Taci, anzi parla. Diario di una femminista [Vol. 1]

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CARLA LONZI

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DIARIO DI UNA FEMMINISTA

Tomo 1

Scritti di Rivolta Femminile 10

Sommario

1 Premessa 5 1972 145 1973 407 1974 727 1975 963 1976 1043 1977

Premessa

La difficoltà a esporsi pubblicamente scrivendo liberamente di sé e coinvolgendo tutti coloro che in qualche modo fanno parte del pro­ prio iter ha scoraggiato e infine fatto tacere le donne che in privato hanno sempre adottato il diario come la forma di espressione più congeniale alla loro ricerca di sé. Al diario sono stata spinta dalla necessità di presentarmi a me stessa motivata nel fare quello che faccio. E la motivazione che io stessa scopro via via con sempre maggiore convinzione, risale a un bisogno di conoscenza di me e degli altri di cui mi prendo tutta la responsa­ bilità. Gli altri con i quali mi intreccio in varie relazioni e vicende rispondono ai requisiti necessari, ma questi requisiti non sono assolu­ ti, piuttosto relativi alle mie esigenze che li trovano o no convenienti con criteri soggettivi anche tutt’altro che opinabili. Il fatto che io li riconosca e discerna con una puntualità che il diario via via evidenzia sotto i miei occhi non dice niente di definitivo su chi possiede quei requisiti e neppure sulla consistenza degli stessi. Nel diario io parlo di rapporti, non di persone. E il diario in se stesso rivela che ogni rapporto serve al soggetto di quel rapporto (a chi vi si pone come soggetto) non perché il sogget­ to adopera gli altri ma perché il rapporto serve a chi se lo assume anche se può esserne la vittima. Nel diario c’è un solo soggetto, lo scrivente: non si afferma che gli altri non lo sono, ma di fatto non possono apparire tali perché non hanno voce propria. Qualsiasi cosa

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venga riferita a un rapporto rende giustizia a chi la riferisce, non per­ ché lo scrivente possa dire il falso impunemente (infatti il diario è un meccanismo trasparente) ma perché è lui che la riferisce, è lui che si presenta come soggetto. Ho provato il bisogno di dare alle persone che introduco (familia­ ri compresi) dei nomi fittizi per fare risaltare il lato soggettivo della chiamata in causa. Questo lavoro mi ha assorbito anni, giorno dopo giorno. Non mi sono accorta che mi teneva in uno stato di concentrazione fortissima. Sem­ brava che la mia vita proseguisse come prima, ma non era vero: senza che lo avessi deciso in precedenza stavo immersa in un’impresa al limite delle mie forze. Eppure scrivere un diario è facile, e siccome la struttura o la trama si sviluppano nella progressione tra coscienza e avvenimenti c’è un senso di avventura continua in cui ci si trova coinvolti e a cui ora con passione ora con leggerezza ci si abbandona. Nel diario c’è tutto: passato presente e futuro, così legati fra loro che niente può dare meglio l’idea del destino di un individuo: della parte attiva, costruita dalla coscienza, di un destino e della parte disgregan­ te operata dalla incoscienza, di un destino. Sotto l’aspetto innocuo, di attività non letteraria, privata del diario si nasconde il tranello di trovarsi riflessi in un’immagine che com­ prende tutte le proprie velleità e illusioni. Una volta concluso - e si conclude inaspettatamente come inaspettatamente è cominciato - il diario rimane una miniera di scoperte per chi l’ha scritto, scoperte da cui non si torna indietro. Non esiste lettore più impreparato e avido di un diario che chi l’ha scritto. Tutto è al suo posto: al di là dello sforzo soggettivo, l’oggettivizzazione di sé è sconvolgente. Ho fatto tutto da me, battitura a macchina compresa. Ci ho messo un’infinità di tempo, ma ritengo che la mancanza di aiuto mi abbia permesso di lasciare maturare. Il potenziamento offerto dalla colla­ borazione di altri spesso apre le porte all’esteriore e dà uno sprone all’attivismo. Per me fare una cosa ha valore in quanto impedisce di farne due. Avevo bisogno di tirare fuori tutto il mio dissenso sull’immagine in cui mi sentivo costretta a essere vista dagli altri: inespressa e felice di rappresentare qualcosa, non me stessa. Questo vanificava i miei sfor­

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zi di comunicare, cioè mi vanificava, mi impediva di esistere. Adesso esisto: questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola e che ho trovato il mezzo di ottenere. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano appunto il costituirsi della mia identità a partire dal dissenso - non vedevo altra via in quanto donna - non mi appartengono più: faccio ciò che voglio, questo è il contenuto che mi appare in ogni circostanza, non aderisco ad altro che a questo. Capisco quanto posso avere lasciato cadere nel percorso fatto finora, e a volte mi spavento osservando ciò che è stato e ciò che poteva essere, ma capisco che niente mi avrebbe dissuaso dal rivol­ germi all’essenziale. Ora il superfluo attira tutta la mia attenzione e i miei desideri. C.L. Per la lettura del testo. La distinzione tra carattere grande e piccolo è la seguente: nel primo è stato composto il diario propriamente detto; nel secondo sogni, lettere, citazioni, vec­ chi scritti, poesie ecc. Quasi tutte le lettere riportate, se non c’è un’indicazione contraria, non sono state spedite.

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1-4 ago. Macari (Trapani). Un’altra donna, clitoridea, mi ha rico­ nosciuta come donna, clitoridea, intanto che io la riconoscevo negli stessi termini. Questo è accaduto nella primavera del 1972. Adesso so chi sono e posso essere coscientemente me stessa. Mi accorgo quanta parte del mio pensiero e del mio comportamento era adibita a schiva­ re o a mimetizzare l’espressione diretta di me: anche nel femminismo e negli scritti femministi mi mantenevo in incognito. In quell’inco­ gnito una donna ha scoperto le premesse per la sua autocoscienza e ha reso possibile la mia. Storicamente io rappresento la donna clito­ ridea che ha identificato se stessa come mistero vedendo impossibile ogni riscontro nelle altre donne, senza prospettiva di considerarsi se non un essere sperduto nella sua autenticità. Mi sono manifestata nel femminismo per l’improvvisa intuizione che il niente misconosciuto in cui mi ero rifugiata prima, si rivelava adesso come il nuovo campo della soggettività della donna. Ma il riconoscimento, da cui nasce il soggetto, intanto che esprime un altro soggetto in grado di essere riconosciuto a sua volta, è stata l’operazione che ha portato il mio processo al traguardo dell’autocoscienza. Riscuotendo ammirazione e il suo contrario, invidia, nel gruppo di Rivolta, restavo bloccata: né le riserve, né l’accettazione incondizionata mi spingevano ad aprirmi: il pericolo di essere fraintesa rimaneva e aveva lo stesso potere intimi­ datorio di sempre. Non potevo perorare comprensione né dimentica­ re che non l’avrei avuta: rischiavo così di continuare a cogliere in me

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stessa dati di coscienza generali per il femminismo, nella certezza che avevo di essere sulla strada giusta, piuttosto che ricostruire i momenti che li avevano prodotti. Un giorno Sara mi aveva detto nel grup­ po: “Quello che non si capisce è da dove ti viene tanta sicurezza”. Nemmeno io lo capivo, e il fatto che proseguissi senza cercare fino in fondo l’origine di questo, mi teneva sospesa. Quando ho cominciato a leggere l’autocoscienza di Sara via via che la scriveva, dove lei mi prende come punto di riferimento, non come modello, comprendendo che io ho bisogno di lei, di lei come soggetto, è cominciata una nuova fase della mia espressione nel femminismo. Le mie difese sono cadute e adesso io penso a lei quando ripercorro la mia vita, e so che ogni scoperta su di me avrà una ripercussione diretta in una scoperta su di lei, così come avviene da lei a me: io le ho reso possibile l’autocoscienza e lei la rende possibile a me in questa identificazione tra clitoridee come donne nuove. Nello scritto La donna clitorìdea e la donna vaginale mi ero basata su di me e su ciò che indovinavo delle altre per affinità e per differenza, ma era ancora un’operazione incompleta: Sara ha risposto con la sua autocoscienza e mi ha così assicurato un’autenticità che io ho a mia volta sentito come condizione essenziale per la sua. Questo è il riconoscimento per cui si diventa nell’atto stesso reciprocamente, cioè di fatto e non più solo nelle intenzioni, soggetti. Prima del femminismo avevo provato la mia esistenza a me stessa con le poesie che mi confermavano di essere riuscita a liberare un pensie­ ro dal caos elei conflitti psichici, e ho sperimentato per la prima volta la calma mentale, una specie di imperturbabilità che scaturiva nel di­ stacco da me stessa provocato dalla conoscenza. Nelle poesie, il cui ti­ tolo complessivo era Scacco ragionato, ho cessato ogni forma di invoca­ zione per una me stessa diversa, ho abbandonato ogni possibilismo: mi sono spalancata l’imprevisto accettandomi come ero. Ero un esse­ re in perdita, con la sensazione di trovarmi nel punto esatto che avrei voluto evitare. Questo mi umiliava, la mia sofferenza mi sembrava la prova più evidente di una sconfitta e tutta l’adolescenza e la prima giovinezza erano state un tentativo per nascondermela oppure per sublimarla in qualche scopo superiore di mia scelta. In realtà avrei voluto non soffrire ecl essere allegra e spensierata. Non poterlo essere se non in superficie, per esuberanza momentanea, mi dava il sospetto di uno “svantaggio” forse insormontabile. Nei miei scritti di ragazza

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c’è sempre l’accenno a un passaggio brusco dall’infanzia a un qual­ cosa che non era quello che mi aspettavo, una sofferenza insistente che mi stava incollata addosso come una febbre, con accessi anche violenti, e comunque sempre presente e mortificante. Ho cercato del­ le maniere per togliermela di dosso, e certi colpi di testa hanno avuto quella precisa ragione, specialmente l’andarmene da casa che è stata una meta costante della mia vita; mi sono costruita delle immagini di me più gratificanti dove la sofferenza diventava un puro e semplice incidente, peraltro superabilissimo in una natura vitale, fatta per la gioia e le cose positive; mi sono dibattuta per non accoglierla come una realtà finché tra sforzi e iniziative di ogni genere - dove speravo di incrociare un qualche flusso di avvenimenti e avventure che mi distogliesse dal sospetto di incontrare sempre e dovunque soprattutto sofferenza —mi sono, ammalata di TBC, quasi materializzazione e riscontro nel fisico dei conflitti interiori. Questo avveniva nel ’53 a 22 anni. Sono rimasta choccata dalla malattia, ma il fatto di riprender­ mi con facilità mi ha inorgoglito e dato speranze. Era solo il primo round e cercare di guarire mi garantiva uno scopo sicuro, riposante: potevo riflettere su di me, nei soggiorni in mezza montagna, senza essere presa dall’assillo di immediate soluzioni da trovare. Dopo la TBC ho conosciuto Marion, una ragazza anche lei convalescente da una complicazione polmonare. Abbiamo cominciato con entusiasmo la nostra amicizia. Con lei mi sentivo forte: l’affetto e la stima sempre più grandi che mi portava erano per me una fonte di salute psichica straordinaria; godevo della relazione e mi espandevo. Studiavamo in­ sieme, ci comunicavamo pensieri e cultura, ci sentivamo formidabili. Marion era una ragazza molto umana, insicura, piena di buona vo­ lontà e tenacia, più di me in grado di affrontare le difficoltà pratiche, gli ambienti, gli incontri. Io mi trinceravo dietro di lei, la seguivo, su­ peravo i miei complessi di riservatezza. Apprezzavo la sua generosità verso di me che cercavo di ripagare aprendomi il più possibile e dan­ dole fiducia. In qualche modo avevo cominciato a rendermi conto di essere stranamente più lucida di quanto avessi pensato, più lucida di lei. Così si era instaurata una specie di divisione dei ruoli che mi permetteva di non accorgermi troppo della sua dipendenza. Quando me ne sono cominciata ad accorgere, qualche anno dopo, ho preso inconsciamente ad allontanarmi da lei e a desiderare un rapporto più alla pari: la vastità della sua umanità, che mi aveva colpito all’inizio

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e mi aveva inondato di benessere, permettendomi di affacciarmi su un orizzonte che allargava di colpo le mie esperienze dolorosamente limitate, adesso mi innervosiva, mi appariva una somma indistinta di emozioni. Mi sentivo risucchiata come un fuscello in un gorgo d’ac­ qua. Mi sono resa conto allora che non aspiravo a mescolarmi nella molteplicità di aspetti di una condizione troppo sotto il filo della co­ scienza, mi ritraevo concentrandomi di nuovo sulla scoperta della mia diversità e accettandone tutti gli inconvenienti. Ero stata accolta dalla famiglia di Marion con calore. Era tutta diversa dalla mia: un padre buono, debole e sullo sfondo; in primo piano una madre premurosa, intraprendente, piena di risorse; un fratello mino­ re. Come sempre da quando ero piccola in circostanze analoghe, mi comportavo come una figlia adottiva, come se quello fosse l’approdo desiderato. E all’inizio sentivo questo possibile: come in una terra eso­ tica, illudevo me stessa e gli indigeni della mia appartenenza a quel posto, ne magnificavo i pregi, mi mostravo incredula sui difetti, mi ci adagiavo bellamente. E poi scoprivo che non appartenevo a quel posto, mi stancavo di quella mia identificazione, mi sentivo oppressa, mi sentivo scoppiare. Cominciavo il lavoro di demolizione: tutto era troppo viscerale, troppo imbevuto di affetto, di ricatti; era un’oasi stuc­ chevole, senza spazio per qualcosa di diverso che ero sempre sul punto di rinnegare perché tremendamente arido al confronto, scomodo, sco­ stante, povero, avaro, guardingo, intollerante, brusco, carente, ma mio. Quando, da piccola, a due anni e mezzo, è nata la sorella secondoge­ nita, ricordo la tensione per cercare di mettere in cattiva luce la neo­ nata: “Ha fatto la pipì, ha pianto ecc.”, e il mio senso eli impotenza nel constatare che questo era impossibile. Ricordo la mia insistenza, la mia gelosia, e il rimprovero degli adulti, la loro sorpresa di fronte a tanta “perfidia”, che mi rendeva indegna del loro affetto. Sicuro che ho provato l’istinto di abbandonarli per punire me e fare vedere a loro, cosa credevano. Anche avrò fantasticato su una ricostituita, con loro o con altri, famiglia ideale dove mietevo affetto e predilezio­ ne. Con altri, soprattutto, per rivelare ai genitori quanto fossero stati ingiusti con me che non lo meritavo. Così fino da piccola ero famosa per adattarmi nei milieux più disparati, ma anche per stancarmene deludendo così chi mi aveva accolto. Mio padre disapprovava questa mia caratteristica come un evidente esempio di eccessi e di volubilità. Dalla considerazione degli altri mi ripromettevo una beatitudine che

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poi non provavo: la beatitudine interrotta, quella con i genitori, in particolare con mio padre, era sparita per sempre con la nascita di mia sorella e mai più l’avrei potuta riprovare con la sostituzione. Nella voluttà del tradimento con cui speravo di dare un nuovo corso alla mia vita; nella delusione di un affetto ricevuto da altri, ma non così riparatore; nel senso di colpa per l’operazione che tramavo nei confronti della famiglia; nel rientro in essa con la coscienza che lì niente era cambiato per me, che non sarei più stata amata e accetta­ ta come un tempo senza condizioni né confronti, ho smaltito la mia passionalità di bambina e poi di adolescente e sono arrivata all’incontro con l’uomo. Questa era l’ultima occasione per operare una sostituzione finalmente soddisfacente, ma ormai ero pronta a rico­ noscere l’assurdità di questa speranza e a uscire vittoriosa dal richia­ mo affettivo per dare libero corso alle esigenze di autonomia che nel frattempo mi si erano ingigantite come risultato della mia autodifesa dal vedermi troppo debole in rapporto agli altri. Credo che sia stato in questo bisogno di accelerare la mia autonomia che ho cominciato a sforzare la tiroide: parte di me regrediva continuamente verso le oasi affettive del triangolo perfetto che avevo vissuto - padre, madre e io; la parte eli me che prendeva coscienza della irrimediabilità della mia situazione di regina detronizzata mi spingeva a rifiutare in mi­ sura sempre maggiore quel condizionamento che era ricerca di una soluzione affettiva. Avere avuto esuberanza ed espansione nel clima felice dell’approvazione familiare fino ai due anni e mezzo era una sensazione troppo mitica e remota per non dubitare comunque della realtà eli questo paradiso perduto, d’altra parte l’averlo assaporato per così breve tempo e in stato di completa incoscienza costituiva come un antefatto radicato nel mio essere. Dalle fotografie dei miei primissimi anni di vita si vede una bambina vivace, con uno sguardo attento. Non avevo paura di niente, dicevo sempre quello che notavo e mi passava per la mente, apostrofavo con confidenza gli estranei e avevo dato chiari segni di precocità. A un anno e mezzo dicevo questa poesia: Tre pulcini andando a spasso incontrarono una volpe che venendo passo passo leggiucchiava il suo giornale.

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“Buona sera, miei piccini, e di bello che si fa?” “Giacché mamma è andata fuori siamo usciti dal pollaio, vogliamo fare un po’ i signori e andar di qua c di là.” “Brava, bravi per davvero, voglio stringervi la mano.” Sì dicendo s’appressò e giu giu se li mangiò.

Mio padre Jacopo era figlio di artigiani; rimasto orfano prestissimo di un genitore ultrasettantenne e di una madre molto più giovane morta di stenti, era vissuto fino ai quattordici anni in un orfanotrofio pagato da un benefattore. Uscito di lì, era andato in casa del fratello i cui figli, più grandi di mio padre, erano da lui mantenuti agli studi. Un bel gior­ no il fratello, alcolizzato, lo rincorse con un coltello e mio padre se ne andò a vivere da solo. Venne la guerra: mio padre fece la Libia, poi il Carso finché chiese di passare nell’aviazione e, come ricognitore, volò fino alla fine delle ostilità. Tornato a Firenze, dopo qualche occupazio­ ne saltuaria, riprese la lavorazione dei metalli come operaio, e poi si mise in proprio. A trentacinque anni si sposò con mia madre, Eletta. Lei era una ragazza a sua volta orfana di madre, con una matrigna e quindici fratellastri; all’epoca in cui conobbe mio padre stava presso certi zii a Firenze. Era diplomata maestra (mentre mio padre aveva solo la sesta elementare sebbene gli studi fossero stati la sua passione), ma non esercitava come maestra, era invece tristemente impiegata in una ditta. Per questi due orfani una famiglia propria, dei figli propri erano un mito, un ritorno alla pienezza di esseri umani. Per questo, suppongo, io che sono la primogenita sono stata accolta con un tra­ sporto che mi ha fatto sentire il centro dell’universo. Avevo la sensa­ zione che nessuno potesse resistermi. Ero io la creatura più attesa. Nelle fotografie mia madre ha lo stesso un’aria di vergine malinconica e riservata, mio padre ride come uno che deve ugualmente realizzare ancora molto prima di dirsi contento di sé, me ne accorgo adesso, ma allora sentivo in loro un’adorazione senza riserve. Quando in seguito tutto mi apparve cambiato, il mio posto sulle gi­ nocchia di mia madre occupato da una grossa bambola di carne che

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mi guardava con feroce esclusivismo mentre mio padre mendicava la sua attenzione e trascurava la mia, sono precipitata in un mondo di dolore che non capivo e che rigettavo fortemente. All’inizio ero spe­ ranzosa di cacciare l’intrusa screditandola, forte delle mie conquiste, prima tanto apprezzate, dovute alla mia maggiore età, ma c’è stato un momento disperante in cui ho intuito che ogni mio tentativo sarebbe stato inutile, e che al contrario mi veniva addebitato come qualcosa che ancor più giustificava l’attaccamento dei genitori verso la povera indifesa e senza colpe. In questa tristezza ho cominciato comunque ad amare la piccolina, ad andare orgogliosa di lei, cosa che mi riuni­ va ai genitori, ma non trovavo più una linearità di comportamento e mi confondevo nelle mie contraddizioni. Quello che mi ha salvato è stata l’enorme curiosità che avevo per “il fuori”, una vera risor­ sa scaturita dall’autodifesa, insieme al proseguimento delle fiduciose esplorazioni che avevano caratterizzato il mio comportamento da piccolissima. Ma ogni tanto il cuore mi si fondeva alla constatazione del privilegio perduto. Solo una zia parteggiava dichiaratamente per me, mi trattava ancora come quel capolavoro che mi avevano dato a intendere di essere, scopriva e lodava i tratti del mio carattere e della mia sensibilità, criticava apertamente i miei per il disfavore in cui mi avevano relegata e persino la sorellina che, al contrario di me, cresce­ va morbosamente attaccata alla madre senza interesse per altro, lenta a camminare, a parlare, ad ambientarsi su questa terra. Questo lato di lei mi commuoveva e mi irritava come un trucco sleale. Neanche io rientravo negli affetti di mia sorella: le prime manifestazioni verso di me furono graffi, morsi e calci dati con una violenza che mi lasciò al­ libita. Ricordo un graffio profondo sulla mia guancia e un pezzettino di pelle sanguinante del mio braccio che Lucia si trovò fra le labbra. La zia che mi proteggeva fece una scena di indignazione che mi con­ solò dell’oltraggio fuori del previsto. Però qualcosa succedeva in me: cominciavo a commuovermi a certi racconti, per esempio a quello di S. Tarcisio, un giovanetto cristiano che votole portare in salvo una pisside di ostie consacrate, e viene scoperto e lapidato dai romani. Sul libriccino c’era anche un’immagine di questo bambino che corre con il vestito lungo e l’aureola già intorno alla testa. Una canzone poi, Balocchi e profumi, che mio padre cantava con appropriate sfumature, aveva il potere di mandarmi sotto il tavolo a singhiozzare. E la storia di una bambina che sta morendo mentre la madre è assente tutta pre­

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sa dalla vita mondana; poi torna con dei balocchi, ma è troppo tardi perché la malata “il capo già reclina, e già socchiude gli occhi. Piange la mamma pentita stringendola al cuor!”. Dove non so se era più lancinante la morte della bambina trascurata o il pianto della povera madre. Questo rappresentava il test della mia sensibilità: gli adulti si rallegravano nel vedermi distrutta. Ne arguisco che avevano del­ le preoccupazioni sulla mia, diciamo, identità. Ricordo esattamente una sensazione rimasta per me fino a oggi inspiegabile e che risale anch’essa ai primi anni di vita. Mi ero accorta a un tratto - stavo nella mia camera da letto - di non sapere più chi fossi, di non avere più la chiave dei miei gesti. Accadeva una cosa a cui avrei creduto di rispon­ dere in un certo modo e non avevo più la reazione prevista, anzi non avevo più reazione oppure me ne veniva una che mi sembrava non mi appartenesse. La nuova reazione era in rapporto con il bisogno di dare di me un’immagine depurata della sofferenza. Questo la rende­ va sopportabile poiché, non suscitando più commiserazione, potevo attribuirle significati interiori che volta a volta la riscattavano in una sfera diversa. Ma così facendo perdevo il contatto con l’esterno e mi addentravo in un luogo senza punti fissi, dove scoprivo il pericolo della falsità, dell’irrealtà, dell’arbitrio. Rimaneva nel fondo il bisogno di rivelarmi, ma non sapevo più come, poiché comunque non avrei potuto confessare quanto ormai mi trovavo compromessa dal tentati­ vo di sfuggire al controllo degli altri. Ecco perché provavo la necessità di un nuovo ambiente dove identificarmi. Avendo perso la fiducia di essere interpretata per il meglio, non me la sentivo più di manifestarmi per come ero, ma in fondo non me la sentivo neanche di esserlo come ero: lo spettro della cattiveria mi per­ seguitava. Ma intanto che fare se gli altri, al culmine della delusione, rimproverandomi irridevano la mia sofferenza? Non mi restava che sottrarmi al loro giudizio, nascondermi ai loro occhi: sarei riapparsa in seguito al di sopra di ogni sospetto. Ma come e quando? Soffrivo sia per la gelosia sia perché mi veniva addebitata come una indegnità dai genitori: avevo il doppio smacco di soffrire per amore tradito, per incomprensione e perché io stessa finivo per rappresentare un tra­ dimento delle loro aspettative. Da vittima diventavo, ingiustamente, colpevole, cioè due volte vittima. Ecco perché mi identificavo con i piccoli martiri dei racconti edificanti: chiudendomi in me stessa e celando agli altri l’intrico di sofferenze, custodivo un segreto che mi

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isolava dalla loro confidenza e dall’espressione di me. Nello stesso tempo, però, mi ribellavo e, poiché non speravo di riuscire a ottenere giustizia sul punto che ero costretta a subire in tutta la sua fatalità e ir­ rimediabilità, mi trovavo ad avere comportamenti imprevedibili a me stessa e giustificati solo alla luce del mio segreto che agiva come mol­ la clandestina. Ecco perché agli occhi delle sorelle minori, che pure avrebbero potuto sentirsi in qualche modo partecipi di quella che poi è diventata la mia lotta ai vincoli familiari, agii arbitri del padre, al mito della famiglia, ai ricatti affettivi, all’ordine apparente, sono apparsa una personalità irragionevole ed eccessiva in cui era difficile accettare il rapporto tra causa ed effetto. Infatti la causa attuale aveva sempre un legame sotterraneo con quella nascosta causa originaria di cui neppure io avevo coscienza, ma che orientava i miei gesti e le mie parole con un’indignazione che non si smorzava, anzi si acuiva via via che con il passare del tempo l’imperativo all’autonomia, offertosi come unico spiraglio di salvezza al momento del disinganno, si raf­ forzava su nuova argomenti. Insieme a questa che era la conseguenza della rivelazione infantile degli strazi connessi alla dipendenza affet­ tiva, il richiamo all’affettività rimaneva e mi portava a quegli esperi­ menti con altri a cui ho accennato, via via che mi trovavo esausta per la sua mancanza. Rivivevo anche il mio appagamento nelle maniere nostalgiche del succhiare, solo che io non mi succhiavo il dito, ma la lingua stessa in una specie di intontimento regressivo che mio padre catechizzava brutalmente. Non ricordo episodi di autoerotismo da bambina, credo che ero troppo occupata nel succhiare, cioè nell’evocare qualche simbiosi affettiva per me più proibita e irraggiungibile di qualsiasi altro piacere. E come se tra il “prima” e il “dopo” si fosse formato un mare di lacrime troppo grande per essere attraversato in tutta un’esistenza. Ero una bambina sconvolta dall’avere avuto una brusca inversione di rotta come senso della vita, di sé, degli altri proprio da piccolissima nel pieno dell’entusiasmo inconscio della sua entrata nel mondo. Una volta che ho preso LSD, molti anni fa, mi sono sentita sciogliere in pianto un nodo di dolore ormai dimenticato e che era troppo primordiale per poterlo attribuire ad altro che a emozioni di perdita vissute nella primissima infanzia. Se non volevo fare compassione a nessuno, e tanto meno ai responsabili della mia sofferenza, era anche perché non intendevo incolpare i genitori a mia volta, mentre loro seguivano ahimè solo gli impulsi spontanei del loro

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cuore. Forse davvero ero meno interessante di quella neonata, oppu­ re lei aveva davvero dei pregi a me sconosciuti: anche queste ipotesi erano da appurare. Comunque il dato di fatto era che la situazione non offriva rimedio. Di notte sognavo “zingari furbi e mascherati” che volevano rapirmi e i genitori mi salvavano: rimaneva il mito della bontà dei miei, ma già erano sdoppiati in persone paurose e malefiche che mi terrorizza­ vano. Forse su questo si innesta anche la sensazione di metamorfosi inspiegabile che posso avere provato assistendo o intuendo i loro rap­ porti sessuali, dal momento che dormivo nella stessa stanza. Infatti nella poesia parlo de “l’ombra del sacco e il brillio del coltello”: li ho visti come due complici che tramano contro di me. Eppure io ero buona, bella, brava, chi poteva togliermi più dalla testa di essere così? Ero la primogenita, la prediletta: come potevo scendere di rango, accettare di essere declassata come una qualsiasi della moltitudine di bambine sparse per il mondo e che non si sentivano niente di spe­ ciale? Io ero un “meraviglioso essere in incognito”, e non capivo che altre potessero sentirsi così e non scambiarci neppure un segnale. 5 ago. La venuta di Sara qui in Sicilia è stata importante per chiarire i rapporti tra me ed Ester. Infatti, quando ci siamo trovate insieme, mi sono sentita spinta a parlare senza riserve, ho smesso i silenzi che mi capitava di avere con Ester, ho smesso di collaborare con lei alla coscienza dei suoi problemi. Con Sara mi apro, è la prima persona, donna, con cui lo faccio perché sento che i miei contenuti sono ca­ piti e trovano un riscontro. Con Ester credo che il senso del nostro rapporto fosse per me la possibilità di partecipare alla sua esperienza per liberarmi della inferiorizzazione che produceva su di me. L’inferiorizzazione scaturiva dal vedere una persona manifestarsi libera­ mente senza tenere conto degli altri e dalFaccorgermi come questo atteggiamento fosse l’unica maniera per destare simpatia. Inoltre ci vedevo proprio autenticità e bontà mescolate insieme. Io sentivo la mia personalità inceppata nell’autodifesa, potevo tacere tutta una se­ rata se qualcosa mi disturbava, mentre Ester sorrideva cordialmente e usciva tutte le sue battute una a una fossero o no a proposito senza dare troppa importanza a chi le stava attorno, e senza per questo cessare di essere gentile e premurosa. Mi chiedevo come ciò fosse pos­ sibile. Io ero incapace di concentrarmi: se dicevo qualcosa, spesso

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era ben lontano da essere quello che mi occupava in quel momento: buttavo lì delle frasi poco significative. E stato nel femminismo che mi sono scoperta inesauribile, lucida, senza pause, in contatto vivo con le altre. Certo non parlavo facilmente della mia vita, piuttosto dei risultati a cui ero arrivata. Una forma di autodifesa che restava era quella connessa al fatto di accorgermi che si sarebbe desiderato da me “più calore umano”, cosa che mi turbava senza che riuscissi a capire perché. Spesso, quando si avvicinavano delle crisi di diffiden­ za nel gruppo, Ester veniva a Milano e vedevo che in realtà andava meglio, il punto morto si superava, io mi rasserenavo. Tuttavia rap­ presentava una sconfitta l’avere io portato le cose in un modo tale da intimorire, da lasciare dei dubbi di troppa intellettualità, troppa drasticità. Perché? Per esempio, dopo la pubblicazione del libretto sul sesso, alcune mi hanno detto che andava bene, e certo era piaciuto, era una forza, ma sotto sotto sentivo che la maniera in cui era scritto sembrava troppo cervellotica, troppo rigida. A me invece piaceva, al­ trimenti non l’avrei scritto: ci vedevo il riserbo, la lucidità e il tremito impercettibile che ha il mio modo di ragionare, tra lo sdegno conte­ nuto e la sofferenza risolta, ma non dimenticata, e il giro del pensiero che sdrammatizza il contenuto e raffredda l’urgenza espressiva. Così mi corrisponde scrivere e così mi dà piacere, così ho imparato a farlo quando, prima del femminismo, dovevo prendere coscienza delle mie sofferenze senza che diventassero “risonanti” sulla pagina. Da dove mi sarebbe dovuta venire la fiducia per renderle partecipabili? A chi? Non erano scritte per commuovere o attirare un lettore in sincronia con me: erano fatte per esaminare e conoscere. Questo Sara lo ha capito e non mi abbandona per gustare situazioni più “umane”. Sic­ come non è una donna in cerca di comprensione e di affetto materni per affrontare le durezze del femminismo, durezze di autocoscienza, sento che i miei contenuti, i miei processi trovano rispondenza. Ma questo è un imprevisto per me, che mi libera dalla inferiorizzazione subita nel mondo vaginale da parte delle donne non meno che deH’uomo. Ricordo che da ragazzina, durante gli scontri con mio padre, l’umiliazione più grande era quando mia madre interveniva a dire “Basta con queste discussioni: volete tutti e due l’ultima parola, e così non si finisce più”. A volte era più drammatica, ma sempre su questo schema: incompatibilità di caratteri, nessuno che vuole ce­ dere, non ci sarebbe ragione di bisticciare se i contendenti fossero

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meno animosi: i caratteri forti avevano rovinato la sua vita. Riusciva a sminuire tutto in modo tremendo, mentre mio padre mi faceva soprusi come a una bambina, ma mi interpellava come una grande, mi prendeva sul serio, si impegnava a schiacciarmi come se la cosa fosse tutt’altro che facile, metteva in ballo la sua abilità dialettica, voleva vincermi con la logica oltre che con lintimidazione, mentre io ribattevo a tutto e anzi aggredivo con le mie accuse, e lì di solito finiva malamente. Sapevo dove colpirlo e mi comportavo dente per dente. A volte accusava il colpo “Hai la lingua biforcuta, sei un serpente velenoso, vuoi ferire, vuoi fare male”. E lì che ho imparato a non lasciare a nessuno che mi contrastasse il ricordo o il dubbio di una vittoria, come voleva significare mio padre quando apriva e chiudeva l’indice e il medio per indicare la lingua biforcuta, cioè la cesoia. Per mia madre non c’erano né vinti né vin­ citori, né argomenti validi né violenze, per lei c’era solo confusione. Detestava le liti e non ne faceva mai, ma il fatto che considerasse liti i miei scontri con il padre mi sminuiva più di qualunque sopruso di lui. Così, se impazzivo di rabbia e di dolore per il riconoscimento di me costantemente negato dal padre (anche se lo intuivo nella forma mai risolta dello scontro in cui lui si impegnava), rimanevo impotente e muta di fronte a mia madre a cui non ho potuto manifestarmi se non compiacendola distrattamente e infine trascurandola io stessa come persona e rivolgendomi a lei soltanto e sempre più raramente come madre. Così mi sono abituata a considerare l’uomo come cen­ tro dei miei desideri di riconoscimento, mentre la donna era sempre e quasi ovviamente un incontro secondario. Quando con Marion mi sono sentita alla pari per me è stato un avvenimento straordinario, di cui ho scritto nel diario e che comunque si è ben stampato nella mia mente. Prima, con le amiche, davo libero corso a quello che avevo in comune con loro: l’età e i problemi connessi, ma l’aspetto più intimo di ciò che avevo vissuto e i suoi fermenti rimaneva nascosto. In collegio avevo trovato delle donne, una in particolare, una suora che era in grado di riflettere con me sui tormenti della mia anima: la distorsione del nostro rapporto era che io dovevo essere buona, e l’impresa mi affascinava poiché si trattava di ricominciare da capo in un altro mondo fuori dalla famiglia un corso della mia vita non compromesso dai conflitti con il padre. Ricominciare era una mia speranza: mi sentivo candida e volta al bene, pronta a tutto pur di tes­

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sere le mie giornate di gesti di cui fossi contenta. 11 collegio mi offriva questa opportunità. Ma era vincolante e io avevo il mio passato di cui non riuscivo a liberarmi. Constatavo che esistevano in me alti e bassi, spinte contrastanti, e dovevo essere buona; sprizzavo orgoglio e non ammettevo fraintendimenti su di me, qualcosa di scomposto mi agi­ tava, facevo di tutto per calmarmi, per rassicurarmi, e dovevo essere buona. Pensavo con raccapriccio ai miei rapporti con il padre mentre le suore dipingevano ai nostri occhi immagini idilliache di famiglie perfette con figlie perfette. Avevo il fervore della peccatrice che si re­ dime. Mio padre veniva a trovarmi tutte le domeniche in parlatorio, e io avevo il piacere di presentarmi a lui compunta e miracolata nella mia divisa alla marinara mentre le suore accennavano all’acquisto di virtù cristiane, che lo lasciavano abbastanza indifferente. Una volta una suora si lamentò perché non abbassavo gli occhi quando ero rim­ proverata, ma mio padre intervenne affermando di essere stato lui a sollecitare quel comportamento. Da piccola mi sgridava se parlavo in tono lamentoso con la vocina che fanno le bambine per impietosire: “Andiamo, dì quello che devi dire con la tua voce normale”. Fra pa­ renti non voleva smancerie “E niente baci sulla bocca, non è igienico, e poi non mi piace”. Dopo gli scontri e i rimproveri non chiedevo mai perdono, magari riparlarne, ma quella parola mai. In collegio si usava dire “Mi scusi”, ma il senso era quello di essere perdonate. A suor Caterina l’ho detto perché non avevo competizione con lei e questo la faceva scivolare un po’ nel ruolo di madre. In effetti è stata una sostituta di mia madre e io le ho voluto molto bene. La trovavo aristocratica perché aveva rifiutato il matrimonio, questo mi garan­ tiva anche della sua indipendenza. E poi era graziosa. Tutti i suoi tratti e gesti mi piacevano e la imitavo perfino nella calligrafia: volevo essere amata e stimata da lei, perciò ero costretta a nasconderle parte di me. Quella parte che riuscivo a manifestare solo con mio padre. Mi rendevo conto che mio padre mi amava di meno conoscendola, ma almeno mi conosceva anche se non mi accettava, mentre mia madre non sembrava interessata a conoscermi: mi avrebbe voluto bene comunque alla sua maniera... Ma che maniera aveva mia ma­ dre di amarmi? So che mi giudicava anche lei eppure si manteneva agnostica sui contenuti; forse le piccole cose le vedeva, ma il resto le sfuggiva un po’. Diceva “Io sono per la libertà”, intendendo che me la dava, peggio per me se la adopravo male, però non si accorgeva

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quando ne facevo uso, non si sforzava fino a quel punto. Mentre mio padre non ammetteva principi generali di quel genere: “Che libertà e libertà, sei ancora una mocciosa, e parli di libertà..., per adesso ub­ bidisci, fila!”. Era veloce a scoprirmi in furto di libertà e a punirmi. Mio padre conosceva la libertà e la reprimeva nei figli, mia madre non la conosceva, ma voleva darla avendo sperimentato il contrario su di sé. Così l’ho apprezzata tanto per la promessa anche se non ha potuto mantenerla: quella libertà che mi sono presa a tutt’oggi non l’ha riconosciuta. Vede ancora il lato di arbitrio e di disordine in quello che ho fatto, mentre mio padre, un giorno, mescolando lo zucchero nella tazzina di caffè, non tanti anni fa, ha ammesso “Mi hai fatto arrabbiare, figliola, però non sei cattiva, forse ho esagerato... Beh, acqua passata”. In tre anni di collegio avevo conosciuto un po’ più a fondo il mondo femminile, e mi ci ero identificata al punto di non volermene più al­ lontanare, ma appena uscita, verso i tredici anni, l’ho abbandonato di colpo tutta presa dalla mia riapparizione nel mondo. In collegio mi ero formata dei tratti che a quel momento non sapevo di avere: sarebbero venuti fuori a poco a poco in una direzione che non era quella prevista dalle suore. In collegio per la prima volta ero sola, nessuno con cui contrastare, nessuno da perseguitare intanto che mi perseguitava, sola, uguale a tante altre, sola con me stessa. Le suore si prendevano cura di noi, ma di fronte a loro io non ero che una bambina venuta dopo altre e che sarebbe stata seguita da altre nel futuro. Non c’era possesso, né legame, né ipoteca né niente: potevo andarmene se volevo, la mia presenza era puramente accidentale. Questa accidentalità mi piacque, la assaporavo per la prima volta, se si eccettuano i soggiorni casuali presso parenti che però prendevano subito atteggiamenti da genitori. Qui no: le suore erano riservate, facevano tutto benevolmente, ma con distacco, era bello riuscire a trovare un momento intenso con loro e poi allontanarsi ciascuna nella sua preghiera. Dopo la casa caotica e rumorosa, sempre invasa di piccoli, il colle­ gio era un luogo silenzioso, ordinato, pieno di rituali rasserenanti. Lì sono riuscita a concentrarmi: c’era qualcosa di pauroso in tutto questo, ma ero una bambina coraggiosa e andavo dritta nelle medi­ tazioni, senza retrocedere fosse pure di fronte alla morte, all’eternità. A volte la notte stentavo a dormire con il senso di qualche orrenda trappola a cui non avrei potuto sfuggire: pregavo, mi raccomanda­

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vo a Dio, incrociavo le braccia sul petto stringendo il crocifisso. Ma più spesso accantonavo i lati angosciosi e mi dedicavo alla scoperta e alla ornamentazione della mia anima: è così che ho desiderato di diventare santa, tanto più che non esiste una santa con il mio nome. Le suore scherzavano su questo, ma io sapevo che molte profezie erano state fatte con aria candida in un momento qualsiasi, e mi in­ terrogavo sulle mie forze. Potevo farci affidamento, niente avrebbe potuto distrarmi e il progetto mi esaltava. Non credo che da allora ho mai tagliato netto con questa aspirazione, mi piace pensare che me la porto dentro in qualche modo, con mutevoli vicende e significati. Una cosa di cui andavo orgogliosa era la mia meditazione sullo Spi­ rito Santo; l’avevo scelta fra tante perché mi sembrava la più miste­ riosa e promettente. La facevo ogni giorno per cinque minuti. Mi inginocchiavo nella cappella vuota, chiudevo gli occhi e vedevo un prato: a un tratto appariva una colomba bianca e io la seguivo men­ tre volava. Difficile era mantenere nella visione sia il prato che la co­ lomba: questo era il culmine della riuscita, perché a volte la colomba alzava il volo e, per seguirla, perdevo di Usta il prato. Pilliti i cinque minuti, mi alzavo con una sensazione molto strana di meraviglia che attribuivo agli specifici pregi dello Spirito Santo. Mi capitava a volte di fare azioni leggermente fanatiche di cui mi pentivo poiché la vocazione in cui mi riconoscevo di più era intima e nascosta: una volta, per il venerdì santo, le suore ci fecero proiettare un film di Duvivier sul Cristo al Calvario, e durante la proiezione mi venne da piangere sommessamente. Ma sentendo una mia amica singhiozzare nel buio, forzai la mia commozione fino a perdere il controllo. Poi me ne vergognai perché, tra l’altro, ero cosciente che si trattava di un film, di un attore, di un misto di sacro e di profano. Un ricordo paradisiaco è quello della mia partecipazione al coro della cappella: cantare in chiesa, durante le funzioni, entrando al tempo giusto e alzare la voce con trasporto nei gorgheggi del gregoriano, così dif­ ficili, era un modo di andare oltre la meditazione, in una specie di rapimento collettivo. Ero molto contenta dell’organo con la sua voce potente e irrefrenabile. Non sarei quella che sono se non avessi avuto modo in collegio di sperimentare tante possibilità spirituali, tance emozioni fuori dal rapporto con la famiglia, proprio in me stessa per la mia ripresa.

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6 ago. Sono venute a trovarmi Ester, Piera e Monica. Avevo ancora la febbretta pomeridiana ed ero stanca, tutto mi deprimeva e face­ va antipatia. Certo ero frustrata dalla debolezza, dall’aria trasandata che ho per ora, dalla preoccupazione. Temevo invadenze di qualsiasi tipo. Per Ester è un impegno totale quello di prendere coscienza delle sue caratterialità, però temo che se non accetta di passare qualche momento di silenzio finirà sempre per comprimere le altre. 7 ago. Una peculiarità di Ester è quella di non eclissarsi mai, di essere sempre sulla scena: quando sono malata e non ce la faccio a fronteggiare la sua emotività mi sento sopraffatta, quando sto bene quell’ansia mi commuove e posso superarne la capacità di mettermi a disagio. Spesso quello che dice Ester mi sembra indelicato, molto di umore e poco di coscienza: parlare di sé in un clima così diventa insopportabile. Ieri sera, qualsiasi cosa dicesse Piera, Ester commen­ tava “Ecco la clitoriclea, ti ho capita”, e così finiva per mitizzare quei lati di inferiorizzazione che vanno invece chiariti nell’autocoscienza, tanto più che Piera tende a coprire le sue sofferenze dicendo che va bene così, che non le interessa esprimersi, che le basta esistere, che l’uomo le piace solo come oggetto, cioè fa delle sue chiusure con cui ha resistito all’insicurezza là dove altre si sono precipitate a ottenere comprensione e approvazione, qualcosa di valido in sé. Figurarsi! Con il femminismo la clitoridea esce dal pozzo e si guarda attorno, vuole fare a meno dell’autodifesa, vuole! Vuole! Non ne ha più bisogno, anzi tende a manifestarsi, a introdurre un’autenticità nel mondo che non sia quella di chi collabora ciecamente alla sua propria schiavitù. 8 ago. Piera dà sempre le colpe agli altri, si lamenta degli altri, mi sembra che abbia avuto sensazioni di impotenza molto forti, ma non ne fa autocoscienza. D’altra parte non si può non essere d’accordo che il mondo maschile è il ricettacolo di ogni obbrobrio. Tuttavia la denigrazione dell’uomo finisce con la conquista della propria identi­ tà nel femminismo: il superiore non va abbattuto, ma liberato della sua superiorità. In Sputiamo su Hegel dicevo “Abbandoniamo l’uomo a se stesso”, cioè alla inautentica assimilazione di sé al fallo, al pote­ re. Adesso è un momento diverso: mi sembra da inferiori non dare all’uomo l’opportunità di rivelarsi autentico poiché è da superiori

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non dare importanza all’autenticità. Togliere all’uomo il misconosci­ mento dell’autenticità è togliergli il senso del potere, ricondurlo alla parità. L’inferiore si libera dell’inferiorità riconoscendo le sue inferiorizzazioni e diventa soggetto: come soggetto apre gli occhi sull’altro e lo misura sull’autenticità che è il valore scoperto nella sua libera­ zione. Se l’altro non accetta per salvaguardare il suo piano di potere si manifesta inautentico, dunque in cjuel momento inferiore. Così la donna, proponendo la parità, è in grado di rivelare chi non è sensibile ai richiami della liberazione in quel momento, dunque in quel mo­ mento veramente inferiore. L’oppressione non si risolve con la giustizia della rotazione del potere, ma in modo che l’inferiore, offrendo la parità al superiore crei in quel momento con l’altro la parità; per realizzarla infatti, l’altro deve a sua volta liberarsi della superiorità che lo mantiene inautentico e che egli sente adesso come la vera inferiorità. La dialettica maschile servopadrone porta a una nuova forma di dominio da parte degli oppressi poiché il servo identifica la sua inferiorizzazione nella mancanza di potere e perciò costruisce se stesso a immagine del padrone, mentre deve demolire in se stesso l’inferiorizzazione. Questo permette all’a­ tro di liberarsi della superiorità come senso di sé attraverso lo stes­ so procedimento messo in atto dall’inferiore: l’autenticità. Ognuno compie così i suoi gesti per raggiungere la parità, ognuno è attivo per il suo bene. Nella crisi della cultura vaginale promossa dalla donna clitoridea, av­ viene la presa di coscienza che libera la donna della sua inferiorità e l’uomo della sua superiorità. Il fatto che sia la donna clitoridea non deve inferiorizzare la donna vaginale poiché essa trova in questa cir­ costanza l’occasione per riconoscere la clitoridea, dunque per fare quell’atto di autenticità che la mette alla pari con l’altra e che l’altra a sua volta non può non riconoscerle. Per parte sua, l’uomo non dovrà più temere di riconoscere alla donna la messa in moto di un processo di liberazione valido anche per lui poiché, solo se lo spettatore diven­ ta attivo, l’attore perde una condizione privilegiata, cioè non è più visto come superiore, ed è chiamato a manifestarsi sul piano di parità. Altrimenti “superiore” è uguale a “inferiore” (non a “inferiorizzato”). Anche oggi ho la febbre e tutti questi arzigogoli sono da mettere in relazione a una specie di eccitazione cerebrale connessa allo stato fìsico: cerco un po’ di assoluto vasto che mi sento precaria.

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Stamani sono venute Ester, Piera e Monica. Penso a Sara con no­ stalgia, alla calma che lei mi dà, a come distingue bene l’autenticità dei miei gesti. Nel gioco del “I Ching” a me è venuto il segno detto “Stoltezza giovanile”, dato che avevo interrogato sul mio stato di sa­ lute, così è apparso subito il richiamo all’origine della mia condizione generale. 10 ago. Una padrona di boutique-salon de coifTure, molto somigliante a Claudctte Colbert, vivace e cordiale. Ma la volta che vado nel negozio per fissare l’appuntamento della messa in piega al tardo pomeriggio, appare seccata: dove­ vo sapere che a quell’ora non è possibile, è chiuso. Si ricorda di avermelo già det­ to in precedenza. Intanto non mi guarda in viso e sfoglia un quaderno di conti. Rimango stupita, non so ribattere, la considero lunatica. Intanto che sogno altre cose mi pare di avere dato qualche occhiata per vedere se il negozio fosse aperto. Dietro una porta che non oltrepasso, ma dove sono stata invitata, scorgo a spraz­ zi qualche scena nell’interno: vedo un musicista che conosco. Mi accorgo che ha vicino una ragazza con un bel corpo sensuale: mi riprometto di oltrepassare quella porta, ma non lo faccio.

Voglio raccontare questi sogni alle amiche più tardi, sentire cosa ne pensano. Nel primo la padrona della profumeria (questo particolare può collegarsi con la madre di Balocchi eprofumi) è in grado di deluder­ mi senza accorgersene e senza sentirsi in colpa poiché rispetta le leggi della realtà. La messa in piega significa che io vorrei si occupasse dei miei pensieri, invece lei è tutta presa dalle considerazioni pratiche del bilancio. Ho raccontato i miei sogni ed Ester era inquieta per il primo: questo mi ha dato senso di colpa e desiderio di dirle qualcosa per metter­ la a suo agio. Non vorrei tormentarla, ma vorrei si rendesse conto che per tutti questi anni lei si è espressa con me e io molto meno e che adesso la mia identità è eia lei immediatamente adoperata. Temo che questo la porti, più che a darmi garanzie di un interesse che mi rispetti e mi permetta di esprimermi, a irrompere nei miei confini. Ho visto ad esempio l’operazione su Piera che Ester ha identificato non sull’autocoscienza, ma su caratteri esteriori, così la interpreta e apparentemente la riconosce, in realtà li cede per la fretta di risolvere i propri nodi.

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Monica mi ha accusato di non avere emotività nell’autocoscienza, e questo mi ha disturbato. Mi viene in mente adesso che l’episodio del pianto sul film in collegio mi ha lasciato un brutto ricordo proprio perché era una competizione sulla visceralità; farei lo stesso adesso nel gruppo se volessi essere come Ester, sarei la sua caricatura. E tradirei il contenuto della mia vita che è stato quello di resistere a mettere in primo piano il momento del subire confidando nella par­ tecipazione dell’altro: contemporaneamente dovevo rivelare che ne avevo fatto tesoro per la conoscenza di me, che questa capacità do­ minava gli avvenimenti e costituiva la mia storia. Non pretendo altro che mantenere e svilupparne la certezza. Di questo processo le mie poesie sono state l’espressione nella solitudine: mi hanno dimostrato che il mio bisogno era autentico e da esse ho preso forza per vivere nel mondo maschile senza perdermi. 13 ago. Sono a Elice sempre con la mia febbretta. Ancora una volta devo allontanarmi dagli altri per concentrarmi e guarire. Il clima di Macari era troppo torrido, non mi dava pace. Proviamo qui. Per adesso mi sento spaesata. Il giorno 11 lo abbiamo passato insieme Ester, Piera, Monica e io perché Simone era via. Abbiamo detto tut­ to, è stato così intenso che al pomeriggio avevo 38 di febbre. Poi è sce­ sa. La sensazione che il fìsico mi tradisce mi fa sentire molto sola nei momenti critici. L’adesione di Ester blocca Piera nel timore di delu­ dere le sue aspettative mostrandosi come realmente è, così la vedo in­ certa e sulla difensiva. Questo mi ha spinto ad affrontare l’argomento con Ester che ha subito raccolto ammettendo di oggettivizzare Piera. Lei deve stare attenta a non mettersi in secondo piano, gratificata dal fatto che Ester fa mostra di prenderla a esempio per risolvere dei suoi problemi: in effetti Piera lascia all’altra la prerogativa di avere dei problemi urgenti. Ma quando verrà il momento in cui la clitoridea si sentirà di porre i suoi? Anch’io sono abituata a non formularli, li inserisco di straforo come sfumatura anomala nella formulazione di altre. Adesso Ester mitizza questa resistenza perché non l’ha avuta; Piera e io siamo di nuovo im­ pedite a vuotare il sacco. Dobbiamo arginarla e riportarla nei confini dell’ascolto. Piera ha detto che si sente in colpa ascoltando troppo: questa è autocoscienza perché è vero che, non ricambiando, si soffre della propria sfiducia e della nudità a cui l’altra va incontro allettata

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dal silenzio. Un punto finalmente venuto fuori è che Ester, trovando continuamente analogie, si intromette e finisce per ridurre l’altra al ruolo di spettatrice. Credo che questo sia connesso con il funziona­ mento che le ha permesso la creatività, a cominciare dai rapporti con il marito artista: all’inizio era lui il soggetto, poi è diventato suo materiale, poi si è trovato svuotato. Nel femminismo bisogna evitare che una prevalga intanto che l’altra si annienta senza accorgersene. Piera deve esprimersi, deve piano piano provare il piacere di esse­ re ascoltata in tutti i passaggi, non c’è ragione che voglia rimanere implicita. Ha ragione Sara: la clitoridea deve parlare, potere essere esplicita, generosa e diretta come è suo bisogno e come non ha fatto per dignità. Ester è generosa, ma in quanto si appella fiduciosamente agli altri per essere rassicurata, e diretta non proprio: molte cose su di me le ho intuite da accenni spesso involontari, lutto questo è stato chiarito poiché voglio essere io a uscire dalle ambiguità. D’altra parte ho inteso tranquillizzarla su un punto delicato: il rapporto tra me e quelle che sento affini. Ester teme il voltafaccia e in parte lo sentireb­ be giustificato. Invece non è così, se per me è una gioia straordinaria rispecchiarmi in chi mi somiglia, e questo momento di serenità e di completezza sento che mi è dovuto, la mia prima iniziativa è quella di sdrammatizzare le differenze. E adesso Ester ne prova un’autentica necessità: posso e devo svelarmi mettendole di fronte i miei problemi, prima mi facevo conoscere soprattutto attraverso la partecipazione ai suoi. Così lei è uno stimolo alla mia autocoscienza in maniera di­ versa, ma altrettanto importante di Sara. Dicendole questo mi sono sentita contenta perché non voglio ombra di sadismo in questa fase dei nostri rapporti. Monica, sempre quel pomeriggio, mentre eravamo sul letto tutt’e due con la febbre, mi ha detto di essere innamorata di me. Ormai ne ero quasi sicura: le ho fatto notare che sta sovrapponendo fantasie di vario genere su di me per rendermi desiderabile: mi pensa irraggiun­ gibile, distaccata, mentre sono disponibile, vicina, attenta. Si è inna­ morata sulla sensazione angosciante della possibile perdita da cui è scattato il bisogno di possesso e l’istinto del prendere, del garantirsi da questa catastrofe. Invece io sono la persona che ha più probabilità di stare con lei a tempo indeterminato nel gruppo e quella che più di altre si occupa di lei con cura: lo stesso avanza le pretese di un sen­ timento a cui non corrispondo, quindi sento come violenza che me

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l’abbia svelato. Adesso lei gusta i miei imbarazzi come stimoli erotici. Stasera sono tornate a trovarmi, ma non è stato un incontro molto sereno: io ero innervosita dall’atteggiamento di Monica che fa un po’ il maschietto della compagnia, provoca, ammicca, scherza, è eufori­ ca, poi drammatica; è distratta dal suo ruolo fra noi e vuole attirare nevroticamente l’attenzione. Ester la buttava molto sul ridere, cosa che mi stanca. Piera era delusa di non avere una serata all’altezza di qualche giorno fa, però non aiutava. Credo di avere rassicurato trop­ po Ester sulla mia buona disposizione verso di lei. Mi piaceva molto quando era più riservata e incerta sullo sviluppo dei nostri rapporti. 14 ago. Sono con delle ragazze giapponesi sopra un muro. Voglio saltare, ma loro hanno paura e si rifiutano. Allora chiedo a una donna, una specie di sorve­ gliante, se possiamo scavalcare del filo spinato grazie alla nostra buona condotta. Lei acconsente. Dopo sono con Simone in macchina: guida la sorvegliante che 10 sono contenta di avere portato al femminismo in cui le ho scoperto questa funzione importante. Quando ci fermiamo, ho paura che ci sia da saltare un muro, ma loro mi rassicurano. Ho un flirt con un medico malato al quale faccio delle avances abbastanza caute. 11 medico è biondastro, un tipo da avventure tropicali.

Ester ha sempre avuto molte amiche a seconda delle sue necessità, io invece non concepivo situazioni consolatorie. Ne avrei riportato solo umiliazione. Ma mi umiliava anche che lei integrasse la nostra ami­ cizia con qualcosa a cui invece mi sarebbe parso giusto rinunciare. Poteva però apparirmi una saggezza a me sconosciuta non privarsi dell’aiuto degli altri per ogni circostanza, e questo dubbio mi turbava. L’ho scritto in una poesia “disposta / a tutto ma non a chiedere aiuto a chicchessia / eppure basterebbe una voce da fuori a rompere / l’avviato processo di insignificanza ma tutte / le voci di cui dispongo sono mie”. Vorrei chiarire due temi delle poesie: uno è quello dell’“inerzia”, che considero “il tormento maggiore” da un lato e dall’altro una forma di resistenza all’emancipazione “un gran pensiero / in sciopero per un’attesa dove si dispieghi / il necessario frutto d’inerzia / del non belligerante”. Si capisce che volevo liberarmene, ma non in un modo previsto: della competitività avevo orrore. D’altra parte soffrivo per i

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“pensieri abortiti” a cui si collega il tema dei “non-nati”, per me fino a oggi oscuro e che mi rendo conto essere tutt’uno. Il richiamo all5au­ tenticità di cui “vado fiera” è un’altra costante a cominciare da quel “cuore dalle venature così palpitanti” che mi aspettavo avrebbe susci­ tato negli altri, nonché competitività, “atti di modestia”, ma tutta la mia vita la sentivo improntata a “fragranza”, anche se mi travolgeva il dubbio che non sarebbe stata riconosciuta. Più tardi capisco che è proprio la mia pretesa di autenticità a render­ mi irrealizzata nel mondo: “l’andatura / innocente di chi si tiene / equidistante dal nulla”. Non so ancora quale aspetto fondamentale per me possa avere di­ menticato nelle poesie, questo spiega perché a un certo punto ho smesso di scrivere. Il periplo era compiuto nelle sue tappe essen­ ziali, stavo passando ad altro, a una conoscenza dell’uomo nel suo momento creativo, all’artista. Ho sviluppato così il mio periodo più intenso come critica d’arte, dieci anni in tutto, dal ’60 al ’70 (le po­ esie invece sono dal ’58 al ’63). Non avrei mai potuto fare il femmi­ nismo se non avessi avuto coscienza del momento più alto raggiunto dall’uomo (con l’arte, la religione, la filosofia, esattamente in senso hegeliano) poiché per me il femminismo deve misurarsi lì per vedere le insufficienze del soggetto maschile patriarcale. Il femminismo che si impegna sul piano politico è come un ago che oscilla tra la sottova­ lutazione e la sopravalutazione dell’uomo. Rivolta Femminile è nata appunto da due persone, Ester e io, che si erano interrogate sulla soggettività maschile proprio perché ci eravamo poste come soggetti: Ester in quanto artista, io in quanto coscienza di un’identità “diver­ sa”. Vanda invece ha portato alla formazione di Rivolta l’angoscia di una confusa ira, e ha mobilitato le mie energie per la pressione che esercitava verso strade che intuivo sbagliate. Erano strade di una vistosa ribellione nei canoni della vaginalità. Quello che mi indi­ gnava era la sua pretesa di adoprarmi come cervello, senza capirmi come persona. Mi sentivo strumentalizzata sotto l’etichetta “per il femminismo”. Il biglietto d’ingresso per entrare nel mondo maschile e per superare tutte le prove di idoneità nel momento culturale per me è stato la dialettica. Questo è il lato dove posso dirmi colonizzata, a differenza

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di Sara che ha taciuto più di me con l’uomo, e di sicuro ho avuto una certa euforia neH’impadronirmene, ma penso di essermene ser­ vita soprattutto per non rimanere sconfìtta dai cani da guardia che nel mondo patriarcale circondano le situazioni creative e le rendono irraggiungibili agli esclusi. Per quanto mi riguarda, ho dato le dimo­ strazioni richieste, ma l’esperienza culminata nelle poesie, seppure nota a me sola, mi forniva l’unica bussola a cui riferirmi. In Autoritratto1prosegue nella registrazione di qualche balbettio, che era tutto quanto avevo da dire in quel contesto, anche se qua e là non man­ cano saggi della mia competenza. Appena iniziato il femminismo ho scritto Sputiamo su Hegel per tanti motivi, ma anche per ripulire uno spazio in cui sentivo che tutte noi avremmo dovuto crescere. Nei primi tempi sono stata accusata di abilità dialettica, ma da chi voleva raffazzonare dei pensieri a un livello più basso: me ne sono servita per smantellare questo pericolo di sottocultura e di faciloneria. Ho difeso le mie intuizioni con un ragionamento che non aggiungeva niente a quelle, ma le proteggeva da confutazioni in voga nel mondo maschile. Questo ha permesso alle femministe di togliersi il sospetto che l’assenza dell’uomo dalle riunioni significasse che l’uomo, con le sue argomentazioni, ci avrebbe fatto ammutolire. Così Rivolta Fem­ minile si è creata le basi per avere il diritto di ricominciare da zero, dall’autocoscienza. Questo l’ho capito quando è cominciata l’autoco­ scienza nelle altre, specialmente in chi portava tutta la freschezza di persona fino allora inespressa. Ho sentito che Rivolta Femminile non aveva più bisogno della mia difesa sul piano dialettico, anzi era un anacronismo. Ormai avevamo di fronte un’altra realtà: io potevo più agevolmente concentrarmi su di me e liberarmi delle scorie che il pas­ saggio attraverso il mondo maschile inevitabilmente mi ha lasciato. Con l’autocoscienza si compie un’operazione così primaria per l’esse­ re umano che gli permette di ridare senso a gesti ormai istituzionaliz­ zati e consunti. Per esempio, lo scrivere diventa uno strumento neces­ sario proprio nella sua funzione originaria di fermare i pensieri, dare la possibilità di precisarli, coordinarli e renderli comunicabili alle altre nel loro svolgimento. Non è più uno scrivere collegato con bisogni ec­ cezionali e con il talento: tutte ne hanno bisogno e tutte lo sentiranno 1Carla Lonzi, Autoritratto (1969), et al./EDIZIONI, Milano 2010. Il volume è composto dal libero montaggio di discorsi con dodici artisti.

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alla portata. Questo devo dirlo a Piera così capisce che non deve ini­ birsi lo scrivere come gesto estroverso: per adesso si difende dall’even­ tualità, poiché ancora lo collega a un immettersi nella cultura. 15 ago. Il linguaggio delle mie poesie mi commuove non meno del contenuto delle poesie stesse. La nascita di una donna “diversa” non è la nascita di Venere, non è un trionfo. Non ho arraffato niente che non mi spettasse ed è rimasta l’impronta della stentatezza e della me­ ticolosità che erano le condizioni in cui mi muovevo. Se c’è qualcosa di scolastico dipende dal fatto che mi mettevo all’apprendistato di ciò che vivevo e cercavo di tradurlo. Registravo quel poco che riuscivo a captare, stavo sempre con l’orecchio teso: non succedeva molto, ades­ so mi accorgo che era tutto: l’inizio della coscienza di me. E il terzo giorno che sono a Erice. Mi sento un po’ nervosa, aspetto una telefonata che non arriva. Chissà se devo passare tutto il giorno da sola. Comincio a essere stanca di scrivere, vorrei parlare un po’ e ricaricarmi. Non stare con le amiche mi dispiace: piano piano loro arrivano a un affiatamento che non posso condividere e so quante cose vengono fuori trovandosi insieme. Ester mi ha detto che io sono più universale di una clitoridea, ma credo che questo significhi che, avendo ricercato una identità interio­ re prima del femminismo, avevo fatto quelle esperienze che danno il senso di sé. Avevo sempre avuto la convinzione che nessuno avrebbe potuto salvarmi, che dunque dovevo farcela da sola, e mi assillava la paura di non riuscire. Forse l’idea della salvezza mi è venuta per la prima volta in collegio, connessa con il problema dell’anima; poi ho avuto come esempi la realizzazione di sé che vedevo nel mondo ma­ schile della creatività artistica. E curioso però che non mi sia mai pen­ sata con una vocazione qualsiasi, nemmeno come scrittrice, eppure scrivere mi piaceva moltissimo e ne facevo largo uso: dovevo risolvere il problema di me con tutti i mezzi, non ero niente eli preciso e questo mi faceva soffrire. Quando ho cominciato a fare la critica d’arte mi ha attratto la possibilità di appoggiarmi a un punto fermo: la rea­ lizzazione di altri. Analizzare, partecipare, scoprire era soprattutto occuparmi di me pezzo per pezzo: era confrontare la realizzazione con la mia impotenza a realizzarmi. Ma alla fine, in Autoritratto, - che è un riconoscimento dell’autenticità degli artisti, riconoscimento che esprime dunque da parte mia un’autoinvestitura di soggetto - mi ero

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solo rafforzata nel rifiuto della cultura per isolare il momento artistico come autentico, ma non come mio, e nella fiducia di un imprevisto dove portare alla luce la mia identità. 16 ago. Quando è apparsa la possibilità di un movimento di don­ ne ho sentito che avevo tutto pronto da offrire: conoscenza dell’uo­ mo e una via di ricerca su cui mi ero concentrata come contenuto implicito della mia vita. E in questo sbocco mi sono accorta che avveniva automaticamente una identificazione di me fino allora la­ sciata sospesa e nella cui impossibilità avevo consumato un’infinità di energie. Così sono arrivata al femminismo che è stata la mia festa, qualcuna doveva ben cominciare, e la sensazione che mi portavo addosso che, o lo facevo io o nessuno mi avrebbe salvato, ha operato in modo che l’ho fatto io. Dovevo trovare chi ero, alla fine, dopo avere accettato di essere qualcosa che non sapevo. Questo non è un processo creativo poiché quello che mi disturba nell’artista è il ruolo protagonista che richiede uno spettatore. Anche in Autoritratto dicevo che tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori. Non mi accorgevo che quella aspirazione esulava ormai dalla creatività poiché, se non si ipotizza più lo spettatore, siamo in un’altra forma di realizzazione. Per que­ sto ho detto “Non vado più alle mostre”, perché non voglio farmi complice di un inganno. L’atteggiamento religioso, in fondo, mi era più consono, poiché un problema del religioso è quello di volere la salvezza del prossimo, non gli basta la propria, e la vuole negli stessi termini di processo individuale alla santità. Tuttavia anche questa esigenza viene vissuta in una maniera per me inadeguata: tutto si consuma nella ricerca di una strategia efficace, poiché faltro non è ricercato per se stesso, ma come testimone della gloria di Dio. S’in­ tuisce una promessa che il mondo patriarcale non può mantenere. Per questo giravo intorno ai centri di realizzazione maschile: entra­ vo per le mie ricognizioni, mi illudevo di una risposta, ne uscivo, non dico delusa, ma con il senso di non potere trovare definitiva accoglienza. Adesso capisco, come ho detto a Sara, che “il soggetto non cerca la cosa di cui ha bisogno, ma la fa esistere”. Io ho gustato questo nel femminismo. La personalità creativa, intanto che sembra dare agli altri, toglie loro la possibilità di fare centro su di sé e di mirare a una liberazione in

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proprio. L’artista accetta la liberazione di riflesso che egli elargisce, anche se non si accorge che il sospetto che egli ha verso lo spettatore è un risultato inconscio di questa operazione ambigua. Quando ho ca­ pito che mi si chiedeva di immedesimarmi nello spettatore ideale, mi sono sentita a disagio. Che funzione era quella? D’altra parte, l’ambi­ guità dell’artista verso lo spettatore viene anche dal fatto che lui ne ha bisogno e perciò deve sentirsi autorizzato a procurarselo: lo cerca, lo alletta, lo adopera, lo ricaccia lontano dalla ricerca di sé. Nonostante tutto l’artista fa il vuoto di creatività intorno a sé. Per questo dicevo che Ester porta nel femminismo un equivoco derivato anche dalla di­ stribuzione dei ruoli nella creatività: richiamando continuamente sé nell’autocoscienza del gruppo sembra arricchire le altre, in realtà le riduce all’ascolto e impedisce loro di trovare la forza di affermarsi e pretendere attenzione. Anch’io posso avere dato un’impressione ana­ loga di protagonismo nella fase diciamo teorica, preparatoria all’au­ tocoscienza diretta, ma non in quest’ultima. Non c’è pericolo che io riduca un’altra al ruolo di spettatrice mia, semmai posso intimorire per il contrario: l’altra può avvertire uno stato di dipendenza nei miei confronti perché io la ascolto e lei si trova stimolata ad aprirsi. Ma, se suppone che io non provi la stessa necessità, si inferiorizza poiché mi immagina come una persona risolta. E stato importantissimo quando Sara si è sentita vicina mentre parlavo di me nel gruppo e ha provato il desiderio di conoscermi più a fondo e aiutarmi. Questo le ha per­ messo di cercare lo scambio e non soltanto l’ascolto da parte mia. Mi ha fatto capire quanto era stato illuminante per lei il nostro rapporto anche nei limiti dell’ascolto (che poi significava partecipazione attiva e il meglio che indirettamente potevo dare), e io sono potuta uscire da quei limiti. Ieri ci siamo trattenute in camera mia fino alle due di notte. C’era anche Gemma arrivata allora da Milano. Ha parlato di sé e della sua crisi con Isa. Via via che procedo nella conoscenza di me, è come se un pizzico degli ingredienti delle altre, guardando bene a fondo, lo ritrova anche nei miei. Piera invece non vede mai questi agganci, si presenta tutta d’un pezzo e questo mi sembra veramente un po’ perfezionista. Di Monica non parlo perché è insopportabile, credo sia esasperata anche dalla esclusione che avverte da parte di Ester e di Piera con cui divide l’appartamento, e che per ora fanno un po’ troppo cellula chiusa. Da una frase di Ester ho arguito che tra loro

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hanno commentato il mio rapporto con Simone. La frase è “Sono stanca eli difendere il partner delle amiche”, ma detto per inciso, en passant. So che Ester non favorirebbe mai delle interpretazioni di me non riferibili, però in quella che lei chiama distrazione, e che invece è qualcosa di più intenzionale, lascia crescere degli equivoci. La sen­ sazione che se hai un uomo vieni messa sotto processo e in ogni caso si crea un clima di sospetto per innominati possibili scadimenti, è penosa. Mi ricorda Vanda quando, occupandomi io molto di Rivolta Femminile nascente, le era venuta la speranza che mi stessi allonta­ nando da Simone. Perché poi, dal momento che, appunto, non mi intralciava allatto per il femminismo. Naturalmente non ho nessuna voglia di prendere l’argomento e neppure di cogliere le allusioni, ve­ dremo in seguito. 17 ago. Ho avuto un po’ di crisi a proposito della malattia, se così si può chiamare questa febbretta. Ormai sono troppo avvilita dalla storia della mia salute, è una sfortuna tremenda che non so come fronteggiare. Stamani sono andata dal medico, ma non c’era, poi dal parrucchiere, e non c’era. Sono tornata in albergo senza conforto, né sanitario né estetico. La malattia è deprimente anche perché dà un aspetto sciupato e triste. Non mi sono curata di me tutto l’inverno, il gruppo mi occupava completamente e ne ero un po’ travolta, mi ripromettevo di fare sport, bagni e cura del sole quest’estate per ri­ mettermi un po’ in forze. Sfortuna proprio accanita la mia. Adesso mi vedo pallida, con gli occhi stanchi, i capelli in disordine e tutto il resto. Sono furiosa, ma a volte soltanto e miseramente depressa. Oggi è una giornata splendida, limpidissima: si vede Trapani al pelo dell’acqua come in una laguna, in un mare finalmente blu e non evanescente e periato come nei giorni scorsi di calura. Sembra già un po’ settembre. Sarà bello sulla spiaggia, ma non posso illudermi di riuscire a fare qualche bagno e prendere un po’ di sole. Vorrei andare in una clinica a farmi gli esami, curarmi e possibilmente guarire prima che finisca l’estate. E se fosse una ripresa di focolai ai polmoni come me la caverei con la cura di tiroide che è controindicata? A volte mi vengono i bri­ vidi se penso come il mio equilibrio fisico è precario. 18 ago. Piera teme di limitarsi scrivendo. Questa sua preoccupa­ zione ha a che vedere con quello che era prima dell’esperienza del

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gruppo, quando non si potevano formulare i propri limiti perché era proprio dalla vaghezza in cui erano tenuti che veniva fuori l’energia per vivere e andare avanti. Infatti, quando sono arrivata a dovere prendere atto che qualcosa non andava in me, non ho potuto farlo con un diario o una forma esplicita, ma con la poesia. Adesso la si­ tuazione è capovolta. La creatività mi attraeva perché era un processo che rendeva l’auten­ ticità palese e degna di riconoscimento. Mentre mi opprimeva alla fine che, nello spirito religioso, il riconoscimento spettasse in prima istanza a Dio. Come donna, destinata al misconoscimento della mia autenticità e al suo realizzarsi dunque in una specie di martirio, ero attratta dalla soluzione religiosa sebbene, non credendo in Dio, fossi sempre più dibattuta su questa forma di rinuncia. Così in me si alter­ navano i due momenti, e proprio quando sembrava che avessi riposto tutta la mia fiducia in quello creativo, all’epoca più intensa della mia attività diciamo di critica d’arte (che poi non lo era affatto), qualcosa mi richiamava alle mie origini religiose: in Autoìitratto, proprio all’ini­ zio, c’è una foto di S. Teresa di Lisieux, appunto un’anima che si è consumata in un luogo fuori dal mondo. In copertina avevo desidera­ to mettere una foto di lei mentre recita al Carmelo nelle vesti di Gio­ vanna d’Arco. Naturalmente la cosa non aveva senso per l’editore, e io non ero in grado di trovare un perché plausibile alla mia richiesta. Per me era l’immagine esatta del mio autoritratto, la presenza di due spinte entrambe attive nella mia vita e sovrapposte a cui cercavo una soluzione. Adesso capisco che S. Teresa ha potuto accettare e anzi aspirare ad annullarsi nell’amore misconosciuto poiché era vissuta nella fiducia e nella predilezione spiritualizzata del padre, uomo reli­ gioso, e tendeva a sublimare quel sentimento interiore in un assoluto che l’ha estraniata dalla vita. Mentre io ero portata a valutare quelle operazioni che, rientrando anch’esse in una sfera di autenticità, fos­ sero però suscettibili di essere riconosciute: il senso di ingiustizia e di scandalo che avevo provato non essendo accettata dal padre, mi faceva sognare il trionfo della mia verità su questa terra e comun­ que mi rendeva sensibile alle maniere in cui il valore individuale si concretizzava. D’altra parte il misconoscimento mi appariva come un’estrema salvaguardia: abbandonare era niente rispetto al dolore di tradire me stessa. E questa facilità a lasciare appena si richiedesse da me qualcosa che non si accordava con la mia coscienza, è stato

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l’elemento che più di tutto mi ha impedito di perdermi nella eman­ cipazione e nelle riuscite apparenti. E anche stato quello che mi ha dato il punto di paragone per immettermi nel mondo degli artisti sen­ tendo, se non le stesse possibilità, le stesse esigenze: dovevo rendermi conto di un’operazione che mi era sfuggita, come mi era sfuggita da piccola la capacità di affermarmi. Tuttavia qualcosa mi disturbava in questo mondo di protagonisti: in Autoritratto facendoli parlare volevo riportarli a loro stessi, rendere operante la mia presenza in un modo diverso; per questo ho messo una foto di me a tredici anni e, alla fine del libro, un’altra di me qualche anno fa con una specie di aureola intorno alla testa e il sorriso dell’autenticità misconosciuta. Fino allo­ ra non avevo accolto nessun’altra identificazione. Il fatto che l’artista si aspetti uno spettatore sempre più adeguato rivela l’impasse di una coscienza confinata in un ruolo. Per questo non è esatto parlare di creatività nel femminismo oppure bisogna intendersi che non si tratta di una creatività di tipo patriarcale: l’autocoscienza di una è incom­ pleta e si blocca se non ha riscontro nell’autocoscienza di un’altra. Ognuna ha bisogno di spazio perché il suo momento è manifestarsi, non ascoltare, che è importante, ma che ha il suo coronamento nel parlare di sé. Ester ha constatato che il gruppo di Milano ha imboc­ cato la strada dell’autocoscienza in una maniera più diretta e decisa, e a Milano non c’erano persone creative. Mentre a Roma si è stabi­ lizzato uno stallo tra autocoscienza di Ester e le altre come spettatrici, e quello è stato l’effetto dell’identificazione di Ester nella creatività. Come adesso si stanno spostando su un piano più cosciente i rapporti tra me ed Ester, così avviene fra Gemma e Isa, seppure in maniera più drammatica. Intanto Isa tende a identificarsi con me, almeno intellet­ tualmente, e a rigettare il suo passato: con Gemma si mostra esigente e insoddisfatta, la accusa di passività. Gemma si sente tradita e soffre nel vedersi a un tratto negare l’affetto e l’apprezzamento di cui si illudeva in precedenza. Ester è intervenuta dicendo che prima del femminismo i rapporti fra donne erano secondari rispetto all’incontro con l’uomo e potevano basarsi anche su una solidarietà di vicende ugualmente negative con lui. Comunque Isa spinge Gemma all’autonomia e le indica le reazioni giuste, dunque contemporaneamente le imputa la sua dipendenza e le suggerisce come trovarne una nuova. In realtà Isa non è cosciente di volere esercitare il controllo su Gemma in altra forma. Ma chi non è compresa, ho detto a Gemma, alla fine, superato

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il dolore, scatta a delle esperienze di autonomia che non sono ovvia­ mente previste dall’altra, così a sua volta ne provoca l’autocoscienza poiché attua un distacco a cui l’altra è impreparata. Invece Gemma può avvicinarsi a chi, del gruppo, intravede in lei quelle potenzialità che sta sviluppando, senza avere dei precedenti per volerla diversa da come è. Ester ha chiesto a Gemma se tiene di più al riconoscimento o all’afFetto di Isa. Gemma ha risposto di tenere di più al primo, ma a me la questione pareva astratta poiché quello che scopriamo in questi travagli è proprio che non esiste l’uno senza l’altro. Il riconoscimento è la strada che porta all’affetto e non viceversa, ed è l’unica strada verso un affetto che non sia visceralità. Di questo sono sicura perché, fino da piccola, ho vissuto il dramma del riconoscimento negato che per me era chiaro sintomo della mancanza di affetto all’altezza dei miei bisogni di persona, mentre venivo tacciata a mia volta di mancanza di affetto dai miei, appunto quell’affetto viscerale che mi ripugnava e che cercavo di cancellare dentro di me: l’altro non lo meritavano e comunque mi impedivano di darlo. Con il primo ragazzo con cui ho avuto un rapporto a cui tenevo, Cesare, sono stata agitata e sconnessa nel comportamento proprio perché riaffrontavo, nei fragili argini che mi ero creata, nuovi traumi del riconoscimento. Mi ero accanita a volerlo, mentre neppure io ero in grado di darlo, come apertura su un mondo affettivo che soffrivo di reprimere, ma che non potevo non reprimere e che dunque si manifestava in modo incongruente. Non l’ho avuto, ma ho saputo in qualche modo rinunciarci onorevolmente, mentre lui, pur innamorato di mia sorella Lucia, tendeva a continuare una sfida in cui non si capiva più chi era lo sfidante e chi lo sfidato. Del fitto epistolario di quell’epoca non c’è una lettera in cui non af­ fermi il mio proposito di lasciarci. Ma la novità dell’erotismo era un imprevisto troppo sconvolgente perché restassi padrona dei miei pro­ positi: con questa aggravante la nostalgia, nella lontananza, operava disastri sulla mia lucidità. Tentavo, per poco, strade fallimentari della rinuncia a me stessa: subito me ne vergognavo e, sentendomi indegna, commentavo spietatamente l’accaduto cercando di dissociarmene con la coscienza. Così io non sono stata semplicemente e da sempre inibita come molte clitoridee, ma ho smaltito tutta la mia parte di sfrenatezza in brevi atti di abdicazione che mi disgustavano e che potevo non con­ siderare come miei propri. E un fatto che mi sono sempre identificata con la mia coscienza anche se una parte di me, insofferente e turba­

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ta, compiva delle assurdità che poi catechizzavo. Piano piano quella parte di me si è ridotta fino a sparire, ma io le sono debitrice di tutte le conferme che ha fornito alle prime certezze acquisite nei rapporti familiari. La giudicavo aspramente, la richiamavo con disprezzo e poi l’abbandonavo. A volte mi faceva pena, ed erano i momenti peggiori perché poi glieli facevo pagare, a volte mi era così estranea che potevo dimenticarmi di lei. Comunque non saprei dire se alla fine è stata domata o si è stancata di esistere, certo che ho trovato una coesione a poco a poco in cui lei era esclusa (“Eccomi, risultato di circostanze favorevoli / e sforzi energici, una sull’altra infinite / volte sempre io vittoriosa di ciò che tira / al contrario in miriadi di pori aperti, / con incrollabile volontà di coesione rivendico / a me la punta del piede e del capello...”) Questo l’ho sentito come un riscatto (“...nel riscatto di aver saputo / agire come i primi aguzzini di se stessi”). Ho infierito sulla parte di me che ancora non si era rassegnata a non esigere, a non pretendere, sulla parte di me condizionata dalla visceralità. 21 ago. Vorrei riassumere le tappe del mio rapporto visceralità-riconoscimento-affetto. Da piccola ero fiduciosa e conquistatrice, sentivo che gii altri mi pre­ diligevano e questo per me era normale; andavo con tutti, ero piena di curiosità e niente affatto morbosa. Dopo la nascita di mia sorel­ la è scoppiata la competitività con lei stimolata dall’atteggiamento di mio padre che aveva preso a misurarci l’una con l’altra. Tuttavia mi piacevo perché ero coraggiosa, franca, aperta, non facevo storie per il mangiare, riuscivo simpatica agli estranei, potevo staccarmi dai miei senza provare angoscia. Queste qualità, di cui andavo fiera, non erano apprezzate al giusto valore: vedevo che l’attaccamento di mia sorella per i genitori provocava in loro tenerezza e compiacimento, però se la imitavo si innervosivano e mi dicevano che io ero grande e dovevo dare il buon esempio. Ma questo compito, anche ben assolto, non mi procurava né uguale trasporto da parte loro, né riconosci­ mento per la mia capacità. C’era qualcosa in me che andava oltre le loro aspettative, uno strafare che insinuava il dubbio di un eccessivo distacco. Così ero rimproverata per la mia autonomia, detta egoismo e strafottenza. Mia sorella parteggiava per i genitori, faceva la spia e tutto il resto: io la condannavo per questo e soffrivo del suo atteg­

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giamento. Mi deludeva molto che i genitori non vedessero le cose nella mia stessa maniera. In questo clima cominciavo a diventare molto nervosa e scontenta, cominciavo a provare ostilità più coscienti per mio padre e insofferenza per mia madre. Poiché il mio sforzo di indipendenza veniva frainteso, mi rivalevo creando continuamente problemi di giustizia tra me e mia sorella e finalmente attaccando il mito della famiglia, che per i miei genitori era lo scopo della vita, richiamandoli alla realtà delle contraddizioni e delle parzialità tra i figli, che loro si rifiutavano di vedere. Volevo il loro affetto? Volevo staccarmi da loro? Tutti e due, ma la strada su cui mi sentivo trasci­ nata era quella del distacco. Loro lo avvertivano, e anzi mia madre col passare del tempo favoriva questa tendenza in un modo che io in­ terpretavo come desiderio di sbarazzarsi di me per godersi in pace il resto dei figli. Mentre mio padre voleva riportarmi all’ordine e diceva che mi avrebbe spezzata se non fosse riuscito a piegarmi. A nove anni vado in collegio, attratta dalla novità e dall’ambiente di­ verso in cui inserirmi conquistando così una nuova indipendenza. In casa mia vigeva questa ingenuità: quando uno era lontano veniva im­ mediatamente visto in una luce più positiva e valutato per i suoi sforzi di essere all’altezza altrove. Così, mentre ero in collegio, mi sentivo apprezzata sia dalle suore che da mio padre a cui loro riferivano i miei progressi. Mio padre si mostrava orgoglioso di me e questo mi creava con lui una nuova intesa, seppure molto pudica e guardinga da entrambe le parti. Inoltre, essendo la mia vita ormai in rapporto con altre persone, spostavo su di loro i miei bisogni di essere considerata e accettata, così io stessa toglievo importanza a mio padre come punto di riferimento, e lui se ne accorgeva. Proprio per questo, dopo tre anni, finita la guerra, decise di togliermi dal collegio. Per me fu un dolore, ma non c’era niente da fare. Rientrata nella famiglia, ma ancora più estranea di prima poiché avevo mancato tappe preziose dello sviluppo dei fratelli, il mio disagio divenne subito insopportabile. Dai tredici ai venti anni la mia presenza in casa fu drammatica e insolubile. Da un lato c’era stato un balzo di autonomia negli anni in cui ero in collegio, dall’altro per vivere in famiglia mi si richiedeva di mostrarmi parte integrante di essa molto più di una volta. 30 ago. Roma, {segue) Mentre io, cominciando la mia vita di ragaz­ za, avevo tutta una serie di rivendicazioni da fare concernenti la mia

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libertà pratica di incontrare e stare con ragazze e ragazzi, uscire, bal­ lare, picnic, gite, serate ecc... Essendo la prima figlia, trovavo mio pa­ dre estremamente impreparato e all’antica circa lo svolgersi della mia nuova vita sociale, e questo causava gli scontri più tremendi fra noi. D’altra parte mi ero abituata in collegio a essere trattata come una persona e non come una figlia, e questo mi rendeva ancora più ina­ dattabile al suo controllo sospettoso. Rifiutavo ogni forma di trattativa diplomatica con lui, cosa che invece dava i suoi frutti a Lucia: mi senti­ vo in diritto di esigere quello che chiedevo, e volevo non solo strappare delle concessioni, ma vedere ammesso il mio diritto. Invece mio padre era sul piano delle concessioni che si mostrava ragionevole, in modo da non creare dei precedenti che diventassero regola. Voleva avere in mano le mie mosse ed essere l’arbitro delle mie necessità. Questo mi rendeva furiosa, a volte addirittura pazza furiosa ed eccedevo nelle infrazioni a tutto ciò che lui metodicamente mi negava. Così si diceva di me che facevo i miei “comodi” e lo mettevo di fronte al “fatto com­ piuto”. Con questa situazione alle spalle, anche fuori ero sempre in­ quieta e sovreccitata e mi abbandonavo a fantasie avventurose di fuga dalla famiglia, fantasie che la realtà frustrava. Questo scompenso, e lo stato di illegalità perenne in cui vivevo e che si traduceva in continui attacchi al mio operato con illazioni di ogni genere e previsioni cata­ strofiche sul mio futuro, sono stati uno dei motivi che mi hanno fatto avvicinare i ragazzi con una certa precocità. Dall’incontro con loro mi aspettavo emozioni nuove e ispirazioni, anche una qualche risposta su chi ero, poiché su quel punto le mie opinioni vacillavano. Ecco perché con Cesare a diciotto anni (fino allora avevo avuto in­ contri meno impegnativi), ero stata così assillata dal bisogno di rico­ noscimento. Non nego che Cesare all’inizio mi piacesse molto e fosse anzi un ragazzo su cui avevo vagheggiato conoscendolo di vista, ma quello che mi ha legata a lui non era un vero e proprio amore, piut­ tosto quella forma di accanimento che consiste nel volere l’attenzione di chi, all’apparenza disponibile, in fondo sfugge, e per una qualche ragione questo sfuggire appare una condanna. Gli avevo dato molta importanza per un motivo di ordine intellettuale infatti non era un ragazzo nella norma, era complicato e sofisticato, studiava filosofia e mi affascinava con il pensiero e l’indagine psicologica; era decadente e niente affatto creativo (cosa che lo tormentava, lo capisco adesso, e tormentava anche me), ma aveva il potere di allettarmi in varie dire­

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zioni. Mi scriveva, mi telefonava, mi parlava, mi amava, mi rifiutava, mi trascurava, di nuovo mi cercava... Sapevo di fomentare un equivo­ co quando dicevo di amarlo, anche se non avrei saputo spiegare esat­ tamente in che consisteva l’equivoco. Lui se ne accorgeva e insisteva sulle mie contraddizioni e sulla mia insincerità nei suoi confronti; io non potevo che negare, tuttavia si accorgeva che ero sensibile ad altri rapporti e mi accusava di “aspirazioni idolatriche aH’amore”. In realtà ero pronta a tradirlo anche se, soprattutto all’inizio, facevo professione di grande amore e dedizione. Evitavo però di pensare cosa mi sarebbe successo una volta ottenuto il bene prezioso, lo evitavo accuratamente. Questo mi permetteva di non provare troppi scrupoli in quella che Cesare più tardi avrebbe definito “una recita”. Ma allora ogni amore lo è poiché esiste sempre qualcosa d’altro al suo posto e che ne fa le veci. L’amore è sempre un’altra cosa. Cesare era un bel ragazzo, dall’apparenza gentile e riservata, e piace­ va molto. Stare con lui mi aveva dato la patente di intellettualità: un ragazzo con cui precedentemente avevo avuto una storia, incontran­ domi fu esplicito “Mi hanno detto che sei diventata intelligente”. Ho capito così che il ragazzo può essere anche una promozione so­ ciale, e questo mi umiliava poiché, nonostante tutta la mia sprovve­ dutezza di allora, mi sentivo una qualità non inferiore a nessuno, in particolare non inferiore a quella di Cesare. Ma la sua era ricono­ sciuta dagli altri, nell’ambiente universitario, nella cerchia di amici, lui sapeva imporla non fosse che con un comportamento nevrotico, strano e distaccato, io invece ero stata fino allora inesistente, senza peso: una ragazzina qualsiasi. Con lui, in privato, sperimentavo la impotenza della mia qualità, proprio quando socialmente comincia­ vo a diventare a un tratto qualcosa: la sua ragazza. Qualche anno pri­ ma avevo riportato nel diario il momento in cui mi era stato rivelato cosa significava essere una ragazza: 12 ott. 1945. Nel pomeriggio è venuto Vittorio a prendermi per portarmi a una festa. Gli altri mi aspettavano in via degli Artisti. Li ho salutati con allegria, direi con effusione. Ero allegra, mi sentivo bene e volevo essere una compagna piacevole. Ma se avessi saputo quello che mi doveva succedere, proprio non ci sarei andata. A un certo punto, stavamo tutti felici e contenti, Vittorio con una brutalità appena velata mi fa capire che i ragazzi da una certa età in giù hanno nella testa, fissa come un chiodo, una parola: ragazza. Vanno al cinema per ve-

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dcre le ragazze, vanno al varietà per vedere le ragazze; in tutti i posti insomma pensano alle ragazze, ma collettivamente, senza una preferita, così a un bel cor­ po, belle gambe, un viso grazioso, delle belle labbra, un essere leggero e senza scrupoli pronto a fare il loro comodo. Io sono rimasta di stucco tanto più che mi affermava che tutti i ragazzi sono così. Comprendi?

31 ago. Scorrendo ancora il diario precedente al rapporto con Ce­ sare, trovo tutto un ragionamento sull’amare ed essere amati: lì dico che amare è la cosa migliore, quella che io non sapevo fare, mentre cedevo troppo al bisogno di essere amata. 3 feb. 1946. Dare o ricevere? Amare o essere amati? Molte volte mi sono ripe­ tuta l’enigma: amare e quindi dare, essere amati e quindi ricevere? Fino a poco tempo fa credevo che essere amati fosse il colmo della felicità: non è vero. Quel­ lo che, perlomeno io, provo è: orgoglio soddisfatto, un senso di abbandono in qualcuno che mi ama, una certa smania di tirannia appagata. Certo, dal primo punto di vista è meglio assai essere colei che ama. Ho quindici anni a marzo e della vita conosco ben poco: ma se di una cosa mi pento è del primo “sì” della mia vita. In quel caso ho provato la gioia di essere amata... per quello mi stimo, mio malgrado, assai meno... forse la metà di prima. Per conto mio è più nobile amare, come per una che ha è meglio dare che ricevere. Se poi ha dato a uno che non meritava che importa. Ti resta l’intima e innegabile soddisfazione, che nessuno ti può togliere, ed è quella che se la tua generosità ti ha tradito, se hai posto male il tuo amore per lo meno hai avuto il bene di avere un idolo. Chi accetta nella vita solo “l’essere amato” è un egoista, come lo sono io, un essere abbietto che inganna sé e gli altri. Per questo io mi stimo poco, sempre meno in fatto di amore. Il mio carattere è intransigente e assolutista: non trova scuse nemmeno per me e io lo so meglio degli altri. In amore sono vile e bugiarda. Non civetta perché non lo sono, ma per la mia inesperienza e aria da superdon­ na davanti all’unanime congresso umano sono una stupida ragazzina che non ha capito la più grande legge del mondo: l’amore.

Quello che mi premeva era un riconoscimento totale della persona, perché quello che mi era stato tolto in famiglia era totale, dunque di­ ventavo esigentissima su quel piano, non ero mai soddisfatta. Brucia­ vo le affermazioni parziali, quelle collegate alle capacità e allo studio, con grande leggerezza: le volevo, ma una volta avute le accantonavo e mi meravigliavo di quelle amiche che ne facevano un gran conto.

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In Cesare ero stata attratta dalla stessa sfida che con mio padre avevo perduta: lì vedevo difficoltà a essere accettata, lì mi accanivo poiché volevo arrivare a coinvolgerlo e a togliergli ogni sospetto su di me. Volevo riuscire nelle stesse condizioni in cui avevo fallito per sentirmi finalmente in equilibrio. Avevo bisogno di essere accolta, ma ero an­ cora piena di rancore per i rifiuti subiti in precedenza. Così mi accor­ gevo che il dramma era un problema mio e provavo senso di colpa, anche quando mi sentivo in perdita, per l’assurdità della mia fatica e l’inganno in cui trascinavo me e l’altro: scrivevo lettere di un amore astratto in cui volevo purificarmi, ma che diventava una nuova tappa nella strategia del riconoscimento che era la mia vera catena e che cercavo di spezzare ogni volta affermando la necessità di separarci. Ma anche quest’ultimo gesto non si sottraeva a una ragione infida: infatti mi aspettavo da esso un qualche contraccolpo che suscitasse nell’altro una reazione negativa, ma allora lo avevo preceduto, o posi­ tiva, e sarebbe stato il riconoscimento. Tuttavia Cesare eludeva le mie mosse: era troppo sospettoso e insicuro per non intuire il meccanismo che mi muoveva, e questo fatto mi legava a lui tanto maggiormente in quanto, sentendomi allo scoperto (ecco questo è il punto importante dove ero autentica), sentendomi allo scoperto, speravo di trovare un appiglio di fiducia per dire “Sì, è così”. E potere prendere coscienza insieme a lui di tutto il meccanismo a cui affidavo la mia difesa e scoprire perché mi difendevo e da che cosa. Ed essere riconosciuta in quella che era la mia vera identità. Ma mi accorgevo sempre che non potevo affidarmi a lui, in qualche modo avrebbe approfittato della mia messa a nudo. Mi voleva sincera e io pure avrei voluto esserlo più di ogni cosa, ma capivo che, una volta scoperta, non mi avrebbe accettata. O lo temevo, e con questa paura sentivo di non potere rischiare. Quando ci siamo lasciati io avevo ventini anni, ma mi era chiaro che nel rapporto a due non avrei trovato alcuna soluzione: fi­ nivo per cercarmi nel riflesso che l’altro mi dava di me e, se nutrivo la speranza di un qualche miracoloso avvenimento che rompesse l’au­ todifesa a cui mi sentivo obbligata, in pratica nessun stato amoroso mi abbassava mai la guardia, forse solo in rari momenti da cui mi ritiravo impaurita della mia fragilità. Anche da mio padre, nonostante la franchezza, ero stata travisata, e in definitiva gli apparivo come una strafottente, egoista, una che pensa a sé e si disinteressa degli altri: questo era il risultato di una

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sua prevenzione in tal senso, che io però accentuavo proprio in con­ seguenza della sua sordità nei miei confronti. Era dunque un circolo vizioso e io volevo il riconoscimento (ecco, ecco finalmente il punto che mi si chiarisce) su come ero stata brava, stoica e coraggiosa ad avere superato lo smarrimento e l’angoscia per la perdita della pre­ dilezione dei genitori e ad avere affrontato una tormentosa autono­ mia. E volevo che i contenuti di questa fossero visti e apprezzati: mi avrebbe ripagato della sofferenza. Mentre mio padre, scambiando gii sforzi per essere autonoma con una caratterialità sprezzante, frain­ tendeva ancora una volta tutto il processo, non capiva che più mi trinceravo sulle mie posizioni senza cedere a lusinghe, rimorsi, ricatti, più mi sentivo degna di rispetto, ed era lì che invece più venivo accu­ sata e rifiutata. Mio padre sembrava non ricordare quanto lo avevo amato da bambina e sembrava non collegare la mia accelerata corsa all’autonomia con la reazione più onorevole che avevo trovato alla tremenda frustrazione della gelosia. Mi aveva detto spesso dopo la nascita di Lucia “Ora tu sei grande, sei la maggiore”, e io lo avevo interpretato come un incentivo a staccarmi dallo stato di dipendenza affettiva che era quello che, sconvolta e sbigottita, lasciavo alla più piccola. Cos’altro mi restava da fare se non correre correre correre lungo la sola strada che mi era apparsa sopportabile, quella che mi prometteva una maniera di essere all’altezza della situazione per non sentirmi almeno così tremendamente pietosa a me stessa? La cosa che mi appariva pietosa in tutta questa storia era di essere stata colta alla sprovvista mentre mi sentivo piena di amore, fiducia e gratitudi­ ne verso genitori, parenti e tutti quelli che mi circondavano (“Come / ho potuto un bel giorno partire proprio quando / l’incanto era al suo colmo e tutto armonizzava / alle Grandi Terme fermo e quieto ogni affetto / luminosamente al suo posto e l’età / pareva quella giusta perché così / continuasse in eterno?”). 1 set. E venuta Diana a trovarmi. Mi sentivo un po’ stanca per la febbretta pomeridiana, e poi il fatto che non mi aspettavo di essere ascoltata veramente mi riportava un po’ il senso delle fatiche dell’an­ no scorso quando “aiutavo” le altre più che me stessa. Invece avevo dei punti miei abbastanza assillanti da scoprire e ci avevo pensato tutti questi ultimi giorni. Ho notato ancora una volta quante scorie le sono rimaste dall’ambiente artistico proprio come funzionamento

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della fantasia, mimica, enfasi ecc. Probabile che abbia incanalato la sua energia nella espressività violenta che lì le era presentata come un valore di creatività. Io le ho detto che da sempre mi sono sentita un essere nascosto, in incognito; e che adesso mi piace pensare che questa sensazione è collegata con il mio sesso che è minuscolo, appe­ na rilevato e, non contento di rimanere quasi invisibile, in prossimità dell’orgasmo si ritrae e sparisce. Anche la vergine può sentire il suo mistero di vagina sconosciuta, ma poi accade che un qualsiasi pene abbia ragione di quel mistero e lo distrugga facendone un luogo vi­ sitato, invaso, senza valore proprio. Infatti la vergine diventa donna nell’esperienza della violazione. 2 set. Ho mandato due righe a Sara e a Isa. Con Sara sono più alla pari, dunque le dico “Che bellezza rivederci!” e anche “Grazie a te, i miei rapporti con Ester sono più veri”, mentre con Isa ho delle riserve perché la vedo dipendente, questo mi spinge a stare più sulle generali. Sono venute Ester, Diana e altre due ragazze del gruppo di Roma per una riunione: non so se è lo stato di salute, ma non mi sento molto intensa per ora. In più non mi va di essere messa nelle condizioni di indottrinare le altre come era un po’ programmato per stasera: ho in testa Sara e i nostri colloqui, e comunque il gruppo di Milano, credo anche di scrivere pensando a lei. Con Ester c’è sempre un po’ di squi­ librio, a volte sono dura e non vorrei esserlo. Ma è troppo invadente e precipita le situazioni: anche stasera ripeteva che vuole sentire la clitoridea per conoscerla, modificare se stessa ecc. Insomma dà il cor­ so al gruppo in un modo o nell’altro. A tavola ha detto che io sono stata accomodante con Simone ad abitare nella casa di quest’estate in Sicilia: lei non ci avrebbe potuto vivere in nessun caso. In real­ tà io sono stata troppo distratta nel programmare questa vacanza e poi sono incappata in una situazione non rimediabile. Ho trascurato molti aspetti del mio confort con il femminismo: per esempio, sono due anni che vesto malissimo sempre con quattro stracci, pantaloni e pullover, e i luoghi dove vado a riposarmi non ho la testa di occu­ parmene, così finisco per prendere quello che trovo. Cosa c’entra con tutto questo l’essere accomodante con Simone che dice Ester. E una malevolenza, non saprei a cos’altro riferirlo. Anche Marion, quando non si è più sentita sicura del mio appoggio, perché mi differenziavo più apertamente da lei, dal suo stile, ha cominciato a scherzare con

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piccole interpretazioni urtanti collegate alla mia vita privata. Non sopporto dovermi difendere dalle sciocchezze. 3 set. Ester ieri ha detto di essersi accorta che offre agli altri anche stadi intermedi di qualità rispetto ai punti da lei raggiunti. Questo mi colpisce particolarmente (e se non mi commuove mi offende) poiché io sono bloccata dal contrario, dal non sentirmi mai pronta a espri­ mere quel livello che conosco in solitudine. Dunque mi do un grande valore e voglio garantirmelo con attenzione, mentre Ester non rinun­ cia al bisogno continuo di manifestarsi per avere appoggio, e quindi può veramente esporsi a scadimenti. Diana ha confermato: spesso presenta un’immagine peggiorativa di sé che dopo devi riaggiustare parlando a lungo e riprendendo quota. Comunque Ester ha detto che non le è successo mai con il suo lavoro di rinunciare alla qualità, e in questo senso può essere giusto l’appunto di mia sorella Nicola su una creatività non globale nella sua vita: la messa a fuoco precisa avviene al momento dell’operazione estetica, mentre prima e dopo c’è un abbassamento. Io invece ho sempre sentito che tutta la cura la mettevo nel non perdere di vigilanza su me stessa, dunque è proprio la coscienza di me che mi ha occupata in qualsiasi momento, e que­ sto spiega anche perché io sia così offendibile su delle inezie di vita. Qualcuna ha chiesto a Ester se rincontro con personalità artistiche era stato importante per lei: più che no la risposta è stata una specie di risatina come di fronte a un’ingenuità, poiché le pareva evàdente che tutto quello che era stato importante per lei veniva direttamente dal suo lavoro. Quello che mi disturba in questo modo di pensare è, ancora una volta, la sconoscenza dell’apporto degli altri e di quanto gli altri hanno pesato nel determinare le proprie scelte di realizza­ zione sociale. A imitazione dell’individualità maschile, non affronta una presa di coscienza in questo senso, dunque conserva tutta la mi­ tologia che ha l’uomo su quel piano. E il mito della creatività, come quello della vaginalità, non può essere demolito che dalle persone interessate: le altre a un certo punto si fermano per pudore. Penso molto ai miei rapporti con Ester perché non voglio che si sciu­ pino in questo momento della verità: un sottinteso della mia amicizia per lei era di misurarmi con quel tipo di donna che agisce con l’ap­ provazione del “padre” e forte della sua fiducia. Così ho dimostrato a me stessa che l’accordo era possibile (con Lucia non lo era stato),

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e questo mi ha dato molta sicurezza perché ci siamo volute bene e stimate a vicenda, abbiamo desiderato la compagnia reciproca come la cosa più importante. Adesso è una fase più delicata poiché con­ frontiamo le nostre vite e io so che questo deve portare al mio ricono­ scimento: non di capacità relative a me, ma di me stessa, della strada che ho preso e su cui mi sono tenuta con tutta la mia resistenza. Come mi ero prefissa le ho telefonato e le ho parlato dell’incidente di ieri: anche lei ci aveva riflettuto. Non sono abituata a manifestar­ mi direttamente con Ester, ho rimandato spesso al proseguire degli avvenimenti la soluzione delle difficoltà fra noi, dunque mi è costato veramente superare il riserbo e dirle che richiamavo la sua attenzione sulla cura con cui ho vissuto, una cura che lei può avere messo nella pittura, così può capire quanto ci tenga a stare al riparo da intromis­ sioni fatte in modo casuale. Intanto che le parlavo sentivo la tensione cadere e subentrare la commozione poiché Ester non mi ha lasciato dubbi sulla rispondenza che trovavo. Dopo mi sono sentita molto se­ rena e fiduciosa, e anche lei. Come potevo essere riconosciuta dall’uomo? Né mio padre né Ce­ sare potevano farlo: al contrario quest’ultimo, innamorandosi di mia sorella, aveva ribadito la predilezione paterna per quella donna che esprimeva i valori dell’accordo con lui, accordo di cui avevo visto l’in­ ganno e che dunque temevo, rigettavo e aborrivo come l'immagine stessa della mia perdizione. E da altri non l’ho più sperato, semmai ho cercato di imporlo nei limiti di relazioni in cui ciò si può tentare. E non ho mai più oltrepassato quei limiti. Ricordo che mio padre, quando accolse in casa Cesare adesso destinato a Lucia, mi disse “E ricordati che non hai fatto concessioni a nessuno: con il tuo carattere, anch’io mi sarei comportato come lui”. E aggiunse qualcosa sul fatto che ero troppo irritante e volubile per averlo amato davvero e dunque per soffrirne la perdita, magari adesso avevo qualche problema di orgoglio, ma appunto non era il caso perché potevo considerare tutta la vicenda come colpa mia. Che, a suo modo, era togliermi il peso di un’umiliazione, ma attribuendomi sempre un’identità che non era re­ ale. Ma da allora ho capito che non potevo lasciare all’uomo decidere sulla mia validità, specialmente in rapporto all’altra donna, a quella che cominciò ad apparirmi come la sua vera compagna nel mondo. E che dovevo occuparmi di me e rafforzarmi per andare avanti senza la sua approvazione. Ma se non era lui a potermi riconoscere, chi lo

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avrebbe potuto? Non mi sembra casuale che, dopo la rottura con Ce­ sare, io abbia avuto la mia prima amicizia alla pari (così credevo) con Marion. Ma anche qui dovevo accorgermi di riuscire a cogliere solo ammirazione che diventava sospetto via via che mi rivelavo diversa, e finalmente una specie di totale delusione in un fraintendimento non più rimediabile. Riconoscimento pensavo di averlo avuto con Ester, molti anni più tardi, forse in conseguenza del fatto che io stessa la riconoscevo come artista, dunque in una realizzazione di sé con cui potevo confrontarmi, lasciando tuttavia aperti quegli interrogativi sul­ la diversità che adesso si stanno chiarendo. 4 set. Dovere esistere senza l’approvazione dell’uomo spinge lon­ tano dalla creatività insieme a lui poiché, non volendo sottostare al suo giudizio già sperimentato come negativo né volendo fare niente per rovesciarlo in positivo, tutti i campi in cui dimostrare la parità ap­ paiono preclusi. Il mio problema era un altro, era quello di superare l’angoscia per il rifiuto di mio padre ritrovando nella diversità dalle sue aspettative la mia vera identità, ma questo appunto non poteva essere una certezza eli fatto, ma un processo della coscienza poiché l’imma­ gine che egli mi dava di me —proprio in quanto rappresentava un ostacolo alla mia pace - diventava uno stimolo a trovare i motivi da cui ero mossa e che mi convalidavano fuori sia da come lui mi voleva che da come gli apparivo. Quando Cesare ha preferito a me mia sorella ho capito che non avrei più messo nessuno nella condizione di rifiutarmi. E nessuno mi ha più rifiutata poiché in ogni relazione in seguito non gliene ho più offerto la possibilità. Per esempio, quando ho conosciuto Raffaele, che doveva diventare mio marito, scrivevo in una poesia “Ti darò il meglio / e rimarrai abbagliato”, ma era un’altra cosa da prima, era già il sentirmi in grado di potere contare sulla mia autenticità, poi ho avuto pena di lui che era così cieco da non vedere qualcosa che lo poteva risvegliare. Così come quando Simone ha modificato tutta la sua vita in funzione del nostro rapporto, per me è stato importantissi­ mo, ha segnato il passaggio dal misconoscimento alla disponibilità più completa nei miei confronti, ma io avevo già la certezza che il misco­ noscimento era una alienazione degli altri che si traduceva anche in una mia sconfitta, ma non significava il mio annullamento. In altri casi ho provato interesse, erotismo, tenerezza, ma non sono andata oltre un’autodifésa che mi manteneva nei limiti della vaghezza, come una

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persona che non vuole essere conosciuta se non in certi aspetti e perciò non scopre il centro eli sé. Dopo il rapporto con Cesare ho sviluppato la mia identità al di fuori dell’uomo e se mi misuravo con lui lo facevo per confermare me stessa più che per rivelarmi a lui, anzi era un modo di metterlo alla prova per conoscerlo. Piano piano mi coltivavo la pre­ sunzione, che ho sempre avvito anche con mio padre e con Cesare, seppure più come rivalsa che come iniziativa cosciente, che spettasse anche a me riconoscere l’altro, e proprio questa mia pretesa mi ha reso chiaro il fatto che l’uomo, non prevedendo questa possibilità, la invalidava con una serie di automatismi psichici da superiore, anche se per qualche motivo era insicuro e si comportava in modo penoso. Infatti per lui il riconoscimento è un problema assillante da conquista­ re fra gli altri uomini e da imporre alla donna. Se mostra di annettere importanza al riconoscimento di lei adopera una tattica di lusinga o si ritempra le forze dagli smacchi subiti con gli uomini, ma non è au­ tentico. Queste intuizioni, seppure formulate approssimativamente, le avevo prima del femminismo ed erano i contenuti della mia vita che mi ci hanno spinto. Ho parlato al telefono con Diana: mi ha detto di suoi sogni, tra l’altro sogni di catastrofi. Mi sono ricordata di averne fatti anch’io, spesso come spettacolo notturno fantastico con crolli, incendi di case e terre­ moti di paesaggi. Poi mi è venuta l’associazione che a volte mi sveglio nel sogno perché sto ridendo. Mi è capitato di dirle che la vaginale ha dei modi più amabili della clitoridea, segno che vuole essere ama­ ta e lo ricerca, mentre l’altra non lo vuole in quel senso di piacere agli altri, ma come conseguenza di un suo valore come persona. Poi ho riflettuto che io sono stata molto amata, e questo pensiero mi ha colpito. Allora Diana ha detto che le piace in me questa bilancia che non è al passivo e lei non sa a cosa attribuirlo, suppone in parte alle circostanze. 5 set. Adi ha telefonato Ester e abbiamo parlato della creatività. Adi è venuto in mente che Gemma in Sicilia mi aveva raccontato di essersi commossa fino alle lacrime con Ester al pensiero che una donna come lei, artista affermata nel mondo degli uomini, si univa alle donne ri­ nunciando al suo privilegio. Questa è la testimonianza delfinganno in cui vive chi è spettatrice: non si commuove su di sé, su tutto ciò che se non fosse stata inferiorizzata avrebbe realizzato di sé, ma segue

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con trepidazione il destino delle persone creative. Non immagina i piaceri che consistono nell’esplicare la propria libertà, non immagina che Ester non piange su di lei solo perché approfitta del suo ruolo di spettatrice come di una fatalità gerarchica fra gii esseri. Così Gemma accetta la sua condanna proprio da coloro che ammira. Le ho detto “Ma perché non piangi su te stessa?”. L’artista ha prestigio al punto da richiamare su di sé fidentificazione di un altro perché sembra che non ne richieda l’umiliazione, anzi lo gratifica, mentre esiste perché usufruisce del meccanismo che lo pone al centro di un’umanità co­ stretta a dimenticare se stessa, e a riconoscersi illusoriamente in lui. Nel gruppo di stasera, quando ho detto che fin da ragazza il mio im­ pulso era stato quello di togliere la complicità di mia madre e mia sorella con mio padre perché non fossero più ostili e sospettose verso di me, Nicola detto “Io mi sentivo molto sola”, e ha pianto. Lei si è trovata vicino a nostra madre nel momento in cui la mamma si sentiva “disprezzata” da me, ha detto proprio questa parola, e le confidava la sua delusione, dunque Nicola mi ha visto con gli occhi di lei e ha constatato grandi fratture e incomprensioni fra madre e figlia. Pro­ babilmente ha provato pietà per la mamma mista a desiderio di non essere come lei, ma di non distaccarsene e cioè di essere madre nel modo migliore possibile e nello stesso tempo di realizzarsi anche al di fuori come stavano facendo le sorelle “intelligenti”. E su quel punto che Nicola ha cominciato a rimproverare Ester per la sua non globali­ tà nell’essere creativa, cioè per la sua distrazione nella vita privata, nei rapporti con gli altri. Lei si è sentita sola rispetto alle sorelle, ignorata da me e presa di mira dal moralismo di Lucia, d’altra parte, aven­ do quasi otto anni di meno di me, vedeva noi maggiori come donne, cioè adulte e incombenti su di lei. Io sbrigativa con la madre, Lucia assorbita nella difesa del padre e dei valori della famiglia, dunque io meno direttamente coinvolta con lei, tanto più che ricorda addirittura di essersi sentita dalla mia parte via via che scontravo con il padre. Cosa che però non mi appariva da nessun indizio di comportamento. Mi sembra che Nicola abbia fatto la famiglia per riabilitare il ruolo di madre in cui nostra madre credeva tanto e che poi l’ha delusa. Mentre io avevo tagliato i ponti con padre e madre. Le due sorelle erano preferite a me anche dal padre, Lucia perché gli era devota, Nicola perché era piccola e deliziosa. Allora ho pen­

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sato di ricominciare tutto da capo fuori dalla famiglia della quale non riuscivo a salvare niente e che mi si presentava come un sopruso continuo e un’incomunicabilità generale in cui ognuno era frustrato e frustrante per gli altri... Ma io ero la primogenita e questo non ho potuto togliermelo più di dosso, sebbene mi fossi resa conto che un momento di più nella famiglia o un peso di commozione in più mi avrebbero paralizzato per sempre. Non badavo forse alla sofferenza degli altri perché io stessa soffrivo molto, della indifferenza di Lucia moltissimo: mi fraintendeva più di tutti, mi accusava, inorridiva di me. Cominciavo una discussione con il padre e lei mi rivolgeva sguar­ di di disapprovazione tale misti a patetico accoramento che ricordo i suoi grandi occhi celesti di miope come due lacrime sulla mia mal­ vagità. Se Nicola si sentiva sola, io mi sentivo straniera e sopportata. Mentre ero in collegio si erano abituati al benessere della mia assenza e, una volta tornata, riabituarsi alle tensioni che provocavo era an­ cora più difficile. Stasera ho provato senso di colpa perché ho visto Nicola alle prese con una mia eredità, il riflesso di me su mia madre, un po’ come Lucia con mio padre, ma ancora peggio perché Lucia era viscerale dalla nascita, se ben ricordo, mentre Nicola era allegra e divertente, e mia madre l’ha legata alla sua tristezza. Così io sono stata l’unica a essermi liberata dalla famiglia, alle altre è rimasto uno strascico in conseguenza della mia priorità di reazione a madre e padre. Questa è una presa di coscienza di adesso, ma sicu­ ramente ho sempre vissuto nella colpevolezza verso le sorelle o verso chi le ha sostituite finora nella mia vita. E avevo bisogno di riscat­ tarmi e di scoprire un’alleanza fra noi isolando i genitori. Non so se spero di ritrovare anche loro come persone, specialmente mia madre, prima della loro morte. Stasera per la seconda volta, la prima è stata a Firenze in maggio alla riunione di tutti i gruppi, ho sentito Nicola molto vicina, per me sorprendente e autentica. Ho un gran desiderio di pensare bene a ciò che mi ha detto. Prima della riunione ho fatto un sogno. Su una strada di città, con nevischio e ghiaccio per terra, molte macchine. Sto andando in un negozio di scarpe elegante e illuminato quando un giovane, con aria strafottente, mi minaccia e se ne va. Penso di scrivere il numero che ha sulla

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schiena come una targa di automobile per denunciarlo, ma non faccio in tem­ po. Raccolgo la mia roba caduta a terra, ho molte cose e mi cadono di mano, sono lenta nei movimenti e angosciata perché temo che l’uomo torni. Torna infatti con un berretto-maschera bianco para-orecchi, sicuro di sé con sguardo provocatorio e mi sfila la borsetta nera. Poi se ne va, sempre da una porta a un battente tipo saloon; ancora cerco di prendere il numero dalla sua schiena, ma non ci riesco. Entro affannata nel negozio poiché il danno mi appare irrepara­ bile e cerco di raccontare la mia avventura, ma le padrone del negozio non mi prestano attenzione perché parlano animatamente con i clienti. Io ho molta fretta, voglio chiamare la polizia, ma una delle padrone, grassa e abbandonata su una sedia, mi dice seccata di aspettare un momento; lei si sente male, bisogna andare a parlare di là.

Domani devo ricordarmi di scrivere altri sogni che ho fatto, quello a Venezia, quello in Sicilia e quello su Lenin, cosiddetto. Mi colpiscono perché hanno in comune la presenza della donna e la sua complicità con l’altro, dunque la mia solitudine, il fare fronte da sola. 6 set. Quando Nicola si è messa a piangere è stato alla rievocazione della sua solitudine rispetto alle due sorelle che la sopraffacevano e la turbavano. Ha parlato giorni fa con Lucia all’Elba e questo rapporto che ha contato tanto per lei - perché comunque ne è rimasta modifi­ cata, mentre io non ho scambiato parola con Nicola prima d’ora - le si è presentato ancora come un muro insormontabile. Lucia si ostina a parteggiare per i genitori - è cieca nel suo amore per loro - e non riconosce le sorelle. Nicola ha detto che non vuole ascoltare più, è finita, si ribella e prende forza: mia madre con la delusione, Lucia con il ricatto hanno infierito su di lei. Nel gruppo, Ester ha finito per tenerla come testimone dei suoi drammi, ma ieri sera Nicola si è accorta della trascuratezza che ha avuto con lei: la sua presa di co­ scienza nei confronti di Ester sembra essere venuta insieme alla mia, dunque ci chiariamo a vicenda e ci liberiamo entrambe. Il sogno di Lenin è avvenuto nell’estate del ’71. Nella mia casa d’infanzia entra un uomo di mezza età somigliante a Lenin. Mia madre gli apre la porta come se ci fosse un’intesa tra loro e lo introduce nel salottino. Lì, da una cartella appoggiata sulle ginocchia lui tira fuori una pistola con cui mi spara. Non provo niente se non la sensazione che la vita mi lascia:

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mi abbandono sulla poltrona. Intanto mia madre è intenta a rassettare la stan­ za. Poi lo accompagna per uscire, torna in salotto, mi gira la poltrona verso la finestra come si fa con i malati e continua a spolverare. Mi pare inutile avvertirla che sto per morire.

Il sogno a Venezia è stato nel giugno scorso: prima della Biennale ero là con Ester, Simone e mio figlio Tito. Avevamo passato una sera al Florian e poi a cena con due artisti di cui uno ogni tanto alludeva al femminismo in un modo urtante. Ester istintivamente all’inizio era cordiale e sorridente, poi piano piano aveva cambiato atteggiamento. Sono con altre femministe su una piazza siciliana e dobbiamo parlare, ma die­ tro una processione vedo avanzare al galoppo sfrenato uomini nudi con lunghe lance: quando arrivano davanti a me gettano le lance senza colpirmi. Mi rendo conto che c’è un grave pericolo, che posso essere uccisa da chiunque lì fuori e cerco scampo finché una donna mi fa salire le scale per darmi un rifugio nel suo appartamento, ma quando la vedo in faccia capisco: proprio lei è la moglie del mafioso che vuole uccidermi. Scappo e torno in piazza: lì, seduta su una sedia, mi accorgo di stare facendo la cacca. Provo uno sconforto terribile perché penso che sono screditata di fronte agli altri.

Il sogno fatto in Sicilia in agosto è questo. Sono in una grande casa con Simone e invitati a frotte. La casa è cadente: degli operai cercano di aggiustarla, ma mi accorgo di essere spiata e temo il peggio. Cerco di chiudere grandi porte-finestre a ogiva, ma persiane e imposte crollano: allora penso di prendere dei cani da guardia, ma il progetto non è realizzabile, così avverto gli ospiti del pericolo. Incontro Ester sorridente mentre delle turiste corro­ no a vegliare un moribondo; lei le rassicura, consiglia di mangiare prima qualco­ sa, e va con loro. Io sono sempre più allarmata. A un tratto vedo velocemente una scena in cui degli uomini sparano a una bambina che cade sotto i colpi. Tutto mi sembra perduto. Allora mi rivolgo agli assassini come se niente fosse stato e do loro la mano: non mi resta che accumulare prove della loro criminalità.

Dopo la riunione ho telefonato a Isa a Milano: mi ha detto che sta rileggendo La donna clitondea e la donna vaginale e che le sembra ecces­ sivamente drammatico. Dunque vuole passare sopra le sofferenze da cui è nata la coscienza di questa tremenda divisione e incomprensione

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tra donne; assume quel tono con cui si svalorizzano le difficoltà degli altri, che ha preso anche Marion come me. Appena ha avuto l’uomo al fianco. Prima vengo accusata di durezza, dopo di drammaticità. Stanotte non ho dormito che poche ore: ero sotto lo choc di vedere Nicola piangere e riandare alla mia infanzia Ma mi sentivo conten­ ta di riavvicinarmi a lei. La presa di coscienza della creatività come mito patriarcale di liberazione che non serve alla donna, anzi la può mantenere nell’orbita dei valori maschili, è la scoperta conseguente alla coscienza clitoridea, che è la vera via di liberazione poiché par­ te dall’accettazione e dall’orgoglio di un valore misconosciuto di sé, dunque basato “sull’autenticità che può finire nel nulla di fatto”, e non nel prestigio che l’uomo attribuisce a una sua operazione. Infatti, che la donna imbocchi quella via è anche da ricercare nella sugge­ stione che hanno su di lei le proposte dell’uomo. Mentre la clitoridea ha conosciuto il tormento e l’esaltazione di rispondere al rispetto di sé senza convalide esterne: ricordo come una sensazione precisa quella di volere una nuova promessa e non di modificare le conseguenze, di arrivare all’evidenza di un imprevisto che fosse il nuovo punto di par­ tenza. Isa questo imprevisto lo sente come un assurdo. Quando stavo con Cesare leggevo Dostoevskij e Sestov, un nichilista, per trovare una negazione in cui sottrarmi completamente all’influenza degli altri su eli me. Poi mi sono accorta che da una filosofia non potevo ottenere quella tabula rasa culturale di cui avevo bisogno, il processo era più lungo e l’ho identificato nel femminismo. Via via cadono i miti su cui poggia il prestigio dato dall’uomo: un mito era il piacere dell’orga­ smo vaginale, un altro della bontà, spontaneità, emozionalità e uma­ nità della donna, un altro della maternità, un altro dell’amore e della dedizione, un altro prezioso e raro della creatività nei campi proposti da lui. Ieri sera, appena ho fatto vacillare quest’ultimo mito, ed Ester dava le conferme, sia pure ambigue, Nicola si è sentita sciogliere, ha avvertito di potersi esprimere. Era commovente perché diceva “Non vi impressionate, non è grave”, in un ultimo tentativo di mantenere l’autodifesa, ma anche perché, perdendola, sentiva forse che non era grave dal momento che era individuata da me. Anni fa Ester mi aveva detto che, a parte la creatività, lei si sentiva come le altre donne, vera­ mente alla pari. Questo mi aveva colpito perché io mi sentivo diversa e poteva sembrarmi brutto, darmi una lezione. Ma poi ho capito che, togliendo la creatività nel mettersi alla pari delle amiche le ingannava

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poiché toglieva dal rapporto il momento di maggiore intensità che dunque riserbava al mondo maschile. Mentre io sottraevo alla cul­ tura maschile i miei pensieri più autentici, e così facendo stavo dalla parte delle donne, anche se per il momento potevo comunicare poco con loro. 7 set. Vedendo Nicola che si comportava come se niente fosse suc­ cesso, mi sono chiesta cosa si aspettasse da me. Questo mi ha ripor­ tato a una situazione familiare perché, essendosi rivelata piangendo, ho provato per lei il sentimento struggente tra sorelle che avevo da piccola quando qualcosa mi svegliava dalla consuetudinarietà dei rapporti. Nella famiglia mi sono difesa dal volere bene agli altri fino alPimmedesimazione poiché, ancora ieri sera, mi sono accorta che non posso fare niente per Nicola se comincio a provare per lei troppa protezione E mi sentirei comunque perseguitata dal dubbio di non esserle stata sufficientemente attenta. Finora nei gruppi devo accettare di vedere i miei contenuti resi pro­ banti con la mediazione soprattutto di Ester. Per questo non mi sento riconosciuta direttamente e mi rimane il dubbio che se lei non con­ ferma in proprio che la schiavitù è espressa e confermata nel coito o che la creatività nel mondo maschile è un inganno, la mia testimo­ nianza rimarrebbe ancora misconosciuta. Così sento che le donne possono sempre sospettare del fatto che non ho l'orgasmo durante la penetrazione, e sono rimasta inespressa nel mondo maschile. E co­ munque apprezzano di più la vaginale che cerca di mettere in crisi il suo accordo con l’uomo in campo sessuale o la donna creativa in un settore dell’operatività maschile. Questo viene considerato qualco­ sa di vicino all’eroismo, un gesto straordinario che s’impone poiché dà la garanzia di non essere compiuto per impotenza. Così io cado nell’ombra e rimango la molla nascosta di un processo di liberazione che ha ancora la conferma o meno dell’altra come protagonista. E se non esito ad accogliere tale sviluppo, personalmente ho bisogno dell’autocoscienza di Sara in cui mi sento riconosciuta come probante a me stessa e non perché passo al vaglio di Ester, la quale, senza ac­ corgersene, può fagocitare la mia esperienza e rendere comprensibile un distacco dall’uomo che io ho fatto tirando fuori dal nulla, insisto dal nulla, i termini della identificazione di me come donna autono­ ma. Quei termini che Ester tende a inflazionare e a caricare di una

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persuasività che si basa sulla mia coscienza, mentre io non ho che me stessa a cui appoggiarmi e perciò non posso essere persuasiva, ma solo autentica. Ho vissuto di fatto la nascita della donna come soggetto e ho questa sensazione di pienezza nel femminismo che niente può togliermi. Mi accorgo - a differenza di Ester - che io non posso svolgere la mia au­ tocoscienza se non facendo partire da me tutti i motivi all’origine di essa, non potrei mai accettare di essere la prosecuzione di qualcosa affermato da altre, e in questo, credo, è stata la mia impossibilità nel mondo maschile dove avrei dovuto inserirmi a un certo stadio del pro­ cesso dell’uomo e unirmi a lui in alcune certezze. Mentre il senso della liberazione per me sta nel trovare in me stessa il punto di partenza. Per questo mi chiedo se il significato dell’autenticità come espressione di autonomia possa conciliarsi con l’avere garanzie da altri e se Ester non debba arrivare a dubitare di sé fino a quell’esperienza di vuoto della personalità da cui ricominciare a identificarsi. In questo, piuttosto che attraverso la utilizzazione dei miei concetti mi sentirei riconosciuta da lei mentre oggi temo ancora di venire sopraffatta dalla insaziabilità di approvazione di chi è vissuta nell’approvazione dell’uomo. 8 set. Se l’uomo dovesse abbandonare la creatività come arte, non ci sarebbero più donne artiste. Cerco di frenare l’invadenza di Ester, ma lei non si offende mai, in­ cassa e ricomincia ad adoprare la mia lucidità. Infatti la mentalità del “profitto” (termine di Ester) è più forte di tutto in una donna che ha scelto l’affermazione di sé con l’uomo e attraverso di lui. Quello che Nicola aveva in comune con mia madre era il senso della sopraffazione da parte di altre donne. Ma mettevano anche me nel numero non rendendosi conto che io scontravo con il padre nella ricer­ ca della autonomia: questo frustrava mia madre perché non lo aveva saputo fare e la spingeva a pensare che io la disprezzassi. Dandomi un’importanza, sia pure negativa, mia madre mi ha fatto sentire op­ primente a Nicola. 11 set. Dopo una sosta nella campagna toscana sono tornata a Mi­ lano. Stamani Sara mi ha chiamato e Anita è arrivata. Poi siamo state insieme noi tre. Che bellezza essere insieme! Sara mi ha letto un pez­ zo di diario sul comportamento suo e di Ester in Sicilia mentre io ero

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malaticcia. Lei avrebbe voluto essere più premurosa con me se Ester non lo fosse stata al punto di irritarla, così Ester, nelle sue misure ec­ cessive, scoraggia l’iniziativa di Sara. Dopo una lunga chiacchierata abbiamo concluso che l’impegno da avere in quest’anno di riunioni è manifestarci di più, e dunque chiarire i rapporti con le altre. 12 set. Sara ha scritto una poesia ieri Donna vaginale che comincia “Non crediamo a quello che dici...”. Anita ha detto “Torniamo ai li­ rici greci” tutto limpido ed essenziale. Siamo andate a cena con Isa e, mentre quest’estate mi scriveva di essere diventata “inequivocabilmen­ te clitoridea” nel sesso, ieri sera ci ha rivelato che forse è incinta, che vorrebbe tenere il figlio e andare in campagna con il suo ragazzo a vivere tipo hippie. Ha ragione Sara e io mi sono sentita ingannata, chi le aveva chiesto niente, dopo tutto. Lo stesso mi è accaduto con Ester quando l’ho vista sostituirmi in parte con Vanda; quando compiaceva i capricci del suo amico e trascurava me e il femminismo; quando era cordiale con quelli che volevo tenere a distanza per essere rispettata. Mentre è stata la prima a dire che io ero “una clitoridea pura”, l’anno scorso, cosa che mosse l’ilarità di Isa. Ma Ester si è sempre tenuta un angolino di “profitto”, ed è perché si manteneva quell’angolino che io sentivo, attraverso le maglie della sua affettuosità, un attimo di fred­ dezza, anzi di gelo. In quell’attimo anche lei mi considerava sua spet­ tatrice. D’altra parte sulla pittura Ester ha avuto il mito più forte della sua vita e a quello ha sacrificato tutto. Avrebbe sacrificato anche me. Sara in una poesia dice di avere avuto “un guscio metallico”, e mi ha fatto venire in mente che io mi sono paragonata a una tartaru­ ga “bionda allibita senza suono e senza / la posizione verticale” in una poesia di molti anni fa. Ero angosciata dal senso di paralisi con­ seguente all’autodifesa. Questa poesia terminava “Che qualcuno / abbia dolcezza per il suo esposto mistero / e cautamente lo cerchi accostando un dito / all’ingresso dell’infrangibile guscio”. Il fatto che adesso lo scrivere venga considerato importante per chiarirsi, per esempio lo scrivere poesie, mi riporta al momento del passato in cui, per trovarmi, ne scrivevo. Mi piacerebbe pubblicare come Rivolta Femminile un volume con poesie mie e di Sara perché si illuminereb­ bero reciprocamente, prima del femminismo e durante. Oltre al rifiuto di Cesare e allo scontro con mio padre, per me è stato doloroso e inspiegabile l’atteggiamento di mia madre e il cedere di

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mia sorella a Cesare. Dunque se l'uomo era cattivo, la donna era sua complice; io ho cominciato contro l’uomo e mi sono trovata contro la sua donna. Ero rimasta sola sui due fronti. E oggi ho privatamente trovato una riconciliazione con l’uomo che riconosce la mia sogget­ tività, mentre questo non è avvenuto completamente, mi sono resa conto quest’estate, neppure con Ester. Mentre la mia incomprensione con Nicola è frutto di sconoscenza reciproca e di interposta persona. Una caratteristica della mia vita è che ho abbandonato le persone nel momento in cui mi apparivano vincolanti e se non ne ho riportato senso di colpa è perché non mi sentivo responsabile della fermata della relazione, anzi mi pareva di avere posto le premesse per uno sviluppo indefinito. Mi sono accorta che prima del rapporto con Sara potevo solo aiutare le altre, ma ero in attesa di qualcosa per me che mi rendesse possibile svolgermi in un’altra fase. Quest’anno infatti non sono più disponibile a un’attività che mi coinvolge senza una vera reciprocità. Voglio mantenere lo spazio per riflettere senza ri­ cadere nel vortice delle telefonate a tutte le ore. Lo dirò al gruppo perché è un punto di autocoscienza. Ho pensato a Felicita: l’anno scorso aveva fatto una poesia La risposta è no. La domanda è sì. Adesso la capisco come bisogno di non essere confutata. 13 set. Isa dice che la storia del figlio è stata un’allucinazione dovuta alla lontananza dal ragazzo. Inoltre ha fantasticato di dare un nipoti­ no alla madre e di comunicarne la nascita al suo psicanalista. Il moti­ vo dell’approvazione in lei è una costante insieme a quello della sfida e della rivalsa, non su dei contenuti autonomi, ma proprio esibendo il raggiungimento delle mete comuni a dispetto di chi non la riteneva capace (madre e psicanalista). Io le ho detto di affrontare questo suo bisogno di approvazione, se ne capisce la radice può modificarsi: lei prima ha detto che è impossibile, poi ha capito che non c’è altra via. Ha anche obiettato che Gemma sarà sempre una buona anche con la presa di coscienza, ma non è vero; anzi, se la sua bontà era un modo per legare a sé gli altri, cercherà di liberarsi di questo bisogno dettato dall’insicurezza. Vedrà un’altra bontà al cui confronto la precedente le sembrerà troppo passiva. Abbiamo parlato e lei sentiva che ribadivo le distanze e si rattristava. Devo resistere a non lasciarmi turbare da questa reazione.

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Una figura marginale, ma importante per la mia formazione è stata quella di una insegnante di matematica, una donna sulla quarantina, amica di Cesare. Anzi, ne era innamorata e non aveva avuto rapporti con lui per moralismo e fedeltà verso il marito, non saprei bene, fatto sta che aveva creato questo sottinteso erotico e sentimentale fra loro, come se anche lui l’amasse, e così ne seguiva le relazioni con le ra­ gazze, me compresa, con inconscia morbosità, inconscia gelosia ma­ scherate da premura materna. Comunque la cosa che mi indignava era accorgermi che lei mi pensava come tutta assorbita dalla passione amorosa, tutta subordinata a quella. Niente che io potessi fare o dire l’avrebbe mai convinta che ero una persona con aspirazioni a valori e realizzazione autonomi. E lei ha drammatizzato la mia sconfitta con Cesare in un modo che mi ha umiliato, mentre ha osteggiato il nuovo rapporto di lui con mia sorella perché lo vedeva “davvero” innamo­ rato e questo le era insopportabile. Il suo comportamento verso di me mi ha offeso in una misura più grave del rifiuto di Cesare, e io ho avuto presente questa figura di donna nel mio conto da saldare con la vaginalità. La visceralità è destinata a essere sconfitta o a vincere nel ricatto. Il senso di ciò che dicono gli artisti in Autoìitratto proviene dal ri­ conoscimento non solo della loro autenticità, ma anche della mia che dava alla loro occasione di manifestarsi. Dunque non ero una spettatrice. Quello che mi turbava era però il fatto che mi vedessero solo come spettatrice, oggi capisco il perché. Anche Ester mi faceva pesare, all’inizio del libro, il sospetto di un’impresa poco creativa e mi esortava a esserlo completamente, mentre io compivo un’operazione che non era capita! Dopo mi faceva ridere che i critici prendessero il magnetofono e registrassero conversazioni su nastro! Gli artisti sup­ ponevano forse che fossi più intelligente, più sensibile di quelli, dun­ que più brava al registratore, certamente più onesta, ma tutto finiva lì, in una spettatrice ideale. Nella riunione di stasera mi sono accorta come va diversamente il gruppo da quando Sara e io ci siamo intese: io abbandono la reticen­ za perché ho la certezza della sua attenzione e mi rafforzo con la sua serenità. Abbiamo parlato dell’autenticità e ho capito che la sicurezza di me mi viene dal non averla mai abbandonata per dei valori proposti dagli uomini e, dal momento che volevo conoscere il loro mondo, l’ho fatto subendo il tremendo disagio di non esprimermi, di chiudermi in

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silenzi neutri e appartarmi, pronta però a uscire in una frase diretta appena un’altra frase diretta mi raggiungesse. Regina tempo fa mi ha detto di avermi odiata per questo silenzio che le suonava come una disapprovazione totale, di cui però non afferrava il significato poiché lo metteva in relazione a un senso eli superiorità culturale. Invece era solo impotenza. Infatti io non mi sono sentita differente dagli artisti sul piano dell’autenticità, ma su quello della sua affermazione. Quan­ do ho detto che la clitoridea non vuole essere mediata dalla vaginale, Sara ha ricordato che Cristo è stato mediato dagli apostoli e questo lo ha travisato. Tempo fa, quando nel gruppo c’erano ancora ma­ lumori e qualcuna diceva che io ero un capo, e che si sentiva come davanti a un uomo, in realtà ero io a essere fraintesa come nel mondo maschile, perché non prendevo un comportamento più accattivante e comprensibile di sorellanza, per esempio, democratico, umile, possibi­ lista, transigente... E diverso vivere con o senza riconoscimento. Io mi accorgo di avere un peso dal passato perché ci sono ancora attaccata, è come se non potessi staccarmene che con il riconoscimento. Anche da queste maledette poesie! 14 set. Mi sono svegliata dopo una notte tranquilla con dei pensieri sulla psicanalisi. E vero che si tratta di una terapia e basta, e dà, al massimo, un individuo guarito, non liberato. Per questo l’anno scorso dicevo fermamente a Isa che secondo me si deformava a continuare le sedute di psicoterapia di gruppo perché lì andava in cerca di un’in­ terpretazione e la sottoponeva all’analista. Ora, bisogna essere malati per fare così. Cosa può succedere senza autenticità? E l'analista è un professionista, non un poeta. E dialettico, positivista e vuole plasmare l’altro su questa immagine che ha dell’essere umano. Ho deciso di fare leggere le mie poesie a Sara. Non potevo mai im­ maginare che dopo quindici anni da quando sono state scritte avrei trovato la lettrice. Mi piace come le ho difése e ho aspettato una co­ scienza alla pari. Questo è il senso di me che mi dà esaltazione. Non provo rimpianti per la mia vita, mi sento in un’età indefinita che non è la mia cronologica, ma quella della mia presa di coscienza. L’autenticità è un’esperienza, se non ce l’hai non puoi riconoscerla e la svisi. Così sono stata equivocata quando ero autentica. Un’altra può essere sincera, mentre io potevo non esserlo dal momento che volevo essere autentica, dunque preferivo mentire che tradire l’autenticità. Ma

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quella si sentiva superiore a me per questo. Essere sincera è manifestar­ si come si è su una via data, io tendevo a una via mia propria, dunque non mi aspettavo niente di sostanziale dalla sincerità. Qriando sono stata capita da Sara ho avuto il maggior imprevisto nel femminismo (anzi, l’avevo previsto, ma quando è successo è stato ugualmente imprevisto). Mi ero abituata a non essere capita e potevo non perdere piede, anche se non sarei andata avanti. Non sapevo quanto il riconoscimento è importante poiché non lo avevo ancora “sperimentato”: così anche verso le altre lo tenevo implicito, mi sem­ brava una mancanza di pudore offrirlo. Temevo sarebbe apparso un gesto presuntuoso e già sentivo che nel gruppo mi si poteva conside­ rare tale, lnsomma, non lo avevo avuto. Adesso so quello che scatena il darlo e l’averlo. Anche le pubblicazioni che ho fatto negli “Scritti di Rivolta Femmi­ nile” non mi hanno procurato una vera conferma. Isa, per esempio, le ha prese come dei testi poco leggibili, difficili, il cui pregio comun­ que sta quasi in un fatto filosofico. Diceva “Mi piace il femminismo perché è all’altezza di Kant”. Oggi Agata mi ha detto che si sente di scrivere, ma in forma di poesia, la sua stessa prosa le risulta estranea, però la forma dei libretti non la disturbava, quel procedere concen­ trato. Allora ho capito che avendo avuto un’espressione basata su di me come è stata la poesia, mi sono potuta inoltrare in altre forme di espressione, non è stata più solo la poesia. Come nella vita non è più solo un momento particolare di solitudine in cui riesci a coglierti, puoi farlo con altri, soprattutto nel femminismo. Per scrivere i libretti mi era sufficiente la reazione di Ester, oltre al fatto di non essere usci­ ta distrutta dal mondo degli uomini, né distrutta né deformata, ma consolidata. In quegli scritti c’è una sicurezza di confutazione che è come una dimostrazione dell’integrità della mente, ma la chiave è an­ cora in quell’intuizione di sé di cui già dall’epoca delle poesie sapevo di potermi fidare; e come nelle poesie vedo apparire sempre nuovi significati collegati alla presa di coscienza mia e delle altre. Agata, a differenza di Isa, ha afferrato questo aspetto: per esempio, l’intuizio­ ne sull’imprevisto l’ha riconosciuta come propria. Io ho smesso di essere egocentrica da ragazzina via via che ho smesso di sentirmi protagonista in famiglia. Ancora adesso non riesco a con­ vincermi che una possa essere interessata proprio a me, figuriamoci se arrivavo a pensare di avere il diritto di coinvolgere altri nelle mie

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sofferenze! Ero ai margini, con una lontana esperienza al centro che mi tormentavo di avere perduto, ma che non potevo non ammettere di avere perduto e per sempre. Allora “lo sdegno / mi ha impedito di chiedere e un senso / dell’avventura di osare dove tutti osavano...”. Non mi restava che rendermi “idonea al luogo e alle sue / inderogabili esigenze”. Alle bambine i grandi dicono facilmente che sono egoiste: alle une, perché pretendono un affetto troppo esclusivo e comunque limitano la libertà dei genitori; alle altre, perché ne fanno troppo a meno e si occupano di se stesse. Parlando con Gemma ho avuto una conferma dell’ipotesi che avevo fatto a Ester: arrivare a un vuoto di personalità nello sganciamento dal bisogno di approvazione. Mi ha detto di avere passato tutto l’an­ no scorso in questa condizione psichica, poiché non credeva più nei metodi intellettuali maschili e in sé dal momento che ci aveva credu­ to, d’altra parte non voleva imitarmi. Adesso si sente a poco a poco rinascere. Contrariamente ai due anni trascorsi, mi accorgo che provo molto bisogno di scrivere anche qui a Milano e ci riesco serenamente. Di­ pende dal colloquio con Sara e con le altre più affini, mentre prima avevo uno stimolo solo dal rapporto con Ester che però mi portava piuttosto a nascondermi nelle teorizzazioni, nelle formule generali. Adesso sento che si avvera per me la profezia di Sputiamo su Hegel, che le donne sono il presente. C’è un tipo di donna contorta che non è possibile seguire - io sono ri­ masta scottata dai tentativi fatti con Lucia che mi riduceva inutilmente alla esasperazione mentre esercitava ogni genere di sadismi inconsci come principale contenuto della sua relazione con me - adesso ne ho preso coscienza e posso fermarla al suo primo ricatto verso il gruppo. L’anno scorso lasciavo passare perché, senza risonanza, sono sicura che si sarebbero creati dei drammi, delle incomprensioni forse defini­ tive. Non ci voleva molto a darmi la veste di aguzzina. 15 set. Devo liberarmi della mentalità e dell’attitudine profetica, il tempo delle profezie è finito. Mi sono ricordata che verso il maggio del ’71, alla prima riunione sull’erotismo in casa di Gemma, Isa disse che avrebbe voluto un erotismo non solo a letto, ma diffuso nei gesti della giornata. Che era un mito della rivoluzione sessuale. Io rac­

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contai che con un mio amico ancora sul bordo del letto parlavamo di qualcosa, come se di lì a un minuto non avessimo fatto l’amore. Questo significava il contrario dell’abbandono al partner, che allora era un valore inconfutabile, e poteva essere scambiato per repressio­ ne sessuale. Questa era la condizione della clitoridea prima della sua affermazione nel femminismo di Rivolta, e solo lì. Sono andata a trovare Matilde in ufficio. Mi ripromettevo di farlo da tempo e oggi sono stata felice di incontrarla. Lei mi ha detto di avermi sempre sentita frenata nell’autocoscienza che io richiamavo in funzione delle altre, non di me. Dunque aveva avvertito una mia difficoltà che non era poi troppo diversa dalla sua. Questo mi ha fatto sentire subito bene con lei. Finalmente riesco a liberarmi del mio ruolo preminente nel gruppo, il ruolo di “giardiniere” e ciò avviene non moralisticamente, ma perché sono maturate le condizioni. L’an­ no scorso mi dedicavo molto alle donne più identificate nei valori dell’uomo perché volevo farmi perdonare di essere migliore di loro e dimostrare la mia fiducia. Non avevo scelta dal momento che le altre tacevano e non capivo bene perché. Nella mia vita c’era la sconoscen­ za completa del rapporto basato sull’affinità - infatti con Nicola non avevo mai avuto un colloquio e sentivo la sua diffidenza - e la scon­ fitta con la donna diversa da me, Lucia. Infatti con lei mi era rimasto non il senso di incomprensione e basta, ma addirittura quello di una incomunicabilità e incompatibilità totali. D’altra parte, nei numerosi tentativi intrapresi per rompere questa barriera tra noi, di cui l’ulti­ mo è avvenuto nel femminismo, avevo potuto constatare non solo il mio tormento, ma anche il suo. Questo mi ha lasciato il bisogno di rassicurare le altre sulla mia disponibilità verso di loro, disponibilità che mia sorella negava esistesse. Con Matilde ho in comune questa tensione in famiglia, lei nei confronti della madre, io soprattutto della sorella. Mia madre poteva fraintendermi poiché aveva molto sofferto a causa delle donne “forti”, prepotenti ed egocentriche e io le appa­ rivo tale nella pretesa di sconvolgere la “sua” famiglia per la “mia” libertà. Se così fosse la mia passata difficoltà verso le donne più inibi­ te e riservate avrebbe questo precedente poiché mi sono sentita ab­ bandonata da mia madre che avrei voluto si identificasse con la mia ribellione allo stesso uomo. Dal momento che al posto suo mi sarei ribellata, la vedevo come sua succube. Mentre lei in fondo si sentiva in parte vittima, non tanto di mio padre, quanto della sua vita senza

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madre e di un’infanzia e una giovinezza più che infelici - sempre per parte femminile, la matrigna e in più una zia con cui era vissuta al cui confronto mio padre era stato la liberazione; in parte orgo­ gliosa di una sua autonomia di pensieri e di gusti, di una maniera di educare i figli che le sembrava riscatto da ogni forma di sopruso verso i bambini, sopruso che lei aveva subito. Accorgersi che io consideravo un fallimento tutto questo la deludeva tremendamente. Però la vedevo così bloccata, timida e infantile che la sentivo diffe­ rente dalle altre madri. Oggi potrei pensarla clitoridea, e Nicola così l’ha definita nel gruppo, se non mi fosse apparsa inspiegabile proprio l’incomprensione con me, mentre la vedevo vicina a Lucia. Nicola però mi ha detto che più di tutte è andata d’accordo con lei e che con Lucia aveva anche del risentimento. Infatti Nicola sebbene molto distaccata da mio padre, non lo affrontava direttamente, dunque non creava quel clima teso che spaventava mia madre ed era contrario al suo stile di ritirarsi di fronte alle impossibilità e di rimuginare in soli­ tudine le sue ragioni. Via via che ci penso mi confermo sempre più su questa ipotesi anche perché è probabile che, almeno come sensibilità all’offesa, l’abbia presa da mia madre. Lei poi non si ribellava come me perché aveva tentato altre vie per affermarsi con mio padre: nella mia indignazione non le riconoscevo le sue vie anche perché c’era una generazione fra noi e le sue conquiste di spazio per me erano ine­ sistenti quasi, oltre che scontate. Io, che tendevo a portare i conflitti, miei almeno, alla coscienza, la facevo ritrarre perché le davo senso di colpa e perciò si sentiva male a causa mia. Inoltre mia madre è feribilissima, anche una sua nipotina la può offendere oggi se critica il suo operato poiché nessuno ha mai riconosciuto quello che di sé ha messo in ogni gesto, così la più piccola riserva le richiama il miscono­ scimento totale. In questa cura, che non è affatto buona esecuzione di un ruolo, posso riconoscerla. Dove ho sbagliato è stato di giudicarla in rapporto a me, alle difese di me che non ha preso in modo definiti­ vo con mio padre, mentre mi ha dato fiducia in molti momenti in cui è stata lei ad assumersi delle responsabilità, come quando sono anda­ ta a Parigi au-pair con il suo permesso, adesso capisco il mio errore. Leggendo le lettere che mi ha scritto quando ero in Francia mi ha colpito constatare che non mi dice altro che minuzie legate alle mie necessità, mai qualcosa di più intimo, di relativo alla mia nuova si­ tuazione o a sé o a noi due. Non so se ero anch’io così con lei, devo

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ritrovare le mie lettere, mentre mio padre al contrario mi parla di sé, della vita, dell’entrare nella vita, che anche lui aveva superato le difficoltà e adesso era contento, ma afferma di aspettarsi il ritorno di una figlia più simile a come la vuole lui e mi dichiara la sua buona vo­ lontà di capirmi. Così mi sentivo completamente sola, anche se a mio padre scrivevo in termini più scoperti dei nostri rapporti e una volta gli ho persino chiesto se mi voleva bene. Mentre mia madre sfuggiva, si rinchiudeva in se stessa, mi frustrava con questo distacco, ma mi ha reso possibile andarmene dalla famiglia senza lacerazioni, cancellan­ dosi quasi dalla mia mente. Sarà che non ho mai avuto fretta con lei, stranamente ho rimandato il momento di riprendere i rapporti, mi è sembrata sempre discreta e sempre lì, è come se pensassi che un gior­ no avrei potuto fermarmi a parlare con lei serenamente. Sentivo che c’era un’incomprensione tra noi, ma come se sarebbe stata questione di tempo, e di me naturalmente. L’anno scorso ho provato a parla­ re con lei, ma era allarmata e in realtà non mi sentivo abbastanza tranquilla per presentarmi senza tensioni. Adesso ho capito che mia madre fomentava la libertà anche senza volere, anche pentendosene, dunque adesso so che le sono debitrice mentre lei non lo sa e pen­ sa che non abbia molta considerazione per i suoi metodi educativi. Adesso mi rendo conto che se mi avesse appoggiata mi sarei sentita legata a lei e non avrei provato quel bisogno enorme di libertà che mi ha salvato. Non avrei avuto nella testa l’immagine di una donna inespressa da riscattare esprimendomi senza tradirne l’autenticità. Matilde mi ha fatto notare oggi che i primi due anni di Rivolta sono stati di distacco dal mondo maschile con confutazioni di ogni gene­ re. Mi è venuto in mente che Cristo, per riprendere un personaggio cui ci riferiamo in questi tempi, aveva confutato i Dottori della legge ebraica prima di iniziare il suo vero momento di espressione, in modo da sgombrare il campo da sospetti di improvvisazione e determinare lo sconcerto da cui nasce l’aspettativa. 16 set. L’autonomia è importante perché fintanto che si dipende dal bisogno di approvazione degli altri non si può conoscere se stessi, non si può pensare e agire spontaneamente. Ma Isa dice di sentirsi falsa, di fare la furba perché si è allontanata da se stessa nel lungo rapporto con un amico molto più grande di lei. Mentre Gemma non è stata plasmata dall’adesione a un uomo e dalle sue aspettative, dunque non

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si sente finta, ma soltanto condizionata dai suoi bisogni affettivi. Per Isa il processo è complicato da tante false immagini di sé. Gemma invece deve risalire i motivi che l’hanno portata a svalutarsi, ma non a modificarsi secondo le proposte di altri. In casa mia la riservatezza era sia di mia madre che delle mie sorelle, io la vivevo come un continuo disinteresse per me, e una chiusura di ciascuna in se stessa. Lucia era addirittura impossibile disturbarla, era sempre occupata con varie attività scolastiche, letture, pianoforte, musica, pittura e qualche rara amica. A un certo punto ho pensato che si sentisse migliore di me e perciò detestasse avere contatti. Da piccola non mi prestava un libro se non le baciavo il piede, evidente­ mente voleva mettermi alla prova e umiliarmi. Era gelosissima della sua roba, dovevo sempre chiederle il permesso di usarla, i libri soprat­ tutto, anche da grande. Si presentava autosufficiente, assorbita dalle sue cose, non mi cercava, anzi mi evitava. Sentivo che non sarebbe mai stata solidale con me, ma neanche mia madre lo era, non parlia­ mo della più piccola che mi ignorava e che ignoravo. Dunque ho visto nella riservatezza un male, un impedimento a comunicare, un’avari­ zia, un modo per fare soffrire. Probabilmente, dopo, le donne riserva­ te mi richiamavano le frustrazioni della vita in famiglia, mi sollecita­ vano un senso di rancore. Le vedevo che si accomodavano in qualche modo nella vita, pensavano a sé e solo a sé nel senso della convenien­ za, diciamo, altre tiravano il carro, io ad esempio. In famiglia mi ero sentita sola mentre aprivo la strada di cui poi anche loro si sarebbe­ ro avvantaggiate; nonché riconoscerlo mi rimproveravano alcuni in­ convenienti. Questo mi è accaduto anche con le amiche di Rivolta, e accetto che sia stato così: come si può aprire una strada senza che ciò avvenga? In tutte il sospetto accumulato in due anni di “giardiniere” di Rivolta ha lasciato il segno. Mi hanno sentito superiore e questo è un equivoco che pagherò. Adesso devo ritirarmi e fare solo gesti alla pari. Se temo di non poterlo essere, è meglio che mi assenti. E come se ne avessero fin sopra i capelli di me. Non capiscono che è stata una situazione reciproca, che a mia volta sono stata condizionata da loro a essere una guida. Se mi avessero potuto riconoscere sarebbe stato come adesso, ma non potevano. 17 set. Ignazia mi ha chiesto perché mi piaceva il carattere di Ester, perché il mio aprirmi di più e apprezzare di più le donne esuberanti

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nella mia vita. Intanto perché ho sofferto della riservatezza in fami­ glia e l'ho odiata lì. Avevo in mente persone generose le line con le altre, comunque più aperte, più allegre, più vitali. Io mi sentivo diversa da mia madre e dalle sorelle: meno cauta, mi piaceva rischia­ re, intraprendere, buttarmi. Pensavo in questo di somigliare a mio padre che si era fatto da niente e lo sentivo pieno di energia, e anche di sopraffazione. Infatti poi ero a disagio con persone propriamente esuberanti pur mitizzandone l’umanità più diretta. Ho provato una mancanza di affetto tremenda da bambina: dall’oggi al domani mi sono sentita trascurata e da allora lo sarei stata sempre in famiglia fino al momento di andarmene a vent’anni. Qualche anno fa, quando ero in USA avevo conosciuto un uomo, un artista che mi aveva colpito come un fenomeno abnorme di emotività che io affrontavo da zone protette; non mi sarei mai avvicinata alla belva, ma lo guardavo con un misto di rimpianto e di raccapriccio. Conoscendolo meglio non riuscivo a scambiare niente con lui, sepolta come una paglia da un darsi che arrivava con fragore di valanga; mi sentivo più che diso­ rientata, annientata. E poi era noioso con una grossa molla sul petto da cui prendeva la carica. Ma dovevo vedere un uomo così da vicino per togliermi le ultime battute di un mito. Mito di che? Di un padre espansivo, poiché il mio era il più schietto e pieno di vita in famiglia, ma sul piano affettivo proprio non ce la faceva; sì, qualche momento, ma di solito era puritano, non voleva moine, aveva la mano pesante. Per lui c’era il senso della famiglia, non l’affetto come rapporto tra i membri. In questo, e non solo in questo, era molto toscano, molto fiorentino. Mia madre anche era toscana con madre piemontese. In fondo io soffrivo dell’aridità generale, proprio del terreno arido oltre che delle ingiustizie e trascuratezze su di me. Le due grandi amiche della mia vita, Marion ecl Ester sono espansi­ ve, affettuose, una quasi romana, l’altra siciliana. A ventitré anni con Marion ho cominciato a conoscere l’ambito dell’emotività e dell’affet­ to in cui da ragazza non mi ero mai imbattuta se non, forse, a livelli scadenti che non ricordo. Anche in collegio l’espansività era bandita come una maniera troppo passionale di manifestarsi. Era il rapporto diretto che volevo e immaginavo che non si poteva realizzare con le chiusure che c’erano intorno a me e che io stessa avevo e di cui volevo liberarmi. In Ester mi era piaciuto trovare tutto questo accompagna­ to da un’allegria a getto continuo che anche mi era mancata e che

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apprezzavo moltissimo. In casa mia c’era un clima tremendo di offendibilità: ogni parola nascondeva un altro senso, si ricordavano e si rin­ facciavano episodi di molto tempo prima. Con Ester i rapporti erano facili: che si esprimesse molto più di me lo prendevo come un tributo alla mia lealtà verso di lei, tributo che mi era negato in famiglia dove ero considerata pericolosa, sprezzante, prevaricatrice. La fiducia che Ester ha avuto in me mi ha dato molta forza, e quasi un benessere fisico. Questa fiducia mi ha permesso di fare cadere definitivamente la prima trincea delle mie autodifese, mi ha permesso di cominciare il femminismo, di rivolgermi alle altre senza paura poiché non avevo più il vuoto alle spalle, avevo un rapporto che sentivo, per allora, alla pari. Adesso mi rendo conto che non mi potevo esprimere se non a tratti e come trovando uno spunto dai suoi problemi; rimanendo fer­ ma la mia seconda autodifesa non prendevo mai l’iniziativa di formu­ lare io un mio problema, ma ero ancora così chiusa dentro che non mi accorgevo se non di qualche sensazione di disagio o di irritazione. Pensavo come i genitori ex-poveri che non vogliono intristire i figli con il racconto delle privazioni passate: appunto sono passate e per fortuna, superate. Mentre non era così, la mia vita non poteva avere il suo sviluppo di coscienza se non tornavo a quelle sensazioni e a co­ me e quando le avevo lasciate alle spalle. Ester aveva rapporti difficili con gli uomini e, per quanto li desiderasse, desiderava soprattutto l’oggetto sessuale, dunque non vedevo una sua dipendenza da loro, d’altra parte, avendo fatto l’arte non ne aveva il mito, dal momento che la conosceva, la possedeva. Anzi era molto angosciata quando ha scoperto che le aveva preso quasi tutto nella vita: gioventù, erotismo, divertimenti. Il mito della creatività era un altro in lei e allora non potevo afferrarlo. Capivo che forse non mi vedeva creativa oppure si aspettava da me che mi realizzassi creativamente, non so, intuiva che io mettevo della creatività in me come donna, ma tutto era vago. A volte ho avvertito che mi pensava più una persona di cultura quasi, con un inciampo caratteriale, una debolezza sull’affermazione di sé, però autentica. Sentivo la sua stima in quel senso, ma certo che lei nel­ la pittura si era rivelata più di me. Quando ho avuto questa sensazione più chiara nel femminismo sono stata stimolata a riflettere su questo perché ne soffrivo e non mi potevo considerare più alla pari. Il mio rancore verso gli atteggiamenti di riservatezza derivava spe­ cificamente dal fatto che, essendo Lucia molto silenziosa, mi ha bat­

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tuto proprio su quel piano nel suscitare l’interesse e Finnamoramento di Cesare. Lui era molto affascinato da questo tratto di Lucia che in effetti sembrava potere fare a meno degli altri come se quello che loro pensavano non la toccasse, eccetto i genitori. Comunque al contrario di me non perdeva mai il controllo della situazione: non scattava, non gridava, raggiungeva i suoi scopi. A parte che io avevo altre pretese di libertà, anche sulle richieste del medesimo oggetto lei era suadente e arrivava a conquistarselo, io no. Per esempio, volevo suonare il pia­ noforte e non me l’hanno permesso adducendo ragioni economiche mentre lei qualche anno dopo ha potuto farlo e le hanno comprato il pianoforte. Anche perché dava l’impressione di sapere ciò che voleva, e io quella di cambiare continuamente direzioni. Mia sorella aveva la calma della persona appagata negli affetti, io un’esasperazione che mi portava a improvvisi scoppi di ribellione e di scontentezza. Ero la più scomposta di tutta la famiglia escluso mio padre. Al confron­ to mia sorella era un angelo e non potevo sopportare la sua imper­ turbabilità nei miei confronti come se non mi vedesse o cercasse di non vedere uno spettacolo così scadente. Temevo di apparirle una mendicante e mi comportavo come una furia: insomma aveva ca­ ratteristiche di autosufficienza schiaccianti per me che non le avevo senza capire bene perché, e dalle quali mi sentivo rifiutata. Questa è la ragione per cui ho avuto tanta attrazione per le donne aperte ed espansive se appena potevo non collegare questa caratterialità all’uo­ mo. Durante il periodo passato con Marion, dai ventitré ai ventisette anni, avevamo tutte e due rapporti con uomini meno importanti e assidui della nostra amicizia. E nel periodo trascorso con Ester io avevo la relazione con Simone a cui non si è sentita inferiore nel mio affetto, e lei tentativi di incontri soprattutto erotici. Così sono potuta uscire dalla esclusione più completa che la riservatezza vigente nella mia famiglia mi aveva destinato: per mia madre e per Nicola era au­ todifesa, per Lucia manifestazione di ostilità, ma le confondevo nella mia frustrazione. Non capivo che la generosità di una donna verso un’altra è prima di tutto generosità verso l’uomo. La vera generosità è quella di chi non ha bisogno di compiacere. La sovrabbondanza di Ester non mi respingeva, anzi la gustavo perché avevo un vuoto enorme da colmare alle spalle. Con la fiducia che mi ha dato mi sono espressa nel femminismo anche perché intuivo che insieme, lei e io, abbracciavamo due estremi nella vita delle donne.

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Ieri ho parlato con Agata: vuole fare una poesia su di me perché le sembra di riconoscermi non solo per l’autodifesa, ma per qualcosa di interiore la cui preziosità ha fatto scattare l’autodifesa. Mi piace que­ sto indugiare di Agata sul riconoscimento, e dopo le mezze misure, le cautele, le superiorità e le inferiorità è un tutto colmo, un guardare l’altra con completezza, un momento felice. Uno degli appunti che Isa fa a Gemma è quello di non avere interesse per il pensiero. L’avevo detto io a Isa l’anno scorso addebitandolo alla sua svalutazione di sé, così è vero che la mediazione porta al dogma, cioè al fraintendimento. Questo concetto di mediazione deve sparire, sprofondare. Oggi è stata una bella giornata di sole dopo giornate e giornate di pioggia. Un passerotto è entrato in cucina per beccare qualcosa, te­ nevo le finestre spalancate. Intorno ai pochi grappoli d’uva rimasti sul terrazzo ci sono api e vespe, l’anno prossimo voglio mettere fiori apposta per attirarne di più. Piccioni e gazze saltellano tra le mie piante. Ho scritto tutta la mattina, ancora un po’ al pomeriggio e poi ho lavorato al libro di Sara. Mi piace così anche se mi sono accorta di aspettare il ritorno di Tito. Ho parlato a lungo con Simone al te­ lefono. Ho bisogno di concentrazione senza intristirmi troppo sola. Nella mia vita da parte di donne ho avuto o ammirazione o invidia, ma poco affetto e comprensione vera. E mi accorgo che se nel mon­ do maschile mi basta l’affetto di Simone e il suo riconoscimento, in quello femminile non mi basta, vorrei avere un rapporto con tutte. E pesante per me essere considerata un caso a parte. L’altra mattina ho notato un gesto affettuoso di Matilde quando sono andata a trovarla. 18 set. Sono stata a colazione da Aldo. Abbiamo passato qualche ora parlando di fotografia, di lavoro, di artisti sullo sfondo della sua malattia e della morte. All’inizio pensavo sempre “Aldo sta per mori­ re e lo sa”, non osavo chiedergli come si sentiva ed ero a disagio per ogni cosa che dicevo. Poi è stato lui a entrare in argomento: ho capito che uno che sta per morire vuole parlare di questo incubo costante perché esprimendosi si familiarizza con un evento assurdo e incon­ cepibile. Deve rassegnarsi e questo sforzo di disarmo completo non può farlo da solo. In qualche modo Aldo sta cercando di trovare un filo nella sua vita, di capire gli errori, di distaccarsi dalle alienazioni. Su questo punto ci siamo incontrati in un bisogno comune così non

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c’è stata falsità, anzi, e lui non fissava più gli occhi nel vuoto come quando la gente cerca di distrarlo. 19 set. E venuta Agata: non c’è ancora rilassamento nel parlare, ma era così con Sara le prime volte. Rispetto a loro ho quasi più autodi­ fesa, intanto perché ho vissuto più a lungo in questa condizione e poi perché mi sono abituata a sviluppare un pensiero che mi giustificasse. Questo pensiero oggi mi appare un po’ ingombrante. Non ho niente da dire sull’incontro, i suoi sviluppi sono imprevisti. Adesso ho la testa vuota e mi sento leggera. 21 set. Il fatto che abbia abbandonato così facilmente il campo della cultura maschile è la riprova che non era lì che mi volevo esprimere. Dovevo magari passare di lì. Con mio padre scontravo, era chiaro, eravamo diversi, ma con mia madre e le mie sorelle non c’era ragione al mondo che mi poteva il­ luminare sul perché non ci capivamo, sul perché ero evitata o temuta o fraintesa e comunque esclusa. Per questo il riconoscimento è stato così importante per me, ma a differenza di Sara posso liberarmi del tutto solo se anche le donne come Lucia mi accettano. 22 set. Adesso che Sara ha avuto un incontro con un ragazzo, posso portare avanti la mia riflessione sul rapporto con Simone, prima da sola non mi era possibile se non per quegli accenni che poi Sara ha avuto presenti, come ha scritto: “Non potrò mai riconoscere abbastanza Carla. Ero in un bivio e lei mi ha indi­ cato la via giusta, ha detto vai di qua, io non vedevo niente... Ma sono andata lungo la strada indicata da Carla... Quando Carla parlava del suo rapporto con Simone, che c’è stata la passione tra loro, che può parlare di tutto con lui, che lei crede nell’erotismo reciproco e come lui è stato buono con lei nel rapporto sessuale, cominciavo piano piano a capire che avevo bisogno di un rapporto au­ tentico con un uomo senza autodifese in cui tutto questo sarebbe stato possibile e così è successo...”.

Prima di adesso temevo che la “sposata” avrebbe capito il mio rappor­ to come una conferma del suo e quella “sola” come una riuscita di cui sospettare. Anche quella che si difende molto dall’erotismo lo avrebbe

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visto come un rapporto simile ai rapporti più puritani e intellettuali in cui lei si trova a suo agio. Sulla sensazione di quanto in fondo mi sia sentita isolata fino a oggi e di quanto abbia lottato per non perdermi di coraggio e sulla constatazione di come ora è diverso e di quanto mi sia mancato sentirmi alla pari con le altre, mi è venuto da piangere. Sara ha capito che potevo piangere solo se mi sentivo capita e che questo era un atto di apertura per me. Lei poi mi ha detto di avere avuto la stessa commozione quando si è accorta di essere vissuta così a lungo senza erotismo. La mia difficoltà a riconoscermi nelle altre stava in questo che io ho avuto, da sempre il bisogno di esprimermi, dopo che ero stata negata da tutti in famiglia. Cercavo di farlo fuo­ ri, ma mi rendevo conto che prima dovevo rafforzarmi in me stessa, per questo sono arrivata alla poesia. E dopo mi sono confermata nel fatto che fuori potevo solo esprimermi mimetizzata dalla cultura. Ho scoperto adesso che il primo problema per me era quello di crede­ re alla mia autenticità, cosa che è avvenuta appunto definitivamente nella poesia: ero stata troppo accusata in famiglia per poterci credere spontaneamente, dovevo dimostrarlo a me stessa. Avvicinandomi agli artisti mi mettevo alla prova con l’esterno nel punto dove avevo indi­ viduato che esisteva autenticità, e anche lì ho avuto una conferma. Anche con Simone e anche con Ester è stato così, ma con Simone mi affermavo di più accentuando le diversità fra noi senza tentennamen­ ti, con Ester lasciavo le diversità nel sottofondo. Per esempio, quando voleva l’uomo come oggetto sessuale, non era così che io avevo trova­ to l’erotismo, ma dal momento che lei si era espressa creativamente nella pittura, pensavo che avrebbe trasformato anche quel momento per me prevedibilmente inautentico, in un imprevisto. Insomma non sapevo se era la mia autenticità a impormi dei limiti oppure se era il fatto di non essere riuscita a comunicarla e dunque a ottenerne il rico­ noscimento, che mi teneva cauta nel timore di perderla. Essendoci tra me ed Ester un’esperienza così incomunicabile, in fondo, come quella della creatività nel mondo maschile, esperienza di cui intendevo la qualità, ma che mi era estranea, dovevo arrivare alla distinzione tra donne clitoridee e vaginali e alla risonanza tra clitoridee, per rendermi conto del perché la creatività con l’uomo era rimasta al di fuori di me e dunque qual era il nucleo della mia diversità da Ester. Con lei però avevo provato a me stessa la forza della mia autenticità misconosciuta che non vacillava di fronte all’altra, anzi si consolidava.

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Oggi è stata una di quelle giornate alla mercé degli altri che sto cer­ cando di evitare. Prima sono arrivate due nipotine gemelle, figlie di Lucia, a cui volevo riservare un po’ d’attenzione, ma non è stato possibile perché è venuto il ragazzo di una del gruppo a portarmi delle bobine e si è trattenuto un po’ a parlare. E un ragazzo siciliano pieno di cultura libresca, molto vivace ed estroverso. Mi ha meravi­ gliato che un tipo così possa costituire un dramma insolubile per la mia amica. Poi è arrivata Isa, lui se ne è andato, ed è arrivata una femminista di un altro gruppo. Con questa mi è difficile stabilire un contatto perché è molto loquace, ma lascia cadere ogni spunto di parlare in proprio. Volevo tanto stare con Ignazia che non vedo mai e l’ho potuto fare solo un’oretta intramezzando con telefonate. /Vile nove è venuta una ragazza che frequentava il gruppo all’inizio e che intende rientrare. Alle 11 e mezzo sono stata un po’ con mio figlio e ho mangiato del formaggio. E adesso, dopo mezzanotte che posso riprendere a concentrarmi su di me, questo carosello è durato dalle 2. Anche Sara mi aveva chiamato, ma non ho potuto trattenermi a par­ lare con lei. Devo difendere le mie giornate a tutti i costi e smistare gli impegni che mi interessano, ma che possono troppo sviarmi. Adesso ho la testa stanca e vado a letto. 23 set. Quello che mi colpisce in Ester è una enorme carica di re­ cupero per realizzare il quale adopra tutti i mezzi. Io non posso adoprare tutti i mezzi, per questo posso fare errori per me irrimediabili. Per Ester la qualità riconosciutale nel momento creativo funziona da garanzia che la rassicura sul resto della sua vita. Ho parlato al telefono con Lucia. Dopo le riflessioni fatte da quest’esta­ te, una telefonata sola è bastata per capire i miei rapporti con lei. Ho la certezza che è stata la sua mediazione che ha impedito a me di comunicare con i genitori, e forse anche a Nicola e agli altri fratelli. Infatti lei operava una censura continua su di noi, smentiva continuamente le nostre reazioni ai genitori e ci faceva sentire colpevoli per quello che avevamo pensato e comunque frustrava il nostro cercare un’identità autonoma. Il mezzo con cui realizzava questo blocco era il trovare sempre una giustificazione ai genitori, cioè un’interpreta­ zione del loro operato che si presentava come obiettiva mentre in realtà derivava da una sua adesione, anzi, immedesimazione totale con loro. Lei viveva come un attacco ai genitori ogni gesto nostro che

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non fosse di dedizione a loro o di adempimento delle loro aspettative. Ha lavorato indefessamente per tutti gli anni della sua vita in famiglia e, per quanto può, ancora adesso, a seminare in noi dei sensi di colpa, ha alzato una barriera di incomunicabilità con i genitori, è riuscita a isolarli, a difenderli da noi finché ce ne siamo andati uno dopo l’altro, lei compresa. C’è qualcosa di mostruoso in tutto questo, proprio una deformazione di cui tutti siamo rimasti vittime, in particolare forse mia madre. Infatti parlavamo di lei oggi e lì ho capito che lo schermo di Lucia ha tenuto mia madre fuori da ogni comunicazione con me, che avrebbe aiutato me, ma anche lei. Infatti io ho trovato altri sboc­ chi, ma lei? Lucia l’ho detestata per questo intrigo che mi impediva di manifestarmi direttamente ai miei e di avere da loro una reazione diretta; la sua mediazione ha inciso dentro di me, ha disturbato la spontaneità delle mie parole e del mio comportamento con l’istillar­ mi dei dubbi: che non capivo abbastanza i genitori, mio padre soprat­ tutto, che non li avevo interpretati giustamente. Ora l’autenticità è pensare e agire per quello che si sente delle situazioni e delle persone, per quello che si capisce, mentre Lucia sovrapponeva una pretesa di obiettività alla mia comprensione degli altri. Questa violenza da parte sua è stata la più sottile e irreparabile che ho subito in famiglia. Ma il mio senso di colpa per lei derivava dal fatto che vedevo chiara­ mente il suo amore per i genitori, un amore assoluto, al cui confronto il mio bisogno di autonomia sembrava meno amore, maggiore distacco, dunque colpevolezza. Ora sto liberandomene perché vedo altrettanto chiaramente che l’amore assoluto di Lucia non era così disinteressato come poteva sembrarmi allora (e anche se avevo dei sospetti certo non potevo ottenere le prove), perché si basava sul bisogno di garantirsi l’esclusività dei genitori. Questo bisogno la portava a identificarsi con loro e a vedere me o gli altri, Nicola e i fratelli, come attentatori alla loro bontà e superiorità mentre invece, soprattutto io, volevo comuni­ care con loro a tu per tu, anche ribellandomi o accusandoli se neces­ sario e volevo lo scambio, ma così Lucia sentiva un pericolo alla sua identificazione da cui traeva l’imperturbabilità della persona in sim­ biosi. Mi torna in mente così, allarmata quando l’unione le appariva minacciata e ancora adesso fra noi ha lo stesso atteggiamento. Non credo si sia accorta di quello che provocava o comunque, non aven­ do mai preso coscienza della sua ostilità - che aveva forse una tregua quando tutto andava bene, cosa che succedeva, ricordo, molto poco -

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se ha avvertito la mancanza di veri rapporti non ha cessato di pensarci come dei colpevoli. Ho l’impressione che la mia gelosia verso di lei, quando è nata, avrebbe potuto benissimo essere superata in seguito se non mi fossi sentita respinta. E questo è avvenuto fino da piccola quando aveva manifestato un’ag­ gressività sviscerata verso di me: eppure ero stata orgogliosa di lei quando, sorreggendola sotto le ascelle, l’avevo aiutata a fare i primi passi... E durante un’estate al mare, a Genova, avevo creduto a una storia che i miei zii mi avevano raccontato: mi avrebbero procura­ to una piccola bambina, come una bambola viva tutta per me e io aspettavo che riuscissero a prenderla, perché appariva qua e là per poi scomparire. Mi sono chiesta che cosa significasse questo episodio e ho concluso, anche considerando la data, sicuramente prima delle elementari, che volevo una sorellina diversa, mia, che non mi respin­ gesse. Così alla fine era Lucia a non potermi accettare, cosa che aveva tramutato la mia gelosia in angoscia per l’esclusione quando avevo preso a desiderare l'intesa con la nuova arrivata. Così su un trauma se ne è impiantato un altro. Stasera, mentre stavo scrivendo, è venuta una del gruppo, poi Isa, nel frattempo mi ha telefonato Ignazia proponendomi di andare in piz­ zeria con Sara e io l’ho detto anche a Isa e telefonicamente ad Agata. Poi quest’ultima e Sara sono andate direttamente in pizzeria e io ero seccata perché in questo momento non ho molto da dire o da ascolta­ re da Isa e avevo avuto già abbastanza un pomeriggio turbolento per desiderare di rimanere sola a casa. Ci siamo riunite in pizzeria e Sara ha detto che era voluta rimanere sola con Agata perché era l’unica persona a cui poteva dire di essere “innamorata pazza” di un tale. No a Isa perché il suo tipo di innamoramento è diverso, no a Ignazia perché in riunione aveva affermato di volere con l’uomo solo un incontro sessuale, no a me perché avevo detto di non avere interesse per l’erotismo. Ricordavo benissimo le mie parole: l’erotismo non era il mio problema attuale, adesso il mio problema erano i rapporti tra le amiche. Questo comportamento di Sara mi ha ferita, certo gli ho dato più peso di quello che aveva. C’è stato poi come un battibecco fra noi quando le ho spiegato che gli unici rapporti diretti prima del femminismo li avevo avuti con Simone (e parzialmente con altri) e che avevo cercato uno sbocco nell’erotismo, mentre con le donne non ero riuscita a farmi accettare. Lei ha detto che l’erotismo lo tiene per

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ultimo come il dolce e che senza il dolce si può vivere, ma non senza il resto del pranzo. Allora ho ribadito che io ho cercato tutto, i rap­ porti con le donne moltissimo, ma avevo capito di recente che anche in un rapporto così intenso come quello con Ester, parallelo a quello con Simone, non mi ero espressa altrettanto. Mentre lei cercava di dimostrare che aveva avuto sempre contatti con donne, ma certo non un’amicizia così felice come con Ester. Poi ha ricordato che suo pa­ dre era un amante perfetto e lei aveva paura di quella violenza che intravedeva in lui, mentre io avevo un padre puritano e una madre frigida e non volevo finire così, detestavo le coppie diserotizzate e mai avrei avuto un matrimonio senza orgasmo come Sara per tanti anni basato sulfaifetto. Il mio rigetto del matrimonio era appunto perché collegavo matrimonio e mancanza di erotismo. Io non mi sono difesa dall’erotismo, ma dall’uomo, non c’era uomo buono che io potessi af­ frontare senza affermarmi, non bastava che non fossi sopraffatta per­ ché era buono. E poi l’uomo buono non erotico per me era cattivo. Prima con Raffaele avevo erotismo e colloquio, poi mi sono sposata ed è stato un anno dedicato alla gravidanza e alla nascita del figlio, poi lo spostamento a Milano e forti disagi economici e di tutti i gene­ ri, infine la constatazione che senza erotismo morivo. Alla fine Sara ha detto che prova il bisogno di trovare delle differenze con me per essere sicura di non venire influenzata; anch’io tendo alle differenze, non mi assimilo facilmente e non mi incammino sulla strada di altre. Proprio dalla constatazione di come lei è diretta mi sono accorta di non esserlo quanto credevo e mi sono messa a cercare perché. Però voglio uscire dall’isolamento riconoscendomi in lei, in quegli aspet­ ti di lei che mi sono propri. Sara poi ha accennato a un fatto, che quando tutto il corpo è erotizzato, anche la imboccatura della vagina lo è, per questo una può diventare vaginale se non trova un modo per raggiungere l’orgasmo e intanto l’uomo con il suo pene cerca la vagina. Ma, per quanto mi riguarda, quando l’uomo entra la mia buona disponibilità verso di lui finisce e mi risveglio bruscamente dall’abbandono al piacere. Dunque è vero che occorre l’emozione del darsi per fare funzionare il meccanismo vaginale. “Allora” chie­ de Sara “che cos’è la reciprocità?”. Le ho risposto che è dare, non darsi, dare piacere all’altro intanto che lui te lo dà. Sara ha ancora espresso la possibilità, se una è soggetto, di adoprare la vagina come luogo erotico, come è scritto su Sessualità femminile e aborto. La frase

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suona così “Da luogo della violenza e della voluttà la vagina diven­ ta, a discrezione, uno dei luoghi per i giochi sessuali”. Ho aggiunto “a discrezione” perché volevo limitare questa ipotesi. D’altra parte il testo non è a mio nome, ma a nome di Rivolta Femminile. Mi viene in mente un punto su cui ritenevo mancante la presa di coscienza di Sara, ed è quello che una volta ha provato l’orgasmo durante il coito. Mi chiedo se non sia arrivato il momento per lei di rifletterci. Se dopo cinque giorni di rapporto con un uomo si trova a chiamare in causa la vagina, è evidente che c’è una connessione. Forse per questo non mi ha detto direttamente di essere innamorata, per la sensazione di un coinvolgimento che può andare al di là dell’at­ tuale formulazione sulla clitoride? Dunque pensa che io credo di più alle teorie che all’autenticità oppure che non mi fido della sua in cui pure mi sono riconosciuta. Comunque ho avvertito dell’aggressività verso di me e questo mi ha turbata, tanto più che l’altra sera, parlan­ dole del mio senso di solitudine per avere vissuto tante esperienze sen­ za poterle comunicare, avevo pianto. Stasera Sara ha detto alle altre quello che io le avevo detto a proposito di me: che non me la sentivo di affrontare il mio rapporto con Simone nel gruppo perché sarei stata fraintesa. Solo che ha incluso anche me nelle altre e questo mi è parso un gesto di leggerezza. Dunque, non volendo essere influenzata da me lo era, e senza accorgersene. Per questo l’espressione diretta-pro­ grammatica mi fa paura perché, sbagliando, si può colpire un punto delicato di un’altra, e poi somiglia per certi aspetti al protagonismo. 24 set. Ho fatto un sogno strano di cui ricordo un particolare. Sto ascoltando la radio con un tale e la cosa sembra molto spiritosa, lui e altri sullo sfondo ridono divertiti, e anch’io cerco di farlo. Mi accorgo che in realtà non capisco niente perché alla radio si parla una lingua straniera. Però poi mi pare di distinguere che si tratta del francese, e mi accingo a coglierne il senso, ma allora il problema si rivela quello della voce troppo lontana e intermittente. Alla fine quel tale si alza e mi comunica che la radio ha detto “... non par le devant... mais par le derrìère...”. A quanto pare si tratta di un nuovo metodo per scorticare una persona adoperando una siringa.

E un chiaro timore di una possibile rivalutazione del coito. Questo non perché Sara è innamorata, ma perché non si è sentita di dirmelo

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e allora i suoi accenni alla vagina {“par le derrière”) mi sono apparsi nell’inconscio come una minaccia. La manifestazione diretta di me l’ho conosciuta soprattutto nei momenti di espressione violenta con l’uomo. Adi sembra di dire a Simone delle cose che non dico neppure a me stessa: possibile che in solitudine sia più difesa? Sara mi ha chia­ mato stamani presto al telefono. Così le ho comunicato i miei pensieri di ieri sera, eccetto quelli sulla vagina, cosa che farò in seguito. Ho sentito che mi si chiudeva un po’ la gola quando le dicevo che non voglio scontare il bisogno delle altre di essere indipendenti da me, chiudendomi quando mi fraintendono. Lei aveva difficoltà a dirmi di essere innamorata anche perché le sembravo la più femminista. Dunque è vero che si preoccupava dell’ortodossia e avevo ragioni a sentirmi imbalsamata. Ho parlato con la mamma al telefono e ho sentito la sua cara voce. Adi ha meravigliato perché era preoccupata per me dato che ho que­ sta febbretta. L’ho sentita vicina e serena come non mi succedeva da molto tempo. Agata ha detto che ci si riconosce nella affinità e ci si afferma nella di­ versità. Dunque, facendo tutte le combinazioni: mi riconosco nell’uni­ versale e mi affermo nel particolare con le clitoridee, mi riconosco nel particolare e mi affermo nell’universale con gli uomini. Con le donne vaginali mi affermo nell’universale e basta, dunque è il rapporto più povero di quelli possibili. Ester mi aveva detto di avere avuto per me un riconoscimento “este­ tico” negli anni della nostra amicizia e Agata trova che la clitoridea ha il “fascino” che le deriva dall’integrità. Ha telefonato Isa per venirmi a trovare. Le ho precisato che la sera volevo stare sola e mentre era qui ho staccato il telefono. Adi ha rac­ contato un episodio di sessualità che non aveva detto al gruppo e ha cercato di trovare una chiave, però alla fine ha confessato di non esse­ re approdata a niente. Così è arrivata alla conclusione di avere perso il filo della sua vera identità. Per questo si sente non creativa, ma intelligente, infatti ha sviluppato una serie inesauribile di interpreta­ zioni di sé aderenti in qualche modo a ciò che ci si aspetta da lei, ma non riesce a identificarsi in se stessa: con ciascuno costruisce una se stessa plausibile, ma non autentica. Aveva continuamente il tremito nel mento e le lacrime sotto pelle, si trova nell’imminenza di una crisi, gliela auguro, e perciò sono stata ben attenta dal rassicurarla.

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26 set. Ho passato il pomeriggio di ieri a battere a macchina dei brani di lettere mie a Cesare senza modificare niente solo saltando qualche lungaggine. La sera è arrivata Sara e ho capito che proprio in concomitanza con la sua storia d’amore mi è venuto, non tanto di pensare Simone, quanto di risalire al mio primo innamoramento ed erotismo. L’ho fatto per essere vicina a lei adesso e perché è il mo­ mento giusto per me di affrontare quel capitolo. Com’era ingenuo pensare di potere parlare dell’erotismo un anno e mezzo fa! Sara è stata colpita dall’autenticità di quelle lettere e mi ha detto chiaro che devo ritrovarla abbandonando il colloquio con le vaginali. Dunque adesso non sono più così autentica come allora, che pensiero impre­ visto! Comunque le ho risposto che non mi sento inautentica e anche lei è d’accordo che non è così, ma che mi presento troppo perfetta. Questo è vero, ma in qualche modo pensavo di esserlo, insomma avere riflettuto sempre ed essersi ritirata a tempo. Per non ammettere a me stessa di avere avuto una vita d’inferno all’epoca dei drammi in famiglia e della mia gelosia per Cesare, e di essere stata sconfitta da mia sorella, ho costruito delle difese fortissime. Lucia si meravigliava della mia continua sofferenza: “In questi ultimi tempi ho capito che tu hai sempre cercato un poco la sofferen­ za, mentre io mi sono preoccupata di mettere ordine intorno a me e di togliere ogni motivo di essa. Tu sei la sorella che non vuol persuadersi alla serenità e alla tranquillità e mi fa stare in pena (non credere che con questa frase alluda a una situazione precisa, in qualsiasi caso sarebbe così, come in qualsiasi caso avrei sempre un fondo di gioia)”.

Così mi scriveva nel gennaio del ’53 a Parigi: proprio in quell’epoca io ero partita da Firenze per non assistere all’inizio “ufficiale” della sua relazione con Cesare. Però ero riuscita in questo, che la soffe­ renza non apparisse impostami dagli altri, ma come una mia scelta, una mia vocazione. Le lettere a Cesare non hanno sempre la stessa autenticità, infatti non sempre sono riuscita a far fronte al senso di tremenda insicurezza che mi dava il suo atteggiamento con il sottin­ teso, sempre meno sottinteso, possibile amore per Lucia. Certo, in questo è stato di una vigliaccheria spaventosa lasciandomi sempre delle speranze e richiedendo il mio affetto o comunque una continui­ tà di colloquio. Io mi dibattevo, ma per qualche motivo non riuscivo

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ad affrontare direttamente il tema Lucia. Così, nel non volere indivi­ duare la vera causa della mia sofferenza, ne facevo un’astrazione, mi abbandonavo a una grande sfrenatezza nei miei rapporti con Cesare e perdevo i contatti con la realtà. Non mi riusciva di impegnarmi con lui perché sentivo il terreno franarmi sotto piedi, e oscillavo tra eccessi di dedizione ed eccessi di distruzione con intervalli apatici e senza iniziative. Sognavo evasioni che poi negavo ed ero sincera in entrambi i casi: speravo di svalutare il rapporto con Cesare e l’umilia­ zione che mi imponeva augurandomi qualche scappatoia disinvolta, ma se lui mi coglieva sul fatto e mi accusava non potevo sopportare la sua delusione e capivo che l’espediente non aveva funzionato pri­ ma di tutto in me stessa. Credevo di essere orgogliosa nel rifiutare di prendere in considerazione la mia gelosia per Lucia, in realtà ero solo incapace di vedere in lei per la seconda volta nella mia vita e su ciò che avevo di più prezioso, una nemica e una rivale vincente. Allora mi ingannavo e incolpavo lui, lo sminuivo ai miei occhi e, anche se ne avevo tutte le ragioni, era un pretesto per ritrovare forza, mentre, attaccandomi alla sofferenza come a un’esigenza vissuta quasi filoso­ ficamente per una predisposizione della mia natura, per un bisogno collegato a tutta la mia vita, potevo sfuggire al particolare tormento della gelosia. Così come esprimendo un amore con la A maiuscola e caratteristiche cosmiche mi nascondevo l’umiliazione di amare senza essere riamata. In realtà temevo di scatenare la visceralità della gelo­ sia e della pena per essere stata respinta: era una prova che non avrei potuto sopportare due volte di fila. Questa allucinazione della mia realtà mi ha permesso di superare quel momento insopportabile e, al di là degli eccessi, potevo mantenere un mio angolo di scetticismo, cioè di distacco. Ho scritto più tardi in una poesia “come agendo in serie di vicende / d’occasione” in cui non mi immettevo totalmen­ te. Poiché, spostandomi dal campo affettivo a una forma di assoluto astratto ho vaneggiato nelle alte sfere, ma sono riuscita a evadere dal contatto con una situazione che mi avrebbe portato a una resa senza condizioni. E in questo modo non mi sentivo più alle strette, lasciavo tutti, non solo Cesare. “Io ero sopra a tutti e tutti sotto di me” ho scritto in un’altra poesia del ’53. Avevano voluto dimostrarmi il contrario, ma non mi ero data per vinta. D’altra parte quell’angoscia che sfuggiva a un contenuto particolare esprimeva anche e autenticamente una

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esperienza costante della mia vita fino ad allora. A questo punto mi sono ammalata di polmoni a Parigi e con questo segno evidente di sofferenza sono rientrata a Firenze. Qualche mese dopo incontravo Marion e conoscevo finalmente un rapporto sereno e soddisfacente per la prima volta nella mia vita. Ala mi rimaneva sotto una sensazio­ ne di me collegata al superamento di prove tremende. Su questo tema vertono molte delle poesie seguenti: “Lo sdegno / mi ha impedito di chiedere e un senso / dell’avventura di osare dove tutti osavano” op­ pure “a forza di / giustificarmi concludere che ero / ingiustificabile nell’alternanza di boccate / vuote boccate di illusione ingorda adesso ho / in faccia un destino inaccettabile” ecc. Per questo è importan­ tissimo per me il riconoscimento tra clitoridee: mi libera da questo senso di destino “speciale” che oscilla tra la inferiorizzazione di fron­ te alla donna normale (che vive “nel ballottaggio del tempo / e degli eventi”) e la superiorità. Nel gruppo, dal momento che mi affermavo, è apparso come superiorità, e in effetti l’esperienza alla pari mi man­ cava, ma adesso sono felice di riconoscere in altre quella diversità che mi ha esaltato e allarmato e ritrovarmi con loro finalmente sullo stesso piano. 27 set. Stanotte ho fatto un sogno che ho cercato di ricordare senza riuscirci. Dico a un uomo seduto “Alzati e fammi riposare la schiena perché sono stanca”.

La vaginalità nell’erotismo scatta sul senso dell’uomo irraggiungibile, allora viene il darsi. Capisco cosa ho rischiato con Cesare con cui ho provato tanto desiderio e sempre mi sfuggiva. Ada la sensibilità all’of­ fesa era tale in me che non potevo veramente darmi, avevo paura di essere adoperata, così esprimevo questa sensazione, questo slan­ cio, ma se riesci a scriverne significa che sai controllarti. Esprimersi è l’autodifesa del soggetto, questo ho provato nel mio rapporto con Cesare catastrofico per tutto il resto. Ada ho vinto perché sono riuscita a esprimermi. 30 set. Avevo pensato tanto ai miei rapporti in famiglia e alla storia con Cesare che quando ne ho parlato nel gruppo mercoledì non ho voluto né potuto frenare le lacrime. Su richiesta di Sara ho anche

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letto alcune lettere tra i diciotto e i vent’anni, che hanno colpito per la loro complicità. Suppongo che molte si riconoscevano in me come ero allora, Agata mi ha chiesto se gliele davo da leggere. Intanto che piangevo speravo che il vedermi così avrebbe avvicinato le altre a me, ma capisco che la sospettosità rimane anche se mi vedono piangere perché è un pianto che libera. Anche l’autenticità senza ombre di Sara inferiorizza perché a lei dà sicurezza. Non c’è altra via che la li­ berazione in proprio che permetta di superare l’inferiorizzazione: chi si libera non può liberare l’altra, ma solo aiutarla ad andare in crisi. L’uscita dalla crisi è interamente sulle spalle di chi ce l’ha. Mi sono resa conto che da giovane avevo molta passionalità, ma mi veniva fuori come reazione allo stato di incertezza in cui vivevo con Cesare, non era un bisogno vero di dedizione, né di amore, ma uno scatenarsi di quelle emozioni stimolata e garantita dal fatto che non avrebbero avuto un corso reale. Volevo qualcosa d’altro e lo sape­ vo, ma non potevo rassegnarmi a perseguirlo: e poi tutto era molto confuso, dovevo smaltire tante scorie, tante fantasie sul rapporto con il ragazzo che avevo fatto, mezzo incredula e mezzo sperando nel miracolo. In realtà non sapevo veramente amare, rimanevo sfuggente al di là di ogni espressione di eccesso, anche se la gelosia per mia sorella ha conferito a quel rapporto un nucleo di tensioni che altrimenti non avrebbe avuto. Non ero, come dice Agata, identica a me stessa, ero un insieme molto contraddittorio che reagiva più che agire, non sa­ pevo cosa volevo e volevo qualcosa di preciso solo per contrasto. Fi­ nito il contrasto perdevo la direzione, lo slancio cadeva. Comunque l’insolubilità di quella relazione mi ha permesso di rivelarmi quanto mi nascondevo, mi ha costretto a diffidare di me stessa, a scoprirmi dipendente, e perciò ha messo a nudo il mio desiderio di autonomia e ha posto fine almeno alla parte più infantile dei miei sogni. Ero pau­ rosamente bisognosa di comunicare e non sapevo che cosa, volevo essere amata e non riuscivo a capire perché mai avrei potuto esserlo, volevo amare e non mi sentivo mai abbastanza sicura per farlo. Ma ero anche paurosamente insofferente per i miei bisogni che mi met­ tevano in balia dell’altro e, dal momento che non trovavo loro un contenuto, ero portata a sottovalutarli. E li ho sottovalutati anche nel rapporto con Cesare, come idea generale che tendevo a farmi della cosa, ma la miriade di lettere che ho scritto allora, mi fa capire che in

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qualche modo ne ho preso atto e ho cominciato a liberarmene espri­ mendo giorno per giorno, chiaramente o fra le righe, quello che non volevo ammettere esistesse in me. Così, finito il rapporto, ero arrivata a certe conclusioni che mi pareva di avere sempre avuto latenti, ma che ora erano il risultato di un’esperienza vissuta e non dell’insofferenza e della paura di perdermi, che avevo anche prima. Infatti, ten­ devo a spostare a prima di Cesare quelle conclusioni, e ciò era falso, sebbene sia vero che, nonostante tutto nella relazione spingevo verso quelle. Ma per sentirle mie dovevo smaltire tutta una parte di me. Belleville sur Saône, 10 set. 1952. Caro Cesare, ... oggi non comprendo affatto alcuna relazione umana - comprendo solo la forma momentanea, vissuta come esperienza, senza programma a due —: sono in ogni modo sicura che in essa non si realizza alcun valore. Soprattutto perché le conquiste sono individuali e realiz­ zabili in se stessi e non certamente in due. Non riesco a capire perché in due. Per­ ché compiacere le cose, e in ogni caso perché uomo e donna e non sesso uguale? Questo non per purismo, ma perché la sensibilità, le esigenze, l’intelligenza, il gusto, troppe cose sono su piani diversi fra uomo e donna.

Ho parlato un po’ con mio fratello Adolfo di passaggio a Milano due giorni e gli ho accennato che da ragazza mi ero sentita respinta da Lucia. Mi ha guardato con occhi sgranati. E anch’io ci avevo pen­ sato: senza che me ne rendessi conto, come sorella maggiore, sono stata io a mia volta ad avere inferiorizzato lei. Sia perché mi vedeva più grande, sia perché ero, almeno in famiglia, un tipo baldanzoso e comunque abbastanza intraprendente, sia perché c’erano sempre ragazzi che mi cercavano e prima di Cesare al mare avevo avuto un’estate due bei ragazzi con una cotta per me con cui avevo flirtato, sia perché nella scuola dove avevamo gli stessi insegnanti, io passavo per un tipo in gamba nelle lettere, anche se studiavo poco, e ricevevo spiccate simpatie di qualche professore, sia perché cercavo sbocchi in ogni modo e non avevo l’aria di chi si arrende facilmente. Ricordo che una volta mia madre mi chiese delle mie poesie, non molti anni fa. Ero stupita “Come fai a sapere delle poesie?”. Infatti non gliene avevo mai fatto parola. Era stata Lucia a dirglielo, perché ne aveva vista qualcuna e le aveva trovate “le più belle” che avesse mai letto. Questa era una esagerazione da parte sua. Ma perché non ne aveva parlato a me? Adesso capisco l’assurdo di una inferiorizzazione re­

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ciproca che io ho poi superato, una volta finita la storia con Cesare, ma che a lei è rimasta. Adesso che ci penso, è vero che suo marito ha alluso spesso alla mia opera di ribelle in famiglia come a un qualcosa di molto importante per tutti, sorelle e fratelli: questo fatto ha un cu­ rioso sapore di riconoscimento per interposta persona. Direttamente Lucia non mi concede niente, anzi avverto che dubita spesso di me, della mia onestà ad esempio, per non dire dei fondamenti della mia cultura, cosa che prima mi disturbava, mentre da quando ho lavorato come critica d’arte non ci ho più pensato. Adesso è lei che sospetta il mio disinteresse per i suoi studi e ricerche linguistiche. Ecco, questo della cultura era un punto a mio sfavore con Cesare che vedeva in lei il raggiungimento di un livello assolutamente invidiabile e in me quel dilettantismo che in sé lo tormentava. 1 ott. Con Cesare è stata una relazione amorosa e non una cot­ ta perché per la prima volta veramente comunicavo con qualcuno: qualcuno si apriva con me e io con lui, nonostante tutte le difficoltà e le divergenze fra noi. Il fatto di comunicare mi ha risvegliato l’esi­ genza di capirsi totalmente, di realizzare l’intesa fra noi. Finché non comunicavo, con ragazzi precedenti troppo convenzionali e inespres­ sivi con me, potevo avere sensazioni ed emozioni al momento della loro presenza fisica, ma poi appena lontani, queste si affievolivano e io riprendevo la mia vita di prima e i miei interessi. Rileggendo oggi le loro lettere (erano in genere incontri estivi) riprovo la delusione di allora, sono lettere ardenti con formule vuote tipo “Immagina che ti stia baciando” oppure “Se sarò andato a sbattere con la macchina contro un muro la colpa sarà tua: ti stavo pensando troppo!” oppure “Il mio cuore se l’è preso una ragazza bionda con un viso delicato di madonna” ecc. Lì per lì diventavo rossa, ma dopo poco mi sembrava­ no stupidaggini, non sapevo come rispondere. E la cotta finiva. Men­ tre con Cesare non avevamo di queste banalità, parlavamo molto e riflettevamo su noi stessi. Lo scambio era la cosa più importante, l’ori­ gine dell’erotismo stava lì per me e io sentivo che succedeva qualcosa di cui rischiavo di non potere più fare a meno. Questo, mentre con­ statavo continuamente la provvisorietà della relazione da parte sua a causa del sentimento per Lucia che prendeva via via consistenza. Alla fine della relazione, mentre ero a Parigi, nella tendenza ad assolutizzare, a trarre una scoperta di impossibilità generali dalle mie

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personali impossibilità, avevo elaborato pensieri da cui mi sentivo protetta e giustificata. Potevo contrapporli alle ambiguità di Cesare e anche gettare un’ombra di scetticismo sul suo amore per Lucia e sul loro futuro. Il meccanismo del pensiero che lui mi aveva se non rivela­ to (già in collegio suor Caterina mi chiamava “la filosofa”) certamen­ te permesso di applicare, l’avevo fatto mio e ne sperimentavo tutta la forza, anche se mi rimaneva l’amarezza della privazione esistenziale dell’amore, a cui sopravvivevo anche grazie alla lucidità con cui me ne ero fatta una ragione. Questa difesa concettuale l’ho portata avan­ ti fino nel femminismo; ero sicura delle mie conclusioni, non solo di quelle, ma di tutto ciò che avevo aggiunto in seguito, ero sicura che la mia capacità di resistenza agli altri mi aveva salvata. In realtà mi aveva salvata resprimermi per me, cioè lo scoprirmi ai miei occhi, l’avere trovato questo sbocco di autonomia completa. E dopo i diari da ragazza, le lettere consegnate o non consegnate a Cesare, altre lettere, forse quelle di Marion che devo richiederle, e lì è una sorpre­ sa cosa mi riveleranno, altri diari, le poesie di Scacco ragionato, ancora le lettere a Simone specie nei primi tempi, sono il filone dove posso trovare il contenuto della mia resistenza. Mentre in tutto il lavoro che ho fatto nella cultura posso dire che il timore di rivelare la mia inadeguatezza mi ha impedito di manifestarmi se non a sprazzi, qua e là quando riuscivo a farlo diventare quasi vita privata. Quel timore c’è anche nei libretti che ho scritto dentro Rivolta: ero sicura di dire cose vere, ma non era solo l’espressione di me per me, era anche per le femministe e per le donne nel mondo degli uomini. Allora in parte mi irrigidivo nella difesa consueta operata dalle formule concettuali e dalla loro inattaccabilità nel momento della confutazione, in parte continuavo sulla scia delle poesie, cioè nella presa di coscienza. In realtà la parte concettuale mi serviva per rispondere agli altri, non che non contenesse autenticità, ma non si basava su di essa, mentre la parte poetica era sì ragionata, ma nel senso che voleva la verità della mia identità. Nella parte poetica riconoscevo me stessa, nella parte concettuale mi affermavo verso l’esterno. In fondo non volevo essere sconfitta né avevo la spinta a vivere ritirata dal mondo (come ad esempio, S. Teresa). Il mondo lo volevo conoscere e dunque mi allettava, ma non mi ha preso grazie al lavorio continuo dell’esprimermi. Oggi pomeriggio ho sognato Ester.

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Aspetto Ester a un angolo di Cervinia. Lei arriva e io le metto allegramente un braccio intorno alla spalla e prendo a camminare svelta per portarla a un bar. Ma lei si ribella con modi bruschi: mi dice che avrebbe aspettato l’ora (forse di una riunione) facendo qualcosa per conto suo.

2 ott. Sono un’attrice, la parte è pericolosa, c’è il possesso di una bicicletta in ballo, come se io dovessi rubarla. Sono orgogliosa di riuscire a recitare, cosa che prima mi pareva quasi impossibile. Tra le attrici c’è l’ex-moglie di Simone, ma a dire il vero si comporta piuttosto come un’ex-attrice. Compro dei vestiti per la mia parte in un negozio di alimentari che sul retro ha una rivendita di abiti smessi. Pago 170.000 lire oppure 170 dollari, non ricordo: mentre scelgo mi rendo conto che è la seconda volta che recito e che compro abili. Parlando con la commessa mi lamento del prezzo e lei è d’accordo, avrebbe potuto farmi uno sconto, e portare il prezzo a 60.000 lire o 60 dollari. Gli abiti sono pieni di magagne e io temo che non avrò i miei soldi indietro. Stamani ho incontrato Raffaele sulla porta del medico comune: abbiamo parlato delle condizioni del divorzio, lo mi sono messa a piangere perché non posso sopportare che si dubiti di me, e lui lo fa sempre appena intralcio i suoi piani. Ho senso di colpa per non gua­ dagnarmi la vita mentre lui si è ammalato per questo. Ma appena a casa gli ho scritto di getto una lettera per dirgli che è un suo problema di coscienza pensare sia pure minimamente a me da un punto di vista economico e che ho ragione a ricordarglielo. Con lui era come con mio padre: se volevo andare d’accordo non dovevo reclamare i miei diritti. Capisco che sia lui che mio padre erano perfetti per il mondo e si sentivano tali, cioè lavoravano e guadagnavano, e non riconosce­ vano chi non risolveva prima di tutto il problema economico. Anita ha detto che Ester nel suo libro ha adoprato le sue scolare delle medie: dopo ventanni di distrazione da parte sua, le ha fatte parlare sul femminismo e sulla loro oppressione in famiglia. Scoprendo la loro freschezza se ne è appropriata, ma quelle bambine poi sono state abbandonate. Ester ha fatto un gesto di riscatto appariscente: non le viene in mente che i suoi vent’anni di silenzio altre possono averli riempiti giorno dopo giorno, e quindi perché non lascia loro il passo, una buona volta? Con Sara scopro ogni momento dei punti della mia vita: per esempio, ne La donna clitondea e la donna vaginale, arrivo a delle conclusioni di cui

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avevo dimenticato l’origine concreta. Dico che la clitoridea ha fatto dei gesti autentici e non è stata capita, però non ha perso la baldanza e non si è sentita completamente frustrata: se mi avessero chiesto a quali esperienze mi riferivo, lì per lì non avrei saputo rispondere. E strano come le conclusioni non avevano più rapporto con gli eventi reali. Ritrovarli è per me così sbalorditivo! Ester non aveva afferrato niente delle mie poesie e, anche se non me lo sono detto, questa sua incapacità mi aveva deluso. Ma allora non pensavo a una vera e pro­ pria incapacità, piuttosto avevo la conferma di quello che supponevo, e cioè che da quelle poesie un’altra non potesse ricavare chi ero. Però un’altra un po’ speciale lo avrebbe potuto fare, dunque Ester non era speciale. Ma se non lo era lei, chi avrebbe potuto esserlo? Oggi lo so, e comincio a capire chi sono e come è significativa la mia vita e come è legata strettamente ai miei pensieri. Prima era diverso: non affer­ ravo il legame tra me e la mia vita, non riuscivo a vedere il nesso tra episodi che mi apparivano casuali. Eppure sapevo che non lo erano, ma allora perché li avevo indirizzati così? Adesso ho la testa affollata di voci, di avvenimenti, di particolari.3*il 3 ott. Scrivere, esprimermi per me, significava raccogliere tutti i brandelli che lasciavo qua e là e ricollegarli l’uno con l’altro, ritrovare un’articolazione di momenti, una specie di completezza. Anch’io ca­ pivo che agli altri davo di me un’immagine ben deformata dalla mia impotenza. Non sopportavo di essere sempre sotto accusa in famiglia, di non avere la fiducia dei miei, vedevo la loro sospettosità appena aprivo bocca, e già mi irrigidivo e mi sconvolgevo insieme. Mentre, scrivendo, ero libera e ricomponevo i miei pensieri, le mie sensazioni, le approfondivo, scoprivo un senso. Comunque ho sempre alimenta­ to il proposito di andarmene di casa perché l’incomunicabilità avreb­ be finito per distruggermi, non avrei potuto sentire indifferenza per quelli che mi vivevano accanto, e questo favoriva in me il nascere di miti di evasione. Da adolescente è stato il collegio, da ragazza Parigi. Non che non si siano rivelate esperienze importantissime, prima di tutto perché erano iniziative mie e perché mi hanno tolto all’immobi­ lismo in cui temevo di finire, ma certo mi sono costate care. Parigi era il mito dell’awenturosità che avrei trovato fuori casa e in cui mi sarei immessa riscattando così anni di mediocrità e di vuoto. Avevo in testa Rimbaud e certi poeti francesi, gli scrittori americani che lì trovava-

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no delle opportunità, e poi gli esistenzialisti e gli attori. Vedevo una Parigi composta dei miei elementi. E questo mito dava un sapore al mio soggiorno lì, sebbene fossi impegnata in tutt’altri problemi e av­ venimenti. In realtà non sono riuscita a conoscere a Parigi che gente a cui non avrei riserbato uno sguardo in Italia. Dei nobili in bolletta con cui non avevo niente in comune, né come cultura né come espe­ rienza, molto gentili e tradizionali, che però avevano di particolare questo: mi erano stati destinati dalla sorte in quella grande impresa che era stata il mio andare a Parigi. Così mi sono impegnata con loro come con il mio destino. Non potevo pensare che la cosa più prezio­ sa del mio soggiorno sarebbe stata fallontanamento dalla famiglia e il mio entrare in uno sperduto punto qualsiasi della terra come una persona sperduta, e che questa situazione mi avrebbe colmata di strani entusiasmi e imponderabili orientamenti. Parigi, come l’avevo sognata, non l’ho neppure intravista. L’avrei trovata dieci anni dopo a Milano, Torino, Roma, incontrando artisti tutti diversi da come me li ero immaginati. 4 ott. Parlando con Agata mi sono accorta che per me vivere non è stato tanto partecipare a quello che mi succedeva, quanto riflettere tra me e me il senso di me stessa. Mi sono sempre sentita con un pie­ de dentro e un piede fuori, perché avvertivo come un essere “fuori” quella realtà incomunicabile che riguardava me sola. Ma appunto lì era l’inganno perché quella realtà andava comunicata. E non pote­ va esserlo in modo soddisfacente collegandola ai fatti di cui era, se non l’antagonista, certo un’estranea. Per questo forse calcavo le tinte esprimendo la sofferenza o l’amore, nel tentativo di includerli in quei sentimenti, e poi mi sentivo contraddittoria perché mi accorgevo che quel punto di me non si mescolava, non era estendibile. E stato con le poesie che ho affrontato il senso di me senza contenuti, senza argo­ menti, e lì piano piano ho realizzato ed espresso l’esperienza di com­ baciare con me stessa. Comunque non sapevo che valore attribui­ re a un’operazione che non sapevo definire e che non vedevo come avrebbe potuto essere riconosciuta da altri. 6 ott. Quando ho pianto al gruppo è stato perché in quel momento avevo cercato di rivedere la mia vita alla luce dei fatti, dei sentimenti, del carattere. Ma se io mi negavo di esprimere quel punto di me che

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si sottraeva agli avvenimenti, dove non c’era amore se ero innamo­ rata, né dolore se soffrivo, un punto in cui si rifletteva e da cui si ri­ verberava il senso di me, finivo per creare l’immagine di una vittima innocente e illuminata, come Anna Frank, per esempio. Infatti a un certo momento ho detto che mi sembrava un’altra persona quella di cui parlavo e che mi faceva tanta pena. Se mi sono manifestata così significava che cedevo al bisogno di vedermi così per essere più simile alle altre, e comunque sentivo che le altre mi volevano così. Infatti quel senso di me che era stato ostacolato e calunniato dai genitori, da Lucia e persino dalle suore, finiva per apparirmi come una colpa, la vera colpa originaria da cui la mia vita prendeva un corso sbagliato. E probabilmente ho pianto per questo senso di colpa che ancora ieri nel gruppo mi rendeva non esprimibile il senso di me e ancora una volta lo sacrificavo, dunque sacrificavo ciò a cui più di tutto tenevo e in cui mi identificavo. Ma piangendo, ho preso coscienza di quel senso di colpa, ed era un pianto vero perché avevo in serbo quelle la­ crime da tanto tempo, dopo mi sono sentita più leggera. E ho potuto scoprire che non ero “io” quella su cui piangevo, ma quella che gli altri avrebbero voluto che fossi e che ho accettato di rappresentare nel gruppo, le cui aspettative si collegavano in fondo a quelle della mia famiglia. Con Agata mi sono accorta subito che potevo isolare me stessa da tutto quello su cui avevo incentrato la mia emotività nel gruppo e che, mi rendo conto, rivelava la grande pena che ho vissuto nei momenti in cui non osavo appigliarmi al senso di me oppure in cui lo facevo molto nascostamente come un segreto che mi sarei portata nella tomba. Cioè nei momenti di buio e di sfiducia: anche S. Teresa a un certo punto non ha più creduto al Paradiso e deve essere stato tremendo, fa proprio piangere pensarla al Carmelo senza più fede. Ma lei resisteva, e anch’io ho resistito. Allora, quando ho pianto nel gruppo è vero che rispondevo all’aspettativa delle altre, come S. Teresa rispondeva alle aspettative del demonio (nella chiesa questa perdita di sé si esprime nella formula “disperazione della carne”), ma è anche vero che era un’esperienza che avevo vissuto perché la sfiducia dei miei era diventata un dubbio interiore. E quando perde­ vo il contatto con il senso di me che mi veniva da piangere e così mi è accaduto nel gruppo: rivivevo quel momento di sfiducia, e dopo avere parlato mi sono accorta che quel momento era davvero astrat­ to, proprio perché sembrava il più concreto e il più umano alle altre.

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Finalmente posso affermarmi nel senso di me, in quella diversa con­ cretezza e umanità che Agata vive, e dunque ritrova in me. Stasera, parlando a tre con Agata e Sara, a un certo punto ho pro­ vato uno strano senso di esclusione, come se il mio passato, parti­ colarmente quello delle poesie, non fosse riconosciuto e pesasse alle altre. Sara diceva “Se pesa a te pesa alle altre”. Io credo invece che, sentendo comunque che alle altre pesava, mi mettevo in autodifesa. Infatti per Sara le mie poesie sono meno semplici delle lettere a Ce­ sare e mi accusava di questo. Anzi, mi faceva notare come io dessi poca importanza alla semplicità. Poi mi ha chiesto in che senso io mi sento perfetta. E stato difficile per me, a volte mi veniva proprio di chiudermi, ma poi trovavo la via. Ho capito alla fine perché sono attaccata all’epoca delle poesie: perché lì la mia vita ha preso un nuo­ vo corso, lì sono nata e ho affrontato il mistero non sapendo come e quando ne sarei uscita, allora è un processo che ho visto collegato con me dall’A alla Z, e giorno dopo giorno l’ho percorso da sola e il senso di me vi si è dilatato e ha preso solidità. Allora è un termine su cui paragono gli sviluppi della mia vita. Per esempio, la fase del rico­ noscimento l’avevo intuita teoricamente, ma sono state Sara e Agata a portarla fuori e a prendere l’iniziativa su questo. In quel momento ero come stanca, forse dormivo, perché ero stata sveglia mentre loro dormivano e adesso toccava a me, così è stato importantissimo trova­ re questo fatto al mio risveglio, e che avvenisse vicino a me e verso di me era chiaramente segno che aveva a che fare con me, però partiva concretamente da loro. Ecco, per me è indispensabile accertare que­ sta differenza tra un fenomeno completamente attinente a me e un fenomeno che mi viene suscitato da altri. Agata ha scritto una poesia per me “Liberazione del Sé / è espan­ sione di sé”. 7 ott. Sara pensa che in una passione erotica le potrebbe essere ru­ bato il senso di sé, al contrario a me impediva di sentire la passione come completamente travolgente. Non era la passione il mio nemico quanto un certo perdere, un affievolirsi, uno svanire. Ecco, era questa sensazione che io temevo. Ricordo che durante effetto deH’LSD, ho detto “Se c’è una persona remissiva sono io”. Penso che sembro così insofferente fuori perché sono remissiva all’interno: come dice Agata

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“in ascolto”. Avverto che Sara e Agata si sentono così vicine tra loro, mentre io partecipo solo in parte. Diventa un impedimento anche questo di essermi espressa. Se Sara dice “Sono innamorata di me”, io la guardo e confermo “Lo so”. Ma perché non posso godermi com­ pletamente la risonanza reciproca? Sono stata giardiniere; non posso essere subito rosa. 8 ott. Sto smettendo di fumare? Pare di sì, è dalla sera del 6 che non accendo più una sigaretta. E avvenuto dopo la riunione a tre: sentivo il mio passato, pensavo “Come posso liberarmene?”. Temevo di ave­ re perso della freschezza. Non ero contenta di me quella sera, tutto mi giungeva come una forma di attacco: dovevo riflettere e dirmi “E vero, è una domanda legittima, perché devo sentire della diffidenza verso di me? E poi, anche se fosse?”. Alla fine ho fumato delle sigaret­ te di Agata, le mie erano finite, e ne avrei fumate in continuazione. Al momento di lasciarci c’era un piatto pieno di mozziconi. Tutte e tre eravamo sconcertate da questo eccesso. Ho detto “Bisogna smettere”. Sara ha proposto di fare autocoscienza sul fumo, e anch’io sono di questo parere. Lei aveva cominciato a fumare per sembrare adulta, io soprattutto per avere qualcosa da fare in occasioni di disagio dove o non parlavo affatto e sarei dovuta stare ferma come in chiesa, oppure parlavo e fumare mi dava una maggiore disinvoltura. Adesso non ho più occasioni ricorrenti di disagio: perché dovrei avere bisogno di un conforto o di una copertura? L’altra ragione per cui ho fumato molto anche in solitudine era questa: essendo sempre un po’ sotto sforzo, l’alcaloide della nicotina faceva al caso mio e mi dava l’impressione di frustare ogni torpore mentale, di procurarmi una condizione di luci­ dità. Adesso non vedo più motivo di sforzarmi: basta vivere, pensare, comunicare. Insomma durante e dopo questi pensieri non ho provato un vero bisogno di fumare, finora non avverto veramente il richiamo nel sangue. Credo che il mio cervello l’ha preceduto. 9 ott. Un articolo di Natalia Ginzburg mi ha dato fastidio: proprio ogni idea limata, cesellata; specialmente in un articolo la cura per la forma appare così sproporzionata, fuori luogo. Dice che da ragazza a scuola voleva una cosa sola: imparare a scrivere. Sembra ricordare questo particolare compiaciuta di appellarsi a un segno certo di vo­ cazione letteraria. Mi ha sempre irritato questo modo futile di sentire

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se stessi nella cultura, specialmente in una donna i cui contenuti e la cui sensibilità diventano, su quel piano, delle sciocchezze che possono essere lette solo perché curiose e ben scritte. E certo che nelle lettere a Cesare ero più spontanea e semplice che dopo nelle poesie, però dopo non penso di essermi corrotta, non l’ho mai pensato, me ne sarei accorta, anzi mi sentivo così genuina, si­ lenziosa e in silenzio, o per lo meno, in un modo che escludeva la risonanza per tutti, lasciandola però forse a qualcuno, percorrevo le tortuosità necessarie con più scioltezza possibile. Ecco, ero ubbidien­ te, remissiva e andavo dove c’era da andare. Sogno molto spesso Raffaele, si vede che mi turba il prossimo divorzio. Passo per un viale la sera e vedo a un tavolo illuminato all’aperto Raffaele, la sua ragazza e altri stranieri. Proprio lì davanti mi cade qualcosa dalla borsa, così lui si accorge di me e mi viene incontro. Intanto vedo sul tavolo gelati e cose buone. Facciamo due passi e arriviamo a un chiosco di fioraio nella notte: ci sono vasi con qualche fiore secco, specie di cardi, e con un po’ di cerimoniale da innamo­ rato Raffaele me li offre.

Stasera Sara mi ha ribadito che le poesie sono troppo astruse, diffìcili e che preferisce le lettere a Cesare. Poi ha chiesto questo quaderno, ha chiesto di leggerlo, giiel’ho dato, naturalmente. Le è piaciuto tan­ to, ci si è ritrovata e mi dice di continuare di lì. Le poesie sono un’al­ tra epoca “Lasciale stare”. Le ho dato anche i quaderni precedenti. Nessuno mi ha mai chiesto di leggere qualcosa di mio, che parlasse di me: ho sempre sentito svalutata la mia autenticità e richiesta la mia intelligenza. Questo probabilmente mi ha creato un problema. Sara era molto contenta e l’avrei abbracciata. 10 ott. Abbiamo parlato a lungo Sara e io al telefono, ed era così sconcertante. Insomma, mi sono resa conto esattamente che neanche lei sa molto di me. E quel poco basta a creare equivoci. Per esempio, nel mio rapporto con Ignazia, Sara vede un senso di superiorità da parte mia derivato dal fatto che da ragazza andavo bene a scuola, ero apprezzata. Mentre non lo ero rispetto a Lucia né per i genitori, né per i professori che avevamo in comune, né poi per Cesare, lo potevo impressionare solo con i colpi di testa, con la voglia di vivere, di fare a modo mio, di trovare qualcosa d’altro, e se poi finivo l’Università

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con centodieci, lode e pubblicazione era anche perché non potevo perdere il ragazzo, ammalarmi, essere di peso alla famiglia e lasciar­ mi inferiorizzare negli studi! Ogni tanto mi piaceva avere qualche sprazzo, però mi mancava la continuità; più di tanto non mi sono mai sforzata, e già è stato faticoso. Adesso mi viene in mente una cosa: quando ero piccola avevo il “difetto” di dire tutto: al commesso che mi sembrava un orso, a un gobbo che era gobbo, alla signora Evelina che aveva la dentiera, alla zia Roberta che aveva il gozzo, a mio padre che da lontano lo avevo pensato tanto. Mia madre raccontava di andare in giro con me tutta preoccupata. Quando, dopo avere conosciuto la schiettezza, mi sono trovata a tacere per tutto il senso di colpa che mi avevano inculcato, ho dovuto continuare a dire ciò che pensavo scrivendo. Come posso sembrare diversa! Avevo bisogno di fiducia per riprendere la fiducia di dire quello che pensavo e anche per pensarlo veramente invece di lasciarlo fluttuare in qualche angolo del cervello come un’esigenza frustrata di verità. L’episodio di Sara che non mi dice di essere innamorata determina in me una crisi di sfiducia. Ricordo che quella notte mi svegliavo continuamente per­ seguitata da una specie di incubo: sentivo venire da molto lontano il dolore che gli altri non avessero fiducia in me. 12 ott. Tito ricopia a macchina un po’ del mio diario dei tredici anni. Gli piace, ride delle mie riflessioni di allora, mi guarda con sot­ tinteso, toglie un po’ di mito dalla mia immagine. 11 mito ce l’ha per forza anche se su molte cose sicuramente gli sembro arretrata. Per esempio, sui dischi dei Beatles o di altri che ascolto a volte con lui: da come li canticchio capisce che sono fuori. ieri Sara non è venuta al gruppo. La prima cosa che ho pensato è sta­ ta “Questa non me la doveva fare”: ero di malumore perché mi sem­ brava che avrebbe dovuto dirmelo. Però, in fondo, potevo deciderlo da me di stare a casa. Ne avevo avuto la tentazione forte proprio il giorno prima quando Raffaele mi aveva chiesto un appuntamento. Poi mi fa così piacere vedere Sara e anche Agata che era assurdo non andare. “Ben mi sta” dicevo fra me, perché sapevo che, anche se avessimo parlato nel gruppo grande, cosa poteva succedere? Oggi la telefonata con Sara è stata infelice. Avevo da dirle molte cose e non c’era tempo: era rientrato suo marito. Poi c’è stata una cosa buffa: io dovevo prendere il contenuto di un fiala e tenerla un po’ in bocca,

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così le ho detto “Parla te adesso”, ma lei non ha parlato affatto, c’è stato un lungo silenzio. Poi ho finito il mio resoconto della riunione. Sara mi ha detto che io non avevo fiducia in lei poiché lei ne aveva più in me che in se stessa prima dell’episodio a proposito del fatto che era innamorata. Questo derivava dall’essermi io presentata come persona degna di fiducia per riuscire a formare il gruppo. Adesso lei mi chiede se ho fiducia in me stessa. Ho fiducia nella mia auten­ ticità a cui è collegato però il mio senso di impotenza a esprimerla veramente con gli altri. Perché lì mi è venuto come un riflesso condi­ zionato: dicevo qualcosa, facevo soffrire. Dunque ero cattiva, ma io sapevo che non lo ero, e comunque sapevo che la verità è riassuntiva di ogni bontà. E infatti avevo scritto in una poesia “Solo capire / che il bene e il non far male hanno / la stessa radice di morte”. Però non riuscivo a sottrarmi a questo vivendo. Potevo solo evitare le persone che implicitamente o esplicitamente mi ci richiamavano. C’è una mia zia qui a Milano, la zia Egle, che ammiravo da ragazzina perché aveva una relazione senza essere sposata, era stata partigiana, era comunista, insegnava filosofia e storia. Dal suo curriculum l’am­ miravo, di persona avevo dei disagi che cercavo di rappezzare con il mito. Ero in disaccordo forte con lei per il lavoro: lei mi incitava a lavorare e a essere economicamente indipendente, io cercavo di consolidarmi in una mia visione delle cose. Comunque mi sentivo in parte accettata, in parte in sospeso. Quando mi stavo dividendo da mio marito un giorno mi ha accusata violentemente di portare mio figlio alla nevrosi e Raffaele alla disperazione. Poi si è calmata, ma non è stato più come prima: non ho più desiderato vederla. E significativo che lei abbia preso a frequentare mia sorella, “la cara Lucia”, come scrive a mia madre. Mentre di me diceva ultimamente che avevo qualcosa di strano, un po’ di pazzia, proprio come se un medico mi avesse accertato qualche malformazione al cervello. An­ che mio padre, mettendo l’indice alla tempia diceva “Ma tu sei un po’ toccata”, a volte ridendo a volte minaccioso. Di me mia madre si sfogava con le sorelle “Lasciatela stare, con i pazzi bisogna fare così”. Ma il mio vero tormento derivava dallo stare al gioco di mia sorella: avrei potuto dirle “Non ci sto, vai al diavolo”. Ecco l’avrei mandata al diavolo. Ma non la mandavo veramente al diavolo, cercavo di seguire il suo comportamento, le sue astuzie: vicino a lei mi sentivo sprovve­ duta al massimo e perciò cercavo di stare sul suo piano. A volte ero

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me stessa, ma appunto ero “cattiva”, cioè le facevo capire che tra noi c’era un qualcosa così tremendamente taciuto, che io ero così stufa di lei, così scoraggiata. In fondo io stessa mi sentivo incapace di affron­ tare quel punto, mi veniva da piangere perché lei ribatteva tutto, un po’ indignata, un po’ distaccata. Un passo che mi costava tanto do­ vevo rifarlo all’indietro. Così, dopo essermi espressa, mi giustificavo. Ieri, non essendoci Sara al gruppo, mi è scattato il vecchio atteggia­ mento di sicurezza. Qualsiasi cosa io dica non la dico per quello che la sento, ma per spronare “Vedete, coraggio, si supera”. Non è cosciente, ma accade così “State tranquille, anche voi lo potete fare, ho fiducia che lo farete”. Siccome ho sofferto per la mancanza di fiducia, mi sono messa a distribuirla, ma appunto quale fiducia potevo possedere? lutto ciò che di me avevo considerato con orgoglio adesso mi pare negativo. Essere la maggiore, ad esempio Sara non ha sorelle e Agata mi sembra distaccata dalla sua, Felicita non ne ha, neppure Piera. Al­ lora è un terreno più vergine, meno ambiguo. Ero orgogliosa di avere aperto la strada di scontro e di distacco dai genitori, adesso capisco che ero troppo isolata perché avesse un senso. Nel gruppo Agata non ha parlato, ho così avuto la conferma che il contatto tra noi è proprio agl’inizi: con Sara avrebbe parlato. Con Agata ho alle spalle un passato di silenzio che in parte si è aggan­ ciato al presente con la mediazione di Sara. Finalmente, dopo una giornata di riflessione ho capito perché la telefonata con Sara è anda­ ta così male: l’ultima era stata chiarificatrice, quando raccontavo di com’ero improvvisata a scuola la sentivo ridere, io avevo la voce un po’ tremante, ma mi piaceva sullo sfondo la sua risata. Proprio era spontanea, incoraggiante. Invece oggi ho sentito subito la voce tesa, irritata: io sento quella voce e capisco che non posso andare avanti. Quale autenticità? Cerco di ricordarmi a cosa somigliava. Sara aveva parlato con Agata della riunione e voleva sapere cosa avevo detto a proposito della sfiducia che avevo sentito in lei. Mi sono resa conto che la mia frustrazione è questa, che io ci provo, anche nelle condi­ zioni più improbabili, anche quando avverto che non va, che non è possibile. Ho provato ieri alla riunione, e dovevo pensare di parlare da sola per riuscirci in qualche modo. E oggi con Sara: perché rispon­ derle intanto che avvertivo un tono che sotto sotto accusava? Eppure l'ho fatto. Invece dovevo dirle “Perché sei tesa con me?”. O anche “Ti sento tesa e mi è difficile esprimermi”. Non so. Anche Simone mi ha

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fatto notare che io, se mi sento sospettata, ho dei sintomi di smarri­ mento nei gesti, nella voce. Oppure grido o scoppio, ma sempre mi esce frustrazione. Comunque grido o scoppio solo con pochissimi, oggi solo con Simone. E vero che tutto è reciproco, e io, ecco, non do la fiducia completa a una persona se lei non me la dà. 13 ott. Forse io non l’ho mai data né pretesa completamente, mi ave­ vano fregato abbastanza da piccola. La fiducia in me, senza riflesso negli altri, è il frutto di un’operazione costante: esprimendo stati di abbattimento o di angoscia, come nelle poesie o nelle lettere, facevo atto di fiducia in me stessa. E siccome l’ho fatto sempre, quasi mo­ mento per momento, certo significa che sennò la sfiducia mi avrebbe schiacciata. Quando ho parlato di vuoto della personalità intende­ vo questo risentire la mancanza di comprensione da parte degli altri come un processo che tende ad annullare, e io non volevo, assolutamente, non lo avrei permesso, ma sentivo un pericolo, un gravassimo pericolo. Io ho fiducia nell’autenticità di Sara e di Agata su un piano quasi, non so, metafisico, insomma che io posso testimoniarla, è così, però sul piano esistenziale a volte faccio fatica a rendere esplicita que­ sta fiducia, vorrei non sentirmi troppo allo scoperto. Ed è vero che la crisi è cominciata quando mi sono sentita abbandonata per un’altra, come mia madre mi ha abbandonato per mia sorella, e adesso ho la sensazione che non avrò più rapporti diretti né con Sara né con Aga­ ta. Ecco, ecco, è la stessa sensazione di fatalità che provavo quando suor Caterina preferiva Mary (sto scrivendo e mi vengono le lacrime agli occhi), una bambina più piccola di me, che chiedeva attenzione in modo così carino, che non si arrendeva e tornava alla carica... La stessa sensazione di quando Cesare mi disse di amare mia sorella, e io capii che non c’era niente da fare. In un certo senso è come se me lo aspetto e in questo dubbio preventivo mantengo una scappatoia dalla persona. Stamani sono disposta ad ammettere che ieri ho vaneggiato un po’: mi sento in forze, l’episodio doloroso si è affievolito, ma so che se non vado a fondo può sempre tornare alla prima occasione. L’episodio doloroso era stato non vedere Sara alla riunione e, poiché all’inizio non c’era neppure Agata, ho pensato che avessero deciso insieme di non venire. Così ero stata abbandonata come la sera famosa che ha aperto la crisi. Poi è venuta Agata e questo mi ha sollevato, però do-

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vevo prendere atto di lì a poco che nel gruppo lei mi sente lontana. Qiiando, il giorno dopo, ho telefonato a Sara e ho trovato la sua voce estremamente respingente non ho potuto non connetterla al fatto che aveva parlato con Agata. Piano piano ce la farò, questa volta non la­ scio, non dico “Nessuna importanza”, come ho imparato a fare dopo la storia con Cesare. Piano piano, e devo riflettere molto per conto mio, devo liberarmi di questa soluzione nella fuga. E stata la mia sal­ vezza fino a ora, ma solo perché l’occasione non era autentica, adesso che lo è certo non me ne andrò. Non posso ricordare bene le mie frustrazioni con il padre perché le ho espresse molto con Simone, infatti ho avuto delle angosce per que­ sto. Ricordo una notte che ho pianto chiamando sottovoce Simone “Papà papa papà...” e non so cos’altro ho detto, ma qualcosa tipo “Perché mi hai fatto soffrire così tanto?”, oppure che io mi sentivo così brava, perché lui non l’ha capito? Poi mi sono addormentata di un sonno profondo. E non mi è più successo, dopo non ho più ricollegato Simone con mio padre, insomma con una sua reincarna­ zione in buono. Anche Cristo si è sentito abbandonato dal padre e ha dovuto ammetterlo, ha dovuto dire “Padre, padre perché mi hai abbandonato?”. Mi viene in mente che i rapporti erotici mi hanno permesso di smal­ tire la figura paterna, mentre quella materna no. Forse la bisessualità cerca di smaltire anche quella? Comunque non è che Simone mi ab­ bia liberata dal padre, sono io che per avere un rapporto con lui mi sono dovuta liberare dalla delusione di non essere stata accolta dal padre. Invocandolo, rivivevo un dolore tremendo. La storia di Cristo è quella di una nascita a se stesso, ma il suo dramma è di linea ma­ schile: la madre fa tutt’uno con il figlio, non è un problema. Mentre il processo attraverso cui la donna si libera non può contare sull’ap­ poggio della madre, deve respingere tutto e tutti, padre madre fratelli sorelle e ricominciare alla pari. Se penso prendo forza. Allora mi accorgo che la fiducia in me non è un dato fisso garantito, ma un qualcosa che mi viene ogni volta dallo scoprire un punto di verità in accordo con la parte di me che vuole la verità a ogni costo, e proprio perciò devo scrivere, cioè devo avere in ogni momento la prova che quella operazione di recupero della fiducia in me ha un precedente, mi è garantita da me stessa. Ogni volta che si dubita di me, io - anche solo per un attimo - perdo il

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terreno sotto i piedi, naturalmente se ho riposto delle speranze in quella persona (c’è una mia poesia che comincia “Assodato che non ti avrò / solido terreno di partenza...”), per esempio, la speranza che mi garantisca la fiducia in me stessa come dato stabile. Cioè rappresenti un po’ una madre o una sorella che non tradisce. Io con le amiche ho questi traumi possibili: uno, che la madre mi abbandoni per un’altra sorella; due, che le sorelle vogliano stare con la madre e non con me. Quando mi accade questo ho un annebbiamento della vista, una per­ dita di coscienza. Avrei dovuto dire “Madre, sorella, perché mi avete abbandonato?”. 14 ott. Non riesco a dormire più di sei ore. Per fortuna ho smesso di fumare. Stamani all’alba ho avuto qualche attimo in cui ho intuito cosa è vivere senza questo peso dell’autodifesa, senza questa paura di non ritrovare la fiducia in me stessa. Mi sono chiesta cosa stava succedendo: guardavo un angolo del soffitto “Mi sta venendo l’orga­ smo? Mi sta venendo un’estasi?”. Avevo provato qualcosa di simile alcuni istanti della mia vita, e una volta con LSD quando ho detto “Adesso sto bene, moltissimo bene. Presente”. Con LSD ho vissuto i due tronconi di me, i “moti di alternanza”: la perdita di me, e lì ho passato delle angosce terrificanti, e il compimento del senso di me nel Presente e in Dio quando dicevo “Sì sì sì sì...”. Proprio l’Inferno e il Paradiso, la morte e la resurrezione. La droga ha tirato fuori quello che era in me, solo che senza autocoscienza non può esserci libera­ zione: in quella dimensione rimanevo passiva. Adesso capisco a quale sforzo alludevo quando ho smesso di fumare: allo sforzo di non dispe­ rare di me e perciò di produrre continuamente a me stessa le prove che ero degna. E facile cadere su questo punto e dare le prove a qual­ cun altro che diventi tuo garante, e non a te stessa. Anita mi aveva detto che lei non fa un gesto clamoroso ogni tanto per riscattarsi, ma è attenta a ogni gesto, adesso so perché, perché altrimenti dispera di se stessa. In fondo in fondo sono sempre stata contenta di non avere trovato fiducia in famiglia e di essere sulla strada dove ero, però avevo un pozzo di lacrime dentro di me, adesso penso che sono le ultime lacrime che affiorano, spero che se le inghiotta il dilatarsi della mia felicità. Perché ho ritrovato la fiducia nella reciprocità e mi sono sal­ vata insieme dalla dipendenza e dalla disperazione. Prima mi faceva impressione tanta vita così, quel vivere momento per momento nella

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difesa del senso di me, c’era proprio un record da maratona lì dentro, non volevo cedere, non mi passava neanche per la testa, altrimenti mi sarei suicidata, ecco, e in realtà non ricordo di averci mai pensato realmente. Sì, una volta mi sono sdraiata per terra sul marciapiede, avrò avuto vent’anni, ma non era un desiderio di suicidio. Non vo­ levo più muovere un passo. Degli estranei mi hanno riportato a casa a braccia. Oppure ho camminato sul cornicione tra due finestre al settimo piano quando ero a Parigi; sì, aveva a che vedere, ma non era che una sfida a me stessa. Ho fatto tutto con quel peso addosso: ho studiato, ho viaggiato, ho amato, ho avuto il figlio, ho cominciato il femminismo. Nessuna situazione poteva veramente alleggerirmene: forse nel rapporto con Simone un po’ mi sono riposata, e ho vissuto intensamente ma senza minacce. Mi chiedevo sempre cosa l’altra persona avrebbe ricavato da quello che le avevo detto e temevo spesso di non essere riuscita a darle un quadro “completo”. Non potevo tollerare che sarei stata fraintesa, proprio dovevo sviare il pensiero da questa ipotesi. Finora mi sono trovata sempre le spalle scoperte a tutti gli assalti, interni ed esterni, al senso di me. Ormai, che il senso di me si nascondesse a me stessa o mi abbandonasse, faceva parte del senso di me. Ma adesso so che è finita: forse potrò rivedo più che seguirne la presenza e assenza. Voglio ancora citare dei versi, sento che la loro epoca sta finendo: “né la capacità di infiggermi / come chiodo nel legno né di cacciar fuori / la voce né di ascoltarmi appostata / a un tempo precedente o seguente. Così / più che valutarmi mi seguo, addirittura / mi preno­ to mi rincorro abuso di stratagemmi / perché temo solo il momento in cui / mi perderò di vista”. E ancora “Lotterei meglio se non fosse per me / così necessaria da salvaguardare / con l’inerzia da mosse irrimediabili / il mio destino d’incolumità permanente / troppo vin­ colata a una riuscita perfetta / per rischiare...”. E tutto così vero come lo ritrovo oggi nell’autocoscienza, proprio ogni parola ha la sua verità: quelle “mosse irrimediabili” sono quelle che con Anita dicevamo fanno perdere davvero, cioè i gesti inautentici; l’“incolumità permanente” è la mia integrità; e la “riuscita perfetta”, che forse ha dato fastidio a Sara, è che il senso di me riposava in me stessa, dunque dovevo combaciare il più possibile, però non riuscivo a farlo stabilmente perché ogni tanto le parti si disgiungevano e io temevo fortemente non potessero più combaciare ancora. C’è anche

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una poesia dove viene ventilata l’eventualità più negativa “Né mai ce la farà se qualcuno / non compia il cenno d’intesa / padrone dei suoi centri nervosi, del ridere e piangere...”, ma risolvere l’instabilità del senso di me con il “cenno d’intesa” maschile mi appariva una schiavitù e dicevo “sarebbe amore / se il soggetto non si presentasse / decisamente segnato”. Mi sentivo segnata, l’amore come intervento determinante mi angosciava, dovevo prima risolvermi, poi amare. Non volevo interventi esterni: era insieme una salvezza e una con­ danna. Ha ragione Agata: “espandersi”, sennò non è liberazione nel mondo, ma santità e in qualche modo martirio. Ho sonno e sto bene. Germana mi ha detto che mercoledì alla riu­ nione dove abbiamo parlato a lungo tutte e due, lei ha provato per la prima volta un senso di affiatamento con me. Questo è l’imprevisto, e questa volta è stata iniziativa mia di aprirmi con lei (in mancanza di Sara e mentre Agata taceva, anzi, a un certo punto se n’è andata). 15 ott. Mi sentivo confusa parlando al telefono con Agata, infatti ero troppo fresca di quell’evidenza di cui ho scritto ieri, ce l’avevo fortissima, ma non garantita. Mi ha detto di avermi vésta come una che trae la forza da se stessa (ma la sua espressione mi sembrava più bella) che quella sera a tre io avevo registrato della sfiducia da parte sua perché lei voleva occuparsi del mio presente e non del mio pas­ sato (le poesie); che adesso non si perde più perché c’è un problema di comprensione nel rapporto autentico, e basta. Il fatto che Sara volesse liquidare le mie poesie molto in fretta per riportarmi su altri aspetti di me (le lettere a Cesare o questa autocoscienza scritta) mi sembrava ingiusto o comunque cieco. Come non vedeva che lì ero riuscita a formulare e identificare l’essenza di questa lotta interiore che non potevo perdere. Per esempio: “Eccomi, risultato di circostan­ ze favorevoli / e sforzi energici, una sull’altra infinite / volte sempre io, vittoriosa di ciò che tira / al contrario in miriadi di pori aperti, / con incrollabile volontà di coesione rivendico / a me la punta del piede e del capello / e i pensieri abortiti...”. Dio mio, quanto mi rico­ nosco in questa poesia e quante volte mi sono riconosciuta in lei in questi anni! L’altra mia preferita era questa: “A furia di non volere non ho voluto / a furia di non fare non ho fatto / troppo rigida per affron­ tare / qualcosa di definitivo e anche / qualcosa di effimero... lo sdegno / mi ha impedito di chiedere e un senso / dell’avventura di osare dove

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tutti osavano / finché ho visto la paura correre con ali / bucate...”. Erano le due facce di me e io le riportavo continuamente insieme, facevo questa fatica di Sisifo. Era esaltante, non so, era la mia traver­ sata dell’Oceano, la mia scalata dell’Himalaya, ma in questa impresa avevo un senso di solitudine tremendo, non vedevo il giorno in cui avrei detto “esco dalla porta della solitudine”, ero prigioniera. Mi sentivo un arco di esperienza interiore che andava dal manicomio su su fino alle certezze più spirituali. Sicuramente Ignazia, oltre Germa­ na e Agata, hanno avuto qualcosa così. Anche in loro sento queste due forze dentro, mentre altre non hanno rimbalzo da se stesse, è come un grave che cade giù. Ester mi sbalordiva per quella che mi appariva fiducia in sé, ecco l’elemento di attrazione che mi portava a lei, adesso so che aveva l’identificazione nell’arte che l’aveva sorretta e, senza sospettarlo, io stessa. Scacco ragionato I è del luglio 1958, e lì è evidente che riferisco una giornata qualsiasi, non c’è un avvenimento collegato con delle per­ sone: è stata la prima volta che ho avvertito con stupore che mi sarei portata ovunque il mio momento di panico. Anche Scacco ragionato II è uno di questi momenti anonimi, il III ha forse più riferimento ge­ nerico con una situazione, il mio matrimonio, da cui mi sentivo dete­ riorata, ma non c’è un vero e proprio nesso di causa ed effetto, il IV è il sogno di una mia inutile ribellione, il V una vera e propria perdita di controllo: “Cavalcando pensieri acefali con maledetto / capogiro e pericoloso frangersi d’immagini / mentre il cuore con importuna speranza / arrendevolmente perde terreno...”. Che è lo stesso di: “Tutto s’impernia in moti di alternanza / con un segreto di muscoli e di reni / e spassionata elasticità nell’invertire / la rotta per inviti dal suono impercettibile / ... scendere subito / con adesione aristo­ cratica e altrettanto / orgoglio di casta verso qualcosa di presumibil­ mente / affannante come mancanza d’aria o male d’asma...”. Il VI è ancora un altro momento di perdita, ma non sono solo le poesie con quel titolo a esprimere quegli stati, ce n’è tutto un blocco. All’inizio, alcune di quelle che mi sembravano più umilianti non le trascrivevo a macchina, o comunque le lasciavo un po’ in ombra, non molte, ripeto, soprattutto le poesie di un anno, il ’60. Ce ne sono due che mi fanno intravedere il pericolo di esperienze di disgregazione di me. Dove sentivo di avere una risorsa imbattibile era la resistenza: non mi sarei data per vinta, non mi sarei opposta, non avrei chiamato

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aiuto, né avrei dato in ismanie “è zona mia, sto preparando / gli ac­ corgimenti necessari, sono allerta”. Agata mi ha riconosciuto questo: è stata una cosa troppo tremenda perché qualcuna non la riconosca, altrimenti come mi libererò da questo legame con il passato? Non potrò “ridere a crepapelle” come vuole Sara, o “espandermi” come vuole Agata, e come voglio anch’io. Un’ex-martire che ride a crepapelle, che, toltasi l’aureola, riprende il buon umore: sta succedendo questo, lo so, ed è nascere. Tito continua a battere a macchina il mio diario, vedo che gli pia­ ce proprio. Stamani è arrivato a un punto dove c’è una poesia “O glauco mare”, tutta letteraria, ma con un pensiero proprio mio. Ha commentato che per l’età era forte. Nel diario Sara dice che non analizzava le cause della sua tristezza, non si studiava. Questa è una diversità fra noi, io non avevo sensazioni intermedie, la tristezza di­ ventava subito disperazione; mio padre sosteneva che ero terribil­ mente esagerata, mi chiamava “quella degli issimi” perché usavo sempre superlativi. Stavo tra il “benissimo” e il “malissimo” e cam­ biavo spesso opinione. Mi criticavano per questo e mio padre lo attri­ buiva alla fantasia. In realtà non mi sentivo tutta quella fantasia che dicevano, anzi sballottata tra gli estremi, la fantasia proprio non ave­ va posto. Invece la vedevo in mia sorella, e capivo che è una cosa per cui ci vuole un po’ di calma interiore. Ne ero impressionata, e anche di certe poesie che aveva fatto, una era su Cime tempestose che avevamo vasto al cinema e di cui avevamo letto il libro, e che a entrambe era piaciuto senza riserve. Mi avevano così colpito che ebbi la tentazione di farle leggere per mie a Cesare: un’aberrazione di cui non finivo più di vergognarmi. Tornando a Sara, può essere stato un elemento di in­ comprensione fra noi questa diversità fra esprimersi e non esprimersi: lei avrà diffidato di me su questo e io di lei. Comunque lei adesso sente la scoperta di farlo, mentre io ho alle spalle questa scoperta dove si sarà infiltrata chissà quanta cultura. Lo dico perché ho riletto le lettere di un’amica delle medie figlia di un repubblichino, Giulia, e sono piene zeppe di cultura, i classici greci e latini, letteratura, ma­ tematica, la storia ed esaltazioni di ogni tipo, e concerti, monti, cime, boschi, fiumi, la Slesia, la Sassonia... Un po’ mi imbarazzava, però mi attraeva per via del padre, un padre terribile mille volte più severo del mio, che la picchiava moltissimo, però mi faceva rabbia che lei lo subisse come idee, non capivo perché non si ribellava invece di dire

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“genitore despota” e di buttarla sullo scherzo, macabro per me. Era così esacerbata, aveva un bisogno di affetto pazzesco e lo riversava tutto in eroiche imprese di studio e pagine fitte di descrizioni della natura. Ma una ragazza a diciassette anni è lo stesso così trasparente! Lo si capiva che ero tutta diversa: in una lettera mi dice che non è vero che io sia “fannullona”, che ho un’ampia cultura anzi più vasta dei limiti scolastici, che la prima volta che mi ha visto le sono apparsa raffinata e femminile, però si è accorta subito che non ero solo un essere grazioso, ma avevo un cervello e un’anima. Infatti mi chiama, in tedesco, “mia piccola anima”. A quell’epoca era infatuata di un ragazzo tedesco e in una lettera delira proprio di amore per lui. Si esaltava anche su di me, ma lì era diverso, ero sua spettatrice in fon­ do, la rassicuravo. Anche Nanà, un’altra amica tra il ’45 e il ’50, di cui ho riletto le lettere, ogni tanto si innamorava fiammeggiando, e sullo sfondo c’era fisso un marinaio greco che poi l’ha lasciata. Anzi una volta è venuto a Firenze, sì, carino, ma mi ha dato 10.000 lire false da smerciare e io ho tentato di farlo per bravata, ma il negoziante se n’è accorto e ho tagliato la corda in fretta. Le lettere di Nanà sono affet­ tuose, divertenti: lei apparteneva a una classe sociale elevata dove si scherza molto, non si parla mai di disagi come tali (era appena finita la guerra), c’è sempre un tono leggero. Aveva una cultura pasticciatis­ sima con il padre generale e la madre greca. Mi stancava un po’ per tutta la confusione che faceva sull’argomento amore, ma siamo state buone amiche, soprattutto ci siamo aiutate l’un l’altra ad affrontare il mondo dei ragazzi. Anche Nanà era leggermente strana: mentre Giulia era molto intel­ ligente, quadrata e squilibrata al tempo stesso, wagneriana, dannun­ ziana, carica di enfasi travolgente, ma all’occorrenza dura e sprez­ zante verso i ragazzi, lei aveva aspetto e maniere un po’ démodées, piccola di statura, educata tipo a corte, e timida. Mi aveva dato da leggere Woodehouse, le storie di Jeeves: nel mio diario dell’epoca tro­ vo che non mi erano piaciute, troppo snob. Ma aveva anche un ca­ ratterino che nascondeva bisogno di affetto e possessività, le piaceva tiranneggiarmi un po’ nel senso “Vieni subito, ho urgente bisogno di vederti, manda tutto al diavolo e vola qui!”. Al referendum la sua famiglia aveva votato per la monarchia: io almeno ero repubblicana e antifascista.

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16 ott. È una magnifica giornata, ho dormito bene, non molte ore, ma bene, adesso scrivo un po’, poi vado a fare una passeggiata: desi­ dero muovermi, la cosa che vorrei di più è fare una camminata in un bosco con l’aria un po’ fina e io ben coperta. Ho voglia di distendere le membra, i polmoni, chissà quanto li ho tenuti contratti, mentre la tiroide su cui ha gravato tutto lo sforzo se n’è andata. Provo la sensazione che Sara abbia la chiave dei miei problemi perché la sento più avanti, più sciolta, finora mi sono giustificata in fondo... Questo è così insolito per me, devo risalire a Lucia per ricordarmi un senso così acuto di insufficienza, però adesso è diverso, mi fa bene. In tutti questi anni cosa sono stata? Superiore? Inferiore? A mia di­ screzione, ma pari non era possibile, anche se mi illudevo e scrivevo nel diario. “Finalmente una ragazza (Marion) con la quale non devo scendere di tono”. Di me dicevo che vivevo alla giornata, non avevo niente alle spalle e niente davanti, ma non era vero: avrei voluto che fosse così. In realtà non so come vivevo, mi sembra “assillata / dal so­ spetto di svantaggio iniziale / e da integrale volontà di recupero ho / bruciato tappe fondamentali senza neppure / voltare lo sguardo in soste brevi / e una specie di gelo connesso al senso / di una passione al fondo inesistente / e scatti da automa per controllare tutti / gli aspetti di un’impresa che mi vede / perduta a obiettivi infinitamente lontani...”. Pensavo che era vivere giorno per giorno, ma la sensazione fondamentale era di portare in salvo qualcosa di molto fragile, che tenevo in bilico sulla punta di un’asta sottile mentre la facevo roteare. Allora è stato tutto di corsa, tutto troppo affrettato, abbozzato, abban­ donato, dimenticato, trascurato, rimandato, oppure immobile, sem­ pre la stessa cosa, sempre così lontano, sempre inafferrabile, sempre stagnante: “Quando cade a un tratto / l’accelerazione del tempo / e nei minuti largamente / capienti il braccio sospeso / in aria non raggiunge / l’azione sospesa in aria...”. E ancora: “Di giornate inter­ minabili ti chiedi / se siano trascorse e se a infiniti / passi nel vuoto siano corrisposti infiniti secondi nel tempo e inquieta / senza pulsa­ zioni...”. Quando mi viene da piangere (e mi viene spessissimo di far­ lo, è un continuo), vedo questo vivere anni e anni pensando “ad altro”, sforzandomi di tenere d’occhio e controllare l’esito di due sensazioni contemporanee: quello che succede a me da fuori e a me in me stessa. Ciascuna andava per conto suo, è come se non mi fossi mai fermata su niente: quante volte ho risposto meccanicamente a mio figlio, e anche

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a Simone ultimamente. Gli ho telefonato stasera perché vorrei passare il ponte Santi-Morti da soli, in qualche posto di campagna. Ha detto che pensava la stessa cosa. E una delle prime persone che voglio vede­ re nel mio presente. In comune sento una gran fatica per risalire “lo svantaggio iniziale”: Simone venendo dalla Sicilia più sottosviluppata e riuscendo a credere in sé come artista. Per lui ho rappresentato subi­ to l’autenticità possibile e ha lasciato tutto per questo. Sara mi ha chiesto se provo affetto per lei: le ho risposto che ho bi­ sogno di lei, dunque non posso ancora sapere se è affetto. Da questo risulta che, secondo me, l’avere bisogno esclude il volere bene. Volere bene cos’è? A volte mi sembra di non saperlo. Credo che ci sia solo nella parità, il resto è una cosa tale che mi ha terrorizzato da piccola e che è legata a enormi sofferenze. Però penso che sto per volerle bene. Secondo Sara quegli “alti e bassi” che ho provato io lino a oggi sono stati meglio della sua “pianura” durante il matrimonio. Infatti erano come una liberazione continua, che però vivevo come una continua minaccia perché non avevo riscontro in altri. Somigliano al martirio. Adesso devo solo abituarmi alla reciprocità che ho tanto desiderato e che però mi è difficile raggiungere: infatti avevo mitizzato il mio so­ pravvivere in solitudine agli assalti del dubbio interiore. E devo pian­ gere tutte le volte che ne ho voglia, anche da sola, così come da sola posso smaltire o vagliare brani del mio passato. Se Simone ha risvegliato la sua autenticità a contatto con me, vuol dire che aveva perso qualcosa nel suo lavoro che assorbe senza resti­ tuire, allora dove non è successo come con lui vuol dire che ho perso qualcosa io con gli artisti. 17 ott. Adesso che faccio autocoscienza mi tornano delle cadenze toscane, mi sento più me stessa nei gesti, nelle espressioni. Qualcuna aveva detto che io ed Ester ci somigliavamo e anch’io me ne accor­ gevo, infatti mi lasciavo imbevere di una cordialità dall’esterno, la cordialità di Ester, al punto di avere un accento quasi siciliano. Da piccola mi prendevano in giro per la facilità con cui assumevo modi e cadenze; ad esempio, d’estate tornavo dalle vacanze che parlavo quasi genovese. Questo mi veniva addebitato come una mancanza di personalità e, più sottilmente, come un inganno che facevo agli altri fingendomi un po’ come loro. Mi mimetizzavo, oppure mi sentivo così poco “caratterizzata” che mi davo l’illusione di scoprire qualcosa

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di me accentuando via via dei miei aspetti: il senso dell’avventura, il bisogno di essere buona, l’allegria, il bisogno di essere cattiva, la spensieratezza, l’accoramento, l’euforia, la lealtà, la confidenza, la delusione... Cercavo di vedere chi ero perché mi sembrava di essere sempre meno definita delle altre. Non mi ero conformata neppure come ribelle perché a volte avevo tanta pietà per tutti e le lacrime in tasca. Come l’altro giorno, alla riunione con gli avvocati e Raffaele, ho cominciato a piangere, altro che “teorica” di Rivolta Femmini­ le! Capivo che con mio marito non eravamo riusciti a comunicare e adesso lo facevamo con due intermediari, per fortuna la mia av­ vocatessa era come una bambina invecchiata che cerca di mettere nel sacco due tremendi uomini grandi e mi rendeva tutto più sop­ portabile. A loro mio marito diceva che voleva bene a me e al bam­ bino più di tutti al mondo, questo mi ha veramente fatto traboccare di pena. Però a me si rivolgeva aggressivamente, e io gli rispondevo sulla difensiva. Non ci saremmo mai abbandonati l’una con l’altro. Perché l’ho sposato? All’inizio parlavamo, era una cosa partita bene, e poi lui mi piaceva perché era un tipo molto pulito dentro, sentivo la sua durezza, ma mi pareva di averne bisogno dopo tanto tempo passato con Marion, buonissima e corrotta dentro dall’insicurezza. Raffaele diceva che gli piaceva la mia autonomia, il fatto che non ero dipendente, però si è illuso perché quelle cose lì non piacciono se si ha un bisogno inconfessato dell’altro, adesso lo vedo dal rapporto che ha con la sua ragazza: io non gli davo né l’appoggio di cavarmela disinvoltamente, né quello di essere sua. Dentro di sé avrà pensato “Come si permette questa che non ce la fa a concludere niente nel mondo esterno a volere sfuggirmi, che presuntuosa può essere”. Agli avvocati, a cui non interessava minimamente e che l’hanno preso per esaltato, ha voluto spiegare che il rapporto fra noi si è rotto soprattut­ to per rincomunicabilità sul piano culturale. Da questo ho capito che si è inferiorizzato quando me ne sono andata con un artista e anche prima quando comunque frequentavo un ambiente più vivo del suo. Ho smesso di scrivere alle 2 stanotte, ho ricominciato alle 9, non rie­ sco ad avere pause nei pensieri, ho bisogno di una vacanza. Ester aveva avuto un mito del mio rapporto con Simone (e prima an­ cora di Simone), poi con il femminismo era sempre più esplicita nello svalutarlo, e io la lasciavo fare. Siccome era sola, mi faceva sentire in colpa se davo troppa importanza a qualcosa che lei non aveva.

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Mi chiedo perché le amicizie con le ragazze le avessi quasi com­ pletamente dimenticate e comunque avessero avuto un valore così provvisorio. Rileggendo le lettere di Giulia e di Nanà mi sono resa conto che non c’era un vero colloquio, ma un monologare in cui non trovavo possibilità per me. Giulia così fanatica e culturale mi faceva paura, Nanà così ingegnosa nel costruirsi grandi amori, il resto non le interessava. Ero quasi una spia in casa d’altri: guardavo, cercavo di partecipare, in parte superavo la noia di starmene a casa mia, però non comunicavo. In collegio con suor Caterina ho rischiato la dipen­ denza, specialmente all’epoca di Mary, e l’ho superata addentran­ domi sempre più nel proposito di essere santa. E lì in collegio, non so se leggendo S. Teresa di Lisieux, che ho scoperto che lo si diventa momento per momento e che la giornata è seminata di ostacoli e di attimi di beatitudine. Io prediligevo lo Spirito Santo perché volevo essere illuminata, volevo la fiammellina sulla fronte, mi ricordo che sensazione averne ogni tanto dei piccoli assaggi. Comunque è proba­ bile che anche lì piano piano abbia rinunciato a comunicare. A volte, come quando ero malata in infermeria, mi sentivo così abbandonata, in più con il mal di gola, che mi veniva l’angoscia di essere lontana dalla famiglia, e le suore mi ci mandavano anche, per riprendermi una volta guarita. Avevo fatto una poesia, una delle due che ho perso, che diceva “come lisca ardevo nel letto spartano e candido”, mentre la sera me ne andavo in chiesa da sola “con le labbra cotte d’insalata acetosa”. Dovevo cogliermi in flagrante stato di dipendenza da Sara per ripercorrere l’angoscia da cui era scaturita l’autodifesa, e per ave­ re la certezza che l’autodifesa mi aveva riparata, non liberata. Infatti senza autodifesa mi sento fragile e feribile, e piango subito. Non basta che mi sia accorta che la mia passata situazione nel gruppo era di superiorità sulle altre, per la parità è necessario che io mi senta a mia volta succube. Adesso capisco le altre, tutte, e la dipendenza che ave­ vano verso di me: come avrebbero potuto fare altrimenti? E io perché non mi accorgevo che le tenevo in soggezione? Non voglio drammatizzare quel momento: se il pericolo è stato evitato e sta succedendo finalmente un inizio di parità, accetto questo dato di fatto. Alla ripresa del femminismo Claudius prevedeva da parte mia un indottrinamento senza via d’uscita e mi derideva perché io ribat­ tevo “No, non è come dici tu”. Sara ha scoperto di non essere infe­

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riore, io di non essere superiore, ma solo di non avere potuto comu­ nicare. L’ultima poesia del ’63, poco dopo avere conosciuto Simone, dice “Anniversario / di anni versarti... nell’era consubstanziale / sostanziali benefici del versare in vasi comunicanti / i liquidi della co­ municazione...”. Perciò ho smesso di scrivere poesie collegate con lo “scacco ragionato”, e non ne ho più scritte di nessun genere perché il rapporto con Simone mi aveva dato forza, una forza che però accentua­ va la disparità con le amiche, infatti Ester all’inizio vedeva questo amore con la A maiuscola. Quindi avevo di nuovo confusione in me stessa, e in parte la comunicazione con Simone mi deludeva perché non ne ricava­ vo quei “benefici sostanziali” che avevo creduto ne sarebbero derivati. Mi accorgo come sono ancora permalosa però non lo do a vedere. Isa stamani mi dice che avevo l’aria di volerle insegnare qualcosa quando è salita da me dieci minuti. Invece le avevo riferito un pensiero sul quale stavo dalla mattina. Dal momento che lei aveva interpretato che mi riempivo di tristezza solo a guardarla mentre io stavo ancora parlando con mia cognata del divorzio, dunque ero già triste per conto mio, avrei dovuto dirle “Alt”. Invece no, e mi sono tenuta lo scontento. Però è vero che non avevo voglia di vederla ieri, e stamani di parlarle al telefono. Una poesia, Fragranza, è sull’autenticità. Anche l’altro giorno mi sono riferita al profumo di certi momenti, e poi c’è l’odore di santità. Un problema con Sara è che i nostri incontri sono regolati dall’arrivo delle lettere del suo ragazzo e dalle pagine corrette del suo diario da restituirle. Ho cattiva coscienza perché ci lavoro poco, non vedo l’ora di finire. Adesso vado a riposare, sto bene. Non sono riuscita a dormire. L’omeopata mi ha detto di sospendere una combinazione di oligoelementi che può darmi l’insonnia. 18 ott. Con altre, che non riesco a identificare, sono in un albergo in mon­

tagna in una specie di profonda gola. Facciamo una riunione, e il segretario dell’albergo si mette sulla porta come un suo diritto. Nessuna dice niente, ma io perdo la pazienza, lo caccio ria gridando, gli sbatto la porta alle spalle. Le altre mi guardano, mi sento sola. Siamo fuori, c’è un pallido sole: io su una panchina scartabello delle carte. Arriva una specie di trenino, tutte salgono correndo e io pure. Il trenino sale ripidissimo per uscire dalla gola dove ci sarà un treno vero e proprio per noi, ma io ho lasciato giù tutti i bagagli e la mia roba, non avevo ca­ pito che la partenza era definitiva, non ho salutato neppure la padrona di casa,

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devo assolutamente tornare. Qualche altra ha il mio stesso problema. Però pare che non si possa, non c’è tempo, sono veramente angosciata. A un certo punto sono in una stanza insieme a un’altra ragazza giovane e a una donna bruna, ro­ busta, mai vista prima, che però riconosco come una professoressa. La ragazza ha una crisi e comincia a ripetere ansiosamente “Devo tornare giù perché non so più chi sono, se torno giù lo saprò”. La donna le dice “Lo sai fin da ora”. Io assisto alla scena che ha per me un senso evidentissimo.

Adi sono svegliata con la gioia di essere riuscita a illuminare un enigma. Ieri sera avevo parlato con Germana e mi ero accorta che la sua sensazione di fiducia mi aveva dato fiducia. Infatti la prova della mia dipendenza da Sara l’avevo avuta durante l’ultima riunione in cui lei non c’era e io avevo temuto di perdere la bussola tra ciò che è autenti­ co e ciò che non lo è. Non solo avevo bisogno della reciprocità con lei, ma della sua atmosfera per trovare l’a piombo di me. In realtà non è stato del tutto così se tra me e Germana è potuto scoccare qualcosa. Però oggi non sono andata al gruppo. Stamani ero stata con Paula e avevo parlato a lungo con lei camminando per il parco: volevo ri­ allacciare i contatti io, però poi lasciare a lei. Volevo dirle che cosa è cambiato in me e avvertirla che non posso ricominciare nell’ambi­ guità di prima dell’estate. Ma il guaio della persona inferiorizzata è che prende troppo alla lettera, specialmente se non si accorge del suo stato per ragioni di consuetudine con quella che appare superiore, ma così buona da non farci caso. Con Paula è stato un po’ così, e io, sorridendo della mia autodifesa, come del resto faceva lei, che è il coronamento dell’autodifesa, ho preso atto dell’equivoco. Inoltre quando una del gruppo di Firenze mi ha telefonato dall’autostrada annunciandomi “Arrivo!”, mi sono ricordata quella riunione in cui avevo pianto con lei vicino che non trovava un attimo di concentra­ zione e ho sentito dentro di me un deciso “Basta!”. D’altra parte non volevo fare un gesto clamoroso (chissà perché) e trovavo un sacco di motivi per andare, dal punto di vista delle altre: avendoli presenti per­ devo il mio, e cioè che non ero disposta a parlare di me in condizioni tanto precarie. Insomma, al gruppo ogni volta che parlo mi sembra di rubare alle altre, allora cerco di restituire il mal tolto sotto altra ve­ ste, per esempio raccontando, informando, rassicurando. Comunque la confusione si genera quando una qualsiasi ragione esterna ha il sopravvento su quella propria interna.

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Adesso mi sento serena, ho un gran sonno, la serata mi è sembrata un regalo del cielo, in casa, senza squilli di telefono, con rito. Gli ho detto che non ero andata alla riunione. Non poteva crederci: “E per far parlare le altre?”. Ho bisogno di calma. Già domattina ho l’udien­ za in tribunale per il divorzio, un amico che vuole farmi una visita, al pomeriggio un appuntamento con Paula per i libretti. Rimando l’amico a venerdì, potrei anche dire a Paula di andare sola. In più ho il diario di Sara da rivedere. Farò così. 19 ott. Il rapporto con mia madre e con Lucia è stato così frustrante e inespresso che non ci ho visto un problema. E perché mai il collegio sarebbe stato tanto importante per me e anche doloroso per certi aspetti, come per il timore di essere soppiantata da qualche nuova bambina nel cuore di suor Caterina? Timore che non formulavo, ma che era nell’aria perché le suore parlavano di “gelosie” e “passioncelle” da tenere a bada. Lì poi c’era abitudine di fare l’esame di coscienza che era un bell’aiuto per conoscermi. Ora il fatto che mi sia precipitata nel femminismo sta anche a significare il bisogno che ave­ vo di portare alla luce questo aspetto della mia vita. Infatti ho messo tanto entusiasmo, interesse, desiderio nel rapporto con le amiche (i miei diari di ragazza sono ricchi di nomi di compagne di scuola), però su una base, una sensazione di fondo come di scetticismo. 1 apr. 1945. In questo tempo di silenzio non ho fatto grandi cose, non ci sono stati grandi avvenimenti, la mia vita ha continuato a scorrere sempre uguale, ma non triste. Ho stretto amicizia con la Carosio, la Finzi, la Sgheri, la Zanoletti, ma sono amicizie, lo sento, passeggere: non ho ancora incontrato l’anima gemella nella quale confidare.

Non riuscivo ad aprirmi con loro: cercavo di essere una buona amica, fedele e leale, ero a disposizione per fare dei favori, per essere utile, ma non potevo espormi davvero. Questo, con tutta l’allegria che può esserci tra ragazze, mi faceva sentire meccanica e falsa. Non succede­ va tra noi di “scoprirci un attimo come da sotto un velo meravigliosi esseri in incognito”, al contrario alle amiche non mi riusciva di fare capire come mi sentissi meravigliosa, senza senso di colpa. Quella possibilità era per i ragazzi. Appena mi sono sentita alla pari con Marion è stato bellissimo, ma è abortito presto. Il senso delle cose

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abortite e non-nate è presente nelle poesie: e i pensieri abortiti neH’incubatrice / irrequieta di vagiti dal palato non ancora / chiu­ so... poiché non sono ancora nati non possono / ancora morire, poi­ ché non nasceranno / non moriranno. E questo è il canto con cui / li accompagno e attendo il battito / di quelli che non sono cuori / e mai lo saranno”. E curioso che questa poesia che comincia: “Ecco­ mi... vittoriosa di ciò che tira / al contrario in miriadi di pori aper­ ti...”, s’intitoli Non ancora e mai. Insomma, non riuscivo a nascere, ci provavo e non riuscivo. Rispetto a Sara ho alle spalle dei tentativi falliti di comunicare che mi hanno lasciato delle bruciature un po’ tremende. Nel suo diario dice che la donna, cioè lei stessa, non è ancora nata, io di me avevo la stessa impressione, circa dieci anni fa. E lì la differenza: che io ho temuto, invece di nascere, di aborti­ re come tanti dei miei pensieri senza risonanza, mentre oggi c’è il femminismo, cioè l’apertura dove chi non ha avuto quella grande paura imbocca più decisamente la strada. Sara ha scritto che io le ho detto “Vieni di qua” e lei ha cambiato strada, adesso è lei, come nel sogno, che dandomi riscontro, mi permette di superare la paura. Se mi difendo da lei sono dipendente, se mi ci riconosco sono libera. Dovrei chiamarla subito al telefono perché la mia autenticità vuole compagnia per rinfrancarsi. Nei mesi estivi mi si era fatta luce sulla diversità del mio rapporto con Sara da quello con altre, specialmente con Ester, così avevo provato la prima inconscia avvisaglia eli trovarmi ad avere bisogno di lei. Da sola ritornavo nelle difese o ne uscivo con tale fatica che era penoso. Così non vedevo l’ora di rincontrarla, mi sentivo impaziente e in ef­ fetti per questo sono partita presto da Roma (il 10 sett. invece della fine del mese), e non solo perché cercavo una pausa da Ester con cui ero ormai troppo insofferente. Però una parte di me, che nel sogno è una ragazzina angosciata, mi metteva in guardia dall’abbandonarmi troppo. E quella che mi è apparsa come una diffidenza di Sara e una sua affinità con Agata, mi ha riportato sulla difensiva senza che me ne rendessi conto. Per esempio, la correzione del manoscritto la facevo con senso del dovere, mi piaceva certo leggere il suo diario, ma ero in crisi con me stessa e con lei, dunque a volte mi metteva il malumore essermi impegnata lì sopra. Non gliene ho mai fatto pa­ rola, però quando lei entrava dicendo “Si lavora, il resto dopo”, mi sentivo un po’ irrigidire e “dopo” era peggio quando finalmente si

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parlava. Mi sembrava di averle dato tutto il tempo di cui aveva avu­ to bisogno quando voleva parlare con me, adesso era sbrigativa e troncava netto su una divagazione. E vero che mi capitava di avere autodifese, ma se avessi sentito più tempo, più disponibilità mi sarei distesa, invece il fatto di sapermi con il tempo contato mi bloccava e facevo proprio quello che temevo, cioè prendevo la strada più lunga, quella dell’andare indietro. Se mi sento rifiutata vado indietro perché so che troverò da giustificarmi. Se uno si sente solo deve giustificarsi a se stesso per ritrovare l’evidenza perduta. Altro equivoco oggi: non me l’aspetto che lei arrivi con un problema per incontrare l’amico: non c’è posto sull’aereo in turistica. Resto disorientata e seguo il suo racconto con lentezza di riflessi. A un certo punto ci siamo guardate e abbiamo sorriso, riso, e c’era un’intesa, la ritrovavo, già stavo chie­ dendomi come era potuto succedere che ci eravamo perse, che io mi ero chiusa, quando di lì a poco mi scopro di nuovo ad accennare al mio passato: madre e sorella. Ma che c’entrava! Forse mi pareva di non averglielo detto, così come riferimento, e ho voluto essere perfe­ zionista oppure mi sono di nuovo giustificata. E questo, maledizione! Da dove viene questo nascondermi, sfuggire. Adesso, quando mi suc­ cede, perché mi succederà ancora, devo interrompermi appena me ne accorgo, se prima non mi ha interrotto lei. Un’altra cosa che mi sono sentita addosso in questi giorni è stato il paragone tra me e il suo ragazzo. A proposito del mio sogno, Sara mi ha detto che anche lui le ave­ va mandato un dialogo tra due se stessi in conflitto. E un paragone seccante. Adesso basta, ho detto tutto, e lei veramente mi è cara, le voglio bene. Quando l’ho salutata al telefono perché domani parte, ho concluso “Ciao, stai bene, fai buon viaggio”, con un formulario che toglie d’imbarazzo. Quanti vuoti! Il presente è questo: essere pre­ senti. Agata era nel presente, io nel passato e l’aspettavo lì, per questo non ci trovavamo. 22 ott. Io sono stata frustrata, non inibita. Nel senso che ci provavo, non sempre, ma ci cascavo. Un esempio. Ieri ho chiesto all’omeopata “Vedi qualcosa che mi predisponga alle lacrime in questo periodo?”. Ha risposto “No, perché?”. “Perché allora dipendono veramente da me, da quello che penso”. “Non mi pare che qualcosa ti vada male e te ne dia motivo”. A questo punto avrei dovuto rispondere “Infatti”.

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Invece ho detto “No, no, non c’è niente, ma ho riflettuto tanto sulle mie frustrazioni che le lacrime vengono di lì”. Mi ha guardato “Aspet­ tiamo, vedremo”. L’accenno che sto ammettendo delle frustrazioni forse l’ha insospettito e gli ha fatto baluginare una depressione. Ma perché ci ho fatto caso, perché non ho pensato “Che cretino”, invece di registrare qualcosa in me. Altro esempio con Paula: volevo par­ larle, invece ho balbettato chiamando in causa un’altra del gruppo e spiegandole i nostri rapporti attraverso qualche analogia con questa. Una manovra subdola di cui mi vergognavo, mi sentivo veramente odiosa, ma almeno sono riuscita a metterla sull’avviso nei miei con­ fronti. Dovevo darle l’opportunità di sospettare di me in modo che, se lo fa, è costretta a prendere coscienza che non è vero che siamo alla pari. Finché non se ne accorge è impossibile diventarlo. 23 ott. Hegel dice che tra due coscienze una deve offendere l’altra perché riveli se è una coscienza assoluta. E sì vero che esiste questo momento dell’offesa (del sospetto) perché si teme che la coscienza dell’altro in cui ci si rispecchia non sia autentica, ma in questo modo si diffida della propria capacità di riconoscere l’autenticità: è un dub­ bio su sé e, solo in conseguenza, sull’altro. A volte la mia autenticità mi è sembrata un sogno, così l’ho intuita negli altri. L’ingenuità mi faceva pensare da ragazzina che nelle feste sarebbe successo quello che d’abitudine non succedeva: rivelarsi reciprocamente. Altrimenti che feste erano! Dopo avere letto il mio libretto sul sesso, Lucia mi ha detto che era di­ sonesto. Lei si porta dietro fino da quando eravamo bambine l’aspet­ tativa che un giorno ne farò una proprio madornale e la mia vita verrà smascherata. Anche mio marito, quando mi ha visto già sul marcia­ piede appena sono andata con un altro, covava in sé questa aspetta­ tiva. Infatti con loro ho spesso un comportamento dimesso, oppure premuroso e formale quasi volessi neutralizzare la profezia negativa. Però c’è da dire che Raffaele ha il mito di me e anche Lucia. Ma non è reciproco? In qualche modo tanta gente ha avvito il mito di me, ciò vuol dire che io avevo un tale mito di dovere essere all’altezza nei casi ai quali tenevo, che superavo me stessa. In verità curavo ogni gesto e sempre, però con alcuni volevo arrivare a impormi, ecco, ad affermar­ mi. Con gli uomini un passo prima del mito c’era l’oggetto sessuale e

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io non volevo essere l’oggetto sessuale di nessuno; né avere la compas­ sione delle donne, sia di quelle buone, sia di quelle emancipate. Matilde mi ha telefonato ieri e mi ha detto che le sembra di vedermi attraversare un brutto periodo, un periodo difficile. Peccato, non può vedere che mi sono liberata delle mie autodifese perché con il suo atteggiamento mi tornano. Agata ha detto a Sara che la creatività è creare la propria immagine. Ecco perché ero così attaccata alle mie poesie, erano la mia immagi­ ne, altrimenti non avrei potuto vivere senza rispondenza. E che Sara le sentisse appartenere al passato mi aveva fatto soffrire. Adesso so che ero io a tenerle ancorate al passato: le ho rivissute nel presente ed erano giuste, tutte giuste e autentiche, ne ho la certezza e non solo il bisogno o la speranza. Le avevo affidate a Sara come per un salvatag­ gio e lei non voleva salvare il mio passato. Ma adesso sono in me, e nella fiducia in me c’è la fiducia nel loro sviluppo. 24 ott. Rifacendomi al passato chiedevo ancora a Sara di rispec­ chiarsi in me, mantenevo questa direzione a senso unico e solo im­ plicitamente reciproca. Ero condizionata dalla primogenitura. E la mia salvezza è stata che Sara non ha reagito da sorella più giovane, ma anche lei si è sentita primogenita rispetto a se stessa. Nel grup­ po la primogenita ero io, mi pareva niente per le altre, invece era tremendo: avevano bisogno di me e nello stesso tempo ero il loro ostacolo. Non ero la madre, né il padre, né la leader, ma la sorella maggiore, quella che sembra pari, ma è la prima. Questo è stato un titolo inalienabile per me: pensavo spesso all’episodio della Bibbia tra Esaù e Giacobbe e ogni tanto tiravo fuori il paragone con il piatto di lenticchie. Come si fa a vendere la primogenitura? Adesso non l’ho venduta, ma tramutata in parità poiché ciascuna può scoprire se stes­ sa come essere non condizionato, non dipendente, non preceduto. Ho i complessi della sorella maggiore: per esempio, prima di dire qualcosa, esordisco “Ci ho riflettuto molto e ho trovato che...”. Cerco di scusarmi di quel pensiero. Quando Nicola ha detto che in famiglia si era sentita molto sola, mi ha fatto capire che anche i miei dram­ mi lei li aveva visti improntati alla spavalderia della maggiore che comunque ti calpesta l’erba davanti e più fa rumore più infastidisce. Ieri Sara è rientrata dalla Sicilia ed è subito venuta da me. Riconosco in lei l’urgenza di comunicare che ho anch’io. Mi ha letto le sue note

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in treno e ho ritrovato tante sensazioni collegate al mio rapporto con Simone i primi tempi, appunto. Anch’io, quando mi sembrava troppo invischiato nella famiglia, pensavo “Addio addio, non ho niente a che spartire con situazioni così, che c’entro io, me ne vado, per carità!”. Ma non potevo dirlo a nessuno, perché una avrebbe concluso “Ma allora non lo ami!” e l’altra “Aspetta, t’immagini una famiglia con quattro figli che disastro, ma ti rendi conto?”. Ecco, e io mi sono sem­ pre tenuta dentro tutto senza sapere cosa era veramente “...fin dall’ini­ zio non riuscendo a sincronizzare / tempi oppugnanti né a fissarmi un’entità / qualsiasi come agendo in serie di vicende / d’occasione se esistesse il minimo di leggi / vigenti e cosa se ne dovesse cavare / il mio vicino che farne...”. Ritrovo la mia vita in quella di Sara e me ne libero, l’enigma scompare. “Avverrà che all’urto / di una ferita precisa l’enigma / che si nasconde si sciolga in ariosa / migrazione del san­ gue...”. Mi colpiscono dei dettagli, per esempio, anche lei nell’andare verso il suo ragazzo andava verso la certezza di dormire. Anche per me era così: raggiungere Simone era ritrovare la normalità dopo un periodo anormale, ed era proprio questo l’effetto irresistibile del be­ nessere che mi dava: il sonno. 25 ott. Paula si rivela una delle più lontane da me: mi ricorda un po’ Marion: la stessa miscela di indulgenza pratica e di indignazione teo­ rica, solo che Marion ne era tutta viziata, mentre Paula la vive così, che la sinistra non sa cosa fa la destra. E io ho cercato di non vedere che la sua sinistra. Ho parlato con Agata e sono stata bene, senza sforzo. Le ho detto tut­ to e non fa niente la comunicazione com’è andata, la comunicazione c’è stata. Questo mio passato, che problema è stato, adesso è finita, ne sono fuori, lontana non ancora, ma fuori. Mi sono impuntata pur di non ammettere che il mio passato, l’autenticità misconosciuta a cui tenevo tanto, era il nulla, “il nulla di fatto”. Ho tardato al momento del riconoscersi: mi pareva di avere qualcosa nel mio passato, qual­ cosa di prezioso, così non vedevo il presente. L’impotenza aveva lo­ gorato: dicevo “soggetto imprevisto”, “espansione di sé”, “presente”, “riconoscimento" ed erano intuizioni che non riuscivo a collegare con possibilità reali della mia vita. Finché non ho ammesso che senza risonanza non potevo avere fiducia nelle mie intuizioni, le mie intui­ zioni non erano reali. Mi sentivo vivere di quelle, tuttavia non potevo

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affrontare la prova del fuoco delFimmediatezza, non ero sicura di me. Anche se ho avuto tante conferme a posteriori, a priori mi rimaneva quell’attimo di esitazione in cui mi perdevo. La risata di Sara sul mio passato, su quel nulla che era il mio tesoro, che non potevo guardare senza piangere, è stato il primo suono di vita dal presente. 26 ott. Esprimersi = ex-premere, spingere fuori. Non mi piace que­ sto verbo, non corrisponde alla sensazione fluida che zampilla da me. Ancora il getto è piccolo, l’acqua gorgoglia impedita da bolle d’aria e spruzza in modo irregolare. Paula mi ha detto che non era inferiorizzata da me: com’è possibile? Se io mi sentivo superiore. Mi accorgo di non essere stata autentica quando ho speso troppe parole, mi sono ripetuta, ho ribadito. Valeria è stata una sorpresa per me, così diretta e fedele a se stessa: il suo polo sarebbe Felicita perché c’è molta simpatia e stima reciproca. Eugenia nello sforzo di non essere e non apparire cattiva sfugge. Ce­ cilia con voce assurda, bassissima e mielata, contraddice sempre (in realtà approva sempre), non ricorda, confonde quanto può: accanto a lei si perde forza: la sua compagnia non vale la stanchezza che provo­ ca. Felicita mi piace sempre: vorrei rompere il ghiaccio con lei e avere finalmente quella comunicazione che intravedo e poi non si realizza. 27 ott. Chi non ha presente il passato vuol dire che vive il presente spingendolo continuamente nel passato. Perché il vero passato affiora nel presente, volta a volta; è inesauribile come il presente. Tito ha scritto su un quaderno dove non avrei dovuto guardare, che sta passando un periodo di entusiasmo per le moto e che si sente superficiale, ma che ha deciso di abbandonarsi sempre (sottolineato) al suo istinto perché non vuole costruirsi una personalità artificiale. Cercherò di leggergli qualche pagina di questo mio diario in modo che si decida a leggermi lui quello che scrive di sé. Da piccola mi hanno detto che ero “esagerata”, cioè priva del senso della misura. Mi hanno messo questo dubbio, allora dovevo sempre vagliare quello che mi veniva in mente o che sentivo per timore che fosse frutto di esagerazione. Da ragazza pensavo che non sarei mai stata intelligente se non mi fossi trovata a soffrire. Ero rimasta chiusa dentro me stessa, non osa­

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vo più venire fuori e non sapevo come presentarmi agli altri perché nessuno potesse vedere fino in fondo chi veramente ero. 29 ott. Ho trovato questi scritti a proposito delle mie poesie. Sono stata moltissimo tempo incerta se far leggere le poesie che via via scrive­ vo. La ragione delfincertezza sta in ciò, che non scrivevo le poesie che avrei desiderato scrivere. Il che vuol dire che mi trovavo a scrivere un’esperienza che, mio malgrado, costituiva per me una certa umiliazione. Tuttavia mi sono butta­ ta in quell’esperienza senza idealizzarla, ma senza prendere un atteggiamento velleitario; così, per quello che era. Aspettando di smaltire poco a poco questa fase... Tutto ciò mi appare chiaro oggi, a distanza di un anno dall’ultima poesia scritta: mentre ero dentro la cosa mi chiedevo cosa stava venendo fuori, quale sorpresa mi trovavo a fronteggiare. Poiché avevo la sensazione di chi, convinto di essere destinato a un certo luogo si accorge di dover sbrigare un’infinità di pratiche doganali assolutamente impreviste e che finiscono per assorbirlo com­ pletamente. Infatti non ha altra via se desidera realizzare il suo soggiorno nel luogo desiderato. D’altra parte le cose vanno in modo che non sa più se tali pratiche giungeranno mai alla fine. Milano 1964 Con mia sorpresa mi sono trovata a scrivere qualcosa di imprevisto che puntual­ mente coincideva con momenti di malessere. Avevo sempre avuto la tendenza a considerare tali momenti come transitori e comunque inessenziali rispetto a una carica positiva che mi sentivo dentro. Al contrario piano piano mi sono accorta che, inerente al malessere, c’era un meccanismo psichico che dettava legge. Il 10 lu­ glio 1958 mi è venuto un titolo Scacco ragionato, che è stato poi il filo conduttore di una scoperta dei dati nella mia natura e del suo funzionamento... Certi stati di dissociazione mi avevano dato non poco da fare nella vita e comunque hanno costituito il materiale delle mie poesie. Da un anno non scrivo più. Non ne provo più il bisogno. Infatti mi pare che quel ciclo di esperienze sia finito (come sco­ perta) e che adesso dovrebbe agire la carica positiva che dicevo... L’automatismo non mi ha mai dati dei risultati diretti, poiché il problema era di afferrare il mec­ canismo di una struttura anti-effusiva, dissociata. Ho sperato di poter sperimen­ tare il flusso della coscienza, ma la mia coscienza non fluisce. Allora andavano segnalati gli ostacoli, ma quando scrivevo non sapevo né di ostacoli né di altro. Milano 1965

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La dissociazione di cui parlo è appunto tra la coscienza di me e me come sua incognita. La vita, nella coscienza, era sempre in ritardo rispetto a ciò che avviene: il presente, per la coscienza, era il passa­ to. Invece il presente è la coscienza. Il mio tormento è stato quello di non essermi manifestata al momento dell’intuizione, ma a quello della coscienza, “la coscienza infelice”, come dice Hegel, e Agata l’ha notato. Il momento della felicità, dell’evidenza, dell’unità non era per me. Lo ritrovavo nella coscienza, ma senza fede (in me) ne ero sempre alla ricerca: lottavo, senza riuscirci, per ricostituire le mie premesse. 1 nov. Sono seduta sul letto dell’hotel Principe a Firenze. Alle otto mi sono alzata e, da sola, sono andata in giro: era bellissimo sui lungarni, mattina limpida e sole caldo. Ieri Simone è venuto a casa con una scatola di cioccolatini e ha conosciuto mia madre: dopo esattamente nove anni che ho una relazione con lui. Mi è venuto da pensare che forse l’ho presentato alla fine della relazione. La sera mio padre ha detto che non vuole incontrarlo, non ne vede la necessità. Ha chiu­ so l’argomento con un “Lascia stare”. Ho ritrovato mio padre come l’avevo conosciuto: al eli fuori di ogni possibilità di vedere i bisogni de­ gli altri e di volerli soddisfare. Per questo i miei fratelli hanno rifiutato la sua officina, perché è insopportabile stare con uno che pretende da te quello che lui ha stabilito. Mio padre calpesta le persone senza accorgersene, nega loro quello che desiderano, è infallibile in questo, coglie esattamente quello che deve negare. E notte: anche mia madre è come la ricordavo: incapace di essere ag­ gressiva, maestra nell’essere frustrante, forse perché è così facilmente delusa dagli altri. Insomma, mi dà sempre l’impressione di essere stata una frana rispetto alle sue aspettative e che comunque non dramma­ tizzerà la cosa tanto ce n’è ancora per poco. Le ho detto “Papà non vuole conoscere Simone per riguardo a Raffaele che intanto si sposa”. Dice lei “Non sai essere diplomatica: ci vuole un’occasione qualsiasi, un incontro casuale che tolga papà dall’imbarazzo: se Simone viene a casa è troppo ufficiale”. Dico io “Ma mamma, sono nove anni che stiamo insieme, vale la pena superare un po’ d’imbarazzo: per me è assurdo andare su e giù lasciando Simone in macchina ogni volta”. E lei “Ma io non sapevo niente di questo traffico su e giù, credevo che stessi qui un paio di giorni e poi te ne andassi con lui”. Insomma, è

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riuscita a concludere che si aspettava una mia visita più breve. Me ne sono andata da Simone che era ad aspettarmi sulla piazza, ma certo che l’incantesimo in casa è rotto. Non riesco a mantenerlo più a lungo di quando, da piccola, tornavo a casa dopo avere fatto la comunione. Se una donna vive anni e anni, quaranta e più come lei, con un uomo, è impossibile ragionarci. A volte ho vagheggiato di ritrovarla dopo la morte di mio padre, ma è assurdo. Poi non sta mai ferma quando si parla: traffica in cucina, sposta delle cose, spolvera, fa il letto girandoci attorno velocemente, lava qualcosa in bagno. Così l’ho vasta nel sogno detto di Lenin. Fa dei lunghi monologhi su cose che non la riguardano, anche un film o una notizia letta sul giornale, non annette particolare importanza a quello che ha a che vedere con i figli. Capisce che non c’è da aspettarsi niente da loro se non cose di riflesso, belle o brutte, e comunque non all’altezza dei suoi sogni di madre. Però è come se volesse nasconderci tutto questo, o farlo trape­ lare ogni tanto per punire un po’ chi avanza delle critiche o pretende qualcosa. Eppure il suo mondo sono stati i cinque figli, e il marito era piuttosto un essere da capire, da prendere per il suo verso che da intrattenercisi. Essendo tutta dedicata alla famiglia e così sottilmente e inesorabilmente delusa da essa, mia madre ha lasciato nelle figlie un desiderio molto forte di riscattarsi ai suoi occhi. Io, per fortuna, le sono sempre apparsa altezzosa e più incline verso il padre che verso di lei, forse perché, dice, avevo capito che era “il capo della famiglia”. Avevo portato con me il diario dai tredici ai quindici anni, probabilmente per Simone, ma una sera che eravamo nel discorso gliel’ho detto e ho immaginato che le sarebbe interessato, le ho citato qualche passo. Ma al momento di darglielo, si è schermita vivacemente: aveva daffare, per carità! E non me l’ha più chiesto. Per fortuna che è sempre stato così e non sono rimasta invischiata dal bisogno di farla contenta, per esempio, avendo più figli, tanto non è contenta lo stesso né con Lucia né con Nicola che ne hanno tre per uno: si aspettava di meglio da loro, ma cosa? Forse una carriera brillante, un buono stipendio, un bel marito, studi e divertimenti... Ma, non so, non so immaginare, non l’ho mai immaginato. Comunque è così: non si può comunicare che fuori dalla famiglia e chi vuole la verità deve abbandonarla.3 3 nov. Sono in campagna: mi sento così felice in mezzo alla natura, mi sembra che finalmente sono dove mi piace stare, tra l’erba, le

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foglie, gli alberi, con la terra morbida sotto i piedi. Mi viene un gran senso di pace e il pensiero che potrò fare quella corsa che ho sempre rimandato. Con Simone è così, che ci siamo accettati integralmente l’un l’altro, però lui è ancorato a me mentre io non sono ancorata a nessuno perché ho sperimentato la risonanza. In principio era la risonanza di Sara in me di me in Sara.

4 nov. Santa Carla vergine e martire. Come avevo promesso alle suore del collegio sono diventata santa vergine e martire, e ora voglio entrare nel paradiso. Sono a Siena: è una mattina limpida e Simone fa la doccia. Abbiamo parlato e gli ho detto che anche lui mi ha adoprata perché la mia coscienza era senza sbocco. L’unico sbocco restava il suo. In­ fatti mi è sempre suonato falso quando affermava di essere attaccato a me per il richiamo erotico. Non ha riso quando gli ho detto che ero stata santa vergine e martire, ma avevo perso di vista il paradiso, cioè la realizzazione che avrebbe dato un senso all’autenticità salvaguardata. 5 nov. E evidente che non mi sono amalgamata mai in nessun gergo né ambiente. Sono sempre la più silenziosa, per un intero pasto non apro bocca, sono tranquillamente a disagio. Se non hai complicità con gii altri non troverai mai niente da dire, oppure quello che dirai sarà un niente. Adi sono sempre chiesta perché quella ragazza così ar­ tefatta e balorda (ce n’è sempre una almeno in ogni occasione) possa dire, ascoltata, tante stupidaggini. Perché accetta l’indulgenza degli altri e ne solletica l’orgoglio continuamente, io mi sento di un’inge­ nuità sconcertante, infatti vorrei rivelarmi agli altri, ma non so essere me stessa che nel silenzio. 7 nov. Sono in treno da Firenze a Milano. La mamma mi ha accom­ pagnato alla stazione. Stamani le ho detto che lei deve avere le sue opinioni, non modificarle per giustificare il babbo. Ha avuto piacere a conoscere Simone? Dunque, cosa le è venuto in mente di trovare

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tanti argomenti assurdi per convincersi che papà ha ragione a non volerlo conoscere! Io non ci penso neanche a volermi immedesimare con Simone, non siamo la stessa persona, così mantengo il mio punto di vista sia o no in contrasto con il suo. A un certo punto le è uscito fuori che noi dobbiamo rispettare il babbo. Ecco la sua paura, paura che si abbatta il mito e tutto vada perduto. E il mito che lei ha di suo padre. Il nonno era un uomo molto distinto, sua madre era una contessa, non so se dipende da quello, comunque lei aveva sposato un sensale di grano perché la sua famiglia era decaduta. Ho delle lettere del nonno indirizzate in collegio “Alla Giovanetta C.L.”, poi altre frasi stereotipe (allora, poverino, era in ospedale con un can­ cro): aveva un misto di ufficialità e di modi toscani un po’ grevi. Per esempio, ricordo che una volta ci lasciò allibite, me e Lucia bambine, perché durante una passeggiata ci chiese “Dov’è un pisciatoio?”. Io non sapevo quella parola che mi suonò molto volgare. Da piccola, l’estate, andavo con i genitori e Lucia a Genova: la nonna era morta (la matrigna di mia madre), ma c’erano tantissimi zii, circa quindici. La mattina mio nonno girava per la casa in pigiama, paglietta e can­ na da passeggio e svegliava i dormiglioni. Ricordo di avergli visto i genitali attraverso l’apertura dei pantaloni, qualcosa di ciondolante e strano, riuscivo a distinguerli anche abbastanza bene. La mamma stamani mi ha rinfacciato delle cose, era proprio eccita­ ta, l’ho sentita che parlava da sola, anch’io ero eccitata, mi ha detto “Permalosa”, come al solito, che lei è altruista e io no, che ha sem­ pre pensato agli altri e che si sente superiore in tante cose anche al babbo. Però non ha mancato di farmi notare quanto lui è intelli­ gente, anzi intelligentissimo. Prima mi aggrediva, poi diceva che le facevo perdere tempo e doveva pulire la casa, ha sfogato un po’ di risentimento verso di me, e alla fine era più sollevata. L’ho lasciata sola e me ne sono andata a piedi per Firenze, cosa che mi piace moltissimo. Non ho più oppressione dalla città, ho superato l’astio che mi provocava, mi accorgo quanto è bella e come è conveniente comprarci qualcosa: guanti, scarpe, pullover. Al ritorno avevo questo diversivo degli acquisti da spartire con mia madre. Mi vede fare la stessa cosa che fa lei: andare in centro, scoprire qualche stupidaggine nei negozi, e il buon umore al ritorno. Abbiamo riso insieme, mi ha parlato ancora del suo passato, certi episodi li ripete tante volte nel tempo, però non la lasciavo proprio perdersi là dentro, riportavo a

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noi due. L’interessamento reciproco è la chiave per comunicare: se lei mi parla troppo di altro mi sento trascurata, ascolto di malavoglia. A un tratto mi è venuto da pensare “Cosa diavolo ho in comune con lei? Cosa potremmo mai scambiarci?”. Ma mentre pensavo così mi sentivo a terra, molto immatura e anche frettolosa. Certo, avevo immaginato di fare breccia nella sua scorza istantaneamente, l’avevo tanto sognato... Mia madre mi vede una potenzialmente prepotente e si difende, io le avevo dato quest’immagine per rassicurarla, in real­ tà le rivelavo come lei, così impotente e occupata ad autoingannarsi, mi facesse paura. Ho parlato anche con Adolfo. Ho avuto l’impressione di averlo fatto troppo, lui interveniva così poco, ma volevo rompere la riservatezza fra noi. Mia madre dice che mio fratello è un tipo piemontese come lei e che io invece sono fiorentina come mio padre, cioè un po’ parolaia e collerica. Simone mi piace sempre quando è con le persone: non strafa, non è sovrabbondante, ha dolcezza, ma certo non si scopre veramente. Una volta mi ha detto che quando ha conosciuto me, e lui era in piena crisi, ha capito che poteva smettere di fare l’arrampicatore, che poteva liberarsi dell’ossessione di riuscire nella società. Gli rimane molto grosso comunque il problema economico e il senso della riu­ scita di fronte a se stesso. Però mi ha sollevata quando mi ha risposto (io gli dicevo che l’artista fa l’opera perché non crede all’autenticità nei rapporti umani) che l’opera non è liberatoria. L’ha detto proprio dal cuore. Parlo al telefono con Ester. Mi informa che stava conversando con Giulio T., che è un artista così straordinario. Io ribatto “Non mi fido di te”, e altre cose. Lei rimane calma, mi sembra un po’ faccia tosta come Vanda, ribadisce che è in gamba e com’è bello stare con lui. Io incalzo “Hai una faccia come in quella fotografia sul catalogo”.

In effetti mi aveva colpito sfavorevolmente l’espressione che aveva Ester nella foto di una rivista. So che sta per aprire una mostra e tutto l’insieme mi ha fatto un’impressione molto brutta. 8 nov. Sono arrivata a Milano ieri sera. Che tristezza! Nebbia, grigio, solitudine. Oggi è venuta Sara: era triste anche lei perché ha perso la

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speranza nel suo amico. Pensavo che sarebbe stata qui tutto il pome­ riggio, invece airimprowiso se n’è andata da Agata. Dopo la prima sorpresa, poco più di un mese fa, di un rapporto tra loro più intenso di quello tra me e Sara, adesso mi sento liberata dalfessere la pre­ ferita dai suoi noblesse oblige. Ancora ci ricasco se mi distraggo, per me è una sensazione così nuova non vedere più lontano delle altre. Ritrovo la sicurezza appena mi succede, ma la sicurezza di prima non mi serve, quella nuova è come un uccellino senza penne che non sa staccarsi dal nido, non sa volare tra gli alberi. Ma ogni mattina è più robusto e cresce a vista d’occhio. Di nuovo penso che, se papà morisse, essendo io divorziata mia ma­ dre verrebbe ad abitare con me, un bel privilegio! Però non vorrei che lui morisse, ma smettesse di lavorare: chissà chi è se non ha gli orari, le soddisfazioni, le preoccupazioni, la meta e la soluzione di sé nel lavoro. Mi piacerebbe godermeli un po’, a questo punto il rapporto con loro non è più pericoloso. Mia madre è orgogliosa del fatto che non mi lascio fregare, secondo lei. In un treno affollatissimo sono salita per prima e ho trovato posto. Stasera c’è il gruppo, l’avevo quasi dimenticato. Un uomo non può liberare una donna. Mi chiedo se andare in Toscana da quegli amici con cui non scambio niente, solo per il riposo o per l’attrattiva della campagna, sia diso­ nesto. Certo vorrei riuscire a comunicare con loro oppure non farmi più vedere. 9 nov. Ho parlato con Jo, Isa e Gemma: Jo è attaccata alla sua pit­ tura come io lo ero alle poesie (con la differenza che le sentivo fuori dal mondo maschile), Isa fa passare tutto per l’analisi come me (però in un modo che la sua intuizione viene quasi cancellata), Gemma si dispiace di scoprire in sé la stessa lentezza di riflessi che scopro in me davanti a una frustrazione: vorrebbe dirlo, aspetta, e un attimo dopo l’ha già accantonata. Infatti la frustrazione non è mai un fatto esterno e basta, è la somma di questo con il senso di impotenza che scaturisce da una traballante fiducia in sé e che fa esprimere debolmente, in modo titubante e non tempestivo la reazione al fatto in questione. Anch’io dopo un fallimento ho bisogno di una pausa per ritrovare la forza di ricominciare.

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Ai genitori E stato molto pesante vivere senza farvi contenti senza cercare quello che desideravate per me... Era pesante dimenticarvi e abbandonarvi alla vostra sorte, non scrivere, non telefonare... Adesso ci si libera insieme perché eravamo vincolati insieme il rospo sta per uscire dalle nostre bocche. Fratelli e sorelle avevano paura che turbassi la quiete e speravano me ne andassi lontano... Adesso sono tornata e ho parlato col fratello più piccolo perché è solo, non ha tre figli come le mie sorelle e neppure è a Santiago come l’altro fratello. Posso essere una voce nella sua solitudine, togliere tra noi “piccolo” e “maggiore”... Adesso posso dire che vi ho amato tutti così tanto che non ho voluto farvi contenti, vi volevo salvi... Adesso posso capire quanto è bello smettere di detestare le proprie origini.

10 nov. Con Germana sono quasi scoppiata a piangere al telefono, parlavo tra un’ondata di lacrime e l’altra. Ho sempre pensato che i miei disagi fossero dovuti a timidezza, che sarebbero passati col tem­ po, in realtà non mi impegnavo veramente in un rapporto. E stata Germana che mi ha detto “Qualcosa non va fra noi”. Anch'io lo sen­ tivo, perché non lo dicevo? Non volevo deluderla? Oppure non vole­

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vo ammettere che già l’avevo delusa? Ada cosa vedo di così tremendo in tutto questo? Perché mi si spalancano dei vuoti sotto i piedi? “Cosa è mai se non espediente che tamponi / le falle di un’incapa­ cità su tutto il fronte / silenzio sotto spoglie di saggezza e sorrisi / rinvenuti sotto terra...”. Dunque lo sapevo. Certo devo farcela, ma è diffìcile non provare sconforto quando non so se potrò farcela. Ho avuto troppe conferme su un’impossibilità. Avevo costruito la vita su questa impossibilità, adesso tutto ciò che avevo fatto va disfatto, ed è terribilmente doloroso. Mi ripeto continuamente che per tutte è così, che ognuna per non essere schiacciata ha costruito un bunker intor­ no a sé, a ognuna costa come a me, ognuna ha paura a uscire fuori. D’accordo. Ada prima ero “giardiniere”: pensavo che non avesse im­ portanza, ma era la mia vita a essere confermata, infatti nel libretto avevo scritto così, che per la clitoridea il femminismo è un prosegui­ mento, non un’inversione di rotta. Adesso mi sento indifesa come non supponevo (o non ricordavo più) ci si potesse sentire... Dubito di me, dubito di capire, dubito, dubito, dubito. Piango a fiumi, e che bene mi fa. Qiiando Germana ha preso l’argomento, in fondo a me ho escla­ mato “Finalmente!”, e sarei stata felice se ancora non avessi cercato di nascondere le lacrime. Però se fòsse stata presente le avrei lasciate scorrere come ho fatto con Sara. Intanto cercavo di rimettere in piedi ruderi di autodifesa che crollavano ancora e io volevo che crollassero, ma continuavo come sotto un uragano... era la fine di un incubo. Ignazia ha pianto tanto una volta al telefono e io non capivo perché. Ha pianto inutilmente con me. Ricordo che piangevo da ragazza, mi succedeva di scrivere il diario fra le lacrime come adesso. Torno ragazza, se posso piangere la mia sorgente interiore è ricca, non si è inaridita. Devo ripartire di qui. Altri punti verranno fuori dopo. Ada adesso devo ancora piangere, lì sono proprio veramente totalmen­ te io. Ho fiducia che potrò farlo con alcune per ora. Gemma non mi ammira più, però continua a sentire un po’ di cattiva coscienza all’idea di avere preso senza dare. Stasera le ho detto che ha aperto la strada fra noi rivelandomi quando aveva provato disagio con me. Le altre mi è impossibile, se mi vedono superiore, tenerle alla pari: sono troppo fragile. Non posso non essere all’altezza delle aspettative: se le aspettative cadono posso liberarmi. A Germana ho detto “Mi sento come uno spretato”, uno che esce da una solitudine che aveva un senso. Nel mondo è di una goffaggine

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unica, proprio non c’è un gesto con cui abbia familiarità. Germana mi ha chiesto cosa penso di lei. Non lo sapevo. Sono stata restia a concepire un rapporto vero fuori dalferotismo. Se non avevo quel­ lo sbocco non riuscivo ad abbandonare la riservatezza. Mi dicevo ‘‘La prossima volta si vedrà”. Senza l’erotismo non posso mettermi a nudo, ecco, mi sembra un po’ imbarazzante. D’altra parte cerco me stessa e con l’uomo non mi trovo, lui è diverso e questo mi confonde, alla fine mi stanca... Dio mio, sono perduta, la mia testa gira, mi sento come dopo avere preso LSD, svuotata e con l’impossibilità di ricominciare a vivere. Aspettiamo domani. 11 nov. Riprendo fiducia in me via via che prendo fiducia nelle altre, e viceversa. In Sara, Agata, Germana, e Gemma se non mi vuole conso­ lare. Mi sono accorta che con loro posso piangere. Con Paula e Matil­ de finisco per ringoiare le mie lacrime e nascondere me stessa. Con Isa sono occupata a mantenere le distanze che lei vorrebbe colmare con l’alfetto. Se non ho fiducia nelle altre non comunico, se non comunico non posso avere fiducia nelle altre (e in me). E dunque non comunico. Questo era il dilemma insolubile di cui non riuscivo a liberarmi. 12 nov. Mi sono liberata dalla sfiducia nelle altre e in me. Adesso posso comunicare. Esprimersi è doloroso, comunicare è liberatorio. Esprimersi è diversità, comunicare è parità. Esprimersi è senza sbocco. Comunicare è amare. Io amo. Amo Sara moltissimo davanti a lei ho pianto tutte le mie lacrime mi ha lasciata sola e è ricomparsa al momento giusto poiché era stata a aspettarmi. Mi aggrappavo al suo sguardo come una bambina smarrita

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e la sua risata come il suo sorriso erano i primi cenni che mi venivano dal presente. Con lei mi sono svegliata da un sonno di pietra. Amo Agata con delicatezza mi chiamava con una voce che non capivo da dove potesse venire e non rispondevo ma l’ho sentita tutto il tempo come un campanello nella nebbia. Amo Germana perché ho capito con lei che ero perduta la mia vergogna era immensa... allora ho avuto fiducia in lei - e in me.

13 nov. Con Simone sono stata precipitosa: invece non devo insistere se mi accorgo di andare avanti per il solo fatto di avere cominciato. In lui trovo affetto e una rispondenza generica, il massimo che potevo avere prima, ma che ora non mi basta più. Il mio rapporto con Simone non può essere meno entusiasmante di quello che ho con Sara. 14 nov. Prima volevo essere santa, ora voglio essere me stessa. A volte il rumore delle mie parole copre la sensazione eli me. Il senso di vergogna provato con Germana: lei aveva avuto fiducia in me, e io non l’avevo avuta in lei. Quando nelle lacrime si è sciolto prima il senso di pena per me stessa e poi di vergogna verso le altre, ho sentito come è liberatorio piange­ re: è il contrario dell’autodifesa, è lo stato più molle di sé. Appena ho smesso e ho ripreso un po’ di consistenza, subito ho provato nostalgia di piangere. Piangendo si avverte sé nell’infinito.

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È venuta Felicita. Ho passato il tardo pomeriggio fino alle 11 con lei. Le ho fatto leggere le ultime pagine che ho scritto. Poi le ho confes­ sato di avere avuto qualcosa con il suo amico di prima, una decina di anni fa. Lei mi ha detto di essere stata inferiorizzata da me perché ero in gamba nel mondo maschile. Con chi ho avuto un rapporto nel passato mi è difficile mantenere la naturalezza: sento il pericolo che consiste neH’awertirlo che sono diventata naturale. Mi chiedevo come mai mi sono sentita un po’ invadente con lei, sensazione che ho avuto spesso, mi sento sbilanciata in avanti. Questa volta le ho detto di me per liberarla del mito che poteva avere. Allora l’invadenza è nell’iniziativa di volerla libera. 15 nov. Non provo il bisogno di cose nuove perché la novità è in me. E venuta Germana: una notte, si è sciolta in lacrime rivivendo il suo suicidio (che corrisponde al mio senso del martirio) e il risveglio alla vita. Anche lei sente di amare. Era difficile comunicare quello che ci era successo, perché le sensazioni fuggivano via appena toccavano le parole che pretendevano di racchiuderle. Come bolle di sapone era più facile additarle che prenderle. Dopo un fiume di lacrime tutto dentro è così leggero, trasparente, fatto d’aria. Ignazia mi ha detto di sentire in me un che di fragile, come un uccel­ lino appena fuori del guscio. Il mio stesso paragone. 16 nov. Voglio mettere qui tre passaggi: Se non ho fiducia nelle altre non comunico, se non comunico non posso avere fiducia nelle altre (e in me). E dunque non comunico. La mancanza di fiducia negli altri mi impediva di comunicare. Non comunicando perdevo fiducia negli altri (e in me). Non comunicavo. La mancanza di fiducia degli altri in me mi toglieva la fiducia negli altri. Senza fiducia negli altri (rispondenza) non comunicavo, e per­ devo fiducia in me. Mi dispiace avere esperienza. Una volta passata in un luogo non può essere come passarci la prima volta. C’è minore sorpresa e più scetti­ cismo. Airimprowiso ho sentito che posso liberarmene. 17 nov. Una parola è vuota se l’emozione che le corrisponde è as­ sente. E ovvio, ma le sensazioni vanno e tornano e la parola resta. Domenica scorsa ho detto “Comunicare è amare”, adesso lo ripeto

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inutilmente. Questo svanire prima mi angosciava. Non volevo che “qualcosa passi invano mentre tutto / passerà invano”. Adesso io stessa lascio andare quello che prima volevo tenere, il significato di una cosa, la sua parola, me ne libero comunicando. La paura di comunicare è anche la paura di perdere tutto, e proprio quello libera. Nel pomeriggio ho avuto un’altra ondata di pianto, brevissima, e l’ho accolta con gioia. Dicevo a Sara che la mia libertà è questa certezza che non c’è senso: ci sono io, da sempre, c’è lei, da sempre, ci sono le altre, gli altri da sempre, e abbiamo fatto sempre questo. Pressappoco così avevo parlato nell’LSD. 18 nov. Daccapo a capo all’inizio all’origine in principio.

Mi viene in mente una poesia di quando avevo ventitré anni: “E io credo / che come in un film girato / a rovescio / torneremo / tutti / al principio / là dove stavamo per cominciare. / Non vorremo più / fare ma amare / sarà / l’eternità e l’amore”. Mi richiamo al passato o mi richiamo a me stessa? Forse solo io mi ritrovo nelle mie poesie. Ho incontrato un’amica per strada, mi è venuta incontro dicendo “Che bello vederti”, io ero sull’orlo delle lacrime: forse devo piangere con ciascuna? Va bene, lo farò. Anche lei mi ha detto di essere scoppiata a piangere a un tratto, mentre era nella vasca da bagno. Sono stata assente dal mondo per due anni, adesso devo tornare, ma come? Non vorrei passare per i vecchi amici, e quali altri incontri posso avere? 20 nov. Chi andava in giro per il mondo al posto mio? La mia guardiana.

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Una felicità - una felicità non te la posso dire la posso solo provare con te.

La passività è quello: che non fai una cosa e vai sempre più giù. Per­ ciò ho smesso di fumare, mi ha occupato in sensazioni di ripresa. Intanto mi dibattevo per trovare me stessa. 21 nov. Sono andata a Genova: con Piera ero più raziocinante, ma quando ci sono state anche Dorina e Jole mi sono venuti due sin­ ghiozzi e due profondi respiri. Piango quando mi sento disarmata di fronte a una che non sa: in quel caso Dorina che mi guardava come dall’altra sponda. Mi piace sentirmi nell’infinito. Sperduta infinitesimale senza senso senza tempo.

Questa lontananza dalle altre è necessaria, ma avrei voglia di telefo­ nare a Paula. Glielo dirò dopo, adesso si sentirebbe consolata. Simone, Raffaele, Fausto, Lamberto, Claudius, Cesare. Cosetta, Ca­ terina, Nanà, Rita, Marion, Ester. Ho provato il bisogno di dare a Simone la risonanza. Voglio comu­ nicare con lui e amarlo. Ho parlato con mio marito, ho capito che potevo sollevarlo da un incubo: ha ragione a volere smettere di la­ vorare con l’estero, si rovina definitivamente la salute. L’ho fatto: è incredibile come è stato contento. Ha detto più volte che io mi ero comportata con lui soigneusement. Ho telefonato a mia madre: mi aveva scritto un biglietto, dice per non abusare della teleselezione, in realtà non credo si trattasse di quello. E più espansiva e affettuosa. Non vedo l’ora che venga qui con papà. Dal suono della mia voce mi accorgo che sono le prime volte che dico a mia madre che desidero vederla, e che lo desidero veramente.

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23 nov. Com’è bella, silenziosa la sera dopo una crisi di mal di testa di sconforto. Sembra notte fonda e sono appena le 11. Tito dorme, gli ho preparato da mangiare per domattina. Mi sento i passi morbidi come un gatto per la casa. Che strano vivere. Non pensavo che fosse questo, anche se l’ho sempre saputo, se sono stata sempre attenta a questo. “Ma era prevedibile” dicevo nell’LSD. “E quello che tutti sanno”. Durante il mal di testa, e in un modo che conoscevo, ma che non mi aspettavo, ho dubitato di me intensamente per pochi secondi, questa volta scopertamente senza allegorie. Con il mal di testa diventa una specie di allucina­ zione, come quando da bambina, dopo una confessione al sacerdote, mi erano venuti pensieri assurdi, non potevo più fermare qualcosa in me. Se Sara mi sta davanti posso subito piangere e lei subito ride e non c’è bisogno di dire altro. Ma questa è fiducia in me, nella possibilità di ritrovarmi, nella disponibilità a perdermi. Con Anita e la sua amica è stato duro: ripercorrevo la vuotezza delle parole se l’altra le adopra concettualmente, mi sono vista chiudere oppure mettermi a nudo come un’eroina. Ho provato un senso eli diversità enorme, mi sembravano esseri di un’altra razza. Oggi pensavo alle altre e avevo voglia di dire “Tutto quello che sapete di me non è vero, è vero quello che avete intuito”. La sfiducia negli altri non è solo se gli altri sono visti cattivi, volgari, inautentici ma anche se sono visti eccellenti, purissimi, santi. Entram­ bi danno sfiducia, infatti la sfiducia è sfiducia che il fenomeno sia uguale per tutti. Quando dicevo “no no” quando respiravo “sì sì” quando sprofondavo quando levitavo quando tendevo l’orecchio quando il cuore si fermava quando credevo che fosse niente quando dicevo “che sciocchezza” quando dicevo “non è possibile” ero me stessa.

24 nov. Di nuovo trasparente, leggera, digiuna. La lontananza di Simone è troppo massiccia, stamani vorrei passeggiare con lui e intanto

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parlare. Adesso sono così sola, lui non vive questa cosa con me, è una lontananza nella lontananza. E poi non vedo nessuno oltre a Sara e Germana. Sì, mio figlio e la donna a ore. Mi sono isolata al massimo, ho toccato il fondo, adesso riparto. Quale sarà la mia prima uscita? 26 nov. Ho visto sotto i miei occhi la crisi fra Sara e il suo ragazzo, l’ho visto piangere, mi guardava smarrito. Ricordo proprio all’inizio della relazione con Simone una sera a studio: mi aveva detto che si sentiva senza consistenza, che aveva perduto il terreno sotto i piedi. E lì che mi sono cominciata a innamorare di lui. Avevo provato un forte senso di attrazione per uno in crisi e disposto a una crisi che io gli rappresentavo. Poi è cominciata la grande sofferenza per la lon­ tananza dei figli e qui in un certo modo l’ho perduto dato che si è ripreso nel lavoro. Esprimersi è un momento verso la liberazione ma non è la libera­ zione. Comunicare è un momento seguente la liberazione, ma non è la liberazione. Importante è avere la liberazione come esperienza comune. L’ho provato stasera: noi tre Sara, il suo amico e io. Già guardandoci Sara e io trovavamo l’elemento comune e la certezza era dello stesso tipo. Lui era solo, e io riprovavo quanto mi ero sentita sola con Agata e Sara quella sera così angosciosa in cui credevo di ritrovarmi con loro, invece ero fuori, non capivo dove né perché. Simone avverte per la prima volta qualcosa di “amabile” nel mondo per cui lavorare e a cui rivolgersi. Aveva ascoltato della musica e ave­ va provato questa emozione. Gli viene contemporaneamente a me il bisogno di allentare qualcosa dentro. Invece coscientemente pensa che io lo freno: per esempio, sulla sua conversazione con Aldo, di cui stanno facendo un libro, gli ho detto che, anche se tutti la troveranno molto umana, è un capolavoro eli aggiustamenti. Si è messo a ridere: capisco che mi sente lucida, però in fondo lui ritiene che a me manca un’incarnazione e che lui invece ce l’ha. Per questo si sente immede­ simato con me, ma in chiave realistica. Importante non è dire cosa si prova, ma provarlo. In questo la musica è oltre le parole: non comunica, fa essere. L’inganno della psicanalisi è quello che ci sia un episodio o una situa­ zione del passato responsabile della chiusura su di sé o della dipen­ denza: ma succede così a tutti, è successo in tutte le civiltà, da sempre. Per essere se stessi bisogna dubitare, illudersi, ritornare.

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27 nov. Sara realizzava il mio desiderio di “abbandonare l’uomo a se stesso”. Finalmente: proprio perché una donna non è più schiava non è più materna. Conosce non solo la pietà, ma la liberazione. Liberazione non si può dire le parole partono piene e arrivano vuote. Il canto delbucccllo che vola fa imbracciare il fucile al cacciatore. Piangere è lasciare tutto per l’infinito. Io sono pronta a tutto l’accordo è nel mio respiro piango come respiro respiro nel Respiro.

La liberazione è promessa nell’autenticità. Si comunica autenticità, e la liberazione è risvegliata negli altri e confermata in sé. La libe­ razione non si può comunicare se non è avvenuta in entrambi, se è avvenuta comunicarla è superfluo. Il bisogno di comunicare è bi­ sogno della liberazione: si comunica per liberarsi, non si comunica la liberazione. La liberazione inizia esprimendosi, che non è ancora comunicare, prosegue comunicando, che non è più liberazione. Comunicare = rendere comune, trasmettere. Sara non intende più pubblicare il suo libro. Lì per lì sono rimasta sconcertata: ci ha lavorato tanto, mi sembrava così parte di lei, giorno per giorno, è un periodo di tutte noi del gruppo, e poi le conversazio­ ni con le amiche, e quanto tempo gli ho dedicato anch’io. Potrebbe essere pubblicato anonimo e con una prefazione in cui afferma di non credere più alla distinzione tra clitoridea e vaginale, e di ritenere casuale che la sua liberazione sia avvenuta nel gruppo di Rivolta, se è

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questo che pensa oggi. Comunque, se ha deciso così non c’è ragione di contrastarla (ho avvertito la decisione maturare in lei quasi incon­ sciamente): il libro mi era sembrato unico proprio per avere osservato il processo dal suo nascere, cosa che non avviene nel mondo maschile perché ci vuole queU’incarnazione di meno che dicevo ieri a proposi­ to di me rispetto a Simone. Quanto a me, è una decisione che, dopo un primo moto di “Ma no, non è possibile...”, mi ha lasciato serena. Ho fiducia che tutto va per il meglio. Ho scritto a mio fratello che mi piacerebbe molto andare a trovarlo a Santiago se il biglietto dell’ae­ reo non fosse così caro, ci ho già fatto un pensiero più volte. Andrei sola. Ho voglia di abbracciare un continente... 3 die. ... oppure di sentirmi fuori da tutto. Ieri ho fatto vedere a Sara il quaderno dell’LSD. Chissà se sotto sotto tutti vivono con questa ricerca della liberazione. Mi sembra che io l’ho vissuta da sempre. Per questo a volte non mi pare vero, mi viene una confusione e precipito. A volte mi sembra che da milioni d’anni ho cercato A volte mi sembra che da milioni d’anni ho trovato.

Oggi Simone mi chiedeva di aiutarlo o comunque di non abbando­ narlo a se stesso. Invece lo abbandono, lui lo sente, non posso fare diversamente. Mi è così caro, mi commuovo a pensarlo, ma insieme c’è sempre il rischio di annoiarmi un po’. 4 die. Smettere di fumare, fare la dieta macrobiotica corrispondono al digiuno dei monaci. Che assurdo però mettere questa regola, viene da sola! Adesso so dove sei, Teresa Martin, e di quali rose, di quale profumo ti circondi.

Voglio andare al cinema. Penso con emozione alle sale cinemato­ grafiche, è un’impressione che ho da quando ero piccola nelle brutte giornate invernali.

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Santa Teresa Fritz il gatto Santa Teresa Fritz il gatto Santa Teresa Fritz il gatto Santa Teresa...

5 die. Teresa, Sara, mie salvatrici Vi sono stata a rimorchio finché mi sono sentita spinta da me stessa!

8 die. In un luminoso vestito arancione a fiori cammino svelta sulla spiaggia in soccorso di Nicola, che fa il bagno con degli estranei. Poi accanto a me vedo Lucia con gonna e camicetta a righe rosa molto chic, così come il suo gesto di stringersi nelle spalle. Entriamo in una grande gabbia di rete sul mare, bellissi­ ma, con basamento arancione. Mio figlio vuole fare il bagno e io trovo uno spor­ tello da cui lui si butta giù a capofitto, ma poi grida, qualcosa non va e dall’acqua riaffiora mio fratello Emilio nella stessa età di Tito e al suo posto. Avevo parlato con Paula di me come sorella maggiore, però non ne ho più bisogno, è una riesumazione. Nel sogno, mi sentivo straor­ dinaria, aerea, nello scenario mitico della mia infanzia-gioventù: la grande spiaggia sabbiosa con il mare e il sole. Una favola mi aveva colpito da bambina, quella della figlia del re della luna che viene allevata da pescatori e poi se ne torna sulla luna. Ho sempre sentito questo dualismo: la mia presenza e partecipazione al senso comune (affetti, progetti, preoccupazioni, responsabilità) e la mia sicura appartenenza a un altro mondo. Questo secondo aspetto mi è stato difficilmente comunicabile, adesso lo è con Sara. In lei questi due aspetti coincidono, così anch’io ritrovo l’unità. Di S. Te­ resa non mi corrispondeva il ritirarsi volontariamente sul Carmelo e abbandonare per sempre la vita: sentivo in lei il misticismo che avevo la tentazione di volere anch’io, ma me ne ritiravo a tempo, proprio perché ero una “buffona”, una a cui scappa da ridere. Mi è scappato da ridere tante volte perciò sono diventata così seriosa.

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Ridevo se mi dicevano che qualcuno moriva ridevo sulla sacralità della famiglia, mi smascheravo da me stessa come una ribelle da quattro soldi e una bullona sulla via della virtù.

Ritrovo in Paula il mio spartiacque di prima, quando vedevo gli altri nelle loro ripercussioni su di me, mentre ora li vedo in rapporto a loro stessi. Da quando ho ammesso che il mio passato era comunque privo di liberazione, non posso più prevedere o giudicare. Finché mi sono sentita migliore delle altre ero lontana: l’ho detto a Matilde che i primi saranno gli ultimi, poi però ho riscontrato che non ero ultima ma quinta: Sara, Agata, Germana, Ignazia, io. Posso contare sul Natale per farmi coccolare da mia madre e coccola­ re lei. E già una novità per tutte e due. Mi sono scoperta a divertirmi molto con le lenzuola dipinte da Simone: gli sono andata a prendere i colori e ne ero felice. Se lui lavora nell’altra stanza è un piacere aprire la porta e vedere cosa mi appare. Ho bisogno della mia porzione di concentrazione quotidiana, altri­ menti mi sento un po’ brancolante. Sara ha avuto una rottura con Agata: le ha detto che è perfetta men­ tre lei si sente imperfetta. Anch’io non telefonavo ad Agata perché non trovavo niente da dirle, mi sembrava che le avrei dato solo un motivo di confusione. Inoltre avevo colto l’influenza di Agata su Sara come una sfumatura di sfiducia nei miei confronti. Le avevo anche attribuito l’orientamento di Sara a non pubblicare il suo diario. L’ul­ tima parte Agata l’aveva molto corretta, e questo intervento mi aveva irritato. L’interessamento per la parola lo trovo assurdo, la parola è un suono più o meno portatore di aria. Questo mito della parola ad Agata le viene dal suo amico poeta. Lui diceva “La liberazione non è estendibile” (sembra un veto più che una constatazione), e poi che la parola liberazione è orribile, c’è la guerra di liberazione ecc. Quella delle parole era una mia preoccupazione di autrefois. Matilde ha avuto una brutta impressione dal fatto che io mi alimento con la macrobiotica. Le ho risposto che per me è un modo di digiuna­ re, cioè di tenermi debole. Ma non ci siamo chiarite. Oggi avevamo in

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programma di vederci, ma se non è lei a chiamarmi, io non lo faccio: era vero quell’accenno di ostilità che avevo provato da parte sua. Deve arrivarci da sola, con me è peggio. Prima, mi sarei sentita in dovere, sebbene a malincuore, di affrettarmi a capire e analizzare con lei. Sono stata a trovare Raffaele in clinica, con la sua ulcera sanguinante e la bottiglia di plasma che gli entra nella vena per fleboclisi. Raffaele è nel futuro, parla sempre di ciò che farà, mai di ciò che fa sul mo­ mento, comunque mai di ciò che prova. Gli ho detto “Per quello che mi riguarda ti assolvo da tutti i tuoi impegni verso di noi (me e Tito) se ti devono costare un grammo di sangue: devi svincolarti dal tuo eroi­ smo, dallo stoicismo, dalle rinunce e dal futuro in cui sposti la realiz­ zazione della tua pace”. Simone mi aveva detto “Fagli i miei auguri”. Con Tito c’è stato un recupero di serenità dopo le tensioni di queste ultime due settimane: temo di avergli fatto una dieta troppo carica di sale, troppo energetica. I meriti non esistono: finché credevo di esser­ mi assicurata qualcosa con i meriti ero lontana, poi li ho visti dissolver­ si con angoscia, poi mi sono sentita nulla, poi liberata. 9 die. Fio ascoltato le registrazioni eli Sara, pianoforte, chitarra, canto. Sgorga proprio da dentro. L’anno scorso avevo inciso sul registratore “Tota pulchra es Maria et macula originalis non est in te” che avevo imparato in collegio. Quando cantavo nel coro delle suore godevo neH’esprimere la mia innocenza: anche una mia amica la esprimeva però già pensavo che la sua era più inconsapevole e perciò l’avrebbe per­ sa. Ma quando ne sei consapevole hai paura di perderla. Dov’è la pace? 10 ho detto a Sara “Vieni di qua nel femminismo” Lei è entrata, è andata avanti e mi ha detto “Vieni di qua fuori dal femminismo”

Ero la più illusa di tutte: pensavo che le altre dovessero arrivare al mio livello e poi ripartire insieme. Invece non era così. Questa assurdità è stata la molla delle mie lacrime. Prima ero come adesso. Solo soffrivo di non poterlo essere.

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Più sono qualsiasi più sono me stessa. Chi voleva che fossi seriosa? Chi mi sgriderà se sono allegra? Chi dubiterà se credo in me? Ascoltatemi, sono io: La Carla Lacarla, L’Acarla, L’Akar-la...

Vorrei togliermi quell’ombra di irrigidimento che ho provato verso Matilde. 12 die. Sono con Matilde in strada. Prima complimento una sua collaboratri­ ce che ha una bella esposizione di cibi tradizionali dentro un pullmino. Poi fac­ cio due passi con lei in una via metà tipo via dell’Orso, metà tipo via Tornabuoni a Firenze. A un certo momento l’abbraccio tutta commossa “Matilde cara”. Questo è il mio desiderio, non di intraprendere una spiegazione fati­ cosa. Subito dopo una gita a Lugano con Paula alla fine di novembre - una bella giornata limpidissima, il lago era bello, il viaggio piacevo­ le, i negozi forniti - l’avevo sognata. Paula, da una poltrona in cui è seduta, tende un braccio verso di me alzando il viso molto dolce e rasserenante: mi toglie un peso dal cuore e io le sono infinitamente grata. Mi resta l’immagine del suo viso che appare da una camicetta bianca.

Avevo dubitato di potere riprendere con lei un rapporto fuori dal­ la dipendenza e mi ero preoccupata, poi avevo smesso di prevedere qualcosa fra noi, ed ero andata a Lugano. Lì ci eravamo sentite vicine. Domenica è stata qui Piera: una giornata molto sciolta e calda. L’ap­ prezzavo, gustavo quello che lei è. In comune abbiamo molte cose: la vita in collegio e un misto di umanità e di distacco. In collegio da bambina avevo capito che tutto è divino, meraviglioso e che bisogna lasciarlo.

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Le suore avevano ragione a dirmi “Devi vincere l’orgoglio di te”.

13 die. Ho incontrato Gemma per strada. Abbiamo parlato un po’ al bar, e mi è venuto da piangere. Fa appello al mio passato quan­ do dice “Adesso esageri”, perché avevo accennato al fatto che il mio rapporto con Isa era sballato. Ma era sballato, terribilmente sballato, tant’è vero che adesso non sa più come telefonarmi. Sono passata davanti al negozio di Mcitilde, ma mi ha preso un senso di fatica, così ho tirato dritto. Poi sono stata da Paula in libreria: la sua vaghezza la prende a tratti, ma non mi è estranea, anzi mi rilassa, tanto più che se ho qualcosa da dirle è attenta. Con Raffaele ho avuto momenti di intimità una sera con dolcezza. Ada non si abbandona. Ascolta sempre le notizie sul Vietnam e le trat­ tative di pace. Adi ha telefonato Vincenzo: è un anno che non lo vedo. Non ricono­ scevo neppure più la sua voce. Non vedo uomini da un sacco di tem­ po. Eppure sento che ci sono, li ho sempre sentiti, li ho sempre voluti incontrare, ho sempre voluto comunicare con loro, e amarli. Qualcosa però me lo impediva: credevo che fosse il loro dominio, invece era il mio sdegno. 14 die. Sono con Simone in macchina su una piccola isola: stiamo andan­ do a forte andatura su un sentiero di pietra scivolosa verdastra sotto cui c’è il mare. La macchina sbanda e io faccio in tempo, prima che precipiti, a mettermi in salvo buttandomi fuori. Giù l’acqua è bassa, Simone esce dalla macchina, un’onda gli porta via la valigia, la rincorre, la riprende e si mette in salvo a riva. E stato svelto, ma vedo che è contrariato. Io lo guardo dall’alto e da lontano, non troppo però. 16 die. Ho dato il mio quaderno a Sara. Perché un sogno non può essere vero e un vivo morto e un morto vivo?

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Ieri sera parlando di Lucia ho detto “la mia antipaticissima sorella”. Come al solito mi aveva accusato di dare troppo spago alla donna a ore che abbiamo in comune, rimescolando i suoi problemi affettivi. Come al solito si innervosisce quando vede che io do di più agii altri, e mi biasima. Lucia si aggrappa al formalismo e a tutte le manie­ re implicite di rapporto. Dovrei fare una bella litigata con lei, come quando eravamo piccole che volavano pugni, calci e botte da orbi. Ognuna di noi sa che, dietro la correttezza reciproca, sono rimaste bloccate tutta l’antipatia e l’ostilità infantili. Ecco cosa vorrei dire a lei e a tutta la famiglia Lonzi: che dopo quarantanni di silenzio e di occasioni mancate sono stanca di continuare la commedia fra noi a causa della presenza dei bambini. Non parleremo mai, neppure sul letto di morte. A Natale, se viene Nicola ci saranno sei piccoli più Tito. Ogni adulto protetto da una linea Maginot di bambini. Temo che non potrò fare niente, non mi sento abbastanza distaccata e soli­ da. D’altra parte devo abbandonarmi, anche alle mie furie, ma allora mi torna lo spettro dell’infanzia: io che provocavo e venivo guardata come un elemento estraneo di fronte a cui tutti si coalizzavano. Metto le labbra sul cuore del creato e amo. Aiuto aiuto aiuto aiutatemi.

18 die. A Simone Che bello sarebbe stato se tu eri qui. Ti avrei affidato la mia testa per carezze e massaggi. E così dolorante perché tu sei via.

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20 die. Mi ero tenuta pronta - ero pronta senza legami. Eppure possedevo qualcosa possedevo la presunzione di non possedere niente. Era difficile lasciare un possesso che non sapevo di possedere. Era difficile ammettere di possedere qualcosa dopo che mi pareva di aver rinunciato a tutto. Ero così pronta che mi davo già per liberata, invece dovevo liberarmi dall’esser pronta. Contavo sulle mie forze e in questo ero sciocca ma condannata a contarci. Ho avvertito l’Incredibile Sproporzione. Ho pianto sulla mia Incredibile Illusione. Prima ero ciò che pensavo. Adesso sono. Vorrei ancora scrivere ma non posso ho la testa vuota. Ecco sono io. C’è un mistero che non si afferra e io non lo afferro

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c’è una meta che non si raggiunge e io non la raggiungo c’è un istante che non si ripete e io non lo ripeto.

Vorrei dire ai miei amici “Sono tornata, non ho rinunciato a voi affatto”. Come c’è il Natale, il volersi bene ed esprimere questo, dovrebbe esserci una festa in cui ci si dice tutto il lato doloroso di dipendenza e di frustrazioni reciproche. 21 die. Vedo Agata come un essere che si ritrae, leggermente schifato. Io non faccio nessun gesto. Sara, che onda di riflessi tra noi! Sono l’io di sempre sono una creatura tua. Sento la tua ombra su di me la mia ombra sparisce nella tua ombra. Non ho fretta di districare la mia ombra.

Avevo sempre rifiutato di sentirmi colpevole, accumulavo prove su prove della mia innocenza. Poi ho buttato via tutte le prove, ho accet­ tato di lasciare affiorare qualsiasi cosa di me stessa, mi sarei addossata ogni colpa del mondo. Come avevo potuto pretendere... Me stessa non ha immagine. 24 die. Era questo? Sì lo era.

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25 die. Mi butto in un pensiero che non controllo navigo in un mare che non controllo mi lascio andare in un vuoto che non controllo. Affioro qui.

Nicola è lontana, o almeno si nasconde in una specie di impassibilità. Come faccio a capire le sue vere reazioni? Mi subissa in una concate­ nazione di sottigliezze, la sento padroneggiare la sua intelligenza, ma quello che mi colpisce è la sua difesa. Voglio mettermi alla pari con lei, lei non se ne accorge perché è offuscata dall’essersi elevata fino a me. Un suo punto è quello di riscattare suo marito, e il rapporto con lui. Le ho detto che è vero che degli uomini sono insopportabili, ma quando una è se stessa anche il migliore degli uomini può essere in­ sopportabile se rimane altrove. Simone mi piace sempre molto, dice un sacco di cose “giuste”, è pieno di tatto e di intuizioni, però con lui non sono all’unisono come posso esserlo con Sara. Con Riccardo, sento di trovarmi di fronte a un uomo attento, ma alla fine non suc­ cede niente, dentro com’è nel suo riparo. Lui si considera migliore di altri, più cosciente, e giù tanti ragionamenti, distinguo, tutto un codice per orientarsi tra il bene e il male: gli scatta il lato presuntuoso che avevo anch’io. Conclusione: non ha niente di cui liberarsi. 26 die. Tutte le ideologie rivoluzionarie danno dei modelli nei quali uno può accettarsi e, anzi, sentirsi superiore agli altri, guida. Ma si allontana da se stesso e si sdoppia nascondendo il vero se stesso. Si è rivoluzionari se si è se stessi. E difficile parlare in un clima di obiezioni. Come prevedevo non è successo niente con i miei se non una certa serenità verso i genitori. Queste feste sono un perpetuare situazioni infantili. Mi sembrava che tutte le figlie fossero lì con la loro merce, i figli, per fare contenti i genitori, e che tutto era stato condizionato dall’aspettativa di questi.

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Era proprio il momento più sbagliato per richiamare un colloquio fra noi. E in famiglia che si comincia a non comunicare, si aspetta il mondo di fuori per ricominciare a farlo, poi ci si accorge che non è più possibile, richiede sforzo o, non so, intenzione. Allora basta de­ molire l’inciampo in noi, ma non è possibile che avvenga in tutti i membri della famiglia. 29 die. Sono stata morta di stanchezza in questi giorni natalizi: ero contenta di avere i genitori ospiti, ma l’afflusso di quindici persone a tavola è stato un tour de force. Mi sono espressa soprattutto cucinan­ do. Da molto lontano affioravano infiniti piccoli legami a cui, viven­ doli, non avevo dato peso: invece era la famiglia che entrava dentro di me. Vederla di nuovo anche dal di fuori, attorno a me fisicamente, era incredibile. E la vedevo perché non mi rifiutavo di provare quelle piccole emozioni. 30 die. Simone è restio: non ammette che essere un uomo integro, creativo, non basta, che la coscienza di sé è al di là. Adesso ha suona­ to alla porta e io sono molto felice di vederlo. Mi ha telefonato Gemma dicendomi “Pensa a noi l’ultimo dell’an­ no”. “Chi noi?” le ho chiesto. “Noi... sì, le donne”. Ho detto a Simone che sto con lui perché mi piace, mi ha sempre dato benessere. Questo è sicuro. E se sono inquieta posso sempre par­ lare, non condivide, ma non mi diventa ostile. Anche se ci sentiamo in fasi diverse lui tende a dire “Quello che ti è successo ora, a me è successo trentanni fa oppure mi succederà fra dieci anni” - anche se non ci parliamo per qualche ora più scoraggiati che arrabbiati, poi facciamo l’amore. Anche oggi è andata così. Un’altra cosa sicura è che io con Simone mi sono tolta l’ossessione del sesso, è diventato una cosa a portata di mano. 31 die. Tito è con suo padre, e qui soli Simone e io abbiamo una gran pace. Sono molto leggera leggera leggera leggera.

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A proposito, ho un po’ d’influenza da qualche giorno. Sto con una calza gialla attorno al collo e una calda vestaglia lunga con il cap­ puccio. Ho fatto del pane a gallette: farina integrale, farina di mais, farina di grano saraceno, sale marino, acqua. Che bello impastare le farine! Che bello fare il pane! Vorrei fare il pane per tutti! Pane per te per te per te...

Non ho niente di speciale da fare ormai, ho trovato una cosa che posso fare: il pane. Simone ha sognato due giovani rivali che estraggono le pistole e si sparano. Lui sente che uno dei due non deve assolutamente morire: gli va vicino, gli prende la pistola e spara all’altro che muore. Simone cerca di nascondere le impronte digitali sulla pistola con dell’erba, poi si pente perché comunque il sopravvissuto non ha tracce di erba sulle mani. Gli ho chiesto “Che significa?” “Non lo so.” “Io sì.” “Dimmelo.” “No, lo devi dire tu.” “Non ne ho minimamente idea. Anzi, me lo ricordo proprio perché, quando mi sono svegliato, ci ho pensato so­ pra, ma non lo capisco...” “Davvero?” “Dimmelo, via.” “No.” Poi, all’improvviso “Che io elimino una parte di me...”. Chissà perché c’è questo senso di peccato originale nell’essere uma­ no. Gli ebrei hanno pensato che sarebbe venuto addirittura il Figlio di Dio a togliere questo incubo ereditario. Quando Germana mi ha detto “Qualcosa fra noi non va”, mi sono sentita scoperta nella mia colpevolezza. Con il femminismo mi ero liberata dall’inferiorità-colpevolezza di essere clitoridea, per esempio, e avevo accusato l’uomo di tutto. Poi ho cominciato a dubitare di me e a difendermi con ogni possibile ragionamento e indagine del passato. Poi ho dubitato di me fino in fondo tra fiumi di lacrime. Dopo non ero né innocente né colpevole.

1 gen. Giornata di crisi dell’influenza. 2 gen. In Sara ho sentito questo: che lei aveva creduto a un’intuizio­ ne di sé a cui io non avevo creduto abbastanza. Ero turbata all’idea che questa mancanza di fede mi sarebbe pesata come una colpa ren­ dendomi indegna. Ho parlato di questo con Simone. 3 gen. Quest’influenza ha scombinato tutto: niente Toscana, niente viaggetti a due, niente Roma. E adesso Simone è dovuto partire. Non siamo vissuti insieme per tante ragioni in tutti questi anni, ma secon­ do me la principale è che io lo avvertivo troppo preso dal suo ruolo di artista. Dunque non potevo affiancarmi a lui, offrirmi a una resa senza speranza. Sono rimasta fuori, così l’inconciliabilità tra me e lui come “artista” è sempre più evidente. Lo amo, desidero tanto stare con lui, ma non potremo vivere insieme. “Ci sono tante incrostazioni su di me, non so più cos’è me stessa.” E immediatamente ho pensato a un episodio della mia vita e subito ho sentito una reazione, come lo strappo dato da un cane al guinzaglio in una qualche direzione. Ecco, quello strappo è me stessa. Pace pace pace accordo.

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Con Simone è sempre stato così: mi piace, ma anche mi disturba, porta un senso della realtà con cui mi misuro volentieri ma lui la vive con tanta olimpicità e gravità che alla fine mi schiaccia. Però, dopo un po’ che non c’è, comincio a sentirmi troppo tesa, ho bisogno di scontrarmi con lui, è l’unico uomo con cui sono riuscita a farlo fino in fondo (non che succeda sempre, naturalmente), e così, quando lo vedo sulla porta di casa, proprio mi viene dal cuore “Che bellezza che sei qui, che bellezza, tesoro!”. Ho questa visione di me: in una stanza al crepuscolo seduta sul letto con un po’ di febbre - sola - che guardo in alto. E mezzanotte: ho messo un disco, sorrido tra me intanto che passeg­ gio su e giù per la casa. Sono guarita, adesso, dall’influenza. Ho la vita in mano. 4 gen. Ricordo che il pomeriggio del 10 novembre, dopo la telefona­ ta eli Germana, mentre piangevo a dirotto, mi venivano in mente le parole di Kafka a chiusura del Processo: “Sentiva che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta”. Pensavo a lui, così, in una sfaccettatura del cervello e mi dicevo che sarei sopravvissuta alla mia vergogna. Sto leggendo Anai’s Nin: mi attrae moltissimo e devo sforzarmi a in­ terrompere il suo flusso su di me. E come se avesse fatto parte del nostro gruppo, un’amica sulla stessa strada. Anch’io, come lei, ho avu­ to il culto del vissuto, del provato realmente in “quella” circostanza: inventare per me era assurdo (come da bambina - ero già me stessa! - volevo scrivere un racconto e non sapevo decidermi tra la piccola castellana e la graziosa contadinella). “... io ho proprio il culto della cosa accaduta con tutto quello che implica. Anche un fatto misero implica tutto, proprio, capisci? Richiama una cosa così unitaria che a me mi fa impazzire...” (da Autoritratto). 7 gen. 1945. Oggi pomeriggio sono uscita con la mamma e sono andata al nu­ mero 106 di via Masaccio credendo che ci abitasse una mia amica. Invece vedo un pingue americano sul lastricato dinanzi il cancello. La mamma mi dice “Vai, Carla, dev’esser quella la casa”. Io mi avvicino, e lui “Che volere?” e io “Signo­ rina” e lui “Qui tutti soldati” e io “Ahhhh!” e lui “Domandare quella signora” e indica una vecchia che se ne sta sull’uscio di fronte. Io e la mamma “Grazie tanto”, e lui non mi ricordo cosa rispose. Quella vecchina non sapeva niente.

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Anais ha i termini della sua epoca, ma il diario la “alleggerisce” mo­ mento per momento della sua vita, ne fa un essere trasparente mentre gli altri si intuiscono ponderosi nel loro spessore di personaggi. La don­ na che viene da me a ore mi ha detto che quando ha la febbre le piace dondolarsi nel letto: suo marito le dice che è matta. “Anch’io lo faccio, anzi mi dondola Simone.” Non poteva credermi - io sono istruita e di una classe sociale emancipata - a tal punto ognuna può vedersi come un caso a sé, con anomalie un po’ sconvenienti sempre sul punto di venire fuori. Volevo scrivere di più sul diario di .Anais, specie come mi sono avvicinata al libro e come sono cadute le mie difficoltà. Ma, infine, sono cadute e non ho più ragione di scriverne. La Nin è Pesci, come me. Dice che è un segno del dare. Ha esercitato come psicanalista nel ’34 a New York: era così presa dal fare qualcosa per gli altri! Poi si è accorta che non si può veramente fare molto e anche che non è giusto dimenticarsi di sé e diventare un Paio di Orecchie. Ci vedo molto in comune con me. Un altro tratto simile è che Anais non dormiva perché sentiva che doveva prepararsi la vita lei stessa: amici, amori, luoghi, arte, tutto. Anch’io. Una cosa che non ammettevo era la sua generosità con gli uomini, come quando si riduce in miseria per Miller, Rango e Compagnia. Adesso capisco che se uno ha l’essenziale per sé è generoso. Questo di dare è il tratto della liberazione: dare, amare. Gli altri fanno pena, “compassione” come dice la Nin. Prendere la donna come soggetto imprevisto era abbastanza assurdo, ma vero. Quando sono sana mi sembra di non essere mai stata malata, quando sono malata mi sembra di non essere mai stata sana. Da quest’estate penso spesso alla morte: infatti la febbre stabile per me è sempre stata indicatrice di malattia grave. Anche Aldo è grave e deve affrontare la morte: mi richiama a considerare quanto sarei in grado di farlo io. A volte mi chiedo: senza la tiroide, forse la mia ultima malattia e la mia agonia saranno più dure? dèmo di essere istupidita da qualche difetto di assimilazione dell’ormone tiroideo e che quindi succeda un gran pasticcio con ebetismo finale. Il pensiero di riserva è che qualcuno (Simone) faccia un gesto di eutanasia verso di me e a un mio cenno. Altro interrogativo: se fosse vero, come dicono i testimoni di Geova, che il corpo va mantenuto integro per la resurrezione della carne, cosa sarà di me, come potrò risuscitare?

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6 gen. Lite al telefono con Simone, ho interrotto bruscamente la co­ municazione. Sempre a proposito della campagna: mi chiede se vera­ mente poi ci andrò, se non è meglio provare con qualcosa in affitto. Sarà questo grigio di Milano, ma sogno continuamente la campagna, passeggiare e respirare nella campagna. E il mio desiderio di oggi, non ne ho un altro. Desidero vivere godendo un attimo la mia salute; non sarà proibito, spero. Tutta Testate malata, tutto l’autunno convalescen­ te, adesso l’influenza e una nuova convalescenza. Incolpo Milano di tutto, di avermi conciata così. Ma Simone è lontano, è dietro i suoi esperimenti al magnetofono (che ha appena comprato) perché adesso vuole fare della musica frontale. Da quando lo conosco è così: sparisce nel suo lavoro, è tutto preso, il resto non conta, è rimandato a “dopo”. Adesso basta, faccio qualcosa per conto mio (è difficile senza soldi): un viaggio, un incontro con un uomo, un incontro con della gente. Che altro? Dev’esserci il sole non lontano da qui, vedo un po’ d’azzurro tra le nuvole, ma qui non c’è. Io vengo dalla Toscana che è un posto di vento, di tramontana e perciò ha il cielo più terso del mondo. Che nostalgia della gioventù, della salute, della forza, del benessere fisico, dell’aria aperta, del bel tempo d’inverno! Ieri è tornato Tito, una ventata d’allegria! Ero sola in casa, solissima, e rimuginavo pensieri tristi. Ma con la sua faccina ridente, raccon­ tandomi tanti aneddoti di suo padre e di sua zia (ha uno sguardo molto umano, molto maturo) mi ha tolto di colpo tutta la pesantezza di dosso. Ho ricevuto una cartolina di Sara. Che piacere! L’ho sempre avuta presente, ma non ho potuto mandare neppure un rigo perché ero a letto malata. Allora ho pensato “Le telefono”. Poi mi sono vergogna­ ta di dirle “Sono così sola qui se tu non ci sei”. Scrivendo mi sono riappacificata con me stessa, come sempre. Oggi mi sentivo come tra i tredici e i diciassette anni, quando avevo il mio diario senza grandi avvenimenti, per cui tutta emozionata pensavo “Chissà cosa dovrà capitarmi domani”. Anche il piacere di scrivere con una bella penna nuova è di allora. Mi è piaciuta una frase taoista, credo, che ho trovato in Anai's: “L’uni­ co movimento è il ritorno”. Oggi, improvvisamente, vedo chiaro; mi sento fluida, scorrevole, sen­ za asperità.

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7 gen. Le due gemelle figlie di Lucia non danno l’impressione di di­ pendere dai grandi, ma di pretendere che i grandi si assoggettino. Nei loro visi, nei loro occhi, soprattutto quando sorridono, la vita è una ge­ latina tremante e trasparente - un misto di increspature in su, in giù come se, non escludendo niente di quello che sentono, non sappiano che bilancio darne. Una delle due si è invaghita di suo cugino. “Mi’ Tito!”. Lui la teneva sulle ginocchia, giocava e faceva il buffone. Mi ricordava mio fratello Emilio. E tornata Sara, mi ha telefonato. Abbiamo tante cose da dirci... Ho sempre avuto un’amica nella vita, sempre, per ogni fase... Chissà perché mi è sembrato di essermi espressa poco con le donne rispetto agli uomi­ ni: forse perché con gli uomini avevo litigato e scherzato di più, e mi ero mostrata anche debole, confusa, tenera, oppure irragionevole, esaspera­ ta; mentre con le donne ero più sorella maggiore, finivo per guidare la situazione e, come dice Anai's, se gli altri si aspettano da te sempre delle prodezze, le fai, e nascondi il resto. Neppure con Sirnone mi dilungavo su queste sensazioni, però non le passavo sotto silenzio, e comunque nell’erotismo una fa uscire fuori il suo lato infantile, bisognoso. Con le ragazze ero un po’ scout, cameratesca, oppure oracolo, seria e severa. Con Lucia sento che piano piano ci avviciniamo: è un movimento lentissimo, impercettibile. Forse troverà il tempo per vederci, senza bambini. Le do giornate e giornate per sciogliere i sospetti su di me e per trovare confidenza. Ventanni fa ero studentessa all’università quindici anni fa ero dottoressa in storia dell’arte dieci anni fa ero scrittrice d’arte e arnica di artisti due anni fa ero femminista... Adesso non sono niente, niente assolutamente.

8 gen. Di notte, nel buio, accompagniamo qualcuno alla partenza con una zat­ tera guidata dalla zia Egle. Il mare è calmo e completamente scuro. In una sosta io giocherello con l’acqua, ma mia zia interviene allarmata “Guarda, guarda lì”. A poco a poco scorgo nella trasparenza un pesce enorme, una balena che mi riempie di paura. Facciamo partire la zattera a tutto vapore ma il pesce non ha l’aria di essere male intenzionato. Probabilmente non mi segue neppure, oppure mi segue da lontano per non impaurirmi.

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Voglio scrivere a Simone: in definitiva lui mi ha attratto per tanti motivi: mi ha dato solidità, gli sono grata per avermi “salvato la vita”. Ci siamo amati tanto, eppure manteniamo in piedi questo tormen­ to reciproco che è separarsi ogni volta senza che uno dei due dica “Basta, cedo io”. I ruoli sono così: che lui è appassionato, non ha dubbi rilevanti, non vede l’ora di raggiungermi e di essere insieme, e io sono mutevole, non garantisco nessuna continuità, ho periodi di distrazione, mi piace sentirmi libera e disponibile, ho delle grandi gioie improvvise da cui lui è escluso, lo perdo e lo ritrovo, quando lo ritrovo è un incanto. In realtà lui è stabile perché l’awenturosità non la mette nelle relazioni con gli altri, ma nel suo lavoro di artista: le sorprese su se stesso, il senso di sé, il vicino o lontano, il prendibile e rimprendibile riguardano sé e il lavoro. Così la sua sollecitudine può apparirmi continua proprio perché è appoggiata lì come un vestito su una sedia, la persona è altrove. Io invece vivo il rapporto in tutte le sue sfumature e imprevisti, mi ritiro e mi faccio avanti, rifletto, mi concentro, avverto tutto, anche le mie stanchezze, il desiderio di qualcosa d’altro, il bisogno di ritrovarci più sgombri, più liberi. E la mia insofferenza il segno che vivo di più il nostro rapporto, Simone ha un luogo privilegiato in cui ritrovarsi e manifestarsi. Non saremo mai alla pari così. 9 gen. Mi è presa la voglia di partire. Ho sfogliato un atlante geo­ grafico e quelle immagini di continenti circondati dal mare azzurro con vaste pianure giallastre e fitte ombre di montagne, mi hanno dato un senso di vita! vita! vita! Ho pensato di andare a trovare Fausto a Barcellona: Tito è invitato da suo padre da martedì a domenica, sono proprio sei giorni giusti per la riduzione aerea. Avrei potuto andare a Roma, ma non mi attira rivedere Simone così, tutto assorbito dal lavoro; ho bisogno di parlare di me con Fausto e voglio vedere lui così a distanza. Mi attrae riprendere il passato nel presente. Voglio ritornare da tutti quelli da cui mi sono distaccata per passare ad altro che fosse più promettente, più incantevole, più esente da fallimento, più realizzato. Fausto una volta mi ha detto che quando l’ho lasciato gli è sembrato che con una mano gli premessi sul viso allontanan­ dolo e spingendolo giù. Abbiamo del passato insieme da sbrogliare e almeno devo togliere i pesi che gli ho messo sopra. In fondo ho sempre saputo che avrei rivisto tutti: era il sogno ricorrente che face-

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vo fin da ragazzina quando, sopra una montagnola con un bel prato verde, scorgevo a uno a uno tutti coloro che avevo amato e di cui mi ero dimenticata, parenti vivi e morti, amiche, amici, e io li amavo di nuovo uno per uno con una gioia e un trasporto uguali, ma diversi. Adesso provo per Fausto quello che provavo quando nel sogno mi è apparso il nonno, già morto, con un bel sorriso allegro e trasognato, coprendosi il viso con la paglietta e io gli correvo incontro “Nonno, nonno caro”. Sono dispiaciuta al pensiero che Simone non capirà, penserà che faccio i capricci e che non m’importa niente di lui. Ma adesso devo vedere Fausto, devo fare quello che mi è saltato in testa. Sono così emozionata dal mio ritorno... Devo rivedere anche Cesare, a volte lo sogno... Siamo in una stessa stanza, Cesare e io. All’improvviso mi dice di un regalo che vuole fare a Lucia, un regalo enorme: mi sento presa in contropiede e in­ vasa da una frustrazione totale e tremenda, mentre riesco benissimo a fare finta di niente.

Devo rivedere Marion, proprio desidero fare pace con lei o almeno sentire che non si difende più da me... Poi, naturalmente Claudius e sua moglie, non vedo l’ora di dire loro “Eccomi, perché non mi invitate a cena?”. Poi Vincenzo con cui un anno fa ho fatto quella memorabile litigata, presente un altro che non si sbilanciava né di qua né di là. Ho ricevuto oggi una sua cartolina; era bello parlare e farsi raccontare tante cose esotiche... E poi Nando a cui non ho risposto quando mi ha scritto più di un anno fa, allora era inutile, ma adesso... Quanta gente con cui so di potermi aprire ed essere ascoltata e avere un contraccambio! Quanta gente con cui ho vis­ suto, dato e avuto - parole, sguardi sorrisi, ore, notte, giorno, estate, inverno...- quanta gente a cui posso ripresentarmi! L’idea di entrare in un bar in loro compagnia e di bere insieme una tazzina di caffè, ecco, questo pensiero mi fa toccare l’apice, l’estasi di stare al mon­ do! Siamo vivi! Possiamo rivederci, esistiamo, sparsi qua e là e siamo pronti a rivederci. Era già finito con loro, avevo voltato pagina, avevo un fuoco che mi portava lontano, loro erano così fermi, io sola ero in moto, insoddisfatta insaziabile, spericolata... io correvo, io lasciavo, io sparivo... Adesso io riappaio, io ritorno, io mi riavvicino, io rientro, io dico “Vi amo”.

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10 gen. Come mai non telefono a Claudius: lui è qui, sembrerebbe la cosa più semplice. Eppure non è così, forse per il piacere di assa­ porare, attraverso altri avvicinamenti, il momento in cui lo farò anche con lui oppure lascio passare del tempo perché l’idea mi emoziona. Ho passato la serata con Sara e ho visto le foto della sua infanzia e adolescenza (gliele avevo chieste dopo averle mostrato le mie). Ho visto com’era: un po’ soffocata nelle guancette, con gli occhi ora splendenti ora nascosti da qualche rotondità. Se è naturale appare un po’ goffa e rigida, se è cosciente diventa accomodata. Sorride spesso, senza viva­ cità, senza vera allegria, come un dovere o per togliersi d’imbarazzo. Anch’io avevo qualcosa di simile: un’incertezza mista ad amor pro­ prio. Ieri diceva di essere delusa al massimo sia per quello che le era successo al suo paese rivedendo la famiglia, sia per l’atteggiamento del suo amico. Intanto che, come sempre, trovavo salutare la sua capacità di guardare le sensazioni per quello che sono senza mascherarle o spiegarsele diversamente, mi chiedevo come mai a me capita che mi ritiro prima. E autodifesa oppure intuisco le impossibilità e capisco di non potere andare oltre? Così facendo è chiaro che mi ritiro, ma anche lei deve ritirarsi alla fine. Ho telefonato a Claudius: ha risposto la figlia: mi ha commosso sen­ tire quella vocina dopo tanto tempo. Mi chiedevo come avevo potuto darla per persa. La realtà è che io sono sviscerantemente, sviscerantemente innamorata di tutti. Esattamente come quando ero ragazzina. No, non esattamente. 11 gen. Oggi ho parlato tanto, ero eccitata da non so che, sentivo sprizzare vita, amore, umore da ogni poro. Stamani ho cominciato con un’estranea, una donna di Viareggio. Mi piace tanto incontrare una che non conosco e che mi permette di aprirmi: sento se ne è toccata e cosa le succede dentro. Poi ho parlato con Sara al telefono e le ho detto che ha qualcosa dei miei amici preferiti, di Fausto, di Claudius. Lei mi ha ricambiato perché anch’io le ricordo delle ami­ che che la facevano ridere, con cui poteva ridere. Anche Marion mi diceva che ero un’attrice comica, voleva che facessi il verso alla gente e chiamava sua madre a vedere. Fare la buffona ritorna ogni tanto nella mia vita. Come espediente per sgusciare fuori dalle situazioni con leggerezza l’ho imparato da Lamberto; anzi, mi sentivo un po’ in colpa per questo, mi sembrava quasi una corruzione... Adesso ca­

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pisco che era un aspetto della mia natura che veniva fuori e proprio lo gustavo come un’ondata di spensieratezza, anche se avvertivo di essere un po’ più “dritta” del solito. Sempre in quello stato di vaga eccitazione ho telefonato a Ester. Credevo che non ci fosse, che fosse ancora in Africa. Avevo pensato “La chiamo, se non c’è mi faccio dire dalla figlia dov’è esattamente, e la raggiungo”. Ecco che invece la trovo, appena arrivata e con le valigie ancora nell’ingresso. Ieri avevo saputo che Fausto non è più a Barcellona, è tornato in Italia. Dunque la mia evasione era sfumata. Poi avevo avuto una telefonata di Simone che mi invitava a Roma, dove volevo, in Egitto, ma con lui non è la stessa cosa, gliel’ho detto, ha capito. Allora avevo avuto l’idea di raggiungere Ester: ieri sera mi ero addormentata invidiandola molto: da un mese era via e non tornava, che fortuna quella bella vacanza! E che stupida io a non avere colto l’occasione per fare il viaggio insie­ me, proprio adesso dovevo essere in freddo con lei! Ester e io traversiamo insieme un bel giardino mediterraneo, piccolo e privato, suo, e a un certo punto lei tocca un meccanismo e si alza un bel sedile in cotto con alto schienale.

In altre parole ero impressionata dal suo viaggio e dagli imprevisti che ci avrebbe trovato. Quando ho preso il telefono in mano, avevo già confidato a Sara i miei malumori e ci avevo riso sopra, così veramente ero pronta a partire dicendole “Ti raggiungo perché ti invidiavo trop­ po”. Ester dunque era lì: abbiamo fatto una bella conversazione - tan­ to tempo che non ci sentiamo. Mi ha confessato subito di avere incon­ trato un ragazzo nel suo viaggio, ma molto molto giovane. Sono stata contenta per Ester, e per me perché potrò andare con lei una prossima volta poiché lei tornerà. Ancora, in questo giorno stranamente anima­ to dopo mesi di quasi totale solitudine, è venuta Paula e siamo state amichevolmente insieme, con me sempre eccitata che parlavo tanto e senza freno, quasi in trance. Le ho detto, tra l’altro, che adesso so che abbandono di netto le persone e poi di nuovo le amo e mi ripresento o pregusto il pensiero di ripresentarmi. Tutti possono credere che lascio e passo ad altro, ma nessuno, sicuro, mi ama come io lo amo e l’ho presente finché a un tratto mi ricordo che è vivo, che ha un telefono, che io posso chiamare all’istante e all’istante apparire viva nella sua vita. E fantastico ritrovare le persone. Mi pare fantastico, devo vedere

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com’è, forse il mito cadrà adesso veramente di loro, di me, di noi. So che il mito non lo volevo: è stato un surrogato, ma non lo volevo tanto è vero che ho sconquassato abbastanza tutti i rapporti perché qualcosa si sfasciasse da cui il mito potesse uscire fuori perdersi nei rottami. Ho accompagnato Paula in galleria, volevo stare ancora con lei; per strada ridevamo, io ero ancora elettrizzata, non mi passava e non mi passa. In galleria c’erano due donne, e una ha parlato molto mondanamente dieci minuti non di più, io già non sapevo che dire, eppure sentivo la sua umanità sotto tutto quel ciarpame, ma proprio non desideravo altro che scappare, e alla prima occasione sono scappata. Fuori mi ha ripreso subito l’allegria - ma non so se è allegria, è anche tristezza, è essere me stessa e anche perdermi in un’esaltazione che può avere una forza centrifuga e sballarmi fuori, nel buio, nel freddo e lì mi rideste­ rei come da un’ubriacatura... Non sono così distaccata stasera, sono piena di bisogni, di richiami, di mancanze, di prospettive, di progetti... Sono spaventata da questo attacco di sensualità. 12 gen. Ho fatto il femminismo come una bambina impaurita che corre dietro al padre e gli grida “Cattivo!” e scappa via tremante per la sua stessa audacia, e come Giovanna d’Arco pronta ad andare sul rogo per testimoniare le sue “voci”. All’inizio del femminismo Claudius mi ha chiesto “Tu escludi di poter incontrare un uomo con i capelli azzurri?”. “Lo escludo” ho risposto io. “Allora è inutile parlare.” Magari aveva ragione, ma io avevo bisogno di fare piazza pulita intorno a me e di rovesciare il mio sdegno. Adesso posso buttargli le braccia al collo, ma mi pare che stia ancora proteggendo il suo collo dai miei abbracci. Per due anni non ho potuto vedere un uomo senza il desiderio di spingerlo giù dalle scale, anche se una parte di me lo guardava con speranza, speranza di un miracolo? che cambiasse? che abbandonasse l’incoscienza? Mi stringo a un efebo biondo con i capelli lunghi e un viso dolce seminascosto.

E un periodo che dormo fino verso le undici la mattina e sogno in modo limpidissimo cose deliziose proprio prima di svegliarmi. Le ri­ percorro al risveglio con grande voluttà. Sara non è convinta che io sia appassionata. Infatti mi sono definita così quasi per contrasto. Ho corretto “Sono intensa”. Ecco. Esatto. E

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la parola che adopra Simone per me. La mia intensità è questa: che tengo i fili di tutto quello che mi succede come una donna che fa le trine e ha tanti piccoli rocchetti e ne accantona alcuni per prenderne altri e viceversa e ha sempre le mani in moto sulla trama. Ho vuotato il sacco, prima con la donna di Viareggio, oggi con una ragazza di Firenze che avevo incontrato una volta l’anno scorso. Con Sara non ho parlato molto, sembra che lei abbia già vissuto quello che succede a me e pochi accenni le bastano. Però io avevo bisogno di dirlo e di smaltire la meraviglia per l’inversione di rotta, per Tessermi ripescata nella tempesta tra grandi flutti e ondate, mezze finte, mezze vere come quando da bambini si pensa ai naufragi delle favole. Giorni fa avevo azzardato “Torno al gruppo mercoledì prossimo”. Perché no? Non voglio che la mia assenza diventi mitica come di una che non può più rimettere piede alla riunione. Inoltre, quella stanza dove ci ritrovavamo tutte insieme può diventare mitica a me stessa perché è come se non potessi più entrarci senza chiedere permessi o sbrigare pratiche per la riammissione. Poi mercoledì ero indispo­ sta, ma sento che il momento è maturo. Mi telefona Matilde dicen­ do “Qui ci perdiamo, finisce tutto se almeno non ci si telefona”. Poi stasera Ignazia “Ma che succede, io stavo proprio bene alle riunioni, ero tranquilla al di fuori dell’uomo, vorrei tornarci, vorrei essere al corrente di cosa è successo a te. Ah, anche te vuoi tornare? Ah!...” Anais è una donna che ha trovato un’identità prima del femminismo: un po’ irreale, un po’ larva. Viva, vivente, ma non per colpa sua esan­ gue, del genere “letteratura - arte - religione”. Non aveva risonanza in un’altra donna, aveva invece tanti uomini attorno che le succhia­ vano il sangue e quello che le davano in cambio era la possibilità di essere un’artista. 13 gen. Ho in cura un bambino piccolo e faccio in modo che nemmeno un granello di polvere lo possa toccare. Lo tengo in alto con il braccio e poi lo strin­ go a me perché mi fa tenerezza. Se Agata non accetta di essersi liberata nel femminismo e si riallaccia allo zen, Buddha, e tutto il resto come all’esperienza determinante, diventa aristocratica e pallida come Anais. Sono sola dopo due giorni di incontri, ed era quello che desideravo. Ho bisogno di alternare espansione verso gli altri e intimità e silenzio.

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Stanotte proteggevo quel neonato che sono io stessa, lo mettevo a riparo dalla confusione e gli offrivo il mio amore. Adesso gli altri non esistono: il mio telefono è lì sopra, ma è come se fosse guasto, non va da nessuna parte, non chiama, non conosce. E così non so dove andare: non c’è nessuno che io desideri o che mi aspetti da qualche parte. L’emozione ha una pausa, almeno quella che mi spinge verso il fuori. Così posso rendermi conto che mi rimane quella verso l’in­ terno, quella più insospettabile. Cogito, ergo sum Sum, ergo cogito

Se dico solo ciò che provo nessuno mi può smentire, è giusto? Quando ho saputo che esisteva il femminismo non sono stata nean­ che lì a informarmi su cos’era: sono una donna, dunque faccio il fem­ minismo. Non pensavo alle conseguenze, non sono mai stata così su di giri in vita mia, sempre stanca morta e con il cervello che faceva la girandola. Scaricare l’uomo dalle mie spalle, trovarmi con tante pos­ sibili amiche, simili, alleate nella stessa barca, con un destino comune, era il massimo della vitalità che avessi mai raggiunto. Intanto traboc­ cava la voglia di uscire dalla prigione e di sbeffeggiare il nostro carce­ riere. Il mio sdegno saliva alle stelle, ma anche la mia felicità perché finalmente esprimevo senza sensi di colpa né complessi di inferiorità la mia voglia di esistere, la mia presenza. Fino ad allora ero stata cau­ ta perché non volevo essere fraintesa, e quando andavo a ruota libera voleva dire che ero sicura di chi mi ascoltava. Invece, improvvisamen­ te, ho cominciato a parlare con tante donne e ragazze sconosciute, non avevo più cautele né ritegno: ogni pensiero esplodeva nel buio con colori meravigliosi e io ne ero la più stupefatta. Cercavo di ri­ svegliare questo fuoco nelle altre perché potessero gettarsi nell’acqua fredda e fare una bella nuotata. Lo choc più bello, tonico, salutare che ho mai provato. Le altre non hanno vissuto la stessa cosa, ciascuna ha avuto un’esperienza diversa e io ero ingenuamente sorella maggiore pensando di dovere stimolare in loro la mia stessa reazione. Diciamo che mi sentivo autorizzata non sulla base delle idee, ma su come stavo bene. L’aspetto teorico era lo strafare che viene dall’entusiasmo senza risposta e anche il risultato di un timore, di una insicurezza sulle altre che vedevo sempre meno coinvolte di me. Ester mi spingeva, mi dava

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ragione incondizionatamente, mi portava alla teorizzazione in quan­ to lei stessa prendeva la mia esperienza come modello. 14 gen. Ornella ha detto che le sembro distratta sui particolari, come se volessi arrivare subito alla conclusione. Con Sara non è così, i suoi passaggi mi interessano molto. Dunque? Mi annoio un po’ sul momento interpretativo-razionalistico delle altre. Dovevo vedere Matilde da sola, invece sono piombate anche Paula e Ornella. Subito si è creato un disagio con quest’ultima. Intanto le ho chiuso la porta in faccia perché non mi ero accorta che c’era, poi con­ fusa l’ho baciata e lei non se l’aspettava. Ha esordito affermando che nel gruppo io inferiorizzavo e non le lasciavo prendere la sua strada di espressione. Ma cosa crede che abbia pensato tutto questo tempo se non quello? Non si è chiesta perché teorizzavo? Perché non avevo riso­ nanza. Avrei voluto dirle “Senti, io ho sbagliato a teorizzare, ora non sbagliate anche voi sgridandomi”. Ma non ho potuto, c’era troppo imbarazzo. Però mi ha fatto bene, tanto più che Paula e Ornella se ne sono andate e io con Matilde ho ritrovato il tono giusto a poco a poco. 15 gen. Avevo detto “Torno al gruppo”, ma era uno slancio un po’ idealistico. Desidero stare con una persona che provi quello che provo io ora. E in questo senso un contatto a due è sempre il migliore, men­ tre in quattro come ieri, provavo più che altro autodifesa perché nel quadro “Diciamoci tutto quello che sentiamo reciprocamente” entra di manifestare dell’aggressività verso di me o per lo meno rivolgermi delle accuse che servono all’altra per giustificarsi, ma io mi sento ri­ chiamata a un’ammissione di colpevolezza quando in realtà mi sento innocente, e non posso manifestarlo perché l’altra si sente innocente se io mi sento colpevole. Invece siamo tutt’e due innocenti, però l’altra mi turba, mi fa sentire impotente, e perciò perduta. Ornella si lamen­ tava che in una telefonata eli tempo fa io ero piuttosto silenziosa: è vero, non sapevo come inserirmi in un suo monologo che mi esclude­ va. Non sono mica il Padreterno che posso fare certi miracoli. Prima mi spersonalizzavo e, mettendomi fuori di me e sopra di lei (come un’addetta alle cose spirituali), mi occupavo di lei. Come? Generaliz­ zando, certo. Ero così ingenua da farlo invece di dirle “Cosa pretendi da me?”. Una volta Sara mi ha detto “E finita l’epoca in cui eri così buona con loro”. Dicono “Come eri cattiva!”. “No, ero buona, adesso

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non dovete più richiedermi della bontà per accettarmi”. È il passato che ci condiziona, per questo è bello parlare con persone sconosciute e incontrare gente nuova con cui essere nuovi partendo dal presente. Gran mal di testa di quelli con brevi allucinazioni angosciose e debo­ lezza estrema. Ho concluso che non me la sento di essere sotto accusa: preferisco dirlo subito. Non posso parlare di me se le mie sofferenze vengono prese come un giusto tributo ai miei errori. Ho bisogno di rispondenza come tutte e di interessamento a me. Non lo pretendo, ma almeno avrò il diritto di sfuggire i disagi? Via Ha che il mal di testa sfumava mi sentivo allegra. E venuta Sara che ancora boccheggiavo e si è seduta sulla porta della mia camera prendendo luce dall’altra stanza a leggermi delle poesie che le erano piaciute da ragazza. Piano piano sono stata meglio e ho passato una serata deliziosa, con Sara più espansiva del solito e tutte e due molto affiatate, due vere amiche che si confidano e ridono insieme. Così la pesantezza di ieri sera con Ornella si è volatilizzata. 16 gen. Sto per partire per Roma, sono sul treno (gli aeroporti re­ stano chiusi a causa della neve), fa freddo perché il riscaldamento è guasto. C’è sovraffollamento, mi sono fermata dove ho trovato un posto. Non so bene cosa scrivo, temo di annotare delle banalità. Da quando ero piccola ho scritto tanto e mi sembra di essermi abituata alla mezza verità-mezza illusione, come si fa quando si è soli e ci si libera a metà, si rimane a metà. Ho fatto tanta fatica a tirare fuori quella metà, e poi non è stata che una metà, non l’intero. Mi sembra un destino mio di primogenita avere fatto tutte le cose sgradevoli, pesanti, senza arrivare a raccogliere il frutto; avevo la parte ingrata, quella di ribellarmi. Conoscevo solo la ribellione, in fondo, fino a qualche mese fa, avevo visto solo quello, capito solo quello della vita. Mentre un’altra s’immaginava di avere avuto periodi di felicità, io m’immaginavo di avere conosciuto ebbrezze di vario genere. Inve­ ce il senso di colpa minacciava ogni situazione stabile, e avevo solo un’uscita, la ribellione, la vera ebbrezza che ho assaporato. Adesso la mezza verità mi pare appiccicata a me, al mio essere e quando sento Sara così se stessa, così intera, mi dico “E se tu non ce la facessi mai? Tu sei quella che cercava la completezza, e l’hai trovata: in un’altra persona”. Che timore in quel momento, come mi appare beffarda la mia vita: io “somigliavo” a una persona liberata e non lo ero, ma

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adesso lo sono? Lo sarò mai con la stessa evidenza che vedo in Sara? Volevo essere disarmata, naturalmente e senza armi neanche femminili...”, ma che si capisse che non le usavo di proposito, non che non ne avevo. Con il femminismo ho preso l’occasione per fare vedere che le armi le ho, le mostro e non le adopero poi (il rifiuto, il disprezzo, l’inimicizia). L’uomo deve rendersi conto che sono disar­ mata perché mi piace così, non perché questo è il mio destino. Dopo l’aggressività il disarmo ha il senso Anaìs, infatti, è troppo priva di aggressività, rimane un po’ “artista” - però quello che mi turba è che io sia stata ferma più di tutte nella mia ribellione... che strano, non vedevo al di là. Secondo me l’uomo si sarebbe dovuto umiliare, almeno una volta nella storia e dopo questa sua esperienza avremmo potuto incontrarci, forse. E poi lì confondevo la mia vita privata con una svolta della civiltà. Non pensavo di dovere essere io a fare un gesto di apertura, no, toccava a lui. E mi fermavo, con una specie di euforia che mi derivava dal sentire che l’avevamo incastrato, per così dire. Invece mi mancava quell’ottica che fa vedere tutto in un altro modo, fa vedere che non è divertente ribellarsi, non lo è affatto, e che niente vale la pace con se stessi e il distacco. Ieri sera Sara diceva di sentirsi fuori dal femminismo, che è una fase di aggressività, mentre io dicevo che quella fase è la condizione per permetterci di “tornare” disarmate, come vuole lei. Può permetterci di “tornare” ad amare come dicevo nella poesia. Va bene che la liberazione è individuale, ma il femminismo dovrebbe essere una tappa dell’umanità come il buddhismo, il cristianesimo che hanno improntato di sé una civiltà. Non che su questa ipotesi mi abbandoni a sogni di risoluzione ter­ restre ma neppure potrò escluderlo a priori. Il femminismo non è solo rabbia, denuncia, ma anche autocoscienza e liberazione, è tutto l’arco, tutte le fasi di un processo: il risultato è sempre la scoperta di sé, ma l’essere in un processo invece che in un altro modifica la ci­ viltà. Sì, lo so, è come scoprire un pezzo di cielo dietro le nuvole; c’è sempre l’azzurro, ed è sempre uguale, ma d’altra parte il cielo è così, infinito, infinite sono le nuvole che lo tengono al di là, e infiniti sono i tempi e gii esseri umani, allora fanno questa rotazione sull’uguale. Mi sono dedicata al libro di Sara con entusiasmo, anche se mi ha preso tanto tempo: è stato un lavoro enorme, ma mi ha rivelato mol­ te cose. Mi sono chiesta “Lei mi aiuterebbe altrettanto?”. Mi sono risposta “Saprei chiederglielo?”.

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Sto attraversando la Toscana, questo verde speciale che riconoscerei tra mille, e le colline. Avrò mai la mia campagna? Anche qui è in­ verno, ma c’è sole, aria, colori, non come a Milano quella cappa di grigio soffocante buio tetro, un crepuscolo continuo per quattro mesi. Di fronte a me un giovane sta dormendo appoggiato in modo che vedo solo il profilo. Che strano quando una fisionomia attrae: prima nello scompartimento c’erano facce qualsiasi, occhi, nasi, sguardi, tutto insignificante, poi improvvisamente un profilo esercita il suo ri­ chiamo, anche il respiro un po’ forte di uno addormentato mi piace. C’è un tipo di naso sottile su un viso sottile che ricorre spesso in quelli che mi piacciono, e poi la pelle chiara, pallida. Gli occhi possono anche essere piccoli, idem la bocca. Sulle sue ginocchia “Tuttosport” e un rotocalco di pettegolezzi. Dopo periodi di sedentarietà mi prende la voglia di partire, però poi detesto fare la fatica corrispondente al progetto. Queste sei ore e mezzo di viaggio sono un tour de force che non volevo, sebbene mi renda conto che il treno è sempre meno stressante dell’aereo e che domani starò meglio che se avessi volato. Un tormento della mia Uta è una specie di ansia che provo facendo certe imprese da sola: fatiche in cui mi si richiede un occhio su tante cose. Stanotte ho dormito pochissimo, sia perché ho parlato fino alle due ed ero eccitata, sia perché avevo dormicchiato tutto il pomeriggio con il mal di testa, sia per la repulsione che avevo ad affrontare tensioni, incertezze, cose da non dimenticare. Allora mi viene un rodio interno, per cui ce l’ho con me e con la persona che sto per raggiungere, ma soprattutto con me stessa, cosa che mi sembra assurda; comincio a girarmi nel letto e piano piano mi rendo conto che passerò così tutta la notte, che è disperante, ma non esiste rimedio, il giorno dopo sarò stanca e sciu­ pata, con occhiaie, capelli elettrici e occhi acquosi. Allora maledico il momento in cui mi è venuto in testa eli andare da qualche parte, rimpiango il tran-tran, prendo atto che sono stanca, mi ricordo che soffrivo di queste ansie fin da piccola, mi scoraggio e mi agito sempre più. Poi dico “Va bene, partirò più tardi”, in modo da recuperare il sonno perduto. Ma mento con me stessa perché invece mi alzerò prestissimo con un’energia insolita e spiacevole, un vago fastidio allo stomaco e un po’ eli sabbia alle tempie, e farò tutto quello che duran­ te la notte mi terrorizzava solo a pensarlo. Quando ero veramente e cronicamente tesa, cioè durante il matrimonio, ricordo che arrivavo

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a Roma da Simone allo stremo delle forze, con la sensazione di non poter durare un attimo di più senza crollare. Nell’incomunicabilità con Raffaele mi attorcigliavo su me stessa, nei miei sensi di colpa, nelle mie sofferenze fisiche, nervose, nelle mie complicazioni. E la cal­ ma di Simone, o piuttosto la calma che raggiungevo istantaneamente vicino a lui fino a farmi ritrovare sciolta, allegra, piena di appetito e di sonno, mi rendeva così prezioso il rapporto. Ero abituata a non calcolare le mie difficoltà dal momento che erano immense, guardavo ai risultati, impegnavo le mie forze per sfuggire alle situazioni insoste­ nibili. Ho puntato tutto sulla ricerca della situazione ottima per me (quella che non mi dava senso di colpa) poiché mi tormentavo con tanta facilità e Simone è stato quello, l’ottimo. Era buono con me sen­ za essere vincolante, non mi creava problemi, non mi faceva pesare niente, mi amava, non era sadico, non era insicuro, non pretendeva altro. Quello che gli davo io era esattamente quello che desiderava, non recriminava, e a parte certa gelosia che ho superato col tempo, mi sono sentita libera, libera di me stessa. Perché il mio dramma è in questa contraddizione: che tutto ciò che mi fa soffrire mi sfida e io gli vado incontro e voglio farcela. Una volta mi ricordo di essere tornata indietro: ero in collegio, e in una recita dovevo cantare. Ho rinunciato, presa dal panico, ma solo che ce l’avessi fatta, mi fosse costato notti di terrore, avrei recitato e cantato perché rinunciare mi dava un senso così avvilente di impotenza e di “occasione mancata”. Ho avuto molta confusione su ciò che veramente mi piaceva e su ciò che mi sfidava, avevo bisogno di entrambe le circostanze. Ma cosa dico che ho rinunciato a quella recita in collegio? Sono matta! Ho rinunciato a moltissimo, moltissimo che mi attraeva e io non ce la facevo a dominare l’ansia interiore. Da un lato mi distruggevo ac­ cettando continuamente la sfida di situazioni promettenti per la loro stessa irraggiungibilità, dall’altro mi salvavo cercando la pace e ciò che contribuiva a procurarmela. Mancano dieci minuti all’arrivo a Roma: quattro disperati parlano di politica, uno è fascista: è il ragazzo con la faccia carina, che risate! Sto per abbracciare Simone e sentirmi un’altra. 17 gen. Sono andata a vedere la casa di Nicola: mi chiedo come ha potuto ristrutturare lo spazio così bene, compresa una veranda inter­ na su suo disegno. Tutto è fatto con una cura straordinaria, pensa­

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to, armonioso. In questo la riconosco da quando era bambina, aveva proprio quella inclinazione. Allora la capivo poco, non la conoscevo affatto. Dopo una lunga visita alla casa - in primavera sarà piacevole stare sul suo terrazzo in un ambiente così fantastico e fuori dal norma­ le - ci siamo sedute nel suo studio e abbiamo cominciato a parlare. Alle prime parole, che non ricordo quali fossero, mi sono subito venute le lacrime e Nicola sorridendo mi ha dato il suo fazzoletto, ma appena ha preso a parlare lei, si è messa a piangere e io le ho reso il fazzoletto. Poi è finito per stare sul tavolo tra me e lei. Ho visto in faccia la sofferenza della sorella minore che sentiva “poca attenzione su di sé”, mentre le maggiori stabilivano i valori e passavano sulla sua testa senza sospetta­ re quanto le apparissero crudeli. Troppo presto, purtroppo, è arrivato Simone e abbiamo interrotto un’intimità che non avrà il tempo di ri­ prendere questa volta. E la serata è finita così, in una conversazione dove c’era qualcuno di troppo. Quanto con me, da solo a solo, può es­ sere delicato e anche modesto, tanto con gli altri può essere personag­ gio. Con Riccardo è facile fare la pioggia e il bel tempo, a Simone non passa neanche per la testa che lui possa trovare fiducia in sé. Credo che Simone si senta al riparo da depressioni e immune dalla minaccia dei suoi punti dolenti per la gratificazione e senso di sé che trova nel suo la­ voro. D’altra parte, quando l’ho conosciuto io, era in crisi a causa della Pop Art e lì l'ho vasto sull’orlo degli espedienti per rilanciare se stesso ai suoi occhi e agli occhi degli altri. Gli americani gli hanno fatto paura, ha temuto di essere scavalcato, di non significare più niente. Poi ha smaltito la crisi, ha ridimensionato gli americani, ha ripreso a lavorare sul suo filo di svolgimento, ha considerato che una crisi è il minimo che un uomo possa avere, l’ha presa come un’esperienza sa­ lutare. Adesso è sicuro di sé nuovamente, sogna di venire conosciuto in un modo sempre più ampio, di venire consacrato. Spesso mi sono irritata con lui, adesso capisco che era per la distinzione che fa tra sé e gli altri: non che lui è più degli altri, ma non si fa inferiorizzare mentre gli altri sì. Lui sfugge ogni suggestione, smonta gli altri, li ri­ duce alla sua portata in ogni modo, è un a priori che niente lo possa impressionare al punto di sentirsi insicuro. E conquistando via via terreno nel riconoscimento ufficiale e padroneggiando i suoi mezzi, si considera a posto. In lui mi piace il fatto che dice sempre la sua senza fare il convenzionale e senza temere di dispiacere. Questo può

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awenire in chi lascia che gli altri se la cacano da sé oppure in chi igno­ ra le sofferenze della inferiorizzazione e perciò non si sente in colpa richiamandole quando è il caso. 18 gen. Ho dormito male, per fortuna mi sono ripresa sul mattino. Un medico vuole farmi un’iniezione di un liquido scuro: io grido che non voglio, che sono in cura da un omeopata. Finalmente lui riesce a farmela sul braccio, endovena.

Ero innervosita dal progetto di scendere in città la mattina presto e di vedere Diana, poi Ester, poi Augusta. Desideravo rivedere Nicola invece delle altre. Sono riuscita a prendere sonno all’alba dopo avere deciso di non andare in città e non vedere Diana. Alla tre sono volata da Nicola: mi è parsa stanca, non aveva l’aria fresca e vivace di ieri. Era depressa e più sulla difensiva. Ho cominciato a parlare troppo, lei mi pareva ora attenta ora distaccata, ora simpatizzante ora sospettosa. Volevo dirle “Sapessi come mi pesa quando mi accorgo di avere ecce­ duto!”. Ha telefonato Augusta e siamo state al telefono: l’angoscia la rende un monologo, però si mette molto più a nudo di una volta. Poi sono andata da Ester, ero già in ritardo. E lì ho passato due ore tremen­ damente a disagio, impotente a dare alla serata un minimo di orien­ tamento. Lei, sempre la stessa, dicendo “Vedi come sono cambiata”. E impossibile superare questa sua nevrosi di ottimismo. Io ho parlato pochissimo intanto che Ester diceva un sì al secondo prima che il mio discorso potesse avere un significato qualsiasi. L’ho sentita imbottita di fraseologia e termini non suoi adoprati a profusione. All’inizio ero emozionata di vederla dopo tre mesi, avevo pensato molto a lei e al no­ stro rapporto, l’avevo sognata. Le ho chiesto un tè e, mentre mangiavo due crackers, mi ha incoraggiata “Mi sembra che voleva dire qualco­ sa...”, come se fosse a una riunione davanti a un’estranea. Ho sentito la sua fretta: doveva parlarmi del ragazzo; e così è stato. Questa storia d’amore, come la racconta lei, è una finzione: la verità è sempre quella vecchia, e lui è un bambolotto nelle mani di Ester, come lo erano i pre­ cedenti. Non sento la ricerca di una parità, so che Ester non la conosce come non la conoscevo io con lei. E adesso ero lì, non perché lei si aspettasse qualche risonanza in me, ma perché le dessi un tacito avallo. Allora è sempre uno spettatore che vuole, uno spettatore implicitamen­

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te complice. Con l’affettuosità se ne assicura la simpatia, e poi lo mette lì sul divano a confermare quello che non può essere confermato. Alla fine della serata siamo andate a cena con Simone a Ponte Milvio. 19 gen. Ho parlato con Ester al telefono: avevo smaltito la sensazio­ ne angosciosa di un’amicizia finita e stamani ero rilassata. Alla fine della conversazione ho detto qualcosa che l’ha colpita: “Vado subito a scrivermela” ha annunciato. Come aveva fatto Sara questa estate, ma non mi ha dato il tempo di dirle quante cose erano cambiate da allora e come Sara non si sognerebbe più di fare quel gesto. Io su­ bivo letteralmente il suo bisogno di confidarsi sia perché capivo che fintantoché non l’avesse fatto sarebbe stata distratta e allora “Vuota il sacco, così dopo tocca a me”, però a me non toccava mai, non risali la china nella stessa seduta, sia perché, intanto che lei parlava, consi­ deravo il dilemma della mia espressione bloccata e cercavo il segreto della sventura paragonandomi con lei. Il giorno dopo l’insicurezza la riprendeva e aveva bisogno che uscissi dal silenzio, allora mi in­ terpellava e io la suggestionavo con la precisione delle mie sentenze. Cos’altro potevo fare per riprendermi dalla frustrazione precedente? Non avrei mai potuto pensare che non capivo niente della persona che stava vicino a me perché non capivo niente di me. Nella mia avarizia ho dato solo dei pezzettini di cibo nel piatto di chi aveva fame, pezzettini di amore, di spontaneità, di conforto, di gene­ rosità. Adesso voglio dare a piene mani tutto quello che ho. La storia della pagliuzza nell’occhio del fratello mi faceva sorride­ re: chi poteva essere così sventato da commettere quell’errore? Non certamente io con i miei occhi davanti e di dietro. Però, poiché non capivo, facevo proprio questo e non potevo saperlo. Ho detto a Ester: chi ha fiducia deve liberarsi dall’avere fiducia, chi non ce l’ha dal non averla. La religione dice “Fatti aiutare dal Signore”, e anche questa mi pareva un’esagerazione d’altri tempi. Con spregiudicatezza pensavo di sapere cosa facevo e sul farlo poi non c’era problema. Adesso so cosa significa quella frase: che nessuno chiama Dio in aiuto convinto di farcela da solo, e dopo si accorge di avere sbagliato e non può rendersi conto di come ciò sia avvenuto. Cosa gli è successo? Quale sortilegio l’ha por­ tato in un sogno ingannevole? E sempre successo: questo è vivere. E quello sarà morire.

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All’inizio sapevo tutto adesso so tutto nel mezzo ho sognato. Non so come sono entrata nella vita non so come sono entrata nel sogno né come ne sono uscita. Nel sogno c’era un mio doppione lo vedo ancora lo sento lo ricordo. Aveva qualcosa di un pupazzo e Taceva sforzi tremendi. Era un sogno in un sogno in un sogno era un velo sopra un velo sopra un velo era un’immagine di me su un’immagine di me.

Serata con Nicola e Augusta: non volevano più andare via. Nicola si scioglieva, rivolgendosi però ad Augusta interrompeva “Lo abbiamo detto anche noi, ti ricordi?”. Ha ammesso tante cose: non voleva dire che l’avevo inferiorizzata da bambina, poi l’ha riconosciuto a mezza voce. AL ha commosso quando ha ricordato che papà ‘Tammirava” da picco­ la, che la trovava bella come la Gioconda, e anche i suoi professori aveva­ no considerazione per lei. Mi ha confidato di avere avuto un’inversione di rotta nei rapporti con il padre dopo avere assistito a un forte litigio fra lui e me, allora lo vide sotto un’altra luce. /Ammirava la soggettività del padre e ha voluto riunire in sé quella soggettività con i valori della ma­ dre. Ma come sorella minore, ha fatto da spettatrice all’incomprensione tra i genitori, me e Lucia e ha rifiutato di prendere in considerazione i nostri drammi, li ha scartati. La ritroverò, come un tempo allegra e sorridente? Adesso rifletterà, ne sono sicura: mi continua a sentire come

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possibile rivale, ma è già più fiduciosa. Aspetto che mi scopra in un’altra dimensione e mi sia grata per la prima e l’ultima volta. E stata una bellissima giornata al contrario di ieri dove, avendo du­ bitato fortemente della mia possibilità di superare il disagio della di­ sattenzione di Ester, mi ero sentita di nuovo impotente e mi chiedevo come mai, proprio con lei, una vecchia amica, poteva succedere. 20 gen. Siena. La globalità non è nell’avere tutto, ma nell’abbandonare tutto quello che si ha e nel riprenderlo con indulgenza verso i propri bisogni. Soddisfare i bisogni senza chiamare in causa i valori, accettarsi per quello che si è senza giustificarsi, ecco la pace, magari negli stessi gesti di prima. I mali del mondo non sono rimediabili perché sono il frutto della no­ stra cecità. In condizione di cecità si possono percorrere solo strade senza uscita. Da ragazza mi aveva colpito sapere che in Cina nell’antichità la gente fino alla vecchiaia era confuciana, poi diventava taoista; prima era os­ servante alle regole del vivere sociale, alle distinzioni tra bene e male, e poi abbandonava tutto questo ed entrava in un universo in cui niente conta e niente è prescritto. Mi sembrava molto strano, ma anche pre­ vedibilmente vero, fatale. Però pensavo che a me non sarebbe succes­ so, che io capivo già fin da ora, che quelli erano tempi molto lontani, quando la gente era profonda, ma anche primitiva. Disgraziatamente è vero che Nicola e io abbiamo appreso la soggetti­ vità da nostro padre. Lui ha rappresentato il nostro modello: orgoglio­ so di sé, integro, onesto, senza abbandoni né debolezze, senza pietà verso se stesso né verso gli altri che non capiva. Eppure, a vederlo ora umano, scherzoso, con un’enorme vitalità. Stare a Roma mi ha per­ messo di misurarmi con le altre e di sentire a che punto sono. A parte Ester, mi sono trovata così bene, meglio che a Milano perché non ero turbata dal passato in cui avevo pesato sulle amiche del gruppo. Inoltre pensavo a questo: quanto lavorio in tre anni da parte di tutte, e nessuna che se ne sia andata e ognuna sta lottando per sé e dentro di sé. Ora mi chiedo: quando è avvenuto qualcosa di analogo nel mondo maschile? Con le religioni, ma in noi non c’è il problema religioso come al di là, ma proprio solo la liberazione. Sto scrivendo chiusa in macchina: per andare a vedere una casa co­ lonica ci siamo impantanati - sta piovendo a dirotto - e aspettiamo

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un trattore che ci tiri fuori. Simone era già depresso, dice che non ho più un pensiero per lui. Può essere che non mi manifesti tanto, ma più probabilmente è che si aspetta delle attenzioni sul suo lavoro, e lì proprio sono distratta. Mi piace quello che fa, non dico di no, ma non è a ciucilo che sto pensando in questi tempi. 22 gen. In viaggio da Firenze a Bologna dove mi aspetta Sara per andare dal tipografo. L’affettuosità di mio padre passa proprio i limi­ ti! Addirittura mi ha abbracciata da dietro la sedia facendomi ucara” con le mani e vezzeggiandomi come una bambina. Al momento di andarmene mi ha baciata con slancio dicendomi di tornare, e tutto questo, secondo la mamma, perché gli avevo proposto di tagliargli un po’ di sopracciglia tutte incolte e ispide, come facevo un tempo! Io sono stata la vera figlia del padre, quella che non lo temeva, quella con cui lui aveva un rapporto più vero, più umano, ricco e contrad­ dittorio. Siamo simili, presi da noi stessi e dai nostri scopi, ma anche intensi a un momento dato, e che si rispondono. Mi è venuto un pensiero, questo: che io potrei lavorare con mio padre nella sua ditta insieme ai fratelli. Voglio lasciare Milano, lì rischio di crepare anzi­ tempo. Fin da quando ero piccola mio padre si rammaricava che non fossi un maschio per entrare con lui nella ditta, e così ho finito per averla sempre presente, anche quando, più tardi, l’ho vasta destinata ai miei fratelli, che però non la volevano. Quando mi sono messa con Simone, mi ha colpito all’inizio il rumore da officina che aveva il suo studio, questo richiamo me l’ha fatto apprezzare in modo tutto spe­ ciale. Non afferro più la ragione di lasciare soli i miei e io starmene a Milano. La mamma, così guardinga neH’ammettere dei desideri, sul fatto di avermi a Firenze si è buttata. Se torno a Firenze si anima tut­ to l’ambiente familiare: i genitori escono dalla sperdutezza, i fratelli si rincuorano. 23 gen. Milano. Di nuovo devo rivedere il libro di Sara, ma inter­ rompo un po’ per scrivere. Mi chiedevo, in questi giorni, cosa poteva avere fatto scaturire fiducia in me all’inizio del gruppo, fiducia che ero autentica anche se dominante. Penso che sia stato Tessermi pre­ sentata staccata dalla cultura con Sputiamo su Hegel, ma soprattutto il fatto di essermi dichiarata clitoridea. Insomma, in qualcosa mi ero scoperta, mi ero fatta vedere a nudo in un modo da cui non traevo

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prestigio nel mondo maschile. Il teorizzare era collegato alle mie fru­ strazioni, per esempio quella di vedere magnificato l’orgasmo vagina­ le nel gruppo, durante la prima riunione dove dicevo “Niente aborto perché niente coito”. Avevo rivelato che ero clitoridea, e il risultato? Le clitoridee erano per una grande cautela, perché fuori non trape­ lasse niente, proponevano di riflettere bene e a lungo, mettiamo per un anno. Le vaginali erano scettiche o irritate e rifiutavano la formu­ lazione “Niente aborto perché niente coito”. Avevo detto al gruppo che avevo abortito in marzo, per me era stato un fulmine a ciel sere­ no. Quello che non ho rivelato, invece, è stato che non ero rimasta incinta con Simone, ma con un altro. Questo non sapeva niente di clitoride e non gli piaceva che facessi autoerotismo con lui o che lo iniziassi al mio orgasmo. E vero che non mi pronunciavo sulfaverlo avuto o no, lasciavo nel vago, cioè prendevo tempo e aspettavo che mi venisse il coraggio di dirgli chiaro che così non andava. Vincenzo, specialmente se era sicuro di sé avendo avuto una lunga erezione, prendeva tutto a suo favore. Con lui potevo parlare, aveva un visetto carino che mi suscitava desiderio di accarezzarlo. Però mi mantene­ vo un angolo di leggero fastidio che teneva a bada tutto il resto. Il guaio era che eravamo clandestini, e lui marito di un’amica come da un po’ di tempo mi capitava. La clandestinità è straordinariamente eccitante, crea un clima di erotismo, e rende tutto prezioso, sguar­ di, gesti, sottintesi. Si sente la piattezza della vita abituale che ora è ravvivata da quel mistero. Però il senso di colpa veleggiava sul mare del mio inconscio come una nave corsara mettendo tutto a ferro e fuoco. Sapevo fingere, ormai da tanto tempo e da altrettanto tempo me ne sentivo autorizzata, e anche orgogliosa. Adesso, il femminismo rendeva questo equilibrio ancora più precario, ma mi ero resa conto che un tipo di donna è schiava dell’uomo e la fortuna voleva che questo tipo lo ritrovassi sempre nelle mogli degli uomini che mi pia­ cevano. Sul terreno maschile finiva con l’infliggermi penosi confronti per come era devota e fedele, mentre sul terreno femminista era lei a sentirsi in colpa verso se stessa. Allora ritrovavo un po’ di giustifi­ cazione a mentirle. Al fondo però mi sentivo vile e ipocrita, cercavo di non vedere quella mia amica per non dovermi rimproverare delle bugie precise, anche se capitava che la vedessi abbastanza spesso sia perché lei aveva interesse per me sia perché il marito ci teneva ad au­ mentare il numero di volte in cui incontrarci da soli con occasioni in

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cui fosse presente anche la moglie. Adesso capisco che non si andava molto avanti perché io stavo sulla difensiva: ero la prima a non volere far sapere niente a Simone, tuttavia Vincenzo mi sembrava troppo opportunista con la moglie. Io non dovevo mentire in continuazio­ ne dal momento che Simone stava lontano, e quando era lì cercavo di non vedere l’altro: non potevo sopportare che le due presenze si accavallassero. Che lui potesse sopportarlo me lo rendeva disprezza­ bile. Poi sono rimasta incinta; la colpa era mia che lasciavo fare in periodi pericolosi, però è vero che il coito lo facevo per lui, quindi mi sembrava lui il responsabile. Se si aggiunge il fatto che non avevo orgasmo, si può capire come dentro fossi contratta e quasi soffoca­ ta dall’indignazione. Va detto che la nostra era una relazione molto saltuaria, questo spiega in parte il mio atteggiamento che consisteva nel rimandare a un momento più disteso una chiarificazione su ciò che mi sarebbe andato bene nel sesso. Non avevo dubbi che dovevo subito abortire e così ho fatto. Questo accadeva in marzo, in maggio stavo scrivendo Sessualitàfemminile e aborto e avvicinandomi ai temi di La donna clitondea e la donna vaginale. Solo adesso mi rendo conto che la spinta mi è venuta da quell’episodio... Però non potevo dirlo tale e quale al gruppo, primo perché non lo sapevo, secondo perché mi sentivo terribilmente sola con le mie difficoltà e non contavo sulla comprensione di nessuna donna. Nel gruppo la nostra autocoscienza era ancora indietro, molto indietro. Ma che cosa rappresentava quell’uomo per me? Era una figura di ac­ compagnamento, una comparsa quasi, o avvertivo benissimo che non avrebbe rappresentato mai né un amico fondamentale né un amante fondamentale. Non era destinato a segnare una tappa dal momento che somigliava troppo a qualcuno che aveva segnato una tappa nella mia vita. Questa premessa era abbastanza per determinare un limite insuperabile a tutto il rapporto, oggi non potrei iniziarlo e trascinarlo così. Quindi, in parte mi sentivo all’origine della monotonia che si instaurava, monotonia che però di fatto proveniva da lui. Mi sembra che io ero più vivace, con reazioni e contraccolpi; un paio di volte sono stata così depressa la sera quando è venuto a trovarmi, che mi sono sdraiata sul divano con una coperta, e lo stesso ero tutta fred­ da - questo accadeva quando provavo il bisogno di un’apertura da parte sua che non veniva - oppure ero euforica se lo sentivo vicino in

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qualche modo e venivo toccata da qualche gesto molto appropriato e affine a me. Lui però aveva timore di lasciarsi andare, mi considerava una di quelle donne che fanno soffrire. Gli faceva di sicuro cattiva impressione che potessi tacere con Simone così tranquillamente, si vedeva al suo posto. Alla fine una sera, quando era già uscito il libret­ to sul sesso e lui non aveva più dubbi di essersi sbagliato, ho insistito per fare autoerotismo; però, non so se a causa dell’eccitazione o altro, muovendosi a un tratto ha avuto l’orgasmo, e io sono rimasta inter­ rotta. Ma ormai ero certa che dovevamo lasciarci, anche se lui scher­ zava in tono conciliante “Che brutto orgasmo mi hai fatto avere” ap­ poggiando la testa su di me come uno che ha vergogna, e questo mi faceva al solito tenerezza. Da allora è tutto finito, abbiamo fatto una gran litigata su argomenti cultural-femministi che esprimeva piuttosto recriminazioni reciproche che avevamo tenuto dentro all’incirca per un anno. Non sarà stato chissà che, non ho veramente messo in ballo me stessa, non ho avuto eccitazioni mentali o fisiche particolarmente esaltanti però quanto a dolcezza e a una strana condizione di calma sì. Non era collegata alle circostanze che erano complicate, ma al fatto che ci eravamo incontrati con leggerezza e senza pensare a niente. Cosa mi ha preso di rievocare di corsa questo episodio, forse perché comincio a sentire nostalgia dei miei amici, comunque di rapporti con uomini. Oltre al fatto che avevo riflettuto in questi giorni al senso che poteva avere per me un’espressione come quella dei miei libretti: uno, scritto per fare fronte alla minaccia di Vanda; l’altro, appunto per raggruppare i due miei impedimenti sul piano erotico, il coito e la donna vaginale, madre-moglie. Che buffo come sono riuscita a camuffare tutto in teorie piene di allusioni solo ai miei occhi. Sara ha osservato che la serietà dei libretti l’avevo già nelle presen­ tazioni agli artisti. Quando dimenticavo le frustrazioni ero allegra, credevo in un incantesimo fatto di niente, però poi l'inquietudine mi riprendeva e dovevo difendere o accusare qualcuno, me e altri. Di­ fendere o accusare mi rendeva seria. Diceva ieri Paula “Come è vero Autoritratto!”. Ho detto a Sara tutto quello che ho scritto oggi nella mia ultima storia con Vincenzo. E un peso tolto decidersi a dirlo. Lo stesso ho fatto con Felicita a proposito del suo ex-amico. Si vede che avevo bisogno di affrontare subito quell’argomento. In realtà consideravo che la mia vita sarebbe stata manchevole se non avessi avuto di que­

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ste occasioni, però lo stesso non sapevo a chi parlarne, per lo meno era difficile trovare qualcuna della mia stessa idea. Il brutto era che si trattava di mariti di mie amiche, magari prima ero amica degli uomini, poi lo diventavo anche delle loro mogli, si stabiliva con tutti e due una strana intimità che facilitava gli incontri. Accadeva allo­ ra qualche episodio sessuale che si ripeteva così, quasi casualmente. Posso ricordarle come storie d’amore perché sono state intensamente vissute, ma al limite dell’amicizia. Con nessuno ho avuto l’orgasmo se non procurato da me, ma anche quello rarissimo e quando tro­ vavo abbastanza coraggio per farlo. Quanto alla legittima amica o moglie mi bloccava ogni sviluppo del rapporto, potevo solo portarlo avanti così, senza predeterminazione: l’unica colpa che accettavo era quella di cogliere l’istante, non di predisporlo. Naturalmente questo mi dà un senso di vigliaccheria interiore, più che di spensieratezza. Ed era tormentoso dovere subire inutili attese, ritardi, cambiamenti di programmi. Questo non è avvenuto solo con Vincenzo: ci vedeva­ mo a casa mia, perché finalmente avevo una casa, personale e non coniugale come per i precedenti. Però anche uno spazio proprio non era la libertà: immaginavo l’interrogatorio che la moglie gli faceva al ritorno, immaginavo le risposte, e questo momento di simulazio­ ne pesava come un avvenimento tremendamente deprimente. Così li disistimavo entrambi per dove erano andati a finire, certo più in basso di me. E mi salvavo dal rimorso; comunque il mezzo migliore per salvarmi consisteva nel vivere momento per momento, e quello che succedeva succedeva. Avevo senso di colpa per Simone, ma era niente rispetto a quello che provavo per la moglie se era un’amica. Ma alla fine i mariti tornavano definitivamente dalle mogli e insieme intraprendevano qualche viaggio o cose simili per festeggiare la fortu­ nata ripresa della normalità. Non so se fosse proprio così, io lo sentivo così. Sulla mia strada ho incontrato donne infinitamente “migliori” di me: accoglievano l’uomo e le sue bugie, facevano qualche scena alla fine della quale erano più fiduciose di prima. Mentre il marito le tradiva sfacciatamente insieme a quella sfacciata che ero io e gli rifilava balle dell’altro mondo in telefonate tempestive che tampona­ vano ogni dubbio. Lavoravano per lui, in casa, per i figli, per i soldi, per il confort, fisico e psichico, lo aspettavano pazientemente pronte a scusare i ritardi. Poi uscivano insieme nelle serate stabilite e mi faceva rabbia la loro credulità che sentivo ricadere su di me.

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24 gen. Mi sono svegliata prima del solito, un po’ perché è un tempo stupendo con sole da montagna e cielo azzurro, e questo lo avverto sempre, un po’ perché devo ancora correggere il libro di Sara, un po’ perché voglio continuare l’argomento di ieri. Da quello che ho scritto, mi accorgo di avere due morali, una che mi faceva soffrire se trasgredivo certe leggi come quella di non andare con i mariti delle amiche, l’altra che mi diceva “Fai quello che ti pare, vivi, non esi­ ste nessuna legge se non quella di vivere” o qualcosa così. In realtà quello che mi preoccupava era che si sapesse, se non si fosse saputo non c’era problema: tra me e me mi sentivo autorizzata a tutto. For­ se perché Lucia si era presa Cesare e io avevo trovato che ero solo stata sfortunata, ma che lei non aveva colpa, avevo concluso così. E comunque nelle faccende amorose ero molto cosciente che è inutile infilarci cosa si deve fare: scattano delle situazioni, ritirarsi sarebbe proprio rinunciare a se stessi. Sotto sotto ero orgogliosa di avere pre­ so emozioni da qualsiasi parte mi fossero venute. Però poi finivo per ritirarmi lo stesso: non affrontando veramente il rapporto lo logoravo a poco a poco, accumulavo a mia insaputa risentimenti. E proprio così, non ci avevo veramente pensato prima. Con Lamberto, che è stato il primo uomo di cui avessi finito per conoscere bene anche l’amica e con cui ho avuto il rapporto più tormentoso anche perché era a sua volta amico di mio marito e io sposata da poco, abbiamo trascinato per anni un’amicizia-innamoramento prima, con incontri sessuali (pochi) dopo, e qualche clandestinità, incapaci tutti e due di muovere la situazione. Fra noi è finito quando mi sono messa con Simone e l’ho fatto senza dirgli niente, come se non ci fossimo mai conosciuti. Ero stata disponibile, ma statica, lui non si era esposto al minimo rischio, non so cosa aspettasse, forse che facessi io un gesto per prima. In definitiva non mi dava fiducia e, sebbene mi piacesse molto, non mi sarei mai veramente impegnata con lui. Però dentro di me lo rimproveravo per quello, che non mi dava fiducia. Con Simone è stato possibile tutto, primo perché ha subito chiarito la cosa con la moglie e ha affrontato la situazione, poi perché non mi faceva pesare niente dei suoi drammi che risolveva da solo, come me del resto. Fino allora avevo conosciuto bambocci bugiardelli, don­ giovanni bisognosi del rientro all’ovile e di una Penelope fedele. Ma con Lamberto è stata ugualmente un’esperienza per certi versi dispe­ rante. Ricordo quelle rare volte in cui ci vedevamo per fare l’amore

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come rimanevo angosciata: avevo bisogno di rilassarmi (mi sentivo rigida rigida dentro), di sciogliere le riserve che avevo contro di lui, ma non me lo permetteva. Faceva l’amore e io sempre in attesa di una volta seguente che sarebbe stata quella buona per me, finché ve­ niva sera e lui si alzava dal letto sorridendo, affamato, senza aver ca­ pito niente, senza accorgersi che io non avevo avuto alcun orgasmo, sopraffatta alternativamente dal suo desiderio diverso e più irruente del mio e dal suo distacco più radicale e riposante. Quando se ne andava era il momento peggiore: lo sentivo molto cambiato in poche ore, adesso tornava soddisfatto a casa, agli amici, alla sua attività, era allegro, ottimista. O così mi sembrava, poiché anch’io fingevo calma e non mi lasciavo capire. Non sapevo quando lo avrei rivisto, forse dopo una settimana, un mese, un anno, andava via senza prevedere un prossimo incontro, tanto ci saremmo telefonati, quello sì, anche più volte al giorno. Adi veniva la disperazione, ma non fiatavo: cosa potevo dire? Di cosa accusarlo? Mi amava, certo: non me l’aveva mai detto, almeno non lo ricordo, eppure ne ero sicurissima, mi ammirava anche e, in qualche modo per lui incomprensibile, mi temeva. Ala a me restava una tensione accresciuta rispetto a prima, la coscienza che ero più debole, che non sapevo cosa volevo e non sapevo volerlo, che avrei dovuto affrontare con un nodo di conflitti - amore, eccitazione, impotenza, colpevolezza - la separazione mentre la prossima volta non aveva niente che mi promettesse uno sbocco. E stato atroce a momenti, per il resto respiravo e mi divertivo e non mi ricordavo più che era stato atroce. Quello che detestavo era il legame che le relative mogli riuscivano a stabilire con questi uomini: non avendo niente per sé, né un’amica né un’attività interessante, finivano per fare pesare sul­ la bilancia bontà, dedizione, tristezza, rinuncia. In un modo che a me sfuggiva riuscivano a dominare i mariti, potevano renderli colpevoli e bisognosi di riabilitarsi; non impedendo loro di fare il proprio comodo ne aumentavano il debito fino a tenerli prigionieri. Ma nella prigione quelli ci stavano anche comodi, era un alibi abbastanza spazioso. Così io misuravo la mia sconfitta ogni volta: volevo comunicare, ma non mi era possibile, subito cominciavo a sentirmi corrosa dalla complicità dell’altro con la moglie che era il modo infallibile per lui di sfuggire le difficoltà o di compensarle immediatamente. Mi sono sentita adoprata, ecco, piuttosto che colpevole anche se il colmo della beila era che, se si fosse scoperto tutto, sarei stata additata come colpevole.

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Acqua passata, inquietudini passate. Dal momento che tenevo tutto per me, ero diventata carica come una bomba e sono esplosa dentro il femminismo. Era un equivalente degli orgasmi che mi avevano sottrat­ to in tutti questi anni, proprio il massimo dell’eccitazione, e poi adesso il benessere. C’era un uomo cattivo volevo che fosse buono con me ma io non potevo esserlo con lui perché lui era cattivo con una donna cattiva così s’intendevano fra loro meglio che con me e alla fine rimanevo sola e loro si compravano dei vestiti delle scarpe e facevano un viaggio. Per consolarmi pensavo “Gli mancherò” ma sapevo che si erano liberati di me. La cosa più frustrante era sentirsi in colpa per quello che c’era stato. Ma il tempo scorre per tutti e la crisi viene la crisi viene e spesso passa senza scioglierti dalle catene dalle catene.

L’allontanarsi da me dei miei amici dopo il femminismo l’ho anche interpretato, oltre al fatto di avere risentito il colpo, come ha detto uno per tutti “Non torno dove ho ricevuto una frustrazione”, anche al timore che io, presa da un impeto incontrollato di chiarimento, po­ tessi rivelare dei loro retroscena. Allontanandosi intendevano togliere l’esca da vicino il fuoco. Forse hanno fatto bene, comunque adesso la tensione è passata, potrei proprio rivederli (l’unica cosa che spero è che non mi trovino troppo invecchiata né io loro), ma mi sembrano ancora nascosti sotto il tavolo. Nessuno ha pensato a telefonarmi. Lo

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farò io un giorno che mi va. Oppure non mi andrà più e capirò che la nostra amicizia è definitivamente passata. 25 gen. Inconsciamente cercavo di stabilire un transfert nel gruppo, di fermare l’attenzione, che tutte non si volatilizzassero il giorno dopo. Non c’era altro mezzo per mettere insieme un gruppo: Sara ha espresso questo quando ha detto che io ero giardiniere e loro rose. Però anch’io volevo essere una rosa e non potevo. Quando Sara ha cominciato a rompere la suggestione che le faceva ingigantire quello che dicevo come se fosse stato detto dall’alto, anch’io ho cominciato a liberarmi, cioè a smettere di sentire l’imperativo a mantenere il ruolo di giardiniere. In fondo invidiavo chi poteva essere se stessa senza tante storie, invidiavo le mie sorelle minori e le loro birichinate, insomma chi fa quello che vuole e non censura agii altri. Durante la mia crisi ho avuto anch’io il transfert su Sara che però in quel momento cominciava a liberarsi del suo su di me. La cosa è riuscita perché io sotto sotto ce la facevo a mantenerlo, sebbene lei non volesse, volesse tenermi alla pari. Così la mia barchetta era presa in due correnti diverse e io temevo che, girando su se stessa, affondasse. L’imprevisto però è stato quello che io ho preso a liberarmi girando come una trottola dopo avere abbandonato ogni progetto di navigazione e ogni comando. Intravedevo qua e là il sorriso di Sara. Leggendo la fine del suo libro, ho constatato che l’intuizione che avevo avuto a proposito dell’intervento di Agata nella correzione era giusta e non dettata da preconcetto. Io ho assecondato Sara continuamente, non l’ho mai forzata e ho cercato di rispettare come lei è, una matas­ sa di fili che si scioglie e si intreccia e rimane sospesa. Mentre Agata immetteva la coscienza di un valore stabile dentro un flusso. Che è un’altra mentalità da quella di Sara. Siccome io ce l’ho questo aspetto definitorio un po’ rigido e me ne voglio disfare per sentirmi quell’essere cangiante che sono, tra dubbi e certezze continue, l’ho avvertito subito come un corpo estraneo. Mi ha telefonato un gruppettino di ragazze di Pisa, vogliono un contat­ to. Così la fioritura delle rose continua nei tempi spogli. Avevo detto a Sara di rispettare il più possibile il suo testo e le intervi­ ste: ha riflettuto su questo suggerimento e ha chiarito un sacco di punti anche a me. Infatti io dicevo “Ho il culto della cosa così come è acca­ duta”, e lei “Ma è sempre soggettivo, la modifichi sempre secondo che

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l’hai vissuta; poi il parlato è pieno di intonazioni e di sfumature che lo scritto non può rendere”. Alla fine ho capito qual era la verità che volevo mantenere, non quella della cosa certamente: ogni giorno ho un certo grado di coscienza per cui, se rivedo a distanza di tempo una mia lettera, una conversazione, una pagina di diario e modifico dei termini, può essere che io intacchi questo equilibrio momentaneo tra ciò che vedo e ciò che non posso ancora vedere, e ne viene fuori una falsità. Siccome è tornata sull’argomento più volte, mi meravigliavo di averle creato un problema dal momento che mi pareva lei rispet­ tasse spontaneamente l’autenticità del suo materiale. Solo voleva ren­ dersi conto cos’era l’intervento di Agata, penso in rapporto alla mia maggiore aderenza al suo modo di scrivere. In un primo momento forse considerava che ero stata un po’ distratta e non mi ero impegna­ ta a fondo nella correzione dato che, proprio in quel periodo, passavo la mia crisi, in realtà accettavo quel modo senza criticarlo. Per me non c’era niente da migliorare o da fare venire fuori: la slegatezza sintattica, i periodi messi uno accanto all’altro con piccoli sostegni e collegamenti e richiami di fatti avvenuti non poteva diventare, senza snaturarsi, più perentorio o più lucido. Rispetto a Sara la nebbia in cui mi trovavo era così appiccicosamente culturale. Quanti tentativi per fare quadrare me stessa, quante spie­ gazioni, quanti occultamenti di cadavere. Adesso mi viene da ride­ re, proprio la parola cadavere mi fa ridere, come dire “cadavere in cantina”. Avevo un cadavere in cantina e vivevo al piano di sopra spesso con la paura che si sentisse uno strano odore salire nelle stanze. Non scendevo in cantina non mi sbarazzavo di lui. A volte credevo di aver sognato quel cadavere a volte credevo di aver sognato le mie stanze. Erano due cose così diverse tra loro - come potevano

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tutt’e due avere a che fare con me? Adesso abito dentro una tenda dentro un battello sull’acqua posso dormire sulla nuda terra tutto può diventare la mia culla. Posso guardare nell’acqua anche di notte e vedere in trasparenza un grosso pesce che vigila vicino al mio battello.

Di nuovo sento che tutto si equivale. Quando trovo questo è il mo­ mento di maggiore pace. Scorrendo il diario di Sara: il 14 giugno avevo detto di sentirmi in colpa verso mia sorella, questo l’aveva spinta più a fondo nell’analisi del rapporto con sua madre. L’avevo dimenticato: eravamo attorno al tavolo nel salone delle riunioni e sono scoppiata a piangere. E stata la prima volta in presenza delle altre: qualcosa si faceva largo dentro di me, ma ero ancora convinta che il mio dovere fosse di continuare a essere forte per avere la loro fiducia. Mi sento molto felice, serena, e senza quell’esaltazione che avevo avuto dopo l’influenza. Probabile che allora, essendo stata abbastanza sola, avessi accumulato emozioni inespresse che cominciavano ad accen­ dersi l’una con l’altra e a darmi quel senso di trasporto dentro. Adesso non desidero niente, ho un po’ di sonno, mi sono tolta di dosso dei pesi rimasti dal passato, ho scritto due poesie che mi hanno sorpreso. C’è un che di nuovo in me: l’immagine del pesce sott’acqua mi riempie di godimento, sto più con lui sott’acqua che sopra nel battello. Cerco di ricordarmelo, di osservare il suo sguardo, di scendere nella traspa­ renza, come se nell’acqua fosse più chiaro che fuori, più calmo, più eterno. Devo sganciarmi dal desiderio di capire a che punto sono rispetto a Sara. Mi viene sempre in mente “Ma forse questa mia fase le è troppo lontana”, voglio affrettare i tempi, raggiungerla. Così provo cosa si­ gnifica essere sorella minore con l’altra sempre avanti nell’esperienza: diventa difficile comunicare con lei a meno di non mettersi alla sua scuola. Con Sara non succede questo perché lei sa cosa si prova e io, sapendo che lei sa, mi sento ugualmente alla pari.

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Vorrei scrivere un’altra poesia per come mi è piaciuto, ma nascono proprio a un tratto, e quel momento è bellissimo. Stamani mi telefona Irma “Voglio vedere come mi trovo con te”. Mi sono venute subito le lacrime agli occhi all’idea che, se non ci si fer­ mava in tempo, anche lei si sarebbe sentita schiacciata da me. Pia­ no piano mi si chiarisce quanto ho radicata dentro questa paura dei possibili soprusi fatti alle altre. Ho bisogno che mi sollevino da questa pena, e potrà accadere solo quando avranno compassione del mio ruolo di sorella maggiore quanto ne ho avuto io per loro. Con l’illusione di avere superato i miei drammi ero la più sonnambula. Non mi sarei mai svegliata se non avessi provato il dolore di esse­ re abbandonata da Sara per Agata, ripiombando così in pieno nel conflitto di gelosia dell’infanzia da cui ero potuta uscire con onore solo assumendo il compito di sorella maggiore. In più, superato quel punto, mi era rimasto il disagio di sentirmi sempre un passo indietro rispetto a Sara, un passo che avverto come fatale e incolmabile. A volte, invece, mi sembra che ci sia una specie di comunione fra noi e, anche se torna all’improvviso la sensazione di essere indietro, preferi­ sco infinitamente questo turbamento a quello suscitato dallo spettro di inferiorizzare un’altra. 27 gen. E arrivata Luisa, la ragazza di Emilio con il fratellino da Firenze: le ho detto di pazientare un attimo che finivo con Sara. La mattina avevo parlato con Paula per l’indirizzo di un ginecologo, con Gemma per la stessa ragione così abbiamo deciso, seduta stante, di vederci, poi lei non poteva e mi ha telefonato per disdire. Nel frattem­ po mi chiama Irma e già facevo sforzi per concentrarmi. Al pomerig­ gio parlo con Lucia e mi accorgo che è impossibile arrivare a capirci nei sottintesi perché io mi stanco e finisco per dire qualcosa di pro­ vocante e lei si ritira. Più tardi mi chiama Germana ed è stato buffo perché l’ho fermata immediatamente “Sto parlando” (con Sara), così che lei è caduta dalle nuvole “Come?” Alla fine ero morta e con il mal di pancia, cosa rarissima per me. Sono andata a letto dimenticando un pentolino sul fuoco che ho tolto alle 4 stanotte. Mia madre, Lucia e io siamo in una campagna allagata, camminiamo su degli argini. Sono in funzione traghetti notturni. Ci sistemiamo in qualche modo in una casa di campagna molto buia, ci togliamo indumenti umidi, indossiamo le

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camicie da notte. Lucia fa progetti diversi da me quanto ai traghetti. Io dico “Al diavolo, chi vuole andare su ciucile baracche”. Forse le trovo pericolose; ce l’ho comunque con la loro proprietaria, una gallerista d’arte.

Mi sta venendo mal di testa, ho preso un cachet e fatto la houle. E incredibile come non sopporto interferenze, programmi vincolanti. Sicuro che non dormivo perché, avendo bisogno di scrivere, non mi sentivo sicura che l’avrei potuto fare comodamente fino a esaurimen­ to, così rimuginavo tra me e me quasi per avere le idee chiare al mo­ mento in cui avrei preso la penna in mano e dunque potere fare più in fretta. Alla fine ho anticipato l’orario di alzata: l’ansia mi è passata appena cominciato a scrivere. La mia insicurezza si basa sulla previsione di venire confrontata all’al­ tra e che si dica “Credevi davvero di essere in gamba? Illusa! Non vedi che è lei in gamba!”. L’ultima volta, a Firenze, ho notato che mia ma­ dre scherzava sulla mia gelosia per Lucia dicendo che non era ancora superata: una piccola rivalsa sulla figlia strafottente. Avevo l’angoscia di dovere essere la migliore per sentirmi al sicuro, non solo dal con­ fronto con Lucia, ma anche dai piccoli sadismi a cui può dare luogo in famiglia la figura di quella detronizzata. Come l’amante respinta, è meglio andarsene che rimanere lì, sotto gli occhi di chi indovina la tua umiliazione e gli fai pietà; poi, siccome la pietà non faccetti, gli fai rabbia, prova il bisogno di ferirti. Comunque, il confronto era ap­ pannaggio del padre nel senso del valore, mentre mia madre sempli­ cemente dava il latte a Lucia o la teneva in braccio al posto mio, e poi se ne era fatta la sua confidente perché era buona e io cattiva. Non una cattiveria tragica, da essere sbattuta fuori di casa, come sembra­ va interpretarla mio padre, ma una cattiveria che faceva passare la voglia di stare insieme. Simone mi ha sempre dato la certezza di amarmi perché ero io, non solo perché ero in gamba, sebbene me lo ripetesse spesso, ma appun­ to fuori da ogni confronto. Avevo la pace rispetto a lui. Mi conosceva in tutti gli aspetti, sofferenza e umiliazioni comprese, non avevo diffi­ coltà a rivelargliele dal momento che non mi avrebbero pregiudicato ai suoi occhi, anzi gli facevano tenerezza. Cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto Simone? E adesso se non avessi Sara? Mi hanno offerto il salvataggio al tempo giusto. In questo senso la mia buona volontà è stata premiata. Chissà perché Sara non riteneva veritie­

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ra quella frase, che “il soggetto non cerca quello di cui ha bisogno, ma lo fa esistere”. Lei, così com’era, non mi avrebbe potuto aiutare, però, nel gruppo che avevo formato, ha trovato il modo di diventare se stessa e di spingermi a esserlo. Così ho capito perché avevo fatto il femminismo: per fare esistere Sara così che lei facesse esistere me. Da quando ho capito questo, che Sara nascendo mi ha permesso di nascere, e siccome il rapporto fra noi è un andare sempre più lontano in una cosa che non ha fine, le altre mi riportano indietro, a seminare allusioni senza eco: questa è la principale ragione del mio isolamento attuale. Può essere pericoloso uno stretto rapporto a due, come di­ ceva lei l’altra sera, infatti il viaggio a Roma mi ha fatto sentire più autonoma, però è vero che lì avevo la sensazione di vedere più di quanto ero vista, mentre con Sara non ci sono esperienze che cadano senza risonanza. Semmai è un pericolo mio, non suo. Tutto quello che dice di me mi colpisce moltissimo. Per esempio, che sono furba, che ho il colpo d’occhio sulle cose. In realtà io ho pensato che furba è stata lei, fin da quando era piccola che voleva il pallone per sé. Io ero così in colpa se cercavo di tenere qualcosa, che ho preso a non calco­ lare, a snobbare. Se non avessi nemmeno avuto il colpo d’occhio sarei diventata masochista mentre non lo ero solo perché, rinunciando, mi sentivo superiore. Che mi restava da fare una volta costretta a spartire tutto con gli altri? Questo dello spartire, per me, la primogenita, era legge marziale. In effetti ero generosa, cercavo di risolvere le difficoltà in questo senso, invece Lucia non dava niente nemmeno in prestito e la mia generosità passava per distrazione, disamore alle proprie cose, trascuratezza intanto che gli altri ne approfittavano. Cara Lucia, mi chiedo cosa significano le nostre telefonate in cui non riuscia­ mo a scambiare niente da un’infinità di anni. Da quando mi sono resa conto del fatto che, qualsiasi cosa io possa dire che non sia la neutralità assoluta tu mi rimandi una chiusura che mi fa sentire in colpa come se ti avessi offesa, ho cercato di farti capire il bisogno che avevo di parlare con te. Non so se tu prori il mio stesso desiderio di dirti tutto, oppure se tendi a risolvere accumulando cataste di formalità o se questa è un’incapacità che ti fa soffrire. Comunque non ne verrà mai fuori un muro abbastanza solido da difenderci l’una dall’altra, non troveremo neppure l’indifferenza reciproca. In famiglia non abbiamo mai comunicato, questo lo sapevo, ciascuno nel suo punto di vista senza capire gli altri, paralizzato dai sensi di colpa. Quando ci sono tanti sensi di colpa è chiaro

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che si cerca anche di individuare il colpevole. Io mi sono accorta che il colpevole non c’è, e in effetti ho sempre sentito autenticità, anche se chiusura, in famiglia, contraddizione che creava dilemmi insolubili. Nell’ultima telefonata, appena ho sfiorato il tasto dei figli, ti sei irrigidita. Anche dopo anni di buona condotta da parte mia sei sull’avviso, e hai ragione: io sono sempre la stessa. Infatti vedo nei tuoi figli un ulteriore impedimento (dopo lo studio, il pianoforte, la lettura, il lavoro, il matrimonio, le traduzioni, la linguistica ecc.) ad avere “una stanza tutta per noi”. Non è mai successo: quando ci siamo viste a tempo indeterminato? La prossima volta vorrei vederti così, magari quando sarai un po’ libera. Quanto alle telefonate mi fanno sentire impotente e mi riportano a sensazioni del passa­ to: hai presente come si svolgono? “Beh, meno male”, “Speriamo”, “Beh, sono contenta”, “Mi sembra ottimo, no?”. Credimi, non posso più avere rapporti così. Dimmi cosa sono stata e sono per te, dimmi perché non ti interessa comunicare con me o perché non puoi. Dimmi perché rimandi all’infinito che avvenga un chiarimento, anche i fratelli ne hanno bisogno, per tutti è assurda questa parola d’ordine di tacere e fingere, tacere e incontrarsi, tacere e lasciarsi. Se tu stai bene così, se questa situazione è quella che ti corrisponde di più, è inutile fare come se stessimo solo rimandando per mancanza di tempo. In fondo io non ho mai potuto accettare come una realtà tua il fatto che tu non avessi niente da chiedermi o da dirmi, eppure ne abbiamo di passato in comune, non è stato uno scherzo. Quando mi ignoravi, come fai anche adesso che proprio non mi vedi in una stanza, hai lo sguardo che non ar­ riva a destinazione, mi dimentichi, prima lo sentivo come una condanna inferta deliberatamente, eri troppo assente, adesso so che è una difesa, un tipo di difesa come un’altra, da me, da altri, da tutto, ma chi può dirlo se non te? Eravamo due bambine diverse e ci siamo disturbate a vicenda, questo lo so, ma debbo togliermi il peso dell’incomprensione e del senso di colpa che mi dai.

28 gen. Quanto sogno in questi tempi! Stanotte ero angosciata con il ronzio continuo della lettera a Lucia nella testa, inoltre avevo l’im­ pressione di essere vincolata per la prossima settimana da impegni che non mi andavano. Non sopporto questi inciampi, voglio andare in campagna, adesso ho trovato Sara, il resto non conta. Voglio an­ dare in campagna, concentrarmi e basta; posso lasciare anche Sara, tanto è trovata ormai. Ciò che non era mai successo ora è successo. Sono in Sicilia e, avendo vantato la preziosità degli scritti contenuti nella mia borsa, degli operai di un ristorante mi hanno rubato tutto. Prima era arrivata

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Felicita con uno stuolo di femministe in una specie di gita domenicale, tutte allegre e cordiali, io ne avevo baciate molte e poi mi ero pentita perché mi era sembrata un’abitudine collcgata agli entusiasmi dei primi tempi e al mio ruolo di fondatrice. Sono disperata per i miei scritti, mi sento perduta; d’altra parte sono stata leggera a parlarne, a distrarmi per intrattenere le altre. Della gente si occupa di rintracciare gli operai, io non ci faccio assegnamento. Passa una mac­ china con Simone e dei notabili, credo si fermi a prendermi, invece prosegue a gran velocità senza nemmeno accorgersi di me. Al proprietario del ristorante avevo detto di essere la moglie dello scultore per cercare di attirare la sua atten­ zione. Poi, passandomi una mano sulla fronte, gli dico “Non mi darei tanto da fare se fossi sicura di sognare, ma lo sospetto soltanto”. Felicita graziosissima ed elegante tra le femministe un po’ vecchiotte. Sono distrutta per gli scritti rubati, in più non riesco a calcolare esattamente cosa è andato perduto e questa lacuna mi tormenta.

Ho deciso che non risponderò al telefono questa settimana, chiamerò io. Sono già più serena: non è possibile sentirsi prenotate, fare lo sforzo e sapere che è inutile, che lo faccio per l’altra. Certo, non dovrò pri­ varmi di avere degli slanci verso qualcuna, se mi viene così. Andare in campagna è anche scappare da tutto, da chi si aspetta delle cose da me o ha delle cose da dimostrarmi. Non per sempre, naturalmente, ma per ora. Quest’anno non ce la faccio a stare a Milano: prima c’erano gli amici, il lavoro, poi il femminismo. Adesso sono sola, libera. Vo­ glio incontrare la gente a partire da come sono senza dovere demo­ lire come ero, come mi vedevano. Tito ha detto “La campagna sa di smobilitazione, è triste”. Vedremo, può essere un ramo per un uccello. Mi alzo di notte e cammino nella campagna calpestando l’erba annusando e respirando l’umidità. Provo con un piede nudo sulla terra. All’alba sono su un colle e guardo la luce che si alza aH’orizzonte. Sono la sola abitante della terra e mi riposo di ogni contatto con gli altri. La pioggia mi cade addosso la nebbia mi avvolge

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brillo dappertutto insieme al sole la notte mi riporta su di me.

Simone mi rimprovera di averlo escluso (e anche angosciato) durante questi anni di femminismo. Gli ho risposto che sono grata alla crisi che Sara mi ha aiutato ad avere: non era facile per me andare in crisi ve­ ramente: un uomo non ce la faceva con le mie autodifese e le donne si inferiorizzavano. Anche lui può ritenersi fortunato che ha avuto in me l’occasione a una crisi, però mi pare che, non essendosene reso conto, l’ha avuta a metà. D’altra parte io mi ero fatta l’idea che lui era molto forte dato che reggeva il colpo senza sottrarsi né volere recuperare. E lo attacco quando mi sembra forte, se non faccio così sta chiuso in se stesso e mi appare sempre più tetragono... E inutile che lui mi propon­ ga di andare a Roma e cercare un appartamento in città, non sarà su questo invito che andrò a Roma: se scopriamo di avere più bisogno di stare insieme in questa fase, sarà ovvio che mi deciderò, altrimenti continuerò come prima che era la stabilizzazione esatta appunto re­ lativa a prima. Quando vado a letto rientro nel clima del sogno della notte preceden­ te. Ho la sensazione di avere due vite parallele piene di echi, rimandi: come vivere a due profondità la stessa cosa. Tant’è vero che mi piace moltissimo scrivere i sogni senza interpretarli, perché sono evidenti così. 29 gen. Nelle lettere di Cesare ho ritrovato l’ossessione tutta maschi­ le di non potere accettare il susseguirsi degli “stati d’animo”, cioè la contraddittorietà dei sentimenti, delle credenze. Mi rimproverava di dire troppe cose in contrasto le une con le altre, perciò “superficiali”. Adesso ritrovo la mia superficialità, e capisco che la coerenza a cui lui mi spingeva era una prigione, ecco perché detestavo tanto la “profon­ dità” degli uomini. Però lo stesso ho cercato di trovare una coerenza in quello che mi passava per la mente o che sentivo. E la coerenza si trova così: esprimendosi (accettandosi) soltanto quando ci si è spe­ rimentati già coerenti. Quindi è l’identificazione con un filone di sé a scapito di tutti gli altri che rimangono compressi, e poi non danno pace. Insomma, proprio nel momento in cui provavo il bisogno di comunicare, con Cesare, lui mi insegnava a tacere e a costruirmi se­ condo certi schemi. Infatti è durante il rapporto con lui che ho preso delle decisioni astratte di comportamento e di scelta eli valori.

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27 apr. 1950. Eliminare ogni atteggiamento vittimistico. Parlare poco. Dire cose necessarie. Niente scatti d’ira. Niente gesti affettuosi. Niente espansività. Assoluta sincerità di opinioni. Disporre delle mie giornate e del mio studio indipendente­ mente da Cesare. Espressioni corrette. Evitare ogni mancanza di controllo. Te­ lefonate brevi. Niente pettegolezzi anche nella forma più ingenua. Tutto senza ostentazione. Niente tentativi acidi di spirito sulla mia condizione, né d’ironia. Studiare con metodo e costanza.

Per la verità quella dei buoni propositi è una risorsa che risale a molto tempo prima, forse all’epoca del collegio. 27 gen. 1945. Io da oggi voglio dormire al massimo nove ore e appena alzata devo stirarmi voluttuosamente ed energicamente. Voglio essere sempre pulita e in ordine, voglio parlare sempre educatamente e con disinvoltura, e non fare cose volgari. Questo è il mio programma e con questo annullo quello già fatto e non mantenuto.

Mi dispiace che Felicita non mi cerchi, temo che la confessione del mio tradimento l’abbia spinta ad avere delle ostilità per me. Al tele­ fono ho fatto dire da Tito che sono a colazione fuori, e adesso provo del rimorso e mi sembra di essermi privata stupidamente di qualcosa: sono appena le 3 e la giornata mi si prospetta vuota. Invece alle 3 e mezzo verrà Paula, andremo insieme dal cartaio, poi ci sono i col­ loqui a scuola con le insegnanti di Tito. Anche stasera sarò stanca. Escogito di partire giovedì, se non mercoledì per Firenze: ho un biso­ gno assoluto di andare a casa dai miei. E poi in campagna. Non me la sento di occuparmi di niente: ho lasciato la macrobiotica perché mi fa fatica andare a comprare da mangiare in posti lontani, la casa mi sembra precaria e non so dedicarmici, anche il mio aspetto non mi sollecita più, basta con le creme la sera, con le occhiate indagatrici allo specchio. Gli unici momenti intensi li passo qui, sopra il quader­ no. Sono contrariata di non sapere a chi lasciare Tito quando andrò in Sicilia e non mi consola pensare che forse è l’ultimo anno dato che Tito cresce: no, sono vincolata adesso. Tra i miei fogli ho trovato una lettera a Irene a Buenos Aires del marzo ’72 dove indago il mio passato e ne viene fuori un quadro abbastanza ricco, mentre nel gruppo ho cominciato a parlare un po’ di me, davvero, a settembre. Dunque anch’io lì ero bloccata. Il bello

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è che non mi ricordavo affatto di avere scritto quella lettera, che poi non ho mandato (come quasi tutte le mie lettere). Paula mi fa sentire nervosa quando ho qualche problema, prende tutto con una tale calma! Con Sara non ho bisogno di definirmi “Ho questa delusione, ho questa incapacità che mi rende ansiosa ecc.”, basta che si parli un po’ e si entra in argomento, io stessa scopro cosa diavolo ho che non sapevo. Invece con Paula mi comincio a scusare di essere nervosa e lei cerca di minimizzare. Le ho detto che ho bisogno di stare un po’ fuori, di non pensare a niente, figlio, casa, e lei mi ha rispo­ sto “Certo, quest’estate non hai fatto neppure una vera vacanza”, che riportava la causa a un dato esteriore, anche se era un’osservazione affettuosa. A lei piace parlare di Rivolta, la tranquillizza, la incoraggia. Oggi ha tirato fuori un problema di carta intestata, abbiamo finito per parlare della fondazione di una casa editrice, e lei sognava quante don­ ne avrebbero potuto cavare dai loro cassetti qualcosa e darcelo. Sono momenti molto evocativi, come tra due ex-compagne di collegio, ma non abbiamo un vero presente. A lei piaceva quell’aria in gamba che avevo prima, una specie di “arrivano i nostri” donna, e mi sembra che non sia contenta di vedermi sotto un altro aspetto. Mi ha fatto com­ prare un libro, di Sylvia Plath, una poetessa suicida, La campana di vetro. L’ho appena scorso e ho pensato che non sarebbe morta se, invece di fare la scrittrice, avesse semplicemente scritto di sé per liberarsi. Perché Paula non scrive? E ancora la sfoggezione culturale che la trattiene? Com’è che non si spappola stando la mattina in libreria e il pomerig­ gio in galleria? Certo che spesso è incline alla distrazione, al chiacchie­ rare svagatamente e piacevolmente, e non c’è, non risponde. Se lei non vuole o votole fino a un certo punto, non posso volere io per lei. Scrivo troppo, tante minuzie diventeranno illeggibili. Sono di nuovo piombata nelle difficoltà: mi accorgo di ostacoli, tentativi abortiti. Al­ lora mi viene anche paura di vedere le altre e di constatare che siamo troppo lontane e d’altra parte io non posso fare niente per loro: lo so e in più lo constato. Lucia è attaccata a Rivolta, non ammette che ci siano equivoci che la sminuiscano, dunque crede nella sua autenticità, anche se allora l’ha negato. Ma perché non parla, perché? 30 gen. Stanotte non ho sognato, non ho avuto l’impressione di so­ gnare. Peccato, è una delusione. Mi sono svegliata presto, è il bel tem­

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po che mi impedisce lunghe dormite, e l’essere vicina alle mestrua­ zioni. La situazione con Lucia è precipitata: una telefonata innocente si è conclusa con lei che ha abbassato il microfono. Solo perché dice­ vo che non do un’importanza primaria al tipo di insegnamento nella scuola. Ecco la crisi che desideravo. Anzi, è strano che si sia verificata proprio adesso. Le ho scritto una lettera, e la giornata è trascorsa. Mi ha ritelefonato lei per chiedermi se avrei visto Juliet Mitchell che ver­ rà a Milano. Ho detto no, è una studiosa, non mi interessa. E poi non so l’inglese, non me ne intendo di roba anglosassone. Ma è proprio una fissazione infantile, una reverenza mitica questa di mia sorella per le inglesi, quelle della new-lejì. Poi Juliet conosce suo marito e glie­ ne ha detto un gran bene. Lucia lega tramite la cultura oppure nella cultura o monta le inferiorizzazioni, come tutte. Ma è proprio inge­ nuo sacrificare così la sua vita a un piccolo mondo, quasi inesistente, di eletti! Beh, è nella stratosfera. Vorrei che scendesse, lo vorrei tanto! Sorella, dove sei, sorella mia? Stai suonando il pianoforte o traduci Platone? Dai la pappa alle bambine o giri nei negozi tutta assente? La gonna che hai comprato non ti piace? Sei indecisa sul colore? Comincia il concerto, scade l’appuntamento, parte il treno, arriva un’amica da Londra, amica di Sandro. Mi aspettavi? Ah, hai da fare. Ti trovo pallida, però vedo che mangi. La grande interrompe sempre, idem le piccoline. Rispondi proprio a tutto? Non trascuri niente di loro? Vuoi che siano felici con la mamma più straordinaria tutta per loro? Ti basta essere madre straordinaria? E come sorella, amica e tutto il resto? Perché abbassi il telefono? Non hai sofferto abbastanza di solitudine?

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E io? Mi conosci? T’importa? Ci conti? O non fa niente... Taci, anzi parla.

31 gen. Sono in una grande stanza con tanta gente. Dei tipografi in gruppo mi

spiegano problemi di stampa, costi ecc. In tutto quel putiferio Sara mi chiama: è seduta a un tavolo e scrive. Mi chiede cosa vuole dire una parola. Faccio fatica a sentire e poi sono sul più bello di una transazione, li ho convinti. La interrogo “Come? Come?”. Poi afferro: è una parola tedesca. Per fortuna rispondono i tipografi e altri nello stanzone: “Rischiano Roma”. Vorrei controllare, però vedo che sono tutti d’accordo senza dubbi. Penso che una casa abbia più stanze, un paio di più, invece arrivo subito al ter­ razzo e di lì vedo, tra due alti parapetti, una striscia di acqua verde chiarissima, ma un po’ in discesa. L’acqua è stupenda, trasparente. Dei ragazzini vanno dentro, io no perché mi sono arrivate le mestruazioni.

Trascrivo alcune frasi volanti omesse dalla lettera a Lucia. Non posso venirti incontro se tu non mi dai un cenno, non ho nessuna intenzio­ ne di continuare a fare la sorella maggiore che indica la strada alle altre, posso capire che questo mio ruolo sia stato odioso ai tuoi occhi, ma finché non ti parlo di me vedrai sempre solo quel lato, così come di te vedrò sempre e solo il lato frenante. Se ti ho detestato è perché ho sentito in te il dubbio che ci fosse un aspetto diso­ nesto nella mia vita per quanto ti sei scandalizzata di me tutto il tempo. E un linguaggio indiretto quello con cui cerchiamo di fare passare le nostre scelte o propensioni: sperando che l’altra non se ne accorga abbastanza da schie­ rarsi contro, ma abbastanza da rimanere colpita. È un gioco assurdo, molto raffinato, ma nella sostanza un corpo a corpo. Perché negarlo? Sei speciale per organizzare situazioni in cui ogni apertura sia impossibile: nem­ meno da pensare incontri senza le bambine, i mariti muti o il cinema. Già è difficile, così è escluso. Come all’epoca della mia gelosia da piccola volevo trasformare una privazione in una rinuncia volontaria, come all’epoca di Cesare volevo trasformare una mia sconfitta in una mia generosità. Se fossimo arrivate a parlarne insieme tutto si sarebbe chiarito e perciò dis­ solto. In fondo è qualcosa di remoto anche per noi ciucilo che ci impedisce di sbloccarci.

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Qiiando hai scoperto cos’è “meglio”, arriva un finale a sorpresa. Lì sono rimasta sconvolta, ma ho anche detto “Finalmente!”. Questo passaggio non è comunicabile a chi non l’ha provato. Al telefono Lucia aveva la voce molto disponibile. L’ho intravista com’è, per un attimo: è una ragazza spaurita che vuole, teme, si ritrae. Non le mando la lettera visto che abbiamo deciso di incontrarci. In bagno canterellavo “C’era una ragazza molto strana che si chiama­ va Rossana” e sentivo come nei sogni che lì si rivelava lo stesso senso, o mancava lo stesso senso che altrove, che in tutto. Paula mi ha salutata con “Vieni a prendermi in libreria”. Ci sono an­ data tutta contenta, ma il commesso ha detto “Non è ancora arrivata, forse non arriverà”. Accidenti, mi succede sempre la stessa cosa: che do significato particolare a richieste che gli altri fanno con la cordia­ lità del momento, poi non ci pensano più. Cos’è questa impressione che mi porto dietro, che io sono scettica perché sennò sarei troppo credula? Dico “Beh, non gliene frega niente!” altrimenti rischierei di credere che sono la loro vera fiamma. Non potevo capire come Sara trovasse così illuminante una frase che le avevo detto un giorno “Sei sposatissima”. Ma lo stesso era successo a me quando Ester aveva osservato a bruciapelo “Dopo tante soffe­ renze nell’infanzia e nell’adolescenza, ti credo che avevi diritto a un po’ di felicità!”. Mi ha telefonato Claudius: sono passati due anni, li ho sentiti. Una folla di sovrimpressioni, poi la mia vecchia reazione, una specie di umore di fondo, come dire “So”, con delle sortite veloci e poi una risatina così, un po’ fumogena, un po’ rivelatrice. Quando mai avevo creduto di potermi esprimere! Allora perché in passato parlavo? Tan­ to valeva stare zitta come Agata. Claudius ha degli automatismi di fronte alle situazioni: a lui piace fare dello spirito. E che ti vada o non ti vada è così. Adesso però sono cosciente che è una sua difesa, anche prima lo sapevo, ma allora avevo stima delle difese, non avevo capito che tengono prigionieri anche gli uomini. Però molte cose filtravano e diventavano allusioni di cui i nostri discorsi erano pieni. Questo affidarsi ai sottintesi, volente o nolente, era bisogno di comunicare, o traboccare, non so. E certo che le allusioni non liberano perché non chiariscono, è come rinunciare, oppure no, è come rimanere a metà. Ti abitui a non avere risposta, né contraccambio, né risonanza, ti abitui a intuire solo se l’altro ha ricevuto. Ma a volte le allusioni

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ti sovrastano, non puoi più fermarle, e allora hai la sgradevole im­ pressione di avere svelato troppo, ma nello stesso tempo ti sembra niente perché cadono una a una, come uscite inopportune. Succede che, per maggiore sicurezza, l’altro svii l’argomento. E curioso che quando penso a Claudius non lo penso come artista, ma come indi­ viduo mentre lui parla solo di quei problemi e di quell’ambiente. Può essere anche la timidezza, però che spavento! Voglio dirglielo, mica posso ricominciare così. Anche sua moglie parla molto di faccende artistiche o di mostre. Poi di malattie, di morti e di disgrazie. Vorrei che fosse curiosa di scoprire cosa c’è dietro queste metafore, e me lo confidasse. Chissà perché rientrando nel mondo mi sembrano tutti sull’orlo di scoppiare. Claudius è presuntuoso, ecco: come potrebbe essere diverso dal momento che gli altri tacciono. Un pericolo che ho intravisto parlando con sua moglie è che le amiche che non sono state nel femminismo mi prendano come consulente femminista op­ pure come una che bisogna intrattenere da femminista. Anche que­ sto devo dirlo. 1 feb. Un po’ nascosto, ma non abbastanza perche mia madre non lo veda,

Pino - di taglia enorme come Anthony Quinn nel film di ieri sera - mi abbraccia e quasi mi schiaccia. Mi ama, vuole sposarmi. Io sono d’accordo, mi piace, ovvia­ mente. Mia madre cerca di dissuadermi e mi propone Fausto. “E tanto buono”, dice. “E malato, però;” osservo io “l’avevo cercato, infatti”. Poi, per la verità devo ammettere “Pino è morto”. E mia madre “Vedi...”. Allora io commento “Avrà lascialo qualcosa d’irrisolto sulla terra”. E penso che sono affari suoi come fare a presentarsi in carne e ossa alla cerimonia. Sono commossa da questa difficoltà di cui lui non mi ha fatto cenno, e strano che io non ci abbia pensato. Mi trovo sdraiata su uno dei due letti uguali nella mia camera di ragazza in via Masaccio a Firenze. Sull’altro letto c’è un tipo magro con occhiali per la lettura. Prima lo vedo come Cesare, poi come Raffaele. Non so di cosa discutiamo, forse di cose rimaste in sospeso fra noi. Viene un’infermiera e lui cerca di conquistar­ la, furtivamente. Ma appena sta per andarsene, inforca serio gli occhiali, però tradisce l’emozione sbattendo leggermente la testa nel muro come uno che non ha calcolato bene le distanze. Il mio materasso è tutto di traverso, e lui non mi dice niente, se ne frega. Intanto penso che è sfrenato eroticamente l’estate, poi è stanco e depresso in autunno e inverno, poi di nuovo comincia a essere travolto dal sesso.

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Vado a trovare Rita, la mia amica del ginnasio-liceo, nella sua vecchia casa, quella dove ci vedevamo da ragazzine. E contenta della visita, però la trovo diversa da come la conoscevo allegra e cordiale. Ora è evanescente, sognante. Stiamo bene insieme, guardiamo dalla finestra qualcosa di eterno, di magico, di nostro. Arriva sua madre e mi sgrida perché sono stata tanto senza farmi vedere, io però le prendo le mani e cerco di abbracciarla. Senza vedermi passa una vec­ chia donna di servizio un po’ arcigna, ma io le corro dietro e le porgo la mano, mi faccio riconoscere. .Alla fine c’è diversa gente, anche uno o due bambini. E un po’ come visitarli nell’al di là, tutto sereno e apparente. Guardo dalla finestra quel qualcosa —paesaggio? strade? case? —di bianco, di luminoso e immobile.

Svegliandomi stamani ho pensato che sarebbe giunto per me il mo­ mento di vedere Agata la silenziosa. C!e un quid che lei conosce mol­ to bene. Come ho bisogno di te, “caro quadernino”. Cos’è che mi ha dato disagio quando Paula e io abbiamo incontrato Matilde con il marito? L’imbarazzo di Matilde e la disinvoltura con cui l’ha coperto mentre parlava d’altro; il tono di voce di Paula, mondano, mentre si stringeva addosso il cappottino di peluche giaguaro con un gesto di repertorio. Mi sono sentita goffa come una minorenne. Ho provato la stessa sensazione di quando, all’uscita dalla scuola, si parlava tra compagne, poi compariva il ragazzo e non era più come prima, tutto suonava leggermente falsato. Capisco Agata che si ritira dal mondo, tace e si astrae. Inutile illudersi, e io sento che mi sforzo a trovare delle affinità in Paula, per esempio, mentre è così diversa da me, si perde continuamente e proprio questo sembra riposarla. Non andrò più in quella triste libreria di donne. Ho voglia di scrivere una lettera a Ester, ma non di mandargliela. Cara Ester, la tua telefonata mi ha fatto uno strano effetto. E vero che mi chiedi sempre di me, ma hai la mente così occupata di problemi che è difficile rispon­ dere. Ecco in questo sei cerebrale, come dire con il cervello già stipato. E per qualche motivo mi sembra sempre che tu mi chieda di darti una mano a mettere in ordine. E una necessità così impellente la tua che poi mi sei veramente grata, mi coccoli, mi lusinghi. Sull’esempio del nostro rapporto mi sono comportata nel gruppo e vi ho svolto le stesse mansioni, ma ho capito che è stato anche sulla insoddisfazione del nostro rapporto che ho fatto il femminismo. Perché mi vole­ vo liberare di questo ruolo e non ci riuscivo. Il rapporto con te mi dava, se non rispondenza, almeno consenso, il piacere di esserti utile, di esserti alleata e di

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avere un'alleata. Ti stimavo, ti trovavo buona, onesta, allegra e con un carattere da cui sprizzava quello che temevo di non sapere dimostrare, cordialità e fiducia. Non mi davi senso di colpa e questa è la cosa che mi faceva più bene. Cercavo di assorbire il calore della tua espansività che prima ho mitizzato di giorno e poi detestato di notte (ricordi i miei sogni a Venezia?). Comunque fosse però, non mi lasciava posto, e dopo diversi anni ero ancora sconosciuta a me stessa in quanto mi davi per scontata, mi avevi già capita e mi apprezzavi tanto. Sei stata delicata con me, è stato bello, bellissimo conoscerti, esserti amica, avevo bisogno di un incontro così per maturare, per uscire dal monopolio maschile sulla mia vita. E mi sei piaciuta molto come persona: anch’io avevo bisogno di te, ma tu eri così generosa da fare apparire maggiore il tuo bisogno e così mi rassicuravo. Tanto più che il mio restava in parte inappagato: non era questione di comportamento, la tua frettolosità trapelava, e adesso capisco che deriva dal sentirti tu piena di problemi. In fondo ero anche credula di fronte al fatto che tu fossi più bersaglia­ ta dal destino; mentre mi apparecchiavi davanti agli occhi un universo che mi commuoveva e mi faceva sentire partecipe, potevo immaginarmi più fortunata. Oppure mi veniva senso di colpa e mi vergognavo del mio benessere quando ne avevo, però non ne avevo così tanto quanto il tacere le mie sofferenze mi dava a intendere. In più, non comunicare mi dava un malessere che non sapevo motivare. Razionalmente poi io sconfessavo, andava tutto bene. Da quest’estate ho riflettuto tanto su noi due, probabilmente da quando ti ho visto con tua so­ rella a Palermo e in settembre mi sono detta “Meglio stare lontane per un po’, rischiamo di compromettere l’operazione.” Però, al solito, quando ti ho visto a Roma la tua mente era occupata, potevo dire “Me l’aspettavo”, ma non del tutto, qualcosa sarebbe dovuto succedere, secondo me, e invece niente. Il mio rapporto con te lo misuro sulla rispondenza che troviamo al momento, se non c’è è inutile giustificarsi per le conseguenze. Finché tu non mi dai la sensazione di volerti vedere come sei, io non posso mostrarmi come sono. Dopo la seconda telefonata Ester, nessuno ti accusa se tu non ti accusi nessuno pretende se tu non pretendi nessuno dubita se tu non dubiti nessuno si stanca se tu non ti stanchi. Chi vuole le tue bravure? Per chi sei cerebrale? Chi può capirti a volo se tu non voli?

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Tu non sai niente per ora ecco il finale a sorpresa non lo conosci. Questo l’ho capito sul divano che dubiti di te incessantemente e parli incessantemente per difenderti mentre io tacevo per difendermi. In questi casi sono impotente come prima solo mi è chiara la ragione. So perché dici “Sì anch’io” mi sembrava un vezzo invece è la tua paura adesso non puoi dire “Sì anch’io” guardami l’ho provato ma non puoi dirlo sei sull’altra sponda. Io ti avevo già lasciata quando ti ho vista a Ponte Milvio finire distratta la serata in cui finiva l’amicizia.2

2 feb. Sono di nuovo sul treno Milano-Firenze. Una sensazione quan­ do parto è questa: mi sembra di viaggiare verso le persone che ho lasciato dal momento che mi è dispiaciuto tanto lasciarle. Tito, per esempio, mi viene una stretta al cuore, gattino. E un riflesso materno: ho assimilato fino in fondo che dipende da me e non me ne posso dimenticare. Stamani ho svegliato Sara, non sapevo che fosse tornata, così ho pre­ so il treno seguente, ma siamo state insieme poco rispetto a quello che volevamo dirci. Io avevo da smaltire tutto il disagio che Lucia, Paula, Ester mi avevano fatto ingoiare. E bastato accennare a quanto era successo: “Vedo che ti tormenti” mi ha detto Sara, così, come una constatazione e già mi sembrava leggero quel tormento, lo tendo a cogliere le difficoltà episodio per episodio, mi viene da ribattere, ma è inutile, l’altra non può capire. A Sara non mi è mai successo di attribuirle delle colpe: se l’ho avuto, questo stadio, mi sembrava comunque assurdo pensare che fosse obiettivo e impugnabile. Potevo sentirlo come un problema mio, una vergogna in più, un dibattermi

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per scagionarmi da qualche sensazione di impotenza dentro di me. Invece Ester trova modo di attaccare e di riversare la colpa sull’altra; io volevo scoprirmi innocente e avevo bisogno di una Sara innocente. Ieri al telefono, mi irritava che Ester perdesse la testa anche se non arrivava a impaurirmi. La vedevo irragionevole, infida, capricciosa. Come una che affoga, si aggrappava a me per tirarmi giù ora che capiva che non l’avrei aiutata a riconciliarsi con se stessa. Se la piglia­ va con me perché l’avevo fatta parlare l’ultima sera a Roma, non si ricordava più che moriva dalla voglia di farlo. Per me quella è l’abie­ zione, un modo infantile di fare fronte all’angoscia. Sono a Lione: scivolo su una rete metallica lungo delle strade in discesa. Mi dà una certa ebbrezza. La città mi è sconosciuta e devo andare al Museo d’arte moderna. Non ci arrivo, non lo identifico. In un night c’è una donna che, facendo l’indipendente, è in realtà servizievole. Non si rende minimamente conto della sua situazione.

E passata Parma: già mi sento più lontana da Tito e comincio a pre­ gustare la presenza di mia madre. Ciò di cui ero più orgogliosa come manifestazione di me: le poesie, la critica d’arte, clitoridea e vaginale, il gruppo. E me ne sono distacca­ ta. Sono molto delicata nei rapporti con gli altri, e non c’è da illudersi che con il passare del tempo vada meglio. Quanto scrivo! Un disastro, non faccio altro. Come da una barca con una falla bisogna continuamente buttare fuori acqua, così da me se non voglio restare sommersa, devo buttare fuori tutto quello che mi turba. La mia emotività è in ebollizione: questo non avere avvenimenti che bilancino nel presente il continuo scontrarsi con figure emergenti dal passato. Nel presente ho Sara, adesso mi attrae la possibilità di inna­ morarmi di qualcuno e tirarlo qui. Piove piove o è grigio. A Firenze mi taglio i capelli e passeggio per la città. Quando ho scritto Sputiamo su Hegel volevo dire “Sara, vieni fuori, te e quelle come te, perché possa sputare questo Hegel che ho dentro di me”. Sono stata molto sgridata da bambina così ho fatto una gran confusione su quelle che erano le mie vere reazioni. Ho un bel negar­ lo, ma non sono sicura di avere il diritto di dire qualcosa a un altro nel timore di essere annebbiata e resa ingiusta dal risentimento. Non

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mi resta che accettare questa parte di risentimento come una compo­ nente naturale dei rapporti. Mi sento come una pupilla al variare della luce, sono un continuo dilatarmi e restringermi, non conosco la fissità, l’indifferenza. Nicola mi ha detto “Tu pensi che anch’io ho il mito di architettura”. Non ho risposto: non sono io a pensarlo, è lei. 3 feb. Che bello svegliarsi nella propria casa come una figlia unica con i genitori! Ieri la mamma ha parlato fino a mezzanotte e senza eccitarsi come fa sempre: in mezzo a un’infinità di racconti e osserva­ zioni su altri, i suoi temi: la mancanza della madre, la rinuncia all’in­ segnamento, una vita senza gioventù, l’abbandono dei figli, la soli­ tudine, la vecchiaia. Stanotte ha dormito benissimo, tutto un sonno. 4 feb. In treno da Firenze a Roma. Che felicità, che estasi passare in una campagna così luminosa, sotto un cielo terso invernale! Già stanotte il buio era pieno di stelle e l’aria pulita dalla tramontana fa­ ceva prevedere una giornata eccezionale. Mi è dispiaciuto lasciare la mamma; stanotte non aveva riposato bene, stamani la sua angoscia trapelava in ogni gesto. Per me è come andare a trovare una prigio­ niera: del marito, di se stessa, del suo passato. A volte mi chiedo se valga la pena disturbare le sue abitudini, ravvivarla e poi piombarla nello sconforto partendo. Mi ha detto che sarebbe stato bello andare al Piazzale insieme e il pomeriggio al cinema, stavo per assecondar­ la, poi mi sono detta che domattina sarebbe stato lo stesso, in più le sarebbe venuto il rimorso per Simone. Non si può fare molto per gli altri, per mia madre niente. Si è lamentata dei figli con me, come al solito: questa volta ce l’ha con Adolfo per la questione politica, e sragiona proprio, tra Vietnam e il resto, lei così sensibile nella vita privata diventa stranamente crudele quando si tratta di politica. Fa soffrire sentirla così, eppure esprime una sua frustrazione, nient’altro. Ma questi poveri figli che da lei sanno solo di averla delusa! Mio padre ha il suo lavoro, e alla fine ha capito che i figli sono più accessori di quanto sembri, ma per questa strada anche lui non si interessa di niente che ci riguardi. Farli felici, o cercare di non essere per loro un motivo di insoddisfazione è un miraggio. Bisogna che accetti questo dato di fatto senza illudermi di poterlo modificare. Ho suggerito a mia madre di scrivere un po’ di diario, chissà se mi ha ca-

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pita. Fino da piccola è stata investita del ruolo materno con i fratelli, ha fatto sempre la madre, così si è sacrificata, si è annullata. Anch’io da sempre mi sono sentita sorella maggiore, adesso mi sto staccando da questo compito e capisco che deformazione era per me. L’aspetto irrimediabile della famiglia è che ciascun ha un ruolo. Ho parlato a lungo con Adolfo: essendo l’ultimo, tutti abbiamo pesato su di lui: le sorelle in gamba, il fratello bello, i genitori delusi. Forse proprio per questo desidera tanto la solitudine, perché tutto lo opprime. In questi ritorni a casa mi accorgo su quale senso di isolamento, di incomunicabilità poggiava la mia ribellione. Ieri ho passeggiato con mio padre: prima sono stata all’officina che non vedevo da tanti anni. Nel piazzale dove avevo giocato da bambina ora c’è una costruzione enorme, nuova, che sovrasta l’officina. Dentro mi è sembrata sempre bella, il capannone di 20 metri per 10, alto un’altra decina di metri, e poi i locali attigui per verniciare, per imballare. Entrando nel capan­ none, lo stesso odore di metallo e di macchine oliate di una volta, la trancia dove un ragazzo aveva perso due dita quando ero bambina, la stufa a carbone con un lungo tubo. L’ufficio di mio padre angusto e pieno di polvere, la tana di un piccolo artigiano di una volta: chi potrebbe pensare che è abituato a vivere in un bell’appartamento pulito, con grandi finestre, quadri, spazio e un ordine quasi conven­ tuale? Nel lavoro mantiene le sue origini, i suoi bisogni e i suoi gusti di allora. Lavora ancora in officina con una specie di gabbanella da operaio. Ha settantotto anni. L’officina mi ha sempre affascinato e l’ufficio mi ha sempre respinto, così come mio padre mi affascinava e mi respingeva. Mi conquistava il mito proletario, unico possibile nella mia famiglia, mi disgustava la realtà proletaria. In casa, il miscuglio di piccola borghesia e di proletariato era da spararsi. Di sicuro non si poteva guardare la realtà in faccia. Dopo l’officina, a San Domenico, in collina, una meta di sempre. Ho voluto fare uno spuntino: nel nego­ zio papà mi trattava come una bambina che mangia la merenda, per lui non sono cresciuta veramente, gli piace fare il babbo con me, e il babbo in generale. Adi diceva ‘Attenta che ti cade il formaggio” e poi commentava l’appetito. Però, quando abbiamo cominciato a parlare, non accettava quello che dicevo e io esageravo perché sapevo che non sarei stata capita. S’irritava subito, perché non vede lati umani se non quelli essenziali di lotta per la vita che lui conosce e di soddisfazione per essere riuscito. E la famiglia. Tutto il resto non lo riguarda.

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A Roma. Simone non mi dà nessuna eco, specialmente all’arrivo è distratto dalle sue cose. Capisco che prima, dopo avere parlato di me, potevo anche pensare di non essere riuscita a tirare fuori niente di interessante, solo umori senza senso. Piuttosto sulle idee avevo riscon­ tro, così mi immaginavo che esprimessero e valessero di più. Final­ mente, verso le 11, siamo entrati in contatto. Nel dopoguerra lui si è sentito tipico di una certa situazione ottimistica e costruttiva, e ne ha fatto un’ideologia. Poi ha subito e vissuto piano piano la sconfitta di quelfentusiasmo. Per fortuna nella mia vita alle sortite teoriche è subentrato ben presto qualcosa d’altro, non ero sola, mentre Simone è solo; in più, non avendo avuto sufficientemente risonanza via via che lavorava, è rimasto con il suo passato addosso. Mi ha detto alla fine che lui non è per spogliarsi, come gii pare stia facendo io, perché all’origine non si sente affatto un tipo ricco di euforie, ma un “pulcino”. Ha adoprato proprio questa parola. E evadente che non vuole tornare pulcino. Abbiamo parlato a cuore aperto e poi abbiamo fatto l’amore. Esco dalla ricca casa della signora Argenti lasciandoci suo marito, e insieme prendiamo la macchina, e via. A un tratto sulla strada ci imbattiamo in una larga fessura, di circa un metro, che lei vuole superare lanciando la macchina. Io non ci sto, scendo e mi appresto a fare un giro a piedi passando da un ponticello per raggiungerla al di là. Ma ecco, vedo che nel fare il salto avviene un incidente: lei cade fuori dalla macchina che le passa sopra lentamente. Chiude gli occhi e ho l’impressione che muoia. Ma io sono salva. Esco dal letto e guardo dentro, tocco: ci sono delle macchioline di sangue. Ho paura che mia madre mi sgridi di averle sporcato il lenzuolo con le mestruazioni.

In effetti, fuori dal sogno, mi aveva detto di stare attenta. Andare da un certo sarto, amico di Simone, mi fa sentire in perico­ lo: ho timore di quei vestiti per ricchi che possono farmi sembrare diversa da quello che sono e togliermi anche l’immagine a cui tengo e in cui mi riconosco. Poi mi piace essere sentita simile dai simili, e certamente sono più simile a chi non porta quei vestiti. 6 feb. Abbiamo pianto tutt’e due, Nicola e io, senza vergogna. Ve­ devo dissolversi ai suoi occhi piano piano l’immagine di una sorella

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eccezionale mentre io avvertivo la primogenitura come un capo di accusa e un motivo di espiazione. Mi sono chiesta “Che significa? Per caso mi sento ancora in colpa?”. Sono sofferenze brevi, residui di qualcosa, sotto sono calma. Soffro perché vedo proiettata in Nicola la mia situazione di qualche tempo fa e so che soffre, e sono turbata perché, mentre cancello la mia immagine dentro di lei, non so cosa prova verso questa nuova sorella che le appare. Sono, con un’altra ragazza, su un’automobile guidata da un tale. A un tratto il tipo scende e l’auto comincia ad andare indietro a gran velocità. Sono preoccu­ pata soprattutto che vengano messi sotto dei bambini, della gente. Finalmente quel tale sale di nuovo, acrobaticamente, in macchina e la caduta del bolide si arresta. Ricomincia la marcia in avanti.

Sono a Roma e non telefono a Ester. E presumibilmente faticoso farlo e non ho voglia di affaticarmi. Sono seduta al sole con uno scialle sul­ la testa: gli uccelli cantano, le mimose sono fiorite, i cani si riposano dalla guardia di notte. Mi piace respirare. E un piacere che si identifi­ ca a momenti con il piacere di vivere. Qui l’aria è pura, di campagna. Allontano da me i doveri, le ansie, i progetti, i problemi, la continuità, la coerenza e mi accorgo che tutto è così semplice, almeno quando so­ no sola, seduta all’aperto come ora. Ester al telefono mi aveva detto che non può fare sforzi e mettersi su un piano di bravure e di cerebralità. Allora è come se lei stessa mi aves­ se chiesto di non farmi viva con lei, dato che la cerebrale ecc. sarei io. A colazione Nicola era stanca, non ha quasi parlato. Mi è dispiaciuto dopo la bella serata commovente di ieri. Comunque non è colpa mia: lei può vivere e andare avanti così, senza forti emozioni, ma appe­ na capita qualcosa di intenso crolla di stanchezza. Se le occupazioni sono molte una è costretta a allontanarsi un po’ dalla comunicazione con gii altri e a dedicarsi ai suoi scopi. Se stessi e forte attività insieme sono incompatibili, fanno scintille di pazzia. Allora io non c’entro con queste “assenze” di Nicola. E incredibile non essere responsabili di niente alfinfuori di sé. Non sono responsabile dell’amarezza di mia madre dell’accanimento di mio padre

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del misto di amarezza e di accanimento dei miei fratelli e sorelle. Solo del mio sono responsabile ma sganciata da voi chi sono? una foglia cullata dal vento una pozza d’acqua che riflette il cielo.

Trascrivo da una lettera di Elena, vent’anni, a Simone: “Caro papà, ho appena finito di parlarti. Le lacrime ancora mi scendono, che macello... Vorrei tanto poter esprimere la disperazione clic ho sentito quest’an­ no, ma se potessi forse non sarei così disperata, il mio male non sarebbe incastra­ to dentro di me. Questo è il mio piano per il futuro (ah, perché devo vivere nel futuro?). E sera e ho appena finito di ballare per me. Vorrei poter esprimerti la libertà che sento, libertà nata trovando me stessa, o meglio trovando la sicurezza in me stessa. La libertà che viene quando si capisce finalmente che da soli si può essere felici, che la felicità non dipende da qualcun altro, ma da se stessi. È una libertà che forse viene dalla comprensione che uno si può sempre suicidare, e che tutte le difficoltà non esistono veramente, ma sono create. Che tutto non ha senso (neanche il suicidio). Spero che mi sentirò bene fra due giorni perché vo­ glio andare a Washington per una dimostrazione contro la guerra del Vietnam. Non so quanto bene farà questa dimostrazione nei confronti della guerra. Ma per me, per la mia tranquillità devo andare. Mi è ancora difficile comprendere il fatto che tutto il mondo non si ferma per aiutare questa guerra a finire. Più e più vengo a credere che sarò l’ultima generazione su questa terra”.

7 feb. Sul piano sociale non ho risolto niente, mi chiudo e non ho spontaneità, lascio gli altri affogare nelle loro parole, ma io non parto. Non ho fiducia di poter rompere l’inautenticità degli altri, non mi è mai successo, ci ho provato e sempre a mie spese. Ecco, entro in un posto abbastanza allegra, poi mi viene una pesantezza, una tristezza che mi fa stare lì per dovere: dal momento che avverto la situazione sociale falsa fin nelle midolla, il problema è che sbaglio a incontrare quella gente, a vederla, tutto qui. Con Nicola prima prevaleva in me il bisogno di confidarmi con lei a cuore aperto, adesso mi accorgo che le voglio bene e che vorrei vivesse più pienamente e ritrovasse la vivacità di quando era bam­ bina. Però poi ho parlato di me, e lei ha finito con il tacere per un

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pezzo. Allora, anche perché diceva solo qualche parola con voce un po' alterata, ho provato rimorso per avere invaso il suo campo: è da quando siamo piccole che mi sente parlare. Secondo lei, fa differenza un io costruito in una maniera piuttosto che in un’altra, affine o no a se stessi. E vero e non ho ribattuto, ho detto solo che la costruzione è una prigione. Mi è dispiaciuto lasciare Simone, lo studio, la pace lì. Venendo all’ae­ roporto Simone rifletteva che questo non stare insieme è sado-masochismo, le partenze sono così assurde e dolorose! Gli ho risposto che non stando insieme ci siamo messi a riparo da tutte le nostre paure di stancarci, di non sapere vivere insieme, di annoiarci, di deluderci, di finire come tutti, di farci le corna sotto il naso, di mentirci, di sentirci legati. Allora Simone “Tu sei molto tranquilla, ora, vero?”. Comincio a scoprirmi idonea a vivere, godere, accettare, forse a non giudicare, come vorrebbe Nicola. All’aeroporto ho visto un uomo giovane che piangeva vicino a una donna anziana, sdraiata, cadavere, e un uomo anziano chino e stra­ volto. Nel ristorante a vetri tanta gente mangiava, uno rideva par­ lando al telefono, ma chi aveva colto la scena guardava. Che fatica allontanare questo pensiero: una morte improvvisa, una morte a sca­ denza, accorgersi di morire, morire senza accorgersene, Aldo muore, sta morendo, vuole vivere, non vuole più vivere, e questa donna con i capelli grigi, rigida sui sedili della hall tra pianto e raccapriccio. Prima potevo avere senso di colpa nel non stare con Simone, adesso capisco che anche lui non era veramente disposto a stare con me. Una volta superate le paure, vivremo insieme? Con Sara riprendo il buon umore in tutta la sua pienezza, proprio la voglia di ridere su di sé (e qualche accenno di lacrime non è in contra­ sto), certamente è saggia se con lei non provo né dolore né vergogna, solo chiarimento, sorpresa, equilibrio. Cara Nicola, anche tu devi trovare un’amica, di tutte una, il gruppo serve per l’incontro, sembra laborioso, ma non c’era altro mezzo. Anche Sara si è accorta che di tutte voleva me per amica, e io di tutte volevo lei. Adesso mi piace in­ contrare qualcuna qua e là, magari di passaggio da Milano piuttosto che vedere quelle del mio gruppo che non mi hanno mai cercato in due anni. Ormai non è un po’ tardi? Volevo un’amica, quella che non avevo ancora avuto, che fosse interessata a me e non alle mie idee. Anche Ester e il gruppo mi prendevano come quella che sa pensare,

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analizzare, ragionare, ma non mi vedevano realmente. Quando Sara si è occupata di me, ho mollato tutto il resto, che era veramente il surrogato di un bene sconosciuto finalmente alla portata. A casa, in collegio, a scuola e poi con Marion hno a Ester mi ero sempre trova­ ta ad aiutare le altre, mettere a disposizione me stessa, incoraggiare. Persino con Autoritratto ho permesso agli artisti di esprimersi, ho dato loro l’opportunità di sentirsi ascoltati e presi per quello che sono. Ma me chi mi avrebbe ascoltato? Chi mi avrebbe dato forza e creduto in me? Adesso ho una vera amica. 8 feb. Quello che mi piace di me è che sono un tipo che non si arren­ de, voglio le cose di base della vita, proprio umanamente parlando e ho messo una tale cura nei rapporti che la frustrazione passata mi è stata ripagata uno per mille. Dovevo solo smettere di essere “scetti­ ca”, come dice Sara, cioè di difendermi da ciò che io stessa ho voluto, da Simone, dagli amici, dalle amiche, dal figlio. Mi congratulo con me stessa perché alla fine ho trovato la via d’uscita dai miei problemi: posso amare tutti quelli che mi piacciono perché posso comunicare con loro e riuscire ad attirarli sulla mia persona senza timore di fare un gesto pericoloso. Per Simone e per me non può esserci crisi che non sia superabile perché già ne abbiamo superate tante, l’ultima è stata quella del femminismo che lo ha fatto soffrire più di quanto pensassi, però ha tenuto duro e adesso sento che ritorna in se stesso e alla voglia di vivere con me. Mi arride molto andare con lui a Paler­ mo, sarà come la fine e il principio di qualcosa, lo intuisco. Quando stiamo bene, e io mi sento così completa di tutto - ci sono solo piccole increspature sul mio mare, ma niente burrasche e onde terrificanti o gorghi insidiosi o stagnante bonaccia, solo un venticello frizzante e basta - penso come al paradiso terrestre, alla felicità di camminare insieme, parlando, in un posto bello e dolce come per esempio l’orto botanico di Palermo. Mi vengono tanti pensieri di felicità stamani, di sicuro sono in relazione al fatto di esserci dette, con Sara, che siamo coscienti di essere amiche e volerci bene, cosa che apre ancora eli più se possibile la prospettiva di confidenza reciproca, e questo mi dà il senso di essere arrivata all’equilibrio più ricco e più coraggioso della mia vita. Io non volevo essere condizionata dall’affetto, ma proprio perché non lo accettavo ciecamente, ne tenevo in serbo uno migliore che mi avrebbe permesso di dare tutto senza la paura di essere presa,

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oppure che non bastasse, che l’altro mi chiedesse ancora qualcosa: di modificare me stessa. Eh no! Adesso sono felice come una bambina perché ho affetto da tutte le parti, sento che mi arriva addosso: sono un lago e tanti fiumi si riversano in me e io poi mescolo le acque e torno ad alimentare i fiumi. Oggi sono di nuovi così felicemente me stessa: sono tornata da questo viaggio ricco di sensazioni e di contatti e trovo per il tè Raffaele e sua sorella, all’ascensore si danno il cambio con Sara che arriva per la cena. Stamani c’era un bel sole, Tito en­ trava a scuola alla seconda ora, così ho potuto scambiare due parole con lui mentre mangiava il suo piatto di semolino di riso. Quanto l’ho alimentato questo bambino e quanto lui mi ha ricambiata facendomi capire che sta bene con me, che sono una compagnia gradita. Voglio scrivere a Elena: anch’io da ragazza avevo espresso quello che lei ha espresso, ma nessuno mi ha dato una risposta, ho immaginato di essere solo “nervosa” e “ipersensibile” ad avere tanti problemi e mi sono aggrappata al lato forte di me, che ce l’avevo, e mi sono svilup­ pata tutta da una parte come una pianta addossata a un muro che le impedisce la crescita su quel lato. Vedendomi di fronte ero abbastan­ za rigogliosa, suppongo, ma dietro le foglie tenere spingevano inutil­ mente contro la pietra. Adesso il muro è caduto e mi sento crescere con tutta la ricchezza di infiniti rami. Dalla lettera ho appreso che Elena “sa”, è arrivata a quel punto che “sa” tutto, io devo permetterle di rispecchiarsi in me e se si riconoscerà “saprà di sapere”. Per ora pensa di essersi sfogata in un momento particolarmente deprimente e di debolezza. Con il femminismo ho trovato Sara, con Sara mi sono liberata e ho trovato “tutti”. Che strada lunga è stata la mia: prima Sara si riconosceva in me, poi si è liberata di me, in tutto sono passati due anni, adesso che entusiasmo mi dà venire accettata per quello che sono, per le mie caratteristiche e non per un valore astratto col­ legato all’essere io “giardiniere”. Eppure, dicevo a Sara ieri sera, mi ero investita di una missione, ho vissuto molto con questo senso ad­ dosso: in realtà volevo fare qualcosa per gli altri in modo che fossero in grado di fare qualcosa per me. Che è quello che dicevo quest’estate “Non cerco quello di cui ho bisogno, ma lo faccio esistere”. Sentivo che toccava a me cominciare, fare il primo passo in modo che le so­ relle si occupassero di sé e, in conseguenza, di me. E come una favola in cui l’eroe trasformato in animale ha la sua sorte legata alla riuscita di un altro personaggio e può aiutare l’altro, non direttamente se

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stesso. E sono dovuta arrivare a Sara perché riuscisse a liberare anche me, tutta la mia vita prima è una serie di avvicinamenti, ma senza il risultato finale. La mia delusione con gli artisti è stata questa, che non mi hanno ricambiato, mi hanno lasciata spettatrice. Io li avevo capiti e sostenuti e fatti parlare quando nessuno, o quasi, li ascoltava. Li ho ascoltati pregustando di riuscire a sbocciare io stessa nella reciprocità invece nessuno me l’ha confermata, ho dato forza a loro e tutto è fi­ nito lì. Il libro di Sara l’ho voluto quanto lei, l’ho sentito rispondente prima ancora di poterne misurare la rispondenza, ho collaborato con tutta la convinzione che avevo, l’ho appoggiata per ogni sfumatura di autenticità che coglievo. Al momento della crisi fra noi ho pensato “Peggio che con gli artisti, questa volta vengo anche messa da parte, rifiutata e buttata come un limone spremuto”. Però ho sempre credu­ to, in qualche angolo di me, che fosse giusto così e non mi sono mai ribellata, anche se temevo che fosse masochismo o dipendenza, non ho voluto ribellarmi e piano piano capivo che arrivava, ecco, final­ mente arrivava l’imprevisto. In portineria ho trovato un telegramma firmato “Ester”. Dice “Irrita­ ta tuo tono superiorità stop Dichiarazione ufficiale mi ha fatto sorri­ dere”. Ho telefonato a Nicola per capire se, secondo lei, può trattarsi davvero di Ester. Ero incredula, mi batteva il cuore come quando un bel giorno avevo ricevuto una lettera di Cesare “E poi non vuoi che ti dica che sei una puttana come tutte le donne di questo mondo!”. La stessa sensazione di dolore, di avvenimento irrimediabile, di vergogna (per l’altro). Che fare? Che dire? Si ripete la fine del rapporto con Marion. Un messaggio così esclude la fiducia, rivela quella “cattive­ ria” infantile che mi fa paura, il senso della perfidia, dell’ingiustizia. Quando termina una relazione a due, l’angoscia è che uno dei due butti tutto a mare con un’etichetta che stravolge il senso di ciò che è stato. L’altro deve subire questa operazione che cancella anche ciò che, posto in comune, era suo: per questo i rapporti umani sono così a doppio taglio, attirano e respingono. Il mio sfacelo con un certo tipo di amiche non è finito. Con Ester posso solo tacere: ce l’ha con se stessa e non lo sopporta, scarica la sua rabbia e la sua impotenza su di me. Adesso dice quello che non ha mai detto, che era impensabile: e cioè che nel rapporto con lei io ero l’uomo e lei la donna. Così ritorna l’accusa della vaginale alla clitoridea, non finirà mai nemmeno con il femminismo, forse solo con la liberazione di entrambe. Rifiutando­

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mi, Ester non ha altra strada che rivalutare la sua creatività nell’arte, il suo passato di pittrice, il suo presente con il ragazzo. Forse, ha bi­ sogno di vedere che il periodo nero è quello con me, per compiere il salto. E la crisi, non c’è niente da fare, né rispondere né spiegare. Deve passare del tempo, perché adesso è convinta di capire cosa sta facendo. Oggi al Parco, Sara e io abbiamo fatto tali risate che dovevamo fer­ marci dal camminare. Però lei mi ha detto “Tuo padre voleva vederti piangere, io volevo vederti ridere, ma tu forse vuoi qualcosa d’altro”. E questo è vero, infatti per me sono collegati piangere e ridere, li me­ scolo un po’, come quando ho preso LSD forse sono due facce di uno stesso fenomeno. Ridevo da matti, quando le ho detto che stamani mi sentivo un dio, come se dall’alto di un ramo guardassi il mondo attorno di poveri mortali così affaccendati e incapaci di trovare un po’ di serenità, ed ecco che a un tratto cado giù in un tonfo e mi trovo con il sedere per terra. Senza che lo sospettassi, Ester segava il ramo su cui ero così estaticamente appollaiata. Ridevamo anche di tutti i soprusi che avevamo immaginato per essere alla pari con l’uomo, e se qualcuna obiettava qualcosa tutte addosso, la passavamo proprio al rullo compressore perché lei parteggiava per l’uomo. Il bello è che in quel momento era vero. Per fortuna non abbiamo continuato a quel ritmo di parità. Sara mi ha detto “Vedi se riesci a scrivere di Rivolta con lo stesso umorismo con cui ne hai parlato adesso, sareb­ be divertente”. Ma dovrei registrare, non c’è altro mezzo, quando scrivo da sola non sono così allegra come chiacchierando con lei, e sapendo di non essere fraintesa. Altro motivo di ilarità l’adesione che davo, senza mezzi termini, a quella che volta a volta mi appariva la situazione risolutiva per me. Da bambina in collegio volevo farmi suora, poi nel PCI, poi con l’arte... Ogni volta ero scandalizzata se non mi si trovava convincente, mi piaceva cominciare con assoluta certezza. Però mi capitava di essere stata così convincente che dopo ero imbarazzata a fare opera di demolizione del mio credo. I compa­ gni di strada potevano cambiare, in famiglia però erano sempre gli stessi ad assistere alle mie fasi, e io ero così stolida da pretendere di persuadere a ripetizione. Adolfo, alla fine, ha sintetizzato in questo modo “Il tuo pregio maggiore è quello di cambiare sempre parere”. Ed era vero, a mio vantaggio posso dire che nessuna considerazione d’ordine esterno mi fermava quando capivo che un’esperienza era

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conclusa, anche se l’avevo data per eterna. Ma certo, l’assurdo era averla data per eterna. Simone mi ha fatto venire senso di colpa a proposito di Ester, come se fossi poco flessibile, prepotente. Gliel’ho detto, si è schermito. Forse è paternalista, forse è paterno. Quanto a me, cercavo la parità per la mia pace e adesso che l’ho trovata avrò diritto di piangere dove non c’era. Gli è venuto un senso di protezione per Ester, ma ci manchereb­ be che anch’io facessi così. Però quel telegramma non mi sembra vero. 9 feb. Parlando con Anita mi sono scese le lacrime appena ho ac­ cennato al tema della crisi con Ester: gliene ho parlato brevemente, ma mi è servato a chiarirmi e sciogliermi da un certo irrigidimento di persona offesa. Piangendo poi non c’era bisogno di dire che soffrivo e che niente mi corrisponde meno del tono di superiorità che Ester mi ha attribuito. Ci idealizzavamo a vicenda, ci sfuggivamo a vicenda, io ero la più riservata, mentre lei si confidava, però ero più autonoma, mentre lei andava sempre in cerca di una alleanza. Avevo cominciato l’amicizia con Ester come critica d’arte, indagando lei e il suo lavoro, facendola parlare di sé, e questa impronta era rimasta. Lei mi dava il materiale, spettava a me cercare la chiave, io non ero oggetto d’inda­ gine per nessuno, a quale scopo? Stare con Anita mi ha fatto bene: con lei non ho preoccupazioni, sen­ to un contatto, magari intermittente, ma vivo, che mi stimola. Questa volta ho proprio avvertito la sua personalità come un qualcosa di nitido, impetuoso e delicato. Ma non mi pare abbia passato il ponte, 10 intuisco più che sapere perché. Apro la radio, che non apro mai: “Che fortuna che lei fosse qui”. E “Chiunque avrebbe potuto farlo”. Incontro una vecchia tata di casa, la Teresa, che mi introduce in una sua mi­ nuscola casetta dove entro appena. La convinco a venire al mio servizio e oc­ cuparsi del “bambino”. Però arrivano dei suoi parenti e io sono disorientata che lei li accolga perché non abbiamo ancora definito la questione. Con questi parenti siamo a un bar di notte e la madre si lamenta con il padre che la figlia non stia bene di salute; forse hanno sbagliato a farla uscire di sera, che si chiuda un po’ davanti. D’altra parte, possono lasciarla sempre a casa come una malata cronica?

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Adesso mi è chiaro perché sentivo Anita di là del ponte: stamani mi ha detto di aver capito l’inganno che è stato per lei la convinzione di essersi espressa nel passato. L’orgoglio di questa operazione le impe­ diva di prendere atto della sua vita in una maniera veramente libe­ ratoria. In fondo, quello che ci ha salvato è proprio quello che ci ha illuso, non è così? E proprio di quello bisogna liberarci. Nel girone di andata non succede niente, anche se tutto accade e viene registrato. Il girone di ritorno inizia quando te stessa trova eco in un’altra persona che è se stessa: la costruzione che permetteva di sopravvivere, ades­ so viene avvertita come un ingombro e gettata. E quella verità, che prima era insopportabile, voglio dire mortale, che una muore, nella rispondenza con l’altra è la vita svelata. Adesso possiamo intenderci più pienamente. Sorrideva come su una stoltezza a cui aveva fatto credito chissà perché, anzi rideva del nonsenso. Le ho confessato “io sono stata più melodrammatica”, macché, non mi ascoltava neanche, era tutta presa dalla scoperta della sua cecità. Quando stavo con Simone e con Ester, questi ultimi dieci anni, mi consideravo molto soddisfatta. Avevo ricreato una situazione imma­ ginaria di un padre che ama la figlia e di una madre che, invece di amare il padre, ama anche lei la figlia. E io ero unica per loro. Siamo stati tanto insieme, noi tre, dappertutto in modo molto armonioso. A Parigi era bellissimo al museo Guimet tra tanti buddha e tempe­ re tibetane, noi tre facevamo un mandala, era perfetto. Però dovevo fingere con loro, per essere al sicuro: Ester mitizzava il mio rapporto con Simone, così non potevo raccontarle i miei tradimenti, Simone era geloso e questo mi spaventava. Così vivevo una vita mia, che na­ scondevo alle persone che amavo. In realtà continuavo la mia storia di ragazza sola alla scoperta del mondo. Inoltre avevo due situazioni, una a Milano, una a Roma; non potevano fondersi e neppure comu­ nicare, l’unità di me stessa era spezzata, avevo troppi segreti per tutti - con gli amici, con cui ho capito e vissuto tante cose, non parlavo del mio rapporto con Simone e in parte neppure di quello con Ester - te­ nevo ciascuno in compartimenti stagni. Ogni tanto riprendevo il leit­ motiv “Vado a stare a Roma”, il che avrebbe voluto dire tagliare con una diramazione di me, ma non era possibile. Mi sentivo una terra smembrata tra vari popoli e in definitiva ero abbastanza ricca e varia da accogliere tutti. Ho mentito fin da piccola, per questo avevo un bi­ sogno assoluto di verità. Mentivo per sfuggire a una presa, a una resa,

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ma più che mentire stabilivo che non mi si doveva chiedere niente, fingere era compito mio, ci riuscivo entro certi limiti (se non ero so­ spettata, se la cosa si svolgeva neirincredulità degli altri), dunque ciò che non trapelava non esisteva per nessuno, solo per me. Era una complicazione mia. In collegio ricordo di avere sfregiato Pimmagine di un Cristo-Sacro Cuore facendogli baffi e barba e scarabocchi vari a penna. Non ho confessato di essere stata io, nessuno lo dubitava: avevo avuto bisogno di mostrarmi capace di un gesto di miscredenza davanti a me stessa dopo tanta devozione. Dovevo conoscere il male, farlo, beffare chi credeva in me, fregarmene, ritornare libera senza suggestioni o dipendenze. Anche punire chi vede tutto semplice, chi mi aveva scambiato per una ragazzina a una dimensione. Non si può essere così stupidi. E anche facile fare fessa la gente, non vedono l’ora di avere sotto gli occhi l’incarnazione di qualche creatura edificante dedita al bene. Per questo mi era piaciuto tanto Dostoevskij, perché trovavo ingigantiti i miei gesti di sfida su uno sfondo di comprensione che li perdonava, anzi li riteneva necessari e li amava. Probabile che mi sentissi colpevole eli mentire a tutti, sono confusa su questo perché in parte ne ero fiera. Mentire faceva parte delle mie difese, non avrei potuto andarmene di qua e di là se non avessi avuto almeno un ac­ corgimento. Queste riflessioni sulla mia bugiarderia mi sono venute fuori in rapporto all’onestà di Sara, al bisogno che lei ha di dire tutto e al fatto che prima o poi lo dice, magari un po’ per volta. Io non ho rivelato a Simone di essere stata con altri, non ho neppure smentito, semplicemente non accetto questo tipo di ingerenze. Anche se mi ero fatta riconoscere il diritto a una vita libera, e glielo avevo dato. Non concepivo la fedeltà, ed ero coerente almeno in questo dato che non vivevo con Simone. Concepivo l’astinenza dal sesso, dalla ricerca di un rapporto, ma non la fedeltà. Stavo sola per certi periodi, ma quando avevo qualcuno provavo insofferenza alla sola idea di dover­ gli qualcosa, di sacrificare l’imprevisto con altri uomini, la mia vita­ lità in genere. Però, perché non farlo e contemporaneamente dirlo? Non sapevo perché lo facevo e dunque temevo che fosse male, dal momento che procurava del male. Non avrei sopportato di essere ac­ cusata né che mi si guastasse la festa. Inoltre vivevo tutto alla giornata e pensavo che non valesse la pena fare scalpore per piccoli fatti privati e senza domani. Ma quello che depositavano dentro di me come non avevo capito che mi avrebbe fatto esplodere se non trovavo il modo di

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metterlo fuori? Ma con chi? Ecco che mi si apre una via d’uscita nel femminismo, nel gruppo. Quando ho cominciato Rivolta, prendevo più tiroide di adesso, e ve­ nivo dal prenderne di più: mi sentivo vivacissima, eccitata, aggressi­ va, impaziente. Mi sentivo bene, anche se, quando abbassavo la dose, mi accorgevo che agli ingredienti del mio benessere precedente man­ cavano un po’ la calma e la distensione. Invece La donna clitondea e la donna vaginale l’ho scritto un’estate a livello minimo, ma la dose era troppo scarsa per me, non mi teneva abbastanza su. E sempre, con qualsiasi dose di tiroide, quel pacchetto al giorno di sigarette che da­ vano dei colpi un po’ alla cieca in un organismo senza tutte le cinghie di trasmissione a posto. Con sorpresa ho saputo da Ignazia che tutta la mia tensione nel gruppo non le aveva lasciato un cattivo ricordo, anzi ha nostalgia di me “lucida e concentrata”. “Beh, se ti piacerà ancora” le ho risposto. In fondo, tutta la baldanza che avevo prima quando cercavo di mante­ nere o conquistare un po’ di libertà, non era altro che il risultato dello sforzo per superare gli ostacoli provenienti dall’interno. L’accentua­ zione sottolinea un raggiungimento difficile, il senso del rischio, il ti­ more di non riuscire. Mentre la semplicità nel fare le cose è la migliore garanzia che sono veramente mature. Ostentavo la mia sicurezza per rassicurare me stessa oltre che per impedire agli altri di dubitare. Sembra che tra Sara e me si sia ricreata la situazione come tra artista e critico, cioè che io l’ho scoperta. Ma anche lei, nel volermi come interlocutrice, mi ha scoperto. Va bene che tutte potevano avere gli occhi rivolti verso di me come capogruppo, però non trovavano la maniera di comunicare con simpatia, restavano un po’ contorte. Mentre con Sara è stato un incontro armonioso, con tutte le timidez­ ze iniziali e qui prò quo di un rapporto che comincia tra una fiorenti­ na e una nordica ma, per così dire, mi sono sentita scelta da lei intan­ to che la sceglievo, semmai un po’ prima. Curiosa questa sensazione che abbiamo entrambe di essere state precedute dall’altra. E vero che io esamino molto gli altri, ma anche Sara lo fa, è attenta. E infatti adesso per me è un momento insolito, nuovo, che lei mi indaghi, mi commenti anche solo sintetizzando un’impressione che le do oppure

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chiedendosi cos’è una mia tendenza. Certo, non so come potrei esse­ re entusiasta della mia vocazione critica per il solo fatto che mi viene naturale, però può essere che nel frattempo smetta di essere per me una caratteristica di cui sospettare. Inoltre la vedo collegata al senso di reciprocità rimasta non solo senza risposta, ma delusa e umiliata. lOfeb. Vado in un’isola di notte. C’è un paesino lì, ma io voglio girare fuori; ci provo, è impossibile a causa di un fortissimo vento che minaccia di staccarmi dal suolo, e del mare in tempesta che invade la terra. Nel paesino c’è un professore d’inglese, poi dei ragazzi come boy scouts forse... Facciamo qualcosa che non ricordo, di eccitante... Poi sono in una specie di casa-cantina abbastanza vasta... Voglio telefonare al professore del sogno (adesso è un sogno nel sogno) decido che sta a Genova, faccio un numero e lo trovo... Lui ricorda meglio di me cos’è successo, ma è restio, io tiro a indovinare e lo stuzzico un po’, mi erotizza molto... Sono esplicita e lo chiamo “Vieni qui, vieni...”. Lui fa lunghi silenzi in cui mi spazientisco “Pronto, pronto, insomma, rispondi...”. Alla fine risponde: sembra seccato, ma so che finge, è timido, è vigliacchetto, ha paura di me. Gli dico che lo richiamerò, che dobbiamo vederci “Chiamami tu, ti do il mio numero”, ma allora non risponde più. Intanto arriva Simone tutto sicuro di sé, mi prende il telefono, dice “Pronto” lui stesso, mette l’orecchio mentre io dico “Pronto pron­ to”, mi dà ai nervi, ha fatto scappare l’altro. Sembra rendersi conto della cosa, ma conclude “Meglio così”. Nella cantina c’è ormai della gente, che posso fare? Sto camminando con una monaca e mi trovo bene, le sto confidando le mie paure, ma è evidente che non le parlo di uomini, idealizzo un po’, ma mi sento serena. Mi dispiace però avere fatto tutta la passeggiata standole dal lato sba­ gliato. Con Simone e un giovane commento la mia storia con il professore, come l’ho trovato a Genova ecc. Il giovane, intanto, mi sembra che possa essere il pro­ fessore per qualche misterioso procedimento. Mi piace molto: sono al braccio di Simone e prendo anche lui sottobraccio. Mi stringe a sé in modo deciso. Simone non si accorge di niente. Il giovane continua e disapprova la mia ostinazione per il professore. Andiamo in un’altra piccola cantina; nello scendere le scale mi abbraccia, però non mi guarda, continua a parlare vivacemente. Nella cantina c’è una cantante che saluta Simone e me neanche mi vede se non dopo un po’. Qualche accenno al femminismo, alla politica, io non raccolgo. Vado a dare il mio nome a uno che è lì per questo. Simone sempre presente e il giovane ap­ passionato e disinvolto pure. Ogni tanto la presenza di mio padre e di Raffaele trapela nei personaggi, cosa che contribuisce a farmi sentire tutto sovrapposto e intercambiabile.

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Ero stata a cena da Raffaele e sua sorella. A parte lui, tutta la casa era tremendamente evocativa per me, mobili, quadri, piatti, la cucina... Come ho abbandonato tutto con frenesia nella mia vita! Abbandonare significava la possibilità di andare avanti. Una volta Claudius mi ha detto, prima che andassi in USA con Simone lasciando qui Tito “Sei come un boxeur che non immagina la botta che sta per prendere in testa”. Ricordo bene ciò che gii altri mi hanno detto di me. Non sta forse a significare che quello che io mi aspettavo era il riflesso? Adesso capisco perché Anais nel diario mette tante osservazioni su di sé via via formulate dagli amici. Erano sempre così elogiative che le avevo attri­ buite al suo narcisismo, invece erano riportate per il mio stesso bisogno. Provavo anche frustrazione perché facevo parlare gli artisti di loro stessi e poi non parlavo io di me; avevo il riconoscimento quando finivano per affermarsi ma questo non mi bastava. Che me ne facevo? Mi dava fiducia in me, avevo avvito le intuizioni giuste poi? Forse il critico ha la funzione di dare il riflesso senza di che l’altro si smarrirebbe. Comun­ que, ridotta all’osso, la mia funzione con loro l’ho posta nell’ascoltarli dunque nel farli parlare perché si parla se si è certi di essere ascoltati e capiti. In questo modo sono stata critica, ma poi ho avvito il femmi­ nismo dove ho esercitato al massimo la mia capacità di analisi sulla donna in generale, sulle altre, direttamente su di me. Dovevo proprio approdare a me stessa per accorgermi come era importante quella ri­ sonanza che davo agli altri e di cui avevo bisogno a mia volta. Quello, solo quello, mi era mancato. E una specie di “Alzati e cammina”. Se non te lo dice un altro tu non sospetti come è semplice camminare. Mi ha telefonato Simone. A un certo punto, quando gli parlavo del ri­ flesso che ho tanto cercato, mi ha interrotto “Tu sei palpitante, io vivo della tua palpitazione”, e si è messo a piangere. Simone e io abbiamo avvito questo in comune, il senso di responsabilità verso gli altri, per cui ogni gesto o parola era così terribilmente da soppesare. Adesso ba­ sta, siamo stati fin troppo appesantiti da questa investitura di origine. Gli ho detto che dopo la sua mostra a Palermo, speravo sarebbe stato libero dal suo debito con la Sicilia e avrebbe cominciato un’altra vita. Anche lui è palpitante se smette di essere rigido, ho sempre sentito che lo è. Ero contenta che piangesse, piangiamo tutti un po’ alla volta: gii dà fiducia la mia calma. Chissà perché non me l’aspettavo, è stata un po’ una sorpresa, quasi non ho fatto in tempo a capire che piangeva che lui ha riattaccato il telefono.

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Tito è uscito; mentre parlavo con Simone mi ha chiesto qualcosa a cui non ho risposto e subito dopo, quando volevo scrivere l’emozione provata, mi ha impegnata a fondo con una storia di pattini a rotelle che non si trovavano. Così ho scritto della telefonata che ero già di­ stratta da altro. Mi congratulo con me stessa per essermi messa fuori tiro di Raffaele: è troppo frustrante, la vita con lui è tessuta di piccole crudeltà, involontarie certamente, ma ineluttabili. Per esempio, l’al­ tro giorno Tito ha fatto cadere un paio di volte una boccetta di profu­ mo regalatagli dalla zia. “Cambia gioco, Tito” ha detto Raffaele con voce seccata “se la boccetta si rompe si spande il puzzo dappertutto”. Così trattava Tito come un bambino (“gioco”) e sua sorella come una che regala porcherie (“puzzo”). Solite risate con Sara quando le ho detto che nel suo libro la pagina dove è trascritto un mio intervento nel gruppo sembra scolpita nella pietra, è una pagina così astratta che fa paura: “uomo, donna, purificarsi, autocoscienza, mondo ma­ schile...”. Non c’è un riferimento concreto. “Mi è venuta voglia di toglierla di lì, tanto è impressionante rispetto al resto, sembra di un altro mondo... Ma non sarò stati sempre così!” Sara mi ha chiesto se sono sicura di accettarmi come sono: lei ha accettato la sua ingenuità, ma io ho accettato la mia carica teorica? Non ho saputo rispondere. 11 feb. E già la seconda volta che lascio la casseruola con il semolino per Tito sul fuoco la notte a rischio che il gas si spenga e che andia­ mo all’altro mondo. Mi succede quando sono stanca da morire e già dormo in piedi. Ero andata da Paula: con lei divento impaziente e da quello mi accorgo che non ho fiducia che con una simile flemma in una sola vita si arrivi a qualcosa. Non ci pensa? E così svagata, così sdoppiabile e sembra non accorgersene. Si definisce tranquilla. Per ora io demolisco dove lei costruisce e siamo proprio lontane. Erano più delle 2 quando sono tornata a casa. Così ho combinato il pastic­ cio. Stamani Tito mi ha svegliata “Mamma, mamma, hai lasciato il pentolino sul gas tutta la notte, vieni a vedere”. Barcollando ho visto, e intuito possibili disastri: non ce l’ho fatta più a riaddormentarmi. Così oggi è una giornata in cui la stanchezza mi rende angoscioso ogni im­ pegno o incontro. In realtà non ce la faccio a vedere che una, due ami­ che la settimana, le altre mi affaticano e basta. Non sono più sicura che ce la faremo tutte e che un mio intervento potrebbe rappresentare l’occasione. Sono stata idealista, mistica, non so; quella mia idea del

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“tutti” me la trascino da quando ero religiosa, poi nel marxismo, poi nell’arte, poi nel femminismo. Forse dicevo “tutti” per essere sicura di venire compresa anch’io. Adesso so che non è possibile, e la mia ansia già conteneva questa verità. Natalia mi chiedeva “Ma perché parli con tutte, persino con quella ragazza di Frascati che è così sottosviluppa­ ta?”. Volevo mettermi alla pari con chiunque, dire a chiunque quello in cui credevo. E aspettare l’imprevisto. Ma non è per tutte, qualcuna non si sveglia. Piera è sull’orlo: non si decide, è seccata del minimo contrattempo. Ma l’occasione capita quando meno te l’aspetti e nelle forme più insolite, e certamente, come minimo, disturba. Il telegramma di Ester lo interpreto così, che alla prima mossa di apertura da parte mia - rivelarle la sensazione che la nostra amicizia fosse finita - lei ha trovato il materiale per accusarmi. E un gesto di rottura di uno status quo di dipendenza e di mito. Ormai ho ac­ cettato che non c’è altra strada che quella della crisi per ristabilire continuamente la parità. Dunque è anche assurdo che sia sorpresa o addolorata. Ho cominciato a leggere la parte recente del diario di Sara e subito all’inizio trovo che Ester aveva creato un equivoco quest’estate dicendole “Meglio tu non venga in Sicilia perché Simone non lascerebbe Carla con noi, la vuole con sé a Macari”. Inconscia­ mente era ostile. Il bello è che Sara ci ha creduto e si è sentita rifiutata per un uomo che a sua volta si sentiva rifiutato per le femministe. Ero in un pasticcio. Che estate orribile! Caldo ossessionante, malat­ tia ossessionante. Non avevo più energie. Volevo occuparmi di me e ancora non sapevo come. Sara si è raccomandata “Leggi tutto di fila, non saltare”, ma è una pretesa: so che si parla dei nostri rapporti, mi interesseranno più del resto, no? Così ho sfogliato di corsa senza leggere, per vedere il mio nome, allora lì leggevo. Ho solo la prima metà e ancora non c’è il capitolo “Crisi con Carla”, però mi ha colpi­ to che a un certo punto lei mi rimproverava di non volere correggere il suo libro per scrivere invece la mia autocoscienza a cui lei ha dato “lo spunto”. Io avevo vissuto due anni ascoltando e comunque in funzione del gruppo, dando tutto ciò che avevo a cominciare dal mio tempo, però in settembre già non ce la facevo più ad alienarmi così, ero anche debole con la febbretta quotidiana da luglio, avevo ripreso l’abitudine al diario come da ragazza sotto lo stimolo, certamente, dell’autocoscienza di Sara dove avevo colto il segreto di quel bisogno di buttare giù momento per momento che avevo sempre avuto, però

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non mi andava di leggerla in continuazione, tante pagine al giorno, proprio mi disturbava, non era il momento. Lei si aspettava questo da me, io volevo aiutarla, non intendevo ammettere di non farcela, soprattutto di trovare in lei una certa freddezza nel disporre di me senza tenere conto del mio disagio. Ma il punto era quello, che il di­ sagio doveva crescere fino a non poterlo più minimizzare, nascondere e tenere per me, come ero abituata a fare. Sara ha più sconoscenza della vita, quindi più illusioni: mi può fare sentire rinunciataria. Una alienazione che può venirne è quella di rimettermi su una strada di illusioni senza accorgermi di averle già scontate e che le mie sono altre. Sara dice “Non tormentarti per le altre”. E vero, non mi tormento né per i miei, né per Simone, ma per le altre sì. La visita di Natalia mi ha fatto bene: ho detto quello che volevo dire, poi abbiamo scherzato e parlato di oroscopi. E stato un passaggio un po’ brusco, però dove­ vamo ritrovare un modo di stare insieme più rilassato e lei ha voluto rispondermi così. 12 feb. Il bigliettaio del tram mi restituisce seccato il denaro con cui voglio pagare il biglietto: non va bene, occorrono monete. Sono sicura di non averne, poi con sorpresa ne trovo in fondo alla borsa, anche con cinque lire in più. E stata una delle mie paure da bambina quella di non avere i soldi per il tram: li preparavo, li tenevo in mano con cura, scongiuravo le accuse che avrebbe potuto farmi il bigliettaio. Ignazia mi ha detto di essersi allontanata da Sara dopo un periodo in cui stava benissimo con lei, poi riprenderà. Si salvaguarda dalla mitizzazione? Così? Oppure si era davvero stancata? Mi sono sentita più scoperta di Ignazia, lei sembra amministrarsi più oculatamente. Ada sono sempre stata questa qui: o chiusa in un comportamento o scoperta in modo ridicolo. Non ho vie di mezzo. Il fumo simbolizzava un principio del male nel mio corpo, il cancro ha rapporto con quello, anche se il mio tipo di cancro non c’entrava per niente. Comunque, siccome il fumo va dappertutto nel sangue nei polmoni nel cervello, mi sembrava che potesse svegliare qualche altra cellula con quel desiderio di proliferare caoticamente. Comun­ que fumare era un modo di sfidare il mio possibile benessere. Adesso sento di potere superare tutto dato che non fumo: emozioni, inson­

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nie, depressioni. Prima pensavo “La morte mi ha già sfiorato senza che me ne accorgessi, tanto vale dimenticarsene, non è quella che mi fa paura”, adesso posso essere più sincera e ammettere che mi era sembrato terribile a trentacinque anni dover cacciare dal mio corpo la morte che era insidiata in un piccolo nodulo del collo. Tutto il soggiorno negli USA è stato un giallo per scoprire dove la morte si nascondeva. Prima i medici la negavano, poi l’hanno individua­ ta alla cervice dell’utero, l’hanno esaminata al microscopio conclu­ dendo che era lei e che bisognava togliere l'utero. Due giorni prima dell’operazione, altri detective dicono “No, non è lei, non ancora, almeno”. Allora allento la tensione e vado con Simone a fare un bel giro nel Texas e nella Louisiana. Intanto mi era cresciuto un picco­ lo nodulo nella fossetta destra del collo. A S. Antonio ci è giunta la notizia che avevano ammazzato Martin L. King, i poliziotti stavano appostati sui tetti delle case. Avevo un vestito con la sottana rosa, la cintura verdina e una camicetta bianca con soggolo e pizzo, sopra un cappottino double-face rosa e verde pallido. C’era un sole fantastico, era caldo, Simone mi faceva fotografie davanti a Forte .Marno. Poi a New Orleans abbiamo ascoltato i vecchi del Dixieland e fatto ancora foto. Ero felice, con un viso ovale ben disegnato. E a S. An­ tonio che Simone mi ha fotografato sullo sfondo di una costruzione luminosa della fiera internazionale che mi faceva da aureola. Al ri­ torno a Minneapolis, vado all’ambulatorio dell’ospedale per togliere il nodulo, ma il medico di guardia è più che scandalizzato “Chi l’ha mandata qui? Bisogna togliere tutta la tiroide”. Poi, rispondendo al mio sguardo interrogativo “Prenderà due pasticche sostitutive al gior­ no, dieci cent, non è caro”. Voleva che mi internassi subito in chirur­ gia. Sono scappata con l’amica che mi faceva da interprete. Dopo sono andata da questo o quel medico, sempre con un’amica: chi fa­ ceva prevedere il peggio, chi era possibilista. Un giapponese aveva profetizzato di dovere asportare anche un muscolo del collo. Intanto quello che aveva avuto in progetto di togliermi l’utero mi assicurava che sarei morta di lì a qualche tempo di cancro all’utero, era una pazzia non mettersi al sicuro. Sono volata a Boston da Lucia, già lei mi aveva trovato il detective giusto, quello che aveva detto che potevo tenermi l’utero, volevo tentare ancora. E lì, dopo un esperto palpaggio, il detective-capo del reparto tiroide si è pronunciato “Non c’è”. Ala attraverso una macchina che captava radiazioni, è ritornato il

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sospetto che ci fosse. In America usa così, che stai a casa e quando c’è un posto libero all’ospedale ti chiamano: infatti era stato deciso di operarmi per vedere. Sono entrata il venerdì, ma il sabato mi han­ no rimandata a casa; sono rientrata la domenica e il lunedì mattina toccava a me. Venivano gli studenti di Cambridge, mi toccavano il collo: chi credeva cancro, chi no. Di corsa mi hanno fatto l’iniezio­ ne preparatoria e portata in lettiga attraverso padiglioni provvisori del Massachusetts General Hospital. In un corridoietto c’era già uno pronto con l’ago. Il chirurgo, un cinese, mi ha preso la mano “Non fa male, non è l’anestesia”. Su questa bugia e intanto che balbettavo “E contro la mia cultura”, sono caduta nel niente. Sentivo un rumore come di elica, ma ero preda di un torpore pro­ fondo che mi gravava sugli occhi e non potevo aprirli. Finalmente sono riuscita a gettare un’occhiata: ero in un bugigattolo di verdu­ raio, c’erano cassette e scaffali, un neonato in una boccia, un negro in un lettino. L’elica mi buttava ossigeno. Credevo di essere sedu­ ta, ero sdraiata. Mi sentivo in pace, di una bontà sconfinata, pari alla mia solitudine, avevo riconoscenza per tutti, sapevo finalmente quanto ero in buone mani. Mi avevano riportato alla vita, avevo il collo “lavorato da orecchio a orecchio” (così pensavo), era bene, avrei collaborato con loro, ce l’avrei messa tutta. Dopo un tempo X, ho visto apparire la figura di mia sorella in fondo a un corridoio nel quale mi inoltravano, molto pallida. “E stata l’operazione grande, ma è andato tutto bene, era proprio agli inizi”. Io già lo sapevo, forse me l’avevano gridato negli orecchi mentre riprendevo conoscenza, ma in che lingua che l’inglese lo conoscevo così poco? Però è vero che ormai conoscevo l’inglese da ospedale. Se ne è andata: erano le nove, mi avevano portata via a mezzogiorno, l’operazione era du­ rata, possibile? cinque ore. La notte ho dormito, fatto pipì, tossito e sputato catarro; la mattina mi sono vista allo specchio con una gran macchia blu sul petto. E arrivato Simone da Minneapolis con una camicetta bianca da cow-boy per me. Dormivo profondamente come una neonata, mi facevano iniezioni nel braccio e io sorridevo con gratitudine. “Com’è bello stare sotto una pergola insieme a tutti coloro che si amano.” Nessuno può sapere come è bello essere vivi, dopo, vivi come quando sono sbarcata a Lisbona di lì a due settima­ ne, in una giornata piena di profumi d’estate, e avrei baciato la terra d’Europa, di casa.

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Perché non ho detto a nessuno questa storia del cancro? Sempre per la stes­ sa ragione: non volevo fare pena a nessuno. Specialmente non ne avrei par­ lato a Ester, sia perché lo avrebbe dimenticato subito, sia perché lo avreb­ be tenuto sempre presente. Quanto agli altri, non volevo che si abituasse­ ro inconsciamente alla mia morte: avrebbe dovuto sorprenderli come quel­ la di chiunque altro. Era un segreto che tenevo per circostanze speciali. Prima avevo sempre paura di dire troppo, adesso ce l’ho di dire poco, di sfiorare senza toccare il centro. Sento che Sara nei suoi scritti fa centro, è tutto così spontaneo. Parlando di oroscopi con Ignazia, ho capito cosa mi piace tanto nelle Bilance - Sara, Ester, Simone, e Lucia, naturalmente - è la capacità costruttiva, il non cadere nell’eccesso con­ trario, la mancanza di disfattismo, il salvare il salvabile, mentre io sono una dilapidatrice nata dopo avere ottenuto o in procinto di ottenere. In questo somiglio a mia madre che, dopo avere cresciuto i figli, li ha perduti quasi spingendoli via, non collaborando a trovare una soluzio­ ne meno svantaggiosa per lei. Come me non sa perorare la sua causa, le manca di sentirsene il diritto. Io poi ho “imparato”, ma l’origine è quella. Quando le cose vanno diversamente da come lei pensa, si puni­ sce dell’illusione avuta, ha paura di avere nuociuto ad altri o di averlo desiderato. In questo, madre e sorella maggiore si somigliano. Quando ho letto che Sara mi rimproverava di fare una cosa mia invece di aiu­ tare lei, mi sono sentita ridicola. Mia madre ha rinunciato a frenare l’ingordigia dei figli nei suoi confronti, d’altra parte è una delusione così grande vedere che la loro richiesta è sempre e solo di dare, che alla fine si è trincerata in un ruolo di rinunce. 13 feb. Notte. Chi ha pianto tanto come me? Devo trovarne un’altra per sentirmi alla pari non mi toglierò di dosso quest’angoscia per tutti gli errori che mi sono stati rimproverati come se le cose buone non me le fossi sudate tutte da sola in quella gran confusione che è aprire una strada che non interessa a nessuno e suscita incomprensione ostilità ridicolo mentre per me significava rinunciare a tutto quello che mi potesse distrarre.

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Se non mi fossi mostrata sicura nessuna sarebbe stata con me avrebbe fatto centro nell’uomo niente sarebbe cominciato. Mi dispiace tanto per ciò che è successo ma come potevo riparare anche a quello io ero tutta presa a che non scappaste al primo inciampo la voglia di scappare ve la conoscevo. Quanto a me non sarei mai corsa da lui. Adesso ne ho sentite di tutti i colori anche giuste e per me era così nuovo che mi si parlasse di me che mi scioglievo comunque. Ma ho bisogno anche della dolcezza. Ne ho abbastanza di vedere la mia faccia arrossata gonfia di lacrime nello specchio del bagno dove cerco Kleenex uno dopo l’altro. Adesso ho un letto enorme e sono sola soprattutto sono sola nel cuore perché ho cacciato tutti da me. Voglio morire come quando ero bambina ero ragazza ero sposata - giusto da dicci anni è andata meglio e infatti sono viva. Dicono “tu sei forte supererai” “quella ce la fa non dubitare” mi impongono grandi sforzi e nemmeno se ne accorgono perché io avevo quella maledetta idea che qualcosa deve cominciare e non sapevo cosa per riunire le sorelle che non si capiscono e fanno a chi è più brava davanti al padre. Durezze su durezze è stato duro difficile dire cos’è stato. Io stessa non lo so e questo è duro. Piango ma il pianto che può dire? Solo mi fa bene specialmente se dopo posso dormire.

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Non riesco ad addormentarmi, sono in piena crisi un’altra volta. Ho letto con Sara quello che lei ha scritto di me nel capitolo “Crisi con Carla”. Mi ha colpito l'osservazione che mi sono consumata con mio marito. Ma capisco che mi sono consumata anche con Simone, certe insistenze sue mi disturbano all’inverosimile, tipo costringermi a stare in tutto il ciclo di celebrazioni a Palermo, farmi frequentare gente per me antipatica del genere romanesco intorno ad artisti famosi, impor­ mi incontri che non sopporto, relazioni false con tipi che credono che lui abbia un mucchio di soldi, che siamo una coppia perfetta. Lasciamo perdere mio marito, ormai è andata, e la vita impossibile che mi ha fatto fare piena di rimorsi, e paura che mi prenda Tito, e incomunicabilità giganti. E lì che ho scritto le poesie, è in omaggio al mio sentirmi stritolare. Con Simone non voglio continuare quelle schiavitù, rare perché stiamo poco insieme e poi non ci sono occasio­ ni, tuttavia insopportabili. Ora vedo se andare veramente a Palermo, già sono nervosa. Poi non capisco perché devo fare questo rientro ufficiale alle mostre, se mi danno fastidio per tutto quello che ci vedo di insuperabile per me. A colmo di oppressione, dovrei abitare da sua madre e sua sorella, molto buone, ma senza riscaldamento, in una casa piccola, scomoda, in stretta convivenza. Invece avrei voglia di partire per la montagna, no neanche, per destinazione ignota. Sono le 5. Tra due ore Tito va a scuola e ancora non dormo, già da due notti ho l’insonnia, adesso è troppo. La lettura di quel capitolo su di me mi ha dato uno choc, non ho neanche finito di leggerlo. Adesso non è più così tra me e Sara, va bene, ma come potrò credere di es­ sere io quella che lei descrive? Una che teorizza sulla sua esperienza? Una che non le riconosce la via “facile” per arrivare alla cima? Se nel gruppo avevo detto a chiare note che volevo imparare da lei a diven­ tare più fresca, l’ha messo anche nel suo diario, perché vuole farmi passare per una ladra di polli. Non ho mai negato la cima da lei rag­ giunta con un cammino diretto, solo avevo difficoltà a credere che la mia strada “difficile” non fosse premiata. La mia fatica si giustificava se era necessaria, altrimenti ritornava fatica e basta. Come può accu­ sarmi di questo? Trovarmi diversa da come si aspettava le fa venire una sospettosità che mi sconcerta. Lei si era ingannata su di me, ma questo dipende anche dal mito che aveva posto sulla mia persona. Forse che io non ero stata in sua balia quando mi aveva sentito alla

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pari e non lo ero? Ma come potevo saperlo se lei mi veniva incontro a braccia aperte e mi riconosceva? Adesso ho questa impressione di fatalità nell’inganno che mi permette forse di addormentarmi. Dove­ vo scagionare Sara dal pensiero che è stata ingiusta. Il mio processo di liberazione avviene drammaticamente anche perché ha molti con­ traccolpi legati all’evolversi di un’altra strettamente in rapporto a me. Sara non vuole ammettere che mi ha chiesto molto facendomi cor­ reggere il suo libro. Dice che il fatto mi ha disturbato tanto perché ero in crisi, invece non si ricorda in che stato si presentava il suo manoscritto, specialmente le interviste. Volendo che fosse pubblicato da noi, non potevo non correggerlo io: mi faceva piacere condurlo in porto, mi aveva rivelato Sara, mi aveva dato una serenità e uno stimo­ lo che allora non capivo, ma che avevo subito apprezzato. E giusto quello che dice Sara, che non avevo un ritmo mio e seguivo quello di altre, suo, del gruppo. Sono sempre stata così, l’ho scritto tem­ po fa qui sopra, anche adesso non ce l’ho veramente, solo a sprazzi, mi mimetizzo facilmente e comincio a osservare l’altra. Allora dov’è tutta questa mia personalità? Mi ha meravigliato la forza di Sara, nel dirmi tante cose. Pensavo “Ma come avrò mai una forza simile?”. E invece ce l’ho: nell’accettare tutto. Prima di lasciarci ieri mi ha chiesto “E tu chi hai mitizzato?”. Ho fatto un nome, e poi “Le persone creative, suppon­ go”. E lei “Me mi mitizzi?”. E io “Forse, non credo, ma può essere”. A Sara Lei mi rivela tutto mi fa venire le crisi trova il mio punto alienato mi lascia la pace o me la toglie mi dice qualcosa di me a cui non posso smettere di pensare mi sorprende mi sbalordisce mi scandalizza mi fa sorridere mi scavalca mi corre avanti

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fa tutto prima di me 10 ho un bel po’ di affanno ogni tanto la perdo di vista mi riadagio riappare m’invita a correre ride dei miei zoppicamenti scuote la criniera e dilata gli occhi un po’ pazzi diventa seria e non mi risponde. Non mi stanco di lei vorrei liberarmene vorrei saziarmene essere altrettanto agile altrettanto cavallo capriolo bracco farfalla pesce pulcino non ci riesco fatico inutilmente ritorno da lei 11 dubbio sparisce va meglio. A un cenno mi fa piangere a un cenno mi fa ridere so che me stessa è in lei ma perché quando sono con altri mi perdo così facilmente? Sono obbligata a tornare da lei. Chi sei Sara chi sei se non quello che sono anch’io? Chi è l’altra Sara dov’è? Come potrei vederla?

Sono molto esitante nel pronunciarmi sui miei stati d’animo, per questo, forse, non vengono presi in considerazione e si passa ad altro. Cara Nicola, sono contenta di essermi alleggerita delle mie teorie, ho ritrovato il contenuto che riguardava me lì dentro - che certamente ero una clitoridea ar­ rabbiata - parlavo in proprio sotto forma generalizzata, però l’aspetto teorico ha

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portato le altre all’autodifesa: non si diceva più quello che si provava per timore di essere definite vaginali. Anche tutte le terminologie che avevo adoperato e che poi si erano sostituite alla descrizione dei fenomeni - autocoscienza, creatività, soggettività, riconoscimen­ to ecc. - avevano finito per generare confusione e difese e accanimento nell’uso. Adesso mi rendo conto che peso doveva essere per le altre. Cara Ester, con la teorizzazione rimontavo il disagio che sentivo per la tua crea­ tività riconosciuta, mentre la mia era molto vaga se ce l’avevo.

Quando è intervenuta Germana in novembre, ero felice di avere un rapporto che mi distogliesse da Sara, che me la allontanasse un po’ dalla mente. Ma m’illuclevo: tornava più vivida di prima. Adesso scrivo poesie, faccio il diario, adopro dei termini che ho sem­ pre adoprato, tutto come un tempo, eppure sento che c’è passata so­ pra una convinzione nuova, sono diversi; tutto questo ha a che vedere con Sara. Una volta ero fiera di una specie di originalità, credevo di essere un tipo speciale, adesso sono me stessa e chi devo convincere, a chi devo apparire. Capisco a una velocità supersonica, non saprei spiegare, non c’è niente da nascondere, nessuno mi chiederà conto, le mie debolezze sono infinite - paure, orgogli, remore, frustrazioni le hai colte tutte al centro, sento l’intuito quando scocca. Sorella mia, non sarò più tua rivale, ti sto abbracciando, abbracciami anche tu. Sonno sonno dopo tre giorni e tre notti lacrime asciugate tempesta passata cielo stellato luna ombre di piccoli rami sulla finestra. Letto letto frescura adagiarmi

distendermi

stirarmi sbadigliare

dormire sognare.

14 feb. Sara dice proprio tutto, tutte le sue difficoltà, allora mi sono scoperta, non ho potuto più resistere. Adesso ho la pace la trasparenza benvenuta crisi uragano adesso vedo tutto com’è pulita l’aria intorno a me sento tutto come al mare in settembre.

Il mio dilemma era che io volevo essere migliore e pari alle altre. Sem­ brava insolubile, ma la parità rende più che migliori, ottimi, se stessi. Le strade che avevo preso per migliorarmi non facevano che ripor­ tarmi alla rivalità che odiavo, ma in cui dovevo primeggiare. Teresa amica mia Teresa Martin compagna di liberazione. In collegio cercavo me stessa leggendo di te chiamandoti ma ti sentivo superiore ti pensavo “santa” prediletta da Dio fiduciosa grata sfiduciata grata il tuo senso della vita andava ben oltre la mia ribellione si tuffava senza timore in un immenso oceano. Pensavo di seguirti esercitando la virtù pensavo di raggiungerti

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quando mi sarei sentita degna di te. Ora ti confondi in me in lei anima mia un tempo sconosciuta quanto ti ho invocato piangendo come ora per una piccolezza che era la tua forza sorella mia ora dentro di me. Mi sembravi eroica per la tua morte lì ero certa che non ti avrei seguita. Adesso so che se uno è se stesso è felice.

15 feb. Sono di un nervosismo estremo. Non ho dormito molto sta­ notte perché avevo deciso di andare a farmi visitare il seno. Per fortu­ na Sara ha voluto venire anche lei. Ma, invece di essere concentrata su quello che stavo facendo, la paura che avevo, volevo parlare di tutto quello che mi bolle in pentola a proposito delle amiche di Rivol­ ta. Così era assurdo che davanti alla sala D. venisse fuori il dispiacere che ho del fatto che Paula non mi capisce e si meraviglia di vedermi piena di problemi. Questo, tra tante donne in attesa e a rischio di non sentire la voce delfinfermiera che faceva l’appello per entrare. Sara invece è calma: ascolta, certo, ma con una specie di pazienza che mi ha fatto sentire subito invadente, così ho rimandato il compito di scaricarmi a dopo, allo scrivere. Lei tace: prende atto, ma fa cadere il discorso. Incoraggiata da quello che aveva capito di noi a proposito di Lucia quando aveva letto la prima parte del mio diario, le ho ripetuto come la negazione o il silenzio di mia sorella mi avessero provocato una frustrazione che a me sembra per l’eternità. Avevo la sensazione di avere compiuto qualcosa di così tremendo che lei non me lo poteva perdonare e della quale era inutile giustificarmi. Mi sono arrovellata nelle ipotesi, ma Lucia era sibillina. Io mi intestardivo, andavo avanti,

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però l’impressione dell’inutilità del mio sforzo già mi faceva perdere la testa, esageravo, manipolavo, ribadivo, rincalzavo le allusioni, mi perdevo. Il mio tiranno è stato il silenzio dell’altra. Lì ho smarrito me stessa. E lì volevo ritrovarmi, così non smettevo di tentare. Mi chiedo se qualcosa di quello che sto passando illumina Sara op­ pure se in me trova solo l’eco di situazioni scontate. Certo la lettura del suo diario mi ha rimescolato. Lei non ha fatto questa esperienza, non può immaginarla: io rischiavo il perfezionismo proprio perché non sopportavo mi venisse addebitata un’ingiustizia. Ma dal momen­ to che ne avevo commesse tante nel gruppo, senza saperlo, potevo accettare il contraccolpo. Adesso avevo la smentita, dopo avrei avuto la conferma. Tutto si ripete Paula adesso come Marion Ester adesso come Marion Ignazia adesso come Rita. 11 mio dolore di oggi come quello di ieri lino a un secondo fa. Tutto è nuovo Sara diversa da tutte io nuova con lei.

Che giornata! Mi ricorda quando ero ragazzina, ragazza. Giro, giro, rimugino, parlo e mi vergogno di me, della mia incoerenza, degli ac­ cenni sconclusionati a una depressione. Quando sono così, il primo indizio di trascuratezza mi è fatale: perdo le staile e non so come andare via. Strascico, come oggi con Paula: l’ho accompagnata alla nuova galleria e non ne avevo l’intenzione. Non ce la faccio a na­ scondere la mia frustrazione, non ce la faccio a dirla. Che disastro! D’altra parte, così sono un po’ allucinata, ma più realista del solito. Paula somiglia a Marion in questo, che non è disturbata dalla vita sociale in cui fa dei gesti che sembrano non contrastare troppo con la sua natura, però resiste a chiamarsi in causa con me. E lei che mi ha sempre cercato, e con naturalezza; io piano piano ho apprezzato che fosse meno suscettibile di me, rasserenante in una parola. E anche più spensierata e lo è in particolare quando io sono giù. Insomma, ha

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un’autodifesa più forte della mia: infatti, Leone o no, non potrebbe stare nel mondo su due palcoscenici, libreria e galleria, se non fosse così asserragliata sotto le apparenze. Oggi mi ha detto che è bello ac­ corgersi di essere fuori da dolori “mortali” come quelli che si nascon­ deva prima. Ricordo una sensazione così quando mi sono distaccata da Cesare, ma - volevo dirle e non l’ho detto - allora è cominciato il periodo emancipato della mia vita: non ero più né sentimentale né ingenua, avevo il mio scopo e un’amica intraprendente per alleata. Sara dice che non è vero quello che affermo io della differenza tra clitoridea e vaginale. La differenza sarebbe invece che la clitoridea non si è espressa. E io allora? Anche lei fa una teoria basata sulla sua esperienza, dopo avere accusato me di averlo fatto. Come avevo intuito, l’ultima volta a Milano avevo lasciato un cattivo ricordo a Felicita. Lei lo attribuisce, che so, al telefono che squillava troppo e ci interrompeva, in realtà l’aveva disturbata la rivelazione che ero stata con il suo amico. Però mi ha invitata in campagna, se­ gno che vuole una maggiore intimità con me. 16 feb. Siamo sfrattate da una casa, tutte le inquiline. La portinaia mi dice

che la colpa è della signora Norza che chiedeva sempre alfamministratore “Va bene così? Siete contenti?”. Gli ha messo “la pulce nell’orecchio”. Quella del secondo piano mentiva anche a me che tutto era regolare, in realtà teneva pen­ sionanti e affittava a ore. E poi io. “Ma a lei” dice la portinaia “non c’era niente da rimproverare”. Su un tavolo circondato da gente ci sono due bambine, tipo le gemelle di Lucia: io ne bacio una sulle labbra, facciamo molte moine, come un flirt. Anche l’altra vorrebbe, ma desisto, la gente non approva. Vado nella casa nuova, bella, in mezzo alla neve. Sono eccitata perché ho un amante clandestino che deve venire a trovarmi. E casa mia o non lo è? Troppo via vai. Sto camminando sulla neve lungo un sentiero e arrivano degli orsi in fila sugli sci. Tanti tanti, fanno una passeggiata. Grandi, alti, sciano in piedi. Io ho un po’ paura: sono con un’altra o altro, non ricordo. Piano piano diventano uomini, bei ragazzi. Uno dice “Sono cinquemila anni che passiamo così, non abbiamo mai fatto niente di male”. Parla come se io ancora li credessi orsi. Chi è con me si ferma un po’. E magico vederli scendere lentamente sciando, il paesaggio appare imponente, la luce irreale. Però diffido: le loro facce nascon­

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dono qualcosa oppure sono io che ho paura. Non mi fermo. C’è un silenzio, un biancore unico. Qualcuno si avvicina, affretto il passo. Fa parte della preistoria, la scena è molto arcaica.

Otto ore di sonno non sono tante per come ero stanca, ma bastano a sollevarmi dalla depressione. C’è un meccanismo così in me: un’emo­ zione forte, uno choc, non mi fanno dormire, sono tutta mobilitata a superarli, a contrastarli prima e poi ad assorbirli. Però sopraggiunge la stanchezza fisica, che mi fa piombare nella depressione che ho appena evitato. Il secondo diario di Sara, che ho finito di leggere, dà le crisi e non ne spiega lo scioglimento, poi non si perde in particolari. Ci sento dentro l’aifetto per me e questo mi ha riscaldato dopo la sofferenza provata prima, quando lei dubitava così tanto. Un tempo appena mi accorgevo di non essere capita, mi aggrovigliavo tra bisogno di autenticità e paura: cercavo la quadratura del cerchio, di comunicare senza togliermi completamente le difese di dosso. Facevo capolino qua e là, uscivo coraggiosamente, battevo in ritirata. Facevo di nuo­ vo capolino, qualche volta restavo allo scoperto per imprudenza, per amore, per rabbia e l’immagine di me allo scoperto, sotto occhi trop­ po allegri o distratti o imbarazzati o francamente scandalizzati, mi angosciava più di qualsiasi altra. Passeggiata al Parco con Sara, serena come un ramo contro il cielo. Già prima, a casa, abbiamo passato tutti i punti di quello su cui c’era stata incomprensione a suo tempo, così riuscivo a dire tutto, ogni residuo di timore e di risentimento. Scrivendo quello che pensava di me, Sara mi ha permesso di conoscerla, così ho sentito svanire dentro l’incubo della dipendenza. Come sto bene! E arrivato Fausto, mi ha fatto un tale piacere vederlo! Fra noi c’è un’intesa di vecchia data: io ho optato per illusioni diverse dalle sue, però anche lui s’illudeva sebbene forse più saggio di me. Gli voglio veramente bene, proprio è un fratello elettivo. Secondo lui Lu­ cia e io siamo diverse di quella diversità che non s’incontra. Insomma, perché dovevamo capirci? Solo perché siamo sorelle. Adesso che mi capisce Sara così intimamente e sono così rassicurata su me stessa (mi sembra di amarla e di amarmi così pienamente), non ho più bi­

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sogno di Lucia, non siamo fatte per intenderci. Lei non ne ha colpa, buon dio, e io neanche. Idem per le altre con cui non vado d’accordo: ero incastrata dall’idea di dovere spiegare chi ero e farmi accettare. Rifiutavo l’evidenza. Fausto è il primo uomo che mette piede a casa mia da tanto tempo: ne sono contenta. Sara mi ha chiesto se mi piacerebbe fare le vacanze insieme le due coppie, mia e sua, quest’estate. 18 feb. Vengo da un incontro con della gente e temo che Fausto si ripresenti. Ora sono con degli svedesi: una donna c bellissima, strana, con capelli rossi. Un uomo dice che scrive un diario. Mi pare una buona idea. Poi confessa di scriver­ lo per guadagnare soldi. Mi delude. Intanto Fausto arriva, e con voce brusca, mi dice di andare via. Simone sente e prova antipatia per quell’ordine. Sono irritata con Fausto che, senza accorgersi di niente, fa passare una valigia dalla finestra e tramesta in modo preoccupante. Già mi aveva costretta a fare acrobazie per non scontentarlo. E astratto dalla situazione reale, che non capisce. Mi avvicino a Simone e lo stringo a me. Lui mi scosta dicendo “Non ho un presentimento d’amore”. Resisto “Io invece sì”. Cede alla mia convinzione. Ho detto a Fausto di avere trovato risonanza in un’amica. Secondo lui, l’ho sempre cercata: creavo i rapporti in funzione di quello. Ero predisposta così, lui è diverso. “Tu hai sempre dato la precedenza alla comunicazione con gli altri.” E convinto che la mia invadenza gli serva a chiarirsi un mucchio di cose (altri, per esempio Lucia, pos­ sono sentirla come invadenza pura e semplice), in questo mi vede un po’ insostituibile. Gli ho sempre dato l’impressione di una precisione estrema nei rapporti, che era un lato complementare a lui, gli man­ cava. Ha ammesso che la risonanza è la cosa più importante, però ha la certezza che potrebbe passare una vita senza ottenerla. Gli ho chiesto di lui: se non parla vuol dire che non ha belle notizie. Quando l’ho accompagnato nella sua stanza mi ha abbracciata. Mi ha toccato in modo strano la schiena, le costole e ha constatato “Sarai longeva, hai una struttura nervosa che regge bene”. Fausto non sa abbrac­ ciare, non sa carezzare; anche i suoi baci sono senza abbandono, rigidi. Uno psicanalista gli ha detto che non ha “rapporto cutaneo”, che fesserie. Me ne sarei andata volentieri, ma sono rimasta perché altrettanto volentieri volevo sfogliare una pagina di passato, riviverla, capirla. Adesso non ho dubbi: fra noi non c’era contatto nel sesso. Al­

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tri mi eccitavano, anche se non mi facevano avere l’orgasmo e finivo per stare peggio; lui no, una volta tagliato il filo psicologico, entrava in un’esaltazione solitaria dell’atto a due che non me la sentivo di guastargli. Questa volta, mentre io ho fatto autoerotismo in un clima di scomodità, che non mi succede di avere quando sono sola, e senza eccitazione, ma con uno stato di curiosità e di rievocazione che dava, nonostante tutto, senso alla cosa, lui ha perso l’erezione, così abbiamo fatto una pausa parlando un po’. Fino a un momento prima aveva cercato di intervenire con movimenti maldestri che mi innervosivano. Pensavo “Che gli ci vuole a informarsi su cosa deve fare! Invece pare al corrente di tutto fuorché di questo!”. Gli ho chiesto “Hai mai letto il mio libretto sul sesso?” “Certo”. Ma a quanto pare non ricordava molto. Possibile? Probabilmente Fausto sarà stato uno di quei bambi­ ni che quando gli fai una carezza hanno un’espressione sconcertata e si ritirano. Proprio così, anzi sua madre non sapeva come fare con un bambino tanto chiuso e restio. Eppure mi aveva fatto simpatia da giovane: aveva un entusiasmo e una pienezza fisica che mi conqui­ stavano. Non era banale, non era come gli altri, borghesi, velleitari, furbetti; era, lo capisco adesso, veramente uno spostato, con quel sen­ so di umanità un po’ panica vissuta interiormente che hanno certi matti. Le cose che osservava erano acute e mi servivano a ricostruire un riflesso di me. Anche adesso è così. Per esempio: gli sembrava che le persone mi interessassero per il loro elemento di fragilità. Mi sono ricordata che agli inizi Simone non si orientava affatto nella mia scel­ ta degli amici: “Hai riunito una corte dei miracoli” era stata la sua battuta. Non capiva che semmai era l’unica corte di cui potevo fare parte. Oltre al lato sessuale, fra Fausto e me non andava quel suo otti­ mismo programmatico per cui non voleva farsi un problema di nien­ te. Pretendeva che tutto si sciogliesse da sé, contava sulla sua buona volontà, ma non considerava le difese, per esempio, le sue costruzioni interpretative della realtà che fino a un certo punto mi colpivano, poi me lo facevano apparire un po’ fissato. E mi scattavano obiezioni continue. Adesso vedo che è lo stesso: mi interpreta, mi intuisce ma quanto a sé resiste. A un certo punto mi ha chiesto “Non credi che tutto l’arrovellio che hai fatto ti sia servito?”. “Prima ci credevo così tanto che volevo trasmetterlo alle amiche”. “Adesso dirai che sono tonte ad arrovellarsi. Sei terribilmente competitiva”. Scherzava, ma io mi sono zittita bruscamente. Da ragazza mi incuriosiva un uomo

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che non si curava di essere attraente, che vestiva come un contadino (i suoi genitori lo sono) ma aveva la sensibilità più squisita e umana che avessi mi incontrato. Questo contrasto me lo faceva piacere. An­ che sul piano sessuale aveva un lato che mi commuoveva: sorrideva in maniera strana, aveva dei gesti semplici, senza sottintesi, molto pieni di vigore e di schiettezza. Lo dico perché lo vedevo, restavo abbastanza spettatrice, e poi mi stancavo perché non si accorgeva minimamente di interrompermi durante una carezza, un abbraccio, una parola. A quell’epoca non osavo fare dell’autoerotismo in sua presenza e così ringoiavo il malumore, ma, dato che non era molto eccitante, non gli annettevo granché importanza. Sara era preoccupata che io avessi tratto delle conseguenze negative dalla lettura delle pagine riguardanti la crisi con me. L’ho tranquil­ lizzata: ero stata così contenta ieri, ma forse non ha fatto in tempo a vederlo perché il clou mi è arrivato al ritorno dal Parco. Ho capito che le devo la mia identità di oggi e che io ora sono innamorata di lei come lei lo era di Agata e, in maniera diversa, anche di me. Stasera Fausto si è ritirato presto nella sua stanza. Adesso mi fa una pena enorme: è solo proprio dentro, non lascia entrare, non si lascia coccolare, non sa ricambiare, eppure il suo sguardo mi rivela un’emo­ zione di vivere così disarmata che mi ha illuso a lungo e sempre ci ricasco. E terribile sentirsi chiudere la strada mentre trapela che è venuto con delle speranze non meglio formulate, ma che a contatto con la realtà si sono dissolte come al solito. Però so che qualcosa deve partire da lui, finché si ritira non c’è niente da fare. 19 feb. Stamani Fausto si è infilato nel mio letto. Ero appena sveglia, avevo dormito bene. Il patto era che non si facesse l’amore. Abbiamo parlato, siamo stati abbracciati tranquillamente. Tenevo il suo sesso fra le dita, giocherellavo, e così faceva lui con me. Ha avuto un’ere­ zione e mi sono confermata che funziona proprio da segnale, non può passare inosservata, mi ha dato una specie di debolezza nella schiena, che però è sparita con questo pensiero. Mi ha detto di avere avuto una depressione tremenda verso i quindici anni e di avere pen­ sato “Non deve ripetersi mai più”. Di qui l’ottimismo programmatico che da giovane gli chiudeva gli occhi sulle sue paure e sulle difficoltà degli altri. Ha confessato di avere avuto questa idea “Quando Carla avrà cinquantanni ci ritroveremo”. Una volta scherzando Lamberto

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aveva avuto la stessa uscita. Solo era più ironica perché spostava la cosa, non so, a ottantanni. E buffo che mi venga riserbato questo trattamento. In fondo anche Sara si è “innamorata” di Agata, non di me. Io sono un affetto basilare. Per certe persone c’è qualcosa che va oltre l’amore con me. Anche per Simone è così? Sono arrivata a prendere l’aereo piena eli stanchezza nervosa. Per fortuna ho fatto due passi al Parco con Sara e mi sono calmata, ma ancora al ritorno mille cose da sistemare. Adesso mi sento rinascere: voglio camminare tranquilla per le strade e verso il mare, respirare, vivere. Sara verrebbe a Palermo con Tito. E un progetto geniale! Le è piaciuta molto la poesia per lei, le sembra scritta cantando e ballan­ do, anzi vuole cantarla. Fausto mi ha fatto ritrovare tante cose: abbiamo passato in rassegna amicizie comuni appartenenti al nostro passato. Marion secondo lui era abituata a essere sostenuta, protetta e aiutata da chi aveva consi­ derazione per lei - e io ne avevo, lui lo ricorda come prima impres­ sione del nostro rapporto - sull’esempio del comportamento tenuto dalla madre. Di Raffaele dice “Ha sentito che seguivi te stessa e ha scambiato questo per un elemento di ordine, invece portava disordi­ ne”. Si è ricordato che veniva preso per un tipo eccezionale da tutti e suppone che io l’abbia conosciuto suggestionata dall’alone che aveva. Ha concluso che quello che l’attrae in una donna è l’autenticità: il suo primo amore, io, la moglie. Anche in Nicola la trova. Invece in Lucia c’è più ambiguità, in Ester non è così limpida, in Marion non c’è. Sfogliando i miei scritti di un anno o due fa, constato che la pre­ senza di Vanda e di tutte le donne scatenate che ho incontrato nel femminismo, mi aveva fatto mettere sull’autodifesa. In più c’erano quelle che magnificavano l’orgasmo vaginale, altra autodifesa. Non ero più me stessa, anzi meno di sempre. Non sono fatta per parlare con cento alla volta e senza forientamento di sé che c’è in un rappor­ to. Mi perdevo. Anche il gruppo è stato una fase che mi ha riportato all’incontro a due, quello in cui mi ero sempre riconosciuta. Un’amica mi ha detto che Aldo è uscito dal coma, si è alzato, si è fatto la barba, ha chiesto la fleboelisi, si è infuriato dicendo che lo facevano morire, ha ingoiato un po’ di brodo dopo oltre un mese che non mangia. Era sollevata. “Non è il moribondo classico con l’oc­ chio semichiuso, Aldo vuole vivere, è arrabbiato, questo lo tiene in vita”. Anche lei ha paura della morte e del suo aspetto, ma io penso

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che un moribondo deve accettare di morire, la pace con se stesso è la cosa più importante in lui, come in tutti. Alimentare la finzione oltre misura è disumano. Adesso Aldo è solo, impreparato, eppure muore. Posso illudermi di essere a terra (sono in aereo) perché ho il pavi­ mento sotto i piedi, ma sotto ancora c’è il vuoto, una voragine di vuoto mascherato di nuvole soffici, sotto una luna bianca, splenden­ te, tonda. 20 feb. Che nervi tutto quello che interferisce! Ha ragione la gente ad andarsene in convento lontano dai logorìi, le distrazioni, gii im­ pegni! Non posso stare con Simone, parlare tranquillamente con lui, assolutamente no! La Sicilia è la terra dove non si può fare quello che si desidera perché c’è sempre uno che rimane offeso. E assurdo, arci­ folle! E poi la Sicilia per me è collegata a troppi ricordi brutti perché mi ci possa sentire a mio agio. Già vedere la situazione di una madre che tiene la figlia come sua schiava particolare e la figlia accetta, e a cinquantanni Gene trattata come una bambina di dodici mi dà un’angoscia insopportabile. La mamma di Simone è autoritaria, pre­ potente, ma appena lui dice no a una cosa, subito appare rassegnata. Quindi l’autoritarismo finisce per funzionare solo con la figlia. Qui è tutto troppo arcaico per non farmi riprovare quelle sensazioni di ribellione che avevo in famiglia quando avvertivo che non c’era uno scampo previsto per me e il cerchio mi si chiudeva addosso. Ci sono dei gruppi di bambini immersi nell’acqua trasparente occupati in qual­ che gioco adatto a quella situazione. Se mi appoggio a loro li spingo giù spezzan­ do così il loro equilibrio a pelo dell’acqua.

Mi meraviglio sempre di come gli altri riescono a fare a meno di comunicare. Quanto mi avete fatto faticare per cavarvi qualcosa di bocca! Alla fine mi era venuto il dubbio che non foste voi sordi, ma io muta. Lo sforzo di smuovere gli altri dal loro silenzio è stato per me lo sforzo di smuovere un macigno! Appena lo lasciavo quello si riaffossava. Le donne, al minimo accenno, mi accusavano, mi oppo­ nevano un silenzio di rimprovero più che di barriera. Con gli uomini invece dovevo usare il linguaggio come una dinamite, per scuotere, frantumare, aprire una breccia. Loro restavano lì come un elefante pesante e ingombrante nella sua mole.

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21 feb. Simone è vittima quanto me di queste celebrazioni, ma al­ meno lo è direttamente. Mi ha fatto passare una giornata d’inferno, faticosa, alienata. La moglie di un tale non alzava gli occhi da terra e, a un cenno del marito, gli metteva la sedia sotto il sedere. Poi lui baciava visceralmente tutti, moglie e figli, prima di uscire. Clima pa­ triarcale, la donna è zero, la Sicilia è insopportabile. Cosa mi è venuto in mente di venire qui... Aspetto l’umore di voltare tutto in scherzo. Una ragazza molto carina, con riccioli minuti come una bambina, decide di ma­ sturbarsi in pubblico e dalle mutande sguscia fuori qualcosa che non è un sesso, ma un astuccio di carne che lei comincia ad agitare. Succede un fatto importante che distoglie l’attenzione da lei. La vedo poi, un po’ ansimante, rioccupare il suo posto tra il pubblico. La sua masturbazione mi dava un forte disagio, pensavo che io non l’avrei mai fatto anche se mi pare di ricordare che non era stata la prima a farlo. Era un gesto avanzato? Obbligatorio per le donne? Per le femministe?

Continuo a tormentare Simone dicendogli “Me ne vado, che situa­ zione tremenda, tutto mi pesa”, finché non mi fa notare che nei miei argomenti per tornare a Milano o stare qui non c’è quello del piacere di essere con lui. Ho capito così che veramente non ce l’ho questo piacere perché è come se non l’avessi ancora incontrato. Quando non comunico, qualsiasi persona mi diventa estranea e quando comunico qualsiasi estraneo mi diventa amico. Lui non può credere che lo sento come un peso che mi opprime quando non si mette in contatto con me. Dice che dipende dai due anni di femminismo in cui l’ho respinto. Ma io ho fatto il femminismo anche perché non sapevo cosa mi suc­ cedeva con lui, cos’era quel senso di estraneità contro cui lottavo e che mi dava ansietà sul nostro rapporto. Non immaginava che questo mio disagio esiste da sempre. A un certo punto ha detto che la mia fase, questo essere coscienti di se stessi lo spaventa, come se potesse alienar­ gli il mio affetto. Quando gii ho parlato di Fausto, mi ha chiesto all’im­ provviso se eravamo stati insieme. Gli ho risposto di sì. Poco dopo è scoppiato a piangere sul mio petto e io mi sono sentita sollevata dalla mia estraneità. La prima cosa che ha detto è “Non so se ho perso o guadagnato”. Non credo si sia accorto che anch’io piangevo alla fine. Nel pomeriggio siamo usciti e la città mi è parsa bella, ariosa, acco­ gliente: finalmente il mio aereo era atterrato, le palme sul cielo come nel deserto, tutto facile, abbordabile, la mostra, le celebrazioni. Ma

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Simone è diventato taciturno un’altra volta, il contatto si è interrotto. Alle mie insistenze, ha messo insieme qualche frase. “Non so se ti vo­ glio meno bene o più bene, è inutile analizzare adesso, ci vuole un po’ di tempo. Scusa se mi sono immusonito... è uno stato antipatico... mi sento imbarazzato.” Gli ho detto che secondo me mi vuole più bene. Gli ho dato un bacio in pubblico quando ha borbottato en passant che una sua scultura era messa per terra come una valigia. L’argomento Fausto era entrato in ballo così, che Simone diceva di essere a disagio perché io gli piaccio molto mentre a lui pare di non piacermi altrettanto. Non è l’aspetto che mi ha spinto verso di lui, sebbene mi attragga molto, non so spiegare. Una cosa che non mi fa simpatia è il suo lasciarsi andare; dice che questo è collegato alla sensazione di non piacermi, quindi non si piace. Come Fausto non è stato coccolato da piccolo; sua madre non è tipo da carezze, anzi quando era cattivo addirittura lo mordeva. Ho avuto momenti di felicità mentre parlavamo, dentro di me c’erano vera pace e amore. Simone sta dormendo e io sono di nuovo nervosa. Sara non viene per non provocare tragedie in famiglia, Tito vuole raggiungerci subito senza aspettare un’occasione per viaggiare gratis. Ho preso un caffè nel pomeriggio, pensando che avremmo continuato a parlare di noi, invece prima la tipografìa, poi Palazzo dei Normanni e la Galleria d’Arte Moderna, tutto si è momentaneamente dissolto. Poco fa, Simone diceva di essere in apprensione per un qualcosa di leggermente paranoico che vede nella mia scontentezza, come se avessi perso il ritmo con la realtà. Un tempo osservazioni così mi suscitavano rab­ bia in superfìcie e timore in profondità, adesso le capisco e non mi preoccupo, la sua solidità non mi inganna più. Quante frasi bonarie, buone, premurose mi hanno teso inconsciamente delle trappole, e quanta cura da parte mia per evitarle. Potessi parlare con lui come faccio con Sara in un processo ininterrotto che non ha bisogno ogni volta di essere rimesso in movimento, ma riprende subito da sé e spontaneamente, adesso sarei felice, non mi mancherebbe niente. In­ vece questa solitudine senza potermi rivolgere a nessun altro che a Simone, in una città sconosciuta, dove però devo vedere gente senza speranza, è una condanna che non mi resta che sopportare. 22 feb. Nottata d’angoscia per Simone. Lo sentivo respirare oppres­ so, girarsi. Aveva un blocco verso di me come “oggetto corrotto”, si

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vergognava, chiedeva aiuto, non sapeva come toccarmi, mi abbrac­ ciava forte, ma diceva di avvertire un muro fra noi, non riusciva a superarlo. Chiedeva che lo liberassi dei fantasmi che ci si frappo­ nevano. Gli avevo detto di Vincenzo e del precedente, l’ha voluto sapere a tutti i costi, anch’io ho capito che era meglio per tutti e due. Diceva “Ti ho amato tanto, ho vissuto dell’entusiasmo per te, ho avu­ to tanta fiducia in te, lasciavo che tu fossi dura con me, mi accusavi di qualunque cosa, ti lasciavo avere sfiducia in me, avevo sfiducia in me...”, così fino a tardi e poi stamani, finché abbiamo fatto l’amore prima di alzarci. Poi hanno cominciato a venire le telefonate. Io non ero angosciata, anzi più leggera, cadevo dal piedistallo e questo mi avvicinava a lui: devo solo aspettare che la crisi si risolva. Ha fatto un sogno: cercava di ottenere in affitto una casa, il padrone non voleva dargliela e lui imbrogliava le carte come poteva. In serata Simone è ritornato normale, abbiamo fatto l’amore anche nel pomeriggio, altrettanto bene se non di più di stamani: in fon­ do il dolore della gelosia dà erotismo. Normale significa tranquillo, l’intensità di stanotte è andata via come un cattivo sogno. Non so se potrò assistere a inaugurazioni e tutto quanto, medito di lasciare un biglietto e andarmene con i vestiti che ho addosso, per me la situazio­ ne è insopportabile, le frustrazioni in questo campo sono inutili. Una tale ha affermato che secondo lei sono siciliana perché parlo come una siciliana, oppure è un’influenza di Simone? Volevo risponder­ le “Non sono nessuno, parlo come una propaggine di altri quando non mi esprimo, faccio pressappoco dei suoni e cerco di mantenerli conformi a quelli degli altri”. Anche Cesare mi rimproverava perché all’improvviso, presa dal disagio, mi camuffavo completamente, non esistevo più per me stessa, aspettavo solo che l’occasione finisse nel modo più inosservato e anonimo. Se ho cercato disadattati è perché hanno voglia di comunicare, oppure tipi come Simone. Tutto questo perdersi è assurdo, è non vivere. Dove non potevo prima non posso neppure ora, se gli altri me l’avessero permesso prima non avrei mancato di accorgermene. La gente, nelle circostanze sociali, è molto falsa, spiritosa, e io resto al di là. Non ho dubbi che devo prendere l’aereo appena sbarca Tito, e andare, non so, a Pisa, e poi proseguire in treno. Se resto alienata ancora per due tre giorni mi viene una crisi di nervi, salto per aria. Adesso sono sola: Simone si è

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rimesso dalla rivelazione di infedeltà. Avrei voluto scrivere frase per frase quello che diceva: che non sapeva perché soffriva, aveva paura di avere perduto qualcosa e non sapeva che e di avere acquistato e non sapeva che. Ho girato tutto il giorno con il quaderno in borsa, ma avevo perso la concentrazione, ero smarrita. 23 feb. Mi sono svegliata presto dal senso di oppressione. Con Simone abbiamo pianto. Le sue espressioni, un misto di angoscia sen­ za perché e di felicità imprevista, mi hanno ridato la pace e con lei il sonno. Da sotto i vestiti tiro fuori un uccellino un po’ arruffato e in disordine. Davanti a me un uomo sconosciuto ugualmente tira fuori un uccellino tutto grazioso e tranquillo. L’uomo sorride. Sto dentro una stanza, aggrovigliata nell’angoscia: mi ripiego su di me, sono affranta, penso di dovermi svegliare, sbatto la testa per staccarmi dal sonno. At­ traverso una porta vedo sedie e tavoli, tutto un ingombro sottosopra e incastrato. Sono tornata a casa, una casa semi-sconosciuta. C’è confusione, gente. Io giro per la cucina e Sara mi vuole parlare di sé, segue i mici spostamenti, mi dice qualcosa relativa a un uomo. “Qual è dei tuoi uomini?” chiedo, c lei si ramma­ rica di trovarmi così brusca c distratta. Poi ammette che posso veramente essere stanca, troppo presa da altro. Mi fa piacere che sia comprensiva. Ci sono tanti quadri rovesciati e addossati a una parete uno sull’altro. Qualcuno mi ricorda che sono stata io a metterli così.

Mi sono svegliata che Simone stava vicino al letto tutto assorto guar­ dandomi. Prima di uscire è di nuovo scoppiato in singhiozzi irrefre­ nabili, ripeteva quanto mi ha amato e si chiedeva come ha potuto trascurarmi per dei periodi. Adesso sente di avere bisogno di me sem­ pre, mi ama, io sono sempre stata attenta... E poi tante cose di me così precise... Due minuti fa ha cominciato a sorridermi intensamen­ te fino a scoppiare in singhiozzi. E ancora si chiedeva come aveva fat­ to a difendersi, sentiva la differenza. “Sempre, sempre, anche quando ti amavo alla follia mi difendevo da te. Non capisco perché, non me ne ero accorto”. Provo una specie di appagamento e di disposizione

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a comprendere tutto. La mostra e il resto diventano secondari, oppu­ re veramente li affronto in un’altra maniera, amando Simone e me stessa. Stamani, quando scoprivo che i miei imbambolamenti con gli altri erano una forma di integrità e non una difficoltà nevrotica da su­ perare, ma che perciò era inutile provocarli mettendomi in situazioni di scontato disagio, Simone diceva “Tu sai quanto sono orgoglioso di me e del mio lavoro, sentirmi tanto fragile nel momento della mostra è un’umiliazione insopportabile”. Sono certa che vorrebbe esserne fuori, certissima. Ci ho sofferto tanto quando facevo la critica: le ope­ re viste in modo feticistico, la gente che non presta orecchio, solo ha sensibilità al prestigio, all’effetto esteriore, alla relazione sociale, com­ merciale, oppure polemizza. Dicevo “Basta” in quel famoso scritto,’' più che altro perché alle mostre ero un pesce fuor d’acqua. Serata a sorpresa: mi ero rassegnata a un grande pranzo con consegna di una certa medaglia a Simone, ero andata dal parrucchiere, quan­ do ho scoperto che tra la roba che avevo portato e che mi sembrava passabile non c’era niente di adatto per un pranzo. Avevo un tailleurpantalone da dopo sci, rosso bordeaux e beige di maglia, che speravo di riuscire a indossare nel senso di una cena-cerimonia, ma era un’im­ presa disperata. Poi avevo una giacca bianca e nera di seta, del genere americana ricevuta in Campidoglio, però mi mancavano i pantaloni neri, quindi era inutile averla portata; poi una camicetta di seta bianca, così, senza né sottana né pantaloni. Insomma, come potevo pensare di farla franca. Ma si vede che per me queste cerimonie ufficiali sono così penose che cerco di dimenticarle, nell’immaginazione le minimizzo, dunque “qualcosa per intervenire ce l’ho senz’altro”, mentre non ce l’ho. Ho mangiato un piatto di riso all’olio e un po’ di formaggio, la mamma di Simone dorme, in casa c’è un silenzio che mi riporta a me stessa. Penso a Simone che è lì, chissà come reagisce, poi mi racconterà. Quello che mi sembrava irrealizzato e perduto era realizzato e trovato il non aver saputo fare era aver saputo non fare *Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, Scritti di Rivolta Femminile, 1971, ora in Sputiamo su Hegel e altri scrìtti, et al. /EDIZIONI, Milano 2010.

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il non aver voluto era non aver ceduto il non aver osato era aver osato il non aver detto era aver affermato. Lo scoraggiamento era non accettare di perdersi l’incapacità era non riconoscersi nell’inutile il panico era che qualcuno mi cercasse e non mi trovasse.

24 feb. Alle 2 Simone è tornato dalFHotel delle Palme con la me­ daglia e una targhetta d’oro. Me le ha buttate sul petto e io mi sono svegliata. Mi ha raccontato della festa, era divertito. Mi ha fatto ve­ dere il catalogo. Prima di riaddormentarmi gli ho detto che lo sentivo lontano. Ha cominciato a protestare, ma io ho preso sonno. Con Sara e Claudius passeggiamo per una bella città tipo Palermo. In un giar­ dino ci sono degli animaletti bianchi per terra: Sara si avvicina a uno: è una colomba e vola via. Gli altri sono gatti: fanno pipì dalla contentezza che li acca­ rezziamo. Io mi sento così bene con Claudius e Sara che camminando davanti a loro mi stiro dalla contentezza. Penso che Simone mi carica di problemi e drammi inutili, che non c’entrano con me.

Ho rivisto Marion dopo tanto tempo. Avevo abbandonato l’animosi­ tà verso di lei, ero contenta e ben disposta, ma dopo i primi allettan­ ti riscontri, ho ritrovato la divergenza completa di una volta, come una volta mascherata di “però”. Lei interpreta tutto come tematica culturale e in questo può avermi veramente esasperata. Per quanto riguarda il vivere è di un’imprecisione calcolata che mi impedisce di guardarla negli occhi. Sovrappone parole a parole, scivola via. Il pas­ sato con lei non è recuperabile, ma quand’è che può esserlo? L'inaugurazione mi è stata sopportabile perché mi sentivo sganciata da ogni funzione. Chi sta intorno all’arte mi sembra alienato, ecco il

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risultato della fruizione artistica, come la chiamano. Marion crede di esserne immune proprio perché non formula il problema né di qua né di là e solo perché prende tutto un po’ alla leggera, con qualche licenza e confidenza, solo perché dice “Fantastico” con aria consape­ vole. Io l’arte non la capisco più. 27 feb. Simone mi chiede se voglio sposarlo. Che idee sono quel­ le? Simone c’è e non c’è, così è giusto per me stare e non stare con lui. Gente dopocena per parlare con il “Maestro”, uno scienziato racconta barzellette molto spiritose. Simone stanco, è stato in giro con studenti e due critici: vale la pena stancarsi così per niente o per poco? 11 geometra dell’Elba dice che a causa di una frana la casa non sarà pronta a luglio. Dove andremo quando i figli arriveranno dagli USA? Mi opprimono queste situazioni irrisolvibili. Stasera sia­ mo lontani, tono di leggera volgarità “Fai la diva con me, la diva del­ la perfezione, dell’irreprensibilità” Piano piano mi rendo conto cosa devo evitare, cosa mi indebolisce. Ho bisogno di solitudine. Dopo una settimana di alti e bassi, adesso si determina una zona bassa uniforme. L’euforia che gli piace tanto la detesto perché è effimera e artificiale. 28 feb. Qiiando un artista è importante la moglie deve essere all’al­ tezza della situazione, promuovere relazioni pubbliche e tutto quan­ to, sennò fa perdere occasioni al marito: a un certo livello tutti si aspettano questo da una moglie, io ho sempre odiato la notorietà e il resto, Simone mi pareva abbastanza al riparo, invece ne ho fatte di fatiche! Anche una mostra come quella a New York... ero di cattivo umore, si vede adesso dalla foto del catalogo, seria seria, triste, anzi assente. Ho bisogno di parlare con Sara, ormai l’ossigeno delle nostre conversazioni è finito, sono a corto di aria. Come potrei vivere sem­ pre con Simone se non ho con lui un rapporto come con Sara? Ma come posso vivere separata se ormai so che la separazione è inutile? Non vivendo con lui mi sono trovata aperta la strada per un rapporto completo non con un altro uomo, ma con una donna. Abbraccio un amico omosessuale, dicendogli “Mi fai tenerezza”. Però non vo­ glio assolutamente che legga i miei quaderni e li metto in salvo. Cosa combina­ no due ragazze non mi riguarda.

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1 mar. Aggiungo vasi di fiori ad altri vasi, ma mi accorgo clic non sono così rari e poi un po’ sciupati... Compro calze rosse e belle scarpe... Si parla di una farfalla che mangia gli occhi e per cui non c’è niente da fare. Forse solo attaccare una farfalla morta sulla porta a scongiuro.

Simone mi ha detto di essersi tolto la più grande paura della sua vita: che andassi con altri. Ha preso fiducia nella mia sincerità. Mi ha chiesto di non rivedere Fausto. Simone ha perso 50-60.000 lire e sembra rassegnato. Voglio capire se sono stata io o un’altra che, nel fare la spesa, poteva avere dato a un negoziante 50.000 senza accorgersene e avere preso il resto da 10.000. Incontro uomini del passato: uno scherzando flirta e si fa dire di me, forse è un ragazzo ebreo del ginnasio. Mi do da fare con uno per essere notata da un altro, molto bello e antipatico che passa col naso in aria, senza degnarmi di uno sguar­ do. 'biro fuori tanti bigliettini con dentro frasi mie di tanto tempo fa, piegati e ripiegati a barchetta, anche piccolissimi, e mi cadono per terra, ne raccolgo più che posso, ma ce ne sono sempre. Devo allontanarmi, certo uno degli amici ne avrebbe presi e chissà che ne avrebbe fatto. Non li avrei più rivisti. Sono in una villa di gente elegante con mia madre: entrare è stato semplice, per uscire invece devo passare attraverso un cerchio, che poi sono tanti cerchi, mi si serrano addosso. La gente non si preoccupa, io faccio la disinvolta, ma poi chia­ mo mia madre in aiuto perché mi tiri fuori. Lei è un po’ distratta, non capisce. Alla fine mi aiuta e, divincolandomi, scivolo fuori. Gli altri sono impassibili e anch’io faccio come se niente fosse. Prendo la mia roba, due borse e tre foulards, in ordine e di una certa figura, ma penso che è roba vecchia in definitiva.

Uscita dal film Ultimo tango a Parigi ero urtata: per forza la ragazzina scappa, Brando è il tipico rompiscatole con passato tragico avviato alla cinquantina, e quindi con mania scopatoria. Tutto il resto, eros e thanatos, è letteratura, film seccante, a Brando non piacciono le donne, Famore per la moglie e per la ragazzina non è credibile, lui è tutto preso dalle sue pose, profilo, sguardo, gesto... Quando cammina un po’ curvo con un vecchio soprabito addosso è proprio senza pudo­ re, vuole fare pena, è accattivante, poi vuole urtare, scandalizzare...

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C’è una sfacciataggine, un bisogno di confessione a tutti i costi che ricorda il meccanismo vaginale... Alla fine l’americano s’innamora, la ragazza lo uccide: lo scopatore è un puro, la scopata una sgualdrina. 2 mar. Simone ha sognato: “C’è un giardino con foglie secche, e per prima cosa vedo un serpente che cammina, non molto grande, ma lungo. Poi mi aggiro in questa campagna, non so se ci sei te, comun­ que non mi sembra di essere solo, e vedo un enorme serpente attor­ cigliato e sconquassato con dei pezzi rotti, come se fosse proprio stato morso e strappato alla spina dorsale. Verso la fine di questo serpente aggrovigliato c’è una bella volpe fulva, marrone, in controluce, morta anch’essa, però intera con una coda gonfia. Finisce il serpente e co­ mincia questa volpe, come se continuasse il serpente, un po’ svincola­ ta eia lui, ma in prosecuzione. Mi sento sereno, tranquillo... E poi c’è una notizia: che ho guadagnato 6.000.000”. Simone dice che è finito un certo tipo di rapporto fra noi. “Prima sentivo una tua aggressività e prepotenza verso di me, questo mi faceva un po’ dubitare su un tuo amore anche viscerale verso eli me, o per lo meno su una tua presa di coscienza del tuo amore verso di me. Invece l’altra notte ho avuto la sensazione che tu avessi perduto questa prepotenza e aggressività e io quindi non avevo più ragione di difendermi e in più sentivo che il fat­ to che tu mi facessi soffrire era una partecipazione di te verso la mia sofferenza. Era la prima volta che sentivo che tu partecipavi alla mia sofferenza. Non era per un capriccio che mi facevi soffrire, tu lo sape­ vi, io avevo molta confusione, più che il dolore veniva fuori anche la sensazione di potere avere fiducia in te. Assieme al dolore, diciamo.” Quello che più di tutto mi ha colpito nel telegramma di Ester è quan­ do dice “Dichiarazione ufficiale mi ha fatto sorridere”. Come può mentire con se stessa fino a questo punto? Perché deve sempre fare la spavalda? Simone dice che per lei sarà stato tremendo il senso di essere abbandonata, ma anch’io sono stata abbandonata, anch’io ero rimasta indietro, anch’io non capivo più niente, ma volevo trovare me stessa e non potevo dire a Sara che mi faceva sorridere, no, mi faceva soffrire, e finalmente approdavo a me stessa, non sfuggivo, non accusavo... Avevo fiducia in Sara, come Simone l’ha in me, Ester non ce l’ha avuta. Simone sta dormendo con una mano sulla mia gamba: oggi abbia­ mo ripreso il contatto, penso anche grazie al sogno della volpe e del

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serpente. Ieri gli avevo confessato di avere provato molto fastidio per lui i primi tempi, perché mi abbracciava e baciava in pubblico, una volta addirittura con la bocca aperta davanti ai miei amici, cosa che mi aveva dato fimpressione di essere violentata come immagine. Non avrò più segreti per lui, mi sembra così fantastico poterlo fare e vedo che va bene. Si apre un nuovo capitolo della nostra vita. 4 mar. Sono prigioniera di cinesi, non ho scampo, sono terrorizzata, cerco di scappare. Loro si camuffano e così mi scoprono. Un incubo. Poi mi rendo conto che la soluzione è molto semplice... non la ricordo... ma a un tratto sorridono, sono amichevoli, li accetto come sono, pronuncio qualche parola che finisce con “libertà”.

A tavola c’è Nicola con uno sconosciuto, un tipo borioso che conta balle, poi anche Lucia con suo marito, che mi guarda di traverso. Allora a quello borioso gliene dico quattro “Sei un imbecille... ecc.”. Mi rinfranco via via che parlo: lo vedo cambiare faccia, perdere la boria. Ah, si respira meglio. Nicola mi guarda senza più complicità con lui e anche nel reparto Lucia e congiunto c’è un senso di chiarimento.

Mentre eravamo a letto nel pomeriggio prima della inaugurazione di una sua piccola mostra in una galleria privata, Simone è scoppiato a piangere “Ti amo moltissimo”, piangeva proprio alla vasta senza neanche nascondersi la faccia. Diceva che io non mi rassegno, lui se ne è sempre accorto, ha avuto paura del mio fare e disfare, della mia inquietudine, del buttarmi con tutta me stessa in una situazione e poi abbandonarla per altre. Adesso è preso di amore, non vuole lasciar­ mi. Mi ha chiesto “Cos’è meglio: amare o essere amati?”. Prima mi lasciavo amare da Simone più di quanto lo amassi io; poi ho capito che ugualmente c’era un blocco da parte sua, pur amandomi tanto si teneva un margine per sé; poi la riserva mi è caduta e subito lui ha ri­ sposto facendo cadere la sua. Adesso mi viene tenerezza per le fatiche che fa, per come vive randagio, un po’ solitario; anche prima l’avevo, ma non mi sentivo parte in causa, non ero partecipe elei suo bisogno di affetto. In qualche modo non ci credevo, mi pareva un sovrappiù. Passeggiando con sua madre al braccio, una vecchina quasi ottan­ tenne che parla solo siciliano con voce acuta, mi sono accorta che

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in fondo mi sono sempre trovata collegata con delle radici popola­ ri anche arcaiche, ma genuine, dove c’è un senso della vita che mi corrisponde. Alla mostra ieri sera non riuscivo neanche a dire delle scemenze per formalità, mi sentivo agli antipodi del mondo borghese con tutte le sue cerimonie senza emozioni che non siano del prestigio e del successo. La sorella di Ester che era lì, mi ha festeggiato con ca­ lore proprio per il significato celebrativo di queste mostre di Simone e quando le ho detto che stavo più volentieri con lei che con le persone importanti che circolavano per la galleria, mi ha quasi rimproverato come se fossi troppo schiva e non all’altezza della situazione. Anche a tavola ero così imbarazzata di non trovare niente da dire, che avevo la percezione dissociata di me prigioniera del mio mutismo. Insomma ero una delle tante donne a disagio che circolano in tali occasioni: questo senso di impotenza a esprimermi quasi sinonimo di stupidità deve essere stato un incentivo a misurarmi con quel mondo e a ma­ nifestarmi in un modo che risultasse probante per me. Attraverso il femminismo, ho capito che tutto quello su cui avrei dovuto pronun­ ciarmi era cultura maschile, ivi compresa la pittura di Ester, e che il terreno mio, quello che avevo cominciato a percorrere da quan­ do scrivevo i miei diari, e ancora prima da quando alle elementari tentavo di scrivere dei racconti su bambine non meglio identificate insieme alla mia amica Cosetta, era abbastanza logico non trovasse posto nel mondo maschile sul piano della cultura o della creatività avallata dalla cultura. Adesso come dice Simone, oso guardare dritto nella serenità. Lutto il resto non conta: non ho superato i miei disagi, però so cosa mi succede, sono me stessa con alcuni, posso evitare gii altri. Simone sostiene che ho un’inclinazione continua per il monastero... forse è solo un simbolo, che voglio godere di me e di chi è come me, senza interruzioni e disturbi. Adesso ho lasciato Simone, sto volando verso Sara, sono un attimo sola nell’universo, ma ho i miei due poli, ho l’estensione in me e fuori di me, ho Sara e Simone in me esistenti e separati da me, li ho presenti e li ritrovo, li ho come me stessa e mi ricongiungo a loro. 5 mar. Serata carina, divertente, laboriosa, spassosa con Sara. Anche stanotte fino a tardi. E un continuo di argomenti, rilanci, riprese, tutto il mondo passa e si trasforma continuamente fra noi. Nel pomeriggio

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mi ha telefonato Vincenzo: lì per lì sono rimasta un po’ sconcertata, c’era anche Sara, poi ho cominciato a scherzare. Lui mi chiedeva se in questo tempo ero invecchiata, se facevo il “vecchismo” ormai (invece del femminismo), come gli avevo preannunciato ridendo una sera che eravamo sul tema dell’età. Ero contenta della telefonata e anche di ve­ dersi una volta o l’altra. A Sara è piaciuto come io scherzavo, secondo lei è una maniera adatta. Parlando di Autoritratto (le dicevo che non avevo mai avuto molta risonanza a quello che avevo pubblicato), mi riferiva di una sua amica che ci aveva trovato una grande serenità con l’uomo, come una che non ha più il problema. Questo mi è piaciuto molto, sento che è così. Adesso vorrei potere dire tutto di me, stare con chi voglio alla luce del sole, senza il pericolo di essere fraintesa o considerata oggetto, uscire dalle immagini convenzionali che gli altri si fanno di me dal momento che non sanno mai tutta la verità. Per spiegare la sensazione che nel passato avevo detto tanto senza trovare risposta, facevo ripetutamente dei gesti nell’aria. Sara mi ha chiesto “Hai seminato nel vento?”. 6 mar. Compleanno. Mi è venuto da pensare così di mio padre. Grazie padre che mi hai fatto diventar matta da bambina coi ceffoni e il tuo sguardo. Te ne ho dette tante con la voce strozzata ho vinto l’odio 10 sdegno la paura l’estraneità 11 rispetto. Ho sognato il tuo abbraccio. Così ho potuto conoscere l’uomo poi. Ero guizzante veloce insinuante allegra non lasciavo l’altro

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prendere il sopravvento ero io il vento stavo nel vento trascinavo col vento si disfaceva al vento. Restava il ricordo del vento.

7 mar. In Autoritratto comincio così: ‘All’inizio, devo dire la verità...”Ma non potevo dirla, non interessava a nessuno, nemmeno a Ester che quella volta aveva concluso “Mi sembra che ti sei intristita un po’”, e che in seguito commentava “Non li facevano più gli artisti quei pen­ sieri...”. Quindi non l’ho detta, ma appena enunciata. Non sapevo io stessa quale importanza dare a quello che dicevo di me, così mi ritiravo di fronte all’importanza dell’arte e alla realizzazione di sé degli artisti. Marion non sopportava le mie crisi, che la chiamavano in causa: si metteva a piangere e diceva “Basta” come se la stessi trattando crudelmente. Io ribadivo “Non me la sento di fare la critica d’arte, in definitiva non ci capisco niente”. Ester, quelle poche volte che le confidavo i miei lati in perdita, si an­ noiava, prendeva un’aria compunta e cercava di distrarmi. Così mi confermavo che ero stata troppo sfortunata, troppa sofferenza, confu­ sione, incertezza, a chi poteva interessare? C’è una mia foto della pri­ mavera 1970 con Ester e Vanda: è proprio un documento fantastico. Vanda sorride spavaldamente, Ester distrattamente, io sono pensosa, “Minuta, fragile, umana” come scrive Sara in una poesia. Ester poi era stata esplicita “Non ditemi di nascondere qualcosa, piuttosto non fatemela sapere... non posso trattenermi, mi stanca”. Io inorridivo all’idea che lei esemplificasse prendendo il mio caso, come la vedevo fare con altre senza rispetto per la persona in causa. Cara Piera, capivo che eri un po’ delusa dalla telefonata, ma è un momento in cui sono presa dalla scoperta di me stessa così che non mi interessa quasi quello che succede. Tutto è ancora instabile (o forse lo sarà sempre), per cui una crisi mi trova molto meno difesa di prima e io non posso allontanarmi dall’essenziale. Sono anche meno idealista e so che ciascuna trova uno sbocco per una spinta sua incontenibile: non puoi creare la spinta in un’altra. Quando ho detto “Ti aspetto”, alludevo al fatto che sono venuta a Genova perché, avendo tu vissuto i miei sforzi e le mie illusioni e in parte avendoli condivisi in un ruolo analogo

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nel tuo gruppo, volevo rendermi conto di quanto ne eri coinvolta. Alla fine mi chiedevi come mi ero sentita, e io mi ero sentita bene, ma avvertivo che tu eri ancora lontana dalla commozione su di te dimenticando tutto. Forse lì mi è venuto questo desiderio di aspettarti.

10 mar. Autoritratto comincia con l’ammissione che mi sento estromessa, estranea, al di fuori, e perciò critica, ammissione che mi era costata e che non interessava. Anche quando dicevo che la donna è attratta da una “creatività più impastata con se stessa” alludevo a me: avevo consumato tanto tempo a scrivere sotto vari pretesti senza alcun risultato, alcuna eco, che per forza avevo nelfinconscio questa certezza, però per gli altri, gli artisti, che senso poteva avere se non di maldestra giustificazione. 11 mar. Ho pensato che potrebbe succedere che qualche uomo pub­ blichi un suo scritto nella nostra collana, in modo che non ci sia più l’auto-segregazione da parte nostra, ma perché è l’uomo a rompere l’isolamento e non noi. Noi abbiamo trovato la nostra strada e forse l’uomo può riconoscerla anche come sua. Simone mi ha assicurato che per sentirsi alla pari con me deve scrivere anche lui, e mi ha chie­ sto se ero d’accordo. Ho risposto “Sì, ne sono contenta, anzi”. Stamani mi ha fatto un interrogatorio. A un certo punto mi sono ir­ ritata perché era così dettagliato nelle domande, ma poi ho ammesso che è giusto che lui dica cos’è che l’ossessiona. I giorni scorsi ha avuto crisi di gelosia molto forti, specialmente la notte a Portoferraio non ha chiuso occhio. In genere andava meglio dopo che riuscivamo a fare l’amore. Appena rientrati a Milano ha detto che vedeva dei fan­ tasmi per casa. 13 mar. Ho fatto una sfuriata tremenda a correggere le bozze di Sara: lei era a sciare, ma il tipografo non poteva attendere, così ho rivisto tutto io e sono volata alla stazione a spedire che erano le 11 di sera. Finalmente mi è venuta irritazione: che diavolo, il libro è suo, possibile che debba occuparmene più io di lei! Alla fin fine ero appena tornata a casa, avevo tante cose a cui provvedere, in più da diversi giorni non avevo scritto il mio diario e questo mi dava una specie di vago malessere allo stomaco. Inoltre non avevo il telefono di montagna di Sara, dove la pescavo per dirle che avrei preso io la

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responsabilità finale e le ultime decisioni? Maledizione a me e al mio darmi sempre daffare! Non potevo essere più cauta nel prendermi delle incombenze a proposito del libro? Non sapevo forse che l’altra avanza fintanto che tu non poni il fermo? Cos’è questa mia riluttanza a porre il fermo? Anche mia madre è così e poi si lamenta delle sue delusioni, del fatto che si è sentita trascurata dopo avere prestato la sua collaborazione. Per caso non mi sta succedendo come a lei? Ma qual è il suo sbaglio in fondo? Quello di non offrire all’altro la pos­ sibilità di ricambiare, il mistero è tutto lì. Infatti, se penso che devo tenere Sara ore e ore a battere a macchina i miei quaderni, come lei mi ha proposto, mi sento male, non ce la farò a pretendere questo sacrificio da parte sua. Ecco, battere a macchina mi pare un lavoro che posso dare a una dattilografa, mentre il mio lavoro per il libro di Sara lo potevo fare solo io (o quasi). Forse Sara non gli ha dato peso, tant’è vero che al momento della crisi, quando non me la sentivo di continuare perché ero troppo presa dalla sofferenza, era meraviglia­ ta: perché non dirlo prima, avrebbe potuto chiederlo a Gemma. Però poi non l’ha fatto veramente. In più Gemma, a cui ieri avevo chiesto soccorso per le bozze, mi ha confessato che questo ricorrere a lei d’ur­ genza non le sembra giusto e nemmeno che Sara si assenti in questo momento. Una volta Isa se n’è andata in Inghilterra lasciandole il suo cane a tempo indeterminato, io per un’amica ho sempre fatto qual­ cosa di particolare anche se faticoso, certo non mi sarebbe venuto in mente di tenere il suo cane. Poi Simone è rientrato con due lettere: una di un’insegnante del nostro gruppo che dice di considerarsi final­ mente femminista e di stare parlando con altre donne, e una di mio fratello Emilio da Santiago. Quest’ultima l’ho letta con Simone e non ho potuto trattenere le lacrime. “Cara Carla, mi sento come Dante ‘nel mezzo del cammin... che la diritta via era smarrita’, anzi, molto peggio, perché ancora non so quale sia la diritta via. Una cosa è certa e cioè che la strada che avevo cercato di intraprendere non era quella giusta: è già molto mi sembra. 11 fatto è che il castello di cartone che ave­ vo cominciato a costruire sta vacillando paurosamente già da qualche tempo; è in procinto anzi di crollare... Adesso è venuta fuori tutta la mia fragilità, la mia disubicazione, il mio desiderio di fare sempre cose grandi, la paura della mono­ tonia ecc. Ho cominciato a pensare alle prime reazioni di quando ero piccolo, al periodo della guerra, alla famiglia, alle mie bizze interminabili, al periodo dello

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sviluppo (fatto in ritardo), alle suore di Nervers, al rapporto con i fratelli ecc... Attualmente mi sento sempre con un gran peso sullo stomaco, ma sento che, per la prima volta, la direzione è giusta e che sono più sereno (anche se evidente­ mente ci sono periodi di grande tristezza e paura). Ridimensionare il tutto non è facile, rimane lo spettro dell’infinito, del senso del vuoto. La cosa che più mi interessa c andare a fondo nella mia storia e cercare di individuare l’origine di certe reazioni; ho molto bisogno di parlare con i fratelli e nella misura del pos­ sibile anche con i genitori... In 5 anni ho dovuto imparare tre lingue. A questo devi aggiungere lo sforzo che mi è costato scrivere con la destra. L’umiliazione a scuola di quando prendevo la penna con la sinistra... Il sentirsi differente dagli altri, il mostro. In famiglia la pecora nera (fannullone... studia... leggi... fai come le tue sorelle e Adolfo...). Sempre ridicolizzato per l’aspetto molto gracile... Ti scrivo perché mi ha fatto molto ma molto piacere la tua lettera di novembre (la spontaneità delle cose che in quel momento sentivi ecc.) e l’ultima cartolina che hai mandato da Roma (in cui ti sentivi come un angiolino con un ramoscello in bocca - questo me lo ha detto Luisa); mi sento più sereno quando penso che ho una sorellina che ha raggiunto la tranquillità ed in particolare una sua identità. Per questo ti scrivo, per dirti che in questo periodo ti penso molto... Con affetto.”

Avrei voluto rispondergli subito, ma avevo da correggere le bozze e non potevo perdere un minuto, però il mio stato d’animo è cambiato completamente da quando ero irritata per l’incastro di Sara. Ho av­ vertito una sensazione luminosa dentro di me, come se l’imprevisto superasse qualsiasi calcolo di dare e avere e riempisse ogni angolo, ogni piega di amarezza, ogni timore di avere ecceduto nell’offerta di sé. Ho capito che accettare me stessa è anche accettare questo squili­ brio di me verso gli altri: disperdere qualcosa delle mie energie nelle direzioni verso cui mi sento ispirata fa parte di me. E succede sempre un’apertura così vasta che il mio occhio dispone per qualche attimo il suo fuoco sull’infinito. Ho letto qualche lettera di Don Milani alla madre. Intanto lui è fio­ rentino, allora si vede che a Firenze non è proprio tutto morto, anzi, anch’io sono fiorentina e poi ne ho notato altri che adesso non ri­ cordo, ma sempre in direzione di un senso della vita che non c’entra tanto con il mondo d’oggi, soldi, successo, consumismo, confort, pro­ gresso, tecnologia ecc. Sarà che ce n’è stato tanto di prestigio cultu­ rale nel passato che adesso non attira più. Milani voleva essere degno

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della madre, anzi le chiede di venire a stare con lui che lei sarà il prete e lui la sua serva. Mi colpisce il fatto che assisteva i moribondi, le loro agonie, le loro paure. Alla mia età sapeva già tutto della morte, l’ave­ va proprio vista. Ieri mio fratello, oggi Don Milani mi richiamano il tema della liberazione nell’uomo. Emilio dice che ha presente la sua sorellina, Don Milani sua madre. E casuale o ha un senso? Sono con Vanda davanti a uno specchio. Lei si sta provando una camicia da not­ te trasparente marrone a fiorellini in vista dell’incontro con un tale, e io scorgo sotto un grosso apparato genitale maschile. Non so cosa pensare, ho confusione sul sesso in quel momento, ma cerco di restare naturale con lei. Le consiglio un’altra camicia delle sue e ci tengo a farle vedere che ricordo i colori: bianco, arancio... Sono in un vasto ambiente, forse a un cocktail dopo il vernissage di una mostra. L’ambiente è arredato con mobili da cucina, tipo la mia, ma solidi. Me ne accer­ to aprendo e chiudendo cassetti, sportelli, che nella mia si rompono facilmente. Penso “E questo che va di moda ora, è spigliato, divertente, americano”. Entra un tale, un giovane artista: tutti applaudono. Mi sembra il solito fanatismo per i giovani, penso a Simone. Poi cerco una crema di riso e non la trovo, allora vado via di là e sebbene sia buio perché ormai è notte, busso a una casetta dove c’è la luce accesa. Chiedo se disturbo. “No, no” è la risposta. Trovo una vecchietta alzata che mi dà del pane, pane di riso e pane integrale. Il pane usuale lo lascio li, non mi interessa. Ne faccio una provvista ragionevole. Dei ragazzini mi vogliono mettere una vespa con la puntura velenosa nell’orec­ chio, io ho molta paura, scappo, ma ho le gambe pesanti, le strascico gridando “Aiuto, aiuto!”. Finalmente entro sotto un padiglione, c’è Simone, e un altro con due donne: chiedo che qualcuno vada a fare smettere i ragazzini, e Simone fa andare l’altro. Temo che quello non si dirigerà verso i ragazzini, ma scapperà per i fatti suoi, anche perché c’è una donna con i capelli bianchi a una finestra. Simone è un po’ indecifrabile e, forse, distratto.

Mentre ero assente da Milano Tito ha invitato a casa dei suoi amici e insieme hanno fatto il diavolo a quattro. La donna si è lamentata e io ho cominciato a temere il lato distruttivo dei ragazzini. Adesso, mentre scrivo, lui va in su e in giù dando calci a una presa di bachelite che via via si sfascia, dice cose provocatorie dato che non gli rispondo,

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non se ne va. Tutto questo perché non ho voluto accompagnarlo a fare spese, ma ho mal di gola. E poi sono molto disorientata: Simone mi sta sempre vicino, mi chiama e mi interrompe continuamente, mi abbraccia e a me piace questo caldo attorno, ma anche mi sento senza scatto, e poi parlando con lui le cose perdono brillantezza e contorni. Nel pomeriggio ha scritto qualcosa su di me, qualcosa di tremenda­ mente triste, vissuta nel passato, sembrava già giudicata, finita. Ho detto a Gemma di avere capito finalmente che l’abiezione a cui si riferiva Isa collegandola alla vaginalità era un aspetto particolare mentre Ester parlava piuttosto di voluttà della passività, e lei di affet­ to, di abbraccio, di unione. L’elemento in comune è la fiducia nell’al­ tro, così è più difficile cercarla in se stesse. Il problema è tutto qui. Simone aveva detto a Tito che noi vogliamo vivere più insieme, che quindi staremo a Milano finché possibile, ma poi andremo a Roma. Credo che Tito avesse un po’ di turbamento per questo. Oggi, men­ tre era arrabbiato, diceva “Tu vuoi andare sempre via”. Però poi gli ho fatto fare il bagno e gli ho lavato la testa. Abbiamo scherzato e ci siamo coccolati, così lui è tornato sereno. Mi piaceva molto, roseo e pulito come un bambino. 14 mar. Anche Sara si era arrabbiata perché me ne ero andata all’Elba lasciandola piena di problemi per le bozze, e poi perché non le avevo detto quant’è faticoso pubblicare un libro. Lei dice “Non è a cura di Carla Lonzi?”. Ehi, ehi, “a cura di” è un concetto generale, come dire “ospite di”, mica per questo uno è obbligato a pulirgli le scarpe all’ospite! Anch’io ero stanca, proprio stanca. E adesso lo sono di nuovo. Ognuno fa quello che fa perché il piacere di farlo è tale che gli impedisce di considerare in anticipo gli aspetti pesanti, negativi della cosa. Avevo intuito giusto: Sara e Agata si sono riviste ed è andata “benis­ simo”. Mi spiace che per me non può essere lo stesso con Ester. Ho riletto le lettere non spedite o di cui avevo copia dagli Stati Uniti tra il ’67 e il ’68. La cosa pazzesca è che non parlo affatto di quello che è stato l’incubo di tutto il periodo: la scoperta del cancro. L’unico confidente epistolare sull’argomento era mio marito. 15 mar. In una grande casa patriarcale lavorano tante donne: io sono lì con Simone. La mattina il padrone di casa mi fa rilevare la comodità speciale di un

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secchio di acqua calda... Con Simone corriamo verso un autobus, lui sale, a me dicono di prendere il prossimo perché sono un po’ in ritardo. Ma poi quell’au­ tobus stesso si ferma, e io, facendo una gran corsa, riesco a farmi issare lì sopra. Vicino a Simone non c’è posto, neppure voglio scomodare due nani che giocano a carte; mi metto in seconda fila. Di lì a poco mi accorgo di essere incastrata, ma si crea una situazione così interessante tra me e chi ho intorno, che mi congratu­ lo con me stessa. Poi l’autobus diventa un teatro. Una bella donna bruna canta con gentilezza: io sono la prima ad applaudire, lo faccio a lungo da sola ed entu­ siasticamente. Mi meraviglio che gli altri non partecipino e si distraggano presto. Lei va via piano piano e sparisce. Sono dispiaciuta che sia finita così presto.

Ieri sera mi è scoppiato un mal di testa con brividi, nausea, così ho pensato fosse un virus. Però forse era soprattutto stanchezza. Con Simone sono un po’ tesa: oggi ho fatto l’amore senza averne voglia, la voglia mi è venuta facendolo ed è anche stato bello, però ero arrab­ biata di averlo dovuto fare. Non posso parlare apertamente perché lui è troppo fragile in questo momento e, prima scoppia a piangere, però subito dopo si difende. E una maniera oppressiva per me di cominciare la convivenza, se così si può chiamare, perché non rie­ sco ad avere il mio buon umore... Divento tranquilla e silenziosa in modo sospetto, rimugino come sfuggire alla prigione. Per fortuna ho detto tutto quanto riguarda il mio bisogno di vedere amici. Simone si lamenta di non potere essere allegro con me: ma se è quello che mi piacerebbe di più! Allora diventa grave, serio e mi sembra di avere cent’anni con la tomba già aperta che ci aspetta. D’altra parte se fino da piccola dicevo “Non mi sposo, non mi sposo” è evidente che avevo qualcosa contro lo stare sempre insieme a qualcuno. Mi ero abituata in collegio a contare sulla mia solitudine, il diritto a isolarmi, rispetto alla famiglia dove si è continuamente uno sull’altro. Il fatto di non avere mai avuto una camera mia in famiglia mi ha molto disturba­ ta: quando poi la mamma mi ha destinato uno stanzino sull’interno tutto per me, non riuscivo più a preparare l’esame di storia dell’arte dalla gioia, e pensavo di continuo al colore del copriletto, al lume, allo scaffale: era diventata un’ossessione. Lo stesso mi succede ogni volta che sto per avere un ambiente mio per viverci. Mi sono addormen­ tata spesso sognando il Poggino, finché non l’hanno venduto ad altri, adesso è il momento di Turicchi, e mi ci vedo da sola passeggiare, respirare, guardare le piante, le colline, il cielo. E l’autosufficienza

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e il convento insieme. Questo mi dà pace. Simone legge il giornale accanto a me: mi chiedo come fa, dopo che ha passato una serata emozionante a parlare di sé, della gelosia, mentre Sara e io lo ascol­ tavamo. Ha detto che mi ama moltissimo, però, all’atto pratico, vedo che non accetta molto di me, mi definisce strafottente. A lui sembro così perché non soffro di gelosia, ma forse nei suoi panni mi compor­ terei in modo anche più drammatico, è diffìcile dirlo. 16 mar. Ho una confusione tale che non so da dove cominciare. Quello di cui avrei bisogno adesso è un periodo di solitudine. La con­ vivenza non fa per me. Facendo il paragone tra Simone e il suo ragazzo, Sara ha detto che forse questo è ancora più innamorato di lei che Simone di me, visto che è stato alla stazione tre giorni e due notti ad aspettarla. Per fortu­ na che ha ammesso di avere avuto il mito di se stessa... Certo che chi ascolta pensa che è un po’ ingenua. Comunque stamani Simone ave­ va delle difése con Sara, dice che lui non la conosce, che non c’entra aprire un rapporto con suo marito, chissà chi è. Allora ero presa tra Simone e Sara, tirata di qua e di là: Simone avrebbe voluto straccar­ mi un po’ o mettermi in guardia, e quello no, era assurdo, mi faceva solo soffrire. Io sono diversa da Sara: tendenzialmente mi piace stare al di fuori della convivenza, non so chiedere aiuto agli altri, ho fatto e faccio tante cose in cui ci rimetto, so che la frustrazione particolare si riassorbe nel quadro di realizzazione generale, realizzazione di me e di altri. Però sono me stessa come lei è se stessa, e questo l’ho così chiaro! E poi abbiamo tanti aspetti in comune. Farmi stillare dei dub­ bi servirebbe solo a torturarmi, e a che scopo? 17 mar. Simone sta leggendo il mio diario: io non l’ho riletto, quindi non posso neppure intuire che effetto gli farà. Certi particolari saran­ no difficili per lui. Ha insistito per leggere a tutti i costi: gii ho detto di aspettare, ero titubante, non ha voluto intendere ragioni. Per fortuna domani parte, posso contare su un paio di giorni per riprendermi, questa convivenza stretta senza tregua mi esaspera. La sua gelosia è una specie di malattia: gli dà degli attacchi dove si torce le mani e batte i pugni sui ginocchi, poi gli passa. Forse io questa tortura l’ho smaltita con Cesare, ricordo una volta in cui battevo i pugni sulla poltrona singhiozzando. Come reagirà Simone, che nottata sta per arrivare?

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Vicino a lui che soffre perdo la calma, mi agito, non so essere paziente. Appena si apre mi apro anch’io e già l’angoscia si dilegua, ma se si isola mi sento soffocare, è un malessere fisico quello che mi trasmette. Da bambina facevo gii scontri con mio padre tutta baldanzosa, poi un bel giorno lui mi chiamava all’ufficio e mi diceva con voce bassa e vibrata quanto mi voleva bene e quanto lo avevo deluso con il mio comportamento, avevo tradito la sua fiducia, si era sbagliato su di me. Io cominciavo a singhiozzare e il mondo mi crollava intorno: ero così superficiale, incapace di sentimenti profondi, una sciocchina, frivola, leggera... Però in qualche angolo di me mi ribellavo, notavo un’in­ giustizia, un’incongruenza. Stamani al Parco, Simone mi accusava di essere stata disumana a obbligarlo a parlare mentre Sara e io ci da­ vamo occhiate d’intesa. Al pomeriggio abbiamo chiarito: anch’io mi ero sentita sfasata, alcuni mesi fa, raggirata, colta di sorpresa. Simone afferma di sentirsi come preso dalla polizia e messo sotto le lampade: parla parla, ma non sa cosa dice. Gli viene estorto qualcosa. A tutti succede così, quel senso di follia che tutti hanno provato. Stamani mi ha chiesto se Sara avrebbe raccontato qualcosa ad altri di quello che sapeva di noi: ho risposto di no, ma all’improvviso non ne ero più così sicura. Anche qui torna il ricordo di quando mio padre mi gridava “Dì pure a tutti che sono un orso, che con me non si può parlare, ma al picnic non ti mando!”. E poi però non riuscivo a credere che avreb­ be tollerato la minima rivelazione sul suo conto. Se mi fossi lasciata andare avrei commesso un gesto irrimediabile, un tradimento unico. 18 mar. A notte fonda Simone ha smesso di leggere il mio diario, è entrato nel letto e mi ha abbracciata, voleva rassicurarmi e dirmi che la lettura gli aveva fatto bene e che l’aveva superata. Queste parole mi sono giunte nel sonno. Però non ho dormito tutto difilato. Infatti quando ho aperto gli occhi, ho vasto lui ben sveglio e con gli occhi aperti accanto a me. Ci siamo avvicinati. Ha detto che sono meravi­ gliosa oppure che vivere accanto a me è meraviglioso, non ricordo. Chiedeva se potevo essere innamorata di lui come lo sono di Sara, adesso capisce meglio il nostro rapporto, vuole entrarci anche lui. Era una sensazione di pienezza, di amore senza paure, con tutto ciò che è possibile. Però, poi, quando abbiamo fatto colazione, mi sono ac­ corta che, mentre lui parlava, io mi annoiavo un po’. Gliel’ho detto, e anche il perché: di nuovo si distraeva parlando con aria esperta di

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qualcosa della vita. Anche la faccia era diversa, più ferma, generica. Alt alt, che succede? Finalmente ha ammesso che sente “tante difese, come dite voi”, da quando era bambino, anche con la moglie, pro­ prio un armamento di difese. Un uomo così avevo incontrato. Ma ha anche capito che “la persona amabile che cerco nella mia poesia sei te”, era così preso dall’avere scoperto questa identificazione. D’altra parte dal diario ha tratto la certezza di essere stato uno dei rarissimi uomini che mi hanno procurato l’orgasmo, questo è un tratto di ele­ zione nei suoi rapporti con me. Sara ha detto che chi soffre molto è anche perché si autocommisera altrimenti soffrirebbe di meno. Mi sembra giusto, infatti io di solito non mi compiango, ma quando capita sono proprio giù: non soffro tanto per quello che mi è successo, quanto perché mi sento vittima. Lei ha uno scatto psichico preciso per evitare questa eventualità, non è mai distratta su quel punto, perciò non è drammatica. Che bello essere a letto all’una di notte, sola, concentrata, nella mia camera, ancora abbastanza sveglia e con la prospettiva di qualche momento di lucidità, scrivendo a Emilio con calma, sapendo che lui capirà. Che bello questo momento, che bello essere qui! 19 mar. Stamani ho detto a Tito che non è figlio di Raffaele, ma di Fausto. Non so perché gliel’ho detto, credo per allargare la sua mente. Da quando ho raccontato a Sara quel sogno in cui applaudivo una donna, e lei l’ha interpretato che applaudivo lei, ha capito che io ce l’ho proprio nell’inconscio la simpatia e la risonanza nei suoi confronti, allora ha aggiunto qualche citazione dal mio libretto nel suo diario, e ha messo una frase di riconoscimento. Le differenze sono ormai cadu­ te, prova di nuovo il bisogno di essere generosa con me per ricambiar­ mi. Abbiamo passeggiato al Parco per tre ore tra tanta folla, chiac­ chierando e ridendo specialmente su cose che nel passato erano state vissute con sofferenza. Tipo che io avevo teso alle “cime inviolate” e avevo preso una strada così difficile che ho dovuto fare delle pause. Ero partita di corsa perché da sotto non sembrava così difficile, ed era la più diretta. Lei invece, vasto me, ne ha presa una più comoda e non ha dovuto fermarsi. Le ho detto di avere quarantadue anni appena compiuti - me l’ha chiesto - lei ne ha trentatré. Ho appena cinque anni più di suo marito, lui però credeva che Simone ne avesse una sessantina dato che ormai è un nome sulla piazza da tanto tempo, così

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io, come compagna di Simone, finivo per essere distante dal marito di ventisei anni. Mi ha impressionato. Quando sono sola sono quasi una coetanea dei giovani, quando sono con Simone divento una ma­ tusalemme. Se un mio amico quasi-coetaneo sta con una giovane, io divento una madre, se sta con me rimango passibilmente giovane ecc. Ho scritto a Emilio una lunga lettera che aspetto di rileggere domani: mi sembra di essermi impegnata e di essere ritornata sorella maggiore. Al telefono mezz’ora con mia madre, che mi ha parlato di Emilio e di Adolfo tutto il tempo. Adesso lei è orgogliosa di come si è sistemato Emilio a Santiago e del fatto che nelle lettere dica che non ha tempo. E felice di pensarlo con un orario e carico di lavoro, le sembra un se­ gno di maturità. La sapesse tutta. In settembre andrà al mare con Lu­ cia e le bambine, già lo pregusta. Mi sono accorta finalmente che Lucia e la mamma sono più affini, si capiscono meglio da quando eravamo piccole a oggi, dunque è logico che ci sia una preferenza in quel sen­ so e che si vedano di più. In fondo la mamma l’ho un po’ persa per ragioni obiettive, quasi genetiche. Io sono un’altra razza, lei non ha con me lo stesso affiatamento, mi sente un po’ estranea, forse. Se mi tol­ go la fissazione della sconfìtta, fissazione ormai fossile, ma se non la tolgo m’ingombra ogni tanto, anch’io ho delle difficoltà con lei. C’è stato un momento in cui Sara e Agata dicevano “Il femminismo è una fase”, e una volta al telefono Sara mi aveva choccato afferman­ do che era stato casuale che la liberazione per lei fosse scaturita dal femminismo. Io ho detto “Per me no”, e ha ammesso che forse per me era diverso. Tutto il periodo zen di Sara e Agata era stato un po’ una forzatura, finché non ho sentito che era finito, avevo irritazione per questo zen, che un tempo era stato la mia grande scoperta. Ad­ dirittura Sara voleva mettere sulla sua copertina che il femminismo è una fase, io rispondevo “Quel femminismo è una fase, poi cambia”. Allora nell’introduzione ha messo più attenuato: che anche il signi­ ficato del femminismo è cambiato per lei. Oggi al Parco parlavamo senza un nesso, ma attentamente di tante cose sviscerandole con cura e non eravamo mai stanche. Mi sono sorpresa “Ecco, questo è essere donna”, non lo vedevo un uomo al mio posto. Certo è difficile intendersi con le femministe - contro - l’uomo, e già sa di stantio che delle svedesi abbiano affittato un’isola esclusivamente per donne. Ada poteva essere solo quello il femminismo? Avrei mobilitato la mia vita solo per quello?

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20 mar. Quando Tito va al cinema da solo gli faccio un sacco di raccomandazioni a proposito degli adescamenti. Questa apprensione deriva dal fatto che da piccola, una volta che ero in un cinema popo­ lare con un’anziana prozia e mia sorella, un vecchietto mi ha preso la mano e me l’ha messa sopra una cosa molliccia che lui muoveva. Il film proiettato era, verosimilmente, La peccatrice con Fosco Giachetti e Barbara X: scene passionali, rincorse attorno a un tavolo, abbracci ansimanti, per non dire delle occhiate. Intanto dal vecchietto, dal suo soprabito disteso sulle ginocchia e dai suoi pantaloni veniva fuori uno strano odore di gatto rancido. Non ricordo che succedesse niente oltre il movimento agitatorio, mentre io cercavo di ritirare la mano finché ci sono riuscita. Quando si è accesa la luce ho detto alla zia che volevo cambiare di posto perché non vedevo bene. L’ho detto a voce abbastanza alta in modo che il vecchietto sentisse e che, semmai io mi stessi comportando sgarbatamente (ero troppo confusa per saperlo), quella ragione mi procurasse un alibi. Quando in collegio, a novedieci anni, abbiamo fatto il ritiro spirituale e il prete parlava conti­ nuamente di “atti impuri” e “attentati alla purezza”, mi è tornata in mente la scena al cinema e mi sono affrettata a confessarmi. Mi senti­ vo fondere dalla vergogna nel raccontare l’episodio, insieme all’altro del bambino che voleva mettermi il cosino dentro. Ci avevo riflettuto molto anche perché temevo che, dimenticando qualcosa, non sarei stata assolta. In quel periodo vivevo di terrori di questo genere e di slanci verso il bene, pregavo molto e indagavo il mio passato. Alla fine me ne ero liberata, ma avevo come l’impressione di avere rischiato grosso. E, rispetto alle altre, mantenevo un segreto inconfessabile. Caro Fausto, quando ho visto la busta zeppa di fogli ero piena d’interesse e voglia di leggere; appena cominciato, però, ho visto che neanche questa volta mi dici qualcosa di te... Ci sono persone che mi sono molto care e che ho do­ vuto abbandonare perché in qualche modo avevano difese più forti delle mie e mi ostacolavano. Però è come se mi aspettassi che quelle cadano, d’altra parte sarebbe assurdo sperarlo troppo... Mi dici clic il tuo problema è che non puoi procurarti le gratificazioni di cui hai bisogno perché non sei aggressivo. Ma qua­ li sono le gratificazioni che ti occorrono? In ogni tua lettera ci sono liste di nomi: pittori, scrittori, poeti ecc. E come se non ti puoi rassegnare di non essere uno di loro, d’altra parte tu stesso li senti con troppa riverenza. Quanto a me non vorrei raggiungere la serenità a base di autocontrollo, come dici tu. E nemme­

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no aspettarmi di “vivere con assoluta convinzione”. Uno dei miei interrogativi sotterranei è stato sempre questo “Possibile che io diventi qualcosa che già non sono?”. Se ho sperimentato finora che di assoluto non c’è niente, è abbastanza assurdo che me lo prospetti per il futuro. Il futuro sarà come il passato, solo che capirò perché è così, oppure sarà diverso e allora mi accorgerò che anche il passato era diverso. Ciao. Scrivimi di te.

Nicola aveva una voce molto strana al telefono: c’è qualcosa? Già so cos’è: c’è che si sente in colpa con me per avere ripreso l’amicizia con Ester che le farà fare i lavori per il riadattamento della sua casa. Forse, a parte i motivi pratici e occasionali, si sono ritrovate proprio su una comune ribellione a me, o qualcosa del genere. Dalla lettera di risposta a Emilio: Qiiando mi sono sposata l’ho fatto proprio in un momento di vuoto. Ero finita come segretaria in una rivista museografica, non ero pagata, unico conforto una sede discreta, ma non sapevo come passare il tempo. Qualcuno che si avvaleva della mia prestazione nella rivista, mi parlava di quanto ero fortunata a essere lì, potevo perfino, grazie a lui, inserire qualche foto di arte moderna in quella rivistina praticamente archeologica. Ricordo clic un quadro di Pollock lo pub­ blicarono alla rovescia. Intanto ero stata licenziata da ispettrice disciplinare in un’accademia di danza, facevo quasi la fame, dormivo in una stanza gelata e avevo in corso una ricaduta di TBC. Non sapevo più dove sbattere la testa. Ho conosciuto Raffaele e mi sono rifugiata nel rapporto con lui: ero troppo assillata per potere riflettere veramente. Aveva lati affini a me, un certo idealismo, pu­ rezza, ingenuità, però era chiuso, sospettoso: nel tentativo di comunicare con lui mi sono terribilmente logorata. Forse ero pronta per una vera crisi quando l’ho conosciuto, invece ho ricaricato i miei progetti e sono andata avanti.

21 mar. /^spetto di fare conoscere mio padre a Simonc in una trattoria fioren­ tina dalle alte volte. Poi, girando per le sale della trattoria, scorgo mio padre a un tavolino, solo e che ha già mangiato. “Papà” gli dico “ti aspettiamo di là Simone e io”. Si alza e parliamo un po’. Mi accorgo che una certa parola non sa ripeter­ la, ha delle difficoltà ad articolare, ci prova più volte. Poi vedo che prende una pasticca gialla. “Mi hanno detto che se uno ha sonno la cibalgina...” “Papà” mi affretto io allarmala e commossa togliendogli velocemente la pastiglia di bocca come si fa ai bambini, “hai paura di fare brutta figura... ma tu fai bella figura an­ che se stai zitto, anche se sbagli...”. Poi s’incontra con Simone e vanno insieme

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verso la macchina. Io resto un po’ indietro perché non riesco a raccogliere tutti i libretti e fogli che ho sul tavolo, sono troppi, mi cadono, non finiscono mai. In­ tanto la padrona della trattoria mi fa capire che considera Simone vecchio, poi mi parla di Gallizio con allusione che fosse mio amante, altro vecchio. Chiede “Gallizio come sta? Ci ha telefonato un paio di mesi fa”. “Sarà di più” correggo io “un paio d’anni, infatti è morto”. “Allora era proprio vecchio.” “No... aveva cinquantadue cinquantatré anni”. Sono cosciente di scalargli l’età ma mi dà fastidio siccome non posso riprendere l’argomento e dire che non è stato mio amante, che pensino che fosse vecchio.

All’epoca della pubblicazione di Autoritratto ho dovuto prendere l’ae­ reo dall’Elba per venire a correggere le bozze a Milano, a parte te­ lefonate interurbane interminabili per indicare errori supplementari scoperti poi. In più la copertina me l’hanno cambiata e io ero così dispiaciuta che ho vomitato. Sara mi dice che è nel pieno di un gran casino e io interrompo “Hai litigato con tuo marito?”. Ha cambiato tono “Che dici? Ma dove sei con la testa? E per il libro”. Veramente aveva una voce tale che pensavo peggio. Ci sono complicazioni e vedo che si irrita moltissimo: certo ha diritto a vivere serena, ma io ho fatto sempre grandi fatiche, i miei libri sono stati il meno, a dire la ve­ rità, solo per il femminismo ho consumato un sacco di energie (quan­ do, per esempio, andavo in altre città e parlavo tutta la sera fumando come una turca e mobilitandomi al punto che la notte non riuscivo a dormire, in letti di altri, e la mattina dopo me ne tornavo in treno da sola tutta pallida e sonnolenta, con le occhiaie). Non sono la per­ sona più adatta a metterla sull’avviso, ho altri metri, altre esperienze. Certo, anche la salute ne ha risentito, ma è vero che non mi sono risparmiata, dunque come posso capire che lei drammatizzi qualche incidente? Devo chiarire questa storia degli “Scritti di Rivolta Fem­ minile a cura di”: non significa che debbo essere tutto, dal correttore di bozze, all’interlocutore del tipografo. Secondo Sara sarebbe stato bene essere andate in macchina a Bologna per portare la carta della copertina, da sola non se l’era sentita. Questa volta non mi ero of­ ferta per Bologna soprattutto perché non mi andava, poi ho capito che stavo poco bene. Infatti oggi ho mal di gola, le ghiandole gonfie e raffreddore. Gliel’ho detto, ma è passata sopra. In più, per me è stato un lavoro così assillante e continuo e mi sono dedicata al testo così attentamente che mi sembra davvero di avere fatto il massimo. Anche

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se lei ora non lo capisce, lo capirà in seguito. Se pubblicare libri le è insopportabile, può sempre smettere dopo la prima esperienza, non sarà stata la fine del mondo. Minaccia però di esserlo: oggi, verso ora di colazione, Simone lei e io a studiare sul titolo, tutti diciamo i nostri pareri, salta fuori Una ragazza timida come nuova possibilità. Il marito di Sara lo trova un titolo “stronzo”, io non so più che dire, consiglio Sara di interpellare Agata, che dice un sì titubante. Mi viene in mente che tutti quei foglietti, libretti ecc., che rischio sem­ pre di perdere nei sogni, possono essere la miriade di scritti miei che vorrei raccogliere, mettere in ordine e pubblicare. Non mi sono abituata a me stessa: c’è sempre del miracoloso in come ci si orienta nel mondo. Fa parte del mondo, è il mondo. Mi chiedevo perché scrivere a mio fratello mi ha richiesto tanta diffi­ coltà: mi ci sono applicata molto e sempre con la sensazione di essere fredda e pesante. Ho capito che dipendeva dal fatto che non volevo deluderlo, desideravo moltissimo scrivere una bella lettera in cui lui trovasse l’eco giusta. E questa preoccupazione mi bloccava. 22 mar. Uno può essere se stesso quando vicino a lui c’è qualcuno che vuole che lui sia se stesso. Altrimenti si perde, perché in qual­ che modo finisce per rispondere alle aspettative di chi lo ama o per smentire le previsioni di chi lo sottovaluta. Dopo ritrova le proprie aspettative, cioè se stesso. Probabilmente io davo questa sensazione di volere che l’altro fosse se stesso - perché io volevo essere me stessa e nessuno me lo permetteva. Né Simone né Ester. Sia Sara che Agata hanno sentito questo da me, poi l’ho sentito io da loro. E così via. Adesso anche da Simone che sta scuotendosi dalla sua gelosia. Però alla base c’era che ciascuno voleva essere se stesso. Altrimenti non scatta niente. In Rivolta esprimevo questo bisogno. Oggi mi è venuta la fiducia che chi è rimasta in Rivolta c’è rimasta per questo. Non finisce, ne ho la certezza. Infatti ho capito che chi è se stesso vuole che l’altro sia se stesso, dunque la cosa si espande quando l’altro aspetta di poterlo essere (anche se non lo sapeva). Adesso siamo un movimen­ to. Questa è l’espansione di sé di cui parla Agata nella poesia. Io volevo essere me stessa nessuno voleva che lo fossi allora è spuntata una ragazza

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ha sentito che volevo che trovasse almeno lei se stessa. L’ha trovata e subito ha voluto che fossi anch’io me stessa.

23 mar. Da qualche parte c’è un cataclisma, non so se guerra o fenomeno na­ turale che arriva e noi dobbiamo scappare. Gli altri sono più fatalisti o attrezzati: siamo i soli a partire per terre lontane, due o tre donne e un paio di bambini. E straziante lasciare la casa, non so cosa portare via, cosa ci sarà necessario, cerco di chiederlo, ma nessuno lo sa, e poi c’è una gran confusione. Sono felice di accudire a un bambino in particolare con la faccina allegra, una specie di TitoEmilio che metto a letto, che sveglio: si fida di me. A maggior ragione devo fare le cose bene, ma è pauroso di notte imbarcarsi, ci sono molte incognite. Esco da un grande albergo con altri ed entro in una macchina eccessivamente imbottita e soffice. Osservo “E vero quello che si dice, che la Rolls-Royce è sco­ moda”. L’autista smentisce un po’ sostenuto. Passiamo davanti a una specie di serra-negozio-stazione dove ci sono dei rampicanti, dei glicini con fiori lilla, ma in alto un fiore diverso blu scuro che termina in un ciuffo nero. Simone dice che l’ha già regalato una volta a sua moglie, ma anch’io lo vorrei perche è bellissi­ mo ed esotico. Poi siamo su una terrazza di sera, come a Venezia, intorno a un tavolo e io bacio il mio accompagnatore (Simone?), lo bacio continuamente, poi penso che ho ecceduto a farlo davanti a tutti.

Del cataclisma di ieri oggi rimane una grande stanchezza, proprio le ossa rotte: andando avanti nella lettura dei quaderni, Simone era arrivato dove descrivo una mia relazione. Ha buttato tutto per aria, me contro il muro, ha staccato la doccia del bagno, ha strappato una giacca verde di velluto, ha fatto la valigia, io ho pianto e singhiozza­ to, ero allibita, stralunata, spaurita, angosciata di riflesso a lui che era fuori di sé dalla scoperta dei particolari, minimi, di un qualcosa che già conosceva. Ho visto le espressioni del suo viso, le reazioni, lo sguardo, e ho capito di avere già vissuto tutto questo mentre per lui era la prima volta, e veramente è tremendo. In fondo adesso diventa affine a me, può valutare cos’è entrare nel mondo con alle spalle, a

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parte la storia con mio padre, il voltafaccia di Cesare: mi ero amma­ lata perfino, lottavo per sopravvivere. Invece lui è entrato nel mondo con l’adorazione di sua madre e sua sorella e tutta la loro fiducia. Ho capito quanto è stato solo, non si è mai sentito nessuno veramente vicino, nemmeno me, ma dipendeva anche da lui che mi idealizzava. Riconosceva che non si può vivere se l’altro ti vede diverso da come sei e ti vede così per motivi suoi. Adesso voglio rileggere le mie lettere a lui e le sue a me dei primi tempi. La maniera di superare la crisi ieri sera è stata quella di leggergli io ad alta voce le pagine incriminate e parlare di me. Ho capito subito che la seconda lettura non è così brutta come la prima perché manca il senso dell’imboscata e già sai cosa ti aspetta. Simone mi accusava di avere un atteggiamento distruttivo nei con­ fronti degli uomini, anche Raffaele lo diceva, anche Fausto, anche mio padre. Che ero così veloce nel colpire il punto debole e nel dire le cose nel modo che fa più male. Ricordo che dicevo cattiverie, magari, ma perché mi venivano in mente e sfidavo gli altri nel sapere resistere alla verità. Quando ho letto il diario di Sara “Crisi con Carla” mi sono confermata che resisto alla verità: non potevo accusare lei, do­ vevo accettare di essere stata vasta così da un’amica nel femminismo... Quando ho sperimentato che ce la facevo (e ne ero sicura perché la vàia mi ha pestato ben bene in tutti i versi e la conosco, so com’è, istantanea nel bene e nel male) ho capito che non potevo più avere segreti per Simone. Nel pomeriggio ho sognato: Esco da un portone e vedo passare la Citroen di Simone con lui e Aldo dentro. Si ferma, salgo, Aldo mi chiude gentilmente la portiera. “Niente naturalmente” dico io (alludendo a una mia ricerca fatta nella casa da cui sono uscita). Siamo in un bcH’appartamento tutti e tre e nell’angolo intimo del salotto Aldo parla della sua malattia: capisce dove lo ingannano nelle medicine e dove no, tanto sa cosa c’è dietro. Io sono confusa, ricordo che stasera sono a cena da sua moglie e che lui non ci sarà perche è morto. Sto per dirgli che prendo un appuntamento con lui per stanotte, evidentemente voglio che mi appaia in sogno. Noto che a volte ha un aspetto normale, a volte ha il viso tirato, gli occhi piccoli lacrimosi, non somiglia più ad Aldo, ma a Simone quando piange. Siamo di nuovo in macchina, noto che Aldo adesso è stanchissimo nonostante non lo faccia pesare. Guardandosi nello specchietto retrovisore dice sconsolato che già sta prendendo

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l’aspetto della morte: gli zigomi in fuori, grossi occhi sporgenti nelle orbite. Lo vedo cambiare sotto il mio sguardo e diventare quello che dice. Siamo di nuovo in una stanza della casa: ci sono strani animali di pezza, ma grandi e vivi: un ca­ vallo con lunga criniera bianca, un gattino semi-arrovesciato con unghie acumi­ nate e infine una specie di bambola dal naso piatto e capelli ben pettinati, neri, a treccia, molto vivace. Mi meraviglio e chiedo se è un’ominide, mi rispondono di sì. Una signora ci fa notare che mirabile accordo di toni ci sia tra la tappezzeria e i mobili. Delle cameriere in cresta, grembiulino e vestito nero devono dare da mangiare a un gruppo di persone in attesa come un quadro plastico. Penso che sono polli e verrà dato loro del mangime.

Simone ha accennato che una soluzione potrebbe essere quella di non vedersi per un mese. Anche Sara aveva detto “Semmai può esse­ re chiarificatrice una separazione”, così ho concluso “Giusto”. Invece siamo stati sempre separati, che novità può venire fuori? Piuttosto era importante che Simone avesse ipotizzato che ci potevamo, anzi dovevamo, lasciare, e per qualche momento lo avesse dato per fatto compiuto. 24 mar. Una cosa che mi ha spesso sconcertato è stato scoprire che quando parlavamo di noi con altri, Simone sembrava lamentarsi di me, come uno che, inconsciamente, davanti a testimoni si rivela più infelice e insoddisfatto di quanto crede. Simone dice che mi ama, che gli piaccio così come sono, anzi che gli piaccio proprio perché sono così, però poi non è del tutto vero. Stamani mi diceva che secondo lui, io ho sofferto di non riuscire in una inventività, sottintendendo che adesso che ho trovato fiducia in me, ci riuscirò. Intanto non ap­ prezza quello che faccio come qualcosa che va già bene e ha un sen­ so. Sembra che speri che io scriva un romanzo. Allora è vero che mi succede come ad Anai's con Miller che la ossessionava ponendole di fronte, come realizzazione di sé, un certo tipo di narrativa. Anche Simone lo fa sotto sotto, e siccome non sarò scrittrice mai, oppure già lo sono e lui non se n’è accorto, capisco che non mi accetterà mai com­ pletamente. Fintantoché non avverto che lui smette di vagheggiare qualcosa per me, nonostante tutto il suo amore, non sono presa per quello che sono. Lui è convinto di avermi sempre offerto la parità, ma io non ho abboccato. Adesso mi interrompe per chiedermi “Cos’è la sfiducia in sé’?”. Chiedo a mia volta “Non l’hai mai provata?”.

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Risponde di no: a volte è confuso, non si sente intelligente, ma non perde la fiducia in sé, “Non c’entra”. Intanto divora i miei diari. 25 mar. Chiedo a Simone appena sveglio “Cosa hai sognato?”. Non ricorda; poi no, ha un pezzettino di sogno che però “non significa niente”. Eccolo: è in casa di sua sorella e non può andare al gabinetto perché nel corridoio stretto stretto che ne costituisce l’accesso, il muro verso la cucina sta crollando pieno di bottiglie. Poi viene una ragazza che lo aiuta a reggerlo e lui decide la disposizione delle bottiglie per­ ché non tirino giù il muro. Tutte le difficoltà di Simone pesano anche su di me e soprattutto il suo dolore mi suggestiona, mi sfasa. 26 mar. Mi allontano da vicende anche lusinghevoli c, rifiutando di chiedere in affitto una villa certamente troppo per ricchi, torno sui miei passi. Salendo una scala c’è persino un asino finto, una specie di sagoma in legno sospesa al muro. Faccio un’osservazione e passo oltre, ma adesso sento che rumina vorace­ mente. Il terreno su cui sono tracce di tanti miei avvenimenti è stato coperto da un tappeto d’erba, sollevo il tappeto e intravedo qualche pezzo di carta scritta. Mi sento triste. Cosa posso fare per “scendere” da lassù? Indietro non posso tornare. Così mi attacco a un tronco pendulo accanto alla montagnola dove sono. E bellissimo oscillare sul vuoto e scendere in questo modo. Non so dove i tronchi sono attaccati, ma, passando senza peso da uno all’altro, ho finalmente la meravigliosa sensazione di toccare terra con la punta del piede. Ieri Sara mi aveva chiesto di prepararmi a correggere il suo secondo libro, che vuole pubblicare al più presto. Non ho avuto la prontezza di dirle che vorrei intanto rivedere un po’ il mio diario e ordinare tut­ to quello che devo inserirci da scritti del passato. Questo perché an­ cora mi sembra incredibile che da tutta quell’accozzaglia di momenti e momenti salterà fuori proprio me stessa. Quando ho letto i primi fogli del suo diario, l’anno scorso, le ho subito proposto “Lo pubbli­ chiamo”. A me ancora non è successo: Simone mi spinge sulla strada delTinventività, Sara mi ha consigliato di aspettare... a pubblicare il mio diario, come Anai's, dal momento che parlo di gente conosciuta. Allora mi sento un po’ messa da parte. Ho delle difficoltà con Paula: mi smentisce sulle piccole cose mo­ strando noncuranza. Quello che mi piace in Sara è che lei è pignola come me, non intercala mai “Non so, non capisco” come fa Paula.

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Al contrario vuole riempire tutte le lacune. Anche Anita è così. Paula snobba le cose, come la volpe con l’uva. Sono un tipo più nervoso di lei, però con il suo sistema mi innervosisco ancora di più, non mi cal­ mo. Insieme parliamo spesso delle altre, del gruppo, del movimento, sono sempre mimetizzata. 27 mar. Già alle due di notte, svegliandosi Simone aveva diversi fram­ menti di sogni da raccontare. La notte è un cinematografo dei più strani. Sono su una montagnola ripida e scoscesa: un gruppo di esserini viventi in una specie di impasto è già un balzo più sotto, non riesco a buttarci anche un gattino che ho in mano. Faccio per metterlo in tasca e poi scendere io a portarcelo, ma lui si divincola e sfugge. Diventa una specie di bambina piccola oppure di nana che salta lentamente un dislivello e poi, fulminea, fa tre capriole su se stessa. Si rialza come una palla e mi si para davanti sorridendo in modo singolare. Incontro Claudius e poi una ragazza: tutt’e due stanno andando a comprare qualcosa. Peccato che lei non si allontani. Lui mi dice subito, en passant, che ha avuto una storia in un viaggio che ha fatto. Apprezzo molto questa confidenza. Se ne vanno. Intanto che aspetto faccio una specie di gioco con una scopa e qualcosa di pesante e terroso, poi do un bel colpo come giocando a golf, e lo prendo in pieno. Mi volto per vedere se quei due tornano, mi pare di scorgere Claudius nella folla, poi me lo trovo alle spalle tutto allegro con camicia estiva: è divertito per avere visto quello che combinavo. Sono a letto con uno che non conosco: ha delle difficoltà sessuali, io sono molto comprensiva e cerco di rassicurarlo, però poi si alza. Sono seduta sul letto in camicia da notte trasparente e sto tutta composta perché nel frattempo sono entrati il verduraio e altri. Due mi appoggiano delicatamente una mano sulla gamba e dicono “Come sei calda”. Poi arriva una ragazza genere sexy e fa un sacco di gesti erotici. Tutti la guardano. Io mi lancio verso di lei “Stronza!, però mi ritiro subito perché vedo che il suo partner è un’altra ragazza con cui si butta sul letto sempre in modo esibizionistico. Penso ugualmente che è stronza.

Quest’ultimo sogno mi viene dal fatto che un’amica, femminista di un altro gruppo, mi ha parlato dei suoi dubbi sulla teoria clitoridea: ha avuto un rapporto sessuale con una donna, rapporto che implica­ va la vagina. Io l’ho sognato come un incontro tra emancipate.

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Stamani un tocco di grottesco: un tale, un gallerista (!), mi propone di diventare manager di un partito delle donne, i finanziatori ci sono già, occorre solo una donna dai coglioni così, una matta, basta che siano in due o tre a capire, le altre vengono dietro ecc. Andando a scegliere dei gioielli con Simone ero nervosa perché te­ mevo che alla fine non avrei fatto in tempo a incontrarmi al Parco con Sara, cosa da cui mi aspetto il ritrovamento deirequilibrio, e poi avevo timore di essere costretta ad acquistare qualche oggetto alienan­ te. Siccome il cognato del gioielliere è uno scultore famoso e c’erano anche pezzi suoi, Simone mi ha consigliato di prenderne uno per gentilezza. Ma siccome quello scultore mi è antipatico e le sue cose mi sembrano cafone, ho detto no. Anche a me piace essere gentile, però non ce la faccio a recitare la commedia, neppure se è scontata e nessuno pretende che io sia sincera. Il gioielliere era pieno di vivacità nel descrivere i suoi oggetti, alla fine ero allegra e me ne provavo qualcuno davanti allo specchio. 2 apr. Com’è bella la mia vita! Posso dirlo, nessuno spirito invidioso mi farà temere una vendetta. Come mi piaccio adesso, a quarantadue anni, come sono io nel mio corpo; come riconosco le mie linee, la mia pelle, il mio colore. Come sono stata puntuale con il mio destino, come tutto accade nel minuto secondo in cui deve accadere. Come sono saggia, paziente, lungimirante, intuitiva, rapida, graziosa, scher­ zosa, felice, tenera... Saggia perché non ho bruciato il mio rapporto con Simone prima e, vivendo lontani, siamo riusciti a essere contem­ poraneamente freschi e conosciuti l’una per l’altro adesso in cui tutto è possibile, in cui posso volere tutto. A Roma Simone ha riletto la sua agenda del periodo dei “tradimen­ ti” e ha assaporato tutto l’amaro della situazione. Ha rivisto i suoi gesti sullo sfondo dell’“inganno”. La gelosia è una malattia terribile, con le sue fasi, le sue punte, gli an­ ticorpi. E probabile che un anticorpo sia il ricambiare il “tradimen­ to”, cioè mettersi alla pari, togliersi dalla condizione di auto-compiangersi. Forse anch’io ho fatto così a suo tempo, lo farà anche lui. Ho parlato di me a delle donne e me ne sono pentita molto, avrei voluto non fosse successo. Il loro atteggiamento è scoraggiante. Intanto una donna accom­ pagna un uomo scendendo con lui nell’aria verso una piazzetta sottostante: lo

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accompagna da qualcuno che sta morendo. Sono stupita perché sembra senza peso, ma mi fanno notare che è su una teleferica. Va sicura e dritta alla meta, un angelo custode perché l’uomo soffre.

Claudius mi ha scritto una lettera! Non era possibile che io pensassi a lui ogni tanto e lui non pensasse a me ogni tanto. Cita da un mio scritto riferendosi a una sua opera. Scherza e tasta il terreno. Aggiun­ ge che ne parleremo “tra pochi giorni”. Mi piacerebbe andare avanti con lui su un piano di confidenza, come mi era successo in sogno, è un amico. Per ora il riferimento è sempre il lavoro, si rivolge a me come alla sua critica. Comunque nella lettera ho avvertito la solita fiducia. I rapporti mitici sono fermi, se si rompe l’incantesimo tutto è finito, con Claudius sembra che non sia così. Lunga chiacchierata con Sara fino all’una e mezzo di notte. Siamo andate a ruota libera nelle nostre sensazioni: di là non c’era nessuno che potesse dispia­ cersi di essere rimasto solo. Bisognerebbe vivere insieme lasciando vasti spazi a ciascuno per mantenere in parte le abitudini di quando si è soli, in parte per lasciare il senso dell’imprevisto. Simone dice che l’imprevisto è l’aspettativa del principe azzurro. Invece per me è lo sviluppo delle situazioni. Fino da piccola soffocavo e crepavo con l’incubo che le mie mosse fossero inopportune e che il meglio fosse lo status quo: non c’era niente da scoprire, solo da convincersi quanto lo status quo fosse profondo, inamovibile. Ci volevano delle doti per fare questo, delle doti morali, di stabilità, di sensibilità e di intelligen­ za insieme. Io non le avevo, non ero all’altezza dello status quo, mi sfuggiva quanto ne fossi indegna, quanto ne avrei tratto beneficio, quanta felicità avrei seminato in me, negli altri.3 3 apr. Al telefono Simone aveva una bella voce tranquilla: so che ci vuole del tempo, importante è che non mi lasci coinvolgere. Secondo Sara io sono troppo comprensiva verso Simone rispetto a quanto lui lo è verso di me: se riusciva a stare tanto a lungo senza la mia presenza vuol dire che ero nella sua testa piuttosto che come persona con cui vi­ vere. “Potevi anche essere morta che ti avrebbe amato lo stesso.” Non è da escludere, ma anch’io reagivo nello stesso modo, vorrei capire se era una conseguenza all’atteggiamento di Simone. Certo non potevo perdere il mio equilibrio e andare a stare a Roma con lui, allora così diverso da me. Rispetto a Sara io ho avuto interesse per uomini più

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sofferenti, avevo bisogno di questa allusione, anche se poi erano alle­ gri, o timidi, o emozionali, mentre suo marito, che lei definisce “senza problemi”, con una certa saggezza, e di cui conosco solo la voce giova­ ne e precipitosa, mi pare proprio uno allergico alla sofferenza. 4 apr. E una bella giornata con il sole e il cielo limpido, ero sicura che avrei fatto due passi con qualcuna, ma nessuna ha telefonato, neppu­ re Paula che mi aveva detto “Mercoledì stiamo un po’ insieme”, e io subito avevo dato significato a queste parole. L’ho chiamata, ma era già uscita. Curioso che mi capiti questo sempre con lei: ogni tanto dà l’impressione di promettere, invece è al solito casuale. Ala proba­ bilmente anche lei è disorientata nei miei confronti: finché eravamo “solidali” non si accorgeva di ciò che non andava, adesso mi sembra che scopra i miei difetti come una che non se li aspettava. Adesso mitizza Sara. Comunque è inferiorizzata, così anche lei sta meglio quando scado ai suoi occhi, mentre io sono stata finalmente bene quando chi inferiorizzavo (senza saperlo) mi è apparsa così simile a me che sono stata felice di somigliarle. Ancora adesso mi meraviglio e mi confondo per la grande fortuna che ho avuto incontrandola. Se non la trovavo era terribile e non avrei mai saputo quanto. Mi sono alzata per telefonare a Isa, poi mi sono seduta di nuovo. Farei bene a chiamarla, è una ragazza molto cara, ci telefonavamo spesso l’anno scorso, però temo che non mi sentirò a mio agio, cercherò di chiarirle qualche punto chiave. Lei sarà così ammirata. Adesso capisco cos’è la convivenza, in fondo non l’ho gustata mai, né con Raffaele che era sempre occupato in qualche impresa, né con Simone perché era un’eccezione stare insieme, non un modo di vita, allora aveva un altro fascino. Una giornata come oggi in cui non ho trovato contatti neanche per sbaglio, ma solo seccature - due ragazzi­ ne delle scuole medie, due ex-frequentatrici saltuarie di Rivolta, qual­ che telefonata marginale - non sarebbe mai potuta accadere. Quando Simone è qui può capitare di tutto, ma non che mi senta così sola che è anche bello, come quando ero ragazza in qualche camera d’affitto e andavo su e giù per la stanza come una teleferica. Quando c’è Simone è più semplice tutto, uscire a passeggiare, a fare la spesa, telefonare, mangiare, riposare, girare per la casa, dormire. E tutto più ovvio e tranquillo. Il tempo è occupato da una cosa precisa: stare insieme. Così è vuoto, ma aperto, eccitante, stancante... con lui è pieno, in par­

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te bloccato, in parte tutto da godere. Quando è qui scrivo meno, forse: sto bene, oppure qualcosa si ripete ed è inutile scriverla... Strana, la convivenza: è come un risucchio che ti allontana dagli altri oppure te li fa vedere senza troppa esigenza, ne faresti a meno, quasi, aspettere­ sti un momento più propizio. Coccolarsi, stendersi, dondolare è così riposante, dolce, sufficiente: perché muoversi, cercare, scuotere, ten­ tare... Quell’amica, c’è sempre il controllo, la correzione anticipata per non essere mal interpretata, la cosa taciuta... Ma i tanti servono per l’imprevisto. E allora? 5 apr. Trovo una casa molto bella, un po’ antica, con tanto sole, luce, piante,

aria e spazio attorno. Ricordo la sensazione, il colore dorato più che l’immagine. Poi sono in una casa con un uomo di fiducia (Simone suppongo) e Tito che ospi­ ta un amico. Piano piano riducono una stanza così sporca che si vedono fiotti di merda, una specie di allagamento. Io do in escandescenze, ma Tito molto autorevole mi mette di fronte la stanza di nuovo pulitissima, bianchissima con un letto appena fatto e lenzuola di lino.

Al telefono Simone esordisce “Sono qui in riunione con gli amici architetti e ingegneri”. Ciao, bello mio, in che pianeta sei? Proprio nel femminismo mi sono accorta che i gesti inautentici cominciano con il difendere e diffondere un proprio prodotto, con il volere che sia varato in mezzo agli altri nel modo migliore possibile. Invece uno si perde, semplicemente, oppure rimane diviso a metà, una parte li­ bera, una parte accorta. Ho riletto Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi. Come ave­ vo paura delle donne quasi più che degli uomini! Mettevo barriere ben precise, avevo in sospetto faciloneria e laissez-aller. Me la prende­ vo con l’uomo, ma la mia preoccupazione erano le donne vaginali. Esprimevo questo: “L’uomo vi disprezza, e sbaglia, ma voi siete disprezzabili!”. Non sapevo se ce la faceva a nascere la mia razza in quella razza. Adesso che non sono più sola con loro, con l’ansia di combattere una battaglia perduta, che loro potevano farci perdere, riesco a guardarle per quello che sono. Nuova telefonata di Simone: stranamente anche lui stamani ha ri­ letto Significato dell’autocoscienza. Ne è rimasto angosciato: ha vissuto tutto questo tempo con sensi di colpa come uomo, e non sapendo come uscirne. Dice “Scrivimi quello che sono per te”. Forse Simone

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è come me: il prototipo del trapasso. Tutti e due siamo quelli della “via difficile”. 6 apr. “Non uscirò di qui finché non avrò risolto questo mistero!” esclama Topolino sulla copertina di questo nuovo quaderno. In ritardo di corsa all’aeroporto con il fiato sospeso a ogni semaforo e poi ho perso l’aereo per Pisa. Che fare? Che fare? Di corsa tra il telefono, le informazioni, le prenotazioni. Simone sarà a Pisa alle 22, e io? Finalmente trovo sollievo nella prospettiva di andare subito in treno via Genova, a Pisa, arriverò stanotte all’1.20. L’agitazione mi è passata, il treno è economico, va bene: quando faccio una fesseria la cosa peggiore che mi può capitare è che, per rimediare, debba spen­ dere un sacco di soldi. A Genova telefono a Piera: è molto cara, sono stata io troppo impaziente di vedere scoccare “la scintilla” anche nel­ le altre. Sono stata quella di sempre: impaziente nel sollecitare. Ho cominciato a battere a macchina il mio diario di settembre (non dall’inizio, da agosto, perché?). Il mio problema allora era la mia sfi­ ducia in Ester, mi rendevo conto che eravamo diverse e che io temevo la sua prevaricazione, scoprivo che c’era qualcosa in lei che mi spa­ ventava, però non osavo credere alle mie sensazioni, avevo messo lei al di sopra di ogni sospetto. Pensavo che era in buona fede, ingenua, io piuttosto ero colpevole a dubitare di lei. Però il problema per me era troppo grosso e si ingrossava sempre, così non facevo altro che parlare di me e lei. Ester non sapeva niente di me, niente... Come con Marion, mi era più facile parlarle dei rapporti andati male, quello con mio marito, per esempio, che di quelli andati bene. Quest’estate Ester aveva confidato a Sara, come un segreto da non rivelarmi, che a Simone piace avere intorno donne giovani. Così come è stata lei a ingigantire la storia che Simone stava dietro a Nicola mettendo zizzania tra loro due. Sentivo che non potevo fidarmi, e non parlavo. Questo mi dava senso di colpa. Una cosa che mi piace in Sara è che spesso risponde dopo una picco­ la pausa a quello che ho detto; in quella piccola pausa ho il tempo di pensare che mi sono dilungata troppo, o ho preso un argomento che non le interessa, invece poi porta avanti la cosa con molta precisione, e mi lascia soddisfatta. A volte mi sembra che altre strascicano l’argo­ mento per gentilezza o perché non sanno come cambiarlo. Sono molto contenta, mi fa bene rileggere il diario, mi libera ancora.

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7 apr. Al pranzo, motivo della nostra andata a Pisa, c’era un ter­ zetto grottesco: padre madre figlio. Si parlavano continuamente con intensità per scherzare, litigare, chiamare in causa. Si guardavano negli occhi. La madre mezza sorda, mezza zoppa, una megera sem­ pre con la sigaretta in bocca, abbracciava e carezzava tutti, marito, figlio, amici vari, camerieri. Al tavolo, svelta come una nana riempiva i piatti, passava le pietanze da un piatto all’altro, i vini da un bicchiere all’altro, poi porgeva piatti e bicchieri. Lo sguardo carezzevole, op­ pure ricattatorio, complice. Ballava con il figlio in modo erotico agi­ tando le braccia e i fianchi, prendendo l’espressione di provocazione al maschio. Il figlio, un mulino a vento di intellettualità di provincia, corrotto come un cinquantenne, cioè come il padre. Beh, ho avuto la delusione che Simone si è commosso di loro tre, dei loro rapporti, come un Fellini qualsiasi. 8 apr. A noi, Marion, un’altra e io, si aggiunge un ragazzo che ne sembra degno. In una casa scoppia subito la persecuzione contro di noi: io aiTcrro un malvagio e lo immobilizzo con le braccia dietro la schiena. Mi meraviglio di me stessa, so che gioco il tutto per tutto: la stanza è nella penombra, non capisco cosa succede. Il ragazzo sembrava attento a me, poi non lo è più, si occupa di Marion o non so. Intanto il mio prigioniero si divincola e mi fa male muovendo un’anca: io riaggiusto la presa e lo butto su un termosifone. Sono sola, non mi fido più di nessuno. Marion ha una crisi violenta di dolori di pancia come se fos­ se stata avvelenata, l’altra è salva, ma ha un dito sporco di merda. Quest’ultima si vanta su come è stato facile sfuggire alla persecuzione dei nemici, è tutta alle­ gra. E io cederò? Poi sono con Marion, tranquilla, che conversiamo. Lei parla di quello che è successo come di un film, anzi ha notato che alcune riprese fatte in Grecia, sicuramente non sono su un promontorio, ma su un altro... 9 apr. Io e Tito, un bel bambino rotondo, dobbiamo ucciderci. E mia la re­ sponsabilità di lutto, lui non sospetta niente. Abbraccio affettuosamente Felicita che sta partendo, lei si insospettisce “Che c’è?”, ma non glielo rivelo. Ho aperto due fiale di, forse, LSD, ma non le beviamo, le abbiamo legate a un braccio in modo che gocciolando ec.1 evaporando ci inebrino e permettano di ucciderci. Cerco di telefonare a qualcuno, forse c’è una via d’uscita, a un medico, a un dentista, ma non trovo nessuno. Ci riprovo. Vado a cena con il suocero di Lucia, Z., in una specie di cantina con arco e lì troviamo Claudius che Z. invita a cenare con noi. Claudius e io usciamo fuori, parliamo, poi dico che dobbiamo rientrare

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altrimenti Z. si offende. Passiamo davanti a una bella ragazza negra che rivela di essere una “cozca”, una femminista di quel gruppo, il primo di una rassegna. Lei mi sembra un po’ una vamp, ce ne andiamo. Z. non si è seccato, anzi è molto normale. Al tavolo c’è un negro che è al corrente della rassegna delle femministe. Anche lui parla delle “cozche”, ma poi fa un gesto, come dire che rompono le palle. Mentre gli uomini giocano al calcio, succede qualcosa di fulmineo: un giovane biondo arriva correndo con la mano su metà faccia che si gonfia a vista d’occhio, un altro si fa avanti portando un bambino esanime. Non vedo più il negro, ma penso che è lui, o altri come lui, la causa di questo. Mi consigliano di andare a fare provviste di olio, prima non ho fatto quelle di marmellata, è me­ glio. Mi dirigo verso la campagna con Tito e lascio tutto alle mie spalle.

Mi sono alzata con il mal di testa come quando mangio aglio. Poi è scoppiata una lite con Simone perché improvvisamente mi sono ac­ corta che non ho voglia di andare in Sicilia per Pasqua, tutto quello che mi propone lui mi stanca, non c’entro io con certa gente. Non so cosa voglio. Vorrei stare sola per un po’ - un giorno, una settimana, un mese, un anno? - Simone, così attaccato a me, mi dà troppo senso di responsabilità e in parte mi stanca: mi precede in tutto, non faccio in tempo ad accorgermi di un mio desiderio verso di lui. Oggi abbia­ mo ribadito che a lui più di tutto preme il lavoro, a me i rapporti con gli altri. Non capisce che se faccio quello che voglio, mi accorgo che voglio lui, ma se non lo faccio, credo di volere tutto fuorché lui. Stando insieme più a lungo di prima o almeno con l’intenzione di stare più a lungo di prima, mi sento prigioniera se non lo vedo muoversi anche indipendentemente da me, mi dà un po’ l’impressione di un padre che mi sorveglia e non è contento se mi vede troppo attratta da altro. Questo mi procura senso di colpa e allora faccio delle liti; se non litigo, Simone comincia a trattare e portare argomenti. Comunque ha am­ messo di avere nostalgia del suo studio di Roma. Un altro punto è che io non posso fare relazioni pubbliche per lui, con lui, come è successo a Pisa. Potremmo vivere con niente ed essere tranquilli, starcene al riparo dal momento del vendere, invece Simone deve guadagnare per realizzare le sculture, e poi per i figli. Oggi il maggiore gli ha scritto “Guadagna soldi, vecchio padre, guadagna soldi”. Tanto non bastano mai, e bisogna sembrare più ricchi di quello che siamo... E poi è brutto per me non avere soldi miei perché mi rimane un disagio sia nell’adoprarli che nel non adoprarli, e poi vedo che Si-

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mone ha una familiarità a me sconosciuta nel disporne anche con balordaggine. Perché sono suoi. Non sono miei, qualsiasi cosa accada non sono miei. Ho proprio voglia di andarmene, come Adolfo che si è ritirato in campagna, Punica persona che io conosca che ha lascia­ to perdere la storia del lavoro come fonte di guadagno. L’artista in fondo vuole diventare ricco, vuole bei ristoranti, alberghi di prima, comfort, casa, villa, giardino, isola, macchina, aereo... Così richiede alla moglie quelle prestazioni mondane che alla propria richiede il fotografo, l’industriale, il commerciante. 10 apr. Devo insegnare a una ragazza come essere Marilyn Monroe. Arriva una biondina insignificante, molto spigliata e io le mostro subito un gesto del repertorio. Lei sembra che lo conosca “Sì sì” dice “con un movimento del fian­ co”. Sono sorpresa che abbia colto acutamente quel particolare che a me era sfuggito. Mi viene il dubbio che lei sia Marilyn Monroe. Sono un pesce dell’oceano ma nuoto in una vasca sono un uccello dell’aria ma volo in una gabbia. Come faccio a tornare nell’oceano? Come faccio a tornare nell’aria?

Con Simone parliamo tutto il giorno, non ho più energie per il resto. Se comincio alle 8 di mattina, alle 10 sono a terra. Prima non me ne accorgevo perché era tutto saltuario e non avevo tempo di farmi 11 quadro della situazione. Anzi mi piaceva parlare molto, tanto poi si creava un equilibrio con i silenzi dei periodi in cui ero sola. Ora tutto questo comunicare mi fa confusione, tanto più che certe cose devono maturare con il tempo, inutile insistere. Però Simone è più sereno, il momento della gelosia è passato, di nuovo desidera solo che 10 sia contenta e mi dedichi a quello che mi rende contenta. Adesso 11problema sono solo io. Mi faccio girare la testa da me stessa. Sono una buffona ed eccomi qua tranquilla come se niente fosse stato. Sono andata a cena da amici di Simone: pare si concluda con Turicchi, lui ci metterà due sculture, per fortuna che è stato deciso così invece dei soldi. E la mia campagna amata di ieri l’altro notte, proprio un bisogno e un sogno.

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11 apr. Grazie di una bella matdna con il sole dopo giorni di pioggia (che Sara diceva “Durerà altri dieci giorni”: mi aspettavo che ci az­ zeccasse anche con il tempo?). Grazie che non ho mal di testa sebbe­ ne abbia mangiato un bel po’ di aglio. Grazie di avermi fatto sognare stanotte che Ester si stringeva leggermente a me e appoggiava il suo viso contro il mio. Grazie che Tito è andato a scuola avendo studiato 11 francese e mangiato una buona colazione. Grazie che Simone è qui (ora è uscito un attimo) e guardandolo tra il sonno, mi sembrava allegro. Grazie che oggi vengono uno da Torino e uno da Viareggio per definire un affare, e un artigiano del marmo molto simpatico. Simone è arrivato con brioches e latte fresco. Sono per strada, e una bambina bruna, ricciuta, con una racchetta da tennis, cerca di colpirmi. Io paro i colpi con la mia racchetta da tennis, mi sento sicura, ma un po’ imbarazzata, un po’ divertita. Poi mi accorgo che la mia racchetta è strana, come girata di fianco; la raddrizzo, riprendo il gioco di parare.

Felicità fino all’ebetudine oggi con Simone. Felicità a un tratto, ac­ cordo, risate, tenerezza, familiarità. E l’idea che non è provvisorio, ma duraturo (per quanto dureremo), tutto questo stare bene insieme, trovarsi adatti reciprocamente. Al pomeriggio siamo usciti a compra­ re della tela per lui, poi abbiamo cucinato del pesce: c’era un amico di d ito a cena. Dopo mangiato Picasso alla TV e Totò. A un certo punto Tito mi dice “Siediti sulle mie ginocchia”, e Simone “No, vieni qui”, mi tiravano, alla fine ho scelto ddto, mi piaceva sentirmi con­ tesa. Sul tardi siamo andati a passeggio per il centro quasi deserto, l’aria era pulita, guardavamo i negozi dove tutto sembra così bello, ma addosso fa subito signora e non si può portare, è lì che mi è venu­ ta la sensazione di come è fantasticamente ebete la felicità. E come prima mi faceva paura proprio per questo. A dare la sfumatura con­ trastante, ho una specie di tensione al cuore che mi procura fastidio di tanto in tanto. Può essere una dose di tiroide troppo alta? 12 apr. Simone ha rovinato la mia giornata pretendendo che assi­ stessi all’incontro con la signora di una ditta che fa un cambio di pol­ trone con noi. Sono dovuta tornare dal Parco, Sara se ne è andata in libreria, un’interruzione inutile perché quella tale è arrivata in ritardo e io comunque non ho assistito alle trattative. Le poltrone le avevamo

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decise la mattina ed erano delle belle poltrone. Allora sono sbottata come mi capita, e mi spavento di me stessa. Simone si è infuriato, ma più che altro rimane male e diventa serio. Allora la giornata mi si è finita di rovinare perché oramai ero di un malumore sotterraneo, con la sensazione di dover “riparare ai miei eccessi”. Io ho qualcosa che mi fa sentire squilibrata a volte, è che non posso sopportare interfe­ renze, pressioni, ricatti. Non posso sopportare di obbedire a qualcu­ no. Sono intollerante e non posso farci niente. Per me la convivenza è difficile. Mi va bene un tipo come Simone, però non sopporto la sua dipendenza da me, e soprattutto il volermi continuamente insieme. E un po’ geloso di Sara, ma qui non posso proprio accettarlo: se mi leva l’ossigeno si ritrova un cadavere. Togli di qua, togli di là cosa gli rimane? Una me stessa semispenta o in stato di follia acuta. Non posso stare “solo” con lui. Secondo Sara, tutte volevano essere mie amiche nel gruppo. Non è proprio vero: volevano essere ascoltate da me, aiutate da me, in con­ tatto con “la prima femminista di Rivolta”, ma di “me” cosa gli in­ teressava? Chi mi cerca adesso? Chi ha capito qualcosa di me che l’abbia spinta a stringere maggiormente i rapporti? Chi viene ancora, Jo, è perché parliamo dell’ambiente artistico che frequenta e in cui vuole orizzontarsi; persino Paula mi si rivolge sempre come alla capo­ gruppo, se le parlo di me è sorpresa, non mi conosce. Anche a Sara metto a disposizione il mio dossier di fatti, giudizi, sensazioni sul mon­ do in cui ho vissuto e lavorato come critica d’arte. Forse queste chiac­ chierate mi fanno venire voglia di telefonare a Claudius, dal momento anche che mi ha scritto. Ma non so come inserirlo. Se continuo così, arriverà l’estate senza che io prenda nessuna iniziativa. Finché vedo in Simone un guardiano è sicuro che non potrò essere a mio agio e che qualcosa di poco rassicurante continuerà a covarmi dentro. Non ho mai potuto sopportare che mi si precludessero rapporti con altri. Mai. 13 apr. Una volta che ho confidato a Paula dei miei conflitti, lei si è affrettata a interrompermi “No, per me non era così, mi ero troppo svalutata, tu eri troppo sicura di te”. Mi manca una che possa capire cos’è stato per me fare tutto da sola fino a quando ho trovato Sara. E comunque anche lei ha un’esperienza diversa. Io ero il profeta: il profeta è solo, e alla fine è beffato “Stupido profeta, cosa ti eri messo in mente, profeta”. C’è qualcosa che non posso comunicare, neppure

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a Sara, s’irrigidisce. Quando altri mi rimandano l’immagine di me dal passato sono indifesa: nessuna poteva capirmi allora, in qualche modo stavo rischiando la mia vita. Piango su di me, su tutto quello che è stato “la via difficile”. Ero incompresa proprio nel mito che le altre si facevano di me. Perché non ho incontrato Carla Lonzi? Perché ero io Carla Lonzi?

Poi Sara si è liberata del mito di me, e mi sono sentita incompresa due volte. Così mi sono inoltrata nella via che ho sempre avuta parallela a quella deH’afTermazione di me: la via della rinuncia e del “martirio”. Io posso volere tutto, posso rinunciare a tutto. Dopo avere parlato due ore con delle ragazze di Lugano ero morta, ma allegra. Mi sono ricordata la fatica bestiale quando facevo questo sedici ore al giorno, la stanchezza e l’euforia. Le sigarette che fuma­ vo, il cuore mi batteva dall’emozione, dalla nicotina. Adesso più che battere pesa, è sforzato, arrochito, affannato. Quando sono serena va tutto bene, ma con Simone è difficile: stamani siamo usciti insieme, di buon umore, abbiamo persino comprato delle pensées blu, gialle e pervinca. Però al pomeriggio diceva che è la fine, che ci stiamo la­ sciando. Non sapevo che ribattere, ero stanca di argomentare... Dopo una telefonata di Vincenzo, usuale, ma con qualche battuta scherzo­ sa, leggera, interrogatorio velato di Simone che io anticipavo raccon­ tando tutto particolareggiatamente. Però la gelosia è più forte di tutti e due. Diceva “Mi sento un incapace”, e più tardi “Mi hai riserbato un posto di merda”. Verso l’alba era sveglio e rigido lontano da me; ho cominciato a parlargli perché non aspettava altro che sciogliersi e da solo non ci riusciva. 14 apr. Sto arrivando in un grande albergo verso sera, albergo pieno di artisti

in occasione di una grande mostra collettiva come a Kassel. Ho timore che Claudius si offenda dal momento che ho trascurato di andare alla sua mostra. Non so se c’è, penso di sì. Intanto nella mia camera si installa una coppia, io sono a tavola con Simone, temo di avere lasciato su la borsa e qualcosa di perso­ nale. Nella hall vedo che ci sono Claudius, sua moglie e una loro amica. Lui non è come lo ricordavo: disinvolto, non fa capire niente di sé. Scambiamo battute a proposito del mio andare o no alle mostre. Faccio altre cose con Simone e ami­

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ci, scendiamo in paese. Ma una volta in albergo c’è un attimo in cui sono con Claudius e sua moglie: parliamo guardando qualcosa su un tavolo, Claudius mi prende un polso fra le dita, io ricambio sfiorandogli un braccio mentre gestisce, ancora lui mi stringe un po’ il polso. Mi passa per la mente “Chissà se la moglie ha notato”. Mi spiace che parlano, mi chiedo che senso ha il gesto di Claudius. Lo interpreto come “Ha nostalgia del mio polso”. Succedono altre cose con­ fuse, infine alcuni artisti tedeschi, jugoslavi, mentre ci accomodiamo assieme a Simone su una macchina, confessano che è vero qualcosa, tipo essere partiti con l’idea di arrivare, competitiva; e lo fanno a mio riconoscimento.

Simone è serafico, leggero, la sua presenza mi dà gioia. Parlando di Raffaele, sua sorella se ne lamenta come di uno che comunica agli altri la sua angoscia. Curiosa l’attrazione che esercitavano su di me gli uomini ossessiva. C’è un momento in cui sembrano sull’orlo della rivelazione di sé, e poi no, non accade. Il sé assilla e trapela molto più che in un essere “normale”. Raffaele non si distrae mai da sé, ma non può essere se stesso con il suo benestare... Adesso anche Simone ha capito che è inutile insistere che si occupi un po’ di Tito: non è in grado di dedicarsi ad altri che a se stesso, tutti eravamo destinati a frustrarlo, ad apparirgli nemici. Tito non può rimproverarmi se gli ho risparmiato questa esperienza e nello stesso tempo l’ho fornito di un vice-padre su cui contare. Ancora mi viene commozione per me stessa alle prese con uno dalla mente ferrea che non ammetteva né concedeva niente e mi caricava dei suoi sensi di colpa. Ha rischiato di farmi impazzire, mentre ero la donna meno adatta per dargli le garanzie inesauribili di cui ha bisogno. Quando discutevamo diceva “Vorrei che ci fosse un testimone, non ne usciresti con la tua arrogan­ za”. Una delle sere in cui mi sentivo respinta da Simone, ho avuto il dubbio che anche lui pensasse la stessa cosa. Due esseri possono esse­ re vicini o lontani, ma c’è un punto in cui sono infinitamente lontani. A volte Sara mi sembra un po’ troppo saggia, si reprime specialmente con l’amico. Se n’è accorta, dice di desiderare un uomo con cui avere più scambio mentale ed erotico. Confrontandomi con lei, ho consta­ tato che non mi stimola eccessivamente prendere iniziative negli ap­ procci con l’uomo, mi interessa la sorpresa; quanto al rapporto uma­ no sono maggiormente io a creare sviluppi e movimento perché so stare nella corrente, la secondo, la precedo, la scopro più facilmente...

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15 apr. Tante case. In una calda luce clorata. Pare che tutti abbiano provvisto ad assicurarsene una, solo io ne sono sprovvista. Lucia dice di ammirare molto un certo critico d’arte: sono tutta felice di dirle che è mio amico, anzi ho preso la laurea con lui, mi ha dato 110 e lode. Lo imiterò un sabato per lei. Intanto Lucia guarda fisso a terra con occhi un po’ dilatati oppure parla animatamente con un Prof, di Giulio Verne e di certe traduzioni arretrate.

La prima idea di un film su di me è stata quella di un pianto irre­ frenabile, quando Sara mi ha portato a riflettere che fare un film è possibile. Di fronte alla macchina da presa avevo lo stesso complesso che di fronte a una macchina fotografica o a un’automobile, oggetti meccanici e nello stesso tempo cari e cari da usare, mentre penna e carta non costano niente. Nel passato avevo avuto una forte delusio­ ne quando mio padre mi aveva rifiutato il pianoforte e, più ingiustifi­ cato, un fuso con cui sognavo di filare la lana che le pecore lasciava­ no sui rovi, in campagna durante lo sfollamento, per farmi un paio di calzini. Così non ho mai desiderato di possedere una bicicletta, non dico l’automobile. La prima macchina da scrivere l’ho presa a rate da un amico impiegato all’Olivetti. Nella mia indifferenza più manifesta, Simone ha acquistato una buona macchina fotografica e un’ottima cinepresa, qualche anno fa, e recentemente un registra­ tore fono-stereo-multi piste... Ma io niente, ero legata ai miei mezzi da povera, avevo ormai il complesso degli strumenti e del loro uso costoso. Sara mi ha tolto da questo pasticcio, rivelandomi quanto costa una pellicola a colori, adoprandola senza timore anche se con parsimonia, facendomi capire che avrebbe desiderato che fossi io a filmarla qualche volta. .Allora mi sono sbloccata e ho sentito che con quel mezzo sono vergine, posso esprimere sensazioni ex-novo, men­ tre scrivendo non so più da quanti secoli lo faccio, quando ancora nessuno si profilava all’orizzonte. Adesso sono tutta effervescente, ca­ pisco che avevo avuto un’attenzione alle immagini di sé nella propria storia da quando ne avevo infilate un centinaio in Autoritratto, degli artisti non meno che mie. D’altra parte, se ho incoraggiato Sara a scrivere di sé, diciamo che mi sono accodata al suo entusiasmo per filmare me stessa. - Pianto irrefrenabile, lungo, con tutte le smorfie, fazzoletto ecc., pian­ to di liberazione e non d’altro genere (rabbia ecc.).

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Alla fiera di Milano ho comprato delle cosette a Simone, un cappello di panama, dei sandali colombiani, due zuccotti arabi... per me pantofoline turche ed essenza di rose e calycanthus. Nel pomeriggio Simone ha detto “Mi hai stregato”, e attribuiva que­ sto al fatto che sono clitoridea. Dopo ho potuto confidare a Sara che mi sento riconosciuta da lui: non rimpiange la vaginale (mentre suo marito sì), e la descrive come “una che stanca, appiccicosa, che aiuta, sostiene...”. Alla fine ero euforica e sono esplosa “La clitoridea è la bellezza delf universo, è un miracolo ecc.”. 16 apr. A notte fonda mi sono svegliata nel terrore e non volevo più riaddormentarmi. Ma ero impastata di un sonno di piombo. La sera prima avevo visto la giovinezza di Elisabetta d'Inghilterra alla TV e la tremenda rivalità tra lei e sua sorella Maria la Cattolica. Simone aveva detto che Maria somigliava insieme a Lucia e a Nicola. Due stanno per andarsene, la terza è molto rigida e imperativa: mi avrebbe uc­ cisa? Provo a gridare aiuto dalla rampa che si affaccia su un panorama di case, vedo le finestre, scorgo qualcuno ma nessuno si muove. Grido a squarciagola “Aiuto, aiuto!”. Provo a correre per la rampa, ma sono proprio le due che stanno per andarsene a trattenermi: sono alleate delf altra. Già sento quel dolore lanci­ nante all’incavo della schiena, che precede la stretta della mia nemica.

Qui riesco a svegliarmi, e in effetti ho quella sensazione fisica che anticipa un movimento doloroso reale da cui talvolta scaturisce un episodio nel sogno. Trovo il musicista e mi congratulo con lui senza imbarazzo: è un tipo sempliciot­ to seduto nel semi-buio di un grande parco popolato di spettatori, con alle spalle l’acqua nera di una vasca. La sua ragazza mi dice di avere come cameriera Maria De Jesu, che però non si regge in piedi: sfido, è stata da noi quando ero ragazzina. Però do buone referenze. Loro abitano un appartamento in Galleria a Milano, senza sole, vogliono cambiare casa. Qualcuna ha invece una bella casa luminosa di cui parlare. Siamo tutti seduti su uno scalino nel vecchio par­ co, io dalla parte delle donne. Continuano però un cinguettio di tali inezie che vado al capo opposto della fila dove c’è David e trovo un angolino per me tra la balaustra e un vaso rotto di cactus. Gli dico qualcosa sorridendo, “Eccomi qua”, e mi siedo tranquilla.

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Simone, per scherzo, ha fatto come se mi vuole “violentare”: mi ha spinto contro il muro, ha finto il gesto di scopare... Io mi sono difesa senza partecipare al gioco. Sara mi ha invitato a cena con Simone. Conoscerò suo marito finalmente, dopo due anni. La prospettiva mi ha messo un po’ di agitazione: questo incontro sarebbe stato rivelato­ re per me. Allora ho telefonato a Claudius e ho detto “Ci vediamo”. E stato un diversivo giusto, infatti mi ha sviato i pensieri e l’orienta­ mento delle emozioni. 17 apr. Crisi di nervi, mal di testa, sensazione di non avere via d’usci­ ta: se vado a Palermo mi ammazzo di fatica, se non ci vado Simone sarà addoloratissimo e io in preda al senso di colpa. Però sono stata male, così male: non mi è possibile fare cose contro la mia volontà, o soltanto indesiderate e il desiderio va per le sue strade. Le ho fatte in passato, specialmente da quando mi sono sposata e ho il figlio, però ora basta. Mentre avevo la crisi - che si manifestava con scoppi di pianto quasi nel sonno - Simone mi coccolava, dondolava, baciava, massaggiava e mi prometteva una casa sull’albero (ne ha già fatta una a suo figlio) per vivere vicino alle foglie e agii uccelli. Questa imma­ gine era l’oasi di pace giusta per me mentre arrivava il rumore della strada, ormai insopportabile, e una cappa di afa gravava sulla città senza alberi dove io vivo prigioniera del cemento. Da Sara è stato semplice: suo marito un ragazzino sempre sullo scherzo genere Brera (è pittore). Richiesto da lei, la sua impressione su di me è che io sono “normalissima”, una “con la risata facile”. Un mio problema è sempre stato quello di non essere troppo sorvolata pur senza adottare atteggiamenti che fermino l’attenzione. 18 apr. Sono in una casa-albergo dove ci sono tanti dpi un po’ da capire chi sono,

fauna di seconda categoria, artisti o intellettuali un po’ provinciali: eccone uno con aria di trionfo, ridendo. Assisto un po’ alle loro manovre, ci sono anche Sara e Simone. Succedono cose, passa il tempo. Una femminista porta un enorme foglio di propaganda: è tutta soddisfatta, anzi euforica. Sara appare scontenta di quello che c’è sopra, disegni e scritte, io capisco le cose dall’aria che dra. Poi sono in camera e non trovo la mia borsa bianca di San Gallo: al suo posto c’è quella mia solita di pelle marrone. Qualcosa non va. Mi hanno derubato? Un tale, scuro di pelle come un indiano o un arabo, mi fissa da finestrelle con inferriate, io cerco di chiudere vetri e imposte, ma il tale è sempre là, lo vedo attraverso. Sembra sicuro di sé, mi

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fissa come se mi desiderasse, ironico dei miei sforzi: cosa vuole? Chiamo “Aiuto!” e poi “Simone Simone!” affacciandomi al corridoio, ma un uomo passa, si volta e tira dritto. Quello dice “Ti ho uccisa fin dalla prima volta” e cava fuori un coltellino di metallo scuro a punta rotonda. Capisco che mi vuole uccidere ancora, allora con il suo coltellino stesso gli taglio via un dito, la lama è affilatissima a quanto pare, così continuo a ferirlo passando la lama senza fatica sulla pelle che si apre facendo uscire il sangue. Lui si lamenta, io insisto, sembra sorpreso, non sa come reagire, penso di farcela a dissanguarlo. Però sono turbata da quello che ha detto: chi sono io se già mi ha uccisa? Dove sono? Cosa vedono di me gli altri? Dov’è l’inganno? Un tipo distinto, con baffetti, spinge un carrello con ogni ben di dio da mangia­ re, cose raffinate. Pronuncia questa frase “L’ideale è fare gli affari anche stando a casa propria”.

Simone se n’è andato con Tito. Ho la casa vuota. Avevo bisogno di questa pausa: non posso vivere sempre fianco a fianco con tutti e due. Ieri sera avevo ancora mal di testa e Sara è stata qui, abbiamo parlato a lungo sebbene fossi un po’ troppo stanca per concentrarmi a fondo con lei e il suo dilemma a proposito del marito. Non sono riuscita a fare in modo che potesse piangere come era suo desiderio. Dimenticavo un particolare di sogno. Parlo con qualcuno e, accanto a me, la tartaruga ripete a bassa voce quello che dico, persino canterella. Io sono tutta compresa da questa capacità che le sco­ pro, un miracolo colto da me.

Sono entrata alla mostra di Claudius. Nonostante il mio passato, la galleria è un luogo che sento estraneo, non mi piace. Ero curiosa di vedere cosa aveva combinato, ma soprattutto di scoprire le mie reazioni. Il primo disturbo dello spettatore è sicuramente il timore di non capire e l’ho provato ancora; il distacco dalla professione mi permetteva almeno di ammetterlo serenamente. Lutto quello che Claudius ha fatto dopo che mi sono allontanata mi appare avvolto nel mistero che hanno le cose avvenute al di fuori di me. Ed è un mistero perché, in fondo, non desidero scoprirlo. Intuisco cosa può averlo mosso, ma il risultato è troppo enigmatico, lambisco qualcosa senza entrarci dentro. Mi chiedo perché i suoi pensieri, i suoi ge­ sti debbano prendere tutto quel risalto. Se allontano l’interesse dalla

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sua persona, lo allontano anche dalla sua opera, dunque per me era importante lui, quello che faceva era un mezzo per conoscerlo. E di riflesso conoscere me. Che succederà stasera? 11 tono della sua voce mi viene incontro: trapelo emozione io, ma anche lui. Mi conviene farlo parlare delle sue cose in modo che si scarichi: non prenderà mai se stesso come argomento senza la mediazione dell’arte. Al telefono Paula mi ha detto di avere sempre fatto gli incontri, con l’idea di ripensarci e di riaggiustare tutto dopo, capire cosa aveva voluto dire veramente, tranquillizzarsi. Mentre adesso pensa che è importante parlare concentrata sul momento “La felicità è contem­ poraneità”, e poi dimenticare, magari; comunque non ripassare tutto al vaglio dell’analisi. Le ho chiesto se è davvero così calma come sem­ bra. Mi ha risposto di sì: da piccola si comportava “come il mare che assorbe tutto” (il padre che alza la voce, la madre). Però con lei mi rimane il desiderio che si pronunci su qualcosa... Oggi ammetteva un po’ compiaciuta di avere una vita molto protetta. Io al contrario ne soffro, quando mi pare di averla, perché subentra il timore di preci­ pitare nella vaghezza. Piano piano sto superando questa ansia, però lei “è” vaga. A volte mi chiedo se ho delle esigenze che non tengono conto degli altri come sono fatti. Secondo Claudius a chi interessa l’oggetto non ha il problema di sé, mentre a chi non interessa dubita di sé, perciò ha continuamente bisogno di conferme nella comunicazione. Gli ho detto che sento l’oggetto come ingombro. Lui ha detto che detesta l’autobiografìa. Capisco quanto ero frustrata nei miei tentativi di farlo parlare di sé in risposta a me (in questo era identico a Raffaele, Lamberto ecc.). Così il mio bisogno dovevo tenerlo un po’ nascosto perché sembrava rivelatore di inferiorità rispetto alla sua sicurezza. Adesso constato che siamo diversi e basta, anche lui ne ha convenuto, anzi aveva l’aria di averci già riflettuto. 19 apr. Che sonno meraviglioso! L’enigma Claudius è dissolto. Come mi sento leggera! Che curioso destino il mio: essermi messa con artisti e cercare di portarli sul piano della comunicazione. E un po’ assurdo avere sperato di trovare udienza presso di loro. D’altra parte Clau­ dius è abbastanza largo per cogliere dei punti di contatto con me, e

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anch’io lo sono, ovviamente. Non è che prima non ho saputo, non ho visto: proprio non era possibile. Dice “Non ne conosco molti come me non assillati dal bisogno di essere capiti. Forse mia moglie è così”, quindi si sente capito, è capito e confermato. Probabilmente ha pro­ vato un senso di soffocamento di fronte al vittimismo di sua madre (vedova). Gli ho detto che l’esperienza dell’arte è stata una fase per me. Ora è chiusa. Sono in pace. Ho fatto la pace. Sono la pace.

E venuto Tonino a colazione. Ho bisogno di chiarirmi su tutti loro. E stato un incontro molto amichevole. Ha detto di essere stato innamo­ rato di me. Adesso gli manca lo stimolo intellettuale nella donna con cui ha una relazione. Tonino è un sognatore, diciamo. Mi ha portato il catalogo della sua mostra, ma soprattutto voleva farmi leggere i titoli dei quadri e riferirli alla sua vita amorosa: la mostra ha questo carattere autobiografico. Sul catalogo parla di “erotismo fallimentare”. Gli ho dichiarato “Mi è aumentata la stima per te”. Poi mi sono messa a ridere. Caro papà, ho colto al volo quella frase in cui dici di sentirti sereno senza biso­ gno di fare grandezzate e che godi la vita per i suoi piaceri più semplici. Anche l’altra frase in cui dichiari di non arrabbiarti più o di farlo in modo superficiale. Voglio dirti che anch’io sono arrivata a questa conclusione e perciò sono in grado di capire le tue parole. Sono felice per te e per me, e spero che tutti della nostra famiglia possano trovare la pace con se stessi, in particolare la mamma. Buona Pasqua dalla tua ex-figliolaccia.

Simone ha già nostalgia di me, non sa come farà a stare lontano tanti giorni. Telefona in continuazione. Amore mio, vedi che da tutte queste trasformazioni tu ricompari sempre, inaffondabile nel mare in tempesta, sotto ondate, flutti, trombe marine. Avevo diversi amici, personalità di cui subivo l’influenza, però sono stata saggia e oculata: il cuore, proprio il cuore l’ho dato a te, ed era la parte più veritiera. Con te ero più me stessa, tu mi amavi più come ero, gli altri mi mitiz­ zavano di più; o meglio, vedevano solo una parte.

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20 apr. Sara e Paula hanno portato da Bologna le prime copie stam­ pate del diario di Sara. Che felicità! Non sembra vero, il lavoro di due anni finalmente arrivato in porto! Quando ho cominciato la collana dei libretti verdi non potevo credere che avrebbe avuto veramente un tale risultato. Sono grata a Sara. Ho parlato di Claudius e di Tonino a Sara così a lungo, che ormai le sembra di conoscerli (ha persino sognato me e Claudius: in un certo senso lo lascio a lei, non so come). Simone “Se non ci sei te non mi piace niente, la Sicilia, la famiglia, gli amici, farte, gli alberi, il mare...”. Però non insiste più per farmi andare a Palermo e io gliene sono così grata, lo apprezzo tanto, mi sembra l’unico uomo che può comportarsi tanto amorevolmente e lasciarmi lo spazio per raccogliere i miei pensieri. In fondo così non fa che accrescere il mio benessere e dunque il mio stare bene con lui. 'Pito torna domenica, peccato, avrei avuto bisogno di solitudine an­ cora per un po’. Adesso vado a trovare Gemma e Jo: cosa c’è di più soddisfacente di un incontro sereno tra amiche? Paula vuole vedere IIfascino discreto della borghesia di Bunuel: si sente molto identificata socialmente, ha l’incoscienza della sua appartenen­ za sociale. Sono rimasta di stucco quando ha detto che non capisce la lotta di classe, che per lei è un balletto. E rideva. Roba da fucilarla. Un po’ di terrorismo le farebbe bene. Mi caverei gli occhi per non vedere, però vedo, che posso farci? Le femministe cominciano a essere in auge, per esempio nell’avan­ guardia artistica: ognuno vuole una femminista nel suo repertorio. E sera: da un paesino vedo delle vele bianche sul mare e dei lumi. C’è calma, intimità, tra buio e chiarore. Mi rendo conto che è “un’immagine di me stessa”. Penso “Aveva ragione Sara”. Cerco di rivedere il mare, vorrei andare proprio sulla riva a contemplarlo, ma mi prende una vicenda. Sono in un albergo: due coppie fanno psicoterapia di gruppo. Tra loro c’è uno psicanalista, penso anzi di chiedergli qualche spiegazione sui miei sogni; poi non lo faccio. Vicino a me una delle donne scrive, le chiedo se scrive un sogno. Mi dice di sì, lo fa ogni tanto, poi lavora a calza. Sono tutti misteriosi, c’è una strana intesa tra loro: uno lecca appena il dito del piede a un’altra. Devono fare la loro riunione, se ne vanno. Nella mia stanza una ragazza dorme vestita: Nicola? Un uomo entra di nascosto nella camera di una delle coppie, poi se ne va circospet­

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to. Il padrone dell’albergo è sulla mia porta, mi fa capire che vuole fare l'amore con me: è corpulento, volgare. Io scappo, lui mi grida dietro di non avere paura, ma io ho le ali ai piedi, volo per le scale. Penso “E un’immagine di me questo volare scendendo le rampe in curva come il vento, è un’immagine di come mi batte il cuore di giorno dalla paura”. Temo di avere dimenticato la mia borsa di paglia con tutti i mici scritti, poi me la sento al braccio e mi rassicuro. Arrivo giù: ho una visione fantastica di città molto movimentata da inizio del secolo. Mi vedo, e penso “Ecco la Carla”: su una carrozza a cavalli, vestita tipo Manet con una bellissima luce diffusa, allegra insieme a un uomo. Sparisce.

Ieri sera mi è tornato il batticuore e non potevo addormentarmi. Ho bevuto troppo caffè, vino, whisky: devo stare attenta. Però suppongo che qualcosa non va: ho bisogno di verde, di aria pura, di campagna. Anche Simone ha preso coraggio dall’ascolto che gli ho dato e dal valore che attribuivo ai rapporti. Anche Claudius è più autobiogra­ fico di una volta, a ripensarci. Al telefono Simone ha accennato ad Autoritratto “dove si parla già di sé”. Ho risposto che non mi sentivo di manifestarmi veramente con tanti geni intorno. E lui “Ma non hai capito? L’unico genio eri tu!”. Per adesso è troppo convinto di me. Questa dedizione da parte di un uomo è commovente. Un’amica femminista va ancora dallo psicanalista perché, comunque, con lui si esprime di più che nel suo gruppo, di cui pure è una fondatri­ ce. Oggi mi diceva di essersi sentita depressa nel rapporto erotico con una donna: ha avuto nostalgia dell’uomo ed è scappata. Nonostan­ te che con l’amica avesse provato piacere vaginale, se lo procuravano reciprocamente. All’inizio del nostro incontro, ha affermato “Voglio rivalutare la vagina, questa parte del mio corpo”, ma alla fine pareva rendersi conto che non era una prospettiva entusiasmante. Le ho detto della crisi tra me ed Ester, della nuova amicizia con Sara. Lei ha un rapporto paralizzante con un’amica e io sono stata esplicita nel metter­ la in guardia. Quando vedo una così nel pallone, capisco cosa è stata per noi di chiarificazione l’analisi della clitoridea e della vaginale. 22 apr. Parlo con un’altra di Elisabetta I d’Inghilterra e sono tutta ammirata. Simone è a letto con un modellino di barca, arriva Tito con un modellino anche lui e scherzano sul paragone e funzionamento dei modellini. E come se a Simo­ ne le cose andassero veramente bene.

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24 apr. C’è una gran festa con gente famosa, artisti, collezionisti. Appare la Lollobrigida, e io, spinta da un’altra, mi complimento su come è giovanile, vorrei invecchiare come lei: ha le guance rotonde, guardo per scoprire eventuali segni di chirurgia plastica, non ne ha, ma parla senza muovere un muscolo. Più tardi, in controluce, le vedo un viso di vecchia. Intanto io taglio la corda, ma Simone viene a cercarmi: dovrei salutare, tutti vanno via. Io non ce la faccio, cerco delle scuse. Lui non insiste, però mi dispiace intravedere che fa il matto per divertire gli altri che non si accorgano della mia assenza; infila delle grosse scarpe senza adoprare le mani. A un tratto il pavimento comincia a ballare forte e un’amica dice che ne ha già avuto esperienza: cadrà tutto. Io mi metto a riparo di un arco antico dall’aspetto solido. Ci sto stretta, però. Intanto arriva qualcuno e annuncia che De Chirico è morto: portano un ragazzo vestito in maschera, Picrrot o Arlecchino, che, mentre ha gli occhi chiusi, fa una strana smorfia ironica. Con una voce diversa dal solito mi ha telefonato l’amica femminista che era venuta a trovarmi qualche giorno fa. Mi ha ringraziato per averle dato il libro di Sara: le è piaciuto moltissimo, l’ha emozionata, in tante cose si è trovata uguale. Subito dopo Matilde: l’ha letto anche lei tutto d’un fiato, le è sembrato bellissimo, proprio come è Sara, lo stesso modo di parlare. Rispetto all’altra era più controllata. Poi ho chiesto alla donna che mi viene a ore. Le sembra una favola una vita così piena di contrasti, è inventata, non è possibile sia stata vissuta. Mi conferma che le difficoltà non sono così oggettive come sembra, lei s’inganna, e come, di avere avuto una vita meno complicata. Su sua richiesta, poi, le ho spiegato come può avere l’orgasmo: deve ma­ sturbarsi e le ho detto dove e come si fa. C’è una vera confidenza fra noi, e io vorrei che arrivasse all’orgasmo. 25 apr. Sono a letto con Tito e un amico mio omosessuale. Prendo sonno e mi sveglio nel cuore della notte: l’amico legge il mio libretto sul sesso ed è tutto rispettoso. Gli chiedo se dormendo l’ho disturbato, lui risponde “No, per cari­ tà”. Ha delle brache molto chic, sta sul bordo del letto. Vado al balcone: è senza ringhiera, ma ormai ci sono, e butto giù un mozzicone di sigaretta. Un vigile vestito di bianco guarda in su, ma non mi faccio scorgere. E buio sul lungomare: mi pare che un uomo faccia dei salti mortali perché ha messo in bocca il mio mozzicone acceso alla rovescia. Ma forse sbaglio.

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A un tratto sono senza risorse e vado alla ventura: in un vicolo coperto da volte antiche, chiedo a una donna se mi vuole come domestica. Acconsente, vado con lei. Saliamo su una scala esterna e sul pianerottolo all’aperto lei si sdraia mollemente e si tira su i vestiti: appare un sesso maschile, grassottcllo come di un ragazzino non ancora sviluppato. Io però cerco di raggiungere la clitoride, forse nascosta lì sotto, ma non trovo niente e comunque non mi viene bene, mi stanco. C’è Ester, insieme ad altre, io sto sulle mie, lei mi guarda, alla fine qualcosa provoca il mio buonumore e comincio a ridere. Ester ne approfitta per mettermi confidenzialmente un dito in bocca.

In una passeggiata al Parco, Matilde mi ha parlato della sua possessività con il marito; io chissà perché aspettavo che mi dicesse quello che aveva provato nei miei confronti leggendo il libro di Sara. 26 apr. Ripeteremo la passeggiata al Parco domenica prossima, Matilde e io, stiamo bene insieme. Lei ha un guscio abbastanza duro che le ha fatto ridurre mobilità e fantasia nella vita, ma dentro ormai intravedo una ragazzina per niente sussiegosa. Sara non sopporta più che con gli altri non si parli di sé, lei ci prova sempre, e però basta un niente a sviare e resta frustrata perché non se la sente di insistere e riprendere, sembra che voglia sapere i fatti degli altri. Per me era uno sconcerto continuo prima, quando mi suc­ cedeva e, in più, non avevo nessuno che mi capisse su questo punto. Appariva una mia smania mica tanto chiara. Lamberto mi prendeva in giro affettuosamente come se avessi questa debolezza (carina, del resto) di non poter nascondere niente: non mi rendevo conto di essere imbarazzante. L’altra sera, con Claudius, non mi è stato possibile ac­ cennare ai nostri trascorsi più personali. Diceva “Io dimentico il pas­ sato, non esiste per me”. E comunque non tirava aria di confidenze. Le facevo quasi clandestinamente io, semmai, nell’unico campo dove lui abbia memoria, quello del suo lavoro e dell’arte. Che tortura sarà stato per me il mondo maschile! Ecco perché Tonino, a differenza di Claudius, ha delle amiche, platoniche, ma molto intime: perché rompe il silenzio imposto dalla convenienza e dai timori. Stasera mi diceva di essersi alienato nell’arte, cioè l’aveva fatta troppo convinto, troppo assorbito, e si era dimenticato di sé e dei rapporti umani, di vivere, di conoscersi.

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27 apr. C’è un’orsa con tanto di grembiale e noi bambini sgattaioliamo qua e là attraverso porte di vetro e pannelli per sfuggirle. Poi, piano piano, mi accorgo che è una buona orsa. 28 apr. Ho una borsa di pelle bianca, temo di averla persa: contiene molto di me, i miei scritti. Trovarla diventava la trama del sogno. Ho capito cosa manca a Tonino: l’interesse per l’altro. Lui ha bisogno di confidarsi, e che si parli dei suoi problemi. Prima di Sara avevo il mito di me in quanto non avevo incontrato un’altra come me. E un po’ strano cosa si prova a demolire quel mito: Anai's Nin non c’è arrivata. Sara non c’è passata. Non mi sono mai piaciute le situazioni sterili. Mi è indispensabile che qualcosa nasca. Paula non se l’è sentita di dirmi le sue impressioni sulla parte che ho nel libro di Sara. Era elogiativa ed evasiva in generale. Ha detto “Bel­ lo il vostro rapporto”, ma si è fermata lì. Poteva dirmi il suo rapporto con me qual è stato a quell’epoca. Invece mi parla come se ci fosse un’intesa così stretta fra noi, che possiamo sorvolare. “Una diversità con me” dice Sara “è che tu hai avuto esperienza con gli uomini e io no”. Infatti non la invito alla rassegnazione, ma la ap­ poggio quando non intende rinunciare. So che vale la pena incontrare gli uomini, c’è una tensione vitale con loro, il pensiero torna lì. Anche se io sono piuttosto satura, e ho un periodo di distacco dal bisogno di incontri. E il rapporto con la donna allo stesso grado di autenticità che mi ha liberato. Sto vivendo questo momento e non so pensare ad altro. Idea per un film (soliti tre minuti): “Il profilo e il bacio”: vorrei bacia­ re la terra, la casa di Turicchi, gli alberi, tutto, la rosa, l’erba, l’acqua, gli animali, gli esseri... E una specie di salvacondotto per entrare nel mondo. Prima volevo essere baciata: la mia prima idea per la coper­ tina di Autoritratto era che Claudius, su mia richiesta, doveva farmi il baciamano. 29 apr. Simone, al ritorno da Palermo, mi bacia freddamente, alme­ no così mi pare. E angosciato per una scenata con sua madre, provo­ cata da un gesto d’impazienza. Ha sentito che l’incantesimo fra loro si può rompere senza rimedio. Dunque è ancora un figlio sensibile alla colpevolezza.

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1 mag. Simone era triste al momento di lasciarci a Montevarchi: vede come una mia mancanza che io non faccia la follia di lasciare Tito e seguirlo. Tito ha quasi 14 anni, potrei tentare, ma il disordine in cui lo caccerei sarebbe troppo per me. Ho potuto superare tanti momenti di difficoltà proprio pensando che, in fondo, non gli avevo creato troppi guai, ero stata una madre passabile. In più ha rappre­ sentato l’impedimento giusto quando non ce l’avrei fatta ad affronta­ re una vita con Simone, che pure desideravo. Adesso mi sento pronta a essere felice con lui, ma per qualche po’ ancora l’impedimento sus­ siste. Sono serena, è una sensazione fantastica, lo sono finalmente e mi dispiace che Simone non lo sia. Adolfo l’ho visto nella sua casetta di campagna, tra il fiume, un muli­ no abbandonato in una specie di gola che si apre su delle lontananze. Lì è proprio solo, vive come un eremita. Noi venivamo da Turicchi, avevamo appena visto dei casali rifatti, e diventati bellissime case di ricchi attraverso accorgimenti che solo i ricchi sanno, e che realizzano appunto con i soldi. Venivamo da una zona pettinata, piena di vigne curate e di inglesi romantici. Mi sentivo un po’ in colpa per avere ab­ bandonato mio fratello al suo destino e avere risolto il mio mediante l’apporto di altri uomini. Però poi ho pensato che ho lavorato abba­ stanza senza essere pagata e ho fatto anche qualcosa per la mia co­ munità con il femminismo. Adolfo è come un francescano, in contatto con la natura, senza volontà di adoprare i privilegi culturali e di classe. Io non ho potuto fare scelte altrettanto drastiche, il mio contenuto era così difficile da individuare, anzi ho lottato contro tutte le soluzioni che mi portassero all’isolamento e, per quella via, alla pace. Io dovevo prima di tutto avere degli incontri, quella era la mia strada.2* 2 mag. Leggendo la lettera aperta di Kafka al padre mi sono resa con­ to che il suo non è stato più cattivo di tanti padri dell’epoca, solo che lui ha avuto coscienza del suo dramma. Poi gli altri si sono ritrovati in lui. Kafka si è letteralmente immolato nello sforzo di esistere nonostante il giudizio negativo del padre, nonostante l’incomunicabilità. Io volevo vivere - e questo sforzo è stato così intenso che mi sono ammalata gra­ vemente, come Kafka - volevo esistere, scambiare, liberarmi, trovar­ mi. In questo soggiorno nella casa paterna, ho visto ancora più chia­ ramente i genitori con affetto e distacco, non con quella pena e rabbia accumulata per tanti anni, ma con la pena e la rabbia del momento.

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C’è un paragone di Kafka che dice: se un prigioniero costruisce non fugge, se fugge non costruisce. Come si potrebbe dire meglio quello che è stata la mia vita? Ho anche letto, su un libro che ho ritrovato in casa, una poesia-chiave per me all’epoca del ginnasio. L’aveva dettata un’insegnante molto carina che ci aggiornava nel primo dopoguerra: è George Gray dall’antologia di Spoon River: “Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita... E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio è una barca che anela il mare eppur lo teme”.

3 mag. Caro Adolfo... per tante cose mi sento più vicino a voi che alle sorelle.

In effetti, non mi sono buttata né nella famiglia né sui figli né su una professione. Ero una spostata e si è visto di meno che nel vostro caso perché gli ostacoli più ingombranti, quelli economici, ho finito per superarli nel modo più classico per una donna. A me quello che interessava erano i rapporti umani; nello stesso tempo dovevo dimostrare qualcosa di me... So che gli altri si chiudono per di­ fendersi e non per offendermi, anche se così mi offendono...4*Io

4 mag. Nicola è partita adesso: non c’è stato molto fra noi. Forse la presenza di Sara l’ha bloccata in questi giorni e io mi tormentavo all’idea che fosse così, aspettavo un suo cenno di conferma o di smen­ tita. Stamani gliel’ho chiesto: ha risposto che è difficile intendersi in tre e che comunque era in suo programma vedere Sara. Intanto fa­ ceva la valigia e aveva un tono di voce che minimizzava il problema. Io invece sono triste perché forse veramente ho sbagliato e una sua conferma mi solleverebbe. Quello che mi ha fatto stare male è che lei aveva un gran bisogno di aprirsi e già aveva le lacrime agli occhi dopo le prime battute, appena arrivata. Purtroppo Sara non partecipava

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e per due volte l’ha interrotta andandosene proprio in un momento cruciale. Per adesso lo stato emotivo di Nicola è più fragile di quello che lei ammette razionalmente, io facevo un po’ così in settembre quando piangevo e non afferravo ancora il senso del mio piangere. Allora a parole non si va molto avanti perché, qualsiasi cosa dico, lei ha pronta una giustificazione. Com’è assurdo quel momento in cui tutti vedono fuorché noi! Ieri voleva lavarsi la testa e non ci riusci­ va con un dito fasciato. Mi ha chiesto se poteva lavarsi nella vasca, insomma non riusciva ad articolare “Carla, per favore, mi lavi tu la testa?”. Come può dubitare che per me non sia un piacere, un gesto affettuoso? La prima sera Sara a un certo punto è esplosa “Avrei tante cose da dire a Carla, ma non posso dirle in tre” o qualcosa del gene­ re. Nicola non ha battuto ciglio, non ha replicato: si è subito sentita l’intrusa della situazione e ha cercato di nasconderlo. Ma come non capiva che aspettavo qualcosa da lei? Che sollievo se avesse osato replicare “Senti, sono venuta fin qua per parlare con mia sorella, mi dai la precedenza? Carla, andiamo a fare due passi insieme?”. Come l’atmosfera si sarebbe scaricata dalle tensioni che c’erano! Con Sara non faccio fatica perché lei si concentra per conto suo e io per conto mio, non c’è che una trascina l’altra. Con Nicola mi sentivo di do­ vere fare io la fatica, lei non teneva il filo, si perdeva in divagazioni. Quando Sara se n’è andata a letto e io, avendo un po’ di mal di testa, mi stringevo la fronte meccanicamente, Nicola ha subito proposto di smettere di parlare, che era una premura da parte sua, ma che mi lasciava nell’incertezza se per lei fosse indifferente parlare o no, anzi mi suggeriva che preferisse il no. Ma allora perché era venuta in ae­ reo a Milano? Perché era tutta animata, allegra e piena di speranza quando è arrivata? Quanto mi sono tormentata fino da piccola su questi enigmi! Avvertivo qualcosa nell’aria, aspettative che cadevano, emozioni nascoste, ma tutti facevano così bene finta di niente che io credevo di essere visionaria, in una specie di giallo. Finché ho cercato di fare come loro, senza rassegnarmi mai, però. Uno degli enigmi per me era questo: a volte parlavo con altri in modo animato e mi sentivo tutta vibrare, a volte ero rigida, con la testa vuota e non riuscivo a pronunciare neppure una parola. A volte mi sentivo ispirata, a volte paralizzata, così correvo a prendere il diario, oppure scrivevo una lettera a qualcuno che era presente al momento del mio inghippo psichico, per rivelarglielo. Come si fa presto a diva­

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gare quando manca il rapporto a due! Esempio: arriva Matilde, dico che esco con Nicola a comprare dei cereali perché mio padre, per curarsi rimestino, mangia banane e sbaglia. Siamo state un quarto d’ora sull’argomento banane, bananeti, conservazione delle banane ecc. Essendo abituata a soffrire di non potere rompere il silenzio, chi non parla di sé (o da sé), trova sollievo per lo meno dimostrando di riuscire a parlare. Io volevo essere me stessa e, nello stesso tempo, qualcosa in più: buona, comprensiva, generosa, disinteressata... Mi avevano inculcato che do­ vevo vincere le cattive inclinazioni che avevo, come ogni essere umano. E l’idea di migliorarsi che è sbagliata, ma quest’idea è dappertutto. Via via che l’attenzione delle altre si sposta su Sara in conseguenza del suo libro, provo prima come un riflesso del timore di un tempo “Sono deluse di me”, poi un senso di libertà, di gioia, di alleggeri­ mento: posso mescolarmi con le altre, essere una di loro, una delle tante, ecco la nuova vita per me. Arrivando Simone mi ha detto “Sono sconvolto, perduto, ma non scontento”. Ne II fascino discreto della borghesia la protagonista somiglia davvero a Paula: sorride sempre, non capisce, fa la doppia vita, ha la coscienza che come donna non è colpevole politicamente, è decorativa, snob. Quando troverà se stessa Paula smetterà quella maschera e quell’ap­ partenenza un po’ sinistra, che per adesso è incline a mitizzare? 5 mag. Sono stata io a sbagliare con Nicola: dovevo convincere Sara a rimandare il suo soggiorno da me. Non l’ho fatto perché avevo bi­ sogno di parlarle e poi perché, essendo la sua un’intromissione molto evidente, pensavo che avesse un particolare interesse per Nicola che la giustificava. Sotto sotto mi sono occupata più di Sara e me che di Nicola. Ecco che ho trovato la ragione del mio senso di colpa verso di lei, e di scontento verso Sara che non si è presa a cuore mia sorella. Adesso per Sara è chiara la frase “Chi è se stesso vuole che l’altro sia se stesso”. Dunque la generalizzazione è importante, è un momento di scoperta che avviene prima di tutto su di sé, ma che coglie un mec­ canismo della realtà. Quando Germana mi ha detto chiaro e tondo che non ero diretta con lei, ho avuto la prova che mi voleva autentica mentre a quell’epoca Sara non era affatto esplicita e mi creava molta angoscia senza sbocco. Germana mi ha dato via libera, Sara mi ave­

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va portato fino lì. Avevo intuito che lei mi voleva libera, ma poi sono stata io a rivelarglielo quando Germana, inaspettatamente, ha rotto il ghiaccio. Di questa formulazione Sara ha parlato con altre aggiun­ gendo “Come ha detto Carla”. Quanto piacere mi ha fatto che lei mi riconoscesse quello che mi spet­ tava! Com’ero indifesa, prima, a che gli altri pescassero a piene mani da me, amiche, colleghi, persino Simone. Adesso esce un libro di con­ versazioni tra lui e Aldo, ma nessuno dei due dice “Stiamo facendo quello che abbiamo cominciato con Carla” o “Continuiamo Autoritratto”. Aldo l’aveva ammesso, un po’ in sordina, e io avevo sorriso a metà perché so che gli uomini non attribuiscono molta importanza al riconoscimento privato quando pubblicamente non ne fanno cenno. Però poi Simone è seccato che Ester abbia preso da lui l’idea delle lenzuola dipinte e la applichi senza rispettare la precedenza né rive­ lare da dove ha tratto il suggerimento. Non sa come comportarsi per­ ché da un lato vuole sentirsi superiore a questa storia, dall’altro av­ verte il bisogno di essere riconosciuto. Infatti, se non sei riconosciuto, sei adoprato, non c’è altra possibilità. Simone mi ha confessato come è impossibile nel mondo maschile avere rapporti autentici: quello più autentico lo aveva con Aldo, ma erano appena agli inizi, tutti e due si rivelavano in un modo che non intaccava il prestigio. Alla fine la parità era stata raggiunta perché Aldo la gustasse prima di morire, ma era una specie di viatico per circostanze speciali. Un moribondo è fuori dal competere, povero Aldo. Ma ora? Praticamente Simone ha rapporti di lavoro che vorrebbe fossero anche di amicizia, ma come può sperarlo? Sì, sembrano tali, ma non lo sono. In più lui stesso non vuole entrare nella vita privata degli altri uomini, si ritira, mentre è disponibile con le donne. Forse perché lì si sente più al sicuro. Op­ pure perché può esercitare un ruolo di consigliere che lo gratifica. Sta accorgendosi della sua vita vuota rispetto alla mia, anche se non vuole vedere che il problema è lì: ritorna a lavorare, a chiedere con­ centrazione per la scultura. Dice di sentirsi irascibile, nervoso, dorme poco se è solo, ha un principio di esaurimento. 7 mag. Sono in un posto dove c’è anche Ester, ma non mi guarda: è assente o di cattivo umore. “Ala fine mi vedrà”, penso, ma forse mi vede, e fa finta di niente. Saliamo all’aperto, su una vasta terrazza. Lei va velocemente verso una signora con carrozzina e le mette affettuosamente e confidenzialmente una

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mano sulla spalla. Io mi affretto a intromettermi: non lo sopporto, Ester si allon­ tana. Questa donna mi parla animatamente: è “lei”, ma non la riconosco come lineamenti.

Simone ha sognato che non poteva fare l’amore con me perché tre vecchiette parlottavano ai piedi del letto. Allora si metteva ad acca­ rezzarmi la clitoride e ne veniva fuori una specie di enorme cetriolo o zucca lunga gigante. Pensava di chiamare un medico dal nord per farmi guarire. Mentre dormivo Simone mi coccolava abbracciandomi, baciandomi e giocando con il mio corpo addormentato. Mi sono svegliata piano piano con un senso di benessere, di pace. Abbiamo fatto doccia e ba­ gno una dopo l’altro, e colazione. Simone stava bene finalmente, era quello di sempre, più dolce persino. A volte prendeva un’aria un po’ da bullo, capivo che oltre a sentirsi bene, provava a dominare un po’, a vedere quanta sicurezza poteva esibire. Al pomeriggio abbiamo comprato due camicie, una azzurra chiffonée per lui, una a rombi rossi e bianchi per me. 8 mag. Dopo avere detto a Simone che avevo visto Claudius quando lui era a Palermo, gli è venuto cattivo umore e gli è sembrato troppo che fossi andata a trovarlo. Lo assalivano dei dubbi: come potrò ras­ sicurarlo senza proteggerlo? In più, con voce un po’ dialettale, mi ag­ grediva dicendo che non gli nomini più Claudius, che non gliene frega niente di lui, dei suoi problemi o dei miei con lui. Ecco perché con Sara posso parlare delle giornate senza stancarmi, perché tutte e due non abbiamo zone di rifiuto verso l’altra: di qualsiasi persona parli va bene perché in definitiva si parla sempre di sé e quello non stanca mai. Con Simone mi capita di avere finito gli argomenti e allora si guarda la TV o si legge il giornale, mentre con le amiche non mi succede. Mi sono accollata tutto lo sforzo di rendere dinamico il nostro rapporto e può essermene riconoscente. Appena constato che c’è del vuoto fra noi, subito corro ai ripari. Mentre lui dice che io non sono buona, stessa cosa che diceva mio padre, dandomi proprio quella sensazione che volere comunicare è una crudeltà, una smania morbosa. 9 mag. Sono spesso al telefono con Sara, da posti pubblici di campagna, e riu­

sciamo a parlare nonostante il rumore e tutta una vicenda complicata con vari

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personaggi. Ho trovato tra le pietre delle piantine di uva piccole piccole: mi han­ no detto di tenerle in acqua che faranno tante radici, e poi piantarle. Un tizio mi prende in giro che non sarà uva mangiabile, gli rispondo che la farò innestare. Alla fine di un film passeggiamo tranquillamente Simone, Nicola, Giulio T., sua moglie e io: c’è una pianta che ingombra la strada - grido “E un lentisco!” - tutti cerchiamo di alzarla e passiamo sotto.

Ieri sera mi ero innervosita perché secondo Simone, Claudius mi ha adescato verso la creatività senza poi sentirsi alla pari con me: non vede invece che è stato Tunico a darmi quel minimo di rispondenza che mi ha permesso di tirarmi fuori. A un certo punto oggi ha con­ cluso “Da quell’operazione non potevi avere nessun frutto”. Paula voleva vedermi, le ho dato un appuntamento per le dieci. Inve­ ce mi ha chiamato alle undici e mezzo, perché aveva dormito fino ad allora. Non mi sono fatta trovare perché deve impegnarsi di più con me, altrimenti non potrò dirle quanto penso a lei. 12 mag. Rivedo un amico mio c di Cesare, della facoltà di filosofia. Ha la faccia con cuscinetti di grasso, però mi piace rivederlo e parlare, c’è un’intesa di vecchia data. Succedono tante cose, mi sembra che lo perdevo e che non ci si capiva poi così bene. Stamani mi sono svegliata con un senso di tensione allo stomaco e una pietra fredda sul fegato. Non sopporto di incontrare persone con cui non c’è possibilità di scambio: chi sta intorno all’arte sono dei mitomani alienati galleristi, collezionisti, assistenti, mogli, figli, con cui non si arriva a niente. Tutto è strumentalizzato tra il prestigio e il denaro. Si fa avanti gente incredibile, affascinata all’idea di avere a che fare con il Maestro. Mi viene da star male. Così gliel’ho detto che non lo seguirò mai più: non voglio Turicchi, siamo pari, lui guadagni la vita come vuole, io starò per conto mio. Via via che parlavo mi si apriva il cuore: anche un desiderio innocente come Turicchi mi aveva stranito, lo desideravo troppo ormai, ero disposta a prestarmi, a es­ sere presente (più di questo, anche con l’alienazione di Turicchi non sarei riuscita a fare). Ho detto “Basta, ci rinuncio”, e mi sono sentita bene, forte, integra. Non mi interessa davvero più. Simone si è messo a piangere dicendo che ha resistito tanto a dirmelo, ma si sentiva lui in debito con me, che stava sicuro vicino a me perché sapeva che io

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ricercavo la verità, che appena mi ha visto a Parigi ha sentito che 10 ero la verità per lui e poi, quando mi ha rincontrato, non ha più potuto lasciarmi. Che dentro di lui c’è un ragazzo buono che merita di essere premiato e io mi sono rivolta sempre al ragazzo, così gli è piaciuto quando ero dura con lui perché un suo bisogno era anche quello di spingermi a perdermi e io lottavo per non cedere e alla fine sapeva di potersi fidare di me. Adesso non ha che me, dice, con cui essere se stesso, e veramente sento che si aggrappa a me, piange sul mio viso. Stanotte ha fatto un sogno: c’era tanta gente importante, collezionisti, galleristi, senatori, notabili siciliani, e lui non ricordava 11 mio nome, gli veniva “Rina”, capiva che non era quello. Adi vede­ va come una persona conosciuta da sempre e contemporaneamente appena conosciuta. Prima pensavo che un artista avesse molte occasioni di incontro au­ tentico, adesso capisco che è quasi impossibile, ha troppo mito addos­ so, già ravvicinamento è sbagliato, rimane solo. Ricordo che Claudius mi diceva agli inizi che le sue opere servivano per comunicare con gli altri, che lui avrebbe parlato con gli altri tramite le sue opere e con quel pretesto. Adesso ho letto una sua intervista dove afferma che no, si sente prigioniero delle sue parole se lo fa. Io non ho niente, ma ho Sara e Simone con cui ho raggiunto il massimo e questa è già la sen­ sazione di un universo conquistato; poi ho tanti rapporti che posso riprendere dal passato o sviluppare dal presente. Pensavo che era una difficoltà mia quella di dovermi impegnare con gli altri in un modo che escludesse quasi tutto il resto, invece mi rendo conto che è una strada e che chi non l’imbocca arriva da un’altra parte, anche bellis­ sima, ma diversa, mentre quello che io volevo era, come nel sogno del picnic celestiale sulla collinetta erbosa dell’infanzia, rincontro realiz­ zato con tutti coloro che la mia vita può contenere. 13 mag. Secondo Buddha, nella liberazione c’è un momento di sicu­ rezza particolare quando si comprende il funzionamento logico della liberazione stessa. “Chi è se stesso vuole che l’altro sia se stesso” è la mia formula logica. 14 mag. Simone è come un motore a scoppio: fa degli scoppi e poi si ferma o si mette a regime normale. Ci ha riso sopra, ha detto che è giusto. Però ieri sera, a distanza di un giorno dall’ultimo scoppio,

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dopo una bella giornata di campagna, dopo una bella cena a Siena, dopo un film divertente, sul più bello ho ripreso l’argomento, e pro­ prio è stato drammatico perché lui prima scherzava, poi non capiva, poi ha capito che io non sopporto di trovarmelo vicino e assente, distaccato da ciò che vive. Io non do niente per scontato o poco im­ portante o acquisito, mentre lui sembra vivere tra punti privilegiati della sua vita che lo impegnano, il resto scorre così, piacevolmente o meno, ma trascurabile. Lui mi accusava di vivere troppo poco le cose per quello che sono, di caricarle sempre dei miei umori mentre lui si sente più obiettivo. Ma quale obiettività? Gli facevo notare “Vedi che strano, appena ci mettiamo a parlare è così difficile intendersi”. Lui mi rimprovera di “vedere in ogni persona un nemico”. “Come puoi dire questo?” “Gli trovi sempre un sacco di difetti.” Ritorna il tema dei rapporti sociali che sono stati la piaga della mia vita: per un perio­ do ho cercato di essere all’altezza, almeno un minimo, poi ho smesso e così sono al punto di partenza, quando non avevo neppure idea di come uscire dall’impasse. Invece a me dà fastidio che lui parli bene e a lungo non perché ha un interlocutore interessante, ma perché ha bevuto bene e una sciocchezza lo stuzzica in discorsi ideologici. Così è successo a Perugia mentre io cercavo di tagliare corto. Non è colpa mia se l’ambiente attorno agli artisti è così fasullo che non riesco a uscire dal silenzio, però proprio per questa attenzione, sensibilità o darmi daffare per un vero rapporto l’ho avuto, mentre lui non ce l’ha, ha i suoi oggetti che non sono l’equivalente di un rapporto. Stanotte ha sognato le sue sculture in fila a una mostra, illuminate dal basso come in un rito lugubre. Già a Palermo gli hanno fatto quest’impres­ sione, poi a Perugia “perché la galleria è sotterranea”. Ma è evadente che non è così. 15 mag. Ho conversato a lungo con Sara sugli artisti: lei parla di “concettuali”, per me sono i miei amici, quei pochi, naturalmente, dell’orda concettuale che in Autoritratto si esprimevano in un modo che era l’unico in quel momento che potessi ascoltare nella cultura senza vomitare. Non solo i concettuali, è ovvio, anche altri di vario genere, ma Sara dice che sono loro che inferiorizzano oggi. A me non pare. Io non trovavo niente di più autentico, allora, che quel pugnetto di artisti, le loro erano le voci più fresche. Dorina riferiva di un criti­ co d’arte suo amico che non riesce ad avere rapporti umani con gli

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artisti perché troppo egocentrici. Mi dispiace per lui: io li ho avuti i rapporti e li riprenderò in un futuro. Sara dice che è meglio un inge­ gnere di un artista: un ingegnere è, forse, “nature”, umanamente, ma rischia di rimanere “nature”. L’artista si sente sempre artista, mentre l’ingegnere non si sente sempre ingegnere, fuori del suo lavoro è un semplice essere umano, tuttavia è più dissociato. L’artista è unita­ rio, questo mi piaceva di lui, ma siccome s’inganna di comunicare con le sue opere, l’alienazione può venirgli dall’insistere fino alla fine senza accorgersi che l’altro è tagliato fuori. Accade così che l’artista produca per il mercato mentre s’illude ancora di produrre per am­ pliare il raggio di comunicazione. Ma ho capito che l’uomo va visto al momento della crisi, per esempio c’è chi ha esposto le donne come suo materiale, persino una incinta, allora preferisco quando Simone afferma di volere fare oggetti inespressiva, almeno prende atto che la risonanza non c’è e cerca un prodotto per essere in pari con il fatto che non c’è. A Sara Bellissima giornata terrazzo fiorito colori incredibili col sole attraverso. Conversazioni a non finire iniziative del momento risate senza ombre frasi senza incrinature domande senza turbamento. Che allegria stare insieme come due sorelle sotto lo stesso tetto da colazione a cena nessuna fretta intervallo appuntamento impedimento. Sono felice di questa convivenza è un regalo una festa la sensazione che sempre il meglio sta dalla mia parte. Sono la più oculata persona della terra!

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16 mag. Certamente non tornerò tanto presto al gruppo, da quello che mi ha detto Gemma quando è stato letto il foglio che ieri avevo preparato con Sara. Non ho più nessun piacere a rimontare la cor­ rente negativa, anzi mi rendo conto come è stato duro fronteggiare la diffidenza delle altre. Hanno detto che era un comunicato ideolo­ gico, una parola d’ordine. Isa ha affermato qualcosa che mi è parso molto antipatico e imbronciato, ma non ricordo cosa. Ecco perché mi sentivo sempre fiacca quando mi veniva in mente di telefonarle. Dove nello scritto c’è che “siamo abbastanza mature per mostrare il nostro vero volto”, è stato interpretato come un “nuovo” volto, come un rifiuto del passato. Invece vuole solo dire “Togliamo il velo”, come ha fatto Sara nel libro. La diffidenza verso Sara (dice Gemma) e verso di me (dico io) c’era già prima di leggere lo scritto. Che tortura quan­ do succedeva sempre così e io non avevo nessuna di cui incrociare lo sguardo! Mi hanno ammirata, temuta, ostacolata; ero così fragile, così sola. Ho questo nodo dentro, sono ancora sensibile allo spettro della diffidenza. Però adesso è diverso: non sono più spinta ad ac­ cettare tutto, a pazientare, spiegare, dimostrare, non ho più tempo per ascoltare ore e ore, non sono più disperata. Non lo sapevo, ma cercavo solo “l’altra”. Come avevo scritto nella poesia “Eppure baste­ rebbe una voce da fuori”: cercavo quella voce. Lascio la via difficile per prendere quella facile: posso avere dei rapporti se le altre li faci­ literanno. Le avevo abituate a sentirmi dichiarare sempre per prima che avevo bisogno di loro, così avevo fatto anche con Lucia, ma ora è finita. Sono finalmente arrivata nel porto della sorellanza felice. Mi è sembrato un libro che scioglie tutti i dubbi che scioglierebbe le pietre ma il cuore sospettoso è più duro di una pietra per lui non c’è rimedio rimuginerà in eterno le proprie obiezioni per una certa mancanza di forma. Andando per strade ripide, scalinate a giorno sul vuoto, paesaggi solitari con olivi e scorci di cielo limpido invernale, su una macchina guidata da un uomo

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e poi da sole a piedi, mia madre e io poniamo con noi una vecchia zia più che paralitica. La sorreggiamo mentre va a pezzi, continuamente crolla su se stessa finché mia madre se la carica addosso sorridendo giovanilmente con dolcezza. Poi tocca a me e temo di non farcela. Chiedo “Quanto pesa?”, “Cinquanta chili”: è molto, ma non impossibile, tuttavia sono titubante. Questa gita nella campagna è per cercare una casa.

Ieri Simone ha dato le sculture, così Turicchi è mia. Una delle due sculture mi apparteneva: una specie di fiore nero su uno stelo sottile. Lo rifarà in piccolo. Però sono contenta che sarà esposta a un passo da Turicchi in un luogo suggestivo, mentre io avrò finalmente la ter­ ra, gli alberi, la casa. Come sempre di fronte a un qualcosa di impegnativo e di pesante mi innervosisco molto, prima; però nell’imminenza sono calma, concen­ trata. Finché sogno di sfuggire all’avvenimento resto agitata, quando capisco che è inevitabile lo accetto: sto aspettando che venga il marito di Sara a parlarmi della loro separazione. Come sono aperta con un estraneo prima che mi renda conto che non mi capisce! Dico tutto, scopro un sacco di sintesi dentro di me. Sarà buffo leggere insieme il mio diario e quello di Sara: nel mio c’è proprio questa estasi di avere trovato finalmente rispondenza, nel suo c’è un sottofondo di insofferenza per quello che dico o faccio in re­ lazione a lei. Divento il capro espiatorio della situazione. Prendiamo la storia del libro. Mi è costato moltissimo di tempo, fatica ecc. Lei sembra che dia tanta importanza al nome “a cura di...”. Certo mi sarebbe dispiaciuto se non ci fosse stato appena pubblicava un’altra dopo di me, ma d’ora in avanti non ce ne sarà bisogno, è una carica ridicola e niente affatto comoda. Quanto a correzioni dei libri, stop! Anzi, non ne voglio più sapere dei libri pubblicati o da pubblicare. In questo Sara è una bambina, non smetterà di prendersela con me per qualsiasi cosa, mi sento in un ruolo fisso con lei. Ha bisogno di un’infinità di aiuti, però non accetta inconvenienti in questa opera­ zione. Basta che cominci a piovere: sono io che l’inganno, l’illudo, a mio favore magari. Mi ricorda le cattiverie che si dicono da piccoli contro gli adulti: suo malgrado, mi considera ancora più adulta di lei allora; sono diventata il suo parafulmine. Regolarmente due pagine prima afferma quello che due pagine dopo smentisce, alla fine diven­ ta meccanico. Insomma, l’esperienza conta, per questo anche i riflessi

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si modificano, non si può essere così inconsciamente prepotenti come da bambini. Lei accetta di esserlo, e con me è incontentabile. A volte mi sembra che le manchi qualcosa rispetto a me, ed è difficile capire cosa, ma forse è la sofierenza. Con lei mi vergogno un po’ a mostrarle di avere sofferto, mi succedeva lo stesso con Ester, proprio perché mi sembra che, anche se la parola è uguale, il contenuto che ciascuna di noi le dà è diverso. In questo c’è un distacco non so se colmabile, forse è un punto che ho in comune con Simone, per questo il nostro rapporto mi sembra indistruttibile, perché siamo tutti e due naviganti scampati alla tempesta. Quelli che ne hanno passate di così dure forse non possono essere qui a raccontarle. La mia reazione, questa volta più serena, è identica alla precedente, sento che Sara si accanisce su di me, ha ancora qualcosa da smaltire. E uno bella seccatura questa storia del mito che aveva, ancora in febbraio ha bisogno di demolirlo: era più generosa nelle accuse di prima, adesso sono quasi pettego­ lezzi, minuzie. Forse era un periodo di scontentezza generale per lei. Continua a dire che ha adoprato le sue scoperte per le mie teorie: ma quando è potuto avvenire che avevo già tutto fatto quando l’ho incontrata! La riconosco a ogni piè sospinto, diffondo il suo libro, non vedo l’ora di scomparire fra le altre e farmi i fatti miei; la ringrazio di avere operato questo miracolo di sganciarmi dalle aspettative delle altre. Capisco che non c’è che un rimedio: stare ciascuna per conto suo almeno per un po’. Sono stanca di questo accanimento su di me, dovrei proprio considerarmi colpevole per accettarlo. Oggi, per esempio, ho parlato con suo marito: è stato uno stress. Certo, lei an­ che era a terra, però ormai sono troppo coinvolta con la sua separa­ zione; era l’unico modo di aiutarla, ma forse non si può dare tanto. Io non saprei chiederlo, a me nessuno l’ha offerto, dunque perché darlo, e poi ho la sensazione (risvegliata dal suo diario) che alla fine, a saldo di tutto, dovrò leggermi una pagina in cui si farà allusione ai miei secondi fini. Sara non mi riconosce affatto quando dice che avrebbe potuto pubblicare il libro in finlandese e si lamenta che io le abbia suggerito di farlo uscire nei libretti verdi piuttosto che da un editore. D’altra parte quel libro spettava a Rivolta, non avevo fatto fatica per niente, non sono abituata a lasciare incompiute le mie imprese. Però alle prime avvisaglie di rifiuto da parte di Sara avevo subito mollato. Adesso sono come un uccello tra i rami della quercia a Turicchi e nessuno mi prenderà più.

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18 mag. Capisco che Agata abbia rotto con Sara. Sara dice quello che sente, ma l’altra può non accettare il rapporto quando si accorge che diventa deludente. E devo ammettere che quello che Sara sente mi delude in parte. Non sembra rendersi conto con che slancio ho preso l’amicizia tra noi, e quanto mi sono dedicata a lei. Dopo è una doccia fredda accorgersi dei dubbi che aveva o dei rimproveri che mentalmente faceva. Ma perché non mi impedisce di darle troppo ascolto, o troppa risonanza, perché vuole sapere il mio parere su tutto quello che le succede? Io non faccio altrettanto proprio perché sono abituata a cavarmela da me, ho un tempismo mio che scatta e mi fa agire. Un problema, per me, è come un surgelato che non puoi portare a temperatura ambiente senza cucinarlo subito, non puoi ri­ surgelarlo. Invece lei sgela e risurgela continuamente, presenta una questione in varie fasi, ma se a volte mi capita di essere più ossessio­ nata da un fatto mio su cui ritorno, si sente privata dello spazio. Sara ha molto più di me il bisogno di formulare ogni momento, da qui una specie di carattere “selvaggio” nei suoi scritti. Ogni situazione per lei è un osso da spolpare, affonda i denti e rosicchia, poi sorride con una certa sazietà. Io mangio in modi diversi, secondo quel che capita; però più che addentare, mi piace gustare e tenere in bocca. Ho un altro modo di affrontare la vita; Sara mi ricorda Ester per questo al­ ternare prepotenza e docilità, impazienza e pazienza, comprensione letterale e fantasia. Io la mia scontentezza non la riverso sugli altri, comunque non ho motivo di scontentezza se sto con chi posso parla­ re. Con Ester, per esempio, mi sono accorta a un certo punto che non mi capiva e perciò mi bloccava, e da allora è andata male; prima an­ dava bene, nel senso che andava meglio che con amiche precedenti. Devo riflettere se quello che Sara sente ogni tanto verso di me mi fa chiudere oppure lo supero. Ancora mi pare che non intacchi veramen­ te lo stare bene con lei e lo prendo come un abuso infantile. Non si sen­ tiva alla pari con me (in febbraio almeno), eppure le avevo detto tutto. Dopo la poesia cosa pretendeva da me? Lei ha una mentalità di com­ merciante, suppone sempre che la si voglia fregare. Questo è il suo realismo. Ma, come commercianti, finisce per pretendere condizioni vantaggiose. Prendiamo un esempio concreto fra di noi. Lei mi fa leggere la sua prima lettera a un tale e mi chiede il parere. Sento che è sincera, do il mio appoggio. Poi mi interroga, che ne penso di “tua” Sara: secondo

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me è troppo per un estraneo, io metto raramente “tua”, a qualche amica magari, a Simone. Dice subito “Hai ragione” e lo toglie. Cerca un finale alla lettera, lo cerchiamo insieme. Credo di interpretare il suo pensiero suggerendole la frase famosa “Spero di incontrare te o un altro dopo di te”. In effetti lei aveva detto di essere sicura di potere incontrare altri e che non avrebbe fatto un dramma se non fosse riu­ scita a rintracciare quello lì. Poi scopre che io le avevo tolto la fiducia nella sua intuizione. Idem per il periodo in cui si correggeva il libro: lei si lamenta che non le rivelavo di essere in crisi, ma se mi creava del­ le condizioni in cui la mia crisi aumentava mi era difficile rivelarglie­ la. Quello che non coglie è la sofferenza degli altri. Fa ridere quando afferma “Per il mio carattere prima dovevo fare il dovere (correggere il libro) e poi parlare tranquillamente”: se mi fossi comportata con lei nello stesso modo a quest’ora la nostra amicizia non esisterebbe più. Al contrario io ho trascurato tutti i miei doveri (con Tito, per esempio) per darle la precedenza quando intuivo che ne aveva bisogno. Quanto al fatto che io sarei stata la prima a dubitare di lei, non è vero, perché Sara mi considerava troppo femminista per dirmi di essere “innamorata pazza”, lo diceva ad Agata, quindi non aveva fiducia nella mia autenticità. Mi accorgo che dall’autunno lei ha oc­ cupato tanto la mia vita che ora ho necessità di una pausa. Abbiamo parlato insieme e pianto tutte e due, lei a un certo mo­ mento è scoppiata in singhiozzi e tremava tutta, io già m’impaurivo di provocarle troppo dolore. Poi mi ha detto che piangeva perché si era sentita “meschina ed egoista”. Appena ha pronunciato questi aggettiva mi sono accorta che non volevo che si accusasse, ma che si rendesse conto di me in un modo più sensibile, davvero aveva finito per farmi soffrire. Non volevo mettere in dubbio che dovesse essere se stessa, però neppure potevo accettare di vivere senza fiducia e ri­ conoscimento. Era d’accordo che non me li dava completamente, le rimanevano dei sospetti sul mio leaderismo, per così dire, provava l’impulso di negarmi ogni tanto la buona fede. Le ho detto che questo non posso accettarlo e lei ha convenuto che non potevo. Dopo avere pianto ha detto “Mi sento lavata, purificata”, io mi sentivo “riconci­ liata” con lei. Da stamani è come se avessi fatto dei tuffi dall’alto, tuffi non so dove, ho la sensazione di essere precipitata, di avere volato, di avere perso conoscenza per qualche istante, di ritrovarmi leggera, rilassata sul terreno con Sara.

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Ho pianto ancora, questa volta ho tirato fuori tutto: com’era bello con lei anche prima, però in un certo senso galleggiavo nell’estasi perché non sentivo terra sotto i piedi. Adesso la sento. Le ho detto quanto ero disturbata da tutta la storia dei paragoni politici nel gruppo, leader, potere ecc. Io ero un profeta, cioè uno che crede in una possibilità e la fa esistere perché alla fine qualcuno si identifica con quella possibilità profetizzata. Però dopo non si capisce più il profeta cosa ci sta a fare, nessuno può dargli risonanza, è una presenza che disturba “Vattene, profeta”, e gli tirano delle pietre. Mi veniva da piangere dicendo a Sara quanto era difficile mantenere la fede, superare i dubbi tutto da sola; per questo ero una specie di voce assoluta nel gruppo, all’inizio non potevo farmi invadere da troppe banalità, obiezioni culturali, de­ bolezze, titubanze, scrupoli delle altre. Avevo il diritto di mantenere la mia fede, non ero una leader, ero un profeta, e un profeta non può essere democratico. Lei ha concluso che andrà al gruppo per chiarire il rapporto con me, ha capito che non possono accettare passivamente i sospetti, condizionano troppo gli svolgimenti tra noi. Ero limpida, trasparente, non hanno saputo vedermi attraverso, non posso superare da sola la diffidenza. Credevo che Sara sapesse quan­ to mi premeva appianare i rapporti con lei, avere la sua fiducia una volta per tutte, ma dovevo manifestarglielo ancora e più chiaramente. Mi sembrava che fosse sottinteso, o persino troppo esplicito: non me ne ero andata come Agata, volevo arrivare al fondo della situazione, alla caduta di tutte le riserve. Lei non è un tipo fiducioso, è vero, met­ te i puntini sulle i, a volte, come un volere eccessive garanzie, però adesso la vedo ogni tanto così lanciata, perché non lo fa anche con me? Vado tenuta a bada? Sara non ha scritto che dei sospetti su di me, ma io ho saputo farne un motivo di liberazione, ne avevo bisogno perché sentivo qualcosa sotto e non volevo crederci. Però, ero tanto più sbalordita leggendo perché non me ne aveva mai fatto cenno a voce di sospetti e cose del genere, dice che non ne aveva avuto il co­ raggio, e poi le succedeva di dubitare di me proprio quando ero via. Oggi abbiamo continuato la lettura del suo diario e veramente mi accorgo che esserne implicata diventa troppo uno choc. In fondo si continuano i rapporti umani sulla convinzione che ogni particolare ha un senso non di per sé, ma nel quadro generale del rapporto. Io mi sento molto estranea al senso letterale, all’episodio. Invece, nel suo diario, mi trovo ridotta a una frase, a un’osservazione, a un gesto

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e finisco per subire una violenza tremenda, addirittura assurda visto che il tutto si riferisce a mesi addietro. Ogni mia sensibilità in questo meccanismo appare calpestata, mi vedo in frammenti il cui rapporto con me è molto strano, eppure diventano ciò che viene trattenuto vi­ sibilmente di me stessa. Mi è passata la voglia di fare il diario, di par­ lare degli altri: non voglio che si verifichi quel fenomeno allucinante che ho vissuto leggendo il suo. Voglio battere a macchina quello che ho scritto finora e rendermi conto se anche lì succede lo stesso. Ho un gran sonno, sono svuotata: siamo andate a un brutto film tanto per distrarci. Sara è tutta sottosopra: l’amico non le ha tele­ fonato, il marito neppure, con me è stata una giornata campale. Le ho confessato che vorrei fare una pausa con lei: dopo qualche gior­ no di convivenza sono stanchissima. L’emotività di oggi ha anche a che vedere con l’impressione di essere travolta dai suoi problemi, specialmente dopo 1’incontro che ho avuto con suo marito. Ha ri­ sposto “La convivenza non porta a niente, neppure tra donne”. Era quello che mi rendeva titubante quando le avevo offerto ospitalità, in queste condizioni soprattutto. Adesso vedo le differenze fra noi, chissà perché aspetto così tanto a definire una persona: all’inizio mi piace attribuirle tutte le possibilità, poi piano piano prende i contor­ ni. Comunque queste differenze è anche difficile descriverle. Mi ha fatto vedere che non mi capisce: mi viene anche il dubbio che io non la capisca pienamente. Un incantesimo si è rotto, chissà perché ero così sicura che afferrasse tutto di me. Ieri le dicevo che la bontà non esiste, esiste un comportarsi rispetto a quello che si capisce, a cui si dà valore. Sara ha tradotto che se si ama si dà tutto: certo l’ho detto se lei l’ha riferito, ma era la parte per me più ovvia del discorso. Parlando di questo, ha concluso “Così uno si rende conto di cosa arriva di sé all’altro”. Ma non è vero, arriva molto di più sennò saremmo tutti ancora più estranei reciprocamente. Forse quel di più è inesprimibile. Domani sarò contenta di ritrovare la mia autonomia: qualche giorno di lontananza ci permetterà di rincontrarci con un rinnovato deside­ rio di comunicazione. Oggi mi ha detto che non voleva ammettere quanto ero importante per lei, cercava altre amiche per dividersi con loro e con me. Io ho avvertito invece l’estraneità per la prima volta, ho vasto dove era diversa da me: in fondo non faccettavo compietamente, mi proiettavo su di lei, come avevo scritto in una poesia “La mia ombra sparisce nella tua ombra / non ho fretta di districare la

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mia ombra”. Adesso ho fretta, la partenza di domani me lo dice: io a Torino, lei a Roma. 19 mag. Quel brutto film ci ha fatto fare tardi senza sollevarci dalla tristezza. Ho dormito poco e non me la sento di andare a Torino. Fe­ licita al telefono era così contenta di vedermi che mi dispiace davvero fare la preziosa, ma non me la sento. Invece ho voglia di scrivere a Simone. Comunque sono arrivata alla conclusione che sono troppo occupata a fare andare bene i rapporti che m’interessano, mi ingan­ no da me perché risolvo ogni nube con zelo e dedizione in modo da superare il punto morto che s’intravede, senza farlo venire fuori. Allo­ ra è stato anche a causa mia che Sara non trovava il coraggio di dirmi tutto, inconsciamente negavo quella possibilità. Quando poi leggo che, nonostante la mia cura, salta fuori un dubbio su di me, mi sem­ bra troppo ingiusto. In realtà voglio ancora imbrigliare, coordinare, mettere al riparo. Con Simone non mi succede, forse perché sento un calore che supera qualsiasi imprevisto. So che mi accetta in anticipo, mentre con le amiche c’è sempre stata un’inferiorizzazione loro che mi faceva paura smuovere e che comunque conteneva troppa osti­ lità perché mi sentissi sicura. Con Sara sto ancora pagando il mito dell’inizio. E evidente che da quando ha cominciato a demolirlo, nel grattare via l’involucro finisce spesso per strapparmi anche pezzi di pelle e di carne. Oppure aveva verso di me l’atteggiamento che io avevo verso Simone: non mi veniva in mente che potesse davvero soffrire per me, per tutto ciò che gli dicevo crudamente e poi non ci pensavo più. Per me lui era in grado di capire tutte le situazioni, ec­ cetto quelle che suscitavano la sua gelosia, ma non ero davvero sicura che non le avrebbe capite. E troppo umano e anche Sara mi vedeva così. E stato anche troppo buono con me e io lo sono stata troppo con Sara: lui metteva a disposizione tutto di sé per darmi forza e io appoggiavo Sara in ogni sua incertezza. Ma così Simone appariva ai miei occhi eccezionale e anch’io apparivo tale a quelli di lei. Mi sacrificavo per Sara come lui si sacrificava per me senza che questo apparisse o pesasse a chi ne beneficiava, però in qualche maniera Simone si aspettava come ricompensa che lo avrei amato alla follia - invece, forte della sicurezza che mi dava, l’ho tradito - e io che il rapporto con Sara sarebbe stato senza diffidenza mentre lei mi met­ teva continuamente alla prova e diventava incontentabile.

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Stamani al telefono Simone ritornava sul tasto del tradimento: si di­ sgusta del passato, il mio sorriso dalle fotografie gli sembra ambiguo. Ora, ma allora no, dunque perché non concludere che ero semplicemente due persone, oppure una con esigenze opposte e che quello era il sorriso di stare bene con lui. Non posso sentirmi colpevole di avere avuto tanti problemi. Vorrei dire a Simone che il mito di un rapporto è qualcosa che lega al passato: si vuole conservare, non sciupare, in fon­ do non evolvere. Ha avuto origine tempo addietro e rimane come una rendita che non si rischia di perdere. Non era sempre così straordi­ nario stare insieme, era straordinario essersi trovati. Sara ora andrà a studio da Simone a Roma, vorrei gli facesse leggere la lettera che le ha scritto il marito. Comincia “Dopo aver parlato con Carla...” e le rivela alcuni punti di sé, così si rende conto che ci sono degli scambi tra noi, nessuno escluso. Avevo provato simpatia per il marito di Sara quando è venuto a parlarmi, mi ero sentita a cuore aperto e mi era dispiaciuto che fosse andato via troppo presto. Adesso, quando ho letto la lettera a Sara dove dice che se ne è andato per non disturbare, mi è venuto un improvviso affetto come quando ho avuto quella di mio fratello. 20 mag. Sono con Tito, ma un cerchio si chiude su di noi, qualcuno ci tradi­ sce, chi vuole la nostra morte butta delle bombette velenose in un luogo pubbli­ co, forse un ristorante dove eravamo ritornati con fiducia. Cerco di capire chi dei presenti può essermi amico. A Torino ho trovato Valeria peggiorata, parla molto di sé con sot­ tigliezze un po’ inutili, suppongo che avere la parte di enfant prodige del gruppo le abbia nuociuto. Vedere Felicita che la protegge in ogni modo, mi ha chiarito certi aspetti del mio rapporto con Sara e soprat­ tutto quando Valeria diceva di avere preteso da Felicita, per esempio, che cambiasse posto con lei al cinema proprio perché si faceva forte del suo diritto di persona riconosciutasi più debole delle due, capivo che anch’io, mettendomi in secondo piano rispetto a Sara per secon­ dare o anticipare i suoi bisogni, la incoraggiavo a disporre di me. Ne abbiamo parlato a lungo e stasera Valeria metteva in chiaro che non voleva che Felicita continuasse a offrirle pranzi. Eravamo al risto­ rante e Sara ha subito voluto pagare lo spuntino anche per me. Poi ha detto che le sembra di rubare a Rivolta perché le altre non sono tutte d’accordo che il suo è un libro importante per loro, e in più io i

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miei libretti li ho pubblicati gratis e non ho preso nulla. Appunto, le rispondevo, mi ero accorta come non fosse giusto, per questo avevo proposto di cambiare. Afa, a mia volta, pretendevo da Sara di essere capita in tutto e che avesse sempre fiducia in me. Avevo alle spalle i rapporti con Alarion e con Ester che hanno avute una piega soddi­ sfacente o anche idilliaca per molto tempo, finché la situazione a un tratto è precipitata. Si capisce che si reprimevano se sono scoppiate in una serie di accuse e insinuazioni credendo così di risolvere la loro inferiorizzazione nel momento stesso in cui me la rivelavano. Questo era stato un trauma. Quando mi sono accorta che Sara aveva dei so­ spetti verso di me mi è sembrato troppo incredibile, e poi non sapevo dove la cosa sarebbe andata a finire. Ala nessuno può capire tutto di me, così, spassionatamente, perché nessuno è lì con questo incarico, sempre si può verificare qualche incomprensione e non resta che ma­ nifestarla e cercare di risolverla. A volte rimane sul fondo e va portata a galla per poterla vedere e togliere di mezzo. 21 mag. Telefonata-fiume con Simone: abbiamo un gran bisogno di parlare in questo momento. Ala la telefonata è finita quasi dramma­ tica perché lui diceva che così non si può andare avanti: o ci spostia­ mo Tito e io a Roma o prendo una persona fissa a Milano per Tito, e io sto il più possibile a Roma con lui. Insomma, dopo dieci anni sono agli stessi aut-aut che rifiutavo dieci anni fa. Simone vuole stare sempre con me, io voglio essere libera di stare con lui o no a seconda dei momenti scelti da me (e da lui) e non dalle necessità come è av­ venuto finora. In fondo le sue occupazioni di lavoro hanno avuto la meglio sui nostri rapporti: ci siamo sempre divisi o riavvicinati in base a quelli. Così interrompevamo momenti preziosi, stati di confidenza e intimità. Di solito mi meravigliavo che già al telefono, poche ore dopo la separazione, avesse una voce diversa, estranea, affaccendata. Comunque l’aut-aut “O ci lasciamo o vieni a Roma” mi ha angoscia­ ta. Qui per ora ho tanti fili e ci ho impiegato del tempo per crearli; di Roma mi dà fastidio proprio la gente. Parlo con qualcuno che viene dal luogo dei morti, forse mia madre era anche là. Ali dicono sensazioni strazianti: un ricordo pallidissimo della terra, una debolezza come essere svenuti. Poi, via via che il tempo passa, si cancella anche il ricordo e non c’è più niente. A un tratto mi accorgo, che anch’io sono morta: il mondo è

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perduto per me, ho le gambe debolissime, rigide, le braccia formicolano, chiedo ancora, ma l'angoscia sale. A un tratto grido “Hanno ragione i testimoni di Gcova che bisogna arrivare fisicamente integri alla morte: come farò io a tornare indietro - lo vedo fare a voi - se non ho più la tiroide e non potrò certo prendere pasticche da morta”. Mi rassicurano che quello non c’entra: si è morti davvero, delle ombre. A un tratto, nel buio, qualcuno arriva e quasi sul mio viso fa autoerotismo in mo­ do abbastanza violento. Sara mi dice che è stato suo marito. Ho perso la borsa, conteneva documenti compromettenti: la cerco dappertutto in una zona coperta tipo mercati generali o supermarket. Finalmente la trovo sul banco di un tabaccaio, affacciandomi dal quale vedo il mio nemico-accusatore che sta scrivendo al tavolo. Prendo la borsa e ne lascio cadere tante caramelle di miele, convinta che così quello rimarrà disorientato e interdetto... Sono su una zattera, di notte: un mare nero ne lambisce i bordi. Con una mano cerco di sentire se l’acqua è fredda. Siamo su in pochi: a un tratto il guidatore si sdraia dietro a me, sembra che mi tocchi le gambe, il sedere. Mi sento terribil­ mente a disagio. In un angolo della casa tengo un animale, forse una pecora. Mi preoccupo che mangi; guardo se ha erba fresca.

Turicchi è vicino alla casa di Felicita (l’abbiamo appena scoperto): mi darebbe la sicurezza di incontrare le amiche del nord. Forse con questa via di mezzo posso trovare lo spostamento a Roma meno sradicante. 22 mag. Sono con Paula verso piazza Savonarola a Firenze. Passiamo davanti a una libreria; dico “Possiamo provare lì”. Paula corre, ma torna subito “Niente da fare”. Penso che si muove a casaccio: avrebbe dovuto avere con sé delle copie di pubblicazioni da mostrare. La vedo svagata. Sono malinconica perché sto per lasciare Firenze, mi dispiace abbandonare quei posti, eppure devo. C’è un gran mercato verso via degli Artisti, frutta e verdura, gente semplice, prezzi conve­ nienti. In un negozio sono tentata di comprare qualcosa che è in un barattolo di vetro, forse una confezione di tonno, ma da rovescio sembra secco. Quell'amica femminista al telefono mi sembra avere fatto marcia in­ dietro: secondo lei ha venduto pochi libri di Sara perché le donne

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del suo gruppo trovano che costa troppo. Strana obiezione visto che sono tutte piuttosto abbienti: “Non credo una parola di questa scusa: prima stentano a comprarlo per un fatto di rivalità tra gruppi, poi per inferiorizzazione”. Lei non si pronuncia “Credi?” “No, tu cosa credi”. Vedo Paula per un pomeriggio, ma solo all’ultimo avverto qualche tono o sillaba proveniente dal suo intimo; per il resto incassa senza scomporsi, ma sento che è a disagio. E incapace di entrare nel vivo di un argomento, incapace di appassionarsi. 23 mag. Che strana sensazione di malinconia! Ho telefonato a Simone: stava parlando con Sara, era molto tranquillo. Avevo voglia di intrattenermi con lui, ma ho finito per farlo con Sara, con cui anche volevo scambiare qualche parola, però alla fine è così caro questo telefono che si ha sempre una specie di fretta. Le ho detto che avevo nostalgia perché mi sentivo sola qui, lei risponde che però eravamo troppo tese alla fine, ma io intendevo nostalgia di Simone che non vedo da più tempo di lei. Adesso ho ben chiaro qual è un dramma tra donne: il rapporto ma­ dre-figlia. La figlia è troppo piccola perché la madre non si occupi e sacrifichi per lei, però dopo la figlia pretende la parità con la madre senza riconoscerle niente. Più che riconoscerle, dovrebbe ricambiare un po’ di cura e dedizione. Per esempio, Sara sa che un problema per me è come lasciare Tito, non posso vedere Simone per questo, sarebbe un regalo fantastico se mi permettesse una vacanza da lui, però l’unica volta che gliene ho accennato ha risposto che non se la sentiva, e non ha più ripreso l’argomento. Oggi le ho annunciato che sabato andrò a Firenze per incontrare Simone mentre lei aveva in programma di stare a Roma fino a lunedì. Ha proposto di venire anche lei. Ma io e Simone avevamo progettato un weekend a due, or­ mai conto i giorni, ancora giovedì e venerdì. In tre non è così sempli­ ce come in due, l’umore di chi è solo gira facilmente, bisogna intrat­ tenerlo, si sente di troppo. Ho presente la situazione a tre con Ester: ero io che la imponevo continuamente a Simone, poi venivano fuori i problemi, ma avevo pena per lei sola e con restrizioni economiche. Ho parlato con Irma: ce l’aveva con Sara che vuole sempre un trat­ tamento particolare. Adesso lo so, è vero, Sara è quella bambina che pensa ai fatti suoi, è curioso che somigli un po’ a Lucia in questo: una volta, dopo avere iniziato la sua relazione con Cesare, mi aveva detto

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“Neanche per me è bello avere uno che è stato con te". Ecco quanto aveva trovato per consolarmi. Era noi due ero io a considerarmi in difetto quando stavo con Cesare, non lei. Sara parlava sempre di mito che aveva avuto per me; io sentivo di non averlo, però ugualmen­ te qualcosa non andava: è che io ero diventata la sua unica risorsa, come per Ester. Non avendo Sara altri che me, ero sopraffatta dai suoi problemi, dai suoi bisogni, provavo senso di colpa solo a desi­ derare un po’ di pace. L’ultima crisi fra noi è scoppiata proprio dal contrasto tra l’essere io impegnata con lei a fondo e il suo continuare a impegnarmi senza ammetterlo. Era noi c’era una parità a parole, ma nei fatti lei pretendeva ancora tutto da me, anzi, quando cercavo la sua comprensione come all’epoca della crisi con Simone, subito si innervosiva. Poi magari diceva di essere stata egoista, ma quello che frustra è la prima reazione, è lì dove ci si sente rifiutati. Adesso ho del risentimento per lei: mi rendo conto che in definitiva non lavora né lavorerà mai per Rivolta, giusto qualche momento della giornata, mentre io faccio proprio la fatica di dissodare il terreno e vado avanti tra le difficoltà come ho sempre fatto. Per una volta che scrive due lettere a macchina, annota nel diario che sta lavorando e vuole lo sti­ pendio. Quando mi ha detto “Mi sembra di rubare i soldi a Rivolta” ho pensato “Quanti scrupoli si fa!”. Invece non è proprio tanto scru­ poloso che se lo chieda dal momento che di fatto non dedica a Rivolta il tempo necessario. Anche con Ester era così: la assecondavo perché mi pareva più sfortunata di me e questo mi dava senso di colpa; mi era piovuta dal cielo per il mio bene, la accettavo completamente, e mi aspettavo di essere ricambiata. Con Paula telefonata nervosa. Lei esordisce “Tutto risolto nel grup­ po, tutto a posto”. Mi dà ai nervi: Irma mi aveva fatto capire che non era affatto così, cerco di mettere a fuoco il problema, lei taglia corto “Certo, certo”, sono sempre più esplicita, vorrei che dicesse qualcosa, ma niente, la parte è saggia “Certo, certo”, sono esasperata. Insisto perché mi pare impossibile che non dica niente, no, anzi qualcosa dice “Vado a fare un sonnellino, abbiamo fatto tardi ieri sera”. Avevo pensato di mandare un telegramma a Simone per dirgli che mi dispiaceva di non essere lì con lui. Ma adesso sono di malumore: ho parlato con troppa gente frustrante in questi giorni sempre a cau­ sa del libro di Sara, ho scritto lettere e lettere, ho fatto tardi la sera. Sento passare dietro un vetro anche questa primavera, è già la fine di

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maggio. Che può significare un telegramma? Finché avevo l’impres­ sione che Simone ne avesse bisogno l’avrei mandato, poi ho sentito che stava parlando intensamente con Sara “di un certo personaggio assente”, allora ho capito che ero io sola, non lui. Qui, a parte Sara, non ho nessuno, ho bisogno di un amico. Prima ancora, ho bisogno di un proposito: non dare più niente senza essere sicura che mi venga ricambiato. Lasciare che vada tutto in malora, se è il caso. Aspettare che gli altri chiedano, non precederli. Accettare, non proporre. Avan­ zare richieste per me. Ho parlato con Simone: Nicola e Riccardo gli hanno regalato una magnifica palma... sto piangendo, mi sento così giù. Che dolore non essere nel presente di Simone. La sua voce non viene dal mio stesso tempo, adesso non sono con lui e non lo sarò mai. All’inaugurazione non ci sarò e mai più tornerà questo pome­ riggio, mai più. Ero così nervosa e stanca al telefono. Ho bisogno di una pausa da tutto: femminismo, gruppo, problemi, libri, soldi ecc. Ho bisogno di stare con Simone finalmente, vedere se è possibile. Mi viene in mente che con lui sono stata così ingiusta, prepotente, forse per questo piango: ora che ammetto di avere sofferto per la distra­ zione di Sara, non posso non vedere che Simone ha sofferto per la mia trascuratezza. Con lui ero troppo presa da me stessa, con Sara troppo poco. Mi sembra di avere buttato via tanto tempo, quasi dieci anni, che tristezza, Simone caro, che rovina essere sempre lontana da te. Ma quello che mi colpisce, mi ferisce è che oggi sono lontana, un oggi dove non ti raggiungerò: in questo momento non sei con me, io non sono con te, non c’ero quando è arrivata la palma, non ci sono. Giornata nera, mi ha preso proprio aH’improwiso. Le mie amiche sono lontane... Aspettavo qualcosa da loro, mi sembrava di avere dato tanto e proprio quello che per me era stato difficile conquistare: aspettavo attenzione su di me. Invece sento che l’altra intende fuggire via e comunque ha i problemi connessi all’entrare più decisamente nel mondo. Vorrei dire a Simone che lo amo, vorrei dirglielo adesso, vorrei par­ tire con lui per un viaggio. Sapevo di amarlo, ero contenta di veder­ lo, ma non mi veniva facilmente questo struggimento. Ero presa da altro, dai miei rapporti nel femminismo, da quel bisogno che avevo di un’amica a cui dare tutto perché mi accettasse e mi ricambiasse. Adesso esco da un sogno, dal rincorrere un’altra: non devo più niente a nessuna, anche se lei non me lo dice e continua a chiedere io lo

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so, l’ho capito, proprio ce l’ho dentro. Non ricordo come abbiamo cominciato a lasciarci guastare la relazione... A me sembra con i fi­ gli. L’estate con i figli era anche divertente, ma ci siamo distratti da noi: volente o nolente entravo in un ordine di idee un po’ materno. Poi Ester era così bello che ci fosse, ma anche questo toglieva qual­ cosa al rapporto con Simone. Dopo i primi tempi, appena comin­ ciata l’alternanza di stare insieme e lasciarci (ricordo che una volta Simone se ne è andato in un giorno di sole bellissimo ed è tornato a Roma in macchina con un’amica con cui era contento di fare quat­ tro chiacchiere; io rimanevo nella “casa desolata” di mio marito) ero già in qualche modo delusa. Sono rimasta troppo tempo in quella “casa desolata”: non avevamo trovato la soluzione né per mio figlio né per i suoi, non potevo contare su una stabilità, la volevo, ma non la conoscevo veramente, ne avevo anche paura. Così prendevo ogni impedimento come un benvenuto perché mi distoglieva dal mettere troppo nel rapporto. Ho passato dei periodi molto belli con Simone, so che ne avrò ancora, e che ci divideremo solo quando ne avremo desiderio, non per necessità esteriori. Una parte di me rifiutava quello che una parte di me procurava. Vorrei avere di fronte un mese senza impegni, né figli, né mostre. Dopo tanto tempo che stiamo in mezzo agli altri in un’infinità di situazioni da sbrogliare, adesso siamo a un passo l’uno dall’altra con la coscienza che solo questo conta e che non ce lo giocheremo più. 24 mag. Dal gruppo e da Sara mi è stato negato il riconoscimento a cui aspiravo: darmi fiducia per quello che avevo fatto nei loro con­ fronti. Così hanno finito per ricattarmi, per spingermi a fare ancora di più nascondendo me stessa e i miei bisogni... ma alla fine la fiducia completa non c’era. Capito il trucco? Povera madre lascia perdere il marito per le figlie: povera sorella maggiore accusa il padre per incontrare le sorelle; povera me, allontano Simone per dare tutto alle amiche, adesso torno a Simone. Valeria mi ha fatto vedere quello che aspettavo da Sara e non veni­ va, ha smascherato il meccanismo; mentre Sara, riconoscendosi “me­ schina ed egoista”, mi faceva sentire crudele ad averla spinta a tanto. Parlando con Gemma e poi con Matilde mi sono rasserenata: e mi è tornato in mente un episodio con Lucia. Era venuta a Milano da poco, l’avevo incoraggiata io a venirci. Abitavo in due locali, avevo il barn­

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bino piccolo, Raffaele era disfatto da un lavoro che non gli piaceva. Eravamo già in crisi, stanchi, disabituati, senza soldi. Invitavo Lucia a cena più spesso che potevo, mio marito la riaccompagnava in macchi­ na. Lei arrivava, si sedeva, la servivo, mangiava, parlavamo. Un gior­ no mi dice che trova molto scortese da parte di Raffaele non scendere dalla macchina quando la saluta. A volte cercavo di prenotarla per un paio d’ore a guardare il bambino, contrattavamo a lungo, ma la con­ clusione è sempre stata no, assolutamente sempre, non ha mai potuto. Da quando ha avuto marito e famiglia si fa un obbligo di non chieder­ mi niente, ma neppure riesce a darmi: non rientro nel numero delle persone verso cui è spinta a essere generosa, seppure quelle persone esistono. Neanche prima mi chiedeva, ero io a essere sempre nell’anel­ lo di una catena: non volendo che si affossasse a Firenze, la spingo a venire a Milano, mi sento corresponsabile di questa decisione, vedo le sue difficoltà, lei non vede le mie, non posso non intervenire. 25 mag. Oggi sono felice, serena, è una bella giornata di sole: tra poco sono a Lirenze, poi a Siena, poi in campagna. Mi sono tolta un altro peso di dosso, che bellezza. Matilde ha ciato al gruppo una somma di regalo, l’ha fatto dal cuore, così paghiamo la prima rata al tipografo, per le altre ce la faremo da sole con la vendita dei libri. Mi gira la testa perché vedo tutto rosa: sono, al solito, accucciata in cima all’albero e anche se so che qual­ cuno o qualcosa sta segando il ramo per cui cadrò giù di colpo, me la godo quassù vedendo che tutto va meglio di quello che potevo mai pensare. Non sono incontentabile. Proprio su questa base eli serenità sono riuscita a dire a Paula che lei cerca di mettersi su una strada obiettivamente giusta, di dire cose obiettivamente giuste, per questo risulta sempre così vuota di emozione. Si fa portavoce di ragiona­ menti che le sono estranei. Lei non si è scoperta, però c’erano dei silenzi pieni di verità e quando parlava aveva la voce debole, come parlando a se stessa. Ha detto che intuiva che qualcosa non andava sotto sotto, e che nel gruppo si fanno tanti discorsi tortuosi e artificia­ li. Dopo mi ha accompagnata alla stazione, e ho visto che si sentiva colta in flagrante: aveva un altro sguardo, spaurito, interrogativo. Sono in treno e penso a lei, che ho conosciuto forse per la prima volta stamani; a Gemma, con cui c’è proprio una telepatia che una chiama al telefono quando l’altra pensa di chiamare, si era sentita ottimista e

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di buon umore dopo la chiacchierata di ieri, credo che è liberatorio sapere che ci sono state difficoltà tra me e Sara e non solo con lei e le altre, diceva che è un divertimento questo puzzle di noi stesse da ricostruire, finalmente l’angoscia è passata. Il treno corre nella cam­ pagna già quasi estiva, è il momento più bello dell’anno, mi sento una ragazzina con il mio carico di libri per Firenze, sarà divertente distri­ buirli. L’esclusivismo con Sara si è rotto, mi sento più sciolta. Certo, quanta sofferenza si è costretti a rivivere per liberarsene! Leggo di un tale che ha scritto un libro sulla spinta suicida degli adolescenti: dice che il suicidio viene visto come la conclusione naturale di un fallimento nella comunicazione e della perdita di identità. Però pare che si sia suicidato anche lui, a quarantacinque anni. Mi è venuta in mente la poesia per Edmund, il bambino suicida di Berlino anno zero> che aveva fatto “il salto alto” dal palazzo devastato dalle bombe. Una parte di me si identificava con lui. Intanto leggo un articolo su L’Unico di Stirner e la polemica con Marx. Subito mi sono sentita con Stirner che scopre la sua unicità o autenticità (qualcuno mi aveva detto che Autoritratto assomigliava a L’Unico), il valore dell’individuo, ognuno diverso dall’altro. Finora, dice Stirner, c’era un’astrazione, l’Uomo; e l’ideologia, lo Stato si rivolgono sempre all’uomo. Vogliono adoprare l’individuo, farne un mezzo per la realizzazione dell’Idea. Lui scrive “Il cerchio magico della cristianità sarebbe rotto se cessasse la tensione tra io quale sono e io quale devo essere”. Per Stirner conta “l’attimo”, non lo scopo, il futuro. Senza conoscerlo in Sputiamo su Hegel dicevo la stessa cosa. Ciascuno di noi è “l’egoista che considera valida solo la sua storia, perché egli vuole realizzare solo se stesso... Ogni essere superiore, sia Dio sia l'Uomo, indebolisce il senso della mia unicità”. Naturalmente è un modo di vedere l’individuo ancora patriarcale. La maniera in cui risponde Marx e poi, suggestionato da lui, Engels che all’inizio aveva avuto una reazione positiva, è il misco­ noscimento completo: misurandolo sulla sua vita, maestro di scuola con poche lire, “i cui rapporti sono ridotti al minimo a causa della sua posizione miserabile” gli appare inevitabile che “il suo pensiero divenga tanto astratto quanto la sua vita e lui stesso”. Il commenta­ tore, dopo centocinquant’anni da questo exploit di Marx, commenta “Il quadro era purtroppo vero”. Se non vengono smitizzati i capi, ha ragione Stirner, gli individui non nasceranno, non ci sarà liberazione. I loro sono maestri di falsità, di inganno.

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29 mag. Ho passato un’altra tempesta tremenda, non ho dormito tut­ ta la notte tra il 25 e il 26 a Firenze - c’era anche il caldo estivo e avevo preso un caffè verso sera con Simone all’Hotel “La Pace”. Mi sentivo perseguitata dalla sfiducia di Sara: Simone mi aveva detto che insieme si erano lamentati di me, della mia ambiguità. Lui lo capisco, ma lei? Su uno spiazzo, pallido e con gli occhi celesti rivolti verso di me come per chiedere aiuto, un ragioniere dcH’amministrazione della mia casa è immobilizzato brutal­ mente da poliziotti. Altri, con un fucile tra le mani, gli sono attorno, gridano, si muovono. Stanno per fucilarlo; potrei tentare qualcosa in suo favore, ma la paura di essere coinvolta nella sua sorte mi fa tirare diritto, come se non lo conoscessi.

Simone aveva riferito a Sara i miei dubbi sull’arte, i discorsi fra di noi. Lei ha risposto che io non posso capire cos’è fare qualcosa manual­ mente perché non l’ho mai fatto, mentre lei sì. Sara ha un’altra faccia, un viso stretto con attorno ciuffi di capelli color stoppa. Vuole parlare di arte e, per fare questo, chiude porte e finestre e si resta al buio.

30 mag. Con un’espressione gelida Sara mi dice “Tu non mi ami più”. Fa qual­ cosa per dimostrarmelo, per smascherarmi. 31 mag. Con Sara abbiamo rapporti discreti, improntati a fiducia. 1 giu. Sara, con una voce molto dolce, mi chiama per nome (sogno fatto in cam­ pagna da Felicita). Tornando a Milano oggi in macchina ero serena, con tre giorni me­ ravigliosi alle spalle, goduti senza subire nessun richiamo. Quanto a Sara, mi sentivo pronta a rinunciare, a ritirarmi, ad accontentarmi. Così ho capito che posso andare a vivere in campagna, a Turicchi, tutto l’anno: posso diventare coltivatore diretto e prendere la residen­ za lì. Posso stare con Simone senza distrazioni, e poi accogliere quello che succederà. Ma parlando con Sara mi è venuto da piangere: non posso farci niente se sento che non mi accetta. Lei dice “Forse vuoi da me qualcosa che non posso darti”, e infatti ho rinunciato a Firenze quella bruttissima notte, ma adesso era doloroso metterlo in atto. In più c’era una lettera del gruppo di Genova molto ostile per via della

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circolare famosa dove si chiedono soldi e si dice di mostrare “il vero volto”, la lettera era contro Sara e me. In più Nicola aveva detto a Simone che non mi ero aperta con lei. Tito non voleva andare alla lezione di francese domani, non mi ha dato un bacio quando sono arrivata. La città è grigia, si è messo a piovere. Sara è troppo immu­ nizzata al dolore, mi manca che lei non lo conosca: io lo conosco troppo, c’è questo abisso tra noi. Dice “Mio marito non mi crede perché io non enfatizzo le sensazioni, ma intendo esattamente quello che dico”. Però è vero che non lo comunica, comunica un’altra cosa. Ricevo questa lettera di Anita del 29 maggio. “A questo prezzo hai pagato la tua salvezza del rapporto con l’uomo, dandogli il meglio perché nel meglio ti lasciasse restare? L’incantesimo del femminismo. Il rito è consumato, la crisi che avevi paventato è superata, chi e che cosa si alza sul­ le ceneri dell’ultimo alibi e della tua anima? Io non ti chiamo più, ora finalmente non ti scuoteranno le mie scomodc grida nel tuo altezzoso e incantato deserto.”

Tutto è cominciato con una sua lettera dell’1 maggio. “Cara Carla, guarda i quadri di Ester che hai in casa, ti ci vedrai crocifissa! Penso che tu abbia già capito. Io è un periodo che sto capendo tutto di me e di te. E ci sono capitate le stesse cose in occasioni diverse. Io ho avuto mia madre, tu Ester, ma sono la Stessa Cosa! Tutte e due così brave, così scaltrite, così ar­ rivate da qualche parte nel mondo degli uomini. Lei ti ha interiorizzato con la sua creatività riuscita che non è stata altro che scaldare una minestra fatta con le primizie offerte da qualcun’allra\ ... Come mia madre mi ha interiorizzata con il suo rapporto con un uomo così riuscito, altra abile costruzione scaldata, e quel calore di tutte e due nasceva da una voluta contusione chiassosa millantata per umanità, un’operazione collaudata e con bravura, che le ha distinte dalla incolorità delle altre donne. Questo te lo scrivo ora perché ho avuto questa intuizione sui quadri poco fa e mi ha proprio scosso e impressionato. Per le altre cose penso che stiamo allo stesso punto e che siamo tutte e due sempre in autocoscienza, proprio sempre naturalmente. Anch’io ho ancora pianto come te, sbloccandomi e liberandomi. Quando capiterà ci vedremo, tanto lo so che ci siamo (insieme) anche se non ci vediamo. Ciao.”

Tra la prima e la seconda lettera c’era stata una mia risposta del 21 maggio che aveva provocato la rottura.

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Carissima Anita, ho ricevuto la tua lettera e un po’ mi ha sorpreso che tu abbia dato a Ester la stessa importanza originaria che ha avuto tua madre per te essen­ do, come dici, dello stesso tipo. Mia madre era un’ombra, non osava mai farci presente se stessa e le sue necessità, si aspettava qualcosa dai figli... Mia sorella era più timida di me, prediletta in casa per le sue doti di equilibrio, brava a scuola... ma non era un tipo dal successo facile fuori di casa... comunicare le era difficilissi­ mo... Semmai ero io la donna emancipata, dal loro punto di vista ero considerata coraggiosa, poco viscerale, una che tiene la famiglia come punto d’appoggio... Quello che mi rovinava la salute invece era il fatto che non ero accettata, né capi­ ta, ogni sforzo di comunicare destava sospetto, mia sorella non aveva mai tempo per me... Lei era la prediletta del padre, ma io ero il ritratto del padre, come dice­ va mia madre non si andava d’accordo perche ci somigliavamo troppo. Mio padre era la persona più realizzata e intraprendente della famiglia. Mia madre semmai si è difesa dall’inferiorizzazione che le poteva venire da me, e mia sorella lo stesso. Mi facevano rabbia, mi sentivo esclusa, ma non schiacciata dalla superiorità dei loro gesti. Allora la creatività di Ester mi dava garanzie di una sua autonomia dal mondo degli uomini. Se lo faceva lei, era difficile che andasse in estasi per quello che faceva un altro... E stata un’amicizia molto forte, venivo da situazioni dove erano la riservatezza, l’orgoglio, la frustrazione la barriera che non potevo superare. La sua pittura mi piaceva, mi piace ancora anche se quel settore non m’interessa più, ce l’ha fatta e bene, non sarò io a negarlo. Quello che non andava tra noi era che, a contatto con lei, non riuscivo a trovare me stessa. Non riuscivo a confidarle niente, finivo per incolpare me di questo, non poteva dubitare della sua cordialità spontanea. Adesso capisco che scaturiva dal bisogno di essere approvata dagli altri, lo faceva troppo automaticamente con tutti, dunque anche lei aveva i suoi dubbi su di sé, e li risolveva in modo opposto a me. Lì è vero che, vedendo­ le alle spalle un lavoro creativo e un carattere esuberante non potevo supporre quanto bisogno avesse di essere rassicurata. Il disagio con Ester ho cominciato a sentirlo da un anno, cioè da quando ho intravisto la possibilità di comunicare fino in fondo, e chi mi ha retto più!... In un’amicizia ci si può affossare come nella relazione con un uomo se non si arriva alla confidenza totale. Comunque sono contenta che tu abbia pensato a me in questo tuo momento di recrudescenza di qualche dolore. Lo sento che soffri e sei esasperata. Possibile che sia ancora con tua madre? Io ho avuto una crisi con Simone, abbiamo rischiato proprio, adesso ci siamo lavati dal mito del nostro rapporto e ripartiamo. C’c un problema: che dovrei andare a stare a Roma. Quando ci vediamo? Un bell’abbraccio.

Scrivo una lettera per chiudere, ma non la spedisco.

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Cara Anita, la lettera dove mi dicevi che eravamo uguali non mi suonava giusta, non solo perché abbiamo storie diverse, ma soprattutto perché mi sembrava che chiedessi la mia alleanza contro qualcuno. Così mi sono ritirata, ed è venuta fuori la tua sfiducia verso di me. Ma mi hai fatto capire che anch’io ti avevo ri­ sposto con sfiducia. Adesso che mi hai accusato di sentirmi superiore (“altezzoso e incantato deserto”), non lo sono più, ritirando la tua proposta di alleanza, me ne liberi. Ti riconosco in questo gesto. Scatenandolo, hai sgombrato il mio oriz­ zonte da un temporale che avvertivo, temevo, ma non sapevo come affrontare.

3 giu. Simone mi accompagna a una riunione femminista all’aperto, poi gli chiedo di andarsene, ma lui resta lì, confuso nella folla. A un lungo tavolo man­ gio qualcosa, ma mi accorgo che è un pranzo preparato, e io mi sono servita pri­ ma. Arriva un amico di gioventù, un tipo allora considerato molto intelligente: punta su di me e con fare molto asciutto e rispettoso si mette a parlarmi. Con lui non ho difficoltà a farmi vedere dalle altre, è con Simone che mi disturba, però penso che si inferiorizzeranno, ma non ho scelta. Mi sveglio con la sensazione di avere fallito con le amiche a causa della loro tranquillità o comunque del fatto che mitizzano quello che ho avuto dalla vita, oppure che ho realizzato. Quindi il femminismo è stato un altro passo falso in questa direzione, una iniziativa presa da me e che peserà sempre tra noi. Non mi resta che ritirarmi. Sono an­ che molto stanca, esaurita. Potrei spiegare tutto a tutte, mi credereb­ bero al momento, si sentirebbero sollevate dal sospetto verso di me, poi ricomincerebbero. L’unico ramo su cui adesso posso poggiare il mio pensiero senza soffrire è quello della solitudine con Simone, della mia futura vàia in campagna. 6 giu. Inaspettatamente, nel retro di un luogo dove sono arrivata c’è un angelo con ali false per la processione, un frate e non so più chi, che di corsa vanno a qualche cerimonia religiosa. Ero stata nel gruppo: Angelina, molto ottimista e contenta non ri­ fletteva l’umore delle altre, più contorto. Capisco che è inevitabile perché non ce n’è una che abbia una esperienza analoga alla mia, così quando parlo mi sento sola e mi viene da piangere. Se mi apro, do alle altre senso di colpa, in più pare che si avverta un vittimismo da parte mia, si irrigidiscono, non si avvicinano, credo che di irri­

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tarla anche quando piango, brutto colpo, però ci vogliamo bene, è indubbio. Ho letto alle altre il biglietto che mi ha scritto Anita e ho detto che le sono grata di avermi confermato che non ho le traveggo­ le quando mi sento esposta alle sorprese più dolorose, all’ostilità più drastica, alla tentazione di rompere. L’attacco di sorpresa è proprio dell’inferiorizzato che sbotta da un generico e non ammesso malu­ more al rigetto più completo. Posso capire Claudius quanto c’è rima­ sto male: anche lui si illudeva di essere stato il meglio per me, non po­ teva supporre che volessi veramente mettermi alla pari. Ho avvertito quanta accademia si fa nel gruppo, quanto bisogno di ottimismo c’è nelle situazioni collettive, e poi si giustifica tutto quello che si afferma, segno che la confidenza scarseggia. E cambiato tanto dall’autunno a oggi: sono meno fanatica, meno missionaria, meno sperduta alla ricerca dell’altra. Ero anche spaventata dall’aspettativa che sentivo, se avessi dovuto parlare a cuore aperto avrei confessato il mio segreto di oggi: godere di me senza distrarmi in nessuno scopo che superi la pura felicità di essere viva. Non potrei aspirare a tanto se non avessi Turicchi, il contatto con il ciclo della natura, la comunione fisica con l’universo. Fremo di buttarmi in questa solitudine. 7 giu. A me a cui la convivenza non si adatta, adesso mi tocca sia quella con Simone, sia quella con Sara. Ho un certo bisogno di vede­ re altra gente, qui si diventa nervosi: il tessuto minimo della giornata vissuto da vicino l’uno con l’altro non è così interessante, si moltipli­ cano le tensioni a catena. Che bello quando eravamo soli Tito e io, pare che non ce lo concederanno più. Sara chiede la mia attenzione e partecipazione continue: seguito a essere sorella maggiore, non c’è che dire, e lei una sorella minore nel senso di pretendere senza pre­ tendere. Si attiene all’interpretazione letterale delle cose. Chiede, per esempio “Ti dà fastidio questo?”. A me dà fastidio, non “quello”, ma la trascuratezza verso di me: quando me lo chiede già sto meglio, anzi bene, il mio stato d’animo cambia, così rispondo qualcosa senza esse­ re drastica “Abbastanza” oppure “Qualche volta”. Allora lei continua a fregarsene. Se penso alle storie che faceva al nipote quando metteva la tazza nell’acquaio, senza lavarla, mi rendo conto che dovrei farle presente qualsiasi distrazione sua, però non riesco: sono particolari di un atteggiamento generale che mi disturba. Per esempio, nonostante Simone le abbia detto quanto desidera stare con me e anch’io le parli

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del bisogno di concentrarmi con lui, non ha proposto di andarsene da qualcun’altra per questi giorni, e proporglielo chiaramente sareb­ be troppo equivocabile nelle sue condizioni di “senza tetto, senza sol­ di, senza lavoro”. Le mie preoccupazioni riguardanti i rapporti con le altre del gruppo, non la interessano molto: per lei va tutto bene, la assorbono il suo ingresso nel mondo, il suo rapporto con l’uomo. Così la mia condizione è proprio quella della madre con la figlia: non vuole dipendere da me, ma ricorre sempre a me, mi impegna, mi oc­ cupa, disturba la mia quiete. Ieri Simone le ha accennato che intende aiutarla senza tirare in ballo la convivenza, ma Sara non capisce, è con la mente da un’altra parte. Non posso farci niente, ho sbagliato a dare la sensazione che si può contare su di me. Adesso detesto tutti: vorrei stare sola, magari per due giorni, ma sola! Ho sbagliato come ha sbagliato mia madre: ancora non si rende conto come la gente abbia potuto approfittare di lei, di quello che offriva. Ho bisogno di solitudine completa. 8 giu. Simone ha avvertito Sara che questa convivenza non può du­ rare: da sola non ci sarei arrivata. Anche perché è con lui che la situa­ zione diventa assurda: mi sento tirata di qua e di là, mi sto spaccando in due e non mi occupo più di me per niente. Ho parlato a lungo con Simone: è la persona che mi ascolta con maggiore interesse, con cui parlo di più. Chiusa la porta su Sara che usciva per tutta la sera, è ritornata la serenità: abbiamo festeggiato Tito perché era il suo com­ pleanno e me ne ero dimenticata, poi siamo andati al cinema un po’ a caso, carino, una commediola californiana. Al ritorno mi sono ri­ cordata a un tratto e con stupore che i miei exploits come attrice non erano stati solo dalle suore, ma che a diciannove anni avevo recitato in una commedia di Noël Coward di cui non ricordo il titolo. Facevo la parte di una figlia che all’inizio è giovane, poi ha trentacinque e poi ancora ha sessantanni. La scena madre era quando entravo per annunciare “Sono morti”. Pronunciavo la frase con il maggiore effet­ to possibile, contenuto ovviamente, però non provavo nessuna emo­ zione se non quella di recitare male. Pare invece che non fosse così male. Entravo in scena saltuariamente, nel II atto addirittura non comparivo, così la commedia nel suo insieme non mi interessava af­ fatto, eppoi se c’era una cosa che detestavo erano le storie di famiglia con il tempo che passa e tutto il resto. Simone era sbalordito che fino

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a stasera avessi cancellato dalla memoria quell’episodio della mia vita a cui evidentemente si ricollega l’interesse per il teatro che mi ha portata a Parigi. La mia prima passione era stata il teatro non l’arte visiva: a me piacevano sbocchi di vita, non oggetti. Il museo poi era più abbordabile del teatro, e comunque ero troppo timida per quello. 9 giu. Incontri in un clima fiacco che mi sconcerta. Siamo su delle rocce: piano piano mi trovo sola. Mi guardo attorno e non vedo che acqua minacciosa, plum­ bea immobile - da un lato scura, dall’altro fortemente illuminata - e ne ho paura. Penso di non averla mai vista così. Incontro Ester, ma non le somiglia affatto: è chiara, liscia come una ragazza, con occhi celesti. A una mia domanda risponde che ha fatto una plastica facciale, non può più arricciare la fronte perché le hanno tirato la pelle dalla nuca. E tutta contenta di essere così.

Tanto bastonata non sono stata mai, parola d’onore! Nel mio possi­ bilismo Sara si è incastrata senza pietà. Quello che mi umilia di più è che vuole da me senza ammettere che l’aiuto. Le offro dei soldi per supplire all’ospitalità che, pur non avendole promesso niente di preciso, mi trovo ormai a “doverle”. Sempre a causa della mia diffi­ coltà a programmare, del “Si vedrà”: io la buona volontà ce l’avevo. Suggerisce che le posso dare un anticipo sull’utile del suo libro. Sto per scrivere 100.000 sull’assegno, ma lei mi corregge, 150.000 va bene. Tanto più che non sono né un regalo né un prestito, dunque non mi deve niente. Tutto questo deriva dall’avere io vagheggiato su un ipotetico utile proveniente dai libretti. E ora non ho scelta se non voglio sentirmi a terra avendole chiesto di andare via; stare insieme non può che peggiorare la situazione. Ho preso un abbaglio con lei, e adesso mi rendo conto della realtà: che siamo due tipi molto diversi, Sara è esattamente l’opposto di me. La storia di essere due clitoridee ci ha confuso, a parte che lei era frigida fino al femminismo, ma anche essere due clitoridee non significa capirsi. Il mio errore era il transfert stesso che mi ha liberata. Piano piano riesco a guardare ve­ ramente Sara per quello che è: un’amica da cui devo difendermi per­ ché vuole da me senza accorgersene, anzi mettendo le mani avanti. Già ieri sera, parlando con Felicita sentivo una strana dolcezza: forse perché ha avuto da Valeria delle durezze che non si aspettava, un

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po’ come me: ha dato tutto a una più giovane e quella prima ne è stata appagata, poi le si è rivoltata contro. E più saggio stare con una amica le cui condizioni siano più vicine alle mie: con Felicita e David è stato delizioso in campagna proprio perché le affinità perso­ nali erano rafforzate dalle affinità dei fatti. Sara ormai mi fa pensare a Vanda, Ester... Se ne frega di me, manco mi vede, non mi farà un piacere neanche per ombra, diamine! Adesso anch’io apro gli occhi: è come uscire da un sogno. Ho di fronte un’altra oppure la stessa, ma non so chi è: in parte è un’amica, in parte un’estranea con cui non riesco a spiegarmi nelle complicazioni derivate dalla convivenza. In tutti questi giorni sono stata stanca, stasera ho un’ombra di mal di testa, però il colpo è passato. Domani le dirò chiaramente che non posso sentirmi re­ sponsabile in niente per lei, e che ho bisogno di stare sola. Esempio di conversazione con Sara. Io: “Mi sono coinvolta troppo con i tuoi problemi, parlandone continuamente mi ci sono impigliata”. Sara: “Va bene, credevo ti facesse piacere”. Io: “Mi faceva piacere, poi mi sono accorta che non riuscivo più a pensare a me”. Sara: “Se non ti fa più piacere non pensarci più, smettiamo”. 10 giu. Mi telefonano, prima uno, poi l’altro, due colleghi critici. Mi meravi­ glio, però rispondo. Entrambi mi chiedono collaborazione a domande messe in piedi da loro. Di uno sento pochissimo la voce, l’altro mi ha mandato qualcosa in inglese, non sono sicura di avere capito. Via via che la telefonata procede, mi trovano sgarbata e impreparata, suppongo, finiscono per perdere il controllo, mi dicono villanie, insinuazioni, cosa prima mai successa. Con uno parlo di una mia descrizione di tramonto. Più tardi siamo con altri, c’è anche Claudius, cammi­ niamo in via Masaccio, dove abitavo da bambina, ma nel pezzo dopo via degli Artisti. C’è una pianta di arance: piove, i prati dietro le case sono lucidi e verdi, Claudius scherza su quell’arancio che trova misero, io ho qualcosa a che vedere con quell’arancio, ma non so bene e non me ne importa. Cerco di confidarmi con Claudius a proposito dei critici per scherzarci assieme e togliermi la sensa­ zione di avere fallito con dei colleglli, di essere stata fraintesa. Forse ho trovato la casa, forse non è possibile e devo lasciarla.

Conversazione con Sara al telefono: non smetterò mai di consigliarla se non smetterò di essere sensibile alle sue difficoltà. La lettera ai grup­

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pi, che ha suscitato tanto scalpore, era viziata da questo mio desiderio: togliere Sara dagli impicci. Non risolvevo un problema mio, risolvevo un problema suo, tanto io continuo a lavorare per Rivolta, fa parte della mia vita senza ¿litri impegni. Però è stata Sara a suggerire norme vincolanti come l’acquisto per ciascuna di cinque copie del suo libro. Arrivata a Siena, anzi alla superstrada Firenze-Siena, a San Donato, già ero rasserenata dal verde, dalla brezza, dall’essere dove mi piace. Già il pensiero di Sara si era allontanato per quanto aveva di assillan­ te, dunque è proprio la presenza fisica e l’incombenza dei suoi proble­ mi, tutto il groviglio che creano a innervosirmi, però, appena lontana, la tensione cade. Per me si tratta di stabilire con lei zone separate: ho fiducia in lei, però tante cose non le capisce, non le avverte, è egoista, come diceva sua madre, prima non ci credevo, adesso so che è vero, è un’autentica egoista. Per lei è diverso, lei sospetta di me quando sono lontana. 11 giu. Siena. Stanotte non ho dormito, per una tazza di caffè be­ vuto ieri sera. Però ero serena, quasi eli buon umore. Mi piace essere qui: è fresco, è campagna, è felicità. Cosa voglio dalla vita? Mio padre e mia madre come sono adesso, lui con i suoi problemi di dieta.

Sono qui, presenti nel mio presente, a casa. E bellissimo. 12 giu. Firenze. Dalle sei non dormo, mi chiedo perché, forse è fame, forse la firma del contratto per Turicchi mi dà un’eccitazione che mi ricorda quella per la Befana o la prima comunione da bambina. Poi è vero che non riesco a stare tranquilla se ho dei programmi, specie per la mattina presto. Adesso che Sara ha preso una direzione precisa - lavorare, guada­ gnare, stare nel mondo - scattano tutte le differenze tra noi a comin­ ciare dall’età o fase di vita. Io sono nella fase campagna, solitudine, contemplazione... o anche semplicemente pausa e riposo. La più vi­ cina a questo mi pare Felicita, se anche per lei il bisogno di ribellarsi a me non sarà più forte di tutto. Quest’albergo costa maledettamente caro, anche il prezzo mi dà ai nervi e contribuisce a tenermi sveglia. Però ho scoperto cos’è che costa negli alberghi cari: la sicurezza della pulizia, della tranquillità e la mancanza di cattivi odori.

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13 giu. In treno Firenze-Milano. Mia madre mi ha chiesto se non faccio più articoli per la RAI. Le ho risposto “No, sono fin troppo famosa”. “Sì,” ha ammesso “ma non per la critica d’arte, per il fem­ minismo”. “Non è vero: Autoritratto è ormai un classico, l’ha copiato anche Dacia Marami.” “L’amica di Moravia?” “Sì.” Quando sono andata via, mi ha chiesto se ci saremmo riviste questo mese. Deve superare la delusione per il mio progettato ritorno in campagna (che è un po’ il contrario dei suoi sogni su di me) e abbandonarsi alla con­ tentezza della vicinanza. Al rientro a Milano Tito mi ha assalita con domande: può andare in agosto al Forte dei Marmi con un amico? Posso comprargli delle scarpe nere? Dei jeans scoloriti? Alle mie obiezioni e titubanze, ha ti­ rato le valigie per aria, ha sbattuto le porte piangendo. Ha gridato che non verrà a Roma, vuole essere iscritto qui al Liceo Berchet. Sara se ne è andata senza lasciare neppure un biglietto: la stanza era ancora come quando la abitava, con il portacenere pieno di cicche, la valigia nel mezzo. Dove sarà? Non ho più bisogno di essere capita dalle amiche, forse proprio le vi­ cende del gruppo non lo hanno permesso, devo prendere atto. Basta che la cosa continui con suoi modi imprevisti nella mia vita. 14 giu. Con le amiche sono sempre stata stranamente attenta a che tutto andasse bene, mi concentravo in modo assoluto su una perso­ na, diventavamo veramente quella coppia che rifiutavo di formare con l’uomo. Però la delusione del crollo finale si portava con sé ogni sentimento, potevo passare ad altro. Quasi per ogni uomo ho avuto diversivi o amicizie maschili, mentre per ogni amica c’è la fedeltà più completa. Ma come io desideravo sfuggire alla presa dell’uomo su di me, così la mia amica cercava di sfuggire alla mia presa. Vole­ vo la parità, la volevo così tanto... tuttavia tendevo ad accaparrarmi l’aifetto e a mantenerlo a ragion veduta: ero generosa, comprensiva, attenta, non mi concedevo défaillances. Il meccanismo era inflessibile, ma essere accettata da una donna era un evento mitico dato che non aveva riscontro nella mia infanzia. Avevo avuto solo una zia dalla mia parte, ma presto si era suicidata e mi chiedevo se non fosse un segno di squilibrio anche la predilezione che aveva dimostrato per me. Fin da piccola le mie amicizie erano definite “esagerate” in famiglia. Però

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era così che, quando l’intesa finiva, per me era tutto finito, me ne di­ menticavo persino: mi interessava il rapporto più che la persona. Mi rimaneva il senso di una fatica. Per ora non me la sento di telefonare a Sara: è un rapporto che deve ricaricarsi, ha mostrato le corde. Anche Jo mi ha detto di essersi chiesta perché i libretti “a cura di C.L.”: le sembra un avallo dall’alto. Non capisce che Sara ha scritto il diario e poi lo ha pubblicato perché io ci credevo, non solo perché ci ho lavorato per mesi. Contemporaneamente appariva allarmata dalla mia risposta al gruppo (letta da Sara) dove dico che non prende­ rò più iniziative in Rivolta. La contraddizione è lì: anche nel gruppo c’è bisogno di un bersaglio, di qualcuno che sembri minacciare la tua libertà, salvo poi accorgerti che eri tu a volerlo quando quel qualcu­ no va via. Jo continuava a ripetere “Ma allora finisce tutto”. Le ho detto “Per me può finire, non lo desidero, ma non posso oppormi, sarebbe ridicolo, pensereste che ho delle ragioni personali per volere che continui, e comincerei a chiedermelo anch’io”. Ha ammesso di essere stata inferiorizzata dal fatto che Sara ha scritto un libro, ora l’ha superato considerando anche l’anonimato in cui si è tenuta. 15 giu. Lascio una casa vecchia con un’antica finestra dai muri spessi, e ne sono sollevata. Poi decido per un appartamento a Venezia pieno di fascino e che mi attrae moltissimo. Ieri sera avevo letto un po’ di quel libro sul suicidio degli adolescenti, dove si parla di un Io megalomaniaco e di un Io ideale come fonte di conflitto o di ostacoli ad accettare la realtà. Forse nel femminismo volevo liberarmi di questi Io. E difficile accettare la realtà, è la cosa più difficile. Mi torna in mente una frase incontrata in filosofia “l utto è là dove deve essere”, e un’altra di Sartre “L’uomo è una passione inutile”. Sara si è liberata dell’Io ideale, se mai lo ha avuto, sembra piuttosto che la bloccasse dall’esterno, per dare corso all’Io megalo­ maniaco che appunto è ancora vivo e vegeto dal momento che non è stato veramente condizionato dall’Io ideale. E questo Io onnipotente che la spinge ad agire e a vedere sempre il suo vantaggio, ad attac­ carsi a quello senza curarsi degli altri. Anche Lucia è così, con un po’ di sotterfugi, anche Ester lo è avendo però cura di conquistarsi prima l’indulgenza degli interessati. In me credo che l’Io ideale è molto sviluppato proprio perché avevo bisogno di rifarmi delle offese

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inferte all’Io megalomaniaco. È questa l’esperienza di sofferenza in cui mi identifico e che ormai devo accettare come mia costitutiva. Da bambina ho dovuto cedere; Sara no, si assicurava il pallone, esatta­ mente come Lucia, lo teneva stretto. Io cedevo, non c’era modo di tenerlo, però poi mi sentivo così sofferente che correvo ai ripari, ecco l’Io ideale. Non potevo regredire in nessun modo, non c’era spazio per me, mi costringevano ad abbandonare il mio posto e, se volevo ritornarci, lo trovavo occupato. Dopo, Lucia si meravigliava che io avessi inclinazione per la sofferenza e lei per la gioia. E adesso è finito, finito tutto. In pizzeria Sara ha esordito così, che io ho una mancanza, una sola, quella di non dire le cose come stanno. Le ho risposto. Si è innervosita “Finiscila di giustificarti e ammetti qualcosa una buona volta”. “Ho ammesso tanto di me, ma non puoi pretendere che debba camminare sulla strada battuta da te”. Le ho detto che lei ha impiantato su di me dei programmi che mi era dif­ ficile smontare. L’ho accusata di non capire gli altri. “Non genera­ lizzare, dì che non capisco te.” Aveva la faccia molto dura, provavo una vera antipatia per lei: non ero commossa, non la sopportavo più, ecco, con tutte le sue prepotenze, espressioni categoriche, cavilli di ragionamento. L’ho colta in fallo su un avvenimento di cui dava un’interpretazione distorta. Gloria, una ragazza che abita fuori Milano, voleva un appun­ tamento con Sara per domani, lei era d’accordo. All’ultimo momento dice “No, posso solo fino all’una”. La ragazza arrivava alle undici e trenta, ovvio che avrei dovuto starci io nel pomeriggio a giustificare così il suo viaggio. Sara mi fa la lezione “Dille che non puoi, dì le cose come stanno”. Allora le ho detto a lei come stanno “Mi hai fatto un bidone”. “Ma la ragazza vuole incontrare anche te, non dire che non hai a che vedere con Rivolta.” Sempre la stessa insinuazione, che io “sono” Rivolta, che le altre guardano a me come alla leader. Sospetta che io giochi a rimpiattino. La detesto quando mi umilia fino a quel punto, non sono mai stata fraintesa così. Le ho ripetuto “Mi hai fatto un bidone”. “Allora dirò a Gloria che stai male, è anche la verità che tu adesso stai male”, cioè che ho una crisi di nervi. Ma poi ha telefonato alla ragazza per disdire semplicemente la sua venuta di domani. Ho insistito “Mi hai fatto un bidone lo stesso, è tutto il giorno che cerco di telefonare a quella ragazza, poi le ho parlato, poi le hai parlato tu e an­ cora tu... ho avuto la giornata ingombra di questa storia... tutto perché

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hai cambiato programma domani... Lo capisci almeno questo?”. Ha fatto per andarsene, l’ho accompagnata alla porta, ho richiuso subito dietro di lei. Ha suonato, ho temuto che volesse tornare sull’argomen­ to, no, aveva dimenticato qualcosa. Quando è uscita, ha avvito un atti­ mo di esitazione, ma io ho rapidamente detto “Ciao”. E una ragazza dispotica e innocente. La sua innocenza mi ha fregato, come la mia bontà e umanità hanno fregato lei. Mi sento libera, non m’importa niente quello che può pensare di me. Adesso non ho più legami, solo Simone che mi accetta con amore come io accetto lui. Non ho più mito attorno a me o ribellioni che possano ferirmi, né ostilità da smaltire a poco a poco, e neppure io idealizzo il mio rapporto con qualcuna. Però sono sola e adesso lo accetto, completamente, il femminismo mi ha portato all’accettazione della solitudine. Con Simone siamo come due clochards, due sperduti che si sono trovati e hanno molta pietà. Ho ricordato a Simone quanto Sara era stata importante per me, io l’adoravo. Ma quel periodo è ormai lontano, adesso sono stanca delle sue ottusità, del suo infantilismo. Lunga telefonata con Piera: mi ha fatto piacere la sua voce, sebbene ribadisse quanto la lettera al grup­ po le avesse dato fastidio. La mia rabbia adesso sta nel constatare che quella lettera l’ho scritta solo perché mi sentivo responsabile verso Sara, non pensavo al gruppo, ma a lei, ai suoi problemi. Mi sembrava che i gruppi non le avessero dato il riconoscimento che meritava, ave­ va fatto tanto, l’avevo vista lavorare, avevo lavorato anch’io, e quindi mi è uscito quel tono tra sollecitare, rimproverare, imporre. L’ho det­ tata quasi, aggiungendo quello che suggeriva lei, non mi sono nep­ pure preoccupata di rileggere alla fine: serviva a Sara. Il gruppo ha sentito tutto e si è urtato, anzi ha trovato riconfermate le ragioni per urtarsi e avere diffidenza. Piera mi ha confessato che, dopo tre giorni di convivenza con Sara, non la sopportava più, era sottosopra. Sara faceva i suoi comodi e non si preoccupava affatto di lei, non l’ascolta­ va neppure. Piera si chiedeva come sarebbe andata con me nella con­ vivenza. Sembrava sollevata quando le ho detto che è andata male, che non verrà all’Elba, che abbiamo litigato. La perfezione del nostro rapporto la bloccava verso di me, adesso tutto torna naturale e io apprezzo il suo equilibrio, la sua delicatezza. 16 giu. Ho dormito bene, serena.

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È risolto il problema di una casa con un’amica. La casa ha una finestra o una porta che mi colpiscono l’immaginazione.

Adesso mi rendo conto - da come sto bene e mi sento tranquilla aven­ do fatto di testa mia - che sono stata succube di Sara. La convivenza è servita a mettere in luce la sua continua violenza su di me, che io accettavo come giusta e perciò non mi ribellavo e così le impedivo di capire. Ieri Sara si è presentata con occhi sfavillanti di sottinte­ si dicendo che ha lavorato abbastanza (veniva dall’ufficio) e non ha voglia adesso di fare i conti per Rivolta. Le faccio ripetere la frase perché si accorga dell’assurdità di quelfaria polemica. Poi mi chiede se ho scotch. Rispondo “Credo di no”. Insiste “Possibile? Neppure da Tito?”. Rispondo “Non credo”. Lo cerca, lo trova, sempre con fare polemico. Le offro del vino, comincia con altri discorsi, si lamenta che è sparita una sua forbice che andava molto bene: le porgo una forbice “E questa?”. “E uguale, ma questa è arrugginita, la mia no”. Poi, a un tratto “E sempre valida foiferta di un bicchiere eli vino?”. L’allu­ sione al ritirato invito di ospitalità è evidente. Le propongo di andare in pizzeria, però vorrei aspettare Tito. No, bisogna uscire subito così siamo di ritorno verso le nove e mezzo, quando telefona suo marito, “Lascio un biglietto a Tito, e poi usciamo”. “Non c’è niente in casa in modo che si possa mangiare qui?” “No, non c’è niente...” “Perché era meglio ecc. ecc.” Non mi chiede la mia opinione, mi chiede se c’è roba. E evidente che sono arrivata in pizzeria già molto tesa. 17 giu. Sono in una piccola città, forse Siena, con Simone. Al momento di andarsene la macchina parte da sola verso una stradina in discesa. Lui le corre dietro, sale, sparisce con la macchina e siccome poi tarda, penso si sia fermato in una tipografìa dove ha del lavoro. Intanto mi presento al gruppo femminista di Siena, come sempre. Sono tante, giovani, carine, allegre. Dico che vorrei non venire più al gruppo come ho già fatto altrove. Non sono contente, sembra che le scomodi. Specialmente una. Sulla piazza intanto leggo su un cartello “Fichetta” e mi sbalordisce. Poi guardo meglio ed è ‘Tacchetti”, un po’ corretto. Dico alle altre di guardare sul cartello, ma non c’è scritto più niente. Aspetto Simone. Sto piangendo: ho parlato con Simone al telefono. Mi ha detto di avere fatto una lunga telefonata con Nicola che vorrebbe parlarmi per dirmi tutto quello che ha accumulato contro di me: la trascura­

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vo, ero presa di me, me ne frego degli altri, Simone era d’accordo nell’aggiungere che non mi accorgo di lui, sono distratta su di lui. E un momento tremendo questo, in più capisco che è Sara da cui parte tutto quanto. A Nicola il nostro rapporto come viene fuori dal libro non piace affatto. Dice inoltre che nel femminismo ho solo criticato le altre. Che buffo destino il mio! L’anno scorso pensavo di avere fatto del bene a me e alle altre, adesso pare che abbia fatto solo del male. Ieri ho ricevuto una lettera di una tizia dove si dice “Penso a te alme­ no una volta al giorno, ma non ti voglio bene”. E una ragazza che è stata al gruppo qualche volta, si è fissata con me e mi detesta senza sa­ perlo ancora bene. Ormai ogni giorno me ne succede una. Eppure la mia impressione è stata di essermi spesa completamente. Magari un tipo come me è nocivo obiettivamente, andrebbe messo dentro, con la camicia di forza, ma io non potevo aspettare, sarei morta; mentre le altre potevano rimandare a dopo, io ero così pressata che non ave­ vo tempo abbastanza, facevo e disfacevo. Adesso mi accusano anche di averci messo troppa intensità, ma cos’era se non disperazione a cui cercavo di dare uno sbocco perché non si rivolgesse contro di me. Nel libro sul suicidio si legge che chi ha avuto ferite narcisistiche molto arcaiche è dentro l’aut-aut: o tutto o niente. Ho cercato il tutto perché avevo il niente dall’altra parte? Forse c’è ancora. Ho dato agli altri il diritto di distruggermi. Lo stanno facendo, sono tutti una banda inferocita, hanno pale e picconi, vogliono il mio linciaggio. Anche Simone è con loro. Altre guardano, ma non hanno pietà. Chissà perché mi viene in mente Marilyn Monroe, mi chiedevo sempre perché si era uccisa: adesso mi rendo conto che aveva avuto un’infanzia troppo infelice per farcela. Ricordo una poesia di quando avevo vent’anni “l’orribile schiuma delle antiche umiliazioni, le vecchie cicatrici bian­ che e amare”. Sono dieci mesi che piango, dieci mesi che cammino verso la mia distruzione. Figurarsi che la mia amica era Sara: mi sembra una con la cotenna invece che con la pelle. Nicola ha sposato un mio amico: Ester è sua, ma prima ancora è sta­ ta mia amica: si confida con Simone che è il mio amico: si riempie la casa di opere di artisti miei amici; si avvicina a Sara mia amica. Cosa più di questo? E si ricorda da dove veniamo? E come pensa che ho fatto quella fatica? Quando lei si incastrava con ragazzi fiorentini, provinciali e ricchi. Non voglio la riconoscenza, ma l’ha detto chiaro una volta che io ero stata un inciampo per lei, piuttosto che un ponte

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gettato su una via d’uscita. Cosa mi ha dato se non rifiuto? Che ne so 10 che l’ho bloccata, come potevo saperlo? Adesso lo so. Anche Simone si lamenta “Ti ho lasciato distrarre da me prima con gli artisti giovani, poi con il femminismo”. Ma non era un mio pregio avergli rifornito il serbatoio di tutto quello che per mia iniziativa contattavo e, più, vivevo dal di dentro? Ma che vadano tutti al diavolo, sarà la cosa migliore. Perché, Simone si è mai accorto di me quando stava in fase “creativa”? Forse che mi telefona o simili, adesso, eppure ho smesso la telefonata piangendo. Ma no, adesso disegna la scultura per Palermo. Cosa dice Nicola? Che io non accetto le critiche. Di cosa si lamenta? Che le ho fatto delle critiche. Allora? E falso che io abbia detto a Ester “Butta i pennelli”, era lei che aveva annunciato “Brucio i miei quadri”. Infatti quello che mi interessava, non era che smettesse un’attività, ma che smettesse di sentirsi specialmente realizzata grazie a quella. Idem, non ho detto a Nicola “Smetti architettura”: le ho detto “Per me in qualsiasi luogo ciò che conta sono i rapporti umani, io ho teso sempre a quelli”. Viene l’idraulico per sgorgare il water dello studio che ospitava Sara. Adi richiama alla mente il precedente episodio con l’idraulico. Prima, 11 water non riceveva acqua dalla cassetta, bisognava versarcela con un secchio. Adi ero scusata con Sara dell’inconveniente. Comunque, chiamo l’idraulico e aggiusta la cassetta, fa scendere l’acqua. Ahimè, il water è intasato, l’acqua non passa. Se ne accorge Sara nell’usarlo, e si presenta a me tutta contrariata. Secondo lei l’idraulico, nell’aggiustare la cassetta, ha intasato il water. E colpa dell’acqua o di chissà che. E mio dovere fare qualcosa. Ora, è evidente che il water lo aveva otturato lei e che, buttando ogni volta poca acqua dal secchio, non se ne accorgeva perché veniva assorbita. Però se avesse buttato ogni volta abbastanza acqua non ci sarebbe stato l’intasamento. Questo è apparso evidente quando l’idraulico oggi ha fatto forza con un bastone, ha spinto bene e a un certo punto si è sentito il risucchio dell’acqua che scendeva. Al posto di Sara mi sarei offerta almeno di procurare l’idraulico, e comun­ que avrei chiesto scusa del fastidio. Invece era seccata perché non avevo quella ventosa di gomma, “Ce l’hanno tutti, è obbligatoria, possibile che non la conosci? E l’attrezzo casalingo per sturare il water”. 18 giu. Ieri sono stata a cena con Claudius e sua moglie, volentieri, abbiamo chiacchierato, riso. Stavamo bene insieme. Gli ho detto del­ la campagna.

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Sono in pullman con i giocatori del Milan alle spalle. Tito me lo conferma. Li guardo, loro ammiccano un po’, ma sempre da persone importanti che scherza­ no con una donna. Accanto a me c’è un ragazzo bruno con occhi neri... parlia­ mo e mi rivela di essere ciucilo dell’altro giorno a cui pare che io abbia detto che deve avere sangue indio nelle vene a causa del taglio degli occhi. Strano da non credere: dopo avere fatto ricerche è risultato vero. Con il ragazzo ci sono due zie e un signore distinto che si avvicinano e lui me li presenta. Una fa un piccolo inchino che interpreto come usanza sudamericana. Intanto non siamo più sul pullman ma in un teatro all’aperto e sulla scena rovesciano una vasca da cui escono sorridendo Simone e una Squibb, una bella ragazza con cui ha fatto que­ sto sketch. Intanto il giovane mi parla come se fossi signorina, è molto piacevole, ma capisco che vuole flirtare con me e non è possibile, non sono libera. Guardo se arriva Simone e infatti eccolo. Lo riconosco dal cappello in lontananza, senza spiegazione lascio il giovare con le zie e corro verso di lui, facciamo qualche zig­ zag per scherzo e poi ci abbracciamo. Con Simone e un’altra donna siamo in campagna diretti giù verso il mare quan­ do tra due ruderi vedo due animalini, come pezzetti di stelle marine, rossi e granulosi. Esclamo spaventata “Sono tarantole!”. Simone comincia a pestarle e quelle gonfiano minacciosamente e diventano circolari. Anche l’altra donna dice che ha fatto peggio a pestarle, adesso le avremo alle calcagna, loro e tutte le altre che forse sono nascoste nell’erba. Scappiamo di corsa e ormai non le vediamo più quando da sotto l’erba alta esce un cane nero da guardia, un lupo. Non lascia dubbi sulle intenzioni, mi addenta una mano. Riesco a toglierla e gli prendo il muso stringendolo in una morsa. Addirittura gli sono sopra e lo reggo forte. Dico di chiamare soccorso: quanto potrò resistere? E poi non so se ce la farò. Simone mi consiglia di trovare un accordo con il cane: se gli lascio la bocca adesso forse starà tranquillo, non morderà. Provo appena, ma sento che è infido. Finge di essersi calmato per avventarsi meglio. Simone teme per i suoi coglioni e si allontana un po’. E un momento tremendo. Mi trovo in una villa e penso come è stato bello questo passaggio tra il pericolo e la salvezza, come in un sogno, senza sapere come. Sono in una stanza con Simone, poi lui lo chiamano e se ne va. Ecco che si ripresenta il ragazzo di prima, quasi snob, di buona famiglia. Mi fa la corte in modo scherzoso, un po’ mondano, ma con sicurezza. Mi racconta che il padre è un Aldini, media bor­ ghesia grassottella, mentre la madre... Insiste, è pressante, non se ne va. Sento avvicinarsi qualcuno, ritengo che siano ospiti, amici, e corro, ma non capiscono,

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sono inglesi. Chiedo “Cosa volete?” a bassa voce perché sono sicura di avere sbagliato. Infatti lui con tono sicuro e inflessione adatta ripete la domanda più volte in perfetto inglese. Quelli però sono diretti da altra gente al piano di sopra.

Tutto il giorno mi sono dedicata a Tito sfinito dopo lo “sforzo cere­ brale” per l’esame di francese. C’è un caldo che si soffoca. Comun­ que dopo il bell’incontro di ieri, allegro e gratificante e il sogno di stamani mi sento bene. Nessuna mi telefona. Avevo voglia di vedere Ignazia perché è abbastanza esplicita da darmi soddisfazione. E in qualche modo mi votole bene o non mi vuole nulla, ma almeno non ha complicazioni. Forse noi dicendo superiore e inferiore abbiamo trascurato dei dati, per esempio, quello adulto e giovane, io facevo la parte dell’adulta (sorella maggiore) che prima la giovane ammira e poi si affretta a respingere, anche perché sospetta che quella inten­ da rassicurarsi svolgendo il suo ruolo. Certo, mentre io eccedevo nel dare gratificazioni, Sara eccedeva nel dare frustrazioni. Alla fine era diventato sado-masochismo puro. Per fortuna è finito. Non so come ho trovato il coraggio, ma è stato proprio il tono odioso che aveva che mi ha fatto perdere le staffe e non ci ho visto più. 19 giu. In certe cose Simone non è molto sottile. Per esempio, quan­ do dice che io ero bloccata di fronte alle riserve degli altri e che vi­ vevo bene nell’adulazione. In effetti vivevo bene nella gratificazione, ne avevo bisogno continuamente, però dovevo sentirla autentica e meritata. Sfuggivo l’adulazione perché non potevo non disprezzare chi adulava. Il rapporto di gratificazione doveva essere reciproco, mi annoiava qualsiasi attenzione da parte di chi non mi interessava. C’c Sara con sua madre, ma è tutta presa dai suoi problemi e ne parla con Simone.

Sara ha cominciato a gratificarmi come non lo ero mai stata (“giardi­ niere”) poi ha iniziato il processo di demolizione. Qualcosa come l’ottovolante, ma senza parapetti: più su, più su, più su... e giù. Un’ora con Sara mi ha lasciata di malumore. Dovevamo fare i conti. Mi ha chiesto se ero sempre d’accordo nel darle quella somma. Ho rispo­ sto “Se ne hai sempre bisogno”. “Certo che ne ho bisogno, non so cosa mi aspetta.” “E allora tienila.” Non era finita: “Puoi lasciare in portineria la chiave dello studio? Non ho nessun recapito in centro

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e non ho voglia di portarmi dietro certe cose”. Mi ha informata che il gruppo a cui ha letto la mia breve lettera l’ha trovata chiusa. Lei ha commentato che mi sente in un momento di chiusura e crede di capire di che si tratta. Invece arriva Germana e io sono felice, la metto al corrente di tutto, quasi consumo l’amarezza residua. Le ho confidato di essere stata a rimorchio di Sara, di averle dato la priorità perché più pronta, egoista, prepotente, che credevo caratteristiche di autenticità. Germana non è d’accordo sull’egoismo come espressione di sé: non vuole fare soffrire neppure a fin di bene, la stessa cosa cerca di dirla con affetto e non nel momento della rabbia. Essere diretti non significa ferire intenzionalmente. Sara mi ha ferito così bene, così abilmente che mi ha richiamato tutta la mia fragilità e i contrasti passati. Mi sono aperta con lei e mi ha colpito nel punto più delicato. Ma così doveva essere, o almeno così è stato: una tortura che mi ha rivelato a me stessa. 20 giu. Sara non cede, anche a rischio di scocciare. Stamani mi chia­ ma per un qualcosa. Poi mi informa di essere occupata con Gloria “molto carina”. Cioè a dire: tante storie per non avere a che fare con una che poi valeva proprio la pena. Lei è stata così animosa verso di me negli ultimi tempi che io mi sentivo sempre in un clima pesan­ te, però poi gli indizi sparivano e non c’era più nulla. Sara scrive­ va sul diario, io lo leggevo tre mesi dopo e mi angosciavo, insomma era diventato un ricatto. Sara si abbinava a me quando le faceva comodo (tipo nella lettera al gruppo) e si distingueva quando non ne ricavava niente. Ho trovato le foto di Turicchi. Che voglia di andarci con Simone! Guardandole ho un vago ricordo di come tutti gli assilli si dissipavano una volta lì. 21 giu. Pace con Sara. Fatta da me. Qualche secondo prima che se ne andasse (era venuta a ritirare la sua roba) le ho detto “Mi dispiace, ma non c’era soluzione se non dividerci”. Al solito ero più commossa di lei, ma ormai capisco che io risalgo a delle sensazioni che le sono sconosciute. Abbiamo parlato un paio d’ore, e chiarito tutto: ci siamo distaccate. Mi ha meravigliato che lei si sentisse tanto dipendente da me, dato che secondo me lo ero io da lei, però ho capito che nelle re­ lazioni affettive la dipendenza è reciproca e a tutti e due è difficile ri­

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trovare la propria autonomia. Vedendoci continuamente tutti i gior­ ni, parlando senza interruzione per giornate intere avevamo crea­ to una specie di osmosi o avevamo risposto a quel bisogno. Ho detto a Sara che nel gruppo era stato possibile iniziare il processo di libe­ razione perché le altre si proiettavano su di me, pensavano che fossi così in gamba e così ammirevole: avevo la risposta giusta, la domanda giusta. Poi Sara ha inferiorizzato me, e così è partito il mio processo: non ero più stabile ai miei occhi, i vecchi dubbi ritornavano, lei mi sembrava più autentica, più gioiosa, più unitaria. L’ho anche presa come termine di confronto, mi sono misurata su di lei. Ma così fa­ cendo perdevo la fiducia di essere autonoma, perdevo le illusioni su di me, sprofondavo. Alla fine ho ammesso tutto, però dettagliatamente dovevo scontarlo poco a poco, e restavo legata a lei, avevo bisogno di rivedere con lei ciò che pensavo. Se le venivano delle obiezioni le facevo mie non senza tormento. Adesso il processo di dipendenza è concluso anche se a volte ho nostalgia di qualcosa a cui non so dare un nome, è come un’immagine dove Sara e io passiamo velocemente parlando, una specie di flash scattato per strada o al parco e mi si stringe il cuore, è una sensazione di trafittura perché una fase della mia vita è finita e adesso lei parte per il nord, io per l’Elba, passe­ ranno tre mesi e piano piano di tutto questo finirò per ricordare non molto. Le voglio dare una mia fotografia a Turicchi perché lì ha tutta l’aria di volere succedere qualcosa, un nuovo capitolo di questa stra­ na emozione che chiamo me stessa e mia vita. 23 giu. Con Paula non va, camminiamo a tentoni. Lei si oppone a quello che le dico forte dell’entusiasmo che le reca vivere rapporti meno muti di un tempo, mi prende come una che attenta al suo equi­ librio, ma sempre molto velatamente. La fase rivoluzionaria è davvero molto giovanile, è legata all’illusione che da questa rapa che è il mon­ do si possa cavare del sangue. “Paula non prendertela, va bene così, non sono delusa, non provo sconforto. Prima volevo trasformare tutto e che io e gli altri fossimo diversi, più veri, adesso no, capisco l’infinita varietà. Ho l’impressione che la vita sia lunga proprio per permetterci di fare degli sbagli. Conosci la storia dello straccivendolo?”. A Ignazia ho parlato un po’ di me e lei ha commentato “Sai che hai una bella capacità di recupero? Prima la rottura con Ester, poi il di­ stacco dal gruppo, la crisi con Anita, con il gruppo, con Simone, con

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Sara!’'. Sara non me l’ha mai detto. Quando avevo le crisi era contra­ riata “Proprio adesso mi manchi”. Le mie difficoltà non la colpivano, vedeva sempre e solo se stessa. Anche 1’ultimo giorno sull’ascensore ha detto “E proprio vero che non so restare arrabbiata con qualcuno”. “No, cara puoi ringraziare me, sono stata io a rompere il ghiaccio: se era per te, te ne andavi come eri venuta.” Caro Emilio, se fosse in mio potere lascerei Milano e me ne andrei a vivere in campagna dove con Simone abbiamo comprato un piccolo podere. Senza saperlo siamo finiti a mezz’ora da Adolfo! Con il femminismo ho fatto l’ulti­ ma sfacchinata “idealistica” della mia vita... Adesso capisco quanto coraggio ci vuole ad andare avanti senza mascherare i propri problemi dietro etichette rivoluzionarie, e a vedere cosa succede in sé: ho constatato quante tracce ave­ vano lasciato lotte senza speranza, quanto avevo dovuto cedere e illudermi di avere fatto un buon affare. Ho trovato una me stessa più malconcia di quello che pensavo; molto sprint era per nascondermi le fatiche, i soprusi, le perdite, le incapacità. Adesso la mia vita mi appare di nuovo passabile. Mi ha ripreso l’amore per la natura, anzi il bisogno di farne parte. Sono sensazioni, vedremo. Quando mi dici che sono ganza, in rapporto a una certa verità fra noi due, posso risponderti che ganzo sei tu anche. Se si apre una fase di comunicazione intensa, è opera di tutti e due.

24 giu. Aspetto il momento di parlare con Simone; è arrivata sua figlia Silvia e spero che lui non si distragga troppo da noi. Simone e io incontriamo per strada una sua fiamma, una ragazza che avevo conosciuto in gioventù, di un genere snob; e ci resto malissimo. Andiamo in barca, Simone e io, su un mare tranquillo e molto dolcemente. Sento dei rumori, ho paura, penso sia qualcosa da tempo di guerra: invece vedo arrivare nei cielo degli enormi strani fiori filiformi come aquiloni-aerostati con una donna e altra gente al centro. Simone dice che sono cose da ricchi, intanto vedo sulla costa, a cui ormai siamo vicini, una ragazza che, barcollando, entra in una barca ormeggiata e si sdraia con gli occhi chiusi, tutta rannicchiata. Ri­ conosco Lucia e accorro con Simone. La rialzo e, sorreggendola sotto le ascelle mentre lei tiene sempre gli occhi chiusi, la dirigo verso la terraferma e a casa. Piangendo mi dice che Nicola ha voluto piangere per prima, che lei anche vole­ va piangere. E addoloratissima, distrutta e io sono piena di sollecitudine per lei.

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Avevo detto a Sara e a Ignazia che fin da piccola mi ero sentita “difensora” degli oppressi. Non potevo assistere alla prepotenza su qual­ cuno che mi rimescolavo e volevo correre in aiuto. In collegio era così, anche a scuola, e soprattutto in famiglia. Nicola mi ha sentito lontana perché non vedevo in lei un’oppressa, mentre per Emilio, perseguitato da papà, parteggiavo visibilmente. Non sopportavo di vederlo bersagliato. 14 lug. Donne del FILF, per tre anni ostili od oscillanti sulla pratica dell’autocoscienza, mettono in giro dichiarazioni (Nova, luglio 1973) in cui si fanno portavoce ufficiale della medesima. Vi si legge che nel femminismo ancora l’autocoscienza non si sa cosa sia né a cosa ser­ va; secondo una, serve ad accorgersi della dimensione politica della oppressione. Mentre è vero il contrario: ci si accorge che femminismo politico-ideologico (cioè volto al futuro) e femminismo di liberazione (cioè volto al presente) sono due ricerche differenti e non intercam­ biabili. Purtroppo le retroguardie sono sempre quelle che parlano perché, non dicendo niente eli proprio, non soffrono a essere fraintese e perciò sono dell’opinione che “tutto fa brodo”. 15 lug. Vorrei scrivere a Sara, ma non so cosa dirle. All’Elba mi riposo molto bene, ho un fondo di benessere nuovo per me, con nervosismo o malumori solo in superficie. Godo della mia salute quasi per la prima volta: il piacere di non fumare, di respirare, lo sento prezioso e mi chie­ do come ho fatto finora a tormentarmi così accanitamente, a buttarmi in tante imprese. Parlando a letto con Simone, sono andata come in trance e gli ho detto che desidero un bel cane bianco femmina, un ma­ remmano completamente mio, un gatto tigrato grigio, maschio questa volta, completamente mio e poi, e qui sta la leggera allucinazione, una bambina piccola, neonata, però orientale - la sceglievo nella fantasia come si sceglie una bambola e nello stesso tempo la sentivo come un miracolo, come quando da piccola pensi alla maternità e ti immagini un esserino con gli occhi chiusi tra le tue braccia. Quegli occhi a man­ dorla si sarebbero aperti tra le mie braccia in quell’angolo di paradiso ritrovato che è Turicchi. Ho bisogno di fare qualcosa per me, non per altri e di riflesso per me. Nicola ieri voleva un gattino per i figli e io pensavo che Tito è abbastanza grande da avere suoi desideri che non coincidono con i miei, così i miei ritornano proprio e soltanto miei.

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Vado per la mia strada, sarei disposta anche a lasciare Tito con sua zia a Siena, poniamo: potrebbe venire a Turicchi sabato e domenica e tut­ te le feste extra. Il cervello mi rotea tra immagini di vita libera per me. Qui con la figlia di Simone e la sua amica, non è andata liscia, anzi siamo a una crisi. Silvia avrebbe voluto adoprarmi tranquillamente senza collaborare, anzi avrebbe voluto detestarmi per avere occupato il posto della madre, e nello stesso tempo essere accudita da me. Prima cadevo in queste trappole e cercavo affannosamente una soluzione. 17 lug. La prima brutta nottata l’ho passata a causa dell’insolazione e di una cenetta a tre: Piera, Jole e io. Al solito mi sono impegnata a fare capire il mio rapporto con Sara, ma Piera taceva e Jole era sfug­ gente. Piera mirava a me come sua amica, però quest’inverno mi ha sentita distratta (anzi, in questi giorni ha fatto un sogno dove io e lei fìngiamo di non guardarci e ci occupiamo intanto di donne anonime, lei pensa “Chi delle due cederà per prima?”), e in effetti lo ero, tutta presa dal rapporto con Sara, cioè da me stessa senza più dilazioni, mentre Piera aspettava qualcosa da me, ma cosa potevo darle? Penso a Sara come a un sogno: era bella la nostra intesa, ma temevo troppo che all’improvviso lei ricominciasse a dubitare di me, così non mi sono veramente goduta il rapporto. E poi ne avevo troppo bisogno, finché è stata una liberazione proprio il distacco. Sto scrivendo al tra­ monto, l’aria è della temperatura giusta. Sono arrivata qui come una convalescente: la malattia era finita, non soffrivo più. 19 lug. Da ieri seraJole quasi non parla con Piera, le dice solo “Mi hai tradita”, perché in tre la sente più vicina a me che a lei. Mi è venuta in mente quella sera di ottobre con Sara e Agata quando mi ero accorta eli restare fuori: io tendevo verso Sara che tendeva verso Agata; Jole tende verso Piera che tende verso di me. Sono momenti molto difficili da superare. Jole non accetta che quello che succede è frutto delle sue difese e trova comunque una giustificazione alle sue difese. Che è quel­ lo che facevamo tutte più o meno, ma alcune ci mettono una specie di ostinazione infantile, altre intensità ascetica e sofferenza senza rivalsa. 25 lug. Mi è arrivata una lettera di Paula, dopo una cartolina di Ignazia e Irma. E l’inizio di una nuova fase? E fatta, cara Paula. Ti mancherò purtroppo perché vado a Roma e anche tu con le altre mi mancherete.

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28 lug. Mi sono svegliata da un sonno eli piombo e non sapevo più dove ero, se di mattina o di sera. Sono su un largo marciapiede di ghiaia, simile a quello che c’era davanti alla casa dove ho abitato fino ai tre-quattro anni. Aspetto mia madre per uscire. Ho la borsa, nera e capace, appesa a una sedia bianca: contiene anche le mie mutande. Passa Cesare-Claudius e vado a passeggio con lui. Lungo un viale ci abbraccia­ mo e baciamo, sono felice, anche lui lo è, dico “Che bello!”, e lo bacio di nuovo, sono in estasi, incantata. Penso che sarà sempre così, ci rivedremo ogni tanto e ci ameremo, nessuno potrà impedircelo, ci succede sempre così. Nel buio passa in bicicletta il portinaio: ci chiniamo tutti e due per non essere visti. Il portinaio va avanti e poi si volta: oh elio, mi avrà riconosciuta? Eppure è sera, ormai. Sono a casa: mia madre è già uscita e tornata, ha avuto una buona conversazione con il verduraio che vende le bietole. E in sottoveste, si è tolta l’abito da passeggio. Qualcuno è in salotto, sta piluccando da un tavolo preparato per la cena, forse Tito? La borsa e le mutande le avrà prese la mamma? Ci sarà lo scandalo per la mia scappatella? Mi affaccendo per qualcosa e qualcuno nel casamento, forse sorelle? La portinaia mi guarda di buon occhio: sto rimettendo le cose a posto, non sa niente, va tutto bene. E arrivato Cesare: quando aveva quattordici anni mi aveva colpito un po’ la fantasia, adesso che ne ha diciannove non più. L’ho guardato ieri e lo guardo oggi: non mi piace. Poi lui scherza dicendo che sono oltre la collina: ha notato una piccola vena su una gamba. Gli rispondo che me l’ha già detto un medico di Boston. La cosa si ripete. Inconsciamente rifletto correndo ai ripari.

7 ago. Io ero disposta a sacrificarmi per la verità, Sara non era dispo­ sta e così ha raggiunto, incarnato la verità. Io posso essere il migliore profeta della verità, ma non posso essere la verità. Io volevo migliora­ re il mondo, Sara voleva essere abbastanza felice. Io volevo riparare l’ingiustizia, Sara voleva che non le fosse fatta ingiustizia. Io volevo soffrire pur di capire. Sara aspettava tempi migliori per capire. Io ero condannata a soffrire perciò non potevo ammettere che la sofferenza falsa la verità perché prima di tutto bisogna trovare il modo di giu­ stificarla e renderla sopportabile, benefica. La sofferenza inferiorizza chi soffre, il suo superamento inferiorizza gli altri. La sofferenza rende migliori? Rende compassionevoli verso se stessi e verso gli altri. Sì, mi­

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gliori. La gioia rende se stessi. Quelli compassionevoli possono essere se stessi come quelli che conoscono solo la gioia (e la non-gioia)? Le sofferenze delfumanità sono tante che ci si immagina siano dovute airimperfezione, al peccato della natura umana. Migliorandoci avre­ mo meno sofferenze, ma l’idea di migliorarci viene dalla sofferenza, è un circolo vizioso. Chi parte dall’idea di rinunciare a qualcosa (per migliorarsi) è già uno che è stato costretto a rinunciare a tutto. Da bambina mi era stato tolto tutto, così ho rinunciato alla famiglia, sono andata in collegio e ho cercato di diventare santa. Sara non rinuncia­ va neppure al suo pallone. Odiavo l’egoismo, mi sembrava la cecità più completa. Semplicemente mi avevano impedito di essere egoista, e vivevo nella cecità più completa sull’egoismo. L’egoismo degli altri mi aveva fatto soffrire, non potevo essere egoista a mia volta, non potevo mettermi sullo stesso piano. La maledizione di chi ha sofferto fin dall’infanzia è che non uscirà più dal destino della sofferenza. Riu­ scirà a nascondersela con certi successi, magari, però ritrovando se stesso ritroverà la sofferenza. Forse non accetto l’impasto di me con la sofferenza. Forse io sono due: una con la sofferenza, una con la gioia, come una con la crema e una con la paprika. Simone dice che non mi ha mai vista veramente triste: è perché lotto con la sofferenza e non riesco ad abbandonarmici. Corro ai ripari. 8 ago. Amare è una tensione piacevole, ma stancante se non ha il punto di riposo nella sessualità. Con Sara la tensione affettiva era troppo alta, come un’onda che non si spezza e cresce sempre: ero sfinita di pensare a lei, di parlare con lei, di intuire il mio riflesso su di lei, di sentirmi controllata da lei, di non drammatizzare le tensioni che mi venivano da lei, di fare tutto per lei. 12 ago. Da quando ci sono i figli, Elena in particolare, Simone e io quasi non ci vediamo, non c’è più nessun contatto fra noi, lui è assor­ bito dal loro rapporto, non gli resta energia per voltarsi verso di me. 13 ago. Vado molto d’accordo con Anita: lei si è ripresentata spontaneamente abbandonando il passato.

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Mi vengono continuamente iniziative da prendere verso le altre, al­ lora scrivo lettere sferzanti o biglietti affettuosi che poi non mando. Mi sento sempre impegnata con qualcuno. Quest’estate è stata una lunga lettera muta per Sara, ma ancora non l'ho scritta. Faccio l’anticamera da un dottore: una coppia di pazzerelli mi ha incaricata di questo. A un certo punto sono stufa di fare la coda, vado dalla moglie del pazze­ rello che è lì anche lei, e le dico che, sebbene avanti a me, mi dia il posto dato che sto facendo la fila per lei: “Io avevo giurato che non sarei andata più dal medico d’estate a meno che non stessi per morire, adesso se sto per morire almeno non ne sono consapevole, quindi faccio questa anticamera solo per te, è giusto che tu mi dia il posto”. Lei è d’accordo. Tra le altre che aspettano riconosco una mia compagna di scuola, però non ne sono sicura e vado oltre. La mia casa di via Monte di Pietà è diventata a un tratto luminosa, decorata e affascinante per il solo fatto di avere tenuto aperta una porta-finestra. “Così” pensavo “non la lascerò, ma la metterò in un modo diverso più ariosa e allegra.”

Mi sento prigioniera della vita degli altri, degli umori degli altri, dei ragazzi, di Simone. Quello che mi fa accettare tutto è che sto bene fi­ sicamente e che, sotto, sono in pace. Non mi rimprovero più, non sto più all’erta, non temo più di perdere la rivelazione poiché l’ho avuta. Potrei anche morire, proprio adesso che ho quella pace, non è strano? Cos’è questa pace? L’avere capito che la vita è questo, non può essere diversa, è e sarà sempre seminata di equivoci, e che si alternano co­ municazione e incomunicabilità finché non ti importerà né dell’una né dell’altra. La vita è una serie di inevitabili equivoci esistenziali. 20 ago. Non voglio andare più da Nicola. Non mi rivolge mai la pa­ rola, non ha niente da dirmi e non intende ascoltare niente: chiama il cane, accende gli zampironi, apre una persiana, fa una telefonata, raccoglie una carta, raduna degli asciugamani, dà un ordine, istruisce i bambini. Non rientro mai nel suo itinerario di pensieri. Non arrivo a dispormi nel suo itinerario. Fa i fatti suoi, come si dice. Non mi intrattiene né mi manda via, si aggira continuamente, presa dal lustraggio e ingrassaggio del suo meccanismo. Non si accorge di esser­ ne prigioniera: quando me ne parla si mostra disponibile, ma quando sono con lei, lei è con il suo meccanismo a cui attribuisce e da cui si

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aspetta la perfezione. Le piace stare in un mondo di subalterni che la amano e la ammirano: i figli, la baby sitter, il cane, il marito... Le piace l’amore dei dipendenti a cui lei stabilisce di dare tutto come oggetti e come cura. Elena è partita, ma prima si è confidata a lungo con me. Nel lasciar­ mi mi ha dato due baci enfatici da bambina, ma quando le ho detto “Scrivimi” mi ha risposto che pensa non lo farà. Ho sentito dell’ostili­ tà in quella precisione che contrastava con i miei desideri, ma capisco che deve liberarsi anche di me oltre che di suo padre e di sua madre. Ieri mi accusava di essere più indulgente con Tito che con lei quando entrambi mi trattano male. E vero, io parteggio per quella parte di Tito che si sgancia da me oltre che per quella che mi ama e mi ac­ cetta. Ma forse questa serenità posso averla solo con lui, infatti mi è dispiaciuta la leggera freddezza di Elena. Avere figli non mi è parso affascinante come risorsa per saziare i bisogni affettivi: non vedevo quali piaceri un genitore potesse trarre da quello che, per quanto mi riguardava, da figlia avevo provato verso padre e madre. 21 ago. Vorrei scrivere a Sara e a Paula, ma non ci riesco. L’imprevisto è l’inversione di rotta che ho provato una volta per tut­ te tra la tensione a “migliorarmi” per arrivare alla fiducia in me e la scoperta che l’accettazione di me doveva fare giustizia proprio di quell’impegno su cui avevo basato la mia vita. E mentre agli altri ar­ rivava come “superiorità”, per me era l’unica strada per non sentirmi disperata. L’imprevisto è in realtà quello che prevedevo confusamen­ te da sempre e su cui tenevo duro. Cara Sara, naturalmente sei sempre la mia preferita. Ne hai dubitato? Però ero stanca di te: ora prendevi alla lettera ora eri sospettosa e diffidente, ora esige­ vi ora rifiutavi, e sempre senza tenere conto di me. Prima pensavo “E giusto comportarsi così, me lo merito, ancora non può avere piena fiducia e mi mette alla prova, ha ragione”, ma mi sentivo triste, mi veniva da piangere, però non cedevo. “E giusto che pianga così mi vede completamente a nudo e prende fiducia in me.” Volevo affetto e considerazione per i miei problemi - in realtà i miei problemi ti infastidivano. Capivo piano piano che mi ero sbagliata, che tu non somigliavi a me (eri fedele, sincera, egoista, possessiva, capricciosa, megalo­ mane, creativa, poetica mentre io ero infedele, evasiva, generosa, rinunciataria, amorale, ragionevole, mistica, filosofa). Magari somigliavi di più a Lucia o a

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Ester come fondo, d’altra parte siete tre Bilance. Ora io sono fatta come sono fatta: non sarò mai cordiale come Ester né diretta come te. Adesso ho preso atto della possibilità di incomprensione dovuta proprio all’essere diverse, mentre mi ero creata un’immagine di te simile a me, con la storia delle clitoridee!

22 ago. Continua il sogno per trovare una casa, in genere il sogno finisce senza che abbia concluso niente. Sarà questo spasimo che ho a vedere pronta Turicchi e ad abitarla, a vivere sul mio, a sentirmi fìssa da qualche parte. Siamo in diversi, oltre a me e Simone. Un giovane mi chiede cosa intendo fare e 10 rispondo “Relazioni aperte”. Confesso che è la prima volta che ci provo. Non voglio restare in coppia rigida con Simone, ma vedere liberamente quello che succede anche con altri. Sono un po’ preoccupata per la reazione di Simone, però lui è tranquillo vicino a me e non contrasta.

Bernardo è abbastanza figlio con me: si fa vedere nudo, scherza sul sesso, mentre il suo amico ha spesso un sorriso amabile, ma un po’ imbarazzato. Rispetto a Bernardo che è tutto muscoli, lui è liscio, senza peli, e ieri che aveva i pantaloni un po’ bassi sulla vita ho intra­ visto un corpo efebico, molto giovane e mi è piaciuto. Non posso dire se mi ha erotizzato perché credo che dopo lo choc di questa prima­ vera non mi permetto certe sensazioni, e poi voglio stare tranquilla. 11 Diano di una giovinetta di Anonima Viennese mi emoziona molto: le minute osservazioni di una ragazzina mi sembrano importantissime, non saprei cosa mettere loro davanti. Mi è venuto voglia di spedire il libro a Sara, ma non oso: ogni tanto ho davanti agli occhi la sua espressione dura, ostile e furente. Cara Sara, anzi, carissima amica mia, sono a metà strada tra l’isola e la terra ferma, c’è mare mosso e si balla. Sono felice di ritornare. Due mesi mi sono serviti per riposarmi di tutto fino alla noia, adesso sono di buon umore, contenta stasera di dormire nella mia amata Siena. E domani in campagna. Volevo scri­ verti a lungo, ma è meglio che vada fuori sul ponte.

28 ago. A un concerto delf Accademia Chigiana, nell’ala dirocca­ ta di un castello, una violinista somigliava a Gemma. Suonava così bene, era così padrona dello strumento che ho pensato con dispiacere

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al fatto che Gemma non abbia potuto applicarsi bene in niente. Però poi avrei voluto dirle che non ha importanza, è la sua persona quello che conta e che sia felice di essere come è. 29 ago. Sono emozionatissima per il restauro di Turicchi. Non c’è cosa più divertente che scegliere momento per momento la costruzio­ ne della propria casa: mentre il muratore fa il muro della scala inter­ na mi pare di prendere possesso di ogni pietra che mette. Questa casa è la prima mia proprietà. Adesso un pezzo della terra, dell’universo è mio. Ho anche diritto a un posto in un piccolo cimitero semi-abban­ donato insieme a qualche monaco e qualche contadino. Ne sono sta­ ta felice: anche Simone ne ha diritto, anche Tito. Nelle grandi città, a Firenze stessa, prende l’angoscia sia di non riuscire a trovare un appartamento adatto a vivere, sia di non riuscire a trovare un posto nelle metropoli cimiteriali. So che non serve a niente, non sono una vecchietta etrusca, ma questo pensiero mi dà pace. E vero dunque che la casa propria, fissa, stabile è anche connessa al pensiero della dimora per sempre. 30 ago. Stamani tutto bello a cominciare dal tempo. Una ruspa sta scavando la cantina a fianco della casa, gli operai scherzano (mi chie­ do come fanno nelle fabbriche a stare tante ore senza parlare, senza dirsi battute, qui è un continuo). Ritrovo le sensazioni di quando ero bambina, e anche le mie origini. E troppo fantastico vedere venire su la propria casa, stare sulla propria terra, all’ombra della propria pianta. Finora temevo la proprietà, la scansavo, avevo paura del sen­ so di colpa. Adesso mi sento più tranquilla. D’altra parte cercavo soluzioni nei rapporti umani, mi dedicavo interamente a quelli, la proprietà non voleva dire molto per me, anzi essere priva di legami di ogni genere mi manteneva leggera e disponibile. Ogni altra cosa non aveva senso.2 2 set. Sono vissuta nell’attenzione e nella premurosità verso gli altri, magari pochissimi, quelli che amavo, con cui volevo che il rapporto fosse al massimo: adesso sono svuotata della mia abituale intensità. Sara mi ha chiamato da Milano dicendo che vuole vedermi, che ha tante cose da raccontare. Lì per lì ho risposto “Anch’io, tantissime”, però poi mi sono accorta che non è vero, che ho ancora bisogno di

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stare sola. Non muoverò un dito per gli altri, non rinfocolerò le mie esigenze di affetto, comprensione, conoscenza reciproca. Forse mi ver­ gogno un po’ a dirlo, ma è così: adesso mi interessano la proprietà e la pace, il riposo. Mi sento come una patella staccata dalla roccia e but­ tata fra i sassi. A Sara ho detto che per questa settimana è meglio che non venga perché sarò presissima dal cercare casa e iscrivere Tito a scuola. Lei aveva libera proprio questa settimana, poi torna a finire il settembre al mare. Un tempo mi sarei preoccupata e sentita in colpa per avere dato spazio alle mie necessità: il mio principio era che con un po’ di buona volontà si rimedia a tutto, però lo applicavo a me non agli altri. 3 set. Mi è uguale stare qui o lì, purché non sia Milano, forse. Mi sono tagliata i ponti alle spalle, non ho più ragione di stare a Milano. E Roma, che pure mi è indifferente se non addirittura non-congeniale, va benissimo purché ci entri il più possibile da sola. Ho una strana calma e uno strano senso di distacco. Molto deriva dal fatto che ho preso domicilio mentale e affettivo a Turicchi (dove sono veramente “a casa”). 6 set. A cena Nicola era molto carina, allegra e spigliata. Sorrideva continuamente. A un certo punto ha detto che il tempo non conta più per lei. Ho capito cosa intendeva e ne sono stata felice. Ho letto una massima del Tao “La via veramente via non è una via costante”. E molto bella e mi si adatta. Cara Paula, non potevo risponderti finché non avevo deciso per Milano o per Roma. E non ho deciso per Roma finché non ho firmato il contratto per un pied-à-terrc in centro. Infatti non avevo nessuna voglia di riaprire una casa vera e propria (cara Paula, come stai? Ho tanta voglia di vederti, anche a me sembra tutto possibile adesso). Sono stata abbastanza nella tana a rimuginare, adesso mi piacciono faria aperta, il sole, la mobilità. Qui non ho visto nessuno salvo Nicola. Ester non è mai ritornata su quel suo telegramma di merda: chissà cosa bolle in pentola: ridiventare amiche, dimenticarsi? Vedremo. Più che leggera sono per aria. Basta che non cerchi di prevedere cosa farò perché non ne ho il minimo indizio. Mi sembra di essere alle soglie (oppure già sto facendoci i primi passi) di un’eterna vacanza, una specie di paradiso terrestre. Forse dopo la valle di lacrime c’è questo. Non è troppo? Non era meglio sapere un po’ meno, avere

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ancora un piccolo angolo di mistero per cui lottare, una qualche missione da compiere?

16 set. In uno scritto a proposito della morte di Allende ho letto che la sconfitta è la vera vittoria che rende impotenti i potenti poiché dalla sconfitta l’individuo risorge. Mi sembra molto vero. Prima ero prevenuta con i cattolici, adesso capisco che si cerca la liberazione in tanti modi, però perché poi continuare a fare professione di fede cristiana, perché restare nella Chiesa? Forse perché altrimenti l’indi­ viduo perderebbe davvero ogni potere, ogni diritto di parlare, ogni persuasività. Mi rendo benissimo conto che il mio bisogno di non tradirmi può essere scambiato per una vasta gamma di complessi. 17 set. Ho rivisto Sara: è tutto così semplice con lei adesso. Le ho suggerito di mandare il suo libro a Pasolini, le è sembrata una buona idea. Quest’estate ha avuto due storie con artisti. Uno dei due mi è odioso, sempre appiccicato alle donne per farsi coccolare, aiutare. Sara lo trova bello, a me non è mai piaciuto. Mi disturbava non la sua fragilità, ma la maniera di amministrarla. Mi pare leggermente fradicio. Innamorarsi di lui lo trovavo inconcepibile: quello sguardo subito in cerca di complicità mi indignava. A volte penso che dovrei rivedere tutto e tutti per rendermi conto meglio, però quando ci pro­ vo ho sempre una conferma delle sensazioni passate. Allora mi viene da ridere “Cielo! ero io anche allora, anche a due anni, come posso dubitare sempre!”. Ma ho vissuto troppo senza conferme. Sara dice di avere rivisto molte cose su di me. Per esempio, non è vero che la illudevo, come lei aveva temuto, ma le davo coraggio avendo io fatto prima alcune esperienze: divorziato, scritto un libro, tradito Simone ecc. In genere invece le donne si deprimono perché non han­ no fatto niente e hanno paura di tutto. In questo senso Ester mi dava coraggio e io la ricambiavo con gratitudine. 18 set. Simone mi manca: dopo quasi tre mesi di essere stati insie­ me mi manca molto. Milano proprio non mi piace, capisco cosa ho sofferto a starci, mi sento assediata dal rumore, dal grigio, dall’aria inquinata. Questo è già un elemento di sfondo. Poi mi sembra squal­ lido dormire sola: mi giro, mi sveglio e mi manca di essere awol-

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ta, scaldata da Simone, mi manca sentirmi con un altro che anche lui si gira, si sveglia e con il quale posso subito parlare. A me piace commentare momento per momento quello che succede, mi scioglie. Anche “Dormito bene”, “Dormito male”, “Ho fatto un sogno, te lo racconto”. Per essere perfetto dovrei potergli dire “Oggi desidero un altro, un incontro”, invece non è ancora possibile. Vivendo insieme a Roma capiterà. E io? Potrei accettarlo da lui? Vado a finire facilmente nella vita contemplativa appena mi si presen­ ta l’occasione del riposo e dell’isolamento. Ma ho desiderio di contat­ ti, sebbene mi stanchino e mi provochino tensione e scatenino bisogni contrastanti. Sono come dei cicli, con un massimo e poi la caduta: io lotto contro questo, ma inutilmente e, per così dire, malauguratamen­ te. Adesso devo vedere con Sara come va dopo il crollo di giugno. Ma penso che tra noi può succedere tutto, non c’è vischiosità: lei è forte, io pure; lei vuole la verità e anch’io. Ieri, mentre mi raccontava delle sue storie e mi ripeteva come è interessata all’uomo, rivedevo alcuni momenti della mia vita dove, senza capire perché, mi si intrecciavano addosso più vicende e l’erotismo per uno mi si riversava su un altro se il primo si assentava e il secondo era presente. Per lungo tempo ho avuto dubbi sulla mia solidità di persona che in pratica vive tutto a frammenti, e la cosa strana è che da un lato coltivavo lo strascico mentale di un rapporto, ma poi lo troncavo bruscamente nei fatti con un altro rapporto. Mi dava fastidio perché lo interpretavo come una rivalsa a qualche frustrazione e forse non volevo soffermarmi troppo sulla frustrazione (a cominciare da quella sessuale). Rispetto a Sara, non smaltivo bene un rapporto soprattutto se breve, restavo ingolfata, come un motore per eccesso di benzina. Così dall’eccesso passavo all’astinenza, alla solitudine. Come mi succede adesso, del resto. Però adesso mi sento calma, non sono più allo sbaraglio, ma neppure im­ paurita. Ecco, prima ero così: impaurita allo sbaraglio. Sara fa quello che avrei voluto fare io oppure che ho fatto senza una piena coscienza, realizza esattamente quello a cui aspiravo: “scoprirsi l’un l’altro / un momento come da sotto un velo / meravigliosi esseri in incognito”. Adesso accetto la fase della vita che mi trovo a vivere, accetto di avere smaltito tante vicende ed emozioni e che non posso ripeterle perché ciò che è accaduto non attira più, attira “l’altro”. Sono stata a cena con Claudius e abbiamo parlato molto caramente: siamo cresciuti insieme in un periodo intenso per tutti e due, c’è una

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fratellanza molto forte, che rispunta sempre dopo qualsiasi avveni­ mento, come con Simone e con Sara. A un certo punto Claudius mi ha detto qualcosa, tipo che io nascondo la mia tenerezza e poi in un altro momento, ridendo, che gli fa schifo parlare di sé come di un arti­ sta. Quanto a me, gli ho confidato di avere sempre avvertito un muro tra noi attraverso cui non mi lasciava passare. Ha replicato di non sentirsi maschile, ma io ho risposto che non basta e che il suo silenzio su di sé è proprio la roccaforte tipica. 19 set. La pace è bella l’eccitazione è bella essere in pace è divino essere eccitati è superumano essere in pace diventa noioso essere eccitati è subito stancante.

Mi ha telefonato Claudius: era ridanciano, vedo bene che è la sua difesa. Gli ho chiesto “Cosa vuoi? Rendermi un po’ drammatico il passaggio a Roma?”. Ha risposto che vuole capire se un po’ lo è. Ci ho pensato dieci anni e lo faccio ora che sono convinta. Però questa telefonata mi ha frastornato, ribattevo meccanicamente. In più era presente Lucia, stavo parlando con lei. Le ho raccontato di Ester e di Sara, così capisce quanti colpi ho preso, anzi quanti colpi mi sono sta­ ti necessari. Lei mi ha confidato con aria distaccata che uno speciali­ sta ha rifiutato le sue proposte per una grammatica. Lucia lo mette in conto alla sua poca comunicatività. Secondo me c’è incomunicabilità quando c’è tortuosità, cioè voglia di dire una cosa e di nasconderla, voglia di esporsi e timore degli altri. Lucia si è modellata sul compia­ cere i genitori, ma nello stesso tempo perseguiva un suo fine. Rico­ mincio i ritmi e i gesti della solitudine: mi faccio la boule per riposare il pomeriggio, vorrei scrivere in continuazione, la testa mi pulsa, ho aumentato vertiginosamente i giri del motore. Vedo alle mie spalle la vita calma o in studio di Simone o in campagna, mi sembra insipida, quieta, senza emozioni. Però so che non è così, che da lì la vita a Milano mi sembrerà soltanto frenetica e faticosa.

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Milano è spremuta Roma è una tentazione la campagna è salute gli amici voglio vederli Claudius è il mio preferito Ester per ora no Sara verrà Simone a richiesta a disposizione Tito per le vie e le piazze di Roma.

Al telefono Claudius aveva esordito così, che si dimenticano le cose: infatti avevo dimenticato di accordarmi per una sua scultura che deve prestare a una mostra. Però ho avvertito subito che voleva ridimen­ sionare la serata precedente nell’ironia. Mi sono molto meravigliata quando mi ha detto che avevo inferiorizzato tanti. Ho chiesto autoniciticamente “Donne?”. Adi sbagliavo “No no, uomini”. E buffo sentirmelo dire, è buffo essere confermata in intuizioni a cui non avevo potuto credere veramente. Infatti non mi ero comportata di conseguenza. 22 set. Sara va come segretaria in una galleria d’arte dove ci sono i miei ex-amici artisti. Ecco che in qualche modo potrò sciogliere gli ul­ timi nodi che mi sono rimasti con l’ambiente, tramite lei. Oggi mi ha detto che io sembro pensare di non avere bisogno di nessuno. Mi ha molto stupito, intanto perché lo avevo scritto persino nella poe­ sia dedicata a lei (“vorrei liberamene, vorrei saziarmene”), poi se ho cominciato tante cose è perché avevo bisogno di rompere attorno a me l’incomunicabilità, avevo bisogno degli altri. Però, avendo creato tutte le condizioni da sola, tutte, e Sara le ha subito avute a disposi­ zione, certo non ho l’aria di chi chiede continuamente consigli... in più capisco che non posso continuare qui a Milano. Mi ha telefonato Vincenzo per salutarmi, lo hanno avvertito che andrò a Roma. E caduto proprio nel bel mezzo dei miei pensieri: non posso avere solo a che fare con chi non mi ha capita e mi ha mitizzata allora. Ho bi­ sogno di nuovi incontri. Vincenzo ha detto che adesso non sono più pazza, a lui piaceva quando ero così pazza, però forse riesco a essere affascinante anche nella normalità. Gli ho risposto che me ne vado per non sentire sempre lodare la mia passata pazzia. Gli ho spiegato

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che non avverto più legami con la città, ho l’impressione che per lei già non ci sono più, va avanti per conto suo senza di me. Lui ha commentato che ho sempre tanta fantasia e poi che prendo tutto sul serio perché sono sottosviluppata come lui: nei paesi evoluti tutti se ne fregano. Mi ha chiesto che farò, ho risposto “Niente”, dice che è la cosa migliore. “Per me o per tutti?”, “Per tutti.” Ma non lo pensa. Infatti si è subito accertato se scrivo. Quel tale artista ha il pregio di erotizzare Sara, ma nello stesso tempo lei si accorge che non è integro. Forse l’erotismo è più forte quando ap­ pare collegato a una certa bassezza? Finora questo tipo di erotismo mi ha respinta; si tira appresso un’aria di redenzione poco stimolante. Sara mi ha chiesto le poesie da leggere una seconda volta dopo che la prima non le erano piaciute. Allora le interessava solo l’immedia­ tezza e comunque aveva problemi tali con me che non se la sentiva di indagare minutamente. E io dovevo distaccarmi dal passato. Ma oggi ha tradotto in inglese un mio articolo del ’66 e vi ha colto il lato di operazione umana che mi interessava. Anche se in quello scritto mi esprimevo in modo molto velato. Allora le è tornata la curiosità per le poesie. Per me era stata una delusione tremenda quando me le aveva restituite senza un commento, dicendo solo che erano troppo artificiose. Simone le detestava, Claudius le aveva trovate descrittive, Sara e Agata le avevano snobbate: questa era l’eco che avevo raccol­ to. Come è stata tormentosa la mia ricerca di rispondenza. Adesso Sara se ne rende conto. L’anno scorso mi vedeva ancora come la teorica di Rivolta e la donna riconosciuta nel mondo maschile. Ora capisce quanto è stato lungo il mio cammino, quanto ho lottato da sola contro rifiuti e incertezze. Come questo ha occupato la mia vita. Stasera ha detto chiaro di avere imparato da me che la ricerca va fatta dentro e non fuori di sé. 23 set. Finalmente mi si è chiarito un enigma fondamentale della mia vita: la simpatia di Cesare per mia sorella e viceversa. Infatti io parlavo a Cesare di lei e a lei di Cesare, li facevo innamorare senza accorger­ mene, oppure accorgendomene, ma senza potermi arrestare. Creavo una conoscenza reciproca tramite me e alimentavo il bisogno di un rapporto diretto tra loro. Ieri Sara mi aveva chiesto “Dimmi com’è successo che Cesare si è innamorato di tua sorella”. E alla fine del mio racconto ha esclamato “Devo stare attenta sennò finisco per innamo­

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rarmi di Claudius, mi hai parlato tanto di lui!”. Dunque con Sara è successa un po’ la stessa cosa che con Lucia: le ho messo a disposizione tutto di me, tutto ciò che avevo affrontato con sforzo, eia sola, perché avevo bisogno di chiarirlo. Il punto più doloroso è quello in cui sento che lei si sovrappone a me, mi sostituisce. Qualcosa mi dice che que­ sto non è veramente possibile, che proietto il mio passato con Lucia e Cesare, però è anche già come se lo fosse dal momento che lei ci ha pensato. La porta è socchiusa: che avverrà? Lascio Milano per Roma come avevo lasciato Firenze per Parigi? Non credo: ho parlato adesso con Simone: come è caldo il nostro rapporto, come è calda la sua voce e quello che mi dice. Sono certa di andare verso nuovi sbocchi dopo avere superato il conflitto di essere stata per Sara non solo quella che le ha dato sicurezza attraverso ogni genere di conferme, ma anche quella che le ha aperto la strada al suo ambiente, ai suoi amici. Mentre lei, intanto che prendeva, metteva in dubbio tutto di me. Sara mi ha parlato delle mie poesie, si sente che mi ci consumavo, c’è tanta fatica dentro. La sfiducia di riuscire a comunicare (oppure l’impossibilità reale di farlo) mi rendeva impossibile uscire dai miei grovigli. Non trovavo il bandolo della matassa e affondavo nella sof­ ferenza. Ha citato Kafka. Poi mi ha fatto leggere le sue poesie: sono un soffio. Adesso mi accetto come sono, vedo la diversità da Sara: lei è saggia, non perde di vista il lato positivo, non smarrisce la fiducia, né la limpidezza della sensazione. Io le sono grata di essere come è, ho proprio uno slancio, quello di darle tutto: solo se poi mi frustra mi sembra di avere esagerato. Vorrei che avesse tutto, e poi ho paura di quello che può avere. 24 set. Sono con Vincenzo e la moglie in macchina diretti in una casa. Gli prendo la mano come per salutarlo e la stringo forte. Mi risponde. Però poi li perdo di vista. Vado a una riunione e c’è Ester un po’ ubriaca, mi abborda cordialmente, ma nei suoi discorsi scopre continue allusioni all’amore con il suo ragazzo, e sbotto che basta con l’enfasi sul rapporto erotico. Sara dice di Vincenzo “Allora ti piace ancora?”. 25 set. Ho riletto la lettera, i biglietti e le cartoline di Vincenzo. Era abbastanza fresco, come mai non l’ho preso più sul serio? Come potevo guardarlo così dall’alto? Certo per il fatto che era sposato.

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Uscivo da due impasses, ero piena di riserve. Nella lettera mi piace quando dice che sente il suo corpo quando sente il mio. Forse temevo di abbandonarmi, così osservavo e notavo le sciocchezze. Ma soprat­ tutto c’era la questione del sesso che non andava. Ho rivisto un tale con cui avevo avuto una breve storia quando ero sui ventidue anni e lui ne aveva due o tre di meno, un diversivo un po’ inutile di cui ha sofferto per qualche anno, come mi diceva ancora ieri. E sincero, ma troppo troppo fragile e infantile. Quando l’esperienza non matura è terribile. In realtà all’inizio ero attratta da uomini un po’ “mat­ ti”, come Cesare, Fausto, Raffaele. Mi meraviglia constatare come abbiano qualcosa in comune, me ne accorgo adesso. Ho telefonato stamani a Raffaele: veniva in centro. Gli ho proposto di passare di qui per incontrare Tito che non vede da tre mesi. Per carità, aveva in progetto certi giri nei negozi per acquisti. Avrebbe mangiato fuori, ma in fretta, non ho capito. Forse inconsciamente sceglievo qualcuno che avesse sofferto molto per sentirmi vicina, però non mettevo in conto le difese che impediscono di uscire fuori. Per molto tempo sono stati gli uomini migliori che ho incontrato, che mi hanno occupata. Piove, sono contenta di andare via da Milano, ho bisogno di una nuo­ va vita con la vicinanza di Simone che dovrà capire tutto. E anch’io capirò. E il primo autunno ho quest’attesa dentro piove leggero leggero sono un prato inzuppato di pioggia sono ancora un essere che trema.

Ho trovato una mia poesia del ’50 che dice “Alla malinconia dei cieli / grigi / risponde il rosso / spento / delle tegole. / Ma a quel minusco­ lo / pallido / lembo / d’azzurro appena svelato fan / da specchio / i miei occhi come due / lacrime grandi”. Possibile che non ci ho creduto subito? Possibile?

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Simone prepara un piccolo mobile per me di legno rosso e giallo dove metterò i miei scritti la mia vita. Mi sento amata.

Non sono contenta eli me stasera dopo il gruppo (Angelina, Matilde, Gemma, Isa, Sara e io). Sarà che non so parlare in un clima attento per principio, in realtà distratto. Inutile che cerchi di diventare bonaria, non lo sono. Mi piacerebbe esserlo, ma non lo sono. La faccia sconten­ ta di Isa mi turba, non sopporto la sua tristezza che sembra mi accusi. Le lunghe relazioni per forza devono liberarsi della fedeltà, che è un elemento paralizzante perché troppo difensivo del rapporto e della si­ curezza che ne scaturisce. Con Simone ho cominciato io a “tradirlo”, sono sicura che questo ha dato vita alla relazione. In un certo senso aspiro che lui mi ricambi, e questo non per legalismo, ma per affron­ tare l’eventualità una volta per tutte e aspettarne i chiarimenti. Con Simone vorrei vivere una vita, e sempre più intimi, più insieme, più attenti. Con l’estasi finale come in Musil. Però vorrei anche una vita parallela per avere incontri quando capita, emozioni nell’avvicinare un altro essere, e poi un altro. Quel momento non dovrebbe andare perduto nella mia esistenza. Tremo della mia emozione di esistere so che è come la tua ma non posso provartelo tu sai che è come la mia e non puoi provarmelo. Tremo come una canna che fiorisce e poi torna una canna che trema

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finché rifiorisce.

Sentivo

di dover credere sempre adesso so che credo comunque finché rifiorisce. Adesso in questo attimo è in fiore. Amore in fiore in fiore in fiore. Perdermi nella vita del mio fiore. Il sì di un fiore.

Ho chiamato mio figlio Battista. In realtà mi sentivo io “una voce che grida nel deserto”, “una canna battuta dal vento”. Parlando con Sara di Vincenzo ho concluso che era un po’ letterario. Come non avevo potuto fare a meno di prevedere stasera rischiava di finire banalmente. Claudius chiuso, voleva parlare del più e del meno. E del suo lavoro, ma in un modo un po’ meccanico. Alla fine, proprio alla fine, in macchina, alle 2, è cominciato un dialogo. Gli ho ribadito che lui sta come sotto un lenzuolo, non si fa vedere. Gli ho chiesto se c’era scritto qualcosa in un bloc-notes che lui anni fa aveva sigillato. Ha risposto “Guarda”. Ho detto di no, che l’avevo accettato così, però volevo sapere se mi era sfuggito qualcosa. Ha ammesso “Non ti è sfuggito niente”. E via di questo passo; non è molto, ma è il contatto. Con i vecchi amici si hanno momenti con­ fortanti, è bello, ma non si superano i limiti del passato o almeno, se si superano qualche attimo, questo non dà abbastanza entusiasmo per avventurarsi oltre. Dev’essere la ragione per cui si cercano nuo­ vi contatti. 27 set. Davanti alla biglietteria ho avuto un’esitazione: dove andavo? Ieri ero stata tesissima, tante cose da preparare, la paura di dimenti­ care, di perdere qualcosa. Poi la serata da cui ho capito che niente era rimasto interrotto, potevo partire tranquilla. A Claudius ho regalato una rosa, l’ultima del mio terrazzo, a sua moglie qualche fiore e l’uva

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appena raccolta. Mi piace dare cose curate da me. La rosa era rosa, molto bella, piccola, folta, inselvatichita. Claudius un tempo mi aveva regalato delle rose che avevo lasciato seccare; poi una volta, durante un’incomprensione, suppongo mascherata sotto lo scherzo, le avevo buttate giù dalle scale intanto che lui scendeva. Quando parto non riesco a pensare dove vado: vivo la partenza. Ora sento di essere par­ tita bene, ho chiuso bene. C’è anche la ragione finale con Sara. Avevo scorso le sue poesie con lei perché voleva che le segnassi quelle che mi piacevano. Le ho detto ridendo “Sei una nuova Saffo”, per la purezza senza problemi delle sue emozioni. Si è messa a ridere anche lei e ha risposto che prefe­ risce essere solo nuova, poi ha aggiunto che però non c’è niente di nuovo. Ho accettato di dare a Sara tutta l’eco di cui sono capace e di aspettare con fiducia e senza fretta la sua eco. Che è arrivata mezz’ora prima della mia partenza, per cui ho rischiato di perdere il treno. Mi ha chiesto se ero d’accordo di fare leggere le mie poesie a un tale che secondo lei poteva avere avuto delle esperienze interiori simili alle mie. Preferivo di no dal momento che le reazioni le volevo per me e non ne avevo ancora avute. Lei vedeva la differenza con le sue poesie e mi chiedeva dov’era la liberazione che le mie conteneva­ no. Le ho risposto che avevo smesso di scriverne quando ero riuscita a comunicare con Simone, dunque mi avevano permesso di smaltire via via la mia angoscia e di mantenermi disponibile, pronta, sveglia. Il non comunicare attribuiva come un’origine metafisica alla mia sof­ ferenza, ma io non volevo crederci e lottavo per capire e per uscirne. Ero sola contro il mondo intero che mi insinuava dubbi e paure. In treno: Cara Sara, ho risto adesso uno stormo di uccelli: prende tante forme, e molto fluido, rivo, armonioso. Contiene tante esistenze che si intrecciano come un gio­ co continuo; dentro c’è un movimento velocissimo, come deve essere fiducioso un uccello per volare così in fretta insieme agli altri. Adesso ho risto un uccello solo, grande, lento; non ha l’aria di divertirsi. Adesso ne ho visto un altro, sem­ bra più contento, ma di sicuro ha vicino il nido e fa una passeggiatina, mentre il primo volava in un lungo viaggio. Stamani mi hai dato una mano: certo posso avere più confidenza se il mio passa­ to non ti è estraneo perché è in me comunque e io ho bisogno di un’accettazione completa. Forse ho sempre queste lacrime in tasca finché sento incomprensione

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su quel punto: ho presente quanto è stato duro, non riesco a dimenticarmene. Perché c duro che quel momento non trovi risonanza. Quindi è stata veramente un’ispirazione che tu mi abbia telefonato prima di partire perché ho sentito un immediato alleggerimento quando hai all'errato il senso di “Eccomi”, dove c’è un po’ tutto e a cui non posso pensare senza piangere perché mi sembra la testimo­ nianza di un martirio (di una bambina). E non importa se adesso la donna adulta è felice e ha tutto, a cominciare dalla possibilità di comunicare, dal momento che la bambina ha ancora bisogno di sentirsi accanto l’altra bambina che la capisce totalmente (e viceversa). Ciao, sono solo a metà strada (Firenze), tra poco incon­ tro Simone, c sarò un po’ meravigliata che non sei tu.

29 set. Sono arrivata a Firenze con quella intensità che avevo in treno, e ancora con Simone ero così, finché abbiamo visto degli amici e tutto è finito. Non mi ero mai resa conto così bene dell’eiFetto rovi­ noso che può avere la distrazione degli altri. Per questo si prova, oltre al disagio, quasi la paura di tali persone. Caro Claudius, volevo capirti ed essere capita da te. Ma per un certo periodo mi bastava trovare rispondenza così, sulle generali: nella integrità era già un traguar­ do. Volevo capire te per capire le tue opere e cos’è questa strada disfare delle ope­ re, dato che non era la mia strada. O meglio, dato che non avevo nessuna strada. Poi mi sono resa conto che faceva parte dell’essere io una donna. E questo mi ha aperto una strada. Adesso vedo nella creatività un modo di manifestarsi che può anche venire da una sfiducia nel comunicare. Io volevo comunicare, tutto il resto per me era solo e sempre una comunicazione frustrata. Mi ha colpito l’altra sera quando ti dicevo ciucile frasi a cui tu hai risposto - erano frasi spontanee e non pensate, non avevo idea di cosa potessero significare, anche se sono convinta che ti chiedevo qualcosa sulla nostra amicizia, e volevo fare un passo avanti, ma senza direzione, in quel fermo che c’era stato tra noi - hai risposto qualcosa tipo “Cosa farai, mi flagellerai, mi coprirai il capo di spine prima di mettermi in croce ecc.”. Così ho avvertito un’ironia che nascondeva una paura, la paura che ti spingessi all’ecce homo? Tutta la sera ti eri trincerato, tirato indietro, però in macchina - luogo di confidenze nel passato - eri diverso. Mi tornava l’ispirazione. Carissima Madide... qui non ho visto nessuna per ora. Ho avuto da fare ma non è solo quello: mi pare di essere sospesa. Ogni tanto qualcosa mi riempie e poi se ne va, angoscia, felicità, calma, nostalgia. Simone mi trova malinconica... Credo che ho il vuoto delle amiche e di tutto il resto. Il vuoto della missione che mi ero creata.

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Carissima Sara, mi ha ripreso il desiderio di fumare. Incautamente ho dato qual­ che boccata qua e là. Così avevo ricominciato, dopo rinterruzione di quasi un anno, al ritorno dagli Stati Uniti. Il momento attuale mi ha fatto capire cosa sta­ vo rincorrendo con il femminismo: cercavo di tornare in collegio, di ritrovare le amiche, forse soprattutto il rapporto idealizzato con suor Caterina che, con mia somma gioia, si era occupata di me nell’adolescenza e a cui avevo sovrapposto l’immagine di S. Teresa. In qualche modo l’ho poi sempre cercata nelle altre: per la prima volta nella vita una donna aveva fiducia in me. Soffriva di emicranie, questo mi dava la sensazione che avesse anche lei un segreto doloroso. Era roma­ na. E sorprendente che questo collegamento mi venga in mente adesso che abito qui. Dopo tre anni di collegio (dopo tre anni di femminismo) mio padre (Simone) mi ha tolto dal collegio (dal femminismo, da Milano) e mi ha voluta in famiglia (con lui a Roma). Diceva che avrei finito con il preferire il collegio e suor Cateri­ na (il femminismo, Sara) alla famiglia. A casa (a Roma) la vita era più conforte­ vole. Poi sono andata a scuola da altre suore, ma era tutto diverso, l’ambiente più mondano, la religione un fatto esteriore. Forse per questo adesso non ho interesse per le femministe di qui. D’altra parte avevo accettato di andarmene dal collegio perché suor Caterina poteva sentirmi un po’ come suo braccio destro, però era indaffarata con le altre, e poi le piacevano le bambine un po’ birichine che pote­ va coccolare con leggerezza mentre io ero così attenta a ogni minimo gesto che diventava impegnativo. Non so perché succedano sempre le stesse cose. Diciamo che si ripetono finché non ce ne accorgiamo, però dopo ho l’impressione che non succeda nulla. Almeno io non desidero che mi succeda qualcosa, visto che mi si è scaricata quella molla nascosta che mi faceva agire, mi spingeva. Ero un fiume adesso sono un lago prima correvo precipitavo travolgevo adesso rispecchio il cielo le nuvole nere le nuvole bianche.

30 set. L’arte si pone comunque nella disparità, la comunicazione non si realizza che alla pari. La comunicazione è la via d’uscita dell’insicuro e del frustrato, la creatività quella del sicuro e del gratificato. Cara Sara, mi ha colpito, già mentre lo scrivevo, che nella prima lettera io voles­ si per me “accettazione completa” e “essere capita totalmente”.

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2 ott. Giro per Roma e nei sobborghi per comprare il necessario al nuovo alloggio. Guardo stupita una città vivere nel clima più invidia­ bile. Adi sento leggera senza il mio tributo quotidiano di fatica nell’affrontare la grande città industriale inquinata e funzionale. Davvero che basta quello sforzo quotidiano a dare un contenuto alla giornata. Sono un pallone senza zavorra, non ho più alcuna rotta dal momento che non potrei seguirla. Adi sveglio la mattina, alzo la tenda e vedo il sole attraverso gli alberi. Ali volto e dico a Simone “E una bella gior­ nata”. Per me è insolito. Solo adesso posso sopportarlo, prima era trop­ po. Non devo lavorare, non devo viaggiare, non ho nostalgia di nes­ suno, tutto è benvenuto. 3 ott. Simone è incline a sostituire il contatto con “vivere insieme”. Stacca senza accorgersene e mi guarda dal luogo dove si è ritirato molto rassicurato di vedermi. Per ora ho una vita troppo dispersiva, sento chiudere addosso a me il timore di non trovare sbocchi, dato che non ho più l’entusiasmo-disperazione di un tempo e non ho ancora la fiducia che le cose succedano, arrivino a me se io non le provoco. Mi viene in mente la fine di una poesia “Eppure è duro accettare / che il tempo batta per secondi / che il cammino si faccia / un passo dietro l’altro / che la gioventù sia solo / il ribollente serbatoio / della maturità ragionevole”. Allora stavo per sposarmi: si vede che gii uo­ mini mi fanno un po’ lo stesso effetto quando entrano decisamente e stabilmente nella mia vita. Scrivo seduta sul ciglio della Cassia men­ tre aspetto l’autobus. E la solita bellissima giornata calda di primo autunno romano. Il clima è mio alleato, insieme faremo grandi cose. Mi è venuto voglia eli scrivere alla mia nipotina di Milano: quando sono partita mi ha detto “Peccato che vai via”. 4 ott. Ogni momento litigo con Simone. Da quando il mio soggior­ no qui ha assunto carattere definitivo, c’è una ripresa di sospetti, difese, scatti. Finora abbiamo fatto tante cose divertenti senza di­ vertirci. Lui non vede l’ora di riprendere il lavoro, ma può capire che anch’io sono deconcentrata e, sempre a rimorchio, innervosita. Con lui ho un’intesa di fondo, so per certo che non mi vuole male, so per certo che cerca di comunicare con me o almeno ha fiducia nei miei sforzi. Più di tanto è impossibile. In macchina abbiamo chiarito molti punti, ma mi sentivo la gola contratta dall’avere parlato gri­

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dando. È venuto fuori che Simone non si sente accettato perché non desidero la penetrazione, in più gli viene in mente che l’ho fatta con altri, sostiene che considero la sua compagnia un ripiego rispetto a quella di Sara, e la venuta a Roma un sacrifìcio. “Forse” dice “c’è questo sfondo inconscio al mio cattivo umore.” Inoltre era frustrato rispetto a un collega artista che, con un gesto di banditismo politi­ co, ha mobilitato mezzo mondo con una mostra. Non sapeva se era frustrato per il banditismo di quello o per il suo proprio fallimento nel banditismo. Non sono neppure arrivata a Roma che già tra noi si stabilisce il sistema di parafulmini della coppia. Gli ho detto che si illude se pensa di essere tranquillo e continuo; in effetti è sensibilissi­ mo e basta un niente per fargli cambiare umore. Non se ne accorge, ma comincia a trasudare sgarberia, malessere, incomprensione. Io lo avverto subito e comincio a sentirmi appesantita, torpida; attacco un discorso e lo lascio cadere, leggo qualcosa, scherzo, sbadiglio, ho fame, ho sonno: alla fine prende consistenza un uragano interiore che inizia con alcune raffiche di vento freddo e polverone. Poi dico tutto, fino al parossismo, provo l’ebbrezza di non avere più cautele, né remore, né mezze misure. Infine la tormenta si calma: tutto è stato detto, sono svuotata. Dopo mi torna Paffetto, la tenerezza, si ristabilisce il contatto, l’erotismo. Non sono più oppressa dall’altro e così, se da parte sua non trovo accoglimento, mi vengono sensi di colpa. Mi chiedo “Perché sono cattiva? Non potevo stare zitta?”. Stessa origine e stesso svolgimento delle furie con mio padre. Simone è convinto che io non abbia mai fatto niente per lui e dice “Non te ne frega niente di me”. Quasi mi convince. E difficile amare chi non desidera essere amabile. La mia vita vacilla vedo in lui un altro uomo i suoi occhi sono ottusi si rifiuta di capire. Siamo alla fase in cui non si dà ma si tiene stretto quello che siamo. Tutto ciò che era ovvio ritorna enigmatico sospetto si ricomincia tutto da principio

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lui mostra così di non aver capito né accettato. Allora cos’era prima? Perché non ci succede di scioglierci come prima? Perché ci guardiamo negli occhi per cercare nell’altro il proprio dubbio?

Mettiamo che Simone si inferiorizzi di me però negandomi, lo stesso mi costringe a lottare contro la sensazione di essere annullata. 5 ott. Notte oppure alba. Mi sveglio da un sonno pesante. Sono in una strada di Firenze, forse via Masaccio in fondo. Ho una bancarella dove sono esposte fotografie di me del passato: di alcune io stessa non afferro il soggetto. Arriva un ragazzo e vuote prenderle: ci mette le mani sopra, fa di­ sordine, cerco di convincerlo con le buone, ma lui niente; a volte sembra di sì, però poi torna alla sua idea iniziale. Allora, con un paio di forbicine da unghie piccole piccole lo punzecchio, a volte vado più giù e lo osservo per vedere le sue reazioni. A un tratto comincia a corrermi dietro, io faccio per scappare, ma ho le gambe rigide. Lui sembra deciso a finirla.

'lutto dipende dal trauma, non ancora avvertito coscientemente, del distacco da Milano. Ho letto una lettera di Tito a un amico dove scri­ ve “Sono nerino”. Mi sembra di stare in terra straniera, sono stanca di parlare un’altra lingua. Simone non l’ha neppure supposto e mi ha voluto subito con sé in questo détour di campagna-mare, quando avevo bisogno di consolidare una radice, anche piccola, a Roma. Adi viene in mente la ricchezza che ho lasciato a Milano, quel telefono che squillava continuamente, quelle voci femminili, che fantastica sorpresa ogni volta (c’erano anche le scocciature), ma che meraviglia era l’universo per me. Simone adesso si è alzato e mi ha chiamata “Vieni a letto, sennò sarai stanca domani”. 6 ott. Quando sono andata a letto Simone mi ha abbracciata “Come sei fatta bene! Sei fatta tanto bene! L’unica cosa a cui tengo è il rap­

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porto con te!”. Ma è incredibile come è abitudinario: dopo le com­ mozioni, subito il tran-tran. Oggi mi diceva che quando sono stanca drammatizzo e durante le mie filippiche faccio persino gli occhi stor­ ti! Mi piace quando scherza, anch’io avevo voglia di scherzare. 7 ott. In fondo Simone è stato con Olive quando io ero a Boston per farmi operare presumibilmente di cancro, quindi può considerarsi abbastanza disinvolto, almeno quanto dopo lo sono stata io con lui. Gli ho precisato “Tu hai avuto il tipo di incontro relativo al tipo di rapporti che eri solito tenere con le donne, e io altrettanto con gli uomini: per me una scopata e via non avrebbe senso perché quello che mi piace è l’intimità e il contatto con faltro”. Ma Simone non ha superato la cosa, l’ha accantonata: appena se ne riparla, la ferita si riapre. In più gli brucia il lato sociale. E già la seconda volta che mi ripete di sentirsi insoddisfatto per avere mantenuto le amicizie fem­ minili troppo in superficie durante il nostro rapporto. A me sembra però che ha mantenuto tutte le sue relazioni troppo in superficie. Adesso che abbiamo parlato concitatamente, per quanto sgradevole possa essere stato, lo sento più vicino. A Simone posso dire tutto e mi accetta, questa è la base del mio benessere con lui, però ha finito per adagiarsi su di me: sa che io vaglio ogni particolare, che sono all’er­ ta, allora mi lascia sempre l’iniziativa. Ma mi accorgo di agitarmi troppo, spesso calco le tinte e alzo la voce, sono tagliente, grido per il timore che un’osservazione passi inavvertita. Come desidero il parlottare tranquillo con Sara fino a tarda notte e la mattina presto ancora prima di prendere il caffè. Con Simone abbiamo tutta la giornata, tutta la notte, ma il silenzio è una specie di gramigna che rende selvatici i nostri campi. D’altra parte ho bisogno della pace che lui può darmi, dei sonni sereni caldi, dello stato di relax. Tutto può eccitarmi, quasi niente può calmarmi. Perciò lui è prezioso per me. Il mio guaio è che tendo a sovraccaricarmi di stimo­ li, sono un accumulatore e rischio sempre di scoppiare: Simone mi fa trovare una condizione distesa. Però devo alternarlo con momenti ricchi di stimoli sennò ho proprio una caduta di potenziale. Ho intravisto un modo di stare con lui di cui posso essere contenta: non devo aspettarmi una continua riflessione da parte sua, ma ac­ cettare che avvenga in modo intermittente e con delle interruzioni anche proprio sul più bello. Avendo tutto il tempo possibile a dispo­

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sizione non si può aspirare a riempirlo come quando è contato. Ho chiesto a Simone dei suoi amici. Lui ha cominciato dicendo che ha cercato amici fra i ricchi piuttosto che fra i poveri. L’ho interrotto dicendo che non deve farmi un saggio. E vero però che Simone è molto più interessato di me ai fatti esterni perché deve provvedere alla sussistenza, quindi conoscerli a fondo gii è indispensabile. Ed è più ideologico perché si sente pieno di responsabilità - storiche, cul­ turali, economiche ecc. - Non è libero di essere come gli viene. E prima di tutto un individuo sociale, fatto per inserirsi nella società (o controsocietà, comunque non per restarne fuori). L’unica via d’uscita era la religione che si occupava della liberazione. Sono sulla spiaggia è ottobre il sole non brucia riscalda l’acqua è gelata tonifica. Simone e io ne godiamo ci abbronziamo corriamo e sdraiati sembra che dormiamo.

8 ott. Ho sognato a lungo, ricordo solo la fine: Sono a casa con mia madre, in via Masaccio. E mattina e voglio telefonare a Sara. Nel caso fosse troppo presto chiederei al marito “Disturbo?”. Così posso provare, no?

Sara mi manca per dire tutto e ascoltare tutto da lei, ma anche le altre mi mancano. Ora scrivo mentalmente una lettera a Paula, ora a Isa (“... la simpatia che avevo per te si basava sul fatto che intuivo la tua infan­ zia infelice e torturata”)... Che vuoto non averle vicino! Potrò dirglielo quando andrò a Milano. Non aveva senso continuare a stare lì: avrei rischiato di fare di loro, di Sara in particolare, tutta la mia vita, mentre devo rientrare nel mondo. Devo riprendere tutti i rapporti nel mondo. Dicevo a Simone che, senza accorgercene, siamo arrivati al massi­ mo del confort cui mai avremmo potuto aspirare per vivere. All’Elba

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era un sogno: proprio come nei sogni stavo su un’altura profumata di erbe, disabitata, e davanti avevo il mare calmo, luminoso, il mare aperto, e tutt’attorno il cielo. Poteva benissimo essere l’ingresso del paradiso. Mi viene in mente che l’allegria, proprio l’allegria con i piedi per terra non fa parte di me: l’ho assorbita da Ester, da Sara, mi conta­ gia, la assecondo, ma quando sono sola sono sempre un po’ smarrita, disabituata, perduta nelle mie sensazioni. Cara Sara, che sta succedendo? Non mi scrivi? Oppure qui il postino non aveva ancora il mio nome.

9 ott. Cara Sara, anch’io come te, avevo il mio segreto: era questa esperienza

del tentare senza riuscire, del cercare senza trovare, del parlare senza risposta. Ma di tutto questo a me era rimasta una sensazione di sofferenza inspiegabile perché sul piano “visibile” riuscivo, trovavo, avevo risposta. Mi rendevo conto che per me si trattava di incontrare gli altri, niente di quello che facevo da sola portava a un traguardo, a un’identità. Tutto era subordinato ai rapporti umani. Così quando ne avevo (era troppo importante per me per non essere esigente, quindi mi accadeva di rado) ci mettevo molto e andava a finire che davo troppo spazio all’altra persona e tenevo il mio segreto, tanto più logorante in quanto restava un segreto anche per me stessa. Era il modo migliore per fallire, ma alla fine per avere ragione della paura di fallire. Comunque ho constatato che la buo­ na volontà è un segno. Però non so più che dire. Mi piace parlare con te. Anche questa volta sono partita in tempo così non mi sono accanita con le amiche e non ho constatato troppo brutalmente che non avrei saputo cosa fare d’altro.

Da una lettera a Raffaele: In fondo Roma è troppo “vissuta” per me: detesto la saggezza in anticipo. Non so perché dico questo, forse perché mi sento più saggia c non sono convinta che sia un bene, anche se non esserlo è solo inutile e faticoso. Comunque ovviamen­ te è un bene.

12 ott. Ripenso alla lettera con cui ho risposto a Sara. Ci trovo di­ verse contraddizioni. Un tempo me ne sarei preoccupata, adesso le accetto perché riveleranno a me qualcosa da approfondire, sono una spia della complessità della mia natura e della inadeguatezza dei ra­ gionamenti. Mi chiedo se Sara ha già incontrato Claudius. Per adesso

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vorrei che non fosse ancora successo e nello stesso tempo vorrei che lo fosse. Temo di capire che un’intesa migliore non è stata possibile per mia immaturità, confusione, vigliaccheria. Mentre adesso penso che non è stata possibile soprattutto a causa sua dato che non intendeva farsi un problema di se stesso. Comunque i miei dubbi me li porterò nella tomba. Sono venuti i miei fratelli a Turicchi. Emilio, sbalzato dalla situazione del golpe cileno a Firenze, dove mio padre gli ripropone ancora una volta la ditta, è sfiduciato. Rientrando in casa ha sentito che “niente è cambiato”. Questo dopo avere fatto lo spericolato, il vagabondo, l’avventuroso dalla Nigeria al Canada dal Sahara al Cile. Torna, e gli si presenta un solo problema: come guadagnarsi da vivere. Per for­ tuna non sono nata uomo, forse sarei riuscita a mettere insieme uno stipendiuccio, ma non ad avere tutto, tutto quello che desidero, come adesso. Sono nata donna e ho sofferto anche molto, ma almeno non avevo da pensare ad altro. Il poter pensare a me stessa anche a lungo mi portava al punto che toccavo il fondo, e risalivo. Guai se intorno a me avessi avvertito, oltre la prigione invisibile, quella visibile con orari, colleglli, formalità, prestazioni, rendimento, interesse, aliena­ zione. Per fortuna non sono un uomo; mi dispiace per i miei fratelli, meritavano di essere donna anche loro. Forse per questo mi viene da ripercorrere le passate difficoltà, per bilanciare il possibile senso di colpa. E mi ripeto l’età, quarantadue anni, non sono più giovane, avrò diritto a avere quello che ho! Magari a un altro non farebbe né caldo né freddo. E buffo essere in cima: non c’è niente al di là. Simone non Gene contagiato dai miei malumori e disfattismi: forse non mi aiuta a capirli, li considera temporali passeggeri inerenti al mio carattere, però mi aiuta a non tenerli dentro. Non ho mai pensato seriamente a come il problema economico ha condizionato la mia vita. Ho minimizzato quel fattore, ho avuto fi­ ducia. Certo però che dopo il primo incauto passo con Raffaele, mi sono guardata bene dal ripeterlo. Questo senza avere fatto nessuna scelta cosciente. Solo, guardando le mogli dei miei amici, mi dicevo “Non potrei mai fare da supporto a un giovane artista che deve farsi strada”. Senza pensare che io avevo già fatto la stessa cosa per uno non più giovane, non artista e neppure così fraterno con me.

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15 ott. Venendo in macchina dalla campagna, sedevo con occhi se­ michiusi pensando al giorno prima quando erano venud a vedere Turicchi Emilio, Luisa, Nicola e Riccardo e avevamo parlato della ditta di papà. Si è ventilata l’ipotesi di un settore giocattoli che Emilio potrebbe ideare e costruire e nostro cognato Sandro, che sta apren­ do negozi dappertutto, potrebbe vendere. Allora avevo l’espressione carica di tutte queste prospettive, oltre alla felicità per Turicchi che è sempre più bella, così che Simone mi ha chiesto “Sei in sollucchero?”, che era proprio la parola giusta. Con Lamberto ci scambiamo un sorriso e io gli dico “Ci vediamo in campagna”. Poco dopo un’amica, femminista (non esistente in realtà), mi rivela di averlo co­ nosciuto: magrissimo e molto delicato. Lui le aveva detto una frase melensa “Si vede che sei sincera”, senza alcun senso di humour, da cui non lo riconoscevo. Usciamo da una casa, ma una vecchia non vuole e ci inganna subdolamente. Però Tito e io stiamo attenti a non infilarci in cui di sacco e finalmente arriviamo in strada. Lì c’è una folla a piedi a cui ci mescoliamo. Una signora fa uno show personale ballando e Tito, molto disinvolto, balla con lei. Tito e io dobbiamo prendere il treno e lasciare una Milano notturna, strana, teatrale. Però siamo pedinati: un volto di uomo intravisto per strada è poco rassicurante, meglio non andare a casa a prendere i bagagli, e filare invece direttamente alla stazione.

Ieri T'ito si è lamentato che qui a Roma non è mai freddo mentre a Milano sì, e se piove qui smette subito mentre a Milano va avanti per due o tre giorni. Però diceva “Che bellezza, essersi tolto l’incubo del­ la scuola”. Questa sperimentale gli piace. Invece non gli piace: oggi è tornato a casa annunciando che vuole cambiare e andare in un’altra. La testa mi gira. Nicola esordisce così “Chi ha introdotto in casa nostra il mito della cultura? Tu e Lucia, noi eravamo tipi più pratici come papà”. Mi sono innervosita del suo revanchismo: vuole dimostrare che lei non aveva il mito della cultura e che architettura è “pratica”. Le ho detto che io cercavo degli sbocchi, volevo capire cosa mi succedeva, forse agli altri appariva che avevo il mito della cultura. Per me erano ope­ razioni vitali. Posso avere preso molti abbagli, ma certo non ero tipo da gingillarmi con i problemi. Per Nicola la vita è ancora una specie

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di favola, se ti organizzi bene, se elimini gli elementi di disturbo, se sei efficiente. Invece io stamani pensavo che questa smania di mettere al mondo dei figli è un po’ incosciente. Quanto a me ormai ci sono e andrò fino in fondo, finché vedrò che tutto è inevitabile e non si scappa, ma non capisco perché debbo farlo fare anche ad altri. Ero giù stamani e, dicendoglielo, non sapevo superare il suo stupore, il suo disagio, e mi bloccavo. Lei è depressa quando fisicamente non sta bene, ha concluso alludendo al mio mal di testa. Chissà perché mi privo delle cose quando vanno bene e fuggo via è come se non voglio viverle troppo per non consumarle e farle restare in me. Questo mi appesantisce forse ma mi popola così non resto schiacciata del tutto dalle distruzioni della vita. Cara Sara, mi sento così, che qui non ci appartengo ancora. Milano ormai l’ho lasciata... E un momento ritornante nella mia vita: sbarco in un posto ma in re­ altà non sono più da nessuna parte. Così riesco a combinare la mia sparizione e a effettuare il distacco. Di sicuro ho lo stesso sguardo verso l’alto, lascio crescere la stessa penombra, mi ritiro dentro di me come quando ero in collegio o a casa o a Parigi o a Roma o a Gavinana o a Lido di Camaiore o a Milano o a Urlo o a Forte dei Marmi o a Minneapolis o all’Elba...

Ho nostalgia. So che passerà, cara Nicola, so che ritornerà, ma ades­ so sono infelice, domani sarò felice, non ora. L’unica vitalità è aspet­ tare come tutto questo buio si dissiperà. Mi ha chiamato Federica: è a Milano. Sara è a Parigi per un giorno. Io mi sento fuori. Pensano di ripubblicare i miei libretti: come tutto ciò è lontano. La novità è questa: non vorrei essere un’altra neppure fatta da me. Sono sempre la stessa, mi vengono le stesse parole, le stesse sensazio­ ni, gli stessi pensieri. Sono lì, più impassibile semmai. Non ho diver­ sivi né sdegno inconfessato. Finirò suicida?

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17 ott. Simone mi dice che gli sembro malinconica come se non inten­ dessi più fare fronte all’angoscia stessa che c’è nella vita: che lui crede nella distrazione, è bello distrarsi con l’arte, nei rapporti umani non ci spera come in qualcosa di risolutivo, vuole avere un rapporto intenso con me, per il resto “brucare” gli basta. Di sé dice “Sono un’animella che si contenta facilmente”. A priori mi sento convinta e rimessa a po­ sto dal suo senso della realtà, della misura, dalla sua fantasia. A priori lo so esistere più a suo agio di me quindi più a buon diritto di me. Però oggi era angosciato “Sei tu più angosciato di me, ora”. Perché io sono un palloncino che tutto travolge e tutto fa volare. Quello che non mi riesce è comportarmi con aplomb, come un sasso. Cercando di capire la mia mancanza di senso deH’orientamento Simone diceva che io non ho memoria di un punto fermo precedente; che è vero. Quando è an­ dato a studio mi sono commossa, un po’ a scoppio ritardato, perché era una delle rarissime volte in cui ha preso lui la parola su di noi. Ho pro­ vato il bisogno di dirglielo. Appena mi ha chiamato al telefono per cose pratiche l’ho fatto, con una voce imbarazzata di bambina mi è parso. C’è stata una pausa, poi ha ripreso “Lasciami fare queste telefonate, ho paura di non trovare più nessuno”. Ci allontaniamo cercandoci? Mi rendo conto come si diventa reazionari. Per pessimismo anche giustificato, come Malraux, ad esempio, che da rivoluzionario è pas­ sato a rinfocolare tutti i miti borghesi. Invece io sono disponibile, però, come dicevo a Simone, visto che gli altri me lo negano, per forza devo riconoscere che è una disponibilità ingiustificata. Infatti avverto le possibilità negli altri, poi però loro le smentiscono. C’è dif­ ferenza con quelli che invece partono dalle impossibilità degli altri e ci tengono. Questi ultimi sono i veri reazionari anche se, piano piano, non stando attenti, si può passare dalla prima alla seconda categoria. Da ragazza ero nichilista, anche adesso lo sono: non mi inganno nelle trappole progressiste. Mi accontento di una briciola, ma che sia au­ tentica, non ammetto surrogati o dilazioni. E curioso come la spavalderia ci possa essere anche nel dolore. Ho avuto una lettera di Irene da Buenos Aires dove sfodera la sua soffe­ renza con una certa enfasi ricattatoria e chiede, pretende aiuto. Come darglielo? E poi lo vuole, oppure vuole solo mettermi nei pasticci? 18 ott. Queste cene romane sono terribili, sia per quanto si mangia che per quello che significano. Per fortuna ho ritardato dieci anni ad

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affrontarle. Però Simone stamani era smarrito del mio malumore, non ce la faccio in situazioni così grottesche. “Le cene, guarda, non sbagli se dici che sono occupata”. Simone è tornato sul suo tema che io odio la gente. A lui interessano tutti per quello che possono informarlo. Capisco che è una funzione importante quella di essere tenuti al corrente gli uni con gli altri di mostre, storie, spostamenti, umori, prezzi, prestigi... Ultraimportante. Ha dichiarato “Non penso che incontrerò Dio”. Poi mi è venuto vicino - io stavo ancora a letto e ha cominciato a baciarmi con dolcezza, e abbiamo fatto l’amore. Che bello il sesso. E proprio una porta di cui si dimentica ogni tanto l’esistenza (e questa è la sua magia), che si apre su un altro mondo. 20 ott. Ho letto che Pasolini considera un suo amico sottoproletario, diventato con lui attore e regista, l’uomo più intelligente che conosca insieme a Moravia. Pasolini è andato a cercare ragazzi di vita per co­ municare e farsene degli amici, come me con il femminismo, però poi sono rimasti dei miti reciproci sotto il mito paterno di Moravia. L’ami­ co fa le sue sceneggiature con Pasolini, gli dice le sue idee e l’altro lo ca­ pisce perfettamente. E un po’ come tra me e Sara: la fiducia che lui ha dato all’amico gli ha permesso di volersi e sapersi esprimere. Però forse l’omosessualità consiste nel non volere uscire l’uno dal mito dell’altro per poter contare sull’inverso e in fondo per potersi mitizzare. Sono da una gallerista con il marito vestito teatralmente da cacciatore. Si esibi­ sce in un tiro senza prendere il bersaglio. Si fa c fa pena agli altri. C’è un altro uomo insieme alla gallerista, forse Simone: cercano di trattenermi con molte gentilezze. Provo dei vestiti, ma non vanno bene: l’ultimo è un fondo di magaz­ zino, del ’62 mi pare, molto fuori moda, così strano: la vita di serpente, la gonna di pelle rigida e arricciata. Mi guardo allo specchio: c’è una illuminazione da quadro del ’600. Sembro un’altra.

21 ott. Sono con due giovani, uno è Riccardo, un terzo fa da consigliere. I

due vogliono sposarmi, si illudono entrambi di essere il prescelto. Ma l’arbitro si rivolge a uno “Sposala tu” e quello felice lo ringrazia. Il futuro marito comincia dicendo che non bisogna assolutamente tradirsi l’un l’altro e che lui non lo farà, a queste sciocchezze si impegna di rinunciare. E un giovane banale, ottuso nella sua presunzione. Io lo guardo fumando tranquillamente, non mi spreco a parla­ re, ma è chiaro che non sposerò nessuno.

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Io correvo le nuvole correvano non raggiungevo mai le nuvole. Adesso cammino col mio passo e guardo le nuvole che corrono.

Le strade buie, fredde di Milano erano i corridoi bui, freddi del colle­ gio dove camminavo parlando sottovoce con le amiche. Come allora, la mia vita era esaltante nella comunità, ma è durato poco. Correvo con la paura di non fare in tempo. Mi sono fermata tutto corre velocissimo portandomi con sé.

A me interessa addentrarmi nel segreto della vita, e mi addentro via via che faccio delle scoperte nella mia vita. A Simone invece interessa creare. Al bivio abbiamo preso vie diverse perché eravamo diversi. 25 ott. Ho avuto un’amica, Rita, compagna di banco al ginnasio e in prima liceo, una ragazza allegra, pepata, simpatica a tutti. Mi chia­ mava Carlotta, Carlottina, mi stimava e mi sfotteva, potendo. Dopo essere bocciata, si era stabilita la consuetudine che io le dessi delle ripetizioni di italiano a casa sua. Andavo volentieri, non avendo altro da fare. Un giorno, prima di Pasqua, mi dice pressapoco “Sai, non vedevo l’ora di ricambiarti delle lezioni, ecco, tieni, tanti auguri” e mi dà una scatolona con dentro un fazzolettino del genere da testa, ma di misura da naso, un francobollo, non particolarmente carino, non particolarmente scelto. Quando si è sposata le ho regalato la cucina a gas con veri soldi miei guadagnati a dare ripetizioni: è stato diver­ tente andare a comprarla, lei era eccitata come una bambina, io lo ero di riflesso mentre non capivo quasi perché la comprava. Quando ha partorito, sua madre mi ha chiamato di mattina presto “Vai in

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clinica, Carlotta, Rita ha partorito ed è arrabbiatissima”. Mi sono precipitata: l’ho trovata con il viso pieno di puntini rossi, dei capillari schiantati nello sforzo di spingere fuori il bambino, il seno gonfio e duro come un sasso. Le avevo portato qualcosa per il neonato e un li­ bro da leggere. Mi ha raccontato un po’ di quello che le era successo: era convinta che nella confusione la levatrice le avesse tagliato anche un pezzetto di intestino. Orrore, mille volte orrore. Le ho chiesto se le sarebbe piaciuto ascoltarmi mentre leggevo: non ne potevo più di quella macelleria, quanto al bambino sembrava che non interessasse né a lei né a me che avevo passato la vita a vederli spuntare nelle culle. E ricordo benissimo che ho scelto la storia di un ragazzino e di una ragazzina (forse di Dos Passos, comunque di un americano) che si volevano bene e parlavano dei loro segreti dentro una barca rovescia­ ta sulla riva. Io mi sono subito immedesimata mentre Rita, con mia meraviglia, sembrava distratta. Sebbene appena più giovane di me, Rita aveva affrontato la vita pri­ ma di me, e questo mi faceva pena, ma anche rabbia. Però tutto il mio mondo di sensazioni, di pensieri lei lo subiva come una “ripetizione”, qualcosa che ha a che vedere con la scuola, ma non la coinvolgeva: appena sola e disinibita andava a braccetto con un’altra amica con cui sbrigava tutte le cose pratiche. Non so perché mi è tornata in mente pensando al mio rapporto con Ester: lei aveva fatto la pittura, dunque aveva raggiunto il massimo, per me allora, della realizzazio­ ne, però sentivo lo stesso fascino per la ragazza cordiale, disarmante con quell’aria di dire “Perdonatemi se non sono all’altezza”, e un che di furbesco “Io me la cavo sempre, sono un tipino!”. Come Rita mi lusingava e poi buttava lì un’insinuazione che mi feriva, però sorride­ va bonariamente “Non prendertela”. L’ha detto Ester alla fine, ma avrebbe potuto dirlo Rita “Basta, non pretendete da me dei pensieri straordinari, sono stanca di questo”. La relazione con Simone è paralizzante perché c’è un conforto con­ tinuo, non sono mai sola troppo a lungo in modo da covare pazzie, si parla, si superano i punti morti, la paura sparisce oppure si rincan­ tuccia in qualche angolo. Con Nicola ci vediamo raramente: tra figli, marito, lavoro è occupa­ tissima. Adesso sta costruendo la nuova sede della ditta di suo marito, comincia a raccogliere dei riconoscimenti per la sua attività, è radio­ sa. Però non comunica, parla sempre delle frustrazioni infantili, ma

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niente che riguardi l’oggi. Stasera sono andata a cena da lei e, come sempre, vedendola con la sua aria decisa mi si è aperto il cuore e tutte le mie difficoltà mi sono sembrate esagerazioni e fantasie. Eccola lì, sorridente, contenta di vedermi, di parlarmi. Poi, poco a poco, ho co­ minciato a uscire da questa fase di certezza: con il banco della cucina nel mezzo mi sembrava che le mie parole non le arrivassero bene però non mi chiedeva di ripetere. Ho detto a Simone sottovoce “Non sente quello che dico”. Lei ha ripetuto meccanicamente “Non sento?”. E assorta altrove. Simone era molto emozionato delle mie uscite duran­ te la serata “Sei tanto onesta, hai detto tante cose a tuo svantaggio”. Abbiamo fatto l’amore molto teneramente. Dormendo al pomeriggio in casa mia, Federica ha sognato che le dicevo di sapere benissimo l’inglese mentre le pareva di ricordare che le avevo detto di non saperlo. Cioè ha avuto l’impressione che mentivo. Poi, parlando con Nicola, ho avuto la sorpresa di capire che, al contrario, secondo lei in quel sogno Federica mi mitizzava: le ero apparsa superiore a quanto le avevo comunicato di me. Avendo io subito interpretato come un’accusa, ho messo in evidenza il mio solito meccanismo, che temo mi si consideri colpevole. 30 ott. Ricordo quando Sara mi ha detto “Guarda che tutti i tuoi rapporti finiscono nella rottura”. E infatti Marion, Ester, lei stessa. Però adesso capisco che per esempio, Ester è proprio lei ad avere la vita seminata di ecatombi, non io, a cominciare dal marito per finire a un amico licenziato come un cameriere, a Vanda prima lusingata poi cancellata dall’orizzonte con un deciso colpo di spugna, ad altre ami­ che. Era stata Ester a proporre nel gruppo il tema di autocoscienza “Come fronteggio le persone mitizzate della mia vita”, e aveva detto che le demoliva dentro di sé finché ne era completamente immune. In un altro momento aveva confessato l’istinto di impadronirsi degli altri in un atteggiamento un po’ “mangereccio”, come volerli man­ giare. E evidente che quando hai spolpato non rimane che buttare via l’osso. Trovava detestabile continuare i rapporti con un ex di qualsiasi genere. Proprio stamani ho ricevuto una lettera del mio ex-marito: mi ha molto commosso, e ho capito che possiamo probabilmente scambiarci messaggi e aprirci adesso che non siamo accaniti a dire le proprie ragioni e a farci accettare l’un l’altro.

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1 nov. Sara mi chiede “Chi è stata tua madre? Io non ho difficoltà a dire che sei stata tu”. Anche per me è stata lei perché prima ave­ vo il vuoto, oppure amiche come Ester che era solo materna. Dovevo risalire a suor Caterina per ritrovare la madre. Non avevo capito che la mia difficoltà con le donne derivava dal fatto che con me si inferiorizzavano, così mi sono buttata nel femminismo e si sono inferiorizzate ancora di più. L’idea di cambiare le cose sembra esimere dal capirle. Per me cam­ biare le cose voleva solo dire non accettare l’incomunicabilità. Pro­ vocare incontri sul tema del disagio. Simone mi ha chiesto come mai lui si sente completamente soddisfatto da me mentre non altrettanto pare sia io. Ho risposto che una delle ragioni è che lui ha dieci anni di più, così mi costringe ad affrontare sensazioni, esperienze, senso della vita propri di un’età diversa dalla mia, e forse questo mi immalinco­ nisce un po’. E rimasto male e ha esclamato “Mollami per carità”, ma io non voglio mollarlo, solo tirare fuori questo problema. Poi ha dato un po’ di matto dichiarando che può far ricorso ai privilegi del maschio e prendersi una donna molto più giovane di me, anzi può comprarla ecc. Adesso che scrivo sta leggendo il “New Yorker” un po’ sostenuto, ma sono sicura che riflette. Con Simone sono brusca o violenta, può sopportarlo, così mi rivelo completamente e divento cosciente dei miei contenuti. Comunque con lui ho un precedente, mio padre; mia madre no, la vedevo troppo fragile. A suor Caterina raccontavo ciò che non andava di me, le mie vittorie e sconfìtte, ma non avrei mai potuto aggredirla, cantargliele. Oggi è importantissimo quello che ho capito: siccome ero più grande di mia sorella lei mi sentiva sempre più avanti, così covava ostilità per me. Io non potevo rendermi conto di quella ostilità, così pensavo di avere fatto qualcosa che non andasse, per esempio non essere stata abbastanza attenta, delicata, buona consigliera. Tanto più che lei, essendo sempre più bambina di me, mi sembrava più indifesa, più ingenua. La mia maggiore esperienza mi si presentava anche come una colpa. Mentre la sorella maggiore disturba l’altra sorella con la sua superiorità, la sorella minore disturba la maggiore facendola sen­ tire in colpa. In colpa per essere più avanti. Questo è il senso di quel pezzo mio che Sara riporta alla fine del suo libro dove dico che devo imparare da lei, che lei è più autentica e io compromessa nel mondo maschile. Ugualmente, rispetto a Lucia a sedici anni, io a diciotto e

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mezzo mi sentivo ahimè più temeraria, più capace, più lontana dalla zona “innocente” dell’infanzia. Ma allora il recupero della parità im­ postato dalla minore è una castrazione della maggiore. Ieri Sara mi parlava come discolpandomi della mia superiorità che è un dato di fatto molto comprensibile: tra l’altro sono, appunto, mag­ giore di età. Dunque era questo che cercavo: di liberarmi dal senso di colpa dovuto all’essere stata in gamba rispetto ad altre donne più passive, pigre, impaurite, o semplicemente più giovani. La minore subisce la maggiore, ma cerca di smentirla per liberarse­ ne. Così io sono stata guardata con sospetto da Lucia per tutto quello che ho fatto. Tacitamente sottintendeva le interpretazioni peggiori. Ho dovuto ignorarla, fregarmene; ma il suo rimprovero pesava su di me. Quando da ragazzina mi appassionavo di religione, e in casa litigavo con il padre senza cedere mai scatenando così il putiferio, quando cominciavo a truccarmi, a uscire con i ragazzi, a fare discus­ sioni con loro, ad avere rapporti sessuali, ad andarmene da casa, a diventare comunista, a convivere con Raffaele, quando sono rimasta incinta, quando ho voluto sposarmi in comune, quando ho trovato rispondenza con gli artisti, quando mi sono separata da Raffaele, quando mi sono messa con Simone, quando ho detto che il femmini­ smo non c’entra con il marxismo, quando ho affermato che la clitoridea non è nevrotica, ma più autonoma ecc., ogni sbocco mi veniva contestato dalla minore che seminava la mia strada di dubbi. Così per me è stato durissimo quando ho avvertito che anche Sara dubi­ tava di me, ma finalmente ho cominciato a prendere coscienza del problema, mentre prima, siccome avevo così battagliato con l’uomo, credevo che fosse lui il mio principale problema. Avendo ammesso quanta insicurezza e tortura mi aveva inflitto Lucia, e l’anno scorso Sara, ho cominciato a liberarmene. Mentre Ester, e prima di lei Ma­ rion, si erano fermate alla formulazione di accusa con cui sembrava loro di giustificarsi della subita inferiorizzazione, quasi fosse un puro dato in perdita e non invece una implicita ritorsione. Sara come me voleva andare in fondo al nostro rapporto per vedere gli inganni in cui personalmente si è portati a cadere coinvolgendo l’altra perso­ na. Adesso capisce perché sono stata più con soddisfazione con gli uomini che con le donne, perché gli uomini possono sentirsi più alla pari se tu non ti poni in modo subordinato, possono avere problemi più simili nel senso dell’intraprendenza dell’esperienza del conosce­

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re, dell’elaborare. Adesso capisce anche che era inevitabile che le altre mi sentissero superiore perché veramente ero un po’ particolare come donna - un misto di affermazione di me e di rinuncia che mi arricchiva della spiritualità di entrambe le condizioni - e che io fossi una che stimolava le altre con aggressività, ma anche le accettava con dolcezza. Riccardo dice che ero paternalista con le sorelle, e Sara os­ serva che c’era troppa differenza di età e di esperienza perché potessi non esserlo. 3 nov. In campagna ho incontrato un’amica del tempo di guerra, quando ero sfollata lì. Ho provato verso di lei le stesse reazioni eli al­ lora: un leggero disagio per una sua durezza sotto l’aspetto cordiale. Si ricorda che quando i tedeschi avevano occupato il paese, noi due stavamo “in finestra” e io ho esclamato “Mi sento come un busso­ lotto”. Rideva ancora ricordandoselo proprio perché non capiva il motivo di quella frase; io stessa non ho idea di quello che intendevo, però mi è balenato il bisogno che avevo di esprimermi e il fatto che nelle formulazioni banali non mi ritrovavo. Però ho sofferto a lungo per questa originalità un po’ sballata. 4 nov. Papà al telefono mi fa gli auguri e dice ridendo “Santa Carla” (invece è San Carlo Borromeo). Rispondo sempre ridendo “Sei sicu­ ro?”, ma lui m’interrompe “Perché? Sei una brava ragazza”. Mi è pia­ ciuta la sua voce allegra e piena di energia, anche quella di mia madre era serena: lei si è subito accorta che avevo il raffreddore, che bella cosa la madre con il suo orecchio sensibile. Mi hanno promesso di venire sabato a Turicchi, devo dirgli di coprirsi bene, lì è freddo, non si scherza. Sono rientrata a Roma per vedere Sara oggi, ma anche perché non avevo abbastanza indumenti caldi. Non si fa viva ancora, ma sono tranquilla, semmai ci vediamo domani; e poi sono molto in­ teriormente felice. E venuta e abbiamo parlato tutto il pomeriggio. Come prevedevo ha già incontrato Claudius e come prevedevo anche lei ha avuto l’im­ pressione che a lui piaccia più parlare che tutto il resto. Le sembra un tipo onesto come suo marito, però molto stimolante mentalmente. Quando Sara gli ha detto di avere adoprato nel suo libro tutta una terminologia presa da me, lui ha risposto che, siccome esprimersi è così difficile, si ricorre a chi sa scrivere bene facilitato dalla cultura di

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origine, e io scrivo così perché sono fiorentina, ho fatto gli studi classici ecc. Dunque non vuole riconoscermi: questa piccola osservazione mi ha aperto tutto un orizzonte, mi ha dato quella conferma che lui ha sempre smentito. Adesso che Sara si è installata definitivamente al mio posto io sono definitivamente qui: non mi è dispiaciuto, anzi mi ha fatto piacere. Oggi mi diceva ancora che si è trovata bene solo con me in Rivolta e per un periodo con Agata che era mia amica, le altre erano capitate lì casualmente e sono rimaste indietro. Mi ha sorpreso che parlasse spregiudicatamente di questi problemi del gruppo con il suo attuale ragazzo, nonostante tutto io non ne avrei parlato. Certo, così rimangono arrières pensées, zone misteriose, cose non dette, ma come si fa a fidarsi. Via via che Sara mi racconta dei suoi incontri mi chiedo se ricomincerei a vedere quegli stessi amici; mi sembra così inconcludente quel­ lo che ho avuto con loro, solo uno scalino, su cui lei ha poi fatto il pri­ mo passo. Io ho consumato tutte le mie energie in quello scalino. Ma non ricomincerei: quella fase c’è stata, l’ho avuta fino in fondo, non posso tornare indietro, posso solo vivere l’oggi, diverso da quello di Sara. Devo afferrare il mio oggi, questa calma, questa voglia di niente che già non abbia alla portata. Invece ho voluto dirle quale è stato l’impegno maggiore della mia vita: quello di passare dalla frase “Mi sento come un bussolotto”, a una vera espressione e formulazione di me, dei miei problemi, delle mie sensazioni. Quella che gli psicologi chiamano “verbalizzazione”. Pare che i suicidi, spinti fondamental­ mente da incapacità a comunicare (e in giugno leggevo quel libro sugli adolescenti perché avevo il bisogno assoluto di ricordarmi la paura di non riuscire a farlo), siano nell’impossibilità di verbalizzare le loro esperienze interiori. Allora io avevo l’impressione di avere dato alle altre, a Sara il meglio di me, proprio questa verbalizzazione, che loro avevano accolto senza rendersi conto di che cosa gli era capitato nelle mani. L’argomento probante è che quasi tutte da Rivolta hanno preso forza per fare qualcosa d’altro, lavorare, cercare rapporti, eroti­ smo, contatti, viaggiare ecc., mentre io ho solo strappato la coscienza di non essere colpevole. Dicevo a Sara che, proprio perché l’ho pro­ vato, non voglio che l’uomo si senta colpevole a causa mia: solo nel sesso lo è, in tutta quella sua ostinazione a enfatizzare la vagina e a misurare la donna su quello. Ma nel resto non voglio. Per esempio, Simone, oltre a lavorare anche per me, non deve avere il senso di

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essere meno integro di me. Forse lo è, ma solo perché mi risparmia l’aut-aut della competizione e della sopravvivenza. L’anno scorso Sara era entusiasta di tutte le donne e così ciascuna sembrava potersi aprire e che l’altra avrebbe fatto altrettanto. Oggi dice “Sei tu e basta”. Suppongo che farà così anche con gli uomini, passata questa entusiasmante fase del primo contatto e della scoperta di tutte le potenzialità. 5 nov. Come potevo capire che si trattava di un rapporto superiore­ inferiore con le altre donne se non conoscevo quello alla pari. Mi rendo conto che Sara è la prima donna cosciente che conosco, fa una bella differenza! Prima avevo sempre l’impressione di essere un batti­ strada, adesso non più: sento che è autonoma, inarrestabile come me, e se oggi ho meno curiosità di lei (del settore dove lei indaga), posso benissimo rivedermi in lei alla sua età. Stamani sono scesa con Simone e poi siamo rimasti a chiacchierare in macchina a Piazza di Spagna. Una cosa che lo blocca è la paura che io vada con altri. Mi sembra che lui non abbia tanta voglia di andare con altre. Oppure si frena inconsciamente per paura delle reazioni a catena. Io ho la sensazione che gli uomini siano spariti dal mio oriz­ zonte, che strano, ma mi piace vivere questa oasi di pace con Simone, mi meraviglio di me stessa, ma è così. Adesso sono sola con lui e con Sara. Da ragazzina pensavo con entusiasmo al monastero e al mondo, due realtà contrastanti, come intuire che non sarei potuta restare fis­ sa in nessuno dei due posti, che avrei sempre avuto il rimbalzo. Ora sto rimbalzando verso il monastero, Turicchi, e anche la vita a due, se mi viene sempre in mente la fine di Un uomo senza qualità dove c’è una specie di vita estatica tra un uomo e una donna (fratelli gemelli). Ancora temo questa esperienza, Simone dice di no, che è pieno di de­ siderio di farla, e già è cominciata. Mi ha telefonato Piera: è qui da sabato, parte oggi, è stata da Ester. Sembrava un po’ giustificarsi “La prossima volta starò con te, è Ester che mi ha voluta, non potevo dividermi tra voi due”. Le ho risposto che probabilmente deve verificare anche il suo rapporto con Ester. Piera ha bisogno di chi le dimostra affetto, considerazione, premura un po’ coccolanti, però poi le rimane il rimpianto per un altro tipo di rapporto, che continua a rimandare. Quello che mi pia­ ce di Sara è il suo sfuggire a cose del genere: per lei io sono proprio il

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massimo anche di calore. Ha il mio tipo di calore dello sguardo, del capire, dello scambiare attimi e attimi. Con Piera sto bene, ci siamo viste, ma non mi sento veramente ricca, imprevista come con Sara. Per esempio, se dico qualcosa di saggio devo sforzarmi perché non venga interpretato come disfattista o rinunciatario. 7 nov. Lascio andare Simone a letto, io invece scrivo. Ho fatto la prefazione all’edizione spagnola dei miei libretti: ormai mi sembra così superato quel modo “ragionato” e “sintetico” di scrivere. Non sono entusiasta della prefazione, mi ricorda stesure un po’ stentate. In fondo io venivo dalla critica d’arte dove mi ero ridotta all’osso. Ho battuto la testa molto forte e mi è venuto un bozzo. Un tempo un fat­ to così non lo collegavo veramente a me: era un bozzo nella testa come un’acciaccatura nel cappello quasi, mentre adesso faccio così tutt’uno che sento un bozzo nell’anima, nel modo di riflettere. Da giovane uno si sente oltre il suo corpo, probabilmente da vecchi si è solo corpo. Ho parlato con Federica al telefono: vorrebbe fare tradurre i miei libretti in francese. Oh bella! Invece io provo il bisogno di mostrarmi più come sono, tirare fuori lettere, diario, poesie... Simone dice che Sara mi ha preso tutto, che io non mi rendo conto. L’altra sera era di pessimo umore quando è rientrato a cena, tardi perché gli avevo chiesto di rientrare tardi, e mi ha trovato con Sara. Ha cominciato dicendo di sentirsi “escluso” da noi, ma eravamo così stanche e lui così prevenuto che non c’era modo di affrontare la que­ stione. Convincerlo che non era vero non spettava a me, era affare suo. Però mi ha allarmata meno del solito, non è diventato un dram­ ma né una lunga seduta. A letto l’ho abbracciato tranquillamente e lui non ha fatto resistenza. Questi sono i vantaggi dello stare insieme. Comunque tra poco Simone andrà a Pietrasanta e poi a Milano. Che ne farò di questa vacanza? 8 nov. Nicola ha visto Ester, che è stata “molto simpatica”. Succede così quando si tira fuori tutto il lato negativo di una persona, dopo si è piacevolmente sorpresi nel constatare che quel lato ormai è quasi scontato - prima lo avevi ingigantito, dopo lo vedi appena - e viene fuori tutto il resto, quello che ti ha avvicinato alla persona in causa. Ho un momento di felicità: non voglio neppure muovermi dalla sedia per paura che passi, non voglio parlare per paura di sopraffare quella

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sensazione che nel silenzio è appena percettibile. Ma adesso è Tito che mi parla con una specie di vocione del mondo. Sono contenta di essere né giovane né vecchia così posso sentirmi a volte giovane a volte vecchia ho il massimo di estensione mai avuto. E al domani non penso. Sono contenta di Tito che suona il flauto e mi disturba di continuo. Che male c’è? Cosa ho da fare?

9 nov. Oggi ho mal di testa ma sono felice adesso sta passando e so che dopo è dolce. Turicchi mi accoglie col sole e la luna piena. Quattro muratori lavorano per me un idraulico lavora per me al mio monastero alla mia Versailles! Ho mangiato il mal di testa è passato ho dormito tra le braccia di Simone in un tepore giusto

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adesso è qui vicino a me fra poco sarò di nuovo fra le sue braccia in un tepore giusto.

10 nov. Sono stupida? sono superficiale? sono felice? sono troppo felice?

11 posto più bello del mondo doveva capitare a me, proprio a me per­ ché ne godessi? So che è regalato, ma so che il destino ha piacere nel regalare a persone così. Sono io che provoco e salto il fosso delle formalità. Oggi mi sono vista all’opera: devo offrire una possibilità a tutti quelli che non me lo impediscono, anche se non mi incoraggiano. Poi mi sento troppo strana, però devo tentare almeno una, no anzi due volte. 12 nov. Sara è piombata all’improvviso. Ero così contenta! Adesso è partita: sono altrettanto contenta. Non so cosa mi succede, è come se non avessi niente da dire. Sto bene con lei, mi capisce, mi accetta. Ma io sono ferma, gliel’ho detto. Seguo tutto il suo movimento come rivivendo il passato. Ma il mio presente è di un’altra natura. Guardo la fiamma consumare un pezzo di legno così un niente acceso brucia la mia giornata finché il pezzo è tutto fuoco senza fiamma calore e luce che non si può guardare.

Un momento mi sono sentita un po’ tesa, quando il ragazzo di Sara ha detto che ho scritto delle “cretinate” sul sesso. Sara era meravi­ gliata che mi irritasse. Infatti subito mi tornava la carica polemica.

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Lei dice “Non ti rendi conto quanto hai inciso, è pericoloso... con le donne te ne sei resa conto visto che ti sei addirittura ritirata da Mi­ lano”. E vero: per gli uomini non me ne rendo conto, come potrei? Non ho avuto una sola eco da parte maschile, solo insulti. Sara dice “Non ti sei disarmata abbastanza”. Certo, l’ho permesso a lei, perché almeno lei è partita avendo due teorie - quella maschile della vagina, quella femminile della clitoride mentre io avevo di fronte solo quella maschile per la quale ero nevrotica. Cioè “Non credete a quello che dice, la sua personalità è distorta”. Capito cos’era prima la questione del sesso? Adesso lei può parlare, può mostrarsi ora debole ora forte, come si sente. Sara sa che nessuno ha confutato la teoria dove io dico che la clitoridea è semplicemente “soggetto”. Se sarà lei a confutarla avrà solo dimostrato di essere soggetto. Le dicevo che forse se gli uo­ mini accettassero la teoria clitoridea sarebbe possibile per me essere vaginale. Non basta che io sia accettata da Simone: lui accetta me, non so quanto quella teoria. Sara è categorica “Se il mio amico non accetta te non mi sento accettata neppure io”. Le ho spiegato perché sono uscita con una teoria e non con le mie particolari predilezioni nel sesso: perché dall’altra parte c’era una teoria e tutta una serie di condanne per tipi come me. Ma come fa l’uomo a partire lancia in resta appena si sente in pericolo, inferiorizzato o rifiutato? Perché non capisce che è la stessa cosa che abbiamo provato quando ci hanno detto “Il vostro sesso è la vagina”, dimenticandosi di aggiungere “per­ ché all’uomo va bene così”? Ma la cosa che veramente mi dà fastidio è che Sara parli di me al suo amico, che cerchi di convincerlo ad apprezzarmi o qualcosa di simile. D’altra parte dice cose inesatte, come se per me il sesso fosse una questione da signorine. Io non sono arrivata alla clitoride dalla masturbazione, ma dalla passione erotica. Sara ha ripreso l’argomento dei soldi che le ho dato a giugno. Dice “Non mi sembra giusto tenerli, però ne ho bisogno, li ho in banca: li rivuoi indietro?”. A proposito delle sue poesie vuole pubblicarle. Sono d’accordo. E per pubblicarle in Rivolta. Propongo “Facciamo una nuova collana, così non mettiamo più ‘a cura di Carla Lonzi’”. Però poi mi dice subito che c’è da scegliere, correggere, decidere, andare dal tipografo ecc. Allora lasciamo “a cura di”. Abbiamo commentato il fatto che Diana sta per pubblicare un libro di foto sulla clitoride. E senza dirmi niente per non dipendere da me.

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Mentre le prime idee le ha prese proprio da me quando, in un viag­ gio in treno dirette a Genova insieme ad altre, le avevo raccontato di essermi talvolta rasa il pube, mi era piaciuto renderlo visibile come nelle statue greche. Tant’è vero, dicevo, che sarebbe stato interessante fare un libretto di iniziazione sessuale solo per bambine. Poi Diana fa i calchi del suo pube, fotografa la clitoride e le statue greche. Però non mi fa vedere il libro. Cosa posso aspettarmi? Per fortuna si è presen­ tata una come Sara altrimenti sarebbe stato ben deludente il raccolto di Rivolta, dopo tutta quella fatica. Ho finito per essere di malumore: parlando con Nicola ripetevo “Bisogna fare questo e quello” per evi­ tare libri di Rivolta che scadano di livello, escano fuori strada. Poi mi sono venute noia, preoccupazione, amarezza per cui ho capito che l’unica cosa veramente eccellente che posso fare è starne fuori, non intromettermi. Istantaneamente il mio pensiero è corso a Turicchi, a quella pace fuori del mondo, al gioioso ritiro. Certo che il cadere del­ le illusioni c’è per tutti, però se uno non insiste per rimetterle in pie­ di, sostituirle, ricaricarsi, si trova l’animo libero, può godere di ogni minimo aspetto della vita, soprattutto può sentirsi parte della natura. Che non è una rinuncia, ma un’acquisizione. 13 nov. Nel dormiveglia Simone mi ha chiesto “La visita di Sara ti ha turbata?”, poiché non dormivo e avevo l’aria di riflettere con tri­ stezza. Quando sono nervosa mi giro, invece stavo ferma ferma. Mi sento paralizzata dalla constatazione del mondo com’è: mi ritorna la frase di Sartre che siamo “una passione inutile”, ora la passione è finita, rimane solo il senso di inutilità. Così non era Sara che mi ave­ va depresso, ma Diana con il libro sulla clitoride e tutti gli echi di un femminismo che frana senza ispirazione e riproduce gli accanimenti sui beni che consolano quando l’essenziale è perduto. Il mondo non ha luce fa venire in niente di salvarlo non ha luce e non vuole saperne che qualcuno ce l’abbia.

A momenti parlare con Sara mi piace moltissimo, l’abbraccerei; a momenti mi annoio un po’ come quando si dilunga sul suo rapporto

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con l’amico. Proprio non mi interessa una “storia d’amore”, la sento scontata: una donna innamorata di un uomo, cosa può succedere? E incredibile, interessano solo le esperienze non ancora vissute. Con questa spinta volo verso la morte. C’è di più: Sara, Simone sono il massimo, non vedo niente dopo di loro, così in loro vedo anche il limi­ te della mia vita. Però in lui sento l’affetto, così grande, generoso, che porta un senso di pace, mentre Sara non può permettersi di volermi bene, per ora: sono un suo punto di risonanza di confronto, però av­ verto anche il bisogno che ha di eliminarmi. Tutta la vita è un seguito di influenze reciproche, però si vuole non avere bisogno di nessuno. Allora tendi a liberarti di quelli che hanno più peso per te. Con Sara ne abbiamo parlato. Il suo amico le ha detto che se lei cerca sempre sé negli altri non capirà mai gii altri. Proprio questo suo atteg­ giamento aveva provocato la crisi fra noi a giugno. Ma non posso dire che la cosa sia del tutto risolta, perché le manca il senso di me come essere a parte, non ha curiosità in quella direzione. Il nostro rapporto marcia ancora sull’essere l’una la verifica dell’altra. Però proprio ieri le dicevo, stando sedute su una panchina di Villa Borghese “Prima volevo fare tutt’uno con te, avevo bisogno che tu mi capissi per avere finalmente diritto a essere quello che sono, poi ho sentito che è impos­ sibile e così ho potuto andarmene da Milano: ora non ho più l’assillo, però ti voglio bene e sono contenta che ci sei”. Simone legge le poesie di Sara, dice “Che c’entrano con la liberazione? Questa smania di mettere grosse etichette. Sono poesie che chiunque può fare, poesie di ragazza”. Mi ricorda un personaggio del Vange­ lo, fregato dalla sua incredulità. “Chiunque abbia delle poesie così nel cassetto non vede ragione di pubblicarle; l’unica ragione è che Sara ha scoperto di poter fare delle cose, ma non ha talento, non arricchisce”. Ogni momento ho la conferma di come è stata importante una come me, “esaltata” mi definisce Simone, io dico solo “in grado di credere”. 15 nov. Mi sono buttata in tante cose, ma, come scrivevo nella poe­ sia, “senza ingaggio, sempre con la licenza in tasca”: è stato un bene. Però nel femminismo ci sono caduta in pieno: è stato un bene. Dopo ho visto cos’è vivere, l’ho capito. Sto molto a mio agio con un amico omosessuale (di quelli sposati e occulti). Lo imito a mangiare a casa mia con altri; lui teme non ci sia abbastanza, lo prego di

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portare del formaggio, ma i negozi sono chiusi. Fa tenerezza quando dice che non avrebbe avuto un trattamento speciale in un certo ristorante. Alla fine, sebbene lui resti enigmatico, sento che c’è un affiatamento tra noi e glielo faccio capire. Passando attraverso saloni di una casa sul lago, un maggiordomo mi mette su una specie di tapis-roulant che mi fa fare un giro panoramico. Però poi mi affa­ tico ad andare avanti in salita da sola. Arriva lui e comincia una discesa fluida, senza attrito, come in monopattino.

17 nov. Ho guardato finalmente i nastri di pellicola che Simone mi ha girato in giugno mentre piangevo per l’ultima volta. Mi sono vista, formato francobollo, con una fissità patetica, disperata. Non sono stata impaziente con queste immagini di me, così come con i quader­ ni che ho riletto in parte solo adesso. Di diverse poesie neppure mi ricordavo. Sono una goccia d’acqua che svapora nell’aria e poi torna una goccia d’acqua. Pensando mi dissolvo scrivendo mi concentro dimenticando mi dissolvo rileggendo ritorno.

18 nov. Mi basta raggiungere la campagna perché tutto mi sem­ bri semplice, sereno. Ho fatto colazione con Federica in campagna. Chissà da dove mi viene la sensazione che l’altra si aspetti qualco­ sa da me... No, è così, che quando la vedo confusa o semplicemente inespressiva cerco di farle capire che può contare su di me. Perché è questo che vuole, intanto. Però ormai ne sono così cosciente che posso farlo con tutto riposo, giusto quel poco che mi basta, mi mette a posto, senza tensione e senza controllo sul risultato. Mangiavo con appetito. Simone taceva, Federica non lo guardava mai e non per timidezza, ma per non scoprirsi, non so; magari poi quando va via l’abbraccia. La campagna era meravigliosa, deserta, autunnale. Tut­ to il tempo ho pensato a quello che avevo appena letto: che gli scritti di Teresa Martin sono stati manomessi dalle sorelle, anche loro suore

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al Carmelo. Tutti ne sono scandalizzati, ma a me pare che succeda sempre così dato che ogni espressione viene sempre mediata e chi fa da tramite non vede che una piccola parte di cui fa un tutto e lo difen­ de a spada tratta. E vero poi che nei conventi c’è una vita impossibile, l’abbiamo visto noi nei gruppi, diventa così difficile capirsi, si stabi­ liscono sospetti, rivalità, gelosie, proprio sulla base che alcune sono più avanti e le altre le accusano, le fanno soffrire, non lo accettano, non lo capiscono. Non c’è da meravigliarsi e neppure da giudicare. Forse nei conventi maschili sono più integrati in una mentalità cultu­ rale, sembra che debbano diventare dottori della Chiesa, invece che santi. E comunque hanno un esempio da seguire più chiaramente, Cristo, mentre Teresa ha dovuto partire da zero, da sé bambina, dal­ la sensazione di non meritare niente, semmai perdono. Sui giornali si legge che Teresa è stata l’idolo di milioni di cattolici perché era un mito sentimentale e zuccherino. Invece io sono certa che, anche edulcorata dalle sorelle, è la sua piccola via di liberazione ad avere suscitato l’adesione di tanti. Durante la canonizzazione diverse suore del Carmelo dicevano che mai avrebbero immaginato che lei fosse un santa: era un tipo qualsiasi. Questo mi è sempre piaciuto. Una volta, tornando da Napoli con Ester, Vanda e Simone, i primissimi tempi del femminismo, ho parlato di Teresa Martin. Vanda ha subito contrapposto le streghe, come donne veramente in rivolta. Teresa le sembrava una vittima consenziente di miti patriarcali. Né lei né Ester mi capivano e neppure Simone che la sera scherzava “Con questa tua Teresa non mi sembra che eri molto convincente, il colpo delle streghe non è stato male!”. Allora era buio, buio-notte. Simone è convinto che, accettando di occuparmi di Sara, continuo a metterle a disposizione me stessa in un modo che mi frena per quanto riguarda l’espressione di me. D’altra parte, se l’affermazione del pro­ feta è la nascita dell’evento profetizzato, è anche logico che mi dedichi a questo evento, è un prolungamento di me. Infatti, non c’è dubbio che il mio momento sia stato quello della profezia, ma prosegue e si conferma nella sua realizzazione. Sara non crede all’originalità per­ ché le sue origini le sfuggono, non si sono messe in moto per spinta propria, mentre io ci credo perché mi è successo il contrario, ho mos­ so le mie origini. Però il profeta non è all’altezza della sua profezia, non può viverla appunto perché anticipa e dunque è solo, spende tutte le sue energie ad avere fede, ma crea quell’attesa per cui un altro

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la vive, la incarna. Tutto ciò che è accaduto per la liberazione dell’uomo è stato preceduto da profezie, cioè dall’attesa del suo manifestarsi. 10 continuo a rispecchiarmi in Sara e probabilmente a sostenere le sue spericolatezze, e mi sento anche giustificata. Ma fino a quando? Dice Simone “Rimani attaccata al passato perché nessuna può rico­ noscertelo dato che nessuna l’ha vissuto”. Ho bisogno di sapere cosa è successo ai profeti, a Giovanni Battista. Erode l’ha ucciso. Che vorrà dire per me? Comunque il profeta non è creduto per lungo tempo, poi ecco, succede, e lui è destinato a sparire. Devo lasciare Sara a se stessa, non essere più il suo punto garantito, né io sentirmi viva trami­ te lei. Ma come è possibile? Però so che è così: per esempio, non mi occuperò delle sue poesie. Invece lavorerò ai miei scritti, li metterò in ordine per pubblicarli e chiudere così con il passato profetico. 21 nov. Penso agli altri quanto gli altri pensano a me? Amo gli altri quanto gli altri amano me? E se io 11 pensassi di più? Li amassi di più?

Ho visto alla TV un programma sul cancro: mi sono sentita evocare tutto un passato. Da più di un anno non faccio il controllo dopo quel­ lo che ho avuto; è curioso come si cerca di dimenticare, nella maniera più assurda, diventando imprudenti, giocando con la morte. Ho rico­ nosciuto Van Johnson, invecchiato, senza luce negli occhi, con l’aria un po’ gonfia e melensa che hanno quelli trattati con farmaci anti­ neoplastici, triste di una tristezza infinita, come il giornalista Alsop, affetto da leucemia. Sapendo di dover morire non si può più essere come gli altri (che pure devono morire, ma non lo sanno): manca la spensieratezza, l’illusione, l’amore soddisfatto di sé. Però era rassere­ nante ascoltarli parlare della morte, delle loro paure e angosce. Per tutte le cose dovrei sempre riflettere che non sono la sola.

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Simone non c’è ed eccomi piombata in una solitudine tormentosa: ho chiamato Nicola, era occupata; ho chiamato Marion, persino, non c’era; ho cercato di scrivere, niente; ho mangiato pochissimo. Attribui­ sco questa depressione soprattutto al raffreddore. Vorrei stare sola, ma in campagna. O anche questo è un sogno? Non so più che dire, che fare, perché. E un’onda di sconforto; sta lì, mi tiene inchiodata. 22 nov. Stanotte gran raffreddore, mi sono detta “Ahi, ci siamo con l’influenza”. In bilico su una finestra Simone, con una specie di telescopio, fa fotografie a me e a un paio di amiche. Ha un cappelletto nero con uno spicchio bianco e strane bretelle, cintura. Penso che si comporta in modo originale, forse perché è inferiorizzato. Ho un appartamento a piano terra in un misterioso sobborgo ed ecco che mi mettono in casa una tabaccheria. Già vedo che viene gente, sono felice di avere rotto risolamento. Un vicino di casa è frocio, fraternizziamo e gli chiedo consigli sul vestire. Vado a una festa e lì c’è tanta gente, anche Simone, femministe, ed Ester a cui rivolgo la parola con serenità e che è dolce, seria, che bellezza tutta quella gente! Mi dico che non posso rinunciare ai flirt con gli uomini e a tutto il lato eccitante della cosa. Sono con Simone su un letto, entrambi nudi. Entra di corsa una mia vecchia amica del ginnasio e poi se ne va. Guardo che posa ha Simone, se è abbastanza composto. Lo è.

23 nov. Ieri bruttissima giornata, mal di testa, raffreddore e sonno­ lenza con continue allucinazioni. Queste ultime mi spaventano mol­ to, sono come una droga malefica: chiudo gli occhi e mi trasformo in qualcosa d’altro, entro in situazioni senza uscita, martellanti. Manca l’aria, la luce. Ho preso a leggere qua e là per l’ennesima volta Stona di un’anima di Teresa. Scopro sempre cose nuove; per esempio, quando dicevo al gruppo “Cercate delle fotografie vostre e della famiglia, vo­ stri diari, lettere dei genitori, delle amiche ecc.”, non sapevo di avere un precedente in Teresa. Infatti, quando la sorella, sua superiora, aveva voluto che scrivesse sulla sua infanzia, Teresa aveva cominciato scegliendo brani di lettere della madre. E sono veramente belli.

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Quando sei in cima e non c’è altro a cui tendere è una situazione così nuova che può anche angosciare. Si rievocano le inquietudini per sentirsi vivi, con qualcosa davanti. Invece ora tutto è presente, è questo. Camminavo andando avanti, ora giro su me stessa. 24 nov. C’è rottura tra me e Vanda che tira Ester dalla sua, oppure trama con lei, non so. Io sbaglio tutto, ma nello stesso tempo ho la certezza di essere irretita dal fatto che mi danno troppa importanza. Simone è tornato da una cena dove una mia ex-collega gli ha parlato bene di me e gli ha anche detto eli avere pensato molto a lui, un sici­ liano, con una femminista. Simone è orgoglioso di avercela fatta, si sente prescelto, anche per lui da tre anni è esistito solo il femminismo, tutto il resto appariva scontato. Vorrebbe vivere cento anni per stare sempre con me. Felicita sostiene che scrivere è misero rispetto alle emozioni e che comunque l’artificio letterario è giustificato, invece per me la cosa im­ portante è liberarsi di un’emozione; la capirà chi l’ha provata e basta, per gli altri può essere proprio una banalità. Anzi è meglio così. Sara al telefono era molto affettuosa “Vieni, ti aspetto. Milano ti aspetta”, però mi chiede subito di portare le sue poesie, così prevedo che parte del tempo lo passerò a rivederle, parlarne. A lei sembra ovvio, ma non si rende conto che le regalo la mia vita, una preziosa vita visto che non ha potuto spendersi veramente per sé. Tiri la palla nessuno te la rimanda la perdi rimani col ricordo della palla. Ogni tanto puoi evocarla “Era bella” ma il più delle volte finisci per non sapere neppure più di averla gettata. A un tratto ti ritorna questa palla qualcuno te l’ha tirata.

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“Che bella che bella palla” ma semi nel cuore un acuto rimpianto. Perché l’hai subito riconosciuta ma ti viene come la palla di altri chi l’ha tirata è contenta non la finisce di dire “Sono io sono io che ho lancialo questa palla quante palle posso lanciare”.

30 nov. Vedendo dall’autostrada il cielo grigio inconfondibile, en­ trando in corso Lodi pensavo “Sto tornando a casa”. Poi ho telefona­ to a Sara e aveva un impegno, a Gemma ed era stanca, a Lucia ecl era fuori, a Paula e non era a Milano, così mi sono sentita non accolta. Poi sono andata da una ragazza che abita vicino a me dopo cena, ma non avevamo niente da dirci. Con Sara sono stata esplicita: non posso impegnarmi a fondo nelle sue poesie. Posso darle la mia opinione ma non mobilitare tutto il mio essere come quando accettava la mia responsabilità nella pubblica­ zione. Quell’“a cura di” è il vero segreto della vitalità nell’esprimersi. Quello che a me è mancato troppo a lungo. Il motore di tutto. Ho dato a Sara l’appoggio di cui aveva bisogno per aprirsi. Non l’ho spinta verso questa o quella soluzione ma, dandole fiducia, l’ho messa in condizioni di non poter più sopportare le limitazioni precedenti, le soluzioni che prima accoglieva proprio perché si sentiva debole e poco intelligente. Questo non esiste nel mondo maschile, e il suo surrogato è l’arte. 2 die. In effetti mi considero a casa: qui esisto, sono cercata, c’è chi ha qualcosa da dirmi e vuole ascoltare qualcosa da me, i miei punti fermi riprendono a svolgersi: uno sguardo di Isa, una parola di Sara, una telefonata imprevista, una domanda di Lucia, le giornate piene

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di incontri possibili e reali mi permettono di vedere meglio, di vivere, di capire. E ogni tanto di illudermi di farmi capire. Vorrei scrivere alla moglie di Gallizio e dirle che oggi mi rendo benis­ simo conto del perché Pinot è stato importante per me. Mi vengono in mente altri amici a cui devo molto: mi fa stare male l’idea di non avere saputo mostrare la mia gratitudine alle persone che mi hanno aperto delle possibilità, Claudius, Fausto per esempio, e anche Ester. Cara Ester, ho tratto forza dal rapporto con te e in definitiva non mi era sembra­ to di averti rimproverato alcuna mancanza se mi ero accorta che mi occorreva un ultimo passo che con te non potevo fare. Semmai ne ero io stessa sgomenta, e dovevo contare su di me per non sentirmi colpevole. Però quel telegramma mi ha mozzato il fiato e ho avuto presente il lato di te che mi nascondevo e che comunque mi faceva paura: la spavalderia a ogni costo. Allora veramente e finalmente ho provato una decisa incompatibilità con te e per un bel pezzo ti ho vista sotto quella luce nella quale ti eri voluta stampare nella mia mente. Adesso quella fase è superata e di nuovo posso apprezzare la vitalità che mi trasmetteva. Cara Agata, sei appena partita e la boccettina di Mogra manda un delicato odore. Ho avuto l’impressione di essere stata troppo in vena di evocazioni, ma è irresistibile quando mi prende e non ci eravamo viste da un anno. Ho avuto l’im­ pressione che ti intralciasse un po’ l’andirivieni che facevo. Non ho mai capito se parliamo la stessa lingua. E curioso come rimango perplessa. Mi sembra che non ti interessa niente quello che dico, che tu vorresti che io non dicessi niente. Non mi sento frustrata, anzi alleggerita, ma allora non so come passare il tempo insieme a te. Fai spesso di sì con la testa, questo dovrebbe convincermi che mi stai ascoltando e, più, che sei d’accordo su questo o quello, però in fondo penso che lo fai per gentilezza: ti ho sempre trovata di una gentilezza squisita non solo con me, ma in generale. Stando con te ho l’impressione anche che ragiono troppo perché, se addirittura non ti interessa il contenuto, figuriamoci il ragio­ namento. Anche per me è vero quello che dicevi per il ragazzo di diciassette anni? Che ti piaceva prima che aprisse bocca. Tu sorridi molto dolcemente e dai questa impressione che accetti il silenzio dell’altro più che le sue parole. Così mi accorgo di essere soprattutto una macchina di parole. Tu non dici niente, né sì né no. Ho notato però che volevi tranquillizzarmi. Veramente andava tutto bene, solo io mi sentivo pesante perché affrontavo argomenti seri e tu volevi parlare di cose leggere e io non ero nello stato d’animo, scivolavo in qualcosa di insistente da dirti. Toccavo un po’ tutti i tasti. Ti chiedevo uno sforzo che ti face-

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va rabbrividire eppure insistevo senza potermi fermare pur temendo di metterti a disagio e pur in mille conflitti continuavo.

3 die. Sono così contenta! E stato bello ritrovarsi con Gemma, Paula. Isa ha sempre un po’ di broncio che rivela una sua congenita dispo­ sizione alla scontentezza. Ho detto a Paula che la sua lettera era così toccante che non avevo saputo risponderle. Lei mi aveva sognato che l’aggredivo “Stupida, tu non capisci niente, non puoi fare niente”. Come prevedevo ha preso la mancata risposta come un giudizio ne­ gativo, così si è accorta di questo pericolo fra noi. Era felice che la lettera mi fosse piaciuta “Davvero?”. Anche con una del gruppo che vedo poco sono stata veramente bene, la sentivo sicura di me che ho i suoi stessi nervi e non mi posso degradare con l’uomo. Che bello, che bello, che bello, cento volte bello. Sono una donna qualsiasi, ho tanto di comune. 1 tipi come Agata mi paralizzano un po’, lei è “speciale”. Io sono come mi ha detto più volte mio padre “una compagnona” che si butta sempre nelle amici­ zie e finisce per restare delusa. No, non finisco così: posso avere delle delusioni, però finisco contenta. 4 die. Cara Sara, mi chiedo perché susciti la mia freddezza proprio quando sono i momenti più difficili per te. Mi respingi con una tale violenza. E ritornata fatmosfera delfestate scorsa, la mia reazione è di “mettere in salvo il salvabile”, cioè di scindermi da te il più possibile, non avere niente su cui tu possa avanzare delle pretese, non darti niente. Solo così mi sembra possibile rincontrarci a bufe­ ra passata: la bufera della tua separazione che si riversa anche su di me. Quando Agata è venuta senza preavviso due minuti prima che arrivassi tu e io ero tutta presa dall’emozione di rivederla dopo un anno, cos’hai capito che fulminavi e fiammeggiavi? Che tu capisca poco in momenti normali può passare quasi inos­ servato: qualche rapida intuizione dà il senso di una rispondenza particolare e gli umori sono in sordina, ma quando avviene in momenti di tensione è tremen­ do il bim-bum-bam che si scarica all’improvviso sull’altra. Sento bene che non c’entro, ma ti attacchi a un pretesto qualsiasi per essere provocatoria. Ritorna la sensazione che divento il tuo parafulmine, quella che ti dà l’occasione per tirare fuori la rabbia. Dici che ci vuole una certa forza per starti vicino, tuttavia oltre la forza ci vuole il desiderio, e tu lo fai passare ogni tanto. Non mi va di revisionare le tue poesie: ho bisogno di richiamarti su un atteggiamento di trasandatezza verso di me, mi ha stancato. Gli artisti, con cui svolgevo qualcosa di analogo alla

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cura dei tuoi scritti almeno non erano così ingenui, anche se altrettanto ambi­ gui. Gli piaceva avermi a disposizione, gli andava questo fatto dell’amicizia. Ma perché volevo essere un problema per loro? Semmai dovevano essere loro un problema per me. Nel gruppo ho detto di averti appoggiata sempre, ma non ho trovato il modo di affermare “E viceversa”. In realtà ti ringrazio delle scosse che mi hai dato e per avermi svelato i pericoli delle infcriorizzazioni ma, proprio per questo forse, non c’è stato da parte tua quell’interesse di analisi momento per momento che io ho avuto verso di te. Al contrario lo spettro della dipendenza mi si rivolge contro. In questo c’è una specie di arbitrio, capriccio, insubordina­ zione da parte tua perché è un atteggiamento che risale molto addietro quando io non c’ero e c’era, che so, tua madre. Io sono esattamente quello che vorrei che l’altra fosse per me. Il fatto di non avere trovato una come me è ancora la mia mancanza.

Sono in questa stanza-paradiso nel bosco d’inverno. Ho addosso la pelliccia, fa freddo. C’è un silenzio che mi risana le cellule del cervel­ lo, dei nervi. 8 die. Che tristezza! Sara mi telefona da Milano che parte per un mese. Ha dei problemi con un paio di chiavi di casa mia. Fino all’ul­ timo si presenta con richieste laconiche: penso di adoprare oppure no quella stanza? Può tenere la chiave fino al 7 gennaio? Preferisco avere la chiave dell’appartamento oppure della stanza? Le dico di consegnare entrambe le chiavi alla portinaia (“E festa? Lo so, ma ci sarà fino alle cinque”): posso avere bisogno di tutto e a lei, finché sarà via, non serviranno affatto. Siccome non commenta la sua partenza improvvisa le chiedo se adesso sta bene. Mi dice che sì, però non può allungare la telefonata, mi scriverà. L’altro giorno (a Milano) è arri­ vata tutta stizzita a casa mia dicendo che odia gli uomini e che vuole stare sola e fare tutto da sola. A una mia domanda risponde fiammeg­ giando “Sola sola!”, poi mi chiede con aria di sfida perché la guardo così. Come la guardo? Come se mi facesse compassione. Semmai ero imbarazzata dalle sue reazioni che mi prendevano solo come testi­ mone. Tristezza, non c’è niente da fare, non posso esserle vicina, non posso farmi capire da lei, devo lasciarle la sensazione di solitudine, forse di essere stata abbandonata da me. Mi rendo conto che come uno ha vissuto è esattamente quello che corrisponde alle sue possibi­ lità. Sara ha dei nervi, delle allucinazioni per cui scoraggia tutto ciò

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che invece per me sarebbe prezioso. Lei ha bisogno di una dedizio­ ne assoluta, ma che non sembri tale, e in questo è probabile che io abbia favorito la sua tendenza a disporre senza limiti delfaltro; però poi, quando rimango frustrata dalla sua incontentabilità o dai suoi bruschi voltafaccia, allora si sente tradita e si allontana facendoti ben capire che la responsabilità è tua. Lei mi è refrattaria nei momenti della difficoltà: allora si scopre bene che siamo due mondi “senza né porte né finestre”, con la nostra reazione inconfondibile alle situazio­ ni di emergenza e di paura. Sono triste pensando che parte, non so se augurarle di essere insieme al suo amico o da sola. Un’ultima impasse tra noi era questa, che io non avevo fiducia nei possibili sviluppi con il suo amico, però stavo cauta perché lei sembrava molto speranzosa. Adesso deve passare un mese prima che ci rivediamo e parliamo. Mi ha detto “Ti scrivo”, ma non mi aspetto niente, tutto ci porta lontano l’una dall’altra, è la seconda volta che mi dà una spinta proprio quan­ do è in un momento critico, allora capisco che non può sopportarmi, ma perché? Mi ha telefonato un’amica da Trieste che vuole venire a Roma per vedermi: come sono diversa dall’anno scorso, ho paura dei miti, mi sono gelata. Non so più che dire, come presentarmi. Sara è stata con me di una distrazione unica, non molto diversa da quella di Ester, forse addirittura maggiore. L’ultima volta che ci siamo ritro­ vate al gruppo, io ho parlato un po’ del mio problema di sorella mag­ giore in famiglia e nel femminismo. Appena ho finito lei ha osservato “I tuoi pantaloni sembrano una gonna”, con cui ha prevenuto e bloc­ cato ogni sviluppo dell’argomento. Poi ha aggiunto “E mezzanotte, andiamo?”. Così aveva fatto anche in giugno. Pensa sempre a sé. Ho ritrovato un contatto con le altre una sera in cui lei non c’era. Sono a Roma, ma vorrei essere a Turicchi. Forse più tardi potremo andare a un cinema, adesso sono troppo triste: Tito che mi mette molto buon umore non è in casa, Simone un po’ depresso dorme. In campagna invece mi pare di stare sempre bene. Sono stanca di guardare cemento che non fiorisce di pestare l’asfalto su cui non cresce l’erba sono stanca

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di non vedere che pezzettini di cielo a me piace tanto l’orizzonte tutto in giro. Voglio tornare in campagna essere una creatura come i gigli dei campi e gli uccelli deH’aria.

La città è una macchina in cui non ci si può amare, ci sono troppe interferenze. Appena siamo in campagna Simone e io siamo contenti come bambini fuori del tempo. 9 die. Ho visto Effetto notte pensando a David e Felicita che me lo avevano consigliato. Tutto è così pieno di stile e di ritmo che mi ha fatto ricordare come fin da ragazzina restavo presa da cose del gene­ re. Avrei voluto viverle né più né meno: dare la mano con altrettanto tempismo, dire la mia battuta con altrettanto charme e distacco, e soprattutto uscire di scena al momento giusto. Purtroppo per me era tutto il contrario, tutto il contrario. 15 gen. 1945. Stasera sono andata da Giovanna a ritirare Lucia. Dopo aver ben bene aspettato lei si è decisa a venire via, ed è arrivato il momento di salutare: tragico! Lucia ha salutato la signora e io pure, ma quando stavo per salutare la zia il fratello di Giovanna mi ha porto la mano che io non ho presa perche non l’ho vista e lui l’ha dovuta ritirare quatto quatto. Il bello è che si è anche alzato. La cosa mi è seccata moltissimo e mi dispiace far la figura della impappinata. Con Giovanna e Lucia che mi hanno raccontato l’avvenimento ho riso, ma dentro mi rodevo dalla rabbia! Beate quelle che sanno trattare tutti con disinvol­ tura, io mi voglio abituare, per forza mi devo abituare. Un po’ è la sfortuna: se mi offrono la mano non me n’avvedo, se l’offro io non la prendono. Su questo punto c’è proprio da tribolare! Un’altra cosa spiacevole è fare il viso rosso: per un nulla, plumfete, il sangue mi sale al viso e addio disinvoltura! Mi viene il viso rosso se mi sento osservata, se devo dire qualcosa in mezzo al silenzio generale ecc. In una parola sono timida.

Nei giorni scorsi ho dimenticato di scrivere:

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Vengo da un’isola felice ritorno a un’isola felice.

Che strana la vita della coppia: si sta così bene però non mi sento veramente io. Il peso dei miei nervi è ridotto quasi a niente, non ho apprensioni, dormo a lungo, ho una pelle magnifica, l’aria sana, mangio, sono contenta, scherzo, sono affettuosa, canto, saltello, im­ provviso scene racconti storie da ridere, faccio l’amore, dico tutto quello che mi viene in mente, però non sono veramente io. C’è come una leggera patina di monotonia in tutta la giornata, una nebbiolina che corre lungo le ore. Forse sto troppo bene, ma io lo so che mi man­ cano i contatti con gli altri: elevo trovare un’occasione per stare insie­ me a persone che mi interessano, l’ho pensato vedendo Effetto notte, dove la lavorazione di un film è un’occasione di convivenza e di scam­ bi incrociati. Anche se poi risulta che la vita privata di ciascuno è un disastro e che solo nel cinema chi ci lavora ha l’illusione di qualcosa di perfetto, di armonioso. Prima di partire da Milano mi ha telefonato Claudius così ho capito quanto avrei avuto piacere di chiacchierare un po’ insieme a lui: quando penso “Mi mancano gli amici” vedo su­ bito spuntare la sua faccia. Adesso mi sento un po’ ripiombare nella famiglia (visite ai genitori, storie di fratelli, sorelle, tutta una tematica che ritorna) e mi fa piacere, ma vorrei avere il contrappeso in qualco­ sa di imprevisto. Oscillo tra il bisogno di pace e il bisogno di stimoli in ogni senso. E un po’ la stessa cosa quando mi dico “Voglio andare in campagna sola con Simone”: intendo ritrovare con lui uno stato di grazia, oltre il sereno benessere che ci procuriamo reciprocamente. Ogni tanto penso a Sara dai suoi: mi scopro a desiderare che passi l’inverno lassù. 10 die. La salvezza di una donna di casa sono le cose da fare: puli­ zia, mangiare, provviste, riammodernamento, comodità. Ecco che si trovano motivi per uscire, girare, scegliere, ritornare. Per questo mia madre continua mille inezie casalinghe che la tengono occupata. Spo­ standosi continuamente invece si perde il senso della casa e delle sue necessità. Fornata a Roma mi sono sentita come in albergo (la don­ na a ore aveva provveduto all’indispensabile) mentre stamani, con i negozi aperti finalmente dopo due giorni, ho la prospettiva di una giornata faccendiera.

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In comune con Sara ho questo: entrambe ci allarmiamo di un niente e vediamo subito in pericolo la nostra autonomia e sviluppo della vita. Oggi, perché ieri per lei era diverso. Questa passata diversità forse è più fondamentale di quanto io pensi. 11 die. Non posso vivere così stupidamente: un giorno in giro per fi­ nire di mettere a posto la casa (e non si finisce), un giorno in giro per dare un assetto al mio guardaroba (e non ci sono riuscita). 12 die. Non posso sopportare la polvere degli altri che si accumula sopra il mio cristallo trasparente. Non so più vedere attraverso e resto confusa.

Per l’ennesima volta ho detto a Simone che devo uscire per conto mio e lui per conto suo, che non mi va di affrontare la vita con gli altri stando in coppia, che ho bisogno di avere sensazioni libere, cosa impossibile se lui è sempre lì; e anche lui ne ha bisogno. Altrimenti ho l’impressione di essere sull’orlo della tomba, proprio la decrepitudine. Sono uscita e già era meglio, la gente fuori mi rianimava, però poi, come da ragaz­ zina, sono entrata in un Remainder’s Book. Ho subito cercato Spino­ za e Leibniz, ho trovato solo il primo, speravo fosse un amico, potere tornare a casa con un amico. Ho anche comprato due riviste con miei articoli che non riconoscevo quasi. Le interviste invece erano belle. Spinoza descrive razionalmente il passaggio dalla illusione dell’uomo di essere libero alla sua liberazione e beatitudine, tutti gli stadi della conoscenza e coscienza di sé. L’ho letto d’un fiato: come tutto è chia­ ro, comprensibile, quante riflessioni in comune, conferme, sfumature. Quello che dà fastidio è la sistematicità e tutto quel dimostrare. Ma è proprio uno che parla di sé, ha la certezza dall’avere trovato in sé. Certo, questo è il filosofo, cosa pensavo che fosse? A scuola non si può capire, una teoria via l’altra: e poi si afferra se si leggono direttamen-

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te i testi, mentre quando interpreta un altro diventa tutto artificiale, generico. Ho letto più di 200 pagine, come da ragazzina quando mi buttavo su questo o su quello che sentivo affine, ne avevo un bisogno estremo. Ecco da dove parte il mio “amore per la cultura”: da un atto vitale per superare la solitudine, il dubbio, la disperazione. 13 die. Ho visto Diana e una sua amica svedese, poi sono tornata ai Remainder’s Book e ho comprato poesie della Dickinson e di una certa Rosalia de Castro. Avevo parlato in sintesi con le amiche - mi succede di fare il punto della mia situazione - e mi sentivo un po’ sa­ tura di pensiero, così, sebbene avessi intenzione di cercare Leibniz, mi sono orientata sulle poetesse. Già l’anno scorso avevo compra­ to un volume di poetesse del ’500, ma mi avevano stancata perché troppo soffocate dalla maniera letteraria dell’epoca, un po’ come Rosalia adesso (lei è dell”800). La Dickinson è un’altra cosa. Stavo leggendola, così rapita che mi vergognavo di me stessa, delle mie di­ strazioni e défaillances, me ne rammaricavo profondamente, leggen­ do qua e là ad alta voce anche a Simone, quando lui ha telefonato a suo figlio negli Stati Uniti. E all’improwiso, per la prima volta ho capito qualcosa che non avevo mai veramente ammesso. E cioè che nella vita ti puoi bruciare senza neppure accorgertene e quando te ne accorgi non puoi più tornare indietro. Così è accaduto a Simone quando si è trovato nell’aut-aut tra me e i figli e per sempre porterà il peso di non avere potuto vivere con loro. La mia immaturità era lì, pensavo che niente fosse irrimediabile, almeno se uno faceva conti­ nuamente attenzione. Adesso so che non è vero; anche Sara si trova forse nel dolore quasi insuperabile e comunque non evitabile della separazione dal marito. Suppongo che me la renderà più vicina. La Dickinson prende a poco a poco nelle maglie di un incantesimo, comunica il bisogno di essere se stessi a quel grado di purezza. E di follia. Io sono così discontinua. Nella mia adesione a lei si mescola anche il senso di dovere operare una sostituzione dato che Sara è Ha. Oggi con Diana avvertivo quanto lei può appoggiarsi ancora a me e mitizzarmi: le spiego ancora troppe cose. Vedo che non intui­ sce subito, allora quasi le formulo il problema perché lo afferri, però poi mi resta la sensazione di essere sola, senza risonanza mentre lei incamera. Spinoza dice:

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“...fa parte della mia felicità anche l’adoperarmi perché molti altri pensino come me e il loro intelletto e i loro desideri si accordino perfettamente col mio intel­ letto e i mici desideri”.

Però poi dice anche: “Non si dà in natura nulla di singolo che non sia utile all’uomo più dell’uomo che vive sotto la guida della ragione”.

Quindi, rispetto a quest’ultimo caso, il precedente è una minore rea­ lizzazione di sé ed è ciucilo che, finché Sara sarà via, dovrò conside­ rare norma dei miei rapporti. Non che sia un male, è solo un bene minore del secondo quindi, come dice Spinoza, nel passaggio si ge­ nera tristezza. 14 die. Ero sfinita dopo quasi sette ore con Diana e l’amica, e dopo avere letto con intensità la Dickinson. Vado in un posto con Simone e il viaggio è lungo. Torno con Lamberto ed è così breve! Ci amiamo moltissimo ed è così romantico. Gli chiedo “Perché non stiamo insieme tu e io?”, poi mi ricordo di Simone e aggiungo “Qualche volta”. Sono tornata ragazza i mici piedi non hanno terra la mia giornata non ha corridoi i miei pensieri mi restano appiccicati il peso di vivere è su di me ricomincia l’attesa di qualcosa. Volevo essere squisita non ce l’ho fatta la mia squisitezza è rimasta sepolta da un accumulo di faccende della mente di sgarbi che la vita mi aveva fatto e che io

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non avevo resistito a restituirle. Adesso leggo la mia preziosa sorella Emily e mi addentro in un mondo perduto dove il suo abito bianco e la sua anima risoluta mi incutono soggezione sperdutezza e amore.

Leggendo Spinoza mi sembrava che contenesse anche filosofi seguen­ ti. Leggendo la Dickinson mi sembrava che contenesse anche poeti se­ guenti. Lilosofi, poeti servono per specchiarcisi dentro, però qualcuno deve specchiarsi in te. Tutto mi colpisce: il fatto che Spinoza avesse avuto molto presto e fino alla fine contatti con altri con cui discutere le sue idee e il fatto che la Dickinson a trent’anni avesse abbandonato il consorzio umano. Ho detto a Diana che vedrò Ester quando avrò superato famarezza, il sapore amaro. 15 die. Un uomo volgare si rivela afferrandone due intorno a un letto matrimo­ niale, io riesco a fuggire e anzi piti tardi lo faccio prendere dalla gente. Però poi mentre salgo una strettissima scala a pioli, arriva e gli metto un piede sulla spalla come se fosse un piolo. Morta dalla paura che mi riconoscesse mi sono svegliata. Spalancavo nel buio gli occhi che vedevano il sogno, come per ferma­ re un meccanismo si toglie la corrente. Capisco perché Sara era innamorata di Agata perché lo sono anch’io. Adesso l’assimilo a Emily: voglia o non voglia, ha questo carattere di assoluto, perfetto presente che vive in lei come una malattia, un desti­ no diverso dagli altri. “Io mai quaggiù mi sono sentita a casa / né mi sentirò a casa —ben lo so —/ nello splendido cielo”. Questo terrore di perdermi questo bisogno di conferme a volte è spasmodico disperato a volte si calma in un filo di certezza

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perché ricordo che è sempre stato così.

Non sono fatta per la convivenza, sono fatta per i rapporti a distanza, intercalati. Non sono neppure fatta per la vita di coppia, è vero quel­ lo che dice Simone, che mi resta sempre una certa estraneità. Vedo anche con Tito: non gli sono madre come lo sono le madri dei suoi amici. Consideravo questo una mia immaturità o gioventù, invece è qualcosa di connaturato, forse anche l’impronta del collegio, Pavere vissuto, vagheggiato un modo di essere staccato dalla famiglia. Ho un bisogno estremo di concentrazione, anche di questo mi preoccupa­ vo come di un’anomalia, oggi capisco bene che l’organizzazione del vivere non solo non è in funzione di spiritualità, ma le è in qualche modo incompatibile. Stamani ho invitato un’amica a cena con i figli e poi è arrivata la donna delle pulizie. Sono andata a fare la spesa, ho preparato il pranzo a Tito; la donna parla sempre come una locomo­ tiva a carbone con alti e bassi e a volte con un vigore che fa tremare le pareti, la mia calma non la raffredda, anzi le dà spazio. Poi è arrivato il primo ospite, un ragazzino, hanno fatto la lotta lui e Tito, poi è arri­ vato Simone stanco, di malumore, polemico perché non ha niente da mettersi, i bottoni mancano dappertutto, non c’è niente di pulito. Lui stesso è sporco così l’ho obbligato a fare un bagno, gli ho preparato la biancheria; poi è arrivata la ragazzina alle sette, poco dopo sua madre, che disastro, era ancora tutto da preparare. Poi lei mi ha aiutato in cucina, così il riso e le patate erano mezzi crudi cosa che a me non suc­ cede mai; Nicola di buon umore, la mia amica parlava per tutti ed era anche simpatica, però fa come Ester, salta di palo in frasca pur di non perdere la parola. Alla fine sono stanca stanca, vorrei andare un mese in convento, neppure a Turicchi; il contatto con gli altri mi affatica troppo perché mi attrae, e mi lascio coinvolgere. Avevo in mente dei versi da stamattina, li ripetevo tra me e me mentre ero a fare la spesa. Vorrei comunicarvi il soffio della disperazione - l’uragano che si avvicina. A volte mi affaccio sul mondo degli altri.

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16 die. Arriviamo in una piazza con alberi malati semispogli d’inverno. Mi si la notare un nido molto grande in alto da cui vola un enorme uccello biondo. Scende a terra vicino a me che sono un po’ impressionata e lo guardo immo­ bile senza farmi scorgere. E una volpe-uccello: dal pelo-piume morbidissimo si affaccia un figlio che lei dolcemente ricaccia dentro per protezione, e nasconde. Così guardavo ieri sera la maternità di un’altra, tanto diversa dalla mia. Con Simone il contatto è perso. A letto stiamo abbracciati senza te­ nerezza, solo per godere del calore reciproco. Ho paura, perché di nuovo me ne voglio fuggire via e non so dove, non so perché. Oppure 10 so, in una vita più libera, più autonoma. Poi Simone mi ha detto “Vienimi ideino”. Due minuti per ritrovarsi e fare l’amore. Mi sono sentita viva tutti questi anni proprio per quello che di in­ definito, avventuroso avevo lasciato alla mia vita. Adesso sono come sposata, è assurdo. Magari dipende da Simone che è tutto su di me, mi adora, mi ha come unica interlocutrice, mi desidera: questa è una sicurezza tale che toglie la spinta a vivere. Non c’è più nessun brivido. Se esce so che torna, se esce arrabbiato so che tornerà con nostalgia di me, se ci sono altre donne preferirà me, non aspira ad altro, a nien­ te altro che a me: sul più bello mi dice “Ti amo”, tutti i suoi progetti comprendono me, si basano su di me. Non ha dubbi sulla sua vita con me. Afferma di essere felice di stare con me. Io invece nel fondo penso sempre di evadere, prima o poi, di stabilire un dato di fatto che crei un dinamismo tra me e Simone. Oppure andare fino in fondo alle possibilità tra noi isolandoci in campagna, rinnovando, intensificando tutto. Trascrivo una poesia della Dickinson: “Non odo mai la paro­ la evasione / senza che il sangue più rapido scorra / senza un’atte­ sa improvvisa / un impeto di fuga. / Non ho mai udito di vaste pri­ gioni / abbattute dai soldati / senza puerilmente le mie sbarre / scuo­ tere invano ancora”. Per fortuna le mie sorelle hanno diffidato di me e mi hanno in parte respinta, meglio per me. Oggi ho visto cos’è una sorella minore che si aggrappa alla più grande e contemporaneamente finge un’autono­ mia che non ha con un sacco di penose smorfie di sufficienza. Ho imparato a memoria il numero di telefono di Nicola, accendo 11 gas collegando bene la chiavetta al suo fornello, comincio ad am­ bientarmi a Roma. Con un’improvvisa energia Simone, vista la mia

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titubanza, fa “Va bene, vado da solo a Turicchi e a Milano, dico sul serio”. Improvvisamente quei luoghi si illuminano di una luce calda di desiderio impossibile. E lui stesso, i suoi appuntamenti si svolgono in una sfera di realtà a cui non posso più aspirare di far parte. Mi è venuto l’impulso di andare anch’io, però basta che mi riconcentri su di me che questo miraggio svanisce. 18 die. A colazione da Nicola finalmente l’ho sentita esprimersi con larghezza, fantasia, acutezza. Era un’altra, così bella fisicamente, mi sembrava di scoprirlo quasi per la prima volta, così mobile. La passa­ ta dissociazione mostrava il suo fondo di autenticità salvaguardata. Ho anche gustato la sua freschezza di osservazioni, di sensibilità, l’ho tro­ vata forte, cosciente e molto affettuosa con me, molto aperta al mio af­ fetto. Avverto di darle sicurezza, ed era ora. La capisco bene, l’appoggio con adesione interiore e la mia gioia nel vederla sbocciare è grandissi­ ma. L’ha aiutata che si fosse rotta l’omertà tra me ed Ester, un’omertà a sostegno dei miti reciproci. La condizione per l’uscita dall’insicurezza è una: che l’altra ti appoggi e si tolga la maschera per prima. 19 die. Ho battuto a macchina le mie poesie dal ’72 a oggi. Finalmen­ te. Mi vergogno un po’ a farle leggere, sono troppo scoperta, emotiva, senza quella rispondenza completa su cui avevo costruito dei sogni. Stare sola è tonificante, fantastico, eccitante. La coppia per me non è mai stata se non un riposo, una cura, una salvezza, un rifugio della mia fragilità, non un mio mito. Il mito ce l’ho sull’awenturosità degli incontri e delle vicende. Così sono contraddittoria: penso sempre a sfuggire, a lasciarmi una via di scampo, però poi di fatto sono quieta, stabile con qualche periodo scatenato. Ma il mio clima è la solitudine. 20 die. Torno dalla festa con un tale, pittore. Stiamo allacciati e io mi stringo a

lui, però parliamo di tutt’altro, finché mi accorgo che è eccitato c mi chiedo con imbarazzo come farà l’amore. Passiamo vicino a una spiaggia: c’è gente che fa il bagno. Io interrompo questo passeggiare ormai erotico e dico, tanto per cercare un diversivo “Guarda guarda laggiù, fanno il bagno”. Capisco di disturbare però sono anche sinceramente meravigliata. A un tratto arriva una grande onda di acqua chiara verdina, ma torbida che ci prende alle gambe e ci fa perdere l’equi­ librio. Cerco di scherzare, ma è una cosa seria, arriva sempre più acqua, non è

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affetto fredda, ma tanta. Mi aggrappo a un carro con un asino, ma anche quello va a fondo mentre l’amico, aggrappalo a me, mi sta portando giù. A Turicchi, ma molto diverso da come è. Il capo muratore lavora anche di notte, poi annuncia che per un lungo periodo non verrà. Succedono cose strane, a un tratto sembra quasi che butti giù la casa. C’è un passeggio di gente tra cui Simone a cui chiedo spiegazioni. Sono in uno strano appartamento di gente giovane, divertente: sto a mio agio, mi aprono mondi nuovi a cui sono pronta. Accennano a Ester, che arriva davve­ ro con altre due donne come guardie del corpo. La osservo bene e non la ricono­ sco: ha il viso truccato con labbra rosse dipinte a cuore, i capelli assomigliano a cordicelle ondulate. La saluto e le porgo la mano molto spontaneamente. Lei la prende frettolosa, e con vaso duro, senza guardarmi, come contrariata e subendo un gesto fuori dai suoi programmi, passa oltre. Mi lancio in situazioni immagi­ narie: nella penombra un tale mi punta una pistola, spara e io cado per finta come se avessi deciso che è un happening. Mi viene vicino con la pistola puntata, io metto una mano all’imboccatura della canna e scoppio a ridere. Si accende la luce. Anche lui ride, molto sollevato, allegro, incantato di me. Mi prende per ballare (è un giapponese con una dolce faccia esotica): io allargo visibilmente le braccia e lo stringo, così non ci sono dubbi che mi piace. Faccio finta di non sapere ballare per divertirlo, poi comincio a ballare bene. Lui mi guarda con la faccia piena di approvazione incondizionata, una ragazza mi diventa amica e mi suggerisce scherzando tutto ciò che va di moda tra i giovani. Sono accettata perché ho agito con molto spirito, ossia il mio spirito lì è venuto subito fuori ed è stato subito capito, li ha entusiasmati, mi sentono una di loro.

22 die. Aedo andare in fumo diversi tipi di illusioni che avevo: uno, quello di trovare sbocchi con il femminismo e nel femminismo, in­ vece tutte sembrano cercare inserimenti più confacenti nel mondo maschile, specialmente in quello artistico che io ho lasciato per fare Rivolta; e, secondo, quello di trovare rapporti più personali tra noi dopo lo scioglimento dei gruppi. D’altra parte la realtà è questa, andiamo avanti. Per esempio, andiamo a fare l’amore con Simone. Però devo trovare il modo di riaffacciarmi nel mondo. Non posso passare la giornata a scrivere il diario o a raccogliere le briciole spar­ se di Rivolta.

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23 die. Persino donne di paesi sottosviluppati sembrano evolutissime rispetto alle nostre burocrate che fanno il verso alle vere femministe! La condizione femminile in Italia è un pantano di ambizioni culturali, velleità politiche e frustrazioni globali. Non c’è che prendere coscien­ za, vedersi come si è invece di confondere ancora di più le acque con la demagogia. Tra la gente passano delle maree che avvicinano e poi allontanano. Si teme di perdere l’altro, lo si perde, ma spesso una nuova marea lo riavvicina. Non c’è niente di stabile tra me e gli altri, solo Tito è una stella fissa che brilla sempre uguale, al di sopra delle maree. Prima ammiravo i filosofi, gli artisti, i poeti. Poi li ho ripudiati. Adesso li capisco. 25 die. Natale. Non c’è ragione di non considerare una formidabile dormita di dodici ore - con intervallo all’alba per tuoni lampi e scrosci - in una stanza dal clima eccellente, in un letto dalle lenzuola di lino, in armonico abbraccio con Simone come il massimo della benevolen­ za del cielo, la rigenerazione di cui il mio fisico ha estremo bisogno. La cosa tremenda del mondo è che la gente si nega a vicenda. La famiglia è un covo di aspettative deluse e perciò di negazioni recipro­ che. Vorrei rendermi conto di quanto aspettative fiduciose, magari accanto all’incentivo di incomprensioni anche drammatiche, abbia­ no giocato nel determinare le persone creative. In genere si pensa che queste persone diano molto agli altri, io credo che diano un prodotto finito, mentre non immaginano la cosa più importante per gli altri, la rispondenza. Si stabilisce un movimento a senso unico. Io ho dato tutto a Sara e lei ha preso il volo: io resto quella che ha dato, lei quella che ha preso il volo. Qui a Turicchi è un mondo diverso da ogni altra parte: mi sento distaccata da tutto quello che mi preoccupa in città, è l’anticamera a una laboriosità serena e un po’ esaltata. La giornata, oggi, era di una trasparenza straordinaria, il cielo al tramonto strisciato di colore ara­ gosta, malva e turchese, un continuo cangiante. Dalle persone che in­ contro qui sono riuscita a non volere molto così le osservo tranquilla e scopro la solitudine di ognuno, la farsa anche commovente, perché quasi fatale, in cui si muove. Mi sento in forma, l’aria è per risusci­ tare i morti, però questa forma nessuno la coglie al volo, al mondo è indifferente e mi passerà senza che abbia trovato dove applicarla,

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come manifestarla. Lo faccio con Simone però lui è così dolce con la felicità che mi surclassa, mentre io sono sì morbida, ma sempre scricchiolante sotto qualsiasi cielo. Tutto mi schiaccia, o comunque lo temo, nell’emozione. Sono una viva per miracolo. 27 die. In treno Montevarchi-Firenze vado a trovare mia madre che ha una mano un po’ infortunata. Voglio rendermi conto se è il caso di chiamare un medico oppure no. La giornata è limpida con apparizioni di nuvole che accentuano solo la limpidezza. L’inverno qui è bellissi­ mo, asciutto e un po’ ventoso. In città si è condizionati a credere che sia bella solo l’estate, quando si va in vacanza, o la primavera che an­ ticipa l’estate. Invece l’inverno è meraviglioso, il sole può essere anche abbastanza caldo e se si è coperti, camminare per la campagna umida con il terreno soffice di foglie, le querce ancora ricche di vegetazione secca dorata non ha paragoni. Si può stare fuori tutto il giorno, non c’è da sfuggire il sole, da chiudersi in casa per non vederlo. Adesso smetto, siamo al Campo di Marte, un nome molto familiare da quando ero bambina. E la fermata prima della Stazione Centrale di Firenze. 29 die. Da due giorni sono qui e ho avuto sempre il leggero mal di stomaco di quando ero ragazza. Lotto contro la frustrazione che mi viene dai genitori, contro la mia stessa voglia di reagire, contro il si­ lenzio che devo mantenere. In realtà sono due estranei a cui ho fatto riferimento tutta la vaia, su cui ho impiantato i miei bisogni affettivi, a cui ho cercato di dire la verità senza risultato fino a oggi in cui pre­ ferisco tacere e vederli passibilmente contenti. Constato quanto mia madre è stata distrutta dal matrimonio e quanto è infantile. Vorrei portarla via e darle tutto quello che desidera, ma non desidera niente se non continuare la sua vita con mio padre. Lui è irragionevole, intrattabile, ferisce la gente all’improvviso, senza ragione, e di solito la gente è mia madre (ora che non ci sono più i figli in casa). Fa la faccia come un pazzo e gli occhi sprizzano fuori, furibondi: magari siamo tutti e tre in ascensore, la mamma si sta mettendo i guanti alle­ gra e scherzosa. Allora, dietro le sue spalle come una bambina sorpre­ sa da un ingiusto rimprovero, assume l’espressione di “Eccoci, ci sia­ mo, lasciamolo dire, che pazienza ci votole, beh, beh, gli passerà”. Poi prende un atteggiamento “naturale”, come niente fosse stato, o come una persona superiore alle altrui assurdità, e questo dava l’esempio ai

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figli che la seguivano nella strada del silenzio e dello scoperto fingere. Io no, io restavo sbalordita, angosciata, piena di ribellione, e torna­ vo subito sull’argomento. Così ero sgradita, insopportabile a tutti e due perché rompevo la loro strategia. Intanto che scrivo sto meglio, mi sento la bocca più asciutta e la pressione sullo stomaco allentata. Se non avessi scritto da giovane, chissà, sarei morta. Tanto è ancora vivo in me il riflesso condizionato della mia impotenza di fronte a un qualcosa di troppo incredibile, che scopriva baratri di sofferenza incomunicabile e di bestiale perseveranza. Non vedo più come sia possibile cambiare il mondo, solo trovare uno sbocco di liberazione e viverlo. In fondo il limite dei filosofi è che tutta la loro speculazione andava a finire in un qualche progetto di società, era in funzione dell’assetto da dare al mondo. Mentre per me è del cogliere individualmente ciò che è realizzabile. L’assetto dovrebbe scaturire da questo atteggiamento e non viceversa. Alzando gli occhi dal letto alla piccola libreria dei miei fratelli, ho vi­ sto L’evoluzione creatrice di Bergson. Ho preso a leggerla e vi ho trovato quello che sto facendo, cioè registrare tutti i mutamenti della coscien­ za, che sono infiniti, e sono, secondo lui, una continua creazione di noi stessi. Adesso ogni filosofo che incontro mi sembra di ritrovarlo dentro di me. Stamani papà tutto elegante, contento della sua forma attira una cer­ ta simpatia. La mamma mi sta facendo morire con mille stupidaggini tipo “Reggi l’angolo del materasso e tira un po’ il lenzuolo”, “Batti la carne da quella parte, dall’altra no, è abbastanza sottile”, “Tieni le forbici, tira via i due gancetti dalla carta, attenta a non romperla per­ ché mi serve per buttare la spazzatura” ecc. ecc. Come devo averla detestata da bambina! La cosa più tremenda però è che continua a impiegare subdolamente l’arma della scontentezza verso i figli, vuol farti sentire la delusione che ha sugli altri, ma indirettamente su di te, su di me se non rispondo sempre assecondandola. Ma di cosa dovreb­ be lamentarsi? Tutti i figli per la retta via, qualcuno è riuscito persino a emergere, tutti economicamente a posto, bei nipoti, sani di corpo e di mente. Cosa avremmo dovuto fare per lei che non abbiamo fatto? L’abbiamo abbandonata e forse questo non può perdonarcelo dopo averci dedicato la sua vita. Un colpo per Freud fu di sicuro quando capì che l’umanità non sareb­ be guarita con la sua terapia di rendere cosciente l’inconscio. Si sarà

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sentito taumaturgico, si sarà accorto di non esserlo, che nessuno lo è. Tutto come prima, questo è ora il mio motto. Ho parlato con Emilio: è stato molto sincero con me. Si analizza spie­ tatamente, ma ormai sa cos’è se stesso: appena si perde se ne accorge, gli è impossibile fingere. Alla fine ha detto “Voglio essere accettato come sono, essere disteso, ridere”. Come può essere accogliente un treno locale che percorre al buio la tua terra e ti porta in un’amabile luce dalla casa paterna alla tua casa.

30 die. Sto divinamente bene. E domenica e non circolano automo­ bili. Simone e io abbiamo fatto la prima colazione nella camera dei nostri ospiti e ora andiamo a piedi a Turicchi. L’amore per la cam­ pagna ventosa (com’è oggi) mi ricorda l’esaltazione per Cime tempestose quando ero ragazzina. A me non interessa cambiare i condizionamenti neH’illusione di dare la libertà, mi interessa prendere la mia libertà. Questa del bestseller (la Gianini Belotti di Dalla parte delle bambine) ha preso la sua? Come ricomincerò i rapporti con gli altri? Per ora ho il deserto intor­ no: invece di espandermi come un fiore mi espando come un cactus proteggendo la mia vita con aculei, dato che quei pochi che incrocio mulinellano con fendenti di volgarità la mia solitudine. Brigitte Bardot ha dichiarato di volersi ritirare in convento, che desidera solo la pace interiore che non ha. Magari è una trovata pubblicitaria, ma non credo: se io stessa lo desidero, figuriamoci una che è stata dentro fino al collo.