Taci, anzi parla. Diario di una femminista [Vol. 2]

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CARLA LONZI

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DIARIO DI UNA FEMMINISTA

Tom o 2

Scritti di Rivolta Femminile 10

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I gen. Conosco gente, ma sempre più lontana dalla mia possibilità di comunicare. Trovo una giornalista che mi offre un servizio su Rivolta molto amichevolmente, dandomi tutte le garanzie, però devo avallare una sua strana pretesa, quella di non avere con me nessun vero con­ tatto, e non mi lascia aprire bocca. Quando sono due una guarda l’altra quando sono una si nasconde l’altra. Oppure sono. II mio desiderio segreto è quello di mettermi in ginocchio chinare la testa fra le mani chiudere gli occhi e restare così per molti anni. Solo così potrei prendere fiato dalla constatazione delle mie incapacità.

Ho trovato una poesia zen che dice “Io venni dallo splendore / E torno allo splendore”. Sono le ultime parole di un maestro zen prima di mo­

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rire. È identica a una mia di un mese fa. Però mi accorgo di quanto ora sono lontana. Sono autorizzata a tutto c’è un motivo per tutto. E inutile cercarlo se non sai che c’è. Se lo sai l’hai già trovato.

2 gen. Giornata meravigliosa a Pietrasanta: con Simone scegliamo delle pietre. Sono eccitatissima e felice felice. Cena da Tina, c’è sem­ pre l’autrice del bestseller, cordiale-distratta che è la forma più anti­ patica. Parliamo di Reich perché vedo che ha dei libri reichiani: sono polemica e quasi mi strozzo dal batticuore scontrando con la sua aria di sufficienza. Dopo avere letto il suo libro ero oppressa dall’idea che fossero sempre le stesse ottimistiche banalità ad avere la meglio, e la ritenevo complice di questa disposizione generale. Si vede che mi pesa essere misconosciuta, e che la gente vada in estasi per qualcosa di così terribilmente deludente. Non solo perché mi manca il ricono­ scimento, ma perché mi manca il dialogo. In più, se dico quello che penso senza tante perifrasi vengo guardata come una attaccabrighe, una che ha la smania di spiegare le cose, che non è mai d’accordo con nessuno. Persino Tina, che è tanto gentile (oggi mi ha regalato un ce­ stino e fatto una carezza, quando sono arrivata, proprio dolcissima), persino lei mi sembrava un po’ seccata. Così quella del bestseller si è messa “tranquillamente” a leggiucchiare un libretto sui bambini, però intanto capiva quello che dicevamo noi. Io sono sempre sbi­ lanciata, scoppio di cose da comunicare, gli altri lo intuiscono e mi lasciano cadere mentre sono nel bel mezzo dell’emozione di tirare fuori. Quando ho accennato alla teoria reichiana dell’orgasmo vagi­ nale dovevo controllarmi perché mi sentivo tremare la voce e man­ care il fiato: benché ne avessi scritto chiaro e tondo, ero in difficoltà a dirlo chiaro e tondo che sono clitoridea. Passare al piano personale è entrare in zona tabù. E pensare che le vaginali si consideravano discriminate nei gruppi di Rivolta!

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A Emily Dickinson Adorata Emily meraviglioso isolamento!

Non vedo l’ora che sia finita la casa di Turicchi per vivere con con­ centrazione, raccoglimento ogni minimo tempo! Non m’importa del mondo, degli altri, del fuori, li lascio, vi lascio alle vostre distorsioni, malevolenze e furbizie da quattro soldi! 3 gen. Come un sasso ho rotolato per quarant’anni. Adesso voglio fermarmi in un cespuglio cferba e guardare il cielo. A Simone La tua auto mi porta per curve rotonde e sinuose serpentine come una ricca forestiera il cooley.

Mi ha chiamato Piera: è qui, domani riparte. Il suo dividermi con Ester mi toglie slancio, però è vero che in questo momento desidero soprattutto solitudine, sembra che non m’importi niente di niente, che non mi aspetti niente. Voglio solo andare in campagna e restarci. La campagna è mutevole come il mio animo né la posizione di una foglia né il colore di una nuvola né l’intensità della brezza sono ugnali l’istante dopo. Guardo l’orizzonte

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e sotto i miei occhi muta dal giallo al violetto e non so afferrare l’attimo in cui dal giallo passa al violetto. Grazie al destino che non ho niente da fare posso cogliere l’essenziale la rosa perenne. Non ho età sono eterna non ho sesso sono angelica non ho desideri sono appagata. A Nicola Una madre ha sempre qualche piedino qualche braccìno da ricoprire così guarda le vetrine e il tempo passa.

4 die. Salutando Piera mi è uscito dal cuore “Sei proprio un tesoro! Sono così contenta di vederti! Torna presto!”. Ero piena di affetto per lei. E una persona squisita, solo quando è presente me lo ricordo bene, poi mi si annebbia un po’ perché non è legato a niente. Adesso ha tro­ vato in sé il filo di manifestarsi con la fotografia: lo faceva da quando aveva quindici anni, è un po’ il suo diario. Infatti mi ha portato due foto in cui mi vede così spirituale. La foto è un modo di conoscere la propria immagine e di dare riscontro agli altri sulla loro: nel gruppo Ester risulta più autoritaria di quanto mi ricordassi, mentre trepidan­ te e sensibile Felicita, e intensa Federica. Dalla foto fatta per strada mi sono vasta un’espressione più bulla, alterata rispetto a quando ascolto le altre durante la riunione. 5 gen. Con un uomo non è mai entusiasmante perché non ti dice “Forza, il mondo ti appartiene, segui i tuoi desideri, gli impulsi... Vuoi

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incontrare persone? Incontrale. Vuoi amare un uomo? Amalo. Vuoi rompere la routine? Rompila”. No, l’uomo ti guarda con occhi pro­ fondi e mormora “Non so come potrei superare”. Solo una donna può dirti “Forza, il mondo ti appartiene...”. A cena da Nicola completamente assente. Si anima se si parla di un cane che vuole acquistare, di un appartamento in montagna che con­ viene cercare per i bambini che vogliono la neve. E corsa via a mez­ zanotte per comprare le calze della Befana. Sono di malumore a studio di Simone. Lo vedo legato nostalgicamen­ te a questo luogo che rappresenta il suo passato: qui diventa scontento, si accorge che non ha abbastanza sculture, che è stato troppo distratto dalla vita quotidiana, qui ci sono libri dove lui c’è o non c’è, qui viene a sapere che hanno dato il premio Feltrinelli a un altro scultore, riceve e fa telefonate di affari, progetta ingrandimenti dello studio, maggiori aiuti per fare sculture, dice di volere stare a studio il più possibile per concentrarsi sulle sculture. Io mi deprimo, mi annoio, francamente lo trovo un posto di cui dovrebbe sbarazzarsi. 7 gen. Caro Adolfo, buon anno! Mordo il freno, ma la casa non è ancora abita­ bile, ci vorranno ancora due o tre mesi. Mi sono tolta un tunnel di dosso lascian­ do Milano, Roma è già meglio come clima e piacevolezza fisica, però è sempre questa torre di Babele che illude di contatti possibili, c poi nessuno si capisce con gli altri... A volte mi sento matura per stare proprio a tu per tu con me stessa, av­ verto l’inutilità di tante cose, l’inganno di altre. E poi aH’improwiso faccio sogni sfrenati di vitalità, illusioni, godimenti, successi ecc. Come va la tua moto-zappa? Cara Piera, sono felice delle foto che mi hai dato. Sono le prime immagini di me che mi vengono da un’amica. In qualche modo sono portata a pensare che ti piace quell’aspetto che hai messo in luce di me. E a me piace. Sarà bello vederci tutte quante...

Alla TV ho assistito a un dibattito tra Fellini e alcuni scrittori. C’era anche la Ginzburg che ha esordito dicendo che Amarcord è un’opera che “resterà per sempre”. E una donna molto ingenua e in adorazio­ ne del padre genio. Secondo lei, nel film di Fellini c’è la dolcezza e la delusione per i propri genitori così al di sotto delle aspettative, ma sentivo della nostalgia nelle sue parole come se avvertisse ancora quel vuoto e lo riempisse continuamente con dei miti culturali. Non la

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conoscevo fisicamente e l’ho trovata molto dura e rigida nell’espres­ sione, con capelli corti a frate. Le tremavano moltissimo le mani, fu­ mava, prendeva appunti. Ha parlato poco, non ha saputo svolgere le sue emozioni, le ha solo enunciate con passione contenuta. I suoi occhi erano senza sorriso, teneva testa con devozione allo straripare della personalità “magica” di Fellini. Sempre mi colpisce l’atteggia­ mento legato della donna che si conquista un posto tra gli uomini con la buona condotta e la gravità. 8 gen. Nicola ha detto una cosa molto giusta: che prima di avere rea­ lizzato qualcosa si è un po’ “lividi” con gli altri, si sente tutto dentro “in fieri”, tutto è già in noi. Dopo si è tranquilli e si può riconoscere quello che ci hanno dato gli altri visto che non intacca minimamente il fatto che fosse già in noi. Parlando con lei mi si è chiarito il mecca­ nismo di liberazione. Tu proietti inconsciamente su un’altra il tuo bi­ sogno di liberarti, questo ti inferiorizza rispetto all’altra, temi di non farcela e che l’altra lo intuisca e ti consideri colpevole. Finalmente esci fuori, la ami e poi scopri che tutto partiva da te. Però l’altra o è se stessa o vuole a sua volta esserlo e comunque che tu lo sia, quindi par­ tiva anche da lei. Nicola è a una crisi forte con Ester: si sente svalutata, adoprata. L’appartamento di Ester è quasi finito, arriveranno a una spiegazione. Ester, mitizzandomi mi ha dato una sicurezza che pro­ veniva da una presunta eccezionalità. Me ne sono liberata con Sara. Mentre Ester non si è liberata della mia mitizzazione (non ha voluto farlo), così considera che le sia dovuto questo, quello, quell’altro anco­ ra, e Nicola si scoccia. A volte penso che Ester non sa quello che dice: quando è alle corde tira fuori l’inferiorizzazione, diventa vittima, così chiude un rapporto e ha l’alibi per metterci una pietra sopra. La tentazione delle femministe di scovare gli antifemministi conti­ nua: ma è assurdo. Cosa possiamo chiedere all’uomo se non che sia se stesso, con i suoi problemi? E lo è. Siamo noi a non esserlo. Se uno è misogino ha diritto di esprimerlo. Oppure ci disturba? Ma a cosa possiamo aspirare se non a conoscere, cioè che l’altro si riveli? 9 gen. Che delusione! Ho aperto il mio cuore a Marion e lei ha reagito prendendo una posizione culturale: non crede alla coscienza individuale, l’autobiografia, il diario non le interessano ecc. Come se 10 le avessi esposto a mia volta una presa di posizione culturale. Ri­

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mane così tra noi l’equivoco di sempre. Forse i miei discorsi possono prestarsi a questo equivoco, me ne dispiace. E sulla difensiva, non vuole essere influenzata da me; si meraviglia che non mi accorgessi in passato del mio “magnetismo”. Come rinferiorizzato è ignaro, oltre che distorto! Lei mi assimilava ma, proprio perché dipendente da me, non mi riconosceva, le sarebbe parso di convalidare la sua soggezio­ ne. Mi stimolava a parlare, questo sì, però mi contraddiceva pur fa­ cendosi, a mia insaputa, plagiare. Perché, come avrei potuto intuirlo con sicurezza visto che lei sembrava sempre d’accordo su molto, ma reticente sull’essenziale? Le ho confidato che prima, quando dicevo “senso di colpa”, non sapevo cos’era (credendo ovviamente di saper­ lo), tanto quel senso di colpa impregnava il mio senso dell’esistenza che non lo potevo scindere, era in certo modo vivere. Ha avuto un attimo di perplessità, forse anche per lei era così, ma è svanito come una perplessità di prammatica. Intanto che parlavo e le dicevo che alla fine ero sommersa di dubbi, mi è venuto il ricordo del “dubbio iperbolico” di Descartes. Adesso mi è tutto chiaro il dubbio iperbolico l’evoluzione creatrice la monade senza porte né finestre la fontana di luce l’emendazione dell’intelletto tutto tutto lo ritrovo in me e segna i momenti della mia appartenenza alla coscienza dell’umanità.

La frustrazione con Marion è questa: se le dico che nel gruppo si sono verificate tutte le incomprensioni con le altre che ciascuna si portava con sé dalla propria vita, lei mi ribatte come mai, non ne avevo avute abbastanza di batoste nei rapporti quando ero giovane? Lei ne ha avute abbastanza. Se le dico che no, è stata anche una festa, mi senti­ vo viva per la prima volta e che adesso, dopo tre anni, riprende la vita di tutti i giorni, lei ribatte che “Se così posso esprimermi, trovo ripro­ vevole prendersi di queste vacanze”. Ero di stucco: non voleva, non poteva accettarmi. Però, si sarebbe fatta influenzare ancora da me?

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Quando ho adoprato la parola “felice”, ma così, en passant, è saltata per aria: per lei questa parola non ha significato, non può sentirla ne­ anche pronunciare. E tornando sul senso di colpa, dopo avere ammes­ so di averlo provato in alcune circostanze verso sua madre, concludeva “Però chissà, tutti ce l’hanno, non è interessante, con l’aiuto degli anni le cose si aggiustano”. Mi confermo sempre più che nel passato le ho tentate tutte, se poi ho dovuto lasciare non c’era altra via. Leggo la Plath: rispetto a chi si è suicidato, gli altri hanno comunque l’aria di avere accettato un compromesso. Sono depressa, Simone è depresso. Stiamo bene, leggeri, solo in cam­ pagna. Questa casa è troppo stretta, Tito toglie intimità e come un cucciolo devasta le nostre aiuole di confidenza e i nostri climi delicati. Simone non sa come riprendere la sua concentrazione sull’arte visto che io ne sono distratta, si sente solo. Io non so che fare durante la giornata. 10 gen. Mi telefona Fausto con voce sommessa. Viene a colazione e ci sono anche i genitori (io mi sento ragazza in famiglia). Dice che questa volta staremo tutti insieme, parleremo. I miei sembrano contenti. Poi Fausto e io andiamo in un albergo e sono dispiaciuta quando mi accorgo di avere perso la faccia dato che è lo stesso dove la mattina ero con Simone. O viceversa. Sono confusa. 11 gen. Nicola acquista forza ogni giorno: l’anno scorso ha affron­ tato il rapporto con me, quest’anno sta facendo lo stesso con Ester. Mi ha letto una lettera che le ha indirizzato, molto precisa e che la rispecchia in pieno. D’altra parte capisco che solo se prende slan­ cio io mi sento bene con lei, allora faccio quello che sta in me per appoggiarla. Mi rallegra vederla uscire fuori con fiducia di fare, so che sotto mantiene una certa cautela. Nicola non ha arroganza. Può essere puntigliosa, dura, perfezionista, ma non è spaccona. Marion di me diceva che sono “rapace”, come se tornasse a mio beneficio inculcare dei dubbi, mettere in crisi le sue certezze: esprimevo solo le mie ossessioni ritornanti. Ma il fatto che le esprimessi la prendeva di contropiede, rivelava quello che lei non accettava esistesse. Che io lo rivelassi le indeboliva la capacità di non vederlo, in altre parole ero io che, additandoglielo, lo facevo esistere. E poiché ogni tanto non riuscivo a fermarmi, nonostante mi desse subito un quadro negativo delle sue reazioni, prendendo un tono di sufficienza, atteggiandosi a

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incredulità, chiamando in soccorso teorie che smentivano, deride­ vano le mie velleitarie affermazioni, e andavo avanti aggravando di continuo la tensione, allora entrava in stato di depressione e diceva che ero rapace. Adesso ha aggiustato tutto con formule, da un lato irridendo bonariamente a delle fragilità che lei è certa di non condi­ videre, dall’altro identificandomi con quella donna “forte” che “per fortuna” lei non è mai stata. Certo che, sentendomi continuamente respinta e delusa, i dubbi stessi finivano per essere ai miei occhi una prova della superiorità su di lei, di cui detestavo le difese basate su miti culturali. Una giornata di sogno, limpida, un tramonto rosso invernale, l’aria tiepida. Adesso sto scrivendo sul letto della nostra camera dagli amici che ci ospitano. Ieri, rileggendo le mie poesie, ho visto uno svolgersi e un tutt’uno. 12 gen. Un paio di volte mentre sono sola per strada mi capita di incontrare un giovane biondo ricciuto che mi parla gentilmente, ma con sottintesi. Mi piace. Poi a tavola con Claudius alludo ridendo a miei trascorsi amori, è eccitante, finché passa una bella ragazza con un uomo dai capelli rossi che vedo solo di profilo: è il mio primo flirt. Mi affretto a dirlo. Un albero è apparso alla mia destra con andatura divina alla mia sinistra è apparso il sole sull’orizzonte si è impadronito dei miei capelli. Tutt’intorno e lontano si adagiano colline senza parlare. Felicità quando non manca niente c’è l’aria la luce la pace e un libro di Charlotte Bronté.

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14 gen. E troppo se dico che sono scoraggiata che rimpiango il passato che vorrei tornare indietro ai tormenti e all’incoscienza di prima? E troppo se dico che non vedo via d’uscita nel mondo e progetto di ritirarmi come un’eremita?

15 gen. Ecco vedete un naufrago tranquillo nel mare dei naufragi è attaccato a un legno e lo chiama “la mia terraferma”. Tutt’intorno c’è il sole il mare è calmo nessuno all’orizzonte. Il naufrago di tanto in tanto è felice.

Non ho più nessuno, questo è il punto. Tutto disperso, polverizzato, impossibile. E finita con tutti a cominciare da Ester, lei ha dato il via. Oppure l’ho dato io rompendo con Claudius quando non sono anda­ ta alla sua mostra. Volevo di più e l’ho provocato. Quello che volevo l’ho avuto con Sara, però è stato un momento, poi è sparito. Devo pubblicare i miei scritti, è l’ultima carta che mi rimane per uscire dal vuoto, e quella giusta. Stamani in via Frattina ho visto una ragazza con la testa piena di riccioli biondi come Sara: era di profilo e subito mi ha richiamato la sua immagine. Ho avuto solo una cartolina da lei “Cari saluti”. Gli incontri sono importanti perché danno una fantastica sensazione di novità che è dovuta alle reazioni che si provano di fronte all’influenza

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imprevista. Infatti adesso che mi sento sola mi ritrovo uguale, con le stesse risorse, né più né meno, di quando sono stata sola in passato. Le influenze di Ester che infondeva dinamismo nei miei pensieri e gesti e di Sara che mi dava la forza di vedermi nei lati più fragili, nell’essenza fragile, sono ormai lontane. Ogni tanto le chiamo in causa mental­ mente per sentire il loro parere, chiedere loro aiuto, ma non rispon­ dono più di quanto risponda Charlotte Bronté dalle pagine di Villette. Ho telefonato alle mie amiche a Milano riunite a cena da Isa che ha risposto felicissima, espansiva: avevo bisogno proprio di quello. Era una telefonata dall’esilio, stavo idealizzando, però si trattava delle mie ami­ che, alla fine, e qui sono sola. Isa mi ha informato del fatto che il grup­ po, spogliatosi di quasi tutte, nominalmente esiste ancora, però non si riunisce, ma nessuna delle rimanenti osa ammettere “E finito”. “E vero che lo zucchero rimasto nel bicchiere è il più difficile a sciogliersi” le ho risposto. Dopo un attimo di esitazione, ha detto “Eh già, proprio così...”, con una convinzione trattenuta, ma totale, che ho provato il so­ lito bisogno di sminuire e fare passare inosservati i miei scoppi di acutez­ za o di fantasia. Isa mi ha ribadito di essere stata benissimo insieme a me l’ultima volta e ha esclamato “Che gentile!” quando le ho spiegato che le telefonavo essendo al corrente della sua festa e non casualmente. Poi mi ha passato Paula che aveva la voce calda, affettuosa. Quando ho ri­ abbassato il telefono ero a Milano, nella “mia” vita e non qui a svolgere un tirocinio per capire cos’è stata Rivolta e non compromettere niente. Charlotte Bronté descrive così Lucy che parla di sé: “Amavo moltissimo covare i miei pensieri, traevo grande gioia dalla lettura di pochi, non di molti libri; preferendo quelli nel cui stile o nel cui sentimento l’in­ dole personale dell’autore appariva chiaramente impressa;... né (ero) ansiosa di attingere una più vasta cultura”.

In un altro punto ha un dialogo con la Ragione: “Ma - interruppi di nuovo - quando la presenza fisica è insignificante e spregevole la parola, in che modo si è in fallo se si trova nel linguaggio scritto il mezzo per tenere un discorso migliore di quelli che il labbro incerto non sa pronunciare?” La Ragione rispose soltanto “A tuo rischio e pericolo tieni cara codesta idea...”. “Ma se io sento, non mi sarà mai concesso di esprimermi?” “Mai” dichiarò la Ragione.

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16 gen. Lunga telefonata con Paula che si lamenta della nebbia, non vuole più stare a Milano, le piacerebbe prendere una casetta in campagna dove sono io, magari a una ventina di chilometri, oppure fare una cooperativa con altre... Mentre ieri sera pensare a tutte loro mi dava una sensazione di forza, adesso Paula da sola mi appare smarrita. Ieri sentivo di avere bisogno di loro, adesso sento che lei ha bisogno di me. Le ho detto che qui ho la sensazione dell’esilio, ha risposto che io sono andata verso il sole (al sud) e adesso rappresento il sole e le altre vogliono raggiungerlo. Era una metamorfosi semplice per una milanese infreddolita, eppure aveva un’intensità simbolica. Ho concluso “Allora ho fatto bene a andarmene da Milano”. Mi ha informata che Sara è di nuovo a Milano, non vuole pubblicare le sue poesie per ora, è in un momento delicato. Ma quale? Domani vado in campagna, che bellezza! Com’è carina stanotte la mia stanza. Dev’essere la luce diversa lo scrittoio bene in vasta tutto in ordine come in un convento. Simone che sta per tornare da un momento all’altro e io che l’aspetto sorridendo.

Paula diceva che Rivolta è in ciascuna di noi. Che esiste per lei se esiste in lei, sennò non esiste. Ma anche in me, pensavo, a volte c’è a volte non c’è. Mi tornava in mente quando Cristo dice “Tra poco non mi vedrete più. Poi mi vedrete di nuovo. Poi non mi vedrete più” o qual­ cosa di simile. Appare e sparisce, non si può possedere, tenere stretto, né identificare. Simone stamani è molto innamorato. Ieri sera è stato a cena con gente importante, il ministro X ecc. E sempre stupito di come questi tipi sono mediocri, furbi, scagnozzi e vivaci. Dice “Si naviga nella banali­ tà”. Allora torna di corsa da me che lo salvo da quella navigazione. In Villette ci sono alcuni rapporti molto precisi fra donne. Lucy è appas­ sionata, ma cosciente, si abbandona e si ritrae, riflette, la sento vici­ na, e ha un’amicizia frustrata con una ragazzina cordiale, spontanea, che all’occorrenza sa ferire. Io, al pari di Lucy, sono sempre apparsa

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come governante, istitutrice, “timone” alle altre ragazze. Poi ci sono figure di donne adulte: una particolarmente, la direttrice faccendiera, astuta, ma in modo ingenuo, mi ha ricordato Ester come la sognavo nell’estate precedente la rottura. Dentro avevo due amori uno pazzo scervellato che mi faceva paura uno saggio a maturazione lenta che mi faceva paura. Io non ero né pazza né saggia. Guardando il cielo stellato presa dalla sua bellezza ho buttato le testa indietro mi ha risucchiata per un attimo era buio vuoto senza vita. Sono morta di nostalgia per la terra.

20 gen. Da ragazzina leggendo Emily Bronte, oggi leggendo Char­ lotte, mi scoraggiava la messe di fantasia, di osservazioni, descrizioni, sensazioni che riempiva i loro libri. 'lutto buttato lì con precisione inconfondibile tra le reti ingegnose del romanzo. Mi chiedevo cos’era la mia debole capacità di articolare, visto che mi scoprivo tanto sensi­ bile. Ora penso che dipendesse dal fatto che a me era balenata la pos­ sibilità di sciogliere nella vita e nella comunicazione tutto l’accumulo che loro mettevano nei loro libri. Emily e Charlotte hanno la calma di creare un parallelo della vita, e così vagano in un tempo senza fret­ ta e senza turbamenti per l’azione. Io cercavo di smaltire tutto: solo quello che rimaneva di doloroso e di indecifrabile cercavo di coglierlo al volo. Di solito mi sembrava di essere riuscita a trattenere un lembo della veste del fantasma che mi tormentava, mentre leggendo le due Bronte, mi accorgevo come loro lo descrivevano in lungo e in largo,

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e come l’avevano familiare. Senza tante storie, ecco li nel modo più semplice e apparecchiato tutto l’argomento, mentre io non potevo non mettere in primo piano la mia costante sorpresa e batticuore. A volte penso: dovrei fare una casa editrice e pubblicare tutti gli scritti di donne che m’interessano, del passato e del presente. Sarebbe bello che fosse diffusa questa espressione di sé, che altre leggessero, medi­ tassero... Vorrei scrivere io stessa delle introduzioni, dei commenti. Quante preziose analogie ho nel cervello, quante illuminazioni... In questo momento però non ha importanza niente se non io, godermi la mia coscienza, la mia pace, tutto il resto è inutile. 21 gen. Mi chiedo com’è che Charlotte Bronté o Emily Dickinson non fanno parte dei punti di riferimento che servono a individuare il presente. Credo che non piacciano agli uomini, come personalità femminili, intendo, questi tipi strani che non hanno accettato la loro protezione e le lusinghe del loro mondo! 22 gen. Come può essere pesante Simone quando si sente giù! Di­ venta silenzioso e la mia vivacità gli dà fastidio. Stamani voleva fare l’amore e secondo me non c’è momento più inopportuno che dopo una giornata depressa. Guardo un uccellino sul vialetto di cemento davanti al cancello dello studio di Simone. Ci ho tenuto a dire a Gemma che non mi sento difensora di Rivolta, che non voglio che i miei rapporti con le altre siano subordinati a un qualche sottinteso che facciamo esistere Rivolta, oppure che pren­ diamo senso le une per le altre dal fatto che siamo Rivolta. A lei sarebbe piaciuto comprare una macchina offset per stampare cose nostre e di altre, traduzioni ecc. Però sempre può voler significare mantenere un centro di Rivolta, invece se lo fa lo deve fare per sé, per i suoi interessi e sbocchi. Non possiamo creare un patto tra noi, un lealismo di gruppo, una massoneria. Dobbiamo sentirci libere e poi, perché no, lei compra una macchina offset. Mi ha confermato che Sara non vuole pubblicare le sue poesie: è rimasta colpita dal fatto che sua madre ha sofferto troppo per essere stata implicata nel libro. Comunque non vuole pubblicare in Rivolta per non essere un modello. Lei dice che la verità è una e che sarebbe giunta alla verità anche senza il femminismo. Una caratteristica di Sara è quella di non

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dover mai dovere niente a nessuno. Non ha pace finché non si sente unica autrice di se stessa. 23 gen. Tutta la notte mi sono rigirata i pensieri di qua e di là, è troppo stimolante una serata di colloquio con un’amica, con Gem­ ma, che viene da Milano e mi porta l’aria di quello che succede là dove fino all’estate scorsa ero anch’io. Paula. Isa, Angelina, Matilde da tanti accenni sono spuntate fuori tutte, e Sara la mia preferita. Ve­ nire via da Milano è stato provvidenziale: mi ha permesso di creare il distacco senza impormelo, di eliminare il problema lasciando pas­ sare un giorno dietro l’altro finché non mi sono sentita dentro il fatto compiuto. Non potevo stare accanto a Sara e farmi demolire pezzo a pezzo. Iniziando il femminismo pensavo di aprire una strada, era un’ipotesi. Sara mi ha garantito che era proprio vera, me l’ha detto in tutti i toni, così ci ho creduto io stessa, e poi ha fatto dietro-front fino a farmi capire che potevo essere di impedimento se non venivo fer­ mata, o comunque solo un’occasione - che era, credo, quest’ultima la mia sensazione di partenza, prima che l’ammirazione delle altre mi illudesse di essere veramente provvidenziale sul loro cammino. Così credo che proprio dalla conferma di Sara sono sfociata nella certezza di avere una missione da compiere e di stare compiendola. Questo dava un approdo alla mia vita, poi mi è stato tolto bruscamente e la mia barchetta, ormai sicura di godere il meritato dondolio della certezza al riparo dei venti, si è trovata di colpo nel bel mezzo di una tempesta che la risbatteva sugli aridi scogli del dubbio da cui proveni­ va. Non meno che Sara da me, io sono stata ingannata da lei, questo dovrebbe capirlo, se mai arriverà alla condizione di “vedere” gli altri. Ho scritto una lettera a Raffaele su Tito e l’ho spedita. E venuta Gemma con un gran mazzo di mimosa bellissima e siamo uscite insieme. Ieri mi ha detto di avere dato dei soldi alla sorella della sua donna per abortire. Voglio regalarle qualcosa di Simone perché abbia la cifra corrispondente. Io mi sento predestinata ma perdo la fiducia tante volte che non so più se predestinata significa predestinata a perder la fiducia.

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Il Paradiso dev’essere che ci si ama siamo costretti a stare lontano e passare la giornata evocando gli assenti senza permetter loro di presentarsi. La verità ha occhi di basilisco non è una madre non è una sorella.

Sono rimasta coinvolta dal rifiuto di Sara di fare parte di Rivolta, e ho proclamato a Gemma il mio distacco “Che Rivolta cada pure a pezzi, non sarà che un bene per noi e lasci per terra una buca cosìf’. Sto parlando con Ester. Mi è simpaticissima, ridiamo, penso “Ma va bene con lei, è proprio tutto a posto”. Fa tanti gesti da donnina assennata che mi ricordo suoi.

Ho dormito come un sasso, ero stanchissima, con Simone accanto. Ieri da sola no. Questo è un problema che non dormo più bene senza Simone. Forse dipenderà dalla tiroide, però sono sempre stata così, ansiosa, e con il cervello che lavora a vuoto invece di lasciarmi ripo­ sare. Simone mi difende dalla mia costituzione nervosa e mi fa essere me stessa con un indispensabile felice attributo di calma. Non so aspettare il momento non ho la calma di partire al segnale. Tormenti e dubbi delle false partenze! Non so aspettare l’unità spesso mi divido una dice all’altra “Osa!” Purezza della gemma suono del cristallo ma l’emozione e il volto arrossato.

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Sono sconcertata, ho perso la bussola: Diana mi è sembrata nel pallo­ ne, il suo libretto fuori della nostra collana, ma sempre sotto la sigla di Rivolta Femminile, è campato per aria. Non c’è niente da dire: è fuo­ ri. Mi sono sentita debole acquistandone dieci copie, ma non vedevo via d’uscita e volevo non avere rimorsi sul fatto che, così povera, ha lavorato e speso per pubblicarlo. Adesso sono scontenta di me, avevo intuito giusto a non sollecitare contatti con Diana: non posso fare a meno di cercare di non ferirla, di non dirle un no secco. Però quando le ho precisato “Questo libretto è indietro rispetto a dove sono io, è impersonale e generico”, a lei non è sembrato di dovere approfondi­ re, l’ha presa come un’osservazione neppure così negativa. Gemma dice che salto dal bianco al nero, ha ragione. Sostiene che se mi rallegro tanto quando Rivolta sembra esistere e avere un senso non è giusto che me ne distacchi. 24 gen. Mi sono svegliata angosciata dopo essermi addormentata angosciata. Ho dormito poche ore: questo libretto mi ha disturbato, e più ancora il mio rapporto con Diana. Cara Diana, ti prego di perdonarmi se ieri sono stata protettiva e incoraggiante. Non ho trovato rispondenza con il tuo libro e le mie parole e i miei gesti possono non avertelo comunicato con chiarezza. Adesso la mia condiscendenza mi pesa. In realtà mi sento come una critica d’arte davanti a un prodotto di Body Art. Mi dispiace.

Gemma mi ha parlato del suo rapporto con Isa e io di quello con Sara. Secondo Gemma, Sara ha paura che mi serva di lei: se pub­ blica in Rivolta io, che ho cominciato Rivolta, ne traggo un vantag­ gio, ecco perché mi sarei dedicata con abnegazione al suo libro. Dice Gemma “E meglio avere chiaro il tuo vantaggio piuttosto che pensare che hai agito per bontà, non ci credo mica tanto alla bontà”. Il diario di Sara mi sembrava che mi fosse dovuto, la raccolta di poesie invece sarebbe un sovrappiù. Mi ha chiesto “Cosa avresti voluto in cambio della cura ai suoi scritti?”. Ho risposto “La cura ai miei, che mi aiutas­ se a capirne il senso, a vederli dal di fuori”. Dopo il rifiuto delle poesie passate, mi è difficile ritrovare la fiducia, dovrebbe essere Sara a fare un gesto di interesse. Invece fa tutto il contrario. Mi considera una persona a cui è andata fin troppo bene, che ha avuto successo. E non vuole contribuire a darmene ancora.

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25 gen. Non posso continuare a restare così inespressa e in incognito con in più addosso solo elementi indiretti di identificazione: la critica d’arte e anche il femminismo. A una mostra ho rivisto Ester come una volta sorridere a tutti e inter­ loquire senza tregua. Sono andata a salutarla, ma non le ho parlato, non era quello il posto. Poi a Gemma confidavo quanto rincontro mi aveva emozionato, invece mi ero sentita abbastanza padrona di me. Avevo semmai l’impressione di una fine, la fine del femminismo in noi; non ribellandomi, accettandola provavo quasi senso di colpa. Al ristorante le dicevo “Ho fatto come mia madre da bambina: aveva colto un mazzo di fiori di campo, ma nel tornare a casa ha visto un meraviglioso albero fiorito d’argento che brillava al sole, così ha but­ tato i suoi fiori ed è corsa a cogliere quelli dell’albero, ma intanto il sole è tramontato, l’albero è tornato verde e da vicino ha visto che era solo un olivo. Io avevo i fiori della mia vita, ho buttato via tutto per cogliere quelli del femminismo, ma era solo per capire che dovevo accettare quelli della mia vita”. Andando a letto ero angosciata, e Simone mi ha detto di avere ca­ pito perché mi ama e che mi ama tanto: perché scopro e metto in crisi continuamente i suoi lati meccanici. Non è vero che funziono come una palla al suo piede visto che non lo aiuto nella vita sociale, è molto di più dove lo aiuto. “Soffri perché non sai più fingere e sei troppo scoperta. Spremi la vita senza rassegnarti, la vuoi con intensità, e forse non ti accorgi che questo è il massimo, e che siamo felici.” Da un lato lo penso, ma devo ancora uscire dal silenzio su di me, altrimenti ho sulle spalle il mondo da quanto mi pesa avere accumulato e accumulato tanti scritti per poi non tirarli fuori, non essere mai sicura che non è sventato farlo e che non mi farà del male. Da Sara aspettavo questo, non me l’ha dato, come lo aspetta­ vo da Ester, forse da Fausto e Claudius, forse anche da Raffaele e da Simone. Con Sara mi sembrava di essere proprio lì lì, stava per ac­ cettarmi e avrei vasto possibile comunicare con i miei scritti. Invece non è stato così, forse lei è troppo diversa per trovare preziose certe esperienze. Gemma è piovuta dal cielo in questi giorni: ha vissuto i miei arrovellii e stamani quando la vedrò le dirò che la sua parteci­ pazione attenta e sdrammatizzante, proprio perché ha intuito bene il dramma, mi ha costretta ad ammetterlo con lei, finché non ho visto la via d’uscita.

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Ho rotto con l’attività critica perché ormai un noblesse oblige profes­ sionale (capire, essere intelligente, sicura, all’altezza) mi rendeva im­ possibili i rapporti. Ecco perché soffoco nelle gallerie in cui, a quel noblesse oblige, si è aggiunto quello di me come femminista. Infatti il femminismo mi ha dato un carattere rappresentativo che paralizza ancora una volta le mie vere reazioni e sensazioni. Mi sono trovata prigioniera di nuovo e più chiaramente per opera mia. Alle spalle ave­ vo quelle poesie che contrastavano stranamente con l’immagine e il ruolo che avevo (sia nel campo dell’arte sia in quello del femminismo), non potevo fare a meno di sentirle come me stessa, ma allora chi ero? 26 gen. In me la vergogna era vergogna della mia sofferenza. Mi sembrava di non soffrire mai veramente per motiva pratici, quelli po­ tevo anche risolverli o superarli, ma per una disposizione, una fatalità della sofferenza in me a cui non riuscivo a trovare una giustificazione. Perciò mi pareva sintomo di una inconfessabile interna debolezza che eufemisticamente chiamavo ipersensibilità. Con Simone abbiamo parlato del mio rapporto con Sara. Anche lui la trova onesta, però la sente molto aggressiva verso di me, con una carica di violenza come se volesse schiacciarmi. Lui dice che mi sono ritirata quando ho vasto che la sua dolcezza si mutava in sfida con­ tinua, in una continua richiesta a cui voleva però dare carattere di parità. Mi viene in mente quello che dice Hegel che le coscienze si fronteggiano e si mettono alla prova fino alla morte. Con Sara ho un po’ avuto la sensazione che a lei non premesse niente altro che questa scommessa su chi di noi due avrebbe ceduto. O qualcosa del genere. Il nostro è stato o è un rapporto tra due coscienze, non tra due esseri: l’affetto come se non contasse nel dirigere il destino del rapporto. 29 gen. Vorrei uscire da me stessa per un po’ e volare come Peter Pan lontano nella notte. Vorrei sgranchirmi un po’ le braccia che sorreggono

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quella statuina di biscuit che io sono. Vorrei incarnarmi in qualcuno d’altro sciogliere i muscoli in un altro destino. A volte il mio mi sta stretto tento di dilatarlo ma non posso scivolo fuori e sono “tutti”. Da tre giorni non amo da tre giorni non scrivo non parlo non mi parlano la mia vita è piattezza come un rotolo di stoffa nelle mani del commesso. E pensare che a volte è una coda di cometa. Siamo tutti colpevoli non prendertela siamo tutti colpevoli di non capire eppure agiamo ci torturiamo biasimiamo e a volte facciamo delle crociate. Non sappiamo di non sapere. Siamo tutti innocenti. La condizione è beffarda che inezia è quello che l’essere umano riesce a combinare?

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30 gen. Un geranio è fiorito sul terrazzo ma le mie amiche sono lontane sono sparite al di là della collina volevano sganciarsi da me. Quando dicevamo “liberazione” non sapevo che anch’io ero un ingombro così sono stata respinta proprio da quelle che amavo. Ogni tanto tiro la corda m’immagino di aprire una schermaglia e Tinteresse si concentri ancora. Invece la corda viene mollata e io ruzzolo giù. Questa volta mi sta bene oggi ho perduto il pelo domani il vizio. Il cieco vuol decidere i colori il sordo vuol comporre la musica lo zoppo vuole ballare questo è il mondo che sappiamo fare questo il pasticcio che non si può rimediare.

Nicola ha avuto una telefonata di Ester che l’ha ringraziata di averle fatto un così bell’appartamento, poi l’ha invitata all’autocoscienza sui loro rapporti. Degli argomenti della lettera non una parola. Nicola ha risposto che, messa così la cosa, non le avrebbe ritelefonato. Ester ha ripetuto l’esortazione all’autocoscienza e ha abbassato il ricevitore.

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Nicola sostiene che Ester ha ripetuto il gesto formale che io avevo fatto alla mostra salutandola senza poi fermarmi con lei. Comincio a pensare che Ester ha perso veramente la testa. Nicola è combattiva, onesta: la sua vitalità, la sua gioventù sono contagiose. E l’amica da cui attingo più energia in questo momento. A Nicola La tua coscienza mi scalpita davanti come un cavallino irresistibile il mio cavallo un po’ troppo alato gli risponde toccando con un brivido la terra. Insieme fanno una corsa. Perché questa incontentabilità? Tutto ciò che succede è miracoloso Gemma mi telefona da Milano e il suo soffio sospinge la mia nuvola.

31 gen. Ho letto a Simone alcune poesie di queste ultime. Mentre dicevo quella delle amiche “Un geranio è fiorito” mi sono sgorgate abbondanti lacrime e ho interrotto un momento. A lui è piaciuta invece “Il cieco vuol decidere i colori”. Di quella che mi ha fatto piangere osservava “Ma non è vero che eri un ingombro per le altre, non ti hanno abbandonato...”. Era comico: lo so anch’io che va tutto bene, ma intanto le rotture e i distacchi ci sono stati, non sono così filosofa da accettare subito “Ottimo ottimo”. Si soffre, non è così? 2 feb. A Firenze. Sono tornata bambina il babbo mi aveva sgridata ingiustamente solo per scaricarsi i nervi, io ero rimasta troppo male per rispondere, stupefatta osservavo la gioia che scendeva l’amarezza che saliva

sentivo membrane leggere accartocciarsi e appassire. Alla fine ho protestato dignitosamente come una persona grande e l’ho lasciato a meditare le sue perversità, ma già avvertivo che si pentiva senza saperlo la voce gii cambiava, tra un po’ sarebbe stato triste. Questo epilogo era lo scherzo peggiore la complicazione maggiore. Due ragazzi del Valdarno in treno di una bellezza scarna... selvatica... ma sostanziosa mi garba... mi è piaciuta un sacco... “Un guerriero” è bellina... un long playing di Battisti schifoso... certe bischeratine... “Per te” è bellina... anche il significato delle parole è bellino a me piace anche quella che fa... ah, “Il treno delle 7.40” tatata la conosci... è bellina ma non solo le parole non la conosci? Aspetta ricanticchiamola tatata comunque Battisti è a un buon livello.. “La collina dei ciliegi” è una boiata... “Come può uno scoglio arginare il mare” è bellina... mi garbano quelle vecchie... la canzone sa di poco il long playing è forte Baglioni è commerciale a un livello decoroso il contenuto non c’è

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c’è una storia... bellina con De André scomparisce... anche Battisti poi... non son sue le parole? Allora mi scade... questa pensosità questo distacco in De André è diverso... forte di Verdi la “Messa da Requiem”... tutto il coro apocalittico c’è anche di Mozart... mi garba quasi più misterioso.

3 feb. Fellini finalmente si accorge di me, parla di me con altri facendo le mie lodi. Io sono una ragazzina, ascolto. Poi da uno specchio davanti a cui è seduto come da un barbiere mi manda delle occhiate molto calde e misteriose. Ha strani occhi fondi magnetici e un po’ giallastri, io me ne sto nell’ombra dietro di lui, ma mi sento finalmente apprezzata nel mio valore. Più tardi, da quella ragazzina prudente che sono, taglio la corda dalla festa perché mi accorgo che un complesso pop è venuto a sistemarsi vicino a me e un tale mi vuole mettere qualcosa (droga?) nella borsa. Fellini somiglia a mio padre. Un corridoio è pieno di gente, di folla diretta verso l’uscita: io sono da parte con Simone e, infastidita, sento la vocetta di Ester lì nel mezzo: non la vedo, ma la immagino che si fa largo.

Un giornalista di sinistra risponde a delle femministe di “Effe” chia­ mandole “Mie care pupe”, ed è talmente volgare e inconsapevole che finisce per giustificare l’esistenza del battibecco a quel livello. Il tema del contendere diventa secondario: restano la rabbia velleitaria delle une, il tono sufficiente dell’altro che fa mostra di sé. Pasolini dice che il mondo è pieno di ex-oltranzisti disoccupati o occu­ pati in doppio-petto. E vero, anche Bob Dylan adesso canta canzoni sull’amore coniugale e sul disimpegno. Invece le divulgatoci del fem­ minismo urlano a più non posso poiché hanno deciso di attirare l’at­ tenzione degli uomini, e di quelli più duri d’orecchio. Mentre nei miei scritti c’erano dignità, castigatezza, commozione oltre che sdegno e dolore che ne facevano una amalgama particolare, non un atteggia­ mento ideologico o strafottente. Però non so quanti sapranno accor­

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gersene. Leggendo Pasolini pensavo “Va bene, adesso ha ragione, però verrà il momento in cui, generalizzato, il suo atteggiamento diventerà un alibi per altri”. E una persona troppo rappresentativa. Ho letto che il dottor Spock ha fatto rautocritica: ha scoperto di avere esage­ rato a dare tutta la fiducia ai bambini e nessuna ai genitori. Si sente responsabile dell’attuale generazione “turbolenta”. Più il genitore è arrendevole (inespresso), più i figli sono esigenti. Quello che è successo a me con Sara. E buffo questo passare da un eccesso a un altro. Forse chi ha subito un eccesso pecca di indulgenza nell’altro senso. Quello che manca è proprio l’autocoscienza e il passare attraverso tante fasi. Ognuno sembra incarognirsi in una fase che diventa sua tipica. Mi si presenta la sensazione di qualcosa irreparabile - la vita stessa. Mai mi sono sentita con le spalle al muro come adesso - mai più calma. Capire - far parte capire di far parte non c’è altro io - la mia porzione di cecità io - la mia porzione di luce. Quando ti accorgi di avere “sbagliato” pur essendo nel “giusto” (che era prevedibile ma proprio quello ti eri distratta dall’avere preristo) capisci tutto - anzi ricordi che lo capivi prima - poi l’ipotesi comune ti aveva tentata.

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5 feb. Mi vergogno a scriverne, ma voglio ammetterlo, almeno in sintesi: quello che le femministe (come me) hanno pensato, detto, scritto in proprio è stato strumentalizzato dalle altre per entrare in competizione con la cultura maschile. Non mi si dica che non è così: chi di noi ha avuto un articolo in terza pagina del “Corriere”, e a favore? Dopo avere tanto tentato di sganciarmi il marxismo di dosso, l’ho mantenuto in pieno: l’idea di identificare il valore con una catego­ ria di oppressi è marxista. Quando dicevamo “le donne, le donne...” eravamo marxiste, appunto. Non credo più a una classe di persone indipendentemente dalla coscienza individuale. Non rivoluziona un bel niente. Quando ho detto a Diana che il suo libretto è metà nell’arte e metà nel femminismo (prima maniera), è saltata su “Non è vero affatto”, non era venuta da me perché le parlassi del libretto. Prima le solite storie: che l’uomo sa pubblicizzare bene le sue cose, le donne no, lei non è una donna d’affari ecc. Accenna al fatto che non ci si capisce più tra noi, ci sono rotture, difese terribili: tiro in ballo il mio rappor­ to con Ester e lei si chiede perché. Faccio un discorso, dice “Alludi a me?, rispondo “No, in generale”; e io “Alludi a me?” e lei “No, in generale”. Certo, se salta su come se l’avesse punta una vespa, dopo vado un po’ cauta. Però quando le dico in modo diretto che non so come parlarle, lei non reagisce, cambia discorso. Visto che è così difficile non so perché siamo qui a tormentarci, i nostri rapporti sono quasi inesistenti. Però del passato ricorda le mie affermazioni più strane che io ho dimenticato, tipo: sua madre aveva detto “Ac­ cetto la gente come è” e io ero intervenuta “Vedi?”, come a una cosa sbagliata. Mi terrorizza pensare l’influenza che ho avuto senza ac­ corgermene, e poi non quell’influenza che posso supporre, ma una improbabile, deforme, irriconoscibile influenza, Ho comprato la vita di Terèsa d’Avila, due libri della Austen e uno della Woolf. 6 feb. Mi si consiglia di partecipare a un concorso di storia, io sono lì con fo­

glio e matita a cercare di “indovinare” certe date. C’è qualcosa con la battaglia di Anghiari o di Amiens. Raffaele è occupato con Tito: gli chiedo se può dare un’occhiata all’enciclopedia senza farsi vedere per trovare quelle date. Mi sento perduta, non ho il minimo appiglio per scovarle, eppure dal concorso, in cui sono entrata all’ultimo momento, potrei trarre 120.000.000. Raffaele non farà

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in tempo: arrivano grandi vassoi con champagne rosé, una cameriera mi apo­ strofa villanamente “Una pupilla... una pupilla... ma quando vuole a suo marito sa come rispondere!”.

“Come una pupilla” è l’inizio di una mia frase, e curiosamente oggi avevo un problema di date mettendo a posto i miei scritti, cosa che faccio da ieri. Riposti dentro dei pacchi di roba mia a casa di Raffaele stanno ancora molti scritti, vecchie carte ecc. Oltre ai miei libri. Aspetto da stamani di poter rillcttere su quanto ho letto in “Libro de su rida” di Terèsa d’Arila. Mi ritrovo nei tormenti interiori senza perché nei patimenti e nei dubbi generati dall’anima stessa via via che cresce. Lei si chiedeva “Proviene da Dio o dal Demonio?” E io “Sono me stessa?” Si ammalava moriva di quella pena poi risorgeva e sgrammaticatissima ne scriveva.

7 feb. Telefonata di tre ore con Augusta. Lei ancora non si accorge che comincia a vuotare il sacco con me, ma io avverto la sua fiducia. E in una fase dove il femminismo, diciamo, è necessario. Ma neppure lo nominiamo. A me piace molto essere lo strumento della liberazio­ ne di un’altra e mi commuove saperlo mentre lei ancora non lo sa. Sentire questo passaggio che si compie in lei, poterne essere testimo­ ne e diligente esecutrice (la mia diligenza è a tutta prova), mi rende felice. E poi apprezzo tanto la buona volontà di chi cerca veramente di uscire fuori e realizzarsi. Ho un rispetto enorme dell’altra, avverto

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che si valuta meno di quello che la valuto io perché gli altri l’hanno valutata meno, allora voglio essere quell’eccezione che le può per­ mettere di avere un senso di sé più consono a come l’avrebbe avuto se altri non l’avessero avvilita. A me piace questa fase, può essere una gioia stabile della mia vita, mentre quella di un rapporto veramente alla pari, “di fatto” alla pari (e non perché io lo sento così grazie alla considerazione che provo per gli sforzi e il dispiegamento di capacità e di coraggio dell’altra) come con Sara, non può essere un bene sta­ bile: primo perché è rarissimo, secondo perché non abbiamo bisogno di vederci spesso, ma una volta ogni tanto. Federica è arrivata oggi da Milano: sta prendendo le sue decisioni e le attua. Per lei sono un punto di riferimento e anche una guida, però molte cose le fa completamente autonoma seguendo il suo in­ tuito, e poi si vedrà. Per adesso si appoggia a me, e tanto piacere, la trafila è questa, posso metterci tutta l’attenzione possibile, tutta l’autenticità, sono costretta a qualche indulgenza. D’altra parte la stimo, mi identifico in questo suo passaggio: è come se, affascinata da una musica, la volessi sempre risentire: la musica è questa scoperta di sé, del momento di grazia in cui sei cosciente di poggiare su di te. Adi ha raccontato dei sogni suoi; ci si ritrovava e si rallegrava di quel­ lo che aveva sognato. Questa funzione di tramite è dove io mi ri­ conosco, forse mi richiama suor Caterina che l’aveva avuta verso di me aprendo quasi nell’infanzia il solco della liberazione. Io sono stata attratta non tanto da mia madre quanto da lei che ai miei occhi aveva un fascino superiore e su di me un’influenza precisa: quella di rendermi cosciente. Bastano poche righe della vita di Terèsa d’Avila e mi trovo nel mio centro, tra la mia gente, a casa. Ed entro in uno stato di riflessione, di meditazione. Quando Terèsa parla di “ora­ zioni vocali” ho nostalgia del suono della voce che esce dalla bocca come una prova tangibile di me che chiede, che si rivolge... E certo collegato a ricordi infantili di devozione; mi sono sviluppata da quel nucleo, perciò mi sono sempre sentita fuori posto nel mondo come lo vivevano i suoi veri abitanti. Io, con quel collegio alle spalle, ero diversa: io nella cultura, negli ambienti intellettuali ero una spostata anche se infilavo misticismo dappertutto, nel marxismo, nell’arte... Adesso che ho penetrato anche questo velo della mia vita passata ogni enfasi sparisce.

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8 feb. Esco di casa con Simone appoggiandomi fortemente al suo braccio. Sono incinta sotto il cappotto, piuttosto grossa. Mi accorgo di non avere messo le scarpe, ho i piedi nudi, forse solo con delle pantofoline perché non sento troppo freddo, ma guardando nella fioca luce non le vedo, vedo le mie dita scoperte sulla neve. Anche Simone ha i piedi nudi. Passa un cane piccolo piccolo nero. Passa una fila di giovani che cantano nel paesaggio invernale buio appena rischiarato dalla neve; Simone intima loro “Smettete” e io resto male, meravigliata. Simone è partito per l’Elba dispiaciuto di andarsene senza di me. Come ho fatto tanto tempo sola? Però è un condizionamento incre­ dibile: si sta così bene, diciamo vegetativamente, in due. Vorrei fare leggere le mie poesie a Gemma, a Paula. Forse scelgo le amiche più buone con me, che certo ci mettono più scrupolo, riflet­ tono prima di dire “No” come Sara e Agata. Quel tipo di lettrice l’ho già sperimentato, grazie tante. Ieri Federica mi ha riferito che Felicita era entusiasta del pezzo che ho scritto per quella giornalista incontrata a Capodanno. “Andrebbe pubblicato tutto così com’è”; lo stesso che mi avevano detto Isa e Paula, e avevano pensato al gruppo. Mi sento unita a loro, sono convinta che le interpreto perché siamo della stessa pasta comune. Lascio che tutto vada spontaneamente, ormai conosco il meccanismo dei loro bisogni e dei miei. Sara invece è fuori del comune. Stasera finalmente relax. E stata qui Federica: ha deciso di mettere su l’appartamento da sola senza la sorella, e di fare una casa editrice. Ogni sua iniziativa mi alleggerisce, sono più ani­ mata con lei; abbiamo fatto grandi risate progettando apertamente interventi di chirurgia plastica, e ci sentivamo abbastanza bellocce. Ho scorso a caso pagine del mio diario di mesi fa: adesso comincia a comporsi in una specie di ritmo, avverto tante risonanze interne, c’è un intreccio misterioso che al momento mi sfuggiva. Avevo sempre avuto il dubbio che non fosse così significativo oppure troppo pietoso, non so. Parlare di me mi sembra ancora parlare di un argomento che non esiste (lo dicevo in uno scritto dell’epoca delle poesie); ancorar­ mi a dei fatti mi darebbe una maggiore certezza, invece non mi viene di farlo. Insomma, io ho cominciato a scrivere con la sensazione non di scrivere, ma di vaneggiare: facevo qualcosa di non presentabile, altro che essere scrittrice! Poi, visto che scrivere mi piaceva più di tutto, mi riusciva dire quello che volevo (solo descrivere il mondo esterno mi annoiava), ho cercato di portare fuori questa capacità intuita, ecco

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perché ho fatto la critica d’arte. In definitiva io mi sentivo molto più a mio agio nel rapporto con una pagina scritta che con un quadro, però mi pareva che fosse inutile aggiungere scritto a scritto e anche più vincolante, invece la partenza dall’arte visiva era larga, piena di promesse. Di fronte a tutto quello che ho scritto per me, fissarmi sulle poesie è stato proprio infantile. Solo che le poesie erano, per il loro genere, qualcosa di più presentabile di un diario, di una lettera non spedita, e lì sentivo di avere distillato un segreto. Forse avevo provo­ cato il passaggio a qualcosa di leggibile, la poesia, poi mi accorgevo che anche quella non lo era. Comincio a vedermi dal di fuori, ad avere gli elementi necessari a osservarmi con distacco. C’è un paradosso nella mia vita, un qual­ cosa di tremendamente paradossale: sono una “scrittrice”, diciamo, e lo sono sempre stata tormentandomi di non riuscire a esserlo per­ ché non mi accorgevo, letteralmente, di scrivere. Passavo ore e ore a scrivere, ma siccome era sempre di getto, all’improvviso, dietro qual­ che emozione-sofferenza (e ogni tanto gioia), mai più pensavo che fosse quello “scrivere”. A parte che, come “scrittrice”, non mi sarei certamente messa a trattare le sensazioni che trattavo, una specie di vergogna quotidiana, privatissima, a cui mi sottoponevo, che spera­ vo passeggera: mai e poi mai ho considerato la possibilità di dare a leggere il diario. Il più vecchio che ho ritrovato, sui tredici anni, comincia così “Caro quadernino che solo io voglio leggere”. Inoltre non spedivo la maggior parte delle lettere in cui parlavo di me ed ero orgogliosa se riuscivo a svolgere qualche argomento interessante e distaccato, oppure a ridurre la carica personale, così avrei spedito e risolto positivamente la corrispondenza. Perché incepparmi anche lì era angosciante, come angosciante era accorgermi che gira e gira finivo per volere e sapere parlare solo di me. Scoprire questo bisogno irrefrenabile mi umiliava: lo riscattavo appunto non dandogli corso, non spedendo le lettere, potevo così minimizzarlo, persino non notar­ lo più e dimenticarlo a periodi. 10 feb. Tito e suoi amici sono venuti con noi a Turicchi, così è stato un po’ diverso dal solito, ma i ragazzi insieme fanno una conversa­ zione a battibecco che stanca. Mi sono accorta che fra Tito e una ragazzina c’è qualcosa: si guardano molto, si parlano all’orecchio, sono continuamente in contatto. Mi meraviglia vederlo comportarsi

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da ragazzo grande, ma in complesso mi ha fatto piacere o mi ha la­ sciato indifferente. Simone dice che io sono ossessionata da qualcosa che blocca una par­ te della mia personalità, lui non ne capisce la ragione; anche questo risalire al collegio adesso gli pare strano, fare tutto questo problema di me. Vicino a lui ogni tanto sono una bambina che non ha capito di che si tratta; non mi dà fastidio, mi irrita un po’, ma insomma più di tanto non sarò accettata. L’altro ti vede da fuori, tu da dentro: dove tu vedi possibilità, lui vede ostacoli e viceversa. Però c’è un’intesa così dolce, uno stare insieme così fiduciosi: stanotte ho dormito tante ore e questo è più di tutto, stavo bene, quieta e abbandonata come da sola non mi succede mai, non fa niente se lui dice una cosa e io un’altra, avremo tempo di accorgerci se è la stessa. Ho letto un libro di agraria molto istruttivo, mi servirà per Turicchi. Ho deciso che il pianoterra deve restare il più possibile contadino, però mi manca uno stanzone o anche due per la conservazione dei pro­ dotti e le piante d’inverno. Come minimo. La scavatrice è già venuta a fare lo scasso reale per la vite e gii olivi. In autostrada. Io sono sempre stata. (“Quanti chilometri a Roncobilaccio?” “Non so.”) Io sono sempre stata. Le cellule si risvegliano dappertutto ma soprattutto nella testa spalanco gli occhi mi meraviglio io stessa che sappiano così bene elettrizzarsi passando dal soliloquio a un imminente colloquio. La cosa più nuova è la più vecchia la meno nuova la meno vecchia la più vecchia la più nuova.

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La pelle delle cose è liscia tesa confezionata dal destino. Come posso gualcirla e sopportare la vista delle cose come un letto disfatto?

12 feb. Al telefono Paula non è stata così espansiva come immagina­ vo, da Lucia vorrei andare a colazione; Gemma lei davvero espansiva. Non mi sento bene: ho gli occhi gonfi, mal di testa. L’incontro con Gemma e Paula troppo lontano dalla mia concentrazione oppure dal mito che mi ero fatta nella lontananza. Ho sempre la testa piena di miti: ho bisogno di immaginarmi le persone dentro l’alone in cui sono io. Non posso parlare loro del mio rapporto con Simone, già Paula ha fatto questo sogno: nel suo studio lui scolpisce con un grosso martello e manda intorno tante schegge, dice a Paula nascosta in un angolo “E molto pericoloso starmi vicino a causa di queste schegge, solo Carla può farlo!”. Rientra nella mia superiorità il rapporto con Simone, idem la campagna, la solitudine, il bisogno di autosufficienza. Quan­ do ho detto di avere un filmino mentre piango, tutt’e due hanno pro­ testato di non volerlo vedere. Gemma “Perché sennò mi metto a pian­ gere anch’io”, Paula chissà perché, probabilmente perché non vuole conoscermi in certi aspetti, che così sono costretta a tenere nascosti. 13 feb. Sono stata male, ho finito per vomitare e avere un mal di testa coi fiocchi. E venuta alfimprowiso Germana, molto affettuo­ sa. Insieme ci siamo scoperte questo disturbo che è avere nel fisico le ripercussioni degli stati psichici con una violenza che rende tutto troppo travolgente. Lei diceva “Per le scale il cuore mi batteva, il re­ spiro diventava veloce”. Anch’io ho capito che non le telefonavo per non andare incontro a un’eccitazione che, piacevole in sé, avrebbe ri­ schiato di trasformarsi in spiacevole con tutte le complicazioni e am­ plificazioni nervose. In me l’emozione ha sempre questo corollario quasi insopportabile. Adesso capisco perché Terèsa d’Avila era così malata, con i nervi così a pezzi, capisco perché è andata in convento. Infatti io cerco la pace, la pace soprattutto. Con Irma e Agata ho parlato del mio rapporto con Ester e ho am­ messo il peso che risento dalla rottura. Agata sembrava meravigliarsi

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e chiedersi perché non fosse possibile riprendere con lei. .Allora mi sono accorta che la difficoltà dipende dall’avere io ancora delle pretese su Ester, pretese che sento non realizzabili: che accetti e riconosca in sé il mio lato triste. Forse, dicevo, quel lato è ancora troppo inespresso perché io possa sentirmene liberata. Con molte persone posso mostra­ re la superficie, ma il lato di sofferenza è raro, e naturalmente finché non lo so accettato mi opprime. L’assurdo è che l’ho espresso scriven­ do, ma ora che sono qui con le poesie non so a chi darle, e tanto meno il diario. Molte temo di inferiorizzarle, ad altre non interessano: a chi mai potrò fare leggere quello che è me stessa. Agata è un balsamo, una delicatezza: andandosene mi ha accarezzato il viso. Con lei e Irma mi sono trovata subito e anche con Germana: c’è una sensazione di freschezza tale, il pericolo delle divagazioni non esiste. E tutto sciolto senza abbandonare il “tema”. Questo non lo riscontro con le coetanee mentre con le giovani adesso mi apro, è istantaneo. Come sempre la semplicità mi conquista, mi fa abbandonare ogni reticenza. 14 feb. Ho detto a Gemma “Non avevo un rapporto alla pari neppu­ re con Sara, la subivo”. Mi ha risposto “Ma ne eri cosciente, ne parla­ va già in giugno”. Ho ricordato a un tratto che allora aveva esclamato “Hai finito per ritrovare un rapporto come con Ester, che aveva la precedenza con i suoi problemi e parlava sempre lei!”. 15 feb. Cara Germana, com’era bello essere accolta, interrogata, ascoltata, capita da te! Quel peso di tristezza che mi sentivo addosso da più di un anno si è sollevato da solo privandomi a un tratto dello stato di rassegnazione e di in­ certezza a cui mi ero adattata non vedendo via d’uscita per me. Ogni volta che cercavo di comunicare la mia situazione finivo per mortificarmi inutilmente, mi sembrava di stare espiando una colpa senza fondo e senza connotati. Sara mi faceva la doccia scozzese su questo, forse senza rendersi conto di quanto fosse penoso per me. Io, accettando la sua autenticità anche contro di me, finivo in una specie di martirio. Da cui mi aspettavo l’assoluzione dal sospetto di supe­ riorità. E che invece lo riconfermava. C’era qualcosa di così infernale in quel meccanismo che alla fine ho preferito smettere di aspirare all’innocenza rico­ nosciuta. Mi sono ritirata tornando alla mia dubitosa sensazione di innocenza interiore, non comunicabile. Sentivo di dovere rispondere ancora alla tua lettera. A proposito dell’alfetto, no? Che anch’io provo per te.

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16 feb. E triste partire la mattina presto mentre tutti dormono mi sembra di tradirli ignari nel sonno. Si sveglieranno e non mi troveranno.

17 feb. Cara Sara, sebbene a volte le difficoltà c la frustrazione me ne avessero fatto pas­ sare la voglia, ho sempre desiderio della nostra amicizia di cui piano piano capisco il senso e in cui vedo l’equivoco che mi faceva mancare la parità. Con vero affetto.

Stamani Simone ha detto “Io sono sempre competitivo, non sono mai materno o maestro”. Forse la competitività permette di affrontare più realisticamente i rapporti, li pasticcia di meno? A volte penso “Noi donne non sappiamo neppure cos’è o com’è fatto il mondo”. Rivelandomi la passata inferiorizzazione, che comunque non pareva mai definitivamente superata, Sara mi aveva inibito: temevo che potesse di nuovo accusarmi di confonderla, così ero sottoposta a lei e malinconica, mi pentivo di essermi potuta sentire in gamba, ironica, un po’ tagliente come da buona toscana sono. E ritrovavo me stessa nella depressione della colpevolezza. Con Ester, questo problema non era emerso, almeno finché non mi sono inoltrata nel femminismo e nel rapporto con Sara, infatti fino allora lei era l’artista e tutto trovava una specie di equilibrio. Non c’è paragone come sono stata allegra nella dipendenza da Ester, e come mi sono intristita dopo, quando lei si è sentita superata da me. 18 feb. Come ho capito il gesto di Sara che se ne è andata da Rivol­ ta! Come è penoso cominciare a vedere chi prende le iniziative più deludenti! Ester sostiene attivismi fasulli pur di fare andare “tutto bene”. Sono depressa. 19 feb. Con Valeria ho ripreso coraggio perché con lei posso dire quello che voglio. Mi sento bene con le giovani, hanno la superiorità dell’età e delle possibilità davanti a sé, non provano che superficial­

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mente il timore del fallimento, non sono invidiose. Con il femminismo abbiamo fatto un mito della persona inferiorizzata, ora non regge più. Io stavo meglio con gli uomini che con le donne perché c’era più pa­ rità in quanto io non ero passiva, anzi tutta in fermento per capire, e più diretta proprio perché più forte. Infatti il senso di colpa che inietta l’inferiorizzato indebolisce subito, si perde fiducia e senso di sé, è im­ possibile essere spontanei, mentre con gli amici mi scoprivo consisten­ te, intelligente, apprezzata. Tutta la prima parte del femminismo l’ho vissuta con la parità a priori che mi faceva essere euforica anche se era una parità astratta, ingannevole. Appena ho avuto sentore dell’inferiorizzazione da me provocata sono piombata nel senso di colpa e ho perso ogni sicurezza nei rapporti, stavo bene solo con Sara quando me lo toglieva di dosso. Avevo bisogno di questo ogni momento. Se non ci vedevamo immaginavo possibili rimproveri, perdevo fiducia in me. Non è vero che a una persona fragile non si dice la verità perché non potrebbe sopportarla, ma perché lei stessa rigettando l’altro con tena­ cia, gli fa perdere la fiducia in sé necessaria a essere diretti. Vi perdono perché non sapete quello che fate non sapevate quello che facevate. Mi davate spinte all’indietro senza accorgervi che ero sul ciglio. Io vi venivo incontro aspettando che mi diceste “E vero, è così”.

Ho spedito la lettera del 15 a Germana. Avevo avuto dei dubbi: la pa­ rola “martirio” soprattutto mi dava preoccupazione, troppo dolorosa. 20 feb. Cara Piera, stamani (buttati finalmente i pantaloni che portavo da mesi, con addosso finalmente una gonna) sono andata a vedere una mostra di Claudius

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proprio sotto la casa di Ester. La galleria era chiusa, così guardavo per strada e mi sono sorpresa a non temere più rincontro con Ester, anzi lo desideravo. Ho pensato “Le telefono e le dico ‘Non ho più niente contro di te, mi sento libera da ogni risentimento, non ho neppure voglia di rivangare il passato, sarei contenta di vederti, posso salire un momento?’”. Non l’ho fatto perché ero così sorpresa io stessa che non avevo idea se mi sarebbe durato fino all’apparecchio telefonico. Ho visto la mostra di Claudius con la migliore disposizione d’animo non solo verso di lui ma, di nuovo sulla strada, verso tutti quelli che passavano. Mi sentivo così forte e serena che avrei voluto incontrare i miei peggiori “nemi­ ci” oppure quelle persone fastidiose per prosopopea o per ogni sorta di difetti in modo da mettermi alla prova anche nei loro confronti. Camminavo piutto­ sto verso l’esterno del marciapiede guardandomi bene attorno in modo che se fosse passato qualcuno di conoscenza mi avrebbe visto e avrei potuto salutarlo. Sono tornata a casa piena di uno speciale buon umore e ho subito telefonato a Simone per dirglielo. Ora, tutta questa fiducia che mi sento dentro e di cui devo misurare la consistenza mi deriva dai colloqui che ho avuto a Milano e che stranamente avevano come centro l’argomento del mio rapporto con Ester e con Sara. Poi con te ho tirato fuori la rabbia, l’amarezza, l’impotenza supe­ rando il disagio di stare parlando di una tua amica. Questo argomento tabù mi disturbava: la mia riservatezza mi portava a non toccarlo (con lo scrupolo di fare del pettegolezzo), ma così non me ne sarei mai alleggerita. Capivo che col tempo avrebbe pesato nei nostri rapporti. Dentro di me ti rimproveravo di fare della scelte sulla base delFaffetto piuttosto che dell’affinità e della coscienza. Ma era un rimprovero interessato. Con Germana ci siamo trovate d’accordo sulle sofferenze che gli inferiorizzati infliggono ai superiori, sofferenze che trovano origine nel loro diritto ad accusare apertamente e come riserva mentale. Adesso mi sento autorizzata a scuotermi di dosso il senso di colpa verso le altre, prima non osavo sembrandomi di poter ritrovare l’innocenza di fronte a loro solo ac­ cettando la colpevolezza e scontandola in qualche modo. Adesso posso smettere di recriminare il passato.

Credendo di incoraggiarmi a una riappacificazione, mi è stato riferi­ to che Ester in una riunione ha detto “Si prendono dei grossi dispia­ ceri non solo con i partner, ma anche con le amiche”, e ha abbassato gli occhi. Questo ha un po’ sbollito il mio entusiasmo di stamani, mi ha fatto presente un modo di essere che mi disturba, una coscienza di comodo. Mi è tornata la sensazione della voragine che ci divide, io le avevo detto “Un’amicizia che finisce è come un amore che fini­

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sce”, e alle amiche “Cominciando il femminismo credevo di avere dei problemi con gli uomini, invece ho scoperto di averne con le donne”. Al contrario lei fa apparire che ha avuto una delusione da me. Però ormai non mi ferisce più, mi sento accettata altrove, non mi toglie niente, non ha l’esclusiva su di me. Prima solo lei sembrava conoscer­ mi a fondo, quindi il suo verdetto mi lasciava senza appello. Adesso che mi sono scoperta con altre provo una tale sicurezza interiore che posso tutto, anche passare sul mio orgoglio e rinunciare alla vittoria finale (della verità). Chi è inferiorizzato può rivelare l’equivoco di un rapporto non alla pari (il superiore non può accorgersene), però il superiore può rivela­ re l’origine del senso di colpa (l’inferiorizzato non può accorgersene). Cioè io potevo accusare l’uomo, però restavo in un’impasse se non mi accorgevo della sofferenza della superiorità in me. Per strada una zingara si è arrabbiata con me e un’amica. Ci ha grida­ to dietro “Cazzo nella fica, cazzo nel culo ecc.” e faceva gesti e rumo­ ri osceni, come dire che nonostante fossimo delle signore, eravamo umiliate e acloprate nell’atto sessuale: “Ricordatevi chi siete”. 21 feb. Parlo con Ester e tutto fila liscio. Lei sorride distrattamente, però la cosa è risolta. A un tratto mi arriva uno schiaffo potente che mi sconvolge, e poi vola­ no schiaffi dati con la forza di tutto il braccio e l’operazione dura a lungo. Non so se li prendo o li do. Comunque mi trovo con esseri dagli occhi chiusi, grandi, ma simili a feti che picchiano come muovendosi nel sonno. Con Valeria non mi restano incomprensioni se non per quello che, mettiamo, non capisce perché non l’ha vissuto, ma non perché non lo votole capire. Mi ha chiamato Germana da Milano, aveva già avuto la mia lettera. Mi ha detto “Sono felice”. Ho sentito com’è attenta e presente, mi dà molta fiducia. Spero di non esagerare come sempre, o almeno che questo non provochi conseguenze. Io ero emozionata. Giornata con mal di testa conseguente a una notte agitata. Ho parla­ to di me e di Sara a Valeria. Felicita le aveva detto “Prima Carla era innamorata di Ester, ora è innamorata di Sara”. Come fa a conoscer­ mi se non ci “parliamo” mai? Federica ha incontrato a Roma Sara che le ha detto di essere stata influenzata da me e che il libro da lei pubblicato in Rivolta non è suo, ma mio.

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Mi metto l’animo in pace pensando che io non posso intuire il proces­ so di chi è inferiorizzata, posso semmai prenderne atto e rivelarle le mie difficoltà di superiorizzata e il mio processo. Ma il fatto che il mio processo sia quello della superiorizzata non ha risonanza; semmai, a mia volta posso dare senso di colpa a chi è inferiorizzata rivelando­ glielo. Io cerco disperatamente una superiorizzata che però non si inferiorizzi con me. Il mio problema è insolubile: dovrei andarmene non da Milano a Roma, ma dalla loro vita. Tuttavia, se me ne vado da qui, dove risolverò il mio problema? Senza saperlo ho corso tutta la vita dietro una soluzione del mio rap­ porto con le donne, ora capisco che la soluzione è nell’avere afferrato qual era il problema. Che non ha soluzione reale perché se io prendo coscienza di ogni inferiorizzazione da me procurata all’altra e l’accet­ to, mi sottopongo a uno stato di depressione e di senso di colpa da cui esco comunque superiore; se non lo faccio resto nella mia cecità. Or­ mai che il guaio - il gruppo - è fatto, sia stare che andare è sbagliato. Devo sparire poco a poco e impercettibilmente. Vorrei fare leggere i miei scritti ma non oso. Non ho soluzione. Mi pare orribile, ma è così. In fondo, se sto bene con Simone posso stare con lui. Non ho più forza di lottare, di capire i rapporti tra me e le altre. Cosa mi prospetta il rapporto con un’altra? Che da un momento all’altro mi riveli il retroscena della sua inferiorizzazione. Mi chiedo perché succede: perché ho fondato il gruppo? E Marion allora? E in collegio? Forse avevo troppo bisogno di essere riconosciuta innocente per non dare nell’occhio. Credo di stimolare una specie di sadismo nei miei confronti. Adesso ci rinuncio. A Turicchi devo essere sola, non con altre femministe vicino. E il mio ritiro. L’inferiorizzazione è: “Sono stupida”. La colpevolizzazione è: “Ho fatto del male”. Sono in balia di Sara. Stavo bene, ero in stato di grazia, mi ero sentita in pace con Germana. Vengo a sapere che Sara si considera inferio­ rizzata da me, e devo accettarlo, non c’è niente da fare, devo piegare la testa, non posso dire “No”. E siccome lei me lo imputa, sono col­ pevole. Capisco la tentazione di passare da superiore a tiranno. Non si può fare altro oppure lasciarsi distruggere. Oppure ritirarsi. Mi sembra un destino beffardo il mio: mi sento come in un western con un cappio al collo, tra poco morirò, sono innocente, i “nostri” non

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arrivano, arriveranno appena dopo. Ho un’altra immagine da wes­ tern: sto tornando a casa sola sul mio cavallo, non voglio più sapere di conti saldati o non saldati, torno a casa. Però ogni tanto qualcuno, nascosto dietro un albero, una roccia mi prende di mira, spara e scap­ pa. Non arriverò a casa, un giorno sarò colpita e morirò. 22 feb. Fatalmente, quando meno me l’aspetto succede. Oppure co­ mincio a sentire che succederà, non ci credo, resisto, poi lo accetto, mi sottometto, niente, la colpevolezza arriva e io non mi salvo. Feli­ cita dice “La Lonzi vuole sempre salvarsi”. Avverto il rimprovero di questa frase, ma stia tranquilla, non ci riesco, non mi è mai riuscito. Adesso che vedo bene alle spalle i miei fallimenti (Lucia, Marion, Ester, Sara...) non ho altra via che rinunciare ai miei rapporti con le donne, rinunciare a risolvere il problema. Nicola mi ha detto di non ritenermi “assolutamente” colpevole. Se­ condo lei Sara deve risolvere un suo problema verso di me, altrimenti è inutile tentare di riprendere i rapporti. Posso sperare? Anche il rap­ porto con Sara è cominciato mentre io ero all’oscuro del mio proble­ ma verso di lei, forse da ora in avanti può essere diverso nei rapporti nuovi. Secondo Nicola è inutile fare gesti come quello che avevo in mente con Ester perché lo interpreterebbe a sue spese. In fondo se mi sono sentita impotente con Sara e mi sono allontanata da lei è perché capivo che ogni mia parola sarebbe stata fraintesa, che lei mi odiava. Cara Isa, la tua canzone sulla bambina mi ha molto commossa. La diversità tra quella bambina e me è che io da sola riuscivo a sentirmi innocente. Viven­ do sul monte Athos mi sentivo innocente. Ma poi gli altri intervenivano, e io stavo male, dovevo analizzare tutto molto attentamente. Ho dimostrato a me stessa di non essere stupida, come ultimo exploit con la critica d’arte, mentre con il femminismo inconsciamente volevo accertarmi di non essere colpevole. Qualcuna può essere disturbata dal dovere dimostrare tutte e due le cose nel femminismo.

Stasera sono tranquilla: ho fatto il mio lavorio, ho messo ordine nella mia testa, sorrido di me, mi amo, testa dura. Sento uno che si inferiorizzi di me come una mancanza di amore per me, di conoscenza di me, esattamente come uno che si senta superiore a me.

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23 feb. Con 1'uomo mi sentivo inferiorizzata, con la donna colpevo­ le. La competitività è la maniera elementare di affrontare il disagevo­ le destino superiore-inferiore. L’inferiorizzato accumula ribellione. Il colpevolizzato accumula coscienza. Sento la sollecitudine di Nicola verso di me, la sua delicatezza, il suo desiderio che io mi liberi delle mie crisi e sia felice. La liberazione è morte e resurrezione, bisogna accettare di morire, io f ho accettato. La coscienza delle reciproche sofferenze mi fa sentire alla pari. Sono arrivata a Montevarchi. Simone dice che non poteva succedere diversamente da così, non dà molta importanza a quello che via via scopro. “In fondo, da tutto questo hai raccolto poco.” Poi siccome parlavamo di Cristo, così, per trovare analogie, lui ha detto che se non si faceva ammazzare dai nemici, piano piano lo avrebbero ab­ bandonato tutti visto che non aveva niente di pratico da offrire, ma solo la vita interiore. Secondo Simone la maggior parte delle donne ha problemi concreti più che altro e avrebbe fatto un femminismo corrente con cui anche Ester era d’accordo prima che arrivassi io: all’inizio infatti lei annunciava “Mi occupo dei problemi sociali della donna”. Comunicare significa comunque persuadere o essere per­ suasi. Non mi sento molto capita da Simone quando dice che io sono una mistica, che cerco di dimostrare l’importanza del lato spirituale astratto nella vàia, mentre ce l’ha per qualcuno, gli altri si regolano con meccanismi automatici e cercano soluzioni. Ma non mi dispiace, sono tranquillamente in disaccordo da lui; magari poi mi metto a leggere qualcosa e non ho voglia di riprendere il discorso, questo o un altro. Mentre con un’amica mi fa veramente soffrire il momento d’incomunicabilità. Mi chiedo “Sono lesbica? Sono matta?”. Sapere che Regina ed Ester hanno simpatizzato e di sicuro hanno fatto un quadro di me che è meglio non conosca mi fa soffrire e non posso pensare ad altro. Mi è venuto in mente che Terèsa d’Avila di­ ceva di stare molto male sapendo di essere conosciuta da gente che non credeva alle sue visioni, e la riteneva una ciarlatana e un’isterica. 24 feb. Sono con Simone al bar di un paese, siamo venuti a piedi in due ore. Mi ha fatto bene allentare la tensione. Intramezzavo rifles­ sioni sulle mie “colpevolezze” e riflessioni sulle piante, la campagna.

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Sentivo la pace farsi largo fra i miei nervi aggrovigliati, tra i respiri e i battiti del cuore; sentivo sciogliersi le punte dell’ingiustizia e diventa­ re morbide piume. Stamani mi ero svegliata di netto per una presen­ za del dolore come dopo un’operazione si passa dall’insensibilità alla coscienza di stare soffrendo. Simonc sostiene le mie ossa calma il mio cuore dice “Ma che esagerazione in tutto questo. Riprendi i tuoi progetti di serenità”. Il dubbio è così forte che quando trovo la certezza veleggio nell’eternità. Adesso vedo chi sono mi ero ancorata a personalità terrestri nella speranza di mutare il mio destino. Non sono creativa sono l’umanità.

L’isolamento mi fa bene dal momento che, se non so, non immagino e piano piano nella lontananza e nella vaghezza posso di nuovo sen­ tirmi in pace con tutte. Quello che mi ferisce è il particolare. Simone mi conosce intimamente, così posso chiedere a lui, per esem­ pio “Sono invidiosa?”. Mi ha risposto “No, veramente non ti ho mai sentito invidiare un’altra”. Non posso esserlo se io stessa butto via quello dietro a cui corrono le amiche. Mio fratello Adolfo ieri diceva “Speriamo che papà si mangi tutto quello che ha prima di morire, t’immagini il senso di colpa se, dopo averlo criticato, si dovesse a lui la soluzione economica della nostra vita?”. Siamo una stirpe del senso di colpa. Il senso di colpa ha dei pregi, per esempio non trova soluzione nell’accusare gli altri, perché, sentendoti colpevole verso di loro, tutto puoi fare fuorché aggravare la cosa, così cominci da te

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stesso, ti analizzi, e, se non vuoi cadere nel masochismo, fai metà e metà, cioè capisci. Ester non perde tempo. Ora dice di avere cominciato a dipingere i lenzuoli insieme a Simone. Questa è grandiosa, com’è possibile, li ha cominciati lui, è un’idea sua, e io con l’incuria verso Simone che mi distingueva, avevo detto a Ester “Fanne uno anche tu per me, Simone te ne dà uno suo in cambio”, e così è stato. Dovrei scrivere ad Anita “Avevi ragione, io mi sentivo ancora troppo in colpa verso Ester”. Una donna artista capisco che faccia così, è logico, fa come un uomo, con più grazia magari, è nello stesso mec­ canismo, però cosa diavolo avevo in comune con lei. 25 feb. Augurio a me stessa in occasione della ristampa di Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, e altri scritti. Suppongo che moki errori siano mescolati a una piccola verità e posso solo spe­ rare che con il passare del tempo non mi appaiano tali da nasconderla, non solo alla vista degli altri, ma alla mia stessa vista.

Ho letto a Simone questa premessa e lui mi ha detto che, se mai, devo rettificare certe affermazioni invece di metterle in dubbio, perché al­ trimenti chi legge non si raccapezza più. Ricordo che anche Claudius supponeva che avrei potuto rivedere gli scritti prima di ripubblicarli: solo l’opera d’arte non si tocca. Mi sembra strano che la pensino così, infatti i miei libretti riflettono un periodo, non mi interessano in quanto “verità assolute”, ma in quanto “mie relative verità”, relative nel mio tempo e nel mio spazio. Non le modificherei mai, non le mo­ dificherò. Mi sono svegliata dopo una notte tranquilla, però subito mi sono preoccupata che Piera potesse male interpretare la mia lettera. Se mai succede, vorrà dire che Piera covava un sospetto verso di me. E stata Ester a mettere in crisi il suo lavoro di pittrice prima del fem­ minismo, questo ha permesso anche a me di sentire l’arte in modo meno reverenziale. Anche Claudius mi aiutava in questo, appunto con un’arte più legata alla scoperta di se stesso, delle sue sfaccettature, senza un centro prefissato. Con il femminismo io mi sono ritrovata al di fuori dell’arte, Ester mi ha seguita (io non l’ho affatto spinta a rinne­ gare il suo lavoro, solo lei capiva per la prima volta che ero ben felice di non essere una pittrice), poi mi ha accusata ed è ritornata all’arte.

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Serata da Nicola: non sembrava la stessa di quando parliamo al te­ lefono, in parte è troppo stanca e deconcentrata dall’occuparsi dei figli, in parte sembra rinunciare a esprimersi alla presenza di altri. Stare soli, isolarsi come penso di fare in campagna, permette di vi­ vere intensamente. Io non posso andare secondo un’andatura son­ nambula, non posso fingere troppa calma. Con gli altri da sola posso essere serafica. Sto uscendo dalla “selva oscura”, sono ai margini di un piacevole slargo. Sto uscendo dal mio assillo degli altri, dal diario quotidiano, dalla riflessione ininterrotta. 26 feb. Ho letto su un foglietto di Simone “Gli esseri umani sono de­ gli stupidi che cercano di fare meglio che possono per sé e per gli altri e non riescono”. E vero, però anche soffrono a non farcela e l’unica via è capire perché. E una bellissima giornata. Sono fortunata a esserci in una giornata così. E il mio momento: vivo! Guardo, respiro, sono calda, sono mo­ bile, sono. Ieri sera Riccardo diceva “E inutile per me una casa in campagna, tanto non posso andarci”. Simone invece è libero, e così io. Tito è grande, autonomo entro certi limiti. Parlavamo con Simone prima di addormentarci: a tutti e due piace l’animale allo stato sel­ vatico, vorremmo avere un lupo, una volpe con noi, come i primitivi che hanno il totem animale, il loro dio. Simone dice “E un bisogno di verità”. E anche di silenzio. Ho parlato troppo nel femminismo, ho pensato troppo, ho scritto troppo. Adesso voglio stare vis-à-vis a un animale, alla natura. Posso farlo, non ho le terribili catene della famiglia a reggermi, posso tutto, e anche lui. Siamo sciolti, non siamo rimasti impigliati nei punti stretti, ci siamo divincolati, e adesso pos­ siamo cominciare un’altra fase. Apro Spinoza e leggo: “Questo dunque è il fine al quale tendo: acquistare una tale natura e cercare che molti la acquistino con me. Questa natura è la conoscenza dell’unione che ha la mente con tutta la natura”. Aperto un libro ho trovato la frase aperto l’occhio ho trovato la luce.

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Davanti alPHotel d’Inghilterra incontro Lamberto con sua moglie e un gallerista. Ero così, tremendamente emozionata. Ho detto qual­ che frase senza senso, il battito del cuore m’impediva di respirare, per fortuna potevo avvolgere la sciarpa attorno al collo che si arrossava. Non ero in grado di rispondere alle battute spiritose. Vedevo tutto, capivo tutto, che anche loro erano imbarazzati, ma abituati a risolve­ re in schermaglia ogni momento critico. Da questo atteggiamento mi sentivo respinta come sempre. Ho pensato a come era timida Sara e a come faceva trapelare i suoi turbamenti, quindi mi rassicurava pen­ sare che avrebbe fatto la stessa brutta figura che ho fatto io, mentre in questi casi Ester era estroversa. Ho parlato con Simone al telefono piangendo mentre gli raccontavo l’incontro “Sei bellissima e io sono appassionato di te, non dimenticarlo”. Vorrei esprimere quello che sento, ma è così sconveniente, serio, im­ barazzante, confuso quello che sento. Gli altri, prendendo degli at­ teggiamenti per coprire quegli stati di emozione, mi fanno sentire sciocca a non saperli controllare o nascondere. Nel mondo dell’arte, cioè nella società e cultura che mi ero scelta, stavo ai margini come rapporti di vita sociale, ma recuperavo dimo­ strando la legittimità della mia appartenenza con il lavoro di critica, mentre nel femminismo ero colpevole e non c’era modo di recupera­ re, così ho dovuto ammettere il mio sconforto ed entrare in me stessa. Domani viene Germana, al telefono mi dice “Ti sento piuttosto su”. E io già mi schermisco “Non c’è male, a momenti”. Mi sento in colpa per niente. Oggi dicevo a Valeria “Quando costruisci tutta orgogliosa della tua costruzione, trovi gli accorgimenti e le regole perché sia il più pos­ sibile senza difetti, ma poi, quando devi demolire capisci l’assurda presunzione perché anche la costruzione perfetta va abbattuta e senti che, perfetta o imperfetta, l’operazione è uguale”. 27 feb. Nottata un po’ agitata vasto che sono andata a letto alle 3. Mi dispiaceva avere consumato in modo così inconcludente l’unica serata che Valeria aveva con il suo amico. Il fatto poi che lei non aves­ se parlato mi angosciava: sono stata tutta la sera con la sensazione di dovere fare qualcosa senza sapere cosa. Infatti rivolgerle la parola la metteva in stato di panico. Simone le ha chiesto di Proust, lei si è schermita e poi ha esclamato ridendo “Io voglio andare in convento”.

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Simone mi telefona che stasera siamo a cena con un critico e sua mo­ glie. Oh dio, non mi va, sono troppo stanca, oggi pomeriggio viene Germana da Milano. Come faccio? Mi scoppia la testa, non resisto, per fortuna non ho ancora l’emicrania ma mi verrà. In un ristorante, che orrore, con la gente che parla forte, il suonatore di violino, no, me ne vado in campagna, mi stabilisco lì per l’eternità. Sto dormendo in una casa sconosciuta, voglio fare autoerotismo, però arriva la donna delle pulizie con una carrozzina e dei bambini, sale e sparisce. Sono erotiz­ zata da delle amiche, penso che farò qualcosa. A un tratto il letto diventa un’auto­ mobile che va all’indietro a gran velocità —io sono sul sedile posteriore - infila le rampe di un garage, sono tranquilla tanto è un sogno, non può succedere niente di male, che sbatta o simili, anzi è bellissimo, me la godo. Invece ecco che scendo e la macchina riparte da sola, c’è un uomo al volante, è un abuso. Forse un altro 10 segue, anche lui in macchina, lo sta rimproverando.

Irma mi telefona, è a Roma, sento la sua voce senza nodi che mi rinfre­ sca. Dice “Ieri ho parlato troppo, ho ascoltato troppo, oggi mi riposo”. Mi sembra di riconoscere la voce del mio bisogno. Stamani non potrei scrivere una poesia.

Aspetto che Valeria mi telefoni e mi dica “Non è stata colpa tua”. Il suo amico, che è anche un mio vecchio amico, ha il mito di me, mi considera una “iniziatrice nata”. Adesso vuole sapere cosa c’è “dopo” 11femminismo, perché se io non ho in mente niente vuol dire che non c’è niente. Quando gli ho chiesto “E te?”, ha risposto che non ha molto da dire, ha lavorato, non può paragonarsi a me. Questo mi ha mortificata perché dopo non è che mi accetti, naturalmente, così resto mortificata due volte. Gli ho detto di me ed Ester, che io cercavo in lei la complementarietà perché non ammettevo certe mie “man­ canze”. Lui dice “Si vedeva benissimo che eravate tanto diverse, però sembrava Ester influenzata da te, parlava come te, aveva preso i tuoi schemi e modi di vedere”. Per Germana non sono mai stata così serena: è vero, sebbene sia stanca. Con lei parlo bene, mi vengono fuori tante cose fantasiose, che è la sensazione che ho quando tutto mi sembra esprimibile. Per

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esempio, mi è venuto da dirle che la liberazione la ottieni quando sei disposto a uccidere “te stesso come figlio tuo”, cioè il tuo io, a simi­ litudine di Abramo che per ordine del Signore accetta di uccidere il figlio Isacco. Basta alzare il braccio con il coltello, poi Dio ti ferma e tutto è come prima, ma hai piegato la testa. L’ordine, è evidente, viene da dentro, da Abramo stesso, e lui lo attribuisce a Dio, come tutto il popolo ebraico. Adesso capisco cos’è il popolo ebraico, una comunità che ha sperimentato e scoperto il sé come intervento del­ la divinità. Mentre prima, nel politeismo, erano personalizzati i mo­ menti diversi, le pulsioni o le facoltà come altrettanti dei. Il sacrificio di Abramo posso dire di averlo vissuto e così l’episodio di Giobbe che è stato messo alla prova perché si sentiva un uomo giusto. Al ristoran­ te ne parlavo con Simone ed ero sbalordita dall’impressione di capire tutto: restavo assorta, sentivo rivelarsi a me tutti i segreti della storia. Mi sembrava di avere una droga interna. Poi sono stata calma, felice e assonnata tutta la sera. 28 feb. Mi sveglio rigenerata. Amo Simone e sono felice con lui, rivivo quando mi trovo accordata a lui. Era bellissima nel sonno la sensazione di sciogliermi al suo contatto. Prima tutto bene tra noi, poi Lucia al braccio del marito, mi aggredisce con disprezzo “Non hai saputo avere nessuna parità con il tuo cane”. Io comincio a parlare, chiarisco, mi giustifico, non c’è dubbio che è avvenuto un equivoco. Ma quando alzo la testa lei non c’è più, ha preso un’altra strada ed è lontana. C’è una riunione femminista nella vecchia casa paterna a Firenze. Arrivano tante donne, alcune piccole piccole e piuttosto vecchie, non vogliono andarsene, allora mi inginocchio per ascoltare quello che dicono, come il prete al confessionale. Federica mi chiede il prezzo dei libretti, glielo dico e li trova cari, specialmente per lei che deve venire da fuori. La rassicuro che le faremo uno sconto. A un tratto ricordo quanto è ricca e mi chiedo perché non vuole spendere per Rivolta. La mia terra è ondulata contiene boschi e radure è dominata dal sole e dal fulmine. Nessuno costruisce pietra su pietra questa è la caratteristica

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della mia terra questo il segreto di una terra ondulata.

Chi è inferiorizzato accusa. Chi ha senso di colpa accusa se stesso, e poi finalmente l’altro: il passaggio attraverso sé rende meno ciechi verso l’altro. Sono me stessa non ho paura di niente vieni vieni morte 0 qualunque cosa sono una piuma nella brezza del cosmo. Sono me stessa non ho dubbi lo grido non ho dubbi non ho dubbi non ho dubbi.

1 mar. Ho letto a Valeria alcune delle mie vecchie lettere a Cesare - impressionante la concomitanza con la sua storia e le sue analisi me le ha chieste e gliele ho date “con piacere”. Sembra che il primo amore sia sempre la stessa cosa. Sono felice di essere qui a Roma al ri­ paro da tutto, con qualche visita ogni tanto senza assillo di continuità. Quando ho detto a Irma che non credo alla versione data da Ester, che io avevo assunto un “tono di superiorità”, lei si è messa a ridere “A me sembra che Ester non possa essere inferiorizzata da nessuno”. Piuttosto che inferiorizzata da me, era la sua pretesa di non restare indietro, il suo bisogno di avanguardia a tutti i costi a farla soffrire di fronte alla percezione di un bene perduto, di un allineamento im­ possibile. Prima ha cercato di tramutarsi nella “clitoridea”, poi ha rigettato me quando ha visto che le creavo degli ostacoli in questa identificazione, poi rigetterà la teoria clitoridea, senza che le venga in mente di rivedere quel suo istinto di impossessarsi degli altri, di mettere le mani su di loro. Lo stesso è per Diana: che bisogno aveva di occuparsi del sesso rivelatole da altre. Infatti nelle foto del libretto, la sua sembra piuttosto una vagina chiusa che una clitoride. La vagi­

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na che vuole cancellare. Però poi lo stesso sarà aggressiva con quelle clitoridee che ha mitizzato e che non sono soddisfatte del suo travesti­ mento. Di questa operazione ottusa, fatta per conquistare un’identità esteriore non le resta che la priorità di un gesto esecutivo. Ester era inferiorizzata nel gruppo perché lì non era creativa e perché nella distin­ zione tra donne lei si trovava compromessa con l’uomo. Era abituata a stare all’avanguardia, e lì non lo era. Io sarei stata inferiorizzata da Ester se avessi voluto essere artista, ma non mi passava neppure per la testa: volevo risolvere i miei problemi di comunicazione. Mentre lei nel femminismo mi invidiava. 2 mar. Nuoto mi tuffo resto immersa. Temporalmente passeggio per strada. C’è il verdino della primavera il verdino della mia speranza.

3 mar. Nei libretti avevo ancora la convinzione che importanti po­ tessero essere le mie idee: quindi, quale migliore occasione che un movimento di idee (femminismo) per infilarci le proprie idee? Poi ho capito che la strada era sbagliata, la strada giusta l’avevo presa d’istinto, all’inizio, e poi scoraggiata che tutti la rifiutassero, l’avevo mantenuta per me sola. Per gli altri avevo intrapreso una strada che potesse essere riconosciuta, anche se da pochi. Vorrei scrivere una poesia una breve poesia prima di andare a cena. Vorrei trovare un’ala e librarmi per un attimo. Un peso mi tiene giù:

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cosa può essere? Stanchezza? Distrazione?

Liberarmi dei miei scritti mi sembra l’unico modo di liberarmi del mio passato e di avere la mia identità. L’identità parzialmente camuffata che ho avuto come critica e come femminista mi pesa e mi fa sentire a disagio con chi mi conosce in quelle vesti. Adesso voglio apparire come sono in un momento qualsiasi del mio presente di oggi o di molti anni fa. Finché non sovrappongo un’espressione di me non sarò a mio agio e tranquilla. Poi magari smetterò oppure sarà diverso anche continuando a scri­ vere. Adesso scoppio, sto scoppiando per tutto quello che ho accu­ mulato. 4 mar. Ho riletto La donna clitorìdea e la donna vaginale: con mia grande gioia mi ci sono ritrovata. Dato che Sara mi aveva criticato tanto per le mie “teorie” avevo un po’ paura a rileggerle, temevo di riportarne una impressione inautentica - sempre la stessa paura mi perseguita - la­ sciavo quasi fare la ristampa come una iniziativa a cui mi mantenevo estranea. Invece adesso sono felice nel constatare che ero fedele a me stessa. Anzi, che coraggio dovevo avere allora per seguire quello che mi veniva da dentro senza nessuna garanzia, con tutti i dubbi che mi rimuginavo da sola. Ho sentito l’identità tra la mia anima e una pigna. Vieni pazzia. Vorrei sussurrare il segreto nell’orecchio di chi amo vorrei passare il miele da lingua a lingua. Non è possibile e vi saluto con la mano mentre passo sul treno in corsa.

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5 mar. Rileggendo i miei libretti vedo il divario che c’era fra me e le altre, tra la mia coscienza e quella delle altre in Rivolta, ma allora non andavo a misurarlo: facendomi loro portavoce mi facevo pari. Un uomo ha un cane mastino al guinzaglio che vuole azzannarmi: io mi ritiro spaventata. Allora lui gli mette la museruola e lo lascia libero. Il cane mi si avvi­ cina, sento i suoi denti, però non può mordermi. Come tutto si distende si spiega si comprende. Come tutto è innocente già posto in salvo protetto per sempre da ogni sospetto.

7 mar. Che bello avere un letto! E un corpo per quel letto! E un altro corpo vicino!

Federica era rimasta molto male una volta al gruppo di Torino quan­ do, dopo essersi imposta di parlare di sé a proposito del sesso facen­ dosi forza per rompere il ghiaccio (c’erano diverse donne mai viste), io ho commentato “Vedete come siamo ridotte, a prendere iniziative solo nel sesso” o qualcosa di simile. Quante mie frasi hanno ferito senza che io potessi immaginarlo, poiché non supponevo di essere così importante per l’altra. L’avessi supposto non avrei parlato più. Adesso, ogni tanto Federica mi chiede “Ti è venuto in mente nien­ te?”, alludendo alla sua casa editrice. E io “No, niente”. Intanto lei va cercando testi di sante. Quanto a me voglio continuare a procedere senza sfruttare le mie intuizioni, senza meccanizzarle. Probabilmente Sara si annoiava quando le parlavo di Simone perché non era con lui il vero problema, ma con lei. Il dramma con Simone era un po’ un verificare qualcosa di cui ero sicura. Non avevo neppu­ re molto senso di colpa per averlo “tradito”, però ero così carica della depressione da senso di colpa che mi veniva da Sara, che cercavo un diversivo.

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Telefonata a Paula come un chewing-gum, masticata e rimasticata per cercare di ricavarne qualche sapore. A una grande mostra collettiva mi sono sentita estranea e a casa. Mi è venuto un colpo pensando a quanto avevo girato visto rivisto guardato riflettuto collegato almanaccato sulle opere d’arte da più di venti anni e che buon occhio avevo e ho tuttora. Non sfiancandomi nella corsa per trovare una ragione, un significato, il mio sguardo era più lucido di sempre e scopriva quello che sta in piedi, come in tutte le operazioni umane, per un senso di grazia interna che si manifesta. Pensavo ai gesti della mia vita, a ciò che mi resta di lei, ai miei scritti non ancora pubblicati, al mio scoprirmi scrittrice a quarantanni dopo trenta che scrivo senza saperlo, all’autenticità che è come un senso di stupore per essere stata me stessa così misconosciuta e incognita, cosa posso ap­ prezzare negli altri, negli artisti se non questo che ho scoperto in me? 8 mar. Simone ha voluto fare l’amore e a me non andava. Poi l’ho fatto perché capivo che lui stava male e alla fine per me era possibile. Simone ha i suoi tempi e io non mi erotizzo così, fisiologicamente. Adesso sono arrabbiata e vorrei stare con uno che mi erotizzi. Trovarlo e starci. Eran gli amori della mia gioventù non me ne sono accorta - perbacco dio mio - non me ne sono accorta. Scherzavo come se gioventù amori dovessero ancora arrivare - prendevo fuggevoli baci e carezze —correvo via “A domani”. Adesso sento stridere sui cardini la porta del giardino ma io ne sono fuori - perbacco dio mio - è il crepuscolo e io ne sono fuori. Come se avesse intuito che stavo rimuginando Simone ha telefonato “Non lo farò mai più perdonami”. Non ho aggiunto parola

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e ho preso a cinguettare su qualcosa. Uno somiglia a cento due a duecento tre a trecento. Come faccio a sapere se sei a uno o a cento a due o a duecento a tre o a trecento?

Simone mi ha fatto vedere delle sue sculture e io gli dicevo le mie im­ pressioni così precise che mi meravigliavo di me stessa, tutto questo ben di dio, veramente notevole lì fermo, in una perpetua dogana. Un uomo, un’ombra scura, sta salendo nella mia camera. Non metto tempo in mezzo, mi butto nella tromba delle scale e fuggo. Poi scopro che quell’uomo ha fatto apposta, ha preveduto tutto per farmi scendere c salvarmi da un attentato. Mi ama veramente ed è molto in gamba. C’è gente che dà e gente che prende. Quelli del prendere al momento del dare han dei problemi sul fatto di aver preso. Gli è impossibile ricambiare vorrebbero restituire. Ma nessuno ha reso.

9 mar. Che bello essere quello che si è anche se si è poco pochissimo niente.

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10 mar. Mi spoglio di tutto ciò di cui mi ero vestita.

11 mar. Piera mi telefona “Tu accetti la morte?”: è rimasta choccata dalla morte della madre di Jole. Le ho risposto “Penso che mi suicide­ rò oppure mi farò uccidere prima di affrontare un’esperienza di de­ gradazione”. Lei dice “No no, proprio mentalmente la violenza della morte che a un tratto ti recide dalla vita... La violenza che facciamo alla vita poi lei ce la fa pagare. Io mi ribello”. Venendo dalla campagna sull’autostrada come sempre ho letto qual­ che targa, fatto la somma dei numeri: mi sono venuti risultati orribili. Possibile? Invece è stato così: Simone ha trovato a studio una lettera della moglie, molto dura. Ha cambiato di colpo: appena ho aperto bocca mi ha risposto male, poi al ristorante ha mangiato moltissimo in­ gozzandosi, non c’era modo di parlargli, distratto, assente. Io ho man­ giato una pizza e stop, ero disgustata e ho capito come faccio presto a sentirmi rifiutata anche in un caso come questo in cui Simone era giustifìcatissimo. Però non sopporto che uno tagli la comunicazione con me, io non lo faccio mai, è un meccanismo che non metto mai in moto per prima. Gliel’ho fatto presente. Ha risposto “Lo so che sei per­ fettissima, ma adesso mi rompi le palle”. L’ho consigliato di andarsene a studio a dormire, ho preso le solite cose pesanti dalla macchina e me ne sono salita a piedi al quarto piano. Dopo poco è arrivato anche lui, però non ci parliamo. Turicchi, quella montagnetta nell’azzurro chiaro del cielo con la brezza che viene da tramontana è un paradiso, il mio. Piera mi confessa di essere delusa da Ester “Però lo sapevo, l’avevo capito”, per il modo egocentrico di tenere i rapporti. È un po’ una risposta alla mia lettera. Cara Piera, ricordo quando dicevi di Ester “E creativa”, però non lo è stata nel femminismo. “E generosa” invece si finisce per essere generosi con lei. Io la pensa­ vo esattamente come te, adesso non più: la sensibilità, l’autenticità si pagano, sono fiori delicati che si chiudono facilmente prima di sciuparsi. Altri fiori sono più co­ riacei, durano tutto l’anno, non sono molto diversi dalle foglie, hanno colori vistosi.

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12 mar. Adesso capisco il domatore di leoni l’incantatore di serpenti il ragazzo di leva e il suo sergente adesso li capisco.

Ho vissuto i problemi della vita per tutto l’arco, sono andata avan­ ti dove intuivo una strada, ho incontrato uomini e donne, donne e uomini, non ho lasciato cadere, non mi sono rifiutata, ho obbedito all’umanità dentro di me. Federica ha degli occhi che chiedono pietà. Ma non la vuole. 14 mar. Ho nostalgia staccandomi dal sonno ho nostalgia di qualcosa che lascio e non so cosa. Sono Cassandra la Sibilla la Pizia che gridano “Ahahaha” “Ahahaha” Cara Isa, con chi mi sento alla pari non ho problema di accusarmi o meno, il problema mi viene se temo di essere sospettata e voglio convincere di essere leale fino allo scrupolo. Con chi mi crede posso dire tutto, ma senza mortificarmi. A volte è stato meglio per me non essere creduta, a volte essere creduta. Nel primo caso ho preso coscienza degli altri, nel secondo di me. Mi diverte ricordare la certezza

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di quando ero insicura ora che sono certa vivo l’insicurezza.

Ogni formula mentale è assurda se non viene da dentro, partorita dalla mente stessa che la vive. 15 mar. Nella mia testa non c’è più nessuno. Vi tenevo per cari amici invece eravate miei giudici - guai a contraddirvi passavo dall’uno all’altro tutti miei carcerieri. Adesso ho la testa calma come un calmo mattino di Palermo.

19 mar. La cosa più difficile per me è accettare la sconfitta, l’irre­ parabile. Continuo a pensare come avrei dovuto agire, perché non l’ho fatto, se per caso ci sono dei vantaggi, insomma non so mettermi l’animo in pace. Anche se sotto sotto, non so perché, mi sento libe­ rata. Tornando dalla vacanza a Palermo dove ero stata così bene, avevo provato un vero piacere della compagnia della sorella di Simone, ecco che entrando in casa lui mi annuncia “Ci sono stati i ladri, ti hanno rubato la pelliccia e la TV”. Poi mi ha raccontato tutta la storia che lui già conosceva e che mi aveva tenuta nascosta. 20 mar. Ho affinità con chi conosce il dubbio e si indaga senza pietà senza favoritismi. Sono estranea a chi a corna basse si scaglia gridando “Io l’innocente

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Tu tu maledetto colpevole” (anche se un tempo mi pareva fantastico quello che io non sapevo fare).

Il senso di colpa è necessario? Allora l’inferiorizzazione è necessaria? Il senso di colpa produce la coscienza infelice. E la coscienza dell’infeli­ cità è la strada per liberarsene. Anna Frank dice di sentirsi due: una più coriacea, allegra, spensierata che si mostra agli altri, una più profonda, feribile, sofferente solo per se stessa. Anch’io parlo di una “silenziosa discesa” in se stessi da ragazza, contrapponendola alla “rivoluzione esteriore”. Il limite del femmini­ smo, come di altre ideologie, è quello di fermare il processo all’inferiorizzato che protesta e avanza i suoi diritti. Il carattere “forte” è quello barricato contro il senso di colpa. Il senso di colpa produce una visione religiosa della vita. L’inferioriz­ zazione una visione rivoluzionaria. La cultura religiosa dava uno sbocco e un riscontro alla colpevolez­ za degli esseri umani, rendeva più coscienti di sé, mentre la cultura laico-rivoluzionaria offre un inganno più grosso di quello dell’al di là proponendo un al di qua che non esiste e una divisione tra giusto e ingiusto, innocente e peccatore basato sulle accuse dell’inferiorizzato. Il superiorizzato non ha voce in capitolo. Comunque nessuno dei due in quelle condizioni mira alla coscienza, ma alla vendetta. A volte dico una cosa così giusta così giusta tendo l’orecchio alzo gli occhi... Niente niente succede. Possibile?

Oggi ho scritto qualcosa sul mio rapporto con Gallizio, di getto. Poi l’ho riscritto in forma più succinta. Sono tornata a pensare a Gallizio di recente, per lungo tempo non l’avevo fatto. Suppongo che succeda così quando si passa a una fase di vita apparentemente

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senza legami con la precedente. Poi viene il momento in cui il legame si scopre. Sono stata amica di Gallizio dal ’60. Mi era piaciuto subito come persona: face­ va capire (o lasciava fraintendere) tutto di sé, non era furbo e perciò raggiungeva i traguardi particolari a cui arrivano gli individui sprovveduti di calcoli nascosti. L’ho conosciuto che aveva quasi sessantanni, un’età strana per avere iniziato da poco la pittura, però questo esordio fuori stagione lo teneva allo scoperto, invece di dargli un alone lo faceva sentire ancora più disarmato. E probabile che parli di lui con un po’ di enfasi, però credo di riportare abba­ stanza fedelmente le impressioni e il mito che ne avevo. Il mito che avevo per le persone genuine e che poi ho scoperto essere affinità. E stato il primo artista che ho incontrato, ma io ero già critica d’arte. Non so come questo fosse possi­ bile. Però l’ho riconosciuto subito anche se non sapevo esprimere bene questa sensazione e pensassi fosse mio dovere non rivelare troppo il noviziato. Tuttavia mi mostravo scandalizzata che non fosse capito, nel modo tipico dei giovani alle prime esperienze. Non mi va che si dica che io sono stata il suo critico più (met­ tiamo) attento e sensibile. Non ero affatto critica come non lo sono stata con gli artisti con cui esisteva un’amicizia: non voglio dire che quella critica non debba esistere, ma non era il caso mio. Gallizio essendo stato il primo artista che ho conosciuto che dicessi “E un vero pittore” non capisco a chi doveva fare effetto. Però faceva effetto a lui, e non potevo afferrarne il perché. Perché Gallizio dava importanza a ciò che era im­ portante per lui. Importante in che senso? Una frase che ripeteva spesso è “Mi fa vivere”. Però non c’è dubbio che a sua volta faceva vivere. Poteva sembrare che tutto si basasse sulla vitalità, sul vitalismo. Queste parole ricorrevano molto intorno al ’60. Forse era la maniera in cui venivano afferrati fatti altrimenti incomprensibili: non esiste obbligo di capire correttamente poiché non ne esiste la possibilità. Gallizio aveva incontrato in Jorn l’uomo che gli aveva permesso di trovarsi, di identificarsi dopo una vita passata sotto il segno della stranezza: accettato a un livello che non gli dava garanzie, rifiutato al livello suo. Posso pensare che la pit­ tura stessa a cui Gallizio si era dedicato immediatamente dopo l’incontro facesse parte del transfert. Non sarebbe comunque successo senza una inconscia prepa­ razione e predisposizione. Quando l’ho conosciuto Jorn era lontano da Alba e Gallizio sembrava rendersi conto che la pittura era un’impresa non indifferente e la storia della pittura piena di geni. Come dopo ogni transfert si sentiva in parte ingannato, in parte deluso da Jorn. Provava il bisogno di staccarsi da lui, provava nostalgia della sua passione. Da solo temeva la prova in cui si era iscritto.

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Io ero il sostituto di Jorn, ma in vesti femminili, cosa che lo disponeva alla con­ fidenza più completa, e questo gli permetteva di conoscersi, di confrontarsi, di trarre da sé euforia ed equilibrio Era un uomo molto simile a noi mortali, così me lo ricordo io. Ero importante per Gallizio, e Gallizio lo era per me sebbene non avessi in lui la confidenza che lui aveva in me. Ero lusingata dalla sua amicizia e non perché fosse un uomo famoso, non lo era, ma perché subivo il fascino di quella rivela­ zione di sé che aveva avuto con un incontro che io temevo di non avere. Io mi sentivo compressa, anche con lui non sbloccavo il mio dubbio di fondo, accet­ tavo di essere presa per quello che sembravo: una ragazza sensibile, intelligente, disponibile e brava a scrivere d’arte. Sebbene lui mi trattasse come persona, io mi rifugiavo sotto l’etichetta che detestavo quando capivo che stavo dissolvendo nell’aria. Anche con lui mi capitava ogni tanto. Mi amareggiavo molto quando veniva frainteso: lui si lanciava in qualche ap­ parente o simbolica assurdità, e io soffrivo nel vederlo travisato dagli altri. Visto che restavo in incognito mi identificavo in lui quando si esprimeva e gli davo, come a una proiezione di me, tutto l’appoggio. Mentre scuoteva le sbarre io da dietro gli puntellavo i gomiti. Alla fine della sua vita aveva smaltito la sbornia situazionista e accettato i limiti. Ma l’operazione non era a freddo: “Oggetti e spazio per un mondo peggiore” è un buon titolo per gli anni a venire. Gallizio è stato il primo artista che ho conosciuto, e si sente! Rileggendo quei testi a distanza di oltre dieci anni mi salta agli occhi tutto: l’intuizione autentica, la gioia dell’incontro, la difesa avvocatesca, la rabbia e l’incredulità (da princi­ piante) per il mondo che non capisce, il perfezionismo dello stile, le influenze di tematiche culturali con cui cercavo di sorreggere alcuni spunti personali che allora mi parevano troppo campati per aria, influenze più pesanti via via che ribadivo dal ’60 al ’64 il tema Gallizio in varie occasioni. La sfasatura che sento oggi è quella di avere voluto cercare nelle origini di Gallizio un motivo illumi­ nante, qualcosa che lo aveva salvato dalla repressione e mascheratura generali, e così mi rivolgevo a dati del carattere come la spontaneità, l’incorreggibilità, l’irruenza, la credulità, il narcisismo, la teatralità, il lato naif, capriccioso e il suo rovescio, il lato saggio comprensivo. Prima di riuscire a identificarmi in me stessa ho cercato di rispecchiarmi in chi sentivo migliori di altri: parteggiando per quel­ li esprimevo la mia insofferenza per gli altri, però poi ero diversissima da tutti e dovevo rimettermi in cammino alla ricerca del mio simile anzi della mia simile. Quello che mi attirava in Gallizio era il fatto che lui il suo simile l’aveva trovato

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in Jorn, e mi rendevo conto quanto doveva essere stato miracoloso il riscontro umano, a cinquant’anni passati. L’entusiasmo di Gallizio era Pentusiasmo di chi si scopre un’identità e contemporaneamente un’attività, di chi improvvisamente, da un accumulo disordinato e sospetto di gesti vede affiorare la sua immagine, riflessa in Jorn. Io facevo parte del dopo-Jorn: Gallizio stava allentando la sua dipendenza da lui: a tratti lo rimpiangeva però lo vedeva sempre più criticamente e se ne distaccava. Era spaventato e sorpreso di trovarsi così solo dopo la simbiosi da cui si era sentito rigenerare. Dopo l’esaltazione, la sicurezza, persino la traco­ tanza nel prendere posto nell’avanguardia artistica si accorgeva dove era: l’arte dei secoli passati e del presente gli metteva soggezione. Io ero la ragazza commos­ sa da tutte le cose buone che avevo intuito dentro di lui, ammirata dalla sua crea­ tività, felice della sua compagnia, distratta quanto basta e nascosta dentro di sé.

22 mar. Cara Valeria, a Palermo ho riletto dei pezzi del diario di Anna Frank.

Mi ha colpito che lei a sedici anni fosse al punto in cui sono io adesso e in cui ero a sedici anni. Mi ha colpito anche il fatto che il suo diario è stato pubblicato in quan­ to lei è morta in un campo di sterminio tedesco. Così come il D iano di una giovinetta di Anonima Viennese perché l’autrice si stava facendo psicanalizzare da Freud e a questi serviva dimostrare qualcosa sulla repressione sessuale che gli pareva con­ tenuta nel diario. Ma sono stati capiti? Da chi? Non credo. Nella presentazione la Ginzburg parla di “toccante documento umano”. Il mio campo di sterminio era la famiglia, comunque il mondo esterno quasi al completo: quanto alla repressio­ ne sessuale non rappresentava una novità. Il mio diario, le mie lettere non spedite non si sarebbero neppure potuti dire “toccante documento umano”. Chi ero? Sai che Anna Frank scrive il diario sotto forma di lettere a un’amica immaginaria?

Sara mi ha telefonato. Da due settimane è a Roma. Abbiamo parlato con facilità. Capisco perché sono passata da Ester a lei e perché ho accettato che, se l’identificazione attraverso lei era impossibile, nessu­ na identificazione attraverso altre sarebbe stata possibile. Le ho detto che mi sentivo sempre sospettata da lei. Ha risposto “Anch’io”. Ma se la consideravo l’autenticità fatta persona! Solo volevo da lei qualcosa che neppure io sapevo - l’assoluzione dalla colpa di superiorità - e questo la metteva in sospetto: era un problema mio. Cercavo me in un’altra, dovevo ritrovarmi dentro di me. Una cosa mi è sembrata molto sbagliata che lei ha detto: anch’io l’ho fatta sentire secondaria a un uomo. E impossibile, semmai dal femminismo in avanti, ma an­ che prima a periodi, il mio assillo martellante era quello dell’amica,

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l’assillo non formulato e perciò irrisolto. Non me ne sarei andata da Milano per stare con Simone se non fosse stato per allontanarmi da lei, dalle altre: non era una scelta dell’uomo. Se lei ha sentito diversamente ha interpretato secondo esperienze precedenti, non certo su di me. Sara una volta mi aveva chiesto se io mi consideravo trascurata da lei per altri uomini. Le ho risposto di no, magari mi potevo un po’ stancare dell’estensione che dava ai suoi rapporti amorosi nei nostri discorsi, ma solo perché il mio problema era un altro, era con lei. Adesso è del parere che il rapporto con l’uomo è il più importante. Per me sono importanti tutti e due. Il dubbio che potevo avere, che non fosse clitoridea, mi veniva sollecitato da lei stessa che usava di questa ipotesi come di una provocazione verso di me. Io temevo questa even­ tualità per la solitudine e i dubbi che mi avrebbe provocato. Sara mi ha visto come sua madre, l’unica donna adulta che aveva conosciuto, io la vedevo come una sorella che avrebbe avuto sfiducia in me e si sarebbe chiusa nel suo mutismo. Entrambe in questi mesi abbiamo riflettuto, siamo più calme reciprocamente. Avevo completamente dimenticato le storie con il femminismo, che lei non è più di Rivolta, che il libro non è suo, ma mio. Diceva che magari io non sospettavo lei, ma le altre: però mi pare che, siccome sentivo molto la loro condanna, anche se non formulata, ogni tanto mi ribellavo e cercavo di dimostrare a me stessa che non erano in grado di con­ dannarmi. Mi ha anche confessato che fino a poco tempo fa il mio “fantasma” la perseguitava, adesso non più. Io ho avuto questa stessa sensazione a Palermo quando mi ero trovata la mente sgombra dei per­ sonaggi che mi costringevano a consultarli via via che agivo, che pensa­ vo. Mi ha chiesto se ho dei problemi: “Non ho problemi” ho risposto. “Mi godo... una testa senza problemi” avevo scritto in una cartolina a Isa. E così: non me ne sento addosso e non provo imbarazzo a dirglielo di non averne mentre lei ne ha. Domani parto per la campagna, sono libera: mai più le accuse di altre potranno diventare mie possibili accuse. 23 mar. Sara ha detto “Con il mio amico sono molto dolce”. Come sono le donne nel momento erotico-sessuale? Come sono nell’inti­ mità con gli uomini? Ogni tanto mi sorprendo a chiedermi “La tale come sarà? Cosa viene fuori da lei?”. Questo mi è sconosciuto men­ tre a Simone, per esempio, non lo è.

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Ieri ho parlato io per prima, invece avrei dovuto chiedere a Sara “Perché non ti sei più fatta viva?”. Sono sempre la stessa, colgo ogni occasione per dimostrare la mia apertura e buona fede. Sara mi face­ va stare male in molti modi, per esempio se non dichiaravo continuamente inferiorizzazioni che non avevo, mentre non le interessavano i miei sensi di colpa. Mitizzavamo le reciproche diversità: io la sua autenticità, facevo il tifo per lei che candidamente la manifestava. Pensavo, appunto, di averla un po’ perduta per colpa mia, non la riconoscevo più in me, ero confusa, la ritrovavo nelle altre. Apprez­ zavo il suo coraggio nell’esporsi. Invece Sara temeva di sentirsi, e perciò di essere considerata, stupida e sospettava anche di me che mi sembrava di averle reso possibile proprio lo svelarsi della sua in­ telligenza. Temeva che mi servissi di lei per teorizzare. Adesso potrà rendersi conto che anche quelle frasi sulla liberazione del superiore (ago. ’72) erano autobiografiche. Putti questi sospetti erano per me terribilmente deprimenti, non riuscivo a superarli senza un’enorme sofferenza. Le dicevo “Non ho dubbi sulla tua autenticità”. Questo non la placava perché neppure lei aveva dubbi su quello. Per me era il massimo per lei era ovvio. A chi amavo facevo questo omaggio staccavo dal mio collo il diamante grezzo e lo donavo per poterlo ammirare. Non capivo che all’altra mancavano solo le scarpe per camminare.

Con Sara è la prima volta che mi capita di navigare con una don­ na in un mare avventuroso in burrasca. Si scoprono tante cose di

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sé, dell’altra. Finora mi era capitato di navigare con qualcuna in un mare tranquillo, ma alla prima ondata, l’altra si ritirava dalla navi­ gazione lasciando me sola in alto mare. Adesso mi piace andare da sola, e poi in due fare passi difficili. Adesso la compagna ce l’ho, ci rincontriamo ogni tanto e ogni tanto ci lasciamo. Quando Sara mi rifiutava, non solo rifiutava me, ma frustrava la mia speranza di avere incontrato lei nello stesso bisogno verso di me. Le avevo rivelato la mia mancanza di lei e mi ero illusa di essere la sua mancanza. Solo lei poteva liberarmi dal senso di colpa, solo io potevo risvegliare la sua intelligenza, il suo senso di sé addormentato; ma quando ho visto che nonostante tutto non lo faceva e non lo avrebbe mai fatto, ho capito che lei non capiva, non perché io non le dicessi tutto quello che pensavo, ma perché non capiva. I suoi occhi splen­ denti non vedevano, il suo sorriso allusivo non faceva centro, la sua autenticità non aveva operato il miracolo. Mi irritavo, non riuscivo a rassegnarmi, battevo la testa, ero disperata, non potevo avere dubbi su di lei come li ho avuti sulle altre. Non volevo credere che con tutta la sua aria di veggente non avesse intuito niente di me. Allora, dalla certezza che non aveva capito, ho trovato me stessa: dal momento che non mi capiva non poteva accusarmi, dunque neanche assol­ vermi. Ero libera da lei, da chiunque altro: nessuno se non me stessa aveva dei diritti su di me. Dopo la Sicilia, lussureggiante, questa aridità, questo senso di sterpi secchi nella campagna Toscana è deludente. In più la casa è molto in­ dietro, io ho un vago mal di gola che può trasformarsi in qualcosa di peggio. Dopo il colloquio di ieri sera con Sara, tranquillo sul momen­ to, la testa mi ribolle di sensazioni, collegamenti, chiarimenti. Siamo due ad alta tensione, insieme facciamo un mucchio di elettricità che poi si smaltisce poco a poco da solo. All’inizio diceva che ormai vuole e apprezza solo la banalità. Mi stanca questo continuo formulare un verbo, anche se tutte e due sappiamo che è momentaneo e non ha pretese, ma appunto lo sento come un espediente che mi costringe a pronunciarmi su un tema. Lei pensa di essere disarmante, invece c’è una petulanza nelle sue affermazioni su di sé, tipo “Io sono una spe­ cialista neH’ingannarmi”, qualcosa che ricorda la verità a tutti i costi di certi preti. Sono formule astratte, prive di emozione, che comuni­ cano poco. Però alla fine della serata mi sembrava meno aggrappata

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al credo della banalità da cui in qualche modo mi sentivo tenuta a bada e accettata solo parzialmente per i bei momenti rilassanti di risate e conversazioni buffe l’anno scorso a Milano. 24 mar. Sara dice che sua madre voleva che lei proseguisse la sua dit­ ta, io il femminismo e Rivolta. Così si è ribellata prima a sua madre, poi a me. Inoltre sostiene che con me lei era come io ero con gli arti­ sti, un’aggregata. Vuole cominciare a realizzare tutto da capo come me nel femminismo. Quello con gli artisti non mi pare un esempio calzante, dato che io le ho subito rivelato la sua importanza per me, un’importanza del tutto speciale. Lei era la mia ombra e io la sua. Trovo delle mie loto del passato quando ero giovane e mi piaccio molto, ero bellis­ sima con un viso orgoglioso, liscio e abiti dimessi. Mi piace il mio viso impenetra­ bile. C’è anche una foto di Lucia con un incarnato fresco, morbido, occhi ingenui.

Questo di riscoprire vecchie foto è un sogno ricorrente. Poi mi sveglio con il rammarico di non avere sfogliato tutte le foto. Ester con il suo amico: non c’è astio fra noi, ma neppure affetto, solo un mo­ dus vivendi. Non vedo i suoi occhi: è voltata da un’altra parte o non solleva lo sguardo fino a me.

Svegliandomi ho pensato “Bella scoperta tutta questa coscienza a quarantanni! Cos’altro potrei fare?”. Avevo nostalgia di me prima, giovanissima, e della mia presenza di allora. Gli altri potevano godere di me, però io non godevo di me come adesso, ero coraggiosa e tur­ bata di possibili errori. Adesso vado avanti con qualche eco di vecchi interrogativi, ma non mi arrovello più su altre possibilità che non incarno. So che quello che mi spetta l’ho avuto, l’avrò. Tutto il resto non era mio, non era me. Adesso mi viene una certa tenerezza per il critico d’arte. Leggendo un articolo dopo tanto tempo che non mi succedeva, ho avvertito la stessa ansia di identificazione, lo stesso vagheggiamento di qualcosa che quel critico non è e vorrebbe essere, come io con Ester o con Gallizio o con Claudius. Prima vedere il mio stesso problema in un altro mi irritava, era penoso, adesso mi commuove come una diffi­ coltà conosciuta. Prima parteggiavo per l’artista, adesso so che ero

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comunque critico. L’artista è quello che si propone pubblicamente come mito, il critico quello che risponde aH’appello. Simone diceva che gli uomini gli sembrano tutti alienati e le donne no, riprendeva quello che io sento nell’uomo, la lontananza da se stesso. Le possibilità di azione alienano più facilmente. Senza azione è più faticoso vivere, più soffocante, però resti più te stessa, ti allonta­ ni di meno, ti illudi di meno. Tuttavia l’essere umano ha diritto all’il­ lusione, quindi le donne hanno diritto ad alienarsi. Simone sostiene che tutto dipende dal fatto che la vita è lunga e quindi il cervello le escogita tutte; anche l’arte, secondo lui, è un artificio che rimanda l’accettazione della vita, che annebbia il senso dell’esistenza: è più vera la vita di un moscerino che ha un attimo di tempo a disposizione tra la nascita e la morte. Scopro sempre con emozione le sue emo­ zioni. Dicevo a Sara che io con Simone non ho avuto un processo di identificazione perché mi sono sentita accettata, forse per questo il nostro rapporto ha superato ogni crisi. Prima mi preoccupavo di una certa estraneità verso di lui, adesso capisco che è la nostra garan­ zia. Anch’io l’ho accettato subito e, sebbene facessi le mie riserve su aspetti che peraltro mi apparivano come condizionamenti, e quindi provvisori, non avevo dubbi. Era piuttosto lui che attraverso me si identificava in una nuova fase di vita, quella di chi accetta di passare la mano ad altri artisti, di togliere interesse all’escalation, alla fami­ glia, al successo. Io con lui sto bene, non ha rappresentato nessuno dei miei guardiani o giudici, non mi ha mai fatta veramente soffrire. 25 mar. Il pericolo di tradimento è che mi scattavano identificazioni con altri. Simone era un uomo tenuto in serbo per il domani. Ogni tanto dice che quando mi accorgerò di lui cascherò per terra. Sono sulla terrazza di Turicchi: è piena primavera, il sole caldo dà quasi fastidio. Adesso comincio a conoscere le piante, i loro movimenti, le loro fioriture. Fiorisce prima il mandorlo poi il susino e rosa il pesco poi il pero e infine il melo. Fiorisce felleboro la viola il muscari e infine la primula. La primula è ultimula.

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Cerco di tenermi calma collaboro attivamente alla mia tranquillità. Sento il cervello pieno di fermenti ma non voglio conoscerli per questo attimo. Voglio respirare la vita da tutti i pori come una foglia. Sorella aria fratello Francesco.

Non vorrei andarmene dalla campagna: adesso le giornate sono lun­ ghe e le serate incantevoli. Con Ester non ho tentato Colloqui perché già dopo l’esperienza di Marion intuivo che subito non c’è niente da fare. Sara non aveva afferrato niente di me se non quello che avevo in co­ mune con lei. E io? Ho sempre pensato di averla intuita di più perché avevo una gamma di esperienza più vasta a cui ricondurla. Il guaio mio era che cercavo un’amica però una come me non la trovavo: se era in gamba era emancipata, oppure era una donna semplice, ma appunto si inferiorizzava di me e, dopo averle dato tutto quello che avevo, mi rifiutava. Capisco le sue ragioni, ma le mie chi le capisce? In macchina mi ripetevo “Sara non mi ha capita”. Come Anita mi ha vista alleata dell’uomo nel momento del distacco da me. Afa come era possibile fraintendere dopo quello che le scrivevo, dicevo, facevo? E terribile come tutto è inutile, questa sensazione di scorrere su di lei come l’acqua su un impermeabile era disperante. Aveva un’ostinazio­ ne che le chiudeva gli occhi: il bisogno di sopravvivere, di farsi avanti, di esprimersi. Tutto giusto. Però se c’era una vittima predestinata ero io perché per raggiungere i suoi diritti doveva sbarazzarsi di me. La so­ rella maggiore resta sempre giocata perché, appena l’altra è all’altezza, la rimprovera, colpevolizza, rigetta, si sente autorizzata a tutto. Nella testa di Sara avevo l’etichetta di donna “adulta”. Io mi consideravo

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coetanea (e sbagliavo, ma ero ansiosa di parità) e se le ricordavo che era più giovane lo facevo solo perché non prendesse troppo sul serio certe cose che avevo grazie all’età. Però Sara rimprovera a me quello che aveva rimproverato a sua madre: l’unione con il padre a sue spese. Idem Anita. Ecco l’origine del sospetto che avevano avuto verso di me. Sono a Roma e non mi entusiasma, tra tre giorni andrò di nuovo in campagna. Se non devo mettere intensità con gli altri, se questo turba, sorprende, allora tanto vale che me ne stia da sola e metta intensità in me stessa e nel rapporto con la natura, le piante, l’aria, le colline. Ester è una prepotente abituata a risolvere le situazioni con una certa scena e prò domo sua. Poi prende toni da vedova. Ma qui batte il naso: non potrà mettersi l’animo in pace tanto presto perché io non cedo e non la tranquilizzo. 26 mar. Davanti a tanta gente prendo il microfono e dico di avere avuto “rap­ porti erotici completi” con Sara. Qualcuno mi fa osservare che è una precisazio­ ne inutile. “No” rispondo “perché c’è chi crede che esista solo la scopata.” Ma mi pento della volgarità e della voce animosa che mi è venuta fuori. Poi piombo in un gran dolore perché capisco di avere rotto i rapporti con Sara. Però poi con Sara non è rotto. Parliamo delle sue poesie, mi dice di starle facendo tradurre in francese da un’insegnante. Mi chiedo con apprensione cosa verrà fuori. Il sogno risponde alla versione di Sara che io l’ho trascurata o abban­ donata per Simone. Sara era la mia naturale antagonista mentre io avevo vasto in lei l’ac­ cettazione, il riconoscimento, l’affetto per me. Nessuna donna che io conosca è nella mia fase. Sara è abbastanza all’inizio del suo ingresso nel mondo. Il senso di adescamento in una via senza uscita mi ha reso il rapporto con lei intensissimo e dolorosissimo. Dalla sua autenticità io mi aspettavo tutto (o comunque niente): la sorellanza. Dopo l’amicizia con Marion mi sono sposata, dopo quella con Ester sono passata a Sara e poi mi sono metaforicamente sposata con Simone. Adesso apprezzo molto il clima di rapporto con lui, con una diversità di base insuperabile e che nessuno dei due si è mai sognato di annullare, semmai di indagare, ma senza affanno tanto è senza fine. Forse questo punto di quiete dinamica raggiungibile uomo-don­ na è l’unica in tutti i rapporti del creato. Oltre a quella sicura, almeno per ora, madre-figlio, cioè di me con Tito.

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Alle sorelle Se non vi amassi avrei scelto una via così difficile? Se non vi amassi avrei tentato l’avventura di capirci qualcosa?

27 mar. Girando con Simone capito in uno sconosciuto paese di provincia, vedo un paio di scarpe in una boutique e, mentre lui fa manovra, mi allontano, entro nella boutique e chiedo di provarle. In vetrina mi sembravano molto ca­ rine, sul verde, adesso le trovo un po’ andanti come fattura, di stoffa e corda. E poi sono uguali a quelle che ho già in piede. Chiedo il prezzo alla commessa che lo chiede alla padrona: 4000 lire. Insistono perché io le prenda, mi accorgo con sollievo che la suola è tagliata, ne manca una striscia, si vede il piede. Soddisfatta lo comunico alla padrona che però, molto sprezzante, risponde che con una pic­ cola saldatura tutto è a posto. Si meraviglia che io sia così pignola. Poi, irritata, esclama “Le prende o non le prende?”. Io scaglio una scarpa a terra e la preven­ go “Posso farlo visto che le prendo”. La commessa, oltre alla padrona, mi è osti­ le, anzi propone che ci picchiamo e la vedo lanciarsi verso di me, una ragazza con i capelli rossi, io cerco di schivarla, immobilizzarla senza farle del male. Ma lei è scatenata. Intanto sull’altro lato della boutique adibito a ristorante, Simone è solo a un tavolo e mi aspetta, in una grande tavolata riconosco dei critici, degli artisti, da una battuta mi pare di identificare la voce e il genere di Gallizio, mi sembrano tutti uomini e tutti morti. Vorrei scherzare con loro, vedere chi sono, ma la storia con la commessa mi tiene lontana. Poi lei diventa piccola come una bambina, è molto carezzevole di modi, forse vuole fare amicizia con me, le dico o le sto per dire “Molti rapporti sono cominciati con una lite”. Ieri sera, come al solito, non ero andata a un’inaugurazione di Simone: c’era molta gente ed Ester con i capelli rossi. Invece ero stata a trovare i figli di Nicola, la maggiore era affettuosa con me: lei ha i capelli rossi. Simone mi ha promesso un cane, un lupo bianco e nero finlandese, un lupo che caccia l’orso. Io vorrei una femmina: devo trovare un’ami­ ca fosse pure nel mondo animale, ma devo stare in pace con una

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del mio sesso. Mi sento tornare bambina all’idea del cane, un lonta­ nissimo, viscerale desiderio inappagato. L’alleanza con l’animale dà una specie di raptus. Ribellarsi è indispensabile, spesso ci si ribella a chi si ama e che, senza saperlo, ci tiene prigionieri. Siccome ci si ribella a chi ci ha suggestio­ nato e la cui forza si è sopravalutato, non ci si accorge di farli soffrire, si pensa che non è così grave per loro rispetto al vantaggio che noi se ne ricava. Non si può fare un gesto di autonomia senza che qualcuno ne soffra, senza che l’altro lo avveda come un rigetto di sé. E un mec­ canismo da tragedia. Non c’è scampo. Piano piano si capisce tutto, è vero, e poi si muore. Vengono altri presi dalle loro illusioni, con i loro bisogni affettivi, di valori che ritengono realizzabili. Poi anche loro piano piano devono cedere, soffrire, ca­ pire, e poi morire. L’erotismo, il sesso è una droga vitale, il miglior passatempo, il miglior modo di chiudere gli occhi per aprirli in una specie di sogno palpabile, carnoso se si riesce a fare tacere il lavorio della mente. Marion usciva da una delusione d’amore, così si era riversata nella nostra amicizia; dallo choc avuto per la fine di questa era rimasta sul­ la difensiva, finché si è sposata e ritirata affettivamente con il marito. Dopo il rapporto con me ha passato un periodo difficile definito esau­ rimento nervoso, ma ha concluso “assurda crisi adolescenziale in ri­ tardo” appena se ne è sentita fuori. Vorrei stare sempre con Simone, astrarmi dagli altri e godere l’autosufficienza con lui. Certo in questo anello ci sono stata rigettata dall’impossibilità ad avere rapporti stret­ ti con le amiche e i rapporti allentati che ho adesso non fanno per me. Voglio saziare il mio bisogno affettivo che è immenso, infantile e adulto, solo con Simone posso cercare di dargli fondo. Lui non si spaventa mai di me. Oppure solo qualche volta. Mi piace moltissimo. Mi sta piacendo così tanto che all’improvviso mi preoccupo. Gironzolando con un forte senso di irrealtà come spinta da un lento meccanismo a sguardo un po’ fisso, sono entrata al Remainder’s Book cercando qualcosa qua e là senza meta: ho lasciato perdere Eliduc di Marie de France perché non ho capito cosa fosse, un diario di ra­ gazza sovietica perché troppo banale, tre romanzi di Georges Sancì e me ne sono un po’ pentita. Invece ho preso ancora due volumi di una rivista d’arte, uno con l’intervista a Claudius, l’altro con quella a Ester, che risalgono a circa dieci anni fa. Io li facevo parlare, ero il

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loro registratore e animatore. Quindi Sara non può dire che lei era con me come io ero con gli artisti, semmai ripetevo lo stesso schema: facevo parlare lei, in veste un po’ meno culturale. 28 mar. Sara non si è più fatta viva, l’ho aspettata due giorni quasi senza uscire di casa, oggi parto per Turicchi, l’ho deciso a un tratto, ma cosa sto a fare qui? Adesso che ho smaltito il dispiacere per i suoi dubbi, sarei così contenta di vederla: potessimo parlare di niente, es­ sere banali come voleva lei! Comunque avverto il possibile lieto fine: la tragedia è in sé, è non capire, non potere affrettare i tempi, non potere né credere né essere creduti fino in fondo. Il lieto fine è che Sara è onesta e anch’io. Credo di intuire quale può essere una strada verso l’omosessualità: se nel bisogno di conferme avessi cercato di risolvere a tutti i costi la sofferenza dell’estraneità dell’altra oppure avessi voluto accrescere l’intimità, avrei rotto il tabù. Io volevo con­ ferme e affetto, certo, ma non a tutti i costi. Mi viene in mente che Anai's si è innamorata di June, la moglie di Miller, perché rappresen­ tava quello che lei non era, un’estraneità in cui immedesimarsi per farla propria. Cara Sara, Simone mi regala un cane lupo della Cardia, il paese di tuo padre. Sono in autobus e mi si riempiono gli occhi di lacrime al pensiero di tutte le no­ stre difficoltà, certo io sono abbastanza ottusa su molti aspetti del rapporto con te, ormai il bisogno affettivo è in primo piano insieme alla mia capacità di dire con convinzione un sacco di stupidaggini. Infatti la cosa più importante da dirti era che ti volevo bene e, sia pure abbastanza spaventata dalle sofferenze a cui sono andata incontro, non mi tiro indietro anche se desidero delle pause. Non ho perso l’elemento di riflesso in te senza il quale la diversità è troppo tremenda per continuare.

29 mar. Tu vuoi incriminare quell’elemento di riflesso fino a farlo scomparire. Io forse mi oppongo e ti impedisco con ciò di raggiungere quella libertà da me che tu vuoi? Ricordi, nella poesia dicevo “Vorrei liberarmene vorrei saziarme­ ne”. Abbiamo avuto lo stesso problema. Adesso sono sazia, per così dire, e in questo mi sento liberata. Non ho bisogno di te, l’ho avuto moltissimo, adesso non più, ma se potessimo essere calme con poche persone avrei piacere di stare insieme, pochissime, come con te.

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Al padre Sei l’unico bambino della nostra famiglia per compiacere te per viziarti non deluderti non farti soffrire siamo cresciuti in fretta noi figli. Ti abbiamo lasciato infierire su di noi così ti sentivi saggio educatore di polso virile. Tutti noi abbiamo detestato la virilità ma ai fratelli glicl’hai sottratta e cosa gli hai dato in cambio? Solo perché avevamo pena della tua infanzia di orfano e volevamo equilibrarti con la vita ti abbiamo fatto da padre e da madre lasciandoti agire da bambino dispotico. Così noi siamo stati i veri orfani.

30 mar. Ester fa una mostra di “lenzuola” copiando, rubando l'idea a Simone! Ora non è che lui ne resti impoverito, però è terribile ren­ dermi conto che quando appoggiavo Ester con piena fiducia nella sua lealtà almeno di artista, giurando che altri potevano avere preso da lei, non certamente lei dagli altri, ero ignara, credula e ingiusta. Essendo un’artista donna la vedevo migliore, invece è l’unica che ora scopro irragionevole anche rispetto ad altri artisti che ho stimato. Accorgermi che lei non ne è cosciente, che ha argomenti di spre­ giudicatezza da cui farsi proteggere, che è immune dal bisogno di verità e che questa, solo questa è la sua forza, una cecità che diventa un’arma, un bulldozer verso gli altri mi lascia stupefatta. Ecco la Ester che amavo, di fronte a cui mi sono sentita cattiva, abile, smaliziata. La

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cui innocenza mi schiacciava continuamente! Simone ha una mostra, ma io non ci sono andata, sono qui a Firenze sì, ma dai miei genitori! Tutto il mondo dove sono voluta entrare per forza non era il mio, non è il mio. L’ho visto attraente, avventuroso, godibile: era niente, carta colorata. Se non avessi Turicchi mi sparerei. Confondevo l’arte con la santità. A Emily Dickinson Ho paura a scrivere questa poesia. Un buco nero in un nero vuoto mi attende. Emily ho paura.

2 apr. Dopo un bel po’ di patemi d’animo ho incontrato Vincenzo al bar per la prima colazione. Simone prende malissimo questi revival, però deve capire che per me sono indispensabili. Vincenzo ha esordi­ to che io finirò sempre per scottarmi col fuoco, mentre lui preferisce evadere con una finzione. Ho pronunciato le parole “senso di colpa”, mi ha replicato che non ho senso dell’humour. Intanto riflettevo se per caso il senso di colpa non sia frutto di una presunzione, in realtà ogni persona ha un suo destino interiore che niente può toccare, non è così? .Allora che significato ha sentirsi in colpa verso gli altri? Non siamo stati noi in loro balia quanto lo sono stati loro di noi? E non eravamo comunque entrambi strumento di quello che ci muoveva senza che potessimo capirlo? Abbiamo parlato dei rapporti trascorsi. Gli ho detto che avevo bisogno di essere capita e non ammirata, che inconsciamente temevo i rifiuti che mi potevano venire dalle con­ seguenze dell’ammirazione. Lui sostiene di avermi accettata subito, come un dato di fatto, non gli sembra di avermi ammirata, però certo dovrebbe pensarci meglio. Gli ho ripetuto ancora che mi sentivo male nel sesso con lui: ma come poteva orientarsi se non lo avevo chiaro nemmeno io? Ha un ricordo emozionante del femminismo in me, ha preso coscienza di tante cose, ma adesso è ancora più in difficoltà con le ragazze: non sa come parlare con loro, teme di colonizzarle, di volerle possedere. Per lui è un problema, ha nostalgia di come era prima: timido, incapace di prendere un’iniziativa, ma almeno illuso sulla possibilità. Gli ho detto che ciascuna ha diritto a non essere co-

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Ionizzata, ma che questo può avvenire anche tra donne: io cavalcavo un’illusione e niente è stato più inebriante, poi sono precipitata come da un aereo senza paracadute, e ho provato lo choc che mi ha aperto gli occhi. Vincenzo mi ha citato la frase di uno scrittore che dice, pressappoco, che c’è chi è votato all’errore di fare un passo infinito (“più lungo della gamba” ho interpretato io) e lo fa quanto più av­ verte che è impossibile. Allora mi sono messa a ridere perché mi si adattava proprio. Gli attimi in cui un altro essere è in contatto con te, ti è presente sono rari, ma ti danno proprio il succo dell’esistenza. A un certo punto ho detto “Forse si può essere così sinceri quando non c’è più erotismo perché in quel caso prevale il dominarsi l’un l’altro con il mistero”. Poi ho pensato alla campagna, alla pace, all’amore per Simone, al mio futuro con le stagioni, la solitudine, l’addentrarmi in Simone, in me, in una zona senza distrazioni, eccitazioni, incontri, illusioni. 3 apr. Ieri ero stanchissima, stressata, con una sensazione nascosta come un segreto, qualcosa da non rivelare, da vivere l’attimo che dura poiché non dura molto. Ho fatto una delle mie liti con Simone che, tornando a casa, mi dice che la gallerista insiste perché vada alla sua inaugurazione domani. Avevo così tre pesi sullo stomaco: 1) per­ ché non avevo preso bene la proposta di Simone a dividere Turicchi con lui; 2) perché avevo visto Vincenzo e mi ero sentita prigioniera di Simone; 3) perché non ho voglia di andare all’inaugurazione. Ho det­ to le mie ragioni però ogni tanto mi si chiudeva la gola perché più di tutti mi sento vittima di me stessa, che da una parte sono così lucida e dall’altra così impedita. Simone mi è indispensabile perché mi assol­ ve continuamente, mi accetta. Infatti la cosa è finita che lui mi diceva quanto mi vuole bene, come gli piaccio ecc. Ho capito che soffre di avermi visto fare l’entusiasta di altri artisti e mai di lui. Pubblicamen­ te intendo. Qualche giorno fa gli ho annunciato che vorrei scrivere un libro su di lui, sarebbe bello, ma fare la comparsa sorridente alle sue inaugurazioni, mai. Dormendo poi ero triste, depressa: sognavo (quasi da sveglia) una specie di passeggiata con Vincenzo, ma era più una separazione che altro. Svegliarmi significava rientrare in una re­ altà chiusa. Simone dice che mi sono minata il terreno tutto attorno e non posso muovere un passo. Che una persona curiosa, attiva come me adesso è in uno stato di bassa, di inerzia. Questo è il problema se­

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condo lui. Certo non posso stare tutto il giorno a pensare a me stessa, finirò per impazzire a essere continuamente cosciente di me, di me, di me. Mi viene l’analogia con il periodo appena sposata: adesso è quello in bene, però c’è lo stesso senso di chiusura al mondo esterno. Che guadagno c’è a essere coscienti? Che sei sola per una gran parte e per il resto sei abbandonata. Devi aspettare gli altri volente o nolente allora ti dai da fare per affrettare i loro passi. Oppure ti freni e cerchi di rallentare ma quando uno arriva si ferma con te per un attimo e sfreccia via. Capiterà il momento in cui qualcuno aspetta te? Potrai saperlo?

Dicevo a Simone “Dio mio, penso spesso alla morte, che c’è solo la morte per me, tutta la vita sta alle mie spalle e adesso ho di fronte solo la morte”. Simone ha risposto “Esiste”. Non posso distrarmi, non c’è una pausa, un motivo, niente per cui mi alieni, mi distolga, mi riposi. Mai: sono sempre lì, con me stessa, non credo in niente altro, non so immaginare niente altro. Ma è come per Kirillov nei Demoni di Do­ stoevskij, un tu per tu con la morte. 4 apr. Di peggio in peggio. Mi guardo, mi vedo senza movimenti possibili. Ho letto qualcosa su Virginia Woolf. La sua ricerca del sui­ cidio, la sua paura di impazzire; il suo affetto, la sua gratitudine per il marito, per “l’infinita pazienza e bontà” di lui. Anch’io ho bisogno delle stesse cose, ho le stesse cose (forse di più perché ho tutto quel­ lo che Léonard non era), però questo mi permette solo di vivere in modo meno straziante. Di vivere anzi, ma è possibile andare avanti così? Il periodo felice della mia vita è stato il femminismo, ora che è finito cos’altro può sostituirlo? Esiste qualcosa? Sono ferma, immobi­ le nella stanza, non so dove andare, cosa dire, chi interpellare.

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Adesso capisco la depressione di Marion, di Fausto in cui ho avu­ to una parte importante senza rendermene conto. Anche con la zia Egle che ho lasciato a un tratto per un’incomprensione - certo in un momento difficilissimo per me - io la nipote prediletta; si era occu­ pata di me come una madre. Forse Lucia, che ne so? Stasera le ho telefonato, ma non le interesso, lo vedo chiaro: lascia cadere tutto senza eco. La sensazione è la stessa: un’intrusione da parte mia, una precipitosità, un’affrettatezza, uno sbilanciamento in cui non mi ri­ conosco, che non sono io. Fio lavorato a tagliare chili di arance per una marmellata e intanto penso, è l’introversione più completa. Nel bisogno di comunicare mi sono ferita così a fondo che neppure io so quanto; la botta a caldo è stata tremenda, ma non sapevo che durasse tanto. Devo scriverlo a Germana: la depressione non mi è passata. Io voglio ancora il femminismo, voglio fare qualcosa con le altre. Non posso fare niente da nessuna altra parte. 5 apr. Lucia sicuramente è rimasta a terra dopo che nel gruppo si è sentita respinta. Lei se l’è presa con Ester, però era la mia teoria sul sesso che l’ha disturbata. Lucia aveva tutto il diritto a esprimersi però doveva anche crearsi il canale, invece veniva a interferire in quello che mi ero creata io. Veniva a smentire me che ancora non mi ero espressa o lo stavo appena facendo. Mi sembra di vedere sempre una piccola differenza tra come io sono stata verso le altre e come le altre sono state verso di me. In fondo il mio errore con Sara (e con Ester) è stato di averla sentita alla pari prima che lei si fosse sentita così. Lei voleva la parità, però non faceva che respingermi sotto sotto per libe­ rarsi di me. Cioè stava conquistando la parità dentro di sé. La parità con una amica autentica mi onorava. 6 apr. Salendo di corsa una scala che io sto per scendere mi si para davanti un

baffuto Gianni che, sorpreso e sorridente, mi abbraccia. Abbracciati e ridendo balliamo e io canterello un valzer viennese. Poi mi sembra stupido e abbasso la voce. Comunque stiamo bene, a nostro agio. Sediamo a tavola, una tavola bassa quasi a terra con un altro che non conosco, ma mi piace. Io ho messo il vino a scaldare vicino al fuoco in una specie di teglia e ora mi industrio a ritirarlo. Per un po’ ci riesco, poi mi accorgo di avere in mano quasi solo del fil di ferro con un po’ di tela, e con quello non riuscirò mai.

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In fondo ero rimasta scottata da Cesare e dopo sono stata abbastanza cauta, semmai troppo e questo è logorante, però non ho più avuto ripulse. Mentre con le amiche non avevo avuto f esperienza di essere respinta. Mi è successo con Sara; Ester invece si è sentita abbandonata da me come Marion e già era doloroso essere accusata. Adesso capisco che è un’esperienza così traumatica, profonda, catastrofica. Anche Sara nel respingermi mi ha accusata, ma accusa anche se stessa, dunque do­ vrebbe essere una sofferenza minore. Invece è maggiore perché con lei mi ero aperta finalmente, ero fragile nella coscienza della mia fragilità e fiduciosa di essere accolta, così i colpi ricevuti bruciavano non solo per se stessi, ma per l’ingenuità con cui mi ero scoperta. Mi rendo conto che le depressioni delle amiche (e degli amici) che si sono sentiti rifiutati da me, anche se io consideravo di averne tutto il diritto, dipendevano indirettamente dalla loro debolezza, ma direttamente dalla fiducia che avevano riposto in me, dal calore e dalla comprensione che traevano da me e che io a un certo punto interrompevo. Ai loro occhi non c’era motivo che rendesse plausibile un simile orrore. Non li capivo, adesso so che è così. E corro il rischio di non rialzarmi da questo colpo, di impiegare troppo tempo ed energia a smaltirlo, di bloccarmi nella pro­ tezione e nel rifugio, nell’isolamento perché mi sento così disincantata che mi pare di non poter più entusiasmarmi nei rapporti. Vedo un meccanismo a catena, una gigantesca consequenzialità di suggestionemito-liberazione, bisogno-adescamento-rigetto che tremo dalla paura letteralmente. Vorrei un rapporto erotico per distrarmi da questa tra­ gedia della sorellanza. Dalla tragedia dei rapporti senza sesso. Nicola mi incoraggia “Ma compralo questo cane, se lo desideri”. Però io so che è assurdo, senile o infantile, cercare qualcosa nel cane che mi sono aspettata dagli esseri umani. La prossima volta che Sara telefona le rispondo bruscamente e riat­ tacco l’apparecchio. Mi costringe così a un gesto che non sento, non voglio, però dovrei farlo per motivi di ordine pratico: perché mi lasci in pace e capisca che non intendo più saperne di stare al suo ritmo, subordinata ai suoi problemi senza potere tirare fuori i miei. Penso alla moglie di Simone e mi rendo conto di come si sarà sentita gio­ cata nella fiducia dal suo tradimento. Finora non calcolavo l’effetto distruttivo del rifiuto che l’altro ha verso di te, puoi non riaverti più. Si perde la baldanza, si perde e si può non ritrovare. Essere rifiutati, ecco la sofferenza.

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7 apr. A letto in campagna per dodici ore. Per salvare i nostri soldi Simone, io e altra gente siamo asserragliati dentro un edificio. Dall’esterno sparano due o tre colpi di pistola sulla porta ed entrano. Ci prendono tutto, mi chiedo perché non mi sono messa qualche assegno nel reggiseno, lì non hanno cercato. Sono angosciata dal fatto che anche tutti i miei scritti siano nelle loro mani. Vado da uno sbirro di Bottai e gli chiedo di restitu­ irmeli perché non valgono niente. Sembra che lo faccia, non si aspetta però che siano così tanti. “Trenta quaderni” dico io per mettermi al sicuro. Lo chiamano al telefono, resto con un altro molto peggio. Vicino ai quaderni c’è un orologio d’oro di mio padre e io insisto perché me lo rendano: ci hanno preso tutto, quel­ lo varrà 10-13.000 lire. Però con il nuovo sbirro non attacca. Sono in una casa a pian terreno con prato e spazio attorno. Arriva un tizio in bicicletta amico di Simone, che l’invita a colazione. Io tardo molto, con la donna a ore faccio pulizie: mi sono accorta di certe formiche con le corna in un angolo del muro. Lei non le uccide, ma le volta dall’altra parte. Sono stufa, do in escan­ descenze. Il tizio assume un tono sprezzante. Prendo una scodella, un bicchiere, qualcos’altro e li butto a terra con rabbia, ma non si rompono. Il tizio commenta con freddezza. Io lo aggredisco accusandolo di essere come mio marito. Simore resta nell’ombra. Dopo la scenata me ne vado chiamando “Piccolini...”.

Mi dà fiducia sentire uno incrollabile (entro certi limiti) al mio fianco, perché io non potrei fare fronte alle sue crisi: ho già le mie alternate a euforia che mi impegnano all’estremo. Simone mi è indispensabile, è un rifugio dopo che dentro di me vado così lontano. Un giorno in queste tremende passeggiate incontrerò Virginia W. Stamani parlavo con Simone delle mie poesie, di quella “Moti di alternanza” dove scopro i miei alti e bassi. Quanto mi sono sentita rifiutata quando rifiutavano le mie poesie, anche se poi per tutto il resto mi amavano! Ricordo quando da ragazzina giravo con un bloc-notes dove ave­ vo trascritto poesie di altri che mi corrispondevano, e pensavo che all’occorrenza le avrei fatte leggere per fare capire chi ero. Quello che veniva fuori di me non era dove io mi identificavo. Simone vuole scrivere a sua moglie per dirle che non l’ha rifiutata quando si è innamorato di me. Poi ha ammesso che non si può ri­ mediare l’impressione che l’altro ha avuto e da cui deve trovare una via d’uscita da solo. Anzi Cesare aveva complicato le cose quando

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mi impediva continuamente di concludere che se ne fregava di me. Infatti io capivo solo che non mi voleva più. 8 apr. Dopo la proiezione di un film da parte di una mia amica (ma gli spet­ tatori sono morti? no, non sembra, si muovono), lei mi presenta una donna importante per me. Faccio un po’ la spiritosa e pronuncio la parola “panza”. Quella subito mi rimprovera la mia volgarità con un atteggiamento che non lascia prevedere nulla di buono, ma io rispondo secondo verità e nello stesso tempo penso “Sono sempre la stessa, non so resistere anche se mi sento quasi offesa dalla maniera di abbordarmi”. E rispondo “Sono così corretta nel parlare che a volte mi sforzo di nasconderlo e cerco di mostrarmi colorita”. Ricordo che alle elementari una volta, mentre facevo la bulla dondo­ landomi tra i banchi, una bambina ha sussurrato a un’altra “La Carla com’è volgare!”. Questa osservazione ha messo insicurezza nei miei gesti così a volte per reazione ero un po’ leziosa. Diventerò scema a rimuginare sempre le stesse cose, a sfaccettarle in infiniti momenti. Sono le 6 del mattino, Simone dorme appoggiato a una mia gamba, io sono sveglia, inquieta, con un gran bisogno di parlare a un’amica. Piera mi ha telefonato “Cosa fai per Pasqua?”. Chissà come ha preso che non possiamo vederci, però è così, la casa non è pronta quindi non posso ospitarla, e andare a fare Pasqua con lei mi sgomenta. Già sono troppo intensa quando c’è Simone, da sola ritorno quella esigente che poi le altre accusano e rifuggono. Così penserà, come Sara, che l’ho abbandonata per l’uomo. Invece Simo­ ne è l’unico che resiste il mio contatto, il mio urto e non mi vorrebbe di potenza ridotta. Mi annoio un po’ in campagna, che strano, adesso che tutto germo­ glia e comincia il bello sono un po’ distratta. Forse perché mi pia­ cerebbe lavorare e non ne ho ancora le possibilità. E poi perché ho visto Roma sotto un’altra luce, quella dell’incontro imprevisto che di nuovo occupa qualche spazio nella mia mente, e la campagna senza quello mi sembra un deserto, un luogo insipido. Mi riaddormento e sogno ancora. In macchina me la prendo con un amico di Bernardo, il figlio di Simone, e lo insulto furiosamente. Non intendo ragioni. Simone al volante non può neppure intervenire. Scendiamo e camminando il ragazzo mi dice qualcosa, non so se

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per scusarsi o per rimproverarmi, io sono già placata, vorrei abbracciarlo, cerco di restare indietro con lui, ma non lo trovo più. Bernardo mi rimprovera per la mia sfuriata, dice che quello soffre di “schizasi”, penso che anch’io nc soffro. C’è una festa, spero di trovare uno che mi piace. Si va in una chiesa immensa, mi appoggio a Simone perche c’è una luce strana, non ci vedo più. Poi sono per strada in bicicletta: la bici troppo pesante, il manubrio si gira e quasi vado sotto una macchina. E di nostri amici, salgo: c’è un bebé che piange, è figlio di Simone e sua moglie. Un’amica dice che la moglie era tanto contenta del bebé; un’altra fa gli elogi di Simone come padre, ma la prima è di parere contrario tutta scandalizzata. Io prendo le difese di Simone mentre il bebé diventa piccolo piccolo, tutti vanno via e lui è sempre più piccolo, urlante, bianco.

Sara diceva “Il tuo diario si pubblica fra trentanni: contiene i nomi di persone conosciute”. Per me era così frustrante che mi scaricasse fra trentanni visto che avevo già trentanni di diario alle spalle. Simone mi prende in giro per le mie poesie. Mi chiede “Ma non c’è un po’ di opera lirica lì dentro? Avresti scritto bene dei libretti di ope­ ra!”. Mi sembra così enorme tutto questo scherzare su una mia piaga che quasi posso divertirmi dell’assurdo. 9 apr. Anche stamani mi sveglio alle 6. Sono angosciata. Gemma viene a trovarmi e ne sono felice. Mi porta notizie di Isa che sta bene, non aspetta la mia lettera, mi manda un paio di lenzuola rosse e blu per rendere più leggera l’ospitalità.

Intermezzi di sogno complicati a non finire, equivoci, una donna mi aggredisce, le rispondo, altre complicazioni, vischiosità. Qualcuno mi telefona che Tito è all’ospedale: mi sento morire. Chiedo cos’ha avuto, un incidente? Non sanno rispondermi, sto impazzendo. Poi lo trovo che non si regge in piedi, dolce dolce: ha avuto qualcosa allo sterno, non so, comun­ que gli hanno fatto anche le tonsille. E con un amico più grande di lui, hanno un tubetto nel naso, no, nella bocca, li nutrono di lì. Tito sempre con un sorriso da piccolo martire. Poi ci sono getti d’acqua potenti, docce impazzite, l’inserviente non sa che fare, accorro io: i ragazzi rischiano di affogare in una vasca d’acqua un po’ sporca, li tiro fuori. Sorridono sempre.

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L’angoscia mi avvolge, non so che succede, Simone è distratto dietro al figlio, mi sento prigioniera, ho sempre qualcosa fermo all’altezza del cuore, forse è il cuore, ho il viso arrossato, la pelle mi brucia. Sono un apparecchio elettrico a cui hanno tagliato i fili. La vita è spaventosa. Stamani ho visto bene il meccanismo delle illusioni una dopo l’altra. Dice la contadina che anche le pecore cercano sempre l’erba migliore un po’ più in là. Allora dovrei stare ferma, tranquilla, accontentarmi: qui è stupendo, è il mio sogno che si realizza, cos’è che mi manca? Quel che di atmosfera frizzante, allegra, spensierata, divertita che è il momento delizioso del vivere. Insieme a quello della confidenza, del conversare tirando fuori quello che disturba dentro. Nel femminismo ogni volta mi sentivo esausta, qualcosa di scatenato mi travolgeva e poi arrivava una stanchezza fisica meravigliosa e la mattina dopo ricominciavo. Sfioravo la depressione, ancora ne ero immune, la sfioravo e ne avevo il brivido, ma restavo saldamente an­ corata al mio seggiolino come facendo le montagne russe. Alle 6 dalla disperazione, dal desiderio di alzarmi pur essendo ancora stanca, dal tempo che non passa e comunque non promette niente se non di sicuro la morte tra un tempo che nella migliore delle ipotesi è lungo quanto il soffio della mia vita fino a oggi, un troncone di niente su uno spezzone di niente, ho voluto fare l’amore. Telefono a Nicola dall’Elba: Sara è lì. Ah, lazzarona, mi gira attorno, ma senza farsi vedere da me. Non vorrei... cosa non vorrei? Non so. Non vorrei occuparmi più di lei. In autunno le scrivevo che non vede­ vo l’ora di ospitarla in campagna perché potesse riposarsi, adesso mi peserebbe, non ho più l’entusiasmo, sarebbe una cosa forzata. Posso incontrarla a un bar, fare due passi con lei, e poi andarsene ciascuna a casa sua, comunque non voglio sapere niente di più, né offrirle niente. Né a lei né a nessuna. Oggi pomeriggio vedevo chiaramente le difficoltà degli altri collegate alle loro vite, vedevo gli altri come entità altrettanto reali di me, altrettanto “destinati”, nella loro ottica interiore, di me. 10 apr. Tito non vuole venire all’Elba, né a Turicchi, vuole stare a Roma con un amico durante tutte le vacanze di Pasqua. Mi dispiace e mi solleva: mi somiglia. A due anni scendevo di nascosto le scale e andavo a giocare con la figlia dell’elettricista che aveva il negozio sotto casa nostra. In collegio ci sono andata per seguire un’amica,

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ho cominciato a scrivere d’accordo con la mia compagna di banco Cosetta ecc. “Chi è Nicola?” si chiede Bernardo. “Una ragazza? Una donna? Sem­ bra una ragazza, ha i modi di una ragazza, però ha tre figli allora è una donna. Non ci capisco niente.” Forse Nicola voleva un uomo che avesse fiducia in lei, nella sua intelligenza e capacità così si è ritirata dai ragazzi pericolosi; io invece volevo un uomo che mi lasciasse es­ sere capricciosa e birichina, oltre che seria, pensosa. Volevo giocare con lui, e forse giocare anche lui. Lunga chiacchierata con Nicola: lei sente Sara mia antagonista e tro­ va che è inutile continuare così perché l’antagonismo le finirebbe solo con il mio annientamento. L’intuizione di Simone già dall’anno scor­ so “Sara ti fa del terrorismo” e quella di Nicola adesso coincidono con q u e l l contro Èva che io non osavo scrivere sul diario la primavera scorsa. Mi umilia questa situazione che devo subire. Tuttavia ero io che volevo andare a fondo, volevo crepare, ma toccare con mano che era così, che non si trattava di suggestioni del demonio. Adesso so che la mia discesa agli inferi è finita: non sono ancora tornata di carne e ossa, sono ancora un’ombra perduta dietro la sollecitazione a scoprire il mistero di chi sono. Ma sto tornando indietro verso l’uscita-entrata. Per ora accetto il mio senso di colpa, posso vederlo, riconoscerlo, ana­ lizzarlo, ma non ancora liberarmene. Forse non lo potrò mai, non ha importanza: una cosa è essere nel senso di colpa, una cosa è essere in preda di chi te lo suscita. Ho paura di Sara, però essendo coraggiosa o forzata a esserlo mi sono dilungata ad affrontarla. Nicola attribuisce questa paura ad analogie che apparentano Sara a donne temibili del mio passato recente. Il modo con cui nel suo diario aveva parlato della serata tremenda in cui Simone era venuto a conoscenza dei miei tradimenti era così ostile, sbrigativo che non avevo potuto fare a meno di chiedermi se lei non se ne era rallegrata. D’altra parte non potevo neppure fare a meno di scindermi e l’apprezzavo per ogni mito depo­ sto anche e soprattutto se era fatto a mie spese. 11 apr. Stanotte ho pensato a Sara, l’ho sognata, ma sono tranquilla: il nostro rapporto cade, lo lascio finire. Cara Sara finora sono stata a tua disposizione, non volevo accettare un’impossibilità, la fine del rapporto in cui avevo identificato la mia liberazione e a cui

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ero grata, a cui mi sacrificavo come a un’entità astratta, divina che lo meritava oltre a richiederlo. Volevo che tu smettessi l’astio con me però lo accoglievo nel frattempo perché mi ero sentita in colpa per la mia cecità nel femminismo, nel gruppo e volevo espiare tutto e convincerti della mia buona fede, del mio affetto. Adesso mi accorgo che questa ostilità latente non avrà fine e io non mi libererò della mia depressione se non mi libererò del mio atteggiamento subordinato a te, colpevole e responsabile verso di te.

Ieri Nicola diceva che da queste amicizie una delle due esce ottimi­ sta, piena di energie, l’altra semidistrutta. Lei faceva il parallelo fra sé e altre del suo gruppo a cui non aveva permesso di trascinarla in questo tipo di rapporto: aveva risposto all’ostilità con l’ostilità. Nicola non ha il senso di colpa da sorella maggiore che ho avuto io, inol­ tre non ha stretto rapporti così intensi con nessuna come è successo a me con Sara. Parlando con lei vedo esattamente il mio limite che è quello di non sapere arrivare a certe conclusioni. Le subisco prima, a lungo anche, poi le capisco o le ammetto, ma non ci arrivo. Per esempio, riferivo a Nicola del fatto che Ester in una intervista anni fa mi aveva parlato dei suoi rapporti con gli altri in un modo molto stru­ mentalizzante, poi in una seconda intervista mi aveva detto che non le corrispondeva come ne aveva parlato. Nicola dice che è più vera la prima parte, la seconda corregge una possibile cattiva impressione, è una difesa. Al contrario io prendevo Ester per quello che lei voleva essere presa, una donna senza calcoli. Idem tutti gli atteggiamenti di rivalsa con me che ha avuto Sara, infiniti: ho cercato sempre di su­ perarli in quanto momenti di una sua verità, non in quanto reazioni contro di me. Nicola è lucida senza ammiccamenti, mi sembra un ramo giovane, energico proveniente dallo stesso mio ceppo. Sentivo il suo affetto e anche una pietà che non mi disturbava: mi voleva tirare su, aiutare per quello che stava in lei e con una sollecitudine sincera da “minore” a “maggiore” che mi ha fatto prendere sonno ieri sera svuotata dell’amarezza. 12 apr. Arriva un amico di Simone in una casa nostra un po’ cadente tipo quella di via Verdi. Simone mi chiede se sono d’accordo d’invitare a cena sette suoi amici. Dico di no categoricamente. Ormai sono due anni che non si invita nessuno, per me sarebbe oltre che faticoso, noioso, la sola donna. Allora Simone fa per trascinare via l’amico, ma io propongo che si trattenga “Perché non pren­

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diamo un tè?”. Ho visto giusto perché l’amico ha tempo. Lui e Simone parlano: tra loro c’è una scultura lignea femminile molto grande che oscilla, non se ne accorgono, così cade e il suo naso c parte del viso vanno a pezzi, lo dico “E una frittata”. Mi meraviglio non l’abbiano potuta trattenere. Esco sul pianerottolo e da una porta aperta vedo Lucia a letto con le sue gemelle che le giocano attorno. Restando sulla porta per timore che mi attacchi l’influenza, la interrogo. Dice che ha avuto un tremendo mal di gola e dolori da zigomo a zigomo. “È l’influen­ za” constato spaventata. Lei risponde di sentirsi bene adesso, posso entrare. Mi ricordo del caffè sul fuoco, le chiedo “Quanto ti trattieni?”. Mi rassicura perché si trattiene tutta la giornata. Allora tornerò verso le 6. Un’amica mi chiede del guaio successo “Ancora uno” afferma, dunque non è il primo. Insinua che sia a opera di giovani, io la lascio a indovinare, credo alluda alla statua caduta.

Andiamo a piantare i carrubi alla casa nuova. Sono eccitata, parlo molto “Fai così, no così ecc.”, finché Bernardo che sta trasportando un sasso, alza la testa e mi dice bruscamente “Carla, piantala per fa­ vore”. Adi accorgo che sono sempre fregata dal mio entusiasmo e dal­ la voglia di fare, di prendermi delle responsabilità. Poi Bernardo se ne va e io rimango con Simone a spalare la sabbia, a incanalare l’acqua dopo la pioggia torrenziale. Resto lì lo stesso a faticare. Questo tratto del mio carattere mi ha sempre nuociuto: una così dà fastidio, anche se sono molto scoperta nella mia eccitazione, all’altro basta alzare la voce per farmi restare male, però poi non collabora. Alla gente non gli va di assistere alla mia intensità, non può essere indulgente con me, prenderla in scherzo. Adi viene in mente che le bambine vive, vitali sono quelle più pestate, scoraggiate. Così io alterno momenti di espansione a momenti di espiazione. Però forse è inevitabile che sia così altrimenti finirei per prevaricare gli altri senza accorgermene. Sara diceva di essere arrivata sulla cima attraverso una “via facile”. Adesso però si accorge di essere stata sempre influenzata dagli altri e passa un periodo di confusione dolorosa. La mia “via difficile” mi ha garantito dall’essere plagiata. Così mi sento più alla pari con lei. Lo sbotto di Bernardo mi ha fatto venire voglia di non andare a Roma con loro, ma di fermarmi a Firenze. Chissà se ho fatto bene! Quando ci sono i figli Simone è completamente deconcentrato dal nostro rapporto e io mi scopro a ciondolare qua e là senza agganci. A volte è anche piacevole stare con i giovani, ma spesso è insoddisfacen­ te perché hanno i loro desideri e noi dobbiamo esaudirglieli. Quindi

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succedeva che le estati si appesantivano e io ero contenta quando arrivava Ester. In treno ho trovato delle insegnanti (mi piacciono sempre questi treni­ ni locali) e ho pensato “Peccato non avere avuto la vocazione dell’in­ segnamento! Le insegnanti sono una specie di corpo ausiliario, un esercito della salvezza, si sentono utili, autonome, “dentro” qualcosa: hanno un’etica, un metodo, una pratica, un materiale didattico, un edifìcio, colleghe e colleghi, dei superiori e degli inferiori. E un com­ pito da svolgere riconosciuto da tutti, tradizionale come intelaiatura, ma su cui apportare rispettose modifiche. Da Sara mi sono lasciata frustrare a lungo, è stata l’unica maniera per me di capire lei. Non potevo accettare il mistero, e il dubbio mi avreb­ be torturata. Mi sarei sentita debole e vile a scappare: essermi tolta il dubbio su di me è la compensazione al masochismo. Masochismo apparente, salute di fondo. Qiiando ho deciso per il collegio, sono andata a congedarmi dalla maestra che abitava sopra di me e mi accompagnava a scuola tutte le mattine. Entravo in V elementare: non l’avrei passata con lei. Mi sono sentita aggredire da uno sconforto sconosciuto che mi ha fatto credere di essere pazza per quello che avevo combinato. 11 “mai più” mi ha preso alla gola, ho perso ogni sicurezza. Però poi, tornando a casa mi è passato, un vero miracolo, e mi sono sentita libera. 13 apr. E giusto affermare che la donna non ha mai espresso un’espe­ rienza di liberazione come è avvenuto invece nel mondo maschi­ le? Non è per caso un’affermazione ideologica? Un corollario della mia vecchia impostazione femminista? Terèsa d’Avila, Teresa Martin cos’hanno espresso? Un’esperienza religiosa, mistica. Dunque libera­ toria. Oppure no? E le scrittrici? Ma allora intendo avanzare l’ipotesi che sono io quella che esprime e esprimerà un’esperienza di libera­ zione? Da un certo punto di vista mi pare di sì, io, Sara e qualche amica di Rivolta. Ho proposto a Lucia di darle da leggere le mie poesie, se crede. Ha risposto con un certo calore. Per il resto non sembra desiderare niente di particolare da me. Non rivela un suo problema, un suo bisogno.

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Però sento come un rimprovero in lei: il rimprovero di essere stata io a impedirglielo. La mia amicizia con Ester mi metteva a riparo dalle depressioni. 14 apr. Svegliandomi ho avuto questa intuizione, che la creatività nell’essere umano è la sua possibilità di rendere concreta l’illusione. Infatti liberarsi significa vedere le cose come stanno, e stanno male. Riscopro quello che già sapevo a dieci, venti, trent’anni e non ave­ vo voluto credere. Adesso capisco perché l’artista è prezioso: perché inventa un mondo artificiale, è capace di sfuggire sia alla cecità che alla veggenza. Non si fa un problema di essere cosciente, non inten­ de liberarsi davvero, ma giocare, non so, fare qualcosa di diverso da questa miserabile situazione in cui non c’è niente a cui approdare e per cui valga la pena di sforzarsi, affaticarsi come ho fatto io. In fondo ero proiettata su una possibile sorellanza, senza quella pren­ dere coscienza è una strada senza uscita. Un’esperienza come la mia dovrebbe sfociare nella religione, ma appunto provengo da lì e non c’entra tornare indietro. Come non potrò tornare all’arte. Ho scar­ tato un pacco con tanti fogli d’imballaggio per arrivare poi alla con­ statazione di niente, di una molla interna che funziona così e non c’è da sganciarla perché allora finisce tutto. Non sono triste perché Ester 0 Sara mi hanno accusato e fatto soffrire, ma perché la liberazione non apre su un Eden, su un’armonia, su una soluzione dei rappor­ ti umani, ma sulla rinuncia e l’abbandono della speranza. Parlando con gli altri resto sempre con la stessa sensazione di essere andata a fondo di qualcosa di cui non è necessario andare a fondo, di essere troppo incalzante e in più di non avere ancora intenzione di smettere di fronte ai primi sbadigli. 15 apr. Avevo in mente una frase di Pavese “La maturità è tutto” (mi era piaciuto molto II mestiere di vivere che ho letto poco dopo i ventan­ ni: mi ci ritrovavo sebbene non vi fosse espressa la parte avanguardistica di me, quella su di giri, con la sensazione di potere scansare tutti 1trabocchetti in cui cadono gli altri, poveracci: il mondo cambia e io sono la persona giusta per interpretare e volgere a mio favore questo cambiamento). Parlando con Simone a letto stamani ho capito che la mia depressione è la maturità, la rinuncia a ciò che non è possibile, al sogno giovanile, addirittura infantile. Forse è l’esperienza che per­

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mette di uscire dallo stadio di “eterne bambine”. Per questo magari le giovani preferivano un altro femminismo, di azione, di entusiasmo, costruttivo. Però Agata, Irma, Germana sono ventenni. Potranno evi­ tare la fase ideologica o mitica o artistica o religiosa, è possibile vivere così, solo sulla spinta di se stessi? E augurabile? In un’intervista Simone ha parlato tra l’altro anche del fatto che sta con una femminista. C’è qualcosa che non va in questo. Mentre io scivolo nella consta­ tazione sempre più pesante da sopportare della mia impossibilità a muovermi e ad agire - persino non so a chi fare leggere le mie cose nel timore di sciupare o mal orientare un rapporto - Simone parla con un cretinetti di argomenti in cui mi sento parte in causa e parte integrante e si gratifica di un ruolo che amplia quello già abbastanza consistente di artista. Io ho scrupolo a fare pubblicare quattro righe per Gallizio perché so che non potrei non servirmi di qualcosa nato in campo femminile e che perciò deve restare lì, in quell’ambito; introducendolo nella cultura artistica cercherei considerazione e prestigio, cioè l’uscita dalla condizione misconosciuta del femminismo in cui mi riconosco. Simone si è messo di cattivo umore dopo questi discorsi, non mi ha convinto quello che ha risposto: dice che io miro a fargli venire sensi di colpa e mi dispiace, d’altra parte perché devo averne solo io e perciò capire tante cose al lume del senso di colpa e poi, mentre ancora non ho risolto il mio problema, l’altro è già al microfo­ no. Nell’intervista Simone ha ammesso che gli uomini si servono delle donne per i loro arrampicamenti sociali; ma, aggiungo io, soprattutto per un’evoluzione personale che poi diventa, anche quella, motivo di culto della loro personalità. Così dall’angoscia della mia sparizione, dalla mia paralisi nel tirarmi fuori l’altro trae gli elementi di pensiero per vederci più chiaro, lasciando però me fare l’esperienza fino in fondo nelle sabbie mobili in cui mi trovo e lui guardando e parlando dalla terraferma. Non può agire così mentre io sono alle corde. Gemma ammette “Non sono capace di fare pensieri astratti”. Le rispondo “Non sei capace perché non ti interessa”. Così se una fa pensieri astratti lei si inferiorizza e non sa come rispondere, l’altra resta male perché capisce che le manca solo lo stimolo dell’interesse e si sente rifiutata. 16 apr. Sono a letto con l’influenza. Mi accorgo quanto il silenzio, il verde, l’aria pulita della campagna qui intorno mi dispongano a sop­

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portare più serenamente i fastidi della malattia. Simone è nervoso da ieri quando gli ho detto come la pensavo a proposito della sua inter­ vista. Credo che molte donne siano come me, piene di introspezione e ricerca di sé, però poi qualcuno diventa anche il loro portavoce per­ ché non hanno uno spazio proprio per esprimersi “pubblicamente”. Questa potrebbe essere una ragione per cui l’uomo prevale sempre sulla donna: lui viene in luce e lei resta in ombra. E un problema di autenticità, credo. Simone dice “ieri mi hai fatto paura”. Pensa che posso accusarlo, ma si sbaglia. Osserva “Come hai potuto resistere con Sara se aveva questi dubbi su di te, che tu ti impadronissi delle sue scoperte?”. Ma io ero certa di non approfittare di niente e che lei si sbagliava. Comunque mi intristisce molto che abbia i nervi, perché specialmente quando sono malata mi piace tanto una persona affet­ tuosa e in pace con me, ecco perché si rimpiange sempre la mamma, perché è Punico essere che intuisce queste cose. 17 apr. Stamani sto meglio, non ho febbre, mi sento molto in gamba a essere guarita così presto. Vacca vacca vacca di una liberazione vacca cento volte vacca.

Tutti i genitori mettono un veto a che la figlia maggiore consideri un’intrusione e una perdita la nascita di una sorella: per non sen­ tirsi colpevoli loro stessi hanno inventato che non è bene essere figli unici. Così la maggiore diventa pazza a forza di essere smentita su quello che avverte, vogliono convincerla che vede fantasmi, che sof­ fre per niente. Le tolgono la fiducia in se stessa, la fanno credere visionaria. Sto in un limbo non soffro ma non ho gioia sono malinconica triste non è terribile posso resisterci è un bagno di grigiore

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non sono proprio viva sono come un’ombra.

E logico che chi vuole liberarsi resti nubile (o celibe) come nei conven­ ti, è spontaneo, perché la liberazione è in sé così deprimente che non si accorda con il sesso che è gusto deiresercizio dei sensi. E tremendo pensare che la liberazione esce dal mondo per ritirarsi in qualche luogo sperduto mentre il mondo è dominato dagli inganni e le falseverità. Sarà possibile per la donna fare diversamente? Anche se sono molto depressa io per ora non sono andata in convento, continuo la vita di relazione dove posso, almeno posso con Simone. Gemma mi ha confermato che il gruppo nuovo di Rivolta a Milano va male. “Ci vorrebbe un’altra Carla” ha detto affettuosamente. Con questo particolare la conversazione che si è svolta nel confortevole angolo del salone di un ex-convento in campagna mi è parsa così bel­ la e ricca di motivi come una toccata e fuga di Bach suonata in una chiesa. Mi ha chiamato Piera: mi dice che è depressa, le ho risposto “Anch’io. Depressa tranquilla”. “Tranquilla e fiduciosa” ha ripetuto lei. “No, solo tranquilla.” Prima avrei cercato di farle coraggio, cre­ devo che andasse bene così, l’avrei desiderato per me. Adesso che so quanto è inutile se una non è pronta a fare lo sforzo, ho semplicemen­ te raddoppiato la dose. 18 apr. L’organizzatrice della mostra insiste perché le mandi il pezzo su Gallizio. Le ho chiesto “Ma perché ti aspetti tanto da me?”. E bello e fastidioso insieme. Ho provato a fare l’articolo: non ci riesco più, non mi interessa quel modo di scrivere, per questo mi costava tanta fatica. Invece se scrivo per me corro senza mai correggere, non sto a controllare il significato e se ci sono contraddizioni. Penso a Sara, ormai è un’abitudine. Mi dispiace che svanisca come realtà concreta, ma non posso farci niente. Mi chiedo perché non ho voglia di vederla. Perché voglio stare in pace. Depressa magari, ma in pace. Ha messo sotto accusa ogni mio modo di stare con lei: lì la compatisco, lì voglio aiutarla, lì la inferiorizzo, lì le rubo le sue scoper­ te ecc. Addio spontaneità, addio spazio per me. E stata precipitosa, ha fracassato tutto. So che non è definitivo, domani può modificare la sua versione dei fatti, però questo sistema di tenermi al banco degli

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imputati è una prepotenza unica. Tanto più che ci tiene me che sono condizionata a starci. E di certi condizionamenti al massimo posso prendere coscienza, non è che cambio. Allora è assurdo fare il gioco del topo col gatto, visto che non uscirò dal ruolo del topo. Nicola tergiversa, tergiversa per arrivare alla conclusione che “non è stato possibile”. Naturalmente un favore verso di me. Favore che lei ha costruito in astratto e demolito in concreto. E un mio difetto, quindi lo conosco benissimo, però io almeno qualcosa cedo, qualche larghezza ce l’ho. Va bene che l’Ariete è egoista, però questo lasciarsi andare a semipromesse facendo intendere tutta una disponibilità che non esiste e un’intenzione che non è mai stata reale è troppo frustrante. Federica mi ha telefonato da Torino, è un po’ depressa. Quando le ho risposto “Anch’io” si è messa a ridere “Con te non sono mai depres­ sa”. Come a me succedeva con Carla, ho pensato spaventata. Chissà perché da due depressioni esce fuori il benessere. Simone mi dice che sono “scostante” oppure “un ragazzaccio” per farmi divertire. Tra noi c’è un elastico che sembra eterno, non sono permalosa con lui, dico tutto quello che penso e lui fa altrettanto. O credo in tutto o non credo in niente. O sono tutto o non sono niente.

Di Gemma mi piace la leggerezza, la mancanza di drammaticità, due qualità che finora mi lasciavano insoddisfatta. Comunque non capisco più cosa mi piace o cosa no: quello che istintivamente mi soddisfa è l’intensità, però a volte ne sono stanca. Provo a cambiare. Vorrei fare una festa a casa mia a Milano. Gemma, Paula, Matilde, An­ gelina, Germana, Irma, Agata, Isa, Ignazia di Milano. Piera, Jole, Do­ rina di Genova. Felicita, Cecilia, Valeria, Federica, Eugenia di Torino. E due amiche di Lugano. A forza di riflettere non ci capisco più niente. Ho riletto uno dei miei diari di ragazza. Che sofferenza! Che abissi culturali! Che volgarità attorno a un essere indifeso! Che bolge infernali! Che sagre diaboli­ che! Che scappatoie illusorie! Che inerzie! Che puntini microscopici di luce in giornate grigie! Che precisione di appuntamenti con il più incomprensibile dolore! Che desiderio di pace, di madre, di morte!

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Parlando con Tito vedo come sta bene, sicuro, con me, come si di­ stende! Magari non mi racconta moltissimo, però ha fiducia in me e quindi in sé. Ci dev’essere qualcuno che è depositario della fiducia in se stessi. Invece io da piccola non avevo nessuno, è straziante, anzi tutti si sentivano in dovere di infierire visto che non mi mettevo nelle mani di altri, non dichiaravo fallimento, avevo questa inaccettabile spigolosità del carattere. Rispetto alla mia infanzia e gioventù adesso sono rose e fiori, potrei fare qualsiasi cosa, non sarebbe così terribi­ le, così perdutamente incomunicabile. Certo la vecchiaia sarà anche quello, se però è benigna suppongo sia più accettabile dell’olocausto di sé che può fare una bambina. Ecco perché tra donne è poi così difficile, impossibile. C’è troppo schiacciamento alle spalle! Irene da Buenos Aires mi scrive che ha rinunciato a qualsiasi speranza di mo­ vimento femminista: ha visto cose troppo inumane: ragazze deliziose diventare improvvisamente streghe, donne impazzire. Forse tutte cer­ cano la madre, quella madre che ama i maschi e non abbastanza le femmine, e quando sembra loro di averla trovata ci scaricano sopra il loro amore-odio. Io cercavo sorelle, non volevo condizionare nessu­ na, però Sara stessa era troppo agl’inizi per accettarmi. Ha preteso di distruggermi prima di farlo, ma cosa crede di trovare dopo? Oppure spera che non resti più niente di me? Le donne si distruggono tra loro, si tolgono forza, si accusano, si rivelano nemiche. La più sprov­ veduta vuole la parità, ma l’altra cosa deve fare, come può convin­ cerla che la parità è autenticità e basta? Se una si inferiorizza diventa un potenziale distruttivo, un bulldozer che schiaccia chi era riuscita a superare gli ostacoli del mondo maschile e, ormai approdata al fem­ minismo, aveva abbandonato le auto-protezioni. Lì cade nell’ultima, imprevista trincea. 19 apr. Simone dice “Negli altri gruppi non c’è una che si sia of­ ferta come capro espiatorio, cosicché le altre potevano mangiare di lei. Anche adesso le tue amiche sanno che, se non sei sulla tavola, sei in dispensa”. Che stupida la chiesa cattolica. Esorta “Meditiamo su Cristo. Viviamo secondo Cristo”. Non si capisce niente così! Ti serve Cristo per riconoscere qualcosa che succede nella vita e dentro dite, allora “scopri” Cristo in te. Non ho ancora afferrato bene cosa significa che lui assume su di sé tutti i peccati dell’umanità. Capro espiatorio è colui che si è preso il massimo di responsabilità, e questo

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gli viene fatto pagare. Cristo ogni tanto sta con le persone, ogni tanto si ritira da solo. Predica per tre anni. Cara Valeria... mi meraviglio come posso resistere senza scalpitare o disperarmi: anch’io sono senza allegria e mi pare un po’ irrimediabile visto che, per quanto ricordo, l’allegria si associava a quel lato così piacevole e attraente dell’aliena­ zione. Oppure per allegria si intende uno stato d’animo che non esiste. Parlando poco fa con Simone gli chiedevo “Vero che non sono più allegra?” (dove posso cerco conferme) e con spavento ho intravisto quello che posso incontrare al suo posto, lo stato monacale delfallegria, la letizia. Con una parola trionfante, “libe­ razione”, proprio come dei selvaggi siamo andate incontro alle cannonate cre­ dendo di andare alla festa delfimmortalità. Tu sei giovane e fai bene ad andare dallo psicanalista, ad allungare la strada. Lo dico senza ironia perché io, bene o male, sono riuscita a ritardare fino all’anno scorso. Però poi ho sentito che non potevo aspettare un minuto di più. Falso un po’ dicendoti le cose così, non trovi? Adesso entro in un senso della vita gratuito, che nessuno mi ha richiesto, che non viene gratificato perché non modifica di una virgola quello che sono. Mi viene da maledire la smania di liberazione che mi sono portata dietro. Però non c’è che da lasciare avvicinarsi le fasi seguenti, ormai la sorpresa (per la mia dabbenaggine) è il thrilling di tutta la faccenda.

Sara è da Nicola: le ha chiesto di affittarle una camera per un mese fino al referendum. Naturalmente Nicola la ospiterà semplicemente. Sara va dalle amiche non per loro stesse, ma per quello che in quel momento le offrono come soluzione dei suoi problemi. Prima ero a disagio con lei perché, pensavo, io non so chiedere, ora mi sento alla pari perché lei non sa fare altro che chiedere. Nicola vuole sapere da Sara “Perché hai questo antagonismo proprio con Carla che ti ha permesso di scoprire te stessa? E di fare Punica cosa della tua vita, quel libro?”. Infatti non c’è ragione. Secondo me Sara adesso rinne­ ga il libro per rinnegare me, il rapporto con me, con Rivolta. Vuole togliermi quello che mi ha dato, il senso che le mie premesse avessero uno svolgimento. E diabolica. Vuole schiacciarmi, annullarmi. Cos’ha in corpo quella ragazza: perché mi odia tanto? Era insazia­ bile di me. Persino le mie poesie, che non le erano piaciute, le ha fatte fotocopiare. Mi chiedeva di tutto, opinioni, consigli, dettagli, racconti, esami, analisi, vita culturale, tutto. Mi avrebbe insospetti­ to se l’avessi vista passiva; era attiva invece, e io mi rassicuravo. La

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sua attività era il lavorio contro di me. L’ho incoraggiata a scrivere, a fare poesie, ho interpretato, commentato. Io aspettavo che si occupas­ se di me come io mi occupavo di lei. Eppure sapevo per esperienza che quando una prevale, con tutte le buone ragioni, non torna indie­ tro: quando qualcosa manca in un rapporto non si raggiunge mai. Lutto deve esserci già. Ma la parità in atto dove, con chi la trovavo? Ho detto a Nicola che, senza Ester, forse non avrei fatto il femminismo in quella maniera. Non è mio al cento per cento, però è mio, è venuto fuori da qualche potenzialità che avevo e che l’appoggio e la fiducia di Ester, eccessivi entrambi, hanno fatto sbocciare e magari dilatato. Come un gesto fatto dopo avere bevuto un bicchiere di vino, ecco, un po’ plateale. Ma io avevo scelto Ester perché avevo bisogno di tirare fuori questa mia potenzialità. 20 apr. Sara è stata un’amica “teorica”, con cui non ho intrapreso niente fuori dai confini del femminismo-convento: non avevamo gusti in comune, non mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con lei. Per quello che era il nostro rapporto bastavano due sedie in un angolo qualun­ que. Nicola mi ha detto “Sara non riesce a vederti dei limiti, eppure non so, potrebbe vedere come limite che ti ritiri in campagna”. Mi ha colpito il suo candore. Le volevo ribattere “Che sto aggrappata a un uomo altrimenti impazzisco, come Virginia W.”. Ho sempre supposto che qualche amico comune possa avere detto a Sara che è stata plagiata da me, plagiandola così a pensarlo. E sempre stato un suo problema, però nella forma esasperata che l’ha portata a rifiutare il libro le è venuto dal mondo maschile. Com’era bello quando ero superficiale incosciente cieca e ridente. Com’era bello il mondo quando non sapevo cos’era e prendendo una tigre per un gattone gli davo calci e tirate d’orecchi dicendogli “Brutto mostro ti faccio vedere io se non cambi”.

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Rileggendo i miei scritd passati trovo frasi significative, anticipazioni su quello che poi sarebbe diventato cosciente e mi sembra la prima volta che l’ho pensato, invece è per lo meno la... centesima. Per esempio, dalle lettere a Simone: 10 feb. ’64. lo provo molto l’esigenza di riscattare la condizione di vittima di mia madre tenendo ferma, in qualche modo, la validità della sua resistenza passiva e del suo esempio non autoritario. 17 feb. ’64. Dopo le demitizzazioni, la scoperta di sé, del proprio essere, dei propri gesti, è stata la cosa più importante. 20 feb. ’64. Ti mando una quindicina di mie poesie dal ’58 a oggi. Le considero... 25 feb. ’64. Supponevo che le mie poesie ti avrebbero un po’ infastidito, ma pen­ savo che era il momento che tu sapessi in che modo avevo svolto un lavoro, che tipo di snodature mi portavo dentro, e da dove vengo. Spero solo che non ti ab­ biano dato un senso di incompatibilità, ma era anche una cosa da rischiare... Simone, spero che mi vuoi bene. Spero che mi capisci, che mi accetti. Spero che ri entusiasmi volermi bene. Per me scrivere quelle poesie è stato come venire al mondo lentamente da una situazione d’origine in cui ero come istupidita da conflitti emotivi infantili. Vanno lette così. 27 feb. ’64. Volevo scriverti un racconto un po’ a parabola: di un paese mite e vicino al mare. Delle coltivazioni che gli abitanti vi facevano. E di come tutto fosse sottoposto al pericolo di frane. Come gli abitanti avevano conciliato nella loro esperienza il paradiso terrestre e le frane. Mi veniva in mente che io sono fatta un po’ così: con una sensazione luminosa della vita e improvvise perdite. Sarà che vivo solo il mondo degli affetti e delle relazioni dove niente è stabile e confortevole, differenziato, preciso, esclusivo, ma tutto ruota impercettibilmente nel tempo. Per una disposizione certo acquisita, ma che ormai considero come innata, pen­ so sempre che sono responsabile, che ho mancato il gesto preciso, e questa è la sofferenza maggiore. 5 apr. ’64. Mi viene da pensare che a volte la propria vita ristagna perché manca un incontro, una persona adatta.

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23 apr. ’64. lo vengo dalla paura, non del buio o dei fantasmi, ma di tutte le torture che regolano i meccanismi degli alfetti e desidero solo trovare un grande abbando­ no senza difese. Ti mando la presentazione per Ester: anche qui, seppure breve e curata, ho avuto la stessa sensazione di vacuità. Penso che questa critica d’arte comincia a stancarmi veramente e non mi basta più. 16 mag. ’64. In ogni momento posso fare ricorso a te, mi spoglio continuamente da­ vanti a te, è la cosa migliore, la tappa finale di tanti avvenimenti, mi merito tutto questo. 19 nov. ’64. Ho deciso di non scrivere più di critica cl’aite e mi sento una specie di liberazione dentro. Le mie energie di scoperta vorrei svincolarle da questa attività. Ti penso sempre, ma forse si pensa sempre a tutto. 27 gcn. ’65. Io ero lì, facilmente credula e aperta ai miracoli. Cara Valeria, anch’io ogni tanto pensavo allo psicanalista in passato, ogni tanto arrivava questo sogno. Non ne ho fatto niente, sia perché costava troppo, sia perché, alla fin fine non mi andava di mettere la cosa così. Forse ti accorgi che questo parlare fra donne o rimuginare fra te non ti porta oltre lo stadio dove sei; e vuoi parlare, comunicare con un uomo. Mi sembra logico, opportuno. A parte che gli errori trovati da sé sono più utili delle cose giuste suggerite da altri.

21 apr. Continuo a leggere le mie vecchie lettere a Simone: un puz­ zle si completa e quasi posso vedermi da fuori, con la mia aria sag­ gia (sempre un po’ più di quello che sono), ragionante, autonoma. Il femminismo è stato una specie di accecamento nella mia precedente presa di coscienza. Mi piace impazzire ogni tanto, cambiare registro dare di matto. Non posso sopportare sempre la mia capacità di capi­ re, la mia ragionevolezza. Sono sempre stata così “A quattordici anni era, bello / pilotarsi a quel parossismo / di sdegno che ferma il fiato / sbattere la porta sui nemici / e vibrando scarabocchiare / pazzie fi­ nalmente legittime / su un diario di noiose correttezze”. Sono molto corretta, è vero. Sempre nella lettera del 17 feb. trovo: Si tratta di inventare momento per momento i modi di stare insieme, di comu­ nicare, non più in funzione di un idillio o di un accordo, ma dclfentusiasmo che viene intrecciando e modificando reciprocamente i destini individuali.

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Sapevo, capivo, ma è come un’enunciazione, non riuscivo a viverlo, non avevo rispondenza, lo proponevo agli altri quasi a forza, convin­ cendoli. Nella prima lettera a Simone del die. ’63 dicevo: Credi proprio che mi adatterò in te, nelle tue sculture e disegni senza recare di­ sturbo? Hai qualcosa dentro che vorrei vedere andare in frantumi e, comunque, mi ci adoprerò.

E un mese dopo: Temo che ti affidi alle tue doti di saltimbanco, ma ora è diverso e non potrebbe­ ro giovarti. Mentre ho il senso di tue risorse di altro genere, non saprei definirle, ma risiedono in un tuo strato di calma.

22 apr. Sono a Milano. Trovo nella posta un libro su un musicista d’avanguardia, amico di gioventù, Musica Madre. Nell’introduzione il critico parla di processo antihegeliano, di pratica di liberazione, del Padre, del figlio ecc. insomma tutto un pizzicamento dal femminismo (che non viene mai nominato). Anche il musicista è dentro in quanto tira in ballo la Madre, e poi afferma che la musica è suonarla, non “riceverla” (“Non credere più a una liberazione di riflesso fa uscire la creatività dai rapporti patriarcali”, avevo scritto tre anni fa in Assenza della donna. Dunque?). La cosa tremenda è che tutto diventa una tema­ tica, così si passa la parola d’ordine. Le verità diventano insopportabi­ li. Adesso sono convinta che non devo partecipare al catalogo di Gallizio, non voglio iniziare delle mode nel fare il critico cosciente di sé. 23 apr. Mi colpisce che le proposte degli altri siano così scontate, che le prese di coscienza degli artisti siano così povere, tirate per i capelli, dei pensierini striminziti. Mi rendo conto che, siccome la cultura esi­ stente è quella maschile, succede che quello che noi scopriamo fuori va a finire che l’uomo se lo piglia e lo mette, malamente, nella sua cultura. Siamo sempre state derubate così, magari senza accorger­ cene. E curioso sentire che gli altri trovano continui stimoli in te e tu non hai quasi più nessuno stimolo da loro. Mentre sei di fatto nessuno rispetto a loro. A volte ho nostalgia dell’attività, dell’eccitazione, però adesso vedo di cosa è fatta: di uno stato dispersivo, solleticabile, di un bisogno di

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attenzione speciale alla nostra specialità. Ancora non ho telefonato a nessuno perché ho un po’ timore di questo stacco tra la pace, l’esalta­ zione e i nervi dei rapporti. Cos’è la vita senza la trepidazione l’irruenza la paura il batticuore? Adesso mi risparmio la prendo calma vediamo se è meglio non lo so.

Stento a prendere l’avvio, le mie telefonate sono fiacche rispetto a quello che ho dentro per le amiche a cui telefono, però ci ho messo una pietra sopra. Un po’ è stanchezza, un po’ paura del “troppo”. Un profeta può essere sciocco ridicolo ignorante ma non ambizioso non ambizioso. Meditando incessantemente sulla parete liscia della mente accade che in un punto ceda e si spalanchi inghiottendo tempo spazio problemi e riveli la verità per un istante.

In Rivolta voglio pubblicare tutto di me, dai diari di quando ero pic­ cola, alle letterine, lettere, poesie, tutto quanto, un romanzo unico della mia vita. Simone ha detto “E un’idea bellissima”. 24 apr. Serata con Paula e Isa. Ho detto a Isa quello che avevo pen­ sato sulle sue poesie. Si chiedeva “Ma come fai a tirare fuori tante cose?”. Ho risposto “Mi immedesimo”. “Ma come fai a immedesi-

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malti in tutte le esperienze?” “Se sei cosciente ti accorgi che hai vis­ suto tutte le esperienze, o quasi.” “E vero.” In pizzeria: Paula è inter­ venuta “Io non conosco il litigio, ho terrore di litigare, mi si spalanca un abisso, conosco solo rapporti dove va tutto bene e rapporti dove va tutto male, non ho mai sperimentato l’articolazione fra me e gli altri”. Diceva di avere rifiutato la sorella più piccola, non ci ha mai parlato e la cosa continua tutt’ora. Mentre io ho sempre cercato di parlare con Lucia, sono corsa dietro alle sue sostitute. Sia a Paula che a me interessano solo i rapporti umani, però lei ha messo un veto che la rende “astratta”, come la definiva Isa. Io accetto di essere subordinata a quella che si è sentita subordinata a me, spero che tutto questo sfoci nella parità. Accetto di soffrire: Sara mi fa vivere il mio problema per­ ché ho fiducia in lei, invece Ester mi fa soffrire a vuoto, mi fa pagare per una conoscenza che non mi rende possibile. Paula pensa che la mia depressione derivi dal fatto che ho sempre vissuto con qualche spinta (l’arte, il femminismo) e adesso non ne ho, mentre lei, non avendone mai avute, non si sente depressa. Forse 10 avevo più illusioni e adesso mi sento più vuota; però mi pare che, anche se ne avessi avuta una sola, restarne priva mi deprimerebbe lo stesso. Tuttavia ho acquistato in mancanza di tensione, di spasimo a risolvere. Non mi sento più in lotta contro l’universo. Abbiamo anche parlato del fatto che il processo di conoscenza rende colpevoli, infatti Adamo ed Èva hanno perso la loro innocenza mangiando del frutto del bene e del male, così io, paragonandomi a Lucia, più sconoscente proprio perché più giovane, mi sentivo colpevole. In fondo anche Cri­ sto prendeva i fanciulli come termine di paragone di innocenza: io avrei voluto che chi consideravo innocente si riconoscesse in me. Ma questo non avveniva perché l’innocente, inferiorizzandosi di fronte a quelle realizzazioni di me in cui io temevo di avere sacrificato la mia autenticità, mi accusava di sentirsi sopraffatto da me. Io ave­ vo il mito dell’innocenza infantile, della mia innocenza perduta per 11 sopravvenire di una colpa oscura, originaria, ma reale. Crescere, prendere coscienza significa accorgersi che la vita ha qualcosa che fa paura, e ci si sente colpevoli di averlo scoperto, ci si chiede per­ ché, per quale trasgressione, senso di sé, sfida, prepotenza si è voluto aprire gli occhi sulla realtà. Uno non capisce qual è la molla che lo spinge: forse voleva diventare “simile a Dio”? Per questo le donne, i

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bambini rappresentano l’innocenza, perché sembra non nascondano in loro stessi la tentazione a trascendere il loro stato di fiduciosa ri­ cettività, di obbedienza alla natura. Sara aveva avuto nel vivere una calma a me ignota e vasto che da quella passava alla coscienza senza traumi, avevo identificato in tale processo (“la via fàcile”) un processo di conoscenza svincolato dai trompe l’oeil della colpevolezza (“la via difficile”), un processo limpido, evidente, immediato. Avevo sperato che lei riconoscesse in me un analogo candore, una volta che io avessi fatto ammenda del mio peccaminoso progetto e stato d’ansia e tra­ scendermi, additando in esso un’influenza del mondo maschile. Mi riconosco in tanti momenti di altri, accetto di fare parte dell’uma­ nità, di essere dentro: prima restavo uno spirito folletto che scherzava su questa appartenenza scegliendo in chi riconoscersi. 25 apr. Pomeriggio con Germana e Irma, di una delicatezza inim­ maginabile. Mi vengono dei resoconti da quando ci siamo viste, e sono stimolata a parlare di quella parte interiore senza età, senza sviluppi che ho in comune con loro. Il contatto con le più giovani mi suggerisce una forma di “astrazione” (non astrattezza) che mi corri­ sponde molto. Dopo avermi lasciato, è arrivata per cena una coppia amica di Simone ed è stato terribile il passaggio da una compren­ sione di stati molto sottili a una specie di conversazione corrente, di buon senso. Simone abboccava agli argomenti lasciandosi andare a qualche gigionismo. Mi è venuta una sensazione di squallore e di estraneità: ho lottato sempre con lui perché facilmente prendeva de­ gli atteggiamenti esteriori con gli altri che mi facevano sentire diver­ sa e mi riempivano di dubbi sul nostro rapporto. Stamani è tornato quello che è sempre più spesso da quando stiamo insieme, e ho capito che non c’è da allarmarsi: l’uomo si distrae facilmente da sé. Sara mi aveva detto tanto tempo fa che io avevo spinto Simone all’autenticità. E certo che io spingo, ma perché lui starebbe con me se non volesse essere spinto? Piera al telefono dice “Mi sono espressa con le fotografie quindi non c’entra mettermi anche a scrivere”. Se lei si sente espressa così... ma come è possibile? Forse è un modo per cominciare cautamente a ve­ nire fuori. Sono colpevole di avere sofferto; e perciò tardato. “Con tagliandi am­ massati a denti stretti / si fan provviste di merci utilitarie / non avrai la

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lozione evanescente / delPimmunità che rende un miraggio / a occhi sfavillanti ridere e ridere...” Mi chiama Sara da Roma per chiedermi un piacere e mi dice “Ho voglia di vederti”. Non so fingere “Era ora”. Adesso mi chiedo se sono contenta di rivedere Sara, forse è ancora troppo presto, comunque si è fatta viva in tempo quando avevo già deciso per conto mio di aspettare con fiducia il suo ritorno e di non sottrarmi a questo stato di subordinazione ai suoi tempi. Ho telefonato a Lucia: ha letto alcune poesie, se le ricordava quasi a memoria, non sa perché, forse perché 1’avevano colpita molto. Le sembra che dovrebbe vedere delle “varianti” per capirle meglio, non avverte il gusto per faccostamento delle parole, ma sente che ven­ gono fuori da un procedimento tutto interiore. Non mi è chiaro se, secondo lei, questo è un pregio o un difetto. Per la prima volta ho sentito la diversità di Paula, l’ho vista su una sua strada, ho capito le sue fatiche, ho captato la sua indole, ho rispettato le sue pause. Ha scritto una favola per un libro di favole: di una bam­ bina che vede uno strano bellissimo cavaliere con armatura, lui non l’ascolta perché è occupato a uccidere il drago, poi la bambina scopre che ci sono tanti cavalieri. Ho intuito che si abbandona a se stessa. Le ho raccontato i miei dilemmi a proposito del pezzo di testimonianza su Gallizio e mi venivano fuori trascorsi più o meno gratificanti nel mondo maschile, da cui ho tratto fiducia. Vedendo una foto di Marianne Moore a 65 anni: non vorrei essere riconosciuta troppo tardi. 29 apr. Mi è venuto in mente che Ester, dopo sposata, aveva scritto una lettera alla madre molto dura. Lo spiegava col fatto che il marito le aveva inculcato il disprezzo per la famiglia da cui proveniva per poterle meglio inculcare il mito della nuova famiglia e della nuova cultura. Però è una coincidenza curiosa che adesso Ester, appena tro­ vato un partner, invece di essere attenta al nostro rapporto in crisi, è diventata a un tratto insofferente e sprezzante. Parlando insieme al ristorante cinese, Piera ha ammesso di avere alla base il bisogno affettivo - che le ha suggerito, per esempio, l’uso del­ la macchina fotografica per cogliere persone e cose care - ha detto che è il suo punto di debolezza e anche di forza. Così ha ammesso poco. E una persona delicata, molto chiusa, rivela quasi niente di sé,

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però irradia qualcosa attorno, una naturalezza da adolescente e un calore pacato. Isa mi ha dato il suo diario da leggere con semplicità nascondendo un po’ di batticuore. Una bella sorpresa e anche una lezione per me. Subito ho capito perché sono diventata così presto intima di Sara e come mai il nostro rapporto ha prevalso su tutti gli altri: la cono­ scenza che dà il diario crea un legame da cui non puoi più tornare indietro: al confronto gli altri rapporti sono quasi tra estranei. 30 apr. Parlo a delle bambine di una scuola a proposito dell’impostazione generale. Dico cose molto semplici ma, mettendomi quasi le mani nei capelli, le ammonisco di non trascurare niente, di non essere sicure di niente “Magari anche l’eternità esiste”. Dovendo scegliersi un vestito una bambina accetta il suggerimento di un’altra sorvegliante e io noto un modello all’americana, pe­ sante, borghese, con colletto, taschina, bottoni... Faccio voli perché venga bene cambiando stoffa e colore. Me ne vado. Passo attraverso un capannone nero come un antro dove sembra ci sia un fabbro, non alzo gli occhi, e un tale abba­ stanza bruto all’aspetto mi fa rispettosamente largo. Scendo in strada. Vedo dei vestitini colorati, trasparenti, bucherellati appesi fuori di un negozio. Quelli mi piacciono. Prendo una carrozzella. Provo un senso di intimità come dopo un episodio di voyerismo in­ fantile, è sempre il diario di Isa ad avermelo lasciato. Mi sembra di conoscerla per la prima volta, ha l’intelligenza collegata alla sua mor­ bosità affettiva, scrive bene, con piglio. Non immaginavo che pian­ gesse tanto: non ci s’immagina mai abbastanza la sofferenza degli altri, quella sofferenza che fa perdere la faccia davanti a se stessi men­ tre da fuori si continua a vedere sempre pressappoco la stessa faccia. Nicola mi dice che Sara non riconosce come suoi i momenti teorici del suo libro. A quell’epoca tutte eravamo implicate più o meno nelle teorie. Mi è venuto questo paragone: se sei sola costruisci una fortezza per difendere te e quelle che vorranno essere difese. Non sai chi, perché costruisci da sola. Non solo ti difendi dai nemici, ma consideri di comu­ nicare tante cose alle possibili amiche attraverso l’edificio. Dopo, quan­ do c’è la fortezza, qualcuna arriva e, piena di fiducia, getta dei ponti. Ma anche la fortezza li aveva in serbo e così altri ponti di qua vengono gettati. Si può uscire e camminare sui ponti. Una volta preso coraggio attraverso la conoscenza reciproca si può allontanarsi dalla fortezza.

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Il diario, la presa di coscienza rende tutti uguali. Tutti fragili, tutti ugualmente intelligenti e stupidi, ingannati, ingannabili, umiliati dalla scoperta del trave nel proprio occhio. Nessuno sfugge a questo. Nel diario Hegel e io siamo uguali. Anche Cristo che, sudando sangue dice “L’anima mia è triste fino alla morte” e soffre perché gli amici dormo­ no lasciandolo solo nell’imminenza del martirio, è uno come me. Ho avuto la rottura con chi aveva un problema aperto con la madre: Ester, Anita, Sara. Però io non sono la madre, sono una sorella mag­ giore. Provo struggimento, immedesimazione nel dolore di Freud che per due volte è svenuto in presenza di Jung (e io mi scioglievo in lacri­ me davanti a Sara in un modo che era quasi uno svenimento). Quindi la teoria del parricidio originario era un contenuto del suo inconscio che si rivelava, come la mia teoria del dramma tra i due tipi di don­ ne lo era del mio. Mi colpisce nel filmino girato mentre piango quel senso di catastrofe ancora senza un perché: un’altra reclamava che rinunciassi a me per lei, questo era il succo di tutto, ma non vedevo la fine di questa operazione se non con il mio annullamento. Ho parlato con Sara al telefono. E semplice parlare con lei: la fatica, la frustrazione sono a monte e influenzano il mio atteggiamento at­ tuale nel senso che non ho molta spinta a incontrarla, rimando. Oggi mi diceva che vive senza difese, così è molto influenzabile, poi deve stare sola per ritrovare se stessa. Non ha incontrato uomini più intelli­ genti di lei, ha provato molte emozioni con loro, ma poca profondità. Le ho detto che il rapporto tra solitudine e incontri nella mia vita è un po’ come quello tra l’acqua e la terra sul pianeta: anche se non ce ne accorgiamo è quasi tutta acqua. Il disagio che provo con Sara forse è basato sul fatto che non distinguo più il passaggio prevedibile da quello imprevedibile: totalmente a ruota libera mi diventa scontata. Finché suppongo almeno dei risultati imprevedibili rimane lo stimolo della conoscenza, ma quando anche questi sono garantiti allora è come una partita a scacchi: di tutto il senso della mia partecipazione alla vita faccio leva solo sull’interesse per il gioco. Se togli la sofferen­ za la vita è un qualcosa di assolutamente banale, anche se gratuito e apparentemente sorprendente. Con Simone ho perso il contatto da quando se ne è andato a Milano e ancora non l’ho ritrovato. Manteniamo una certa calma, specialmente io che prima davo in escandescenze, adesso accetto questi vuo­ ti. La vita in comune è un qualcosa che non immaginavo neppure che

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cosa fosse e per la quale non ero minimamente preparata. Se lui non mi è presente e non fa nulla per esserlo, la sua presenza fisica non me lo richiama minimamente. 1 mag. Sono in un giorno di festa dove può succedere qualsiasi cosa. Mi tele­ fona uno - certo Lavagna o Montagna - che vuole stare a cena con me, mi ha conosciuta e ne ha un ricordo delizioso. Per me è uno sconosciuto, tuttavia mi preparo per la cena. Lo immagino un sempliciotto galante. Un’amica mi dice che Lavagna (o Montagna) ha apprezzato molto i miei capelli, anche bianchi erano bellissimi. Adesso invece sono sporchi, con forfora, cerco di pettinarli un po’ bene, ma non riesco molto. Ecco che arriva uno con camicia bianca: ahimè, è lui Lavagna (o Montagna)? Del tutto anonimo. Alle sue spalle c’è altra gente, gentuccia a quanto vedo, donnine tipo impiegate e uomini in camicia bianca. Con Federica siamo andate da Babyngton’s e lì, come in una pièce elisabettiana, è avvenuto il riconoscimento: anche lei è una sorella maggiore. Abbiamo tante di quelle cose in comune che mi meraviglio come non ce ne siamo accorte subito. Sara mi ha detto di avere riversato su di me il problema con sua madre da cui non si sente accettata. La madre è rimasta male che Sara abbia reso pubbliche tante cose su di lei. “Neanche in cinese” se lo sarebbe dovuto permettere. Sara non si chiede se ha il diritto di ignorare i desideri di sua madre, e quale sarebbe stata la propria reazione al suo posto. Così di me dice che non si sentiva accettata se io non accettavo le sue confutazioni. Ma appunto come potevo accet­ tare chi mi confutava, cioè non mi accettava. Sara desidera una per­ sona alla mercé per sentirsi alla pari, che la prenda per come è, con tutte le pretese sull’altra che si porta dietro. Cioè una madre, una che le dà senza chiedere niente per sé. Federica in proposito aveva visto giusto “Sara è di un egoismo tale che diventa crudeltà”. Ho chiesto a Sara come giudica oggi il suo libro, mi ha risposto che non lo sa bene. Dopo che sua madre ha avuto quella crisi “quasi tragica” la sua reazione è stata di rifiutare il libro. Non vede la sua responsabilità negli avvenimenti, o comunque solo dopo avere trovato una vera o presunta responsabilità degli altri. Per questo può accusare o criticare se stessa in continuazione, perché intanto ha escogitato ben bene il modo perché gli altri restino continuamente nella rete. Questo della reciprocità programmatica per Sara diventa un po’ un espediente

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per non arrivare mai veramente a “vedersi” in rapporto a me: vede sempre me in rapporto a sé. E “reciprocamente”. Simone ha telefonato a Ester perché non gli va di essere sempre quello “che subisce in silenzio”. Il subire riguarda il fatto che Ester fa una mostra di lenzuola. Appena un anno fa gli aveva chiesto il permesso di dipingere delle lenzuola per Nicola, e lui aveva accettato “Per Nicola”. Simone era molto dispiaciuto, mi accusa blandamente di avere portato Ester con tale fiducia per casa e anzi di averla sti­ molata a fregarsene di lui. Dice “Ecco il risultato del femminismo su di me: ho smesso di essere vigilante e aggressivo, e sono stato dan­ neggiato sul lavoro, su qualcosa di cui sono geloso”. Aggiunge “Mi addolora anche di avere telefonato a Ester, di averle dato questa pre­ occupazione”. Lei al telefono ha ribattuto di avere avuto il problema se era lecita o no questa appropriazione, adesso l’ha risolto. Peccato che nella presentazione il critico non abbia messo proprio il nome di Simone tra i tanti artisti che ha citato, ma ormai che farci? I ca­ taloghi sono stati spediti. Quanto a lei l’ha detto a tutti in privato “Ha cominciato Simone, poi le lenzuola le abbiamo fatte insieme”. Immagino che la prima parte della frase l’avrà pronunciata molto a bassa voce. Adesso la conosco, si è smascherata da sola. Capisco la sua creatività su cosa si basa. Se stesse in Simone sono sicura che di lenzuola non ne farebbe più, ma adesso ha un contratto. Forse così il marito di Ester si sarà sentito sbriciolare il “segno” tra le mani dopo che lei ne ha fatto l’uso che ha voluto. Istintivamente, incon­ sciamente, senza coscienza, con mezza coscienza, con falsa coscien­ za. L’equivoco in cui ero caduta quando la sostenevo a spada tratta è mostruoso, mi fa orrore. Devo trovare uno sbocco ai miei rapporti con Sara, vorrei sapere cosa mi aspetto, ma non lo so: forse una riconciliazione affettuosa, un qual­ cosa che vada oltre la materia del contendere, di tutto ciò che argomen­ tiamo di qua e di là: un abbraccio, uno slancio, un sorriso senza riserve. Abbiamo ripreso le ultime conversazioni con una caduta di qualità: mi esprimo senza una vera convinzione, riprendo stancamente vecchi temi, giustificazioni quasi per inerzia. Fuori dell’impulso fiducioso a es­ sere capita e amata non so che dire, né mi interessa molto ascoltare. Piera al telefono mi ha detto di avere ripreso una bobina di due-tre anni fa al gruppo di Genova “Si sentiva la tua voce sommessa conti­

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nuamente sopraffatta da quella di Ester”. Allora perché corre a Roma a farle le foto dell’inaugurazione? Però è vero che uno accusa il col­ po se è stato colpito personalmente. Allora, alfimprowiso, viene la nausea. Vorrei scrivere e scrivere e arrivare al fondo di questa pena. 2 mag. A tratti mi sembra di essere così difesa. Possibile? Simone stamani mi accusava di averlo “regalato” a Sara. “Fra voi c’era­ no dei messaggi di cui non eravate coscienti: che lei lasciasse il marito e tu lasciassi me. Poi Sara si è sentita ingannata, tu non mi hai lasciato.” Invece io sono prigioniera della coppia perfetta che siamo con gli al­ tri. Simone sostiene che gii impedisco di litigare con me in pubblico; certo il battibecco non mi piace, essere redarguita lo trovo umiliante. Vorrei sentirmi libera di frequentare altri uomini, questo è il punto della libertà della coppia. In definitiva non saprei da dove cominciare, non so neppure se ne ho voglia, vorrei essere libera di farlo, ecco tutto. Forse la mancanza di sbocchi con gli uomini mi rende monotona e insistente nei problemi fra donne. Simone è stufo, dice che non devo sempre intervenire “categorica e autoritaria” con lui, devo prenderlo come è, lasciarlo almeno finire le sue frasi. Sostiene che durante il femminismo l’ho depresso in quello che gli premeva di più: il lavoro e l’amore. Gli ho risposto che, quanto all’amore, avevo solo preso co­ scienza di quello che facevamo insieme. Quanto al lavoro, non è mai stato felice come adesso. E convinto che io non accetti quello che gli altri pensano di me. “Non sei l’onnipotente.” Certo che non lo sono, adesso poi mi sento impotente del tutto. Quando perdo la sua com­ prensione è dura, rimango senza relax possibile, con i nervi così tesi e sensibili. Gli ho chiesto se la questione con Ester lo disturba, risponde “Più per il danno che ne può ricavare che per la cosa in sé. Mi dispia­ ce dovermi difendere da lei”. Quanto a Sara non si è aperta con me da tanto tempo e quasi solo negli scritti - ecco il senso di un disagio sempre latente stando in­ sieme - perché io devo aprirmi con lei? Non è stata forse lei a non volermi più vedere prima di Natale, a decidere come regolare i nostri incontri, a farmi sapere tutto indirettamente attraverso le altre: che si sentiva plagiata, che se ne andava da Rivolta, che il libro non era suo ecc.? Non uscirò mai da questo ruolo di testa di turco, di persona a cui si può fare tutto, della cui forza si dubita nello stesso tempo in cui ci si fa assegnamento per giustificare i propri attacchi.

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Se mi espando l’altra si inferiorizza e subisce. Per lei espandersi è inferiorizzarmi farmi subire.

Al telefono mia madre, credendo che fossi alla stazione di Firenze, mi imitava subito a mangiare, poi mi chiedeva quando mi sarei fatta Ava con lei. Non è mai stata così esplicita. La sorella maggiore cede tutto quello che ha alla più piccola come gesto propiziatorio di affetto e come espiazione per la cattiva accoglienza che le ha riservato. Può succedere che la piccola prenda tutto e poi non conceda né f affetto, né la comprensione. Così alla solitudine, alla delusione segue la beffa dell'impoverimento. In un intervallo del pomeriggio con Sara: Desideri la bambola l’amore il conforto. Li avrai dopo molto molto tempo quando non ricorderai neppure più di averli desiderati. Il desiderio non si realizza.

Che stupida a chiedermi cosa avrei dovuto dire a Sara: parlare di noi, semplicemente, come una volta! Chissà perché soffro tanto se sono sospettata! In solitudine mi faccio un quadro così disperante, desola­ to! Adesso avverto la “montatura” che avviene dentro di me, fino a ora mi sentivo “realistica” nella mia reazione. Prima che arrivasse Sara, mi ha telefonato Simone dicendomi “A vol­ te mi lamento che tu non mi appoggi e non ti interessi più all’arte, però sono così contento della vita che fai, appartata, vedo che è dif­ ficile per te, spero che ci riesci”. Così mi ha alleggerito le spalle dal portare anche il peso della sua insoddisfazione. Stasera colpo di scena: Sara non mi fa più paura, superiamo le nostre crisi, niente di catastrofico sta maturando contro di me, non è Lucia,

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e anche Lucia non è più quella di una volta. Posso vederla senza avere presenti sentimenti dall’infanzia. Avevo dimenticato le belle giornate insieme, avevo dimenticato come è facile capirsi, come scorre via il tempo quando parliamo di noi. Avevo deciso di non difendermi ed ecco, la riappacificazione è avvenuta senza neanche accorgercene. Provo di nuovo amore, visione, leggerezza, sono troppo stanca per dire di più. 3 mag. Mi sveglio su un giorno diverso: ho le membra sciolte, la camicia di forza è a terra insieme ai vestiti. Non la indosserò di nuo­ vo. Parlando stanotte Simone mi diceva che sono stata sfortunata ad avere questa nevrosi, questa sofferenza paralizzante così a lungo, così intensa. Che ho “perso” tanto tempo. Buon dio. Poi aggiunge che non ho ancora fatto delle “scoperte”. Avevo sonno e chiedevo “Quali scoperte?”. Mi sarei ribellata, un tempo; adesso accetto che qualcuno da fuori veda qualcosa di me che io non vedo. Qualcuno come Simo­ ne. Però mi ha confessato di essere stato per “scoppiare” quando gli ho parlato della serata con Sara e dell’onda di fiducia che ho provato. “Di gelosia?” “Sì, forse.” A Simone dà fastidio tutta la terminologia e la tematica familiare; sono solo simboli, non vanno presi alla lettera. Quando gii ho detto che avevo conservato la nostalgia dell’accordo con mio padre e che da grande inconsciamente avevo cercato la possibilità di ritrovarlo, Simone si è opposto decisamente “Non hai niente di ricattatorio, nes­ sun adescamento di bambina, è assurdo, sono schemi che ti impedi­ scono di vedere la tua realtà”. Lui è sempre insofferente di fronte a questi collegamenti, sebbene poi ammetta che avendo avuto una ma­ dre forte e autoritaria ha scelto e retto una donna che ha fatto quel­ lo che ha voluto come me. Forse posso abbandonare queste chiavi, chissà, comunque dicevo a Sara che se la spinta è quella di risolvere i punti emotivi dell’infanzia, riuscendo a viverli li abbandoni per la realtà che scopri. Volevo essere accettata, capita dalla sorella; volevo avere la predilezione di un uomo. Adesso nella realtà ci sono Simone e Sara con cui ho cancellato il senso di fallimento che mi derivava dal passato, e anche quel passato. Adesso ci sono loro: posso aprire relazioni tra esseri alla pari. Questo, ecco, vorrà intendere Simone. Sono così ricca, felice, vibrante, pulsante, disposta. Che bella la vita! Quanto sono stata fortunata a gustarla. In più tanto ho fatto che il

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mio presente ha riempito tutte le lacune: sono riuscita ad avanzare e raggiungere la realtà, e accorgermi di averla raggiunta e amarla. Non voglio guardare indietro, a tutte le fatiche, disperazioni, illusioni, rischi. Se faccio il bilancio può essere terribile; capisco anche Simone che, avendo assistito a questa continua lotta e affiorare di coscienza, sente un destino sfortunato, ma adesso che sono al miliardesimo atti­ mo, toccando questa polvere posso sentirne l’oro. Sono corsa all’appuntamento con Federica: volevo dirle “Sai come è stata preziosa la conversazione da Babyngton’s, questo dialogo di amarezza e di sconfitta tra sorelle maggiori, è stato un toccasana per me”. Invece l’ho trovata distante, angosciata e ho dovuto frenare la mia gioia e anche gratitudine. Ho contemplato l’esistenza della valle di lacrime dal punto in cui sono e che non posso comunicare, solo spartire con chi vi è presente con me. Riprendo lo stato di levitazione dell’anno scorso, quando i rapporti con Sara non avevano ancora su­ bito le crisi e la rottura. Allora avevo paura di qualche mutamento fra noi, avevo paura della sua sfiducia, e che ai miei occhi apparisse giu­ stificata. Avevo paura di essere spremuta e abbandonata, avevo paura della sua ostilità. Una volta demolite le difese, sarei stata distrutta dal senso di ingiustizia, tradimento, vergogna. Mi ero preclusa la via d’uscita all’aggressività verso di lei, e senza uno sbocco all’esterno il senso di impotenza che avrei provato mi avrebbe portato all’autodi­ struzione. Adesso che tutto ciò si è verificato, avverto l’allucinazione e al suo diradarsi ritrovo me stessa. 4 mag. Non solo volevo essere capita e amata, ma volevo capire e amare per liberarmi dallo spettro di non saperlo fare. Avevo un tabù verso la sorella, mi è venuto in mente stamani passeggiando per Roma: mi era stato posto l’interdetto a rifiutarla quando è nata, mi è stato comandato di andare d’accordo con lei. Una sorella (chi?) con la testa appoggiata sulla mia nuca in una specie di intrec­ cio (simile a quello di una coppia in un quadro di Munch) mi vomita sul collo. Avverto l’impressione di bagnato. Le chiedo “Sorella mia, che fai?”. Poi mi sem­ bra che anche Simone ci vomiti. Una festa di femministe in casa di Matilde, c’è anche Ester: la contraddico, ma spiegandogliene la ragione, lei mi guarda con compatimento misto a disprezzo.

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Sara vuole incidere di più che attraverso i libretti di Rivolta, mi chie­ do se ci riuscirà. Anch’io avrei voluto; adesso mi pare impossibile e quindi sono in pace. Bisogna vedere cosa mi succederebbe se la sua ipotesi si realizzasse. Simone mi addebita la repressione della sua aggressività e conse­ guente stato mentale di abbattimento. Però via via che parlava si ac­ corgeva di avere solo accettato una realtà meno gratificante di quella da giovane: gli altri ti trascurano, si parla sempre dei giovani, io stessa facevo questo con lui, ma perché “ero” giovane - però lo avevo aiu­ tato a tenere viva l’autenticità nei momenti difficili quando, abituato alla notorietà, ti arrampicheresti sugli specchi. Ho sempre parteggia­ to per il suo lato autentico, non è colpa mia se le prove a volte sono dure. “Certo, non puoi abbandonare l’aggressività se non abbandoni il mito delle imprese che l’aggressività ti assicura” gli ho detto. Dopo, a letto, si è conclusa la tensione dei discorsi in un’improvvisa pace e gli è venuta voglia di giocare: era come un bambino sognante che strusciava il viso su di me, mi baciava mentre io leggevo e, seppure mezzo sorridendo, non potevo dargli più retta di così. Freud dice che tre promesse non si possono mantenere: educare, go­ vernare, psicanalizzare. Una frase “L’inconscio è meno profondo che inaccessibile all’approfondimento cosciente” (Lacan) mi dà un po’ la chiave del mio fastidio della profondità. Cara Ester, ti aspettavo suH’autenticità del tuo lavoro. Avevo preso per autoco­ scienza la maniera con cui dicevi che gli uomini fanno sempre le cose in grande e tu volevi mostrare che sono piccole cose se ci si toglie la mania di grandezza, eternità ecc. Quando dicevi che facevi dei gesti non corrotti e ci meditavi sopra la sera. Adesso cade l’episodio delle lenzuola. Così, ai miei occhi, la tua creati­ vità (come la chiami paragonandola a quella raggiunta dall’uomo al cui livello e nelle cui migliori liste speri di potere stare) appare finalmente quello che è: un espandersi sulla garanzia posta da un altro. Questo dovevi analizzare, questa spregiudicatezza di fondo che tu puoi considerare legittima, ma che è un vizio, graziosa cleptomania di una donna che inganna le altre su come è stato facile e congeniale per lei essere pittrice.

Leggo Lacan disordinatamente, e ordinatamente per prendere appun­ ti. Non so cosa cerco, però trovo. Povera me quante ingenuità ho detto scritto e sottoscritto! Per non dire fatto! Ma quale altra strada avevo?

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Colazione con Sara. Meno bello dell’altro giorno, è anche normale scendere dopo avere toccato una punta. Ha ricominciato a parlare sempre lei, sempre di uomini. Il suo prendi-e-lascia in tutte le cose mi stimola, però io sono proprio sull’altro versante, quello della du­ rata e di un certo isolamento. La prima cosa che mi viene in mente ascoltandola è la fatica, fatica di fare e di stare. A tavola diceva “Sono molto dolce, poi posso sembrare dura, cattiva, ed esserlo”. Ieri Fe­ derica aveva affermato “Nessuno vuole essere cattivo”. Ancora Sara “Non intendo programmare, per esempio lavorare in vista del fatto che non avrò soldi”. Mi ha sorpreso che l’altra notte non abbia dor­ mito, o la sera con un amico abbia pianto: ha sempre la stessa faccia, l’aria tranquilla, tira sempre le conseguenze a favore. Anche quando pronuncia “Va male” c’è una certa aria decisa, quasi di sfida, che esprime “Va bene”. Ancora “Non mi interessa quello che gli altri pensano di me, faccio quello che voglio, sto al di sopra, magari non è sempre facile, però questa è la libertà”. Oppure è perché fa sempre tante dichiarazioni in contrasto con il suo atteggiamento indifeso che risulta aggressiva. Io vorrei parlare di noi, di quello che mi occupa in questi giorni: non c’è modo, fa la pausa di un secondo e cambia argomento. Mi ha chiesto se conoscevo il tale e cosa ne pensavo. Se vuole essere autonoma è meglio che non mi chieda di questi pareri. 7 mag. Mi sento quasi allegra, è bello restare sola alle 8,30, in silen­ zio con le prime sensazioni. Mi è venuto un desiderio: scrivere per una giornata tutto quello che mi viene in mente, diciamo come ten­ tazione e voce del male. Come dire al demonio “Prendimi in prestito per un giorno”: un giorno all’inferno. Su Lacan ho trovato che accettarsi come donna è accettare di essere l’oggetto del piacere sessuale dell’uomo. Le sante invece sono quel­ le che accettano di essere l’oggetto del piacere duino. Parlando con Sara intuisco che lei l’ha accettato; quanto a me non posso saperlo, con Simone ho accettato la relazione, l’intreccio dei destini. Sara ha sentito la forza della seduzione maschile, questo approfittare imme­ diatamente della situazione favorevole, dell’indecisione dell’altra ri­ guardo ai suoi desideri. Lei si identifica molto nei giovani, per un suo stretto legame con i fratelli, mentre io non li considero, credo. Il giovane a me pare uno con cui non vale la pena mettersi. Finirà per essere un uomo davvero, dopo. E lì che lo aspetto.

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Arriva una lettera di Ester a Simone: o è un po’ fuori di sé oppure semplicemente scopre le sue carte. Scrive tra l’altro “Ho usato questo mezzo di espressione (le lenzuola) dopo un altro artista e le nostre esperienze comuni. Spero di vederti alla mostra e ti abbraccio”. Crede davvero alla sua magia di trasformare con le parole la realtà? Lei fa a Simone un’aifermazione che dovrebbe convincerlo che le cose sono andate diversamente da come lui sa che sono andate per averle vissu­ te. Adesso capisco come Ester procede: nel bisogno di manipolare a suo favore i dati della realtà via via si disfa di quello che rappresenta per lei un ostacolo a questa manipolazione - i testimoni incomodi, ad esempio - e forte di nuovi appoggi che si procura a questo scopo, ricostruisce appunto una realtà manipolata in ogni ordine di dati, la sottopone ai nuovi testimoni che la avallano. Allora Ester si identifica nella nuova realtà inventata a suo uso e consumo al punto da contrap­ porla come vera al vero testimone o parte in causa. Ora Ester ha fatto i lenzuoli dopo avere visto quelli di Simone realizzati e appesi a casa mia. Che lei ammetta di derivare da un altro è un dépistage, come dire “Non nego di derivare da qualcuno, ma non da te”. Infatti la de­ rivazione dall’altro appare del tutto innocua: le sue lenzuola non sono dipinte, ma oggetti tali e quali ricamati e firmati, mentre quelle di Simone sono adoprate come supporto per dipingere, nello stesso modo in cui poi le ha adoprate Ester, una stoffa di misura standard, orlata, che si compra in qualsiasi negozio. Ora Ester, intanto le chiama “mez­ zo espressivo” quindi è convinta di avere messo le mani proprio su un segreto di Stato, poi trascina Simone con sé a derivare dall’altro e in­ fine, come niente tosse, butta lì “le nostre esperienze comuni”. Quale migliore prova che lei e Simone hanno cominciato insieme? Infatti neanche per ombra appare nella lettera l’unico dato che avrebbe resti­ tuito onestà a tutta la faccenda: che lei ha visto i lenzuoli in casa mia a Milano, dipinti da Simone e appesi al muro. Cosa intende quindi con “esperienze comuni”? La vaghezza in cui tiene i fatti deriva dalla sua volontà di non vederli, finché giunge alla convinzione che “nessuno ha visto”. Così è padrona di dire il falso, e a testa alta come piace a lei, con la sicurezza, almeno inconscia, di avere creato una situazione abbastanza scabrosa perché Simone desista, ormai disposto a accetta­ re il male minore. Ora, a parte che le cose sono andate proprio così, quindi libera di derivare da un altro, ma derivando certamente da Simone, l’insinuazione che anche lui derivi da quello, cade.

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Infatti, nella nostra casa di Minneapolis, nel ’67, Simone aveva ap­ peso delle lenzuola con sopra collages di stoffa nello stesso spirito di volere togliere alla parete la sua rigidezza e astratto biancore. Un limite più soffice, ecco forigine del lenzuolo appeso, in appartamenti grandi senza mobili, senza arredi. Ecco perché ho detto che Ester è fuori di sé, perché il suo processo avviene in una specie di aberrazione mentale che si ammanta all’esterno di un certo scrupolo. Il fatto è che appena Ester è riuscita a architettare le cose in modo che la sua ver­ sione prenda il posto della realtà, è una persona cordiale, che invita alla mostra e abbraccia. Altri motivi per cui Ester ha scelto di derivare da un altro: perché non deriva da lui; perché sarebbe una derivazione lecita, cioè dopo che quello ha esposto le sue lenzuola in varie mostre; perché con lui non ha la vecchia rivalità che ha con Simone; perché è un giovane e a questo punto diventa un merito sapersi agganciare a esperienze più nuove, un ringiovanimento. Ho sognato un’autenticità non paralizzante ho sognato di sciogliere il veto alla mia autenticità. Lei non vuole non può non arriva non risponde.

Ho comprato i Canti del Leopardi in un’edicola di via Barberini. Vo­ levo chiedere un’informazione e ho fatto l’acquisto. Da lì a casa li ho letti camminando, e in quei pochi minuti Leopardi mi si è rivelato. Sono rimasta senza fiammiferi in cucina. Mi si è creato un problema. Poi ho trovato dei fiammiferi nello scrittoio. Se è vero che gli angeli hanno portato la casa di Maria a Loreto, hanno portato - caso e sal­ vezza - anche quei fiammiferi nello scrittoio. A colazione Nicola mi meraviglia dicendomi che vorrebbe un altro figlio tanto è contenta di questi. Ha un’espressione diversa da prima, non è rigida, mi sorride con dolcezza e un po’ interrogativa, avrei vo­ luto che stesse di più, invece appena un’ora. E presa dai figli, adesso lo dice chiaramente, non mi dispiace. Le ho manifestato i miei dubbi sul fatto che il femminismo, l’autocoscienza nei gruppi abbiano potu­ to nuocere a tipi più fragili e che si reggevano su autoinganni e miti

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vari. Federica l’altra sera mi ha parlato del suicidio esaltandolo come un gesto di libertà; ho avvertito un che di costruito in questo, gliel’ho fatto presente cercandone il perché. Dopo mi sembrava smontata, ha preso un’aria più circospetta. Le ho anche detto che la conversazio­ ne da Babyngton’s era stata importante per me. Non ho afferrato la sua reazione, il mio riconoscimento certo l’aveva gratificata, chissà se era il momento giusto. Però poi mi ha confidato che Sara non aveva voluto vedermi per essere sicura di non venire a Roma per me, mentre lei era venuta proprio per me. Dove sarebbe dovuta andare: dove non conosce nessuno? Anche Sara si era mostrata convinta. Da Babyngton’s mi ero accorta che la maggiore è costretta a farsi un’idea di sé molto elevata che la compensi di ciò che perde, può compiacer­ si di sé, che lei è brava, ce la farà, sarà di esempio, di aiuto. Quando ti accorgi che non sei forte come credeva, oppure temi di non esserlo o di non apparirlo più agii altri, provi una vergogna immensa e vuoi sparire. D’altra parte suicidarsi diventa anche un gesto attraverso cui dimostrare in extremis che eri forte e al di sopra di chi ti aveva giu­ dicato. In realtà non vuoi affrontare la coscienza dell’inganno, della parte di inganno che ha costituito la tua vita. Quando un altro mi spiega una cosa mia, m’interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza per­ ché io lo accetti. Chissà se ho suscitato molte resistenze nel gruppo: soprattutto formulavo quello che intuivo l’altra aveva in mente. Per adesso posso stare tranquilla che disastri non ne ho fatti. L’altro gior­ no, per esempio, ho chiamato Isa per dirle del suo diario: forse ero un po’ troppo cosciente di volerla appoggiare. E Isa mi ha risposto quasi freddamente, come a deludermi della mia stessa aspettativa di farle del bene, ma proprio questo volevo sapere e non potevo chiederglielo direttamente: il suo grado di autonomia da me. Nicola conclude che chi è peggiorata con il femminismo è perché non ha più avuto dubbi e, come vittima degli uomini, si è sentita autorizzata a tutto. Le ho raccontato del libro di Lacan che sto leggendo e di ciò che ho appre­ so sul transfert. Quando ho affermato che forse a Milano è andato tutto meglio perché avevo l’abnegazione necessaria, lei ha ribattuto “Io non avrei mai potuto essere sempre a disposizione”. Adesso ho capito che chi si mette a disposizione è un certo tipo di persona con particolari problemi e desideri. Devo ridimensionare dentro di me questo “certo tipo di persona” che io sono e che ho identificato via

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via con Cristo, profeti vari, poeti e taumaturghi. Ma perché no? Se li ho avvicinati a me li ho già smitizzati, solo che se ne parlo gli altri mi prendono per mitomane. Dopo che Sara mi ha intrattenuto tutta la sera sul suo ragazzo (in­ terrompeva senza accorgersene i discorsi che cercavo di portare su di me, salendo la scalinata di Piazza di Spagna ho pensato “Che diavo­ lo, è peggio di Ester”), si è accorta che qualcosa non andava. Infatti mi ha chiesto perché portavo senza troppo interesse esempi in tema (Simone, il primo amore ecc.) e ho risposto “Per parlare”. Ha ribat­ tuto 'Allora sei frustrata”. Le ho detto che il mio presente è un po’ lontano dalla sua vita attuale: ho un rapporto lungo fatto di mutamenti e sensazioni che non diventano veri problemi, invece per lei tutto è pro­ blema, ogni avvenimento può cambiare radicalmente la sua vita. Così sono costretta a parlare del passato per stare nell’argomento “E perché no del futuro?”. “Il futuro posso solo lasciarlo aperto.” Lei stessa mi aveva chiesto come avevo cominciato con Simone, poi trovare ana­ logie le era sembrato pericoloso, mentre per me era un passatempo ricordare. Certo lo squilibrio esiste e sono contenta che sia venuto fuori. Dice Sara “In fondo nel rapporto psicanalitico non è che bana­ lizzato debba sapere della vita dell’altro, è inutile se addirittura non porta fuori strada”. Così lei si sente dallo psicanalista, e certo io non ho molto stimolo al rapporto dato che i ruoli sono divisi. “Forse basta esserne coscienti, non devi perdere la spontaneità quando vuoi dire una cosa.” In che senso le interessa la mia vita? Finora per un con­ fronto. Comunque non era falsa la sensazione (ho ancora paura che possa esserlo?) che non le interessi parlare di quello che è successo tra noi o nel gruppo. L’ha detto esplicitamente “Preferisco andare al cinema, passare ad altro, non mi va di ricominciare questa storia, mi annoia”. Le ho replicato che è sempre stato il mio problema quello di avere esperienze non condivise: la relazione con Simone, il femmi­ nismo vissuto come fondatrice del gruppo. Vuole controbattere ogni mia emozione, non mi lascia parlarne, teme che la senta come supe­ riorità. Mentre io lascio che lei vada a ruota libera su tutto, sono at­ tenta a ogni passaggio, non ostacolo le sue conclusioni, l’accetto con­ tinuamente, questo può essere il pericolo, infatti stasera diceva “Oggi mi sono di nuovo innamorata di me”. Ho toccato con mano gli effetti negativa del mio atteggiamento: le faccio perdere il senso della realtà,

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come si dice in gergo familiare “la vizio”. Così, inconsciamente, mi rendo necessaria con uno zuccherino non proprio avvelenato, ma certo un po’ drogante. In questo senso favorivo la sua dipendenza creandole un’oasi, una gabbia dorata. Una volta fuori non trovava l’ascolto e l’appoggio a cui l’avevo abituata. Anch’io credevo fosse una fase che poi si sarebbe normalizzata da sola, una specie di cura ricostituente per il momento della crescita, ma finiva che la crescita era sempre in atto, lo ero all’oscuro del meccanismo che avevo messo in moto “promettendo” la liberazione femminista e facendo da guida al gruppo: me ne stavo ignara della prova che mi attendeva. Mi viene in mente la fine di un film Diario di una schizofrenica, dove si vede la ragazzina prendere il treno da sola e andarsene tranquilla in mezzo a una natura verdeggiante, dopo avere lasciato abbastanza distrattamente la sua terapeuta. Quest’ultima è rimasta a riflettere su ciò che era stato, mentre la ragazzina pensa alla sua vita fuori. Voglio essere ancora la presenza che può servire a liberare le altre? Sara tranquil­ lizzati, il mito l’ho avuto la prima volta, certamente non lo avrò la seconda. Tutta la sera ho ripetuto a Sara che mi sento distaccata nei rapporti, li prendo per quello che sono: volevo rassicurarla su di me e anche rassicurare me stessa. Subentrava un’atmosfera un po’ triste che lei non raccoglieva, timidamente le rivelavo mie sensazioni un po’ sperdute convinta che da un momento all’altro potesse averne abbastanza. Non mi viene di parlarle come a Nicola; a pezzi e bocco­ ni le ho raccontato la storia delle lenzuola di Ester, la sentivo distrat­ ta da analogie con il suo amico artista, non trovavo partecipazione, sembrava non ricordare che il tema era un’amicizia di dieci anni che si polverizzava. Anche lei, come Ester, mi gratifica nelle osservazioni che la riguardano o l’aiutano a decifrare il mondo attorno e mi tra­ scura nel resto che non siano formule generali, concetti, salvo poi a rimproverarmene. Magari m’interroga su una cosa che vuole sapere, ma mi interrompe appena la estendo ad altro. Mi ha chiesto “Di te con chi parli?”. Le ho fatto una serie di nomi: con nessuna desidero parlare come con lei, ma con altre sono più incoraggiata. 9 mag. Stamani Sara ha voluto venire assolutamente da me: come già a Milano ha rischiato di farmi perdere il treno. Ma alla fine ho dovuto ammettere che valeva la pena. “Sei stata contenta di quello che ti ho detto?” “Sì, molto.” Infatti era inutile che mi arrovellassi

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chiedendomi perché non ce la facevo a aprirmi con lei: me lo impe­ diva. Doveva arrivarci da sola ad accettarmi di nuovo. Quanto a me non l’avevo ingannata nella mia capacità di resistere in solitudine: mi ero distaccata senza tuttavia rifiutarla. Non ho perso la fiducia in lei e in me. Ho perso il mito di me, l’entusiasmo di me, ho subito la depressione che mi procurava la sua sospettosità, la sua sospensione di giudizio (e io non vedo l’ora di essere giudicata). Mi sembra che a Cristo è successo così: prima predicava ed era il figlio di Dio che trovava rispondenza nelle folle, poi con il tradimento di Giuda, ha accettato agonia e morte, abbandono e solitudine. Ester, per certi versi, è stata per me quello che io sono stata per Sara: una mediazione di esperienza - rileggendo Autoritratto ho notato la mia povertà di espressione, un che di persona inesperta che pretende supplire a tutto con la fedeltà a se stessa - oltre che una gratifica­ zione continua (reciproca) nata su un riconoscimento (reciproco) di autenticità. Quando ho cominciato ad avere dei dubbi sulla nostra amicizia lei ha perso fiducia e non ha resistito alla frustrazione che le davo, confermando così che non potevo liberarmi con lei. Infatti l’atteggiamento di Ester, come ho avuto la prova con le lenzuola, era una manipolazione della realtà, una falsificazione di dati allo scopo di placare la sua coscienza - l’autenticità per lei è un lasciapassare più che una condizione scomoda - e mantenere l’arroganza delle sue ambizioni-illusioni (“La mia pittura è piaciuta moltissimo”, “Lui mi adora”, “Ci adoriamo”, “Lei mi vuole un bene straordinario” ecc.). 10 mag. Cara Piera, la tua debolezza mi sembra nel non esserti mai decisa in

tempo tra richiamo affettivo-regressivo e richiamo spirituale-evolutivo. E un po’ ridicolo detto così, ma penso che mi intendi.

Sara ieri non ho capito cosa mi ha detto, oppure non lo ricordo, o non ha importanza in sé, fatto sta che ho sentito accettata la mia teoria sul sesso, la scoperta clitoridea e vaginale, di nuovo, in una parola, tutto. Sara diceva che aveva avuto bisogno di mettere in dubbio, di cercare altre strade, poi magari ritrovare quella in cui eravamo insieme. O qualcosa così, non saprei. Avevo l’aria di non capire. Me l’ha chiesto “Hai capito?”. Ho avuto un attimo di vuoto, come un non crederci, oppure che era naturale finisse così. Era assurdo quello che avevo

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passato di pena, sconforto, per arrivare a qualcosa che non poteva essere che così. Immediatamente mi è tornato il sorriso da dentro: le cose stanno in piedi da sole, non sono più come Sisifo a lottare sen­ za fine contro i dubbi. Sara ha scritto una poesia “Sono donna e sono uomo” in quanto avendo clitoride e vagina è tutt’e due, un essere più completo dell’uomo e di cui lui ha paura. Per me la vagina non ha spinta in avanti. Forse la mia vita mi ha portato a essere così, non ho avuto pause per la vagina. Con Sara è chiarito: non si tratta più di smentire la mia teoria, ma di provare ad ampliarla. Che lei volesse andare contro di essa, questa metteva in dubbio la mia identità, e 10 lo avvertivo come ostilità e antagonismo. L’uomo si allarma se il suo pene non viene accolto dalla vagina, in qualsiasi altro modo la donna lo desideri, si sente strumentalizzato e sostituibile. L’assurdo del mio destino è questo: dovere dubitare dei dubbi dell’altra finché non mi raggiunge dove ero e dove dovevo aspettare nella sofferenza. Sara parla perché io capisco tutto, io non parlo se mi fa capire che non capisce. Le mie nipotine si litigano per dei fogli, entrambe preoccupate di averne di meno. Ho detto “Divideteli”. Una mi ha risposto “Non sappiamo contare”. E ho avuto la percezione precisa della fiducia dei bambini che possono stare in questo mondo tremendo confessando tranquillamente di non sapere contare. E evidente che la conoscenza deriva da una mancanza di fiducia nella realtà. E la stessa sensazione che ha portato al mito del “buon selvaggio” e alla ricerca del bene nell’animo e nella cultura dei primitivi. Paula era contenta di una certa rilegatura fatta ieri alla traduzione in­ glese dei miei scritti. Insieme a Isa ha avuto l’idea di pubblicare delle biografie di inglesi dell”800 citate dalla Wolf. Bisogna chiarire subito che non dobbiamo creare delle mode, cioè bisogna essere “originali” oppure non essere. Mi viene pena se penso a chi non lo è. 11 mag. Incubo a occhi aperti: Voglio fuggire da Milano. Qui, con le amiche di Rivolta non posso che conti­ nuare un ruolo di maieutica.

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Mi sono stancata con Isa: se io non do un messaggio al nostro incon­ tro questo cade. Isa mi dice “Ma sono le 13,20!”. Così io mi accorgo che è troppo tardi. Paula ha fatto una specie di quadro mobile con delle piume nere e qualcos’altro, ma Simone non lo degna di uno sguardo, non è colpito affatto.

Per Paula la mancanza di esperienza nei rapporti è anche un problema di classe. La stessa incoscienza la trovo nella sua famiglia e in chiun­ que bazzichi la sua casa. Come fa a capire Isa che è una proprio da Umiliati e offesi, da Qiiai des brumes? Paula mi ha confessato che Simone e io siamo l’unica coppia che smentisce il suo pessimismo in materia. Vedo che se mitizzano qualcosa di me non dipende da me, ma da loro mancanze e dal non averne scoperto e accettato le cause in loro stesse. Paula non si rende conto di quanto ho rischiato, di quanto mi sono data da fare mentre lei quasi non comunica, ha sempre un atteggia­ mento “educato”, e comunque dall’esterno sembra superficiale, snob, mentre non lo è. Ha una vita al riparo su tutti i fronti, non è mai uscita dal guscio, cosa può capitarle in quelle condizioni? Come fanno gli altri a sapere chi è, cosa vuole? E chiusa come una scatola ermetica: si aprono poco a poco i suoi pensieri, lei da dentro, ma nel rapporto non è presente. Qualche risata, qualche momento di stupore, è tutto. Mi telefona Sara “Mio marito mi fa stare male: ci siamo visti, ma non vuole il dialogo, dice che è già maturo. Come una mela, se matura troppo diventa marcia”. E questo che mi ha conquistato in lei, l’im­ mediatezza, non si gira a vuoto in dettagli inutili, in approcci senza risposta. Piera mi ha telefonato e la sentivo interrogativa. Finirò per non capir­ la più a fare la spola tra me ed Ester. Mi ha confessato che è troppo sola per guastare dei rapporti e che dentro si sente quella di sempre, senza compromessi. Però un po’ di complicità deve darla a me e con­ temporaneamente a Ester, è inevitabile. Ieri ho detto a Paula, cosa che l’ha fatta scoppiare in una gran risata “A volte il bisogno affettivo banalizza la vita”. Mi è venuta in mente una compagna di scuola e il mio rapporto squallido con lei: era per non essere sola, per noia e per mancanza di meglio che lo portavo avanti. Ho detto a Isa “Se faccio un’osservazione, per esempio che ti trovi a sperare ancora in un chiarimento con il tuo ex-amico, devi essere co­

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sciente che non è un giudice che ti parla, ma una come te che ha dei motivi suoi per farti questo appunto. Non che tu sia autorizzata d’uf­ ficio a rispondermi “Allora è un problema tuo” come alcune fanno, ma prendilo come un ingrediente per conoscerci, un messaggio forse, non un’accusa dall’alto per dirti che sei cattiva e io ti ho scoperto. Le mie parole per le altre hanno un significato troppo importante e co­ munque estraneo a me, finisce che non so come parlare né di me né di loro. Infatti, e come lo invidio, l’analista per molto tempo tace. E comunque non è in ballo come vero interlocutore, ma come medium. Ma io che posso fare? Se ci metto del mio nell’incontro posso anche illudermi che vada bene, ma se resto silenziosa non succede niente, c’è uno sbandare fuori fuoco. Forse dovrei continuare ad aspettare. Di solito invece alla fine “rassicuro”, ripeto in qualche forma l’offerta dell’immagine preferita (da me oltre che da loro) “la sorella maggiore buona perché femminista”, e l’offerta è “Se parli con me capirai”. Dopo di che scatta qualcosa, ma cosa? Su che base mi permetto di andare avanti? Non posso che puntare sulla rivelazione del nostro rapporto, insisto sul presente, su noi. E un po’ buffo detto così. E vero che il mio ruolo preferito è quello della sorella maggiore buona, però la preferenza assoluta è per stare senza ruolo, come con Sara. Fare le brave femministe è come fare le brave mogli, le brave madri: sei come gli altri ti vogliono, questa volta le altre. Il mio inghippo è tutto lì. Che speranze ho con loro? Dovrei avere scambi più adatti a me: la parità vera posso trovarla solo fuori dal femminismo. Qui mi sforzo, comprimo, spero, ritento, ritento sempre. E inutile. 13 mag. Con una virulenza straordinaria prendo la parola contro Ester, che sta alla nostra tavola come sempre. Il suo atteggiamento di tacere girata dall’al­ tra parte mi ha esasperato. /Mie mie parole si volta verso di me, mi guarda senza reagire. Le chiedo se non le sembra arrivato il momento di non essere più nostra ospite, c’è anche Nicola, che se ne vada a casa sua, dal suo amico (qui penso che lei può interpretare come mia gelosia, ma me ne frego). Divento ironica, sarcastica, ripeto in francese una parola tipo “gouverner”. Forse Nicola (o Lucia) penseranno che mi sono lasciata andare, ma non m’importa più di niente, dove­ vo dirlo. Subito nel sogno penso a Valeria, penso che mi ha ispirato lei. Ieri mi aveva telefonato Felicita da Torino per parlarmi del suo scon­ tro con Valeria, anzi, è Valeria che attacca e si arrabbia perché Feli­

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cita ammette, ma senza scoprirsi “Sì, probabilmente ho questo difet­ to”, e chiude. L’altra si esaspera e teorizza il valore liberatorio dell’ag­ gressività. Segno che si sente inibita su quello. Felicita dice “Quando Valeria fa così mi Vene da prenderla paternalisticamente”. Sono a letto e vedo apparire in cima a una scala di legno un animaletto mostruo­ so, grasso, preistorico, tipo iguana o, mi viene in francese, “lésard”. E giallastro chiaro con macchie scure. Altri forse ne stanno spuntando dalla scala. Il primo scivola sul bordo di legno, è a terra e avanza velocemente verso il mio letto, si ap­ presta a salire, ha infilato la testa fra le coperte e si spinge su. Sono terrorizzata, il mio schifo è immenso, tra un po’ quella bestia mi circolerà nel letto; se controllo quella altre ne verranno, non mi salverò. Comincio a urlare come una disperata, urla su urla nella speranza di svegliarmi (dunque so che sogno, ma questo non migliora affatto la situazione). Finalmente mi sembra di essere sveglia con Tito vicino al mio letto.

Mi sveglio davvero tutta indolenzita risalendo da un abisso di lonta­ nanza. Subito mi è venuto in mente il film di ieri sera, Un Amleto di meno di Carmelo Bene dove lui, figlio, è impotente mentre il padre ha il pene, la spada. Poi Sara mi aveva detto che per prima cosa aveva dovuto fare l’amore con il marito dopo la separazione perché sennò lui era distratto e violento e non potevano parlare; dopo era diventato trattabile. L’uomo ha un funzionamento così e la donna ha sempre te­ muto di “trovarselo dentro” prima ancora di accorgersene, per questo è sempre fuggita. Che problema, dicevamo, questi due esseri così di­ versi e in definitiva è l’uomo a dipendere dalla donna, ha un bisogno assoluto della vagina, mentre la donna può soddisfarsi in tanti modi. Quindi l’ha dovuta dominare e tenere prigioniera, accaparrare. Cer­ to che lei non può dargli un buon significato a questo pene. Quanto a me forse che la ripresa di aggressività mi riporta la paura del pene? Di essere maschile? Io ho un’aggressività costante se una non mi ca­ pisce, tergiversa, si ritira, o che diavolo è, cioè sono aggressiva verso la sua inferiorizzazione che, nello stesso tempo, vorrei che superasse. Forse più che aggressiva potrei dire impaziente: le suggerisco dei dub­ bi, la incalzo. Con Sara sono stata limpida e disarmata, dunque non è che mi diverta a restare insoddisfatta con le altre. Comunque sento nascere in me una certa indifferenza alla loro reazione. Non ho voglia di vedere Piera, per esempio.

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Cara Valeria, ho bisogno di rapporti diretti, sono stanca di circonlocuzioni, a co­ minciare dalle mie. Non per risolvere niente, ma per sbloccare la paura dell’istan­ te irriflesso e delle sue conseguenze.

Ester aveva su di me il vantaggio di non curarsi degli altri, però que­ sta incuria la portava al di là, alla strumentalizzazione. 14 mag. Subisco una laparatomia a causa del cancro. Ci sono poche speran­ ze di salvarmi, è già la seconda volta. Se mi si gonfia di nuovo la pancia sono perduta. Temo le emorragie, mi sento tutta bagnata di sangue, però non sono disperata, ma rassegnata, anche a morire. La scena si svolge a Firenze (ma non conosco i luoghi) e una suora del collegio (oppure mia madre in abito monastico) mi è vicina e mi conforta. C’è guerra in pieno giorno. All’improvviso sparano in una via, i colpi sono fiam­ mate veloci, non si può prevedere la traiettoria, c’è un fuggi fuggi. Sulla porta del bagno di via Masaccio, un negro altissimo è appoggiato allo stipite, ferito. Vuole aiuto da me, io cerco di fuggire, ma lui mi sbarra la strada finché accetto di fargli da infermiera. Si ripiega come fosse ferito al ventre, ma non vedo san­ gue. La sua mole e i gesti che sta facendo mi intimoriscono.

Un’amica mi aveva parlato dell’aborto da lei fatto a Firenze e che si era strapazzata e ora stava male. Poi mi aveva colpito che, per l’en­ nesima volta, Lucia, in una controversia tra i genitori ed Emilio e Luisa, parteggiasse così decisamente per i genitori (“Luisa l’altra sera è entrata in casa senza salutare papà”). Ho cercato di conquistare la fiducia di mia sorella e non ci sono riuscita; la sospettosità di Sara ha messo in crisi la mia ansia di conquista. Ho conosciuto un ragazzo che fa parte di un gruppo di autocoscien­ za maschile. In che consiste? Nel gratificarsi del senso di colpa - le femministe li apprezzano - e nel cercare di migliorarsi. “Mi sento colpevole con le donne, mi accetto, non mi accetto, mi trovo, il ruolo, la dipendenza ecc.” Non posso sopportare quando le cose prendo­ no questa piega. Gli ho detto i miei dubbi, era d’accordo anche su quelli. Di sicuro è uno che sta bene con donne-guida. Fisicamente è carino e lo sa. Sorride per attimi in maniera privatissima, cerca com­ plicità. Dovrei fermarmi quando intuisco la scivolata nella cultura, però voglio tentare oppure accertarmi meglio. In più m’interessava

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capire Ignazia nel rapporto con lui. Avevo anche un patema d’ani­ mo perché Simone è arrivato da Roma in anticipo, e io mica potevo mandarli via! E piombato con faccia seccata e aria scura come mio padre quando ero bambina. Naturalmente era seccato anche perché gli aveva aperto la porta uno sconosciuto. Non sembravo contenta di vederlo? Non un’ora in anticipo sulforario, ma semplicemente perché lui non sopportava di trovarmi occupata (“con dei cretini di cui non ci frega niente!”). Se n’è andato a mangiare al ristorante da solo, poi era ancora furioso e io stanca. Potevo aspettarmelo, ma non voglio la presenza dell’orco nella mia vita. A letto ci abbracciavamo, non riesco a drammatizzare veramente, né mi interessa addossargli delle colpe, tuttavia restavamo divisi, ciascuno con i propri rimuginamenti. Però abbiamo dormito senza difficoltà. E vero quello che os­ servava Sara: dopo una lontananza c’è sempre qualche scoglio finché non si fa l’amore. Agata è arrivata con dei “garofani dei poeti” per me. Fa di tutto per mostrarmi la sua tenerezza. Abbiamo parlato a lungo, finalmente. Io ho sempre creduto in valori da figlia: ignoranza, autenticità, imme­ diatezza, coraggio, spontaneità, non formalismo, anarchia, improv­ visazione, avventura - mentre mia sorella in quelli dei genitori alta cultura, alta politica, gerarchie, ordine, forma, rispetto, università, congressi, alta famiglia, alta maternità, sistemi educativi, fedeltà. Non si tratta solo di propensioni divergenti e basta, ma di un sottinteso più profondo: in tutte le nostre conversazioni, attraverso gli argomenti più diversi, abbiamo recitato sempre la stessa commedia. Nell’ultima telefonata, contrariamente all’abitudine di insistere (senza parere, at­ taccando da più parti, con un buon dispiegamento di forza, le sue re­ sistenze), al primo ostacolo ho tagliato corto informandola che stavo a Milano quindici giorni e che mi richiamasse. Mi ha risposto quasi apprensiva, non abituata a che io lasciassi la presa e smettessi l’opera di persuasione, opera omnia della mia vita, logorante e destinata a su­ scitare quei sospetti che pretendeva demolire. Sarebbe bastato un mu­ tamento di tattica, non stuzzicare la sua reazione, non scoprire il mio desiderio al punto che a lei scattasse l’istinto di frustrarlo. Invece non ho mai adottato nessuna tattica poiché sapevo che nascondere non serve, bisogna capire. Adesso ho rinunciato alla rincorsa, all’insinuamento, adesso lascio, e anche con una certa tranquillità.

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15 mag. Per la religione tutti gli uomini vanno liberati, per la psica­ nalisi vanno guariti i malati. Ma cos’è la guarigione? Mi sembra di capire così quello che viviamo noi: su un rapporto si mette una cari­ ca di desiderio enorme radicata nell’infanzia, la bambina riprende il sopravvento e dal passato entra nel presente come un razzo non ac­ cettando più costrizioni. Così, con una specie di cattiveria innocente scopre le difese dell’altra e vi infierisce finché l’altra parla e finalmen­ te l’incantesimo comincia a rompersi perché i personaggi-fantasma dell’infanzia sono indelebili proprio come maschere, dei, muti. Par­ lando, scoprendosi, accettando di mostrarsi, l’altra mitizzata esce dal sogno evocatore - nello stesso tempo la bambina si accorge dell’er­ rore di persona - e sparisce come desiderio regressivo e resta come desiderio di ciò che è, di ciò che ha. Mai più vedersi tutte assieme, come il gruppo di una volta, a parlare del più e del meno cenando al ristorante, festeggiare assieme un di­ vario reciproco che sembra insormontabile. Quando ci sono io tutte si mettono passive più o meno, aspettano qualcosa, da me. Questa aspettativa mi rende impossibile la naturalezza, la serata pesa sulle mie spalle e diventa una ricerca continua dell’argomento che scuota l’apatia e la divagazione senza posa. Il pomeriggio con Valeria così viva e presente, piena di irriverenza, di osservazioni sconcertanti mi aveva fatto vibrare corde nascoste, stasera sono accorata (e anche con un vago senso di colpa) perché vedo come le altre mi legano con le loro titubanze, mettendomi ancora nel ruolo. Un attimo in macchina con Gemma mi ha valso la serata quando mi ha confidato di essere diventata sensibile alle mie sofferenze, le venivano quasi le lacrime, per questo aveva rifiutato di vedere il filmino dove piango. 16 mag. Un pranzo che non finisce mai a casa mia. Una cuoca se ne va, faltra molto più vecchia continua a preparare il dolce con cura e lo serve lei stessa; gli ospiti sono ormai in piedi, lei spera di arrivare in tempo. Con Gemma vado a comprarmi un pullover all’ora di chiusura dei negozi, siamo a Roma: lei resta fuori, la proprietaria mi fa vedere una camicetta a quadretti, dico “No no, niente quadretti”, poi torno fuori a cercare Gemma. E buio, non c’è; la chiamo, non risponde. Vengo trattenuta nel negozio: c’è una recita di donne in vista nella società, poverine, non ce la faccio neppure a guardare. A un tratto abbraccio un’amica lì con un uomo, mettiamo Ignazia, ma che errore! E una sconosciuta

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signora bionda. Si inserisce una padrona di casa con un cane grosso e molto strano, ha le zampe con tante unghie: chiede di me e ne ho timore, voglio essere prudente, ma il cane è buono. Comincio a dare mance al cameriere della famo­ sa cena e sto per tirare fuori altri biglietti da mille, ma le cameriere sono molte, dovrei chiedere qual è la cuoca di prima, non la riconosco. Tolgono dei vassoi per farmi passare, sono premurose. Arriva un bambino, figlio di papà, chiede alcolici. Gli danno un bicchiere di spuma. Beve e si accascia mezzo soffocato. Lo rianimo, lo faccio tossire, lo batto, lo riscaldo, riprende.

In un sogno c’era mia madre, giovanile, non ricordo cosa ha fatto, ma era lì. Leggo il diario di Valeria: stessa sensazione di quello di Sara. Auten­ tico. Eppure molto diverso, più simile a come sono io o comunque a come vivevo io i vent’anni. Più simile alle mie disperazioni e riprese. Proverò a rileggere quello di Isa; non mi era venuto niente di signifi­ cativo da dirle in proposito, lei aveva lasciato cadere l’argomento e, date anche certe riserve per un suo girare in tondo e il continuo gioco di frustrazioni-aspettative sugli altri tra cui io, non mi sono sentita libera di esprimermi e mi si è vuotata la fantasia. Come eravamo ieri sera? Paula snob e presuntuosa, Gemma auto­ lesionista, Isa letteraria, Angelina corretta, Matilde sugli allori della ditta, io entraìneuse. La scoperta di sé è un misto di disponibilità e di iniziative, e tutte fuori del buon senso. In Valeria: lasciare il lavoro con motivazione suicidio, volere sposarsi per calcolo, chiedere a Federica i soldi per lo psicanali­ sta, accusare Felicita. Questo è il senso che trovo anche nella mia vita. Vorrei mandare a Ester il lenzuolo che mi ha regalato ai tempi d’oro con questo scritto “Lenzuolo per una meditazione sull’autenticità della creazione femminile, da mostrare alle donne per spiegare com’è semplice e congeniale al loro essere un gesto puro nella pittura senza cadere nelle deformazioni megalomani della mentalità maschile”. 17 mag. Salutandoci alla metropolitana Sara mi ha porto la guancia e ci siamo baciate. Anche a lei ho detto del mio bisogno di “immer­ germi nell’umanità” nel suo momento di presenza a se stessa, per esempio quando soffre o ha un destino avverso o comunque non è adagiata nel sonnambulismo quotidiano (quello che mi dà fastidio in Paula è che adopra la sua propensione alla leggerezza come un fatto

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polemico verso la “cultura maschile”). Vorrei vedere se l’umanità vie­ ne alla luce nei momenti di emergenza. So che ne ho bisogno per me. Vorrei scandagliare i bassifondi delfumanità. Telefonata di Piera: non si sente fra due fuochi perché con Ester ha solo un rapporto di lavoro, semmai la strumentalizza e così forse è a sua volta strumentalizzata, ma coscientemente. Resta nel possibilismo, come in una condizione saggia (e forse lo è davvero). Mi ha ripetuto “L’affinità è con te”. Poi mi ha ricordato “Anch’io da un anno ti dicevo che Anita mi sembrava esaltata e tu non mi hai creduta - ‘E così carina’ ripetevi - finché l’hai provato su di te”. Allora lei pensa che Ester sia carina. D’altra parte con Anita mi è passato ogni problema, soprattutto perché è sparita e non pasticcia né con Rivolta né con Simone. Tutti questi intrecci sono tremendamente logoranti. Non vorrei vedere Piera per non par­ lare né sentire parlare di Ester, eppure anche spero di venire a sapere un fatto nuovo che mi permetta di sciogliere l’enigma di un volta­ faccia assurdo. Simone mi critica nei miei rapporti con le amiche, trova che sono come “una chioccia con i pulcini”, voglio tutte vicino e parlo troppo di cose che dovrei accettare nei loro sviluppi senza controllare. Ma allora riprendiamo le convenzioni, le tattiche, i silen­ zi? Però se una non si sente autonoma da me, quello che dico non sfugge: o le dà senso di colpa, o la frustra, o la inferiorizza, o la sug­ gestiona. Non lo prende per quello che è. Dovrei interrompere questi rapporti? Mi sento sola. E un dato di fatto la disparità. Sara dice “Tu pensi che dentro ciascuna c’è qualcosa di nascosto, però poi magari non c’è, ecco tutto”. Non riesco a dormire, non sono in pace. Vorrei che le mie amiche fossero dure, in gamba, forti da potere andare fino in fondo come con Sara, invece comincio a parlare e avverto subito una specie di supplica. Penso “Proprio a loro? Non sono abbastanza traballanti e infelici? Non hanno abbastanza affetto per me e buona volontà?”. Mi sono affezionata a ragazze fragili che mi sfuggono o mi si consegnano senza potere fare altro. Questo femminismo non può andare avanti e io non posso intestardirmi qui. 18 mag. Nottata senza riposo. Non posso stare gomito a gomito con le altre, Rivolta, il femminismo. Oggi arriva Federica: si sbaglia se pensa che prenderò delle responsabilità dentro la sua casa editrice. Dovrei avere la forza di compiere un grosso cambiamento. Federica mi ha detto subito che vuole fare assolutamente questa casa editrice

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e se non va bene qui la fa con altre a Torino. Suonava un po’ come ricatto, ma viva la faccia! Avevo detto a Gemma “Sono stanca di pen­ sare che la cosa vale perché ogni giorno l’altra fa un passettino avanti: non arriveremo mai allo stesso punto nello stesso momento, e io mi sento il diritto di avere quello da un rapporto. Se perdo la sensazione che ciò avverrà (e quindi, per così dire è già in atto, come con Sara e Valeria) non posso più andare avanti, mi sembra inutile. In più finisco per pretendere, e non ha senso”. Della casa editrice si incarica Federi­ ca, è una sua impresa. Bene. Io sarò una consigliera se occorre, e poi mi terrò un settore, magari la continuazione degli scritti di Rivolta. Comunque ci vorrà autocoscienza (e non solo correttezza) per non prevaricare gli apporti dell’ima o dell’altra. 19 mag. Telefonata di Ornella. Ci siamo trovate subito, imprevedi­ bilmente. Mi ha detto che ha perso una certa carica interna, che è come delusa, cioè ha distrutto delle illusioni e si è “arresa all’eviden­ za”. Non è più smaniosa di comunicare, accetta anche che non sia possibile. Non avrebbe potuto sintetizzare meglio le mie conclusioni attuali. Prima volevamo controllarci a vicenda per essere sicure di andare tutte nella stessa direzione, e io ero il controllore-capo, adesso scopriamo di essere andate, ciascuna da sola, nella stessa direzione. Appena abbandonata la speranza, mi sono accorta che proprio quel­ la costituiva un inciampo. Mi viene da piangere. 20 mag. Se non ho altri sbocchi finisco per accanirmi nei rapporti con le amiche. Se manifesto scontentezza creo delle resistenze. Con Paula è un gioco di scatole cinesi: le dico oggi che ieri non avevo il contatto con lei, le dirò domani che non ho il contatto oggi, e via di seguito. Isa la difende: secondo lei sono prevenuta con Paula. Mi ri­ corda, certo, lo stato di assenza di Lucia - un tenere “per sé”, un non dare - di cui ho sofferto e so che lei ne soffre. Ho detto a Isa “E un capello quello che manca fra noi, forse sono stata io a rendere tutto difficile”. Allora mi rivela ciò che ha “pensato” di me: in sintesi, che sono diversa da lei e da Paula. Però mi aveva portato dei regalini, cosa che fa spesso: senso di colpa? Eravamo al parco, una giornata estiva, la prima. Parlando con me perde il sorriso. Pensavo a quanta gente tende a indottrinare una ragazza: voglia dio che non mi abbia preso per uno di quelli.

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Ho avuto un piccolo momento di estasi con Simone: vivendo insieme a un tratto ci si ritrova come di ritorno da un lungo viaggio. Gli ho detto “A volte mi viene paura che ti stancherai di me”. ‘Anch’io l’ho pensato: lo desideri?” Ancora Simone “Ieri hai detto che ti sentivi di­ ventare pazza: non ti darò questa attenuante, però ho avvertito che per un momento non collegavi più”. La pazzia è uno stress, ma anche il superamento di uno stress. Simone mi dà il senso della realtà, così pos­ so stringere la realtà fra le mia braccia intanto che la mente vola via. Penso alle mie amiche come sono brave a resistere senza questo respon­ so su di loro, senza una voce che commenti le loro azioni. Ma anch’io ne sono stata priva per molti molti anni. Accetto di più quello che mi viene da Simone. Chiedo “Sono buona?”. “No, non sei buona.” “Sono cattiva?” “No.” “Non sono né buona né cattiva, mi piace conoscere.” AL ha colpito leggendo la De Beauvoir su Sartre “So che nessun male può venirmi da lui, mai. A meno che non muoia prima di me”. Io sono partita dal fatto che Simone mi fa del bene. A Ester Hai mai visto un castello di carte un’amicizia che cade al primo soffio?

Matilde ha detto di Ester con tono ammirativo che è una donna mol­ to intelligente. Sara mi aveva detto che non era molto intelligente. Sara non ha miti sull’arte, il successo artistico o il carattere brillante. Dove sono? A che punto sono? Questo isolamento è sul finire, qual­ cosa sta per aprirsi di nuovo. Matilde ha interpretato che la casa editrice è un mio desiderio: non lo credo affatto. Rappresenta l’applicazione di capacità già sperimentate in un ambito noto, non mi promette molto di nuovo. Un’appendice del femminismo, non un rientro nel mondo. Certo mi vengono idee, per esempio potrebbe esserci una collana che pubblica le tesi delle ragazze all’università riguardanti le donne, così finirebbe la sensazione sgrade­ vole che ricerche e dati vanno a confluire sempre nelle stesse mani. A Roma non trovo niente da fare. Mi piacerebbe qualcosa con il cinema,

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incontrare persone, però no a perdigiorno, ma per lavoro. Ma non l’ho già fatto? A volte non so se ce l’ho alle spalle o davanti. Chiedo a me stessa “Adi vale queU’esperienza di lavoro, di autonomia avuti prima delfautocoscienza? Oppure devo ricominciare tutto daccapo, lavoro, autonomia?”. Come sono incostante per ora! Un po’ i malati di men­ te, il cinema, e cos’altro? Di sicuro c’è che non mi interessa più l’arte perché non mi piace più fare qualcosa con gli artisti. Critica d’arte no, artisti no. Adesso vorrei essere “Lì” a pari grado. “Lì” è il mondo. Mi chiedo se non sia vero quello che afferma Hegel, che la donna è “sfera privata”. In passato avevo sentito di no con tanta chiarezza, ora non capisco più. Sto fuori dal mondo e sto bene, il mondo ha perso attrattiva per me. Persino i rapporti non vedo più cosa possano darmi: mi ritiro in Simone, trovo in lui l’indispensabile “altro”, lascio andare lui nel mondo. Eppure prima non era stato così, mi muovevo sempre di persona. Che strano ritirarsi, avere un tale distacco... Oppure il di­ stacco maschera qualcos’altro? Che non me la sento più di fare fatica, che sono esausta? Improvvisamente mi sprizza fuori il cervello: posso fare tutto, affrontare qualsiasi situazione, creare analogie tra passato e presente, civiltà varie e significati di episodi, gesti, persone... Vorrei esprimermi in modo più impersonale, sintetico, globale... Una ruota di fuoco in una ruota di rose in una ruota di etere.

23 mag. Cara Valeria, spero di non avere fatto un’altra cosa invece dell’au­ tocoscienza. Così da lontano (i quaderni sono a Roma) mi sembra di essermi piuttosto giustificata: sarebbe una bella sorpresa! Ma so anche per esperienza che sono il pozzo dei dubbi, collegato al fatto di essere rimasta senza rispondenza troppo tempo. E come si sa tutte le cose lucide con il tempo non è che brillano di più, anzi. Occorre molta manutenzione, danno un gran lavoro, tanto varrebbe farle ex-novo, varrebbe, però, chissà perché sono così attaccata a quei cimeli. Attaccata in maniera strana, che posso benissimo pensare di andare a fondo, spa­ rire anima e corpo, ma non di perdere fiducia in loro o di metterli a repentaglio. Ecco perché non te li ho dati da leggere. E vero che la battitura a macchina è un’impresa, però soprattutto è un’impresa pensare di correre quel rischio. Quan­ do ho dato da leggere le mie poesie a dieci persone in dieci anni, mettiamo, e tutti hanno detto “No, non interessa”, ed erano le persone più giuste da tutti i punti di

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vista, sono stata anche, alla fine, disposta a lasciarle, ma come si fa, ritorno sem­ pre lì: parto per chissà dove e mi trovo lì. Dunque se prova e riprova da un’altra parte non ci arrivo, cosa ne concluderesti? Mi viene la fissazione di non essere capita e piano piano, anche l’idea che non importa. L’inconveniente della cosa è che sono rimasta a lottare con i dubbi tutto il tempo, e certo mi sarebbe piaciuto svolgere un’altra attività mentalmente, via via che vivevo, ma è stata quella finora e prosegue, se ricordi come ho cominciato la lettera. Prosegue un po’ per inerzia perché li conosco a fondo, come l’abitatore di un castello inglese conosce i fanta­ smi. Quindi so come prenderli; d’altra parte, che siano presenze che s’incrociano tutta la vita mi è stato confermato da altre, però almeno c’è una selezione. Nel tuo diario si vede che vuoi tagliare il problema alla radice: decapiti la tua testa colpevole di sentirsi colpevole. Sono a pag. 179. L’autocoscienza è la cosa più avvincente che esista, la tua lo è. E travolgente, incalzante. La riconosco dal passo. Lì so di essere infallibile, come Giovanni Battista la cui fede ci ha messo un po’ a trovare conferme, però non era tipo che sbagliava. Chissà in quante mi­ gliaia di persone aveva cercato l’incarnazione dell’Altro: era un fatto vitale per lui, per l’incarnazione di sé. Una cosa che mi turba è che non so come il Battista è andato a finire rispetto alla sua identificazione come profeta. Leggendo il tuo diario ho riscoperto l’autocoscienza. In ogni fase della vita è un connubio diverso tra energia personale, senso dell’esistenza, accettazione della realtà, coscienza di sé e dell’altro.

24 mag. La lettura del tuo diario mi rievoca tutta l’angoscia, ribellione, di­ sperazione di quando avevo la tua età. Sono arrivata dove ti riconosci nella tua classe sociale. Così ho capito che è sicuramente grazie alla mia provenienza dal proletariato che accoglievo nel gruppo le ragazze e le donne borghesi dicendo “Siamo tutte donne”, e non mi importava che il marxismo fosse contrario se io facevo un’apertura, se mi sentivo di farla, “era” così. Nel potere dell’autocoscienza —soprattutto scritta - come stimolo liberatorio per un’altra ci credo fermamente, perché a me è successo così, e per questo ti dico di prendere in considerazione la possibilità di pubblicare tutto quanto nella nostra collana di Rivolta Femminile, n° 6. Questo è insieme un mio desiderio e parere. Perché mi sento rimessa in moto con un’onda di fiducia così circolare che mi sembra piuttosto, come dici tu, fede. 25 mag. Nel suo desiderio di andare dallo psicanalista, Valeria affer­ ma di volere un ascoltatore, uno che non parli di sé. Valeria non ha ancora il senso delPaltro, come non lo aveva Sara.

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Quando Piera mi ha accusato di dosarmi, di dosare il mio affetto per lei come se ne avessi paura ho avuto un momento di panico: prepa­ ravo il tè e con fatica potevo fare i gesti necessari tanto le mie braccia erano tremanti. Ho provato una rabbia inaudita a questa accusa così poco realistica, e al pensiero che Piera potesse avere per me un affetto superiore a quello che io ho per lei. Mi è sembrata una sfacciataggine unica, un fraintendimento pazzesco, quando già le facevo credito, quasi, nel volerle bene sulla fiducia, dato che come comunicazione siamo ai primi passi e lei è così chiusa e inarticolata. Ho avuto uno choc, gliel’ho anche detto insieme a quello che penso di lei. Come minimo, mi aspettavo tenaci resistenze, e così è stato: non ha am­ messo quasi niente, in più ha avuto qualche accenno di ostilità per Simone, in realtà un modo per colpire me. Tutto questo era seguente alla confessione della crisi che avevo avuto nel rapporto con Sara e a dosi massicce di smitizzazione di me compiuta da me stessa. Piera si è comportata come sotto transfert mentre io non ne ho affatto verso di lei e parlavo forse più per Gemma (poi andata via) che per lei, sebbe­ ne Piera si sia quasi messa a piangere ascoltandomi, ma per così dire controvoglia, e poi me l’ha fatta un po’ pagare. In più c’era questo sottinteso fra noi, che all’inizio mi era sembrata quasi innamorata di me (adesso capisco che è stato il transfert), cosa che mi aveva spaven­ tato. Quello che mi spaventava era il clima emozionale provocatorio. Tuttavia l’aggressività che mi viene per delle pretese affettive che mi rivelano un lato di Piera a cui sono estranea e a cui attribuisco tutto l’immobilismo che noto in lei, mi sbalordisce. Anche se mi giustifico: intatti mi sono vasta nella riedizione di un rapporto che Piera aveva avuto con una certa suora quando era in collegio, suora che aveva suscitato la sua confidenza, ma da cui era stata delusa nella passione, nel lato morboso dell’attaccamento. Ho parlato serenamente con Lucia e ho provato tenerezza per lei e niente sensi di colpa. Non mi ha detto molto delle mie poesie, ma mi ha fatto piacere che le abbia accettate senza tentennamenti. La prova del loro interesse forse non può venirmi da lei anche se riferi­ sco a una loro inconscia influenza su Lucia l’awenuto mutamento. Ero sincera quando ho ammesso di considerarle poco comunicative sebbene importanti per me. Mi ha fatto piacere che pensasse alla loro pubblicazione: non le ha trovate indegne di uscire allo scoperto. Poi abbiamo parlato delle sue bambine e io portavo osservazioni, special­

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mente sulle gemelle, che lei non contrastava. Le ho anche raccontato del gruppo e del suo svolgimento fino alla mia uscita. Mi trovavo a essere in pace con lei senza averlo più in programma: ogni polemica era caduta. 26 mag. Con molte del gruppo avevo difficoltà su questo: che la mia smitizzazione era respinta, suscitava incredulità e rancore dato che avevano ancora aspettative su di me come oggetto dei loro bisogni, e io mi sentivo in colpa per pensare a me invece che a loro. E stato un problema quasi irrisolvibile: provavo vergogna a essermi fatta credere più di quello che ero - non immaginavo l’opera del transfert all’ini­ zio - e anche a deluderle. Mi chiedevo perché fosse così catastrofico per me deludere un’altra e mi sentivo franare di debolezza mentre soffrivo contemporaneamente di mancare a un mio dovere suggellato da una promessa. Sara mi rendeva colpevole di non avere mirato alla parità, ma io avevo constatato che non era stata possibile e l’autenti­ cità semmai mi ha portata a non creare un formalismo paritario sulla disparità di fatto, mi ha guidata in un senso del rapporto e non in una presunta astratta autonomia dal rapporto che non potevo avere. Invidiavo a Sara la sua immediatezza con le altre: non si preoccupava mai per come poteva essere presa mentre per me era un pensiero co­ stante e mi logoravo nel non riuscire a superare il ruolo che si voleva da me. Adesso capisco che era insuperabile in quanto io, senza saper­ lo, l’avevo provocato e perciò mi ci sentivo inconsciamente vincolata. I richiami di Sara alla parità erano per me altrettante spine nel fianco perché non erano realizzabili neppure con lei da cui mi attendevo la reciprocità, cioè il mio turno nell’essere accolta e accettata, invece lei andava maturando la scoperta che avrebbe gradito il mio silenzio, che qualsiasi interferenza mia rischiava di metterla fuori strada. Ho parlato troppo con Agata e Irma perché avevo in mente un’in­ finità di collegamenti, come se dal senso di pace con Lucia e anche in conseguenza di ciò che le avevo detto, mi ribollisse il cervello in un’animazione straordinaria con tanti pezzetti a incastro che anda­ vano al posto giusto così che veniva fuori un’immagine che era un po’ la chiave di tutto un arco vissuto. 11 fatto che non interloquissero mi suscitava incertezza nelle conclusioni, tipo “Chissà perché sento questo”, come mettere le mani avanti “Non credetemi così sicura come sembro”. Però avevo alle spalle scoperte recenti che mi avevano

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chiarito che l'autenticità è proprio questa qui. Comunque alla fine, quando Irma è andata via mi veniva di chiederle quasi scusa come se le avessi fatto un po’ perdere la domenica. Mi ha molto impressionato sapere che Alessandro Magno aveva avu­ to quattro miti cui ispirarsi: Ercole, Dioniso, Achille e Ciro. Noi don­ ne non ne abbiamo neanche uno. 27 mag. Parlando con Agata e Irma ho fatto qualche passo avanti nell’organizzazione dei miei pensieri e scoprire questo mi ha chiarito che, se non mi viene spunto dall’interlocutore oppure se l’interlocuto­ re non è così agile da affrontare in modo intuitivo il mondo personale autobiografico, io faccio come una panoramica su certi miei svolgi­ menti e ne tiro fuori appunto qualche conclusione. Dalla conversazione di ieri mi è scaturita questa domanda: come si concilia l’autenticità con una seduta psicanalitica? A un tratto mi sono ricordata quando, da bambina, fui portata da un tale che mi offrì un gelato a scelta. “Di fragola” risposi io, e poi, invece di darmi il gelato, mi tolse le tonsille. Io mi sentii in trappola fin dall’inizio ed ero terrorizzata: c’era qualcosa di inquietante, di subdolo che però non potevo additare. Non so il perché di questa analogia. Fatto sta che non si può essere autentici l’uno con l’altro se non si corrono gli stessi rischi e imprevisti. E se non si è ugualmente all’oscuro dei meccanismi che muovono il rapporto. Se uno li conosce e l'altro no, si sviluppa una inautenticità tra i due, e non basta osservare che è dichiarata a priori, perché il malato non sa ugualmente di che si trat­ ta. Nel gruppo invece, l’inferiorizzazione è un dato di partenza che tende a risolversi nei colpi di scena del rapporto, che sono tali an­ che per chi è stato individuato come analista (e non lo è). Quindi sia inferiore che superiore hanno un’unica bussola, l’autenticità, in un viaggio comune in cui, chi ci si è avventurato finora, ha portato attrezzi più consistenti: teorie, interpretazioni basate su miti, analisi dei sogni ecc. Invece in questo viaggio di due altrettanto inesperte e sprovvedute e che solo per strada scoprono in che pericoli si sono cacciate, quando avvengono le reazioni di quella inferiorizzata l’altra non ha niente in mano che le permetta di parare il colpo. In modo che l’inferiorizzazione, come dato soggettivo, si supera prendendo fi­ ducia da quella superiore - inizio del viaggio euforico per entrambe come dato oggettivo si supera attraverso quello che l’inferiore scopre

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nella superiore provocando in lei senso di colpa, e perciò depressione e debolezza. A sua volta la superiore, prima accoglie al suo livello, idealmente, la inferiore che da questo gesto di fiducia prende forza, poi precipita nel turbine del senso di colpa fino a sentirsi incompa­ rabilmente al di sotto di chi voleva sollevare, poiché adesso quella la accusa di averla ingannata. La superiore subisce allora, in varie fasi di conflitto, tutto ciò che l’altra le infligge poiché cerca l’approvazione-assoluzione della inferiore per ritrovare fiducia nella propria autenticità, però in questo modo si scopre dipendente e abbandona il rapporto; la inferiore a sua volta ha una perdita d’identità collegata all’abitudine a usufruire dell’approvazione-gratificazione da parte di quella superiore, così anch’essa abbandona il rapporto. La superiore deve ritrovare fiducia nel recupero della propria innocenza, la infe­ riore deve ritrovare fiducia nel recupero della propria autonomia. La base per la riuscita di tutto il ciclo si fonda sul riconoscimento reci­ proco deH’autenticità che deve averla vinta sui dubbi e sulle angosce di fallimento. In questo processo, di cui la fase conclusiva si svolge separatamente, restano coinvolti entrambi i poli del rapporto e si li­ berano entrambi per quanto riescono a conoscersi l’una con l’altra, a distaccarsi dall’equilibrio delle influenze complementari e a ritrovarsi in una luce diversa dove sono due soggetti distinti. Il pensiero di Valeria mi aiuta, adesso sento che siamo tre. 28 mag. Ho l’angoscia dell’estate che arriva, del caldo e dell’eso­ do al mare. L’Elba mi sembra una prigione, una bellissima prigione. Non sopporto interferenze nella mia vita. A volte Simone è il mio amico, amore, tutto, a volte è un’interferenza. La vita in comune non mi piace, tutto il giorno insieme nella stessa casa è terribile. Provo rabbia e fastidio. La sua gelosia mi paralizza. Ieri gli ho detto “Mi rendo conto di quanta sicurezza prendo da te”, andavamo al cinema a vedere Le due inglesi. Prima ero voluta andare al ristorante dove tem­ po prima avevo mangiato con Matilde benissimo. Invece con Simone non era altrettanto gustoso, i bocconi mi si fermavano sullo stoma­ co uno dopo l’altro: bevevo un sorso d’acqua, ci mangiavo sopra un altro boccone, ma tutto si accumulava senza scendere. Siamo stati troppo distratti reciprocamente. La vaia sociale è deleteria per due come noi. Io sono assorbita dalle amiche, è vero, però lui resta escluso per sua colpa, è preso da cose esterne. D’altra parte mi piace anche

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essere al corrente di cose esterne. Dopo il film, che a me è piaciuto e a lui no, nottata di pensieri neri. Sono spaventosamente appiccicata a Simone, questo è il fatto. Adi angustia anche la mia fragilità fisica: non posso rischiare traumi o fatiche o ansie troppo forti senza tiroide. Devo fare attenzione a non cadere in nervosismi da caldo. Per fortu­ na oggi piove: è triste, ma io sto meglio. Forse perché ho visto un film francese, vorrei andare a Parigi. An­ che da ragazza per evadere volevo raggiungere Parigi, poi è andata male. Forse c’è anche il bisogno di riparare quel fallimento dovuto a una sproporzione troppo grossa, allora, tra esperienza e velleità. Ecco cosa dovrei fare: andare da sola in un sacco di posti. Ma è buffo per­ ché l’ho già vissuto, sono già andata. Adesso è diverso, ho l’amuleto nella mano, però il mondo è quello, e io ho quarantatré anni. Finalmente Simone mi ha detto cosa aveva in questi giorni: un amico scultore non lo voleva a Parma; un gallerista non è venuto a com­ prare la scultura e probabilmente lo porta in giro; un’amica non ha ringraziato per il regalo di una gouache; la Banca aspetta un mese a decidere un grosso acquisto; la mostra alla Marlborough sembrava un successo, invece non si è venduto niente ecc. Gli è venuto fuori dopo che abbiamo litigato ben bene. Allora è così: quando le cose gli vanno male oppure non come si aspetta, si accorge che è solo, che io sono un ostacolo per lui; e io mi tormento per almeno tre motivi: che realmente quanto a mercato non va secondo le previsioni, che Simone rimane avvilito, che un po’ è anche colpa mia. Allora il senso di colpa è così accerchiante che non ci vedo più. Litigo, lo accuso, mi accusa, di nuovo lo amo. Dopo avere chiacchierato con Tito, mi è riaffiorato per un istante il desiderio di essere un ragazzo: per potere evitare il ripiegamento su di sé. Lo vedo così esuberante ed entusiasta, con il mondo alla por­ tata, sensazione che ho avuto anch’io a volte, guastata da un’altra, concomitante, sulla mia velleità. Accettare di essere donna è davvero tremendo: è una rinuncia. D’altra parte come si fa ad andare per il mondo senza pene mentre altri ce l’hanno? Con che mi difendo e, all’occorrenza, offendo? Con una delle gemelle l’altro giorno ho fat­ to un gioco: le ho cominciato a elencare situazioni pericolose, inon­ dazioni, invasioni, comparsa di animali feroci e lei molto eccitata rispondeva contrapponendo chiodi, schegge, aghi, fiori lunghi ecc. Certo, mica poteva fare fronte con borse e canestri!...

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Ho riletto le mie poesie recenti: mi sembrano insignificanti, scialbe, presuntuose. Però so già che domani mi appariranno verità rivelata. Un altro motivo di crisi bilaterale con Simone: la solita inaugurazio­ ne a cui non sono andata. In più mi piacerebbe che fosse possibile andarci, che l’inaugurazione fosse carina, divertente e amichevole, per lui oltre che per me. Mi sembrano tutte più forti di me, persino Angelina; Paula poi è im­ perturbabile, io invece ho i nervi a fior di pelle: non allevo figli, non ho problemi economici, tutti mi vogliono bene, eppure sto sempre attaccata al mio quaderno, non ho altro punto di riferimento. Un po’ come all’epoca delle mie poesie (però poi ho dovuto uscirne). Anzi, allora ero davvero in alto mare sotto tutti i punti di vista. Se avessi dieci anni di meno e la salute a posto! 29 mag. Sono oltretutto stupida perché so benissimo di rappresenta­ re un’oasi per Simone, e che mi ama perché sono un’oasi dove ritrova se stesso. Forse la donna ha fatto sempre questo, non è un’eccezione la mia, somiglia abbastanza a una funzione atavica. Nel mondo l’uo­ mo si perde: fa esperienza, si mette alla prova, incorre in ogni genere di avventure e però ha una specie di appuntamento con se stesso sulla soglia di casa, con la moglie. Vedi la storia di Ulisse e Penelope. Così la donna, sia come madre - cioè una che sostiene all’origine il biso­ gno di essere se stessi, ecco cosa significa il principio del piacere! che come moglie, è un appiglio di liberazione per l’uomo destinato ad alienarsi all’esterno, nel fuori. Però appunto è un richiamo per l’altro, difende un’esigenza che non è lei a realizzare. Ogni giorno scopro qualcosa e quando non mi succede, che tarda un po’, mi viene lo sgomento. Perché la certezza ce l’ho solo in quel momento che ho una presa di coscienza in atto. Ah, ecco che adesso capisco e perciò giustifico le mie fasi di sconforto. Dunque, nei giorni passati ero arrivata alla conclusione che l’uomo per me è la realtà, cioè il principio della realtà. Ma come mai è distaccato dal principio del piacere che ho scoperto è il principio di se stessi? Per questo è così tremendo per l’uomo staccarsi dalla madre perché nel mondo nessu­ no vuole che lui sia se stesso, ma che accetti le regole del gioco. Per questo non mi andava la formula “tutto ciò che è reale è razionale”, infatti mi sembra che tutto ciò che è reale è alienazione. Anche la stupidità dell’uomo mi sembra più reale di quella della donna per­

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ché in qualche modo entra a fare parte del mondo sociale, esterno, mentre la nostra resta sul piano privato, un segreto fra quattro mura. La sua stupidità prende corso nella storia, anche se è una stupidità inqualificabile. Allora la nostra è una situazione da impasse perché, se il mondo esterno è alienazione, e se lo è non occorre dimostrare che non c’è posto per l’autenticità, desiderare di entrare a farvi parte è un sogno, in effetti dobbiamo abbandonare noi stesse se vogliamo entrarci. Ecco perché l’emancipazione serve solo per constatare di persona che quella strada è sbarrata. Ecco perché vicino a un uomo che si libera c’è sempre una donna. L’uomo non si libera con l’uomo, è evidente. Cristo aveva gli apostoli che lo hanno in parte frainteso nell’immetterlo nel mondo, mentre la madonna e le pie donne no, lo hanno accolto nel loro cuore e basta. Adesso nel formare un intreccio di relazioni tra donne è come se iniziassimo a realizzare un modo di vita che è liberatorio, come se nascesse un principio di realtà connes­ so alla scoperta di sé e non al suo rifiuto e mascheratura. Serata a quattro, Gemma, Isa, Paula e io, dove ero molto ben dispo­ sta, però Simone mi ha fatto notare, essendo stato nelle vicinanze all’inizio, che facevo la buffona e interrompevo le altre con battute da ridere. Temo che sia vero. Mi ha sentito un po’ nervosa, “Forse” ha ammesso “volevi tirare su la serata”. Lo so che se non riesco a concentrarmi cado subito in una risarella un po’ “animatrice”, però dipende anche dalle altre. In fondo è così, che ho presenti le esigenze che intuisco singolarmente in tutte quante, non parto da quello che voglio io. Però alla fine della serata ho preso un argomento serio e un po’ deprimente, sicuro per rimettere il tempo perduto, per “punire” le altre di avermi trascinato a delle sciocchezze e per ritrovare un certo clima di me. Paula mi ha dato il suo diario. Dio mio, fa che sia autentico e che mi piaccia incondizionatamente. Mi ha telefonato Piera dicendomi di avere provato ostilità per me, di essersi sentita non capita in parte, che ero stata sì giusta, ma non avevo tenuto conto di tante sfumature, così aveva temuto di perder­ mi, che io l’avrei lasciata cadere. Allora cosa sarebbe rimasto se non spararsi? Dunque era legittimo (ma come avevo potuto dubitarne!) non accettare più il rapporto intenso e inespresso com’era prima da parte sua.

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Sara va da un critico d’arte amico di Simone e mio e lo costringe con decisione a fare qualcosa per lei. Mi coinvolge in questa operazione, ma io sono un po’ a disagio per la sua iniziativa perché capisco che quel critico lo fa di malavoglia.

Telefono a Sara a Roma “per sentire la tua voce”. Era contenta, mi ha ringraziato più volte. Avevo letto sul diario di Paula che l’hanno scorso le aveva detto che io sono un poeta. Valeria è venuta a Milano. Le ho parlato della mia identificazione con il Battista. Le ho accennato all’impasse patriarcale Cristo-Giuda, e mi veniva da darne la responsabilità a Cristo come se lui avesse abbandonato Giuda, sottintendendo che è mio il merito di non avere lasciato cadere Sara. Ed Ester, allora? No, l’impasse era reciproca. Tuttavia non posso non accusare Cristo di non avere trovato una Sara. Così Freud, rompendo con Jung, ha preferito andare al calvario del tradimento e dell’adulazione. Anche Valeria fa molte riflessioni su Cristo, io vedo analogie anche nella situazione, allora di oppressi da uno straniero in Palestina, noi oppresse dall’uomo: si crea un bisogno estremo di liberazione dalla schiavitù e così si scopre che quella vera è interiore. Da politica, diventa individuale e personale. Valeria mi dà forza, freschezza, sento con entusiasmo le sue potenzialità. Ha letto passi della mia lettera e voluto chiarimenti. Un rapporto si apre, di nuovo sembra tutto possibile, però con un distacco mai provato prima. La cosa più importante: Valeria mi ha dato il suo diario da leggere pensando al filmino che mi ero fatta mentre piangevo. Di tutte è stata lei a raccogliere il mio gesto. 31 mag. Nel diario di Paula mi colpisce l’affetto per me. Anche se lo intuivo, non credevo fosse immune da ogni aggressività. Ma Paula di aggressività non ne ha affatto, è una condizione così diversa dalla mia. Adesso mi viene una parola: narcisismo. Dopo avere letto un diario mi vedo davanti un essere imprevisto, che abita dentro un involucro da me conosciuto e nominato: Sara, Isa, Valeria, Paula. Provo un’intimità morbosa con quell’essere che cerco di afferrare appena intuisco che comincia a dissolversi. Dopo un po’ lo sento di nuovo istallato nell’involucro, però traspare, a volte Vene fuori, so che c’è, so come chiamarlo.

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Cara Paula, mi interessi molto adesso che ho capito che sei irrimediabilmente diversa da me. Tu sostieni che il senso di colpa dà attività e la pigrizia è di chi ne è privo. Per me la pigrizia è narcisismo e mancanza di aggressività. Siccome io sono una narcisista da quattro soldi e aggressività ne ho da vendere mi chiedo qualcosa su di te, permetti? Il narcisismo per me è una trappola, un incantesimo. Non so molto di lui: ho abbandonato presto quei luoghi deliziosi e pericolosi, mi occorreva qualcosa di più solido. Narcisismo è una radura, un angolo dove si riesce a riparare le offese della vita rimandando a domani un’azione più decisiva. Per il momento l’irrealtà è il male minore (però tremendo). La tua capacità di vivere nel vago! Ricordo quando leggevo la Plath, dentro di me pensavo “Svegliati, svegliati per l’amor di dio!”. Intanto una persona squisita oscillava davanti ai miei occhi plebei. Anche nel tuo filmino ricordo il narcisismo, per esempio quando alzi una mano verso il cielo. Racconti come ci vivi dentro, piuttosto di come te ne liberi. Ugualmente cogli molte verità su te stessa. Le osservazioni generali invece peccano di cecità narcisistica, cecità dovuta a mancanza di contatto, di esperienza pura e semplice. Nell’ultima parte avverto la presenza di un altro narcisismo più culturalizzato del tuo, quello della tua amica musicista. Il tedesco, altro narcisista: sei attratta e surclassata dai narcisismi felici. Io sono diversa perché non sono narcisista, o comunque cerco di liberarmene per quan­ to via via mi scopro tale. Mi impiccia. Tuo marito ti tratta come un’incapace, tu lo avverti però come una protezione dei ruoli “Tu sei la Principessa”. Scrivi bene, sei cosciente di offrire un impagabile spettacolo solo se si trovasse l’amatore. Lo capisci che è il narcisismo che ti sdoppia?

Felicita viene a Adulano. Mi dice che non accetta il piano di provoca­ zione impostole da Valeria perché lei è se stessa più in condizioni tran­ quille che agitate: lì può uscire fuori qualcosa che non le corrisponde “Magari le grido anch’io ‘stronza’, ma non era nelle mie intenzioni perché la stimo”. Allora la paura dell’aggressività di un’altra è la paura di essere indotti a perdere il controllo e a manifestarsi diversi da come si è deciso che si è “in realtà”. Con Sara nel cosiddetto litigio dell’anno scorso in pizzeria sono uscita dall’autocontrollo: poche espressioni di rabbia e di frustrazione. Tutto qui, però nella mia mente quell’episo­

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dio è stato determinante sia perché ho sentito un vero attentato alla mia identificazione con Fio cosciente da parte di Sara che mi provoca­ va, sia perché lo scoppio mi ha liberato da quella paura. In effetti non è venuto fuori niente di terribile in cui fosse vergognoso riconoscersi. Ho capito benissimo la riluttanza di Felicita che giustifica per filo e per segno il suo atteggiamento distaccato e prudente, ma non può sapere che io “so”. Se è venuta aveva dei dubbi ed è disponibile. Le sono grata per avermi permesso di capire così bene un mio problema. Tra Felicita e Isa sono stata “in seduta” dalle 13 alle 21. Sono sfinita, ma viva. 1 giu. Vado a prendere le nipotine per un paio d’ore e le porto ai giardini. Quello che mi piace in loro è che dicono qualunque cosa gli viene in mente, lì Lucia è stata brava, aiutata dal fatto che, essendo gemelle, parlano tra loro prima che con gli adulti. Mentre la maggio­ re ha avuto come interlocutori i grandi. Mi sono sorpresa a guardare un tale, un uomo solo. Era seduto di fronte a delle coppie di studenti che si sbaciucchiavano. Subito ho pensato a un voyeur. Ho osservato che aveva una mano in tasca. Da piccola avevo paura di questi uomi­ ni, ma mi sentivo aberrante nell’attribuirgli delle intenzioni torbide. Infatti nessuno mi confermava. Un ragazzo leggeva su una panchina: mi ha guardato: mi sarebbe piaciuto avvicinarmi a lui e parlare. Che bella giornata! Che bella, magnifica giornata! Ho telefonato a Claudius “Vediamoci la settimana prossima. Perché non mi hai chia­ mato?”. Si è imbarcato in cerca di scuse. L’ho sentito sincero e di­ stratto. Una distrazione che cresce su un interesse sincero. Mi fa pia­ cere incontrarci, lui, sua moglie e io. Non sono chiara nelle mie rea­ zioni su Paula, non è come con Valeria o Sara. Aspetto l’ispirazione quando la vedrò per parlare del diario. Sfoglio il quaderno e, nell’im­ minenza del suo arrivo, cerco se può piacermi di più, se quell’im­ pressione decadente-narcisistica mi assume un contenuto liberatorio. Sono arrivata a concludere “Mi ha irritato all’inizio e commosso e disorientato alla fine”. Che è la verità. Ho detto a Paula tutto quello che avevo da dirle su di lei. Simone mi guarda “Oggi per la prima volta ti ho visto molto stanca e con i tuoi anni. Mi sei piaciuta molto”. In effetti comincio a sentirmi come quando c’era il gruppo. Nel pomeriggio con Paula quasi quattro ore. Più, una pazzia, altre quattro dopo cena. Frase per frase il suo diario.

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Andandosene mi toccava affettuosamente un braccio e mi ha baciata e ringraziata. 2 giu. Paula, mentre mi sto svegliando nella notte, mi dice finalmente, mi ri­

vela... “Oh, Paula...”.

Ester offesissima con me, in abito rosso elegante seduta al piano di sotto in una specie di sala d’aspetto di transatlantico o treno speciale. Degli uomini in con­ seguenza di ciò mi si alienano, in più perdo a uno il biglietto del viaggio. Però tornano in fila ciascuno con un pacchettino nero pesante come contenente me­ tallo. Accetto, ma non apro.

Rivedendo il marito di Sara mi è tornato il senso di colpa. Me ne ac­ corgo subito perché mi fa essere gentile e preoccupata, mi crea una vera dissociazione tra quello che succede e quello che mi sento in dovere di fare succedere. Mi sembra che l’altro abbia ragione a pretenderlo dentro di sé, anzi è come se in qualche modo gliel’ho promesso. La situazione è tutta sulle mie spalle. Devo bandire definitivamente il sen­ so di colpa dalla mia vita. Devo pensare a me, gli altri non sono dei bambini, si arrangeranno. Vorrei vedere rito, e magari Sara, tornare a Roma. Qui mi sembra un po’ chiuso: quello che ho fatto ho fatto. Che stanchezza! Paula è assorta, non risponde, come se le mancasse ancora un partico­ lare per decidere, così la stessa cosa la ripeto più volte con varianti e lei sempre sull’orlo, però ancora indecisa per un ultimo minuscolo partico­ lare che completi il quadro. E indecisa anche nel presentare le sue difese. Paula ha trovato un modus vivendi nell’irrealtà, tanto che finisce con lo scherzarci sopra apprezzando i film americani degli anni quaranta. Quando suo padre è morto è uscita dalla stanza per non assistere al trapas­ so, poi gli ha portato un mazzo di rose da sola a solo nella camera mortua­ ria. Curioso, mi sembra un gesto architettato dal di fuori, come per una scena o per la pagina di un libro. Sono ancora scossa della giornata di ieri (e ieri l’altro). Non ne posso più, basta. Ho mal di testa e l’impres­ sione che il cervello mi scoppi. Vorrei un rapporto alla pari subito, im­ mediatamente. In più tutto questo confidarsi in modo diretto emoziona moltissimo, è un po’ come buttarsi nelle braccia l’una dell’altra. Vera e Ornella: una visita breve. Che ricchezza tutti questi rapporti, questo parlarsi senza ostacoli quando meno te l’aspetti! Mi hanno det­

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to un gran bene dei miei libretti, che li capiscono e apprezzano di più via via che il tempo passa, sul sesso in particolare. Vera è una di quelli che Cristo chiama “poveri di spirito”: una che non brillerà mai, non incontrerà mai un uomo alla sua altezza, ma questo vivere a fondo perduto, con serenità e fantasia mi commuove più di tutto. Le ho dato l’indirizzo dell’Elba. Quanto devo avere desiderato di comunicare se non mi sazio mai e solo lo sfinimento mi fa interrompere. Sono ipno­ tizzata dalle mie nipotine gemelle perché realizzano il mio sogno di bambina: avere la compagnia, lo scambio continuo con una pari. Simone è partito: nel momento della separazione il senso della vita vola via per qualche attimo, ed entra quello della morte. 3 giu. Sogno agghiacciante verso le 3 del mattino. Ho dovuto svegli­ armi ben bene per essere sicura che non avrebbe ripreso. Temuta e avvertita come inevitabile l’invasione del paese è cominciata. Sento delle grida e c’è un fuggi fuggi. Anch’io mi rintano a casa. Purtroppo il mio appartamento ha tre porte sull’esterno. Controllo le serrature, non c’è male. Intanto non guardo dalle finestre: ho paura di quello che può apparirmi e di essere vista. Intravedo una ragazzina che nel vano di una finestra ha attirato incautamente l’attenzione. Sbircio appena: orrore: soldati e soldati a una certa distanza gli uni dagli altri avanzano implacabilmente in un terreno desolato. In casa cerchiamo di non fare rumore, così anche se bussano possiamo fingere di non esserci. Ma è difficile, ci sono anche una donna con bambini, e altre. L’an­ goscia è tutta nel mio presentimento. Adi sembra di avere già vissuto una pre­ cedente invasione e che è stato terrificante. Se ti prendono prigioniera è atroce. Non hanno limiti. Eccoli che salgono le scale, di corsa ci rintaniamo. Come si fa a chiudere la porta, chi ha tolto la chiave, chi si attarda per le scale, incoscienti, c’è il paletto, com’è sottile però. Insomma siamo dentro. Non sono riuscita a calcolare se ci saranno provviste alimentari per tutti, dovrebbero, però non sono più così lucida. Dei soldati bussano e parlano da fuori. Tito con mia angoscia fa sentire la sua voce, cioè risponde molto tranquillo. Bambino mio non sai quello che fai, dio mio l’ho ingannato, non s’immagina, non sa. E la disperazione mi soffoca. I soldati entrano: è buio. Mi sembra la fine. Per ora non sono cattivi: si siedono, sono due, vedo le loro ombre. Abbiamo ceduto subito, non ho orga­ nizzato una vera difesa. Tito è gentile, dispone in ordine delle matite colorate. Un’amica (Anita?) mi sussurra “Uccidiamoli”. Non c’è altra via d’uscita, ma come fare? Già so che sarà impossibile, però non mi tiro indietro.

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Mi ero addormentata leggendo le lettere di Freud, specialmente le ultime quando parla della vecchiaia e della morte, quando dice che comincia a sentirsi diventare inorganico. Provavo ripulsa e ammira­ zione. Freud si è cristallizzato nel suo ruolo di padre (della psicanali­ si). E spietato e sofferente. Per molti anni ha aspettato rispondenza e riconoscimento, si è consumato nei dubbi, da Jung ha avuto il colpo decisivo. La sua vecchiaia ha un così imponente carico di dolore e di stoicismo, ecco perché quella vecchiaia non mi piaceva, non mi piace. Paula è perplessa sulla mia reazione al diario, l’ha detto a Isa. Qual­ cosa è cominciato. Naturalmente intuisco e temo la sua aggressività nascosta. Ho voglia di stare con Tito, ne ho una voglia pazza. Non vedo l’ora di essere al mare con lui, fare i bagni, prendere il sole, giocare insieme. Ormai ho promesso a Felicita che andrò a Torino e ci vado, però di lì prendo subito un aereo per Roma. 4 giu. Paula stamani stava nella sua angoscia con una dolcezza che mi strappava le lacrime. Sapevo che pensava “Sono perduta, cosa mi manca, non ce la farò mai, non sarò mai compresa”. Riconoscevo ogni suo sguardo interrogativo nel vuoto. Piera mi dice al telefono “Sono lacerata, è lacerante, la mia vita è vuota, non ho niente, è troppo tardi”. Le ho replicato “Hai una voce diversa, sei presente”. Tra noi cadeva ogni riserbo. A Claudius non ho detto che mi ha deluso accorgermi che lui prende­ va come ovvia la scoperta che ho fatto di me. Forse che lui è cosciente di se stesso? Non ha mai ammesso né espresso sofferenza o angoscia. Sto bene con lui, ma resto insoddisfatta come resta la voglia di con­ tinuare l’amore se non hai avuto l’orgasmo. Così è fultima volta che mi presto a degli interrogatori, pieni di interesse e affettuosi quanto si vuole, però devo chiedere anch’io, specialmente alla moglie che assisteva senza parlare, cosa che mi ha fatto sentire in colpa. Dante ha scritto Inferno, Purgatorio e Paradiso, cioè i tre stadi della liberazione. Sputiamo su Hegel corrisponde all’Inferno. 5 giu. Isa ieri sera mi respingeva quando le parlavo seriamente di me e mi accettava quando mi disimpegnavo ridendo o facendo progetti balordi. Alla fine mi ha ringraziato di essere stata paziente con lei

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che era un po’ “impenetrabile”, così mi ha fatto cadere dalle nuvole il ringraziamento di una mia debolezza. Mi aveva portato un pane macrobiotico fatto da lei, in più mi aveva regalato questa frase “Po­ vera Carla, hai tanto bisogno di conferme e nessuna di noi te le dà”. Infatti era arrivata sospettosa perché aveva parteggiato per Paula, poi si era detta “dispiaciuta”. Tuttavia è stata una serata base lo stesso: ho capito che Isa è ancora sul piano della razionalizzazione, non ha provato l’urto decisivo, sa di questi problemi intellettualmente. Mi erano venuti dei dubbi sul perché racconto in dettaglio certi processi avvenuti in altri rapporti (bisogno di indottrinare? scappatoia per non essere diretta?), invece è lì che mi rendo conto se l’altra si riconosce o no. Se non si riconosce ho come la prova che siamo su piani diversi. Che sollievo uscire da un dubbio! 6 giu. Con Felicita sento il diaframma che sente Valeria, può darsi che sia anche la differenza di carattere. Però è più profondo ed è in questo sdrammatizzare continuo, in questo vedere solo il lato diver­ tente, carino, accettabile, saggio delle cose. Come se è sempre una ragazza per bene che ora si appresta a invecchiare con stile. Il suo motto che da ogni cosa si ricava un bene è una difesa. 7 giu. Finalmente ho dormito otto ore. Voglio fare una ricapitolazio­ ne di questi giorni passati. Regina mi ha fatto un mucchio di accuse riguardanti l’epoca in cui lei era nel gruppo. Dopo siamo tornate amiche (mi ricorda Rita al liceo), però la mia paura dell’inautenticità (come Freud diceva di avere antipatia per i pazzi in quanto pericolosi) rimane sempre pre­ sente: non mi fido di lei, non le dico niente di me. Oppure solo passaggi mentali. Con Paula serata indimenticabile. Inizia riprendendo baldanza e parla degli errori degli uomini. La riporto a sé bruscamente quando mi accorgo che divaga per ricostruire delle certezze. Poi ammette di essere stata dura con il padre fino da piccola: non l’ha mai lasciato avvicinare a sé a causa di “torti subiti”. Ma quali torti? Le chiedo se lo stesso è avvenuto con la sorella e che legame c’è. A un tratto lo scopre: la gelosia. Sua sorella è nata che lei aveva cinque anni. “Per sopravvi­ vere” ha cominciato a dirsi che non le importava niente, non soffriva, e questo atteggiamento le si era incollato addosso per sempre.

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Isa non è ancora se stessa. Gemma lo è. 8 giu. Ricostruire la storia è un’illusione come ritrovare il tempo perduto. Un’illusione e un abuso. Per fortuna ho questo diario dove posso scrivere quello che voglio, così posso anche mettere a posto tante cose. Queste storicizzazioni sono codificazioni di falsità. Con Valeria sto benissimo. Lei è arrivata al punto seguente: che la cultura femminile da contrapporre a quella maschile è una cultura di rapporti e di parità. Perciò siamo sullo stesso preciso piano. Mi ha fatto parlare per prima, eli me, appena arrivata a casa sua. Ho sognato che si aggravava il dissidio con Ester. Felicita ha reagito stranamente al racconto del film fatto mentre pian­ go. Ha trovato “didascalica” l’intenzione inconscia di mostrare alle altre un viso più vero rispetto a quello che conoscevano. Caro Simone, ti scrivo due righe perché sono stanchissima. La tua scenata di stasera (“Sei una gran cretina, ti si è paralizzato il cervello ecc.”) sul disguido che ci ha impedito di trovarci all’appuntamento mi ha gelata. Io ho passato un bel periodo da sola, molto ricco, molto libero ed emozionante. Ero anche felice di rivederti e tornare con te. Però mi sbagliavo, io sto bene da sola (se non mi ammalo); adesso poi mi sento forte, capace di affrontare tutto. Ho un gran desi­ derio di riprendere la mia vita indipendente. Tito è grande e io sono autonoma. Tu sei stato anche un rifugio per la mia fragilità. Anche, non solo quello. Adesso vorrei essere finalmente una persona senza tutore. Non ce la faccio a venire a Roma sulla tua scia, aspettare tua figlia, andare all’Elba ecc. Tu mi faciliti le cose comportandoti come un uomo villano e irragionevole. Sei stato in giro con quei debosciati, idioti, deficienti. Da solo fai dei gesti troppo qualunque. Ti ho sempre visto con quel pericolo addosso. Solo io sono un’interlocutrice che ti richiama a te stesso. Ne sono certa. Da sola mi sono sentita come al solito trop­ po eccitabile, troppo presa dalle amiche, tutta per loro. Però trasparente, viva, inesauribile, senza dovere lottare con una tua vita troppo vuota. Questi amici, mezzi amici, mezzi strumenti, maneggioni senza cervello. Tu mi hai salvato la vita, io ti ho salvato l’anima. Senza incontrarti sarei morta, tu ti saresti perduto. Allora stasera eri smanioso di vedermi, frustrato, colpevole e perciò aggressivo.

10 giu. Sono a Roma. Sono oppressa dal ritrovarmi prigioniera, fuo­ ri posto. Simone dice “Tu non mi accetti, mi fai sentire inadeguato”.

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Gli rimprovero le stesse cose da quando lo conosco, lo rimprovero sempre. Per esempio non sopporto il suo fastidio per la gente qua­ lunque, per chi non è nessuno. Un giorno ha detto “Vorrei conosce­ re persone ad altissimo livello specialistico, vorrei intrattenermi con loro”. E assurdo. A colazione ho parlato della nostra crisi a Felicita e David, e anche lui molto sinceramente, senza barriere di amor pro­ prio. Allora perché? Ricordo che litigavamo sempre quando ci ritro­ vavamo in passato. Però il fatto che lui fosse qualcuno aveva un senso preciso, antidepressivo per me. E allora? 11 giu. Passo con Sirnone da una galleria romana; la direttrice mi presenta a un artista americano come una critica d’arte molto brava. Le rispondo “Non lo sono più”. Lei obietta che ormai lo sono stata e quindi lo sono. Mi irrita la mondanità, e qui è tutto mondanità, apparenza. A Roma non ho un solo bel ricordo. Il periodo con Ester, il primo femminismo qui, tutto è venato di qualcosa di estremamen­ te sgradevole. A Milano sono più intraprendente, qui aspettavo dagli altri appoggi per muovermi. Claudius e David sono stati veri amici, Gianni e Pino no. Con Sirnone discutiamo a ogni piè sospinto: lo accuso di quello di cui finisco per accusare sempre gli uomini: non hanno rapporti umani veri. Mi dà un senso di inettitudine tremenda, vedo come una lacuna dentro di loro, una lacuna colma di idoli. Mi ha chiamato Sara: già il panorama migliora all’idea di potere parlare un po’ con lei. Stando con Sirnone mi è insopportabile l’idea di addossarmi difficoltà di vita collegate non con una realtà obiettiva, ma con un modo di vederla. Sirnone è un padre pieno di apprensio­ ni per il figlio (la scultura, come Freud con la psicanalisi), che vuole fare vivere e a cui vuole assicurare la massima protezione. Tutte le sue azioni e pensieri hanno questo sottofondo. E dunque un vero patriarca. Ho creduto che mi amasse al punto da lasciare la fami­ glia, in effetti mi amava in funzione del suo lavoro - portavo nuove idee, l’esperienza dei giovani, ed ero critica d’arte. Forse, intuendolo, l’ho ricambiato non facendo niente per lui come artista. Però ieri a colazione ho ripetuto “Scriverò un libro su di te”, e Felicita era con­ tenta perché Sirnone le fa un po’ tenerezza. David non capiva bene Sirnone, le sue apprensioni, il suo darsi da fare: in effetti il successo di qualcuno sta nell’avere suscitato il timore di “non essere ricevuti”. In­ vece Sirnone corre, si fa avanti, ha l’ossessione di essere dimenticato.

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Nessuno lo fa per lui se lui non lo fa, e questo è vero. Infatti, quando ha cominciato a essere scultore la critica d’arte italiana era a un livel­ lo pauroso tra arretratezza e realismo socialista, così nessuno di quelli che di solito sono compagni di strada dell’artista era con lui (e con gli altri suoi coetanei). Quando i critici hanno capito era ormai tardi per ravvedersi e riparare il mal fatto, così sono passati a sostenere i pro­ tagonisti di altre ondate, lasciando ancora quelli che avevano osteg­ giato a lottare da soli. Il fatto di doversi dare da fare personalmente, fatica improba, ha compromesso la loro immagine: tutti più o meno sono risultati degli arrampicatori. Adesso non li giudico più, anzi mi dispiace per loro, specialmente per Simone che al contrario è orgo­ glioso, e semmai ha il difetto di cercare rapporti in chiave di amicizia perché se non ha simpatia e non è a suo agio, lascia cadere. Però è una specie di mentalità molto spontaneamente e seriamente mafiosa. Di nuovo ho in mente Turicchi, si vede che qui mi sento sola e disan­ corata. Simone mi ha interrotto per abbracciarmi. “Mi vuoi amman­ sire?” “No no, sei il mare delle mie meraviglie.” E ancora adesso che scrivo mi tiene abbracciata con la mano sotto il mento. Sono in macchina verso una ditta di sedie per l’Elba. Sono arrab­ biatissima “Vorrei essere mille miglia da qui e fare cose mille miglia differenti da queste”. 12 giu. Entro in clima di vacanze, sento l’inedia che arriva e il be­ nessere fisico. Quando poi ci sono dentro sto bene, per ora mi rende malinconica. Sono 55 kg.: ho un peso romano e un peso milanese, qui sono più grassa. Oggi vedo Sara, grazie a dio. Mi stupisco che sia una cosa come un’altra: il nostro rapporto, la sua persona hanno perso il carattere magico. Adesso poi c’è anche Valeria nella realtà e nella mia mente: all’incontro unico, unico possibile, miracoloso, tappa di una vita co­ minciano ad affiancarsi altri incontri. Sono libera? Ho la tristezza della fine della scuola quando potresti godere la città nel suo momento migliore, e invece si è costretti a lasciarla. Ieri ho avuto forgasmo. Simone no. In questo momento non provo attrazione fisica per lui e non mi va di sforzarmi per soddisfarlo. Mi è piaciuto tanto dormire in due quest’inverno, adesso mi piace dor­ mire sola. Invece devo dormire in due. E una bella mattina, tutto sommato.

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Nicola non riesce a concentrarsi su un mio problema però tenta di farlo, così io resto male constatando che proprio non può. Certo anch’io non le ho portato le erbe aromatiche da Como, ma la sua richiesta era assurda. Per fortuna non le ho trovate. E poi erano va­ setti, non semi, quindi t’immagini venire da Milano; anzi col détour di Torino, con sia pure cinque o sei vasetti. Adesso devo litigare an­ che con lei, me ne sono resa conto dalle prime battute. Mi fa rabbia quando dice “Le telefonerò, per correttezza”, sembra una direttrice d’azienda che parla di clienti, non un’amica. Conversando con Sara mi sono scoperta molto confusa e piena di fer­ menti: ho timore di essere troppo vecchia per andare in giro come fa lei (ma lo desidero, poi?), ho voglia di lavorare ed essere autonoma eco­ nomicamente, sono disposta a mettere in crisi il rapporto con Simone. In crisi nel senso di lasciarci, come possibilità reale, intendo, e non come ipotesi libertaria. Tra i lavori che le ho esposto come desiderabili, oltre a quello con i malati di mente, mi è uscito quello nelle cliniche per moribondi. Mi sono stupita io stessa. E evadente che voglio superare la mia paura della malattia e della morte, soprattutto dell’agonia. Per Sara la morte è ancora collegata al senso di provvisorietà della vita, cioè al presente, non è in sé niente. Anche Felicita ha molta paura della morte, così non osa pretendere di più dalla vita. Sara mi ha proposto di collaborare a una sua sceneggiatura di film giallo: mi darebbe metà soldi. Ma chi mi assicura che questa sceneggiatura sarà accettata? Inol­ tre, come le ho detto, il mio impegno è sempre stato quello di collabo­ rare a realizzazioni di altri, di rimandare all’infinito mie proprie rea­ lizzazioni: adesso semmai qualcuno deve collaborare con me. Invece sono ancora sola. Potrei chiederle di battere a macchina i miei diari. Una cosa è certa: devo ritrovare la mia libertà d’azione. Dovrei non andare all’Elba. Ma lì ci sono obbligata dal fatto che ci va, non tanto Simone, quanto Tito. E lui che, senza che me ne accorgessi troppo, mi ha condizionata. Ho parlato con Tito della riunione dei genitori alla sua scuola dove finalmente ho messo piede per farlo contento. Abbiamo mangiato tutti e due pochissimo perché non c’era niente in casa: per inserire Sara in una giornata spaventosa come oggi, ho finito tutte le provviste a colazione e non sono andata a fare la spesa nel pomeriggio. Domani è festa. Lunga conversazione con Simone al telefono. Dire dico tutto, però non traggo le conseguenze. E liberatorio dirlo, ma non basta. Simone crede

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che la coscienza sia nemica del piacere, che rovini tutto. Gli basta quan­ do si manifesta spontaneamente, farne una pratica secondo lui diventa meccanico, ossessivo. Gli ho risposto “Lasciami i miei meccanismi, le mie ossessioni”. Mi è venuta in mente la frase di Giovanni della Croce citata da Valeria nel diario: che un uccello è prigioniero sia legato con una catena che con un filo. Gli ho detto “Sono stata in balia di tutti, ho fatto quello che volevano gli altri, ho commesso molte stranezze e mi sono presa varie libertà, ma non la libertà. Adesso sono vicina, vicinis­ sima a prenderla”. L’unica possibilità con Simone è che riacquistiamo l’autonomia reciproca e ci comportiamo come due che non garantisco­ no niente. Ma prima che un comportamento questa deve essere una convinzione interiore. Adesso sono più calma, ho sonno e posso sentir­ mi “padrona della notte” dato che Simone dorme a studio. 13 giu. Bella dormita. Non escludo che il primo caldo mi dia degli attacchi di ansia collegati a una dose sballata di tiroxina. Vorrei fare alcune ossevazioni sulla riunione di ieri a scuola di Tito: 1) Mi ha colpito negativamente che ci si chiedesse subito una valutazione dell’espe­ rienza sperimentale in termini di bilancio: positivo? negativo? 2) Che la preside premettesse “Sono ottimista” e la vicepreside “Sono pessimi­ sta”: mi è sembrato ribadire l’assillo del bilancio. 3) La preside ha parlato in astratto e autoritariamente, non mi ha dato alcun punto su cui riflettere. 4) La vicepreside ha espresso un motivo valido di critica: l’imposizione di model­ li, imposizione inconscia, anche, da parte dell’insegnante. 5) Il ragazzo che ha parlato della collaborazione, al posto dell’aiuto, verso i com­ pagni non integrati, sarà anche stato intimamente convinto di quello che diceva, però aveva l’aria di ripetere una formula edificante a maggior gloria dell’inse­ gnante che gliel’aveva inculcata. 6) Il dubbio sull’autenticità dell’esperienza nei ragazzi mi deriva anche dalla po­ vertà e schematicità del linguaggio usato, a cominciare dalla preside e vicepresi­ de. Come si fa a parlare così assurdamente, che risonanza può avere un insieme di contenuti ridotti a stereotipi? Che sperimentazione può venire fuori se esiste alla base un linguaggio così inespressivo che sembra escludere a priori l’esigenza di vere e impreviste esperienze? 7) Ci si è richiamati alla presa di coscienza, però non ne ho visto tracce. Infatti la presa di coscienza è il mezzo per partire dalla realtà e superare il bisogno del

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modello. Faccio un esempio: la preside ironizzava e si scandalizzava che il coor­ dinatore avesse, con i suoi ragazzi, un’attitudine paterna e viceversa loro, verso di lui, filiale. La preside ha affermato “Questo assolutamente non deve succedere”. Ma allora andiamo nella scuola tradizionale dove si sa a priori quello che deve succedere e quello che no. Mi sarebbe interessato molto sentire su quali bisogni reciproci si era stabilito un rapporto di dipendenza familiare. Che si fosse stabilito non mi meraviglia all'atto, né l’ho trovato negativo visto che poteva essere occa­ sione di una presa di coscienza, che modifica di per sé i rapporti. 8) Vorrei ricordare che uno dei pregi della scuola tradizionale è questo: gli inse­ gnanti sono così lontani e così “di un altro mondo” da non rappresentare un mo­ dello “simpatico” per l’allievo. In una scuola sperimentale si possono stabilire cor­ renti di adeguamento infinitamente più pericolose alle personalità degli insegnanti. Per questo la vicepreside ha parlato di “prevaricazione”. Infatti se non c’è un’auto­ coscienza vigile e aperta l’insegnante può cadere nella trappola senza accorgersene dato che l’allievo, adeguandosi a lui, lo conferma. Una presa di coscienza sugli elementi gratificanti nel rapporto reciproco insegnante-allievo sembra molto utile. 9) Il fatto che i ragazzi si siano impegnati nella stesura di un regolamento “duro” non è particolarmente buon segno. Infatti, come ha notato una delle madri, que­ sto mezzo di autodisciplina può coprire problemi e chiarimenti e rappresentare un’illusione. Comunque a noi è arrivato solo il nuovo regolamento, non la serie di passaggi da cui è nato. Nessuno si è chiesto se i ragazzi hanno avuto sensi di colpa per fare questo. Come documento nudo e crudo mi ha lasciata piena di interrogativi. 10) Mi ha fatto pena l’insegnante che ai dubbi dei genitori ha replicato “Andate a leggere i lavori dei ragazzi per giudicare del livello raggiunto”. A questo porta la presenza dei genitori? A tutelare il diritto dei figli a essere istruiti bene? 11) La preside guarda da un’altra parte quando parla un genitore. Se ne accorge?

Rileggo le mie poesie e questa volta mi sembrano così significative! Ieri sentivo “Se non butto tutto all’aria impazzisco”. Oggi va tutto bene così. Ho chiesto a Sara se prova affetto per me: ha risposto che prova affet­ to per le persone tormentate e io le sembro così coccolata da Simone che, secondo lei, non ho bisogno di affetto. Dunque non mi vede tor­ mentata dato che non ha esperienze di un analogo tormento. Mai mi verrebbe in mente che una donna che ha balletto di un uomo possa non provare la mancanza dell’affetto di una donna. A suo parere, lei è stata più importante per me di quanto io lo sia stata per lei.

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Sara ammette di sentirsi un po’ lontana da me in questo momento e la cosa è reciproca. Non mi viene da dirle molto, vedo che comun­ que non la interesso granché, in più confessa di provare il desiderio di mandare in pezzi il mio rapporto con Simone. Simone lo avver­ te se non ha per lei molta simpatia. Io lo avverto se non mi suscita confidenza. Secondo Sara un modo di ritrovare qualcosa in comune sarebbe collaborare alla sua sceneggiatura! Forse, finito l’entusiasmo che ci ha unite, possiamo anche scoprirci estranee funa all’altra. Lei osserva “Vediamo”. E tipica del suo modo di ragionare questa osser­ vazione “Adesso sei molto meno disponibile, sei presa da Simone. E poi, quando ti ho cercato al telefono, non ti ho mai trovato. Allora si crea il distacco”. In più fa il paragone fra me e uomini con cui ha avuto un amore di due giorni: non mi piace quando reagisce così, c’è proprio qualcosa che non mi piace, che respinge duramente, una sordità di principio. A tavola, dopo certi preamboli allegri, ha but­ tato lì che un tale di cui si era innamorata, non si è più fatto vivo: mi è sembrata molto saggia, ma nello stesso tempo ho intravisto un ingranaggio. Quando le ho detto che finalmente mi pare di avere acquistato coscienza dell’altro, prima non capiva, poi ha trovato un po’ ovvio. Infatti anche lei aveva scoperto e accettato l’altro come diverso, con suoi bisogni ecc. Però in lei sembra un ragionamento del poi, per mettere le cose a posto, piuttosto che un vero interesse. Io non lo avverto su di me questo interesse, in fondo invece di affetto avrei dovuto chiederle dell’interesse. E la mia debolezza di interesse per lei è una risposta spontanea. 14 giu. Me l’aspetto che ogni partner di Sara Va Va prenda il volo, dopo inizi anche molto significatiV ed emozionanti. Ieri sera diceva “Prima eri tu che stimolaV me, adesso è un po’ il contrario”. Ma per me lei ora non è stimolante, non lo è il nostro rapporto e tutto quello che mi racconta di sé rispetto ad altri, o di altri. Va bene una volta ogni tanto. Diventa un’amicizia di due incontri al mese. Infatti in quest’anno ci saremo viste chissà, una quindicina di volte. E un’ami­ cizia arenata, per ora. Mi accorgo di essere dentro ogni tanto quan­ do avverto la risonanza maliosa, promettente di un rapporto unico. Ma io stessa non lo so più neppure desiderare, mi stanca subito. Sara è nata sulle ceneri di Ester da una mia stessa esigenza, ma è lei che è emersa dal gruppo e si è diretta verso di me, non l’ho scelta io, mi

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sono lasciata coinvolgere. Mi sembra di non avere mai avuto la sen­ sazione di essere capita da Sara, è curioso, la stessa conclusione che con Ester: lei ha rappresentato il passaggio da un’esteriorità a un’in­ teriorità e mi ha entusiasmato, travolto l’avvento di questo passaggio e chi me lo permetteva, però solo nel senso che me lo permetteva. Qiiando ho scoperto che ero continuamente disturbata dalla mancan­ za di affiatamento, che non sopportavo il continuo mettersi avanti di Sara come un qualcosa di fronte a cui cercare continuamente ripari, che come natura e carattere mi si addiceva poco, fra noi si sono deli­ neate vicende sempre meno consistenti. Sara si chiede cos’è l’amore per un altro se non desiderio di conoscenza dell’altro: esaurito quello tutto finisce. I migliori momenti con Sara sono stati quando lei godeva di sé e io mi immedesimavo in questo godimento. C’era un autismo fra noi. Dalla domanda sull’affetto Sara è stata irritata e spaventata: ha su­ bito messo avanti che non provava implicazioni sensuali o qualcosa di simile, mi ha stupito. Mi viene in mente cosa è successo a me con Piera sul tema dell’affetto: anch’io le ho risposto prendendo le distan­ ze nel senso che non posso fare precedere l’affetto su quella che è la comunicazione fra noi, e che appunto lei ha più attenzione per me di quanta io ne abbia per lei. E una delle mie amiche, non la sola come io sono per lei, esattamente quello che diceva Sara a me ieri sera, che io mi sono fissata con lei mentre per lei sono uno degli ele­ menti. Mi meraviglia moltissimo quest’analogia, e non mi gratifica certo. Non ci capisco più niente: Piera mi pesa addosso con la sua ostinazione a caricare i nostri rapporti; altrettanto taccio io con Sara? Ma la domanda sull’affetto non è perché io trabocco di affetto, solo perché vorrei che si rendesse conto e ammettesse che da parte sua non c’è, che non mi sbaglio se non lo trovo, che non sono colpevole se ho rinunciato a sentirne a mia volta per lei. Mi sembra di capire che il godimento che può dare un altro è collegato alla sensazione di scioglierti dentro, di aprirti con lui, mentre Sara suscita le resistenze non solo a me, ma a molti, se ho afferrato qualcosa dai suoi racconti. Ora se il suo modo di comportarsi mi provoca questa reazione (che supero, però avvertendone il fastidio, il peso, l’incomodo e in fondo l’abuso) non può che derivarmi dal sentirla aggressiva o almeno sem­ pre sul punto di diventarlo. Allora la sua coscienza dell’altro in che consiste se entra in scena solo come specchio e come antagonista?

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Cara Piera, anch’io ho pensato, come quel tuo amico “Ma cosa aspetta a vi­ vere?”. Da ragazzina mi aveva colpito una poesia che mi è tornata in mente di questi tempi. “Adesso so che bisogna prendere i venti del destino... ecc.”

Anche stasera Simone è rimasto a studio. Però non ho chiamato Sara. Avevo voglia di stare sola, di gustare la pace che mi è arrivata a un tratto con il senso dell’estate che non mi fa più sgomento. Anche pre­ parare la roba per la nuova casa mi diverte, visto che lo faccio con Simone e i figli sono contenti. Ho una sensazione di gioia una volta superato lo scoglio di tornare a vivere in comunità. Mi piacciono gli opposti, questo è il mio problema, così mi aggrappo a turno a uno dei due, voglio identificarmi lì, poi arriva l’altro, lo rifiuto, lo rinnego, mi si impone, lo accetto, mi identifico lì. E così Ha. Forse è un gioco che faccio da me stessa per rompere il senso di assoluto che metto in ciò che vivo. Quando delle due finalmente anche l’altra scopre se stessa diventa pa­ lesemente molto dipendente dalla prima. L’ho provato con Piera e con Paula. Istintivamente mi viene il bisogno di provocarle perché si ac­ corgano delle illusioni o delle pretese che hanno posto sulla mia per­ sona. E un fatto molto naturale dove prevalgono volta a volta l’intran­ sigenza, il distacco e la partecipazione. Sara ha il pregio di essere una delle rare persone che mi contraddicono bruscamente. La liberazione inizia quando ti riagganci all’illusione che qualcuno ti capisca. Non credo, come sostiene Sara che Nietzsche o altri si siano liberati da soli, sicuramente avevano un altro (una donna?) in quest’operazione. E venuto a proposito del fatto che io affermavo di non essermi liberata all’epoca delle mie poesie intorno al ’60 perché ero sola. Dice Sara “Ti sarai accorta che si è soli ugualmente”. Invece resto della mia opinione, che occorre avere fiducia nell’umanità di un altro. Cristo è stato presentato alla folla “Ecce homo” perché proprio quando gli uomini sono sanguinanti rischiano di smarrirsi e invece possono ri­ trovarsi in Cristo. Solo per riconoscersi e accettarsi, poi ciascuno è realmente solo. Chissà chi diavolo mi ha messo in testa di essere qualcosa di speciale! Che fatica avere questo problema!

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16 giu. Ho riletto velocemente i diari dall’agosto all’ottobre ’72. Come mi giustificavo, facevo veramente pena! Non accettavo neppure le in­ sinuazioni, i piccoli appunti, le timide critiche, oppure erano proprio quelle a umiliarmi. Aspettavo l’osservazione diretta, decisa, il dubbio formulato. Mi ha stupito non trovare che pallidi riflessi di un presente che nel ricordo è molto vivo, drammatico. Partecipo alle gioie di Tito come fossero mie, è incredibile questa sim­ biosi! Invece ho sognato male. Simone, Tito e io siamo a letto, prigionieri. Arriva una donna e mi comunica che devo scappare di notte imboccando una strada verso il bosco. Cerco scarpe comode per un lungo cammino, mi raccomando a Simone e Tito di non susci­ tare rappresaglie pericolose per loro, e parto. Però all’inizio della strada saltano fuori dal buio soldati armati che mi sparano addosso. Non posso scappare, altri soldati armati mi sparano alle spalle. Visto che non sono morta non è proprio pauroso. Trovo una via d’uscita: parlare a un ufficiale.

Tito è tornato a casa uno straccio: ha fatto tardi ieri sera, si è eccitato troppo, ha dormito fuori, stamani ha vomitato un sacco di volte. Per fortuna non ha mal di testa. Suo padre e io vomitavamo allo stesso modo, da giovani, però appunto con tremende emicranie. Sara dice “Mi sono depressa a stare con te”. A me sembra che avesse bisogno di accusare il colpo di alcune sconfitte con gli uomini, che aveva preso in modo troppo distaccato. E tipico suo dare a me la col­ pa di cose che riguardano lei. Le ho risposto che io sono fiacca perché indisposta, non depressa, semmai lei mi ha comunicato un po' di tristezza. Anzi le sue sconfitte rientrano nel bilancio della realtà che è quella che è, quella che conosco anch’io, mentre le sue sensazioni di possibilità illimitate le avverto soggettive. Ho in me una calma pro­ fonda: mi sento una delle infinite creature dell’universo, è buffo detto così, eppure è così e sono felice, non voglio cambiare il mio destino. Sono felice proprio perché non voglio cambiarlo. Mentre Sara mi parla di incontri, momenti, coincidenze non mi richiama alcuna sug­ gestione, vorrei dirle “Apri gli occhi sulla realtà!”. Per quello che vedo io nei rapporti con gli uomini è solo una percentuale minima quella che non si sottrae definitivamente, e solo uno, quasi, che accetta. Sara afferma di volere l’uomo esclusivamente per farci l’amore, parlare è quasi inutile. Secondo me è un mito. Siamo rimaste intese che se non

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mi chiama entro le 8 è segno che è andata al cinema. L’ho chiamata io invece, poco prima delle 8 per chiederle “Cosa fai?”. Lo sapevo benissimo dato che non mi aveva telefonato. Però volevo telefonarle così, per essere libera di farlo. Le ho sempre lasciato l’iniziativa: natu­ ralmente la chiamo quando mi capita, però il fatto che lei ha interrot­ to con me e prima era molto assidua ha finito per lasciarmi al noblesse oblige della disponibilità. Il curioso è che non desidero neppure molto vederla: se mi fa delle osservazioni il più delle volte non mi interessano particolarmente oppure sono centrate, ma non su di me. Quando mi tira in ballo rispondo “Sì, certo”, oppure mi giustifico. Un giorno mi ha chiesto “Cosa aspetti?”. “Niente, non mi viene molto da dirti”, concludendo che forse dipendeva dal fatto che sono un po’ ferma. Al telefono le ho parlato quasi a vanvera, tranquilla. Le ho detto che un incontro è interessante se un rapporto è interessante, non per le cose che si dicono. Infatti lei oggi aveva osservato che è bello leggere perché si capiscono tante cose, mentre parlando magari se ne capisce una sola: diventa così una perdita di tempo. Simone una volta si è meravigliato “Ma non ti accorgi che Sara adesso è presa dal rapporto con l’uomo? Il femminismo, Rivolta, la vostra ami­ cizia non sono più a fuoco”. Lo sapevo benissimo anche se non l’avevo formulato. D’altra parte non ho alternative. A volte mi aggiusto i ca­ pelli, guardo da una parte, mi gratto il naso, non so che dire. Lo strano è che se ho la possibilità voglio vederla. Magari sto dei mesi senza che questo succeda. Però se ci vediamo a colazione vorrei che ci vedessimo anche a cena. Non è un vero desiderio impetuoso e vivace, è piuttosto un andare a finire lì per vie sotterranee. Come una speranza auto­ matica di qualcosa che doveva accadere e, chissà, potrebbe accadere. Non so cosa voglio da lei, un chiarimento rimasto in sospeso oppure la rivelazione di un errore di persona. Mi chiedo cosa mi attrae in lei e devo constatare che era il suo rapporto con me. Casualmente ho riletto una lettera di Sara (dell’ottobre ’73) molto affettuosa rispetto a oggi, ma abbastanza fredda rispetto a prima, e così mi sono resa conto che io ero rimasta a quello stadio quando l’ho rivista in primavera, mentre le erano successe tante cose. Sembra più adulta, e lo è infatti, allora tocco con mano che staccarsi da me ha fatto parte del suo processo per diventare matura. Posso accettare o rifiutare, ma è così. Adesso capisco il compito della frustrazione: non sei mai appagata, tenti ritenti e porti fuori tutto, lo porti alla coscienza. Può apparire in

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contraddizione con il fatto che Sara mi accentua le resistenze, infat­ ti rimango frustrata proprio perché avverto in me un continuo chiu­ dermi e aprirmi, vorrei aprirmi di più. Ma è come se lei me l’impedisse: mi provoca irrigidimenti e la sfiducia che le interessi chiarire al­ cunché fra noi. Allora finisco per rimuginare fra me e me. Domani le telefonerò per salutarla, ma non voglio che ci vediamo. A che serve? Cosa ho da dirle? Finirei per interferire su cose sue. Ho cominciato un rapporto con lei (e con Ester) su una gratificazione come speranza di riconoscimento, su una promessa appunto. Però a mia volta avevo promesso qualcosa, come femminista (e come critica d’arte). Aspetti assurdi del modo di ragionare di Sara: non porta il suo libro nelle librerie perché, essendo anonimo, ha paura che venga letto e ri­ conosciuto come suo da persone a cui lei ne ha parlato pentendosene subito dopo. Non vuole che venga letto perché lei parlava dell’amore, del fare l’amore, dell’erotismo senza sapere cosa fosse. Non una pa­ rola sul fatto che se non si vende neppure un libro, i soldi spesi per la pubblicazione non rientreranno mai. Ora è evidente che se uno intui­ sce questa mentalità scappa perché il partner in tali operazioni può solo subire le sue impennate. Forse per essere liberi in questo modo bisogna abbandonare il mondo e starsene nel deserto, lo stessa metto in conto che da Sara devo “subire” poiché non posso fare altrettanto: primo non è nella mia natura, secondo lei è troppo frustrante per non restare frustrata. Dovrei essere sempre all’erta per parare un sopruso, e quello che mi disturba non è che lo faccia, ma che abbia in animo di farlo senza accorgersi che è un sopruso verso di me, quindi impedir­ glielo non mi serve a niente, l’ho già “subito” quando ha fatto la sua proposta. Lo so per esperienza. Le volte in cui va meglio è quando sono io a dire “Vediamoci”, si capisce, che ho scelto un buon momen­ to per me, mentre è quasi sempre lei che sceglie. Poi già mi urta la sua irremovibilità sull’orario. Anche lì sono troppo disponibile: se è pronta non intende aspettare anche se a me serve solo un quarto d’ora in più. Ho sempre avuto questo fanatismo: quando apprezzo una persona non voglio ammettere i suoi difetti, li giustifico e quindi li avallo, ma vedendoli in un’altra luce. Una luce in cui è bello, coraggioso, significativo avere quei difetti e altrettanto acco­ glierli. Quando me ne accorgo è troppo tardi per tornare indietro, sono troppo scoraggiata dalla progressione in cui quei difetti mi ap­ paiono, troppo mortificata dalla mia mitizzazione, troppo complice

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della piega presa nei miei confronti per trovare una scappatoia. In più apparirebbe un anacronismo quasi ridicolo o risibile. 17 giu. Che malinconia partire per il mare! La ricordo da quando ero bambina! Se non ci fosse Tito non partirei affatto, lui invece è tutto felice. Ho parlato con Raffaele: ho nostalgia anche di lui, mi sembra triste. Strano non progettare di vedersi, fare le vacanze senza un incontro fra noi. Ho chiamato Sara per salutarla, però, invece di farlo per telefono, le avrei proposto di vederci per prendere un caffè dopo co­ lazione. Ma era fuori albergo. Allora ho immaginato che: ieri sera è uscita con il barman e poi sono stati insieme; il barman era molto autentico allora lei si è accorta che lo aveva visto come amico solo per non complicare il rapporto precedente; quando anche il barman si ritirerà sarà il momento di ricordarsi che le aveva detto che con lei non poteva permettersi distrazioni o sviste, così la conclusione di Sara sarà che lui non ha retto alla prova. Se ormai vedo una mecca­ nica in Sara perché ho sempre questo bisogno di parlare con lei? Pos­ so rispondere: perché non ho altro, così mi fisso su questo scambio come avevo fatto con Cesare. Mi ostino a vedere dei pregi speciali in chi non mi accetta o in chi mi rifiuta dopo avermi accettata. E come se avesse il segreto di quello che mi sfugge. In più Sara non ha inteso precisare molto oppure sono io che non voglio capire. Mi viene da sorridere: certo che è così. Somiglia un po’ a quando un uomo dice “Non vediamoci più, amo un’altra, a te voglio bene, naturalmente, ma è diverso”. Allora tu ribatti “Va bene, spiegati, dimmi cos’è che non va”. E poi alla fine concludi “Non è stato chiaro, non so cosa vuole”. Mi Vene ancora da sorridere: adesso un’amica lascia me, peggio anzi, non mi lascia: mi cerca, mi telefona, mi parla, però lo sento che qualcosa è finito. L’ha formulato lei stessa “Non c’è l’entu­ siasmo di prima, bisogna prendere atto”. Certo mi toglie sicurezza, mi sembra ingiustificato. Mi sono chiarita tante cose con Sara (sto scrivendo sul taxi subito dopo avere parlato insieme a casa mia: Simone mi aspetta per gli ulti­ mi acquisti per l’Elba). Lei ha detto di essere stata mia vittima mentre io so che sono stata la sua. Perciò si è sentita autorizzata a comportar­ si con me senza scrupoli, autorizzata a tutto. Io con lei ho sperato la parità, l’uscita dalla solitudine, invece sono stata accusata e mi sono

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ritrovata colpevole. Adesso accetto che lei abbia nuovamente fiducia in me, ma resti distaccata. Ha ammesso “Forse tra cinque, dieci anni potrò capirti per avere fatto anch’io le tue esperienze”. Con Simone non mi sento sola perché lui ha un’analoga conoscenza del dolore. 18 giu. Dicevo a Sara “Secondo Hegel il superiore può liberarsi solo con la morte”. Sembrava stupita, però ha portato questo esempio “Un dirigente di azienda può avvertire a un certo punto che quei cento uomini che lavorano per lui e al massimo scioperano possono non accettare più rinferiorizzazione e ucciderlo”. Dunque lei ha provato qualcosa di analogo: la spinta a vendicarsi, a eliminarmi. 19 giu. Ditemi cos’è vivere se non alienarsi. Non posso commentare oltre chi è se stesso lo sa.

Ho in faccia due mesi di convivenza, di allegra convivenza e di va­ canza. Mi sento morire all’idea. Simone non lo ritrovo, per ora. E lì, ma non lo raggiungo: in questi due mesi sarà al novanta per cento un padre. A parte il collegio, non sono mai stata se non in situazioni familiari caotiche che mi sopraffacevano. Da piccola la casa dei geni­ tori e fratelli, quella dei nonni e degli zii, da adulta la casa con il figlio e con tutto ciò che si porta di contorno. Anche Simone è un contorno del figlio, anche i figli di Simone lo sono. Sto affogando tra sorelle e fratelli prima, e poi tra figlio mio e figli di altri. Che senso ha tutto questo? Sono appollaiata quassù senza contatti se non con quelli di casa, senza progetti se non con quelli dettati dai bisogni dei ragazzi, due mesi così tra mare e cielo, senza possibilità di muovermi perché ci si muove solo con la macchina e io non so guidare. Sono come i carcerati di Pianosa, l’isola qua di fronte, sono confinata per la colpa commessa di avere affidato a un figlio l’orientamento della mia vita. Simone è sulla sdraio e dorme: lo guardo con distacco. Adesso ha aperto gli occhi, si chiederà perché lo guardo. Mi meraviglia che non lo capisca e sia così tranquillo da dormire.

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20 giu. Con Tito e un’amica siamo aggrappati a un terreno scivoloso e sotto c’è il mare. A un tratto il mare si ritira e appare un baratro limaccioso e profon­ do. L’amica è ridente e spigliata, un paio di volte alza i vestiti e mostra un pene in semierezione. Lei è bisessuale. 21 giu. Sono le 6 e mezzo del matdno: ho dormito male. Forse la pizza di ieri. Oppure vedo l’assurdità della mia situazione. La casa è straordinaria, la terrazza sul mare, il silenzio, la vasta, il profumo. Ma io sono angosciata. Lo sono stata spesso all’Elba. Ricordo le foto di Paula in Sardegna, in piccole baie deliziose, sullo yacht: mi aveva fatto pena, era come assente, annoiata, appesantita, con il costume in di­ sordine. Guardo Simone che dorme vicino a me. Mi chiede nel sonno “Sei raffreddata, Ninetta?”, perché tiro su con il naso. Adesso va in bagno: basterebbe che parlasse, forse basterebbe, ma non parla e io sono stanca di farlo per prima, non porta a niente, a lui va bene così. Oppure no? S’impicchi. I figli sono suoi e queste estati sono bloccate dai suoi figli. Il mio è un aggregato. Non so come fa Nicola a occuparsi di case, io ne sono così stufa. Come fa a occuparsi di figli... L’unica cosa degna è occuparsi di sé. Ma allora occorre lasciare tutto, e poi non c’è da temere perché una persona sola non ha necessità di niente, neppure di casa. Ho tentato di vivere da sola: prima a Parigi, poi a Roma, tutt’e due le volte mi sono ammalata di TBC. Una sconfitta. Così, dopo la seconda volta, mi sono sposata. Cos’altro avrei potuto fare? Un esperimento interrotto, fallito. Adesso mi attrae di nuovo. Ce n’è proprio bisogno? Ho paura. Mi sono riaddormentata e ho sognato. Marion e io decidiamo di andare negli Stati Uniti fanno prossimo, così ho il tempo di imparare l’inglese. Sono tutta soddisfatta.

Dopo avere rotto l’amicizia con Marion mi ero sposata, quindici anni fa. Sono a cena da Isa. Le prometto “Passo a salutare Paula, poi torno”. Invece Paula, elegante e svagata, è a una festa. Aspetto che esca, si fa tardi per tornare da Isa. Vicende varie. Ho nelle braccia un gemello, delizioso, ci sono mia madre, e Nicola che lo coccola come figlio suo: lui le mette le gambine div aricate intor­ no al collo, lei senza farsi vedere gli prende il cosino fra le labbra.

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22 giu. Smarrimento, emicrania. Mentalmente abbandono Simone e Tito nel dormiveglia del pomeriggio: è atroce e assolutamente reale. Poi Simone mi ha cullata, carezzata e amata per qualche ora. Abbiamo parlato e ritrovato il contatto. 23 giu. Oggi è normale: l’apparenza è anche la sostanza. Simone ieri l’altro “E bello tornare da te”. Ieri “Sono così frustrato quando mi allontano da te”. Ho l’impressione che il meglio tra noi deve ancora accadere. Può essere che mi illuda, però non sono molto attaccata a questa idea. Cristo è Cristo per la sua coscienza. E l’uomo cosciente. Tutto lì. Per questo ognuno si riconosce in lui quando prende coscienza. Nella mia vita si ripete continuamente questa sensazione: la scopro, la ri­ scopro, ogni volta la scopro. Per questo sono su e giù da un precipizio. Questa sono io. Capisco il fervore dei novizi: lasciare tutto per im­ mergersi dentro di sé. Non ho più paura di me stessa, qualsiasi io sia. Ero prima. Non potevo essere prima.

Per tre giorni ho aspettato di parlare con Nicola. Stasera finalmen­ te abbiamo fatto una passeggiata a quattro, e credevo di scoppiare per tutte le scemate che si dicevano, le cose inutili. Simone era così inopportuno, non posso più uscire con lui. Ho cercato di intavolare l’“argomento”, tutti lo lasciavano cadere. Rimango sola con Nicola: mi dice che Sara è da lei a Roma. Anche a me aveva chiesto la casa, le avevo risposto di no. Ora mi emozionavo al ricordo, provavo ostilità per Sara, per questo suo insinuarsi nelle cose mie o di gente legata a me, e poi dice che è stata mia vittima, che chiunque poteva scoprire la sua autenticità e anzi è stato un onore per me averlo fatto, trovo indecenti la sua presunzione e il suo negarmi la fiducia necessaria ad ammettere “Sì, è stato così, è così”. Secondo Nicola è difficile tornare indietro, ma non si tratta di questo, è difficile accettare il sopruso che è la sua liberazione da me. Io sono il vero strumento di tutti quelli che mi sono stati vicino. Anche a Nicola non gliene frega niente di stare con me, anche lei deve sbarazzarsi della sorella maggiore. Tutta questa gente inferiorizzata prima ti spreme e poi sta sulle sue, ti la­

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scia ai tuoi drammi, anzi li alimenta perché finalmente vede arrivare il momento in cui può assistere alla tua umiliazione. Oggi leggevo Kafka come quando ero ragazza e mi sentivo così simile a chi era senza via d’uscita; adesso provo la stessa cosa e nessuno che possa capirmi; neppure Simone che al massimo mi protegge. Simone è un “superiore” come me, ed è nei guai con me, ma ieri diceva “Ho un grande serbatoio di calma dalla mia infanzia” mentre io alle spalle ho solo solitudine e angoscia, accuse e colpa. Avevo avvertito qualcosa di diverso in Nicola al mio ritorno da Mila­ no, l’ho avvertito subito. Eravamo così unite prima della mia parten­ za, poi ho visto quel tappetino di Sara nella sua casa, ma Nicola non mi diceva niente, le ho chiesto “E di Sara?”. Poi volevo in prestito il libro su Jung per un giorno, Sara mi aveva risposto che non era suo, e solo in un’altra occasione ha specificato “E di Nicola, puoi farte­ lo prestare quando l’ho finito”. Perché non ho capito? Capire che cosa, poi? Che anche Nicola perde fiducia in me, non può stare con una che non ce l’ha senza perderla anche lei, non è così? Mentre io mi rivolgevo a lei per trovare rispondenza. Ma quale? L’ho sentita sfuggente. Ecco il mio destino. Quanto vorrei piangere di nuovo, ma a che serve? Può darmi la pace interiore? Oppure la posso trovare solo isolandomi, rompendo io il cerchio inesorabile dei rifiuti proprio quando mi pare arrivato il momento in cui sarò accettata? Non vedo la mia colpa eppure gli altri la vedono benissimo, com’è questo miste­ ro? Come posso risolverlo? O non c’è soluzione? Non c’è soluzione. Una sorella, un’amica può togliermi il diritto a essere serena: se mi accusa o mi sospetta o mi sfugge io non posso non pensare che è per suo bene che lo fa. Mi immedesimo in lei che si libera di me, anche se cerco di trovare e dire le mie ragioni è solo per uno scrupolo, per una possibile “riabilitazione” nel futuro. Quanto al presente riconosco il mio destino senza scampo. Chi sono io così diversa dalle amiche, dal­ le sorelle, da tutte? Nicola era imbarazzata nel mettermi al corrente che Sara è sua ospite, imbarazzata come nel rivelarmi una malefatta verso di me. Non voleva ammettere di dovermi respingere, adesso è più scostante, anche se non se ne rende conto, perduta per un certo interminabile tempo. Essere alla pari non è possibile per me. Non ho goduto un attimo della superiorità, non godo un attimo la mia libe­ razione dalla superiorità. Al massimo posso avere una tregua. Tutto quello che offrivo nei rapporti con le amiche a cominciare dall’ospita-

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lità era per placare l’antagonismo e l’aggressività nascoste attraverso una sempre maggiore intimità come antidoto, lo stessa ne avevo biso­ gno per rassicurarmi dalla continua percezione di un sospetto verso di me. Posso solo rallegrarmi di essere stata io la molla di tutto ciò che è esploso nella mia vita. Come fa a instaurarsi la parità? lo riconosco Sara nell’atto di ribellarsi a me, lei mi riconosce nell’atto di subire? Ma fino dove potrò subire? 24 giu. E troppo stupido che io soffra perché Sara è gradita ospite in casa di Nicola. Non ha trovato niente per ora se non ciò a cui io l’ho introdotta e mi detesta per questo. Si comporta regolarmente da so­ rella minore. Così io la temo, so che non si fermerà di fronte a nessun abuso verso di me, non lo vedrà affatto e si sentirà sempre in credito. Le sembrerà normalissimo prendere le mie cose, installarsi qui e cri­ ticarmi, beffarmi, accusarmi e farci sopra una bella salutare dormita. Alla faccia mia. Lucia aveva detto giusto che lei avrebbe avuto sempre un motivo di gioia dove io lo avrei avuto di sofferenza. I primi saranno gli ultimi vuole dire questo, che gli ultimi saranno gli ultimi ad accettare i primi e i primi i primi ad accettare gli ultimi. Così chi è accettato per primo e cioè gli ultimi saranno i primi a liberarsi. Sono una persona sofferente e non posso stare con la gente felice. Ho paura di me perché sono autodistruttiva. Simone non è convinto di tutta questa storia fra sorelle: secondo lui la maggiore si rende subito responsabile ed entra nella realtà che è anche angosciosa, si fa tante domande sulla vita, la morte, l’amore e le minute cose. Simone dice che sono nevrotica, non accetto di es­ sere una persona tormentata e molto sensibile, me ne faccio una fis­ sazione. Probabile che ci sia una parte di vero: a diciotto anni ero nichilista, disperata e me la prendevo con me stessa per la visione nichilista e disperata. Ho sempre avuto una spinta a vedere nel niente. Poi compensavo con attacchi di illusione smodata. In collegio passavo delle notti con il fiato sospeso e i capelli dritti al pensiero dell’inferno, dell’eterna pena. Mi sembrava impossibile averne una tale ossessio­ ne, non vedevo in me quale colpa mi avrebbe fatto precipitare, però non ne ero così sicura e temevo che fosse già un segno premonitore averne ossessione. Simone mi richiama dagli stati di autodistruzione: è la corda che attacco saldamente a una roccia tenendo l’altro capo in mano quando scendo nel precipizio. Mi serve a ritornare. Altrimenti

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non potrei andare, oppure lo potrei, ma senza ritorno. Simone dice “Ricordati tre cose: non solo ti accetto, ti amo; non solo ti amo, mi piaci”. Mi viene il dubbio che sia indulgente con me. Dice “Il senso di colpa è giusto, dà il senso della vita”. Intanto però lui non ce l’ha, oppure proprio collegato a delle azioni precise, come quando ha la­ sciato la moglie e i figli. Per Simone “i rapporti sono un passatempo, la cosa importante da acquisire è il senso della vita, tu mi pare che ancora non lo hai affrontato direttamente”. Non so quanto mi con­ vince, ma mi calma ascoltare un’altra voce oltre la mia assoluta voce che invade tutta la realtà. Forse Simone è per me quello che io sono per Sara: con lui mi confido pienamente, la sua opinione mi riguar­ da sempre anche quando mi suggerisce qualcosa dall’esterno, il suo ascolto è sicuro e attento. E un’entità reale, responsabile, in rapporto con me; posso chiamarla in causa spesso, quasi sempre. Anche se si lamenta di essere troppo coinvolto, occupato di me, di distrarsi da sé, in parte di alienarsi. Ecco l’analogia: ho detto a Sara la stessa cosa. Però con Simone ho momenti di dolcezza e di abbandono che riequilibrano gli attriti e le tensioni, mentre Sara è contro quando mi rivela qualcosa su di me. Mi viene in mente Tenera è la notte dove un medico sposa e ama una sua ammalata, poi lei guarisce e lo lascia per un certo Thomas, uno sportivo, e lui sparisce dal bel mondo dove vivevano insieme. Sono impressionata dalla forza del passato in me. Adesso sono cal­ ma, l’angoscia è svanita, posso lavarmi i capelli, andare sul terrazzo a leggere. Cosa vedo di così tremendo, minaccioso, catastrofico nel comportamento di Sara? Perché sento che mira direttamente al cuo­ re come il carnefice di Kafka? Io l’ho ospitata perché avevo posto in abbondanza, un uomo e dei soldi, tutte cose che lei non aveva e 10 non volevo collaborare a questa ingiustizia. Nicola la ospita per gli stessi motiva. Si mescolano affetto e senso di colpa. D’altra parte ricordo com’ero sbalordita che mia cognata non mi invitasse a cena appena sposata, non mi prestasse dei mobili, non mi ospitasse quan­ do Raffaele era via. Lei esagerava nel proteggersi da me, però adesso posso capirla. Il fatto è che per me allora una donna adulta era come una madre. In fondo Sara si è comportata con me come io mi sono comportata con altri che prima mi suggestionavano, poi si sono invertite le parti e 11ho trascurati una volta che non mi dicevano più molto, ho finito per

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trascurarli in vari modi. Adesso è capitato a me con Sara. Domani rifletterò sulle analogie e diversità. Adesso ho sonno, sono disposta ad ammettere tutto senza drammatizzare. Chissà perché la mia sorte mi sembra tanto dolorosa il più delle volte. Sono così oppressa dall’angoscia, inchiodata alla sofferenza che quando sto bene sono un po’ scema. 25 giu. Sara abita con qualcuna, c’è un clima di effusioni fra loro. E Nico­ la? Incontro Rita, sempre uguale, non è invecchiata, magari un po’ triste. Non volendo le chiudo le dita (“tutte le dita” precisa lei) con uno sportello. Siamo al bar. Ho vicende drammatiche con uomini. Alla fine sono in casa di mafiosi, li sto scoprendo. La faccenda si mette al peggio, preparano delle pericolose radio­ grafie per Sara che arriva molto sorridente e felice della sistemazione lì (la sua amica resta di sopra in camera). La metto in guardia e per poco non ci lascio la pelle, quelli sono furibondi. Però scappo lungo una scala percorsa da un grosso tubo blu a cui mi attacco per scivolare più in fretta. Vedo grosse bocche di fucili puntati pronti a fare fuoco. Sono in una casa di Simone molto raffinata, ricorda quella di Cesare con came­ riere e camerieri. Ho un guardaroba scalcinato, roba da vergognarsi, biancheria sciupata. Voglio indumenti di seta, cose belle. Decido di fermarmi per un po’, avviso le cameriere: una, bionda platino, manda gli occhi al cielo e chiede “Per un po’ quanto?”. Sono costretta a fare il conto: un mese, fino a luglio. La mia decisione è una doccia fredda per le altre, me ne lamento con Simone che vedo di sfuggita un po’ grasso con golf rosa. Lui però minimizza e pensa che Niccoli­ no, il cameriere, sotto sotto è contento.

Il mio inconscio mi piace, voglio andare d’accordo con lui. Mi piace quello che mette in scena, quello che mi manda a dire. Non sopporto Sara a casa di Nicola perché mi sembra un sotterfùgio per stare a casa mia, mangiare del mio pane, godere dei miei beni senza passare attraverso di me e dovermi dire “Permesso” e “Gra­ zie”. Finché non crea una sua situazione non posso sentirla alla pari con me. Per ora, lo voglia o no, è una commensale alla mia mensa. Che non lo riconosca mi fa sentire in diritto di addebitarglielo co­ me una colpa, lo riconoscesse sarebbe un gesto di affetto di cui le sarei grata.

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26 giu. Ester, così: “tranquilla nelle piccole cose”. Poi un’amica indecifrabile, ma ho pensato che fosse Sara dal carattere. Su un giornale ho letto che molte donne sono bisessuali e si dichiara­ no tali: è il femminismo che ha portato a questo. Simone è convinto che noi non abbiamo avuto il coraggio di farlo, ci mancava anche un’adeguata cultura. Come sono differente con una donna e con un uomo! Con Simone e con Sara, ad esempio. Certo il tabù sessuale crea un ostacolo alla manifestazione completa di sé. Ma questo è un altro problema. E curioso come non abbia nessun desiderio di contat­ to fisico con le amiche. A Ester ogni tanto stringevo le spalle, ma ra­ ramente: mi ricordava mia madre così piccola, minuta e anche restia alle effusioni, rigidina, però contenta. Sara non mi attrae: è una specie di macigno, e ha le dita fredde. Adi piace guardarla negli occhi mentre parlo, posso guardarla, risponde allo sguardo senza che le vengano dei piccoli tic sul viso come altre amiche che si imbarazzano. Simone crede ancora all’emancipazione e ai traguardi evoluti. Lo rimprovero di essere a mezza strada tra il rifiuto e il desiderio del po­ tere. Gli dicevo “Non approfondisci le vere regole per averlo, ti affidi alfimprovvisazione ed è proprio quella che ti frega. Non lo hai, non lo avrai mai, però non sei neppure la persona distaccata”. E stato troppo povero per dimenticarsene, e poi un siciliano ha il senso dell’arrampicamento sociale nel sangue. Però lui è anche l’uomo più refratta­ rio al potere che si possa immaginare senza fingere. Rimproveravo a Simone le sue manovre a metà (non perché le desiderassi intere, naturalmente, ma solo per mostrargli come fossero fallimentari in partenza) e lui mi ha risposto “Tutti fanno dei compromessi: anche tu, che vorresti andare via e invece stai qui”. E la stessa cosa? Perché ho così difficoltà a pensare che sia la stessa cosa? Da II castello di Kafka: “Amalia... dissimula molto, in fondo nient’altro che il proprio dolore”.

E incredibile come Sara combini le cose per ossessionarmi. Quello che mi disturba definitivamente è che non sembra occupata a seguir­ mi, anzi si dichiara molto sciolta da me e in certo senso addirittura indifferente, però cade sempre sui miei passi come sulla strada per

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lei più naturale, e perciò mi perseguita in modo del tutto casuale e non premeditato. Così il mio disturbo è un effetto secondario nei suoi piani e compare solo per sua distrazione verso di me e non, come po­ trei pensare e anzi desiderare, per una sua, malvagia quanto si voglia, ma preferibile intenzionalità. Anche Lucia era così, evidentemente le avevo ceduto questo diritto di mischiarsi con mie cose e persone nella speranza che tutto ciò sarebbe servito a creare una solidarietà fra noi, invece si era messa in testa che io mi comportassi così per accattivar­ mela, per avanzare delle pretese su di lei. Fino adesso Lucia conside­ ra che io le debba ancora qualcosa di quel diritto acquisito in tempi lontani, non se ne dimentica affatto anche se con qualche cerimonia cerca di fare apparire che io non le devo niente e che sono molto gentile a fare quello che faccio, gentile e spontanea. Però, da una se­ rie di comportamenti suoi, capisco che non è affatto così, che non ha voluto veramente sciogliere il patto fra noi, anzi non ne ha fatto cenno - questo doveva illudermi, come a dire che non esistendo più non c’era ragione di parlarne - così resto vincolata ai suoi sbadati soprusi. Sono io che ho favorito rincontro di Nicola con Sara, io che parlavo di Sara a Nicola, come le avevo parlato di Ester; come a Cesare ave­ vo parlato di Lucia e viceversa, come a Sara ho parlato di Claudius. Simone è un punto fermo perché non si lascia coinvolgere nel vortice delle attrazioni che, non so fino dove mio malgrado, creo. Non ho ancora trovato una partner alla mia altezza, che sia buona con me quanto io lo sono con lei, senza dovere aspettare qualche millennio che smaltisca la dipendenza da me. Forse è il paradiso quello che chiedo, forse non è di questa terra. Eppure mi è sempre apparso a portata di mano, ovvio addirittura: bastava fare mente locale e non sarebbe sfuggito. Simone elice che lui ai figli dà senza farglielo notare, senza offendersi se chiedono troppo, senza volere essere riconosciuto per quello che dà. Così mantiene il ruolo naturale e non suscita sospetto in loro. Anche se Bernardo ogni tanto si secca “Papà, non fare l’eroe”. Simo­ ne non si aspetta la reciprocità, e neanch’io da Tito, però in cambio ho la certezza che lui mi ama e anch’io lo amo, così il resto diventa secondario, non me ne accorgo neanche che gli sto dando brani pre­ ziosi di vita, perché cos’altro potrei desiderare se non un autentico rapporto di amore? Ecco, io dalla sorella volevo questo: essere amata nonostante la mia colpa di esserle maggiore, colpa che cercavo di

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cancellare, abisso che cercavo di colmare mettendola a parte di ogni privilegio, dandole ciò che avevo di più prezioso, madre, padre, le mie scoperte, amicizie, beni e possessi, la tenerezza che si faceva largo tra gelosia e ostilità. Essere amata perché avevo finito con Faccettare la sua presenza. D’altra parte mi colpisce questa sensazione: io non ho affatto bisogno di un’amica, in realtà ho bisogno di liberarmi del sen­ so di colpa. In fondo il mio colloquio con l’altra verte solo su questo, non mi interessa praticamente altro da lei. Oppure non è vero, mi interessa moltissimo, ma non ne ho bisogno altrettanto. Gli interventi di Simone sono provvidenziali, anche se lui mi ritiene responsabile di tutto e quindi commette l’errore di confermare la mia superiorità, però mi presenta la “sorella minore” attraverso la sua in­ terpretazione e, vedendola io proiettata come su uno schermo, obict­ tivata e scissa dal suo potere su di me, posso guardarla finalmente con distacco. Simone non mi abbandona alle mie crisi di sconforto, non mi disprezza, anzi mi ama, vuole la mia salute. Dice “Un giorno ti sveglierai e comincerai a camminare leggera leggera, tutto sarà finito a un tratto senza un perché”. Sa che devo uscire dalle mie ossessioni, non è lì per ingannarmi. Certo che, a forza di ricevere frustrazioni, il mio rapporto con Sara è diventato un incubo. 27 giu. Rita e una sua amica nella casa-convento di certi amici in campagna (ma non somiglia). Sono vestite eleganti, carine, con bei colori, gaie. Le elogio. Rita, quasi per consolarmi, mi fa vedere alcune macchie sull’orlo della gonna. Faccio un gesto coraggioso, scavalco qualcosa, e tutti me ne sono grati. Molta gente elegante a tavola, non sono a disagio. Il clou della cosa è che stiamo per andare a Turicchi, Rita, l’altra e io. Sono felice. Partiamo, ci siamo quasi, scen­ diamo dalla macchina: eccoci lì tra le zolle e le piante. Ricevo una lettera di Piera che scrive fra l’altro: “La mia chiusura iniziale con te non è stata determinata da chiusura di caratte­ re. Sono segreta, ma mi apro se trovo corrispondenza. Ricordo che davi un’im­ magine esemplare di te con la quale non potevo trovare riscontro. Temevo, an­ che, dicendolo di venire rifiutata da te e dal gruppo che ti accettava”.

Ormai ho capito che la mia cattiveria è stata nel fatto di nasconder­ mi la sofferenza, di mentire a me stessa su questo, di sperare di farla

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franca. Però qui mi viene anche il sospetto che da me si volesse pro­ prio che fossi forte, sicura e non creassi problemi. A cominciare dai genitori che vogliono figli allegri anche quando gii danno un dolore, anzi il Dolore. E la sorella piccola vuole una sorella grande da imitare e con cui prendersela continuamente. Oggi ho parlato con Paula al telefono, le ho chiesto “Come va?”. “Abbastanza bene, e tu?” “Ho avuto delle crisi... No, non per l’Elba, ma per una mia inquietudine... Vorrei non essere qui, però non so dove andare.” “Mi ha telefonato Federica, va a Parigi” ha ripreso lei. C’è una lotta, proprio, a ricac­ ciare indietro le confessioni dolorose degli altri. Esiste uno specifico tabù sociale. A me sembra che il superiore non esiste, esiste un meccanismo di sconoscenza reciproca di cui lui e l’altro, l’inferiore, sono vittime con ruoli diversi e complementari. Questa sconoscenza non è evàdente, anzi ognuno crede di capire. Quando l’anno scorso ho detto a Sara “Tu non capisci gli altri”, avrei dovuto dire “Tu non capisci me, ma nemmeno io capisco te che non capisci me”. 28 giu. Simone è convinto che gli ho tolto la vita sociale, io sono con­ vinta che lui l’ha tolta a me, comunque non intendo fare vita sociale insieme perché dalla noia passerei all’angoscia. Così restiamo soli, ci viene una specie di mancanza di stimoli che ci innervosisce. Oppure innervosisce me perché io di stimoli volere o no gliene fornisco. 29 giu. Come prevedevo (e non come temevo, dal che era scaturita tutta un’altra previsione dettata appunto dal timore) Nicola è delusa da Sara. Non lo ammette ancora, ma è alle corde, si ritira ormai da lei, la trova “immanente”, avanza l’ipotesi che la sua autenticità sia un mito, un’apertura personale che è stata appunto presa a modello come era stata presa la mia. Sara ha detto a Nicola che sono mi­ gliorata, nel senso di manifestare di più quello che sento; lei invece non ha fatto grandi progressi nel non passare sopra il cadavere delle persone. Non ci vuole molto ad attaccare appena l’altra ti dà la forza, ma chi è frustrata lo scopre poco a poco dato che nel suo processo perde forza invece di acquistarla; Sara è il contrario di disarmante: è prepotente, aggressiva, competitiva, egoista. Anche se lo riconosce non fa che peggiorare le cose, infatti non vede ragione di cambiare. Sara ha bisogno di una frustrazione grande così e altrettanto Ester,

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dopo si possono riprendere i contatti. Ada sbaglio a metterle vicine: Ester in certo modo è perduta, Sara invece mi fa fimpressione di una che vede per un vasto raggio una vastità di intrecci, ma non vede in un punto, quel punto contiene per così dire la chiave di un suo scatto, cioè di una rivelazione su di sé. Nicola continua a insistere che è il plagiato che fa il plagiatore. Sara per ora è arrivata a vedere uguale corresponsabilità, Nicola non è d’accordo. Una del gruppo di Roma per strada non ha salutato Nicola, Nicola non ha salutato Ester al ristorante. Che disastro! Non si tocca forse il fondo dell’impotenza? D’altra parte la verità mi ha attratto sempre più di qualsiasi cosa, e sebbene cerchi volta a volta di identificarla, non sono, nonostante il desiderio e conseguente entusiasmo, convanta dell’identificazione al cento per cento. Mi riconosco nelle illusioni piuttosto che nelle ideologie. Cosa vorrei da Sara? Che affrontasse la durezza della realtà prima di parlare con me, di misurarsi con me. Odio la sua pretesa di non pagare, di fare pagare solo a me e di adoprare quello che in conse­ guenza ho ottenuto. Noi donne siamo troppo a terra, troppo avvilite per essere veramente solidali le une con le altre. Tra donne la strumentalizzazione è tanto più comune quanto più nascosta o giustificata in vario modo. D’altra parte, se rifiuto Sara, se non mi riconosco in lei, che mi resta? Stasera mi sentivo Giuda a dire quello che poi avevo detto anche a lei, e cioè che non la vorrei in nessun caso come partner. Però precisavo che, a modo suo, è molto impegnata nei rapporti. Riccardo ha commenta­ to “Velleitaria’'. Allora ho subito preso le sue difese precisando che appare così perché non nasconde i momenti in cui è giù. Però, d’ac­ cordo, prevale la condizione megalomane. Tuttavia, pensavo, lei è molto di più per me, o forse lo è stata, adesso entro in una nuova fase, quella in cui posso cominciare a considerarla anche davanti a terzi una persona come un’altra con pregi e difetti. Tuttavia ho nostalgia di lei, oppure di quello che io credevo potesse essere per me. 30 giu. Nella casa di via Adasaccio mia madre allarga le braccia sconsolata: la sua vita è solo logorio, stanchezza, sopraffazione subita in silenzio. Mi fa un’in­ finita pietà. Mi ribello e grido il mio sdegno, la mia rabbia. Mio padre minaccia il finimondo, arrota i denti, prevedo la sua ira che, invece sì scoppia, ma si frena subito perché per le scale passa un tale, un inquilino, e il muro è trasparente. Lo

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salutiamo come niente fosse. Appena sparito, m’immagino che mio padre mi salterà addosso, riprendendo la sfuriata. Invece un po’ sgarbatamente mi scansa per mettersi le scarpe, ed esce.

Noi donne non abbiamo niente da dare reciprocamente, siamo trop­ po povere e distrutte. Se una ha un po’ di vitalità si butta nel mondo maschile, lì c’è da prendere, è succulento. Io ho dato nel mondo fem­ minile, ma siamo anche troppo povere per prendere e ringraziare. Così chi dà resta indebolita al punto che non dà più. Cara Piera, io ti ho dato. Tu cosa mi hai dato? Mi hai nascosto l’unica verità importante per me, anzi mi hai fatto credere che andava bene così. Venivi tu da me perché venivi a prendere, o nella speranza di prendere: a me quella speranza non l’hai mai concessa.

E una giornata stupenda, la prima. Mi sono messa al sole nuda sul ter­ razzo la mattina presto. Io ero partita da questa convinzione: che l’umanità è buona, ricono­ scente, creativa se resa responsabile. Non è detto neanche che non sia così, però gli stadi in cui le varie persone si trovano sono troppo diver­ si per non dare luogo a una torre di Babele dove non ci si capisce più niente, e chi è cosciente soccombe alla forza d’urto di chi non lo è. Il femminismo ha incrementato la Babele, infatti la donna non accetta i meriti di un’altra donna, solo all’uomo li riconosce. Qui è da ricerca­ re l’origine dei traumi a catena e dell’impossibilità ad andare avanti. In più il femminismo non ha nessuna uscita sulla realtà che non siano delle rivendicazioni, anche questo ne fa una fonte di nevrosi. Non vedo perché devo ospitare Paula o Piera se non per pochi giorni. C’è troppa differenza fra noi, già qui ho Nicola con cui frustrarmi se occorre. Ho fatto di tutto prima di arrivare alla conclusione che, seppure difficile (o impossibile), ho il diritto di cercare un’amica che mi faccia pensare (come Sara, si torna sempre lì, o Valeria) e non un’amica a cui essere utile. Però io ho bisogno di essere utile. Mi aspetto qualcosa: la parità per mio specifico intervento visto che non l’ho trovata già pronta. 1 lug. Nicola vuole mettere una siepe piemontese nel suo giardino. Sua figlia

intanto torna con un istruttore a cavallo. Non so quali altri progetti abbia in

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mente: dirige sorridendo inesauribili migliorie ideali. Le sussurro “Sembri Fede­ rica”, ma non mi sente. Ripeto, non le fa particolare effetto.

Mi ha stupito, ma avrei dovuto aspettarmelo, che Nicola faccia mas­ saggi al corpo: stupito perché non sembra pensare a usare il suo cor­ po eroticamente, d’altra parte era prevedibile, anche solo come ma­ nutenzione narcisistica. Tutto il ragionare di Kafka così ricco di sfumature, mobilità, intui­ zioni risulta donchisciottesco, questo è il suo segreto emotivo. Il letto­ re capisce subito che Kafka potrebbe smettere fino dall’inizio la sua ostinata intenzione di capirci qualcosa e volgere la realtà a suo favore (o almeno non a suo disfavore). Però via via che argomenta, il lettore finisce per essere preso e s’illude con Kafka o tenta di illudersi che ciò sia possibile. O almeno aspetta il presentarsi di un punto fermo per smettere la sequela delle congetture, una dopo l’altra neppure demolite, addirittura falciate via dalla loro inadeguatezza e assurdità. Invece il punto fermo non arriva, come del resto ciascuno dentro di sé temeva e sapeva, e la tragedia di Kafka consiste nel suo logorante processo dì recupero nella plausibilità di ciò che non è plausibile. Vorrei leggere i classici. Ho comprato Voltaire prevedendo che non mi piacerà e poi Splendori e miserie delle cortigiane di Balzac senza pre­ vedere niente. Vorrei leggere moltissimo, trovare tante rispondenze e conferme, stimoli, imprevisti. In fondo io credo che se qualcuno ha qualcosa da dire lo scrive, e non solo lo dice a chi gli è vicino. C’è un momento in cui quello che pensi lo vuoi mettere sulla pedana dell’umanità. Tito considera suo padre uno che dice la verità, anzi quello che la dice più di qualsiasi altro, oppure non parla. Quando l’ho preferito a Marion è stato per questo: non potevo più sopportare gli autoin­ ganni di lei, come mantenesse, con tutte le insicurezze e incapacità dovute anche a inesperienza (esperienza che però sentivo che non voleva fare e non avrebbe fatto mai) tanta prosopopea a dispetto di qualsiasi prova di realtà. Raffaele poi ha perso la fiducia in me perché lo lasciavo troppo solo a lottare con la sopravvivenza e affermavo “Il mio sangue alla società non lo do”, mentre lui era costretto a darlo. Semmai si può discutere su quel “costretto”: perché si era voluto fare una famiglia se non aveva soldi? Per avere una ragione di fare i sol­

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di, a me sembrava. Seppure disposta a tutti i disagi, non intendevo sacrificare niente delle mie possibilità, anche se poi obiettivamente le sacrificavo. Però lì si è creata una frattura che si è conclusa con la separazione: era rimasto solo, distaccato da me e tuttavia continuava a essere responsabile legalmente della mia esistenza, fisica almeno. Si è sentito incastrato: io me ne stavo con artisti, bohémiens, non lo capivo, forse lo compiangevo se non addirittura lo disprezzavo. Uno di questi giorni gli scrivo. E notte. Simone a Portoferraio con sua figlia a ricevere un amico di lei. Per domani aspetto anche Paula. Sono furiosa per questo arrivo notturno di un giovanotto di sicuro ricco, americano, che il destino vuole sulle nostre spalle di appena appena ex-poveri e sottosvilup­ pati. L’estate è bella però arrivano tutti, persino gli amici dei figli e chiunque. Eppure oggi mi sentivo finalmente bene, di buon umore. Questi arrivi buttano per aria un equilibrio a malapena raggiunto. Ho la tentazione di scrivere a Piera che l’idea d’ospitarla mi pesa, non vedo neppure perché debbo sottostare alle sue prime espressioni di aggressività per l’inferiorizzazione passata. Nessuno le dirà mai la fatica che ho fatto con lei e con tutte quelle come lei. Simone mi ripeteva sempre “Ma cosa ti dà la tale? E la tal’altra?”. Io non capivo: nessuna mi aveva mai dato niente di quel genere a cui alludeva lui. Era ancora abbastanza che non mi rifiutassero a priori. Invece mi avrebbero rifiutata a posteriori, non del tutto come Anita o Ester, ma poco a poco. Ora è arrivato Simone con l’ospite, un ragazzo ridente molto naif all’apparenza. Mi chiede scherzando cosa scrivo, qual è l’argomento. E io “La mia paranoia”. 2 lug. Non c’è bisogno di inventare il soccorso femminista, qualcuna si arrangia lo stesso. In Rivolta Ester ha trovato chi le ha fatto la casa, il libro, le fotografie, i massaggi, i vestiti, come prima in me aveva la critica d’arte, la consigliera, l’ospite perenne, "lutto questo senza dare niente al femminismo. Almeno Sara ha lasciato prima di prendere, e poi ha dato molto. Se l’inferiore si ribella al superiore rischia, ma il superiore ha senso di colpa e vuole conoscere se stesso. Se il superiore si ribella all’inferiore viene accusato di rimbalzo e respinto. Così si dimostra che il superio­ re non ha via d’uscita, Sara è l’unica che me l’ha offerta, per questo la sua figura risplende ai miei occhi. Il superiore cosa può dare all’in­

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feriore? La possibilità di ribellarsi a lui. Sara ha visto e colto questa possibilità che io le davo, le altre hanno avuto paura. Noi cerchiamo di spostarci dal piano etico maschile a quello dell’au­ tenticità. Riveliamo così tutte le impossibilità della natura umana che, se non è difesa da strutture, fallisce proprio quel piano di rappor­ ti il cui desiderio l’aveva portata a demolire le strutture. Teoricamente la parità si instaura riconoscendo o ribellandosi. Anzi riconoscendo l’altro ribellandosi. E viceversa, riconoscendo l’altrui ribellione. Tutto bene, ma così manca il traguardo finale che è quello di essere accettato come oggetto di amore e di accettare l’altro nella stessa prospettiva. Solo l’amore realizza la parità: nella fase della ri­ bellione il superiore è frustrato, vittimizzato, colpevolizzato mentre l’inferiore lo vede ancora potente e diventa sadico. L’amore è il gran­ de assente. L’inferiorizzazione consiste nel pensare che la responsa­ bilità è di un altro. La cultura serve a creare un illusorio piano comune tra chi ha espe­ rienze e stadi diversi. Attutisce gli scontri di incomunicabilità. Mal di testa, nervi, senso di claustrofobia. Non c’è un albero. Tutto questo cielo, mare, rocce mi dà le allucinazioni. Però basterebbe che fossimo tranquilli Simone e io senza tutto questo via vai. Per fortuna lui è calmo, mi dà ragione, dice “Cerchiamo un’alternativa”. 3 lug. Paula, con una presenza molto dolce, mi rasserena immedia­ tamente. In più mi dà le gratificazioni necessarie: la ristampa del mio libretto verde, appena uscita, di cui è orgogliosa; notizie del gruppo di Milano, qualcosa che vive ed esiste partito da me, ma senza la mia gui­ da. Alla ristampa non tengo più particolarmente, non esprime quello che sono oggi. Però il libro è carino, pulito, onesto nella sua ribellione. Con le ribellioni bisogna essere un po’ indulgenti, a posteriori. Il paese è invaso per la seconda volta. Soldati mimetizzati di verde sbucano fuori a un crocevia. Scappiamo a gambe levate: incredibile ma vero siamo in salvo. C’è il problema di una casa da abbandonare e raggiungere quella di campagna più sicura. Siamo tanti, c’è anche Paolo Villaggio, vorrei che venisse Tito. Infatti viene, che bellezza, però un altro suo idolo lo tratta male, lo aggredisce, io vado in sua difesa, ma non è il caso. Parlo un po’ a Tito dietro le quinte. Sotto la vec­ chia casa c’è cibo in quantità, abbandonato dai venditori che sono scappati per l’invasione, soprattutto frutta e verdura bene in ordine come a un supermercato:

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si tratta di scegliere cose buone, non avariate. È una vera opportunità, così Tito e io non rischiamo di essere presi allontanandoci per comprare da mangiare e non dobbiamo lasciare la compagnia. Tutti insieme ci rifugeremo in campagna.

Il senso di irrealtà viene quando una fa una vita che non le corrispon­ de (o non accetta che le corrisponda una certa vita che fa). D’altra parte è molto difficile uscire del tutto dal ruolo quando c’è un figlio. Ma anche affrontare la vita senza nulla alle spelile è quasi impossibile. Gli uomini hanno un’infinità di miti, di esperienze che li conferma­ no: niente è così folle dal momento che esiste un precedente. Mentre noi non ne abbiamo, e quei pochissimi sono di rinuncia oppure a conclusione tragica e comunque non vengono riconosciuti. Un uomo in ogni impresa o espressione di sé, fosse pure la più assurda e stram­ palata, autodistruttiva e squallida, oltre ad avere un precedente, ha vicino la donna per sorreggerlo e credere in lui. In me chi crede? 4 lug. Fuori da un supermercato una commessa mi mette in mano delle pen­

tole, dei piatti. Faccio per restituirglieli credendo abbia solo voluto appoggiarli per un momento, ma lei mi dice che no, me li regala. Non posso credere a un così bel regalo e me li porto dietro in una galleria d’arte tenuta da un’amica, e lì li dimentico. Simone molto sicuro di sé, però arrabbiato, sgradevole con me. A un tratto lui con altri ragazzi fanno un rumore, ridono; un uomo a cui tengo è ancora nelle vicinanze, si volta e temo abbia visto anche me in quella circo­ stanza volgare. Finalmente uno può darmi le chiavi della galleria d’arte, così da recuperare le mie pentole, cerco di andarci in macchina con lui, non è semplice. Una donna biondissima,^«^, quasi vecchia, ma genere sexy, amante di un tale, mi racconta con ammirazione di sua sorella che si fa la messa in piega da sola leccandosi i capelli prima di arrotolarli sul bigodino, come fanno gli indiani Zuni: una cosa straordinaria, si crea una reazione speciale e poi è la messa in piega più riuscita che si possa immaginare, i capelli vengono bellissimi. Provo a mettere i capelli in bocca, mi fa urto di vomito, sono rasposi. Abbandono immediatamente l’idea.

L’egoismo lo confondevo con l’innocenza perché intuivo che chi è egoista non ha senso di colpa. D’altra parte mi pareva ingiusto, una speciale immunità poiché ve­ devo che le occasioni di senso di colpa c’erano benissimo, ma non lo producevano. Penso a Sara. Forse la mia bontà e generosità con

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lei tendevano inconsciamente a farie venire senso di colpa verso di me, cosa che ci avrebbe messo alla pari, invece causavano l’effetto opposto: il sospetto. La cultura maschile ha Caino che uccide Abe­ le, e il contrario, Cristo che muore per gli uomini, per i fratelli. Ma noi donne chi siamo nei rapporti fra noi? Cos’abbiamo combinato dall’inizio dei tempi? Come sono scialbi i drammi dell’infanzia espressi da un’altra, noiosi, tutti uguali. Per questo la mia storia con le sorelle annoia Simone, gli sembra quasi falsa. Anche a me quella di Paula, in più mi urta un po’ che abbia i miei stessi termini di sorella maggiore. Non mi rivela niente. E una conferma, va bene, però la vera conferma l’aspetto da quella che ha avuto un’esperienza complementare alla mia: qualcosa di mezzo tra un riconoscimento e un perdono. 5 lug. Bacio e abbraccio affettuosamente il dentista che mi ha fatto un appa­

recchio con una nuova dentatura da sovrapporre a quella mia. La metto su e ne sono felice, mi ci trovo bene. Simone mi fa capire che esagero con il dentista, ci aumenterà il conto. Poi in macchina mi vedo nello specchietto retrovisore ed è orribile, mi viene una specie di bocca con il labbro leporino. Decido all’istante di togliermi l’apparecchio e di restare con i miei denti, sarà comunque meglio. Infatti mi guardo e scopro dei denti più belli di quelli che ho realmente, bianchi, grandi, ordinati, con un arco spazioso c ben attaccati alle gengive. Mi piacciono molto. Non capisco l’assurdità del dentista e dell’apparecchio. Sara viene ad avvertirmi di ciò che è successo l’anno prima in cui è andato perso o distrutto qualcosa che mi apparteneva. Io sono all’oscuro dell’episodio. Lei mi riferisce che una certa Carla ha detto di svelarmi l’accaduto in maniera molto dura. Mi chiedo di che si tratta e in che cosa potrebbero consistere delle nuove accuse rispetto a quelle che già so e riesco a sopportare.

Ho dato da leggere le mie vecchie poesie a Paula: non me ne ha fat­ to cenno, d’altra parte non contavo molto sulla sua reazione. E una persona sfocata, ostinatamente chiusa. Tuttavia la sua visita mi ha fatto piacere. Adesso mi ha detto di averle lette. La sua osservazione che il modo come mi ero posta con mio marito e il modo come mi pongo con Simone sono molto diversi ha dato il via a una sequenza di riflessioni. Con Raffaele avevo riconquistato il padre perduto che accorda la

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fiducia totale, però si mostra subito pronto a toglierla e comunque mette sempre delle condizioni, il padre esigente che ambivo a con­ vincere e trascinare dalla mia parte, che ti predilige all’inizio e poi si frustra della tua autonomia via via che cresci, e con questo lo scacco iniziale si ripete; poi ho scoperto un uomo che mi accettava come ero, cioè Simone. Lo stesso è accaduto con Sara che mi ha creato l’illusione (che io perseguivo) di potere suscitare fiducia nella sorella che mi aveva sempre respinta, finché sono stata respinta anche da lei. E curioso (anzi è normale, è curioso afferrarlo solo ora) che la rottura con mio marito abbia avuto le stesse motivazioni di quella con mio padre: a entrambi addebitavo la priorità del lavoro nella loro vita, sebbene fosse evadente che vivevo alle spalle prima dell’uno e poi dell’altro. Nessuno dei figli ha riconosciuto l’officina del padre, questo capolavoro dell’ex-operaio. D’altra parte conosco solo mio padre e mio marito così ossessionati dal lavoro, sebbene per motivi diversi, e così assenti di fronte ai problemi dei membri della famiglia. La polemica con il loro lavoro era incentivata dal fatto che il lavoro rappresentava il motivo ufficiale della loro distrazione da me. Anche con Simone sfodero di tanto in tanto questa polemica per gli stessi motivi: le aspettative della realizzazione di sé poste nella solitudine dell’opera e non nei rapporti umani. 7 lug. Il medico mi fa capire che Simone può avere qualcosa di vera­ mente grave al fegato: la crisi di stanotte con tutto quel dolore fisico può significare questo. Finché non me ne è stato inculcato il dubbio ero irritata con Simone: nonostante stesse male ho continuato a cer­ care di dormire dopo avere prestato il minimo di aiuto. Ce l’avevo con lui perché non si regola nel mangiare e, nonostante sappia be­ nissimo a cosa va incontro, beve alcool, magari non molto, ma disor­ dinatamente, poi ha le crisi ed è una seccatura. Mio padre anche si comporta così: un po’ sta a dieta, un po’ fa i suoi comodi, in modo che è spesso disturbato e mia madre è frustrata nel ruolo di chi pre­ para da mangiare con cura e non serve a niente. Mio marito passava da un mal di testa a un altro per non sapere rifiutare quello che glielo procurava, liquori soprattutto. Io invece sto attenta e vedo che di so­ lito le donne sono più continenti, mi sembra un segno di maturità. Tito lo sto educando in questo senso, visto che ha le stesse debolezze organiche di famiglia; ma anche lui spesso perde la testa e baratta il

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sapore di un attimo con due giorni di acetone. Comunque, appena il medico, guardandomi in modo indicativo, senza tuttavia palesare Pinsinuazione catastrofica, mi ha detto di ricoverare subito Simone per le analisi, ho visto la cosa sotto tutt’altro aspetto e, seppure incre­ dula e quasi solo per prova, ho provato l’angoscia di una scomparsa come la scomparsa stessa dell’universo. 8 lug. Magari Simone è stato male per colpa mia visto il mio ner­ vosismo dei giorni scorsi. Mia madre mi ha abituata a pensare che ogni mio dissenso poteva essere fatale a papà procurandogli, che so, l’infarto. Invece sono io che ho avuto TBC e cancro. Nessuno però era stato abituato a pensare che fosse colpa sua. Vorrei scrivere a Valeria. Non voglio scrivere a Piera, semmai per dovere. Ieri Tito ha rotto un vaso con il sale, oggi si è rotta la pompa dell’ac­ qua: siamo senza acqua. Leggero mal di testa. Nonostante gli anti­ biotici Simone ha la febbre. Eppure sono abbastanza serena, con il senso di una vita passata a sgobbare (senza parere). Mi tornano in mente le fatiche all’epoca del matrimonio. Anche se richiamato dalle attuali giornate logoranti, il paragone è sempre insuperabile. Nicola è piuttosto forte: ha circoscritto il suo mondo di limiti precisi, le siepi piemontesi del sogno (allusione alla madre), è molto brava nel non farsi cogliere alla sprovvista. Al contrario io sono una sempre pronta a illudermi. Ancora? 9 lug. Alla TV intervista con il criminale di guerra nazista Speer. Io non ho mai fatto del male a nessuno, però la sua presa di coscienza del plagio subito da Hitler e conseguenti gesti criminali mi ha fatto capire come, nel corso di una vita, possa accadere di compiere, in­ vece degli errori inevitabili, ma di dimensioni modeste, private a cui siamo abituati, errori inumani e di dimensioni pubbliche, storiche, però sulla stessa base di fatale cecità dell’individuo. Su un punto solo Speer non abbandona la speranza: quello relativo alla sua attività di architetto nazista. Lì lascia alla storia decidere se fu un artista o no. Da solo non ci arriva. 10 lug. Non mi guardo allo specchio, non ho un vestito nuovo, nien­ te di eccitante all’orizzonte. In più c’è molto da fare. Chissà perché con un uomo ci si ritrova sempre nella noia.

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Non avevo scovato alcun precedente a Simone nella mia vita, mi pareva uno nato dal niente per la mia salvezza. Invece, proprio ieri sera, mi si è fatta largo l’analogia illuminante con il mio padrino. Era un uomo bizzarro e generoso che mio padre ammirava perché non si curava deH’efTetto sconcertante che poteva produrre sugli al­ tri, anzi sembrava che ne godesse. Veniva da una famiglia ricca di commercianti, mia zia l’aveva sposato anche per questo e comunque gli aveva messo più volte le corna. Mia zia era un po’ snob, con il pretesto del canto frequentava gente colta, anglosassoni eccentrici che soggiornavano in Riviera. Mio zio non si faceva inferiorizzare e manteneva una sua autonomia un po’ stramba. Dava l’impressione di guardare alle cose essenziali e che stranamente le cose essenziali fossero vagamente sconvenienti, mentre in mio padre risultavano sempre idealistiche e moraleggianti, lo parteggiavo per mio zio e a tavola aspettavo le sue battute fulminee comiche e rivelatrici. C’era del rispetto per lui: intanto non arrivava mai a mani vuote, por­ tava cose da mangiare e regali, e soprattutto l’aria insolita di un altro mondo. L’indulgenza che suscitava, con il sottinteso che fosse un po’ matto, gli lasciava campo libero. In più era buono, incapace di ferire gli altri, anzi dava soddisfazione e anche per questo era ben visto in casa mia dove non si eccedeva certo nei riconoscimenti. Sembrava che ne sapesse assai più della vita di quanto ne sapeva la mia famiglia e non si facesse illusioni. Questo non gli aveva tolto il buonumore, anzi ne aveva molto più degli altri. Da piccolissima mi adorava, diceva a mia madre “Eletta, non ne avrai più figli come questa”. Alla nascita di Lucia la madrina mi aveva trascurata, il padrino invece continuava ad apprezzarmi e io ad apprezzare lui: era l’unico che, sebbene fossi già cresciuta, manifestasse di volermi sincera come quando ero piccola. Non si scandalizzava mai delle mie uscite, non mi chiedeva di essere manierata, educata, di buoni sentimenti come mi chiedevano gli altri. Credo di avere individuato in lui il prototipo dell’artista. Quando ho incontrato Gallizio, ad esempio, mi ha dato subito un senso di fiducia e di entusiasmo, non c’è dubbio perché me lo ricordava. E così Fontana, Soto, persino Burri, cacciatore come lo zio Beniamino, Rotella, Scarpitta, Turcato, Melani, Nigro ecc. Tutti hanno in lui il loro precedente. Quanto a me sapevo di trovare accoglienza in tipi così. Mi sono sposata nel ’58, nel ’60 è comparso Gallizio, e Raffaele lo ha subito sentito come

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antagonista, non potevo capire perché, un uomo di sessantanni, ma è vero che riprendevo le mie abitudini di bambina che al padre vero preferiva quello adottivo. E così è stato finché ho sostituito Raffaele con Simone, altra versione dello zio Beniamino per quanto aveva che mi attraeva in modo arcano e decisivo. Anche lo zio Beniamino faceva delle indigestioni, era incontinente nel mangiare e nel bere, non sempre, ma appunto in certe occasioni. Anche lo zio Benia­ mino non sopportava la piccola borghesia, il perbenismo, le buone maniere, la mediocrità, la povertà. In particolare non sopportava di comportarsi bene davanti agli amici della moglie, faceva di tutto per farla sfigurare. Lì diventava addirittura patologico, smetteva i modi da gran signore che aveva naturalmente e si faceva beffe degli altri simulando rozzezza, goffaggine, adoprando un linguaggio volgare. Una volta si era tirato giù il costume sulla spiaggia di Rapallo mo­ strando il sedere e non so cos’altro. Oppure si divertiva a fingersi un contadino un po’ sperso e meravigliato della città. Arrivava alla bizzarria acquistando gli abiti smessi di un venditore di bestiame. Da ragazzina mi portava al Circolo, un Circolo chic, per farsi fare le mani - io ero sbalordita perché la manicure gli metteva anche lo smalto trasparente sulle unghie - e poi in un bel bar a mangiare il gelato di panerà. Conosceva i migliori negozi e comprava solo cose di prim’ordine. Aveva un alloggio lussuoso e una cameriera che ser­ viva a tavola con tutte le regole in oggetti preziosi che non avevo mai visto in casa mia. Da mia zia ho tratto l’incoraggiamento ad avere amanti, da lui il sen­ so globale del comportamento libero. Mia zia credeva di possedere il segreto dell’arte, invece per me il suo era solo un settore di particolari competenze musicali e canore. Lo vedevo abbinato a esercizio con­ tinuo. Tuttavia devo riconoscere che la zia Lea era a sua volta abba­ stanza originale se poi ha fatto anche la medium e ogni sorta di magie e quando è morta si è scoperto che da qualche anno era diventata carmelitana o terziaria francescana, non ricordo. Nel dopoguerra lo zio ha avuto un tracollo economico e ha rischiato quella povertà che odiava. E venuto a trovarmi a Milano che avevo il bambino piccolo e abitavo in un appartamento miserabile. Così era finita la nipote pre­ diletta! L’ho vasto pieno di rughe, invecchiato, stanco. Si è suicidato un mese dopo direttamente sulla tomba al cimitero credendo così di abbreviare le pratiche per la sepoltura: aveva fatto una assicurazione

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sulla vita a favore della moglie, che comprendeva il suicidio. La zia ne ha goduto per poco. Non potevo supporre che questa figura aves­ se avuto per me tanta importanza nel familiarizzarmi con la libertà e con ogni sorta di licenze nel vivere. E nel crearmi una specie di erotismo inconscio che mi spingeva verso uomini inusuali, diversi da quelli da cui ero attratta coscientemente. 11 lug. Nicola ha avvertito Sara che entro il 15 deve andarsene. Non vedo l’ora che venga il 15 e che Sara sparisca dalla mia vita. Se nessu­ no la ferma, con gli occhi sgranati e la bocca aperta mangia tutto ciò che le entra dentro. Ancora quattro giorni e poi non saprò più niente di lei. Non posso sopportare che qualcuno mi abbia fatto del male in cambio del bene e non ne provi il minimo rimorso, anzi consumi fino aH’ultima briciola le chance che gii ho dato. Se io sono stata costretta a ritirarmi da lei, a rinunciare alla mia illusione di sorellanza (ma che illusione era mai quella? che volevo?...), almeno che non sia costret­ ta a subire la sua strumentalizzazione. Adesso comincia veramente l’estate per me, una specie di buonumore. Nicola vuole rassicurarmi, mi fa capire che Sara piano piano mi accetterà, è solo questione di tempo. Oggi continuavo a pensare che non esiste veramente superiore e in­ feriore, esiste chi ha il senso della sua responsabilità, da cui il senso di colpa, e chi non ce l’ha e attribuisce sempre la responsabilità a un altro. Chi non ce l’ha prima segue, poi si ribella. L’altro, prima si assume la responsabilità del rapporto con lui, poi subisce il rigetto. Però la parità, secondo me, si raggiunge se anche l’inferiorizzato, co­ siddetto, prova senso di colpa verso il superiore. E questo è ancora da vedere se può verificarsi. Tra me ed Ester sarebbe stato molto difficile stabilire chi di noi due era inferiorizzata: avevamo ammirazione re­ ciproca. Lei poteva invidiarmi perché avevo un uomo, io potevo invi­ diarla perché si era affermata nel mondo maschile. Nel femminismo io avevo cominciato a esprimermi, però lei diceva di averlo fatto con la pittura. Perché quando le ho confidato la mia difficoltà ad aprirmi con lei ha ribattuto che era irritata dal mio tono di superiorità? L’incongruenza è stata tale da impedire qualsiasi sviluppo. Non avevo mai pensato a una inferiorità di Ester rispetto a me, però ho capito a un tratto che era così. Ma la sua accusa era strategica: Ester si è dichiarata inferiorizzata proprio nell’epoca in cui l’inferiorizzazione



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rappresentava quasi un titolo onorifico e la superiorità il peggiore degli anatemi. 12 lug. Andare d’accordo con Nicola mi dà un gran benessere, cono­ scerla mi piace molto. Sto molto attenta ai suoi pareri e alla sua visio­ ne delle cose. E una ragazza proprio sola. Somiglia molto a mio padre come attività e tenacia nelle cose pratiche, e a mia madre come sensi­ bilità. Fino da piccola ho sempre avuto una passione per le amiche, mi erano indispensabili. Tagliavo la corda svelta svelta per raggiungere qualche compagna sotto casa, qualche figlia di contadini alla fatto­ ria... Sono stata agitata finché non ho avuto un’amica anche qui: per me è una situazione naturale di cui non voglio né posso fare a meno. La gente abbandonata a se stessa non mi interessa affatto: capisco So­ crate che faceva domande, rendeva cosciente l’interlocutore di quello che stava dicendo. A ruota libera puoi stare solo con chi è cosciente, altrimenti devi tenere l'interlocutore. In coppia con Simone, appena sono presenti altri, vengono fuori bat­ tibecchi come in tutte le coppie. Banalità in cui gli amici sorridendo prendono le parti ora dell’una ora dell’altro. Naturalmente a me sem­ bra che dipenda da Simone. 13 lug. Sono a tavola con Gallizio: la mia impressione è che cerchi di ripren­ dere il contatto con me dopo molto tempo. E silenzioso, né lui né io mi pare che mangiamo. Ha gli occhi chiari, vivi, magnetici, che mi fissano. A un tratto, forse in uno scoppio di riso o di emozione diventa tutto rosso e gli occhi risaltano moltissimo, mi ipnotizzano. Pinot, che orrore non poterti vedere mai più, mai più. Che orrore non potere godere della tua presenza, del tuo calore, della tua fanta­ sia, non potere venire sulla tua onda e tirarti sulla mia! Mi ha ripreso l’ansia di scrivere a Raffaele per sollecitare la restituzio­ ne dei quadri di Pinot che sono miei. E proseguo: Adesso mi rendo conto di molte cose: come sia insopportabile sentirsi sfruttati da un altro, per esempio. Inoltre eri in una fase di vita che io non potevo capire: non avevo provato una vera delusione dell’ideologia. Non avevo la sensazione di avere logorato la parte più importante della mia vita per una meta illusoria, non avevo ancora idea della stanchezza conseguente alla fatica irreversibile. Questo

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dato di fatto forse rendeva impossibile comunicare, mentre io credevo fossi tu il responsabile.

14 lug. I mafiosi hanno fatto fuori Simone. Tito e io siamo in pericolo. Le cose

precipitano in una serie di vicende che non ricordo. Finché alla fine mi sembra che anche Tito sia perduto.

Avevo paura, ma non ero terrorizzata. Provavo pena per il ragazzo, per la sua fiducia destinata a essere tradita (dalla vita?). Simone ha cominciato a scrivere della sua infanzia. Ha tentato diverse volte in passato, però in un modo “creativo” che non mi diceva molto. E preso dal bisogno di conoscersi. Lo infastidisce un po’ la coscienza che ho della sua derivazione da me e dal femminismo. Lui adopra espressioni tipo “Mia madre è un personaggio straordinario” oppure “Quel gesto mio è stato molto bello”. Mi dispiace anche che faccia le cose pensando subito alla pubblicazione, ma è abituato così. Forse verrà un momento in cui capirà di più quello che sono e faccio, quello che scrivo e che per ora non sembra averlo particolarmente scosso. 15 lug. Anche questa ristampa è destinata a cadere nel vuoto. Non so se rammaricarmi o essere contenta. Ho paura della notorietà come sono mortificata dall’anonimato. La notorietà mi attrae come nuova possibilità di vita, di incontri, di scambi. Adesso che Sara è fuori dal mio raggio, in qualche posto imprecisato (forse Pantelleria), con gente imprecisata, con difficoltà e soluzioni imprecisate mi sento vicina a lei, provo simpatia, solidarietà, posso rispecchiarmi in lei. Oggi sono serena, la casa è silenziosa, i ragazzi sono via, torneranno stasera. Sono libera per qualche ora e sto bene con Simone vicino. Caro Pasolini, il tuo richiamo alla diversità, che poi è autenticità, mi ha trovato molto sensibile. D’altra parte credo che quell’universale in sé che tu cogli nel sottoproletariato è abbastanza simile a quello che finora è stato colto nelle don­ ne. Però, appunto, da altri, non da loro stesse. Se il traguardo dell’essere umano è la coscienza né al sottoproletariato né alle donne può bastare la contentezza di vivere. Contentezza attribuita da altri, non da loro stessi. Solo la coscienza può pronunciarsi su cosa è la propria felicità. Per me il punto cruciale è stato il passaggio tra l’alienazione di credersi felici - come gli uomini ci assicuravano

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che dovevamo essere - e la scoperta della propria infelicità e frustrazione, e la felicità di poterlo ammettere di fronte a sé e agli altri. Ti saluto fraternamente.

Comincio a leggere Voltaire. Simone sta leggendo Balzac e si diverte moltissimo. E eccitante invitare a casa propria persone così ricche di esperienza ed essere in grado di poterle apprezzare nel loro valore. Quello che mi è sempre piaciuto in Simone è che lui ha sempre un altro punto di vista sulle cose da quello che ho io. Non titubante, sotterraneo, velato, come spesso accade fra donne, ma chiaro e netto. Gli comunico tante sensazioni, tanti pensieri, però poi ho il piacere di godermeli da sola. Ho avuto una lettera di Paula: mi scrive che le mie poesie sono proprio belle. E la prima a averle viste sotto una luce di autocoscienza, ad avere risposto su quel piano. Riporta i versi “e dove si posa il piede bisogna / posare il cuore”. Strano che non mi faccia un effetto straordinario: forse ero arrivata da sola alla certezza del loro significato. Però mi ha dato un’emozione enorme dove dice di sentirsi come “un animale preistorico con inutili scaglie e inutili unghioni” con dentro “un animo svelto di gatto che tenta di saltar fuori”. Che “la sorda irritazione” per la sorella le si è sciolta dentro e che ha molta voglia di parlare con sua madre e di chiederle di sé quando era piccola. Anche Simone ha scritto una serie di domande da mandare alla sorella su se stesso, lei, la famiglia, le sue origini. Gli ho detto “Non bisogna cedere. Vedi che poi ci si trova dentro un’umanità che fa tutta lo stesso lavorio o se lo comunica”. Balzac era conservatore perché era un realista e la società vista così corn’è, “saputa” vedere, non ammette progressi, solo trasformazioni. E individualmente, a piccoli gruppi asociali, che gli esseri umani pos­ sono superare i condizionamenti, le cecità. 16 lug. Guardo la mia mano consapevole non è più la mano di ragazza. Se copre la tua mantiene quello che promette.

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17 lug. Come mi è antipatica la musoneria, la gravità patriarcale! L’incapacità a godere di una mattinata di pioggia in piena estate! Ribellandosi a me Sara mi ha lanciato la sfida di procurarmi un do­ lore e del trovare il veleno in tutto ciò che le avevo dato. Dopo non poteva pretendere di avere ancora da me, proprio a causa della sfida. Anche stasera con Felicita e David, Simone e io abbiamo parlato di noi stessi, anzi dei rapporti fra noi, e loro hanno seguito. Ci siamo soffermati su minuzie della vita in comune, così non è stato pesante, anzi si sentiva un po’ il polso della coppia: momenti di incomunicabi­ lità, espedienti per romperla, manie e riti quotidiani. David ha detto che, probabilmente a causa del suo modo di raccontare pieno di pre­ liminari, quando arriva al dunque di un suo problema, Felicita già sbadiglia e se ne è andata. Mi sono stupita, e ho provato il desiderio di ascoltare uno dei suoi racconti pieni di preliminari. 20 lug. Sono desolata di dovere lasciare la campagna e tornare al mare. Ma non so cos’altro fare che seguire Simone. Sono molto sensibile alle fatiche fìsiche, non posso più trovarmi in difficoltà con valigie, pacchi, masserizie senza provare un cosciente fu­ rore. Per evitare gii scontri con la società, con i rapporti di lavoro, con la malvagità, la violenza, la doppiezza accetto un ruolo di facchino privato e così alimento la paura del male e una ingenua bontà. E per non togliere al padre il mito della sua rettitudine, forza, giustizia - la figlia lo vede solo nel momento privato e moraleggiante - è per non vedere fino in fondo la realtà e uscire così da un illusorio senso di essa? Voglio vedere le sozzure del mondo voglio guardarle senza stornare la testa voglio scendere col mio sguardo nel cuore dell’irreparabile miseria e voglio restare calma.

Sulla banchina di Piombino Simone ha buttato il suo cappello per terra e l’ha pestato più volte. Gli avevo fatto delle osservazioni sul suo

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aspetto. Mi è sembrato di avere già vissuto questa scena, con lo zio Beniamino al posto di Simone, la zia Lea al mio. E io bambina che osservavo. Sono irritata per non avere trovato il modo di comunicare con Ma­ rion: è così sciatta, lascia tutto come viene viene, non fa niente perché si stabilisca un incontro. Marion aveva un comportamento pubblico che mi zittiva per non immischiarmi nelle sue sbavature, cioè non mi apriva affatto una breccia nella società, al contrario, me la annullava. Marion, come Ester, sembra facilitare la conversazione, l’espansività necessaria a sostenerla, io certo l’avrò sentita così, adesso mi pare assurdo non essermi resa conto che manteneva i rapporti e gli scambi in una zona per la quale io ero comunque inadatta. 21 lug. Marion ha avuto l’appoggio della madre, figura dominante in famiglia. Spinta da quell’ambizione, l’ha fatta propria ed è rimasta incastrata da un condizionamento che le impedisce di prendere atto della sua interiore insicurezza e dei suoi dubbi. Non può deludere la madre né smitizzarla. Così il suo tratto principale è la presunzione, la mancanza di verifiche: esalta al massimo o butta nella merda senza trovare un autentico principio di rispetto e di realtà. Ester era stata ammirata dal padre le cui aspettative avevano contato per lei e, in con­ seguenza, credo, dalla madre e dalle sorelle. Così anche per Ester la fi­ ducia in se stessa è diventata obbligatoria e altrettanto gli accorgimen­ ti per difenderla. Ada essendoci di mezzo il padre, è stata più esigente nelle sue realizzazioni: credendo alle profezie di un uomo su di lei, ha affrontato più realisticamente il campo scelto di comune accordo, l’arte, la pittura, è stata più esplicita nel valutare i risultati e perciò nel perseguirli. Marion si basa sull’apparenza di un successo perché tanto le basta a soddisfare la madre e perciò lei stessa, Ester doveva dare una certa sostanza dimostrativa alle sue aspirazioni. Però l’obbligato­ rietà aU’affermazione sociale proietta la personalità della donna nel mondo maschile senza possibilità di ritorno alla scoperta della propria vera natura. Questo mandato incide sul carattere e lo trasforma, non ammette ripiegamenti, ripensamenti. Non ammette l’autocoscienza. Anch’io, finché intendevo acquisire qualcosa per convincere gli altri, lottavo con me stessa per piegarmi al compito che mi ero prefìssa però in solitudine non potevo fare a meno di ascoltarmi e prendere atto, cosa che poi si rifletteva all’esterno vietandomi i compromessi e perciò

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in definitiva la carriera. Ho finito per fare della mia attività culturale un’appendice di quella interiore. Alla base non avevo l’aspettativa dei miei come spinta da subire, come bussola su cui orientarmi. La bus­ sola non potevo non cercarla dentro di me, nell’approvazione della coscienza. E alla fine nella coscienza di quell’approvazione. Coscienza della coscienza di sé è la vera coscienza. Adesso che sono bella che un colpo magistrale di sole ha reso bella ho nostalgia per tutti coloro che potrebbero amarmi per qualcuno che potrei amare in questo veloce momento che sono bella. Per fortuna tutti ci disgustano un po’ perché sono aridi perditempo signori delle occasioni mancate. Ma pensate se li amassimo

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sempre come nonostante tutto in certi momenti ardiamo nostalgicamente per loro. Cara Valeria, mi sto annoiando. Un po’ di brivido mi manca. Vorrei un lavoro, un lavoro nel cinema. Ti meraviglia? Vorrei fare un film.

22 lug. Non ho la mobilità di una ragazza ho un figlio con me ma ho ancora i nervi di una ragazza - forse anche mia madre ce li ha. Al diavolo!

Ho comprato gli scritti di S. Francesco. Ho ricevuto una cartolina di Sara da Pantelleria “Cari saluti”. So che lei non ce l’ha “realmente” con me. In un salmo di S. Francesco composto con brani della Bibbia, leggo: “Ho cercato chi si rattristasse con me, e non c’è stato; chi mi consolasse, e non l’ho trovato”.

Simone forse ha ecceduto un po’ nel mangiare, qualche fettina di salame l’ha tentato. Ha un piccolo attacco. Mi spaventa. Ha gli occhi spaventati. Adesso ammette di essere malato, di avere qualcosa. Se lui ha fiducia io sono ottimista. Se lui la perde penso subito al cancro e alla morte.

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23 lug. Mentre Simone aveva un secondo attacco verso le 3 di sta­ notte, io leggevo il mio libretto di ristampe come un tempo facevo con le poesie. Al posto di Raffaele, Simone. Conoscendo Nicola, parlandole e lasciandola parlare come mi è ac­ caduto oggi, ed è stato un momento molto vivo, non posso fare a meno di apprezzare la sua serenità basata su un certo pessimismo di come ci si può reaizzare al di fuori della famiglia e del lavoro creati­ vo. Lei sta “dentro” la sua situazione, al di fuori non vede attrattive, non ha smanie di uscire. In questo l’ammiro. Quanto a me e alla mia famiglia la sento e l’ho sempre sentita provvisoria in quanto non ho un ruolo intorno al quale costituirla, mi sembra sempre un raduno temporaneo di gente che un domani può dividersi e prendere strade che non si incontrano più. Sono convinta che è stata la funzione di madre che ha giocato la donna, non tanto per l’esperienza che le dà, esperienza preziosa e forse insostituibile, quanto per l’impossibilità a svolgersi in direzioni libere quando siano incompatibili con il suo ruolo di madre. Rimane cristallizzata in un’immagine che è collegata alla necessità di fornire bontà e abnegazione, e persino un possibile rifiuto di sé a favore dei figli. Tutto ciò che l’uomo ha fatto non lo ha fatto in quanto “padre” (con la p minuscola), anzi, al contrario, oppure indipendentemente. Ma come si fa a essere madre e dimenticarselo, prescinderne? Di­ venta quasi mostruoso, comunque del tutto improbabile. Un’amica pittrice quando ha deciso per la sua autonomia come artista ha la­ sciato il figlio con il padre. Mi viene da pensare: ma cosa può darle la pittura che valga una tale rinuncia? Perché questo aut-aut? Eppure anch’io vorrei essere sola, da quindici anni non lo sono e mi sgomen­ ta l’idea, vorrei poterlo essere un po’. Oppure no, non si tratta di que­ sto: devo accettare i limiti, come dice Nicola. Lei che, essendo la terza figlia, fino da piccola ha guardato cosa combinavano gli altri, ancora adesso misura le possibilità su quello che vede realizzato intorno e non scopre niente che le faccia sentire una possibilità perduta. Forse non si accorge che da fuori la vita non rivela molto, e poi io pensavo il contrario - ed era evidentemente assurdo - “Quello che non c’è sono io a portarlo”. 24 lug. Chiacchierando con Simone e tirando fuori tutto il veleno mi sono sentita meglio. Però mi accorgo di quanto sono confusa.

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La libreria di Marina di Campo ha venduto uno dei miei libretti; ho deciso di telefonare a Paula e chiederle che me ne mandi una ventina. Penso come deve essere bello avere 100.000 copie in giro in infiniti punti vendita. Però è ancora bello per me, seppure pagato con tan­ ta instabilità, questo stato semi-clandestino che non mi costa nessun compromesso. Simone ha un altro attacco, peggiore di quello di avantieri. Ha deci­ so di andare a farsi le analisi. Mi viene il panico e insieme una strana calma. Gli sta salendo la temperatura. Penso ad Aldo, alle prime av­ visaglie di male al ventre, anche lì coliche, febbri improvvise, diagnosi blande, e poi l’inizio del sospetto cui però non dava credito. 25 lug. Per quasi tutta la notte Simone è stato male: andava al ba­ gno, si misurava la febbre, si sedeva sul letto, mi svegliava. Però non era una colica dolorosa, così, seppure io fossi paralizzata dalle previ­ sioni più nere, in camera regnava una certa calma. Un versetto dell’Apocalisse: “lo quelli che amo, li correggo e li castigo”. Prima mi piaceva che la donna rimanesse giovane e alleata dei giova­ ni, adesso mi pare un segno della sua immaturità in quanto fissazione alle illusioni materne. Lei sta dalla parte delle illusioni, di chi ne è por­ tatore. Per esempio, proprio quando sembrava avere preso coscienza delle alienazioni del matrimonio Federica era contenta che il figlio si sposasse. In realtà parteggia ancora per chi vede nel matrimonio una soluzione. Anche Nicola ha ammesso che la maternità è un’ottica particolare sulla realtà. Adesso mi dà fastidio quello che prima con­ sideravo un pregio della donna: la sua condizione naive. Guardo alla TV il film su Ulisse, ricordo che VOdissea mi suggestionava molto da ragazzina: il lungo Gaggio presuppone la capacità di guardare la real­ tà, di prendere atto, di cogliere tutte le opportunità per non fermarsi prima di avere fatto la conoscenza del mondo come è. Gli scritti di S. Francesco mi hanno delusa, a parte il cantico delle Creature, ma le “regole” sono proprio regole. In più esisteva l’alibi che, tutto il bene provenendo da Dio, la funzione direttiva di France­ sco non era un problema. Infatti “Il Signore diede a me, frate Fran­ cesco, la grazia di... Il Signore medesimo mi condusse... Il Signore mi diede tale fede...” ecc. Insomma, nonostante tutto, comoda una fratellanza in questi termini.

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27 lug. Mattinata stupenda. Simone ha ancora la febbre, è magro e non si regge in piedi, però è sereno e dice di sentirsi meglio. Mi rassi­ cura che fra tre giorni è in clinica per gli esami. Caro Pasolini, partecipo alla tua indignazione per le risposte rozze con cui molti esponenti della politica e della cultura sono intervenuti su una tua presa di co­ scienza resa pubblica. E siccome anche noi siamo rimaste vittime di nient’altro che di una impossibilità a trovare rispondenza al nostro modo di “nominare le cose” e di farle accettare come presa di coscienza, e non certamente di una vocazione al vittimismo e all’incomunicabilità - mentre eravamo drastiche nel volere evitare un colloquio tra sordi - ritengo che la circostanza in cui ti trovi crei uno stimolo favorevole alla caduta di atteggiamenti pregiudiziali verso di noi che anche tu hai avuto. Con un senso di fiducia. Cara Paula, la tua lettera mi ha commosso sia perché sei la prima persona che si riconosce nelle mie poesie e le trova belle, sia perché mi riconosco a mia volta nei passi che stai facendo per uscire dall’involucro preistorico c prendere contat­ to con la realtà. Finalmente l’estate è arrivata e comincio a vedermi un aspetto più giovanile e sano. Mi ero un po’ spaventata all’inizio delle vacanze: mi pareva di avere la carne un po’ più molle del normale e tutto l’insieme aveva perso scat­ to e morbidezza. Nicola mi stimola un po’ con l’afTettuosa superiorità della so­ rella più giovane e mi dà consigli “Comprati un costume più piccolo. Tieni l’olio Johnson. Prendi un po’ di sole, ma levati quel caschetto da pompiere”. Una conoscente mi ha prestato un libro uscito nel 1904 dai Fratelli Bocca di Torino di un neurologo tedesco, Moebius Sulla deficienza mentale efisiologica della donna , in­ troduzione del Prof. Cedetti, l’inventore dell’elettrochoc. E contro le femministe e i femministi (St. Mill, Bebel ecc). E grossolano, come puoi immaginare, però a un certo punto dice che le donne dovrebbero scrivere dei diari per farsi conosce­ re. Osserva anche che la ragazza si dimostra interessata e brillante, ma una volta sposata decade e “rimbambisce”, e non c’è da meravigliarsi dato che l’attività cerebrale è inversamente proporzionale ai parti. La spiegazione dei dati di fatto, o presunta tale, è appunto assurda, però mi ha interessato questo compendio di osservazioni sulla donna. Per esempio, secondo Moebius, è tipico della donna chiudere ogni argomento con la frase “Sono fatta così”. Sarebbe bello mettere insieme una collana storica sul primo femminismo: testi, polemiche, teorie. Ho trovato citato un certo Trombetta con un libro dal titolo La donna non può né istrui­ re né educare. Mi ha fatto impressione rendermi conto che quando sono nata i Prof, universitari, più eruditamente e approfonditamente degli uomini comuni,

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si nutrivano di queste convinzioni e accoglievano così la mia venuta al mondo. Per fortuna ho la compagnia di Nicola. Sono contenta che per la ristampa vada tutto bene: mi piacerebbe che si vendesse molto. E poi come sono fortunata ad avere te e Matilde come sue paladine nelle librerie! Piera non verrà perché è diretta a Londra (dove sono anche Ester, Diana e altre), ci vedremo dopo. Sono ottimista. Un abbraccio. P.S. Non posso leggere la Morante, proprio non ce la faccio. E il tipo di scrittrice con cui non trovo punto di contatto.

Tito è rimasto male perché Simone gli ha detto che non vuole il ri­ cetrasmittente a Turicchi. Tito si allarma perché intuisce di doversi difendere da Simone mentre i suoi figli no. Ha la mia solidarietà, ma gli manca quella del padre, gli è sempre mancata. Ho telefonato a Piera per augurarle buon viaggio. Non sapevo cos’al­ tro dirle: è un rapporto che si trascina ormai per un equivoco iniziale su uno squilibrio che non vedo sanabile e che comunque non è stimo­ lante, ma piuttosto fonte di apprensioni e di impegni sproporzionati. Ho il dubbio che anche per lei sia così. Tutti usano la parola liberazione, liberatorio, meglio quando era in auge solo nei convegni parrocchiali. Ma come si potrebbe rimprove­ rarlo a chi si dichiara “pazzo della libertà”. Proprio, pudore addio. Niente, non vale la pena scrivere a nessuno. Né a Pasolini né ad altri. Eppure basterebbe prenderne coscienza per smettere di gonfiare i polmoni e gasarsi per qualche eccelsa causa civile! Noi abbiamo pre­ ceduto tutto questo di qualche anno e senza pretendere di farci guida morale della nazione. E nessuno ci ha preso sul serio! Forse neppure ci conosce! Sepolte vive da un’incomprensione totale! 28 lug. Ho due scarpe, una diversa dall’altra. La città è piena di cani, ne ho paura, sfrecciano vicino e lontano nella penombra del crepuscolo. Mi rifugio in chiesa, ma i loro padroni li portano anche lì. Allora tanto vale che esca. Studi di architetti: scivolo su una bellissima ringhiera di plastica nera lucida sa­ gomata: nessuno mi dice niente. Ascolto di sfuggita uno che mormora “È come per le donne quando dicono... cominciano a fare sul serio”. Passando da uno di questi studi sento fare il nome di Aldo: ma non è morto? lo sono un po’ gagliar­ da, esibizionista, sicura di me, certa dell’approvazione degli altri.

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Ecco cosa mi ha disturbato nei radicali, oltre naturalmente tutta la verbosità libertaria e l’olocausto di sé (invece dell’autocoscienza): il fatto che digiunano anche per l’aborto e le donne del movimento di liberazione. Ben gli sta a quelle donne che non portano niente se non appoggio pratico e attivismo. Anche la lotta per l’aborto si sono la­ sciate strappare e non da una posizione più cosciente, come la nostra, ma rimanendo fiancheggiatrici, ombre. Voglio essere nella Storia e voglio essere assente dalla Storia. Voglio essere riconosciuta e voglio l’onore di non esserlo.

29 lug. Mia madre abita un appartamentino che somiglia molto a quello mio di via Verdi. Mi sembra che ci stia bene. In camera da letto mi tranquillizza ve­ dere un armadio contro la finestra: va bene per i ladri. Però poi mi accorgo che non è un armadio, ma una tapparella di legno. Le serve per difendere la stanza dal caldo. Metto una mano vicino alla tapparella e in effetti deve batterci il sole tanto scotta. Riaggiusto due tendine di grossa stoffa. Su una finestra vedo i resti di un’abbondante fioritura, specie di roselline rosse ormai sfiorite (alcune pianti­ ne si sono riprodotte da sole), e un gambo ancora verde tutto a zig-zag come un pieghevole che sorregge una gran rosa appassita tra i rametti secchi. Rassicuro mia madre che curerò i fiori l’anno prossimo, però ho l’impressione che non ce la farò a mantenere la promessa, che è una vecchia promessa mai mantenuta. A un certo punto dice “Se non fosse provvisorio questo appartamento non lo considererei abitabile”. E a me dispiace molto: sembrava una sistemazione fissa, molto opportuna. Mi guardo in giro e comincio a notare delle decrepitudini sui muri tutti scrostati (eppure mi pareva di averli imbiancati io stessa). Afferro un pezzo di calcinaccio che sta lì sollevato, e quello non è cartaceo, ma colloso, lo tiro e si allunga. Spaventata do uno strappo e cede. Noto adesso che il muro sot­ to è nero lucido, forse l’ha dipinto mio fratello. Raggiungo la mamma, nell’ulti­ ma stanza (“Eppure la casa ha muri spessi”, noto fra me e me) e la trovo con mio fratello Adolfo molto indigente: stanno rannicchiati in un angolo. Dallo sportel­ lo aperto di un armadio appare la scritta “Pigione con sfratto”, molto polemica.

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È qualcosa tra me e mio padre a proposito delle sorelle. Lui vuole che gli riveli qualcosa, una malefatta di Lucia (e di Nicola), nella fattispecie un disco rotondo in un cellophane troppo stretto insieme ad altra roba, ma io taccio e lui mi pic­ chia e mi terrorizza. Urlo con tutte le mie forze, ma dentro di me mi rivolgo a Lucia “Non ti tradirò”.

Svegliata, ho provato un amore struggente per lei che nel sogno ap­ pariva composta, presa da suoi problemi e del tutto all’oscuro di quel­ lo che succedeva tra me e nostro padre. C’è da incontrare Valpreda: papà può aiutarci perché lo ha conosciuto tanto tempo prima. Gli telefono e lui fa subito una questione di 2000 lire che avrebbe dovuto spendere. Così lascio cadere, e ci andiamo per nostre vie.

Dal sogno sembra che la cura delle sorelle la senta come una promes­ sa fatta a mia madre. Me la prendevo con te con me mi sentivo impotente infelice. Con la realtà me la prendevo senza saperlo con la realtà è inutile prendersela. Non hai capito?

Quando è ferita Nicola non lo dà a vedere e certo ogni tanto, senza volerlo, la ferisco. Allora il suo silenzio mi sembra un rimprovero così grande che non lo può dire. Invece, credo, la ferita magari è dolorosa, ma ciò non dipende tanto dal colpo, quanto dalla consistenza della sua carne. Quando si è allontanata per partire le ho mandato un ba­ cio: mi ha sorriso, ma non ha osato rispondere.

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La partenza di Simone mi ha dato un senso di vuoto, come per un precipitare nell’anarchia: infatti lui rappresenta un po’ l’ordine di chi supervisiona. E immediatamente mi sono sentita ragazza con voglia di ridere e scherzare con gli altri e anche ospitarli e dare da mangiare, cosa che non mi capita molto quando c’è lui. Infatti da sola mi trovo padrona, responsabile e riprendo i miei impulsi, quando c’è Simone ho delle reazioni contro di lui, i ragazzi mi si presentano come “suoi” figli, tutto appare falsato e io perdo il rapporto diretto con gli avveni­ menti e con me stessa. Essere più avanti degli altri è una colpa o una solitudine? Vorrei scrivere una poesia su una notte calma

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e su una ragazza sola. Su una notte sola e su una ragazza calma stupenda. In questo momento non so che sensazione ho. Un mare buio si specchia nei miei occhi. In una piccola porzione di mare si specchia la luna.

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Dondolo sulla mia sedia nell’aria ferma della notte. Vieni notte non chiedo né t’interrogo. Aspetto il sonno non succederà niente fino a domani. Vieni sonno succederanno molte cose dormendo. Se Dio non c’è nessuno potrà godere di quella meraviglia che io sono.

30 lug. Nei racconti brevi della Ginzburg c’è una prefazione di quat­ tordici pagine in cui parla di come ha vissuto il nascere e lo svilup­ parsi della vocazione a scrivere: l’idea di essere scrittrice viene fuori come una sovrapposizione (alienante) al bisogno di esprimersi. “Da bambina avevo desiderato di poter portare l’intera mia vita in un libro: scrivere un grande libro che contenesse, giorno per giorno, l’intera mia vita, in­ sieme a quella delle persone che erano con me. Ma da bambina, amavo la mia vita: e ora invece, nell’adolescenza, la detestavo. Perciò ora, nell’adolescenza, pur avendo ben capito che si possono raccontare soltanto le cose che si cono­ scono dal di dentro, non volevo che nulla di me si riflettesse nei miei racconti, nulla di me e della mia vita; volevo che i miei racconti, benché nutrendosi puramente di quello che io conoscevo com’era necessario e inevitabile, fossero tuttavia proiettati in un mondo impersonale e da me distaccato, nel quale non

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era possibile scorgere traccia di me. Avevo un sacro orrore dell’autobiografia. Ne avevo orrore e terrore: perché la tentazione deH’autobiografia era in me assai forte, come sapevo che avviene facilmente alle donne: e la mia vita e la mia persona, bandite e detestate, potevano irrompere a un tratto nella terra proibita del mio scrivere. E avevo un sacro terrore di essere ‘attaccaticcia e sen­ timentale’, avvertendo in me con forza l’inclinazione al sentimentalismo, difet­ to che mi sembrava odioso, perché femminile: e io desideravo scrivere come un uomo. Una volta una persona mi disse una cosa che mi fece un’impressione profonda... mi disse che i racconti che io scrivevo non erano affatto brutti; erano però casuali... Rimasi folgorata dalla verità di queste parole. Difatti io scrivevo per caso, spiando la vita degli altri ma senza capirla bene e senza saperne nulla, tirando a indovinare e fingendo di sapere... Allora mi sforzai di scrivere non più per caso... Scrivere per caso era lasciarsi andare al gioco della pura osservazione e invenzione, che si muove fuori di noi, cogliendo a caso fra esseri, luoghi e cose a noi indifferenti. Scrivere non per caso era dire soltanto di quello che amiamo. La memoria è amorosa e non è mai casuale.” {La strada che va in città , 1941)

Io non ho avuto quel problema, piuttosto sentivo che scrivevo di cose così personali, e la mia persona era così anonima che non osavo cre­ dere (forse solo sperare inconsciamente o rimandare a dopo) che aves­ se quel senso per cui, diciamo, si finisce con il pubblicare un libro. Ho smesso di pensare a “raccontare” con personaggi sui banchi delle elementari. Mi è sembrato così banale essere una scrittrice, così addo­ mesticato, così futile. Così avventuroso, umano, reale, odisseico il mio cammino di ragazza nel mondo. Si torna sempre lì: per un piatto di lenticchie Natalia ha venduto la primogenitura. Senza Simone con i ragazzi sto veramente bene, c’è un senso di sciol­ tezza e di confidenza. Ieri sera siamo stati a parlare tutti e quattro sul terrazzo fino a tarda notte di nostri problemi e sogni. Elena vuole dormire ancora con Tito, ma anche Bernardo è affettuoso con lui, bendisposto, e Tito si apre, sincero, spiritoso e cordiale. C’è qualcosa fra loro, non sono estranei. Elena trova che ho un bel corpo: è molto dolce quando una giovane non prende atteggiamenti di velato disprezzo fisico. In più lei è bella e ha un corpo incantevole. Elena è una sorella maggiore e ieri diceva “E tutto più difficile per la maggiore”. Le ho risposo “Pare anche per la minore”, e ho sorriso. Come me ha il mito delle sorelle e cerca di

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propiziarsi la crescita di Silvia apprezzandola e scoprendone tutte le grazie. Silvia invece parla ironicamente o in modo irritato di Elena. Anche Elena come me cerca sempre un’altra famiglia dove inserirsi, un’amica del cuore, una falsa madre, ma soprattutto ragazzi. Anche la maggiore dei nostri vicini, una bimba di dieci anni, è così “Basta che sia fuori di casa sua che è già contenta” dice sua madre come di una stranezza che finisce per offenderla. Stanotte sogni a volontà. Saluti di addio, poi però non parto. Non so guidare una grande macchina. Rin­ casando un vecchio pittore tutto in disordine mi saluta molto espansivo, temo che il mio innamorato lì vicino si deluda. Due uomini mi seguono dappertutto e attentano ai miei scritti (mi ricordano i due assistenti del Castello di Kafka). Non so come fare: Simonc vorrebbe spostare i quaderni, ma capisco che è inutile. Così stordisco i due uomini a colpi eli pietra e poi ne metto le teste, diventate piccole piccole, in sacchetti di plastica. Chiedo a Simone se si deterioreranno i cervelli, mi risponde di sì: mi dispiace, ma che farci. Per sicurezza intendo sbattere quelle che non sono più teste, ma ossa da brodo. Sono vincitrice. Sono stupita.

Mi diverte moltissimo fare la sorella con i figli di Simone, ma niente affatto fare la madre, cioè esercitare in coppia. E che, se c’è lui, lotto con l’impronta prevalente della sua personalità. Elena ha detto che io ho un umorismo molto interno che non si vede subito, ma si capi­ sce da come gestisco, da come racconto e dal ritmo che ci metto. Le piace e si accorge che dopo un po’ che è con me mi imita. Vorrei ve­ dermi su una pellicola. Secondo lei sono molto più dolce adesso con loro di quanto lo sia mai stata. Mi ha chiesto “Mi vuoi bene come una figlia?”. Le ho risposto “Adesso sì”. Ed è vero, voglio molto bene a tut­ ti e tre. E non capisco come ha fatto Simone a essere così distaccato da Tito tutti questi anni, a non abbracciarlo e baciarlo come faccio io con i suoi figli. Oppure è stata proprio la lontananza dai figli a farlo irrigidire davanti alla presenza costante di un non-figlio. Le analisi di Simone hanno portato l’attenzione sulla sua cistifellea: appare ingrossata e ancora non si sa perché. Domani gli faranno un’analisi specifica.

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31 lug. Oggi, quando Bernardo mi ha detto “Stai meglio con i ca­ pelli su”, Regina ha interpretato “Bernardo è innamorato di te. Non te ne sei mai accorta? Ma è bellissimo”. Questo diario mi è testimone, non ci ho mai pensato, o meglio: ho sempre constatato un suo affetto più o meno distratto, con quelle carinerie un po’ galanti e quegli sgar­ bi che anche Tito ha verso di me e che fanno parte dell’atteggiamento del figlio verso la madre. Gliel’ho detto, ma lei restava sulla sua versione deH’innamoramento ed era veramente imbarazzante “Sai, io ho l’occhietto per queste cose”. 1 ago. Non riesco a leggere Im Stona della Morante. E così mi metto l’animo in pace: il disinteresse taglia la testa al toro. Simone torna domani. Il verdetto sulla sua salute è questo: calcoli alla cistifellea. 2 ago. E stupido dire “Come prevedevo mi sento terribilmente oppres­ sa dalla presenza di Simone” perché è evidente che, essendo sull’av­ viso, posso avere inclinato le cose in modo da sentirmi oppressa. Però lo sono, e basta. I ragazzi hanno cominciato a parlare di soldi con il padre, adesso sono sull’argomento arte, oggetto libero ecc. Simone è uno schermo tra me e gli altri. Devo tornare a vivere sola. Posso ri­ prendere Milano, e da lui staccarmi poco a poco senza traumi. E pos­ sibilmente non del tutto. 3 ago. Sara mi mette subito in dubbio appena la incontro. Le rispondo vivace­ mente e alla fine lei, abbastanza stupita, sembra accettarmi di più.

4 ago. Non faccio che battere, stamani, agli stipiti delle porte, al let­ to, in ogni sporgenza, dappertutto. Non sono ben unita al mio corpo, lo lascio senza radar. Uno spiazzo, una gran luce e la presenza-promessa della casa.

La coscienza nasce dall’infelicità, ecco perché la donna può avere la gioia dell’autocoscienza che rovescia la schiavitù. La donna felice rimane quello che è sempre stata, dipendente dall’uomo. Però può inferiorizzarsi a contatto con la donna infelice-cosciente, e comincia­ re una sua dinamica. L’infelicità è il senso dì colpa: se non la ritrovi

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in qualche angolo di te, non conosci la doppia faccia della realtà, te e gli altri. Resti con la sensazione della tua inferiorità rispetto a loro: prima li ammiri, poi li combatti. Gli altri sono ancora proiezioni che partono da te. Sono furiosa con Regina che mi dice di non lasciare Simone così solo, di partecipare ai suoi problemi, economici per esempio, facen­ do relazioni pubbliche per lui. Secondo lei questo è un mio debito con Simone visto che posso vivere senza guadagnarmi il pane. Ha esordito “Da te ho avuto tanti consigli, lascia che te ne dia uno io”. Così non vede la diversità tra un appoggio ricevuto in direzione di una sua minore dipendenza dagli altri e un’esplicita, intimidatoria spinta a corrompermi per un altro, io che non l’ho fatto neppure per me stessa. Simone guadagna solo dei milioni l’anno, poverino, com’è misconosciuto e con quanta fatica li mette assieme, e poi ha quattro figli da accontentare e al cui futuro lavorare! Mentre nessuno si scan­ dalizza che io, con tutto quello che ho dato nell’arte e nel femmini­ smo (ma davvero vale meno oppure niente rispetto a una scultura?!), debba vivere di elemosina privata e in più anche con senso di colpa ed escogitando possibili risarcimenti. Tutto questo è folle, e che rappresenti il punto di vista maschile è anche comprensibile, ma che sia quello di un’amica vuoi dire che il nostro destino di donne è seminato di prove le più infide e articolate in modo da farci cedere. Cadere e sparire. Simone aiuta Bernardo in cucina, pulisce il fornello, strizza gli strac­ ci, va su e giù, cosa che con i calcoli non è proprio adatta. Però poi si aspetta da me la preparazione e l’imbanditura dei pasti che sono così semplici che potrebbe farseli da sé: scaldare acqua e sale, me­ scolare una crema di riso precotta, cuocersi delle mele, una fettina ai ferri, una verdura. Invece no, quello devo farlo io extra, oltre a tutto il resto. Quando ero malata in Sicilia, Simone non mi ha mai fatto neppure un riso all’olio. Mi trascinavo da sola, intronata dal caldo e dalla febbre per le scale fino alla cucina buia e lì cercavo qualcosa da mangiare. Adesso si opererà e io certo dovrò assisterlo rinunciando ai miei programmi, così è la terza assistenza in ospedale da quando mi sono sposata. Ma né Raffaele mi ha fatto compagnia dopo che ho partorito, né Simone era presente quando mi sono operata alla tiroide. Anzi, da quanto mi ha confessato, stava andante a letto con Olive, la moglie di John Run.

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5 ago. Ancora la casa dei miei sogni, così bella, luminosa, aperta che mi aspet­ ta e io devo andarci. 9 ago. Partenza dall’Elba, e cioè un’altra sfacchinata. I ragazzi han­ no lasciato tutto sporco, Simone e io corriamo ai ripari. Ogni ruolo porta a delle mostruosità, non c’è scampo. E il ruolo di madre non sfugge a questa condanna. Analogia con il passato: a Simone continuamente lodo e accuso Ele­ tta, Bernardo, Silvia a volte persino Tito; dico che li amo e che non posso sopportarli. Così dovevo fare da piccola oppure dovevo avere tempeste di sentimenti così verso sorelle e fratelli. Sono una persona contraddittoria perché non sono mai indifferente. 13 ago. Per piacere agli altri una donna ne deve accettare la protezione, fare “tenerezza”. Io che non le voglio risulto troppo presuntuosa. C’è un sottinteso di questo genere nei miei confronti, lo riconosco subito, è da sempre, non mi si permette di essere come sono, mentre Elena va benis­ simo, piace a tutti in quella dimensione di “bambina” che appunto lei non osa lasciare perché la tiene a riparo dall’ostilità, di uomini e donne. 15 ago. A volte sono pazza a volte sono annoiatissima a volte rimugino vendetta a volte perdono. A volte mi amo a volte vorrei sparire a volte vorrei ricominciare tutto a volte no. A volte vorrei essere giovane a volte vorrei essere vecchissima non capisco che faccia ho. A diciott’anni ti trovi invecchiata a vent’anni prevedi la tua fine

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a venticinque ti meravigli di non cadere a pezzi a trentanni ti dici “Adesso sarà veramente finita” a trentatré un uomo ti trova bellissima e bambina a trentasette immagini una svolta a quaranta sei convinta “Invecchiare non esiste” a quarantuno ti guardi e finalmente esiste. Oggi sono meravigliata di non esser morta ma quando sarò più meravigliata allora morirò.

Ribadisco la decisione di tornare a vivere a Milano riprendendo la mia situazione di autonomia, la casa dove sono padrona. Non so come fare con Tito che ho sradicato da Milano e piantato a Roma appena fanno scorso. Però ha quindici anni, se la caverà in qualche modo, magari può iscriversi al Conservatorio se è d’accordo. A Roma basta, è la pro­ secuzione di questa interminabile vacanza dove io sono “fuori posto”. Oppure vado a Buenos Aires da Irene quando esce il mio libro laggiù. Simone, Tito, Elena e io siamo distribuiti nelle seguenti coppie: SimoneElena, Tito-io. Simone guarda sua figlia come un tempo guardava me, proprio lo stesso identico modo di aprire gli occhi sul mistero della femminilità. E io sul mistero della mascolinità. Ormai con Simone mi annoio, è un ciclo che si chiude. Peccato! Mi viene voglia di morire. Tiro fuori delle attenuanti: che è malato, stan­ co, preoccupato, di malumore, depresso.

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Lo schermo fra me e Simone sono i figli, non ho più dubbi, eppure forse sono stati anche un elemento di attrazione verso di lui. D’altra parte chi poteva essere un possibile padre per Tito se non un vero padre di altri figli? Certo Felicita e David hanno una vita, come dice lei “più diretta”. Noi siamo rimasti sommersi da ogni sorta di dram­ mi, conflitti, rimandi, rinunce, ritardi. E adesso più che mai siamo travolti e questo sarà per sempre. 16 ago. Stanotte mi sono svegliata in un gran caldo, sudavo. Avevo avuto un incubo: ero tutta permeata dall’emozione tremenda di una perdita irreparabile. Sono in pericolo di vaia: strani messaggeri con i baffi mi torturano, più psicologi­ camente che fisicamente sebbene usino certi coltellini appuntiti per intimorirmi. Passa un treno, so che sopra c’è anche Tito. Un’onda d’acqua invade le rotaie e quasi le sommerge. Il treno invece di fermarsi va avanti e succede quello che temo, cioè le ruote scivolano e il vagone si abbatte su un fianco con un sussulto. Mi chiedo se l’incidente avrà provocato dei feriti, dei morti. Penso ai bambini piccoli, a Tito. Voglio andare a vedere, ma perdo tempo con i miei persecutori e mi sento in grave pericolo. Finalmente raggiungo Simone seduto a un tavo­ lino come a un bureau d’informazioni, e gli chiedo “'Pilo è vivo?”. Ho la voce molto pacata e sullo stesso tono Simone risponde “No, è morto”. Insisto “Non si può continuare come prima, come se non fosse successo niente?”. Simone è irremovibile “No, è morto”. Noto nella stanza un grosso uomo con baffi, adesso lo riconosco come messaggero della morte. Preferirei essere morta io. Non so se desidero vedere Tito, saperne di più. Ormai è accaduto: chissà se ha sofferto, sicuramente è rimasto schiacciato sul ventre cadendo. Molti bambini saranno morti, sono così fragili. Provo un dolore infinito.

Mi chiedo come potrò aspettare domattina a vedere Tito e come pos­ so progettare di vivere separata da lui. Lo amo più di me stessa. Penso che ancora non sono penetrata nel regno del dolore della morte. Mi sono riaddormentata e ho ripreso a sognare. Incontro Raffaele dopo tutte le nostre vicende e mi trovo molto bene con lui, tenerezza e affiatamento straordinari, ci amiamo, è giovane, dolce, una rivela­ zione, quello che avevo sempre intuito che era. Però alla fine lui muore e tutto finisce. Provo un senso di pena enorme e di amore perduto.

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Fa un caldo terribile che mi ricorda la Sicilia e l’ossessione del sole onni­ presente e implacabile. Sono molto emotiva. Elena è svenuta scoppian­ do a piangere. Dice che non può pensare a niente senza che le vengano le lacrime, né a suo padre, né ai fratelli. La nostra razza è piena di queste sensazioni strazianti verso gli esseri amati. Anch’io stanotte ero così. Oggi Tito ha mal di pancia: appendice? fegato? Mi colpisce l’analogia con l’incidente di stanotte. Sogni del pomeriggio: L’ex-moglie di Simone viene a trovare la figlia e alloggia da noi. Su un treno Simone si è fatto mettere nello scompartimento con un’amica; li sorprendo in una specie di intimità, ma potrei anche sbagliarmi. Cerco di capire se è eccitato sessualmente, ma lui si destreggia bene in un gran pigiama azzurro. Ester attacca a leggere una lettera di festeggiamenti per Anna Magnani (morta, ma nel sogno non lo ricordo), che appare evocata su un palcoscenico come una grande ombra nera, rivelandosi poi una donna che non le somiglia affatto. Sono sorpresa e irritata dall’iniziativa di Ester, però vedo con piacere che dopo le prime parole smette di leggere e ricade nell’anonimato. Mi impegno in un gioco, una specie di film giallo con attori, però sto commet­ tendo imprudenze e irregolarità per cui sarò veramente nei guai. Cominciato per scherzo, subito mi sento in trappola e sospettata.

David mi commuove: stasera ha detto di essere diventato un tipo asso­ lutamente riservato per sfuggire all’invadenza del padre, ma dentro di essere molto ansioso. Mi pare che prenda spunto facilmente dal mio interesse per lui. Felicita ha bloccato tutto con quelle sue uscite tra lo scherzoso e il velenoso “Aia sai che facendo così sei una macchietta anche tu, diversa da quella di tuo padre, ma sempre una macchietta”. Lei vive sulla difensiva così si finisce per scontrarsi quando mi apro. Con Felicita non trovo il modo di parlare con semplicità di cose in­ quietanti. 17 ago. Stando vicino a David finisco per poggiare il mento sulla sua mano. A me sembra che sia stato lui a offrirmi quella posizione, però forse non ne è cosciente perché in un secondo momento non si mette più accanto a me.

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18 ago. Devo andare a Roma con Simone, Elena e rito? Devo resta­ re a Turicchi con Tito? Devo andare a Torino con Felicita e David? Questo caldo non accenna a smettere e io sono paralizzata: sto facen­ do una gara di resistenza fra la noia, l’isolamento, la calura, la ripeti­ zione, l’ingoiare quello che non piace... Prigioniera: di Simone, di me stessa, dell’estate? Parlando della mancanza di fiducia in se stessi da cui deriva l’incapacità a realizzare, Felicita mi ha dato lo spunto per parlare dei miei dubbi e crisi per la mancata rispondenza. Simone è intervenuto “Se uno non accetta una mia cosa è un cretino, è chiaro, non posso pensare che qualcuno sia al di sopra di me, che capisca più di me”. Ma come può pretendere di esaurire tutto in questa specie di forza bruta che è la fiducia caratteriale? A me interessa il cammino di chi risale la sua sfiducia e i suoi smarrimenti. Quelli con la stella in fronte sono dei robot. Però quando ho detto che ormai ho la certezza del contatto con me stessa - anche se sono sempre disposta a perder­ la, non ha affatto l’aria di costituire un possesso fondiario - e quindi quello che scrivo sento che mi rappresenta, David ha come tirato un sospiro di sollievo. Sebbene meno categorico di Simone, sembra chiedersi come si può vivere senza risolvere la propria sfiducia. Fe­ licita non vuole farlo, non si sente autorizzata a dire la sua perché il padre l’ha sempre frustrata in ogni atteggiamento di autonomia. Andando a letto Simone diceva che l’espressione va portata a uno stadio di scienza altrimenti è uno sfogo da dilettanti che non si può prendere veramente sul serio. Le due o tre poesie che gli ho letto non l’hanno particolarmente colpito, non sapeva che osservare se non che c’è un linguaggio piuttosto colto per esprimere sensazioni semplici, addirittura comuni. La mia operazione non sa da che parte prender­ la e sostanzialmente gli è estranea. Ho contrapposto alla scienza la coscienza dell’autenticità meravigliandomi io stessa di questa ovvia risposta, d’altra parte giusta. “... se resto a Serendib, i bonzi mi fanno impalare; ma dove andare? In Egitto sarei schiavo, in Arabia quasi certamente sarei bruciato, a Babilonia strango­ lato. Tuttavia... partiamo e vediamo che cosa mi riserva il mio triste destino.” (Voltaire, Z a^ lR)

Parto per Roma e mi sento tutta un olocausto, ma non ho scelta. Chiudo gli occhi e stringo i denti: sono trascinata lontano dalla mia

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corrente, ormai da un pezzo è così. Mi guardo agire: non sono io, ma divento persino solerte visto che non ho scampo. Andrò fino in fondo. Questa impasse finirà insieme al caldo e alla paralisi estiva. Non pos­ so anticipare la mia libertà, c’è ancora un capitolo da portare a ter­ mine: la soluzione della malattia di Simone. Che sto soffocando l’ho detto a tutti, almeno non fingo, quest’ultimo sforzo mi farebbe im­ pazzire. Faccio il mio dovere come un modo per semplificare le cose. Ho avuto tanti momenti così nella mia vita! Le prime volte gemevo “Non ce la faccio”, ero ancora giovane, impaziente, non abituata alla catena: appena mi pesava sul collo volevo toglierla, m’indignavo, mi logoravo. Adesso so che così facendo è un tormento in più. Affronto le cose una alla volta senza restare affranta dalla visione complessiva: interiormente ho la freddezza del piano di fuga, l’economia di non sprecare i gesti, la separatezza come condizione di levità. 20 ago. Nello studio di Simone leggo su un foglio “La casualità non è liberatoria”, ma prima ancora credo di leggere “La sessualità non è liberatoria”, e mi trovo d’accordo con lui. Invece è una mia conclu­ sione che viene fuori. Quanto alla casualità libera dalla programma­ zione come la programmazione libera dalla casualità. Lui era sposato, programmato e si è tolto iniziando con me una vita diversa senza gli inconvenienti precedenti, ma con altri inconvenien­ ti. Simone è convinto che sia stata io a contagiarlo, e senz’altro è vero, però per me la provvisorietà era uno stato ideale alla scoperta del­ lo stare insieme, mentre per lui era coatta, per non tradire i figli, e per stare all’unisono con me. Però in qualche modo per lui la provvi­ sorietà era un espediente creativo più che una condizione autentica per realizzare i rapporti, così ha finito per diventare casualità e tener­ ci prigionieri tutti e due. Analizzando questa casualità poi vedrebbe che non è tanto casuale, ma risponde a certe direttive della sua vita. Quanto a me sono rimasta nella trappola di aggregarmi a quelle di­ rettive segrete sempre illudendomi di essere libera da rapporti vinco­ lanti. La provvisorietà che cercavo era per non cascare in un ruolo, però forse in me il ruolo è proprio collegato con la provvisorietà e la libertà con la sensazione di scegliere una volta per tutte. 21 ago. Di nuovo mi è venuta voglia di fare dei filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare,

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accudire i bambini, i malati ecc. Il titolo: Culturafemminile del sostenta­ mento dell’umanità. Prendere coscienza del suo valore non solo pratico, ma culturale può essere un modo per capire chi siamo e da dove ve­ niamo. Vorrei filmare solo i gesti per mettere in evidenza la perizia e il tramando di esperienza che richiedono. Questo farebbe luce anche sul perché la collaborazione maschile, concepita come occasionale e improvvisata, si rivela quasi sempre un fallimento o una scadente manovalanza. Secondo me la stanchezza femminile si basa proprio sul fatto che, una volta uscite dalle attenzioni della madre, nessuno si prende più cura di noi, mentre l’uomo passa da una madre all’altra. Che è l’aspetto veramente riposante, e rigeneratore per l’umanità. Allora si capisce perché poi gli uomini abbiano le energie per fare i fatti loro e stare nel mondo. Io è tutta l’estate che mi dibatto in cose pratiche, ho perso la concentrazione, non faccio che rigurgitare scontentezza e se soprav­ vivo è perché intravedo una fine prossima a questo stato di cose. Il dottore ha detto a Simone che nelle sue condizioni la cosa più impor­ tante è la dieta. Cioè il mangiare che io preparo con un’attenzione specifica, in più ho il ruolo veramente materno di lottare perché la dieta venga mantenuta senza eccezioni pericolose e senza trascura­ re le medicine. In caso inverso avrei dovuto essere io la madre di me stessa. Infatti, quando ero a Minneapolis, ricorrevo ai consigli di mia sorella a Boston per prendere decisioni molto gravi nell’in­ tricata situazione di diagnosi da condanna capitale. Ed è stata lei a salvarmi dall’operazione all’utero, mentre Simone al primo verdetto del chirurgo non aveva saputo fare altro che spingermi all’intervento. Anzi insinuava, un po’ per scherzo un po’ sul serio, che io avevo un fondo di cattiveria nella mia personalità la cui base fisiologica poteva risiedere, appunto, nel male all’utero. Male che poi si è rivelato molto discutibile. Sono certa che nella sua versione della diagnosi rientrava un inconscio pregiudizio sul fatto che non avevo interesse al coito. Quindi la sua era un’interpretazione punitiva. Adesso invece si dà il caso che la sua personalità sia caratterizzata da disturbi alla bile che ne fa appunto un uomo bilioso. Infatti è diverso tempo che mi sento impotente e disorientata ad affrontare quotidianamente il suo malu­ more e un certo tono scostante, non comunicativo. Matura in me il desiderio di riprendere il femminismo o comunque un lavoro di chiarimento e di presentazione del nostro mondo di

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donne. Capisco che Sara adesso sia tutta presa dal suo rapporto con Puomo e il mondo maschile visto che per tanti anni era rimasta pas­ siva su quel punto, ma io sono arrivata al femminismo dopo quelle esperienze e mi scopro abbastanza completa per indagare dentro il mio campo. Un tema base per me è quello della spinta a fuggire e a ricominciare altrove. All’origine delle mie esasperazioni c’è sempre questo. Infatti la mia esperienza nella famiglia mi ha portata a delle impasses emo­ tive di ribellione-senso di colpa, che ho superato solo abbandonando la lotta e andandomene. Lo stesso è avvenuto con mio marito: il mio bisogno di autonomia era sentito da lui come una colpa gravissima che io non sopportavo finché l’ho lasciato. Qualcosa di analogo sta succedendo con Simone di fronte al quale mi ritrovo colpevole per l’insorgere del mio solito bisogno. Questo senso di colpa mi suggeri­ sce tremende sfuriate però non mi lascia spazio per ragionevoli rifor­ me, che magari Simone sarebbe disposto a accogliere, certo non a incoraggiare, e così finisco per ricorrere alle argomentazioni estreme e ai progetti di fuga. Però, guardando bene, il mio rapporto con Simone ha questo di più maturo, che io sono riuscita a essere elastica e a non sentirmi troppo vincolata dalle sue esigenze. Forse era più facile per me quando non le esprimeva troppo, così potevo non aver­ le presenti e agire con più libertà. Da quando gli ho rivelato i miei tradimenti e lui le sue sofferenze per quelli e per il femminismo, e poi da quando abbiamo preso a vivere insieme, sono molto più soggetta agli attacchi di fuga. Facendo l’amore Simone mi ha chiesto “Smettila di criticarmi e dim­ mi che sono bravo”. Così l’argomento di questa volta è stato l’essere bravo: lui era contentissimo e io molto commossa e piena di traspor­ to. Abbiamo avuto tutti e due sensazioni felici ed esuberanti. Cara Piera, la tua lettera mi è sembrata un parto dopo una lunga gestazione. Se nessuno dice niente si continua con gli imperativi nati nell’infanzia: io dovevo dare il buon esempio e siccome è difficile immagini che proprio quello sia me­ ritorio. E un inganno così ben congegnato che non riesci a vederlo da sola ed è così doloroso che non puoi collaborare direttamente a scoprirlo. Indirettamente sì, dato che qualcosa in te vuole “scoprire la verità”, e quindi opera in quella direzione. Così succede che temi proprio quello che cerchi di scoprire. Mi sono sentita pazzoide e autodistrultiva per grandissimi sensi di colpa, ma nello stesso

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tempo mi sono riconosciuta in un tale amore per l’autenticità che non ho biso­ gno di altro per accettarmi. Ho nostalgia di qualcosa di fattibile. E te?

Avevo appena scritto che mi sono chiesta “Pazzoide, non è un po’ forte?”, e poi in serata ho avuto una crisi di disperazione tale che chiamarla pazzoide è quasi grazioso. La mia rabbia esplode quando capisco che sono in trappola, che non ho soldi, che ho un figlio da cui non posso separarmi, che il binomio con Simone, con le sue disorga­ nizzazioni mi sfianca ora che come interlocutore non reagisce. Non so se sono pazza perché voglio lasciarlo oppure perché ancora non lo lascio. E questa è proprio la pazzia. Ogni istante mi dà un responso diverso. Se poi parlo con lui risulto squilibrata in generale. Anche Simone ha notato una contraddizione tra il mio correre ai ripari mo­ mento per momento e il mio non accettare la situazione globalmente. Dice che è molto difficile avere a che fare con me. Ne sono convinta, d’altra parte chissà perché mi trovo sempre in situazioni così pesanti: mi butto a superare il primo ostacolo senza prevedere che è solo il primo di una lunga serie. La mia vocazione al provvisorio fa sì che io sia sempre presente nei momenti difficili che mi disgustano al punto di non farcela a resistere fino a tempi migliori. Anzi, lascio proprio quando sta per iniziare il periodo più risolto, quando non c’è più assoluto bisogno di me. Ho questa maledizione dentro, che non mi sento autorizzata a mollare se non dopo avere dato prova della mia buona volontà in modo da meritarmi in qualche modo la fuga. Però c’è una fuga che non posso fare, ed è quella da mio figlio. Lì sta il nodo centrale di tutti i patimenti della mia vita recente poiché non voglio che ricada su di lui troppa inimicizia da parte degli uomini da cui entrambi dipendiamo e che lui ama. 22 ago. Felicita si immerge in uno stagno melmoso chiudendo gli occhi con aria beata, addirittura mette giù anche la testa così che la melma muschiosa che si estende a chiazze sull’acqua le si depositi sul viso. Penso che faccia così per ra­ gioni di salute e di bellezza, mi chiedo perché non ci ho pensato anch’io visto che il suo stagno confina con la staccionata della mia proprietà. Nel proseguimento Felicita è molto carina, pulita con un gran camicione, la pelle chiara. Più luminosa di sempre “la casa” come un richiamo inconfondibile.

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Riguardo al mio progetto di filmare i gesti delle donne, vorrei filmare quelli che non diventano un prodotto, ma solo un accudire. Gesti neH’aria come quelli degli equilibristi, gesti fatti di aria. Su questi gesti senza seguito è costruita la nostra vita. Un uomo può dire “Ma insomma, cosa hai fatto per me? lo ti ho mantenuta e tu in casa a non fare niente, oppure quei lavoretti che tutte le donne fanno senza tante storie”. Gli unici atti della propria cita che non lasciano amarezza per quanto duri possano essere stati sono quelli voluti da se stessi e compiuti per se stessi. Tutti gli altri nascondono un inganno e col tempo trasudano frustrazione. Gli atti di cui mi assumo tutte le responsabilità sono pri­ ma quelli di critica d’arte e poi, in misura totale, quelli di femminista. Dio mi aiuta: se piove il caldo diminuisce e sono salva. Dunque, ero prigioniera del caldo? L’estate è un lager che si estende ai confini del mondo, il sole un killer che ti uccide se tenti di evadere. La condizione umana è difficile perché gli inganni che uno fa a se stesso nascono dal senso di colpa, ma anche la coscienza nasce di lì. 23 ago. Ne II portiere di notte di Liliana Cavani mi ha colpito la forza del rapporto sado-masochista nella coppia dell’ex-torturatore nazi­ sta e dell’ex-torturata. Come una verità e un successo della coppia. Mentre il perbenismo del rapporto tra la donna e il marito artista è la vera alienazione, la vera solitudine. Il lato avvincente del sado-masochismo è questo, che tra i due si stabilisce una fiducia al di là della paura e delle apparenze. Il masochista intuisce l'umanità del sadico e lo ama proprio perché vede oltre il suo camuffamento. Così il sadico intuisce la possibilità di essere amato nonostante la sua crudeltà e proprio da chi dovrebbe odiarlo. Un rapporto sado-masochista può essere molto commovente. Io non ho una vera comprensione e accet­ tazione dell’uomo che parta dall’esperienza masochista. E evidente che il preliminare “cattivo”, cioè schiaffi, minacce, ferite è emozio­ nante proprio perché dilaziona, prelude e rende possibile la rivela­ zione dell’amore con baci, carezze, abbracci, coito. Si va più lontano possibile nella direzione opposta perché si crei una specie di dispe­ razione e di spasimo che permetta il mutamento di registro. Il sadi­ co ha bisogno della prova di essere accettato nonostante tutto: non può esprimere amore se non ha questa certezza. Il masochista è colui che capisce il linguaggio delle percosse e delle torture come mezzo di

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appropriazione su di lui e perciò come desiderio di unione con lui. Il masochista si sente desiderato e amato mentre viene, apparente­ mente, svilito e dominato. Questa faccenda mi intriga molto. Ricor­ do una volta di avere picchiato il bambino che avevo in custodia a Belleville. Quando è stato ben ben spaventato e piangente ho provato per lui una grande tenerezza e mi sono sciolta in baci e coccolamenti. Il rapporto sado-masochista è accettabile se è tragico, cioè con catarsi e senza sviluppo. Infatti nella durata non ha sbocco e diventa presto banale, routine. Ancora carica di queste sensazioni ho fatto l’amore con Simone. Lui è convinto che l’erotismo è sado-masochistico. Trova me troppo di­ struttiva in questo rapporto perché critica, ironica, presente. Ha con­ fessato che si sentirebbe più a suo agio se fossi una donna sofferente della sua condizione di donna che una donna aggressiva su questo argomento. Ha anche nostalgia del suo gioco sadico rintuzzato. Lui dice così “gioco”, per esempio farmi un po’ di violenza. “Con te è impossibile, ti offendi subito.” Essere donna è senza via d’uscita: non puoi buttarti perché, per essere veramente donna, devi essere oggetto di un altro. Non si può essere oggetto di un altro per gioco, diven­ ta una pochade, una porcheria, bisogna esserlo fino alla morte, cioè schiave. L’uomo sì che può inventare il gioco e anche perdersi a causa del “suo” gioco. Persino nel film è l’uomo che decide le ultime azioni, la ragazza è immobile, ha solo qualche guizzo erotico, per eseguire fulmineamente, come un animale dal riflesso condizionato, le antiche direttive che il sadico le aveva impartito. 24 ago. La voce di David al telefono mi è sembrato contenesse un certo segreto fra noi, anche a sua insaputa. Sebbene il movente della chiamata fosse la salute di Simone non mi è venuto di passarglielo perché mi pareva che in realtà la telefonata fosse per me. Poi David mi ha passato Felicita, ma neppure a lei ho passato Simone perché avrei detto che volesse parlare con me. Eppure Simone è convinto che Felicita lo preferisca a me. Invece io non credo. Però mi domando come mai penso di essere così importante per loro. Niente del loro comportamento me lo dovrebbe fare supporre. Caro Pasolini, ho risto il Fiore delle M ille e una notte e ho capito che ogni ideologia è un tentativo per liberarsi del senso di colpa e per identificarsi nel bene. Ma è

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un modo mitico di affrontare il problema e non porta alla liberazione. Anch’io ho vissuto questa tentazione di scoprire e additare lo stato di grazia presente in altri: nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi infine nelle donne. Non che io non sia una donna, ma provando da sempre senso di colpa, cercavo di ritrovare uno stato di innocenza identificandomi in una che non lo avesse. Nel tuo film gli sguardi dei personaggi rappresentati da arabi o da africani sono “innocenti”, cioè senza dubbi su di sé, senza autogiudizio, senza interrogativi morali, fedeli esecutori di un destino accettato in partenza. Appena compare 10 sguardo di Davoli si sente una frattura: l’unità non esiste più, entra in scena la doppiezza provocata dalla coscienza. Davoli sa cosa rappresenta: in Uccellacci e uccellini poteva ancora essere credibile come primitivo, ma a contatto dei veri primitivi non regge: è già della nostra razza presa di nostalgia. Questa nostalgia è senso di colpa per avere perso la fiducia nel paradiso terrestre: vorremmo ri­ trovarla, ma non è possibile. Allora ci guardiamo intorno per vedere se esiste in qualcun altro che se ne faccia garante. Ma è sempre un’operazione fuori di noi, destinata a fallire finché non accettiamo la coscienza del senso di colpa come esperienza comune di infelicità interiore da cui ripartire. Non puoi immaginare che effetto sinistro mi abbiano fatto tutte le risatine felici di cui è tessuto il sono­ ro del film. Le sento ancora sulla mia bocca di donna a cui avevano insegnato 11 dovere alla felicità, finché ho osato smettere di rassicurare gli altri sulla mia fiducia nella bontà della vita, e mi sono accorta della mia paurosa solitudine e perdita di identità. Facendo portare ad altri il peso di un senso della realtà che noi stessi non sappiamo più incarnare e di cui ci impossessiamo per nostalgia, commettiamo un abuso. Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza, ho finalmente imboccato la strada della felicità. P.S. Le critiche che hai fatto alla Morante, che pure sembra sostenere una po­ sizione analoga alla tua, partono dal senso di artificiosità che si prova (manie­ rismo, estetismo, decadentismo ecc.) osservando dal di fuori la costruzione del mito dell’innocenza. Tu scoprivi nel linguaggio della Morante un’apriorità del suo amore per i personaggi “naturali e felici” e in questo vedevi la spia di una decisione ideologica che ti indisponeva. Infatti la Morante ha risolto nell’ideo­ logia degli esclusi dalla Storia il suo problema personale di identificazione nel bene c di superamento del senso di colpa. Giustamente noti che lei non ha senso di colpa nell’essere sopravvissuta. Ma anche nel tuo film gli omosessuali non ma­ nifestano alcun turbamento nell’essere tali. La spia dell’operazione ideologica sta nella netta divisione del bene dal male e nell’identificazione mitica nel bene. Tra l’altro la persona “innocente” viene soggiogata facilmente dalla persona “cosciente”, senza che la persona cosciente se ne accorga, presa com’è a rispec­

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chiarsi nell’innocenza dell’altra, non supponendo di essere il vero beneficiario di quell’innocenza. Tant’è che l’innocente, appena prende coscienza della sua condanna a restare tale, si ribella. Quello che mi spinge a rivolgermi a te è un sentimento fraterno.

Vedendo un film sulla Woolf mi sono ricordata di avere letto da ra­ gazza Diario di una scrittrice che, insieme al diario di Pavese e di Kafka, forma la trilogia diaristica di base della mia gioventù. In effetti non ho letto molto di nessuno dei tre autori: essendo entrata nella dimen­ sione privata, quasi l’invenzione letteraria mi interessasse di meno. Ci deve essere una ragione se poi ho fatto interviste: mi piaceva indagare sulla persona direttamente e non solo attraverso la sua opera. Virginia ha pubblicato Gita alfaro a 45 anni, però ha sempre scritto moltissimo sulla letteratura, saggi e conferenze, oltre ai romanzi. E io no. Il fatto è che io non sono una scrittrice. 26 ago. Fare Che sogno.

Pensando a Ester in astratto comincio a non provare più niente con­ tro di lei: potrei telefonarle domani e riprendere dei contatti come con Marion più o meno quando capita. Però, se leggo una sua inter­ vista e colgo la sua particolare sfumatura nel manipolare i rapporti, nel dare all’altro un riconoscimento palese, ma superfluo, e togliergli invece sottilmente quello che gli spetta, di nuovo provo un moto di ripulsa. Invece di una casa editrice con Federica dovremmo fare, secondo Simone, una rivista. “Voglio essere completamente sincero con te, fino in fondo: tu non scriverai mai un romanzo come la Woolf, non ce la fai e poi non ti interessa. D’accordo. Allora cos’è che puoi fare, a parte quel diario che continui a scrivere, affari tuoi. A mio parere tu hai la capacità di un tuo punto di vista sulle cose, un libro una persona una situazione, e quindi una rivista è lo strumento adatto per intervenire. D’altra parte non vedo a quali contatti, a quale vivacità andresti incontro pubblicando qualche libro ogni anno. E tu, se non c’è una vita attorno a quello che fai, una vita e un’autonomia non

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ci credo che muovi un dito.” Adesso, scorrendo questo libro sugli artisti mi rendo conto sempre di più che è la dimensione pubblica a snaturare quello che pensi di te stesso e quello che dici, rivendicazioni a non finire, un attribuirsi identità a piacere, e anche veri e propri falsi sulla biografia personale. E quello che mi colpisce da sempre, e che prima mi metteva a tacere, è che gli autori sembrano in buona fede falsificando gli avvenimenti. Adesso mi rendo conto che senza autocoscienza non si può affermare niente, neppure la propria storia. Adi chiedo “Basta la continua autocoscienza a neutralizzare il potere corruttore della condizione pubblica? Oppure uno diventa già un al­ tro e perde ogni possibile lucidità e disponibilità?”. In Autoritratto non affrontavo nessun argomento culturale, ma facevo parlare di sé, e lì è tutto diverso. Era il mio tipo di ascolto a guidare gli artisti. Quando ho sentito la voce di Sara nel femminismo ho creduto di udire la voce degli angeli e non ho più avuto dubbi: non era vero oro quello che fino allora aveva brillato ai miei occhi. 29 ago. Leggendo fintervista di un artista tedesco, il suo riferimento a Cristo, il suo agire da eroe solitario che suscita la creatività e l’unità dell’individuo, il suo messaggio di democrazia diretta, la sua sicurez­ za mi hanno, come sempre in questi casi, impressionata e infastidita. Un altro Messia, non ce ne sono stati abbastanza. L’uomo è abituato a fare il Messia, ad aspettare il Messia. Venendo dalla cultura anch’io posso avere alimentato sogni di quel genere. Mi sembrava di azzec­ carle tutte, di capire tutto. Non capivo invece che inferiorizzavo e che la mia fatica era inutile, se non controproducente. E mi sembrava trascurabile ammettere quanto io potevo essere inferiorizzata a mia volta. Ecco perché fra donne non è esistita finora una vera liberazio­ ne: perché il modello maschile non si realizza - le donne possono ac­ cettare una Madre, cioè una figura dominante che le tiene vincolate a un certo tipo di femminilità dell’obbedienza, non certo una Sorella messianica - e il modello femminile autentico sarebbe così rivoluzio­ nario da rompere l’impasse di quello maschile della genialità, santità ecc. tutt’ora in auge. A un’ipotetica Sorella messianica sarà sempre preferito un Fratello messianico, e giustamente, essendo lei la ripro­ duzione di quell’archetipo. Sono così fortunata ad avere saputo uscire dal messianismo. Però mi viene ancora nostalgia per uno stato men­ tale di convinzione e di missioni e guardo le mie giornate seminate di

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dubbi, silenzi, mortificazioni, impossibilita ad agire, e mi chiedo se in tutto questo l’eroe non sono per caso io. Analizzando un pranzo da nostri amici, episodio veramente di ordinaria amministrazione, Simone è sbottato “Ma che fatica rigirare ogni dettaglio come se avesse un senso!”. Per lui pranzi così sono “riposanti”. Ho notato che se sto a disagio accumulo ostilità verso chi mi fa sentire a disagio, quindi lo stimolo a parlare mi viene solo da un senso di polemica, spesso fuori luogo. Questa consapevolezza poi mi impedisce praticamente di parlare. Oggi non sono riuscita a dire niente sulla vita delle api perché in qualche modo neH’irritazione per le api operaie avvertivo un parallelo con l’irritazione che provo per l’operosità di Tina e in quella per l’estetismo dei fuchi non c’era dubbio che intendevo allu­ dere al lavoro di Berto. In più avrei dovuto affrontare il tema della rivalità fra sorelle per il posto di ape regina e lì certo ci avrei messo tanta più emozione in quanto l’ultima cosa che avrei voluto svelare a tavola era che quel tema rappresentava per me una scottante espe­ rienza autobiografica. E poi sono arrossita quando Berto ha parlato della figlia del priore che non dice neanche una parola. Stavo per intervenire “Come me”, però era troppo vero per scherzarci sopra con chi considera la timidezza il massimo della balordaggine sociale. Però sono serena, ecco, non come l’anno scorso che soffrivo di non potermi imporre nei luoghi dove ero rimasta sempre frustrata. Libe­ rarsi non significa affatto diventare dei grilli parlanti. E comunque non liberarsi anche degli ostacoli posti da altri. Mi è venuto il dubbio di non essermi sciolta a sufficienza dall’atteg­ giamento autogiustificativo leggendo qua e là un libro autobiografico di un pittore comunista. Perché lui si difende e si mette a posto su tutto come personaggio nobile, etico, ideologico, altruista mentre il lettore fra le righe coglie meschinità, paura, arrivismo, invidia, un­ tuosità, adulazione, appunto lo spettacolo pietoso della falsa coscien­ za. Se avesse rivelato tutta la sua miseria non sarebbe apparso così giù. Allora io mi dico “Voglio essere l’ultima, che già s’inganna di meno pur ingannandosi moltissimo anche lei”. Ho parlato apertamente con un inglese che conosco appena: gli ho detto che adesso l’isolamento a Turicchi non mi interessa quasi più rispetto a un anno fa, che ho bisogno di comunicazione (e di lotta, ma questa l’ho taciuta perché non ne sono sicura) e non so se qui in campagna tutto non diventa troppo idilliaco. Nel resto della serata

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ero imbarazzata a scambiare con lui parole convenzionali, perché or­ mai c’era un contatto e io mi sentivo come nuda e con il desiderio di restarlo perché quel momento vero non diventasse uno spogliarello. Posso essere naturalmente aperta con un uomo, però non sopporto che questo entri in un contesto strano, di schermaglia mondana. 30 ago. Io sono una che fa pezzi di strada con altri entra nelle case di altri accudisce alle cose di altri. Cerco qualcuno stabile che mi ammetta come fidata comparsa. Ogni gesto stabile l’ho provato. Invece sono rimasta una vagabonda che al momento dato prende il largo.

1 set. L’altra sera avevo detto a quell’inglese che mi è difficile comu­ nicare. Poi aH’improwiso mi sono accorta che mi è difficile proprio il contrario: non comunicare. Queste serate dove la gente parla senza dirsi niente, ecco dove io sto male e comunque non posso interve­ nire. Ormai anche Simone è d’accordo di rompere questa schiavitù che consiste nell’accompagnarlo ogni tanto a pranzo fuori. D’altra parte il salotto, proprio, non esiste nella mia vita, non ne ho fatto esperienza, quasi, fino a che ho incontrato Simone. E un luogo per

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me molto strano da cui mi escludo e da cui mi sento esclusa. Parlan­ do con Lucia al telefono dopo l’estate mi sono accorta che il primo ostacolo che si frappone sempre alla realizzazione di uno scambio aperto è quello dell’impossibilità sua a rompere i ruoli, io di dare, lei di prendere. Naturalmente spesso si tratta di sciocchezze. O comun­ que magari dà - e mi sorprende quando ciò avviene, perché non oserei mai chiederle qualcosa che le imponesse un disturbo - però, pur nell’accondiscendere, non può non avanzare qualche restrizio­ ne al suo dare, un piccolo ritardo sul tempo, una piccola tara sulla quantità, insomma non accompagna mai il gesto con il piacere o l’entusiasmo di fare qualcosa per me. Questo risveglia il mio senso di colpa come se nell’infrangere il ruolo di sorella maggiore il cui dovere è dare, avessi mancato verso di lei, la stessi adoprando e ap­ pesantendole la vita. Nel momento stesso in cui sferro un calcio alla mia emancipazione, in cui mi spoglio di ogni benemerenza culturale, di ogni grado pro­ fessionale, in questo preciso momento per la prima volta nella mia vita mi trovo a frequentare delle persone che riescono a vedere gli altri solo attraverso le benemerenze e i gradi acquisiti. E questo per seguire Simone. Abbandono il mio mondo e vado tra coloro che né riconoscono né praticano l’autenticità. E lì vengo umiliata proprio per quel rifiuto di emancipazione che è il mio orgoglio. Forse, però, se non ne fossi orgogliosa, non sarei neppure umiliata. 2 set. A ogni cosa che dico, ognuno può ribattere “No, la cosa è un po’ più complessa di così... Ci sono tanti elementi da tenere presen­ te... Non puoi dire questo... ecc.”. Cioè trattarmi come si trattano le donne senza grinta né culturale né sociale. Simone mi consiglia “Perché, invece di startene lì seduta imbambolata, non ti alzi e vai a sfogliare dei libri, oppure diventi aggressiva e dici quello che hai da dire? Fai qualcosa, non stare nella paralisi!”. Ha ragione, stare lì è avvilente, distruttivo, ma quello che devo fare è una cosa sola: andarmene. Sono in visita da Ester, a casa sua, rilassatissima e ben disposta. Constato che i malintesi fra noi sono finiti. La sua casa è montata con espedienti: buste antiche ricamate a piccolo punto e appese a bastoni costituiscono gli armadi. I rubinetti

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si staccano dalla parete e l’acqua esce scorrendo sul muro. Mi presenta il suo amico, un giovane con i baffi e l’aria un po’ cerimoniosa di un ben educato del terzo mondo. La mano scura ha un anello d’oro. Una stanza della casa è un immenso ripostiglio stipato fino all’orlo di oggetti avanzati o messi da parte e si affaccia senza porta sul resto dell’appartamento. Fa un contrasto singolare. Mi meraviglio accorgendomi che questa casa dà sul mare, si può fare il bagno. “Meglio di una piscina”, penso, però manifesto a Ester il mio stupore “Credevo che il tuo appartamento desse su Roma, non lo avrei mai immaginato sul mare”. Lei protesta “No, no”. Dà l’impressione di essere una attaccata alle sue como­ dità come fanno a volte le signore un po’ anziane borghesi. A un certo punto sparisce e io ne concludo che è andata a farsi un sonnellino. Però è sempre un po’ troppo disinvolta con me, andrò via senza aspettare che si risvegli. Intanto Tito ha combinato di stabilirsi in Grecia a studiare, benissimo: è già tutto fatto, lui è contento.

Dopo avere parlato con mia madre al telefono sono scoppiata in sin­ ghiozzi irrefrenabili. Simone mi ha preso una mano. Mia madre ave­ va detto “Girando per casa mi sento smarrita, non so... Mi sembra che non ce la faccio”. Poco tempo fa mio padre ha così definito i loro rapporti “Ormai l’affetto non c’è più, ci sopportiamo a vicenda”. Se mia madre fosse di opinione contraria non avrebbe scampo: è senza una lira, senza uno sbocco, un’attività, un’amicizia. Non si può dare più di tanto nella vita, mia madre ha dato infinitamente troppo. Di sé dice “Sono una pecorella, faccio sempre quello che vogliono gli altri”. Mi torna l’odio per mio padre, di nuovo penso alla sua morte come a una liberazione: mia madre potrebbe godersi qualche anno in pace prima di essere troppo vecchia o morire. Lei è indignata perché per mio padre i figli non esistono, non ne parla mai, non chiede di loro, non telefona, non risponde al telefono, non manifesta il desiderio di vederli. Si è rinchiuso completamente in se stesso, ha ricominciato a ottantanni una vita da scapolo. Mia madre non può fare altrettanto essendo la sua governante ormai. Voglio tornare a vivere a Milano, ricostituire tutta la mia organiz­ zazione, rifare il living dove Simone ha installato lo studio. Piango per lo sconforto di sempre, sconforto di secoli e millenni, sconforto della mia specie. Devo guadagnare se intendo vivere indipendente. Simone lo vedrò a Turicchi, e a Milano quando verrà mio ospite. E riprendo il femminismo.

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Mio marito mi faceva pena per quanto si ammazzava sul lavoro e an­ che adesso Simone mi fa pena a vederlo correre nelle fonderie con un caldo afoso pazzesco e la sua cistifellea dolorante. Ma la pena vera, interiore, vittimistica la provo per me, per mia madre perché abbiamo sgobbato tutta la vita e accompagnato le varie fasi dei nostri uomini condividendone le difficoltà, e alla fine ci ritroviamo degli zeri assoluti. 3 set. A Milano sto bene, benissimo. Non mi sento isolata come a Roma, non ho bisogno della presenza di Simone. Bisogno come ap­ poggio, intendo. E l’unica città, anzi l’unico posto sulla terra, dove esisto, dove ho un piccolo margine alla sopraffazione. Mi sono continuamente confermata nella sensazione che la donna emancipata riflette proprio il bisogno dell’uomo di avere una spalla, una testimone delle sue liberalità, insomma una partner “forte” dalle opinioni all’altezza delle sue. Per esempio, nell’essere certa che i con­ flitti fra greci e turchi nel Mediterraneo derivano dalla brama della scoperta del petrolio. 4 set. Un medico mi guarisce e io trovo il modo tra la folla di abbracciarlo e baciarlo con trasporto e dirgli tutta la mia gratitudine. Lui è colto di sorpresa, ma felice. Somiglia un po’ a Raffaele. Ricevo una lettera da Valeria, l’amica che più desidero rivedere.

Io non sono una donna forte, anzi mi sono sempre appoggiata a chi lo era come carattere o come particolare forma di cecità. Sia uomini che donne. Ho camminato tutta la mattina, ma non sono riuscita a trovare un vestito adatto a me: o fa troppo signora o troppo Fiorucci. A quarantatré anni è sempre più difficile scovare qualcosa da metter­ si addosso. Devo anche smettere di tenere i capelli tirati all’indietro: mi piacerebbe sentirli un po’ muoversi attorno al viso che non ha più l’ovale fermo di una volta. Un’altra cosa che mi dispiace avere sono le borse sotto gli occhi e i segni delle occhiaie. Eppure dormo sempre almeno otto ore, faccio vita sana: allora è l’avanzare dell’età. Questa è la sorpresa dopo la giovinezza: che nessun riposo arriva più a dare l’aspetto levigato e fresco. Simone è andato a incontrare il chirurgo da solo, non ho voluto ac­ compagnarlo e mi è dispiaciuto (senso di colpa), però il semplice fatto

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di essere rimasta in casa mi ha fatto passare il mal di stomaco. Qual­ cosa si è rilassato dentro di me. Ma perché, mi chiedo, perché? Isa, quando le ho detto che provavo il bisogno di avere un’attività, mi ha risposto che per lei il bisogno è sempre e solo di fare esperienza, e che l’idea dell’attività la limita. A suo parere il bisogno di attività nasce dalla mia maggiore età e quantità di energie. Quando le ho rivelato la mia sofferenza per Roma e il mio desiderio di rientrare a Milano, si è mostrata un po’ sorpresa “Ti pensavo ormai a Roma e come sposata...”. In fondo ho una specie di ripiegamento su me stes­ sa che mi fa soffrire, e a cui cerco di ovviare, forse, ripromettendomi un’attività. Mio padre ha avuto un piccolo colpo ed è rimasto incerto nella paro­ la. Ho telefonato subito a Firenze e lui stesso ha voluto parlarmi: non era più la sua voce, ma un farfugliare di vecchio in cui riuscivo a per­ cepire qua e là dei suoni a me familiari. Mi accorgo quanto è difficile godere a tempo delle persone che ci amano e amarle a nostra volta, io ho urgenza di vivere gli affetti al di là dei sensi di colpa. Esiste? Parlo con Piera: al ritorno da Londra suo padre è morto. Che strano Simone. Gli dico “Da giugno mi sento oppressa, coatta, non ne posso più della convivenza. A te voglio bene, ma non sopporto questo trantran”. E lui “Eh già, ma che farci?”. La sua operazione alla cistifel­ lea è rimandata al 17 settembre: così tra degenza e convalescenza si andrà avanti fino a novembre. Non mi sembra una cosa così grave e mi dà fastidio. Già un’amica gli telefona da fuori per avere notizie circa l’operazione. Queste donne esagerate, materne, danno dei vizi tremendi alla società. Se adesso me ne andassi per un po’ come desi­ dero, farei la figura di una sciagurata. Eppure Simone persino negli Stati Uniti non veniva quasi mai con me dal medico: con la scusa che non sapeva bene la lingua mi lasciava accompagnare da alcune amiche. E tutto il periodo pre-operazione con i dilemmi più terribili l’ho passato da Lucia a Boston. Intanto lui andava a letto con Olive, la moglie di John Run. A Isa è piaciuta molto La Stoiia della Morante. L’altruismo è masochismo? 5 set. In una mitica valle una mucca dalla grandi poppe. Non oserei mungerla neppure se morissi di fame e lei mi voltasse il didietro. Non saprei come si fa.

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Questo sogno mi sembra di averlo pensato più che sognato, eppure no, era proprio un sogno. Degli altri di stanotte non ricordo niente se non che c’era mia madre. La convivenza fa diventare nevrastenici perché porta proprio all’esasperazione l’amore-odio-senso di colpa, bisogno-rigetto, comunicazione-incomunicabilità, piacevolezza-no­ ia. Ma forse è esattamente questo il suo pregio. Parlare con Germana è come con Gemma e Irma: non mi ostacolano, cercano di capire. Invece in Isa c’è l’impulso a contrapporsi subito, segno di una passata soggezione. Felicita ho avuto finalmente l’impressione che esca dalla sua riservatezza: persino in interurbana si dilunga su racconti di pas­ seggiate con David, in parte perché è più cosciente delle sue inclina­ zioni e soddisfazioni, in parte per differenziarsi rispondendo così alla mia maniera più drammatica di vivere la vita in coppia. Simone è fuori per tutta la giornata e io non ho mal di stomaco, persino sono riuscita a fare un sonnellino dopo mangiato. Mi sono intrattenuta lungamente al telefono con le amiche, cosa che quando c’è lui non mi va. 7 set. Sono felice. Simone ha smesso le medicine e sta meglio. Ades­ so è tutto preso da Turicchi, lo godiamo insieme in questa vacanza fuori programma. Il tempo rinfresca e mi fa bene. L’aria da respirare, l’acqua da bere sono genuine, deliziose. Berto ha trovato in una ri­ vista il mio nome tra quelli che hanno rotto un certo tipo di cultura: Capanna, Agostino ’o pazzo, Fiorucci, Marenco ecc. Così impara a prendermi troppo sottogamba. Benché in questo momento non mi sembri più così avvilente. Lo sfondo di tutto è la mia rientrata a Mi­ lano, questa decisione mi ha sgomberato il campo da ogni malumore e le poche conversazioni avute mi hanno fatto ritrovare uno stato di allegria che non toccavo da molto tempo. Senza saperlo, poiché mi affidavo a una certa legalità, sono stata dispotica, assolutista, esemplare in più di una circostanza della mia vita, in modo particolare con le amiche. 8 set. Nottata stupenda, dormito benissimo, sogni che non ricordo, svegliata all’alba con un cielo terso, la campagna immobile, l’aria fresca senza vento, il massimo del benessere fisico e mentale. Dico a tutti che lascio Roma e me ne torno a Milano così vedo io stessa che effetto mi fa. Ho parlato con Piera: il nostro rapporto è molto assurdo. Lei mi ha

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eletto a sua amica ideale, io sono stata al gioco, ma nessuna delle due muove un dito per stare un po’ insieme. Ora con un pretesto, ora con un altro rimandiamo Foccasione di vederci. Mentre finisce per farlo spesso con Ester con cui mi dice di avere solo un rapporto di reciproca utilità. Sto andando a trovare i miei genitori, sono sul treno locale Montevarchi-Firenze. Felice, energica, sicura. Da Più donne che uomini di Ivy Compton-Burnett: “Io non penso mai al lavoro degli altri. Il lavoro è una cosa alla quale non mi piace pensare. E strano invece come mio padre mi riconnetta sempre al lavoro. Non riesce a separare questi due concetti”.

9 set. Sono sul tram, e una donna, a corsa finita, mi avverte che sta andando lei a pagare il mio biglietto al fattorino, ma io tiro fuori delle cento lire e le dico dì avvisare il fattorino che pagherà direttamente “la signora”. F un’altra giornata incantevole di settembre. Ahimè, stasera rientria­ mo a Milano. Simone mi tranquillizza “F’anno prossimo staremo qui quanto vorrai”. Ma vorrà, Fanno prossimo? Rimandare la realizza­ zione dei desideri è un inganno tremendo perché il desiderio vivo passa e resta solo la sua scia. Simone dice che può vivere giorno per giorno chi non si assume responsabilità, come me. Ho ripreso le lettere a mia madre quando ero in Francia, nel ’52-53. Sono così traboccanti di affetto, e in modo così esplicito! Avevo ap­ profittato della lontananza per vivere la famiglia senza difese, illuden­ domi che i rapporti fra me e lei fossero veramente basati su quell’in­ tesa che avevo sognato. Così veniva fuori una specie di schizofrenia tra la visione della famiglia quando c’ero dentro (per cui desideravo scappare) e la visione della famiglia appena ne ero fuori. Simone mi chiama a osservare la TV dove Matilde sta per raccontare una bar­ zelletta in una trasmissione di quiz. La vedo che si alza, molto elegante e comin­ cia “In un verde prato, in un prato...” e poi emette suoni stranissimi che all’inizio interpreto come un tremito nella voce, ma che in seguito si rivelano per balbet­ tamenti inarticolati. Non ce la fa, e io mi chiedo “Perché mai si caccia in queste situazioni...”. Va avanti per un po’, sono sicura che ha in mano il foglietto con su lutto scritto, ha solo da leggere, ma niente, è penoso, finché la sua voce tace e nel video, tra la folla, vedo qualcuno che cade a terra svenuto, e capisco che è lei.

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Ieri avevo letto su un giornale che la prima paura che risulta da un’in­ chiesta negli Stati Uniti è quella del parlare in pubblico. 11 set. Naturalmente adesso sono in qualche modo pentita, ma non avrei potuto fare diversamente. Federica mi preoccupa e non vedo che parte attiva avrebbe in una casa editrice; e poi a lei piace il teatro, era sulla via di diventare attrice quando si è sposata, e adesso ha qual­ che possibilità in quella direzione. Comunque è evidente che fra don­ ne non si combina niente perché nessuna sente il fascino di investi­ re in imprese esclusivamente femminili: non scatta il piacere di co­ struire qualcosa insieme, di faticare e entusiasmarsi nella reciprocità perché da sempre il vero successo di sé la donna lo pone nel ricono­ scimento maschile, quindi tende a collaborare con l’uomo e non con un’altra che poi ha il suo stesso problema irrisolto. Inoltre il mondo è fatto dagli uomini per cui esperienza del mondo significa esperienza degli uomini. Ho provato un acuto bisogno di sganciarmi da Federica non solo perché non è nel femminismo che può trovare degli sbocchi vitali, ma anche per sentirmi libera da lei e sentirla libera da me, su una sua strada senza la mia protezione e il mio schermo. Comunque io lavorerei molto serenamente in una apartheid femminile - il che non significa escludere i maschi, ma che siano loro una buona volta a presentarsi come postulanti di qualcosa che gli corrisponde e che ma­ gari non esiste nella loro cultura - mentre chi ha il problema aperto è evadente che cerca di svolgere un’attività che fornisca la chance di un incontro. Per gli uomini non è così: si misurano fra loro, e questa è la vera prova del loro sentirsi indipendenti. Mi viene voglia di prendere i miei quaderni e di buttarli tanto mi sembra siano polverizzati dalle esperienze di Sara. Parlandole pensa­ vo “E io che le dico, con quali gesti di libertà posso rispondere ai suoi? Io sono un continuo lamento, un continuo rimuginare i miei limiti senza oltrepassarli”. D’altra parte quello che mi turba è il dovere am­ mettere che c’è una persona più libera e più cosciente di me, una che mi dà delle lezioni, a paragone della quale sono così legata, impaccia­ ta, paralizzata! Ma non mi pesano tanto le catene che scopro di avere al suo confronto - certe rotture le farei per una specie di sfida nella libertà, ma non ne provo il bisogno come di un qualcosa che parte da me - quanto il confronto in se stesso da cui esco superata. Dunque era vero: non avevo mai incontrato fino a ora una ragazza più libera

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di me o almeno non me ne ero accorta, e sì che stavo attenta. Non sono più imbattuta: come un pugile, ho visto arrivare il match con 11 giovane che mi ha tolto il titolo. Così, senza sapere ero competiti­ va, senza sapere primeggiavo e non credevo veramente possibile che un’altra mi passasse davanti. Anche se lo temevo, come era comincia­ to a succedere con Lucia. Il meccanismo era tirannico: se mi sentivo minacciata da un’altra perdevo totalmente la fiducia in me, di qui un gran lavorio analitico per dimostrare a me stessa che non si trattava di altro che di debolezza momentanea. Ho studiato il mio prossimo con una precisione che lo smontava fino a farmi scoprire il suo segre­ to e renderlo inoffensivo, cioè non più in grado di suggestionarmi. 12 set. Sono ancora legata a un ideale emancipato se aspetto in qualche modo che l’uomo si riconosca per un attimo illuminato da me e venga lui a me? Basterebbe che lo sentissi sul punto di muover­ si, non gli farei fare tanti passi. Ma non lo sento. E il suo potere su di me, o se non direttamente su di me, sulla mia specie, mi offende. Dopo un sonno pesante stamani sono rimasta qualche ora sveglia. Riecco l’angoscia, l’incertezza, il dubbio di avere sempre mentito a me stessa perché a volte dimentico di essere così impastata di sof­ ferenza. E mi illudo di potere cambiare il mio destino. Per Sara è possibile comunicare la gioia di vivere, chi non vorrebbe esserne con­ tagiato? Ma la sofferenza, chi è disposto a riceverla da un altro che te la rivela? E raro. Soffrire è soffrire di soffrire. Nessuno è in grado di soffrire la tua sofferenza.

Anche Milano va bene e non va bene. Sperare di trovare uno sbocco nel lavoro è assurdo. Simone dice che sono matta a fare programmi nel vuoto, che non mi prenderà nessu­ no, non esiste come lo penso io. Dicevo ieri sera a Isa “La sofferenza lascia una traccia indelebile, or­ mai lo so e accetto quella traccia”. Lei ribatteva che no. L’ho ripetuto stamani a Sara “La sofferenza è dentro di me, questo ho cercato di non vedere, mi sono sempre lasciata motivi di sofferenza all’esterno per crearmi un alibi, per esempio la lontananza di Simone durante

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tutti questi anni. Adesso sono alle prese con me stessa e la mia inter­ na, radicata angoscia”. Lei pensa che me ne posso liberare. Le ho risposto che quello che è fatto è tatto: quando uno è affogato, arriva­ no i soccorsi e ripescano un affogato. Parlando dei nostri rapporti le ho ribadito di essermi sentita rifiutata da lei. Mi meraviglio di questo ruolo un po’ pietistico che prendo, ma non posso farne a meno e d’al­ tra parte non mi interessa quasi come viene considerato, se dà delle difficoltà, se è giusto o ingiusto. D’altra parte questa lente della soffe­ renza mi tiene vicina all’umanità. Se non accetto la mia provenienza dal lager non so chi sono e vivo ancora nell’irrealtà. 13 set. Regina mi ha detto “Anni fa eri più aperta, più socievole, quando abitavi in via Verdi...”. Stavo quasi esclusivamente con uo­ mini e c’era un frizzante fra noi. In più avevo un’amica come Ester. Adesso non ho più amici e le amiche si allontanano per trovare una loro strada. Anche stamani mi sono svegliata presto: pensavo al suici­ dio come ultima spiaggia della solitudine, e la solitudine che vedo per me è molto più definitiva di un tempo. Fa parte di me. Viene sempre il momento in cui provo il bisogno irresistibile di co­ municare la mia sofferenza, e questo è impossibile. Allora chiudo i contatti, so che dove più mi preme sono respinta. Sara dice “E as­ surdo pretendere di essere accettati dagli altri prima di accettarci noi stessi”. In me c’è un giro vizioso. Ma Sara mi sembra una bambola strabiliante con il sorriso fisso e il meccanismo sempre in ripresa. Però è stato quel sorriso fìsso che passava attraverso le mie lacrime senza turbarsi che mi ha fatto sentire definitivamente affossata con il mio dolore inutilmente esposto. Adesso ho un po’ eli caos nel cer­ vello: mi viene da accusare Sara che non è stata all’altezza, e tutte queste amiche che non hanno potuto darmi nessuna vera conferma, solo ammirazione e distacco. Per me: responsabilità e senso di colpa. Sara mi ha rivelato a me stessa, ma mi ha lasciato fragile, depressa, sola. Di me le piace la possibilità di divertirci assieme, le piace un lato di me, quello che piace a tutti. L’altro non può piacere, può essere partecipato e amato come mi è successo con Simone che ama i miei squilibri e si lascia toccare da loro perché è arrivato al punto che non esorcizza più la sofferenza. Oppure è una sua natura e Sara ne ha un’altra che le impedisce di scendere troppo nelle zone dove io ho le mie radici.

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Regina mi ha rimproverato per essermi staccata da Rivolta, eppure lei era una delle più accanite, allora, ad accusarmi di leaderismo. Ho così avuto la prova che una volta li dovevo restare lì per permettere a lei di sen­ tirsi protetta e nello stesso tempo gagliarda a lottare per mandarmi via. Mi ha fatto piacere sapere che Ester ha telefonato a Matilde per avere dei libretti da dare a Feltrinelli di Roma. Anche i miei. Arriverà a rim­ piangermi e a vedermi sotto un’altra luce? La mia duplicità sta in questo, che una parte di me risponde alla mia natura, un’altra al mio carattere come risultato di violenze subite. Sara era in uno dei suoi momenti di inquietudine e di rabbia: prima mi propone di vedere insieme la TY poi mi parla di Milano, dell’amicizia, di suo padre, mi chiede se ho vasto il tale film, se so dov’è un certo cine­ ma. Afferra il giornale, lo sfoglia nervosamente “Hai voglia di andare al cinema?”. “Dipende dal film. E tu?” “lo vado al cinema.” Allora mi alzo e mi congedo “Ci vediamo domani”. Ero lì da un quarto d’ora e già non potevo più sopportarla, non avevo niente da dirle o da ascol­ tare da lei se non qualcosa che riguardasse noi due. Ero soddisfatta di andarmene e quasi grata che me ne avesse offerto l’occasione. Sono raffreddata ed era stato imprudente uscire. Mi sento come dopo una vittoria, ho uno spazio davanti a me che prima ignoravo. Chissà per­ ché ci ho tenuto tanto a essere una ragazza saggia (per certi aspetti): forse ero terrorizzata che mi bollassero, già mi sembrava di farne abbastanza. Ho ascoltato alla TV il pianista che stava con Coltrane, e l’ho goduto proprio in un raptus. Domani parto come un razzo, stanotte mi faccio una gran dormita. 14 set. Continuano le giornate di sole, fa caldo, Milano è semide­ serta: che seccatura dovere stare qui. La vita mi si presenta come un concatenamento di necessità misto a periodi improvvisamente liberi, ma che durano poco, giusto il tempo di gustarli, poi ricominciano le necessità. Per essere svincolati da ritmi imposti bisognerebbe vivere distaccati da tutto, lasciando gli altri crepare quando hanno bisogno di noi. E accettare che ti lascino crepare quando hai bisogno di loro. Per la sopravvivenza è previsto tutto un collegamento di aiuti che ha alla base la solidarietà familiare. A me toccherà occuparmi di mia madre quando mio padre sarà morto, adesso mi occupo di Simone e della sua operazione, lui, si è occupato di me quando avevo il cancro, mia madre si è occupata di me quando avevo l’appendicite ecc.

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Dunque sono già stufa di stare a Milano. Vorrei andare in campagna, ecco che lì sogno sempre di andarci, chissà se potrò stabilizzarmi a Turicchi. Prima di partire da Milano però devo avere visto Valeria e avere preso accordi per la sua pubblicazione e avere deciso per le mie vecchie poesie. 15 set. Adesso Sara è ospite di Gemma che sta in montagna. Per lei è molto naturale ricevere dalla gente, così la gente finisce per essere spinta a trovare naturale dare. Mentre per me sarebbe una tale sorpresa che non potrei crederci, non smetterei più di ringraziare e di analizzare le componenti di quella circostanza fortunata, mi verrebbe una tale grati­ tudine che l’altra ne sarebbe insospettita, si convincerebbe di avermi con­ cesso troppo, se ne pentirebbe o chiederebbe subito qualcosa in cambio. Tuttora non posso sopportare il protagonismo di mio padre, il suo non vedere le esigenze degli altri, il suo ottimismo a ogni costo per ciò che lo riguarda. Questa è una caratteristica che schiaccia chi gli sta attor­ no perché si basa sulla centralizzazione di sé che a me risultava naive, persino grottesca, e faceva anche un po’ pena, però poi di fatto ero io che dovevo cedere. La sicurezza che Gene dal non guardare in faccia nessuno è davvero potente. Così ero affascinata da questo tratto psico­ logico che volevo assimilare pur mantenendo le caratteristiche di chi guarda da fuori e giudica. Forse a teatro quello che tiene inchiodati gli spettatori al loro posto è proprio l’attrazione-repulsione per l’attore, questo mistero di narcisismo. Se il narcisismo è stato offeso la perfor­ mance è impossibile: un dato di conoscenza ha distrutto una possibi­ lità di azione. Il bello è che chi è incapace di manifestazioni narcisisti­ che per sé finisce per essere colui che alimenta il narcisismo negli altri. Infatti lo spettatore applaude, va in estasi, gratifica all’eccesso, ma per sé non può fare niente se non restare spettatore o non esserlo più, non arriva a diventare attore. Non è solo un’incapacità, ma anche un’im­ possibilità dettata dalla coscienza che non può tornare indietro a una condizione ingenuamente prepotente, esibizionistica, capricciosa, ac­ caparrante. Queste qualità per nulla al mondo vorrei possederle: dopo averne osservate il lato oppressivo sono diventate incompatibili con me. Io sono stata protagonista nel femminismo, ma senza dirmelo, appena me ne sono accorta la vergogna mi ha sbattuta a terra come Paolo sulla via di Damasco. Potevo difendermi, non drammatizzare, correggere il tiro e andare avanti, ma il senso di colpa mi ha preso alla

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gola come un laccio che può strangolarti. La vergogna mi ha tenuto ferma per due anni. Vedere Sara mi disturba: quanta petulanza, decisionalità e “Io qui” e “Io là” e “Voglio fare questo” e “Voglio fare quello”! Mi stanca, mi zittisce. Cosa aspetto da lei? Cosa deve dirmi perché io riesca non solo a cancellare le frustrazioni passate, ma a rimontare verso uno stato d’animo aperto, fiducioso? Devo solo staccarmi da lei, ma dav­ vero e staccarmi io, non aspettare che parta o cose del genere. Gary Cooper in Le giubbe rosse è abbastanza giovane e mi piace ancora. Mi emozionava la sua parte nei film, spesso di uno costretto a rinun­ ciare alla donna amata. Cioè da ragazza sono cresciuta senza nessun esempio attraente di vita di coppia o di stare insieme. A quei tempi non si usava. I film erano tutti drammatici (o zuccherini) e sulle pas­ sioni erotiche collegate alle difficoltà. Io forse sono rimasta un po’ così. Mia madre doveva andare al mare con Lucia e le bambine, ma papà ha avuto quel disturbo così non si è potuta muovere. A me succede la stessa cosa: domani Simone entra in clinica e questo meraviglioso set­ tembre svanisce. Saremo liberi quando il tempo sarà di nuovo grigio, freddo, insopportabile. Così passa la vita, in più sia mio padre che Simone finiscono in una specie di tetraggine rotta da sprazzi di vitalità e di entusiasmo nel lavoro. Mia madre dice “Ogni tanto sono depressa, è questo isolamento, questo modo di vita”. Potrei dire lo stesso di me: a volte mi Vene una ribellione che mi soffoca perché alla mia sento assommarsi la sua. Ieri sera avevo mal di testa e non ho preparato la cena a Simone che ha mangiato di corsa dei formaggi. Stamani, ancora con il mal di testa, gli chiedo come ha dormito. Mi risponde che ha avuto dei disturbi alla cistifellea. Allora mi sono arrabbiata, ma una cosa tremenda. Perché, non è la schiavitù più completa che gli esseri amati dipendano da noi anche per un riso all’olio? Possibile che lasciati soli non siano in grado di bastare a se stessi, di alimentarsi nella forma più semplice, e quindi cadano malati, o se malati, morti? Questa responsabilità mi fa impazzire, mi rende malinconica, oltre a rubarmi giorni preziosi come questo settembre mai visto. II brutto è che, quasi, ho avuto io bisogno degli altri, quanto a malattia, pri­ ma che gli altri lo abbiano avuto di me, e poi in tondo considero che Simone stando con me “mi cura”. Ma non ne posso più, quest’anno non ne posso più. Impazzirò; oppure farò come mia madre che tra un sacrificio, un gesto di rassegnazione e una necessità va avanti in­

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tramezzando con esaurimenti nervosi, tentazioni di suicidio, e piccoli continui accessi di depressione. Finché mi occupavo d’arte, scrivevo sull’avanguardia, facevo riunioni femministe potevo illudermi che la sostanza della mia vita fosse diversa dalla sua, ma adesso che sono ritornata a me stessa posso dirle “Eccomi sul tuo stesso binario”. 16 set. Simone entra in clinica: mi ero appena meravigliata di non provare niente di speciale quando gli ho parlato al telefono e l’ho sen­ tito solo. Mi è venuto un tremendo senso di colpa per averlo spinto a operarsi a Milano mentre a Roma aveva amici medici, una clinica a lui familiare e tutto più semplice. Sara mi accusa di averle confuso le sue sensazioni con il mio ragiona­ mento, d’altra parte nel ragionamento esprimevo le mie sensazioni. Eravamo in un rapporto madre-figlia e questa era la fonte delle pro­ iezioni passate e della dipendenza. Infatti la figlia è un essere che ha nella madre il suo punto di riferimento globale e la madre ha nella figlia una per cui essere punto di riferimento globale. La figlia viene crescendo, dal nulla, per così dire; la madre ha i problemi di una vita. La figlia si ribella (Sara dice “perché la madre offre risposte conven­ zionali e smentisce la figlia”) per le menzogne che la madre senza sapere dice a se stessa, e rifiuta sua madre. Simone è convinto che io non prova senso di colpa verso di lui, ma rabbia per avere ceduto su qualche punto ed essermi fatta trascinare a dare. Adesso è in clinica, lo operano alle sette, e ho i brividi per lui. Come è bello non essere io a sdraiarmi sul tavolo operatorio! Scher­ zando ha detto “Ti senti estranea, eh?”. Mi ha un po’ sorpreso notare che aveva paura, che era in ansia: anche l’anestesista se ne è accorto. Però, visto da fuori mi sembra più calmo di me vista da dentro alla vigilia delle mie operazioni. Non ha voluto la pasticca per dormire, ma tanto domani lo imbottiranno di narcotici come mille Valium. Nel Vangelo della clinica ho letto di Giovanni Battista e di Cristo. Giov. 1, 19-24 “Ecco quale fu la testimonianza di Giovanni quando i Giudei mandarono da Gerusalemme dei sacerdoti e dei levati per domandargli 'Chi sei tu?’. Egli confessò e non negò. Dichiarò: ‘Io non sono il Cristo’. Gli domanda­ rono: ‘E allora? Sei tu Elia?’. Rispose: ‘Non lo sono’. ‘Sei tu il profeta?’ Rispose: ‘No’. Gli chiesero: ‘Chi sei tu perché noi possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno inviato? Che cosa dici di te stesso?’. Rispose:

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‘Io sono voce di uno che grida nel deserto: ‘Spianate la strada del Signore’, come disse il profeta Isaia’.” Giov. 1,29-31 “L’indomani, vedendo Gesù che veniva a lui, disse ‘Ecco l’Agnel­ lo di Dio che toglie il peccato dal mondo. Di lui ho detto: Viene dopo di me un uomo che è passato davanti a me perché era prima di me’.” Giov. 1, 33-34 “E io non lo conoscevo, ma Colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi aveva detto ‘Quello su cui vedrai lo Spirito scendere come una co­ lomba c posare, battezza nello Spirito Santo’. Io l’ho visto e attesto che è lui il figlio di Dio, l’Eletto.” Giov. 3, 25-31 “Sorse una discussione fra i discepoli di Giovanni e un giudeo a pro­ posito di purificazione. Andarono da Giovanni a dirgli ‘Rabbi, colui che stava con te quand’eri sull’altra riva del Giordano, quello a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza e tutti vanno da lui’. Giovanni rispose ‘Nessuno può arrogarsi qualcosa se non gli viene data dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto ‘Non sono io il Messia, ma sono stato mandato innanzi a lui’. Citi ha la sposa è lo sposo, l’amico dello sposo che gli è accanto e lo ascolta è colmo di gioia quando ode la voce dello sposo. Ecco la mia gioia. Adesso è completa. Bisogna che lui cresca e io diminuisca’.” Luca 3, 20 “Intanto il tctrarca Erode... aggiunse un nuovo crimine a tutti i pre­ cedenti: fece chiudere Giovanni in prigione.”

17 set. Non ho potuto prendere sonno, ho un turbinio nel cervello: in questo momento Simone è al massimo della sua angoscia, e io lo so. E come se telepaticamente me lo comunicasse. In più devo affrontare il suo risveglio all’uscita dalla sala operatoria. Sono così vigliacca da desiderare di non essere io là con lui? Cara Sara, il rapporto con te è troppo frustrante. Sono costretta a ritirarmi pri­ ma di arrivare a un punto morto; oppure ci sono già, forse è così.

Amo Simone moltissimo, è un po’ come un bambino nelle mie mani. E fragile... uscendo dall’anestesia ha detto “Ho paura”. Matilde è

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stata tutta la mattina con me e ha assistito al rientro di Simone dalla sala operatoria. Mi ha creato la distensione necessaria ad affrontare lo choc di vedere Simone così. Mi viene un gran desiderio di tenerlo da conto, e di goderci la vita insieme, il più possibile. La mia sensazione era che con mia sorella non ce l’avrei fatta, idem con Sara. Anche con Ester avevo questo disagio, però era nascosto, non era stato messo a nudo dall’antagonismo. Cara Sara, mi secca vederti così allegra mentre io non lo sono ancora. In par­ ticolare non lo sono vicino a te. Vorrei che tu capissi la mia tristezza, il mio tormento. Ma sto bene attenta a che tu non li capisca, mi guardo bene dall’esprimerli. Perché hanno a che vedere con l’angoscia che tu sia migliore di me. Che un’altra fosse “migliore” di me l’ho sempre temuto a cominciare da Lucia. Allo­ ra avevo il vantaggio di sentirmi grande, ma tenevo d’occhio le mie quotazioni in rapporto a lei e mi accorgevo che il dislivello a mio favore diminuiva via via che lei cresceva. La parità era per me una retrocessione. Ho ammesso di sentirti più autentica di me, ma non quanto fosse tormentoso per me ammetterlo. Il mio timore ha questo fumetto che tu mi superi nella stima delle amiche, degli amici e del mondo. E ancora adesso non so se ti scrivo per bisogno di verità o perché adopro la verità come una competizione. Capito?

19 set. “Figuratevi se desidero minimamente impietosirvi... già quattro libri dedicati alle mie disgrazie!... potrei pensare un po’ a voi... non avete soflérto, per caso?... altro che!... mille volte peggio!... con più delicatezza, ecco tutto! non lasciate trapelare niente, nemmeno un sospiro!... miei rozzi grattacapi, basta!” (Céline, Rigaudon , Garzanti) Giov. 5, 30-32 “Da me io non posso fare nulla... Se io do testimonianza a me stesso la mia testimonianza non vale. Un altro mi rende testimonianza e io so che vale la testimonianza che lui mi dà. Voi avete mandato a interrogare Giovanni e lui ha reso testimonianza alla verità”.

20 set. Sono due notti che qui in clinica sogno Ester, ma non ricordo niente. Solo che sembrava tutto abbastanza normalizzato. 21 set. Anche stanotte devo avere sognato Ester: non ricordo gii epi­ sodi, ma un clima senza problemi. Regina mi ha proposto di incontra­

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re un editore amico suo e di accettarne Fofferta di dirigere un settore sul femminismo. Le ho subito detto che ero contenta che avesse pen­ sato a me, ma che io sono sempre stata uccel di bosco, senza altra re­ sponsabilità che di fronte a me stessa. “Pensaci.” “Ci penserò.” Infatti ci penso, però dentro di me ho sentito subito un “No” molto chiaro. Non cambierei la mia situazione di anomala e marginale con niente al mondo. Figuriamoci con un incarico, tutto sommato, impiegatizio. Anche se sono sicura che potrei prendere abbastanza spazio e ascen­ dente da fare quello che mi pare. Ho mobilitato tante energie per ritor­ nare professionalmente libera - dopo essere stata dentro dei ruoli, però mai come dipendente - che ho appena capito che è l’unica condizione che mi è congeniale. Però è evidente che non metto in conto il proble­ ma economico, lo stipendio, e questo forse falsa tutto il quadro che mi faccio di me e della situazione. 22 set. Leggendo Freud mi confondo, non trovo il punto di aggancio e mi sembra che se seguo questi processi mi faccio influenzare. Se per­ do di vista l’autenticità non so più chi sono. Mi viene il caos se devo decidere a quale settore di me sono da riferire certi rifiuti come quel­ lo di impegnarmi in una casa editrice. Sarà anche il Super-Io che mi nega l’esplicitarsi di certe ambizioni professionali oppure l’accedere alla competitività con la minaccia di farmi soccombere, però resta il fatto che io voglio essere libera il più possibile e non vendere la mia primoge­ nitura. Semmai da me stessa considero superficiali le spinte che posso avere a impegnare le mie capacità a un livello gratificante, ma che con­ sidero sostanzialmente modesto, anzi avvilente. Mentre quello che ho fatto in Rivolta, libretti compresi, sebbene mi lasci molto sguarnita sia come interlocutori sia come notorietà e autorevolezza (che poi sono due attributi che detesto, anche se socialmente mi proteggerebbero, ma la protezione è un ostacolo a quello che mi interessa, e cioè la comunica­ zione) lo sento all’altezza, quindi mi soddisfa e mi autogratifìca. Se ho scelto questo genere di azioni il più lontano possibile dai compromessi (non l’ho scelto a priori, ma ha sempre finito per andare così) vuole dire che il compromesso per me è una sofferenza in quanto limitazione e controllo, ingerenza di altri, impegno verso terzi e programmazione. 23 set. Dovrei offendere Sara, ma non so di cosa accusarla. Anzi l’ho accusata di non accettarmi, ma lei dice che è un problema mio, non

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lo prende neppure in considerazione. Io soffro dei nostri rapporti, ma li cerco: forse sono stata abituata a sentirmi impegnata con chi mi genera dubbi e incertezze. Mi stimola ogni atteggiamento che mi fa soffrire. Forse perché è rivelatorio e mi crea un bisogno smisurato di andare a fondo. D’altra parte il mio masochismo è una specie di tra­ vestimento voyeristico per cercare di carpire il segreto della persona­ lità di chi mi rifiuta. Chi è l’altra? Che diritto ha di rifiutarmi? Forse non sono abbastanza modesta da accogliere come un fatto naturale le sollecitazioni che mi vengono dall’esterno. Però quando mi sentivo accettata da Sara le accoglievo e nello stesso tempo provavo fiducia in me. Una fiducia che evidentemente poggiava sul presupposto di un affetto per me, di una simpatia per me, e non solo sull’autenticità. Dunque quello che mi turba al massimo è il senso di incomprensio­ ne che genera uno stato di antagonismo: sebbene abbia la garanzia dell’autenticità, non mi basta. Non sono in grado di fare fronte allo squilibrio tra la mia fiducia in lei a cui non corrisponde una sua fidu­ cia in me. Non riesco a vivere la mia vita come se fosse la mia vita, la mia vita finisco per trovarla nella sua vita. Mi piace di più la sua vita. Vorrei essere io a \iverla. Ma capisco che se lei mostrasse di “credere” nella mia vita avrei via libera per vederci affiorare tutte quelle qualità che “so” che ci sono, ma che apprezzo nella sua e che lei sembra non cogliere nella mia. D’altra parte lascio sullo sfondo ogni obiezione, fastidio, disaccordo verso di lei, come una specie di trucco per sentirla incombere su di me, per provare la paura di non farcela, per toccare la disperazione, l’abbandono, la solitudine. Creo quasi artificiosamente il pericolo di farmi schiacciare, di prefigurarmi la mia resa. E assurdo per me dire questo, dato che poi soffro terri­ bilmente, però ho come la sensazione di un artificio sullo sfondo. E come soffrire nella fantasia per non soffrire nella realtà: pago il mio tributo nella fantasia, evito il confronto con la realtà. Quando Lucia non si interessava a me, non prestava fede a quello che le dicevo di me, non dava segni di trovare alcuna rispondenza in me, mi sentivo a disagio perché, al contrario, quello che mi veniva da lei aveva il potere di provocarmi irrequietudine e mi costringeva a rive­ dere tutte le mie certezze. Con me aveva la meglio, e il fatto di vederla fragile con gli altri, o irragionevole o criticabile, non serviva a sminuire ai miei occhi il valore della sua imperturbabilità. A mente fredda mi dicevo “Sbaglia a dubitare di me”, però niente poteva cancellare la

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sensazione che, pur sbagliando, aveva in sé una sicurezza che io non avevo se non dopo avere accumulato le prove a cui ancorarmi. Avevo un bel dirmi che il suo potere su di me si basava sul fatto di essere la portavoce della legalità familiare e del punto di vista dei genitori, quin­ di avrei anche voluto vedere che non ne avesse la certezza, questo era un ragionamento che non aveva la capacità di essere simultaneo alla mia reazione di sconforto e di modificarla a mio favore. Le invidiavo la sua tranquilla posizione “conservatrice” che non le dava sensi di colpa nei miei confronti, perciò la sua felicità. Adesso con Sara c’è in più 1’aggravante che è lei ad avere una posizione più libera della mia sebbene, a pensarci più attentamente, rispetto a Lucia, alla sua calma, razionalmente potevo gratificarmi di ribelle, ma di fatto mi sentivo sola, condizionata e travolta dai miei conflitti interiori. Sara dice di sé “Sono la persona più libera che io conosca”, e solo questa afferma­ zione ha la forza di suggestione di farmi leggere la sua esperienza nel segno della libertà, ma sono benissimo cosciente che la suggestione non dipende tanto da quello che lei fa, quanto dalla convinzione che ci mette. Potrebbe essere ancora sposata e trovarsi in una situazione più vincolante della mia che di fronte a un’affermazione del genere proverei la stessa suggestione. Già mi aveva scosso la sua dichiarazio­ ne di felicità riferita appunto al matrimonio con un uomo per me del tutto banale, con l’aggravante di un rapporto sessuale non erotico e insoddisfacente. Come aveva potuto sopportarlo? Ecco che con asso­ luta buona fede non solo mi aveva garantito di averlo sopportato, ma di esserne stata appagata. Qualcosa del genere è avvenuto con Lucia: da lontano pensavo “Povera Lucia”, poi la vedevo nella sua casa, con le sue figlie e, sì, era felice. Mentre io che avevo cercato dei buoni motivi per esserlo - gente interessante, stimolante, autentica, dispo­ nibile - forse non lo ero stata. Oppure sì, come eccitazione, euforia, comunicazione, certo no come padronanza di me, come stato d’animo continuo. Ero sempre esposta a tracolli, cadute, fughe. E quando ave­ vo creduto di essere finalmente su un terreno stabile, sicuro, nel fem­ minismo, non sapevo che potevo esserlo solo per la fiducia delle altre in me. Fiducia che temevo di perdere, ma non ne ero cosciente, fiducia che mi sforzavo di mantenere e di riversare a mia volta sulle altre. Se qualcuno mette in dubbio me vuole dire che vede più di me, e io non lo sopporto. Ne ho parlato con Simone molto energicamente. Mi sento meglio.

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Mi ha commosso e irritato uno scritto di Pasolini: commosso perché parla della sua liberazione e irritato perché ne parla in maniera indi­ retta, letteraria. Mi ha divertito leggervi quasi il mio nome “lonza”, come se stessimo per avere un incontro, un colloquio. Ho ritrovato molte sensazioni (Simone si spazientisce “Ma smettila di cercare le tue sensazioni negli altri: te sei te, non perdere tempo a guardarti intorno, apriti, distenditi”). “Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o meglio a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comin­ cia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per ‘conformismo’?” “Ma come giunsi, in quel mio sogno fuori della ragione - di breve durata e così definitivo per il resto della mia esistenza (così almeno immagino) - vidi... una luce... che mi accecava come quella ‘vecchia verità’, su cui non c’è più nulla da dire. Ma che riempie di gioia il fatto di aver ritrovata, anche se porta con sé, essa sì, la fine di tutto.” “Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi: come un malato: poi ri­ cominciai ad andare (è la vecchia storia). Su per la scesa deserta, dove veramente potevo dire di essere solo.” “Ma ecco che subito, dopo pochi passi... eccola là, uscita dai ripostigli comuni della mia anima” (che continuava accanitamente a pensare, per difendersi, per sopravvivere - per tornare indietro!)... la bestia agile... “Anzi, per una forza terribile, quella della verità, quella della necessità della vita - (la lonza) mi impediva di proseguire per la mia nuova strada - scelta non per mio volere, ma per la mancanza di ogni volere - e su cui non c’è alcun bisogno di mistificare, perché si è ‘soli’.” (“Il Mondo”, 26 sett. ’74)

Io non avrò pace finché non avrò pubblicato i miei scritti, finché non sarò uscita fuori per quello che sono. Ecco il punto di affermazione di me per togliermi dall’insicurezza e dal timore. 25 set. L’inferiorizzato tiene il conto degli errori del superiore, e lo accusa che questi errori l’hanno ingannato, messo fuori strada. Ma

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l’unico errore è che lui sia inferiorizzato. Così fa pagare all’altro degli errori in proprio come se fossero colpe verso di lui. Già l’errore è doloroso, se diventa colpa è schiacciante. Cosa mi disturba in Sara: che sia lei a decidere se parlare o no dei nostri rapporti, spesso me lo ha vietato; che lei mi senta come sua madre e quindi consideri i miei errori come inferiorizzazioni verso di lei; che continui a vedere sua madre come sua madre e continui a pretendere abnegazione da lei (per esempio, che la lodi per un libro che le ha fatto dispiacere: affari suoi, no?); che di sé affermi di dire tutto mentre io ho avuto la rivelazione della sua ostilità leggendo il suo diario; che sposti la data della sua dipendenza dalla madre ai primi due mesi di vita, quando piangeva per la fame, e non dopo, all’epoca del complesso di Edipo: nel primo caso la responsabilità è della madre. Sara dice che ha avuto senso di colpa verso sua madre e verso di me, cioè difficoltà a accettare di stare ribellandosi verso chi le aveva fatto del bene. Così è arrivata alla conclusione che le abbiamo fatto del male, e si è liberata del senso di colpa. Il matriarcato è per la madre (come il patriarcato per il padre) un modo di mettersi a riparo dall’aggressione delle figlie attraverso una forma di celebrazione del suo ruolo che funziona da tabù? Essendosi identificato come annunciatore del Messia, cioè del figlio prediletto di Dio, il Battista vive l’emozione della profezia, della pe­ nitenza, dell’apostolato, del rivelare i segni del tempo, ma quando arriva Cristo e il Battista lo riconosce come superiore a lui, come colui che battezza nello spirito, e convince i suoi discepoli ad abban­ donarlo per andare da Cristo, fa olocausto di sé, anzi un olocausto della sua virilità in nome della quale ci si affronta prima di accettare il secondo posto. Questa predisposizione a essere “l’altro”, colui che riconosce e non colui che esige riconoscimento, gli ha decretato il de­ stino della castrazione (decapitazione). Invece Cristo è un personag­ gio assolutamente virile, un capo, vincitore di qualsiasi antagonista. Solo dopo il tradimento di Giuda mostra di soffrire per la solitudine e dubita di sé. Ester ha un modello maschile di comportamento con cui fare fronte alle sue insicurezze: quando si è sentita messa in crisi da me mi ha accusato di superiorità. Ha rinunciato a capire, a uscire veramente dall’inferiorizzazione grazie a un gesto dimostrativo a cui ha affidato

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il potere di riscattarla e di garantire della sua autonomia. D’altra par­ te ho provato io stessa quanto è terribile, debilitante non usare degli schemi maschili. Adesso ho subito abbastanza, ho capito fino dove mi era necessario. Ho aspettato al punto di riuscire a vedere il problema dalle due parti. Però io incarno un lato del problema, e quello lì è il mio destino. Vivere, accettare, chiarire il mio destino. Però vedere dalle due parti. Ero disposta a capire totalmente Sara fino a quando sono entrata a fare parte anch’io dei suoi rifiuti. Allora sono diventata molto più cau­ ta nell’appoggiarla e nel volerla sempre vincente. Cioè prima non la capivo, mi identificavo in lei. E stata una serata come una volta: cena da Sara (ma la pietanza l’ho portata io), e chiacchierata piacevole, distesa, in perfetto accordo. Le ho detto le mie difficoltà a continuare un rapporto a periodi così de­ ludente con lei, e che però volevo andare in fondo, non risolverlo con gesti virili (“Cioè vigliacchi!” ha esclamato ridendo), e che per questo avevo affrontato momenti molto depressi, ma non fa niente, alla fine volevo chiarire cos’era stato e piano piano ci arrivavo. Se lei mi ac­ cetta, se sento il suo affetto e la sua simpatia come stasera, subito mi si cancella la sovrapposizione con Lucia e scatta la differenza. Resta che sono tutt’e due Bilancia, tutt’e due con la faccia larga e gli occhi azzurri. Potendo parlare serenamente ho constatato quanto cammi­ no abbiamo percorso nella conoscenza reciproca. Quel cammino che con Lucia non ho fatto e neppure Sara con sua madre. Piano piano i trasferì si diradano e con mia sorpresa appare una realtà nuova, con­ solante, esplorata ed esplorabile. Quando avverto la sua fiducia im­ provvisamente il puzzle del nostro rapporto si ordina e appare quasi compiuto svelando i tratti essenziali di questo tremendo conflitto. Mi accorgo che il materiale era tutto lì, solo un po’ accatastato e ancora per così dire fumante della difficoltà di costruzione. Abbiamo passa­ to in rassegna tanti punti e mi accorgevo con gioia che finalmente capiva che io avevo collaborato alla sua ribellione dando spazio alla sua verità senza investirla di un senso di colpa paralizzante, senza troncarla brutalmente. Al limite dello sconforto più completo, di una specie di annientamento in cui ho avvertito un pericolo così grave per me e ho nutrito una serie così tormentosa di dubbi. Quando le ho chiesto se lei crede veramente che io abbia inferiorizzato Ester e in che cosa, mi ha risposto “Per il fatto che avevi un uomo”. Dun­

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que, stringi stringi, gli antagonismi fra donne hanno sempre l’uomo al centro, come molla di tutto. Uno dei motivi per cui non potevo capire Sara è che lei ha avuto un legame di dipendenza con la madre che io non ho avuto. L’ho avuto invece con la sorella minore edipica. Eravamo un incastro perfetto. 26 set. Da ragazza intelligente Sara dice delle frasi veloci che feri­ scono, ma io facevo lo stesso con mio padre e ho continuato con gli uomini. E un portato dell’intelligenza che non si reprime. Mi succede in questo preciso istante. Di solito Simone riconosce il marchio di fabbrica, sa che non ci metto malanimo, può rispondere, sorridere o prendersela, ma non drammatizza. Oggi era di cattivo umore perché ieri sera sono rimasta a cena da Sara dove ho passato la serata, lui mi ha aspettato inutilmente in clinica e si è sentito escluso. Anche a me dispiaceva non vederlo, proprio la camera della clinica aveva una speciale intimità ai miei occhi, e stare lì con Simone era un po’ da fiaba. Però è rimasto male in modo eccessivo: mi ha rimproverata, è stato sbrigativo, mi ha fatto venire senso di colpa. E questo non deve succedere perché ho deciso di non lasciare più mescolarsi l’aifetto, l’attrazione al senso di colpa: infatti dopo non riesco più a distin­ guerli. A colazione abbiamo parlato e sembrava la scena di un film: la stanzetta con la luce del sole sul pavimento, tutto piuttosto nudo e qualcosa di essenziale anche nei nostri discorsi. Una parte importante che Simone tende a svolgere con gli altri, soprattutto donne, è quella di consigliere, di uno che sa per esperienza come si fanno le cose e vedo che con me non ha funzionato e non funziona tutt’ora se non per questo, sì, che tutti e due siamo d’accordo che le cose si fanno. Lui ha come paradigma un mirare alla sicurezza che allontani i motivi di dubbio o li minimizzi, e basa il suo orientamento tra ciò che vale e ciò che non vale sulla fiducia nella cosa fatta, mentre per me è stato quasi il contrario: sfidare continuamente il tracollo, la caduta, ma non tralasciare di indagare sul più minuto accidente che potesse avere un carattere illuminante per me. Andare a vedere, proprio, a toccare con mano, separare i fantasmi dalla realtà. Dopo una riconciliazione con Sara così imprevista - anche se, rileggendo le ultime pagine del diario, prevedibile come mia disposizione interiore - ho preso sonno divertita pensando a lei “Ti sento bella, fresca, piena di sviluppi e di energia per seguirli, ma anch’io sono una megera che non si ferma

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qui”. Mi era passato per la testa di darle un bacio sulla bocca andan­ domene, in questi ultimi tempi avevamo parlato un po’ di rapporti omosessuali per vedere il nostro anche sotto quella luce, ma non era scattato niente. E mi sono accorta che l’avevo sentito come un gesto di parità raggiunta e di guardarsi dritto negli occhi, certo non erotico. Poi ci siamo date il solito bacetto amichevole, un po’ scherzando su questo minimo atto di celebrazione della pace fatta. Parlando di Rivolta dicevo che per me era stata una magnifica festa interrotta da un terremoto che ha fatto crollare l’edificio e procurato contusioni, ferite e scene di panico. Il momento femminista era stato uno sconfinamento nel fantastico, nel luogo oltre frontiera. Una fidu­ cia garantita da altre mi ci aveva catapultata rispondendo miracolo­ samente alle mie aspirazioni. Ho parlato con Lucia: quando sono bloccata la sento bloccante, quan­ do non lo sono la sento bloccata. Adesso che la sento bloccata, cioè in difficoltà, devo stare attenta a non provare rimorso per averla sentita bloccante verso di me. La doppiezza è una realtà: chi è disturbato è disturbante, chi è vittima è anche carnefice. Questa scoperta è certo il maggior dolore per chi si è considerato vittima. Vittima e carnefice sono dunque la stessa persona? Lucia mi ha dato ai nervi, natural­ mente, con insieme un vago rispetto per la tranquilla irrimediabilità con cui parla (poco) senza comunicare. Le manca la convinzione di arrivare fino agli altri. Mi stringe il cuore. Oggi mi ha raccontato dei palestinesi che sono così straordinari, vivaci, colti, aperti. Arafat ha abbracciato l’interprete ebrea di suo suocero. Le ho detto “Con la co­ scienza si superano l’odio, l’offesa, si trovano nuovi sbocchi”. E tutto un po’ simbolico fra noi, e mi meraviglia perché io ho parlato tanto di lei, ho scritto un libro sui nostri rapporti, e poi quando stiamo insie­ me, c’è un’estraneità che a me risulta sofferente, ma che a lei appare naturale date le circostanze. Ma quali sono queste circostanze? Passo dalla libreria di Paula, afferro al volo una sceneggiatura di Bergman. Voglio fare una sceneggiatura per un film. 27 set. Sara dice “Perché quando siamo state insieme, per esempio l’ultima volta, mi sono sentita così bene, e poi nella lontananza mi sono tornati in mente episodi e particolari del passato che mi hanno richiamato tutto il vecchio rancore per te, per il plagio che ho subito

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da te e a cui mi sono dovuta ribellare?”. Una tale le aveva raccon­ tato come suo marito fosse succube di un amico e come non pren­ desse nessuna decisione senza consultarlo. Dunque il passato le era stato evocato da un’analogia. Ha ribadito “Chiamiamo le cose come stanno: mi avevi plagiata”. Questa risulta un’accusa, non c’è dubbio. Ho ribattuto “Chiamiamolo transfert”. Un transfert reciproco: fino a molto avanti nella relazione non eravamo coscienti di provocare proiezioni l’una con l’altra. Le ho detto della mia terribile frustra­ zione. Ha sintetizzato “Eri frustrata di non essere vista?”. Però poi si inalberava subito quando le raccontavo di avere lottato con la de­ pressione, e che era stato tremendo. “Comunque non credo che hai sofferto più di me, non è possibile” ha concluso. Così non accetta mai che ho sofferto - qui ritorna la sua situazione con la madre - resiste, avverto che si ritrae. Quello che non “vedeva” era dunque questo: la mia sofferenza. Mi costringe così a fargliela sempre presente, mentre io ho pianto per un anno dalla vergogna di non essermi accorta che l’avevo plagiata. Finché ho scoperto che era il transfert e mi sono co­ minciata a liberare del senso di colpa. Dice “Poi è successo il contra­ rio, che ero io superiore”. Lei mantiene un atteggiamento vigile, non mi lascia affermare me stessa, per esempio quando le dico che ero così alle corde dopo la nostra rottura del maggio-giugno ’73, che mi sono decisa per Roma e lì ho cercato l’isolamento. Allora le viene in mente che anzi me l’ha offerto lei l’isolamento quando ha smesso di scrivermi e di telefonarmi. Già per tutta l’estate non le avevo scritto e poi nell’autunno me n’ero andata lasciandola a Milano. Lei insiste che no. Ha ancora bisogno di rivalersi su di me, cosa che un tempo mi angustiava perché non osavo controbattere, mi veniva subito il dubbio di avere peccato di superbia, di avere offuscato i suoi meriti per un’abitudine a prevalere. Adesso so che mi sono trattenuta dal fare quelle affermazioni di me che per Sara sono pratica quotidiana, e neppure mi lascia in pace su questo punto: si comporta come se an­ cora avesse da riguadagnare del terreno perduto. Finirò per smaltire la frustrazione prima di quanto lei smaltisca il suo rancore. Di me e Sara Simone dice che siamo come due canini che si annusano il sedere e si corrono dietro. 28 set. Due miei comportamenti con Sara. Uno chiaramente pro­ piziatorio, dicendole per esempio che una nuova pettinatura le sta

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bene, il colore di un pullover, l’abbronzatura, e dando segni evadenti di gradire la sua presenza. L’altro, che non riesco così pronta nel ri­ conoscerla, perché continuamente subissata dal suo “Io l’ho fatto, io l’ho provocato, partiva da me ecc.”, che mi scoraggia a incoraggiarla. Ho deciso che devo lasciare perdere Regina, le sue amiche, il suo mondo. Lei mi circuisce con un’affettuosità un po’ ricattatoria, e una specie di allettamento in questo, che con me si chiarirebbe a se stessa. Poi mi imbastisce tali e tante misture di falso-vero e vero-falso che io ne rimango tutta appiccicata e quando è il mio turno sono poco più che balbettante. Non riesco ad avere più niente da dirle, come se non trovassi in me altro che disagio e disagio. Fa parte dell’autenticità avvertire le difficoltà dell’altra, se si è co­ scienti di pretendere attenzione per le proprie. 29 set. Finalmente ho finito il libro di Jung. Mi ha chiarito tante cose. Stanotte spero di sognare. 30 set. Nell’allestimento di una stanza nuova insieme ad altri, Simone trova

da ridire su un grande quadro con segni gialli, molto vistoso. I segni rappresen­ tano nella parte inferiore delle diagonali e in quella superiore dei tondi. Dice che va tolto perché attira troppo l’attenzione e non si nota il resto. Io, con le scarpe in mano, so il da farsi e do una risposta saggia e costruttiva. Silvia, figlia di Simone, è su una scalinata: si è tagliata i capelli molto corti da sola ed è tutta soddisfatta. La raggiungo e sono tentata di farmeli tagliare anch’io da lei, però poi penso alla mia massa di capelli, a quanto sono lunghi, e non mi decido. Voglio mettermi nelle mani di un bravo parrucchiere.

Mi colpisce che, appena letto questo libro, vado a sognare il quadrato con i cerchi, di un giallo così violento e artificiale. Ieri Simone e io avevamo parlato molto di arte e liberazione e stanotte anche lui ha fatto dei sogni in cui è evidente lo stesso problema: grandi folle, feste, che piano piano da politiche diventano religiose, alla fine sottopone dei suoi quadri a moltitudini sparse per la campagna. Quello che mi sorprende è che sono più interessata io ai suoi sogni che lui. Mi piaceva stare in clinica servita e riverita, adesso invece sono io che devo servire e riverire Simone, però proprio quel che di conventocollegio, quel vivere in comunità e nello stesso tempo in solitudine mi

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si confaceva molto. Dalle 7 della mattina qualcuno entrava in camera per i motivi più vari e si potevano già scambiare due parole, con il cielo ancora pallido e il giardino in ombra. Il rientro a casa mi è pe­ sato: Simone, forse perché è ancora debole, non parla molto. Abbia­ mo subito litigato quando ho detto che avrei invitato a trovarmi un amico (ex): mi sono sentita ingombrata, frenata, adoprata da Simone. Adoprata lo metto un po’ femministicamente perché non è proprio vero. Però mi urta avere un convivente disordinato, che sporca per distrazione e menefreghismo e mi tiene occupata la casa. 1 ott. Ho trovato in Jung analogie sul lato simbolico assolutamente incredibili. Per esempio, l’uccellino implume, l’ombra, il cadavere in cantina, il viaggio marino notturno, il neonato, il far parte, la ruo­ ta di fuoco e la ruota di rose ecc. Mi sbalordisce questa riserva di immagini-archetipi che ho ritrovato in me stessa nel momento in cui ho ritrovato me stessa. 2 ott. Mentre chiedo la posta alla portinaia mi ricordo improvvisa­ mente che stanotte ho fatto un sogno. Mi viene consegnata una lettera con un’immagine di donna che non è la mia, anche la destinataria ha un nome sconosciuto. C’è stato un errore? Oppure quella donna mai vista con un aspetto da anni quaranta, stampata come sui rotocalchi di una volta, in colore rossiccio è una rivelazione di me, un’immagine di me che non conosco? Quella faccia sorridente un po’ all’americana, piena di salute, con i capelli di parrucchiere e aria sportiva per bene, spontanea nel suo ruolo sociale indiscutibile, chi è?

In effetti ieri sera mi ero accorta, dopo avere passato il pomeriggio con Germana, di essermi manifestata con una specie di attitudine rassicurante quasi psicoterapeutica oppure comprensiva materna di cui ero rimasta scontenta. Non mi comporto ancora liberamente. Magari ho presente l’atteggiamento poco conciliante di Sara, che mi urta, però innegabilmente è un fatto di libertà. A me disturba molto toglierla agli altri. Mi viene in mente che la sera in cui sono rimasta a cena da lei vado in salumeria a prendere prosciutto e formaggio, vedo della farina di polenta precotta da fare in cinque minuti, la prendo. Tornata su, le dico “... e ho comprato anche della polenta precotta”.

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Ribatte “No, a me non va, ho mangiato molto in questi giorni. Tu la vuoi?”. Se l’ho comprata è segno che la voglio però non al punto di farla solo per me. Così ho risposto “No no, non importa”. 3 ott. Cara Sara, ricordi una delle nostre prime incomprensioni? Quando ti ho

confessato che spesso non distinguevo ciò che è umano da ciò che è disumano, ciò che è astratto da ciò che è concreto. Provavo un forte turbamento nelPammetterlo. Tu ti burlavi di me e mi definivi “una a metà”. Sono in un negozio di parrucchiera, sotto il casco: unica cliente di diverse don­ ne. Si affaccia Cesare sulla porta (fuori è notte) e mi chiede se voglio qualcosa. “Delle sigarette, un mezzo pacchetto.” Torna con un involucro di plastica pieno di cose. Sono molto soddisfatta di fare buona figura con le parrucchiere che, ne sono certa, lo trovano anche affascinante. Mette lì un mucchio di diecimila lire, però con delle scuse se le riprende tutte. Per darmi importanza davanti alle parrucchiere avevo finto un rapporto vero e proprio con Cesare. Invece alla fine lui rivela una certa estraneità. Dalla casa dei nostri vicini viene fuori una coppia di cani dal pelo argentato: lei ha degli orecchini di brillanti e incede con grazia e femminilità, come una gran dama, lui comincia a fare dei balzi e temo che mi morda le dita, ma non ci arriva. Che strano, non sembrava aggressivo. Con loro ci sono anche un ano­ nimo cagnotto bianco e un uomo. La padrona di casa invita a cena Simone e me con molta altra gente. Ci disponiamo a cerchio: io sono furiosa, sul punto di scoppiare: mi guardo attorno, nessuno che mi attiri, vorrei andarmene. Intanto uno dei cani appoggia le zampe ripetutamente sul vestito bianco ricamato della padrona di casa sporcandolo di terra; lei non se ne accorge, glielo dico io molto preoccupata. Allora dà in escandescenze, che tragedia. Ne approfitto per an­ darmene via e cercare il quaderno lasciato su un muretto, però lì trovo solo un libro, niente quaderno. Dio mio, dove l’ho lasciato, se qualcuno lo legge... Lascio perdere senza indugio l’invito della vicina e mi dirigo verso casa.

Simone ha sognato una locomotiva ferma in un tunnel che si affaccia su un baratro. Lui lavora per costruire una copia di quella locomo­ tiva e aspetta comprensione da parte di un amico ingegnere che è lì. Uscito dal tunnel vede, al di là di un fiume o fossato, uomini che con carri bestiame vanno tranquilli, come in una festa: hanno aggirato il tunnel e trovato una strada nuova che a lui manca. Altro sogno: at­

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traverso grotte e caverne buie con odore di stalla, avvolti da un senso di caldo e di erotismo, scansando agli angoli buche piene di letame, Simone accompagnato da me va verso un nostro giaciglio. Ho tra­ scritto esattamente la sua versione. Forse avremo una crisi, chissà, ci separeremo, ma saremo vicini co­ munque, compagni di strada. Stamani Simone era appassionato “Sono contento di darti la possibilità di provare una intensità non nevrotica per me”, cioè senza paure. Oppure la sua stabilità mi tiene all’oscuro di quelle mie paure, e devo mettermi alla prova con altri? In Jung trovo un’altra analogia, quella del lago “o bacino stagnante senza onde, né correnti” che simboleggia “la quiete simile alla mor­ te” che segue la coniunctio oppositorum. Ricordo la mia poesia sul lago che ha sostituito il fiume. A Turicchi di più di venti quintali d’uva ne è rimasta solo una cesta: tutto il resto è stato distrutto dai cinghiali. Ho un dispiacere tremen­ do e mi meraviglio di quanti tipi di sofferenza sono capace: da quella per le mie dissociazioni interne a quella per un raccolto distrutto. Na­ turalmente me la prendo con Simone per come ha condotto la cosa.4 4 ott. Sono sull’autobus per Linate. Non ho voluto prendere il taxi, come Matilde mi suggeriva. Matilde stabilisce dei rapporti sulla base di un’offerta del suo aiuto. Buffo perché mi rispecchio in un’immagi­ ne ancora più “ausiliatrice” della mia. Il suo bisogno di incoraggiare è tale che sragiona. Per esempio mi dice “Prendi il taxi per andare a Linate, cosa voi che costi. Con l’autobus è un traffico, devi correre di qua e di là, chissà quando parte, e poi Linate non sembra, ma è lontano”. Se è lontano il taxi non può costare poco. Fintanto che non sono autonoma do sempre delle colpe agli altri, a Simone per esempio, come Sara le dà a me, e la soluzione è che io elimini tutte le dipendenze pratiche e mi prenda le mie responsabilità. Con Simone la più grossa è la dipendenza economica. Anche Sara per adesso non è autosufficiente economicamente, è sempre ospite di qua e di là, ecco la somiglianza che mi dava fastidio perché ritrovavo in lei la mia stessa pretesa di vivere senza affrontare la sussistenza, in più lei eser­ citava il suo parassitismo nell’ambiente che io le avevo aperto. Una difficoltà con Simone è che lui è più ricco di quanto potrei mai esserlo io, così un guadagno alla mia portata mi è sempre sembrato ridicolo

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al confronto. E dunque perché rischiare la pelle per aggiungere pochi spiccioli alle sue entrate? E poi lui non fatica a guadagnare con le sculture ed è felice di mantenermi. Però questa facilitazione mi para­ lizza, mi toglie un’esperienza di base e mi mantiene in un rapporto padre-figlia che per tanti versi è superato. D’altra parte “so” che se lavoro, entro in un contesto della realtà che mi obbliga a rivedere molte idealizzazioni su me e sugli altri. Piera è partita per Anversa: le ho promesso di andarla a trovare, lo faccio volentieri. Mi rivedo in lei quando nel ’52 partivo per Parigi, così sperduta e sola, in balia dei miei conflitti, meravigliata io stessa che in tutto quel terremoto potesse sopravvivere la “curiosità per il paese straniero”. Comunque ho desiderio di ripetere il mio viaggio a Parigi, ripetere l’avventura di andare incontro al mondo, però questa volta davvero, non per morirci sopra. Avevo proprio voglia di partire al posto di Piera. Ma tutto mi tenta per un attimo. Mi sento le possibi­ lità per tutto. Per esempio, fare come Elisabeth di Minneapolis: stare due-tre mesi in un istituto di assicurazioni, due-tre mesi in un’agenzia di viaggi e via discorrendo. Cioè proprio discorrendo, incontrando ecc. Altra idea: quella di prestarmi per impegni di fiducia: andare a ritirare o a portare soldi, quadri, gioielli, documenti, comunicazioni per persone o ditte che ne abbiano urgenza. In Europa, però, niente America, Australia, Africa. Quando l’ho detto a Simone si è messo a ridere divertito. E più facile fare la figlia che si emancipa dal padre o dalla madre che viceversa. Simone si sente aggredito e ne soffre, gli sembro ingiusta, dice “Prenditi dunque le tue responsabilità, ma non accusare me”. Siccome so che è una mia proiezione, mentre da un lato non posso fare a meno di viverla su di lui, dall’altro cerco di pren­ derne coscienza con lui e, appena possibile, mi affretto a riportare il problema su di me per quello che riguarda me. Però anche lui deve prendere coscienza di sé per quello che si trova a essere idoneo alle mie proiezioni. Qui, in questo nodo, c’è un certo mistero. Simone si è sempre addossato tutti gli impegni della vita pratica, e questo mi andava molto bene perché vedevo che per lui era del tutto naturale, e poi non osavo mettere in discussione la sua competenza. Però così mi privo di un’attività sulla realtà che ha una funzione equi­ libratrice rispetto all’invadenza dei problemi psichici. Anche oggi, quando mi ha detto “Telefona tu; fai tu, chiarisci perché i guardiacaccia non avevano diritto di impedire ai cacciatori di fare la posta

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ai cinghiali” ho cominciato a tirare fuori delle scuse. Invece poi l’ho fatto e mi sono trovata una verve che mi ha reso felice. Sono una che non dice mai basta questo mi crea lo scompiglio.

5 ott. Sonno pesantissimo con sogni affiorati dal profondo. Scendendo con Simonc in un declivio campestre - quasi più montano che cam­ pestre a giudicare dal prato - scorgo dentro certi capanni, affondati nella pa­ glia tanti gattini neonati. Finisco per prenderne uno bianco e grigio, ma come controvoglia o suggestionata sul momento. Simone ne tira fuori uno bianco e marrone, molto bello, lo preferisco, poi vedo che è grosso come se fosse adulto, e anche lui lo lascia lì. Il gattino vuole stare sul mio braccio e tutto aderente a me, in certi momenti sembra quasi un bambino o un essere umano, ha una faccina che mi confonde e così lo guardo. Vorrei sbarazzarmi di lui, però mi fa tenerezza e lo coccolo. In un momento di distrazione cade a terra e vedo il suo musino appiattito come se avesse battuto il naso. Non lo raccolgo: ormai è andata così. Nella stanza di un castello o di una villa antica e signorile, mi si presentano grandi esseri come uccelli enormi. Mi meraviglio di quanti sono. C’è un uomo con me e stiamo con loro come fossero persone. Ho poggiato la mano su un altro essere c mi accorgo stupita che è una volpe. Un uomo seduto sul mio divano Thonet si intrattiene con alcune persone tra cui io. Un altro uomo si occupa di lui. Realizzo il senso della situazione quando lo vedo contrarre il viso e noto la sua pancia voluminosa e come agitata. Quel tipo sta partorendo: e lo fa così, in mezzo alla gente superando le doglie con un po’ di sforzo, ma per il resto è normale. L’ultima doglia però è stata un po’ più forte: adesso sorride compito e anzi si alza brevemente in piedi per salutare una signora, ma ha il viso quasi tumefatto specie intorno agli occhi, più che soffe­ renti, da agonia.

Ieri sera Simone, seduto sul divano Thonet, parlava dei suoi proble­ mi di rapporti con la gente ricca. Matilde era venuta a portargli due

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vasetti di sue marmellate e io le avevo detto che vivo una doppia vita: una con Simone, soldi, gente importante e una per conto mio in cui resto la ragazza che ero, senza spese superflue, amica di persone qualsiasi, però senza problemi pratici reali. Allora avevo buttato lì che vorrei lavorare e Matilde non capiva più, così mi rispondeva astrat­ tamente, o meglio sovrapponendo il suo problema di persona che ha speso la vita a lavorare trascurando se stessa. Concludeva “Che assurdità, tu che puoi vivere senza lavorare, senza perdere tempo e energie inutilmente, non riesci a goderti lo stato di libertà in cui sei”. “Però” le rispondevo “come faccio a sentirmi al mio posto in una situazione in cui non sono arrivata con le mie gambe.” A questo pun­ to Simone è intervenuto, un po’ ammettendo, un po’ difendendosi, e io ero contenta di avere buttato l’argomento sul piatto davanti a Matilde, sentivo di avere fatto breccia in Simone che si dibatteva fra diversi umori e, pur nella sua consueta accettazione e localizzazione del compromesso indispensabile a vivere, mostrava di avere nostalgia per una condizione più autentica. Il segreto della convivenza e della vita a due è proprio in un alternarsi di comunicazione e di silenzio, di entusiasmo e di noia, di passione e di tiepidezza, di accettazione e di rifiuto. Con Simone è così, e forse questo andamento è necessario a rendere un rapporto sopportabi­ le, vivibile, estendibile nel tempo. Permette di sentirsi insieme e di sentirsi soli, di scaricarsi e di ricaricarsi, di essere come si è. Stanotte l’ho amato moltissimo, siamo stati sempre abbracciati stretti, con la sensazione di perdere i confini, eppure non ci facevamo che carezze. Più vado a fondo nei miei motivi di risentimento, rabbia, delusione verso di lui, più dopo mi viene di amarlo, di ritrovare fiducia in lui maggiore di prima. Fino alla prossima volta. L’ostacolo maggiore fra noi - almeno così mi pare adesso - è proprio in quel compromesso che lui fa in prima persona nei rapporti sociali per mantenere l’af­ fermazione del suo lavoro di sé economicamente, e che io faccio in modo passivo, come accompagnatrice che non conferma né smenti­ sce, ma certo è lì. Mi appare un peso incalcolabile quello che prima, astrattamente, potevo vedere come sicurezza e come superamento del problema. Non so se Simone riuscirà a partorire una soluzione, certo è che io vivo con lui perché la sento possibile, naturalmente secondo il suo modo di essere. Mi disturba proprio il suo realismo nel non considerare il danno nascosto e irreparabile: forse devo io stessa

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arrivare a considerarlo così per me. Per adesso accetto una scissione, il più contenuta possibile e sempre in allarme, visto che ho la mia vita altrove, ma anche Simone ha la sensazione fittizia che la sua vita sia altrove, nel suo lavoro di scultore. E questa scissione 1incrinatura che esiste fra noi, e quando la sento in crisi accetto Simone come se favesse già superata, sennò mi viene uno sconfòrto tremendo e una furia verso di lui, che in realtà è verso di me che sto al suo gioco. Io stessa devo abbandonare le mie ambiguità con quel mondo, non pos­ so pretenderlo da lui se io stessa non l’ho fatto. Ma mi sembra folle rinunciare a Simone per potere arrivare a scuotermi di dosso la “sua” società. Devo sganciarlo di lì o sganciarmi da lui? 6 ott. Un padrone di trattoria mi racconta un episodio su Felicita e David: lui stava versando dell’aceto in un posacenere piuttosto capace quando ci ha pog­ giato dentro sbadatamente il fondo del fiasco. In due erano preoccupati perché credevano fosse qualcosa per il loro cane, mentre il padrone voleva soltanto sciacquare il portacenere e quindi non badava a non sporcare il contenuto. Vedo Felicita e David e subito racconto l’episodio che avevo trovato divertentissimo e rido come una matta, mi vedo persino in uno specchio tutta animata e alterata dal ridere. Loro sono un po’ sorpresi c dicono che no, il liquido che versava il padrone era champagne. Sento la tua misericordia in un panciotto nero abbottonato. Anche se quella delle creature può essere grande la tua è infinita.

Avevo gridato a Simone che non ce la faccio più ad avere una doppia vita, e lui mi ha risposto “Sei una donna che va dietro le chimere”. Gli fa comodo vedere incarnate certe esigenze (anche sue, sennò per­ ché sta con me?) in una donna, così può pensare che esprimono ap­ punto fantasie e irrealtà. E a me fa comodo contrappormi a lui, pur accettando di fare da compagna e perciò da complice nella falsità che

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gli rimprovero. Questo è il leitmotiv dello scontro tra noi dall’inizio a oggi. Dovrei lasciare Simone per dimostrare a me stessa che credo nell’altra realtà, che la vedo. Lui dice “Non c’è un’altra possibilità. Questo che tu drammatizzi tanto è un gioco, una schermaglia. Mi diverte creare situazioni così”. 7 ott. L’indecisione di mia madre (in una vecchia poesia la chiamo “anima incerta”) si è trasmessa a tutte noi, a me un po’ meno, ma abbastanza per detestarne l’impronta nelle mie sorelle. In più come sorelle minori, all’indecisione uniscono un’assoluta incapacità, non dico a venire in aiuto, ma a interessarsi ai casi miei e con una tecnica particolare, che è “la lungaggine”, finché io stessa, per levare le gam­ be dalle sabbie mobili del “Si può lare, però...” taglio corto “Non fa niente, mi arrangio da sola, è più semplice; certo”. L’altra, sollevata, fa anche dello spirito. Oh! merda a questa stupida storia! Pranzo interminabile che finisce finalmente e poi, dopo un breve intervallo, ri­ prende con dolci a ciambella che vengono appesi come tanti cerchietti verdi, di accompagnamento a altri piatti. Io esclamo “Ma qui si mangia più che a Roma!”. Sono sbalordita. Però non ho mangiato, né mangio. NeH’intervallo parlo con la padrona di casa, una di mezza età, c penso che avrei fatto l’amore con lei, ma è una decisione tanto per risolvere il problema. Poi mi dirigo verso gli altri com­ mensali, con calzamaglia attillata e abbastanza audace sotto una specie di cappa completamente aperta sul fianco. Mi muovo sinuosamente come cercando di dare un senso di vamp che mi sono ritrovata e sentendomi attraente, ma non proprio io. Poi il pranzo ricomincia da un’altra parte e in questo insistere c’è qualcosa di angoscioso, di irrisolto. Su una piazza, tipo piazza San Marco a Venezia, un tale è sdraiato su una chaise-longue: ha gli occhiali scuri, forse è un regista. Dice una frase che non ricordo ma che mi fa venire in mente quella che un amico musicista mi disse a bruciapelo qualche anno addietro “Che fa la tua sorella stronza?”.

Di fare l’amore con una donna l’ho sognato anch’io, suppongo, però da quando tengo il diario solo una volta, e così sconclusionato e velo­ ce che poi ho trascurato di registrarlo. A me invece è capitato di so­ gnare che la ricerca di un’intesa con una donna si interrompeva nella scoperta di un sesso maschile sotto le sue vesti. La mia sensazione era

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di paura, di disagio. Allora l’invidia del pene è provocata dalla donna che l’ha preso aH’uomo, non direttamente dall’uomo, finché ritorna al suo posto, nell’uomo, e tra le donne rimane solo la distinzione tra chi lo considera suo, e chi lo considera di altre. Simone dice invece che la donna con il pene è una mia proiezione, la mia paura di essere maschile e, siccome ha il pene perché ha la vagina, è anche la mia paura di essere femminile. Secondo lui io ho una spaccatura dentro di me, una spaccatura verticale che mi impe­ disce di essere me stessa nella totalità. Scontrando con il padre mi sono misurata sul suo piano e quindi ho espresso aggressività, ma l’ho considerata come una risposta a quella proveniente da lui e nello stesso tempo ho rifiutato la dolcezza e la remissività di mia madre e di Lucia perché, grazie a quelle qualità, risultavano mie antagoniste vincenti. E molto allettante ascoltare qualcuno parlare di te e inter­ pretarti, però dopo non ci capisci più niente. Simone sostiene che se io non avessi avuto condizionamenti economici e culturali, non avrei mai fatto una famiglia e comunque non avrei neppure impiantato una convivenza o una relazione lunga con lui, ma me ne sarei stata libera girando fra uomini e donne. Perché tutte le mie insofferenze si manifestano a proposito della famiglia, dei figli, di quel tipo di vita. Scrivo come sotto dettatura, per cercare di scovare la verità. Dove può essere? Mi gira talmente la testa, non so più cosa pensare. Certo le famiglie le detesto, mi sembra sempre una finzione la felicità o la serenità che ostentano. Anche il rapporto con i figli, quotidiano, lo vedo come un peso, o un alibi per non affrontare altre cose, che sono i rapporti con gli altri e l’esplorazione del mondo. Dunque esattamen­ te una componente femminile e una maschile. 8 ott. Simone insiste che il mio fallimento è l’impossibilità a decide­ re: sto con lui perché lui l’ha voluto. Forse non cornavo con una don­ na perché nessuna ha voluto veramente convivere con me. Secondo Simone ho le premesse per i due tipi di rapporto. Dice “Scopriresti la tua femminilità nel rapporto con una donna, potresti abbandonarti veramente, cosa che non fai neppure con me perché c’è sempre lotta, competizione fra noi”. E anche “Dovresti stare con un uomo e una donna, ecco la tua completezza. Sei due persone, una per l’uomo, una per la donna”. Forse la mia diffidenza per le bisessuali sta in questo, che io stessa lo sono potenzialmente. Lo dico un po’ per de­

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duzione, non mi oppongo all’idea. “Pensa se fossi lesbica, che strano: avrei vissuto metà della vita senza saperlo, dall’altra parte.” Secon­ do Simone non sono lesbica, sono doppia. E così, ho sempre vissuto nella doppiezza, sempre in due situazioni non comunicanti fra loro, alternative una rispetto all’altra o in antitesi. L’unico momento in cui mi sono illusa di avere trovato una completezza è stato durante l’amicizia con Ester a sua volta amica di Simone. Ho cercato con tutte le mie forze di tenere insieme questa trinità, però potevo sentire che maturava una rottura con Ester finché le ho contrapposto Sara. Vado avanti così, con l’impossibilità a integrare il seguente nel pre­ cedente, il collaterale nel collaterale, impossibilità che addebito agli altri, ma che in realtà parte da me, dalla mia abitudine a considerarli inconciliabili e come aut-aut. Adesso ho provato il bisogno di intro­ durre le mie amiche nel rapporto con Simone e viceversa: veramente è stata Matilde a fare il primo passo, ma io l’ho subito orientato nel senso di cui avevo bisogno. Anche Paula quest’estate si è introdotta nel mio menage, ma ero ancora separatista pur senza saperlo, cioè non avevo afferrato il problema e cercavo momenti di solitudine con lei per potere parlare da sole come eravamo abituate a fare. Adesso voglio mettere tutto a confronto, riunire tutto e vedere che succede. Lasciare i miei sviluppi crescere insieme senza separarli uno per uno e io dividermi secondo le esigenze di ciascuno. Comunque stanotte, perché tutto si è svolto stanotte a letto, dopo che Simone ha alluso a una mia ipotetica omosessualità latente - in certo senso ero io che, specialmente dopo la lettura di Jung, parlavo di proiezioni e mi chie­ devo sgomenta se ciò che rifiutavo negli altri non fosse una parte di me - ho messo a fuoco un’altra dissociazione fondamentale con lui, quella dettata dalla sua gelosia. Così ho accusato Simone di avermi imposto una schizofrenia in più nei rapporti. Lì è scoppiata la lite perché lui ha ancora fresca la ferita della gelosia e non può soppor­ tare l’idea che la cosa si ripresenti e ne sia coinvolto. E mi sembra che spinga nel senso dell’omosessualità per darmi uno sbocco che lo disturba di meno. Gli ho detto “Se penso di lavorare e di incontrare delle persone, se penso di tagliarmi i capelli e comprarmi un vestito, se penso di riuscire a dimostrare un po’ meno degli anni che ho il motivo fondamentale non è quello di provocare l’amore delle donne, ma di avere degli scambi con altri uomini, non so bene a che livello, ma certo che non escludono l’erotismo”. Non mi sento padrona in

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casa mia se non posso invitare degli uomini, a cominciare dai vecchi amici. Eravamo molto concitati e non so a che punto Simone, fuori di sé, minacciava di darmi “un pugno sulla faccia”. Allora è sereno e olimpico quando parla delle mie fratture psichiche, ma quando si tocca il suo punto dolente, quello della gelosia, ecco che ritorniamo alla pari su qualcosa di irrisolto per entrambi. Mi chiedo cos’è questo bisogno di unificare che provo adesso, for­ se spero di demolire tutte le differenziazioni di comportamento che ho nelle varie circostanze e che creano tante me stesse diverse Puna dall’altra, vorrei che esistesse il modo di mostrarmi in tutte le mie va­ rietà a tutti. La spaccatura di base è che io sono una con le amiche e una con Simone: con quelle reprimo la mia aggressività, con l’altro la lascio esplodere senza freni. E poi ci sono gli uomini che mi suscitano erotismo e né Simone né le amiche mi conoscono sotto questo aspet­ to. L’erotismo al di fuori dell’affetto, della conoscenza, delle garanzie che Simone può darmi. Ma io stessa non so cos’è quest’erotismo per me: so che esiste, dovrebbe esistere in me, a volte è trapelato, magari è scoppiato, poi subito si è bloccato. Perché? Uno degli aspetti di me che rifiuto con le amiche: chiedere aiuto, chie­ dere comunque, mostrare di avere bisogno, rivelare debolezza, stan­ chezza, confusione, mostrarmi offesa, dispiaciuta, accettare conforto. Uno degli aspetti di me che mi inibisco con le amiche: imporre il mio problema, rifiutare, non essere disponibile, arrabbiarmi. 9 ott. Qui è un paradiso: Simone lavora e fa cose che mi stimolano la fantasia e mi danno un senso di soluzione armoniosa dei conflitti. Comunque per stare bene insieme non c’è dubbio che bisogna essere contenti di quello che si fa. A volte mi dico “Stupida, quanto ci met­ terai ad accorgerti che sei felice?”. Una dissociazione adesso può essere quella che mi tiene Tito lonta­ no, ma, devo ammettere, ne acquisto in libertà e forse inizio una fase più distaccata visto che lui è grande. In effetti mi piace molto vivere con Simone da sola. E ancora un passo avanti rispetto a Roma dove ho iniziato la convivenza mista, diciamo. In più a Roma Simone la­ vora a studio mentre qui può farlo a casa, e devo ammettere che lo preferisco. Altra contraddizione: sono distruttiva e costruttiva. Forse è questo: che mi soddisfa costruire eliminando il superfluo, quello che non regge alla critica.

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Una donna un po’ invadente vuole leggere il mio diario, allunga la mano sul quaderno, e io glielo impedisco.

Nel femminismo è scoppiata l’omosessualità, ma non nel nostro gruppo probabilmente perché si sono avvicinate donne a cui andava bene il modello di una che sta con fuomo. 10 ott. Cara Paula, era vero, prima non ti accettavo completamente: restavo sospettosa, mi davano fastidio molte cose, la tua accentuata femminilità, per esempio. Come sei morbida, dolce, svagata, sensuale, un po’ discinta, ricettiva, presuntuosa, in attesa degli altri, dispersiva, discreta, con la voce educata... Ma quando sei venuta al mare quest’estate mi sono scoperta a godere della tua pre­ senza e in capo a due giorni, quando sei partita, mi sei mancata. Certo, mi avevi dato il tuo diario e parlandone, finalmente ti avevo sentito cedere, così in me si verificava un cambiamento: smettevo di tenerti in osservazione e capivo per la prima volta che mi piacevi nel tuo insieme. Non era una sensazione continua, ma identificabile. Lo stesso l’ho provato ieri sera: sentivo la diversità senza allar­ marmi, non mi sforzavo di riempire i vuoti e le divergenze di opinioni. Non si tratta più per me di inseguire con le parole, le domande e le risposte, il richiamo di una fiducia in te perché ce l’ho già. Finalmente stanotte ho letto il tuo vero diario e l’ho terminato stamani. Lì ho avuto la prova di come sei simile a me nella sofferenza, solitudine, disposizione a ingannarti, forza di uscirne. E stata una lettura che mi ha fatto rivivere esperienze del passato e mi ha dato il retro­ scena di quello che avveniva in te e che io intuivo, ma di cui non potevo avere la certezza. Ho trovato conferme di cui avevo bisogno. Rispetto a te ho molte più contraddizioni perché ho cercato di comunicare con mia sorella, ed era bi­ sogno e rifiuto, così sembravo proprio squilibrata. Scontrando con mio padre ho cominciato a sviluppare gli argomenti in una forma logica che poi mi sentivo in colpa di possedere come un tradimento nei confronti delle donne che in genere ne sono sprovvedute, e mi facevano rabbia per questo e non mi sentivo accettata. Tu hai agganciato a me le tue esigenze di verità per crearti un appiglio su cui fare leva e tirarti su. Sarà bello quando ne potrai essere convinta e non avere più questo rimbalzo della tua voce tra noi. Non volevo aspettare fino alla prossima settimana per dirti la mia prima reazione. Anche se non so ancora valutare bene come sono stata felice a leggerti. 12 ott. Adesso Nicola è partita e mi resta un senso di rimpianto che conosco così bene. Prima di lasciarci comincio a ripetere “Allora, ci

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vediamo presto... Ti ho detto tutto?... Cos’altro avevo da dirti? E tu, non hai dimenticato di dirmi niente?”. So cos’è: questo amore in­ fantile senza sbocco, che promette tanto e poi dà solo attimi di vera comunicazione al di fuori dell’ostacolo fortissimo di pudore e sensi­ bilità, del tabù che subito, appena aperto, si richiude e domina no­ nostante tutto i rapporti con quelli della famiglia. A Milano abbiamo avuto un momento di vera euforia insieme quando ci siamo confi­ date, molto timidamente, ma esplicitamente il desiderio di tradire i nostri innamorati. Cara Nicola, mi è piaciuta molto la mattinata passata da Fiorucci e soprattutto dal salumiere, e poi la colazione a casa e tutto il trambusto e l’eccitazione per fare le fotografie. Mi è piaciuto anche qui in campagna, ma un po’ c’era la vostra partenza imminente, un po’ sono rimasta irritata con Simone che ribatte in uno stile da trattoria romana e mi fa diventare una Santippe brontolona, mentre appena è sincero e modesto ecco che si riprende il dialogo e di solito si scopre qualcosa di interessante. A volte mi dico “Ma perché, oltre alle mie difficoltà, devo addossarmi anche le sue? Sta a lui fare i gesti per uscire dalle sue impasses. Se non vuole, se proprio non vuole, inutile che io tenti di amalgamarlo con le persone con cui intendo comunicare. Stia dove è capace di stare, sganciato da me, per favore”.

Dopo che Paula mi aveva letto la lettera di un amico tedesco ho fatto questo sogno. Arrivo all’Università con Germana, in realtà è la nostra casa di campagna dove durante la guerra abitava il comando tedesco al piano terra. In un gruppetto vedo Claudius e Vincenzo con in bocca delle stoffe indiane rosso cupo a disegni neri e bianchi, molto interessati a quello che stanno facendo. Io gli passo vicino, li saluto e vado via: non è posto per me l’Università, ahimè. Lascio lì Germana.

In quella casa mi sono innamorata, a dodici anni, di un giovane te­ desco, biondo. Se il desiderio dell’incesto è così importante per gli esseri umani, è vero che la sua irrealizzazione (per tabù, ma anche perché è un sim­ bolo che l’atto reale non colmerebbe) determina il senso che la vita non dà quello che promette. Questa delusione uno se la porta sempre dietro e non c’è nessuno per cui liberazione non significhi riscoprire

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la disperazione originaria. Tutta la vita da adulti è una ricerca incon­ sapevole e comunque vana di riagganciare per vie traverse il bene perduto e realizzarlo. Per questo tutte siamo rimaste sconvolte alla rivelazione che la nostra vita aveva mancato il suo scopo (da quel punto di vista, che però è “l’unico”). 13 ott. Uno che non perde la testa, ecco chi è Simone, uno stabile: con quattro concetti in croce ormai fa fronte all’universo e alle sue emozioni che non straripano più. Lo detesto quando mi si presenta così. Mi chiedo “Ma allora chi è? A volte è così simpatico, lo sento umano, equilibrato ma non riduttivo, fantasioso... A volte mi sembra cavilloso, speculatore, meccanico...”. Sono già stanca di stare a Turicchi, non avevo voglia di venirci, ma era necessario: mi mancano le amiche, e tutti i miei transfert, passioni, emozioni, l’altro lato della mia vita. Sono due, niente da fare, ora sono rissata a volerli mettere insieme, ma chissà se ci stanno. Simone è un antagonista benevolo, uno che consulto per sapere cosa pensa l’altra parte e misurarmi su un dato esterno a me. Adesso sono nervosa come sempre quando non ci sono le amiche, e sono stufa di sentirmi sempre contraddetta, corretta, modificata, smentita. Mentre a Milano è andata così bene: quella era la soluzione: Simone con me a Milano. Abbiamo provato tutte le alter­ native: io a Roma, sue giù, io a Minneapolis, in campagna, al mare, e la mia sconfitta era quella: che Simone non voleva stare con me a Mi­ lano. Almeno a lunghi periodi, non i quattro-cinque giorni degli anni scorsi. Lì ho del lavoro, nuove amicizie. Ma non è quello l’essenziale: l’essenziale è che io abbia Simone e le amiche. E Tito su richiesta. 14 ott. Una sarta famosa e un medico anestesista suo amico vogliono uccidere

Tito e si adoperano con ogni mezzo e astuzia. Io cerco di sventare le loro trame, mi arrovello per prevenirli: lui in atto, lei nell’ombra. Non oso credere di avere ormai partita vinta, perché non posso valutare le loro risorse che intuisco inesau­ ribili. Però per il momento il figlio è salvo.

Questa coppia malefica ritorna spesso nei miei sogni: l’uomo all’at­ tacco, pericoloso e sprezzante, la donna sua complice o ispiratrice ai miei danni. Questa volta l’occasione era data dal fatto che una sarta aveva raccomandato Simone all’anestesista suo amico per l’interven­ to alla cistifellea.

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Turicchi mi ha riconquistato: ho preso le mie carabattole e mi sono trasferita qui. Con Simone abbiamo acceso il fuoco nel camino e sco­ perto che si sta benissimo. Naturalmente penso che sorpresa avrà Tito quando si accorgerà quant’è calda e accogliente la casetta per loro ragazzi. Domani vado a trovare mia madre: dagli eterni spazi indif­ ferenti e gelidi strappo questo attimo di calore, conforto, protezione. Ritorno in un grembo, amico. Madre padre padre madre paradiso inferno inferno paradiso vetta cuscino. Amo l’unione e la separatezza amo essere più povera e più ricca. Ho rinunciato agli uomini ahimè!

16 ott. Sulla strada mi si affiancano delle donne che mi parlano della Beata Tal dei Tali: mi stupisce accorgermi che io conosco benissimo la storia della Be­ ata. Sono con le mie amiche nell’imminenza di una cerimonia: quando passo da sola davanti al Papa lui mi chiama a sé e mi dice “Siediti su quello sgabello”. Ho la rivelazione di una preferenza che intuivo, e una gioia infinita. Devono arriva­ re le altre e non so che contegno tenere. Intanto cominciano a venire bambini e bambine vestiti in modo imprevisto come esseri dei boschi. Mi viene il dubbio che il Papa voglia fare di me una Giovanna d’Arco per strumentalizzarmi. A vol­ te gli vedo un viso ambiguo, carnale. Mentre è assorto in preghiera, gli appoggio la mano sul polso con trasporto naturale, ma lui mi sussurra fissandomi negli occhi “Togli la mano, possono pensare che sei la mia amante”. Siamo in un immenso salone di cerimonie pieno di gente a cui volto le spalle, che non vedo, ma so che c’è. Arrivano anche le altre, io tengo la testa china e coperta quasi dalle stoffe dei paramenti sacri, come in preghiera. Ho difficoltà a sillabare, su richiesta, il nome e i pregi della Beata che conoscevo così bene. Quando alzo la testa sento dietro di me la voce ammirata di Isa che dice “Anche lei lavora!”. Parlando di papà la mamma ieri diceva “Non è stato un buon padre per te: quando eravate piccoli sì, vi portava sempre fuori, si occupava

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di voi, poi da grandi non vi ha più potuto seguire e te che avevi de­ siderio di muoverti, di vedere, conoscere, non ti capiva, ti ostacolava in tutti i modi. Non si può impedire a un uccello di volare...” Poi si lamentava della sua vita e dei suoi rapporti con papà, ma senza tirare nessuna conclusione: intendeva sfogarsi, non lasciare orme di giu­ dizi negativi. Questi tentennamenti mi hanno sempre bloccato con lei, vedevo che si rifugiava nella rassegnazione e questo me la faceva sentire di un altro mondo. Mi difendevo dal suo modello. Adia ma­ dre dice sconsolatamente “Tuo padre non cambia...”, e io sono sor­ presa che lei si aspetti ancora chissà quale miracolo. Non ho niente in comune con loro se non che rappresentano il supporto delle mie fantasie e del senso disperante delfincomunicabilità. Sono gli esseri a me più familiari e più estranei nello stesso tempo. Vengo qui per riprovare ancora una volta il dramma della mia infanzia, per render­ mi conto ancora una volta della impossibilità che il mio destino fosse diverso, per accertarmi che non potevo fare altrimenti, che non sono stata superficialmente ribelle o colpevolmente incapace. Era irrime­ diabilmente necessario che tra noi si creasse un vuoto, una mancanza di contatti e che io mi ci dibattessi dentro senza via d’uscita, e ne soffrissi. Adesso posso sentire pietà invece di senso di colpa ed essere affettuosa o premurosa o allegra o compiacente e dimostrare così, senza speranza, quella buona volontà che, finché avevo speranza, si manifestava solo come polemica o disaccordo. Posso essere generosa proprio perché loro non possono esserlo, e dare qualcosa di me visto che non mi permettono di dare tutto, e non voglio più usare la ritor­ sione di non dare niente. Mi adatto a questo minimo, e colgo via via qualche occasione per sporadici attimi di intimità più vera. Ho camminato tutto il giorno per Firenze da sola - ieri l’avevo fatto con la mamma e così mi ritrovavo nel passato: un po’ stanca delle sue osservazioni sempre divaganti, della sua nevrosi di insicurezza nel fare spese e neH’affrontare i negozi, nevrosi che mi ha lasciato in eredità - e girando senza meta, da sola finalmente, scoprivo la città, me ne impossessavo, la trovavo bella, severa, piena di tracce. Potessi stare qui da sola per un periodo, senza tornare a casa a pranzo e a cena, senza dissociarmi tra presente e passato come potrei goderla e identificarmi in lei per quella parte di me che le appartiene, spesso ancora a mia insaputa.

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17 ott. Mia madre parla volentieri di vestiti, paltò, golf, ma scarpe e cappelli sono i suoi argomenti preferiti. E fa tali ragionamenti con tali sottigliezze per giustificare o addivenire addirittura a una scelta, che posso ben capire come, da sempre, io abbia rifiutato come parte assurda della femminilità la cura del vestire. Rimandavo il problema, in parte per partito preso, in parte per una specie di sopravvenuta paralisi del gusto. Rifiutando le minuzie del gusto di mia madre, mi trovavo senza appoggi in un sentiero che allora non era battuto: tutta la moda era piccolo-borghese e jolie madame, non esisteva la moda giovane, né pop, né revival, né casuale. Altro campo che ho snobbato e che era specificamente il suo regno, quello della cucina, in cui non ho mai voluto sapere niente, ma niente di niente, addirittura non m’interessava quello che mangiavo, finché con il matrimonio non ci sono stata costretta, con mia grande sorpresa per l’abbinamento. Il mio istinto, adesso, è di fare da sorella a mia madre, di essere sol­ lecita con lei, di darle tutto il calore e i riconoscimenti di cui ha biso­ gno. Se non sente che la prendo tra le braccia non può sciogliere la crosta che l’awolge. Da quando avevo due anni e mezzo l’ho ceduta a Lucia e poi agli altri e non l’ho avuta più; adesso è di nuovo mia, non è straordinario? 18 ott. Ho scritto una lettera a Luisa, la ragazza che sta con mio fratello Emilio. Hai posto un problema che sentivo nell’aria e forse tardavo a chiarire: “Accet­ tando se stessi non si finisce per accettare il mondo, la società così come sono?”. So che non è vero, però, adesso che l’hai formulato, desidero portarti degli ar­ gomenti. Quel passo indietro che tu senti, e anch’io l’ho sentito, è solo un cam­ biamento di rotta, un ripartire dalla scoperta, invece di un proseguire. Sia la società così com’è sia la società ipotizzata dalla rivoluzione marxista partono da una certa idea dell’uomo e dei suoi bisogni. Per aderire all’ima o all’altra devo condividere quelle idee. Il fatto è questo: che io non le condivido. La prima da sempre, la seconda da quando mi sono liberata dal senso di colpa e dalla paura di ricadere nella prima. Se fossi nella condizione esistenziale di subire un’op­ pressione di classe forse sarei giustificata nel focalizzare in quell’oppressione tutti gli impedimenti alla mia realizzazione, ma non è così, e quindi non me la sento di dedicarmi al nobile passatempo - per una come me - della lotta di classe. Dico passatempo perché non sarebbe un lavoro di scoperta, di impegno totale,

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ma un’occupazione esecutiva, burocratica. In più, se mi risulta che quell’idea dell’uomo su cui si basa la prospettiva rivoluzionaria non è altro che una idea­ lizzazione di ciò che egli è realmente? Dirai “Ma da dove ti viene questa cer­ tezza?”. Ti rispondo “Da me, dalla scoperta di me”. L’alienazione non è solo nella degradazione, ma anche nell’illusione: è una sconoscenza di sé. NeH’atteggiamento più pacifico che ho oggi rispetto a qualche tempo fa, non c’è più debolezza, ma una maggiore comprensione della realtà per agire in modo più adeguato. Non è semplice arrivare a cercare in se stessi il limite che di solito attribuiamo ad altri, né impegnarsi per operare in se stessi quella cessazione dei conflitti che ci disperiamo di non vedere realizzata nel mondo. Ma come si può togliere all’esterno fimpedimento che non sappiamo di avere dentro di noi, come si può affrontare un incontro con gli altri se diffidiamo di noi stessi e aspettiamo dall’esterno la soluzione delle paure, delle aggressività, delle con­ traddizioni che non ammettiamo di avere dentro di noi? L’uomo ha preso altre strade, cosiddette più realistiche perché sembrano delle eroiche scorciatoie e sono solo delle mutilazioni della coscienza. Non dico che tutti gli uomini sono così, ma certo sono così quelli che guidano e quelli che obbediscono. Gli altri, quelli che si chiedono, restano emarginati, non hanno influenza in questo mon­ do a compartimenti stagni: da un lato la politica, l’azione; dall’altro la riflessione e la coscienza. Nel mondo femminile c’è questo malcontento, questa sfiducia nei metodi con cui reazione e rivoluzione si contendono l’assetto della terra. E io credo che non sia per incoscienza che ciò avviene, ma per un bisogno di coscienza... Ho un’esperienza che me lo conferma, e la mia sensazione intcrio­ re. Così al momento mi trovo senza niente, né ideologia, né gruppo, né azione, e direttamente alla prova. Devo fare da me con altre che fanno da sé. Poiché, naturalmente, si tratta di fare. Vado a spedire questa lettera che, purtroppo, mi è venuta una lunga predica.

La serata è cominciata bene con Matilde, poi è arrivata Paula e in tre era faticoso e inconcludente. Simone muto, ci trattava un po’ da sue aiutanti - sta dipingendo le lenzuola - per un po’ ci ha bloccate alla TV, a tavola mi ha fatto un uriaccio, insomma le mie previsioni di riuscire a mescolare le mie amiche con lui si stanno rivelando sogni. Almeno per stasera. Ho mal di gola, raffreddore e nervi. 19 ott. Sembravano due ippopotami tranquilli, uno con il muso immerso nell’acqua di uno stagno tra le rocce. Invece sono una coppia di alligatori: quello con il muso nell’acqua si alza e mi insegue, io affretto il passo, chiamo “Emilio!

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Emilio!”, mio fratello, che ho intravisto, ma ora non c’è più. Mi volto spesso indietro, vedo l’alligatore che avanza, perdo terreno, non ce la faccio ad arram­ picarmi in fretta. Ripeto con spavento “Alligator, alligatori”.

Devo andare in fondo, sperando che ci sia. Ieri è stato penosissimo: eravamo tre brancolanti e dissociate. Paula inutile vederla a più di due perché tira fuori un sacco di sentenziosità fasulle, Matilde diventa dura e si inceppa. Certo fra loro non corre buon sangue. Poi stamani Lucia: stavo per dirle “Come mi dai ai nervi, sono secoli che mi dai ai nervi”. Le donne per me sono un’emorragia. Le ho detto invece “Papà è un po’ irrigidito, può essere l’arteriosclerosi, cioè la vecchiaia”. E lei a contrastare e ribattere che non le sembra un’equazione sostenibile, un modo di vedere corretto, sottintendendo che io sono interessa­ ta a screditarlo, ma non lo afferma chiaramente. Poi ho litigato con Simone, ero molto tesa. Spesso sono litigi furibondi, ma quasi per gioco. Finito, siamo calmi, scherzosi. Simone diceva “Ma come sei assennata con tua sorella, fate a chi è più assennata. Devo mettere una saracinesca fra me e te per non essere coinvolto nella tua assen­ natezza...”. Questo è proprio il condizionamento della mia famiglia, di Lucia, ragionante melliflua, questo tratto l’ho assimilato. Faccio a modo mio beninteso, però non esito a sfoggiare doti che non ho e che acquisisco per fronteggiare Lucia sul piano delle sollecitudini, delle intuizioni tempestive, ma è una facciata, lei lo sa, o comunque è un interesse discontinuo, momentaneo addirittura. Mio padre ha schiacciato abbastanza, adesso dovrebbe vivere mia madre qualche attimo sia pure nella vecchiaia, ma Angelica non può essere liberata finché non viene ucciso il mostro. La parità nel mondo femminile non la trovo, non la trovo: sono tutte troppo più silenziose di me e io finisco per essere “modesta” con loro, altra falsità. Ieri era tutto così: mi sentivo come un lupo in veste di agnello e poi, ogni tanto, come agnello in veste di lupo, che strazio! Di­ vento falsa, falsa come non lo sono mai con Simone. Cos’è che rende insinceri i miei rapporti con le amiche? Che le vedo più stordite di me, ecco, e maschero questa situazione con l’assennatezza perché, e lì è la contraddizione, vorrei essere accettata pur sapendo la distanza che esi­ ste fra noi. Da un lato mi deprimono, dall’altro ne desidero l’approva­ zione, il tutto insistito e mascherato di buoni sentimenti, disinteressati.

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Arriva non annunciato un ciclone che sradica sconvolge sbatte a terra. Se resta un attimo di più tutto sarà finito. La certezza di me s’inabissa al centro della terra lì la conficca il mio ciclone. La testa mi ronza mi si chiude un occhio.

Matilde non sopportava di sentirsi esclusa mentre il marito aveva una sua relazione: ma anche a Vita sembrava “indecente” scrivere di Violet al marito nel momento della loro passione. E poi non spiega perché le sembrasse indecente, io credo perché, fatalmente, comuni­ candogliela avrebbe tradito le sue emozioni. Di Matilde mi irrita che veda sempre le cose facili e civili, se esaminate dal suo stato neutro. Con questa base psicologica certo niente sarebbe un dramma. Quan­ to a lei però non va toccata perché è permalosa, suscettibile. Molte donne si trovano ad avere un marito che non desiderano ses­ sualmente, ma a cui sono affezionate, che apprezzano, che dà loro sicurezza. Può andare benissimo così - come risulta brillantemente dall’esperienza di Vita Sackville West - basta ampliare da qualche parte, e quella dell’omosessualità è la meno pericolosa, una volta en­ trate nell’idea, un tradimento minore. Però Vita mi sembra che cam­ bi un po’ dopo la rinuncia a vivere con Violet e a dare all’amore una parte dirompente nella sua esistenza. D’altra parte non si può basare il proprio equilibrio sull’amore e sull’erotismo, sono troppo instabili e saltuari, però non devono mancare. 21 ott. Non ho detto a Paula che la serata a tre con Matilde mi ha provata duramente e che non avevo nessun contatto con lei. Giustifi­

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cazione: sono stanca di essere sempre io la prima a dire che qualcosa non va e a darle il compito per riflettere. 23 ott. Ester: seduta con le braccia conserte. Con Simone sono bambina adulta vecchia sono la donna e lui è l’uomo sono l’uomo e lui è la donna sono buona e cattiva sporca e pulita sana e malata mi piace comandare mi diverte ubbidire mi erotizza amare ma più sottile ebbrezza è scherzare. Un bambino, due “ore” appena nato, parla, dice - mi pare - “Pasta”. Non so se il bambino l’ho fatto io, mi spetta di diritto oppure l’ho in custodia. Sono traseco­ lata dalle sue capacità, le faccio presenti agli altri, accudisco a lui con tenerezza.

Le crisi probabilmente servono a controbilanciare i miei entusiasmi che mi porterebbero al di fuori della realtà, come diceva una mia insegnante delle elementari “La Lonzi nel tema è andata sui peri”. Sono abituata a primeggiare. Nessuna ce la fa a tenermi testa. Ahi­ mè, che brutto destino il mio! E come mi rende infelice. 24 ott. Paula sapeva la cifra del tipografo e non me ne ha parlato, non ne ha avuto il coraggio! Questo mi offende e mi scoraggia terri­ bilmente. Che fatica avere sempre a che fare con donne e tutte le loro paure! Certo, si tratta di una sua difficoltà ad affrontare le cose. Ma che m’importa, se devo sempre restare frustrata. Allora sono andata io dal tipografo, mica potevamo dargli tutta la cifra! e qualcuno ci voleva che si accollasse il fastidio di discuterla. Eccomi dunque sul

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posto con tutta la grinta spontanea che mi è venuta, non solo per l’enormità della somma richiesta, ma soprattutto per la rabbia che avevo verso Paula e la sua aria da gatta morta. Ho condotto 1’afFare molto bene, solo alla fine mi sono accorta che per la tensione dello scontro avevo quasi le lacrime. Spero che non se ne siano accorti. Adesso sono piuttosto orgogliosa di me e lo farò pesare, sono stufa di mostrarmi comprensiva e di minimizzare le mie capacità. Tanto più che queste capacità mica me le ha regalate il cielo, me le sono conquistate a forza di prendermi delle responsabilità. Che lo facciano anche le altre! Nel pomeriggio ho dormito profondamente, sono scivolata in uno strato di sogni ininterrotti, densi e colorati. Simone arriva di notte e sono contenta che sia di ritorno, mi porta notizie, e cose fatte da lui, un senso di vita e di oggetti preziosi, gioielli... Illumina la notte. In una casa bellissima che è nostra entrano due donne eleganti, le lasciamo vicino a dei lumi con l’interruttore splendente come un gioiello - idea di Simone - a portata di mano. Infatti accendono i lumi, ma mentre lui e io ci allontaniamo nel corridoio, le sento dire “Andiamo invece alla vetrata a vedere il paesaggio”. A un crocevia mi trovo nel bel mezzo di una dimostrazione: ogni strada è invasa di gente diretta, si direbbe, al punto di convergenza. Comincio a correre in senso inverso alla gente che fa una specie di fiumana. A un tratto una signora vicino a me cade a terra e io mi affretto a sorreggerla. E molto elegante con indumenti morbidi, borghesi, forse una giacca di pelliccia e una gonna azzurra, capelli biondi di parrucchiere, borsa, qualcosa d’oro... Oltrettutto così vestita è volumi­ nosa e non posso più correre, anzi neppure muovermi. Provo la tentazione di lasciarla lì per terra, io che c’entro, ma poi decido di no e cerco di trascinarla. Dal trambusto attorno spunta un camion militare che entra in un cancello sul lato della strada, uno si sporge e mi dice “La porti qui dentro”. M’immagino sia qualcosa come la Croce Rossa. In quel momento arriva la polizia a cavallo e cominciano a buttare delle bombe proprio verso di noi che siamo rimaste sulla strada allo scoperto. Faticosamente, mettendocela tutta, trascino la donna den­ tro il cancello ed è lì che quella, con voce fredda, riavendosi di colpo dal suo ma­ lessere, mi dice “E perché a lei è permesso?”. Intanto in fondo al giardino vedo dei soldati che con enormi fucili di legno stanno in semicerchio puntando verso qualcuno, che però resta coperto ai miei occhi da delle piante. Chi può essere? Ostaggi? Colpevoli? Dove sono io? In salvo o in trappola? E la donna chi è?

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Complice dei soldati, loro vittima ignara, oppure una che rifiuta di avermi per compagna nella salvezza ottenuta a causa sua?

Dopo la dormita e dopo il sogno la rabbia verso Paula è sbollita, non saprei più dirle niente di quello che mi turbinava nel cervello stamani, e neppure mi muoverci per avere giustizia dal tipografo. E tutto alle mie spalle. Voglio solo chiederle “Perché ti sei comportata così?”. Simone dice “Lo scontro di stamani con il tipografo è stato in fun­ zione di Paula, per dimostrarle com’era infantile a non affrontare con te l’argomento”. Subito ho avuto senso di colpa e perciò mi sono risentita. Ma giusto un attimo. In Paula vedo una parte di me, quella infida, passiva, presa dal pa­ nico, quella che io non amo essere e che perciò detesto nelle altre. Ma appena Paula è cosciente di come è, subito la sento affine. Non sopporto la vista della sua debolezza, ma la coscienza sì. Nel sogno Paula - è perfetta, è Paula - rivolgendomi quella frase “E perché a lei è permesso?” riflette la mia paura di prevaricare dei limiti con­ sentiti, il senso di colpa nell’espandermi se un’altra non mi dà il benestare. Sto mettendo i cavalli al mio carro sto facendo i preparativi per partire no, non è ancora avvenuto il mio carro la mia strada. Lascio tutti ma non sono triste più strano ancora non ho paura non ho altra scelta e dipende solo da me. Il cavallo grigio ha nome Noncuranza quello rosso Follia.

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25 ott. Sogni per “la casa”, o quel che è. Non li ricordo. Leggendo V Woolf di Viviane Forrester, vedo che Virginia era sempre se stessa, nella vita, nei rapporti, nel lavoro, nei gusti, nelle scelte. Un destino si manifestava senza possibilità di scappatoie, di stop, di intervalli: l’ambiente era favorevole o almeno pronto a capire il valore di quei fenomeni. Lo snobismo spinge a rivelare l’essere umano più della morale borghese o rivoluzionaria? Cara Sara, tu sei stata la prima amica che, come me, scriveva. Questo dava una certa parità fra noi, e anche sottintesa rivalità. Tu temevi di avere me sola come ammiratrice, e io tutti fuorché te (l’episodio brutale del rifiuto delle mie vecchie poesie mi aveva lasciato il segno più di quanto potessi credere). Con le altre non è che manchi tanto l’esperienza comune dello scrivere, quanto la concentrazione che lo scrivere porta con sé. Oppure mi dispiace leggere qual­ cosa che resta troppo superficiale. Accetto di essere profonda, sensibile, di non mascherarlo in attesa che si sia tutte ugualmente coscienti. Accetto le diversità di grado, di intensità, di acutezza, di percezione di sé. Accetto di non farmene un problema.

Con Paula ho parlato io al posto suo. Lei taceva o minimizzava, all’ini­ zio ha fatto una risatina d’imbarazzo. Era calma, frenata come sem­ pre, lontana, chiusa, anche se aveva trovato le formule per riuscire sincera. A volte sono come una volpe veloce e intuitiva che l’insegue fino dentro la tana. Paula è un animale morbido, metà socievole, ad­ domesticato e metà selvatico: si fa carezzare, nutrire, allevare, ma ba­ sta un niente e fugge. Sei una volpe t’inseguo e questo magari ti fa scappare morbida pelliccia. Intendo stancarti con la fuga non afferrarti a una zampa e farti sanguinare o sbranarti t’immagini?

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26 ott. Anche stanotte sogni sulla “casa”, c’era di mezzo un affitto, a Venezia. L’associazione con Venezia torna di tanto in tanto: una casa sull’acqua. Voglio trovare Tra gli atti [Ve] della Woolf: ne ho letto un pezzettino e mi ha entusiasmato. Federica è venuta da Roma per parlare con me, evidente che con gli altri non riesce. Essendo l’unica persona non può non mitizzarmi. Paula ascolta dolcemente contrita i miei rimproveri e quando la la­ scio ha un cenno d’intesa appoggiandosi forte sulla mia guancia. Si sente protetta e capita da me anche se teme il mio giudizio, invece in lei avverto qualcosa di materno, come un manicotto caldo, accoglien­ te, avvolgente in cui non sarai giudicata. Un paradiso, ma il contrario del Paradiso dove si arriva per selezione. Sei il porto tranquillo dove le barche stanno al riparo dove le vele si afflosciano e il marinaio finalmente dorme.

Quasi senza accorgermene ho fatto in modo di non invitare Matilde a nostre riunioni. Stamani, ai giardini pubblici, mi ha confessato di essere stata così terribilmente triste, proprio giù in uno strapiombo e di essersi chiesta angosciata perché la gente finisse per respingerla. E finalmente si è aperta. Trionfo trionfo: Gloria telefona da fuori, e poi qui vedo Ornella diventata poeta! E Vera che smetterà di esserlo alla sua vecchia maniera inibita e decadente! 27 ott. Mi piacete ragazze sole

siete i nostri piccioni viaggiatori sostate su un ramo su un’isola il nido non vi trattiene. Vorrei fare un viaggetto con Ornella un viaggetto noi due per il cielo posso onorarmi della vostra compagnia posso sentirmi dei vostri?

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Ho sempre ammirato le persone che fanno professioni squallide e non le abbandonano per sogni di ambienti diversi, così restano quello che sono, senza scatti sociali e culturali. Cioè, lo scatto lo ottengono per meriti, non per prestazioni ad hoc. Ecco qua che non mi piace quello che ho fatto io, prima era il mio orgoglio, oggi ne provo scon­ tentezza. Ero ambiziosa e avevo un mito, quello dell’arte. Mi sarei sentita morire senza andarmene verso mondi nuovi. D’altra parte è vero che Rivolta è partita da me, quindi ero io che dovevo farla, non ce n’era un’altra, altrimenti avrei preferito - come no? - aspettare tranquillamente che quella appaia sulla scena. La tua fragilità mi fa sentire goffa la tua dolcezza mi fa sentire indurita il tuo distacco mi fa sentire irrequieta ma la carezza mi ha rassicurata.

28 ott. Mi trovo in un ambiente omosessuale: sono tutte donne adulte, un po’ severe, c’è anche una signora con la sua governante. Si capisce che io non ho esperienza, sono un po’ estranea, accadono alcuni episodi. Poi vedo la mia ma­ drina, la zia Lea; mentendole, le faccio sapere di essere già stata iniziata all’omo­ sessualità, lei si alza la gonna e appare una pancia bianca, morbida. Mi colpisce che non ci sia il pene, il suo sesso è coperto dal pelo. Anch’io faccio altrettanto e appoggio la mia alla sua nudità. Sono stranamente eccitata dalla scena. Ancora un particolare: scopro di avere le gambe piene di peli neri e ricci, con il dito li passo all’incontrario e per fortuna quasi spariscono, si vedono appena. 29 ott. Minaccio di tirare un sasso, allora mi dicono “No no, ferma, salta tutto”, così nascondevano una bomba in quel macchinario dall’apparenza in­ nocua. Qiiando comincia il pericolo non ho dubbi, voglio squagliarmela, però sono d’accordo di lasciare il mio recapito, lo scrivo qua e là persino sul fianco di un agnellino tosato, ma se ho sbagliato nella fretta, nel trambusto, non ci ritroveremo mai, questo mi angoscia, lascio lì delle persone care, parenti, forse mia madre. Loro non afferrano il pericolo che corrono, sono incoscienti perché è molto difficile che la scamperanno. Corro via e una zia mi accompagna, zia Lea-Egle: prendendo a pretesto i semafori che scattano sul rosso, mi fa strada, mi garantisce, mi protegge. Forse solo si allontana dal pericolo e dagli altri senza dirselo.

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Dopo La voce nella tempesta alla TV avevo telefonato a mia madre. “Ali, sei la Carla, lo sapevo!” come se si aspettasse la mia telefonata dopo il film. L'avevamo vasto insieme, c’era anche Lucia, quando eravamo un terzetto così, una madre della mia età di oggi, con due bambine. Per quanto tempo non mi sono accorta come era stato faticoso rinunciare a mia madre? Ero orgogliosa di averlo saputo fare rispetto a bambine che in collegio piangevano, però era stato uno sforzo tremendo, come essere buttata dal nido, uccellino che non ha piume e non sa volare. Non sopporto di ritornare nell’atmosfera dell’arte, delle mostre: è stu­ pido, ma ci tengo che abbiano stima di me in quel mondo dove ho lavorato, e oggi sono così diversa. Voglio demolire quello che avevo costruito, ma ancora non intendo demolirlo lì dentro. Con la moglie di Claudius mi sono trovata bene: non aveva niente da nascondere, neppure le unghiette che lei conosce e che ha sempre accettato. Paula dice a Matilde quello che io dico a Paula. Risultato: Matilde ha ripreso un certo atteggiamento di difesa. Io spiego troppo e do ancora l’occasione alle altre di farsi degli schemi e di adoprarli, do il cibo già masticato. Quando mio padre mi insultava con epiteti di malvagità e corruzione abominevoli, mi veniva da ridere. Avrei voluto assumere un’espressione di sdegno e di fermezza, ma non riuscivo. Come se invece di vedere un’immagine di me nell’altro, avessi scorto un’im­ magine dell’altro così diversa da quella che pretendeva di avere, che il confronto mi metteva ilarità, perché era evàdente che quell’immagine usciva a sua insaputa... Lo stesso mi è successo stasera con Simone quando gli ho annunciato che un mio amico (ex) sarebbe venuto a trovarci a Turicchi durante queste vacanze. Non vuole vederlo. Poi mi ha insultata gridando. Afferma che è un suo diritto non vedere le persone che l'hanno offeso. Non mi perdonerà mai quello che è avvenuto in passato e non conta niente che sia stata io a dirglielo. Lo considera un’influenza di Sara e non un mio gesto spontaneo. “Sì, perché secondo la mia esperienza sapevo che non avrebbe portato a niente altro che a un irrigidamento da parte tua.” Comunque non ho più da dimostrare a me stessa perché mi sento prigioniera: lo sono, e non m’importa sapere se a torto o a ragione - ammettiamo pure a ragione - fatto sta che sono prigioniera, non posso vedere chi voglio e anche se per me non è così importante chi vedrei, il risultato è che non posso.

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Adesso so che dobbiamo dividerci, so anche che è per un assurdo, visto che mai come ora mi sono trovata disponibile per un rapporto con lui, stavo conquistando momento per momento i mezzi per con­ vivere, godere la presenza, la compagnia, l’affetto, la comunicazione. Lui mi amava “prima”, quando non stavamo insieme, quando non eravamo coscienti, quando tutto, nei fatti, poteva dividerci e ci divi­ deva. Mi amava pensando a me nei lunghi periodi in cui stava solo a studio e io sola a Milano, solo negli Stati Uniti e io sola al Forte dei Marmi, sola in qualche sperduto posto con Tito. Secondo lui quello è stato il momento del suo amore. Stasera faceva una faccia come se gii fosse apparso un mostro, un essere obbrobrioso da esorcizzare, da ricacciare indietro e rendere inoffensivo. Come mio padre. Quel punto non lo supererà mai. Ma io non posso accettarlo. E l’ostacolo in tutto questo, imprevedibilmente e imprevedutamente, è Tito. La stabilità, la regola, la sicurezza sono suoi diritti, o almeno diritti che mi pesa mettere in crisi verso di lui. Gli ho telefonato per dirgli “Fai un altro tipo di vacanze, io non vado a Turicchi”, ma lui tutto allegro mi precede “Allora, vengo a Turicchi”. Non essere padrona del mio destino è non essere padrona di niente. Quanti inganni in un colpo solo! Simone, al momento di separarmi da Raffaele, diceva “Lasciagli tutto, che ce ne facciamo. Ricompria­ mo tutto, lascia perdere”. Adesso, dopo altri undici anni passati ac­ canto a un uomo, se dovessimo lasciarci cosa avrei? Niente, dovrei ricominciare a lavorare come quando ho smesso prima di sposarmi. Sì, avrei Turicchi, a metà. E l’età di andare in pensione per quanto riguarda la mia carriera con gli uomini: a quarantatré anni troverei qualcuno da aiutare, un giovane senza una lira. Nel pomeriggio, Simone “Se vengono i tuoi amici a Turicchi, io re­ sto a Roma a lavorare”. Allora la lite è ricominciata. Non può ri­ prendere normali rapporti con loro perché l’amicizia è rotta. A me sembra pazzesco: io ho sofferto di dovere tradire altre per seguire il mio impulso verso un uomo, lo consideravo una sventura o una real­ tà, magari un bisogno di affermarmi per vincere un senso di colpa. Ha detto di non amarmi più come allora quando per lui ero “un raggio di luce”, un mistero bellissimo. Io ho elencato tutti i motivò per cui mi sento sua prigioniera, sua moglie senza diritti. Poi sono arrivati due tipografi e Simone è andato nello studio. Ci siamo in­

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contrati in corridoio, io mi sono fatta in là, ma lui mi ha abbracciata, e piangeva dicendomi che mi ama tanto. Anch’io mi sono lasciata andare a piangere, lo rimproveravo per il rimpianto che ha dell’amo­ re passato e com’è che non si accorge che adesso ci amiamo di più, vivendo insieme e stando vicini, parlandoci senza segreti. Simone mi ha chiesto “Conosci qualcuno che sia così preso dall’altro come noi due?”. Gli ho risposto “Da fuori non si può capire, però penso che questo è amarsi”. 2 nov. C’è tanta gente in una grande stanza: sotto un telo appeso intravedo Fe­ licita e David con altri come se si fossero messi al riparo. Mi chiamano ridendo, anch’io vado lì sotto con Tito. E fulmineamente avviene una specie di irruzione da parte di uomini concitati che si affrettano a chiudere la porta d’entrata. Alle nostre spalle scorgo delle porticine di vetro, ne raggiungo una, sempre insieme a Tito, faccio per aprire e, con mia sorpresa, quella si apre. Siamo sairi. Ci preci­ pitiamo fuori correndo: vedo delle lunghe strade bianche e luminose con curve e scale in discesa, ma completamente vuote; qualche vigile agli incroci sembra spiare le nostre mosse e aspettarci al varco. Capisco che la città è stata presa, il golpe è riuscito, la nostra fuga è stata illusoria. Dopo la speranza di salvezza la delusione è maggiore. Ci prenderanno. Avevo rivisto Tito dopo due mesi e mi ero accorta di provare per lui tutte le apprensioni di sempre, mentre quando siamo lontani sono tranquilla perché lo so affidato ad altri. Avevo cominciato con il te­ mere che mettessero una bomba sul suo treno e adesso sono mio malgrado inquieta per la sorte del treno con cui farà ritorno a Roma. In particolare mi ossessiona l’idea di un possibile golpe per il 4 no­ vembre, giorno del suo ritorno. Però, siccome parte da Avenza, e l’orario lo sceglierà lui con suo padre, già mi sento sollevata dalla responsabilità che spetti proprio a me decidere della sua sorte.3 3 nov. L’intelligenza è soltanto apertura. Oggi Felicita diceva di non riuscire ad adoprare il telefono per conversare perché non vede il viso della persona, la sua espressione mimica. Le ho risposto che a me al telefono avviene un potenziamento dell’udito come ai ciechi, sono molto più sensibile al suono della voce, ne colgo tutte le sfumature. Ho fatto un’osservazione più intelligente di Felicita solo perché lei aveva giustificato una sua chiusura.

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Quando Piera mi ha chiamato dall’aeroporto, come sempre mi ha incantato la sua coraggiosa sprovvedutezza. Perché io avevo provato così presto il bisogno di liberarmene e, nel frattempo, di mostrarmi sicura, decisa, autonoma più di quanto intimamente sentissi di esse­ re? Perché poi mi è sempre apparsa una dote di autenticità insostitui­ bile proprio quella palese sprovvedutezza? A me è mancata la madre che mi lasciasse essere quella che ero, una bambina, così sono caduta sotto gli imperativi di mio padre che mi voleva subito o soggetta a lui o adulta sul banco di prova. 4 nov. Sono a passeggio con un’amica, è molto carina, con la frangetta, occhi

luminosi e un bel sorriso, solo il naso è adunco e io penso come sarebbe bello se si facesse una plastica e togliesse via quella gobba. Guardo i nostri piedi nei san­ dali e vedo i suoi di dimensione normale, i miei invece hanno le dita sottilissime, graziosissime, però sono pieni di calli molto evidenti e le unghie, lunghe, nei diti più piccoli girano di lato con effetto un po’ mostruoso.

A Turicchi Questo posto passa per il mio cuore qui ho ritrovato ciò che avevo perduto.

5 nov. Mi è impossibile perdermi - eppure rischio moltissimo di perdermi. Ho almeno due anime —una votata al distacco una avida dietro i vetri accarezza i suoi beni con lo sguardo.

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6 nov. Faccio l’amore con una ragazza, prendo l’iniziativa, sono arrivata al suo

sesso, tutto molto eccitante e naturale. Penso “E questo, dunque, ho spiccato il salto”. Provo un moto di liberazione. Ho a che fare con delle inglesi, c’è un dissenso fra noi perché non sopporto la loro aria colonizzatrice. Chiedo se parlano il francese, non lo parlano, vanno in giro per il mondo solo con l’inglese, trovo la cosa detestabile. Una dice di tenere molto ai valori essenziali, la luce, per esempio. Sto per rispondere “La luce è meglio qui che in Inghilterra, meglio in Grecia che qui”, ma non so in che lin­ gua dirlo. Sento di essermi pronunciata in modo molto equilibrato e per niente parziale, però sono frustrata di non avere una lingua in comune per potermi esprimere.

E Felicita che ha le dita sottili, che parlava della luce del pomeriggio ieri sera, Felicita sfuggente, con cui mi è difficile fare cadere gli osta­ coli, Felicita rifugiata in David dopo la crisi con Valeria (come io in Simone, però ne sono uscita, ho subito, ho accettato di soffrire). 7 nov. Non ho il tempo dello scorrere lo vorrei —ma forse neppure mi piace ho il tempo del prendere e lasciare della continua separazione.

Sono di nuovo a casa di mia madre. Faccio la figlia unica in ritardo. Giriamo per i negozi, la mamma ha comprato le scarpe e una ca­ micetta. Da giovane era Lucia che l’accompagnava perché aveva la passione per il vestire e un gusto simile al suo, adesso lo sto facendo io, forse è l’unico modo per trovare qualcosa in comune con mia madre. Mi sono sentita strana in famiglia questa volta, un po’ come dovevo sentirmi da bambina quando decidevo di “essere buona”. Un girare a vuoto in un senso di pena e di inutilità con la speranza di fare con­

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tenti i “genitori-bambini”. Come allora mi sento estranea e vorrei dirglielo, sarebbe la prova che non è vero. Vedo con smarrimento la vecchiaia in loro, le manie, la perdita della forza, dell’interesse, e raccanimento con cui cercano di illudersi che tutto è salvo, uguale a prima. Mia madre mi esaspera: ormai la accetto così, ma vederla in azione tutto il giorno è uno spettacolo assurdo. Poi papà torna a casa, la sgrida perché il marsala nel petto di pollo non è di buona qualità, si arrabbia perché i pezzi lavati della moka sono stati messi uno sull’altro e non uno accanto all’altro. E lei resta lì, come una bambina con il quaderno macchiato d’inchiostro, sotto lo sguardo del preside, i\llora 10 involontariamente faccio il solito fumetto che mio padre muore, e la mamma resta padrona di tutto, va a prelevare i soldi dalla banca, finalmente sa a quanto ammontano, ed esce di casa e di città come le pare. Possiamo cenare insieme al ristorante ed essere in ritardo su tutti gli orari che segue da cinquant’anni. Faccio il solito fumetto che da vecchia sia in tempo per partecipare, sia pure minimamente, a una vita senza terrorismi, umiliazioni e spappolamento del cervello, reclusa in casa a impazzire con un vecchio prepotente. E io lì pronta a aprirle la strada verso una vedovanza liberatoria. Eppure sono più figlia di mio padre che sua; in lui odio una violenza che posso avere anch’io, per questo mi sento in qualche modo colpevole. Lei invece è una vittima senza ribellione, perché prova pietà per l’oppressore. 8 nov. Eppure stamani, quando Simone, a letto, mi ha messo una mano dietro la nuca per tirarmi a sé, ho riconosciuto le dita dure di mio padre - mi pareva di avvertire la presa del suo indice moz­ zato - e perfino quando ha cominciato a carezzarmi avevo sempre l’impressione della mano forte di mio padre e del suo dito mozzato. Contemporaneamente, se pensavo a lui, avevo un senso di fastidio e di insopportabilità per la sua persona. Ho saputo che Sara ha scritto a Gemma “Sto bene qui”, ho letto tre pagine di Groddeck, Valeria mi ha chiesto se ho qualcosa di mio da farle leggere, e sono sprofondata nel dubbio di me. Mi vedo risuc­ chiata alla superficie, compiacente, ragionevole. Eremo dentro di me, mi sento confusa, perdo ogni punto fermo, precipito. Eppure, non so dove, la cosa è prevista, e non me ne fa neppure granché. Ho perso 11 noblesse oblige: che succeda quello che deve succedere, non ho altro

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desiderio. Non ho più la pretesa di essere “la migliore”. Sara mi ha su­ perata, sorpassata, stracciata, seminata. La mia coscienza lo sa, anche se spera di recuperare e magari di sentirsi ancora sulla cresta dell’on­ da, ma avanzando delle pretese non può che prepararsi all’angoscia. 9 nov. Sono eccitatissima per rincontro con Valeria, con una libera, aggressiva, esplicita, ragionante che, per fortuna, non ce l’ha con me. Ho dato a Valeria le mie poesie, vecchie e recenti fino a un anno fa. Vorrei averne una copia e leggerle mentre intuisco che lei le sta leggen­ do. Per parare i colpi, per godere di quello di cui forse sta godendo, per essere una spettatrice di me stessa insieme a lei. Vediamo se questa vol­ ta faccio centro, se un’altra mi diventa interlocutrice, se mi dice qualco­ sa per cui è valso la pena non dico scrivere, ma fare leggere: quei fogli non sono più su qualche scaffale a prendere la polvere e attendere un momento propizio che non viene mai. A Valeria interessa il contenu­ to, lo cercherà, lo sviscererà. E non ha manie letterarie. Sono fiduciosa. Se sblocco con gli scritti, ritrovo lo sprint, l’entusiasmo con gli altri. Vorrei scrivere e scrivere adesso che qualcuno mi legge.

10 nov. Leggo una frase “propiziazione masochistica in forma di tec­ niche femminili di seduzione del persecutore”, ossia “autodenigrazio­ ne”. Mi ha subito richiamato il mio atteggiamento con le donne, nel gruppo. Quando Germana mi ha detto di avere sofferto nel tentativo di reprimere in sé quelle sensazioni che avevo definito vaginali, mi sono sentita tremendamente in colpa, e ho avvertito un’immediata depressione. Che però non è venuta avanti, e al suo posto è suben­ trato quel senso di vittoria interiore di quando, da bambina, arrivata sull’orlo delle lacrime, in base a un’esperienza precedente pensavo “Adesso scoppio a piangere”, e proprio per il fatto di essermene ac­ corta in tempo, e di averne accettato l’eventualità, non succedeva. L’ansia di realizzarmi come espressione di me mi ha sempre persegui­ tata e non capivo, letteralmente, con che ragione stesse al mondo chi non l’aveva. Non capivo le donne. Istintivamente tendevo a scalzarle

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dal silenzio, a mostrare loro la via dell’espressione. Ma non arrivavo a contagiarle, a risvegliarle, allora la loro calma, la loro imperturba­ bilità mi sopraffacevano. Dice Paula “Agire mi avrebbe snaturato”, e anche “Ho sempre cercato una via d’uscita, ma non avevo ambi­ zioni e pensavo ‘Se capisco perché la gente scrive, scrivo anch’io’”. E conclude “Tu sei la prima donna che...”. Lei non aspirava a essere la prima donna e aspettava che comparisse. Io sapevo che non avrei in­ contrato una prima donna, dovevo essere io quella. Dice Paula “Non potevo inventarmi la strada ex-novo, e anche crederci e percorrerla”. Che io l’abbia fatto può suscitare la sua considerazione, ma certo è felice di non avere dovuto compiere una fatica in più. Non dà valore a queste cose, però dalla sua inerzia fiduciosa sta risalendo a se stessa. Senza passare attraverso la disperazione che porta alla trascendenza? Le ho dato da leggere la mia poesia per lei. Non ha reagito affatto. Non mi ha chiesto di dirle il sogno che le avevo annunciato. Se non lo fa per difesa, si permette anche di essere distratta. Nella poesia dove c’era scritto “t’inseguo” ha letto “t’insegno”. 11 nov. Da sempre, ma soprattutto adesso che so del suo transfert per me, provo il bisogno di essere un po’ dispotica con Paula. Mi ronza nella testa questa coppia di contrari “trascendenza-imma­ nenza”. Mentre parlavo con Paula, al di là dell’assurdo e gratuito di dirle “Per me tu sei la femminilità e la madre”, con conseguente imbarazzo come se fosse rimasta male, sparito poi nel resto della serata in cui mi sono sentita più accolta di prima, avvertivo che stavo toccando un punto essenziale. Sono tutta scombussolata. Matilde torna da Parigi e porta notizie e libri. Questo femminismo, questa cultura femminile non mi interessa­ no. I libroni della Mitchell, e gli altri, scostanti, da cui non s’intravede che ideologia e cultura, cultura e ideologia in tutte le salse! Tutto fal­ sificato, e ora diffuso, propagandato, riposto in sacchetti verdi chic nel gusto Liorucci con la scritta “Edition des femmes”! E da questa tragica distorsione invitano, che dico, ricattano le femministe esibendo la ne­ cessità della psicanalisi “da Freud a Lacan”! Merda, soltanto merda! 12 nov. Alle 7 del mattino telefono a Roma a Tito che ha mal di gola, gli do le istruzioni, sono in ansia per lui.

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Torno a letto, faccio l’amore con Simone, passo da una fantasia all’al­ tra, da uomo a donna, alla fine ho l’orgasmo, sto subito meglio, tran­ quilla, mi addormento. Tito è piccolo, ometto saggio e malaticcio, quasi grinzoso, vestito dalla testa ai piedi, lo amo tanto, glielo dico “Ti voglio tanto bene”, c’è un idillio tremendo fra noi, un legame dolcissimo, l’unica cosa che conta. Peccato non avergli portato le medicine per il mal di gola visto che sono venuta in città, era così semplice raggiungerlo. Poi mi prende l’angoscia che dovremo lasciarci perché un giorno moriremo e spariremo nel buio, nel vuoto, lontani per sempre. Perché la gente fa i figli? Non pensa che prepara un terribile momento di distacco? Terribile per sé, ma soprattutto per il figlio abituato a contare sulla madre. Dietro una paratia una donna balbetta “Soffoco, soffoco” e si scuote tutta. Le getto appena un’occhiata e scappo via: è una che sta morendo, ha chiesto delle pillole perché intende praticare l’eutanasia, non ce la fa a vivere. Forse adesso è pentita, sente arrivare la morte e non la vuole più, chi può dirlo. Non sopporto di essere testimone di questo suo momento. Scappo e mi trovo in una bella casa grande e antica dove avevo abitato un tempo a via Verdi, ma non somiglia, ades­ so è abitata da altri. La moglie mi mostra tutto quanto, bellissime scaffalature fino al soffitto a capanna in legno scuro e ferro smaltato nella grande cucina, sembrano antiche, ma ai miei tempi non c’erano, c meccanismi moderni per aprire gli sportelli. Simone è troppo rudimentale nell’arredare le case, ce l’ho un po’ con lui, guarda qui che ingegnosità e che bellezza! In uno stanzino incontria­ mo il marito, ma io fingo di non vederlo e volto le spalle.

In via Verdi è cominciata Rivolta Femminile a Milano, e rispetto a quello che mi diceva Matilde dell’organizzazione libraria e della lussuosità delle sedi francesi, ma soprattutto rispetto a queste donne colte di psicanalisi e sprezzanti verso il femminismo, ho rievocato la nostra modesta sede, sia di locali che di mezzi. Nel sogno vedevo le migliorie in via Verdi con ammirazione, ma anche avevo l’impressione di certo moderno rifatto sull’antico, che lì per lì richiamava una vaia calda e funzionante, poi ne avvertivo il trucco, la non-genuinità. La psica­ nalisi serve a un certo stadio, posteriore alla autocoscienza, ma non ha senso come indicazione di una strada. L’autocoscienza porta alla scoperta dell’inconscio, e quindi provoca l’interesse spontaneo per la psicanalisi. Perché dire che “il femminismo tradizionale o rinascente

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ha sempre brutalmente respinto la teoria freudiana in nome di una lotta contro il patriarcato”? Questa “brutalità” è stata salutare se ha permesso di togliere i primi ostacoli alla messa in moto di un proces­ so di liberazione - la parola “brutalità” indica da parte di chi scrive un’identificazione emotiva con la teoria freudiana che non promette niente di buono. Comunque che altre donne ambiscano alla leader­ ship nel femminismo mi provoca subito un’angoscia che mi avverte del ridestarsi della rivalità in me. Riprendo la lettura de II linguaggio dell’Es di Groddeck al punto dove l’avevo lasciata ieri. Un brano mi ha molto riconfortato e tolto dei complessi sulla giusta interpretazione, sulla competenza psicanalitica in senso stretto. Paula è affascinata dal diario di Valeria: le ricorda quando era giova­ ne e aveva sensazioni così nette, così reattive. Poi, piano piano suben­ tra una purea, un marasma e tutto si confonde. Il mio diario ha an­ cora qualcosa di quella confusione mascherata. Non piacerà a Paula come quello di Valeria. Vorrei essere Valeria. 13 nov. Evidente che provoco Paula parlando di Felicita, finché con­ fessa “Mi riconosco moltissimo in Felicita”. Però, quando le propongo di venire qui nel pomeriggio e risponde “Ma non intendo fermarmi da te”, ci resto male lo stesso e temo il momento in cui mi sarà ostile, sebbene l’appoggi per quell’evenienza. In questo processo si deve na­ scondere l’origine del mio vittimismo, la sensazione che mi offro come vittima. Ma allora è segno che sento di dovere espiare una colpa. Molto spesso mi metto davanti alla pagina bianca con la penna in una mano, la sigaretta nell’altra e voglio scrivere. Non ho niente di particolare da scrivere, ma mi pongo in uno stato di attesa, spinta dal desiderio di trovare qualcosa dentro di me da tirare fuori. Ho un’in­ quietudine vaga non ancora formulata e io, impaziente, mi apposto per prenderla al varco. Ieri ho letto di una femminista francese che dichiara di vivere per scrivere. Mi ha disgustato. Segno che anch’io sono ossessionata da questa attività. Ma almeno considero un punto d’onore non vantarmene. 14 nov. I bambini sono andati al mare in bicicletta, ma nell’albergo scopro gente pericolosa per loro, li vogliono rapire o uccidere. E gente violenta che io

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cerco di conquistare e rimuovere dai loro propositi. Sono traboccante di tene­ rezza e di apprensione per Tito, ancora piccolo. Siamo Simonc, Tito e io, ma ogni tanto al posto di Simone c’è mio padre. Tito a un certo punto è un chicco d’uva e l’altro (Simone o mio padre) che so, un raspo. Una donna sta portando la sua bambina dal dottore e quella piange e si butta per terra. Tutte e due sono vestite di una specie di raso o tafTetas che le fa sem­ brare dei palloncini dalla vita in giù. Non resisto alla scena perché la madre è minacciosa e arrabbiatissima, così apro la porta di una casa-negozio e dico alla piccola “Guarda cosa ti do” e trovo lì una bambola grande quanto lei che si muove come un burattino dell’opera dei pupi. La bimba è subito felice. Poi viene la padrona della casa-negozio, le spiego il caso, non fa un piega, va tutto bene. Vedo in faccia la bimba, è mongoloide, ma anche la madre lo è, si somigliano come due gocce d’acqua. Sono per strada, tipo via della Croce a Roma, e vedo un topolino piccolo piccolo bianco e un po’ rossiccio fuori di un negozio: sta mangiando qualcosa su una ruota dalla forma di parmigiano. Con quello che ho in mano gli do una sventola che lo uccide. Il negoziante mi grida dietro qualcosa, e in effetti ho in mano una specie di coniglio rosso (o di topo grosso come un coniglio), che subito mi chie­ do dove diavolo ho preso, come diavolo si trova lì. Lo lascio andare, sebbene il negoziante mi dica di finirlo, e lo vedo tutto intento a salire verso una finestrina chiusa da inferriata, della cantina, suppongo. E malconcio, ma non direi per morire.

Qui, se qualcuno non mi aiuta, con questi sogni non ne uscirò, non riesco a interpretarli. Intanto li racconto a me stessa, è già qualcosa. L’esperienza più angosciosa della mia vita l’ho provata quando mi sono trovata in trappola daU’otorino-laringoiatra: ricordo me vicino alla finestra e, ancora fingendo di non capire cosa succedeva, ho pro­ vato un tale terrore che, chissà, ho rischiato di buttarmi dalla finestra. Avevo già avuto l’operazione della perforazione del timpano, da più piccola: e anche lì, mentre la mamma in seguito mi faceva presente quanto avevo sofferto, io avevo in mente soprattutto il mio panico. Nel frattempo mi furono tolte le adenoidi senza che provassi né dolo­ re né paura, anche il liquido rosso che sputai non l’ho associato subito con il sangue. Lì non c’era stato nessun agguato, avevo cinque anni, forse mi rassicurava il fatto che ci fosse mio padre, mentre sia per

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l’otite, sia per la tonsillectomia c’erano mia madre e mia zia nel primo caso, e nel secondo un’amica di mia madre. Mio padre non resisteva a vedermi soffrire. Quando compariva lui mi sentivo rassicurata. Da allora ho sempre avuto il terrore delle operazioni chirurgiche, che sono state abbastanza frequenti nella mia vita. Anche quando mi sono operata di appendicite, da sveglia, stavo nel terrore, però in età di dominarmi; e poi, fuori dalla sala operatoria, mi aspettava mio padre. Quando ho partorito ero, senza ammetterlo, paralizzata di paura. La lettura del libro dell’Es mi ha messo sotto­ sopra. Sento affiorare la solita ansia: cos’è questo diario se non una continua giustificazione, un lavorio dell’intelletto, dov’è che mi sono abbandonata all’inconscio, dov’è? Sono piena di evocazioni. Mi di­ spiace enormemente che Tito sia diventato grande, lo vorrei ancora bambino, non me lo sono goduto abbastanza. Gemma, con l’aria di preferire delle seratine familiari con amiche affettuose e il figlio, ieri mi ha molto irritato. Non accetto ancora bene il mio lato bisognoso di affetto, di seratine calme e un po’ stupide, come quando guardo la TV con Simone, scontenta e nello stesso tempo impigrita di benessere. L’amica di mia madre mi ha teso l’agguato, e il dottore ha eseguito: quindi è stata mia madre a buttarmi sotto i ferri chirurgici. Io ero di quelle che desiderano coscientemente un figlio maschio. Dopo l’operazione ho sibilato al chirurgo “Assassino, assassino”, fin­ ché sulla porta è apparso mio padre, la salvezza. Tutto era già finito. Mio padre voleva un maschio e io ero una femmina. Però era or­ goglioso di me, quindi mi sentivo come se fossi un maschio. Poi è nata mia sorella, un’altra femmina, e lei è stata accettata. Più vezzosa era, meglio era. Mia madre mi ha consegnato a mio padre perché ne facesse scempio, dandogli un’altra figlia. La maschietta di papà ha vasto il papà cedere davanti a una mocciosetta capricciosa e seducen­ te. Non potevo più essere né maschio né femmina. Infatti poi sono andata in collegio e volevo essere “suora”. Ho preso a esempio suor Caterina, sono stata gelosa di lei come di mia madre e sempre a causa di una mocciosetta capricciosa e seducente. L’ho sognata per anni e a volte mi succede ancora in uno sdilinquimento amoroso. Avevo una curiosità spiccata per il pene, avevo visto quello di mio nonno e di uno zio. La mattina fingevo di dormire ed ero eccitatissi­ ma nel mio ruolo di voyeuse. Poi una zia ha deciso che non andava bene che io dormissi nella camera dei maschi. Aveva mangiato la

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foglia? A volte mi sedevo sulle ginocchia degli zii, forse anche di mio padre, e cercavo di sentire il loro coso. Un ragazzetto a otto anni mi aveva dato il suo affanno da tenere, oltre a ciò voleva mettermelo dentro. Al confessore avevo sintetizzato “Mettere il suo nel mio, il mio nel suo”. Sempre prima del collegio quel vecchietto al cinema con il suo coso molliccio e ballonzolante. Molliccio e ballonzolante era anche quello del nonno. Alla nascita del primo fratello maschio ho notato subito il suo affanno e ricordo di averci fatto dei pensieri. Questo sarebbe appena dopo la storia con il ragazzetto. Il ragazzetto partì e io subito ne adocchiai un altro, lui disse “La piscia si fa con la cicala”, a voce anche abbastanza forte. Mi spaventai dell’espressione e della probabilità che fosse poco riservato. Avevo paura che il mio segreto arrivasse non solo ai grandi, ma anche ai coetanei. Ho voglia di riandare al passato: che mi succede? Da un po’ non lo evocavo. Jung dice che la spinta all’incesto, alla congiunzione con il genito­ re è un archetipo della congiunzione con se stessi, un simbolo della realizzazione del Selbst. Allora il coito che è il simbolo dell’incesto (Groddeck afferma che ogni erezione è per la madre), è anche un simbolo dell’unione con se stessi. Questo archetipo, dunque, contiene il dominio dell’uomo e la soggezione della donna - cioè, nella realtà, ha dato luogo al rapporto fra i sessi che noi conosciamo. Ora, se que­ sto simbolo dell’inconscio collettivo perde il suo potere fascinatorio, l’erotismo può evolversi dallo stadio della proiezione incestuosa a uno stadio diverso. E la donna può liberarsi di un destino millenario. A che ci serve sennò la presa di coscienza degli archetipi? Rispetto ai sogni di stanotte. Il primo rappresenta il timore della mia castrazione sotto forma di pericolo di morte per Tito: ci sono Simone e mio pa­ dre rassicuranti, ma uomini cattivi sullo sfondo come loro doppioni. Nel secondo sogno la bambina che ha paura di essere castrata dal dot­ tore con la complicità della madre. Io le offro la bambola come mio padre aveva regalato a me sui due anni una bambola che cammina. Nel sogno le gambe della bambola sono molto evidenziate e grandi. Che poi tutte e due, madre e figlia, risultino mongoloidi, sta a signi­ ficare che sono entrambe mutilate della trascendenza (del pene). L’ul­ timo sogno mi è oscuro. Perché a Roma? Lì vivo con Simone: a Roma ho perso la mia autonomia senza accorgermene? Non mi soddisfa. Oppure, ho abbandonato le teorie sulla clitoride, però non accetto la

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vaginalità. Sì, dev’essere questo... Ma perché il negoziante mi mette in guardia contro il topone che ho in mano? Oppure, che l’immagine rimossa del pene fa sì che mi ritrovi un problema infinitamente più grosso fra le mani? Ancora sul secondo sogno. La bambina che non vuole andare dal dottore sono io che non voglio andare dallo psica­ nalista, e la madre, mettiamo queste femministe francesi, mi spinge ad andare. Io, come femminista, le do una bambola che si muove: la mia teoria sulla sessualità. Le do quello che trovo, la mia teoria è im­ provvisata. Poi scopro che figlia e madre sono mongoloidi, il rimedio non ha funzionato. Tito non può rappresentare il mio figlio ideale, la mia teoria che sento con angoscia che è in pericolo. Gli uomini cattivi possono essere gli psicanalisti che vogliono castrarmi della mia produzione mentale? Cara Sara, vorrei sapere un po’ di te. Io ho difficoltà di vario genere e mi pia­ cerebbe parlartene. Sto leggendo Groddeck e finisco per pensare a te: siete due persone insopportabili di cui non si può non avere presto nostalgia. Spero di non appartenere a quel genere di persone gradevoli, da cui però si è ben felici di essere lontani. Cara Valeria... la lettura di Groddeck e l’averti consegnato le mie poesie mi han­ no dato una spinta inaspettata. Finora, ho sempre scritto i sogni senza interpre­ tarli, adesso per la prima volta ci ho provato. Sono emozionata. E anche fissata, non faccio altro che lasciare correre le associazioni. E un divertimento unico. Naturalmente chissà quante resistenze ci metto senza saperlo. Devo leggere di più sulfinterpretazione dei sogni. Siccome sogno spesso e vividamente parto di lì... Secondo Jung congiungersi con se stessi è un archetipo, quindi è proiettato sugli altri, quindi dà contenuto al coito. Che confusione!

Viene a casa Simone e mi vede inquieta. E passata mezzanotte. Dice “Dimmi quello che ti viene in mente”. E io gli racconto i sogni. Dell’ultimo interpreta che ho paura dell’erotismo che mi si sta sviluppan­ do, temo che uccida il precedente: la finestra sbarrata è il mio tabù dell’omosessualità: sento un desiderio verso le donne di cui non so liberarmi e che mi angoscia. Mi è sembrato strano, ero lontana mille miglia dall’interpretarlo così. Mi è spuntato un risolino. Simone mi ha chiesto “Sei emozionata?”. Gli ho risposto “Mi Gene da ridere”, “Allora se ti fa ridere lasciamo stare, per me è molto serio, mi sento di­

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ventare rosso, sono emozionato”. “Ma anch’io lo sono.” Poi abbiamo fatto un po’ di amore in vagina, senza orgasmo e ci siamo addormen­ tati. Lui mi chiamava “amore” ed era dolcissimo, mentre quando facciamo l’amore esterno non si sdilinquisce così e siamo tutti presi dalle sensazioni del piacere fisico. Ieri sera mi sembrava che Simone mi spingesse verso l’omosessualità, gliel’ho detto, si è arrabbiato “Ecco che cerchi di scaricare il proble­ ma su di me”. Allora gli ho ripetuto che lui mi tiene segregata dagli uomini. Ribatte “Ma il femminismo l’hai voluto tu, la rottura l’hai fatta tu, sei tutta presa dalle donne, non te ne accorgi? Sennò saresti prigioniera loro, mentre non mi pare”. Stamani Simone mentre era in vagina ha detto “Avresti bisogno di un giovane perché io non ce la farei a farti godere se tu lo volessi”. Secondo Simone il topone o coniglio fulvo che ho sognato è un sim­ bolo femminile: è vero che nella poesia chiamo Paula “morbida pel­ liccia”, e quell’animale era tutto pelliccia. In più Paula si è fatta i capelli rossi ultimamente. Il mio terrore di sbagliare. Quando facevo la critica d’arte mi tor­ mentavo nella ricerca di valori genuini, autentici, ma pur orientando­ mi con semplicità, passavo l’intuizione al vaglio della dimostrazione più ossessionante, ero angosciata dall’idea di sbagliare. Con il fem­ minismo il mio Io ha preso l’aire, ha scavalcato ogni remora e ogni prudenza, si è lanciato. Quando è stato costretto a ritirarsi, ha dovuto abbandonare sul campo i segni della sua incoscienza. E io mi sono trovata costretta ad ammetterla. Sentivo l’errore meritevole di punizione come se, scoprendo gli altri la mia inadeguatezza a essere pensante, mi si rivelasse quello che non ammettevo, cioè la paura di essere castrata. In qualche modo ogni errore palese agli altri mi suscitava questa angoscia, sproporzionata con l’oggetto della prova. Dunque finferiorizzazione deriva dalla ca­ strazione, d’altra parte la castrazione viene inflitta per colpa, quindi inferiorizzazione e senso di colpa sono connessi. L’eccessiva minuziosità dei particolari che a volte mi dà fastidio, ma a cui sono legata, deriva dal bisogno di cogliere un messaggio che non immaginavo quale potesse essere né da dove potesse venire. Nell’incon­ scio, nelle sue figurazioni, i particolari sono estremamente importanti, racchiudono il significato più prezioso, e questo l’ho sempre avvertito.

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Il fatto di avere dato le mie poesie a Valeria mi ha messo in moto un meccanismo pressappoco così: lei avrebbe scoperto attraverso quelle poesie un qualcosa che ancora a me era sfuggito, e questo non lo sop­ portavo. Dovevo scoprirlo io stessa. Provo il bisogno di rivedere le mie operazioni chirurgiche. L’intervento per l’otite consisteva in lancettate sul timpano per provocare la fuoriu­ scita del pus. Mia zia mi teneva stretta perché l’otorino potesse lavo­ rare. Mia madre aiutava la zia e assisteva. Della tonsillectomia ho già parlato. L’appendicite è l’asportazione di un “codino” interno. A quel tempo ero convinta che se fossi riuscita a fare molta cacca, l’infiamma­ zione all’appendice sarebbe guarita. Dopo l’operazione ricordo che guardavo compiaciuta la mia produzione fecale che era veramente ab­ bondante, probabilmente a causa di un cibo di guerra pieno di scorie. Cercavo di riprendermi simbolicamente da un senso di castrazione? Il supposto carcinoma all’utero mi ha angosciato in un modo inde­ scrivibile nel senso che coscientemente mi ero messa a desiderare di fare un figlio prima dell’operazione. E lo volevo da mio marito. Ho vissuto un’angoscia gravissima che la tiroide ha sicuramente registra­ to. Infatti mi si era evidenziato un leggero gozzo che avevo da anni e, soprattutto, un nodulo alla base del collo. Ora Groddeck, che ha avuto il gozzo, dice che nel linguaggio dell’Es rappresenta il desiderio di un figlio per via orale. Quel figlio che non avrei più potuto avere dopo l’asportazione dell’utero? L’utero poi mi fu lasciato al suo posto e ricordo che, nonostante tutto, allora ero soddisfatta dell’awenuto baratto con l’asportazione della tiroide. Non ho difficoltà a dire che sono influenzata da Groddeck e, tramite lui, da Sara che lo ha apprezzato molto. 15 nov. Cesare è presente, sdraiato in poltrona, molto bello. Quando lo vedo è sempre il mio preferito, lo amo sempre. Penso che effetto farà a Paula seduta lì accanto. Ci accarezziamo delicatamente le mani. Poi Cesare si spoglia e resta in slip, va a tuffarsi in piscina, mi meraviglio che non sia imbarazzato e guardo con apprensione la sua nudità. No, non fa brutto effetto, è liscio, con sedere e gambe muscolose; discute animatamente. Mi viene in mente mio padre nella poltrona del salotto: io volevo salirgli sulle gambe, lui mi respingeva dicendo che gli sciupavo la

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piega dei calzoni. Certamente lo adoravo allora, ma sentivo che non era mio. Non raggiungevo il suo corpo, solo le sue mani. Ho sem­ pre avuto molto presenti le mani di mio padre. Era l’unica cosa che potevo toccargli. Nel sogno penso di fare bella figura con Paula e penso che così doveva avvenire un tempo quando mi pavoneggia­ vo vicino a mio padre. Magari mi pavoneggiavo proprio con mia madre. Nel sogno Paula resta in ombra, non la vedo, ma identifico così una persona che avverto lì vicino. Dovevo sentirmi in colpa con mia madre per immaginarla vendicativa al punto di consegnarmi al chirurgo per farmi operare in gola, per farmi togliere e buttare Ha due ovetti rossi in un fiotto di sangue. Avevo terribilmente paura dei ferri chirurgici, bisturi e forbici, del tremendo apribocca e della lucetta sulla fronte del medico con cui quello mi scrutava la gola. Addirittura del camice bianco. Per sentirmi così in colpa con mia madre dovevo desiderare svisceratamente di sostituirmi a lei. Provo una strana eccitazione sessuale in questo momento. Curiosamente all’imboccatura della vagina, come essere seduti su una ciambella struggente di sensazioni che si dilatano verso l’esterno, verso le nati­ che. Vado ad accendere una sigaretta. Fa parte delle mie eccitazioni sessuali immaginare di succhiare un seno femminile. Paula mi pia­ ce perché ha un seno grande, un po’ abbandonato, materno. Che strazio vedere Lucia attaccata al seno di mia madre. Adesso però sto divagando. Succhiare il seno è mangiare, quindi meno tabù di altri desideri sconvolgenti e inammissibili. Il seno della mamma era mio, poi lo prende l’altra sorella. Mentre il padre è della madre da subito. La madre è furiosa con me perché indovina i miei desideri: rivelerà tutto al padre e mi puniranno. Da piccolissima temevo che mi avrebbero operato all’ombelico una volta che in famiglia era stato osservato che era un po’ sporgente. Ricordo che scappai in camera terrorizzata, sicura che sarebbe stato così: una zia mi raggiunse e mi tranquillizzò, neppure molto a tal punto la mia previsione le sem­ brava irragionevole. Fortunatamente intuii la cosa. Però quella zia mi era sospetta perché era stata lei a tenermi ferma per l’operazione all’orecchio, e la mia sensazione era che i grandi tramassero contro di me. Altra paura: che mi operassero agli alluci perché rischiavo sempre di avere unghie incarnite. Qui era l’amante di mio nonno a fornire il pretesto ai miei terrori, guardandola pensavo “C’è qualcosa sotto, mi nasconde qualcosa”.

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Vorrei che mi telefonasse Valeria. Perché non lo fa? Non vuole ve­ dermi? Come le sono apparsa dalle poesie? Cos’ha scoperto? Anche Paula doveva chiamarmi ieri, non l’ha fatto. Mi evita. Rivivo la mia colpevolezza verso le donne. Il femminismo è un alibi per questo tremendo senso di colpa. Una sorellanza ideologica co­ pre un ignominioso segreto di rivalità frustrata, sconfitta: “l’altra” è sempre la vittoriosa. L’uomo amato è sempre dell’altra, l’amore è sempre un furto, un tradimento verso l’altra. Quella si vendicherà, non c’è dubbio. Per questo siamo così gentili le une con le altre, ci temiamo e ci esorcizziamo a vicenda. Ho passato una vita a giusti­ ficarmi, a sentirmi in regola, a scaricare da me ogni sospetto di col­ pa, a dargli dei motivi ragionevoli, anzi nobili. Quanto vittimismo, quante lacrime. Quando piangevo sotto il tavolo per la canzonci­ na sulla morte della mamma, cosa ho provato? Perché ho scritto “morte della mamma”? E la bambina che muore. Allora la bambina muore per avere desiderato la morte della mamma. Una si suicida non solo per estinguere in sé la sua colpa, ma per scaricarla sull’og­ getto della colpa? Soffrire da bambini, da giovani, da adulti per una beffa simile, uno scherzetto macabro, una tragedia amena che si svolge necessaria­ mente nel buio dell’inconscio, è pazzesco, assurdo. E tutto da ridere. Ecco perché il saggio ride e fa il matto. Una cerca la sua colpa chissà dove, ce la mette tutta, arriva fino all’eroismo, all’ascetismo, al suicidio. Pensa giorno e notte, si indaga, si tormenta, è esigente. Poi scopre che la sua vita è stata decisa nelle sue fantasie di bambina, fantasie inesorabili di cui non poteva sentirsi responsabile. E che a un certo momento, come sono venute, se ne vanno. Buon viaggio. Il sogno è finito, comincia la vera vita: gli adulti hanno deci­ so di ammetterla nel loro mondo pieno di certezze, di valori, di cose serie. Si accettano i traguardi degli adulti, ci si compiace di pensarli raggiungibili anche da noi. Finalmente. Mi sono spogliata dell’orgoglio fasullo, di un’enorme pena. Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli. Adesso ti sfido: vieni avanti, non ti resisto più, ti colgo al volo, non mi fai più paura. Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto. Mi sono sempre sembrati numeri perfetti 1 e 3, mai il 2.

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Quando faccio le mie cabale con i numeri delle automobili, temo barrivo del 2 come la peste. Il numero della femminilità. Non ho più paura di quello che posso scoprire di me. Non ho più un giudice a cui dimostrare la mia innocenza. E la clitoride? Faceva parte delle mie sporgenze? Oppure restando fi­ siologicamente staccata dagli organi del congiungimento - pene e va­ gina - funziona come un capitolo a sé stante dell’inconscio? Oppure rappresenta la base fisiologica di piacere - un micropene invisibile e mai nominato, perciò più irreale dell’appendice - che però permette alla bambina di considerare come pene altre sue sporgenze e di sen­ tirsi, contro ogni evidenza, provvista di pene? Perciò castrabile e, alla resa dei conti, castrata. La bambina è costretta a dimenticare la sen­ sazione di avere “qualcos’altro”: la clitoride, un pene invisibile. E lì, allo stesso punto del pene, è viva, sembra muoversi, dilatarsi, pungere, spinge ad appoggiarsi, strofinarsi, attira imperiosamente la mano, fa cercare luoghi nascosti, in ombra, fa frugare sotto le mutandine, fa re­ stare senza fiato dal piacere, fa chiudere gli occhi, fa andare in trance intanto che il dito strega voluttuosamente, ora veloce ora più adagio, viene voglia di sdraiarsi, di distendere le gambe, di dimenticare tut­ to, di concentrarsi in un punto incandescente, calamitato, frenetico, insaziabile che trascina in un volo affannoso che punta sempre più su, più su... Dovevo stare descrivendo la cosa come si deve perché mi sono sentita subito eccitata e ho fatto autoerotismo. E stranamente mi è venuto voglia di provare con la vagina. Ho sentito che, sfregan­ do forte, qualcosa succedeva, e precisamente nella parte superiore dell’imboccatura e immediatamente dentro, come un invito a conti­ nuare, come quando si è cominciato a grattare in un punto del corpo e poi viene davvero il pizzicore per cui bisogna continuare a grattare per calmare quella sensazione che si è provocata. Continuando a sfre­ gare ho sentito piano piano l’eccitazione risalire alla clitoride, finché, nonostante insistessi più sotto, era proprio la clitoride il punto più ec­ citato e reattivo. Così sono passata direttamente alla clitoride. Ora, lì ho scoperto un altro gesto significativo: di solito con la mano sinistra evidenzio la clitoride in modo da poterla raggiungere meglio. Questa la funzione pratica del gesto, ma quella espressiva è di carattere esi­ bizionistico, come dire “Guardate, ecco qua”, e sulla rivelazione di questo bisogno, ho avuto l’orgasmo.

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Dunque la bambina, vedendo il pene, non può non collegarlo a sue sensazioni di averlo avuto anche lei, visto che di fatto quello non c’è più, ma “qualcosa” c’è. Non so se l’ho letto, sognato, pensato un tentativo laborioso di con­ giungermi con mia madre. Mi viene in mente che forse la clitoride è connessa a immagini del ge­ nere di quella che ho sognato una notte scorsa. Infatti lì appoggiavo la mia pancia nuda a quella della mia madrina Lea. Ora, penso che madrina stia per madre e Lea è il mio secondo nome. Cioè può essere un gesto erotico che da bambina ho desiderato verso mia madre, e il suo significato sembra “fare l’amore con se stessa”, cioè masturbarsi. Oppure in senso lato amarsi, affermarsi in se stessa. La clitoride serve a quello. Naturalmente può essere un desiderio di omosessualità. E una gioia per me che mia madre mi dica al telefono che le scarpe prese insieme le vanno benissimo e ci sta veramente comoda, in più le piacciono come modello e come colore “né nero né marrone” nel gusto tipico di lei, e mi ha fatto tenerezza il riconoscimento che il guasto della TV era davvero colpa delle valvole, come avevo sostenu­ to io. “Fai più cose buone adesso di quando eri in casa, davvero”, e io mi sono sentita rispondere “Mi dai una gran consolazione”. Però devo subito leggere un libretto della Klein Amore odio e riparazione per chiarirmi un po’ le idee. Il libretto me lo dà Lucia. 17 nov. Torno in una famiglia che nel frattempo si è arricchita e ha ampliato la casa. Tuttavia li prendo un po’ alla leggera c parlando dell’educazione scolastica dei bambini, ripeto certe teorie sendte da un altro. L’uomo subito si mostra scon­ tento, mi fa capire di essere molto più avanti e, con mia vergogna, mi risulta con­ vincente. Ci sarei potuta arrivare anch’io, solo che avessi pensato con la mia testa. Gemma di Valeria esclama “Straordinaria! Che brava!”. Le ho chie­ sto “Perché brava?”. Ero irritata, non solo perché si trattava di Valeria e non di me, e nell’elogio sentivo una punta di rivalsa, ma perché pro­ babilmente io stessa le avevo trasmesso dell’ammirazione per Valeria. Paula ha una risatina nella voce quando mi parla. Mi riferisce sem­ pre cosa ha detto a un’altra: grosso modo applica con convinzione quello che le è risultato giusto su di sé a opera mia. Un po’ come si fa verso i genitori quando ci si mette alla pari e si parla loro delle sorelle con la stessa aria educatrice che si è assimilata dai grandi. Questo

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atteggiamento è tipico delle maggiori che tentano di mantenere un rapporto privilegiato con i genitori. Solo il fatto di avere sentito Sara molto balzana e personale mi ha evitato di cadere nella sua imitazio­ ne. Però per un periodo il suo modo mi suggestionava talmente che non sapevo più come essere nei rapporti. Anche Valeria è balzana e personale, io sono più “come le altre”. Ho scoperto perché i gruppi finiscono, perché a un certo punto sentire parlare non serve. A Ange­ lina non serve quello che le dico del mio rapporto con Sara perché lo troverà del tutto ragionevole e convincente, del tutto plausibile. Di lì a un secondo scoppierà in lacrime per un suo problema che addebi­ terà a un mio scarso interessamento nei suoi confronti e i sentimenti che la dilanieranno le sembreranno apparsi sulla terra con lei in quel momento. Non potrò convincerla che io ho passato altrettanto come appunto le avevo appena comunicato con minuzia di sensazioni e di particolari. Quando ero convinta di avere sofferto più di Sara non fa­ cevo altro che cadere in questo errore. Il mio strazio non aveva nome, non potevo credere che fosse lo stesso che avevo ascoltato da lei così ben composto in una serie di frasi intelligenti, coscienti, in un tran­ quillo pomeriggio come tanti altri. Quando era toccato a me il tempo si era fermato e in un silenzio assoluto solo i miei respiri potevano esprimere la mia angoscia. E mi sembravano così eloquenti! Una dice “Ho pianto tutta la notte, non ho dormito per dieci giorni, sono lace­ rata” e l’altra la guarda giudicando dal suo stato di benessere appena scosso da quelle frasi. Ma quando le lacrime cominciano a sgorgarle dagli occhi, le notti a passare attimo dopo attimo senza riposo, si chiede “Chi avrà sofferto agonie come questa?”, e non collega una parola di quelle che ha udito. Per fare il salto serve parlare, ascoltare è secondario. Serve scrivere, più che leggere. 18 nov. Per quanto abbia tenuto la borsa ben in vista davanti a me sul treno, pure devo essermi distratta se frugandoci dentro all’arrivo, non trovo né porta­ fogli né passaporto. Sono stata imprudente perché la borsa è a secchiello, così facile sfilare via il contenuto. E stata un’imprudenza, ma anche una stupida sfida. Raffaele era tutto felice di andare insieme ad Anversa, adesso il progetto è rovinato, è terribile. Siamo alla stazione, il treno per Anversa sta per arrivare, spero di trovare ancora ciò che ho perso da qualche parte, frugo ancora nella borsa finché vedo aperto uno sportello con uriimpiegata. Vado lì e le spiego la

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situazione: quello che mi preme è il passaporto per andare ad Anversa. Senza tante storie lei mi fa un duplicato, è così semplice, non ho difficoltà a essere cre­ duta. Adesso possiamo partire, Raffaele è contento come un bambino, saliamo sul treno, c’è anche Tito con noi e altri amici. Raffaele è stato bravo a volere questo viaggio, siamo riuniti tutti insieme. Adesso che conosco lo sportello e l’impiegata posso sempre andare lì, qualsiasi cosa mi succeda con il passaporto.

Paula è Leone come Marion. Sento lo stesso tipo di tenacia, di man­ canza di follia, buon senso misto a bonarietà e qualcosa di pedissequo: qualsiasi sciocchezza le fa sentire avventurose. Pensare che un’ami­ ca esperta di oroscopi mi credeva Leone! Angelina è Bilancia come Federica, un segno con suono ora metallico ora vellutato. 11 Leone è di gomma. Valeria è Vergine, ascendente Bilancia. Lucia è Bilancia, come Ester, come Sara; mia madre Vergine; mio padre Pesci come me. Passato troppe ore con Paula, momenti intensi, momenti di gran con­ fusione. Mi sta scoppiando la testa. Comunque non si possono ave­ re problemi in due perché ciascuna è sul suo binario ed emozionata all’interno del suo binario. Uscirne fuori, entrare in quello dell’altra, è una fatica e un disturbo. Il sogno di ieri è un richiamo a pensare con la mia testa: avevo esagerato con Groddeck. Con Paula mi perdo con facilità perché lei è troppo incerta e resta spesso a corto di sensazioni, così il contatto si stacca e io giro a vuoto. Devo dosare meglio il mio rapporto con lei, però sono attratta dal suo senso di calore e parteci­ pazione non fanatica. Sono di nuovo trascuratissima e assorbita al massimo dai rapporti. Sono ubriaca di transfert, contro-transfert e senza intravedere una via d’uscita. Tutte le amiche sono più confuse di me, salvo Sara e Valeria. 19 nov. All’alba mi sono angosciata: perché non ho dimora fissa; per­ ché è passata un’epoca della vita, quella in cui si ha il bambino picco­ lo, e non l’ho goduta abbastanza; perché è passata un’epoca della vita, quella in cui si va in giro desiderate dagli uomini, e non l’ho goduta abbastanza. Ho provato un acuto fastidio quando Federica mi ha detto di avere comprato un quadro a Ester. Da me ha comprato quadri di Simone. Dovrei diventare psicanalista perché quello che io do diventi un pro­ dotto che si paga. Ho bisogno di essere pagata. Le lacrime che mi si affacciano con facilità quando parlo di me, quando metto in luce le

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mie debolezze, volontariamente e inaspettatamente per le altre, sono perché mi commuovo di me, del mio sacrificio, del fatto che mi sento così buona, così maledettamente buona, altruista e modesta. Quando nessuno mi accusa, ma da me stessa accuso il mio Io - così ben riusci­ to, così sveglio e affascinante - di essere un’immagine fasulla. Non mi va di sentire parlare di Ester, non devo sapere niente di lei. Mi piace pensarla un po’ triste, invece dice che mi stima ancora, cioè fa la commedia a freddo. 20 nov. Sono arrivata. Vado incontro a Rita che mi aspetta con la madre e i figli piccoli. Le carezzo la nuca e sono molto affettuosa con lei. Cosa penseranno quel­ li che ci guardano? La cosa mi diverte. Andiamo a fare due passi: la madre è in at­ teggiamento tragico, ha un trucco incredibile - occhi cerchiati di nero, viso a stri­ sce ondulate come il tatuaggio di certe sculture africane - ha avuto un rovescio di fortuna, ha perso tutti i suoi beni, parla con lo sguardo rivolto al cielo. Che vuole? Soldi da me? Si sbaglia, nelle sue faccende non voglio entrarci. Restiamo Rita e io, è tardi, desidero raggiungere l’albergo. Lei mi propone invece di nasconderci dentro una specie di nicchia. Perché no? Mi sentirei più sicura in albergo, ma per compiacenza la assecondo. Frattanto nello stanzone su cui dà il nascondiglio, vedo preparare i tavoli come per una cena. Rita scende e si siede a un tavolo. La raggiungo. Ma devo essere stata imprudente perché subito qualcuno si avvicina e comincia a interrogarmi. Devo anche avere detto qualcosa di sbagliato perché quello mi ordina di seguirlo. E fatta. Sento che il cerchio si stringe. Sono dei fascisti, sudboli, provocatori, senza pietà. Potrei dire che sono fascista anch’io, fingermi dei loro, ma mi ripugna. Dico solo che da bambina, molto piccola, ero fascista, poi il regime è caduto e io sono stata educata diversamente. Mi si deride per i miei sforzi. Le prove sono contro di me. Ho dimenticato il passaporto nel na­ scondiglio, ma sono certa che lo sanno, mi lasciano illudere di avere quell’ancora di salvezza. Rita sembra protetta dal regime, ho l’impressione che non le faranno del male. Chiede una stringa per le scarpe da tennis, ma qualcuno, forse io stessa, la mette sull’avviso, anzi, che tolga anche l’altra stringa, per carità. Si affretta a eseguire. La tecnica fascista è torturante: sembra che ti diano delle probabilità di cavartela e subito, ridendo e sghignazzando, calpestano la tua speranza. Con un rampino il capo aggancia, tira giù e lacera un dipinto di Merz vicino alla porta. Bacio un bambino grassottello e quasi me lo mangio, sesso e tutto.

Merz (Schmerz) vuol dire dolore.

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Melarne. Klein: “Il sentimento di colpa nasce dalla paura inconscia di essere incapaci di amare sufficientemente e sinceramente gli altri, e... di non essere in grado di dominare gli impulsi aggressivi verso gli altri: è il timore di costituire un pericolo per le persone amate”.

L’impressione di falsità che posso provare verso persone che non sono molto importanti per me e verso cui mi sento ugualmente spinta da slanci di simpatia e quasi di tenerezza mi fa capire che in realtà rispon­ do al bisogno di espandere quell’amore che mi è rimasto inutilizzato e che, sotto sollecitazioni in genere di persone benevole verso di me, trabocca. Paula ha telefonato a Federica a Roma, dice “perché il tuo telefono era sempre occupato”. Non è vero, vuole rafforzare il suo contatto con Fe­ derica a proposito della casa editrice. E che ha sentito come un abban­ dono il fatto che io volessi fare uscire subito Autocoscienza nei libretti di Rivolta. Secondo lei, avrei dovuto aspettare che la nuova casa editrice esistesse per continuare le pubblicazioni. Il tutto perché ha trovato due libri inglesi da tradurre. “Egoista, crudele, senza cuore...” scrive Paula nel diario riferendosi a me. Quindi è vera la fantasia “dell’essere deru­ bato” anche quando, semmai, dovrebbe essere “del derubare”: Paula si era impadronita, mentalmente, di una cosa non sua, sentiva dei di­ ritti su Autocoscienza, quando gliel’ho fatto presente si è sentita derubata di tutto ciò che il possesso di quel diario significava per lei. Mia madre rifletteva su di me le frustrazioni subite da parte di ogni ge­ nere di donne forti (o irragionevoli). Per lei ero una donna forte già da ragazzina. Mi prendeva in giro quando mi mostravo vulnerabile, per rivalsa. Vorrei cambiare il nome di Rivolta Femminile. In che cosa? Dice Pau­ la “Semmai sciogliamo Rivolta e che ciascuna riprenda la propria in­ dividualità”. E una manovra per impossessarsi del diario di Valeria? Ma allora quella bambolina viva che desideravo e aspettavo di ave­ re da piccola rispecchiava il desiderio di sottrarre la sorellina a mia madre o di avere anch’io una bambina da mio padre? Riaffiorano vagamente delle sensazioni in proposito.

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La mia paura che il babbo morisse in guerra era paura per il mio de­ siderio che morisse? Papà era stato soldato nella prima guerra mon­ diale e ce ne parlava. Ore 1 di notte. Essersi riunite per concordare delle dichiarazioni da fare alla stampa sulla non appartenenza nostra a un gruppo che si firma come noi Rivolta Femminile è stato un errore. Rientravo nel ruolo seduta stante. Non devo riprovarci più. Mi sembrava di essere costretta a forza dalle altre a fare così; non una che prenda la parola, che si senta responsabile. Io avanti, e le altre appresso, ora critiche, ora d’accordo. Agata in silenzio. Alla fine risate liberatorie come in classe o a tavola con la famiglia riunita. Mi sento aggressiva verso di loro. Ore 2 di notte. Sapete che impressione abbiamo ricevuto dalla lettura del vostro comunicato alla “Conferenza internazionale dei partiti comunisti europei sulla condizione della donna” pubblicato dal “Messaggero” il 16 novembre 1974? Sgomento, in­ credulità, impotenza. Rabbia. E la certezza che avevate avuto fimpudenza di fare quella caricatura di Rivolta Femminile sotto il nome di Rivolta Femminile, considerando che l’avreste pas­ sata liscia, che non avremmo reagito, che non avevamo modo di difenderci. La rispettabilità femminista avrebbe dovuto vincolarci come la rispettabilità bor­ ghese o quella socialista. Ci siamo sentite giocate. Dichiarazioni, le vostre, il cui puro contenuto è l’autoinganno e il bersaglio ambiguo. Se non si vuole essere lette fra le righe non si fanno comunicati ai giornali! E tutto questo sotto il nome di Rivolta Femminile, a cui lavoriamo da cinque anni, a cui abbiamo dato una fisionomia e conquista­ to la fiducia delle donne. Siamo certe che avete contato sul fatto che il nome di Rivolta Femminile vi avrebbe coperto le spalle: bello avere una tribuna, anche piccola, ma integra da cui fare la voce grossa nel mondo politico! Comodo credere che l’indignazione basti a salvare la faccia! Possiamo analizzare parola per parola il vostro scritto e rivelarvi qualcosa che avreste scoperto da voi solo che aveste fatto autocoscien­ za. “Non esiste la condizione femminile. Non esistono i condizionamenti!” A non volerli vedere certo non si vedono... Sorelle dispotiche, che facevate assegnamento sulla nostra repressione, che ci pensavate inchiodate alla legge dell’omertà tra donne, non sapete che per noi

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femminismo è libertà di dire quello che sentiamo, su tutto. Naturalmente prefe­ riamo starcene nella dimensione più autentica per noi e a questa rettifica ci avete trascinate per forza. Non per amore. Per forza. Vi siete messe sullo stesso piano di Berlinguer, come se il femminismo fosse qual­ cosa che si può identificare nella ribellione all’uomo, anche se la scoperta di noi stesse attraversa quella fase o resta al di qua. Adesso lui crede di condannare il femminismo, ma quello di cui parla è un attimo nella strada della liberazione, tante sono le fasi, e il femminismo non resta preso dentro le scomuniche da una parte, le formule intemperanti dall’altra.

21 nov. Ester doveva essere punita per essere stata così carogna con me. Speravo che la sorte mi vendicasse. Lei se ne frega della verità, perché sa che non serve a ottenere dagli altri. Ed Ester intende strap­ pare tutto ciò di cui ha bisogno anche nel femminismo. Chissà perché me la prendo così a cuore per Rivolta. Ormai è un fatto di amicizia, ma quanta inimicizia tra le “amiche!”. Mi sembra di mancare verso di loro a sottrarmi: non sono io che devo rifiutarle, sono loro a dovere rifiutare me. Io resto a disposizione. A volte mi sembra di impazzire in una tensione insopportabile: almeno undici donne fanno capo a me, sento che questo risucchio mi inghiotte, mi travolge. Ognuna è più calma di me: ha la sua vita, lo studio, il lavoro, il divertimento. Io sono proprio inchiodata qui: il contatto con queste undici è diven­ tata l’unica mia realtà. E insisto perché vedo che a due succedono continuamente aperture che poi ciascuna emana da sé (eccetto nella paralisi del gruppo che di nuovo converge su di me). Però devo dosare meglio, evitare la mia stessa ossessione. Ma non posso trovarmi al centro di sollecitazioni tanto forti e restare equilibrata. Viene la sera, ho preso due Cephyl per il mal di testa, ho un senso di decompressione, tra poco tornerò normale. Vedo nel sonno un amico, plano dolcemente verso un senso di quiete. Tutta questa eccitazione per seguire e trattenere la rabbia entro confini accettabili è spossante. Ho sempre avuto l’impressione di rimuginare il dolore assaporan­ do ogni sussulto, esagerando fantasie negative fino a toccare il tasto fi­ nale “E finita”. Solo a questo punto potevo riprendere nuovamente contatto con la realtà, e magari accorgermi che si trattava di relativa­ mente poco. Penso sia un’abitudine presa da bambina: di fronte a un sopruso, a un’incomprensione dei miei piombavo nella disperazione più nera, nella rabbia più incontrollabile, e cercavo una Va di scampo. Ar­

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rivavo a dire, chissà “Me ne vado, muoio, non voglio più vedervi”, e poi la gioia di essere ancora lì, che tutto fosse avvenuto solo nella mia men­ te, mi faceva rientrare nella vita normale e dimenticare Podio per loro. 22 nov. Tutta l’importanza che ho dato e do ai rapporti umani na­ sconde anche una ricerca instancabile di persone da amare, con cui vivere quel rapporto di fiducia che da piccola è rimasto bloccato sul nascere. Fa parte di questo tipo di amore l’esclusività, che viene ne­ cessariamente smentita dagli avvenimenti. Allora subentra la vecchia aggressività verso gli altri, e la critica che è una forma per giustificarla ed esprimerla. Ma siccome proprio la critica, che è un metodo in fin dei conti realistico, porta alla scoperta che in qualche modo si è responsabili dei propri attacchi, si finisce per rivolgerli verso se stessi. Oppure si comincia da se stessi, se il bisogno di salvare l’altra persona è più forte. Infatti, se non ci si chiarisce il meccanismo, non ci si sente sicuri di amare o di avere amato. E mettere a riparo l’altra persona dalla propria aggressività diventa la prova che la si è amata davvero. Ma allora l’odio si rivolge a se stessi. Mentre ero da Fiorucci, dove ho comprato due cose strampalate, mi sono sentita molto stanca. Sono uscita a prendere un frullato. Poi sono venuta a casa dove, da Simone, ho avuto la conferma della scelta sba­ gliata. Allora ho fatto una scena da bambina, buttando tutto per terra, piangendo, gridando e sbattendo le porte. Simone era molto caro. Lo accusavo di non aiutarmi a comprare le cose per me, visto che servono alle sue occasioni sociali, quando non posso farne a meno. Adesso sono rilassata, ma molto fiacca. Ho avuto voglia di andare da mia madre. Scopro molte reazioni che avevo da bambina. Il mondo adulto mi sembra che non esista. Io come adulta non esisto! Ho vissuto e vivo un continuo stato di allarme sempre pronta a parare il colpo, interno non meno che esterno. Per fortuna Simone non si deprime delle mie depressioni. Per Raffaele invece erano insopportabili e contagiose. Simone mi fa sentire amata sempre e mi fa sentire che lui si sente amato sempre, nonostante la mia violenza. Ho telefonato io a Federica a Roma. Anche questa volta ha cominciato “Stamani ho parlato con Ester al telefono”. Non voleva dirmi che va a Torino per la sua mostra, l’ho intuito e le ho posto una domanda precisa. Non ha potuto eludere “Tra l’altro a Torino c’è una mostra

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di Ester...”. Adopra formule vaghe “Con la poca fiducia che c’è tra noi di Rivolta...” mentre prima mi considerava degna di fiducia. Mi dà entusiasticamente ragione sulle cose di poco conto con vero sollie­ vo. Un’altra che si ribella a me? E sempre durissimo. Devo uscire, di corsa, da questo zoo. Potessi rompere l’inganno che mi rende tutto così straziante. Potessi accorgermi che è un sogno come in realtà è. Mi ha telefonato Nicola da Roma. Le ho detto che sono pronta a spiattellare che il femminismo è sfociato in una bolgia di rivalità. Per­ ché la facciata edificante che cerchiamo di mantenere con l’esterno è una menzogna insostenibile. Adesso vado fuori con Simone a sceglie­ re qualcosa da mettermi addosso. In un bel negozio di borse chiedo di una “Quant’è?”, “Due e sessanta”. Simone dice “Prendila, è una bella borsa”, anche lui non aveva ca­ pito il prezzo. Io non mi ero accorta che la borsa era di coccodrillo a strisce, colore ruggine. Chiarito il prezzo, Simone chiede un po’ im­ barazzato “Non fate sconti?”, e tirano giù ventimila lire. Io mi sento male, vorrei scappare a gambe levate da lì dove pensano che io possa anche solo desiderare di spendere duecentossessantamila lire per una borsa. Simone mormora “Se ti piace, prendila”. Ne ho presa un’altra, a sole trentottomila lire, un’enormità nella mia ottica normale, niente lì dentro. Non ho più voluto girare per negozi troppo belli, dovrei cambiare tutta la mia vita per mettermi un cappotto di quelli, non solo le scarpe, e il pullover, la tintoria, ma tutta la mia vita. Ho capito l’errore - intanto litigavamo per quelle strade con donne benvestite nella trasparenza dei negozi - finché ho detto “Basta”, ho girato i tacchi e me ne sono tornata a casa da sola. Capricci, dolorosi capricci come quando ero bambina, ma allora non avevo spazio, adesso ce l’ho, posso fare i veri capricci senza control­ larmi affatto. Quando Simone è rientrato, gli ho buttato le braccia al collo “Stai prendendo un brutta piega” mi ha detto. Però mi ha subi­ to abbracciata e si lasciava baciare. Scherzava “Proprio a me doveva capitare”. Ma non avevo dubbi su di lui, non un dubbio. Poi fase trionfale. Telefona Federica da Roma con voce di sempre; da Torino telefona Felicita (aveva parlato della morte con la nonna di novantadue anni tra un cioccolatino e l’altro), e poi un’altra che ricordo appena da una lontana riunione. Sempre per il comunicato alla stampa. Allora ho sentito che Rivolta Femminile ha un senso, che

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esistiamo nella buona volontà, che superiamo ostacoli tremendi, che piano piano si crea una coscienza, una condotta diversa. Ecco come sono fatta: adesso mi sembra tutto a portata di mano, l’intesa fra noi e il trionfo della verità. 23 nov. Mi sono girata è rigirata nel letto fino a tardi. Il pezzo di ret­ tifica sul “Messaggero” costa centosettantamila lire. Vanda ci ha gio­ cato e può ben ridersene di noi. Capita anche nel femminismo che una donna incapace non solo di autenticità, ma di pura e semplice correttezza, crei dei soprusi pazzeschi. Non mi sono mai sentita tanto brutalizzata nel mondo maschile, neppure tra critici d’arte si arrivava a questa spregiudicatezza. Vanda non sa che sono stanca di lei e del suo femminismo idiota! All’inizio era con me ed Ester e insieme ab­ biamo fatto il Manifesto. Questi i fatti, ma che significano? Vanda aveva trovato in me una fonte di idee e contemporaneamente una donna schiva. Si è appiccicata a me e ha preso tutto quello che poteva per pavoneggiarsi con gli uomini, con le compagne ignare. La stampa ha anche individuato in lei la leader di Rivolta Femminile! L’ha scritto. Noi abbiamo subito. Vanda ha fatto casini vari, noi abbiamo subito. Finalmente è andata a pubblicizzare la storia sul sesso, appena uscito il mio libretto, in una circostanza di riunione politica. Allora abbiamo scritto che lei non solo non era leader, ma neppure di Rivolta Femmi­ nile. Zitta per due anni. Quando abbiamo letto su “Effe” l’indirizzo di una Rivolta Femminile a casa sua, abbiamo fatto una smentita, ma a “Effe” ci hanno risposto che non si trattava di un errore o di un vecchio indirizzo: un gruppo con questo nome esisteva e aveva lì il suo recapito, da Vanda. Abbiamo lasciato stare. Fra l’altro è impossibile trattare con lei o fidarsi di quello che dice: non ha mai voluto chia­ rire la sua posizione con noi, è sempre sfuggita. Adesso il suo colpo di mano: riprende i vecchi paradossi di Rivolta Femminile in modo “estremistico”, irragionevole e non più paradossale, ma patologico. Convinta di dare un messaggio, ne dà un altro. Convinta di testimo­ niare il suo disprezzo per gli uomini e la sua dedizione alla causa delle donne, manifesta invece la sua profonda rivalità con le donne di fron­ te all’uomo da conquistare con l’ostentato rifiuto, insomma la parti­ colare astuzia di questo processo inconscio travestito. C’è l’astuzia della ragione, ma c’è soprattutto quella dell’inconscio che si procura i suoi sbocchi. Così mi sento schiacciata da Vanda, che non capisce

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i suoi problemi ed è spinta irresistibilmente sulla strada di Rivolta e in modo pubblico, clamoroso; tanto per giustificare il suo mettersi in mostra ha l’ottimo alibi femminista - intervenire per il bene delle don­ ne! - mentre in realtà prevarica proprio quel gruppo che le ha fornito Tabe del suo ragionamento femminista. Nelfintervento sul “Messag­ gero”, gli echi del nostro Manifesto e di Sputiamo su Hegel costituiscono ancora la trama su cui Vanda ricama la involontaria confessione del suo attaccamento al buio della coscienza. E in questo si pone da se stessa fuori di Rivolta, che è autocoscienza (cioè femminismo). Non si può subire una violenza e dormirci sopra, è terribile. Al telefono Nicola mi legge per intero il pezzo di Vanda e del suo gruppo che finisce così “Attraverso feccitazione e la sensualità le no­ stre vite diventano rigogliose e... Siamo l’unica vera forza demolitrice della società civile”. Mi sento male un’altra volta. Questa irruenza, ignoranza, sragionevolezza ha fatto pensare che la donna non potesse raggiungere alcuna lucidità. E una forza della natura, certamente, ma allora la parola è di troppo. Provo per Vanda un’avversione dolo­ rosa. Non posso non rispondere all’odio che mi ha comunicato con un gesto di strafottenza, compiuto furtivamente sotto un nome che mi è caro, che mi illudevo di riuscire a proteggere da fraintendimenti, che volevo con un significato preciso agli occhi di tutti. 24 nov. Parlo continuamente al telefono con David (e Felicita). E una faccen­ da complicata, gli riferisco anche frasi che mi dicono altri lì attorno, mi sfugge il senso della conversazione con lui. Finché, a un certo punto, intuisco che ha interrotto e se n’è andato. Mi chiedo perché non sono stata più attenta a non irritarlo, a non abusare della sua gentilezza: forse l’ho chiamato che stava lavo­ rando oppure era a tavola. Sono in casa e intravedo Claudius che con qualcosa addosso - un accappatoio? passa correndo e ridendo davanti alla mia finestra. Allora è nelle vicinanze? Che strano! Sono contenta. Dove sta andando? Come raggiungerlo? Salgo su un pendio di terra bagnata in campagna. Ho paura di sporcarmi i pie­ di, non ho messo delle vere scarpe, ma degli infradito; il piede rischia di scivolare fuori e di infangarsi. D’altra parte, che scarpe mettere? Non troppo pesanti che soffocano il piede nudo; piuttosto leggere, scarponcelli sfoderati, che servano solo a creare una protezione.

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Ero stata a una inaugurazione di Simone a Parma con Paula. Carino, non so, passabile. Però un lato di cortigianeria non me lo toglie nes­ suno. Semmai avevo nostalgia per la mia attività di critica con gli amici (i sogni con David e Claudius). Il fatto di vestirsi dipende da cosa vuoi dire agli altri di te. Un artista è fantasioso perché vuole dire agli altri “Sono fantasioso”. Un direttore di banca è serio perché vuol dire agli altri “Sono una persona a cui potete affidare i vostri soldi”. Io cosa voglio dire agli altri? “Sono una donna, però ho qualcosa di più importante del vestire per la testa”, e, certo, “non faccio parte delle signore borghesi.” Nel suo diario Valeria, a pagina 5, dice che deve difendersi da qual­ cosa dentro di sé. Ho tanta voglia di piacere alle persone che poi mi punisco facendo con loro un po’ di autolesionismo. Oppure sento ancora il gesto di aprirmi come autolesionismo quando non è ricambiato! Se è ricam­ biato lo sento un gesto di coraggio, ne sono sollevata. Da Matilde mi sono sentita a mio agio. Suo marito è disponibile, forse più di lei. Quindi OK. Però avvertivo il solito irrigidimento leg­ gero delle giunture che culmina in quello della spalla e del gomito per cui mi tremano un po’ le braccia, e una respirazione alterata, con scarsa espirazione, che mi toglie il respiro nel bel mezzo del discorso. Adopro l’accorgimento di tossire per liberare l’aria dai polmoni e riprendere. Anche il cuore va troppo svelto e contribuisce a togliermi il fiato. Devo scoprire come funziona e liberarmene. 25 nov. Ho smarrito l’anello del mignolo, quello hopi, con il dio della pioggia o della guerra, non ho mai appurato. Chiedo alle amiche in un luminoso sotter­ raneo, mi pare di scorgerlo per terra, ma niente, è smarrito. Descrivo com’è fatto nella speranza piuttosto assurda che qualcuna sia in grado di rifarlo. C’è un appartamentino luminosissimo molto in alto, come una mansarda.

Quell’anellino ho sempre temuto di perderlo, anzi l’ho perso alcune volte, ma l’ho sempre ritrovato. Adesso ero arrivata alla conclusione che non avrei potuto perderlo più. Tutta l’umanità è malata prima della liberazione, anche quella parte che somiglia di più alla “normalità”, che addirittura la incarna. L’au­ tocoscienza è anche la meta degli zen. La psicanalisi divide ancora

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l’umanità in sani e malati, crede a una normalità senza autocoscienza. E funzionale alla società più che liberatoria. 26 nov. In treno da Torino. Perché, quando le amiche mi sottopongo­ no un loro problema che implica, mettiamo, senza dirselo, la gelosia, io porto subito l’esempio di me e della mia gelosia in un caso simile al loro e spiattello tutto? Voglio dire “Se tu pensi che io non la prova, t’inganni, non credere che ne sia immune”. Non sopporto di essere sentita al di sopra. Come dice Eugenia “Per me il tuo sguardo è come quello di Dio che mi penetra dentro e sa tutto di me”. D’altra parte è proprio questa allucinazione che la mette in crisi. Ma per me è durissimo. Sono loro prigioniera non meno di quanto lo siano di me. E possibile liberarsi senza il transfert? Valeria suppone di sì, io sono certa di no. Sono rele­ gata al ruolo di psicanalista non essendolo. Mi sono liberata di straforo, cercando di non disturbare le altre. Come quando si ha l’insonnia in un letto dove dormono altri e ci si gira cautamente per non svegliarli. Op­ pure come una che ha partorito da sola, cercando di non fare rumore e di trattenere le sue grida perché le altre arrivassero al momento del parto senza perdere prima il loro coraggio. Nell’impresa ho schiacciato un po’ il mio bambino, così ci mette del tempo a trovare tutto il suo vigore. A volte mi chiedo “Ce la farà come gli altri? E come gli altri?”. Penso spesso “Se Dio mi vedesse, capirebbe perché agisco così”. Dun­ que ho ancora in me l’investitura di mio padre. Non penso mai che una donna possa riconoscermi per questo: né le sorelle (perché sono prima dietro, poi davanti a me), né la madre (perché non capisce). Giovanni Battista non si sentiva il figlio prediletto, allora compiva la volontà del padre aprendo la strada al figlio prediletto. Cosa ne ha ricavato? Castrazione e morte. Ma anche il Cristo è stato ucciso. Però il Battista è morto da moralista, il Cristo da uomo. Entrambi in alter­ native patriarcali. Valeria dice che alle prime poesie si è commossa e ha pianto. In segui­ to si è sentita distaccata, pensava “Sì, è vero”, ma non provava niente. Le trova contemplative. Questa volta non ho avvertito dolore, non ho avuto nessun sintomo di tensione. Le sorelle le sento destinate a salvarsi per mezzo mio? Ciò significa che mi sono assimilata a mia madre: ho voluto prendere il suo posto e rendermene degna. Per questo non posso aspettare da lei nessun ri­ conoscimento. Il mio è anche un atto di espiazione nei suoi confronti.

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27 nov. Nicola mi raggiunge in campagna con suo marito. Le mostro delle piante di peperoncini nani cresciute a mia insaputa. Ma un rametto è staccato, lo tocco e mi resta in mano. Lei è molto integra e sorridente. Sono per strada e vedo in lontananza un poliziotto che lancia un oggetto avvolto in giornali. Mi rifugio istintivamente in un negozio di merceria: sento un boato, era una bomba. Ho paura, sono in trappola, mi prenderanno. Il negozio è mi­ nuscolo, con delle ragazze, ha il retro a corridoio. Sto appoggiata a una ragazza seduta, le braccia sulle sue spalle, fronte contro fronte e mi accorgo che è un atteggiamento compromettente che ho già avuto in passato. Salgo una scaletta e mi trovo in una stanza-vagone ferroviario dove vedo mia madre seduta con altri. E in un abito verde pallido di chiffon fantasia con le spalle scoperte, ha una spallina tutta arricciata. Le vado vicino e le distendo la spallina. Penso che è ancora abbastanza giovane, sui sessanta, intuisco vagamente che è vedova. Appena aggiustata la spallina, si alza un hippie da un sedile lì vicino e con una specie di rossetto le fa dei segni su una spalla. Temo che si approfitti di lei e la prenda in giro. Lei è tranquilla, forse non se riè neanche accorta, però si volta e lo hippie spiega il soggetto del disegno interrotto “E un topolino che...”. Una ragazza lì vicino si scopre molto quando dice “Ali, è un messaggio (o il ritratto) di Nino?...”. L’altro ribadisce che si tratta di un topolino.

Felicita è castrata, Eugenia è castrata (se riè andata da Lacombe Lucien quando lui spara a un uccellino), Paula, Matilde, Angelina, Germana, Irma... dio mio, tutte, tutte lo siamo, eccetto Sara, Valeria. Che eca­ tombe! Ecco perché mi sentivo “simile alle altre”. “Sono” simile alle altre! Sorelle, ho avuto paura come voi. Ne sto venendo fuori. Vi amo, non è un sogno. Ho seguito me stessa: ero sola, qualcosa di così sospet­ tabile mi stava trascinando, me stessa, ma Fho seguita. Così diverso dal canto di gioia, dall’innamorarsi di sé. Odiarsi non è la parola, compiangersi semmai. Perché mi è stata tolta la vitalità, strappata via. Inferta la ferita della sofferenza. L’aggressione che non va più all’esterno, ma gira verso di sé come un boomerang. 28 nov. “Ci sono arrivata da sola.” Mi sveglio su questa frase. Arri­ vata a un punto fermo.

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Sono con delle amiche e faccio un’osservazione negadva su Lorenza. Ma lì vicino c’è suo marito, che subito la giustifica “E svizzera, va capita”. Mi pento di essere stata incauta, era prevedibile che lui fosse lì vicino. Torno sui miei passi. A un tratto sento dentro di me la certezza che Lucia non ha avuto niente di niente dalla vita, che è stata paralizzata da me troppo invadente, è rimasta bloccata nella sua timidezza. Vedo il suo viso triste, provo una pena enorme e mi chiedo come ho fatto a pensarla come rivale. La signora Tal dei Tali è furiosa conuo di me perché sa tutto fra me e suo marito. Sono terribilmente colpevole, è uno scandalo: come ho potuto fare una cosa simile o almeno come ho potuto non riuscire a tenerlo segreto? Un tale mi sta dietro, mi fa la corte, forse mi sono impegnata con lui, forse devo sposarlo, ma è un estraneo. Come ho potuto?

Posso essere aggressiva con l’uomo perché lo amo, mentre non posso esserlo con la donna perché temo di non amarla e temo che lei non mi ami, e non voglio ammetterlo. 29 nov, Qualcosa è stato visto e capito attraverso gli occhi. Faccio uno sforzo tremendo per superare l’enigmaticità di questa sensazione a cui al risveglio ho dato un’enorme importanza e da cui mi aspettavo molto. C’era una figura ma­ schile sconosciuta il cui sguardo risolve il mistero. Una figura molto vaga con ciuffo biondo e grandi occhi chiari, bulbosi, acquosi. Cara Valeria, in treno, al ritorno da Torino, ho avuto la certezza che il Battista è una figura-chiave per me. Un particolare me l’ha confermato. E tu sei 1unica persona a cui ho espresso questo tema. Ha avuto un effetto liberatorio su di me. Attenzione al transfert, comunque! Ho letto una frase di Freud dove parla della “maledizione del transfert”. Anch’io sono convinta che non si sfugge, che nei rapporti coesistono un’esigenza ragio­ nevole e una irragionevole. E ci deve essere qualcuno che si presta a sostenere quella irragionevole. Magari perché l’altro sostenga la sua. Fammi sapere qual­ cosa. E mio dovere aiutarti (per il libro) visto che sono responsabile della collana e, tutto sommato, ne traggo gratificazioni.

30 nov. Un uomo mi deve sparare e uccidere. C’è una logica a cui non si scappa.

Lo stesso io ricorro a espedienti, però alla fine mi scarica addosso un sacco di colpi: sono a terra tutta rannicchiata e accetto di morire.

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Il sogno è stato lungo, intricato, con un alternarsi di suspence. Mi sem­ bra di ricordare che a un certo punto ho fatto perfino assegnamento sulla pietà del mio persecutore, naturalmente ingannandomi. L’azio­ ne si svolgeva a Firenze. Sono delusa di non riuscire più a metterlo insieme, sebbene fosse nitido quando l’ho sognato. La cosa strana è che non sono sicura di come è andato a finire, non è mica detto che l’abbia fatta franca. Mi è venuto subito in mente il sogno di tre anni fa, detto “di Lenin”. Un’eco del sogno l’ho avuta quando sono uscita. Mi sentivo felice per strada, ho comprato una valigetta di cartone per portare a spasso i miei scritti che finalmente batterò a macchina e darò alle amiche. Dalle auto sentivo partire sguardi maschili verso di me ed era piace­ vole, divertente. E lì che mi sono accorta di canterellare a bassa voce, ma con gran sfavillio di suoni e di misteriose orchestre “Caballero de la muerte, caballero de mi vida...”. 1 die. Quando una donna mi prevarica sono paralizzata dal senso di paura, di ansia per quello di cui è capace. La negazione di me da parte di un’altra diventa una fonte di castrazione per me: mi strappa quella verità che mi dava il senso della mia completezza. La madre esibisce una falsa completezza, è una ladra, la sua vagina è una trappola per prendere all’uomo quello che lei non ha e di cui intende fare mostra. Ester trovava la sua completezza nella pittura; io ero inchiodata dalla curiosità di capirne l'origine. Poi l’ho vista: appropriazione, castra­ zione dell’altro, impudenza di attribuirsi un pene (fallo). Bisogna superare il complesso di castrazione, non continuare nella minaccia reciproca o nell’inganno reciproco. Il pene non c’è, la don­ na con il pene non esiste. 2 die. Nei diari ho Usto una espressione che non ha bisogno della finzione del pene: parte dalla scoperta di sé, dalla liberazione dal complesso di castrazione. A un’amica non meglio identificata strappo l’abbottonatura della camicetta e cerco freneticamente il seno, pensando nel frattempo “Sto perdendo la testa, meglio così”.

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Mi sono svegliata con delle sensazioni ansiose e pensieri di questo genere: che tristezza vedere un’altra al mio posto attaccata al seno di mia madre, che sconforto e che rabbia per la piccola che mi usurpa­ va! Sono ricordi di attimi, ma quanto lancinanti. Mi sono trattenuta dal buttarmi sulla mamma e sbattere a terra la sorellina. Mi sono trat­ tenuta, con una minuscola diga ho arginato l’oceano. Piangevo alla storia di Peter Pan, non potevo ascoltarla, non potevo pensare a un tale dolore: Peter Pan torna e trova la madre con un altro bambino. Ero stata a casa di un’amica che ha un bebé di dieci giorni, l’avevo vista allattare, avevo visto bene il capezzolo tra le labbra del bebé che 10 succhia e ci mette tutta la sua vita, avevo visto come si appoggia al seno e come si allarma passando da un lato all’altro e come la sua bocca cerca disperatamente il capezzolo e come si distende appena ce l’ha in bocca. Ho subito provato nostalgia di un bebé, mi sono sentita stupida a non avere allattato Tito, ad avere pensato sempre a altro mentre lui era piccolo, ad averlo affidato a destra e a manca, adesso a continuare a lasciarlo solo. Ci vorrebbero due vite per ogni donna: una con la maternità e una senza. Stamani pensavo che il pene per me è anche un capezzolo: all’atto pratico io mi sento molto più conciliante con il pene-ciuccio che con 11pene in vagina. Stamani ero malinconica nel sentire questa nostalgia della maternità e insieme questo addio alla maternità, la sensazione di averla vissuta sempre nella sofferenza per l’irrealizzazione di me e per il rappor­ to sbagliato con mio marito; adesso potrei essere una madre serena, ma forse anche in questo m’inganno, il tempo esistenziale lo passo concentrata su me stessa e insofferente a ritmi imposti dagli altri. La maternità è vivibile per me come l’ho vissuta, senza continuità. Ero malinconica perché avevo letto che per la donna lo scopo dell’analisi è di accettare la propria femminilità, cioè questa schiavitù, questo orizzonte, questo aut-aut: castrazione o pene ùnto, mentre per l’uo­ mo è di superare l’angoscia di castrazione. Ho avuto netta l’impres­ sione di come, da piccola, mi sembrasse soffocante essere donna, non saprei dire quando, però l’ho provato un’impressione simile a quella di pensare alla morte, che finisce tutto, è tutto inutile. Mi rimetto alle mie dissociazioni, doppie vite, riuscirò a sfuggire alla salute, spero.4 4 die. Sono a Firenze.

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Insieme al nonno, travolta da un’emozione indescrivibile: lo abbraccio, mi strin­ go a lui, gli dico con immensa effusione “Ti voglio tanto bene, nonno, nonnino, ti amo tanto”. Non riesco a staccarmi e sono completamente felice.

Ogni tanto provo nel sogno questi trasporti irresistibili, indicibili, che non esistono nella vita adulta, e che danno la misura di ciò che era la passione infantile. I primi tentativi di espressione fatti da piccola li ricordavo come “no­ iose correttezze”, convenzionalità, mentre rileggendoli adesso li tro­ vo soddisfacenti in quella storia di me che è ormai storia della mia espressione. 5 die. Nei gruppi femministi si è ricreata l’illusione del rapporto di identificazione a due, poiché nell’altra donna si ripresentava l’imma­ gine della madre. Infatti ha funzionato dove la figura paterna è stata esclusa e esautorata. Dunque il gruppo è un artificio e nello stes­ so tempo una situazione reale che permette alla donna di prendere coscienza della madre. Da mia madre ho ottenuto questi dati: che fino a due anni ho dormito nel letto coniugale dalla sua parte e non volevo saperne di stare nel lettino che mi avevano comprato. Che dopo lo svezzamento avevo preso l’abitudine di ciucciare la lingua tenendo una mano sul seno di mia madre e cercando il capezzolo. In seguito ho mantenuto l’abitudine di ciucciare la lingua e questo lo ricordo perché mi accadeva ancora da ragazzina. Che nell’estate seguente il secondo anno di età sono stata un mese dalla zia Lea e dallo zio Beniamino: chiamavo la zia “la mamma di campagna” per distinguerla dalla “mamma di città”. Una volta ho dichiarato con or­ goglio di avere “due mamme”. E stato al ritorno di quel viaggio che mi sono buttata dal finestrino del treno per dire a mio padre “Ti ho pensato tanto”. Lucia non era ancora nata, nacque nell’ottobre. Non ricordavo affatto di avere posseduto da piccola dodici tra bambole e bambolotti. Non ero molto ubbidiente alla mamma, a volte mi man­ dava nel gabinetto della donna di servizio. Mi piace trattare i genitori come mia esclusiva, provo per loro violen­ te irritazioni e bisogno di essere coccolata e di coccolarli. Ma stare in casa mi crea una continua tensione. La mamma, al solito, si lamenta del babbo, però poi si rimangia quasi tutto, e questa proprio non glie­ la perdono perché, non solo non mi libero del mio risentimento per

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lui, ma in più ci aggiungo quello di lei e per lei. Però poi è tutta presa dal concertare e preparare un menu che mi piaccia, si diverte a uscire con me, ad andare nei negozi, vuole subito ricambiare il più piccolo regalo, fa delle confidenze, delle ammissioni, e io mi sento piena di tenerezza per lei, l’abbraccio come una bambola (è molto più piccola di me), sebbene mi faccia un po’ paura perché è così incapace di farsi coinvolgere e scaldare da me. Ma in definitiva non m’importa: mi piace, senza parere e senza prevaricarla, darle attenzioni, tempo, disponibilità. Amore. L’identità si manifesta soggettivamente e oggettivamente come sensa­ zione di autenticità. Si rivela come espressione di autenticità. Questo mi pare non venga tenuto in considerazione dalla psicanalisi. Oppu­ re i malati mentali sono quelli a cui non basta questo filo d’Arianna per liberarsi, e hanno bisogno della cura. È poi vero? 6 die. Non provo più il bisogno di commentare per iscritto una sera­ ta, un incontro, un comportamento. Vorrei che gli altri non avessero miti, ma soffro se hanno dei miti che non sono io. Tina fa con me un pezzetto di strada nella sera, però finisce troppo presto e la rivelazione attesa non si verifica. Mi meraviglia accorgermi che con le dita di una mano mi è arrivata all’inguine in un gesto abbastanza compromettente. Mi limito a toglierle la mano - anzi, un dito in particolare - che poi trattengo con­ fidenzialmente nella mia mentre continuiamo a parlare come niente fosse e io sono interessatissima perché capisco che vuole dirmi un segreto molto eccitante.

Nel pomeriggio ero uscita con mia madre e le prendevo una mano come si fa tra amiche affettuose. Tina l’ho sempre pensata nel ruolo di madre. 7 die. Mi ha colpito questa osservazione della Riflet-Lemaire nella sua Introduzione aj. Lacan: “Partendo dalle premesse secondo cui l’analizzato, vittima della rimozione, for­ mula su di sé e sui casi della propria esistenza un discorso fallace, l’analista non presterà alle narrazioni storiche che un orecchio distratto. Tutto sommato, poco importa... la realtà o la non-rcaltà degli avvenimenti”.

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8 die. Schettinando mio marito mi raggiunge velocemente su una strada. È vestito come un militare dell”800, tipo Vronskij d tìY A n n a Karenina, diciamo in rosso e blu. Mi lascia, e dopo poco torna, ubriaco, facendo strani saltelli sui suoi schettini e strane giravolte, con viso alterato, doloroso, nostalgico. Un viso mai visto, un viso messo a nudo. Così lo immagino e so che è, così avrei voluto che mi si mostrasse, e avrei voluto e vorrei riuscire a mostrarmi io. Così ho cercato tutta la sera con David e Felicita di fare apparire il mio vero volto, ma mi sentivo un po’ da operetta e con evoluzioni assurde. C’è una storia complicata fra amiche, e poi Regina, molto polemica, affaccian­ dosi dalfinterno di una casa in costruzione mi annuncia che ha deciso di co­ struirsela da sé, appunto, la casa. Provo per lei una certa ammirazione: che tipo deciso, pratico. La vedo vestita di bianco nell’inquadratura della finestra con vaso ostile, in mano mestola e cazzuola. Una piattaforma mobile la fa sparire nel buio dell’interno. Resto interdetta, comunque io sono fuori all’aria aperta, meglio così.

Se non posso farlo io, non potrà farlo nessuna donna: non potrei farlo in quanto donna. 9 die. Ester, senza essere invitata, viene a una mia festa. L’affronto, e le dico chiaro e tondo che non desidero vederla. Lei ribatte, io ribatto, sono molto decisa. Appare irritata, il suo argomento base è “Come faccio per le relazioni pubbli­ che”. Proprio qui la volevo, la sfacciata. 10 die. Eccomi a Roma. Non mi guardo nemmeno in giro. Ho te­ lefonato a Nicola, ho visto Federica. Tito magro, bello, si lascia ab­ bracciare e baciare come un bambino. Ma ormai è grande, e io sono tornata ragazza, non cederò più questa mia condizione di vergine nubile. Se per adesso mi sento oppressa qui a Roma, so che sono li­ bera, io e mio figlio siamo due persone distinte. Dipende da me, or­ mai, solo da me stare dove voglio. Mi sento sotto una cappa di piombo qui, cosa diavolo ci faccio? Non sono più nello stato d’animo dell’anno scorso, convalescente dai dolori del transfert, vergognosa per gli in­ ganni dell’Io. Non mi occorre un rifugio né il sole del sud per darmi calore.

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Cara Ester, il disagio che semini per il tuo modo di stare a galla. Non credere che alluda al campo dell’arte dove hai acquisito tutte le frenetiche abitudini di quel galleggiare che tu chiami “essere all’avanguardia”, alludo al femminismo, lì hai trascinato quelle abitudini di cui avresti dovuto liberarti per non inquinarlo. Così l’hai inquinato. Hai inquinato i rapporti, e sebbene da due anni siamo lon­ tane, l’equivoco che emana da te ogni tanto mi raggiunge e ti detesto per questo sopruso a cui non posso porre riparo, visto che abbiamo in comune l’apparte­ nenza a Rivolta Femminile. Devo dirlo apertamente? La tua inferiorizzazione, di cui mi hai accusata, è inferiorità di coscienza, di cui non posso certo accusarti, ma di cui ovviamente non posso sentirmi responsabile. Semmai vittima. Infatti, invece di startene tranquilla, ti senti autorizzata a fare centro, a dire la tua, ma non sai cosa dire perché la coscienza non te lo suggerisce, allora cerchi di infor­ marti, è vero? E quando grosso modo ti pare di avere afferrato qual è il punto, allora ti esibisci. Ma il punto lo sbagli, te ne sarai accorta, non è così semplice eia trovare come nel campo dell’arte. E un punto più inafferrabile, non si sa dov’è. Dov’è? Tu presumevi di conoscerlo poiché presumevi che, come artista, ce l’ave­ vi in tasca, solo che, fruga fruga non lo trovavi. Dopo due anni hai ancora le mani vuote, ma la presunzione non ti è passata, né la smania di essere portavoce di qualcosa che non ti appartiene. Eravamo insieme all’inizio: come si diceva a proposito di Vanda? “Noi non neghiamo che sul nascere del femminismo ci si unisca nell’entusiasmo con tante diversità che poi vanno separate per lasciare a ciascuna il suo campo di attuazione. Non vogliamo caricare questo problema di un inutile peso drammatico...” Tu sei più disinvolta di me, più spavalda perché per me è stato drammatico, non solo accorgermi che in realtà non riuscivo a comunicare con te, ma dovermi sentire in colpa per questo. E soprattutto dover­ mi convincere che tu veramente galleggi nell’acqua dell’altra sponda e che, con le tue iniziative affaccendate, molesti il passaggio di chi prende il largo poiché, a differenza di te, intuisce la direzione e si spoglia di ciò che la ingombra. Per questo è un sopruso, non quello che hai scritto su Rivolta Femminile, ma il fatto di esserti sentila autorizzata a scriverne.

“Sbronza” è l’epiteto che, giustificato o ingiustificato, scatta nella de­ lusione tra donne. Infatti l’identità di cui si adorna la donna che delu­ de appare non solo come un pene-finto, ma come uno stronzo-fallico. Sara mi ha permesso di liberarmi della costruzione artificiale che na­ scondeva l’angoscia di castrazione, ha accolto la ricerca di me stessa: mettere in questione l’Io era per me come affrontare il timore della castrazione originaria, potevo farlo con lei che ai miei occhi si era

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scoperta senza finti attributi, mentre Ester mi sfidava esibendo un prodotto in cui l’uomo la riconosceva a sua immagine, dunque per quanti sforzi facesse si identificava in quello. Allora rappresentava per me la madre alienata al padre, la vagina-ladra, la donna bugiarda, profittatrice, venduta al valore maschile. Una donna invidiata, pro­ blema e mistero della mia vita. Tentazione, corruzione, seduzione a tradirmi. Alleata vincente, accattivante malefica, ambigua travestita. In Sara ho sentito la completezza non perché faceva qualcosa, ma perché era se stessa. Il suo fare era parte integrante del suo essere, rifletteva la completezza dell’essere, non gliela procurava come ag­ giunta. L’ho \ista così perché io mi sentivo così, ma prima dovevo ammettere l’angoscia della castrazione, l’angoscia di non potere es­ sere come lei. Completezza è identità. 11 die. I miei veri amici erano quelli che non sono cresciuti nella sca­ la sociale. Non ho niente a che spartire con questo borghesume roma­ no. Trovo tutto falso, triste. Una tale dice “Riconosco i cadaveri che camminano”, Simone invece “La gente si distende i nervi, sta bene, si accetta per quello che è”. Io sono fuori posto, mi sento male all’inizio, non ho voglia di parlare, ma non nel senso dell’imbarazzo o delFinferiorizzazione, nel senso del disinteresse, della pena, dell’assurdo. Non sono ancora scesa a Roma, lotto come posso per non atterrare. Sono per aria che sgambetto, come nei cartoni animati. Penso di sfug­ gita a Virginia W. Le somiglio in questo momento. Nell’impotenza. Sono attaccata a qualcosa di precedente, non so cos’è. Simone dice “Cos’è per te Milano? Telefonare a Paula?”. Anche. E qualcosa di mio, di fatto su misura da me per me, con tutti i suoi difetti. Che qui non c’è. Qui sguazzo in lungo e in largo. Non ce l’ho con nessuno, per fortuna. Fumetto: prendere l’aereo per Milano, da lì chiamare Simone e dirgli “Sono a Milano”. Il fatto compiuto. Il fatto che non si compie. Non mi piace crogiolarmi nell’impotenza, preferisco uscire e andare alla Standa qui sotto a comprare un apri-bottiglia. Una volta Paula è ca­ pitata da me con un soffietto marocchino. Ieri ho preso tre pasticche per il mal di testa. Lasciando Milano ho perso il mio equilibrio. L’equilibrio è collegato a un modo di vita, a dei contatti, delle attività. Roma l’ho sempre subita, nel bene e nel male.

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Paula da Milano ha chiamato Federica, che ha chiamato me: ci ve­ diamo per definire il mio ruolo nella casa editrice. Improvvisamente tutto ha preso un aspetto più reale. Roma ha smesso di apparirmi come Disneyland. 12 die. Ore 2 di notte. Per la donna non c’è che una soluzione: libe­ rarsi. In ogni altro stadio essa sarà o paralizzata dalla castrazione o cercherà la sua completezza, a similitudine dell’uomo, in un prodotto. Ecco perché noi escludevamo l’azione dalla presa di coscienza, perché nell’azione avremmo inconsciamente cercato la completezza. Mentre dovevamo scoprire noi stesse, e da lì lasciare scaturire l’azione. L’uomo si identifica nel pene (fallo); la donna, finalmente liberata, si identifica in se stessa. Uomo pene creatività azione

Donna senza pene liberazione azione

Nicola diceva “creatività globale”, Ester le rispondeva “Scusami, la crea­ tività arriva a vent’anni, so come funziona, è una cosa irresistibile, non ti guardi intorno, non ti chiedi, la fai”. Aveva adottato l’enfasi dell’uomo sull’erezione. Per “creatività globale” Nicola intendeva “liberazione?”. Il mio cervello coincide con il capire la mia vita. Me stessa come donna. La liberazione irradia. La creatività schiaccia. Claudius mi aveva detto “Ester si identificava nella pittura, tu non ti identificavi come critica”. Che complimento! Era vero. Non volevo iden­ tificarmi in un prodotto. Non potevo, anzi. Inutile attribuirsi dei meriti. Chi è castrato ha la soluzione se non viene annullato dalla vergogna. Il mito della creatività è il vero mito del pene. Non so più scrivere una parola. Ho la mente vuota. Sento tutte le po­ tenzialità dell’esistenza. Si incrinerà l’attimo dopo, ma non più fino in fondo. Tutte le mie crisi sono crisi di sfiducia nella mia completezza.

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La donna genera un nuovo essere, non un prodotto. Questo è il sen­ so per me della femminilità, della maternità. La creatività viene dal pene, la liberazione dal generare-nascere. Adesso basta con queste riflessioni generali. Viene un momento in cui perdono la loro carica evidente, allora mi sembra che inizi il ciclo in cui mi ingannano. Gli stessi precisi pensieri. Non posso pensarli trop­ po. Hanno una vita assolutamente effimera. Ne parlavo con Simone alle 2 di notte passeggiando per via Frattina. La chiave apriva tutte le porte. “Che succede” dicevo “Sto vaneggiando”. Tutto si collegava e si chiariva. Adesso quel momento è finito. Devo avere fede che è ac­ caduto. Sono di nuovo in ballo, nell’incubazione di un imprevedibile momento di verità. Un tempo questo stacco mi angustiava, potevo dubitare di avere sognato. Adesso “so” che “è” così. Mi affretto ad andare a letto, approfitto della stanchezza e della pace. Domani ricominceranno ad agire infiniti stimoli di attenzione su infinite minute cose, finché arriva la chiarezza. E ancora di nuovo. 14 die. Un figlio ha i suoi gusti in fatto di musica ha i miei sopraccigli.

Leggere i libri è trovare conferme a piene mani, spesso nelle stesse parole adoprate da me. Questo mi stupisce enormemente. E come se scegliessi i libri via via sull’intuizione di ciò che può corrispondermi oppure li investo e li riempio dei miei contenuti su qualche appiglio analogico. Matilde è salpata. Ha lasciato le deduzioni e si muove spinta dalla voce interiore. L’ho sentita oggi al telefono. Questa emozione non è paragonabile a nessuna emozione, e io che posso goderne mi sento piena di gratitudine. Marion la chiama “perdita di tempo...”. Ho voglia di fare un altro gruppo, mi è venuta all’improvviso ieri sera con l’amica argentina. Cara Piera, ormai vedo che quello che inizia fra noi è inarrestabile, è un seme che lavora nel tempo e germoglia nelle stagioni e nei momenti più inaspettati.

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Mi trovi ottimista? Siamo arrivate a noi stesse, ci pensi? A volte il resto sembra così secondario... ciascuna è un centro che emana da sé questa possibilità. Non che tutto sia risolto, per carità! Anzi spesso mi trovo così vulnerabile, mi basta poco a cadere giù e tutto sembra un sogno, un vaneggiamento, però so che passa e torna la fiducia...

Simone è a Palermo. Mi sento libera, vorrei uscire tutte le sere. Mi piace sentirmi padrona della situazione. Vorrei mescolarmi alla gente che affolla le strade, incontrare uno e andare insieme al bar. Simone starà una settimana con sua madre. Questo è significativo. 15 die. In una specie di crepuscolo Sara, intraprendente e folletta, mi condu­ ce su delle superfici lisce inclinate come di gesso. Per fortuna sono scorticate in abbondanza, così si riesce a salire. Lei ha un vestito verde, morbido e aderente, si sdraia, dobbiamo prendere certe misure sul suo corpo, mi chiedo se non è il momento di fare l’amore con lei. Poi penso che no, non c quello che manca fra noi. Sempre nella penombra incontro Lucia, molto saggia, che mi rivela infine che io devo risolvere l’Edipo - vista la mia passione per Sara penso che sì, che è vero, ma anche Lucia mi piace molto - parla poi del mio sadismo, voglio saper­ ne di più, dice che in me si è formato verso i tre anni. 11 verde, che ritorna continuamente nei miei sogni, è il colore di Ri­ volta Femminile. Lucia mi aveva riferito la frase di un’amica psica­ nalista (“La donna deve risolvere l’Edipo”) che è quella che le ho attribuito nel sogno. Mi aveva molto colpito. Ho deciso di andare in Argentina verso febbraio perché lì stanno per uscire i miei scritti, lì c’è Irene, perché ho nostalgia dell’erotismo e un viaggio è quello che ci vuole. L’ho detto a Nicola e ho notato il suo imbarazzo. Somiglia un po’ al mio quando Sara mi diceva i suoi progetti e io mi sentivo ancora le gambe di piombo. “Bellissimo, sarà bellissimo... certo, certo...” 16 die. D’urgenza d’urgenza una poesia

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concentrazione mi manchi due parole solo due parole sconnesse ma che vengano su dal mio profondo vago sono un’ombra nel buio non ho la minima pallida luce per dirigermi guardo ma nelle tenebre l’occhio che vede è uguale all’occhio che non vede.

Ne I misteri della donna della Harding che ho appena cominciato, l’ana­ lisi degli antichi miti mi offre straordinari motivi di conferma. Con stupore - ma ormai sto superando anche la fase dello stupore - mi sono accorta di avere scritto giorni fa che mi sento “nubile e vergine”. Quando mi è venuta la parola “nubile” ho avuto un’esitazione, mi sono chiesta “Perché?”, e poi “E proprio questo che voglio dire?”. L’affermazione mi era arrivata a bruciapelo: a volte mi accorgo che un’intuizione matura dentro di me, a volte no. Naturalmente l’idea mi era familiare: da piccola, da giovane dicevo “Non mi sposerò mai”, e quando l’ho fatto è stato per una specie di fatalità sociale a cui non potevo oppormi. Anche adesso non sopporterei di sposarmi, mi sembrerebbe di perdere l’identità. Non mi sono mai nascosta di non potere accettare mentalmente la monogamia, la coppia fedele e indistruttibile. Dunque la mia identità è legata all’idea di libertà nei rapporti, anche amorosi e sessuali. Non mi meraviglio mai abbastan­ za della mia mancanza di fiducia in me stessa, infatti tutto ciò che mi porta a delle conclusioni non ortodosse non posso non supporre

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che avvenga per qualche mia incapacità. E non perché “sono” così. Questa naturalmente è la strada della coscienza, è il dubbio da cui nasce la coscienza. Ma mi chiedo cos’è che ancora mi trattiene, mi fa esitare rimandando a un momento seguente, più garantito, la cer­ tezza della mia identità. Come se potesse esserci un errore, un errore madornale, un equivoco che mi fa mancare la verità su me stessa. Questo poteva essere prima, al momento dei “sogni di gloria”, ma adesso che sento la mia voce interiore e la seguo, la seguo felice di seguirla, cos’è che mi lascia dubbiosa o almeno cos’è che mi fa andare in giro alla ricerca di continue conferme? A chi penso di dovere an­ cora rendere conto di me? Poi leggo delle antiche divinità femminili della Luna e, a parte la fantasia infantile di essere destinata a lasciare questo mondo per tornare alla Luna, scopro che il loro attributo era di vergine madre: vergine nel senso di non sposata, di nubile, esatta­ mente come scrivevo qualche giorno fa all’oscuro di tutto. “Fino a che una ragazza è vergine - nubile - appartiene a se stessa e non può esse­ re costretta né a mantenere la castità né a concedersi a un amplesso non desidera­ to. Come vergine appartiene soltanto a se stessa, essa è ‘una-in-se-stessa’... nell’an­ tico, originario significato del termine. Altre dee di religioni antiche e primitive non condividevano questa qualità; esse non sono una-in-se-stessa. Non hanno evidentemente una loro propria esistenza separata, ma sono concepite soltanto come mogli o controparti di dei dai quali derivano sia il loro potere che il loro pre­ stigio... Rappresentano l’ideale della donna sposata e personificano quell’aspetto della natura femminile che è fedele e dipendente... In una tale situazione Identità’ o l’unità è la coppia, la coppia sposata, la famiglia... Il rapporto della Madre Luna con il dio a essa associato è completamente differente. Essa è una dea dell’amore sessuale, ma non del matrimonio. Non c’è un dio maschile che come marito domi­ na la sua condotta o determina le sue qualità. Essa, al contrario, è la madre di un bambino, che sta sotto il suo controllo. Quando è cresciuto diviene il suo amante e quindi muore, ma soltanto per rinascere di nuovo come figlio. La Dea Lunare appartiene a un sistema matriarcale, non patriarcale. Non è collegata ad alcun dio come moglie o controparte. E la padrona di se stessa, una in se stessa.”

Dunque quella donna in cui mi riconoscevo, autonoma e sganciata dalla complementarietà, cioè dal “tutto femminile” della donna vagi­ nale completa solo nella coppia, ha il suo archetipo nella Madre Luna. Così come c’è l’archetipo per l’altra donna nella dea complementare al

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dio. È detto anche che la Madre Luna è insieme maschile e femminile, androgina. Cioè ha due sessi, due nature. Volere il figlio maschio, fa parte del mito: il figlio-amante è il simbolo dell’autonomia dal padre. Cercare una spiegazione fa parte del mio aspetto maschile. Da un lato sono una sibilla, dall’altro una filosofa. Non posso rinunciare a nessuna delle due, né lo voglio. Né l’una né l’altra mi bastano. L’una mi conferma l’altra. La mia vita è un susseguirsi di intuizioni che in­ dago, di momenti sui quali non posso insistere, né riposarmi. Come una barca sulle onde ora s’inclina a poppa ora a prua, così io devo seguire l’oscillazione se non voglio cadere nel mare. 17 die. Paula fa finta di credere che io non voglio fare parte della “sua” casa editrice, che “non è” sua. Tutto, quando comincia, comincia sem­ pre daccapo. 18 die. Arriva la moglie di Simone nell’albergo dove vivo con lui. Ha un vestito bianco. E molto arrabbiata ed esigente. Simone va a dormire con lei. Io decido di partire: conosco questa musica, è una fatalità, uno strazio, non me la sento di lottare, la moglie non mollerà, in Simone si risveglierà un tipo di legame speciale che c’è fra loro, soprattutto a causa dei figli, lo so che sarà così, non è la prima volta che mi succede. La mattina dopo, Simone mi dice che è stata una nottata infernale: lei aggressiva lo ha accusato fino alle ore piccole, poi hanno fatto l’amore come temevo, ma lui è stanco di lei, vuole tornare con me, non ha dubbi. Guardandolo ho l’impressione che mi ricordi qualcuno di molto impor­ tante per me. Che strano, non riesco a trovare chi. Sono in campagna con mia madre, fuori le mura del paesino dove eravamo sfol­ lati, e parliamo. A un tratto arriva un tale correndo come un matto: la mamma capisce subito che è papà. Io mi ritiro: magari malato com’è dopo quest’esibi­ zione starà peggio e non voglio vederlo. In effetti va a sbattere la testa contro un muro, non distinguo bene, sono lontana, ma mi pare che poi si facciano delle moine fra loro: la mamma lo coccola un po’ perché si è fatto male, lo chiama sottovoce “Tesoro mio”.

Paula ha bisogno di sganciarsi dalla protezione che io rappresento per lei. Formare la casa editrice per Paula è entrare nella realtà. Ecco che diventa un problema che in quella casa editrice ci sia anch’io. Ishtar, la dea lunare babilonese, insieme a suo figlio Tammuz era nota

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con l’epiteto di Urikittu, che significa verde. Cioè protettrice della ve­ getazione, o anche Tutta Rugiadosa. Questo per quanto riguarda il colore scelto per i nostri libretti. Invece il segno che avevo voluto, con­ vincendo chi in un primo momento aveva optato diversamente, tra gli svariati segni di Ester, non è altro che il segno della luna crescente con la stella del mattino. La Luna, l’ho imparato adesso, è il simbolo della Donna, la Dea Luna è la raffigurazione della vergine una-in-sestessa. Dunque non potevo scegliere meglio. E bellissimo avere avuto un segno per più di quattro anni, godendolo senza affannarsi a volere capire cosa significa. Ma il colmo della perfezione sta proprio nel fatto che il crescente è accompagnato dalla stella “simbolo di unità, la stella che è tra il sole e la luna, simbolo di riconciliazione, la promessa di soluzione del problema della dualità... col raggiungimento di un punto di vista umano individuale”. Potrà andare come nome per la casa editrice, Compiuta Donzella? A Nicola, Federica e Augusta è piaciuto perché è un nome vero, simbo­ lico e non di battaglia. Nel gruppo ero impaziente come sempre perché l’autocoscienza sfugge, non si instaura da sola, bisogna portarcela e tenercela. Dove io ho perso le illusioni mi irrita molto sentire chi ce le ha. O forse averle passi, ma è la costruzione idillica che viene messa sopra che mi disturba, il lato autoprotettivo dell’illusione. Siccome si tratta di fare cadere le illusioni, chi meglio promuove l’operazione viene vista come sadica. Sara e Valeria non se ne sono preoccupate, io di più. Perché ho allontanato il tema della rivalità fra sorelle e non sopporto bene che una mia azione mi faccia sentire all’altra come rivale: c’è un lato perverso a essere prima, lato che va compensato con la benevolenza. 19 die. Cara Paula, capisco che sul piano simbolico ti stai liberando di me. Ma sul piano reale, sarai costretta a scontrarti con me se pensi di mettermi al margine della casa editrice con dei pretesti. Voglio il mio spazio là dentro come tu vuoi il tuo. Non lascerò nel vago ciò che mi appartiene: se porto alla casa editrice gli “Scritti di Rivolta Femminile” porto un valore. Ci hai pensato? Non ci resta che l’autocoscienza per risolvere questo nodo. Io mi scopro. Vediamo te. Stamani in libreria ho sfogliato dei libri alla rinfusa. Mi hanno colpito queste osservazioni. Che a volte il desiderio di guarire ha un carattere

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magico: uno si aspetta di realizzare i desideri irrealizzabili, infantili; che il senso di colpa durante fanalisi è una resistenza; che durante l’analisi è proibito intraprendere attività. Quest’ultima osservazione va benissimo per Paula che eccede in megalomania alfimprowiso e lascia tutte sgomente Quindi va controllata, deve accettarlo. Oppure fa una cosa in proprio, tutta a suo rischio e pericolo. Mi pare che, al contrario, voglia avere fin troppo le spalle coperte. Quell’amica extraRivolta che Paula ha imposto senza chiederci niente, è un episodio di malaugurio che non lascia presagire niente di buono. Ma che succede? Perché l’accordo si rompe subito appena c’è una posta in gioco? Cos’è sbagliato in quello che facciamo? Perché l’autocoscienza non ci salva dalle rotture? Ormai Paula è partita per la sua orbita, fra vent’anni ne riparleremo. Siamo delle debuttanti, delle donne adulte che si trovano per la prima volta a fare qualcosa, e perdiamo la testa. 20 die. Sto andando al gabinetto e mi accorgo che lì ci sono le mie mutandine nere. Le guardo veloce, sono pulite, ma hanno del pelo folto con la scriminatura nel mezzo come sul sesso. Sono preoccupata che degli uomini le abbiano viste. Entro nel gabinettino minuscolo, mi siedo sul water; un tale passa lì vicino, ri­ chiudo frettolosamente la porticina da saloon, sollevo un lembo del cappotto da terra, cerco di coprirmi le gambe. Esco sulla piazzetta con Simone, e papà è ancora lì, non è partito, perché? Sono preoccupata, aspetta da qualche ora, starà male. Mi avvicino, lui sembra tran­ quillo (ma non lo credo): non ha trovato posto sull’autobus, si è messo in coda, non può venire in casa mia sennò perde il posto. Ha i suoi antichi modi sicuri e padroni di sé, ma qualcosa è cambiato, forse perché adesso è malato. Provo pena, affetto, struggimento. Poi scorgo dietro di lui mia madre, tapina. Di nuovo sono con mio padre, in una stanza: lui è tutto scuro come a lutto, ma anche di carnagione, e sta in ombra. Stessi sentimenti di prima: c’è un colloquio fra noi, non ricordo bene su che, forse sulle sue paure, la malattia, la morte, ma è reti­ cente, pudico, come lo conosco. La “casa” è luminosa, ma qualcosa non va. Nella casa c’è mia madre?

Sono felice. Felice per me, per gli altri. Felice perché sono ricca della mia umanità e posso avere rapporti umani, posso crearli, viverli. Per­ ché posso amare ed essere amata, essere felice io e rendere felici gli

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altri. Mio padre del sogno è il mio giudice che, malato, deve morire. Allora il desiderio che mio padre muoia perché mia madre sia libera è solo un’allegoria: deve morire la sua impronta dentro di me, è quel­ lo che sta succedendo e quello che me stessa vuole. Sono eccitata. Decisamente questo dicembre butta bene, ho un buon transito di pianeti, mi hanno detto. Dunque Federica è d’accordo per fare una cooperativa di nove amiche di Rivolta e di porre il veto all’entrata di donne al di fuori. Tutto è di nuovo promettente perché si parte in tante e senza le solite ipoteche sgradevoli da ingoiare. 23 die. Un’amica sta per lasciare la sua casa: io sono in visita da lei, se voglio posso subentrare nel suo appartamento. E molto più grande di quello che lei nor­ malmente abita, questo mi sorprende piacevolmente; gli ambienti sono belli, una volta eliminato il suo arredamento un po’ fasullo, andrebbero benissimo. L’unico inconveniente è che non c’è riscaldamento e io sono stufa di tutti i traffici che faccio per avere un po’ di caldo, e poi non è mai sufficiente. Non devo lasciarmi tentare dal prezzo conveniente rispetto all’ampiezza dei locali: il riscaldamento è indispensabile. Ho l’impressione che non sia la prima volta che vedo la sua casa. Adesso comincia un nuovo capitolo dei rapporti fra noi di Rivolta, quello della casa editrice. La missione di Federica a Milano è andata bene, Paula non si è opposta al fatto che noi non accettiamo la sua amica di fuori fra le socie della casa editrice, il suo problema sem­ mai è di riuscire a dirglielo. Federica si è offerta di farlo lei, Matilde di accompagnarla; spero che Paula non abbia accettato perché deve proprio superare la sua vigliaccheria. Federica è riuscita nell’impresa, e così, all’improvviso, mi dice “La proposta di partecipare la faccio a quelle che voglio io”. Mi sono affrettata a fare il nome di Gloria che a Federica non è simpatica, ma che desidera moltissimo stare nella casa editrice, può lavorarci e mettere un po’ di soldi. Per fortuna Fe­ derica ha subito accettato, tanto più che lei appoggia Cecilia che a me dà abbastanza sui nervi, però non mi sarei sognata di escluderla sapendo che quella ci tiene. Anche Ester ci terrebbe, però lì mi sento proprio punitiva nei suoi confronti: è il momento che perda un colpo e si chieda perché. 24 die. Dalla lettura della mano fattami da una gallerista risulto: si­ mulatrice, ambiziosa, frenata specialmente nel sesso, intelligente, ca-

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pace di forti sentimenti di odio, più portata all’occultismo che all’arte, fortunata, con slanci e timori sul piano del dare e del darsi. Natural­ mente quella mi esortava a risolvere i miei conflitti, a “migliorarmi”. “Ma se sono così, se lo conferma la mano!” Ad alta voce ha detto “Lei è una dura”. Tina ha aggiunto “Una dritta”. L’altra ha protestato “No, no, nessuna è meno dritta di lei”. E quando cercavo di spiegare a Tina qual è il mio problema, appunto di essere piena di sentimenti e sensazioni contrastanti, lei ha precisato “involuta”, ho corretto “com­ plicata”. Dunque una ha dell’aggressività verso di me, per questo l’ho sognata affettuosa e nello stesso tempo dominante. Anche la gallerista nel leggermi la mano ha proiettato l’opinione che ha di me. 25 die. La conclusione è che nella donna l’intelligenza viene sentita dalle altre come sinonimo di cattiveria. L’aspettativa tra donne è che l’una con l’altra si sia banalmente buone e materne. Si accetta l’in­ telligenza degli uomini in omaggio all’amore edipico, ma non quel­ la di altre donne sempre in omaggio alla rivalità e alla frustrazione edipiche. A me piace l’intelligenza disarmata, al massimo l’ho avuta difensiva, non sopporto quella strumentale. Non sopporto di essere strumentalizzata soprattutto con intelligenza e dalle donne. Sedute vicino Matilde e io parliamo. Faccio allusione alfomosessualità come alla cosa più naturale di questo mondo. Però mi accorgo subito che dietro di lei c’è un uomo seduto a una scrivania: Matilde ai'rossisce perché forse quello ha sentito, ma fa fìnta di niente. L’uomo chiama qualcuno e, sempre facendo finta di niente, ci ritro\iamo nel mezzo di un corridoio mentre avviene un trasloco, con un gran mobile piazzato lì. Penso che ormai è assurdo insistere a mostrare di non accorgerci di quello che succede intorno a noi, e del nostro stesso imba­ razzo. Qiiando arrossisce Matilde mi sembra che mi assomigli.

Stamani, osservando Simone mentre facevamo l’amore pensavo: al­ lora la bambina vorrebbe il pene per tornare nella mamma? E acco­ gliere il pene del padre per fargli da mamma? 26 die. Non ho dato a Lucia il libretto che le avevo preso come re­ galo di Natale. Per lei è inconcepibile “darmi” qualcosa, allora anche per me. Finalmente non ho più voglia di darle niente. E venuta a Turicchi per incontrarsi con Adolfo, siamo andati tutti al ristorante,

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né lei né suo marito hanno praticamente rivolto la parola a me e a Simone. Solo alla fine Lucia ha detto “Non avevamo intenzione di es­ sere vostri ospiti, mi dispiace che abbiate pagato la colazione”. Così, non solo non sa dare, ma non sa prendere, cioè prende con la stessa avarizia per cui non dà. Con lei ho chiuso, e non me ne frega niente. Con Adolfo dicevamo che siamo dei figli così assorbiti dai problemi reciproci e verso i genitori. Anzi i problemi reciproci sono un riflesso di quelli con i genitori. 28 die. Raffaele cammina davanti a me vestito di nero. Gli intravedo il pro­

filo e mi sembra brutto, decaduto, invecchiato. Mi meraviglio che Tito lo pensi come un bell’uomo, c mi fa pena questo suo mito del padre.

29 die. Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono poco a poco, faccio la calza e sono molto calma. A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla, c’è lì una sculturina di Simone molto piccola e preziosa di cristalli colorali e lui l’apprezza, la interpreta con impegno. Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci. Sto leggendo Al di là del principio del piacere di Freud. Tutto sommato non è straordinario rendermi conto di avere fatto delle esperienze già analizzate e catalogate - ma cosa pretendevo alla fine? - però mi pare notevole che mi siano potute accadere spontaneamente, non guidata né indirizzata. Questo ha un grande significato per me, per le prospettive che apre alla possibilità di una liberazione al di fuori della concezione psicanalitica. Qualcosa mi dice che questo cambia tutto. Mi ha molto colpito raffermazione che “il principio del piacere sca­ turisce dal principio di costanza”: in effetti il Paradiso dei cristiani o il Nirvana dei buddisti è così. Io lo vivo per attimi, ho notato anzi che questi attimi immotivati di pienezza e di pace in questi ultimi tempi sono più frequenti, però il tempo, la durata dell’esistenza mi ri­ chiamano sempre la comunicazione come fonte principale di piacere dove la funzione dell’eccitazione è evidente. Ricordo che quando ho preso LSD ero stupita di non provare alcun bisogno di comunicazio­ ne, forse perché ero tornata in uno stadio precedente al linguaggio,

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stadio appunto incomunicabile. Era l’estasi, una felicità così perfetta che non aveva paragoni con quella sperimentata “sulla terra”. Però anche, alternativamente, inferno, demoniaco e terrificante. “Il paziente non può ricordare la totalità del rimosso, c ciò che gli sfugge può essere proprio la parte essenziale; così egli non riesce a convincersi dell’esattezza della costruzione che gli è stata comunicata. Eccolo allora costretto a ripete­ re il materiale rimosso come una esperienza attuale invece di ricordarlo come qualcosa appartenente al passato, cosa che avrebbe soddisfatto le aspettative del terapeuta. Nel corso del transfert, i pazienti ripetono tutte queste situazioni indesiderabili e queste penose emozioni e le rivivono con la massima ingenuità. Così, essi cercano di interrompere il trattamento quando è ancora incompleto; così provano ancora quel senso di beffa e di disprezzo, obbligando il terapeuta a pronunciare parole dure e fredde; così, scoprono adeguati oggetti di gelosia; così, al posto del bramato figlio dell’età infantile, fanno progetti e promesse di regali grandiosi, regali che si rivelano di solito altrettanto irreali.”

A questo punto mi viene in mente che durante LSD, rispondendo a una domanda di Simone, ho detto “Non si tratta di piacere o non piacere: è inevitabile”. Al di fuori della coscienza c’è l’incognita mi­ nacciosa, una volta dentro la coscienza la minaccia finisce. 30 die. Mi sono svegliata con il quadro di tutto un sogno che mi sono subito ripassata nella memoria. Però non ho avuto tempo di scrivere. Quando mi sono decisa non ho più trovato alcun sogno, solo un par­ ticolare. Devo prendere l’autobus sebbene non abbia fatto ordine per partire. Mi affanno un bel po’ cercando di mettere tutto a posto. Non sono oggetti, ma conti che faccio per terra con il gesso in specie di riquadri. Mi manca qualcosa, non ce l’ho o non lo trovo, questo sembra pregiudicare la partenza. Poi sono sorpresa io stessa del mio coraggio perché finisco per prendere l’autobus e non pensarci più.

La crisi con Ester è nata dal mio attaccamento a Sara però la rottu­ ra è avvenuta quando Ester ha avuto un uomo: questo è un dato di fatto. Realmente Ester mi invidiava - io avevo un uomo - e dunque covava dell’aggressività per me; realmente ho avuto la prova della sua superficialità verso di me quando l’ho vista tutta presa a adoprarmi

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per analizzare il rapporto con lui; realmente ho avuto il coraggio di dirglielo dopo avere ottenuto questa prova; realmente lei ha ribattu­ to in modo strafottente forte dell’alleanza con lui. Possibile che nel trattamento psicanalitico il transfert non trovi alcuna base di real­ tà? Certo il femminismo per me aveva anche questo contenuto: dava una giustificazione ideologica al mio desiderio di separare la madre dal padre, in questo modo sarei riuscita a vedere la donna distinta dall’uomo e a riconciliarmi con lei immaginandola fuori dalla cop­ pia. Domani vado a Firenze a passare l’ultimo dell’anno con mia madre, e mio padre. 31 die. Mi trovo in una casa lussuosa: lì c’è un bambino molto piccolo, un neo­

nato, che mi abbraccia forte e io gli prometto qualcosa, di non abbandonarlo, di occuparmi di lui. E custodito da un signore distinto. Il bambino ha le guance soffuse di azzurro perché è di sangue blu. Il custode del neonato mi organizza una conferenza di medicina: mi oppongo quanto posso, ma lui insiste, è un facilone, un ottimista. Finisco per cedere, la cosa è veramente assurda. Per for­ tuna, durante la sua prolusione, una schiera di medici si alza e se ne va con aria sostenuta: si sono offesi per una parola del mio presentatore. Meglio così, ma ormai non ero più timida, mi sentivo quasi di farcela. Comunque di quel tipo non c’è da fidarsi molto, meglio stare alla larga, mi caccia in difficoltà. A un tratto vedo entrare Ester nel nostro meraviglioso appartamento ultra-moderno all’ultimo piano di un palazzo pieno di confort, forse lo stesso dove abita il bam­ bino di prima in qualche piano al di sotto del mio. Indossa un lodcn, ha i capelli corti, un’aria svelta e giovanile. Cosa viene a fare, che impudenza, non andrò certo a incontrarla, semmai dovrà avvenire per caso. Anche Nicola è seccata, ma fiduciosa; siamo dalla parte giusta cosa può accaderci? Ester fa dei gesti in­ sensati perché si sente in colpa e tagliata fuori. Nicola sorride, ride, sembra una ragazzina, è adorabile. Ester senz’altro si è fermata a parlare con mia madre, a questo punto avrei preferito vederla, ma non è così e resto un po’ delusa. C’è anche Lucia, che fa una comparsa tanto per sentirci al completo noi donne della famiglia. Poi sono per le scale e mi accorgo che mi manca molto per arrivare in cima, a casa: mi perdo di coraggio e cerco di prendere l’ascensore. Con me c’è anche il babaleo di prima che gentilmente cerca di aiutarmi, però l’ascensore è sempre occupato e devo continuare a piedi. Ma, a parte che le scale sono di marmo con belle lampade moderne, insomma, ripeto, tutto confortevolissimo, mi è già di sollievo sapere che l’ascensore c’è.

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Questo sogno dove appare l’irragionevole babaleo, il custode appren­ sivo, ma scimunito, mi ha messo di buon umore, mi ha dato legge­ rezza nonostante un vago mal di testa dovuto alle mestruazioni. Mal di testa che non mi abbatte più come una volta, dunque c’è stata una forma di guarigione. Sono a Firenze dai genitori. Quando ho saputo che una conoscente prendeva la casa colonica accanto alla nostra, mi è dispiaciuto mol­ tissimo che l’avesse soffiata a Nicola. Adesso Simone mi telefona di­ cendomi che Nicola prenderà a sua volta la casa colonica accanto a quella e mi sento oppressa all’idea di averla vicino non solo all’Elba, ma anche in campagna. Voglio restare libera di avere come e quando desidero i miei rapporti con i familiari. Stare gomito a gomito mi opprime. Non mi resta che sperare che la casa in questione non sia disponibile.

1 gen. Si cerca di farmi del male, si trama contro di me, non posso fidarmi di nessuno, devo stare sempre all’erta. Infatti una donna cerca di pungermi con uno spillo per iniettarmi una certa sostanza che mi rende impotente, passiva, me ne accorgo e la sfuggo in tempo. Però un’altra getta a terra una fiala che si rom­ pe, ne esce un liquido da cui si sprigiona il vapore drogato. Per fortuna riesco a isolare la stanzetta, una porzione di corridoio con due porte, e mi ripresento agli altri. Però mi accorgo che un uomo - il mandante? - nota qualcosa nei miei occhi, una strana fissità e dilatazione, così sembra sicuro che il gioco è fatto e tutti si comportano con me come se fossi alla loro mercé. Sto al gioco, e mi fingo già partita, mentre sono sicura di essere stata appena sfiorata dalla droga e mi sento lucida e presente. Mi guardo un piede e con stupore lo vedo terribilmente gonfio, enorme, con le unghiette che spariscono nella carne. Se tengo il piede normale non si vede tanto, ma se allargo le dita è mostruoso. Mi chiedo quale sintomo di malattia - grave? rappresenti.

La droga è la gelosia. Sto diminuendo la dose di tiroide: naturalmente mi studio, guardo attentamente nello specchio la forma e la sporgenza degli occhi, la loro vivacità, la consistenza delle palpebre, l’entità delle occhiaie. Va bene, sono soddisfatta. Osservo anche piedi e caviglie perché un loro improvviso gonfiore può significare che il cuore è affaticato. Le rifles­

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sioni intorno a ciò che può capitarmi senza tiroide sono sempre rifles­ sioni che hanno il pensiero della morte come sfondo. Però il piede è simbolo del pene e piede gonfio sembra alludere all’erezione, d’altra parte nella realtà può significare morte. Le conclusioni sono ovvie: ho paura di scoprirmi una donna con il pene, una paura mortale. 2 gen. Mostro dei riquadri significativi a delle amiche: stoffe tessute con colori e disegni su una trama molto trasparente. Sono tutti collegati tra di loro per un lato come le cartoline dei turisti. Fanno delle serie di vari tipi, potrebbero sem­ brare dei quadri, ma in sostanza sono così veri, motivati e in funzione della mia \ita, colgono un punto di autenticità vissuta così preciso che sono tutt’altra cosa. Ester mi sta osservando tutta compresa. Quando li ripongo sono pentita di averli mostrati anche a lei, di averne parlato in sua presenza. 3 gen. Nicola ha sulle ginocchia uno sconosciuto animale dai grandi occhi e

con una specie di aculeo che parte dal naso. Accidenti, sempre con queste stra­ nezze. Lei sorride, è molto carina. Le chiedo “Morde?”. “No no... però sì, qual­ che volta se non conosce.” Entriamo in casa - e in questo momento mi ricordo che ho fatto il sogno della “casa”, ma come sempre, non posso sapere di che si tratta, una casa perduta, forse, una casa grande, luminosa, sempre lei, casa so­ gnata e risognata, casa qualsiasi, di cattivo gusto, casa con delle zone-serra, casa con stanze disabitate, casa da riscaldare e mettere a posto, casa destinata al mio futuro o casa evocata dal passato? Una persona, donna, mi mostra la casa, una persona anonima, non interessante, che non ne capisce il valore, per fortuna. Riccardo mi dice che ha telefonato Sara, “Davvero?”, e che è nelle vicinanze, anzi lavora... Ma parla a voce bassissima e non capisco niente. Allora io impa­ ziente “Lavora qui? Lavora lì?”, faccio delle ipotesi. Sembra che si diverta a te­ nermi sulle spine, oppure è così timido e maldestro. Poi arriva una donna vestita di verde, grande e imponente, Sara, e io subito a farle le feste ed essere gentile con lei, ma lei è sospettosa e mi scruta come se non mi credesse.

Penso che fastìdio mi dà Isa sempre festosa e scodinzolante con me, pos­ sibile che sia di quell’umore ogni volta che mi vede? Forse a Sara appaio così e le do fastidio per gli stessi motivi. Sono un po’ agghiacciata dalla scoperta, ma che farci? Sara sembra mezza lei e mezza anche Vanda. Ammettere di provare o avere provato il bisogno del padre mi sem­ bra normale, mentre ammetterlo della madre mi sembra strano, da

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bambina davvero piccola. Che bisogno è mai? L’uomo nella donna ritrova o ricerca la madre, mentre la donna la perde per sempre e non sa di cercarla nelle amiche da cui pretende però quella dedizione, quel disinteresse, quell’affetto esclusivo che sono collegati alla sua im­ magine. Una donna adulta con un uomo giovane mi disturba perché mi richiama la preferenza di mia madre per i miei fratelli, o anche il mio desiderio del figlio maschio. 4 gen. Perché sarò così fissata con i sogni, perché provo continuamente il bisogno di scriverne? È un po’ il piacere di raccontare, al di fuori di qualsiasi senso esplicito, brani di scene fantastiche, ma “vere”. Lo stesso mi succedeva quando facevo critica d’arte e descri­ vevo un quadro, però nel caso del sogno è più divertente, e poi è un omaggio a “lei”, alla Carla notturna che mi piace tanto perché è più avventurosa, più libera, più fantasma di quella diurna. Sono in albergo con Simone, decido di fare l’amore e tutto va bene, ho in pri­ mo piano una serena immagine di una natica e una gamba nuda tra coperte e lenzuoli. Poi incontro Gianni e mi trovo a casa sua, in una stanza in penombra con sua moglie e un’amica loro. Parliamo e io riconosco alla moglie di essere stata una delle prime a fare lavori a maglia con grosse lane di vari colori. Si crea così un’atmosfera calda e affettuosa tra noi: Gianni è disteso e sorridente, ma a un tratto salta su gridando “La stuoia brucia, la stuoia brucia”, e in effetti c’è una cicca accesa sul tappeto, lui si precipita e la butta via, schiaccia la fiammella con il piede. Io spero tanto che non sia successo niente e la stuoia, certo opera di sua moglie, sia rimasta intatta. Guardo bene e scorgo appena un’ombra an­ nerita. Gianni è di nuovo calmo, l’incidente non ha rovinato l’atmosfera. Dalla finestra vedo nel buio una scena felliniana: sulla piazza medievale sfila in cerchio una processione di donne e cavalli, le donne hanno i capelli corti rossi o gialli e vestiti clowneschi, tengono lo sguardo a terra; anche i cavalli sono bardati in modo vistoso. Una di loro lascia il corteo e se ne va chiacchierando animatamente con alcune puttane ferme all’angolo di una via. Tutto il resto prosegue ritualmente fino a scomparire. Chiedo di che si tratta. Di un circo: è gente che va ad accamparsi sotto il Vesuvio. A loro sembra la cosa più naturale di questo mondo. Poi arriva Simone: gii sono molto grata perché ha fatto l’amore con me sebbene nella mattinata avesse un’intervista: non mi dice mai di no, è sempre di­ sponibile, anche se rischia di fare tardi e di presentarsi stanco al lavoro. Gli vado sulle ginocchia, gli faccio un sacco di moine, lui è tutto felice, dolce dolce come

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se si squagliasse. Mi meraviglio di riuscire a essere così spontanea con lui davanti ad altri. Poi viene il marito dcH’amica con cui ho parlato molto simpaticamente fino allora, se ne vanno insieme, e anche Simone sparisce. Gianni mi chiama e io mi accorgo di essermi seduta in una posizione molto acrobatica, ma anche molto comoda su una sedia in bilico su un tavolo, e con le gambe per aria. Aie ne accorgo quando scendo che è complicato e pericoloso, però mi Gene bene e sono tutta soddisfatta.

Nel racconto ho omesso il particolare più importante: Quando Gianni si allarma per la cicca che dà fuoco alla stuoia, la mia prima reazione è quella di chiedermi se per caso la cicca non è mia e come fare a di­ mostrarlo agli altri che non lo è. Poi il problema cade da solo perché lui arriva in tempo e la stuoia è salva. Animali di vario genere, non ben definiti, ma dalla taglia di cani, uno col muso di tapiro cammina su un muro perpendicolare - toc toc con le zampette - e mi riempie di stupore questa sua capacità. Va verso un animalctto fatto di peli o di capelli e gliene addenta un ciuffo, l’animaletto si ritira un po’ spaventato, un po' non si sa. Ho dovuto cedere un quadro: che stupidaggine, mi sono fatta fregare, adesso piango e mi dispero, ma è fatta. In una specie di bazar dove sono a comprare regali, vedo una bottiglietta ano­ nima con un liquido giallastro e la compro: è un prodotto giapponese e serve a fare delle schiume ad anelli in cui si incanalano la vita e l’energia. Si possono comporre forme varie durante il bagno. Federica, che con un’amica sta cercan­ do qua e là, è tutta compresa dell’acquisto che ho fatto per lei.

Tito è partito, il lavoro si è ridotto, ma anche l’allegria se ne è anda­ ta con lui: Simone è taciturno e io mi annoio per la prima volta da quando siamo in campagna. Cominciano ad assediarmi la mente pensieri oziosi che mi portano qua e là in sconclusionati miraggi. Ho bisogno di comunicare, ecco tutto, manca sempre la stessa cosa. 6 gen. Simone mi confida stamani che il malumore di ieri era dovuto alla sensazione di perdere tempo, al senso di colpa per non essere al

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lavoro a progettare sculture. Ho goduto molto nelPorgasmo pur pro­ vando un po’ di antipatia per Simone-scultore. Anne mi ricorda Sara. Sara amore mio meraviglia del creato fonte di trasparenza. Facendo l’amore con Simone, mi sono chiesta se con una donna sarei ugualmente riluttante. E vivere qui con un’amica cosa cam­ bierebbe? E il problema dell’omosessualità che ritorna, vero o fal­ so? Cosa copre? In realtà ho voglia di un uomo, divertente e alle­ gro. Devo concedermi questo diversivo. Finalmente abbiamo messo un accrocco di tavolo comodo e sono stata molto felice di mangiare confortevolmente. Chissà perché sono così poco cosciente di quello che rende la vita più facile. Anche Simo­ ne è così. Ester mi aiutava in questo senso. E un rifiuto di mia madre, forse. E anche la sensazione che se mi metto su quel piano divento perfezionista. Per fortuna l’intensità (o l’ossessione) mi si concentra e scarica nei rapporti umani. Però adesso mi sento proprio matura per alcune scoperte: per esempio, un tavolo da pranzo, un armadio, una stanza da bagno. 7 gen. Sogni molto belli, divertenti, vitali. Vado ospite da Federica e mi accorgo che sul retro della sua casa c’è il mare. Un mare invernale, vivo, con tante creste e piccole onde. Il figlio, che guida la macchina su cui stiamo arrivando a casa, la spinge fin dentro l’acqua. Che bello! Scendiamo a bagnarci i piedi e io faccio per buttarmi dentro tutta vestita. Fede­ rica e suo figlio mi afferrano al volo cosicché mi bagno solo a metà: che pazzia fare così, non so che l’acqua è gelata e a tuffarsi si rischia di morire? Cosa mi ha preso, che strana esibizione ho fatto, che brutta figura! Comunque Federica ha una casa attrezzatissima dove mi posso asciugare e cambiare. Sono stupita quando mi accorgo di non avere una mia stanza e che devo dormire con lei, nel suo letto. Finirò per dormire poco e il giorno dopo sarò stanchissima e brutta. Andiamo a letto, così mi accorgo che in realtà il letto grande sono due letti vicini. Speriamo bene. Ma non c’è notte. E subito mattina e i bambini vanno a scuola, vengono a salutare la mamma accompagnati dalla governante. Viene anche il figlio grande, quello che guida la macchina, scambiamo due parole, poi lui se ne va per discrezione. Federica dorme, o cerca di dormire. Ci alziamo e mi chiedo come starò in piedi senza avere dormito, eppure non mi sento stanca. C’è un uomo un po’ anziano, corretto e distinto di modi, però tiene prigioniera,

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dopo averla sedotta, una ragazza molto buona e bella. Federica ne ha una gran pena, ma che farci? La sua casa è piena di gente, di figli e amici, succedono mol­ te cose. Lei è bionda e piacente come mia madre. A un certo punto decidiamo di fare una riunione femminista, una ragazza lì vorrebbe venire, va a chiederlo al suo precettore. Ci troviamo in una specie di piazza-bar, separata dal resto del mondo da una vetrata. Mi accorgo che sulle scalinate ai bordi della piazza ci sono tante ragazze e ragazzi venuti per noi. Che sbadataggine, non abbiamo avvertito che le riunioni sono solo per donne. Non importa, ho qualcosa da dire che sistema la faccenda: loro possono a loro volta fare delle riunioni maschili. Comincio a parlare gridando, ma la voce si perde, bisogna avvicinarci e prende­ re contatto così. Il nostro gruppetto, composto per lo più di sconosciute, è tutto eccitato: una ragazza con la faccia bruciata, una faccia tutta croste, c che in un primo momento mi era parsa sospettosa, adesso si sta sciogliendo e mi parla con fiducia. Io faccio per abbracciarle la vita - vorrei abbracciare tutto il gruppo e dico “Se riesco a convincermi che non sono stupida, il problema è risolto: mica verrà qualcuno, quando sono morta, a redarguirmi ‘Guarda che avevi sbagliato questo e questo"'. Intanto stiamo dirigendoci verso le ragazze sulle scalinate e io sono in quel particolare stato di euforia che mi conosco così bene, un po’ fanfarone, un po’ buffonesco di quando non mi sento sola, ma insieme alle altre, e tutto sembra possibile.

8 gen. Sogni pieni di erotismo, di sensazioni travolgenti. C’c una festa notturna e io scopro di amarlo e desiderarlo follemente. Ho un abito lungo svolazzante, e seguo il mio destino. Non posso più nascondere la mia passione. Ci sono molti ostacoli, donne soprattutto che vorrebbero sma­ scherarmi, che si sentono minacciate da me, ma sono io adesso che metterò la situazione allo scoperto. Finalmente. Lui ha un lungo mantello e mi circui­ sce, mi spinge, mi fa pressione. Intuisco la potenza del suo amore. Tra le don­ ne pericolose, che mi spiano, c’è Valeria e la moglie di Lamberto. Dunque è quest’ultimo che mi ha fatto girare la testa, eppure non lo vedo oppure adesso non lo ricordo, però sento il pulsare dell’emozione in me. Quando il mio amore appare ha l’aspetto di Carmelo Bene: con i grandi occhi neri sporgenti e suppli­ chevoli appare qua e là avvolto nel mantello scuro. Ormai tutti lo sanno, non è più un mistero: voglio fare l’amore con lui, lo voglio disperatamente. Del resto non m’importa, è fatta, è tutto combinato per domani. Mi sento così felice e sollevata che la faccenda sia di dominio pubblico. Penso “Me ne sono liberata in questo modo”. Mi faccio indicare un tram per tornare a casa, è quasi l’alba

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ormai. Ma quando è il momento di scendere non riconosco allatto via Frattina, eppure vedo questo nome sulla targa stradale; ugualmente mi incammino. Allo­ ra dal tram mi richiamano “No no, dall’altra parte!” e, sebbene non riconosca neppure questa parte di via Frattina, mi ci dirigo. Arrivata dove dovrebbe essere casa mia entro in un cortile semibuio: degli operai, omaccioni in maglietta, stanno chiacchierando in un angolo. Un cane ringhioso mi si lancia contro: è grosso, tipo bulldog, e mi afferra una mano tra i denti. Comincio a gridare “Ehi, richiamate il cane, richiamate il cane!” e mi aspetto che quello intanto mi sbrani. Non è così, e anche il morso non mi fa male, semmai un dito è un po’ più schiacciato degli altri, però il cane non infierisce nella stretta come mi pare che potrebbe benissimo fare. Con suo comodo, un muratore si avvicina e mi libera del cane, ma non è molto rassicurante e anzi, non tiene a bada il cane che temo finisca per saltarmi addosso di nuovo. Spiego che sto cercando il mio appartamento, ma lui non ne sa niente, non è in grado di aiutarmi, sono fuori strada. Dove andrò a dormire, cosa faccio senza casa? Devo cercare un alber­ go. Uscendo dal cortile, oppure da un altro cortile, dato che senza dubbio non smetto di cercare, si presentano a me due signori vestiti in abiti settecenteschi e uno di loro mi fa questa proposta: se accetto di prendere una pistola - che lui mi offre cerimoniosamente avvolta in un panno - e di dire che è stato lui a dar­ mela molto tempo prima, senz’altro avrò l’appartamento. Ma questo è troppo rischioso, non posso accettare: come potrei non sentirmi in colpa, tanto più che l’uomo parla a voce alta e in piedi vicino a me c’è una ragazza a testa china con aria assorta che senz’altro ha seguito il patteggiamento, e poco fuori il cortile con fare noncurante un’altra coglie dei fiori o delle erbe, ma in realtà ascolta e controlla le mie mosse. Non mi passa neppure per la testa di considerare questa soluzione, anzi sono sulle spine e il rimedio mi pare peggiore del male. Intanto, su una piazza, forse ai piedi di una scalinata e in attitudine di aspettare l’arrivo del tram - ormai è giorno e c’è il sole - vedo la madre di Marion con un’amica. Mi dirigo verso di lei chiamando “Mamma mamma!”: decido di aggrapparmi a lei, di chiederle umilmente di aiutarmi, di salvarmi. Non mi respinge, ma sembra non mi veda neanche: è tutta occupata dall’esame di certe sciarpe e camicette che qualcuno aveva regalalo a Marion. Resto ugualmente sebbene mi senta più che trascurata. Forse mi invita ad andare da Marion, ci vado e la trovo come sprofondata nell’intimità di una casa piena di libri. Mi viene incon­ tro e il vano di una porta sotto cui mi appare è veramente il non plus-ultra della dimensione accogliente, calda, familiare. Parliamo, stiamo bene insieme, anche se lei mi sembra un po’ bambocciona e inerte. Nella casa è viva la presenza di sua madre. Ho come il senso di coperte da stiro, tavoli, ceste, guardaroba, dietro

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le pareti affollate di libri. Nella scena seguente sono a casa, in via Frattina. C’è mio padre molto distinto, con gilct scuro, ben pettinato, riposato, rasato clic mi chiede benevolmente se verso le tre andrò da lui per la lezione di ottica. Rispon­ do “Forse sì”, ma non so come fare perché quel giorno è tutto destinato al mio amore che desidero immensamente rivedere e con cui ho preso l’appuntamento decisivo. Mio padre intanto mi rassicura sulle difficoltà della lezione di ottica, mi dice che è semplice, basta mettere un oggetto a breve distanza e considerare i raggi che vi arrivano e da cui si rifrangono. Capisco benissimo, apprezzo la sua calma e non voglio dispiacergli, però ugualmente non posso perdere l’occasione della mia vita. Comunque taccio e non so come fare. Lui sta accingendosi a bere una tazza di caffè e latte e io mi meraviglio come di una cosa che non è da lui. Ancora benevolmente mi risponde che lui, la mamma e io mangeremo così e i bambini, invece, un pasto normale. Eppure avrebbe tutti i motivi per essere in collera con me, invece è ben disposto, quasi mellifluo, questo mi rende tutto più difficile: la sua bontà mi sta fregando.

Mentre scrivo i sogni ne godo molto. Provo un maledetto piacere a scriverne. E come se finalmente avessi stabilito un contatto e le immagini, liberate dal significato banale, evocassero risonanze in un altro mondo. Per esempio, Carmelo Bene è un attore che mi piace, mi stimola, però perché lui nel sogno? La sorella di Pietro si chia­ ma Carmela, dunque Carmelo è il fratello? D’altra parte Bene è l’espressione del mio desiderio e il suggello morale che dà all’ope­ razione. Simone ieri leggeva un libro su Leonardo, ecco il perché della lezione di ottica che simbolicamente insegna come guardare la realtà, che intralcia i miei piani di amore e mi richiama al senso della connivenza con gli adulti, del sacrificio, la tazza di caffè e latte, e della famiglia. L’offerta della pistola è sempre la salvezza raggiun­ ta attraverso l’assunzione di un’identità offerta dall’uomo? Quando entra in scena una madre cerco di conquistarla come al solito, ma mi ignora, cioè mi trova indegna: assisto così a un saggio di idillio madre-figlia in cui in parte posso identificarmi, in parte invidiare, in parte giudicare. L’episodio con il cane manifesta il timore di essere colpevole e quindi il desiderio di essere punita, come sempre meno del previsto. A momenti mi chiedo se non è un’invenzione di sana pianta la spiegazione che riesco ad abbozzare, il frutto di una sugge­ stione culturale.

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10 gen. Ho nascosto nella tasca posteriore dei pantaloni una lettera perché Simone non la veda. E una lettera non firmata, ma che ho subito riconosciuto: la busta con l’indirizzo già mi era familiare, ma pensavo si trattasse di una femminista. Invece evoca una relazione, degli incontri, delle sensazioni, delle sensazioni supposte, un passato noto solo a chi l’ha vissuto, e cioè a me e a chi scrive. Immediatamen­ te la dimensione perduta è lì, a portata di mano, mi avvolge, mi sedu­ ce di nuovo, ho lottato inutilmente contro, ho confessato inutilmente: avere la vita divisa in due scomparti crea riflessi e riverberazioni in ognuno dei due, posso essere felice in entrambi, godere le contrad­ dizioni e gli opposti che mi liberano dalla fissità, dal previsto. L’uno rende precario l’altro, cioè prezioso. 11 gen. Incontro Pasolini su una povera strada di campagna. E lacero, im­ polverato come un muratore, la polvere ha riflessi azzurrognoli di cenere; e in gruppo con altri conciati come lui. Stanno fermi come in posa. L’espressione del suo viso è umile, scoperta. Mi guarda. In qualche modo prendo un’iniziativa, entro in contatto con lui. Intuisco di dovere condurre gli approcci in modo molto delicato, posso conquistare la sua fiducia rispettando i suoi umori: parla a voce bassa, pacatamente. Siamo in uno scenario spoglio, campestre, sottosviluppato. Io ero con della gente: l’ho lasciata e mi sono appartata con Pasolini. Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro, per il resto è propenso a monologare. Accetto i suoi valori di cose essenziali, povere, non programmate, inafferrabili, da godere sul momento. Ha una chitarra al collo, parla stentatamente, intimamente. Piano piano sento che si entusiasma di me, vuole venire a Turicchi. E così siamo in un’immaginaria Turicchi, brulla e desolata; spero che vada tutto bene e non ci siano cose che lo disturbano. E sempre più allegro, più loquace. Spunta sua sorella, una ragazza fresca, sorridente e attiva. Insieme ad altri si forma una bella compagnia di gen­ te che si affaccenda in qualche cerimonia elementare, tipo accendere il fuoco, preparare da mangiare. Pasolini è lì, seduto, con la chitarra, un’espressione di vate felice, e sempre in stretto contatto con me. La sua ingenuità e la sua fede mi danno coraggio. Dice di immaginare una lunga vallata seminata di rosse conche di cotto. Dentro di me penso “Ecco il regista, abituato a creare sotto i suoi occhi lo scenario che ha in mente”. Poi vedo una terra allagata da cui emergono grosse radici contorte: su queste sono posati tempietti sofisticati, decorati a grottesche del ’500. Su due radici Pasolini pretende che venga appoggiato qualcosa che non ricordo, ma che per l’audacia mi riempie di stupore. Sono attratta e distur-

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baia dalla megalomania e dalla pretesa di questa scena surreale inventata da lui. Mi sento orgogliosa di portare un ospite così a Turicchi, e poi non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini. Già la vedo che accusa il colpo e ribatte, attenuando quanto può “No? Davvero?”. Vincenzo mi ha telefonato chiedendomi di andare da lui, però subito mi irrita aggiungendo “Devo ciamàr Claudius?”, e io sono seccata perché è così coni­ glio e vuole sempre nascondersi a sé e agli altri, creando un sacco di difficoltà. Gli rispondo di no, che significa, allora è inutile. Esco di casa e m’incammino per raggiungerlo. Vado, sono decisa, conosco questo stato d’animo di passare il Rubicone. Poi c’c un proseguimento della telefonata in cui lui è così eccitato e impaziente che ha l’orgasmo solo parlandomi, io resto un po’ disgustata da questa intemperanza, e penso che si mette male. Però vado lo stesso, ho speran­ za che sarà meglio dopo. Poi lo vedo allo specchio (anzi so che è lui, ma non gli somiglia affatto): apre la bocca e si toglie un pezzo di dentiera, ma non è finita: ce n’è un altro pezzo da togliere con un finto palato. Non so se chiudo gli occhi o la visione finisce, però sento che anche questo particolare è superabile e vado lo stesso.

Appena sposata, ho avuto una gran nostalgia dei miei fratelli e pen­ savo come sarebbe stato bello allevare il bambino Emilio e io, come sarebbe stato divertente, allegro... e normale. Raffaele mi appariva spesso come un estraneo: la vita in comune e la nascita di Tito aveva­ no rivelato degli abissi di sconoscenza, di diversità fra noi, a comin­ ciare dalla differenza di generazione. Mi sento vicina ai più giovani, è un fatto. Sebbene l’uomo con l’aspetto fané abbia su di me una presa nostalgica. La figura paterna nei miei sogni è sempre distinta, autore­ vole, padrona di sé, protettiva, mentre quella fraterna è sprovveduta, appassionata, piena di défaillances, poetica, fragile. Nelle poesie di donne del ’500 che Augusta mi ha sottoposto stamani, mi hanno colpito questi temi individuati da lei: le rime alle amiche, l’amore e la pena per il padre lontano, il colloquio fratello-sorella, l’amore della donna adulta per il giovane bello e ingrato, amore che poi viene ritirato e riportato sui figli. Leggo, rileggo la lettera. Sono emozionata. L’erotismo è segreto. L’af­ fetto è palesabile. Simone ha saputo che sua madre a Palermo è caduta e si è rotta il femore. Ha ottantanni. Simone ha sentito che può essere la fine. Sta­

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mani l’ho fatto entrare in vagina. Dice “Mi sembra di entrare in mia madre”. E poi “Una fica così dolce è quella della madre”. Sara è arrivata a Roma. La notizia non mi ha fatto piacere. C’è nel­ la mia mente una Sara adorabile, nelle vicinanze ce n’è una da cui difendersi. 12 gen. Tito è innamorato? Una ragazza gli ha fatto un paio di guanti all’uncinetto. Anche questo mi fa sentire libera e contempora­ neamente mi richiama il processo di sostituzione. Sara non mi ha telefonato. Meglio così, da un lato; dall’altro capisco che solo vedendoci, magari di tanto in tanto, posso smaltire i fantasmi che si sono sovrapposti alla persona reale e controllare questo proces­ so di riassorbimento nella realtà. 13 gen. Ho abbassato troppo la tiroide, mi sento senza spinta interio­ re: gli occhi restano un po’ fissi, provo il brivido della stupidità. I medi­ ci non ti dicono niente, non sanno niente. Se abbasso, per dieci giorni va discretamente, cala un po’ la tensione nei muscoli, nel cervello, negli occhi e ne provo benessere; oltre questo periodo ecco la fase discen­ dente e una sensazione di torpore comincia a farsi avanti, sempre più invadente. Non posso trovare il punto di confine, devo stare al di qua o al di là. Forse non l’ho neppure mai avuto prima, e questo mi consola. Devo leggere poche paginette su un problema di gas e di energia elettrica in casa di una signora un po’ matura che tiene delle serate intellettuali. M’informo, e prima di me c’è Fortini, dunque un certo livello non manca. Ho da scrivere ancora poche righe per spiegare come mai tratto un tema così insolito per me, addirittura assurdo anche ai mici occhi, le argomentazioni le ho in mente, però non mi fido, probabile che clalfemozione non riuscirò neppure a fare uscire il fiato. In che pasticcio mi sono messa, e poi non si vede neanche il perché. Ho appena due ore per scrivere quelle poche righe, devo sbrigarmi. Invece arriva Lucia vestita in un modo molto carino: ha un bolero su una camicetta che fa tutto un gioco di trasparenze, nello stesso tempo è alla moda perché finisce per avere un vestito fatto di tre balze colorate. Anch’io voglio qualcosa di spiritoso, mi guardo allo specchio, ho una specie di camiciona con quei colori pastello che odio - color carne, verdino, giallino, azzurrino. Non mi dona allatto, dunque comincio a cambiarmi e provarmi. Lucia per un po’ mi consiglia, poi si distrae e se ne va. Così resto senza vestito per la serata, quello di prima è stato eliminato

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senza veramente sostituirlo. Allora: non ho preparato le righe d’introduzione, e non ho neppure qualcosa di carino da mettere addosso. Comunque la padrona di casa chiama per la cena c non mi resta che accorrere insieme agli altri. Subito una si lamenta del prezzo esagerato - 3500-4000 lire - siamo matti? E io credevo che fosse gratis! Dove diavolo mi sono cacciata!

Ero stata invitata da un’amica di Simone a cena: sentivo di partire verso rincomunicabilità, tuttavia ero stata tentata dopo una giornata sonnacchiosa. Però mi sentivo troppo visibilmente “mongoloide” e non padrona di me per andare tra estranei. Infatti alle 11 stavo ad­ dormentandomi in piedi in un modo assolutamente irresistibile. Stasera ho parlato chiaro a Federica: l’argomento era Paula, però dal fare imbarazzato ho capito che anche lei potrebbe accettare di esclu­ dermi dalla casa editrice. Insomma, devo togliermi dalla testa di fare qualcosa con le amiche perché loro sono nell’aut-aut: o continuare a dipendere da me, a darmi mentalmente una certa priorità, oppure ribellarsi del tutto (o in parte, strumentalizzandomi). Nessuna delle alternative è passabile. Via via che sono più pessimista mi sento più sollevata e più nel vero. A quante favole mi sono attaccata! Voglio fare una ramanzina a Paula, non gliela passo liscia. Cara Paula, come fai a rassicurarmi che non resterai delusa se non accetterò di diventare socia della casa editrice? Visto che tu desideri, speri e spingi perché 10 non lo diventi. Almeno non portare il tuo opportunismo fino al punto di chiedermi di esserti vicina con la mente, il cuore, l’affetto, cioè come sono stata finora, una consulente privata, di tutta fiducia e che ufficialmente non dà om­ bra. Ciao, morbida pelliccia.

Anch’io sono stata così agli inizi della mia carriera di critica d’arte: assorbivo come una spugna e non volevo ostacoli sulla mia strada. 11 fatto che fossi meglio degli altri ha giustificato il mio bisogno di avere quel risalto che sentivo di meritare. In fondo quello che rim­ provero a Paula è che sembra aspirare a un risalto che non merita, e quindi non può ammetterlo. Qui posso scrivere la parola “fine”. E la fine di un’ideologia, di una sorellanza, del femminismo, e l’inizio, almeno per me, di rapporti

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meno ipotecati dal bene, il bene di essere donne innocenti, e più aper­ ti al vero di come siamo, con una debolezza, un inappagamento, una inferiorizzazione così radicati da renderci pericolose e infide le une con le altre, e più pericolose e infide quelle che non vogliono vederlo cosicché, scandalizzandosi e cadendo dalle nuvole, lanciano l’anate­ ma e screditano le più coraggiose. Cara Valeria, mi sono cullata ancora, nonostante le smentite, in una specie di miraggio come se esistessero ancora mamme qua e là sulla terra, e non tutte fi­ glie: scatenate o sornione. Stasera ho capito che sono una inguaribile, una che ci casca, basta che mi lucidino il piedistallo e io su con un balzo. La compunzione e l’assennatezza sono il contenuto del testo e della regia. Posso ridere di me stessa e rido infatti, ma davvero: ho smascherato di tutto con un colpo, che colpettino da maestro. Come sorprendere una santa che fa una scorreggia. E così? Questa sera il femminismo e tutto quanto hanno fatto un’involontaria scorreggia. Beh, era ora.

14 gen. Il mio vero desiderio qual è? Occuparmi degli scritti di Ri­ volta: allora posso destinare lì quei soldi che dovrei mettere nella casa editrice per essere socia. Non credo che perderò più di mezzo milione l’anno. Vale la pena. La sede ce l’ho. Concentrando tutto su di me, posso arrivare anche a distribuire meglio. Solo un uomo ha pietà di una donna.

Mi sono subito accorta di rifugiarmi in Simone, in Tito, nella casa, ma soprattutto in Simone. Mi calma molto parlare con lui, non per­ ché mi dia ragione, ma perché è fidato, non si approfitta di me e neppure ci prova. Voglio vendere un quadro di mia proprietà: lui me l’ha suggerito ed è giusto, fare un’attività con soldi miei. 15 gen. Gli appetiti di Paula sono quelli: cominciare un’operazione sul femminismo, cercare di ricavare un prestigio senza la mia ipo­ teca. Matilde molto ingenuamente dice “Pubblicare dei libri per le donne”. Non potevo credere che si volesse scartare me o relegarmi tra le sostenitrici, allontanarmi dal centro, dal nocciolo. Invece è così, per questo Federica mi dava l’impressione di non rispondere alle mie

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domande, era evasiva, oppure cercava di farmi capire qualcosa che io mi rifiutavo di accettare. Le ho detto “Ma questa casa editrice è un’impresa capitalistica!”. Lei era un po’ agra “Certo”. Allora la conclusione è così, che io compro il minimo di quote per essere socia, la casa editrice s’impegna a pubblicare un libretto verde l’anno, resto la curatrice degli “Scritti di Rivolta Femminile” e unica responsabile. Darò la stanza adiacente all’appartamento di Milano alla casa editri­ ce che pagherà l’affitto: occorre mettere il telefono e un cancello di­ visorio sul terrazzo. Sono per interpellare tutte quelle di Rivolta che vogliono fare parte, Ester e il suo gruppo comprese. Anche l’amica di Paula fuori Rivolta, eccezionalmente, visto che Paula ci tiene tanto. Federica mi promette di cedermi delle quote della casa editrice una volta arrivati gli utili, per venire in pari con lei. E un’assurdità. Sono i “progetti e promesse di regali grandiosi”, progetti che “si rivelano di solito irreali” (Freud) durante il transfert. Eppure Federica è, più che generosa, addirittura prodiga. Anch’io a Sara avevo offerto l’ospita­ lità, per aiutarla certo, ma soprattutto per averla vicina, e quando mi sono accorta che, al contrario, voleva liberarsi di me, non ho più potuto sopportarla per le pretese che avanzava su un mio gesto vo­ lontario che non reggeva alla delusione. Felicita a dorino, prima ha offerto la sede di Rivolta, poi, quando ha cominciato a soffrire per Valeria che ne aveva fatto suo alloggio, l’ha voluta ritirare. I nostri rapporti tra amiche del gruppo sono pieni di una generosità immagi­ naria e impossibile. 16 gen. C’è una frase di Freud in cui dice che la socialità poggia sul bisogno che si ha degli altri per proiettare all’esterno il male che si sente dentro di sé. Osservazioni come questa mi caricano. Con Federica si ripete esattamente il curriculum che con le altre: ci vediamo spesso, ci cerchiamo, però piano piano il rapporto si stabi­ lizza sulla confidenza sua nei miei confronti. Questa volta sono stata ben attenta al processo, e non è vero che io lesini a parlare di me, ma ogni mio accenno cade nel vuoto, non c’è interesse da parte sua. Le ho detto, per esempio, di avere ricevuto una lettera e che questo mi aveva fatto capire che non ero cambiata; spostava subito su di sé e riprendeva il filo interrotto. Avevo la lettera in borsa, pronta a tirarla fuori, ma a che scopo? A tal punto non ha reagito, che posso pensare non abbia neppure sentito. Quando proverà interesse per me sarà

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per cogliermi in fallo, diversificarsi, opporsi a me. Di nuovo siamo lì, nei ruoli che conosco, nel bel mezzo di una traslazione di cui sono più cosciente, forse posso evitare che nei momenti cruciali mi faccia troppo soffrire. Perché arriveranno, in qualsiasi modo io mi comporti, devo solo vedere le varianti. Certo, con Sara ero coinvolta, con Fede­ rica ho più distacco, né m’illudo di agire per il suo bene, semmai per dimostrare a me stessa che “sono” un bene. Se la necessità che spinge ad avere i rapporti umani è quella di pro­ iettare e poi riassorbire nella coscienza gli aspetti di sé sentiti come negativa, allora ciascuno, in quanto ha un passato particolare, ha una modalità particolare nelfaifrontare i rapporti umani, in un gio­ co delle parti che inconsciamente propone o a cui inconsciamente si presta (per cercare di liberarsene). Sono giovane e bella con meravigliosi capelli biondi. Non ho come tenerli su e un’amica mi offre una specie di retina metallica fatta a coda-chignon su cui potrei avvolgerli. Non mi va, finirò per cambiare fisionomia e sto per andare a una festa, ci sono tutti i preparativi intorno, una festa dove c’è un tale per cui ho un’attrazione straordinaria. Si, è Claudius, c’è un tacito accordo fra noi, devo essere al meglio. Però poi accetto, ma l’operazione rimane a metà: ho tutti i capelli pinzati giro giro alla testa come una corona. Mi rassegno, ma non serve perché alla fine una tale mi avverte che sono caduti giù. Intanto il tempo passa, ho altre cose da fare prima di recarmi alla festa, penso che mancherò anche questa occasione perdendomi in preliminari. C’è il problema della “casa” in qualche angolo del sogno.

Non so come rispondere alla lettera. L’emozione è durata due gior­ ni, poi penso la cosa con calma e mi frustra perché sento che cade da sola. Mi è servata come campanello di allarme. 19 gen. Naturalmente sono tornata scontenta di me e tranquilla­ mente depressa dalla serata mondana. Il mio comportamento mi disgusta eppure mi scatta automatico e ho un bel dirmi che devo ab­ bandonare le difese: di qualsiasi argomento si parli non mi viene che una confusa irritazione che non diventa mai argomento, possibilità di intervenire, di dire la mia. E come se non avessi niente da dire, il che è falso perché so benissimo che quel ribollimento interiore è l’indizio di una reazione che resta però soffocata. Come mai non riesco a su­

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perarla? Stamani di nuovo Simone alludeva alla mia paranoia che si scatena nei rapporti sociali. Ma che significa? Possibile che si tratti di uno stupido complesso, una stupida svista e che la situazione che mi mette così a disagio da perdere il senso di me sia in realtà accettabile? Perché il problema è lì: io non Faccetto, cioè non accetto me stessa in quelle circostanze, parto dal presupposto che “andare lì” è sbagliato. Infatti di mio non ci andrei, è certo, e neppure sarei invitata. Allora ci vado per ragioni di convenienza sociale, per compiacere Simo­ ne. Cedo l’iniziativa dei miei gesti e immediatamente decado ai miei occhi, perdo l’autostima e, con lei, tutto: identità, capacità di stare con gli altri, capacità di esprimermi, addirittura di avere qualcosa da esprimere. La mia vergogna aumenterebbe se da questo stato di smarrimento riuscissi a simulare e ricostruire quella che abitualmente è la mia sicurezza. Allora proietto sulle altre donne il disprezzo che avrei per me, perché le vedo lanciate in qualche esibizione mentre so che, come me, sono lì per cortigianeria e non se ne accorgono, non ne restano turbate. Infatti basta che trovi una donna (o un uomo) riservata e imbarazzata per potermi rispecchiare in lei con serenità e ritrovarmi, cioè capire che la mia presenza lì è giustificata (è sempre giustificata se posso stabilire un contatto autentico). 21 gen. Caro Pasolini, nel tuo articolo sul “Corriere della Sera” Io sono con­

tro l ’aborto ,

scrivi: “Non mi risulta che gli abortisti, in relazione ai problemi dell’aborto, abbiano messo in discussione tutto questo”. Io e le donne del grup­ po femminista a cui appartengo l’abbiamo fatto e abbiamo pubblicato degli scritti in proposito, che però sono passati completamente sotto silenzio. Gli abortisti, come li chiami, non hanno mostrato di prenderci in considerazione. Eppure non ci siamo pronunciate contro la libertà di aborto, che rispecchia, sono d’accordo con te, una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere, e in questo senso noi di Rivolta Femminile non abbiamo mosso un dito, ma abbiamo posto dal ’71 il problema della presa di coscienza su ciò che l’aborto legale sottintende: la consacrazione del coito. Il nostro obiettivo non era negare la libertà di aborto, ma cambiare il suo significato nella coscienza di chi continuerà a subirlo, anche libero, la donna, e a imporlo, una cultura, se non vogliamo dire l’uomo. Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fra­ tello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua ad arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo o per sminuire

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quello che hai pensato e scritto con autenticità, ma perché non voglio lascia­ re incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera. Da tem­ po sentivo crescere questa fiducia e adesso ho l’occasione di manifestartela. Per la verità devo aggiungere che questo tipo di lotte “ritardate” hanno smes­ so di spingerci verso impostazioni rigide, e perciò ritardate. Non possiamo aspettare chi tarda, così andiamo per la nostra strada e tutto è molto più li­ bero. Con affetto.

22 gen. Finché non ho spedito a Pasolini mi sono arrovellata in un’infinità di dilemmi: se facevo bene a scrivergli, se facevo bene a scrivergli così, e poi ogni frase come sarebbe stata interpretabile nel bene e nel male, se era meglio mettere in chiaro che Rivolta non è un gruppo omosessuale, se era esagerato finire “con affetto”, se avrei dovuto scrivere al singolare oppure al plurale, io oppure noi, se tutto sarebbe risultato ingenuo da fare pietà oppure machiavellico, se sarebbe stato più prudente aggiungere che la lettera è privata e personale. Un groviglio di dubbi ai quali ho fatto fronte meglio delle altre volte se alla fine ho imbucato, con la sensazione di quando parte finalmente il colpo della roulette russa. Subito dopo mi sono sentita meglio: “il dado è tratto” è una gran sensazione, qualcosa è alle spal­ le, adesso si tratta di affrontare le conseguenze. Stamani avevo telefonato all’amica argentina per dirle dei miei dub­ bi e, come spesso mi è accaduto nella vita che una voce innocente sul più bello risolve d’un colpo l’oscillazione dei prò e dei contro di un’azione che desidero fare, ma che non mi decido a fare, così solo il suono della sua voce che mi diceva “Dal momento che hai scritto la lettera spediscila. Di cosa hai paura, cosa può succedere?” aveva cancellato le mie indecisioni e mi sentivo sicura di me, sicura che qualsiasi cosa viene da me sono in grado di accettarla. Poi ho parlato con Simone e lui dava corpo a tutti i miei timori, ma ormai ero intoc­ cabile e anzi, vedendoli riflessi in lui, mi parevano così insignificanti. Mi metteva anche degli scrupoli: che diritto avevo di lamentarmi con Pasolini che nessuno aveva preso in considerazione Sessualitàfemminile e aborto visto che non volevamo il dialogo con gli uomini? Forse lo avevo dimenticato? Questo mi aveva fatto sentire automaticamente in colpa per avere scritto a Pasolini, che è appunto un uomo. Poi ho capito che non ho più nessun limite, faccio quello che voglio.

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Guardavo IIferroviere alla TV e intanto scribacchiavo queste righe, e anche il film sembrava mettermi in dubbio, dirmi che sono cervello­ tica, strana; che faccio delle pazzie, come scrivere una lettera piena di affetto a uno sconosciuto, un divo della cultura però, già abbastanza narcisista e coccolato dalla sua corte. Però so che non è così, che è uno come me, che ha bisogno di risonanza come ne ho bisogno io. E che comunque scrivergli è un atto di fiducia in me stessa, perché lo valuto con lo stesso metro con cui mi valuto. Cara Paula, la mia intenzione è di essere presente appena se ne offra l’occasione, specialmente se mi sembra di meritarlo, e che mi spetta. E invece ho sentito più in profondo che ci devo rinunciare, che non mi interessa abbastanza, che mi impegnerei per “esserci”.

Con la lettera a Pasolini ho l’impressione di avere messo in moto qualcosa, che io stia ferma e qualcosa arrivi. 23 gen. Avvenimenti intrecciati, feste, e Nicola che appare con un bel vestito preso nei saldi con corpetto ricamato verde scuro, grazioso: ma perché non sono anch’io così attenta da scegliere bene qualcosa a poco prezzo? Mi chiedo se si vede che è una cosetta così. Finita la festa salgo le scale con Regina e una sua figlia piccola. La complimento per la festa - era lei che la dava - “Molto riusci­ ta”. Mi risponde controllata, ma acida che ho fatto bene a parlarne con il padre (di chi?), in questo modo ho ottenuto il suo riconoscimento, anche se la festa era uno schifo. “No no, Regina”, mi affretto a spiegarle “Non hai capito, sono io che gli ho dato il riconoscimento, questa è la cosa importante, non sono andata a chiederlo, ma a darlo”. Lei non è affatto convinta. Mi chiedo se non ho esagerato a riconoscere l’autenticità di Pasoli­ ni. C’è un punto del suo articolo che mi è parso scadente, dove dice che alla TV dovrebbero insegnare tecniche amatorie diverse dal coito e diffondere contraccettiva. Io detesto le tecniche amatorie, e penso che basterebbe esprimere con fiducia le proprie sensazioni erotiche e cogliere i suggerimenti dell’altro. Simone da Palermo mi ha telefonato e alla fine mi ha chiesto “Hai spedito la lettera?”, “Sì, e ho fatto una bella dormita”. L’ho sentito un po’ preoccupato nel tono della voce: difendendo me vuole difen­ dere se stesso. Però può sempre turbarmi, farmi credere che è meglio

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se mi controllo, se tengo conto delle conseguenze dei miei gesti (sono molto molto felice in questo attimo, tutta la felicità della mia vita si raduna in questo attimo e io barcollo dalla commozione). Penso al rapporto fratello-sorella, ai miei fratelli, a S. Francesco e S. Chiara. A quante amiche sono compagne di omosessuali, dichiarati o latenti. E come se si dischiudesse una fessura luminosa in una parete buia. Un incontro si prepara. Un altro dubbio si fa strada nella coscienza, cioè stava sotto, so che c’era, anche perché a volte appariva di botto e di botto spariva, non potevo afferrarlo, adesso è entrato e ha chiuso la porta dietro di sé, ha intenzione di fermarsi. Il dubbio è che per un omosessuale l’erotismo sia pur sempre penetrazione. Chissà se non reagirà alla patriarcale sentendo chi vuole viverlo in un altro modo. Altro pensiero, imprevisto. Ecco che sono caduta nell’errore delle femministe da che il movimento esiste: idealizzare un uomo, vo­ lerne fare a tutti i costi un fratello, un amico. D’altra parte questo cos’altro può essere se non il bisogno di riconciliazione con l’aspet­ to maschile di sé? A questa funzione non può servire il padre, è evidente. E ho buone speranze di non ingannarmi perché non l’ho riconosciuto in quanto alleato, perorante la mia causa, ma in quan­ to scopre se stesso e smaschera l’inautenticità e la violenza del mondo maschile. Il bello è che, per fare questo, non “può” essere mio alleato sugli obiettivi pratici, politici. E tanto più mi sento sicu­ ra di me a non essermi fatta fuorviare da questi elementi esteriori. E da due giorni che sento una voce maschile salire dalla strada “Raccogliamo le firme per legalizzare l’aborto!”. Ogni tanto s’intu­ isce una voce femminile che borbotta la stessa cosa. E poi ancora la voce maschile “Aborto da mezzo milione in una clinica privata, aborto da ventimila lire con un ferro da calza!”. E proprio l’attualità di questa propaganda, di questa voce maschile soddisfatta di sé e che ha appena una sfumatura, inconscia ma non poi tanto, di fierezza virile - poiché difende la sua civiltà, la sua donna, il suo coito - che mi conferma l’insopportabilità della collaborazione con l’uomo su questo tema dei “diritti civili” (!). La figura paterna rappresenta la mascolinità dentro un ruolo, una camicia di forza, è già di un uomo che lotta per difendere un nucleo

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umano, che ha responsabilità sociali e della società cerca di fare parte al grado più elevato possibile. Dunque il padre è un uomo che ha biso­ gno di maschera, autorità, contegno, un uomo che non può permet­ tersi di rivelarsi neppure a se stesso. Questa è la sua tragedia, il suo pa­ thos. Mentre il fratello è la mascolinità ancora allo stadio socialmente irresponsabile, può essere se stesso se vuole. Simone, che pure ha l’età di Pasolini, è condizionato dalla serietà, dalla gravità dell’esistenza: ha figli a cui risponde, che protegge, per cui soffre, per cui lavora. Io faccio un po’ parte dei figli. Per quanto libero non può venire meno a un suo codice: crede in un padre ideale in cui si è identificato. 24 gen. Le donne del “Manifesto” sono così fuori, dirigenziali e fred­ de che gli scrivo solo per fargli capire che hanno sbagliato. Se parli con chi pensi non ti capisca, non puoi aprirti, infatti a rigore non dovresti parlargli. Anche Isa voleva scrivere a Pasolini, tutte lo amiamo un poco. Moravia ha scritto a favore del coito, in questo modo non fa che presentarsi come figura paterna, mentre Pasolini è il fratello in­ terdetto, il maschile negato dalla società, il maschile che la donna può sentire parte di sé. Ho portato al “Manifesto” lo scritto di rettifica su Rivolta Femminile. Che fatica mettere tutto a punto nel migliore dei modi! Che fatica sen­ tire le passioni in modo pubblico! Adesso non vedo l’ora di riprendere il mio tran-tran, e tutte le sue emozioni. 25 gen. Risposta-fiume di Dacia Maraini “Caro Pier Paolo...”. Le femministe si accorgono di non contare niente, niente di niente... “sei cattolico, sei geniale, fantasioso, anticonformista...”. Adesso scrive­ rà il leader radicale “Caro Pier Paolo...”, e avanti. Dacia colleziona buoni argomenti, ammassa tutto ciò che di meglio è stato detto o po­ trebbe essere detto pro-aborto, non fa un articolo, fa un censimento. Ma lei chi è, dov’è? Un castello-albergo con gente e qualcosa da fare, una partenza, una gita stra­ na, non ricordo. A un certo punto getto uno sguardo fuori della finestra e con mio immenso stupore, nella luce irreale - una notte limpida con la luna pie­ na, un’alba imminente - vedo una fila di montagne nude, senza alberi, senza

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neve (questo mi stupisce: senza neve), lisce, con i soli disegni delle ombre, nitidissime, magiche. Chiamo Simone e gli dico “Guarda guarda queste mon­ tagne, sembrano incisioni su rame”. E sono felice di avergli mostrato qualcosa così e di avere azzeccato il paragone.

Simone torna, e come sempre, all’inizio sono nervosa, scontenta, non mi sento più libera. Un po’ come accadeva quando il babbo veniva a trovarci al mare, oppure semplicemente rientrava dal lavoro. Poi mi abituo. Prima di addormentarsi diceva “Ancora non capisco la tua posizione sull’aborto” o qualcosa di simile. Gli ho risposto “Ho abor­ tito due volte e tutt’e due le volte sono rimasta incinta senza provare l’orgasmo; nei libri si leggono statistiche di maggioranze di donne che non provano l’orgasmo vaginale, insomma se una ha gusti diversi dal coito li può esprimere, quella è una liberazione per lei, e non avere l’aborto legale se non ha goduto; questa connessione è un diritto per la donna, ma nessuno lo dice perché si sottintende che se non gode nel coito non è normale e quindi è meglio che si provi a diventarlo piuttosto che a desiderare e proporre qualcosa d’altro: per fare un figlio non c’è bisogno dell’orgasmo, ma per fare un aborto sì”. Ogni volta devo argomentare, altrimenti lui si dimentica di me. Dopo che ho ripreso la questione dice “Sì, va bene, adesso vieni qui”. Eppure forse è proprio questo che ci permette di stare insieme, che crea il distacco necessario, l’autonomia necessaria, l’interesse necessario. Capisco che cosa fa la persona che non si ama: quando gli altri mo­ strano di apprezzarla non li crede, quando sfuggono li rincorre o tiene duro. Federica vorrebbe esprimersi scrivendo, poi da se stessa se lo nega. Ho passato il pomeriggio con lei: a ogni suo scoppio di disperazione mi montavano le lacrime agli occhi, eppure so che alla fine era fru­ strata. Vede che io ho quello che a lei manca: l’amore di un uomo. 27 gen. Su un rotocalco alcune donne fanno dichiarazioni in cui collegano sessualità femminile e aborto, ma così, sulla battuta spic­ ciola, in un modo comunque raccapricciante. Tutto diventa slogan, strumento di lotta. Non esiste verità comunicabile, non esiste verità. L’unica verità è la scoperta di sé. Simone mi chiede “Perché non intervieni?”. Io sono intervenuta pri­ ma che il dibattito incominciasse, quattro anni fa, adesso non saprei

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più affrontare la questione aborto, posso solo ritirare fuori quel testo e darlo, così com’è. Di tutti chi mi interessa è Pasolini: potrò avere uno scambio con lui? Stasera mi veniva in mente quando, a vent’anni, me ne sono andata a Parigi per tentare un approccio con il teatro. Quella volta non ci sono riuscita - ho conosciuto solo Jean Vilar e lo scrittore lionese che mi ha fatto un panegirico, era già abbastanza emozionante per me, ma non erano loro che volevo incontrare sono rimasta - “fuori”, nell’ufficio stampa, il mio era un sogno di bambina, con tutto il co­ raggio disperato che avevo non sarei potuta andare avanti un passo di più. Però ho fatto l’articolo, in due puntate, sul Théâtre National Populaire. Le mie proiezioni a quell’epoca erano irraggiungibili. Poi ci sono stati gli artisti, e lì, una dopo l’altra, ho varcato tutte le soglie di quelli, pochi, che mi piacevano; avevo intuito che, per potermi presentare dovevo mostrare di capire, di valutare, di intendere loro e le loro opere, conoscerli e parlare di loro. Scoprirli era uno scopo eccitante per me, ma anche limitativo: come essere autonomo non esistevo. La felicità che sento adesso è perché ho preso l’iniziativa, mi sono aperta con un altro di questi esseri che periodicamente at­ tirano la mia attenzione, e l’ho fatto rivendicando il mio punto di vista, addirittura la mia priorità. Ma poi, su questa base dimostrati­ va, sottintendevo “So che non puoi essere per l’aborto perché, come omosessuale, non hai senso di colpa come tutti gli abortisti; so che tu conti che le femministe ci caschino, e ti accusino di essere contro l’aborto invece di sentirti vicino perché metti in questione il coito; so che sarai meravigliato per la mia lettera, so che poi avrai reazioni contrastanti, ma dovrai ammettere che, scrivendola, mi sentivo alla pari con te”. Ecco; questa per me è una nuova fase, quella in cui sono cosciente del mio modo di cominciare i rapporti. Di qui la mia fiducia, qualcosa di continuo che mi fa dire a Federica “Mi sento forte, non vedo ostacoli per me, ho passato finalmente la crisi, le incertezze, e adesso rinasco, senza paure, faccio quello che voglio e accetto le conseguenze”. Ricordo quella poesia dove dico “Assodato che non ti avrò / solido terreno di partenza...”. Adesso ce l’ho sotto i piedi, sono arrivata alla terra che, senza conoscerla, da me stessa mi ero promessa.

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Che miracolo svegliarsi dopo un quarto d’ora di sonno!

Non so cosa aspettavo, ma non succede niente. Cosa può avere capito Pasolini da quella lettera? Solo io capisco tutto da un piccolo accenno di autenticità. E comunque per me è, in assoluto, la cosa più impor­ tante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste. 28 gen. Notte: c’è un gran raduno, forse femminista, a Firenze. Io ho dei pro­ blemi. A un tratto vedo appoggiato a un pilastro o a una fontana di ghisa tipo ’800 un foglio con delle parole scritte: è una pagina del mio diario, mi precipito a recuperarla. Come mai è lì? Il sogno si riferisce alla preoccupazione eli avere spedito la mia let­ tera e lo scritto di Rivolta Femminile sull’aborto a Pasolini. Sono andata a vedere Allonsanfan. Com’è difficile non sentirsi offese continuamente e oppresse da un’immagine “vaginale” sempre pre­ sente nella mente dell’uomo. 30 gen. Risposta di Pasolini a... Moravia, sul “Corriere della Sera”. Ho scorso velocemente l’articolo per vedere se compariva un accen­ no a Rivolta. Niente. Pasolini è trascinato nel dimostrare a Moravia il suo diritto a differenziarsi da lui, chiede di essere accettato, ma Moravia resta nel suo olimpo scettico e si guarda bene dal cedere alla proposta di Pasolini “e in questo siamo affratellati, possiamo pensare insieme a un esilio comune”. La stessa parità che offrivo io a Pasolini, lo stesso termine, fratello. Tuttavia non mi è difficile vedere qualcosa di più nell’uso che ne fa Pasolini: questa offerta di fratellanza nascon­ de una sfida e non può venire accolta tout-court. Nonostante tutto anche Pasolini finisce per nascondersi in una bat­ taglia di idee: difende se stesso-idealista contro Moravia-avallatore-dello-status-quo, in realtà rivela un desiderio di riconoscimento non appagato e non appagabile. Il riconoscimento non si può ot­ tenere chiedendolo. Chiedere il riconoscimento, o darlo per averlo,

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ha sempre una motivazione subdola, ambivalente. È un trucco che si fa a se stessi sperando che gli altri ci smascherino, ma allora devo­ no smascherarsi anche loro. Moravia vuole smascherare Pasolini, ma continuare a coprire se stesso, e Pasolini ci casca: la risposta è un’au­ todifesa argomentata, l’apertura è finita. Ho fatto il tentativo di trovare spazio sui giornali degli uomini visto che si parlava di aborto, di coito, di leggi sulla donna. Ho cercato la verifica di quello che avevo intuito da sempre, e cioè che viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo, quell’uomo che mi fa più paura di tutti perché senza dubbi su di sé, e sulla sua lotta avallata dalla donna - o meglio sulla lotta promossa storicamente dalla donna - ma poi, al momento op­ portuno, come sempre, impugnata, gestita, controllata da lui. Lui ha l’ultima parola su ciò che va detto e come va detto, sulla tattica, la strategia, le esclusioni, gli slogan, le immagini. Il mondo è suo e sa come promuoverlo. Lui è l’unità di misura della realtà: quello che lui non capisce non esiste. Noi siamo fuori. L’uomo si è assestato su una verità di parte e già lì si sente martire, già lì mi sono scoperta disposta a chiamarlo fratello, ma non vuole i rischi della reciprocità, vuole essere mio salvatore, e dunque mio giudice, mio legislatore. Come Cristo, un fratello alleato del padre, non della sorella. Questa non è la fratellanza che intendo io. Quando scrivevo a Pasolini che non si possono fare lotte “ritardate” mi sentivo presuntuosa. Adesso “so” che è così: è un dolore, un’impotenza, ma non c’è spazio per me e per quelle come me, e la cosa è tanto più inesorabile in quanto l’uomo di cultura, di politica, quelli che fanno le lotte, il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato. Con l’appoggio delle donne allevate nel suo punto di vasta e gratificate per questo, con le quali schierarsi e marciare nel “progresso”, civile, il patriarcato è salvo e può permet­ tersi di considerare inesistenti, semplicemente inesistenti, le donne avviate per una strada di liberazione. Poiché il termine di liberazione l’uomo ha deciso che spetta alle altre. Ho telefonato a Sara, mi ha risposto il marito e ho riabbassato. Vole­ vo dirle “Ho nostalgia di te, vorrei essere rassicurata da te, mi ritrovo in te”. Di nuovo ho un senso di superiorità tremendo, che estendo a lei, alle altre: è questo bisogno di integrità che nella mia piccolezza mi

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tiene in alto, mi fa precipitare in basso, e io navigo ogni onda, ogni spruzzo, ogni oscillazione, e ne sono cosciente. 31 gen. Il dibattito sul “Corriere della Sera” a proposito dell’aborto, come ogni dibattito, ha già provocato un’involuzione. In effetti, un clima di competizione, sia pure mascherata, non può che rafforzare gli ostacoli a un’apertura su se stessi, unica apertura degna di questo nome. 1 feb. Va bene, Simone mi conosce e qualche amico, sono già fortu­ nata ma non mi basta se cerco risonanza nel mondo, fuori dalla sfera privata dove chiunque è, più o meno, apprezzato. Lì mi è impedito l’accesso. Allora non è vero che prima di me le donne erano più op­ presse o più spaventate o meno coscienti, semplicemente non sono state registrate come esistenti: la loro vita, la loro voce si sono perse nel nulla come è destinata a perdersi la mia. 2 feb. Sono con delle ragazze e faccio progetti di viaggi e di incontri con altre femministe. A un tratto dico “Ma io voglio andare dalla mamma”. Stamani pensavo che sono ancora una bambina, che guardo il mon­ do come uno scherzo dei genitori, così io, sempre per scherzo, m’in­ vento un sacco di reazioni anche se fingo di prenderlo sul serio. Co­ mincio appena a capire che il mondo non è uno scherzo, che i geni­ tori non ne potevano niente, ma proprio niente come non ne posso io, che mostravano familiarità, lungimiranza e capacità d’intervento solo per rassicurarmi e appoggiarmi con garbo sulla nuda terra, no­ stra origine comune e nostra meta, che ora non mi resta che essere calma e cominciare a osservare fermamente tutto ciò che è, smettere di fare capricci con me stessa, smettere di reagire ai genitori invece che alla realtà - come se prendendomela indirettamente con loro potessi convincerli che non faccetterò mai e quindi, volenti o no­ lenti, che faranno meglio a cambiarla come io gli suggerisco. Visto che non l’hanno fatto subito per amore, lo facciano almeno adesso costretti dalla mia invincibile incredulità e dimostrata impossibilità di adattamento. Ho una smania straordinaria di vedere freddamente, così com’è.

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3 feb. Giornata con Marion. Non sono io se non strafaccio e poi, na­ turalmente, me ne pento. Però ero ben disposta fino alla fine, quan­ do abbiamo parlato dell’aborto, di Pasolini, del sesso e lì mi sono spazientita perché Marion sviolina sempre per gli uomini, e natu­ ralmente ha preso la palla al balzo per affermare che le femministe non hanno fatto altro che dire quello a cui le persone sagge arrivano da sole, e anzi finiscono per alimentare una moda di confessioni già temibilmente consumistica. C’è stato un battibecco e Marion ha do­ vuto convenire che è stato Pasolini e non noi a lanciare un appello di apertura dalle colonne di un grande quotidiano, luogo che si è confermato per lo meno inadatto. Anche sul sesso aveva idee confuse, che attribuiva all’insondabile vastità del problema. Faceva risalire tutti i suoi complessi di colpa all’educazione cattolica avuta dalla madre —le ho chiesto “Sei sicu­ ra?'’ e non lo era - ma poi parlava di uomini civili che fanno l’amore in tanti modi, così ero io ad avere il problema del coito, che c’entrava che fosse il modello sessuale imposto. Marion è tutta una difesa dalla testa ai piedi, e però molto calda, materna, e questo lato tanti anni fa mi aveva conquistato perché io ero come un’orfana, un’orfana di madre. Adesso polemizzo blandamente e non gliene voglio anche se è esa­ sperante, testarda - avevo negli occhi le immagini di Sussurri e grida quando le due sorelle si accarezzano il viso e sentivo proprio le mani che mi formicolavano e guardavo le sue guance rotonde, il seno gran­ de e rotondo, i fianchi e il sedere rotondi e pensavo “Mamma, sorella, quel che diavolo sei, eri questo per me”. Ester ha telefonato mentre ero lì e Marion non gliel’ha detto, que­ sto creava una complicità tra noi come se volesse nasconderle che il privilegio in quel momento era suo. Marion dichiara di aborrire il plagio, di averlo escluso dalla sua vita e di esorcizzarlo dalla vita degli altri. Non mi risparmia accuse, tanto più pesanti quanto più indirette poiché non ha dubbi che io sono una terribile, ostinata plagiatrice, però parla sempre del rapporto umano come di un incontro in cui prendere: il rapporto fortunato è quello in cui puoi prendere molto. Allora?

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4 feb. A una cena ho ammesso di non avere voluto vedere le mostre di due pittori famosi, aperte a Roma di questi tempi. L’ho detto in modo scherzoso e ironico. Dico delle cose tremende a un tale, scultore (che però fisicamente non è lui, ma uno sconosciuto), gii svelo tutto il mio disprezzo, lo lascio di sasso, lui e tutti gli astanti. Una donna, Tina?, fa la lista delle persone per “Vogue” e salta il mio nome con aria candida. Poi mi aiuta a salire una scala: io sono come ma­ lata e devo appoggiarmi a lei. Lascio lo scultore alle spalle e gli dico a bassa voce, ormai in tutt’altro stato d’animo “Non mi ammazzare, adesso”. Temo che mi possa buttare giù dalle scale.

Sento che accetto gli altri sempre di più: le persone che un tem­ po avrei scartato adesso le metto ugualmente in lista di attesa. La comprensione è la sola bontà possibile. Lo stesso sono irritabile, è il mio carattere, ma la mia natura è comprensiva. Conoscere se stessi è doloroso poiché il processo avviene nelfinganno delle proiezioni. Dopo essersi eretti a giudici degli altri, giudici focosi ed esigentissimi, ci si sente smarriti a dovere riconoscere che gli altri sono lo specchio delle nostre insopportabili fattezze. Con Nicola parlo così bene! Oggi siamo state insieme un paio d’ore e il tempo è volato. Era come dipanare una matassa di seta. Andando­ sene mi ha baciato sulle guance. Ieri sera a cena da amici le avevo te­ nuto una mano fra le mie. Federica ha chiesto di rivederci in gruppo al più presto. Trascinata da lei ho sfogliato qua e là un gran librone L’orgasmofemminile di un certo Fisher, psicologo. Si considera un conti­ nuatore della linea Kinsey, Masters e Johnson. Sostiene che la donna vaginale è dominata dall’ansia, avverte il suo corpo come spersona­ lizzato, parla dell’orgasmo come di uno stato “felice”, è restia ad af­ frontare i problemi, tende a dare questa conclusione “E vissero tutti felici e contenti”. Dunque, se qualcuno è poco normale non è la clitoridea, ma la vaginale. La clitoridea ha meccanismi autodifensivi in grado di controllare l’ansia, parla del suo orgasmo come di uno stato di “estasi”, ha un senso dell’autonomia del suo corpo che le permette di ricercare il piacere procurato dal partner, ma separatamente da lei. Tuttavia la cosa non mi riguarda più, almeno per ora. Ogni genera­ lizzazione, fosse la più probante, non fa che affaticarmi. Soprattutto sul sesso per opera di uomini con materiale statistico.

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5 feb. Non posso leggere qualcosa di Pasolini senza che mi si riapra una specie di ferita. Avrei dovuto esporgli il mio punto di vista, ar­ gomentarlo - adesso capisco che ha parlato da poeta, come si dice, cioè abbastanza sprovveduto sul problema dell’aborto in sé, mentre 10 davo per scontato che ne fosse molto addentro, in questo ricono­ sco un mio tipico errore, ma volevo saltare tutto questo e parlare da pari a pari, così ho alimentato un mucchio di equivoci. L’equivoco di base è che non ho preso sul serio la sua dichiarazione contro la libe­ ralizzazione dell’aborto, il suo verdetto di omicidio. L’ho considerato implicitamente un pregiudizio, un falso problema. Qualcosa da non controbattere nemmeno, da lasciare smaltire per via indiretta. La via diretta era l’offerta di una fiducia che facesse barcollare la sua sfidu­ cia nella donna. E da questo sentimento verso la donna che nasce in lui l’orrore per un aborto lasciato al suo arbitrio. Ancora, Pasolini si sente l’unico martire, e non può abbandonare il suo punto di vi­ sta egocentrico. Anch’io ho avuto la stessa forma di autoinvestitura. Certo, i miei drammi sono stati più privati (ma il fatto che non mi abbiano permesso che fossero pubblici non è raffronto peggiore?), mentre in lui hanno avuto un aspetto di persecuzione aperta che deve essere stato tremendamente umiliante visto che non riesce a li­ berarsene, oppure lo sta facendo, ma c’è ancora dentro; d’altra parte è anche un uomo affermato come poeta, regista, scrittore, quindi ha avuto la controparte positiva, è stato riconosciuto dalla cultura. Mentre io no, e ammettiamo pure che c’è un abisso tra noi, siamo sulla stessa strada, e io sono più avanti. Dunque non ha capito quello che gli ho scritto per questo semplice motivo. Avrei potuto dirgli qualsiasi altra cosa, non sarebbe servata a niente. L’unica non dico speranza, ma possibilità, è che la lettera abbia trovato eco nel suo inconscio. 11 mio problema è i non-rinati, non i non-nati. Nessuno può impormi la maternità se non lo voglio. Questo è un dogma. E bello dimostrare un’affermazione, ma il valore di un’affermazione non sta nella dimostrazione, ma nell’autenticità da cui è nata. L’au­ tenticità non è dimostrabile, è destinata alla sconfitta. E quando viene accolta dalla cultura non viene accolta in quanto autenticità, ma in quanto dimostrazione, opera, talento, genio. Quando Pasolini mette in crisi il coito eterosessuale la Maraini lo confuta, ma lo omaggia di genialità. Quando lo metto in crisi io, mi

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ignora. Dunque sei misconosciuto, fratello, lo senti, resti inappaga­ to dagli omaggi, ma sei anche impreparato al mio riconoscimento. Forse vuoi il riconoscimento sul martirio? Con Pasolini ho questo in comune: che lui come uomo ha cercato di affermare il suo diritto erotico a essere penetrato, io come donna a non esserlo. Mi chiedo se la tragicità che gli omosessuali attribui­ scono al sesso ha a che vedere con la “diversità”, oppure con l’essere penetrati. E tragico accettare il proprio desiderio di essere penetrati e tragica l’esperienza della penetrazione? Caro Pasolini, ti fai un gran vanto di non dare del fascista o del cattolico a un uomo, che differenza vedi nel dare delle isteriche alle donne?

Felicita ha un cento pagine di diario fino al matrimonio da darmi da leggere, gliele ho chieste. Subito si allarma “Non ti aspettare troppo” dice. “Quello che mi aspetto dai miei scritti” le ho risposto. Però ho subito pensato che le mie vecchie poesie non le piaceranno perché troppo elaborate, e i diari perché troppo ossessivi. A volte mi sento terribilmente indietro. Rispetto a chi? E ovvio: a Sara. Federica dice “Se stai con me vuoi dire che hai. un motivo, non so qual è, però ce l’hai”. Lei ha dei pregi: è disponibile, è cara, e poi mi cerca, e io voglio che si liberi poiché mi cerca per questo. L’aspetto per quando sarà cosciente di se stessa, anche se allora forse si stacche­ rà da me, come ha fatto Sara, ma ormai che lo so non mi preoccupa più, tanto continuerò più o meno con altre: è quello che ho trovato nei rapporti umani. Comunque a Milano devo vedere Sara per capi­ re se lei ha lasciato me o io lei. Ogni cosa la vivo con convinzione unilaterale, poi intuisco che il suo significato è anche l’opposto di quello che le avevo dato viven­ dola. Molti da questa convinzione diventano dialettici, cioè antici­ pano i rovesciamenti. Io lo so, però non posso non vivere l’unilate­ ralità. Il pensiero che faccio, astrattamente “Chissà cos’è invece di quello che mi sembra ora”. E quando la situazione mi si rovescia nella mente ne godo perché so che “doveva” essere così e io “do­ vevo” accorgermene. In quel momento, qualsiasi cosa succeda, mi viene toccato il nervo dell’assurdo, della realtà, e ho un attimo di beatitudine fuori da tutto ciò che può colpirmi in modo contingen­ te, e mi rallegro perché sento di essere ancora viva, sento di sen­

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tire: le formule mentali, le parole e il loro uso non mi hanno loro prigioniera. 7 feb. Chissà perché non mi viene di scrivere a Natalia Ginzburg, neppure per insultarla dopo l’articolo sul “Corriere della Sera” Abor­ to: la donna è sola. Il dissenso con lei non è nel merito della questione aborto. Allora? Comincia l’articolo dichiarandosi d’accordo con un tale del PCI intervenuto in merito all’aborto; lo continua dichiarandosi d’accordo con l’UDI “il solo organismo popolare, e perciò serio, re­ alista e autentico della emancipazione femminile nel nostro paese”, che “avanza la proposta di una depenalizzazione dell’aborto ove e purché si verifichi in istituti sanitari pubblici”; coglie l’occasione per screditare in blocco le femministe identificate con gli slogan delle manifestazioni di piazza; risolve il problema della distinzione tra sessualità normale perché procreativa e sessualità anormale perché non procreativa affermando che non si può adottare l’omosessuali­ tà come soluzione di comodo; e dopo tutta questa serie di capitoli dell’incoscienza, che risultano vere e proprie bassezze nei confronti di chi vogliono colpire e per motivi ben censurati, inizia la parte più pertinente, che non è affatto nuova, ma appunto la Ginzburg non è imbarazzata all’idea di ripetere un’ennesima volta quello che nel mondo femminista da cui è scaturito, è anche ovviamente più che assimilato; non è imbarazzata nel ripetere argomenti arcinoti sia perché il femminismo è sufficientemente anonimo da annullare il pericolo che qualcuna si risenta e impugni il diritto d’autore su tematiche vecchie come il movimento quali l’aborto libero, sia per­ ché la novità necessarissima, in un mondo femminile che esprime le sue rivendicazioni in un modo così bestiale è una testimonianza di provata eticità quale la sua, e soprattutto perché solo la pagina di una scrittrice può strappare agli uomini quel riconoscimento di esistenza che li predisporrà a una più aperta considerazione sul pro­ blema dell’aborto. Così una donna carica del pathos del suo severo tirocinio, sprezzante verso le donne e diligente, addirittura stoica nel porgere le sue credenziali agli uomini, ci rappresenta nel mondo maschile, sceneggia i nostri argomenti e li rende plausibili perché priva degli addentellati autentici che li fanno subito sospetti, sgrade­

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voli, sconcertanti, incomprensibili, insubordinati all’orecchio di chi sappiamo. Ho perso l’anellino con il dio della Pioggia come avevo sognato. Sono smarrita. Regina reclama la mia presenza per l’aperitivo o qualcosa di simile: suo padre è ancora da lei e così vuole procurargli una compagnia piacevole per la serata. Non ci vedo più, gliene dico quattro, gliele metto anche per iscritto; lei è sba­ lordita, mostra le unghie ma, povera scema, davvero davvero s’illudeva che mi sarei prestata? In più suo padre è morto, quindi le sue pretese sono doppiamente fuori luogo.

Proverbio zen “Quando l’allievo è pronto, compare il maestro”. Io so­ no l’allievo pronto e il maestro che compare. In Rivolta ho rischiato di considerarmi la salvatrice della situazione se Sara e le altre non mi avessero messa sull’avviso. Ma è poi vero questo? Oppure non è stato il mio bisogno di verità a rendermi sensibile ai miei stessi dubbi appena ho potuto vederli riflessi in un’altra? Possibile che la realtà non abbia offerto agli uomini gli stessi appigli? Oppure è vero che un uomo con il senso di una mis­ sione da compiere è così cieco da dare la precedenza alla missione, piuttosto che a se stesso? 8 feb. Una donna per strada mi ferma e mi affida una ragazzina che deve

andare al centro a spedire una lettera c non sa prendere il tram. Mi chiedo chi è questa ragazzina, e poi vedo che ha una sorella gemella. Questo mi rassicura, sono tutt’e due ridenti e birichine. Poi siamo in una piccola automobile dirette verso il centro, una donna è al volante: guardando di lato vedo con orrore una specie di enorme grattacielo che si inclina visibilmente tra le case come se stesse crollando, lentamente, ma inesorabilmente. Non credo ai miei occhi, torno a guardare, e sono allibita, poiché il grattacielo è adesso molto più vicino, quasi incombente, vedo le sue fondamenta andare in briciole come al rallentatore, la torre è così inclinata che tra un attimo precipiterà al suolo con un fragore inim­ maginabile. Adesso capisco anche l’origine di questa frana: infatti c’è una spe­ cie di cascata d’acqua fangosa che ribolle in paurose correnti proprio vicino al grattacielo cadente. Prima di tutto fuori dalla macchina per non fare la fine del topo, e poi di corsa verso casa, ma al fondo di un viale mi accorgo che siamo già circondati da quella tipica acqua giallastra che mi fa pensare allo straripamento

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di un fiume. In grande ansietà chiedo a una donna se ci sono appartamenti li­ beri nel suo casamento, mi risponde di no, era prevedibile. Lì vicino una donna vestita di nero con aria noncurante mi comunica che il suo albergo è vuoto e possiamo andare lì. “Perfetto” rispondo io. Poi anche un’altra sembra che abbia posto nel suo albergo; mi chiedo se ne sanno più di me su questa alluvione, o comunque ci sono abituate e sanno che occorre aspettare il ristabilimento della normalità. Io penso alla mia casa al centro, con l’appartamento ai piani alti, se solo lo avessi potuto raggiungere.

Di quegli scrittori che intervengono sull’aborto nessuno che abbia ri­ preso l’argomento del coito. Ho subito telefonato a Sara. Non c’era. La prospettiva di un incontro m’inquieta, temo di sentirmi surclassata, devo dunque affrontare la prova. In definitiva se lei stesse in Finlandia e io andassi a trovarla non avrei nessun timore, dunque temo che lei risulti più in gamba di me in un ambiente che finora ha considerato me la più in gamba. E il timore di riuscire perdente nel confronto rispetto agli altri, cioè la maggior vergogna per me sarebbe che gli altri potessero accorgersi della mia insicurezza e rivalità. In definitiva che c’è di così tragico se una è più sicura di me e perciò più forte, più libera, più espressa di me? Nella mia mente non esiste più o meno, ma un aut-aut, o lei o io. Sono a posto, legata come una mummia, eppure sento che non sono lontana dalla soluzione se già non ce l’ho e devo solo verificarlo. Forse le bende sono tagliate e al primo movimento mi cadono giù. Basta che Sara non sia così scoraggiante. Potrebbe essere incoraggiante, o è chiedere troppo? 9 feb. Sono su un autobus. Vicino a me un tedesco in divisa, un oppressore, mi mette un braccio intorno alle spalle e porta la mia mano sul pene. L’autobus è buio e io non ho visto il viso di costui: potrei sottostare alle sue pretese, vorrei solo intravedere la sua faccia, che non sia disgustosa. Alla fine la vedo, ed è normale, di un biondo con occhi azzurri. /\lla prima impressione il mento del ragazzo è molto molto sporgente, e i denti inferiori escono un bel po’ dall’arcata di quelli superiori. Ma poi, guardando bene, non mi sembra più così tanto. Finalmente la nostra carovana è ben sistemata in un albergo; l’unico inconve­ niente è che lì varino una fontana circolare, con il suo parapetto di pietra ston-

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data, sul più bello si mette a buttare acqua per un raggio di molti metri, allora bisogna scappare perché spruzza così forte che può travolgere. Al parapetto uno scrittore visceralmente ostile alle femministe guarda l’acqua: sembra uno un po’ sulle spine. Ci conosciamo e lo apostrofo chiedendogli se era sua una certa formula adoprata in un articolo. Lui è evasivo come se la mia domanda nascondesse un traboc­ chetto. Intanto che parlo dagli ugelli della vasca vedo che comincia a sgorgare dell’acqua: mi sembra un segnale e mi allontano più velocemente che posso, ma ho le gambe pesanti, le strascico, sento gli spruzzi alle mie spalle, e finalmente sono a riparo di una loggia con sculture antiche sparse qua e là. Una sembra un sarcofago: sopra una coppia sta facendo l’amore; getto un rapido sguardo e distinguo l’uomo nel tipico ritmo del coito. Faccio l’ultimo sforzo e sono in salvo: laggiù la fontana sta buttando i suoi pazzeschi getti d’acqua. Un ragazzo giovane e ricciuto, un brunetto affettuoso che mi sta sempre alle calcagna viene correndo verso di me. Non mi interessa, è troppo devoto e appiccicoso anche se carino d’aspetto, devo ammetterlo. Guardo ancora il sarcofago con la coppia e vedo la Morte, uno scheletro di marmo giallastro consunto che, in una specie di raptus erotico, bacia furiosamente il partner. La sua voluttà è incontenibile ma, osservando meglio, mi accorgo che i suoi baci diventano morsi e rosicchiamenti: il teschio somiglia a una testa di tartaruga, specialmente la bocca che si attacca voracemente a uno stinco del malcapitato e lo sgranocchia in quattro e quattr’otto. Non ricordo se il partner della Morte è un uomo o una donna, e anche la morte non so se è maschio o femmina. Mi sembra femmina, allora devo avere dedotto che il partner è maschio. Comunque lei sta sopra, dove qualche momento prima c’era l’uomo.

E maturato il turno di Paula: oggi mi dice che tutto il mio argomentare a favore di “Compiuta Donzella” come nome della casa editrice, non fa che riportarla indietro, a una soggezione da cui si è liberata quando non ha più dato credito alle mie costruzioni logiche (?), ma al suo intui­ to. Prima di addormentarsi ha avuto fimmagine di sé, vestita da Com­ piuta Donzella ai miei piedi e completamente in mia balia. Le ho detto “Va bene, hai ragione, avevo capito giusto dalla tua lettera che diceva il contrario: vuoi fare questa cosa e la mia presenza è di troppo per te”. Siamo andate insieme da Isa; in sua presenza si è potuto parlare più a fondo, come davanti a un testimone. Partita dalla parte di Paula, alla fine Isa in cuor suo dava ragione a me perché lei è ancora lontana dalla ribellione e guarda a quello che è giusto o ingiusto, e Paula è ingiusta.

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Le chiedo “E quando avrai dei disaccordi con le altre due socie che si sentiranno abbastanza forti da volere affermare se stesse, su quale prin­ cipio potrai contestare loro quello che contesti a me sulla base di una passata dipendenza della quale ora ti sena per mettermi a tacere? Puoi impostare una collaborazione sulla pretesa che il risultato rifletta la tua identità? Non è già un sopruso in partenza? Se hai questo bisogno devi fare qualcosa di autonomo, in cui nessuno venga a romperti le scatole, ma in cui nessuno neppure condivida i rischi e sia pronto a correre ai ripari”. Paula a questo punto non vede il problema, dice “Aspettiamo”. Ancora non è in grado di fare da sola e quindi quello che lei chiama l’interesse per il “rapporto umano” con le altre è in realtà un cercare appoggio e calore come fase intermedia tra la soggezione e l’autono­ mia. Ormai conosco la storia, mi coinvolge, ma meno, molto meno di un tempo e non mi dà un vero dolore, probabilmente perché ho potuto prevedere quello che sarebbe successo e poi so che è, nonostante tutto, un chiarimento. Un fatto di conoscenza prezioso per me perché da questi rapporti non ricavo nessun altro bene, così come sono l’unica ad averne dato la possibilità mentale e pratica alle altre, e questo è lo scotto che ho dovuto pagare per riuscire a vedere nei punti più oscuri, più segreti e indecifrabili di me stessa e del mio rapporto con loro. Ho dovuto pagare per arrivare al momento in cui Paula (come ieri Sara) mi avrebbe detto “Sono stata tua vittima”, e io avrei capito. 11 feb. Paula rimane a dormire da me. Penso che stanotte staremo insieme.

Sarà facile. Potrò andare nel suo letto, rifugiarmi tra le sue braccia, essere come una bambina con la mamma.

12 feb. Per una qualche distrazione chiudo il tubetto del dentifricio e poi mi viene un dubbio atroce: lo riapro precipitosamente, ne esce un piccolo sibilo come di aria sfruttata al massimo, e vedo mio figlio Tito, un minuscolo feto con occhi sporgentissimi sotto le palpebre socchiuse, lo vedo di scorcio come il Cristo del Mantegna. Mi prende la disperazione e comincio a soffiare nel tu­ betto finché diventa un palloncino rosa rotondo; voglio che mio figlio viva, viva assolutamente, con tutte le mie forze intendo comunicargli la rita. Mi pare che riprenda, respiri; guardo ancora e vedo che gli è uscito un po’ di sangue dagli occhi, qualche goccia ha bagnato il cuscino, povero essere, non potrà mai più dimenticare l’episodio quando sarà grande. Io ne sono responsabile, ma ormai è successo, passato, basta che riva.

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Ieri sera avevo detto di non avere avuto il minimo senso di colpa ad abortire, però poi, parlando dei sogni, avevo precisato che mi servono come smentita e contraddizione alle affermazioni coscienti. Così che posso continuamente accogliere quello che mi rivelano e impedire alla coscienza di irrigidirsi e di trasformarle in difese. Mi viene un certo risentimento verso Paula ora che spuntano fuori le sue ambiguità di donna che non ha rinunciato all’emancipazione. Felicita mi ha dato i suoi scritti di ragazza e sono così ricchi di osser­ vazioni su di sé, le sue contraddizioni, il mistero della sua identità che mi chiedo se queste pagine non siano un tesoro più grande di quello che, pur nel mio entusiasmo, riesco a concepire. Le ho lasciato le mie poesie dei trent’anni, che non sono così cristalline come queste poche pagine dei suoi vent’anni; forse devo metterle accanto le mie della stessa età perché possano stare alla pari. Dopo rincontro con l’uomo, la cultura, l’arte, sia in lei che in me si offusca il senso di noi stesse e diventa angoscioso e assillante ritrovarlo integro. 13 feb. Siamo a tavola Claudius, sua moglie, Vanda e io. Lei è molto affettuosa

e tutta dispiaciuta dell’articolo sul “Messaggero”: l’hanno fatto e spedito le altre mentre lei non c’era. Si sente così unita a noi, e io subito provo molto rammarico per avere comunicato alla stampa che il suo gruppo non fa parte della nostra Rivolta Femminile. Si alza da tavola. Rimasta sola con gli altri, racconto tutta la storia tra noi e Vanda, dico che lei è terribile, non si capisce mai dove va a parare. Mi accorgo che è rimasta dietro la porta e temo che abbia ascoltato le cose poco lusinghiere che ho detto sul suo conto. No, vuole da me un vestito in prestito: già questo mi secca, non sa stare senza chiedere. Comincio a mostrarle abiti e gonne da un armadio, ma non le vanno, lei è più grassa e grossa di me. Comunque preferirei darle un vestito di cui stranamente, ho il doppione. In tut­ ta questa fase mi è antipatica, in ogni caso la tengo a bada perché sennò chissà che richieste avanza. Sono irritata nel constatare che Claudius coglie l’occasione per prometterle un disegno in regalo. C’è una grande festa campestre e lì trovo Piera piangente, che mi rivela con un filo di voce di avere deciso di partire, ha il treno all’ora tale. E seduta come un’estranea fra gli altri, incapace di prendere contatti. Sono a una festa: c’è un tale, flirt della mia adolescenza. Vorrei salutarlo, ma la spinta della gente - il posto è affollatissimo - gli orari di colazione e il dover stare

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attenta a non perdere Simone, e anche il contrario, cioè lui che non mi molla un istante, fanno sì che non ci troviamo.

Naturalmente Vanda è Paula (e Sara sullo sfondo), in ultima anali­ si Lucia. Io dico male di lei sperando di screditarla nell’affetto dei genitori come quando eravamo piccole e provo lo stesso senso di ragioni inutili, anzi di complicità loro che si svolge alle mie spalle (Claudius che le offre un disegno). La cosa insopportabile è che lei si sentiva autorizzata a prendere da me. Piera mi aveva telefonato ieri da Anversa rimproverandomi di aver­ la abbandonata: e ad Anversa sta malissimo. Mi accusava di que­ sto chiaro e tondo: è così duro quando Vene il momento cruciale, dovrebbe rendersene conto. Cosa devo fare sabato quando ci ve­ dremo? Mi sento così confusa, sprovveduta e incapace di fronte al mistero della sofferenza di un’altra che si riversa su di me. 14 feb. Cara Felicita, di me ragazza ricordavo una sofferenza così acuta che quando ho letto le tue pagine dove domina una forma di armonia, e mi sono riconosciu­ ta, mi si sono arricchite le sensazioni dell’adolescenza in un lato molto intimo, sfumato che non mi pare di essere riuscita a esprimere, ma che tu hai espresso alla perfezione. Adesso la tua adolescenza mi ha rivelato un aspetto della mia, e mi ha commosso moltissimo che dopo quindici anni che ci conosciamo, sco­ priamo qualcosa di così comune come le emozioni di un periodo e il piacere di scrivere. Finché non scopro in un’altra questo piacere, non so davvero con che armi combattere nel caos delle esperienze. Ti meraviglierà, forse, che io dica “alla perfezione”, ma è proprio questo che mi ha colpito, come riuscivi a esprimerti facendo centro senza perdere in sottigliezza e inflessione personale. Il centro è questo: l’ancoraggio a te stessa. Sono tornata a Torino più sicura di me. Dopo la crisi con Valeria mi sembravi un po’ rinunciataria, anch’io mi ero sentita così dopo il conflitto con Sara. Adesso ho superato, credo che ci siamo aiutate a vicenda.

Questa storia della casa editrice, il dissidio con Paula, rincontro con il libraio di Torino che mi ha fatto tutti quei complimenti sui nostri libretti mi hanno chiarito sia il mio attaccamento agli scritti di Rivol­ ta, sia il desiderio che ho di occuparmene finalmente senza sensi di

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colpa, sia la situazione meravigliosa di libertà in cui mi trovo a riguar­ do ora che Matilde è disposta a mettere dei soldi e, tutto sommato, anch’io, pur di garantirmi l’autonomia: insomma non ho nessun mo­ tivo per entrare nella nuova casa editrice. Questo era il mio desiderio, dopo i primi sentori del dissidio con Paula, e questa ritorna a essere, definitivamente, la mia scelta. Ieri Paula mi telefona e divaga. Non avevo voglia di affrontare la fatica di vederla oggi, ho rimandato a domani, precisando “Però non mi va di parlare d’altro quando c’è un problema preciso fra noi. 10 sono stata chiara, devi esserlo anche tu”. Mi è venuto in mente che quando avevo problemi con Sara anch’io prendevo le cose alla lontana per rassicurarmi e trovare la forza: lei mi appariva sprez­ zante e mostruosamente sicura. Ora mi sentivo stranamente emo­ zionata, irritata e commossa. Paula ha risposto “E stata una tem­ pesta, ho ancora tutte le ossa rotte”. Quando apre uno spiraglio sul suo mondo interiore, sui suoi naufragi, mi sento presa e coinvolta anch’io. Stamani pensavo a lei, al suo viso e immaginavo di baciarle la guancia. 11 transfert si risolve quando chi l’ha avuto per un’altra, a sua volta diventa oggetto di transfert. Allora vede la realtà dai due lati e non le sfugge niente del rapporto reciproco. 15 feb. Mi telefona Felicita brevemente: mi dice che dalle poesie le sono apparsa molto giovane, proprio fisicamente. E che vuole spie­ gazioni su alcuni avvenimenti a cui alludo. Sono rimasta un po’ in­ terdetta, forse perché mi aspettavo un’osservazione meno distaccata, come era successo a me nei suoi confronti. Però adesso mi accorgo che è quello che ho detto a Isa delle lettere da ragazza di Matilde “Si ha la stessa impressione di quando ci si accorge per la prima volta che anche la mamma è stata bambina”. 16 feb. Sogno profondamente e mi sveglio tranquilla, più che tran­ quilla su questa scena: Sono con due uomini, ignoranti, due seni, vestiti di nero e seduti su due massi. Io ossen'o le loro scarpe, molto grandi, di forma elegante, ma di materia vile, come di plastica semi-lucida e di un inverosimile colore giallo-zabaione. Prima mi erano sembrate quasi belle, ma poi guardando meglio scopro che sono volgari

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imitazioni di scarpe eccentriche, di classe. Adatte a quei due innocui cafoni che le portano.

18 feb. Mi sento approdata ad accettare, sia pure con alti e bassi, il sopruso di Paula come inevitabile. Fino a ieri sera c’era ancora la speranza di una spiegazione con lei, di un ritorno a un piano collettivo di lavoro e di proposte, ma Paula non può più lasciare il suo sogno di essere ‘Teditrice degli scritti di donne” e questo rende inutile parlare. Paula pretende l’autonomia quando le viene comoda per avere strada libera, ma intanto si appropria di un patrimonio comune che porta, comunque, la mia impronta. A lei basta che non risulti dal nome o altro. Allora la sua ribellione mi appare un po’ troppo tempestiva. E come se ricorresse alla ribellione per accampare pretese che altri­ menti le sarebbe difficile accampare. Questo è andare sul sicuro: la ribellione, ormai, è una tappa consacrata: mette nell’impossibilità di reagire. Tra l’altro, la parte inconscia del desiderio di essere “l’editrice delle donne” mi sembra corrisponda al modello che ha di me, modello che nel titolo da lei scelto rivela parola per parola: “Scritti di donne”, Editrice verde (“Scritti di Rivolta Femminile”, libretti verdi). Paula vuole ribellarsi a me per potere procedere nell’identificazione con me. La sua ribellione copre la decisione di andare indisturbata sulle mie orme, di travestirsi da me sicura di non potere essere scoperta. 19 feb. E somiglia a quella di Ester o di Diana: si ribellano mante­ nendo il mito, acquistando un falso diritto alla parità che mascheri la persistenza del modello. 28 feb. Felicita dice che le mie poesie sono belle, scritte bene - perciò soddisfacenti anche per gli uomini. E sorride della mia osservazione che le donne artiste, creative dovrebbero arrivare ad accettare questa loro condizione invece di farsene un vanto irrinunciabile. Quando sono salita nella cameretta dove Simone dormiva (sono a Turicchi), mi ha preso un trasporto dolcissimo per lui: ho cominciato ad an­ dargli vicino e guardarlo scostandogli il lenzuolo dal viso, poi mi sono infilata sotto le coperte e mi sono stretta a lui, ho cominciato a chiamarlo teneramente, a dirgli quanto lo desidero, quanto è bravo e caro, quanto sono contenta di lui, era tutto un senso di effusione che partiva da me e che lui riceveva e rimandava su di me. Era bellissimo,

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confortante, c’era proprio un’onda di sensazioni e sentimenti tra noi, la mia voglia di offrire, la sua gratitudine e prontezza nell’accogliere. Il giorno dopo Simone era ancora immerso nella sensazione della notte, calmo e beato perché non avevo avuto riserve su di lui. Cara Matilde,... pensando sempre meglio alla casa editrice, capisco che a me interessa proprio la donna che non esiste, cioè me stessa e il se stessa di ciascuna di noi, quella a cui noi abbiamo potuto credere reciprocamente e in qualche modo fare esistere. Tutti i personaggi femminili del passato mi sembrano ombre senza voce, fanno parte di quel mondo in cui io non trovavo, a differenza di loro, modo di manifestarmi. Di tutto ciò che sono ho potuto prenderne coscienza grazie alle amiche, ho potuto accorgermi di esserlo ed esprimerlo sempre più compiutamente, con più sicurezza e coraggio. Prima, come era possibile? E al­ lora, cosa andiamo cercando? Mi piacciono i libretti scritti da noi, mi sembra che per quanto possiamo cercare non troveremo quello che abbiamo scoperto con la risonanza Tuna nell’altra.

1 mar. Una giornata così: Simone arriva a Firenze con il progetto di andare in Arabia Saudita a fare sculture di granito; Pasolini in­ terviene ancora sull’aborto, sul coito, sulla coppia, sull’“eros nella sua illimitatezza”, sulla colposità della donna che resta incinta non volendolo, sulle oltranziste dell’aborto, sul significato del sentimento (non gli ho forse scritto una lettera sentimentale?), senza fare cenno a Rivolta, e adesso so che lui sa e non ne fa cenno, anzi adopra il materiale per quello che gli serve a fare avanzare il suo discorso e per quello che gli serve a colpire le donne ancora più sottilmente; un rotocalco chiama ancora in causa Vanda quale leader di Rivolta Femminile e lei non smentisce, non chiarisce, sta al gioco nella ma­ niera più impudente, ha venduto l’anima per compiere l’abuso che sta compiendo, l’equivoco inestricabile in cui tiene decine di donne che non la conoscono neppure, per non dire di me che non la vedo dal ’70 quando ho realizzato la sua totale irragionevolezza e violenza, ma ancora non avevo chiaro che non me la sarei tolta di dosso per­ ché, senza capirmi, crede in me come in nessuna persona al mondo e crede nella mia tolleranza a subire da lei, se non in privato almeno in pubblico, e crede che se riuscirà a impadronirsi di me, della mia “linea”, potrà impersonificare una verità femminile e gridarla, unica cosa di cui è capace, senza timore di smentita, né da parte dell’uomo,

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né da parte delle femministe di cui siamo un avamposto. Una gior­ nata così ha un solo pregio, quello di essere destinata a passare e ad aprirsi su un nuovo mattino. Non ho decisioni drastiche da prendere, solo ampliare, mettere nella mia orbita tutta fumanità che l’incrocia anche per un istante. 2 mar. Dall’articolo di Pasolini: “In un contesto repressivo, l’oggetto della ‘caccia alle streghe’ (il ‘diverso’) viene prima di tutto destituito di umanità, cosa che rende lecita poi la sua effettiva esclusione da ogni possibile fraternità o pietà...”.

lo gli avevo offerto la fratellanza, l’ha riputata. Vuole che un altro uomo lo chiami fratello, non una donna. “Per inerzia, per pigrizia, per inconsapevolezza - per il fatale dovere di adem­ piersi coerentemente - molti intellettuali come me e Calvino rischiano di essere superati da una storia reale che li ingiallisce di colpo, trasformandoli nelle statue di cera di se stessi.”

Lì c’è tutto un nodo di ansie, di abitudini maschili a prevalere che non lascia spazio al dubbio che altri, o altre, siano stati misco­ nosciuti finora. Questo è il motivo per cui si può continuare a ignorarli, a cominciare dalle donne, da un lato schiacciandole con sospetti, illazioni, deformazioni derivati appunto da sconoscenza (che deriva a sua volta dal misconoscimento che produce a sua volta sconoscenza, e così via) e dall’altro assorbire l’anonima linfa, cioè togliere loro ogni elemento originale di identità. Che la ca­ tegoria della repressione non vale più, e che appare sostituita da quella dell’imposizione del modello sessuale, che il coito è politico, non sono forse linfa femminista e così tanta parte della tematica adoprata da Pasolini e dagli omosessuali in genere? Il femminismo rischia di rimanere sopraffatto sia dai femministi che dagli omo­ sessuali che mantengono intatta la sfiducia nelle donne oltre che i posti di potere e di informazione. Pasolini non si accorge che adopra verso le femministe, ridotte al minimo, generalizzate al peg­ gio e colte continuamente in errore, cioè strappate al senso di un

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processo di liberazione con tutte le sue tappe necessarie e relative, lo stesso metodo di screditamento del “diverso” che avverte su di sé in quanto omosessuale da parte degli eterosessuali. Perché ad esempio, non vede, insieme alla rabbia, la tremenda accoratezza di certe voci femministe, anche storiche? Non è questo un modo per cancellare la loro umanità? Se Pasolini rivendica a sé il diritto di essere stato razionale e illuminista contro la merda retorica del clerico-fascismo, perché nega alle femministe lo stesso diritto, nei confronti della merda retorica sulla maternità? D’altra parte, se osserva bene, nel femminismo ci sono tutte le sfumature possibili in materia - noi, per esempio, come gruppo ci siamo espresse con dolore sulla maternità e non con rigetto. Poi ciascuna, individual­ mente, rigetta ciò che sente di dovere rigettare. Pasolini non crede; al massimo afferma “capisco”, ma non capisce, pensa che non c’è niente da capire oltre quello che gli suggerisce un atteggiamento preconcetto così radicato da non poterlo neppure per un momen­ to supporre come tale. In tutta la sua polemica sull’aborto non ha citato un testo femminista, una storia, un’analisi, una posizione precisa femminista. Ha avuto però la malagrazia di chiamare in causa uno psicanalista a me sgradito quanto a lui. Dunque? Ep­ pure Pasolini stesso afferma di sentirsi “unico” dentro la categoria sessuale a cui appartiene, in questo è stato rispettato, ma nega a me lo stesso diritto, la stessa realtà. Non si può essere mai sicuri, nel porsi come centro delle ingiustizie del mondo, di non stare contemporaneamente calpestando, per cecità, unicamente per cecità, qualcuno più in basso di noi con le stesse armi e le stesse motivazioni. 5 mar. Faccio un'avance verbale a mio fratello Emilio che la raccoglie e si mo­ stra turbato e disposto a fare l’amore con me. Io lo guardo e non provo più il tabù di sempre, mi interrogo su questo e sono sollevata perché finalmente sento che il diaframma non esiste. E biondo, con occhi azzurri, giovane e desiderabile. Camminando insieme un po’ abbracciali, ci dirigiamo verso un albergo. Lì, mentre siamo a tavola, mi accorgo che la mia borsetta è sparita, anzi al suo posto è stata messa una borsetta simile per confondermi. Mi rivolgo agli albergatori, una coppia, che ne danno la colpa a ipotetici clienti, ma io sospetto proprio di loro, tuttavia non oso dirlo e sto al gioco. Chiamano mio fratello “suo marito”, e io preciso che si tratta di mio fratello con un che di perbenistico. Andandomene

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dall’albergo prendo due borsette - ma il valore della mia era sentimentale, e poi come sostituire il suo contenuto? passaporto, documenti, bollette pagate, e anche soldi... Il buffo però è che quando penso a cosa poteva esserci dentro, mi sento sopraffatta dal senso di una perdita irreparabile. L’albergatore mi raggiun­ ge, e io spero che non faccia storie visto che mi allontano con due borsette. No, non batte ciglio, anzi me ne fa vedere una molto carina in pelle marone scura e gialla che prendo, restituendogli una delle mie due. Ma appena se ne va, resto malissimo perché vedo che è una volgarissima borsetta di plastica, inutilizzabi­ le, e mi sento gabbata due volte. Una donna poi mi conferma trattarsi di noti albergatori levantini.

Ieri sera ho rivisto Tito dopo un mese e l'ho trovato molto attraen­ te, fisicamente e come modo di fare. La borsa in pelle marrone e gialla mi ha fatto ricordare un paio di scarpe che avevo comprato in tempo di guerra con mia madre e che non erano piaciute alla suora guardarobiera. Una grande casa abitata da donne: ci sono molte stanze, si tratta di rimettere tutto in funzione c di coordinare. I locali sono belli, loro non sembrano render­ sene conto, ma io sì; può venirne fuori qualcosa di molto speciale e a poco prez­ zo. Poi incontro la mia madrina, la zia Lea. Parliamo, sembra quasi sfuggirmi, ma io le butto le braccia al collo, la bacio impetuosamente, le rivelo tutto il mio affetto, lei forse non l’ha mai sospettato. Sono sorpresa del mio ardire, ma felice di avercela fatta.

Sto prendendo degli appunti sulla Schizoneura del melo e sui rimedi da adottare per eliminarla, quando da Milano mi chiama Matilde con la notizia che Paula farà una casa editrice da sola con la sua amica extra Rivolta. Resto sorpresa, emozionata, ma di una sorpre­ sa e di un’emozione molto comuni, quotidiane, niente a che vedere con quello che provavo quando Sara cominciava a prendere la sua strada e io mi sentivo respinta, adoprata, spremuta, buttata e lottavo contro le maree dello sconforto. L’ultima reazione negativa parlando con Nicola mi si è rivelata un pregiudizio. Ho detto “Paula se ne sta andando con un portacenere d’argento in tasca; vorrei poterle dire ‘Guarda, quel portacenere fa parte dell’arredamento comune, perché vuoi portartelo via?”’. Ma Nicola mi ha replicato “Non è d’argento, è di latta, nessuno può portarlo via d’argento”.

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Paula sostiene di essere “oltre il femminismo”. Questo va benissimo, tanto sono parole. Sara è il capostipite di “fuori del femminismo”, 10 di “nel femminismo”: sono certa che facciamo la stessa cosa, e anche Paula: prendiamo coscienza. Prima di andare a dormire pro­ seguo le mie letture sull’orto e il frutteto. 6 mar. Compleanno. Simone mi regala una portatile elettrica per battere a macchina i miei diari. Federica “Quello che mi dispiace” dice “è sapere che quando morirò i miei ge­ nitori non staranno più insieme”.

Ieri ero stata molto disturbata dal constatare, non è certo la prima volta, quanto mi condizioni il presentarmi in coppia con Simone eravamo andati a cena con Federica e suo figlio. Insomma, mi ero sentita a disagio, e già mi si azionava il meccanismo del senso di colpa, o comunque di dolore, espresso nel sogno per interposta persona. Ho un pensiero fisso, tuttavia non centrale, ma come ai margini e in sordina, ed è l’allontanamento di Paula. Un pensiero bloccato dalla fatalità dell’accaduto e dal bisogno di accettare questa fatalità. Lotto dentro di me per non avercela con Paula, per accorgermi e sradicare sul nascere ogni possibile, abitudinario riflesso al risentimento. Cara Paula, ho saputo che continui la casa editrice da sola. Capisco che tu fac­ cia quello che senti, sono d’accordo con te che è difficile. Ma la cosa più difficile è non dare agli altri la responsabilità delle proprie scelte: in questo caso tu fai la casa editrice da sola perché questo è stato l’orientamento del tuo desiderio fin dall’inizio. E ciascuna del gruppo l’ha sentito. Forse per te è duro accettare 11 tuo desiderio senza sentirti colpevole verso le altre: da Angelina ti ho solo ricordato una serie di episodi in cui questo si manifestava, magari a tua insa­ puta. Adesso accusi chi era disposta ad accettare il tuo desiderio solo che tu lo avessi ammesso senza aggrapparti a verità più comode per coprire quella, per te, scomoda.

Nicola dice “Non c’è niente di più schiacciante che sentire la lucidi­ tà della persona a cui ci si ribella”. Ho deciso di non spedire, per ora. 10 mar. Ricevo una lettera di Paula.

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Cara Paula, mi sorprende sempre la tua dolcezza verso di me, almeno quanto i miei abbracci sorprendono te. Sei dolce, e anche esasperante. Ti prendo come sei, naturalmente, perché ne dubiti, solo che devo proprio essere sicura che sei così come ti mostri, sono più tranquilla se ti imponi a me. Essendo molto diverse, devo convincermi che la tua diversità è sostanziale, non apparente e capricciosa. Come ti ho scritto una volta, per prima cosa di te ho avvertito la “presenza”. Anche adesso è la lettera nella sua presenza che mi colpisce. Molte cose però mi sfuggono, altre mi sembrano sballate. Non saprei dire quali. Sei esasperante perché evasiva... Perché un gioco collettivo funzioni bisogna che l’impressione generale sia di potere prendere più di quanto essere costretti a dare. Chi propone il gioco deve essere disposto a dare, affare suo se poi rischia di pentirsene. Il tuo gioco non rispettava questa regola pregiudiziale. Allora l’impressione era quella di una, sia pur candida, strumentalizzazione. Mi sorprende che non accenni ai fatti nella tua lettera. Sono convinta che eri in buona fede nel fare proposte ambigue, ciò non toglie niente alla loro ambiguità. Tu non capivi, se posso permettermi di interpretarti, perché il tuo bisogno era di liberarti di Rivolta e ti era più facile, o semplicemente possibile, trovando una giustificazione nella contrapposizione del gruppo a te piuttosto che rendendoti conto che eri tu a esserti contrapposta per prima alle altre. Ti sei spaventata di fronte all’idea di commettere un arbi­ trio, un tradimento per di più. Nonostante che, dal mio punto di vasta, tu sia attaccata ad argomenti che io mi sento di polverizzare, riemerge in me l’impressione di una presenza unica e particolare di cui non posso che avere nostalgia e per cui sono trepidante per­ ché non so in virtù di cosa appaia o sparisca, e quale sia il modo per evocarla e comunicare con lei.

Simone dice che questa lettera è troppo aggressiva, con sbandieramento di certezze, come se non tenessi presente queU’umanità di Paula da cui pure affermo di essere toccata. Però sento così, se mi metto a sviscerare la questione non posso che farlo così. Ho deciso di non spedire. 11 mar. Sci un po’ smarrita, con grandi occhi neri bulbosi (molto diversi dai tuoi), hai bevuto c mi crolli tra le braccia. Poi mi dici di avere una “ricetta” e io voglio avvisarti che deve essere dei miei nonni. Vedo un filmetto dove sei molto giovane in pose casalinghe tipo anni quaranta, più sottile e flessibile di oggi, os­

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servo le tue mani con dita esili, e così le braccia, la figura. Quel film mi sembra rivelare un tuo retroscena. Vado in un posto e un’amica mi viene incontro, una brunetta graziosa con capelli corti, io l’abbaccio e bacio quasi sulle labbra mentre sorride entusiasta di veder­ mi. Penso “Per diventare omosessuale occorrono due condizioni: una disponibilità interiore completa e poi...” non ricordo bene, ma doveva essere l’abbandono al piacere, no, più che l’abbandono è la coscienza, il rendersi conto del piacere del contatto fisico. Non tacerselo più.

Oggi al ristorante macrobiotico, incontro una ragazza che mi dice di avere fatto l’amore con una donna, era felice di avere superato un tabù. Siccome lei è molto influenzabile mi sono chiesta se ciò non è accaduto per quel condizionamento alfomosessualità che si crea nel femminismo. 12 mar. In casa nostra è nascosta una bambina molto piccola, una neonata. A un tratto arriva una zingara, sua madre, e io subito le svelo dove l’hanno messa, al piano di sotto, e mia sorella Lucia le fa la guardia. Sento molta disapprova­ zione intorno a me perché ho tradito il segreto e mi sono alleata con la zingara. Il mio gesto poi mi sembra controproducente perché la zingara non riesce a trovarla. Ho scritto e spedito a Paula una lettera con tutti i miei sogni che la riguardano dall511 febbraio a oggi. Chiudo la lettera così: E tutto, forse incomprensibile. Non vedo altro che un senso di mistero per affrontare il punto fermo fra noi.

13 mar. L’argomento dell’aborto continua accademicamente su quotidiani e rotocalchi. E una buona occasione per chi vuole fare un po’ il cavaliere delle donne. La donna qui, la donna là, il feto, l’aborto, il parto, la sua diversità, ma non si vergognano! E non si accorgono che sono sempre loro a parlare di noi e non gli viene in mente che sapremmo farlo meglio di persona e non li sfiora il pensiero che i loro giornali sono chiusi alle femministe?

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Cara Piera,... Adesso vado ogni settimana a Turicchi e con marzo ho cominciato a lavorare la campagna zappando, piantando, e pulendo dai rovi gli alberi e il bordo dei campi. Mi sento bambina pasticciando con la terra e spiando gli impercettibili mutamenti delle piante. Mi dà molta pace e nello stesso tempo euforia fisica. Penso ogni tanto alla storia del figliol prodigo. Ho riflettuto che l’anno scorso hai fatto la fotografa un po’ sotto la spinta di Ester e quest’anno sei andata ad Anversa un po’ sotto la mia suggestione (ti avevo rac­ contato di quel mio amico, ricordi?). Nessuna delle due strade è andata bene, perché non era la tua. Spero che mi perdoni questa involontaria intrusione. Mi sentivo sempre un po’ a disagio quando mi raccontava le tue difficoltà e sof­ ferenze. Come se tu mi rimproverassi in cuor tuo. Adesso mi è chiaro e mi sento meglio ad avertelo detto.

14 mar. Un tale mi chiede se anch’io penso che il problema vero dell’aborto sia il coito. Quel tale, un critico d’arte, ha parlato di que­ sto con Ester e vuole sapere se sono d’accordo con lei e la “sua” connessione aborto-coito. E sempre la creatività di Ester a darmi del­ le sorprese. Siccome sono così sensibile ai soprusi, specialmente per quanto ri­ guarda l’appropriazione di mie idee e il mancato riconoscimento, e siccome non posso fare niente perché la situazione cambi, non mi resta che eliminare le occasioni di pensarci. Questo è in contrasto con quello che alcune desiderano, cioè fare uscire un bollettino per chiarire via via la nostra identità dalla rettifica di quel sopruso kaf­ kiano che è il problema di Vanda, alla rimessa in circolazione della nostra posizione sull’aborto e sul coito, alla pubblicazione di lettere inviate ai giornali e non pubblicate ecc. ecc. Questo mi costringe a fare mente locale su una gamma di frustrazioni di cui scrivo magari nel diario, ma insieme a tutto il resto. Una soluzione è che io segua le altre: così, fintanto che non c’è niente da seguire, posso starmene tranquilla. 15 mar. E un episodio banale, ma che può dare un’idea del mio carattere. Una mattina perdo il mio bell’ombrello a spicchi verdi e rossi. Mi dispiace moltissimo e vado a fare ricerche alla Rinascente. E’ufficio oggetti smarriti è chiuso, forno al pomeriggio e l’ufficio è aperto, la signorina guarda e poi mi comunica che lì non c’è niente. Mi dirigo al reparto ombrelli, infatti questo marzo non fa che piovere

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e non posso restare senza. Guardandoli ho molta nostalgia di quello perduto che era più carino. Decido per uno verdino, però non mi piace granché. A un tratto mi viene in mente di chiedere ancora. Vado in un reparto dove avevo già fatto ricerche, ma mi rivolgo a un’altra persona. E quella, inaspettatamente, mi dice che sì, stamani ha trovato due ombrelli, uno di plastica trasparente e uno a spicchi colorati con un manico a pom-pom. Lei stessa telefona alfulhcio og­ getti smarriti e, dopo un momento di attesa, tutta sorridente mi invita a tornare all’ufficio, lì mi sarà consegnato l’ombrello. Insomma, io sono un tipo che non si arrende, insisto finché tutte le probabilità a mio favore sono verificate. 16 mar. Sento una trasmissione su Nietzsche e mi colpisce il titolo della sua autobiografia Ecce homo. Come si diventa ciò che si è. E anche il fatto che fosse approdato a una svalutazione dell’arte e alla con­ vinzione che “tutti” possono essere filosofi in senso dionisiaco, cioè liberarsi. Non ho più paura dell’omosessualità perché non rischio più la per­ dita d’identità, la soggezione, la dipendenza da un’altra simile a me. Posso cogliere la differenza nella somiglianza e non temere la differenza. Mi dispiace, mi dispiace immensamente non essere presa in consi­ derazione, riconosciuta per quello che sono. Nei momenti di scon­ forto sogno di appellarmi a un giudice, di mandare tutte le mie credenziali a qualcuno che non abbia motivo per disconoscermi e aspettare un suo pronunciamento. Ma questa persona non esiste né tra gli uomini, né tanto meno tra le donne. Non esiste perché io non la faccio esistere: infatti ho bisogno di una sorella, di un fratel­ lo, non di un padre o una madre, e lotto per averli. Ma al presente quello che noto è la scomparsa dei genitori e la assenza dei fratelli. 17 mar. Idillio senza nubi con mio padre, afflato, unisono. Gli dico “Avrò

sempre nostalgia di te” come se stessimo per lasciarci, ma non ne sono turba­ ta, la sensazione di amore è più forte e non mi manca niente. Poi sono con Simone: stiamo facendo il coito lentamente, pacatamente. Io sono ben disposta, incoraggiante. C’è un intenso legame, quasi una metamorfosi del sogno prece­ dente in questo.

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18 mar. Sono tornata a salire su un albero dopo trentanni. Il vento del bosco muove i rami e fa il rumore del mare. Mi sento come allora un uccello posato scosso per un attimo tra l’acqua e la terra.

Ho un desiderio improrogabile di mettere in ordine i miei scritti e pubblicarli. Sono proprio convinta, sicura. E pubblicare anche quelli delle altre. 19 mar. Quest’ombrello ha una caratteristica quasi magica: se lo si prende e lo si orienta con una leggera spinta, quello parte veloce in linea retta, bat­ te contro il muro e torna indietro. Provo un paio di volte tutta stupita e devo convincermi delle sue straordinarie proprietà. Però una donna vicino a me mi ammonisce “La signorina ci tiene moltissimo, stai attenta” e io mi trovo fra le mani una brocca di cristallo dall’aspetto prezioso. Reggendola con le due mani la depongo con cautela su una consolle. E solo svegliandomi che noto la diver­ sità fra i due oggetti. “Parsifal non ha alcun dio, egli è libero dagli opposti, dunque redentore, di­ spensatore di salvezza c della rinnovata energia vitale, conciliatore degli opposti, cioè della chiarezza, della divinità, della femminilità (Graal) e dell’ombra, della materialità, detta ririlità (lancia).” (Jung, T ip i psicologici, Ed. Einaudi)

20 mar. Dico a Federica, a proposito delle precisazioni su Rivolta “C’è tutto nel mio diario, è una specie di rapporto segreto, anzi rileg­ gendolo devo capire fin dove è pubblicabile”. Federica non raccoglie, non mi chiede, non vuole sapere. Mi manca sempre moltissimo una come me che possa prendersi delle responsabilità con i miei scritti.

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Mi chiedo se non mi sono cacciata in un pasticcio con Federica, do­ vrei suggerirle di andare da un analista: mi spaventano il transfert e la mia ignoranza. Magari dovrei io stessa andare da un analista e poi passare al professionismo. Ma veramente m’interesserebbe oc­ cuparmi di qualcuno professionalmente, su una falsariga scientifica rivelatami da altri? 22 mar. Sono con David, camminiamo per una strada. A un tratto lui mi prende una mano e gira l’angolo: invece di dirigerci verso Felicita facciamo un détour per stare un po’ più insieme noi due in una nuova intimità. Sento che David mi ama, ne sono sorpresa perché sembra rivelare un sentimento di lunga data sempre tenuto nascosto. Mentre camminiamo repentinamente mi si butta fra le braccia in un gesto molto infantile e chiama “Mamma!”. Resto interdet­ ta finché scopro il perché di questo gesto: senza che me ne accorgessi Felicita è apparsa accanto a noi che ci tenevamo per mano, e David non ha resistito all’imbarazzo. Mi sento in colpa verso di lei che però è molto dignitosa. David è come sulla luna: parla e agisce in modo ispirato e sconclusionato. Ho un’enorme tenerezza per lui. A un certo momento siamo in casa e c’è un neonato: o è lui che si è trasformato così o è un nostro figlio, o tutt’e due le cose. Guardo Felicita e, a meno che fìnga e si controlli, non si mostra particolarmente afflitta. Ora vedo un’immagine come proiettata al di fuori di me: il neonato che afferra il mio capezzolo con voluttà. Poi sono in un’altra casa, e ho la sensazione che mi sia capitato qualcosa di analogo, un altro neonato. Mi stupisco della mia capacità di fare un figlio al giorno e senza nessuna difficoltà: il neonato è lì, questa mera­ viglia, come la cosa più naturale del mondo. 23 mar. Felicita al telefono ha una voce di persona che non spreca il suo tempo, mi dice infatti di avere battuto a macchina tutto il diario attuale e che è venuto molto voluminoso. Naturalmente ho accusato il colpo: si è impadronita di me una specie di scontentezza, ho visto le mie giornate senza capo né coda e soprattutto mi sono resa conto di non avere ancora battuto a macchina un rigo che è un rigo dei miei scritti. Come sempre sono dispersiva, non riesco a programmare, gii altri mi assorbono troppo, se qualcuna mi cerca non riesco a dire di no. Soprattutto la spola tra Roma, Turicchi e Milano mi crea ulterio­ ri ostacoli a una visione continuativa del mio tempo: sapendo di do­ vere interrompere non intraprendo nessun lavoro, non trovo il ritmo e sono continuamente alle prese con problemi di adattamento e di

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separazione, problemi organizzativi, ma soprattutto problemi psico­ logici che mi disturbano. A Roma non sto volentieri, mi sento sempre provvisoria, appollaiata in questa casa minima senza spazio, né luce, né privacy, ma qui ho Tito e dunque una funzione, essenziale, un a piombo che mi manca altrove. In campagna dipendo da Simone che ha sempre e solo un fine settimana da passarci e non di più. Di stare lì sola, d’inverno specialmente, non se ne parla neppure. A Milano ven­ go assorbita dalle amiche, dai problemi di Rivolta e, comunque, non mi fermo abbastanza per mettermi al lavoro, trascurerei gli incontri, cosa assurda. Dovrei stabilire una continuità tra Roma e Turicchi, portarmi la macchina da scrivere e i quaderni su e giù. A Turicchi pretendere un bel tavolo comodo tutto per me. A Roma dosare il mio rapporto con Federica in un modo più equilibrato e immergermi nell’opera di rilettura, trascrizione e riordinamento di tutti i miei fo­ gli, della mia vita in una parola: forse proprio per questo sono restia a farlo, e rimando. Ma il motivo di base è un altro; avverto che per me sarà terribilmente emozionante riandare al passato e temo di ritrovarmi sola con questa emozione, sola e nell’impossibilità di comunicarla, sensazione la più dolorosa che ci sia, che io conosco e che non voglio ripetere. Adesso sono ansiosa di vedere Felicita, non perché mi abbia detto molto, ma mi ha detto “Sì”, mi ha accettata per quel poco che ha letto di me e per dei motivi che posso intravedere, e la mia speranza, la speranza di un incentivo l’ho tutta concentrata su di lei. Quando ho scritto e composto Autontratto avevo degli amici interessati a leggerlo e a ca­ pirlo, Claudius per primo, e questo mi ha permesso di stare in quella stanzuccia di via Verdi ore e ore senza accorgermene e senza inter­ rompermi. Mentre adesso non oso dire “Vorrei pubblicare le mie vecchie poesie”, “Vorrei pubblicare il mio diario”, perché mi sembra che il problema delle altre sia di dimenticarsi un po’ di me e tirare fuori le loro cose, così a me non resta che distrarmi per fare passare il tempo nell’attesa di quando potranno chiedermi “Ma non avevi delle poesie, ma non avevi un diario? Ci piacerebbe leggerlo e, perché no, pubblicarlo”. Sento che una richiesta così mi metterebbe le ali ai piedi e snebbierebbe queste giornate in cui cerco di lasciare nel vago un desiderio di vecchia data che mi perseguita se solo non ho il buon senso di distogliere l’attenzione dal suo pungolo.

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24 mar. Insomma ieri sera non sono stata da Nicola con Federica e suo figlio perché mi sono accorta che non mi andava. Questo gesto esprime il mio bisogno di riacquistare un po’ di quello spazio che avevo ceduto. Leggendo Jung ero arrivata alla conclusione che l’incomprensione tra me e Lucia stava in ciò: che siamo due tipi psicologici diversi, anzi opposti, cosicché lei era portata a fare a meno di me, io dipen­ devo dal mio bisogno di comunicare con lei. Così, a parte i contenuti particolari su cui scontravo e riguardo ai quali mi sentivo a posto, il rapporto con la sua mancanza di qualsiasi esteriorità non faceva che alimentare i miei dubbi su di me. Lucia e io dobbiamo recitare in una commedia, niente di troppo impegnativo e ufficiale, una cosa per studenti. L’ambientazione si svolge a Firenze, curiosa­ mente lo spettacolo deve avere luogo in un quartiere che identifico subito verso il Mugnone, un fiumiciattolo legato alla mia infanzia perché lo attraversavo ogni volta che andavo a trovare mio padre aH’officina. Lucia e io siamo in tram, ci stiamo dirigendo verso il teatro: lei è molto calma, io invece sono preoccupata perché il tempo stringe e, sebbene la mia parte sia breve, non ce l’ho affatto pre­ sente, ho copiato alcune frasi, ma non ho la visione d’insieme della commedia; lei poi l’ha già recitata una volta, quindi è più preparata di me. Per questo non vede il mio problema, mi tranquillizza e parla d’altro. Io mi chiedo se tutto mi tornerà in mente al momento opportuno, se sarò spinta a intervenire appropria­ tamente nel corso dell’azione scenica, ma ho i miei dubbi che ciò avvenga. L’ul­ tima ancora di salvezza sarebbe riuscire a leggere il copione, magari un attimo prima di andare in scena. Tra gli studenti che incominciano ad alfoliare i locali dello spettacolo ne scelgo due e chiedo loro se possano prestarmi il libretto per leggere la commedia. Ma quelli, un giapponese e un indiano, mi rispondono che no, serve a loro, la devono leggere loro.

Diciamo che mi riconosco particolarmente nel tipo intuitivo estro­ verso descritto da Jung. “Mi limiterò qui a un’indicazione generale, prima sulla caratteristica speciale che l’estroverso ha di prodigarsi continuamente e di espandersi in tutte le dire­ zioni, poi sulla tendenza dell’introverso a proteggersi dalle esigenze esterne, ad astenersi da ogni dispendio di energie rapportandosi direttamente all’oggetto, e, al contrario, a crearsi una posizione il più sicura e solida possibile. Così W.

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Bakcs ha dato prova di una felice intuizione parlando di ‘prolilìc’ e ‘devouring type (cioè i ‘fecondi’, chi produce da se stesso e gli ‘insaziabili’, chi divora, chi assorbe in sé).”

25 mar. Stamani sono uscita presto a comprare due uova fresche per lo zabaione a Tito, un pullover rosa per me. Ho intravisto la mia na­ tura originaria: non ho che da seguirla come ho sempre fatto tra mille tormenti, vorrei lasciare cadere i tormenti. Anche Lucia ha un suo destino, una sua natura originaria: non dipende dunque dal fatto che io sono la sorella maggiore, lei è nata così e io non le ho tolto nulla, e se lei è “insaziabile’' ciò non vuol dire che ha diritto di “divorarmi” perché io sono in debito verso di lei, ma perché lei non può dare, io invece ho la spinta a dare. Se libero questo dare dal sospetto di colpa, dal dubbio della conquista, dal timore dell’esclusione, dall’attesa del riconoscimento, posso trovare il ritmo e la misura che via via mi con­ vengono, oppure non esistono ritmo e misura possibili e devo accet­ tare come intrinseco rischio della mia natura quello di essere travolta nelle mie imprese espansionistiche. La mia natura. Sono questo.

Federica ha accennato al fatto che forse un analista potrebbe aiu­ tarla a sbrogliare la sua matassa di sentimenti verso il marito. Ave­ vo intuito giusto. 26 mar. A me sembra che quando l’estroversione mi è bloccata dalle circostanze, allora l’intuizione mi si rivolge all’interno in quei giri oziosi che mi hanno così sorpresa e angosciata in Scacco ragionato. Lì mi sono imbattuta nel “non-rappresentabile”, nella “non-coscienza” e in una insignificanza interiore che tuttavia cercavo di esprimere. Dunque il mio problema è di essere alimentata dalla realtà, di non trovarmi in un cul-de-sac, risospinta su me stessa e senza comuni­ cazione. E quello che scrivevo all’inizio: esprimersi è doloroso, solo comunicare, essere nel flusso degli incontri e delle relazioni, è libera­ torio per me. Dunque sono io che ho bisogno degli altri, ho bisogno di dare per stabilire questo flusso.

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27 mar. Se l’intuizione è tipicamente femminile, la condizione fem­ minile oppressa e senza sbocco è condannata all’introversione, a un dirottamento di energie che porta la donna dall’espansione alla con­ trazione, dal mondo al vuoto, quasi dalla vita alla morte. Probabile che nel passaggio molte di noi restano annientate. 28 mar. Felicita sfoglia insieme a me il suo diario da quando era piccola al ’65: tanti punti del passaggio dall’“innocenza” e dall’as­ soluto dell’adolescenza, con i quali non si può affrontare la vita, alla costituzione di sé come soggetto adatto a vivere, con le sue difese, le sue aperture, l’accenno al lato “inferiore”. Trovavo rispondenza in tutto. Felicita invece mi ha detto di sentire meno le mie poesie per Sara e su quegli stati di smarrimento dove felicità e depressione si equivalgono. Avvertivo in lei una diffidenza dovuta probabilmente al fatto che non ha passato quelle esperienze. Non c’è altro criterio che questo nell’accettazione reciproca dei nostri scritti. Tuttavia sono ancora così maledettamente fragile che a un dubbio devo far fronte con un immediato e istantaneo riesame di me. Incontro Sara a casa mia con altre amiche. Lei è sempre lo stesso macigno di esigenze, richieste, pretese a cui faccio fronte con fermezza. Mi viene il timore di potere ricadere sotto il suo dominio, che la mia fermezza avrebbe vacillato nel protrarsi dell’incontro, che la sua impermeabilità mi avrebbe alla line pie­ gata. Tuttavia ciò non accade e io mi sento libera da lei senza rancore. Mi trovo addossata a un’alta roccia scura sul mare. Io sono in una posizione più elevata, altri più in basso hanno però punti di appoggio. A un tratto arriva un’onda altissima, il mare è limaccioso come dopo una burrasca, e io temo mi sbatta sulla roccia nera, invece mi sommerge e mi trascina con sé; allora temo mi scaraventi in mare aperto, ma anche qui eccedo nelle previsioni perché incontro una piccola onda di risacca che mi trattiene e mi riporta velocemente indietro dove sono gli altri. Una piccola onda salvatrice graziosa e senza pretese.

Ho l’impressione che la piccola onda sia Felicita, capitata a proposito dopo quella eccessiva e travolgente di Sara. Ecco dunque all’appun­ tamento misterioso comparire un’altra amica con i suoi scritti, che mi dice “Mi fido di te come lettrice perché so che non ti aspetti da me niente altro di quello che trova”. Dunque era vero che io potevo farlo,

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lo sentivo e lo avevo promesso, non ero una sbruifona. Nessuna l’ha promesso a me così devo guadagnarmi ogni centimetro di risponden­ za facendo in modo che ognuna passi da se stessa, si riconosca, e poi da me, solo allora posso entrare in scena io. Sono con queiramica di Rivolta che si era innamorata di me in Sicilia. Adesso è carina di modi e ha sostituito alla sfacciataggine aggressiva di un tempo un atteggiamento pudico e tranquillo. Somiglia o mi ricorda Lucia. Io penso “Ecco perché è così, perché l’omosessualità non è più un problema né per lei né per me”. Non provo attrazione, solo un sereno interesse.

Omosessualità sta per: bisogno di trovare una uguale a sé, desiderio di combaciare con un’altra. Ieri avevo sentito distintamente la diversità da Felicita come diversità da tutte le altre donne e questo non mi ave­ va turbato, anzi era come il raggiungimento di un traguardo. 30 mar. Rivelo a Tina e Berto quanto male ho pensato di loro —“Anche quest’estate?” “Anche quest’estate!” - quanto li detesti per un insieme di motivi che cerco di dirgli. Berto offesissimo se ne va, Tina è disgustata e furiosa. Ca­ pisco di avere compiuto un gesto irreparabile e sono angosciata. Tanto più che mia madre li ha invitati a colazione, magari non ci verranno affatto. Ecco mia madre che, tutta tranquilla, prepara da mangiare in una grande stanza dove co­ minciano ad affluire gli invitati. Le rivelo il guaio che ho combinato, ma lei resta quieta e protettiva. A un certo punto mi incanala in un corridoio: lei viene dietro con un vassoio e delle pietanze, io cammino cammino e mi trovo “in trappola” nella stanza di un medico già pronto con la siringa e altri aggeggi e due giovani infermiere, sue complici di ferro. Mi volto angosciatissima: il corridoio è vuoto, mia madre non c’è più. Che fare? Come per reminiscenza di sogni precedenti cerco una finestra, sperando che sia alta, per buttarmi di sotto. Chiedo di an­ dare al bagno: non ho dimostrato la mia paura e gli altri non hanno motivo di sospettare delle mie mosse. La porta del bagno è fatta in modo che si può aprire da fuori e guardare dentro. Dunque il paziente è sempre sotto sorveglianza. In bagno mi do da fare per sviare eventuali sospetti, intanto guardo dalla finestra e vedo una specie di strettissimo cavedio di ferro arrugginito, c’è da farsi male davvero a buttarsi lì, guardo da un’altra parte e vedo una fila di tetti digradanti che subito mi sembrano ottimi per la fuga. Fuggo, e temo di sentirmi le gambe pesanti, i movimenti impacciati, ma non è così, filo via velocemente e dai tetti scendo in una specie di casbah dove incontro un bel po’ di avventure a lieto fine.

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Mi aggrego con altre due ragazze, c’è di mezzo un poliziotto, io sono molto fur­ ba, gioco d’astuzia. Non che mi manchino i momenti a mozzafiato, però tutto si risolve in qualche modo, è questo che mi diverte e mi sorprende. Esco dal sogno con la sensazione che ho saputo davvero cavarmela.

Sto progettando di non tornare a Roma con Simone, di andarme­ ne a Firenze da mia madre, di incontrare lì Piera e di tornare a Turicchi con le amiche. Insomma ho un bisogno estremo di libertà, di seguire le mie piste, di godere di questa primavera piovosa, di sentirmi giovane e fare quello che voglio. Naturalmente finciampo principale è Tito che ha bisogno di me, però tutto sommato, mi sacrifico per lui in un modo naturale che segue l’inclinazione inte­ riore, mentre di andare dietro a Simone non ne ho affatto voglia, anzi è un momento che la vita di coppia mi pesa particolarmente, non riesco a superare il malumore. 31 mar. Abbraccio un tale con un amore, una tenerezza inspiegabili, dol­ cissimi.

La particolarità di questo tale è di essere stato rapito dai banditi e poi rilasciato previo pagamento del riscatto. E omosessuale. Dun­ que rappresenta una parte di me che ritrovo dopo tanto tempo, pena e fatica. Ho avuto un momento di grazia con Felicita e, in conseguenza, an­ che con David: le ho raccontato il sogno della piccola onda e le ho parlato del suo diario. Ero rammaricata perché non stavano a cena da me come avevamo in progetto. Se ne sono andati, però, dopo poco, inaspettatamente sono tornati. Purtroppo il momento magi­ co era passato, tutti eravamo un po’ tristi di non riuscire a ritrovarlo, e non riuscivamo perché lo volevamo troppo e temevamo la delu­ sione che poi è venuta. 1 apr. Quella prepotente, ma brava donna della direttrice di casa del gene­ rale chiama anche la Nicodema, un’analfabeta campagnola, una lavoratrice di mezz’età per pulire i vetri, e fare altre fatiche del genere nella dimora inglese del generale. Mi meraviglio che lei accetti, non sa neppure la lingua, come farà a cavarsela. Guardo l’ordine, il sapiente giardinaggio della zona residenziale, immagino il confort e le meraviglie della casa dove la Nicodema pulirà i vetri e

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provo nostalgia per le situazioni casalinghe organizzate, di una classe sociale da cui io sono sempre rimasta esclusa. Sono in un ristorante giapponese dove un giapponese mi suona il violino nell’orecchio. Non mi va. Guardo una coppia di giapponesi seduti di fronte a me e mormoro “I don’t like it” proprio in tempo per capire che a loro piace, infatti la ragazza mormora “I like it”. Mi meraviglio perché immaginavo che avessero avuto la mia stessa sensazione di fastidio. Meglio così.

Nicola ieri è venuta per acquistare la casa accanto a Turicchi. Incon­ sciamente ho provato invidia - nel trascrivere il sogno ho sostituito questa parola con “nostalgia” - e così mi sono sdoppiata nella gover­ nante che l’assume, infatti è merito mio se lei viene qui, sono io che l’ho introdotta, e nella spettatrice che se ne rammarica. Indica bene il mio conflitto. Ero stata in ansia nella serata con Felicita e David per un senso di sopraggiunta incomunicabilità - l’ambientazione giapponese del ri­ storante - ma soprattutto desideravo che non se ne fossero accorti. Sono sola a Turicchi. Simone è via per tutto il pomeriggio. Così pro­ vo che impressione mi fa. Insomma... alla solitudine resisto, non ho paura, almeno finché non viene il buio e in certi momenti mi scopro l’eccitazione di un tempo che si dilata all’infinito senza doveri da com­ piere, dato che i doveri sono sempre collegati alla presenza degli altri. 3 apr. Questa volta non ho voglia di stare a casa, interrompo mia madre come posso senza offenderla perché parla parla parla come un mulino a vento e io scoppio dall’impazienza. La sua solitudine mi dà senso di colpa, ma che posso farci? Si è riconosciuta subito nella poesia della Dickinson Sareiforse più sola senza la mia solitudine... Queste mie rare visite non m’illudo servano a molto. Come si fa a mettere al mondo tanti figli se poi si continua a fare pesare su di loro un’eterna scontentezza? Mio padre ha schiacciato i miei fratelli con l’immagine di un rivale aggressivo e prepotente, mia madre li ha delusi nell’af­ fetto e nella fiducia in loro stessi come la più ambigua delle amanti. L’assurdo è che mia madre ha fatto la madre tutta la vita, un ruolo in contrasto con il suo modo di essere. Ha fatto la madre per dovere e per mitiche aspettative sui figli: ha lasciato ben capire ai figli che non hanno soddisfatto le sue aspettative. Io l’ho abbandonata per questo

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e ce l’ho fatta a costruirmi un mio mondo altrove, i fratelli impiegano più tempo. Noi sorelle andiamo meglio con gli uomini di quanto i fratelli vadano con le donne, ciò vuole dire che, tutto sommato, mio padre è stato meno deleterio di mia madre: lui era un tiranno, lei la sua vittima insieme a noi, ma come vittima è stata a sua volta il no­ stro carnefice perché non era mai contenta di noi e noi ci sentivamo responsabili della sua insoddisfazione. Mi accorgo che la mia ostilità per i genitori riprende quando vedo le loro angherie su uno di noi e ne osservo le assurde conseguenze. Anche adesso non sopporto la constatazione del potere psicologico dei genitori su Emilio: la sua sof­ ferenza, la sua impotenza sono state anche le mie e solo per un pelo, un imponderabile, mi sono salvata. Quindi non sopportavo la vista di un disastro che negli altri mi appariva irreparabile e che in me dovevo credere di avere la forza di superare. Almeno le mie sorelle potevano vedere in me uno sbocco, e poi pensare naturalmente di fare meglio; io non vedevo niente davanti a me, nessun esempio mi­ nimamente accettabile, ed ero presa dall’assillo e dalla disperazione di farcela. Ce l’ho fatta, sono stata in gamba. Posso confrontare il mio mondo di partenza con il mio mondo di arrivo: da uno stato in cui si soffoca a uno stato dove si respira. Questa volta sono provocatoria con i miei, così gli lascio qualcosa su cui meditare. Dopo una fase affettiva, servizievole, nostalgica, provo il bisogno di scuotere mia madre, di non dargliela vanta. Oggi diceva “Ali piacciono i tipi sempre allegri; io sono pesante, divento triste, mi faccio rabbia, ma è così”. Che la situazione familiare non mi intacca più lo capisco dal fatto che non ho mal di stomaco. Avverto che qual­ cosa è superato e posso cominciare a comportarmi con i miei senza continue, lacrimevoli sensazioni. Anche con Emilio e la sua ragazza, basta di fare la loro alleata. Piera mi ha rivelato la profonda crisi che ha avuto nei confronti delle amiche più care tra cui io, sensazione eli essere abbandonata, tradi­ ta, dimenticata e lotta con se stessa per non cedere, per mantenere un’apertura e la possibilità di verifiche. Ora mi sento molto più li­ bera con lei perché so che non fa affidamento su di me. Cerca solo conferme, non consolazione e appoggio. D’altra parte, anche dando consolazione e appoggio non si può evitare che risultino inadeguati a

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chi li richiede, li pretende, se li aspetta, né che provochino amarezza e sconforto, quindi tanto vale non farsene un problema, anzi acco­ gliere la delusione emanante da sé come un prezioso risultato: l’inizio dell’autonomia. 4 apr. Sono irrequieta: non so cosa fare, né dove andare. Per ora sto dai genitori. Piove, e la campagna non mi attira da sola e senza mac­ china da scrivere; Roma mi respinge addirittura, a parte Tito che è l’unico vero punto di richiamo per me, subito neutralizzato dalla sensazione sgradevole di giornate senza senso fino a sera quando lui torna a casa. Milano vorrei dimenticarla, non pensarci più, eppu­ re è la mia vera città, il luogo dove avrei un motivo per vivere, ma dove è un’inutile fatica fare pellegrinaggi: piano piano mi sarà sem­ pre più estranea e nello stesso tempo non mi sarò meglio ambientata a Roma. Il prossimo fine settimana Nicola sarà a Turicchi per la sua nuova casa. Con spavento sento venirmi una reazione come con l’Elba: che, semplicemente, il luogo perde fascino, diventa un angolo violato e banalizzato, non più unico e mio. Perché non l’ho capito subito, perché ho lasciato Simone avventurarsi nelle trattative per l’acquisto della casa da parte di Nicola, perché sono stata così poco chiara con me stessa? Forse volevo metterla alla prova, se avrebbe rinunciato ad avanzare sulla mia strada; oppure volevo vedere se avrebbe avuto dei moti per contraccambiare, o almeno per riconoscermi qualche utilità. Adesso dovrebbe chiedermi graziosamente che la ospiti per il prossimo fine settimana a Turicchi, invece no, non chiederà niente e sarò io a offrirle tutto quanto e dovrò anche essere leggera perché non le pesi. Cristo, come sono stufa di tirarmi appresso “le sorelle”! Sono terribilmente confusa, la cosa migliore è partire per Milano, starci una settimana da sola prima che arrivi Simone e, se non posso proprio fare a meno di Milano, organizzare qualcosa per tornarci a \ivere. Questo significherebbe rinunciare a lui, ma Milano è l’unico posto al mondo dove sono stata e posso essere libera e autonoma, dove ho una mia vita irraggiungibile, dove non sono tallonata. Mentre scrivo mi sento irragionevole ed esaltata, addirittura un nodo di contraddizioni, ma che posso farci? Lucia ha imbastito una sua vita che non interferisce più con la mia, ha suoi amici, sua cultu­ ra, suoi gusti, suo stile. Questo significa anche indifferenza verso di

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me, ma meglio alla fine che essere l’oggetto dell’attenzione di Nicola: quello che io faccio in modo provvisorio lei lo fa in modo stabile, dato che trova le occasioni già selezionate e garantite. Così si frega, non sarà mai in condizione di fare scaturire qualcosa dentro di sé di cui arricchirsi e di cui arricchire gli altri. Si sentirà sempre “povera”, anche se non immagina quanto è doloroso e “impoverente” per me questo meccanismo a cui non posso più prestarmi perché mi costrin­ ge a pentimenti continui. 5 apr. Notte. La sensazione è che non so più dove ritirarmi adesso che il mio rifugio è stato scoperto. A Nicola. Hai ringraziato Simone per le trattative. Ma non capisci che il punto è un altro: è che io ti ho ceduto il diritto di ingresso e eli possesso del “mio ’ territorio. Se Simone ti aiuta è perché io gli ho creato le condizioni psicologi­ che per farlo, tutto questo a discapito della mia privacy. Io pago per darti, tu non hai faria di volere pagare per ricevere. Il tuo sacrosanto egoismo lo devi pagare, cara, visto che ti sembra il diritto dei diritti, quello con cui risolvi tutte le difficoltà e appiani tutte le complicazioni dei rapporti. Ecco perché fratelli e sorelle stanno un po’ alla larga ira loro, fanno ciascuno la propria vita: perché trovare una strada è una fatica enorme, immane, e chi lo fa non può accettare a cuor leggero nessuno che ne profitti, perché è sempre un profittare anche se fatto da una sorella con il sorriso sulle labbra e la sensazione che non c’è niente di speciale in quello che sta succedendo. Tu non mi hai mai dato il riconoscimento dovuto, è vero, così io non ti sento alla pari, penso che la tua sicurezza deriva dal fatto che con una sorella maggiore sai che non ti man­ cheranno mai le consulenze necessarie. Ti odio. Il succo di tutto è che dovrei mandarti questa lettera.

Ho avuto un battibecco con papà che mi ha richiamato il clima clas­ sico in famiglia. Lui entra in casa e fa un’osservazione, fingendo di scherzare; io taccio o ribatto, sempre fingendo di scherzare e nascon­ dendo l’irritazione come lui ha nascosto la provocazione. A volte re­ sisto a due o tre di queste manifestazioni di scontentezza poi rispondo male e nasce uno screzio, una lite, con la mamma che interviene da paciera e finisce per innervosire di più. Tutto questo sul niente, per niente, prendendo a pretesto il niente. Che maledizione grava su que­ sta famiglia, su mio padre, su tutti! Ho la stessa sensazione di buona

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volontà respinta e costretta a smentirsi, come se mio padre non vo­ lesse una figlia, ma una schiava distrutta e annichilita al pari di mia madre. Per questo finisco per sentire lei come la vera responsabile di tutti i guai che hanno imperversato, gratuitamente, sulla famiglia. Questa volta mi sono trattenuta più dei due giorni abituali così il passato riemerge con i suoi vizi incancellabili, le sue impossibili­ tà contro le quali batto la testa oggi come allora. Solo che adesso sono di passaggio, so dove fuggire. Mia madre ripete i versi della Dickinson “Sarei forse più sola senza la mia solitudine...”, che io in­ terpreto come una nuova versione della sua delusione nel rappor­ to con gli altri, nel caso presente con me. D’altra parte mi rallegro che lo accetti, visto che questa le appare come la sua realtà. Adesso capisco anche perché mi consideravano “cattiva” in famiglia: stamani, per esempio, non ho resistito dal dire a mia madre l’ambiva­ lenza che ho provato verso Nicola e il suo acquisto della casa di cam­ pagna, e, sebbene lei non abbia protestato (un tempo l’avrebbe fatto), certamente il suo idealismo autoprotettivo ne è rimasto turbato. Mi guarda con diffidenza, come se non si potesse fidare di me e dei miei buoni sentimenti sotto i quali ribollono tante perfidie. La mamma si è sempre difesa dalla mia doppia verità (tra l’altro ho una solida fama di bugiarda in famiglia): questo ha accresciuto l’orrore che io stessa provavo. L’odio per la famiglia è stato l’odio per una situazione sconvolgente di percezioni ed emozioni opposte che non mi davano pace. Ho creduto o sperato che bastasse andarsene dal focolaio delle contraddizioni per essere guarita, invece ormai me le portavo appres­ so e continuavo a riprodurle all’infinito, magari senza riconoscerne l’origine. Ho sempre fuggito da me stessa nel tentativo di fuggire lo sconquasso degli opposti in me. Per esempio, adesso sono ossessiona­ ta dalla presenza di Nicola in campagna - non la voglio, non la voglio affatto - e mi sento giocata perché io stessa l’ho fatta venire. Uno dei motiva che mi angustiano è quello di averla avvicinata a Firenze, dunque a mia madre che quando verrà a Turicchi non sarà tutta per me, ma divisa tra me e lei. 6 apr. Mi sono svegliata presto per l’impazienza di cominciare a bat­ tere a macchina il mio diario, decisa a non fare più la donna-ombra. Andrò a Milano: Tito, grazie al cielo, non mi mette il veto psicologico perché è tranquillo e pensa ad altro: la mamma di un suo amico sta

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per adottare una bambina. Gli chiedo se a lui piacerebbe. Non mi dice di no, stranissimo perché in genere si è sempre ribellato all’idea di sorelline vere o adottive. Ci lasciamo su un ‘Temiamoci”. Mi scopro abbastanza giovane per ricominciare a essere madre in un settore che ignoro - la figlia femmina - e forse abbastanza matura da godermelo senza dissociazioni. Sono emozionata al pensiero dell’amore di Tito per la sorellina, immagino tutti noi in uno squarcio di intimità e di calore, quattro esseri raccogliticci che si amano. La voce di Matilde al telefono ha dissolto le nubi di malumore che avevo da ieri, permettendomi una proiezione di simpatia del tutto salutare. Simone mi telefona da Palermo dicendomi di avere programmato un anno stabile di lavoro a Turicchi. Sarà bello, lo dico ricordando­ mi il desiderio che ne avevo, perché adesso muoio dalla voglia di andare a Milano. Ho chiamato anche Valeria a Torino e Piera a Ge­ nova per fissare di vederci a Milano. Telefonerò anche a Sara. Che felicità tornare a casa! Alla mia casa! Tra le mie amiche! Con mia madre sono sempre stata protettiva, spigliata, buffona. Con­ tinuo ancora oggi perché mi sembra sempre così sulla difensiva, deve mantenere in piedi i valori che la gratificano e almeno la tengono a riparo dal vittimismo e dall’ostilità per i suoi beneficati-oppressori, e allora voglio comunicare con lei, non fingere, e d’altro canto le do la scappatoia, se le sembrasse troppo catastrofico quello che dico o fac­ cio, di buttarla sul paradossale, sull’eccessivo dovuto al mio ben noto temperamento. Invece di temperamento, sarà che mi sbagli, me ne sento davvero molto poco. 8 apr. Alla mia partenza la mamma è triste. Mi dice “E così di nuo­ vo resto sola con la mia solitudine. All’inizio, quando arrivi, devo abituarmi alla novità, poi, appena mi sono abituata, di nuovo parti, e tutto ricomincia come prima”. Ma non può non essere giudiziosa “So che torni presto, e quando abiterai a Turicchi, ci saranno mag­ giori possibilità”. Devo subito mettere un argine “Questa volta sono stata con te cinque giorni, da mercoledì a oggi”. Non so come avesse la risposta pronta “Eh no, mercoledì sei arrivata la sera!”. Però sono stata contenta di partire, sia perché il soggiorno cominciava a pesarmi e non riuscivo più a stare attenta alle infinite divagazioni

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di lei, sia perché non mi sento responsabile se non le risolvo la vita. Mi chiedesse qualcosa di assurdo lo farei, ma non mi chiede niente e posso solo offrirle di tanto in tanto la mia compagnia. La sera ho preso l’abitudine di baciarla come se fossi una bambina piccola, e mia madre è contenta come se la bambina piccola fosse lei (e forse lo è). Ieri si è rattristata airimprowiso “Domani sera niente baci della buonanotte”, poi ha detto ancora qualcosa a bassa voce andandosene. L’ho richiamata “Ehi ehi, cosa hai detto?”. E tornata sui suoi passi “Che te li darò con il pensiero”. Ed era confusa come se si fosse esposta troppo senza rendersene conto. Cosa dire dell’ultimo incontro con Sara? Mi ha dato da leggere uno scritto dove afferma di sé che è stata una merda, una vigliacca, e di me che mi sono comportata come un piccolo Hitler, prima im­ ponendole la distinzione tra clitoridea e vaginale, poi gratificando il suo cadavere, la ragazza timida. Mentre stavo per cominciare a leggere mi ha detto “Preparati a una botta in testa”. Invece sono stata terribilmente sollevata nel trovare scritto, nero su bianco, espresso a chiare lettere, quello che avevo sentito prepararsi in tanti mesi di angoscia e contro il cui avvento avevo lottato strenuamente. E nello stesso tempo nell’accorgermi che adesso non lottavo più, che lo avevo già accettato, che la cosa non mi scalfiva. Sara a un certo punto mi ha interrotto “Ma perché non m’insulti?”. Le ho risposto “Lasciami prima finire di leggere”, ma non avevo in cuore né rivalsa, né frustra­ zione. Avevo pensato di me e di lei tutto il male possibile: dopo avere navigato nel senso di colpa e nel miraggio della sua innocenza l’avevo scoperta cieca, ingiusta, egoista, odiosa, assurda. Avevo accettato che lei si fosse sentita mia vittima perché anch’io lo ero stata di lei. Forse, quando me l’ha detto, l’anno scorso, ho provato uno choc tale che non ne potevo provare un altro più forte. Ho pianto amaramente, sconsolatamente, disperatamente allora sulla mia illusione di potere essere l’occasione a lei di liberarsi, un’occasione luminosa: invece lo ero stata, ma in una parte obbrobriosa, ignobile, intima. Quella era la liberazione, perciò è tanto dura, dall’illusione più sfrenata su sé e sull’altra, dall’amicizia e l’unione armoniosa alla solitudine con se stessi sfrondati di ogni nobilità e ambivalenti. Da un mondo sull’orlo di essere redento a un mondo opaco per tutta l’eternità. Deve essere già passato del tempo da quando questa scoperta è avvenuta, ora

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non mi sembra più quella tragedia dalle dimensioni cosmiche che ho sentito all’inizio. Sono cambiata. Il primo amore è un amore infelice, la prima amicizia è un’amicizia infelice, la prima ideologia è un’ideo­ logia infelice. Nel femminismo mi sono impegnata in prima persona, e ho commesso quell’Errore che rimproveravo agli altri e che non sapevo com’è fatale commettere se pensi e agisci. E insopportabile riconoscere di essersi sbagliati. Comincio ad apprezzare chi ha la mo­ destia di fare piccoli errori e correggerli via via. Ma c’è un’umanità che ha la vocazione del Grande Errore, e io faccio parte di quella umanità. I greci lo chiamavano “hubrys”. Ho sempre pensato che un segreto della vita fosse capire cos’è, ma quando lo capisci è segno che l’hai già commesso. Non so perché mi abbandono a queste riflessioni da epilogo, forse perché sento che questa fase è finita e devo mettere un’epigrafe, forse perché con Sara ci siamo lasciate senza sapere se ci rivedremo perché non sappiamo più se abbiamo qualcosa da dirci do­ mani, dopodomani o mai, e senza neppure il legame della rivalsa, del­ la paura reciproca. Adesso che ogni cosa perde senso, che quest’ami­ cizia-inimicizia non esiste più - le ho stretto la mano nell’androne di una casa, mentre si avviava verso un buio cortile da cui mi sembra non tornerà - mi sento finalmente orfana in uno spazio dai contorni indefiniti. Finché eravamo insieme per strada, sebbene avvertissi con leggero sgomento che non mi veniva più niente da scambiare con lei - e lo attribuivo alla stanchezza, ancora una volta sopraffatta e confusa dalla nostalgia di un rapporto che respingeva nell’inconscio da cui proveniva la sensazione che tutto era finito - speravo che si presentasse qualcosa, prendere una tazza di thè, rifugiarsi insieme in un cinema, che ci permettesse di gustare ancora momenti di intimità e di speranza. Sara diceva di sentirsi depressa “Forse perché abbiamo vissuto insieme una grande illusione che ora è caduta”. Io mi sentivo svuotata, rilassata come dopo uno stress. Avrei voluto passeggiare con lei in silenzio, fare qualcosa insieme senza parlare. Sento una vita calda che mi aspetta, vorrei che lei ne facesse parte. Rileggo il mio diario qua e là e ho questa impressione: che il calore delle mie giorna­ te era la presenza di Sara dentro di me. Ogni luogo - dove sono, dove andrò —mi appare deserto senza questa presenza. E la sensazione di un amore che finisce, l’ho già provata, e del distacco da chi ami, ormai per abitudine e quasi a freddo, e te ne accorgi al momento di separarsi definitivamente. Faccio il numero di Sara per chiederle di

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darmi una copia della poesia su di lei e di una lunga lettera da Roma. E per dirle “Ho nostalgia di te, te ne stai uscendo da me e non posso trattenerti”. Questo diario l’ho scritto in modo che le fosse possibile trovarci tutto quello che non le ho saputo o potuto dire via Ha che accadeva. E che Sara sia un fantasma o un essere concreto per me, sento che glielo devo. Cosa mi succede? Adesso che il timore si è avverato, che so cosa pen­ sa di me (e di sé), adesso che ho misurato la sua violenza e la mia, e toccato il fondo, di nuovo, come all’inizio, nella fase dell’incantesimo, posso amarla. Questa volta con un sentimento più umano perché non ne ho più paura, conosco le sue sofferenze e debolezze, men­ tre prima l’amavo con soggezione per la sua innocenza e, sfiduciata, mi misuravo continuamente con lei. Anche Sara, mi ha considerato santa finché non ha saputo i miei intrighi erotici, cioè fin quando, da santa ha visto tramutarmi in puttana, cioè madre. Per la prima volta accetto i suoi limiti, limiti di coscienza, di esperienza, accetto quando e dove non capisce. E dove le sfugge, dove è ottusa. Prima avevo sem­ pre il dubbio che vedesse più in là e che ottusa fossi io. 9 apr. Sono stata ingannata dalla credulità delle altre, di Ester pri­ ma, di Sara poi. Ma tutt’e due erano molto prepotenti - Ester spa­ valda, Sara timida ma megalomane e testarda - quindi io che vivevo nell’incertezza e nel senso di colpa verso le donne mi identificavo nella loro autenticità che dava l’assenso alle mie proposte, alle mie idee. Ancora oggi non so che conclusioni trarre su cosa è stato, so solo che le amiche su cui avevo appoggiato il senso di validità di quello che stavo facendo non ci hanno più creduto e si sono sentite ingannate. Dunque ero dipendente non perché non erano i miei pensieri, ma perché non sapevo su quale identità (buona? cattiva? sana? malata?) poggiavano. Sara era ormai invasata da me (mito della sua autenti­ cità), ma io lo ero stata da Ester (“clitoridea allo stato puro”), e poi da Sara (libro), solo che poi Ester ha ribaltato le responsabilità, mentre Sara coinvolge se stessa in un crollo comune. Adesso a me non interessa niente quanto l’ho pagata, sono disposta a pagarla ancora, sono disposta a tutto, non ho più né senso di colpa né rimpianto per una “via facile” che non esiste, né temo il giudizio degli altri. Vedere Sara soffrire per gli stessi motivi per cui ho sof­ ferto io, vederla ammettere la stessa indegnità che ho trovato in me

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stessa, gli stessi inevitabili ingredienti, mi ha liberata, perché alla fine avevo osato formularli io stessa e lei me ne ha dato la conferma. Sia Ester che Sara rivendicavano continuamente la propria autenticità, vivevano l’illusione della propria innocenza (anteriore al mito che ne avevo fatto io) e io la vivevo proiettata su di loro. Volevo essere assolta da un Cristo femmina. Allora cercavo di favorire l’avvento di questo Cristo, facevo il Giovanni Battista. Ma Sara faceva Cristo. Eravamo pari nell’ordire un inganno, pari anche nel non saperlo e certo l’una teneva vincolata l’altra. All’inizio sembrava che tutte le colpe fossero mie, quel momento è stato atroce perché non osavo ritorcere, ero pa­ ralizzata dal mio mito dell’innocenza di Sara, non potevo vivere senza quel mito in cui avevo riposto tutte le mie speranze. E ne scaturiva un dubbio su di me insopportabile. Poi ho cominciato a fare delle riserve su di lei, ma mi sentivo meschina e io stessa quasi non ci credevo, le consideravo un’ignobile rivalsa. Poi piano piano ho preso coraggio, ho trovato singolari coincidenze in altri rapporti fra amiche, ho avuto il sospetto del transfert, cercavo una scappatoia per salvarmi, sentivo che la sofferenza era tale che ne uscivo giustificata, se solo Sara avesse smesso di accusarmi, di covare verso di me quell’odio maledetto (ma era poi vero? oppure nella mia perdizione me lo stavo inventando per potere sfuggire alla sua presa?). Se solo avessi potuto non provare quella tremenda sensazione che lei mi voleva punita, pazza, morta. Invece la provavo, anzi la sua tecnica era questa: all’inizio dell’incon­ tro mi poneva delle domande, voleva sapere di me, ma appena io fa­ cevo qualche ammissione mi piombava addosso come un falco e se ne andava con qualche prova in più della mia malvagità. Oppure parlava sempre di sé e non accettava argomenti posti da me. Sono stata in sua balia, non c’è dubbio, e anche questo ora mi fa sentire alla pari. Allora non ero così cosciente del mio potere su di lei perché, mentre lo enun­ ciava, manteneva un’euforica padronanza di sé che contrastava con la mia esperienza depressiva della dipendenza da lei, e non riuscivo a credere si trattasse dello stesso fenomeno. La dipendenza la vivevo come senso di colpa e continua vulnerabilità di fronte alle sue accuse, soprattutto velate, quasi che lasciasse a me l’incarico di completarle. Diventava una specie di suicidio, non potevo farlo, o se lo facevo, me ne pentivo e a mia volta non potevo sottrarmi a una specie di odio per il suo dispotismo. Ma poi mi chiedevo se non fosse stato vero il suo sospetto di una mia totale malafede e indegnità. Mi sono liberata di

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lei in solitudine: mi era più facile ammettere le mie illusioni e i miei errori se lei non era lì presente con il sorriso di trionfo, il sorriso sadico della sua autenticità che io non potevo né volevo mettere in dubbio. In solitudine non è la parola giusta, perché subito mi confidavo con altre amiche: non era così terribile ammettere insieme a loro tante de­ bolezze. Ma ogni tanto mi si riaffacciava lo spettro di Sara e mi dicevo “Non sarò tranquilla finché non raffronto e vedo cosa mi capita”. Ieri l’ho affrontata di mia volontà e mi sono sentita libera dalla sua morsa (soprattutto perché abbiamo parlato del nostro rapporto aper­ tamente), dai suoi sospetti, accuse, malignità e verità: restavo calma, non perdevo fiducia, non negavo, non mi irrigidivo, non mi denigravo nel tentativo di sfuggire la sua ostilità come altre volte era successo. Mentre toccavo il fondo che lei mi additava mi accorgevo che era un luogo conosciuto, in cui ero scesa da sola, ora mi accingevo a una rico­ gnizione tranquilla: il mio inconscio stava lì accucciato e non potevo ricordare quando si agitava minaccioso come una belva. Leggendo il caso di Dora, stamani, riflettevo quanto sono state signi­ ficative le malattie di cui è costellata la mia vita, a cui sicuramente affidavo la soluzione dei conflitti suscitati in me dalle mie azioni vel­ leitarie. Intanto da piccola durante le malattie mi ero sentita molto amata e coccolata da mia madre; quando me ne sono andata a Parigi e poi in USA la malattia era il pretesto attraverso cui sarei potuta onorevolmente tornare indietro e accettare le cure degli altri e anche avere la prova del loro affetto. La malattia copriva delle sconfìtte e dei rimedi peggiori del male, copriva la sensazione che non ce la facevo a superare nel modo prestigioso che mi ero proposta, con la malat­ tia avevo l’occasione di ridimensionare i miei progetti senza scoprire agli altri (e a me) l’insuccesso degli stessi, e risolvere neirunico modo possibile, ma che non volevo ammettere: nella deresponsabilizzazione da ogni colpa e incapacità e nell’accoglimento materno, quello indiscriminato, sempre disponibile, solo che si sappia trovare una ragione obiettiva della sua necessità. Ero continuamente sbalzata in assurdi progetti di grandezza da cui dovevo ritirarmi senza attribuirmene il bilancio fallimentare, o che mi sarebbe apparso tale Usto che caricavo i progetti di significati compensatori di altri fallimenti o problemi do­ lorosi che non riuscivo ad affrontare. La TBC a Parigi era il modo per potere tornare vicino a Cesare senza insospettire mia sorella e senza dovere riconoscere che la rinuncia a Cesare, che avevo sbandierato

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a suo favore, non era reale; per ripresentarmi a lui sperando in una nuova comprensione da parte sua motivata dalla malattia; per tor­ nare in famiglia e richiedere l’attenzione dei miei; per neutralizzare le critiche di mio padre e in generale per ripresentarmi tra gli amici. Il cancro in USA era il modo per farmi perdonare da mio marito e da mio figlio; per giustificarmi perché non avrei imparato l’inglese né fatto i giri meravigliosi per gli Stati di cui sembravo avere voglia e che in realtà mi angosciavano, e perché non avrei fatto del soggiorno americano quell’uso straordinario che mi ero prefissa. E comunque indicava che volevo occuparmi della mia sopravvivenza piuttosto che della mia vita, e che volevo tornare “a casa”, anzi, che non sarei affat­ to partita perché non volevo separarmi da mio figlio. Con il pretesto del cancro ho scritto lettere a mio marito e affrontato con lui temi che mi opprimevano e mio marito da allora mi ha sempre scritto e mi ha fatto scrivere da Tito, cosa che prima volutamente trascurava. La malattia serviva a farmi ritrovare la sensazione di innocenza. Io ero stata ingannata dalla credulità delle altre, le altre erano state ingannate dalle mie teorie, però io ne avevo bisogno per liberarmi dalla convinzione di essere destinata ad agire per il bene comune, e le altre per liberarsi dall’abitudine alla dipendenza. Mi è piaciuto l’ar­ gomento della credulità perché finalmente sono riuscita a ribattere sull’accusa di essermi fatta mitizzare e ho diviso le responsabilità. 10 apr. Matilde mi irrita: mi presta un libro “bellissimo” che non mi piace affatto, di una donna; trova che parlo di mia madre con fastidio; trova che non accetto gli altri; e quando dice “Carla è stata importantissima per noi” lo fa d’ufficio, per senso di giustizia. Rivedo Matilde e parliamo intensamente due ore: la scopro un po’ macerata, con perdite di fiducia in se stessa, provo un senso amiche­ vole profondo per lei e capisco che le sue osservazioni di ieri sera mi avevano messo dei dubbi su di me (in più le avevo sottoposto squarci di “vita disonesta”), quindi non potevo non volergliene perché mi viene spontaneo attribuire a questo attentato alla mia pace interiore un’in­ tenzione malevola. Devo ricordarmi che gli altri smuovono solo dubbi che ho già. Giornata rovinata da un articolo su “L’Espresso” dove si parla di Ri­ volta Femminile come di un movimento che sostiene il lesbismo e di

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me come la teorica del lesbismo! Mi è venuto un colpo perché a que­ sta distorsione non si era ancora arrivati: sono sicura che lì sotto c’è ancora una volta Vanda. Suppongo che si sia convertita al lesbismo secondo la nota tecnica di “avere il coraggio di portare alle estreme conseguenze” la posizione di Rivolta questa volta sulla clitoride. Però, e non c’è bisogno di dimostrarlo, che garanzia può dare un’omoses­ sualità che prevarica tranquillamente le compagne e si esprime in frasi di questo genere “Dimostriamo agli uomini che possiamo fare a meno di loro?”. Nel nostro gruppo non sarebbe sfuggito questo punto e non sarebbe passata per autentica una frase del genere. Eppure ci Vene attribuita. Tutta, o quasi, la fatica che ho fatto con Vanda all’epoca del nostro Manifesto si basava sulla demolizione di frasi dove scoppiava questa contraddizione, tanto più sconcertante quanto più le frasi erano roboanti, e lei orgogliosa del suo “estremismo”. A quell’epoca il suo punto di riferimento erano i giovani del maggio francese, e qualche ca­ riatide del PCI che si era occupato del problema femminile e a cui lei ci procurava la vergogna di sottoporre Va via il Manifesto senza dircelo. A colazione Lucia mostrava un’aria materna con me perché avevo mal di testa ed ero tutta scombussolata dall’articolo. Mi sentivo im­ barazzata nel crearle disturbo, però stavamo bene, senza tensioni e lei era molto comprensiva e attenta al mio problema. Ha detto una frase che mi ha colpito, l’ha detta allusivamente come essendo consapevole di sfidarmi “Io ci tengo molto al mio guscio”, cioè al privato non viola­ to da estranei, autosufficiente, ai piaceri che dà la vita tra i propri cari. Mi è sembrato che in questa convinzione stesse tutta la sua capacità di “gioia” rispetto alla mia “sofferenza”. Pensavo anche che era stata accorta a coltivarsi quella natura e quel destino. Io avevo lasciato tut­ to e tutti, ero andata lontana come il figliol prodigo e avevo perduto la mia innocenza, avevo Vssuto di ripieghi, di sconfitte, di miraggi, di espedienti, di provVsorietà e lei non sembrava giustificarmi. Adesso so che per Vvere nel mondo è necessario, e io avevo il mondo come meta. A me il guscio non bastava anche se l’avrei sempre rimpianto e cercato di sostituire, anche se non avrei trovato niente di meglio. 11 apr. Sono distrutta dall’avere passato la giornata a cercare il modo di rispondere all’equivoco in cui Vanda ci ha cacciate. Stan­ chezza tremenda, senso di buttarmi via per questioni irrisolvibili, trappole da tutte le parti, e lei pazza furiosa con cui non c’è chiari­

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mento possibile. Mi chiedo perché non sono vicina a Tito e perché non faccio la vita tranquilla di tutte le fortunate che sono fuori da questi guai. Bastava restare nella situazione in cui ero, privata, e lon­ tana dalla realtà. 12 apr. Sono le 6 del mattino, ho dormito poche ore. Ho uno stato d’animo indescrivibile: capisco adesso la mia condizione. Senza ap­ poggi in chi ha modo di appoggiare, e indifesa di fronte a donne come Vanda, che vorrei solo vedere sparire, come in un sogno appena fatto, a un segno tracciato nell’aria. Allora come posso trovare pace: devo accettare Vanda, questa macchina di tracotanza, scontrarmi con lei, lasciarmi sporcare, lasciare sporcare questo capolavoro di dedizione, di attenzione, che è Rivolta Femminile. Per me la vita era ancora qualcosa da cui si può cacciare il male, questa l’illusione, la fuga dalla realtà. Adesso so che non è possibile: un giornalista superficiale, una femminista che calpesta le donne mi hanno ridotto all’impotenza, e io non mi ero creata un piano concreto per affrontare, poiché non le immaginavo, situazioni del genere. Devo rassegnarmi a considerare perduto questo round, lasciare che venga divulgata un’immagine di me alla moda e perciò degradante. Devo considerarmi responsabile dei miei errori, e comunque della parte di errore che c’è e ci sarà sempre in ogni mio gesto e da cui può scaturire qualcosa di orrendo, per me inimmaginabile: devo accettare di potere essere contaminata agli occhi degli altri. Tuttavia ho capito per esperienza che non devo abbandonarmi né a teorie né a umori equivocabili: c’è sempre qual­ cuna pronta a imitare, a riprodurre per mille passando così il limite e rovesciando nel contrario, quello che avevo inteso. Oppure rivelando un lato che, ingigantito, è insopportabile. La tentazione, a questo punto, è cercarsi alleanze. Con chi? Chi può farsi garante della mia buona fede? Rivolta non sarà più la stessa. E questo lo devo accettare: è stata travisata nella babele dei linguag­ gi e dei gesti. Ieri sera con Matilde e Felicita, mi sentivo sola: Felicita mi aiutava a scrivere il pezzo di rettifica, ma con la sensazione di perdere la giorna­ ta, subito nostalgica per la quiete perduta, l’intimità violata; Matilde lo stesso, indignata, scandalizzata, ma come se in definitiva il problema fosse mio, e lo è infatti. Non saranno mai così incaute da uscire dal seminato. Rivolta per loro è sentirsi protette, semmai, non esposte,

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perché poi Rivolta sono io quando succede qualcosa. Le invidio, ma so che non ce la facevo a stare nel recinto, dovevo uscire. Non mi succedeva da mesi di non dormire per l’angoscia e a un certo punto, mentre farneticavo tra risposte a “L’Espresso” e lunghi mo­ nologhi, ho scoperto che finalmente capivo gli uomini che si fanno giustizia, che tolgono fisicamente di mezzo chi li contrasta e li offende perché il desiderio dell’omicidio fa parte dell’essere umano che si sen­ te schiacciato - ecco il senso del sogno in cui faccio il segno nell’aria e Vanda sparisce, anzi non è lei, ma una giovane donna che appare in una caverna semi-buia e mi dà grande angoscia finché con un esorcismo riesco a farla sparire, ma poi ricompare e io ricomincio con l’esorcismo. Qui mi richiama i messicani che prendevano la droga per cancellare l’esistenza dell’uomo bianco che li stava annientando. Mi sento parte dell’umanità, provo la sofferenza di tutti i soprusi subiti dagli esseri umani, divento comprensiva, divento omicida, indosso la camicia sporca, sporca di merda della realtà, non posso lavarla, non voglio lavarla. Che razza di collegiale sono rimasta per tanto tempo, una schizzinosa collegiale fuori dal mondo. Sono attratta dalla realtà, voglio compromettermi con lei: so che uscire dal guscio è terribile, non ti lasciano venire fuori, a meno che non accetti di essere accom­ pagnata da uno di loro, sennò immediatamente arriva la mazzata, la calunnia da cui non si scappa, il disonore, la violazione, parti di te a brandelli come dopo un’incursione selvaggia, il tuo lavoro distrutto. E qui mi viene in mente chi perde tutto nella guerra, o nell’incendio, o in un atto generoso o in un atto incauto, per vendetta, perché non sei niente e ti passano sopra. L’ho sempre saputo, mi sono sempre commossa, mi sentivo molto umana per questo, ma adesso è diverso: mi riguarda, ci sono anch’io nel mezzo. Subire un sopruso, vedere la propria attività travisata, resa irriconoscibile, e piano piano accettare il fatto, l’odio, la sporcizia di tutto, che è poi sofferenza, stupidità, impossibilità. Il giornalista non accetta che il femminismo non sia un atto forsennato, disprezzabile, così lui resta al sicuro; Vanda non accetta quello che è, una donna arrabbiata, esaperata dal desiderio di essere quella leader rivoluzionaria che una parte della stampa le aveva fatto credere rovinandola. Felicita s’inventa continuamente un mondo diverso, un giardino più che altro, e si rifugia nell’affetto, nella grazia, nell’estetica e in

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se stessa. Elimina, letteralmente, la parte della realtà che richiede lo scontro (e la rivelazione di sé nello scontro). Non devo vergo­ gnarmi di essere confusa con Vanda perché tra le femministe non ci sono equivoci, fuori possiamo sempre contare sul fatto che, a chi interessa, cerchi di vederci chiaro. Come immagine pubblica siamo andate a finire in basso: all’avanguardia della moda: gli scritti lesbi­ ci che ci vengono attribuiti sono veramente tremendi. Mi chiedo perché ho tanto bisogno di purezza e scopro che è l’unica arma che ho per farmi rispettare. Posso però superare questo bisogno e basarmi solo sul mio interno rispetto anche in circostanze poco rispettabili come questa. Anch’io devo liberarmi dall’idea di pre­ sentare me stessa come una candida salvatrice. Lucia è molto cara, mi vengono in mente le telefonate lunghissime che le facevo da Minneapolis a Boston quando avevo problemi con il cancro. Nei miei momenti difficili ha l’istinto di proteggermi e di occuparsi at­ tentamente di me, e questo mi è di grande aiuto. Ha anche una calma e una freddezza che a me mancano. Mi è venuta voglia di andare in campagna. /Vile 6 mi sono alzata per un po’ e ho annaffiato i fiori, sentivo una spinta irresistibile a lasciare tutto, a rifugiarmi da Simone che, con la sua sola presenza, mi fa sentire più solida. Mi dicevo anche “Se non sto un po’ con Tito butto via la mia vita, ho dedicato più tempo e più tutto a Rivolta che a lui” e mi si scatenava un rimpianto per cui lo volevo vedere subito, stare con lui, occuparmi di lui. E poi capivo che era un desiderio di fuga, di non affrontare, di evadere: chi me lo fa fare di rovinarmi la vita quando ho lì pronte tante gioie che trascuro, che non mi godo, tra­ volta non dal femminismo, ma da tutte le cose esterne, beghe, pseu­ doidentità, falsità, manipolazioni a cui non si ripara. La decisione di non comunicare con la stampa era un po’ anche quello: non essere raggiunte dal confronto con l’esterno, restare nel nostro isolamento di donne per non renderci conto di quanto siamo sprovvedute, tramortibili. Adesso accetto il dato di fatto, non eseguo lo scongiuro, capisco che è il mio momento di perdere, risolvo dentro di me questa diffìcile sconfìtta. Valeria dice che la presa di coscienza arriva tra doglie, lacrime e di­ sperazione. Lei è il contrario di Felicita che sfugge o aggira l’ostacolo; Valeria gli va incontro e soffre, si dibatte, si ammala. Per forza l’ho sentita affine. La donna borghese è più tagliata fuori di quella prò-

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letaria o di origine proletaria come Valeria e me, perché ha la pos­ sibilità di addobbare e proteggere meglio l’isolamento fisico (che poi diventa mentale). In questo senso l’estetica serve a rendere vivibile la prigione, ed è un bene, perché fuori non c’è altro che giungla, lotta per la vita, uno spettacolo da gladiatori. Io ero attratta lì fuori perché volevo essere nel mondo. Per quanto tempo, mezza dentro e mezza fuori cercavo di insegnare alla realtà come avrebbe dovuto essere! Riferisco a Raffaele la storia de “L’Espresso”, e lui “Che te n’impor­ ta! Bel giornale progressista quello!”. Ecco ciò che mi piaceva di lui. Federica ha proposto di comprare una pagina del rotocalco per fare un’inserzione pubblicitaria e dire quello che vogliamo come risposta all’articolo sul femminismo e su Rivolta. I soldi servono per evitare lo scontro con la realtà: rovesciano le impossibilità in pos­ sibilità. I ricchi hanno questa arma di difesa verso il mondo: non subiscono sconfitte fin dove hanno soldi per pagare. Mi telefonano Valeria, Gemma, Piera e una donna che è un secolo che non vedo. E così facile parlare con loro: non voglio più niente e mi danno tutto! Lucia non mi frustra più, sua figlia nel pomeriggio da me mi chiede le cose “zia Carla...”, e io sento di entrare nella sua vita di bambina, i miei gesti hanno via libera e mi vengono fuori senza affettazione. Raffaele e sua moglie a prendere il thè: lui parla senza fermarsi, capisco i suoi problemi, li vedo e vedo che vuole comunica­ re con me. Claudius mi telefona e dice scherzando che fa adepti (al femminismo) e così tradisce la patria; “Ma favorisci la madre-patria” rispondo. “Però tradisco la patria che ha sempre a che vedere con il padre.” Mi chiede cosa faccio, a che lavoro, sento in lui una stima che non gli pesa e che non esibisce. E tutto così naturale. Voglio stare qui: Milano è la mia città e la mia casa. E che Tito stia a Roma non è così catastrofico perché mi va bene stare qui da sola, come non sono mai stata, e godere la messe di tutto ciò che ho seminato, senza quasi ac­ corgermene, in quindici anni. Domani viene Simone, non lo desidero in questo momento, ma non mi opprime. Vedremo. 13 apr. Leggendo il diario di Felicita in una pagina del ’72 lei afferma di sentirmi come guida e modello e che questo non le va. E contenta che io lo legga adesso che, dice, tutto è superato. Va bene, però qual­ cuno doveva rivelarmelo prima o poi, e rompere l’incantesimo: lei ha preferito rivelarmelo poi. Adesso che ho chiaro che la riserva affettiva

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di Felicita per me è una difesa - e poi ha un modo di amare David ed esserne riamata che non dà gelosia (cosciente), sebbene insieme rappresentino sempre la coppia (per l’inconscio) - non ho più quella sensazione di essere tenuta a bada che avevo prima. La mia diversità da lei è questa: la fissazione e l’amore rischioso per le amiche. Nel suo diario trovo confermata la mia intuizione che Felicita eviti la lotta, che ne abbia orrore. Questa era la sensazione soffocante che provavo nel mondo femminile. Anche se poi, al momento della lotta, mi sconquas­ so tutta e vorrei morire piuttosto che sopportarne le tensioni. Non resisto dal sospendere di leggere un libro di Barthes tradotto da Lucia, per fermare questo attimo milanese di mattina domenicale con il sole e il sereno del nord che ho scoperto di amare (con la Tosca­ na) più di tutto al mondo. Il terrazzo è pieno di verde; le mie piante, seppure abbandonate, ce l’hanno fatta a sopravvivere; Piera sta per arrivare da Genova. Questo è un momento di paradiso. Cosa ho fatto perché mi succedano cose così? La mamma di una femminista, una donna di 75 anni con cui ho parlato solo al tele­ fono perché ha dato lezioni di lingua a Tito, mi chiama e mi dice che vorrebbe leggessi degli scritti che si porta dietro da tanti anni e che non ha mai voluto pubblicare perché avrebbero distrutto la facciata della sua vita. Le chiedo come ha trovato la fiducia per af­ fidarmeli: le è bastato leggere qualcosa di mio. E benché le cose siano a questo punto - con questi squarci di im­ previsto —ho passato un giorno intero a cercare come rispondere al settimanale con altre amiche e alla fine sono rimaste in piedi tre righe pressappoco, però pulite. Il senso della cosa, perché deve esserci un altro senso oltre a quello di controbattere una notizia che falsa la nostra identità di gruppo, è stato di scaricarmi dell’aggressività per Vanda, in parte perché mi è capitato di esplodere in epiteti allo stato puro, un po’ perché ho potuto incanalare la rabbia in una serie di analisi che non perdono di vista un’obiettività. Resta il fatto che devo trovare risorse pratiche per sottrarmi ai suoi abusi altrimenti la rabbia ritorna. Paula sta soffrendo e Gloria mi guarda come una dal cuore di ferro perché non le ho ancora telefonato. Gloria è un’altra che ha un con­ to in sospeso con la madre a cui non ha ancora perdonato, quindi mi si preparano problemi con lei. Il suo rapporto con Paula non è

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casuale. Ieri ne sentivo l'ostilità che mi è apparsa per la prima volta al di là della facciata deirautocontrollo. Gemma mi è stata molto di aiuto, ma in un modo così discreto che ho quasi stentato a capirlo, e adesso sono meravigliata di non essermene accorta prima. Quando ho cominciato a provare quel tremendo senso di colpa per la mia te­ orizzazione sul sesso e per il ruolo avuto nel gruppo, il mio rapporto con lei era in crisi per motivi diversi che con le elitre: Gemma non mi accusava, anzi era come se volesse scusarmi o consolarmi, e io avevo un tale bisogno di andare a fondo che finivo per credere solo a chi mi rendeva colpevole e sembrava volermi punire. Poi è venuta a Roma e ho sentito il suo affetto, ma ancora ero sospettosa, mi sembrava impossibile che potesse accettarmi senza farmela pagare. Non potevo valutare cosa le era costato tutto il mio accanimento sui miei temi. Poi ho scritto la poesia per lei. Stamani ho avuto la certezza che non ce l’ha con me, che la sua presa di coscienza l’ha resa autonoma sia da me che da Sara (Paula invece, forse perché ha delle forti analogie, fa un po’ di passi come Sara), non ha difficoltà ad ammettere che l’in­ ganno è stato reciproco fra me e le altre (come ha fatto anche Matilde, però con Matilde sono stata meno ingiusta che con lei). E come se avesse capito tutto e ancora non mi riprendo dallo stupore che potesse essere così profonda con un passo così leggero. Forse la sua leggerezza mi ha impedito di temerla e dunque di mitizzarla, cosa che invece mi è accaduta con Sara su cui avevo proiettato il mio bisogno di essere riconosciuta “innocente”, segno che qualche appiglio me lo dava se io le avevo dato l’appiglio di vedermi come “santa”. In realtà io mi senti­ vo “santa”, lei “innocente” (ma “santa” in preda ai dubbi, ho scoperto dopo e lei un “innocente” cadavere). Gemma non manifesta nessun eccesso, né ideale perfezionistico, in questo è più unica che rara. 16 apr. Non sono fuggita da Milano per seguire Simone, ma per avere una pausa e un’autonomia dal gruppo. L’anno scorso mi sono ritirata in me stessa, non ne potevo più di Rivolta e di tutti gli equi­ voci che avevo creato o in cui mi ero trovata. Pressappoco come ha fatto Paula, però io non potevo “uscire” da Rivolta visto che l’avevo messa in piedi, potevo solo lasciarla al suo destino e accettare cosa sarebbe successo. Qui la vita è troppo intensa, emozionante e io fisicamente comin­ cio a non farcela più, mi spendo troppo, mi immergo letteralmente

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nella mischia e dopo pochi giorni sono già da buttare. Ecco che penso a Roma e a Turicchi con un senso di riposo e comincio sotto sotto a desiderare di andarmene. Vorrei capire perché ho questi stress da emozione, perché non riesco a essere più equilibrata. Parlando con Germana, avevo la sgradevole sensazione che, rispet­ to al suo gruppo di psicanalisi, io sono “senza tecnica”. Mi stupivo, perché tutto sommato sono orgogliosa di esserlo. E presuntuosa per­ ché penso di scovare qualcosa per conto mio, un’altra tecnica e non­ tecnica magari. Il resoconto sul congresso per l’aborto mi ha fatto la strana impressione che tutte si fossero identificate nella teoria sulla Madre accettata dal gruppo, né più né meno di come è successo a noi. Anche se la loro teoria ha più pezze d’appoggio e si basa sull’in­ conscio, la mia invece ovviamente no, sortisce lo stesso effetto, di dare una chiave obbligata. Mi rendo conto che da quando mi chiedo in che rapporto sto con quella teoria, non capisco più nulla di me e non “ricordo” niente di quello che avevo concluso sul mio rapporto con mia madre. Una bambina inquietante, quasi una nana, vestita di colore verde acqua, con sboffi e arricciature. Insieme a due bambini, una femmina e un maschio, sosto lungo una ferrovia: passano dei vagoni merci scoperti con grandi mazzi di fiori dritti in piedi, e alti quanto un uomo. Vedo tulipani gialli e ranuncoli. Il vento scompiglia un po’ le corolle, temo che possa sciuparle; poi mi accorgo di un cellophan trasparente che le protegge.

Questo sogno esprime il timore che i gruppi di Rivolta siano distrutti durante il Gaggio verso la meta, poi constato che qualcosa li protegge. 11 bambino e la bambina rappresentano la completezza di me. Sono in un antico giardino sconosciuto dal terreno coperto di un folto strato di foglie secche. Sento un rumore tra le foglie e temo si tratti di una vipera. Ma non vedo niente. Poi all’improvviso, voltandomi, scorgo un enorme serpente dal muso piatto e triangolare, il corpo sinuoso e rotondo verde scuro, e la coda coriacea e lunga a scaglie color marrone - clic si allontana velocemente. Vorrei osservarlo meglio, ma lui sparisce nel terreno. E come una persona: se mi avesse parlato non mi sarei meravigliata.

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Svegliandomi ho pensato ad Adamo ed Èva. Forse un sogno del ge­ nere può avere dato spunto all’episodio della tentazione del serpente. Nel sogno il serpente ha qualcosa di preistorico, la testa richiama la sua pericolosità - testa di vipera velenosa - ma, visto che non si cura di me, anzi mi evita, non ne ho paura. Parlando con Germana mi si è chiarita una poesia (di quelle vecchie), così gliel’ho data da leggere: le è piaciuta e si è presa le altre. Trovava che è scritta bene, ambientata bene. Ne ero contenta, anche se non ho più quel desiderio spasmodico di conferme e di riconoscimento. Via via che mi capita le tiro fuori, ma sono distaccata. Gloria, che ha letto qualcuna di quelle recenti, ne è rimasta colpitissima, ma lì ho sentito il mito e mi sono imbarazzata delle sue lodi perché diceva che le batteva il cuore e si sentiva tutta sottosopra. 18 apr. Forse il gruppo è alla fine. L’idea del bollettino è naufragata miseramente. L’idea era di Nicola, che però non è venuta. 19 apr. Lì per lì, come al solito, mi butto, però nel fondo resto indif­ ferente: accetterò tutto quello che sarà. La fine di Rivolta, ad esem­ pio. Io stessa mi rendo sempre più autonoma dal gruppo. Sono scat­ tata con Gloria che è melliflua con intenzioni aggressive, cosa che mi rende intollerante. Sebbene fossi certa che l’aggressività era partita da lei - e stamani me l’ha confermato - tuttavia mi ero sentita subito a disagio per averla rimbeccata aspramente: il ruolo di capo, che or­ mai ho addosso, mi vincolerebbe a una certa cautela. Invece io sono anche impulsiva e, se me ne pento, è perché vedo attribuito ai miei gesti un valore particolare. D’altra parte ormai sono sicura che non sarei mai potuta stare in un gruppo formato da un’altra. Noto che la riunione opera su ciascuna in questo modo: Isa è cavil­ losa con scarso senso della realtà: fa i capricci con i dati di fatto, non vede che è lei a rimetterci. Gemma sparisce. Matilde si trincera dietro questioni di principio: che non si faccia del razzismo sull’omosessua­ lità, per l’amor d’un cielo! Poi si accorge al ristorante che non osa neppure dire che le zucchine sono acide, per timore di contrariare le altre. Angelina si sente egoista nel femminismo perché solo qui, in tutta la sua vita, non le è stato chiesto nessun sacrificio. Federica è manageriale, ride spesso, si mostra sicura, tranchante. Valeria dice

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quello che le viene e non si preoccupa. Eugenia non riesce a esprime­ re altro che un certo negativismo con funzione frenante: sembra che goda nello scovare ostacoli, pericoli e nell’additarli. Felicita ha del ne­ gativismo in comune con Eugenia, però è sempre sveglia nel cogliere i suoni falsi. Gloria l’ho già detto. Cecilia è esteriore, casuale, ridan­ ciana, però, sebbene mi sia antipatica, mi piace fisicamente perché è morbida, con la pelle bianca, la faccia un po’ gonfia, la vita sottile, e poi si dondola mentre parla, persino la voce che mi è insopportabile quando “pensa”, mi diventa gradevole come pura voce, come suono carezzevole. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’estetica: Felicita, per esempio, è esteticamente un piacere, però non ha niente di voluttuoso. In Cecilia mi piace il lato voluttuoso, come in Elena, Paula, Piera. Sara per me era rigida e scostante, mi commuoveva questo suo lato di bambina goffa. Mi riconoscevo un po’ in lei. Con Sara avevo competizione intellettuale, con queste che ho detto c’è nostalgia fisica. Con tutto il discorso che ho fatto nel gruppo sull’essermi resa con­ to che la lotta sporca chi la fa, e sporca fatalmente per gli errori che si commettono e per i fraintendimenti a cui si va incontro, volevo dire che avevo finalmente capito l’uomo, e l’abisso che c’è fra noi. Non l’ho detto perché ormai non riesco più a non pensare che le altre mi ascoltano come se dessi delle parole d’ordine. Ho evitato di trarre la conclusione. Non ho più paura di non apparire perfetta. Adesso so che sbaglio, ma ho gii stessi diritti delle altre di sbagliare: la mia superiorità vale la loro inferiorizzazione, la mia ex-colpevolezza vale la loro ex­ innocenza. Questo è lo schema con cui ho vissuto il mio rapporto nel gruppo: superiore colpevole

inferiore innocente

Siamo pari. Dipendevo da loro per sentirmi assolta da un senso di superiorità in cui invece proprio la loro inferiorizzazione mi teneva. Non m’importa se il gruppo si dissolve, non ci tenevo al gruppo più di quanto ci tenessero loro. Sia io che loro avevamo un problema reciproco da risolvere, e questo problema dava vita al gruppo, era il gruppo.

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Per accettare di rinunciare al mondo ho dovuto considerarlo troppo “sporco” per me, per rinunciare alla vita di relazione umana l’uomo ha dovuto convincersi che era una “perdita di tempo”. Così io ho finito per aspirare alla santità (tema fisso delle donne) e l’uomo a lasciare una traccia di sé nella storia. Io mandavo Simone nel mondo e lo rimproveravo dei suoi compromessi, lui restava prigioniero della mia problematica senza ombre. Perché telefonare a Paula? Non so come parlarle se penso che si difende dalla mia influenza ed è costretta ad accusarmi per andare avanti nella sua strada. Lei è convinta che io preveda una rottura fra noi, dunque non ha chiaro affatto che io arretro solo davanti al suo rifiuto, anche a un rifiuto mascherato di disponibilità, natural­ mente. Io ero pronta già due anni fa, per aspettarla mi sono ancora illusa. Certo è difficile per me prevedere chi mi subisce e chi invece ha tenuto i suoi confini fin dall’inizio, anche con cedimenti riparati via via, è difficile rendermi conto se questa storia del plagio è ine­ luttabile. Felicita, per esempio, è al di fuori? Basta il differenziarsi oppure occorre il rifiuto e lo scontro? Io non ho nessuna mossa, solo ogni tanto scuoto la muleta per avvertire il toro che sono qui e che mi venga incontro una buona volta, se lo deve fare. Il mio criterio per la pubblicazione degli scritti di Rivolta è il seguente: considero autentici quegli scritti che chi li ha fatti considera autentici. Per questo Diana non mi ha sottoposto il suo libretto: non osava, ma ha gabellato la sua insicurezza per un gesto di indipendenza. 20 apr. Nell’estate del ’72 Ester aveva decretato che: scrivere una lettera disordinata e spilluzzicare dal piatto degli altri è vaginale. Sara aveva deciso che nel gruppo dovevano parlare finalmente le clitoridee. Nella cultura la mia intuizione sul sesso non aveva corso, nel gruppo diventava teoria estesa ai minimi dettagli. Potevo pensare si trattasse di plagio? L’ideologia aveva dato per certo che una volta spezzata la dipendenza dal mondo maschile, la donna era salva. L’ideologia espri­ meva un’aspirazione. Senza la salvaguardia ideologica non avremmo ammesso questa aspirazione, né lasciato il purgatorio con l’uomo per l’inferno tra donne. Un inferno che aveva preso il posto del paradiso originario (con la madre). Un uomo per me era desiderabile se amato da un’altra donna, poiché ormai amavo l’uomo che la madre amava, però anche quell’amore mi

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era proibito da lei stessa (Edipo). Questa donna finiva per essere un mostro di dispotismo nella mia vita. Ho cercato l’amore delle amiche e mi sono imbattuta di nuovo nella scelta dell’uomo: ricordo il dolore nel vedere Sara così esigente e fred­ da con me e così indulgente e amorosa con quel cretino del suo amico. Ero partita con l’ipotesi che il riconoscimento fra donne non richie­ desse il meccanismo della sfida, dunque immaginavo inconsciamente un’evidenza di me nell’altra, senza scontro. Ora io credo che le ipo­ tesi femministe più estreme esprimano questa illusione mantenuta nell’inconscio della donna contro ogni ragionevolezza. Mentre le ipo­ tesi femministe più ragionevoli non esprimono niente oltre la lettera. Di qui la difficoltà, che io stessa ho incarnato oltre che sperimentato, di ammettere la necessità dell’ostilità e della prova. Ma questa deter­ mina una delusione tremenda e la presa di coscienza della propria solitudine irrimediabile e per sempre: la madre, un tempo rimossa, riappare da lontano, invitante come l’unico miraggio di salvezza e di pace, e scompare. La realtà si svela in tutta la sua cadaverica desola­ zione: nessun abbraccio colmerà più la distanza infinita fra gli esseri. Un dramma della donna è questo: di non avere coscienza della nostalgia per il rapporto materno come possibile alternativa alla Realtà. La donna vive sempre la tentazione di esautorare la Realtà in virtù di una spinta inconscia fortissima. Rifiutandosi di affrontare il mondo la donna cerca di salvaguardare la sua più preziosa illu­ sione: “Avrebbe potuto essere totalmente diverso”. Mi chiedo se Sara prova per me quell’oscura repulsione che io provo per Ester. Se ha a che vedere con la realtà - io che scopro in Ester un’opportunista dopo avere visto in lei per anni un campione di au­ tenticità e di coraggio; Sara che capovolge con grandissime resistenze (come era accaduto a me con Ester) l’immagine che aveva di me fino a definirmi “piccolo Hitler”; io che giuro sull’innocenza di Sara e poi devo ammettere di avere voluto cancellare la sensazione del suo egoismo, della sua megalomania che mi spaventavano. Questo ha a che vedere con la realtà oppure è tutto effetto del transfert? Oppure in parte è realtà in parte transfert? Io ho reagito in modo diverso a Ester e a Sara: a quest’ultima non nego l’autenticità, solo che l’avevo confusa con valori positivi come giustizia, autonomia, verità, ma lì capisco che sono stata io a imbro­

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gliarmi per un problema mio che poi ho messo a fuoco. Mentre Ester continuo a pensarla con un fastidio che mi sembra fondato: forse perché si è affrettata ad accusarmi senza riconoscere la sua parte, impedendomi così di comunicare con lei? Con Sara invece l’ho fatto, possibile che nonostante il mio sforzo per aprirmi, lei continui a pro­ vare lo stesso rigetto che io ho per Ester? Eppure è certo che lei parla di me alle altre come se i suoi capi d’accusa fossero del tutto obiettivi, cosa che io non ho fatto nei suoi confronti, mentre nei confronti di Ester sì. E chiaro che l’idealizzazione si rovescia in rancore per la delusione su­ bita. Apparentemente questo mutamento viene attribuito alla prova dei fatti mentre c’è tutto un gioco di connivenze reciproche più sot­ tile e remoto. Dentro di me custodivo l’immagine di una “traditrice” che riuscivo a tenere a bada con la costruzione idealistica dell’altra, costruzione che mi rilanciava la promessa-desiderio di un rapporto amoroso, di un’accettazione da parte dell’altra sulla cui base accet­ tarmi. Io promettevo questo rapporto che trovava eco nel desiderio dell’altra a sua volta promessa per il mio desiderio. L’incastro in questo senso è reciproco. Poi resta da dipanare la real­ tà del transfert. Sara è diversa da come l’avevo voluta, cioè affine a me, e perciò in grado di confermarmi, ma è se stessa, Ester no. Lei è scappata, e questa sua fuga, in più fatta con spavalderia, è di sicuro un nodo nella sua coscienza di sé, e un affronto reale a me, così come sono reali la mia disponibilità verso Sara e viceversa. 21 apr. Ho una stretta al cuore: vorrei raggiungere Tito, riuscire a stare con lui, mi sembra di avere sempre cercato di scaricarmi del suo peso e di non avere mai preso parte alla sua vita. 1 suoi più bei ricordi sono legati alle malattie, allora mi occupavo di lui. Non ho mai visto un suo quaderno, mai stata ai giardini, mai dedicato tempo a lui se non a denti stretti, pensando ad altro. Ero impaziente che crescesse per tornare libera. Ho visto le sue foto da piccolo, serio dolce, un bambino, un vero bambino, e io l’ho appaltato qua e là, con strazio, però guai se non fossi riuscita a liberarmene. Cosa ricorderà della sua infanzia? Un padre occupatissimo che alla fine sparisce, una madre che ora c’è ora non c’è, come nei sogni. Adesso un bambino sarebbe meraviglioso per me, se Tito tornasse piccolo, lo terrei sempre appic­ cicato, mi occuperei di lui, gli guarderei i quaderni, gli organizzerei

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dei pomeriggi con altri bambini, come fa Lucia che “vive” la mater­ nità, non come me sempre con la testa da un’altra parte, sempre sul punto di dileguarmi. Tito ha quasi sedici anni, e ormai è lui a lasciare me, sebbene ancora io perseveri ad abbandonarlo per periodi previsti brevi, e che poi si allungano, si allungano per gii ultimi tiri che faccio a lui e a me. Quello che succede tra noi donne non è molto diverso da quando l’uomo vede prima una madonna e poi una puttana. Sono le due facce di una stessa proiezione materna. Mi accorgo di essere più forte perché riesco a incassare senza ribat­ tere, però poi mi apro lo stesso: la verità interessa me e non sto fa­ cendo un favore a nessuno. Paula dice che io ho il pregio di essere aggressiva con le donne, cosa rara. Era meravigliata che le dicessi che ho sempre dubbi, secondo lei ho solo certezze così l’altra ha fiducia in me e “si sdraia” su di me. Però, nonostante tutto, si sente che sono umana e questo costituisce la mia vera attrazione. Prima avevo il bisogno irresistibile di un’alleata se non accettavo niente, nessuna critica, e cercavo solo di giustificarmi. Come se fosse possibile fare rientrare i sospetti, le accuse, le proiezioni delle altre. E come se avessi potuto capire qualcosa facendole rientrare. E le mie? Adesso se ripenso un colloquio è per rendermi conto di cosa è succes­ so, prima mi chiedevo soprattutto a quale conclusione l’altra sarebbe arrivata e se ero riuscita a farmi giustizia. Ho chiesto a Sara di darmi quelle copie e subito l’ho salutata. Mi me­ raviglio quanto è semplice non dipendere da un’altra persona, lasciar­ le tirare le sue fila, andare per la propria strada. Certo non era questo che volevo, volevo l’affetto, lo stabilizzarsi di un affetto, il meritarmi l’affetto, invece ho sempre avuto l’impressione di un miraggio affetti­ vo verso il quale mi protendevo e che poi spariva in uno sberleffo, in una risata, in un baratro. Molte delle amiche che sono entrate in Rivolta avevano rinunciato a qualcosa di irragionevole a cui io non avevo rinunciato, così mentre mi davo un gran daffare, loro mi seguivano. Per essere alla pari basta che smetta di darmi daffare. La superiorità di Lucia era potermi ri­ fiutare. Mi sono sempre messa nelle condizioni di essere rifiutata, per questo non mi va che Paula si consideri rifiutata da me: cosa dovevo rifiutare di lei, cosa mi aveva dato? Solo la conferma illusoria della mia illusione.

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Tra le mie carte ritrovo la lettera di una ragazza: “Carla, ti ho vista e parlato una sola volta e già mi sei interlocutrice fissa nei miei pensieri - termine di riferimento. Ho pensato molto al nostro colloquio alla svolta che può significare per me entrare in Rivolta. Mi sono riletta gli estratti di Spuliam o su H egel e il vostro M anifesto. E sì - è proprio il vostro mo­ vimento quello che più mi è affine - non mi interessa né la riforma né la po­ lemica, ma il ricupero di qualcosa di vero - di autentico - che, per quanto sedimentato dal tempo - in fondo a noi ci deve essere... Di me ti ho parlato subito a cuore aperto”.

Avevo già avuto lo choc di Sara, però il mito lì era chiaro e non lo avrei mai accettato. Adesso quella ragazza, femminista in un altro gruppo, dice che sono una persona gelida, che respinge, senza cuore. Paula parla la sua lingua e sarebbe bellissimo, se non che non c’è niente da dire. Qualche revisione d’ufficio sulla sua versione dei fatti, qualche osservazione mia a cui replica “Sì, sarà così per te, sei di­ versa”. Sento la desolazione di non poterle dire niente: cosa le interes­ sa di me a questo punto? C’è un’aria di matrimonio non consumato che si scioglie. Paula adesso vede solo se stessa —certo, prima non vedeva né sé né me —adesso ne ho la prova. E assurdo che conduca sempre ogni relazione a questa prova. Dovrò fare così con tutte? 22 apr. Dico a Matilde “Ormai posso accettare tutto, sono come una che ha fatto testamento, prevedo tutto e non mi nascondo il peggio”. Mi risponde “Tu hai questa dote straordinaria di capire le altre”. 23 apr. Forse anche perché Sara mi ha telefonato chiedendo di ve­ derci mentre leggevo a Gemma quello che ho scritto di lei, mi sono sciolta in lacrime. La mia nipotina è tornata a casa sua dicendo che con me si è diver­ tita molto e che la chiamavo sempre “Tesoro”. Ho visto degli scioperanti tramvieri aggredire un tram e il suo con­ duttore, un crumiro: “Vien giù, vien giù, giù” e intanto battevano i pugni sulle portiere. Prima ero bloccata dalla brutalità e cercavo di risolvere chiedendomi chi aveva ragione, ma con l’impressione che non sarei mai potuta uscire dalle mie rabbie e manifestazioni private. Adesso sento il sangue gelarmi lo stesso, però avverto che la brutalità

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è un momento inevitabile non solo tra persone, ma tra gruppi, inte­ ressi, situazioni diverse che non si capiscono. Sto partendo da Milano e non vorrei; però, motivi pratici a parte, non ce la farei a restare. Sono esausta, e devo cercare una pausa. Turicchi è questa pausa. Però so già che, arrivata lì, dopo essermi riposata, mi guarderò intorno e mi chiederò dove sono le mie amiche. Loro sono a Milano, e io dovrò proseguire per Roma da Tito. L’affermazione di sé da parte di un’altra provoca dubbi che vengono proiettati sotto forma di sospetti. Per questo il sospetto, essendo un dubbio travestito, fa soffrire con tanta intensità. Perciò dal sospetto si può misurare quanto l’altra sta diventando autonoma. In che cosa il sospetto differisce dal giudizio negativo? A freddo è faci­ le capirlo, ma quando si è coinvolti come distinguere l’uno dall’altro? Oggi Sara non ha più voglia di vedermi. Come in un amore agli sgoccioli capita di riaccendere le speranze in una possibilità di incon­ tro imprevisto, così con lei mi succede di provare emozione, commo­ zione se la sento ben disposta. Ma di fronte a una nuova durezza, il mio desiderio cade senza opporre resistenza. Questa schermaglia sta diventando simbolica. Stasera Sara richia­ ma, ma io sono da mia sorella. Potrei lasciare Lucia con cui non ho nessun impegno, e fissare con lei. Ma non ho l’entusiasmo per fare lo sforzo. Spero solo che il dilemma, per quello che dura, non mi guasti la serata con Lucia. Non me la guasta. Sara oscilla nei suoi stati d’animo e dà libero corso alla sua oscilla­ zione. A volte mi detesta, a volte no. Che mi detesti non mi paraliz­ za più, se non passa certi limiti. La storia deH’inferiorizzazione della donna è così: che la bambina vede che la madre sceglie non una del suo sesso, ma un altro, di sesso maschile. Quando si chiede cosa le manchi per essere amata dalla madre, e scopre che le manca il pene. Crede di capire che la madre ama il padre per impossessarsi del pene, quindi vede la madre come una che non si accetta per come è: soffre della mancanza del pene, e traffica nell’oscurità per procurarselo. La bambina che si identifica nella madre e nei suoi metodi diventa vaginale, cioè tenta di risolvere l’inferiorizzazione nell’appropriarsi del pene. Quella che non si iden­ tifica nella madre è la clitoridea. In questo senso l’eterosessualità è la sconfitta delle donne.

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24 apr. Paula ha detto più volte di non avere niente in comune con Ester. Invece hanno qualcosa in comune loro due: entrambe hanno fatto dell’autonomia da me un gesto dimostrativo, con accuse, lamen­ ti alle altre e mascherato reingresso nell’emancipazione. Mi devo mettere bene in mente questo: che accadrà tutto ciò che deve accadere, ognuna passerà le sue fasi di odio, rigetto, rabbia verso di me, e che questo non è altro che liberarsi dell’odio, rabbia, rigetto verso la madre (e la sorella), in definitiva verso se stessa. Se riesco a esserne ben convinta posso non sentirlo drammaticamente. Cosa sono di diverso che una testa di turco? Però l’inconscio dell’altra che si manifesta è malefico, inquietante. Sia Paula che Gloria sprigionano da sé qualcosa di arcaico, incontrollabile, esigente. Finivo per pensare “Ma che vuoi da me, ma vattene; dopo tutto questi guizzi di ostilità sono duri da sostenere, non te ne accorgi, potrei piantarti in asso, mandarti al diavolo... ma suicidati per dare senso di colpa a qualcun altro, che c’entro io, pigliatela con parenti più prossimi!”. Ancora pas­ si per Paula, Gloria però la conosco pochissimo, lo stesso mi ha dato del filo da torcere. A tutte gli viene una luce strana negli occhi, una luce sinistra, selvaggia, ormai la riconosco. All’inizio mi spaventava, mi angosciava: adesso no, però mi stanca, mi logora, vorrei essere da un’altra pare. Ma c’è anche una fascinazione che mi tiene lì. Stanotte meditavo di tornare a vivere a Milano, da sola. Ho avuto questa lettera da Sara: “Carla, col fascismo intendevo questo che prima tu avevi bisogno di guidarmi e dopo seguirmi, ma non seguivi ancora la tua strada, sulla quale se il caso vuole ci incontriamo, se no, no. Sono i due aspetti del fascismo e io ho dovuto staccarmi da te, perché non volevo più avere guida né guidare nessuno. Per me fare santa o il diavolo (o essere santa come dicevi tu) fanno parte dello stesso meccanismo. Tuo sogno: nella tua casa d’infanzia un neonato che tu vuoi dare alla zingara, ma a cui fa guardia Lucia, tu cerchi di darlo via, ma poi sei sgridata di aver rivelato un segreto. Il neonato sei tu, la zingara - il simbolo della libertà - ti por­ tava via da casa, dai genitori, potevi finalmente vivere la tua vita. Invece non è ancora successo. Lucia f impedisce di diventare autonoma. Quale è il suo potere su di te? Forse perché non riesci ad amarla? e accettarla? Sara”.

Sara mi telefona per sapere come mi sembra l’interpretazione del sogno della zingara che lei ha dato. Quando le dico che non mi

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soddisfa, mi invita a non vederci più. Non c’è altro da fare, lo so. Perché il mio cuore sobbalza ancora quando Sara mi si rivolge? Ap­ pena mi dice che è stato un rapporto “vissuto fino in fondo” tra noi, mi sento sciogliere qualcosa dentro perché non sopporto la sua freddezza, la sua aria inquisitrice, cioè non sopporto che non mi ami. Appena sento il suo calore di nuovo è la Sara che ho amato e sono felice di parlare con lei ancora una volta. E più accettabile lasciarci serenamente. Con Lucia ho sbagliato tutto accecata dall’idea di conquistare il suo affetto, tirandola a me, dandole quello che avevo. Ed ero così accani­ ta perché dovevo risarcirla della mia gelosia. Cercavo di esorcizzare la gelosia con i doni, comunque preferivo darle che essere derubata da lei. Naturalmente lei mi era apparsa come una ladra. Ma poiché mi derubava, avevo l’impressione che quello che avevo fosse impor­ tante e che lei ne mancasse. Allora provavo l’impulso, l’obbligo a dar­ glielo. Speravo che in conseguenza lei si aprisse per poterle rivelare il mio segreto. Non riesco a trovare una mia interpretazione al sogno. Quella di Simone è così: temo di fare del male a mia sorella, di desiderare che sia privata del suo bene (Paula e la casa editrice), però poi la cosa non si realizza. Al contrario, il mio desiderio è che vengano neutralizzati gli impulsi cattivi verso di lei. Adesso che ho un’interpretazione favorevole, posso andare a letto tranquilla. Però voglio fissare delle sensazioni prima di perderle: Pau­ la mi appare negativamente, come una zingara, una che ruba, una ladra; temo di allearmi sventatamente a lei, di favorire i suoi furti, ma Lucia, simbolo di colei che sa tenere ciò che è suo, difende e custodi­ sce me stessa (il neonato). Cara Sara, da un pezzo in qua non fai che interpretarmi, ritorcermi contro, dir­ mi in tutti i modi che non sono libera, non seguo me stessa, la mia strada. Non dubito che tu senta così, però sono sicura che non ti rivolgi a me. Ce l’hai con qualcun’altra, e io proprio non posso sottostare a questo trattamento perché non sono così impermeabile alla tua provocazione. Finisco per soffrirne senza trovare una via d’uscita. Allora è inutile soffrire.

25 apr. Felicita era scontenta di sé dopo l’ultima telefonata, e mi somigliava abbastanza. Mi ha richiamato per dirmi “Non credere, va

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tutto bene”, e mi ha confermato così che qualcosa non andava. Si na­ sconde, e da fuori si vede. Trova sempre la scusa del telefono, invece io penso che, presa alla sprovvista (la telefonata arriva di sorpresa), se è depressa non riesce a trovare il tono giusto, e non ammette di es­ serlo. Ha avuto ostilità per me dalla riunione qui, le è rimasta dentro e al telefono non ha fatto in tempo a filtrarla come è abituata a fare. In realtà ha voglia di vedermi, ma l’ostilità la porta al distacco, così quando riappaio per prima cosa manifesta questo distacco, che poi non le corrisponde perché ha davvero voglia di vedermi. Il guaio è che trova delle scuse per giustificare il distacco, invece viene dall’osti­ lità repressa e non dal medium telefonico. Rileggendo mi meraviglio di essere così convinta che vuole veder­ mi. Chissà chi me l’ha messo in mente che sono un bene per gli altri, forse io stessa perché non sopporto l’idea contraria. Il senso di me si basa su questo? Cara Sara, hai vissuto nelfattesa che tua madre cambiasse vita e diventasse come tu la volevi. Adesso hai posto quest’attesa su di me. Il transfert è pericolo­ so. E come una droga, anche se appare più convincente di qualsiasi esperienza. O riporta alla realtà o sballa fuori. Tutta la tematica che hai preso per esprimere i rapporti fra noi rivelano il desi­ derio di colpirmi, di farmi sentire colpevole o di inferiorizzarmi. Da molto tem­ po rivelano solo l’odio: questo rende le nostre comunicazioni a una direzione, un monologo. Parlavi da sola. Un po’ come una matta. Non dico che i matti non siano molto influenti. E sotto certi aspetti anche liberatori, ma sotto altri catastrofici. Chi è fragile crolla. Il potere di una persona su un’altra è un dato di fatto. La dipendenza deriva dalle proiezioni, che sono reciproche. Le proie­ zioni proiettano lati inconsci, quindi si allacciano soprattutto ad aspetti inconsci dell’altro. Per esempio nel mio sogno sulla zingara, tu ci vedi un richiamo alla libertà che io non seguo condizionata da Lucia. Come pensi che possa manife­ starmi con te se scopro nel tuo inconscio tanta sufficienza con me? Se lo facessi dipenderei da te fino al masochismo. Però dipendo dalla mia proiezione su di te, quindi sono legata a te. Che tu ti manifesti come senti, sono d’accordo con te; che tu m’interpreti e io sia d’accordo, lì è più difficile. Tu mi metti degli ostacoli, approfitti della mia proiezione, e non potrebbe essere diversamente Usto che hai

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a che fare con la tua. Vuoi rendere liberi gli altri o vuoi esercitare il tuo dispoti­ smo inconscio a livello inconscio?

26 apr. Stamani mi sveglio dopo un bel sonno e con gioia e sollievo mi accorgo di non essere a Milano, ma a Turicchi. Mi rassicuro nel pensarmi lontano da Sara, come sempre la lontananza mi fa sentire più ben disposta verso di lei. Mentre lei mi detesta di più nella lon­ tananza. Cara Sara, ho avuto una giornata di paranoia dopo la tua ultima lettera e telefo­ nata. Adesso ho paura di te: sono due anni che mi perseguiti con odio masche­ rato di sollecitudine per la mia liberazione. Non fai che mettermi fuori strada (l’interpretazione del sogno ne è una prova) perché tu vuoi continuare il tuo potere su di me nonostante che protesti il contrario. Adesso so che si tratta di inconscio, del tuo, non solo del mio: quando dici che tra un po’ io sarò una vecchietta, ripeti quello che ogni figlia pensa nel suo antagonismo alla madre. E sei sicura di volere veramente la liberazione di tua madre e non piuttosto una rivincita? Come posso credere che tu cerchi il mio bene se hai tanto livore per me? La conseguenza che ne traggo è che mi vuoi distruggere, semplicemente. Se esiste l’impulso, e l’angoscia, del parricidio, perché non ammettere che fra noi è scattato l’impulso, e l’angoscia, del matricidio? Sento l’impossibilità per me di placare il tuo risentimento: accusandomi di tutto, in modo subdolo o diretto, mi impedisci di mettermi a nudo con te. Qualsiasi cosa io dica o faccia non è sufficiente perché tu vorresti una resa incondizionata. Quello che mi chiedi è di accettare la tua vendetta per dei ruoli di cui mi vedi responsabile. La mia poesia per te confrontala con questa di Goethe: “Tu vuoi elevarla: lei è già là in alto. Ti appare il meglio: tu pensi che sia il peggio. Lei parla: tu ritorni in te ma lei ha già avuto ragione. Tu ti poni contro di lei: lei vince. Dubbioso di servirla tu sei già il suo servitore. A che serve con lei un alto onore? lei te lo cancella. Lei si adagia alla fine e anima la corsa. Ti ha sbarrato la strada? non pensare di proseguire. Tu vuoi donare qualcosa? lei ti trasporta e tu regali sulla piazza ricchezza, saggezza e tutto”.

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Adesso il commento di Jung: “Essa rappresenta Fanima: da ciò la sua potenza divina, la sua incrollabile superiorità. Ogni volta che dei personaggi sono dotati di tali attributi, si può essere sicuri che essi sono... proiezioni dell’inconscio. Ecco un verso ‘Vuoi fare un’offerta? lei esige di più’. Questo rafforzamento ha qualco­ sa di demoniaco e d’irresistibile: la sua azione è divina o diabolica”. Tu dici “Avevi bisogno di guidarmi e poi di seguirmi”. Avevo messo in moto un meccanismo e tu non mi perdoni di esserne stata io l’artefice. Tu adesso non vuoi né guidare né essere guidata, ma stiamo parlando di transfert, di proiezioni: che c’entra guidare ed essere guidata? Da chi? Cos’è questa razionalizzazione? Qual è il suo scopo? Vuoi chiamare fascismo il mio e libertà la tua? E vuoi che ti creda? Vuoi che non ti riveli il messaggio che mi manda il tuo inconscio? Lo fai diventare odio per il fascismo? E vuoi che ti creda? Va bene, ti credo. Credo che mi inganni con i discorsi, sei sincera dove non puoi mentire: in quello che senti. Quello lo ac­ cetto. Ma se mi odi vuoi colpirmi, è conseguente, dunque temo: sono costretta a difendermi. Tu vuoi darmi a intendere che c’è un motivo al tuo odio, e che dipen­ de da me. Invece il motivo dipende da te, che ti ha fatto incontrare una persona come me. E viceversa: il mio motivo mi ha fatto incontrare una persona come te: credula, sorniona e vendicativa. Affare mio. Non ti rompo le scatole con il fasci­ smo e simili. Non mi mimetizzo con questi argomenti. O almeno non pretendo di fare la tua inquisitrice. Tu hai avuto la prima mossa nel cosiddetto distacco - te la riconosco —e penso che il tuo inconscio lo sapeva che mi potevi schiavizzare con quel sistema, ma appunto tu seguivi te stessa, vendette comprese. La furia con cui ti sei affrettata ad avanzare il tuo bisogno di sganciarti dalla funzione di guida è una furia vendicativa.

Altra possibile interpretazione del sogno con la zingara: voglio dare a Paula suo figlio, voglio che lei trovi se stessa, le dico dov’è, però lei non 10 trova perché è custodito dalla sorella e Paula non riesce a scoprirne il nascondiglio. Infatti non ha mai parlato con sua sorella, l’ha cancellata dalla sua vita, e io vedo che la soluzione per lei non c’è. E come se il sogno mi dicesse “Stai tranquilla, tu hai fatto il possibile, ti sei esposta sfi­ dando la disapprovazione degli altri, ma non era in tuo potere restituirle 11figlio, ce l’ha una che lei non conosce, non è colpa tua se non lo trova”. L’odio di Sara mi tiene prigioniera come il mio amore teneva prigio­ niera lei. Sono stata ingannata dal tuo tempismo. Era tempestiva mantenere la riserva mentale, allora. La ragazza timida aveva un problema con la madre (“Sei quasi

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una vecchietta”, cioè “Nessuno ti guarderà più, creperai alla fine prima di me!”) e intanto si mostrava acquiescente per potermi rimproverare dopo, a cose fatte - qualcuno doveva pur farle, la ragazza timida non le faceva: era impantana­ ta, imbalsamata. Quella riserva mentale, quell’accusa non formulata mi faceva sentire sempre in colpa. Ecco qual era il mio legame con Lucia: non svelandomi i suoi sospetti smentiva continuamente il mio sospetto che sospettasse di me. Dunque ero io a sospettare di me, dunque mi sentivo colpevole, dunque dovevo dimostrare la mia innocenza a me stessa e a lei che la personificava ai miei oc­ chi. Ho passato la vita a immaginare qualcuno senza colpe e a rendergli conto delle mie azioni, dei miei pensieri, di me stessa. Cancellando sempre il sospetto che sospettasse di me. Invece sospettava di me. E adesso che me lo dici non posso crederti, la vita intera mi cade addosso. Ho vissuto tragicamente sul serio l’innocenza dell’altra, la tua, quella di Ester, di Lucia. Sono stata ossessionata dal bisogno di mettermi in pari su quel punto. La santità, anzi il martirio, mi è stato imposto. Eh dio, quante volte ho pensato di non farcela, di non avere altra via che lasciarmi uccidere! Perché non potevo accettare questa ingiustizia che si faceva di me, questo scempio! Ancora adesso non posso credere che tutte mi abbiano mentito mentre si adagiavano su di me con tutto il loro peso. Mi accu­ sano di avere dimostrato solo certezze, ma che altro potevo fare? Ho trascinato per anni dei cadaveri, finche il cadavere risuscita e pretende di dovermi uccidere per mettersi a posto con me, per saldare il conto. Adesso è proprio la paranoia. Come leggendo la tua lettera trovavo che attribuivi a me quello che io pensavo di te, adesso non so più se parlo di me o di te. Non so più quello che dico. Prima cercavo la mia indentità nella tua accettazione, poi nel tuo rifiuto. Adesso mi dici che è ora di finirla. Non mi hai mai interpellata. Ho provato l’odio per Ester, dunque so come funziona. Il mio desiderio era che lei sprofondasse nella vergogna di se stessa, diciamo pure si liberasse, ma in questo senso, che morisse dalla vergogna di sé, perché, da quello che pensavo di lei, poteva solo morire. La odiavo perché ho approfittato di lei - anche lei ha ap­ profittato di me, e ho tutta la casistica da rinfacciarle perché credevo di odiarla per questo, invece la odiavo perché ho approfittato di lei. Ho fatto lo sforzo di verificare se è così come io la penso, ma non sono riuscita a capirlo. Quello che speravo è che il mio odio le desse del filo da torcere, la rendesse invalida; se non lo affrontava con me se lo portasse dietro come una malattia, ma io la ignoravo e lei non osava cercarmi dopo avere avuto l’avventatezza di sottovalutarlo. Co­ munque è partita seconda, e dipenderà sempre da questo. E stata stupida a non accorgersene subito, ha voluto ostentare forza in un momento di tremenda de­

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bolezza. Adesso finalmente, e l’ho scoperto scrivendoti, analizzando il tuo odio per me, quello che produceva su di me, posso ammetterlo: non ho mai odiato nessuno così. Anch’io dipendo dal tuo rifiuto, per questo sento il tuo sadismo nel rifiutarmi e nel ricordarmi “Guarda, sono io che ti ho distaccato da me”: il tuo inconscio sa che così mi tiene prigioniera. Puoi sbandierare che non sopporti di guidarmi, che mi vuoi autonoma, e intanto esercitare il massimo dispotismo su di me. Dunque la mia paranoia ha una base di realtà, di verità che mi tieni nascosta, una verità tua, nota bene. Vuoi vedermi impazzire? Non potevo am­ mettere il mio odio gratuito per Ester perché trovavo motivi molto plausibili e concreti in lei per detestarla, finché ho sentito che il tuo odio per me non poteva avere i motivi che ti dava. Ho parlato un po’ di me, di te con Simone, che è stato il mio capro espiatorio durante la giornata di paranoia. E mi è tornato in mente a un tratto quanto ti ho amata, apprezzata, quanto ho vissuto del rapporto con te. E avrei voluto che durasse il più possibile. Dopo tutto lo sfogo di questi giorni, capisco che ho superato una frustrazione inimmaginabile (non oso ricordarla) e che mi fa pensare quando al telefono mi hai detto “Buonanotte” e poi hai aggiunto affettuosamente “E buon viag­ gio” (mi vengono le lacrime sapendo che sono le tue ultime parole). Al telefono dicevamo “Cos’è l’amore, non si sa”, però mi rendo conto che è stata la molla della mia vita, non è difficile capire come mai ho tanti problemi con l’identità se non so cosa mi muove. In questo istante sento l’amore per te come un tempo, come sottomissione che non pesa, riconoscimento di un valore che supera se stessi, desiderio di immaginare sé come l’unica occasione per l’altra di rivelarsi e di vedere accol­ ta con gratitudine la propria sostanza. Adesso la paura è passata, mi torni in mente molto cara, come sei: capricciosa, egoista, megalomane, ombrosa, sensibile, indisponente, prepotente, concentra­ ta, alfimprowiso inerme, all’improvviso agguerrita, e i tuoi peggiori difetti, la presunzione e fare il tuo comodo a tutti i costi e reclamizzarlo, per esempio, dei quali avrei voluto punirti perché mi avevano fatto soffrire, adesso mi sembrano quello che mi sembravano allora, semplicemente parte di te. Avrei parteggiato per i tuoi difetti contro tutti, anzi avrei decretato per legge che fossero conside­ rati virtù, e che tutti dovessero adottarli. Certo, una situazione così è un pozzo di equivoci, come difenderla? Ma io l’ho vissuta in buona fede, per questo era così duro sentirmene colpevolizzata. Non potevo non vedere che avevi ragione. Ma per quell’amore che ci avevo messo chi mi avrebbe reso giustizia? Da me stessa mi vergognavo di tanta incoscienza. Adesso ho la certezza che non puoi

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fraintendermi né respingermi. Forse perché non spero più niente, neppure es­ sere creduta. So che mi accetterai. Perché io accetto quello che è stato anche se non so cos’è. Adesso puoi capire che amavo mia sorella, ed ero schiava del mio amore per lei. Non potevo ammettere di amarla perché lei non mi accettava e, respingendomi, mi costringeva a sovrapporre frustrazione a frustrazione. Mi faceva sperimenta­ re la dipendenza senza ricambiare l’affetto. Io, nonostante tutto, lo volevo da lei. Qualsiasi identità purché sia la mia. Ti amavo ti temevo non sapevo più. Mi odiavi ne ero certa. Rovistando nel tuo odio ho scoperto che l’odio non offre la libertà. Mi sono ripresa la libertà di amarti. Io volevo sapere quello che mi hai detto. Volevo sapere cosa c’era dietro il silen­ zio e il disagio dell’altra. Ma non lo sopporto. E non sopporto che tu mi accusi di non sopportarlo. Passo delle giornate a ribattere punto per punto alle tue accuse. Oppure ad ammettere tutto, e anche di più. Non vedo limite alle mie colpe e ai miei errori. Tu mi hai ingannata con la tua credulità: sei tu che mi hai dato le conferme, la tua riserva mentale mi ha giocata. Ti aspettavi da me di essere guidata, quello solo sapevi fare, e se con me te ne sei potuta liberare vuol dire che te l’ho permesso. Che lo volevo, anche se non lo sopporto. Volevo sapere la verità, anche se hai dovuto lottare con me per rivelarmela. Lo ammetto: mi ritiro di fronte alla verità che ho voluto sapere. Non ho la forza che immaginavo di avere. Non posso pensare che credi davvero alla storia del “piccolo Hitler”, che non è una provocazione, un’idea esaltata. Cerchi di torturarmi. Escogiti l’analogia più perversa per ferirmi, perché senta il tuo odio e ne abbia paura. Ne ho paura. Sono a terra, puoi passarmi sopra. L’odio ti rende perspicace, sottile.

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Ti ispira. Non manchi un colpo. Non sei mai approssimativa. Ti vendichi. Vuoi la mia pelle. Conosco questa sensazione. Potrei dire di odiarti, ma non sarei convincente. Ho paura. Sono smarrita. Oppure ti odio anch’io, ma con una certa riverenza, perché ne va della mia mente e cerco di mantenermi vigilante: tu sei diabolica. Se anch’io lo sono, lo sono di seconda mano, di riflesso. Non posso dire “io” e agire, posso solo guardare “te” e tremare. Questo è ancora transfert, lo so, ma non vedo via d’uscita. Sono sopraffatta dalla vergogna di sentirmi impotente.

E come quando ho preso LSD: dopo, tutto sembrava inutile, ridico­ lo, fantoccesco. Non-vita. Il senso della realtà che ha Simone, il suo equilibrio che tanto mi rassicurano di solito, adesso mi sembrano limitati, allora vuol dire che io mi lascio limitare per stare tranquil­ la. Fuggo da me stessa. Che strano, tutto cambia. Ogni momento intuisco qualcosa in una luce nuova. Mi meraviglio di avere avu­ to la dabbenaggine di credere che le cose stessero veramente come le pensavo. Sento una grande pace. E tremenda la paranoia, tutto quell’arzigogolare. Ho detto a Gloria tempo fa “Con gli uomini è più riposante vivere”, “Perché non ti chiedono l’autenticità” mi ha risposto. Io avevo un’aria di sufficienza come davanti a una formu­ la ripetuta. Invece è vero, solo che io non lo capivo. Eppure avevo parlato di autenticità senza sapere quello che dicevo. Autenticità come concetto. Vedo la mia posizione falsa in Rivolta, io sono un falso profeta. Finché mi sembra che sia Sara a pretendere da me quest’ammissione mi dibatto, la trovo una violenza che lei mi fa, mentre adesso ho bisogno io di dirmela, di dirla, di gridarla a tutte quante. Non mi costa più. Non mi umilia più. Mi umiliava nascon­ dermelo. Subito mi viene la tentazione di farne un capitolo edifican­ te. O meglio, avevo questa abitudine: passavo dall’autodenigrazione all’eccesso opposto. Quello che mi sembrava un impegno diverso, faticoso, speciale in realtà era l’impegno per la costruzione assillan­ te di difese. Ho vissuto una disperata, logorante paranoia. Magari capirò che anche Hitler era solo questo, nelle sue dimensioni. Tutto può essere, ogni mia convinzione può saltare. Non mi sorprendo più di nulla. Adi sento all’abc. Devo ricominciare tutto da capo. Come due anni fa. Adi sono persa di nuovo. Ho cercato conferme nelle amiche ignare. Adi sono tradita di nuovo.

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27 apr. Mi è rimasta in mente una frase di Valeria “I dubbi che avevo sulla mia autenticità erano ancora difese per non accettarmi come ero venuta fuori”. La mia idea di dovere ricominciare dall’abc è una difesa. Non oso battere a macchina il mio diario. A volte penso che sono an­ cora in tempo a bruciarlo. Non oso rileggerlo. Lo rileggo qua e là. Mi riconosco qua e là. Quando sono esigentissima penso di non ricono­ scermi affatto. Invece sono io. Un sepolcro imbiancato. Una farisea. Eppure volevo il bene mio e delle altre. Quando ho queste crisi sento la personalità che mi si scardina. Poi viene una pace indicibile: la lotta ha una tregua: restiamo tutte e due, io e la mia antagonista, sfinite, stremate. Ci riposiamo fianco a fianco, dialoghiamo sottovoce, tariamo. Adesso che le ho fatto posto dentro di me, non mi minaccia più, ha vinto. Quella che ero io ha perso. Mi godo questa tregua nella natura. Sto con me stessa. Non ho bisogno d’altro. Non riesco a distrarmi. Una comunione misteriosa avviene dentro di me. Le passate teorizzazioni mi vincolano, mi sbarrano la strada. Sento il dovere di difenderle o, come faccio da un paio d’anni, di tacere. Mi sembra troppo disinvolto avere detto “Ecco qua”, e poi “Non ci fate caso”. Verrà fuori con il diario. Non sono una persona disin­ volta, anche questo è segno di un legame: il legame della coerenza. So che è una tappa anche quella, che tutte passano di lì, anche se non sono così allo sbaraglio da scrivere una teorizzazione. Le teo­ rizzazioni si basano sempre su un principio di autorità: o lo si pren­ de dalla cultura precedente o da una conferma intorno a sé. Da Ester avevo preso il dogma della bontà della donna distrutta dalle alienazioni dell’uomo. Per me lei era la bocca della verità: un’ar­ tista, quale migliore garanzia. Quando mi ha dato il ria ho abbando­ nato ogni vigilanza e sono partita. Vorrei dire a tutte “Vi ho mentito”, ma nello stesso tempo “Mi ave­ te mentito”. Non si può risalire a una colpa degli altri e neppure nostra, tutto è intrecciato in una rete di influenze reciproche dove l’azione di una è contemporaneamente reazione e stimolo, e così all’infinito. Si perde ogni punto fermo e va in crisi ogni soluzione. Non c’è un vizio di cui io non sembri partecipe. Questo mi angoscia per due motivi: uno, che perdo i miei confini di personalità non potendo più distinguermi dagli altri; secondo, perché ho elaborato severi giudizi su quello che non mi piaceva degli altri.

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In Sara sentivo l’ingenuità che mi era sempre piaciuta e che io non avevo, la semplicità, l’onestà, 1’immecliatezza: potevo illudermi di ri­ conquistarle - un bene perduto e ritrovato - nel contatto con lei. Poi Sara si è staccata da me e mi sono sentita negare quello che prima mi era stato dato per mio e a cui ambivo. Da sola, senza di lei e senza nessuna che potesse sostituirla (diceva Gemma “Sembrava che tu ci volessi tutte come Sara”) ritornavo a essere quella che ero e che, comunque, non accettavo. Adesso l’ho capito. Mi ero sempre nascosta di essere quella che ero, dicevo “No, sono un’altra, sembra che sia così”. All’occasione buona avrei fatto vedere. Il femminismo era l’occasione buona e io uscivo fuori (tra molti dubbi lo stesso), ma, una volta fuori, non potevo più tornare indietro, rimandare a un’altra ancora, la vera, in attesa. Così, quando sono cominciati i dubbi di Sara su quella costruzione in cui mi ero identificata come la migliore che avessi potuto immaginare, e dunque quella buona, mi sono sentita perduta. Piena di vergogna come l’altro giorno a Milano davanti a quelle parole “Non è ancora successo, non hai preso la tua strada”. Avevo voluto dimostrare a tutti che ero la migliore, e a me stessa che non temevo confronti. Dunque mi sentivo insicura, e temevo i confronti. All’origine con Lucia e poi, da lì avan­ ti, con tutte le altre. E come un giallo: la persona meno sospettabile alla fine risulta criminale. Non so se tutte le persone insicure hanno fatto quegli sforzi tremendi che ho fatto io per rimontare la corren­ te. Forse sì, non posso saperlo. Le ho sempre guardate con troppa commiserazione per averci capito qualcosa. Sto scrivendo come in punto di morte, non m’importa più di niente. E sono felice, ho un gran silenzio attorno e la pace interiore. Mi meraviglio di non sentire tracce di conflitti dentro di me. Mi vengono in mente certi film dove il colpevole alla fine confessa e sembra contento di dire quello che dice. L’abitudine di guardarmi dal di fuori l’ho presa molto presto. Quan­ do ero in collegio mi osservavo entrare in chiesa, composta e con un certo stile spirituale che mi lusingava. Rimpiangevo che non ci fosse nessuno nascosto nella penombra a osservarmi e godere della mia persona. Sdoppiarmi per spiarmi dall’esterno era una necessità che mi rassicurava “Tutto bene, niente è trapelato, niente deve tra­ pelare”. Però poi dicevo tutto al confessore, volevo essere certa che era stato non tanto perdonato, quanto cancellato, non esisteva più, ricominciavo daccapo. Mi guardavo uscire dal confessionale pulita,

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nuova, senza passato. Pur di ricominciare. Mi è sempre piaciuto co­ minciare un quaderno, un libro, entrare in lenzuola pulite, togliere macchie, riportare a nuovo. Ho sempre sentito che Ester, Sara, le amiche in generale, s’impa­ dronivano di me con avidità: questo mi confermava sul mio valore, così restava in ombra la sensazione che facessero qualcosa di scon­ veniente, e comunque restava in ombra perché io facevo altrettanto con loro, e non lo avrei mai ammesso. Provavo e riprovavo la combi­ nazione che avrebbe aperto la cassaforte dove custodivano il segreto della loro unità. Glielo avrei preso; ne avrei preso una copia, diciamo. Così accadeva come nei gialli dove il ladro dà una festa memorabile per potere derubare tranquillo l’invitato miliardario. Mi stancavo in queste feste e non trovavo mai la combinazione della cassaforte. Ala ero scissa, sapevo poco di cosa combinava l’altra. Questa è una scu­ sa: lo sapevo, ma non mi ci soffermavo. Sì, non potrei proprio dire che non lo sapevo, anche se mi pare di averlo scoperto adesso, o da poco tempo. Cercavo fuori di me, e la soluzione era lì, più vicina di qualsiasi vicinanza, era dentro di me. Ma, per tornare alla cassaforte, ripeto, non intendevo rubare il tesoro, ma carpire la formula. Ecco, ne facevo una questione di formule. L’altra ce l’ha e io no. Dovevo essere assolutamente certa che l’altra non sospettasse; se sospettava, mi sarei coperta di ridicolo, dovevo dimostrarle la mia buona fede. E siccome mi nascondevo tutti i miei traffici, potevo onestamente propormelo. Tra l’altro poi, rispetto a quello che davo io, tutte espe­ rienze di prima mano, sudatissime e frutto di personali spericolatezze, quello che cercavo di carpire non vista, non mi pareva neppure che fosse una vera disonestà perché cercavo solo di scoprire il segreto di una natura, di un funzionamento unitario che a me mancava per un qualche guasto probabilmente dovuto alle circostanze, e non a me. Non intendevo mostrare questo guasto. Quando Ester ha dato la conferma alla mia azzardatissima ipotesi, scaturita dal femmini­ smo, e cioè che al contrario ero io, con tutti i miei tormenti, vuoti di identità, anomalie nel sesso, sbandatezze ad avere rappresentato una specie di faticosa nascita di una donna nuova, ho provato la più rischiosa ebbrezza della mia vita. Ci ho creduto. Mi sono gonfiata di orgoglio di me. Poi arriva Sara e dà un’altra conferma, la più credibile. Finché, a un tratto, comincia il processo inverso, di dubbi e sospetti, inesorabile. E io mi sento come un mendicante che si scopre

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ricco in sogno e al risveglio si trova più povero di prima, derubato anche dei suoi stracci. Adesso ho un gran sonno, non ce la faccio più a concludere l’esempio del mendicante che non ho rifinito, sono stanca. Vorrei potere espri­ mere ancora la sensazione che provo, non trovare ostacoli dentro di sé, ho un distacco straordinario, non mi sento più in competizione con Sara, non muoio più dalla paura che sia e risulti migliore di me, che lei sia se stessa e io no, che lei abbia la sua Va e io no. E finita, quest’angoscia, incubo, catena, tortura, misurazione, è finita. La zingara vuole rubare la sua neonata, se stessa; io la metto sulla strada, ma la cosa non può risolversi con un colpo di mano: Lucia custodisce bene la neonata. La zingara, che sono io, non la trova. Lucia è imbattibile, non posso sperare di raggirarla, scovarla, ingan­ narla. Quel sogno mi diceva che dovevo e volevo affrontarla. Ogni altra strada era impossibile. Lo pensavo per Paula (nella zingara ho vasto lei), ma era per me. Vado avanti e mi chiedo com’è possibile. Non mi finisce ancora, mi sento in grado di scapicollare dappertutto. Passato, presente, realtà, fantasia, tutto mi scorre nella mente e non so quale fermare per primo. Non sono depressa, ma neanche esaltata: mi sento naturale. Sara rimarrà di sasso quando saprà che sono riuscita ad ammettere tutto quanto, ne sarà contenta, ma anche le brucerà un po’ perché mi pare che lei questo lato non l’ha ancora vasto. Ecco che mi rispun­ ta il bisogno di essere apprezzata da lei. Ma mi affretto a scriverlo perché non voglio che mi lavori dentro a mia insaputa e mi faccia danno. Accendo l’ultima sigaretta: non posso fermarmi, non credo ai miei occhi, è possibile? è possibile? Quante ne ho pensate “Dovrò lasciare tutto e comunque non ce la farò”. Che notte fonda per tanto tempo, che scoramento! Adesso è finita, basta, so cos’è, cascherò migliaia di volte, ma non fa niente: non devo più essere la sorella maggiore, guida ed esempio. 29 apr. La bontà è un patto di non aggressione. Ho voglia di stare sola: non ho bisogno di convincere nessuno a cre­ dere in quello in cui io stessa so di non credere. In questo senso pla­ giavo le altre, ma erano anche loro a volere essere plagiate. E l’illusio­ ne universale: chi sfugge? Mi ritiravo per leccarmi le ferite e tentare

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di ricostituire le certezze che qualcuna mi aveva intaccato. Qualcuna che aveva fatto breccia nelle mie difese. Mi sorprendono le analogie con LSD. Anche lì prima hai una “pic­ cola rivelazione” di te, poi cominci a stare male, ad abbandonare tutte le certezze, ti senti perduta, poi entri in una zona inspiegabile di beatitudine dove ogni lotta è cessata. Accetti tutto. La droga ti spoglia, ti toglie brandelli di illusioni, ti distrugge senza pietà. Il transfert agisce con uguale spietatezza. Ti senti aggredita dall’esterno, vuoi reagire, vuoi colpire finché ti accorgi che l’altra, quella che hai demolito, sei te stessa. L’emozione mi sta sfuggendo, vorrei riviverla, trattenerla ancora per un po’. Invece niente. Rileggo e mi sembra che il più è andato perduto, come quando si descrivono i sogni. Ecco perché chi legge non può capire se non l’ha provato e ne è cosciente. Con Sara si risolve quando io accetterò di essere come sono e smet­ terò di provare quella maledetta suggestione che lei è come io vorrei essere; come bisogna essere. Devo sradicare questa abitudine che ri­ sale a molto molto tempo fa. Quando lei non c’è questo mi sembra possibile; quando è lì mi confondo, mi chiudo, mi disprezzo. Mi accorgo di essere competitiva quando ho la certezza che sarò sconfitta, che lei sarà amata e riconosciuta perché se lo merita, e io no. Io perderò tutto. Ala ammettere di essere competitiva è rivelare il dolore insopportabile della sconfitta. Invece la sconfitta è sopportabile perché si può sempre fingere di non essere stati competitivi: o di non avercela messa tutta o di non avere usato tutte le armi e tutti i colpi. Finora non ho osato affrontare Sara per quello che sono. Lasciavo a lei tutte le iniziative. Come se lei mi dovesse delle spiegazioni. Sì, qualcosa ho fatto, ma sempre con la precauzione che non apparisse troppo un’iniziativa. Qualcosa di più leggero, più casuale. 30 apr. Quello che non posso accettare non è la dichiarazione che Sara mi odia, ma l’espressione, la presenza, l’attualità del suo odio. 1 mag. Ieri ho annaffiato le mie piantine di fagioli cinesi (una rarità) con della trementina, oggi mi sono cacciata un chiodo arrugginito in un polpaccio. Per imprudenza, per eccesso di entusiasmo, per mania eli strafare. Ho la casa un macello, Simone che aspetta di fare l’amo­

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re e io che non ne ho voglia, domani lui parte e io non so, Tito mi aspetta e io cerco di non pensarci, mia madre mi aspetta e io cerco di rimandare. Adesso c’è la complicazione delPantitetanica. Oltretutto non ricordo neppure un sogno, eppure so di farne, e così con l’emo­ zione che si riassorbe, finconscio che non si manifesta mi sento come in un forte, assediata da un nemico invisibile che, forse, se ne è anche andato, ma io non ne ho la certezza, e resto dentro in attesa. L’amore e l’odio sono momenti di rivelazione di sé. Il voler bene è un’altra cosa. L’amore non ha a che vedere con il sesso. Nessuna ha sostituito Sara per me, nel bene e nel male. E adesso che ho una sensazione sbiadita di lei è come se avessi una sensa­ zione sbiadita di me. Ho sempre vissuto su due piani: quello dell’amore e quello dell’af­ fetto. Simone è stato il grande affetto della mia vita, ma ho avuto amori maschili e femminili (a Ester dicevo scherzando “Tu sei il mio vero amore”). Non potevo farne a meno. Simone è esterno a me. E l’unico elemento della realtà che ho nelle mani. L’affetto non mi basta, ancora; l’amore mi distrugge e mi svuota. Forse questo è il senso dell’amore. L’affetto permette di vivere, l’amore lo impedi­ sce. Per questo si finisce per stare con coloro a cui si vuole bene. Senza amore mi manca il senso della vita, il senso di me. 2 mag. Sono rimasta sola a Turicchi. E la prima volta. Ieri mi di­ cevo “Sono corsa dietro a tutti, a Simone, a Tito, a Rivolta, a mia madre, seguo i tempi degli altri, i bisogni degli altri, mi adatto, basta che abbia spazio per me, però mi manca di fare quello che voglio da cima a fondo. Non so più quello che voglio, ma solo quello che posso volere”. Mi chiedevo se veramente volevo stare qui, oppure se volevo starci con Simone. Lui se ne è andato e ho avuto la prova che volevo davvero stare qui. Una pecora dalla pancia gonfia si sdraia e in quattro e quattr’otto, come un sacco che si svuota, partorisce un agnello (con un muso un po’ da maialino). Sono tutta contenta, non credo ai miei occhi (eppure lo sentivo che sarebbe successo). Che emozione e che ricchezza, per me, anzi per noi, perché sono con amiche di Rivolta. Poi vado a trovare, non so, Isa e Gemma, e lì anche ci sono tre agnellini, con musetti adorabili, specialmente uno, carino, vispo, ma non somiglia a un agnello, ha quasi faccia di persona, tra bambino e animale

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di stoffa. Poi mi ricordo del mio agnello e, cosa terribile, vedo che l’ho lasciato in un involucro, è quasi soffocato: per fortuna all’aria riprende. Come ho po­ tuto essere così trascurata! Con Simone arrivo a Roma, il treno ci porta nel bel mezzo della città. Salia­ mo su certi seggiolini a rotaie, molto comodi e moderni, quando mi viene in mente di avere lasciato a Turicchi le mie piantine nel semenzaio: sono piccole piccole, hanno bisogno di continue cure e soprattutto di acqua. Via, devo tor­ nare indietro, sono angosciatissima. Lascio Simone e cerco un treno per Firen­ ze. Intanto Sara è lì con Isa, sostiene che io ho detto una certa frase, ha un’aria provocatoria e trionfante, io non la riconosco per mia, e quindi nego. Allora lei ribatte molto sicura del fatto suo “E riportata come tua nel diario della Tale, l’hai detta tempo fa”. Io penso “Possibile? Chissà la Tale cos’ha capito, non ci siamo mai intese troppo, noi due”. Mi meraviglio che Sara le dia credito, ma ormai la conosco e non mi meraviglio più di nulla. Comunque mi rivolgo a un ferroviere: proprio in quel momento sta per partire un treno per Firenze, un rapido, arriverà alle 10,30 di sera. Io sono confusa, penso che sia troppo tardi; che pazzia tornare indietro e poi sarà inutile. Faccio ancora qualche domanda al guidatore del rapido (è proprio lui il ferroviere!), ma quello, da gentile che era, si rivela un tipo scorbutico, e se ne va. Sara riprende le sue accuse ben documentate. Io non so più che fare: mi metto alla ricerca del treno.

Che bello svegliarsi ed essere qui, non avere nessun treno da pren­ dere! Viene la sera. Il contadino se n’è andato e devo affrontare il buio e la notte da sola in mezzo al bosco. Sono malinconica, ma tranquilla. Per adesso mi ritiro, come mio fratello Adolfo, declino ogni responsabilità, non rendo conto a nessuno. Poi se ne parla. Intanto traffico in casa e in campagna, rendo abitabile questo po­ sto per me. Ho messo su una minestrina di carote e patate che mi piace tanto, ho colto dei fiori di campo, ho preparato la legna nel caminetto, ho acceso la radio (cosa che detesto se la fa Simone). Sono le 20,15. Sono le 20,20.

Ho telefonato a Felicita per sapere se viene in campagna. Invece lei va a Roma. Sperava di vedermi là, e intanto ripete “Non importa, non importa”. Anche Federica mi aspettava a Roma. Ma, appunto come

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dice Felicita ipocritamente e gentilmente, e come dico anch’io sul se­ rio “Non importa”. Con Felicita si prepara un temporale. Con Sara era veramente reciproco? Lei mi dominava, ma diceva an­ che di essere dominata da me. Eppure non è possibile che sia stato per lei come è stato per me. 3 mag. Sto bene benissimo qui. Spero che Simone non venga finché non ne ho voglia. Mi sento padrona di me, dei miei gesti, della mia sopravvivenza, delle mie decisioni, e mi sento rivivere. A Tito non penso, si arrangerà. Qui sono talmente serena che non penso niente di male. Adesso posso starci dei mesi, degli anni, quanto voglio, deci­ derlo io. E finita correre dietro agli altri. Posso partire domani se un bisogno mio me lo suggerisce. Posso stare qui. Questa casa mi è assi­ curata fino alla fine dei miei giorni. Mi sento come da ragazza prima di sposarmi, di avere il figlio, lutto volontario, sono libera. Con il necessario, impegnativo, vincolato, reattivo è finita. 4 mag. Una Sara femminile che con aria docile mi rivela che può anche andarse­

ne di lì, e io, guarda caso, sono diretta alla stazione di Firenze per prendere il treno. Siamo molto amiche, c’è un’intesa quasi omosessuale fra noi, viene fuori con una dolcezza prima sconosciuta. Mi sento molto carezzevole verso di lei, lei si lascerebbc coccolare, non chiede altro. Però non mi lido e, sebbene sia tentata, non le dico “Vieni con me”, mi riprometto di vedere in seguito, so che cambia a un tratto, basta darle spago. Mi accorgo che dove sto andando non c’è niente, né vestiti, né roba. Prendo due tovaglie, di cui una piena di briciole, me ne accorgo svolgendola, subi­ to la riavvolgo, ormai farò pulizia a casa, però le dico “Guarda, ci abbiamo man­ giato insieme l’ultima volta”. Sara è un po’ sorniona come se, mentre mi circuisce perché la inviti a venire con me, escogitasse nel frattempo qualche altra soluzione. Però è in pace, mi sento sollevata dal constatare che non si accanisce. Le vedo dei peli neri all’angolo della bocca, con una pinzetta glieli strappo, lei dice “Per questo c’è sempre del rossore qui intorno”. Guardo meglio c ne vedo che le scendono tra le labbra: non posso strapparglieli tutti, giusto all’altro angolo della bocca.

Finché una si sente moglie, madre, figlia non sa chi è, non è se stes­ sa. Turicchi rappresenta quel posto fuori dalla famiglia che non ho mai avuto: sempre rimbalzata in luoghi collettiva per un’identità accettata dalla collettività.

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Dopo tante giornate splendide oggi è brutto e pioviggina. Ma io non faccio che godere questo spazio, di qualsiasi clima o spettacolo sia riempito. E il mio spazio e non mi stanco di spaziare. Nessuno mi manderà via di qua, nessuno mi dirà '‘Prepara le valigie, si parte”. Nessuno ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nessuno. Piccole cose riempiono la mia giornata, scrivere e battere a macchina il dia­ rio. Ho anche lasciato perdere l’orologio. Non so che ore sono, non m’interessa. 5 mag. Risulto un po’ una guastafeste per Nicola e Federica: non ho un vestito

adatto per uscire, e quando decido di tenere quello che ho, ecco che spunta un problema di calze che mi fa perdere un’infinità di tempo. Scure non le voglio, con lamé dentro neanche; un paio grigie mi si attacca a un’unghia, non so come toglierla, poi devo buttare le calze, e così via. Federica è stanca, con riso affilato coperto letteralmente di trucco, gli occhi cerchiati e l’umore nero, è impaziente di uscire, ha fretta di andare dopo dai figli, ce l’ha con me che non sono ancora pronta. Nicola invece è carina e tranquillizzante, mi fa vedere un accostamento di jeans con camicetta e gilet: per caso non vorrei provarlo? E un amore. L’avevo risto anch’io, però non mi va di mettermi in ghingheri, e poi non avevo capito che siamo dirette a una festa: non ho voglia di andare a nessuna festa, ci man­ cherebbe altro!

Qui è la solitudine: non mi offro più, non sposto più le mie presta­ zioni da un luogo a un altro, le mie attese da un luogo a un altro. Con Ester, prima l’ho idealizzata, poi ero furibonda perché mi è ap­ parsa una merda. E amavo Sara che non mi è mai apparsa una mer­ da. Lei di sé dice “Sono una merda”, ma appunto è questo: se lo riconosce prima da se stessa come posso sentirla tale. Merda significa che una crede di essere chissà chi, ha un’immagine di sé elevata, e pretende di imporla anche agli altri. Cioè io. Ogni critica all’esterno, va a finire che era rivolta al mio io. In Ester odiavo le mie stesse illusioni, in Sara amavo la mia stessa libertà. Ester, nonostante tutto, ama in me la sua stessa libertà, Sara in me odia le sue illusioni. Lei può scatenarsi su di me, io posso solo accettare i suoi fulmini. Così io posso scatenarmi su Ester e lei non può fare niente altro (dopo quel miserabile, ridicolo telegramma) che restare soggiogata a me. Dunque io sono merda come Ester e libertà

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come Sara. Quindi non odio la mia merda né amo la mia libertà direttamente su di me; la odio e la amo in altre. Con Sara ho provato la schiavitù, quella vera, cioè di una che mi accusa, mi offende, mi umilia, abusa di me, mi tiranneggia, e io che non so reagire, non so oppormi, ma neppure so aderire franca­ mente, subisco, ma resto evasiva, spero in un’inversione di rotta, va sempre peggio, lo sapevo, m’illudevo di esserne fuori, ci ricasco in pieno, mi rassegno, non ho il coraggio di dare un taglio, dilaziono, aspetto sempre qualcosa: è lei che dà un taglio. Fine. Ritorno sempre daccapo. Eppure non c’è scampo: una prende il via, l’altra soccombe. Giovedì vengono Matilde, Gemma, Isa. Anche Simone viene. Or­ mai, con questa vocazione alla clausura, l’irruzione mi disturba. Ep­ pure, se non venissero, non saprei come andare avanti. Sono in cri­ si: ho paura di sbagliare tutto con loro, vorrei avere ancora tempo per chiarirmi meglio le idee. Temo che dipendano da me, temo di stare bene con loro perché non mi danno nessun problema, non mi affrontano, non mi mettono in difficoltà, e anch’io le appoggio, le incoraggio, le secondo. Mi mettevo la coscienza in pace dicendo loro tutti i miei dubbi e il conflitto con Sara. Sono stata scrupolosa in questo. Anche se so che non dà immediatamente dei frutti, almeno serve a lasciare una breccia nella quale, quando sarà, potranno inol­ trarsi. Non posso prendergli la mano, armarla di un bastone e an­ che darmela in testa. Eppoi ho una voglia matta di passare insieme delle belle giornate divertendoci nella campagna, spensieratamente, ecco, anche se è un inganno, una colpa, una mostruosità, la pagherò dopo, ma intanto desidero provarci se si realizza questo sogno che mi porto dietro dall’infanzia. Finché non gli spunta l’aggressività, finché non vogliono respingermi e finché io non avrò paura di loro, divertiamoci. Vorrei scrivere a Sara: non mi dà pace che lei si faccia un’idea tanto bassa di me. Adi angoscia quello che può pensare e dire, quello che può tramare a mia insaputa. Allora sono schiava del suo giudizio, ambisco ancora al suo riconoscimento, non penso di poterne fare a meno. Adesso mi pare chiaro - la stanza si illumina di una luce calda, vitale, la luce del fuoco nel camino - l’affetto me lo merito, posso dar­ lo, posso accoglierlo, ed essere allegra, serena. Ogni cosa che pensavo

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non potevo non chiedermi se avrebbe convinto Sara, se l’avrebbe disarmata, se le avrebbe imposto il rispetto per me. Non c’era una cosa che reggesse. Mi avrebbe fulminato o riso in faccia. Eppure non sapevo staccarmi da questa premessa: dovevo riuscire a riabilitarmi davanti a lei. Così è sempre stato: non accettavo l’antagonismo tra noi, che lei avesse una cattiva opinione di me mi era intollerabile. Ho fatto cose da pazzi per convincerla. Non volevo che venissero qui le mie amiche perché Sara avrebbe disapprovato (e anche Paula in combutta con Sara), e io me la facevo sotto per il suo giudizio: avrei voluto la sua approvazione. Ecco, da quando ha smesso di approvarmi io sono precipitata, e ne ho fatte di scoperte, fino a quest’ultima: che vivevo nella speranza di riconqui­ stare la sua fiducia, e sottoponevo continuamente me stessa al suo esame. Adesso basta, la cancello dalla mia mente (non sarà facile), e rinuncio a chiedermi cosa penserebbe di me. Se è troppo avanti a me non mi serve a niente rincorrerla: dovrò fare tutte le tappe che mi mancano e le farò senza l’ansia di volere arrivare prima di lei o comunque con lei; se è su un’altra strada, diversa per diversità sua e per esperienza di vita, non potrò trarre dal confronto che confusione. Sono qua, sola con me stessa. L’amicizia che volevo con Sara nascon­ deva la paura che lei andasse avanti e mi lasciasse lì, indietro, perché lei la sentivo avanti. Volevo avere dei ragguagli sul suo cammino, non volevo ammettere di essere rimasta indietro, mi barcamenavo per starle al passo, facevo i miei sforzi perché non se ne accorgesse. Certo che l’amavo, cos’è l’amore sennò? E anche tutto il mio arzigo­ golare, per giustificarmi, per ammettere, cos’era se non un tentativo di colmare le distanze, riguadagnare il terreno perduto e, magari, con qualche eccesso - di umiltà, di eroismo - assicurarmi anche un balzo in avanti? Non so se mi leverò questo vizio. L’amavo tanto, ma se fosse morta, sparita in Finlandia per sempre, ne avrei provato sollievo. Non avere più il senso di una corsa affannosa in cui ero preceduta. Mi sono misurata con lei, con tutti quelli da cui ho dipeso, da cui ero stregata, suggestionata; ho avuto sempre qualcuno davanti a me da raggiungere, mi sono paragonata sempre, e aggrega­ ta al migliore. Come un ciclista che prima fa da battistrada, fatica e suda, e poi si incolla alla ruota del campione, che infine lo supera e lo abbandona per la volata finale. Ecco come ho vissuto, sempre in gara, in competizione. Chi di noi due è il vero campione? Avevo comincia­

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to così con Lucia, e sono andata avanti così. Con la sensazione che il vero campione fosse lei, e con la speranza di farcela lo stesso. Anzi, l’avevo quasi dimenticata la rivalità - sebbene la vivessi anche con Ester, ma armoniosamente, così in sordina che potevo non accorger­ mene e credere davvero a un’intesa, a una parità - quando mi è tor­ nata, travolgente, con Sara. Ester si è, imprevedutamente, disorien­ tata nel femminismo e ha cominciato a starmi dietro, a tallonarmi, ma sempre con la spavalderia di prima, di quando era lei l’artista; io sono, imprevedutamente, entrata in crisi con Sara e, nonostante tutto (vedo delle analogie, ma anche delle divergenze da Ester) a esserle a rimorchio, con la sicurezza (anche se ho pianto molto, e proprio da­ vanti a lei) di quella che ha formato il gruppo e dato un indirizzo, io mi sono sganciata da Ester e Sara da me. Ester è rimasta con l’arte, io con il femminismo, Sara è partita per una sua strada. Non posso non pensare “La strada di Sara è quella vera”, ma so che sbaglio: Rivolta per lei non è quello che è stata per me e, comunque, semmai lo capirò in seguito. Io devo sganciarmi da Sara, e basta. L’annunciata visita delle amiche mi ha prodotto un conflitto e questo chiarimento. Ho ancora il mito di Sara, questo è il punto. Me lo sono tolto, me lo sono tolto, ma un cordone ombelicale esiste ancora. Lei mi of­ fende, chiede “Perché non mi insulti?”, e io niente, vado avanti a leggere fino alla fine. Lì era anche distacco, e veramente non mi ha prodotto l’efFetto dell’ultima lettera. Però con un’altra mi sarei risentita, avrei reagito. Poi spremo le mie sensazioni e ne tiro fuori qualche striminzita accusa. Mentre con Ester ero eloquente, impla­ cabile, la linciavo dentro di me, con Sara no. So che il suo potere su di me dipende da me, dalla debolezza che m’infonde, non posso recitare una parte come ha fatto Ester con il telegramma. Devo andare a rileggere le accuse che le ho fatto per ricordarmele. E così. 6 mag. Nell’ultimo incontro Paula ha ammesso “Sì, forse ho portato via qualcosa di te uscendo da Rivolta”. Alla faccia mia. Chissà per­ ché, quando una è se stessa, è stronza con me. La confusione con Sara è stata, non solo che lei si è identificata clitoridea come me, ma che io a mia volta mi sono identificata nella

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“ragazza timida”. Ero sempre stata attratta da persone spontanee, addirittura esuberanti, non avevo mai creduto di essere timida, sem­ mai complessata, anche se sorvolavo su questo aspetto. Quando Sara tira fuori la categoria della timidezza come un sacrosanto diritto, l’es­ senza del candore, io mi sento addirittura colpevole per non essere stata timida fino in fondo. Infatti avevo dato la scalata al mondo ma­ schile, non ero rimasta ibernata come lei, e questo lo sentivo come un tradimento di me stessa. Potevo però finalmente sciogliermi dall’inferiorizzazione con le donne spigliate. E cascare neirinferiorizzazione verso quelle timide. Questo ritmo “ora et labora” mi va a perfezione. Ho un piacere continuo e costante nel fare le cose. Tempo nuvoloso: gioco assorta con le mie piantine. Sto iniziando una fase di eremitaggio? Questo grigio luminoso, basta che non piova, è il mio tempo preferito. Sono in trattoria, e il padrone è un tipo molto energico, prepotente, che sa il fatto suo, dice le cose sul muso. Incute una certa soggezione. Si fa avanti un ragazzone che gli chiede “E di me che hai detto che sono un buono, vero?”. Glielo chiede diverse volte, quello è indaffarato per i fatti suoi. Alla fine gli risponde bruscamente “Non l’ho mai detto”. Ho antipatia sia per l’oste così villano, sia per il ragazzone così sottomesso. Poi mi trovo in macchina con il ragazzone - siamo a Firenze, verso piazza Savonarola dove bazzicavo da bam­ bina - e gli dico cosa penso della risposta dell’oste. Ma lui mi guarda molto intensamente, con occhi gonfi, obliqui, così che sembra il Marion Brando di Fronte del porto , bello per tutte le botte che ha preso, e mi sorprende dicendo che la risposta dell’oste è molto giusta, ha capito che lui soffre. Ma allora la do­ manda avrebbe dovuto essere “E di me che hai detto che sono un tipo felice?”. Comunque, sono commossa e immediatamente innamorata di questo gigante così umano. Gli do un bacio con labbra dischiuse, molto morbido e dolce sulla guancia, all’angolo della bocca, e sento che fra noi è scattata un’intesa. Non so come farò a seminare gli altri con noi in macchina senza dare nell’occhio, sono un po’ dei guardiani a questo punto, chissà se andrà liscia che io riaccompagni indietro il mio tizio dopo averli lasciati a destinazione. Perché voglio restare sola con lui e fare l’amore.

Domani viene Simone. Non sono contenta perché ci tengo moltis­ simo alla mia solitudine. Di sicuro ci sarà un conflitto per Turicchi

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quando lui vorrà farne qualcosa di bello, e io di conventuale. Que­ sta è sempre stata la mia idea. Adesso ancora di più. Non mi va ne­ anche di convivere con lui, né di dormire nella stessa stanza. Voglio stare sola, ed essere come adesso, che è il meglio. Quanto al sogno: voglio stare sola con me stessa perché mi amo; Simone e le femministe mi impediscono questo rapporto di amore. Accetto Sara che è burbera, ma mi capisce, mi è vicina, anche se non sembra. Dunque è la mia parte maschile che vedo umiliata con lei, ed è quella parte maschile sconfitta che mi rivela poi di avere supera­ to raffronto. Mi addormento pensando di mandare un telegramma alle mie amiche che devono venire “Rimandiamo ancora un po’, ho bisogno di stare sola”. Sono in un posto non meglio identificato, una sala di aspetto luminosa, un ri­ storante dove si parla. C’è anche Simone. Si nomina la clitoride e io accenno a due amiche lesbiche, mi pare doveroso. Così finisco per tirare in ballo il lavoro artistico di una delle due, dei fotogrammi dove lei è con un cane, si capisce che fa l’amore con il cane. Quella smentisce, però; dice che non è un cane, è una pe­ retta. Che strano, mi sembrava proprio un cane. Tant’è vero avevo pensato: è la prima ad avere toccato l’argomento amore con gli animali. Lei vuole dare dimo­ strazione e comincia a spogliarsi, è molto rosea e carina, ma a me la situazione pare troppo falsa: quel suo lavoro, cane o peretta non mi piace affatto, e adesso la scena è insopportabile. Tanto più che tra i presenti c’è il marito dell’altra, un artista, e mi sembra anche l’ispiratore. Insomma non voglio più alimentare equivoci con il femminismo, lo dico chiaro e tondo: quella comincia a rivestirsi. C’è un’aria di scandalo, pazienza. Sono con Simone, rientriamo a casa. Lui osserva “Ti sta riprendendo come due anni fa”, e devo stare attenta perche mi fa diventare “superficiale”. Però è rispettoso, per niente polemico. Io sto lì tutta compunta: so quello che è il mio destino e non voglio tornare indietro. Simone mi parla premurosamente, ma dall’esterno: cosa può saperne lui?

Oggi sono k.o. anche di umore. Ho l’impressione che l’arrivo di Simone rompa l’incantesimo in cui mi trovo. Ma che incantesimo è? Il malessere può anche derivare dal siero antitetanico, infatti ho dolori così strani e viaggianti, insoliti per me che, insomma non ho cent’anni da essere a pezzi per avere lavorato nell’orto! Anche il

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cattivo umore può essere fisico. Per esempio, prima di addormen­ tarmi avevo nella mente delle parole e passando da “riflettere” a “pensare”, proprio tra la “a” e la “r” di “pensare” ho avvertito un baratro, un tuffo pauroso che mi ha gelato il sangue e fatto sbarrare gli occhi. E come un senso di pazzia istantanea, che mi capita quan­ do sono intossicata, ho l’influenza e il mal di testa. E mi richiama Virginia W. 8 mag. Stamani parlando con Simone di me, di lui c’era un’intensità che derivava dall’incontro di due solitudini che rivelano i loro tesori, stasera invece ho perso la concentrazione e la libertà di quando ero sola, e non ho trovato altro. Voglio stare sola. Come sarà con le ami­ che? Devo provare, alla peggio ne parliamo; se non va, ripartono. Gemma mi aveva detto che Sara, dopo averle parlato “male” di me, visto che non aderiva, ha detto scandalizzata “Ma allora tu sei per Carla”. Mi è intollerabile che cerchi di togliermi delle amiche: allora mi disprezza proprio. Riesco ad accettare l’odio di Sara come una sua sensazione essenzialmente soggettiva, anche se coglie dei dati re­ ali che mi riguardano, ma che non meritano “davvero” il suo odio; se invece devo pensare che lei lo sente in modo oggettivo, cioè basato su un giudizio di condanna, allora mi trovo a fare di nuovo sforzi sovru­ mani per non esserne schiacciata. Quello che posso capire è che nel suo processo di liberazione debba odiarmi, e anche che nel mio debba essere odiata da lei. 9 mag. Sono a Pietrasanta, sballottata in un giro con Simone per ve­ dere sue sculture. La visita doveva durare mezz’ora, e sono già cinque ore di disagi. Mi sento come una suora che non vede l’ora di tornare in convento. 10 mag. Ho perso la concentrazione, e temo che non la riacquisterò neppure con le amiche, ma quando sarò di nuovo sola. La compagnia degli altri mi sembra superflua, mi distoglie da me stessa. Con Simo­ ne dormo meglio, otto ore filate, però poi mi disturba cominciare la giornata occupandomi delle sue mosse oltre che delle mie. Nel pomeriggio ho fatto un sonno profondissimo, e ne sono uscita ristorata. Un sonno che ha raggiunto le più piccole cellule nervose.

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Faccio una cosa perché penso che piaccia a Emilio, Emilio fa una cosa perché pensa che piaccia a me. Ma è un equivoco.

Con Emilio abbiamo scoperto di essere legati alla famiglia più degli altri fratelli. Proprio perché la ribellione è un legame, e finisci per vo­ ler riprovare in altre condizioni a vivere quella pace affettiva, quella comprensione che è mancata allora. C’è anche il desiderio di riabi­ litarsi. Gli ho confessato di essermene appena tirata fuori e di non volerci più ricascare. Come mio padre, non accetto suggerimenti, interpretazioni da parte di altri. Trovo imbarazzante, umiliante che qualcuno mi faccia osser­ vare un mio problema e me lo presenti in un modo a cui non avevo pensato, o a cui avevo pensato, ma l’altro non lo sospetta neppure. Mio padre dice sempre “Parla per te, non sono mica rimbambito che non so pensare a me stesso”, e cose simili. E sempre stato impossibile fargli riconoscere un errore se veniva presentato come il punto di vista di un altro su di lui. Negava sempre. Poi magari da solo ci ripensava e ci arrivava. L’ho criticato moltissimo per questo. Lui è uno che si è fatto da sé, io idem. 11 mag. Da quattro giorni sono ad Anversa, adesso sto per partire, e come ho fatto a dimenticarmi di Piera. Sono ben ad Anversa e lei non è ad Anversa che sta insegnando? E una dimenticanza imperdonabile. Dovrò dirglielo, chissà come la prenderà; potrei mentirle, ma non me la sento. Sono in una lunghissima via e chiedo dov’è la chiesa, voglio andare alla messa, è un giorno di festa. Mi dicono “Là in fondo”, dalla parte opposta della stazione. Poi però non ricordo bene: è di qua o di là? Guardando non si vede niente, solo una strada con palazzi grigi all’infinito. Chiedo a una donna e, sì, c’è una chiesa proprio lì. Cerco di en­ trare dalla finestra, e la donna mi aiuta dandomi degli stracci bianchi da mettere sotto le ginocchia, i giornali non vanno bene. Intanto aspetto ancora qualcosa, penso come sarà bello piombare da Piera, la sua sorpresa, il suo affetto, e dormi­ re insieme, potremo prenderci la mano, coccolarci. Ci sono vetrine molto chic: attraverso una vedo, in una cornice alto borghese, illuminata con luci calde, una ragazzina a tavola. Vedo solo lei a una tavola ovale, gli altri commensali, i familiari suppongo, sono nascosti dalla parete. Mi viene incontro sorridente e premurosa e mi apre la porta: voglio passare di lì? No, passerò dalla finestra, sono già d’accordo con una donna, è tutto pronto

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e molto semplice. Senza scomporsi mi accontenta. “Ecco” mi dico “cosa vuol dire essere nessuno. Forse lei mi ha preso per una mendicante. Avrei potu­ to entrare nelle sue grazie, farmi accogliere nella sua ricca casa e prestare lì i miei servigi”.

Paula si lamentava “Quante me ne avete dette! che sono imbrogliona, che ho dei conti da regolare con la cultura maschile...”. E evidente che non accetta di volere la casa editrice tutta per sé in barba alle amiche, e di volerla per dimostrare al mondo chi è lei. Da fuori si vede chiaro e non è neppure così riprovevole. Simone è partito: ecco che tutto cambia, Turicchi ritorna a essere un luogo magico, isolato da tutto, aperto a tutto. Per adesso però ho an­ cora quella nostalgia tipica di quando lo vedo andarsene... Mi viene un’immagine: io in collegio, la domenica, durante le ore di parlato­ rio. Sono con mio padre, passeggiamo nel giardino, parliamo non ricordo di cosa. Una volta, osservando un lombrico, mi dice che ne ha tratto certe conseguenze per il suo lavoro. Poco fa osservavo un lombrico nell’orto. Ammiravo mio padre, la sua operosità, la sua crea­ tività. Lo aspettavo la domenica. Poi se ne andava, tornava con gli altri, la mamma, le sorelle, i fratelli e io restavo in quel luogo fittizio, 11 collegio, dove mi sentivo un’altra da quella che loro conoscevano. In quel momento della separazione che si ripeteva ogni domenica, ogni festa, che mi perseguitava, che congiungeva e disgiungeva la mia doppia vita, io perdevo un’identità e passava qualche tempo prima che riacquistassi l’altra. Ho basato la mia vita sull’esperienza ripetuta della separazione: nel dubbio in qualche modo considero la mia vera identità quella associata al luogo fittizio piuttosto che al luogo reale, alla solitudine piuttosto che alla compagnia. Al collegio piuttosto che alla famiglia. Questo ricordo mi ha riempito di tristezza. Simone era molto giù all’idea di lasciarmi, mi ha trasmesso questo pathos. Però abbiamo parlato a cuore aperto, lo amavo molto, mi sentivo struggere per lui. Sono contenta di avere preso la decisione di restare qui, così Simone vive il suo problema, io il mio. 12 mag. Sto aspettando le mie amiche: ho fatto pulizia in casa e sono soddisfatta. Devo avere un “ispettore” per decidermi a rendere un po’ abitabile. Penso sempre al mio rapporto con Sara.

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14 mag. Sara si è fatta i capelli neri e siede con altra gente, gente da poco, sta attenta e seria: le invidio questo mescolarsi con tutti. Suo marito mi fa la corte, c’è del tenero fra noi. Quando lo saluto con un bacio sulla guancia mi fa capire che sono poco coraggiosa a non baciarlo sulla bocca. Ci resto male: è un tipo di­ verso da come l’immaginavo, in più gli manca un dente e il labbro gli si affloscia un po’ in quel punto. 19 mag. Dalla finestra di camera mia a Turicchi riesco a vedere il Battistero

di Firenze.

Dunque le mie origini, me stessa. 20 mag. La solitudine (delle mie amiche è rimasta solo Isa) mi rende forte e coraggiosa. Ho un magnifico aspetto, come un’albicocca. Non fa niente se ho quarantaquattro anni e Isa, filialmente, non manca di ricordarmelo. Con le amiche non ho provato neppure i vagheggiati bisogni di coccolamento, invece mi ha ripreso il desiderio di incontro con l’uomo. Ho avuto una forte suggestione dal personaggio di un dramma alla TV Mi ricordava le infatuazioni che avevo da ragazzina per gli attori. Sono sempre rimasta presa da chi rappresentava amori infelici. Ho nostalgia di un amore infelice, cioè dell’amore. Ho una precisa emozione di adolescente, di cose impossibili. Non sopporta­ vo Simone quando è arrivato, così ho litigato davanti a tutte, e ho coinvolto anche David. Poi, quando ho rivisto David, ero piena di tenerezza per lui. 21 mag. Sono eccitata per la ritrovata libertà. Non me la farò più togliere. Sono libera dalle altre. Ci siamo ritrovate tutte insieme e non si riusciva a comunicare tutte insieme. Appena c’è aria di gruppo ciascuna si abbandona all’inerzia, apparentemente: all’ostruzionismo come difesa dalle mie aspettative. Ma io aspetto solo di comunicare. Magari, senza accorgermene, ho degli atteggiamenti ottimistici che frenano, comunque il punto non è lì, perché io ho il diritto di avere gli atteggiamenti che mi pare, il punto è che le altre non mi affron­ tano direttamente, ma con ostilità indirette. Felicita e Isa me l’hanno confermato. E un po’ il succo di tutto. Oggi Felicita si rimangiava quello che aveva ammesso dicendo che ieri sera è andata a letto rattristata perché le ero sembrata un po’

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giù. Ma di che diavolo si preoccupa! Invece io ero contenta di avere detto quello che avevo detto e di avere ascoltato da lei quello che avevo ascoltato, e cioè che la mia sensazione di essere boicottata dal suo assenteismo (e delle altre) era vera! C’era stato tutto un intreccio di ipotesi e di conferme che mi aveva pacificato, semmai era lei a essere rimasta sconcertata dalla rivelazione di cose sue che io avevo intuito esattamente! Però aveva l’argomento per sminuire anche quel­ lo, infatti secondo lei i ragionamenti non servono a niente; in ultima analisi vale solo il rapporto affettivo e la certezza che esiste e resiste in qualsiasi circostanza. Mi viene un accidente nel rendermi conto che l’argomento affettivo è una difesa. Permette di nascondersi che si tratta di un rapporto di forza e che si sono subiti degli smacchi. Dà un’aura di superiorità in extremis. Capisco che Felicita faccia uscire dai gangheri Valeria, come io ho fatto uscire dai gangheri Sara. A conclusione mi ha riferito di avere letto in un articolo che i bambini dominanti hanno una preponderanza ormonica sugli altri. Esclama­ va “Non vedo l’ora che questo fatto sia appurato e non se ne parli più”. Poi specificava che ci sono due tipi di bambini aggressivi: quelli che rubano i giocattoli e quelli che riescono a organizzare dei giochi attraverso i quali ottengono i loro scopi, questi ultimi sono leader­ simpatici: io apparterrei a questi ultimi. Le ho fatto notare che non sono tipo da portare via niente a nessuno, semmai domino attraverso l’offerta. Lì è intervenuto David con l’osservazione che i cosiddetti dominati a loro volta hanno il potere di paralizzare i dominanti avan­ zando una “carta coperta”, ha usato proprio questa espressione. Che è giustissima: Lucia mi ha dominato così. Sara mi ha offerto l’ancora di salvezza, quell’ancora che lì per lì non ho potuto accettare: si è liberata di me scoprendo la carta, e mi ha permesso di liberarmi dal­ la paura della “carta coperta” attraverso lo choc di mostrarmi cosa nascondeva. Poiché con tutte le amiche è stato così, mai più potevo distinguere me stessa come leader, dominante, aggressiva ecc. Adesso non ho più dubbi che devo restare sola, è l’unica condizione che mi restituisca a me stessa. Sì, quando c’erano le amiche era bello, ma non ci dicevamo niente, e fingere che il problema fosse superato era un sottinteso pietoso. Il disagio, l’irrequietezza, il senso di essere man­ tenuta all’oscuro sussistevano e avvelenavano sottilmente i piaceri più spensierati della convivenza.

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22 mag. Dico delle cose che le mie amate suore non condividono: che orrore, adesso ho passato davvero il limite e, basta, non mi avrebbero più permesso di restare lì. Sono disperata, ma che farci? Non sarei più stata delle loro. E notte fonda: il convento di vetro trasparente è sparito nell’oscurità. Non so se le suore mi guardano, mi vedono: la mia stanza è illuminata. Mi turba che possano os­ servarmi restando nell’ombra e a mia insaputa. Ma sotto ho come l’impressione, rassicurante, che si disinteressino di me, che abbiano chiuso con me. La perfidia è un’altra cosa: io posso essere prepotente, invadente, ma non implicita al punto di essere perfida. Anche quando ero in balia di Sara mi sarei vergognata di manovre subdole. L’orgoglio guida i miei passi. Così so scendere di mia vo­ lontà, diventare umile, ma non perfida. Mi passa tutto per la testa: non una cosa o l’altra, tutto. Se non prendo partito nelle mie contraddizioni non ho spazio per vivere. Vorrei che tutti mi abbandonassero, però non per abbandonarmi, ma perché presi da altri interessi. Non oso telefonare a Tito che non osa più chiedermi “Quando vie­ ni a Roma?”. Non ce la faccio a vivere con gii altri, non ce la faccio a illudermi sulla mia solitudine. C’è una strana superstizione nella mia mente: che gli altri abbiano bisogno di me. Allora parlo casual­ mente con la figlia di Federica al telefono e la rassicuro “Ci vedremo a Roma prima che tu parta”. Non c’era nessun dato che mi avesse fatto credere che lei si aspettava di vedermi. È un tic, un riflesso condizionato. Come se avessi l’obbligo di stare a disposizione degli altri, offrirmi. Domani viene il contadino a dare il ramato. Mi attacco a questa prospettiva. Posso entrare come comparsa in questa realtà. Michelangelo è nato il 6 marzo, come me: è finito solo e misan­ tropo. Ora, mi chiedo, se l’ha fatto lui perché non dovrei farlo io. Ho sempre, in un angolo del cervello, ben impressa l’immagine di una vita diversa da quella che ho vissuta, una vaia al cui confronto questa è tragica, dolorosa, incomprensibile. Se riuscissi a cancella­ re quell’immagine avrei, della mia vita, un senso accettabile. Tutto questo dibattersi è la vita, e sarà sempre così fino alla fine dei miei giorni: ogni giorno i suoi enigmi, le sue lotte, le sue paure. Voglio restare entro limiti ragionevoli, e magari la mia natura è irra­ gionevole, e temo di scatenarla.

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Non so chi sono, non so mai se sono quello che sono. All’improvviso avverto una virata dentro di me e niente di ciò di cui avevo certezza resiste. Ed è sempre stato così. Dunque? Sono que­ sto. Superficialità e profondità. Centrifuga e centripeta. Solitudine e incontri. Assoluto e provvisorio. Improvvisazione e programma. Amore e distacco. Odio e indifferenza. Bisogno e autonomia. Rifiuto e richiamo. 23 mag. Non è un vero sogno, ma una sensazione: di essere sepolta viva nell’oscurità più completa. Quando mi alzo, in piena notte e traverso la camera mi meraviglio di farcela. Da sola sono più corag­ giosa, ritrovo le mie energie e ne ho bisogno perché riaffiorano tutti i miei squilibri. Se si è pazzoidi, come io sono, la presenza di una persona equilibrata mi è di grande aiuto, però non mi serve a niente mimetizzarmi da persona normale. L’ho capito osservando Felicita e David: lei dice che non può stare sola perché non può gustare la vita se non ne fa partecipe affettivamente un altro. Balle. Non può stare sola perché non può affrontare la sua natura, e David la difende da se stessa. Naturalmente è reciproco, come fra me e Simone. L’affetto è un rifùgio e una difesa. L’amore è un esporsi e un rivelar­ si. La solitudine è la prova della verità: senza intermediari. Se non si sopporta la solitudine non si sopporta se stessi. Mi amo e mi dete­ sto, mi desidero e mi faccio paura. Mi ha preso un colpo d’amore per Tito. Ormai sarà così, che ci ve­ dremo ogni tanto. Sogno del pomeriggio: C’è un ragazzo che mi sta appresso, sembra uno scherzo, un ragazzo bruno che mi appare sempre più carino. Siamo all’Università, in un’aula di storia dell’arte piena di ragazze: una fa lezione. Riconosco l’assistente di Longhi che ascolta tutta compresa a capo chino. Il mio ragazzo mi bacia teneramente, è davvero sotto di me, devo frenarlo perché mi imbarazzerebbe che l’assistente mi vedes­ se, per quanto io sia orgogliosa di essere lì con un così bel ragazzo. Adesso è a torso nudo e vedo che ha delle spalle bellissime, glabre, lisce. La lezione è finita, tutti ridono, e scherzano, c’è confusione: io sono già pazza del mio ragazzo che continua i suoi gesti tenero-erotici. E bello, lo sa e si pavoneggia - forse è un po’ grasso, se dimagrisse sarebbe perfetto. Ci abbracciamo, e ho come l’intuizione che un attimo prima si faceva ammirare da un’altra che ride divertita, e così lui.

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10 resto un po’ male, però avverto che è uno scherzo, e mi allontano dicendo ad alta voce “Che stupido!”, così per continuare il gioco. Intanto penso che lui è davvero un po’ stupido, narcisista, ma mi piace da morire perché è allegro, giovane e mi ama. Certo non mi accompagnerà sino alla fine dei miei giorni, si stancherà prima, ma non m’importa: è divertente amarsi così, è la cosa più divertente del mondo. Come ho potuto perdere tanto tempo? Come ho potuto dimenticarmene? Sono a letto. Aprendo gli occhi assonnati intravedo una figura appoggiata al muro. Le chiedo “Sei uomo o donna?”. Mi risponde “Donna”. La chiamo “Vieni”. Entra nel mio letto: è nuda, soda, con la pelle ruvida tanto è giovane e i seni rivolti in su. Comincia a carezzarmi la pancia: non sono erotizzata da lei, ma felice di essere finalmente nella condizione di fare l’amore con una donna. Provo a prendere io l’iniziativa, forse andrà meglio. Ma la ragazza si schermisce, non vuole “Ma allora” replico io “perché tu sì e io no?”. Mi confessa subito che ha tanti problemi, specialmente se è con una donna clic ha un bambino. “Ah!” ribatto io “c’è il fatto della madre.”

11 bel ragazzo bruno sono io (ma mi piacerebbe anche incontrarlo) e non oso manifestarlo con le amiche che mi reprimono (le amiche sono ancora io in quanto femminista). In un altro sogno il ragazzo era il bello pieno di botte, il Marion Brando. 24 mag. Arriva Simone, tutto bene. Vedo sopraggiungere delle ragazze bruttine e piuttosto mezze calze, rumo­ rose su per le scale. Dove vanno? Ah, c’è una festa da Claudius: sento i saluti, le esclamazioni, le risate, io invece sono diretta da Simone in un’altra stanza. Sento la voce di Vincenzo (c’è anche lui, che bellezza!) che lo apostrofa “Simone, non penserai che Carla non torna più fra noi”. Apprezzo il coraggio dell’uno e anche il silenzio dell’altro: Simone non risponde, mi sembra ras­ segnato. Allora volo in quella stanza con fare irruente, ma trovo solo donne, la moglie di Vincenzo, e altre che hanno steso per terra certe reti sottili con dentro carte colorate: rischio di pestare e rovinare tutto. Sono accolta male, faccio per ritirarmi, ma loro ormai vogliono lasciarmi passare e cominciano a sfilare le veline dalle reti. Mi affretto a fermarle: non riusciranno più a rimet­ terle dentro, sono pazze, che combinano. Ma loro insistono, e non capiscono che è inutile: non è loro che cercavo, non intendo proseguire.

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25 mag. Ho la testa così confusa che mi va a brandelli. Litigo di continuo con Simone: lui è calmo, io non so quello che voglio. Stare con lui, e sono frustrata perché questo non è possibile? Stare sola, e sono furibonda perché non mi decido? Sono completamente perduta, l’odio di Sara mi si è comunicato, ecco cosa temevo, adesso mi odio e mi faccio del male, mi punisco, mi rendo odiosa, scarico su altri raffronto che ho subito. Sono così debole, così insicura? Non amo più quello che possiedo, non godo più dei rapporti. Oppure insorgo con­ tro una buona condotta che mi sta addosso come una sovrastruttura e mi impedisce di essere completamente me stessa? Inutile cercare di capirlo adesso. Mi sento meschina perché me la rifaccio con Simone che è l’unica persona di cui sono sicura. Lui afferma “Io ti accetto con tutte le tue difficoltà, i tuoi problemi che si riversano anche su di me, ma tu non mi accetti”. Perché mi accetta se io non lo accetto? Questo rimane un mistero inquietante per me. Come posso staccarmi da lui se è così generoso, e come posso restare con lui in una disparità che mi schiaccia? Mi dà troppa sicurezza e io non posso non appro­ fittarne. Come Simone con me ho fatto io con Sara finché lei mi ha voluto distruggere. Dunque è il rapporto figlio-genitore che si tende a ricreare e contemporaneamente a sradicare da se stessi. Per fare posto a un rapporto alla pari, che io evidentemente non so cos’è perché ho sempre vissuto gii altri come un dare o un ricevere appoggio. Adesso è tutto finito, sono tornata “l’altra”: Simone dice “Sarà un po’ di ciclotimia, come si chiama?”. Sì, ciclotimia. A lui non fa impressio­ ne, mi prende sempre sul serio, e io posso tirare fuori tutto. Quando perdo la testa divento “cupa”, posso scatenarmi, e dopo torna l’equi­ librio. Questo non l’ho mai fatto con le amiche, dunque lì non sono me stessa, qualcosa me lo impedisce. Ecco che prendo un ruolo, e poi cerco di “raccontare” chi sono, ma non posso “viverlo” insieme a loro, quando ci provo trovo il rifiuto: l’idealizzazione fra donne ci blocca. Anche Sara appariva sempre con i suoi scritti e mi faceva “leggere” cosa aveva “pensato” di me. Adesso non soffro, valuto le situazioni, sono affettuosa, scherzosa, mi sento disponibile agli altri, ma sono più me stessa di prima? A cosa mi serve tutto questo interrogarmi? Non potrò mai venire a capo dei miei cataclismi. Ricordo quando aggredivo mio padre, gli dicevo cose orribili. Non potevo immaginare che questo lo turbasse. Credevo di essere l’unica

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a soffrire: invece lui ce ne ha messo di tempo a superare, io ce ne ho messo per perdonargli. Non avrei mai potuto essere così con mia ma­ dre. Il suo mi appare un mondo senza colpevoli né innocenti, senza vittime né carnefici. Un mondo incatenato in qualsiasi punto. 26 mag. All’alba Simone è partito. Non ho voluto seguirlo: a che sa­ rebbe servato? Mi era presa una voglia pazza di vedere Tito, dirgli “Eccomi qua, non ti ho abbandonato, ti amo tanto”. Ma a che sa­ rebbe senato? Il mondo è quello che è e gli sforzi di una donna non possono farlo diventare rosa. Non voglio stabilire confronti, vedere altre vate, altri slanci, altre soluzioni. Io sono così. Anzi: Simone ha la sua vita, Tito la sua, sono io che non ho la mia e cerco di farmela tenendo duro. Non sono stata una buona madre mai, eppure da diciassette anni sono stata sostanzialmente una madre. Mia sorella e io siamo a letto, mia madre alla porta, e tendiamo l’orecchio. Si sentono rumori di colluttazioni, come se, per esempio due tipi arrivassero a pic­ chiare un terzo sorpreso di notte nella sua stanza. I rumori sono misti a grida soffocate, i colpi sono sempre più forti, numerosi e prolungati: è terribile. Faccio cenno a mia madre che chiuda la porta a chiave e lei lo fa, ma non riesce subito e mi lascia il fiato sospeso. Oltretutto è come se, nella foga, il terzetto si fosse avvicinato alla porta e la spedizione punitiva, fascista senza dubbio, si svolgesse ormai a pochi passi da noi.

Mi sono svegliata prima di rendermi conto che il succo del sogno era questo: che la porta sarebbe stata sfondata e noi saremmo en­ trate a fare parte del macello. Dentro di me mia madre, mia sorella e io ci azzuffiamo pauro­ samente. Spiegavo a Felicita cos’è che mi fa venire la paranoia, e lei si com­ portava esattamente in quel modo che le additavo come fonte della mia paranoia. Poi mi chiede chiaro e tondo di non aggre­ dirla, cioè lo dice in generale: se qualcuno dovesse rivelarle delle riserve su di lei le creerebbe un ostacolo insormontabile. Maga­ ri, aggiunge, lo supererebbe, però sarebbe una prova durissima. Le sono grata per avermi posto esplicitamente il veto perché non avrei osato andare oltre. Adesso mi sono messa il cuore in pace e

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considero chiuso questo capitolo. Anzi, dopo mi è venuta una spe­ cie di euforia perché avevo la prova che non dipendeva da me il fallimento di una comunicazione fra noi, e così ho passato una se­ rata con lei, David e un amico loro come si prende una sbronza per dimenticare, scherzando e ridendo in modo simpatico e all’altezza di una vecchia immagine di me. Mi sentivo negata l’identità reale e ricorrevo a quella collaudata con successo, che avevo abbandona­ to, avvilita, da diversi anni. Avvilita, perché? Perché non posso riconoscermi nel desiderio di con­ quistare gli altri? Mi rifiuto di familiarizzare con me stessa in vesti se­ ducenti? E ricorro allo stratagemma di giudicarmi alienata? quando smetterò di ingannarmi? Mai, lo so. Adoro sedurre ed essere sedotta, anche se poi non oso farlo davvero, apertamente e piombo subito nella delusione e nella scontentezza di me. 27 mag. Insieme ad altre c’è anche Sara, molto carina con me nei prelimina­ ri. Però alla mia prima affermazione si innervosisce subito, ma no, ma no, ma no, come posso continuare così, le altre sono testimoni della mia assurdità. Tra me e me riconosco la sua tecnica prima accattivante, poi implacabile nel respin­ gere - e mi maledico per esserci cascata un’altra volta: infatti non ho afferrato il punto che ha messo in moto il suo voltafaccia. Siamo sempre tra amiche, forse c’è ancora Sara, forse no. Il problema è una ragazza scappata di casa, ha bisogno di aiuto assolutamente, e io provo per lei il consueto struggimento dei sogni verso persone che nella realtà mi sono indiffe­ renti e magari non vedo più. Mi tengo alla larga finché arriva una telefonata del padre di questa ragazza: prima parliamo abbastanza formalmente, poi quello cambia tono e con voce supplichevole, intima, mi chiede “Carla, faccia qual­ cosa”. Mi sento rimescolare a quel tono e a quella voce, ma rispondo che non posso fare niente. C’è un gran trambusto in casa e io me ne scappo via quasi cor­ rendo, ma per strada al ricordo di quella frase “Carla, faccia qualcosa”, intuisco un possibile legame con l’uomo che l’ha detta: forse potrei vederlo e, perché no, potrebbe essere l’uomo che cerco. Torno indietro di corsa e temo di non ritrova­ re la casa: com’era? Un po’ in stile fascista, con una specie di torre a decorazioni rosse e una scalinata che scende verso il sotterraneo. Arrivata nei pressi un mu­ ratore mi guida “Ehi, per di là” come se sapesse chi sono e chi cerco. Una volta a destinazione, mi avvicino alla ragazza, la prendo intensamente per le braccia

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traboccando di affetto. Ma lei mi respinge “Sei come X” (il fidanzato) “quando ne ho bisogno non c’è, quando non ne ho bisogno mi impone il suo aiuto”. Io resto male, come colta in fallo: tutto m’immaginavo fuorché essere respinta da quella ragazzina e con quegli argomenti che mi lasciano allo scoperto, anzi sve­ lano i miei retroscena. Sono affranta. Mi rivolgo a Isa lì vicino “Pensa che Sara afferma che io sono fascista”, e aspetto il suo responso. Si toglie dall’imbarazzo in cui l’ho messa “Lei intenderà che tu sci convinta di dovere offrire il tuo aiuto agli altri, fargli da madre”. E proprio così.

Ho sognato anche mio padre però ricordo vagamente l’amore, il clima di promessa fra noi. Giorni fa a Firenze ho preso da casa delle foto di lui giovane e le ho mostrate a Felicita e David “Vedete che belfuomo, come si fa a dimenticare un uomo così”. Mi prendevo in giro, ma ne ero ancora orgogliosa. A casa ci eravamo dati molti baci con il pretesto di sempre: fingendosi arrabbiato papà dice “Ma guarda dove dà i baci la Carla, albana”. E così riparando e dimo­ strando finisce che continuiamo a baciarci. Era molto allegro, ave­ va perduto quell’aspetto stanco degli ultimi tempi, la sua risata era quella di allora, s’intratteneva con me, mi prometteva che sarebbe venuto a Turicchi con la mamma in agosto, lo prometteva come facendomi una gran concessione dunque sentiva che ero felice di averlo ospite. La mamma era un po’ seccata, lo redarguiva perché stava tralasciando di fare il pisolino e si eccitava troppo nei proget­ ti per l’estate. Si trovava esclusa, e non sospettava affatto di essere gelosa dell’intesa fra noi. Qui a Turicchi torno bambina: ho final­ mente il mio angolo dove, indisturbata, posso fare ai balocchi: te­ nere la casina pulita, lavare le cosette, curare fiori, perdere il tempo. 28 mag. Proprio parlando con Felicita e David mi sono accertata delle enormi differenze che esistono tra persone introverse ed estro­ verse. Naturalmente i rappresentanti di ciascuna categoria vedono in quelli dell’altra solo dei rappresentanti mancanti della propria. Quin­ di non è vero, per esempio che gli estroversi siano dominanti, anche se da un punto di vista sociale l’estroverso può essere più apprezza­ to e popolare. Naturalmente l’introverso sente la ricerca all’esterno dell’estroverso come una minaccia alla sua immobilità e l’estendersi dell’altro come un bisogno sospetto di prevaricarlo, di dimostrargli la sua incapacità ad affrontare le situazioni. D’altra parte l’estroverso

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avverte la reticenza dell’introverso come un giudizio negativo, tanto più sprezzante in quanto spesso non formulato, e la sua non-collaborazione come rifiuto, poiché spesso l’estroverso apre realmente del­ le possibilità di cui l’introverso approfitta senza tuttavia dare alcuna importanza agii sforzi e ai processi mentali di chi ne è l’artefice, anzi mantenendo la sua riserva di fondo. Ora Jung mette in evidenza le fantasie inconsce di potenza dell’introverso “associate alla paura di oggetti fortemente animati” e la sua particolare “vigliaccheria” nelle circostanze in cui ci si aspetta da lui un’affermazione di sé. D’altra parte, visti i suoi comportamenti negativistici è sempre apparente­ mente nel ruolo di vittima e di oppresso dell’estroverso che cerca la sua partecipazione o, comunque, una rivelazione in modi meno am­ bigui. A questo punto non saprei più dire chi tiene l’altro in sua balia. 30 mag. Paula e io, morbidamente allacciate, passeggiamo per strada: sento il suo fianco largo che sobbalza vicino a me che le cingo la vita. Il malinteso fra noi è passato, siamo di nuovo intime e affettuose. Entriamo in una salumeria; Paula tossendo ha un piccolo sbocco di sangue nel fazzoletto, ma non gli dà peso e addenta un bel pasticcio di qualcosa. Io lì per lì non ho voglia di mangiare, poi vedo una focaccia a forma di stella e mi decido chiedendomi di cosa sarà ripiena. Avevo visto Sciuscià alla TV, la storia di due amici che, per un equivo­ co e per istigazione di terzi, maligni, finiscono in tragedia. C’è anche la figura di un ragazzetto tisico. Nel sogno è sottinteso che Paula non è più sottoposta all’influenza, nefasta, di Sara. Siamo tante donne su una specie di pulmino quando mi telefona Sara: dalla voce immagino il suo occhio sfavillante e maligno. Parlando è accomodante, ma non mi fido: intuisco che vuole qualcosa da me, ma non mi offro come ho sempre fatto. La telefonata finisce in modo inconcludente. Qualcuna pone cautamente delle riserve su Sara come una da cui ci si può aspettare di tutto. Allora anch’io esco dal riserbo e dico che mi sembra un po’ matta. L’impressio­ ne generale è che avrebbe voluto chiedere un passaggio sul nostro pulmino, ma poi non ha osato.

Perché non posso amare tutti quelli che amo come amo mio figlio! In più gli sono grata perché è un figlio così bravo da sapere essere contento.

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31 mag. Stiamo andando tutte al cinema per una proiezione privata che si svol­ ge, se ho ben capito, in due sale. Mi siedo in un posto che mi sembra vada bene, con un bambinetto a me molto caro che mi dorme accanto. Però mi accorgo di avere degli spifferi di aria fredda nel collo, prevedo già che possono farmi amma­ lare, tuttavia non so che provvedimento prendere oltre a ripararmi un po’ il collo con le mani. Ma il bimbetto si alza, va di là, e mi trova un posto ben sistemato; tra l’altro non è vero che la proiezione del film si svolge in due stanze, che assurda idea. Il bambino dall’aria sveglia, saggia c protettiva si sistema vicino a me. Simone mi annuncia che, sì, Tito è proprio cambiato: adesso ha questa ragazzina: per avvicinarsi a lei si è staccato da me. Io stessa negli ultimi tempi mi ero staccata da lui come avvertendo che non gli sono più necessaria, e contemporaneamente mi sono messa a ricercare lo spazio per me. 1 giu. Con Simone sono odiosa, gli faccio una doccia calda e una fredda, mi comporto nel modo più incoerente. Tanto so che non mi prende alla lettera. Oppure è proprio questo a favorire la mia confusione. Sara, sicura di sé, afferma “Farò questo e quello, lavorerò ecc.”. Allora io esplo­ do e le dico che non ha mai fatto niente: vado a trovarla solo per vedere a che punto è con i suoi progetti velleitari. Di colpo cambia espressione, diventa scria e ostile. E lei adesso che mi giudica “Questo è molto grave”. Allora mi dilungo a enumerare, anzi a gridare, i motiva che mi fanno parlare così, ma non riesco a fare la mia concione come vorrei, sono un po’ impedita nel lin­ guaggio, articolo con difficoltà e non riesco a tirare fuori la voce che vorrei. Mi chiedo se arriverò a convincerla oppure se mi sto scavando la fossa.

Ce fho con me stessa: mi accuso di non farcela, di ingannarmi con i miei propositi di libertà e di autonomia senza seguito. Sono con Matilde e Luca quando arriva Claudius: si sdraia vicino a me per terra e io mi apparto con lui in un clima di intimità. E bellissimo ritrovarci, c’è una grande intesa; tanto peggio per quello che risulterà agli altri e i loro commenti.

Sono arrivata alle seguenti conclusioni. La mia scelta di Simone è stata una scelta realistica, molto influenzata dal desiderio di dare

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a Tito un buon vice-padre. Gli uomini con cui ho avuto relazioni fisse sono sempre stati uomini da cui volevo qualcosa, non erano rapporti disinteressati anche se ero disposta a pagare molto, per esempio con la povertà. Desidero un rapporto erotico, solo erotico con un uomo. La mia ostilità per Simone quando torna da fuori deriva dal fatto che vedo in lui quello che viene a riscuotere i van­ taggi del mio patto utilitaristico e a chiudere il mio futuro, già ab­ bastanza ipotetico, a ogni sbocco con altri. Simone ha avuto un incubo: che qualcuno lo immobilizzava alle spalle e cercava di prendergli i soldi. A lungo nel sonno ha cercato di districarsi dalla morsa finché, quando si è svegliato, si è accorto che ero io aggrappata a lui. Però questo lo faccio sempre, quindi se stamani ha avuto l’incubo significa che adesso sente la mia stretta come una minaccia. In definitiva devo solo provare a me stessa che non mi lascio tra­ volgere a fare quello che non voglio. Molte volte ho ceduto, nel passato, soprattutto per trapiantare Tito nel modo migliore dal­ la sua situazione di origine in uno spazio a lui congeniale. Ades­ so che lo vedo radicato bene, tranquillo, in un suo mondo che gli piace, non faccio a tempo a considerare vinta la partita che mi ac­ corgo di avere fatto gravitare molte delle mie scelte a questo scopo. Lo strano è che rifarei tutto, tanto il risultato soddisfa le mie aspetta­ tive più audaci, ma è da oggi in avanti che, privata di quello scopo, tutte le mie impalcature scricchiolano. Il realismo c’entra sempre nelle mie mosse: questo frustra il mio bi­ sogno di libertà, e spiega la suggestione “diabolica” che Sara ha su di me. Lei oppone alla realtà, agli altri, la priorità delle sue richieste. Non con questo che la sfondi, la realtà, ma almeno la provoca e solo dopo averla provocata, patteggia con lei. Io do in escandescenze nella fantasia, ma nell’incontro con lei le cedo la precedenza. Stasera sto di nuovo bene con Simone, e questo si è ripetuto da dieci anni ogni volta che ci siamo lasciati e ritrovati. Un’infinità di volte. Nella telefonata di addio di Augusta che va in USA per sette mesi, alla fine diceva “Però cerchiamo di non disperderci, stiamo unite. Non alla vecchia maniera, ma troviamone un’altra...”. Ci tenevo troppo a stabilire un rapporto, non mi sentivo sicura finché non di­ ventava un impegno, e neanche allora, anzi tantomeno, lo ero; adesso che penso a me e mi maledico ogni volta che non lo faccio e ci rica­

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sco, imprevedutamente sento che le altre sono in grado di valutare e di amare quello che fino a ieri io monopolizzavo come valutazione e come amore. Certo, perché esista questa fase ho dovuto vivere fino in fondo rillusione e l’errore della fase precedente. Altrimenti oggi questo mio isolamento sarebbe davvero e solo chiusura in me stessa, senza risonanze. Dice Simone “Oh bella, hai scoperto l’egoismo”. E così, d’altra parte non sono egoista e non provo nessun piacere alla prospettiva di una vita tipo Duchi di Windsor, per intenderci. Eppure almeno questo mi è chiaro: che con gli egoisti voglio stare alla pari, mi diverte deluderli perché fanno assegnamento su di me, salvo poi a lamentarsi della mia invadenza, e boicottarmi quando non gli serve più o li inferiorizza. Però la cosa migliore è sempre scambiarsi borda­ te di proposte, generosità, slanci con chi non ha quell’avarizia della mente. Anche Simone, quando si convince che deve stare al suo posto lo fa, naturalmente, però prende un’aria da cane bastonato che cerca di non dare nell’occhio. Sara è un essere vivo e reattivo, e l’ho amata per questo. Quando le scrivevo “Mi piace parlare con te” avevo la mia base di realtà, per­ ché in altre non trovavo quello che trovavo in lei. E io sono una che con la gente ci ha provato, sapevo quello che dicevo. Certo che ap­ pena avverto quell’intensità subito mi scatta il mito, l’amore, tutto. Ero malinconica quando Nicola è partita, ma la vedevo nettamen­ te, come un profilo di montagne sul cielo di febbraio, fissavo i suoi contorni. Nicola è chiusa perché non pensa che gli altri abbiano bisogno di lei; se glielo si fa presente si blocca come per un’aspet­ tativa. Deve arrivare a intuirlo, altrimenti niente da fare. 3 giu. Simone è partito. Sono rimasta sola. L’ho aggredito per una sciocchezza, lui si è offeso e se ne è andato offeso. A monte c’era l’ab­ battimento per la partenza. Detesto le separazioni, l’ho già detto, e ho vissuto di separazioni come per dimostrare a me stessa che me ne ero liberata. Il femminismo, con Simone che andava e veniva, era una ripetizione del collegio con mio padre che andava e veniva. Mi viene voglia di sotterrarmi, me e tutte le mie contraddizioni. Do­ vunque scappo ritrovo o collegio o famiglia. O solitudine. Per stare insieme a Simone dovrei corrergli dietro, adeguarmi a lui. Adesso dice “Da settembre staremo sempre insieme, non ti ho mai dato un termine più prossimo”. Ma in questi mesi d’estate sono costretta a ri­

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fiutarlo dentro di me per fare da sola; oppure a seguirlo come sempre all’Elba con i figli. Non posso averlo per me. E comunque se non ci sono i figli c’è la scultura, che è il suo figlio prediletto. Il problema di Simone è rendere come scultore, restare come scultore. Lascia passare anni preziosi, stagioni preziose. Adesso basta, scivolo nel vittimismo ed è assurdo perché sono stata io a non sapere quello che volevo e a crearmi situazioni soi-disant libere, e cioè frustranti. Posso già rin­ graziare Dio se con il mio carattere, le mie ambiguità ho con me uno che mi vuole bene e con cui comunico interamente. E terribile come riesco a svalutare quello che ho, da questo deriva l’incapacità a volerlo fino in fondo. Sempre per questa curiosa sensazione a tenermi aperta la via per altri uomini con cui avere l’erotismo. Come mai non posso rinunciare a una prospettiva erotica, non posso decidermi a dire “L’erotismo che mi va bene è quello con Simone?”. Invece no, mi re­ sta il sogno di qualcos’altro. Probabilmente perché non faccio niente per viverlo e lo lascio fermentare allo stato di desiderio. 4 giu. Ho sempre trascurato il mio lato infantile-possessivo: adesso mi diverto a comprare tante cosette per Turicchi, per me e mi diverto a farlo a Firenze che è la città dove mi sono repressa. Adoro Firenze. 5 giu. Ritorno a Turicchi. Bella sensazione. Grande gioia scoprendo che il melo cotogno piantato in marzo e finora dato per perso, ha del­ le minuscole gemme. E pensare che anche il contadino era convinto che si stesse seccando. Ma io bagnavo quello stecco apparentemente senza vita e adesso mi sento ricompensata. Ci metto tanta volontà e tanta passione nelle cose che non so darmi pace quando non vanno bene, e quello delle piante è proprio un campo adatto a darmi delle soddisfazioni. Nei rapporti umani invece l’intensità disturba. Ho comprato del cotone bianco per fare delle prese di cucina. Papà ha cominciato subito a sfottermi dicendo che sembro una vec­ chietta. Lo stesso era successo a Natale quando mi ha visto lavora­ re ai ferri. Dunque a lui risale l’impostazione un po’ mascolina della mia educazione. Quanto a idee, papà è più libero della mamma: per esempio lui è favorevole all’aborto e lei no. Ecco che per difen­ dere le sue scelte e non ammettere di essere rimasta schiacciata da un pregiudizio, mia madre mi offre un modello di donna molto più

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deprimente di quello che mi offre mio padre. Salvo poi a essere un vero tiranno con lei, però a questo punto non so chi dei due è più responsabile. 6 giu. In una giornata elettrizzante di tramontana, in mezzo a tenere foglie e germogli dappertutto, provo solo gioia di vivere. Simone deve arrivare e lo aspetto sorridendo fra me. 10 giu. Amo Simone: è l’angolo più caldo, sicuro, accogliente, ri­ spondente, umano dell’intero mondo, per me. L’unica persona che mi dà le stesse cose essenziali che io do. Non c’è dubbio che i lavori all’uncinetto sono una riconciliazione con mia madre. Ieri mi ha regalato un senato aH’americana rica­ mato da lei, e insieme abbiamo curiosato negli armadi e nei cassetti ammirando la biancheria e i relativi ricami e la relativa precisione e pazienza delle donne che li hanno fatti. Prima di partire ha aggiunto anche vecchi gomitoli di lana perché mi cimenti con la confezione di una coperta. Capisco come deve essere stato duro per mio pa­ dre accettarmi come donna visto che desiderava tanto un maschio, e certo di tutti, figli e figlie, sono riuscita la più maschile. Ha un modo tutto speciale di trattare con me: è molto brusco e non mi risparmia le uscite sgradevoli. Mi ha sempre detto che è meglio ferire con la verità che fare cerimonie per nasconderla, e lo ripeteva anche ieri, però poi non è riuscito a digerire le mie verità quando le tiravo fuori. Cosa che è successa anche a me. Rientrando a casa aveva un piccolo grumo di sangue sulla fronte: gliel’ho fatto notare e, sì, aveva battu­ to la testa in officina. Ridendo diceva di essersi dato del cretino per quella distrazione, e subito, sempre ridendo, ammetteva di darsi del cretino spesso da solo, ma guai se l’iniziativa fosse partita da un altro, non l’avrebbe mai riconosciuta. Esattamente come capita a me. Mi sento traboccare - di affetto, di nostalgia, di pena? per loro? per me? - quando stiamo insieme e mi rendo conto di essere lì a rapire un po’ di attenzione senza l’interferenza degli altri figli. Volevo poterli amare in pace. Papà non vuole credere ai miei sentimenti e finge di scoprire nelle mie visite dei motivi utilitaristici. Questo, invece di ur­ tarmi, mi riempie di tenerezza per lui. Afentre la mamma l’ha capito, forse perché ha gli stessi bisogni affettiva verso di me. Papà ancora se 11 nasconde. Andare a fondo nei rapporti con i genitori, affrontare le

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loro in-dividualità, è fare un tuffo, il più profondo possibile, ai limiti del sopportabile, nella sostanza umana. Giorni fa ho sognato: Sara appare dietro il recinto della mia campagna “Ah, la birbacciona, eccola qui. Adesso la mando via”. Però poi è diverso da come pensavo: c’è un proble­ ma davvero, e mi trovo a parlare animatamente con un uomo.

Penso sempre a Sara: mi chiedo “Mi crederebbe? Riuscirei a estir­ pare i suoi dubbi oppure, come una volta, lei finirebbe con il con­ tagiarmene?”. Un’intervista per TV a Roland Barthes mi ha commossa quando ho capito che le sue simpatie vanno alle esperienze estreme tipo Artaud, mentre poi lui somiglia piuttosto a Gide. A un certo punto ha affermato che il problema attuale è di passare da una soggettivi­ tà idealizzata a una soggettività materialista (dopo Freud e Marx). Esattamente quella che ho sempre cercato. Però appunto come critica, cioè riconoscendola prima negli altri che in me stessa. Devo accettarlo, sennò mi resta l’amarezza, come lui accetta di somiglia­ re a Gide. Leggendo Jung l’anno scorso sull’alchimia, ero rimasta colpita dal parallelo Cusano-alchimisti: questi ultimi hanno vissuto l’esperienza, Cusano in qualche modo l’ha riflessa e capita. Sentivo con disappunto di essere più del tipo di Cusano. Mi beo, mi imbevo di solitudine. Gusto tutte le ore, tutti i minuti. Eppure non posso smettere di desiderare l’attimo seguente (anche gli uccelli lo fanno). Solo che qui avviene con più lentezza perché ho tutto il tempo. Come vedere un film fotogramma per fotogramma. Devo andare a Milano a votare, ma posso non andarci se non voglio. In realtà non mi disturba perché non c’è nessuno che mi aspetta a Milano e il Gaggio è un capitolo a sé, piacevole in sé, non un mezzo per arrivare. Mi sento questa calma addosso. Se cambio idea cam­ bio programma in qualsiasi momento. Non sono più prigioniera: mi sono liberata di mio figlio che si libera di me; dei genitori, dando corso al mio affetto dopo tanto rifiuto; delle sorelle, smettendo di de­ siderare cose impossibili da loro; di Simone, non essendo più soggetta alle sue necessità e perciò cessando di contrastarlo dentro di me visto che riesco a contrastarlo nei fatti; delle amiche, affidandole al loro destino come le sorelle.

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12 giu. La condizione di figlia perdura fìntanto che una se la pren­ de con gli altri andando sul sicuro, come me con Simone. Ma adesso lui ha mangiato la foglia e mi dice “Tu sai i miei programmi, non posso stare in balia dei tuoi”. Come sempre è lui che imbastisce l’estate, però adesso che anche Tito vuole fare le vacanze a modo suo, Simone passa all’attacco, prende il tono duro, di chi non è di­ sposto a trattare. Con lui non posso fare la “mia” vita, devo fare la “sua”. Ecco perché l’alternativa della solitudine e di Turicchi. A Roma lui sta a studio per lavorare, nelle vacanze sta con i figli all’Elba. Insieme per essere insieme è qui. Devo capire se ho scelto Turicchi per la solitudine o per la compagnia. Ancora non lo so. Simone è totale con me come appagamento, non come disponibilità, tempo, continuità. 13 giu. Scrivendo a Piera ieri ho interrotto su questa frase “C’è stato un equivoco nella mia vita”. Poi mi sono chiesta “Quale equivoco? Basta con queste sintesi!”. Ma stanotte ci tornavo sopra - ero sveglia perché non va affatto la mia schiena dopo la caduta dalle scale - e pensavo che ha ragione Felicita con la storia degli affetti: io li ho sem­ pre abbandonati per interessi, possibilità, incontri di cui adesso non afferro più il potere magico che avevano su di me. E chiaro che io ho preso dalla vita soprattutto il bisogno di conoscenza, ricerca di sé, ed erotismo (come molla più che come fatto). Adesso sono il figliol prodi­ go che torna indietro, lacero e stanco, torno agli affetti, a cominciare da quello per me stessa. Con un gesto molto familiare mi butto su Piera distesa sul letto e la bacio sulla bocca. Lei è bionda, bianca, rotonda con il vaso roseo. Sono meravigliata io stessa del mio ardire. Sembra sorpresa ma non dispiaciuta, piacevolmente sorpresa, direi. Però subito me ne devo andare, cosicché tutto è rimandato a un “dopo” che però non riesco a raggiungere. Piera è rimasta a casa a riposare: temo che legga il mio diario, e questo pensiero non mi dà pace. Quando tor­ no lei è un po’ seccata che l’abbia fatta aspettare troppo. Il diario non ci aveva neanche pensato a leggerlo.

Mi è venuta in mente una foto dove mia madre è bionda, bianca, morbida.

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14 giu. Sono arrivata a Milano. Invidio a Lucia la sua continuità, la sua stabilità, soprattutto la sua calma nell’essere inamovibile di fronte agli stimoli esterni. Sento la mia vita come una frana dietro l’altra, un equivoco dietro l’altro, un inganno e un’illusione dietro l’altra. Mi pare tutto disperso: il nucleo di me smembrato fra persone seconda­ rie, alle persone primarie ho fatto mancare l’essenziale di me. 15 giu. Non sono riuscita a prendere la prima colazione: il telefono ha squillato ininterrottamente fino a oltre l’una. La mia famiglia è questa, sono queste le persone a cui ho dato tutto di me (e ieri me ne pentivo come di uno sperpero a dimensioni colossali), questa la mia vita, il mio lavoro, la mia invenzione, la mia realtà. Fare il primo passo nel mondo diventa angoscioso perché devo rinunciare di colpo alla mia versione solitaria. Non capisco se con gli altri mi metto una maschera difensiva (brillante, allegra, un po’ spregiudicata) oppure se l’euforia dell’incontro, il desiderio di at­ tirare l’attenzione mi riducono così. Nel primo caso sarei alienata; nel secondo, ahimè, me stessa. Con Matilde OK. Che bello passare una serata in pieno affiatamento e senza eccessi! Sono felice di essere a Milano, pullulo di possibilità. Gli altri rien­ trano con naturalezza nel mio quadro. Mi attira l’idea di riuscire a soddisfare un po’ le mie ambizioni. 16 giu. Mi arriva a ciel sereno, inaspettata, questa lettera di Nicola. Resto tramortita. “Ho parlato con la mamma per telefono martedì e ho saputo casualmente che ti sei permessa di aprire la lettera che ho scritto ad Adolfo. Incredibile! Ho avuto veramente un raptus rabbioso per questo tuo gesto. Possibile che ti sei permessa un gesto simile? Ho avuto un vero attacco di nervi e nello stesso tempo di ribel­ lione a questo mio destino di essere perseguitata da continue interferenze che non ho mai chiesto né dato a intendere di desiderare. Pensavo ormai che fossero problemi di altri tempi. La mia rabbia era ancora più grande per l’impossibilità di telefonarti o di raggiungerti in qualche modo. Forse è stato meglio così, per­ ché ho pensato cose molto gravi sul tuo conto, soprattutto mi risultava evidente la concentrazione su di te, sui tuoi gesti, la tua curiosità o comunque quello che ti va di fare, ignorando in pieno quelli che sono i diritti di un’altra persona (la

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mia in questo caso che ha chiarissimo il diritto di mandare una lettera con la certezza assoluta che non venga aperta, per non parlare poi di Adolfo...). Ti ho veramente odiato, come odi chiunque, che battendosi perché venga rispettata la sua autonomia di valori, ignora nel modo più disinvolto diritti ben più semplici. Vedo una cecità alla fine di questi gesti che mi impedisce di credere in qual­ siasi buona fede da parte di chi agisce (e che potrebbe essere a me incom­ prensibile per il mio punto di vista). Spero solo di non essere stata così a mia volta verso Emilio e Adolfo, perché so per esperienza che questi gesti porta­ no all’immobilità dell’altra persona, proprio perché questi resta bloccato dalla tracotanza del gesto altrui. Devo dire che se penso agli anni miei in famiglia questo sentimento è molto forte. Potevi almeno, una volta aperta la lettera, non leggerla dal momento che ti sei limitata a rimetterla a posto (sono con­ vinta che il risultato sarebbe stato comunque sempre questo a prescindere da qualsiasi contenuto della lettera). La mamma non l’avrebbe mai aperta, né io una tua. Nicola.”

Avevo in mente di andare a Torino, ma il richiamo alla realtà mi fa tornare sui miei passi. La cosa saggia è che non mi muova, que­ sti attacchi mi rendono troppo delicata. Per ora rimango qualche giorno a Milano se non succede qualcosa che mi fa fuggire anche di qui. Stasera sono stata con Raffaele e sua moglie: sotto la scorza era tenero con me, sentivo il suo affetto, il suo rispetto. Forse que­ sto scatta quando ci sono stati rotture e distacco. 17 giu. Non so a cosa pensare che non sia triste, così mi alzo presto. Piove a dirotto. Da ieri sono dimagrita quasi due chili. Simone mi consiglia “Chiedi scusa a Nicola, hai mancato verso di lei”. L’unica cosa che non mi era venuta in mente. Non mi succede mai di chie­ dere scusa perché ogni mio gesto mi sembra “un segno” di me a cui l’altro deve reagire, non spingermi a cancellarlo. La tua lettera mi fa pensare che la mamma, nel riportare i fatti, abbia omesso di dirti il motivo razionale della mia intromissione. Ma il tuo sdegno parte da più lontano e si riferisce a un mio modo di essere curiosa prevaricando gli altri. Non escludo che questo stimolo abbia agito anche nel caso presente. Per cui ti rispondo a cuore aperto. Se non avessi avuto questa curiosità e conseguente cecità sui diritti degli altri e conseguente trauma per la rivelazione di questa cecità, sarei ancora in un buco di via Masaccio 214. E chissà, ci saresti anche tu

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- a meno che tu non avessi cambiato atteggiamento - se quello che ho ottenuto per molti aspetti è sembrato buono anche a te. Allora, sorella mia, riconoscilo una buona volta e chiediti se è lecito dividere i vantaggi e scandalizzarsi dei metodi. Domanda a Emilio e Adolfo in che modo i tuoi gesti vitali sono stati pesanti per loro: deciditi ad aprire questa lettera chiusa tra voi. Perché continui a mitizzare quel tuo ruolo di “terza” e a isolarlo dalla catena di prepotenze, inferiorizzazioni, gelosie che coinvolgono la “prima”, la “seconda”, il “quarto” e il “quinto”. Ho ascoltato dietro le porte, ho guardato dal buco della serratura, mi sono impicciata delle cose degli altri di nascosto, e se tutto questo ti è sembrato tracotanza per me era disperazione: volevo scoprire “cosa c’è dietro”. Io sono questo nel bene e nel male, non posso scindere il mio bene dal mio male. Sei tu che hai scritto la prima lettera adulta della nostra storia, e io ti seguo.

Possibile che faccia sempre qualcosa di così terribile, riprovevole, inaudito che meriti la perdita di fiducia totale, che rappresenti un oltraggio totale? Sono forse un mostro? Non ne esco. Mi sforzo di parlarle, ma diventa un’astrazione, parlo a me stessa. Vorrei dirle “Nicola, non scherzare; sono io, la Carla”. Eppure so che non scherza. Hai rimandato di due anni, perché? Eri pronta sullo stesso tema all’epoca della mia crisi prima con Ester poi con Sara. E perché adesso? L’apertura della lettera ad Adolfo è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ti sei sentita trascurata perché non sono più venuta a Roma? Sei gelosa del mio rapporto con Augusta? Sei sola? Aprire le lettere degli altri è imperdonabile, lo so, ma la mia vita è piena di scorrettezze quando non ho trovato altro mezzo per uscire da delle chiusure, anche mie. Giudica come vuoi, ma non appellarti a una correttezza che può essere bassa e frustrante come il suo contrario. Ma perché ti è scottato tanto che leggessi quella lettera? Perché ti è parso che me ne fregassi di te? Perché temevi il mio giudizio sul tipo di comunicazione che adopri con i fratelli? E vero, ho trovato la lettera infantile come non sei con me e come invece è tradizione che siano i rapporti epistolari in famiglia. Come io non voglio più essere anche se ci ricasco sempre.

18 giu. Di tutti i posti dove potrei svegliarmi Milano è senz’altro il migliore. Simone dice “Ho scoperto che la solitudine è la verità dell’individuo, la fratellanza è un’invenzione per nasconderselo”. Forse possono stare bene insieme due che lo sanno.

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Leggo il libro delle lettere di mio cugino Walter eroe della resisten­ za, impiccato a venticinque anni dai tedeschi. Quello di cui ho por­ tato la maglietta da ragazzina. Quante cose vitali pensava in carce­ re: io le ho pensate di recente, oppure anche da giovane, non so. Poi lui è sparito, e il mondo è rimasto lì; è andato avanti, si dice, ma non è andato in nessun posto. Ritrovo in quelle lettere l’entusia­ smo solitario che lui si illudeva di comunicare a chi gli voleva bene. Invece lo comunica ad altri che non conosceva, a me per esempio. Accenno a Lucia del dissidio con Nicola: anche lei ricorda di essere stata disturbata dalle mie intromissioni in passato. “Una volta che scrivevo a un amico mi hai domandato se stavo con lui, ti ho risposto di no, e tu hai esclamato ‘Ma allora fai deH’onanismo!’.” Era rimasta sconcertata ed era andata a vedere sul vocabolario cosa voleva dire quella parola (faceva la III Liceo). “Ancora oggi non mi è entrato in testa il significato” ha aggiunto. Dunque io dicevo la mia in un ambiente che non ne voleva sapere di “giudizi” e considerava scon­ veniente, inaccettabile che qualcuno lo facesse. L’ideale della mia fa­ miglia erano i compartimenti stagni, la mancanza di comunicazione, soprattutto a proposito delle esperienze sentimentali e sessuali. Io ero la più grande dunque avevo il piglio di chi la sa più lunga degli altri, però due anni e mezzo di differenza da Lucia non giustificavano ai miei occhi il suo orrore per scambi confidenziali tra ragazze. La si­ tuazione era negativa per lei - che non voleva parlare - quanto lo era per me - che volevo parlare. E ancora oggi lo voglio, quindi trovo la continuità di me stessa. Anche con Nicola è stato così, che mi sentiva invadente, ma adesso è lei che esce dalla parola d’ordine della riser­ vatezza e mi aggredisce, cioè smentisce i valori della sua riservatezza, scende sul mio terreno, cioè mi conferma nel momento stesso in cui intende smentirmi. In un primo momento invece di rispondere liberamente rischian­ do la rottura, come aveva fatto Nicola, mi ero messa a stendere una specie di analisi “obiettiva” della situazione che mescolava il richia­ mo alla mia sofferenza con le accuse, le autoaccuse, le concessioni, nel tentativo, inconscio, di commuovere e di trovare un punto di alleanza. Questo atteggiamento adesso mi fa raccapriccio perché ci vedo la mia particolare, camuffatissima forma di resistenza a un colloquio diretto.

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22 giu. Quanto sono stata paralizzata dairinferiorizzazione delle al­ tre che io non potevo immaginare. Gratificata, paralizzata, distrutta. Ma adesso che mi accusano mi si rivelano. Posso cominciare a gusta­ re in pace quello che sono, quello che ho fatto. 23 giu. Simone è così in gamba che quando arriva faltro (mio padre, Raffae­ le) troppo presto la mattina a Turicchi, lui lo accoglie in camera prendendo un atteggiamento discreto che gli nasconde le palle. Così tutto fila via liscio. La ragazzina di sicuro è tutta apparenza e niente sostanza, farà finta di pulire la casa e preparare, però poi mi accorgo che c’è una vecchia che può guidarla. Infatti ora che non è abbandonata a se stessa sembra darci sotto allegramen­ te. Aveva bisogno solo di questo. Felicita vuole andare a fare una passeggiata prima di pranzo con un’amica, afferro dove, quasi a Firenze. Ma si rende conto? Sì, si rende conto, ma in dieci minuti va e torna. Mio padre in cucina son^cglia gli ultimi preparativi del pranzo, è sorridente. Quando entra un tale e gli chiede qualcosa, lui risponde “Vin ciancio”. Quello non capisce e anch’io mi stupisco che non sappia pronunciare “Vin santo”. Forse la sua malattia è peggiorata, lui non se ne accorge o fa finta di niente. Quel tale rischia una gaffe insistendo.

24 giu. Cara Felicita, ieri notte ti ho sognata... Desidero essere conosciuta da te, mi affido al tuo metodo, la passeggiata. Temo che non valuti le difficoltà, ma tu sei sicura di te. Ho letto su un libro di alchimia “L’apparizione dei colori, la cosiddetta cauda pavonis significa, secondo la concezione alchimistica, la pri­ mavera, quindi il rinnovamento della vita - post tenebras lux — Ricordi il tuo sogno? Non riesco più a scindere la tua immagine da quella che ho visto nelle fotografie. Somigliavi molto a quando eri ragazzina, mentre piangevi. Chiedo a Simone al telefono dall’Elba “Mi vuoi bene?”. “Non ci pen­ so.” “A chi pensi, ai tuoi figli?” “No, a me stesso.” Ci siamo, come sempre ho paura di quello che io stessa ho provocato, e per il quale ho tanto lottato. Ma questa volta ne sono cosciente. Anche stasera gli chiedo “Hai qualcosa da dirmi?”. “No, niente.” “Va bene. Ciao.” Subito sono costretta a fare un esame di coscienza per vedere se mi

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“merito” questo trattamento. La conclusione è che non lo merito. È la disapprovazione silenziosa di Simone che mi fa sentire la mia scel­ ta di stare a Milano come una bravata. Tito è arrivato all’Elba oggi credendo che fossi lì e adesso è Simone che accudisce a lui. Anzi, più che la disapprovazione è la minaccia di rappresaglia contenuta nella disapprovazione. Lite con Gloria: quando non ci si capisce è importante almeno esprimersi, così non si resta abbacchiati. Sono contenta di essere riuscita a dirle, anzi a gridarle, ero arrabbiata e non lo nasconde­ vo, che mi fa uscire dai gangheri la sua aggressività repressa che si traduce in continue “insinuazioni”. Per esempio, quando mi ha fatto l’oroscopo la prima volta mi ha detto che sono terribile, con­ flittuale, distruttiva, e io accettavo tutto. Stasera riprendeva gli argomenti dell’oroscopo in un modo provocatorio, sempre però con la vocina dolce e il fare melenso. Mi riportava non l’orosco­ po, ma indirettamente i suoi sospetti su di me: non si prendeva la responsabilità delle sue osservazioni, ma le riferiva all’oroscopo. Come Paula prova senso di colpa a staccarsi da Rivolta - adesso va a un gruppo di femministe - e preferisce credere che io non voglio, e quindi detestarmi, che accettare il suo bisogno. Mi dà un ruolo oppressivo. Alla fine, quando sulla porta le ho detto che non mi dispiace affatto che vada al collettivo, anzi sono contenta per lei, pura verità, è apparsa molto sollevata. Come faceva a negare allora di sentirmi come una madre che non solo deve dare il permesso, ma allearsi con la figlia nei suoi gesti di autonomia. Non ha capito che nessuna può uscire da Rivolta senza uscire dalla ricerca di sé. Rispetto al diario di Valeria il mio mi appare inutile, a meno che ripescare qualche sprazzo vivo in un cimitero di ragionamenti non possa essere indicativo dei pericoli a cui sulla mia stessa strada si va incontro. Oggi parlavo del mio rapporto con Sara a Gemma e dello scontro con Gloria a Isa, ma a che mi serve? Anche se mi rassicurano con una visione esterna delle cose il danno ormai è fatto, su di me intendo. Che non mi si ripresenti qualcuna con l’adagio “Ti sento superiore, sono inferiorizzata” sperando nel mio panico, perché scarico su di lei tutto quello che non ho potuto scaricare sulle altre. Dunque, in sintesi: non parlare più con nessuno di quei disgraziati rapporti e, chiamando a raccolta tutto il mio coraggio, passare oltre.

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È tipico del mio modo di sobillare quelle che mi accettano il fatto che riferisca loro le opinioni di quelle che non mi accettano. Mi è indispensabile mettere la pulce nell’orecchio contro di me, perché quello che deve succedere succeda e non si dica che io mi sono adoprata perché non succedesse. A venticinque anni, età di Valeria, ogni atteggiamento possibile si sovrappone a un’immagine desiderabile di gioventù. Mi chiedo se non diventi pietosa per forza una donna di quarantaquattro anni che rivela sue attuali irrisolte difficoltà, anzi, che questa difficoltà è un eufemismo, sue paurose frane. Sono troppo fragile come donna in declino per non nascondermi. Eppure devo trovare la forza. Mi è indispensabile accompagnare l’ammissione di un bisogno con un progetto per soddisfarlo. 25 giu. Il distacco da Tito mi rende libera di suicidarmi, se voglio. Spero che Sara si vergogni un bel momento di accusarmi e che la vergogna la indebolisca come ha indebolito me. E che alla fine mi capisca. Dunque io sono quella, paladina dell’altra in cui mi rico­ nosco, buona a tutti gli usi pur di fare andare la barca in porto, non sono l’altra che mette piede nella mia barca, e lo accetto finalmente ore 13,30 del giorno 25 giugno 1975. Io l’accompagno per mano e dico “Eccola, è in lei che mi sono riconosciuta, non nell’uomo, la mia alienazione è finita”. Compiuta la testimonianza dell’altra posso co­ minciare la mia vera vita. Mi sono liberata dell’altra, dell’uomo e del mio ruolo. Adesso posso affermare me stessa direttamente. 26 giu. Finalmente ho anch’io contatti con quel tale, un medico che in casa dà anche lezioni private, e me ne innamoro. La cosa mi pare reciproca e mi chiedo come fare a provocare rincontro. Intanto è sera: si mettono a letto i bambini, anche noi stiamo per andarci. Mio padre viene ad aggiustare una lucetta piccola in camera. Il medico lo vedo dal mio letto che dà lezioni. Si è piazzato lì per potermi guardare, ne sono certa. Ma il grosso della gente va al piano di sotto: c’è tanta tanta folla. Ci vado anch’io, e lì l’opinione sul medico, che su mi pareva buona, è non dico negativa, ma terrorizzante. Dopo molte resistenze ce la faccio a farmi raccontare da qualcuno, specialmente Lorenza è allarmata, anzi è lei che l’ha scoperto. Insomma il medico taglia la gola o non so che, ma in modo che sembri un incidente, tant’è che finora nessuno se ne è accorto. E non c’è neppure da accusarlo perché è un pazzo, e all’improvviso perde la testa. Orrore. Capisco

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che devo subito tornare di sopra a svegliare Lucia che dorme e portarla lì - solo lei ci è rimasta, tutti sono giù all’aperto, compresi i bambini con il lettino come all’epoca della guerra. Il medico le farà sicuramente la festa, non può non appro­ fittare della situazione. Sono piena di angoscia, corro qua e là in mezzo al picnic e alla folla per incontrare qualcuno disposto a tornare con me a svegliarla - e ora mi sembra che devo scendere per andare dov’è lei, contrariamente a prima. Alla fine vedo Cesare e lo fermo tutta concitata - la mia idea di sedurlo è sempre latente - e gli spiego la situazione. Ada lui è un po’ distratto e non mi prende sul serio, non vede il pericolo, ecco tutto, e non acconsente affatto a scendere da Lucia. Con una certa incoscienza se ne va. Io resto in preda al panico. Nella stradina del paese una coppia mi ferma e con una forbicetta appoggiata al polso l’uomo è molto minaccioso, ma mi sembra di ricordare che è solo apparenza, in realtà vuole comprare un braccialetto, e io sono pronta a guardarmi in giro e a indirizzarli verso un negozio di ferro battuto dove troveranno quello che cerca­ no. Scampato pericolo. Ma è poi vero? Quei due sono tedeschi come quello là sotto, cioè dei sadici torturatori, però io il medico lo amavo ed è un mostro. Forse lo amo ancora. Però non posso scendere a chiamare Lucia, portarla di sopra e salvarla perché non posso neppure pensare di incontrarlo da sola, ormai sono a conoscenza del suo lato bestiale che certamente sfogherebbe su di me - perché c’è un sottinteso fra noi, un’ammissione di desiderio. Sono terrorizzata: non pos­ so fare niente per Lucia che dorme, innocente, alla mercé di un depravato che la ucciderà. Questa prospettiva mi risulta insopportabile, ma ugualmente senza la presenza di un qualcuno, un uomo, non posso scendere dabbasso.

Anche adesso che scrivo semiaddormentata ho l'impulso di guar­ darmi alle spalle perché lo “sento” lì. Isa aveva detto qualcosa a pro­ posito del mio amore per il padre da cui deriva l’interesse per le sorelle. Io avevo ammesso, ma con la sensazione che fosse stato svelato un profondo e compromettente segreto. Prima di ripensare al sogno, appena sveglia mi dico che questa ar­ monia tra noi quattro amiche è vincolante, vorrei riuscire a rompere lincantesimo: io riesco sempre e solo a creare delle atmosfere così, e poi non posso che restarne prigioniera. Ieri sera ho pensato “Forse Angelina dopo essersi confidata con me, si aspettava qualcosa: vi­ sto che non c’è stata, forse medita, inconsciamente, di respingermi”. Questo pensiero mi angustiava un po’ e mi sorprendevo a concludere “Se l’ho pensato succederà”. La rabbia che ho provato per Gloria era che lei da un lato mi richiamava al ruolo, e che lo facessi bene,

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mi raccomando, dall’altro mi rifiutava. E così ho visto la trappola ignobile in cui sono sempre andata a cadere, per essere sensibile a ricatti del genere, è vero, ma è altrettanto vero che qualcuna era lì a farmeli. Allora non ci ho visto più, o ci ho visto per la prima volta molto chiaramente. Premessa al sogno: ero stata da Matilde, non c’è dubbio che volevo stabilire un contatto amichevole con suo marito (dimenticavo: al pomeriggio Regina mi aveva detto che una sua amica le ha con­ fessato che Simone le piace e “vorrebbe farselo”: mi è venuta una gran rabbia verso quella tipa che credo di sapere chi è). Dunque, il dottore del sogno è mio padre (l’uomo sposato), io ambisco al suo amore. Mia madre, la Lorenza del sogno - Lo(re)nza - me lo vieta, così io trasformo l’amore in paura di amare, il tabù si costruisce nel­ la notizia che me lo fa apparire come un mostro che può uccider­ mi. Il fatto che Lucia gli sia rimasta nelle grinfie è un prodotto della mia gelosia: ho paura che lui ami mia sorella invece di me - ecco che compare Cesare che è la figura vivente di quella mia paura rea­ lizzata -: io devo salvare mia sorella, ignara, dall’orrore di un strage. Noto che mi dà sempre fastidio quando sento dire che un uomo, anche a me sconosciuto, ha simpatia per un’altra, e ieri sera Luca era affettuoso con lsa e la faceva sedere vicino a sé a tavola così come manifestava interesse per le altre commensali più che per me. Mi meraviglia moltissimo che sensazioni all’apparenza poco incisive, nel caso di ieri, fossero però abbastanza mie tipiche da ri­ chiamare tutto l’intrico che gli sta dietro. Ora l’immagine che mi ha riempito di orrore è quella del mostro che taglia la gola alle ragaz­ ze, ribadita dall’immagine della forbicetta sul polso del tedesco, non c’è dubbio che allude alla castrazione, tanto più che quest’ultima immagine rimanda al braccialetto, simbolo, se non sbaglio, del sesso femminile. Allora il veto della madre insinua la minaccia della punizione che lo rende efficace. Questa minaccia opera la tra­ sformazione ai miei occhi dell’uomo da amabile a torturatore e ca­ rica l’amore di terrore, cioè lo inibisce. Allora la mia gelosia diventa apprensione per la sorella a cui devo rivelare il pericolo mortale che sta correndo. Ecco che sono riuscita a ribaltare l’antagonismo in alleanza contro l’uomo. Ma l’uomo non è quel mostro del sogno, ovviamente; resta il fatto che è davvero un oppressore. Dunque l’Edipo carica di pathos la lotta fra i sessi. Serve, ma va smaltito.

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27 giu. Sono stata rapita e anestetizzata. Quando mi restituiscono, una tale, una grassona, mi fa notare che ho il corpo tutto graffiato, quasi tatuato: c’è an­ che la sigla “Noi” di una banda particolarmente efferata. Adesso mi sta venendo paura davvero: quelli non mollano, mi ripescano di sicuro. Sono molto grata alla grassona che è una mezza monaca, e comunque in buoni rapporti con il clero; provo una specie di voluttà all’idea di mettermi sotto la loro protezione, sono così potenti, sarei sicura per sempre. Provo la voluttà di un’azione che mi ripugna e solo la paura rende allettante. Intanto la grassona, e lì mi casca, si rivela un’affarista: tira fuori certi slip di filanca blu, li espone in un banchetto da mercato e, certo, pretende che noi glieli compriamo. Chiedo il prezzo: mille lire; è tanto, ma ne prenderò quattro, no, sono troppi, due per Tito. Intanto incontro Lamberto, solito ex-amore mai estinto, mi rassicuro e gli dico in quali pericoli mi trovo. Lui comincia a lamentarsi dei tempi che corrono, io intanto sospetto di certi tipi intorno a me. Sono su un largo viale, a Firenze, suppongo, e sto andando ad andatura non troppo sostenuta su un materasso volante che funziona da automobile. Questo desta ostilità: una coppia si butta sul materasso, mi insulta e sbeffeggia, io cerco di accelerare il materasso, ma non è possibile, quelli cercano di farmi cadere dandomi calci con grossi zoccoli di legno. Lei è particolarmente sfrenata, sgam­ betta per colpirmi, io mi vedo a mal partito e penso che non c’è niente di peggio che queste coppie della “maggioranza silenziosa”.

Ora che non ho più bisogno dell’illusione di affinità (“Quella mi è affine, l’altra no”) mi sento disponibile a tutte quelle che si sentono disponibili a me. Mi ha fatto bene il chiarimento con Gloria e so­ prattutto la rabbia tirata fuori. Anche con Nicola. Ora non ci penso più e non ce l’ho né con Luna né con l’altra. Simone mi dice al telefono che Kissinger ha fatto un discorso dove afferma che l’America vuole essere amica di chi le è amico, nella stes­ sa misura, non di più. Posso capire la politica come un riflesso della psicologia e dei conflitti individuali. Le nazioni forti fanno dell’im­ perialismo, cioè si intromettono nella situazione di quelle deboli per dare loro un assetto che confermi i valori in cui le forti si identifi­ cano. Da un lato le nazioni deboli ricattano, dall’altro respingono; per esempio nel Vietnam c’era questa spaccatura tra filo-americani e filo-cinesi. Quindi la stessa cosa degli Stati Uniti vale per la Cina.

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Ora, visto che aiutano, le nazioni forti vogliono essere riconosciute e trarne interesse. Così si arriva al lato deteriore dello sfruttamento ecc. La sconfitta degli americani nel Vietnam è, giustamente, una vittoria della libertà o di una maggiore libertà, poiché il modello della Cina sussiste, quindi i vietnamiti non si possono dire ancora liberi. E possibile che la Cina, in quanto modello non ancora contestato si illuda su di sé al punto di diventare a sua volta imperialista (nel tem­ po) ritenendosi indispensabile agli altri popoli in via di liberazione. E incredibile come la presa di coscienza sul piano individuale abbia dei corrispettivi sul piano politico. Anche lo stalinismo si può vedere in questa chiave. Così Sara sarebbe stata il mio Vietnam? Di sicuro non la mia Waterloo o la mia Stalingrado perché mi rifiuto di identificar­ mi con Napoleone o con Hitler. Mi identifico semmai con la Cina quando avrà ricevuto la sua prima contestazione. 28 giu. Cosa voglio fare di me e Simone? Lui dice “Partiamo dall’idea che possiamo lasciarci”. Cosa voglio fare di me e Tito? E assurdo, ma intendo cercare di riprenderlo con me. 29 giu. Caro Claudius, stasera sono tornata a casa con la sensazione di es­ sermi lasciata andare a un allettamento di altri tempi. Nonostante che abbia abbandonato la critica d’arte, finisco per compiacermi di essere quella che sono stata se tu hai faria di dare ancora importanza alla cosa, e solo a quella. Così torno nei panni di allora, ricasco nella stessa connivenza. Soprattutto perché mi sento impacciata su un altro piano. Il colpo d’occhio su quella tua amica critica d’arte mi ha disorientato: dunque non è successo niente, siamo al punto di prima; la richiesta è sempre la stessa. Finché osservavo l’immagine di me nel passato con gli occhi di oggi, potevo indulgere a una certa idealizzazione no­ stalgica. E potevo anche lusingarmi che, tramite te, una ragazza potesse avere trovato una certa apertura nel mio lavoro di critica. Ma quando me la sono vasta davanti ho provato una repulsa immediata per tutto l’imbroglio. Però non ero ancora ben cosciente che ce l’avevo con me stessa. E con quella di oggi, non di ieri. Insomma mi sono accorta di non essere stata chiara, di non avere davvero tagliato i ponti con quella connivenza perché anch’io ne avevo tratto un certo segno di distinzione a cui non mi era sembrato necessario rinunciare. E tu avevi ancora quel piccolo punto accantonato dentro di me su cui fare leva. Speravo che si estinguesse senza dovermi pronunciare. Ma tanto lo so che così non può succedere niente e che è solo un rimandare. Il mio mito dell’arte si basava sulla

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convinzione che lì si realizzassero le operazioni più liberatorie per l’individuo e sacrificavo a questa convinzione parte di me. Dopo non l’ho più pensato. Ero convinta che me ne saresti stato grato. Quindi lo pensavo ancora. Che non avresti avuto ricadute. Quindi restavo attaccata a un piccolo lembo di mito. Adesso non lo penso più. D’altra parte, la persistenza del mito aveva questo: che se tu eri un grand’uomo, io ero una gran donna. Una donna particolare, e que­ sto è stato duro a morire. Sei in causa non solo te, ma anche altri, naturalmente, però tu sei stato il più fidato compagno di questa transazione. Così ho capito che per farla finita con il grand’uomo, dovevo farla finita, ed esplicitamente, con la gran donna.

30 giu. Non ho provato emozione rivedendo Simone, solo rabbia per essere costretta a imbarcarmi nella storia dei suoi figli anche quest’estate. Ho simpatia per i figli - Silvia ogni tanto mi è ostile e questo mi disturba - però cosa faccio con loro, con le giornate da programmare per i loro desideri, con questo padre che paga il senso di colpa facendo da balia a ragazzi e ragazze in età da marito? Chi è quello lì? Che vuole da me? Cosa devo spartire con lui? 1 lug. L’unica gente decente è quella senza figli, i genitori sono in­ sopportabili. Comunque ero io che cercavo il padre, non devo dimen­ ticarlo, ed è anche giusto ringraziare Simone se l’ho avuto. E rivivevo la mia gelosia in un clima di trionfo per me. Adesso che quella fase è passata, mi resta solo la scomodità di un uomo preso dai figli tutte le estati, con un netto rifiuto da parte mia a passare al ruolo di madre, col che mi affiancherei a Simone, ma appunto non è quello che vole­ vo. Come faccio ad andare avanti in questo modo, a sopportare tutte le scocciature di questa convivenza: tra ragazzine esigenti, e il senso dei loro inviolabili diritti, con le quali non posso comunicare perché parlano solo inglese, e Simone che le incoraggia nel suo irrefrenabile bisogno paterno. Basta, sono satura per quello che mi sono procurata con le mie mani. Ho anche troppa scontentezza per potermi occu­ pare di Tito, così mi rintano in me stessa ribollendo di oscuri risenti­ menti che finiscono per coinvolgerlo. La campagna che adoravo fino a quindici giorni fa, mi è indifferente: tanto mi piaceva sognarne i frutti, tanto adesso che comincio ad averne non mi passa neppure per la testa di mangiarli. E proprio vero che il mio tipo psicologico non ce la fa a mietere quello che ha seminato.

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Con le amiche, quando avevo delle premesse da difendere, per difen­ derle mi lasciavo in qualche modo calpestare. Come se stesse a me dimostrare che era possibile quello che finora era stato ritenuto im­ possibile. Adesso difendo soggettivamente la mia verità, ma senza la pretesa che possa trasformarsi in quella delfaltra, diventare una sua premessa. Le accuse mi servono per prendere coscienza della realtà dell’altra che mi riporta ai limiti della mia realtà. Insomma, l’ango­ scia prima era collegata al senso dell’aut-aut: o lei o me, una delle due mentiva e sarebbe stata sbugiardata. Le accuse erano: o vere o false in assoluto. Non sento più l’accusa come qualcosa che tende ad annientarmi, ma come il mezzo più efficace per farmi capire quel­ lo che spontaneamente non posso capire; invece di logorarmi in un tentativo mio, razionale, di conciliazione a priori, e tenere dentro una specie di vittimismo, oppure prendendo l’accusa come un fatale segno di rottura. Ho fatto un giro di boa quando ho scoperto di essere felice della felicità di Tito in queste vacanze comuni. Sebbene senta lo spo­ stamento del centro di interesse da me a lui come un’alienazione (alienazione d’amore) la accetto temporaneamente come necessa­ ria e conseguente al fatto di avere un figlio. Cerco solo di non farmi assorbire del tutto. 5 lug. Il momento terribile è stato strapparmi alla concentrazione su di me: una volta fatto il passo trovo gratificazioni, gioie e non soffro più tanto. Sto in una bella casa con tutte le comodità, circondata di affetto e di premure con le persone che amo di più, ma non riesco ad accettare la mia condizione: una giornata programmata al di fuori dei miei desi­ deri mi sembra un insulto tremendo, qualcosa che fa impazzire. L’as­ surdo è che non ho alternative che stiano al pari di questa: tutto ciò che riesco a prospettarmi è incredibilmente squallido, ma mi attrae proprio come sinonimo di autonomia. Mi creo un alibi pensando che alla mia età tutto questo non ha senso, che sarei sempre perseguitata da rimpianti e nostalgie, dai fantasmi delle persone amate, d’altra parte questa vita mi opprime, e non riesco a crederla mia. Sento an­ cora un grande stacco tra ciò che penso e ciò che posso fare. Io sono per le soluzioni nette e da quando ho il figlio non ho potuto che fare compromessi, prendermi piccole porzioni di un intero a cui rinuncio

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continuamente. Ormai sono abituata alle crisi che accompagnano le mie rinunce e agli sprazzi di euforia che seguono le mie vittorie. Ma questo continuo oscillare tra le une e le altre mi dà l’impressione di sprecare tutte le mie energie a tenermi in sella durante le inversioni di marcia. 7 lug. All ’imbrunire sono per strada con una ragazza bisessuale del nostro gruppo. A un certo punto le prendo il viso fra le mani, la bacio dolcemente, le dico “Tesoro”. Mi si spalanca una sensazione meravigliosa: è la parola “tesoro” ad avermi illuminato tutta una possibilità di rapporti, di accordo, di effusione. Mi sento all’unisono con lei che ha una statura e un visino quasi infantili. Con­ tinuiamo a camminare: non discuteremo più, tutto d’ora innanzi sarà diverso. 8 lug. Sono a colloquio con una donna molto esigente e spirituale. Sullo sfon­

do, Pasolini: lei è una sua carissima amica, quasi una sorella. Parliamo, mi sento scrutata da lei. A un tratto dice che le interesserebbe entrare in un gruppo fem­ minista: vorrei tanto che entrasse nel nostro, sarebbe una ricchezza straordinaria per noi, e io ne andrei orgogliosa. Non oso dirglielo perché potrebbe giudicarmi male. Devo muovermi con i piedi di piombo. Sono anche felice che si riveli così vicina a noi (sono lì con altre femministe). C’è un’interruzione, poi il colloquio riprende. Le parlo di Gemma che, sebbene timida, ha ottenuto un tale distacco da potere parlare in pubblico con fermezza e padronanza, dunque non per doti naturali, ma per una sopraggiunta sicurezza di sé. Capisco di avere fatto centro, lei ha afferrato la sfumatura ed è proprio quello che aspettava per dissipare la diffidenza. Pasolini sullo sfondo tace, non so neppure se ha ascoltato, è un pec­ cato lasciare cadere questa occasione con lui, ma è già tanto che sia lì presente.

10 lug. Nella bella stanza-negozio interamente bianca sotto il nostro apparta­ mento hanno rubato tutto. Devo ancora rendermi conto del danno: la macchina da scrivere elettrica, quello è sicuro, poi radio, e chissà quant’altro. Un ragazzi­ no in jeans si aggira tra dei resti coperti di cellophan: è lui il ladro, l’ho beccato. Lo agguanto, gli giro un braccio sulla schiena come ho vasto fare nei film. Lo spingo verso la porta a vetri che dà sulla strada. Quello sembra sorpreso, sor­ ride quasi sfottendo. Per fortuna, nella bella mattina estiva sulla piazza davanti al negozio c’c una guardia insieme a una festosa ragazza: li chiamo, gli affido 11 bricconcello; accertino loro se è colpevole. Poi sono con Simone al piano di sopra: ricordo la storia del furto e gliela dico “Perché hai aspettato tanto?”. Non so che rispondere “Ma no, me ne sono accorta appena adesso”. Chissà quanto

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è dispiaciuto del danno! Poi siamo sotto. Entrano diversi tipi, sono dei mafiosi al corrente di tutto nella malavita, potranno aiutarci, confabulano con Simone. Penso che è compromettente avere a che fare con tipi così, ma lui sa quello che deve dire e come comportarsi.

Ho finito di leggere £elda, un libro che non dimenticherò. Quando ho avuto coscienza dell’odio di Sara, ho immediatamente lasciato la presa sulla sua “onestà schizofrenica”, mi sono contentata della mia. Non ho usato di Sara. Potrei dire che lei me l’ha impedito, ma non è solo così: io non l’ho voluto, fin dall’inizio non faceva parte dei miei piani. Sara mi offriva l’esca, mi faceva sentire qualcuno per lei. Poi mi ha rivelato l’inganno. Una persona dipendente e adorante, com’era lei all’inizio, ma alla maniera di Zelda e cioè sembrando for­ tissima, mi faceva ritenere acquisite quelle doti che lei vedeva in me e che in parte erano sue, così come quelle che io vedevo in lei in parte erano mie e io la illudevo che fossero sue, la illudevo di potergliele e volergliele trasmettere. Quindi la mia sicurezza (volontaria) richia­ mava la sua dipendenza, il suo transfert richiamava il mio transfert, così perdevo la sicurezza, lei perdeva la dipendenza e interrompeva il mito dell’affinità. Fitzgerald non poteva ammettere troppo, ne an­ dava della sua vocazione di scrittore su cui si era arroccato; io sacrifi­ cavo la mia illusione nel femminismo, ma ero abituata a lasciare pur di salvare me stessa. Cara Felicita, nelle lettere mi dici ripetutamente che mi vuoi bene, ma io mi sento respinta come elemento di disturbo nella tua visione dei rapporti, in­ fatti sono invitata a introdurre le opportune modifiche per non guastare. Capisco che con David si sia realizzata un’intesa come la volevi, ma proba­ bilmente perché anche lui la voleva cosi, gli era congeniale. Quello che trovo strano è che con me tu cerchi di saltare a piè pari quello che è, per affermare “Ecco come dovrebbe essere!”. Non ti accorgi quanto è diverso e comunque, ammesso che alla fine anch’io cos’altro posso volere da una relazione che vi­ verla il più serenamente possibile, devo riconoscere di essere ancora lontano da quello stadio dove le personalità risultano armonizzate. E allora? A questo punto non capisco neppure più cos’è volersi bene. Cos’è? Vorrei crederti, dir­ mi “Felicita lo sa, si appella sempre a quello, fidiamoci di lei”. Ma non posso, e mi viene un altro dubbio: che tu adoperi quel termine come sinonimo di qualcos’altro. Parli con me ma non mi vedi veramente: sei tutta occupata a

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parare i miei possibili colpi. Temi ancora la mia disapprovazione e sotto sotto me ne vuoi per questo. Cerchi di svalutarmi ai tuoi occhi e ne scaturisce tutto questo affetto riparatore. Mio dio, non dovevamo metterci su questa strada.

12 lug. In fondo il femminismo ha chiarito alle donne i motivi della loro scontentezza con gli uomini. Così la scontentezza si è spostata fra donne. E le coppie si sono rafforzate. Cara Felicita, al mio rapporto con te metti molte condizioni: sull’intensità, sul­ la conoscenza, sul modo. Non pensi che a questo punto dovrei essere lasciata libera di concludere da sola circa i tuoi sentimenti? Da un lato mi contesti, dalfaltro ti affretti a prevenire l’effetto che possono avere su di me quelle contestazioni. Cosicché io resto confusa e letteralmente imbrigliata. Per esempio, mi scrivi che a volte ti sembro “una santona, una professoressa dell’autenticità”, poi metti un punto esclamativo per chieder­ mi di sorridere con te di queste definizioni, sorvolando sul fatto che la loro efficacia deriva da un’insofferenza verso di me della quale posso anche non sorridere. Non subito. Non per rassicurarti, comunque. Non senza avere ri­ cambiato. Secondo me non sei né infantile né superficiale (altro vincolo che metti alle mie reazioni, quasi a prevenire di peggio): sei ambigua e mi tieni in una situazione difficile, o anche lasci a me il ruolo difficile. Cioè quello di affrontare la cosa fuori dalle garanzie affettive. Sai quand’è che la mia inten­ sità ti dà fastidio? Quando mi scatta per tamponare le falle che temo si siano aperte fra noi (ma è una reazione che ho in generale). Adesso che gli ho trova­ to un riscontro nelle tue profferte affettive, posso dirti a cuor leggero quanto mi siano antipatiche queste e quella. Insomma sono debolezze, insicurezze chiamale come ti pare, e si può accettarle quando sono ammesse per tali, non prima. Prima sono solo autoprotettive nelle intenzioni, e corrosive negli effetti. E non c’è passeggiata che tenga.

13 lug. Con Simone mi sono inoltrata incautamente in un negozio di fascisti: ho una borsa di scritti compromettenti. Quelli, naturalmente, mangiano subito la foglia: sono perduta, sono nelle loro mani. Apro la borsa, anzi tiro fuori un plico spontaneamente; avrei potuto farne a meno, ma nella foga un po’ sventata che mi ha preso, ho finito per vuotare il sacco. Tanto meglio. Passato il primo istante di terrore, cerco di ingraziarmi i commessi fascisti, non mi resta altro: sono dei tipi un po’ naïfs, basta fingere di stare dalla loro parte, assumere un’aria di solidarietà a oltranza, ecco di cosa hanno bisogno per rivelarsi dei bravi ra­

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gazzi, insicuri e un po’ corti di intelligenza. Così prendo un atteggiamento molto buono, onesto, fidato, sottomesso, zelante, ma con un certo orgoglio che mi pare necessario. Sono sempre a casa di Matilde, adesso esagero. Incontro in un corridoio Luca, suo marito, che si sta vestendo, mi saluta gentilmente, ma io sono a disagio: senza accorgermene mi sono inoltrata nel reparto camere. Che indiscreta, deve essere mattina presto! Com’è grande quella casa! C’è tutta un’ala con un salone dove ora ci sono uffici, ma è uno spreco tremendo! Nel salone si può fare il soggiorno: è un po’ buio, mal esposto, ma con una bella illuminazione artificiale sarà godibilissimo, forse meglio addirittura del mio soggiorno pie­ no di sole in via Monte di Pietà. Incontro di nuovo Luca, non più in camicia bianca, ma in camicia rossa, molto elegante: mi saluta come se non ci fossimo visti prima. Vado in cucina, c’è la cameriera, mi dà soggezione, penserà che sono sempre tra i piedi. No, la signora è già in ufficio. Poi con Gemma, Isa e altre siamo in un bar-rosticceria, io davanti a un piatto di fettine di carne alla cacciatora come le fa mia madre: di mattina è un po’ troppo, almeno la metà vorrei cederla a qualcuno, ma pare che nessuno ne voglia. Arriva tutta allegra Matilde elegante in gonna nera con corpino colorato e collane, fresca come una rosa, le braccia nude. E lì per fare uno spuntino insieme a noi, appena l’ha saputo è corsa, che idea meravigliosa questo spuntino. C’è anche un juke box spento, ma dà tono al bar. Tutte guardano sul banco e cercano di scegliere cose buone.

14 lug. È la seconda volta che c’è un’invasione nemica, devo regolarmi come

nella precedente e tutto andrà bene. Spegnere le luci è la cosa più importante per difendere me e il bambino che dorme tranquillo: le pareti sono trasparenti, saremmo subito visti. Però c’è una luce di cui non riesco a trovare l’interruttore, questo crea un problema perche non so come spegnerla. Mi accorgo con allar­ me che non sarà affatto come la volta precedente.

Sono ancora incerta se spedire a Felicita. 15 lug. Ester è lì, davanti a me, carina: ha gonnellina, carnicina, borsina il cui manico tiene stretto nelle manine. Ha uno stile di abbigliamento molto diverso dal mio. Sono contenta che non sembri vecchia. Però poi si rivela un folletto che fa i comodacci suoi: mette il piede su una mensola di marmo, le grido uEhi, attenta!”, ma lei insiste con il piede e la mensola si spezza. Sono furiosa.

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Il gesto di Ester mi sembra gratuito come mi sembra gratuita la mia reazione a Felicita, ma inevitabile, quella luce che non riesco a spe­ gnere dell’altro sogno. Cerco di scriverle un’altra lettera, di parlarle d’altro, ma non mi viene niente. Mi chiedo perché devo trattarla du­ ramente proprio adesso che mi ha rivelato il suo affetto a cui credo. Anche con Paula mi è successo così quando ho letto sul suo diario che mi voleva bene davvero. E un mettere alla prova? Stanotte rimugina­ vo i miei rapporti con le amiche e concludevo di avere amato solo e veramente Sara, cosicché lei ha rifiutato solo e veramente me. 16 lug. Devo andare a Milano, ma all’ultimo momento mi metto a cercare

delle carte, degli scritti e perdo tempo. Il treno è verso le 9,30, sono già le 9 e io lì a cercare. Quello che cerco è importantissimo, ma non lo trovo. A Milano sarò con Tito e anche mia cognata, che però ha fissato l’albergo, peccato perché io lì ho l’appartamento, avrei potuto ospitarla. Mia madre assiste ai miei preparativi alla partenza che diventa ogni momento più improbabile. La cosa strana è che l’azione con mia madre si svolge nel mio appartamento di Milano.

Voglio andare in un luogo come quello in cui sono, però senza ma­ dre? Devo liberarmi del ruolo materno per essere me stessa? Gli scritti sono questa lettera a Felicita che non mi decido a spedire. La maternità è una dilazione senza fine alla realizzazione di sé. Da che ho Tito i miei sforzi sono sempre stati infruttuosi o temporanee scappatelle che non mi hanno portato alcuna certezza sulla mia vita visto che dovevo comunque tornare all’ovile. Quando scopro che Felicita è preoccupata di convincermi che mi vuole bene, sono assolutamente tentata di sfidarla su quel punto. Metterla alle strette. Perché non sopporto che si gratifichi a mie spese. Cioè sorvolando sulla conoscenza di me. Leggo la Mansfield e m’incanta, tocca corde molto sensibili del­ la mia femminilità, il suo oscillare e farsi trasportare mi deliziano: più: mi sembrano una verità. Ma io, con il mio cervello arroccato in qualche punto tra l’esigente e il realistico, tra il rinunciare, il con­ statare e il fare come se volessi, sono una mistura ben differente. Perché scrivo questo a Felicita? Perché ho fiducia in lei, suppongo. Temevo l’odio di Sara, non quello di Felicita. E Paula? L’affetto che lei mi porgeva a quel punto lì lo sentivo una trappola che non mi lasciava libera di esprimere la mia sofferenza, mi voleva subito all’altezza della

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situazione senza che potessi ricambiare i suoi rimproveri, il senso che aveva approfittato di me quando le era convenuto. Con Felicita non ho neppure questo appiglio: non ha approfittato affatto di me. Rileggo ancora una volta la lettera a Felicita, che tormento! Da un lato è tutto assurdo: che bisogno ho di sfidarla? Eppure non posso essere la sola a sapere che dubito e lasciare lei all’oscuro. 17 lug. Cara Felicita, è bellissimo che tu mi voglia bene, e poterlo accettare. Ecco che a questo si spalanca un vero Eden di delizie. Che sono poi quelle a cui tu fai riferimento nella lettera. Adesso mi accorgo che avevamo gli stessi timori: tu sentivi le mie riserve sul tuo lato infantile e superficiale, io le tue sul mio lato tormentalo e aggressivo. Forse questo riproporrà sempre un problema fra noi due, basta però che ciascuna si senta libera di essere come le viene e di amarsi, appunto, come siamo. Quello che conta è la coscienza, non il carattere. Il mio problema è quello eli essere amata nella mia aggressività. E soprattutto di capire che anche l’aggressività è amore (frustrato). 18 lug. Tiro avanti, ma soffoco, mi annoio da morire. Accidenti all’estate! E pensare che da ragazza mi mandava in estasi. In que­ sto angolo di paradiso mi viene la claustrofobia. Per tranquillizzarmi devo fare il calcolo dei giorni. Oggi spedisco a Felicita. Lo faccio adesso che ho superato quel mo­ mento: è come un volere accompagnare lo scritto con un magnetismo del tutto differente, per compensare lo squilibrio emotivo della lettera. Certo che non mi piace perdere il controllo sulla situazione, non mi fido poi così tanto della realtà e dei suoi possibili scherzetti: suppongo che, specialmente quando si fanno certi passi, è bene tenersi pronti, non farsi prendere alla sprovvista. Insomma, ho spedito. Ho consegnato la lettera all’impiegato e io mi sono sentita subito bene. Quello che mi mette a terra è proprio la dimensione affettiva come clausola di un rapporto coatto. Almeno per Sara era passione, amore, adorazione (certo che lei doveva sen­ tirsi prigioniera lo stesso, ma almeno c’era una giustificazione davve­ ro emotiva), mentre nelle lettere di Felicita c’è quasi una deduzione: “Carla non è distratta su di me e questa è una cosa bellissima, e certo le voglio bene sennò non avrei così paura che lei non me ne voglia

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ecc.”. C’è un che di artificioso oppure di cauto, mentre subito dopo il vincolo affettivo appare in tutta la sua coercizione di impegno a mantenere l’idillio. Somiglia terribilmente a quello che io pretendevo da Sara ma, ripeto, con un’altra intensità. Adesso sono leggera. Ho comprato delle memorie di Guicciardini (un concittadino) e mi diver­ to moltissimo a leggiucchiarlo e, un po’ in omaggio a Felicita, Il tempo ritrovato di Proust. Cara Sara. La saggezza degli altri mi sorprende e mi incoraggia. Anche Pasolini, adesso mi appare sospetto perché nel fare le sue ana­ lisi sulla società attuale, nel mettere in evidenza i nuovi conformismi, che sono gli anticonformismi di ieri, ingiustamente inchioda anche me, noi, il femminismo ai primi gesti che inevitabilmente sono stati di ribellione. Infatti, se avesse intuito trattarsi di fasi liberatorie, non avrebbe tutto quel livore per i momenti distruttivi, non farebbe di tutt’erba un fascio, e non si appellerebbe alla ricostruzione di nuovi valori e soprattutto non ne darebbe l’investitura al PCI! Per Pasolini il rapporto umano è un valore, non una strada da percorrere, una scoperta da fare. Il discorso dei valori mi suona sempre intimidatorio come un reclutamento: infatti il mondo per cui vivo è quello in cui ciascuno è il valore. Posso dire: il mondo in cui vivo. Ribellione e ac­ cettazione, distruzione e costruzione sono la vita stessa dell’individuo: la società deve modellarsi sull’individuo, non l’individuo sulla società. E così anche il mito Pasolini, il mito del fratello è ridimensionato. E arrivata Nicola: all’apparenza tutto come prima, non accenna a parlare delle lettere. 19 lug. In un chioschetto Felicita parla con me: è graziosa e scherza in modo assolutamente normale. Felicita sta cucendo una spallina; mi offro di aiutarla, ci provo, ma la faccenda è un po’ complicata, fa meglio da sé. Poi Regina tutta felice mi mette al corrente delle sue future vacanze a Mestre o a Venezia, cerca di parlare veneziano, e lì è un po’ penosa, ma insomma va con gente giovane e simpatica e io faccio il confronto con me e mi sento scoraggiata dalla differenza. Sono triste per la lettera a Felicita. Stasera ospiti, i primi della sta­ gione; sono così annoiata che mi fa quasi piacere, però c’è da fare, preparare, e poi non so di che diavolo parleremo. E l’ultima estate che passo qui.

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Adesso sono rilassata perché il più è fatto ed è stato divertente lavo­ rare in équipe, anche Silvia è di buon umore, ha messo un vestito carino. Tito fila dietro a Simone che è il vero tesoro di noi tutti. Si pretende dagli altri qualcosa quando si crede di avere la chiave anche della loro verità. 20 lug. Ho saputo che Ester parla in giro e loda Autocoscienza di Va­ leria, e mi ha dato fastidio che lei abbia questa rendita di Rivolta da fare valere in società. Come sempre, se una cosa non mi va di farla io, non sopporto che la faccia un’altra al posto mio approfittando del fatto che io lascio quel posto vacante. 21 lug. Non vedo l’ora di potere pensare “Ecco, Felicita ha letto la lettera, adesso ho via libera ai rapporti con lei, se lei vorrà”. 22 lug. In ultima analisi il potere intellettuale si manifesta attraverso l’ideologia. 23 lug. Niente. Estate. 24 lug. Pasolini afferma che chi si droga riempie un vuoto di cul­ tura con un desiderio di morte, poi ammette di provare una forte e aprioristica antipatia per i drogati. Il fatto che sia antipatia rive­ la trattarsi di una difesa. In generale la mancanza di contatto con i diversi è la paura di scoprirsi contaminati dagli stessi impulsi, in questo caso l’impulso di morte. Arrivati a questo punto è un proble­ ma economico, la mia maledetta dipendenza economica. Non posso neppure prenderla troppo in considerazione, esasperarmici sopra, perché altrimenti salta per aria anche quel po’ di equilibrio raggiun­ to, psichico e materiale. Infatti non ho nessuna speranza di potere conseguire l’indipendenza economica a un livello per cui valga la pena e non intendo accorciarmi la vita con i disagi e le fatiche. Ne ho avuti fin troppi degli uni e delle altre per fare quello che volevo fare, ma appunto non comprendevano, anzi escludevano, soluzioni economiche. 25 lug. Sara è in California, tipo, e sta intrattenendo possibili rapporti di lavoro con Polanski. Penso che ha coraggio alla sua età non più giovanissima

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(ma ancora giovane, rispetto a me). Chissà che arriverà a combinare, in fondo la invidio.

Sono due, tre volte di fila che sogno Sara, le ricordo ancora meno di questa. Però il concetto è: temo di subire, di essere attratta da una me stessa che progetta cose mirabolanti che io non ho osato fare e mi dia il senso del fallimento. Con Felicita assisto a uno spettacolino di ragazze che imitano il varietà. Lei è indignata e la sua reazione mi sorprende “Se è così che lo vedete, allora è una mozzarellata schifosa”, o qualcosa di simile. Io ripeto a bassa voce la frase curiosa per non pronunciarmi. Felicita è tirata, acidissima: suppongo che mescolato allo sdegno ci sia dell’invidia, ma apprezzo come si scopre. Io sono più guardinga. Sto parlando con un’ingenua ragazza bionda con gli occhi azzurri (ma è poi tanto ingenua?). Mi racconta del marito e termina “Però il suo carattere m’in­ canta”. Io sto per replicare seccamente, ma la prendo un po’ più larga e co­ mincio “Certo le ragazze...”, e voglio dire che si spaventano tanto della forza dell’erotismo, che poi finiscono per sposare... e ammirare... al massimo un uomo mito. Da una villa di notte, il guardiano dà il via ai cani da guardia assicurandomi che non mi faranno alcun male. I cani sono uno bianco e uno rosso. Si lancia­ no verso di me e fanno paura a vedersi: quello bianco, grosso, con un testone, e soprattutto l’altro con una bocca a sega, tipo il lupo dei cartoni animati. Quest’ultimo con un morso potrebbe farmi scricchiolare sin le ossa. Invece è vero che non mi toccano: arrivati a me, tornano indietro e poi di nuovo ver­ so di me e di nuovo indietro. A un certo punto li accarezzo e quelli giocano festosi, però la mano mi resta prigioniera nel pelo della testa, e io un po’ in apprensione avverto il guardiano “Ehi ehi, qui mi hanno afferrato la mano, mi vogliono mordere”, ma il guardiano non mi prende sul serio, e anch’io sebbe­ ne titubante, sono propensa a considerare il fatto parte del gioco.

26 lug. Matilde, con voce timbrata di persona soddisfatta del suo viaggio, mi chiama per darmi appuntamento a Spoleto. Evviva! Cara Felicita, sai quand’è che ho registrato una insopportabile (per me) incon­ sapevolezza tua e di David nei rapporti? Quando mi avete raccontato che un

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amico, dopo avere dato di David questa definizione “metà geometra, metà Pla­ tone”, è diventato terribilmente scortese verso di voi. E che allora David lo ha rassicurato che la definizione gii era davvero piaciuta, non se ne era avuto a male, e l’incidente si è chiuso. Chiuso nel senso di chiusura vera e propria. In quella formula l’amico aveva espresso il suo conflitto con David, che è appunto un conflitto tra ammirazione (Platone) e conseguente denigrazione equilibratri­ ce (geometra). Dichiarandosi pago della formula David ha provocato nell’altro una nuova ondata di ammirazione che ha ristabilito il vecchio equilibrio da cui l’amico aveva manifestato di volere uscire. Accidenti, quei due non capiscono un cavolo, mi ero detta. Un altro episodio: quando David in campagna era stato colto di sorpresa dalla visita di alcuni rompiballe, quindi aveva reagito secondo lui in modo sgarbato. Diceva di essersi sentito come “in mutande” davanti a estranei. Insieme a te giustificava questa suscettibilità, e conseguente soluzione nel formalismo, affermando “Chi sono io per dare dei giudizi con il mio com­ portamento?”, e concludeva “E per un atto di modestia”. In tutto questo mi meravigliavo di Felicita, della sua adesione a David, non di David. La novità interessante è che nella reazione a questi episodi mi rendo conto di identificarmi in parte nell’amico, nella sua difficoltà a scuotersi un mito di dosso, e in parte in David e Felicita, nella loro solerzia a nascondersi i conflitti che gli altri possono avere verso di loro. Me la prendo un po’ più con questi perché adesso sono più irritata della mia debolezza in quanto “superiore” che della mia timorosità in quanto inferiore.

27 lug. Non c’è località al mondo dove mi senta così bene, così al mio posto come qui a Turicchi. 30 lug. Ricevo la risposta di Felicita. 31 lug. Sara mi aggredisce in modo sprezzante: non si può più tollerare il mio

comportamento, vado smascherata senza pietà tanto più che coinvolgo anche altre. Lei ha capito il mio gioco e sarà implacabile. Ma è matta? Cosa le prende? Non finirà più di perseguitarmi? Io mi sento sicura di me: capisco che mi odia e perciò interpreta nel modo peggiore tutto quello che faccio, tuttavia ho come l’irrazionale timore di venire sopraffatta dalla sua rabbia e dagli argomenti che questa le suggerisce.

1 ago. Sono con Sara sempre animosa verso di me. Per il momento tace, ma lo sento che sta per lanciarsi sulla preda. Vedo una specie di sequenza di film

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in uno schermo: un uomo biondo, un nordico senz’altro, si tuffa lentamente in mare e con una mano tira giù, come giocando, un bambino accoccolato sulla roccia vicino a lui, lo dico senza pensare “Mi piace”, e non so cosa mi piace. Sara ribatte “Non mi piace l’ambiente”, ed è così sicura di sé e carica di sottin­ tesi, che io mi sento subito colta in fallo.

Sara sono io inappagata dalla risposta di Felicita, e quindi coinvolta in una vera offensiva interiore verso di lei? 2 ago. Stranissimo: nella notte mia madre ha avuto l’impressione che io aprissi la porta della casa grande di Turicchi dove i genitori sono alloggiati, salissi le scale ed entrassi di corsa nella loro camera per accostare il vetro della finestra rimasto troppo aperto. Anzi, stava per chiamarmi, poi ha preferito non interrompere un dormiveglia fin troppo leggero. Stamani l’ha detto a mio padre che anche lui ha avuto la stessa impressione. Ho interpretato il fenomeno come un so­ gno, cioè come l’espressione di un loro desiderio, riflesso di un senso di fiducia verso di me, e anche di un bisogno. Quest’estate non faccio che arrabattarmi per gli altri, chissà cosa cerco. 3 ago. Mia madre si lamenta sempre: mica si accorge di come tutti noi figli siamo legati a lei. Se è stata sempre così debole e indecisa da non avere mai fatto quello che ha voluto, da lasciare sempre Finiziativa agli altri, da essere continuamente scontenta di se stessa, ma che vada al diavolo. Mai che dica “Oh che bello, figli cari, figli miei!”. Sarebbe un guaio, se papà morisse doversela tirare appresso e centel­ linare con lei la sua sofferenza. M’importa assai se è orfana e tutto il resto, opportunità per rifarsi ne ha avute, ma si è guardata bene da coglierle. Stasera vedevo un servizio su Max Ernst alla TV e mi sen­ tivo come da ragazzina, inebriata all’idea di un altro mondo che poi ho fatto di tutto per rincorrere. Anche uno show di Yves Montand mi è parso delizioso, e mi sono subito innamorata di lui che solitamente mi appare un gigione insopportabile, e l’ho apprezzato per il modo spiritoso in cui invecchia, per l’ironia su se stesso, per lo stile. Quanto a mio padre, che dire? A ottant’anni pensa solo alla sua salute, e cioè alla morte. Ma almeno ogni tanto dice “Come si sta bene qui, fini­ rò per rimettermi completamente”, e mi guarda con gratitudine. A parte che è insopportabile in pubblico, nei negozi, nei ristoranti dove

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fa sempre certe esibizioni che mi raggelano, devo ammettere che se qualcuno sprigiona un po’ di ottimismo è proprio lui. Devo impedire a questi fantasmi di sopraffare l’esistenza degli esseri che popolano il mio presente. 4 ago. Mio padre è terribilmente ostinato nel volersi procurare una ulteriore trombosi: mangia in modo eccessivo per uno che prende ogni giorno vasodilatatori. Devo sforzarmi per ricacciare indietro immagini di un suo possibile colpo sotto i miei occhi: lui che si afflo­ scia sul piatto, la lingua ciondoloni dalla bocca semiaperta, gli occhi strabuzzati; lui che soffoca nottetempo e mia madre terrorizzata che viene a cercare aiuto da me; lui che si accascia al volante rantolando mentre la macchina sbanda sul ciglio della strada. Mi sembrerà un miracolo se non succede niente di tutto ciò. Mi impongo di essere comprensiva, ma non ci riesco. Stamani parlava peggio del solito, e come precauzione ha cominciato a girare senza cappello sotto il sole cocente del mattino come a dimostrare a se stesso di non avere paura, di non essere preoccupato. Eppure lo vedo che non è completamente padrone di sé e sfoggia una specie di testardaggine al posto della pas­ sata risolutezza. “La vecchiaia non esiste” è un suo motto. Mia madre gli credeva, l’illusione serviva anche a lei. Dopo la leggera paresi si è accorta di essere stata ingannata, mentre mio padre insiste a preve­ dere una completa guarigione. Non accetta di essere vecchio, fragile: tutti i sintomi della vecchiaia per lui sono temporanei incidenti da superare con un vitto ricco, abbondante che gli ricostituisca le forze. Mangiasse meno, si rassegnasse a una certa debolezza camperebbe di più e darebbe uno spettacolo più saggio. Comunque non faccio che pensare che la vita è uno schifo, davvero: conviene sparare tutte le cartucce in gioventù perché la decadenza fisica con traguardo la morte è una catastrofe a cui l’individuo può opporre ben pochi argo­ menti. Cadute tutte le illusioni alla fine la realtà appare nuda e cruda, e vince, stravince ogni risorsa culturale umana. Adesso capisco che l’arte è una risorsa in questo piatto mondo destinato a morire. La vita più intensa possibile attimo per attimo, non c’è altro. Fortunato chi riesce a vivere le illusioni, tanto se non lo fai non è che ti aspetta un destino diverso, o qualche ricompensa. Smascherare la vita, le illusioni non è altro che precipitarsi verso la morte.

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Ho telefonato a Simone, mi sono riagganciata al mio presente di adulta: il tuffo nell’affetto dei genitori si è rivelato per quello che era: un sogno. Quando mia madre mi ha accusato di avere nuociuto ai fratelli con il femminismo, le ho risposto, che è l’ora di smettere di trattare i fratelli come bambini, è inutile essere sempre evasiva. Ma siccome lei è davvero evasiva si è affrettata a sviare il discorso. E cocciuta come un mulo nei suoi punti di vasta e s’impietosisce sempre sui maschi. Siccome lei non è un maschio non parteggia per se stessa e le sembra un sopruso sul maschio che qualcuna lo faccia. Così avrebbe voluto che noi figlie riuscissimo nella vita con gli stessi metodi che hanno portato lei alla sconfitta e al vittimismo. In conclusione: è delusa di me perché non sono “riuscita” e mi rimprovera di essere comunque troppo aggressiva. Sottintendendo: a spese di altri. Cara Felicita, FaiFetto è la conseguenza delfaccettazione. Se viene prima della conoscenza è un sentimento riparatore. La cosa più emozionante è che tu ti sia affrettata a rispondermi mentre la lettera in sé è senza partecipazione: mi informi che quello che ti ho scritto ti addolora, ma che l’hai provato anche tu.

5 ago. Accettarsi è un processo, non ha mai fine, e così accettare gli altri. E soprattutto accettare la vita. Più vado a fondo più tutto diventa relativo. 6 ago. Certo, in entrambi i genitori detesto vedere ingigantiti lati che sono stati trasmessi anche a me. Il vaniloquio di mia madre, per esempio, il suo non sapere affrontare un silenzio imbarazzante. A questo punto lei comincia a parlare volubilmente di sciocchezze, tan­ to per rompere il ghiaccio e passare sopra. Anch’io tendo a fare così, specialmente mi succedeva con Raffaele, ma anche con Simone: è una forma di difesa femminile dalla violenza maschile, e la trovo in­ decorosa proprio nella sua apparente esibizione di invulnerabilità. Non posso vedere mia madre calpestata da mio padre, e lei che fa finta di niente. Così odio lui e disprezzo lei nello stesso tempo. Lo stile di mia madre nel subire è stata una delle impronte più dolorosa­ mente ambivalenti che mi ha tramandato. Oggi, dopo una scenata, mio padre camminava davanti a noi tutto risentito, e noi dietro par­ lando sottovoce per non irritarlo ancora di più. Come fa mia madre

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a meravigliarsi e disapprovare che io sia femminista, e ad attribuire alle mie idee quegli effetti deleteri sui fratelli che invece risalgono alla irragionevolezza dei rapporti tra lei e mio padre. Insomma, non li sopporto né lui né lei, e non vedo possibilità di farmeli piacere né ora né mai. Che strana allucinazione quella per cui li consideravo due amori perduti da riportare a me. Due amori perduti quando ero bambina, questo sì. Mi scopro stupida e infantile. Questa settimana di vita in comune mi ha fatto prendere coscienza. Verso di loro ho avuto la massima intolleranza da quando cominciano i miei ricordi. Lo attribuivo alla gelosia per le sorelle. No, la gelosia mi ha confusa, distorta, protetta, ma sono loro, per come sono fatti, ad avermi de­ lusa, allontanata. È un dato di fatto reale quello che mi impedisce di trovare un punto di conciliazione. Coppia maledetta che gioca tut­ te le sue carte nelfimbrigliare figli troppo coinvolti da bambini. Ci hanno messo al mondo solo per essere scontenti di noi e offrirci la miserevole scena del loro reciproco ferreo legame di scontentezza. Ma crepate più presto che potete e lasciateci vivere liberi. Ho paura di me stessa. Provo le stesse cose che da bambina: sono la figlia cattivissima e la figlia buonissima. Non so cosa sono e cosa vo­ glio. L’odio mi passa presto. Oppure è così, che devo odiarli ogni vol­ ta che li incontro per potere cominciare rapporti più normali. Devo litigare, mettere il muso, per un momento. Ma anche a loro fa bene: dopo siamo tutti più attenti, è qualcosa che serve a stabilire un con­ tatto più reale. Il timore fa avvertiti dell’esistenza dell’altro. Domani loro partono e arriva Simone. So già che sarò colpita dall’estraneità con lui e mi sentirò completamente insoddisfatta, rimpiangerò la presenza dei miei finché dopo una litigata - cioè dopo averlo detto, ma proverò senso di colpa per cui ne farò una litigata - arriverò a stabilire il contatto. Ma, mi chiedo, quanto tempo potrò resistere a sopportarmi ora che so che il meccanismo è questo? E quanto gli altri potranno resistere? Oppure non c’è altro mezzo per arrivare a comunicare e gli altri, semplicemente, ne fanno a meno? Sono pro­ prio alle strette e a volte penso che dovrei spararmi un colpo in testa, tanto sarò sempre così e anche se lo so non cambia niente perché devo manifestarlo. 7 ago. Mia madre osserva “A te dura più che a me”, intendendo il malumore con mio padre. Per lei il problema è rimuovere l’offesa al

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più presto, punire mio padre con la sua superiorità (indifferenza), invece che affrontarlo. Mi è ostile quando vede che io continuo a provare queffindignazione che lei vuole nascondere a se stessa. Per non dovere ammettere la sua impotenza, l’odio nascosto e l’affetto frustrato. Questo è il punto base della nostra incomprensione. Io le ricordo che la sua non è una soluzione, ma un adattamento. Lei mi ricorda quanto sono vulnerabile. Cara Felicita, di molte amiche non ho fatto che pensare per lungo tempo “Bene, perbacco, com’è onesta, sincera, giustamente prepotente, pudicamente elusiva ecc.”, con qualcun altro. Ma quando poi toccava a me il romanzo finiva, cioè il ruolo di spettatore che si identifica per simpatia con l’attore in fatti che non lo riguardano, e mi ritrovavo bruscamente antagonista. So e intuisco cosa ti distur­ ba di me e posso dire di essermi inibita su quel piano per non dispiacerti (cer­ tamente è stato reciproco). Adesso voglio mettertelo sotto il naso con insistenza in modo che se dopo mi vorrai ancora bene non avrò più niente da temere. Insomma l’idillio che mi proponevi (sull’esempio della tua intesa con David) mi è apparso un modo indiretto con cui mi chiedevi di continuare a trattenermi per soddisfare le tue aspettative. Questo contrastava molto con il mio stato d’animo a parte che, ti assicuro, è sempre incauto proporre come modello realizzato il proprio rapporto con un uomo a un’amica perché fa scattare subito la diffi­ denza. Ma forse è stato un espediente del tuo inconscio a suggerirtelo. Come sempre ci tenevi a sottolineare quello che è il leitmotiv del tuo diario: il distinguo tra i tuoi sentimenti per gli uomini e quelli per le donne. Come l’esempio di tuo padre nell’ultima lettera. Oppure tu mi vedi veramente in chiave maschile, ma il sogno in vestaglia azzurra smentirebbe. Oppure mi tieni alla larga, o mi pro­ vochi sottilmente. Ecco i miei arzigogoli dove vanno. Sono d’accordo con te che l’ostilità è riparatrice, nel senso che ripara, protegge dal bisogno di affetto che io misuro, forse te l’ho già detto, sulla disponibilità a conoscere.

11 ago. La sensazione base della mia vita è l’impotenza a essere li­ bera. L’alto costo della libertà rispetto a quello che io sono disposta a pagare. Ma sul fronte della dipendenza, protezione, compagnia, col­ laborazione, affetto, senza decidere ho dato quotidianamente il san­ gue e un caldo senso di vergogna di me, di rabbia senza fine e senza sbocco. Desidero la compagnia, detesto la compagnia. La compagnia fini­ sce per essere qualcuno che sta con me perché ha bisogno, mate­

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rialmente, di me. Cioè di una donna faccendiera, in più disponibile perché non lavoro. Detesto Simone. Simone è adorabile: si dà da fare come un negro e poi è sempre di buon umore. E uno forte e generoso che trascina i deboli e i reti­ centi. Lo detesto. Il mio senso della realtà è così incerto che ho sempre delegato a un uomo la questione. Chiedo a Simone “Dì, è così?”, e lui risponde sì oppure no. E da quando lui si sovrappone al mio senso della cosa, la cosa dà ragione a lui, gli assentisce disperatamente per sottrarsi a me, è lui quello adatto a creare l’unisono essere umano-realtà. La cosa sente benissimo che io tiro a indovinare, sono fortemente in­ fluenzata da fattori soggettivi e non ho una vera pretesa che sia così. Forse è perché mi manca un campo d’azione. Simone guadagna, ha successo. Io non guadagno e non sono nessuno. Tutto va dunque a beneficio suo. Come Fitzgerald a Zelda potrebbe dirmi “Il materiale della nostra vita è mio”. L’essere umano è ingannato dalla vita, la donna è ingannata due vol­ te, dalla vita e dalla società. Dice “Ma guarda gli operai, i lavoratori ecc.”. Appunto, loro sono in lotta, vogliono o rivoluzione o continua contrattazione. Quando dico ingannata dalla società, intendo che il problema venga messo in modo che la soluzione sia completa vittoria dell’altro, e la mancata soluzione schiavitù. E questo è possibile per­ ché all’inizio l’operazione viene presentata come un vantaggio (detta­ to dall’amore dell’altro) per te. E tu lo accetti perché la tua debolezza sembra ottenere gli stessi risultati della forza. L’altro mitizza la tua debolezza. Quando smette di mitizzarla, la debolezza è già degene­ rata in impotenza (sociale). Zelda è impazzita perché Scott traeva profitto dalla sua vita, anzi la cosa era già avvenuta, e ormai irreversibile. Quando se n’è accor­ ta era tardi: la beffa era subita e l’accorgersene era solo un inutile coronamento della sua vita mancata. Tutto era già successo, non poteva tornare indietro, aveva già dissipato, l’altro aveva già messo a frutto, diceva che avrebbe spartito con lei la sua parte, ma ormai la sua parte era irriconoscibile, e tutto era ascritto a lui. 13 ago. Parlando con Nicola ero calma, attenta, senza animosità. Volevo veramente che si liberasse di me, del passato, di tutto ciò che la intralcia, ma al tempo stesso e in primo piano avevo l’esigenza di

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capire per me, e liberarmi io di lei. Questa chiarezza interiore mi toglieva ogni vittimismo. 16 ago. Con Nicola a gonfie vele: mi sento libera appena parliamo. Invece rimane implicita per il resto, come una torta che ha la crema solo nel centro. 17 ago. Andare nei salotti è come stare con bambini viziati, li acconten­ to su cose di cui non me ne frega niente. Credevo che gli artisti frequen­ tassero “altra” gente, che le belle ragazze dal viso pulito amassero “altri” uomini. Invece la gente è “quella lì”. Tutti si bazzica “questo” mondo. Tito detesta la società come la detesto io. Gli piacciono singole persone singolarmente prese. 18 ago. Portato da amici, è venuto l’ex amico di Sara. Mi chiedo come ha potuto amare un uomo così volgare, così incallito. Ero ostile verso di lui e verso chi lo accompagnava. Mi ha guastato una giornata che altri­ menti avrebbe potuto essere piacevole. C’era un’impasse in me: infatti avrei voluto non averlo davanti, ma una volta che era lì avrei voluto asso­ lutamente fargli vedere chi sono io. Infatti Sara mi aveva detto che si fa­ ceva beffe di me, e siccome so che quando mi sento aggressiva verso tipi che disprezzo cado in uno stato d’animo senza uscita, ho seguito l’unica via possibile, quella di rintuzzare la sfida e di esprimere solo il disprez­ zo, non parlando. D’altra parte sarebbe bastato che lui facesse un gesto amichevole e il nodo si sarebbe sciolto, ma non l’ha fatto. In più sta con una che si aspetta da me lezioni di femminismo per competere con lui. Tipi come questo mi danno insicurezza, devo capire perché. Sono i tipi che misurano le donne sessualmente, fisicamente, sulla scherma­ glia, sulla battuta. Con individui del genere non ho possibilità né di scambio né di gratificazione. Però lo stesso mi rodo dalla voglia astrat­ ta di impressionarli, di vincerli, di schiacciarli. Da questo mi nasce un conflitto, e conseguente rinuncia. E ci tengo che la rinuncia non appaia come debolezza, ma come offesa, come giudizio così negativo da scartare qualsiasi azione da parte mia. 19 ago. La paura non può essere che una: paura che mi piaccia, paura di non piacergli. Non comunico con lui perché non abbia a trapelare questa vergognosissima pulsione.

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Su un divano un coniglio vivo addenta senza pietà un coniglio di pezza. Lì per lì non sembra, ma quando devo separarli faccio una gran fatica a togliere dalla bocca dell’uno la testa dell’altro. Li tengo un momento distanti e poi via, fulmineamente quello riaddenta. Mi pare che anche il coniglio di pezza a suo modo sia vivo, e io lo difendo.

Eccomi qua con il mio problema edipico, caro Freud. Ho fatto trop­ po la spiritosa. Walter ha un corpo forte, tozzo, muscoloso, nero dal sole. Dei piedi animaleschi. Una faccia larga, sensuale, neppu­ re intelligente, quasi brutale, delle labbra tremende, un taglio di bocca, una fila di denti tremendo. Coscientemente lo detestavo, inconsciamente lo volevo. Lui non doveva accorgersene altrimen­ ti ero perduta. Questa del fingere: indifferenza, fastidio, distrazio­ ne, è un’abitudine presa tanto tempo fa, da bambina. Non poteva non attrarmi un uomo che è stato di una mia amica. La mia voglia di seduzione era immensa. Edipo, Edipo, Edipo. Meno male che è l’Edipo. Naturalmente devo liberarmene affrontando uno di questi bestioni mitici. Mi viene in mente lo Hyeros Gamos: mandavano una vergine al tempio a fare l’amore con uno sconosciuto. Forse a quello sconosciuto la ragazza dava un contenuto paterno, si scate­ nava con l’immagine tabù. Chissà se erano state le donne a volere questo rito. Non credo. Senza coscienza non potevano che ricavar­ ne paura di se stesse, e reprimersi in seguito; oppure identificarsi in quello e reprimere il resto. C’è stato un momento in cui Walter mi ha guardata con senso di complicità e ho sentito che avrei potuto lasciare tutto e andarmene con lui. Se l’ha percepito ai suoi occhi sono una puttana. Cos’altro è quello che agli uomini arriva dalle donne come sensazione di putta­ na? Ho desiderio del suo corpo, della sua volgarità, vorrei morderlo, sfidarlo, offenderlo, dominarlo, essere dominata. Ho bisogno che la furia si scateni da me una volta per tutte. Quest’ammissione mi dà forza. Stranamente non ho nessun conflitto a livello psicosomatico. Sto svolgendo il punto più importante della mia autocoscienza senza mal di testa, né insonnia, né paranoia. Sono compresa della solen­ nità del momento. Passeggio per la camera: sono una donna in attesa dell’uomo. In atte­ sa di sedurlo, di esserne sedotta. Guardo il mio corpo con altri occhi: è

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maturo, ma bellissimo. Dorato, morbido, liscio, scattante. Femminile. Sorelle vi lascio, vado incontro allo straniero del mio inconscio. Io ero una bambina precoce con pulsioni molto forti. Sono sempre stata in lotta con emozioni erotiche, nello stesso tempo ero molto sensibile alla realtà e alla mia dignità. Non potevo ammettere di desiderare qualco­ sa in contrasto con quelle. Stasera non riesco neppure più a pensare quello che stamani, appena sveglia, era così vivido come sensazione erotica per Walter. 20 ago. Nel caso dell’uomo dei lupi, Freud fa notare che l’attesa del Natale era per il bambino un’attesa di soddisfacimento sessuale. Mi ha richiamato un’analogia: io addirittura non riuscivo a dormire, una volta sono andata di nascosto a vedere i regali (Epifania); mio padre si è infuriato. Nella presentazione di Gallizio, anni fa, scrivevo “Che la festa sia una festa e nessuno se ne torni frustrato”. C’è anche la mia estrema eccitazione prima di fatti piacevoli, feste, incontri ecc. Questa eccitazione è attesa di eventi erotici, ma anche difesa da una loro irrealizzazione. L’attrazione va sul sostituto culturale, l’arte per esempio. Forse le occasioni sociali per me rivestono questo carattere di promessa erotica da cui mi difendo perché collegate a un desiderio fallito. Finalmente una ragazza acconsente a pulire e mettere in ordine bagno e cu­ cina a Turicchi. Io posso andarmene, al ritorno troverò tutto a posto. Vedo Berto disteso a terra con aria un po’ paralitica: mi dice qualcosa che non ricordo, ma il cui significato è una confessione degli ostacoli da lui frapposti al rapporto con me. Adesso se ne libera ed è tutto commosso. Io trabocco di af­ fetto, vorrei abbracciarlo, non ce la faccio, posso solo afferrarlo per un braccio.

Adesso c’è poco più da sognare. Devo fare. Freud ci ha messo cin­ que anni a completare l’autoanalisi. Quindi dovrei essere alla fine. Anche lui ha avuto l’amicizia-dipendenza da Fliess. Io l’ho avuta da Sara. Non c’è niente di cui vergognarsi. 21 ago. Me lo sentivo che sarebbe stata una serata deprimente, e lo è stata. Tutti i giovani erano da un’altra parte, io lì in coppia, insieme ad altre coppie a parlare di mangiare, di figli, di cultura. Dopo la

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tensione dei giorni scorsi questo era proprio l’afflosciarsi. Tutti mi sembravano banali, Tito aveva mal di pancia, io un sonno invincibile da vino cattivo. Ieri Walter non mi faceva più alcun effetto: se lo guardavo vedevo un burino, ma se non lo guardavo lo avvertivo come l’incarnazione del mio possibile desiderio. Era scattata la repressione oppure il senso della realtà si era contrapposto all’impulso e lo aveva per così dire deluso, svuotato? E un moto che si censura da sé, per le difese che si porta dietro oppure cade a contatto delle situazioni concrete? Non posso saperlo, e questo è grave per la mia identità. Comunque il fatto fondamentale era che piaceva ad altre donne, era l’uomo attraente della festa. E escluso che un tipo così mi piaccia di per sé: mi accorgo di lui se è conteso da altre. Però nello stesso momento mi ritiro. Nella competizione sessuale mi sono sempre sentita perdente, così mi sono spostata nella competizione intellettuale, e lì ho vinto. In questo mo­ mento non so più se io sono quella che so di essere. L’angoscia che mi ha sempre dato l’erotismo è questa perdita di identità, come se tut­ to saltasse per aria. Comunque voglio stare calma, non ci guadagno niente a esasperarmi. Quello che devo fare è smettere di confrontarmi con situazioni astratte, e affrontare una realtà dove io posso registrare sconfitte, inautenticità, vigliaccherie, e accettarle senza creparci sopra una buona volta. La mia condotta con Walter risponde a una precisa strategia, sem­ pre la stessa con chi sento aggressivo o con delle curiosità aggres­ sive nei miei confronti. Così polemizzavo indirettamente con Sara che aveva speso nottate a parlare con lui. E la stessa cosa che mi è scattata anni fa con un ragazzo bello, presuntuoso, quando mi ha aggredita in taxi: l’ho respinto. Pensavo “Sarò stata l’unica a farlo” e ne godevo. Per quel poco che la scena è durata non mi piaceva affatto, non mi andava. Quell’episodio non mi ha lasciato dubbi. E quando non mi metto alla prova che le ipotesi si accavallano. 23 ago. Una passeggiata estiva con tanta gente per una via di campagna. Mi scopro a pensare “Come sto bene, non ho conflitti”. Ma guardando all’indietro, vedo un’onda immensa, chiara, giallastra che a gran velocità si è incuneata nella strada e travolge tutti i gitanti. Com’è possibile? Eravamo vicini al mare? Sta per raggiungere anche me che, atterrita dalla sorpresa e dallo spettacolo, cerco di correre in avanti, ma le gambe mi portano con difficoltà. Mentre transito da un

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paese una donna mi fa cenno di fermarmi e di rifugiarmi sotto, in cantina, ma diffido di lei che sicuramente mi vuole intrappolare e chissà cos’altro. Tuttavia adesso sono perduta: in una camera semibuia, distesa su un letto grande, aspetto con angoscia un evento terrificante. Sono paralizzata, non posso muovermi di lì, non posso aprire gli occhi, tento in ogni modo di svegliarmi, emetto suoni disperati e inarticolati, scuoto la testa, cerco di schiudere una fessura tra le pal­ pebre, ho la faccia tutta deformata dallo sforzo immane e quasi inutile perché riesco appena a sollevarle e mi ammazzo nel tentativo di non lasciarle richiu­ dere. Mi chiedo se per caso non ho avuto un colpo a essere ridotta così. Poi la porta della stanza si apre ed entra una donna che non conosco, ma che temo molto, robusta; la vedo solo di schiena con corti capelli neri ricci. E io non so se per propiziarmela o perché l’ho riconosciuta o perché spero che si trasformi, riesco ad articolare smuovendo muscoli facciali più rigidi di quelli di un cadavere “M...a...m...m...a... mam...ma... mam...ma...”. E sono tutta emozionata, come una bambina molto piccola.

Ero stata a trovare mia madre che ora si aggrappa a me, e io ne ho piacere, ma anche preoccupazione, mi sento legata. 24 ago. Penso a Sara abbastanza spesso, mi è familiare, ma non mi condiziona più: è un’immagine amata, quasi un simbolo. Forse è stata cattiva verso di me, ma ne avevo bisogno. Mi resta da capire se sarà cattiva anche ora che non ce n’è più bisogno. Devo smettere di arrovellarmi a pensare, e devo agire. Riflettere sull’azione, non sul pensare. Ricordo la lettera a Paula l’anno scor­ so “Fare. Che sogno”. Ho fatto, lo so, ma l’azione mi si concretizza in Fatti Isolati, circoscritti, circondati dalla non-azione e dal pensare. Vorrei un’azione fluida, costante, non a blocchi. Eppure, se sono così? 26 ago. Regina mi dice tutto quello che ha pensato di me: leader, mistica, fanatica, rigorosa, astratta, paurosa del mondo, sofferente, vicina alla pazzia ecc. Adesso le sembro una che comincia a “mette­ re il piede nell’acqua”. Mi rallegravo sia di essere confermata nelle mie scoperte su di me sia che Regina mi apparisse così acuta. Tutto questo è avvenuto durante il ritorno dall’Elba fino alle 4 del mattino. Mentre passeggiavo nel campo una serpe mi è sbucata quasi da sotto il piede e si è allontanata velocemente. L’ho guardata senza paura come si guarda un gatto.

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La parità è scattata quando ho capito che ero vittima dell’inferiorizzazione delle altre quanto loro lo erano della mia superiorità. Per fortuna ho rivisto subito Regina con altra gente, già stavo ide­ alizzandola nel ricordo (di poche ore, devo stare attenta). Era così esibizionista che mi sono immediatamente vergognata della mia in­ genuità. Ogni tanto mi sono capitate amiche che in privato erano in un modo e in pubblico in un altro. E io sempre impreparata di fronte alla loro metamorfosi. La prossima volta glielo dico. Invece non gliel’ho detto perché si è presentata la sera quasi pian­ gendo, vittima di un sopruso sociale. A volte mi viene voglia di la­ sciare tutto, e da quella condizione-zero finalmente essere autoriz­ zata a dire quello che penso, specialmente alle amiche che hanno sempre un’infinità di guai di troppo e di fronte alle quali io appaio sempre quella privilegiata. 29 ago. Chiedo a Cesare se vuole fare famorc con me. Risponde di no. E bel­ lo e mi piace. Giovane, per i suoi quarantanni passati. Degli uomini anziani, seri e distinti in abito grigio-perla, uno dei quali mi è particolarmente caro, finiscono per ubriacarsi. Non voglio infierire su di loro, cosi dico con voce sommessa, allu­ dendo al fatto che ingombrano la stanza con gesti sconclusionati “Avete impedi­ to il passaggio tutto il tempo”. E mi va, mi va immensamente questa soluzione. Quello che non capisco della Kristeva ne Le cinesi, è questo. Lei af­ ferma: “... la ragazza è gratificata dall’ordine simbolico quando si identifica con il pa­ dre: è là soltanto che viene riconosciuta non per se stessa ma contro la sua rivale, la madre vaginata e godente; è così, a prezzo della propria censura in quanto donna, che potrà infine condurre i suoi attacchi sadici ormai sublimati contro la madre rimossa, con la quale non finirà mai di polemizzare identificandosi con lei (l’eterosessuale) o inseguendola eroticamente (l’omosessuale)”.

Alla Kristeva risulta che le Elettre siano, in quanto identificate con il padre, delle non-vaginate. Ora all’esperienza di gruppo risulta il contrario, che quelle sono vaginali: di fatto perché hanno l’orgasmo vaginale, oppure psichicamente. D’altra parte l’uomo (Sofocle) non ha potuto concepire che donne vaginali. Crisotemi ed Elettra sono i due aspetti della vaginalità: identificarsi con la madre è identificarsi

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con il padre e viceversa. La clitoridea è la donna autonoma, né pas­ siva come la passiva vaginale, né attiva come la vaginale emancipata. La clitoridea è la femminile da scoprire, anzi quella che si scopre da sé, che non appare disponibile all’identificazione da parte di altri, quella che non serve al mondo maschile, quella che parla ma non si sente, quella che sfugge alla presa, l’essenza della femminilità che non ha posto in un mondo dove sono gli uomini a dare il diritto di esisten­ za, quella che sta nascendo alla coscienza delle donne, lentamente e faticosamente nell’autenticità di se stessa riflessa nell’altra, mentre tutti la stanno aspettando sul versante culturale del godimento o di un altro analogo destino. L’aspettano lì per qualche deduzione con­ cettuale e per arcaismo. La donna non si sa dov’è, certamente non è nella vagina, il primo luogo dove l’uomo, sguinzagliato dalla cultu­ ra in questo gioco al buio proposto dalla donna, ha la goffaggine di continuare a cercarla. L’uomo ha perso la donna convinto di averla sua preda, suo oggetto, identica alle sue interpretazioni, confinata nell’aut-aut: o con lui, esistente; o contro di lui, malata, pazza. O auto­ noma, inesistente. 30 ago. Sono in macchina con Bernardo alla guida. Avvicino la mia guancia alla sua tempia con dolcezza. “Capita” penso nel frattempo “di essere attratte dal figlio del proprio amico. Qualche tenerezza, che male c’è.” In risposta lui mette una mano sulla mia gamba - ecco, siamo al mare, ho le gambe nude - fino all’incavo della coscia e stringe leggermente in segno d’intesa. Dunque, tutto bene, ci sta, non dà troppo peso al fatto che tradisco suo padre. Così oso baciargli ripetutamente la tempia, morbida nella pelle e nei capelli. Ma all’im­ provviso spara un colpo di pistola. Trambusto: dei poliziotti subito ci inseguono, ci fermiamo. “Che diavolo vogliono.” “Eh no, il ragazzo ha sparato senza porto d’armi, non lo sa che è proibito ecc.” Però non sono cattivi questi poliziotti, anzi comprensivi. Dopo avere esaminato l’arma vogliono darla a me, non a lui che potrebbe volere ancora sparare, ma a me. Io rifiuto con decisione: non ho mai avuto un’arma per le mani, e se mi parte un colpo? Il poliziotto mette la sicura, ma io sono lì impaurita, per niente convinta, detesto quella dannata arma, non voglio neppure toccarla. Finalmente vinco la paura, un po’ per non scontentare il poliziotto, un po’ per salvare Bernardo e me stessa. Prendo in mano questa pistola, che però non somiglia affatto a una pistola, semmai al sifone del selz o a un paio di forbici. Ma lui è sparito. Raggiungo una festa “alla romana” in una specie di negozio - galleria d’arte, non so. Bernardo non c’è: non che lo cerchi,

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ma constato che non c’è. Mi si avvicina un brunetto dall’aria mondana, mi dice qualcosa che lo mette in bella luce, e poi subito, prima che possa rispondergli, si lancia su un’altra persona più importante di me. E un mondo fasullo benché animato, chissà perché sono lì.

31 ago. Turicchi è triste sotto la pioggia, mi annoio. Ho la tosse. Simone mi deprime, 'l’ito non so dov’è. Sogno Milano. Sogno di li­ berarmi del bisogno che ho di Simone e stare sola. Ma non in cam­ pagna: ho fin troppa solitudine accumulata addosso. Almeno quando non mi serve per curarmi le ferite, la solitudine posso evitarla. A tavola Tito simpatizza con il suo dirimpettaio, un giovane bruno, vivace, stra­ niero. Io intervengo quando vedo come mangia un certo budino: lui è tutto orgoglioso di avere interpretato bene una ricetta, io gli dico che non va affatto così, figuriamoci. Ma lo dico allegramente, disinvolta. Simone mi ha dato il permesso di sposare Bernardo: posso abbracciarlo, carezzarlo, fare l’amore con lui. E nudo davanti a me, così robusto, ma tenero e grazioso. Per fortuna, ne sono piacevolmente sorpresa, il suo pene è piccolo, sottile, così posso prenderlo senza sforzo, e fare tutti i giochi piano, delicatamente. A lui piace, però a un certo punto vuole smettere. Mi chiedo se non sarà terribile per la madre che io, dopo averle preso il marito, addirittura sposi il figlio. Anzi, se non è mostruoso che Simone sia d’accordo. In camera all’Elba. E mattina. Entra un gatto grande, bianco e nero a macchie. Entra un altro gatto, più grande ancora, bianco e nero a strisce. Avverto Simo­ ne che dorme vicino a me perché so che lui detesta avere animali in camera. Ma non se la piglia troppo. Allora mi alzo io, e nel mandarli fuori m’imbatto in una signora che certo è la responsabile dei gatti: avrà lasciato la porta aperta, però non oso rimproverarglielo, tanto più che lei mi comunica premurosa­ mente che c’è la donna di servizio in cucina che lava i piatti.

Simone aveva lavato i piatti ieri sera. Non c’è niente da fare: mi sento meglio quando riesco a tirare fuori un senso da quello che mi succede. I sogni con Bernardo hanno il loro spunto occasionale dalla contrarietà per la sua partenza, infatti mi sono accorta che ero molto più allegra e divertita quando c’era lui (e Tito). Mi piaceva andare nei posti Simone, Bernardo, Tito e io, era molto simpatico, la presenza di Bernardo (eTito) neutralizzava un po’

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la noia che ho a uscire sola con Simone. Mi viene in mente quello che dice Hegel sull’alleanza donna-giovane ai danni dell’uomo pensoso che in età avanzata si occupa solo dell’universale. Simone non è vec­ chio, per dire la verità, ma è proprio la cura intensa dell’universale che invecchia gli uomini e li rattrista. Sull’ondata di sicurezza scaturita dall’ultimo sogno, ecco che final­ mente ripesco nella mia vita quegli episodi erotici, avventurosi che ammiro adesso in Sara come se non fossi mai stata in grado di com­ pierli. Ho fatto tutto molto precocemente, quasi non me ne ricordo, avevo la carica, ma non la coscienza, solo intuito e incapacità a se­ guire vie battute. Avendo ormai vissuto quelle esperienze, ormai sono fatte: ne ho ricavato un senso della realtà che non posso non tenere in considerazione. Sara semplicemente ancora sta facendo quelle espe­ rienze, non ne vede il limite. Lei adesso è come una sedicenne visto che a sedici anni era ragionevole come una donna matura. 2 set. Siamo piombate Matilde, altre e io in casa di certi amici che sono

in partenza. Ci accolgono gentilmente, io mi preoccupo di non importunare troppo a lungo. Ci sono varie vicende finché arriva Sara, sempre con quella sua aria indecifrabile. Qualcuna dice bene del femminismo, ma lei ribatte “Un femminismo tutto diverso da quello delfinizio”, e sembra che quello dell’inizio lo trovi completamente negativo. Mi aspettavo di peggio. Poi si spoglia, no­ nostante la gente, e voltando l’occhio verso di lei la vedo su un divano nuda, bianca, bellissima, di schiena, rotonda, ma non larga, molto diversa da come è in realtà. Come posso essere io, ecco, con un sedere ammirevole. Ho come l’impressione di averle visto anche il seno. Non potrò più scordare quel corpo nudo, lo amo, ne sono invaghita, ammaliata. Poi Sara è in un letto grande che dorme insieme ai bambini; una bimba parla ad alta voce, grida, canta; io stessa nella stanza cerco delle cose, faccio preparativi per la partenza, mi dico “Chissà Sara come è arrabbiata di questo rumore che certo le disturba il sonno”, ma me ne frego. Alla fine si alza un po’ assonnata, un po’ contrariata: non fa una piega.

3 set. Un boxeur che ha preso un sacco di colpi, altrettanti ne ha dati o cercato di darne, è tutto acciaccato e slogato, dolorante, stan­ co, intontito. Questa sono io nel tornare a Roma dopo quasi sei mesi di assenza. Il problema aperto: lascio Tito, Simone e me ne vado a Milano; vivo sola oppure faccio marcia indietro, rimetto su casa, mi

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rioccupo di Tito, mi ricondiziono a lui con tutto quel che segue. E un dilemma sensato o è un dilemma pazzo? Come faccio a essere me stessa se sono schiava di tutti? Stanotte piangevo mentre veniva giù l’universo per la pioggia, i lam­ pi, il dolore, la confusione, l’assurdità: metà di me che vuole fare fronte ai gesti di responsabilità e di amore, l’altra metà che cerca di lasciare tutto, lo cerca da che sono al mondo e dopo avere passato ogni volta gli stadi del distacco e della disperazione aggrappata a un miraggio di libertà, questo miraggio si dissolve e mi sveglio (dal sogno? dalla vera vita?), mi guardo attorno e ricomincio. Potessi im­ pedire al miraggio di presentarsi, potessi impedirgli di dissolversi. Stanotte sentivo un peso fisico, un’impossibilità fisica a continuare la vita “per” Tito. Dicevo a Simone “Cosa posso fare per vivere io, lo devo uccidere?”. 4 set. E una sensazione magnifica avere iscritto Tito a scuola, avere eseguito un suo desiderio, avere fatto qualcosa di sicuramente buono e utile. Ma io? Se abbandono il binario, chi sono io? Marion mi fa uscire dai gangheri: se c’è una adoratrice e sostenitrice degli uomini di valore è lei: una cortigiana, per dio, un essere su mi­ sura per loro. Mi dico “Ma perché te la prendi tanto?”. Me la prendo perché continua a mostrarsi in guardia verso di me, a riempire i suoi discorsi di “Sì... però”, e poi a tallonarmi. Che mi tallona lo deduco da questo che, come al solito, come una sua singolare iniziativa mi annuncia di straforo “Sai che ho ricominciato a scrivere il diario da due anni?”, senza fare minimamente cenno al fatto che solo qual­ che mese fa polemizzava con me sugli atteggiamenti autobiografi­ ci, autoanalitici, cioè sulla strada che avevo preso chiaramente nel femminismo, e prima ancora con Autoritratto, e cioè da sempre. Se a questo si aggiunge il fatto che Ester va in giro parlando molto bene di Autocoscienza, si possono vedere due mie vecchie amiche che, chi in un modo chi nell’altro, ostentando indignazione per la mia azione “plagiatrice”, per la mia “aria di superiorità”, non solo finivano per seguire le mie indicazioni, ma mostravano il fine di questo seguire che è appunto un fine sociale. Così mi è chiaro che quelle che si la­ mentano di essere suggestionate da me dovrebbero invece accusare la propria ingordigia di aggiornamento culturale. E io sono un tipo ben

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comodo a questa operazione in quanto sfuggo ogni occasione in cui caratterizzarmi con i miei contenuti. Mi hai tiranneggiato con il tuo desiderio di fare di me una tiranna. 5 set. Cara Julia (Kristeva), io credo che il dramma tra noi donne stia in que­ sto: che una parte di noi tenta di funzionare come quella “piccola verità” che tu dici, mentre la maggioranza, per ora, adopra gli clementi di quella piccola verità, scoperta, vissuta, sminuzzata dalle altre, e se ne fa strumento per palliar­ si nel mondo maschile della Verità. In questo passaggio si opera un tradimento sostanziale che vanifica la piccola verità e perciò l’esistenza di quelle di noi che si identificano in essa. E vanifica l’azione femminile, poiché l’uomo è portato a riconoscere la donna quando essa gli appare come il fondamento di se stesso, e cioè quando gli garantisce il piano dei valori, quando lo asseconda nella sua ope­ ra di rimozione (come tu hai chiarito). Il femminismo contiene entrambe queste tipologie femminili, ma il fatto che si possa vedere il femminismo esclusivamente come un’autoinvestitura delle donne a essere “la Verità dell’ordine temporale” non fa altro che suffragare la mia ipotesi. Di qui l’odio tra donne: infatti queste ultime finiscono per attivare la sofferenza del misconoscimento nelle altre, la cui autenticità diventa sinonimo di impotenza e di cancellazione di sé. Elettre non sono solo le donne che, dimentiche della guerra tra i sessi, si alienano nella società facendosi portatrici di valori paterni, ma anche quelle che spostano la lotta femminista (analogamente a quanto fanno i femministi) sul piano delle idee come mezzo di dominio. Ora entrambe queste categorie femminili rispondono ai richiami della vaginalità (in senso lato), mentre le donne che agiscono secondo la piccola verità sono psichicamente clitoridee. Anche le omosessuali possono essere estremamente vaginali. Le donne di cui l’uomo ha parlato c scritto, cioè di cui ha registrato l’esistenza, non sono altro che diversificazioni di vaginali. L'“altra” non esiste, e il motivo è da ricercare proprio all’interno del mondo femminile, che per questo risulta così dilaniato. L’“altro” femminismo, quello di cui non si parla, di cui non si “può” parlare perché parla da sé, e che vive nei focolai del riconoscimento (in questo senso) fra donne - focolai inutilmente clandestini perché sono da un lato invisibili, dall’altro continuamente mediati dalle volenterose che intendono renderli competitivi, perciò visibili, mentre è l occhio altrui che deve cambiare - l’unico femminismo che riscatti un nome altrimenti equivoco, è questo. Affrontato individualmente questo scoglio, che per ora collettivamente è insuperabile, resta da vedere in che modo la picco­ la verità funziona.

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7 set. Salire su un noce a cogliere le noci alla mia età mi ha fatto sentire felice.

Essere inferiorizzati non è così logorante come inferiorizzare. E solo terribile, ecco tutto. E lo sai. Essere inferiorizzati ciascuno l’ha “già” provato. Io ho adoprato il termine “autenticità” al posto, ma come sinonimo, di “piccola verità”. Ancora qualche osservazione sul momento in cui ho scritto le poesie di Scacco ragionato. Avevo appena cominciato a scriverne che il rappor­ to con Marion si è rotto in modo improvviso e per me inesplicabile; nonostante la bella laurea non trovavo la minima occasione di lavoro “creativo” come credevo che mi spettasse; mi sono nuovamente am­ malata di TBC; mi sono innamorata e sposata; ho mutato brusca­ mente la mia esistenza; ho avuto un bambino. C’era di che analizzare cosa avevo combinato e perché. Invece niente di tutto questo nelle poesie. Ero come sommersa da una catastrofe interiore: all’interno di me una sconosciuta agonizzava. Tendevo l’orecchio per cercare di cogliere nella sua agonia la chiave di una verità di cui mi accorgevo alfimprowiso di essere priva. Mi fidavo solo di lei. Mi rintanavo dove lei si era arroccata. Ero assillata dal bisogno di captare la sua voce, di decifrarla. Adesso potrei dire tante cose di quel periodo, che allora non era un periodo, ma un eterno presente in cui ero immersa senza prevederne la fine: Tunica gioia che provavo era quella di potermi rileggere “dopo”. Cito dalla Kristeva: “Ma anche lì non attribuirsi il ruolo della Rivoluzionaria (o del Rivoluziona­ rio): ricusare qualunque ruolo per ricordare, invece, questa verità fuori tem­ po, né vera né falsa, non incastrabile nell’ordine della parola e del simbolismo sociale, eco dei nostri godimenti, delle nostre parole vertiginose, delle nostre gravidanze”.

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“Prima di entrare a modo loro in questa crisi dell’identità che sarà la vera rivo­ luzione di un’umanità industrializzata né donna, né uomo, né unisex: vortice di scontri e di risa.”

Una piccola simulazione di abbandono cosmico, un modello dionisiaco-vaginale (nietzschiano), una personale sfumatura di compostez­ za e di stile (orientale). Ma questa è cultura! 12 set. Naturalmente l’impostazione della Kristeva mi ha messo in moto tutto un lavorio mentale. Vorrei incontrarla, parlare con lei. Mi chiedo se si aprirebbe con me. Dove non la credo è in una capacità di godimento diversa dalla mia. Anzi mi sembra una che passa la sua vita a “capire” e “studiare” molto più di me. Se quella non è trascen­ denza... Così adesso finalmente parliamo, comunichiamo, ci amiamo. Dice la mamma “Papà sentirà la tua mancanza quando te ne vai”. “E te?” le ho chiesto. Risponde che insieme a me è stata più a lungo, si è saziata meglio. Papà si comporta come un fidanzato: mi ha preso la mano, mi ha abbracciata tenendo la testa vicino alla mia, sempre scherzando ha detto “Non sapevo di avere una figlia così. L’ho sco­ perto adesso”. Qualcosa è successo da quando ha accettato di venire da me a Turicchi, di avere bisogno di me. Adesso mi piace chiedergli delle cose, sciocchezze, ma sono sicura che potrei chiedergli molto di più. Anche i suoi consigli, i suoi rimproveri senza i quali si sente nessuno, non mi danno più fastidio: so che è fragile, questo mi ha tolto la voglia di contrastarlo. E successo con l’età, il mio desiderio nascosto si è realizzato. Naturalmente c’è un particolare che facilita le cose: io sono come la figlia di casa quando sto qui con i genitori, non ho uomo, quindi il mio affetto non ha contraddizioni né appare sostituito. Papà in questi giorni fa qualche accenno con me ai suoi trascorsi sessuali e amorosi come se volesse acquistare una dimensio­ ne più completa ai miei occhi. O meglio rievoca quella dimensione virile che adesso gli sfugge, ecco perché posso avvicinarmi di più a lui. 15 set. C’è Isa, è arrivata all’improvviso a Turicchi. Simone che ave­ va un suo malumore, risultato di alcuni giorni senza di me a Roma, l’ha aumentato in questa circostanza. Devo mettermi in mente che vivere con lui è vivere “sola” con lui. Non accetta nessuno dei miei

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amici, per lui sono solo ostacoli alla nostra intimità. Altro che prigio­ ne! Si rivela permaloso, chiuso, suscettibilissimo. Io scoppio in queste strettoie. Mi ha tagliata fuori da tutto il mio mondo di prima. Lui dice 10 stesso di me perché non sopporto i suoi amici. Però senza di lui ho una vita di relazione ricca e intensa, senza di me per lui è impossibile riprendere dei rapporti che non siano di lavoro. E un orso, un orsoartista, uno pieno di esperienza, umanità, qualità ma non più in gra­ do di stare con gli altri, di divertirsi, di divertire. Io voglio soprattutto divertirmi: ho paura di non farcela ad avere una terza fase con lui. Isa è costruita, molto costruita, con un suo fondo genuino, popolaresco. Non mi riesce esserne entusiasta. Al diavolo tutti! 16 set. Fatto l’amore c’è speranza che Simone si rassereni. E infatti ce la fa a parlare e a dire che siccome io non faccio nessuno sforzo per accontentare lui, lui non può fare nessuno sforzo per accontentare me. Cioè mette sullo stesso piano il rapporto umano con Isa, unico suo “dovere” di padrone di casa, con i rapporti strumentali che lui mi propone. Magari, se a lui Isa in questo momento non interessa cosa possibile, lo devo ammettere - può risultargli faticoso scambiare con lei. Però c’è qualcosa che non mi convince lo stesso. Non voglio prendermela così scrivo i sogni. Ieri: C’è uno straniero che mi ama, mi segue, ma non so come parlare con lui. “Come tutti gli americani non conosce il francese” penso seccata. Chissà se quello che dico, semplificando le frasi, lui lo capisce. Mah! Sono nello stato d’animo tipico di quando qualcuno mi vuole: lusingata e un po’ erotizzata. Andiamo in un locale con altri, una specie di ristorante, e a un certo punto c’è un incendio. Già un’altra volta quel tipo lì ne ha provocato uno, poiché è lui 11 responsabile, lo so. Così quando ci ritroviamo dopo lo scampato pericolo, cerco di prendere commiato dallo straniero. Che ha una faccia di tolla.

Stanotte: Sulla scia di un amico omosessuale di cui sono ospite, mi ritrovo nella sala di aspetto di una casa di produzione di film. Lì mi accorgo a un tratto di avere per­ so il mio borsone bianco di stoffa. Mi do subito da fare, qua e là; a uno sportello un impiegato rintraccia sue notizie, però sarà difficile riaverlo subito. Ma mi

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basta di sapere che c’è e dov’è: mi congratulo con me stessa che non mi perdo d’animo, insisto, insisto finché non rimedio alle mie distrazioni. In un corridoio incontro Nicola che ha l’aria di dire “Ci metto una pietra so­ pra”, infatti un po’ scherzando esclama “E meglio farsi monaca”. Si riferisce a un rapporto erotico appena terminato c poco soddisfacente. No, niente drammi, ma loffio, che non vale la pena. Però, parlando, mi svela di essere stata con il fra­ tello di Augusta tempo prima. Anche con lui niente di speciale: lo raggiungeva in una certa località, e poi anche con un terzo. Vedo Nicola in tutt’altra luce, più comprensibile: dunque ci ha provato con il sesso, ha dovuto ingannare il marito, ha vissuto o tentato di vivere l’erotismo. Due ragazzini: uno a testa d’uovo un po’ pelato, faccia da deficiente; l’altro un discolo insidioso. Quello a testa d’uovo lo tengo a bada, è debole, scoordinato, cerca di colpire con un qualche oggetto contundente, ma non ce la fa, mentre l’altro è ambiguo e sfuggente, ragazzino viziato e già perverso: a un tratto con un coltello o una freccia colpisce. Mi sembra abbia preso nel legno, invece no, è Tito, piccolo, che si accascia tra le mie braccia, ferito alla testa, per fortuna superficial­ mente. Il ragazzino biondo e malvagio sorride con aria di trionfo.

Trovo Isa accucciata al sole che scrive il suo incubo notturno: ha dormito male. Ricordo i miei alti e bassi quando andavo ospite da amici in coppia. Passata reuforia di criticarli dentro di me e di deside­ rare di rompere la loro complicità, mi ritrovavo sconfitta ed esclusa. Chiarito con Simone, cioè litigato e poi fatto l’amore, smorzato il tono con lsa che, un po’ sofferente, smette di polemizzare sotto sotto, cosa che creava un indefinibile disagio, ripreso un po’ di spazio per me, ho ritrovato l’equilibrio, anzi sto davvero bene sia con Simone che con lei. Nel sogno, il richiamo al fratello di Augusta mette in luce che ho scoperto l’interesse di Isa per i miei fratelli, visto che il mio inconscio aveva così registrato l’esistenza del fratello di Augusta. Quindi che Nicola non ne fosse troppo soddisfatta esprimeva anche il mio desiderio che Isa non mi portasse via l’amore del fratello? Dio mi perdoni, ma non ho stimoli a parlare “a fondo” con lei. Pochi accenni bastano. Invece è un’ottima compagna per cose pratiche: qui tra cogliere bacche, fare marmellate, consultare erbari, osservare la natura attorno, è proprio l’ideale. Forse è finita l’epoca delle ami­ cizie dalle conversazioni interminabili, pendendo l’una dalle labbra

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dell’altra come con Sara. Nel pomeriggio pensando a lei avevo fatto mentalmente una poesia che poi ho dimenticato. C’era dentro un’eco della mia passione. 17 set. Isa mi ha avvertito che vuole andarsene domani: liberata dal vincolo dei suoi progetti indefiniti, ho la certezza che la sua compa­ gnia mi piace. Durante un pranzo che si sta trasformando in festa vera e propria, Matilde, sempre elegante, tira fuori due vassoi supplementari di leccornie, in uno c’è un “sughetto” annuncia tutta felice. Però poi la golosa deve esserselo mangiato con Luca, perche a me non arriva. Devo chiudere casa e andarmene. La storia è intricatissima: ci sono serrande immense da tirare giù, rischio la vita per farlo. Una donna mi assiste, sono molto molto preoccupata, finché scopro che da lì in avanti ho una prospet­ tiva di vacanza libera, nomade, senza intoppi, e ne provo una gran sorpresa mista a felicità.

Isa mi aveva detto che voleva partire per il mare, però prima fare dei giri qua e là per la Toscana. E bastato quello. Giustamente Isa dice “Potresti intrometterti meno nelle faccende dei tuoi fratelli”. Infatti. Solo che Emilio intende polemizzare ancora con i genitori, mentre io non sopporto più di vederli alle prese con i contraccolpi che derivano loro dalle iniziative dei figli. Emilio sta facendo quello che facevo io dieci anni fa, ma appunto l’assurdo è questo tra fratelli: che si hanno sempre tempi diversi. Mio padre e mia madre hanno solo me come interlocutore che non ponga loro dei problemi connessi ai ruoli reciproci, che non li tratti più da genitori. E un rapporto faticoso e traballante, ma non vedo altra possibilità, e voglio farlo prima che sia troppo tardi. 18 set. Sono in autobus: dietro a me è seduto un critico d’arte che mi saluta e mi chiede se ho letto qualcosa dove sono citata. L’articolo, di un mio amico, afferma tra l’altro che dopo X, l’unico musicista valido è Y, uno sconosciuto. Il critico ha un’espressione di impazienza e di sconforto “A cosa si deve assiste­ re!...”. Io rispondo sostenuta, come se la citazione di me non mi facesse né caldo né freddo, in più non voglio partecipare alle lagnanze di un uomo vecchio e sor­

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passato. Poi mi chiedo “È autentico non mostrare la mia soddisfazione perché qualcuno si ricorda di me?”. Certo che non lo è. Il critico sposta il soprabito che teneva occupato anche un posto vuoto. Se ne accorge una donna in piedi e ci si siede. Sono seccata perché non riesco più a parlare con lui, in fondo mi andava bene fare quattro chiacchiere. Quella si installa, si leva le scarpe. Borbotto a bassissima voce “E matta”, ma lei mi sente e mi risponde come se ci godesse a intralciarmi. Emilio e io ci mordicchiamo fitto fitto come un gioco. Somiglia a mordicchiare una mela. Somiglia a un fatto erotico. E irresistibile.

Con tutti i patemi che mi distinguono, eccomi arrivata a una con­ clusione saggia che pure mi distingue: sto facendo quello che vo­ glio, e se faccio una cosa non posso fare l’altra, che pure voglio. Però ho perso l’impazienza, almeno quella più disperante, e lascio che venga tutto, una cosa dopo l’altra. Decaduta la pretesa all’as­ soluto, restano tanti frammenti, contraddittori, ma in sé equivalen­ ti. Ho un senso di distacco dal giudizio altrui, anche quando sono coinvolta lo avverto senza frustrazione e senza trionfalismo. Se alle amiche non sembra e mi vedono affogata nella coppia, nella fami­ glia, me ne importa quel tanto, non di più. 19 set. Liberazione per me significa ripercorrere tutti gli stadi psi­ chici della mia evoluzione per essere cosciente. Scoprire dove poggio, e inglobare il tutto. L’egoismo, l’egocentrismo di Sara rendevano dolorosamente privo di copertura il mio bisogno di accettazione della realtà e degli altri, cosicché ho potuto prendere coscienza del lato di soggezione che implicava questa accettazione in quanto “dovere”. Adesso mi ren­ do conto che quell’accettazione, sganciata da imperativi e perciò da ogni forma di idealizzazione, è pur sempre un desiderio in cui tendo a realizzarmi. 20 set. All’alba: caldo, nebbiolina. Sputiamo su Hegel è un titolo squi­ sitamente orale. Simone si diverte o sogna o si gratifica solo pensando a sé e lavorando en artiste, en sculpteur. Tutte le cose carine da fare insieme all’atto pratico sono una delusione: lui le rimanderebbe sempre, le tira via,

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le riduce a gesti il più possibile sbrigativi, non ci si impegna, finisce per non ritirarsi solo nel timore delle mie rimostranze, ma ne farebbe volentieri a meno. Siamo una coppia misantropa: facciamo tutte le fatiche del mondo, ma manca lo scopo del piacevole, del divertente. Tutto si riduce ad accumulare possibilità da sfruttare “in seguito”. Non ci sarà questo “in seguito” o sarà la pensione. Milano, unico cen­ tro dei miei desideri, come lo era un tempo, quando vivevo ancora sola con il figlio. Poi sono entrata in questo baratro di coppia. Perché? Lo saprò in seguito. Perché così è la vita, suppongo. Perché non si può vivere sulla corda. Perché si invecchia. Perché ero senza soldi. Perché ero precaria. Perché il mondo è strutturato in coppie. Perché volevo provare. Perché ero dolorante nel femminismo. Per bisogno di affetto, di compagnia. Nella speranza di alleggerirmi, divertirmi. Simone si diverte con i figli. Per loro non ha il tempo contato. Domani, anzi oggi tra un paio d’ore, andiamo a Firenze. E il mo­ mento più emozionante per me. Se fossi con un’amica sarebbe ad­ dirittura un sogno. Ma non me lo sarò inventato di sana pianta un uomo disponibile, allegro, curioso, divertente. Certo esiste. Ma gio­ vane, non a cinquantacinque anni, andiamo. Eppure Simone è stato sempre così: monologa e disegna, è stanco, sonnolento, affamato. Va bene, ha preoccupazioni. Ma che bisogno c’è di andare sempre incontro a tante spese. Simone costruisce per i figli, non per sé; è sempre lì a imbastire qualcosa di durevole, di murario. Per i figli e per l’arte. La sua vita è questo. Certo io sono importantissima per lui, si è ripreso con me. Ora ha l’aria di volere proseguire chiuso in se stesso. Oppure aperto, nel senso di riabbordare una società per trarne altri vantaggi: una donna più giovane di me e più mitomane, notorietà, soldi. Non dico che mi trascuri, questo no, mi vuole sem­ pre con sé, è un’ossessione anzi, sono la sua ancora, però mi affossa, mi tira lì in questa semi-sepoltura che è la sua, ad aspettare i suoi capolavori. 22 set. Mi sono alzata alle sette e ho smesso di lavorare quasi dodici ore dopo: c’era la ruspa che, come nelle foreste deH’Amazzonia, si apriva un varco fra quercioli e cataste di pietra. Io ero sommamente felice di andare qua e là sotto il sole, di essere attenta e capace, di prendere decisioni utili rapidamente, di costruire il campo a modo

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mio. Stasera riposandomi ero tutta allegra, facevo marmellata di me­ le e cantavo. 24 set. Per l’ennesima volta mi chiedo cosa ci sto a fare a Roma. E proprio lo stile della città che mi disturba. A parte che qui non c’è una persona che desidero vedere. Eppure, sono di buonumore, niente crisi di angoscia all’orizzonte, anche se non so che combinare. Devo avere pazienza: pestare i piedi non mi serve, la libertà la conquisto poco a poco. Una volta che Tito è sistemato nella nuova casa potrò andarmene un po’ a Milano, un po’ a Turicchi, fare la mia vita. C’è uno spreco di soldi in tutto questo, ma se si spendono vuole dire che ci sono; quando non ci saranno più si vedrà. 25 set. Certo è anche frustrazione quella che mi ha legato a Marion, e forse a Ester. Lasciavo tutt’e due a ruota libera e osservavo ingigantirsi la matassa intricata degli accomodamenti, dei qui-pro-quo, mettevo dei dubbi in attesa che lavorassero e producessero gli effetti sperati, invece avevo la frustrazione appunto di vederli sempre superati e risolti in una nuova forma di autoinganno. Questa mancanza di rispondenza era desolante, e mi chiedo come ho potuto insistere tanto a lungo. Non ho risposta. Se non che volevo vederle riandare sui loro passi, ma que­ sto non è avvenuto: prima mi hanno preso a modello, poi sono tornate come erano. Entrambe hanno una invulnerabilità, una mancanza di autocritica che io gli invidio, e che si manifesta in una bonarietà del carattere che come uno schiacciasassi passa sopra a qualsiasi disagio dell’altra e anzi con l’aria di assolverla, quindi alla fine sono io a restare scontenta; ma loro possono sempre sentirsi in diritto di accusarmi di averle inferiorizzate. Infatti a quella bonarietà io contrappongo una malcelata aggressività perché il loro contatto mi toglie il fiato: non pos­ so lottare perché restano insensibili, sarei solo io a farmi male. Dovrei allontanarmi da Marion come ho fatto da Ester, e come prima avevo fatto da Marion stessa, è veramente una decisione da prendere. Quello che mi alletta è il miraggio di trovare il tallone di Achille dove affon­ dare un colpo che rompa l’incantesimo negativo e ci faccia finalmente vedere come siamo dopo esserci girate intorno per anni con l’amicizia, l’affetto, la rivalità, la gelosia, il mito, la sofferenza. Si odia chi ci alletta a una rispondenza, ma poi non la dà, non può darla. In tale delusione possono installarsi l’odio o il disimpegno.

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D’altra parte l’allettamento è anche una proiezione. C’è un gioco di specchi impossibile a risolvere. Probabilmente è anche una questione di gradi. 26 set. Nel riporre le mie carte per il trasloco ho letto velocemente qua e là e mi sono spaventata di questa massa-sviluppo oppure stati­ cità sfaccettata all’infinito. Faccio come Irene che annega sotto i suoi scritti più ancora che sotto la sua vita. Quando me ne dimentico - ma me ne dimentico davvero? eppoi dimenticare a che serve? rischio di ripetere e ripetere - può ancora andare, ma quando comincio a rileg­ gere è impossibile. Con Autoritratto ho licenziato la critica d’arte; per poco che sia mi sembra che raccolga tutto. Anche i miei scritti privati devo tirarli fuori. Mi è indispensabile. Stasera parto per Turicchi, sono stanca morta ma non vedo l’ora: soffoco in città. Quando perdo l’equilibrio fisico, e basta una nottata d’insonnia, perdo me stessa e tutto mi appare insormontabile. Non mi basta accumulare riposo, devo stare riposata in continuazione. Solo così mi piace vivere, altrimenti è uno stress. E non sto riposata se non faccio quello che voglio. Appena le circostanze mi impongono qualcosa e io non ho altra scelta che sottostare, mi ammalo, mi con­ sumo, esco di carreggiata. 27 set. Lascio andare incautamente Tito con altri su una barca, ma all’improwiso mi accorgo che il mare è in burrasca: un’onda altissima, opaca, verde chiaro porta la barca proprio sulla sua cresta e poi la sbatte giù rovesciandola vicino a riva. Inorridita mi copro il viso con le mani. Poi la tragedia. Intravedo un bambino, Tito senz’altro, in un lago di sangue, lutto maciullato, il piccolo torso si agita come se chiedesse, esigesse disperatamente aiuto, ma nessuno si avvicina, tanto si sa che è inutile. Spero di avere visto male, che non sia Tito, che non si dibatta dalla paura e dal dolore, dall’incredulità per quello che gli è successo. Io sono straziata dall’angoscia. Ogni tanto afferro un qualcuno, alto, massiccio, vestito color verde militare, lo scuoto in cerca di soccorso, ma quello non risponde. Mi rifiuto di credei'e all’irreversibilità di ciò che è avvenuto, mi rifiuto di credere persino che sia avvenuto. Poi vedo mio padre e mia madre, già al corrente: papà è sdraiato, con gii occhi chiusi, sembra distrutto; la mamma meno, è seduta, con aria quasi normale. Papà apre gli occhi e mi guarda: sono gonfi, rossi, come tutto il viso; con le palpebre cadenti di uno che ha pianto a lungo. Mi sorride con una straordinaria partecipazione, un’intesa perfettamen­

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te accordata del nostro lutto. Penso: bisogna sostituire questo bambino morto, le mie sorelle devono fare subito un bambino maschio; io no, non me la sento più.

Svegliandomi ho pensato che davvero hito piccolo non c’è più, e io ne ho nostalgia; poi ieri mi ero accorta che sente ancora molto la mancanza mia e di Simone, questo mi aveva dato senso di colpa e nello stesso tempo la coscienza che non sono libera, non ancora. 30 set. Per me che non ci ho mai fatto caso, la salute è ora un bene importantissimo, uno stato da perseguire con vigilanza. In campagna va bene perché c’è sempre un’attività salubre da svolgere che mi al­ lontana dal rimuginamento eccessivo e mi occupa in un’esperienza armonizzatrice. Qui in città ho un richiamo ossessivo aH’interiorità e alla concentrazione, nessuna attività che posso affrontare mi inte­ ressa, quindi, anche facendola, se è necessaria, mi rifugio nell’angolo più riposto di me, che è anche il più perturbatore. I miei bisogni sono ridotti all’essenziale, la città offre troppo superfluo. Simone lo amo molto in campagna, meno in città: lui sta a studio, io a casa, invece è bello stare tutto il tempo insieme, fare le cose insieme; in questo ha proprio ragione Felicita. Con il femminismo ho tentato di fare vita comune con delle amiche, ma non è possibile - può essere anche un condizionamento, non dico di no - ma non funziona, ha un carattere proprio temporaneo, in qualche modo asociale, mentre stare con un uomo e starci liberamente, voglio dire senza lo scopo dei figli, mi sembra che vada molto bene d’accordo con i miei bisogni di donna adulta. Il rapporto con Simone non riempie questo bisogno com­ pletamente, però in buona parte sì; d’altronde neppure io accetto completamente quei bisogni: ancora mi illudo (o soggiaccio all’idea) di essere giovane e avventurosa. Una vaia calma e attiva a Turicchi con godimenti semplici, un po’ poetici, un po’ prosaici, ecco quello che riesco a intravedere di nuovo e desiderabile nel mio futuro con Simone. Ma questo è solo lo sfondo, l’essenziale è un rapporto di intesa con lui, vasto che di tutti rimane lui al mio fianco. 1 ott. Trasloco fatto. La casa che Federica mi ha lasciato quasi in eredità è così perfetta, tra Nicola che l’ha arredata e lei che l’ha riem­ pita di confort e di provviste, che mi sento un po’ come un elefante al quinto piano. Tito è felice, e anch’io, sua prigioniera per amore.

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Tito mi chiede “Cosa fai tutto il giorno?”. E io “Resto in casa”. E lui sbalordito “Ma perché non vai fuori: sono sette ore da stare in casa”. “Non so dove andare, non è come a Milano che ho tante amicizie!” Davvero è sconsolante rimanere tappata qui dentro, ma sono stan­ chissima pur senza riuscire a dormire, ho le mestruazioni, insom­ ma non mi reggo dritta. Leggo, non ce la faccio neppure a scrivere, aspetto che Tito e Simone vengano a casa; tra quattro ore! Tutto questo è assurdo, ma non ho scampo, e allora basta. Aprendo le scatole del trasloco mi accorgo che porto in giro strac­ ci: ci avessi pensato prima ne avrei buttato la metà, tanto sono in­ servibili. E colpa mia, però me la prendo mentalmente con la don­ na di servizio come se fosse suo dovere, per uno stipendio, farmi da madre. E ottobre: sono nuda e sto sudando. Vivere è una fatica fisica oltre che psichica. Non mi meraviglia quello che dice una studiosa ame­ ricana di risuscitati: chi è morto e poi torna in vita, non è mica poi così contento. Odio Roma. Amo Tito. Tito è Roma.

Ma dove potrei andare se tutto mi affatica? Non mi va giù di non avere più energie da buttare qua e là: sono costretta a calcolarle. Questa casa è molto molto carina, più di quanto sarei riuscita a fare io: forse è questo che mi fa sentire a casa di altri. 2 ott. No, è che io da tre mesi voglio andare a Milano e non ce l’ho fatta ancora: prima per il caldo, poi per Tito. 3 ott. Leggo una recensione a un libro su genitalità e cultura. Ecco perché nei miei sogni appare talvolta la donna con il fallo, Vanda per esempio, si vede che in lei sentivo qualcosa che risvegliava in me la paura dei miei impulsi onnipotenti. Anche Ester e poi Sara hanno avuto questa funzione (però con sfumature diverse): infatti le temevo entrambe come se pretendessero da me la rottura della diga con cui tenevo a bada, senza saperlo, straripamenti di onnipotenza. Anzi,

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l’angoscia derivava dal dovermi accorgere, nel confronto con loro, della dolorosità di quella diga. Adesso sono cosciente della diga e del suo significato, la differenza è tutta qui. Il termine “predatorio” mi ha richiamato l’ostilità per quelle amiche che praticavano il menefreghi­ smo e l’azione di arraffare con un’ambivalenza che mi ha incastrato, fatta di seduzione e di sottinteso ricatto, di lusinga e di sfrontatezza. E io ci cascavo proprio perché, avendo tacitato in me quegli impulsi, appunto senza coscienza, ne restavo vittima quando, aggredendomi dall’esterno, trovavano risonanza dentro di me. Così li pativo, senza riuscire né ad assumerli, né a liberarmene. Ma come si può scrolla­ re di dosso la pre-genitalità? Infatti la donna, da un lato è sempre sottoposta alla regressione, improvvisa e ingiustificata, fuori da una possibilità di capire; dall’altro, invece di conquistare un atteggiamen­ to maturo, scambievole, ricade in una dedizione materna (con fondo predatorio). Il bello è che io mi considero genitale, come tipo, anche se non mi interessa il coito e ho l’orgasmo clitorideo. 4 ott. La genialità femminile è clitoridea? Dopo che Lucia ha fatto una grandissima fatica per mettere in ordine, una del­ le gemelle si accorge di un giocattolo per terra tutto polveroso e pretende che sua madre lo pulisca e lo metta a posto. Nella scena, di Lucia si vedono solo le gambe e i piedi, cioè le scarpe. Allora l’altra gemella, diventando tutta rossa per l’emozione e lo sdegno, dice che no, la mamma adesso deve lavorare per sé, non si può chiederle di dedicare ancora il tempo a loro. Distinguo esattamente due bambine: una tutta prepotenza, l’altra tutta comprensione.

Certamente questa è una scena vissuta: Lucia che si comportava in modo irragionevole con la mamma, io che indignandomi la difende­ vo dai suoi attacchi. 18 gen. 1945. Ieri la mamma doveva uscire con me, ma Lucia in casa sola non ci voleva stare perciò è andata dalla Giovanna per domandarle se poteva venire a casa nostra a giocare (a farle compagnia), ma lei non poteva e così io non vo­ levo rinunciare a uscire e neppure la mamma, e Lucia non voleva rimanere sola in casa e, tutte e tre piccate e ripiccate si voleva resistere nel nostro proposito. Insomma, a farla breve, siamo uscite di casa tutte e tre ma, giunte a un certo punto, la mamma si è infuriata e ha detto che non avrebbe lasciato in casa soli i

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bambini, così siamo tornate indietro. La mamma era al parossismo dell’ira e ha detto a Lucia “Egoistona! Vigliacca!”, che non sono parole da poco. La sera la mamma si è calmata. Io non posso descrivere la mia pena.

Ecco dove ho cancellato il mio bisogno di onnipotenza: diven­ tando critica verso la sorella più piccola e perciò più esigente, e assumendomi il compito di chi modera i suoi bisogni nella con­ siderazione dell’altro. Cioè mi identificavo con mia madre, con la persona adulta. Ecco perché mi sentivo poi attratta dalle ragazze prepotenti come se dovessi loro insegnare qualcosa, in realtà per apprendere di nuovo il mio istinto sacrificato. Infatti nel sogno le due bambine sono gemelle, cioè una unità che appare scissa. 5 ott. All’alba mi sono rotolata, è la parola giusta, dalle 5 alle 6 in conseguenza di un sogno, che però non ricordo. Sensazioni: che raz­ za di vita sto conducendo? Finisco per vivere nella coppia, addirit­ tura l’accetto come se fosse una conquista. E una conquista o un cedimento? Chi può saperlo. Ieri ero tutta triste per la partenza di Simone, stanotte mi sembrava di essere finalmente libera. Insomma la coppia non si può accettare una volta per tutte: dà tranquillità e piaceri, ma è anche il confino. Mi arrovellavo: come faccio a uscire di qua? Sono ormai sclerotizzata nei gesti, nelle abitudini, apprezzo an­ golini di pace... Dopo avere tanto lottato, eccomi qua in un’esistenza monotona, o comunque di famiglia, senza sbocchi sull’esterno. Non me la sento più di sconquassare la vita mia e degli altri per ottenere qualche emozione in più, dovrebbe capitarmi a tiro, ma come mi capita in questa routine? La fortuna è trovarsi, passati i trentanni, senza figli, allora c’è qualche speranza di farcela a vivere liberamen­ te; non che sia facile, ma più possibile certo. Io mi sono bruciata in ribellioni catastrofiche, anche autodistruttive, così per forza ho finito per aggrapparmi dove scorgevo una qualche garanzia di protezione per me. Avevo avuto troppi sintomi che non ce la facevo da sola, non è così? E così. E anche se il mio inconscio se ne sbatte della mia in­ columità e per tormentarmi mi presenta miraggi sibariti, io lo so che non ce l’ho fatta, e basta. Quello che mi turba è la sensazione che forse adesso ce la farei, a vivere allo sbaraglio intendo, solo avessi otto anni di meno, otto an­

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netti sarebbero essenziali, qui il guaio sono questi quarantaquattro anni, un po’ troppi per le mie velleità. C’è chi si è pescata un ragazzo, quasi se l’è comprato, ma era per il desiderio di vivere in coppia, io invece vorrei delle emozioni, tutto qui a cominciare dall’emozione per un’identità cui io possa aderire senza riserve. Certamente come coppia quella con Simone è imbattibile. Vorrei un po’ d’imprevisto. Ma perché lo vorrei se, appena pensato, già mi stanca? Lo vorrei per­ ché quella gemella strilla e strepita dentro di me e non vuole sentire ragioni, non vuole ammettere che non si può. L’altra si affanna a spiegarglielo, però non ottiene alcun risultato. Quella è irriducibile, bisognerebbe dargliela vinta, ma nel sogno perché nella realtà non esiste. Insomma è un conflitto e me lo tengo. Non ci sono decisioni da prendere perché quella che andava bene è già stata presa. Per ora la mia situazione è questa, che ho selezionato tra tante possibili, la mia realtà è questa, le mie capacità sono queste. Per ora. Leggendo un brano di Diari di dame di corte deirantico Giappone dove una donna racconta la solitudine dopo la perdita del marito, mi è balenata l’ipotesi che la mia resistenza ad attaccarmi a Simone possa dipendere dall’angoscia della separazione, della morte in ultima ana­ lisi. Una volta Tina mi disse che temevano, lei e il marito, la morte l’uno dell’altra perché erano così uniti da tanti anni che non avrebbe­ ro saputo vivere separati. Le risposi subito che fra me e Simone era diverso, avevamo vissuto abbastanza indipendenti per non avere quel problema. A parte che adesso quella mia risposta mi sembra ottusa e in qualche modo ostile - non mi andava che Tina mettesse il dito sulla piaga, io sono ancora abbastanza giovane per evitare quelle angosce - mi è chiaro anche pensando alla mia reazione al brano del diario citato, che accettare davvero Simone significa accettare di temere la separazione. Accettare di amare una persona è accettare di soffrire di perderla e quello, lo sento bene, non l’ho ancora accettato. Mi trastul­ lo immaginando che resterò abbastanza curiosa e vitale da passare ad altri lidi in modo da sostituire via via quello che la vita si proporrà di togliermi. Mi commuoveva moltissimo quella donna giapponese, mi sembrava così amalgamata con il suo destino, così femminile e vera, e nello stesso tempo, pur invidiandola, mi ritraevo così velocemente dal suo modello, che non ho potuto fare a meno di rifletterci. Forse stanotte ho sognato mio padre, qualcosa di tremendamente tri­ ste collegata con lui.

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Questa casa è stata una fortuna straordinaria, straordinaria. C’è tutto fino all’ultimo spillo come io non ho mai saputo (né voluto, ma non me ne vanto) fare. Qui potrò battere a macchina tutta la mia carta scritta: c’è pace, silenzio, spazio, tavoli e riscaldamento. Il fatto è che mi decida una buona volta. Mi spaventa senz’altro guardarmi in fac­ cia da quando ero ragazzina a oggi. Poi non potrò più scappare. Pito viene a casa con un amico, un ricciolino con occhi a palla in sampaku, molto gradevole. Sono così freschi, allegri, hanno una tale voglia di divertirsi che li ammiro, e me ne sento contagiata. Sono tutta sognatrice dei loro programmi per la serata. “Meglio della scuola” mi sono detta dando il permesso di cenare fuori e tornare prima di mez­ zanotte. Domattina entreranno in classe con un’ora di ritardo. Ma guarda se la crisi della scuola, che magari presto sarà abolita perché nociva, deve guastare la mia seconda giovinezza, quella di Pito. Lo aiuterò come posso a resistere alle pressioni della società organizzata. Ho mangiato un panino al prosciutto e una birra così non ho piatti da lavare e forse dimagrisco anche. Mi sto abituando alla città, a Roma, alla casa, al tran-tran. Spio qualche sbocco senza affannarmi. 7 ott. Piaccio a un tale, che a un certo punto mi stringe a sé. Avverto che ha già il pene eretto. Poi si siede per terra e pretenderebbe di penetrarmi in quella posizione, con me che gli calo sopra. Io sono a disagio: mi ricordo di essere indi­ sposta o comunque alla fine delle mestruazioni. Non se ne fa niente. Leggo e cerco di individuare i miei comportamenti difensivi per superare l’aggressività. Uno è la “rinuncia altruistica”: quando un certo tipo di pulsione viene proibito, accade che il soggetto lo pro­ ietti su un altro, usando poi di tutte le sue risorse perché l’altro pos­ sa realizzare quei desideri che a lui sono vietati; questo compor­ tamento, benché di origine egoistica, ha però tutte le apparenze dell’altruismo. E quello che io ho definito “complesso del Battista”. La “rinuncia altruistica” è una forma di “identificazione con il rivale”. 8 ott. ‘‘Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Mt., 3,13) Giovanni Battista.

"... tutti gli eroi, tra i quali si devono comprendere i grandi visionari come Gesù, hanno sempre come prerogativa un’infanzia travagliata da ansie persecutorie ri­

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sultanti dall’atteggiamento figlicida dei genitori o delle figure equivalenti.” (Arnal­ do Rascovsky, Ilfiglicidio , Ed. Astrolabio)

Nel libro di Rascovsky c’è un capitolo dedicato a Dostoevskij, scrit­ tore analizzato da Freud in senso parricida e che qui risulta invece condizionato alla violenza figlicida del padre. Non c’è bisogno di aggiungere altro per giustificare la mia sviscerata predilezione per Dostoevskij intorno ai vent’anni. A quell’epoca forse non mi iden­ tificavo coscientemente in quella tremenda lista di bambini per­ seguitati e di figli offesi, quanto nell’infinita pietà e nel profondo lamento dell’autore. Sebbene avessi già cominciato ad accettare di essere quello che l’autore chiama l’“Io ausiliario dei genitori”: “Come le colpe dei padri vengono convertite in un crimine dei figli con l’accusa inversa di parricidio, così corrispondentemente l’‘Io ausiliario’ del figlio che do­ veva essere costituito dai suoi genitori, fu distorto in modo da convertire il figlio nelDIo ausiliario’ dei genitori. Paradossalmente si costrinse il figlio a trasfor­ marsi nel padre dei propri genitori e a realizzare per essi ciò che loro dovevano realizzare per lui”.

Il passaggio mi fu reso possibile dal fatto che i miei genitori, entrambi orfani, palesemente non avevano avuto neppure quel po’ di affetto che erano poi riusciti a dare a me, tra sevizie psicologiche che però io non potevo non valutare sullo sfondo di una spaventosa carenza affettiva nella loro infanzia. Le frustrazioni che ho avuto nel femminismo mi sono tornate in men­ te oggi, quando una ragazza mi ha telefonato - la conosco appena - dopo tanto tempo. Abbiamo parlato a lungo, alla fine ero stanca e l’ho constatato “Ci siamo spremute il cervello per dire il più possibile e l’essenziale, adesso siamo stanche”. Ma lei si deve essere offesa per­ ché ha interrotto piuttosto bruscamente. Questi scherzetti possono succedere con un paziente, vero, che ti ha regolarmente pagata, ma così è davvero assurdo. Nonostante i sogni dove Tito è in pericolo di vita o morto addirittura, non provo turbamento o senso di colpa perché lo amo davvero, senza ambivalenze, sono certa di amarlo, lì non m’inganno. Morirei al posto suo. A nessuno sono sicura di volere bene come a lui, neppure a me stessa. Questa constatazione mi immette direttamente nel simbolico.

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Simone non mi manca anche se sono più tesa. Ho letto moltissimo in questi giorni, incamero senza contrappeso di comunicazione, senza espressione affettiva, senza sbocchi. Mi mancano il mio benessere, la mia serenità, più che lui. O non voglio ammetterlo? Con Tito ho visto Accattone di Pasolini alla TV Ci piaceva a tutt’e due, abbiamo reazioni simili. Questi romani ostici per noi che ci disarmano e ci insospettiscono. Mi chiedevo cosa ho da spartire con Pasolini, perché gli avrò scritto quella lettera. E un uomo che mi esclude, che non suppone neppure che io esisto, non faccio parte del suo mondo. 9 ott. Mi è rimasta la commozione, non c’è niente da fare. La com­ mozione per l’intenso amore fra uomini, per tutto quello che l’eroti­ smo fra uomini fa scoprire di loro stessi. Non so, mi sembrano orfani. Mi occupo della casa per crearmi un meccanismo che funzioni, che vada bene a Tito e mi lasci libera. Però la sera mi sento stremata, non tanto di fatica quanto di dispersione. Sogni di ieri e di oggi: Su un ascensore qualcuno, un uomo, mi pianta fortemente le dita nella schie­ na alfaltezza della vita e mi fa un dolore lancinante (che ricorre, anche se non di frequente, nei miei sogni). Ci sono anche Matilde e altre, chiedo loro “Chi è stato?”, ma non mi sanno rispondere, non hanno vasto, erano distratte. Federica ha preso la mia casa, e adesso, messa bene, in un altro modo, appa­ re più grande, sufficientemente grande. Anzi c’è un angolo che io tenevo al buio e completamente inutilizzato: con una bella luce al muro, un tavolino, si rivela un vano abbastanza spazioso, caldo, accogliente. Potevo fare a meno di traslocare, tutto sommato.

Sto leggendo un sacco di libri di Federica, oltre a essere subentrata nel suo appartamento, che mi chiariscono molte cose di me. Torna Simone, e sogno: Un malioso amico di Simone è preso dalla polizia e viene condannato. Per lui non c’è scampo. Anche Simone è prigioniero: rischia grosso, a quanto posso capire, però non sembra preoccupato. Anzi tenta di scherzare “Mio padre ma­ lioso diceva sempre...”, così si rivolge a una guardia, che però lo zittisce senza

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simpatia. Io la vedo brutta e glielo dico, ma lui è ottimista e da tutto quel quadro poco confortante sembra ricavare l’impressione che si metta bene.

Insomma io spero che Simone non si scoraggi di fronte alle mie difficoltà. 11 ott. C’è qualcosa con scarpc-espadrilles che mi è andata male. Cosa mi ero messa in mente: mai più scarpc-espadrilles per me. Il mio primo paio di espadrilles l’avevo comprato a Parigi, a ventan­ ni, e a Parigi stavo sperimentando il fallimento del mio andare alla ventura secondo un modello che avevo preso dagli scrittori e dagli artisti. Ho cambiato casa: sono lì con Simone e il suo assistente. Nella cucinetta un po’ dclabrée osservo con piacere “Mi ricorda il nostro appartamento di via Verdi”, ma l’assistente mi smentisce ridendo “Non c’è paragone, per fortuna”. Mi me­ raviglio proprio che non voglia vederci analogie. Poi ci ritroviamo in camera Simone e io voglio uscire, ma non c’è porta, solo una finestrella che dà nel retro della casa. O questa? Che idea! Dico subito “Qua bisogna buttare giù il pezzo di muro e dalla finestra fare una porta, diamine!”. Ma Simone pensa che possiamo servirci di una scaletta per passare dalla finestra: lui ci tiene ad arredare in un certo modo la stanza adiacente e un’apertura gli rovinerebbe il progetto. Io mi sento chiusa dentro, ma penso che se a lui piace tanto vale accontentarlo: impor­ tante è che non me lo imponga, ma chieda la mia approvazione.

Anche in questo sogno c’è il desiderio di fermarmi, di mettermi a riparo da smanie di evasione, però attribuisco questo desiderio a Simone, non a me, comunque mi aspetto che lui collabori a darmi stabilità. Questo della stabilità può essere il riflesso di un’osservazio­ ne letta in un libro II significato della disperazione, una raccolta di saggi sul tema (Willard Gaylin, Ed. Astrolabio). L’osservazione era sulla difficoltà a fissare la libido nei tipi maniaci depressiva nei quali avevo trovato certe analogie. Per esempio, tutte queste citazioni è un fatto orale, di incorpora­ zione e di appoggio esterno. E questa osservazione è autodenigra­ toria, cioè depressiva.

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C’è stato un momento in cui mi sono chiesta se alla scoperta del Sé dovesse fare seguito la sconfitta e conseguente scomparsa dell’Io. For­ se non distinguo correttamente le funzioni psichiche, però il mio ide­ ale era di diventare come Sara nella quale identificavo un trionfo del Sé. Ma se per caso si trovava in stato maniacale il suo era un trionfo esaltato dell’Io. Che confusione! Però il suo lo era - e qui riprendo una osservazione di Jung - accordato e scambiato con il Sé. Comun­ que Sara scopriva se stessa in condizioni di autostima sollecitata dalla mia stima, e conseguente al ritrovamento delle pulsioni dopo un gra­ ve blocco; io invece, dopo l’eccitazione forse leggermente maniacale dell’inizio del femminismo, in cui mi ero liberata da un’oppressione, ed ero confermata da un vasto consenso, ho cominciato a scontra­ re con il ritiro di questo consenso, con l’aggressività verso di me, le critiche, i rimproveri, il rifiuto. Questa situazione mi ha spinto alla depressione. Ma c’era un dato funzionale importante in questo: che 10 dovevo integrare alla coscienza molta parte di me, ecco che l’Io ha subito uno sconvolgimento con conseguente perdita e depressio­ ne. D’altra parte mi ritenevo autonoma e non lo ero completamen­ te perché, sebbene pensassi con la mia testa, tuttavia mi appoggiavo alla stima che mi ero procurata attorno. Quindi mantenevo ancora questa forma di dipendenza o piuttosto il bisogno di questa forma di garanzia. Quanto fosse importante mi è apparso nel momento in cui mi è stata tolta e sostituita con la diffidenza e l’aperta ostilità. Lo choc è stato tale che mi sembra già tanto se sono ancora qui a parlarne. 11 mio ideale di liberazione Sara lo realizzava: ecco che la mia mor­ tificazione era troppo grande. Perché nello stesso tempo mi rendevo conto che avevo ben poco dei suoi ingredienti in me, al confronto. Io restavo con il mio ideale, mentre Sara realizzandolo (o apparendo a me che lo realizzasse) non ne aveva nessun mito, ci scherzava su. Adesso mi ero cominciata ad ambientare a Roma e andarmene è stato un po’ disorientante, ma a Turicchi c’era la vendemmia da fare e poi mi mettevo sulla strada di Milano. Però Simone governa un po’ troppo le mie azioni: accordarci sempre per muoverci significa per me essere richiamata a fare i conti con la realtà mia e sua, e poco con gli impulsi e i desideri del momento. 12 ott. Mio nipote, il neonato, è diventato un gigante, grasso e bello: il latte gli cola dalla bocca quando si appoggia alla spalla di sua madre. Lo prendo in

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braccio, ma è un piombo, non ce la faccio a tenerlo. Mia madre conferma que­ sta stupenda crescita e mia cognata ne è contenta.

Avevo letto dell’oralità, della periodicità della fame e della sazietà, l’importanza del nutrimento, del seno, della madre. Mi ha colpito l’osservazione che non bisogna scoraggiare un depresso dall’avere una certa attività perché spesso le gratificazioni che ottiene possono sollevarlo dalla depressione. In effetti io ero stata scoraggiata dal con­ tinuare il femminismo: all’improvviso quello che sembrava lo scopo nascente della mia vita mi appariva già al tramonto. E questo perché avevo sbagliato tutto, avevo ingannato me e le altre. Stamani presto avevo parlato con Simone e mi aveva fatto bene, tant’è ho dormito ancora. Lui aveva concluso i nostri discorsi dicendo che ogni essere umano ha tutta l’umanità, tutte le fasi, dentro di sé, solo che per interferenze esterne può restare segnato da qualcuna di que­ ste fasi, ma non è importante. Era venuto dietro a me che affermavo di non concepire certe esperienze umane come malattia mentale: la sanità allora sarebbe solo la malattia mentale più diffusa e accettata. Però io mi arrovello su questo, e lui no. Mi sono sempre considerata un tipo più angosciato che depresso con alternanza di fasi euforiche, perché io lotto e non mollo la speranza: quando sembra che ci rinunci può anche essere una manovra per cal­ mare e propiziarmi ciò che mi assilla internamente, e vedere se così funziona. Finora non ho mai sperimentato il punto oltre il quale si cede, si vuole veramente morire: ci sono andata vicino, magari, per provare, per convincermi della mia buona fede, ma non mi sono sco­ perta davvero meritevole di morire. Anche se Sara mi accusava terri­ bilmente e così altre, ho sempre supposto che ci fosse un equivoco, un errore di valutazione, che forse io non sarei riuscita a dimostrare. Dopo essermi allontanata da Sara, mi sono messa a cercare quell’errore. Devo dimostrare a me stessa che tutta la frenesia di libertà di Sara apparteneva a una fase maniacale e le accuse che mi rivolgeva al desi­ derio di godere della mia sofferenza. Io sentivo questo, ma non osavo affermarlo: ecco che avevo perso fiducia in me stessa. Anch’io mi ri­ conosco nel ciclo maniaco-depressivo, solo che la mia fase maniacale ha scontrato con quella di Sara di gran lunga più forte e mi ha creato la depressione.

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L’Io è insicuro fintanto che non sa dove affonda le radici e per saperlo deve rendere coscienti (rivivendole?) tutte le fasi della sua formazio­ ne. Altrimenti poggia su una interpretazione gratificante della sua formazione, invece l’interpretazione è funzionale. Io mi sono spesso appoggiata ad amiche megalomani per trovare una difesa dalle mie depressioni. Mi identificavo non nel mio contrario, ma in un atteggiamento opposto nel fare fronte a qualcosa di comune. Con Sara ero di una permissività totale, il che le ha permesso di scio­ gliersi dall’inibizione e di ritrovare e rivivere gli istinti perduti. Certo, è avvenuto questo, ma come valutare ciò che è avvenuto? ”... ogni lotta di ambivalenza scioglie la fissazione della libido all’oggetto scre­ ditandolo, denigrandolo e addirittura per così dire uccidendolo. E possibile che tale processo giunga a termine o dopo che la collera si è spenta o dopo che l’oggetto è stato abbandonato in quanto privo di valore. Non siamo in grado di dire quale di queste due possibilità sia quella normale. L’Io può in seguito trovare soddisfazione nel riconoscersi come il migliore dei due, come superiore all’oggetto.” (S. Freud, Lutto e melanconia , in op. cit.)

E quello che Sara ha fatto, mentre io tento di “dare a Cesare quel che è di Cesare” per liberare la mia mente dalla sua presenza ricon­ ducendo le sue accuse al suo problema, occasionalmente verso di me. Questo non vuole dire che lei sia migliore di me o io di lei, vuole dire che abbiamo due strade diverse. Per nulla al mondo vorrei avere la sua, adesso, ma solo perché non è la mia. Naturalmente non ci ca­ pisco più niente, devo lasciare depositar tutto questo che ho letto e vedere a cosa mi servirà. Con Sara si era creata un’implicita competi­ zione da cui io uscivo sconfitta: non solo perché provavo senso di im­ potenza, ma soprattutto perché lei era consapevole della sua vittoria e non me ne faceva mistero. Lì mi è venuta la depressione. Dirglielo avrebbe reso la mia situazione insopportabile, non dirglielo mi faceva sentire colpevole, quindi doppiamente indegna. Adesso non c’entra rivangare quello che è stato. Ah, un’altra contrad­ dizione: da un lato Sara rappresentava il mio ideale come realizza­ zione di sé nella libertà, nell’apertura - almeno così io interpretavo la sua “fame di oggetti” - dall’altra il mio ideale ero sempre io, cioè una persona autocritica, con una personale esperienza dei rapporti tra piacere e realtà, con tutto un meccanismo psichico per rimetter­

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ci il meno possibile, in grado di procurarsi successi e gratificazioni e di sostituirli a tempo, capace di rinunciare piuttosto che perdere la stima di sé ecc. Quindi la mia competizione con lei era sempre dissociata: da un lato l’appoggiavo comunque poiché vivevo in lei attraverso l’identificazione, dall’altro le contrapponevo timidamente il mio io basato sul controllo della situazione, sull’accettazione di sof­ frire per capire che a lei palesemente mancava. Ma erano due aspetti in contraddizione, appunto, che mi facevano sentire senza unità. E quello che le invidiavo soprattutto era l’identità con se stessa. Così lei sospettava del mio appoggio che la rendeva dipendente, e disprezzava l’entroterra diverso da cui non mi potevo staccare e che restava nono­ stante tutto l’asso nella manica, per lei in funzione costruttiva, per me di una sconcertante disposizione a barare. Nessuno appoggiava il mio povero io malconcio e malinconico - mentre ero abituata a imporlo in qualche modo e a trarne motivo di soddisfazione - e infatti in quel periodo c’era in tutto il gruppo una latente ribellione alla mia per­ sona, ribellione che, pensavo, avrebbe preso la via indicata da Sara, per cui stavo nella peggiore delle aspettative, ecco che la depressione si mescolava all’angoscia. Allora dovevo sempre vederla per capire quale sarebbe stato il mio destino. Forse la competizione mi disturba perché temo di manifestare aggres­ sività e poi di risultare perdente. Così non avrei più la scusa di dire che ho perso perché non sono stata aggressiva. Posso esserlo se non ho interdizione morale, diciamo. La interdizione morale mi viene dalle persone indifese. Ora ho letto che le persone indifese di fronte all’og­ getto sono quelle a fissazione orale, quelle che manifestano candida­ mente dipendenza dall’oggetto. Una palese dipendenza mi appare come un mettersi nelle mie mani, e mi inibisce l’aggressività. Come tra gli animali, quando uno mostra la gola. Quando poi cominciano a rivelarsi le ambivalenze, io rimango sotto l’influenza dell’inibizione all’aggressività e continuo a tenere desta e cosciente l’immagine ini­ ziale adesso chiaramente idealizzata. Per quante cose negative Sara avesse potuto dirmi di sé non potevo non ascriverle a una sua totale lealtà nella dipendenza, che continuava a mantenermi il freno. D’altra parte la dipendenza ammessa da parte sua produceva come un raffor­ zamento dello stesso freno. Quando ha cominciato ad accusarmi avrei potuto sentirmi io nel ruolo di sua vittima, anzi mi sentivo tale, però non potevo ammetterlo e quindi reagire: infatti non ero stata me stessa

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perché inibita. Quindi speravo di riconquistare il suo affetto lascian­ dole tutto lo spazio possibile e ritirandomi (nella depressione) mentre lei poteva liberarsi di me solo passando dalla fase divorante - lo ha fatto letteralmente - a quella di espulsione e rigetto. Così era stato con mia sorella: mi aveva preso tutto e poi mi aveva rifiutato. Presso i genitori non avevo trovato credito alle mie lagnanze così quelle caratteristiche subite divennero un elemento di fissazione per me, un segno di valore e di potenza. Anzi di onnipotenza. Ero rimasta sconfitta, tutte le mie astuzie non erano servite ad avere la meglio di quella diabolica condotta. D’altra parte faceva parte della sua diabolicità apparire sempre candida e indifesa, e io armeggiatrice e cattiva. Non essendomi potuta fare giustizia, dato che i genitori l’avevano sempre giustificata e capita, dovevo cambiare tattica: ecco l’inibizione. Però mi è rimasto un incantesimo verso persone di quel tipo, che ho preso ad affrontare con un comportamento costruito. Da questo mi aspetto la soluzione del problema, invece le ambivalenze riaffiorano in entrambe. Tutti questi discorsi non servono a niente. Servono a riempire una giornata di pioggia in campagna, altrimenti non saprei come pas­ sare il tempo. 13 ott. Una bambina ingorda, piena di latte come nel sogno, io non la reggo. Non m’interessa più campagna, vendemmia; voglio andare a Milano dove ci sono emozioni, incontri. Questa volta me li procuro, sennò non valgo niente, sono una sbruffòna. Basta con la depressio­ ne, l’isolamento, il ritiro dal mondo, l’arrovellio tra me e me. Basta con Sara, Ester, Lucia. Fantasmi. Voglio vivere. La bambina ingorda di vita sono io, che me la prendo a fare con le altre. Dovrei dire “Beate voi”. La bambina che si scandalizza dell’in­ gordigia sono io. Che me la prendo a fare con le altre? Dovrei dire a me stessa “Come non riesco a tenerti a bada, piccola petulante!”. Il conflitto è mio. Voglio smettere di cercare una conciliazione psicologica, voglio agire. Come ho fatto dopo la depressione di quando mi sono sposata e ho avuto il bambino e che ho risolto, temporaneamente, con il lavoro di critica d’arte e relative gratificazioni, con rincontrare artisti con cui cercavo di comunicare. Per quanto tormentosa fosse l’attività di scri­ vere di oggetti misteriosi, tuttavia era un’attività interessante, vitale:

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l’elaborazione di sé insieme ai dati della realtà è un fatto che soddi­ sfa e tendenzialmente offre possibilità di equilibrio. La depressione porta all’isolamento, la noia deriva dalla mancanza di stimoli esterni da svolgere. C’è una descrizione di questi stati di depressione-noia in Scacco ragionato. Anche in quel periodo, confinata a casa con un bambino lattante e un uomo indaffarato, avevo perso fiducia nella mia capacità di fare scelte giuste per me - ne avevo fatta una tremen­ damente sbagliata - e mi consumavo nella sensazione del fallimento e della noia. Un’osservazione che mi ha colpito: la persona normale reagisce alla perdita temporanea o alla diminuzione dell’autostima, cioè alla fru­ strazione, aspettando fiduciosamente un momento seguente in cui questa perdita o diminuzione possa venire risolta. Io invece, appena mi sento in crisi, reagisco cercando di risolvere subito, e perdo un sacco di energie in questa impresa. Così non sono disponibile né agli altri, né al lavoro. Il meccanismo dell’invidia mi si è chiarito come meccanismo di dife­ sa. Infatti chi invidia non vuole vedere i compromessi e le sofferenze a cui l’invidiato a sua volta ha dovuto piegare la testa. Così riesce a mantenere l’illusione che le soddisfazioni invidiate siano (teoricamen­ te) realizzabili anche per sé. Questo è molto vero, infatti Nicola era furibonda quando Simone le ha detto che io ho sofferto molto, e io stessa ho negato a lungo le sofferenze di Sara - sofferenze che negava lei stessa - sia per sentirmi più completa di lei, sia per ipotizzare uno sviluppo in cui anch’io avrei raggiunto il suo stato beato. La depressione serve a elaborare la delusione - il Sé appena ritrovato promette eden che non esistono, dunque non gli si può credere incon­ dizionatamente - e a favorire l’adattamento alla realtà. Se io ho mentito a Sara nascondendole (ma li nascondevo a me stes­ sa) i miei desideri di onnipotenza infantile sotto un aspetto di ragione­ volezza e spingendo lei a crederci (ma in questo non facevo altro che appoggiare le sue richieste di approvazione di quei bisogni), lei stessa mi ha mentito passandomi per realtà le sue illusioni. Ho parlato di me con Simone riandando alle mie difficoltà, ai miei miti, alle mie depressioni con la più grande semplicità. Simone dice che gli faccio l’effetto di una farfalla contro un vetro, che la cosa più bella mia, che lui ama di più, è la mia insistenza. “Ahi ahi” gli ho

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risposto “questa immagine del vetro sta a indicare che mi vedi su una strada che ha di fronte un ostacolo insormontabile”. “Ma no, il vetro è l’insignificanza della vita che tu ti ostini ad animare.” E stato un momento intenso, ma io continuavo a borbottare tra gli abbracci, per accertarmi che non mi mettesse di nuovo su un piedistallo. Ri­ spondeva che no, che mi critica sempre - è vero - ma che io sono così aperta, aperta nella mente. Con lui mi è facilissimo dire tutto, così può pensare che sia sempre così. Ma anche perché lui è disposto ad accettare tutto, e non ha ambivalenze nei miei confronti. Le ambiva­ lenze mi bloccano molto. Non si può aprirsi con chi ti aspetta al varco con ostilità, con chi si misura con te sperando di scoprire una défail­ lance che lo rassicuri su se stesso, anche se alterna momenti affettuosi e disarmati. Anzi è proprio questa la situazione più comune, almeno fra donne, e la più difficile da afferrare. Infatti come giustificarsi di fronte a se stesse di una chiusura quando sembra che ci siano tutte le condizioni per essere aperte? In macchina con Simone avevo la testa che sprizzava riflessioni chia­ re, confortanti, rasserenanti. Peccato che non ne ricordi neppure una. Ma me ne è rimasto lo stato d’animo. 14 ott. La parità a priori è un’astrazione. La parità va conquistata, non offerta. Lucia faceva i capricci, io ero ragionevole. Non ricordavo più la fru­ strazione interna al capriccio, per cui il bambino finisce per supe­ rarlo comunque e trovare un compromesso tra desiderio e realtà. Vedevo solo l’esercizio dell’onnipotenza perduta: coscientemente prendevo un atteggiamento di superiorità, inconsciamente cova­ vo il sogno di riprendermi quella posizione. La mia provvisorietà dipendeva dal tenermi aperta tale possibilità come la vera vita che mi spettava. L’esperienza mi diceva che non era possibile. Sara af­ fermava trionfalmente che lei c’era riuscita. Allora si riapriva la spe­ ranza anche per me, ma nello stesso tempo la constatazione che io non ne ero capace. La mia vita non valeva niente, i miei sforzi erano stati fatti nella direzione sbagliata. Avvertire di nuovo la possibilità e riconoscermi impotente. Attra­ verso la depressione invece sono arrivata a riconquistare coscien­ temente i motivi della rinuncia, motivi di conciliazione con la real­ tà. Ecco perché la mia poesia a Sara cominciava:

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Perché non posso credere più a lei che a me?

Poi ho tolto questi due versi perché preferivo fattacco diretto “Lei mi rivela tutto...”. D’altra parte accogliere la realtà e abbandonare definitivamente i sogni giustifica ad abundantiam la depressione, che è il meccanismo con cui si compie tale dolorosa morte e resurrezione. Sono stimolata a tirare tante conseguenze perché mi sembra un punto importante. Ricordo quando una di Rivolta se ne andò “per non lasciare il marito”. Nessuna le aveva detto che avrebbe dovuto lasciarlo. Ada nel suo cammino a ritroso aveva incontrato un nodo di compromessi e di rinunce dalla cui accettazione era scaturito il suo matrimonio. Prenderne coscienza le si sarebbe rivelato insop­ portabile. L’Io ha sogni di gloria il Sé sogni di onnipotenza prima rinunci all’onnipotenza e poi ti sfugge la gloria. La vita è un sogno finché la realtà non la desta.

Desidero deporre da me il lattante, il bebé, quello che mangia ed è contento solo nell’assoluta sazietà. Desidero essere adulta, smetterla con le esigenze di totale appagamento. La realtà non è una madre che ti nutre fino in fondo. Il mito del bebé sazio è una fregatura. Un po’ di fame non è la fine del mondo, un po’ di frustrazione è inevi­ tabile, inutile drammatizzare e sognare paradisi perduti a scapito del presente. Tra l’altro la prima esperienza depressiva è situabile intor­ no al primo anno di età, dunque è proprio quella del bebé, il “tutto stomaco”. Sarà vero? Comunque non è completamente falso. A pro­ posito del lattante vorrei aggiungere - mi viene in mente adesso - che l’ingordigia originaria è uno stimolo per rivedere sempre il significato delle proprie rinunce e non essere succubi delle medesime; d’altra parte cedere a quell’ingordigia è protrarre la mentalità del lattante per il quale gli altri sono niente altro che cibo a sua disposizione. Per me è una presa di coscienza molto importante e un punto fermo.

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15 ott. Stanotte ho sognato, ma non ricordo: c’era Sara sicuramente. Oralità è mangiare, sputare, vomitare. Analità è trattenere lasciare sporcare manipolare trasformare. L’oralità non ha l’esperienza di cedere con piacere, ma di rimetterci. Dipendendo dagli altri si ac­ cusano sempre gli altri. Cedevo all’ingordigia dell’altra invidiando­ la, appagandomi della sua dipendenza come elemento gratifican­ te, finché mi ha cacciato via. Volevo darle per ricevere a mia volta, volevo lo scambio, ma ho accettato la dipendenza in mancanza di meglio. 11 mio stato d’animo: “Sono stufa di tutto questo sragionare” riferito alle accuse che mi sono state mosse da Ester, Anita, Paula, Gloria ecc. E chissà, anche da Sara. 16 ott. Certo, nel primo femminismo ho dato un bel saggio di onni­ potenza: i geni della terra smentiti, il sesso femminile cambiato. Le conseguenze non hanno tardato a farsi sentire. Ma per rimuovere un’oppressione non c’è altro mezzo che tornare ai propri desideri originari e farli scontrare con la realtà. C’è un cane di legno in un angolo semibuio della stanza: somiglia a un cavallo a dondolo. Io faccio leva sulla mia magia e lo chiamo, trasformandolo in cane vero che si dirige verso di me. Adesso ne ho timore e mi dispongo a impe­ dirgli di mordermi: gli afferro il muso fra le mani. Ma il cane non è cattivo, mi guarda con occhi umani pieni di affetto e sottomissione.

L’oppresso nella sua furia liberatrice identifica oppressore e realtà. Aspira a realizzare in terra un regno che non è di questo mondo. Mi sto divertendo molto con la vendemmia, una festa come quando ero bambina: le giornate umide di ottobre, l’atmosfera della can­ tina con il tino immenso, nero, sulla base di tronchi di castagno, il rigagnolo d’acqua, la lampada a mano, l’uva accatastata, strizzata e gocciolante nei recipienti con un colore indefinibile. Ancora nessun odore di mosto. Ma il momento più bello è quello di cogliere l’uva: grappoli turgidi con un senso di ben di dio scaturito direttamente dalla terra. Intanto che scrivo mi ricordo i temi che facevo alle ele­ mentari. I contadini, una coppia con tanti figli, sono ancora quelli che vedevo da piccola quando d’estate scappavo di casa per anda­ re ad aiutarli nelle loro faccende, ed ero tutta contenta con i miei

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genitori adottivi, tranquilli, che mi davano ordini a cui ero zelante nell’obbedire. 17 ott. Mi sono raffreddata come un accidente, e anche questo fa parte della vendemmia. Stanotte ho sognato ancora della casa. C’è una polemica, abbastanza degradante, tra Oriana Fallaci, ap­ poggiata da uno psicanalista odioso, e altri che hanno contestato la sua completezza di donna in seguito al libro Lettera a un bambino mai nato. Lei ne approfitta per dichiararsi dissenziente dalle femministe “spesso non convincenti nel loro settarismo monotono”, “e a volte donne di così scarso valore da farmi temere che grazie a loro le donne non andranno lontano”. 18 ott. Siamo sotto una coperta Simone, diverse amiche e io. Alcune sono proprio interamente sotto e io mi chiedo se sentiranno odore dei nostri piedi, di Simone e miei. Poi mi ricordo che ho appena cambiato i calzini e Simone non puzza mai. Infatti tutto procede bene hno al risveglio. Leggo che c’è un’ondata di poetesse e poeti in America, che la po­ esia è diffusissima. Subito mi viene il rimpianto per non avere pub­ blicato le mie poesie - ormai è una cosa comica - e mi propongo di farlo appena a Milano. Mi sono trovata tante cose da fare per ingannare il tempo e resistere a non pubblicare le mie poesie. Non avrei potuto non credere a un destino di poeta (ho potuto non credere a un destino di critica d’arte di femminista). Mi sarei sicuramente ingaggiata come poetessa se altri me l’avesse offerto

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(se me l’avesse invece rifiutato come avrei potuto risollevarmi?). Così bruciando l’anonimato la situazione misconosciuta che è stata la mia vitale contro la quale lottavo in segreto per mantenerla in pubblico.

19 ott. E casa mia, sebbene non la conosca. Entrando ce la trovo, un misto

di Sara e Vanda. In cucina la donna di servizio che pure ha pulito bene le mat­ tonelle bianche, quasi tutte, così posso vedere come erano sporche, è un po’ arrabbiata, ma si risolve. Tito anche mi dà delle preoccupazioni, è sempre di partenza. Comunque Sara è lì: provocatoria, maleducata, carogna. La sua tatti­ ca è di fare la carina e poi di colpire. In un primo momento ci casco, ma appena appena, poi decido che è inutile parlare. “Me ne vado” dico decisa. Vedo che effetto le fa: non se l’aspettava. A un certo punto lei scivola in una vasca - siamo, in bagno - ed è tutta acciaccata, come se fosse di gesso: è vecchia, irriconoscibi­ le. Poi mostra alla gente delle strane opere d’arte e dice nomi famosi, Duchamp e altri, con molta enfasi. Prima di andarmene le sibilo “Sei sempre stata gelosa di me”.

Malumore diffuso, scontentezza. Poi mi passa, divento molto serena. Prima del femminismo non esisteva culturalmente la chance che qualcuno potesse credere in me, nella mia esistenza e nell’apporto di questa esistenza. Neppure Ester, le cui operazioni nella pittura ero andata a decifrare meglio che potevo, mi aveva capita: come poteva pensare che esistesse un paradosso più paradosso del suo, della donna-artista? Delle mie poesie diceva solo, con un certo im­ barazzo, che erano “troppo intime”, niente di più. Femminismo: unica strada non battuta su cui inoltrarmi, sempre sotto la spinta misteriosa di quella esistenza negata. Ho sempre sentito Sara in un momento di passaggio quando ha co­ minciato a dare segni di megalomania, come se fosse giusto che, usci­ ta dal letargo, prendesse il volo. Per poi tornare sulla terra.

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20 ott. Sono a Milano. Sembra più reale di qualsiasi altro posto. Quasi quattro mesi che desidero venire qui. Adesso che ci sono spa­ risce la sensazione che l’ho desiderato tanto: è qui. Devo prendere tutto poco a poco, senza buttarmi nella mischia. Intanto domani mi metto in ordine, compro di che vestirmi, vado dal parrucchiere. Che bisogno c’è che mi presenti sempre sciamannata. 21 ott. Mi sono limitata a un bel bagno. Parlato con Lucia. Ritirato soldi in banca. Affacciato il naso alla libreria per vedere se c’era Pau­ la. Non c’era. Pensavo di chiedere a lei l’indirizzo del parrucchiere. Timore di beccarmi l’influenza. Leggero malessere fisico. Per il resto cauta. Parlato con Raffaele. Simone si eclissa pian piano dal mio oriz­ zonte. Ci perdiamo? Per strada un uomo mi tocca il culo: mi volto e gli do uno schiaffo. Poi sorrido compiaciuta a un’amica lì di fronte.

Che bello discorrere con Matilde in tutta fiducia! 23 ott. Regina mi dice di avere parlato di me a proposito del tema sessualità clitoridea che ora torna alla ribalta. Una gallerista mi dice mirabilia del mio lavoro di critica: gli artisti e anche i colleghi sarebbero felici che io ricominciassi. Tutto que­ sto mi frastorna e persino ci casco: sono allegra, di buon umore. A Simone “Il bello di avere fatto qualcosa è di dire no a un certo momento, altrimenti sono gli altri che lo dicono a te. Così è credibi­ le quello che vuoi affermare, sennò sembra il ragionamento della volpe con l’uva”. Era difficile spiegare alla gallerista perché non me la sento di riprendere l’attività critica: per non mortificarla quasi risultava che non ne ero più capace. “No” mi sono corretta “questi quadri, gli artisti che li hanno fatti mi sono diventati owii, e nell’ovvietà accetti, ma non hai stimolo, non ci pensi affatto”. Avrei potuto essere più precisa “L’arte mi è diventata ovvia”. Davvero, come se l’avessi fatta. Adesso riprendo il mio tono normale: all’inizio del femminismo ero esaltata dall’ideologia e dall’appoggio delle altre donne. Facevo la voce grossa.

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24 ott. Ecco perché non ho potuto litigare veramente con Felicita: lei non è un’ingorda. Un pezzo di legno è spinto dalle correnti e dai gorghi di un fiume in piena le cui acque fangose lo trascinano di qua e di là, irrefrenabilmente. A un tratto ho un senso di levitazione, come se il legno si fosse sollevato dalle acque e stesse salendo nell’aria senza contrasti. Nella vigna c’è un grosso cane: mi sembra giunto il momento che faccia ami­ cizia con Tito. Anche Simone la pensa così.

26 ott. Quanti angoli caldi nella mia vita. Quanto amore intorno a me e che parte da me. Ho l’impressione di avere rotto un ostacolo invisibile che era lì da tanto tempo e sono come una bambina fatta di emozioni, di slanci, di fiducia. Li ho sempre sentiti, ma come istanti e subito si faceva avanti il tormento. L’amore si è staccato dalla pau­ ra, perciò dal contrasto, dall’indecisione, dalla provvisorietà. Voglio il bene di chi amo. Mi dà la certezza del mio amore. Dopo la lettura della sua premessa al libro scrivo un biglietto a Piera “Grazie della tua semplicità”. E lei “Grazie a te”. Poi al telefono chiarisce meglio “Grazie a te di te”. 27 ott. Un cumulo di coincidenze mi ha messo a terra: sono stata alcune ore sveglia stanotte e stamani girandomi qua e là nel letto con la mente sempre attiva, toccavo certe sensazioni strazianti che non mi facevano riprendere sonno. Poi, quasi senza preavviso, mi sono trovata a gemere sommessamente, a piangere, a singhiozzare. Mi sono alzata sotto la spinta di un’energia irrefrenabile così come irrefrenabile era il pianto, ma dal pianto usciva quasi un ululato, un suono che mi sono affrettata a soffocare nell’asciugamano per poterlo sentire, ma in sordina. Poi a un tratto mi sono data dei violenti schiaffi sul vaso con tutt’e due le mani, ho visto anche dei bagliori perché nella foga mi percuotevo gli occhi insieme alle guance. Avvertivo un peso insopportabile dentro di me. Simone mi ha abbracciato, mi ha ascoltato parlare, mi ha detto quanto mi ama, quanto sono unica per lui ecc. Mi sono un po’ calmata senza però riuscire a dormire. Da alcuni giorni Simone ha cominciato a invaiare gente a cena per stasera, gente a cui non ho niente da dire e per ricevere i quali

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devo fare una gran fatica. Non è un suo capriccio, ma un suo dove­ re sociale: non accetto i doveri sociali, già a fatica accetto doveri di altro genere. D'altra parte non chiedo niente alla società, né soldi, né fama, né riconoscimenti, quindi non ho neppure doveri. Essere coinvolta in un problema che non è mio mi fa impazzire dalla rab­ bia. In questo non posso accomunarmi a Simone. Lasciarlo solo in questa impresa mi fa sentire ingiusta ed egoista verso di lui e nello stesso tempo me lo fa sentire tirannico verso di me. La stessa con­ traddizione che vivevo con mio padre. Poi è arrivata Nicola. Lucia ci ha invitate a cena. Gemma era li­ bera e avrebbe voluto passare la serata con noi. Scegliamo Gem­ ma, però poi la serata è stanca e un po’ perdita di tempo per tutt’e tre. Lucia incerta fino all’ultimo se starci anche lei. Io frustrata per avere, come sempre, decantato a Nicola i piaceri di questi incontri che poi, se hanno senso per me, non è detto lo abbiano per lei. Ri­ emerge la mia delusione per non potere dare alle sorelle quello che ho, riemerge la pena per le loro difficoltà come se per me fosse im­ portantissimo che le superassero. La pena è accresciuta dal fatto che non se ne parla, che si fa come se tutto fosse andato normalmente. Mettere le sorelle a parte di quello che ho sarebbe funico modo per me di considerarmi autorizzata a goderne pienamente, senza zo­ ne d’ombra. Perché prometto, prometto, prometto? Questi alti e bassi risultano spaventosi, ma è quello che io sono. Sono persone differenti, opposte, per questo sono più complessa di altre, ma meno salda, e finisco per non potere espandere la complessità contraddittoria. Ho una vera, maledetta crisi. Adesso sono più aggressiva e Simone idem. Quando mi sento disperata lui è sempre e solo protettivo, buo­ no. Gli faccio del male? Lo limito? Linché questa malaugurata cena non si sarà fatta, io sarò incapa­ ce di dimenticarmene per un solo attimo. Tanto vale che mi metta nello stato d’animo di collaborare: soffrirei meno, andrebbe tutto più liscio. Ecco dove e come si cede. Non c’è altro modo di essere se stessi che fare come la Mansfield? I rapporti portano al compromesso: la libertà è la solitudine? Finalmente è fatta: non che sia terribile: è inutile e costa energia fisica e psichica. In quelle circostanze sono completamente a disagio e non

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posso dirlo perché la condizione per stare lì è di non essere a disagio. Ho finito per mangiare e bere più del necessario, così stanotte mi pesava tutto sullo stomaco. Perché Gemma non parla a voce più alta e quando racconta qualcosa perché non si preoccupa di dire chiaramente di che si tratta? Perché Nicola non chiede se non capisce? Perché lasciano a me il compito di intervenire? Perché non posso fare a meno di intervenire? Uno dei pensieri dolorosi stanotte era questo: che finisco per tra­ scurare Pito più di qualsiasi altro della mia vita. Non sopporto l’idea che non possa più essere bambino felice tra le mie braccia. E che riporti sempre con sé la sensazione di essere stato continuamente abbandonato dalla madre. Mio fratello Adolfo dice che Isa è stata una delusione: si era vantata dicendo che ce l’avrebbe fatta a superare i disagi e le difficoltà di stare in campagna. Invece si è rivelata un’inetta, un’illusa. Sono in campagna, in casa di una coppia di inglesi. Lui è fuori, e con la don­ na e una bambina sto bene, molto a mio agio. Poi arriva lui e gli corro quasi dietro per salutarlo e fare due chiacchiere - al solito sono convinta che sia un po’ invaghito di me. Ma quello va diretto in camera sua come se avesse fret­ ta e non potesse essere disturbato. La camera è piena di uno strano sporco, sembrano trucioli, segatura di legno, terra: con una scopa cerco di spazzare via tutto. Comincio, e mi accorgo con orrore che nel pavimento c’c un buco da cui salgono degli insetti neri, come delle cimici che invadono il pavimen­ to. Sono loro probabilmente che fanno quello strano sporco. Scorgo anche dei nidi con cimici appena nate, trasparenti, bianco-verdino. Bisogna subito provvedere a tappare quel buco che dà nelle stalle: finché è lì non si può stare tranquilli.

30 ott. Cara Gloria, dopo la dimensione pubblica che ho avuto con il femmi­

nismo adesso sto riprendendo la mia privata. Un tempo non me la sarei sentita di cancellare un appuntamento e di dare spazio alle mie necessità: mettevo al primo posto la disponibilità verso le altre. Mi ero creata degli obblighi e cerca­ vo di mantenerli. Per ritrovare la mia libertà devo confessare apertamente che adesso non sono in grado di mantenerli, che sono andata oltre le mie possibilità. Finché questi obblighi rispondevano a una mia esigenza non c’è stato problema se non di farcela, poi il problema si è manifestato. Il problema è che io mi trovo

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impotente di fronte alle incomprensioni che si creano e all’ostilità che ne deriva quando, come nel nostro caso, si tratta della mia immagine pubblica più che di quella mia privata a essere in gioco, voglio dire la mia immagine di “prima femminista”. Questo scatena tutta una serie di reazioni dove “io” c’entro poco o nulla. C’entro solo in quanto è mia responsabilità avere dato il via a quell’imma­ gine che, per certi aspetti proprio nella sofferenza, mi ha portato a delle prese di coscienza salutari, però sempre in circostanze in cui l’amicizia, la consuetudine, i desideri, i sentimenti mi avevano coinvolta. Con te questo non c’è stato, così sono rimasta sconcertata nel sentirmi oggetto di un meccanismo di proiezioni solo sulla base di qualche incontro. Adesso ho bisogno di rapporti basati sulla simpatia e sulla percezione di me: perché questo avvenga, non c’è dubbio che deve essere demolita l’immagine della Carla Lonzi ufficiale, tuttavia non basta per un rapporto se dietro non esiste quel reciproco interesse che nel nostro caso manca. Mi capisci?

31 ott. Vedere il mio Sputiamo su Hegel esposto nella vetrina della li­ breria delle donne a Roma non mi ha fatto piacere. Vorrei tornare una come le altre e nel femminismo temo che non sarà possibile. Non mi sentivo a mio agio in libreria: le ragazze lì non sembra che amino i libri scritti dalle donne: nessuna aveva letto Autocoscienza, per esempio, e una che lo aveva cominciato si scusava di non averlo finito perché, diceva ridendo “è un po’ noioso”. Noioso un libro fatto di strappi e ferite, di contorcimenti e di coscienza? Non posso capire. Cos’è allora il femminismo? Sono tornata a casa felice di quello che ho saputo costruire amando e soffrendo nella mia vita. La dimensione pubblica non è per me anche se la predisposizione a tentare l’avevo dentro, per fortuna che è uscita. Così adesso nessuna riserva mi impedisce di distendermi in questo effimero mondo di piaceri privati. Lucia mi vuole portare a un convegno su sessualità e politica, ci tie­ ne proprio. Mi commuove questo insistere per introdurmi nel suo sacrario come se volesse riconoscermi il diritto di fare parte dell’alta cultura dopo avermelo tenacemente contestato. Mi ha parlato di De Sade con entusiasmo: credo che quella lettura le abbia aperto gli oc­ chi sulla mia posizione in materia di sesso. Le ho detto “Quando sei libera puoi decidere di volere essere la serva deH’ultimo lebbroso, ma quando sei schiava sei doppiamente schiava se ti credi libera perché accetti la cultura che chiama in modo gratificante la tua schiavitù”. Era d’accordo. La vaginalità è una schiavitù da scegliere nella libertà

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e per quello che è. Mentre adesso viene imposta e dolcificata, riempi­ ta di buoni sentimenti. 1 nov. Mi sveglio dopo una gran dormita e penso con quanta non­ curanza ho lasciato cadere sia le offerte di MS., la rivista americana del femminismo emancipato, di pubblicare traduzioni dei miei scritti sia quelle dell’editore Oury per la Francia che chiedeva Sputiamo su Hegel. Se rifiutavo un certo tipo di risalto personale era anche perché mi avrebbe allontanato sempre di più da quelle amiche a cui invece volevo avvicinarmi. Scrivendo a Felicita termino “Sono sempre felice”. 2 nov. A Pasolini. Subito dopo avere appreso la notizia del suo assas­ sinio (non so da chi né perché) al telegiornale delle 13,30. Adesso che sei stato ucciso, fratello mio, anima mia, ti piango. E capisco che il riconoscimento degli uomini, che ti contestavo nella lettera, era giusto per­ ché, in quella logica, eri il migliore: accettavi di suscitare l’odio e accettavi il rischio dei desideri omicidi senza coprirti. Accettavi cioè di essere vittima, come Gesù Cristo. Io invece sono la donna che non vuole essere uccisa per­ ché sa di non essere migliore della sorella e lavora con lei nell’unico modo possibile a estirpare l’odio: la comune espressione di sé, fonte di parità e di amore durevole. La vocazione al martirio, nella cultura degli uomini, è la sola via per testimoniare ed estinguere il debito con l’umanità in chi non ha potu­ to uscire dall’insopportabile privilegio di volere essere se stesso in un mondo che non lo è.

3 nov. Pasolini cercava il martirio per scontare l’odio che provava verso coloro che non lo capivano, respingendolo nel suo amore per loro, e per affrontare il loro odio come testimonianza del suo amore. La liberazione trasformata in privilegio è una violenza che la cultura ha imposto a Pasolini e contro la quale lui ha reagito penetrando a sua volta con violenza nell’odio altrui. Così Pasolini non aveva altro scampo che espiare offrendosi contemporaneamente come vittima e insieme vendicarsi facendo un carnefice di colui che l’aveva fatto privilegiato, cioè carnefice spirituale.

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4 nov. Simone dice “Quello che mancherà di Pasolini è la sua vivaci­ tà”. Ma perché non vi innamorate un po’ più l’uno dell’altro, perché bloccate tutto l’ardore dentro di voi? Eppure io so che eri un essere amabile fuori di ogni distinzione di sesso. Mi ha commosso quando Pasolini ha confessato di essere contrad­ dittorio senza possibilità di pacificazione. Ha portato un esempio: “la ragazza bionda, mora”. Sono di nuovo nel pallone: malumore, crisi di rabbia. Me la prendo con Simone, che non c’entra. Non mi va di sgobbare per gli altri, eppure non faccio altro. Sono una palla che rotola per i calci che le vengono dati. 5 nov. La coscienza è la nostra salvezza, di quella nessuno se ne può impadronire, mentre la sensibilità e persino l’autenticità non ci met­ tono a riparo dalle manipolazioni altrui. Cara Augusta, come saprai è stato ucciso Pasolini. Una morte orribile alla qua­ le però credo che lui in qualche modo andasse incontro. Ne ho avuto un vero dolore. E ci ho riflettutto molto sopra. I possibili fratelli sono irraggiungibili nella loro solitudine. Diffidano di noi. Il nostro problema è accettare la solitu­ dine, ma anche uscirne, vero? Che ognuna si esprima, non vedo altra via. Ed esprima se stessa non i valori, patrimonio del padre. Per questo ogni autoco­ scienza che esce è una smentita del privilegio, del verbo, cioè del Padre. Sen­ to una leggera esaltazione nel dire questo. Poiché mi piace tenerlo in sordina, mentre però il mio cuore batte molto forte. Ho paura di essere travolta dal mio desiderio, ma so clic la testimonianza ha bisogno di tempo. Cara Matilde, sai da dove mi è nata la proposta di mettere il tuo nome sul li­ bretto di Piera? C’è una convergenza di motivi. Te li elenco. Giorni prima avevo cercato il tuo numero della ditta sulla guida del telefono e avevo letto Dumont di Luca Dumont. Mi ero chiesta che parte avevi avuto nella Dumont. Quando ti vedevo così impegnata nell’impaginazione per Piera e per una collana a cura mia, mi chiedevo se non continuavi la situazione della Dumont di Luca Dumont. Ho provato il bisogno di provocare una chiarificazione proponendoti di mettere il tuo nome insieme al mio come curatrice dei libretti di Rivolta Femminile. Mi è piaciuta molto la tua sincerità nell’accettare. Ma mi sono subito accorta che la mia proposta non rispecchiava il mio convincimento. Era come se avessi voluto ripagarti del torto subito nella Dumont ed evitare che questo torto si

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ripetesse in Rivolta. Però per evitare un torto, te ne ho fatto un altro: ti ho lu­ singata su un qualcosa che non lo merita, e cioè su un lavoro di collaborazione. Sono stata tentata di dare un riconoscimento alla tua generosità. Ma nello stesso momento mi sono accorta che questo riconoscimento ti procrastinava di fatto la presa di coscienza che il tuo problema, come quello di ciascuna di noi, è di esprimersi, di affrontare questo punto come l’unico che meriti riconoscimento. Altrimenti si tratta di una gratificazione dettata dal timore di essere io l’unica beneficiaria dell’iniziativa dei libretti. Più volte mi hai detto che nessuno dubita del mio diritto di essere e apparire curatrice dei libretti, però in qualche modo sentivo che tu stessa potevi dubitarne.

Il mio nome a cura della collana degli “Scritti di Rivolta Femminile” mi pesa, così ho pensato di dividere il peso con Matilde, ma que­ sto non ha latto che complicare la questione poiché si accentua l’esclusione delle altre, e quindi la mia arbitrarietà. Dovrei avere il coraggio di togliere il mio nome, ma anche lì è come se mi sottra­ essi a quelle che lo vedono come il simbolo della continuità e di una situazione che le coinvolge. Insomma, per me è un conflitto, e mi sento colpevole verso Matilde per averla chiamata in causa troppo imprudentemente. Devo ancora capire bene perché mi pesa quel mio nome messo lì: forse che non mi accetto, oppure contribuisce a creare delle distanze fra me e le altre, e io non ne posso più di queste distanze? Forse è questo: che sento ancora in quel nome messo lì una specie di posizione ambita che mi tira in due direzioni: a spartirlo con altre, a rifiutarlo io stessa per negar­ gli valore e smitizzarlo. In entrambi i casi sbaglio, mi perdo: ecco il perché del conflitto. Ogni volta che credo di essere intervenuta in aiuto di un’altra mi accorgo di avere camuffato un mio problema. Appena pronunciato l’invito a Matilde ho capito che le mentivo: non aveva diritto a stare alla pari con me sui libretti perché non era stata per me quello che io ero stata per altre: non mi aveva permes­ so di tirare fuori i miei scritti. Cara Regina, mi commuove che tu cerchi di farmi un po’ di spazio in quella cultura che, mi sono accorta, accoglierebbe ancora i miei servigi, ma non la mia esistenza e la coscienza che ho di questa esistenza. Ho sempre pensato che fosse importante più che mirare ai risultati, non compromettere la situa­ zione che permetteva alla coscienza di svilupparsi il più possibile liberamen­

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te. Io mi trovo bene dove sono: questa semi-clandestinità mi è molto conge­ niale e anche questa fase di femminismo, se si vuole ancora chiamare così. E un’esperienza che mi offre, non solo conferme su una specie di scommessa interiore che adesso sta avverandosi, ma anche una miriade di chiarimenti sulla realtà e gli esseri umani quale non avrei avuto più vasta se avessi girato il mondo intero. E ho proprio il dubbio che tutti i vantaggi di cui mi trovo a godere siano in diretta relazione con questo stato di misconoscimento di cui non posso dire che bene.

7 nov. In fondo la verità è questa: che quel “a cura di” ha un valore talmente particolare che non può essere condiviso con nessuna. E il succo della mia vita, non un’iniziativa editoriale. Ci tengo perché mi spetta, non perché mi dà prestigio. Non potrei accettarlo se non lo sentissi mio, parte di me. Il modello di trascendenza per la donna non può essere che maschi­ le, il Verbo del Padre, appunto, anche se è incarnato in una donna; il modello di liberazione non può che essere femminile anche se è incarnato in un uomo che, oppresso dalla Legge, cerca una realiz­ zazione “diversa”. Ma non può formularla sotto pena di ritornare nell’ambito del Padre, può solo esprimersi come contraddizione vi­ vente continuamente sottoposto alla tentazione di identificarsi con lui. 11 “fratello” è solo, infatti si trova anche in opposizione alla donna che gli appare quella che storicamente è apparsa, piedistallo dei valo­ ri del Padre. Ecco perché sentivo in Pasolini un possibile alleato se ri­ uscivo a forzare la sua solitudine. Ma forse allora ero troppo timorosa io stessa; oppure il suo dramma, in qualche modo a me sconosciuto, escludeva la possibilità della mia partecipazione. Per lui la donna era l’altra, quella che è anche la mia antagonista, l’identità alienata: la donna del Padre. D’altra parte l’adesione di Pasolini al PCI è, quasi retrospettivamente, un simbolo del suo de­ siderio, contraddittorio, di avere la memoria protetta dall’ombra e dall’accettazione dei Padri ideali con cui, attraverso la morte, aspira­ va a riconciliarsi, nel momento in cui si sottraeva alla loro presa, alla presenza fisica nella Storia. Più vado a fondo, veramente a fondo più i dubbi si diradano e sem­ pre più acquisto la certezza di essere giustificata. Le accuse, le au­ toaccuse sono la condizione per arrivare alla coscienza di questa remota giustificazione di sé.

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Perché mostrare interesse e compassione per l’altra vittima, cioè l’as­ sassino, il ragazzo diciassettenne? Sono state delle donne a prendere questo atteggiamento: perché? Inconsciamente si identificano con la rivolta di una prostituta? Ma come fanno a partecipare ai drammi di uno sconosciuto se non per negare all’assassinato il riconoscimento che gli spetta? Pasolini ci aveva parlato di sé, ecco perché possiamo avere delle reazioni personali, perché lo conoscevamo personalmen­ te, ma un povero ragazzo muto, uguale per noi a milioni di altri per­ ché prenderlo a pretesto mentre ce ne freghiamo di “lui”? Donne del Padre, mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie. 8 nov. Entro in una stanza dove ci sarà riunione e, con sorpresa mia e anche

delle organizzatrici, appare piena zeppa di ragazze alfolíate intorno a un tavolo ovale: vedo una miriade di camicette bianche e tanti visi che avevo conosciuto un tempo all’inizio del femminismo e poi non si erano vasti più. Adesso sono tornate attratte dalla mia presenza. Faccio il giro del tavolo e bacio quelle che riconosco. Di che parleremo? Qualcuno mi tocca sulla spalla, mi volto e vedo Lucia sorridente che, essendo per caso anche lei in quella città, aveva approfit­ tato per venire. Ci baciamo come avendo alle spalle una lunga e solida intesa. A un certo punto mi accorgo che le organizzatrici hanno sistemato così la stanza: un tavolo lungo, separato da uno schermo di vetro dal resto del locale, divide in realtà me e le altre. A causa del vetro probabilmente non potremo nemmeno sentirci. Io dico “No no, vengo lì: non mi piace questa sistemazione”. E sebbene le organizzatrici siano probabilmente seccate, io cerco un posto fra le altre. Poi la scena cambia e stiamo entrando in una specie di chiesa dove c’è già della gen­ te. Anche lì cerco un posto, ma sono tutti occupati: ogni ragazza poggia la mano sulla panca vicino a sé per indicarmi che è preso. Potrei stare accanto a una tale, una donna di mondo, moglie di un artista, ma so che dice male di me tutta la settimana: sarebbe assurdo fare finta di niente. Glielo dico chiaro e tondo e mi allontano. Trovo una specie di asse, largo più di una panca, ma bagnato e assolutamente in bilico appena provo a sedermi. Poi mi astraggo, guardo in alto come se ci fosse una proiezione di film su verso la cupola dell’edificio, e mi di­ mentico di tutto. Quando torno in me e mi ricordo perché sono lì molta gente è andata via, gli estranei, le persone di mondo; invece affluiscono ancora femmi­ niste. Un bel gruppo di nere alte ed eleganti attira il mio sguardo. L’organizza­ trice le conosce e, con improvvisa attitudine materna, fa un po’ di moine a una negra artista: le mette una specie di garza che le copre il viso. Quella si lamenta

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un po’ della sua sorte con modi da gattina. Si spoglia o vuole spogliarsi, non sono sicura. Spogliarsi con il viso coperto mi sembra orribile, imbarazzante. Poi siamo una brigata di amici —le femministe sono sparite o quasi - è notte. Vedo un tale abbracciato ad altri giovani, lo apostrofo con sicurezza dimostrativa e una certa sorpresa “Ciao, come stai?”. Lui risponde gentilmente, ma noto che ha un po’ timore di me, certo a causa della mia fama di femminista. Ricordo vagamente che deve essere morto. Saliamo su un camion che, traballando, se ne parte a gran velocità nella notte. E li parliamo, evochiamo amici, intanto che la città si snoda sotto i nostri occhi. Io sto mangiando semi di zucca e vado avanti coscienziosamente, anzi faccio un mucchietto di bucce sul sedile. A un tratto un uomo, certo per aiutarmi a sopportare il sobbalzo del camion e darmi stabilità, mi mette una mano, o una scarpa o un attrezzo robusto sotto il sedere: lì per li mi divincolo ostentatamente, mi dà fastidio e mi pare troppo confidenziale, poi cambio, provo una specie di languore e con la punta delle dita gli sfioro appena il collo, ma senza voltarmi. Poi pensando “Chissà se mi sono tradita”, ricomin­ cio con i semi di zucca. Vicino a me vedo un poliziotto in divisa, ohibò, c anche una poliziotta, una bella ragazza giovane, tipo anni quaranta, sembra un’attrice tanto è ben truccata. Voglio parlare con lei e le chiedo come si chiama. “C.” mi risponde. “Solo C.?” faccio io. “C.” ripete lei sorridendo staticamente. Intanto non ho più spazio sulla panca, e mi accorgo che in piedi finirei per cadere subito giù dal camion che è quasi senza spalliere, così mi sdraio a terra cercando di non mostrare troppo panico. Specialmente aH’omosessuale di prima che è die­ tro di me, e certo mi aspetta al varco. Tentare di stare in piedi su un camion in corsa che attitudine incauta! Sdraiata, sempre continuando a mangiare semini, me la cavo. C’è una fermata, qualcosa di commovente perché vedo persone care-sconosciute che si intrecciano, lì, con la più grande naturalezza. Poi si ri­ parte e io mi faccio di nuovo posto sulla panca accanto alla poliziotta, certo è stata lei a farmi perdere il posto prima, ma adesso clic sono decisa a stare lì non protesta, e io ci sto.

Ieri sera avevo riletto i miei scritti del primo femminismo e parlato con Piera dei problemi di cui mi ero resa conto a seguito del mio gesto verso Matilde. Alcune associazioni e interpretazioni. Le cami­ cette bianche mi ricordano quelle delle divise femminili fasciste. Il vetro che divide la stanza in due è il diaframma che ho sempre sen­ tito nel gruppo e che dipende dalforganizzazione, cioè per come la cosa era nata io “dovevo” stare al di qua del vetro. Cerco posto vi­ cino alle altre, ma nessuna mi può accettare. L’asse in bilico è la mia

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precaria situazione tra le amiche femministe. Il film che assorbe tutta la mia attenzione è quello della mia vita, l’autocoscienza: una volta finito gli estranei sono spariti dalla stanza, cioè quelli con cui non potevo comunicare sono stati esclusi dalla mia vita. Le negre sono una razza a sé, così l’artista è una negra: l’arte in lei mi appare come qualcosa che le copre il viso, la coscienza, e le scopre il corpo, la sensibilità. L’uomo che abbraccia i giovani è figura sostitutiva di Pasolini, anche lui morto e omosessuale: temo di apparirgli illusa, sprovveduta, come a Pasolini nella lettera. Il mio posto sul camion è l’accettazione di me. La poliziotta si chiama C. (Cesare) come il mio primo amore (avvenuto alla fine degli anni quaranta), quel­ lo che mi aveva rimproverato le mie contraddizioni: mi fa perdere fiducia in me; senza fiducia rischio di cadere. I semi di zucca sono l’intelligenza e i pensieri con i quali affronto la gita in camion, la mia vita. In particolare il posto, in questo caso, è il mio posto nei libretti verdi di Rivolta, a cui la poliziotta mi spinge a rinunciare. Ma dopo la sosta, in cui l’amore per l’umanità mi dà nuova sicurez­ za, sono pronta a proseguire. L’uomo che mi sorregge è Simone: mi sembra sconveniente accettare il suo aiuto che mi si presenta appunto in modo volgare, però poi provo affetto per il suo gesto, anche se gli faccio solo una piccola carezza timida di risposta: non sono pronta ad ammetterlo davanti a tutti. Cara Piera, quando mi hai detto che ti piace la mia intelligenza ho risposto “Non so se è intelligenza oppure insistere come un cane su un osso”. Dubbio: ho preso un atteggiamento di falsa modestia. Sara mi avrebbe aggredita “Ammet­ tilo!”. Scioglimento: ho sempre pensato che fintelligenza mi si è sviluppata per bisogno di autenticità e per districare i miei conflitti e dargli uno sbocco. Quindi quando ti ho risposto così era per alludere a quel tipo di intelligenza a cui mi sento collegata e a cui sento collegata anche te. Dubbi del genere ne ho molto spesso, in queste condizioni la stupidità sarebbe il suicidio.

Leggo su un quotidiano una canzonetta di Pasolini scritta con la collaborazione di Dacia Maraini (ecco, Pasolini non era sensibile all’autenticità femminile, non l’ha mai riconosciuta). Termina così: “I ragazzi giù nel campo non posseggono memoria

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perciò vendono gli antenati poi son presi da tristezza”.

Allude al carattere malinconico del rifiuto del Padre. Stasera che peccato che non ci fosse Pasolini alla tavola rotonda in TV dove si commemorava la sua morte! Moravia è stato sul punto di scoprirsi tanto era nervoso, ma un patriarca non può farlo, non può tornare indietro, è inchiodato al ruolo di giudice. Lì erano tutti padri: impreparati, inadeguati, indignati, ma sulla difensiva. Ho chiamato Matilde a Milano: sapevo esattamente che “la donna di mondo, mo­ glie di un artista, che dice male di me tutta la settimana” alludeva a Matilde, ma non intendevo ammetterlo finché lei stessa non mi ha confermato che è stato così. Anche questa volta mi è scattata la paura, ma gliel’ho confessato che temo di essere respinta. Che conseguenze può avere questo? Che mi veda bisognosa, esattamente come si sente lei. Oppure le sarò apparsa ricattatoria? Mi ha detto “Tu nei rapporti dai molto, ma anche prendi molto”, lo ha detto come un rimprovero. Le è venuta in mente Paula e si è chiesta se lei non ha scelto la libertà andandosene. Finalmente mi mette in questione. Mi sento tranquilla, vado per la mia strada, ognuna è responsabile di sé solo: ho preso e dato a seconda dei miei bisogni e dei bisogni delle altre. Dove Pasolini sbaglia è quando accusa la società di ave­ re tradito le sue aspettative, invece è lui stesso responsabile dei suoi miti e quando guarda davvero la realtà e la scopre diversa, certo può trovare anche l’appiglio nella realtà, ma è lui che è cambiato. Anche Matilde mi accusa dentro di sé, mi sospetta di ambiguità, di calcolo, non sono quell’esemplare di purezza in cui mi aveva identificato. Ma è anche lei che ha mancato verso di me: io credevo che mi vedesse e non mi vedeva! Trascrivo da Ho abiurato dalla trilogia della vita di Pasolini: “I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine” (“Corriere della Sera”, 9 nov. ’75).

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Ma non è forse Pasolini il primo ad avere fatto ingiustizia al ragazzo delle borgate prendendolo per un essere esemplare da contrapporre al mondo civile? Cos’ha visto di lui se l’ha scambiato per un santo? Se lo ha travisato al punto di servirsene per puntellare il suo universo mentale che senza riconoscersi in un innocente in terra non avrebbe resistito alla disperazione di sé? E cosa di più ingiusto poteva esco­ gitare che prendersela con quei ragazzi, colpevoli di non essere stati all’altezza di un mito la cui durata dipendeva quasi esclusivamente dai tempi interni di Pasolini? E adesso darne quel quadro orrendo che certo non meritano come prima non meritavano il paradiso? Ma allora l’assassinio l’ha voluto lui per provare a se stesso, inequivoca­ bilmente, le sue tesi. Tutti gli esseri umani fanno di queste proiezioni, lui le ha portate in fondo, la coscienza non è intervenuta a salvarlo. Qualcosa di analogo è avvenuto anche nel gruppo, e reciprocamente l’una con l’altra: l’odio dell’illusione perduta su cui poggiava la sicu­ rezza di ciascuna, è stato terribile a provarsi e a subire. Ma la coscien­ za è lì per liberarci dai fantasmi, e ci regge la certezza sperimentata che l’errore subito è anche l’errore imposto. Pasolini non riusciva ad accettarsi: “Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando come erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti - pian piano senza più alternative - il presente” (“Corriere della Sera”, ib id ).

Tuttavia il richiamo dell’Eros nudo, dell’incontro fortuito nella not­ te, è anche un tentativo di continuare a vivere proiettando su altri l’innocenza. Anche il masochismo sessuale di Pasolini, il suo bisogno di essere battuto, fa parte di questo cerimoniale di sottomissione a un essere che incarni la sconoscenza del bene e del male. Qualcuno doveva aiutarlo a liberarsi, ma la strada imboccata era senza uscita. Così io subivo i colpi da Sara senza ribellarmi, mi innamoravo di chi rappresentava ai miei occhi quell’incarnazione, andavo in giro per captare quel tono, quell’inflessione di verità. Come io mi sono sentita tradita dalle amiche femministe, Pasolini si è sentito tradito dai suoi ragazzi di vita, come io perseveravo con le amiche rimaste, lui per­ severava negli incontri notturni; come io avevo paura del loro odio, del loro rifiuto, lui aveva paura di essere ucciso. Ma mentre Pasolini

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andava da quei ragazzi dicendo “L’umanità mi è odiosa”, io non po­ tevo fare a meno di volere amare ed essere amata “nonostante tutto”. Sono cosciente del “nonostante tutto”. Mi è venuto in mente che il mio rapporto con suor Caterina era ba­ sato sulle emozioni dolorose che mi procuravano i dubbi che le susci­ tavo. Di quei colloqui ricordo uno sconvolgimento terribile: di volta in volta aspettavo il suo verdetto e, immersa in uno stato d’animo di smarrimento e di sentimenti straboccanti, le balbettavo il mio affetto. Ricordo che le ginocchia mi si piegavano. Anche stamani, mentre Matilde mi faceva intravedere i suoi sospetti e la sua delusione, ho provato un’emozione strana, sproporzionata, come un bisogno di umiliarmi, di dire qualcosa di intimo, quasi di inarticolato, perdendo il pudore come si fa da bambini o da innamorati. Eppure non sono innamorata di Matilde, questo lo so. 10 nov. Io credo provvisoriamente a quello che di sé mi dicono le amiche; solo quando vedo un gesto o intuisco un desiderio che è in contrasto con le loro affermazioni prende corpo il dubbio, perciò la provocazione per chiarirlo. Quando ho visto Ester mistificare di fron­ te a se stessa non ho più potuto credere alle sue affermazioni sulle priorità: nella migliore delle ipotesi non era in grado di distinguere. Se ne avesse preso coscienza avrei potuto crederle di nuovo. Ingan­ narsi non è una colpa, è il destino comune. Nicola mi chiede “Ma allora è un rapporto terapeutico?”. No, per­ ché la provocazione nasce da un mio bisogno, anche camuffato, non da una tecnica. E chiarisce a me, prima ancora di servire di stimolo all’altra. Con Paula la proposta di una casa editrice di donne ha funzionato da provocazione: voleva farla da sola. Ma non l’ha ammesso: ha ac­ cusato il gruppo di colpevolizzarla e di vincolarla nei suoi desideri di libertà. L’ha fatta da sola. Ha fatto quello che voleva, ma non ha pre­ so coscienza. Anzi ha potuto farlo perché teneva duro sul nascondersi perché voleva farlo. Ugualmente può essere la sua strada se arriva ad accettare i suoi gesti, non solo in quanto suoi, ma in quanto hanno un certo significato. A quel punto lì posso riprendere il contatto con lei. Noi le proponevamo un significato, ma prima si fanno i gesti, poi si capiscono: se si capissero subito magari non si farebbero. Spingerla a capirli era come spingerla a non farli, per questo le apparivamo

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un insieme compatto di femministe minacciose. Dove avevo davvero un atteggiamento di opposizione era a livello inconscio: non potevo credere che ci tenesse tanto a fare la donna editrice. “Meglio niente di tutto questo” sentivo dentro di me, e lì, certo, a quelle profondità la mia reazione poteva essere inibitoria. Adesso mi è chiaro il sogno della zingara: mi sentivo minacciata dal dubbio che Paula volesse prendermi qualcosa e non volevo ammet­ terlo, tant’è vero che nel sogno la zingara vuole prendere il “suo” bambino, e io le dico dov’è. Ma Lucia difendendo il bambino, rap­ presenta il mio bisogno di difendermi dal sopruso di Paula, cioè di riconoscere come un sopruso la sua azione per la casa editrice. Lo stesso è accaduto nel sogno recente a proposito di Matilde: mi faccio scalzare dalla poliziotta e perdo il posto sul camion, però poi lo ri­ prendo come un mio diritto. Anche questo sogno esprime un timore, però mi offre la soluzione in prima persona. Lucia interviene invece all’inizio del sogno per rassicurarmi sulla positività del femminismo e fugare quell’impressione di raduno fascista, eco delle accuse di Sara. Poi si passa nella chiesa che rappresenta il luogo della verità interiore. Matilde, la donna di mondo, mi appare estranea poiché dubito del­ la sua coscienza, e mi allontano, cioè mi sento in diritto di farlo, di non subire la sua malevolenza. Questa volta non mi nascondo la crisi come nel sogno con Paula dove la vedo, sì, zingara, ma lo stesso mi pongo in veste di sua alleata. Sara si era sbagliata nell’interpretazione del sogno, si era sbagliata grossolanamente per la rivalità che aveva verso di me. Ma ha fatto bene a darmene una prova. Adesso so che sto portando a termine quello che avevo intrapreso, sei anni di introspezione sfrenata, massacrante, braccata dai dubbi, dai contraccolpi, dai transfert. Non voglio pensare a quante cose ir­ risolte ho davanti a me: certo non sono alla fine del viaggio, questo coinciderà con la fine della mia vita, ma sono in un’accogliente lo­ canda dove posso rifocillarmi e dormire tra persone amiche men­ tre viene dato il cambio ai cavalli. E se le rispondenze affettive non saranno facili come in questo momento mi sembra, le affronto con la fiducia che mi deriva dall’essere cosciente di realizzare un tipo di rapporti umani nei quali riconosco la mia identità di donna e la mia essenza di femminilità. Prima di prendere sonno leggo la lettera di Felicita riconciliata più e più volte, come la vera introduzione

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all’aprirsi di questo nuovo capitolo della mia vita. Simone ha appe­ na finito di affermare sorridendo “Adesso non avrete più niente da dina: quando si raggiunge la pace in un rapporto non c’è più nien­ te da dire”. In questa profezia si rivela una differenza sostanziale di mondi, di culture, di desideri e bisogni. Questa differenza non mi fa più paura perché non avviene più tra una realtà e un’aspirazione, ma tra due realtà. Passare da un’aspirazione a una realtà è stato per me il contenuto del femminismo. 11 nov. Un neonato deve essere sottoposto a operazione chirurgica: un pezzo di osso resecato con attorno della carne composta quasi geometricamente sta lì a indicare il modello di questa operazione. Ma io intervengo: prendo il neona­ to, lo stringo a me, provo per lui tenerezza e bisogno di salvarlo a tutti i costi. L’operazione chirurgica è scartata, il neonato sta bene così fra le mie braccia. Ne provo un sollievo indicibile, mi chiedo come è stato possibile pensare un essere così delicato e complesso sottoporlo a quel macello. Che è il sogno dell’accettazione di me. Mi toglie l’incubo di dovere procedere a qualche gesto di amputazione degli aspetti che non mi andava ammettere come miei. Conosco una tale, vestita di bianco, un tipo enigmatico: mi sembra di averla già vista in gioventù. Non riesco a capire chi sia, cosa faccia. Tiene un salone molto chic al centro, un caffè-concerto m’immagino. Andrò a trovarla, ma non mi sembra soddisfatta: forse non mi rendo conto che è un posto troppo elegante per me. Poi afferma di avere 31 anni: allora non è possibile che io l’abbia vasta in gioventù. No certo, è evidente, ma l’ironia dei suoi occhi può indicare che forse mente per motivi suoi. Poi si rivela un’artista, e quasi prima di rendermene con­ to l’ho già messa nel mio programma. A quel punto scompare. Io sono pentita di essere stata così debole, anche così succube da averla voluta accontentare. Chi è? Non lo so davvero. E io sono così attenta selezionatrice: ho appena due donne in programma e poi lei: rischia di rovinare il senso di tutto. Così mi decido e domando sue notizie a un tale che mi pareva le fosse amico, proprietario di un night. Ma lui non la conosce affatto. Posso credergli? Gli rivelo le mie perplessità su questa donna davvero troppo sconosciuta, ma l’uomo ribatte che quello che so di lei gli sembra garanzia sufficiente per avere fiducia e metterla in program­ ma. Allora lì comincio a gridare che sono critica d’arte e lo so io cosa devo fare

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ecc. Devo avere passato il segno perché queU’uomo cambia umore e con fare minaccioso mi mostra qualcosa, una specie di pistola sottobanco. Sono terro­ rizzata: è uno della mala, mi conviene scappare. Mentre esco precipitosamente dal locale lo intravedo ancora seminascosto in una cabina telefonica in atto di mostrarmi un manganello che viene fuori dal muro mediante un cordone a molla: lui mi guarda di sotto in sù come dire “Adesso sai di che si tratta”. La mia paura, se possibile, aumenta ancora. Però quello non si muove di lì e io posso agevolmente varcare la soglia del night. Era stato solo un avvertimento per me: la donna era amica del tizio, io avevo sbagliato tattica.

13 nov. Ancora il sogno con la zingara: sono tentata di dare alla zingara una parte di me che lei desidera, il “suo” bambino, però Lu­ cia non lo permette e io finisco per riconoscermi nel suo bisogno di cautela. Infatti la collaborazione con la zingara è un atto avventato di cui mi pento e lì mi soccorre Lucia come figura simbolica di chi protegge se stessa dall’interferenza esterna. Insomma, il sogno riflette il mio conflitto tra un comportamento di complicità con la zingara e un comportamento che sfida le sue ire e opta per quest’ultimo. Il gesto di Paula a proposito della casa editrice è piratesco verso di me, quindi sarebbe stato pura debolezza darle la mia approvazione. La mia avventatezza, che ho sempre sentito pericolosa, riguarda i passi che faccio per essere all’altezza, i passi di “rinuncia altruistica”, men­ tre Lucia rappresenta i bisogni egoistici. Da queste parole, come per magia, è scaturita la seguente lettera: Cara Matilde, la lettera precedente è obicttiva, ma farisea. Infatti non tocca il punto doloroso della situazione. Il punto è questo: che, avvertendo il tuo desiderio di essere partecipe del libro di Piera, ti ho fatto quella proposta, ma poi non me la sono sentita di mantenerla. Mi sono sempre illusa di essere generosa, di dare con piacere quello che è mio, di spartirlo: invece mi sono accorta che desidero tenerlo, che sono stanca di sottopormi a imperativi del genere per alimentare f affetto e la stima delle amiche o per prevenire la loro invidia e il loro desiderio di strapparmi quello che ho. Tanto “so” che me lo strappano alla fine. Così, facendoti quella proposta, mi sono messa alla prova e, se ho messo alla prova anche te, spero che non sia stato gratuito. C’era qualcosa di sottinteso fra noi che, almeno per me, adesso è chiarito. Con enorme vergogna, ma anche con grande gioia e affetto.

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14 nov. C’è un’invasione di cinesi: la mia casa è presa d’assalto. Entrano dal pianoterra: cerco scampo salendo nelle stanze superiori, ma quelli calano giù dal tetto attraverso le finestre. Basta, mi arrendo. Cerco di arrivare a un’apertu­ ra per buttarmi, e risolvere tutto nel suicidio, ma le finestre appaiono chiuse o schermate. Per fortuna uno degli invasori mi sussurra “Veleno”, da cui capisco che i prigionieri saranno avvelenati, e mi pare una buona soluzione. Non voglio restare viva in mano loro. Però poi, all’improvviso, ecco uno spiraglio. Mi porta­ no da un tale, un capo certamente: europeo, vestito di chiaro, elegante, civile. E un letterato o un linguista o un antropologo. Dà tre parole in una strana lingua, sembra provenzale: bisogna fare qualcosa con queste tre parole. Ho la precisa sensazione che lui è così innamorato degli studi sulle parole che se io mi rivelassi brava in quello, diventerei indispensabile e sarei salva. Senza sapere come, ca­ pisco che ce la farò. Da una lettera di Augusta: “La morte di Pasolini mi fa tristezza, mi dispiace davvero. Si direbbe che è ri­ schioso per un uomo essere chiamato fratello da una donna - questa prossimità non reca nulla di buono, è quasi la profezia di un futuro oscuro, di uno schiac­ ciamento... Penso che anche tu sia rimasta turbata. Forse è simbolica questa commozione di donne che hanno fatto del femminismo”.

16 nov. Potrei dire che mi sento colpevole di avere quelle cose che un’altra desidera, in realtà mi sento minacciata dal suo desiderio che mi si traduce in una richiesta a cui non posso sottrarmi. Il desiderio prelude lo scontro e l’accusa per il possesso di quelle cose. A monte c’è questo: che io sono stata comandata di dare alla sorella quello che ho, e la sorella ha avuto il diritto di prenderlo. Così la sua invidia è un segno che io le ho rifiutato quello che dovrei darle, che è già suo. La zingara vuole il “suo” bambino e io sono subito d’accordo. Lu­ cia invece dice “No, è mio e me lo tengo”. Infatti lei non mi ha mai dato niente di suo, e non sembrava imbarazzata a negarmelo. Ora i libretti verdi sono un’opportunità che io offro, però chi non coglie l’opportunità mi invidia ciò di cui non sa approfittare. Insomma quei libretti sono un esorcismo per potere pubblicare i miei scritti senza che questa occasione sia un privilegio. Ma non basta. Ci vuole che io abbia preso coscienza che non devo niente a nessuno: infatti ho creato delle condizioni di parità, la mia meta, però quelle condizioni

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sono un’iniziativa mia che deve risultare come tale. Se una lo mette in dubbio capisco che non c’è parità fra noi. Nel rapporto con gli uomi­ ni non ho riscontrato invidia: semmai un uomo da una donna prende senza invidiare. Un uomo non invidia una donna, mai, eccetto che nella maternità, o da un punto di vista omosessuale: può prendere da lei quello che gli serve, quindi obiettivamente conferma anche se non riconosce. Così una donna magari è cancellata dalla storia, ma non distrutta come esistenza, che è quanto avviene nel processo dell’invi­ dia che contesta, a chi lo possiede, il diritto a un certo bene. Glielo fa sentire usurpato e oppressivo. Mi piace molto dare in modo gratuito, quando mi viene, non per­ ché l’altra se l’aspetta e sennò ci resta male e diventa ostile. Quan­ do avverto questa situazione capisco che c’è dipendenza e mi si crea un conflitto. Dopo questo chiarimento mi sento molto serena. La mancanza di autonomia nei rapporti è un peso che, quando si avverte, non è più sopportabile. Cara Piera, hai sentito come mi era facile dirti il mio affetto al telefono? Vederti esprimere, affermare te stessa, fare la tua cosa, mi rende felice non solo perche posso partecipare di te, della tua coscienza e del tuo essere che si manifesta, ma anche perche crea una parità di fatto tra noi: ciascuna gravita in se stessa e non sull’altra. Per fare questo qualcuna ha dovuto respingermi completamente, posso accettarlo ora che vedo trattarsi di un caso limite, e forse provvisorio. Sto pagando le ultime ipoteche contratte con il femminismo, voglio pagarle tutte.

L’appropriazione scatta su una disponibilità dell’altra: una disponi­ bilità ambigua. 20 nov. Devo operarmi di nuovo, e di nuovo nell’incertezza: cancro? Le sensazioni sono abbastanza inesprimibili. Passo rapidamente in rassegna le cose che amo: potrei lasciarle? Potrei dire “Sì, ho vissuto abbastanza?”. Questo diario mi dà una certa sicurezza di avere fat­ to quello che desideravo fare. Provo a immaginarmi nell’anticamera della sala operatoria, dopo il risveglio, con la flebo appesa al braccio e il fuoco nella pancia. Non mi faccio più così pena come una volta. Mi chiedo che reazioni la notizia di questa mia ulteriore disavventura provocherebbe nelle amiche. Ne parlo al telefono con Piera e, come prima cosa, avverto la sua paura della malattia.

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Il ginecologo mi ha fatto i complimenti per la mia calma nell’apprendere la notizia. “L’utero va tagliato via” aveva detto senza incertezze. Questo organo inutile in una donna della mia età che non intende più partorire. Lo avrei odiato un tempo, adesso voglio essere cauta, ponderare bene, non farmi fregare dalla cultura che disprezza l’ute­ ro. Solo la natura con una casualità disarmante può fregarmi, ne ha il diritto. E un anno che so di avere qualcosa che non va, è un anno che affastello pretesti tranquillizzanti per rimandare un accertamen­ to. Ne ho parlato anche con Nicola: più che una reazione verso di me noto una specie di irrigidimento di fronte alla notizia e la fretta di correre ai ripari: organizzazione, altri pareri, confort ecc. Sono io che creo questo blocco? Mi presento già irrigidita? E possibile. So che se comunico disperazione riceverò disperazione, se comunico serenità riceverò serenità. Con questa notizia tutto l’apparato di abitudini e di occupazioni sal­ ta, compare l’idea fissa: solo darmi da fare su questo argomento mi soddisfa. Il resto non esiste. Una emozione incontrollabile si accom­ pagna al pensiero di Tito: gli ho stirato una camicia, gli ho attaccato dei bottoni, cosa che non faccio mai, come se dovessi lasciarlo in or­ dine partendo per un lungo viaggio. Due giorni prima della visita avevo fatto questo sogno: Sono addetta a un servizio di notte in ospedale, come se fossi io stessa un me­ dico o un’infermiera. Ma questo posto è pericoloso, buio e qualcuno potrebbe sorprendermi nel sonno - c’è un letto - e uccidermi. La porta non si chiude a chiave e poi sono isolata solo da una vetrata. Qualcuno verrà ne sono certa. Unico scampo: non prendere sonno. Cara Irene, la tua allusione ai benefici dell’arte mi fa pensare che batti una strada differente dalla mia: io riconosco all’arte un beneficio simbolico, mentre diventa un ostacolo quando si passa alla fase autoliberatoria. Proprio tu che sei una cattolica credente ti fai dire questo da un’agnostica come me? Forse noi sia­ mo le vere religiose in questo momento, però di una religione femminile senza dei, senza valori assoluti. Chissà. Quelli che a te sembrano solo “esercizi”, come Autocoscienza , forse rappresentano il volto di un’umanità che vuole rispecchiarsi dal basso invece di proiettarsi nelle immagini idolatrate della cultura. Chissà. Mi piace il paradosso, unico spazio dove posso essere me stessa.

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22 nov. Nella sua lettera Matilde dice di dubitare della mia auten­ ticità: perché le risulto diversa da quella che lei mi pensava. Anch’io ho fatto questo errore, di confondere autenticità, con verità. Sara, per esempio, era autenticamente mia rivale, mentre io mi aspettavo che fosse autenticamente mia amica. Quindi la trovavo un’amica infida. Mi chiedo come mai a un certo punto il problema si presenta con un’amica, e prima non lo vedevo. Prima c’è un accordo che sembra vero. Poi una provoca e si scopre scoprendo contemporaneamente l’altra. L’altra è più in difficoltà perché tutto quanto le risulta arbi­ trario, visto che non parte da lei. Io non avevo possibilità di azione quando Sara mi ha aggredita. Si cade troppo in balia. Devo ancora accertare se tutta l’impossibilità a uscirne che sentivo derivava dal meccanismo cui ho appena accennato, oppure da un suo vero odio da cui non trapelava più il minimo di simpatia. 23 nov. Il dubbio di Matilde non mi contagia nel senso di ripercuo­ tersi su di me come dubbio, ma mi provoca un malessere vagamente patologico. Sono anche sofferente all’idea di essere una che la tor­ menta. Devo farle presente che si tratta di transfert. Ho un gran bisogno di pace, di serenità. Vedendo la mostra di Corot ero attratta dalla quiete contemplativa, affettiva di quei quadri. Sono stanca di tutte le mie burrasche emozionali: le accetto, ma non le credo più il modo più intenso di vivere. Chissà se un giorno, liberata da tutti i dolorosi enigmi che mi hanno spinta a forza nel vivo dei rapporti umani, potrò godere la natura senza interrogativa. Cara Matilde, sai perché la lettera che ti ho mandato non ti sembra indirizzata a te? Perché non t’importa affatto dei miei problemi. E sai perché non te ne importa? Perché mi hai mitizzato.

24 nov. Avendo sentito in Sara una voce di verità non ho capito che era la “sua” verità: credevo che avrei dovuto ammettere quello di cui lei mi accusava. Ma poi, come potevo ammetterlo se era falso? Ma allora come poteva Sara essere nello stesso tempo vera e falsa? La mia verità solo io la conosco e solo io posso affermarla. Le sue accuse mi aiutano a conoscerla, tutto qui. Siccome tutte mi hanno accu­ sato di prevaricare mi sembrava che tutte mi spingessero a lasciare

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spazio, a cedere ancora di più. Invece dovevo ribellarmi, ma non lo potevo concepire. Come? Ribellarmi a chi si dichiara inferiorizzata da me? Mi sta succedendo con Matilde che è stata la più restia ad ammetterlo così l’ho potuto scoprire da sola che lo era: ecco che ho colto sul fatto l’inganno in cui ero coinvolta. Le altre mi avevano messo sull’avviso mostrandomi il loro risentimento, il loro bisogno di sganciarsi da me; ma una volta sotto accusa che potevo fare? A quelle con cui avevo avuto pochi contatti reagivo ma tutto si fermava lì; con le altre, le amiche, scattava la depressione, l’arrovellio interno, il tabù di infierire sul più debole che in quel momento mi si presenta­ va come il più forte, ma non era stato fino allora il più debole? Non tanto verso di me, non l’avevo capito, quanto obiettivamente nella sua vita. E così, adesso che passava alla riscossa, io che avrei dovuto fare? Cantargliene quattro e riportarlo indietro, scatenando così la sua giusta ira? Quell’ira mi avrebbe travolta. Basta, era un’impasse. Finivo per sentirmi più ignara, più vittima predestinata di chiunque altra che, almeno, poteva ribellarsi a me. L’oppresso si ribella all’op­ pressore, il plagiato al plagiatore, ma l’oppressore, il plagiatore a chi si ribella? Come potevo smettere di essere oppressore, plagiatore? Proprio con Matilde, la più riservata, doveva succedermi di risalire le peste deH’inferiorizzata per conquistare la mia autonomia. Non vedo l’ora che tutto questo travaglio sia finito e che possiamo volerci bene in pace. Io non lo sapevo che era bloccata con me, neppure sapevo di essere oppressa da questo suo blocco. Forse non volevo saperlo: spingevo, ma aspettavo, come sempre, che fosse lei a prendere l’ini­ ziativa: non mi ero accorta abbastanza che l’iniziativa dell’altra in questi casi era paralizzante per me? La sua iniziativa, cioè ribellione, aggressione, accusa. A quel punto lì per me non c’era già più spazio. L’iniziativa mia era la provocazione che affretta i tempi ed elude le cautele: doveva partire da me. Solo così avrei ritrovato fiducia in me stessa, nella mia azione spontanea. Stasera a cena dopo uno scambio di battute in cui Riccardo si ri­ conosceva sadico e io lo definivo frustrante, se ne è uscito in questa frase “L’ho, sempre pensato che tu sei stata un danno per tutti i tuoi fratelli”. Gli ho ribattuto che non potevo saperlo finché non me l’han­ no detto (lui si era identificato con loro rispetto a me). Ha risposto “Questo è vero”. Basta, adesso lo so. Un titolo possibile di questo diario “Liberazione dall’oppressa”.

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Senza che me ne rendessi subito conto mi ha molto illuminato quanto ha ammesso Sara a proposito della “ragazza timida”: un cadavere che per viltà non si manifestava. Io lo idealizzavo come innocente questo cadavere, ma era anche lei, allora, a farlo passare per tale. Ester, interrompendo i rapporti con me, è rimasta con l’idea di essere stata inferiorizzata. Così non verrà a sapere facilmente faltro aspetto del problema (quello più vero?), di essere oppressa dall’invidia delle altre, invidia del suo essere pittrice. Si fa un dovere, e uno scudo, di aiutare le amiche a diventare pittrici (o critiche o galleriste), a riuscire. In realtà eccita la loro ambizione di un inserimento nella cultura che lei garantisce senza colpe ora che la colpevole tra noi due sono io. Il silenzio di Lucia, che ho odiato, è stato il silenzio di tutte. Chiedevo a Gemma, a Matilde “E così? Sono un ‘piccolo Hitler’? Vi opprimo? Sara dice che sono un mostro”. Loro cadevano dalle nuvo­ le. Ho dovuto provocare Matilde per sapere che un dubbio era anche dentro di lei e aspettava solo l’occasione per prendere corpo. Il mio problema era il silenzio dell’altra, riuscire a penetrarlo. Era il silenzio che restava sempre inviolato al di là di qualsiasi rassicurante parola e prova di affetto. Adesso mi sono infiltrata in questo silen­ zio, ho afferrato il momento in cui gorgoglia e diventa minaccioso. Adesso so che il silenzio, l’impressione del silenzio al di là di ogni frase, sguardo, abbraccio, è sempre e solo l’espressione di un prende­ re tempo, un raccogliere le forze per arrivare a manifestare se stessi nell’opposizione all’altra. A quella a cui si contrapponeva il silenzio al di là di ogni frase, sguardo, abbraccio. Ho detto a Sara quanto ero stata soggiogata da lei, gliel’ho detto perché l’amavo “Vorrei liberarmene vorrei saziarmene”. Ha potu­ to liberarsi lei di me. Ho espresso di più la fase del silenzio. Forse l’amore è uno stato di soggiogamento che permette l’espressione. 25 nov. Appena arrivata a Milano sono corsa da Lucia: volevo dirle subito che il ginecologo omeopata mi ha trovata bene, con un utero passabile e che non sarò operata per ora. Invece abbiamo finito per parlare di Moravia le cui pretese femministe - racconta “intenzional­ mente” storie di donne che non servono a niente se non a lusingare la sua presunzione - mi disturbano e le dicevo perché. Ma lei a un tratto ha avuto un moto di insopportabilità e si è alzata da tavola ritornando poi con una fàccia impassibile dietro a cui avvertivo il suo

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silenzio. Avevo toccato un tasto inaccettabile mettendo in ridicolo la figura del Padre. 27 nov. Miracolo. Tutto rimane dentro uno scambio che continua e anzi si gonfia di intensità. Con Matilde c’è stata un’ulteriore apertu­ ra: mi ha confidato terrori infantili sulla follia e sulla morte che non aveva mai detto a nessuno, e ci siamo salutate con un abbraccio così tenero che non lasciava traccia di dubbio. Ecco perché ho potuto mettermi a nudo con lei, perché, nonostante tutto, ne avrebbe fatto tesoro senza ritorcermelo contro, e così io con lei. Tutta la giornata piena di angoli caldi di confidenze, di pacati slanci e fiducia con Ni­ cola, Simone, Gemma e al telefono Felicita e Piera. 29 nov. Serata orribile. Ho lottato con il sonno dalle 21 all’1 di not­ te. Avevamo una cena, gente non sgradevole, ma del tutto estranea. Appena cedo, appena sono accondiscendente ecco che mi trovo in un pasticcio, in una situazione grottesca. Sono stanca da morire: solo i gesti essenziali sono vivibili, anche se ossessionanti, anche se soffo­ cano, strangolano. I gesti casuali sono la pazzia pura. Un tempo in queste occasioni stavo zitta, seria, rigida e scontenta, che gli altri se ne accorgessero, anzi meglio; adesso ho girato a un comportamento più conciliante e perciò, se possibile, ancora più autodistruttivo. Resta il fatto che non ho Ha d’uscita una volta accettato il compromesso: l’in­ transigenza è dunque necessaria prima. Quello che io sono è pateti­ camente invisibile e inudibile e non posso impugnarlo. Adesso che ho la certezza di non farne io un dramma perché è di fatto un dramma, la mia decisione di non caderci più è matura. Io ho questa mania: di dare alle altre un quadro della realtà più roseo di quello che conosco, garantito da me. E autoprotettivo, au­ toillusionistico, è una prova della mia funzione incoraggiante? Io che non esisto socialmente posso riconoscere un’altra che non esi­ ste socialmente, e così Ha. Ma la mia coscienza non è riconosciuta dalla cultura quindi questa catena di riconoscimenti tra non-esistenti è valida solo tra noi. Non vedo possibilità di un uomo diverso poiché è impensabile che uno rinunci all’identità sociale che ha, per una che non esiste. Pasolini, in quanto omosessuale l’ha tentato, ma in quanto uomo perseguiva continuamente la sua identità sociale.

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1 die. Avevo pensato che qualcuno, leggendole (le poesie che ho dato ieri sera a Piera) sarebbe saltato su, e si sarebbe accorato di me come io mi ero accorata alla rivelazione dell’esistenza dell’uomo. 2 die. Piera mi ha ritrovato nelle poesie. Non era quello che volevo? 3 die. Mi sveglio inquieta: il mito della creatività ci sbarra la strada. E come il mito dell’innocenza infantile, creato dagli adulti e dal loro senso di colpa. Il mito della creatività è stato inventato dagli esclu­ si. Di fronte a chi si fa candidato di se stesso l’umanità si inchina come di fronte a qualcuno toccato dalla grazia. Persino la psicanalisi è arretrata davanti al mistero dell’artista. Quella dell’artista è l’unica categoria intoccabile nell’attuale sfacelo di categorie. L’artista per­ seguita l’umanità con il continuo sfoggio di una sicurezza di sé che da esistenziale è stata elevata nella cultura al rango di sicurezza on­ tologica. Questo semplice spostamento tiene l’artista al di fuori del dubbio su di sé e gli garantisce la produzione di arte. Il mito dell’arte continuerà a schiacciare l’umanità che l’ha prodotto nel suo bisogno di idealizzare e propiziarsi il persecutore. Vorrei un mondo dove ogni espressione restasse a livello esisten­ ziale: scrivere, suonare, dipingere, fare operazioni di qualsiasi tipo e con qualsiasi mezzo. Perché questo si realizzasse occorrerebbe che tutti fino all’ultimo accettassero il bisogno di esprimersi. Se uno solo restasse fermo, bloccato, l’Arte manterrebbe radici nella sua unica mente. Fuggo le femministe-artiste (e viceversa): con l’alibi di potenziare l’espressione femminile mettono a profitto gli spunti esistenziali delle donne nel solo campo dove alligna il profitto, la cultura maschile, e tradiscono le compagne che non accettano di vendersi in cambio dell’identità sociale. Così, come femministe, bagnano il pane nel piat­ to dell’oppressa, come artiste ne traggono nutrimento per passare in campo avverso, e con la necessaria mimetizzazione. Cos’è quell’as­ sunzione dell’epiteto “artiste”? Un’investitura innocente? Qualcosa a cui si rivendica il diritto come alla parità di salario? Oppure? Si tratta del diritto a esprimersi o del diritto a fare parte, sia pure in assetto femminile, di un ambito la cui appartenenza garantisce la qualifica­ zione di sé? Ma da chi proviene quella qualificazione? Da altre artiste? E a loro chi l’ha procurata? I loro meriti? No, non è così. L’ha procu­

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rata colui al quale è stata domandata e che oggi ha interesse a darla poiché, a questo punto, ha interesse a estendere i suoi valori anche al mondo femminile che in tal modo li avalla, e spezza la sua unità. Per la cultura maschile ci sono vari modi di sconfiggere le donne: uno è quello di ignorare sistematicamente la loro voce autentica e di chia­ marle in causa in modo falsificato cosicché non possano rispondere; un altro è quello di gratificare come femminismo qualcosa che rientri nella cultura corrente e di cui farsi magari paladini e protettori; un altro è quello di scegliere come femministe ufficiali, e mediatrici delle donne, tutte quelle che per un verso o per l’altro, dopo avere fatto incetta di femminismo nei gruppi e nelle situazioni anonime, si siano poste come portavoce tra le donne e la cultura. Insomma, la cultura maschile opera in senso coloniale, sottoculturale: decide qual è il fem­ minismo da dichiarare tale, tace del resto, riconosce come valida ogni manifestazione ambigua di donne in cui sia presente l’aspirazione culturale, dà patenti rivoluzionarie a quelle che accettano di essere scrittrici, pittrici, artiste, teatranti, politiche, con ciò stesso mettendo a riparo i suoi valori che sono gerarchici e categoriali. Tutto ciò che ap­ pare esistenzialmente senza identità riconducibile all’esercizio di un ruolo sociale, lo cancella. E così cancella le donne e la loro coscienza di ciò che è autentico. Se il punto fermo è la coscienza dell’autenticità, perché chiedere la no­ mina a chi manca proprio di quella coscienza? E allora di quale nomina si va in cerca? Tra le donne socialmente vale chi non vale e chi vale esistenzial­ mente non vale socialmente. Ma chi non esiste socialmente come può liberarsi dall’oppressione di chi socialmente esiste? Il giudice è sempre l’uomo: la sua società, la sua cultura, i suoi valori della società e della cultura e quando una donna li accetta, e li accet­ ta aspirando alle identità che quello fornisce, scambiando la sua identità di non-esistente per un’identità riconoscibile e riconosciu­ ta, la sua autenticità si perde e quella delle altre contemporanea­ mente e nuovamente viene condannata alla non-esistenza sociale. Per questo il tradimento di una è una riconferma dolorosa della condizione assurda di tutte le altre. E in più il socialmente non-esistente è il feudo che arricchisce chi ri­ cerca e accetta l’identità sociale.

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Come può esistere un romanzo di Dacia Maraini “compiutamente femminista” quale lo definisce l’autrice e lo pubblica l’editore severo Einaudi? In questa veste il femminismo appare più incatenato, beila­ to, impotente di quando era in mano ai caricaturisti dell”800. E poi in un’intervista, la Maraini afferma, en passant, di avere “militato” in Rivolta Femminile e di essersene allontanata perché eravamo “troppo mistiche”. Dacia non è mai stata in Rivolta. Non ha partecipato nep­ pure al Manifesto che ha raccolto il primo nucleo, ancora eterogeneo, di Rivolta. Al contrario, siamo state noi a respingerla in un’assemblea alla casa della cultura di Roma (primavera del ’70) quando aveva cercato la nostra adesione su un trattatello di regole per conseguire l’emancipazione, che iniziava, se ben ricordo “Donne è bello”, e pro­ seguiva elencando tutto ciò che avremmo dovuto imparare per essere alla pari con gli uomini, dal fare gli affari al fare la guerra. Cercava di capeggiare la situazione approfittando del caos e adesso cerca di approfittare dello stesso caos per cambiare le carte in tavola. Perché non racconta come sono andate le cose e perché non ripropone il suo trattatello? Noi il nostro Manifesto non lo abbiamo fatto sparire dalla circolazione, ed è su quella base che abbiamo rifiutato il suo scritto in linea con le posizioni del NOW. E terribile essere in avanti sul proprio tempo. E davvero terribile perché nessuno lo sa: non c’è scampo, non c’è via d’uscita. Mi ar­ rovello, cerco un ragionamento, una prova. Forse occorre solo un atto di coraggio. Afa quale? A volte mi rallegro di essere ancora al coperto, protetta dalla maschera o almeno dai limiti del comporta­ mento: nessuno che sappia chi sono veramente, nessuno che pos­ sa respingermi dopo averlo saputo. Come respingono Valeria che ha messo a nudo il suo animo turbolento di ragazza. E lì dove non ho avuto coraggio, visto che mi cullo ancora nella vaga ipotesi di essere diversa da come sono, da come risulto in questo diario che non oso ancora mostrare. 5 die. Ho un estremo bisogno di erotismo. Questa vita calma e fa­ miliare non fa per me. Avrò tutta la vecchiaia per essere calma e fami­ liare. Quando mi viene questa evidenza dell’erotismo che mi manca tutto salta per aria, la mia vita non vale niente. Questi quaderni li brucerei.

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Tutto il tempo passato a scrivere invece di provvedere a ciò che mi manca. Ieri sera Simone, Raffaele, sua moglie e io. Raffaele è stato un errore per rimediare al quale mi sono imbarcata in una catena di errori. Ancora adesso non so se sono nell’errore. Suppongo di sì. Ma l’errore fa parte della vita stessa, della vita reale. 6. die. Mi è maturata una nuova interpretazione del sogno con la zingara. In questo caso Lucia è il precedente di Paula che fa del mio rapporto con Paula un rapporto ansioso. Infatti Paula manifestando a sua insaputa e quindi tanto più minacciosamente uno sviscerato desi­ derio di appropriarsi del progetto della casa editrice, cioè volendola e nello stesso tempo negando di volerla e perciò sfuggendo a ogni con­ trattazione ragionevole, mi ha riportato a quella sensazione di impo­ tenza che ho provato di fronte a Lucia e alla priorità dei suoi bisogni infantili a cui non ero in grado di contrappormi in modo altrettanto violento. Non c’era argomento che valesse quando si metteva in testa una cosa: era già sua perché non teneva minimamente in conto le mie proprietà o quelle che ero abituata a considerare tali prima del suo arrivo. Sentivo in lei una tenacia che mi spaventava: non avrebbe mollato per nessuna ragione al mondo: l’idealizzazione affettiva del nostro rapporto antagonistico crollava di fronte alla nuda bramosia del possesso di beni. La mia salvezza dalla gelosia per la sua presenza essendo la costruzione di un forte ideale di me, ero costretta a cedere pur di conservare quell’ideale, e lei ne approfittava. Alla fine mi sono ritrovata una che dava tutto quello che aveva, una generosa, una fatta così, mentre Lucia era egoista e tranquillamente avara. Avevo l’inter­ detto dei genitori a volere per me, ero accettata se cedevo. Così ogni amica ha trovato in me il terreno favorevole all’esproprio: qualcosa la rendeva sicura che non avrei opposto resistenza una volta che avesse allentato i freni alle tendenze di impossessamento e sia la mia condotta, la mia intrinseca debolezza su quel punto, sia l’azione del transfert finivano per condurre tutte e due al momento di crisi. Cosa mi aspettavo dalle amiche? Che mi restituissero quello che mi era stato tolto: il riconoscimento del mio diritto alla proprietà, invece finivano per privarmi anche della speranza di questo recupero. Così ripetevano esattamente l’esproprio che avevo subito da Lucia e io mi lasciavo fare esattamente come allora.

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Dice mio padre “Lucia otteneva da me tutto quello che voleva”. Inve­ ce io, a un no, perdevo le staffe “Che sistema è questo?” cominciavo a gridare “Dimmi su che principio ti basi... dimmi le ragioni...”. Mio padre sostiene che non ero diplomatica. Rimettevo la soluzione della mia causa a un problema di giustizia, Lucia invece sapeva che mio padre non le avrebbe resistito e lavorava su quello. Mia madre ricorda “Carla saltava sempre su a prendere le difese degli altri, faceva sempre la paladina dei fratelli”. Aspettavo una conferma di me dalla ragione, invece aveva ragione chi convinceva mio padre. Io ero sempre sconfìt­ ta, i miei argomenti derisi, e nessuno che mettesse una parola per me. Da quegli scontri mio padre usciva cambiato; ma i vantaggi li gode­ vano le sorelle, io ero sempre in proscrizione. Mi prendevo le libertà a mio rischio e pericolo, ma ogni libertà nascondeva un conflitto che mi logorava, mi toglieva la pace, e influiva negativamente sull’esito che mi ripromettevo da quella libertà. Tornavo sconfitta anche dall’affermazione di libertà. Sono entrata nel femminismo con la sensazione che lì mi sarebbe stata riconosciuta questa lotta. Invece mi hanno lasciato fare finché non gli sono venuta sulle scatole e hanno capito di potere fare a meno di me. Con gran soddisfazione. Forse quel misto di certezze mentali e di insta­ bilità psichica, di convinzioni e di dubbi, di aperture e di impossibilità a profittarne, di comprensione e eli annullamento di me, di ribellione e di razionalità era il giusto apprendimento che offrivo a chi voleva usci­ re dalla propria inerzia e dalTinferiorizzazione culturale femminile. “Non si tratta piuttosto di una frustrazione che sarebbe inerente al discorso stesso del soggetto? Il soggetto non vi si impegna forse in uno spossessamento sempre maggiore di quel certo suo essere di cui a forza di pitture sincere che ne lasciano l’idea non meno incoerente, di rettifiche che non riescono a isolarne l’essenza, di puntelli e di difese che non impediscono alla sua statua di vacil­ lare, di strette narcisistiche che si estenuano ad animarla del loro soffio, finisce per riconoscere che questo essere non è mai stato certezza. Giacché in questo lavoro ch’egli fa di ricostruirla per un altro, ritrova l’alienazione fondamentale che gliel’ha fatta costruire come un’altra e che l’ha sempre destinata ad essergli sottratta da un altro.” (Lacan, Scritti, Ed. Einaudi)

Liberata dall’idea di dovere portare la mia barca in un porto, liberata dal bisogno di giustificarmi e giustificare la vita ai miei occhi, liberata

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dalla speranza che qualcosa cambi, che migliori, che sia la vera vita, liberata dal ruolo materno femminile, liberata dal sospetto di avere creduto per mancanza di fede o per stupidità, liberata dal volere di­ mostrare che “è possibile” essendo donna, liberata dall’avere qual­ cosa da salvare, liberata dall’idea che dipenda da me, liberata dalla paura di non potere tornare indietro, liberata dal terrore di “vedere com’è e non poterlo dire”, liberata dall’attaccamento al dire, libe­ rata dall’interdetto al fare, liberata dall’ipotesi che ci sia una strada, liberata dallo smacco di non potere mantenere, liberata dal negare che è stato tutto invano, liberata dall’ottimismo, liberata dal disfatti­ smo, liberata dal confronto, dallo svantaggio, dalle profezie, liberata dall’inutile orgoglio, liberata dall’inutile vergogna. Io non cambierò mai non cambierò mai. E così che devo accettarmi.

Non rappresento altri che me stessa: finora ho vissuto come avendo sulle spalle tutte le vostre vite. 10 die. Caro Claudius, ti scrivo subito sul discorso interrotto quando dicevi

che ogni processo di indentificazione è un processo artistico, e che io ho avuto molto lunga la fase preliminare. Non ti accorgi che, dal mio punto di vista, il tuo preliminare può essere rindentifìcazione di te come artista? Non puoi accettare che io non abbia più a che fare con l’arte e che questo non lo consideri una perdita, ma una liberazione.

11 die. La mia vergogna è la mia infelicità. Mi odio e detesto perché come nessuno aspiro alla felicità e so che non la conoscerò mai. Ma la verità è un’altra: non “sono” infelice, “mi considero” infelice, cioè non mi accetto. Non mi sento bene. Poco dopo il risveglio comincio ad avvertire un calore interno, un leggero bruciore agli occhi, che crescono durante la giornata per scomparire sul far della notte. E suggestione? E l’odia­ ta febbretta, araldo di tutti i miei traumi corporei? La TBC, il cancro. A un tratto ho un’illuminazione: penso a Katherine Mansfield e ca­ pisco il suo messaggio. Ha accettato di morire, ha accettato che non c’era niente da fare e intanto ha continuato a vivere. Però fuori dalle

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grinfie dei chirurghi, dai letti di ospedale, da tutte le torture fisiche e psichiche che la moderna civiltà riserva ai malati. In fondo, il mio ter­ rore non è stato tanto la morte tout court, la morte che entra nella mia casa, si avvicina a me mentre scrivo, leggo, sorrido, parlo, cammino, preparo da mangiare, guardo la TY, rispondo al telefono, piango, in­ dosso i miei vestiti, mi guardo allo specchio. Il mio terrore consisteva neH’affidare ad altri la mia vita e la mia morte, essere la loro cavia, essere spossessata del mio corpo e di me stessa, ascoltare il verdetto e le minacce, entrare in loro balia. Svegliarmi dal loro sonno anestetico senza sapere se sarò ancora io o un’altra in funzione ridotta, debili­ tata e impoverita, priva dell’identità precedente, con a disposizione un’identità fittizia opera del chirurgo X o Y, abituato a queste sottili sostituzioni di persona. Quello è il mio vero insopportabile incubo, non la morte. Così ora prendo la formale decisione di non volere più sfuggirle, di non lottare più con lei per interposta persona, il chirurgo che cerca di sradicarla dalla mia carne, da un corpo peraltro mortale e che comunque la porta con sé, di curarmi solo in modo umano, e senza pretendere l’impossibile. Se devo morire morirò, non metterò la testa sotto la sabbia. Farò come mi ha indicato la sorella Katherine. Dentro un essere ci sono il dubbio di sé e la certezza di sé. Lui non lo sa. Quando un essere è perseguitato dalla disapprovazione dei genitori diventa cosciente del suo dubbio, quando è accompagna­ to dalla loro fiducia diventa cosciente della sua certezza. Chi può dare fiducia è la madre che accetta incondizionatamente il suo prodotto, chi può mettere alla prova è il padre che accetta a condi­ zione. Ora una madre non accetta la figlia femmina, non l’accetta per quella che è, si comporta verso di lei come il padre che pone delle condizioni. Così il dubbio è all’origine di ogni donna. Io avevo molto poco quando ho cominciato il femminismo e ho subito capito che lo dovevo abbandonare o quel poco mi avrebbe giocata. Un artista crede in se stesso: può farlo dal momento che lo fa. Chi non può farlo deve trovare il modo di farlo. L’arte è il plus-valore che la società attribuisce alle operazioni di chi crede in se stesso. Questa è la mia vita, non il deragliamento da quella che avrebbe potuto essere la mia vita. C’è chi questa certezza ce l’ha nel san­ gue e fa della sua vita qualcosa. Io faccio la coscienza della mia vita. Questa coscienza non finisce mai, dura quanto la vita, anche se - da un certo punto in avanti - l’accompagna in modo meno

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pericoloso. Ma mi risulta che sempre la sensazione del rischio, o la sofferenza, o la perdita e il vuoto compaiono quando la coscienza deve fare un salto. 15 die. Ho cominciato a leggere repistolario di Nietzsche. Subito commossa dalla sua umanità e consolata dalla sua sofferenza e catti­ va salute. Contenta di non averlo letto prima. Ogni tanto ho bisogno di qualcosa di forte, di umanamente traboccante e così vado ripe­ scando autori amati da lontano. Ritto quello che ci trovo di eroico, di gigante solitario lo metto in conto a un modo di essere maschile così non mi innervosisco. Non faccio progetti lunghi, non mi creo aspettative, non devo ri­ bellarmi a nessuno, non devo tagliarmi i ponti dietro, devo solo vedere se questa è la mia cita oppure no, se è altrove. Non ci tengo che sia questa vita piuttosto che quella, mi è indispensabile che sia la mia e sarò sempre all’erta quando mi parrà di sentire che da mia, comincia a non esserlo più. Simone dice di sentirsi se stesso sempre e dovunque, mentre io, secondo lui, vado cercando qual­ cosa fuori di me. Tuttavia aggiunge “Ti capisco: hai vanto tutte le battaglie, sarebbe assurdo che tu non vincessi la guerra”. 19 die. Simone ha parlato a un’amica e, come un buon padre dispo­ sto a capire e perdonare, l'ha fatta piangere. Lei ha visto i suoi torti rispetto al marito, ma siccome nessuno di autorevole le ha confer­ mato i torti del marito nei suoi confronti, infatti lui è fatto così e così va accettato, ha ricominciato a mitizzarlo per potersi convincere ad annullare in vista del bene di lui. Ricordo la commozione di quando papà mi chiamava, non tanto per sgridarmi quanto per farmi toccare con mano quanto ero stata sciocca, ingrata e incapace: lui aveva agito per il mio bene e io lo avevo deluso. Sentivo un’onda sommergermi, ed era bello non esistere più con tutti i propri gravissimi peccati, as­ solta dall’amore del padre che giganteggia in tutta la sua figura onni­ comprensiva, era bello e magari fosse durato sempre. Invece l’istante finiva, tornavo a vedere le cose con i miei occhi, limitati e colpevoli. Lo so anch’io che quello che ha detto Simone è vero, ma quella verità lei doveva scoprirla da sé, una volta che fosse stata ben sicura di altre verità. Quelle verità che nessuno può rivelarle se non è disposta a vivere senza l’approvazione dell’uomo, del migliore dei padri.

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Come mi sono accorta che non basta essere donne oppresse per es­ sere sorelle, così non basta che un uomo sia incapace di assumere la mascolinità per sentirlo fratello. Deve esprimersi, toccare le corde più intime, piangere, rinunciare, resistere. Deve perdere la Parola. Non mi sento esclusa dal rapporto genuino di un’amica con un’altra: sono disturbata quando mi immagino una strumentalizzazione, una ma­ novra che tende a farsi partecipe, usurpandolo, di un gesto autentico che io ho rispettato. Allora mi sento calpestata sia da chi è più disin­ volta di me sia da chi non la respinge. Come se fossi piena di scrupoli ridicoli su cui gli altri, sapendolo, fanno affidamento. 20 die. Da un po’ di tempo non ho più interesse per i sogni. Sogno meno di prima e non provo più il bisogno di ricordare quello che ho sognato. Forse anche scrivere è una necessità che si sta esaurendo, se continuo è perche sono abituata a riempire così la giornata. Altri­ menti sarebbe piena di gesti troppo inadeguati a quella che mi sento. Scrivere è un gesto all’altezza della mia essenza. Non l’ho mai voluto ammettere perché temevo che sarebbe stato come confessare che vi­ vere non lo è altrettanto. In questi ultimi tempi mi sono occupata molto di case. Sentivo di doverlo fare, ma provavo come un senso di resa. La mia vita ormai si svolge dentro le mie case. Con tutta la foga con cui fino dall’infan­ zia ho sognato di uscire dalla casa paterna per entrare nel mondo, adesso mi ritrovo di nuovo relegata dentro un preciso spazio privato che dovrei decidermi a considerare il mio mondo. Così come dovrei decidermi a considerare lo scrivere quotidiano la mia occupazione. Eppure continuo a pensare che tutto questo non può essere defini­ tivo, anche se per ora è andata così, perché le mie potenzialità sono superiori a questa situazione di confino e niente mi prova che essa coincida necessariamente con l’ambito della mia identità. Adesso ho la pace interiore per continuare, ma anche la fiducia che possa cam­ biare. Mentre prima al posto della pace avevo la rabbia e al posto della fiducia la volontà. Entrambe erano troppo spasmodicamente individualiste, mi logoravano nel sogno dell’azione e del cambiamen­ to, mi ricattavano con il sospetto del compromesso. Mi lasciavano in balia del dubbio che avrei fallito, e che la colpa era mia. Adesso sono calma: non pretendo l’impossibile.

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21 die. Quando ho abbandonato la critica d’arte, l’ho fatto per to­ gliermi una maschera che falsava i rapporti umani. Invece mi sono trovata fuori della società che di me, in quanto Carla Lonzi, non sa­ peva che farsene. Tutte le relazioni basate sulla critica d’arte si sono interrotte. E evidente che il lavoro, cioè l’emancipazione, è stato per me l’unico modo per uscire dalla condizione familiare, per entrare nel mondo, però poi l’unico modo per riacquistare l’autenticità è sta­ to quello di rifiutare l’emancipazione, ma allora la presa sul mondo si è allentata e sono ricaduta nella apartheid. Ho letto un racconto di Moravia sul “Corriere” La scoperta delle sco­ perte. E la storia di una ragazza che scopre com’è facile prostituirsi e rubare, finché si incontra con una ragazza che, figlia della donna da lei derubata, non la denuncia. Un racconto di un femminismo rac­ capricciante. Basterebbe questo esempio per farci abbandonare uno spazio in cui già altri spadroneggiano con l’ottusità di chi ha il potere quando tratta i problemi, anzi l’identità, di chi non ce l’ha. 23 die. Una donna malandata sulla cinquantina con capelli giallo-rossastri a

ino’ di parrucchino. E la morte. Mi si avvicina affettuosamente e mi dice che sto per morire di cancro. Anzi, mi dà una pastiglia che io metto a sciogliere in boc­ ca. Poi se ne va. Il fare di quella donna mi ha ingannato: sembrava avere per me una predilezione... Decido di vederci più chiaro, di perorare la mia causa. In­ tanto tolgo di bocca la pastiglia rimasta: la farò analizzare per capire che diavolo mi ha dato. Mi avvicino io a lei questa volta e riprendo il discorso. Ahimè è così. Anche la figlia di Nicola sta per morire; non mi dice quale, io suppongo la più piccola. La vedo tutta graziosa e ben viva, che strazio sapere che presto morirà. Poi c’è una rettifica che mi riguarda: a primavera scoprirò di avere un cancro, però guarirò senza operarmi. Resto interdetta: guarirò o morirò? Forse non sarà il caso di operarmi appunto perché troppo grave; quindi morirò. Non posso più fidarmi della sincerità della vecchia adesso che ho cominciato a dare segni manifesti di non accettare la mia sorte magari lei mi addolcisce il verdetto per tenermi buona. Oppure è così: basta ribellarsi per cambiare il proprio destino.

Prima di addormentarmi pensavo che tutt’ora trovo penoso tutto quello che riguarda la famiglia, ma non ho alternativa: sono tornata lì. E un po’ come morire ammettere che non c’è altro modo di ap­ plicare le proprie energie che i rapporti familiari. Voglio dire, anche le amiche diventa una questione di famiglia, anche Rivolta. Tutto

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tende alla dimensione privata per essere autentico. O forse, senza che me ne accorga c’è un superamento del privato nei miei rapporti, un superamento della morte nell’in sé. Mi viene in mente Cechov che non potevo leggere dalla pena che mi dava. Mi viene in mente il verso su cui ho modellato le mie aspirazioni di adolescente “N’importe où; mais hors du monde”. Allora lo interpretavo fuori dalle regole, dalla famiglia, dalle leggi, dai doveri, nell’autenticità e nella spontaneità. Avevo ancora illusioni sul mondo che non conoscevo e che credevo permettesse tutto questo. Stanotte pensavo “Scappo via”. Ma dove? “Hors du monde?” Nel mondo non c’è posto per me. Non sono an­ cora sicura che non dipenda dalla mia viltà. Nel sogno c’è la speranza di riuscire a vivere nonostante quello che sono e che ho (il cancro?), senza dovere andare incontro a cambiamenti (l’operazione). Devo accettarmi, il problema è sempre quello. Ho sognato troppo da ra­ gazza: ho sognato una vita eccitante, avventurosa, erotica, e ancora non so staccarmi da quei sogni, anche se all’atto pratico non mi rivelo affatto all’altezza dell’eroina che dovrebbe viverli. La famiglia non faceva parte dei miei sogni. Per questo la subisco come un incidente provvisorio e non mi accorgo che è una realtà dentro di me. Forse Simone mi ha dato fiducia perché è imbevuto di famiglia come me. E sembrava disposto a giocarsela per una vita più libera, come me. 28 die. Finora ho cercato di ricostituirmi una famiglia in cui io fossi la figlia prediletta. Solo occasionalmente mi adattavo a fare la madre o la moglie. Dentro di me ero la figlia prediletta di Simone. Quando arrivano i figli veri mi accorgo che sono una comparsa, che la fami­ glia vera è la loro. Allora io chi sono? La sensazione più sgradevole è quella di non avere più niente di mio, che devo subire l’invasione nel mio territorio, che devo cedere i miei diritti. Mi lamento della cosa con Simone che tergiversa per non irritarmi. Non dice mai “Sì, hai ragione, è insopportabile che gli altri facciano scempio delle tue cose, mettano disordine nella tua vita, ti costringano a fare da madre, governante, ispettrice e non so più cos’altro. Non è giusto, io sono tuo alleato”. Questo non succede mai. Ci sono tante considerazioni reali­ stiche per non dirlo: che sono ragazzi, che dura poco, che mi voglio­ no bene, che cercano di venire incontro ai miei desideri. Esattamente come in famiglia: potevo avere tutte le ragioni possibili, non mi erano

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riconosciute, si faceva sempre appello alla mia comprensione e che non facessi la bambina, per dio! Così, nonché farla, sono rimasta per certi aspetti bambina. Una bambina “grande”. Non riesco a fare l'amore con Simone in nessun modo. 29 die. Stamani ho voluto fare l’amore con Simone, ma senza con­ tatto, solo così, per provare piacere. Devo attraversare un’onda, una gigantesca onda alta come le cascate del Niagara. E devo attraversarla, cosa del tutto impossibile, per il largo, latitudinalmente, fendendo la corrente. Una specie di traversata del Mar Rosso, ma come se il mare stesse per ritto e io volessi aprirmi un sentiero sullo strapiombo dell’acqua che viene giù con tutto il suo peso e la sua forza. Sono con altra gente, e quando mi accorgo di quello che stiamo per fare penso “E finita”: non vedo una possibi­ lità di non venire travolti dalla furia delle acque. Non c’è un appiglio, uno solo, e l’onda azzurro-torbido come l’occhio dei ciechi è un muro liscio, immenso e precipitoso: non so come mettere il primo passo. Eppure la traversata avviene, qualcosa mi impedisce di essere travolta. Insieme agli altri mi trovo al di là.

30 die. Sara molto amichevole mi chiede se può mettere un episodio della mia vita con Simone, i tradimenti per essere esatti, nel suo diario che sta per essere pubblicato. Rispondo di no, e lei è d’accordo, rispettosa dei miei desideri. Augusta mi racconta di una brasiliana, operaia di una favela, che minacciava così un uomo che la angariava “Stai attento, che ti met­ to nel mio diario”. Parlandone con lei che mi chiedeva chiarimenti sul mio mito della schizofrenia - quest’estate le avevo scritto il sen­ so di colpa che mi dava l’onestà schizofrenica di Zelda - ho capito che riponevo lì il mio bisogno di assoluto. Un assoluto femminile, fuori dalla legge, un essere se stessi senza vie d’uscita. 31 die. Dalla famiglia non si esce: ho fatto tanto e sono ancora qui. Questo è toccare le strutture di una civiltà. Capisco che significa “mondo borghese individualista”. Adesso, a quarantaquattro anni, che prospettive ho: continuare come adesso, una vita divisa tra affetti familiari, amiche e lo scrivere. Oppure? Mettermi di nuovo allo sba­ raglio, don Chisciotte sola contro tutti, per afferrare qualche emozio­ ne, qualche attestato di autonomia, sacrificare il mio benessere a un

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ipotetico incontro erotico. Ecco tutta la variazione possibile nella mia vita: cercare un nuovo amante. Un altro velo è caduto, e ho intuito le strutture da cui non si scap­ pa. O famiglia o lavoro; o autenticità o emancipazione; o affetti privati o alienazione pubblica. Io voglio rapporti umani più vasti, il mondo per me è l’infinità dei rapporti umani possibili. Questo il patriarcato non lo contempla. Ecco perché la donna ricade nella famiglia o si butta nel lavoro. Cioè sparisce dalla società in quanto voce femminile.

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3 gen. Simone tiene una mano a Piera mentre parliamo intimamen­ te tutti e tre, lei gli si adagia contro sullo schienale del divano. Simone insiste perché mi sieda anch’io con loro, ma mi rifiuto, preferisco re­ stare al di fuori. Dice “Vorrei dormire nelle vostre braccia”. Piera e io sorridiamo. Poi Simone esce, noi due andiamo a riposarci ognuna nella sua stanza. Mi chiedo se rientrando Simone andrà a cercare Piera. In qualche modo lo desidero anche se mi dà smarrimento. Ho un acme di rabbia pensando quanto sono rimasta condizionata dalla sua gelosia. Lui invece è calmo e sicuro di sé: allora meglio che si decida ad affrontare il tabù. Mi sentirei liberata. Questa sensazione prevale su tutto. 4 gen. Non è successo niente. Simone giustifica il suo comportamen­ to con Piera dicendo che voleva incoraggiarmi a sciogliere il rapporto con lei. Dimentica che il suo sogno è unirsi a me con un’altra. Ma non è il mio sogno: non mi succede mai di emozionarmi all’idea. Quindi lui seguiva semplicemente una sua inclinazione. Non mi di­ spiace che segua le sue inclinazioni, mi dispiace che io non riesca a seguire le mie che contrastano con le sue. Non gli faciliterò la strada, visto che lui ostacola la mia. Troppo comodo trovarsi vicino la donna adatta, amica mia, disponibile se non vengo ricambiata con l’accet­ tazione che io incontri altri uomini. A meno che non sia proprio la mia amica a prendere l’iniziativa, allora potrei vedere la situazione

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dal suo punto di vista. Invece Piera ci stava solo a farsi coccolare, non manifestava altri desideri. E stato un assaggio, un tastare il terreno. Mi ha dato fiducia in me stessa: sono pronta. Anche la libertà deve essere reciproca per non creare situazioni drammatiche, dunque devo pormi il problema della libertà di Simone. Faccio mente locale: lui desidera altre donne e comincia a tentare una realizzazione del suo desiderio. Finalmente l’ha ammesso. E io posso affrontare la cosa. Tant’è vero che quel po­ meriggio li ho lasciati soli, Piera e lui, e me ne sono andata a letto: ho dormito profondamente per quasi due ore. Dunque ero serena. Non è lì il punto, il punto è la “mia” vita erotica, non la “sua”. Però mi in­ coraggia, alleggerisce e libera 1’ammissione dei “suoi” bisogni erotici. Finché lui è attaccato a me con fedeltà (comunque sempre relativa, la fedeltà assoluta è un concetto astratto), io sono legata. 5 gen. lutti partiti: la madre e la sorella di Simone, i figli, l’amica. D’accordo, sono sfacchinate, ma anche piacere della comunità, scambi umani, stimoli, sensazioni. Ogni tanto si possono fare. Vedo che chi è re­ frattario è anche più all’oscuro. Ogni esperienza umana si paga, costa. La stupidità è solo falsa coscienza. Ascolto un’intervista con Grotowski alla TV Non avevo mai letto né visto niente di lui. Mi risulta congeniale il suo sguardo ridente, il vi­ setto da Pinocchio polacco. Dopo le prime battute ho capito che lui “sa”, e quindi ho seguito quello che diceva anticipando parola per parola. Un’osservazione mi ha sorpreso: quando dice che bisogna salvaguardare l’equilibrio mentale mentre ci si libera dalla menzo­ gna, e questo, secondo lui, si ottiene accettando e agendo in un ele­ mento riconoscibile alla società, per esempio il teatro, anche se poi questo serve solo a rendere possibile un incontro umano. Mi sembra un compromesso, però è vero che io mi sento handicappata a favo­ rire proprio quell’incontro umano che è stato anche il sogno della mia vita. E che ho cominciato a tradurre in realtà, ma appunto con la prospettiva di viverlo sempre più come ripiegamento. Non vedo come poterlo estendere. Adi ha commosso quando Grotowski afferma che nell’esperienza personale c’è un periodo tra i sedici e i diciotto anni in cui ognuno ha un sogno intimo su ciò che dovrebbe essere la vita, un sogno che non rivela perché sembra follia. In Autoritratto dico proprio questo:

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“Non è stato un interesse per l’arte, il mio, all’inizio, devo dire la verità, se ri­ faccio proprio il percorso viene fuori che avevo provato subito questa sensazio­ ne esistenziale, come di avvertire dentro di me, ma in generale nell’umanità, proprio da ragazzina, delle possibilità molto forti, molto ricche, dei momenti di esaltazione molto grandi, delle felicità, delle sensazioni di apertura, come se fossero possibili delle cose straordinarie tra gli esseri, e poi sentivo, invece, la fru­ strazione di situazioni chiuse dove, non capivo da che parte, dove sentivo delle limitazioni proprio che toglievano ogni piacere”.

Però nessuno mi risponde, e così la mia confessione cade nel vuoto e taccio, lascio parlare gii altri. Se avessi seguito il mio primo impul­ so, che era appunto il teatro, forse oggi avrei quell’alternativa che ho cercato senza trovarla e che mi ha riportato alla vita privata e familiare come all’unica vita autentica. Forse. Anche Grotowski che durante l’intervista avevo la tentazione di sentire come un fratello, ma che non mi decidevo a sentire tale, mi sembra che ponga quel suo “giorno santo” come un assoluto “qualcosa di puro, qualcosa di fresco...”. D’altra parte per enunciarlo in modo intelligibile, che operi nella realtà e possa essere riconosciuto, non può non presentar­ lo come un momento astratto. E il fatto che Grotowski giochi su un teatro che per lui è un richiamo, ma che per altri può essere carico di significati, pone quella distinzione culturale tra gli esseri che è la base dell’assoluto. Occorre che qualcuno fraintenda, però facendo parte, essendo un interlocutore accreditato, perché la cosa possa esistere. Occorre che qualcuno arrivi a mitizzare per poi magari smentirlo, correggerlo, perché si crei l’alone dell’assoluto. Fuori di questo non esiste niente, poiché l’assoluto prende tutto lo spazio e la vita quoti­ diana dei nessuno che siamo tutti noi comuni mortali viene ricacciata ai margini, come un qualunque fallimento di quell’assoluto. Grotow­ ski è cosciente di questo pericolo e lo dice “Noi apriamo solo uno spiraglio sul giardino perché i vicini possano entrare, non andiamo per le strade con cartelli e gridando perché faremmo solo del turi­ smo”. Ma appunto non capisce che l’assoluto oggi deve presentarsi così per essere credibile e suscitare quel consenso dell’estraneo, del proiettante, che resta carico dei suoi insoluti peccati, dubbi, inferio­ rità. Aia sarà proprio quello, finché ce ne sarà uno, nemico di se stesso e perciò spettatore, ad avallare lo scatto ad assoluto, e perciò l’inflazione anche dello “spiraglio aperto sul giardino”, una volta che

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sia stato enunciato da chi non ha fallito la sua vita. E il Grotowski che parlava non recava traccia dei suoi fallimenti, per questo non potevo sentirlo come un fratello. Qualcosa mi metteva in guardia che questo “teatro”, cioè questa arte, ripudiata, ma appunto riconosci­ bile dalla società in quanto mito della società stessa, lo teneva al di sopra dell’esperienza quotidiana di chi non ha categorie nobilitanti il fallimento dell’esistenza. Ma l’idea di fallimento deriva dal confronto con il riscatto dell’esistenza che promettono quelle categorie. Dun­ que, appena intravista la possibilità di riscattarmi, avverto l’impossi­ bilità ad accettarla. Devo stare qui, dove sono, dove l’esperienza con l’arte e gii artisti mi ha lasciato una volta rifiutato il ruolo gratificato di spettatore, dove il femminismo ideologico mi ha lasciato una volta chiarito che non intendevo fare ideologie. Lo stesso vorrei incontrare Grotowski, vedere come lavora, cosa ne fa dell’incontro e del quo­ tidiano. Se è vero quello che intuisco, che ne fa un assoluto. Solo la donna, confinata nel relativo, cioè nell’esistenza, può trovare la forza (autenticità) di non tradirlo. Restando coscientemente assente, ma lì aspetta il resto dell’umanità. Caro Claudius, non passerò all’arte come dici tu. Chi di noi due è in esilio? Per saperlo bisognerebbe accordarci di quale patria stiamo parlando.

6 gen. Gemma molto semplicemente dice “Sembrava che la nostra cosa do­ vesse esistere una volta registrata sulla terza pagina dei giornali, invece non è così”. E mi sembra un’enorme verità. Ho un moto di affetto e di stima per lei. Poi mi scorgo in uno specchio piena di bolle sulla faccia, quelle bolle in pelle che si vedono e non si vedono. Gli altri dicono che non c’è niente. Allora li porto davanti allo specchio, mi metto nella luce giusta e dico “Vedete?”. Sono meravi­ gliata io stessa di trovarle più grosse e rosse di quanto pensassi, sotto il mento poi sono particolarmente gonfie. Che fare? Della mia coppia di cuccioli la cagnetta è la più esplorativa e fa conti­ nuamente scoperte; il maschio, approfittando dell’aggressività e della forza, gliele sottrae una a una. A vent’anni sono andata a Parigi per vedere un teatro che ne valesse la pena e per entrare in contatto con gli attori, cosa del tutto impos­ sibile; adesso a venticinque anni di distanza vorrei ripetere il gesto,

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questa volta meno sprovveduto e generico. Nella vita delle persone, a lasciarla scorrere, c’è una logica ferrea: nessun desiderio inesaudito si cancella da solo, nessuno. 8 gen. Non faccio che pensare ai cuccioli che ieri ho dovuto dare via e mi viene una specie di angoscia come quando ero bambina. La vita mi appare un tessuto di separazioni e di dolori quotidiani. Allora penso: ecco che ci vuole l’arte per rendere la vita quello che non è: sopportabile. Il tu per tu con la vita fa impazzire. E pur tuttavia l’arte non la voglio; solo ogni tanto allungo la mano, l’afferro, la respiro per andare avanti. Così durante le doglie del parto puoi ricorrere a un sorso di gas esilarante se vuoi, se non ce la fai più. Ho perso l’anello d’oro di Man Ray. Adesso che sono più incline a portare gli anelli alle dita sono come incoraggiata a perderli. Appena alzata, la giornata stupenda - come sono quelle invernali limpide - mi tranquillizza del tutto. Un regalo così totale mi riappa­ cifica con la realtà. Intuisco che i miei cuccioli se la stanno godendo da qualche parte. E allora sono contenta che non dipendano più da me. L’attaccamento, il bisogno di possesso mi scatta quando sento di essere io la fonte di gioia di qualcuno: è bello, ma anche pesan­ te. Infatti provo senso di liberazione quando scopro che non è vero, solo in minima parte resto delusa. Questo ragionamento vale per la maternità. Sono portata a invidiare le figlie uniche, la loro unicità mi seduce. Ancora di più se non hanno figli e perciò non sono sottoposte a nes­ sun tipo di stress materno. Però poi, considerando che la gamma di base delle esperienze per una donna è la famiglia, resto sconcertata dalla povertà di rapporti, di intuizioni e di iniziative a cui sono abi­ tuate. Sento che fa proprio parte di me la ricchezza di emozioni e tutte le faticose azioni che ne conseguono. Così l’egoismo, che certo è un dato primario, mi sembra sopraffare l’altro dato primario che è il bisogno di espandersi con gli altri. Meglio conflitto fra i due moti, oppure alternanza che irrigidimento della personalità su uno dei due poli. E con questo torno ad accettare la mia via difficile dopo avere provato invidia e scontentezza confrontandomi con chi scoprivo più oculata nel dosare le sue energie.

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A volte mi sento incline alla satira sociale. Per esempio, la padrona di casa è molto orgogliosa nel fare rilevare che quel ragazzo carino, ricciuto, con begli occhi, suo ospite, è omosessuale. “Direi proprio di sì” risponde con malcelata modestia a chi glielo chiede. Il fatto che sia amico dei suoi figli li redime dall’essere loro così precocemente e fatalmente in coppia. E storna dalla madre il sospetto di avere in cuor suo esultato al compimento dei suoi desideri materni di assoluta normalità. Intellettualmente le offre un alibi di donna emancipata, tollerante. Si vede da cosa mi viene in mente di scrivere che sono sola, per oggi, e senza problemi. Non posso passare la giornata a fare cen­ tomila cose, come avrei voglia, perché poi mi stanco. E scrivere mi riposa. Viene fuori l’equivalente di quelle osservazioni che mando, da una stanza all’altra, a Simone quando siamo tutti e due in casa. Questa strada dell’autocoscienza non so dove mi porta, sembra a una tale sequela di dubbi che se ce la faccio prendo l’incarnazione finale, ma se non ce la faccio semplicemente mi anniento. Marion dice “Io non ce l’ho questa cosa che hai te della coscienza, io provo una grande felicità nell’estetico”. Pomeriggio con Simone e un critico d’arte, un ex-collega che non ve­ devo da diverso tempo. Sonnolenza per tutti gli argomenti trattati. Ani­ mazione appena posso inserire domande personali e dire di me. Tutte le situazioni che non ho voluto direttamente mi risultano insostenibili. 13 gen. Perché la mia vita non mi deve sembrare la mia vita? E come se l’avessi venduta al miglior offerente di realtà. 'Era me e Simone corrono parole grosse “Mostro, schifosa, ingra­ ta...”. Sembrano non avere il peso che hanno per gli altri, sembrano un’esagerazione pattuita silenziosamente tra noi, ma sono quello che sono per tutti: la paranoia finale. Con un artificio della mente potrei cambiare rotta e vedere la realtà dall’esterno: tutto va bene. Ma il mio orgoglio è sempre stato quello di smentire la realtà esterna. Di lasciarla cadere nel momento in cui, tronfia della sua riuscita, parrebbe convinta di avermi definitivamen­ te sedotta. Sto scivolando su pareti lisce. Stanotte ne ho avuto la percezione pre­ cisa. Cosa mi impedisce di tornare indietro? Sento che potrei, potrei tornare a dare valore a quello a cui tutti danno valore. Arresterei la ca­ duta. Invece sono terribilmente attratta dall’ipotesi contraria, e finora

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ho creduto di farcela a ritirarmi all’ultimo tuffo. Ora non ne sono più tanto sicura. Forse la mente diventa complice senza che io lo sappia e me ne accorga: comincia come un esperimento e diventa un destino. Credo di guidarlo mentre già gli obbedisco. Questo ribaltamento di termini corona la mia impotenza. La fede muove le montagne. Ho passato una giornata irrigidita in una specie di malumore tipi­ camente mio e tipicamente volontario. Come se temessi di cedere e dovessi costruirmi delle barriere insormontabili per gli altri, oltre che per me stessa. Cosa mi sarebbe costato andare con Elena e Simone a fare spese? Divertirmi a consigliare, a scegliere, a occuparmi di una ragazza così cara e affettuosa con me? Eppure non potevo, anzi non volevo. Preferivo passare in rassegna tutte le mie frustrazioni, la mia pesantezza - che il contatto con la leggerezza vitale della gioventù mette irreparabilmente in evidenza - e provare il panico del tempo speso per gli altri, piuttosto che risolvere il tutto in un’impennata, possibile, di buon umore. La conclusione, disperante, a cui sono ar­ rivata è questa: che una donna tocca il fondo quando si accorge che ogni relazione si basa sul suo sacrificio, sulla sua rinuncia, sul suo aiuto. Che comunque inizi e per qualsiasi motivo, la conclusione su cui poggerà la riuscita della relazione sarà sempre la stessa: le sue doti materne. E anche Simone, che per sé ne pretende in misura relativa, mi ha intrappolata in una relazione più vasta che comprende i suoi figli. L’olocausto principale che si pretende da me in questo progres­ sivo slittamento verso il ruolo materno, è quello della femminilità. Simone tratta le sue figlie come delle amanti giovani e seducenti. Ecco perché il fatto che vada con Elena a comprarle cose di abbigliamento mi è insopportabile, perché è un simbolo di questa consacrazione di una femminilità non più collegata con la mia persona. Nel ruolo di madre non ho più un’identità fisica ed estetica in quanto donna, ma in quanto parte essenziale della famiglia e i miei pregi sono solo spirituali e di natura altruistica. Ecco come dopo dodici anni di re­ lazione, un’amante incantevole, amata e vagheggiata si trasforma in uno straccio di madre e di casalinga. 15 gen. Ieri, imprevedutamente, ho avuto come regalo di Natale di Riccardo una camicetta di seta azzurro cupo. “Perché ti sei occupato della mia femminilità?” “Perché mi sembra che tu la trascuri.”

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25 gen. C !è un lato così soggettivo nell’emozione dell’esistenza che non si può reprimere, ma che è esagerato ai propri stessi occhi e che diventa catastrofico se chi ci sta vicino non ce ne lascia tutta la re­ sponsabilità e non si rivela refrattario a subirne le conseguenze psico­ logiche e pratiche. 26 gen. Il buon senso è l’espressione delle paure della maggioranza. Mi torna il dubbio gigantesco: che l’ascetismo non sia altro che la condizione naturale della liberazione. Non perché il sesso è male, ma perché ha perso la sua attrattiva. Devo capire cos’è il sesso. 27 gen. Ci vuole coraggio a essere allegri. La mia depressione è la scelta dello stato meno pericoloso. La depressione è la conseguenza di questi anni senza contatti con uo­ mini. Se penso a momenti di eccitazione, vitalità, animazione penso all’epoca del primo femminismo e ai rapporti con gli amici: erano si­ tuazioni con un possibile sbocco (rivoluzionario, erotico) che rendeva tutto molto tangibile. 28 gen. Mi alzo, non ho voglia di battere a macchina il diario. Mi lavo, mi cambio ed esco con la sensazione che devo occuparmi di me, della mia persona fisica. Sono nervosa-allegra, ancora con i ca­ pelli tirati su e gli occhiali scuri, ma con animo aperto. Ed ecco che all’edicola incontro Lamberto: subito sono contenta, ma ho il riflesso condizionato di fare finta di niente e andarmene, tanto più che con 50.000 lire da cambiare, la giornalaia mi manderà a quel paese e io farò la solita figura dell’imbranata. Invece lo saluto per prima e gli chiedo se mi offre un settimanale. Ecco che ho la mia conversazione mattutina con un amico: ridiamo un po’, mi mette davvero di buon umore chiacchierare con un uomo simpatico tra le 9 e le 10 in un mattino limpido. Mi aspettavo qualcosa così quando sono uscita di casa. Devo anche sottolineare che Simone non c’è da tre giorni. Analizzando l’episodio, banalissimo in sé, ma per me rivelatore, ven­ gono fuori parecchi chiarimenti. Avevo voglia di incontrare un uomo e lo sapevo. Avevo voglia di prendere un’iniziativa qualsiasi in questo campo. Ho preso l’inizia­ tiva e ho mostrato chiaramente il piacere che avevo dell’incontro. Dopo sono stata completamente a mio agio. Ho seguito un desiderio

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e abbandonato la paranoia. Ero arrivata alla conclusione che se non faccio qualcosa io non succede nulla. Sono convintissima di questo. Ero stanca di rimuginare il passato. Copiare il diario mi aveva fatto capire che basta per adesso con questo delirio ragionato che dura da anni. Ero disincantata della mia depressione e dei suoi frutti di ripiegamento. Un rapporto solo con donne mi riporta all’insolubile problema di me stessa. Dopo tanto pensare ho bisogno di essere spen­ sierata, almeno per qualche momento. Posso tornare a essere allegra con gli uomini. Non mi interessa più sapere chi io sia, sono me stessa infatti, mi interessa divertirmi. Anche prima era così, solo non ne ave­ vo coscienza. Mi sembrava cedere all’uomo ammettere l’importanza del rapporto con lui. Ho provato a sostituirlo, ma non funziona, mi deprimo. Il rapporto fra simili, anche se differenti fra loro, una volta arrivati alla scoperta di sé, non può più essere esclusivo. 29 gen. Simone prima che un uomo è un parente: torna, e mi sento prigioniera. E automatico. Riprendo il mio passo nella coppia, un passo obbligato che toglie il piacere a ogni passeggiata. Mi vedo con Giulia, la compagna delle medie, figlia di un fascista, e lei stessa violenta e irragionevole sebbene mollo intelligente. Con fare mellifluo, ma deci­ so mi dice che anch’io sono finita come una donna borghese qualunque. Se ne è accorta quando con Simone, uscendo dalla macchina, ho fatto un discorso a proposito di un peperone. A me vengono subito i nervi “Senti” le dico “tra noi c’è un problema di rivalità, altrimenti non mi seccheresti dando importanza a delle scemenze”. Non se l’aspettava e, così scoperta, abbassa la cresta.

Telefonata lunghissima con Simone. Quando ammetto i miei deside­ ri di evasione mi immagino di tramare alle sue spalle qualcosa di do­ lorosissimo per lui. Poi mi meraviglio quando mi dice semplicemente “Hai ragione, non capisco perché non prendi una spada e spacchi tutto”. Il pretesto è stato una proposta di andare a Singapore ospiti di una compagnia aerea. Gli ho risposto “No”. Ha cominciato a la­ mentarsi “Ma com’è che rifiuti tutte le occasioni che ti propongo?”. Allora gli ho spiegato che la mia vita è stata tutta un cogliere le occa­ sioni che mi proponevano gli altri. Quando sono andata negli Stati Uniti, per esempio, è stato perché non potevo rifiutare un’occasione il cui sogno probabilmente coltivavo da quando ero ragazza e non mi

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sono accorta che in quel momento era distruttivo per me, che con­ trastava con miei fondamentali bisogni esistenziali. Anche quando ho abbandonato Milano per Roma è stata un po’ la stessa cosa: a Milano ero sofferente, così mi sono lasciata tentare dalla soluzione offerta dal caso. Ho fatto molti gesti, molti spostamenti nella mia vita, ma piut­ tosto che iniziative mie una gran parte sono state opportunità venute dall’esterno a cui ho dato la mia adesione. Lottavo contro la paura di non riuscire a potenziare abbastanza la mia esistenza, cercavo di met­ termi a qualche incrocio stimolante, ma non avevo che un’idea mitica di quello che mi serviva. La vita delle donne è molto così, lo riscontro in tutte le mie amiche: tutte sono a rimorchio di qualche circostanza che non gli appartiene veramente, ma che è stata presa per uscire da un’impasse. Nessuno può impedire alle ragazze di sognare, però poi i loro sogni non corrispondono ad alcuno sbocco personale, e li agganciano alla navicella di altri. Forse è stato meglio così che stare fermi, ma adesso non potrei più in alcun modo prendere per buona la più eccezionale delle occasioni. A un certo punto abbiamo divagato su oroscopi e segni, così gli ho detto che la caratteristica dei Pesci è la bontà, qualcosa di innato di cui tutti sospettano finché si sviluppa una specie di avversione verso di loro. Prima è scoppiato a ridere, poi, inaspettatamente, si è messo a piangere dicendo che è vero, ma allora perché pensa sempre a me come a qualcuno da cui difendersi? “E come se tu offrissi la tua bontà non credendoci, nascondendola come tale. Cerchi di camuffarla il più possibile così che non si vede subito, non ci si pensa.” Io lo amo tanto, e se a volte lo allontano da me accusandolo di essere troppo forte e di tenermi prigioniera, non è del tutto vero: sono io che sono incapace di sopportare il conflitto che la conflittualità delle scelte mi provoca. Mi alimento continuamente della sua comprensione e della sua rispondenza, così come scontro continuamente con una persona reale, che riflette una realtà che io ho scelto, fosse pure per mie insi­ curezze e bisogni che tendo a disprezzare e a minimizzare, ma che fanno parte di me e di un rapporto umano in cui mi è possibile vivere. Quello che mi manca sono gli altri, e li devo raggiungere, lo farò. 30 gen. Prima di andare a dormire, ho letto sul diario l’ultima crisi con Sara e sono rimasta colpita dal senso di spappolamento che ne

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avevo riportato. Terribile come resto inchiodata dal suo odio. Per­ ché mi imbarco sempre in situazioni che mi richiedono una specie di eroismo? Dunque cosa di più naturale che concludere di non ve­ derla. Perché, non può esistere qualcuno che mi fa soffrire senza che io possa reagire? Devo solo dire “Sì, non c’è niente da fare”. Ester è scappata prima che potessi dirle quello che Sara ha detto a me. Io invece l’ho ascoltata fino in fondo: ho avuto almeno questo coraggio prima di confessare la mia irrefrenabile paura. Assistendo alYAmleto di Carmelo Bene pensavo a Sara. Nessuno mi può impedire di amar­ la quando mi appare indifesa. Indifesa con tutti fuorché con me. 31 gen. Tutto il pomeriggio con Augusta. 1 feb. Sono in casa con altra gente, soprattutto donne. Mi muovo bene. A una, molto indisponente, dico “Cretina!”, e giù un certo discorso, e poi “Imbecille! ”. Ma sono priva di animosità: “obiettiva”, senza dubbi. Tant’è che quella non se la prende affatto e mi torna amica. Invece con una vecchietta molto sensibile e coraggiosa e che tira fuori tante cose, chissà, forse per la prima volta, sono d’ac­ cordo e con gran simpatia. Tutto è facile anche se complicato. Sono sicura di me, questo rende i rapporti scorrevoli. Nel bene e nel male. Non ci penso su due volte. Intanto dalla casa siamo andate fuori: devo fare la spesa, è tardi. E lì, sotto l’appartamento di riale Bianca Maria a Milano (dove ho abitato da sposata), vedo un carretto di verdura. Mi colpiscono alcuni vasi con una pianta dentro. In particolare uno mi pare bello, chiedo il prezzo. “450 lire, ne costava 700 stamat­ tina”, mi risponde il padrone. Faccio la bocca storta. Quello insiste “Guardi che bella pianta di pomodoro”: la tira su e me la porge. Allora mi accorgo che al po­ sto del vaso di cotto c’è un vaso di torba tutto molle, e poi che me ne faccio della pianta di pomodoro? “No no, non lo voglio.” Alzo gli occhi e vedo che, invece di essere seccato, al verduraio gli scappa da ridere, mentre uno lì ricino commenta “Che simpatica!”. Mi sento molto bene: la cosa che preferisco è essere birichina con gente che ci sta. Che magari ha tentato di fregarmi, ma poi disarma quando si accorge che sono decisa a non farmi fregare. Un cane mi ama, mi ama moltissimo, altro che procurarmi del male!

La conversazione con Augusta mi ha rimesso al mondo. Ho capito tante cose, soprattutto com’è facile vedere la situazione stando da fuori, senza partecipare del problema. All’inizio avevo una tale fame

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di essere riconosciuta che non mi accorgevo di essere falsamente rico­ nosciuta da chi mi mitizzava. Però aspettavo “qualcos’altro”, è vero. Differenza fra riconoscere e accettare: si riconoscono i meriti, si ac­ cettano anche le debolezze e gli errori. Nel sogno con le donne è come se io sono di nuovo io, cioè un centro che domina la situazione: non ho più senso di colpa. La scenetta con il verduraio ha come tema la mia femminilità: io scelgo un bel vaso, l’uomo mi vuole dare una piantina che non mi serve in un vaso da quattro soldi. Rifiuto. Il verduraio mi ha capita: non cederò su quel punto. Non mi è più nemico. Con Augusta riuscivo ad ammettere tante cose di me senza fatica né drammaticità (come nel sogno do di cretina e di imbecille - a me stessa - senza scompormi). La materia non è più scottante, non ci sono più così dentro, ho ripreso la padronanza della scena. Tra l’altro comincio a vedere i frutti del battere a macchina il diario in quelle parti scottanti che non avevo riletto e che quasi non ricordavo. Con Augusta avevamo parlato anche di sesso, di femminilità. Mi aveva riferito di certe poetesse cinesi che dicono al loro amante di farle felici con la clitoride e dopo averle soddisfatte si vedrà cosa fare del loro “pisellino”. Al posto del pisellino ho sognato il pomodoro, questo è divertente. Insomma l’uomo mi offriva sempre la preminenza del suo sesso, invece io cercavo la mia sessualità adatta alla mia femminilità. Adesso non avverto più il conflitto, tant’è che m’immagino di riuscire a impormi femminilmente, suscitando simpatia. 4 feb. All’improvviso ho avuto un quadro della mia vita tutto di­ verso: mi sono vista fortunata e felice, ho preso coscienza delle mie ricchezze, dell’amore dato e avuto, dell’intensità, dei rapporti e anche di quella realizzazione di me che, seppure fonte di tutte le mie ansie per timore che non sia proprio vera, che sia indice di colpa e che me la rubino, c’è. Mi chiedo cos’è che mi mancava, cos’è che volevo: lo stato interiore che mi permettesse di godere di tutto questo. Felicita dice “Se hai perso l’indirizzo delle amiche vuole dire che de­ sideri un distacco da tutti i legami che l’indirizzario rappresenta”. Eh già, non ci avevo pensato. Forse voglio starmene qui a Roma senza correre dietro ai fantasmi del passato. Fatto sta che adesso non ho più voglia di partire. La cosa più urgente è battere a macchina il diario, staccarmene e aprire un nuovo capitolo. Chi l’ha detto che non ho

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più la forza di ricrearmi qui a Roma tutto quello di cui ho bisogno? L’essere sempre divisa tra ciò che è qui e ciò che è lontano dovrà pure finire. Sta finendo? Non dico che aspiro a dimenticare l’altra vita, le amiche lontane, ma a dimenticarmene in modo che l’attimo che vivo non ne resti spezzato in due: metà pieno e metà vuoto. Al di là delle proiezioni sento la realtà dell’altra persona: non è lì per negarmi o accettarmi, è lì con problemi suoi, con i suoi limiti. 10 sono qui, con i miei limiti. Non m’importa cosa gli altri pensano di me, sono sicura di potermi accettare. E solo questione di tempo. L’accettazione mi esalta, mi deprime, finché mi sento libera, natura­ le, non ricordo più com’era: è stato un sogno. Tornerà: realtà e sogno si mescolano, si alternano. 6 feb. La cura omeopatica per ora è andata male, forse dovrò ope­ rarmi. Sarà quel che sarà. E la prima volta che, venendo a Firenze, trovo mia madre che non si lamenta. E una strana coincidenza. Comincia a vedere la sua vita in modo positivo, ad apprezzare ciò che ha avuto, e va più d’accor­ do con mio padre. Questo accordo è anche dovuto a una maggiore fermezza nei suoi confronti, così qualche crisi non rientrata ha por­ tato al miglioramento. Da qualche tempo la mamma legge dei libri di donne che io stessa le ho procurato - la Dickinson, le Brònte, la Woolf, la Neera. Dal 22 gen. ha cominciato a tenere un diario. Mi ha dato da leggere le due paginette che ha scritto: quasi niente, ma posso già cogliere la traccia impercettibile che lei ha lasciato. Casualmente, dice, ha cominciato a scrivere il giorno del suo onomastico; è come 11 simbolo di una nuova identità. Si esprime con una sicurezza prima sconosciuta. Cerca d’imporsi di meno. Mi diceva che una mattina ha avuto ore di piena felicità, ore di grazia, pur restando tranquilla, senza esaltarsi e senza temere per quando sarebbe finita. Si sentiva come a vent’anni. Cercava di farmi capire lo stato d’animo del tutto immotivato, solo riflesso di una condizione interiore. Le dispiaceva non avere avuto il tempo di scriverne sul diario. Stiamo molto bene insieme ci facciamo carezze e complimenti, non solo io ma anche lei prende l’iniziativa. Ieri sera prima di addormentarmi mi ha dato ri­ dendo un piccolo morso sulla guancia, un’innovazione tra le consue­ te affettuosità. Dimenticavo di dire che scherziamo molto, c’è proprio un che di divertente nella sua personalità.

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7 feb. Sono partita da casa senza rimpianti e senza desiderio di scap­ pare. Mia madre è più autonoma da me e gode di se stessa. E allegra. Anche mio padre sta bene. Mi sono accorta che considera una certa sottomissione come prova del rispetto per lui, ma che vuole anche essere contrastato se questo significa affetto per lui. Insomma la sua severità desidera essere vinta in modo “femminile”: invece io l’ho sempre preso di petto, inchiodandolo alla sua severità. Il senso di colpa è la difesa dall’ambivalenza dei sentimenti. Un uomo e una donna, una coppia di cinesi di provenienza misteriosa, vestiti con abiti esotici. A un tratto viene rotto un vaso di cristallo pieno di liquido: l’uomo è arrabbiatissimo versa tutto in un nuovo recipiente. Altri lo aiutano, mi alfretto anch’io ad aggiungere acqua, ma quello non vuole assolutamente: oc­ corre alcool, non acqua! Che errore madornale! Desisto. Poi la donna e io siamo attorno ai fornelli per preparare qualcosa da mangiare, quando mi accorgo che sta facendomi sparire l’anello, lo sta rubando. “Ehi ehi, ridammi l’anello!”; e me lo riprendo. La cinese ha l’aria offesa, sostenuta, mentre io sono tutta soddisfatta per averla fermata a tempo.

8 feb. Sono ospite di Piera. A piano di sopra dove ci sono le camere e dove dormono i bambini si sentono urla, porte che sbattono, tutto un insieme di fenomeni che fanno paura. Mi decido ad andare su io e scopro, in un angolo appena illuminato, i portinai che fanno dello spiritismo, evocano di nascosto anime di trapassati, e poi a bella po­ sta spaventano i bambini nell’intenzione di farli sloggiare e restare così padroni del campo. Io mi accorgo di tutto: spalanco la porta al primo colpo, affronto la vecchia infida con la figlia che velatamente minaccia di buttarmi dalle scale, le faccio capire che posso buttare io lei, e quando cominciano le urla terroristiche mi metto a gridare anch’io “Ma valfan’ culo”. Poi temo di essere stata volgare suscitando lo scatenarsi della volgarità di quella gente di basso rango, portinai, come dicevo, bidelli, un’accozzaglia così, e proseguo a gran voce “Non me ne andrò di qui, non me ne vado”.

10 feb. Poco a poco arrivano tutti: si prospetta una festa, un raduno. Ma nella sala del consiglio del palazzo comunale c’è malcontento e un senso di vergogna. “Che non si ripeta più, che sia l’ultima volta.” Chiedo cosa è successo e mi di­ cono che hanno mandato “da fuori” un’ispettrice come se non ci fosse nessuna

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fiducia nel loro governo della città, e intanto accennano a una donna bionda vestita di nero che è lì nella sala. Mi avvicino a lei: è molto seccata del ruolo che le hanno affidato “da fuori” nel consiglio della nostra città. Se ne vuole andare al più presto. La trovo diretta e cordiale, ho piacere della sua compagnia, oltre tutto mi onora una persona così importante. Me ne esco dal palazzo chiacchie­ rando con lei. Fuori ci sono amici - Lamberto, per esempio, Felicita e David - io li saluto, contemporaneamente facendogli capire che non voglio essere disturba­ ta. Continuo nel mio colloquio con l’ispettrice così alla mano. Poi ci sdraiamo su un molo: io mi appoggio al bordo di una barca, questa volta lascio avvicinare gli altri. C’è una bella luce, un sole leggero. Tutto è tranquillo. Ma a un certo punto un’onda imprevista, non grossa, solo un po’ più impetuosa, investe la barca, la inclina, la inclina finché, con mio grande stupore (ma come non l’avevo capilo subito!), la rovescia. Allora coro di preoccupazione dai presenti che cercano di rendersi utili: io ho un moto di paura a immergermi tutta vestita nell’acqua fuori stagione, chissà il freddo, l’impaccio degli abiti! Vado sotto fino alla cintola, poi mi isso sulla barca rovesciata e nel più semplice dei modi vengo condotta a terra. Nel passaggio dalla barca al molo temo che un’altra onda mi sbatta sul cemento e possa farmi male, invece va tutto così liscio che me ne meraviglio. Merito certo di alcuni giovani che hanno condotto abilmente il salvataggio. Uno spinge la sua sollecitudine fino a farmi cenno che ho qualcosa sulla gamba. Guardo, e vedo solo due insetti colorati come gioielli, li scaccio con la mano, senza paura. No, non c’è altro.

Ieri avevo riletto dopo tanti anni Melanctha della Stein e subito ho pensato a Sara, così ho parlato ancora a Piera dello sconquasso che aveva provocato nelle mie sudate e puntellate certezze. Nel sogno vedo in Sara un’inviata del destino cui lei stessa deve ubbidire senza tuttavia esserne complice. Prima Matilde, poi Gemma mi telefonano da Milano. Forse non ho intenzione di andare lì? Quanta gente mi vuole bene, quanto sono fortunata! I rapporti umani per proseguire e approfondirsi richiedono piccoli catapultamenti dai luoghi comodi e assolati in cui via via mi ar­ resto. A volte mi sopravviene la pigrizia, il non volere rischiare di sof­ frire, il bisogno di quiete. Però nel mio intimo desidero partecipare. Dopo una settimana di incontri personali e intensi - per la precisione: madre, padre, fratello e cognata, Piera, sua madre, Jole, Dorina, Feli­ cita, David, Federica e in programma per oggi a colazione Eugenia, se non conto, ma sbaglio, i due medici, uno a Bologna, uno a Pisa - sono

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a terra. Stanchissima. Avevo quasi deciso di tornare a Roma - lì vedo il porto più riposante: Tito, Simone —poi ho concluso che non avrei potuto sfiorare Milano senza andarci, è casa mia dopo tutto, da Tori­ no un paio d’ore. Va bene, bando alla nostalgia del rifugio romano, un ultimo strappo: se la prendo con calma non finirò più stanca di così. 14 feb. Isa parla a voce alta di uno psicanalista, che è poi un tizio seduto a un tavolino dietro di noi. Quello si avvicina e io lo aggredisco: no, non mi va affatto come si è comportato con quel ragazzo. Però gli argomenti mi sfuggono: che strano, non ho le idee chiare, mi vengono fuori poche parole e non certo esaurienti, ma intanto sento gli occhi che mi brillano di una strana sensazione, seducente al di là della lite. Avevo visto un film dove le autorità, FBI, killers sono così palesemen­ te vincenti fin dall’inizio mentre il rapinatore non sembra rendersene conto e ce la mette tutta per portare bene le trattative e salvarsi. Di tutti chi è se stesso è lui, questa la sua debolezza, mentre gli altri, le autorità recitano una parte. Il sogno mi dice che la seduzione è il comportamento di chi non può fronteggiare. 15 feb. Anche Claudius, come Sara, ha un bisogno di rivalsa su di me: questo mi turba, e non c’è parola che io possa dire per dissol­ verne la sensazione. Il mio errore finora è consistito nell’affrontare gli argomenti palesi, senza tirare fuori la situazione sullo sfondo. Re­ agisco come ribadendo che siamo amici e se ne può parlare, quindi dopo resto male per essermi comportata con dabbenaggine, senza raccogliere la sfida in quanto tale. Infatti, mi accorgo di essere stata affrettata nel desiderio di placare invece di rispondere a tono. Ora questa mossa non mi va più: devo convincermi che Claudius può essere rancoroso con me, desiderare di umiliarmi, quindi è stolto che mi inibisca una reazione a “questa” impressione e le sostituisca quella che vuole aiutarmi a vedere chiaro, che si preoccupa di me, che sarà giusto con me. Qui c’è ancora atteggiamento autoprotettivo, ideali­ stico. Ma sono alla fine in barba a tutti i santi. Questa volta mi sem­ brava che Claudius avesse su di me gli stessi pregiudizi che ha Sara, dunque mi convincevo che ne avevano parlato insieme. Questo mi disponeva male. E poi non è che le cose non le abbia dette, al con­ trario però lui nega ridendo o scandalizzandosi, insomma non mi dà

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nessuna conferma e non perde il buonumore, l’aria scanzonata. Allo­ ra sono io una cretina che da cento anni ci provo senza riuscirci. Che vada al diavolo. Anche lui, come Sara, ha qualcosa di incompatibile con me, e il fatto che ne sia attratta è proprio il punto morboso della situazione. Devo rompere il cordone ombelicale una volta per tutte, la fascinazione verso chi è eccitato a mettermi in dubbio dopo che gli ho mostrato più che ad altri l’animo mio. Per me l’arte è stata uno dei luoghi che mi offriva le garanzie che vi avrei trovato quello che andavo cercando: un incontro da cui con­ fermare la mia identità. “Se sarò accettata lì” pensavo “non potrò più dubitare di me stessa.” Non mi fidavo dei giudici che mi aveva­ no esaminato prima, volevo i migliori giudici, scelti da me. Volevo condividere i criteri a cui mi sarei sottoposta. Criteri di autenticità. Poi mi accorgevo che questi criteri, allo stato puro, non esistevano, erano sempre misti alla valutazione di altre prestazioni, prestazioni culturali. Così ricadevo in un ruolo che mi impediva di essere anche sprovveduta, diversa, come sentivo di essere. 18 feb. La sensazione dolorosa è quella di un amore che finisce, che si riassorbe nella piattezza della realtà. Stiamo riuscendo a risolvere i transfert reciproci, non è meraviglioso? Paula è una signora molto gradevole, ringiovanita. Non ha quasi più niente in comune con me, se non che segue la sua strada come io seguo la mia. Non siamo mai state così vicine, e così lontane. L’amore si basa su un qualcosa che poi viene smaltito dal soggetto, non resta che un vago stordimento da cui si guarisce con il tempo. L’affetto dà un rapporto più reale l’uno con l’altro, più modesto e durevole. Ci vuole coraggio per amare: si è sottoposti a rischi psichici considerevoli; ci vuole coraggio per volere bene, per avere questa di­ sposizione quotidiana verso l’altro, per superare tutti gli impercettibi­ li scogli, le affioranti noie, il faccia a fàccia con un se stesso reale, non trasfigurabile, con l’altro così com’è, mantenendo la commozione di sé e dell’altro al di là del risentimento che la vita, “questa”, provoca sul lato dei sogni, delle chimere e degli amori. 19 feb. Il distacco da Paula è iniziato quando mi ha detto “Sono sopraffatta da te”. Questo mi ha creato la paralisi: la sua personalità non è più alla mia portata. E il motivo per cui non riesco a fare accuse

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premeditatamente “ingiuste”, anche se avrebbero un aspetto libera­ torio per me, perché non posso non restare fedele alla sensazione che il problema è mio. Per me è fondamentale che quel momento di accusa venga assimilato e digerito, piuttosto che scaricato su altri. A meno che non me ne importi creare un diaframma insormontabile oppure che la persona a cui mi rivolgo sia come me stessa, parte di me. Non posso trattare gli altri come miei transfert, tutti. 20 feb. Confido a Lucia quanto sono turbata a scappare via per la mostra di Simone senza poterlo fare apertamente accompagnata dalle mie ragioni. Da un gesto responsabile sto passando a un gesto clandestino, cioè sono tornata clandestina come e più di quando ero in famiglia a sostenere la rispettabilità della facciata. Lucia tace: sto dicendo qualcosa di sconveniente che non la riguarda affatto. Non vale neppure la pena di ribattere. Ci salutiamo. Un tempo mi faceva crepare questo suo modo. Adesso quasi mi calma. All’alba Simone piange in silenzio perché si sente “svuotato, abban­ donato”. Non ho, proprio non ho altro mezzo per quietarlo che fare l’amore. Io sono a pezzi, insonne, in un mare di elettricità interna. Diserto la festa che si dà a casa “mia”. Diserto la “mia” festa per Simone. Federica e l’amico di Simone sono arrivati da fuori per questa festa e sono “miei” ospiti. Ma io non posso in nessun modo tenere conto di fattori esterni. Non mi sento affatto squilibrata, anzi molto molto a posto. Finalmente ho capito cos’è l’integrazione: che cambi per essere ido­ nea a certe cose che tutti considerano normali, per esempio le feste. Invece io non vado alle feste, vado da un’altra parte per la quale sono più che idonea. Sono andata da Isa, poi è venuta Angelina. Godevo la loro compagnia come il mio elemento. Ero corsa da loro. Mi sono addormentata men­ tre parlavano; felice, arrivata. Più tardi mi sono svegliata, abbiamo an­ cora parlato. Poi mi sono di nuovo addormentata e, in un letto nuovo, senza tapparelle, con il brusio della strada, ho fatto tutt’un sonno fino a tarda mattinata. Una parvenza di risveglio ogni tanto mi riportava la coscienza di come stavo a mio agio, dormivo proprio bene. 22 feb. Vedo Tutto per bene di Pirandello. Mi colpisce come recitano tutti da cani eccetto Valli, cosicché mi sembra facilissimo recitare an­

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che come Valli, basta non essere proprio degli stupidi, dei fasulli nella vita e perciò mille volte più vistosamente in palcoscenico; secondo, com’è macchinoso e semplice il testo, lo potrei fare anch’io. Mora­ le: mi è venuta l’idea di mettere su una compagnia e di recitare. Di donne, naturalmente. Non sono eccitata all’idea perché temo che sia un’altra pensata passeggera. Vedremo. Invece sono eccitata e non riesco a dormire. Mi sembra di avere tro­ vato quello che cercavo: le mie origini. Annoto gli elementi che mi hanno portato a questa scoperta. Avere detto a Felicita che l’interesse per l’arte visiva non era stato un mio in­ teresse primario: era Lucia che riusciva bene in disegno, pittura ecc. e aveva gusto (io non sapevo neppure cosa volesse dire “avere gusto”). Era lei che aveva cominciato con le cartoline di Braque. Con Cesare andavamo per chiese, musei, mostre e guardavamo i libri con le riproduzioni. Avere avuto presente tutta la sequela di tappe circa il mio amore per il teatro: le recite dalle suore; la parte nella commedia di Noël Coward al circolo studentesco; l’andata a Parigi per il Théâtre National Populaire; gli articoli che avevo improvvisato; la poesia per Marcel Marceau; la tesi in storia dell’arte su Scenografia e artifigurative, lino alla rivelazione di Carmelo Bene una decina d’anni fa. Recentis­ sime: la decisione di Elena per il teatro e il senso di invidia provato; l’ultimo spettacolo di Bene e l’evidenza che fare teatro è esprimere se stessi, evidenza che mi era apparsa dall’intervista a Grotowski; lo spettacolo su Molière-Tartufe che mi ha dato un baluginamento su quello che è scrivere per il teatro, e finalmente lo spettacolo di oggi che mi ha tolto la paura della performance. E mi ha fatto capire che ho una mia idea del teatro. Non so ancora qual è, ma ce l’ho. Isa che mi ha mostrato delle sue foto dove a quattordici anni recita in una commediola scolastica. Avere parlato con una vera attrice professio­ nista, cosa che subito mi faceva dire “Beata te”. Sognare di andare tutte le amiche qua e là a portare spettacoli che possiamo costruire insieme divertendoci come pazze. Autocoscienza come teatro. E un’idea che parte da me, è mia, solo mia, mi è nata qualche minuto fa quasi per scherzo e adesso è già nella mia vita. Tutto attorno a me ha preso a cambiare, cambia. Un diaframma è caduto e al di là si distende un orizzonte del tutto nuovo. Come ho fatto a non pensarci prima? Come ho potuto vivere senza teatro?

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23 feb. Ho voglia di andare a teatro, non ho più paura di essere ber­ sagliata, inerme, dagli stimoli, dalle attività degli altri. E un immenso gioco. Basta non essere spettatori, basta alzare il macigno, la pietra tombale di essere spettatori. Non potrò non tenerne conto in quel­ lo che faccio. Non riesco ancora a pensare niente di concreto: tutto ruota, tutto è possibile. Ancora non oso cominciare. Come parole mi viene “Ho di fronte un baratro, una muraglia di pietra: è la mia paura di non essere niente di visibile per gli altri”. 24 feb. Viene Paula. Parliamo a lungo, mi dà l’assoluzione di tut­ ti i “peccati”. Che idea sentirmi responsabile delle altre! Ognuna è responsabile di sé! I miei scritti sono ancora i suoi capisaldi, ormai non è più un dilemma per lei: li sente suoi. Abbiamo riannodato uno a uno i fili delle rispettive versioni dei fatti, maturazioni, riflessioni. C’è solo una domanda senza risposta, e lì si può piangere come una bambina che ha perso la mamma. Devo operarmi alla pancia: un gran taglio cesareo e via quello che ho dentro, utero e che so io. Tutto questo sembra deciso, sono consenziente. Ma a un tratto realizzo che proprio non mi va e mi rivolgo a Lucia per trovare una soluzione alla faccenda. Ecco che lei mi fa l’agopuntura: mi mette tanti aghetti sulle dita, veloce, sicura, indolore e nei posti giusti. Sono rassicurata.

25 feb. Non mi va come ho condotto il colloquio con la scrittrice francese di “Editions des Femmes”. Mi sono messa sulla difensiva, in­ vece ero partita con la voglia di parlare a cuore aperto. Ma ho sentito subito troppe lodi, troppa enfasi e, dietro, il mito culturale. Questo mi ha fatto mettere la sordina. Tanto più che lei parlava molto dell’im­ portanza dei miei scritti e poco del contenuto. Come potevo sperare che capisse il salto che noi avevamo fatto se lei non l’ha fatto? Rischia­ va di imbastire un panegirico con la mia connivenza. Persa la fiducia di essere capita non avevo molto più da dire. Mi restava il problema pratico: che non avesse da parte mia troppi dati su cui fraintendermi. L’ostacolo, l’unico ostacolo fra me e le altre è l’uomo, specialmente sotto forma di mito culturale. Ho scelto uomini che non ce l’avessero, gli artisti, poi ce l’avevano come mito dell’arte, ma in qualche modo sembrava legittimo in loro visto che non era tale da impedirgli di essere artisti, mentre nelle donne è insopportabile perché nascosto

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e paralizzante. Allora tanto vale avere a che fare con gli artisti. Nel passato per me è stato bello conoscerli e intuire in che stato di dispo­ nibilità mentale lavoravano, e certo non era colpa di nessuno se io ero così dubbiosa della mia identità da essere costretta a godere di quella degli altri. L’oggetto della mia indagine è stato l’artista, non l’arte: l’arte era una prova che quello lì era un artista. D’altra parte capivo che l’arte è solo il prodotto dell’artista. Con il femminismo mi sono identificata come donna, e poi come me stessa. Facendo quest’operazione sono tornata alle mie origini e ho scoperto che quella dell’artista (anche l’attore è un artista) era l’identità culturale da me preferita, ma il mio sogno era di riuscire a fare a meno di un’identità culturale. Le due persone che mi disturbano nella mente sono Claudius e Sara. Mi disturbano perché mi fanno sentire poco libera. Li accomuno, mi è accaduto a un certo punto. Mi fanno disprezzare la mia vita, ciò che ho, ciò che sono. Perché questo potere su di me? Cosa voglio da loro? Vorrei che mi dessero la pace. Invece so che possono solo togliermela. Anche senza vederli, anche da lontano: basta che qualcosa mi faccia venire in mente che sospettano di me e che da certi indizi giunti alle loro orecchie hanno arguito che non ce la sto facendo, che sono per­ duta. Quel qualcosa che mi fa venire in mente che sospettano di me è che non sono felice. Allora quei due rappresentano l’obbligo che ho di essere felice come di essere libera. Sto scrivendo mentre mia madre mi parla. E inopportuna come un bambino. Ho bisogno di stare sola. Sono satura, arcisatura di parlare e soprat­ tutto di ascoltare. Adesso ho voglia di scappare lontano da tutti. Però le femministe mi aspettano al varco. Devo fare qualcosa. Non sop­ porto più tutto questo ristagno. Non devo andare a Milano per un po’. Basta programmare cose con le amiche. Devo innamorarmi. Muovermi. Viaggiare. Adesso o sarà troppo tardi. Quello che mi fa attardare è il senso del dovere, il piacere del dovere verso le altre. Avrei voluto vedere Vincenzo a Milano. Non avevo tempo: amiche, amiche, amiche, amiche. Per ore, ore, ore, ore. Da oltre sei anni. Dal febbraio del ’70. Non posso portare tutto a compimento, aspettare che ciascuna maturi, si stacchi, si renda autonoma. Voglio molto bene alle amiche, ho dato quello che avevo. Adesso devo sfuggire alla

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loro presa. O continuerò a mitizzare tutte le persone libere, che fan­ no quello che vogliono. Non mitizzo mai qualcuno che è in coppia. Mitizzo per quel tanto che esce dalla coppia e ha una vita sua. Non importa se va bene o male, non ho desiderio di successo, ma di liber­ tà, dei rapporti che si creano in libertà. Io sono bloccata daU’affetto, dalle responsabilità, dalla dignità, dai fallimenti passati. 27 feb. A malapena mi trattengo: mia madre parla e parla. Sono il punto di ascolto anche per lei. L’unico che ascolta me è Simone. Ho voglia di piangere Non so dove andare Non mi libererò mai dalla sofferenza Non sarò mai felice Sono decisamente irragionevole Niente di ragionevole mi calma Mi ucciderò La vita è una stupidata Da quarantacinque anni è così E sarà sempre così Con pause per prendere fiato Non posso trascinare nessuno in questi baratri Ognuno può trascinare me nei suoi Sono un’accompagnatrice nata Accompagnatrice nella notte All’alba vengo abbandonata Passo dall’alba alla notte Il giorno manca Manca il giorno So che è così senza perché Infelice non sono degna di vivere Non sono degna di vivere e sono infelice

Ho fatto il mio dovere di figlia. Voglio andare lontano. Che la petu­ lanza della famiglia non mi raggiunga più. Tutti questi tristi rapporti di incomprensione congenita: genitori, fratelli, sorelle. Mi sono ribel­ lata, sono tornata più insaziabile di prima, adesso è il momento del vero distacco. Sono un capofamiglia che finalmente prende il largo.

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Ognuno è a un suo posto. Posso fare la mia vita senza contrastare nessuno, senza polemiche, senza ripercussioni. Sto aspettando Fausto. Faccio ricorso agli stessi rimedi di quando ero ragazza. Il rimedio ha funzionato. Anche Fausto parla sempre, ascolta poco e niente, ma dà un senso di calma. E l’uomo meno integrato che co­ nosco, però non è olimpico, fermo. E sempre in movimento. Il movi­ mento di un essere vivo, non di uno che ha qualcosa da raggiungere. Mi ha ricordato cose che dicevo tanti anni fa e come questo lo sugge­ stionava. lo avevo presente quello che allora mi suggestionava in lui. 28 feb. Sul trenino locale che ci porta a Montevarchi, dico a Simone cosa ho fatto in questi giorni, tra l’altro ho visto Fausto. Si rabbuia subito, non segue più i miei discorsi, e poi mi chiede se ho dormito a casa. Sempre la stessa gelosia. Mi metto a sfogliare un giornale. A letto Simone ha ancora questo blocco dentro. Se ne vergogna, ma non può scioglierlo. Parliamo pacatamente. Ormai so che questi nodi vanno sbrogliati con cautela. All’improvviso gli viene fuori che, ap­ pena io non ci sono, subito prova un gran desiderio con altre donne. Ancora non si è deciso a prendere delle iniziative, però il bisogno gli è sempre più chiaro. Lo attribuisce al senso di inaridimento dei rap­ porti erotici fra noi. A un’amica che gli chiedeva se avrebbe potuto lasciarmi, ha risposto che sì, cominciava a vedere la cosa possibile senza immaginare un trauma, un dolore insopportabile. Aveva solo un presagio di smarrimento. Le diceva anche che non pensava gli sarebbe più successo di immergersi in un’altra donna come gli era avvenuto con me: che io sono così: fragile, ma decisa a non lasciarmi sopraffare dal mondo. Ho provato un attimo di sorpresa di fronte alla dichiarazione, per così dire, ufficiale. L’attimo dopo un senso di liberazione: non può succedere niente di negativo fra noi, solo nuove aperture. Quella sua amica non mi provoca rivalità, la vedo umana, partecipe, delicata. Non temo di essere spodestata da lei, anche se in­ tendesse stringere con Simone una maggiore intimità. E un problema fra loro, non mi sento minacciata. Non ho mai provato un senso di pace più grande. Simone sincero, indifeso, appassionato: lo accettavo in tutto e per tutto. Ho superato l'allucinazione di essere derubata, la mia fiducia regge: può amare un’altra donna. Io ho amato persone diverse: scalzare l’una con il sopraggiungere dell’altra è un procedi­

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mento infantile: ognuna occupa un posto fuori del tempo accanto all’altra. Essere traditi fa parte delle paranoie infantili, ma non esiste: esiste la libertà nei rapporti. La coppia, nel suo impegno di fedeltà, alimenta sogni di evasione che crescono fino a sfasciare il rapporto o a determinare irrimediabili ostilità. Prendendone coscienza lascian­ do libero corso ai desideri questi, al contatto con la realtà, si ridimen­ sionano e perdono il loro carattere distruttivo di aut-aut. Adesso che conosco me stessa e le mie amiche non sono più gelosa di una donna: la mia simpatia per lei non viene intaccata se Simone la ama. Se non c’è un’intenzionalità ostile nei miei confronti, non ce la proietto io, posso restare serena. Ecco perché Simone è geloso, perché è sempre sul chi vive con altri uomini, non li conosce e li tie­ ne d’occhio come possibili rivali. Io sarei la preda che contrassegna il vincitore. Abbiamo fatto l’amore con grande piacere e intensità. Stamani Simone mi diceva di essersi sentito ingombrato dalla gelosia come da un insormontabile ostacolo regressivo. Lo sa, lo avverte che è assurdo, ma per ora non può superarlo. E stato geloso del mio amo­ re per Sara, ma in un modo sopportabile, mancava infatti la compo­ nente del confronto e conseguente senso di sconfitta. Eppure, quando abbiamo visto Adele H. Simone aveva presente il suo amore per me, io il mio per Sara. Sara così carina mi rende felice.

Io partecipo alla costruzione di una società basata sui rapporti uma­ ni. Anche se mi hanno esclusa, anzi proprio per questo. Nessuno è più in grado di mettermi fuori se io non lo voglio. Questa è la mia esperienza e questa la coscienza di me nei confronti di quella che si chiama società. Non tornerò più sopra questo punto, lo enuncio solo per fare presente che non mi sfugge il senso di quello che sto facendo. Mi sono incamminata senza seguire nessuno. Non ho avuto bisogno di sbandierare ideologie, né di gratificarmi politicamente: stavo e sto vivendo e chiarendo e oltrepassando i limiti posti dalla cultura e dal­ la società maschile ai rapporti umani, limiti non meno vincolanti di quelli economici. Per me la società augurabile è solo quella in cui esiste la possibilità di vivere questi rapporti.

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2 mar. Non posso più andare avanti sballottata qua e là, tra un pas­ sato in cui mi riconosco e un presente generico, tra Milano e Roma, sempre alla ricerca di una stabilità impossibile. Ogni spostamento da Roma significa infatti abbandono di un’identità e tentativo di recu­ pero della precedente. Certo la precedente cerco di innestarla sull’at­ tuale, ma l’attuale appunto è come una pianta portante, rustica e senza qualità che prende valore dall’innesto del rametto, staccato e conservato, del passato. 3 mar. Dico a Piera che per me è uno stress insostenibile questo pe­ riodico ritorno a Milano. Lei reagisce portando a esempio il suo caso di dissociazione, seppure, lo ammette, in piccolo: a cena sempre con la madre, Jole che vuole essere vista da sola, e le altre amiche che si fanno avanti. Sembra trovare una grande analogia con me. Mi ricor­ da Sara quando, saputo che avevo avuto il cancro, ha esclamato “In fondo anche Paula porta le lenti a contatto!”. Felicita mi chiama da Torino, mi parla di sé. Io la metto a parte del mio dilemma per il quale devo cercare di prendere una decisio­ ne. “Sarei molto grata a chi mi aiutasse a risolverlo” aggiungo quasi scherzando, tanto lo so che devo risolverlo da sola. Felicita mi rispon­ de lestamente che devo risolverlo da sola. Smettere di “andare a Milano”: non posso trovare comprensione su questo punto poiché è un’iniziativa presa come abbandono. I miei gesti vengono valutati non in relazione a me, ma a loro. Sono an­ cora la sorella maggiore che tiene unite le altre. Mi amano se faccio questo, amano il mio ruolo e il modo in cui lo svolgo, le prove di predilezione che offro. La mia vita privata, Simone, Tito, sono con­ tinuamente sospettati di minare questo ruolo. Ali illudo che non sia così, ma è così. Cara Felicita, mi piace molto l’interpretazione che dai di Adele H . Mi è subito venuto in mente che da ragazza sognavo proprio quel gesto impossibile di par­ tire per il mio destino, e alla prima occasione l’ho anche fatto andando a Parigi. Ero fiduciosa di sapermi costruire una mia vita. In capo a otto mesi ero già da ricoverare in sanatorio: sola, senza esperienza, senza affetti, senza soldi, senza protezione andavo incontro alla morte. Ho ritentato in condizioni più favorevoli a Roma con l’amicizia di Marion, ma ai nostri discorsi coraggiosi non corri­ spondeva alcuna realtà: questo squilibrio diventava penoso, in più non ero in

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grado di sopportare routines di lavoro. Di nuovo la malattia ad avvertirmi che avevo fallito; e Raffaele, una sortita onorevole. Mi sono legata stabilmente a un uomo per il bisogno di essere tenuta in vita. Così non devo dimenticare che il sogno di una completa autonomia (tipo Adele H.), non solo mi slava portando alla distruzione, ma soprattutto che non sono disposta ad accettare di essere distrutta. Il mio coraggio ha avuto un limite: la paura della malattia e della morte. Anche se mi deprime ricordarmi che non sono quell’eroina della libertà che mi piace lasciare ancora aperto che potrei essere. Mi accorgo che non ho creduto all’amore. Ci sono caduta e ho cercato di tirarmene fuori, ma non sarei partita di casa con quel motivo, come Adele: avrei approfittato della lontananza per distrarmi, avrei lasciato passare del tempo. L’amore per me è sempre stato una schiavitù subita o imposta. Appena non è più schiavitù non è più amore. L’amore respinto è il vero stimolo all’amore. Io ho basato la mia vita sui rapporti umani, anche se sono stata innamorata di uomini e di donne e da questi amori ho avuto molte rivelazioni. Ne avrò ancora, è probabile. Ma la mia tendenza è di riportare gli amori alla condotta dei rapporti umani, o di alzare questi ultimi agli stati di amore. Anzi, è proprio questo che cerco: mi piace costellare tutti i rapporti di punti luminosi c di spasmi impercettibili. L’intensità continuamente perduta e ritrovata: questo è il vero leitmotiv della mia vita con gli altri, la sorpresa quotidiana, l’impresa per cui spontaneamente mi sono trovata idonea.

Parlare con Nicola mi rianima: non pretende niente da me, come dire che vuole il mio bene, quello stesso che non posso non volere anchio. Aspettavo qualcosa del genere da Felicita, invece lei ha rea­ gito avendo dei motivi in contrasto con i miei. Insomma, ieri vedevo un drammatico aut-aut: o Milano o Roma. Avevo deciso: Roma. Ma anche Piera mi richiamava al passato, e questo mi faceva sentire nuo­ vamente indecisa, colpevole di volere mettere radici in un posto che ai suoi occhi significava allontanamento dalle amiche di Rivolta. Ma questo annuncio, ufficialmente dato a chi poteva dispiacersene, oggi ha già offerto i suoi frutti: una volta respinta la mitizzazione di Mila­ no, la speranza di continuare là gli sviluppi significativi della mia vita, immediatamente mi viene la certezza che, quando ho cominciato il femminismo, già Milano mi appariva esaurita come sbocchi vitali e adesso, a distanza di qualche anno, la situazione non è migliorata. E solo una maledetta nostalgia alimentata dalla lontananza, mentre la situazione nuova posso averla qui senza che questo rappresenti nulla

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più che il distacco necessario a proseguire le mie esperienze. Chissà perché adesso tutto mi sembra così naturale e favorevole. 5 mar. Voglio il teatro perché è l’idea più assurda che ho avuto. Voglio il teatro perché non lo “posso” fare, e lo farò. Chissà se qualcuna sarà dell’idea. Forse no, e allora dovrò arrangiarmi da sola. E un sogno? Piera divide il suo soggiorno romano tra me ed Ester: è uno stress per lei e un motivo di inquietudine per me. Quello che mi giunge di Ester mi fa retrocedere da uno stato di indifferenza a uno stato di aggressivi­ tà. Mi torna l’urgenza di smascherare Ester, non può passarla sempre liscia. La sua logica è: adoprare gli altri, le altre per chiudere gli occhi su di sé. Si tiene a riparo dalle crisi personali perché è convinta di do­ vere tenere duro, di non dovere cedere al dubbio e allo sconforto che lascia ad altri, cui però si affianca come compagna di strada quando il dubbio e lo sconforto hanno prodotto le necessarie chiarificazioni e i preziosi frutti di coscienza. Contro questo meccanismo la ragione è impotente. Infatti nell’agire Ester risponde alla logica del mondo che scambia facilmente il carnefice per vittima, l’arroganza per impegno, la strafottenza per forza, la richiesta di complicità per bisogno di ri­ spondenza, l’intromissione per umiltà, le oculate ammissioni per sin­ cerità, e così via. Da questa gente si resta sconfitti: mentre quelli che cercano la coscienza sono respinti, anzi si ritirano spontaneamente per non subire un contatto così soffocante. Ester pubblica su una rivi­ sta d’arte le sue verità alla moda, protetta da un alone che le viene da Rivolta: sembra che si esponga mentre appare alla ribalta per cogliere applausi e consensi. Il suo genio consiste solo nell’esserci, nella tempe­ stività dell’intervento, nella scelta del luogo e della rappresentanza. 6 mar. Quarantacinque anni. Ne sono contenta. 7 mar. Milano per me è un simbolo: simbolo di Rivolta Femminile. 8 mar. Starò a Roma, con Tito. Ho questa delizia a disposizione, posso goderne senza sentirmi obbligata a correre di qua e di là. Or­ mai quello che volevo fare l’ho fatto, ho regolato i miei conti. Ognuna di Rivolta cerca sbocchi per la sua vita e la condizione perché avven­ gano è non considerare Rivolta, il rapporto con le amiche il perno attorno a cui ruotare. Questo problema è stato soprattutto mio, visto

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che ero stata io a costruire Rivolta e potevo essere spinta a conside­ rarla una realtà stabile piuttosto che un incontro, determinante, ma un incontro. Adesso godo delle potenzialità umane che ha rivelato, mie e delle altre. Sono bloccata a Turicchi dal gelo e dalla neve: forse non ce la farò a raggiungere Roma per stasera. Ho un gran desiderio di stare con Tito, essere un po’ più presente nella sua giornata, comunicare di più o comunque svolgere la mia vita vicino a dove lui svolge la sua. Sono quasi diciassette anni che passo da una nostalgia all’altra: la vo­ glia di stargli vicino, inconscia, superata dal bisogno, cosciente, di re­ alizzarmi per me stessa e non in funzione di un altro. Questo bisogno mi spingeva qua e là. Adesso non devo più correre dietro a qualcuno che mi porta lontano: il centro per me sono io stessa. Il pettirosso ferito al cuore torna a casa col gelo e sopravvive. Cara Felicita, voglio fare del teatro. Te lo dico in tutta confidenza. Mi piacerebbe molto che piacesse anche a te, forse egoisticamente perché mi sento un po’ sola con questa idea troppo grossa per me. Mi attrae probabilmente perché è una specie di idea proibita: non so ancora se fa parte dei sogni a occhi aperti oppure se lo voglio davvero. Ho desiderio di diventare cosciente della mia presenza e di uscire dalla sensazione di stare, fisicamente, in un angolo. Questa idea risveglia tutti i miei tabù, il compendio di tutte le mie rinunce. Per avere un minimo di credibilità di fronte a me stessa devo pensare che questo teatro non è spettacolo o simili, non segue leggi teatrali né va in luoghi adatti. E una cosa che chiamo teatro, ma nasce ex-novo dal mio bisogno di diventare visibile e di accertarmi che lo sono. Anche dal bisogno di occupare un certo spazio, uno spazio che non tolgo a nessuno, lo spazio che mi spetta. So che mi spetta, e non mi faccio avanti per timore. Ne ho parlato a Piera, ma mi è sembrata scettica, e poi a lei interessano i mezzi di riproduzione come la macchina fotografica, mentre a me piace proprio il teatro. Ci riuscirò?

Per fare teatro devo sentirmi a mio agio, sennò non mi manifesto, mi scindo e resto inespressiva. Per sentirmi a mio agio non ci devono

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essere aspettative su di me, quindi non ci devono essere spettatori. Ognuna pensa a sé, cioè matura il momento per intervenire. Per me è importante che questo che chiamo teatro sia un luogo cul­ turalmente non identificato. Appena sarà identificato culturalmente mi deluderà, non mi interesserà più. 9 mar. Stamani mi tornava in mente quello che mi ha detto Piera a proposito del suo attuale stato di disarmonia: non è più interamen­ te calata nell’esistenza e nei rapporti, le sembra di non crederci più come prima, di volere spostare la sua vita su un piano creativo. Aia così facendo non accetta forse quello della cultura maschile? Capisco che il fallo entra come elemento che sollecita una trascendenza di sé, una proiezione di sé nel simbolo, lo invece mi sento stretta fra la pa­ rete dell’esistenza e la parete in cui la mia esistenza si imprime come presenza di attimi e poi si cancella. Non ho di fronte la piattaforma dei valori eterni e dei gesti scolpiti nel bronzo. Dunque per il mio tea­ tro ci vuole questo senso dell’immediato presente che sparisce. L’azione simbolica deve fallire continuamente per fare posto all’azio­ ne esistenziale. L’azione esistenziale è quella che ha di mira i rap­ porti umani. Ecco perché ho bisogno del teatro, perché il teatro è un simbolo dell’esistenza. Invece in quello che penso io è l’esistenza che sconfigge il teatro. Per questo ho bisogno del teatro. Dalla sconfitta del teatro emerge l’esistenza. Il teatro viene alluso per stabilire il con­ fronto che porta alla coscienza l’esistenza. Questo teatro sarà fatto da chi finora è stato spettatore, da chi non sa recitare, da chi non può recitare. E il momento degli svantaggiati. 10 mar. Una scena consiste nel guardarsi in faccia. Piano piano si prende coscienza di sé e si elimina il simbolico. Grotovvski adopra il teatro come teatro, come richiamo sociale, cul­ turale e si ripromette dal “dopo teatro” rincontro. Invece io voglio un teatro d’incontro. Basta dare la prima spinta poi si provocheranno reazioni a catena. Queste reazioni saranno il nostro teatro. Può essere così vivo: perché non dovremmo farlo? Ho avuto dubbi sul mio volere stare con altre, come se non osassi fare da sola. Ala se mi interessa lo scambio e trovo un sopruso (o un’infeli­ cità non cosciente) avere uno spettatore, come potrei agire da protago­

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nista? Voglio dare un impulso alla mia vita, incidere sulla mia realtà: questo non lascerà le cose come stanno. Voglio modificare le strutture, non essere una in più che le conferma. 11 mar. Ho avuto una crisi a proposito del mio teatro. Mi è apparso a un tratto infantile e impotente. Non ne ho sofferto perché sono felice della mia vita, godo i minuti gesti quotidiani, distribuiscono i libretti di Rivolta a queste femministe che per ora non li meritano, e poi si vedrà. Non ho ancora ripreso a battere a macchina il diario. Vorrei pub­ blicare le poesie, prima. Sono parte di me, rispondono a un bisogno estremo. Oggi, guardando Tito in faccia, ho provato un’emozione vio­ lenta “E mio figlio”. L’ho provata come si prova da bambine quando si pensa che si avrà un figlio. E un miracolo, una fortuna tremenda potere avere un figlio. Una fortuna, non un merito, ma oggi ho sentito questa fortuna come il più meritevole dei meriti. Vengo dalla Maddalena-libri dove ho incontrato alcune ragazze che, prima ancora che dicessi chi sono, esprimevano adesione ed entusia­ smo per i miei scritti. La cosa subito mi bloccava. Non posso soppor­ tare le lodi, è un fatto: mi umiliano, mi fanno sentire un’impostora. Mi viene subito l’impulso di dire “E stato un momento importante per me, ora è superato”. Non posso sopportare di avere contribuito a questa ideologizzazione femminista, ma soprattutto non posso sop­ portare di essere stata presa per una teorica, e basta. A una ho dato il mio numero di telefono perché mi sembrava che lo desiderasse: ero cosciente che io non lo desideravo, dandoglielo speravo che non ne avrebbe fatto uso, tuttavia non ho resistito alfimperativo di mettermi a sua disposizione. La vita con le amiche di Rivolta è cominciata quando ho intuito che potevano fare a meno di me. Ho avuto un lam­ po: per me le esigenze vitali sono quelle liberatorie, da quelle otten­ go la pace interiore, tutti i gesti connessi a raggiungerla sono da me sentiti come essenziali. Il teatro per esempio, non ne fa parte, è una specie di gioco, di impiego volontario della pace a mia disposizione. 13 mar. Con Augusta leggo le sue poesie. Ritrovo tanti elementi delle mie di quando avevo la sua età: il senso di irrealtà, di non-vita. Eppure mi sembrava più convinta madre, moglie di me. Ma anche a lei manca esprimersi per quella che è, e una vita che le corrisponda e che lei accetti coscientemente.

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Il mio teatro mi è apparso infantile e impotente perché io sono infan­ tile e impotente. Lo faccio appunto per partire da quello che sono, smaltirlo e passare oltre. Devo cominciare da niente, dal mio niente. Ecco che riconosco in questo il mio teatro. Mi sono svegliata con questa frase “visibilium omnium et invisibilium”. 14 mar. Sara, quando mi accusava e nello stesso tempo si spazien­ tiva “Perché non mi accusi?”, voleva essere punita da me. Voleva, ancora una volta, adoprarmi per i suoi scopi. Dava per scontato che io volessi insultarla. La storia che i tipi orali cercano appoggi esterni è bulla. Vorrei vede­ re chi non ha appoggi esterni: tutti gli uomini ne hanno, per esempio nella madre e nella sostituta madre per tutta la vita. 15 mar. Ho letto che una delle cause delle ulcere gastriche è quando desideri inconsci di passività vengono tenuti a bada da un atteggia­ mento attivo. Sara ha avuto un inizio di ulcera quando ha preso un appartamento per conto suo smettendo di essere ospite di amiche. Lei è sempre stata molto caustica a proposito delle mie malattie, adesso si renderà conto che sono conseguenze fisiche dei conflitti che scoppiano nella ricerca concreta dell’indipendenza. Prima ero sicura della mia autonomia essendo un tipo ribelle, non mi accorgevo di cercare appoggi - mi sembravano opera del caso, invece erano necessità - e poi in qualche modo spesso avevo la sensazione di essere anche e soprattutto io un appoggio per l’altro. L’appoggio di Sara mi ha reso inutile l’appoggio di Ester, Ester ha sentito che non sarei più stata un appoggio per lei e spavaldamente mi ha mollato senza rendersi conto del problema e correndo alla ricerca di nuovi appoggi, poi Sara non ha più voluto il mio appoggio e mi ha impedi­ to di appoggiarmi a lei. Quello dell’indipendenza è un mito. Nicola ha avuto un incontro molto umano con il regista che girerà un documentario a casa sua. Mi ha fatto piacere, mi ha dato un senso di sollievo. Come se riguardasse anche me, come se il riconoscimento di Nicola da parte del mondo avesse il potere di fare felice anche me. Così la sento più alla pari, più soddisfatta di sé, e quindi un’interlocutrice più stimolante, più solida.

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19 mar. Bisogna che mi liberi di tutto, anche del mito della libertà. Altrimenti mi appare come un dovere che va contro di me. La libertà diventa un bisogno dimostrativo, un modo di non accettarsi. Stamani non riuscivo a dormire con la sensazione di quanto ho scritto, quanto, senza pubblicare. Devo rompere questo continuo rimando. Ho detto a Nicola “In fondo per amarsi davvero gli uni con gli al­ tri occorre conoscersi e accettarsi come siamo ed esprimere tutto, tutti i lati, pene, incertezze, fallimenti; quindi quello che ho scritto più privatamente risponde alla ricerca deH’amore”. E questo che non capivo, che mi sfuggiva e forse è il motivo inconscio che mi impediva di pubblicare. Non tolleravo che si intuisse questo bisogno, questa richiesta, e questa offerta. Adesso mi sembra meno infantile, più collaudato e sperimentato, non meno assurdo, ma più proponi­ bile questo filo conduttore. Nicola non era d’accordo: secondo lei il problema è amare gli altri nei loro risultati positiva, non solo nella sofferenza. 20 mar. Sono a letto con una persona: lì per lì non so se è un ragazzo o una

ragazza. Poi non ho dubbi: è una ragazza. Parliamo brevemente, ci alziamo. Peccato non avere avuto più tempo. “Ecco” penso “per dormire vengo al dormi­ torio - è una specie di chiesa - mi resta solo da guadagnare per mangiare, posso farcela da sola a mantenermi.” Sono con Lucia in una situazione difficile: dobbiamo calarci attraverso una rin­ ghiera su un divano sottostante. Io ho scelto un posto in fondo alla ringhiera, lei è rimasta indietro. Vedo un ragno, voglio schiacciarlo - ha il corpo biancastro, tondeggiante - cerco di schiacciarlo, alla fine ce la faccio, gli affondo dentro una matita e quello sprizza fuori le sue interiora. Intanto Lucia da un buco nella ringhiera si cala giù. Torno sui miei passi e la seguo.

21 mar. A un tratto Raffaele mi si rivolge “In Ultimo tango, ti ricordi il colloquio tra Brando e Girotti? Quando Brando gli dice ‘Quello che non capisco è come mia moglie abbia potuto stare con uno come lei’? Perché Brando e sua moglie si erano lasciati, ma lui le voleva ancora bene, solo non aveva saputo farla felice. Ti ricordi quando le parla e lei è già morta, suicidata, e si mette a piangere e la insulta ‘Sei sta­ ta una stupida ecc.’? Brando è una figura complessa, drammatica”.

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Lo ascolto e capisco bene cosa il suo intimo gli suggerisce. Ma non aggiungo niente. Il sogno del dormitorio pubblico allude forse al fatto di stare con me stessa e affrontare la vita da sola? Non si stanca il mio inconscio a mandarmi dei messaggi che non ho intenzione di seguire? Rileggo miei diari dal ’52 al ’58. Ho passato il mio tempo a esprimere e a cercare di capire. Questo ha assorbito tutte le mie energie. Altro che guadagnarmi da vivere, non mi restava più un goccio di fiato da spendere. Rileggo i diari e scopro, nei passaggi chiave, me stessa sempre uguale a me stessa. Conferme. E un passato di introspezione su fatti essenziali della vita che mi fanno sentire centenaria. Sono cambiata nel senso che i venti anni si avvertono e sono diversi dai quaranta. 22 mar. Quella montagna di parole che sono i miei diari. I miei scritti personali rischiano di schiacciarmi senza avere svelato alcun segreto. Ma non voglio sminuirli, sono il più bel romanzo possibile. L’unico possibile per me. Ogni giorno scopro nuove pagine di questo romanzo. Un romanzo scritto a mia insaputa. L’altro giorno sonnecchiando al pomeriggio ho pensato di dipingere dei quadri. Due serie di quadri di dimensione crescente dal piccolo al grande (non molto): adoprare, per dipingere superfici diverse, la stes­ sa quantità di colore blu. Titolo: Verso l’azzurro (o Verso il cielo). Un’al­ tra serie con colore nero, l'itolo: Ritorno dalla notte. Poi vorrei andare in un gruppo e vivere così per un po’, completamente sconosciuta, anonima. Leggo casualmente in una lettera dagli USA a mia cognata “Il cielo è proprio diventato nero”, riferendomi alla possibilità del cancro. E curioso che abbia ritrovato questa frase dopo avere pensato ai quadri da fare. Non avevo più coscienza dell’origine di sofferenza che sta­ va dietro l’ispirazione a fare quei quadri. Forse è questa la premessa dell’agire per me: abbandonare la sofferenza come una zavorra della vita, cioè smettere di elaborarla e ritrovarla invece come stimolo eli fantasia che le faccia da contrappeso nell’equilibrio psichico. Vorrei fare un filmino comico: i sogni messi a confronto della realtà sono comici, idem la realtà messa a confronto con i sogni.

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24 mar. Simone mi piace, gli voglio bene, mi mancherebbe molto non poterlo abbracciare, baciare, coccolare. Però non mi dà eroti­ smo, non ho voglia di fare l’amore con lui. O raramente. Un tempo non era così, ma ora è così. Inutile parlare, parlare, scrivere, scrivere. La realtà non si cambia. Giornata grigia terribile. Sono tornata dalla campagna in questa cit­ tà di merda. Mi attacco al telefono. Non ho voglia di fare da mangia­ re: a colazione ho ingurgitato disgustosi avanzi dei giorni addietro. Lito gira per casa con la chitarra nuova e mi dà il mal di mare. In più sono semiaddormentata, ma inquieta, non riesco a buttarmi sul letto. Leggo e rileggo insignificanti notizie di giornali. Come posso andare avanti così? Sul pianerottolo un giovane installa un impianto di allarme. Scam­ biamo qualche parola. E un tipo dolce, con occhi dorati. Sono ten­ tata di dirgli “Vorrei fare l’amore con te”. Non ho altra mossa a mia disposizione. E una specie di idea per rompere. Mi telefona Augusta, ma non mi interessa. I guai degli altri non mi interessano. Piano piano anche lei lascerà le difese e sarà come sono io adesso: sola e senza niente da aggiungere. 25 mar. Naturalmente oggi va meglio, tutto questo ha un senso. L’an­ goscia è la mancanza di senso, la perdita di fiducia in se stessi: tutti sanno, fanno, vivono fuorché io. La mancanza di conferme e anche di stimoli. Se penso a come penso di fare qualcosa mi accorgo che è una specie di produzione senza contenuti che non siano guizzi dell’esistenza la più inafferrabile. Mi viene in mente la Cvetaeva che voleva fare una poesia senza tradire “Ah... ah...”. Per questo è tanto difficile. Com’è duro ribaltare le cose, restare fedeli alla propria ragione in­ terna senza cedere alla cultura, alle sue interpretazioni, ai suoi ter­ rorismi e alle sue diagnosi. La presa di coscienza è essere quello che si è (sempre stati), ma vedendosi con i propri occhi. Questa visione libera vecchie e nuove possibilità. Si tolgono così i condizionamenti dell’ambiente. Naturalmente questo metodo scaturisce da chi ha avu­ to condizionamenti “sfavorevoli”, chi li ha avuti “favorevoli” li pren­ de come sua propria natura, non ha nessun vantaggio a toglierseli. Avrebbe il vantaggio di ripartire dal niente. Potrebbe fare le stesse cose, ma con una coscienza diversa.

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27 mar. Un marinaio mi è venuto dietro alla Standa: non c’erano dubbi che seguiva proprio me. Da molto tempo non mi succedeva qualcosa di simile, così pensavo di essere trapassata in una zona in cui la mia persona non funzionava più da segnale erotico. Non è così. Mi guardo negli specchi della Standa e scopro di sembrare più giovane con i capelli corti (ma perché li ho tenuti annodati questi tre, quattro anni?), con la giacchettina blu attillata (ma perché per tanto tempo non ho fatto attenzione al mio modo di vestire?). Mi piaccio, e piaccio agli altri. Grazie, marinaio. Non avercela con me se mi sono dileguata, però grazie lo stesso. Simone fa una mostra di quasi cento sculturine dal ’47 a oggi, una specie di diario. Spera che presentando tutta (o quasi) la sua pro­ duzione scatterà qualcosa negli altri. Ma cosa? Ha scelto una “via speciale” di comunicare: adesso vorrebbe essere alla portata, ma non lo è. Tra lui e gli altri esiste un diaframma: l’arte. Partito privilegiato, arriva svantaggiato. 1 apr. Il matriarcato è un tradimento per la donna, come il patriar­ cato lo è per l’uomo. Questi francesi rompono con la rivalutazione del matriarcato. Matriarca o patriarca sono ugualmente miei nemici. Niente padri o madri, ma tutti se stessi. Non c’è bisogno di ideologie ugualitarie se non sono istituzionalizzate le gerarchie. Un regista fa un film dove una giovane dà il latte a una vecchia ecc. Accidenti, come si precipitano sul rapporto madre-figlia! E questo un aspetto tremendo dell’oppressione culturale. Caro Riccardo, sei chiuso con gli altri perché lo sei con te stesso. Naturalmente questo fa apprensione. Il tuo atteggiamento distante ha un’intenzione contagio­ sa che io non sopporto. Cara Nicola, sei diversissima da sola o con Riccardo. Con lui ti senti colpevole come una bambina con un padre angosciato e angosciante. Ti voglio bene e non me ne importa se ti arrabbierai con me, puoi dirmi quello che vuoi. Anche tu mi vuoi bene e ne vuoi a te stessa sempre di più.

5 apr. Odio i dilemmi e tutto mi diventa un dilemma. Stare a Turicchi o andare a Roma? Sono venuta a Roma così faccio contenti Tito, Simone e Felicita che anche lei è qui. E appena qui: andare con

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Nicola da Sgaravatti o con Simone dal sarto? E ancora: a colazione da Nicola o a casa nostra? Insomma, non ci sarebbe dilemma se i desideri degli altri non contrastassero i miei, se fossi assolutamente egoista. Ma non lo sono. 6 apr. Non do più all’inconscio quel valore liberatorio di un tempo: anche lui promette, ma non consegna alcuna verità. Un’amica mi chiede “Come stai? Ti ho visto un po’ giù, sfiducia­ ta, incerta, le ultime volte”. E vero, ma gli altri danno sempre una sfumatura di sconfitta a stadi di necessaria perdita. Ecco perché si drammatizzano momenti preziosi della vita. Augusta mi dice di avere capito le mie poesie quando le ha lette che soffriva. Secondo lei molte sfumature non si colgono se la sensibilità non è affinata dal dolore, se si è distratti come d’abitudine. Ha riletto le poesie in stati emotivi diversi, tre volte. 7 apr. La cosa bella è che posso in qualsiasi momento porre dei grossi interrogativi a me stessa, e con l’intenzione di rispondere, non di elu­ derli. La strada è questa, la percorro, però la sofferenza mi fa capire che ancora do a questi passi una coloratura emotiva di rinuncia invece di acquisizione. Risento della valutazione che viene data dalla cultura e dalla società, ne subisco le ripercussioni. Non deve succedere altro che una ripresa di gioia. Lamberto, vestito di nero con camicia bianca, mi ama, non ho dubbi: aspetta solo un mio gesto. Lo abbraccio, ma sento di farlo in modo infantile, troppo esplicito e poco esplicito nello stesso tempo. Resto insoddisfatta. Sono in casa d’altri, non posso tenerlo con me, lo accommiato in modo indiretto, garbato ma perentorio, e lui se ne va. Poi arriva Lucia e scherzando come di fronte a un’im­ penitente mi dice che la zia si è accorta che io uso e abuso della sua casa. Ma se ho mandato via Lamberto proprio per questo? Accidenti, quando mi libererò della mia fama di imbrogliona? Lucia è piuttosto indulgente e divertita. Non mi crederà mai, ma non fa niente. A casa ci spogliamo: lei è incinta, ha una pancia rotonda, e anch’io forse, forse ho abortito, chissà, forse ho solo la pancia gonfia. Ridiamo delle nostre rotondità. Sono con una ragazza un po’ impaurita perché non se l’aspettava che sarei riuscita ad acciuffarla. Su, mi deve restituire quello che mi ha rubato: oggettini,

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collanine, spillette. Ha paura che nella rabbia le sottragga a mia volta quello che è suo. Ma stia tranquilla. “Questo è mio, ma questo no questo è suo, questo è suo, questo...” Sembra più calma. A un tratto si allaccia un tipo biondo, giovane ecl estremamente robusto: dormiva lì vicino e non me ne ero accorta. Solleva la ragazza come un fuscello e se la mette nel letto. Dunque quella è una prosti­ tuta! Di bene in meglio! Tengo d’occhio la porta per fare in tempo a scappare casomai volesse acciuffare anche me. Invece se non mi cerca potrò assistere a loro che fanno l’amore così avrò un’idea chiara di che cos’è tra tipi del genere.

E difficile provare comprensione verso il marito che all’improwiso si apre rivelando i suoi bisogni affettivi e le sue fragilità. La donna si sente fregata da lui: perché non l’ha fatto prima? Le persone che di­ mostrano sicurezza trascinano quelle più insicure che in questo modo rinunciano a se stesse, alle loro verità; quando poi la sicurezza degli altri cade la delusione è troppo forte Così è accaduto a Sara con me. Ecco perché mi era angoscioso aprirmi con lei: lei mi odiava in quel momento. D’altra parte io ero sicura di me anche perché trovavo sempre qualcuna come lei che mi seguiva in tutto. 19 apr. Voglio fare un film sui miei genitori. Oggi sono stati qui; guardandoli mi passano tante cose per la mente. Perché non dovreb­ bero sapere che li trovo belli e che amo i loro gesti? Mi vanno bene come sono, anzi mi sembrano una meraviglia della natura così an­ ziani e così leggeri, distaccati e incantevoli; senza peso in una età sganciata dal futuro, dalle illusioni e dal possesso. In più sono fragili come i bambini, e questo rasenta la verità. 23 apr. Guardo una bambina, la mia gemella, che sta in cima a una scala in

bilico di fronte a me, anch’io su una scala in bilico. A un tratto lei perde l’equili­ brio e cade giù. Io scendo precipitosamente per afferrarla al volo, ma quello che mi arriva tra le mani è un libro.

Parlo del mio progetto di mostra a Eelicita che non mi dà nessuna inibizione, a Nicola che appare turbata, ma si riprende presto e con una certa sfumatura di inquietudine ne avverte l’apertura, a Piera che ne è sconvolta. È un tasto elettrico, me ne rendo conto sempre di più. Scatta il sospetto della richiesta di riconoscimento rivolta all’uo­ mo. Finché tutte stiamo appartate dalla cultura il problema rimane

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assopito, appena una si muove la ferita sanguina di nuovo. È un ge­ sto che devo fare assolutamente, ne devo prendere la responsabilità su di me. 1 mag. Mi sveglio con la sensazione di quando Lucia mi diceva che cosa orribile, peccaminosa è mettersi il rossetto o il mascara, o fuma­ re o andare a ballare. Cioè piacere ai ragazzi. La reazione di Piera mi ha fatto questo effetto. Vorrei scrivere a Ester “Ma come hai fatto a vivere circondata di invidia?”. E come ho fatto anch’io. Stamani Nicola mi diceva di avere interpretato il mio gesto soprat­ tutto come provocatorio, non aveva neppure preso in considerazione che nascondesse il desiderio di essere artista. Mentre Piera sembrava colta di sorpresa su un’aspirazione repressa, l’aveva anche ammesso “Forse io mi sono ritirata per orgoglio”. Ma l’orgoglio in questo caso è una copertura dell’insicurezza, come non se ne accorge? Parlare con Piera mi ha depresso, mi sono subito venuti dei dubbi su quello che volevo fare e l’angoscia di stare per abbandonare un campo co­ mune di esperienza. Però è stato anche una specie di test per capire le vere reazioni di chi mi sta vicino, e lo adopro per questo. Sto roteando sul mio progetto di mostra (nota, non di quadri, di mo­ stra) come un falco indeciso se lanciarsi o no sulla preda, se lanciarsi in un modo o nell’altro. Mi sarebbe più facile se non dovessi essere presente, se potessi fare tutto per scritto, per posta: chi mi impedisce di farlo così, dopotutto. Mi si stanca il cervello in quest’altalena. Cosa diavolo ci sarà nel mio cervello che non mantiene ferma una posi­ zione per più di qualche ora? Ora sto vedendo un’altra possibilità: di non fare una mostra, di mettere tutto in moto e poi fermarlo all’ul­ timo momento e dire “Va bene. Basta così”. E un tirarmi indietro? Cara Dorina, ti scrivo per chiederli di fare una mostra nella tua galleria: due serie di quadri, ciascuna composta di 4 tele quadrate (10 x 10, 15 x 15, 20 x 20, 25 x 25 cm.) dipinte con un certo criterio che adesso non sto a dirti. Il punto non è quello, il punto è che dall’ideazione di questi quadri mi è venuta la certezza di me come artista. I quadri vanno accompagnati da un mio breve scritto che ti allego. Parlandone a un’amica la cosa mi parve reale: avevo ideato un’opera d’arte. Il mio desiderio era di esporla; anzi, da questo desiderio era maturata l’opera.

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Adesso sto vivendo il processo creativo: sono ben certa che l’opera mi appartie­ ne, anche se non posso negare il mio debito all’arte del momento. In un primo tempo ho pensato di esporre in un ambito esclusivamente femminile, ma ho già scoperto me stessa in quell’ambito, quindi seguo le mie inclinazioni. Proprio questo stato d’animo mi ha fatto sentire artista. Purtroppo è arrivato tardi e da questo qualcuno può essere portato a dubitare, ma ormai i dubbi degli altri non mi toccano: come artista mi sento, per così dire, in una botte di ferro. Per l’avallo mi sono rivolta a un critico d’arte in grado di capirmi. Caro Y., ho scritto a Dorina per chiederle di ospitare una mia mostra e di tenere a battesimo la mia nascita artistica. Esporrei due serie di quadri, che potrai vedere se vorrai e se lo riterrai importante. Per me la loro importanza consiste nell’avermi dato la certezza di me come artista. Ti accludo lo scritto che do­ vrebbe accompagnarli. Siccome alludo all’avallo di un critico, ti chiedo se vuoi essere tu quel critico. Non devi fare altro che scrivermi se puoi o no avallarmi come artista.

3 mag. Il pensiero della mostra resta fisso dentro di me. Perché non l’ho respinto sul nascere? Mi scombussola e già rimpiango la pace che avevo prima. Questo mettermi sotto gli occhi di tutti mi attira e mi respinge. Potessi solo sapere con certezza perché mi attira e mi respinge! Felicita sta leggendo il mio diario, ma già mi pare scoprirmi di meno che rivelare questo desiderio di cui non so venire a capo. Però ho dormito bene, rilassata e di gusto. Tutta la settimana in cui Simone è stato via ho stentato a dormire, ma appena lui è tornato ce l’ho fatta. Della mostra gliel’ho detto solo ieri e sono stata bene atten­ ta alla sua reazione. Mi è sembrato che anche lui, come le amiche, provasse un certo disagio. Ha detto di non avere mai pensato di pre­ sentarsi con il problema di sé, oppure “Non ne ho avuto la forza”. Ha continuato interpretandolo come un gesto di sadismo “L’artista soffre su quello che fa, tu invece ci scherzi sopra”, alludendo alla “dabbe­ naggine della tua opera, dabbenaggine che ti fa accettare pari pari i canoni del momento”. “Non posso essere originale su tutti i fronti” gli ho risposto. Lo scritto che ho preparato per accompagnare la mo­ stra è troppo “naif”, non capisce perché non cerco di motivare me­ glio. Ha concluso imprevedutamente che gli pare un gesto disperato che mette a nudo tutta la mia debolezza e cancella il mio passato.

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20 mag. Sono felice con le amiche. Augusta ha capito le mie poesie, Valeria vuole pubblicare subito il mio diario. Non devo più nascon­ dermi, non devo più giustificarmi. 21 mag. Voglio divertirmi. Sono stata una donna speciale in un cer­ to senso, perché no? Trovo un uccellino morto in camera mia a Turicchi. L’invidia del pene è un simbolo: ce l’hanno gli uomini non meno delle donne. E invidia della forza che scaturisce dall’accettazione di sé, invidia dell’unico modo per realizzare se stessi. Se non si coglie il lato simbolico si finisce con l’invidia pura e semplice. L’invidia del pene nella coscienza soppianta l’invidia dell’altro, e porta alla risolu­ zione. Il peccato d’invidia nasconde la molla all’identificazione di sé. L’invidia del pene è la metafora del bisogno di identità. “Poco carat­ terizzata per fare / categoria a me stessa e poco ardente / per tutto il resto...” La mancanza di identità porta all’invidia, l’invidia alla sof­ ferenza, la sofferenza alla coscienza dell’invidia e infine dell’invidia come invidia del pene, cioè alle soglie della scoperta e dell’accettazio­ ne della propria identità. 22 mag. Ho letto un’intervista di Moravia sul suo ultimo libro, in cui si identifica in svariati tipi di donne. Mi fa sempre l’impressione di uno che non c’entra per niente, eppure crede di entrarci, perciò vuole il dialogo, ma poi risulta che non lo vuole perché parla solo per giu­ stificarsi da una posizione ingiustificabile (di identità basata sul ruolo di scrittore). Fa una strana ammissione “Non garantisco di ‘sentire’ in termini femministi, ma ‘penso’ da femminista”. Poi però, rivolgen­ dosi a un interlocutore si smentisce “Hai ragione di parlare così solo se lo senti, non se lo pensi! Io posso dare ragione al sentimento, non alla ragione”. La fede nel “sentire” gli viene dal femminismo, per esempio Sara lo dice chiaro, però in lui diventa chiave culturale, ecco il perché della contraddizione. Come l’affermazione di Claudius che l’autocoscienza l’avrei scoperta negli artisti, così questi allunghi di Moravia nel femminismo sono rivelatori della loro invidia del pene: il pene saremmo noi donne e la nostra strada di liberazione. L’uomo avverte la nostra possibile identità come un elemento nuovo che met­ te in crisi quella offerta dalla sua cultura e ce la invidia, pensa di po-

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teda fare sua innestandola sul vecchio tronco delle certezze acquisite. Ancora non lo sa, ma è così. Non può accettare l’assurdo di invidiare il pene a chi notoriamente ne è priva. Ognuno che appare alla ribalta della storia come possibile soggetto è destinato all’invidia del pene: oltre agli artisti, alla gente creativa nelle istituzioni, si aggiungono via via categorie come i proletari, i negri, i giovani, adesso le donne. Non so perché la Marami non ci parla del suo rapporto con Moravia invece di scrivere Donne mie e altre clamorose stupidaggini di “pensie­ ro” femminista. Non si accorge di quello che sta vivendo? Ed è stato Moravia a farmelo intuire, non lei, questo glielo riconosco. 23 mag. Un altro punto illuminante del discorso di Moravia (non ho niente da dire sugli interventi delle due donne che ripetono belli­ cosamente e vaginalmente le scoperte del ’70) è dove afferma che in futuro le donne potrebbero non volere più i seni, ad esempio. Inutile avere i seni, sembra sottintendere, ora che hanno il pene. Felicita è stata a Turicchi tutto il giorno, ma non abbiamo parlato del mio diario; ha fatto un accenno e basta. Però siccome sono tranquil­ la, che quello è il “mio” diario e nessuno me lo toglie, ed è quello che è, non mi aspettavo niente e ho perso quel poco che è arrivato. In più lei aveva mal di stomaco e la giornata di sole e di plein-air era già di per sé dispersiva. C’era anche il fatto che Felicita ha cominciato ad avere risonanza dal suo diario e credo fosse piuttosto occupata da questa emozione. Infatti domani andrà a Roma per incontrare Nico­ la e Augusta. In fondo anche a me non andava parlare del mio diario, provavo come un senso di sforzo all’eventualità di farlo. Deve venire spontaneo, e poi cosa c’è da dire? Me lo chiedo. 24 mag. La risonanza adesso per me consiste nel miglioramento e approfondimento dei rapporti, della comprensione reciproca più che del riscontro puntuale. Mi dà un senso di presenza nel mondo. Vedo Gallizio, a cui non somiglia affatto, che esce per così dire dall’oltretomba. Presentatosi sulla porta va diritto, quasi di corsa, a baciare le mani di mia ma­ dre. Il suo gesto mi sorprende ma me lo fa riconoscere artista. Tuttavia, nello sviluppo dell’episodio, non è più ispirato come un tempo. Si arrabatta, è confuso e come impotente. Lui sembra non accorgersene, ma io sì.

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Avevo parlato con David di un suo lavoro dove è indicata la tenta­ zione umana di “vedere” sé nel presente. L’artista è quello che non si volta, ha fede che il destino personale, il significato segue. Ecco per­ ché il sogno esordisce con il gesto irriflesso di Gallizio: nella copertina di Autoritratto, prima di Teresa in catene, volevo una foto di Claudius che mi bacia la mano. Il proseguimento del sogno appoggia la sensa­ zione che avevo avuto di fronte a quell’opera di David: qualcosa che mi soddisfaceva, ma il cui mistero era scontato. Cara Matilde, dopo la vostra partenza sono rimasta nel clima che avevamo cre­ ato e ancora ieri, a Simone appena arrivato, ho detto “Mi sento felice”. Oggi abbiamo litigato, un po’ come era successo l’anno scorso: non mi sentivo più libera, tutto assumeva una sfumatura coatta, anche fare una passeggiata. Con voi mi piaceva godere momento per momento di cose comuni, invece adesso è come se il mondo avesse fatto irruzione con tutte le sue assurdità in questo para­ diso. Per fortuna Simone ha deciso di partire giovedì, e già stasera arriva Piera. La presenza di Simone mi toglie a me stessa, mi tiene sul piede di guerra. Non so che significa, ma è così.

27 mag. Dopo due giorni di incompatibilità, stamani Simone e io abbiamo parlato e parlato stando a letto. Alla fine ha detto “La felicità esistenziale è un vestito che non mi sta bene addosso”. Dunque ho capito cosa ci divide e cosa mi unisce a te e alle altre, di cosa non posso fare a meno. E non è solo la felicità esistenziale, ma la dimensione stessa esistenziale. Poi abbiamo fatto l’amore con amore, e ho ritrovato a un tratto tutti i motivi che lo tengono nella mia vita. Se non avessi questo rapporto con Simone, mi sentirci incompleta, avrei un’atrofia sul lato maschile. Ti sorprende? 29 mag. E una legge ferrea: chi è identificato (in chi? in che cosa?) si inserisce nella cultura, nella società, e questo rende definitiva la sua identificazione. Chi non lo è non si inserisce, e questo rischia di rendere definitiva la sua mancanza di identità. Chi non ha identità non può mettere definitivamente in crisi chi ce l’ha e quindi è inse­ rito, mentre chi ce l’ha può tenere in crisi lui. Chi non ce l’ha può tentare di ostacolare l’altro, la sua stessa identificazione per invidia è un ostacolo, ma l’altro ha sempre la sua identificazione culturale, e anche l’aspetto gratificante dell’invidia, a sorreggerlo e a mantenere la disparità. Per esempio, Piera ha amato molto sua nonna e l’ha

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fotografata a più riprese anni fa. Quando ha capito il senso del suo gesto, nel femminismo, ha mostrato a Ester quelle foto e gliene ha parlato. Ester, a sua volta, aveva fatto riferimento a sua nonna impaz­ zita perché costretta a sposare un uomo che non amava. Quindi Ester adesso si è sentita autorizzata a esporre in una sua mostra di quadri, anche una foto della nonna. Ma il suo richiamarsi a lei aveva avuto una motivazione polemica, mentre in Piera era la testimonianza di un trasporto affettivo, di una predilezione per la linea femminile della sua famiglia, che si traduceva anche in amore per le sembianze, per l’immagine della nonna. L’operazione di Ester riscuote quelle grati­ ficazioni che le impediscono di avere dei dubbi e quindi di prendere coscienza. Piera, anche se trovasse la forza di contrapporsi a Ester, non avrebbe nessuno su cui fare leva: la sua protesta è indimostrabile, mentre Ester avrebbe modo di difendersi con un’infinità di alibi che a qualsiasi tribunale apparirebbero legittimi, in particolare al tribunale di coloro che si indentificano con la sua capacità di ottenere ricono­ scimenti per la creatività, mentre rinnegano come fonte di vergogna la propria incapacità, cioè la loro stessa autenticità. Il femminismo culturale di Ester corrisponde alla accettazione sociale di Barabba, rivoluzionario corrente. 30 mag. Ci siamo ancora una volta: Felicita ha fatto accenno al fatto desolante che io sono stata punto di riferimento per tutte nel gruppo, oggi alludeva scherzando alla mia superiorità. Forse la lettura del mio diario le ha dato il mal di stomaco che le è passato solo dopo essere stata a Roma. Sentivo con fastidio la ripetizione, alla fine assurda, di un tema di cui sono stufa. Sono stufa, stufa, stufa di avere qualcuna inferiorizzata da me, con problemi con me, con qualcosa da rivendi­ care su di me. Ma che vada al diavolo! E una faccenda sua che non mi riguarda più. Ha fatto bene a dirmelo, la ringrazio, ma adesso che stia lontana. Faccia il piacere di stare un po’ lontana. 31 mag. Sento delle urla nella casa buia, è la voce di Tito. Mi precipito, e lo vedo sul punto di subire un’operazione chirurgica. Chi ha organizzato tutto questo? E Fausto, il mio più fedele amico, che adesso mostra risvolti imprevisti. Ha chiamato un suo compare e gli ha affidato mio figlio. Capisco subito di che si tratta e lo dico “Un’operazione al pene”. “Sì” mi rispondono: devono circon­ ciderlo. Non mi convincono e io non lo permetto. Mi sfiora ancora il dubbio

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che l’intervento sia necessario, ma non è possibile. Fausto appare furioso: il suo piano malefico va a monte. Lui e l’amico si dileguano nella notte scendendo attraverso scale appoggiate alle finestre.

Così ho avvertito l’intenzione di Felicita come una minaccia di ca­ strazione. La castrazione è il simbolo della perdita di identità e perciò di sicurezza. Adesso lo so e lo accetto che se una si scopre inferiorizzata ce l’abbia con me, però non ho nessun obbligo di stare gomito a gomito con lei a subire i suoi attacchi. Teoricamente va tutto bene, praticamente è deprimente. Non sono una psicoterapeuta, quindi si dimentichi di continuare a fare affidamento, frustrandomi, sulla mia ricerca del suo affetto. Si arrangi. Di nuovo ho ecceduto qui a Turicchi: un susseguirsi di amiche da venti giorni a questa parte. Accidenti, non sarò mai un’ospite cauta. Adesso devo starmene un po’ tranquilla, oppure addio pace interiore. Perché Valeria è così carina specialmente senza occhiali, e perché siamo diventate subito amiche? Adesso mi dispiace che parta e che il tempo sia volato in fretta. Con lei posso essere brusca e sbrigativa che capisce al volo essendo anche lei brusca e sbrigativa. E perché Jole, la più fantasma del gruppo (non si vede mai), mi ha telefonato per dirmi di avere rivissuto attraverso il mio diario tutte le vicende di allora, non solo perché lo scritto gliele ha ricreate sotto gli occhi, ma perché è stata così “fortunata” da essere stata presente? Episodi così funzionano da richiamo e mi fanno superare lo scoraggiamento. 1 giu. Arrivo in una città e, coincidenza, m’imbatto subito in Tito. Vivere la propria vita. Che ciascuno viva la sua. Io vivo la mia. 2 giu. Cara Lucia, ho letto finalmente Barthes nella tua traduzione. E l’ho sentito congeniale. Così scopro di avere in comune con te, che sei rimasta ai miei occhi abbastanza misteriosa fino a oggi, questo Barthes, cosa che potrebbe esse­ re propedeutica alla comprensione reciproca. Spero che non ti sembri una ap­ propriazione indebita. Sto battendo a macchina il mio diario dove il problema di “mia sorella Lucia” è il leitmotiv in tutte le sue innumerevoli reincarnazioni. Naturalmente “mia sorella Lucia” come nodo della mia autocoscienza non so quanto abbia a che vedere con te in quanto persona reale. Adesso che mi sono liberata di “mia sorella Lucia” potremmo sbizzarrirci a cercare chi siamo, tu

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e io. Sempre che anche tu ti sia liberata di “mia sorella Carla”, semmai, come credo mi hai ricambiata. Insomma, grazie a Barthes, ho intuito la tua sponda. E ho la certezza che non ti ho tolto niente e neanche tu a me risto che abbiamo approdato, per piste diverse, non troppo lontane una dall’altra.

3 giu. Sono a letto con Fausto. Stiamo per fare l’amore quando, per un’im­ provvisa intuizione, mi alzo, esco dalla stanza e, quasi sulla soglia, incontro Simone con le braccia cariche di pacchi che è tornato a casa molte ore prima del solito. Provo una tremenda angoscia retrospettiva all’idea che avrebbe potuto sorprendermi nell’atto di tradirlo, e mi chiedo come posso essere stata così in­ cauta da non prevedere un suo rientro anticipato. Simone insiste per andare in camera, allora io insceno un diversivo: mi metto a piangere e singhiozzare diri­ gendomi dal lato opposto della casa, dove lui finalmente mi segue tutto preoccu­ pato. Quello che gli dico è molto plausibile, ne è convinto, ed è vero anche per me, sebbene provocato per artificio. Quando lo lascio libero di girare per la casa, Fausto deve essersene già andato perché non incontra nessuno. Intanto sono in camera con Piera a cui mi rivolgo come se fosse avvenuto a causa sua tutto l’im­ broglio che in realtà è avvenuto a causa di Fausto. Ci spogliamo e lei mi accusa di qualcosa che non ricordo, ma io dalla sua accusa traggo una controaccusa, così siamo pari, ognuna scagionata dal constatare che le era sfuggito il punto di vista dell’altra, e che il proprio punto di rista sull’altra risulta un pregiudizio, ma esprime un proprio problema. 5 giu. Mi preparo sempre a una grande battaglia ad armi pari con chiarimenti ecc..., invece mi viene detto qualcosa con reticenza di cui mi ferisce piuttosto l’insinuazione (oppure, come al tempo di Sara, mi viene data da leggere la mia condanna, che stento a capire, questa volta proprio per l’eccesso di esplicitazione in cui mi è difficile ricono­ scermi: “Sei un piccolo Hitler ecc.). In entrambi i casi non è contem­ plato che io dica la mia, posso solo prendere atto. Se per Felicita sono stata più alienante del suo ex-amico, se questa è la sua conclusione (del resto Sara aveva concluso analogamente), che posso dire? Mi sento ingannata su tutta la linea almeno quanto lei si sente ingannata da me. E se Felicita ha del risentimento per me, che nega e che chia­ ma “passionalità” (crede di riuscire ad abbellire sempre quanto la riguarda), io, a questa pavida e perciò sadica confessione mi trovo a provare insofferenza per lei. Mi si rivolta lo stomaco all’idea della mia stupidaggine quando mi lasciavo allettare a correre, a darmi daffare

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(nel desiderio di essere amata nonostante le mie capacità, adesso che erano al servizio comune e che questo aprisse possibilità comuni). Ieri Felicita diceva che possiamo andare insieme all’Elba (dove lei e David sono invitati da Nicola e dove verrebbe anche Piera) e insisteva affer­ mando che se non vado io non andrà nessuna. Ma io non ho voglia di andare lì per permettere anche alle altre di andare (a fare i bagni al mare) mentre tengono in serbo dei rimproveri che dovrebbero rivol­ gere a loro stesse, oppure convincersi ad accettare la natura dei loro bisogni come una propria natura. Ecco perché con Ester stavo bene: lei non era mai frustrata, cioè era convinta di mandare a buon fine quello che la mia compagnia le ri­ serbava. Era sicura di potere utilizzare il mio apporto in uno sbocco culturale. 6 giu. “So” le cose come stanno, eppure non posso fare a meno di “crederle” diverse. Per esempio, so che Felicita non ha altro mez­ zo per differenziarsi da me che provare risentimento per me, d’altra parte devo crederle e perciò reagire al suo risentimento provando insofferenza, anche se so di non essere insofferente affatto. Nel nostro rapporto sia il risentimento sia l’insofferenza sono due sentimenti fun­ zionali all’individuazione di sé, non hanno vero contenuto. La donna non vaginata non è quella che invidia il godimento della madre (Kri­ steva), ma quella che vede nel godimento di un’identità usurpata un destino inaccettabile. 27 giu. Sono in una casa con diverse amiche fra cui Ester. C’è aria di riappa­ cificazione voluta da lei, ma quando la sera ci incontriamo per la buona notte, le dico a bruciapelo che ha una faccia di bronzo. Ester incassa e io mi sento sod­ disfatta, in fondo non gliel’avevo mai spiattellato cosa penso di lei. Poi Simone mi rimprovera di avere ecceduto: Ester è una donna creativa, un’artista, come faccio ad averlo dimenticato. Allora mi arrabbio davvero della diversa valutazio­ ne che dà di lei rispetto a un’altra qualsiasi come potrei essere io. L’ho colto in castagna a difendere una che porta acqua al mulino maschile: nessuno prenderà in considerazione quant’è stronza risto che è dei loro. 10 lug. Ho deciso di togliere tutti i nomi dal mio diario stamani, quando, leggendo casualmente un nome su un giornale, Claudius, mi ero prospettata il divertimento di ribattezzare i miei interlocutori.

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Questo coincide anche con la conclusione a cui sono giunta attraver­ so questo diario. Cara Piera, appena ti ho confidato la mia decisione a proposito dei nomi, hai sospettato che potesse cambiare la sostanza della cosa, e questo sul momento mi ha offeso. Tu che sei tanto cauta pretendevi da me il massimo della incautela. Subito dopo, però, mi riveli di non essere d’accordo sull’osservazione a propo­ sito della malevolenza con cui il mio rapporto con Simone era visto in Sicilia dal gruppetto delle femministe. Poi, parlandone, risulta che era così. Se un’os­ servazione tanto marginale e generica cioè non diretta specificamente a te ha potuto disturbarti, figurati cosa potrebbe provocare l’accanimento su temi base della mia vita coinvolgendo pubblicamente persone impreparate. I nomi veri sarebbero il marchio di una pretesa di tribunale privato.

11 lug. Come posso essermi lasciata svalutare quello che ho fatto (poesie, per esempio)? Quello che sono? 12 lug. Non ce l’ho più con Ester, la sua allegria mi manca, era comu­ nicativa. L’ho vista in una foto che le ha fatto Piera; magra, ambiziosa, volitiva. Cos’è questa disapprovazione con cui la perseguito? Mi pia­ cerebbe fare qualcosa con lei, una vacanza, un viaggetto. Vorrei go­ dermi la sua aria spavalda e tutte le sue spacconerie accorte. Alla TV francese ho visto un pezzetto di un vecchissimo film Aujourd’hui madame con Yvonne Printemps, così carina, musetto, riccetti, gorgheggiava un valzer. Ma cos’è che impedisce di godere sul momento quei riccetti, quel musetto per adorarli come feticci del passato! Da due giorni ho sensazioni smarrite, caotiche: quando morire sem­ bra uguale a vivere, vorresti prendere un’iniziativa e non puoi, non puoi muovere un dito, pensi “Come riuscirò a farmi da mangiare?”, senti voci, una maschile grave, una voce da idraulico, qualcuno saetta nell’angolo dell’occhio, quando ti giri è sempre troppo tardi. Mi chie­ do “Come mi sono ridotta così sola?”. Ribatto “Per fortuna sono sola: chi può dire anche mezza parola che mi interessi?”. Allora mi è venu­ ta nostalgia di corpi, delle varie nature di ciascuno: unici, irripetibili. Nostalgia degli amici, delle amiche, delle ex-amiche, e degli ex-amici. Mi sembra che potrei passare una vita a goderli. Voglio vivere non più solo nelle parole ma nei sensi. Basta la fase profetica, figlia di me stessa e alleata delle donne, Giovanni Battista del femminismo, ai li­

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miti del deserto, impronta nella mente degli altri - “la Lonzi” - e mai essere concreto - “la Carla”. Ecco, voglio essere quello, “la Carla”. 16 lug. Al telefono, Simone mi dice che all’Elba è meraviglioso. Stanno andando tutti a Marina di Campo a comprare il pesce al mercato. Vedo un’immagine delle più gaie. La mia solitudine qui, al confronto, mi appare ancora più inselvatichita. Arida. Eppure è proprio quell’immagine gaia che mi rende l’Elba un luogo dove non posso approdare. Là mi aspettano le gioie della famiglia, uniche gioie dopo tutto il fare e disfare che ho combinato. Nel mezzo, tra qui e là, qualcosa è fallito, su cui puntavo, qualcosa a cui non rinuncio se sto da sola, a cui abdico se mi unisco a loro. Così starò un po’ qui a celebrare i miei desideri irrealizzati e un po’ là a vivere in ritardo dei bisogni che non ho più. Ho preso il telefono e chiamato Paula. Per­ ché? Nostalgia di un’emozione, e soprattutto per darmi la prova che dipende da me aprirmi delle possibilità. Paula sorpresa e affettuosa, ci vedremo a Milano in settembre-ottobre. Seguo me stessa o mi sfor­ zo di seguire le strade dei vecchi impulsi? Mi sento trattenere qui in campagna da una forza superiore a ogni disagio o ragionamento. Questo è lo scomodo desiderio di oggi: sprofondare qui. Qui dove non parlo, non comunico, non agisco: assisto. Buster Keaton in II re degli Champs-Elysées è un uomo finito, niente più fa ridere in lui. E una solitudine vivente. Mi sono addormentata alla TV Mi alzo sempre più presto. Stamani alle sei meno un quarto (ora solare: quattro e quarantacinque). Tengo a freno il cervello. Devo andarmene di qui, ma dove? Sto fa­ cendomi uno scherzo che mi facevo fin da quando ero bambina. Una volta o l’altra ci resto. Fra poco si alzerà il sole e starà su per quindici ore. Dove posso rin­ tanarmi per sfuggirlo. Se anche Simone mi lascia non ho più contatti con il mondo. Vorrei scrivere via via quello che faccio, ma non faccio niente. Mi aggrappo solo a quello che mi viene in mente. Penso “Vado a Parigi, vado a Milano, vado qui, vado là”. Ma non andrò in nessun posto. Niente mi attira anche se tutto mi attira. Sono dentro la mia mente e nella natura. Ho fatto questo sforzo molte volte, ogni volta pensando “E l’ultima”. Ho energia, non è quella che mi manca.

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Con un po’ di provviste conto di riuscirci. A fare? A non andare all’Elba. Sto sola perché tutti i miei rapporti sono rapporti familiari: sono io che li rendo così. E le situazioni che mi aspettano sono situazioni familiari: sono gli altri che le rendono così. Il ricrearsi della famiglia attorno a me è stata la conseguenza inevita­ bile della presenza di Tito. E adesso che lui ha la ragazza, la musica, gli amici, io non posso fare neppure uno dei gesti materni. Sto arrivando: un vuoto è sotto i piedi. Anche questa volta mi ha fre­ gata: si è spalancato a un tratto mentre ascolto alla TV delle canzoni russe. Quella bocca che si muove e fa uscire suoni rochi, rantoli, mi ha tolto di colpo la fiducia di farcela ad arrivare a domani quando qualcuno, penso, si presenterà alla mia porta. Sono circa le 15: sono certa che dipende soprattutto dalla posizione del sole. Dov’è che mi impedisco di andare o di stare? Qui o all’Elba? Resisto all’ipotesi di andare all’Elba come un mio diritto alla libertà? Oppure non ci vado perché non posso godere di un piacere puro e semplice? Sto qui per punirmi o per fare quello che voglio? Perché non posso mai volere ciò che ho? Mi cullo in un immaginario interessantissimo viaggio a Parigi. L’emit­ tente francese mi stimola. Adesso voglio fare, non mi va più di scrivere. Ho questo maledetto diario da battere che mi frena, mi fa piétiner sur place, ma devo fare. Così è sempre andata: un gesto, un’azione, un ripiegamento e dal ripiegamento una nuova azione. Caro Simone, la nostra astuzia è stata di abituarci alla separazione. C’era una bella giornata, ci lasciavamo “Alla prossima volta”. Ci siamo incontrati come due aspiranti meteore, ma abbiamo rinunciato per i figli. Volevo liberarmi della famiglia, anch’io avevo un figlio, per questo ho collaborato, ma adesso non ce l’ho più, posso allentare le redini a questo destino. Mi era già successo da pic­ cola: le sorelle, i fratelli mi avevano cacciato dalle zone beate costringendomi in quelle del dovere. Facevo la mammina. Per affrontare un mio desiderio mi ammalavo, venivo da me stessa stroncata, scoraggiata. Non potevo dire “Lascia, questo è mio”, “Togliti di lì”, “Ti voglio tutto per me”. O anche “Parto, torno, vado qua, vado là”. No, ognuno di questi bisogni mi costringeva a una serie di reazioni: per dire “Questo è mio” dovevo dimostrare a me stessa che l’altro era indegno di possederlo piuttosto che “Voglio averlo io” ecc. Così ho conosciuto

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te: con te i desideri erano in auge, ma li abbiamo rimandati così tanto che adesso sono puri fantasmi del passato. Possiamo anche vedere la cosa da questo punto di vista: che tu stai con i figli e ne sei felice; io qui, un po’ troppo sola, ma, se resto calma, ne posso sia apprezzare i vantaggi, sia vedere gli svolgimenti (senza aut-aut, né rotture). L’unico guaio sono io stessa, i miei stravolgimenti, le mie impossibilità su cui non mi do pace, di cui mi punisco, su cui mi sprono con la fantasia, mentre ho a disposizione tutto quello che ho voluto (altrimenti non lo avrei). Posso tentare qualcos’altro, ma senza presupporre catastrofi: fare quello che voglio, non lasciarmi condizionare dagli altri. Non in quanto faccio quello che vogliono loro, ma in quanto sono inceppata nel volere quello che voglio io.

Simone mi ha chiamato al telefono: mi reclama là, resta male quando gli dico che non so quando andrò. L’ideale sarebbe che partisse per un lungo viaggio. E questo continuo contatto telefonico che interferi­ sce. Non stiamo insieme, ma ci pediniamo e il risultato è che abbiamo la solitudine senza i suoi vantaggi. Questa crisi mi ha chiarito alcune cose. Che non posso riprendere relazioni para-familiari. Che, se per ritrovare la mia autonomia, sono costretta a respingere l’amore mio e degli altri (per Simone e di Simone, per esempio), sento che im­ pazzisco, mi vengono quelle sensazioni tipiche. Potrei fare a meno di lui così, tranquillamente, senza dovermi punire, senza farmi venire un senso di colpa smisurato per controllare il quale io sia costretta a ibernarmi, a raggelarmi. Chissà se la schizofrenia è una totale difesa dall’influenza degli altri che con le loro interferenze fanno solo soffri­ re. La prova di forza è servita, mi sento forte. 18 lug. Dopo una settimana che sono qui da sola e Simone all’Elba con i due figli le sue telefonate sanno di tutto: dall’ostentazione di re­ ticenza, al rimprovero mascherato, all’eventualità di rappresaglie. Se non ho un buon motivo - salute o lavoro, suppongo - non è mio dirit­ to stare separata da lui: se lo faccio sfido la sua benevolenza. Perché il fatto che desideri stare sola è un chiaro sintomo che non ho più piace­ re a stare con lui, è un gesto di menefreghismo che va pagato. Chi po­ trebbe dargli torto? Quando lui si è isolato a studio per anni, lontano da me, era per lavorare, io invece non ho nessun motivo del genere da addurre: battere a macchina il diario potrei benissimo farlo all’Elba. Stare sola è non volere stare con lui. Il mio motivo è colpevole, molto colpevole. Ecco cos’è la coppia, anche la più attenta e cosciente che

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si possa immaginare: un avvicinamento continuo al traguardo della complementarietà, finché non si possa più fare niente l’uno senza l’altro, finché i riflessi reciproci siano interamente condizionati l’uno dall’altro. Capisco che non verrà accettato, non è in nessun modo previsto che io mi ritiri un attimo su me stessa, mi dimentichi di tutto ciò che m’insegue per riportarmi nel gregge. La libertà è un rischio, un arbitrio personale. La libertà in due non esiste. 22 lug. Sono io che drammatizzo con la mia paura delle conseguen­ ze, con il senso di colpa che lascia delle brecce nelle quali l’altro si insinua e mi corrode. Sono io che faccio un gesto di libertà e poi me ne punisco. Sono io che mi sospetto vittima di altri mentre non lo sono che di me stessa. Sono io che sollecito delle rappresaglie, me le aspetto, mi preparo a fare fronte. Sono io contraddittoria, sono io che non lo accetto. Sono io, sono io, sono io... Tutto ciò che ho fatto fino in fondo è stato perché non ho calcolato il rischio; tutto ciò che ho fatto a metà, perché io stessa mi sono ritirata. Sono fortissima e debolissima nello stesso tempo. Sono serena solo se nessuno può avercela con me. Appena questa persona esiste il mio equilibrio va per aria: comincio dei processi di espiazione, vagheggio una libertà assoluta. Che non si realizza, l’ho constatato da sempre, da quando sono nata, e però la ricerco per placare il senso di colpa. Penso che gli altri sono stati così fiduciosi verso di me e io li ho ripagati così male per questa mia assurda, insopportabile natura che odio. Ecco, finisco a odiare me stessa. Mi sento un’enorme rompiballe sulla faccia della terra. Se non posso evitare il senso di colpa, devo evitare le situazioni che me lo provocano. Vado verso la solitudine? Oppure la solitudine è un alibi, un bisogno di pensarmi libera mentre non lo sono, e che non corrisponde se mi metto alla prova nei rapporti? Sono stanca di tormentarmi per tutte le cose che faccio, così decido di non farne più. Cara Piera, la verità vera di questo momento è che non ho intenzione di vedere nessuno, ne Simone, né te, né altri. Qualsiasi programma di incontro mi diventa un incubo. Solo per Tito faccio eccezione. Non so se puoi capirmi, non mi capi­ sco io stessa. Non sopporto più le regole elementari dei rapporti, non sopporto più di dovere mascherare l’insofferenza che provo.

Cercavo un luogo, non una persona: ubi consistam.

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26 lug. La cosa peggiore che può capitare a una donna è un uomo innamorato e tenace che non si scoraggia mai di niente. Adesso mi accorgo quanto può essere superiore alle mie forze allontanarmi da Simone. Eppure non ne posso più di dovermi accordare a un altro. Adi mette continuamente in dilemmi, in aut-aut assurdi. Anche le amiche mi stancano. Perché Simone non mi rassicura? Perché mi incalza, mi chiama, mi reclama? 27 lug. Ore 6 del mattino. Quando sono colpevolizzata sono morta. Allora posso uscire di senno perché non ho altra via che baciare la mano del mio carceriere. Allontanarmi da mio marito è stato uno scherzo, al confronto: si è chiuso nel mutismo orgoglioso di chi non vuole interferire. Posso es­ sergliene grata. Lì c’era raggravante del figlio, ma l’attenuante di un comportamento distaccato. In più avevo il lavoro, degli interessi, de­ gli amici, delle gratificazioni. Ma non sarebbero bastate se non fosse intervenuto Simone. La delusione e il rigetto di Marion mi hanno spinto a sposarmi; il voltafaccia di Sara mi ha dato una paranoia da cui Simone mi salvava. Adesso vedo la catena dei sensi di colpa e dei salvataggi dai sensi di colpa che mi preparano nuovi sensi di colpa. Finora è andata così. Non ho mai rotto la catena, non mi sono tirata fuori da sola. Non ho mai capito davvero il meccanismo, eppure è il filo conduttore della mia dipendenza dagli altri. Incapace di fare fronte al senso di colpa, questo è il mio motto. Adesso sono decisa a liberarmene. Questa lunga solitudine mi ha portato vicina allo scio­ glimento dell’enigma. Queste ultime notti non ho quasi dormito: ave­ vo preso una strada sconosciuta, avevo paura delle conclusioni. Dopo non mi sarei più potuta tirare indietro. Mi è venuto in mente La carta gialla: ecco perché avevo telefonato a Paula, ma non lo sapevo ancora. Lì una donna impazzisce perché non osa sottrarsi a un marito che si prende cura di lei. Pieno di amore e di premure il marito la distrugge. Così Simone con me? Lui sembra sapere di me quello che io stessa non so. Su una tale strada Virginia W. si è consumata, ringraziando il marito, idem Zelda: però alla fine si sono sottratte all’ingerenza di uomini devoti che non hanno saputo contrastare. Io ce la farò. Il gua­ io è che il senso di colpa porta all’autopunizione, all’autodistruzione. Quando provo l’impulso a sottrarmi a Simone, scivolo su una china

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di autolesionismi, mi creo le condizioni più difficili, non “voglio” ri­ uscire. Pretenderei di farcela malgrado me, quasi fatalmente, senza averne l’intenzione. Devo stare attenta a questo momento. Prendo il treno per Piombino. Fra tre ore sarò all’Elba. 29 lug. Esempio degli effetti del senso di colpa. Vado a riposarmi stanchissima dopo avere fatto tre bagni e preso troppo sole. Simone vuole fare l’amore. Io voglio dormire. Lui fa una faccia da maschera mortuaria. Io non riesco a dormire. Sono handicappata dall’interno. Come potrei cancellare questi riflessi condizionati? 30 lug. Stando con Simone pensavo di migliorarmi e di migliorare lui nel senso di realizzare meglio, in condizioni favorevoli, la propria natura. Di avvicinarci l’uno all’altra. Invece siamo irriducibili. Il suo modo di essere si fa largo attraverso i miei filtri e alla fine riemerge tale e quale. Idem per me. Però lui impone il suo modo di vita più di quan­ to io possa imporre il mio, infatti è lui in regola con la società, non io. Componente fondamentale del mio disagio è la noia. Come non ho trattenuto prima questa parola? Piano piano passerò in rassegna tutte le parole. Forse è la noia che devo sfuggire. Il senso di colpa mi porta a situazioni di noia. Come se avessi deciso: meglio la noia che il tor­ mento. E poi dalla noia riemerge il tormento. Ogni situazione è una situazione concreta, i rimedi da adottare sono concreti. Per esempio, come “ridurre” la noia. Però, già questo mi darebbe senso di colpa. Così preferisco immaginare capovolgimenti radicali, decisioni drasti­ che (tipiche produzioni mentali provocate dalla noia). E un godimento inimmaginabile quando un nuovo vocabolo entra nel mio repertorio. Adesso sto godendo di questo vocabolo piovuto dal cielo. L’effetto è di farmi inoltrare in un universo popolato di fan­ tasmi un tempo incompatibili con me e con cui scopro a un tratto di avere in comune, appunto, la noia. Devo accettarmi così. Apportare delle modifiche, reagire via via in­ vece di dirmi “Cambierò tutto”. Perché ho l’impressione che, almeno da un punto di vista, quello dell’età, andrà sempre peggio. 31 lug. Alba. Ho di che impazzire dalla noia. Il cervello rotea su se stesso. Una noia vorticosa. Simone sempre imperturbabile. Mi sop­ porta come una calamità. Lui ha il lavoro, i figli, i soldi, la notorietà.

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Lui è a posto. Ho da affrontare adesso i dilemmi, i problemi di quan­ do sono uscita dalFUniversità, giusto vent’anni. Sono stata la miniera privata di due uomini perché mi tirassero avanti con un figlio. Ora il figlio è grande. La miniera quasi esaurita. Ho delle brutte abitudini mentali, tra f altro. La realtà è abbastanza una schifezza, se guardata bene. Non mi fido più di Simone. Forse comincio a fidarmi di me oppure sto distruggen­ do tutto con le mie mani. Chi può dirlo? Provo senso di forza se non ho niente, unito alla libertà. Adesso ho molto, ma ho perso la forza. Potessi odiarlo, ma non riesco: è troppo in buona fede. Convinto di essere stato la mia salvezza. Allora lo è stato. Convinto che io abbia sempre bisogno di lui per difficoltà mie congenite. Sapevo di potere contare su di lui. Su di lui, non su di me. Faccio una scena, a letto: Simone ribatte, sdrammatizza: per sé è con­ tento. Ho voglia di picchiarlo. Ci provo. Mi scarica un po’. Ho un appuntamento in casa di Paula, ma dabbasso trovo Valeria che è venuta perché ha voglia di vedermi. Andiamo su insieme: cosa penserà Paula che non ne vuole sapere di Rivolta? Le sembrerà un sopruso? Ci accoglie come sempre. La sua casa dai pavimenti di marmo giallo tigrato luccicanti è piena di cose, tipo anni quaranta più pop. Ci sono almeno tre cani. Uno mi viene addosso, le chie­ do di che razza è, me lo dice, ricordo di averne letto casualmente qualche giorno prima. E arancio pallido e amaranto pallido, grosso, e si è piazzato tra le mie braccia. Il marito di Paula, barba e occhiali scuri, l’aspetto vagamente fascista, è presente, seduto, con atteggiamento vindice. Nasconde il suo disappunto nei nostri confronti. C’è Isa e forse anche altre, sembra quasi una riunione. Isa dice qualcosa e io salto su “Ah, ecco, un’idea”, ma poi non la dico perché è sempre un’idea che riguarda Rivolta. Vanno via tutte. Rivolgo qualche parola a Paula per spiegarle la presenza, non concertata da me, di Valeria. Sono soddisfatta di non essermi affrettata a farlo prima. Un grosso lavoro a maglia, una specie di enorme scialle-coperta è appoggiato all’aperto su dei sassi: è il mio lavoro, quello che ho portato a Paula. In un punto, per effetto del vento, si è cominciato a disfare. Paula premurosamente mi rassicura che lo metterà dentro, al sicuro.

Nelfultima telefonata Paula mi aveva chiesto se finalmente mi ero procurata un cane e quando le avevo risposto di no, era rimasta delu­ sa, come accorgendosi che non davo seguito ai miei desideri.

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1 ago. Sotto le mie finestre si ferma un carrozzone-pullman pieno di gente: lì sono i miei amici. Riconosco Vincenzo, ci deve essere anche Claudius e relative famiglie. Che bellezza, sono felice! E ovvio che aspettano me, mi aggregherò alla loro compagnia. Invece in casa c’è un giovanottone con abiti militari grigio­ verde, un mezzo matto si direbbe, che crea un sacco di ostacoli e in definitiva, con le buone o con le cattive, non intende lasciarmi andare. Telefono a Felicita a Torino, e a un tratto capisco. Voglio liberarmi di Simone - senso di colpa, di Tito - senso di colpa, di Rivolta - senso di colpa (come nel sogno con il giovanottone in verde), cioè degli impe­ rativi che loro rappresentano, a torto o a ragione (più a torto che a ra­ gione), e andare avanti. Anche Felicita vuole fare qualcosa e così Piera, Federica... Se ci daremo una mano l’una con l’altra ci sarà da divertir­ ci. Intanto devo riprendere a occuparmi delle pubblicazioni di Rivolta (altro che cane, come vorrebbe Paula!): lo farò appena sarò a Milano. E poi tutto il resto. Sono i contatti con il mondo che vanno riallacciati per sentirmi viva, sconfiggere la noia e stare sul mio terreno. 4 ago. Avevo dimenticato quant’e appagante la presenza di Tito in casa, quali sensazioni mi accarezzano mentre fa colazione o va al mare. Se avevo dimenticato questo, come posso presumere di non avere dimenticato anche tutto il resto? 7 ago. Quando mi innamoravo smettevo di essere seducente, diventa­ vo lamentosa. Come ho potuto compiere un errore così grossolano? 9 ago. Ho deciso di andare in galera: ci sono arrivata per esclusione nella ricerca dei miei contatti con il mondo. L’unico modo per me di sfuggire sia all’isolamento sia alla famiglia e alla noia borghese sem­ pre in agguato (una volta eliminata la soluzione nel lavoro) è andare in galera. Sono un pezzo avanti nella copiatura a macchina del diario. Come di un romanzo che scopro via via, mi chiedo “Come andrà a finire?”. Caro Tito, non pensare che io abbia qualcosa contro i tuoi bisogni di stare il più possibile fuori da trappole borghesi o familiari. La famiglia per me è peggio della borghesia, oppure ne è la quintessenza, per questo sono femminista. E io sono la famiglia (con Simone) per te, ma quanto a me aspiro a essere solo me stessa,

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mentre tu mi rendi famiglia, capisci? Allora c’è questo tira e molla fra noi. La famiglia non è tanto una vocazione o un ruolo volontario: è una necessità per i figli, per proteggerli e accudirli. Se tu ti proteggi e accudisci da solo, io torno a essere la Carla che ero prima che tu nascessi. Per questo ti ho parlato di organiz­ zazione mentale: c’è solo un diverbio organizzativo fra noi. Finché tu con i tuoi amici non vi rendete conto che non potete costringere me all’organizzazione per dispensarvi dall’organizzazione, ci sarà diverbio. Se volete essere liberi dovete es­ sere responsabili di voi, in modo che io possa essere responsabile di me. Non dico che ci dobbiate riuscire dall’oggi al domani, ma almeno averne l’intenzione.

La società è sempre all’erta, vuole prenderti nelle sue trappole, e ci riesce quando sei sconfortata perché ti rifugi nella sicurezza che lei ti offre. Non si può presumere di essere immuni da questo richiamo, ma è meglio esserlo il più possibile. Non per i valori della libertà, ma per la pace con se stessi che solo la libertà può dare. “Ecco” mi dico “è quello che mi mancava.” Ma quello che mi man­ cava non è quello che voglio; sono costretta a volerlo per rimetter­ mi in pari, però quello che voglio è un’altra cosa da quello che mi mancava. Mi mancava un padre buono, ma io non volevo il padre. Lo volevo buono perché l’avevo avuto cattivo, ma non me ne frega niente del padre. 10 ago. Letto dieci pagine del primo romanzo di autrice sconosciuta proposto da Paula. Ci siamo. Ritornata la letteratura al posto della liberazione; ritornato il valore terapeutico di un ruolo, quello di scrit­ trice, al posto della riscoperta di sé nello scrivere; ritornata la descri­ zione dell’infanzia al posto dello scrivere durante un rapporto che la fa rivivere nel presente. Cara Paula, sarò anche stata crudele verso di te, ma perché non vedi la crudeltà di questa tua operazione imposta a una come me che aveva intuito, creduto e cominciato l’altra via? Il mio essere avanti ti è apparso dispotico? Non meno di quanto mi è risultato dispotico il tuo essere indietro accompagnato dall’ambizio­ ne di fare, di prelevare la tua parte dalle spoglie del femminismo. Le “intraprendenti” del gruppo mi accusano di essere stata bloccante: semplicemente mi difendevo dall’eventualità di vedere il nostro fem­ minismo tradito, cercavo di scansare questa prova dolorosa. Paula si rivolge ai giornalisti “Non dite che vendo femminismo, per carità.

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Vendo esperienze dirette delle donne”. Da dove le viene quella fi­ ducia nelle esperienze dirette se non dal femminismo, da Rivolta? Anche se poi non sa riconoscerle. 11 ago. Sono tornata a scuola. Ho un posto provvisorio in seconda fila, fra

i maschi. Allora mi faccio avanti tra le compagne per stare con loro. Vedo un tavolo basso con sgabelli attorno, sembra troppo da bambini, ma provo a sedermici e, guarda caso, si sta bene. Chiamo le altre.

12 ago. Una delle amiche di Rivolta non meglio identificata mi dice “Come,

non lo sai? Sara ora fa la prostituta”. Per me è un’emozione tremenda: nascondo la testa fra le mani e scoppio in singhiozzi. Vado a piangere da sola, davanti a uno specchio: mi sembra terribile, era una ragazza così pulita, adesso prostituta. Mi chiedo quali responsabilità posso avere io in questa sua decisione, ma conclu­ do che non c’entra farmi di questi problemi. E poi a un tratto vedo la cosa sotto una luce nuova: è un’esperienza umana che Sara coglierà per quello che vale. Non è una rovina, anzi un’opportunità che lei si è cercata.

14 ago. Nottata insonne. Ho un mulinello nella testa. Come avere fat­ to un tuffo non so dove e tutto cambia. Per ora non posso scriverne. 17 ago. La prima notte le dicevo “Mi sento leggera, ho superato una montagna, forizzonte si è aperto, sto in questa emozione”. Lei diceva “Io sento il contatto con te”. 18 ago. Naturalmente sono io che voglio soffrire, non posso nascon­ dermelo. Mi fa soffrire vedere Simone con Piera, eppure lo deside­ ro moltissimo, vorrei che recitassero al meglio la loro parte, invece sono inibiti dalla mia sofferenza. Eppure tutti e due prediligono il rapporto con me, questa è la realtà. Ma lì sopra io imbastisco le vec­ chie fantasie dell’esclusione e del tradimento. La situazione dunque è favorevole, infatti non potrei sopportare che davvero si preferissero tra loro, ma riesco a rappresentarmi la scena in modo convincente abbastanza per esserne turbata. Ora, dopo momenti molto intensi, e anche divertenti e spensierati, siamo a uno stallo perché il mio com­ portamento li blocca e cercano di richiamarmi alla realtà (sono due esseri per niente nevrotici), mentre io vorrei andare in fondo alle mie sensazioni. In particolare la loro pazienza, il loro affetto mi irritano

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perché mi fanno sentire assurda e non all’altezza del bel gioco che loro porterebbero avanti nel modo migliore con tante carezze per ciascuno di noi. 19 ago. Dimentico ogni tormento neH’armonia ritrovata. 12 die. Volere un essere tutto per sé è assurdo. Volerlo senza che sia tutto per sé è anche assurdo. Non vedo l’ora che questo giorno sia passato. Il primo impulso è sparire. Il primo ragionamento è calmarsi; pen­ sare ad altro. Stando sola, senza occupazioni né distrazioni non ce la faccio a non esagerare. Mi dà fastidio pensare a quei due che si fanno moine. Eppure li ho visti, ho creduto di accettarlo. Non sono mai stata capace di difendere quello che è mio. Forse per­ ché non oso dire a me stessa che ci tengo. Ma ci tengo? Sto aspettando che qualcosa maturi dentro di me. Ho scritto a Piera rivelandole una sua predisposizione a chiedermi la complicità e nello stesso tempo a rendersi autonoma da me. Stesso scherzetto di Sara. Questa volta l’ho capito prima, prima io di lei. Ho ripetuto anche questa situazione come con Lucia e Cesare. Ora ho ripetuto tutto: dovrebbe cominciare qualcosa di nuovo. Mi sentivo obbligata a tentare, a conoscere i miei limiti. Devo dividere Simone con altre? Oppure, per la prima volta nella mia vita, devo gridare “Lo voglio per me!”? Saprei oppormi ad altre? Lo voglio veramente? In due giorni e due notti ho passato tutte le gamme, ma non ne sono venuta a capo. Chissà se veramente è lì, nella mia casa. Forse sono stati discreti e io avrei potuto assistere senza trovare novità rilevanti. So che non è così. Questo incontro fra loro l’ho voluto per vedere cosa si nasconde die­ tro la facciata. Sapevo che Piera avrebbe risposto. “Sono troppo sospettosa” mi dicevo. Dal tradimento originario su su attraverso tutti i tradimenti subiti. Ripetizioni, riedizioni di un medesimo tradimento. La sorella sorniona, sprovveduta che si insinua e si installa al mio po­ sto. Io impaurita che glielo lascio. Qualcuno mi ricompenserà.

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Ero felice di non deludere le loro aspettative. Quel pomeriggio Piera aveva indagato su di me, sul mio erotismo. Avevo sentito: o adesso o mai più. 13 die. Mattina. Finalmente ho dormito. Sono a letto con un tale, un ragazzo conosciuto da giovane e che mi amava. Decido di stare con lui sebbene non sia alla mia altezza. Lo tranquillizzo. A un tratto il letto è un po’ bagnato, lui mi confida che ha fatto pipì senza accorgerse­ ne. E mortificato. Ma io sono comprensiva e lo consolo. Anzi, mi meraviglio che dia tanta importanza alla cosa.

Certo, mi fa soffrire anche non essere all’altezza della situazione: il mio orgoglio, l’immagine di me ne patiscono. Simone non telefona: gliel’ho chiesto io di chiamarmi solo stasera. Ma se tutto fosse andato liscio mi avrebbe chiamata, invece non osa o perché lei è ancora lì o perché ce l’ha ancora presente. E capisce che me ne accorgerei. Entrambi mi dicevano “Vieni”, ma io non sono andata - perché vo­ levo che si accorgessero che sono bugiardi? A che scopo? Mi chiedevo sempre se avevano davvero elementi per presentarsi così sicuri verso di me. Era uno schermo: anche loro sono come tutti, pronti a seguire i propri impulsi in contraddizione con le dichiarazioni di lealtà, di amore. Adesso hanno un’intesa al di fuori di me. Ma perché l’ho spin­ ta, fomentata? Non lo so. Per mettermi alla prova? Se è per questo ci sono riuscita. Per chi soffro dei due? Soffro perché mi accorgo che non posso credere a Piera quando dice che ama me, che vuole me. E la sua menzogna che mi fa soffrire, poiché anche lei vuole Simone, il suo erotismo, aiuto, appoggio, fiducia. Non le basto io, anzi mi prevarica, non per cattiveria verso di me, ma perché ne ha bisogno. Ma allora questo femminismo cos’è? Ricerca dell’uomo, del rapporto con l’uomo dopo avere trovato se stesse. L’amica serve a trovare se stesse, ma l’obiettivo è l’uomo. E a volte, come in questo caso, serve anche a trovare l’uomo. L’omosessualità è un inganno, il più amaro. Solo una tappa sulla via di se stesse. Io sono stata una tappa di Piera poiché, essendo senza uomo, adesso vuole il mio. Tanto più prezioso, come Cesare per mia sorella. Non si scappa di lì. Sara l’aveva capito e rideva di me che lo capisco solo adesso.

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Sul mio corpo passano tutte le tempeste. Non c’è cosa che non capi­ sca a mie spese. Non ho usato l’astuzia, non ho posto il veto. Allora tutto ti spoglia, tutti approfittano di te. Siccome l’avevo posto a si­ tuazioni inautentiche mi ero detta “So difendermi”, ma dove cado è quando mitizzo l’autenticità di qualcuno, e credo all’alleanza che mi prospetta. Invece quell’alleanza serve solo a rendermi inoffensiva. Poi gli altri procedono sul terreno che ho lasciato volutamente incusto­ dito proprio per mostrare la mia fiducia. Torna il tema di Passeggiata, sono ancora lì. Non ho capito il mondo, le sue leggi. Ma perché non l’ho capito? Mi sono censurata. Per vivere con gli altri ho censurato molto di quello che mi viene da loro. Ho deciso di fidar­ mi delle loro parole, se le sentivo autentiche. Ma le mie intuizioni, che andavano oltre, lo erano pure e le ho messe in dubbio. Mi dicevo “Sei paranoica, chi ti minaccia, al contrario: come puoi non credere a tua sorella, sai quanto è onesta e sensibile; o a Simone che desidera il tuo bene; o a Piera che ti ama più di tutto al mondo”. Sotto avvertivo l’intrico, non era così semplice, ma io mi smentivo da sola “Non per­ metterò ai miei condizionamenti di impoverire una realtà così ricca, così indubitabile: loro se ne fanno garanti con tanta generosità, non ho che da crederli, se li credo rendo loro possibile essere quello che sentono di essere”. Certo, io ho i nervi a posto. Sono stata correttissi­ ma, sicura dei miei nervi. Perché scelgo sempre qualcuno in cui credere? Per avere conferma su qualcosa che è ancora un mondo ideale, un mondo dove le amiche non aspirano al tuo uomo dopo averti invidiato occultamente, dopo averti costretta a dubitare del rapporto con lui. Dopo averti frenata con ogni mezzo. Non potevo ammettere di essere rimasta incastrata da questo congegno. Chi non ha l’uomo mostra sempre sospetto ver­ so chi ce l’ha. Io sono caduta in questa trappola. Adesso lo so. Una conclusione, per il momento desolante. Che a Simone piacessero altre donne non è una gran novità, anche se sembrava felice dei suoi freni inibitori che mi dedicava. Mentre Piera mi faceva sentire colpevole di non essere stata libera dagli uomini: forse avevo disertato il mio destino di vittima trovando un accordo con Simone? Insinuava che ne ero succube, almeno in qualcosa, nella gelosia verso di me, per esempio. Sara mi aveva avvertita “Ester era inferiorizzata dal tuo rapporto con Simone. Non te ne sei accorta. La mitizzavi”. E vero, la subivo. Ester, ma Sara no, e invece anche Sara,

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ma Piera no, e invece anche Piera. Adesso ho il quadro completo con le sue infinite varianti, le sue varie modalità. Sara era acuta. Mi chiedeva “Che potere ha tua sorella su di te?”. Non capivo. E ricominciavo. Volevo il suo amore. E lei voleva mio padre. Allora con le amiche ho dato corso all’illusione che volessero me, sembravano sicure di preferirmi. Le ricambiavo. Non era mai abbastanza. Le amiche pericolose erano quelle senza partner, ades­ so mi è chiaro; l’ho detto e ripetuto in questi anni, ma non ne ero così convinta. Saltava sempre fuori l’eccezione. D’altra parte per me quella senza partner rappresentava la prova evadente di un distacco dall’uomo. Ma qui mi sbagliavo. Era una sconfitta nel rapporto con l’uomo per i piu vari motivi, di condizione, di carattere. Cantava vittoria, se la cantava, mentendo a se stessa, nascondendosi i motivi della sconfitta, di un risultato che era vissuto profondamente come sconfitta. L’avevo detto a Piera, ma lei aveva negato; era felice di essere sola, senza il marito che aveva abbandonato. Senza il marito, certo: era una nullità; ma il desiderio dell’uomo va ben oltre un marito insoddisfacente. Si placa solo in un rapporto vissuto. Quello che io avevo. Ero io che smaltivo giorno per giorno quel mito con un uomo accanto, non chi ne era priva. Tuttavia qualcosa restava di quel mito: Simone mi era sostanzialmen­ te fedele, mi amava, non rischiava di perdermi. Adesso l’ha fatto con lei. Due smentite in un momento solo è dura da sopportare. Ho cre­ duto di ripiombare nello sconforto dell’adolescenza, quando sei sola, incompresa, e tutti ti calpestano. Ma non ho più vittimismo e non è così, lo so, anche se per ora non ne traggo conforto. Ho bisogno di stare sola, di credere in me. Il sesso non è una prova tra donne. Non è lì che si crea l’aut-aut, non è lì che si scioglie. Mi riconosco nella mia vita, quello che sono arrivata a scegliere è consono con me stessa, altrimenti non avrei potuto farlo. Su molti fronti infatti sono rimasta incerta. Simone l’ho scelto perché con lui era una vita vera, di scambio, di crisi, di amore. Questo che sta suc­ cedendo cambierà certo qualcosa, o tutto. Non posso ancora saperlo. Per adesso sto prendendo coscienza. Gli sviluppi dipendono oltre che dalla mia coscienza da altri fattori. Per ora lascio passare il momento burrascoso. A mente calma vedremo. Via via che la disillusione si smorza sono più disposta a vedere i problemi degli altri, di Piera, di

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Simone. La sofferenza deriva meno dall’avercela con loro che con me stessa, ma adesso che comincio a vedere un filo non casuale nelle mie sofferenze, posso meglio accettarle e sentirle parte di me, mezzo per capire e liberarmi come era mia intenzione. Che Simone abbia chiesto ad alcune delle mie amiche di scrivergli qualcosa è un gesto di rivalità verso di me, mascherato dal fatto che voleva anche me nel mazzo. Non mi è venuto niente da dire in quella sede, ciò significa che un uomo con cui vivi è un essere più reale degli altri, a cui è più difficile rivolgersi come a un interlocutore ambito. Quando a Milano Piera mi ha accusato di essere troppo in balia della gelosia di Simone, le ho risposto irritata che ero io a farmene proteg­ gere per non essere in balia delle amiche, di lei in particolare. Mi sono meravigliata della risposta. Sentivo che lei mi chiedeva qualcosa, un eccesso - sentimentale, affettivo, passionale - la cui pretesa velata o esplicita mi aveva disturbata. Ma non osavo ammetterlo apertamente poiché mi sembrava che glielo dovessi, che lei stesse aspettando. Per Sara ho messo in crisi il mio rapporto con Simone, era un gesto dimostrativo a lei oltre che un bisogno mio: non si fidava di me finché non l’avessi fatto, poi l’ho fatto e ha continuato a non fidarsi di me. A Sara ho dato tutto il patrimonio raccolto nel mondo maschile, gliel’ho messo a disposizione perché lo sentivo che era merce sospettata (invi­ diata) e avevo bisogno che non lo fosse più per esserne certa io stessa. A Piera ho dato Simone, né più né meno e l’ho difesa con lui. Anco­ ra, dopo, Piera mi rimprovera di essere troppo coinvolta con Simone. Capivo che era insaziabile, come Sara, ma con un’altra tecnica che sembrava mancanza di pretese. Invece sotto c’erano, eccome! D’altra parte Simone premeva per entrare nel gioco. E c’è entrato. Giorni fa Piera mi telefona per dirmi che mi ama. La sera dopo per comunicarmi che va a Milano per lavoro e che vedrà Simone a cui vuole mostrare il suo scritto. Simone mi telefona rassicurandomi “Non succederà niente, vedrai”. Conosco questi meccanismi dall’epoca di Cesare e di Lucia, li so a memoria, però anche questo andava rivisitato perché ne prendessi coscienza. Non mi accorgevo di esserci un’altra volta nel mezzo con Simone e Piera: ero rimasta imbrogliata dal fatto di partecipare volontariamente. In me c’è una curiosità che mi stravol­ ge, mi fa mettere tutto a repentaglio, non resisto alla sfida, ma quale? Di vedere gli altri e me per quello che siamo, in circostanze insolite.

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15 die. Quello che ti rimprovero è di avermi continuamente bersagliata di

messaggi ambivalenti, che mi rendevano molto difficile orientarmi. La fine della telefonata prima che tu andassi a Milano “Pensami”. Perché camuffare quello che stavi per fare? Come dovevo pensarti? Vuoi tenere legate le persone intanto che tu ti muovi con libertà? Simone mi ripeteva, tra stupito e lusingato, delle frasi evocative, che gli rivolgevi in mia assenza. Lui prendeva le sue iniziative, ma almeno era chiaro. Invece da parte tua c’era già allora questo rafforzare il laccio e nello stesso tempo lamentare con me una presenza imposta. Ma è a me che fai questo quadro del tipo “Immergermi nel pasticcio” o “Perché da soli no?”. In questo sei arrogante, oppure semplicemente hai ancora margine per dirsi delle stupidaggini, crearsi degli alibi, razionalizzare. Io quei margini non li ho. Mi hai dato tu stessa la conferma al telefono, stasera, di quanto era accaduto: io non sapevo niente. Ma mi ero accorta di sapere tutto quando ho tolto l’alone ai personaggi e ho lasciato andare liberamente le intuizioni. Appena ho allentato la censura, nella mia testa si è scatenato un finimondo: ogni certezza saltava per aria e qualcosa di estremamente mobile e cangiante prendeva il suo posto. Allora ho vasto tutto chiaro, come se fossi stata presente. Mi sono spaventata di me stessa. Avevo accumulato tutto questo in attimi e attimi senza importanza, in gesti, toni di voce, sguardi, risate insignificanti fra noi. Non ho creduto abba­ stanza in me stessa. Per questo non sono venuta a Milano: avevo bisogno di un avvenimento che mi mettesse con le spalle al muro. Le tue telefonate, le sue tele­ fonate: mi chiedevo se non ero ingiusta verso di voi a sentire avvicinarsi qualcosa che tutto nelle vostre parole smentiva.

16 die. Queste telefonate serali sono stressanti, la notte salta. Ti propongo di scriverci. Credo che l’unica possibilità in questa situazione dove la strettoia è molto forte e per ora insormontabile, sia che ciascuno trovi con coraggio le motivazioni che l’hanno spinto, senza ricorrere a quelle formule con cui hai esordito ieri sera, che per poco non riattaccavo. Quanto all’affetto speciale per me mi ha giocato abbastanza. Il punto non è lì, semmai quella è una formula magica per assolversi e non capire più niente. Io resto sempre a terra quando parto, privilegiata, con una vittima accanto. 17 die. Firenze. Ho trascorso sei giorni di un’intensità pazzesca, sta­ notte per la prima volta ho dormito tutto un sonno. Qui mi sento fuori dalla mischia. Vivo dentro sensazioni e sentimenti enormi che mi riempiono senza che possa vedere altro. Simone e Piera occupa­ no la mia mente: li indago, li analizzo mentre indago e analizzo me

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stessa. Vorrei che ci rivelassimo l’un l’altro in questo clima di verità: sento che potrei accettare tutto e fare accettare tutto di me. Quello che non deve succedere è che io sia spinta a rinunciare a me stessa. Simone ieri mi proponeva proprio questo, in cambio mi offriva la sicurezza, ma non ne ho bisogno, sono già sicura. Così offrirmela è l’unico modo che ha per togliermi la mia. Ha interpretato erronea­ mente, come temevo. Mi rendo conto che se avessi attribuito questo trauma a uno scoppio di gelosia mi sarei perduta. Invece è stato un violentissimo processo di presa di coscienza della necessità che avevo di ritrovare me stessa e il mio punto di vista autonomo. E stato un lavorio tremendo riportare alla luce sensazioni censurate, dubbi, in­ terrogativi irrisolti che facevano parte di un mio personalissimo sotto­ fondo, un deposito semiclandestino di ritagli, scarti e cose marginali. Finora nei nostri rapporti avevo dato valore a quello su cui riuscivo a trovare riscontro con Piera, il resto era come se non esistesse. In una lunga telefonata pomeridiana Simone ha ammesso di avere agito per una forma di rancore verso di me. Però è arido, formale, non si apre. La sofferenza cosiddetta di gelosia è la più efficace a fare divampare quell’incendio che brucia tutte le difese. Per me è stato così. Costringe a trovare integralmente se stessi; oppure ci si perde, se non si accetta di mettere davvero in discussione coloro la cui intesa ci garantiva di una comune verità. Mettendoli in dubbio, non c’è che da dare credito a tutto ciò che prima si era scartato come elemento di disturbo all’intesa, si scopre il fondo di sé. Naturalmente aspetto la risonanza ma so che verrà, proprio adesso che ogni intesa crolla ne ho la certezza. Nell’ammettere la ribellione Simone fa un passo avanti, ma si difende ancora. Ribellarsi rappresenta il lasciapassare a ciò che piace; ancora non si osa dire che piace, si ammette il gesto di ribellione. Il particolare che mi ha illuminato (ma in sua assen­ za ne avrei trovato un altro) è quello che mi ha rivelato al telefono Matilde senza saperlo “Piera era bellissima, proprio in fiore, allegra, luminosa, diversa da sempre”. Dunque anche Simone era così. Si erano decisi per una cosa che piace. Ho potuto accertarmi che niente accade aH’improwiso, tutto comincia con l’adeguamento reciproco, il tradimento è solo un gesto chiarificatore. Per questo dicevo a Piera che, sebbene iniziativa loro, anch’io l’avevo voluta perché ciascuno cercava la sua libertà. Questa constatazione ci fa tornare vicini. Per ora sono io a farla, chissà Piera cosa pensa, cosa vive. Sono svuotata,

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a malapena riesco a scrivere, come dopo una droga ritrovo la realtà con lo stupore che sia così piatta. 18 die. Notte fonda. Piera ha visto in Simone fuomo a cui dare cre­ dito, l’oggetto di un suo bisogno di apertura, ma era ancora l’uomo di un’altra, dell’amica preferita. Quando ha rifiutato di fare parte del suo libro, è stato per una telefonata di Nicola che l’awertiva di avere cambiato parere sull’operazione che Simone stava conducendo e che quindi non avrebbe più consegnato la poesia. Piera si era giustificata: aveva deciso per il sì considerando che Simone era spesso presente ai suoi colloqui con me, quindi un amico in cui aveva fiducia. Nella telefonata di oggi Simone mi ha confermato che Piera si era ritirata senza spiegargli le sue ragioni: riconosco in lei un modo di trattare, nei momenti difficili, tutt’altro che franco. Mi sono addormentata alle 3, ma non ero nervosa. Stavo rimuginando il progetto di proporre a Piera di incontrarci in una città qualsiasi. Ma questo slancio non mi andava: mi sono accorta che potevo non lasciar­ le il tempo di avere la sua crisi (la prima telefonata dopo la sua andata a Milano è di martedì, oggi è appena sabato) e poi, proprio stamani, ho avuto la sensazione di una ostilità più profonda verso di me di quanto mi ero accordata che avesse. E saltato fuori un nuovo collegamento, questo. Federica ultimamente mi ha respinta in modo molto brusco, inatteso: l’avevo attribuito al fatto che adesso ha una gran fiducia in Piera e così aggiorna i suoi credo, come spesso accade nel gruppo. Ora, Piera deve essere intervenuta in un modo che ha lasciato il segno. Qualcosa di simile succedeva a chi stava vicino a Sara nel periodo di maggiore inconscia ostilità, a Paula quando si staccava da Rivolta per fare la casa editrice. Dunque semina, ancora senza saperlo, aggressi­ vità nei miei confronti. Non sarà così semplice con lei. Non devo illu­ dermi. Una sua domanda mi torna in questi giorni alla memoria “Tu potresti guardare il marito di un’amica? Io non potrei”. Le avevo rispo­ sto che l’avevo fatto, però Piera metteva in risalto che è diverso quando la moglie è un’amica aggiunta mentre il marito è l’amico primo, e cioè vero. Sì, infatti, a me era successo così. Restava però un episodio con Marion da chiarire. Da ragazza avevo preso una cotta per lei, ne ho già scritto. A un certo punto ha avuto una breve relazione con un uomo di cui mi parlava molto, Raffaele, amico intimo di un suo ex-amico. Questi le aveva spesso raccontato di lui in modo mitico, suppongo, così

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lei stessa se ne era fatta un mito. Questi passaggi li ho ricostruiti dopo. Quando ha avuto la relazione con lui, niente mi faceva capire quanto le importasse. Marion manteneva un tono distaccato che adesso posso attribuire alle particolari censure che si formano tra amiche per stabi­ lire un’alleanza: l’uomo non è importante. Io le credevo. Con Raffaele lei parlava spesso di me e senza saperlo gli trasmetteva l’interesse e l’ammirazione che aveva. Tra loro la relazione si insabbiò nell’estate e in autunno Raffaele si ripresentò, questa volta diretto verso di me. Quando ho iniziato la relazione con lui Marion ne ha fatto una trage­ dia: la nostra amicizia è passata attraverso tutti gli alti e bassi possibili, poi si è interrotta. Raffaele e io ci siamo sposati. Non contenta qualche anno dopo, incontra Simone e ancora gli parla di me, di questa amica straordinaria, gli mette in moto il processo che poi è sfociato nel desi­ derio di conoscermi e tutto il resto. Naturalmente io sono sempre stata convinta che se Marion avesse avuto in atto la relazione con Raffaele io non ci avrei neppure pensato e se anche lui mi avesse cercata lo avrei respinto. Così avrei frenato l’impulso, ma l’impulso lo avrei avuto lo stesso? Fatto sta che la cosa non si è verificata in questi termini e la mia convinzione può essere del tutto autoprotettiva. Non capii molto allora: ero colpita dalfimprowiso mutamento di Marion almeno quanto lo era stata lei dalla mia decisione di intra­ prendere un rapporto con Raffaele. La trovavo ingiustificata, la sua fragilità mi metteva voglia di scappare. Lei diceva di soffrire per il tra­ dimento di tutti e due: indagava su cosa avevamo detto insieme, cer­ cava di scoprire in me le tracce che lui aveva potuto lasciare. Adesso mi accorgo che la sua reazione non era anomala, come credevo, ma normale. Invece non le potevo perdonare la sua ostinazione su dati falsi come quello che io ero intervenuta durante e non dopo la sua relazione con Raffaele. Di questo faceva il suo capo d’accusa verso di me e io ne fui mortalmente offesa. In più scoprivo un’amica che non conoscevo. Scoprivo poi che l’uomo era l’ago della bilancia fra noi due. Così, ancora incosciente del fatto che ormai avevo operato una scelta, le proposi di interrompere la relazione appena cominciata, se avesse dovuto soffrire tanto. Ancora più sbalordita vidi che lei era pronta ad accettare. Questa, di cui mi sono pentita subito come di una mossa trabocchetto, era in realtà uno dei gesti provocatori che mi vengono spontanei nelle situazioni ambigue, da mettere a nudo.

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Avevo avuto l’esperienza con Cesare e mia sorella, mi sembrava un dramma ben più grave, ma non mi ero raccomandata che tenessero conto di me, cercavo di uscirne da sola nonostante il sovrappiù di am­ biguità che Cesare vi aveva introdotto e che non era il male minore. A colmo di tutto Marion aveva coinvolto la famiglia: sua madre, un tempo affettuosa, a stento mi rivolgeva la parola. Lasciai alle spalle un’amica come un sacco vuoto. Parlo al telefono con Simone con crescente delusione: è buono, gen­ tile, ma lontano. Mi è indifferente. Come ho potuto soffrire tanto? Sono arrivate da Palermo sua madre e sua sorella, in casa a Roma c’è atmosfera natalizia. Ma perché non riesco a cogliere nella sua voce nient’altro che chiusura? 19 die. Piera mi telefona: ha avuto la mia prima lettera, ma torna sulla sua versione: se avessi risposto all’invito di appartarmi con lei non sarebbe successo niente. Questa volta sono stata più esplicita, le ho detto “L’uomo esiste, Piera, non serve nasconderselo. Se non fosse stato ora il problema sarebbe venuto fuori dopo”. Lei ha affermato che non voleva rendersi autonoma da me mentre io volevo rendermi autonoma da lei. Nella situazione Simone e Piera avevano dettato canoni che mi proteggessero, per proteggere se stessi. Ma io avvertivo nell’aria sollecitazioni contrastanti che non riuscivo a formulare: te­ mevo di non sapere stare al gioco, di avere le traveggole. Telefonata di Simone. Altro elemento su cui soffrire: dopo varie titu­ banze, “non ricordo” ecc., mi dice che Piera è stata con lui la dome­ nica e il lunedì. Due giorni. Avevo intuito giusto quando Matilde mi aveva detto “Lunedì Piera era bellissima, proprio in fiore...”. Il ruolo più umiliante che ho in questa storia è quello di figura ter­ roristica dispensatrice del senso di colpa. A chi? A chi era in forma perché aveva liberato l’erotismo. Io perfettissima in grado di giudica­ re, io spettro moralistico, io anima sensibile che si sarebbe disperata, io fiduciosa tradita, io che rispetto i patti violentata da chi prende il suo piacere, io carica di giuste ritorsioni, di giusto sdegno. Questo ruolo orribile in cui sono stata confinata mi pesa più di tutto. L’ultima telefonata di Piera prima di andare a Milano. Si diceva stanchissima, morta. Aveva ancora impegni faticosi sabato, sarebbe partita per Mi­ lano la domenica per affari. E avrebbe visto Simone un momento, en

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passant. Le avevo detto “Peccato che sei troppo stanca per godertela”. Ha ribattuto subito “Non si tratta di divertimento, ma di lavoro”. La precisazione mi ha toccata, l’ho registrata con inquietudine. E appena a Milano è sbarcata da Simone. Dal canto suo Simone mi telefonava per rassicurarmi mentre io non avevo ancora alluso che vagamente a una lealtà impossibile, colpita soprattutto dal cedimento di Piera per la poesia. Ma aveva reagito bruscamente su questo punto accusando­ mi di volere tenere tutto sotto il mio controllo, invece dovevo accettare che gli altri avessero dei margini per rapporti fra loro indipenden­ temente dal rapporto con me. Nelle mie audacie “paranoiche” im­ maginavo qualche effusione tenera su cui si sarebbero fermati, chissà perché. Perché io non sopportavo di continuare l’immagine. Adesso è accaduto, posso solo assumere questo odioso ruolo di guastafeste. Avevano accumulato il desiderio mentre mi mettevano al centro della loro attenzione, mentre Piera si volgeva verso di me e lo trascurava, mentre Simone mi teneva buona con i suoi discorsi appassionati. Simone ama un’ombra, la mia. Non può vivere senza questa ombra che lo tiranneggia, lo scuote, non gli lascia spazio per il piacere. Io voglio solo che sia se stesso, perché sono diventata la sua carceriera? Tutto crolla e io godo eli questo crollo. Quante cecità, quante parole per camuffare! Resta solo una certezza: me stessa, la mia solitudine. Da molto tempo mi tormentava periodica­ mente il dilemma “Devo lasciare Simone? In che cosa mi limita, in che cosa mi impedisce di essere quello che sono?”. Adesso lo so: mi lasciavo confondere, smentire. Lo stesso con Piera. Questa combinazione non era un “pasticcio”, cara Piera: era la situazione unica che mi avrebbe permesso di vederci chiaro sui due fronti in un momento solo. A Piera era mai saltato in mente di venire a Milano per me? Certo che Simone l’avrà lusingata, erotizzata. Ma lei aveva mai pensato di fare violenza alla sua stanchezza per me? Di raggiungermi da qual­ che parte? No, aspettava che fossi io ad andare da lei. Tra noi era sempre un duetto tra persone sfinite. Per Simone invece si è mossa, pur dichiarandosi all’estremo delle forze. Questo e solo questo deve ammettere perché io possa ristabilire un contatto con lei. Il richiamo di Simone è stato più forte, quello dell’uomo è e sarà sempre il più forte. Io non mi muovevo per lei ed era palese, ma lei che si diceva così presa? Al telefono avevo sempre il suo quadro clinico pieno di disastri, e poi il lavoro e cos’altro. Oggi le ho proposto di incontrarci

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a metà strada: era troppo lontano, e poi sua madre con l’influenza le dispiaceva lasciarla. Richiesta se potevo telefonarle a casa ha risposto di sì, dunque non andava dalla madre. Al diavolo la sua autenticità. Anche lei è spaventata da me. Altro particolare che mi ha colpito: la prima telefonata dopo Milano ha tentato di farmela da casa di suo cugino che sarebbe stato pre­ sente. Quindi non aveva intenzione di dirmi niente, una telefonata gentile, interlocutoria, così. Mi accorgo di perdere fiducia in Piera via via che scrivo: non in assoluto, come persona, ma relativamente ai nostri rapporti. Anche Simone è ambiguo: mi rimprovera di essere confusa se non accetto di farmi rassicurare da lui e gli scatta antago­ nismo. Tutti e due sono stati disposti a fare olocausto della reciproca attrazione sminuendola pur di riacquistare ai miei occhi la passata identità. Appena si accorgeranno che non sto al loro gioco, scatterà la molla della rivalsa e, accortisi che comunque l’offerta era spropor­ zionata, finiranno per rinfacciarmela. Questo è un romanzo che sto scrivendo in anticipo sugli svolgimenti, ma è il romanzo più appassio­ nante che ci sia a scriverlo perché mi darà la prova di me stessa. Per ora ho solo la certezza soggettiva di me. E tutto. Ma non basta. Avevo creduto troppo in Piera, l’errore è sempre lì. Con Simone è diverso: mi ha ingannata di meno, ha ammesso il suo desiderio per altre donne, non mi ha nascosto di volere incontrare da solo Piera, ma mi ha riempito la testa di argomenti che scolorivano le impres­ sioni che partivano da me. Vedevo il quadro con una certa esattezza, ma come sotto una luce emozionale falsata e quindi falso. Però ero complice perché volevo ancora illudermi e stare tranquilla. Adesso non ho più paura di me stessa. Degli altri tanto meno. Questa è una novità nella mia coscienza. Parlo al telefono con Simone, con Piera, dallo stesso apparecchio di Fi­ renze con cui parlavo con Cesare: Lucia aspettava il suo turno nell’al­ tra stanza, il turno di quella arrivata dopo e che aveva preso il soprav­ vento. Stamani, quando ho proposto a Piera di vederci oggi stesso era perché mi sentivo aperta verso di lei, anzi provavo senso di colpa per quello che Simone mi ripeteva e per il fatto che avevo deciso di andare a 'buricchi per Natale. Piera è sola, nessun uomo che cerchi di convin­ cerla che l’ama anche ingannandosi. E adesso so che ne ha bisogno. Questo maledetto vizio di correre ai ripari per la sorella sfortunata. Non volevo vedere Simone prima di lei. La sua voce al telefono ha un

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substrato freddo: non mi è amica come un tempo nella sua totalità. Ognuna lotta per se stessa, per la propria via d’uscita che non è più quella comune. Lei tiene d’occhio il suo vantaggio pur fingendo di escludere il calcolo. Conosco bene questa storia, è un replay per me. Ma adesso la assorbo goccia a goccia con la coscienza. Anche Simone ha avuto dei toni inconsueti: è depresso. Cerca di riabilitarsi e non lo credo, non è questa la strada. Hanno avuto qualcosa in comune, Simone ha parlato al plurale: è stato il coraggio di fregarsene di me. Va bene, ma che sia detto chiaro. Invece ricominciano la vecchia storia che io sono la loro preferita. Questa sofferenza è troppo vera, troppo irresistibile per abbandonarla. Ne ho per tutta la notte. Cara Matilde che mi hai offerto la chiave preziosa, il pungolo segreto che mi tiene sveglia quando starei per cedere e rassegnarmi a una mezza verità! Ma quella che mi offrono adesso non è neppure una mezza verità. Non possono pronunciare una sillaba che non mi diventi trasparente. Il tentativo di riportare tutto allo status quo è indice di vigliaccheria da parte loro. E anche la soluzione più promettente. Sono affascinata da questo particolare: ventiquattr’ore. Non ho mai avuto un uomo per tanto tempo senza essere disturbati, senza in­ frammezzare con finzioni, alienazioni, interruzioni, senza la telefo­ nata della moglie o del marito. Poi Piera è andata a cena, campione di autenticità, con quattro povere femministe che hanno constatato la trasfigurazione di una santa. Anch’io ho tradito Simone, d’accordo. Ma anche lui l’ha già fatto. Però non con la mia amica, non su un patto di fiducia. 20 die. Naturalmente che in tutto questo c’è il trauma infantile nei confronti dei genitori: mi hanno nascosto il loro desiderio, mi hanno ingannata, se la intendevano alle mie spalle, chissà cosa è stato fra loro se non hanno osato dirmelo. Altrimenti ci lascerebbe indifferen­ ti, come altri aspetti della convivenza umana. Piera vorrebbe scrivermi, ma non può, sa che si scoprirebbe ancora di più, sa che non c’è argomento che non le si rivolga contro, non vuole ammetterlo, ma lo sa. “Ho il cervello in fiamme” mi ha detto. Cerca una giustificazione impossibile. Ha commesso un atto ostile, libertino. Chi le nega questo diritto? Ma che ne convenga, faccia al­ meno questo atto di fiducia verso se stessa.

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Simone ha sempre voluto riempire i vuoti che gli lascio io. Aveva invitato Piera all’inaugurazione mercoledì, lei non era libera dal la­ voro, si sono accordati per domenica. Perché lei doveva andare alla sua inaugurazione a Milano? Il motivo? Avere una femminista amica al posto mio, trovare da rimpiazzare me in quel pozzo senza fondo di mitomani che siamo noi donne. Una si assenta, dieci sono pre­ senti. Fa ridere, è tragico. Mi fidavo di Piera. E meglio fidarsi solo di sé: sembra libera da schemi femministi, invece è ancora in balia di conflitti anteriori, anche se vissuti in modo placido, senza squilibri apparenti. Sono impaziente di ascoltare cosa mi dirà, il bell’io ideale è finito anche per lei. Ha toccato il tasto della rivalità, non può più tirarsi indietro. Ha commesso il tipico sopruso, nascondeva la tipica voglia. Ognuna nei momenti cruciali, si rivela. 21 die. Oggi è il dodicesimo giorno. Comincia a essere molto. Lun­ ga telefonata con Piera che nega, nega ancora prima di parlare. Ha ammesso che il gesto di scrivere la poesia per Simone poteva essere “ostentato e dimostrativo”. “Verso chi?” le ho chiesto. “Verso di te.” E nega l’ambiguità. “Quello che provavo per te era diverso da quello che provavo per lui, allora dovevo stare attenta alle minime sfumatu­ re.” Cosa provava per lui? Finora non aveva mai accennato a provare per Simone, oltre l’amicizia, qualcosa di particolare. Lei sostiene che drammatizzo, che mi sono messa nel mezzo dove non c’entravo, cioè nel fatto di dare la poesia, subito smentendosi quando dice che è stato un gesto “dimostrativo e ostentato” verso di me. Ma come fa a non drammatizzare? Non sente che è in gioco la nostra amicizia? Non sente che è già quasi perduta? Un giorno dovrò dirle “Non mi avevi mai confessato di desiderare un incontro a due con Simone per verificare il tuo rapporto con lui, mentre Simone mi aveva rivelato chiaramente di desiderarlo con te, e non per verificare, ma per eroti­ smo. Ecco, a chi devo credere di più fra voi due? Chi è stato più leale con me?”. Mi sento il coraggio e la forza di andare fino in fondo, costi quello che costi. Sono me stessa, e tanto basta. Anche se sfascio tutto attorno a me, accetto questo rischio. Piera è in un mare di contraddizioni. Mi rimprovera di non essere stata chiara con lei: avevo risposto di sì o di no alla richiesta di Simone riguardo alla poesia? Non lo sapeva, mi pensava incerta. E poi, quan­ do mi meraviglio della volubilità con cui, avendo prima accettato, si è

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lasciata subito convincere a rifiutare da Nicola, si difende affermando che avere accettato era “ostentato e dimostrativo” verso di me. Allora lo sapeva che io avevo detto no. E tutto così. Uno strazio, una pena, e lei non capisce perché drammatizzo. Adesso non mi ama più, questo è sicuro. Le ho detto “Potevo reagire come una persona di mondo, tu avresti fatto lo stesso e tutto sarebbe andato per il meglio. Invece ti ho scritto a caldo, mi sono scoperta con te e tu non hai fatto altrettanto. Questo mi mortifica, mi fa sentire fabisso”. E poi “Se ci parliamo io non posso fare a meno di incalzarti, so tutto esattamente, questa volta non sfuggi”. “Ma io non voglio sfuggire.” Però alludeva a “confessio­ ni estorte”. Le ho risposto “Non sono la polizia”. E lei “Ma parli di incalzare”. E io “Non è solo la polizia che incalza negli interrogatori, ma anche l’autocoscienza”. Discorsi tesi, a volte quasi ridicoli. Mi ca­ devano continuamente le braccia, pensavo “Dio mio, che illusione, che assurdità”. Non sapevo come riuscivo ad andare avanti. A volte mi faceva pena, mi dicevo “Lasciala in pace, non ce la fa, la stressi inutil­ mente, finirà per odiarti”. Facevo una pausa, lei riprendeva con voce monotona giustificazioni su giustificazioni. Ancora sono vincolata dal bisogno di esserle leale fino alla fine, cercando la sua fiducia per an­ dare da Simone con la sua fiducia riconquistata. Ma è un sogno. Dice “Finisco per sentirmi colpevole”. Le ho risposto che, forse, senza il dubbio della colpevolezza non può capire. Quindi non accusi me della sopraggiunta colpevolezza, ma lo addebiti al premere del bisogno di verità in lei. Ha ripetuto di non avermi ancora scritto perché non sa dove indirizzare (!) e perché non vuole farlo a caldo. Si giustifica “A cal­ do sono fredda”, e poi diffida delle reazioni immediate. Come dire che non vuole rischiare di scoprirsi e che è già rigida, sulla difensiva. La sua reticenza, che mi ha sempre infastidito, adesso mi è esasperante. Anche in questo caso capisco che ho messo la parità dove non c’era. Lei mi faceva sentire in colpa, ma sottilmente, per essermi procurata delle cose dalla vita. Come se fosse giusto non essersele sapute procu­ rare. Come mai io invece le avevo volute? Simone, per esempio. Come facevo a sopportare la vita in comune con tutti quei vincoli, dalla sua richiesta di coinvolgimento, agli obblighi, ai compromessi? E io ci ca­ scavo. Non del tutto, restavo all’erta, ma i suoi dubbi lavoravano dentro di me. Dovevo vederci chiaro. E questa storia è stato il mezzo, perico­ loso, lo sentivo tale, l’avrei pagato, per avere una rivelazione definitiva sul lato ambiguo del mio rapporto con le amiche. Ieri mi accusava che

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non l’avevo lasciata parlare, l’avevo subito interpretata. “No, Piera, ti ho fatto parlare, finalmente hai cominciato a dire qualcosa. Se avessi preso per buone le tue difese (quello che tu chiami ‘lasciarmi parlare’), non sarebbe venuto fuori niente, avrei perso il mio tempo e me stessa. Volevi goderti in pace il gesto compiuto etichettato sotto una giustifi­ cazione di ferro, ma io non te l’ho permesso. Puoi mettermi a tacere se vuoi, ma io mi rivolgo al tuo inconscio e so che lì trovo risonanza. Naturalmente a me puoi sempre negare, ma a te stessa?” Essendo il meno ideologico dei tre Simone capiva tutto e aspettava il suo turno. Dunque anch’io ero ideologica, anche il mio femminismo lo è. Ecco dove tocco il punto cruciale, dove mi manca il cuore. In un momento solo ho messo in crisi tutto: partner, amica, ideologia. Nien­ te regge. Stanotte ho dormito tre ore, l’unico vero sonno da tredici giorni è stato quando sono arrivata qui una settimana fa. Pensavo che sarei crollata, ma non succede ancora. E come se devo stare sempre vigilante, scrutare me stessa, interrogarmi e capire, capire, capire. E troppo preziosa questa sofferenza perché la lasci inoperante, ma poi lavora da sé, è frenetica; infaticabile. Sono ricognizioni continue, emersioni sbalorditive, collegamenti. Tutto va a posto tassello dopo tassello, un quadro della cui costruzione prima mi sarei sentita inca­ pace. Oppure l’avrei preso per vaneggiamento, assurdità, in cerca di rassicurazione, di realismo. In questo Simone non mi serve più, ho visto il suo equilibrio di cosa è fatto: sta in superficie. Rispetto a Piera e a me è lui a cavarsela a meno prezzo. Questo non posso accettarlo. Mi chiedo cosa vorrei e mi accorgo che non riesco a volere niente altro che verità, e so che è impossibile. Almeno non nei tempi in cui questo bisogno potrebbe essere soddisfatto: capiremo tutto dopo, quando i problemi saranno altri. Piera non ammetterà mai di essere stata lu­ singata dalla richiesta di Pietro su un suo scritto e che questo l’ha an­ nebbiata nel rapporto con me. Lei traduce così il problema “Adi era sembrato divertente scrivere una poesia, non l’avevo mai fatto”. Stanotte ho dormito dalle 23 alle 23,40. Ho perso conoscenza dieci minuti ancora tra le 3,15 e le 3,35. Eppure sto in piedi. Vorrei sapere come faccio. Mi sento il cervello attivissimo e io intelligentissima. Sono sul treno per Montevarchi. Al telefono Simone con la solita voce affaccendata di papà mi è estraneo, non somiglia all’essere in­ tenso e turbato con cui mi sono dibattuta in questi giorni e in queste notti. Una persona responsabile e di buon senso di cui, a rigore, non

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dovrei dubitare. Sto per rientrare nel mondo degli automi equilibrati dove non è previsto vivere al limite delle proprie possibilità. 23 die. Ore 5. Avrei potuto benissimo reagire con ragionevolezza come stanno facendo Simone e Piera impauriti che io perda le staffe, dia di matto, faccia sciocchezze. Non capiscono che approfitto della cosa per “vivere”. Questo risponde alla mia identità. Simone mi è sembrato grottesco, appunto come uno che adopra una buona stra­ tegia per ricondurmi a una visione accettabile delle cose. Me ne sono venuta a dormire su un letto nella stanza adiacente alla nostra. Era sorpreso che io non andassi nel nostro letto, è venuto verso di me di­ cendo “Allora, vuoi parlare oppure no?”. Poi gli è scappato da ridere come se stesse al gioco per condiscendenza, come si fa con i bambini che vogliono nascondersi e avere paura del buio. Mi ha messo una mano sulla spalla, premendo, ma senza forzare e ha mormorato in modo suadente “Vieni di là”. Ho risposto che ero stanca e ho riman­ dato a domani. Allora si è allontanato tornando, per quanto ho potuto capire, a sedersi davanti alla TV Mi sono svegliata dopo sei ore, cosa che non mi era più successa da giorni e giorni. Lui dorme di là: non ha motivo di essere ansioso, mi convincerà prima o poi, mi ricondurrà alla ragione da cui così balzanamente gli sembro essermi allontanata. So già in anticipo che non accetterà assolutamente niente. Abbiamo fatto due passi insieme. Simone voleva “chiarire al più pre­ sto”, così non si è neppure cominciato. Lui batte la vecchia strada per riportarmi, da questo mondo come sotto l’effetto della droga, pieno di amore e di rivelazioni, al suo piatto mondo di promesse mantenute, di incidenti senza seguito. E ancora convinto di dovermi tranquillizzare. Timidamente ha insinuato “Ma non dicevi che la gelosia va eliminata e tutto il resto?”. Mi è tornato in mente come, da ragazza, avevo spe­ rato di vivere intensamente ogni vicenda umana, e come via via avevo constatato che non è possibile, l’intensità è nella solitudine. Lunga chiacchierata con Simone approdata, come già sapevo, a un nulla di fatto. Evasivo sugli aspetti significativi, puntuale nelle di­ chiarazioni di principio. Mi accorgo quanto sono stata “distratta” (censura): loro erano d’accordo di vedersi a Milano già da tempo, io invece fino all’ultimo mi chiedevo se lei lo avrebbe fatto. Mi ha det­ to che rincontro gli è piaciuto. Spesso parlava al plurale, da alcune sfumature capisco che gli è rimasta nostalgia di Piera. Si affretta a

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dire che la cosa è finita, ma so che non lo pensa. Nel nostro rapporto ultimamente c’era poco erotismo e molto affetto e slancio amoroso. L’erotismo non mi è cresciuto, quanto agii altri due ingredienti spro­ fondati nel ridicolo. Un elemento su cui ho sorvolato: la poesia. Piera ne era contenta davvero, anche Simone l’ha trovata ricca, le ha detto di essere sorpreso, non se l’aspettava. I particolari sono duri da assorbire, ravvivano il quadro, lo presenta­ no in chiave sempre leggermente diversa e questo mi coglie impre­ parata. Simone non solo è sensibile a quanto riguarda il rapporto con me, ma anche a quanto riguarda il suo con Piera. Così, mentre io cerco di chiarirgli la mia situazione quest’estate fra loro due, ho la strana sorpresa che sia colpito da qualcosa che lo irrita o lo dispone bene verso di lei. Insomma non c’è più un punto che è uno su cui trovarsi d’accordo. Lui dice “Ci sono solo mezze verità, prendiamone atto”. Ma non è possibile avere una relazione stabile e vivere quoti­ dianamente di mezze verità. Con lui riesco solo a fare i gesti della convivenza: accordarsi su come passare la notte di Natale con i figli, e passarla bene, allegri. 26 die. Improvvisamente è girato il vento: dai particolari sul filo delle mie intuizioni, confermate da Simone pur sapendo di farmi soffrire, ma finalmente deciso a farlo, mi è scaturita dentro un’onda di fiducia verso di lui, e su questa onda ho ritrovato il suo abbraccio e il suo corpo. Ormai ho capito cosa mi è essenziale; superare l’agnosticismo 0 il rifiuto per timore di essere ingannata e dare libero corso ai miei slanci, ammettere che a Simone ci tengo senza che questa ammissio­ ne mi faccia sentire in colpa. Adesso lo posso fare perché ho visto con 1miei occhi che anche Piera nascondeva invidia sotto il sospetto e la riprovazione, mentre io non invidio nessuna e ho un quadro concreto del mio rapporto con Simone e di lui. Il mito dell’uomo è di tutte, sia come partner che come cultura, e non c’è proposizione rivoluzionaria o atteggiamento di riserbo che tenga: il mito è lì, camuffato, nascosto, ibernato, ma pronto a uscire fuori alla prima occasione. Il femmini­ smo non deve istituzionalizzare la tipica inibizione delle donne che solidarizzano tra loro negando reciprocamente il mito dell’uomo. Il femminismo non è altro che desiderio di un processo di liberazione attraverso il quale smaltire questo mito, non ne è la risoluzione. Quel­

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la rappresenterebbe la fine del problema, quindi la fine del femmini­ smo. La femminista è una figura drammatica che nega l’evidenza con l’avallo di un’altra femminista che a sua volta la nega, finché l’omertà in un punto della catena si rompe e nessuna capisce più da dove ha tratto la certezza con cui negare l’evidenza. E scopre, letteralmente, di avere ceduto all’ideologia. Ma se resiste al vortice del disinganno, riscopre anche la verità del suo desiderio di autonomia e di libertà dal richiamo maschile. Può ritrovarlo nelle altre e ripartire per un cam­ mino meno prestigioso del precedente - avere un’ideologia anche ri­ dotta ai minimi termini è pur sempre un segno di potenza se non di potere - dove non esistono alleanze possibili, ma la solitudine e uno scontare momento per momento, individualmente, nella propria vita l’idealizzazione dell’uomo, il bisogno del suo consenso, quegli entro­ terra che fanno parte della storia di ognuna e che non si logorano se non vivendoli e prendendone coscienza. Al confronto una soluzione come quella della Solanas può rappresentare un invidiabile momen­ to di ottimismo. Infatti di quel nuovo cammino non sappiamo quasi niente: se è una nuova illusione, se è percorribile, se è. 28 die. Mi sono incontrata con Piera. Lunghissimi silenzi, parlare concitato, momenti di intesa. Ognuna delle due ha in ballo la sua identità: non è un momento di amore, ma di sopravvivenza. Ancora io le servo per sopravvivere, infatti è lei che tenta gesti affettuosi. Ma questa macchina più il femminismo è diventata una vera autodafé. Dice “Simone mi ha stanata, non sarei certamente stata io a cercarlo, non mi ha dato tregua”. Rispondo “Sì, lo so”. “No no, adesso lo sai, ma quest’estate non lo sapevi. Non pensi che anche lui abbia alte­ rato la realtà per i suoi scopi?” E poi risulta che lui “a volte” le era più simpatico di me troppo primadonna, questo detto a correzione di affermazioni difensive tipo che è un amico “acquisito”, che non sa neppure se lo avrebbe voluto come tale se non fosse stato per me ecc. Quando le ho ricordato che l’unica ad avere messo in gioco tutto ero io e che quindi mi pareva assurdo mi considerasse una privilegiata, ha risposto che il suo mondo precedente era crollato, e quindi anche lei ha perso tutto. Di quest’estate ricordava di essersi sentita strumen­ talizzata da Simone (non da me), e che le pareva di essere l’oggetto fresco, vitale che dà nuovo vigore a una coppia in crisi. Ma all’inizio mi ha avvertita che non era disposta a dire tutto, a fare un massacro

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fra me e lei. Quindi c’è dell’altro. Verrà fuori in una nuova seduta. Quando l’ho vista ho provato affetto per lei: era quella di sempre, sorridente, calma, bionda, con il pelliccione da signora. Appena ab­ biamo cominciato a parlare mi è apparsa l’altra, rivale, guardinga anche se onesta. Fa capire di essere rimasta delusa a Milano perché Simone non si è aperto come sperava, e a proposito di un malinteso conclude “Di questo ne parlerò con lui”. Si confessa scontenta solo per questo round. Dunque si aspettava molto, o almeno di più. Tutta una rete di intrecci sotterranei, di colpi inferti in profondità volendo o non volendo, sapendo o non sapendo. Fra me e Piera adesso c’è un uomo. Qualcosa è saltato. Finché c’è lui. E nessuno è disposto a rom­ pere questo filo di risentimenti, di future spiegazioni, di rimandi al domani. Io sballottata di qua e di là come una che può solo dibattersi senza svincolarsi. Ma cosa può importarmi della sua aspettativa che l’intesa con Simone si concretizzi meglio? Sono forse responsabile per lei? E forse una ragione valida perché si aggrappi alla mia vita? Già l’ha sconquassata abbastanza, sebbene continui a meravigliarsi della mia inaspettata reazione. Mente quando dice che io le ho dato im­ plicitamente il consenso una volta che le ho assicurato che non avrei interferito se Simone avesse avuto intese con altre donne. Lei non era “le altre donne”, era “la mia amica”, e la sofferenza maggiore mi è venuta da questo: che fosse proprio lei ad approfittare di me, lei a desiderare nascostamente Simone, e a smentirmi se ne ero allarmata. 30 die. Ho dormito sei ore e mi sento a posto. Mi chiedo cosa posso fare. Piera dice “Non ho niente contro di te, me ne accorgerei dai sogni, nel dormiveglia”. Ma allora perché io ne ho un’impressione così netta? Ieri Matilde mi telefona che mi ha sognato vestita di bian­ co luminoso e luminosa io stessa: lei me lo faceva notare, ma io la respingevo. Cosa mi si prospetta? Ma perché non fuggo via? Piera è come Sara, giustificata dal fatto di sentirsi un’emarginata che si sveglia e la fa pagare, a chi c’è c’è. Quell’aria da bambina buona, devota, adorante. La solita maschera per carpire meglio, la voglia di disfare la vita degli altri, la sensazione del proprio potere. Simone le va, ma se ne lamenta anche. Un’emarginata ti fa a pezzi, e neppure se ne accorge. Quel poco che mi ha letto del suo diario conferma il quadro: accuse a me di primeggiare, ci siamo. Ancora non osa, va cauta. Intanto, ed è il particolare più allucinante, il giorno di Na­

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tale, a una frase poco felice della madre è uscita di sé, ha fatto per aggredirla (“Tanto lo sapevo che era una scena”) poi ha versato una bottiglia di vino nel lavandino. Carla scappa finché sei in tempo, quel gesto è per te. Dopo un ultimo scontro Simone è rimasto offeso, addolorato, se ne sta per conto suo senza protestare. Ho ripreso a dormire in un’altra stanza. Cosa medita? Continua a ripetere “Amo te”, che non è così come sembra, perché comunque smentisce un’ipotesi che non ho mai preso in considerazione fino a ora: che ami Piera. Ogni cosa è a doppio taglio. Che avventatezza averla introdotta nel mio rapporto! Averla imitata qui. Tutto è cominciato sul divano che Simone la coc­ colava, lei ci stava e io come una stupida che cercavo di non mostrare la mia sorpresa supersonica e avevo l’aria di dire “Fate pure, non ho mica paura”.

17 gen. Mi sento libera di dire a Piera quello che provo, senza senso di colpa. Senza sdoppiarmi tra le ragioni mie e le sue; le sue le dirà lei. Perciò è un peccato che stiamo lontane. Sono anche certa che finché non avremo tirato fuori tutto, io, ma anche lei, non farò alcun passo avanti nella risoluzione del gelo furibondo che mi provoca il solo pensarla. 18 gen. Non devo rendere conto a nessuna: il mio destino è il mio destino. Quanti ostacoli esterni mi ero andata creando per liberarmi di quelli interni. 19 gen. Simone si mostra felice e innamorato. Parla con distacco di Piera, e io subito mi sento inquieta come se le avessi tolto qualcosa. Ma siccome non le ho tolto niente riconosco un meccanismo infantile e non ci casco. Contemporaneamente subentra la preoccupazione che Simone sia troppo concentrato su di me, la sua attenzione mi pesa. Non posso non vederci una conseguenza del senso di colpa: lo scopro e mi tranquillizzo. Non è una colpa parteggiare per me stessa. 26 gen. Telefonata serale di Piera. Mi confessa di avere provato fa­ stidio per me al punto di non volermi telefonare. Ora le è passato. Mi ha chiesto “E a te?”. Le ho risposto che mi passerà parlandole.

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27 gen. I suoni delle nostre voci sono diversi da prima, c’è stacco fra le parole e una nuova lentezza. Entrambe abbiamo preso a scandire oppure reffetto è questo perché le parole non si affidano più alla vi­ brazione emotiva, ma al significato. Ho saputo che le piace un uomo. Questo rende possibile il distacco. Mi è tutto chiaro. Sono libera. 29 gen. Una suora bionda si solleva dai guanciali e avvisa le altre che sta per morire. Quando torno è morta. Tra i suoi oggetti scopro una fotografia: una specie di lapide barocca con il mio nome inciso sopra. E poi vedo una scultura di marmo dove sono ritratta con altri, molto giovane, bella e intatta in attitudine mondana con un grande scollo nell’abito lussuoso.