Storia della cultura fascista
 8815264310, 9788815264312

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introduzione
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cap03
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cap06
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conclusioni
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Le vie della civiltà

na ,B ol og co So py ci rig et ht à ed © 2 itr 01 ic 1 e il by M ul in o I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

Alessandra Tarquini

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Storia della cultura fascista

Società editrice il Mulino

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978-88-15-14958-9

Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

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Indice

Introduzione

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7

Il dibattito storiografico dal 1945 a oggi

11

1. 2. 3. 4. 5.

11 18 26 32 40

I primi studi sulla cultura fascista La storiografia marxista Il contributo degli studiosi europei e americani La nuova storiografia italiana Il dibattito degli ultimi quindici anni

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I.

p.

II. La politica culturale degli anni Venti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Le origini dell’ideologia fascista Il programma scolastico Il contributo di Giovanni Gentile Le istituzioni culturali La fascistizzazione della scuola L’Opera nazionale balilla L’Opera nazionale dopolavoro

III. Gli intellettuali e gli artisti degli anni Venti 1. 2. 3. 4.

49 49 55 59 66 71 75 78 83

Gli intellettuali Il dibattito sull’arte fascista La letteratura Fra politica e cultura

83 92 96 99

IV. L’ideologia dello Stato totalitario

105

1. I miti e l’ideologia 2. Il mito di Mussolini 3. Il mito dello Stato

105 109 114

INDICE

4. 5. 6. 7. 8.

p.

123 128 134 138 141

La politica culturale degli anni Trenta

147

1. 2. 3. 4.

147 154 160 166

I ministri dell’Educazione Nazionale e il Pnf Credere, obbedire e combattere Il Minculpop Trasformare le donne

VI. Gli intellettuali e gli artisti degli anni Trenta Le correnti della cultura La letteratura I filosofi del fascismo La cultura razzista La città fascista

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1. 2. 3. 4. 5.

VII. La politica culturale e gli intellettuali degli anni Quaranta 1. La Carta della scuola e «Primato» 2. Il Dizionario di politica

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V.

Fascismo e nazionalismo Il mito di Roma Il mito dell’uomo nuovo Fascismo e corporativismo La discussione sulla Rivoluzione francese

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6

171 171 173 184 193 202

209 209 216

Conclusioni

223

Indice dei nomi

233

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Introduzione

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Nelle prime righe del volume La cultura fascista, pubblicato dal Partito nazionale fascista per i corsi di preparazione politica destinati ai giovani, si legge che «una cultura è una concezione della vita», «una manifestazione di azione sociale, spirituale e storica» e non un «modo individuale d’essere», «un abbellimento dell’intelletto o una contemplazione privata». La cultura, in sostanza, è un’attività «creatrice di un popolo»1. Le frasi citate sono solo un esempio dei molti scritti in cui i fascisti mostrarono di ritenere che l’esistenza degli italiani avesse un senso esclusivamente all’interno dei propositi e delle attività del regime. Convinti che la politica costituisse «l’integrale di ogni avvenimento» e che «la più gratuita azione, i più intimi pensieri di ogni individuo», avrebbero acquistato «concreto significato» solo se fossero stati «ricondotti direttamente ad un valore politico»2, i fascisti celebravano il primato della politica su tutte le altre manifestazioni della vita moderna e credevano che la cultura fosse uno strumento per realizzare la nuova civiltà nata con la presa del potere nell’ottobre del 1922. Questo modo di intendere la cultura fu un’espressione del carattere totalitario del fascismo, come si cercherà di sottolineare in questa breve storia della cultura fascista che non vuole essere una sintesi della cultura italiana negli anni fra le due guerre mondiali. Nelle pagine seguenti, infatti, ci si soffermerà soltanto sulle espressioni più importanti della cultura del regime, quelle che riflettono direttamente la sua azione e la sua presenza, tralasciando le manifestazioni culturali che, pur   Partito nazionale fascista, La cultura fascista, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1936, p. 4. 2   Contributo per una nuova cultura, in «Il Saggiatore», a. IV, nn. 6-7-8, agosto-ottobre 1933, pp. 243-381. 1

8   INTRODUZIONE

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avendo grande rilievo per la storia del Novecento italiano, e in qualche caso per la storia del XX secolo tout court, non sono evidentemente legate alla politica del fascismo. Nei capitoli del libro l’universo culturale fascista verrà analizzato distinguendo la politica culturale del regime, le espressioni del sapere e l’ideologia. La politica culturale riguarda principalmente l’attività del Partito fascista e quella del governo e consente di individuare le scelte della classe dirigente, dalla creazione di nuove istituzioni – come per esempio l’Istituto nazionale fascista di cultura (Infc) che nacque nel 1925 – alla gestione delle funzioni governative tradizionali, come la politica scolastica. Con il termine espressioni del sapere, invece, si fa riferimento ai contributi che gli intellettuali e gli artisti fornirono al fascismo. In questo caso, cercheremo di capire se sono esistite, e in che senso è possibile individuare, una letteratura fascista, un’architettura fascista, una filosofia fascista e così via. E infine l’ideologia, che fu l’espressione di miti politici, e cioè di rappresentazioni composte da immagini, da parole e da credenze, capaci di fornire di senso l’azione di un gruppo, come sostenne il teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel che per primo li studiò per analizzare la politica moderna. In realtà, la distinzione fra politica culturale, espressioni del sapere e ideologia ha solo un’utilità espositiva: serve a selezionare alcuni aspetti di un argomento potenzialmente sterminato come la cultura di un regime in un dato periodo della sua storia. Nei fatti, dal 1922 al 1943, la politica culturale, l’ideologia e l’azione degli artisti e degli intellettuali si manifestarono insieme producendo la cultura fascista. Per esempio, il Foro Mussolini, costruito a Roma fra il 1927 e il 1933 dall’architetto Enrico Del Debbio, è un complesso di edifici che testimonia la presenza di ciò che possiamo definire architettura fascista e quindi è indubbiamente un’espressione culturale degli anni Trenta. Al contempo, però, è sia un documento della politica culturale del Partito fascista e, in particolare, dell’Opera nazionale balilla che lo fece costruire; sia l’espressione di un’ideologia basata sul mito onnipresente di Mussolini, a cui fu dedicato l’obelisco di marmo alto diciotto metri, che si trova all’ingresso della struttura architettonica e porta la scritta «Mussolini Dux». Gli esempi potrebbero continuare con la Scuola di mistica nata nel 1931 a Milano, presso l’Istituto nazionale fascista di cultura della capitale lombarda

INTRODUZIONE   9

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per istruire i giovani al culto del duce. Anche in questo caso si trattò di un prodotto della politica culturale del regime che diede vita a una nuova istituzione; del frutto di un’ideologia fondata sul mito di Mussolini; e dell’azione concreta di storici, filosofi e giuristi che insegnarono nella Scuola dal 1931 fino al 1943 e offrirono il loro contributo alla elaborazione e alla diffusione della cultura fascista. Il libro è diviso in sette capitoli. Nel capitolo I esamineremo gli studi sulla cultura fascista dal secondo dopoguerra a oggi cercando di spiegare come mai questo aspetto della storia del fascismo, che ormai da tempo è divenuto quasi oggetto di una moda storiografica, fino alla metà degli anni Settanta non abbia ricevuto attenzione da parte degli intellettuali italiani, convinti, nella loro maggioranza, che il regime fascista non avesse avuto la capacità di esprimere una propria dimensione culturale. In effetti, in poco più di tre decenni, gli storici hanno capovolto i loro giudizi e sono passati dal negare l’esistenza della cultura fascista al ricostruire i suoi diversi e molteplici aspetti considerandoli non solo importanti, ma addirittura decisivi per capire il fascismo nel suo complesso. Nel capitolo II ricostruiremo la politica culturale degli anni Venti attraverso le principali iniziative del governo e del Partito. Nel III ci occuperemo del contributo degli intellettuali e degli artisti che nello stesso periodo furono i principali esponenti della cultura fascista, con particolare riguardo alle diverse correnti e ai diversi gruppi protagonisti della scena culturale italiana. Il capitolo IV è dedicato all’ideologia del fascismo: ai suoi miti, ai suoi teorici e alle sue principali caratteristiche, diverse da quelle di altre ideologie politiche del Novecento. Nel V verrà analizzata la politica culturale degli anni Trenta, sintetizzando le attività del governo e del Partito in alcuni settori decisivi: i giovani, la scuola, le donne e la cultura popolare. Nel VI ci occuperemo dei letterati, dei filosofi, degli scienziati e degli architetti che sino alla fine degli anni Trenta rappresentarono la cultura del fascismo e nell’ultimo capitolo esamineremo alcune iniziative particolarmente significative degli anni Quaranta. Nel ricostruire questa storia della cultura fascista si è cercato di ricordare una nota definizione di Benedetto Croce, secondo cui «ogni storia è storia contemporanea»3 e cioè ogni problema 3   B. Croce, La storia come pensiero e come azione, II ed. Bari, Laterza, 1938, p. 5.

10   INTRODUZIONE

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storiografico nasce da una domanda presente e viva nell’animo di chi studia. Per quanto remoti e remotissimi possano essere i fatti analizzati, spiegava Croce nel 1938, la storia è sempre riferita a una situazione reale per cui volgendo lo sguardo al passato gli storici rispondono a problemi sollevati dalla loro intelligenza, dalla loro curiosità, dalla loro sensibilità, dalla loro vita quotidiana. In effetti, si tratta di una definizione citata molto spesso nelle introduzioni dei libri di storia forse perché gli autori sentono il bisogno di ricordare che sono consapevoli del carattere parziale della domanda storiografica a cui cercano di rispondere. La domanda a cui questo libro tenta di dare una risposta nei limiti che gli sono propri, nasce dall’esigenza di capire perché uomini e donne di cultura dedicarono il loro tempo, la loro creatività e il loro lavoro al servizio del regime fascista. È una domanda triste, come triste è la risposta suggerita. Non ci sono eroi, non ci sono vittorie, non ci sono riscatti, e soprattutto la storia non finisce con il trionfo del bene sul male. Ci sono intellettuali, artisti e politici che hanno costruito una dittatura violenta, credendo nella politica come si crede in una religione, immaginando un’esperienza da vivere in modo integrale e assoluto e garantendo vitalità a un regime totalitario. Studiare gli scritti e le opere di quelle donne e di quegli uomini significa chiedersi se la cultura, quella per cui ci piace leggere, conoscere, ascoltare le storie degli altri, sia la stessa cosa in cui credeva chi trascorse la propria esistenza in un regime totalitario e non ebbe, o non trovò, la possibilità di vivere in un modo diverso. Significa prendere sul serio la storia e non abituarsi alla violenza del potere. Nel concludere questo lavoro vorrei ringraziare Ugo Berti perché mi ha proposto di scriverlo e perché, nelle discussioni che abbiamo avuto, molto spesso aveva ragione. Sono particolarmente grata a Emilio Gentile, perché in questi anni ho avuto la fortuna di discutere con lui la maggior parte delle idee esposte nel libro e perché ha letto il dattiloscritto dandomi preziosi consigli. E infine per le critiche e per l’incoraggiamento ringrazio gli amici Francesco Benigno, Igor Mineo e Michele Surdi che hanno letto il libro prima che fosse pubblicato, qualcuno, tra loro, anche più volte; a Francesca Rosa, Alessandra Staderini, Daniela Tarquini e Annamaria Trama il ringraziamento di sempre. Questo libro è dedicato alla memoria della prima antifascista che ho conosciuto.

Capitolo primo

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Il dibattito storiografico dal 1945 a oggi

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1. I primi studi sulla cultura fascista

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I primi studi sulla cultura fascista apparvero subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il dibattito storiografico sul fascismo era condizionato dalla battaglia politica appena conclusa. La discussione fra gli storici si svolgeva, allora, fra i sostenitori di tre interpretazioni: quella liberale, quella radicale e quella marxista, espressioni di culture politiche e di studiosi legati al mondo dell’antifascismo1. Sulla scia di Benedetto Croce, gli intellettuali liberali ritenevano che il fascismo fosse la manifestazione di una malattia morale, esplosa nella prima metà del Novecento con il diffondersi dell’irrazionalismo nella cultura e nella società europee; la semplice e brutale espressione di una fase negativa della storia. Al contrario, i democratici e i radicali, sull’esempio dell’intellettuale antifascista Piero Gobetti, non pensavano che il fascismo fosse un fenomeno circoscritto alla prima parte del Novecento e vi scorgevano «l’autobiografia della nazione» italiana, ovvero, l’esito di antichi problemi irrisolti e di uno sviluppo economico e politico diverso da quello degli altri paesi europei; per loro il fascismo non possedeva caratteri originali e anzi presentava aspetti analoghi a quelli dei regimi precedenti, che, come il fascismo, erano l’espressione delle anomalie della storia italiana. Socialisti e comunisti, infine, identificavano il fascismo con l’irrompere delle forze reazionarie contro l’avanzare del proletariato. Anche per loro il fascismo non aveva inventato nulla. In quanto manifestazione del conflitto di classe, esprimeva 1   Cfr. R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 29-83.

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uno stadio della contrapposizione fra il capitale e le forze del movimento operaio. Queste tre interpretazioni così diverse erano accomunate dall’assenza di una riflessione sulle caratteristiche peculiari del fascismo che veniva descritto come un regime in grado di imporre il proprio dominio sugli italiani con la violenza e il terrore, e quindi meritevole di condanna e disprezzo, ma non di analisi storiografiche particolarmente approfondite perché sprovvisto di una qualche forma di originalità. E in effetti, studiosi di orientamento e formazione diversi, furono d’accordo nel ritenere che il fascismo non avesse avuto alcuna ideologia, come sostenne Norberto Bobbio. Alla fine della seconda guerra mondiale Bobbio si era avvicinato al Partito d’azione, fondato clandestinamente nel 1942 in continuità con il movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà. Per la sua storia, e per ciò che scrisse nel corso della sua lunga attività di studioso, Bobbio rappresentava quegli intellettuali democratici e antifascisti che, subito dopo la guerra, interpretarono il proprio ruolo di studiosi come una missione da svolgere per combattere qualunque forma di subordinazione alle direttive di un partito o di uno Stato, fosse quello fascista o quello sovietico il quale, in piena Guerra fredda, costituiva un punto di riferimento per gran parte della sinistra italiana. All’inizio degli anni Cinquanta Bobbio affermò che il fascismo non era stato in grado di produrre alcuna cultura e che anche un uomo come Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, «quando scriveva da fascista diventava gonfio, retorico, riempiva di parole altisonanti il vuoto dei concetti»2. Si trattava di giudizi che avrebbe riproposto negli anni successivi, come fece nel 1973, sostenendo che «gli intellettuali integralmente fascisti erano per la maggior parte intellettuali di mezza tacca»3 e spiegando che il fascismo era stato un movimento «antidemocratico, antisocialista, antibolscevico, antiparlamentare, antiliberale, antitutto», basato sull’attivismo e sull’irrazionalismo4.   N. Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, p. 198.  Id., La cultura e il fascismo, in G. Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973, p. 231. 4   N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano, Garzanti, 1990, p. 153. La prima versione del saggio uscì nel 1968 come capitolo dell’ultimo 2 3

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Nel formulare questi giudizi Bobbio risentiva dell’influenza di Gaetano Salvemini, di Carlo Rosselli, ma soprattutto di Benedetto Croce e Piero Gobetti. Da Croce Bobbio aveva tratto la convinzione che i presupposti teorici del fascismo fossero l’irrazionalismo e l’attivismo, sviluppatisi come una malattia morale nella cultura europea di inizio Novecento5. Da Gobetti, invece, aveva recepito l’immagine di un’Italia diversa e separata dal mondo moderno e civilizzato. Un’Italia retorica, arretrata, illiberale e piccolo borghese, che aveva in Gentile un esponente autorevole e nel fascismo una delle espressioni più significative6. Così, conciliando l’interpretazione liberale di Croce con quella democratico-radicale di Gobetti, Bobbio esprimeva una concezione della cultura come manifestazione della libertà del pensiero, esercizio di critica e analisi razionale della realtà, per cui gli intellettuali fascisti, quelli che rinunciarono alla propria autonomia e servirono gli interessi della politica, non potevano essere considerati veri studiosi, ma solo intellettuali di «mezza tacca». Coerentemente con questa concezione della cultura, il fascismo rappresentava niente più che una fase di crisi della storia d’Europa e d’Italia. Questa riflessione nasceva dal bisogno di nascondere un passato difficile da elaborare. Riconoscendo l’esistenza della cultura fascista, Bobbio e i molti studiosi che espressero giudizi analoghi, avrebbero dovuto spiegare le ragioni per le quali gli intellettuali italiani avevano offerto il proprio contributo al regime totalitario. Avrebbero dovuto indicare in che modo la loro generazione nel 1943 fosse diventata democratica e antifascista non avendo mai manifestato alcuna forma pubblica di dissenso negli anni del regime e anzi, in alcuni casi, avendo ricoperto volume della Storia della letteratura italiana, edita da Garzanti. Ripubblicato a sé stante nel 1972 da Clut, e nel 1986 da Einaudi, è confluito nella nuova edizione della Storia della letteratura italiana edita da Garzanti, per poi uscire nel 1990 nell’edizione a cui qui si fa riferimento. 5   B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947). 1, Bari, Laterza, 1963, pp. 7-16, 43-44. Su queste considerazioni crociane, cfr. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, cit., pp. 29-30, 228-230, 234-236. 6   P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi, 1948, p. 66. Cfr. P. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 5-12, e Id., L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 16, 150 e 385, oltre all’introduzione.

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ruoli pubblici, insegnato nelle università, scritto sui giornali fascisti e rappresentato l’élite culturale italiana. Non lo fecero e scelsero di scolorire «i tratti specifici dell’esperienza fascista»7, quindi, sia pure involontariamente, di «defascistizzarla» e cioè di sottrarre al regime gli attributi che ne caratterizzano l’individualità storica negando che avesse avuto una cultura, un’ideologia, una classe dirigente, un carattere totalitario e insomma una sua specificità8. A differenza di Bobbio Eugenio Garin, che all’epoca era uno degli studiosi più importanti della sinistra vicina al Partito comunista, riteneva che la cultura negli anni fra le due guerre fosse un argomento meritevole di attenzione e per questo le dedicò uno spazio importante nel suo Cronache di filosofia italiana del 1955. Garin pensava che, dopo una prima fase in cui Gentile aveva effettivamente svolto un ruolo decisivo nella cultura fascista, con i Patti Lateranensi del 1929 il regime avesse mostrato la sua vera natura reazionaria e conservatrice perché aveva scelto di accordarsi con il mondo cattolico, da sempre ostile a Gentile e agli esponenti della filosofia moderna. Insomma, Garin era convinto che la cultura fascista fosse una cultura reazionaria di matrice cattolica e spiritualista9. Se Bobbio ebbe in Benedetto Croce e in Piero Gobetti i propri punti di riferimento, nel formulare questi suoi giudizi storiografici sul fascismo Garin subì l’influenza dell’intellettuale comunista Antonio Gramsci e in misura minore dello stesso Croce. Da Gramsci, morto in prigione nel 1937 e autore dei Quaderni del carcere pubblicati postumi fra il 1947 e il 1951, Garin trasse la convinzione che le ideologie hanno un loro valore intrinseco e non sono semplici sovrastrutture della realtà economica, come affermava la tradizione marxista ortodossa. Grazie a Gramsci, inoltre, Garin sostenne che le ideologie non nascono dall’elaborazione di concetti coerenti, non sono idee nate da altre idee, ma sono il risultato di una lotta culturale e politica per trasformare la realtà. In questo senso Garin pensava

 Zunino, L’ideologia del fascismo, cit., p. 17.   E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. VI-VIII. Cfr. anche A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 1-20. 9  E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari, Laterza, 1966. 7 8

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che la tradizione culturale italiana dovesse essere ricostruita come storia dei gruppi intellettuali «non isolati nelle loro idee o nei loro scritti, ma visti in rapporto con le forze reali operanti»10 che esprimono una visione del mondo. Queste riflessioni ben si adattavano all’idea della filosofia come sapere storico che Garin aveva mutuato da Croce. Come riconobbe in più occasioni, del filosofo idealista aveva ammirato la volontà di misurarsi con i problemi concreti del proprio tempo e l’idea che il processo di produzione delle idee è sempre connesso allo svolgimento della realtà politico-sociale. Ora, né Croce né Gramsci avevano mai ritenuto che il regime avesse avuto una propria cultura. Il leader comunista nel 1924 aveva definito le espressioni culturali del fascismo «un trastullo per i balilla». Le sue considerazioni sulla realtà delle ideologie, o sulla relazione fra gli intellettuali e il potere politico, nate dalle esigenze di un leader comunista e di un teorico del marxismo, non lo portarono a considerare il fascismo un fenomeno rivoluzionario, dotato di una cultura originale, distinta da quelle che l’avevano preceduta11. Per Gramsci il fascismo era l’espressione più evidente dell’incapacità dei gruppi dirigenti liberali di rispondere alle sfide della società di massa. Da questo punto di vista, anzi, il leader comunista, rinchiuso nelle carceri del regime, considerava il fascismo un fenomeno reazionario, da studiare come si studia un avversario che ha vinto una battaglia. Quando Garin elaborò queste riflessioni, pur non essendo marxista, come molti intellettuali della sua generazione aveva visto nel pensiero di Gramsci uno strumento per costruire una nuova coscienza civile capace di generare il riscatto dell’Italia dal fascismo. Per questo si era avvicinato al partito di Palmiro Togliatti che sin dalla fine della seconda guerra mondiale aveva lavorato per rifondare il Pci, trasformando la piccola formazione leninista degli anni Venti in un partito di massa, 10  Id., La filosofia come sapere storico. Con un saggio autobiografico, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 109. 11   Cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo, cit., p. 30; S. Colarizi, Gramsci e il fascismo, in F. Giasi (a cura di), Gramsci nel suo tempo, prefazione di G. Vacca, 2 voll., Roma, Carocci, 2008, vol. I, p. 343. Per un giudizio diverso da quello qui esposto cfr. B. Garzarelli, Il fascismo e la crisi italiana negli scritti del 1924-26, ibidem, p. 530.

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nuovo e nazionale12. Come si vede, allora, i primi studi sulla cultura fascista nacquero nel mondo della sinistra, da parte degli intellettuali antifascisti democratici, socialisti e comunisti che, tuttavia, negavano l’esistenza del problema. Dal mondo cattolico non emerse una riflessione diversa: la maggior parte degli intellettuali si dichiarò d’accordo con l’interpretazione di Bobbio e senza esitazioni affermò che non era esistita alcuna cultura fascista, dato che la «dottrina del fascismo non era che la veste, la maschera, offerta nelle diverse occasioni per nascondere la reale situazione delle cose». Così scrisse nel 1962 il critico letterario Carlo Bo, che da giovane era stato un collaboratore di diverse riviste fasciste come «Rivoluzione» e «Primato» e poi autorevole studioso cattolico. Per Bo «la storia del fascismo, non era stata altro che una serie di motivi improvvisati, frutti di esperienza giornalistica, nel migliore dei casi, dati che erano derivati dallo studio di particolari situazioni»13. Era convinto che cercando di definire l’ideologia fascista, gli studiosi si sarebbero accorti «che non è mai esistita». Due anni dopo, in una raccolta di studi, diversi autori di area cattolica sottolineavano come fosse difficile individuare il contenuto di una dottrina del fascismo14. L’unica eccezione all’interno di questo panorama storiografico decisamente uniforme fu rappresentata da Augusto Del Noce. Subito dopo la guerra, il filosofo cattolico scrisse che il fascismo aveva «le sue radici profonde in atteggiamenti della spiritualità moderna»15 dichiarandosi d’accordo con Benedetto

12  Cfr. G. Santomassimo, L’impegno civile, in Garin e il Novecento, numero monografico del «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze, Le Lettere, 2009, p. 444; A. Tarquini, Eugenio Garin studioso della cultura fascista, G. Vacca, Eugenio Garin interprete di Gramsci, e F. Frosini, La presenza di Gramsci nella storiografia del Novecento, tutti in Il Novecento di Eugenio Garin, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, in corso di stampa. 13  C. Bo, L’ideologia del regime, in Fascismo e antifascismo (19181948). Lezioni e testimonianze, 2 voll., Milano, Feltrinelli, 1962, vol. I, pp. 305-322. 14   E. Faccioli, La cultura durante il periodo fascista, in Dall’età giolittiana alla Costituzione, Mantova, Unione goliardica mantovana, 1964, p. 104. 15   Cfr. A. Del Noce, Senso del fascismo, in «Il Popolo nuovo», 12 maggio 1945, ora in N. Bobbio e A. Del Noce, Centrismo: vocazione o condanna?, a cura di L. Cedroni, Milano, Reset, 1995, p. 34.

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Croce, secondo il quale la caratteristica principale della mentalità e della cultura dei fascisti era l’attivismo. Per Del Noce, l’attivismo non doveva essere confuso con «uno spirito di incultura, di semplicismo, di rozzezza» perché, invece, «aveva origini raffinate e colte e tipicamente europee»16. Negli anni successivi approfondì questa riflessione sostenendo che la cultura fascista trovava la sua matrice principale nella filosofia di Giovanni Gentile e che i fascisti avevano espresso una concezione della politica intesa non tanto come strumento per trasformare la realtà, ma come fede religiosa e quindi come esperienza da vivere in modo integrale e assoluto17. Dall’inizio degli anni Settanta, ribadendo quanto aveva sostenuto per oltre un trentennio, spiegò che il fascismo non era un fenomeno politico «reazionario», cioè non nasceva da una reazione contro la modernità; non era il risultato dell’incontro fra i cattolici e le forze conservatrici alleati contro il progresso, come pensava Garin, e neppure un regime anticulturale, come riteneva Bobbio. Secondo Del Noce il fascismo nasceva da «un errore della cultura» moderna di cui era un prodotto e non da «un errore contro la cultura»18. Era convinto, infatti, che con la modernità secolarizzata fosse nata una concezione assoluta della politica che, nel tentativo di sostituire Dio, aveva creduto possibile realizzare la felicità e liberare l’uomo dalla sofferenza. A suo avviso, infatti, qualunque pensiero rivoluzionario rappresentava il tentativo di dare vita a una religione secolare, con la conseguenza che i regimi totalitari, come quello fascista, rappresentavano l’apoteosi della modernità, il suo esito più radicale. Si trattava di un’interpretazione opposta a quelle prevalenti in una fase della cultura italiana dominata dagli studi dei marxisti, che furono fra i primi a occuparsi in modo sistematico di questo tema della storia del fascismo.

16   Ibidem, p. 35. Cfr. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, cit., pp. 84-90. 17  A. Del Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, in «L’ordine civile», 2 (1960), n. 8, p. 17. 18  Id., Giacomo Noventa e «l’errore della cultura», in Id., Il suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978, pp. 32-56. Il testo apparve per la prima volta come introduzione a G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, Firenze, Vallecchi, 1973.

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2. La storiografia marxista

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Dalla fine della seconda guerra mondiale e per i successivi quarant’anni, salvo importanti eccezioni, gli studiosi marxisti hanno ritenuto che il fascismo fosse un fenomeno politico controrivoluzionario, nato dalla reazione della borghesia contro le forze del proletariato. In questo senso hanno negato che avesse una propria identità specifica, considerandolo l’epifenomeno di un conflitto di classe. Nella maggioranza dei casi, inoltre, gli intellettuali di formazione comunista hanno condiviso l’impostazione marxista ortodossa secondo cui le ideologie sono espressioni sovrastrutturali dei rapporti economici esistenti fra le classi sociali, ovvero manifestazioni di problemi strutturali senza valore intrinseco. Ritenendo che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti, e quindi che la classe dominante di una società è in pari tempo la sua potenza spirituale, gli studiosi di formazione marxista hanno considerato il termine ideologia come l’insieme delle espressioni culturali prodotte in un determinato momento dalla classe sociale che detiene il potere e impone una rappresentazione deformata della realtà per giustificare la propria esistenza. Da questo assunto derivarono alcune implicazioni di grande importanza per la riflessione sulla cultura e quindi anche su quella fascista. In particolare derivò una visione della storia della cultura come storia di false rappresentazioni della realtà, prodotte dal contesto economico e politico nel quale si sono sviluppate, e quindi la convinzione che non fosse necessario studiare il contenuto delle ideologie ma la loro funzione di dominio. Convinti che il loro compito fosse quello di svelare i pregiudizi, le mitologie e le superstizioni per portare la storia verso uno stadio più alto di consapevolezza e di coscienza, gli studiosi marxisti hanno condiviso questo obiettivo con i liberali e con studiosi di diverso orientamento, ugualmente fiduciosi nel progresso e nella possibilità di rendere note le trame del dominio attraverso la ragione. In realtà, all’interno di questo quadro, e della cultura marxista del secondo dopoguerra che ha prodotto numerosi contributi sul fascismo, è possibile distinguere almeno due filoni di ricerca: uno legato al pensiero di Gramsci e di Togliatti e alla tradizione culturale del Partito comunista italiano e un altro riconducibile a esperienze del mondo comunista che si

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diffusero in Occidente soprattutto a partire dal 1968, come dimostrano gli studi del filosofo ungherese György Lukács e del critico letterario italiano Alberto Asor Rosa, peraltro molto diversi fra loro. Ne La distruzione della ragione Lukács ricostruì la storia della filosofia tedesca da Schelling all’avvento del nazionalsocialismo, con la convinzione che il tratto più significativo della cultura europea di quegli anni fosse l’affermazione dell’irrazionalismo e cioè, secondo il filosofo e critico ungherese, di un pensiero reazionario e borghese, sviluppatosi in Germania fra il XIX e il XX secolo19. Descritto come esito di un percorso inarrestabile, perché figlio di un processo sociale e politico, l’irrazionalismo si era espresso attraverso diverse filosofie che avevano preparato il terreno culturale del nazionalsocialismo, da Schopenhauer a Weber, da Kierkegaard a Nietzsche. In Nietzsche, in particolare, Lukács vedeva il principale responsabile della costruzione di una Germania imperialistica, il filosofo che più di altri aveva rappresentato «gli interessi permanenti della borghesia reazionaria» e, quindi, il padre spirituale del nazionalsocialismo. Può sembrare paradossale, ma nei suoi esiti questa riflessione sulle origini della cultura nazionalsocialista non si differenziava da quelle di matrice liberale che consideravano il fascismo il prodotto dell’irrazionalismo e dell’attivismo. Lo notava Bobbio nel 1976 commentando il volume di Lukács e sottolineando i punti di contatto fra la sua tesi sull’inconsistenza della cultura fascista e la riflessione del filosofo ungherese20. In effetti, in quegli anni era possibile registrare un’ampia convergenza degli studiosi marxisti con autori di formazione liberaldemocratica sul carattere irrazionalistico del fascismo

19   G. Lukács, La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959. Per un’interpretazione analoga cfr. M. Rosci, Il fascismo degli intellettuali, in Arte e fascismo in Italia e in Germania, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 154162. Sull’influenza del giudizio di Lukács sulle avanguardie artistiche, cfr. G. Cianci (a cura di), Modernismo/modernisti dall’avanguardia storica degli anni trenta e oltre, Milano, Principato, 1991, pp. 32-34. 20   N. Bobbio, L’ideologia del fascismo, Quaderni della Fiap, Ferrara, 1976, p. 4. Fu anche la tesi di N. Zapponi che illustrò le analogie fra le interpretazioni del fascismo di Croce, Mann, Lukács e Nolte in G.L. Mosse e il problema delle origini culturali del fascismo: significato di una svolta, in «Storia contemporanea», 7 (1976), n. 3, pp. 461-480.

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che per tutti loro rappresentava l’esito di una crisi iniziata nella seconda metà del XIX secolo. Come spiegava Mario Isnenghi nel 1979, non si trattava di «un bel risultato». Si partiva «antifascisti militanti, e magari marxisti» per «ritrovarsi ancora una volta crociani: di un crocianesimo di ritorno, e sia pure di sinistra»21. Nel 1965, in Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa ricostruì la storia della letteratura italiana individuando un elemento di continuità fra la cultura risorgimentale, quella fascista e quella postfascista. A suo avviso, con l’affermarsi della questione nazionale molti intellettuali italiani avevano iniziato a occuparsi delle masse contadine, mostrando attenzione per il popolo escluso dalla costruzione dell’unità d’Italia e considerato portatore di valori positivi. Da allora, contrapponendo le masse popolari alle classi dirigenti, i letterati italiani, conservatori e progressisti, scrissero in nome e in difesa del popolo. E così, secondo Asor Rosa, «mentre l’Europa esprimeva nel Novecento l’ultima grande fiammata di una letteratura borghese audacemente critica e distruttiva verso il mondo stesso che l’aveva espressa, l’Italia continuava a produrre generazioni di intellettuali ingenuamente fiduciosi nella funzione socialmente rigeneratrice dell’arte e della poesia»22. Da Oriani a Pascoli, da Corradini a Salvemini, da Bontempelli a Pasolini, il populismo descritto da Asor Rosa era il prodotto di una cultura piccolo borghese e anticlassista che proponeva un’immagine mitica e nebulosa del popolo, invece di considerarlo una classe sociale con le sue caratteristiche. Lo dimostrava fra gli altri lo scrittore fascista Curzio Suckert repubblicano, interventista, garibaldino, sindacalista rivoluzionario, squadrista uno dei tanti fascisti che esaltava il popolo come pura forza23. Insomma, come i progressisti di fine Ottocento, anche i romanzieri fascisti narravano il popolo descrivendo un soggetto depositario di valori positivi e si impegnavano nella società del loro tempo sostenendo la costruzione di un nuovo Stato nazionale e popolare. 21   M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, p. 232. 22   A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, II ed. Roma, Samonà e Savelli, 1969, p. 279. 23   Ibidem, p. 95.

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Nel 1975, nel quarto volume della Storia d’Italia pubblicata da Einaudi, Asor Rosa dedicò alla cultura fascista più di trecento pagine sostenendo che era stata «il coacervo delle ambizioni insoddisfatte e delle illusioni sbagliate, questo impasto policefalo di vocianesimo, prezzolinismo, papinismo, sofficismo, gentilianesimo, futurismo, sorelismo, dannunzianesimo, ruralismo reazionario, controriforma», «la fogna, insomma, in cui» era confluito tutto «l’aspetto arcaico, arretrato, provinciale e schizofrenico della cultura italiana postunitaria»24. Anche in questo lavoro Asor Rosa individuò i legami fra la letteratura prefascista e quella degli anni Venti e Trenta, rilevando che nella cultura italiana sussistevano «tutti o quasi tutti i presupposti dello schieramento di forze intellettuali che si raccolse a sostegno del fascismo» e spiegando che era possibile riscontrare una «coerenza perfetta [...] nello svolgimento delle vicende nazionali fra l’inizio del secolo e il 1922-23»25. Tuttavia, a differenza di quanto aveva affermato in Scrittori e popolo, nel volume del 1975 Asor Rosa sottolineò che la cultura italiana aveva registrato i fenomeni in atto «come crisi di civiltà e quindi, per quanto penosi, inevitabili»26. Scrittori, poeti, giornalisti e narratori fascisti avevano continuato a proporre una cultura arcaica e provinciale, come avevano fatto gli intellettuali italiani all’inizio del secolo, quando era iniziata la lunga crisi sfociata nel fascismo, e quindi erano stati i testimoni della fine di una civiltà che non era riuscita a rinascere dalle proprie ceneri. Così, mentre in Scrittori e popolo aveva indicato la caratteristica principale della cultura italiana dal Risorgimento al fascismo nel populismo degli intellettuali proponendo quindi una riflessione critica sulla letteratura moderna che includeva il contributo dei fascisti, nelle pagine della Storia d’Italia di Einaudi Asor Rosa descrisse il fascismo come l’espressione di una cultura arretrata e reazionaria che si era sviluppata alla fine dell’Ottocento. In realtà, come si ricordava, dall’inizio degli anni Settanta nell’ambito degli studi di area marxista vi furono anche riflessioni di segno diverso proposte dagli storici che avevano assimilato   A. Asor Rosa, Il fascismo: il regime (1926-1943), in Storia d’Italia. IV: Dall’unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. II, p. 1386. 25   Ibidem, p. 1358. 26   Ibidem, p. 1415. 24

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le Lezioni sul fascismo, tenute da Togliatti a Mosca nella primavera del 1935. In quelle conferenze, pubblicate nel 1970, il segretario del Pci aveva invitato a cogliere gli aspetti peculiari della dittatura fascista, evitando le generalizzazioni e non limitandosi a considerarla come una delle diverse manifestazioni della lotta fra il capitale e le forze del movimento operaio. Con questo obiettivo, si era soffermato sugli elementi strutturali del fascismo e lo aveva definito «un regime reazionario di massa» e cioè una dittatura del tutto diversa dai regimi autoritari ottocenteschi. Secondo Togliatti il fascismo aveva dato vita a un sistema politico moderno, «un sistema di reazione integrale», fondato su un’organizzazione capillare, dotato di un’ideologia reazionaria e borghese di matrice nazionalista e filocattolica in grado di «tenere assieme gli strati della piccola borghesia»27. Non si trattava di riflettere sulle idee del fascismo, che secondo Togliatti non suscitavano alcun interesse, ma sulla cultura come strumento utilizzato dal potere politico per mobilitare le masse popolari. A questo proposito il segretario comunista aveva chiarito: «Io vi metto in guardia contro la tendenza a considerare l’ideologia fascista come qualcosa di saldamente costituito, finito, omogeneo. Nulla più dell’ideologia fascista assomiglia ad un camaleonte»28. Da questo punto di vista, Togliatti seguiva la lezione di Gramsci e non sembrava offrire alcun credito all’ipotesi che il fascismo avesse espresso una propria cultura, diversa da quelle che lo avevano preceduto29. L’interpretazione di Togliatti influenzò in modo decisivo gli studi degli storici italiani vicini al Pci, che negli anni Settanta si occuparono di fascismo. Persuasi che la concezione liberale della cultura non fosse in grado di spiegare il ventennio fascista30, gli

27   P. Togliatti, Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 122-123 e 146-147. Sull’importanza delle lezioni per il dibattito sul fascismo cfr. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, cit., pp. 212-217; M. Ciliberto, Sulla filosofia italiana fra le due guerre, in «Dimensioni», 3 (1978), n. 7, p. 28 e la lunga introduzione di G. Vacca a Togliatti, Sul fascismo, cit. Cfr. anche A. Pellicani, Ideologie e culture nel periodo fascista, in «Rassegna di politica e di storia», 14 (1968), n. 161, pp. 72-80. 28  Togliatti, Sul fascismo, cit., pp. 122-123. 29   Cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo, cit., p. 30. 30   R. Racinaro, Intellettuali e fascismo, in «Critica marxista», 13 (1975), n. 1, pp. 177-214.

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studiosi comunisti riconoscevano che il fascismo era stato «l’unico periodo della storia dell’Italia unita nel quale l’adesione degli intellettuali alle classi dominanti» era stata la più ampia31. In effetti, scriveva Giuseppe Vacca, a parte i pochi «che restarono o andarono all’opposizione, i pochissimi che emigrarono o andarono nelle carceri, la stragrande maggioranza degli intellettuali collaborò alla costruzione del regime»32. Da questa riflessione derivava la necessità di studiare come fosse cambiato lo status degli uomini di cultura rispetto all’Italia liberale e quindi in che modo il potere politico fascista si fosse servito degli intellettuali italiani: fu l’obiettivo di Luisa Mangoni, Eugenio Garin e Gabriele Turi. Nel 1974 Luisa Mangoni pubblicò L’interventismo della cultura, la prima storia degli intellettuali italiani dalla guerra di Libia al secondo conflitto mondiale. Riferendosi esplicitamente alle lezioni di Togliatti e alle Cronache di filosofia di Garin, la Mangoni sostenne che per capire la cultura italiana fra le due guerre occorreva studiare la fusione tra fascismo e nazionalismo e interpretarla come il tentativo della borghesia di «riorganizzarsi» dopo la crisi dell’Italia liberale e di «ricostruire gli strumenti di controllo e di potere sullo Stato»33. Anche lei riteneva che il nazionalismo fosse la componente principale della cultura fascista: «non per niente», scriveva a questo proposito citando il leader comunista, «il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista, non per niente una delle più grandi personalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui»34. Secondo la storica, si trattava dei più autorevoli esponenti di un fascismo moderato, che aveva avuto il sostegno determinante dei cattolici. In questo senso, come Togliatti e come Garin, anche la Mangoni riteneva che l’accordo tra i fascisti e i cattolici avesse espresso la vera natura del regime fascista e che il Concordato del 1929 avesse «significato la sostituzione

31   G. Vacca, Gli intellettuali nel regime reazionario di massa, in Matrici culturali del fascismo. Seminari promossi dal consiglio regionale pugliese e dall’Ateneo barese nel trentennale della Liberazione, Bari, Università di Bari, 1977, p. 51. 32   Ibidem, p. 53. 33   L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, p. 74. 34   Ibidem, p. 48.

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del cattolicesimo all’idealismo come cultura predominante del regime». Coerentemente con questa ricostruzione, anche lei credeva che Giovanni Gentile e i suoi allievi non fossero autentici rappresentanti della cultura fascista, come invece i giovani cresciuti nel Ventennio e i filosofi anti-idealisti degli anni Trenta35. Sulla scia di Garin e di Togliatti, anche secondo la Mangoni, quindi, l’universo culturale del fascismo veniva assorbito da un lato dal nazionalismo, che come movimento politico era nato ben prima del 1922, e come ideologia era autonomo dal fascismo; dall’altro dagli intellettuali cattolici, anche loro espressione di una cultura che certo non si poteva ridurre a un’ideologia politica36. Sempre nel 1974, in Intellettuali italiani del XX secolo, Garin irrigidì il giudizio che aveva espresso vent’anni prima e scrisse che l’ideologia fascista si configurava come una congerie di fattori «eterogenei, eclettici, strumentali» e quindi come una realtà molto complessa, quasi impossibile da definire, un insieme di elementi che si richiamavano allo spiritualismo, alla crisi del positivismo di fine secolo e alla parte peggiore della cultura italiana. Era convinto che sotto il regime «reazionario» fossero vissuti tre tipi di intellettuali: gli antifascisti costretti a dissimulare per vivere sotto un regime dittatoriale, i cosiddetti «nicodemiti» che, come i seguaci del protestantesimo nel XVI secolo, occultavano la loro fede per sfuggire alle persecuzioni dei cattolici; i fascisti ingenui, cioè coloro che cercarono di trasformare il regime dall’interno e non si resero conto della propria impotenza; e, infine, i giovani che compresero presto le ragioni dell’antifascismo e in un certo senso potevano essere considerati protoantifascisti. In un paese di schiavi e di cortigiani, diventato fascista perché irrimediabilmente segnato dalla cultura controriformistica; in un paese che non aveva conosciuto la modernità perché non era riuscito a superare la propria congenita immaturità politica, e quindi non poteva considerarsi del tutto civilizzato, secondo Garin,   Ibidem, p. 350.   Si trattava di un’interpretazione che Luisa Mangoni aveva già espresso all’inizio degli anni Settanta nei suoi studi sulla cultura cattolica e che ha ribadito negli anni successivi. Cfr. Il fascismo, in Letteratura italiana. I: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, p. 540, e la nuova edizione del volume L’interventismo della cultura, Torino, Aragno, 2002. 35 36

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non erano esistiti veri intellettuali fascisti, e cioè uomini di cultura adulti, consapevoli e autonomi che si fossero espressi in quanto fascisti, avessero studiato, scritto, pubblicato e insegnato nelle università italiane perché convinti sostenitori del regime totalitario37. Nell’ambito di questo dibattito caratterizzato dai giudizi autorevoli di Luisa Mangoni, secondo cui il fascismo era l’espressione della cultura nazionalista e di quella cattolica, e di Garin, che a metà degli anni Settanta era approdato a un’interpretazione ancora più drastica negando l’esistenza di una qualche forma di cultura fascista e quindi avvicinandosi a quanto sosteneva da tempo Norberto Bobbio, la riflessione di Gabriele Turi rappresentò una vera e propria novità. Nel 1980 Turi pubblicò Il fascismo e il consenso degli intellettuali, dedicato ad alcune istituzioni culturali, mostrando che anche l’alta cultura aveva subìto la presenza del fascismo. Per esempio, contro un’opinione assai diffusa secondo cui l’Enciclopedia Italiana era riuscita a preservare un certo grado di autonomia perché era stata diretta da Giovanni Gentile, e cioè da un filosofo che secondo molti non era fascista, Turi esaminò le voci di carattere politico dell’Enciclopedia e confermò «pienamente l’esistenza non solo di una ideologia, ma anche di una cultura fascista, attraverso la quale il regime cercò di costruirsi una legittimazione storica»38. Era convinto, infatti, che il fascismo avesse avuto la capacità di tenere insieme «motivi della borghesia liberale» in una «koinè» che seppur si era avvalsa di apporti diversi, non era stata «meno omogenea per gli obiettivi [...] e per la continua interscambiabilità fra cultura e ideologia»39. Per questo riteneva che studiare come il fascismo fosse riuscito a influenzare gli intellettuali e quindi analizzare l’opera di condizionamento svolta dalla miriade di istituzioni culturali potesse mostrare la misura del consenso della società italiana verso il regime. E proprio la presenza di un vasto apparato di istituzioni dimostrava, a suo avviso, la difficoltà di esprimere una qualche forma di pensiero libero e autonomo dalla politica. 37   A proposito dei legami fra le interpretazioni di matrice marxista e quelle legate alla riflessione di Piero Gobetti, cfr. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo, cit., p. 58. 38  G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 82. 39   Ibidem, p. 7.

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Queste erano le riflessioni di Turi, che tuttavia non propose un’analisi della cultura fascista. Da questo punto di vista, anzi, nel suo lavoro dei primi anni Ottanta da un lato egli affermò con chiarezza l’esistenza di un’ideologia e di una cultura che avevano condizionato gli intellettuali italiani attraverso le istituzioni create dal regime; dall’altro descrisse sommariamente i contenuti di questa cultura, come se non fosse importante capire da cosa fosse costituita, immaginando una continuità «del carattere di classe della cultura borghese prima e durante il fascismo»40. All’inizio degli anni Ottanta queste erano le posizioni all’interno del mondo comunista. Solo nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, la storiografia di matrice marxista cambiò modo di leggere la storia della cultura fascista e accolse quanto si andava scrivendo in Italia e all’estero, dove dall’inizio degli anni Sessanta era nata una nuova riflessione. 3. Il contributo degli studiosi europei e americani

Dall’inizio degli anni Sessanta alcuni storici europei e americani, pur diversi per formazione e per orientamento ideologico, si soffermarono sul tema della cultura fra le due guerre ritenendo che costituisse un elemento indispensabile per la comprensione dell’intero fenomeno fascista. Nel 1963, con l’imponente Der Faschismus in seiner Epoche, lo studioso tedesco Ernst Nolte aprì una nuova fase di studi esaminando l’Action française, il nazionalsocialismo e il fascismo e sostenendo una tesi che avrebbe riproposto nel corso della sua lunga carriera di studioso, e cioè che queste tre esperienze politiche nascevano dalla paura della borghesia europea nei confronti della rivoluzione bolscevica ed erano l’espressione di una reazione conservatrice e moderna, allo stesso tempo: conservatrice perché impegnata a contrastare i tentativi dei comunisti di ribellarsi all’ordine costituito, moderna perché borghese e rivoluzionaria, e quindi figlia di una cultura che a partire dalla Rivoluzione francese si era imposta contro l’antico regime, invocando la libertà come autonomia da un sistema di 40

  Ibidem, p. 64.

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valori tradizionali. Una cultura che aveva avuto in Nietzsche e in Marx i suoi autori di riferimento e quindi non poteva identificarsi del tutto con il pensiero conservatore sviluppatosi nell’Europa del XIX secolo41. Per capirla, spiegava Nolte, occorreva prenderla sul serio e far «parlare Hitler e Mussolini», anche quando «non dissero nulla di originale»42. Lo storico israeliano Zeev Sternhell pensava, come Nolte, che fosse possibile individuare una tipologia comune a diverse esperienze. Nel 1976, all’interno di un volume che raccoglieva i contributi di alcuni noti storici americani ed europei, e nei molteplici contributi degli anni successivi, sostenne che il prototipo del fascismo era nato in Francia alla fine dell’Ottocento, dall’incontro fra il socialismo antimarxistico e il nazionalismo per poi diffondersi nell’Europa del XX secolo43. Così, mentre per Nolte il pensiero fascista derivava dalla filosofia di Nietzsche e da quella di Marx, per Sternhell nasceva dalla reazione contro la cultura illuministica e dall’incontro fra il nazionalismo e il pensiero socialista antimaterialistico, presente soprattutto fra i sindacalisti rivoluzionari di fine Ottocento. A suo avviso, infatti, si era trattato di un fenomeno politico dotato di una propria ideologia rivoluzionaria non meno coerente del liberalismo e del marxismo, che aveva espresso la volontà di creare una nuova civiltà e un uomo nuovo. Nei suoi lavori spiegava che il fascismo era stato in grado di rispondere alle 41  E. Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche. Die Action française, Der Italianische Faschismus, Der Nationalsozialismus, München, Piper, 1963; trad. it. Il fascismo nella sua epoca. I tre volti del fascismo, Milano, Sugarco, 1993. 42   Ibidem, p. 59. L’anno successivo lo studioso della Francia moderna Eugen Weber nel suo pionieristico Varieties of Fascism sostenne che per comprendere il fascismo occorreva colmare una lacuna e studiare la cultura di cui era espressione. Fra i primi a riflettere sui rapporti fra i processi di secolarizzazione e la politica moderna, Weber evidenziò il legame fra il nazionalismo emerso dalla Rivoluzione francese e il fascismo. E. Weber, Varieties of Fascism. Doctrines of Revolution in the Twentieth Century, Princeton (N.J.), Van Nostrand, 1964. 43   Z. Sternhell, Fascist Ideology, in W. Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, Aldershot, Wildwood House, 1976. Due anni dopo sviluppò questa riflessione in uno dei suoi contributi più noti, La Droite révolutionnaire. 1885-1914. Les origines françaises du fascisme, Paris, Seuil, 1978; trad. it. La destra rivoluzionaria, Milano, Corbaccio, 1997.

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domande poste dalla società di massa all’inizio del secolo: «quale rapporto esiste fra l’individuo e la collettività?», «cosa costituisce una nazione? [...] una libera decisione dei singoli oppure la storia, la religione e la cultura di un popolo?»44. Anche Sternhell, come Nolte, e come Del Noce in Italia, fu tra i primi a considerare il fascismo un fenomeno politico figlio della modernità. Negli stessi anni in America A. James Gregor, Edward Tannenbaum e Philip Cannistraro studiarono gli aspetti e i momenti più rilevanti della cultura fascista con un approccio metodologico diverso che in parte confermava le considerazioni di Nolte e di Sternhell. Nel 1969 con The Ideology of Fascism lo storico americano A. James Gregor pubblicò il primo volume dedicato espressamente all’ideologia fascista45. Indicandone le fonti principali nel pensiero di Giovanni Gentile, che a suo avviso aveva fornito al regime «il fondamento razionale normativo più solido e valido»46, e in quello di altri intellettuali come Julius Evola, Sergio Panunzio e Carlo Costamagna, Gregor non si limitò ad affermare l’esistenza dell’ideologia fascista, ma ne mise in luce le diverse componenti. Nel suo saggio ricostruì il dibattito sulla natura dello Stato e sui temi della cultura politica degli anni Venti e Trenta e in questo modo descrisse le posizioni espresse dagli intellettuali fascisti, mostrando il loro debito verso le correnti del pensiero europeo e la relativa coerenza dell’ideologia fascista. Edward Tannenbaum e Philip Cannistraro si dedicarono alla politica culturale degli anni fra le due guerre. Tannenbaum studiò la scuola, le correnti artistiche e la propaganda, sostenendo che non era esistita una vera e propria cultura fascista47. Cannistraro invece si occupò del ministero della Cultura Popolare creato nel 193748. L’obiettivo era mostrare come il regime avesse costruito

44   Cfr., fra gli altri, la recensione di Z. Sternhell, The Fascist Revolution. Toward a General Theory of Fascism by George L. Mosse, in «The American Historical Review», 105 (2000), n. 3, p. 883. 45   A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Milano, Il Borghese, 1974, p. 13. 46   Ibidem, p. 214. 47   E.R. Tannenbaum, L’esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Milano, Mursia, 1974, p. 295. 48   Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, p. 5.

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il consenso attraverso una politica culturale caratterizzata dal conflitto costante fra la componente moderna e quella tradizionale, dal fondamento nazionalistico della sua ideologia e, infine, dal tentativo di raggiungere la piena integrazione dei cittadini in un’esperienza nazionale unitaria. Per realizzare questi obiettivi il fascismo aveva percorso due strade diverse: da un lato avvicinando le masse alla cultura attraverso il teatro, la radio e il cinema, dall’altro costringendo gli intellettuali «a servire gli interessi politici e sociali del fascismo»49. Come si vede anche Cannistraro, non diversamente da Luisa Mangoni e Gabriele Turi negli stessi anni, considerava la cultura fascista uno strumento per creare consenso, per controllare gli intellettuali e per mobilitare le masse popolari, anche se diversamente da loro era convinto che il fascismo fosse stato capace di suscitare un ampio e solido consenso. Questo modo di studiare la cultura fascista fu superato da George L. Mosse, il cui contributo determinò una vera e propria trasformazione della storiografia sul fascismo e più in generale degli studi sulla cultura dell’Ottocento e del Novecento50. Già nei primi anni Sessanta Mosse sostenne che milioni di persone avevano visto nel fascismo la soluzione ai drammi della modernità, e quindi la fine dell’alienazione dell’uomo moderno reintegrato nella collettività nazionale, capace di offrirgli un nuovo senso di appartenenza51. Sin da allora era convinto che il fascismo e il nazionalsocialismo fossero il prodotto di correnti culturali e politiche rivoluzionarie. E infatti, al contrario di quanto avevano sostenuto György Lukács e Benedetto Croce, Mosse spiegava che dall’irrazionalismo di fine Ottocento non era emersa una cultura reazionaria e con  Ibidem, p. 9.  Cfr. Zapponi, G.L. Mosse e il problema delle origini culturali del fascismo, cit., pp. 461-480; S.G. Payne, D.J. Sorkin e J.S. Tortorice (a cura di), What History Tells. George L. Mosse and the Culture of Modern Europe, Madison, The University of Wisconsin Press, 2004, e in particolare le pp. 118-122 di R. Griffin sulla recezione di Mosse nel mondo anglosassone; E. Gentile, Il fascino del persecutore. George L. Mosse e la catastrofe dell’uomo moderno, Roma, Carocci, 2007, pp. 32-41, e recentemente D. Aramini, George L. Mosse, l’Italia e gli storici, Milano, Franco Angeli, 2010. 51   G.L. Mosse, The Culture of Western Europe. The Nineteenth and Twentieth Centuries, Chicago (Ill.), McNally, 1961; trad. it. La cultura dell’Europa occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Milano, Mondadori, 1986. 49 50

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servatrice, né una degenerazione o un’involuzione della cultura europea, ma un’ideologia rivoluzionaria, del tutto coerente con le tendenze che l’avevano preceduta. «Il fascismo», scriveva a questo proposito, «fu il culmine di molti abiti mentali che si erano formati dopo il romanticismo»52. Sulla base di queste prime e decisive riflessioni, nella seconda metà degli anni Sessanta, grazie all’influenza dell’antropologia di Claude Lévi-Strauss e della filosofia di Ernst Cassirer, Mosse arricchì le proprie conoscenze dei fenomeni culturali studiando il rapporto fra le concezioni popolari e la politica. Con un’accezione del termine cultura assai vicina a quella elaborata dall’antropologia moderna secondo cui cultura è l’insieme variegato dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini acquisito dagli uomini come membri di una società53, egli si chiese quali fossero i rapporti fra uno specifico sistema culturale e una determinata ideologia ed elaborò il concetto di «nuova politica». Nel 1975, nel volume The Nationalization of the Masses, Mosse sostenne che la «nuova politica» era una religione laica e nazionalista, nata nella cultura della secolarizzazione. Per sottrarsi alle angosce determinate dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dall’erosione dei valori cristiani, in un mondo divenuto anonimo perché sempre più alienante e omologante, la «nuova politica», come tutte le religioni, si era espressa attraverso una liturgia, accompagnata da un apparato di miti, di riti e di simboli. In questo senso la sua caratteristica più originale risiedeva nell’essere un «atteggiamento» più che un sistema, una cornice al culto nazionale più che un’ideologia politica. «I suoi riti e le sue liturgie», scriveva Mosse a questo proposito, «erano la parte centrale, essenziale, di una dottrina politica, che non si appellava alla forza persuasiva della parola scritta»54. Studiare la cultura fascista significava

  Ibidem, p. 340.   Cfr. la definizione di uno dei pionieri dell’antropologia moderna E. Burnett Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, Murray, 1871. Il capitolo I è stato ristampato in P. Rossi (a cura di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 4-29. 54   G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, p. 15. Cfr. su questo argomento Gentile, Il fascino del persecutore, cit., pp. 93-115. 52 53

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allora cercare di capire come si era espressa nella politica e non individuare un’ideologia coerente e codificata. The Nationalization of the Masses ha influenzato generazioni di studiosi dei fenomeni culturali e ha rappresentato la confutazione più convincente del modo in cui i liberali e i marxisti avevano studiato la cultura fascista: i primi negandone persino l’esistenza e i secondi concentrandosi sulla funzione degli intellettuali nella propaganda e nella gestione del potere. Mosse mise in discussione lo schema semplicistico che identificava la cultura con la propaganda e la convinzione che i capi manipolassero i loro seguaci. A suo avviso, invece, proprio in quanto religione, e quindi credenza capace di garantire identità e salvezza a tutti coloro che la celebravano, la nuova politica coinvolgeva élite dirigenti e masse popolari. In questo senso egli contestò radicalmente l’assunto secondo cui «il capo manovra le masse mediante la propaganda e il terrore». «Usato sempre in questo contesto, il termine “propaganda”», spiegava alla fine degli anni Settanta, «induce a fraintendere i culti fascisti e il loro carattere essenzialmente organico e religioso. In tempi di crisi essi fornirono a svariati milioni di persone l’occasione di un impegno più significativo di quello consentito dal sistema rappresentativo parlamentare»55. Mosse ha studiato gli atteggiamenti degli uomini verso la politica nell’èra moderna. Nel farlo ha volutamente tralasciato gli atti normativi, le istituzioni, le organizzazioni e le ideologie. Lo ha notato Zeev Sternhell sostenendo che nelle opere del grande storico tedesco ci sarebbe una sproporzione fra gli aspetti simbolici – quindi i miti, i riti e le forme religiose della politica – e le idee del fascismo56. E lo ha sottolineato ancor più Emilio Gentile, secondo cui «l’irrazionalità della cultura fascista fu politicamente efficace non solo perché affascinò le masse con i miti e i riti, ma perché si coniugò con la razionalità dell’organizzazione e dell’istituzione, diventando partito e regime». «Senza la razionalità dell’organizzazione e dell’istituzione, senza essere partito e regime», «il fascismo», ha aggiunto Gentile, «sarebbe rimasto probabilmente ai mar-

55   G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, RomaBari, Laterza, 2004, p. 153. 56  Sternhell, The Fascist Revolution, cit., p. 883.

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4. La nuova storiografia italiana

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gini della politica e della storia, confinato entro i campi dello snobismo intellettuale57. E in effetti, se volessimo studiare le istituzioni culturali del regime fascista o i conflitti politici che sorsero al suo interno a proposito della «fascistizzazione» della cultura non troveremmo una risposta nelle opere di Mosse, le quali non ci aiutano a individuare la lotta politica interna a un regime che fu totalitario perché seppe realizzare i propri progetti di dominio. Paradossalmente uno dei più grandi studiosi della cultura politica del totalitarismo ha contribuito a rendere meno nitida l’immagine del regime totalitario, inaugurando un percorso di ricerca che negli ultimi anni ha portato a risultati non sempre condivisibili.

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Gli storici italiani iniziarono a occuparsi della cultura fascista dalla seconda metà degli anni Settanta. Da allora Luisa Mangoni, Emilio Gentile, Alberto Asor Rosa, Mario Isnenghi, Gabriele Turi e Piergiorgio Zunino pubblicarono alcune delle loro opere più importanti. Di alcuni ci si è già occupati nelle pagine precedenti, di altri si dirà fra breve, non prima di aver sottolineato il contributo di Renzo De Felice, che dall’inizio degli anni Sessanta suscitò un’ampia discussione fra gli studiosi e nell’opinione pubblica conquistando anche un ruolo nel dibattito internazionale e condizionando la vita culturale italiana per più di trent’anni, come nessun altro storico del fascismo58. Autore di molteplici studi su personaggi, aspetti e momenti del Ventennio e soprattutto di una monumentale biografia di Mussolini, che è una storia del fascismo raccontata attraverso la vita del suo leader, De Felice ha affrontato questioni che sono diventate centrali nelle successive analisi sul regime e sulla sua cultura: egli riteneva che il fascismo fosse un fenomeno nuovo e moderno, nato, come il suo capo, nella cultura politica della  Gentile, Il fascino del persecutore, cit., p. 124.   P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, Le Lettere, 2001; L. Goglia e R. Moro (a cura di), Renzo De Felice. Studi e testimonianze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002; E. Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003; G.M. Ceci, Renzo De Felice storico della politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008. 57 58

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sinistra, e in questo senso molto diverso dal nazionalsocialismo e dalle tradizionali forme di autoritarismo. Era convinto che si trattasse di un’esperienza politica prodotta dalla Grande guerra, circoscritta all’Europa fra i due conflitti mondiali, capace di esprimere una forte spinta alla modernizzazione dell’economia, della società e della cultura e di rispondere alle istanze dei ceti medi, veri e propri protagonisti del fascismo. Per questo credeva che, nonostante le differenze fra le varie correnti e la presenza di una dialettica interna fra l’ala rivoluzionaria e quella conservatrice legata al vecchio regime liberale, il fascismo fosse riuscito a ottenere un consenso di massa che aveva raggiunto il suo apogeo nel 1936, con la guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’impero. Lo sostenne nel quarto volume della sua opera, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, dedicato al periodo 1929-193659. Proprio nel volume che vedeva sviluppate queste tesi sottolineò la necessità «di inserire la cultura degli anni del regime nel quadro del sistema politico fascista, della sua capacità di estrarre e regolare [...] le domande provenienti dalla società del tempo e, quindi, di socializzare gli intellettuali»60. Da qui, a suo avviso,

59   La scelta di sottolineare la presenza del consenso nel regime fascista determinò una dura polemica da parte di molti storici che accusarono De Felice di voler riabilitare il fascismo. Per una rassegna delle recensioni dei volumi della biografia di Mussolini, cfr. B.W. Painter Jr, Renzo De Felice and the Historiography of Italian Fascist, in «The American Historical Review», 95 (1990), n. 2, pp. 391-405. Una delle prime critiche fu quella di N. Tranfaglia secondo cui De Felice avrebbe aperto gradualmente la strada alla possibilità di rivalutare Mussolini e il suo regime in Fascismo e mass media, in «Passato e Presente», 3 (1983), pp. 135-148. Da allora in molti utilizzarono l’appellativo revisionista per indicare De Felice e i suoi allievi. Com’è noto, revisionista era l’appellativo che Lenin aveva riservato al socialdemocratico tedesco Edward Bernstein, reo di voler «correggere» la dottrina marxista contrapponendo la via riformista alla rivoluzione bolscevica. Nel linguaggio comune, revisionisti sono tutti coloro che intendono contestare i «miti» della storiografia tradizionale, dagli eroi del Risorgimento a quelli della Resistenza. La qualifica è ormai entrata nel lessico degli storici, come in S. Luzzatto in The Political Culture of Fascist Italy, in «Contemporary European History», 8 (1999), n. 2. Lo stesso articolo era stato pubblicato su «Storica», 4 (1998), n. 12, pp. 57-80, La cultura politica dell’Italia fascista. 60   R. De Felice, Mussolini il duce. I: Gli anni del consenso. 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, p. 102. Nel corsivo citava lo studio di G.A. Almond e di G.B. Powell, Politica comparata, Bologna, Il Mulino, 1970.

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derivava l’esigenza di studiare l’atteggiamento degli intellettuali rispetto al regime61. Si trattava di un problema complicato dal fatto che «un sistema politico di tipo autoritario», come quello fascista, aveva «tra le sue peculiarità più esasperate quella di controllare, limitare e addirittura impedire [...] le manifestazioni attraverso le quali si esplica l’attività degli intellettuali»62. Ciò premesso, oltre a soffermarsi ampiamente su Giovanni Gentile, citando gli studi di Augusto Del Noce63, De Felice invitava a distinguere: nella maggioranza dei casi, gli intellettuali italiani si erano comportati «alla stessa maniera della comunità sociale cui partecipavano e in cui erano integrati a tutti gli effetti»; anzi, molto spesso, proprio in quanto intellettuali, avevano esasperato gli «atteggiamenti dominanti in queste comunità. Essi erano, dunque, assai spesso fascisti, erano iscritti al PNF e fornivano ad esso un buon numero di quadri, soprattutto di quelli periferici, ma anche di quelli centrali». Diverso il caso dell’alta cultura dove, secondo De Felice, esistevano personaggi di primo piano che avevano aderito al regime in modo assai più distaccato e a volte avevano espresso la loro insofferenza e dove, fino al 1935, la pressione era stata modesta, tanto che alcune riviste anticonformiste come «Solaria» e «Il Saggiatore», o «Civiltà moderna» poterono sopravvivere. «Il che non era certo poco, né sotto il profilo culturale né sotto quello personale, anche se», ricordava a questo proposito, «nessuna di queste riviste in effetti si può considerare in senso stretto una rivista di opposizione politica»64. A metà degli anni Ottanta De Felice modificò le sue riflessioni sul rapporto fra la politica e gli intellettuali. La mobilitazione promossa dal fascismo in tutti i settori della cultura italiana gli apparve non solo finalizzata a influire sugli orientamenti del paese ma anche a dare vita a una nuova civiltà, come dimostrava l’attività di Giuseppe Bottai, «il più deciso sostenitore della necessità di agire su tutta la cultura

  De Felice, Mussolini il duce, vol. I, cit., p. 105.   Ibidem, p. 106. 63   Ibidem, p. 35. Si trattava di una riflessione presente già nel suo Interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969, dove aveva individuato nella voce Fascismo scritta da Mussolini e da Gentile per l’Enciclopedia Italiana e nel testo Origini e dottrina del fascismo del 1927 dello stesso Gentile i due documenti più importanti dell’ideologia fascista. 64   De Felice, Mussolini il duce, vol. I, cit., p. 111. 61 62

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e, dunque, anche su quella ai livelli scientifici più alti»65. La convinzione che la cultura fascista avesse esteso la propria influenza a tutti i settori della società italiana e non fosse soltanto uno strumento utilizzato dal regime per coinvolgere le masse popolari, dipese da un cambiamento di prospettiva. Dal 1981, infatti, De Felice iniziò a modificare i suoi giudizi sottolineando il carattere totalitario del regime fascista e non mancando di riconoscere l’influenza esercitata su di lui dai lavori di Emilio Gentile66. Nel 1975 Gentile pubblicò Le origini dell’ideologia fascista e da allora non ha abbandonato questo settore di ricerca mantenendo un approccio metodologico costante: nei suoi studi, infatti, Gentile ha sempre affermato la necessità di non separare le espressioni culturali del regime dalla storia politica e di connettere gli aspetti ideologici del fascismo alle forze sociali che lo compongono, «all’azione politica concreta che esso svolge, alle organizzazioni e alle istituzioni cui esso dà vita e che sono anch’esse, in un certo senso, espressione della sua ideologia, della sua visione dell’uomo e della politica»67. Coerentemente con questo approccio, Gentile ha sostenuto che l’ideologia fascista non può considerarsi la meccanica traduzione di un modello concettuale, e quindi non può essere analizzata come se fosse una teoria politica ma deve essere studiata ricostruendo gli aspetti organizzativi legati alle iniziative del Partito fascista, quelli istituzionali relativi alle attività del governo e del regime e quelli più propriamente culturali in quanto espressioni di un fenomeno unitario. Per questo ne Le origini dell’ideologia fascista Gentile ha analizzato la riflessione di Mussolini, i principali contributi dei teorici del fascismo, e i problemi affrontati dagli intellettuali e dai politici dal 1919 al 1925. Ne è emerso un quadro articolato dell’ideologia fascista, descritta come una nuova sintesi del pensiero politico,  Id., Intellettuali italiani di fronte al fascismo, Roma, Bonacci, 1985, p. 192. 66   R. De Felice e L. Goglia, Storia fotografica del fascismo, Bari, Laterza, 1981, pp. XIX-XX, ma anche R. De Felice, Mussolini il duce. II: Lo Stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einuadi, 1981, p. 8. Cfr. per la riflessione di De Felice sul totalitarismo, Gentile, Renzo De Felice, cit., pp. 99-111. 67   E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, II ed. Bologna, Il Mulino, 1996, p. 23. 65

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che ebbe le sue origini nel radicalismo nazionale sviluppatosi dall’inizio del secolo e fu alimentata dai nuovi miti della Grande guerra: una nuova ideologia anti-ideologica, che rifiutava il primato della ragione nella storia e le tradizionali categorie del pensiero politico e considerava la politica un’esperienza integrale dell’uomo per trasformare se stesso: un’ideologia al cui fondo vi era «la più completa razionalizzazione dello Stato totalitario». Nel volume del 1975, Gentile iniziava così la sua riflessione sul totalitarismo a cui avrebbe dedicato gli studi degli anni successivi. Nel La via italiana al totalitarismo Gentile ha sostenuto che il fascismo fu il primo movimento di massa, espressione di un nazionalismo rivoluzionario, ad avere conquistato il potere in una democrazia liberale; il primo partito armato ad affermare esplicitamente la volontà di organizzare la nazione per imporre il primato della politica nella vita degli individui e delle masse; il primo Stato totalitario68. Da questo punto di vista, alle critiche di quanti accoglievano il giudizio di Hannah Arendt, secondo cui il fascismo non era stato un regime totalitario perché, a differenza del nazionalsocialismo e dello stalinismo, non avrebbe realizzato le proprie aspirazioni totalitarie, Gentile ha replicato che il totalitarismo è sempre imperfetto, è cioè un esperimento continuo, un processo in atto volto a istituzionalizzare il principio della rivoluzione permanente. Questa definizione ha richiamato l’attenzione di chi si occupa di cultura fascista per due motivi: prima di tutto perché afferma che una delle caratteristiche del regime totalitario è il primato della politica su ogni altra espressione della vita degli individui e delle masse e quindi su ogni espressione culturale e in secondo luogo perché affronta direttamente il problema della modernità del fascismo, come Gentile ha mostrato ne Il culto del littorio pubblicato nel 199369. L’idea di fondo del libro è che uno degli aspetti della modernità è il trasferirsi del sacro dal campo della religione a quello della politica e che il fascismo, come fenomeno politico moderno e rivoluzionario, e come esperimento totalitario, è stato una religione politica

 Id., La via italiana al totalitarismo, Roma, Carocci, 1995.  Id., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993. 68 69

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espressione di miti, di riti e di simboli che ha sacralizzato lo Stato «assegnandogli una primaria funzione pedagogica con lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume degli italiani per generare un uomo nuovo, credente e praticante nel culto del littorio»70. Come si accennava, dalla fine degli anni Settanta, Mario Isnenghi e Piergiorgio Zunino sono stati gli autori che hanno contribuito maggiormente alla comprensione della cultura fascista proponendo anche una riflessione critica sulla storiografia italiana di matrice antifascista, che il più delle volte si era dimostrata chiusa e incapace di inaugurare una nuova prospettiva di ricerca. A questo proposito nel 1979 Isnenghi descriveva un quadro desolante degli storici italiani notando come

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intere generazioni di intellettuali post-fascisti hanno tentato di risolvere il problema del loro rapporto con il passato semplicemente negando al fascismo ogni consistenza culturale. Ne è nata un’immagine di un’Italia fascista come una chiesa vuota, senza religione e senza fedeli i cui falsi sacerdoti non sono riusciti a trovare collegamenti col popolo se non secondo moduli di una stucchevole e bolsa demagogia. Questa vera e propria negazione dell’oggetto, questa sorta di rimozione del tema stesso di una cultura del fascismo ha prodotto una larga zona di cose non dette.

A suo avviso, infatti, gli storici non avevano spiegato «il nodo storiografico del consenso di massa» che il fascismo aveva saputo suscitare, riproponendo il problema «di capire come il fascismo Stato si sia correlato alla società civile e viceversa in che misura una società civile fascista» abbia avuto «le strutture dell’apparato del regime»71. Anche Piergiorgio Zunino nel suo   Ibidem, p. VII.  Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, cit., quarta di copertina. Cfr., per un esempio della tendenza a cui si riferiva Isnenghi, il giudizio di G. Quazza, presidente dell’Istituto italiano per la storia del movimento di Liberazione, che affermava: «Vani sono anche i recenti sforzi di ricercare una autonomia soggettiva del movimento sul piano della ideologia [...]. Se di ideologia del fascismo si vuol parlare si deve cioè badare soltanto a quell’elemento fondamentale di approccio alla vita [...] e cercarne i tratti non nel positivo ma – come scrive Norberto Bobbio – nel negativo, nell’essere contro qualche cosa. [...] E si potrebbe continuare a lungo se si volessero esaminare adeguatamente i frutti di una storiografia che attraverso il filologismo interessato e l’empirismo obiettivistico finisce sostanzialmente 70 71

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volume L’ideologia del fascismo del 1985 sollevò la questione del rapporto fra la società civile e lo Stato, notando che la maggioranza degli studiosi italiani considerava lo Stato l’espressione più rappresentativa del regime fascista, mentre riteneva che la società civile fosse riuscita a preservare la propria autonomia dal fascismo. Proprio da questo assunto derivava la difficoltà di studiare l’ideologia, e cioè una realtà che per sua natura costituisce il canale attraverso il quale la politica dialoga con la società72. In realtà, al di là del titolo, il volume di Zunino non proponeva una storia politica dell’ideologia fascista. L’obiettivo era piuttosto quello di raccontare una storia delle mentalità, presentando il flusso delle idee che durante il Ventennio legittimarono il blocco dominante, fornirono un senso di identità nazionale, diedero una coesione sociale alla popolazione e fecero della comunità nazionale una portatrice di valori73. Nel libro Zunino analizzò i miti più importanti dell’ideologia del fascismo, notando la presenza di alcune contrapposizioni: tradizionalismo contro modernismo, pragmatismo contro etica del fine, radicalismo contro conservatorismo, dirigismo contro liberismo, ruralismo contro industrialismo. Di fronte a questi contrasti che caratterizzarono la cultura fascista, e a differenza di quanto era stato scritto da altri autori, Zunino si soffermò su un problema molto importante: «ciò che appare singolare», scrisse, «non è la loro presenza quanto, piuttosto, il fatto che se non tutti certo molti di quei cleavages non vengono colmati nell’arco del ventennio e neppure, però, approfondiscono e si allargano sino a compromettere la solidità della nave fascista»74. Convinto che nei confronti «del gran cerchio tracciato dal potere fascista, le varie forze e le molteplici componenti che animano la società italiana» fossero «dentro e non fuori»75, Zunino notava:

alla riabilitazione del fascismo». Cfr. G. Quazza, Antifascismo e fascismo nel nodo delle origini, in N. Tranfaglia (a cura di), Fascismo e capitalismo, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 65. Nello stesso volume Enzo Collotti sosteneva che l’ideologia fascista aveva un carattere meramente «strumentale» perché era di fatto una «mistificazione della realtà». Cfr. pp. 146-150. 72  Zunino, L’ideologia del fascismo, cit., p. 18. 73   Ibidem, p. 62. 74   Ibidem, p. 371. 75   Ibidem, p. 374.

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«Sommato tutto, però, ciò che univa ci sembra che comunque prevalesse su ciò che divideva»76. Alla metà degli anni Ottanta questa riflessione non suscitò i consensi che avrebbe meritato: gli storici ritennero che la presenza di conflitti, di dibattiti, di correnti politiche e di espressioni culturali diverse, non consentisse di individuare un’unica cultura, un’unica ideologia e un’unica politica specifiche del fascismo. Basterà fare due esempi: il primo è quello di Guido Quazza, che nel 1985, nel volume Storiografia e fascismo, si manteneva fedele all’idea da lui espressa negli anni Settanta secondo cui il fascismo aveva influito sulla cultura senza però essere capace di produrre nulla di significativo; mentre il secondo è quello assai più recente rappresentato dalla raccolta di saggi Cultura e fascismo pubblicata nel 1996. Nella prefazione Enrico Ghidetti ha sostenuto che non è esistita una cultura fascista, tanto che «l’unico approccio storiografico possibile» «non può essere che quello di individuare una serie di linee di ricerca e di sviluppo destinate a non incontrarsi mai»; «che l’itinerario ai margini del regime di Julius Evola [...] non incontrerà mai il progetto per una politica delle arti invano perseguito da Ardengo Soffici»; che «l’italianistica fascista fu un enclave antifascista perché rappresentata da Momigliano, Russo e Sapegno che approdarono all’antifascismo»; che il teatro e il cinema «nonostante i tentativi di organizzare la cultura di massa» hanno prodotto un bilancio «sostanzialmente negativo» dato che l’istituzione dell’Accademia d’arte drammatica e Cinecittà non significano la nascita di un teatro o di un cinema fascisti e questo non certo per liberale lungimiranza della burocrazia di regime, quanto per la difficoltà di trasmettere un credibile messaggio culturale se non per la via indecorosa e senza uscita della propaganda77.

Sono giudizi che ignorano i risultati ottenuti dalla storiografia italiana e internazionale, compresa l’ampia e quasi ridondante produzione storiografica degli ultimi tempi.

  Ibidem, p. 380.   M. Biondi e A. Borsotti (a cura di), Cultura e fascismo. Letteratura, arti e spettacolo di un Ventennio, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, p. 15. 76 77

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5. Il dibattito degli ultimi quindici anni

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In effetti, negli ultimi quindici anni gli storici hanno rovesciato i loro giudizi e dalla rimozione dell’esistenza della cultura fascista sono passati al ricostruire i suoi diversi e molteplici aspetti considerandoli decisivi per capire il fascismo nel suo complesso. Così da ambito di studio marginale la cultura fascista è diventata uno dei temi più studiati da chi si occupa di fascismo. Come è stato possibile? Come mai la maggior parte degli studiosi ritiene che non solo il regime ebbe una propria cultura, ma che essa fu una delle ragioni della sua affermazione? In linea generale, i nuovi studi hanno risentito di un cambiamento che ha riguardato tutta la storiografia ed è dipeso dalla crisi del paradigma marxista emersa già negli anni Settanta. Oggi è molto difficile trovare storici che adottino un’idea della cultura come strumento per indottrinare e mobilitare le masse popolari e quindi rigidamente funzionale alla lotta di classe e sempre meno consenso riscuotono quelle interpretazioni che considerano le espressioni culturali del fascismo false rappresentazioni della realtà o semplici promesse demagogiche. Al declino delle interpretazioni di matrice marxista, negli ultimi trent’anni si è affiancato il tramonto dello strutturalismo, l’altra grande corrente di pensiero che negli anni Cinquanta e Sessanta ha caratterizzato la riflessione di molti storici europei e americani, impegnati a studiare le civiltà come sistemi complessi e tendenzialmente stabili. In polemica con questa tendenza, che ha privilegiato le strutture, i modelli, l’analisi quantitativa e la lunga durata, dall’inizio degli anni Ottanta gli storici hanno ricominciato a raccontare la storia, come notava Lawrence Stone nel 1979. Lo storico inglese spiegava che dopo vent’anni di strutturalismo la storiografia ritornava alla sua funzione primigenia ovvero al racconto «del particolare e dello specifico piuttosto che del collettivo e statistico»78. E in effetti, la crisi del marxismo e il tramonto dello strutturalismo hanno aperto nuovi percorsi di ricerca. Dall’inizio degli anni Ottanta, in un mondo in cui veniva meno la contrapposizione ideologica della Guerra fredda, gli 78   L. Stone, The Revival of Narrative. Reflections of a New Old History, in «Past and Present», 1979, n. 85, p. 4.

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storici hanno mostrato una particolare sensibilità per le «rappresentazioni». E siccome più della società, più dell’economia e più della politica, la cultura in senso lato si presta a essere descritta attraverso le visioni del mondo, perché in fondo essa stessa è l’espressione di una visione del mondo, gli studi culturali hanno avuto e tuttora hanno una grande diffusione, come dimostra, nell’ambito degli studi sul fascismo, anche la riscoperta dell’opera di George Mosse. Ma cosa significa affermare che gli storici preferiscono occuparsi di cultura piuttosto che di politica, economia o storia delle istituzioni, mostrando un particolare interesse per le rappresentazioni? In realtà il panorama degli studi è variegato e fra gli studiosi europei e quelli americani occorre distinguere almeno tre tendenze di ricerca diverse: quella rappresentata dai cultural studies, quella legata agli studi sul totalitarismo e sulle religioni politiche e infine quella impegnata a individuare un fascismo genetico79. Nella prima si collocano i contributi sulla dimensione estetica della cultura fascista, fra cui vanno almeno annoverati i saggi di Jeffrey T. Schnapp, Mabel Berezin e Simonetta Falasca Zamponi. Nel 1996 Schnapp ha sostenuto che le grandi operazioni culturali del regime furono strumenti per coprire l’inconsistenza della sua ideologia80. Lo stesso anno ha sintetizzato questo suo giudizio scrivendo che dal punto di vista delle idee politiche il fascismo restò «una creatura paradossale incapace di risolvere la questione della sua identità attraverso il ricorso alle utopie della teoria o della tecnologia», un regime che «cercò risposte alla sua crisi di identità nel campo della cultura»81. Mabel Berezin nel 1997 ha basato la sua interpretazione della politica culturale del fascismo sulle celebrazioni ufficiali: le commemorazioni dei caduti, le manifestazioni organizzate in occasione delle visite di Mussolini ai giovani coscritti, e le cerimonie per l’inaugurazione di nuovi monumenti. Anche

79   Per una riflessione sugli ultimi studi sulla cultura fascista cfr. D.D. Roberts, Myth, Style, Substance and the Totalitarian Dynamic in Fascist Italy, in «Contemporary European History», 16 (2007), n. 1, pp. 1-36. 80   J.T. Schnapp, Staging Fascism. 18 BL and the Theater of Masses for Masses, Stanford (Calif.), Stanford University Press, 1996; trad. it 18BL. Mussolini e l’opera d’arte di massa, Milano, Garzanti, 1996. 81  Id., Fascinating Fascism, in «Journal of Contemporary History», 31 (1996), n. 2, Special Issue: The Aesthetics of Fascism, p. 238.

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Berezin, come Schnapp, è convinta che non vi fu una politica culturale animata da un’ideologia. La coerenza del fascismo, a suo avviso, non si manifestò a livello ideologico, ma nello stile e nell’enfasi sull’azione. In questo senso il fascismo ripudiò la parola e sostituì il discorso razionale con il primato del sentimento e dell’emozione proprio perché la performance era considerata assai più importante della coerenza delle espressioni ideologiche82. E infine nel 1997 Simonetta Falasca Zamponi ha studiato il linguaggio simbolico del fascismo, articolato attraverso immagini, scritti e discorsi83. Sulla base del concetto di «estetizzazione della politica» di Walter Benjamin, ha esplorato le mostre che i fascisti organizzarono per celebrare gli anniversari degli eventi più importanti e ha riservato particolare attenzione al culto di Mussolini spiegando che la ricorrenza della sua immagine nell’iconografia del regime alimentò il mito della sua onnipresenza. Attraverso gli scritti e i discorsi del capo del governo, che costituiscono la fonte principale della sua ricerca, Falasca Zamponi ha dunque studiato il fascismo come un discorso e quel discorso come un testo. Come si può notare, considerando la cultura una realtà a sé stante, questi autori ottengono un risultato analogo a quello raggiunto dalla storiografia che negava l’esistenza della cultura fascista. Può sembrare un paradosso, ma non lo è affatto. Da un’interpretazione storiografica basata su una concezione filosofica di tipo materialistico, secondo cui la storia è la storia della lotta di classe, oppure sul pragmatismo per cui invece è l’espressione dell’opportunismo degli esseri umani, alcuni storici hanno scelto di ricostruire la storia con gli strumenti dell’antropologia, dell’estetica o della linguistica, senza studiare il significato e il peso politico delle singole espressioni, correndo il rischio di vederle volatilizzare e di trasformare tutte le culture in sistemi di rappresentazioni. Così per esempio nel libro di Falasca Zamponi gli scritti del capo del governo appaiono svincolati dalla realtà storica nella quale vennero prodotti, sconnessi dall’intento che

82   M. Berezin, Making the Fascist Self. The Political Culture of Interwar Italy, London - Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1997, p. 29. 83  S. Falasca Zamponi, Fascist Spectacle. The Aesthetics of Power in Mussolini’s Italy, Berkeley, University of California Press, 1997.

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li animò, dal senso politico che ebbero, dalla cultura e dalla ideologia di cui erano il prodotto84. In realtà anche negli ultimi anni molti studiosi concepiscono la politica come un insieme di processi istituzionali, o di «fatti» misurabili che non dialogano con la cultura e la cultura come un mondo a sé stante, autosufficiente e autonomo dalla politica. Per questo nei nuovi cultural studies è negata l’ideologia fascista e cioè una realtà che per definizione è il prodotto dell’incontro fra la cultura e la politica. A questo proposito, Sergio Luzzatto ha definito la

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macchina politica e culturale del periodo fascista [...] un bazar nel quale si barattavano compromessi: dove leader di partito, ispettori ministeriali, artisti di successo e scribacchini senza valore, industriali impegnati nella stampa e nel cinema, professori universitari, tutti tentarono laboriosamente di riconciliarsi con gli imperativi del potere, il mercato e la lusinga della fantasia85.

Convinto che l’ideologia fascista non avesse alcuna consistenza, Luzzatto ha sostenuto che le categorie della storiografia sul fascismo sono cambiate perché gli studi sull’ideologia hanno lasciato il posto a quelli sulla cultura politica, come avrebbero dimostrato i contributi di Emilio Gentile. In realtà Gentile ha sostenuto una tesi diversa che non contempla affatto la contrapposizione fra ideologia e cultura. Nei suoi studi, che rappresentano un secondo tipo di contributi alla cultura fascista, Gentile ha notato che il concetto di «estetizzazione della politica» elaborato da Walter Benjamin e ripreso da molti storici può risultare fuorviante nella misura in cui si tralasci quello più importante, tipico del fascismo, della «politicizzazione dell’estetica». Per questo ha sottolineato che l’insistenza sull’estetizzazione della politica può condurre a un’estetizzazione del fascismo stesso, con l’effetto di relegare in secondo piano e, quindi, di banalizzare la sua politicità, ovvero la sua caratteristica principale86. La cultura fascista è stata

84   Cfr. le osservazioni di Ch. Burdett, Journeys Through Fascism. Italian Travel Writing between the Wars, New York - Oxford, Berghahn Books, 2007, p. 5, e quelle di Luzzatto, The Political Culture, cit., p. 325. 85  Luzzatto, The Political Culture, cit., p. 322. 86   Cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., p. 27.

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efficace, invece, non solo perché ha affascinato le masse, ma perché ha trasformato la vita degli italiani organizzandoli nelle strutture del Pnf e guidandoli attraverso le istituzioni dello Stato totalitario. Fra l’altro, in uno Stato che affermava l’identità di cultura e politica e riteneva che la loro separazione fosse un retaggio dell’età liberale, non è possibile individuare una vera distinzione tra le due sfere. E, infatti, fra il 1922 e il 1943, intellettuali, studiosi, artisti e politici discussero su come esprimere una cultura davvero fascista e cioè piegarono le esigenze delle proprie discipline a quelle superiori della politica. Questa interpretazione si differenzia notevolmente da quelle proposte nei cultural studies, come è evidente anche nelle riflessioni sulle religioni della politica. Secondo Gentile, infatti, il concetto di religione politica è indissolubilmente legato a quello di totalitarismo e deve essere utilizzato non per studiare i rapporti fra la religione e la politica, che caratterizzano le diverse epoche storiche. La sacralizzazione della politica, infatti, costituisce una caratteristica principale dei regimi totalitari: è quindi prima di tutto un fenomeno politico, ben diverso dalla politicizzazione della religione che anche in antico regime riguardava i rapporti fra la religione e il potere politico87. Con questa impostazione si è dichiarato d’accordo lo storico americano David D. Roberts che ha espresso le sue perplessità rispetto all’approccio culturalista e ha sottolineato l’importanza dei concetti di totalitarismo e di ideologia per la comprensione della cultura fascista e del fascismo nel suo complesso88. A questo proposito, Roberts ha scritto che l’ideologia fascista non deve essere considerata un sistema teorico stabile e codificato89 87   Anche Walter Adamson ha sostenuto che la sacralizzazione della politica costituisce l’aspetto più importante della cultura fascista in The Culture of Italian Fascism and the Fascist Crisis of Modernity. The Case of «Il Selvaggio», in «Journal of Contemporary History», 30 (1995), n. 4, p. 556. 88   Cfr. D.D. Roberts, The Totalitarian Experiment in Twentieth-Century Europe. Understanding the Powerty of Great Politics, London - New York, Routledge, 2006, pp. 282-283 e How Not to Think about Fascism and Ideology, Intellectuals Antecedents and Historical Meaning, in «Journal of Contemporary History», 2000 (35), n. 2, pp. 185-211. Per i temi qui discussi cfr., soprattutto, Myth, Style, Substance and the Totalitarian Dynamic in Fascist Italy, in «Contemporary European History», 16 (2007), n. 1, pp. 1-36. 89  Roberts, Myth, Style, Substance and the Totalitarian Dynamic in Fascist Italy, cit., p. 11.

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e che «il fascismo espresse un’idea stimolante e un’aspirazione sufficientemente coerente per ispirare entusiasmo e indicare la direzione generale della politica» in una dinamica politica che non può essere ridotta all’irrazionalismo, all’opportunismo o al mero attivismo90. Anche Ruth Ben Ghiat ha studiato la cultura fascista in modo diverso da quello prevalente negli studi culturalisti. Secondo la storica la cultura fu uno dei mezzi attraverso i quali il fascismo espresse il proprio tentativo di modernizzare l’Italia. A suo avviso, infatti, il fascismo sviluppò un progetto di rigenerazione nazionale, un nuovo modello di modernità che diffuse principalmente attraverso gli strumenti della cultura91. La terza e ultima tendenza degli studi sulla cultura fascista ha un autorevole esponente nello storico inglese Roger Griffin ed è impegnata a individuare un fascismo generico, cioè a delineare un modello concettuale di fascismo92. Dall’inizio degli anni Novanta, e poi in diverse occasioni, Griffin ha sottolineato che il fascismo «è diventato un concetto meno contestato» di quanto fosse un tempo e che ormai gli storici si trovano d’accordo nel considerarlo un fenomeno «veramente rivoluzionario, una forma interclassista di antiliberalismo, e in un’ultima analisi di nazionalismo anticonservatore». A suo avviso, inoltre, gli studiosi hanno finito con il riconoscere la presenza di un’ideologia fascista profondamente legata alla modernizzazione e alla modernità, un’ideologia che ha assunto una varietà di forme e linguaggi per adattare se stessa al contesto storico e nazionale in cui è apparsa, attraendo diverse correnti culturali e intellettuali, la sinistra e la destra, l’antimodernità e la modernità, ma esprimendosi anche come un corpo di idee, di slogan e di dottrina. Sarebbe quindi possibile definire il fascismo una forma di partito armato che ha tentato, per lo più senza riuscirci, di generare un movimento di massa populista con uno stile politico religioso e un programma politico radicale; un partito armato che ha dato vita a un regime dotato di una propria ideologia e un proprio stile politico basati su un mito centrale. Secondo Griffin il mito

  Ibidem.   R. Ben Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 16. 92   R. Griffin, The Nature of Fascism, New York, St. Martins, 1991. 90 91

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centrale del fascismo che condiziona la sua ideologia, la sua propaganda, il suo stile politico e le sue azioni «è la visione dell’imminente rinascita della nazione dalla decadenza»93. Nel 2004 ha ribadito che gli anni più recenti rappresentano un momento di consolidamento e di convergenza piuttosto che di contrasto nel dibattito, dato che ormai la maggior parte degli studiosi tiene conto della riflessione che è andata maturando ed è propensa ad accettare che il fascismo fu un fenomeno politico rivoluzionario94. In realtà il quadro è assai meno omogeneo di quello contenuto nella descrizione di Griffin, soprattutto se si guarda all’Italia. Nel 1994 Gabriele Turi ha ricostruito la storia del dibattito sulla cultura fra le due guerre individuando un momento di svolta nella prima metà degli anni Settanta, con la pubblicazione delle lezioni sul fascismo di Palmiro Togliatti e con i contributi di Renzo De Felice95. La constatazione farebbe immaginare una valutazione positiva dell’opera di De Felice e invece non è esattamente così. Secondo Turi l’errato giudizio di Croce sul fascismo come fenomeno anticulturale sarebbe stato ribaltato da De Felice e dai suoi allievi che «hanno teso a riunificare cultura e politica del regime sotto un unico segno positivo». In questo modo la cultura e gli intellettuali, «che erano stati visti come gli oppositori del fascismo», sono stati presentati «in rapporti di pacifica convivenza con un regime tollerante nei loro confronti»96. Quindi, mentre sulla scia di Croce e di Bobbio gli storici italiani pensavano che gli intellettuali non fossero mai stati fascisti, a partire dall’opera di De Felice la storiografia italiana si è incamminata su di un percorso opposto finendo per descrivere tutti gli intellettuali italiani come fascisti. Secondo Turi, infatti, per correggere o rovesciare il giudizio sul regime di matrice antifascista, gli intellettuali, che con la grande guerra e col fascismo avevano

93  Id., Il nucleo palingenetico dell’ideologia del «fascismo genetico», in A. Campi, Che cos’è il fascismo? Interpretazioni e prospettive di ricerca, Roma, Ideazione, 2003, p. 100. 94   R. Griffin e M. Feldman (a cura di), Fascism. Critical Concepts in Political Science. I: The Nature of Fascism, London - New York, Routledge, 2004. 95   G. Turi, Fascismo e cultura ieri e oggi, in «Belfagor», 2 (1994), n. 5, p. 553. 96   Ibidem, p. 554.

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consolidato il loro ruolo nella mediazione fra Stato e società di massa, sono stati individuati come una delle chiavi di lettura di un sistema politico retto non solo dalla coercizione, ma anche dal consenso97.

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La conseguenza è stata che parte della storiografia sulla cultura fra le due guerre ha subìto «l’influenza dell’operazione revisionistica ed è approdata a un’immagine non conflittuale dei rapporti tra intellettuali e regime, rovesciando l’interpretazione antitetica di origine crociana, che era stata ripresa da Bobbio»98. Nel 2004 Turi ha ribadito questa sua posizione dichiarandosi d’accordo con l’interpretazione proposta da Eugenio Garin negli anni Settanta nel suo Intellettuali italiani del XX secolo dove, come si è visto, lo storico della filosofia negava la presenza di una cultura fascista. In questo senso Turi ha ritenuto opportuno distinguere tra «cultura fascista» e «cultura del periodo», «astenendosi da valutazioni moralistiche sulla bontà o meno dei prodotti culturali di quel periodo e considerando nell’accezione di cultura fascista un insieme di valori di varia origine che il fascismo riuscì ad amalgamare e a mettere in circolazione con i suoi mezzi di comunicazione»99. Sarebbe dunque esistita, secondo Turi, solo una cultura del periodo fascista (sia essa elaborata da fascisti sia da afascisti) che non riuscì a penetrare tutta la società italiana ma che, con i suoi tentativi di omologazione, sollecitò in più di uno studioso la ricerca e la riscoperta dell’autonomia del lavoro intellettuale secondo un processo indispensabile per far germogliare la pianta della futura reazione antifascista100.

Nelle pagine seguenti si sosterrà un’interpretazione della cultura fascista molto diversa.

  Ibidem, p. 552.   Ibidem. 99   A. Pedio (a cura di), I volti del consenso. Mass media e cultura nell’Italia fascista: 1922-1943, Roma, Nuova iniziativa editoriale, 2004, p. 119. 100   Ibidem, p. 121. 97 98

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Capitolo secondo

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La politica culturale degli anni Venti

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1. Le origini dell’ideologia fascista

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I Fasci di combattimento nacquero il 23 marzo 1919 a Milano, in piazza San Sepolcro, dove un centinaio di giovani partecipò all’adunata indetta un mese prima dal quotidiano «Il Popolo d’Italia», diretto da Benito Mussolini1. All’iniziativa aderirono ex combattenti provenienti dalla sinistra socialista, dal sindacalismo rivoluzionario, dal Partito repubblicano e dal futurismo: tutti esponenti di una cultura fortemente caratterizzata dall’esperienza del conflitto mondiale e in particolare dal mito della guerra rivoluzionaria e da quello della rivoluzione italiana2. Il primo nasceva dalla convinzione che la guerra appena conclusa, con l’esaltazione del sacrificio, la comunione del cameratismo e il culto degli eroi, costituisse un’esperienza che aveva modificato per sempre la storia dell’umanità, il volto della nazione e il destino dei singoli. Dalla guerra di massa sarebbe nata una nuova civiltà fondata sulla mistica della patria, e cioè, secondo i fascisti, su una concezione della nazione elevata a entità sacra in nome della quale i sopravvissuti avevano rischiato la vita e avevano ucciso altri uomini. Pronti a esaltare la violenza come metodo di lotta, forti di una concezione della politica intesa come fede e quindi come esperienza da vivere in modo integrale e asso-

1  Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, pp. 501-544; A. Lyttelton, The Seizure of Power. Fascism in Italy, 1919-1929, London, Weidenfeld and Nicolson, 1973 (trad. it. La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, Laterza, 1982); E. Gentile, Storia del Partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, RomaBari, Laterza, 1989, pp. 3-53. 2   E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 41-46.

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luto, sicuri che la società borghese fosse corrotta e bisognosa di un’azione purificatrice, i fascisti si rispecchiavano nel mito della rivoluzione italiana: credevano che la partecipazione al conflitto mondiale avesse determinato in Italia una rivoluzione delle mentalità, dei costumi e della politica e avesse investito gli ex combattenti del compito di portare a termine l’opera di costruzione della comunità nazionale, iniziata con il Risorgimento e rimasta incompiuta negli anni successivi. Fra i diversi gruppi che parteciparono all’adunata di piazza San Sepolcro, i futuristi e gli arditi ebbero un ruolo di particolare importanza nella cultura politica del fascismo delle origini. Come movimento artistico, il futurismo era nato nel 1909. Da allora, i suoi esponenti avevano combattuto per affermare le nuove forme della vita moderna, in cui vedevano un’esplosione di energia che non aveva precedenti nella storia3. Critici intolleranti della cultura borghese ottocentesca, i futuristi percepivano se stessi come un’avanguardia rivoluzionaria e indicavano il modello di uomo nuovo che avrebbe cambiato il mondo: un uomo animato da istinti violenti di potere, disposto a vivere nuove esperienze, a sperimentare nuove forme di cultura e a dominare la natura attraverso il progresso tecnologico in un continuo tentativo di superare se stesso. Fra il 1914 e il 1915 erano stati fra i protagonisti più attivi della battaglia per l’intervento in guerra ritenendo, come aveva affermato il loro leader, Filippo Tommaso Marinetti, che la guerra fosse la «sola igiene del mondo», l’unico evento in grado di stravolgere la società e dare vita a un nuovo ordine morale, culturale e politico. Nel febbraio del 1918 avevano lanciato il manifesto del partito politico futurista, presentandosi all’opinione pubblica italiana come l’avanguardia del combattentismo, l’élite che dopo aver preso parte al conflitto avrebbe dovuto guidare la mobilitazione popolare contro la società borghese e la politica 3   Sui rapporti tra futurismo e fascismo, cfr. R. De Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica, Torino, Fondazione Agnelli, 1988; G.L. Mosse, The Political Culture of Italian Futurism. A General Perspective, in «Journal of Contemporary History», 25 (1990), n. 2-3, pp. 253-268; E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, II ed. Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 167-187; F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 2005; E. Gentile, La nostra sfida alle stelle. Futuristi in politica, Roma-Bari, Laterza, 2009.

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liberale. Erano antisocialisti, antigiolittiani, antimonarchici e anticlericali. Fautori di un nazionalismo moderno e rivoluzionario che chiedeva audaci riforme, dall’abolizione del Senato alla confisca dei grandi capitali, accolsero la nascita dei Fasci di combattimento con entusiasmo, ne condivisero lo spirito e gli obiettivi e influirono sulla loro ideologia. A differenza dei futuristi, gli arditi erano nati durante la guerra come corpi speciali di truppe d’assalto, impegnati in azioni particolarmente pericolose per la conquista degli avamposti nemici4. Non avevano vissuto la vita di trincea perché godevano di una serie di privilegi nel vitto e negli alloggi, avevano ricevuto una paga migliore rispetto agli altri soldati ed erano stati indicati dai vertici militari come modello di coraggio e di amore per la patria. Certi che il mondo borghese fosse corrotto e ormai prossimo alla fine, sentivano di rappresentare una sorta di aristocrazia militare e per questo, alla fine del 1918, rifiutarono di riprendere le abitudini della vita civile: ai comuni problemi di reinserimento vissuti dai reduci, gli arditi aggiungevano la volontà di perpetuare lo stato di guerra nella politica italiana, convinti che la rivoluzione innescata dal conflitto dovesse proseguire in tempo di pace. Con uno stile politico aggressivo e ribellistico, che avrebbe avuto una notevole importanza nella formazione della cultura politica fascista, mostrando disprezzo verso tutte le forze politiche, anche loro pensavano di essere i soli a poter guidare la trasformazione del paese inaugurata dalla guerra mondiale. Con loro, dal settembre del 1919 al dicembre del 1920 i fascisti presero parte all’occupazione di Fiume al seguito del poeta ed eroe di guerra Gabriele D’Annunzio, che nei sedici mesi in cui governò la cittadina istriana introdusse un nuovo modo di fare politica. Come ricordava Michael Leeden, infatti, D’Annunzio fu il primo vero duce del fascismo, il primo uomo politico a utilizzare una liturgia laica per creare il culto della nazione e del capo. A Fiume comparvero per la prima volta nuove pratiche cerimoniali e nuovi simboli, come i discorsi fra il leader e la folla, il saluto romano con il braccio destro alzato,   Sugli arditi cfr. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova, Marsilio, 1969; G. Rochat, Gli arditi della grande guerra. Origini, battaglie e miti, Milano, Feltrinelli, 1981; Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 156-167. 4

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o il grido «eja, eja, alalà», che avrebbero costituito un aspetto fondamentale della cultura politica fascista5. Nelle intenzioni di Mussolini i Fasci di combattimento non dovevano fondare un nuovo partito politico, ma un movimento repubblicano, libertario, anticlericale e antisocialista che avrebbe difeso le ragioni dell’interventismo, sostenuto le richieste dei reduci di guerra e lottato contro il Partito socialista, senza preoccuparsi di definire un programma preciso. Solo dopo la sconfitta nelle elezioni del novembre 1919, i fascisti compresero che il mito della rivoluzione italiana e l’esaltazione della guerra vittoriosa non sarebbero bastati a fare del loro movimento una forza politica nazionale in grado di interpretare le esigenze della società di massa. Per questo, a partire dal II congresso dei fasci, nel maggio del 1920, abbandonarono i propositi delle origini e maturarono l’esigenza di dotarsi di un programma politico e di un’ideologia capaci di oltrepassare i temi emersi con la guerra mondiale. Nell’ideologia del 1920 è possibile individuare le prime tracce del modello politico che negli anni futuri avrebbe guidato l’azione dei fascisti. Innanzitutto i militanti dei Fasci di combattimento si dichiaravano antidemocratici e antiliberali perché ritenevano che democrazia e liberalismo rappresentassero individui impegnati a difendere i propri interessi, l’esito cioè di una visione angusta e limitata della lotta politica. I fascisti erano anche profondamente antisocialisti: accusavano il Partito socialista italiano della scelta neutralista alla vigilia del conflitto mondiale, quindi di aver tradito la patria in nome dell’internazionalismo, e condannavano l’egualitarismo e la concezione materialistica della storia, in nome di un’ideologia aristocratica, spiritualista e antirazionalista. Da questo punto di vista, le idee e i sentimenti dei fascisti della prima ora appaiono ben rappresentati dagli scritti del filosofo Giuseppe Rensi6. Nel suo Lineamenti di filosofia scettica 5   M.A. Leeden, D’Annunzio. The First Duce, New Brunswick, Transaction, 2002. Cfr. inoltre G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 97-117. 6   Su Rensi, cfr. fra gli altri A. Del Noce, Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal, ovvero l’autocritica dell’ateismo negativo in Giuseppe Rensi, in F. Mercadante e B. Casadei (a cura di), Filosofi dell’esistenza e della libertà, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 469-540; N. Emery et al. (a cura di), L’inquieto

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Rensi sostenne che in un mondo di individui tutti legittimati a cercare la propria verità, nessun dialogo sarebbe stato possibile e di conseguenza negò la fattibilità di una politica come pratica di discorso e di persuasione. A sostegno delle proprie argomentazioni scettiche e antirazionalistiche, egli si richiamava al pensiero di Hume e a quello di Hobbes, laddove il primo sottolineava «che le dispute si moltiplicano come se ogni cosa fosse incerta, e queste dispute sono condotte col più grande calore come se ogni cosa fosse certa», e il secondo indicava «il dispotismo» come «unica via d’uscita»7. Come spiegò in Filosofia dell’autorità, al razionalismo politico introdotto nella filosofia moderna da Kant e da Rousseau, Rensi opponeva l’irriducibilità del conflitto fra gli esseri umani8. Se esistono diverse giustizie, scrisse, «non rimane che il ricorso ad un fatto che stia fuori dal campo della ragione, cioè ad un fatto di forza. Ecco la genesi profonda della guerra e la cagione della sua eternità»9. Non diversamente dal giurista tedesco Carl Schmitt, egli riteneva che l’esistenza del potere politico potesse fondarsi «solo sull’irrazionalità, assumendo elementi chiaramente irrazionali, come quello dell’imporsi di alcune volontà sopra altre volontà», ovvero sulla vittoria «dell’irrazionale, del puro imperio, della mera autorità»10. In questo modo Rensi fornì un criterio di legittimazione del potere e anzi presentò la sua filosofia dell’autorità come uno dei presupposti teorici dell’ideologia fascista11. In realtà, in quei primi anni tale ideologia non fu soltanto l’espressione della critica contro il razionalismo politico e il coacervo di un pensiero «antidemocratico, antisocialista, antibolscevico, antiparlamentare, antiliberale, antitutto», come

esistere, atti del Convegno su Giuseppe Rensi nel cinquantenario della morte (1941-1991), Genova, Edizioni EffeEmmeEnne, 1993; M. Pasini e D. Rolando, La filosofia a Genova, in P. Rossi e C.A. Viano (a cura di), Le città filosofiche, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 163-172; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 86-105. 7   G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, Bologna, Zanichelli, 1919, p. XXXIII. 8  Id., Filosofia dell’autorità, Palermo, Sandron, 1920, p. 5. 9   Ibidem, p. 163. 10   Ibidem, p. 14. 11   Ibidem, p. 242.

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sosteneva Norberto Bobbio12. Contro l’immagine dell’uomo borghese che conquista un suo spazio nella società di massa attraverso continui compromessi, contro l’idea della politica come luogo della mediazione di interessi, e quindi contro tutti i tipi di riformismi nati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, i fascisti rivendicavano la loro diversità presentandosi come un movimento che non rappresentava interessi di parte, ma era una milizia al servizio della nazione, sorta per creare un nuovo Stato antidemocratico, principio e fine dell’azione politica; un nuovo Stato che si sarebbe imposto al di là di ogni giustificazione teorica e avrebbe trasformato l’Italia cercando di inserire le masse popolari nella politica moderna. In effetti, sin dalle origini l’ideologia fascista ebbe caratteristiche che avrebbe mantenuto negli anni a venire: fu cioè un’ideologia anti-ideologica, nel senso che i fascisti rifiutavano tutte le categorie del pensiero politico, non riconoscevano il primato della ragione nella storia, consideravano la politica come un’esperienza di vita e non come la traduzione pratica di un modello teorico, e soprattutto si presentavano come un gruppo di ex combattenti, una milizia armata che avrebbe dato vita a una nuova civiltà in nome e in difesa di un nuovo Stato. In questo senso, l’ideologia fascista non fu un’ideologia conservatrice e reazionaria, e nemmeno una variante del nazionalismo. Come si vedrà ampiamente più avanti, e a differenza di ciò che hanno sostenuto molti storici, mentre i nazionalisti erano conservatori e monarchici, i fascisti condividevano la lotta per la difesa dell’autorità dello Stato, ma non auspicavano il ritorno al passato, non si presentavano come custodi della tradizione nazionale e soprattutto credevano che la guerra avesse posto le premesse per la costruzione di una nuova civiltà13. Per dare vita a questa nuova realtà politica, quando il loro movimento iniziò a estendersi quantitativamente e geograficamente, i fascisti si rivolsero ai ceti medi raccogliendo l’appello lanciato dallo storico della filosofia Emilio Bodrero nel suo Manifesto alla borghesia del 192114. Secondo Bodrero, dopo 12  N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano, Garzanti, 1990, p. 153. 13   Cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 284-291. 14   Ibidem, pp. 262-265.

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la Grande guerra la borghesia italiana era rimasta schiacciata fra le rivendicazioni del proletariato e gli interessi del capitale. Infatti, mentre i grandi partiti di massa, il Partito socialista e quello popolare, nato nel 1919 come espressione delle forze cattoliche, erano impegnati nella difesa delle masse proletarie, e la classe dirigente liberale operava per conservare il proprio potere e tutelare gli interessi dei capitalisti, la borghesia italiana non aveva rappresentanti né difensori. Nonostante ciò, esprimeva le forze più operose del paese e manifestava meglio di altre realtà sociali lo spirito nazionale che aveva vinto la guerra. Per questo, secondo Bodrero, avrebbe dovuto abbandonare le ideologie del passato e mobilitarsi come forza rivoluzionaria, per conquistare il potere e dare vita a un nuovo ordine politico che, senza mettere in discussione l’economia di mercato, sarebbe stato in grado di mutare radicalmente lo stato delle cose. Nel 1921, il fascismo condivise questa analisi di Bodrero: si rivolse ai ceti medi italiani come una forza politica autonoma da interessi di classe, decisa ad affrontare i problemi della nazione e fra gli altri la riforma della scuola. Sin da allora, infatti, quando erano una piccola formazione di reduci composta prevalentemente da giovani, i fascisti mostrarono il loro interesse per l’educazione delle nuove generazioni. 2. Il programma scolastico

I fascisti iniziarono a occuparsi di politica scolastica prendendo parte a una discussione che in quegli anni coinvolgeva tutte le forze politiche poste di fronte alla crisi della scuola italiana. Con un tasso di analfabetismo che raggiungeva quasi il 30% della popolazione, ma nelle regioni meridionali arrivava al 50%, l’istruzione pubblica presentava un grande divario fra il nord e il sud del paese15. Accanto ad alcune scuole del

15   Cfr. J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime fascista (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 499; sulla politica scolastica fascista, oltre al volume citato di J. Charnitzky, cfr. T.M. Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda (1935-1943), Bologna, Cappelli, 1978; R. Gentili, Giuseppe Bottai e la riforma fascista della scuola,

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Settentrione, non diverse da quelle di altri Stati europei, nel Centro e soprattutto nel Meridione gli istituti scolastici erano pochi e spesso ubicati in locali fatiscenti. Nelle elementari il problema più grave era costituito dagli altissimi tassi di abbandono, causato dalla diffusione del lavoro minorile, mentre nelle scuole medie esisteva quello del sovraffollamento dato che, a partire dalla fine dell’Ottocento, il numero degli alunni era cresciuto enormemente rendendo inadeguate le strutture e urgente il riordino generale del sistema scolastico. Alla fine degli anni Dieci, quando la mobilitazione collettiva imposta dal conflitto aveva accelerato il processo di politicizzazione della società italiana con l’affermazione dei partiti di massa, la scuola assunse un peso decisivo nello scontro politico e nel dibattito parlamentare. Da allora il problema non fu più solo l’oggetto delle discussioni delle associazioni di categoria e delle iniziative dei singoli uomini politici perché divenne parte dei programmi dei partiti, spingendo i fascisti a presentare le loro proposte. Dal 1919 al 1920 la politica scolastica fascista fu espressione della cultura del combattentismo. Nel programma pubblicato su «Il Popolo d’Italia» all’inizio di giugno del 1919, i fascisti presentarono un progetto embrionale in cui si dichiarava che lo Stato aveva l’obbligo di dare alla scuola un carattere «formativo delle coscienze nazionali»: «un carattere tale da disciplinare gli animi ed i corpi alla difesa della Patria», «elevare le condizioni morali e culturali del proletariato», dare applicazione alla legge sull’istruzione obbligatoria16. Si trattava di pochi cenni che, tuttavia, mostrano un aspetto di notevole importanza dell’orientamento culturale del fascismo. Nel 1919 i fascisti erano ferventi sostenitori della scuola pubblica ed erano convinti che dovesse formare la coscienza morale della nazione. Il programma era molto simile a quello presentato dai futuristi nel manifesto politico del 1918: come i futuristi, anche i fascisti si dichiaravano pronti a combattere contro l’analfabetismo per dare al proletariato «un’educazione patriottica»; anche loro rifiutavano la formazione scolastica tradizionale

Firenze, La Nuova Italia, 1979; M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Bari, Laterza, 1981. 16   Cfr. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 743.

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incentrata sullo sviluppo delle facoltà intellettuali e sottolineavano l’importanza della «cura degli animi e dei corpi per la difesa della Patria», chiedendo di introdurre l’educazione premilitare nelle scuole italiane17. Fu ciò che ribadirono nel programma pubblicato nell’aprile del 1920 dall’Avanguardia studentesca dei fasci italiani di combattimento, la prima organizzazione di studenti nata all’interno del movimento fascista nel gennaio dello stesso anno. Questi giovani avanguardisti, che non di rado costituivano la maggioranza all’interno dei fasci, erano anticlericali e repubblicani, proponevano di adeguare i programmi scolastici alle esigenze professionali dei ragazzi, di sospendere dal servizio gli insegnanti inadeguati a svolgere il loro compito, di abolire il voto di condotta, di sostenere gli studenti più poveri e di rendere obbligatorio l’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole medie18. Dalla metà del 1920, con la svolta a destra stabilita al II congresso dei Fasci di combattimento, la politica scolastica cambiò: in quella sede Mussolini annunciò di essere d’accordo con il Partito popolare che da tempo si batteva per riconoscere ai privati uno spazio maggiore nella gestione degli istituti scolastici e un anno dopo, nel giugno del 1921, nel suo primo discorso alla Camera, ribadì questa convinzione19. In realtà, non si trattava di una posizione condivisa da tutti i fascisti. Nel programma del Partito nazionale fascista, che nacque a Roma nell’ottobre del 1921, pur confermando il sostegno alla libertà d’insegnamento degli istituti privati, i fascisti affermarono il primato della scuola pubblica nell’educazione dei giovani e sottolinearono il «carattere rigorosamente nazionale della scuola elementare», che avrebbe dovuto preparare «nel fisico e nel morale i futuri soldati d’Italia»20. A proposito delle scuole medie e delle università, inoltre, dichiararono di sostenere la   Ibidem.  Cfr. P. Nello, L’Avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Bari, Laterza, 1978, p. 67. L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 38-67. 19   Cfr. B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. Susmel e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1954, vol. XIV, p. 468; Id., Opera Omnia, cit., vol. XVI, p. 443. 20  Id., Opera Omnia, cit., vol. XVII, pp. 351-352; Id., Prefazione al programma, in «Il Popolo d’Italia», a. VIII, n. 309, 28 dicembre 1921, p. 1. 17 18

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libertà d’insegnamento, con la precisazione che l’autonomia didattica avrebbe trovato un limite nel diritto dello Stato a esercitare la propria sovranità attraverso un rigido controllo dei programmi e dei docenti. In questa prospettiva, solo la scuola pubblica avrebbe avuto il compito di formare

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persone capaci di garantire il progresso economico e storico della Nazione, di elevare il livello morale e culturale della massa e di sviluppare [...] gli elementi migliori per assicurare il rinnovamento continuo dei ceti dirigenti21.

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In effetti all’interno del Pnf questa era la posizione che riscuoteva maggiori consensi. Per esempio, pochi mesi prima della marcia su Roma, «Gerarchia», la rivista fondata da Mussolini nel gennaio del 1922, aveva definito la scuola confessionale «la negazione della libertà» e si era schierata contro la libertà d’insegnamento perché temeva che avrebbe avvantaggiato le scuole cattoliche22. Per le stesse ragioni, durante il congresso di Napoli dell’ottobre 1922, la maggioranza del Pnf si pronunciò contro l’esame di Stato, sottolineando l’esigenza di difendere e potenziare le scuole pubbliche dalla presenza di quelle confessionali23. Secondo una minoranza del Partito, invece, la libertà d’insegnamento avrebbe giovato al sistema scolastico. Da questo punto di vista si dichiarava d’accordo con il filosofo Giovanni Gentile che sin dall’inizio del secolo si era occupato di riforma della scuola ritenendo che la concorrenza fra gli istituti scolastici avrebbe innalzato il livello di istruzione del paese e si era battuto per introdurre negli istituti, sia privati sia pubblici, un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi. Non si trattava di uno strumento per favorire le scuole private, ma, come spiegava Giuseppe Lombardo Radice, uno

 Id., Opera Omnia, cit., vol. XVII, p. 338.   F. Meriano, Il problema della Scuola Media, in «Gerarchia», a. I, n. 4, 25 aprile 1922, p. 230. 23   Le discussioni dell’ultima giornata, in «Il Popolo d’Italia», a. IX, n. 257, 27 ottobre 1922, p. 2, ma cfr. anche Gli importanti lavori del Convegno Fascista a Napoli, in «Il Popolo d’Italia», a. IX, n. 256, 26 ottobre 1922, p. 1. Cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 23-44 per la discussione sulla riforma della scuola all’interno del Pnf. 21 22

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dei più autorevoli pedagogisti gentiliani, di un mezzo «per scegliere gli alunni meritevoli di proseguire gli studi nelle scuole di Stato»24. Il confronto fra queste due posizioni registrò una prima vittoria della minoranza del Pnf nell’ottobre del 1922, quando Mussolini chiamò Gentile a dirigere il ministero della Pubblica Istruzione. Dimostrò in questo modo che il suo governo avrebbe posto fine all’immobilismo che aveva caratterizzato la discussione parlamentare sulla scuola, trovando il consenso del Partito popolare e sottolineando che era pronto ad accogliere nel suo partito un intellettuale del calibro di Gentile25. Come si è accennato, quando il filosofo iniziò la sua attività politica nel fascismo era da tempo uno dei più noti intellettuali italiani. Già all’inizio del secolo, insieme con Benedetto Croce, aveva dato vita a un’ampia opera di trasformazione della cultura nazionale, si era dedicato ai problemi della scuola e negli anni Dieci aveva già delineato i capisaldi della sua filosofia. 3. Il contributo di Giovanni Gentile

Gli studiosi che si sono interrogati sulle ragioni e sulla natura dell’adesione di Gentile al regime fascista hanno proposto tre interpretazioni molto diverse. Secondo alcuni Gentile non ebbe un ruolo decisivo nella cultura fascista. Come si è visto nel capitolo precedente, Eugenio Garin e Luisa Mangoni ritenevano che gli esponenti più significativi della cultura del regime fossero i cattolici, i giovani e i molti intellettuali fascisti che consideravano Gentile un filosofo liberale estraneo al loro movimento26. È una tesi che in passato ha avuto un’ampia diffusione e che ancora oggi viene proposta da chi ritiene che il filosofo aderì al fascismo non comprendendo fino in fondo i suoi obiettivi

24   G. Lombardo Radice, L’esame di Stato, in «L’istruzione media», a. XX, n. 9, ottobre 1920. 25  R. De Felice, Presentazione, in Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda, cit., pp. 15 ss. 26   Oltre ai già citati lavori di Luisa Mangoni ed Eugenio Garin, cfr. quello pionieristico di H.S. Harris, La filosofia sociale di Giovanni Gentile, Roma, Armando, 1973; cfr. M.L. Cicalese, Nei labirinti di Giovanni Gentile. Bagliori e faville, Milano, Franco Angeli, 2004.

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e la sua natura27. Secondo altri studiosi, invece, il filosofo fu il principale teorico del fascismo28. Lo sostenne per la prima volta Augusto Del Noce molto tempo fa e recentemente lo ha affermato lo storico americano David D. Roberts scrivendo che «con Gentile possiamo capire l’aspirazione totalitaria del regime»29. E infine vi sono storici che propongono un’ipotesi interpretativa diversa dagli uni e dagli altri, come si vedrà nelle pagine seguenti. Gentile pubblicò la sua prima opera filosofica di rilievo politico, I fondamenti della filosofia del diritto, nel 1916. In quelle pagine espresse una concezione spiritualista della politica contro qualsiasi forma di contrattualismo e cioè contro l’idea della società prodotta dalla volontà di individui razionali che realizzano un fine prestabilito. Spiegando che la comunità si sviluppa quando gli interessi dei singoli si rivelano secondari rispetto al loro sentirsi parte di una realtà sociale, scrisse che «il volere universale, la società appunto», si sarebbe realizzato superando il particolare, e cioè l’individuo30.

27   Cfr. G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari, Laterza, 2006. 28   Oltre ai già citati contributi di Augusto Del Noce, cfr. anche Id., Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1990; A. Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile, Roma, Armando, 1971 e Id., Introduzione a Gentile, IV ed. Roma-Bari, Laterza, 2001. Fa riferimento all’interpretazione di Del Noce, F. Perfetti nell’introduzione a G. Gentile, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2004. La critica più radicale contro questa interpretazione, svolta sul versante dell’analisi filosofica, è contenuta in G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, Il Mulino, 1998. 29  D.D. Roberts, Maggi’s Croce, Sasso’s Gentile and the Riddles of Twentieth-Century Italian Intellectual History, in «Journal of Modern Italian Studies», 7 (2002), n. 1, p. 126. È un tema a cui Roberts ha dedicato diversi contributi: Giovanni Gentile e la politica italiana, Pisa, Ets, 1999; How Not to Think about Fascism and Ideology, Intellectuals Antecedents and Historical Meaning, in «Journal of Contemporary History», 35 (2000), n. 2, ma anche da ultimo, The Totalitarian Experiment in Twentieth-Century Europe. Understanding the Powerty of Great Politics, London - New York, Routledge, 2006, pp. 299-306, 309-310, 322-323. 30   Cfr. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, cit., pp. 263-316 per una riflessione sulla struttura concettuale della filosofia gentiliana; cfr. anche Lo Schiavo, La filosofia politica di Giovanni Gentile, cit., pp. 182-193; D. Faucci, La filosofia politica di Croce e di Gentile, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 113-125; S. Valitutti, Il diritto secondo Gentile, in Enciclopedia 76-77. Il pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Istituto della Enciclopedia

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Negli stessi anni Gentile iniziò a scrivere su alcuni quotidiani nazionali, divenne noto anche a un pubblico più vasto e inaugurò una durissima campagna contro il nazionalismo. Nel marzo del 1917 sostenne che «per essere veramente e seriamente nazionalisti» bisognava «metter da parte il nazionalismo, se esser nazionalista» voleva dire «affermare la nazione come positiva realtà di fatto dell’uomo sociale»31. La sua critica prendeva le mosse dal rifiuto radicale dell’idea di nazione pensata «come un fatto naturale, antropologico o etnografico» ma anche «come una formazione storica già esistente in virtù di un processo, che venga egualmente presupposto». Coerentemente con quanto aveva sostenuto, Gentile ribadì la sua critica generale alla politica intesa come azione determinata da fattori stabiliti a priori, come un dato fissato una volta per tutte. E infine nel 1920, con i Discorsi di religione, sostenne l’identità di religione e politica e affermò: Il nostro pensiero non può non essere religioso, la nostra azione non può non essere compenetrata dal senso del divino. E se la nostra azione è azione politica o Stato, il nostro Stato conviene pure che sia governato da uno spirito schiettamente e profondamente religioso32.

Gentile credeva che per risolvere i numerosi problemi della società italiana occorresse promuovere una religione della patria. Prima di stabilire come gestire le forze sociali in campo, contemperando i loro diversi interessi, prima di pensare all’assetto istituzionale dello Stato e prima di rispondere alle necessità economiche poste dalla società, per Gentile creare un nuovo Stato significava ricostruire una comunità che sente di essere tale e per questo diventa Stato. All’interno di questa

Italiana, 1977, pp. 873-883; G. Marini, Aspetti sistematici della «Filosofia del diritto» di Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», ff. II e III, a. LXXIII, maggio-dicembre 1994, pp. 462-483; L. Punzo, I fondamenti della filosofia del diritto di Giovanni Gentile, in P. Di Giovanni (a cura di), Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 375. 31  G. Gentile, Nazione e nazionalismo, in Guerra e fede, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XLIII, III ed. riveduta e corretta a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 36-37. 32  Id., Discorsi di religione, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XXXVII, IV ed. riveduta e accresciuta, Firenze, Sansoni, 1957, p. 29.

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prospettiva, egli non mancò di sottolineare che il diritto degli individui avrebbe costituito niente più che un’immagine, un’immagine fuorviante «della nostra presunta libertà immediata o naturale, e dei nostri sacri diritti inalienabili e insopprimibili, con cui naturalmente crediamo o credevamo di presentarci a prender posto al banchetto della vita»33. Alla vigilia del fascismo, dunque, Gentile espresse le proprie riflessioni politiche intorno a due grandi temi: la critica radicale contro il determinismo delle ideologie politiche del passato, fossero il nazionalismo o il liberalismo, e la necessità di rifondare la politica italiana a partire da un rinnovamento radicale, da una riforma morale. Da questo punto di vista, come i fascisti, anche Gentile negli anni della Grande guerra aveva assunto posizioni antidemocratiche, antiliberali e antisocialiste sulla base di una concezione religiosa della politica considerata come una fede che avrebbe trasformato la vita degli uomini perché capace di parlare alle loro coscienze; una tensione morale per trasformare gli individui e farli sentire parte della stessa realtà. Si comprende allora perché si dichiarò un precursore del nuovo movimento politico e perché aderì al partito di Mussolini divenendone uno degli intellettuali più noti e autorevoli. Dal 1922 al 1927 Gentile esercitò una vera e propria egemonia sull’elaborazione dell’ideologia fascista e nell’organizzazione della cultura del regime perché poté contare sul sostegno di Mussolini e di molti importanti esponenti del fascismo che lo consideravano un loro precursore e si mostrarono orgogliosi di accoglierlo nel governo e nelle fila del loro partito. In quel periodo il filosofo ebbe un potere che non fu attribuito a nessun altro intellettuale italiano e nel 1923 accettò la tessera del Partito fascista: come ha sottolineato Gabriele Turi, non vi possono essere dubbi sul carattere fascista della scelta politica di chi fu ministro della Pubblica Istruzione, presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica istruzione, direttore scientifico della Enciclopedia Italiana e presidente della Commissione dei Quindici, incaricata dal Partito fascista di elaborare una proposta di modifica dello Statuto albertino34.   Ibidem.  G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1994, pp. 304-367. 33 34

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Dall’ottobre del 1922 fino al giugno del 1924 Gentile fu ministro della Pubblica Istruzione e autore di una riforma che modificò tutti i gradi e gli ambiti dell’istruzione pubblica. Nelle scuole elementari, a cui si accedeva a sei anni, la novità più importante fu l’introduzione della religione cattolica. Già dall’inizio del secolo il filosofo riteneva che, nonostante i numerosi limiti, la scuola confessionale sapesse «inculcare» negli alunni i principi di una fede e predisporre gli animi ad accogliere valori assoluti. Del resto, Gentile riteneva che la religione fosse un mito e che si ponesse «al di là della nostra intelligenza», cioè al di là dell’analisi razionale. Per questo avrebbe potuto svolgere le funzioni di una philosophia inferior e preparare i bambini allo studio della filosofia35. Convinto che la riforma scolastica facesse parte di un progetto più ampio di costruzione dello Stato, riteneva che la religione cattolica, in quanto religione dei padri e della tradizione italiana, avrebbe contribuito alla costruzione della coscienza nazionale. Per queste ragioni nel 1923 stabilì che la religione non venisse insegnata da religiosi come una forma di catechismo, ma da maestri elementari, in accordo con le autorità religiose locali e con il provveditore, e che non rientrasse nella valutazione del profitto complessivo dell’alunno36. Dopo i cinque anni trascorsi nella scuola elementare, a undici anni i bambini italiani potevano accedere alla scuola media, divisa in scuola di primo e di secondo grado37. Facevano parte del primo gruppo il ginnasio, cioè il corso inferiore del liceo classico, il corso inferiore dell’istituto tecnico, quello dell’istituto magistrale, la scuola complementare per coloro che non desideravano proseguire negli studi, e infine il conservatorio di musica. Le scuole medie di secondo grado sarebbero state: il liceo classico e il liceo scientifico, il corso

 Cfr. G. Gentile, Educazione e scuola laica, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XXXIX, V ed. riveduta e accresciuta a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1988, p. 124. 36  Sulla religione cattolica nella riforma Gentile, cfr. L. Ambrosoli, Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze, Vallecchi, 1980. Sul rapporto fra religione e filosofia nell’attualismo di Gentile, cfr. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, cit., pp. 147-178. 37   Cfr. in particolare, M. Galfrè, Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo, Milano, Franco Angeli, 2000. 35

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superiore dell’istituto tecnico e di quello magistrale, il liceo femminile per le ragazze che non avessero continuato a studiare e il liceo artistico. Soltanto il liceo classico consentiva l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie; era la scuola che avrebbe dovuto formare la futura classe dirigente, quella più selettiva e più prestigiosa, dove si insegnavano la storia e la filosofia, l’italiano, il latino e il greco. In realtà, con la riforma del 1923 il carico di lavoro di tutti gli studenti italiani aumentò notevolmente: sia l’ingresso a una scuola media di primo grado, sia il passaggio a una di secondo erano vincolati al superamento di esami di ammissione che, come quelli di maturità per i licei, o quelli di licenza per la scuola complementare e per il liceo femminile, assunsero la forma di esami di Stato e divennero obbligatori non solo per gli alunni delle scuole private, ma anche per quelli degli istituti pubblici. Come si è accennato, la decisione di inserire l’esame di Stato non derivava dal desiderio di facilitare il percorso degli studenti delle scuole private. Nei progetti di Gentile, l’esame nasceva dalla volontà di esercitare un controllo sulla scuola italiana e di consentire ai privati di organizzare propri istituti per assorbire la popolazione scolastica che non riusciva a frequentare le scuole dello Stato. Anche la riforma dell’università venne orientata dal principio secondo cui l’istruzione pubblica doveva giovarsi della collaborazione con i privati. La riforma prevedeva tre tipi di atenei: facevano parte del primo gruppo quelli completamente finanziati dallo Stato, che erano del tutto autonomi e dovevano garantire le quattro facoltà tradizionali (medicina, giurisprudenza, lettere e filosofia e scienze) a cui si aggiunsero i Politecnici. Il secondo gruppo riuniva le università che ricevevano solo alcune sovvenzioni dallo Stato, finanziandosi prevalentemente con i contributi dei privati e degli enti locali. Questi atenei potevano decidere il numero delle facoltà da istituire ed erano soggetti a controlli periodici da parte di ispettori statali. Infine vi erano le università libere, che si autofinanziavano, ma avevano un’autonomia amministrativa e didattica strettamente limitata. La riforma riconobbe a ogni università ampia libertà didattica nell’organizzazione degli insegnamenti e nella possibilità di elaborare piani di studio ma, al contempo, stabilì che rettori e presidi fossero nominati dal re, su proposta del ministro.

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Tra l’altro trasformò il Consiglio superiore della pubblica istruzione in un organo di nomina ministeriale, eliminandone tutti gli spazi elettivi, e inserì l’obbligo dei docenti di giurare fedeltà allo Stato38. Queste furono le linee generali della riforma della scuola, che non si limitò a modificare l’assetto istituzionale dell’istruzione pubblica. Benché meno noto, uno degli obiettivi della politica scolastica di Gentile fu quello di trasformare la scuola italiana nel luogo di costruzione di una religione civile. Occorreva per questo una strategia che il ministro elaborò personalmente, affiancando l’operato del suo sottosegretario Dario Lupi. Deputato toscano, fascista della prima ora e fervido ammiratore di Gentile, Lupi fu definito il più importante «iniziatore dei riti novelli» della nuova Italia perché istituì nelle scuole il rito del saluto alla bandiera tricolore, promosse gare corali sugli inni patriottici, dispose che nelle aule scolastiche fossero esposti il crocefisso e l’immagine del re d’Italia e, soprattutto, nel novembre del 1922, decise di istituire viali e parchi della rimembranza affidando l’iniziativa alle scolaresche italiane che avrebbero dovuto decorare ogni «città o paese o contrada» con piante dedicate alle vittime della guerra mondiale39. Nell’ambito di queste iniziative, nel gennaio del 1924 Gentile intervenne personalmente per segnalare l’importanza del rito del saluto alla bandiera. «Mi risulta», scrisse il ministro ai provveditori agli studi, «che in qualche scuola la cerimonia non è compiuta con solennità e spirito religioso. Il rito deve essere compiuto almeno una volta al mese»40. Analogamente, nel giugno del 1924, ordinò di aggiungere all’arredo delle aule scolastiche un’immagine del milite ignoto raffigurante quello presente nel monumento dedicato a Vittorio Emanuele II a Roma41. Quando la riforma della scuola arrivò in parlamento fu accolta da un coro di critiche da parte dei deputati dell’op-

  Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 110-114 e Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., pp. 205-210. 39   Cfr. Gentile, Il culto del littorio, cit., p. 69. Su questo aspetto della riforma Gentile, cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 39-43. 40   Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, 51, vol. II, n. 3, 15 gennaio 1924, circolare n. 1, p. 65, Saluto alla bandiera. 41   Ibidem, 51, vol. II, n. 26, ordinanza del ministro del 5 giugno 1924, pubblicata nel Bollettino il 24 giugno 1924, Raffigurazione simbolica del Milite ignoto nelle aule scolastiche, p. 1438. 38

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4. Le istituzioni culturali

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posizione e dei rappresentanti degli studenti, che accusavano Gentile di avere una concezione aristocratica dell’insegnamento e di aver creato una scuola troppo difficile42. Le proteste furono talmente diffuse che il 14 giugno 1924, in piena crisi Matteotti, Gentile si dimise perché era convinto che la sua permanenza al ministero avrebbe messo in pericolo la riforma scolastica e non certo per prendere le distanze dal governo43. Ne è prova il suo comportamento dei mesi successivi, quando decise di stringere maggiori legami con il Pnf. E, infatti, da allora e fino al 1927 fu l’intellettuale a cui il fascismo affidò alcune delle sue istituzioni culturali di maggiore rilievo.

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Nei mesi in cui si accinse a dirigere le più importanti istituzioni culturali del fascismo, Gentile spiegò che aveva aderito al regime perché era convinto che il movimento fondato da Mussolini avrebbe trasformato l’Italia in uno Stato moderno44. Pensava che i fascisti avevano preso il potere per portare a termine l’opera iniziata da Giuseppe Mazzini, il protagonista più importante delle battaglie risorgimentali, il profeta dello spirito religioso che aveva animato la lotta per costruire un nuovo paese contro l’individualismo e il materialismo45. Arrivando ad accomunare i giovani che avevano combattuto nel Risorgimento agli squadristi del 1919, Gentile dichiarò che il fascismo era «ritornato allo spirito del Risorgimento»46. Ora, secondo il filosofo, riconoscere nel fascismo l’esito di un processo iniziato molto tempo addietro, non significava togliergli

42   Per le critiche dell’opposizione cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 217. Per le critiche dei fascisti, Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 54-58. 43   Cfr. E. Codignola, Il nuovo ministro dell’istruzione, in «La Nuova Scuola Italiana», a. I, n. 41, 15 luglio 1924, p. 553. 44   G. Gentile, Che cos’è il fascismo?, in Politica e cultura. I, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XLV, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 21. 45   Ibidem, p. 22. Sull’interpretazione gentiliana di Mazzini, cfr. R. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile, in Id., Storici italiani del Novecento, PisaRoma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000, pp. 105-158. 46  Gentile, Che cos’è il fascismo?, cit., p. 27.

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originalità né sminuire il suo carattere rivoluzionario. Al contrario, egli considerava il fascismo una realtà politica nuova e moderna che a differenza del liberalismo italiano aveva saputo affrontare il problema dell’ingresso delle masse nelle strutture e nella vita dello Stato47. «La massa che si è raccolta intorno ai gagliardetti dei fasci», scriveva a questo proposito, ha dato al fascismo «l’energia che mancava allo stesso liberalismo dello Stato forte»48. Furono queste le ragioni che ribadì nei mesi in cui decise di intensificare la sua azione nel fascismo. Da parte loro Mussolini e i fascisti gli concessero un potere che non attribuirono a nessun altro intellettuale italiano. Dopo aver presieduto la Commissione dei Soloni, incaricata dal Pnf di elaborare un progetto di riforma dello Statuto albertino, nella primavera del 1925 Gentile fu tra gli organizzatori del primo convegno delle istituzioni fasciste di cultura. Il convegno delle istituzioni culturali si svolse a Bologna dal 29 al 31 marzo 1925, a tre mesi dal noto discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio che sancì la trasformazione dell’Italia liberale in un regime totalitario. Fu organizzato da Franco Ciarlantini, responsabile dell’Ufficio stampa e propaganda del Partito, per mostrare la capacità del fascismo di promuovere cultura, per discutere dei fondamenti politico-filosofici del movimento fascista e per coordinare le istituzioni di cultura49. Diedero il loro sostegno al congresso circa duecentocinquanta intellettuali, fra cui i più importanti artisti e studiosi dell’epoca, come Luigi Pirandello che inviò una lettera di adesione, Giuseppe Ungaretti, Ernesto Codignola, Gioacchino Volpe e Ardengo Soffici. Per diffondere lo spirito che animava gli studiosi, alla fine del congresso venne redatto il «Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni» e fu decisa la fondazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura

47  Id., Riforme costituzionali e fascismo, in Politica e cultura. I, cit., p. 183. 48  Id., Il fascismo e la Sicilia, ibidem, p. 57. 49   E.R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, Milano, Feltrinelli, 1958; Id., Fascismo e cultura, Venezia, Marsilio, 1974, pp. 159-186; Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, pp. 18-21; G. Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura. Gli intellettuali fra partito e regime, Roma, Pellicani, 2000, pp. 28-38.

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(Infc). Entrambi vennero affidati a Gentile, che scrisse il testo del Manifesto e assunse la presidenza dell’Istituto. Il Manifesto non conteneva novità rispetto a quanto il filosofo aveva sostenuto nei mesi precedenti. Egli vi ribadì la propria concezione del fascismo e spiegò che il movimento fondato da Mussolini aveva un carattere religioso e intransigente, nato dallo spirito delle trincee ed espresso nello squadrismo. Terminato il triennio 1919-1921, il fascismo era diventato sempre più forte e si era affermato come un grande ideale in grado di coinvolgere tutti gli italiani, i fascisti e gli antifascisti. Il filosofo credeva che, proprio perché esprimeva un nuovo modo di fare politica, il fascismo potesse coinvolgere le masse nella costruzione dello Stato andando oltre gli schieramenti dei partiti politici. In questo senso egli orientò la politica culturale del fascismo, forte del convincimento che la cultura si sarebbe giovata dell’apporto dei fascisti e degli antifascisti e del contributo di tutte le discipline e i saperi. Coerentemente con questo approccio, quando alla fine del 1925 Gentile inaugurò l’Istituto nazionale fascista di cultura, la prima istituzione culturale nata alle dipendenze del Pnf, per «formare una coscienza politica nazionale salda e organica»50, rimarcò che l’Istituto non avrebbe rinunciato a utilizzare il contributo della cultura tradizionale e quindi delle singole discipline come strumenti di riflessione e di conoscenza51. Per questo sostenne che la nuova istituzione dovesse chiamarsi «Istituto nazionale fascista di cultura» e non «Istituto nazionale di cultura fascista», come avrebbero voluto gli uomini del Partito. Sottolineando il carattere non politico del sostantivo cultura, Gentile pensava che il fascismo avrebbe trasformato l’Italia rivolgendosi a tutti gli italiani al di là delle originarie appartenenze politiche. In questo orizzonte la cultura non avrebbe servito gli interessi della politica: come la sua riforma avrebbe costruito una coscienza nazionale dando vita a una scuola capace di accendere gli animi insegnando a diventare futuri italiani e celebrando la religione della patria, così le istituzioni culturali fasciste avrebbero contribuito alla realizzazione della nuova Italia.  Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura, cit., p. 39.  G. Gentile, Discorso inaugurale dell’Istituto nazionale fascista di cultura, in Id., Politica e cultura. I, cit., pp. 256-272. 50

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Nei primi anni questa posizione di Gentile non mise in pericolo la sua leadership nell’Infc che era diretto da un consiglio di amministrazione composto da suoi collaboratori, come Carmelo Licitra, Arnaldo Volpicelli, Ernesto Codignola, Balbino Giuliano e Carlo Costamagna; da uomini del Partito come il vicepresidente Giorgio Masi, che era un ammiratore di Gentile ma era anche molto vicino al segretario del Pnf Roberto Farinacci, leader dei fascisti intransigenti, e Alberto Calza-Bini, segretario nazionale del sindacato fascista degli architetti; non mancavano personalità del mondo della cultura e delle università italiane come Gioacchino Volpe, l’economista Gino Arias e lo storico del diritto Pier Silverio Leicht52. L’azione dell’Istituto si giovava della rete di sezioni provinciali che vennero allestite sul territorio nazionale presso le realtà locali del Partito fascista, nonché del contributo della sua rivista, «Educazione politica». Tutte le direttive generali promanavano dall’Istituto centrale che aveva sede a Roma, ma l’elaborazione e la messa in opera dei programmi specifici spettavano alle novantaquattro sezioni costituite nei centri di ciascuna provincia italiana. La parte più cospicua delle iniziative era dedicata alle conferenze pubbliche e ai convegni, anche se non mancavano attività ricreative come i concerti, le gite, i corsi di lingue, le visite ai musei, e un’ampia serie di pubblicazioni distribuite alle scuole, alle biblioteche e alle organizzazioni del partito53. Con gli stessi criteri che lo avevano guidato nella gestione dell’Istituto, e con la stessa concezione dei rapporti fra cultura e politica, Gentile si accinse a dirigere l’Enciclopedia Italiana, che nacque nel 1925 da un progetto di Giovanni Treccani con il sostegno economico del fascismo e con l’obiettivo di competere con quelle di altri paesi europei. Nell’atto costitutivo si auspicava che collaborassero alla redazione delle singole voci tutte le migliori competenze ed energie intellettuali disponibili a dare vita a un’opera di alto livello scientifico e culturale. Come ha notato Gabriele Turi, infatti, l’art. 4 specificava che l’Istituto dell’Enciclopedia era legato alla coscienza del popolo italiano e agli alti destini a cui poteva aspirare, ma era «apoliti52 53

 Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura, cit., p. 58.  Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 23.

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co» nel senso assoluto della parola54. Proprio per questo, ancor prima dell’uscita del primo volume che fu pubblicato nel 1929, diversi personaggi del mondo politico criticarono Gentile e rivendicarono la volontà di dare vita a un’opera autenticamente fascista. La polemica più nota fu quella sollevata dal direttore de «Il Tevere», Telesio Interlandi, che scatenò un caso intorno ai collaboratori dell’Enciclopedia con l’articolo Considerazioni sopra un elenco di Enciclopedici, apparso il 25 aprile 1926 sulle colonne del suo giornale. Inaugurando la polemica contro il filosofo, Interlandi scrisse:

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Quale contributo porteranno questi novanta «intellettuali» all’Enciclopedia che noi sognavamo dovesse essere «fascista» cioè informata a quel nuovo spirito nazionale che appunto chiamiamo Fascismo? Se i fascisti vi porteranno questo spirito e gli antifascisti un altro, l’Enciclopedia che verrà fuori da questa orribile collaborazione sarà un glorioso pasticcio «imparziale». Oh divina imparzialità come volentieri ti tireremmo il collo! [...] Dovremo, dunque, respingere dall’età fascista questo monumentale lavoro che pur fu annunziato come lo specchio fedele dell’Italia rinnovata, cioè non più liberale. Parola d’onore che a conti fatti preferiremo l’Enciclopedia Melzi illustrata55.

Come si è visto, Gentile si considerava un precursore del fascismo. L’aveva scritto più volte fra il 1922 e il 1925 e lo ribadì nella primavera del 1926, rispondendo ai suoi critici e affermando la sua idea del fascismo come occasione per costruire una nuova Italia. Egli riteneva che all’interno di questo progetto, per la sua stessa natura di partito, cioè di parte di un ambito politico più ampio, il Pnf esprimesse una logica faziosa ed era convinto che se il fascismo avesse delegato la trasformazione radicale della società al Partito non si sarebbe differenziato dai regimi politici precedenti. Secondo Gentile, il rinnovamento radicale portato da Mussolini e dalle camicie nere nella storia italiana consisteva proprio nell’imporre una logica nazionale alla politica italiana, nel rendere effettiva l’identificazione tra gli italiani e lo Stato fascista, e cioè nel far

54   Cfr. G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 41. 55   Considerazioni sopra un elenco di Enciclopedici, in «Il Tevere», a. III, n. 97, 25 aprile 1926, p. 1. Sulle polemiche dei fascisti contro Gentile, cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 64-67.

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sentire gli italiani – tutti gli italiani: i fascisti e gli antifascisti – espressioni dello Stato guidato da Mussolini. Per questo aveva parlato di rinascita dello spirito religioso nella politica italiana e per questo non poteva immaginare una cultura al servizio della politica. In questo senso per Gentile l’aggettivo fascista doveva diventare sinonimo dell’aggettivo italiano: parlare di fascismo significava parlare di Italia, delle sue risorse, dei suoi intellettuali migliori e di quelli che lavoravano per unificare il paese costruendo, giorno dopo giorno, il nuovo Stato degli italiani. Non si trattava di un atteggiamento timido nei confronti del regime. Da questo punto di vista, come ha evidenziato Gabriele Turi, le voci dell’Enciclopedia confermano pienamente l’esistenza di una cultura fascista 56. Nel primo volume, che uscì nel 1929, Gentile volle ricordare che a unire tanti autori diversi, ognuno con una sua specificità, formazione e metodo, era stato proprio lo spirito dei tempi, un nuovo sentimento unitario che caratterizzava l’Enciclopedia Italiana come espressione del pensiero di un popolo e di un’epoca. In realtà questo suo giudizio non fu circondato da un consenso incondizionato, come è evidente considerando la politica culturale dei ministri della Pubblica Istruzione. 5. La fascistizzazione della scuola

I ministri che si susseguirono alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, dopo la breve esperienza del liberale Alessandro Casati, terminata con la svolta del 3 gennaio 1925, diedero vita a quella che lo storico francese Michel Ostenc ha definito la controriforma della riforma Gentile57. In effetti, Pietro Fedele e Giuseppe Belluzzo negli anni Venti, Balbino Giuliano, Francesco Ercole, Cesare Maria De Vecchi di Valcismon e Giuseppe Bottai negli anni Trenta, considerarono la riforma del 1923 inadatta a fascistizzare la scuola italiana e quindi a educare le giovani generazioni ai valori e ai miti della cultura fascista58.  Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, cit., pp. 82-100.  Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., pp. 127-181. 58   Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 211-263, 419-469 e Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., pp. 127-183. 56 57

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Nel gennaio del 1925 Pietro Fedele esplicitò in parlamento la volontà di modificare i programmi scolastici e soprattutto di alleggerire quelli degli studenti delle scuole medie59. Si trattava di un’esigenza condivisa da alcuni autorevoli esponenti del governo e del Gran consiglio del fascismo, nonché dallo stesso capo del governo. Nell’estate del 1927 il capo di stato maggiore Pietro Badoglio informò Mussolini che alla leva militare fra i diplomati vi era una percentuale molto alta di riformati. Per questo gli chiese di potenziare l’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole e di proseguire nella direzione già individuata da Fedele riducendo i programmi scolastici degli studenti medi 60. Le richieste di Badoglio vennero accolte da Mussolini, che scrisse al ministro Fedele indicandogli l’orientamento della politica scolastica fascista61. A quasi cinque anni dall’approvazione della riforma Gentile, anche Mussolini, dunque, riteneva che i programmi scolastici fossero troppo ampi e troppo pesanti e temeva che la scuola voluta da Gentile fosse in grado di selezionare una classe dirigente ma divenisse un mondo a parte, un luogo di saperi astratti nel quale la formazione degli studenti si risolvesse in un mero percorso culturale. Per questo autorizzò Fedele a modificare la riforma e ad accelerare il processo di fascistizzazione della scuola: approvò l’introduzione dello studio del fascismo nei programmi scolastici e l’istituzione di una giornata dedicata ai giochi sportivi e alle gite turistiche, pensando che l’educazione politica e le attività extrascolastiche fossero decisive per la formazione di una generazione di giovani fascisti62. Nei mesi successivi la necessità di riformare la scuola venne espressa dal Gran consiglio del fascismo che nel novembre del 1927 si riunì per affrontare i problemi relativi alla «fascistizzazione della scuola»63. Per alcuni aspetti il Gran consiglio dichiarò espressamente che la riforma Gentile doveva essere

59   Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 223; cfr. anche Il programma scolastico del ministro Fedele in un discorso al Consiglio Superiore, in «Il Giornale d’Italia», 10 gennaio 1925. 60   Cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 123-127. 61  Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XL, pp. 405-406. 62   Cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 123-127. 63  Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell’era fascista, Editrice Nuova Europa, Roma, 1932, p. 282.

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considerata «una delle migliori e più fondamentali leggi del regime»64 e concluse ricordando l’intangibilità dell’esame di Stato che garantiva al regime fascista il monopolio della concessione dei titoli scolastici e la discrezionalità nel rilasciare il riconoscimento giuridico agli istituti privati. Per altri versi, invece, il supremo organo del regime distinse i risultati ottenuti dalla riforma del 1923 nelle scuole elementari, da quelli raggiunti nelle scuole medie e nelle università e definì i primi eccellenti mentre i secondi solo «soddisfacenti». Nell’indicare i provvedimenti più urgenti da adottare i membri del Gran consiglio concentrarono l’attenzione sull’importanza «dell’educazione ginnico-sportiva», che a loro avviso non aveva ricevuto l’adeguata attenzione da parte della scuola italiana, e dichiararono la necessità di stabilire un più diretto contatto della scuola «con la vita in tutte le sue manifestazioni di forza, di bellezza e di lavoro»65. Per rispondere a queste esigenze e procedere verso la fascistizzazione della scuola nel marzo del 1928 un decreto stabilì che i libri di storia, di geografia, di economia e di diritto per le scuole elementari dovessero conformarsi alle esigenze del fascismo. I volumi già ordinati sarebbero rimasti in commercio fino al settembre del 1930 mentre in seguito sarebbero stati sostituiti da un libro di Stato unico per tutte le scuole elementari, pubbliche e private66. La necessità di controllare i testi scolastici era stata espressa già nel 1927, quando venne istituita una Commissione centrale presso il ministero della Pubblica Istruzione per il vaglio di tutti i libri destinati alle scuole. Presieduta dal vicesegretario del Pnf, Alessandro Melchiori, nell’ottobre del 1928 esaminò quattrocento testi e dichiarò che nessuno era adeguato alle nuove esigenze del fascismo. Per questo chiese al governo di accelerare i tempi per la stesura del nuovo libro

 Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXIII, p. 61.   Ibidem. Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 247-248. 66   Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 393-418; cfr. A. Scotto Di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; A. Ascenzi e R. Sani (a cura di), Il libro per la scuola tra idealismo e fascismo (1923-1928), Milano, Vita e Pensiero, 2005; M. Colin, «Les enfants de Mussolini». Littérature, livres, lectures d’enfance et de jeunesse sous le Fascisme. De la Grand Guerre à la chute du régime, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2010. 64 65

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unico, che entrò nelle aule italiane nel 1930 con il ministro Giuseppe Belluzzo, e a cui collaborarono alcune delle firme più note del panorama culturale italiano, come Ada Negri e Grazia Deledda, il matematico Gaetano Scorza e il geografo Luigi De Marchi67. La legge prevedeva un libro unico per le prime due classi della scuola elementare, mentre per le altre tre introduceva testi differenziati; doveva essere rinnovato ogni tre anni, pubblicato dalla Libreria dello Stato e distribuito nelle scuole tramite i provveditorati agli studi, presenti nelle varie province. Anche l’estetica del libro fu seguita con cura. Nella sua strategia di comunicazione, ha ricordato Mariella Colin, il regime fece ampio uso delle immagini nei libri per l’infanzia che dovevano avere le copertine colorate, disegnate dai migliori illustratori dell’epoca. Nelle scuole secondarie non venne introdotto, anche se i testi furono sottoposti al rigido controllo politico e i programmi di insegnamento vennero allineati alle esigenze del regime68. Negli anni Venti la scuola non fu l’unico terreno in cui i fascisti espressero la volontà di educare i giovani ai valori del regime69. Dominio del ministero della Pubblica Istruzione, e quindi di un organo dello Stato, era anzi il settore meno vicino al Partito fascista che per tutto il Ventennio investì le sue energie nella mobilitazione delle nuove generazioni70. Come si vedrà, il Partito espresse «una concezione politica imperniata sul mito di un’umanità riplasmata nello spirito e nel fisico» e  Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 401.  Colin, «Les enfants de Mussolini», cit., p. 188. 69  Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 249-263; Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., pp. 170-181. 70   Cfr. Nello, L’avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit.; R. De Felice, Mussolini il duce. II: Lo Stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einuadi, 1981, pp. 123-129; N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 1926-1943, in «Storia contemporanea», 13 (1982), nn. 4-5, pp. 569-633; C. Betti, L’Opera nazionale balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 32-33; T.H. Koon, Believe, Obey, Fight. Political Socialization of Youth in Fascist Italy, 1922-1943, Chapel Hill London, University of North Carolina Press, 1985; Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 326-367; La Rovere, Storia dei Guf, cit., pp. 24-36; O. Stellavato, La nascita dell’Opera nazionale balilla, in «Mondo contemporaneo», 2 (2009), pp. 5-81; A. Ponzio, La palestra del Littorio. L’Accademia della Farnesina: un esperimento di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista, Milano, Franco Angeli, 2009. 67 68

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per questo attribuì «un’importanza primaria alla educazione della gioventù»71. Si può dire, anzi, che la politica di massa del regime fascista, «in tutti i suoi aspetti», fu concepita e attuata dal Partito «come una costante attività di pedagogia totalitaria, applicata agli italiani fin dalla nascita» sottoponendoli all’organizzazione, all’indottrinamento e all’integrazione72.

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6. L’Opera nazionale balilla

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Come si è accennato, la storia delle prime organizzazioni giovanili fasciste si sovrappone a quella del fascismo, tanto che i giovani da protagonisti attivi delle battaglie delle origini divennero l’oggetto di un esperimento pedagogico cui erano legate le sorti del regime. Dopo la fondazione del Partito nazionale fascista, nel novembre del 1921, l’Avanguardia studentesca dei fasci di combattimento fu trasformata in Avanguardia giovanile fascista. Aperta anche ai lavoratori, divenne la sezione giovanile del Pnf e dall’ottobre del 1921 fu affiancata ai Guf, i Gruppi universitari fascisti, a cui si aggiunsero nel giugno del 1922 i Gruppi balilla. Per organizzare tutte queste espressioni dell’universo giovanile fascista in una struttura unitaria e coordinarne le diverse attività, il 3 aprile 1926 nacque l’Opera nazionale balilla (Onb). Tipica espressione dell’osmosi fra le strutture del Partito e quelle dello Stato che si verificò durante il fascismo, l’Onb era un’organizzazione alle dipendenze del Pnf e al contempo un ente morale con una propria personalità giuridica, sottoposto al controllo del capo del governo. Prendeva il nome da Giovan Battista Perasso detto Balilla, il piccolo genovese che nella città ligure aveva dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746, e forniva l’assistenza e l’educazione fisica alla gioventù italiana dagli otto ai diciotto anni. Ne facevano parte quattro organizzazioni: i Balilla, gli Avanguardisti, le Piccole italiane, le Giovani italiane, e dal 1930 i Figli della lupa, cioè i bambini dai sei agli otto anni.

 Zapponi, Il partito della gioventù, cit., p. 571.   E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 253. 71 72

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Pochi mesi dopo la sua nascita, nel gennaio del 1927, due decreti vietarono le associazioni giovanili non fasciste, riservando un trattamento particolare a quelle cattoliche, che furono ridotte nel numero ma non proibite del tutto perché poterono sopravvivere nei comuni con più di ventimila abitanti, anche se vennero costrette a esporre il fascio littorio e le iniziali Onb. L’anno dopo anche gli scout dovettero cessare le loro attività. Da allora, come ha ricordato Niccolò Zapponi, nulla poté intaccare il ruolo dell’Onb che dilatò le proprie funzioni e le proprie dimensioni fino a diventare una delle istituzioni più potenti e più importanti del regime, «concorrenziale alla scuola e potenzialmente ostile ad essa»73. Per esempio, nell’estate del 1928 l’Opera venne incaricata di organizzare le scuole rurali siciliane, che erano state affidate all’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno, uno degli enti delegati a occuparsi delle scuole a scarso rendimento. Pochi mesi dopo assunse il controllo degli istituti scolastici non classificati della Calabria e della Sicilia e nel 1929 passarono alla sua gestione circa settecento scuole serali per adulti analfabeti, oltre a quelle istituite nelle colonie italiane dell’Eritrea, della Somalia, della Cirenaica e della Tripolitania. Nel marzo del 1930 l’Onb ottenne la gestione dei patronati comunali che fornivano le attività di assistenza agli alunni indigenti, offrivano cure mediche, istituivano assicurazioni e organizzavano soggiorni, colonie e borse di studio. Presieduta fino al 1937 da Renato Ricci, l’Onb si occupava della formazione culturale, dell’istruzione tecnico-professionale, dell’assistenza religiosa e soprattutto dell’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole elementari e medie. Proprio a questo scopo, nel febbraio del 1928 a Roma venne inaugurata l’accademia fascista di educazione fisica, un enorme centro sportivo progettato dall’architetto Enrico Del Debbio. Con il nome di Scuola superiore fascista di magistero per l’educazione ginnicosportiva, doveva formare gli insegnanti di educazione fisica delle scuole medie e gli istruttori ginnici delle organizzazioni giovanili del regime74. L’obiettivo dei fascisti era trasformare l’educazione fisica in un fenomeno di massa da controllare e indirizzare verso i fini indicati dal governo. Così nel dicembre del 1928, 73 74

 Zapponi, Il partito della gioventù, cit., p. 599.   Cfr. Ponzio, La palestra del Littorio, cit.

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con la Carta dello sport, l’Ufficio stampa del Pnf dichiarò che tutte le attività sportive dei giovani di età compresa fra i sei e i diciassette anni erano di esclusiva competenza dell’Onb, mentre il Comitato olimpico nazionale italiano (Coni) si sarebbe occupato dello sport a livello agonistico. A questo proposito la Carta dello sport stabilì che i ragazzi italiani potevano far parte di società sportive private solo se erano anche iscritti all’Onb, che gestiva i saggi di fine anno per le scuole elementari e medie, i convegni provinciali ginnico-sportivi nelle specialità curate dai vari comitati periferici, le gare nazionali del littorio, la coppa Dux e soprattutto le colonie estive per i giovani meno abbienti, a cui venne riservato un notevole risalto mediatico75. La grande attenzione dedicata allo sport derivava dalla volontà del regime di creare un uomo nuovo, forte e moderno, capace di competere aggressivamente per dimostrare la propria superiorità. Gli atleti disciplinati sarebbero diventati valorosi soldati, i militi volontari che avrebbero accettato «con gioia la più dura delle discipline». Così scriveva un commentatore spiegando che lo sport fascista doveva «essere inteso come milizia, ossia come disciplina e come educazione virile del cittadino»76. E in effetti, di anno in anno, il carattere paramilitare di queste manifestazioni sportive divenne sempre più evidente, al punto che, come scrisse Ricci nella sua relazione sull’anno scolastico 1930-1931, l’Italia intera si era trasformata in una gigantesca caserma. Con la stessa logica, l’Onb si occupò dell’addestramento premilitare dei ragazzi italiani: i balilla avrebbero dovuto appassionarsi alla vita militare attraverso frequenti contatti con le forze armate rievocandone glorie e tradizioni belliche, mentre gli avanguardisti, e cioè i giovani dai quattordici ai sedici anni, avrebbero dovuto acquisire vere e proprie conoscenze militari, sia teoriche sia pratiche, in modo da facilitare il passaggio alla Milizia e a diciotto la chiamata alle armi. Per questo le mete preferite delle trentacinquemila escursioni organizzate nel 1930, alle quali partecipò più di mezzo milione di balilla e di 75  Betti, L’Opera nazionale Balilla e l’educazione dei giovani, cit., p. 129. 76   C. Barbarito, Lo sport fascista e la razza, Torino, Paravia, 1937, pp. 18-20; M. Canella e S. Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009 e in particolare S. Finocchiaro, L’educazione fisica, lo sport scolastico e giovanile durante il regime fascista, ibidem, pp. 119-132.

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avanguardisti, erano impianti militari, aeroporti, navi da guerra e arsenali. A partire dal 1927 tutti i momenti di promozione – il passaggio dei figli della lupa nelle file dei balilla e delle piccole italiane; dei balilla nelle file degli avanguardisti, degli avanguardisti nei Guf o nelle file dei giovani fascisti; oppure dei Guf o dei giovani fascisti nel Pnf o nella Milizia – vennero celebrati ogni anno con la leva fascista, un rito di iniziazione simile al rito della cresima nella Chiesa cattolica, celebrato nelle città capoluogo alla presenza delle autorità del governo e del Partito. I giovani che accedevano a un grado più alto e soprattutto quelli che volevano entrare nel Partito e nella Milizia erano accolti nelle sedi del Fascio dai camerati anziani e dopo aver pronunciato il giuramento di fedeltà fino alla morte al duce e alla rivoluzione fascista, ricevevano la tessera e il moschetto77. Nel novembre del 1929 l’Opera nazionale balilla passò alle dipendenze del ministero dell’Educazione Nazionale. Come si vedrà, negli anni Trenta il Partito fascista avrebbe tentato di riconquistarla considerandola una delle istituzioni più importanti del regime, una delle espressioni più riuscite della pedagogia totalitaria, a differenza di quanto hanno sostenuto Carmen Betti e Tracy Koon78. Entrambe hanno scritto che le associazioni giovanili fasciste, e l’Onb in particolare, non solo non riuscirono a realizzare gli obiettivi per cui erano state create, ma al contrario si trasformarono in laboratori di antifascismo. È una tesi che ha avuto notevole diffusione e in generale, come si vedrà più avanti, è stata estesa a tutto l’universo giovanile fascista, considerato da molti impermeabile ai valori e ai miti del fascismo e disponibile a elaborare le premesse per una cultura antifascista. 7. L’Opera nazionale dopolavoro

Per estendere il suo intervento alla vita privata degli adulti organizzando il loro tempo libero, nel maggio del 1925 il regime

 Gentile, La via italiana al totalitarismo, cit., p. 178.  Betti, L’Opera nazionale Balilla e l’educazione dei giovani, cit.; Koon, Believe, Obey, Fight, cit. 77 78

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creò l’Opera nazionale dopolavoro (Ond)79. Oggetto di contesa fra il leader delle corporazioni sindacali, Edmondo Rossoni, e il segretario del Pnf Augusto Turati che nell’aprile del 1927 vinse la battaglia e la trasformò in un’organizzazione del Partito fascista, l’Ond fu una delle più importanti organizzazioni di massa del Ventennio: il più potente strumento di penetrazione fra le masse lavoratrici. Alla fine degli anni Trenta controllava trentamila sigle fra associazioni, enti e organizzazioni per un totale di quattro milioni di italiani80. Per definizione statutaria avrebbe dovuto curare l’elevazione morale e fisica del popolo, attraverso lo sport, l’escursionismo, il turismo, l’educazione artistica, la cultura popolare, l’assistenza sociale, igienica, sanitaria, e il perfezionamento professionale81. Si trattava di una serie di compiti di rilevanza primaria che fecero dell’Ond uno dei più efficaci strumenti di controllo, di organizzazione e di educazione dei lavoratori italiani. Come ha ricordato Victoria De Grazia, fra i suoi incarichi più importanti vi fu la creazione di «un pubblico di massa» che dal 1925 fino al 1943 fu perseguita in tre modi diversi. In primo luogo attraverso il controllo degli svaghi già radicati nel tessuto popolare italiano, come le bocce, il ballo, le bande e le associazioni filodrammatiche. In secondo luogo attraverso il turismo di massa: per esempio, nell’agosto del 1931 l’Ond istituì «i treni popolari» consentendo ai lavoratori a basso reddito di viaggiare con tariffe ridotte e riscuotendo un ampio successo con mezzo milione di viaggiatori fra l’agosto e il settembre del 193182. E infine, cercando di sensibilizzare i lavoratori alle arti moderne, come il teatro e il cinema, che avevano un intrinseco valore propagandistico. In questo settore le sue iniziative più note furono i Carri di Tespi e i sabati teatrali: i Carri di Tespi erano teatri mobili che svolgevano la loro attività fuori dal circuito della programmazione teatrale. Comprensivi di palcoscenico e platea trasportabile su autocarri, realizzavano lunghe tournée arrivando in loca-

79   V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro, Bari, Laterza, 1981, p. 33. 80   Ibidem. 81   Ibidem, p. 42. 82   Ibidem, p. 207.

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lità che normalmente non erano raggiunte dal teatro83. Nel 1929 l’Ond allestì quattro grandi strutture, tre teatri per la prosa e un carro lirico, che nel 1936 raggiunsero il milione di spettatori. Creati per impressionare il pubblico, i Carri rappresentarono veri e propri eventi: nel giro di poche ore dall’arrivo a destinazione della troupe, lo spiazzo designato veniva trasformato in una struttura capace di ospitare dai tremila ai seimila posti a sedere. Meno suggestivi, ma più diffusi, i sabati teatrali erano iniziative destinate agli iscritti al dopolavoro con un reddito medio-basso che ebbero un grande successo perché fornirono spettatori al teatro italiano e perché videro la partecipazione di un ampio numero di persone, come era nelle intenzioni dell’Ond84. In questo modo l’Opera sembrò «democratizzare» l’ammissione al teatro di categorie tradizionalmente escluse da questo tipo di attività ricreativa85. Una struttura così articolata, con una macchina burocratica vasta e complessa, richiedeva un enorme sforzo organizzativo. Accanto alla direzione generale che aveva sede a Roma, in ciascun capoluogo di provincia in subordine al federale del Partito furono istituite commissioni locali dell’Ond, che avevano un ruolo fondamentale perché riunivano i rappresentanti dei datori di lavoro e quelli delle associazioni sindacali insieme con le autorità pubbliche. Di fatto, questi comitati provinciali vigilavano su tutte le organizzazioni locali del tempo libero: non solo sulle sezioni dopolavoristiche di quartiere o di paese fondate dall’Ond, ma anche sulle realtà che avevano avuto un ruolo prima dell’avvento del fascismo. Al livello più basso di questa complessa gerarchia si trovava il circolo del dopolavoro che nella sua organizzazione interna riproduceva l’esatta struttura della direzione centrale: era vigilato dal segretario del fascio locale, amministrato da un presidente di nomina fascista, assistito da un comitato formato dal segretario comunale, dall’ispettore sanitario del comune, dal maestro elementare,

83  G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 204-211. 84  J.T. Schnapp, 18BL. Mussolini e l’opera d’arte di massa, Milano, Garzanti, 1996, p. 30. 85   Cfr. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, cit., pp. 184-190.

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dalla fiduciaria dei fasci femminili, da rappresentanti dei sindacati fascisti e delle associazioni dei datori di lavoro86. L’Ond aveva personalità giuridica, poteva ricevere e amministrare contributi, lasciti e donazioni di qualunque natura, alienare, acquistare e possedere beni e compiere tutti gli atti giuridici necessari al raggiungimento dei suoi obiettivi. Tutti i suoi introiti erano esenti da imposte e da tasse perché considerati di pubblica utilità. Nel 1928, per incentivare il volontariato nell’Ond, vennero offerte medaglie d’oro, argento e bronzo, con diplomi di benemerenza distribuiti in occasione di cerimonie a chi si fosse distinto per impegno particolare nelle strutture dopolavoristiche. Dagli anni Trenta, inoltre, l’attività nei circoli venne valutata nella graduatoria per gli avanzamenti di carriera dell’amministrazione statale. Secondo Victoria De Grazia, l’Ond non riuscì a raggiungere i suoi propositi perché «l’aspirazione totalitaria» a creare un pubblico di massa fu un obiettivo che trovò diversi ostacoli sia nelle difficoltà di comunicazione, sia in quella di raggiungere le campagne che restarono isolate e non toccate dalla politica del regime. A suo avviso, del resto, il mondo della cultura di massa restò sempre separato da quello della cultura di alto livello. Come si vedrà nel prossimo capitolo, è una tesi discutibile alla luce della politica culturale e della cultura del fascismo.

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  Ibidem, p. 47.

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Capitolo terzo

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Gli intellettuali e gli artisti degli anni Venti

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1. Gli intellettuali

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Dopo aver tracciato le linee principali della politica culturale del governo e del Partito fascista dal 1922 al 1929, nelle pagine seguenti si cercherà di analizzare il contributo dato dagli intellettuali e dagli artisti nello stesso periodo. Come si vedrà, i gruppi maggiormente impegnati nella produzione della cultura fascista furono: i revisionisti, i fascisti intransigenti e i gentiliani, che si occuparono del ruolo degli intellettuali nel regime, dei rapporti fra la politica e la cultura, e della collocazione del fascismo nella storia europea. La corrente dei revisionisti era guidata da Giuseppe Bottai, che dal 1922 al 1943 fu uno degli uomini politici più importanti del regime1. Volontario nella prima guerra mondiale, futurista e ardito, nel 1919 Bottai partecipò alla fondazione dei Fasci di combattimento e divenne un esponente dello squadrismo romano. Eletto deputato nel 1921, prese parte alla marcia su Roma e nel 1923 fondò la rivista «Critica fascista», convinto che la sconfitta della classe dirigente liberale e i successi dei fascisti rappresentassero solo una prima fase della battaglia politica. Da allora, divenne il più autorevole esponente della corrente revisionista, che chiedeva di rivedere strategie e

  Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, II ed. Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 369-376 e 381-390; Id., Bottai e il fascismo, in Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, II ed. Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 211-236; N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 1926-1943, in «Storia contemporanea», 13 (1982), nn. 4-5, pp. 569-633; M. Galfrè, Giuseppe Bottai. Un intellettuale fascista, Firenze, Giunti, 2000, p. 4, che sottolinea: «le ormai datate definizioni di fascista “critico” o “contraddittorio” hanno avuto una larga eco e l’immagine di Bottai “straniero al regime” si mostra ancora tenacemente radicata». 1

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metodi politici ritenendo che all’epoca dello squadrismo dovesse subentrare una stagione diversa, non più animata dalla violenza, ma capace di fondare un nuovo Stato. Bottai pensava che per realizzare questo obiettivo gli intellettuali dovessero collaborare con la classe dirigente fascista e porsi al servizio della politica, che nel suo orizzonte di pensiero aveva il primato assoluto rispetto a qualsiasi altra forma di aggregazione umana. Come ha sottolineato Niccolò Zapponi, infatti, Bottai aveva una concezione mitica della politica e dello Stato. «Più esattamente l’ideologia revisionista invitava ad idolatrare la politica come l’arte del ritocco costante dell’architettura statale, ai fini del suo adeguamento tempestivo ai mutamenti della storia»; di qui «un’idea della politica come creatività e quindi come dote posseduta soltanto da una minoranza di spiriti eletti e accuratamente selezionati»2. In effetti, nonostante molti storici abbiano ritenuto che l’attenzione di Bottai per la cultura e per gli intellettuali fosse il segno di una sua posizione autonoma all’interno del gruppo dirigente fascista, e per questo l’abbiano talora indicato come un moderato, se non addirittura come un critico della politica mussolinana, egli fu uno dei principali esponenti del totalitarismo fascista3. Nella primavera del 1924 all’Augusteum di Roma, il leader dei revisionisti espose le sue riflessioni sulla Rivoluzione francese, sulla democrazia e più in generale sui rapporti fra il fascismo e la cultura moderna4. Pur non essendo uno studioso di filosofia e nemmeno un teorico della politica, dichiarò la propria vicinanza alla filosofia moderna e spiegò come Georges Sorel, gli idealisti tedeschi e gli intellettuali romantici della seconda metà del XIX secolo avessero criticato il razionalismo politico, la cultura positivistica e i valori «più deteriori» dell’Illuminismo,  Zapponi, Il partito della gioventù, cit., p. 578.   L’ipotesi per cui Bottai sarebbe stato un fascista moderato è in L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, pp. 65-80. Mentre l’immagine di Bottai fascista sui generis è stata introdotta da G.B. Guerri, Giuseppe Bottai. Un fascista critico, prefazione di U.A. Grimaldi, Milano, Feltrinelli, 1976; cfr. anche L. Di Nucci, Giuseppe Bottai, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, 2 voll., Einaudi, Torino, 2005, vol. I, pp. 194-198. 4  G. Bottai, L’equivoco antifascista (Il Fascismo nel suo fondamento dottrinario). Conferenza tenuta all’Augusteum in Roma il 27 marzo 1924, in «Critica fascista», a. II, n. 7, 1º aprile 1924, pp. 395-399. 2 3

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pur senza negare l’importanza della modernità. Diversamente dai reazionari, gli autori a cui faceva riferimento avevano evidenziato i limiti dell’individualismo e del materialismo, ma non avevano messo in discussione la valenza positiva della Rivoluzione francese, e cioè di un evento che aveva cambiato definitivamente la storia moderna inaugurando l’èra della partecipazione delle masse alla politica. All’interno di questa visione della modernità, Bottai credeva che il fascismo fosse l’espressione più importante dei fermenti rivoluzionari che avevano sconvolto il Vecchio continente negli ultimi due secoli: un movimento politico che non negava la centralità delle masse nella politica moderna e, diversamente dalle utopie ugualitarie del XIX secolo, riconosceva il ruolo degli individui nella costruzione dello Stato. Dalla modernità politica nata con la Rivoluzione francese, il fascismo riusciva a cogliere gli elementi positivi e a rifiutare gli aspetti ritenuti deteriori. Era quindi un fenomeno politico moderno e rivoluzionario, ma anche, e soprattutto, italiano. Nel cercare la tradizione culturale che era alle origini del fascismo, Bottai sosteneva che il movimento fondato da Mussolini fosse espressione di una concezione della politica nata con Machiavelli e con Vico, promossa da Oriani all’inizio del secolo e formulata in modo sistematico da Croce e da Gentile. Per questa ragione, negli anni Venti, egli fu tra i principali sostenitori della politica culturale di Gentile, che volle difendere dagli attacchi dei fascisti intransigenti5. Fra i molti giovani che scrivevano su «Critica fascista» e condividevano le riflessioni di Bottai merita un cenno Camillo Pellizzi, fondatore del fascio di Londra, studioso di letteratura e di sociologia, nonché uno dei maggiori intellettuali del regime6. Anche Pellizzi, come Bottai, riteneva che il fascismo fosse un

5   Cfr. A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 69-86. 6   Su Pellizzi cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 410414 e 467-473; R. Suzzi Valli, Il «fascismo integrale» di Camillo Pellizzi, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 7 (1995), pp. 243-284; Id., Il fascio italiano a Londra. L’attività politica di Camillo Pellizzi, in «Storia contemporanea», 25 (1995), n. 6, pp. 957-1001; G. Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura. Gli intellettuali fra partito e regime, Roma, Pellicani, 2000, la cui ultima parte è interamente dedicata a Pellizzi; D. Breschi e G. Longo,

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fenomeno politico moderno e rivoluzionario: lo spiegò nel 1924 sostenendo che la nuova politica era una «forma di pensiero religioso» espressione di miti, vale a dire di «fedi e passioni che toccano e sommuovono le anime vaste e varie dei popoli, come gl’influssi celesti muovono le maree»7. Convinto che la capacità di sentire la potenza del mito politico fosse prerogativa di pochi, elaborò un modello di società aristocratica, fondata sui migliori che combattevano per la realizzazione del mito politico. Anche Pellizzi, come Bottai, volle affrontare il problema della collocazione del fascismo nella storia europea degli ultimi secoli e lo risolse facendo sua la distinzione di Vincenzo Gioberti fra forze metessiche e forze mimetiche. A suo avviso, il liberalismo e la democrazia dovevano essere considerati forze mimetiche, espressioni di tendenze conservatrici, volte a mantenere la realtà in un ordine stabilito. Viceversa il fascismo, come il Risorgimento e tutte le forze metessiche, era portatore di un progetto rivoluzionario che avrebbe cambiato la storia trasformando la società e la politica con la costruzione di un nuovo Stato. A questo proposito, riferendosi chiaramente a Gentile, Pellizzi definì lo Stato uno Stato «dinamo» in continuo movimento e superamento di se stesso8. Anche lui, infatti, come Bottai, nei primi anni Venti considerò Gentile il principale teorico del fascismo e fu orgoglioso di accoglierlo nelle fila del Partito e del governo. La seconda corrente della cultura degli anni Venti fu quella composta dagli intransigenti: quei fascisti che dopo la marcia su Roma invocarono l’intolleranza contro i nemici e si opposero alla politica del disarmo messa in atto dal governo nei confronti dello squadrismo. In questo senso consideravano la collaborazione con gli esponenti della classe dirigente liberale come una sconfitta e rivendicavano la funzione del Partito quale artefice della conquista del potere. Questi fascisti erano convinti di rappresentare un’alternativa radicale alla modernità9.

Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites fra politica e sociologia, 1896-1979, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 7   C. Pellizzi, Problemi e realtà del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1924, p. 11. 8   Ibidem, pp. 159-161. 9  Cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 335-340 e 343-369.

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A questo proposito, uno dei più noti esponenti del fascismo intransigente, lo scrittore Curzio Suckert, meglio noto con lo pseudonimo di Malaparte, sviluppò la propria riflessione sulla modernità descrivendola come un processo politico, culturale e filosofico, sorto con la Riforma protestante ed entrato in una crisi irreversibile10. Come molti intellettuali della sua generazione, Suckert credeva che la Riforma avesse determinato il trionfo dell’individualismo borghese e lo sviluppo del capitalismo, provocando quel «paradossale capovolgimento di valori» per cui «ciò che la latinità [aveva] condannato come barbaro» era divenuto «motivo di orgoglio»11. Il giovane scrittore riteneva che il fascismo avrebbe assolto la propria missione storica salvando l’Europa dalla rovina, restaurando l’antico ordine classico dei valori nazionali e mostrando la propria superiorità rispetto al liberalismo e al socialismo. Antimoderno, antieuropeo, latino e cattolico, il fascismo di Suckert era un movimento politico che combatteva per valorizzare le radici culturali italiane e per abbandonare le ideologie straniere responsabili di aver corrotto lo spirito genuino di un paese come l’Italia, cattolico e controriformista12. Da questo punto di vista Suckert esprimeva un giudizio comune a molti fascisti degli anni Venti, fra cui il suo amico pittore e scrittore Ardengo Soffici13. Anche Soffici credeva che la degenerazione della politica italiana derivasse dall’aver importato culture straniere, come il romanticismo letterario e l’idealismo hegeliano.

10   Su Malaparte cfr. Mangoni, L’interventismo della cultura, cit., pp. 92-96, 98-99, 103-109, 179-181; Ead., Il fascismo, in Letteratura Italiana. I: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 525-530; G. Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica, Milano, Luni, 1998; G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 31-33; M. Biondi, Scrittori e miti totalitari. Malaparte, Pratolini, Silone, Firenze, Polistampa, 2002; S. Luzzatto, Curzio Malaparte, in Dizionario del fascismo, cit., vol. II, pp. 78-81. 11   C. Suckert, L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, prefazione di A. Soffici, Firenze, La Voce, 1923, p. 19. 12   Ibidem, p. 24. 13  Cfr. Ardengo Soffici. Miei rapporti con Mussolini, a cura di G. Parlato, in «Storia contemporanea», 25 (1994), n. 5, p. 746. Cfr. A. Soffici, Prefazione, in Suckert, L’Europa vivente, cit., p. XIV. Cfr. M. Ciliberto, Le idee di Soffici, in M. Biondi (a cura di), Ardengo Soffici. Un bilancio critico, Firenze, Festina Lente, pp. 65-77.

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Fra gli intransigenti ebbero un ruolo importante gli ex futuristi Mario Carli ed Emilio Settimelli, che dal 1921 erano confluiti nell’estremismo fascista, monarchico e reazionario, e dal marzo del 1923 dirigevano il quotidiano «L’Impero»14. Sostenitori del mito della violenza, concepivano la politica come istinto e come forza, ostentavano disprezzo verso gli intellettuali e rifiutavano l’idea che fosse necessario legittimare culturalmente il fascismo o definire la sua collocazione ideologica. Da questo punto di vista i direttori de «L’Impero» erano fra i principali avversari dei revisionisti e di Gentile. Il filosofo non aveva mostrato alcun interesse per la battaglia politica combattuta dai fascisti dal 1919 fino all’ottobre del 1922; non aveva partecipato alle lotte politiche delle origini e pertanto non avrebbe potuto comprendere la natura del fascismo, che Carli definiva «fenomeno di temperamento e non indirizzo teorico». Del resto, il loro antigentilianesimo traeva origine anche da una ragione non direttamente collegata alla politica del fascismo e connessa, invece, alla cultura anti-idealistica e anticrociana di cui i futuristi erano stati i principali interpreti negli anni Dieci del Novecento. Negli anni Venti queste riflessioni degli ex futuristi furono condivise dai monarchici, un altro gruppo di fascisti estremisti guidato da Giuseppe Attilio Fanelli e Giuseppe Brunati che si distinsero nel panorama culturale italiano soprattutto per la violenza del loro antigentilianesimo15. Fautori del ritorno a una società precapitalistica e alla monarchia assoluta, i monarchici non si allontanavano dalle critiche che Malaparte e Soffici avevano rivolto al neoidealismo italiano e ai suoi interpreti. Anche loro, come tutti gli intransigenti, consideravano l’idealismo l’espressione più autorevole di una cultura estranea alla tradizione italiana, speravano che il fascismo, come una nuova controriforma, avrebbe restaurato i principi della tradizione cattolica non corrotti dalla modernità e proponevano il ritorno

14   Cfr. A. Scarantino, L’Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Roma, Bonacci, 1981. 15  Cfr. F. Perfetti, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Roma, Bonacci, 1988. Cfr. anche Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 146-153.

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a un mondo premoderno che rifiutava l’individualismo e il liberalismo16. La terza corrente della cultura fascista fu quella composta da Gentile e dai suoi allievi che dal 1922 si candidarono a diventare i rappresentanti ufficiali della cultura fascista, quasi si sentissero più fascisti dei fondatori del movimento delle camicie nere. Vito Fazio Allmayer, Guido Calogero, Delio Cantimori, Armando Carlini, Ernesto Codignola, Giuseppe Lombardo Radice, Giuseppe Maggiore, Adolfo Omodeo, Giuseppe Saitta, Leonardo Severi, Ugo Spirito, Arnaldo e Luigi Volpicelli – per nominare solo i più noti e quelli che ebbero maggiori rapporti con Gentile – aderirono al fascismo seguendo il maestro e non lo abbandonarono fino al 1943. Fra questi soltanto Giuseppe Lombardo Radice, Adolfo Omodeo e Guido Calogero scelsero un percorso diverso: il primo lasciò la direzione generale dell’istruzione elementare presso il ministero della Pubblica Istruzione nel 1924 e da allora non volle più assumere incarichi politici, mentre gli altri due alla fine degli anni Trenta divennero esponenti dell’antifascismo liberalsocialista. Gli altri, tutti gli altri, negli anni Venti costituirono un gruppo coeso che aveva aderito al fascismo perché il regime gli offriva la possibilità di realizzare la riforma della scuola, ma soprattutto perché immaginarono di poter dare vita a una nuova fase della storia d’Italia. I gentiliani pensavano che l’Italia unita, l’Italia nata dal Risorgimento, non avesse ancora raggiunto la consapevolezza di essere una nazione e che avesse bisogno di una trasformazione radicale per acquisire una vera identità politica. Persuasi che la formazione del carattere nazionale avesse subìto un’accelerazione con la partecipazione alla prima guerra mondiale,

16   Cfr. Perfetti, Fascismo monarchico, cit., pp. 213-257. Volt, pseudonimo di Vincenzo Fani Ciotti, un altro esponente del fascismo intransigente, nel suo Programma della destra fascista evidenziò le tre idee principali della dottrina del fascismo – Nazione, Espansione e Gerarchia – e sostenne che il movimento fondato da Mussolini si collocava naturalmente a destra nella storia del pensiero politico. Nel volume spiegò che la storia aveva dimostrato il fallimento della pretesa di negare l’autorità e la tradizione e di «porre sugli altari l’uomo al posto di Dio» e che il fascismo avrebbe risposto alla «grande eresia del secolo XIX» e cioè, secondo Volt, alla «libertà di coscienza. V. Fani Ciotti, Programma della destra fascista, Firenze, Soc. An. Editrice La Voce, 1924, pp. 50, 147 e 153. Cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 74-77 e 93-96.

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ritenevano che il movimento politico fondato e diretto da Mussolini avrebbe portato a compimento il processo di costruzione dell’identità nazionale, avviato dal Risorgimento. Da un lato erano convinti di partecipare insieme ai fascisti a un grandioso sforzo di rinnovamento politico e culturale, dall’altro pensavano che Gentile avesse elaborato le premesse teoriche per l’avvento del fascismo17. Per questo non percepirono mai la loro azione come quella di tecnici prestati alla politica e anzi nei primi anni vollero distinguersi dai «fiancheggiatori» di origine liberale, non mancando di palesare la propria adesione alla causa fascista, come dimostra ciò che scrisse il giovane Ugo Spirito. Nel giugno del 1924, a pochi giorni dall’omicidio di Giacomo Matteotti, Spirito si dichiarò pronto a difendere il fascismo e affermò che l’opposizione parlamentare non aveva il diritto di protestare18. Non fu meno chiaro Ernesto Codignola sostenendo che il delitto Matteotti costituiva un’esperienza tragica «ma salutare» e invitando tutti gli italiani a unirsi «concordi e silenziosi» al fascismo19. Un anno dopo su «Educazione politica», la rivista dell’Istituto nazionale fascista di cultura, Spirito approfondì il tema del carattere rivoluzionario del fascismo e del suo rapporto con le forze politiche prefasciste sostenendo che «gli accordi con i fiancheggiatori» rischiavano di allontanarlo «dai propri obiettivi rivoluzionari»20. Queste riflessioni accomunavano Gentile e i suoi allievi ad altri protagonisti del dibattito politico-culturale degli anni Venti, a cominciare da uno storico della statura di Gioacchino Volpe, impegnato a definire il ruolo del fascismo nella storia d’Italia. Come Gentile anche Volpe, che era stato allievo della Scuola Normale di Pisa negli stessi anni in cui l’aveva frequentata il filosofo siciliano, aveva raggiunto una certa notorietà prima del conflitto mondiale e aveva aderito al fascismo nel pieno della maturità professionale, considerando il nuovo movimento 17   La Direzione, Per Giovanni Gentile, in «Levana», a. I, n. 4, ottobre 1922, p. 369. 18  U. Spirito, Il concetto di libertà e i diritti dell’opposizione, in «Critica fascista», a. II, n. 12, 15 giugno 1924, pp. 502-505. 19   E. Codignola, La nostra crisi politica, in «La nuova scuola italiana», a. I, n. 40, 29 giugno 1924, pp. 529-530. 20  Id., Lo sviluppo del fascismo, in «L’educazione politica», a. III, f. VII, luglio 1925, pp. 315-320. G. Parlato (a cura di), Il carteggio Bottai-Spirito (1924-1932), in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 6 (1994), p. 116.

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come una scossa salutare nel contesto della crisi postbellica, una scossa capace di aprire una fase nuova nella storia italiana. Alla fine degli anni Venti, dopo aver prodotto le sue opere storiografiche più importanti sull’antico regime, Volpe si dedicò alla storia moderna e contemporanea e concentrò la sua attenzione sul rapporto tra il fascismo e la stagione liberale. Nel suo Italia in cammino del 1927 descrisse la storia dell’Italia unita tra il 1861 e il 1914, sottolineando il processo che avrebbe condotto all’affermazione del nuovo regime e comprendendo sia gli elementi di discontinuità rispetto al passato liberale, sia la continuità della storia nazionale. L’enfatizzazione del fascismo come prodotto migliore di una più lunga storia della nazione, del fascismo come «continuità, sviluppo, elevazione dell’Italia di ieri», lo espose alle critiche feroci degli intransigenti che lo accusarono di essere un nazionalista e di non cogliere fino in fondo il carattere rivoluzionario del fascismo. Questo non significa che Volpe non fosse sinceramente fascista: fu l’autore della parte storica della voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana, ebbe un ruolo importante come intellettuale e storico eminente del regime, diresse fino al 1943 la Scuola di storia moderna e contemporanea e la sezione Storia medievale e moderna dell’Enciclopedia Italiana dal 1925 al 1937. Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei dal 1935 al 1946, fu segretario generale dell’Accademia d’Italia dal 1929 al 193421. Per personaggi come Volpe e Gentile, e per il gruppo dei gentiliani, la volontà di differenziarsi dai «fiancheggiatori» di origine liberale e lo sforzo di stabilire buoni rapporti con il Partito fascista non derivava semplicemente dal timore di essere etichettati come moderati22. Come si vedrà, nei primi anni insieme alle altre correnti a cui abbiamo accennato, questi intellettuali 21   Cfr. G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 97-140. La citazione volpiana è contenuta ibidem, p. 112. Cfr. anche Id., Il mito della nuova Italia. Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo, Roma, Edizioni Lavoro, 1988; R. Bonuglia (a cura di), Gioacchino Volpe tra passato e presente, Roma, Aracne, 2007; E. Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008. 22   G. Gentile, Revisione, in «L’educazione politica», a. IV, f. I, gennaio 1926, pp. 1-5. Sull’articolo cfr. le osservazioni di Parlato (a cura di), Il carteggio Bottai-Spirito, cit., pp. 116 ss. Sul giudizio volpiano sull’Italia liberale anche S. Lupo, Croce, Volpe e l’Italia liberale, in «Storica», 1 (1995), pp. 11-36.

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diedero il contributo principale alla formazione e alla diffusione della cultura fascista nelle sue diverse espressioni. 2. Il dibattito sull’arte fascista

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I fascisti cercarono di delineare le tendenze principali dei movimenti artistici riconducibili al fascismo già prima della marcia su Roma, come fece nel settembre del 1922 Ardengo Soffici che scrisse:

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Queste tendenze nel momento presente [...] sono due: la tendenza reazionaria e quella rivoluzionaria [...]. Quale di esse riterremo meglio rispondente alla nostra teorica e alla nostra pratica? [...] Il Fascismo […] non è un movimento di reazione, o di regresso [...] e non è il nemico della modernità. [Tuttavia] il Fascismo che è un movimento rivoluzionario, ma non sovversivo o estremista non tende al capovolgimento dei valori. [...] Tanto l’una che l’altra delle due tendenze devono essere rigettate da noi con uguale risolutezza23.

Soffici non spiegò cosa fosse l’arte fascista e negli anni successivi né lui né altri noti intellettuali indicarono la corrente o lo stile a cui l’arte ufficiale del regime intendeva richiamarsi. Tuttavia, sin dai primi anni gli artisti fascisti furono concordi nel dichiarare che come era esistita «un’arte conservatrice, neoborghese, anarchica», così il fascismo avrebbe espresso «la propria concezione e le proprie espressioni artistiche»24. Per esempio, il futurista Bruno Corra nel 1923 in Gli intellettuali creatori e la mentalità fascista sostenne, come Soffici, che il fascismo aveva una natura duplice, rivoluzionaria e conservatrice: avrebbe negato le libertà individuali e avrebbe organizzato la vita di tutti i giorni offrendo agli italiani un entusiasmo mistico e rivoluzionario25. Anche Carra non definì l’arte del regime. 23  A. Soffici, «Gerarchia», a I, n. 9, settembre 1922, pp. 504-507. Cfr. anche L. Malvano Bechelloni, La politique artistique dans un régime totalitaire, in Art et Fascisme, Paris, éditions complexe, 1989, p. 159. 24  A. Ciattini, Coscienza nazionale e Cultura, in «Critica fascista», a. I, n. 8, 1º ottobre 1923, p. 155; L. Giusso, Letteratura fascista, in «Critica fascista», a. IV, n. 13, 1º luglio 1926, p. 247. 25   Cfr. R.A. Etlin, Modernism in Italian Architecture, 1890-1940, Cambridge (Mass.) - London, The Mit Press, 1991, p. 379.

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In che senso, allora, gli artisti pensarono di contribuire alla elaborazione di un’arte fascista, se ognuno di loro espresse un proprio stile, assumendo un proprio percorso di ricerca diverso da quello degli altri, e se all’interno dell’arte fascista è possibile individuare tendenze diverse, dal romanticismo al classicismo, dal modernismo al tradizionalismo? A questa domanda, molti storici hanno risposto affermando che il fascismo non fu in grado di produrre una sua arte, perché rimase bloccato in una sorta di «pluralismo estetico»26. Questa tesi è stata sostenuta per la prima volta da Philip Cannistraro nel suo La fabbrica del consenso e in tempi più recenti da Marla Stone, mentre Walter Adamson ha scritto che non è possibile formulare un’ipotesi definitiva a proposito dell’incoerenza culturale del fascismo perché non è chiaro se dipese da una volontà precisa, quella di non favorire una o l’altra corrente artistica, oppure se fu il segno di una vera e propria incapacità del fascismo27. Come si vedrà nelle pagine seguenti, è possibile avanzare un’ipotesi diversa rispetto al cosiddetto «pluralismo estetico» e all’arte fascista. Nel febbraio del 1926 Mussolini partecipò a una mostra organizzata a Milano dalla scrittrice e critica d’arte Margherita Sarfatti, alla presenza delle figure artistiche più importanti d’Italia, come Giacomo Balla, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Fortunato Depero, Giorgio Morandi e Gino Severini. In quella sede il capo del governo affermò che esisteva una gerarchia fra la politica e l’arte per cui gli artisti italiani dovevano considerarsi come dipendenti al servizio dello Stato28. Pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1926, all’accademia di Belle Arti di Perugia, dichiarò che occorreva produrre un’arte che fosse la più alta gloria dell’Italia fascista. Le sue parole suscitarono un ampio 26  M. Stone, The Patron State. Culture and Politics in Fascist Italy, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1998, p. 5. 27   Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, p. 57; W.A. Adamson, Avant-garde Modernism and Italian Fascism. Cultural Politics in the Era of Mussolini, in «Journal of Modern Italian Studies», 6 (2001), n. 2, p. 234. 28  Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 43; Etlin, Modernism in Italian Architecture, cit., p. 380; J.T. Schnapp, Epic Demonstrations, Fascist Modernity and the Exhibition of the Fascist Revolution, in R. Golsan, Fascism, Aesthetic, and Culture, Hannover-London, University Press of New England, 1992, p. 3.

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dibattito fra gli artisti italiani che nei mesi successivi intervennero su «Critica fascista», spiegando la loro concezione dell’arte e dei suoi rapporti con il fascismo29. Pur provenendo da formazioni diverse ed esprimendo concezioni estetiche differenti, autori come Ardengo Soffici, Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Mino Maccari e Anton Giulio Bragaglia proposero una riflessione simile: ciascuno di loro, infatti, spiegò il proprio percorso di ricerca, illustrò l’indirizzo della propria proposta artistica e si candidò a rappresentare la vera arte del fascismo con l’obiettivo di essere riconosciuto come il vero e unico artista fascista. Da questo punto di vista tutti si dichiararono d’accordo nel considerare la nuova arte un’arte al servizio della politica. Esemplare a questo proposito la posizione dello scrittore Antonio Rapisarda, anche noto con lo pseudonimo di Antonio Aniante, secondo cui potevano essere definiti scrittori fascisti soltanto quelli disponibili a seguire «i canoni fondamentali» del pensiero fascista, e cioè: ad «amare intensamente la nazione», a rispettare i principi di disciplina e di gerarchia, a «ripudiare le forme di letteratura esaltanti la lotta di classe, l’internazionalismo e ogni principio di disgregazione nella razza». L’obiettivo, sosteneva Aniante, era «sviluppare un’atmosfera decisamente favorevole ai principii etici che animano il fascismo e il governo di Mussolini». Per questo, lo scrittore italiano avrebbe dovuto smettere «di considerarsi un essere superiore al di fuori e al di sopra dello Stato e della nazione», impegnandosi a servire «con sincerità e passione la grande idea che anima gli italiani contemporanei»30. Nel febbraio del 1927 dopo aver raccolto i pareri dei principali artisti italiani, «Critica fascista» concluse l’inchiesta ribadendo che le espressioni dell’arte dovevano essere guidate «dalla medesima tendenza» presente «nel campo politico, verso costruzioni più solide, più ampie, più forti, sulla linea della grande tradizione dell’arte autoctona italiana, da riscoprirsi vivissima pur fra le sovrapposizioni e le incrostazioni di tutti i movimenti artistici

29  A. Soffici, Atto d’accusa, in «Critica fascista», a. IV, n. 20, 15 ottobre 1926. F.T. Marinetti, L’arte fascista futurista, ibidem, p. 3; M. Maccari, Arte fascista, in «Critica fascista», a. IV, n. 21, 1º novembre 1926, pp. 396 ss.; M. Bontempelli, Arte fascista, ibidem, p. 416; A. Pagano, Arte, fascismo e popolo, ibidem, p. 436. 30  A. Aniante, Opinioni sull’arte fascista, Arte di Stato, in «Critica fascista», a. V, n. 2, 15 gennaio 1927, p. 23.

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stranieri»31. Per questo gli artisti non avrebbero potuto parlare di alcuni argomenti, non si sarebbero occupati «di psicoanalisi, di culture straniere e di intimismo», non avrebbero proposto «visioni frammentarie» della realtà e avrebbero mostrato «di essere militi fedeli della causa fascista». Tutto il resto sarebbe stato «libera creazione», nel senso che la scelta dello stile, della tendenza, della ricerca estetica, costituiva un problema secondario rispetto al tema primario: dichiarare la subordinazione delle diverse discipline artistiche ai contenuti politici del fascismo. In effetti, per l’autorevole rivista diretta da Giuseppe Bottai, definire l’arte fascista non significava individuare un’estetica rispondente alle esigenze del regime. La questione principale riguardava la capacità degli artisti di fare propri i temi della politica fascista. La discussione sullo stile, che ovviamente aveva una sua importanza, sarebbe dovuta rimanere nell’ambito delle riflessioni interne alle diverse discipline. E infatti, negli anni fra le due guerre il dibattito fra i sostenitori delle diverse correnti che animarono l’arte fascista fu decisamente acceso, ma, come scrisse Mario Sironi nel 1932, «l’ipotetico accordo sopra un’unica formula d’arte» era «impossibile». Al pittore o al romanziere il regime chiedeva «una precisa ed espressa volontà» di «liberare l’arte sua dagli elementi soggettivi e arbitrari, e da quella speciosa originalità che è voluta e rinutrita dalla sola vanità»32. In effetti, gli artisti degli anni Venti furono pronti a dichiarare la propria fede fascista, a garantire il loro contributo al regime, a entrare in competizione gli uni con gli altri su chi poteva essere definito davvero fascista e ad accusare i propri avversari di eterodossia. A differenza di ciò che riteneva Philip Cannistraro, allora, la presenza di espressioni artistiche diverse non dimostra la mancanza di un’arte fascista. Al contrario, all’interno delle differenti discipline gli artisti utilizzarono modi diversi per dichiarare la loro appartenenza al regime, come è evidente considerando gli esponenti più importanti della letteratura fascista degli anni Venti, «i selvaggi» e «i 31   Resultanze dell’inchiesta sull’arte fascista, in «Critica fascista», a. V, n. 4, 15 febbraio 1927, pp. 61-64 e anche M. Sarfatti, Arte, fascismo e antiretorica, in «Critica fascista», a. V, n. 5, 1º marzo 1927, p. 82. 32   M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in «La Colonna», in Id., Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 155-157.

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novecentisti»: severi critici della cultura moderna i primi, orgogliosi di rappresentare la modernità, nelle sue diverse espressioni, i secondi. 3. La letteratura

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La prima corrente faceva capo a «Il Selvaggio», una rivista nata in provincia di Siena, a Colle Val d’Elsa nel luglio del 1924, dall’iniziativa di Angiolo Bencini e Mino Maccari. Espressione del fascismo delle origini, «Il Selvaggio» aveva fra i suoi collaboratori Curzio Suckert, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Camillo Pellizzi, Leo Longanesi e Berto Ricci e rappresentava la voce dello squadrismo toscano, sia perché alcuni suoi collaboratori come Rosai, Maccari e Suckert avevano partecipato alle azioni delle squadre, sia perché considerava la violenza squadrista l’anima rivoluzionaria del fascismo33. Nei primi anni, sulle pagine della rivista, questi fascisti intransigenti si impegnarono per tenere vivo lo spirito violento e rivoluzionario di cui si sentivano protagonisti, temendo che il regime si incamminasse verso la strada della normalizzazione. La linea editoriale della rivista cambiò nella primavera del 1927 quando la direzione venne assunta da Mino Maccari che di fatto la mantenne fino al 1943. Ponendo fine alla stagione della cultura squadrista e raccogliendo l’invito pronunciato da Mussolini nel febbraio del 1926 alla mostra milanese, il nuovo direttore intensificò la produzione letteraria de «Il Selvaggio» e diede vita al movimento Strapaese con un programma molto chiaro: combattere contro tutte le espressioni della civiltà moderna, salvare l’Europa dalla rovina e mostrare la superiorità del

33   Cfr. l’interesse di Gramsci per la rivista in Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, Einaudi, 1966, p. 319: G. Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, Milano, Principato, 1974, p. 7; Mangoni, L’interventismo della cultura, cit., pp. 155-159; Ead., Il fascismo, in Letteratura italiana. I: Il letterato e le istituzioni, cit., pp. 534-535; A. Asor Rosa, Il fascismo: il regime (1926-1943), in Storia d’Italia. IV: Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. II, pp. 1500-1506; L. Troisio (a cura di), Strapaese e stracittà. Il Selvaggio - L’Italiano - 900, Treviso, Canova, 1975; W.A. Adamson, The Culture of Italian Fascism and the Fascist Crisis of Modernity. The Case of «Il Selvaggio», in «Journal of Contemporary History», 30 (1995), n. 4, pp. 555-575; Id., Avant-garde Modernism and Italian Fascism, cit., pp. 230-248.

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fascismo rispetto al liberalismo, alla democrazia e al socialismo34. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori della rivista cercarono di valorizzare le radici culturali italiane, rilanciando le tradizioni locali e soprattutto il mondo contadino in cui rintracciavano le caratteristiche più autentiche dell’italianità35. Non si trattava di un fenomeno di regionalismo reazionario fine a se stesso: «Il Selvaggio» non voleva essere un cenacolo letterario o un gruppo di intellettuali toscani impegnati a celebrare il mito del passato. L’esaltazione dell’Italia contadina rappresentava il «baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle città moderniste» nella convinzione, diffusa fra i collaboratori della rivista, che la cultura popolare, fedele ai valori della civiltà italiana, potesse vincere le sfide della modernità36. Ne fu autorevole espressione il suo direttore, Mino Maccari, autore di versi semplici e scorrevoli scritti per raccontare soggetti popolareschi con l’ironia graffiante del poeta satirico scagliato contro l’arrivismo, contro i falsi artisti, contro i traditori delle origini pure del fascismo, impegnato ad affermare che la rivoluzione politica avrebbe dovuto trasformare i costumi, le abitudini, le scelte della quotidianità37. L’altra corrente della letteratura italiana degli anni Venti faceva riferimento alla rivista «900», che nacque nell’autunno del 1926 e presentò un programma apparentemente opposto a quello de «Il Selvaggio»38. Per sottolineare la volontà di rinnovare la letteratura italiana e inserirla nel solco della cultura moderna, per i primi due anni uscì in francese e si giovò della collaborazione di intellettuali e artisti di tutto il mondo. Il gruppo, composto da autori come Sironi, Carrà, De Chirico, Severini e Morandi era guidato da Massimo Bontempelli, un fervente fascista ex carducciano, ex futurista, e da Curzio Malaparte che dopo due anni passò a «Il Selvaggio».

 M. Maccari, Una pietra sopra!, in «Il Selvaggio», a. III, n. 2, 1º marzo 1926, p. 1. 35  Asor Rosa, Il fascismo: il regime (1926-1943), cit., p. 1502. 36   Gazzettino ufficiale di Strapaese, in «Il Selvaggio», a. IV, n. 16, 16 settembre 1927, p. 1. 37  Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, cit., p. 8. 38   Cfr. Asor Rosa, Il fascismo: il regime (1926-1943), cit., pp. 1507-1514; Mangoni, Il fascismo, cit., pp. 530-533; Adamson, Avant-garde Modernism and Italian Fascism, cit., pp. 230-248. 34

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Nel primo numero Bontempelli definì la poetica della rivista adoperando la formula del «realismo magico», rivolto a descrivere la realtà delle cose non in senso verista, ma per scoprire i rapporti invisibili che ne costituiscono la trama. L’intento era creare un’arte moderna frutto dell’intelligenza e della fantasia, capace di divertire e di sorprendere39. Per questo i collaboratori lavorarono alla produzione di una nuova letteratura, fondata sull’«immaginazione creatrice», sulla «facoltà inventiva di creare dei miti, delle favole, dei personaggi»40, dichiarando di voler abbandonare i residui della grande arte del XIX secolo. A questo proposito, in uno dei suoi articoli più polemici, Bontempelli scrisse: «Vorrei conoscere il miserabile che ha messo per primo in circolazione questa parola d’ordine: bisogna riallacciarsi alla tradizione».

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Il suo gesto è più nefasto di quello del signore che ha introdotto la cocaina. La mania della cocaina prende solo i perfetti imbecilli, mentre la mania della tradizione ha preso anche degli individui non certo di prima forza, ma che avevano qualche lume di intelligenza41.

Nel criticare i difensori della tradizione, Bontempelli e i collaboratori di «900» non si presentarono come un’avanguardia che rivendicava un’identità elitaria. Per loro la battaglia per l’arte moderna faceva parte di una battaglia politica. Convinti che il fascismo rappresentasse una cesura con la tradizione preesistente, essi proclamarono la morte del poeta e sostennero che il letterato del nuovo secolo sarebbe stato uno scrittore e cioè un intellettuale destinato a svolgere una funzione precisa nella società moderna, consapevole del suo ruolo al servizio della politica. In questo senso Bontempelli volle sottolineare la diversità tra il futurismo e «900» che, pur condividendo la battaglia contro la cultura tradizionalista, non voleva essere l’espressione di un’arte lirica e soggettiva. «Noi siamo antistilistici», dichiarò Bontempelli spiegando che il futurismo era «stato un movimento d’avanguardia e aristocratico», mentre «l’arte novecentista» doveva «diventare

 Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, cit., p. 9. Cfr. il manifesto della rivista, in «900», n. 1, 1926, p. 1. 40  Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, cit., p. 102. 41   Ibidem, p. 103. 39

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“popolare”, a vincere il pubblico»42. Come ha scritto Luisa Mangoni, si trattava della più limpida definizione dell’attività culturale come mestiere, come professione tecnicamente specializzata, della quale si vive, e quindi rivolta a ottenere non solo risultati artistici, ma anche esplicitamente soggetta al giudizio del pubblico43. Queste due correnti furono al centro di un dibattito che caratterizzò tutta la cultura degli anni Venti: quello fra i sostenitori del carattere moderno del regime fascista, della sua cultura e della sua politica, e i critici della modernità emersa dalla storia europea degli ultimi due secoli. Dalle arti, alla filosofia, dalla letteratura alla politica, come mostra anche lo scontro fra revisionisti, gentiliani e intransigenti, il tema del rapporto tra il fascismo e la modernità animò i dibattiti dei protagonisti della cultura fascista. Alla fine degli anni Trenta su «Critica fascista» Bottai e i suoi collaboratori proposero un modo per risolvere il conflitto. 4. Fra politica e cultura

Nel novembre del 1928, in un lungo articolo, intitolato La filosofia del fascismo, Gentile scrisse: Ogni concezione politica degna veramente di questo nome è una filosofia, perché non può isolare il suo proprio oggetto, che è la vita politica in generale e quindi la vita politica di un determinato popolo in un determinato tempo, né dalle altre forme della realtà umana, che ordinariamente si tengono distinte dalla politica, né dalla realtà universale, storica o naturale. [...] Malgrado la polemica di cui si compiacciono molti scrittori fascisti contro la filosofia, [il fascismo] attribuisce un significato filosofico e una portata universale alle proprie affermazioni, come affermazioni di principii le cui conseguenze interessano non soltanto la politica strictu senso, ma l’economia, il diritto, la scienza, l’arte e la stessa religione, e insomma ogni attività umana, teorica o pratica44.

  Ibidem, p. 105.  Mangoni, Il fascismo, cit., p. 533. 44   G. Gentile, La filosofia del fascismo, in «Educazione fascista», a. VI, n. 11, novembre 1928, pp. 641-643. 42 43

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Gentile pensava che la diffidenza mostrata nei primi anni Venti da molti fascisti nei confronti degli intellettuali fosse una manifestazione del carattere della cultura del nuovo regime. Era convinto, infatti, che il rivendicare l’autonomia della politica dalla cultura, come facevano i più intransigenti, derivasse da una scelta precisa. Da questo punto di vista egli riteneva che il fascismo fosse figlio del socialismo di Marx, del sindacalismo rivoluzionario di Sorel e dell’idealismo italiano, che tra la fine del XIX secolo e il volgere del XX, avevano determinato l’avvento di una nuova cultura. E in questo senso non aveva torto, non solo perché era lui a sostenere questa sua paternità sulla cultura fascista, e quindi a dichiararsi autenticamente e sinceramente un precursore del fascismo, ma anche perché rivendicava il ruolo che il suo idealismo aveva avuto nella battaglia contro l’intellettualismo razionalista di stampo positivista, molti anni prima. D’altra parte, molti fascisti consideravano in un modo ben diverso il problema dei rapporti fra cultura e politica: mentre Gentile e i gentiliani sostenevano che ogni concezione politica fosse una cultura, i fascisti ritenevano che l’identità di cultura e politica dovesse essere intesa a tutto vantaggio della politica, e cioè pensavano che la cultura, la filosofia e tutte le forme della realtà fossero espressioni politiche. Su questo tema alla fine degli anni Venti «Critica fascista» ospitò un dibattito molto vivace che vide due schieramenti: da una parte i difensori dell’autonomia della cultura, dall’altra i sostenitori del primato della politica. I primi notavano che nel fascismo era ormai diffusa l’idea che la politica poteva e doveva prescindere dalla cultura. In questo atteggiamento, anzi, scorgevano una forma di radicale anti-intellettualismo che impediva la definizione di una dottrina fascista e rischiava di ingenerare un equivoco pericoloso per il futuro del regime, perché mentre le masse fasciste potevano eludere il problema, i dirigenti non avrebbero potuto prescindere dalla definizione ideologica del fascismo. A questo proposito, Francesco Formigari spiegava che alcuni fascisti avevano dichiarato di non voler avere nulla a che fare con la cultura, non accorgendosi, «codesti mistici del manganello», «di derivare il loro pugnace ardore da quel concetto materialistico della cultura che ha dominato nel secondo cinquantennio dello scorso secolo». Contrario dunque a negare «la cultura tout court rifugiandosi in un’ipotetica pura azione», il giovane collaboratore di

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«Critica fascista» spiegava: «Non confondiamo i concetti e ripetiamo per l’ennesima volta che siamo contro la cultura di tipo agnostico, illuministico»45. Dalla stessa parte militavano coloro che ritenevano che Gentile avesse avuto un ruolo decisivo nella definizione dell’ideologia del fascismo e ne sottolineavano le differenze con il nazionalismo. A differenza del fascismo e di ciò che aveva sostenuto Gentile, notava Agostino Bertelè, il nazionalismo aveva fondato lo Stato sul concetto di nazione descrivendola come «un’entità che trascende la volontà e la personalità dell’individuo, perché concepita come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli, per puro dato e fatto della natura»46. Tre anni dopo, Ernesto Codignola, che come si è ricordato era stato fra i principali collaboratori del filosofo, si rivolse ai fautori del primato della politica sostenendo che la subordinazione della cultura alla prassi politica avrebbe prodotto soltanto un nuovo agnosticismo. Si trattava di concetti che aveva sviluppato anche nel suo volume Il rinnovamento spirituale dei giovani, dedicato a Mussolini47. E così, contro i sostenitori del primato della politica, Codignola affermò che gli intellettuali non avrebbero dovuto allontanarsi dalla vita politica e che la cultura non avrebbe potuto in alcun modo essere sottoposta a leggi estranee a se stessa48. Per la verità, la tesi non era priva di ambiguità perché Codignola non spiegava in che modo delineare i confini fra cultura e politica, come gli fece notare Delio Cantimori, un giovane storico allievo della Scuola Normale di Pisa49. 45   F. Formigari, Ancora cultura e fascismo, in «Critica fascista», a. IV, n. 4, aprile 1926, p. 219. 46  A. Bertelè, La dottrina fascista di Giovanni Gentile, in «Critica fascista», a. VIII, n. 7, 1º aprile 1930, pp. 134-135. Cfr. A. Nasti, Educazione politica e Fascismo, in «Critica fascista», a. VII, n. 8, 15 aprile 1929, p. 167; cfr. anche D. Rende, Libertà ed autorità, in «Critica fascista», a. VII, n. 16, 15 agosto 1929, pp. 316-317; U. Gabbi, Il fascismo nella scuola e nell’Università, in «Critica fascista», a. X, n. 21, 1º novembre 1932, pp. 413-416. 47   E. Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani, Milano, Mondadori, 1933. 48  Id., Dieci anni di educazione fascista, in «Critica fascista», a. XI, n. 5, 1º marzo 1933, pp. 98-100. 49   Cfr. P. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano, Franco Angeli, 1994; cfr. R. Pertici, Mazzinianesimo,

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Critico severo delle concezioni politiche reazionarie, conservatrici e nazionaliste, fautore di un fascismo universalistico e rivoluzionario, a differenza di Codignola, Cantimori concepiva il rapporto fra cultura e politica in termini radicali e totalitari. Per questo spiegava con Carl Schmitt che «è vera follia liberale volere porre una sfera della cultura come indipendente dalla politica»50. Citando il giurista tedesco, di cui era un valente studioso, notava:

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Nel frattempo noi abbiamo riconosciuto che la politica, ha valore totale (das Politische als das Totale) e sappiamo di conseguenza anche che la decisione se qualcosa sia o non di pertinenza della politica, è sempre una decisione politica, qualunque sia l’oggetto ch’essa colpisce, su qualunque prova si appoggi. [...] Se si dà alla politica quel carattere di totalitarietà che anche il Codignola non pare disconoscerle, non si vede come si possa sottrarre alla decisione dei politici la vita culturale51.

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Assai più vicina a Cantimori che a Codignola, «Critica fascista» negli anni Trenta avrebbe ospitato numerosi interventi di intellettuali che sostenevano il primato della politica e spiegavano come l’originalità del fascismo risiedesse nel rapporto instaurato fra teoria e prassi e quindi nella possibilità di definire l’ideologia fascista a partire dagli atti politici. A loro avviso, il problema non doveva essere affrontato individuando un corpus unico di dottrine che avrebbe trovato applicazione nella politica del fascismo. Al contrario, secondo i collaboratori di «Critica fascista», occorreva «creare uno spirito totalitario fascista, in cui il pensiero necessariamente» si sarebbe inquadrato e identificato «con l’azione»52. Come si vedrà, negli anni Trenta fra questi intellettuali ci furono molti gentiliani che avevano scelto un percorso diverso da quello indicato dal

fascismo, comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori, 1919-1943, in «Cromhos», 2 (1997), pp. 1-128; L. Perini, Delio Cantimori. Un profilo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004; G. Sasso, Delio Cantimori. Filosofia e storiografia, Pisa, Edizioni della Normale, 2005. 50  D. Cantimori, Recensione di Ernesto Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani, Mondadori, Milano, 1933, in Id., Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Torino Einaudi, 1991, p. 194. 51   Ibidem. 52   G. Gamberini, Fede e competenza, in «Critica fascista», a. VIII, n. 15, 1º agosto 1930, pp. 283-284.

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maestro avvicinandosi a Bottai e divenendo i rappresentanti di un fascismo rivoluzionario e totalitario. Dalla fine degli anni Venti, infatti, il politico romano si accorse che Gentile non avrebbe potuto rappresentare il filosofo del fascismo perché proprio su questo tema del rapporto fra politica e cultura esprimeva una posizione che i fascisti miravano a superare. Fu allora che Bottai intensificò il proprio impegno per risolvere il conflitto fra le varie correnti della cultura fascista e divenne l’esponente più autorevole della politica culturale totalitaria del regime.

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Capitolo quarto

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L’ideologia dello Stato totalitario

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1. I miti e l’ideologia

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Come si è ricordato nel capitolo I, per lungo tempo la maggioranza degli studiosi italiani ha negato l’esistenza dell’ideologia fascista, riducendo il fascismo a un fenomeno puramente pratico. A conferma di questa tesi molti hanno sottolineato che il regime non fu in grado di produrre una propria dottrina, paragonabile per coerenza e solidità a quelle delle grandi famiglie politiche, dal liberalismo al pensiero democratico, dal socialismo al comunismo. Tutt’al più, si è sostenuto, nei venti anni in cui trasformò l’Italia in uno Stato totalitario, il fascismo riuscì a formulare una serie di espressioni ideologiche eterogenee: reazionari e modernisti, cattolici e atei, nazionalisti e statalisti, corporativisti e sindacalisti, gli ideologi del fascismo avrebbero prodotto quella «macchina politica e culturale» che nel 1999 Sergio Luzzatto definiva «un bazar»1. Come si è visto, molti storici americani sono d’accordo con questa interpretazione. Per esempio, Jeffrey Schnapp ritiene che la debolezza dell’ideologia fascista sia alle origini della massiccia produzione estetica del regime, impegnato a compensare l’assenza di un’ideologia coerente con la propaganda. Altri storici ritengono, invece, che il problema dovrebbe essere affrontato iniziando con il precisare il significato del termine ideologia. A questo proposito, David Roberts ha scritto che se l’ideologia viene intesa come sinonimo di dottrina politica sottolineandone l’aspetto sistematico, allora si dovrà concludere che il fascismo non ne ebbe alcuna. Viceversa, considerando 1   Cfr. S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in «Contemporary European History», 8 (1999), n. 2, p. 322.

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l’ideologia come un insieme di visioni, di valori e di ideali, si dovrebbe ritenere che non solo il fascismo espresse una propria ideologia, ma che questa fu certamente in grado di orientare l’azione politica2. In realtà dalla fine del XVIII secolo, quando è iniziata la riflessione sul termine ideologia, fino ai tempi più recenti sono state formulate moltissime proposte interpretative. Non è nostro obiettivo entrare nel merito di una discussione che riguarda una delle parole chiave della storia del pensiero politico, se non per rilevare che fra le diverse interpretazioni del concetto di ideologia quella di Karl Mannheim, il fondatore della sociologia della conoscenza, ha una particolare importanza per gli studi sull’ideologia fascista. Nel 1929 Mannheim definì l’ideologia come un sistema di visioni, valori e ideali capace di orientare l’azione politica e, al contempo, di esprimere una concezione del mondo3. Coerentemente con la tradizione del pensiero marxista dalla quale proveniva, egli riteneva che l’ideologia esprimesse una visione della realtà caratteristica di un determinato gruppo sociale. Tuttavia, a differenza dei marxisti, enfatizzando gli aspetti cognitivi delle culture, pensava che i vari punti di vista espressi nelle ideologie politiche sono veri, anche quando sono parziali e contraddittori, e anzi traggono la loro verità proprio dall’essere espressione di un aspetto particolare della società e della storia del loro tempo. Da questo punto di vista, seguendo l’orientamento di Mannheim, attraverso le ideologie possiamo individuare un modo di essere delle classi dominanti piuttosto che uno strumento di dominio o una forma di giustificazione del potere e ragionare sulle determinazioni sociali che condizionano le visioni del mondo di ciascun gruppo. E infatti proprio Mannheim fu tra i primi a individuare alcuni tratti caratteristici dell’ideologia fascista sottolineando «la particolare concezione dei rapporti fra la teoria e la pratica»4, anche se, in linea generale, il contributo

  Per i riferimenti bibliografici cfr. capitolo I.   K. Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 74-82. 4   Ibidem, p. 131. Fra la vasta bibliografia cfr. L. Bailey, Critical Theory and the Sociology of Knowledge. A Comparative Study in the Theory of Ideology, New York, P. Lang, 1994; C.C. Canta, Ricostruire la società. Teoria del mutamento sociale in Karl Mannheim, Milano, Franco Angeli, 2006. 2 3

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maggiore allo studio dell’ideologia fascista è giunto dagli storici piuttosto che dai teorici della politica5. A questo proposito, Zeev Sternhell ha ricordato che la storia delle dottrine politiche è costellata dalla difficoltà di trovare una concordanza sul valore semantico di espressioni che dovrebbero corrispondere ad altrettanti concetti della storia del pensiero politico. Per esempio, il termine democrazia ha determinato ampi e interminabili dibattiti circa il suo significato, la sua estensione nel mondo, la sua possibilità di concretizzarsi come prassi politica6. Eppure nessuno ha negato l’esistenza di un pensiero democratico per la mancanza di accordo sui contenuti semantici, o per la difficoltà di realizzare gli obiettivi perseguiti. Nel caso del fascismo, invece, incoerenza programmatica, contraddittorietà, contrasto fra scopi dichiarati e risultati conseguiti, inconsistenza intellettuale, sono stati indicati come gli elementi principali della sua cultura politica. A tale riguardo, Emilio Gentile ha ricordato che in ogni movimento politico è possibile riscontrare un certo grado di discordanza fra l’ideologia e l’azione o di incoerenza fra gli scopi prefissati e i risultati ottenuti e che l’ideologia non è mai un sistema filosofico che rispetti il principio di non contraddizione. Ha scritto Gentile: 5   Per una rassegna di studi K. Knight, Transformations of the Concept of Ideology in the Twentieth Century, in «American Political Science Review», 100 (2006), n. 4, pp. 619-626. Cfr. il classico D. Bell, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, V ed. Cambrige (Mass.), Harvard University Press, 2000, p. 395 (trad. it. La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, Milano, SugarCo, 1991). Per alcuni studiosi come J.B. Thompson, Ideology and Modern Culture, Stanford (Calif.), Stanford University Press, 1991, le ideologie sono forme simboliche, prodotti linguistici e culturali, a cui un gruppo dà significato nella creazione di relazioni di dominio. Secondo M. Freeden, Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino, 2000, invece, le ideologie dovrebbe essere studiate come filosofie politiche individuando i concetti che formano il discorso politico. Per J.M. Balkin, Cultural Software. A Theory of Ideology, New Haven (Conn.), Yale University Press, 1998, si tratterebbe di un sistema di conoscenze derivate da un’evoluzione di competenze culturali, mentre secondo A. Heywood, Political Ideologies. An Introduction, London, Basingstoke, 1992, l’ideologia è una forma di pensiero politico. Per una riflessione sulla crisi del concetto di ideologia nella cultura della postmodernità, T. Eagleton, Ideologia, Roma, Fazi, 2007. 6   Z. Sternhell, Fascist Ideology, in W. Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, Aldershot, Wildwood House, 1976.

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Se all’indagine storica, l’ideologia fascista si presenta poco logica e poco sistematica, questo non significa che il fascismo non ebbe una sua ideologia, diversa da altre preesistenti, contemporanee e successive. Sarebbe come dire che se una persona non pensa come un filosofo sistematico manca perciò di una sua visione del mondo7.

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Tra l’altro un’accezione rigidamente concettuale del termine ideologia non sarebbe adatta a spiegare un fenomeno politico come il fascismo che criticò qualunque forma di razionalismo e proclamò il potere dei miti nell’organizzazione delle masse, introducendo nella storia un nuovo modo di fare politica. Sin dalle origini, i fascisti espressero una concezione della politica intesa non più, o non solo, come progetto finalizzato alla trasformazione della realtà, ma piuttosto come un’esperienza da vivere, come una fede religiosa. Lo notava il filosofo tedesco Ernst Cassirer alla fine della seconda guerra mondiale, sottolineando come nei regimi totalitari il pensiero mitico prevalesse su quello razionale. Nel suo studio Il mito dello Stato Cassirer sostenne che nel nazionalsocialismo e nel fascismo i miti avevano avuto un ruolo decisivo nella costruzione del consenso perché avevano indebolito l’autonomia intellettuale degli individui, stimolando in loro un sentimento di subordinazione verso il potere politico8. In realtà, se è vero che il mito ha costituito un potente strumento del potere totalitario, è anche vero che la produzione di miti politici non derivò semplicemente dalla volontà di dominio delle classi dirigenti. Come è noto grazie agli studi degli antropologi, dei sociologi e dei filosofi, e soprattutto grazie alle pagine di émile Durkheim sulle forme della vita religiosa, i miti non sono solo strumenti con cui il potere sottomette le masse: sono credenze collettive che riguardano tutti, governati e governanti. Forze di controllo interiorizzate dalla coscienza individuale, i miti hanno un ca-

 E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 78. 8   E. Cassirer, Il mito dello Stato, Milano, Longanesi, 1950. Per alcune riflessioni di sintesi sul rapporto fra mito politico e filosofia occidentale cfr. F. D’Agostino, La dinamica del razionale e non razionale nel processo del mutamento sociale. Un’analisi teorica di Durkheim, Weber, Marx e un modello di sintesi, Milano, Franco Angeli, 1983; R. Esposito, Mito, in Id., Nove pensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-136; N. Di Napoli, Mito politico e teoria razionale, Napoli, Loffredo, 1995. 7

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2. Il mito di Mussolini

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rattere sociale e quindi fanno parte della struttura dell’identità del singolo e non solo del quadro ambientale entro cui egli si trova a vivere9. Questo significa che immaginare una netta distinzione fra produttori e consumatori di miti, o fra pensiero mitico e pensiero razionale, può essere scorretto se riferito a un’ideologia come quella fascista. E in effetti, celebrare i miti dell’ideologia del fascismo, sentendosi parte di un’esperienza collettiva religiosa, non significò essere dominati dalla furia cieca dell’irrazionalismo o costretti a comportarsi in un modo anziché in un altro perché privati della propria ragione. Nelle pagine seguenti analizzeremo l’ideologia fascista soffermandoci sui suoi miti e cercando di mostrare che ebbe una propria coerenza, del tutto razionale.

Fra tutti i miti che alimentarono l’ideologia fascista quello di Mussolini fu in assoluto il più importante perché, a differenza degli altri, fu un mito vivente10. Vertice incondizionato del potere politico, dominatore incontrastato della complessa macchina organizzativa del regime e del Partito, il capo del governo era dappertutto, come notò nel 1929 lo scrittore Henri Béraud. Di ritorno da un viaggio a Roma l’autore francese spiegò che l’immagine del duce faceva ormai parte dell’esistenza degli italiani, dominava le «circostanze della vita» e non solo «degli atti pubblici», ma della «vita quotidiana, della vita della

9   Cfr. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1982. 10  Cfr. P. Melograni, The Cult of the Duce in Mussolini’s Italy, in «Journal of Contemporary History», 11 (1976), n. 4, pp. 221-237; R. De Felice e L. Goglia, Mussolini. Il mito, Bari, Laterza, 1983; E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, II ed. Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 105-138; P. Milza, Mussolini, Roma, Carocci, 2000; A. Campi, Mussolini, Bologna, Il Mulino, 2001, soprattutto il capitolo I, in cui si confronta con le interpretazioni che considerano il mito di Mussolini una delle molteplici espressioni della propaganda fascista; S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2003; D. Musiedlak, Mussolini, Paris, Presses de Sciences Po, 2005 (trad. it. Mussolini, Firenze, Le Lettere, 2009), soprattutto le pp. 409-412 sul tema della «fabbricazione del mito»; Gentile, Fascismo, cit., pp. 113-146.

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strada». Ai suoi lettori, Béraud illustrò una realtà angosciante: «ovunque andiate, qualsiasi cosa facciate questo sguardo vi seguirà». «Mussolini è onnipresente come un dio», aveva scritto, «voi lo vedete in tutti i luoghi, sotto tutti gli aspetti, negli esterni realisti di un film e di un’istantanea come nelle forme decorative di un ritratto stilizzato»11. Diffuso nella società italiana attraverso il monopolio degli strumenti di informazione, il capillare apparato propagandistico e l’impegno costante nell’educazione delle giovani generazioni, il mito di Mussolini dilagò fra le masse popolari che attribuirono al capo del governo qualità straordinarie – dalla sconfinata sapienza all’immensa bontà, dal genio assoluto alla prestanza fisica – e in lui riconobbero il protagonista di una missione epocale di trasformazione dell’Italia e del mondo. In effetti, dopo tre anni di guerra mondiale e quattro di crisi economica e sociale, le masse popolari borghesi e proletarie si mostrarono disponibili ad accogliere un leader forte e autorevole che dichiarava di poter risolvere i gravi problemi della società italiana12. Il mito mussoliniano si rafforzò subito dopo la marcia su Roma quando il nuovo presidente del Consiglio girò per le città e i paesi d’Italia cercando di instaurare un contatto diretto con le masse e mostrando uno stile diverso dai suoi predecessori. Allora la maggior parte degli italiani, che non era fascista, fu affascinata da questo giovane capo del governo energico e dinamico, impegnato in prima persona nella diffusione del mito di se stesso; un uomo fatto da sé, che emergeva grazie alla forza della sua volontà e per questo era evocato e sostenuto dalle folle. Come notava Ferruccio Parri, sin dai primi anni la gente comune pose «il capo del governo su un piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica»13. Per i borghesi Mussolini era il salvatore della patria dal bolscevismo e dall’anarchia, per i ceti proletari che non erano stati socialisti, o comunque erano privi di identità politica, era il figlio del popolo diventato capo del governo non nascondendo, anzi ostentando

11   H. Béraud, Ce qui j’ai vu à Rome, Paris, Les éditions de France, 1929, pp. 39-41. 12  Gentile, Fascismo, cit., p. 127. 13   Ibidem, p. 128.

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le sue umili origini. Con queste premesse, e all’interno di una cultura fortemente condizionata da sentimenti religiosi, il mito di Mussolini colse diversi «elementi dalla tradizione cristiana popolare» per cui il capo del governo divenne oggetto di un culto devoto e superstizioso, ampiamente favorito dalla propaganda fascista. In effetti, negli anni del regime, scrivere al capo del governo, indirizzargli suppliche o lamentele, inviargli attestati di fede o denunce anonime divenne una pratica di massa14. «Sono una Giovane italiana» scriveva una ragazza nel 1936 «iscritta al Partito sin dal primo anno di scuola, cioè dal 1926, dal quale appresi ad amare il Duce, come si potrebbe amare un Dio»15. Il 29 marzo 1938 un bambino annotava nel suo diario:

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Questa mattina la signora Maestra ha distribuito le tessere ai Balilla e alle Piccole Italiane. Sulla tessera c’è scritto il giuramento che l’abbiamo [sic] imparato fin dal primo anno di scuola e ci impegna di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario col sangue la causa della Rivoluzione Fascista16.

Gli esempi potrebbero continuare con i temi dei ragazzi d’Italia dal titolo Perché amo il Duce o con le lettere spedite al capo del governo. Mussolini veniva descritto come una specie di semidio sempre in contatto con le masse, interprete delle loro aspirazioni; un uomo che meditava sulle sorti del mondo, vegliava sul destino d’Italia, curava come un padre la sorte di tutti i suoi figli. Pio XI, dopo la firma del Concordato, lo definì «un uomo della Provvidenza»17. Questa immagine di Mussolini non si diffuse soltanto fra le masse popolari indottrinate dalla propaganda e dalla cultura fascista. Anche le alte gerarchie del regime, e cioè i dirigenti del Partito e i rappresentanti del governo, esternarono la loro dedizione nei confronti di Mussolini, come fecero Giovanni Gentile e Giuseppe Bottai. Nel marzo del 1924, alla vigilia delle elezioni, quando era ministro della Pubblica Istruzione, Gentile pronunciò a Palermo un discorso in cui dichiarò:   Cfr. Campi, Mussolini, cit., p. 15.  Gentile, Fascismo, cit., p. 131. T.M. Mazzatosta, L’Italietta fascista (lettere al potere 1936-1943), Bologna, Cappelli, 1980, p. 39. 16  G. Bertone, I figli d’Italia si chiaman Balilla. Come e cosa insegnava la scuola fascista, Rimini, Guaraldi, 1975, p. 64. 17  Gentile, Fascismo, cit., p. 132. 14 15

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Ricordate sempre, o giovani, l’Uomo che a Palazzo Chigi lavora giorno e notte, nel travaglio di una passione fiammeggiante per la grandezza della Patria, i grandi occhi intenti, rivolti su voi, su tutti gli italiani. A lui l’anima vostra, pel vostro avvenire, per le fortune di questa isola da venticinque secoli sacra ad ogni popolo civile, per la gloria della nuova Italia vittoriosa!18

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Non si trattava soltanto della perorazione propria di un discorso elettorale. Negli anni successivi Gentile descrisse Mussolini non nascondendo il fascino che il capo del governo esercitava su di lui. Per esempio, inaugurando l’Istituto nazionale fascista di cultura nel dicembre del 1925, il filosofo spiegò che Mussolini era la personificazione dell’idea fascista, «un eroe, uno spirito privilegiato e provvidenziale, in cui il pensiero s’è incarnato, e vibra incessantemente col ritmo potente d’una vita giovanile e in pieno rigoglio»19, «una volontà e un’intelligenza superiore a ogni accorgimento e ad ogni interesse particolare e soggettivo»20, un creatore e un artista della politica. E, non provando alcun imbarazzo nell’utilizzare tanta retorica, concluse: Nessuno più di lui è compreso del religioso rispetto che è dovuto a un pensiero che si svolge così, scevro di passioni personali, attraverso una coscienza insonne, tutta compenetrata dell’intuito di una grande realtà nazionale ed umana nel suo divenire divino. Nessuno più di lui superbo della sua missione; nessuno più di lui umile nella devozione di tutto il proprio essere alla missione di cui sente così profondamente la responsabilità21.

Nel maggio del 1927 l’ammirazione superò ogni limite: aprendo un ciclo di conferenze, organizzate dall’Istituto nazionale fascista di cultura, Gentile spiegò che la rivoluzione fascista era una forza incessante «superiore alle volontà e alle stesse idee degli uomini singoli», una «necessità storica» che si era concretizzata «in un Uomo privilegiato di doti singolari di genialità realizzatrice, che vien creando ad ora ad ora come

18  G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia, in Politica e cultura. I, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XLV, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 60. 19  Id., Discorso inaugurale dell’Istituto nazionale fascista di cultura, in Politica e cultura. I, cit., p. 258. 20   Ibidem, p. 260. 21   Ibidem.

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ispirato e mosso da un istinto misterioso questa nuova Italia, tra l’intenta ammirazione e la trepida ansia del mondo». E ancora, nel 1936, celebrando la conquista dell’Etiopia, descrisse il capo del governo come un uomo mosso da un istinto misterioso, avvolto in un alone di sacralità, un «genio propizio alla salvezza dell’intera umanità»22 alla quale recava il verbo di una nuova civiltà. Nel mostrare la propria ammirazione nei confronti di Mussolini, Giuseppe Bottai si mostrò ancora più appassionato di Gentile anche perché, a differenza del filosofo, conosceva il capo del governo fin dalle origini del fascismo e con lui aveva condiviso le battaglie per la conquista del potere. Nel 1932, lasciando la guida del ministero delle Corporazioni, Bottai comunicò al duce che avrebbe pensato a lui anche nella sua vita privata come una guida e una forza di miglioramento23. Lo confermano le pagine del suo diario del 1938 dove scrisse che Mussolini era in grado di ordinare energie e forze, di agire e di dare concretezza agli ideali politici come nessuno sapeva fare. E infine nel 1941, quando la sua fede nel duce iniziava a vacillare, confidò al diario l’angoscia che sentiva immaginando di doversi separare da Mussolini. «Qualche cosa da più di venti anni mi batteva nel cuore. [...] Ora sono solo, senza il mio capo. [...] Ora so cos’è la paura: un precipitare improvviso d’una ragione di vita»24. Il mito di Mussolini non rimase limitato alle riflessioni e alle parole delle masse fasciste e dei gerarchi: dal 1926 fino alla fine del fascismo, infatti, il Partito si occupò di trasformare il culto del capo del governo in una vera e propria mistica, con propri riti e simboli25. Da allora la venerazione non ebbe confini e Mussolini divenne uno dei capisaldi del processo di fascistizzazione delle nuove generazioni. Nel breviario dell’avanguardista del 1928 si legge «tu non sei, Avanguardista, se non perché prima di te, con te e dopo di te, Egli e soltanto Egli è». Due anni dopo, nell’aprile del 1930, a Milano nacque la Scuola di mistica fascista all’interno del Guf e dell’Istituto 22  Gentile, Il programma, in Politica e cultura. I, cit., p. 286; Id., Dopo la fondazione dell’Impero, in Politica e cultura. II, cit., pp. 141-157. 23   E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma, Carocci, 1995, p. 145. 24   Ibidem, p. 146. 25   Cfr. Musiedlak, Mussolini, cit., pp. 284-288.

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nazionale fascista di cultura della capitale lombarda, di cui costituiva la sezione giovanile26. Niccolò Giani, che ne fu il fondatore, specificò che la mistica fascista non era né una «mistica religiosa» né una teoria fondata sull’irrazionalismo o su un generico spiritualismo, ma una dottrina basata sul pensiero di Mussolini27. Gli scritti e i discorsi del duce avrebbero costituito il corpus dottrinario dell’ortodossia fascista. Nel primo numero del mensile «Dottrina fascista», i mistici sostennero che grazie all’«infallibile guida del Duce che, oltre ad essere il Duce, è anche Maestro» sarebbe stato possibile smascherare gli eretici28. I giovani milanesi lo spiegarono nel febbraio del 1940 durante il primo convegno nazionale di mistica a cui parteciparono i più noti intellettuali del regime. Molti di loro negli anni precedenti erano stati i teorici del mito dello Stato, vero e proprio fulcro dell’ideologia fascista. 3. Il mito dello Stato

Sin dalle origini il fascismo conquistò il potere presentandosi come un movimento che avrebbe rifondato l’autorità dello Stato minata prima dalla classe dirigente postrisorgimentale e poi dai liberali. «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, niente contro lo Stato»29, affermò nel 1925 Mussolini sintetizzando il tema centrale dell’ideologia fascista, sviluppato negli anni seguenti da filosofi, giuristi e storici, ma anche filologi e letterati. Dal 1922 al 1943, i fascisti cercarono di creare uno Stato nuovo, all’interno del quale le masse avrebbero dovuto essere organizzate gerarchicamente; tutte le componenti della società, dell’economia, della cultura sarebbero state private della loro

26  Cfr. D. Marchesini, La scuola dei gerarchi, mistica fascista, storia, problemi, istituzioni, Milano, Feltrinelli, 1976; E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 273; T. Carini, Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista. 1930-1943, Milano, Mursia, 2009. 27   N. Giani, La mistica come dottrina del fascismo, in «Dottrina fascista», a. II, n. 6, aprile 1937, p. 291. 28  C.E. Ferri, Ortodossia fascista, in «Dottrina fascista», a. I, n. 1, settembre 1937, pp. 20-21. 29   B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. Susmel e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1954, vol. XXI, p. 425.

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autonomia; e tutte le istituzioni, le nuove come quelle ereditate dall’Italia liberale, sarebbero divenute sue articolazioni, subordinate alla realizzazione dei suoi fini generali, cioè all’infinito accrescimento della sua potenza. Negando l’esistenza di diritti individuali e di gruppi sociali in grado di limitare il potere dello Stato, i fascisti pensavano di fondare una nuova civiltà, basata appunto sul mito dello Stato. Alla elaborazione di questo mito e alla sua diffusione diedero il loro contributo soprattutto Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, e in misura diversa Sergio Panunzio e Carlo Costamagna. Come si è visto, Gentile aderì al fascismo nell’ottobre del 1922 e, dopo aver guidato il ministero della Pubblica Istruzione, divenne uno degli esponenti più autorevoli della politica culturale del regime. Dal 1925 decise di intensificare il suo impegno politico e, oltre a dirigere alcune istituzioni culturali, fu l’autore di scritti di carattere ideologico, fra cui il più importante è la voce Dottrina del fascismo, pubblicata nel 1932 nel XIV volume dell’Enciclopedia Italiana. Il lemma, vero e proprio manifesto dell’ideologia del regime, era composto da due parti: la prima fu scritta dal filosofo e intitolata Idee fondamentali, la seconda venne invece redatta da Mussolini ed era intitolata Dottrina politica e sociale. Nella prima parte Gentile sostenne che l’ideologia del fascismo trovava il suo punto focale nel concetto dello Stato e scrisse: Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono pensabili in quanto nello Stato30.

Questo Stato non avrebbe conosciuto barriere, avrebbe espresso la propria potenza non limitandosi a semplici funzioni di tutela dell’ordine, come accadeva nei regimi liberali, sarebbe stato «forma e norma interiore», «disciplina di tutta la persona». Una presenza capace di arrivare «nel cuore dell’uomo». Come dichiarò lo stesso Gentile, si trattava del fulcro di una concezione della politica religiosa e assoluta:

30  G. Gentile, Idee fondamentali, in B. Mussolini, La dottrina del fascismo. Con una storia del movimento fascista di Gioacchino Volpe, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1934, p. 1.

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Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre a essere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero31.

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Per Gentile la politica fascista rappresentava una missione, un impegno costante dell’esistenza, una comunione spirituale che avrebbe trasformato le coscienze e fondato un nuovo Stato dando agli italiani il senso della loro identità. Pochi anni dopo, nel 1937, ribadì queste riflessioni in un testo che certo non era un manifesto ideologico. Nella III edizione dei Fondamenti della filosofia del diritto, Gentile aggiunse due nuovi capitoli: uno sullo Stato e uno sulla politica. In quello sullo Stato si soffermò sul pensiero politico di Hegel, cui riconobbe il merito di aver mostrato i limiti del contrattualismo e di aver compreso che lo Stato è «sostanza etica consapevole di sé»32, cioè è una realtà morale e non uno strumento degli individui per realizzare un fine. Da questa acquisizione, che a suo avviso costituiva «una delle maggiori conquiste della coscienza moderna politica e filosofica», occorreva prendere le mosse per andare oltre lo stesso Hegel: occorreva cioè considerare lo Stato come una manifestazione della volontà dei singoli individui. Lo Stato, spiegava a questo proposito, non è inter homines, cioè non è il risultato di un accordo fra i cittadini, il prodotto di una scelta razionale, ma è dentro ciascuno di loro, è in interiore homine, essendo il frutto della volontà dell’individuo e quindi la realizzazione massima della sua libertà. Se Gentile fu il maggiore filosofo del regime, Alfredo Rocco fu il suo giurista più importante33. Ministro della Giustizia dal 1925,   Ibidem.  G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, III ed. riveduta e accresciuta, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. IV, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 108-114. Per la bibliografia cfr. capitolo II, nota 30, in part. cfr. G. Sasso per le riflessioni sulle differenti edizioni del testo di Gentile. 33   P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, Morcelliana, 1963; R. D’Alfonso, Costruire lo Stato forte. Politica, diritto, economia in Alfredo Rocco, Milano, Franco Angeli, 2004; S. Battente, Alfredo Rocco. Dal nazionalismo al fascismo, 1907-1935, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 372; Senato della Repubblica, A. Rocco. Discorsi parlamentari, con un 31 32

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legò il suo nome alle leggi «fascistissime» e alla trasformazione dello Stato liberale in fascista e totalitario, portata a compimento fra il 1925 e il 1929. Anche lui, come Gentile, e in modo persino più decisivo, poté incidere concretamente sulla costruzione dello Stato totalitario e, anche lui, sia pure senza la potenza speculativa del filosofo siciliano, unì l’opera di teorico a quella di politico fascista. Sin dagli anni della prima guerra mondiale, quando era un autorevole esponente del nazionalismo italiano, Rocco definì la nazione l’espressione più alta della socialità contemporanea e sostenne che fare politica significava disciplinare le forze sociali per il conseguimento degli obiettivi superiori della società34. Da questo punto di vista, di fronte alle novità della società di massa, e al rapido mutamento della realtà italiana, la politica di cui Rocco si faceva sostenitore avrebbe dovuto gestire i conflitti senza negarli, avrebbe dovuto governare le classi indirizzandole verso il fine nazionale ed evitare che le loro istanze minassero la tenuta della nazione35. Nei primi anni del fascismo, privo delle esitazioni legalitarie dei suoi colleghi di partito, era divenuto uno dei più tenaci sostenitori dell’alleanza tra fascisti e nazionalisti36. Nominato sottosegretario all’Assistenza militare nel marzo del 1923, nel maggio del 1924 divenne presidente della Camera dei deputati e un anno dopo ministro della Giustizia. Da allora poté realizzare quel progetto autoritario di concentrazione e rafforzamento del potere statale, concepito come alternativo a quello dello Stato liberale nato dal Risorgimento37. Non si trattò soltanto di costruire l’ordinamento giuridico del nuovo Stato. Nell’estate del 1925, Rocco illustrò i principi saggio di G. Vassalli, Bologna, Il Mulino, 2005; E. Gentile, F. Lanchester e A. Tarquini (a cura di), Alfredo Rocco. Dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, Roma, Carocci, 2010. 34   A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo, in Id., Scritti e discorsi politici, 3 voll., Milano, Giuffrè, 1938, vol. I, pp. 69-89. 35   Il carattere moderno della riflessione di Rocco è stato sottolineato per primo da Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, cit. Lo ha rilevato anche S. Battente in Alfredo Rocco. Verso la rivoluzione nazionale: nazionalismo giuridico economico e modernizzazione (1907-1922), Siena, Copinfax, 2001, p. 51. 36   A. Rocco, Il fascismo verso il nazionalismo, in Id., Scritti e discorsi politici, cit., vol. II, p. 693. 37   Cfr. il recente contributo di F. Lanchester, Alfredo Rocco e le origini dello Stato totale, in Gentile, Lanchester e Tarquini (a cura di), Alfredo Rocco, cit., pp. 15-39.

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ispiratori della sua azione di legislatore fascista in un discorso che ebbe vasta eco anche perché fu gratificato dal plauso di Mussolini. Rivolgendosi a quanti ritenevano che il fascismo non avesse una sua dottrina e consideravano il fascismo solo «sentimento e azione», Rocco spiegò che l’ideologia fascista costituiva nel campo intellettuale un rivolgimento non meno ampio di quello prodotto nel XVII e XVIII secolo con il sorgere e il diffondersi delle dottrine giusnaturalistiche38. A questo proposito sottolineò i legami fra la democrazia, il socialismo e il bolscevismo, definendoli «derivazioni logiche» del liberalismo: la democrazia aveva tentato di dare concretezza alle istanze sollevate dai liberali; il socialismo aveva posto alla democrazia il problema dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini di uno Stato moderno e il bolscevismo aveva ritenuto che per garantire l’uguaglianza di tutti, il proletariato avrebbe dovuto disporre dei mezzi di produzione. Solo il fascismo, spiegava Rocco, esprimeva una concezione organica della società che aveva rifiutato i presupposti giusnaturalistici del liberalismo, rovesciando i termini del problema e ponendo in primo piano non più i diritti dei singoli ma quelli della società e dello Stato, cioè teorizzando il diritto dello Stato a esistere e a dominare le altre nazioni e il dovere dell’individuo e delle classi di contribuire alla realizzazione dei fini dello Stato. Come aveva affermato sin dagli anni Dieci, Rocco riteneva che per dare vita a una nuova politica si dovesse superare la «filosofia della Rivoluzione francese»39. Da questo punto di vista fu il più coerente sostenitore di una dottrina autoritaria di rafforzamento dei poteri dello Stato. Come si può notare, tra il fascismo autoritario e nazionalista di Rocco e quello totalitario e statalista di Gentile vi sono differenze sostanziali che hanno suscitato l’attenzione degli studiosi sul ruolo che entrambi svolsero nel regime e, più in generale, sui rapporti tra fascismo e nazionalismo. Prima di entrare nel merito di questa importante questione, occorre soffermarsi sugli autori che non ebbero né la notorietà di Gentile né quella di Rocco, ma pure offrirono un contributo

  A. Rocco, La dottrina politica del fascismo, in Id., Scritti e discorsi politici, cit., vol. III, pp. 1093-1115, la citazione è a p. 1097, il commento di Mussolini è a p. 1115. 39   Ibidem, p. 1107. 38

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importante alla elaborazione di una teoria politica fondata sul mito dello Stato. Come si è accennato, si tratta di Sergio Panunzio e Carlo Costamagna. A differenza di Rocco e di Gentile, Panunzio era un filosofo del diritto e uno studioso di sindacalismo40. Aveva collaborato a «Il Popolo d’Italia» dalla sua fondazione e, all’indomani del conflitto, era in stretti rapporti con Mussolini. Dopo essere stato il più importante esponente del sindacalismo nazionale, e uno dei personaggi di primo piano della politica italiana, divenne uno dei maggiori teorici di una concezione del fascismo come Stato-Partito, caratterizzata dal considerare lo Stato «come un processo, come un dramma, come uno slancio di volontà» e il Partito il motore della rivoluzione41. Come spiegò nel 1929 il «sentimento dello Stato» evocava una fede assoluta nella sintesi delle molteplici realtà sociali e politiche. Per questo parlò «dell’unità morale e sociale del popolo espressa, vivente e personificata nello Stato»42 e citò «il sublime» della politica riferendosi alla capacità di elevare gli animi43. Secondo Panunzio, all’interno di questa compagine statale il Partito avrebbe svolto un ruolo decisivo: essendo un partito rivoluzionario, il Pnf si faceva Stato, aveva «la coscienza di essere lo Stato, tutto lo Stato»44; per questo avrebbe dovuto promuovere e seguire le trasformazioni necessarie a perfezionare il sistema politico45. A questo proposito, Panunzio affermò 40   Fra i contributi più importanti, cfr. F. Perfetti, Introduzione, in S. Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo, Roma, Bonacci, 1987; F. Perfetti, Il sindacalismo fascista, 2 voll., Roma, Bonacci, 1988; F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti 1918-1926, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 247; S. Nistri De Angelis, Sergio Panunzio. Quarant’anni di sindacalismo, Firenze, Centro editoriale toscano, 1990; P. Ridola, Sulla fondazione teorica della «dottrina dello Stato». I giuspubblicisti della Facoltà Romana di Scienze Politiche dalla istituzione della Facoltà al 1943, in F. Lanchester (a cura di), Passato e presente delle facoltà di Scienze Politiche, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 128-138; A.J. Gregor, Mussolini’s Intellectuals, Princeton (N.J.), University Press, 2005, pp. 140-164; F. Perfetti, Lo Stato fascista. Le basi sindacali e corporative, Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 343-435. 41   F. Panunzio, Lo Stato fascista, Bologna, Cappelli, 1925, p. 170. 42  Id., Il sentimento dello Stato, Roma, Libreria del Littorio, 1929, p. 27. 43   Cfr. E. Gentile, La facoltà di scienze politiche, in Lanchester (a cura di), Passato e presente delle facoltà di Scienze Politiche, cit., p. 71. 44   Ibidem, p. 197. 45   Ibidem.

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che «pur essendo subordinato allo Stato», il Partito aveva «tanta influenza sullo svolgimento di vita dello Stato stesso» che nessuno avrebbe potuto negare «il suo carattere costituzionale»46. Coerentemente con questa riflessione, nel volume Teoria generale dello Stato fascista, vero e proprio compendio di dottrina fascista, Panunzio pose un problema radicale:

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Se tutto il fascismo conclude allo Stato e si puntualizza nello Stato, è possibile davvero una distinzione fra le due discipline, la Dottrina del Fascismo e la Dottrina dello Stato? O non sono esse, almeno nel loro obietto, la ripetizione l’una dell’altra?47

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In effetti, egli riteneva che «dottrina del fascismo» fosse una materia più ampia di «dottrina dello Stato» e che mentre la seconda avrebbe dovuto essere insegnata nelle sole facoltà di scienze politiche, la prima avrebbe dovuto essere impartita in tutte le facoltà universitarie. Basata sul pensiero di Mussolini, la «dottrina del fascismo» non si limitava a indagare la natura e le caratteristiche dello Stato, ma abbracciava ambiti diversi, dall’arte alla politica, dal diritto all’economia. Come si può notare, a differenza di Gentile e di Rocco, Panunzio esaltava il ruolo del Partito il quale avrebbe dovuto indicare allo Stato la strada della rivoluzione, creando una classe dirigente, guidando le giovani generazioni e trasformando le strutture dello Stato in una nuova compagine fascista e totalitaria. Si trattava di una posizione assai diffusa tra i fascisti e sostenuta non solo dagli uomini del Partito, ma anche da noti giuristi48. Fra i teorici del fascismo occorre ricordare anche il giurista Carlo Costamagna che da giovane era stato segretario della Commissione dei Soloni presieduta da Gentile e negli anni Trenta divenne un severo critico del filosofo49. Nel 1930 per   Ibidem, p. 181.  S. Panunzio, Teoria generale dello Stato fascista, Padova, Cedam, 1937, p. VIII. 48   Cfr. V. Zangara, Il Partito e lo Stato, Catania, Studio editoriale moderno, 1935; G. Ambrosini, Il partito fascista e lo Stato, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934; per una rassegna di contributi sulla natura del Pnf, cfr. Panunzio, Teoria generale dello Stato fascista, cit., pp. 177 ss. 49   Fra i diversi contributi, cfr. Carlo Costamagna, in E. Gentile ed E. Campochiaro (a cura di), Repertorio biografico dei Senatori dell’Italia fascista, Napoli, Bibliopolis, 2003, vol. II: C-D; M. Cupellaro, Carlo Costamagna, 46 47

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«tenere il passo della rivoluzione di Mussolini» e per denunciare i ritardi con cui il diritto, l’economia e le scienze sociali mostravano di recepire i contenuti totalitari della politica fascista, Costamagna fondò la rivista «Lo Stato» e nel 1935, quando il Pnf istituì i corsi di preparazione politica per i giovani, ne approfittò per sottolineare che l’iniziativa del Partito avrebbe dovuto supplire alle deficienze e ai ritardi di un sistema di insegnamento universitario incapace di formare una classe dirigente fascista. Osservazioni analoghe a queste apparvero su «Lo Stato», a proposito dell’Istituto nazionale fascista di cultura, della scuola italiana e dell’Enciclopedia Treccani50. Non si trattava certo di critiche nuove, ma Costamagna le inserì all’interno della sua riflessione sullo Stato totalitario. In Storia e dottrina del fascismo sostenne che nell’èra definita da Carl Schmitt della «politicità integrale», lo Stato fascista si presentava come una «condizione di civiltà» in cui si concretizzava «il maximum della politicità»51 e, nel descrivere le caratteristiche principali di questo Stato, affermò che si configurava come un’entità superiore in grado di trascendere e di dominare gli individui, cioè «un valore assoluto» con «un contenuto totalitario»52. Lo Stato fascista non era certo

in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XXV, p. 276; M. Sbriccoli, Carlo Costamagna, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005, vol. I, p. 367; M. Toraldo di Francia, Per un corporativismo senza «corporazioni». «Lo Stato» di Carlo Costamagna, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 19 (1989), pp. 267-327; F. Lanchester, «Dottrina» e politica nell’università italiana. Carlo Costamagna e il primo concorso di diritto corporativo, in Id., Momenti e figure nel diritto costituzionale in Italia e in Germania, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 93-119; L. Galantini, Il fascismo radicale di Carlo Costamagna, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 11 (1999), pp. 89-104; M. Benvenuti, Il pensiero giuridico di Carlo Costamagna, in «Nomos», 10 (2005), nn. 1-2, pp. 17-102; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 256-268. 50   C. Costamagna, L’Istituto fascista di cultura, in «Lo Stato», a. VI, fasc. VIII-IX, agosto-settembre 1935, p. 604 e Nascita dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, in «Lo Stato», a. VIII, fasc. I, gennaio 1937, pp. 51-52; Id., Orientamenti culturali, in «Lo Stato», a. VI, fasc. VI, giugno 1935, p. 435; Id., Aggiornare l’Enciclopedia Italiana, in «Lo Stato», a. IX, fasc. X, ottobre 1938, p. 547. 51   Cfr. Id., Storia e dottrina del Fascismo, Torino, Utet, 1938, p. 29. 52   Ibidem.

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il prodotto di un accordo fra i consociati: avrebbe realizzato solo se stesso, come l’espressione di un’entità divina che trascende i singoli individui, non ha bisogno di loro e con loro si relaziona solo per esercitare il proprio potere. Per queste ragioni Costamagna riteneva che la definizione di Gentile dello Stato in interiore homine derivasse dalla volontà di legittimarne l’esistenza attraverso la filosofia immaginando uno Stato espressione dell’individuo. Al contrario, per Costamagna lo Stato fascista non aveva bisogno di alcuna legittimazione, essendo una realtà politica autonoma e immensamente potente, che «trascende e domina» tutto e tutti53. Gli autori analizzati furono i maggiori teorici dell’ideologia fascista. Sottolineando gli aspetti più importanti della loro riflessione politica, e quindi le caratteristiche principali del contributo che offrirono al mito dello Stato, si è cercato di evidenziare le differenze che separano le loro riflessioni per ricordare che il fascismo non fu una specie di monolite ma uno Stato totalitario al cui interno si intrecciarono percorsi biografici e culturali diversi. Il problema allora è capire se tali differenze furono maggiori e più rilevanti dei fattori accomunanti o se, viceversa, ciò che legò questi autori fu più importante di ciò che li divise e quindi fu determinante per la loro identità politica. In un caso potremmo concludere questo paragrafo sostenendo che è esistita un’ideologia fascista basata sul mito dello Stato, al di là delle opzioni di ciascun teorico, cioè un’ideologia nella quale tutti gli autori analizzati si riconobbero; e che, tuttavia, come tutte le ideologie, non si tradusse meccanicamente in una prassi politica, ma orientò l’azione politica dei suoi sostenitori. Nell’altro, invece, se le differenze fra questi studiosi furono effettivamente più rilevanti di ciò che li accomunò, dovremmo ritenere che ognuno di loro espresse una dottrina politica diversa da quella degli altri, e quindi che non è mai esistita un’ideologia del fascismo. Gli ideologi del fascismo erano concordi nel sostenere che la dottrina politica di cui erano sostenitori si fondava sul mito dello Stato e sul suo primato all’interno del regime. Dal 1922 al 1943, infatti, tutti loro sostennero che lo Stato fascista non sarebbe stato ostacolato da nulla: né individuo, né gruppo, né   A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Milano, Il Borghese, 1974, p. 211.

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istituzione, niente avrebbe potuto ledere il suo potere illimitato. Per Rocco si trattava di un potere precostituito, posto a baluardo contro le tendenze centrifughe presenti nella società. Per Gentile, di una nuova civiltà italiana fondata su un processo di trasformazione radicale delle coscienze, e quindi sulla capacità dei singoli di sentirsi parte dello Stato. Per Panunzio, di un nuovo ordine statuale sostenuto da un partito rivoluzionario che avrebbe indicato le linee della politica totalitaria. Per Costamagna, di una sorta di Leviatano moderno, infinitamente potente e indipendente dai suoi membri. Tuttavia, ciascuno di loro era convinto che lo Stato fascista, in quanto Stato, avrebbe dovuto realizzare se stesso subordinando qualunque fine alla propria volontà. E infine tutti espressero una concezione religiosa della politica fondata sul mito dello Stato, come più volte abbiamo sottolineato: tutti si riconobbero in un comune sentimento, quello che alimentava un’idea e un’esperienza della politica intesa non più, o non solo, in termini tradizionali come progetto da realizzare per trasformare la realtà, ma come una fede che celebra lo Stato. Questo spiega perché dal 1922 al 1943 gli autori che abbiamo ricordato non misero mai in discussione la fede nel fascismo, convinti di partecipare alla costruzione di una nuova civiltà: chiamati dal regime a dare il proprio impegno, orgogliosi di essere intellettuali al servizio della politica, consideravano le diverse posizioni teoriche come un aspetto della politica e della cultura fascista e si battevano, come gli altri intellettuali, per affermare la propria posizione di teorici dello Stato fascista. Ed è in questo senso che l’ideologia fascista fu un’ideologia basata sul mito dello Stato e non una forma o una variante del nazionalismo, come pure è stato sostenuto. 4. Fascismo e nazionalismo

I rapporti fra nazionalismo e fascismo sono stati uno dei primi e più studiati argomenti da chi si è occupato dell’ideologia fascista. Alcuni studiosi hanno sostenuto che il fascismo è una variante del nazionalismo, mentre altri hanno rilevato le differenze tra l’ideologia fascista e quella nazionalista. Secondo i primi, soprattutto dopo il Concordato del 1929, il regime si incamminò verso una politica reazionaria e conservatrice di

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matrice nazionalista, espressa in accordo con la Chiesa cattolica. Per esempio, nel 1974, accogliendo l’indicazione data da Palmiro Togliatti nelle sue Lezioni sul fascismo, Luisa Mangoni sottolineava la centralità del nazionalismo e del cattolicesimo nella cultura politica della dittatura fascista. Citando il leader comunista, la storica affermava:

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[N]on per niente il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista, non per niente una delle più grandi personalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui. In tutte le tappe è stata condotta una lotta fra fascisti e nazionalisti per la soluzione dei problemi fondamentali dello Stato e del Partito. La soluzione di questi problemi ha sempre una sostanza che viene dal Partito nazionalista, la sostanza della loro soluzione è sempre nettamente reazionaria e borghese54.

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D’accordo con questa impostazione, nel 1981 Franco Gaeta ha sostenuto che Alfredo Rocco fu «il vero creatore dello Stato totalitario», mentre altri ideologi, come Gentile, ebbero un ruolo assai meno rilevante, confondendo spesso le proprie argomentazioni teoriche, quindi ciò che avrebbero voluto realizzare attraverso il fascismo, con le scelte politiche del regime55. Nel 1994 Gabriele Turi ha sostenuto una tesi diversa rimarcando che Gentile e Rocco si integrarono perfettamente nel regime a cui offrirono il proprio autorevole contributo nella costruzione del nuovo Stato, anche se furono criticati duramente dai fascisti intransigenti. In questo senso, secondo Turi, Gentile e Rocco furono gli esponenti più importanti di un fascismo moderato e conservatore di matrice nazionalista, nato dalla volontà della sua classe dirigente di avere un ruolo decisivo nella costruzione del nuovo Stato. Anche per lui, quindi, il nazionalismo ha costituito uno degli elementi prin-

54   L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, p. 48 e cfr. P. Togliatti, Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 146. Nel 1975 Philip Cannistraro ha proposto un’interpretazione analoga commentando le prime dichiarazioni di Mussolini sull’arte e sulla cultura e sostenendo che i fascisti non avevano alcun programma di politica culturale e per questo delegarono la gestione delle istituzioni culturali ai nazionalisti. Cfr. Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, p. 43. 55   F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Bari, Laterza, 1981, nuova ed., pp. 248-249.

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cipali dell’ideologia e della politica del fascismo, cioè di un regime espressione del fronte conservatore che reagì alla crisi provocata dall’avvento della società di massa in modo nuovo rispetto al liberalismo di inizio secolo. Come si accennava, altri studiosi hanno sostenuto che il nazionalismo è stato solo una delle culture politiche confluite nel fascismo, e certo non più importante dell’idealismo di Gentile. Secondo Renzo De Felice, nel 1925 Alfredo Rocco godeva nel Partito e presso il duce di una posizione di grande prestigio56: era stato uno dei più abili non fascisti a integrarsi nel fascismo ed era considerato una delle «teste forti» del governo; aveva evitato di partecipare alla polemica fra vecchi fascisti ed ex nazionalisti e si era affermato «come il più autorevole rappresentante del vero e sano fascismo» anche se aveva «ben poco di veramente fascista»57. Al contrario di Rocco, Gentile non si era integrato perfettamente nel fascismo degli anni Venti e anzi aveva dovuto difendersi dagli attacchi dei molti esponenti del Partito che lo consideravano un liberale. Ciò nonostante, per De Felice, il filosofo aveva svolto un ruolo decisivo nella cultura fascista e soprattutto su Mussolini che gli aveva lasciato formulare «la prima parte della voce Dottrina del Fascismo», pubblicata sull’Enciclopedia Italiana, «avallandone sostanzialmente l’impostazione di fondo nella seconda parte», «da lui stesso redatta e firmata insieme alla prima»58. A ben vedere, scriveva De Felice, la Dottrina del Fascismo mostra chiaramente cosa il duce avesse accettato del pensiero gentiliano: la condanna non solo in termini politico-pratici ma anche dottrinari del liberalismo classico, del socialismo e della democrazia, la concezione dello Stato etico e, quindi, della Nazione come espressione, anzi come creazione dello Stato, l’idea che il fascismo, in quanto concezione religiosa e storica, non fosse soltanto datore di legge e fondatore d’istituti ma educatore e promotore di vita spirituale, capace di rifare l’uomo sin nel suo carattere59.

56  R. De Felice, Mussolini il fascista. II: L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, p. 163. 57   Ibidem, p. 164. 58   R. De Felice, Mussolini il duce. I: Gli anni del consenso. 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, p. 35. 59   Ibidem, p. 37.

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Come si può notare, per De Felice, mentre i nazionalisti erano l’espressione della vecchia classe dirigente fiancheggiatrice e fascista, e Rocco l’abile politico che aveva saputo integrarsi nel fascismo, Gentile era il teorico di una cultura nuova e rivoluzionaria, recepita in pieno da Mussolini e dai fascisti, ben più influenzati dal pensiero del filosofo che da quello dei nazionalisti. Dalla seconda metà degli anni Settanta, in continuità con quanto sostenuto da De Felice, alcuni studiosi hanno affermato che Gentile e Rocco rappresentarono due correnti antagoniste del fascismo e hanno sottolineato che il nazionalismo non costituì il cuore ideologico del regime fascista, ma solo una delle tante manifestazioni della politica dell’Italia giolittiana che influenzò il fascismo nel periodo iniziale non più di altri movimenti come, per esempio, il futurismo, l’idealismo e il sindacalismo rivoluzionario. E in effetti, già Paolo Ungari nel suo studio pionieristico su Rocco aveva invitato a diffidare di un nazionalismo inteso come «matrice intellettuale delle rivoluzioni totalitarie del Novecento, ed anticipatore delle loro soluzioni costrittive»60. A questo proposito, Emilio Gentile ha scritto che Gentile e Rocco furono gli esponenti delle due correnti principali del fascismo, negli anni fra la marcia su Roma e le prime leggi istitutive del regime61. Si trattava di due correnti contrastanti anche se avevano alcuni punti in comune e un’uguale avversione per la democrazia liberale. Rocco era fautore di un fascismo autoritario e reazionario, privo delle rivendicazioni dei fascisti intransigenti ma anche molto lontano dallo spirito riformatore di Bottai. Aveva una visione naturalistica della storia e della società in cui lo Stato si configurava come un potere naturale e assoluto che imponeva e conservava la coesione interna delle nazioni62. Gentile, invece, aveva aderito al fascismo convinto che il movimento delle camicie nere avrebbe portato a compimento il processo inaugurato dal Risorgimento. Sulla base di una concezione della politica religiosa e totalitaria che mutuava da una particolare interpretazione del pensiero di Mazzini, fin dagli anni del conflitto aveva espresso con chiarezza il problema

 Ungari, Alfredo Rocco, cit., p. 18.   Cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., p. 403. 62   Ibidem, p. 455. 60 61

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della formazione di una coscienza nazionale che, a suo avviso, costituiva una questione morale63. Per questo, secondo Emilio Gentile, «l’asserita identità di nazionalismo e fascismo e la cattura ideologica del fascismo da parte dei nazionalisti» hanno costituito un luogo comune privo di fondamento64. Negli anni Trenta, infatti, nella gerarchia dei valori della cultura fascista si concretizzò una vera e propria «dislocazione» nel rapporto fra il concetto di Stato e quello di nazione. Se nella fase della conquista e della restaurazione del potere il Partito si era presentato come l’interprete della volontà della nazione che aspirava a diventare uno Stato nuovo e moderno, nel periodo successivo, e con maggiore evidenza a partire dagli anni Trenta, il «fascismo-Stato si proclamò creatore della nazione»65. Per esempio, mentre negli statuti del 1921 e del 1926 il Partito fascista veniva definito «una milizia al servizio della nazione», nel 1929 il riferimento fu eliminato e nel 1932 l’espressione fu sostituita con «una milizia al servizio dello Stato». Da questo punto di vista, i fascisti espressero una riflessione analoga a quella di Gentile e dei gentiliani. Quando ancora figurava tra gli intellettuali più vicini a Gentile, Camillo Pellizzi spiegò che il fascismo celebrava il mito dello Stato e non quello della nazione66. A questo proposito sottolineò le differenze tra il fascismo e il nazionalismo: mentre i nazionalisti, con una concezione politica naturalistica e materialistica, credevano che 63   Anche Manlio Di Lalla nel 1975 si soffermò sul pensiero del giurista e su quello del filosofo negli anni della prima guerra mondiale, sostenendo un’ipotesi interpretativa analoga e cioè sottolineando le profonde differenze fra le loro concezioni politiche. Cfr. M. Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1975, p. 287. Cfr. A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 359-360; F. Perfetti in G. Gentile, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 32, ma anche le pp. 49-50, e F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia 1903-1914, Roma, Bonacci, 1984. 64  Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., p. 461. 65  Id., La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano, Mondadori, 1997, pp. 165-166. 66   C. Pellizzi, Lo Stato e la Nazione, in «L’educazione politica», a. IV, f. VI, giugno 1926, pp. 317-320; Id., Rinascimento politico, in «L’educazione politica», a. IV, f. VII, luglio 1926, pp. 389-392; cfr. anche C. Licitra, Dalla Nazione allo Stato, in «L’educazione politica», a. IV, f. VIII, agosto 1926, pp. 415-419 e Id., Dalla Nazione allo Stato II, in «L’educazione politica», a. IV, f. IX, settembre 1926, pp. 471-477.

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fosse la nazione a creare lo Stato, Pellizzi ricordava che con il fascismo «la patria si fa Stato» e «attinge nello Stato la propria forma ideale». A suo avviso, il nazionalismo aveva subordinato lo Stato alla nazione e aveva introdotto un orientamento politico per il quale lo Stato avrebbe interpretato e garantito «i naturali diritti e le naturali esigenze insiti di fatto nella realtà nazionale». Per questo sostenne che «non esiste un concetto di nazione italiana» e che «lo Stato fascista non solo sovrasta la nazione, ma la riassorbe ed elimina». Nel 1940, nel Dizionario di politica curato dal Pnf, Carlo Costamagna scrisse la voce Nazione mostrando l’assoluta subordinazione del concetto rispetto a quello dello Stato. Ancora una volta i fascisti sottolineavano la natura statalista e non nazionalista della loro ideologia politica e quindi la convinzione che fosse lo Stato a creare la nazione e non viceversa; una convinzione proiettata verso il futuro a celebrare la costruzione di una nuova civiltà imperiale che glorificava il mito di Roma67.

5. Il mito di Roma

Fra i miti della cultura fascista delle origini non si trova quello della romanità. Lo stesso termine fascismo non derivava da «fascio littorio», uno dei più importanti simboli nati nell’antica Roma repubblicana, ma da fascio, parola propria del linguaggio politico della Sinistra di fine Ottocento, che indicava l’unione compatta di gruppi e movimenti a carattere rivoluzionario. E infatti, sotto la testata del giornale «Il Fascio» non vi era l’emblema del fascio littorio, un mazzo di verghe di betulla tenute insieme da nastri di cuoio simboleggiante il potere di punire esercitato dai magistrati romani, ma un pugno chiuso che serrava spighe di grano. Nel programma del 1919, fra l’altro, non vi era alcun richiamo a valori derivanti dal mondo romano, così come non si faceva cenno al mito di Roma in quello redatto durante il II congresso dei fasci, dopo la svolta a destra del maggio 1920. Soltanto nel 1921 la romanità

67   C. Costamagna, Nazione, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1940, vol. III: M-Q, p. 263.

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divenne il principale strumento simbolico del fascismo, che da allora e sino alla fine del regime la utilizzò costantemente per definire la sua individualità politica, la sua organizzazione, il suo stile di vita, e gli obiettivi della sua azione68. A questo proposito Luciano Canfora ha sostenuto che nella cultura fascista confluirono quattro temi legati alla storia e al mito di Roma: l’antidemocrazia, la nozione di terza via, l’idea di Roma e l’antagonismo contro il mondo moderno69. L’antidemocrazia del mondo antico derivava dalla presenza di una connotazione dispregiativa del concetto di massa nella cultura classica. Sulla base di questa concezione negativa alcuni intellettuali europei avevano fondato il loro rifiuto per la democrazia moderna, come era accaduto al filologo tedesco Ulrich von Wilamowitz e a Friedrich Nietzsche. Secondo Canfora proprio questo disprezzo per le masse popolari avrebbe caratterizzato il fascismo che esaltava il mito di Roma antica per legittimare il carattere antidemocratico della sua politica. Dalla cultura romana, derivava anche la ricerca di una terza via, alternativa al capitalismo e alla soluzione comunista. Per questo, essendo interessati alle origini del sistema corporativo, i fascisti promossero gli studi sulle associazioni di persone che svolgevano lo stesso mestiere e partecipavano alla vita politica cittadina. Dalla storia antica emergeva inoltre un modello di imperialismo che i fascisti utilizzarono per mostrare che, come

68  A. Giardina e A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000, anche per la riflessione sulla distanza fra il mito di Roma nella cultura fascista e la storia romana; V. Vidotto, La capitale del fascismo, in Id. (a cura di), Roma capitale, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 379-414; L. Scuccimarra, Romanità, culto della, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005, vol. II, pp. 539-554; G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 206-229; E. Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 43. Per una riflessione sul fascio littorio come simbolo della politica cfr. L. Scuccimarra, Il fascio littorio, in F. Benigno e L. Scuccimarra (a cura di), Simboli della politica, Roma, Viella, 2010, pp. 23-44. 69   L. Canfora, Classicismo e fascismo, in Matrici culturali del fascismo. Seminari promossi dal consiglio regionale pugliese e dall’Ateneo barese nel trentennale della Liberazione, Bari, Università di Bari, 1977, p. 85. Cfr. anche Id., Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980, pp. 247-270, soprattutto per la riflessione sulla critica del concetto di uguaglianza nella pubblicistica fascista.

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i romani, avrebbero instaurato un rapporto positivo e pacifico con le loro colonie. E infine, secondo Canfora, il regime fascista avrebbe visto nel mito di Roma uno degli strumenti per combattere la sua battaglia contro la modernità in nome di un passato da restaurare e di antichi valori da recuperare. Pochi anni fa, Andrea Giardina ha proposto una interpretazione diversa sostenendo che agli albori del fascismo il concetto più frequentemente collegato all’idea di Roma era espresso dal termine disciplina, riferito alla potenza e all’esaltazione mistica della nazione. Non si trattava di difendere il mito di una gloria passata. A differenza di ciò che ritiene Canfora, Giardina ha affermato che nell’ideologia fascista esisteva il rifiuto e il timore che la romanità venisse intesa come una restaurazione, «come una forma di misoneismo o come il segno di un’incapacità di progettare il futuro». In questo senso, i fascisti rifiutarono qualsiasi espressione che potesse suggerire un’attitudine passiva o «occultare la dimensione creativa del culto fascista di Roma»70. Recentemente Emilio Gentile ha indicato i motivi dell’attrazione esercitata su Mussolini e sui fascisti dalla romanità. A suo avviso, Roma rappresentava la continuità nel tempo, il perdurare di una civiltà attraverso i secoli; era il simbolo dell’universalità, dimostrata dal fenomeno del cristianesimo che era diventato una religione universale soltanto dopo il trasferimento della sua base dalla Palestina a Roma; aveva avuto il destino imperiale di una civiltà che aveva dominato tutto il mondo riuscendo ad arrivare laddove nessuno era mai giunto; e infine rappresentava la modernità. Al contrario di ciò che sostiene Canfora, e analogamente a quanto ha spiegato Giardina, Gentile ritiene che il fascismo dichiarò di voler assumere l’eredità romana non per nostalgia reazionaria, né per tornare a un lontano passato, ma perché il mito di Roma aveva una funzione politica legata al futuro71. Nella primavera del 1921 Mussolini lanciò l’iniziativa di celebrare il natale di Roma il 21 aprile di ogni anno per fronteggiare le spinte centrifughe del fascismo, che in quei mesi erano particolarmente forti e rischiavano di metterlo in peri70 71

 Giardina e Vauchez, Il mito di Roma, cit., p. 239.  Gentile, Fascismo di pietra, cit., pp. 46-48.

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colo. Dopo la nascita del Pnf, Mussolini volle rafforzare la sua autorità sulle diverse correnti modellando il Partito sulla base di uno schema mutuato dalle organizzazioni militari romane. Composto da principi, o camicie nere, e triari, o riserve, il Partito fascista era un partito armato: i principi, che costituivano le prime schiere degli eserciti romani, erano i combattenti, mentre i triari o riserve rappresentavano la forza delle retrovie. Erano di provenienza romana anche le sue insegne, come i gagliardetti con il fascio e le aquile, e il gesto di saluto con il braccio teso. Sempre sull’esempio dell’esercito romano nel dicembre del 1922 fu istituita la milizia fascista: un corpo di polizia suddiviso in squadre. Ogni squadra era comandata da un caposquadra e da due vice capisquadra chiamati decurioni; quattro squadre formavano una centuria, con a capo un centurione; mentre quattro centurie costituivano una coorte, guidata da un seniore; infine, da tre a nove coorti potevano dare vita a una legione, comandata da un console72. Poco importava che alcuni di questi termini non trovassero una precisa rispondenza nel lessico militare romano. Da allora il processo di diffusione del mito di Roma non ebbe fine. Infatti, subito dopo aver conquistato la Roma reale, una città che disprezzavano e in cui vedevano il simbolo della vecchia Italia, corrotta, parlamentare, vile e inetta, i fascisti non posero limiti all’esaltazione del mito della romanità presentandolo come un mito politico fascista. Nel gennaio del 1923 fu disposta l’emissione di nuove monete da 1 lira e da 2 lire recanti da un lato l’effige del re, dall’altro il fascio littorio. Mussolini scelse un modello raffigurante un fascio di verghe con una scure collocata lateralmente, ritenendo che fosse una rappresentazione fedele alla simbologia romana, diversa dall’aspetto assunto dal fascio littorio durante la Rivoluzione francese e il Risorgimento. Non si trattò di un episodio isolato: pochi mesi dopo, il fascio littorio, divenuto simbolo del Partito fascista, finì su un francobollo e sul retro di una moneta d’oro da 100 lire, emessi per celebrare l’avvento del fascismo al potere73. L’opera di fascistizzazione sarebbe

 Giardina e Fascismo di pietra, 73  Giardina e Fascismo di pietra, 72

Vauchez, Il mito di Roma, cit., pp. 220-221; Gentile, cit., p. 52. Vauchez, Il mito di Roma, cit., pp. 224-227; Gentile, cit., p. 62.

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proseguita negli anni con l’avallo di eminenti studiosi, come l’archeologo Pericle Ducati, felice di annunciare il ritorno in Italia dei simboli della romanità74. Nel dicembre del 1926 il fascio littorio venne dichiarato emblema dello Stato, e nell’aprile del 1929 il governo modificò lo stemma dello Stato italiano sostituendo i leoni di sostegno allo scudo dei Savoia con due fasci. All’inizio degli anni Trenta inserì d’imperio negli scudi dei comuni, delle province e di altri enti locali il fascio littorio circondato da due rami di quercia e di alloro75. Il culto della romanità non si espresse soltanto nella diffusione maniacale del fascio littorio, ma si estese anche alla trasformazione del calendario e della Roma reale. Dal 1926 accanto alla data dell’anno dopo Cristo, venne introdotta l’indicazione dell’èra fascista che decorreva dall’ottobre del 1922, per diffondere l’idea del carattere epocale e rivoluzionario del regime, destinato a durare ben oltre l’esistenza dei suoi contemporanei76. Invece, per celebrare il mito di Roma antica il regime decise di eliminare quelle che considerava incrostazioni del passato e dal 1923 iniziò a demolire buona parte del centro storico della capitale presentando queste iniziative come una liberazione dei luoghi sacri dell’antichità, profanati da indegne superfetazioni. Con una vera e propria furia demolitrice, all’inizio del 1931, ebbe inizio la costruzione della via dell’Impero che avrebbe collegato piazza Venezia al Colosseo. Per realizzarla furono distrutti tutti i fabbricati del foro di Traiano e fu cancellato il quartiere cinquecentesco costruito sui fori di Augusto e Nerva77. La volontà di architetti e urbanisti di compiacere i desideri di Mussolini incontrò il suo disinteresse per l’antichità. Per il capo del governo la storia antica non aveva alcun valore in sé, perché costituiva un semplice arsenale di miti. Al governatore di Roma che gli aveva riferito le preoccupazioni dello storico ed ex ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele di fronte alla distruzione di tutto ciò che sopravviveva dell’urbanistica 74  Cfr. Giardina e Vauchez, Il mito di Roma, cit., p. 225; Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 62; Id., Il culto del littorio, cit., p. 85. 75   Cfr. Gentile, Il culto del littorio, cit., pp. 89-90. 76  Cfr. ibidem, pp. 100-103; Giardina e Vauchez, Il mito di Roma, cit., p. 229. 77   Cfr. Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 72.

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popolare della Roma medievale, Mussolini nel settembre del 1931 rispose: «Continui a demolire e se necessario demoliremo anche le melanconie del senatore Fedele, che si commuove ridicolmente per un mucchio di latrine»78. In realtà, l’opera di distruzione del centro storico e di costruzione di un nuovo nucleo della capitale aveva una funzione precisa: mostrare al mondo la potenza fascista, la capacità di immaginare e realizzare una città moderna, basata su una concezione dello spazio adeguata alle realtà metropolitane e proiettata verso il futuro, come fu evidente nell’ottobre del 1932 quando venne inaugurata la via dell’Impero che divenne subito il luogo principale per le parate delle forze armate, della milizia e delle organizzazioni del Partito. Con la conquista dell’Etiopia il mito sembrò realizzarsi: il 9 maggio 1936 Mussolini dichiarò dal balcone di palazzo Venezia che l’impero era tornato sui colli fatali di Roma. Da allora il fascismo volle mostrarsi al mondo come l’erede di Roma antica con il consenso di autorevoli studiosi disponibili a confermare che la politica coloniale fascista aveva le sue origini nella storia romana79. In prima linea vi fu Ettore Pais, direttore del trimestrale «Historia», fondato da Arnaldo Mussolini e affiancato a «Il Popolo d’Italia», autore di una storia delle origini di Roma e nel 1936 vincitore del premio Mussolini. Accanto a lui, Pietro Romanelli volle sottolineare le differenze fra il colonialismo romano e quello greco spiegando che solo il primo era basato su un intimo rapporto fra la madrepatria e le colonie. Giorgio Maria Sangiorgi, studioso dell’etnologia dell’Africa, dichiarò che il fascismo sarebbe riuscito a integrare i territori delle colonie senza abbandonarli allo sfruttamento80. Mario Attilio Levi nel 1936 sostenne che Roma non era mai stata avida di terre e che il suo intento era realizzare le aspirazioni dei popoli assoggettati. Mostrando la superiorità del suo espansionismo fondato sul comando politico, sull’Imperium, Roma era stata capace di interpretare la volontà delle comunità e di venire incontro alle esigenze dei popoli. Ogni conquista romana, virtuosa espressione dell’Imperium, era dunque voluta non per

78   Ibidem, p. 82; P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008, pp. 34-81. 79   M. Cagnetta, Antichisti e Impero fascista, Bari, Dedalo, 1979, p. 39. 80   Ibidem, p. 40.

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«imporre ma per estendere il concetto di popolo, unificare il mondo civile, perdonare chi si assoggetta»81. Come si accennava, con l’impresa etiopica il mito di Roma rafforzò la sua presenza nella cultura e nella politica del fascismo. La consacrazione della continuità imperiale, fra la Roma antica e quella fascista, fra i grandi imperatori e il duce imperiale, fra l’Impero romano e quello fascista, fu suggellata dalla mostra aperta nella capitale nel settembre del 1937 per celebrare il bimillenario della nascita di Augusto a cui venne dato ampio rilievo. All’inaugurazione l’archeologo Giulio Quirino Giglioli, direttore dell’esposizione, definì Mussolini «il novello Augusto della risorta Italia imperiale», «un genuino discendente di sangue degli antichi romani». Lo testimoniava, secondo l’autorevole archeologo, l’origine romagnola di Mussolini che «era degno emulo di Cesare e di Augusto perché artefice di una nuova era della romanità nell’epoca moderna»82. In effetti, lo notavano Emilio Gentile e Andrea Giardina, il mito di Roma e dell’impero confluì nella cultura fascista perché i fascisti presentarono se stessi, dalle origini fino al crollo del regime, come i costruttori di una nuova civiltà: una civiltà moderna capace di durare nei secoli, di svolgere una missione universale e di compiere il proprio destino imperiale, come quella romana; una nuova civiltà che avrebbe dominato il mondo e creato un uomo nuovo. 6. Il mito dell’uomo nuovo

Il primo modello di uomo nuovo fascista fu il combattente della Grande guerra, il milite tornato dal fronte con la convinzione che il proprio compito di lotta contro i nemici non fosse terminato. Come si è ricordato all’inizio di questo volume, i giovani che nel marzo del 1919 si riunirono a piazza San Sepolcro, dando vita ai Fasci di combattimento, pensavano di essere un’avanguardia rivoluzionaria e, come tutti i movimenti nati dal conflitto mondiale, credevano di rappresentare la nuova Italia emersa dalle trincee. Da combattenti i 81 82

  Ibidem, p. 54.   Ibidem, p. 143 e Gentile, Il culto del littorio, cit., pp. 148-149.

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fascisti divennero presto squadristi e cioè politici-guerrieri che rifiutavano radicalmente la politica tradizionale fondata sulla dialettica fra i partiti, applicavano la violenza delle trincee al confronto politico del dopoguerra, e credevano di essere gli unici autentici rappresentanti della nazione, in nome della quale identificavano gli avversari con i nemici da eliminare fisicamente83. Questo modello di uomo fascista attraversò la storia del fascismo dalle origini alla seconda guerra mondiale perché, da quando presero il potere, Mussolini e i fascisti si considerarono un’avanguardia di italiani pronti a creare una nuova civiltà e un uomo nuovo: avrebbero inculcato i loro valori e i loro miti nelle nuove generazioni combattendo la «vecchia» e «corrotta» mentalità borghese, distruggendo i suoi retaggi e plasmando nuovi italiani, educati ad accettare i comandi del regime. L’italiano fascista, ha ricordato a questo proposito Lorenzo Benadusi, non doveva avere nulla in comune con l’italiano del passato, il quale era il prodotto di un lungo periodo di decadenza politica, militare e morale. Era un debole, un borghese, un liberale, o comunque un antifascista, cioè un traditore della patria, che andava eliminato per lasciare il posto all’italiano virile, capace di combattere per il Partito e per lo Stato fascista84. L’importanza dell’obiettivo venne addirittura indicata nella voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana: nel testo che, come si è ricordato, doveva costituire un vero e proprio manifesto dell’ideologia fascista, Mussolini e Gentile descrissero l’uomo nuovo fascista. Si trattava di un «uomo attivo e impegnato

83   Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. II: Lo Stato totalitario. 19361940, Torino, Einuadi, 1981, p. 100; G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 107-122; G.L. Mosse, The Image of Man. The Creation of Modern Masculinity, New York, Oxford University Press, 1996 (trad. it. L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997); R. Suzzi Valli, The Mith of «Squadrismo» in the Fascist Regime, in «Journal of Contemporary History», 35 (2000), n. 2, pp. 131-150; Gentile, Fascismo, cit., pp. 235-265; L. Benadusi, Il nemico dell’uomo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005; L. La Rovere, «Rifare gli italiani». L’esperimento di creazione dell’«uomo nuovo» nel regime fascista, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 2002, n. 9, pp. 51-77; Stellavato, La nascita dell’Opera nazionale balilla, cit., pp. 5-81. 84  Benadusi, Il nemico dell'uomo nuovo, cit.

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nell’azione, con tutte le sue energie», un uomo «virilmente consapevole delle difficoltà» e pronto ad affrontarle, un uomo che avrebbe concepito la vita «come lotta» e come oggetto di conquista. Un uomo al servizio del regime, come dichiararono Gentile e Mussolini:

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Per il fascista tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenza tutta la vita del popolo85.

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Come è evidente da queste affermazioni, la rivoluzione antropologica voluta dai fascisti rientrava nel processo di potenziamento e di sviluppo dello Stato totalitario. Era anzi uno dei suoi aspetti più importanti. Avrebbe quindi costituito un tema politico, uno degli obiettivi, forse il più importante, dell’attività del regime impegnato appunto a trasformare gli italiani. Nella seconda metà degli anni Trenta il mito dell’uomo nuovo assunse una forte connotazione antiborghese e anticapitalistica che secondo Renzo De Felice «costituì la punta di diamante della rivoluzione culturale fascista»86. In un celebre discorso del marzo 1934 Mussolini sostenne che nonostante non vi fosse più alcuna minaccia antifascista, il futuro del regime poteva essere minacciato dallo «spirito borghese», «spirito cioè di soddisfazione e di adattamento, tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo». A questo proposito Mussolini aveva affermato: «Non escludo l’esistenza di temperamenti borghesi, nego che possano essere fascisti. Il credo del fascista è l’eroismo, quello del borghese è l’egoismo»87. Con queste parole il capo del governo inaugurò la campagna antiborghese che nel 1938 avrebbe avuto il suo momento più forte con la decisione dello stesso Mussolini di sferrare «poderosi cazzotti allo stomaco» della borghesia italiana: l’abolizione del lei e la sua sostituzione con il voi, che ebbe un certo successo perché in molte regioni d’Italia il lei era poco diffuso e perché ebbe il consenso di un buon  Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXXIV, p. 117.   De Felice, Mussolini il duce, vol. II, cit., p. 100. 87   Ibidem, p. 96. 85 86

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numero di intellettuali come Marinetti, Quasimodo, Vittorini, Morante, Carlini e Volpe; l’introduzione del passo romano su cui Mussolini insistette particolarmente sia in privato sia in pubblico, ritenendo necessario «creare attorno agli italiani un’atmosfera di tipo militare» facendoli vivere «pronti alla lotta»88. E infine la questione razziale, il terzo cazzotto alla borghesia, che ebbe ben altro contenuto e di cui si parlerà ampiamente più avanti. Il carattere antiborghese della rivoluzione auspicata dai fascisti ha determinato un ampio dibattito sulla natura dell’uomo nuovo fascista, che in questa sede possiamo solo ricordare. Renzo De Felice lo considerò un tema decisivo per comprendere il carattere totalitario del regime degli anni Trenta. George Mosse definì il fascismo «una rivoluzione borghese antiborghese» e sostenne che il prototipo dell’uomo nuovo esprimeva quei valori di onestà, probità, laboriosità, prodotti dalla cultura e dalla morale ottocentesca, mentre Emilio Gentile ha sostenuto che definire il fascismo una rivoluzione borghese antiborghese significa depotenziare l’aggettivo antiborghese. In effetti, l’uomo nuovo del fascismo non era assolutamente l’incarnazione della tradizionale rispettabilità o l’ideale della borghesia individualista e liberale, ma «un uomo organizzato collettivamente», educato secondo i principi di una morale bellicista, proiettato in una dimensione pubblica dell’esistenza che era l’antitesi della rispettabilità e dell’individualismo borghese89. In questo senso l’uomo nuovo fascista fu il prodotto della militarizzazione della politica che caratterizzò la cultura italiana fra le due guerre. Profondamente diversa dal bellicismo di altre culture politiche, fondato comunque sulla distinzione fra la dimensione civile e quella militare, la militarizzazione della politica imposta dai fascisti determinò il venir meno della differenza fra il soldato e il cittadino. Fu in questo senso che il mito dell’uomo nuovo fu un mito antiborghese, come quello del corporativismo. 88   Ibidem, p. 101. Cfr. anche il numero speciale del 1939 della rivista «Antieuropa» diretta da A. Gravelli e dedicato alla polemica contro il lei e M.A. Matard, L’anti-lei: utopie linquistique ou projet totalitaire, in «Mélange de l’école française de Rome», 2 (1998), pp. 971-1010. 89   Cfr. De Felice, Mussolini in duce, vol. II, cit., p. 101; Mosse, The Image of Man, cit., pp. 154-180. Gentile, Fascismo, cit., p. 239.

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7. Fascismo e corporativismo

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Il corporativismo fu una delle espressioni più importanti dell’ideologia fascista perché ebbe una straordinaria fortuna divenendo, come ha ricordato recentemente Gianpasquale Santomassimo, «una delle leve fondamentali del successo internazionale» del fascismo90. In effetti, la diffusione delle tematiche corporative garantì all’esperimento fascista le attenzioni di numerosi osservatori internazionali, soprattutto dopo il 1929, quando la «terza via» fascista fu considerata una possibile risposta alla crisi. Si trattò, in effetti, di un’alternativa agli equilibri tradizionali delle economie di mercato e al contempo di una sfida nei confronti dell’ipotesi sovietica. Ed è in questo senso che nelle pagine seguenti ci occuperemo del corporativismo tralasciando la costruzione politica dell’edificio corporativo e limitando la riflessione alla sua rilevanza nell’ideologia dello Stato fascista. Fra i diversi teorici che contribuirono alla definizione del corporativismo fascista il più noto per il dibattito che determinò nella politica del regime e per l’importanza che ebbe nella sua cultura fu Ugo Spirito che, come molti allievi di Gentile, aderì al fascismo seguendo il filosofo e negli anni Trenta se ne allontanò esprimendo una proposta politica più radicale91. Nel 1927 Spirito fondò con Arnaldo Volpicelli la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica» per rinnovare queste discipline e imprimere nel dibattito un nuovo orientamento. Pochi anni dopo divenne il principale teorico del corporativismo perché, come spiegò sia in Critica all’economia liberale del 1930, sia ne

90   Cfr. G. Parlato, Il convegno italo-francese di studi corporativi, Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1990; G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma, 2006, p. 11; A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010; M. Cau, La ricerca di un nuovo ordine tra Stato e società. A margine di alcune recenti ricerche sul corporativismo, in «Storica», 16 (2010), n. 48, pp. 135-163. 91  Cfr. R. De Felice, Ugo Spirito e la politica fra le due guerre, in Il pensiero di Ugo Spirito, 3 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988-1990, vol. II, p. 255. Cfr. F. Tamassia (a cura di), L’opera di Ugo Spirito, Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1986. Per una rassegna degli studi su Ugo Spirito, si rimanda al volume di G. Dessì, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Milano, Luni, 1999. Cfr. anche di recente D. Breschi, Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.

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I fondamenti dell’economia corporativa del 1932, era convinto del fallimento dell’economia classica a cui contrappose una nuova economia politica basata sull’identità di Stato e individuo e «sulla statalità di ogni fenomeno economico»92. Il suo obiettivo, infatti, era riuscire a risolvere l’antinomia fra individuo e Stato formulando una dottrina politica integralmente totalitaria. Lo Stato che descriveva si configurava come un «organismo unico armonicamente costituito [...] con il quale l’individuo, in quanto animale sociale», non avrebbe potuto non coincidere93. Come ha sottolineato Alberto Asor Rosa a metà degli anni Settanta esprimendo un giudizio tuttora valido, si trattava di una posizione che esprimeva «la più netta affermazione della superiorità dell’etico (e, se si vuole, del politico, ma solo in quanto il politico discende ancor più direttamente dall’etico) sull’economico»94. E in effetti, anche Spirito, come gli ideologi degli anni Trenta che abbiamo ricordato, dichiarò il primato dello Stato e pensò all’economia come all’ambito prescelto per la concretizzazione di quello Stato in interiore homine in cui credeva, pur dando alla definizione un’accezione diversa da quella di Gentile. Infatti, all’inizio degli anni Trenta per Spirito «l’immedesimazione dell’individuo con lo Stato, e la scoperta dello Stato come finalità superiore da realizzare in sé stessi» rischiavano di restare semplici enunciati teorici se non si fossero individuate le modalità con cui attuarle95. Convinto quindi che per realizzare davvero gli obiettivi del fascismo occorresse imprimere un’accelerazione al processo di costruzione di un nuovo Stato, nel maggio del 1932 Spirito partecipò al II convegno di studi corporativi, che si svolse a Ferrara, dove illustrò la sua tesi della corporazione proprietaria. Propose allora di trasformare le singole aziende in enti di proprietà dei corporati, cioè degli azionisti proprietari, e di consentire a lavoratori e datori di lavoro, in misura diversa e relativa al

  U. Spirito, I fondamenti dell’economia corporativa, Milano, Treves, 1932, p. 28. 93   Ibidem, p. 41. 94   Asor Rosa, Una polemica corporativa, in Il fascismo: il regime (19261943), cit., pp. 1489-1495; L. Punzo, L’esperienza di «nuovi studi di diritto, economia e politica», in Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. II, pp. 367-378; Id., La soluzione corporativa dell’attualismo di Ugo Spirito, Napoli, Esi, 1984, pp. 21-22; Dessì, Ugo Spirito, cit., pp. 50-53. 95  Dessì, Ugo Spirito, cit., p. 70. 92

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grado gerarchico, di condividere la proprietà e la gestione della corporazione96. Ovviamente la corporazione doveva essere intesa come un organo dello Stato, «un organo che si innesta nel suo organismo attraverso il Consiglio nazionale delle Corporazioni» e non perché lo Stato avrebbe risolto i conflitti interni alle corporazioni, ma perché, sottolineava Spirito, «è la stessa realtà della corporazione vista nel sistema nazionale»97. L’intervento di Spirito al convegno di Ferrara determinò le proteste di tutti quei fascisti che, pur dichiarandosi corporativisti, non si riconoscevano nella tesi della corporazione proprietaria: è il caso del gruppo legato alla rivista «Il Secolo fascista», che accusò il giovane teorico del corporativismo di bolscevismo, dei molti studenti universitari che intervennero in quella sede e dello stesso Bottai che subito dopo il convegno chiese, anche se poi rifiutò, le dimissioni di Spirito dalla scuola di studi corporativi di Pisa, ma soprattutto è il caso di Sergio Panunzio che, come si è già sottolineato, proveniva dal sindacalismo di cui era stato uno dei più autorevoli teorici98. Panunzio concepiva l’ordinamento corporativo come un meccanismo necessario a facilitare l’ingresso dei sindacati nella direzione economica del paese. Da questo punto di vista, a differenza di Spirito, come tutti gli ex sindacalisti, temeva che l’ordinamento corporativo avrebbe svuotato e frenato il ruolo dei sindacati nello Stato. Per questo accusò Spirito di sopravvalutare la funzione economica della corporazione a svantaggio del ruolo politico dei sindacati99. In realtà, al di là delle differenze di orientamento, come pure dei diversi ambiti disciplinari per cui il corporativismo fu

96   U. Spirito, Individuo e Stato nella concezione corporativa, in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi. Ferrara 5-8 maggio 1932, vol. I, Roma, Tipografia del Senato, 1932, p. 188. 97   Ibidem, p. 189. 98   F. Perfetti, Lo Stato fascista. Le basi sindacali e corporative, Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 413-423. 99   Ibidem, p. 422. Sulle polemiche che seguirono il convegno, cfr. U. Spirito, Risposta alle obiezioni, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», a. V, f. II, marzo-maggio 1932, pp. 94-99, e De Felice, Mussolini il duce, vol. I, cit., pp. 9-18; F. Perfetti, Ugo Spirito e la concezione della corporazione proprietaria al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932, in «Critica storica», 25 (1988), n. 2, pp. 202-243; il saggio di G. Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista (1932-1942), in Il pensiero di Ugo Spirito, cit., vol. I, pp. 79-124; e Dessì, Ugo Spirito, cit., pp. 64-86.

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oggetto di riflessione dei giuristi ma anche degli economisti, e in generale della pubblicistica fascista, il tema centrale della proposta di Spirito, come degli altri, restava il tentativo di assorbire le diverse articolazioni della società nello Stato. A questo proposito, come è stato sottolineato anche recentemente, il corporativismo si propose «come una delle grandi nervature che, insieme al Partito», avrebbero permesso «la sussunzione della società nello Stato»100. Nelle intenzioni dei teorici della corporazione, il rapporto fra la società e lo Stato sarebbe cambiato attraverso un nuovo modello di rappresentanza politica, che avrebbe abbandonato la sua essenza elettiva in nome di una «rappresentanza organica» in grado di mettere in relazione i differenti contesti sociali con l’apparato statale. Il progetto di un nuovo ordine giuridico a base corporativa divenne così, nelle intenzioni dei giuristi e dei teorici un rinnovato progetto politico che al centro poneva lo Stato come unico soggetto legittimato a creare la società101. In questo senso il corporativismo fu una delle espressioni più importanti dell’ideologia dello Stato totalitario fascista. 8. La discussione sulla Rivoluzione francese

Nelle pagine precedenti si è accennato più volte al carattere moderno della cultura fascista: dei miti, della politica e dell’ideologia di uno Stato proiettato verso il futuro che riteneva di poter rispondere alle sfide del suo tempo imponendo agli italiani un’altra modernità, alternativa a quella emersa nel mondo occidentale alla fine del XVIII secolo. Il giudizio di alcuni intellettuali fascisti sulla Rivoluzione francese, con cui si chiude questo lungo capitolo sull’ideologia, dimostra proprio quanto si è cercato di sottolineare. Per i fascisti la Rivoluzione francese rappresentò il simbolo di ciò che avrebbero contrastato, il simbolo cioè della cultura moderna. Come ha sintetizzato Zeev Sternhell si trattava di un tratto caratterizzante buona parte della cultura europea fra la

 Cau, La ricerca di un nuovo ordine tra Stato e società, cit., p. 152, che cita P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. IV: L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 259. 101  Cau, La ricerca di un nuovo ordine tra Stato e società, cit., p. 153. 100

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fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento, e cioè della crisi dell’idea di modernità espressa dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese102. Col volgere del secolo – ha scritto lo storico israeliano – la fiducia nel «soggetto kantiano», che aveva esercitato la propria libertà attraverso il pensiero critico e fondato una società secolarizzata ed emancipata dai valori tradizionali, subì le critiche severe di autorevoli intellettuali europei: Sorel, Le Bon, Unamuno, Musil, Barrès e Nietzsche contribuirono allora al diffondersi dell’irrazionalismo e di una visione del mondo antidemocratica e antiumanistica, in cui non c’era spazio per la fede nel progresso delle coscienze. Il più noto fra gli intellettuali fascisti che rappresentarono questa cultura descritta da Sternhell fu Curzio Suckert, alias Malaparte. Come si è già avuto modo di ricordare, Malaparte sostenne le ragioni di un fascismo antieuropeo, cattolico, e controriformista che non mancò di manifestare il proprio disprezzo feroce nei confronti della Rivoluzione francese e di tutto ciò che rappresentava. Gli esempi di questa tendenza dell’ideologia fascista sono molteplici e potrebbero continuare con Gastone Silvano Spinetti, un giovane universitario, assai meno conosciuto di Malaparte, che fondò la rivista «La Sapienza» nel gennaio del 1933 a Roma. Deciso a combattere contro tutte le espressioni della filosofia moderna, e in particolare contro Gentile, Spinetti fece de «La Sapienza» una tribuna di giovani antigentiliani e nel luglio del 1933 organizzò a Roma il primo convegno anti-idealista103. Lo stesso anno sostenne una tesi assai diffusa fra la pubblicistica fascista e cioè che la

102   Cfr. Z. Sternhell, La modernità e i suoi nemici, in «Storia Contemporanea», 21 (1990), n. 6, pp. 977-996; M. Serra, La ferita della modernità. Intellettuali, totalitarismo e immagine del nemico, Bologna, Il Mulino, 1992; N. Zapponi, La modernità deviante, Bologna, Il Mulino, 1992; Belardelli, Il ventennio degli intellettuali, cit., pp. 237-259; A. De Francesco, Mito e storiografia della «grande rivoluzione». La Rivoluzione francese nella cultura politica del ’900, Napoli, Guida, 2006, pp. 107-235. 103   Cfr. De Felice, Mussolini il duce, vol. I, cit., pp. 36, 232 e 780; E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari, Laterza, 1966, p. 148; T. Gregory, M. Fattori e N. Siciliani De Cumis (a cura di), Filosofi, università, regime. La scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta, Mostra storico-documentaria, Roma-Napoli, Istituto di filosofia dell’Università «La Sapienza» - Istituto italiano di studi filosofici, 1985, pp. 91-95; Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 201-211.

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Rivoluzione francese rappresentava l’espressione più importante della mentalità sfociata nella rivoluzione bolscevica e nel comunismo. Dichiarando con orgoglio che il fascismo era il prodotto di una cultura politica opposta e cioè del collettivismo e del totalitarismo, Spinetti rivendicò le origini cattoliche del fascismo e la sua cultura antimoderna, antiliberale, antiborghese, antimaterialista e ovviamente antidemocratica104. In realtà, dal 1922 fino al 1943, nella cultura fascista vi fu anche un’altra tendenza, non meno importante, rappresentata da autorevoli esponenti del regime e del Partito che non misero mai in discussione la propria appartenenza all’orizzonte della modernità, convinti che il fascismo fosse l’artefice di un’altra modernità, alternativa a quella nata con la Rivoluzione francese. Da questo punto di vista, i fascisti pensarono che avrebbero risposto alle «ferite della modernità» superandola, eliminandone gli aspetti negativi, appropriandosene fino in fondo e quindi cercando di ricomporre il dissidio modernità-antimodernità105. Il testimone più importante di questo tentativo, come si è cercato di evidenziare sintetizzando il suo giudizio sulla Rivoluzione francese nel capitolo III, fu Giuseppe Bottai, che tuttavia non fu l’unico. Nella seconda metà degli anni Venti vi era chi notava che gli intellettuali fascisti avevano rivaleggiato per mettere in ridicolo i principi emersi nel 1789106. Secondo il giornalista e storico Giacomo Lumbroso si era trattato di una gara inutile perché la democrazia era stata sconfitta politicamente dal fascismo che aveva «fatto giustizia» degli idoli rivoluzionari e cioè «della sovranità popolare», del «trionfo del numero» e del «culto della maggioranza». Tuttavia, notava Lumbroso, il fascismo non avrebbe rifiutato le «conquiste della dispregiatissima Rivoluzione Francese» che costituivano la base di «ogni assetto sociale, politico e giuridico» e fra loro l’uguaglianza civile e cioè «la soppressione del privilegio di nascita – la facoltà concessa a tutti i sudditi di un paese di potersi indirizzare per questa o 104

p. 11.

 G.S. Spinetti, L’Europa verso la catastrofe, Roma, Novissima, 1936,

105  N. Zapponi, Il ricordo di Babele. Note sull’idea di modernità, in «Storia Contemporanea», 21 (1990), n. 6, pp. 997-1046. 106  G. Lumbroso, Quel che rimane del 1789, in «Critica fascista», a. V, n. 8, 15 aprile 1927, pp. 144-145.

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per quella via per questa o per quella carriera – secondo le loro attitudini e il loro ingegno». Nel 1928 Antonio Pagano, che proveniva dal nazionalismo e insegnava storia della legislazione fascista nella facoltà di scienze politiche di Perugia, e quindi aveva un’esperienza politica molto diversa da quella di Lumbroso e Bottai, spiegò che identificare la Rivoluzione francese con la cultura individualistica di matrice liberale costituiva un grave errore. A suo avviso, infatti, la Rivoluzione non aveva espresso soltanto il carattere individualistico, liberale, democratico della politica moderna; aveva creato l’esercito nazionale e aveva trasformato l’ordine giudiziario in un organo dello Stato. Infatti, grazie a Rousseau, che Pagano definiva ambiguo ma capace di grandi intuizioni, lo Stato non era più un oggetto a disposizione degli individui, ma un soggetto politico. Erede della parte positiva di questa tradizione, il fascismo era riuscito a congiungere le istanze dello Stato, il suo predominio, la sua forza, con la giovane Italia, con lo spirito del Risorgimento e quindi a trasformare lo Stato universale in uno Stato nazionale. «Il popolo divenne Fascio e il governo divenne Stato. E l’uno e l’altro, con l’intima loro fusione, formarono lo Stato fascista»107. Proprio questo era il carattere specifico del regime fascista, e cioè la presenza di un elemento dinamico, il popolo, «realizzato non più in aggregati temporanei», come i corpi elettorali, ma nel «fascio e cioè in un corpo di volontari» che secondo Pagano rappresentavano «i mazziniani e i garibaldini dell’era nuova». E infine, per non essere ambiguo su questo aspetto e ribadendo un concetto già espresso da Bottai, Pagano affermò: «scartato l’elezionismo [...] il regime fascista accoglie e concilia i due grandi principi della Rivoluzione francese: la valorizzazione del cittadino e quella dello Stato»108. Come si può notare, non si trattava certo di tornare a un mondo del passato: Pagano dichiarava espressamente il carattere moderno della battaglia fascista, iniziata per rispondere alle sfide della modernità, creandone una nuova. Anche Sergio Panunzio, che come si è visto proveniva dal sindacalismo e aveva un percorso biografico e intellettuale molto diverso da quello di Antonio Pagano, si pose il problema del

107   A. Pagano, Origini e fattori della rivoluzione fascista, in Id., Dottrina e politica fascista, Perugia, La Nuova Italia, 1930, p. 28. 108   Ibidem, p. 29.

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rapporto tra il fascismo e la Rivoluzione francese e sostenne che, mentre i giacobini avevano combattuto la loro battaglia in un periodo di sviluppo, i fascisti si erano confrontati con la crisi gravissima della società italiana ed erano riusciti a superarla. Anche lui, come Bottai, accostava il fascismo alle grandi rivoluzioni della storia moderna, mostrando di riconoscere il valore storico di un’esperienza politica che aveva visto la partecipazione delle masse e che era rivoluzionaria109. E anche lui negli anni Trenta tornò sul confronto tra la Rivoluzione francese e quella fascista nel volume in cui raccolse i suoi scritti dedicati al rapporto fra la rivoluzione e le riforme costituzionali110. In realtà, oltre a dichiarare che avrebbero recuperato gli aspetti positivi della Rivoluzione francese, i fascisti fecero un passo ulteriore e trasformarono la politica in una religione secolare, attratti dall’esperienza dei giacobini. Come ha suggerito George Mosse, il fascismo considerò la Rivoluzione francese come un insieme unitario «attraverso gli occhi della dittatura giacobina»111. In effetti, la volontà di creare un uomo nuovo e di fondare una nuova civiltà, l’attenzione per la gioventù e il culto della guerra, così come il ruolo dell’estetica nella politica che si affacciarono nella storia con la Rivoluzione francese furono aspetti centrali della cultura fascista112. Come ha sostenuto Emilio Gentile, i fascisti accolsero l’eredità della Rivoluzione francese creando una religione politica che si espresse in miti, riti e simboli e accogliendo l’idea che lo Stato nazionale avrebbe istituito una religione secolare. In questo senso, sacralizzando la nazione, i fascisti proseguirono sulla strada inaugurata dai rivoluzionari francesi che conferirono carattere religioso alla politica e diedero allo Stato una missione educatrice113.

 Panunzio, Lo Stato fascista, cit., p. 25.  Id., Rivoluzione e Costituzione. Problemi costituzionali della Rivoluzione, Milano, Treves, 1933, p. 86. 111  G.L. Mosse, Fascism and the French Revolution, in «Journal of Contemporary History», 24 (1989), n. 1, p. 6. 112   Ibidem, p. 7. 113  Gentile, Il culto del littorio, cit., p. 7. 109 110

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Capitolo quinto

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1. I ministri dell’Educazione Nazionale e il Pnf

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La politica culturale degli anni Trenta

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Alla fine degli anni Venti, la maggior parte degli intellettuali e dei politici fascisti pensava che la trasformazione della scuola fosse in grave ritardo rispetto agli obiettivi prefissati. Da allora i ministri che si susseguirono alla guida del ministero dell’Educazione Nazionale modificarono la riforma del 1923, anche se non riuscirono a elaborare un progetto alternativo a quello di Gentile, paragonabile al suo per coerenza e organicità. Nel settembre del 1929 il capo del governo comunicò a Balbino Giuliano, il nuovo responsabile del ministero che proprio allora cambiò nome e assunse quello di Educazione Nazionale, che il regime sarebbe passato dal piano dell’istruzione a quello dell’educazione e che quindi la presenza delle scuole private accanto agli istituti pubblici doveva essere discussa: l’educazione sarebbe stata oggetto del più rigido monopolio statale1. Pochi mesi dopo, in parlamento prese avvio la discussione sulle iniziative del governo in materia scolastica che si trasformò in un vero e proprio attacco contro Gentile, considerato da molti il principale responsabile dei ritardi della fascistizzazione della scuola e cioè l’autore di una riforma, espressione di un contesto e di una cultura non fascisti. Un primo provvedimento fu adottato dal Gran consiglio del fascismo alla fine di marzo del 1930, che stabilì che i rettori, i presidi delle facoltà universitarie e quelli 1   Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. I: Gli anni del consenso. 19291936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 127, 189-191, 288 e 311. Cfr. anche R. Pertici, Balbino Giuliano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. LVI, pp. 770-776. Cfr. A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 301-314.

148   la politica culturale degli anni trenta

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delle scuole dovessero essere iscritti al Pnf da almeno cinque anni. L’iniziativa provocò il plauso di molti intellettuali fascisti2: per esempio, alla Camera, lo storico Francesco Ercole, futuro ministro dell’Educazione Nazionale, denunciò la situazione in cui si trovavano le università e dichiarò esplicitamente che non erano in grado di assolvere i compiti indicati dal fascismo3. Esprimendo una convinzione diffusa, a giudicare dagli interventi in aula e sulla stampa, Ercole sostenne che l’origine dei problemi risiedeva nella difficoltà di creare una classe dirigente capace di imprimere un elemento di discontinuità con il passato. Per queste ragioni constatò amaramente che non poteva esserci soluzione diversa da quella indicata dal Gran consiglio, e cioè «la assoluta e incontrastata fedeltà al regime di coloro che il Governo chiami a reggere o governare, nei suoi vari ordini e gradi la scuola»4. Di fronte alle polemiche sulla riforma Gentile e alla dichiarazione del Gran consiglio, la posizione di Giuliano restò oscillante: quando nell’aprile del 1931 Mussolini definì la riforma del 1923 «un errore dovuto ai tempi e alla mentalità dell’allora ministro», Giuliano propose di non sostituirla del tutto, ma di correggerla dove «manchevole o contraria a certi principi»5. Lo ribadì anche in parlamento presentando il provvedimento per modificare i programmi delle scuole medie superiori ed eliminare i testi di Rousseau e di Humboldt6. Nel frattempo, convinto anche lui che fosse necessario accelerare la fascistizzazione della cultura italiana, adottò il libro unico, che come si è visto era in preparazione già da due anni, e nel 1931 fu tra i sostenitori del giuramento imposto ai professori universitari7. 2  Cfr. Il Consiglio dei ministri e il Gran Consiglio si riuniscono oggi sotto la presidenza del Capo del Governo, in «Il Popolo d’Italia», a. XVII, n. 66, 18 marzo 1930, p. 1; La seduta del Gran Consiglio, in «Il Popolo d’Italia», a. XVII, n. 67, 19 marzo 1930, p. 1. Cfr. B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. Susmel e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1954, vol. XXIV, p. 205. 3   Cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., p. 305. 4   Ibidem. 5   Cfr. De Felice, Mussolini il duce, vol. I, cit., p. 189. 6   Cfr. M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Bari, Laterza, 1981, p. 203; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime fascista (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 426-430; Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., p. 308. 7  Per un’analisi dettagliata e articolata dei testi, cfr. M. Colin, «Les enfants de Mussolini». Littérature, livres, lectures d’enfance et de jeunesse

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Secondo Jürgen Charnitzky, fino ad allora il regime fascista non era stato particolarmente duro nei confronti dei docenti universitari. A partire dal gennaio del 1927 aveva previsto la possibilità di licenziarli o di escluderli dai concorsi universitari per motivi politici, ma, nell’insieme, non aveva dato vita a procedimenti di epurazione. In questo senso, prima del 1931 «neppure i professori di filosofia Francesco De Sarlo e Piero Martinetti, denunciati personalmente da Mussolini a Fedele nell’aprile del 1926, poterono essere licenziati senza difficoltà»8: il primo andò in pensione nel 1933 mentre il secondo lasciò la cattedra solo dopo il 1931 perché aveva rifiutato di giurare fedeltà al regime. Charnitzky non spiega perché un procedimento di espulsione determinato da motivi politici non costituisca un atto di epurazione, né che cosa significhi licenziare qualcuno «senza difficoltà». In realtà la decisione di obbligare i docenti universitari a giurare la propria fedeltà al regime fascista fu coerente con la politica culturale che si è cercato di descrivere. Proposto da Gentile a Mussolini per rispondere a quanti sollevavano la questione della fascistizzazione delle università italiane, il provvedimento venne ripreso da Belluzzo e introdotto nell’ottobre del 1931 da Balbino Giuliano. Prima di prestare servizio, i docenti universitari avrebbero dovuto recitare il seguente giuramento: Giuro di essere fedele al re, ai Suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista9.

Soltanto dodici professori universitari, su poco più di milleduecento, rifiutarono di giurare fedeltà al regime dando testimonianza di autonomia intellettuale e, insieme, del coraggio sous le Fascisme. De la Grand Guerre à la chute du régime, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2010, pp. 190-212. 8  Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 319. 9   Ibidem, p. 320. Cfr. G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2001; e H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Firenze, La Nuova Italia, 2000. Sul ruolo di Gentile cfr. G. Sasso, Filosofia e idealismo. II: Giovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, 1995, pp. 11-52.

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di chi dovette lasciare il proprio posto di lavoro. Ciò nonostante, secondo Charnitkzy e altri storici, tra il regime e le università italiane «si era instaurato un modus vivendi il quale, di norma, permetteva anche ai professori universitari antifascisti, purché politicamente passivi, il pieno esercizio della loro professione». Senza spiegare per quali ragioni formuli affermazioni così forti, Charnitzky ammette che il giuramento «annullava de iure il principio della libertà scientifica», sostenendo però che per la maggior parte dei docenti si trattò di «un atto puramente formale» che non incise più di tanto sul loro lavoro10. Non è chiaro come si possa definire «formale» un atto di sottomissione e come si possa leggere un giuramento di fedeltà a un regime totalitario come l’esito di un implicito compromesso, la manifestazione di un modus vivendi instauratosi fra il regime e le università. È vero, come molti storici hanno sottolineato, che fra i docenti italiani molti giurarono per mantenere il posto di lavoro e non perché fossero davvero fascisti. Ciò non toglie che il giuramento del 1931 fu una delle espressioni più forti e più significative della politica culturale del fascismo. La politica del successore di Giuliano, Francesco Ercole, che arrivò alla Minerva nel luglio del 1932, fu ugualmente orientata a proseguire verso la fascistizzazione della scuola italiana11. Nel primo anno adottò i provvedimenti più importanti: il passaggio delle ultime scuole amministrate dai comuni al ministero dell’Educazione, l’elaborazione di un testo unico per la legislazione sull’università e la revisione dei programmi delle scuole medie. Anche in questo caso la discussione parlamentare che accompagnò i provvedimenti legislativi divenne l’occasione per esprimere rimostranze contro Gentile. Le polemiche furono talmente accese che il ministro Ercole, nel replicare in aula, sentì di dover difendere la riforma del 192312. A questo proposito dichiarò che la riforma Gentile doveva essere considerata un primo passo nella costruzione della scuola fascista e che i nuovi provvedimenti non modificavano

 Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 324.   Cfr. L. Lo Bianco, Francesco Ercole, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. XLIII, pp. 132-134; Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 432-437. 12  Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., p. 309. 10 11

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i suoi primi «tre principi» e cioè «autonomia amministrativa, autonomia didattica, esame di stato»13. La «politica dei ritocchi», e quindi il tentativo di mantenere alcuni aspetti della riforma del 1923, rispondendo alle nuove esigenze del fascismo, terminò nel luglio del 1933 per iniziativa di Mussolini, che scrisse al ministro dell’Educazione Nazionale invitandolo a porre fine alle modifiche e a dare maggiore stabilità alla politica scolastica14. In realtà, la stabilità invocata dal capo del governo durò meno di due anni perché l’arrivo di Cesare Maria De Vecchi di Valcismon coincise con ulteriori trasformazioni15. Appena nominato, il nuovo ministro fu accolto da un coro di consensi da parte di chi poteva salutare un vero fascista alla guida del ministero dell’Educazione Nazionale16. In effetti, fin dalle origini del fascismo De Vecchi era stato un fascista intransigente: quadrumviro della marcia su Roma, fervente cattolico, monarchico e deciso antigentiliano, nel 1935 non deluse le aspettative e si fece promotore della «bonifica della cultura», un progetto per cui la scuola, interamente purificata dalle influenze gentiliane, avrebbe costituito il centro propulsore dello Stato fascista17. L’attività riformatrice di De Vecchi fu caratterizzata dall’accentramento di tutti i poteri decisionali nelle mani del ministro e dall’eliminazione di ogni autonomia della scuola e dell’università. La concentrazione delle funzioni lo portò, fra l’altro, ad abolire gli organi consultivi dell’amministrazione scolastica a eccezione del Consiglio superiore dell’educazione nazionale che, tuttavia, volle ristrutturare completamente. Egli decise, infatti, di sopprimerne tutte le sezioni, di eliminare l’obbligatorietà della sua consulenza, di ridurre drasticamente il numero dei   Ibidem.  Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XLII, p. 59. 15   Cfr. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., p. 127. 16  Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., p. 310; Cfr. C.M. De Vecchi di Val Cismon, Tra papa, duce e re. Il conflitto tra Chiesa cattolica e Stato fascista nel diario 1930-1931 del primo ambasciatore del Regno d’Italia presso la Santa Sede, Roma, Jouvence, 1998, p. 12; E. Santarelli, Cesare Maria De Vecchi, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. XXXIX, pp. 522-531; S. Setta, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon. Diario 1943, in «Storia contemporanea», 24 (1993), n. 6, pp. 1057-1113. 17   Cfr. C.M. De Vecchi di Val Cismon, Bonifica fascista della cultura, Milano, Mondadori, 1937. 13 14

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suoi componenti e di assicurare seggi di diritto al segretario del Pnf e a quello dell’Onb. Quanto all’autonomia didattica, De Vecchi soppresse la libertà di scelta delle materie e dei programmi delle facoltà universitarie introdotta nel 1923 e introdusse l’insegnamento premilitare nelle scuole18. Furono queste le premesse su cui si sviluppò l’aspro scontro fra Gentile e De Vecchi sull’educazione dei giovani. Con la relazione su La tradizione italiana, tenuta presso il Lyceum di Firenze alla vigilia della conquista etiopica, Gentile, pur non facendo esplicito riferimento alla sua persona, ma citando passi di un suo discorso, accusò De Vecchi di aver inserito nella scuola italiana il culto della romanità attraverso formule vuote e ripetitive, che non avrebbero consentito ai giovani fascisti di sviluppare la consapevolezza e il rispetto per la tradizione italiana. Non preoccupandosi di attutire l’acredine delle proprie parole, affermò: Una tradizione è vera e però efficace, se è viva. E quando oggi sentiamo d’altra parte preconizzare a perdita di fiato [...] come tradizione italiana o, che è lo stesso, della nostra Roma moderna, di quella Roma onde Cristo è Romano, bisogna pur dire ai romanucci ringalluzziti dai Patti del Laterano, che la loro Italia non è l’Italia autentica, l’Italia nostra; voglio dire l’Italia degli Italiani. E tanto meno l’Italia degl’Italiani d’oggi, del fascismo19.

L’11 giugno De Vecchi gli scrisse: «È bene che ella si occupi di filosofi e di filosofia e si astenga dall’occuparsi di me e della mia opera di ministro fascista. A ciò la dovrebbe consigliare, se non la disciplina, il rispetto». Il giorno dopo lo destituì dall’incarico di direttore della Scuola Normale di Pisa20. In realtà non si trattò di una lunga assenza dalla Normale perché meno di un anno dopo, quando Bottai aveva già sostituito De   Cfr. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, cit., pp. 214-227.   G. Gentile, La tradizione italiana, in Frammenti di estetica e di teoria della storia, in Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XLVIII, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1992, pp. 97-118. Cfr. V. Vidotto, La capitale del fascismo, in Id. (a cura di), Roma capitale, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 394. 20   La vicenda è stata ricostruita da P. Simoncelli in Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 61-75, e in Id., La Normale di Pisa. Tensioni e consenso, 1928-1938, Milano, Franco Angeli, 1998. 18 19

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Vecchi al ministero dell’Educazione Nazionale, Gentile tornò a dirigerla. In ogni caso fu l’espressione del conflitto sempre più forte fra alcuni esponenti del Pnf e Gentile, che raggiunse il suo apice nel marzo del 1937, quando il segretario del Partito, Achille Starace, provocò le dimissioni del filosofo dalla presidenza dell’Istituto nazionale fascista di cultura, dopo aver approvato un nuovo statuto che limitava l’autonomia dell’Infc e ne sanciva la più stretta dipendenza dal Pnf. La novità più evidente riguardò la denominazione: contro ciò che Gentile aveva sempre sostenuto, l’Istituto nazionale fascista di cultura venne trasformato in Istituto nazionale di cultura fascista sancendo il passaggio ufficiale a una concezione strettamente politica dell’organo culturale fondato dal filosofo nel 192521. Terminò così l’incarico più importante fra i tanti che Gentile aveva svolto nel regime. Al suo allievo palermitano Vito Fazio Allmayer, nel marzo del 1937, il filosofo spiegò cosa fosse successo nei mesi precedenti, come vivesse la sconfitta più grave che aveva subìto da quando aveva aderito al fascismo, e gli scrisse:

Da qualche mese mi si faceva una lotta sorda dal Segretario del Partito, risoluto di fare dell’Istituto [...] uno strumento del Partito stesso, spogliandolo di quel po’ d’autonomia che io ne avevo sempre difeso per conservare un qualche valore a quel tanto di apporto ideale che esso dà al Partito. So bene che la gente mormora della disgrazia di Gentile, ecc. Tanto meglio. Mi potrà dispiacere se questo Istituto da me creato divenisse uno strumento di tortura per gli italiani che leggono e scrivono. Ma voglio augurarmi che questo non avvenga. E io per la parte mia so di aver fatto il mio dovere; ho lavorato gratuitamente per dodici anni in mezzo alle ostilità dei nemici e degli amici, e avevo diritto al collocamento a riposo22.

La riflessione di Gentile nasceva dalla consapevolezza di aver perso la propria battaglia con il Partito: fino al 1937 aveva ribadito che l’Infc doveva farsi promotore di una nuova cultura e non della semplice propaganda politica. In questo senso molti studiosi hanno sostenuto che Gentile cadde in un equivoco perché immaginò di realizzare un proprio fascismo 21   Ordinamento dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, in «Civiltà fascista», a. IV, nn. 1-2, gennaio-febbraio 1937, pp. 102 ss. 22  Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 327-328.

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non comprendendo la natura di quello che dal 1922 al 1945 trasformò l’Italia in uno Stato totalitario23. In realtà non è così. Gentile cercò di realizzare il proprio progetto culturale e politico perché fino alla fine degli anni Trenta ebbe il sostegno di Mussolini e perché, per molti e decisivi aspetti il suo progetto coincideva con quello del regime e del Partito. Come si è visto, Gentile contribuì a creare un regime che celebrava il mito dello Stato e aveva una concezione assoluta della politica: uno Stato in cui enti, istituzioni, organi, gruppi e individui avrebbero collaborato a realizzare un ordine nuovo in un’opera comune e condivisa; e una politica intesa come fede che avrebbe trasformato le coscienze e fondato una nuova realtà nazionale dando agli italiani il senso della loro identità. Come i fascisti, anche Gentile considerava il suo impegno una missione da svolgere, una lotta costante per cui in politica è ben possibile che le battaglie si vincano o si perdano, ma non per questo si abbandona la guerra: dal 1925 al 1937 aveva combattuto per imporre il proprio punto di vista e aveva perso, come altre volte gli era accaduto di vincere, senza mai mettere in discussione la scelta originaria. Il Pnf condivideva questa concezione del fascismo con una differenza di non poca importanza: mentre Gentile pensava che il fascismo avrebbe costruito, giorno dopo giorno, lo Stato degli italiani perché il fascismo era l’Italia, era anzi la migliore espressione degli italiani, il Partito, che custodiva il mito della rivoluzione fascista e rivendicava il proprio ruolo di artefice della conquista del potere, non accettava l’approccio «statalistico» del filosofo. Se l’obiettivo della rivoluzione doveva essere quello di creare un nuovo Stato, allora il Partito avrebbe indicato metodi e contenuti imponendo la propria volontà, la propria ossessiva presenza e il proprio controllo sulla società, come fu evidente nel tentativo di fascistizzare le giovani generazioni. 2. Credere, obbedire e combattere All’inizio degli anni Trenta, oltre agli esponenti del governo, anche gli uomini del Partito erano convinti che fosse   Ibidem, p. 328.

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necessario proseguire l’azione politica di «pedagogia totalitaria» intensificando gli sforzi verso le giovani generazioni24. Per realizzare questo obiettivo, il fascismo volle eliminare il suo concorrente più pericoloso, l’Azione cattolica, da cui dipendevano le ultime organizzazioni giovanili non fasciste. Nel maggio del 1931, dopo una serie di scontri, Mussolini ordinò ai prefetti di vietare e di sciogliere tutti i gruppi giovanili che non avessero fatto «direttamente capo alle organizzazioni del Pnf o all’Onb»25. Pio XI rispose con l’enciclica del luglio 1931 Non abbiamo bisogno respingendo l’accusa di costituire un pericolo per il regime, dietro la quale, a suo avviso, «traspariva la vera intenzione del regime di strappare alla Azione cattolica e per essa alla Chiesa la gioventù, tutta la gioventù»26. Nel settembre del 1931 un nuovo accordo stabilì che le associazioni giovanili cattoliche si sarebbero astenute dal praticare attività sportive, dedicandosi esclusivamente alla formazione spirituale e religiosa dei giovani. Da allora i segretari del Pnf si occuparono con sempre maggiore zelo della gioventù italiana. Come si è accennato, nel 1929 l’Onb passò sotto il controllo del ministero dell’Educazione, alimentando la competizione, già forte negli anni Venti, tra il Pnf e il governo e provocando l’immediata reazione del Partito deciso a riconquistare questo potente strumento. Non si trattò di uno scontro fra due sistemi politici o fra due ideologie diverse, ma del conflitto tra due istituzioni che combattevano per conquistare un ruolo primario nell’educazione delle giovani generazioni. Il primo passo in questa direzione fu compiuto dal segretario del Pnf Giovanni Giuriati che nel 1930 istituì i fasci giovanili, destinati ai ragazzi dai diciotto ai ventuno anni, e quindi a formare i 24  Oltre ai saggi già citati nel capitolo II, a proposito dei giovani e delle organizzazioni giovanili nel regime fascista cfr. M.C. Giuntella, I Gruppi universitari fascisti nel primo decennio del regime fascista, in «Movimento di liberazione in Italia», 24 (1972), n. 107, pp. 3-38, pubblicato anche in Id., Autonomia e nazionalizzazione dell’università. Il fascismo e l’inquadramento degli atenei, Roma, Studium, 1992, pp. 125-170; U.A. Grimaldi (a cura di), Cultura a passo romano. Storia e strategia dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1983; R. Ben Ghiat, Gruppi universitari fascisti, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005, vol. I, pp. 640-642. 25  Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 361. 26   Ibidem, p. 362.

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giovani prima del loro ingresso nel Partito. Nel 1935 il ministro dell’Educazione Nazionale De Vecchi consigliò a Mussolini di sottoporre i Guf alle dipendenze del suo ministero, pensando di dar vita a una struttura unitaria che coordinasse tutti i settori dell’educazione giovanile. Due anni dopo il segretario del Pnf Achille Starace riuscì a prevalere: l’Opera nazionale balilla, trasformata in Gioventù italiana del littorio (Gil), tornò alle dipendenze del Partito che poté così controllare 5.561.000 iscritti, tanti erano i giovani italiani regolarmente tesserati27. Con l’istituzione della Gil tutte le organizzazioni giovanili fasciste vennero coordinate all’interno di un’unica struttura: ne facevano parte le organizzazioni già appartenenti all’Onb e i fasci giovanili, che come si è accennato raggruppavano i ragazzi dai diciotto ai ventuno anni. Dunque, tutti i giovani dai sei ai ventuno anni, a eccezione dei Guf che continuavano ad avere una loro autonomia, risultavano inquadrati nella stessa organizzazione. Come recitava l’art. 1 dello statuto della Gil, il suo motto sarebbe stato «Credere, obbedire e combattere». Ogni membro, compresi i bambini piccoli, avrebbe dovuto prestare giuramento e servire gli ordini del duce28. Nel novembre del 1937 Achille Starace, a commento della legge che istituiva la Gil, definì l’educazione dei giovani il compito principale del Pnf e aggiunse che nessun altro organismo avrebbe potuto svolgere questa funzione di immissione del «popolo nella vita dello Stato»29. Per raggiungere questo obiettivo, Starace avrebbe voluto istituire un ciclo educativo completo, dall’infanzia all’età adulta, ed equiparare le scuole di Stato a quelle di Partito. Per questo, ritenendo che il Pnf dovesse sostituire il ministero dell’Educazione Nazionale, laddove questo non si fosse dimostrato all’altezza, già dal 1935 aveva istituito presso ogni federazione corsi biennali di preparazione politica per la formazione della futura élite dirigente. I corsi,

  N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 1926-1943, in «Storia contemporanea», 13 (1982), nn. 4-5, p. 572. 28   Cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 193-197; L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 220-227; A. Ponzio, La palestra del Littorio. L’Accademia della Farnesina: un esperimento di pedagogia totalitaria nell’Italia fascista, Milano, Franco Angeli, 2009, p. 127. 29  Zapponi, Il partito della gioventù, cit., p. 572. 27

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che rappresentarono il primo tentativo di creare una classe politica con un metodo integralmente fascista, erano volontari ed erano aperti ai giovani dai ventitré ai ventotto anni30. Oltre a fornire una preparazione teorica, permettevano ai giovani fascisti di prendere contatto diretto con le istituzioni del regime e con le realtà politiche locali. Il processo di formazione della classe dirigente fu perfezionato nel 1939 con l’istituzione a Roma del Centro nazionale di preparazione politica, una sorta di scuola di alta cultura politica, di durata biennale, che aveva lo scopo di preparare i giovani meritevoli all’assunzione di funzioni di responsabilità. Il Centro era alle dipendenze del segretario del Pnf; era aperto agli iscritti al Partito che avessero meno di ventotto anni, avessero compiuto il servizio militare, fossero in possesso del diploma di idoneità ai corsi provinciali di preparazione politica, si fossero classificati ai Littoriali, o avessero il diploma della Gil. I corsi avevano come oggetto la dottrina del fascismo, la storia della rivoluzione fascista, l’ordinamento e le funzioni del Pnf, l’ordinamento dello Stato, la politica della razza e la cultura militare ed erano affidati ai Gruppi universitari fascisti (Guf)31. Si è ricordato che i Guf erano sorti nel 1920 ed erano espressione diretta del fascismo delle origini32. Attraverso i loro organi di stampa e le loro attività, sin dai primi anni Venti avevano tenuto vivo il dibattito sui temi principali della cultura e della politica fascista criticando i tentativi di normalizzazione e indicando i ritardi con cui il regime procedeva a fascistizzare la cultura italiana. Come ha sottolineato Luca La Rovere, soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta, i giovani universitari sollevarono la necessità di una più decisa e radicale azione nel processo di costruzione dello Stato totalitario. Allevati entro un regime chiuso, affascinati dal mito di Mussolini e dal fascino di un fascismo rivoluzionario, responsabilizzati dal Partito che in loro vedeva la futura classe dirigente, gli universitari erano nati nell’universo ideologico del regime, ed erano il prodotto dei suoi miti e della sua cultura.   La Rovere, Storia dei Guf, cit., p. 303.   Ibidem, pp. 303-307. 32   Cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma, Carocci, 1995, e Id., Storia del Partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari, Laterza, 1989. 30 31

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Fra le tante iniziative che assunsero la più nota, anche perché vi parteciparono molti esponenti della classe politica del dopoguerra che all’epoca erano giovani Guf, fu l’istituzione dei Littoriali della cultura e dell’arte. Nati nel 1934 sul modello dei Littoriali dello sport, erano concorsi di scienza, di arte, di cultura che duravano diversi mesi e divennero un’occasione per discutere, sotto il controllo del Partito, i principali problemi della cultura e della politica fascista. In questo senso appare difficilmente sostenibile, come è stato affermato da molti ex gufini, ma anche da molti studiosi, che furono «una palestra di antifascismo» perché, al contrario, i Littorali «costituirono parte integrante dell’apparato educativo creato del Pnf per attuare il progetto di formazione e mobilitazione permanente delle giovani generazioni»33. In effetti, per lungo tempo la maggior parte degli storici ha ritenuto che le università italiane fossero centri di antifascismo o, quanto meno, luoghi in cui si sarebbe sviluppato un fascismo anticonformista. Per esempio, Jürgen Charnitzky ha ricordato che all’inizio degli anni Trenta gli studenti universitari erano insofferenti rispetto ai vincoli disciplinari e ha aggiunto che i Littoriali servirono «al regime come valvola di sicurezza di fronte alla pressione dell’opposizione studentesca»; offrirono «contemporaneamente la possibilità di assimilare i migliori talenti delle nuove leve intellettuali», ma si trasformarono «da fiera fascista in vivaio antifascista»34. Charnitzky, dunque, come la storica americana Tracey Koon, ritiene che le organizzazioni giovanili fasciste non solo non raggiunsero il loro scopo, ma al contrario favorirono la battaglia dei loro avversari antifascisti. Ruth Ben Ghiat ha invece riconosciuto l’importanza dei Guf nella cultura fascista, ma ha aggiunto che negli anni della guerra le organizzazioni giovanili divennero un luogo per reclutare i dissidenti35. In realtà, molti storici dell’universo giovanile del fascismo hanno fondato le loro riflessioni sui contributi memorialistici pubblicati subito dopo la seconda guerra mondiale. Allora diversi

  Cfr. La Rovere, Storia dei Guf, cit., p. 265.  Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 381; Cfr. T.H. Koon, Believe, Obey, Fight. Political Socialization of Youth in Fascist Italy, 1922-1943, Chapel Hill - London, University of North Carolina Press, 1985, p. 203. 35   Cfr. R. Ben Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 26. 33 34

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giovani fascisti, divenuti antifascisti, ricostruirono la propria esperienza nel regime prendendone le distanze, cioè raccontando di aver compreso, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, la natura reazionaria del fascismo e quindi di aver sentito un sempre maggiore bisogno di allontanarsene, fino ad approdare a una scelta politica antifascista alla fine degli anni Trenta. Oltre a Ruggero Zangrandi, autore di un fortunato volume intitolato Lungo viaggio attraverso il fascismo, si potrebbe ricordare Domenico Carella che fu il direttore della rivista «Il Saggiatore», nata nel 1930 per rilanciare lo spirito della cultura fascista contro i tentativi di normalizzazione. Nel 1973 Carella pubblicò il volume Fascismo prima fascismo dopo in cui sostenne di aver sempre rappresentato un fascismo rivoluzionario e di sinistra, critico del fascismo ufficiale36. È una riflessione che sembra nascere da una volontà autoassolutoria, molto diffusa fra chi trascorse i suoi anni giovanili all’interno del regime totalitario e non solo non espresse dissenso o silenzio, ma si espose in prima persona fondando giornali, partecipando a dibattiti e addirittura ricoprendo ruoli politici. Fra questi protagonisti, giovani e meno giovani, dopo la seconda guerra mondiale molti sostennero di essere stati fascisti, ma di aver creduto in un fascismo diverso da quello ufficiale. In realtà, cresciuti nell’universo mitologico creato dal regime, i giovani sentirono di rappresentare meglio degli altri fascisti un’epoca storica rivoluzionaria e si presentarono come i protagonisti della rivoluzione, quelli che interpretavano correttamente la dottrina fascista e rivendicavano uno spazio maggiore nella creazione di una classe dirigente nuova e davvero fascista. In questo senso essi non solo non furono fascisti critici, ma semmai furono più fascisti degli altri: in nome del fascismo, infatti, attaccarono gli indirizzi moderati che rintracciavano nella politica degli anni Trenta chiedendo di proseguire lungo la strada della fascistizzazione della società e dello Stato e combattendo contro chi, secondo loro, ostacolava la realizzazione del progetto originale e rivoluzionario. Gli storici che hanno ricostruito l’universo giovanile fascista dando ampio credito alla memorialistica, hanno sottovalutato 36   D. Carella, Fascismo prima fascismo dopo, Roma, Armando, 1973, p. 126.

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la fascistizzazione degli studenti universitari e dei giovani. Da questo punto di vista il giudizio storiografico è apparso analogo a quello espresso da alcuni autorevoli esponenti dei partiti di massa del secondo dopoguerra. Posti di fronte al problema di un’intera generazione che aveva partecipato alla costruzione del regime, ed era stata anzi la principale protagonista di quell’esperimento di pedagogia totalitaria di cui si è parlato nelle pagine precedenti, i partiti antifascisti giustificarono il comportamento dei giovani ex fascisti ai quali offrirono la possibilità di tornare a occuparsi di politica nell’Italia repubblicana, democratica e antifascista. In effetti si trattava di un numero imponente di nuovi italiani: nel 1941 gli iscritti al Pnf erano 24.500.000. Di tale compagine gli iscritti in senso stretto erano solo il 20%; il restante 80% era rappresentato dagli appartenenti alle associazioni e alle organizzazioni, fra le quali la Gil con 8.137.000 iscritti rappresentava il 33% del totale37. 3. Il Minculpop

Mentre il ministero dell’Educazione Nazionale e il Partito rivaleggiavano per il controllo delle giovani generazioni, la politica culturale degli anni Trenta ebbe un altro importante protagonista nel ministero della Cultura Popolare. Nato da successive trasformazioni dell’Ufficio stampa della presidenza del Consiglio, e poi conosciuto con l’acronimo di Minculpop, aveva l’ambizione di rivolgersi a tutti gli italiani e non solo al mondo giovanile38. 37  Zapponi, Il partito della gioventù, cit., p. 573. Come è stato notato «tutti quelli che avevano vissuto e creduto nel fascismo uscivano da un’esperienza traumatica: per spiegare le loro posizioni nel regime avrebbero dovuto possedere una chiarezza alla quale alcuni non arriveranno mai, e un coraggio che non possedevano perché nemmeno a loro era ben chiaro se erano vittime o colpevoli». Grimaldi (a cura di), Cultura a passo romano, cit., p. 14. Sul problema dei giovani nella transizione al postfascismo, cfr. L. La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo, 1943-1948, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 38   Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975; R. De Felice, Mussolini il duce. II: Lo Stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einuadi, 1981, pp. 181-187; cfr. P. Murialdi, La stampa del regime fascista, Bari, Laterza, 1980; P. Ferrara e M. Giannetto (a cura

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Già dal 1923 l’Ufficio stampa esercitò un controllo assai rigido sui quotidiani e sui periodici per allinearli alle direttive del governo. L’obiettivo fu decisamente più vicino dopo l’approvazione delle leggi fascistissime che nel 1926 soppressero tutti i giornali di opposizione. Da allora, il regime manifestò esplicitamente la volontà di mobilitare i giornalisti alla causa fascista come fece in occasione di un dibattito che coinvolse i principali quotidiani italiani. Nel settembre del 1927 sulla stampa si scatenò una vivace polemica a proposito dell’opportunità che i giornalisti fascisti esprimessero il loro dissenso rispetto alla politica del regime e svolgessero, in questo modo, una limitata funzione di stimolo. La discussione riguardava un problema talmente rilevante che il Gran consiglio del fascismo nel novembre del 1927, oltre a ribadire l’importanza del ruolo dei giornalisti nel regime, ricordò che la stampa doveva essere «permeata e modellata dallo spirito fascista» e invitò il segretario del Pnf a proseguire l’opera di fascistizzazione. Pochi giorni dopo, Turati invitò i direttori dei principali quotidiani italiani ad allontanare dalle redazioni i non fascisti e a porre nei ruoli di maggiore rilievo e responsabilità uomini di provata fede fascista39. Questo processo di fascistizzazione della stampa subì un’accelerazione nell’ottobre del 1928, quando a palazzo Chigi Mussolini riunì i direttori dei giornali e dichiarò che «in un regime totalitario» «sorto da una rivoluzione trionfante» la stampa avrebbe dovuto trasformarsi in «un elemento di questo regime»40. Per la prima volta, notava con entusiasmo Ermanno Amicucci, il segretario del sindacato dei giornalisti fascisti, un capo di governo aveva voluto convocare i direttori dei periodici, mostrando di ritenere centrale il loro contributo41. E in effetti, proprio da allora anche il ruolo dell’Ufficio stampa cambiò per assumere anno dopo anno maggiore importanza. Nel 1933, per esempio, al suo interno venne istituita una sezione di), Il Ministero della cultura popolare, il Ministero delle poste e telegrafi, Bologna, Il Mulino, 1992. 39  Murialdi, La stampa del regime fascista, cit., pp. 48-51. 40   Ibidem, e cfr. De Felice, Mussolini il duce, vol. II, cit., p. 183; R. Canosa, La voce del duce. L’agenzia Stefani, l’arma segreta di Mussolini, Milano, Mondadori, 2002, p. 20. 41  Murialdi, La stampa del regime fascista, cit., p. 104.

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autonoma ufficialmente finalizzata alla propaganda sistematica di alcuni temi42. Così, da struttura alle dipendenze del capo del governo, destinata a svolgere funzioni di censura, l’Ufficio stampa iniziò ad avere una funzione propositiva nell’indicare gli argomenti di cui i giornalisti avrebbero dovuto occuparsi, nel segnalare le foto gradite e quelle sgradite, e in generale ciò che poteva essere pubblicato e ciò che avrebbe dovuto restare nell’ombra, a seconda del gradimento del capo del governo: curare l’immagine mitica di Mussolini considerato un semidio investito di una serie di responsabilità diverse da quelle dei comuni mortali, significava per esempio che i giornalisti non avrebbero potuto ricordare il giorno del suo compleanno e quindi far sapere agli italiani quanti anni avesse, né avrebbero potuto diffondere notizie relative o allusive a malattie o a comportamenti poco virili43. Nel 1934 l’Ufficio stampa fu trasformato in sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda; l’anno successivo fu elevato a ministero e nel 1937 assunse il nome di ministero della Cultura Popolare. Non si trattò soltanto di nuove denominazioni: dalla seconda metà degli anni Trenta divenne uno degli organi più importanti della politica culturale del regime: ebbe competenza sul turismo, sul cinema, sul teatro, sulla musica e su tutte le questioni relative alla censura, al controllo dei repertori e delle diverse compagnie, come spiegò alla Camera nel maggio del 1937 il nuovo responsabile, il ministro Dino Alfieri44. Come è stato recentemente dimostrato, oltre alle competenze ufficiali, il Minculpop gestì un vasto e ramificato sistema di sovvenzioni segrete erogate agli artisti o agli intellettuali che ne facevano richiesta, utilizzando fondi riservati che rimasero occulti perché «non erano finalizzati ad un’opera di assistenzialismo culturale, ma destinati, in un’ottica totalitaria, ad operazioni discrezionali di politica del consenso»45. Fra le categorie di intellettuali che chiesero e ottennero di essere sovvenzionati segretamente dal Minculpop, i giornalisti rappresentarono il 55% del totale, 42   Ferrara e Giannetto (a cura di), Il Ministero della cultura popolare, cit., p. 27. 43  Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit., p. 80. 44   Ibidem, p. 103. 45   Cfr. G. Sedita, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 38.

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costituendo così il gruppo professionale che più di altri si prestò a offrire i propri servizi al fascismo in cambio di denaro46. Non furono gli unici: letterati, commediografi e cineasti furono finanziati dal regime che li utilizzò per diffondere la sua cultura, come fece con i nuovi strumenti della modernità e in particolare con il cinema e con la radio. Già nel 1975 Gian Piero Brunetta osservava che, a differenza di quanto ritenevano autorevoli critici cinematografici, il fascismo aveva mostrato il proprio interesse per il cinema sin dagli anni Venti, intervenendo con gli strumenti classici della censura ma anche affidando all’Istituto Luce una serie di compiti di primaria importanza47. Il Luce nacque da una piccola impresa cinematografica con l’intento di sviluppare l’educazione della popolazione italiana attraverso le immagini. Nel 1925 divenne un ente morale di diritto pubblico e dal 1926 assunse il monopolio dell’informazione cinematografica: tutti gli esercenti erano obbligati a includere i suoi programmi a ogni proiezione. Si trattava di cortometraggi di attualità e di informazione caratterizzati da un taglio generalmente documentaristico o di reportage. Dal 1927 con i cinegiornali proiettati nelle sale italiane prima dell’inizio dello spettacolo, il Luce divenne la principale fonte di informazione non a stampa del regime. In realtà il ruolo della censura e la funzione del Luce non esauriscono il rapporto che il regime instaurò con il cinema italiano: dalla fine degli anni Venti, infatti, intellettuali e politici si interessarono a questa nuova forma di arte particolarmente indicata a realizzare gli obiettivi culturali del fascismo. Per esempio nel 1927 «Il Tevere» di Telesio Interlandi con gli interventi di critici e registi fascisti pose il problema di «servirsi del cinema per divulgare la conoscenza delle opere del regime»48. Sempre nel 1927 Guglielmo Giannini su «Kines» sostenne che l’industria dello spettacolo in quanto «arma politica» doveva

  Ibidem, p. 127.   G.P. Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica, Milano, Mursia, 1975, p. 33; M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979; E.G. Laura, Le stagioni dell’Aquila. Storia dell’Istituto Luce, Roma, Ente dello Spettacolo, 2000. 48  Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, cit., p. 38. 46 47

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servire il fascismo e in questo senso sottolineò l’esigenza di maggiori interventi nell’industria cinematografica49. In effetti gli anni Trenta segnarono una svolta sia in termini quantitativi, sia rispetto alla volontà del regime di dare vita a una vera e propria politica cinematografica. Fra il 1931 e il 1933 vennero emanate due leggi che stabilivano aiuti finanziari al cinema italiano; nel 1934 nacque la Direzione generale della cinematografia presso il sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda e nel 1935 fu istituito il Centro sperimentale per «creare direttamente propri quadri capaci di rispondere alle esigenze del cinema fascista». Proprio quell’anno Interlandi scrisse che ormai «tutto il cinema» italiano si era trasformato in «cinema politico»50. Tra i film maggiormente rappresentativi della cultura fascista che in questa sede possiamo solo menzionare vanno ricordati soprattutto: Sole e Vecchia guardia di Alessandro Blasetti, rispettivamente del 1929, ancora nell’epoca del muto, e del 1935; Camicia nera di Giovacchino Forzano, del 1933; Scipione l’Africano di Carmine Gallone, del 1937; Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, del 1938; Redenzione di Marcello Albani, del 1942. A parte i film espressamente finalizzati alla propaganda di guerra nei quali un allora convinto fascista Roberto Rossellini si distinse agli inizi degli anni Quaranta, il nesso più corposo tra linguaggio cinematografico e ideologia fascista si espresse attorno ad alcuni nuclei tematici come l’eroismo fascista con le sue proiezioni nel passato della storia italiana, fino al Medioevo dei grandi condottieri, o il ruralismo antiborghese. Il primo può essere rappresentato da Luciano Serra pilota e da Vecchia guardia, celebrazione dell’avvio della marcia su Roma, ma anche da Scipione l’Africano, grande produzione sostenuta dal regime che trasformò gli eroi del passato in precursori del fascismo, mentre il secondo da Sole, rievocazione delle bonifiche dell’Agro pontino al quale Blasetti fece seguire, nel 1931, un’altra opera emblematica, Terra madre. L’altro grande medium in ascesa fu la radio che da subito, come il cinema, fu tanto mezzo di evasione e di intrattenimento, quanto strumento di comunicazione e di educazione politica51.   Ibidem.   Ibidem, p. 43. 51   F. Monteleone, La radio italiana nel periodo fascista. Studi e documenti, 1922-1945, Venezia, Marsilio, 1976; G. Isola, Abbassa la tua radio 49 50

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Nel 1927 l’Ente italiano per le audizione radiofoniche (Eiar), fu trasformato in un ente pubblico e assunse il monopolio delle trasmissioni. Da allora il regime intensificò la sua azione sia nella diffusione degli apparecchi negli esercizi pubblici, nelle scuole e nelle colonie, nei punti di ritrovo delle campagne e dei villaggi di provincia, sia nella programmazione. All’inizio degli anni Trenta, infatti, varò una serie di provvedimenti finalizzati a promuovere la penetrazione della radio nei più piccoli paesi e soprattutto adottò una vera e propria programmazione dedicata alle scuole con l’istituzione dell’Ente Radio Rurale nel 1933. Affidato alla presidenza del segretario del Pnf Achille Starace, l’Ente Radio Rurale promuoveva l’acquisto dei ricevitori a prezzo imposto da parte degli enti governativi e degli istituti scolastici per diffondere la radio in ambienti collettivi e soprattutto nelle zone rurali. Fu incaricato di organizzare una programmazione radiofonica rivolta in particolare agli alunni del primo ciclo delle scuole rurali e agli agricoltori, per sfruttare le vaste opportunità di formazione a distanza messe a disposizione dalla radio e per omogeneizzare anche le più remote scuole primarie ai rituali, ai contenuti e ai ritmi dell’educazione fascista52. Le trasmissioni scolastiche ebbero inizio nell’aprile del 1934 a cadenza trisettimanale e negli intenti dovevano sintonizzare tutti gli alunni in un ascolto simultaneo e disciplinato dalla sorveglianza dell’insegnante. Il progetto didattico elaborato dall’Ente Radio Rurale prevedeva, infatti, un primo momento di preparazione all’ascolto gestito dal docente, una fase centrale in cui era protagonista la radio che raccoglieva gli studenti in ossequioso ascolto e un ultimo momento di scrittura e di elaborazione dei contenuti dei programmi53. Nel 1932 gli abbonati alla radio in Italia erano poco più di trecentomila. Nel 1938 si arrivò a un milione con un apparecchio radio ogni cinquanta abitanti circa. Nel 1942 gli

per favore... Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1990. 52  Isola, Abbassa la tua radio per favore..., cit., pp. 115-141. 53   S. Zambotti, La scuola sintonizzata. Pratiche di ascolto e immaginario tecnologico nei programmi dell’Ente Radio Rurale (1933-1940), Torino, Trauben, 2007.

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abbonati erano quasi due milioni, la cifra più alta raggiunta fino alla fine della guerra54. 4. Trasformare le donne

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Gli studi sulle organizzazioni femminili fasciste e, più in generale, sulle donne nel regime totalitario non sono certo fra i più numerosi all’interno della vasta storiografia sul fascismo. In effetti, a fronte dei numerosi e importanti lavori sulle donne nella Resistenza, i contributi sul ruolo svolto dalle donne fino a pochi anni prima nella dittatura fascista sono stati e sono esigui55. Eppure, come hanno mostrato alcune storiche, le donne ebbero una funzione specifica nella politica di massa voluta dallo Stato fascista e quindi furono un elemento di primo piano della sua cultura. A questo proposito Maria Fraddosio ha notato che fra gli studiosi del fascismo è prevalsa a lungo un’immagine stereotipata della donna fascista, considerata soltanto nel suo ruolo di madre e sposa esemplare56. Un’immagine che ovviamente aveva un suo fondamento, perché per i fascisti la donna italiana avrebbe dovuto svolgere una funzione che derivava principalmente dalla tradizione culturale cattolica: sarebbe stata una vera regina della casa, lontana ed estranea dalla politica, dedita ai figli e alla famiglia. Tuttavia, negli anni del regime emerse un nuovo modello di donna, che pur non mettendo in discussione quello tradizionale aveva caratteristiche peculiari: «essendo espressione della cultura rivoluzionaria e vitalistica del fascismo,  Isola, Abbassa la tua radio per favore..., cit., p. 25.   Cfr. D. Detragiache, Le fascisme féminin, de San Sepolcro à l’affaire Matteotti (1919-1925), in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 30 (1983), n. 3, p. 367; M. Fraddosio, The Fallen Hero. The Myth of Mussolini and Fascist Women in the Italian Social Republic (1943-45), in «Journal of Contemporary History», 31 (1996), n. 1, pp. 99-124; Ead., Le donne e il fascismo. Ricerche e problemi di interpretazione, in «Storia contemporanea», 17 (1986), n. 1, pp. 95-135; Ead., La donna e la guerra. Aspetti della militanza femminile nel fascismo: dalla mobilitazione civile alle origini del Saf nella Repubblica Sociale Italiana, in «Storia contemporanea», 19 (1989), n. 6, pp. 1105-1181; V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993. 56  Fraddosio, The Fallen Hero, cit., p. 101. 54

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questo modello si concretizzò nella cittadina militante, coinvolta attivamente nella vita del regime»57. Si tratta di un’interpretazione importante che, tuttavia, è rimasta minoritaria. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli storici hanno ritenuto che l’atteggiamento del regime nei confronti delle donne fosse il riflesso di una cultura insieme patriarcale e capitalistica «che non aggiunge niente di originale a concezioni da sempre diffuse sulla donna e dalla stessa donna introiettate»58. Altre studiose, come Victoria De Grazia, hanno sostenuto che l’atteggiamento del regime nei confronti delle donne fu caratterizzato da una profonda ambiguità: da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile cercando di limitare il più possibile l’autonomia delle donne; dall’altro, «nel tentativo di accrescere la forza economica della nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile», «i fascisti finivano inevitabilmente per promuovere quegli stessi cambiamenti che cercavano di evitare». «Come in altri ambiti della vita sociale, il regime affermava l’intenzione di ripristinare il vecchio mentre suo malgrado promuoveva qualcosa di nuovo»59. In realtà, come si è cercato di dimostrare nelle pagine precedenti, e come si tornerà a sottolineare, il fascismo non affermò mai «l’intenzione di ripristinare il vecchio» e, al contrario di ciò che ritiene Victoria De Grazia, si presentò agli italiani come un’avanguardia che avrebbe fondato una nuova civiltà. Come ha ricordato Denise Detragiache, l’adesione delle donne al fascismo risale alle origini del movimento. Nel marzo del 1919, a Milano, fra i cento partecipanti all’adunata di piazza San Sepolcro erano presenti nove donne. Ignorate dai cronisti dell’epoca, militavano nel fascio di Milano e si battevano per l’estensione del diritto di voto, una rivendicazione sostenuta da tutto il movimento60. Molte di loro avevano una formazione politica: alcune erano vecchie compagne di partito di Mussolini, come Regina Terruzzi, che aveva abbandonato il Psi per la scelta interventista; altre provenivano dalle file dei dannunziani,   Ibidem.  M. Addis Saba, Littoriali al femminile, in Grimaldi (a cura di), Cultura a passo romano, cit., pp. 144-164. 59   De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 18. 60  Detragiache, Le fascisme féminin, cit., p. 378. 57

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come Elisa Majer Rizzioli, la fondatrice dei Fasci femminili; altre ancora avevano militato nel nazionalismo e parteciparono alle spedizioni squadriste, come fece Ines Donati61. Sorti spontaneamente nelle diverse realtà locali del fascismo, i Fasci femminili fino alla marcia su Roma raccoglievano un centinaio di donne che concentrarono il loro impegno nella battaglia per il voto e nel tentativo di acquisire una propria autonomia all’interno del movimento fascista62. In realtà, nel 1921 il primo statuto del Pnf definì i Fasci femminili come sezioni interne a quelli maschili, specializzate in alcuni compiti circoscritti quali la propaganda, la beneficenza e l’assistenza e stabilì che non avrebbero potuto prendere iniziative politiche ma soltanto partecipare alle decisioni più importanti63. Tuttavia, nel 1923 Mussolini dichiarò che il governo fascista avrebbe concesso il voto alle donne nelle elezioni amministrative e nel 1924, al congresso dei Fasci femminili di Milano, pur garantendo la subordinazione alle gerarchie del Partito, le donne sottolinearono la volontà di essere considerate soggetti politici a tutti gli effetti. La crisi Matteotti, la decisione di non concedere il voto amministrativo alle donne, voluta particolarmente dagli ex nazionalisti, e l’abrogazione della legge del 1925 sul voto amministrativo, fecero venire meno questi progetti64. Dal 1925 i Fasci femminili non costituirono più un interlocutore in grado di rivendicare capacità decisionale all’interno del Partito e dello Stato. Tuttavia, come soggetti decisivi per la costruzione di una nuova civiltà italiana, e quindi per realizzare gli obiettivi del regime totalitario, le donne furono oggetto di attenzioni primarie. Per questo vennero coinvolte nei processi di mobilitazione della politica totalitaria dentro e fuori dal Pnf che alle donne affidò l’espletamento di buona parte delle attività assistenziali. In questo senso, il primo grande impegno dei fascisti fu l’istituzione dell’Organizzazione nazionale maternità e infanzia (Omni) che nacque alla fine del 1925. L’Omni si rivolgeva in particolare alle donne che non avevano una struttura familiare solida e avevano bisogno di assistenza per sé e per i

  De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 61.   Ibidem, p. 55. 63  Detragiache, Le fascisme féminin, cit., p. 385. 64   Ibidem, p. 396. 61 62

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propri figli fino al quinto anno di età; preveniva l’aborto e il parto clandestino; forniva controlli sanitari gratuiti negli ultimi mesi di gravidanza e si occupava dei bambini abbandonati fino ai diciotto anni con la dichiarata ambizione di «agire ogni qualvolta» fosse stata «insufficiente o incongrua l’azione della famiglia»65. L’Opera dichiarava di aver prevenuto ogni anno, a partire dal 1927, migliaia di casi di abbandono di neonati convincendo le madri a tenere i figli e premendo sui genitori perché regolarizzassero la loro unione. In ogni caso promosse un atteggiamento comprensivo verso le madri non sposate in nome della costruzione di una nuova società e di una nuova civiltà di italiani, promettendo e di fatto offrendo un aiuto concreto66. Presentando l’allevamento della prole come un servizio reso allo Stato, il regime diede rilevanza politica a un’esperienza come la procreazione e, dopo aver approvato nel dicembre del 1926 la tassa sul celibato, nel gennaio del 1927 inaugurò la politica pronatalista che ebbe un impatto decisivo sulla vita delle donne e su cui torneremo nel prossimo capitolo67. Come si accennava, non si trattò soltanto di invitare le donne italiane a fare più figli e di premiare le famiglie più prolifiche. Come è stato sottolineato da Maria Fraddosio, questa politica volta a mobilitare le donne italiane trasformò le loro vite perché introdusse un elemento di novità nel tradizionale ruolo femminile68. All’inizio degli anni Trenta molte giovani fasciste guardarono con ammirazione all’ideale della cittadina militante, impegnata nella costruzione di una nuova civiltà fascista, non limitata soltanto alle attività domestiche a cui era tradizionalmente relegata. Convinte che avrebbero potuto contribuire al grande progetto cui il regime sembrava chiamarle, alcune donne immaginarono di partecipare al processo politico in corso; acquisirono una nuova mentalità e forse, senza esserne del tutto consapevoli, iniziarono a emanciparsi dai modelli tradizionali di vita, anche se il ruolo della cittadina militante non fu mai considerato, né da loro né tanto meno dal Partito, come alternativo a quello di madre e sposa esemplare.

  De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 97.   Ibidem, p. 101. 67   Ibidem, p. 79. 68  Fraddosio, The Fallen Hero, cit., pp. 101-103. 65 66

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Capitolo sesto

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Gli intellettuali e gli artisti degli anni Trenta

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1. Le correnti della cultura

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Come si è visto nel capitolo III i principali protagonisti della cultura fascista degli anni Venti erano stati i fascisti intransigenti, gli intellettuali revisionisti e i gentiliani. Già dalla fine del decennio, tuttavia, il quadro cambiò perché queste correnti si trasformarono e nel panorama culturale italiano si affermarono nuovi protagonisti. La prima differenza importante riguardò i gentiliani che alla fine degli anni Venti iniziarono ad allontanarsi dal maestro cercando un orizzonte filosofico diverso e sviluppando una critica riguardo alle sue scelte politiche. Subendo l’influenza dei molti fascisti che consideravano Gentile un intellettuale liberale, questi giovani si impegnarono ancor più chiaramente nella politica culturale e nell’ideologia del regime e negli anni Trenta si legarono a Giuseppe Bottai che da allora divenne il loro punto di riferimento, li ospitò su «Critica fascista», e diede vita a un gruppo di collaboratori che l’avrebbero seguito nelle sue esperienze governative. Anche gli intransigenti cambiarono rispetto agli anni Venti. La critica contro la modernità, la lotta contro la corruzione dell’anima rivoluzionaria del fascismo e la paura della normalizzazione restarono alcuni dei tratti caratteristici delle loro riflessioni. Al contempo, tuttavia, le loro proposte persero il carattere ribellistico che avevano avuto alle origini del fascismo. In un certo senso, sintetizzando percorsi biografici ed esperienze collettive assai diversi, si può sostenere che nella cultura del regime totalitario gli intransigenti assunsero tratti che erano stati dei revisionisti e da rivoluzionari e guerrieri che avevano conquistato il potere divennero intellettuali

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del regime, impegnati come gli altri a costruire il presente e il futuro. Come si vedrà, infatti, da intellettuali squadristi divennero intellettuali politici: ne è un esempio uno studioso di letteratura come Berto Ricci, erede della tradizione antimodernista di «Il Selvaggio», che fondò un periodico per l’affermazione costante di una nuova modernità italiana «imperialista e universale». Un’altra corrente della cultura fascista degli anni Trenta è rappresentata dai cattolici. Secondo un’interpretazione che tuttora trova sostenitori nella storiografia italiana, i cattolici egemonizzarono la cultura del regime, soprattutto dopo il 1929 quando il fascismo evidenziò il proprio volto reazionario e conservatore. Così, mentre la Chiesa abbandonava gli stimoli sorti con il modernismo all’inizio del secolo, il fascismo avrebbe scelto una legittimazione teorica diversa da quella che gli avevano fornito Gentile e i suoi allievi. Eugenio Garin, il primo e il principale sostenitore di questa tesi, era convinto che le radici culturali del fascismo fossero nello «spiritualismo, la filosofia che tra positivisti pentiti, esistenzialisti cattolicizzanti e metafisici classici, accompagnò su piani ufficiali la parabola del fascismo dal ’29 in poi»1. Su questa stessa linea interpretativa, molti autorevoli studiosi, diversi per formazione e per ambiti di ricerca, hanno ritenuto che il substrato comune fra la Chiesa e il fascismo, rappresentato dalla linea antimoderna indotta dall’enciclica Pascendi del 19072, sia stato la premessa culturale di un incontro politico indispensabile per il regime. Certo, a loro avviso, il fascismo non avrebbe voluto divenire un

1  E. Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, in O. Pompeo Faracovi (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, Livorno, Belforte editore libraio, 1985, p. 18, ma il giudizio era stato espresso anche in E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari, Laterza, 1966, cfr. infra. 2  R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 41; L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, pp. 246-249; Id., Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «Il Frontespizio», in G. Rossini (a cura di), Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel ’900, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 363-417; recentemente questa interpretazione è stata ribadita da G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 80.

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regime confessionale, ma della religione cattolica avrebbe fatto un valido strumento per costruire una propria ideologia. Come si vedrà più avanti la cultura fascista degli anni Trenta non derivò né dalla vittoria delle correnti tradizionaliste presenti nel fascismo, né dall’azione dei cattolici, dato che neppure loro riuscirono a egemonizzare la cultura di uno Stato che considerava la religione cattolica un instrumentum regni. Certamente la cultura del regime si giovò del contributo dei fascisti cattolici e cioè di alcuni intellettuali cattolici sinceramente fascisti, che riconobbero nel fascismo la possibilità di costruire un paese nuovo e diverso dall’Italia liberale e sperarono che il fascismo prendesse le distanze da Gentile e da tutti i rappresentanti della filosofia moderna per costruire uno Stato in cui la religione cattolica avrebbe avuto un ruolo fondamentale. E infine i giovani. Convinti che occorresse allontanare gli «elementi vecchi [...] mascherati con una tessera e un distintivo»3, i giovani fascisti sostenevano che la generazione cresciuta durante il fascismo fosse l’unica ad aver assimilato fino in fondo i valori politici e la cultura del regime. Cresciuti nell’universo culturale creato dal regime, sentirono di rappresentare meglio degli altri fascisti un’epoca storica rivoluzionaria e si presentarono come i protagonisti della rivoluzione, quelli che interpretavano correttamente la dottrina fascista e rivendicavano uno spazio per la creazione di una classe dirigente nuova e davvero fascista. Anche molti di loro, come alcuni cattolici, come gli ex intransigenti e gli ex gentiliani avrebbero trovato spazio nelle riviste di Bottai che seppe tenere insieme le istanze degli intransigenti e dei modernisti, le esigenze dei giovani e dei non giovani, le questioni sollevate dai cattolici e quelle proposte dagli atei. 2. La letteratura

Nel 1931 Giuseppe Attilio Fanelli e Mario Carli, che, come si è visto, erano stati esponenti del fascismo intransigente 3  D. Montalto, La libertà e i giovani, in «Critica fascista», a. VII, n. 16, 15 agosto 1929, pp. 312-313.

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degli anni Venti, pubblicarono un’antologia di scrittori fascisti nella quale indicarono i criteri per definire la letteratura fascista4. I due curatori divisero gli autori in tre gruppi: scrittori politici, scrittori artisti e «scrittori che tengono dell’una e dell’altra categoria, mantenendo naturalmente ben distinte le due attività»5. All’interno di ciascun gruppo, inoltre, Carli e Fanelli distinsero gli autori fra rivoluzionari e conservatori. Fra i rivoluzionari vi erano gli ex squadristi e i fascisti della prima ora: tutti coloro che avevano «preparato con gli scritti o con l’azione di piazza, la Rivoluzione delle Camicie nere»6, avevano partecipato alla guerra combattuta dai fascisti contro il sistema politico liberale e avevano contribuito con le proprie opere alla nascita di un nuovo modo di fare politica. I due giornalisti spiegarono che per essere inseriti fra i rivoluzionari agli scrittori fascisti era bastato dimostrare di essersi battuti «per il trionfo del Fascismo»7. In fondo, i rivoluzionari erano uomini nati in un’epoca storica molto diversa da quella fascista, e per questo potevano anche mostrare il retaggio di ideologie superate dall’avvento del regime. Si trattava di un gruppo molto eterogeneo in cui accanto a ex squadristi vi erano ex nazionalisti, sindacalisti ed ex futuristi8. Nel secondo

4   G.A. Fanelli, «Contra Gentiles». Mistificazioni dell’idealismo attuale nella rivoluzione fascista, Roma, Il Secolo fascista, 1933, p. 13. 5   Ibidem, p. 20. A proposito della discussione fra i due curatori sui criteri per compilare l’antologia, e per tutti gli aspetti relativi alla nascita del volume, cfr. F. Perfetti, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Roma, Bonacci, 1988, pp. 266-276 e A. Scarantino, L’Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Roma, Bonacci, 1981, pp. 133-136. 6  M. Carli e G.A. Fanelli, Antologia degli scrittori fascisti, Firenze, Bemporad, 1931, p. VIII. 7   Ibidem, p. IX. 8   Fra loro, oltre ai compilatori dell’opera e a Mussolini, gli autori più noti erano: Giacomo Acerbo, Gino Arias, Italo Balbo, Emilio Bodrero, Massimo Bontempelli, Giuseppe Bottai, Antonio Bruers, Giuseppe Brunati, Franco Ciarlantini, Francesco Coppola, Enrico Corradini, Carlo Costamagna, Ugo D’Andrea, Gabriele D’Annunzio, Luigi Federzoni, Roberto Forges Davanzati, Balbino Giuliano, Giovanni Giuriati, Asvero Gravelli, Ezio Maria Gray, Telesio Interlandi, Leo Longanesi, Curzio Malaparte, Maurizio Maraviglia, Filippo Tommaso Marinetti, Arturo Marpicati, Arnaldo Mussolini, Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orano, Sergio Panunzio, Giorgio Pini, Giovanni Preziosi, Alfredo Rocco, Nino Serventi, Emilio Settimelli, Ardengo Soffici, Bruno Spampanato e Vincenzo Zangara.

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gruppo Carli e Fanelli inserirono gli scrittori che per ragioni anagrafiche non avevano preso parte alla lotta politica del primo dopoguerra e, a nove anni dall’avvento del nuovo regime, rappresentavano la cultura fascista9. Diversamente dai rivoluzionari, gli scrittori rivelati dal fascismo, secondo i due compilatori dell’opera, dovevano mostrare di aver assorbito pienamente i contenuti della rivoluzione fascista. Come è evidente, anche in questo caso non si trattò di definire uno stile, ma di legare la produzione letteraria dei singoli artisti ai contenuti politici del fascismo. Da questo punto di vista il dibattito sulla letteratura non subì alcun cambiamento rispetto al decennio precedente. D’altra parte, negli anni Trenta il panorama della letteratura fascista cambiò, come appare considerando l’inchiesta ospitata da «Critica fascista» nell’autunno del 1932. Su quelle pagine, Gherardo Casini, vicedirettore della rivista fondata da Bottai, definì il fascismo «un’introduzione alla vita moderna, l’annunciatore di un modo di essere italiano, costruttivo, nuovo e positivo» e si augurò che la letteratura italiana avrebbe avuto il coraggio di accogliere questo spirito della modernità inaugurato dal regime10. Era convinto che il fascismo, a differenza degli altri regimi, fosse «una Rivoluzione tutta intesa a gettare le basi e a innalzare i muri poderosi di una nuova città»11. Con lui era d’accordo Bottai che in quei mesi polemizzò con Ugo Ojetti e lo accusò di «distinguere arte da politica»12. In effetti, come ha sottolineato Ruth Ben Ghiat, la caratteristica principale della letteratura degli anni Trenta fu il tentativo di creare un modello distintamente fascista di modernità13. Nell’ambito di questa dichiarata fede nella nuova modernità fascista la corrente che ebbe maggiore successo fu il realismo,

  Ibidem, p. VIII.   G. Casini, Esortazione ad una letteratura, in «Critica fascista», a. X, n. 18, 15 settembre 1932, p. 344. 11  Id., Per una letteratura. Appello al coraggio, in «Critica fascista», a. X, n. 20, 15 ottobre 1932, p. 384. 12  U. Ojetti, Italianità e modernità (Lettera di Ojetti e risposta di Bottai), ibidem, p. 392. 13   Cfr. R. Ben Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 83. Non volendo attribuirle giudizi che non condivide, sottolineiamo che a differenza di quanto si sostiene in questo libro, la storica americana ritiene che il tentativo di creare una letteratura moderna sia fallito. 9

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come dimostrano alcune riviste letterarie quali «L’Universale» e «Il Saggiatore»14. La prima nacque nel gennaio del 1931, a Firenze, dall’iniziativa degli scrittori Berto Ricci e Romano Bilenchi15; ebbe fra i suoi collaboratori più assidui Camillo Pellizzi, Roberto Pavese, Diano Brocchi e Indro Montanelli e terminò le pubblicazioni nell’estate del 1935 quando venne soppressa dal regime. I due condirettori avevano collaborato a «Il Selvaggio» di Maccari e alla fine degli anni Venti avevano partecipato alle battaglie strapaesane in nome del ruralismo, della polemica antiborghese, dell’attacco alla cultura europea e della difesa della toscanità. E infatti, proprio in quel periodo, negli scritti di Ricci prese forma il tentativo di «dare corpo a questa tradizione italiana sovversiva e appassionata, tutta intessuta di un realismo plebeo», «nemico di ogni retorica, di ogni accademismo parolaio e servile»16. Da allora, dall’esperienza de «Il Selvaggio», Ricci maturò la propria scelta esistenziale e trovò nella letteratura il senso della missione che avrebbe svolto nel fascismo. Come scrisse nel 1931, nel volume Scrittore italiano, Ricci riteneva che l’arte e la politica non fossero due realtà separate e che non fosse possibile immaginare «un’arte senza partito e quasi senza patria», o «una poesia poggiata sulle nuvole dell’assoluto» «ignara di quella ferma legge che è la lotta delle civiltà»17. Al contrario gli scrittori dovevano assolvere «un compito politico, morale, educativo», dovevano cioè essere consapevoli del proprio ruolo di scrittori fascisti, senza subordinare la letteratura alle esigenze della politica, ma esprimendo una cultura radicalmente

14   Per una riflessione sul romanzo nella letteratura fascista e in particolare sulle opere di Barbaro, Emanuelli e Moravia, cfr. ibidem, pp. 93-102. 15   Cfr. D. Brocchi (a cura di), Antologia de «L’Universale», Pisa, Giardini, 1961; P. Buchignani, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Bologna, Il Mulino, 1994; Mangoni, L’interventismo della cultura, cit., pp. 218-229. A. Asor Rosa, Lo Stato democratico e i partiti politici, in Letteratura Italiana. I: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 551-555; Id., Il fascismo: il regime (1926-1943), in Storia d’Italia. IV: Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. II, pp. 1505 e 1567-1572; A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 180-189. 16  Buchignani, Un fascismo impossibile, cit., p. 40. 17   B. Ricci, Scrittore italiano, Roma, Edizioni di Critica fascista, 1931, p. 9.

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totalitaria in cui l’arte e la politica avrebbero svolto la stessa «funzione universale» perché rappresentavano il sorgere e l’instaurarsi di una nuova civiltà18. Questa riflessione di Ricci si basava su una precisa concezione della letteratura. Il direttore de «L’Universale» riteneva che la letteratura fosse capace di immaginare e di descrivere un nuovo ordine morale e politico, senza bisogno di teorizzarlo19. Era convinto, infatti, che la nuova civiltà fascista fosse il frutto del carattere degli italiani, di quello spirito religioso che l’arte, a differenza della filosofia, riusciva a cogliere e a rappresentare. Per questo, non nascondendo l’avversione per «la presunzione della filosofia» di spiegare la realtà attraverso le forme della razionalità, notò:

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Sarebbe balordo consigliare allo scrittore italiano una filosofia determinata. Può averla, può non averla, e quella che gli pare: se è poeta, può farne benissimo a meno nel senso scolastico, perché ne avrà sempre una dentro di sé, religiosa, costituita più di vibrazioni che di ragionamenti20.

In effetti, per Ricci «l’italianità» doveva essere pensata come un «fatto naturale, non politico», come un carattere originario, istintivo e immediato e non come il prodotto di un’azione volontaria. A questo proposito egli spiegava che «l’italianità» «è in niente e in ogni cosa, è un carattere, una risata di Rosai, uno sberleffo di un ragazzo, un mercato» perché per lui essere italiani significava avere un temperamento ed esprimere un modo di esistere e perché sosteneva che «la nazione precede lo Stato» e che «il miglior patriottismo è un fatto naturale, non politico»21. Accusando tutti i filosofi di presunzione, Ricci dichiarava la superiorità della letteratura rispetto alla filosofia, attribuiva all’italianità un carattere realistico e oggettivo, considerava la politica una specie di fenomeno naturale, immediato e metastorico. A questa concezione della cultura corrispose la battaglia politica che Ricci inaugurò su «L’Universale», dove espresse   Ibidem.   Ibidem, p. 73. 20   Ibidem, p. 103. 21   Ibidem, p. 16. 18 19

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un’idea del fascismo imperialista, moderna e anticristiana. Il suo imperialismo derivava dalla convinzione che il regime dovesse svolgere una missione storica universale creando una nuova civiltà fondata sul primato dell’italianità. Ricci riteneva che l’Italia fascista avrebbe diffuso un messaggio universale, realizzando la «Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini», imponendo in tutto il mondo il proprio modello sociale e politico, e combattendo contro gli Stati nazionalisti e borghesi. Nemico severo del nazionalismo, che considerava una dottrina politica figlia del liberalismo del XIX secolo e delle potenze europee, Ricci considerava questo suo fascismo imperialista un’espressione politica moderna. Non si trattava di sconfessare le polemiche contro la modernità ottocentesca che aveva formulato su «Il Selvaggio» nella seconda metà degli anni Venti, ma di svilupparle nell’ideologia dello Stato totalitario e cioè di battersi per l’affermazione costante di una nuova modernità italiana «da venire, come condizione primissima della potenza nazionale». Per Ricci «moderno» significava «imperialista e universale». E infatti, come ha sintetizzato Alberto Asor Rosa, i collaboratori de «L’Universale» non furono certo conservatori22. Anzi, Ricci temeva che il regime non avrebbe avuto il coraggio di scegliere una strada univoca e avrebbe cercato di conciliare ipotesi diverse e talvolta incompatibili. In questo senso sperava nell’avvento di un regime anticristiano, cioè rivoluzionario e imperialista, e in occasione dell’enciclica che Pio XI emanò dopo gli scontri fra il governo e la Chiesa, in merito all’Azione cattolica, non perse occasione per sferrare un duro attacco ai cattolici e spiegare la natura del proprio anticristianesimo23. «Il Saggiatore» nacque a Roma nell’aprile del 1930 dall’iniziativa di tre studenti della facoltà di lettere e filosofia della Sapienza: Giorgio Granata, Luigi De Crecchio e il già nominato Domenico Carella, a cui si unì Nicola Perrotti, allora giovane

22   A. Asor Rosa, Lo Stato democratico e i partiti politici, in Letteratura italiana. I: Il letterato e le istituzioni, cit., p. 552. 23   B. Ricci, Risposta alla Santità di Papa Pio XI sull’ultima Enciclica, in Il duello col Papa. Contestazioni all’ultima Enciclica, in «L’Universale», ed. straordinaria, a. I, n. 7 bis, 11 luglio 1931. Sul fascismo universale, particolarmente importante per la cultura dei giovani fascisti, cfr. M. Cuzzi, L’internazionale delle camicie nere. I Caur 1933-1939, Milano, Mursia, 2010.

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medico impegnato nella diffusione delle teorie psicoanalitiche24. Fin dal primo numero i suoi collaboratori vollero caratterizzare la rivista come un periodico di giovani intellettuali fascisti che avrebbe contribuito alla trasformazione della società e dello Stato, esprimendo una cultura e un modo di fare politica diversi da quelli degli altri fascisti25. Per spiegare le caratteristiche della nuova cultura di cui si sentivano protagonisti, i giovani de «Il Saggiatore» pubblicarono due inchieste che ebbero una vasta eco: la prima, dedicata alla «nuova generazione», occupò le pagine della rivista dal marzo al giugno del 1932; la seconda, rivolta alla «nuova cultura», fu oggetto del numero unico dell’ottobre 1933. Nel marzo del 1932 «Il Saggiatore» invitò alcuni noti intellettuali del regime a rispondere a tre quesiti. Nel primo si domandava: «ogni nuova generazione sorge in contrasto con la generazione che l’ha preceduta. Si può parlare per la nuova generazione, piuttosto che di questo normale contrasto, di un distacco deciso e decisivo?». La seconda domanda si riferiva alle caratteristiche della generazione cresciuta nel regime. Chiedevano i giovani de «Il Saggiatore»: «Ravvisate nella nuova generazione un atteggiamento spirituale ben delineato che possa dare nuovo animo alla cultura e alla vita?». E infine, l’ultimo interrogativo concerneva un problema di carattere generale: «Quali credete siano i germi di un completo rinnovamento spirituale?»26.

  Cfr. D. Carella, Fascismo prima fascismo dopo, Roma, Armando, 1973, p. 127. Sulla rivista cfr. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 465469; R. De Felice, Mussolini il duce. I: Gli anni del consenso. 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, p. 104; Mangoni, L’interventismo della cultura, cit., pp. 229, 236, 294; P. Voza, Il problema del realismo negli anni Trenta: «Il Saggiatore», «Il Cantiere», in «Lavoro critico», 1981, nn. 21-22, pp. 65-105; G.C. Marino, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 25-31; M. Sechi, Il mito della nuova cultura. Giovani, realismo e politica negli anni Trenta, Bari, Manduria, 1984, pp. 65 ss.; A.R. Longo, Individuo e critica della democrazia nella cultura politica italiana degli anni Trenta, in «Democrazia e diritto», 1997, n. 1, pp. 270-296; Ben Ghiat, La cultura fascista, cit., pp. 157-197; Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 171-180. 25  D. Carella, La concretezza del mio oggi, in «Il Saggiatore», a. I, f. 1º, nn. 1-2, aprile 1930, pp. 3-8, e, nello stesso numero, G. Granata, Dei giovani, p. 9. 26   Risposte all’Inchiesta sulla nuova generazione, in «Il Saggiatore», a. III, 24

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Nelle conclusioni dell’inchiesta, i collaboratori de «Il Saggiatore» spiegarono che la società italiana era composta da tre generazioni27: la prima, quella «prebellica», era formata dagli italiani che avevano partecipato alla prima guerra mondiale e avevano aderito al fascismo nell’età della maturità; la seconda aveva combattuto la guerra e, giovanissima, aveva dato vita al fascismo; la terza, infine, raccoglieva i giovani cresciuti nel regime fascista, quelli che per ragioni anagrafiche non avevano potuto partecipare alla Grande guerra. Secondo i collaboratori de «Il Saggiatore», la «generazione prebellica» si era formata in un’atmosfera culturale dominata dall’idealismo di Croce e di Gentile e, nonostante l’avvento del fascismo, non era riuscita a liberarsi dalle astrattezze ideologiche del neoidealismo italiano: si trattava di una generazione di «pacifici borghesi» che non aveva compreso lo spirito del fascismo, né nel 1922 né negli anni successivi, e nel regime vedeva «soltanto un restauratore di ordine, di quell’ordine che la guerra aveva irrimediabilmente travolto»28. Nella seconda generazione, quella dei fascisti della prima ora, i collaboratori della rivista romana riconoscevano la presenza di uomini che avevano dato vita al fascismo esprimendo una sincera fede politica. Anche loro, tuttavia, pur avendo contribuito a inaugurare una nuova fase della storia del paese, avevano compiuto uno sforzo «più razionalistico e volontaristico che reale» perché non avevano ancora assorbito pienamente lo spirito del fascismo, essendo nati in un’altra epoca storica29. L’unica generazione «sinceramente rivoluzionaria» era quella «nuovissima», che non aveva vincoli con il passato e che, at-

f. 19, n. 1, marzo 1932, p. 3. Cfr. L. Mangoni, Il fascismo, in Letteratura italiana. I: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 540 ss. 27   Conclusioni all’inchiesta sulla nuova generazione, in «Il Saggiatore», a. III, n. 11, gennaio 1933, pp. 437-464. Gli autori più noti che intervennero nella discussione furono: Francesco Orestano, Paolo Orano, Julius Evola, Antonino Anile, Giuseppe Bottai, Agostino Gemelli, Margherita Sarfatti, Adriano Tilgher, Ernesto Codignola e Filippo Tommaso Marinetti. La maggior parte degli intellettuali, fra cui mancavano gli idealisti che non erano stati interpellati perché, secondo i redattori, rappresentavano una cultura sorpassata, negò la presenza di un divario profondo fra le diverse generazioni. Anzi, gli autori intervistati sottolinearono il contributo di tutte le generazioni all’avvento del fascismo e alla nascita di una nuova cultura. 28   Ibidem, p. 443. 29   Ibidem, p. 450.

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traverso la nuova mentalità fascista, scientifica e pragmatista, aveva sconfitto l’idealismo: una generazione che era l’espressione del «realismo scientifico», della «volontà collettiva», del «senso realistico della vita», del rifiuto dell’individualismo e della lotta contro le ideologie umanitaristiche e comunistiche30, una generazione sinceramente e decisamente antigentiliana. Proprio per mostrare le caratteristiche di questa nuova generazione, Domenico Carella nell’aprile del 1932 spiegò che l’idealismo di Gentile non avrebbe potuto rappresentare la filosofia politica dei giovani fascisti e, come molti intellettuali della sua generazione, si definì realista.

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Il tentativo di voler interpretare la presente esperienza politica attraverso la dottrina idealistica è frustrato dalla stessa realtà. Oggi l’uomo è desideroso di fatti, di problemi, da risolvere praticamente e non di concetti astratti31.

Come si accennava, nell’ottobre del 1933 la rivista romana promosse un’altra inchiesta in cui spiegò quali fossero le caratteristiche della nuova cultura fascista e di cui i giovani de «Il Saggiatore» erano interpreti. Nelle conclusioni i redattori scrissero: Nella vita moderna la politica costituisce l’integrale di ogni avvenimento: l’uomo è in funzione di essa. La più gratuita azione, i più intimi pensieri di ogni individuo non acquistano concreto significato se non vengono ricondotti direttamente ad un valore politico. Tale valore è assolutamente nuovo: chè oggi non più l’uomo con le sue ideologie, con le sue ideali aspirazioni, colora politicamente questo o quel fatto; preordina questa o quell’altra azione, ma è la VITA che, attraverso più stretti rapporti economici, più rapidi scambi spirituali, una maggiore uniformità di mezzi tecnici ed, infine, mediante nuove costellazioni d’interessi, determina l’uomo politicamente, gli impedisce ogni evasione più o meno ideale, più o meno utopistica32.

30   Fra i tanti che commentarono il dibattito inaugurato da «Il Saggiatore», cfr. G. Bottai, Atteggiamenti e orientamenti della nuova generazione, in «Critica fascista», a. X, n. 19, 1º ottobre 1932, pp. 363-365. 31  D. Carella, Cultura e mentalità del dopoguerra, in «Critica fascista», a. III, f. 20, n. 2, aprile 1932, pp. 51-56. 32   Contributo per una nuova cultura, in «Il Saggiatore», a. IV, nn. 6-8, agosto-ottobre 1933, pp. 243-381.

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Per i giovani fascisti de «Il Saggiatore» vivere concretamente, cioè pensare all’esistenza degli uomini in termini concreti e costruttivi, significava vivere politicamente. Erano convinti, infatti, che la politica rappresentasse l’espressione più importante della vita dell’uomo e che gesti, pensieri, emozioni e parole avessero senso solo quando riuscivano a veicolare contenuti politici. Nel fascismo vedevano un fenomeno moderno, cioè un regime che, a differenza dei precedenti, aveva saputo trasformare la quotidianità degli italiani in un fatto politico e aveva inaugurato un nuovo rapporto fra politica e ideologia: mentre in tutte le epoche storiche le decisioni delle classi dirigenti erano state orientate dalle diverse teorie politiche, nel regime fascista la prassi si era sostituita alla teoria. In questo senso, per i collaboratori della rivista romana, il fascismo non aveva e non voleva avere un’ideologia definita perché per imporre un ordine nuovo non aveva bisogno di applicare nessuna teoria politica. Il panorama delle riviste non sarebbe completo se non analizzassimo, sia pure in modo sintetico, la rivista cattolica «Il Frontespizio», considerata da molti studiosi un periodico particolarmente rappresentativo della cultura fascista degli anni Trenta. «Il Frontespizio» nacque a Firenze nel 1929 e cercò di diffondere il pensiero e le peculiarità della cultura cattolica nella letteratura italiana33. Convinti che dopo il Concordato il regime avrebbe dato maggiore spazio ai cattolici, i suoi collaboratori si dichiaravano fieri nemici della cultura moderna e dell’idealismo di Gentile, come fecero Giuseppe De Luca e Giovanni Papini. Con Domenico Giuliotti, nel 1923, Papini aveva redatto il Dizionario dell’Omo salvatico, vero e proprio manifesto del cattolicesimo strapaesano, in cui i due intellettuali avevano offerto il loro contributo contro la filosofia e la

  Cfr. L. Fallacara (a cura di), Il Frontespizio. 1929-1938. Antologia, San Giovanni Valdarno - Roma, Landi, 1961; P. Bargellini, Vita senza miracoli, Brescia, La Scuola, 1964; V. Vettori, Giovanni Papini, Torino, Borla, 1967; Mangoni, L’interventismo della cultura, cit., pp. 256-283; Ead., Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «Il Frontespizio», cit., pp. 363-417; Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, cit., p. 142; F. Mazzariol, I maggiori protagonisti del Frontespizio, in «Studium», 77 (1981), n. 5, pp. 545-563; L. Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio». Carteggio Bargellini-Bo, 1930-1943, Milano, Camunia, 1989. 33

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letteratura moderna, non risparmiando parole corrosive contro Gentile e i suoi allievi34. In effetti, si trattava di una battaglia culturale che aveva caratteristiche molto diverse da quella di altri cattolici. Lo ha sottolineato Renato Moro, evidenziando che, mentre un intellettuale come Agostino Gemelli, fondatore e direttore dell’Università Cattolica di Milano, «non postulava un puro ritorno all’indietro, ma immaginava una “nuova modernità” antimoderna», sentendosi inserito nel grande fiume dello sviluppo storico, Papini esaltava una logica «anacronistica che si collocava al di fuori dello sviluppo civile» e «aveva la piena consapevolezza di essere, sul piano storico sociale, au rebours, “controcorrente”, “sfasata e don chisciottesca”»35. Le stesse considerazioni valgono per l’intellettuale cattolico Giuseppe De Luca, che aveva aderito all’iniziativa di Bargellini augurandosi che la nuova rivista divenisse protagonista della lotta della cultura cattolica contro l’idealismo36. Critici del pensiero moderno, nella sua accezione «illuministica, positivistica, idealistica e storicista»37, i collaboratori de «Il Frontespizio» accettarono il regime fascista e immaginarono che il cattolicesimo avrebbe svolto un ruolo determinante nella costruzione del nuovo Stato, come affermava Antonio Miotto nel 1935 sostenendo che i cattolici avrebbero dovuto affrontare il problema dei rapporti con il mondo moderno e diventare protagonisti di nuove e positive relazioni fra la politica e la religione. Tutto ciò non significa che il regime fascista avesse deciso di concedere maggiore spazio ai cattolici nell’ambito delle diverse espressioni della cultura, come è ancora più evidente considerando il mondo dei filosofi italiani.

34   G. Papini e D. Giuliotti, Dizionario dell’Omo salvatico, I, Firenze, Vallecchi, 1923, p. 10. Sul contributo di Papini e Giuliotti, cfr. R. Moro, La religione e la «nuova epoca». Cattolicesimo e modernità tra le due guerre mondiali, in A. Botti e R. Cerrato (a cura di), Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione. Atti del convegno internazionale di Urbino, 1º - 4 ottobre 1977, Urbino, Quattroventi, 2000, pp. 535 ss. 35  Moro, La religione e la «nuova epoca», cit., p. 542. 36   Cfr. A. Baldini e G. De Luca, Carteggio, 1929-1961, a cura di E. Giordano, con prefazione di C. Di Biase, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992, p. 16. 37   I. Speranza, Intelligenza e sentimento, in «Il Frontespizio», a. VII, n. 4, aprile 1935, p. 6.

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3. I filosofi del fascismo

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Nel secondo dopoguerra la maggior parte degli studiosi ha ritenuto che la corrente di pensiero più rappresentativa del clima politico dell’Italia degli anni Trenta fosse il realismo cattolico sorto dalla crisi dell’idealismo italiano: per esempio, secondo Eugenio Garin lo scontro fra le diverse correnti filosofiche che si contesero l’egemonia sulla cultura italiana, gli idealisti e i cattolici, fu vinto dai cattolici perché la loro alleanza con il fascismo poggiava su solide basi politiche e perché con loro si schierò la gran parte dei filosofi italiani più autorevoli38. In anni più recenti Franco Restaino ha proposto un’interpretazione analoga sostenendo che dopo il Concordato del 1929 «Gentile accusava il colpo: non era più lui, con il suo attualismo e i suoi numerosi discepoli, a costituire il solo punto di riferimento, sul piano filosofico, del regime». Quest’ultimo, alla ricerca di strumenti più efficaci di conquista del consenso di massa e dei giovani, avrebbe trovato un sostegno nel «realismo cattolico italico», che si propose come ideologia del regime39. Nelle pagine seguenti si presenterà un’interpretazione diversa sostenendo che il ruolo dei cattolici fu decisamente più marginale di quanto appare dalle interpretazioni che si sono riassunte e soffermandosi sul pensiero di alcuni autori fascisti come Francesco Orestano, Julius Evola e Armando Carlini che furono tra gli esponenti più noti della filosofia italiana degli anni Trenta. Ciò significa che è esistita una filosofia del fascismo? La risposta deve essere senza dubbio negativa, perché il fascismo non volle mai adottare una filosofia ufficiale, come spiegò Francesco Orestano, che a questo proposito scrisse: Malgrado vari, ma vani, tentativi di filosofi singoli di far valere la loro filosofia come quella ufficiale od ufficiosa del Fascismo – Mussolini non ha mai lasciato dubbi su questo punto: il fascismo ha una sua dottrina, ma non professa né adotta alcuna filosofia, né ufficialmente, né

38  Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 451, e Id., La filosofia italiana di fronte al fascismo, in Pompeo Faracovi (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, cit., pp. 17-40; cfr. l’introduzione di E. Garin a Gentile, Opere filosofiche, cit. 39  F. Restaino, La filosofia contemporanea, vol. X, 4, in Storia della filosofia, fondata da N. Abbagnano, Milano, Tea, 2000, pp. 212-216.

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ufficiosamente. Non già che la dottrina del Fascismo non abbia le sue «componenti» filosofiche, ma [...] in sostanza il Fascismo s’è dimostrato alieno dal chiudersi entro un sistema filosofico qualsiasi40.

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D’altra parte gli autori che esamineremo, come gli intellettuali che si sono incontrati nei capitoli precedenti, si impegnarono concretamente nella politica culturale del regime, in alcuni casi ricoprirono ruoli di rilievo e nelle loro ricerche si interrogarono sul rapporto tra la filosofia e il fascismo. Nel 1931, quando era un noto esponente del realismo e un fervente fascista, Francesco Orestano divenne il presidente della Società filosofica italiana. Presidente onorario della società era il filosofo cattolico Bernardino Varisco, i vicepresidenti erano Emilio Bodrero e il filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio mentre Enrico Castelli, giovane studioso cattolico e convinto fascista, era segretario generale41. Nel 1933, oltre ai filosofi nominati, erano membri del consiglio direttivo: Vittore Marchi, Carmelo Ottaviano, Sergio Panunzio, Giacomo Perticone, Giacomo Tauro ed Erminio Troilo, tutti impegnati a rappresentare la filosofia italiana e a collaborare con il regime42. Con questo spirito Orestano si accinse a presiedere l’VIII Congresso nazionale di filosofia, a Roma, nell’ottobre del 1933, dove annunciò a «coloro che ardono di passione rivoluzionaria» che finalmente la filosofia poteva «fornire le armi per liberarsi di falsi ontologismi e di falsi assoluti ereditati dal passato come immobili e intangibili»43. In effetti, già negli anni precedenti, Orestano aveva dichiarato senza modestia che avrebbe superato il problema fondamentale della filosofia moderna, cioè   F. Orestano, Il nuovo realismo, Milano, Fratelli Bocca, 1939, p. 4.   Cfr. C. Ottaviano, Il pensiero di Francesco Orestano, Palermo, Industrie riunite editoriali siciliane, 1933; Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 137-151; Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 216-230. A proposito della Società filosofica italiana negli anni del fascismo, cfr. M. Portale, L’Archivio di Filosofia. Organo della Società Filosofica Italiana, in Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 211-215; E. Castelli Gattinara, L’Avventura filosofica italiana. L’«Archivio di filosofia», in «Quaderni della biblioteca filosofica di Torino», 1970, pp. 3-9. 42   «Archivio di filosofia», a. I, n. 1, gennaio-marzo 1933, p. 120. 43   Discorso del Presidente S.E. Francesco Orestano Accademico d’Italia, in Atti VIII Congresso Nazionale di Filosofia, Roma 24-28 ottobre 1933, Roma, Società filosofica italiana, 1934, p. 9. 40 41

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«quello di aver ridotto tutto dentro la soggettività» negando il principio dell’oggettività della realtà44. Contro questa deriva relativistica e presentandosi come l’esponente principale del realismo italiano, dedicò la prima sessione dei lavori del congresso alla scienza, ospitando gli interventi di alcuni giovani decisi a sottolineare che l’idealismo aveva impedito la costruzione di un rapporto positivo tra la scienza e la filosofia. In quella sede Orestano sostenne che la scienza moderna avrebbe risolto il problema dei rapporti fra la realtà vissuta dal soggetto e «i modi dell’essere in sé»45. A questo proposito spiegò che i recenti sviluppi autorizzavano a stabilire «corrispondenze, ancorché simboliche» tra certi modi del percepire e pensare «e certi modi intrinseci di una qualche realtà in sé»46. In altri termini, Orestano sosteneva che i simboli utilizzati dalle scienze hanno un significato ontologico perché traducono la realtà in sé o, come scrisse, «le relazioni che determinano la realtà». Come sintetizzò Michele Federico Sciacca, per superare gli esiti cui era giunta la filosofia moderna, Orestano proponeva di tornare alla metafisica classica e al positivismo47. In effetti, il tratto più interessante della sua filosofia non riguarda ciò che contenne ma il nesso fra i problemi di cui si occupò e la cultura del fascismo. Orestano criticava la filosofia moderna, affermava l’esistenza di un universo autonomo dalla filosofia che aveva una sua concretezza nella scienza e nella politica. Lo sostenne chiaramente alla fine degli anni Trenta affermando che uno degli aspetti più interessanti e rivelatori del regime, «quale movimento rivoluzionario a fondo spirituale», era il fatto che, pur avendo una sua dottrina, non adottava alcuna filosofia48. Nel testo si soffermò sulle caratteristiche principali della dottrina del fascismo e le individuò in un radicale rifiuto delle principali filosofie politiche del XIX secolo: l’Illuminismo, 44  F. Orestano, Nuovi principi, Palermo, Biblioteca di Filosofia e Scienza, 1925, p. 50. 45   Relazione di S.E. Orestano, in Atti del VIII Congresso Nazionale di Filosofia, cit., p. 18. Cfr. M. Torrini, Scienza e filosofia negli anni ’30, in «Ricerche di Matematica», 40 (1991), pp. 35-55. 46   Relazione di S.E. Orestano, in Atti del VIII Congresso Nazionale di Filosofia, cit., p. 25. 47   Cfr. M.F. Sciacca, I congressi contro l’idealismo, in «Giornale critico della filosofia italiana», a. XVII, vol. IV, 1936, p. 121. 48   Cfr. Orestano, Il nuovo realismo, cit., p. 4.

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il liberalismo e il materialismo storico. A queste il fascismo aveva contrapposto la «riconsacrazione politica dell’ideale religioso, cristiano e cattolico» riuscendo a elaborare una nuova ideologia il cui carattere principale era la sintesi di temi opposti. «E anzitutto: la sintesi di rivoluzione e tradizione»49 grazie alla quale, secondo Orestano, il regime aveva firmato nel 1929 il Concordato con la Chiesa cattolica. Se volessimo individuare un pensatore che espresse una prospettiva diametralmente opposta a questa appena riassunta, non avremmo difficoltà a trovarlo in Julius Evola. Quando era un giovane pittore dadaista e un esponente della teosofia italiana, Evola si dichiarò un seguace dell’idealismo moderno perché, a suo avviso, era l’unica filosofia ad aver capito che il mondo reale è il mondo conosciuto dagli uomini, è il loro mondo, «il mondo di cui si può parlare, anche per dirne che è tutto un mistero»50. In effetti, al contrario di Orestano, che era alla ricerca dell’oggettività della realtà e l’aveva individuata nella scienza, Evola individuò il carattere innovativo della filosofia moderna nella scoperta della soggettività del reale. Nel 1926 iniziò a scrivere su «Critica fascista» e nel dicembre del 1927, su quelle pagine, sintetizzò la propria concezione politica e filosofica51. Si trattava di una riflessione fondata sul concetto di «impero»: un modello teorico proposto dal mondo romano «con la sintesi armoniosa di spiritualità e politicità, di regalità e di sacerdotalità che Roma conosceva». Con l’avvento del cristianesimo, la sacralità della politica aveva lasciato il

  Ibidem, p. 15.   J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Todi-Roma, Atanòr, 1925, p. 12. Cfr. F. Cassata, A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; F. Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2001. Cfr. anche Id., Julius Evola, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005, vol. I, pp. 497-498; A. Negri, Julius Evola e la filosofia, Milano, Spirali, 1988; M. Rossi, «Lo Stato democratico» e l’antifascismo antidemocratico di Julius Evola, in «Storia contemporanea», 20 (1989), n. 1, pp. 5-43; Id., L’avanguardia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli anni Trenta, in «Storia contemporanea», 22 (1991), n. 6, pp. 1039-1090; Id., Julius Evola e la Lega teosofica indipendente di Roma, in «Storia contemporanea», 25, 1994, n. 1, pp. 39-55. 51  J. Evola, Il fascismo quale volontà d’impero e il cristianesimo, in «Critica fascista», a. V, n. 24, 15 dicembre 1927, pp. 463-464. 49 50

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posto alla fede nell’uguaglianza e nella libertà degli uomini e a un’idea della politica decisamente moderna e mondana. In effetti, a differenza degli intellettuali antimodernisti presenti nel fascismo, Evola riteneva che la cultura moderna fosse un prodotto del cristianesimo e non della Riforma protestante, che dal suo punto di vista aveva solo proseguito l’opera dei primi cristiani. Per «salvare l’Italia dal pericolo protestante, dal pericolo euro-americano», il fascismo avrebbe dovuto imporsi come «una rivoluzione anticristiana» che avrebbe ridato al potere politico il suo carattere sacro e avrebbe permesso la ricostruzione dell’«impero», cioè di un modello politico fondato sulla gerarchia e sul senso del sacro52. Accusato di ateismo dai cattolici e da buona parte degli intellettuali fascisti che alla fine del 1927 sostenevano le trattative concordatarie fra il regime e la Chiesa cattolica e non condividevano la sua polemica contro il cristianesimo, negli anni Trenta Evola intensificò la propria battaglia contro i tradizionalisti. A questo proposito, nel gennaio del 1932, notò che molti fascisti affermavano con orgoglio il primato della politica sulla cultura. Questo forte sentimento anticulturale limitato alla «rivendicazione della vita pratica», a suo avviso, non era certo foriero di un nuovo stile di vita «aristocratico e romano»53. Secondo Evola, infatti, in Italia si era diffusa una cultura genericamente antihegeliana, che aveva la sua radice nell’astio contro Giovanni Gentile – «odiato da molti che non accettano che abbia tanti posti di comando culturali, e pensano che Hegel e Gentile siano la stessa cosa» –, ma che tuttavia non era in grado di approfondire la critica contro la modernità e si limitava a giudizi superficiali di natura tradizionalista e non antimodernista54. Dunque, secondo Evola, la battaglia contro la modernità esprimeva un’istanza ben diversa da quella proposta dai tradizionalisti incapaci, a suo avviso, di

  Ibidem, p. 464.   J. Evola, «Cultura», stile di vita e stile fascista, in «Vita Nova», a. VIII, n. 1, gennaio 1932, pp. 3-7. 54  Id., Di chi è precursore Hegel?, in «La Vita Italiana», a. XXII, f. CCLI, 15 febbraio 1934, pp. 169-181. Cfr. gli interventi di G. Preziosi, Hegel precursore, che fregatura!, in «La Vita Italiana», a. XXII, vol. XLIII, f. CCL, 15 gennaio 1934, p. 107; Gioco di bussolotti, in «La Vita Italiana», a. XXII, f. CCLIII, 15 aprile 1934, p. 488, e A fil di logica, in «La Vita Italiana», a. XXII, f. CCLIV, 15 maggio 1934, p. 627. 52 53

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comprendere che la lotta radicale contro il mondo moderno si sarebbe rivolta anche contro di loro. Le polemiche contro i tradizionalisti non lo distolsero dalla battaglia contro la cultura moderna. Dalla seconda metà degli anni Trenta Evola collaborò assiduamente al «Regime fascista» di Farinacci e a «Lo Stato» di Costamagna, dove proseguì la riflessione sui suoi temi. Sulla rivista di Farinacci si occupò di Diorama filosofico, la pagina culturale del giornale, su cui raccolse gli interventi di alcuni importanti intellettuali stranieri e articolò le proprie considerazioni sui rapporti tra la filosofia e il fascismo. Come Orestano, anche Evola ricordò che il fascismo non ambiva a costruire «un sistema ufficiale di pensiero». «Il fascismo», scrisse nel gennaio del 1935, «è una visione della vita», «uno stile di vita» autonomo da qualsiasi orizzonte filosofico. Immaginando la storia come progressiva decadenza da un mondo gerarchizzato a una realtà dominata dalle masse, in quegli anni Evola divenne il teorico di un regime basato sul mito dell’impero ed espresse una concezione aristocratica e antimoderna della politica, del tutto minoritaria all’interno del fascismo, dove fu sempre un personaggio isolato55. Da questo punto di vista il suo spazio politico nel regime fu ben diverso da quello che ebbe Armando Carlini. Fra i collaboratori di Gentile, infatti, Carlini fu quello che ottenne maggiori riconoscimenti, anche quando decise di abbandonare l’idealismo del maestro e cercare risposte in un orizzonte filosofico diverso56. Nel 1921 era stato nominato professore ordinario di filosofia teoretica all’Università di Pisa, nel 1922

55   J. Evola, Il superamento dell’idealismo, in Diorama filosofico. Problemi dello spirito nell’etica fascista, a cura di M. Tarchi, Roma, Europa, 1974, p. 211; Id., La ricostruzione dell’idea di Stato, in «Lo Stato», a. V, f. II, febbraio 1934, pp. 113-133. 56   Cfr. A. Guzzo, Armando Carlini, con una nota biografica di V. Sainati, Torino, Edizioni di Filosofia, 1960; V. Sainati (a cura di), Armando Carlini, Torino, Edizioni di Filosofia, 1961; Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 411 passim; Id., La filosofia italiana di fronte al fascismo, in Pompeo Faracovi (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, cit., p. 17; C. Dollo, Momenti e problemi dello spiritualismo: Varisco, Carabellese, Carlini, Le Senne, Padova, Cedam, 1987; per i contatti con Mussolini, cfr. Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 377 passim; V. Sainati, Armando Carlini e Ugo Spirito. Una concordia (fortemente) discors [sic], in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 6 (1994), pp. 189-198; P. Prini, La filosofia cattolica italiana del

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aveva aderito al fascismo e nel 1925 aveva ottenuto la tessera del Pnf. Nel 1927, quando era ancora uno dei più autorevoli collaboratori di Gentile, divenne rettore dell’Università di Pisa. Impegnato da vicino nella fascistizzazione dell’università, era convinto che occorresse educare le giovani generazioni «dal di dentro e non in superficie» creando «un modo fascista di sentire la vita». Anche Carlini, come la maggior parte degli intellettuali fascisti, sottolineava il carattere religioso e antirazionalistico del fascismo e spiegava che «fascisti non si diventa: si nasce, o si è nati. Così come si nasce cristiani». Per questo sosteneva che i giovani cresciuti e educati «nella guerra o nel dopo guerra, o addirittura dopo la Marcia su Roma» avevano avuto la fortuna di nascere in un’epoca storica rivoluzionaria57. A differenza di Evola e Orestano, Carlini non era un critico della filosofia moderna, come spiegò nel 1931 nel volume Orientamenti della filosofia contemporanea. Il libro nasceva dall’esigenza di mostrare quale fosse il pensiero speculativo che meglio esprimeva «il tono e il carattere della coscienza e della cultura del fascismo»58. A questo proposito, dichiarò che i maggiori esponenti della filosofia italiana erano i filosofi neoscolastici e gli idealisti59 e che si sarebbe allontanato da Gentile non per un rifiuto della filosofia moderna, ma perché aveva capito che era venuto il tempo per una «concentrazione dell’idealismo nel suo principio originario sì da enucleare il motivo di pura spiritualità»60. Proprio allora iniziò quello che egli definì il periodo più proficuo del suo percorso intellettuale, segnato da una nuova riflessione sui rapporti fra religione e filosofia e, si può aggiungere, dato che egli l’ha omesso nel suo volume autobiografico, dal suo rinnovato e sempre maggiore impegno nella cultura del regime fascista61.

Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 117-127; M. Ciliberto, La filosofia tra Pisa e Firenze, in P. Rossi e C.A. Viano (a cura di), Le città filosofiche, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 223-229 passim. 57   A. Carlini, Fascistizziamo le Università!, in «Vita Nova», a. IV, n. 9, settembre 1928, pp. 719-720. 58  Id., Orientamenti della filosofia contemporanea, Roma, Critica fascista, 1931, p. 13. 59   Ibidem, p. 30. 60   Ibidem, p. 79. 61   A. Carlini, Alla ricerca di me stesso. Esame critico del mio pensiero, Firenze, Sansoni, 1951, p. 39.

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Nel 1934 Carlini pubblicò Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini in cui mostrò la distanza maturata da Gentile e definì la dottrina fascista. Nelle prime pagine pose una domanda: «c’è in Mussolini un germe di pensiero che da questo punto di vista filosofico, anche nel più rigoroso significato del termine, abbia qualche importanza per originalità e capacità di ulteriori sviluppi?»62. A questo interrogativo egli rispose senza esitazioni: «il temperamento mussoliniano è all’antitesi di ogni atteggiamento speculativo» e aggiunse che la stessa considerazione poteva essere estesa al «problema religioso»:

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Mussolini è un laico, un purissimo laico. Della religione comprende e sente il lato umano e storico in generale [...] è vero che si deve a lui la distruzione della Massoneria, e la Conciliazione col Vaticano. Ma queste imprese non furono da lui eseguite, e di fatto giustificate, con ragioni che non fossero essenzialmente politiche e sociali. [...] Senza dire che, anche per la parte, diciamo così pratica, nessun uomo sembra più alieno dall’atteggiamento ascetico e mistico proprio delle anime veramente e profondamente religiose [...] la morale del fascismo da lui fondato è tutta un’esaltazione di principii fondamentalmente pagani, come molti hanno messo in rilievo63.

Carlini era convinto che il fascismo fosse un regime moderno e il suo capo un politico profondamente laico. In questo senso non confondeva la lotta contro la massoneria o gli accordi con la Chiesa cattolica del 1929 con le scelte di un regime conservatore o filocattolico, e ne rintracciava le ragioni nelle esigenze politiche del regime. Al tempo stesso individuava le correnti filosofiche che avevano influito sulla formazione culturale e politica di Mussolini. All’inizio del secolo, secondo Carlini, il futuro capo del fascismo aveva subìto l’influenza del pragmatismo e dell’intuizionismo, mentre negli anni della guerra mondiale aveva aderito all’idealismo. Si era trattato di una scelta convinta e dichiarata in più occasioni, tanto che l’idealismo, scriveva Carlini, era stato una delle componenti principali dell’ideologia fascista degli anni Venti. Col volgere del decennio, tuttavia, la concezione politica del fondatore

62  Id., Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934, p. 7. Cfr. Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, cit., pp. 15-36, e le osservazioni a p. 16. 63  Carlini, Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, cit., p. 9.

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del fascismo non poteva essere considerata un’espressione della filosofia idealista, dalla quale divergeva profondamente. A questo proposito sostenne che, a differenza del pensiero di Mussolini, nell’idealismo l’uomo veniva agito «dallo spirito universale», era «un uomo spersonalizzato» a cui mancava «una parola magica: la fede»64. Anche Carlini, come tutti gli autori che si sono incontrati nelle pagine precedenti, si candidò a ricoprire il ruolo di teorico del fascismo. Nel farlo, attribuì a Mussolini il proprio percorso intellettuale, quello che lui, Carlini, aveva svolto dagli anni Dieci, quando era uno dei più stretti collaboratori di Gentile, alla fine degli anni Venti, quando approdò allo spiritualismo. Non si trattò di proporre una filosofia cattolica e conservatrice, come sostengono molti studiosi che in lui hanno visto l’esponente più autorevole, insieme a Orestano, del connubio fra ideologia fascista e pensiero cattolico. Egli pensava a uno spiritualismo laico e umanistico, e cioè a una filosofia per il fascismo, una filosofia che prima di essere cattolica era decisamente politica perché legittimava il fascismo e si presentava come il presupposto teorico di un’ideologia antirazionalistica, anti-immanentistica, spiritualistica e religiosa. Carlini lo spiegò chiaramente scrivendo: «Mussolini ha parlato più volte di una concezione del fascismo religiosa e della fede politica come del carattere principale del fascismo»65. Nella seconda metà degli anni Trenta, Carlini volle assumere una posizione di prestigio e di potere nella cultura fascista e anche lui, come Ugo Spirito, divenne uno degli intellettuali fascisti più vicini a Bottai. Su «Critica fascista» approfondì il problema della modernità del fascismo e del suo rapporto con il cristianesimo spiegando che il fascismo accettava «la modernità togliendole il lato antireligioso, anzi facendo di questo una caratteristica». Per questo, notava, l’avvento del fascismo non costituiva solo una «rivoluzione politica» ma anche «una civiltà nuova» che si affermava dopo la civiltà umanistica, dopo il cristianesimo e dopo l’affermazione del mondo moderno, riuscendo a raccogliere e a sintetizzare in modo originale le

64   Ibidem, p. 20. Per un’analisi più dettagliata, cfr. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., pp. 290-300. 65  Carlini, Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, cit., p. 20.

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espressioni migliori del passato. Così scrisse nel 1938, quando il fascismo si apprestava a dare vita a una nuova civiltà nella quale gli ebrei non avrebbero avuto il diritto di esistere66. 4. La cultura razzista

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Per lungo tempo gli storici hanno contribuito a diffondere uno stereotipo rassicurante secondo cui gli italiani sarebbero stati contrari alla legislazione razziale, adottata dal regime nel 1938, perché influenzati da un lato dalla cultura idealistica e dall’altro da quella cattolica. Incapaci di azioni efferate e abituati a convivere con gli ebrei da millenni, gli italiani si sarebbero confermati «brava gente» aliena dalla ferocia che caratterizzò la politica nazionalsocialista67. In realtà, le leggi razziali non costituirono un singolo episodio della storia del regime, né un’invenzione avulsa dalla sua cultura, come vedremo nelle pagine seguenti limitando la riflessione agli argomenti più pertinenti in questa sede: cercheremo di sintetizzare il contributo degli scienziati impegnati a elaborare un supporto teorico alla politica razzista, il ruolo degli intellettuali razzisti e, infine, la reazione del mondo della cultura di fronte alla politica del regime. Come è stato ricordato da diversi studiosi, dal 1922 al 1945 gli scienziati italiani diedero il loro contributo alla cultura e alla politica della razza. Si trattò di un gruppo di antropologi, statistici, demografi e medici che erano già noti nel mondo scientifico nei primi anni del secolo, quando la demografia e l’eugenetica – la scienza che studia i metodi per perfezionare la specie umana favorendo la proliferazione degli individui ritenuti migliori (eugenetica positiva) oppure attraverso la

66  Id., La concezione della vita nel fascismo, in «Critica fascista», a. XVII, n. 3, 1º dicembre 1938, pp. 46-47. 67  Un giudizio di questo tipo si trova anche in R.S. Wistrich, Fascism and the Jews of Italy, in R.S. Wistrich e S. Della Pergola (a cura di), Fascist Antisemitism and the Italian Jews, The Vidal Sassoon International Center for the Study of Antisemitism, The Avraham Barman Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem, 1995, pp. 13-18. Cfr. M. Toscano, Fascismo, razzismo, antisemitismo. Osservazioni per un bilancio storiografico, in Id., Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 208-243.

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repressione di individui considerati nocivi (eugenetica negativa) – dedicavano le loro attenzioni al declino demografico presente in molti paesi occidentali68. Chiamati a confrontarsi con un problema acuito dalle conseguenze della Grande guerra, e quindi sollecitati dalle classi dirigenti a fornire risposte in merito al pericolo della denatalità, percepito allora come una degenerazione dilagante, con l’avvento del fascismo questi scienziati svolsero un ruolo che non avevano avuto nei regimi precedenti. In cambio offrirono alla politica totalitaria e razzista il proprio generoso supporto. Come si è affermato più volte, sin dalle origini il fascismo manifestò la volontà di creare una nuova razza di dominatori e conquistatori del mondo. Nel maggio del 1927, nel suo celebre «discorso dell’Ascensione», alla Camera dei deputati Mussolini affermò che i fascisti avrebbero vigilato sul destino e sulla salute della razza e sostenne che la forza di un popolo era determinata dalla quantità di persone che ne facevano parte. In quella sede, il capo del governo spiegò che le popolazioni, come gli organismi viventi, si dividevano in giovani, in grado di espandersi, di crescere e di conquistare territori, e in senescenti, destinate a subire i cali di natalità e di potenza politica e infine a morire. Per questo ricordò agli italiani che il problema della natalità, e quindi il fare figli, costituiva un grave problema politico e non una questione privata. E così, intensificando la campagna demografica e la lotta contro la denatalità iniziata due mesi prima con l’introduzione della tassa sul celibato, Mussolini mobilitò gli scienziati69. 68   Cfr. G. Israel e P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 11-33; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 7-29; un’interpretazione diversa è in F. Germinario, Fascismo e antisemitismo. Progetto razziale e ideologia totalitaria, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 77-98; M.A. Matard Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2008. 69  Cfr. Israel e Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 111; Mussolini faceva sua una riflessione dello statistico e demografo Corrado Gini, nominato nel 1926 presidente del Consiglio superiore di statistica e dell’Istat e sostenitore di una concezione organicistica della demografia; cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Carocci, 2003. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 38, sottolinea come molti scienziati dopo questo discorso cambiarono idea e adattarono le loro linee di ricerca sulla base dei nuovi orientamenti. Cfr. anche A. Gillette, Racial Theories in Fascist Italy, London, Routledge, 2002, pp. 45-47.

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Da allora, infatti, immaginando di svolgere un ruolo decisivo nella politica razziale del fascismo, gli scienziati fascisti si attivarono e nel decennio 1928-1938 pubblicarono una quantità ingente di trattati e di riflessioni sul razzismo e sulla demografia, sottolineando il nesso fra gli aspetti politici e lo sviluppo del pensiero demografico70. Fra loro il più importante fu l’antropologo Nicola Pende, autore nel 1933 di un volume in cui dichiarò che la biotipologia umana era ormai una disciplina politica. In Bonifica umana razionale e biologia politica, dedicato a Mussolini e presto divenuto uno dei testi di riferimento del razzismo italiano, sostenne che nella biologia era «radicato profondamente il grande principio del Regime fascista, quello della libertà individuale condizionata dalla libertà e dall’interesse collettivo»71. Per questo spiegò che il cittadino malato avrebbe dovuto essere considerato la cellula maligna di un tumore e che la politica avrebbe dovuto imparare dalla biologia le regole di funzionamento degli esseri umani. Come nel corpo umano esisteva «un principio di unità vitale» che regolava la «robustezza fisica e psichica» e derivava dalla «collaborazione e compenetrazione perfetta del sistema di organi», così nella costituzione dell’organismo sociale vi erano «classi cellulari energicamente differenziate». «Ed ecco precisamente copiato dal sistema vigente nella biologia dell’individuo il sistema corporativo dello Stato fascista»72. La riflessione di Pende non si limitò a spiegare la natura del razzismo ma si estese alle differenze fra le teorie diffuse in Germania e quelle più accreditate nell’Italia fascista. A questo proposito volle rimarcare le affermazioni di Mussolini, che nel 1932, nei colloqui con il giornalista tedesco Emil Ludwig, aveva negato l’esistenza di razze pure. «Ancora una volta» affermò Pende «noi fascisti, con la nostra impostazione del problema politico della razza, dimostriamo l’equilibrio realistico mediterraneo di fronte all’astrattismo ed al misticismo nordico». Convinto che una politica razziale fondata su pregiudizi ed errori avrebbe

70   A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Milano, Led, 2001, p. 16. 71   Cfr. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., pp. 46-57; Israel e Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 136-141, e N. Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, Bologna, Cappelli, 1933. 72  Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, cit., pp. 38-39.

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condotto a «comiche e illogiche» conseguenze, Pende volle essere molto chiaro su questo aspetto e spiegò che il razzismo aveva una base biologica, ma aggiunse che riconoscere il fondamento biologico al razzismo non significava pensare all’esistenza di razze pure perché in una stessa nazione era presente «una polivalenza etnica»73. In questo senso egli non negava affatto la base biologica del razzismo, ma sottolineava l’errore di chi, come i tedeschi, pensava che vi fossero razze pure. Tenace assertore dell’esistenza di tipi razziali diversi, basati su caratteristiche fisiche e psichiche, mascherate dall’ambiente e dall’educazione, Pende sostenne che la politica avrebbe dovuto intervenire per

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migliorare le qualità innate di ogni stirpe col mezzo naturale della selezione, con un’antropocentrica statale, che miri, come fa la zootecnica per gli animali, a selezionare e allevare senza inquinamenti le varietà della pianta uomo mercè un’educazione fisica e mentale del popolo74.

Come si può notare, pur criticando severamente i razzisti tedeschi, Pende non negava che il razzismo avesse una base biologica, e soprattutto non negava anzi richiamava l’importanza di intervenire con gli strumenti della politica per selezionare una nuova stirpe di italiani e migliorarne le caratteristiche psichiche e fisiche. Era uno scienziato, un antropologo e riteneva che la biologia umana dovesse costituire la base per le scelte della politica. In realtà, queste sue riflessioni, al di là del problema della natura del razzismo, testimoniano la volontà degli scienziati fascisti, come quella della maggior parte degli intellettuali italiani, di fornire un valido sostegno al regime totalitario e di piegare la propria disciplina alle esigenze della politica. Da questo punto di vista è vero che la cultura scientifica offrì il proprio sostegno teorico alla volontà del fascismo di creare una nuova razza di italiani. Tuttavia, ciò non significa che la politica razziale fu il prodotto della scienza italiana fra le due guerre. Come si è cercato di sottolineare nelle pagine precedenti, la volontà di costruire una nuova civiltà dando vita a una vera e propria rivoluzione antropologica, fu una 73 74

  Ibidem, p. 231.   Ibidem, p. 239.

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delle manifestazioni più importanti del regime totalitario che espresse la politica razziale per rispondere a questa esigenza: creò cioè un razzismo di Stato, che avrebbe trasformato la vita degli italiani. In questo senso, i fascisti non divennero razzisti perché decisero di realizzare quanto proponevano gli scienziati come Pende, gli antropologi, i demografi o gli statistici e non si riconobbero in un’unica teoria scientifica razzista. Al contrario, i fascisti furono razzisti perché furono convinti di rappresentare una razza di dominatori che avrebbe soggiogato gli altri uomini modificandoli a propria immagine e somiglianza. Da parte loro, gli scienziati accolsero con grande favore il fascismo dichiarando, come fece Pende, che la questione della razza doveva essere risolta dalla politica e cioè accogliendo con favore la nuova alleanza fra la scienza delle popolazioni e la politica. Come i filosofi, come i letterati e come gli architetti, ma in generale come tutti gli intellettuali fascisti, gli scienziati colsero l’occasione per utilizzare il potere che il regime sembrava riconoscergli attribuendo loro il ruolo di consulenti della politica totalitaria. Mentre nel 1937 la prima legge razzista colpiva le colonie africane vietando al cittadino italiano di tenere «relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa orientale italiana o straniera»75, prevedendo una pena fino a un anno di reclusione, nel febbraio del 1938 Mussolini incaricò l’antropologo Guido Landra di organizzare un ufficio studi presso il ministero della Cultura Popolare per sostenere la campagna razziale. Dopo una serie di scontri tra gli scienziati impegnati nella battaglia razzista, Landra, che era un sostenitore della corrente minoritaria, cioè quella biologicista, si mise al lavoro per preparare il manifesto degli scienziati razzisti. Pubblicato per la prima volta su «Il Giornale d’Italia» nel luglio del 1938, uscì poi il 5 agosto sul primo numero de «La difesa della razza», fondato da Telesio Interlandi e sovvenzionato dal regime per intensificare la campagna razziale76. Il manifesto conteneva un

75  L. Goglia, Il colore nel razzismo fascista, in M. Beer, A. Foa e I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, Roma, Viella, 2010, p. 38. 76   Cfr. F. Cassata, «La Difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008, p. 59.

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elenco di dieci punti in cui si affermava l’esistenza delle razze sulla base di principi biologici. A questo proposito, i firmatari dichiaravano che gli italiani vivevano in un regime impegnato costantemente nella battaglia per il razzismo; affermavano l’importanza di preservare le caratteristiche fisiche e psicologiche degli italiani e sostenevano che gli ebrei non facevano parte della razza italiana. Gli scienziati razzisti convinti dell’origine biologica della razza non avrebbero avuto altro spazio, ma la battaglia razziale e antisemita si intensificò77. Al fine di vigilare sull’applicazione delle leggi razziali, nell’agosto del 1938 venne istituita presso il ministero dell’Interno la Direzione generale per la demografia e la razza, la cosiddetta «Demorazza», che predispose il censimento degli ebrei italiani e stranieri residenti in Italia. Lo scopo principale della rilevazione del 1938 era tracciare un confine netto tra gli ebrei, che di lì a poco sarebbero stati assoggettati alla normativa persecutoria, e tutti gli altri cittadini del paese. E infatti, il 7 settembre 1938 venne adottato il primo provvedimento antiebraico che riguardava l’espulsione degli ebrei stranieri dall’Italia, quelli meno inseriti nella comunità e quindi più facilmente isolabili e perseguibili. Nei mesi successivi altri provvedimenti avrebbero trasformato per sempre la vita della comunità ebraica italiana, «arianizzando» le scuole e le università italiane, vietando i matrimoni misti, stabilendo limitazioni nella proprietà dei beni, nella gestione delle aziende e nell’esercizio delle professioni, licenziando gli ebrei dagli enti pubblici, espellendoli dall’esercito. Come è stato notato, gli intellettuali italiani non espressero alcun dissenso rispetto alle leggi razziali che avevano iniziato la loro opera discriminatoria proprio dal settore della scuola e delle università78. In realtà, gli intellettuali non solo non protestarono ma contribuirono a creare il terreno culturale per il fiorire dell’antisemitismo di Stato e poi raccolsero i frutti correndo a occupare le cattedre lasciate vacanti dai colleghi 77   Israel e Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 210-251; Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 225; Cassata, «La Difesa della razza», cit., pp. 56-166. 78  R. Finzi, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 29-39; Sulla censura degli autori ebrei cfr. G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998.

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ebrei. A questo proposito Giorgio Israel ha affermato che sono da rifiutare sia le ipotesi che marginalizzano l’antisemitismo fascista, sia quelle che ne fanno un tratto costitutivo dell’ideologia fascista79. In effetti l’antisemitismo non fu un tratto costitutivo dell’ideologia fascista, ma il razzismo certamente sì, come dimostrano alcuni noti personaggi della politica e della cultura pronti a dichiararlo nella seconda metà degli anni Trenta: nel 1937 Julius Evola scrisse Il mito del sangue, Giulio Cogni pubblicò Il razzismo e Paolo Orano diede alle stampe Gli ebrei in Italia80. Nel 1939 fu la volta di Leone Franzì, un altro teorico dell’antisemitismo fascista, meno noto degli altri nominati e autore di un volume che ebbe una veste ufficile, perché fu pubblicato dall’Istituto nazionale di cultura fascista e quindi dal principale organo culturale del regime. In quelle pagine Franzì sostenne che per i fascisti la razza si configurava come una comunità politica e non come un gruppo determinato biologicamente. Rifiutando qualsiasi presupposto biologico perché deterministico e statico, Franzì negava che alla base della comunità vi potesse essere un dato di fatto non scelto, ma subìto come un elemento naturale. Per questo, confrontando il razzismo italiano con quello nazionalsocialista, Franzì si chiedeva come fosse possibile conciliare l’idea dell’impero, un’idea legata alla volontà di dominio e dunque a un progetto politico, con quella della razza biologica. La scienza ha perso, spiegava Franzì, «ora parla la politica»81. A questo proposito riferiva di un colloquio che aveva avuto con alcuni intellettuali tedeschi ammirati dalla legislazione italiana giunta a colpire gli ebrei stranieri. Noi vi siamo particolarmente grati – mi diceva infatti il prof. Gross – delle vostre leggi nei riguardi degli israeliti stranieri in quanto

79   G. Israel, L’espulsione dei professori ebrei dalle facoltà scientifiche, in Beer, Foa e Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo, cit., p. 46; G. Turi, Ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Roma, 17-18 ottobre 1988, Roma, Camera dei deputati, 1989, pp. 95-121. 80  Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., pp. 213-214; Germinario, Fascismo e antisemitismo, cit., pp. 36-38. 81   L. Franzì, Fase attuale del razzismo tedesco, Roma, Quaderni dell’Incf, 1939.

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noi, pur desiderandolo, non abbiamo mai osato attaccare tali elementi per le conseguenze facilmente prevedibili dal fatto che essi possedevano passaporti di nazioni straniere82.

La tesi del volume era molto chiara: il razzismo italiano si mostrava decisamente superiore a quello tedesco perché

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il primo ha modellato lo spirito e la volontà di un popolo secondo lo spirito e la volontà di un Uomo che ha saputo violentemente mutare il corso della storia del proprio paese, il secondo, invece, per mezzo di un uomo ha fatto realtà degli ideali repressi di un popolo che non trovava in se stesso la forza di una rinascita veloce quale gli avvenimenti richiedevano83.

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Il punto fondamentale, continuava Franzì, è che «il nostro è un razzismo che può essere universale perché è politico. Il loro resta in fondo una specie di “nazionalismo biologico”»84. Proprio per questo non gli sembrò esserci alcun dubbio sulla superiorità del razzismo politico dei fascisti rispetto a quello dei nazisti definito spregiativamente «biologico». In effetti, dall’introduzione della legislazione antisemita, gli ideologi del fascismo vollero fugare il dubbio che la decisione di adottare le nuove leggi potesse essere collegata ai rapporti con l’alleato tedesco. E infatti nel Dizionario di politica pubblicato dal Pnf nel 1940, i fascisti sostennero che l’antisemitismo era presente alle origini del loro movimento85. Spesso si è scritto che gli intellettuali fascisti non espressero alcuna forma di dissenso nei confronti delle leggi razziali perché non poterono manifestare nessuna critica all’interno del regime totalitario e che, in ogni caso, la cultura italiana non fu mai davvero razzista. Si adeguò alla presenza della legislazione antisemita che non solo non apprezzava ma che non riconosceva come sua. In questo senso è stato interpretato anche il comportamento di Giovanni Gentile, ed è stato ricordato il sostegno che diede a Paul Oskar Kristeller, lettore di lingua tedesca alla Scuola Normale di Pisa, aiutato dal filosofo nel 1939 a lasciare l’Italia e a trovare un posto di lavoro in America;   Ibidem, p. 41.   Ibidem, p. 54. 84   Ibidem, p. 55. 85  Germinario, Fascismo e antisemitismo, cit., p. 18. 82 83

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come pure è stato sottolineato che la filosofia gentiliana non fu mai in alcun modo collegabile all’antisemitismo86. Su questo aspetto concordano molti studiosi che hanno ribadito come nel pensiero filosofico e politico di Gentile non vi fosse alcuno spazio per determinazioni materialistiche e, tanto meno, per l’idea di razza87. Si potrebbe replicare che nella definizione di razzismo data nel 1939 dall’Istituto nazionale di cultura fascista non emerse alcun criterio naturalistico e che al contrario, come si è sottolineato, per i fascisti il razzismo consentiva di individuare una comunità politica e non una realtà biologica. Si potrebbe inoltre aggiungere che Gentile aiutò Kristeller su un piano strettamente privato, che il suo fu l’intervento nei confronti di un ragazzo che egli aveva seguito negli studi e a cui voleva bene e che questo episodio non costituisce un esempio della sua distanza dall’antisemitismo fascista. Nelle pagine precedenti si è visto come Gentile fosse convinto di essere un precursore del fascismo. Proprio per questo intervenne sempre nella politica del regime, anche per i rapporti che aveva con Mussolini e non mancò di esprimere il proprio dissenso in momenti difficili, come accadde dal 1927 fino al 1929 quando sentì il dovere di ribadire più volte la propria opposizione alle trattative fra il regime e la Chiesa cattolica. Dovremmo quindi immaginare che Gentile ritenne più importante mostrare il proprio dissenso nei confronti del Concordato rispetto alle leggi razziali? La verità è che sul «Giornale critico della filosofia italiana» non solo non vi furono condanne o prese di posizione, ma nemmeno semplici accenni che ci possano far individuare una condanna delle leggi razziali. Non si trattò certo di un caso isolato, ma al contrario di un atteggiamento coerente con quello della maggioranza degli intellettuali italiani e dei docenti universitari, che, come si ricordava, si precipitarono a occupare le cattedre lasciate

86  R. Faraone, Giovanni Gentile e la «questione ebraica», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. Per la vicenda di Paul Oskar Kristeller cfr. P. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 81-88. 87  Faraone, Giovanni Gentile e la «questione ebraica», cit., p. 98; cfr. anche G. Sasso, Gentile e il nazionalsocialismo. Appunti e documenti, in «La Cultura», 23 (1995), n. 1, pp. 5-22; Id., Gentiliana et Cantimoriana, in «La Cultura», 47 (2009), n. 2, pp. 187-246.

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scoperte dai loro colleghi ebrei, costretti ad abbandonare il posto di lavoro dalla legislazione fascista del 193888. 5. La città fascista

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Il carattere moderno e totalitario della cultura fascista che si è cercato di evidenziare nelle pagine precedenti, caratterizzò l’architettura italiana dal 1922 al 1943, come fece con le altre espressioni della cultura fra le due guerre e forse in modo ancor più evidente89. La volontà di progettare, realizzare e modificare concretamente la vita degli italiani, mostrando la capacità di creare una nuova civiltà, a partire dalla trasformazione degli spazi pubblici, non ebbe rivali con il passato ed è ancora oggi visibile in moltissime città italiane. Tuttavia, invece di analizzare i rapporti fra questa nuova forma di spazio pubblico e la politica, la maggioranza degli storici dell’architettura ha preferito sottolineare la presenza di due tendenze diverse e antagoniste nell’architettura fra le due guerre, il razionalismo e il neoclassicismo, a testimonianza dell’assenza di una vera e propria architettura fascista. Secondo alcuni, tra l’altro, queste diverse espressioni corrisposero a due modi diversi di intendere il fascismo: i sostenitori della proposta razionalista avrebbero rappresentato un fascismo rivoluzionario e moderno, mente gli architetti più legati alla tradizione e quindi al neoclassicismo, sarebbero stati esponenti di un fascismo moderato e conservatore90. Addirittura, secondo Bruno Zevi, soltanto i neoclassici, e soprattutto Marcello Piacentini, sarebbero stati veri fascisti, mentre Giuseppe Terragni, Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, autorevoli esponenti del razionalismo fra le due guerre, sarebbero stati antifascisti. In realtà, come si 88  Finzi, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, cit., pp. 39-51; Fabre, L’elenco, cit., pp. 117-118, 142, 367, 385. 89  R. Mariani, Fascismo e città nuove, Milano, Feltrinelli, 1976; G. Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Torino, Einaudi, 1989; G. Pagano e C. De Seta (a cura di), Architettura e città durante il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1990; R.A. Etlin, Modernism in Italian Architecture, 1890-1940, Cambridge (Mass.) - London, The Mit Press, 1991; P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008. 90  Ciucci, Gli architetti e il fascismo, cit., p. XX.

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cercherà di sottolineare, la contrapposizione fra le due correnti fu assai meno rilevante del rapporto che il regime instaurò con gli architetti, e soprattutto del contributo che questi vollero offrire al fascismo e quindi della presenza di un’architettura fascista91. All’interno della corrente dei razionalisti esistevano diverse espressioni che recuperavano il linguaggio della più recente tradizione europea. Ne facevano parte i giovani architetti del Gruppo 7, nato a Milano nel 1926, e fra loro Giuseppe Terragni che alla fine degli anni Venti fondò il Movimento italiano per l’architettura razionalista (Miar) riunendo le manifestazioni regionali di questa corrente dell’architettura italiana. I razionalisti erano convinti che con il fascismo fosse giunto il tempo «dei nuovi architetti [...] attraverso la maturazione della chiusa mentalità degli eredi del periodo umbertino e la libera esplosione delle conquiste di Mussolini»92. In questo senso espressero chiaramente la volontà di essere identificati con l’architettura dello Stato fascista. Con l’articolo Architettura, arte di Stato, nel 1931 Pier Maria Bardi spiegò che l’architettura razionale era l’unica in grado di interpretare il fascismo e rappresentare la «missione» che Mussolini voleva compiere e portare nel mondo93. Con questo obiettivo, dall’inizio degli anni Trenta i razionalisti si trasformarono in un vero e proprio establishment politico e accademico, impegnato a vincere le diverse competizioni che il regime istituiva coinvolgendo gli architetti nella realizzazione di una nuova urbanistica94. Dunque, al contrario di ciò che ritenevano alcuni storici come Zevi, che li considerava estranei al regime, i razionalisti credevano di rappresentare l’unica vera espressione dell’architettura fascista. Sul versante opposto vi furono gli esponenti della corrente antiavanguardista, molto vicini al gruppo Novecento nato a Milano all’inizio degli anni Venti con l’obiettivo di diffondere una nuova proposta artistica alternativa alle sperimentazioni delle avanguardie di inizio secolo. Come si è accennato, in ambito letterario Novecento ebbe il suo interprete più au  Ibidem.  Etlin, Modernism in Italian Architecture, cit., p. 234. 93  Ciucci, Gli architetti e il fascismo, cit., pp. 103-109; Etlin, Modernism in Italian Architecture, cit., p. 386. 94  Mariani, Fascismo e città nuove, cit., p. 130. 91 92

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torevole in Massimo Bontempelli, mentre fra gli architetti i più noti «antirazionalisti» furono Gio Ponti, Emilio Lancia, Ottavio Cabiati, Giovanni Muzio e, soprattutto in campo urbanistico, Marcello Piacentini. Considerato da molti l’architetto del regime, Piacentini fu il teorico e il realizzatore di un’urbanistica monumentale neoclassica e scenografica, contraria al rigore dei razionalisti; una sorta di neoclassicismo semplificato in cui ricorrevano le planimetrie simmetriche, i particolari architettonici classici, con i rivestimenti in lastre di marmo, i porticati, le colonne, gli archi. Come notava Richard Etlin, nonostante le polemiche fra le diverse correnti e le discussioni fra gli architetti razionalisti e alcuni fascisti che non sempre riconobbero come propria un’arte apprezzata anche fuori dal contesto italiano, il fascismo «favorì l’appropriazione dell’estetica razionalista alla causa fascista», come accadde in eventi particolarmente significativi e nel caso della mostra della Rivoluzione fascista organizzata nel 1932 a Roma in occasione del decennale della presa del potere95. Inaugurata a dieci anni dalla marcia su Roma, la mostra ebbe un grande successo di visitatori tanto che rimase aperta due anni per poi essere ripresa nel 1937, nel 1939 e nel 194296. Mussolini intervenne personalmente nella fase preparatoria e ordinò di «far cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricorsi agli stili decorativi del passato», scartando i progetti di una solennità «romaneggiante». Alla realizzazione della mostra parteciparono i pittori più noti, come Mario Sironi, e i più importanti architetti razionalisti come Terragni, 95   Ibidem, p. 437. Occorre ricordare che le mostre furono una forma di arte con la quale i fascisti facevano sfoggio della loro concezione dei miti e del ruolo dell’ideologia nella loro cultura. Alle mostre le folle venivano esposte direttamente all’universo simbolico del fascismo subendone l’influenza con immediatezza ed efficacia. Anzi, si potrebbe dire che l’organizzazione delle mostre sia stata, insieme con l’architettura e l’urbanistica, «la forma di espressione estetica prediletta dal fascismo e più confacente alla rappresentazione della sua visione della vita»: E. Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 164. 96  Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 166; Etlin, Modernism in Italian Architecture, cit.; M. Stone, Staging Fascism. The Exhibition of the Fascist Revolution, in «Journal of Contemporary History», 28 (1993), n. 2, pp. 215-243.

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Adalberto Libera e Mario De Renzi, uniti dal fervore ideologico e dalla volontà di costruire un monumento rispondente ai dettami mussoliniani. La facciata umbertina del palazzo venne nascosta da una nuova facciata artificiale color rosso scuro, che doveva simbolizzare con la sua purezza geometrica la sintesi della concezione totalitaria del regime. Davanti le svettavano quattro enormi fasci stilizzati, alti venticinque metri, simili a ciminiere industriali97. Mentre gli architetti razionalisti si occuparono dei lati rivolti verso l’esterno e della disposizione degli spazi interni, Mario Sironi fu l’ideatore delle sale più importanti. Futurista, fascista della prima ora e artista intransigente, dagli anni Venti, utilizzando le tecniche pittoriche di Giorgio De Chirico, Sironi aveva iniziato a dipingere paesaggi urbani silenziosi e immobili, sottraendo alla città che ritraeva l’energia e il movimento degli scenari futuristi. Per dare un carattere epico al paesaggio urbano, dove gli unici oggetti animati erano i tram e i camion, dal 1926 aveva cambiato modo di dipingere e iniziato a produrre quadri allegorici, con figure rappresentate in luoghi desertici, lasciando spazi incompleti o trasfigurati. All’inizio degli anni Trenta iniziò a ritrarre una serie di pescatori, contadini e lavoratori, le cui dimensioni sembravano costrette dai limiti della tela: uomini enormi dipinti con un chiaroscuro esasperato, aggressivo e angosciante. Dunque, il più importante pittore fascista, quello più impegnato a offrire al regime il proprio talento, era un pittore decisamente antinaturalista, che contestava i valori borghesi del naturalismo perché li considerava figli del XIX secolo e dipingeva i lavoratori. Avrebbe voluto suscitare nello spettatore una specie di catarsi grazie agli eventi epici descritti nelle sue tele e nei suoi murali. L’opera d’arte sarebbe stata un catalizzatore e l’artista un creatore di miti98. Sironi realizzò questo suo progetto con la pittura murale che definì «pittura sociale per eccellenza» perché avrebbe operato sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque

 Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 166.  E. Braun, Expressionism as Fascist Aesthetic, in «Journal of Contemporary History», 31 (1996), n. 2, pp. 273-292; Id., Mario Sironi. Arte e politica in Italia sotto il fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 97 98

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altra forma di pittura. «L’attuale rifiorire della pittura murale, e soprattutto dell’affresco» scrisse nel manifesto del 1933, facilita l’impostazione del problema dell’arte fascista. Infatti: sia la pratica destinazione della pittura murale (edifici pubblici, luoghi comunque che hanno una civica funzione), sia le leggi che la governano, sia il prevalere in essa dell’elemento stilistico su quello emozionale, sia la sua intima associazione con l’architettura, vietano all’artista di cedere all'improvvisazione e ai facili virtuosismi99.

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Secondo Sironi, quindi, l’obiettivo dell’arte fascista era quello di trasformare la città grazie a uno sforzo comune dove pittori, architetti e urbanisti avrebbero collaborato per realizzare i disegni del regime. In effetti, progettare le città, rivoluzionando la forma di quelle esistenti o disegnando il profilo di quelle fondate ex novo, costituì una delle sfide decisive per il fascismo: un impegno sul quale misurare concretamente l’intensità della sua spinta rivoluzionaria100. Dietro questo fervore esistevano esigenze diverse, da quelle demografiche a quelle economiche, che non possono essere analizzate in questa sede; ma anche l’intuizione che lo sforzo di progettazione della città avrebbe dato vita a uno dei fattori primari della formazione dell’immaginario della nuova Italia101. Di fatto l’urbanistica, di cui molto si cominciò a discutere a partire dagli anni Trenta, come testimonia, proprio nel 1930, la fondazione di un apposito Istituto nazionale, rappresentò un’occasione decisiva di incontro tra modernizzazione e fascismo: nella razionalizzazione dei vecchi centri storici, nel ripensamento dei rapporti tra città e campagna, nella fondazione di città nuove che, per intero, dessero espressione al mito della nuova comunità fascista. Così le vecchie città vennero sottoposte a radicali interventi di «risanamento» che proseguivano e ampliavano quelli già avviati in età umbertina, correggendoli nel segno dell’ulteriore semplificazione dello spazio e dell’inserzione nei tessuti antichi di inconfondibili segni monumentali; mentre le nuove sorsero, con alterne fortune, in molte regioni, 99   M. Sironi, Manifesto della pittura murale, in «La Colonna», in Id., Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 155-157. 100  Mariani, Fascismo e città nuove, cit., pp. 195-200. 101   Ibidem, p. 87.

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e in particolare nel Lazio delle bonifiche pontine102. Questo movimento di nuove fondazioni occupò tutti gli anni Trenta e culminò all’inizio degli anni Quaranta nella realizzazione, a Roma, dell’Eur, che allora si chiamava «Esposizione del ’42» ed era noto con la sigla E42. L’idea di costruire una nuova città alla periferia della capitale nacque, subito dopo la conquista etiopica, dalla proposta di candidare Roma come sede di un’esposizione universale che nel 1942 avrebbe accolto tutti i paesi del mondo. Nacque, quindi, in stretta connessione con la creazione dell’impero. La parte italiana composta da edifici temporanei e permanenti, dove celebrare la storia della civiltà romana e italiana, sarebbe poi rimasta a costituire il nucleo della nuova Roma fascista e imperiale. L’E42 doveva essere la più grandiosa realizzazione urbanistica della nuova romanità fascista e soprattutto della sua modernità: un complesso munumentale, rappresentazione architettonica, simbolica e funzionale di una nuova concezione dell’uomo, della politica e dello Stato103. E, attraverso l’E42, staccata dalla città storica ma emanazione di essa, Roma doveva diventare «la capitale di un paese in cui passato, presente e futuro» fossero «finalmente connessi»104. Il nuovo complesso fu attraversato dalla via Imperiale, un grande asse viario che da un lato congiungeva l’E42 al centro di Roma, proseguendo verso nord fino al Foro Mussolini, dall’altro arrivava a Ostia, e quindi al mar Tirreno. L’asse incontrava le trasformazioni urbanistiche già realizzate nella zona dei Fori, il Colosseo e piazza Venezia ed era una vera e propria spina dorsale della nuova Roma: una città moderna e monumentale al contempo. In questa sede non è possibile seguire l’andamento delle discussioni che accompagnarono la progettazione dell’E42 ed erano anche relative al futuro dello sviluppo urbano di Roma. Possiamo però ricordare che all’ideazione e alla realizzazione del nuovo quartiere furono chiamati architetti di diverso orientamento, diretti da Marcello Piacentini nominato responsabile del progetto e che, sin dai primi tempi, non mancarono le pole-

  Ibidem, pp. 249-265.  Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 184. 104  Ciucci, Gli architetti e il fascismo, cit., p. 177. 102 103

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miche durante i concorsi banditi dal regime per la costruzione degli edifici permanenti, dal Palazzo dei Congressi a quello della Civiltà italiana che resta uno dei monumenti più celebri dell’intero Ventennio. Ciò nonostante, i principali architetti italiani cercarono di realizzare i monumenti e gli edifici più importanti dell’E42 aderendo «al programma di massima» ovvero rispettando uno stile che doveva ubbidire a criteri di monumentalità e di grandiosità conciliando il principio razionale con quello estetico e munumentale105. E in effetti l’Eur fu concepito come una rappresentazione dell’idea di una Roma eterna che riappariva nella modernità106. Come ha ricordato Etlin, i razionalisti che parteciparono alla progettazione, in un primo tempo sperarono che avrebbero avuto lo spazio maggiore, anche perché pochi anni prima avevano vinto i concorsi per la realizzazione della stazione di Firenze e della cittadina laziale di Sabaudia. In realtà Piacentini spiegò che la nuova architettura «dell’Esposizione Universale di Roma» avrebbe dovuto «caratterizzare la grande epoca di Mussolini» in uno stile che non poteva definirsi né razionalista né neoclassicista perché era «littorio»107. Si trattava di una nuova forma di architettura che avrebbe sintetizzato la grandeur imperiale con i progetti degli architetti, come dimostrano le opere monumentali più importanti, il Palazzo dei Congressi e quello della Civiltà italiana, realizzati dai giovani razionalisti. «Monumentalità e modernità, razionalismo e classicismo, furono fusi insieme al servizio della visione imperiale dello Stato fascista»108. Una visione che negli stessi anni ebbe in Bottai un protagonista di primo piano.

  Ibidem, p. 189.  Gentile, Fascismo di pietra, cit., p. 184. 107  Etlin, Modernism in Italian Architecture, cit., p. 491. 108   Ibidem. 105 106

Capitolo settimo

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La politica culturale e gli intellettuali degli anni Quaranta

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1. La Carta della scuola e «Primato»

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Nelle pagine precedenti ci si è soffermati più volte su Giuseppe Bottai, che dall’inizio degli anni Venti fu una delle figure di maggior rilievo della cultura fascista: nei primi anni, era stato leader della corrente dei revisionisti come il principale sostenitore di una concezione del fascismo moderna e totalitaria. Riteneva che il fascismo non avesse conquistato il potere per restaurare un ordine politico premoderno, ma che al contrario si inserisse nel solco delle grandi rivoluzioni europee. Fautore della politica di massa e ammiratore della filosofia moderna, Bottai considerava il fascismo un regime che avrebbe mostrato al mondo una modernità alternativa a quella emersa nel XIX secolo. Nei primi anni del fascismo, proprio per queste ragioni, fu il principale alleato di Gentile e dei gentiliani. Era convinto che il filosofo avrebbe contribuito alla elaborazione e alla diffusione di un pensiero fascista e pensava che la definizione ideologica del movimento avrebbe rafforzato l’identità di tutto il regime. Questa sua convinzione venne meno alla fine degli anni Venti quando Bottai non riconobbe più in Gentile l’ideologo del regime e non ritenne così importante elaborare una teoria politica fascista. Dalla fine degli anni Venti, infatti, divenne un acceso sostenitore dell’identità fra politica e cultura, riuscendo nei suoi scritti e nelle sue iniziative ad assumere le istanze degli intellettuali che erano stati vicini a Gentile, ma anche dei fascisti più intransigenti. Da allora, e per tutti gli anni a venire, Bottai fu il politico che mostrò maggiore attenzione alla politica culturale del regime; il principale sostenitore di una concezione del fascismo che riusciva a unire modernisti e antimodernisti, cattolici e laici, fascisti della prima ora e giovani universitari.

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Nel febbraio del 1939, quando da poco più di due anni era ministro dell’Educazione Nazionale, presentò la Carta della scuola al Gran consiglio del fascismo1: un documento programmatico composto da ventinove dichiarazioni in cui venivano posti i capisaldi della nuova scuola fascista. Il principio ispiratore dell’intero documento fu enunciato nella prima dichiarazione che così recitava:

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Nell’unità morale, politica ed economica della Nazione Italiana, che si realizza integralmente nello Stato Fascista, la Scuola, fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito, forma la coscienza umana e politica delle nuove generazioni2.

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Obiettivo principale della riforma era «l’educazione integrale dell’uomo nuovo fascista». Per questo la Carta definiva l’essenza politica della scuola e il rifiuto di un’idea della cultura come crescita personale dell’individuo. Nella seconda dichiarazione il documento affermava che finalmente la scuola, la Gil e i Guf sarebbero diventati «uno strumento unitario di educazione fascista» e che i giovani italiani erano obbligati a frequentarli dalla tenera età fino ai ventun anni. «Tale servizio», spiegò la Carta, «consiste nella frequenza, dal quarto al quattordicesimo anno, della scuola e della Gil e continua in questa fino ai ventun anni anche per chi non seguita gli studi». Dunque l’obbligo riguardava i ragazzi italiani fino al ventunesimo anno. Da parte loro, gli studenti universitari avrebbero dovuto far parte dei Guf che, come le altre organizzazioni giovanili, cessavano di essere volontari. Oltre a definire gli obiettivi della scuola fascista, la Carta del 1939 introdusse due novità nella vita degli studenti italiani: il libretto personale e una nuova concezione del lavoro come materia di insegnamento entrambi volti a stabilire un nesso sempre più stretto fra scuola e politica3. 1  Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. II: Lo Stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, pp. 117-130. Per una riflessione più approfondita di quella che è possibile in questa sede, cfr. A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 330-344. 2   La Carta della Scuola con annesso grafico-guida, a cura di A. Orani, Roma, Signorelli, 1941, p. 3. 3   Ibidem, p. 4.

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Nel libretto personale venivano trascritti sia il rendimento scolastico, sia quello ottenuto durante la preparazione militare svolta nella Gil. Dato che i voti in condotta di ciascuno studente fascista tenevano conto delle segnalazioni fatte dalla Gil, il libretto evidenziava il collegamento tra la valutazione del profitto e della condotta e la militanza politica4. L’altro elemento di novità della Carta della scuola riguardò l’introduzione del lavoro come materia d’insegnamento. Per la prima volta in un ordinamento scolastico il lavoro manuale veniva considerato uno strumento pedagogico e un mezzo per promuovere l’integrazione dei giovani fascisti nella società. Contro la tradizionale suddivisione della scuola in umanistica e tecnica, ben presente anche nella riforma del 1923, la quinta dichiarazione della Carta affermava che il lavoro sarebbe stato «tutelato dallo Stato come un dovere sociale», che avrebbe avuto «dalla scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado» la sua parte nei programmi. Per questo «speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle Autorità scolastiche nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare» avrebbero educato la coscienza sociale e produttiva propria dell’ordine corporativo5. Nel maggio del 1939 Bottai presentò in Senato la Carta della scuola e ribadì che la creazione di una nuova civiltà si fondava su di un nuovo rapporto fra scuola e politica che avrebbe unito «l’azione della scuola e della Gil, la disciplina della cultura e quella dell’educazione fisica e guerriera, il culto meditativo della tradizione e quello dell’azione che brucia le tappe e volge al futuro»6. L’aveva sostenuto anche su «Critica fascista» dove, nel marzo del 1939, commentando la riforma, si soffermò su quella attuata da Gentile ed espresse il suo giudizio sul filosofo e sul ruolo che aveva avuto nel fascismo. Il ministro affermò chiaramente che la Carta della scuola non voleva essere e non era una «controriforma» o una riforma della riforma Gentile. E aggiunse che, essendo acquisiti i valori stabiliti nel 1923, occorreva procedere oltre e cioè creare [...] una Scuola che non sia ispirata, semplicemente e genericamente, ai valori culturali che il Fascismo riconosce validi e ad una 4  Cfr. T.M. Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda (1935-1943), Bologna, Cappelli, 1978, p. 92. 5   La Carta della Scuola con annesso grafico-guida, cit., p. 5. 6  Tarquini, Il Gentile dei fascisti, cit., p. 338.

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generica mentalità fascista, ma una Scuola che si inserisca organicamente nel complesso degli organi attraverso i quali la vita nazionale, articolandosi si svolge, e che viva e partecipi di quella mentalità fascista che sentiamo oggi dopo che 17 anni carichi di eventi spirituali e storici hanno precisato e arricchito l’intuizione fondamentale della Rivoluzione mussoliniana7.

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Le stesse considerazioni furono espresse nel volume curato dal ministero dell’Educazione Nazionale in cui venne ricostruita la storia della politica scolastica del fascismo iniziando dalla riforma Gentile e terminando con quella Bottai, «punto di partenza e punto di arrivo» della fascistizzazione della scuola8. Bottai non era tenuto a riconoscere il valore della riforma del 1923, né altri meriti al filosofo con cui nel 1939 non aveva certo i rapporti che aveva avuto nei primi anni del fascismo. Era davvero convinto che Gentile avesse posto le basi per la creazione di una «mentalità fascista», ma che alla fine degli anni Trenta la sua riforma fosse inadeguata a rispondere alle esigenze del regime. In questa sua riflessione attribuì al filosofo un ruolo che non aveva riconosciuto a nessun ministro dell’Educazione. Non aveva citato né Fedele né De Vecchi, e, tanto meno Belluzzo, Giuliano o Ercole. Pensando alla politica scolastica fascista il suo riferimento restò Gentile e nel confrontare la Carta della scuola con la riforma del 1923, che era nata all’interno di un grande progetto culturale, Bottai paragonò se stesso al filosofo presentandosi come il protagonista della nuova politica fascista, l’artefice della nuova scuola e della cultura totalitaria del regime. Per questo, spiegando i termini del rapporto che legava la sua Carta della scuola alla riforma Gentile, egli sostenne che la scuola del 1923 era sì fascista, ma genericamente fascista, cioè non era la scuola del regime totalitario in cui lavoro e politica, cultura e politica, si sarebbero uniti definitivamente. Anche sulla stampa la maggior parte dei commenti si soffermò sul confronto fra le due riforme. Per esempio, il giovane

7   La Carta della Scuola e la sua etica, in «Critica fascista», a. XVII, n. 9, 1º marzo 1939, pp. 130-131. 8   Ministero dell’Educazione Nazionale, Direzione generale dell’ordine superiore classico, Dalla riforma Gentile alla Carta della Scuola, Firenze, Vallecchi, 1941, p. XVI.

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pedagogista Luigi Volpicelli riconobbe al filosofo il merito di avere introdotto l’umanesimo nella scuola e cioè l’idea che «l’educazione è autoeducazione, autonomo e libero svilupparsi della nostra spiritualità»9. In questo senso, al principale collaboratore di Bottai sembrava evidente che la Carta della scuola avesse un debito nei confronti della riforma del 1923. Tuttavia, sottolineò una profonda differenza fra i due progetti: a suo avviso, la novità più importante della riforma Bottai, cioè l’educazione al lavoro, costituiva un elemento essenziale dell’umanesimo moderno che avrebbe modificato profondamente la scuola italiana, eliminando la tradizionale divisione fra scuole tecniche e scuole letterarie e avviando il processo di integrazione dell’uomo nella società. Per questo fu orgoglioso di annunciare che, dall’avvento del fascismo, «la prima e più caratteristica rivoluzione popolare dei tempi moderni, la massa è entrata nella scuola dei borghesi, moltiplicando gli istituti, le aule e gettando lo scompiglio negli ordinamenti tradizionali»10. Analogamente a Volpicelli, tutti coloro che commentarono la Carta della scuola si soffermarono sulla riforma Gentile, evidenziando il carattere fascista e rivoluzionario della prima e la necessità di superare la seconda11. Paolo Orano, docente di storia e dottrina del fascismo nella facoltà di scienze politiche dell’Università di Perugia, dichiarò che con la nuova riforma la scuola italiana diveniva una delle espressioni più importanti dello Stato totalitario, con le sue istituzioni, con i suoi metodi, con il suo spirito, «in modo che dalla scuola alla vita privata e da questa alla vita pubblica non vi sia soluzione di continuità»12. Lo sostenne anche Armando Carlini, che alla fine degli anni Trenta era un assiduo collaboratore di «Critica fascista» e dedicò diversi contributi al problema della scuola. Anche lui volle spiegare le differenze fra la Carta della scuola e la riforma del 1923 e a questo proposito sostenne che la nuova riforma rovesciava «dalle fondamenta la concezione della

  L. Volpicelli, Scuola e lavoro, Roma, Signorelli, 1941, p. 163.  Id., Commento alla Carta della Scuola, Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1940, p. 52. 11  Cfr. R. Pelagatti, Bibliografia della Carta della Scuola, Roma, Edizione di Istruzione tecnica, 1940. 12  P. Orano, Educazione fascista, in C. Magi-Spinetti (a cura di), Scuola fascista. La Carta della Scuola e sua interpretazione, Roma, 1939, p. 165. 9

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scuola prevalsa» fino ad allora. Come Orano, anche Carlini, individuò il carattere rivoluzionario della Carta nell’aver posto il problema educativo non come problema connesso alla crescita individuale dei ragazzi, ma come questione che riguardava «in primo luogo la Nazione, ossia la società e lo Stato»13. In effetti, come si è accennato, il progetto di Bottai rappresentò la risposta del fascismo totalitario al conflitto fra le diverse correnti della cultura e della politica del regime, cioè la vittoria di chi aveva saputo tenere insieme le diverse anime dell’ideologia fascista in una sintesi politica che riusciva a soddisfare sia i fascisti antigentiliani come Costamagna, sia gli intellettuali come Carlini, Spirito e Pellizzi, che avevano collaborato a lungo con Gentile. Un altro esempio importante di questo orientamento è nella rivista «Primato», che Bottai diresse dal 1940, e in cui si ritrovarono giovani intellettuali fascisti, modernisti, antimodernisti, antigentiliani ed ex gentiliani, tutti d’accordo nel ritenere superato il problema della fascistizzazione della scuola italiana e nel celebrare l’avvenuta fusione di cultura e politica, tutti d’accordo nel definire il fascismo un regime rivoluzionario, moderno e totalitario14. Nel febbraio del 1941 lo storico Carlo Morandi rispose all’inchiesta sui rapporti fra la cultura universitaria e la cultura extrauniversitaria, promossa da «Primato», descrivendo così i giovani studenti degli anni Quaranta: «C’è una differenza profonda tra questa generazione di studenti e quella di dieci o venti anni fa: meno interessi puramente letterari, più interessi politici in senso elevato»15. Un concetto analogo venne espresso dal critico letterario Luigi Russo, che notò:

13  A. Carlini, Verso la nuova scuola, Firenze, Sansoni, 1941, p. 242 e Id., Aspetti della Carta, in «Critica fascista», a. XVII, n. 9, 1º marzo 1939, pp. 131-133. 14  Cfr. L. Mangoni, Primato. 1940-1943, Bari, De Donato, 1977; Id., L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, 1974, pp. 347-366, e Id., Il fascismo, in Letteratura italiana. I: Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 521-548; A. Cicchetti e A. Asor Rosa, Roma, in Letteratura italiana. III: L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989; M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005; V. Zagarrio, «Primato». Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007. 15  C. Morandi, Le Università e la Cultura, in «Primato», a. II, n. 4, 15 febbraio 1941, p. 6.

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La nostra vita politica era «un piccolo mondo moderno», nel quale, pur militando in partiti diversi, tutti ci ritrovavamo e ci riconoscevamo fratelli. [...] Oggi gli umori dei giovani sono cambiati; parlare di «patria» con loro parrebbe troppo mediocre discorso, ricordi di quel nostro piccolo mondo moderno del ’14, diventato ahimè antico. Al di sopra della patria si vien formando una nuova religione politica16.

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Anche Luigi Volpicelli constatò che ormai, nell’Italia fascista degli anni Quaranta, la cultura politica dominante non si differenziava da quella accademica. Era, infatti, persuaso che «il tempo in cui l’università disdegnava la terza pagina, e preferiva il tomo al saggio, la pubblicazione accademica all’osservazione immediata ed essenziale» fosse lontano 17. Una riflessione analoga venne da Camillo Pellizzi. Nominato direttore dell’Istituto nazionale di cultura fascista nell’aprile del 1940, grazie all’appoggio di Bottai che aveva sostenuto la sua candidatura con Mussolini18, nel marzo del 1941 affermò che non vi era alcun distacco fra la cultura universitaria e quella extrauniversitaria. Il problema, a suo avviso, riguardava la dimensione organizzativa del regime totalitario. Pellizzi riteneva che in un «regime totalitario», come quello fascista, occorresse potenziare le possibilità di contatto fra gli universitari e gli organi politici per impegnare sempre di più la cultura accademica «nell’opera amministrativa e politico-educativa del Regime»19. Per questo non si soffermò sul rapporto fra politica e cultura che, come la maggior parte degli intervistati da «Primato», considerava un problema superato20.

  L. Russo, Le Università e la Cultura, ibidem, p. 7.   L. Volpicelli, Le Università e la Cultura, in «Primato», a. II, n. 6, 15 marzo 1941, p. 6. 18   G. Longo, Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites fra politica e sociologia, 1896-1979, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 146-165. 19  C. Pellizzi, Le Università e la Cultura, in «Primato», a. II, n. 5, 1º marzo 1941, p. 4. 20  Per l’attività di Pellizzi negli anni Quaranta, cfr. G. Longo (a cura di), Il primo convegno dei gruppi scientifici dell’Istituto nazionale fascista di cultura sull’«Idea di Europa» (23-24 novembre 1942), in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 5 (1994), pp. 127-188, e Breschi e Longo, Camillo Pellizzi, cit., pp. 133-195, interamente dedicati a questo argomento. 16 17

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2. Il «Dizionario di politica»

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L’affermazione della nuova cultura totalitaria è evidente anche nelle pagine del Dizionario di politica del Pnf, che uscì in quattro volumi nel 1940 e recepì i contributi degli intellettuali disposti a collaborare all’iniziativa del Partito21. Direttore del progetto fu il filologo Antonino Pagliaro, dal 1934 ordinario di storia comparata delle lingue classiche, uno dei protagonisti della Scuola linguistica romana, docente di dottrina del fascismo nei corsi di preparazione politica organizzati dalla federazione dei fasci di Roma. Nel 1933 pubblicò uno studio del pensiero di Mussolini: un piccolo volume in cui i singoli capitoli non erano che il suo commento alle frasi più celebri del duce22. Da fervente fascista qual era, Pagliaro si impegnò nell’elaborazione del Dizionario insieme a Guido Mancini, che coordinava l’Ufficio studi e legislazione del Pnf 23, e quando nel gennaio del 1940 lo presentò su «Civiltà fascista» volle sottolineare il carattere politico dell’opera che, a differenza dell’Enciclopedia Italiana, nasceva come diretta espressione dell’ideologia del Partito fascista e voleva essere un’opera «di politica in atto che comprende tutto quanto possa giovare alla formazione spirituale rigorosamente fascista delle nuove generazioni, liberandole dalle soprastrutture con cui il demoliberalismo si illuse di fissare la vita dei popoli»24. Al dizionario collaborarono, oltre ai giovani iscritti ai corsi di preparazione politica gestiti dal Pnf, i più autorevoli intellettuali del regime che si sono incontrati nelle pagine

21  C. Ghisalberti, Per una storia del «Dizionario di Politica» (1940), in «Clio», 26 (1990), pp. 671-697 e A. Pedio, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il Dizionario di politica del Partito nazionale fascista (1940), Milano, Unicopli, 2000, pp. 104-110 passim. 22  A. Pagliaro, Il Fascismo. Commento alla dottrina, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1933, p. X, tradotto in spagnolo, El fascismo, comentario a su doctrina, a cura di C. de Monfor, Bilbao, La Editoriale Vicaina, 1938. 23   Sull’Ufficio studi e legislazione del Pnf, cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma, Carocci, 1995, pp. 256-269. 24  A. Pagliaro, Il Dizionario di Politica del Pnf, in «Civiltà Fascista», a. VII, n. 1, gennaio 1940, p. 33. Lo stesso concetto venne espresso da Guido Mancini che presentò il Dizionario a Mussolini.

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precedenti25. A Carlo Costamagna vennero affidate alcune voci significative per la definizione della dottrina del fascismo, fra cui Diritto, Nazione, Nazionalità e Stato; Sergio Panunzio scrisse la voce Sindacato, Luigi Volpicelli si occupò, fra l’altro, di Idealismo e Intellettualismo; Delio Cantimori di Nazionalsocialismo e delle voci riguardanti la storia della Germania. Fra i tanti collaboratori vi furono anche due studiosi dalla formazione diversa, ma dai comuni interessi per la storia del pensiero politico, come Felice Battaglia e Carlo Curcio, che ebbero un ruolo di primaria importanza nell’elaborazione del Dizionario e mostrarono come nelle iniziative del Partito fascista si potessero incontrare due culture diverse: una che proveniva dalla filosofia di Gentile e rappresentava la filosofia moderna e un’altra che aveva espresso le proprie critiche contro la modernità già dagli anni Trenta. Felice Battaglia si era laureato in giurisprudenza a Roma nel 1925, aveva seguito le lezioni romane di Gentile e nel 1927 aveva ottenuto la libera docenza in filosofia del diritto26. Proprio l’idea dello Stato etico fu al centro della sua riflessione sull’Enciclopedia Italiana dove, oltre alle voci Democrazia e Partito, scrisse il lemma Stato e sostenne che la filosofia politica di Gentile costituiva il caposaldo del pensiero fascista27. A questo proposito scrisse: La concezione fascista dello Stato, l’alto senso dello Stato che il Fascismo caratterizza deriva certo anche dalla rivalutazione speculativa che dello Stato l’idealismo ha operato, ma più ancora trae origine dalla necessità di una integrazione relativa allo Stato, che, se nell’ordine teorico era già stato intravisto, praticamente non aveva avuto quelle realizzazioni che erano da attendersi. Di ciò il Fascismo ebbe viva coscienza, donde il carattere prammatico della sua dottrina dello Stato,

25  Cfr. F. Mezzasoma, Premessa, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1940, p. I. 26  Cfr. F. Polato, Bibliografia degli scritti di e su Felice Battaglia, Bologna, Clueb, 1989; Id., Felice Battaglia, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XXXIV, pp. 311-314. Cfr. N. Matteucci e A. Pasquinelli (a cura di), Il pensiero di Felice Battaglia, Bologna, Clueb, 1989; G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 86-92 e 125-127; Id., Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1994, pp. 428 e 456. 27  Cfr. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, cit., p. 91.

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che non deve però farci dimenticare l’idealità di esso al Fascismo, come a nessun altro movimento politico, sempre presente28.

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Quindi, secondo Battaglia, Gentile aveva dato al fascismo la definizione filosofica del concetto di Stato, e il fascismo aveva elaborato autonomamente, in sede politica, la rivalutazione indicata dal filosofo idealista. Ancora nella prefazione al volume Scritti di teoria dello Stato affermò che si trattava di testi concepiti nello spirito dell’idealismo per proporre una teoria dello Stato «per cooperare all’approfondimento della costruzione politica che va innalzandosi sotto i nostri occhi»29. Con questo intento nel Dizionario del 1940 Battaglia scrisse centotrentatré voci e certo non gli sfuggì il carattere politico e ideologico che il Pnf aveva voluto dare all’intera opera. Al contrario, nelle numerose voci che redasse non mancò di confrontare i temi e i personaggi di cui si occupava con quelli che aveva di fronte. È il caso per esempio della voce Dichiarazione dei diritti dove sostenne che la Carta del lavoro, approvata dal fascismo nel 1927 come uno dei testi più importanti della politica del nuovo regime, era superiore ai Bills anglosassoni, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e alla Costituzione francese del 179530. Nel lemma Illuminismo, invece, dopo un’ampia riflessione sui meriti dell’età dei Lumi e sulla sua modernità, Battaglia notò: [L]e concessioni da noi fatte non debbono, è evidente, farci dimenticare i punti per cui la nostra concezione si oppone decisamente all’illuminismo e la limitatezza di questo si appalesa. L’uomo che esso celebra per essere tale troppo di frequente perde i contatti con lo stato e ignora ogni ente politico31.

Si trattava di una riflessione assai simile a quella proposta nel 1925 da Bottai o da Panunzio nel volume Lo Stato fascista. Una riflessione che, come si è già visto, nei primi anni Venti aveva

28   F. Battaglia, Scritti di teoria dello Stato, Milano, Giuffrè, 1939, p. 23. 29   Ibidem, p. V. 30   F. Battaglia, Dichiarazione dei diritti, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1940, vol. I: A-D, p. 782. 31  Id., Illuminismo, ibidem, vol. II: E-L, p. 471.

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caratterizzato i fascisti più vicini a Gentile, fra cui il direttore di «Critica fascista» e Pellizzi, i quali avevano sottolineato la modernità del fascismo e l’avevano collocato nella storia delle rivoluzioni dell’età moderna. Contro questa interpretazione come abbiamo ricordato, avevano replicato i fascisti intransigenti sostenendo che il fascismo rappresentava una risposta ai fallimenti della modernità e che le sue caratteristiche principali risiedevano nell’affermazione dei valori tradizionali. All’inizio degli anni Quaranta, quindi venti anni dopo, il Pnf accolse nella sua opera più importante le riflessioni di un filosofo che esaltava i meriti dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese e di Rousseau. Nella voce dedicata al filosofo ginevrino, infatti, Battaglia illustrò il suo pensiero a partire dal Discorso sull’ineguaglianza e contestò i suoi critici sostenendo che Rousseau aveva inaugurato «quelle profonde vedute sullo stato, che attraverso l’idealismo germanico», erano arrivate in Italia. E poi aggiunse che era l’enunciatore dello Stato come libertà e autorità, «di un valore razionale che in tutti gli individui si esprime, anima dell’anima loro, per usare l’energico termine di Mussolini»32. Ancora nella voce Sorel scrisse che il nucleo vitale e l’attualità del teorico del sindacalismo rivoluzionario risiedevano nel motivo etico che lo distaccava dal socialismo e che «pur con tutti i suoi limiti, si avvicina[va] ai movimenti antisocialistici, al Fascismo principalmente»33. Nella breve voce Pisacane, inoltre, sostenne che l’assenza delle masse dall’azione rivoluzionaria, assenza constatata e deplorata da Pisacane, spiegava «la deficienza della formazione unitaria e le sue crisi fino al Fascismo», che appunto si era proposto il problema del popolo, della sua educazione e dei suoi bisogni34. Se quello di Battaglia fu il contributo di un filosofo del diritto che aveva aderito alla filosofia di Gentile, il percorso politico e filosofico di Carlo Curcio, che sul Dizionario scrisse poco più di trenta voci, fu molto diverso. Curcio insegnava storia delle dottrine politiche nell’Università fascista di Perugia, era un assiduo collaboratore della «Rivista internazionale di filosofia del diritto» di Giorgio Del Vecchio, di «Critica fascista»

 Id., Rousseau, ibidem, vol. IV: R-Z, p. 157.  Id., Sorel, ibidem, p. 315. 34  Id., Pisacane, ibidem, p. 431. 32 33

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e de «Lo Stato» di Costamagna. Alla fine degli anni Venti aveva denunciato i ritardi nella fascistizzazione della cultura italiana e nel trovare «una soluzione veramente totalitaria» al problema dell’educazione delle giovani generazioni. Un problema, secondo Curcio, di difficile soluzione fino a quando fossero rimasti docenti liberalsocialisti che di fascista avevano solo la tessera e nell’intimo erano antifascisti35. Proprio quell’anno, fra l’altro, aveva illustrato ai lettori de «Lo Stato» il pensiero politico di Carl Schmitt. Auspicando che l’influenza del politologo tedesco giungesse in Italia, Curcio aveva sottolineato la natura politica e non filosofica delle sue riflessioni per cui la sua dottrina dello Stato si era spogliata «di paludamenti, di complicati meccanismi per tornare sul suo vero terreno» che era appunto quello politico36. Nel 1934 volle dare il proprio contributo al dibattito sulla natura del Partito fascista e sui suoi rapporti con lo Stato. In questo caso si dichiarò d’accordo con Sergio Panunzio e sostenne che il Pnf rappresentava «l’anima dello stato fascista», «l’elemento attivo e dinamico dello Stato» il cui compito essenziale sarebbe stato quello di fornire allo Stato gli uomini migliori e «di custodire la fiamma della rivoluzione»37. Un’idea che gli sembrava analoga al mito soreliano, una realtà concreta, «forse alogica, ma sublime», che costituiva «l’idea forza del Partito», «una congregatio fidelium, serrata, unitaria, possente»38. Sul Dizionario Curcio ribadì queste sue convinzioni scrivendo alcune delle voci più importanti come Partito39, che redasse con il filosofo del diritto Giacomo Perticone, anche lui collaboratore assiduo de «Lo Stato» di Costamagna. Nella voce Partito Curcio e Perticone sottolinearono che nel dopoguerra 35  C. Cur[cio], Fascismo e università, in «Lo Stato», a. I, f. 1, gennaiofebbraio 1930, pp. 60-62. 36  Id., Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt, in «Lo Stato», a. I, f. 4, luglio-agosto 1930, p. 484. 37  Id., Contenuto, funzioni ed aspetti politici del Partito Nazionale Fascista, in «Lo Stato», a. V, f. III, marzo 1934, pp. 161-171. 38   Ibidem. 39   Le voci sarebbero confluite nel volume Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul liberalismo e sul socialismo, con una introduzione intorno ai miti moderni e una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonese, [1941]. Cfr. anche C. Curcio, Considerazioni sulla presente civiltà, in «Lo Stato», a. IX, f. II, febbraio 1938, pp. 65-76.

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l’affermazione di regimi a partito unico costituiva la novità più rilevante degli ordinamenti giuridici e dei sistemi politici. A questo proposito i due studiosi citavano il caso della Spagna, della Turchia, della Cina, della Germania e, ovviamente, dell’Italia, in cui, secondo loro, «un partito rivoluzionario a larghe basi popolari» «guidato da un capo di straordinario prestigio» aveva dato vita a una nuova forma di Stato. Pur evidenziando le differenze di struttura e di ordinamento fra il Partito fascista e gli altri partiti totalitari, i due studiosi rilevavano che in Italia, in Spagna e in Germania la presenza di partiti con caratteristiche simili aveva dato vita a nuove realtà statali. «Lo Stato nuovo», scrivevano a tale proposito,

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è caratterizzato dall’attiva presenza, in esso, di un partito totalitario, che, se e storicamente deriva dalla sua dura lotta e dalla conquista del potere la sua posizione preminente, è da aggiungersi che, logicamente, è legittimato da una rivoluzione ben più profonda che si è operata nelle concezioni politiche40.

Si trattava di un orientamento ampiamente condiviso nel Dizionario, che, come si è già notato, vide la collaborazione di intellettuali di diversa provenienza, tutti d’accordo nel dichiarare il carattere totalitario del regime fascista: delle sue espressioni politiche e, ovviamente, della sua cultura.

40   G. Perticone e C. Curcio, Partito, in Dizionario di politica, cit., vol. III, p. 381.

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Conclusioni

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Nel concludere questo lavoro vorrei tornare alla distinzione fra politica culturale, campi del sapere e ideologia che ho utilizzato nelle pagine precedenti per sintetizzare gli aspetti e i momenti più rilevanti della cultura fascista. Dal 1922 fino al 1943, uno degli obiettivi prioritari della politica culturale del fascismo fu la formazione delle giovani generazioni. Per questo, nell’ottobre del 1922 i fascisti accolsero nel loro governo e nel loro partito Giovanni Gentile che dall’inizio del secolo era impegnato nella battaglia per rinnovare la scuola italiana e gli attribuirono il potere che non riconobbero a nessun altro intellettuale italiano: ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, autore della riforma della scuola del 1923, Gentile fu anche direttore di alcune istituzioni culturali fondate per mostrare al paese e al mondo che il nuovo regime era pronto a giovarsi del contributo di intellettuali autorevoli e a diffondere una nuova cultura. Già nella seconda metà degli anni Venti, tuttavia, il ruolo del filosofo cambiò insieme con la politica culturale del regime. Molti intellettuali e politici che avevano difeso Gentile dagli attacchi dei fascisti più intransigenti, iniziarono a criticare la sua riforma ritenendo che non fosse in grado di portare a termine il processo di fascistizzazione della scuola, richiesto dal governo e dal Partito fascista. Da allora e fino al 1939 i ministri dell’Istruzione che si susseguirono modificarono la riforma del 1923 togliendo autonomia alla scuola e all’università, come accadde nel 1931 quando i professori universitari furono costretti a giurare fedeltà al fascismo o nel 1939 quando Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale e autore della Carta della scuola, stabilì il più stretto collegamento fra il mondo dell’istruzione pubblica e le organizzazioni giovanili del Partito fascista.

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In realtà la scuola non fu l’unico terreno su cui si manifestò la volontà del fascismo di educare i giovani. Dominio del ministero della Pubblica Istruzione, e quindi di un organo dello Stato, era anzi il settore meno vicino al Partito fascista che per tutto il Ventennio investì le sue energie nella mobilitazione delle nuove generazioni: un compito che gli uomini del Pnf svolsero con solerzia e costanza immaginando di dare vita a una vera e propria rivoluzione antropologica e quindi di dover iniziare dai giovani che rappresentavano il futuro del fascismo e il banco di prova della riuscita dell’esperimento totalitario. Dall’Opera nazionale balilla, nata nel 1926, alla Gioventù italiana del littorio che la sostituì nel 1937, il Partito si occupò della formazione culturale, dell’istruzione, dell’assistenza e dell’insegnamento dell’educazione fisica, come dichiarò nel novembre del 1937 il segretario del Pnf Achille Starace, a commento della legge che istituiva la Gil. Per un regime che aveva l’ambizione di costruire una nuova umanità riplasmata nel corpo e nello spirito, tutti i settori della società italiana sarebbero stati decisivi. E infatti, sin dai primi anni, i fascisti manifestarono la volontà di educare le donne e i lavoratori organizzandone il tempo libero, per privarli della loro autonomia. Le strade percorse per raggiungere questo obiettivo furono due: da un lato il fascismo controllò le vecchie pratiche radicate nel tessuto culturale del paese, dall’altro inventò nuove forme di svago per gestire gli spazi privati e per trasformare gli italiani in un pubblico di massa, spettatore quotidiano della politica del regime. Dal teatro alla radio rurale, i lavoratori conobbero allora nuove forme di socializzazione imposte dallo Stato totalitario che non lasciò alcuno spazio autonomo alle diverse espressioni della società, come fece con le donne, considerate vere e proprie macchine riproduttrici. Regina della casa, lontana ed estranea dal mondo degli uomini, dedita ai figli e alla famiglia, la donna fascista sarebbe stata una sposa e una madre esemplare, obbedendo alle forme tradizionali di sottomissione, che certo non furono introdotte dal fascismo. Per altri versi, tuttavia, sarebbe stata una cittadina militante, impegnata nella costruzione della nuova civiltà fascista, non limitata soltanto alle attività domestiche, a cui era tradizionalmente relegata, ma anche dedita a svolgere i compiti che il Partito e il regime le affidavano. Per questo, convinte che

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avrebbero potuto contribuire al grande progetto cui il regime sembrava chiamarle, alcune donne immaginarono di partecipare al processo politico in corso. E forse, senza esserne del tutto consapevoli, iniziarono a emanciparsi dai modelli tradizionali di vita, anche se il ruolo della cittadina militante non fu mai considerato, né da loro, né tanto meno dal Partito fascista, come alternativo a quello di madre e sposa modello. Se queste furono le linee principali della politica culturale del fascismo e quindi, come ho cercato di sottolineare, possono riassumere le più importanti iniziative del Partito e del governo dal 1922 al 1943, la cultura fascista fu anche l’espressione degli artisti e degli intellettuali che contribuirono alla produzione dell’universo culturale del regime. In tutti i settori, fra le realtà culturali più diverse, dai percorsi biografici più disparati, gli artisti e gli intellettuali italiani contribuirono nella loro maggioranza all’espressione della cultura fascista e alla costruzione del regime totalitario: furono cioè pronti a offrire il loro sapere, il loro talento, la loro energia alla causa della politica e dichiarare che le loro discipline non avevano da difendere alcuna autonomia, essendo anzi disponibili ad accogliere i contenuti del regime totalitario. Sarà più chiaro adesso perché l’assenza di canoni estetici unitari all’interno delle singole discipline e l’ovvia continuità di un certo pluralismo stilistico e programmatico nei singoli campi, non solo non furono il segno di un vuoto, cioè dell’assenza di una cultura fascista unitaria, ma significarono esattamente il contrario. Se consideriamo le discussioni che animarono le singole comunità intellettuali e artistiche ci rendiamo conto che, nella differenza delle posizioni, ad accomunare i diversi protagonisti fu la spinta alla mobilitazione e l’impegno a mettere la propria opera al servizio della rivoluzione fascista. Così, immaginare che non sia esistita un’architettura fascista perché fra gli anni Venti e il decennio successivo si confrontarono razionalisti e neoclassicisti, rischia di fare apparire le controversie stilistiche più importanti delle opere, cioè più rilevanti dei singoli monumenti e delle complesse realizzazioni urbanistiche, dalla mostra del decennale della marcia su Roma, alla creazione dell’E42, o alle molte città italiane fondate ex novo. E in effetti, il caso dell’architettura italiana è emblematico non solo perché nella loro maggioranza gli architetti furono fascisti, ma anche perché condussero una dura battaglia,

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dove ciascuno fu convinto di essere l’unico rappresentante dell’architettura fascista e quindi di meritare maggiore spazio degli altri. Potremmo fare molti esempi per ricordare che i dibattiti sullo stile non furono più significativi della presenza di contenuti politici nelle opere dei singoli artisti. O forse bisognerebbe pensare che le differenze fra la letteratura di Mino Maccari e quella di Massimo Bontempelli, attenuano il senso della loro comune convinzione che i letterati dovessero perseguire gli scopi del regime, e ci impediscono di ricordare che entrambi furono finanziati dal fascismo al quale dedicarono il loro talento? E come dovremmo considerare le opere di Mario Sironi, che dichiarò di voler contribuire con la pittura murale a uno sforzo collettivo in cui architetti, urbanisti e pittori avrebbero disegnato e realizzato la nuova città fascista? Bisognerebbe allora sottolineare che non è esistita un’unica arte fascista, un’unica filosofia fascista, un’unica letteratura fascista perché i fascisti non ne ebbero bisogno, perché rifiutarono di fissare un canone estetico stabilito una volta per tutte. Il che non significa che queste discipline non furono profondamente fascistizzate, come è evidente dai contenuti che abbiamo cercato di sintetizzare nelle pagine precedenti. E infine l’ideologia fascista. Sin dalle origini il fascismo conquistò il potere presentandosi come un movimento che avrebbe rifondato l’autorità dello Stato. «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, niente contro lo Stato», dichiarò nel 1925 Mussolini sintetizzando il tema centrale dell’ideologia fascista, sviluppato negli anni seguenti da Giovanni Gentile e da Alfredo Rocco che, insieme a Sergio Panunzio e a Carlo Costamagna, furono i principali teorici del fascismo. Si trattò di autori molto diversi, uniti dalla convinzione che lo Stato fascista non sarebbe stato ostacolato da nulla: né individuo, né gruppo, né istituzione, nulla avrebbe potuto ledere il suo potere illimitato. In questo senso l’ideologia fascista fu la più completa razionalizzazione dello Stato totalitario; una dottrina politica molto diversa dal nazionalismo, come affermò, fra gli altri, Camillo Pellizzi nella seconda metà degli anni Venti: mentre i nazionalisti esprimevano una concezione politica naturalistica e materialistica, basata appunto sull’idea di nazione come dato stabilito a priori, e credevano che fosse la nazione a determinare lo Stato, Pellizzi ricordava che con il fascismo la patria aveva attinto nello Stato la propria forma ideale e che

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a rigore non esisteva «un concetto di nazione italiana», dato che lo Stato fascista non solo aveva sovrastato la nazione, ma addirittura l’aveva eliminata. Questo Stato infinitamente potente avrebbe creato un nuovo italiano. Un uomo nuovo, virile e sportivo, sano nel corpo e nella mente, un uomo attivo, consapevole delle difficoltà e pronto ad affrontarle. Un uomo che non aveva nulla in comune con l’italiano del passato, borghese e liberale; un uomo che avrebbe concepito la vita come lotta e come oggetto di conquista, si sarebbe uniformato al gruppo e sarebbe stato educato ad accettare i comandi del regime. «Per il fascista», scrissero a questo proposito Gentile e Mussolini, «tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenza tutta la vita del popolo». L’uomo nuovo fascista doveva essere creato a immagine e somiglianza di Mussolini che, a differenza degli altri miti che alimentarono l’ideologia fascista, fu un mito vivente. Vertice incondizionato del potere politico, dominatore incontrastato della complessa macchina organizzativa del regime e del Partito, il capo del governo era dappertutto. Così il suo mito dilagò fra le masse popolari che attribuirono al capo del governo qualità straordinarie – dalla sconfinata sapienza all’immensa bontà, dal genio assoluto alla prestanza fisica – e in lui riconobbero il protagonista di una missione epocale di trasformazione dell’Italia e del mondo. Questa immagine di Mussolini non si diffuse soltanto fra le masse popolari indottrinate dalla propaganda e dalla cultura fascista. Anche le alte gerarchie del regime esternarono la loro dedizione nei confronti di Mussolini, convinte, come dichiarò per esempio Giuseppe Bottai, che il capo del governo fosse un uomo dotato di poteri speciali e che avrebbe creato una nuova civiltà imperiale basata sul mito e sull’esempio di Roma. Per i fascisti, Roma rappresentava la continuità nel tempo, il perdurare di una civiltà attraverso i secoli. Era il simbolo dell’universalità, dimostrata dal fenomeno del cristianesimo che era diventato una religione universale soltanto dopo il trasferimento della sua base dalla Palestina; aveva dominato il mondo riuscendo ad arrivare laddove nessuno era mai giunto; e infine Roma rappresentava il futuro. Al contrario di ciò che molti

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storici hanno sostenuto, il fascismo dichiarò di voler assumere l’eredità romana non per nostalgia reazionaria, né per tornare a un lontano passato, ma perché, come si è visto, il mito di Roma aveva una funzione politica legata alla costruzione di una nuova civiltà imperiale, moderna e totalitaria. Si può affermare allora, concludendo questa sintesi, che la cultura fascista fu una realtà omogenea, priva di conflitti e di scontri? Un’espressione coesa e unitaria? Un luogo nel quale tutti furono d’accordo con tutti nel dichiarare l’avvenuta fusione di politica e cultura e nel celebrare il primato della politica che, come si è sottolineato nell’Introduzione, costituisce il tratto principale del carattere totalitario del regime fascista? Come si è cercato di ricordare nelle pagine di questo volume, all’interno della cultura del regime vi furono espressioni diverse: negli anni Venti le correnti principali furono i gentiliani, i revisionisti e gli intransigenti che si occuparono del ruolo degli intellettuali nel fascismo, dei rapporti fra la politica e la cultura, della collocazione del nuovo regime nella storia europea e quindi del suo rapporto con la modernità. I revisionisti e i gentiliani pensavano che gli intellettuali dovessero collaborare con la classe dirigente, ritenevano che la definizione della cultura fascista avrebbe rafforzato l’identità del regime e consideravano il fascismo come uno Stato moderno e rivoluzionario che si poneva nel solco tracciato dalla Rivoluzione francese, quello cioè della politica di massa e delle grandi rivoluzioni. Al contrario, gli intransigenti mostravano disprezzo per gli intellettuali, ritenevano che il fascismo non avesse bisogno di alcuna giustificazione teorica e pensavano che la politica avrebbe espresso una risposta alternativa alla cultura moderna emersa dalla Rivoluzione francese. Già alla fine degli anni Venti, tuttavia, questa contrapposizione venne meno, nel senso che le correnti della cultura fascista cambiarono. La critica contro la modernità, la lotta per salvare l’anima rivoluzionaria del fascismo dalla corruzione degli opportunisti e la paura della normalizzazione restarono alcuni dei tratti caratteristici della cultura dei fascisti intransigenti. Al contempo, le loro proposte persero il carattere ribellistico che avevano avuto alle origini del fascismo. In un certo senso, sintetizzando percorsi biografici ed esperienze collettive assai diversi, possiamo sottolineare che nella cultura del regime totalitario gli intransigenti si avvicinarono ai revisionisti e dal

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rivendicare il proprio ruolo di rivoluzionari e guerrieri divennero intellettuali di regime, impegnati come gli altri a costruire il presente e il futuro. Da parte loro i gentiliani iniziarono ad allontanarsi dal maestro cercando un orizzonte filosofico diverso e sviluppando una critica riguardo alle sue scelte politiche. Subendo l’influenza dei fascisti che consideravano Gentile un intellettuale liberale, questi giovani si impegnarono ancor più chiaramente nella politica culturale e negli anni Trenta si legarono a Giuseppe Bottai che da allora divenne il loro punto di riferimento, li ospitò su «Critica fascista», e diede vita a un gruppo di collaboratori che l’avrebbero seguito nelle sue esperienze governative. Bottai fu di fatto il personaggio più importante della cultura fascista degli anni Trenta e Quaranta non perché non vi furono altri politici e intellettuali particolarmente attivi in questo campo, ma perché Bottai riuscì a tenere insieme le diverse anime della cultura e della politica e a rappresentare la risposta del fascismo totalitario al conflitto tra le diverse correnti della cultura e della politica del regime, come mostrò l’esperienza della rivista «Primato». Bottai fondò e diresse «Primato» dal 1940 con il sostegno di intellettuali di diversa formazione tutti d’accordo nel ritenere superato il problema della fascistizzazione della cultura italiana e nel celebrare l’avvenuta fusione di cultura e politica, e tutti d’accordo nel definire il fascismo un regime rivoluzionario, moderno e totalitario. In questo senso se gli intransigenti degli anni Venti assunsero tratti riconducibili ai revisionisti, è vero anche il contrario e cioè che Bottai e i revisionisti, allontanandosi da Gentile nella seconda metà degli anni Venti, divennero sempre meno interessati a elaborare un corpus dottrinario e sempre più impegnati ad assicurare al fascismo il più stretto collegamento fra politica e cultura. Perciò ritengo che la cultura fascista degli anni Trenta non derivò né dalla vittoria delle correnti tradizionaliste né dall’azione dei cattolici che furono ben lontani dall’egemonizzare la cultura di uno Stato che considerava la religione cattolica un instrumentum regni. Certamente la cultura del regime si giovò del contributo di alcuni intellettuali cattolici fascisti che riconobbero nel regime la possibilità di costruire un paese nuovo e diverso dall’Italia liberale, in cui la religione cattolica avrebbe avuto un ruolo fondamentale, ma ciò non

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significa che i cattolici rappresentarono la cultura fascista o che la cultura fascista derivò dal pensiero cattolico. Da questo punto di vista la cultura fascista fu la cultura dei giovani fascisti, di coloro cioè che sostenevano di aver assimilato fino in fondo i valori, i miti e le idee del regime. Cresciuti nell’universo mitologico creato dal fascismo, i giovani sentirono di rappresentare meglio degli altri un’epoca storica rivoluzionaria e si presentarono come i protagonisti della rivoluzione, quelli che interpretavano correttamente la dottrina fascista e rivendicavano uno spazio per la creazione di una classe dirigente nuova e davvero fascista. In questo senso non solo non furono segretamente antifascisti, come pure è stato sostenuto, ma al contrario furono i testimoni più autorevoli della riuscita di quell’esperimento totalitario che fu il fascismo. Eppure c’è addirittura chi ha visto nei littoriali organizzati dai Guf una palestra di antifascismo o chi per lungo tempo ha considerato i giovani come protoantifascisti o ha pensato che gli intellettuali fascisti fossero degli ingenui che cercarono di trasformare il regime dall’interno senza rendersi conto della propria impotenza. Nelle pagine di questa breve storia della cultura fascista si è ragionato in modo diverso sostenendo che i politici, gli intellettuali e gli artisti, i giovani e i non giovani, sono stati fascisti nonostante le differenze delle biografie, dei percorsi intellettuali e delle discipline di cui si sono occupati. Ciò che accomunò gli uomini, le istituzioni e le idee dell’Italia fascista fu allora più importante di ciò che li divise e quindi determinò la loro identità politica e culturale. Questo non significa che nel regime totalitario non vi furono scontri fra correnti e gruppi antagonisti, né che la cultura espressa dal fascismo fu un monolite identico a se stesso. Significa invece prendere sul serio le scelte di chi si impegnò dal 1922 al 1943 per esprimere una nuova cultura e non volle vivere in un modo diverso. Significa leggere le opere e ricostruire le azioni di quei fascisti che fornirono al regime totalitario il loro contributo e il loro talento cercando uno spazio e un ruolo nel fascismo, convinti di partecipare a una grande opera di costruzione della storia. E, infine, studiare la cultura fascista significa non stancarsi di riflettere su un tema che forse a qualcuno potrà sembrare superato, e cioè chiedersi ancora come mai gli italiani sono stati fascisti.

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Indice dei nomi

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Battaglia, Felice, 217-219 Battente, Saverio, 116n, 117n Bedeschi, Lorenzo, 182n Beer, Marina, 197n, 199n Belardelli, Giovanni, 91n, 129n, 142n Bell, Daniel, 107n Belluzzo, Giuseppe, 71, 74, 149, 212 Benadusi, Lorenzo, 135 e n Bencini, Angiolo, 96 Ben Ghiat, Ruth, 45 e n, 155n, 158 e n, 175 e n, 179n Benigno, Francesco, 129n Benjamin, Walter, 42, 43 Benvenuti, Marco, 121n Béraud, Henri, 109, 110 e n Berezin, Mabel, 41, 42 e n Bernstein, Edward, 33n Bertelè, Agostino, 101 e n Bertone, Gianni, 111n Betti, Carmen, 74n, 77n, 78 e n Bilenchi, Romano, 176 Biondi, Marino, 39n, 87n Blasetti, Alessandro, 164 Bo, Carlo, 16 e n Boatti, Giorgio, 149n Bobbio, Norberto, 12-14, 16 e n, 17, 19 e n, 25, 37n, 46, 47, 54 e n Bodrero, Emilio, 54, 55, 174n, 185 Bontempelli, Massimo, 20, 94 e n, 97, 98, 174n, 204, 226 Bonuglia, Roberto, 91n Borsotti, Alessandro, 39n Bottai, Giuseppe, 23, 34, 71, 83 e n-86, 95, 99, 103, 111, 113, 124, 126, 140, 143-145, 152, 171, 173-175, 180n, 181n, 192, 208, 209, 211-215, 218, 223, 227, 229 Botti, Alfonso, 183n

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Abbagnano, Nicola, 184n Acerbo, Giacomo, 174n Adamson, Walter A., 44n, 93 e n, 96n, 97n Addis Saba, Marina, 167n Albani, Marcello, 164 Alessandrini, Goffredo, 164 Alfieri, Dino, 162 Almond, Gabriel A., 33n Ambrosini, Gaspare, 120n Ambrosoli, Luigi, 63n Amicucci, Ermanno, 161 Aniante, Antonio (pseud. di Antonio Rapisarda), 94 e n Anile, Antonino, 180n Aramini, Donatello, 29n Arendt, Hannah, 36 Argentieri, Mino, 163n Arias, Gino, 69, 174n Ascenzi, Anna, 73n Asor Rosa, Alberto, 19-21 e n, 32, 96n, 97n, 139 e n, 176n, 178n, 214n Augusto, Caio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore romano, 132, 134

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Indice dei nomi

Badoglio, Pietro, 72 Bailey, Leon, 106n Balbino, Giuliano, 69, 71, 147, 149, 174n Balbo, Italo, 174n Baldini, Antonio, 183n Balkin, Jack M., 107n Balla, Giacomo, 93 Barbarito, Camillo, 77n Barbaro, Umberto, 176n Bardi, Pier Maria, 203 Bargellini, Piero, 182n, 183 Barrès, Maurice, 142

234   indice dei nomi

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Cabiati, Ottavio, 204 Cagnetta, Mariella, 133n Calogero, Guido, 89 Calza-Bini, Alberto, 69 Camesasca, Ettore, 95n, 206n Campi, Alessandro, 46n, 109n, 111n Campochiaro, Emilia, 120n Canella, Maria, 77n Canfora, Luciano, 129 e n, 130 Cannistraro, Philip, 28 e n, 29, 67n, 69n, 93 e n, 95, 124n, 160n, 162n Canosa, Romano, 161n Canta, Carmelina Chiara, 106n Cantimori, Delio, 89, 101, 102 e n, 217 Carella, Domenico, 159 e n, 178, 179n, 181 e n Carini, Tomas, 114n Carli, Mario, 173-175 Carlini, Armando, 89, 137, 184, 189192 e n, 213, 214 e n Carrà, Carlo, 93, 97 Casadei, Bernardino, 52n Casati, Alessandro, 71 Casini, Gherardo, 175 e n Cassata, Francesco, 187n, 194n, 197n, 198n Cassirer, Ernst, 30, 108 e n Castelli Gattinara, Enrico, 185 e n Cau, Maurizio, 138n, 141n Cavallera, Hervé A., 61n, 63n, 66n, 112n, 152n Ceci, Giovanni Mario, 32n Cedroni, Lorella, 16n Cerrato, Rocco, 183n Cesare, Gaio Giulio, 134 Charnitzky, Jürgen, 55n, 65n, 66n, 71n-74n, 148n-150 e n, 155n, 158 e n Cianci, Giovanni, 19n

Ciarlantini, Franco, 67, 174n Ciattini, Alighiero, 92n Cicalese, Maria Luisa, 59n Cicchetti, Angelo, 214n Ciliberto, Michele, 22n, 87n, 190n Ciucci, Giorgio, 202n, 203n, 207n Codignola, Ernesto, 66n, 67, 69, 89, 90 e n, 101 e n, 102, 180n Cogni, Giulio, 199 Colarizi, Simona, 15n Colin, Mariella, 73n, 74 e n, 148n Collotti, Enzo, 38n Coppola, Francesco, 174n Cordova, Ferdinando, 51n, 119n Corra, Bruno, 92 Corradini, Enrico, 20, 174n Costa, Pietro, 141n Costamagna, Carlo, 28, 69, 115, 119123, 128 e n, 174n, 189, 214, 217, 220, 226 Croce, Benedetto, 9 e n-11, 13 e n-15, 17, 19n, 29, 46, 59, 85, 180 Cupellaro, Marco, 120n Curcio, Carlo, 217, 219-221n Cuzzi, Marco, 178n

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Bragaglia, Anton Giulio, 94 Braun, Emily, 205n Breschi, Danilo, 86n, 138n, 215n Brocchi, Diano, 176 e n Bruers, Antonio, 174n Brunati, Giuseppe, 88, 174n Brunetta, Gian Piero, 163 e n Buchignani, Paolo, 176n Burdett, Charles, 43n Burnett Tylor, Edward, 32n

D’Agostino, Federico, 108n D’Alfonso, Rocco, 116n D’Andrea, Ugo, 174n D’Annunzio, Gabriele, 51, 174n Dante Alighieri, 178 De Begnac, Yvon, 88n, 189n De Bernardi, Alberto, 14n De Chirico, Giorgio, 93, 97, 205 De Crecchio, Luigi, 178 De Felice, Renzo, 11n, 13n, 17n, 22n, 32-35 e n, 46, 49n, 50n, 56n, 59n, 74n, 109n, 125 e n, 126, 135n138n, 140n, 142n, 147n, 148n, 160n, 161n, 179n, 210n De Francesco, Antonino, 142n De Grazia, Victoria, 79 e n-81, 84n, 121n, 129n, 155n, 166n-169n, 187n Del Debbio, Enrico, 8, 76 Deledda, Grazia, 74 Della Pergola, Sergio, 193n Del Noce, Augusto, 16 e n, 17 e n, 28, 34, 52n, 60 e n, 127n De Luca, Giuseppe, 182, 183 e n Del Vecchio, Giorgio, 185, 219

indice dei nomi   235

Foa, Anna, 197n, 199n Forges Davanzati, Roberto, 174n Formigari, Francesco, 100, 101n Forzano, Giovacchino, 164 Fraddosio, Maria, 166 e n, 169 e n Franzì, Leone, 199 e n, 200 Freeden, Michael, 107n Frosini, Fabio, 16n

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Gabbi, Umberto, 101n Gaeta, Franco, 124 e n Gagliardi, Alessio, 138n Galantini, Luca, 121n Galfrè, Monica, 63n, 83n Gallone, Carmine, 164 Gamberini, Guido, 102n Garin, Eugenio, 14 e n, 15, 17, 23-25, 47, 59 e n, 142n, 172 e n, 179n, 184 e n, 185n, 189n, 191n Garzarelli, Benedetta, 15n Gemelli, Agostino, 180n, 183 Gentile, Emilio, 14n, 29n-32n, 35 e n, 36, 43 e n, 44, 49n-51n, 54n, 65n, 75n, 78n, 83n, 85n, 86n, 107-111n, 113n, 114n, 117n, 119n, 120n, 126 e n, 127 e n, 129n-135n, 137 e n, 145 e n, 156n, 157n, 204n, 205n, 207n, 208n, 216n Gentile, Giovanni, 12-14, 17, 24, 25, 34 e n, 58-72, 85, 86, 88-91 e n, 99 e n-101, 103, 111 e n-113 e n, 115 e n-120, 122-127 e n, 135, 136, 138, 139, 142, 147-150, 152 e n-154, 171-173, 180-184 e n, 188-192, 200, 201, 209, 211-214, 217-219, 223, 226, 227, 229 Gentili, Rino, 55n Germinario, Francesco, 187n, 194n, 199n, 200n Ghidetti, Enrico, 39 Giani, Niccolò, 114 e n Giannetto, Marina, 160n, 162n Giannini, Guglielmo, 163 Giardina, Andrea, 129n-132n, 134 Giasi, Francesco, 15n Giglioli, Giulio Quirino, 134 Gillette, Aaron, 194n Gini, Corrado, 194n Gioberti, Vincenzo, 86 Giordano, Emilio, 183n Giuliotti, Domenico, 182, 183n

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De Marchi, Luigi, 74 De Maria, Luciano, 50n De Monfor, Claudio, 216n Depero, Fortunato, 93 De Renzi, Mario, 205 De Sarlo, Francesco, 149 De Seta, Cesare, 202n Dessì, Giuseppe, 138n-140n Detragiache, Denise, 166n-168n De Vecchi di Valcismon, Cesare Maria, 71, 151 e n-153, 156, 212 Di Biase, Carmine, 183n Di Giovanni, Pietro, 61n Di Lalla, Manlio, 127n Di Napoli, Nico, 108n Di Nucci, Loreto, 84n Di Rienzo, Eugenio, 91n Dollo, Corrado, 189n Donati, Ines, 168 Ducati, Pericle, 132 Durkheim, émile, 108, 109n

Eagleton, Terry, 107n Emanuelli, Enrico, 176n Emery, Nicola, 52n Ercole, Francesco, 71, 148, 150, 212 Esposito, Roberto, 108n Etlin, Richard A., 92n, 93n, 202n-204 e n, 208 e n Evola, Julius, 28, 39, 180n, 184, 187 e n-190, 199

Fabre, Giorgio, 198n, 202n Falasca Zamponi, Simonetta, 41, 42n, 109n Fallacara, Luigi, 182n Fanelli, Giuseppe Attilio, 88, 173-175 Fani Ciotti, Vincenzo (Volt), 89 Faraone, Rosella, 201n Farinacci, Roberto, 69, 189 Fattori, Marta, 142n Faucci, Dario, 60n Fazio Allmayer, Vito, 89, 153 Fedele, Pietro, 71, 72, 132, 133, 149, 212 Federzoni, Luigi, 174n Feldman, Matthew, 46n Ferrara, Patrizia, 160n, 162n Ferri, Carlo Emilio, 114n Finocchiaro, Salvatore, 77n Finzi, Roberto, 198n, 202n

236   indice dei nomi

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Le Bon, Gustav, 142 Leeden, Michael, 51, 52n Leicht, Pier Silverio, 69 Lenin, Nikolaj (pseud. di Vladimir Ilič Uljanov), 33n Levi, Mario Attilio, 133 Lévi-Strauss, Claude, 30 Libera, Adalberto, 205 Licitra, Carmelo, 69, 127n Lo Bianco, Luca, 150n Lombardo Radice, Giuseppe, 58, 59n, 89 Longanesi, Leo, 96, 174n Longo, Anna Rita, 179n Longo, Gisella, 67n-69n, 85n, 215n Lo Schiavo, Aldo, 60n Ludwig, Emil, 195 Lukács, György, 19 e n, 29 Lumbroso, Giacomo, 143 e n, 144 Lupi, Dario, 65 Lupo, Salvatore, 91n Luzzatto, Sergio, 33n, 43 e n, 84n, 87n, 105 e n, 121n, 129n, 155n, 187n Lyttelton, Adrian, 49n

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Giuntella, Maria Cristina, 155n Giuntini, Sergio, 77n Giuriati, Giovanni, 155, 174n Giusso, Lorenzo, 92n Gobetti, Piero, 11, 13 e n, 14, 25n Goetz, Helmut, 149n Goglia, Luigi, 32n, 35n, 109n, 197n Golsan, Richard, 93n Gramsci, Antonio, 14, 15, 18, 22, 96n Granata, Giorgio, 178, 179n Gravelli, Asvero, 137n, 174n Gray, Ezio Maria, 174n Gregor, A. James, 28 e n, 119n, 122n Gregory, Tullio, 142n Griffin, Roger, 29n, 45 e n, 46 e n Grimaldi, Ugoberto Alfassio, 84n, 155n, 160n, 167n Gross, professor, 199 Guerri, Giordano Bruno, 84n Guzzo, Augusto, 189n Harris, Henry S., 59n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 116, 188 Heywood, Andrew, 107n Hitler, Adolf, 27 Hobbes, Thomas, 53 Humboldt, Karl Wilhelm von, 148 Hume, David, 53 Iannuzzi, Isabella, 197n, 199n Interlandi, Telesio, 70, 163, 164, 174n, 197 Isnenghi, Mario, 20 e n, 32, 37 e n Isola, Gianni, 164n-166n Israel, Giorgio, 194n, 195n, 198n, 199 e n Kant, Immanuel, 53 Kierkegaard, Søren, 19 Knight, Kathleen, 107n Koon, Tracy H., 74n, 78 e n, 158 e n Kristeller, Paul Oskar, 200, 201 e n

Lanchester, Fulco, 117n, 119n, 121n Lancia, Emilio, 204 Landra, Guido, 197 Laqueur, Walter, 27n, 107n La Rovere, Luca, 57n, 74n, 135n, 156n-158n, 160n Laura, Ernesto G., 163n

Maccari, Mino, 94 e n, 96, 97 e n, 176, 226 Machiavelli, Niccolò, 85 Maggiore, Giuseppe, 89 Magi-Spinetti, Carlo, 213n Maiocchi, Roberto, 194n, 195n, 198n, 199n Majer Rizzioli, Elisa, 168 Malaparte, Curzio (pseud. di Curzio Suckert), 87 e n, 88, 97, 142, 174n Malvano Bechelloni, Laura, 92n Manacorda, Guido, 96n-98n Mancini, Guido, 216 e n Mangoni, Luisa, 23 e n-25, 29, 32, 59 e n, 84n, 87n, 96n, 97n, 99 e n, 102n, 124 e n, 172n, 176n, 179n, 180n, 182n, 214n Mann, Thomas, 19n Mannheim, Karl, 106 e n Maraviglia, Maurizio, 174n Marchesini, Daniele, 114n Marchi, Vittore, 185 Mariani, Riccardo, 202n, 203n, 206n Marinetti, Filippo Tommaso, 50 e n, 94 e n, 137, 174n, 180n Marini, Giuliano, 61n

indice dei nomi   237

Negri, Antimo, 187n Nello, Paolo, 57n Nerva, Marco Cocceio, imperatore romano, 132 Nicoloso, Paolo, 133n, 202n Nietzsche, Friedrich, 19, 27, 129, 142 Nistri De Angelis, Susanna, 119n Nolte, Ernst, 19n, 26-28 Noventa, Giacomo, 17n

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Ojetti, Ugo, 175 e n Olivetti, Angelo Oliviero, 174n Omodeo, Adolfo, 89 Orani, Annibale, 210n Orano, Paolo, 174n, 180n, 199, 213 e n, 214 Orestano, Francesco, 180n, 184-187, 189, 190, 192 Oriani, Alfredo, 20, 85 Ostenc, Michel, 56n, 65n, 71 e n, 74n, 148n, 151n, 152n Ottaviano, Carmelo, 185 e n

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Marino, Giuseppe Carlo, 179n Marpicati, Arturo, 174n Martinetti, Piero, 149 Marx, Karl, 27, 100 Masi, Giorgio, 69 Matard Bonucci, Marie-Anne, 137n, 194n Matteotti, Giacomo, 66, 90, 168 Matteucci, Nicola, 217n Mazzariol, Ferruccio, 182n Mazzatosta, Teresa Maria, 55n, 59n, 111n, 211n Mazzini, Giuseppe, 66 e n, 126 Melchiori, Alessandro, 73 Melograni, Piero, 109n Mercadante, Francesco, 52n Meriano, Francesco, 58n Mezzasoma, Ferdinando, 217n Milza, Pierre, 109n Miotto, Antonio, 183 Momigliano, Arnaldo, 39 Montalto, Domenico, 173n Montanelli, Indro, 176 Monteleone, Franco, 164n Morandi, Carlo, 214 e n Morandi, Giorgio, 93, 97 Morante, Elsa, 137 Moravia, Alberto (pseud. di Alberto Pincherle), 176n Moro, Renato, 32n, 172n, 182n, 183 en Mosse, George L., 29 e n-32, 41, 50n, 52n, 135n, 137 e n, 145 e n Murialdi, Paolo, 160n, 161n Musiedlak, Didier, 109n, 113n Musil, Robert, 142 Mussolini, Arnaldo, 133, 174n Mussolini, Benito, 8, 9, 12, 27, 32-35, 41, 42, 49, 52, 57 e n-59, 62, 66-68, 70-72 e n, 85, 89n, 90, 93, 94, 96, 101, 109 e n-115 e n, 118 e n-121, 124n-126, 130-137, 148 e n, 149, 151 e n, 154-157, 161, 162, 167, 168, 174n, 184, 189n, 192, 194 e n, 195, 197, 201, 203, 204, 207, 208, 215, 216 e n, 219, 223, 226, 227 Muzio, Giovanni, 204 Nastasi, Pietro, 194n, 195n, 198n Nasti, Agostino, 101n Negri, Ada, 74

Pagano, Antonio, 94n, 144 e n Pagano, Giuseppe, 202 e n Pagliaro, Antonino, 216 e n Painter, Borden W., 33n Pais, Ettore, 133 Panunzio, Sergio, 28, 115, 119 e n, 120 e n, 123, 140, 144, 145n, 174n, 185, 217, 218, 220, 226 Papa, Emilio R., 67n Papini, Giovanni, 182, 183 e n Pardini, Giuseppe, 87n Parlato, Giuseppe, 87n, 90n, 91n, 135n, 138n, 140n Parri, Ferruccio, 110 Pascoli, Giovanni, 20 Pasini, Mirella, 53n Pasolini, Pier Paolo, 20 Pasquinelli, Alberto, 217n Pavese, Roberto, 176 Payne, Stanley G., 29n Pedio, Alessia, 47n, 216n Pedullà, Gianfranco, 80n Pelagatti, Rita, 213n Pellicani, Antonio, 22n Pellizzi, Camillo, 85 e n, 86 e n, 96, 127 e n, 128, 176, 214, 215 e n, 219, 226 Pende, Nicola, 195 e n-197

238   indice dei nomi

Rossini, Giuseppe, 170n Rossoni, Edmondo, 79 Rousseau, Jean-Jacques, 53, 144, 148, 219 Russo, Luigi, 39, 214, 215n

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Sainati, Vittorio, 189n Saitta, Giuseppe, 89 Salvemini, Gaetano, 13, 20 Sangiorgi, Giorgio Maria, 133 Sani, Roberto, 73n Santarelli, Enzo, 151n Santomassimo, Gianpasquale, 16n, 138 e n Sapegno, Natalino, 39 Sarfatti, Margherita, 93, 95n, 180n Sasso, Gennaro, 60n, 63n, 102n, 116n, 201n Sbriccoli, Mario, 121n Scarantino, Anna, 88n, 174n Schelling, Friedrich Wilhelm, 19 Schmitt, Carl, 53, 102, 121, 220 Schnapp, Jeffrey T., 41 e n, 42, 80n, 93n, 105 Schopenhauer, Arthur, 19 Sciacca, Michele Federico, 186 e n Scorza, Gaetano, 74 Scotto Di Luzio, Adolfo, 73n Scuccimarra, Luca, 129n Sechi, Mario, 179n Sedita, Giovanni, 162 e n Serra, Maurizio, 142n Serri, Mirella, 214n Serventi, Nino, 174n Setta, Sandro, 151n Settimelli, Emilio, 88, 174n Severi, Leonardo, 89 Severini, Gino, 93, 97 Siciliani De Cumis, Nicola, 142n Simoncelli, Paolo, 32n, 101n, 152n, 201n Sironi, Mario, 95 e n, 97, 204-206 e n, 226 Soffici, Ardengo, 39, 67, 87 e n, 88, 92 e n, 94 e n, 96, 174n Sorel, Georges, 8, 84, 100, 142 Sorkin, David J., 29n Spampanato, Bruno, 174n Speranza, Ireneo (pseud. di Giuseppe De Luca), 183n Spinetti, Gastone Silvano, 142, 143 e n

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Perasso, Giovan Battista (detto Balilla), 75 Perfetti, Francesco, 60n, 88n, 89n, 119n, 127n, 140n, 174n, 189n Perini, Leandro, 102n Perrotti, Nicola, 178 Persico, Edoardo, 202 Pertici, Roberto, 66n, 101n, 147n Perticone, Giacomo, 185, 220, 221n Piacentini, Marcello, 202, 204, 207, 208 Pini, Giorgio, 174n Pio XI (Achille Ratti), papa, 111, 155, 178 Pirandello, Luigi, 67 Pisacane, Carlo, 219 Polato, Franco, 217n Pompeo Faracovi, Ornella, 172n, 184n, 189n Ponti, Giovanni, 204 Ponzio, Alessio, 74n, 76n, 156n Portale, Mariantonella, 185n Powell, G. Bingham, 33n Preziosi, Giovanni, 174n, 188n Prini, Pietro, 189n Punzo, Luigi, 61n, 139n Quasimodo, Salvatore, 137 Quazza, Guido, 12n, 37n-39

Racinaro, Roberto, 22n Rapisarda, Antonio, 94 Rende, Domenico, 101n Rensi, Giuseppe, 52 e n, 53 e n Restaino, Franco, 184 e n Ricci, Berto, 96, 172, 176 e n-178 Ricci, Renato, 76, 77 Ridola, Paolo, 119n Roberts, David D., 41n, 44 e n, 60 e n, 105 Rocco, Alfredo, 23, 115-120, 123-126, 174n, 226 Rochat, Giorgio, 51 e n Rolando, Daniele, 53n Romanelli, Pietro, 133 Rosai, Ottone, 96, 177 Rosci, Marco, 19n Rosselli, Carlo, 13 Rossellini, Roberto, 164 Rossi, Marco, 187n Rossi, Pietro, 30n, 53n, 190n

indice dei nomi   239

Unamuno, Miguel de, 142 Ungaretti, Giuseppe, 67 Ungari, Paolo, 116n, 117n, 126 e n

na

Vacca, Giuseppe, 15n, 16n, 22n, 23 e n, 124n Valitutti, Salvatore, 60n Varisco, Bernardino, 185 Vassalli, Giuliano, 117n Vauchez, André, 129n-132n Verucci, Guido, 60n, 172n Vettori, Vittorio, 182n Viano, Carlo Augusto, 53n, 190n Vico, Giambattista, 85 Vidotto, Vittorio, 129n, 152n Vittorini, Elio, 137 Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 65 Volpe, Gioacchino, 67, 69, 90, 91, 137 Volpicelli, Arnaldo, 69, 89, 138 Volpicelli, Luigi, 89, 213n, 215n, 217 Volt (pseud. di Vincenzo Fani Ciotti), 89n Voza, Pasquale, 179n

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Tamassia, Franco, 138n Tannenbaum, Edward, 28 e n Tarchi, Marco, 189n Tarquini, Alessandra, 16n, 53n, 58n, 65n, 66n, 70n, 72n, 85n, 89n, 117n, 121n, 142n, 147n, 148n, 150n, 151n, 153n, 176n, 179n, 185n, 192n, 210n, 211n Tauro, Giacomo, 185 Terragni, Giuseppe, 202-204 Terruzzi, Regina, 167 Thompson, John B., 107n Tilgher, Adriano, 180n Togliatti, Palmiro, 15, 18, 22 e n-24, 46, 124 e n Toraldo di Francia, Monica, 121n Torrini, Maurizio, 186n Tortorice, John S., 29n Toscano, Mario, 193n Traiano, Ulpio, imperatore romano, 132 Tranfaglia, Nicola, 33n, 38n Treccani, Giovanni, 69 Treves, Anna, 195n Troilo, Erminio, 185 Troisio, Luciano, 96n Turati, Augusto, 79, 161 Turi, Gabriele, 23, 25 e n, 26, 29, 32,

46 e n, 47, 62 e n, 69-71 e n, 124, 199n, 217n

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Spirito, Ugo, 89, 90 e n, 138-141, 192, 214 Starace, Achille, 153, 156, 165, 224 Stellavato, Ornella, 74n, 135n Sternhell, Zeev, 27 e n, 28 e n, 31 e n, 107 e n, 141, 142 e n Stone, Lawrence, 40 e n Stone, Marla, 93 e n, 204n Suckert, Curzio, vedi anche Malaparte, Curzio, 20, 87 e n, 96, 142 Susmel Edoardo, 57n, 114n, 148n Susmel, Duilio, 57n, 114n, 148n Suzzi Valli, Roberta, 85n, 135n

Weber, Eugen, 27n Weber, Max, 19 Wilamowitz, Ulrich von, 129 Wistrich, Robert S., 193n Zagarrio, Vito, 214n Zambotti, Sara, 165n Zangara, Vincenzo, 120n, 174n Zangrandi, Ruggero, 159 Zapponi, Niccolò, 19n, 29n, 74n-76 e n, 83n, 84 e n, 142n, 143n, 156n, 160n Zevi, Bruno, 202, 203 Zunino, Piergiorgio, 13n-15n, 22n, 25n, 32, 37, 38 e n