Storia del pensiero giudaico ellenistico 8837224133, 9788837224134

Pensiero giudaico ellenistico è un'espressione priva di confini ben definiti. Comprende la filosofia, ma si estende

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Storia del pensiero giudaico ellenistico
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FRANCESCA CALABI

Storia del pensiero giudaico ellenistico Con un contributo di Romano Penna su

La letteratura canonica del movimento cristiano

MORCELLIANA

© 20 1 0 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 7 1 - 25 1 2 1 Brescia

Prima edizione: giugno 20 1 0

I n copertina:

(II

Rotolo di Qurnran sec. a.c.-I sec. d.C.)

Con il contributo della Fondazione Banca San Paolo di Brescia

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DI BRESCIA

www.morcelliana.com

J diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale. con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore posso­ no essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla S[AE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, SLS[ e CNA, CONFARTI­ G1ANATO, CASARTIGlAN[, CLAA[ e LEGACOOP il 17 novembre 2005. Le riproduzioni ad uso differente da quello per­ sonale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2,20[21 Milano, telefax 02.809506, e-mail [email protected]

ISBN 978-88-372-24 1 3-4 Tipografia La Grafica s.n.c. - Vago di Lavagno (Vr)

INTRODUZIONE

1 . L'ambito di riferimento Pensiero giudaico ellenistico è espressione estremamente ampia, priva di confini ben definiti. Comprende la filosofia, ma a questa certamente non può limitarsi: si estende ad ambiti teorici compresi in opere di carattere let­ terario, scritti religiosi, elaborazioni apologetiche o parenetiche, in prodot­ ti, cioè, estremamente vari, spesso assai lontani sia nella forma che negli intenti dalle opere che rientrano abitualmente in una storia della filosofia. Il termine stesso filosofia rinvia alle sue origini greche ed è significa­ tivo che la storia della filosofia ebraica abbia origine proprio in età elleni­ stica, nel momento, cioè, in cui il giudaismo incontra direttamente la cul­ tura greca. In senso stretto, però, in periodo ellenistico, di filosofia ebrai­ ca si può parlare solamente a proposito di Filone di Alessandria, forse di Aristobulo, di quegli autori , cioè, che coscientemente e sistematicamente hanno utilizzato categorie filosofiche per la loro elaborazione, in un dia­ logo continuo e serrato con platonismo, aristotelismo, stoicismo, epicurei­ smo e altri indirizzi teorici. Si tratta di autori che, non solamente scrivo­ no in greco e sono formati alla cultura greca, ma a'questa attingono come loro referente naturale, come ambito categoriale di interpretazione della realtà e delle Scritture. In particolare Filone, vero e proprio iniziatore di un modo di fare filosofia, di un approccio al sapere e alla tradizione che verrà poi largamente seguito nella storia della cultura posteriore, si collo­ ca su un terreno vergine che coniuga interpretazione della Bibbia e lettu­ ra del pensiero greco. In tale ottica sono difficilmente definibili opere giu­ daiche del periodo ellenistico quali il Libro della Sapienza o Giuseppe ed Aseneth o anche la Lettera di Aristea. Si tratta di scritti di origini molto differenti, relate ad ambiti concettuali estremamente vari che, se non pos­ sono essere dette filosofiche in senso stretto, certamente appartengono, però, a pieno titolo alla storia del pensiero. Le opere di cui parlerò in que­ sta storia appartengono, cioè, a "generi" vari e non sono, in questo senso, riducibili ad un' unica sfera. Anche da un punto di vista geografico l ' ambiente di provenienza è dif­ ferenziato: il fu l c ro della produzione è, soprattutto, Alessandria d ' Egitto,

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ma il referente ideale costante è Gerusalemme che costituisce il polo cui guarda la diaspora, il luogo in cui ha sede il Tempio, il faro cui tutti gli ebrei si rivolgono nelle loro speranze e nelle loro preghiere e in cui si reca­ no nei pellegrinaggi annuali. Anche Gerusalemme è fortemente attraversa­ ta dalla cultura ellenistica: i rapporti con i macedoni, prima, con i romani, poi, costituiscono un elemento significativo di ripensamento e di rielabo­ razione di idee, di abitudini, di relazioni. A volte i governanti di Geru­ salemme adottano scelte di apertura e confronto verso la cultura dei paesi circostanti, parte della popolazione della Giudea è ellenizzata e il greco è lingua di uso comune. Tale stato di cose non è, però, sempre generalizzato e in certi casi suscita violente reazioni. Ne sono testimoni alcuni scritti del periodo che propugnano l ' apertura e l ' assimilazione o, viceversa, sosten­ gono la necessità del mantenimento della propria tradizione e la diffiden­ za verso consuetudini "straniere" e idolatre. Tra le prime possiamo consi­ derare la traduzione in greco della Bibbia o le già citate Giuseppe ed Aseneth e la Lettera di Aristea, tra le seconde i Libri dei Maccabei. A prescindere dall ' autointendimento e dalle intenzioni, il periodo in questione copre all ' incirca quattro secoli , dal III avanti Cristo - o, secon­ do un' altra locuzione, avanti l ' era volgare al I secolo dopo Cristo - o del­ l ' era volgare - periodo che più che ellenistico, dovrebbe, dunque, più pro­ priamente essere chiamato ellenistico e imperiale. Si tratta di un periodo relativamente breve, ma i cui effetti si riverbereranno poi per secoli, ric­ chissimo di fermenti e della costruzione di forme di saperi, di incontri tra culture e mentalità, di formazione di nuovi ambiti religiosi, di creazione di tradizioni. In quest' ottica il termine stesso ellenismo va considerato nelle sue dif­ ferenti sfaccettature. Se da un lato indica un periodo storico : il tempo che va dal regno di Alessandro Magno alla battaglia di Azio nel 3 1 a.c. , in un ' altra prospettiva significa una forma culturale e politica nuova, l ' in­ contro tra popoli, conoscenze, approcci tra culture differenti. Fu Gustav Droysen nel XIX secolo ad interpretare, influenzato da categorie hegelia­ ne, il periodo in questione come una sintesi - che avrebbe raggiunto pieno dispiegamento - tra mondo greco e realtà orientale in precedenza lonta­ nissimi tra loro, quasi antitetici. Per Droysen il termine indica un modo di pensare sviluppatosi con le conquiste di Alessandro Magno, una variazio­ ne sorta sotto l ' influsso di lingua e pensiero greco tra le popolazioni sot­ toposte. Come chiariscono Collins e Sterling nella introduzione a Hel­ lenism in the Land oi Israel (p. 2) vi è una certa confusione nell 'uso del termine, impiegato, talvolta, per indicare il confluire tra cultura greca e mondo orientale e, talvolta, invece, per significare l ' influenza greca sulle popolazion i circostanti . Quanto al giudaismo elleni stico, se con tale dizio-

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ne si indica tradizionalmente il giudaismo della diaspora e, in particolare, il giudaismo alessandrino, l ' impatto dell' ellenismo in terra di Israele fu assai forte e comportò non piccole influenze tanto che alcuni studiosi, primo fra tutti Martin Hengel, hanno sostenuto la tesi per cui è giudaismo ellenistico anche il giudaismo in Giudea. Per Hengel è significativo il forte influsso della cultura ellenistica anche sugli ebrei che si esprimeva­ no in ebraico e aramaico - anche su quelli apparentemente più esclusivi­ sti e più lontani dalla grecità. Il tema dell ' interpenetrazione tra giudaismo ed ellenismo è, cioè, estremamente complesso e non univoco.

2. Distinzioni e denominazioni L' articolazione della letteratura del periodo, la sua ricchezza e la com­ plessità sono evidenziate anche da quegli studiosi che tendono a vederla in maniera unitaria superando le divisioni di carattere dottrinario legate alla nozione di canone. Di qui una considerazione delle opere nel loro contesto storico e letterario, una considerazione che tende a vedere molti testi all ' interno di una area di pensiero vasta, non necessariamente segna­ ta da separazioni linguistiche né da divisioni teologiche o ideologiche. I testi in questione sono collocati all ' interno di una categorizzazione stori­ ca: molti studiosi parlano, così, di giudaismo del Secondo Tempio senza stabilire una netta separazione tra scritti in ebraico e scritti in greco : li in­ seriscono in una vasta area di pensiero legata a eventi storici determinan­ ti per la vita di Israele, prima tra tutti la distruzione del Tempio nel 70 d.C. Ancora in anni relativamente recenti, per alludere alla letteratura del periodo alcuni studiosi parlavano di Spiitjudentum, giudaismo tardo o, invece, di Early Judaism utilizzando due etichette che riflettevano una precisa concezione teologica. La prima alludeva ad un giudaismo che avrebbe trovato fine con il cristianesimo, momento culminante di una sto­ ria e di una cultura che non aveva più ragione di essere nella sua autono­ mia, la seconda, estremamente vaga, presupponeva, invece una religione ebraica antica fortemente unitaria dalle origini fino alla Mishnah, giudai­ smo giovane rispetto alla successiva tradizione rabbinica. In entrambe le dizioni si pensava ad una linea interpretativa unitaria priva delle variega­ ture che, invece, caratterizzano la letteratura in questione. La scoperta dei rotoli di Qurnran, unita ad un atteggiamento filologi­ camente e teologicamente più avvertito, ha portato alla ribalta una nozio­ ne di ebrai smo estremamente più complessa: nuova attenzione è stata rivolta ai cosiddetti apocrifi (secondo l ' uso dei paesi di lingua latina) o pscudcpigrali (così chi amati in ambiente anglosassone), al l ' apocal ittica,

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Introduzione

all ' apertura di parte del pensiero ebraico verso l ' ellenismo. Si è allargata la visione dell ' ebraismo, si è visto che esso è molto più vasto e assai meno omogeneo di quanto non si intendesse ancora fino agli anni '50. Ricerche fondamentali in quest' ambito sono state condotte da Jacob Neusner che parla di giudaismi al plurale ed evidenzia la complessità e la molteplicità delle posizioni, la pluralità di tradizioni, il confronto tra gruppi spesso anche molto polemici tra loro. Neusner ha dato importanza a testi che non sono poi entrati esplicitamente nella tradizione rabbinica, per esempio alle opere di Filone alessandrino, ha compiuto un approfondito e complesso lavoro di analisi del periodo formativo del giudaismo che divenne sistema normativo a partire dal II secolo nel periodo, cioè, in cui anche il cristia­ nesimo conobbe il suo momento formativo. Altri critici, interessati a smussare lo iato tra ebraismo e cristianesimo delle origini, hanno accentuato la contiguità e la continuità tra opere. Così Boccaccini, che ha introdotto la categoria di medio giudaismo con l ' inten­ to di attenuare la barriera tra giudaismo e cristianesimo e, ad un tempo, di rivedere l ' immagine di un giudaismo immutato e immutabile, fortemente unitario che avrebbe trovato espressione nel giudaismo rabbinico. Il rischio dell ' u so di una dizione quale medio giudaismo è che si attenuino troppo le differenze e le specificità. Il termine ricalca la dizione medio platonismo con, però, un piccolo problema: medio platonismo è nome anch ' esso vago e comprende una letteratura ampia ed estremamente dif­ ferenziata al suo interno, ma ha due paletti precisi che la determinano : Platone e il neoplatonismo. Da un lato, dunque un platonismo antico, costituito intorno ad una teorizzazione specifica e determinata, l ' opera di Platone, e all ' altro lato il neoplatonismo che a sua volta si specifica rispet­ to a gnosi e stoicismo. Nel caso del medio giudaismo, quali sono i termi­ ni di distinzione? Rispetto a quali correnti esso si differenzia? Quale ne è la determinazione? Data la complessità delle denominazioni, mi sembra che la dizione più neutra sia ancora quella che parla di giudaismo del secondo Tempio, una determinazione di tipo cronologico che pone in particolare luce il momen­ to di rottura rappresentato dal 70 d.C. Vi sono, infatti , due date fondamen­ tali che costituiscono una sorta di crinale : il 70 e il 1 35 , date che segnano dei momenti basilari e traumatici nella storia di Israele: la distruzione del Tempio la prima, la sconfitta della seconda rivolta contro i romani e la conseguente proibizione per gli ebrei di entrare a Gerusalemme, divenuta colonia romana, la seconda. Per quanto riguarda il nostro discorso, riten­ go che la prima costituisca un punto fermo, un elemento discriminante e possa dunque essere presa come limite cronologico entro cui collocarsi anche se farò qualche riferimento pure ad alcune opere successive.

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Parallelamente, se l ' incontro con la cultura greca ha indubbiamente segnato il giudaismo nella sua totalità, resta, comunque, viva la distinzio­ ne tra giudaismo di lingua greca e giudaismo che si esprime in ebraico ed aramaico. In questa prospettiva ha senso parlare di giudaismo ellenistico anche se non è detto che opere influenzate dall ' ellenizzazione siano necessariamente tutte scritte in greco e nonostante i richiami di Hengel a considerare ellenistico anche il giudaismo palestinese del periodo. 3 . Il periodo storico Con le conquiste di Alessandro Magno e la successiva istituzione dei regni dei diadochi , l ' influenza macedone si estende su tutto il Medi­ terraneo e le zone limitrofe. Si modificano sostanzialmente le relazioni tra città e popolazioni, i tipi di governo, la lingua e la cultura di riferimento. Il greco diviene koin� didlektos, lingua di uso comune e condiviso, pro­ prio come istituzioni e forme culturali greche si diffondono rapidamente. Efebia, organizzazione di giochi, teatri, ginnasi prendono piede presso popolazioni che mai avevano conosciuto tali istituzioni . Anche la Pa­ lestina è attraversata da forme culturali, situazioni, norme che si richiama­ no al mondo ellenizzato. Giudea e Siria nel III secolo sono sotto il dominio dei Tolemei e costi­ tuiscono oggetto delle aspirazioni dei Seleucidi . Della situazione sotto i Tolemei abbiamo poche informazioni , solo la narrazione di qualche epi­ sodio da parte di Flavio Giuseppe. Pare, comunque, che si sia trattato di un periodo relativamente tranquillo, per lo più, privo di tensioni. Con il II secolo si ebbero notevoli mutamenti : nel 1 98 a seguito della sconfitta di Tolemeo v ad opera di Antioco III, Giudea e Fenicia passarono sotto il dominio seleucide. Nel conflitto, Gerusalemme aveva appoggiato Antioco che, in seguito alla vittoria accordò privilegi e sovvenzioni alla città. La supremazia dei Seleucidi fu, però, di breve durata: nel 1 89 Antioco fu sconfitto dai romani e dovette cedere il dominio dell ' Asia minore. Nelle zone sotto il suo potere egli aveva cercato di rafforzare l 'ellenizzazione e aveva favorito l ' acquisizione della cittadinanza ellenica per i locali ceti elevati . Contatti con la tradizione greca si erano avuti molto prima di Ales­ sandro come attesta la presenza di schiavi ebrei e samaritani in Grecia e d i mercenari e mercanti greci in Siria e in Giudea. Si tratta di relazioni che non implicavano necessariamente mutamenti profondi nelle abitudini e nella mental ità, né modifiche nell ' organizzazione sociale. Anche la con­ qu ista da parte di Seleucidi e Tolemei non aveva comportato necessaria-

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mente l ' abbandono di culti, norme, consuetudini precedenti , pure se gra­ dualmente l ' influsso greco aveva preso piede. Ora, vennero fondate città di stampo ellenistico, assunte forme e modi di vita "alla greca". Si diffu­ sero nuovi gruppi di popolazione "greco-siriaca" come in Egitto crebbero i "greco-egiziani". Si trattava di persone che, senza avere lo status di macedoni, si collocavano, però, ad un livello superiore rispetto alle popo­ lazioni locali. Educati secondo le abitudini e i costumi greci , adottavano la lingua e la cultura dei dominatori, strumenti necessari per accedere a cariche e ad una situazione più elevata. L' ellenizzazione fu fatta propria soprattutto da ceti alti cittadini o da persone quali mercenari, ufficiali del­ l ' esercito, lavoratori che erano in contatto con i greci mentre i gruppi rura­ li e in genere i ceti inferiori ne restarono esclusi. Se settori della popolazione accolsero favorevolmente l' ellenizzazio­ ne, la costruzione di città di stampo ellenistico, di ginnasi e di teatri, l ' in­ troduzione di giochi e forme culturali e politiche nuove suscitarono forti contrasti presso altri gruppi. Secondo l ' ipotesi di Elias Bickerman, i con­ flitti derivarono proprio dai tentativi di ebrei ellenizzati di "grecizzare" Gerusalemme. Si ebbero forti reazioni negli ambienti più conservatori o, comunque, più legati a una linea difensiva, diffidenti nei confronti di innovazioni vissute come estranee al giudaismo, come consuetudini che potevano alterare abitudini ed equilibri. Forte era il timore che l ' incontro con nuove idee e comportamenti potesse indurre ad abbandonare la pro­ pria tradizione, il culto per il Dio di Israele, la legge mosaica. È significa­ tivo che il primo testo giudaico in cui compare la parola "ellenismo" sia 2 Maccabei, un testo polemico nei confronti dei macedoni e ancor più degli ebrei ellenizzati : in esso il termine "ellenismo" indica la cultura e le consuetudini greche, vissute come estranee. L' opera descrive in termini risentiti «l' invasione di modi stranieri» , critica elementi considerati con­ trari alla tradizione mosaica e al culto del Tempio, rappresenta il violento scontro che trovò un momento di coagulo nella lotta per la carica di som­ mo sacerdote. Nel conflitto che oppose vari aspiranti alla carica, peso de­ terminante ebbe Antioco IV che, ripetutamente, destituì un sacerdote e ne nominò un altro. L' interferenza di un re seleucida nelle questioni interne alla comunità di Gerusalemme, la nomina di un sacerdote non sadocita, l ' apertura verso giochi e competizioni associati a culti greci, la confisca del tesoro del Tempio costituirono un crescendo di ostilità che giunse al suo apice con l 'entrata di Antioco nel «Santo dei Santi». In seguito al sor­ gere di un clima di fortissima tensione suscitato dalla situazione, Antioco vietò il culto del Dio d i Israele e le offerte in suo onore, trasformò l ' alta­ re del Tempio in altare a Zeus Olimpio, proibì l ' osservanza del sabato e la circoncisione. fece bruciare le Scritture, eresse i n diverse località al tari

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dedicati a Zeus. La reazione fu capeggiata da Mattatia, un sacerdote riti­ ratosi nel deserto con un gruppo di rivoltosi che sferravano attacchi con­ tro altari pagani e gruppi di apostati , ma assunse dimensioni decisamente più rilevanti con Giuda Maccabeo che sconfisse ripetutamente l 'esercito seleucide, rientrò in Gerusalemme e riconsacrò il Tempio con una ridedi­ cazione che è ricordata nella festa di Hannukkah. Giuda stipulò con il nuovo re seleucide un trattato vantaggioso che sanciva libertà di culto. Dopo la morte di Giuda, il potere passò al fratello Gionata che si trovò a dover affrontare una controffensiva dei Seleucidi. Superatala, rifortificò Gerusalemme e assunse il titolo di sommo sacerdote riassumendo così , in sé, due funzioni tradizionalmente separate, cosa che suscitò reazioni negative. Strinse alleanze con Roma e Sparta, ma venne poi sconfitto con l 'inganno e ucciso. Gli succedette il fratello Simone che riusCÌ a stabilire un periodo di pace e di rafforzamento dell'indipendenza. Fu a sua volta ucciso e gli succedette il figlio Giovanni Ircano ( 1 35- 1 04) con il quale ini­ zia la dinastia degli Asmonei in quanto Simone aveva ottenuto l' eredita­ rietà del titolo. Giovanni Ircano si pose quale vero sovrano ellenistico volto all 'ampliamento del regno. In particolare, conquistò Sichem e abbatté il tempio samaritano del monte Garizim, distrusse la Samaria, invase l 'Idumea. Nei confronti delle fazioni, dopo un iniziale appoggio ai farisei, sostenne i sadducei, alienando sì così - a detta di Flavio Giuseppe (A.l. XIII 298 ss.) - i ceti più bassi del popolo. Si succedettero, poi, al pote­ re Aristobulo, Alessandro lanneo, Salomé Alessandra, Ircano II il quale, pur alleato di Antipatro, dovette cedere trono e carica di sommo sacerdo­ te al fratello Aristobulo, sostenuto dai sadducei . Nel loro conflitto i due fratelli si rivolsero a Roma. Nel 63 Pompeo entrò a Gerusalemme e la città divenne tributaria di Roma, la Giudea perse l 'indipendenza e Ircano II, perso il titolo di re, mantenne solamente quello di sommo sacerdote. 4. In Egitto I conflitti che attraversano la Palestina sono spesso riconducibili a dif­ ferenti posizioni rispetto all 'ellenizzazione e ai rapporti con i governanti stranieri. Meno conflittuale pare la situazione interna della comunità ebraica in Egitto. Alessandria, la città voluta e creata da Alessandro Magno, è la capitale del regno tolemaico, fiorente città ricca di popolazio­ n i , di scambi, di commerci, di ricchezze che vi confluiscono da ogni luogo del Mediterraneo. Vi abitano genti delle più diverse origini, dagli egiziani a i grec i , dag l i ebrei ai persiani, dagli indiani ai siriani. Gli ebrei, giuntivi i n varie o n d at e success ive, al segu ito di eserciti, in qual ità d i m i l i tari,

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costituiscono una comunità numerosa che abita in un quartiere separato della città. Secondo quanto affermano lo Pseudo Ecateo e Flavio Giu­ seppe, ausiliari samaritani ed ebrei avevano combattuto con l 'esercito di Alessandro in Egitto e a B abilonia. Ricevuti dei lotti di terreno, vi si erano stabiliti. Presa Gerusalemme, presumibilmente intorno al 302 a.c. , inol­ tre, Tolemeo I Soter aveva condotto con sé in Egitto un gran numero di prigionieri : di questi molti furono arruolati nell 'esercito e furono poi sta­ biliti quali cleruchi in colonie. I cleruchi non erano organizzati secondo gruppi etnici chiusi. Di qui un incremento nella mescolanza di popolazio­ ni e nell'interrelazione, attestate dall 'uso dei doppi nomi. Un ritorno a nomi esclusivamente ebraici si avrà nel II secolo, quando i mercenari greci acquisiranno un notevole rilievo politico e si organizzeranno in politeu­ mata autonomi . Oltre ai mercenari e agli schiavi, erano giunti ad Alessandria molti commercianti, artigiani, contadini ebrei. Essi non avevano i previlegi di cui godevano i cleruchi, ma anche la loro posizione era strettamente lega­ ta all 'apprendimento della lingua e delle consuetudini dei Gentili. Per rag­ giungere una posizione di un qualche rilievo l 'educazione greca era ine­ ludibile e costituiva il primo gradino per salire la scala sociale, cosa non impossibile anche se, naturalmente, non ovvia. Abbiamo notizia, per esempio, di Marco Alessandro, figlio dell 'alabarca (magistrato supremo degli ebrei) e nipote di Filone, che sposò B erenice, la figlia di Agrippa I. Sappiamo anche di alcuni ricchi personaggi che avevano affari ad Alessandria. Per lo più, però, gli ebrei appartenevano a ceti poveri o alla classe media. Rappresentavano una comunità subalterna rispetto ai gover­ nanti macedoni senza, però, essere al livello più basso della scala sociale, ricoperto dagli egiziani. Dotati di alcuni diritti e del riconoscimento di particolari specificità, godevano di una relativa autonomia che andrà man mano restringendosi nel corso dei secoli fino a giungere, negli anni 38-40 d.C., a vere e proprie vessazioni e a conflitti accesi con la popolazione locale e con alcuni governanti romani. Tali conflitti sono rintracciabili nella letteratura del periodo: opere violentemente antigiudaiche si con­ trappongono a scritti ebraici di carattere apologetico. Più disteso era invece stato il clima in precedenza, anche se a momen­ ti di calma e di pacificazione si alternavano periodi più difficili. Con Tolemeo I la posizione degli ebrei era nel complesso positiva ed essi erano per lo più aperti all 'ellenizzazione. La tendenza si acuì con Tolemeo II Filadelfo (285-246) sotto il cui regno l 'importanza del gruppo ebraico crebbe considerevolmente. Sono di questo periodo la probabile liberazio­ ne di schiavi ebrei, discussa, ma ritenuta veritiera da vari autori come Vietor Tcherikover (Hellenistic Civilisation, pp. 272-274), l 'interesse nei

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confronti degli ebrei da parte di autori non ebrei, la traduzione in greco dei primi libri della Bibbia. La crescita numerica e di importanza degli ebrei continuò nei periodi successivi fino a raggiungere il culmine sotto il regno di Tolemeo VI ( 1 8 1 1 45 a.c.). È di questo periodo la costruzione del tempio di Leontopoli di cui abbiamo notizie contrastanti. Secondo le Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe (XIII 62), dopo le guerre maccabaiche e la riconsacrazione del santuario di Gerusalemme, Onias IV che aveva sperato di succedere al padre fatto uccidere dal sommo sacerdote Menelao, viste fallire le sue speranze, si recò in Egitto. Lì giunto si rivolse a Tolemeo chiedendo il per­ messo di fondare «un tempio al Dio Altissimo a somiglianza di quello di Gerusalemme e delle stes­ se dimensioni [ . . . ] onde i Giudei abitanti in Egitto possano quivi convenire con mutua armonia e servire agli interessi dei sovrani» (tr. L. Moraldi).

Si tratta, dunque, di un'operazione inserita in un 'ottica di convivenza con la realtà circostante e, in particolare, di ricerca del favore dei Tolemei. Parallelamente, è una forma di autonomizzazione nei confronti di Ge­ rusalemme e del suo sacerdozio. Se fino a Tolemeo VI il numero e il peso sociale degli ebrei erano cre­ sciuti , la situazione si modificò drasticamente agli inizi del regno di Tolemeo VIII Evergete II sotto cui si ebbero persecuzioni di cui abbiamo notizia da Flavio Giuseppe. Lo storico riporta una storia secondo cui, con­ tro la popolazione ebraica ammassata sarebbero stati aizzati degli elefan­ ti imbizzariti . Gli animali avrebbero però risparmiato gli ebrei rivolgendo­ si, invece, contro i dipendenti del re. Di qui, nuove persecuzioni . A pre­ scindere dagli aspetti favolistici della storia, è significativo il fatto che, in periodo successivo, veniva celebrata ad Alessandria una festa commemo­ rativa dello scampato pericolo. È probabile che risalgano al regno di Tolemeo VII forti contrasti che opposero la comunità ebraica e la popola­ zione greca di Alessandria, contrasti che sfociarono negli accesi conflitti di epoca romana.

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Introduzione

Bibliografia E.J. Bickerman, Studies in Jewish and Christian History, I-III, Leiden 1 976, 1 980, 1 985. E.J. Bickerman, Gli Ebrei in età greca, Bologna 1 99 1 , ed. it. a cura di L. Troiani, ed. orig. The Jews in the Greek Age, Cambridge (Mass.) 1 988. u . Collins-G.E. Sterling (eds.), Hellenism in the Land oj Israel, Indiana 200 1 . W.D. Davies-L. Finkelstein (eds.), The Cambridge History oj Judaism, II: The Hellenistic Age, Cambridge 1 989. J.G. Droysen, Geschichte des Hellenismus, ed. E. Bayer, 3 volI. , Tiibingen 1 95253. Volume 1 originariamente pubblicato nel 1 836. M. Hengel, Giudaismo ed ellenismo, Brescia 200 1 , ed. orig. Judentum und Hellenismus - Studien zu ihrer Begegnung unter besonderer Beriicksichtigung Paliistinas bis zur Mitte des 2. Jahrhunderts v. Chr. , Tiibingen 1 973. M. Hengel, L'«ellenizzazione» della Giudea nel I sec. d. C. , Brescia 1 993, ed. it. a cura di G. Firpo, ed. orig. Zum Problem der "Hellenisierung " Judiias im 1 . Jahrhundert nach Christus, i n M. Hengel et al. , Judaica e t Hellenistica, Tiibingen 1 996, pp. 1 -90. L.1. Levine, Judaism and Hellenism in Antiquity: Conflict or Confluence ?, Seattle 1 998. S. Lieberman, Greek in Jewish Palestine/Hellenism in Jewish Palestine, with a New Introduction by Dov Zlotnick, New York and Jerusalem 1 994. E.M. Meyers, Aspects oj Everyday Life in Roman Palestine with Special Rej ­ erence to Private Domiciles and Ritual Baths, i n J . R . Bartlett (ed.), Jews in The Hellenistic and Roman Cities, London and New York 2002, pp. 1 93-220. P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio, Torino 1 994. V. Tcherikover, Hellenistic Civilisation and the Jews, Philadelphia 1 965, reprint. Peabody, Mass. 1 999. D. Winston, Hellenistic Jewish Philosophy in D.H. Frank-O. Leaman (eds.), History oj Jewish Philosophy, London and New York 1 996, pp. 38-6 1 .

CAPITOLO PRIMO

GRECIA E ORIENTE

I primi segni di effettivo reciproco interesse tra cultura greca e orien­ tale risalgono al periodo ellenistico: già nel IV secolo erano fiorite tradi­ zioni che postulavano rapporti tra sapienti greci e saggi orientali. Secondo Aristosseno di Taranto, Socrate avrebbe avuto una conversazione con un saggio indiano, mentre, per Clearco di Soli, Aristotele, nel periodo in cui insegnava ad Asso, avrebbe incontrato un sapiente giudeo con cui avreb­ be avuto una discussione sulla natura dell ' anima e sulla corruttibilità del corpo. Il tema dell 'incontro tra filosofia greca e saggezza orientale diven­ ne un luogo comune: Pitagora e Platone avrebbero appreso le loro teorie dagli egiziani ; Accademia e Peripato avrebbero avuto interesse per le tra­ dizioni orientali. I giudei erano filosofi per eccellenza secondo Teofrasto che ne studiava i rituali. Nella testimonianza di Strabone, per Megastene, un greco che viaggiò in India intorno al 300 a.c . , le origini della filosofia sarebbero state riconducibili ai bramani. Forte sarebbe poi stato l 'influsso della cultura iranica: Strabone, Dione Crisostomo e Pausania narravano di incontri con i magi. Secondo Plinio, il peripatetico Ermippo vissuto nel 200 a.c. circa avrebbe commentato due milioni di versi lasciati da Zoroastro e sostenuto l 'origine orientale della filosofia greca per cui, ad esempio, Pitagora avrebbe imparato da ebrei e traci. Per molti autori , cioè, gli orientali erano detentori di forme di saggez­ za e di filosofia che erano poi state ricevute dai greci. Già nel V sec. a.c . , Xanto d i Lidia aveva nominato Zoroastro collocandolo seimila anni prima, Ctesia lo citava come re della B attriana circondato da magi, descri­ zione ripetuta da Pompeo Trogo alla fine del I sec . La tradizione di tali legami è citata da Seneca; ProcIo parla di debito di Platone verso Zoroastro e Numenio riporta le origini delle teorie platoniche alle saggez­ ze orientali. Anche per Clemente i primi filosofi avrebbero tratto insegna­ mento da queste: egli elabora la teoria del furto compiuto dai greci nei confronti delle sapienze dei popoli vicini. Si tratta, dunque, di teorie di lungo periodo che spesso presentano le tradizioni dei differenti popoli in maniera abbastanza indistinta per cui per Clearco, per esempio, era ipo­ tizzabile che i bramani indiani discendessero dai magi persiani . In que­ st'ott i ca, è significativo Ecateo di Abdera, vissuto ad Alessandria intorno al 300 a.c., che ut i l i zzò resoconti di sacerdoti egiziani per p a rl a re delle

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origini dei giudei . In tali racconti giudei, sacerdoti babilonesi e Danao sarebbero tutti stati di origine egiziana. La diffusione della diaspora giudaica chiarì in molti luoghi la confu­ sione di una simile immagine e contribuì, a fornire un quadro più preciso dei vari popoli. Lo stesso Ecateo trasse informazioni sul popolo giudaico dagli ebrei che incontrava in Egitto anche se, spesso, interpretava tali noti­ zie alla luce di categorie platoniche per cui l ' organizzazione sociale mosaica diveniva, ai suoi occhi, un esempio realizzato della kalllpolis della Repubblica. La necessità da parte dei popoli vicini di presentarsi ai greci sotto una luce veritiera, e spesso anche assai lusinghiera, è rappresentata da autori quali il babilonese Berosso che scrisse in greco per Antioco I Soter (28 1 262 a.c.) una Storia della Babilonia i n forma di cronaca universale, men­ tre nella prima metà del III sec. Manetone compì sotto il regno di Tolemeo lo di Tolemeo II un 'operazione analoga scrivendo una Storia dell 'Egitto che prende inizio dall' epoca degli dèi per giungere ad Alessandro. Egli parla anche degli ebrei in termini fortemente ostili; dà un racconto per certi versi simmetrico e contrario rispetto a quello di Esodo: Mosè, un esi­ liato, figlio degenere dell ' Egitto avrebbe dato delle norme volutamente anti-egiziane a un popolo ribelle, sacrilego, dedito a violenze e saccheggi, il popolo degli hycsos che attraversò il deserto e fondò una città che chia­ mò Gerusalemme. Secondo un ' altra versione, Osarseph - il cui nome è una sorta di sintesi di Mosè e Giuseppe - divenne capo di una banda di uomini impuri e lebbrosi mandati a lavorare nelle cave di pietra del Nilo. Queste tradizioni saranno poi riprese da autori successivi fortemente anti­ giudaici: Mnasea di Patara che nel III-II sec. introduce la storia dell' adora­ zione di una testa d ' asino d' oro nel tempio di Gerusalemme, Apollonio Molone che attribuisce agli ebrei l ' omicidio rituale, Lisimaco (I sec. a.C.), Cheremone e Apione (I sec. d.C.) che riprendono e accentuano le accuse precedenti. Da parte ebraica la risposta a questa ed altre analoghe accuse trova spazio in opere apologetiche di cui la più nota è il Contro Apione di Flavio Giuseppe dei I sec. d.C. Già in precedenza, però, alcuni autori avevano cercato di presentare la cultura ebraica sotto una luce favorevole. Tra que­ sti, Eupolemo (II sec. a.C.) che cerca di ribattere all ' immagine di misan­ tropia: nella sua lettura, Mosè è l ' inventore dell ' alfabeto che solamente in un secondo momento fu appreso da fenici e greci. Operazione analoga è compiuta da Artapano (11-1 sec .), di cui abbiamo solamente alcuni fram­ menti tramandati da Eusebio nella Praeparatio Evangelica e da Clemente negli Stromata. Artapano ri-scrive alcune storie bibliche presentando Abramo, Giuseppe, Mosè come fondatori di saperi : Abramo avrebbe inse-

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gnato l o studio delle stelle, Giuseppe l a misurazione dei campi, Mosè il culto degli animali. L'autore fornisce un racconto delle vicende di Mosè alquanto distante dall 'immagine datane da Esodo. Il suo nome avrebbe indotto i greci ad identificare il personaggio con il poeta Museo. Questi sarebbe il maestro di Orfeo. Mosè sarebbe, così, all 'origine della poesia e dell'arte oracolare greche. Per i suoi successi avrebbe suscitato l 'invidia del re Chenephres che lo avrebbe mandato a combattere contro l 'Etiopia. Pur disponendo di un esercito raffazzonato, Mosè sarebbe stato vittorioso ed avrebbe introdotto nuove consuetudini, quali la circoncisione, in Etiopia. Parallelamente, altri autori ebrei scrissero in greco opere di altro gene­ re : già verso la fine del III secolo Demetrio, seguito poi da altri scrittori, aveva composto dei lavori di carattere storico di cui sono rimasti fram­ menti. Furono inoltre scritti poemi epici e tragedie. Tra tutti questi lavori, i! più significativo, destinato ad avere un'influenza e una risonanza per secoli fu la traduzione in greco dell ' opera che narrava la storia del popo­ lo ebraico, ma che si poneva anche come storia universale dell 'umanità dalle origini dei tempi: la Bibbia. Si tratta della traduzione della Settanta (LXX) che, iniziata dalla versione dei primi libri, continuò poi , nei secoli seguenti.

Bibliografia J.1. Collins, Jewish Cult and Hellenistic Culture. Essays on the Jewish Encounter with Hellenism and Roman Rule, Leiden-Boston 2005, in partic. pp. 44-57. E. Gabba, Greek Knowledge oj Jews up to Hecataeus oj Abdera, Berkeley 1 98 1 . A. Momigliano, Pagine ebraiche, a cura di S . Berti, Torino 1 987. A. Momigliano, Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico, 1IX, Roma 1 955- 1 992. M. Stern, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, Jerusalem 1 974. M.E. Stone (ed.), The Literature oj the Jewish People in the Period oj the Second Tempie and the Talmud, voI. II: Jewish Writings oj the Second Tempie Period, Assen, Netherlands-Philadelphia 1 984. V. Tcherikover, Hellenistic Civilisation and the Jews, Philadelphia 1 959, reprint. Peabody, Mass. 1 999. P.W. van der Horst, The Interpretation oj the Rible by the Minor Hellenistic Jewish Authors, in Id. , Essays on the Jewish World oj Early Christianity, Gottingen 1 990, pp. 1 87-2 1 9.

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La Lettera di Aristea

1.1. Un racconto sulla traduzione della B ibbia

La traduzione della Settanta costituisce una sorta di punto zero per la letteratura giudaico ellenistica in genere e la storia del pensiero, in partico­ lare. Prendono, infatti, avvio, in concomitanza con la traduzione, forme di esegesi e di interpretazione dei testi che avranno grandi sviluppi successi­ vi. Problemi legati alla trasmissione di termini, concetti, nozioni da una lingua all 'altra erano, ovviamente, già oggetto di ricerca e di studio con l 'uso di ebraico ed aramaico, ma trovano nuove forme nell 'incontro con la cultura greca, con i commenti ad Omero e a Platone, con gli studi etimo­ logici ed allegorici degli stoici, con le ricerche filologiche ellenistiche. Si pongono interrogativi sulla possibilità di rendere in lingue differenti da quella originaria un testo di autorità, immodificabile, «cui non si deve aggiungere o togliere alcunché» , un testo scritto nella lingua «naturale» usata da Dio al momento della creazione. Si tratta di attestare la validità della traduzione e la sua totale coincidenza con il testo di partenza, di sosteneme il carattere ispirato e la precisione, di individuare la fonte del­ l 'iniziativa e riconosceme il valore, di affermare la sapienza e la saggezza dei traduttori, il livello del loro lavoro, l 'approvazione umana e divina ch e ha accompagnato la loro impresa. Questi temi - tra altri - sono affrontati nella Lettera di Aristea, un ' opera anonima la cui datazione è incerta e ha dato luogo a molte discussioni, scritta secondo molti studiosi nel secondo secolo, per altri di molto successiva, addirittura della fine del I sec. d.C. Nella finzione letteraria l 'opera pretende di essere scritta da un Gen­ tile, dignitario alla corte del re Tolemeo II Filadelfo, nella prima metà del III sec. Narra dell 'iniziativa di traduzione della Bibbia voluta del re To­ lemeo. Secondo la versione della Lettera, il re, spinto dal desiderio di pos­ sedere per la biblioteca di Alessandria tutti i libri esistenti al mondo, orga­ nizza una spedizione a Gerusalemme per chiedere al sommo sacerdote Eleazar di inviare una copia del libro e uomini saggi in grado di tradurlo. Presupposte sono la vitalità e la ricchezza di Alessandria e della sua corte, l 'animazione di una città in cui si incontrano popolazioni e culture, l 'aper­ tura di un sovrano che, ricevuta da Demetrio Falereo - «preposto alla biblioteca del re» - la segnalazione dell 'esistenza di un libro non posse­ duto dalla biblioteca, subito decide di ovviare alla carenza. È plausibile che la traduzione della Settanta più che alla volontà del re Tolemeo sia da ascrivere ad un desiderio della comunità ebraica alessan­ drina. non più in grado di capire l 'ebraico. È cioè possibile che la diffu sio-

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ne del greco come lingua d'uso e l a crescente ignoranza dell 'ebraico siano all 'origine della traduzione, che le comunità ebraiche della diaspora - in particolare quella di Alessandria - non più in grado di leggere le Scritture nella lingua originale, necessitassero un testo in greco. Di fatto, le cono­ scenze linguistiche delle varie comunità erano spesso assai differenziate e allargate: non è raro che anche abitanti della Giudea usassero quotidiana­ mente il greco, magari per scopi commerciali. Il greco, inoltre, rappresen­ tava - abbiamo visto - la lingua dell ' ascesa sociale: egiziani ed ebrei ambi­ ziosi, desiderosi di migliorare il proprio status, usavano il greco ed adotta­ vano nomi ellenici necessari per entrare nei ranghi della amministrazione reale. L'uso del greco come lingua di uso comune si era, dunque, diffuso rapidamente, impiegato non solamente per usi ufficiali o pubblici, ma anche all 'interno della stessa comunità ebraica. Molti erano i nomi di ori­ gine greca, spesso teofori ed anche il culto era condotto in greco. È probabile esistessero delle traduzioni parziali della Bibbia per uso sinagogale ed è anche possibile che circolassero delle traduzioni comples­ sive (cfr. Arnaldo Momigliano, Saggezza straniera, pp. 1 57- 1 74). Si trat­ tava, in ogni caso, di opere di origine privata, prive di crismi di accuratez­ za, di rigore, di correttezza filologica ed esegetica. Di qui l 'esigenza di un testo in greco affidabile e preciso, di una versione paragonabile a quella ebraica, altrettanto completa e dotata degli stessi caratteri di sacralità. Contro l 'ipotesi dell'iniziativa da parte ebraica, Elias J. B ickerman (Studies, I, p. 1 7 1 ) ha avanzato una serie di obiezioni riprese recentemen­ te da vari studiosi tra cui Lucio Troiani (Letteratura giudaica di lingua greca, p. 27). B ickerman ritiene anacronistica l 'ipotesi che la traduzione sia voluta dalla comunità ebraica: «Il costume di leggere la Legge pubblicamente entro un ciclo di letture di passi della Bibbia durante il servizio sinagogale non è attestato prima della metà del secondo secolo d.C. )) (E.J. Bickerman, Gli Ebrei in età greca, p. 1 46).

Lo studioso tende a vedere piuttosto la Settanta in relazione alle esi­ genze della corte tolemaica che aveva la necessità di conoscere i codici legislativi delle diverse popolazioni abitanti Alessandria. Al problema sull 'origine dell ' iniziativa di traduzione della Settanta e sugli interlocutori cui essa si rivolgeva, si affianca il tema degli utenti della Lettera di Aristea e di quale fosse il suo pubblico. Il quesito si col­ loca all ' interno della discussione sull 'eventuale carattere "apologetico" e propagandistico della letteratura giudaica ellenistica, carattere sostenuto per lo più dalla critica a partire dal XIX secolo, ma in seguito rifiutato. Nel 1956 Victor Tcheri kover rovesciò la visione più diffusa tra gli studiosi

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affermando che la letteratura in questione più che al mondo esterno era rivolta alla comunità ebraica stessa. In quest'ottica anche la tesi di una tendenza al proselitismo sostenuta da Louis H. Feldman (Jew and Gentile, p. 437) è respinta da studiosi quali Martin Goodman. Oggi si tende per lo più a considerare gran parte della letteratura giudaica ellenistica come discorso interno alla comunità, affermazione dell 'identità ebraica nel con­ fronto con una situazione allargata nel cui contesto il rapporto poteva essere conflttuale, ma non lo era sempre e necessariamente. Una messa a punto delle recenti tendenze della critica in proposito è condotta da John J. Collins (Jewish Cult and Hellenistic Culture, pp. 1 -20). Secondo John M.G. B arc1ay ( Using and Refusing, p. 1 6) è plausibile che per autori quali Filone, il rapporto con il contesto ellenistico non costituisse necessariamente un problema, ma fosse anzi il riferimento ovvio, l 'ambito della propria cultura. Il periodo filoniano non rappresen­ ta certamente un momento di pacificazione privo di conflitti , a differenza dalla situazione precedente. In ogni caso, è a mio parere indubbio che l 'el­ lenizzazione è nella Alessandria tolemaica il terreno normale, un elemen­ to del linguaggio condiviso del giudaismo.

1 .2. Traduzione e ispirazione Nel racconto della Lettera, la traduzione - abbiamo visto - è richiesta dal re ed è occasione per uno scambio di conoscenze, per un confronto tra culture. Alla vivacità della città, alla ricchezza della sua biblioteca, alla lungimiranza di Tolemeo sono accostate la sapienza di Gerusalemme, la sua tradizione degna di essere conosciuta e trasmessa, la nobiltà e la cul­ tura dei suoi dotti, l' intangibilità dei suoi testi e l 'accuratezza con cui sono conservati. La richiesta che viene rivolta al sommo sacerdote è, infatti , di mandare ad Alessandria un manoscritto della Bibbia di assoluta precisio­ ne, un testo su cui condurre un lavoro filologicamente rigoroso, degno della autorevolezza di chi manda il testo, ma anche di chi lo richiede. La necessità di una traduzione affidabile è ribadita più volte dalla Lettera: essa evidenzia l 'impeccabilità del testo portato da Gerusalemme, l 'atten­ zione del sommo sacerdote Eleazar nella scelta dei traduttori, uomini saggi , conoscitori della cultura greca e delle Scritture. È descritta l' atmo­ sfera protetta, particolarmente favorevole allo studio e all 'esecuzione del lavoro, in cui sono immersi i traduttori nell 'isola di Faro. È ricordata l 'ispirazione che accompagna l 'opera. Dopo essersi deterse le mani in mare, dopo essersi, cioè, purificati , i saggi l avorano con c u ra al l a traduzione. Le varie versioni sono poi COIl-

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frontate alla presenza d i Demetrio. Dopo settantadue giorni, i l lavoro viene letto pubblicamente davanti alla comunità ebraica di Alessandria che lo approva, ne chiede una copia per suo uso e stabilisce che non dovrà essere modificato: «dal momento che la traduzione è stata condotta bene, con pietà e con rigore sotto ogni aspetto, è bene che essa resti come è e che non vi si apporti alcuna modifi­ ca» (§3 1O).

Il testo è poi letto a Tolemeo che ne ammira la sapienza e si stupisce che un' opera tanto saggia non sia stata in precedenza tradotta. La spiega­ zione che viene fornita evidenzia il carattere sacrale del lavoro: preceden­ ti tentativi di traduzione non erano giunti a buon fine in quanto condotti da personaggi inaffidabili, spinti da motivazioni inadeguate e vane, che avevano agito senza l ' accuratezza e l ' ispirazione che caratterizzano, inve­ ce, la Settanta. La traduzione riceve, dunque, una duplice sanzione che ne attesta il valore: l ' approvazione del re Tolemeo che, collocandola nella biblioteca di Alessandria, ne conferma la correttezza e il rigore filologico, l ' adozione da parte della comunità ebraica alessandrina che ne stabilisce l ' utilità e l ' affidabilità per gli ebrei della diaspora. Contemporaneamente, il fatto che non vi siano stati interventi divini a fermare l ' impresa come nel caso di precedenti tentativi, le conferisce un ' autorità indiscutibile, un' aura di sacralità. Già il numero settantadue o, alternativamente, settanta che ricorre è estremamente significativo a sottolineame l ' autorità e il significato «per tutti gli ebrei della terra e per i loro discendenti» (§ 38) oltre che per Tolemeo (§45). Settantadue sono i sapienti, settantadue le giornate di lavoro, settantadue le domande di Tolemeo durante i banchetti cui i sa­ pienti prendono parte appena giunti ad Alessandria. Il numero settanta­ due, legato al numero delle tribù di Israele, è deterniinato dalla scelta di Eleazar di inviare 6 saggi per ogni tribù; si tratta, in realtà di una scelta impossibile dato che almeno dieci tribù hanno cessato di esistere da seco­ l i . Ha, però, una valenza simbolica forte: richiama il numero degli anzia­ ni che accompagnarono Mosè sul Sinai (Ex. XXIV 1 -9), i settanta anziani collocati da Dio accanto a Mosè perché lo aiutassero nei rapporti con il popolo, i settanta membri del sinedrio. L' eccezionalità della traduzione è evidenziata anche nel resoconto che ne darà Filone di Alessandria (De vita Mosis II 37). Per l ' Alessandrino, i sagg i profetizzavano come se Dio avesse preso possesso di loro e, pur lavorando separatamente, essi pronunciavano le stesse parole come se un unÌl'o sugge ritore dettasse loro cosa scrivere. Produssero settantadue tra-

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duziDni tutte perfettamente identiche in cui i termini greci cDrrispDndeva­ no. in tDtD all ' Driginale ebraico., quasi un calco. del testo. di partenza, segno. evidente dell' ispiraziDne che li aveva guidati. Vari autDri della patristica riprenderanno. questa tradiziDne e la rielabD­ rerannD. CD sì IreneD, lo. PseudD Giustino., EpifaniD. Eusebio. cDnsidererà, invece, i traduttDri esperti esecutDri senza però ritenerli persDne ispirate. La tesi dell ' ispiraziDne divina sarà ripresa da AgDstinD. In ambiente rabbinicD circDla in periDdD tannaiticD l ' immagine dei traduttDri che lavDranD in celle separate (cfr. Talmud b. Megillah 9a) . Fino. a tutto. il I secDID la Settanta è accettata e utilizzata, per esempio. nella scuDI a di rabbi YDhanan ben Zakkai. A partire dal II secDID d.C. sarà, invece, guardata CDn sDspettD e messa in disparte, sia per impreci­ siDni nella traduziDne e per l ' adDziDne di sDluziDni pDCD cDnvincenti agli occhi dei maestri, sia perché diverrà, invece, un testo. fDndamentale per la tradiziDne cristiana. Le sarà cDntrappDsta la traduziDne greca di Aqui­ la, il prDselita, cDmpDsta tra il 1 25 e il 1 29 d.C. , Dpera più fedele all 'Dri­ ginale. In y. Megillah 1 . 1 1 ,7 l c si dice che la versiDne di Aquila venne accDlta CDn grande favDre da rabbi Eliezer e rabbi JDshua; essa sarà anCD­ ra accettata in ambiente ebraico. nel VI secDID. Le pDsiziDni da parte ebrai­ ca cDntrD la Settanta saranno. sempre più dure fino. a giungere a fDrme di tDtale rifiuto.: «cinque anziani scrissero la Torah in greco. e quel giDrnD fu triste per Israele CDme il giDrnD in cui fu fabbricato. il vitello. d ' Dro.» reci­ ta Massekhet Soferim I 6- 10, Dpera databile - secDndD Stemberger - dDpD la metà dell ' VIII secDID. 1 . 3 . Alessandria e Gerusalemme Il raccDntD della traduziDne cDstituisce una piccDla parte della tratta­ ziDne della Lettera che affrDnta vari temi : essa parla dei rappDrti tra mace­ dDni e cDmunità ebraica, della cDrte tDlemaica di cui vengDnD dati preziD­ si squarci, della ricchezza di Alessandria, crDcevia di pDpDlaziDni, di cul­ ture, di attività. Le bUDne relaziDni intercDrrenti tra macedDni ed ebrei, la dispDsiziDne favDrevDle di TDlemeD nei cDnfronti delle pDpDlaziDni che abitano. ad Alessandria in generale - e degli ebrei in particDlare - SDnD evi­ denziate dall' attenziDne e dal rispetto. del re che si premura di inviare a Gerusalemme dei dDni cDnsDni a riti e prescriziDni ebraiche e di Drganiz­ zare banchetti che nDn ne cDntrastinD le nDrmative alimentari. Tutto. il clima è improntato. a estrema cDrtesia, ad interesse reciprDcD, ad apertura e cordialità, a fDrme che certamente nDn avevano. riscDntro effettivo. nel la situaziDne alessandrina. L' atmDsfera irenica rappresentata esprime u n

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desiderio più che una realtà, non può corrispondere alla situazione reale: anche nei periodi più aperti e distesi le condizioni erano differenti da quel­ le qui proposte. Sono significativi il quadro di tolleranza che viene tratteggiato, il cosmopolitismo, l ' accettazione di usi e costumi altrui da parte della corte tolemaica, la rinuncia ad imporre ad altri le proprie abitudini e credenze. Addirittura, vi sono funzionari espressamente preposti all ' osservanza e alla tutela dei riti e degli usi delle delegazioni che giungono da ogni luogo. Rispetto è rivolto a tutte le popolazioni, ma sopratutto agli ebrei, detento­ ri di una sapienza e di una cultura, oggetto di ammirazione particolare. Il confronto tra Alessandria e Gerusalemme si pone come rapporto tra mo­ delli etici e culturali , tra differenti ideologie che, pur nella loro diversità, si confrontano e si ascoltano vicendevolmente. Non si tratta di modelli inconciliabili, bensì di due realtà accostate in un progetto di convivenza e di accettazione reciproca. Alla vivacità e apertura di Alessandria è accostata la nobiltà di Geru­ salemme. L' arrivo degli inviati di Tolemeo è occasione per descrivere la città e il Tempio collocato al centro della Giudea, alla sommità di un monte, orientato verso est, circondato da tre cinta di mura. La descrizione presenta delle imprecisioni dato che, storicamente, pare non vi sia mai stata una triplice cinta. La rappresentazione risulta immersa in un ' atmosfe­ ra favolistica, come sospesa. Le descrizioni appaiono legate al valore sim­ bolico degli oggetti, agli usi e ai riti, alla misura aurea che la città rappre­ senta, equamente ripartita in area urbana e zona di campagna, in attività agricole e artigianali, in città circondata da mura e fortificata da torri e, ad un tempo, organizzata per una vita equilibrata e armonica. Le caratteristi­ che evidenziate ricalcano i parametri aristotelici di una città fondata sulla giusta misura, strutturata in modo ordinato. Echeggiano modelli platonici, ippodamici, stoici. Contemporaneamente, è la città in cui ha sede il Tempio, luogo di riferimento per tutti gli ebrei, spazio dei sacrifici e del culto, espressione della tradizione e delle norme mosaiche. È una città strutturata su più livelli per garantire le norme di purità stabilite da Dio. 1 .4. Sapienza e virtù La "nobiltà filosofica" dei dotti di Gerusalemme, la loro cultura, il loro sapere sono apertamente riconosciuti, tanto che prima di essere condotti a Faro e iniziare i l loro lavoro, i settantadue traduttori sono invitati da Tol clllco a banchetti durante cui hanno luogo conversazioni filosofiche. Vcngono a ffrontati prob l e m i che permettono l ' approfondi mento di temi

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etici. Tutta la sezione ricorda lo schema del simposio filosofico proprio della tradizione greca da Platone a Plutarco. Significativo in questo senso è l ' andamento stesso del discorso, costruito su un modello dialogico che oppone il re nel ruolo di interrogante ai sapienti giunti da Gerusalemme. Essi forniscono le risposte ai quesiti. In realtà, il tono delle proposizioni è dialogico solo all ' apparenza: non vi è un reale interloquire, un contro­ interrogare, la forma dialogica fa da cornice per gli interventi più che da reale supporto teorico. Il modello del discorso è, però, di ispirazione socratica. I temi discussi, le domande poste e, ancor più, le risposte fomi­ te presentano fortissimi echi stoici, spesso commisti a elementi platonici. Particolare rilievo assumono il tema del dominio su se stessi, la temperan­ za, il primato della ragione. Ogni problema posto diviene occasione per un ' esposizione del freno cui sottoporre le passioni, la collera prima fra tutte. Seguono il richiamo alla clemenza, alla magnanimità e alla modera­ zione, la capacità di coltivare relazioni con gli amici e con coloro che divengono fonte di miglioramento. Visto il rilievo del comportamento del re, la sua importanza come fonte di virtù per i sudditi , i suggerimenti offerti dai saggi ebrei - apparente­ mente di portata universale - sono di fatto rivolti sopratutto al re, costitui­ scono una sorta di speculum principis: sono consigli di comportamento che mirano alla costituzione di una figura di sovrano consapevole del pro­ prio ruolo e delle proprie responsabilità, al rafforzamento delle virtù pro­ prie del buon governante : giustizia, equità, imparzialità, temperanza, mitezza, equilibro. Tali suggerimenti echeggiano gli insegnamenti dei trattati Perì basi/efas estremamente diffusi nella letteratura greca a parti­ re da Senofonte e da Isocrate e poi da Teofrasto, trattati che trovano gran­ de sviluppo proprio in periodo ellenistico e imperiale. Si tratta di opere associate ai nomi di Demetrio Falereo, di Sfero, di Cleante di Asso, di Plutarco oltre che ad autori pseudo-pitagorici. Tema dominante è quello della formazione del buon regnante, della costruzione di comportamenti moderati e giusti. L' obiettivo sempre ricordato non è la conservazione del potere, bensì la stabilità della pace, la ricerca della virtù, l ' accettazione delle prescrizioni divine. Ogni argomento affrontato : la bellezza, la sapienza, la guerra, la rela­ zione con amici e nemici, il modo di regnare, la salute viene rapportato a Dio. Così anche la sollecitudine nei confronti dei sudditi e delle popola­ zioni governate, la ricerca di buoni progetti, la determinazione del corag­ gio, il rispetto della verità, la coscienza che forza e potenza provengono da Dio come la ricchezza e la gloria. Tutti i discorsi relativi al comporta­ mento del re e alle sue scelte più che a una teoria politica sono riconduci­ b i l i a una fondazione etica. Anche le tesi sul buon governo hanno il loro

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referente in Dio e sono volte all ' accostamento a un modello superiore. Continuo è il richiamo alla homolosis theor l ' assimilazione a Dio, esorta­ zione al re perché si adegui alla volontà e alla grandezza di Dio e perché divenga, a sua volta, modello per i sudditi. Dio, re del mondo che regge l ' universo con giustizia ed armonia è modello per il sovrano terreno, para­ metro di riferimento cui il re dovrà adeguarsi per costruire, da parte sua una realtà di giustizia e di armonia. Il dovere di imitare Dio compare in Platone nelle Leggi (IV 7 1 6c) in cui si tratta di seguire Dio, nel Timeo (90d) ove colui che contempla si rende simile all ' oggetto della contemplazione, nel Teeteto ( 1 76b) . È que­ sto un elemento della tradizione platonica, variamente ripreso dalla tra­ dizione successiva. Per lo pseudo-pitagorico Stenida il re deve porsi come copia e come imitatore del primo Dio, primo re e governante per natura, mentre il re è sovrano per nascita e imitazione. Nulla che sia privo di regalità e di governo è bello e il re saggio imita Dio. Il tema è presen­ te anche in Cicerone (De natura deorum II 1 4 , 37) e in Plutarco (Ad prin­ cipem ineruditum 7 80a) secondo cui chi governa è immagine di Dio e cerca di imitarlo. A sua volta, il governante deve divenire modello per i sudditi . Si trat­ ta di una raccomandazione estremamente diffusa, presente già in Isocrate (Ad Nicodem 3 1 ; 37) e in Senofonte (Economico XXI l O) che verrà ripre­ sa in Cicerone (Repubblica II 42.69; Leges III 1 3 . 3 1 ) , in Plutarco (Ad princ. inerudit. 78 l f ss.), in Filone di Alessandria (De vita Mosis I 1 58 ; Spec. IV 1 64). Nella stessa opera (Iv 1 86- 1 88) Filone parlerà della nozio­ ne di autorità: in ogni ambito sociale o politico in cui vige un rapporto tra superiore e subordinato, chi ha l ' autorità potrebbe teoricamente scegliere tra bene e male, ma è di fatto tenuto a volere il meglio per i sottoposti . Si tratta di una condizione di necessità cui i comandanti sono legati . Nonostante siano ipoteticamente liberi nella loro scelta, i capi sono di fatto soggetti ad un 'unica scelta e si adeguano, così, a Dio che vuole il bene pur se potrebbe seguire un ' altra via. Per effetto della sua bontà, Dio ha tratto l 'essere dal non essere, l ' ordine dal disordine, le qualità da ciò che è privo di attributi , le somiglianze dai dissimili, le identità dalle diffe­ renze, l ' uguaglianza dall ' ineguaglianza, la luce dalla tenebra. Interviene sull ' imperfezione per trasformarla e introdurre il meglio. Tale comporta­ mento costituisce un modello per il re che, a sua volta, è fonte di virtù per ch i lo guarda. Il suo apparire, la sua rappresentazione divengono specchio su cui si riflette l ' agire dei sudditi. Anche in Seneca (De demo I 7 , 1 ; I 1 9,8-9) la maestà del governante provoca ammirazione e desiderio di imitazione in chi lo guarda. Si tratta d i un comportamento adeguato al1a dign ità regale. d i una rappresentazio-

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ne del re. La sua non è una parte da recitare, ma un ruolo da rivestire, una rappresentazione che corrisponda ad una realtà, a un modo di essere che il re avrà acquisito. In questo ambito, restano del tutto indifferenti i temi relativi al rafforzamento del potere, agli strumenti per allargare il proprio dominio, ai mezzi per conquistare nuovi territori. Nella Lettera il buon re ha quale obiettivo l ' acquisizione della virtù, la capacità di porsi quale mediatore tra Dio e sudditi. Dio, paradigma da imi­ tare, è la fonte della legge, il fondamento delle norme, il parametro etico di riferimento. Ogni scelta e ogni comportamento traggono senso e valo­ re in relazione a Dio, un Dio personale, origine del mondo e della sua razionalità cui tutta la realtà si rapporta, un Dio la cui potenza si rende visibile attraverso tutte le cose e che pervade tutta la legge (§ 1 3 3). Una serie di interrogativi di chiaro sapore stoico assumono una colori­ tura specifica nel momento in cui la ragione che costituisce la norma della natura è assimilata a un Dio legato a una rivelazione e alla storia. Vengono elencati gli insegnamenti che caratterizzano la legge mosaica: «che Dio è uno e che la sua potenza è evidente in tutte le cose» (§ 1 32), che nessuno può sfuggire alla giustizia divina, che ogni divinizzazione di immagini, oggetti, animali, personaggi è da rifiutare con decisione. Nel discorso che Eleazar rivolge ai messi di Tolemeo viene chiarito come vivere bene con­ sista nell ' osservare le leggi, come la compagnia di sapienti e saggi contri­ buisca all ' acquisizione di retti comportamenti, come precetti e castighi siano inviati da Dio cui nulla sfugge. Vengono esplicitati il monoteismo e il rifiuto dell ' idolatria, sono criticati evemerismo e culto delle immagini. Il riferimento per l ' agire è costituito dalla Torah, la legge mosaica scritta nella Bibbia, il cui valore pedagogico e simbolico è presente nella norma­ tiva. Le norme racchiudono un insegnamento morale, hanno un valore che supera l ' immediatezza. «I precetti non sono stati stabiliti a caso o per una qualche improvvisazione dell ' anima, ma in vista della verità e per indica­ re la retta ragione» (§ 1 6 1 ). Sono, inoltre, introdotte norme di purità, leggi comportamentali, spiegazioni sul modo di intendere la realtà. Le norme alimentari sono occasione per un discorso sulle motivazioni che hanno spinto Mosè a dare determinati precetti : ricerca della giustizia e rifiuto della violenza. Per mezzo della proibizione di alcuni animali «il legislatore ha significato agli uomini intelligenti che bisogna essere giu­ sti, non fare nulla con violenza e non fidare nella propria forza per oppri­ mere gli altri» (§ 148). La legge costituisce un insegnamento e «tutto ciò che è consentito riguardo a questi animali e al bestiame è dunque stato sta­ bil ito per via di simbolismo» (§ 1 50). Vi è così nel testo un interrogarsi s u l l a n o rm at i v a, una ricerca del significato, la volontà di attribu ire parti­ colare valore a l l ' osservanza. N o n si tratta ta n to d i una cogenza data dal l a

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sua origine divina, quanto dal riconoscimento della sua razionalità, della validità dei suoi contenuti, dall ' importanza del suo valore simbolico. Si introduce il tema del valore metaforico ed allegorico della Bibbia, della relazione tra spiegazione letterale ed esegesi allegorica che attraverserà poi tutto il giudaismo ellenistico. Il problema dell ' interpretazione del testo biblico avrà, infatti , grande rilievo nelle opere del periodo e sarà da queste trasmesso alla patristica.

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CAPITOLO SECONDO

ESEGESI E COMMENTO

1 . Lo studio del testo Con la traduzione della Settanta si erano presentati difficili problemi esegetici in relazione all ' utilizzazione di una lingua diversa da quella di partenza e a quesiti nati dall' incontro tra mentalità e consuetudini diffe­ renti. Vocaboli tecnici di un pensiero e di una cultura dovevano esseri resi in un linguaggio privo delle stesse pregnanze, termini che in una lingua e in un contesto risultavano comprensibili ed accettabili, assumevano, in un altro ambito, aspetti non condivisibili. Tali le attribuzioni a Dio di carat­ teri che venivano letti come antropomorfici, quali la mano o la faccia di Dio; elementi che potevano rinviare al politeismo, termini che risultavano offensivi a orecchie alessandrine; scelte che potevano essere politicamen­ te inopportune. Per esempio ldgos, la lepre indicata tra gli animali impu­ ri, veniva sostituita da dasypous, coniglio o lepre, per evitare assonanze con Lagos, il nonno di Tolemeo II. Nomi quali ddyton, la parte più inter­ na del tempio andavano evitati per evitare confusioni con i templi pagani; thysiasterion, l ' altare del Dio di Israele doveva essere distinto dall ' ara pagana per cui veniva usato il termine bomos. Si tratta di opzioni volte ad evitare possibili accostamenti con la realtà idolatra, o, invece, legate al desiderio di smussare elementi della tradizione che potessero risultare incomprensibili o poco edificanti . Parallelamente, nomi quali i nomi di Dio che non potevano essere pronunciati venivano tradotti con i termini generici theos e k-yrios, Dio e Signore, per evitare un uso improprio. A lato di questo tipo di problemi si poneva la difficoltà di comprende­ re il testo biblico, un testo considerato per definizione superiore alle capa­ cità umane, scritto bensÌ per gli uomini, ma inevitabilmente pregno di com­ plessità e difficoltà. La necessità di cogliere la verità al di là dell ' immedia­ tezza testuale, di capire aspetti non necessariamente evidenti a un primo sguardo, di comprendere proposizioni difficili veniva assunta da letture esegetiche che si proponevano di interpretare il libro e le sue difficoltà. L' attenzione alla lettura del testo e al suo commento è retaggio comu­ ne nel periodo che stiamo considerando sia nella cultura greca che in am­ hito chraico. S u l primo versante, abbiamo i commenti a Omero, a Platone.

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Capitolo secondo

a Esiodo. Laddove le parole dell 'Iliade e dell' Odissea, prese alla lettera, risultano di difficile comprensione o non concordano con le verità accetta­ te dai commentatori, viene ricercato un significato metaforico, un senso profondo che dia conto di contraddizioni, di episodi che sembrano im­ plausibili, di teorie disturbanti. Esempio di questo tipo di lavoro è offerto da Teagene di Reggio che, già alla fine del VI sec. a.c . , si interrogava sul testo di Omero. Si trattava di dare conto di storie che attribuivano vicende e comportamenti indegni agli dèi. Di qui interpretazioni allegoriche e a­ nalisi etimologiche. Anche gli stoici utilizzano tali forme di interpretazio­ ne che saranno poi riprese da vari autori del medio e del neoplatonismo. In ambito ebraico, l ' interpretazione, o per lo meno un riferimento ad attività di studio esegetico, ha inizio già nella Bibbia stessa in cui alcuni passi parlano di interpretazione e commento del testo. Così Ezra VII 6- 1 0 e 2 Cronache XXIV 27. A un' attività d i studio e d i interpretazione dei testi fa riferimento il Siracide. L' attività esegetica trova grandissimo spazio ad Alessandria: secondo alcuni studiosi (Hegermann, Cazeaux, Goulet), vi sarebbe una vera e propria scuola di filosofi ebrei e una tradizione di ese­ gesi allegorica di cui sarebbe espressione anche la Lettera di Aristea e che giungerebbe fino a Filone. Di tale ipotetica scuola non abbiamo le opere ; sono, però, conservati frammenti di Aristobulo, filosofo citato in 2 Maccabei (I lO), che visse, forse, tra il 175 e il 1 50 a.c. 2. Aristobulo Di stirpe sacerdotale, maestro di Tolemeo VI Filometore, Aristobulo scrisse un' opera dedicata al suo regale allievo. I frammenti pervenutici sono conservati da Eusebio di Cesarea nella Praeparatio Evangelica e nella Historia Ecclesiastica e da Clemente Alessandrino negli Stromata. Intento di Aristobulo è quello di introdurre interpretazioni della Bibbia che ne mettano in luce la sapienza e superino immagini rozze del testo. In quest' ottica, egli adotta un' interpretazione simbolica finalizzata a supera­ re l ' immediatezza delle proposizioni, a cogliere il senso profondo delle parole. Rifiuta un letteralismo incapace di elevarsi oltre il primo signifi­ cato e, contemporaneamente, esorta il suo allievo ad evitare interpretazio­ ni mitiche : «voglio pregarti di intendere le spiegazioni nel loro significato autentico (=in senso allegorico), di attenerti a una concezione adeguata di Dio e di non deviare erronea­ mente verso una rappresentazione della Sua essenza basata su elementi mitici () misurata su di un metro umano» (Eusebio. P. E. V I I I 1 0. 2. tr. C. K raus Rcgg i an i ) .

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Obiettivo è leggere il testo physik6s. Il termine ha un significato tecnico nell ' interpretazione stoica, ma sembra verosimile che Aristobulo non vi si attenga e voglia indicare una lettura che colga la realtà al di là dell ' appa­ renza. Attraverso la ricerca si può cogliere il senso nascosto del testo che an­ drà così esplorato fino a coglierne la verità. In particolare, l ' autore rifiuta l ' antropomorfismo (cfr. Eusebio, op. cito VIII 1 0. 2-3 e 6). Oggetto della sua analisi sono le manifestazioni di Dio: ne dà una lettura simbolica per cui le mani di Dio stanno ad indicarne la potenza, il riposo significa la stabilità della sua opera, la discesa sul monte Sinai indica la sua manifestazione: «la discesa di Dio non era legata a un luogo, perché Dio è dappertutto [ . . . ] Di qui dunque deriva la chiara constatazione che la discesa di Dio aveva avuto realmen­ te luogo, cioè dal fatto che quanti vi assistevano simultaneamente percepivano ogni cosa in maniera sensibile ed evidente [ . . . ] era Dio a rivelare in ogni manie­ ra la propria maestà senza interventi esterni» (Eusebio, op. cito VIII l O. 1 5 , 1 7).

Il passo è estremamente significativo per indicare l ' errore di un ' imma­ gine antropomorfica di Dio o, comunque, di un Dio che abbia una collo­ cazione spaziale. Contemporaneamente, però, sostiene anche la letteralità della discesa divina. Il fatto che la lettera del testo alluda a un significato profondo, rinvii all ' essenza di Dio e alla sua lontananza da ogni forma di materialità o spazialità non implica che il dettato del testo debba essere respinto. Come chiarirà anche Filone, un livello di lettura della Bibbia non ne esclude un altro : il s i ìnbùlo non esclude la lettera. Abbiamo qui un esempio di lettura plurima del testo, di un ' esegesi che, lungi dal voler dare un unico tipo di spiegazione, ammette la pluralità delle interpretazioni e la loro compresenza. In particolare, è una lettura che non dubita della let­ teralità del testo anche se non si ferma alla sua immediatezza. L' esposizione della potenza di Dio che si manifesta attraverso fenome­ ni straordinari è rispresa a proposito della voce di Dio che parla sul monte (Eusebio, op. cito XIII 1 2. 3). Il passo di riferimento è Deuteronomio IV 1 2; 33 ove la voce di Dio si leva di mezzo al fuoco. È questo un testo su cui molto si soffermerà Filone che ne darà una lettura per certi versi analoga a quella di Aristobulo. Nel De Decalogo, Filone si interrogherà sul senso del l ' espressione "la voce di Dio" ed anche sul suo apparire di mezzo al fuoco. Non si possono attribuire a Dio organi umani: bocca, lingua, tra­ chea che producano un suono analogo alla voce umana. « M i sembra, piuttosto, che in quell' occasione Dio operò un prodigio di ordine vcra m e n t e sacro ordinando che venisse prodotto nell ' aria un suono invisibile, mcrav i g l i oso più d i tutti gli strumenti , appropriato ad armonie perfette, non ina-

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nimato e neppure composto di corpo e anima come in un vivente, ma anima razionale piena di chiarezza e di nitidezza. Avendo il suono dato forma e tensio­ ne all ' aria e avendola modificata in fuoco fiammeggiante, fece risuonare come aria attraverso una tromba, una voce articolata tanto forte che a coloro che erano più lontani sembrava di sentirla allo stesso modo che a quelli che stavano più vicini» (Decal. 32).

L' immagine della voce divina allude a un prodigio, alla percezione di un suono invisibile da parte di coloro che erano riuniti sul Sinai. È un suono in grado di dare forma e tensione all ' aria e di mutarla in fuoco, una voce completamente differente dalla voce umana, un suono che giunge all ' anima dei presenti. Vi è nell ' analisi filoniana il tentativo di spiegare in termini razionali un evento eccezionale accompagnato da fenomeni stra­ ordinari : lampi di incredibile luminosità, fragori, suoni di una tromba invisibile, furia di un fuoco celeste da cui risuona una voce. La fiamma si articola in linguaggio e rende visibili le parole. «Di mezzo al fuoco che fluiva dal cielo risuonò una voce assolutamente meravi­ gliosa, articolandosi la fiamma in linguaggio consueto agli ascoltatori. Le cose dette erano tanto chiare che sembrava di vederle più che di sentirle. È garante delle mie parole la legge in cui è scritto: "tutto il popolo vedeva la voce" (Ex. 20. 1 8). Si tratta di un' espressione molto significativa. Accade, infatti, che la voce umana sia udibile, la voce di Dio davvero visibile. Perché? Perché tutte le cose dette da Dio sono non parole, ma azioni, giudicate dagli occhi più che dalle orec­ chie)) (Decal. 46-47).

In Filone, alla fusione di vista e udito sono legate la compresenza di percezione sensibile e percezione noetica, da un lato, e l ' identificazione di parole e atti divini, dall' altro. Il passo sarà oggetto di interpretazioni approfondite in tutta l ' esegesi ebraica successiva. Della vasta letteratura in proposito mi limito qui a citare la lettura della Mekiltà. Secondo rabbi Ishmael il verso significa che «vedevano ciò che è visibile e udivano ciò che è udibile)) . Viceversa, per rabbi Akivà, citato nella stessa Mekiltà, il verso significa: «vedevano e udivano ciò che è visibile)) perché la voce di Dio si incideva immediata­ mente sulle tavole. «Vedevano la Parola di fuoco uscire dalla bocca della Potenza e scolpirsi sulle tavo­ le come sta scritto: "La voce del Signore scaglia fiamme di fuoco" (Sal. XXIX 7»)) .

Per Aristobulo, la voce d i Dio non v a intesa come parola proferita. bensì come realizzazione di opere in sintonia con il racconto hihl ico de l l a

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creazione in cui ogni cosa venne all ' essere per mezzo della parola di Dio. Rispetto a Filone non vi è l ' identificazione di percezione visibile e noeti­ ca, né la lettura della tensione dell ' aria che si muta in fuoco. In entrambi gli autori , però, vi è la ricerca di una spiegazione razionale e l ' interpreta­ zione delle parole divine come azioni. La peculiarità dell' analisi di Aristobulo consiste nell' accostamento che egli istituisce tra la voce di Dio manifestatasi al S inai e la voce del demo­ ne di Socrate. «Mi sembra» - sostiene infatti Aristobulo «che, dopo aver studiato a fondo tutto questo, hanno seguito la sua traccia Pitagora, Socrate e Platone, quando dicono di udire l a voce di Dio, e quando con­ templando la perfezione del cosmo intuiscono che esso è opera di Dio e che da Lui è mantenuto nella sua coesione senza interruzione di continuità» (Eusebio, op. cito XIII 1 2.3).

Che l ' universo sia governato dalla potenza divina che domina su tutto è sostenuto - per Aristobulo - anche da Orfeo. Sono cosÌ evidenziati dei caratteri di Dio che - sempre secondo l ' autore alessandrino - vengono citati anche dai filosofi greci pur se essi li attribuiscono a Zeus. Aristobulo ritiene, infatti, che ebraismo e filosofia greca differiscano per singoli par­ ticolari , non nell ' impostazione generale: la cultura greca deriverebbe, anzi da quella ebraica. Pitagora e Platone avrebbero, infatti, appreso da Mosè, fondatore della vera filosofia. Legge e filosofia coincidono. Platone sareb­ be stato un conoscitore della legge e ne avrebbe seguito le norme, Pitagora avrebbe tratto molti dei suoi insegnamenti dalla Torah di cui sarebbero circolate traduzioni ancora prima di Alessandro e della dominazione dei persiani (cfr. Eusebio, op. cito XIII 1 2. 1 ). Tutta la filosofia greca, d ' altron­ de, avrebbe attinto da Mosè, ed anche la poesia: Omero, Esiodo, Orfeo, Arato. Vi sarebbe quindi una sostanziale unità di credenze e di tesi. «Tutti i filosofi, infatti, concordano in un punto: che bisogna avere circa Dio pen­ sieri santi, ed è questo ciò che soprattutto e giustamente prescrive la nostra con­ cezione religiosa. Tutta la struttura della nostra legge è articolata secondo princì­ pi di pietà, di giustizia, di moralità e di ogni altra virtù che sia conforme alla veri­ tà» (Eusebio, op. cito XIII 1 2. 8).

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2. 1 . Il settimo giorno A proposito della genesi del mondo, Aristobulo parla dell ' ordine impresso da Dio nei sei giorni della settimana e legge il settimo giorno come giorno uno del cosmo, nascita della luce in virtù della quale viene colta la visione complessiva del tutto. Anche in Filone il sette è associato alla monade e indica un inizio, il giorno uno del mondo (Opif. 89). Il set­ timo giorno, momento di riposo e di cessazione del lavoro, è anche gior­ no in cui Dio contempla il suo operato, diviene modello dell ' attività teo­ retica, paradigma della contemplazione. Se ogni giorno, terminata l ' ope­ ra creativa, Dio vede la bontà del suo lavoro, il sabato si ha una sorta di sintesi della contemplazione : «il numero sette, privo di mescolanze, è luce del sei: le cose che il sei ha prodot­ te, il sette le fa vedere nella loro perfezione» (Spec. II 58-64).

Nel passo di Aristobulo, il richiamo alla luce della sapienza rinvia esplicitamente a tesi della scuola peripatetica. Ad esse è accostato il passo di Proverbi VIII 22-26 in cui la sapienza dice di essere stata formata al principio dei suoi atti, ab aeterno, prima delle terre, delle acque, dei cieli. La sapienza, dunque, è qui considerata all ' inizio della creazione, luce per la teoresi fondata nel settimo giorno. Nel testo compaiono anche riferimenti alla tradizione platonica e ari­ stotelica e alle discussioni sull ' inattività di Dio. «Quanto alla precisazione della Legge, che Dio "cessò" (di creare) nel settimo giorno, ciò non significa, come taluni ritengono, che Dio non facesse più nulla, bensì che una volta compiuto l 'ordinamento del mondo predispose che esso rima­ nesse immutato per sempre» (Eusebio, P.E. XIII 1 2. 9).

Il settimo giorno Dio ha disposto le cose nel loro ordine perché perman­ gano quali sono. Il sabato rappresenta, dunque, l ' istituzione della perma­ nenza e della continuità. Anche in Filone il sabato è simbolo di eternità: «la legge considera l ' eternità equivalente al settimo giorno che ha descritto come giorno della nascita del mondo intero» (Spec. I 1 70).

La formazione del cosmo è avvenuta in sei giorni, il sabato Dio com­ pletò ciò che aveva iniziato nei giorni precedenti e stabilì la continuità del­ l ' ordine del mondo (Leg. 1 5 ; 1 6). Riposo non significa inattività: Dio, cau­ sa di tutte le cose, non cessa mai di creare, contempla le cose prodotte c le

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illumina, imprime continuità e mantenimento. Il settimo giorno, cioè, Dio garantì la permanenza del movimento delle cose create, assicurò l ' ordine del cosmo. È allora chiaro che l ' opera di Dio il settimo giorno è una sorta di completamento della creazione e di riflessione (cfr. Leg. I 1 8). Anche in Aristobulo, il sabato è giorno di riposo, di cessazione dal lavoro, di contemplazione. Il rapporto settenario rinvia alla conoscenza delle cose divine ed umane. «In virtù del modulo settenario che è conforme a verità avviene il distacco e la liberazione dall' oblio e dalla malvagità che possono colpire l ' anima e noi acqui­ stiamo la conoscenza della verità» (Eusebio, P. E. X I J I 1 2. 1 5).

La scansione dei giorni della creazione è, dunque, modello della cono­ scenza: dato l ' adeguamento della ragione umana al l6gos cosmico, la prima è in grado di cogliere la legge della natura che è organizzata secon­ do cicli settenari e le opere di Dio iscrittevi. Ci si può interrogare a questo punto sull ' attribuzione di peripatetico assegnata ad Aristobulo sia da Clemente Alessandrino che da Eusebio. È complesso cercare delle relazioni con precise scuole di pensiero ed è plau­ sibile che circolassero nell' Alessandria del periodo concezioni filosofiche di varia provenienza, non necessariamente legate ad una precisa scuola di pensiero. Vi sono certamente nel filosofo aspetti che richiamano il pitago­ rismo e la tradizione platonica e medio-platonica. Il tema della continuità del movimento del cosmo e l ' idea di una fissazione atemporale ed eterniz­ zante che rende l ' ordine immutabile, compaiono anche nel fr. 26 Ross del De philosophia aristotelico. Il tema dell ' inattività di Dio rinvia a passi della Metafisica (XII 7 , 1 072b4 ; b 1 6 ; 1 073a4- 1 1 ) e dell 'Etica a Nicomaco (Eth. Nic. X 1 1 7 8b20-2 1 ; VII 1 1 54b24-3 1 ) relativi all ' immutabilità, l ' im­ mobilità, la calma, la felicità legate all ' enérgeia di Dio volto alla contem­ plazione. Secondo Radice, poi, vi sarebbero dei nessi tra il filosofo ales­ sandrino e il De mundo attribuito ad Aristotele. Parallelamente, l ' esegesi condotta dall' Alessandrino rinvia a letture stoiche e richiama anche forme dell ' interpretazione che troveranno largo spazio nella tradizione ebraica successiva. È allora estremamente difficile etichettare il pensiero di Aristobulo sotto una determinata corrente di pensiero e, in fondo, non è neppure detto che sia molto proficuo. L' aspetto più stimolante del discorso è la collocazione dell' autore all ' inizio di una modalità di pensiero, alle origi­ ni di un nuovo modo di fare filosofia, di leggere il testo biblico con cate­ gorie greche .

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Bibliografia Traduzioni e commenti C. Holladay, Fragments from Hellenistic Jewish Authors, voI. 3: Aristobulus, Atlanta 1 995 . C. Kraus Reggiani, I frammenti di Aristobulo, esegeta biblico, «Accademia Nazionale dei Lincei e Bollettino dei Classici», serie III, fase. III ( 1 982), pp. 87- 1 34.

Studi 1. Cazeaux, La trame et la chame, ou [es structures littéraires et l 'exégèse dans cinq Traités de Philon d 'Alexandrie, Leiden 1983. I. Christiansen, Die Technik der allegorischen Auslegungswissenschaft bei Philon von Alexandrien. Tiibingen 1 969. D. Daube, Alexandrian Methods ol Interpretation and the Rabbis, in Festschrift Hans Lewald, B ase1 1 95 3 . R. Goulet, La philosophie de Morse: essai de reconstruction d 'un commentaire préphilonien du Pentateuque, Paris 1 987. E.S. Gruen, Jewish Perspectives on Greek Culture and Ethnicity, in 1.1. Collins­ G.E. Sterling (eds.), Hellenism in the Land ol Israel, Notre Dame, Indiana 2002, pp. 62-93. H. Hegermann, The Diaspora in the Hellenistic Age, in The Cambridge History 01 Judaism, voI. II: The Hellenistic Age, ed. by W.D. Davies and L. Finkels­ tein, Cambridge 1 989, pp. 1 1 5 - 1 66. C. Kraus Reggiani, Aristobulo e l 'esegesi allegorica dell 'Antico Testamento nel­ l 'ambito del giudaismo ellenistico, «Rivista di Filologia e di Istruzione clas­ sica» 1 0 1 ( 1 973), pp. 1 62- 1 85 . G. Porton, Midrash: Palestinian Jews and the Hebrew Bible· in the Greco-Roman Period, «ANRW» 11. 1 9.2, pp. 1 03- 1 38 . R. Radice, La filosofia di Aristobulo e i suoi nessi con i l «De mundo» attribuito ad Aristotele, Milano 1 994. I. Ramelli-G. Lucchetta, Allegoria, voI. I: L'età classica, a cura di R. Radice, Milano 2004. H.L. Strack-G. Stemberger, Introduction au Talmud et au Midrash, Paris 1 986. N. Walter, Der Toraausleger Aristobulos, Berlin 1 964. N. Walter, Jewish-Greek Literature ol the Greek Period, in The Cambridge His­ tory 01 Judaism, vol. II, cit. , pp. 385-408 .

CAPITOLO TERZO

FILONE DI ALESSANDRIA

1 . Filone e la comunità ebraica alessandrina

L' interpretazione del testo, il lavoro esegetico, l ' analisi delle espres­ sioni bibliche costituiscono la trama del pensiero di Filone di Alessandria che in questo senso rappresenta una ripresa e una continuazione rispetto ad Aristobulo. Nonostante non si abbia una datazione precisa dell ' autore, è presumibile che più di un secolo separi Aristobulo e Filone. È dunque plausibile che tra i due autori vi siano stati altri esegeti e che ad Ales­ sandria l ' interpretazione biblica sia stata condotta estesamente. Secondo alcuni studiosi (Goulet) si potrebbe pensare a una vera e propria scuola esegetica che avrebbe operato nella città. Si tratta di ipotesi difficilmente dimostrabile, è, comunque, significativo che l ' elaborazione raggiunga in Filone notevoli livelli di articolazione e di raffinatezza teorica. A partire dalla lettura della Bibbia si dipana una teoria interpretativa del reale nella sua complessità e nelle differenti sfere che lo costituiscono. Vissuto ad Ales s andria d 'Egitto tra il 30 avanti e il 40 circa d.C., Filone assiste ai conflitti che attraversano la città. L'Egitto è, da poco, divenuto provincia romana, retta da un funzionario di grado equestre. In seguito ai rapporti di Cleopatra VII, ultima regina d ' Egitto, con Cesare e Antonio, si instaura un protettorato di Roma sull 'Egitto, protettorato che assume una nuova veste in seguito alla sconfitta di Antonio ad opera di Ottaviano avvenuta ad Azio nel 3 1 a.c. La trasformazione dell 'Egitto in provincia romana comporta una serie di mutamenti negli assetti sociali e nelle rela­ zioni tra popolazioni. Il potere è in mano ai romani che tendono a consi­ derare lo status degli ebrei su un piano analogo a quello degli egiziani. In realtà la comunità ebraica costituisce un po[(teuma, una comunità cioè riconosciuta che gode di una certa autonomia, di determinati previlegi ed è retta da un etnarca e da una gerous(a la cui autorità è presumibilmente rafforzata da Augusto. Si tratta di un gruppo, comunque, scomodo, legato a consuetudini particolari, in continuo conflitto con la popolazione egizia­ na, pronta a far divampare violente rivolte (cfr. Flacc. 1 7). Fi lone è membro influente della comunità. Suo fratello Alessandro riveste l a fu nzione di alabarca, preposto ai dazi e alla dogana, ha grandi

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Capitolo terzo

ricchezze, intrattiene - secondo la testimonianza di Flavio Giuseppe relazioni di amicizia e di affari con Antonia Minor, figlia di Marc ' Antonio ed è imparentato con Agrippa I. Filone appartiene, dunque a una delle famiglie notabili della città, partecipa alla sua vita sociale e politica (cfr. Leg. III 1 5 5- 1 56), assiste presumibilmente a cerimonie pubbliche, giochi, spettacoli (cfr. Ebr. 1 77 ; Probo 1 4 1 ). Il suo ruolo all ' interno della comuni­ tà ebraica lo induce a farsi carico dei problemi che la scuotono anche se, ripetutamente, nelle sue opere, il filosofo spiega che si dedicherebbe molto più volentieri allo studio che alla politica. In particolare, nel 37 d.C., nel momento in cui hanno luogo conflitti e vessazioni che pongono gli ebrei della città in una situazione difficile e pericolosa, Filone con altri importanti concittadini . si reca a Roma a im­ petrare il favore di Caligola. Chiede un intervento che liberi gli ebrei dalle persecuzioni cui sono sottoposti in Egitto e, soprattutto, chiede che il culto e la tradizione ebraica possano esplicarsi liberamente. L' ambasceria incontra grandissime difficoltà, tra rinvii, derisioni , minacce di cui Filone parla in un ' opera intitolata Legatio ad Caium. L' autore rientra ad Ales­ sandria senza che si siano avuti esiti positivi alla missione. Poco dopo Ca­ ligola viene ucciso. Gli succede Claudio che cerca di mediare tra la popo­ lazione egiziana, greca ed ebraica, entrate in conflitto. Non concede, però, agli ebrei l ' uguaglianza con i greci cui la comunità ebraica aspira. Gli scontri continueranno e nel 66, al momento della rivolta della Giudea con­ tro Roma, si cristallizzeranno in forti movimenti antigiudaici che si ripre­ senteranno ancora in seguito. Nel 1 1 5 , sotto il regno di Traiano prenderà piede la seconda rivolta giudaica, iniziata probabilmente in Cirenaica, ma diffusasi anche in Egitto e a Cipro. L' esito sarà la totale distruzione delle tre comunità e gravi saranno le conseguenze anche in terra di Israele. Ma a tutto ciò non assiste Filone, morto probabilmente poco dopo il 4 1 . 2 . Tra Alessandria e Gerusalemme Profondamente intriso di cultura greca, partecipe della vita di Alessandria, Filone ci fornisce un quadro della città e del suo territorio: parla dell 'Egitto, del Nilo, degli animali che vi vivono. Nomina coccodril­ li, ibis e falconi, Descrive con disprezzo e disgusto i culti egiziani, emble­ ma - ai suoi occhi - di ogni obbrobrio e bassezza. Contemporaneamente, però, parla delle bellezze della città, ricca di spiagge e di porti fluviali fre­ quentati da navi di mercanti (Legat. 1 27- 1 29), ornata di colonnati , vesti­ boli, monumenti fastosi , di tempi i splendidi qual i l ' Augusteo, i l te m pio dedicato a Cesare protettore dei naviganti . L' elevatezza e la m ac s t o s i t à d c i

Filone di Alessandria

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grandioso edificio colpiscono profondamente l ' Alessandrino, ammirato dalla dovizia di doni votivi, portici , biblioteche, boschetti . Nella sua fasto­ sità e complessità, Alessandria è vissuta dall ' autore come la