chiunque altro da un altro veicolo; la metafora secondo cui il governo della nave è nelle sue mani è più che altro apotropaica. Infatti su questo oggetto non si può più mettere mano secondo bisogno: lo stare e il metter mano dipendono da una stessa cosa. Lo dimostra con la solita consapevolezza Bauman, quando per designare in una metafora disperante il corso attuale delle

cose sostiene che l’insicurezza attuale è affine al sentimento che i passeggeri di un aereo possono sperimentare quando scoprono che la cabina del pilota è vuota, che la voce amichevole del capitano è semplicemente una replica di un vecchio messaggio registrato. In passato, almeno a seguire i dettami della metafora, ottimisti o pessimisti, fiduciosi o sfiduciati, il problema era quelio di decidere se farsi coinvolgere oppure no, e rannicchiarsi di conseguenza in uno scettico distacco. Questa possibilità di scelta è ciò che è ora impossibile. Non si sarebbe mai ricorso ad una definizione terribile come quella, tanto fortunata, di società del rischio per designare l’attualità di una condizione vulnerata. Qui Blumenberg aggiungerebbe forse una chiosa: per spiegare la fortuna di una formula disperata occorre rivedere la nostra posizione rispetto al mondo nel suo complesso. Non più solamente metafora nautica, ma con un salto di scala nello spazio, la metaforica dell’astronautica geotropica. “Sul piano metaforologico l’astronautica interviene sulla sottile linea di confine tra sicurezza e pericolo, tra ovvietà e novum. II suolo sotto i piedi, metafora comune quando si deve lamentare una perdita di realtà e di realismo, diventa la metafora delle inosservate sicurezze di cui è fatta la sindrome da mondo della vita quando “si deve descrivere l’abbandono del mondo della vita”5.

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. I termini del problema, almeno nella sua generalità sono noti. Nelle società industriali tradizionali la logica di produzione della salute e della sicurez-

za domina la logica di produzione del rischio, nella società del rischio la relazione è rovesciata. La distribuzione di rischio e sicurezza dipende da fattori di ordinamento sociale del corpo politico che nella modernità accelerano in vista di una più accorta riorganizzazione biopolitica. Le forze di produzione hanno perso la loro innocenza nella riflessività dei processi di modernizzazione. Il gua­ dagno in termini di potere garantito dal ‘progresso’ tecno-economico è stato sopraffatto in modo crescente dalla produzione di rischi. Ad uno stadio ancora precoce questi possono essere legittimati come effetti collaterali involontari e latenti. Nel momento, però, in cui tali effetti divengono globali, e soggetti ad una critica pubblica e ad investigazioni scientifiche, emergono, per così dire, dietro le quinte e acquistano una importanza centrale nei dibattiti socia­ li e politici. Questa ‘logica’ della produzione e distribuzione del rischio è sviluppata in parallelo alla ‘logica’ della distribuzione di salute e sicurezza (che ha condizionato così a fondo il pensiero sociale teorico). Al centro si trovano i rischi e le conseguenze della modernizzazione, che si presentano come minacce irreversibili alla vita delle piante, degli animali e degli esseri umani. A differenza dei problemi di produzione e occupazione del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo, queste minacce non possono più essere limitate a certe località o gruppi, piuttosto esibiscono una tendenza alla globalizzazione che abbraccia produzione e riproduzione, così come i confini nazionali, e in questo senso fanno emer-

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gere sfide globali sopranazionali e non di classe specifica con un nuovo tipo di dinamismo sociale e politico6. II dato dell’esplosione dei rischi sociali tocca però solo un lato della società del rischio. L’altro lato viene in chiaro nel momento in cui si pongono le contraddizioni immanenti tra modernità e contromodernità nella società industriale al centro della discussione, Da una parte, infatti, la società indùstriale è pianificata come una estesa società di gruppo nel senso di una società di classe o comunque una società stratificata nel passato, nel presente e per il futuro. Dall’altra, le classi rimangono vincolate alla validità delle culture e delle tradizioni sociali di classe, che nel corso dello sviluppo post-bellico sono in un processo di perdita del loro carattere tradizionale7. Siamo ancora ad un livello di generalità appena tangibile. Manca cioè il dato concreto che definisca questo e quel rischio, questa o quella fonte di pericolo. Giova sottolineare però che il cambio di paradigma comporta una netta lesione della libertà di scelta. Siamo tutti coinvolti: non solo, siamo tutti costretti a riflettere il nostro coinvolgimento.

Ma dove c ’è controllo/cresce anche il rischio F. Hölderlin 3. Il fatto che la tematica del rischio oggi attiri su di sé tanta attenzione e che la società stessa si definisca addirittura come società del rischio è dovuto soprattutto agli sviluppi tecnologici rapi-

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di in campi che si avvalgono del con­ tributo scientifico della fisica, della chimica e della biologia8. L’espansione immensa delle possibilità tecnologiche ha focalizzato l’attenzione sui rischi ad essa connessi. Il rifiuto delle tecnologie, quando viene esplicitamente professa­ to, dipende dai rischi che bisogna correre quando si introducono nuove tecnologie. L’ordine di grandezza che queste hanno raggiunto non lascia spazio a dubbi: si tratta di misurare senza sosta i danni che queste possono procurare, Nel nostro itinerario interno alle figure del rischio il caso delle tecnologie di punta, così come quello delle speculazioni finanziarie da cui abbiamo preso le mosse, serve abbastanza bene ad una precisazione concettuale che dovrebbe essere preliminare e che invece spesso viene trascurata. Il nostro concetto di rischio (il suggerimento è di Luhmann) dipende da una distinzione ri­ spetto al concetto di pericolo. I due piani nei limiti del possibile non andrebbero confusi. Per entrambi vale una con­ dizione d’incertezza relativa ai danni fu­ turi. L’eventuale danno può essere visto come conseguenza della decisione, viene cioè attribuito ad essa, nel qual caso parliamo di rischio, di rischio della de­ cisione. Oppure, si pensa che l’eventuale danno sia dovuto a fattori esterni e viene quindi attribuito all’ambiente: in questo caso si parla di pericolo. Anche alla luce di questa distinzione va rivista l’intera questione dei rischi tecnologici. La drammatizzazione dell’opposizione tra i decisori e coloro che sono coivolti nelle decisioni loro malgrado, per quanto efficace in termi-

ni comunicativi, non serve a fare luce sugli aspetti più problematici dei pròblemi posti alla società contemporanea dali’incremento degli interventi tecnologici più avanzati. Come suggerisce ancora Luhmann, ad essere in questione è il concetto di tecnica. Si tratta cioè di vedere “se, di fronte agli sviluppi della trasposizione tecnologica del sapere scientifico, possiamo mantenere inalterato il concetto di tecnica con cui abbiamo registrato i fenomeni fino ad oggi”9. La distinzione tradizionale tecnica/natura, ancora attiva nella definizione di controversie relative all’uso di determinati supporti tecnologici, non aiuta molto su questo piano: procura al massimo un irrigidimento dei fronti regolato concettualmente in cui una distinzione finisce col diventare controversia. Luhmann suggerisce un’altra forma per il concetto di tecnica: occorrerebbe intendere come tecnica una semplificazione chefunziona nel medium della causalità (possono essere individuati di volta in volta altri media, come ad es. nel calcolo economico, estendendo così il concetto di teenica). “Si può anche dire che all’interno dell’ambito semplificato vengono fissati degli abbinamenti rigidi (in normali circostanze funzionanti, ripetibili ecc.), cosa che è però possibile soltanto se viene decisamente esclusa l’interferenza dei fattori esterni. Perciò la tecnica può essere concepita come chiusura causale estesa di un ambito operativo” 10. Il risultato di ogni operazione di tecnicizzazione è un isolamento più o meno riuscito delle relazioni causali. Le conseguenze di tale operazione, nei limiti del successo conseguibile, dovrebbero es-

sere da un lato una maggiore controllabilità dei processi, la pianificabilità delle risorse disponibili, l’imputabilità e ri­ conoscibilità degli errori, ivi compreso il logoramento. Nei limiti in cui la tecnica è possibile (limiti che dipendono da un insieme di fattori, generalmente rife­ riti alle condizioni economiche) essa consegna all’esperienza sociale uno strumento di riduzione dell’immensa complessità dei processi causali che si svolgono contemporaneamente in ogni ambiente. A questo modo la tecnica perde i tratti di una forma di razionalità cui andrebbero contrapposte altre forme di razionalità alternative (ad es. non tecniche, non strumentali, non strategiche), “La tecnica è un’installazione (riuscita, meno riuscita, non riuscita). L’utilizzo crescente di tecnica nella società modema, così come la rappresentazione del mondo secondo il modello della tecnica (i cui contenuti sono le leggi di natura, la metodologia, la clausula “ceteris paribus”), non implica dunque alcun giudizio sulla razionalità della società e, se la non-distinzione di questi due aspetti è stata il modello di razionalità specifico dell’Europa, allora si può accelerar­ ne la dissoluzione senza che ci sia bisogno di discorsi liberi dal dominio, dall’acustica verbale di Heidegger o della mistica estremo orientale” 11. Un invito alla sobrietà conservativa. Più in generale, con accenti che possono più o meno piacere, ma che comunque non possono essere sottovalutati, un richiamo e una critica a quegli atteggiamenti, filosoficamente ‘curriculati’, di interpretazione della tecnologizzazione del mondo come patologia, perdita di sen-

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so, morte per naufragio, il cui esito pratico è stato certamente quello di veicolare le inquietudini generate dalla rischiosità di certe tecnologie lasciando poi un terreno praticamente vergine alle analisi del rischio più prossimo e reale. In altre parole, lasciando al mercato il compito esclusivo di limitare l’utilizzo reale della tecnica, di delimitarne l’impiego. Si rompe allora anche con il paradigma classico che legge la tecnica secondo un modello di razionalità riferibile alla coppia mezzo/scopo e ci si sposta in una nuova postazione osservativa in cui gli effetti ecologici e con essi i rischi ecologici della tecnica tendono ad essere spiegati soltanto tenendo conto del fatto che gli artefatti tecnici stessi sono installati sul piano della realtà fisica, chimica e organica e che essi cercano di strutturare questa realtà mediante la differenza tra causalità controllate e causalità incontrollate. Ciò non significa in alcun modo sottrazione dell’esperienza dal rischio (qui dovrebbe cominciare la vera discussione sulle conseguenze ecologiche della tecnica materialmente realizzata nella società contemporanea e sulla definizione stessa di ecologia), più sobriamente una riconfigurazione dell’intera problematica, le cui conseguenze non possono non essere anche politiche. 4. Tra gli esiti più sorprendenti della teoria dei sistemi applicata al contesto politico sociale vi è la scoperta dell’irònia come veicolo di rappresentazione dello stato. Più che una medicina per il ricercatore scoraggiato e contratto, pare

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un vero e proprio riposizionamento epistemologico. Helmuth Willke suggerisce che il solo modo di osservare lo stato può essere oggi quello ironico, una strategia di osservazione che, modella­ ta sulla nozione rortiana di ironia, accetta soluzioni contingenti ai problemi sociali come contingentemente necessari, soluzioni che non hanno mai la pre­ tesa di essere “finali” ma che tengono al contrario lo spazio aperto a ulteriori azioni possibili, o meglio ancora, contribuiscono ad allargare lo spettro12. Una ri­ nuncia al preteso assolutismo della realtà e nello stesso tempo all’onnipotenza del pensiero. Un ridimensionamento che non nasconde di riconnettersi alla povertà e debolezza biologica dell’uomo. In fondo il rischio, ancora, è che lo sguardo di­ retto sulla realtà soffra del pensiero segreto dell’osservatore: quanto esso spre­ ca in affollamento, rumore e tormenti è troppo, per non dover pensare di sostituirla. “Forse solo perché nelle concatenazioni del nostro rifornimento di realtà ci sarà sempre un posticino per il Dieu trompeur che un giorno Cartesio mise al mondo?”13. Nella sua ambiziosa tipologia delle epoche politiche e dei regimi di governo (o governabilità) lo stesso Willke ha illustrato il dissolversi di poteri e funzioni statali. L’età dello stato nazionale in Europa sta sotto il primato del “regi­ me di potere” e della coercizione e il problema risolto dall’osservazione è l’affermazione della sovranità all’interno e all’esterno. La necessità dello stato è affermata nella forma di una teoria che ne rivendica il carattere di unità di tutte le differenze, in particolare di tutte le dif-

ferenze che si mostrano nel contesto della società civile (contrapposta al concetto di stato e interpretata in termini che sono prevalentemente quelli dell’economia). L’epoca dell’edificazione dello stato sociale tra il XIX e il XX secolo poggia su un “regime dell’assicurazione” in cui la sicurezza si pone come il fuoco dell’attenzione sociale e politica, A questo stadio la misura della contingenza delle risposte politiche ai problemi di contingenza ambientale prodotta dai processi sociali è riflessa nella consapevolezza del carattere non terminale né definitivo delle soluzioni adottate. In seguito alla dinamica tecnologica si sviluppa però nel XX secolo anche un “regirne del rischio” per il quale il problenia sociale dominante è quello della qualità della vita rispetto alle minacce dell’atomo, della chimica, della biotecnologia. È questa la fase della radicale demagificazione, del radicale disincantamento dello stato, perché il regime del rischio favorisce l’irresponsabilità organizzata e mette in discussione la capacità della politica e dello stato di prendere in modo razionale ed equo decisioni collettivamente vincolanti. Ironia qui traduce una forma matura di disincanto in un modello di osservazione dello stato che riflette consapevolmente la contingenza delle decisioni politiche. In questo stadio lo stato abbandona la pretesa di raccogliere nell’unità della rappre. ■ ,, • s , i, ,-rr sentazione sovrana 1 unita della differenza e particolarità dell’ambiente sociale14. Anche così si spiega l’affermazione di Luhmann che la società del rischio non ha alcun eroe né alcun signore. Es-

sa rompe con le forme tradizionali del­ la reciprocità e sostituisce i meccanismi compensativi tradizionali mediante l’organizzazione dello stato previdenziale, creando così un clima di pre­ tese che può fornire molto più aiuto di prima, ma che nello stesso tempo incrementa la dose di delusione. Irresponsabilità organizzata significa anche assenza di solidarietà reale intorno a temi condivisi. Le forme di aiuto or­ ganizzato non generano in alcun modo solidarietà: la distribuzione di rischi e pericoli non è favorevole a questo proposito15. Per chi deve ricevere una pre­ stazione la prospettiva di decisioni future che lo riguardino non è un rischio, ma un pericolo. “Non c’è un rischio per­ ché egli non deve decidere su delle proprie pre-prestazioni, ma deve riempire dei moduli per le richieste” 16. L’esito è quello di una crescita progressiva di sensibilità per le piccole differenze tra prestazioni; non sorge in compenso aicuna fiducia sociale che possa incoraggiare e sorreggere delle prestazioni che vincolino il tempo. L’osservatore al massimo può permettersi l’ironia della simulazione,

H linguaggio, il campo dell’“occupozione più innocente di tutte ” è il “più pericoloso dei beni . [...] Esso è il petanto crea la possibilità di un pericolo 1 1 He>degger 5. Per concludere torniamo a Blumenberg. “Quando ci si chiede se un altro secolo di pieni trionfi nell’impadro-

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nimento del mondo sia stato sufficiente a dimostrare che nel sostrato del nostro sapere non celarsi un raggiro, ci si imbatte nel lato grottesco dell’astronautica, Si deve tener presente quanto spesso, nelle molte notizie relative alla preparazione dei voli spaziali, era comparsa la parola ‘simulazione’. Tutta l’affidabilità della progettazione, tutta la sovrana tranquillità degli equipaggi si basavano sul fatto che quasi tutto si era potuto provare nei simulatori. Così l’assuefazione

all’impiego a piacere di mezzi per simulazione di ogni tipo si risolve proporzionalmente agli appagamenti tecnologici di desiderio, in un fatale offuscamento del senso della realtà”. Quasi una sorta di ironia epocale, su cui lo stesso Blumenberg insiste fino al punto di confe­ zionare una tecnica supplementare, non di schivamento del rischio (poiché non è di questo che si tratta), piuttosto di ri­ dimensionamento antropologico della posizione dell’uomo nel cosmo17.

Note 1 Sul dialogo Pascal-Fermat si veda P.L. Bemstein, Against thè Gods. The remcirkable Story o f Risk, John Wiley & Sons, Washington, 1998, p. 57 e ss. 2 Cfr. C. Marazzi, E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari, Casagrande-Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Sullo stesso tema con una prospettiva più aliarmistica si veda S. Strange, Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro, Edizioni di Comunità, Torino, 1998. 3 Z. Bauman, In Search o f Politics, Polity Press, Cambridge, 1999, p. 16. 4 H. Blumenberg, L ’ansia si specchia sulfondo, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 102 e ss. 5 B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi epotenziammo in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Milo, metafora, modernità, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 321. Devo a Bruno Accarino gran parte delle coordinate di lettura che utilizzo nella ricezione di Blumenberg.

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6 Su questo passaggio di riflessione sociologica del rischio resta fondamentale il riferimento a U. Beck, Risikogesellschaft. A uf eleni Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1986. Il libro di Beck ha costituito un punto di riferimento costante della discussione sociologica de­ gli ultimi decenni. Alle tesi di Beck si sono, tra gli altri, avvicinati sia Anthony Giddens che Scott Lasch. Per una ripresa e discussione dell’opera originaria cfr. anche U. Beck, Risk Society Revisited: Theory, Politics, Critiques and Research Programmes, in World Risk Society, Polity Press, Cambridge, 1999, pp. 133-152. 7 Sugli stessi temi è ritornato da ultimo Z. Bauman, Liqu 'ul modernity, Polity Press, Cambridge, 2000, pp. 210-211. 8 Cfr. N .Luhmann, Sociologia del rischio. Bru­ no Mondadori, Milano, 1996, p. 98 e ss.. 9 Ivi, p. 99. 10 Ivi, p. 102.

11 Ivi, p. 104. 12 H. Willke, The Contingency and Necessity o f the State, in D. Baecker (a cura di), Problems o f Form, S.U.P., Stanford, California, 1999, p. 145. 13 H. Blumenberg, L'ansia si specchia sulfonlo , cit., p. 121. 14 Su questi sviluppi vanno visti insieme H. WilIke, Supervision des Staates, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1997; nonché i due libri che precedono la conclusione della trilogia: Id., Entzauberung des Staates, Konigstein, Athe-

naum, 1983; ld., Ironie cles Staciies. Grundlinien einerStaatstheoriepolyzentrischer Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1992. 15 Perfettamente calzante l’esempio di Bauman sulla persecuzione del pedofilo nelle società contemporanee come punto mini­ male in cui collimano interessi privati e azione pubblica: cfr. Z. Bauman, In Search o f Politics, cit., pp. 5 e ss. 16 N. Ln\\mm,Sociologia elei rischio, c\l,p. 121. 17 Cfr. H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano, 1987.

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GIROLAMO DE MICHELE

NATURA E ARTIFICIO Saggio di antropologia filosofica

Non c ’è (fucus p e r alcuno dei m ortali né term ine p e r la m orte fu n esta , ma solo m escolanza e scam bio del m escolato: ma è questo che gli uom ini chiam ano cfùcus.

Empedocle, DK B8.

Premessa uesto testo si presenta come un commento di Instincts et

Q

institutions, testo del quale il lettore troverà la versione questo stesso numero. Ma questo commento è un pretesto per abbozzare le linee di un’antropologia dell’artificiale, alla luce dell’intera pròduzione teorica di Deleuze e in vista di una più ampia trattazione del tema, a mio avviso centrale, del soggetto potenziale1.

1. Tantôt en instituant un monde original entre ses tendances et le milieu etene«?; le sujet élabore des moyens cle satisfaction artificiels. A partire dalle ricerche di Gehlen è un dato acquisito della riflessione antropologica e filosofica sull’uomo la sua incompiutezza morfologica: “l’uomo, dal punto di vista morfologico, si può dire non abbia specializzazioni. Egli consta di una serie di non specializzazioni che sotto il profilo dell’evoluzione biologica appaiono come primitivismi: la sua dentatura, ad esempio, ha una continuità primitiva e una indeterminatezza di struttura che non le consentono di essere né una dentatura da

erbivoro, né una dentatura da carnivo­ ro. [...] Egli è di una sprovvedutezza biologica unica [...]: l’uomo è un animale non ancora definito e in qualche

modo non costituito una volta per tutte, Egli è un essere che ritrova in sé un compito"2. Questa incompiutezza ha comportato la necessità di supplire alla carente dotazione biologica col supporto delle tecniche, problematizzando quindi sin dalla comparsa dell’uomo il suo rapporto con l’ambiente circostante. Come mostrano le ricerche di LeroiGourhan, “il gruppo umano assimila il proprio ambiente attraverso una serie di oggetti (utensili o strumenti). Esso consuma il legno per mezzo dell’accetta, la came per mezzo della freccia, del col­ tello, della pentola e del cucchiaio. Entro questa pellicola interposta si nutre, si protegge, si riposa e si sposta. Differenziandosi dalle specie animali, che hanno ciascuna un capitale fisso di mezzi di acquisizione e di consumo, gli uomini sono tutti sensibilmente uguali nella loro nudità e aumentano con atti co­ scienti l’efficacia delle loro unghie e del loro pelo”3. Le tecniche si configurano quindi come “l’esatto prolungamento dello sviluppo generale della specie”, sviluppandosi “con un folgorante movimento ascensionale, ma seguendo delle direttrici che limitano [...] l’evoluzione filetica” ogni qual volta “emer-

gono nuove possibilità cerebrali”4. Evo2. Tonte expérience individuelle supluzione tecnica ed evoluzione cerebra- pose, cornine un a priori, la préexistenle si implicano non secondo una rela- ce ^ un milieu dans lequel est menée zione causale, ma come distinte attri- ^ expérience, milieu spécifique ou mibuzioni - realmente differenziate - di ^ieu institutionnel. un’unica sostanza plastica: sviluppo di­ stinto, simultaneo e interattivo della ma^ inserzione della tecnica come “pei­ no libera nell’andatura posturale (pia- licola tra 1 ambiente interno e l’amsticità della mano) e della faccia corta biente esterno si configura come qual(possibilità dell’apertura del ventaglio cosa di molto più complesso di un semcorticale e “miglioramento dell’attrez- plice rapporto di mediazione tra l’uozatura neuronica”5). I modi di questa du- ™o e il mondo, o tra l’ambiente menplice serie di attributi sarebbero allora tale e gli ambienti fisici: per cogliere lo sviluppo simultaneo dell’utensile e questo fenomeno, “il più semplice e neldel linguaggio simbolico: “ciòchechia- 1° stesso tempo il più difficile da co­ rniamo proprietà dell’uomo - la tecni- gliere tra i movimenti dell’evoluzione”, ca e il linguaggio, l’utensile e il simbo- Leroi-Gourhan ha fatto ricorso al “terlo, la mano libera e la laringe flessibi- mine filosofico di ‘tendenza’”, nel qua­ le, ‘il gesto e la parola’ - sono piuttosto le si esprime “un movimento di presa le proprietà di questa nuova distribu- progressiva, da parte dell’ambiente inzione, che difficilmente può esser fatta terno, sull’ambiente esterno”9. L’intecominciare dall’uomo inteso come razione “ambiente esterno-ambiente inun’origine assoluta”6. Piuttosto, ricor- terno” non si esaurisce nella semplice dando che lo stesso concetto di etnia è proiezione dell’ambiente mentale sul “più un divenire che un passato”7, que- mondo. Il carattere tecnico dell’utensista “origine” andrà intesa nel senso le che media la presa di possesso, il suo benjaminiano dell’Ursprung, che “non essere artefatto inerisce al carattere “fluiha nulla in comune con la genesi” e “sta do” dell’ambiente interno, “dove tutto nel fiume dell’essere come un vortice e è in costante contatto con la totalità del trascina dentro la propria ritmica il ma- complesso”. Se da un lato “è possibile teriale della nascita”8. La tecnica non è isolare degli elementi che presiedono quindi né causa (perché non è anterio- alla vita tecnica, e studiare separatare) né fine o destino (perché non è po- mente quella parte artificialmente stacsteriore) all’uomo: essa è consustanzia- cata dal tutto come ambiente tecnico”, le all’uomo, è ’’umana” tanto quanto è altresì da tenere sempre presente che l’uomo è “animale tecnico”. “soltanto per astrazione si può esami­ nare il percorso della tendenza attra­ verso il solo ambiente tecnico: ogni og­ getto è impregnato di tracce lasciate da tutto l’ambiente interno” 10. D ’altronde, pur comportandosi l’ambiente esterno

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“come un corpo assolutamente inerte” uti confronti del movimento della tendenza (che è “propria dell’ambiente interno” 11), è accertato che nella “presa in prestito”, cioè la trasmissione di un utensile da un gruppo a un altro (la diffusione della tecnica) accanto al bisogno (che rimanda all’ambiente interno) gioca un molo di pari importanza la presenza di un “ambiente [esterno] favorevole” 12. Lo stesso vale per lo sviluppo dell’artefatto mentale, ovvero per lo sviluppo della capacità simbolica “in cui i simboli intervengono come strumenti per dominare l’ambiente esterno; tale dominio, inconcepibile senza il linguaggio, è pure inconcepibile senza un’organizzazione sociale complessa” 13, che deve ovviamente rimandare a un ambiente sociale esterno. In definitiva, la tendenza non si conforma a un 'entelechia, non presenta tratti finalistici, non ha orientamento univoco: ^la tendenza che, per la sua natura universale, è carica di tutte le possibilità esprimibili con leggi generali, attraversa l ’ambiente interno, immerso nelle tradizioni mentali di ogni gruppo umano; essa acquisisce in esso pròprietà particolari, come un raggio luminoso acquisisce diverse proprietà attraversando corpi diversi, incontra poi l ’ambiente esterno, che offre a queste proprietà acquisite una possibilità di penetrazione irregolare e, nel punto di contatto tra l ’ambiente interno e Vanibiente esterno, si materializza quella pellicola di oggetti che costituisce Vilisieme più generale dei beni materiali degli uomini” 14. Accettare questa pròspettiva implica una radicale ridiscus-

sione del significato di termini quali na­ tura, ambiente e mondo. Come già alla fine degli anni Venti affermava Anders, “la natura dell’uomo consiste in questo, che egli non ha alcuna natura” 15. Diversamente dall’animale, al quale “il mondo è dato in anticipo” come “materia a priori” che “non ha bisogno di essere appresa”, l’uomo non ha un mondo già-da-sempre dato16: l’uomo è libero proprio in quanto impossibilitato costitutivamente a stabilirsi in un luogo determinato. Nondimeno l’uomo è in un rapporto complesso con l’ambiente esterno, nel quale è in­ serito e rispetto al quale mette in gioco, attraverso l’artificio tecnico e simbolico, l’intera totalità del suo fluido ambiente interno. Definiremo quindi “ambiente” questo contesto col quale l’uomo è in relazione senza esserne parte (in quanto non costituisce un habitat già-da-sempre dato), e dal quale trae, materializzando la tendenza interna, la materia per quel “mondo” di cui è artefice. Definiremo per contro “mondo”, seguendo Anders, la “materia prima” di questa produzione dell’artificio per mezzo dell’artificiale: “dunque il mondo non viene interpretato come un qualcosa in sé, ma come un mondo per noi [...], nel senso che Vessente è correlato da ciò che è usabile”11. Questa distinzione deve, quantomeno genealogicamente, qualcosa a quella kantiana tra “mondo” (come totalità delle condizioni dei fenomeni) e “natura” (come connessione entro leggi dei fenomeni oggetto di esperienza). Se non che la “natura”, kantianamente intesa, richiede di essere pensata come buona,

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come positiva artefice del costante prògresso verso il meglio dell’umanità. Ma quest’ultima ipotesi, che reintroduce, seppure come presupposizione soggettiva18, il finalismo (reinterpretandolo come tendenza) rimane, nel testo kantiano, arbitrario e indimostrato, benché il sistema non possa rinunciarvi. La sua arbitraria necessità risalta ancora di più se confrontata con l’opposta lettura sadiana della tendenza come forza naturale cieca e distruttrice: “l’aggressività riproduce così sotto forma di conflitto individuale il movimento perpetuo del­ la Natura che crea, ma suscita a sé degli ostacoli con le sue stesse creazioni, e trova per un solo momento la sua libertà solo nella distruzione delle proprie opere” 19. Se alla “natura” impregnata di finalità metafisica sostituiamo la prospettiva antropologica determinata dalla complessione ambiente [-tendenza-artificio]mondo, dobbiamo evidentemente rinunciare a una valutazione etica del “mondo” in termini di corrispondenza a una verità metafisicamente data: siamo dunque nella situazione di considerare liberamente (perché non gravato da ipostasi metafisiche) il “mondo”, e valutarlo secondo un criterio dettato dalle istituzioni che ne determinano l’orientamente. In tal senso possiamo senz’aitro accettare la critica all’esistente di Anders: “ ‘mondo’ non è dunque soltanto il prototipo da cui si potrebbe fare qualcosa, ma il prototipo di ciò da cui siamo obbligati a fare qualcosa, con il che si ammette tacitamente che niente può essere che non deve essere, che in definitiva non esiste nulla da cui non si

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potrebbe fare qualche cosa. Al contrario, vale la tesi che si deve togliere esistenza a ciò da cui non si può fare nulla, e che ovunque ci sia d ’intralcio, es­ so dev’essere annientato. Analogamente alla nazionalsocialistica ‘vita indegna di essere vissuta’, c ’è dunque un ‘essente indegno dell’esistenza’. In breve, essere materia prima è un criterio existendi, essere è essere materia prima: questa è la tesi di base metafisica dell’industrialismo”20.

3. [Les moyens de satisfaction arti­ ficiels] transforment la tendance ellemême en l ’introduisant dans un milieu nouveau. Quanto al termine “natura”, la questione è talmente complessa da poter essere qui solo accennata21. Dal punto di vista della filologia, la traduzione del greco (jnxris col latino natura ha comportato un improprio slittamento semantico: “4>ùcus designa ‘l’atto compiuto del costituirsi’, ‘il compimento (già avveratosi)’ di un divenire, ‘la natura in quanto concretatasi in tutte le sue proprietà’. [...] Altro è invece il significaio di natura: l’espressione rimanda al ‘modo di nascere’, visto che le para­ le latine dotate di suffisso -urei indicano ‘l’azione come un’attività e una situazione propria al soggetto, attività e situazione che rappresentano un modo di essere’”22. Questo slittamento non è casuale: esso sanziona l’avvenuta ride­ finizione della [ ) Ù , concepita come processo, in “modo di apparire” ad opera di Aristotele, che reinterpreta la spec

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dilazione naturalistica preesistente per ridefinirla all’interno di un paradigma che esclude la possibilità di pensare il fluire delle cose. Il punto nodale di questa ricodificazione è l’interpretazione dei frammento DK B8 di Empedocle in Metafìsica 1015 al-3: “non c ’è ìj < j i s ” . Dove Empedocle parla di (})ùais come yévecris, Aristotele intende natiira.24 Il testo aristotelico segna dunque ia definitiva affermazione della visione della natura come “principio e causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente”25, e l’oblio della visione della natu­ ra come processo, produzione e mesco­ lanza. Si tratta di una battaglia politica che si conclude con l’affermazione di un’egemonia culturale, che trapasserà poi, con ulteriori aggiustamenti, nella visione cristiana del mondo. Ci sono due ragioni per riaffermare che l’intera questione non concerne la “verità della cj)uaLs”, ma l’egemonia ideologica sull’interpretazione della natura. La prima per motivare come ai Padri della Chiesa siano bastate un paio di squallide dicerie per depotenziare e neutralizzare il poema di Lucrezio, ultima voce a riaffermare le buone ragioni della positività della Natura crecitrix, del pluralismo legato all’affermazione molteplice, del molteplice in quanto diverso e oggetto di gioia26. La seconda, più importante, concerne il “tratto nichilistico dell’ontologia della tecnica, che non si accontenta, come l’ontologia pia-

tonica, di accogliere il non-essere nel mondo sensibile percorso dall’incessante divenire, ma eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non-permanere a con­ dizione del suo avanzare e progredire”27. II progresso tecnico, “creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo ‘un mondo da buttar via’”: ma al tempo stesso svela la matrice ideologica e politica della visione classica della natura come genesi da ciò che esiste di per sé, e permette di ripensare il mondo come con­ tinua e imperitura materia “che genera i vari nessi ed il peso, l’aggregazione, i contatti, i movimenti per cui si formano gli esseri tutti”28.

4. L ’homme n ’apas d ’instincts, ilfait des institutions. L ’homme est un animai en traili de dépouiller l ’espèce. Lo studio comparato dell’evoluzione delle creazioni tecniche e degli or­ ganismi viventi, con la conseguente giustapposizione di “invenzione e muta­ zione, tradizione e trasmissione dei caratteri acquisiti”, può consentire, afferma Leroi-Gourhan, “una percezione più profonda dei fenomeni generali dell’evoluzione”29. Ancora una volta si tratta di riaffermare la possibilità, dischiusa dal potenziale nichilistico della tecnica in­ sito nel suo a-finalismo, di elaborare nuovi paradigmi cognitivi e interpretarivi, liberandoci dall’ontologia aristotelica che ancora determina la nostra visione dell’uomo, dell’esperienza, e persino del linguaggio30. Lo stesso Leroi-

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Gourhan ha dimostrato come l’evoluzione del sistema nervoso nel vivente, non orientata da un'entelechia, si differenzi in una duplice direzione: “l’una (quella dell’insetto o dell’uccello) in cui l’apparato nervoso guida sempre più da vicino i comportamenti, l’altra (quella dei Mammiferi e dell’uomo) in cui i percorsi nervosi si arricchiscono prodigiosamente di elementi connettivi, atti a stabilire rapporti tra situazioni già sperimentate e situazioni nuove. La memoria dell’individuo, creatasi nel primo periodo di vita, prende allora il sopravvento sulla memoria specifica che è unicamente il risultato di disposizioni ereditarie dell’apparato nervoso”31. L’evoluzione del vivente ha prodotto “la rottura del nesso tra la specie e la memoria”, l’affrancamento dell’individuo dalla tradizione attraverso “l’intervento delle innovazioni individuali”32. Analogamente, solo una “biologia della tecnica” consente di “considerare il coipo sociale come un essere indipendente dal corpo zoologico, animato dall’uomo ma atto ad accumulare una tale somma di effetti imprevedibili che la sua struttura intima supera di molto i mezzi di apprendimento degli individui”33. Se seguiamo questa direzione dobbiamo necessariamente ripensare in termini potenziali ed evolutivi lo stesso corpo umano. Il tramite tra la “biologia della tecnica” di Leroi-Gourhan e la messa in questione del corpo non può, a mio avviso, che essere la pagina nietzscheana sullo sviluppo ancora incompiuto della coscienza: “la coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e

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il più depotenziato. [...] Si pensa che qui sia il nocciolo dell’essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! La si intende come ‘unità dell’organismo’! - Questa ridicola sopravvalutazione, questo travisamento della co­ scienza hanno come corollario un grande vantaggio, e cioè che con ciò è stato impedito un troppo celere perfezionarsi della coscienza stessa”34, Come dobbiamo pensare - o meglio, esperire - il corpo? Una prima risposta viene da una questione da tempo agitata da Galimberti, sulla scorta dell’ultimo Husserl, e ultimamente anche da Ricoeur35: il superamento, da parte deila psicologia (chiamata a pensare con­ tro se stessa) del dualismo tra corpo (res extensa) e mente (res cogitans). Questo superamento richiede, posta la distinzione husserliana tra corpo fisico o cor­ po-cosa (Körper, Körperding) e corpo vivente o (seguendo Ricoeur) carne (Lieb), il superamento della nozione di coipo organico: “nel corpo-cosa che la scienza descrive ogni volta che parla dell’organismo e delle sue funzioni io non mi riconosco, perché è un corpo che non mi rivela, non mi rappresenta, non mi esprime”36. Assolutizzare il corpocosa significa riproporre la dualità piatonico-cristiana tra corpo e anima, organismo e persona, psyche e soma, laddove l’approccio fenomenologico di­ mostra che non esiste “un dualismo nel senso dell’esistenza di due sostanze: 1’‘apparato organico’ e 1’ ‘apparato psichico’, ma semplicemente due metodi che, in base alle loro procedure, ridu-

cono Vambivalenza della cosa a\Yequivalenza di un suo aspetto”37. Per contro, “la carne è il luogo di tutte le sintesi passive sulle quali si edificano le sintesi attive che sole possono essere chiamate opere (Leistungen): essa è la materia (hylè), in risonanza con tutto ciò che può essere chiamato hylè in ogni oggetto percepito, appreso”38, Detto altrimenti, “i livelli di sensazione sarebbero realmente campi sensibili, riconducibili ai differenti organi di senso; ma ogni livello, ogni campo, avrebbe un suo diverso modo di rinviare agli altri, indipendentemente dall’oggetto comune rappresentato. Fra un colore, un sapore, un tocco, un odore, un rumore, un peso, si stabilirebbe una comunicazione esistenziale, la quale costituirebbe il momento ‘patico’ (non rappresentativo) della sensazione”39. Come osserva Deleuze, questa unità della sensazione è possibile “solo se la sensazione di un determinato campo agisce direttamente su una potenza vitale, che travalica ogni singolo campo e lo attraversa”40. Questa potenza vitale può essere indagata andando oltre il limite dell’organizzazione sensibile del coipo, ovvero l’organismo: ma questo significa andare oltre lo stesso corpo vissuto, la stessa carne. “Il coipo vissuto è ancora poca cosa se paragonato a una Potenza ancora più profonda e quasi inaccessibile”: il corpo senz’organi. Mentre il coipo vissuto è la risultante di una distribuzione di funzioni sul corpo senz’organi, il coipo senz’organi sforza sempre i limiti dell’organismo per eccederli: “il corpo senza organi non si contrappone tanto ai singoli organi,

quanto a quella organizzazione degli organi che va sotto il nome di organismo. È un corpo intenso, intensivo. È percorso da un’onda che traccia in esso livelli o soglie in base alle variazioni deila propria ampiezza. Il corpo non ha dunque organi, ma soglie o livelli”41, In quest’ottica la stessa interazione percettiva con l’ambiente può essere letta interpretando l’organo percettivo come artificio, come mezzo attraverso il quale l’ambiente interno si impossessa dell’ambiente esterno concretando quella tendenza percettiva che è la nostra rappresentazione del mondo. Quest’attività sembra svolgersi secondo un “doppio binario”, come attestano le ricerche neurobiologiche sulla visione riportate da Maldonado: “ciò risulta particolarmente evidente nello studio del percorso bidirezionale che va dall’occhio alla corteccia e dalla corteccia all’occhio, Percorso che, non a caso, viene descritto in termini di propagazione e retro­ propagazione, di flusso e riflusso, dal basso all’alto (bottom-up) e dall’alto al basso (top-down)”. Gli studi più recenti attestano che “l’immagine retinica è rozza, sfuggente, ambigua (al contempo troppo povera e troppo ricca di infor­ mazioni) nei confronti dell’immagine, per così dir e, finale”42: l’immagine retinica è in altri termini un’immagine po­ tenziale, sulla quale “la corteccia visiva primaria agisce più come un ‘categorizzatore’ che come un ‘analizzatore’”43, attuando un processo costruttivo e funzionalistico che assicura un più che adeguato rendimento funzionale. Che il nostro “utensile percettivo” (che acutamente Ramachandran definisce “a bag

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oftricks”) sia capace di una percezione al tempo stesso eccedente e insufficiente pone con rinnovata forza la questione leibniziana delle percezioni inconscie, e conferma l’intuizione di Nietzsche sul carattere di arbitraria presupposizione del principio di contraddizione: “noi non riusciamo ad affermare e a negare una stessa e identica cosa: è questo un principio di esperienza soggettivo, in esso non si esprime una ‘necessità’, ma solo un non potere’,44.

5. L ’oppression se montre quand les lois portent directement sur les hommes, et non sur des institutions préalables qui garantissent les hommes. La distinzione tra legge e istituzione, così come la imposta il giovane Deleuze, può essere certamente approfondita sul terreno del rapporto tra etica e politica, come lo stesso Deleuze ha fatto nei suoi studi su Hume45. Ma pone anche alcune questioni che concernono in modo diretto l’antropologia dell’uomo che qui stiamo impostando: in particolare, l’eticità del tema della carne, il linguaggio come istituzione e il rapporto legge-uomo. Nessuno meglio di Benjamin, che ha colto nei personaggi kafkiani l’espressione di un soggetto potenziale, ha colto il rapporto colpa-condanna, magistralmente criticato nel giovanile Per la critica della violenza46. Il potere della legge non riposa su un contenuto pubblico, leggibile nei codici, ma in una dimensione pre-mitica, originaria, in cui la colpevolezza si palesa come destino al

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quale l’uomo non può sfuggire: l’autorità-violenza della Legge non è sanzionatrice, ma creatrice della colpa, nella quale l’uomo può incorrere inconsapevolmente. È evidente che non potrebbe esserci distanza maggiore tra la critica benjaminiana della violenza del potere e la sottomissione all’autorità costituita su cui si fonda la visione politica di Paolo di Tarso: “ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”47. Nulla di più alie­ no a Benjamin: poiché esiste la legge, K. deve essere colpevole - questa è la chiave perduta delle “parabole giuridiche” di Kafka. Collocando la relazione padre-figlio - considerata analoga alla relazione burocratico-autoritaria dell’ufficio - sul piano di questa originaria concezione della colpa, Benjamin rovescia il preteso senso di colpa in un rapporto di soggezione al destino. Di qui la radicale poli­ ticità del legame familiare che Benjamin legge in Kafka: dietro la possibilità di evadere dall’ambito familiare ciò che è in gioco è - né più né meno - la possibilità di sfuggire a un destino che esercita sulla storia un dominio illimitato, L’atrocità della macchina legge-colpa, nei romanzi di Kafka e nella loro lettura benjaminiana, sta tutta nella perdita di senso delle istituzioni (tribunali, uffici, governi), artifici che distanziano l’uomo dalla nuda legge. Questa perdita di senso rende immediato il rapporto uomo/legge: la pena è inscritta direttamente sulla carne viva del condannato. Ritroviamo qui quell’ontologia della carne cui si era già accennato, e alla quale Deleuze apporta un decisivo contributo.

Deleuze ha letto nei dipinti di Bacon la creazione di “una zona d ’indiscernibilità, d ’indecidibilità tra l’uomo e l’animale”, nella quale si esprime il corpo “in quanto carne (chair) o carne macellata (viande)”48. Nell’indiscemibilità di fondo tra uomo e bestia macellata, “più profonda di qualsiasi identificazione sentimentale”, alberga lo scambio (nel senso della 8id\Xa£is di Empedocle) antropologico tra uomo e bestia: “l’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo. È questa, la realtà del divenire”49. C’è nel divenire del vivente una profonda pietà, derivante dal fondo comune, potenziale, dal quale i corpi si distaccano per organizzazione, specializzazione e funzione, ma al quale ritornano quando forzano i limiti della specializzazione e della localizzazione biologica e sociale: “pietà per la carne macellata! La carne macellata è senza alcun dubbio l’oggetto eminente della pietà di Bacon, il suo unico oggetto di pietà [...]. La carne macellata non è carne morta, essa ha conservato tutte le sofferenze e ha assunto tutti i colori della carne viva”50. L’urlo della madre nella Corazzata Potemkin (modello per tutte le teste urlanti di Bacon) esprime l’or­ rore e la sofferenza di ogni essere. L’in­ tera Natura urla la propria sofferenza neWUrlo di Munch. Ugualmente nella carne macellata di Bacon si esprime la verità della condizione umana, l’essere noi tutti potenziali carcasse macellate e appese a un gancio di macelleria. Non si tratta di provare “pietà per le bestie”, ma di comprendere che “ogni uomo che soffre è carne macellata”. Il divenire del corpo implica uno schopenhauerismo

materialistico, nel quale la sofferenza universale, fondo oscuro di ogni sofferenza individuale, è sofferenza di un cor­ po, di una carne viva e macellata anteriore ad ogni individualizzazione. Pro­ vare questa pietà è patire nella propria carne “la certezza che la cosa ci riguarda da vicino, che ognuno di noi è carne macellata gettata via [...]; che gli stessi animali siano uomini, e che noi siamo criminali o bestiame”51. Davanti a questa sofferenza ogni tentativo di estetizzazione della sofferenza va denunciato con la stessa violenza con la quale Benjamin si scagliava contro la fascistica estetizzazione della politica: “‘Fiat ars - pereat mundus’, dice il faseismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale lito­ dificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte”52. Per contro, assumere la realtà del divenire come compito etico significa avere la capacità di arrivare “al punto estremo di sentirsi nuli’altro che una bestia, divenendo così responsabile, non dei vitelli che muoiono, ma davanti ai vitelli che muoiono”53,

6. C ’est bien lei la différence entre / ’institution et la loi: celle-ci est ime limitation des actions, celle-la, unmodèle po siti/d ’action. Una delle prime istituzioni positive create dall’uomo, sul limite della tra­ sformazione dal pre-umano all’umano, dev’essere stata il mito. Gettato in una natura di cui non fa parte, in preda

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alVangoscia, “quest’essere in ogni caso aveva abbandonato la protezione di una forma di vita più nascosta, adattata, per esporsi ai rischi dell’orizzonte allargato della sua percezione [...]. Fu un salto situazionale, che trasformò l’orizzonte lontano, non occupato, nel permanente stare-in-attesa di cose fino a quel momento sconosciute”54. L’insopportabilità dello stato di “angoscia” permanente nei confronti dell’“assolutismo della realtà”, derivante dal non avere un oggetto concreto, naturale, già dato di cui aver “paura”, avviene “non per mezzo dell’esperienza e della conoscenza, ma di espedienti quali la supposizione del familiare per il non-familiare, delle spiegazioni per l’inesplicabile, dei nomi per il non-nominabile. Qualcosa viene ‘messo in avanti’ per fare di ciò che non è presente l’oggetto dell’azione diretta ad allontanare, a scongiurare, a mitigare o a depotenziare. Per mezzo dei nomi l’identità di tali fattori viene dimostrata e resa accessibile, e viene creato un equivalente dei rapporti con essi. Ciò che i nomi hanno reso identificabile viene spogliato della sua estraneità per mezzo della metafora, e reso accessibile nel suo significato raccontando delle storie”55. Anche il mito è dunque una “pellicola” che l’ambiente interno proietta sull’ostile, vuoto e angoscioso ambiente esterno: con le parole di Blumenberg, esso è “un pezzo di impareggiabile lavoro del lógos”56. Perché allora il mito non tace? Perché dis-vela qualcosa di originario che sempre si sottrae, o per una ragione connessa al suo essere artificio linguistico?

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“Comprendere positivamente l’as­ senza, dare un senso positivo al Niente, formare un’immagine è qualcosa di pos­ sibile solo là dove un oggetto determinato cessa di giocare il ruolo della condizione«priori dell’esistenza del soggetto, e il soggetto sa realizzare effetti­ vamente ciò che non è”57: così Anders poneva il problema della libertà dell’uomo derivante dalla sua incompiutezza, L’uomo si caratterizza per la libertà di fare del non-essere un essere: “la pos­ sibilità di trasformare l’òv in p.f) 6v cor­ risponde a questa libertà”58. Diversamente dal Sofista platonico, dove è tematizzata la questione del discorso falso OjseuSès Xóyos), il problema non è di ricondurre il non-essere all’essere di­ verso, cioè alla dignità d’un essere relativo: “il fatto dello ipeuSès Xóyos [...] dev’essere compreso [...] come sintomo del non-essere specifico dell’uomo, vale a dire del suo ‘non essere di questo mondo’, o, positivamente, della sua libertà nei confronti del mondo, che si realizza qui come libertà della cj)dais e deirauoóais” di Anassimandro ed Empedocle, Ivi, p. 321. Loraux cita da Emile Benveniste, Noms d ’agent et noms d ’actions en in­ do-européen, Paris, 1949, pp. 78-79.

23 La 8 idXàa£;is è scambio, permuta, sostituzione, ma anche mutamento della disposizione morale, riconciliazione. Si ricorderà in Anassimandro, DK B1 un’alternanza tra ingiustizia [dSucias] e giustizia [tcx£ls]: ciò che Anassimandro esprime in termini giuridici sembra essere reso da Empedocle in termini morali. 24 ‘î ’ôaiç è inteso come sinonimo di sostanza [òixjia] dotata di forma e materia [1014 b3637], e l’oggetto del discorso di Empedocle è individuato da Aristotele negli enti “che non posseggono ancora la propria ctmcnç, qualora non abbiano la specie e la forma” [1015 a5-6] 25 Phys. 192 b22-23. Loraux indica, a mio avviso giustamente, come un luogo decisivo Met. 1023 a25-bl 1, dove sono esaminate le diverse accezioni dell’operatore tò nei diversi sensi in cui si dice “provenire da”, non vi è alcun accenno al “provenire” co„„ „ „ „ t l . „ me flusso , processo o divenire . 26 Gilles Deleuze, Lucrezio e il naturalismo, , . , , iri Logica del senso, tr.M . de Stefan\s,M\. 2, * . ... 0/1, „ , lano, Feltrinelli, 1975, pp. 234-246. Sul poe. . ’ ■j : ma di Lucrezio vedi da ultimo Luciano _ . ,, . , . . Canfora, Un mestiere pericoloso. La vita

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II- La memoria e i ritmi, tr. F. Zannino, Torino, Einaudi, 1977, p. 263. Ivi, p. 269. André Leroi-Gourhan, Tecnica e linguag£*