Schiller e il progetto della modernità 8843039954, 9788843039951

Schiller non è solo il poeta consacrato accanto a Goethe al sommo del canone della letteratura tedesca o, per il pubblic

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Schiller e il progetto della modernità
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LINGUE E LETTERATURE CAROCCI

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Il testo è disponibile sul sito Internet di Carocci editore nella sezione “PressonLine”

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna ,  Roma, telefono     , fax     

Testo disponibile sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

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Schiller e il progetto della modernità A cura di Giovanna Pinna, Pietro Montani e Adriano Ardovino

Carocci editore

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Il volume è stato stampato con il contributo dei fondi MIUR per la ricerca (ex %) del Dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria e del Dipartimento di Studi filosofici ed epistemologici dell’Università di Roma “La Sapienza”.

a edizione, dicembre  © copyright  by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel dicembre  dalla Litografia Varo (Pisa) ISBN

---

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.  della legge  aprile , n. ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

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Indice



Prefazione. Riflessione e poesia di Giovanna Pinna Estetica e fondazione filosofica Schiller. Il “politico” e lo “storico” ai confini dell’estetica di Pietro Montani



«Freiheit in der Erscheinung»: spazio estetico e genesi della coscienza in Schiller di Fabrizio Desideri



La cultura come gioco, socievolezza e arte di vivere. Le Lettere sull’educazione estetica di Schiller e il programma di educazione umanistica dell’illuminismo di Hans-Georg Pott



«Die Natur selbst ist nur eine Idee des Geistes, die nie in die Sinne fällt». Aporie e variazioni del concetto schilleriano di natura di Giovanna Pinna



Tragedia e teoria La critica della morale e il martire della storia. Studi sui Briefe über Don Carlos di Luca Crescenzi La scoperta della tragedia moderna. Wallenstein – La decisione di Hans Feger 

 

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INDICE

Estetica del sacrificio. Le regine schilleriane di Peter-André Alt



Storia e politica La storia del mondo come tribunale universale. Sul problema della storia in Schiller e nella filosofia classica tedesca di Walter Jaeschke



L’arte del governare. Retorica e gioco nel progetto dell’educazione estetica di Peter Schnyder



Progetto estetico e educazione politica in Schiller. La nona lettera e i giacobini tedeschi di Maria Carolina Foi



Corrispondenze Imitatio naturae e modèle idéal: il dialogo di Schiller con Diderot di Luca Zenobi



Pensare la poesia. Da Schiller a Hölderlin di Andrea Mecacci



Il destino dell’anima bella: Hegel interprete dei drammi di Schiller di Renato Caputo



Appendice. Martin Heidegger. Le lettere di Schiller sull’educazione estetica dell’uomo a cura di Adriano Ardovino





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Prefazione Riflessione e poesia di Giovanna Pinna

. Vi sono molte ragioni per rileggere Schiller oggi, dopo duecento anni in cui è stato di volta in volta, secondo i luoghi e i momenti, grande poeta nazionale o creatore di personaggi eroici lontani dal reale, ispiratore di movimenti politici libertari e patriottici o irrigidita icona del classicismo, cantore della libertà individuale o esponente di un idealismo intellettuale che nasconde e giustifica la violenza del potere. La ragione più ovvia è che la qualità del classico è quella di parlarci in ogni momento storico, cambiando voce in relazione al nostro modo di concepire il mondo e la cultura e alle domande che noi stessi gli poniamo. E che Schiller sia un classico basterebbe a dimostrarlo la vivacità spesso polemica con cui le sue opere sono state lette dal momento del loro apparire sino ai giorni nostri. Il riconoscimento della classicità di un autore non è però esente dal rischio che grava sulla categoria del classico: quello di essere «presentato come un postulato più o meno scontato», mentre la sua reale natura è quella di «riflette[re] di volta in volta un progetto». Schiller ne è un esempio paradigmatico: il formale riconoscimento della centralità del suo apporto alla storia culturale europea ha spesso significato lo svuotamento di fatto dei contenuti dialettici, produttivamente contraddittori, idealisticamente realistici, “moderni”, appunto, della sua opera. L’attualità di Schiller ha a che fare in certa misura con l’ispirazione genuinamente politica che innerva i suoi scritti, non solo le tragedie, ma anche i saggi estetici e persino parte delle poesie. La sua denuncia dell’estraniarsi dell’individuo da se stesso, della perdita dell’unità organica delle diverse componenti del soggetto come effetto della divisione del lavoro e la conseguente, unilaterale identificazione dell’uomo con la sua funzione professionale non appare certo superata nel mondo contemporaneo. Il rimedio suggerito, l’educazione estetica, può tuttavia sembrare inadeguato, ingenuo o addirittura mistificatorio, se inteso come fuga dalle contraddizioni reali o come compensazione dell’impossibilità di estendere effettivamente se non di universalizzare l’esercizio della responsabilità politica e della libertà individuale. L’idea che attraverso il bello l’uomo “si incammina alla libertà” . Cfr. S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino , pp. -.



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non è però l’incitamento ad una élite intellettuale ad arroccarsi in un universo “conciliato” di belle forme e di comportamenti moralmente equilibrati, bensì il progetto, certamente utopico, di porre alla base dei rapporti politici la ricostituzione del soggetto umano nella sua interezza, vale a dire il riconoscimento del rapporto dialettico e necessario tra ragione e passioni, tra norme e impulsi. L’educazione estetica è una premessa del mutamento politico, non il suo sostituto. In tal senso Schiller è un illuminista critico, il cui tentativo di fondare la dimensione estetica nella struttura stessa di una ragione intesa dinamicamente, nel suo costituirsi in relazione alla sensibilità, è una risposta alle difficoltà che sorgono dall’assolutizzazione del principio razionale nella sfera morale. Un tentativo che affonda le radici da un lato in un realismo antropologico e storico cui non è estranea la disillusione riguardo agli esiti della Rivoluzione francese e, dall’altro, nella convinzione idealistica che l’uomo abbia in sé il principio della libertà e dell’autodeterminazione e la volontà ineliminabile di affermarlo. Il manifestarsi della bellezza in un mondo dominato dall’astrattezza dell’intelletto e da una ragione utilitaristica resta tuttavia per Schiller un’istanza utopica, così che anche la sua classicistica nostalgia della Grecia assume a ben vedere i contorni di una diagnosi spietata sulle contraddizioni della modernità. È dunque per ragioni “politiche” che l’educazione estetica come educazione della sensibilità gli appare complementare e necessaria all’azione critica e demistificante della ragione. E del resto la sfera della corporeità e della sensibilità costituisce per Schiller, la cui formazione medico-antropologica continua ad agire sotto traccia anche negli anni in cui il pensiero trascendentale forma l’ossatura della sua riflessione filosofica, un dato reale e problematico, non il semplice altro da sé della ragione. Hegel stesso nell’Estetica vede nell’autore delle Lettere sull’educazione estetica e del Wallenstein colui che ha saputo mettere in discussione l’unilateralità di un intelletto «che concepisce e si trova di contro la natura e la realtà, il senso ed il sentire solo come una barriera, come un qualche cosa di assolutamente ostile». Tale duplicità dialettica della natura umana non è solo un motivo teorico nell’opera schilleriana. Le tragedie, di cui una vecchia tradizione interpretativa tendeva a cogliere soprattutto il pathos eroico, mettono in scena il costante conflitto tra motivazioni razionali e passioni individuali o collettive che muovono gli eventi storici. Esse sono espressione di un realismo politico che l’autore ha ricavato soprattutto dallo studio della storia, oltre che di un interesse vivissimo per i meccanismi del potere. I suoi personaggi, lungi dall’essere esempi di grandezza morale, sono strutturalmente contraddittori, impegnati sulla scena a fornire motivazioni e giustificazioni del proprio . G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, hrsg. v. E. Moldenhauer, K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. XIII, p.  (trad. it., Estetica, a cura di N. Merker, Feltrinelli, Milano , pp.  ss.).



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PREFAZIONE . RIFLESSIONE E POESIA

agire e spesso ad escogitare autoinganni sulla propria condizione reale. Per il lettore moderno la distanza creata dallo stile aulico e dall’habitus classicistico si riduce radicalmente se si presta orecchio alla forza argomentativa con cui Schiller articola nei suoi dialoghi le antinomie che determinano il senso e il procedere dell’azione. Ne risulta una complessità di motivi, psicologici, antropologici, filosofici, cui la straordinaria abilità drammaturgica dell’autore ha saputo conferire vita autonoma, ma che certamente richiede, per essere compresa a fondo, una contestualizzazione storica ed un confronto non superficiale tra testo letterario e riflessione filosofica. . Una riconsiderazione e una rilettura di Schiller in occasione del bicentenario della morte appaiono tanto più auspicabili in un contesto culturale come quello italiano, in cui la convergenza di alcuni orientamenti intellettuali, dal crocianesimo alla critica letteraria marxista, ha fatto sì che proprio gli elementi di modernità della sua opera siano rimasti in ombra. All’accoglienza calorosa che all’inizio dell’Ottocento riservarono ai drammi schilleriani i Romantici milanesi, le traduzioni delle poesie di Andrea Maffei e soprattutto le messe in scena risorgimentali e le popolarissime riscritture operistiche dei libretti verdiani non fa seguito una fortuna simile nel Novecento. Il duro giudizio crociano sulla «poesia come espressione delle idee», in cui la fantasia creatrice verrebbe soffocata e sostituita dalla riflessione filosofica, ha avuto effetti assai duraturi sulla ricerca germanistica in Italia. Nei decenni a seguire e sino a tempi recentissimi pochi studi sono stati dedicati a quest’autore, senza peraltro scalfire il consolidato schema storiografico che lo collocava interamente all’ombra di Goethe. Considerato come poeta che supplisce con il ragionamento alla scarsa ispirazione o come drammaturgo moralista dall’altisonante gesto retorico, Schiller ha trovato spazio nella nostra storiografia letteraria soprattutto in virtù della collaborazione con il geniale amico di Weimar. Un’attenzione maggiore ha certamente avuto da parte dei filosofi, segnatamente Luigi Pareyson e la sua scuola e Antimo Negri, che al suo pensiero hanno dedicato studi importanti, incentrati sul rapporto tra estetica ed etica. In quest’ambito, tuttavia, Schiller rimane all’ombra di Kant e soprattutto è posto in una prospettiva che esclude completamente la considerazione critica dell’opera letteraria, che invece della riflessione schilleriana è parte integrante. La duplice natura di poeta e pensatore, indicata da Wilhelm von Humboldt come la caratteristica più propria della personalità intellettuale di Schiller, si manifesta infatti sia nel ductus argomentativo dei testi teorici, in cui al ragionamento deduttivo e astratto si alterna un peculiare “pensare per immagini” ed il ricorso all’esperienza o all’esemplificazione, sia nel denso contenuto intellettuale dei drammi e della Gedankenlyrik. Una rilettura del. Cfr. B. Croce, La poesia, Laterza, Roma-Bari , pp.  s.



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GIOVANNA PINNA

l’opera schilleriana oggi non può ignorare tale intrinseca duplicità, così come una sua attualizzazione esige la consapevolezza della distanza storica. A tale esigenza di riconsiderazione dell’opera di Schiller e di confronto con i risultati più recenti della ricerca soprattutto in area tedesca intendeva rispondere il convegno “Riflessione e poesia. Schiller e il progetto della modernità” tenutosi al Goethe Institut di Roma nell’aprile , in occasione del bicentenario della morte dello scrittore. Il volume raccoglie i contributi presentati in tale occasione da studiosi italiani, tedeschi e svizzeri. I temi sottoposti alla discussione sono stati articolati in quattro sezioni. Nella prima sezione “Estetica e fondazione filosofica”, Pietro Montani, Fabrizio Desideri, Hans-Georg Pott e chi scrive affrontano una serie di questioni relative alla riflessione estetica schilleriana del periodo successivo allo studio di Kant, con particolare attenzione alle Lettere sull’educazione estetica. La seconda sezione “Tragedia e teoria” comprende i saggi di Luca Crescenzi, Hans Feger e Peter-André Alt, che propongono rispettivamente un’interpretazione delle Lettere sul Don Carlos, un’analisi del Wallenstein come esempio paradigmatico di tragedia moderna ed uno studio sui concetti di potere e di sacrificio in relazione ad alcune figure femminili delle tragedie schilleriane. Al tema “Storia e politica” è dedicata la terza sezione, che include i contributi di Walter Jaeschke, in cui si mette a confronto l’idea di filosofia della storia abbozzata da Schiller con la concezione sistematica della filosofia idealistica e segnatamente di Hegel, di Peter Schnyder, che rilegge l’idea schilleriana del gioco e dell’educazione estetica sulla falsariga del rapporto tra retorica e politica, e di Maria Carolina Foi, che ricostruisce, con l’apporto di una nuova base documentaria, la concezione politica di Schiller sullo sfondo della Rivoluzione francese e delle sue conseguenze politiche in Germania. L’ultima sezione, “Corrispondenze”, vede Schiller “in dialogo” con altri pensatori e poeti: Luca Zenobi illustra il rapporto che lega alcune concezioni schilleriane, soprattutto in merito all’idea di natura, all’opera di Diderot, Andrea Mecacci mette a confronto l’idea della poesia esposta da Schiller nello scritto Sulla poesia ingenua e sentimentale con quella contenuta nei frammenti poetologici di Hölderlin del periodo di Homburg, ed infine Renato Caputo analizza l’interpretazione hegeliana del Wallenstein. Conclude il volume l’anticipazione per il lettore italiano, a cura di Adriano Ardovino, della traduzione di una nuova acquisizione degli studi schilleriani: il testo di un seminario di Heidegger sulle Lettere sull’educazione estetica, risalente al - ma pubblicato solo nel . Lo svolgimento del convegno, che si è svolto sotto il patrocinio scientifico della SIE, è stato reso possibile dal generoso contributo del Dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria, del Dipartimento di Studi filosofici ed epistemologici dell’Università di Roma “La Sapienza”, dell’Istituto svizzero di Roma, dell’Ambasciata di Svizzera e del Goethe Institut, che ha ospitato i lavori nella sua sede romana. Ad essi va il più sentito ringraziamento degli organizzatori. 

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Estetica e fondazione filosofica

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Schiller. Il “politico” e lo “storico” ai confini dell’estetica di Pietro Montani

 Il comportamento estetico come stato fondamentale dell’essere dell’uomo Com’è noto, l’estetica di Schiller si sviluppa in un costante dialogo con la terza Critica di Kant. Non si è tuttavia riflettuto con sufficiente attenzione, io credo, sul decisivo ripensamento del trascendentalismo che Kant impegna in quella sede e sul contributo che Schiller vi apporta, riformulando originalmente alcune tesi kantiane e spingendole fino ai limiti della filosofia critica. È verosimile, peraltro, che questo sviluppo specifico del criticismo non sia stato colto in tutta la sua portata a causa di alcune tenaci incomprensioni dell’estetica di Kant, sulle quali fu forse Heidegger a richiamare per primo l’attenzione nel suo grande libro su Nietzsche e nel seminario (coevo) su Schiller, di cui solo oggi possiamo leggere la Mitschrift redatta da W. Hallwachs (tradotta in parte in questo volume). Affronterò dunque la questione iniziando con due citazioni tratte dalla Volontà di potenza come arte – il primo capitolo del Nietzsche – nelle qua. Per questo tema rimando, in particolare, all’assiduo, appassionato e chiarificante lavoro interpretativo di Emilio Garroni, di cui sono da vedere, almeno, Estetica ed epistemologia, Bulzoni, Roma  (nuova ed. Unicopli, Milano ); Senso e Paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari ; Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano ; Introduzione alla trad. it. di I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino  (con H. Hohenegger); Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari . Cfr. anche F. Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, il melangolo, Genova . . M. Heidegger, Nietzsche,  voll., Klostermann, Frankfurt a.M.  (trad. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano ). È bene tener presente che la preparazione dei corsi heideggeriani su Nietzsche è sostanzialmente coeva non solo al lavoro per la stesura delle conferenze poi confluite nel saggio sull’Origine dell’opera d’arte (ora in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze , pp. -), ma anche al seminario del / sull’estetica di Schiller (di cui si pubblicano qui in appendice alcune parti della Mitschrift riordinata da W. Hallwachs) e al seminario sulla Critica del Giudizio (semestre estivo ) la cui pubblicazione è prevista nel volume  della Gesamtausgabe, hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. Per ulteriori notizie cfr., infra, pp. 



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li l’apporto di Schiller a un’estetica critica è indicato in modo tanto sintetico quanto sorprendente e ricco di implicazioni. Si può dire che l’incidenza della Critica della facoltà di giudizio di Kant, opera nella quale è esposta l’estetica, ha finora avuto luogo solo sul fondamento di fraintendimenti, un processo, questo, che è parte della storia della filosofia. Schiller è stato l’unico a capire cose essenziali in riferimento alla dottrina kantiana del bello e dell’arte; anche la sua conoscenza fu però occultata dalle dottrine estetiche del XIX secolo. L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere dell’uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza. È quello stato che Schiller ha concepito come la condizione dell’essenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo.

I corsivi delle due citazioni sono miei, ma in realtà bisognerebbe corsivare l’intero testo, tanto le affermazioni di Heidegger sono radicali, perentorie e, al tempo stesso, ellittiche se non propriamente oscure. Prima di tentare di offrire un’interpretazione dei due passi – e in particolare del secondo, ad evidenza più bisognoso di chiarimenti – sarà bene esplicitare alcuni dei presupposti su cui Heidegger si appoggia, facendo riferimento a quanto è già detto in altre parti del suo testo ma anche a quanto resta problematico e meritevole di commento perfino sullo sfondo dell’intera riflessione heideggeriana sull’estetica e sull’opera d’arte. Muoviamo, intanto, dalla distinzione appena evocata – quella tra estetica e opera d’arte – per sottolineare che Heidegger la assume in una prospettiva del tutto divergente rispetto all’opinione della «storia della filososs., la nota alla trad. it. dei passi della Mitschrift di A. Ardovino e, di quest’ultimo, gli apparati critici in M. Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, “Aesthetica Preprint”, , Palermo . Ho potuto leggere la Mitschrift del seminario schilleriano solo quando il presente testo era stato ultimato. Mi limito dunque a segnalare che la lettura qui proposta risulta sostanzialmente coerente con i contenuti essenziali del seminario del /, dai quali tuttavia mi discosto in alcuni punti, che potrò solo richiamare in nota. . Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, pp.  e  (trad. it. cit., pp.  e ). . La lettura della Mitschrift, naturalmente, rimuove del tutto questa “oscurità”, anche se non chiarisce quanto ci si sarebbe forse potuto aspettare il confronto tra l’idea di un’«essenza storica dell’uomo», che Heidegger attribuisce a Schiller, e il concetto di storicità su cui poggia l’intera riflessione heideggeriana successiva a Essere e tempo. Va in ogni modo sottolineato che il seminario, rivolto a studenti principianti, si presenta come nient’altro che un’introduzione agli autentici problemi dell’estetica e che ciò consente a Heidegger di introdurre excursus, anche molto ampi, nei quali il contatto con la lettera del testo schilleriano diventa assai debole o cade del tutto. È il caso del rapporto cruciale tra lo «stato estetico» e il suo manifestarsi “in opera” nell’arte: un tema che Heidegger elabora piuttosto liberamente e non senza lasciare nel lettore la sensazione che la sostanziale problematicità con cui Schiller lo affronta resti fuori dal suo quadro interpretativo.

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fia» – che infatti, leggiamo nel testo, si regge su un fraintendimento di fondo. Di che fraintendimento si tratta? Innanzitutto di questo: che l’estetica sia, appunto, nient’altro che una dottrina del bello e delle arti. Ma, in secondo luogo, anche di questo: che la riflessione kantiana sul giudizio estetico e sul «piacere della riflessione» sia sovrapponibile senz’altro alle considerazioni che la Critica della facoltà di giudizio (d’ora in avanti CdG) riserva alla questione dell’opera d’arte. La realtà delle cose – quella che la «storia della filosofia» fraintende, anzi non può che fraintendere perché essa stessa è un modo eminente del fraintendere, un’ignoranza essenziale di ciò che è genuinamente storico – può essere portata allo scoperto muovendo dal seguente presupposto, che Heidegger ha elaborato e discusso in diverse occasioni e che qui possiamo assumere, in via sintetica, facendo nostra un’annotazione manoscritta relativa al lavoro preparatorio delle conferenze dedicate all’Origine dell’opera d’arte, poi confluite nel testo omonimo pubblicato in Sentieri interrotti: Il fatto storico che ogni estetica fondata secondo un pensiero (cfr. Kant) faccia saltare se stessa è allo stesso tempo il sintomo infallibile che, da un lato, questa interrogazione sull’arte non è contingente, ma pure, dall’altro, che essa non costituisce l’essenziale.

Qui Heidegger mette in luce un tratto che le estetiche «fondate secondo un pensiero» – come quella di Kant, ma anche, possiamo aggiungere, come quella di Schiller e quella di Nietzsche – non sarebbero in condizione di esplicitare pienamente e di dominare fino in fondo: vale a dire che in esse ne va di «uno stato fondamentale dell’essere dell’uomo»; o, insomma, che l’estetica non è una dottrina regionale del bello e dell’opera d’arte ma, per usare la felice formula di Emilio Garroni, una «filosofia non-speciale», o addirittura un modo essenziale di porre il problema della filosofia (nei due . È questo un problema piuttosto spinoso, sul quale, almeno nell’ambito circoscritto del seminario schilleriano, il discorso di Heidegger non va esente da alcune difficoltà. Da un lato, infatti, egli riscontra in Schiller un collegamento essenziale tra lo «stato estetico» e il suo «essere in-opera», condizione, quest’ultima, del suo carattere «fondativo di storia»; dall’altro, però, sembra sfuggirgli (o non intende tematizzarlo) il rilevante ripensamento della questione del bello che Kant impegna nelle sezioni della Critica della facoltà di giudizio dedicate all’arte, introducendo il concetto decisivo (ma del tutto trascurato da Heidegger) di «idee estetiche». Su questo punto, oltre alla discussione presentata in questo lavoro (cfr. infra), mi permetto di rinviare alla mia Presentazione in H. G. Gadamer, Scritti di estetica, a cura di G. Bonanni, Aesthetica, Palermo , ai capitoli dedicati a Kant e a Schiller in P. Montani, A. Ardovino, D. Guastini, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari  (III ed.), e alla mia Introduzione in M. Carboni, P. Montani (a cura di), Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza, Roma-Bari . . Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, cit., p. . . Cfr., in generale, Garroni, Senso e paradosso, cit.

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sensi del genitivo) muovendo dallo «stato del sentimento» (Zuständlichkeit des Gefühls). Del quale “stato”, a sua volta, leggiamo nel Nietzsche heideggeriano, tra le altre cose, le seguenti considerazioni, che sono in tutto e per tutto in sintonia con Kant (ma anche con Schiller e Nietzsche): Nel sentimento si apre e si mantiene aperto lo stato in cui di volta in volta ci troviamo rispetto alle cose, rispetto a noi stessi e rispetto agli uomini. Il sentimento è esso stesso questo stato, aperto a sé, in cui si libra la nostra esistenza. L’uomo non è un essere pensante che in più vuole, a cui si aggiungono poi, per farlo più bello o più brutto, oltre al pensare e al volere, i sentimenti, ma l’essere nello stato del sentimento è la dimensione originaria di cui pensare e volere fanno parte.

Possiamo ora tornare alle due citazioni da cui ho preso le mosse per cominciare a commentarle in modo più preciso. «Schiller è stato l’unico a capire cose essenziali a proposito della dottrina kantiana del bello e dell’arte». Heidegger scrive «l’unico» e non c’è ragione di pensare che l’espressione gli sia sfuggita. L’estetica di Kant fu sistematicamente fraintesa (a cominciare dal maggior responsabile dell’equivoco, vale a dire Schopenhauer) perché con l’eccezione di Schiller nessuno si accorse che la CdG era una riflessione sui fondamenti “sentimentali” dell’esser-uomo dell’uomo. Schiller capì questo fatto essenziale, che invece sfuggì allo stesso Nietzsche, vittima di un’assunzione acritica della lettura schopenhaueriana. Quale lettura? Quella, pervicacemente professata dalla «storia della filosofia» (ai tempi di Heidegger ma anche, come negarlo?, ai nostri), secondo cui il «disinteresse» del «puro giudizio estetico» non solo priverebbe l’esperienza estetica di ogni rapporto con la praxis complessiva dell’uomo (il «pensare e volere» di cui si dice nell’ultimo passo citato) ma avrebbe a che fare anche con l’esperienza specifica dell’opera d’arte. Fraintendimento duplice e in entrambi i casi esiziale. In primo luogo perché, come Heidegger chiarisce senza possibilità di equivoci, il «disinteresse» sta a indicare solo che il «principio di determinazione» del giudizio estetico non risiede in una qualsiasi forma di interesse in quanto consiste in null’altro che in un sentire e in un sentir-si – e cioè nella Grundstimmung dell’essere-aperti, per usare la terminologia heideggeriana di Essere e tempo, ovvero, nei termini di Garroni, nell’anticipazione estetica del senso di un’«esperienza in genere». Ma, in secondo luogo, perché la condizione del disinteresse non potrebbe in nessun modo essere trasferita, senza precisazioni di importanza capitale, nell’esperienza specifica dell’opera d’arte, nella quale entrano in gioco altre decisive determinazioni dello stato estetico. Quali? La risposta . Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p.  (trad. it. cit., p. , corsivo mio). . Ribadisco che qui la mia lettura si discosta da quella heideggeriana, secondo quanto indicato nelle note  e .

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è la seguente – ma per motivarla convenientemente dovremo ora compiere un ampio détour nel testo kantiano e in quello schilleriano –: precisamente le determinazioni che, secondo l’osservazione più impegnativa di Heidegger, pertengono alla connessione tra lo «stato fondamentale dell’essere uomo» rinvenibile nel «comportamento estetico» e «la condizione dell’essenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo». Schiller, «unico» tra gli interpreti dell’estetica kantiana, avrebbe visto questa connessione, che in Kant non è affatto esplicita, e l’avrebbe sviluppata in proprio. Ma che significa? In che modo un pensatore dell’“estetica”, se resta tale, potrebbe arrivare a concepire lo stato sentimentale dell’uomo niente meno che come “fondatore di storia”? Forse che in Schiller l’estetica farebbe «saltare se stessa» in modo ancor più radicale che in Kant? E questa radicalità sarebbe ancora interna alla metafisica (come accade in Nietzsche, stando alle conclusioni dell’interpretazione heideggeriana) o accennerebbe a qualcosa d’altro?  Lo schematismo della facoltà di giudizio e la condizione estetica dell’esperienza Per rispondere a queste domande dobbiamo occuparci anzitutto del rapporto tra la riflessione kantiana sul giudizio estetico e la sezione della CdG dedicata alla questione dell’opera d’arte. Ho già detto che il dispositivo concettuale con cui Kant affronta e definisce lo «stato sentimentale» del soggetto umano esibito esemplarmente dal giudizio estetico non può essere trasferito, senza decisive precisazioni, nella sua comprensione critica dell’esperienza artistica. Numerosi indizi testuali mostrano infatti che qui Kant mette mano a un’ulteriore rielaborazione dei problemi fondamentali della filosofia critica che lo conduce, come cercherò di far vedere, fino ai limiti di questa stessa filosofia (un confine, si può supporre, che Schiller . Così nella Mitschrift: «also handeln Schillers Briefe von nichts anderem als vom Kunst, von ihrer metaphysischen Notwendigkeit und ihrer Geschichte-gründenden Macht» (p. ). Nelle lezioni conclusive del seminario Heidegger esemplifica questa fondatività storica dell’arte riferendola a quella svolta nella comprensione essenziale dell’ente che si renderebbe manifesta nell’opera di Dürer (ma anticipata in Duns Scoto e in Ockham). Si tratta tuttavia di un excursus largamente indipendente dal pensiero di Schiller che funge qui da semplice pretesto per un’apertura su questioni che riguardano l’interpretazione ontologica dell’arte (non è un caso, del resto, che l’altro esempio discusso da Heidegger sia l’opera poetica di C. F. Meyer, che ricorre anche nel saggio sull’Origine dell’opera d’arte). . Cfr. Mitschrift: «Trotzdem Schiller betont, dass kein Schritt möglich sein ohne Kant, wird von ihm trotzdem eine Wendung gemacht in der Richtung auf die Geschichte» (p. ). Come si vedrà (cfr. infra § ), lo stesso Kant accenna a una tale «Wendung», ma in modo solo liminare e in una prospettiva solo in parte raccolta da Schiller.

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spingerebbe ancora più innanzi, se dobbiamo prendere sul serio l’affermazione di Heidegger). La questione può essere affrontata in diversi modi. Qui proverò a farlo discutendo un concetto tanto centrale quanto dissimulato e, per così dire, disciolto nella compagine testuale della CdG che non gli dedica una trattazione speciale (per il buon motivo che l’intero testo si potrebbe interpretare come un suo interminabile ripensamento). Mi riferisco al tema di un «libero schematismo» della facoltà di giudizio, che ora si tratterà di collocare adeguatamente (e con un po’ di pazienza) sullo sfondo della riflessione kantiana sull’arte. Che lo schematismo abbia fin dall’inizio a che fare con qualcosa come l’“arte”, intanto, è attestato da una celebre formulazione della prima Critica, che lo definisce «un’arte celata (eine verborgene Kunst) nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio (Handgriff) noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi (unverdeckt vor Augen)». Una formulazione su cui non si è forse riflettuto abbastanza, come se quella parola – Kunst, arte, o meglio “tecnica” – fosse stata usata da Kant in modo metaforico e non fosse, invece, l’indizio di un autentico problema. Ma che cos’è lo schematismo? Diciamo, molto in breve, che il concetto di “schema” consente a Kant di risolvere un’esigenza critica di importanza capitale: che si dia, cioè, un «terzo termine» capace di operare una mediazione tra le due fonti del tutto eterogenee della conoscenza e dell’esperienza, l’intelletto e la sensibilità, le quali altrimenti non potrebbero mai pervenire a una sintesi (è, almeno in parte, lo stesso problema – ma dovremo tornarci – che Schiller risolve con il più noto dei suoi concetti, quello di Spieltrieb, «impulso al gioco»). Ora, questo terzo termine presenta una difficoltà visto che per assolvere al suo compito, scrive Kant, esso «dev’essere omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro col fenomeno». Benché non abbia nulla di empirico, dunque – è questa, almeno, l’opzione della prima Critica, ma vedremo che nella terza la scena epistemologica cambia –, lo schema deve presentare al tempo stesso qualcosa di intellettuale e qualcosa di sensibile. O, se si preferisce, deve fare la spola tra il sensibile e l’intellettuale permettendone l’accordo. Lo schema, scrive Kant «è sempre, in se stesso, soltanto un prodotto dell’immaginazione (nur ein Produkt der Einbildungskraft)», e tuttavia esso «è da distinguere dall’immagine (vom Bilde zu unterscheiden)» in quanto, piuttosto, è solo in virtù dello schema che «le immagini cominciano a . I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (trad. it., Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile, L. Lombardo Radice, rev. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari , p. ). Tutte le citazioni che seguono sono tratte dal capitolo intitolato Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto, pp. - dell’edizione citata.

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diventare possibili (die Bilder allererst möglich werden)». Ciò significa che lo schema non appartiene all’ordine del visibile e che nessuna immagine empirica potrebbe esibirlo perché, piuttosto, è il visibile stesso che dipende da una previa schematizzazione. Quella di Kant sembra una posizione compiutamente costruttivista, ma non è così. Kant ha infatti ben chiaro il tratto paradossale di questa situazione, che gli crea una palese difficoltà. Per dirla in modo sbrigativo: non potrei mai riconoscere un cane se non ne avessi lo schema, ma è pur vero che mi è servita l’immagine empirica di un cane (un cane in carne ed ossa o il disegno o la fotografia di un cane) per procurarmi quello schema. Ciò che fa difficoltà qui è lo statuto produttivo e insieme riproduttivo dello schema o, se si vuole, il carattere cooriginario di schema (interno) e immagine sensibile (esterna). Ma la difficoltà sta tutta nel fatto che Kant non ha ancora impegnato lo sforzo (che impegnerà solo nella CdG) di mettere a tema la situazione di questa cooriginarietà. E non lo ha fatto perché, in sede di Critica della ragion pura, è lo schema, in ultima analisi, a presentarsi come l’originario, mentre l’immagine empirica (questa linea che io traccio, questi cinque punti che metto in sequenza, questo cane che io vedo) tende ad assumere, pur nella sostanziale insoddisfazione di Kant, il ruolo del susseguente (come se, in altri termini, la condizione potesse pacificamente precedere il condizionato; come se ci fossero “prima” le condizioni e l’esperienza “arrivasse dopo”). Vale tuttavia la pena di chiedersi in che modo Kant si rappresenti il carattere condizionante dello schema. Il testo ci dice poco su questo punto, ma una delle definizioni di Kant ci fornisce un suggerimento rilevante. Ecco il passo decisivo: «Ora io chiamo schema di un concetto la rappresentazione di un procedimento (Verfahren) generale onde l’immaginazione porge a esso concetto la sua immagine». Qui si deve osservare che parlando di «procedimento» Kant modifica alquanto la formulazione precedente. In effetti, se noi pensiamo lo schema come un «prodotto» non possiamo rappresentarcelo se non come un’immagine finita (il che, come si è visto, è contraddittorio); se invece lo pensiamo come un «procedimento» – come un “lavoro” più che come un «prodotto» – non abbiamo più bisogno di istituire una precedenza della condizione rispetto al condizionato e anzi tra i due termini comincia a profilarsi qualcosa come un rapporto di codeterminazione (di nuovo: è proprio su questa codeterminazione che lo Schiller delle Lettere sull’educazione estetica impegnerà il suo sforzo teorico più arduo). Del resto è degno di nota che Kant utilizzi entrambe le definizio. Cfr. F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen (trad. it., a cura di G. Pinna, L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo ), lettere  e : si tratta delle due lettere sulle quali si concentra pressoché esclusivamente l’attenzione del seminario heideggeriano, che dedica invece allo Spieltrieb solo alcune considerazioni

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ni dello schema, il quale dunque, con ulteriore e notevole rafforzamento della sua natura duplice, appare al tempo stesso come un prodotto e come un lavoro, come ergon e come energeia. La prima Critica è molto reticente quanto alla chiarificazione di questa duplicità. È vero, piuttosto, che Kant vi conferma il suo sostanziale imbarazzo e si lascia andare alla definizione che ho ricordato: lo schematismo «è un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi». Il pensiero sembra semplice e diretto, ma non lo è e anzi riproduce di nuovo la difficoltà principale insita nella natura duplice dello schema. Come potrebbe infatti un’arte – una tecnica che richiede «maneggio», «manipolazione» – essere anche «celata»? E che cosa precisamente dovremmo avere l’ambizione di esporre scopertamente innanzi agli occhi? E chi, infine, potrebbe nutrire questa ambizione: il filosofo critico o l’artista? Lasciamo in sospeso queste domande e spostiamoci nella CdG. È solo qui, infatti, che il carattere artistico (o artificiale o tecnico) dello schematismo si sarebbe via via fatto valere nel pensiero di Kant fino a trovare una risoluzione, almeno tendenziale, nei paragrafi sull’arte. Ma per giungere a quei paragrafi Kant avrebbe dovuto compiere prima un lungo percorso, su cui è necessario soffermarsi, se non altro perché il suo primo movimento va nella direzione opposta a quella indicata, cioè verso un consolidamento della natura “interna” dello schema, benché ora non sia più in gioco uno schematismo logico e oggettivo bensì uno schematismo estetico e soggettivo, preliminare, tuttavia, sul piano trascendentale, a quello. Va ribadito, intanto, che se la CdG non presenta una sezione direttamente dedicata al problema ciò accade perché l’intera opera non è che una nuova riflessione sullo schematismo. Più precisamente: una riflessione in cui lo schema non è più pensato in quanto «prodotto» ma è pensato nel suo emergere da un “lavoro” dell’immaginazione. Kant è alla ricerca di una condizione più originaria rispetto allo «schematismo dell’intelletto» e propone di riconoscerla in un «libero schematismo della facoltà di giudizio» (o «libero gioco» di immaginazione e intelletto) di cui i «giudizi riflettenti» e in particolare il «giudizio estetico», ci fornirebbero un’esemplare manifestazione empirica. Nel giudizio estetico, infatti, l’immaginazione «schematizza senza concetto» (e va osservato che nel contesto della prima Critica questa definizione suonerebbe come un autentico ossimoro), il suo ufficio non consistendo in nient’altro che nell’apertura di un orizzonte indeterminato di senso nel quale il sensibile “appare” (si manifesta, si fenomemolto sintetiche, benché di grandissimo peso teorico, in sede conclusiva. Per un’accurata analisi delle Lettere cfr. A. Ardovino, Il sensibile e il razionale, “Aesthetica Preprint”, , Palermo ; per un’ampia discussione del concetto di Trieb cfr. AA.VV., Trieb: tendance, instinct, pulsion, in “Revue Germanique Internationale”, , PUF, Paris .

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nizza) in modo tale che esso possa coordinarsi con una concettualità parimenti indeterminata (come si vedrà, questa stessa problematica ricompare in Schiller sotto il titolo di Schein). A meno di un tale «libero schematismo», tuttavia, nessuno schematismo intellettuale sarebbe possibile, per cui si deve concludere che un’apertura «estetica» – lo «stato sentimentale» legato al «piacere della riflessione» su cui si sofferma l’attenzione di Heidegger – precede e condiziona la conoscenza e l’esperienza effettive e che la produzione di schemi oggettivi e determinati può realizzarsi solo nell’ambito di una preliminare e libera istruttoria immaginativa. Il punto decisivo qui non sta tanto nell’aver francamente riconosciuto il primato dell’immaginazione e dell’estetico rispetto all’intelletto e al conoscitivo, sta piuttosto in un rilevante riorientamento dello sguardo critico che ora non osserva più l’esperienza dall’esterno ma si colloca consapevolmente all’interno di un’esperienza in atto. È per questo che ora Kant non potrebbe più parlare dello schema come di una condizione dell’immagine empirica, essendo ormai tematicamente in gioco la complessa situazione in cui tra i due – immagine (esterna) e schema (interno) – si stabilisce un rapporto circolare, un andirivieni che non permette di stabilire precedenze. In altri termini, e semplificando, l’immaginazione elabora liberamente il sensibile in modo tale che esso si offra a numerose possibili configurazioni sensate. Questo «libero gioco» può essere finalizzato al conoscere, e allora da quelle configurazioni si profileranno i tratti pertinenti di uno schema oggettivo e del concetto che lo sintetizza (il concetto di “cane” rispetto a tutte le diverse intuizioni sensibili che, in virtù dello schema, gli consentono di avere un “significato” – una Bedeutung, dice Kant, un riferimento costante al molteplice empirico). Ma quel gioco può anche essere lasciato alla sua indeterminatezza, e allora si dovrà dire che l’immaginazione non mira al significato e piuttosto si orienta e indugia sul senso, valorizza tutte le pertinenze possibili e non ne lascia prevalere nessuna. In quest’ultimo caso l’immaginazione non è subordinata all’intelletto e anzi lo eccede. Ma non si tratta di un’eccedenza anarchica e priva di implicazioni cognitive. Si tratta piuttosto di un’eccedenza che «dà da pensare». Ora, è un fatto del tutto notevole che questo “dar da pensare” sia precisamente il compito che Kant attribuisce al lavoro dell’immaginazione nei passi in cui la CdG si sposta dal terreno (ricettivo) del giudizio estetico a quello (produttivo, poietico, artificiale) dell’opera d’arte. Il punto è cruciale e richiede qualche ulteriore chiarimento. . È in questo senso che va innanzitutto inteso il ripensamento del trascendentalismo, secondo il suggerimento di Emilio Garroni (cfr. nota ). . È l’espressione usata da Kant a proposito dell’opera d’arte, su cui apriremo poco oltre la discussione.

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In primo luogo è necessario distinguere meglio la questione del giudizio estetico da quella dell’opera d’arte. Che cos’è un giudizio estetico? Dal punto di vista della sua natura schematica (che è la sola, qui, a interessarci), si tratta di un giudizio nel quale, come si è detto, l’immaginazione schematizza senza concetto, ovvero si accorda con l’intelletto secondo un «libero gioco». Detto altrimenti, nel giudizio estetico l’immaginazione mira alla semplice «riflessione sulla forma di una rappresentazione», ovvero, come dice Kant, essa mira a far apparire la mera legalità formale (la semplice conformità a regole) secondo la quale il sensibile dà mostra di potersi accordare con le nostre facoltà conoscitive (si tratta, di nuovo, della situazione trascendentale che Schiller raccoglie sotto il concetto di Schein). Il libero schematismo del giudizio estetico, in tal senso, risponde innanzitutto a un problema di ordine epistemologico mettendo in chiaro che nessuna conoscenza determinata sarebbe possibile a meno di questa indeterminata e preliminare apertura di senso. Esso inoltre tematizza criticamente, come si è detto, la posizione di un soggetto che si sente in rapporto con un’esperienza in corso di elaborazione e che solo a queste condizioni la va effettivamente elaborando. Fin qui il problema dell’arte non sembrerebbe avere alcun rilievo, e anzi si potrebbe perfino sostenere che l’orizzonte epistemologico della CdG non perderebbe nulla della sua intelligibilità se il tema dell’arte non vi comparisse per niente. È un fatto, però, che quando Kant se ne occupa il suo vocabolario si modifica in modo rilevante. Ora infatti non si parla più di un «libero schematismo», e lo sforzo critico consiste piuttosto nel presentare il lavoro dell’immaginazione dal punto di vista di una “messa in opera”, cioè da un punto di vista che pone l’accento sul suo essere artificiale e tecnico. Dunque a un primo movimento verso uno schematismo estetico e soggettivo, libero e indeterminato, fa ora seguito un secondo movimento, in cui si ritorna al determinato, precisamente nei termini della sua artificialità. La questione dello schematismo viene così rilanciata su un nuovo piano, coglibile con chiarezza nella diversa «proporzione» secondo la quale qui ci viene presentato il rapporto di immaginazione e intelletto. Il quale rapporto non è più a tutti gli effetti un «libero gioco», riferendosi piuttosto, di volta in volta, alla «materia» (Stoff) manipolata o messa in opera dall’immaginazione. Una materia che Kant definisce (evidenziandone l’intima paradossalità: ma è il paradosso dello schematismo) «idea estetica»: qualcosa che coniuga eidos e aisthesis, intelligibile e sensibile, pensiero e immagine. Ecco la definizione di Kant: «Per idea estetica intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto senza che però un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa esserle adeguato». . Kant, Kritik der Urteilskraft, §  (trad. it. cit., p. ).

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È possibile cogliere qui, con la più grande chiarezza, la nuova proporzione (più originaria, ho suggerito) del rapporto tra immaginazione e intelletto richiesto dallo schematismo in quanto “arte”. L’idea estetica, infatti, è il correlato sensibile di un pensiero che in nessun modo potrebbe arrivare a saturarla di concettualità. Il che significa che nel suo essere innanzitutto messa in opera (nel suo manifestarsi in un artefatto), ciò che qui l’immaginazione schematizza è l’originaria eccedenza del sensibile rispetto al pensiero concettuale il quale, al tempo stesso e proprio per questo, vi riconosce l’occasione di un lavoro che appare interminabile perché mai perfettamente adeguato. È facile vedere che questa prima definizione non fa che riproporre la questione del «libero schematismo» sotto il profilo della sua produttività. Nell’opera d’arte, in altri termini, l’immaginazione procede bensì a sensibilizzare concetti, ma lo fa lasciando sussistere una caratteristica eccedenza, tale per cui molti pensieri vengono convocati ma nessun concetto può candidarsi a saturare del tutto questo movimento che resta asimmetrico. Ciò significa che l’opera provoca pensiero e linguaggio, ma anche che pensiero e linguaggio restano sempre per così dire un passo indietro rispetto all’occasione sensibile che li ha messi in gioco e che non smette di metterli in gioco. Detto altrimenti: l’opera d’arte mostra esemplarmente il movimento dell’espansione della concettualità. Essa è uno schema, di volta in volta determinato, di questo espandersi. Se ne dovrà concludere che l’espressione «dar da pensare» (zu denken veranlassen, occasionare pensiero) dev’essere presa nel suo senso più rigoroso: un nuovo pensiero non si produce in forza di non si sa bene quale miracolo autogenerativo, si produce in occasione di un arrangiamento di dati sensibili cui la tecnica dell’immaginazione (il suo essere originariamente un’ “arte”, sia pure tutt’altro che «celata») fornisce la capacità di eccedere interminabilmente il lavoro della concettualità, che non smette proprio per questo di farsene con-vocare e pro-vocare.  Il “soggetto” dello schematismo come “arte” Ci si può e ci si deve chiedere che genere di “soggetto” sia quello che prende forma in questo complesso ripensamento kantiano dello schematismo. In primo luogo, come ho già detto, si tratta di un soggetto sempre già immerso nell’esperienza: ne è prova lo «stato sentimentale» che lo mantiene “aperto” (e che Heidegger, non dimentichiamolo, ha definito come una «dimensione originaria» dell’essere uomo). Ma in secondo luogo bisognerà dire che si tratta di un soggetto, per così dire, denaturalizzato, le cui facoltà prima ancora che come una pacifica “dotazione naturale” vanno pensate 

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come «facoltà artificiali», come costrutti che egli stesso mette in azione e regola sotto la guida dell’istanza superiore della ragione, la quale a sua volta – e il punto è di importanza decisiva – presenta un’inerenza essenziale a questa “artificialità”. Un passo capitale del §  ce ne darà piena conferma. Va preliminarmente osservato che si tratta del paragrafo che conclude il primo libro dell’Analitica della facoltà estetica di giudizio – quello dedicato al giudizio di gusto sul bello – e che si presenta come un commento (ma è molto di più: una ripresa e un rilancio della riflessione critica sul giudizio estetico) del concetto sotto cui Kant sussume, in conclusione, l’intera riflessione sul gusto: l’idea di un Gemeinsinn, di un “senso” o “sentimento” che abbiamo in comune e che sta a fondamento della comunicabilità universale non solo della conoscenza (il che pertiene alla definizione stessa del conoscere) ma anche dello «stato sentimentale» che, come ormai abbiamo accertato, la precede e la condiziona esteticamente: Questa norma indeterminata di un senso comune è da noi effettivamente presupposta: lo dimostra la nostra presunzione di pronunciare giudizi di gusto. Se ci sia in effetti un tale senso comune, come principio costitutivo della possibilità dell’esperienza, o se un principio ancora più alto della ragione ne faccia per noi solo un principio regolativo, tale da produrre (hervorbringen) in noi innanzitutto un senso comune per scopi superiori; se quindi il gusto sia una facoltà naturale, o solo l’idea di una facoltà ancora da acquisire e artificiale (künstliche), così che un giudizio di gusto, con la sua pretesa di un accordo universale, in effetti sia soltanto un’esigenza della ragione di produrre (hervorbringen) una tale concordanza del modo di sentire, e il dovere, cioè la necessità oggettiva del confluire del sentimento di ognuno col sentimento particolare proprio di ciascuno, significhi solo la possibilità di divenire in ciò solidali, e il giudizio di gusto offra un esempio solo dell’applicazione (Anwendung) di questo principio: ciò non vogliamo, né possiamo, qui, ancora ricercare, ma per ora abbiamo solo da analizzare la facoltà del gusto nei suoi elementi e unificarli infine nell’idea di un senso comune.

Che qui Kant stia cominciando a modificare il punto di vista critico, con un decisivo spostamento tematico dalla condizione ricettiva del gusto e del sentimento estetico a quella produttiva, artificiale e applicativa che a quest’ultima è indissociabilmente connessa, appare chiaro dall’intero passo e in particolare dai termini che ho posto in evidenza: hervorbringen, künstliche, Anwendung. In altri termini: il gioco delle facoltà di cui consiste il «senso comune» è bensì istruito dalla ragione – meglio: è un’esigenza della ragione, un suo bisogno di sensibilizzarsi –, ma proprio per questo, proprio per questa esigenza della ragione di “farsi sentire”, ora quel gioco va osservato come un processo che dev’essere prodotto, che necessita di qual. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., §  (trad. it. cit., pp. -).

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cosa di artificiale e di esterno. Ma questo significa, infine, che solo l’arte, e non il giudizio estetico, può fornire l’occasione empirica di una sua esibizione. Kant non valuta fino in fondo, si direbbe, che cosa succede al soggetto trascendentale nel corso di questo spostamento del fuoco critico dall’esperienza ricettiva del giudizio estetico a quella produttiva, artificiale e applicativa dell’arte. In particolare egli non assume un punto decisivo, che pure fa emergere e ci lascia da pensare: precisamente il fatto che nell’esperienza dell’arte accade alla ragione che essa venga anticipata da qualcosa di empirico – di tecnico o artificiale – che è sempre già accaduto e da cui il soggetto che amplia e riorganizza l’esperienza (il soggetto che schematizza produttivamente) è già sempre dipendente. Commentiamo questa notevolissima – benché non compiutamente tematizzata – apertura kantiana nel passo che meglio ce la restituisce secondo la sua paradossalità. Si tratta delle prime due definizioni dell’opera d’arte di genio, da intendere come quell’esperienza empirica che più adeguatamente esibisce la condizione produttiva, artificiale e applicativa dello «stato estetico» (o «senso comune», ma è la stessa cosa) di cui ne va a quest’altezza (che è anche la sua soglia, come ho suggerito) della riflessione estetica kantiana. . Il genio è un talento di produrre ciò per cui non si può dare una regola determinata, di conseguenza l’originalità dev’essere la sua prima proprietà. . [...] I suoi prodotti, poiché può esserci anche un non-senso originale, debbono essere nello stesso tempo modelli, cioè esemplari; e quindi, pur non sorti per imitazione, debbono però servire agli altri a ciò, cioè come criterio e regola del giudizio.

Kant qui stabilisce una rilevante connessione tra originalità ed esemplarità, ma non ne trae tutte le conseguenze, pur indicandole con chiarezza nel testo. L’originalità va intesa in modo radicale: l’opera d’arte non si fonda su nulla di esistente. Ciò vuol dire che nessuna regola precedente può garantire che l’evento assolutamente contingente dell’opera abbia un senso. Infatti Kant dice che potrebbe essere insensato. Ma se non c’è una regola pregressa, ce ne dovrà essere una a venire: l’opera, in altri termini, è non conforme all’esistente, ma per legittimare la sua comparsa dovrà fare in modo che sia l’esistente, per così dire, a conformarsi ad essa. È questo che intende Kant quando dice che l’opera dev’essere esemplare, cioè deve «servire agli altri» come «criterio e regola del giudizio». Ma chi sarebbero questi «altri»? A quale comunità di giudicanti l’opera si rivolgerebbe per essere adottata? Kant non lo dice, ma il testo parla chiaro: nel momento del suo accadere contingente l’opera non si rivolge a una comunità effettiva, e piut. Ivi, §  (trad. it. cit., p. ).

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tosto progetta una comunità a venire. Si rivolge, cioè, al «senso che abbiamo in comune» e a questa stessa comunanza come a qualcosa da produrre (e si ricordi il § ), anticipandone una possibile riorganizzazione. Vogliamo aggiungere l’ultimo concetto indicato ma non tematizzato da Kant? Si rivolge a una comunità storica in quanto, al tempo stesso, ne fonda la storicità. Solo nel momento in cui l’opera avrà costituito questa comunità essa sarà stata davvero un’origine. In questo duplice futuro anteriore si annuncia una temporalità non lineare, ma storica in senso essenziale (nel senso, cioè, che Heidegger attribuisce a Schiller), che è la temporalità propria dello schematismo, anzi la sua temporalità originaria e condizionante. Noi non ci possiamo pacificamente rappresentare un soggetto che semplicemente si sente esposto al mondo, o immerso nel mondo secondo una rassicurante apertura estetica (come nel primo momento del ripensamento dello schematismo, che tematizza l’antecedenza condizionante di una tale apertura estetica e indeterminata rispetto a ogni schema determinato e oggettivo). Non ce lo possiamo rappresentare in questo modo rassicurante perché questo soggetto è in realtà già affetto da immagini costruite nei cui confronti è già sempre preso in un processo di adozione forzata – come nel caso esemplare dell’adozione del linguaggio che parliamo –, e dunque deve ritrovare il suo “proprio” in qualcosa di esterno e di artificiale. L’esperienza dell’opera d’arte sembra descrivere, tra le altre cose, anche questo movimento paradossale, questo accadere fondativo di storia. Ripetiamolo: Kant non ha mai esplicitato un tale pensiero, che piuttosto ci lascia da pensare. Ma se Heidegger ha ragione lo avrebbe fatto Schiller, l’«unico» tra i suoi interpreti genuini.  La storicità dell’arte nel trascendentalismo di Schiller Siamo ora pronti a tornare al più significativo dei due passi heideggeriani da cui abbiamo preso le mosse. Rileggiamolo corsivando la parte che ora ci investe più direttamente perché richiede di essere infine interpretata in modo esteso e unitario: L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere dell’uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza. È quello stato che Schiller ha concepito come la condizione dell’essenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo.

Non mi soffermo sulla prima parte del passo (ormai del tutto chiara per noi) se non per far notare che qui Heidegger parla dell’«uomo» – e non dell’esserci –, il che significa che il suo enunciato intende mantenersi all’inter

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no della metafisica. Diverso è il caso della seconda proposizione, nella quale il paradigma metafisico dell’essenza sovrastorica dell’uomo è messo in questione dal richiamo alla sua, più essenziale, storicità. Si può forse supporre che il riferimento a Schiller debba essere collocato proprio su questa soglia: Schiller, in altri termini, si manterrebbe sul confine tra una considerazione ancora metafisica dell’uomo e una potente apertura nei confronti di un’altra considerazione, che intende l’essere dell’uomo come qualcosa di intimamente storico, in quanto fa parte dell’essenza dell’uomo il far accadere la storia e il dover attestare questo stesso accadere tramite una fondazione (una Stiftung nel senso in cui se ne parla nelle conclusioni del saggio heideggeriano sull’Origine dell’opera d’arte). Occorre però ancora chiedersi dove Schiller avrebbe concepito lo «stato estetico» nei termini che sono ora oggetto della nostra interrogazione. La lettura del seminario heideggeriano del / ci conferma che si tratta del testo che accorda alla questione dello «stato estetico» il rango di autentico problema fondamentale, vale a dire Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, pubblicato nel  (d’ora in avanti EE). Per esplicita ammissione di Schiller, il saggio epistolare poggia su «principi kantiani». Ma sono cospicue ed evidenti, per altri versi, le questioni teoriche di fondo su cui Schiller si distacca da Kant, ora per integrarlo ora per interpretarlo ora, infine, per emendarlo. Ripercorrerò alcuni passaggi di questa relativa autonomia di Schiller sottolineandone in particolare un profilo specifico – il rapporto tra lo stato estetico e i suoi aspetti “artificiali” (l’opera d’arte e lo Schein) –, non solo perché si tratta del tema cui in definitiva spetta il compito di mettere alla prova la tesi heideggeriana, ma anche perché, fra tutti, è quello che resta più oscillante nel complesso dispositivo teorico del testo schilleriano, che pure gli accorda in via di principio un ruolo preminente, e dunque richiede un lavoro interpretativo più circostanziato e attento. Come ho appena ricordato, Schiller si muove esplicitamente nel contesto di una filosofia critica di cui tuttavia è interessato a forzare i limiti aprendo il trascendentale alla questione, che per lui è decisiva, della storicità insita nella Menschheit, nell’esser-uomo dell’uomo. Ora, la forzatura più evidente sta proprio nell’idea, centrale in EE, di un progetto politico (in senso ampio) di cui l’arte può farsi portatrice, o meglio di cui solo l’arte può farsi portatrice per ragioni che possono mostrare la loro urgenza e la loro medesima legittimità teorica solo in un orizzonte storico. Allo sguardo critico di Schiller, infatti, appare evidente che nella modernità il gioco armonico di sensibilità e ragione si è squilibrato a vantag. Il seminario heideggeriano del /, del resto, si concentra esclusivamente su questo testo.

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gio di una razionalità che sfigura o anestetizza le risorse specifiche dello stato estetico (il solo in cui l’uomo è compiutamente tale) e, di conseguenza, minaccia di dar luogo a un’autentica disumanizzazione. Ma com’è potuta accadere questa rottura? La tesi di Schiller è che sia stata «la civiltà (Kultur) stessa a infliggere all’umanità moderna queste ferite» (EE, ), in quanto «per sviluppare nell’uomo le sue molteplici disposizioni non vi era altro mezzo che contrapporle le une alle altre» (EE, ). E tuttavia se è vero che un «tale antagonismo delle forze è il grande strumento della civiltà», è anche vero che «finché esso persiste non la si è ancora raggiunta» (ibid.) e anzi si prospetta continuamente il rischio che da strumento esso si faccia fine. L’analisi di Schiller è chiara: l’imporsi del dominio unilaterale di una razionalità parcellizzante ha qualcosa di necessario, perché in nessun altro modo l’uomo come specie avrebbe potuto progredire se non dividendo. È accaduto, però, che lo strumento della cultura si sia inavvertitamente trasformato nel suo fine e il risultato è lo stato essenzialmente «barbarico» della contemporaneità, il degrado della sensibilità a cui corrisponde un impoverimento complessivo dell’esperienza. Ma non si recupera l’unità distrutta per via regressiva, ripristinando uno stato precedente. Piuttosto, se la rottura è da mettere in conto all’arte – e cioè a quanto di artificiale e costruito vi è nell’esperienza umana – allora dovrà essere un’arte superiore, un supplemento di artificialità a ri-produrre (wieder herzustellen) una nuova unità. Questo tema emerge limpidamente nelle battute conclusive della sesta lettera, che è lecito leggere come una ripresa e una riformulazione della tesi kantiana sul carattere artificiale e sempre in via di costruzione del Gemeinsinn, che ho commentato più sopra: Ma può l’uomo essere destinato per un qualsivoglia fine a dimenticare se stesso? E la natura dovrebbe poterci sottrarre per i suoi fini una perfezione che la ragione con i suoi fini ci prescrive? Dev’essere dunque falso che lo sviluppo delle singole forze renda necessario il sacrificio della loro totalità; o, se anche la legge di natura tendesse a questo, deve stare a noi il ricostruire nella nostra natura, attaverso un’arte più elevata, questa totalità che l’arte ha distrutto (EE, , corsivo mio).

Ma, aggiunge Schiller, questo è un compito «per più di un secolo» (EE, ). Nel frattempo che cosa deve fare la filosofia? La filosofia non potrà intervenire come pura ragione, piuttosto essa dovrà sapersi ripensare non solo nella sua capacità di legittimare trascendentalmente quella forza o quell’impulso (Trieb) che, solo, può sostanziare il compito dell’«arte più elevata» di cui ha parlato Schiller (parafrasando il richiamo kantiano a «un principio più elevato» in quanto «esigenza della ragione»), ma anche nella sua capacità di indicare un ambito empirico adeguato al compito stesso. Anche 

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per Schiller dunque, e con accenti più forti e precisi di Kant, la ragione “deve farsi sentire”. La differenza, tutt’altro che irrilevante, rispetto a Kant sta nel fatto che Schiller concepisce questa sensibilizzazione come una «forza» – è infatti un impulso, un Trieb, l’«avvocato» della ragione nel regno dei fenomeni (ibid.) – la cui azione, specificata trascendentalmente come Spieltrieb, impulso al gioco, si manifesta empiricamente nell’accadere storico delle arti, intese, come ora vedremo, in un senso molto ampio e non privo di qualche interna oscillazione (su cui tornerò nelle conclusioni). In altri termini, se l’«esigenza più impellente» della modernità è «l’educazione del sentimento (Ausbildung des Empfindungsvermögen)» (EE, ) ci si dovrà chiedere se esiste «uno strumento» attraverso cui la riabilitazione del sentire, la riscoperta della sua forza, sia in grado di riattivare le fonti genuine dell’unità dell’uomo. «Sono ora giunto», scrive Schiller nella nona lettera, «al punto cui tendevano tutte le considerazioni sinora svolte. Questo strumento è l’arte bella, queste fonti scaturiscono nei suoi modelli immortali» (EE, ). È precisamente su questa soglia, determinata da un problema di carattere storico, che Schiller potrà, senza equivoci, aprire la «via trascendentale» all’arte e alla bellezza e impegnarsi nella discussione del suo primo concetto: l’«impulso al gioco» in quanto termine medio tra impulso sensibile e impulso formale (o meglio: relazione che precede e istituisce l’uno e l’altro), evidente rielaborazione del kantiano «libero gioco» delle facoltà. Questa «via» dovrà raggiungere la solida fondazione di un programma (di lunga durata: «più di un secolo») il cui obiettivo è la legittimazione – non certo l’istituzione, che non potrebbe mai dipendere dalla filosofia, come non può dipendere dallo Stato – di quell’«arte più elevata» che, sola, può restituire l’uomo (moderno) a se stesso. Seguirò Schiller nella sua «via trascendentale» cercando in particolare di gettare luce sulle considerazioni tutt’altro che sistematiche che EE dedica alla questione dell’arte, di cui fin da ora possiamo tuttavia assumere l’indissociabilità dal compito storico di ricostituirsi sempre di nuovo come luogo eminente di quell’essenziale esperienza di umanizzazione o ri-umanizzazione dell’uomo che è l’«educazione estetica». Della lunga discussione sviluppata da Schiller sull’impulso al gioco teniamo fermi questi due punti, che rivestono il carattere di una conclusione, ancora parziale e provvisoria: L’impulso sensibile vuole essere determinato, vuole ricevere il suo oggetto; l’impulso formale vuole essere esso stesso a determinare, vuole produrre il suo oggetto: l’impulso al gioco cercherà dunque di ricevere come esso stesso avrebbe prodotto, e di produrre così come il senso si sforza di ricevere (EE, ). L’oggetto dell’impulso sensibile, espresso in un concetto generale, si chiama vita, nel significato più ampio del termine; [...]. L’oggetto dell’impulso formale, espres-

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so in un concetto generale, si chiama forma, sia in senso traslato che in senso proprio; [...]. L’oggetto dell’impulso al gioco, presentato in uno schema generale, si potrà chiamare dunque forma vivente (lebende Gestalt); un concetto, questo, che serve a designare complessivamente le caratteristiche estetiche dei fenomeni e, in una parola, tutto ciò che nel senso più ampio del termine si chiama bellezza (EE, ).

Nell’impulso al gioco è dunque in atto un’azione reciproca – una Wechselwirkung la definisce Schiller con termine mediato da Fichte – tra passività e attività, ricezione e produzione, vita e forma tale che esse siano in condizioni di stabilire una sorta di chiasma. Leggiamo, ora, questo passo della lettera quindicesima, che interpola nella discussione trascendentale sull’impulso al gioco un primo esempio empirico di rilievo: Non è la grazia e neppure la dignità quel che ci parla dal volto splendido di una Giunone Ludovisi; non è nessuna delle due perché è tutte e due allo stesso tempo. Mentre la divinità femminile (der weibliche Gott) esige la nostra devozione, la donna simile a dea (das gottgleiche Weib) accende il nostro amore; ma mentre ci abbandoniamo rapiti alla grazia celeste, la celeste autosufficienza ci respinge spaventati. L’intera figura riposa e abita in se stessa, creazione perfettamente conchiusa, e come fosse al di là dello spazio, senza cedimento e senza resistenza; non vi è alcuna forza che combatta con altre forze, nessun vuoto in cui la temporalità possa irrompere. Dalla prima irresistibilmente affascinati e attratti, dalla seconda tenuti a distanza, ci troviamo al tempo stesso in uno stato di suprema quiete e di supremo sommovimento, e nasce quella meravigliosa commozione, per la quale l’intelletto non dispone di alcun concetto e la lingua di nessun nome (EE, ).

Il brano, assai bello, richiede un accurato commento. L’opera presa ad esempio è, eminentemente, l’occasione di un’esperienza quasi pura dello Spielraum, dello spazio-di-gioco in cui accade il chiasma (letterale: der weibliche Gott/das gottgleiche Weib) di grazia e dignità, carnale e divino, sensibile e razionale. Proprio nello stesso senso in cui Hegel avrebbe parlato di «arte classica», questo gioco trova qui un perfetto equilibrio, quasi si trattasse di una pura esperienza dell’azione esercitata dal bello. Per un verso, dunque, è giusto dire che l’opera sensibilizza un’idea fuori dal tempo, che essa non ha un essere temporale perché, piuttosto, precede ed eccede ogni temporalità (Zeitlichkeit). Per altro verso, tuttavia, si dovrà aggiungere che questo porsi dell’opera fuori dal tempo è anche il suo dar figura a un tempo: il tempo, non più ripristinabile, della grecità, sul cui sfondo prende rilievo e assume senso il diverso proporzionamento tra i due termini della relazione riscontrabile nell’esperienza storica dell’arte e in particolare in quella moderna. Proprio su quest’ultima, infatti, Schiller si mostra interessato a riflettere nella lettera successiva. Qui viene in chiaro che l’equilibrio perfetto re

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sta un’idea e che nella concreta esperienza storica (e dunque, a rigore, anche in quella greca) si avrà piuttosto un’«oscillazione (Schwankung)» dei due elementi, per cui ora prevarrà la realtà ora la forma. In altri termini: la medietà del gioco come tale definisce l’esser-uomo dell’uomo (l’idea di umanità) in quanto azione reciproca (Wechselwirkung) di sensibile e razionale; ma l’arte, che esibisce (o schematizza) questo gioco, lo dispone storicamente come un’oscillazione, come un equilibrio sempre instabile. Così, se il movimento trascendentale deve mirare a mettere in luce la relazione in quanto tale – e questo riguarda l’idea della bellezza –, storicamente diventa interessante riconsiderare i due elementi nella diversa composizione del loro rapporto. Schiller si dedica a questa analisi nelle lettere sedicesima e diciassettesima, nelle quali il progetto politico di un’educazione estetica riprende di nuovo il primo piano. Qui si parla – senza alcuna mira classificatoria – di un’azione «rilassante» (auflösende: distensiva) e di una «stimolante» (anspannende: tensiva) della bellezza e si precisa, come del resto era già chiaro nell’esempio della Giunone Ludovisi, che la condizione originaria di questo rapporto è la relazione reciproca dei due nel chiasma della bellezza, la quale «deve creare rilassamento» e insieme «deve creare tensione» (EE, ). Si aggiunge, però, che l’esperienza (cioè: l’arte) non ci offre esempio alcuno di una così perfetta azione di scambio, per cui si dovrà piuttosto parlare di un modo d’essere «soave» e di un modo d’essere «energico» della bellezza. Entrambi i modi, del resto, debbono cooperare alla formazione dell’unità dell’uomo, reintegrando il suo difetto di armonia o il suo difetto di energia, anche se per l’uomo acculturato della modernità il compito principale e più urgente dell’arte sembra essere quello di orientarsi essenzialmente in direzione di una risensibilizzazione della forma astratta e inaridita. Infatti «per l’uomo che vive sotto l’indulgente dominio del gusto è un bisogno la bellezza energica, poiché sin troppo volentieri egli sperpera, nella sua condizione raffinata, quella forza che ha portato con sé dalla condizione di selvaggio» (EE, ). A questo punto Schiller può far ritorno alla via trascendentale per rimuovere definitivamente l’ostacolo che col concetto di «impulso al gioco» era stato superato solo in modo provvisorio e ipotetico.  Il compimento della via trascendentale e il paragone schilleriano delle arti In realtà la situazione è quella descritta all’inizio della lettera diciottesima: Attraverso la bellezza l’uomo sensibile viene indirizzato alla forma e al pensiero; attraverso la bellezza l’uomo spirituale viene ricondotto alla materia e restituito al

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mondo sensibile. Da ciò sembra conseguire che tra materia e forma, tra attività e passività debba esserci uno stato intermedio, e che la bellezza ci collochi in questo stadio intermedio. [...] D’altra parte non vi è nulla di più assurdo e contraddittorio di un simile concetto, poiché la distanza tra materia e forma, tra passività e attività, tra sentire e pensare è infinita e non può essere assolutamente mediata da nulla (EE, ).

Com’è possibile comprendere il paradosso di una mediazione al tempo stesso necessaria e contraddittoria? Ecco, in sintesi, la soluzione di Schiller. Nell’uomo, egli dice, si possono distinguere due diversi stati di determinabilità, passiva e attiva, e altrettanti stati di determinazione. Posto che l’impulso materiale, che è passività e ricettività, preceda quello formale, nell’uomo ci sarà uno stato di determinabilità passiva e uno stato di determinazione passiva. Prima di ogni determinazione, la sensibilità è semplice determinabilità: un’assenza di determinazione che «si può chiamare infinità vuota», pura facoltà di ricevere. Ora, ogni determinazione è una limitazione di questo stato di determinabilità, una sua negazione o esclusione. Ciò significa che la determinazione implica una soppressione della determinabilità, una perdita di quella vuota infinità. Ricorrendo a un’immagine (o meglio a una simulazione) che non è di Schiller, ci si potrebbe forse rappresentare questa situazione come il primo incontro con qualcosa, con “questo ente” da cui sono affetto e che mi delimita per via di esclusione (escludendo cioè l’infinità di tutto ciò che avrebbe potuto occorrere al suo posto). Tuttavia, osserva Schiller: dalla mera esclusione non potrebbe mai risultare alcuna realtà e da una semplice percezione sensibile alcuna rappresentazione, se non vi fosse qualcosa da cui si esclude, se la negazione non fosse riferita mediante un atto assoluto dello spirito a qualcosa di positivo e da una non-posizione non risultasse un’opposizione: questa attività dell’animo si chiama giudicare o pensare, e il suo risultato è il pensiero (EE, ).

Riprendendo la nostra immagine o simulazione, ci troveremmo dunque in una situazione di questo genere: la mia pura determinabilità ricettiva è ora negata in quanto limitata dalla sensazione attuale che ricevo – diciamo: “questo ente x” –, e tuttavia se la negazione è già anche una determinazione – appunto: “questo x” – ciò accade solo in quanto a sua volta la sensazione attuale è già l’oggetto di un delimitare attivo, di un pensare, di un idealizzare: non semplicemente “questo ente”, ma “questo ente è...”. Ora, è precisamente un tale movimento, al tempo stesso duplice e unitario, a fare problema per Schiller. Per un verso, infatti, dal sentire (dal “questo”) al pensare (al “questo è”) non c’è passaggio. Per altro verso, tuttavia, tra i due è anche necessario che si sia già sempre interpolato uno spa

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zio di mediazione, tale da permettere al pensiero di esercitare la sua azione spontanea di attiva determinazione non direttamente sulla sensazione. Non è necessario sottolineare che qui Schiller si sta ponendo esattamente lo stesso problema che Kant non smise mai di ripensare sotto il nome di schematismo. Ma allora, come possiamo rappresentarci questa mediazione necessaria? Seguiamo Schiller nei passaggi cruciali della sua fondazione trascendentale. Occorre intanto ribadire che «l’uomo non può passare (übergehen) direttamente dalla sensazione al pensiero» (EE, ) in quanto i due sono opposti e irriducibili. Ciò significa che «per sostituire la passività [il sentire] con l’attività [il pensare] – il “questo” con il “questo è...” – [...] egli deve dunque essere momentaneamente libero da ogni determinazione e passare per uno stato di pura determinabilità» (ibid.), come se gli fosse possibile tornare a quello stato negativo di indeterminatezza nel quale potenzialmente si trovava prima che qualcosa incontrasse i suoi sensi. Solo che questo «passo indietro» non lo riporta a una vuota infinità, a una mera virtualità priva di contenuto, bensì è tale da non disperdere la ricchezza della prima determinazione, che sarà invece mantenuta. O meglio: sarà negata nel suo essere limitazione e conservata nel suo essere apportatrice di realtà. Il compito è dunque quello di annientare e insieme conservare la determinazione dello stato, il che è possibile solo in un modo: contrapponendogliene un’altra. I piatti di una bilancia stanno in equilibrio quando sono vuoti, ma stanno in equilibrio anche quando contengono pesi uguali. L’animo passa dunque dalla sensazione al pensiero attraverso una disposizione intermedia, nella quale sensibilità e ragione sono contemporaneamente attive, e tuttavia proprio perciò annullano (aufheben) reciprocamente la loro forza determinante e, attraverso un’opposizione fanno sorgere una negazione. Questa disposizione intermedia, in cui l’animo non è necessitato né fisicamente né moralmente ed è tuttavia attivo in ambo i modi, merita eminentemente di essere chiamata una disposizione libera e, se si chiama fisico lo stato di determinazione sensibile, ma logico e morale lo stato di determinazione razionale, allora bisogna chiamare estetico questo stato di determinabilità reale e attiva (EE, ).

In altre parole, lo stato di determinabilità estetica ha in comune con la prima determinabilità solo la mancanza di una determinazione ma, a differenza di quella, che è «infinità vuota», la determinabilità estetica è reciproca Aufhebung di determinazioni, equilibrio di determinabilità opposte e quindi, come i due piatti pieni di una bilancia, infinità piena, determinabilità reale. Secondo la nostra immagine o simulazione: non “questo ente” 

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e nemmeno “questo ente è...”, bensì “l’ente in genere è” (o, come meglio si vedrà, “l’ente in genere viene portato nel suo apparire”). In un certo senso, qui Schiller non ha fatto altro che riformulare il kantiano «libero schematismo della facoltà di giudizio», cioè la relazione indeterminata delle facoltà dell’animo (intelletto, ragione, immaginazione) che il giudizio estetico pone e mantiene in un rapporto libero; ma l’ha riferito alla costituzione dell’esser-uomo dell’uomo, trovando che questa è, in ultima analisi, una costituzione estetica. Questa conclusione viene ribadita, in modo più piano, nell’importante nota posta in conclusione alla lettera ventesima, nella quale leggiamo: Tutte le cose che possono presentarsi nell’apparenza fenomenica possono essere concepite sotto quattro diversi rapporti. Una cosa può rapportarsi direttamente al nostro stato sensibile (alla nostra esistenza e al nostro benessere); questa è la sua qualità fisica. Oppure può rapportarsi all’intelletto e procurarci una conoscenza; questa è la sua qualità logica. O può rapportarsi alla nostra volontà ed essere considerata come oggetto di scelta per un essere razionale; questa è la sua qualità morale. O infine si può rapportare alla totalità delle nostre diverse forze, senza essere un oggetto determinato per una sola di esse; questa è la sua qualità estetica. [...] Perciò vi è un’educazione alla salute, un’educazione alla comprensione intellettuale, un’educazione alla moralità, un’educazione al gusto e alla bellezza. Quest’ultima ha come intento quello di formare il complesso delle nostre forze sensibili e spirituali nella più grande armonia possibile (EE, ).

Lo stato estetico, dunque, assume l’intero movimento del fenomenizzare, esso è la condizione per cui le cose in generale (la loro determinatezza “in genere”, si potrebbe dire) vengono portate nella presenza e nell’apparire. Ma questo movimento, a sua volta, altro non è che la restituzione complessiva dell’uomo alla sua «umanità», all’insieme armonico delle sue forze o meglio, come fa osservare Schiller nella lettera ventunesima, alla «libertà di essere quel che deve» (EE, ). Cosicché la bellezza, benché non miri a nessun risultato determinato per l’intelletto e per la volontà, benché non realizzi alcuno scopo definito e risulti, in ultima analisi, «inadatta a render saldo il carattere e a illuminare la mente», ha nondimeno il potere di raggiungere «qualcosa di infinito», . La formulazione è solo apparentemente un ossimoro. Vale la pena di osservare che anche Kant, cercando di pensare lo stesso problema, parla di una «disposizione all’accordo delle facoltà conoscitive» che sia la «più favorevole» «rispetto a una conoscenza (di oggetti dati) in genere» (Kritik der Urteilskraft, § ; trad. it. cit., p. ), parla, cioè, di un’esperienza “precategoriale” della determinatezza in quanto orizzonte di senso o condizione estetica dei significati determinati (cfr., supra, la discussione sullo «schematismo della facoltà di giudizio»). Cfr., su questo punto, Garroni, Immagine Linguaggio Figura, cit., che riformula in modo originale, e definitivo, il problema.

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e precisamente «il più grande dei doni, il dono dell’umanità». Per questo suo potere di restituire all’uomo «ogni volta di nuovo» quell’umanità che egli non fa che mettere a rischio per il solo fatto di doversi determinare (nel conoscere, nel volere, nel sentire puro e semplice), la bellezza, conclude Schiller, merita di essere chiamata «la nostra seconda creatrice» (ibid.). Ma in che modo qualcosa che pertiene all’uomo in quanto uomo gli dovrebbe anche essere «restituito (zurückgegeben) ogni volta di nuovo (jedesmal aufs neue)»? Come dobbiamo intendere questo circolo tra il carattere originario e il carattere secondario dello stato estetico e della bellezza? Alla domanda si può rispondere solo ripensando in modo più appropriato il tema progettuale di EE, quello dell’educazione estetica: l’esser-uomo dell’uomo non è tanto uno stato quanto un compito storico; un compito paradossale (fondato com’è su un «dono») e, come dirà Schiller nell’ultima lettera, «una strada che non ha fine» (EE, ). Il circolo di trascendentale (l’estetico come condizione) ed empirico (l’estetico come compito storico) occupa, del resto, con chiarezza le ultime riflessioni del testo schilleriano, volte a interrogare e a illuminare la relazione tra lo stato estetico in quanto condizione nella quale soltanto, secondo le parole di Heidegger, «l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza» e il suo essere, in modo ancor più essenziale, «la condizione dell’essenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo». Noi ci siamo già aperti la strada per la comprensione di questo nesso quando abbiamo fatto notare che lo stato estetico assume l’intero movimento del fenomenizzare, è la condizione per cui l’ente in generale – un “mondo”, si potrebbe dire – viene portato nella presenza e nell’apparire. Ma ora, prima di toccare quest’ultimo passaggio di EE – il cui nucleo sarà fenomenologico in senso rigoroso, sarà cioè costituito da una riflessione sul concetto dell’apparire (Schein) –, dobbiamo passare in rassegna le tesi che Schiller a questo punto ritiene di poter esporre affrontando per l’ultima volta la questione dell’arte. Più precisamente: la questione del potere formativo non banalmente pedagogico che l’opera d’arte moderna può e deve far mostra di possedere proprio perché se n’è guadagnata il diritto grazie a quel movimento di circolazione tra il trascendentale, lo storico e il politico che è l’autentico oggetto di EE, la “cosa” che Schiller si sforza di pensare. Si noterà, intanto, che la definizione del compito educativo che spetta all’arte si modifica in modo sensibile nel corso dell’approfondimento trascendentale impegnato da Schiller, come se il problema della storicità dell’opera dovesse essere rimodulato riguadagnando via via l’altezza teorica adeguata. È precisamente questo il modo in cui vanno comprese le ultime osservazioni di EE sull’arte, di cui ora riporterò il passo centrale: non come considerazioni marginali, o come tesi da leggere sullo sfondo del gusto dell’autore o della sua poetica, bensì come un modo di cogliere in un artefat

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to il gioco della reciproca Aufhebung di senso e pensiero che è l’essenza dello stato estetico. Un gioco che sarebbe esperibile se nell’opera fosse “in opera” un’azione reciproca che al tempo stesso supera e conserva, ovvero trascende dall’interno i limiti che sono propri a ciascuna singola forma d’arte. Da un punto di vista generale, come già si è visto e come Schiller qui ribadisce, l’opera d’arte dovrebbe lasciarci in una condizione di «equanimità» (Gleichmütigkeit), vale a dire in uno stato di libero potenziamento reciproco delle facoltà – o «forze», come Schiller preferisce dire – che si manifesta come massima quiete e massimo movimento. Tuttavia questa idea si realizza nell’esperienza secondo gradi più o meno alti di approssimazione, nonché – ed è questa la principale novità – in modo diverso a seconda della diversità delle arti. Nella musica, per esempio, il primato spetterà al sentire, nella plastica all’intelletto e così via. Niente di originale, fin qui: com’è noto il secolo XVIII è ricco di queste distinzioni e paragoni, che vanno di pari passo con l’idea di un sistema delle arti e di una loro gerarchia. L’originalità sta piuttosto in questo: che Schiller non pensa affatto a un sistema e a una gerarchia quanto a uno stato di commutabilità tra le diverse arti che si realizza, però, solo nelle grandi opere e anzi è il segno della loro eccellenza. Ma ascoltiamo Schiller: Anche la musica più spirituale ha, attraverso la sua dimensione materiale, un’affinità coi sensi più grande di quanto la vera libertà estetica tolleri; [...] anche la poesia più riuscita partecipa degli arbitrari e contingenti giochi dell’immaginazione, in quanto suo medium, sempre più di quanto lo consenta l’interna necessità del bello autentico, e anche la scultura più eccellente, e questa forse più di tutte, per la determinatezza del suo concetto confina con la serietà della scienza. Tuttavia queste particolari affinità si perdono man mano che un’opera appartenente a questi tre generi raggiunge un grado più elevato, ed è una conseguenza necessaria e naturale del loro compimento che, senza spostamento dei loro confini oggettivi, nell’effetto che esercitano sull’animo le diverse arti diventino sempre più simili tra loro. La musica nella sua massima raffinatezza deve farsi figura e agire su di noi con la potenza quieta dell’antico; l’arte figurativa nella sua massima perfezione deve diventare musica e commuoverci con un’immediata presenza sensibile; la poesia nella sua elaborazione più perfetta deve afferrarci potentemente, come la musica, ma al tempo stesso deve, come la plastica, circondarci di una serena chiarezza. Lo stile compiuto in ogni arte si manifesta nel fatto di riuscire a togliere i limiti specifici senza però annientare insieme gli specifici vantaggi, e di conferirle un carattere più universale attraverso un uso saggio della sua peculiarità (EE, -).

Bisogna sottolineare che qui Schiller non sta affatto anticipando qualcosa come il wagneriano Gesamtkunstwerk. Non è in gioco una gerarchia delle arti che culmina nell’opera d’arte totale intesa come fusione e indistinzione delle forme garantita dal superiore trascinamento emotivo della musica. 

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È in gioco piuttosto una notevole definizione dell’eccellenza di ciascuna forma artistica – l’eccellenza “educativa”, quella che meglio esercita il compito di rimettere in movimento la Wechselwirkung di sensibilità e ragione – da intendere come una capacità di uscire dai propri confini mostrando tuttavia dall’interno questo movimento di autotrascendenza e dominandolo con la forma. È certo che sarà Nietzsche a portare alle estreme conseguenze e con assoluto radicalismo un tale pensiero dello stile, ma già Schiller vede con chiarezza che proprio in questo trattenere in una forma di volta in volta specifica il gioco di commutazione delle diverse componenti dello stato estetico – senso, intelletto, immaginazione e ragione – consiste l’autentico impegno pratico e conoscitivo della grande arte, contrapposto a ogni possibile funzione «istruttiva e correttiva», che viene infatti stigmatizzata nelle battute finali della ventiduesima lettera. La questione dell’arte trova compimento (un compimento che resta tuttavia penalizzato da alcune oscillazioni irrisolte) in queste osservazioni, ma il tema dell’educazione estetica può tornare ora in primo piano, collocandosi da ultimo all’altezza che la via trascendentale ha ormai imposto alla riflessione. Schiller la ripresenta in sintesi all’inizio della ventitreesima lettera: il passaggio dallo stato passivo del sentire a quello attivo del pensare e del volere non avviene altrimenti che attraverso uno stato intermedio di libertà estetica, il quale, benché nulla decida a proposito della conoscenza e del dovere, è nondimeno condizione necessaria di ogni conoscere e di ogni deliberare pratico. Di più: «Attraverso la disposizione d’animo estetica si inaugura l’attività spontanea della ragione già sul terreno della sensibilità, la forza delle sensazioni è spezzata già all’interno dei propri confini» (EE, ). Con ciò è chiarito in modo definitivo il problema dell’educazione e della cultura estetica: il loro compito è quello di «sottomettere l’uomo alla forma anche nella sua vita puramente fisica» (ibid.), perché è nel sensibile che può e deve avere inizio la vita morale, è nello stato passivo che può e deve cominciare l’attività morale. Se dunque l’educazione estetica altro non è che questa (interminabile) ripresa della ragione dall’interno del sensibile, allora il recupero di una condizione essenziale dell’esser-uomo nell’ambito di un progetto educativo (il divenire-uomo, si potrebbe dire) si lascerà pienamente intendere attraverso il chiarimento teorico dello spazio più adeguato per una tale disciplina. È quanto Schiller farà nelle lettere dalla ventiquattresima alla ventisettesima, e ultima, trovando che questo spazio, coincide con l’orizzonte dell’«apparenza» (Schein) prima ancora che con l’esperienza dell’arte. È in questo orizzonte, allora, che si dovrà infine poter riconoscere la più compiuta fondazione del nesso, indicato da Heidegger, tra stato estetico e storicità dell’uomo. 

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 Oltre l’arte, il dominio dello Schein Nella lettera ventiquattresima, Schiller propone una scansione in tre gradi di sviluppo – materiale, estetico, morale – relativi sia al singolo uomo che al genere umano. Nessuno dei tre può essere disatteso per intero e nemmeno il loro ordine di successione: nello stato materiale, infatti, l’uomo subisce la potenza della natura, se ne libera nello stato estetico, la domina in quello morale. Naturalmente non avrebbe senso parlare di questi tre gradi separatamente, secondo una scansione discreta, come se ci potesse essere un “mondo naturale” abitato dall’uomo prima dello stato estetico. Si dovrà dire, allora, che la scansione acquista senso non sotto il profilo trascendentale ma sotto un profilo antropologico. Sotto un profilo, cioè, in cui assume rilievo non tanto la condizione estetica – che non potrebbe mai mancare – quanto la sua articolazione; non lo stato estetico come tale, quanto il suo terreno e il suo grado di sviluppo, cioè l’attitudine ad esercitarlo facendone autentica cultura. Ciò chiarito, si può allora dire che nello stato di natura per l’uomo il mondo «è semplicemente destino, non ancora oggetto» (EE, ). In questa situazione «inutilmente la natura fa sfilare la sua ricchezza e la sua varietà davanti ai suoi sensi [lässt... vorüber gehen: è uno “sfilare” o uno “scorrere” perché il molteplice sensibile non riesce ancora a prendere figura in uno stabile apparire]; egli non vede nella sua splendida abbondanza altro che la sua preda, nella sua potenza e grandezza nient’altro che un nemico» (ibid.). È questo uno stato in cui l’uomo si precipita sugli oggetti oppure ne è incalzato: in entrambi i casi il mondo sensibile non è tenuto a distanza ma incombe sull’uomo in un rapporto oppressivo di contatto (Berührung) o di contiguità. Inoltre, restandogli ignota la propria dignità, l’uomo non la riconosce in altri, per cui «non scorge mai l’altro in sé, ma solo se stesso negli altri» (ibid.). Non è capace, insomma, di distanziarsi dalla pressione delle cose, così come non è capace di decentramento, distanziandosi da sé. L’uomo – ricordiamolo – non è mai stato interamente in questo rozzo stato di natura. Tuttavia, dice Schiller, a questo stato non è neppure mai del tutto sfuggito. Ora, questa proiezione di un tratto trascendentale in un quadro antropologico serve a Schiller per introdurre un’altra immagine, parallela a quella del mondo-destino e della natura-contatto. Precisamente l’immagine di un’irruzione della ragione nell’uomo prima che di essa si diano per intero le condizioni per diventare principio della sua umanità: cioè prima che questa irruzione sia stata preparata dallo stato estetico. Che cosa vuol mostrare qui Schiller? Innanzitutto gli effetti distorcenti di una ragione non mediata (o non sufficientemente mediata) dallo stato estetico; ma anche, facendo da pendant alle osservazioni presentate nella sesta lettera, dove era in questione l’aspetto progressivo ed emancipativo 

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del progetto della ragione, il lato costrittivo e disumanizzante di quel medesimo progetto. In una situazione di questo tipo, infatti, invece di rendere l’uomo libero e indipendente, la ragione lo precipiterebbe nella più terribile schiavitù. Il passo, di grande forza, va riportato ampiamente: Nel mezzo della sua animalità lo sorprende la tensione verso l’assoluto, e poiché in questo stato di ottusità tutti i suoi sforzi vanno alle cose materiali e temporali e sono limitati semplicemente dalla sua individualità, così da quell’esigenza viene indotto soltanto ad allargare all’infinito la sua individualità, anziché astrarre da essa, ad aspirare, invece che alla forma, a una materia inesauribile, invece che all’immutabile a un eterno mutamento e ad una assicurazione assoluta della sua esistenza temporale. Il medesimo impulso che, applicato al suo pensiero e alla sua azione, dovrebbe condurlo alla verità e alla moralità, se riferito alla sua passività e al suo sentire non produce altro che un desiderio senza limiti, un bisogno assoluto. [...] Senza guadagnare da questo tipo di manifestazione della ragione qualcosa per la sua umanità, egli perde soltanto la felice limitatezza dell’animale, di fronte al quale ha ora soltanto il non invidiabile vantaggio di perdere, nell’aspirare alla lontananza, il possesso del presente, senza tuttavia cercare in tutta la sconfinata lontananza altro che il presente (EE, , corsivi miei).

In questo passo di eccezionale potenza visionaria compaiono, per contrasto, elementi dello stato estetico che fin qui si erano fatti valere solo in modo intermittente e sprovvisto di un’autentica definizione teorica: se il progetto della ragione potesse irrompere direttamente nella natura sensibile e animale dell’uomo quest’ultima aspirerebbe a un’«assicurazione assoluta» tale da comportare la conseguenza esorbitante di una perdita di possesso e del mondo e del tempo. L’uomo, in altri termini, sarebbe estromesso da ogni possibile comprensione della propria finitezza e, con questa, del tempo e della storia. Nella venticinquesima lettera questa ricognizione prevalentemente antropologica trova la sua risoluzione mostrandosi come una via d’accesso per raggiungere di nuovo lo stato estetico e la bellezza sotto il profilo che da ultimo interessa Schiller: il dominio dell’apparire (Schein) e di una cultura dell’apparire. Torniamo allo stato puramente fisico, quello in cui l’uomo patisce il mondo in modo solo sensibile: egli stesso qui è nient’altro che mondo e quindi per lui non vi è ancora un mondo. Solo la condizione estetica («riflettente» precisa qui Schiller) lo mette a distanza da quel puro sentire, e dunque accade all’uomo l’esperienza straordinaria di separarsi da ciò in cui resta tuttavia immerso: è così che, al tempo stesso, gli appare un mondo ed egli appare a se stesso come un soggetto. Questo distanziamento consente l’azione della forma che si proietta sul fondo instabile delle cose (sul loro fluire), il quale ora acquista figura. Ciò che fin qui dominava l’uo

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mo come mero potere e come destino, sta ora di contro al suo sguardo come oggetto. Qui Schiller descrive il processo di un distanziamento dalla contiguità passiva nei confronti delle cose, tale che queste assumono infine l’oggettività di un mondo. Ma Schiller non ha dimenticato che questa oggettivazione è tributaria di una condizione più originaria di appartenenza, una condizione in virtù della quale l’oggetto non è stato ancora rivoltato e posto di contro a un soggetto, ma semplicemente è apparso, si è lasciato portare nell’apparire, e dunque non è ancora oggetto in senso pieno ma Schein, condizione fenomenica evidente ma diffusa, esemplarmente manifestata dalla bellezza. È questo il nuovo modo in cui ora Schiller pensa la connessione tra stato estetico e bellezza. La bellezza è bensì l’oggetto dello stato estetico ma al tempo stesso essa è «uno stato della nostra soggettività» (EE, ), anzi è lo stato per eccellenza della nostra soggettività. La bellezza «è forma poiché la contempliamo, ma al tempo stesso è vita, poiché la sentiamo. In una parola: essa è il nostro stato e il nostro atto» (ibid.). Detto altrimenti, nell’esperienza della bellezza il mondo non ci sta di contro come oggettività ma ci viene incontro, ci si apre lasciandosi liberamente portare nel suo apparire. Questo apparire è preliminare a ogni oggettivazione: esso è, dice Schiller, opera del nostro libero riflettere (e dunque è già attività, idealità), ma si tratta di un riflettere che si fonde completamente col sentire, che non deve abbandonare il mondo sensibile ma piuttosto riceverlo immediatamente come forma (come determinatezza “in genere”, per riprendere, ma con maggiore perspicuità, la formulazione apparentemente ossimorica che abbiamo già utilizzato). Ora, è proprio su questo concetto dell’apparenza che si concentrano le ultime due lettere. Qual è, si chiede Schiller, il fenomeno attraverso il quale al selvaggio si annuncia l’ingresso nell’umanità? È lo stesso presso tutti i popoli: il piacere per l’apparenza, l’inclinazione al gioco (in senso empirico) e all’ornamento. Ma non si tratta solo di un rilievo antropologico: infatti, nota Schiller, l’indifferenza nei confronti della realtà e l’interesse per l’apparenza coincidono con un ampliamento dell’umanità (una Erweiterung: un dispiegamento dell’esser-uomo in quanto apertura di un mondo proprio dell’uomo), e ciò accade, egli aggiunge, perché se «la realtà delle cose è opera delle cose, l’apparenza delle cose è opera dell’uomo, e un animo che gode dell’apparenza già non trova più piacere in ciò che riceve ma in ciò che fa» (EE, ). Questo punto è essenziale per comprendere l’apertura alla storia (nel senso indicato da Heidegger) presente nel concetto di Schein. Qui viene a . Cfr. la nota .

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pieno chiarimento la definizione molto suggestiva, ma rimasta ancora in parte oscura, che Schiller aveva dato in precedenza quando, discutendo del rapporto reciproco tra impulso sensibile e impulso alla forma, aveva parlato, in termini ancora ipotetici, di una disposizione a ricevere come si sarebbe prodotto e a produrre così come il senso aspira a ricevere. Questa relazione annunciava in quella sede lo Spieltrieb, l’impulso al gioco: ora la possiamo pienamente comprendere in termini di stato estetico e di esperienza della bellezza come piacere che si lega all’apparire, e possiamo intendere l’apparire nel suo senso più radicale, cioè come l’apertura originaria di un mondo proprio dell’uomo, come il dischiudimento di uno spazio di libertà che si dispone sempre di nuovo all’incrocio tra il ricevere e il produrre, e di cui è l’uomo a farsi responsabile, riconoscendovisi pertanto come uomo storico. Per questo Schiller si preoccupa, nelle sue ultime considerazioni, di liberare completamente il concetto di apparenza dalle interpretazioni che lo intendono come illusione o simulazione e lo contrappongono alla realtà e alla verità. Se l’apparenza è il proprio dell’uomo, ogni suo allargamento, purché tenuto nei confini che gli sono propri, purché l’apparenza si mantenga schietta e autonoma, non può che allargare la libertà e la responsabilità dell’uomo, cioè incrementare il mondo in quanto mondo dell’uomo. È così che la via trascendentale alla bellezza, una volta evidenziato il suo più perspicuo e generale profilo fenomenologico nel concetto di apparenza, si ricollega, da ultimo, al progetto storico-politico di educazione estetica (non senza perdere di vista, tuttavia, la questione specifica dell’opera d’arte in quanto tale). Dev’essere infatti chiaro che il compito di ricostruire l’integrità dell’uomo non risponde all’esigenza genericamente umanistica di un ideale di compiutezza e organicità, ma significa innanzitutto ed essenzialmente restituire l’uomo alla condizione di farsi responsabile del mondo che gli è proprio. Una condizione che consiste nell’assumere liberamente il dominio dell’apparire – che la natura gli ha donato ma di cui lui e lui solo è l’autentico responsabile – e nell’elaborarlo secondo un’interminabile Erweiterung di cui l’opera d’arte è, certo, un elemento eminente, ma . È proprio sul tratto della «libertà» che Heidegger pone con più continuità l’accento nel seminario schilleriano, come per esempio in questa definizione riepilogativa: «Es war darin die Rede von der Vollständichkeit des menschiches Wesens. Sinnlichkeit und Vernunft werden hier zur Einheit ihrer Selbständichkeit gebracht. Sinnlichkeit und Vernunft in ihrem Verhältnis: sollen frei werden. Die Führung zu dieser Freiheit, ist die Führung zum geschichtlichen Zustand» (p. ). Assai meno chiara, come ho già detto, appare la connessione tra questa libertà trascendentalmente fondata e il compito educativo dell’arte e della cultura dello Schein, su cui Heidegger innesta spesso considerazioni che eccedono del tutto la lettera del testo schilleriano e riecheggiano piuttosto le tesi che egli aveva sviluppato in quel lasso di tempo nel saggio sull’Origine dell’opera d’arte.

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non l’unico o il più specifico, come invece alcune affermazioni iniziali di EE lasciavano intendere. È certo, per concludere, che Schiller non arriva a pensare la storicità dell’opera d’arte (né potrebbe) nei termini “eventuali” di Heidegger, ma è altrettanto certo che il problema di una fondazione storica è indissociabile dalla comprensione della sua via trascendentale allo stato estetico e delle sue stesse oscillazioni sul progetto “educativo” e politico in senso ampio, che ora viene francamente attribuito all’arte (con indicazioni straordinariamente fini, come la tesi dello sconfinamento delle forme), ora viene esteso alla cultura dello Schein (con un certo indebolimento di quelle stesse indicazioni e della loro pregnanza politica). Ma si tratta, infine, di un’oscillazione non del tutto ingiustificata: come se Schiller avesse visto con anticipo che la condizione moderna dell’esperienza artistica avrebbe finito per comportare al tempo stesso un’inclusione nell’estetica (l’arte come interpretazione storica dello stato estetico) e un superamento di questo rapporto di inclusione (lo Schein come condizione di “esteticità diffusa”, sempre sul punto di “precipitare” in opera in senso stretto, con quegli effetti di dispersione, indebolimento e indeterminazione che la tarda modernità ha imparato da tempo a considerare tra i fenomeni salienti della cultura estetica).

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Tutte le interpretazioni del pensiero schilleriano, di Schiller als Philosoph, si misurano e si dividono nella valutazione dell’evidentissimo e ingombrante rapporto che Schiller, con i suoi pochi ma decisivi scritti di tenore estetico-filosofico, instaura con il pensiero di Kant. Già a questo proposito insorgono, come sappiamo, notevoli differenze interpretative, riassumibili nella questione se si debba considerare preminente per lo Schiller teorico il Kant della seconda oppure quello della terza Critica. Lasciamo per ora in sospeso tale questione. La macrodivisione, il vero e proprio discrimine nel campo delle interpretazioni della filosofia schilleriana riguarda anzitutto la necessità di stabilire non tanto e non solo la sua originalità, quanto piuttosto la misura della sua autonomia da Kant fino a rappresentarne un distacco ed un vero e proprio superamento. Chi risponde positivamente a tale domanda è Hegel, lo Hegel dell’Estetica. Vale la pena di ricordarne le parole, non prive di una solenne perentorietà: Deve essere dato a Schiller il grande merito di aver infranto la soggettività e l’astrazione kantiana del pensiero e di aver avviato il tentativo di andare oltre e di concepire concettualmente l’unità e la conciliazione come il vero e di realizzarle artisticamente. Infatti Schiller, nelle sue considerazioni estetiche, non solo ha tenuto fermo all’arte ed al suo interesse, senza curarsi del rapporto con la filosofia vera e propria, ma ha anche conciliato il suo interesse al bello artistico con i principi filosofici, e solo partendo da questi e con questi è penetrato nella profonda natura e nel concetto del bello. [...] Schiller – continua Hegel – seppe far valere contro la considerazione intellettuale della volontà e del pensiero l’idea della libera totalità della bellezza. Tutta una serie di scritti di Schiller rientrano in questa visione della natura dell’arte, specialmente le Lettere sull’educazione estetica. Schiller vi parte da questo punto fondamentale, che ogni individuo porta in sé il germe dell’uomo ideale.

Insieme allo Stato, ma non contro di esso (semmai in direzione del suo com. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, hrsg. v. E. Moldenhauer, K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. XIII, p.  (trad. it., a cura di N. Merker, Estetica, Feltrinelli, Milano , p. ).

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pimento concettuale e, quindi, forse anche in direzione della sua fine), l’arte rappresenta per Hegel la risposta schilleriana alla scissione kantiana e dunque all’astrazione puramente trascendentale della soggettività. L’arte come lo spazio attivamente simbolico in cui, nel tempo, l’uomo incontra e realizza la sua idea: lo spazio della mediazione e della conciliazione non tanto e non solo tra sé e il mondo, quanto innanzitutto tra l’esistenza effettiva del soggetto e l’ideale umanità generata dal suo stesso seno. In questo spazio si sviluppa la dinamica dell’educazione estetica: dando forma ad inclinazioni, impulsi e sensibilità finché «divengano essi stessi razionali». Così la razionalità perde la sua astrazione, il suo essere confitta nella purezza soggettiva, ed acquista «carne e sangue». La libertà nell’arte – nel medium dinamico del suo divenire come unità del fare artistico e della politica del suo avere effetto – non è più l’altro noumenico del fenomeno, bensì è dentro di esso. Pur non usando direttamente la famosa espressione schilleriana – «Freiheit in der Erscheinung» – Hegel intende sostanzialmente questo, allorché ravvisa nel bello schilleriano «l’uni-formarsi del razionale e del sensibile» come un uniformarsi che indica la «vera realtà» ovvero il superamento della scissione. In questa influente lettura hegeliana nessuna autonomia, a ben vedere, è concessa all’estetico. Quanto da esso muove, risponde all’esigenza dell’unità propria della ragione. Ed il senso risolto di tale risposta non è altro che l’arte: l’arte come anticipazione della figura hegeliana dello spirito. Un’anticipazione che flette senza residui l’idea schilleriana del bello come unità di forma e vita in quella di «bello artistico»: la «forma vivente» in senso proprio e compiuto non è l’organismo (l’«autonomia dell’organico»), bensì l’opera d’arte. Una tesi già chiaramente enunciata nel §  dell’Enciclopedia, laddove Hegel parla dell’idea di finalità interna affrontata da Kant nella terza Critica come di un’occasione invero rara per la filosofia trascendentale di mostrarsi speculativa, sfiorando la nozione di un «universale pensato come concreto in se stesso». Quello che la Critica kantiana può solo lambire, non riuscendo a vincere quella «pigrizia del pensiero» che rimane irretita nel concetto di un «dover essere», è colto e tematizzato da altri ed in particolare da Schiller, trovando «nell’idea del bello artistico, dell’unità concreta del pensiero e della rappresentazione sensibile, la via d’uscita dalle astrazioni dell’intelletto». Quanto questa risoluzione si concili con la tematica affrontata in Grazia e dignità, che pure Hegel cita nelle Lezioni di Estetica evocando la lode schilleriana della donna come colei che mostra, nel suo carattere, «l’unificazione, di per sé esistente, di spirituale e naturale», non viene minimamente affrontato. La caratterizzazione domi. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, § , in Id., Werke, cit., vol. VIII, p.  (trad it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari , p. ).

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nante resta comunque quella di un pensiero filosofico “eroico” che lotta vittoriosamente con un problema che dal punto di vista trascendentale di Kant non si può nemmeno scorgere: quello della scissione e della necessità del suo superamento nella conciliazione. Agli antipodi della lettura hegeliana stanno quelle interpretazioni dello Schiller filosofo tutte nel segno non solo di una continuità, ma addirittura di una radicale internità all’ordito concettuale kantiano. Laddove tali interpretazioni non si limitino a sottolineare la non originalità della speculazione schilleriana, ci si può addirittura spingere a sostenere che Schiller è colui che meglio comprende Kant, in particolare il Kant della terza Critica. È questo il caso di Heidegger. Nelle celebri pagine del Nietzsche dedicate alla «dottrina kantiana del bello», Schiller appare ad Heidegger come l’unico che non fraintende Kant: Schiller è stato l’unico a capire cose essenziali in riferimento alla dottrina kantiana del bello e dell’arte.

A differenza di Schopenhauer e dello stesso Nietzsche, Schiller – secondo Heidegger – capisce il problema affrontato da Kant nella Analitica del bello non fraintendendo il cruciale tema kantiano del disinteresse nel giudizio di gusto e, quindi, nell’atteggiamento estetico. Anche se in proposito Heidegger non cita esplicitamente il nome di Schiller, si può senz’altro ascrivere a quest’ultimo la comprensione del fatto che proprio «in virtù del disinteresse» entra in gioco «un riferimento essenziale all’oggetto», anziché la sua dissoluzione relativistico-soggettivistica. Schiller coglie il senso della riflessione nel piacere: il piacere per il bello come un piacere riflettente che trova nella corrispondenza con l’oggetto la sua misura e la sua speculativa virtù. Osserva Heidegger: L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere dell’uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza.

Ed è appunto quello stato «che Schiller ha concepito come la condizione della possibilità dell’esistenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo». Troppo contratta è l’affermazione heideggeriana per poterla sciogliere in una tesi relativa all’autoconsistenza della filosofia schilleriana. A meno di non svolgere tale affermazione in una direzione hegeliana, l’ipotesi più . M. Heidegger, Nietzsche,  voll., Klostermann, Frankfurt a.M. , vol. I, p.  (trad. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano , p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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plausibile potrebbe essere quella secondo la quale qui Heidegger adombra il senso dell’arte come messa in opera della verità e dunque come fondazione storica dell’identità dell’umano: storicizzazione della verità stessa. Seguendo questo filo di svolgimento, anche in questo caso – del tutto in sintonia con la risoluzione della dimensione estetica in quella poietica (poetico-artistica) sostenuta nella conferenza heideggeriana del / – la peculiarità del pensiero di Schiller nei confronti di quello kantiano consisterebbe nel tradurre la soggettività dell’estetico nello spazio della mediazione storica offerto dall’arte. Ma proprio la prima definizione della bellezza come «Freiheit in der Erscheinung» – enunciata nei Kallias-Briefe – non sopporta una traduzione senza residui dell’estetico nell’artistico. La soluzione cui mira Schiller con il progetto del Kallias, come evinciamo dalle relative e celeberrime lettere all’amico Christian Gottfried Körner, è per certi versi anteriore e per altri ulteriore alla stessa distinzione tra arte e natura, nella stessa misura in cui è sostanzialmente anteriore e ulteriore a questa stessa distinzione la definizione kantiana del bello nel terreno analitico-concettuale del giudizio estetico e della sua articolazione quasi categoriale (quasi, appunto nel senso di un “come se”: come se si trattasse di affrontarlo alla luce della deduzione trascendentale). Pensando il bello come «forma di una forma» e dunque come eccedenza rispetto alla pura unità formale dell’oggetto sensibile (al principio di organizzazione della sua materiale molteplicità: forma della sua stessa perfezione, che ne deve per forza contenere il concetto) Schiller tenta – come sappiamo – una quarta via nella spiegazione del bello. Oltre, dunque, non solo quella sensistico-soggettiva o empiristica (alla Burke) e quella razionale-oggettiva (o metafisico-gnoseologica) alla Baumgarten, ma anche oltre quella soggettivo-razionale propria di Kant. Come è stato notato da più parti (ad esempio da Manfred Frank), nei Kallias-Briefe la soluzione proposta da Schiller non esce affatto dall’orbita non solo problematica ma concettuale tout court di quella sostenuta da Kant nella Critica della facoltà di giudizio, in particolare per quanto riguarda la tesi che la bellezza dell’oggetto fuori dalla sua relazione con il soggetto – fuori dall’effetto armonizzante che esso suscita all’interno di una singola. Sulla risoluzione heideggeriana dell’estetica in una poietica, cfr. quanto sostenuto in F. Desideri, La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna , pp. - (si tratta del capitolo L’opera d’arte nell’epoca della tecnica. Un confronto tra Benjamin e Heidegger). . Ciò almeno fino al §  della Critica della facoltà di giudizio; su questo paragrafo e, in generale, sulla distinzione arte/natura nella terza Critica rimando a F. Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, il melangolo, Genova , pp. -. . Cfr., per questo, M. Frank, Einführung in die frühromantische Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -. «Ma il suo progresso [di Schiller rispetto a Kant] – sostiene qui Frank – è più retorico che concettuale. Schiller rimane kantiano» (ivi, p. ).

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re soggettività sensibile-razionale – è nulla. Anzi quella che nelle intenzioni schilleriane si presenta come una (auto)fondazione in re della bellezza, nel mostrarsi del puro consistere in sé del fenomeno: nella sua autonoma spontaneità, che non abbisogna di ulteriore deduzione concettuale, altro non è che una fondazione analogica e, dunque, in ultima istanza il “come se” di una fondazione. Come risulta chiaro allo stesso Schiller, il bello è «un analogon della pura determinazione del volere». Il punto di partenza resta perciò l’autodeterminazione della volontà ed è in relazione analogica con essa (con la libertà della ragione) che si pensa o meglio si intuisce la libertà come fenomeno, come oggetto sensibile. Qui, come ha giustamente osservato Frank, analogon ha il senso del simbolo pensato da Kant nel §  della Critica della facoltà di giudizio, con la differenza che nella prospettiva di Schiller cade via il “come se” simbolico e, con esso, la sua connessione con il principio soggettivo del giudizio riflettente. Con le difficoltà e anzi con le aporie che necessariamente ne derivano. A meno di non arrestarsi a sostenere che è nella forza del puro apparire (di un «apparire libero da regole») che si manifesta la libertà nel fenomeno. Con l’aggravante che a tale proposito Schiller si vieta il passaggio, in qualche modo necessario, dalla dimensione sensibile del bello a quella intelligibile, come sede della sua vera consistenza. La «bellezza – afferma – dimora unicamente nel dominio dei fenomeni» e perciò ogni speranza di incontrarla sul sentiero della pura ragione teoretica e della riflessione è destinata a risultare vana. La diretta connessione con la sola ragione pratica toglie qui spazio all’autonomia dell’estetico proprio a motivo della sua trasfigurazione simbolica. Il successivo tentativo di pensare il bello nell’opera d’arte come «libertà nella tecnica» non risolve l’aporia. Anzi l’aggrava, in quanto il bello artistico è «rappresentazione (Darstellung) della bellezza» e dunque rappresentazione della «libertà nel fenomeno», in altri termini simbolo di un simbolo. Anche a questo proposito Schiller ricorre ad un argomento kantiano, quello del chiasmo tra apparenze (quella dell’arte o della tecnica nel caso del bello naturale e quella della natura nel caso dell’opera d’arte bella), ma dimenticando appunto che qui siamo pur sempre nella sfera dell’apparire e quindi trasformando una logica dell’apparenza in una aporetica logica dell’essenza. Quale si presenta, ad esempio, con la seguente frase:

. F. Schiller, Kallias oder über die Schönheit, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. G. Fricke, H. G. Göpfert, Hanser, München  (IX ed.), p.  (trad. it. in Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza, a cura di A. Negri, Armando, Roma , p. ). . Cfr. Frank, Einführung in die frühromantische Ästhetik, cit., pp. -. . Schiller, Kallias oder über die Schönheit, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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Il principio della libertà assegnata all’oggetto, quindi, è in esso medesimo, sebbene la libertà sia soltanto nella ragione.

Inevitabilmente diverso è il senso dell’implicazione d’esistenza (il senso dell’esserci della libertà) rivolto al bello e quello rivolto alla ragione. Nel primo caso si tratta inevitabilmente di un riflesso simbolico del secondo. Ma pensato in una maniera puramente simbolica, e non come spazio della genesi del simbolico, l’estetico non ha più alcuna autonomia. La cortocircuitante relazione con il modello paradossalmente noumenico della ragione pratica (con la paradossalità del suo essere un factum: un’idea che implica l’effettività della propria esistenza) non la concede. A questa impasse teoretica, quasi sicuramente all’origine della mancata realizzazione del progettato dialogo Kallias oder über die Schönheit, risponde il capolavoro filosofico schilleriano: le Lettere sull’educazione estetica. Qui Schiller riprende il problema kantiano dell’immensurabile abisso che divide il dominio teoretico della filosofia trascendentale da quello pratico – il problema della Trennung, verso il quale il pensiero di Kant non si mostra affatto pigramente confitto nella logica duale del Sollen (a differenza di quanto sostenuto da Hegel) – senza dover considerare più Kant un avversario, come invece era avvenuto in Anmut und Würde. Secondo quanto osserva Wilhelm von Humboldt, nell’equilibrato e penetrante saggio che dedica alla «evoluzione spirituale» dell’amico, «era insito nel carattere di Schiller non lasciarsi mai trascinare nella sfera di un grande spirito di cui sentisse l’influenza, ma di venirne potentissimamente stimolato nella sfera che egli stesso si era creata». Attraverso Kant e in parte attraverso Fichte, soprattutto per quanto riguarda la nozione di Wechselwirkung, ma in direzione nettamente divergente dalla egologia idealistica di quest’ultimo, Schiller riprende un problema pur oscuramente adombrato nei suoi primissimi scritti di tenore filosofico, vale a dire nella Philosophie der Physiologie e nel Versuch über den zusammenhang der thierischer Natur des Menschen mit seiner geistigen. Senza dover seguire in dettaglio questa prima ma significativa articolazione del pensiero schilleriano, non si può comunque trascurare come il problema al centro di tali scritti è quello di pensare l’unità nell’uomo tra spirito e corpo, tra la sua natura animale (la sua vita sensibile) e la sua natura spirituale (la sua vita spirituale). Co. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Sulla prospettiva nuova aperta da questo saggio, in particolare relativamente alla connessione tra bellezza e amore (come volontaria unificazione di senso e ragione), cfr. il sempre importante saggio di D. Henrich, Der Begriff der Schönheit in Schillers Ästhetik, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, VI, , pp. -. . W. von Humboldt, Über Schiller und der Werdegang seiner Geistesentwicklung (trad. it. in Scritti di estetica, scelti e tradotti da G. Marcovaldi, Sansoni, Firenze , p. ).

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me ha osservato Benno von Wiese nella sua classica monografia schilleriana, due idee si intrecciano in questi scritti: quella di un parallelismo psicofisico (esemplificato nella metafora delle corde di uno strumento musicale con cui si apre il Versuch: alla vibrazione di quella relativa alla dimensione fisico-sensibile corrisponde una vibrazione in quella spirituale-intellettuale) e quella di una originaria Vermischung (mescolanza) nell’effettività della vita soggettiva. La corrispondenza, però, non è statica: non è di tipo metafisico. Si tratta piuttosto di una connessione effettualmente efficiente, dove ogni evento, ogni modificazione che si ha su un piano incide sull’altro. Il problema schilleriano, come si evince già a partire da questi scritti datati  e , e dunque precedenti ad ogni confronto con Kant, sarà appunto quello dell’armonizzazione dinamico-costruttiva dei due ordini o dimensioni e dunque di un senso dinamico della totalità dell’umano (secondo l’espressione di Anmut und Würde). Se si mette in relazione non estrinseca questo problema – il problema filosofico di Schiller – con la sua attività di drammaturgo, si comprende bene la tesi di Cassirer, secondo la quale nella posizione del fondamentale Gegensatz tra materia e forma, tra ricettività e spontaneità, mentre Kant procede come un «Analitico trascendentale» e Fichte come un «Etico assoluto», Schiller procede come un Dramatiker: la stoffa dei suoi scritti filosofici è caratterizzata da una «autentica vita drammatica». Tornando agli scritti sulla filosofia della fisiologia, il tratto più interessante e più gravido di sviluppi sta da un lato nell’idea del carattere incrementale della vita sensibile – «così ogni sensazione cresce attraverso se stessa...» – e dall’altro nella tesi circa l’esistenza di una Mittelkraft, di una forza intermedia che risiede nei nervi e che costituisce il Band dinamico tra mondo ed anima. . B. von Wiese, Schiller, Metzler, Stuttgart , pp.  ss. Per un’analisi acuta della filosofia dell’organico del primo Schiller in relazione alla curvatura antropologica del suo pensiero complessivo, cfr. anche il più recente volume di U. Tschierske, Vernunftkritik und ästhetische Subjektivität. Studien zur Anthropologie Friedrich Schillers, Niemeyer, Tübingen , in particolare alle pp. -. . «L’uomo – leggiamo nel Versuch – non è anima e corpo, l’uomo è la più intima mescolanza di queste due sostanze». Ciò esclude nel giovane Schiller ogni dualismo nella comprensione della natura umana. Anzi, proprio nella «mescolanza» tra natura animale e natura spirituale sta la compiutezza, la Vollkommenheit (termine chiave di tutto il Versuch del ) dell’uomo. Per i riferimenti testuali cfr. in proposito Schillers Werke. Nationalausgabe, hrsg. v. J. Petersen, B. von Wiese, L. Blumenthal, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar  ss., vol. XX, pp.  e  (d’ora innanzi abbreviato come NA seguito dall’indicazione del volume: i volumi che raccolgono gli scritti filosofici sono il XX e il XXI). . Cfr. E. Cassirer, Idee und Gestalt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt , pp.  s. (si tratta del reprint, a cura della Yale University Press, della II edizione del volume, apparsa a Berlino nel ). . NA, XX, p. . . Ivi, p. ; la citazione è tratta dall’importante §  della Philosophie der Physiologie.

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La dottrina dei tre impulsi (alla differenziazione della materia, all’unità della forma e al gioco come sintesi armonizzante della loro tendenziale divergenza) trae in questi scritti, dove si tematizza la dinamica energetica di un’autonoma attività della vita sensibile, la sua cellula originaria. La formulazione di tale dottrina, che costituisce senza dubbio una delle più significative novità filosofiche delle Lettere sull’educazione estetica, presuppone certamente quella presentata da Fichte nella sua Wissenschaftslehre, ivi compresa la centralità che per essa assume la nozione di Wechselwirkung. Con la quasi ovvia avvertenza che la mossa teorica di Schiller consiste nel convertire in senso antropologico il carattere deduttivo-trascendentale che la teoria degli impulsi presenta in Fichte. Quelli che in Fichte rimangono moventi del tutto interni alla dinamica dell’autoposizione dell’Io puro e dunque figure della genesi logica dell’autocoscienza, in Schiller si trasformano in impulsi “naturali” antecedenti in qualche modo all’identità egologica della soggettività. Come leggiamo nella lettera ottava, «Triebe sind die einzigen bewegenden Kräfte in der empfindenden Welt»: gli impulsi sono le uniche forze motrici nel mondo sensibile. La fattualità della loro opposizione genera il problema dell’unificazione attraverso un rapporto reciproco: un gioco dove le distinte determinazioni possano vicendevolmente scambiarsi. Lo Spieltrieb, l’impulso al gioco, è Gemeinschaft degli altri due impulsi. La sua terzietà unifica in sé sia il valore della diacronia sia quello della sincronia e per questo è strutturale. Venendo pensato da Schiller in evidente analogia con quella che nella dottrina trascendentale kantiana delle categorie costituisce la terza categoria di relazione, lo Spieltrieb in quanto Gemeinschaft, relazione di attiva reciprocità, esprime il commercium dinamico degli altri due impulsi. Proprio in esso, perciò, si gioca geneticamente l’emergenza dall’estetico della libertà, che, per questo, viene intesa come libertà estetica: indeterminazione del soggetto che antecede e rende possibile la stessa libertà moral-razionale. L’impulso razionale ovvero l’impulso all’unità della forma è certamente quello teso a . Sulla decisiva nozione di Wechselwirkung per l’estetica di Schiller, cfr. almeno il libro di H.-G. Pott, Die schöne Freiheit. Eine Interpretation zu Schillers Schrift “Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen”, Fink, München  e quello di Tschierske citato alla nota . . Cfr. al riguardo la nota assai pertinente che Giovanna Pinna dedica alla teoria dei Triebe (degli impulsi) al centro delle Lettere sull’educazione estetica nella recentissima nuova edizione italiana da lei stessa curata (cfr. F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , pp. -). In questa nota la Pinna, oltre a chiarire il controverso nesso tra la teoria schilleriana degli impulsi e quella fichtiana (e la relativa reazione polemica da parte di Fichte con lo scritto Über Geist und Buchstabe in der Philosophie – Sullo spirito e la lettera in filosofia), mette in luce l’importanza della dottrina degli impulsi di Reinhold per la formulazione di quella di Schiller. Alla distinzione reinholdiana tra «impulso alla materia» e «impulso alla forma» Schiller aggiunge quella «al gioco».

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porre l’uomo in libertà, ma non si può trascurare a questo proposito che la libertà è destinata a rimanere ineffettuale – letteralmente inesistente – se non si dà quella determinazione reciproca che sintetizza nel tempo il principio formale e formante dell’unità, in quanto unità della coscienza, e l’esistenza temporale dell’uomo (il suo essere soggetto al tempo). Così sostenendo, Schiller muta sensibilmente il suo modo di pensare la «libertà nel fenomeno». Tale nozione non viene più fondata analogicamente in relazione al carattere di autocostituzione della ragione pratica. Quanto nei Kallias-Briefe aveva una consistenza simbolica, nelle Lettere sull’educazione estetica acquisisce il senso di un’esistenza effettiva che si dà nello spazio del gioco tra i due impulsi fondamentali. Questo spazio si presenta anzitutto come uno spazio estetico prima ancora che puramente artistico. Contiene certamente la dimensione dell’artisticità, ma ad essa non si riduce e per questo corre sul filo tra non intenzionalità ed intenzionalità: tra genesi spontanea e artificio costruttivo, tra natura e storia. Tradurre la dinamica dello spazio estetico, come spazio del gioco (del reciproco aver effetto tra impulso sensibile e impulso razionale), nello spazio radicalmente storico-culturale dell’arte significherebbe limitarsi a leggere la tematica dell’educazione estetica solo in chiave volontaristico-utopica: tensione infinita a realizzare l’ideale di un’umanità e quindi di uno Stato capace di convertirsi in natura (tutte le letture marxiste di Schiller gravitano intorno a questi concetti). A mio avviso l’operazione teorica compiuta da Schiller è più filosoficamente significativa di una pur acuta diagnosi circa i caratteri propri della modernità. E la sua significatività sta proprio nel cercare di rispondere al problema kantiano dell’abisso, ovvero della Trennung tra il dominio teoretico della natura e quello pratico della libertà, in una maniera diversa da quella tentata da Kant nella Critica della facoltà di giudizio, vale a dire delineando una sorta di genesi dinamica della soggettività nella compagine strutturale dello spazio estetico. Se la risposta kantiana al problema della terza Critica era stata quella di vedere la possibilità di un passaggio tra i due domini come un passaggio estetico immanente alla virtù riflessiva della stessa percezione (e dunque come un passaggio interno al terreno generico dell’esperienza), quella di Schiller prosegue certamente in tale direzione, ma volgendo in chiave genetica e dinamica il principio della soggettività come condizione trascendentale di questo stesso passaggio. Così l’estetico, da dimensione immanente all’esperienza nella contingenza che rivela la struttura specifica di un giudizio riflettente, alla cui origine vi è come principio di determinazione la soggettività del sentimento (di piacere), . Cfr. per questo l’intera lettera dodicesima dell’Educazione estetica. . Per questa lettura della terza Critica rimando a Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, cit., in particolare alle pp. -.

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si esteriorizza in spazio in cui si genera l’esperienza stessa. Per certi versi il punto di vista schilleriano non abbandona quello trascendentale di Kant, ma certamente ne opera, pur in maniera silenziosa, una radicale riforma in direzione di una sua naturalizzazione. Si potrebbe obiettare, a questo punto, che la formulazione della teoria dei tre impulsi postula soltanto questa flessione del trascendentale kantiano nella chiave di un’antropologia genetico-dinamica. A questa obiezione risponderei che il passaggio da una mera postulazione ad una sorta di deduzione empirico-trascendentale si ha a partire dall’importantissima lettera diciannovesima. Qui Schiller non cede al mito di una un’unità originaria che l’esperienza-manifestazione del bello dovrebbe restaurare. Il passaggio, lo Übergang tra il sentire e il pensare, non toglie affatto la Kluft, la fenditura trascendentale tra le due dimensioni. Logicamente (ma non metafisicamente) questa Kluft è infinita. La modalità del passaggio, che curva la contingenza in necessità, è così una modalità performativa, che implica l’emergenza di una soggettività autonoma capace di volere: la volontà è dunque – scrive Schiller – «quella che nei confronti dei due impulsi si comporta come una potenza [in quanto fondamento della realtà – aggiunge quasi schopenhauerianamente!], mentre nessuno dei due può di per sé comportarsi verso l’altro come una potenza». È, perciò, solo nel tertium della capacità di volere che emerge lo spazio estetico come uno spazio autonomamente dinamico, come uno spazio che, proprio in virtù del suo esser svincolato sia dalla necessità fisica sia dall’obbligazione morale, può configurarsi come uno stato di «attiva e reale determinabilità», dove la contrapposizione tra sensazione e pensiero (tra sensibilità e ragione) può essere trasformata in dinamica consonanza: in Stimmung indeterminata quanto al senso e, dunque, libera, attivamente libera proprio perché generatrice di senso. Questa trasformazione è possibile enfatizzando il carattere di medietà della Stimmung estetica, ossia liberando e attivando il rapporto tra l’estetico e i suoi confini. Una tale attivazione dei confini dell’estetico suppone in Schiller una sorta di naturalizzazione della coscienza perfettamente speculare all’estetizzazione della libertà (ovvero all’operazione che conduce ad una diversa comprensione e giustificazione della «Freiheit in der Erscheinung»). Non solo rispetto a questa formula, ma anche rispetto alla nozione stessa di libertà Schiller, pur muovendo da Kant ed in particolare dal tema della libertà dell’immaginazione nel giudizio estetico, abbandona veramente Kant fino a definire, nella lettera ventesima, la libertà stessa «un effetto della natura (intendendo il termine nel suo senso più ampio)». Assai . F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, pp.  s. (trad. it. in Schiller, L’educazione estetica, cit., pp. -). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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interessante è il modo attraverso cui Schiller, nella lettera diciannovesima, giunge a questa conclusione e cioè nella presupposizione di una doppia necessità in qualche modo naturale. Una di tipo esterno (al di fuori di noi), che riguarda la sensazione come ciò che determina la nostra esistenza nel tempo. Ed una di tipo interno (in noi), che riguarda il sorgere (naturale) dell’autocoscienza, del Selbstbewußtsein, in oppositiva risposta al presentarsi della sensazione: Sorgono così la sensazione e l’autocoscienza, senza che il soggetto cooperi in alcun modo e l’origine di entrambe sta al di là tanto della nostra volontà, quanto della nostra sfera conoscitiva.

Alla kantiana datità della sensazione Schiller aggiunge la genesi non intenzionale della coscienza (dell’identità del soggetto come personalità): la sua naturale spontaneità. Ma è appunto nel rapporto che si determina tra queste due necessità – tra il limite della sensazione (inaccessibile al metafisico) e l’infinità (l’indeterminatezza) della coscienza (inaccessibile al fisico) – e, dunque, nella «lebende Gestalt» di una coscienza estetica (qui Schiller raccoglie e dilata teoreticamente lo spunto kantiano contenuto nel decisivo §  della Kritik der Urteilskraft) che sorge la libertà come indeterminatezza/incondizionatezza del soggetto. Sorge come «ästhetische Freiheit» in virtù di una Stimmung intermedia, dove risuonano attivamente insieme libertà e ragione, affrancate, per così dire, sia dalla necessità da cui derivano sia, di conseguenza, dalle determinazioni che le definiscono. Così si costituisce lo spazio estetico: quasi come un riverbero della vita della sensazione da cui tutto comincia e, dunque, come una virtù riflessiva del percepire stesso, del respiro dell’aisthesis (nel quale vi è senz’altro memoria della forza mediana e attivamente mediante dei nervi di cui aveva parlato il giovane Schiller). Ci si potrebbe chiedere a questo punto che ne è del bello. La risposta la suggerisce Schiller nella nota della lettera ventesima intorno alla chiarificazione del termine «estetico». Se a parte subjecti esso si è chiarito come la mittlere Stimmung che segna indeterminatamente il passaggio dal sentire al pensare, a parte objecti esso indica una qualità che si rapporta con «la totalità delle nostre diverse forze, senza essere un oggetto determinato per una sola di esse [corsivo nostro]»; una qualità, quindi, che si distingue sia dalla qualità fisica dell’oggetto (in rapporto con il nostro «stato sensibile»), . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Su questo paragrafo della terza Critica e sulla possibilità di pensare a partire da esso una «coscienza estetica», cfr. ancora Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, cit., pp. -. . Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. , nota).

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sia dalla sua qualità logica (in rapporto con il nostro intelletto), sia da quella morale (in rapporto con la nostra volontà di soggetti razionali): se ne distingue, in qualche modo includendole tutte, seppur in maniera necessariamente indeterminata. È proprio in virtù di ciò, che nell’estetico si esprime tanto l’indeterminatezza del soggetto (l’uomo al grado zero di determinazioni) quanto l’indeterminatezza dell’oggetto; e, nello stesso tempo, vi si esprime sia la singolarità temporale della coscienza estetica, in quanto vive nella sensazione, sia la singolarità dell’oggetto stesso, in quanto è ciò che ora mi appare. Mi appare per così dire in statu affinitatis, ovvero in quella che potremmo sinteticamente definire una relazione paradossale. Una relazione dove l’indeterminatezza dell’oggetto, il carattere necessariamente vago della sua bellezza, significa anche un eccesso di senso. Ed è appunto nel gioco riflessivo tra questa eccedenza di senso e l’indeterminatezza del soggetto che si forma l’ideale: nel medium, appunto, di un’apparenza estetica.

. Secondo quanto leggiamo nella lettera ventunesima, «nello stato estetico, dunque, l’uomo è uno zero, fintanto che si bada a un singolo risultato e non all’intera capacità», ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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La cultura come gioco, socievolezza e arte di vivere. Le Lettere sull’educazione estetica di Schiller e il programma di educazione umanistica dell’illuminismo* di Hans-Georg Pott

Se ci si chiede, in una prospettiva storica globale, che cosa sia la cultura, se si osserva il costituirsi delle moderne società civili e quanto di “cultura” e di “barbarie” esse abbiano prodotto e poi si guarda all’età di Goethe (), si troveranno, accanto a concezioni filosofiche dello Stato, riflessioni sull’educazione dell’uomo (dell’umanità), generalmente note anche come ideale di formazione classico-idealistico. La cultura dell’epoca di Goethe potrebbe essere descritta come la trasformazione della cultura nobiliare in quella borghese. Il cerimoniale di corte e le forme di comportamento ritualizzate, la Höfischkeit (courtoisie), divengono obsoleti e sono stigmatizzati come rigidi e meccanici. Alla ricerca tuttavia di forme coltivate di comportamento sociale, la società borghese elabora delle regole di educazione e di cortesia che sono generalmente note sotto il nome di Knigge. Inoltre, i poeti e gli intellettuali dell’epoca si interrogano sulle condizioni di possibilità della fortuna e della felicità. I testi più rappresentativi e più efficaci in tal senso sono i Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen (-) di Friedrich Schiller e la meno conosciuta Theorie des geselligen Betragens () di Friedrich Schleiermacher, in cui sono sviluppate concezioni della cultura come gioco, intesa come il fine più alto dell’arte di vivere e di una società cerimoniale e tesa al piacere. Schiller sottolinea come la sua ricerca sul bello e sull’arte sia strettamente legata alla «parte migliore della nostra felicità», stia cioè in un rapporto diretto con la condotta di vita e indiretto con la politica, con lo «Stato come opera d’arte». L’immagine della società moderna, “alienata”, che Schiller abbozza nella sesta lettera, e alla quale si richiamano – ognuno a suo modo – Hegel, Marx, Lukács e la prima Scuola di Francoforte, ha come bilancio una perdita di umanità. Questo testo teorico-

* Traduzione di Heike Katharina Hilff. . Adolf Freiherr von Knigge (-), autore di Über den Umgang mit Menschen (Del modo di comportarsi con gli uomini), , un testo che connette l’idea illuministica del perfezionamento del singolo con la ricerca di regole razionali di comportamento nella vita borghese (N.d.C.).

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filosofico, estetico, politico e antropologico di Schiller riunisce le tendenze politico-intellettuali dell’illuminismo e dell’idealismo, del classicismo e del romanticismo come in una lente convessa, contribuendo ugualmente a formare le concezioni del tardo Ottocento e del Novecento di cui si è detto. Le Lettere sull’educazione estetica furono pubblicate nel  sul periodico di Schiller, le “Horen”. La loro stesura risale al - e hanno in generale la loro origine nelle ricerche realizzate da Schiller durante lo studio su Kant, dal  in poi, e in particolare nella corrispondenza con il duca di Augustenburg (), di cui ci è giunta una copia parziale. Gli Augustenburger-Briefe furono integrati in parte direttamente nella versione apparsa nelle “Horen”ed in parte furono rielaborati. Certamente ne scaturì qualcosa di fondamentalmente nuovo, derivato non da ultimo dall’influsso che ebbe su Schiller l’incontro a Jena con Fichte e la sua Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre del -, che apparve quasi contemporaneamente alle Lettere, e tuttavia con un significativo scarto temporale. Schiller stava direttamente sotto l’impressione e l’influsso di quest’opera. Se si rivolge l’attenzione alle Lettere sull’educazione estetica non ci si deve far ingannare dal titolo, Educazione estetica: non si tratta affatto di una funzione direttamente impegnata o didattica dell’arte o della bellezza, la cui autonomia, invece, è preservata. Non poco contraddittorio è per Schiller «il concetto di una bella arte che insegna (didattica) o che corregge (morale), giacché nulla contrasta maggiormente con il concetto di bellezza che il dare all’animo una tendenza determinata». Le celebri parole che individuano nel gioco la pienezza dell’essere uomo, spesso citate fuori contesto, affermano: Ma che significa allora un semplice gioco, quando sappiamo che in tutti gli stati dell’uomo proprio il gioco e solo il gioco è ciò che lo rende completo e dispiega ad un tempo la sua natura duplice [...] il gradevole, il buono, il perfetto l’uomo li prende soltanto sul serio, ma con la bellezza egli gioca. [...] Infatti, per dirla infine brevemente, l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca.

Questa proposizione, promette Schiller, «farà da supporto all’intero edificio dell’arte estetica e della ancor più difficile arte di vivere». Essa sarebbe stata già valida per l’arte greca, in cui i Greci – per quel che concerne . F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Id., Werke. Nationalausgabe, begr. v. J. Petersen, fortgef. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, S. Seidel, hrsg. v. N. Oellers, Böhlaus, Weimar  ss., vol. XX, p.  [d’ora in poi NA seguito dal volume] (trad. it., F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ). . NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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l’arte di vivere – spostarono sull’Olimpo «ciò che avrebbe dovuto essere realizzato sulla terra»: spensieratezza, ozio, senza i vincoli materiali della legge naturale, né le imposizioni spirituali delle leggi morali; in altre parole: la «vera libertà» e «l’essere più libero e sublime». È uno stato «di suprema quiete e di supremo sommovimento, e nasce quella meravigliosa commozione, per la quale l’intelletto non dispone di alcun concetto e la lingua di nessun nome». Non tutti i giochi praticati dagli uomini corrispondono a questo ideale. Tuttavia in ciascun gioco, anche nella roulette o in una partita di calcio, si troverebbe celata un po’ di questa bellezza e di questa perfetta natura umana, che dalla prassi sociale è soltanto nascosta o rovinata. Le pacifiche competizioni olimpiche, che Schiller porta come esempio, corrispondono all’ideale di bellezza più dei sanguinosi combattimenti dei gladiatori della Roma antica. Ciononostante Schiller li menziona nello stesso contesto. L’ideale di Schiller è l’antichità greca nella totalità delle sue forme di vita. In una nota aggiunge: Se si confrontano (per rimanere nel mondo moderno) le corse di cavalli di Londra, le corride di Madrid, gli spettacoli della Parigi di una volta, le corse in gondola di Venezia, le cacce di Vienna e la piacevole bella vita del Corso a Roma, non sarà difficile cogliere le differenti sfumature di gusto di questi popoli. Ciononostante, tra i giochi popolari in questi diversi paesi appare una assai minore uniformità che tra i giochi delle classi elevate in quegli stessi paesi, il che è facilmente spiegabile.

Qui Schiller si presenta ancora una volta come il rivoluzionario repubblicano, che non ha simpatia per l’aristocrazia. Colpisce il fatto che in questo contesto, di definizione della bellezza, non si parli dell’opera d’arte come tale. Infatti, la bellezza è «forma vivente», non un oggetto morto: «il bello non può essere pura vita né pura forma, ma forma vivente, cioè bellezza». La bellezza è solo dove la natura umana si esprime, dove è attiva e non ferma in un atteggiamento passivo di semplice ricettività e godimento. Nel gioco estetico della forma vivente la vita diventa piccola e leggera, poiché entra in contatto con le idee, perché è spirituale, così come le idee e lo spirito perdono la loro “pesantezza” (dell’imperativo categorico, delle leggi). Quindi, l’idealismo di Schiller, se può considerarsi tale, è un idealismo della vita, del vivente, della «leggerezza dell’essere». Con esso si intende, infatti, qualcosa di più che una semplice serata al teatro o la lettura di un buon libro. È un definitivo rifiuto di ogni estetica dell’opera d’arte che cerchi di legare la bellezza alle qualità espres. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p. , nota (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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sive di una percezione passiva, puramente estetica, ed anche il limitarsi delle sue considerazioni all’esperienza estetica mi sembra ancora troppo debole (anche se questa può essere un’esperienza di gioco). Se di una realtà estetica si tratta, si tratta soprattutto di una forma di vita. Schiller chiede come l’uomo «si apra la via dai semplici sentimenti della vita ai sentimenti della bellezza». È ora di condurre la discussione sull’arte e con l’arte come una discussione sull’arte e sulla condotta di vita, e di chiederci come l’arte possa contribuire a farci raggiungere un modo di vivere secondo una prassi esteticamente e teoricamente fondata. Una tale teoria non è, in termini schilleriani, in nessun modo compatibile con affermazioni o atti di potere unilaterali. Ancora oggi un tale progetto verrebbe etichettato come utopia, ma senza questo spirito utopico non facciamo nessun passo in avanti. Al modo di vivere estetico appartengono «il piacere dell’apparenza, l’inclinazione all’ornamento e al gioco». È «la piacevole bella vita del Corso a Roma», il pacifico incontro pubblico di persone che si sono fatte belle – qualunque cosa intendano con ciò uomini e donne. Si tratta di un cambiamento e un innalzamento della realtà quotidiana. «La stupidità non può sollevarsi al di sopra della realtà», dice Schiller. L’indifferenza alla realtà e l’interesse per l’apparenza (estetica) sono «un vero ampliamento dell’umanità e un decisivo passo verso la cultura», cioè verso la spontaneità dell’individuo. Questa apparenza è gioco, non inganno. A questo riguardo si potrebbe dire che Schiller è quasi un romantico poiché anche la poesia romantica si fonda sull’insoddisfazione per la quotidianità. La bella apparenza ha senz’altro a che vedere con le maniere raffinate, con la cortesia, il riguardo verso gli altri, che non devono necessariamente essere segni di simpatia personale. Ciò si può tacciare di superficialità solo se non si è compresa esattamente l’idea dell’esteticità, della «forma cortese» (gefällige Form) e del gioco. Questa «apparenza sincera e autonoma» viene – e questo è il passo successivo – connessa all’idea della formazione dell’individuo. Di qui nasce l’ideale dell’educazione classicoumanistica, dal quale ci siamo ormai allontanati enormemente persino all’università. La parola d’ordine oggi è istruzione, in luogo di formazione: addestramento all’utilità funzionale nel mondo del lavoro. Nella famosa sesta lettera dell’Educazione estetica, Schiller ha delineato l’immagine dell’uomo alienato nella società moderna basata sulla divisione del lavoro, e ha propugnato la realizzazione dell’uomo «intero», un ideale dal quale oggi sembriamo ancora ben lontani. Le sue definizioni operano con una metaforica della meccanicità priva di vita di contro ad una organicità viva ed . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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intera e con una metaforica biblico-neotestamentaria del contrasto tra spirito e letteratura: Quella natura da polipo degli Stati greci, nei quali ogni individuo godeva di un’esistenza indipendente e se necessario poteva diventare totalità, ha lasciato ora il posto ad un ingranaggio ingegnoso, in cui dalla giustapposizione di pezzi, infiniti ma privi di vita, si forma nel tutto una vita meccanica. Sono stati ora scissi lo Stato e la Chiesa, le leggi e i costumi; il piacere è stato separato dal lavoro, il mezzo dal fine, lo sforzo dalla ricompensa. Eternamente incatenato soltanto ad un singolo frammento del tutto, l’uomo stesso si forma solo come un frammento. Nell’orecchio soltanto il rumore monotono della ruota che lo spinge, egli non sviluppa mai l’armonia del suo essere, ed invece di imprimere l’umanità nella sua natura diviene un semplice calco del suo ufficio, della sua scienza. Ma anche quella parte magra e frammentaria che ancora collega le singole membra all’insieme non dipende da forme che essi si danno spontaneamente (come si potrebbe infatti affidare alla loro libertà un meccanismo tanto artificioso e timoroso della luce?), bensì viene prescritta loro con scrupolosa severità attraverso un formulario nel quale si tien legata la loro libera concezione. La lettera morta sostituisce l’intelletto vivo ed una memoria esercitata è una guida più sicura che non genio e sensibilità.

Qui sarebbe da aggiungere una discussione critica, sui fantasmi di Rousseau e sulle ideologie della totalità (Ganzheit) e dei totalitarismi, perché, se mai fosse esistito un progresso social-culturale, esso si troverebbe proprio nella separazione di Chiesa e Stato, di leggi e costumi, di diritto e giustizia. Bisognerebbe rileggere il brano alla luce delle esperienze del Novecento, farlo proprio come eredità critica, vale a dire anche come eredità criticata. Non significherebbe, però, rinunciare a ideali e aspettative. Un tale ideale è fondato sul concetto di libertà. Di conseguenza la sesta lettera finisce con una concezione utopica: Dev’essere dunque falso che lo sviluppo delle singole forze renda necessario il sacrificio della loro totalità; o, se anche la legge di natura tendesse a questo, deve stare a noi il ricostituire nella nostra natura attraverso un’arte più elevata questa totalità che l’arte ha distrutto.

Bisognerà ridefinire questa «arte più elevata» come un futuro presente e non come un presente futuro. Tutti noi avremo solo vissuto nel presente – in futuro. A proposito dell’estetica di Schiller (specialmente dell’Educazione estetica), Hegel afferma nell’Introduzione alle Lezioni di estetica: «Dev’essere dato a Schiller il grande merito di aver infranto la soggettività e l’astrazio. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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ne kantiana del pensiero e di avere avviato il tentativo di andare oltre e di concepire concettualmente l’unità e la conciliazione come il vero e di realizzarle artisticamente». «L’unità e la conciliazione» sono quelle di teoria e di prassi, di ragione e realtà. Una tale unità per Schiller era possibile solo come forma estetica, come «libertà nell’apparenza», per cui non la si deve affatto intendere come totalità della realtà. Pur volendo orgogliosamente rimanere al livello delle speculazioni di Kant e Fichte, Schiller coglie «il vero» nell’attività ludica e nell’arte. In ciò consisteva anche un programma di educazione elaborato in collaborazione con Goethe dal  al  – che contrasta solo in apparenza con l’autonomia dell’arte, poiché questa deve avere una funzione sociale proprio in quanto autonoma. L’arte, qui, è strumento dell’educazione. L’idea classica di educazione implica che l’individuo possa formare le sue capacità fondamentali, la sensibilità e la ragione nel modo più armonico possibile tramite un libero gioco di queste capacità. Schiller e Goethe hanno riconosciuto la parzialità ed i pericoli di un concetto di ragione assolutizzato, e li hanno espressi con parole in parte drastiche. Infatti, Mefistofele dice nel Prologo in cielo: Il piccolo dio del mondo è sempre lo stesso, buffo e strambo come nel primo giorno. Vivrebbe un poco meglio, tu non gli avessi dato qualche lume di cielo. Lo nomina ragione: e lo usa soltanto per vivere più bestia di ogni bestia.

Schiller si è espresso in maniera analoga nelle sue Lettere sull’educazione estetica. Hegel sottolinea un’unità «di universale e particolare, di libertà e necessità, di spirituale e naturale, che Schiller concepì scientificamente come principio ed essenza dell’arte e che si sforzò incessantemente di chiamare a vita effettiva con l’arte e l’educazione estetica». Non è difficile individuare i passaggi delle Lettere sull’educazione estetica ai quali soprattutto si riferisce Hegel nel brano citato. Anche Schiller riconosce la superiorità dell’universale rispetto all’individuale. Secondo Schiller questo universale non è presente nello Stato prussiano. Umanità è il titolo per quell’universale, che lascia trasparire un punto di vista utopico, un ideale nel senso che si è detto. La Dichiarazione dei diritti umani del  è per Schiller la tappa cru. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, hrsg. v. E. Moldenhauer, K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. XIII, p.  (trad. it. a cura di N. Merker, Estetica, Feltrinelli, Milano , p. ). . J. W. Goethe, Faust. Eine Tragödie, vv. - (trad. it., a cura di F. Fortini, Faust, Mondadori, Milano  [V ed.], p. ). . Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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ciale dell’età moderna, ad essa debbono essere riferite tutte le considerazioni; perché con essa – e nel contempo con i postulati fondamentali dell’illuminismo (particolarmente l’autodeterminazione) – è stata data la possibilità della libertà per il singolo: e non come comprensione della necessità della solita integrazione autodeterminata nello Stato, ma una libertà radicale, quella di essere diversi dagli altri, un’eterogeneità radicale che viene ancora esclusa, nel migliore dei casi resa ridicola. La letteratura dell’era moderna la racconta: comincia con il Don Chisciotte di Cervantes. L’individuo – così diciamo oggi – è il parassita della differenza sociale dell’universale e del particolare: di qui i faticosi sforzi per trovare una mediazione o un’unità. È necessario, per così dire, “ricatturare” l’individuo. Secondo Schiller l’«educazione estetica» serve proprio a questo. L’arte diventa strumento dell’educazione dell’uomo alla vera libertà politica. Deve subentrare alla religione, che fino ad allora aveva determinato le forme di vita, e deve «educare», cioè «formare», «dare forma» all’individuo perché divenga un cittadino veramente libero – il che può verificarsi solo come autodeterminazione e attività autonoma. Non si può tornare indietro rispetto alle conquiste dell’illuminismo. Nella funzione che, nel processo della realizzazione dei diritti dell’uomo e di una dialettica dell’illuminismo, è attribuita al bello e all’arte, Schiller e Hegel si distinguono ovviamente nel modo più categorico. Il significato dello Stato come universale (universalmente valido: l’universalità indica la legittimità) viene definito da Schiller richiamandosi a Fichte (Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten): Ogni essere umano individuale, si può dire, porta in sé, per predisposizione e per destinazione, un puro uomo ideale, ed essere in accordo con l’inalterabile unità di questo in tutti i propri mutamenti costituisce il grande compito della sua esistenza.

Questa unione si può pensare, allora, o come oppressione dell’individuale o come la sua nobilitazione (Veredelung); questa «nobilitazione» dell’individualità «libera» viene esposta nella concezione dell’Educazione estetica. Ma Schiller sottolinea soprattutto l’importanza della natura in questo processo. La natura in tutta la sua diversità deve essere rispettata, protetta, se . Cfr. N. Luhmann, Gesellschaftstruktur und Semantik, vol. III, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , p.  e H.-G. Pott, Literarische Bildung. Zur Geschichte der Individualität, Fink, München . . Cfr. anche J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. - (trad. it., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari , pp. -). . NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. ).

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una costituzione statuale deve avere una giustificazione, se deve addirittura poter mantenere l’aspirazione alla felicità. «Se dunque la ragione porta nella società la sua unità morale, essa non deve ledere la molteplicità della natura». In questo non c’è nessuna contraddizione con Hegel (a parte la terminologia), che concepisce lo Stato come spirito vivente. Una differenza si trova piuttosto nella definizione della bellezza e delle belle arti. Schiller, quasi presentendo, in un certo senso, la tesi hegeliana della fine dell’arte, che sarebbe sparita «dal rumoroso mercato del secolo» (Schiller), mentre «lo stesso spirito della ricerca filosofica sottrae all’immaginazione una provincia dopo l’altra ed i confini dell’arte si restringono quanto più si allargano quelli della scienza», le contrappone il fatto che è la bellezza ciò «attraverso cui ci si incammina alla libertà». E questo egli intende dimostrarlo in base a principi della ragione. Il legame indissolubile tra bellezza e libertà, eliminabile solo a prezzo dell’oppressione, rappresenta il suo personale e genuino contributo al discorso della modernità. Società e socievolezza si separano al più tardi nel Settecento. La società non è più socievole, e dove vi è socievolezza essa, la società, non viene più rappresentata. La tradizione classico-idealistica aveva concepito tale spazio della socievolezza socievole come privo di finalità, con riferimento al concetto della «finalità senza scopo» della Critica del Giudizio di Kant. Si tratta soprattutto di autodeterminazione e autofinalità, dunque del rifiuto di farsi determinare «dal di fuori». Ciò implica una dialettica complicata e in fondo un rapporto paradossale tra libertà e necessità, di cui si occupano i filosofi idealisti. Schiller ha sviluppato questa dialettica negli ambiti dell’arte e del gioco, nei quali s’incarna – come dice Habermas – la «ragione comunicativa». Proprio come Schiller, Friedrich Schleiermacher nel suo scritto Versuch einer Theorie des geselligen Betragens (), concepito sotto l’influsso dell’Educazione estetica di Schiller, si occupa non solo dell’estetizzazione delle condizioni di vita, ma anche – per dirla con Habermas – di una . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. H.-G. Pott, Die schöne Freiheit. Eine Interpretation zu Schillers Schrift “Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen”, Fink, München  e H.-G. Pott, Die Ästhetik Schillers mit Bezug auf Hegel, in Id., Schiller und Hölderlin. Studien zur Poetik und Ästhetik, Lang, Frankfurt a.M. , pp. -. . F. D. E. Schleiermacher, Versuch einer Theorie des geselligen Betragens, pubblicato anonimamente in “Berlinisches Archiv der Zeit und ihres Geschmacks” e identificato da H. Nohl nel : Schleiermachers Werke, Auswahl in vier Bänden, hrsg. v. O. Braun, vol. II, Leipzig , pp. -.

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«Revolutionierung der Verständigungsverhältnisse» («rivoluzionamento dei rapporti d’intesa»). Schleiermacher si inserisce nella tradizione occidentale di una ricerca, improntata alla saggezza pratica, che mira a dare forma e a migliorare i rapporti tra gli uomini, che costituiscono il nucleo essenziale di ogni cultura. Particolarmente per quel che concerne il rapporto con l’altro sesso, che notoriamente non è sempre coltivato. Perciò, le donne hanno un ruolo importante, comunque ciò venga (dall’uomo) valutato. Nel Medioevo antiche forme di rappresentazione delle donne subiscono l’influsso cristiano e continuano questa tradizione nell’adorazione cavalleresca della donna nella poesia cortese. Una mutata coscienza di sé da parte della donna nasce nell’epoca del Rinascimento. Qui è soprattutto il Libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, pubblicato nel , che mette l’individuo come tale al centro dell’attenzione, ma al fine di rappresentare un bene universale, quindi, nel senso dell’epoca, della buona società. Educazione, saggezza politica, comportamento da uomo di mondo vennero al centro dell’attenzione, laddove è questione soprattutto di nascondimento, di – se si vuole dire così – mantenimento dell’apparenza finché, nella forma compiuta del classicismo francese, la conversazione in società diventa tecnologia sociale per assicurarsi la tutela delle possibilità di concorrenza e guadagnare prestigio. In ciò si può riconoscere un’anticipazione dell’economia di mercato. Il capitalismo non eredita soltanto dall’etica protestante, ma anche dalle maniere cortigiane. Questo ha fatto notare soprattutto Norbert Elias, a integrazione della tesi di Max Weber. A differenza della tecnica cortigiana del nascondimento e della tutela dell’apparenza, per la cultura borghese sono importanti la franchezza, la sincerità e la fiducia. Locke, Shaftesbury e, in Germania, Christian Garve e Adolf Freiherr von Knigge (con il suo Über den Umgang mit Menschen, ) hanno in ciò esercitato un influsso significativo. Nei loro scritti viene anticipata la società basata sulla divisione del lavoro, giacché vengono descritte forme di comunicazione nella loro varietà, laddove si tratta della calcolata valutazione di interessi reciproci. La società, che diventa sempre più complessa, non può più essere integrata interamente attraverso la socievolezza, per cui Kant consiglia coerentemente la forma giuridica della Costituzione per rendere sicura la comunità. Solo allora la socievolezza diviene un accessorio della società, il tempo libero come lo conosciamo oggi, ma è anche possibile affrancare l’arte e il gioco dall’utilità immediata. E solo allora ci si può comportare male senza mettere in pericolo la società. Non si tratta più dell’esistenza della società stessa. Schleiermacher si distanzia da Garve e Knigge, ai quali in certo modo risponde. L’opera, di cui è rimasto un frammento, comincia con le parole: . Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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Una socialità libera, non legata e non determinata da scopi esterni, viene rivendicata a gran voce da tutti gli uomini colti come uno dei primi e più nobili bisogni. Chi viene soltanto tirato di qui e di là tra le cure della vita domestica e gli affari della vita borghese si avvicina tanto più lentamente, quanto più fedelmente egli segue questo percorso, al fine più alto dell’essere umano.

In queste prime frasi sono elencati alcuni motivi fondamentali del “saggio”. Sono l’unilateralità e la limitatezza della moderna vita borghese nella famiglia e nella professione, che impediscono all’uomo di raggiungere la sua missione (Bestimmung) «elevata». Questa si basa sull’immagine classicoidealistica dell’uomo, che considera l’uomo una creatura da elevare attraverso l’educazione e la cultura, a cui mira anche il concetto di umanità. Si credeva ancora alla possibilità di rendere universali i valori della ragione occidentale. Sebbene l’idea del perfezionamento ci sembri obsoleta, le caratteristiche che l’uomo avrebbe dovuto acquistare sono ancora comunque degne di essere prese in considerazione. Tra i presupposti dell’educazione (Bildung) vi sono incontri vari con altre persone, affinché «ognuno dei suoi propri punti di limitazione gli consenta la visione di un mondo altro ed estraneo, così che a poco a poco possano divenire a lui noti tutti i fenomeni dell’umanità ed anche gli animi e le situazioni più estranei divenire amichevoli e, per così dire, vicini di casa». Ciò è anche, per dirla così, una teoria della globalizzazione, cioè dell’amicizia e del buon vicinato tra gli esseri umani. Questo presuppone senz’altro «una libera frequentazione di persone ragionevoli e che si educano reciprocamente» (p. ). Qui sta, si potrebbe credere, il nucleo utopico che trascende ogni possibilità di realizzazione. Per me è importante scoprire con Schleiermacher tanto il nucleo realistico di questa idea quanto i criteri di valore che stanno alla base di questa immagine dell’essere umano. Dall’estetica di Kant e Schiller derivano le idee del libero gioco di tutte le facoltà dell’uomo, che questi dovrebbe formare armonicamente in se stesso. Questo è visto come scopo morale ed etico della società. La società per Schleiermacher equivale alla «società socievole», quindi alla determinata «presenza di più persone in un luogo» (p. ). Ciò che oggi chiamiamo società, è chiamato da Schleiermacher comunità, poiché il legame delle persone tra loro è stato creato grazie ad uno scopo esterno che condividono e che quindi è comune (cfr. p. , nota). In questa idea della socievolezza si uniscono la concezione illuministica dell’autonomia («non governato da alcuna legge che non sia quella che egli ha imposto a se stesso», p. ) con quella del gioco di Schiller («l’uomo è tale solo laddove gioca»). È questione, qui, di prendere coscienza e di riflettere su di una «ten. Schleiermacher, Versuch einer Theorie des geselligen Betragens, cit., pp.  ss. (T.d.A.). I successivi numeri di pagina nel testo si riferiscono alla edizione citata di questo testo.

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denza naturale» alla socievolezza presente nell’essere umano. Oltre a ciò, si tratta, però – e qui entra di nuovo in gioco l’influsso delle Lettere sull’educazione estetica di Schiller –, di «costruire la vita sociale come un’opera d’arte» (pp.  ss.). Si tratta dell’arte di vivere, poiché l’uomo si può realizzare come uomo, cioè integralmente, solo in una «arte della società». Ciò mira ad una costruzione cosciente e creativa del proprio io. Nella libera socievolezza sono uniti formazione e divertimento (istruire e suscitare interesse, come dice Schleiermacher, e vi si riconosce la definizione antica dell’arte, prodesse et delectare, «istruire e divertire»). Il nucleo vero e proprio sta nell’idea del reciproco influsso delle persone, in cui il prendere e il dare, l’attività e la ricettività sono in equilibrio, in cui, quindi, non può esservi un’azione unilaterale. Questo presuppone naturalmente una certa omogeneità del gruppo. Persone qualsiasi che si incontrano per caso non possono formare una società socievole. Una tale omogeneità, però, può essere creata anche, fino ad un certo grado, tramite tecniche di conversazione. Le tecniche implicano sempre regole e leggi. È proprio questo l’«esperimento» (Versuch) di Schleiermacher. Schleiermacher esprime idee notevolmente emancipatorie sulle donne, citiamo perciò direttamente: Se infatti un uomo parla della sua professione, per un lato si sente ancora libero, e cioè per quella parte che riguarda la vita domestica; le donne, invece, per le quali i due lati coincidono, parlandone sentono tutte le loro catene (p. ).

Le donne che si liberano di queste catene possono però, poiché non hanno nessuno «status in comune» con gli uomini, «tranne quello della persona educata, diventare le fondatrici di una società migliore» (p. ). Si intuisce sullo sfondo la problematica delle donne del romanticismo, particolarmente quella dell’ebrea Rahel Varnhagen, il cui salotto era frequentato da Schleiermacher. Qui sarebbe necessario dare un’occhiata alla Salonkultur all’inizio dell’Ottocento, che fu, in certo qual modo, un esempio per il modello idealtipico della socievolezza. I salotti si possono considerare non solo come parte del processo d’imborghesimento, ma persino come esperimenti sociali alternativi, della cui atmosfera interculturale per la prima volta avevano la possibilità di partecipare anche figure socialmente marginali come donne ed ebrei. Tra l’altro in questo contesto si afferma e giunge a compimento la canonizzazione di Goethe come classico. Qui si sviluppa la forma classicomoderna dell’educazione (Bildung) e dell’individualità. Nasce ciò che Habermas chiamerà l’intersoggettività critica, descritta dall’illuminista berlinese Friedrich Nicolai: . Cfr. D. Gaus, Geselligkeit und Gesellige, Metzler, Stuttgart-Weimar , p. .

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Tutti i membri erano autentici amici della verità; di qui lo sforzo di ciascuno di far valere ciò che riteneva essere la verità non attraverso dimostrazioni di forza o richiamandosi alla voce interiore, ma attraverso ragioni [...]. Ciascuno dichiarava le sue ragioni e se l’uno non convinceva gli altri ciò non aveva alcun influsso sul loro atteggiamento giacché non l’aver ragione ad ogni costo, ma amore per la verità era lo spirito di questa società.

Contemporaneamente ci si volge anche contro le tendenze della società borghese. Come ci si sottrae all’ammaestramento alla razionalità utilitaristica (zweckrationale Nützlichkeit)? Come si può vivere l’autodeterminazione in maniera colta? La risposta «idealistica» è: attraverso lo sviluppo della persona, cioè tramite l’intersoggettività critico-intellettuale in cui la propria identità viene contemporaneamente fortificata, criticata e modificata, appaiata con una messa in scena estetico-teatrale, in cui la bellezza e l’erotismo si mostrano anche fisicamente. Si tratta di una performance coltivata, in un senso assai ampio. Anche la letteratura, il mezzo scritto per eccellenza, che agli inizi dell’Ottocento era praticata soprattutto come lettura solitaria e silenziosa, diventa, come ai tempi precedenti alla scoperta della stampa, prassi sociale: lettura ad alta voce, conferenza, discussione, rappresentazione teatrale amatoriale ecc. C’entrano i cappelli alla moda e la letteratura, lo stile di vita e la filosofia, o – per citare un contemporaneo – «Kant e la filosofia, e Goethe, l’arte, il gusto e l’Italia». Si può portare ad esempio la cerimonia del tè. Si invitava ad un tè estetico, non a prendere un caffè o una cioccolata, che aveva una connotazione esotico-erotica. Infatti, il tè non fu classificato né come alimento né come stupefacente, ma come mezzo per l’aumento della prestazione lavorativa. (Il che non toglie che a volte ci si aggiungesse un po’ di rum.) I bevitori di tè sono calmi. Il tè è al tempo stesso aristocratico e intellettuale. «Apparire “bene educati” in una “honette Gesellschaft”, mostrare dunque al tempo stesso tradizioni di comportamento aristocratiche, regole di buona educazione, un atteggiamento spirituale borghese e controllo del corpo costituiva [...] la dimensione essenziale del prendere il tè». Si tratta di coltivare un interesse universale, che riguarda un gruppo moderatamente eterogeneo di persone, laddove questo interesse è in grande misura etico, vale a dire politico (weltpolitisch), in quanto ognuno dovrebbe educarsi in modo da rappresentare l’«umanità». Qui si rivela l’ininterrotto legame con l’illuminismo berlinese, il cui organo fu il “Berlinisches Archiv”, dove fu pubblicato il “saggio” (Versuch) di Schleiermacher. Nel , nel suo scritto Was ist Aufklärung? (lo scritto di Kant con lo . Citazione tratta da Gaus, Geselligkeit und Gesellige, cit., p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. .

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stesso titolo era stato pubblicato nel ), Mendelssohn considerava la socievolezza un terreno ricco di humus, da cui si sviluppa l’educazione. Mendelssohn cerca di superare la separazione kantiana dell’uso pubblico della ragione da quello privato, considerando l’uomo in una società concreta. La «società socievole» è un elemento di mediazione tra individuo e collettività, tra autodeterminazione e bene comune. Chi apre la tarda opera di Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (; II ed. ), scopre che anche Kant apprezzava la socievolezza. Infatti, il §  inizia con una frase rimarchevole: In genere quanto più gli uomini sono civili, tanto più sono commedianti: essi prendono la maschera dell’affezione, del rispetto per altrui, della costumatezza, del disinteresse, senza per questo ingannare alcuno, perché ogni altro sottintende che tutto ciò non sia fatto col cuore; ed è anche molto bene che così vada nel mondo.

In un passo successivo si legge: Tutta la virtù dell’uomo è come della moneta in commercio; è un fanciullo colui che la ritiene per oro puro! – Ma è tuttavia ben meglio avere una tale moneta che non avere nel commercio nessun mezzo di scambio, e infine si può sempre, quand’anche con visibile perdita, scambiarla con vero oro.

Kant, in definitiva, crede nell’effetto civilizzatore dell’educazione, della cortesia e perfino della galanteria cortigiana, sebbene non dia indicazioni più precise riguardo alla «visibile perdita» (ansehnlichen Verlust). Nel § , Del sommo bene fisico e morale, Kant definisce il concetto di umanità, memore della doppia natura sensibile-intellettuale degli esseri umani: «Il modo di concepire la conciliazione del benessere con la virtù nella vita sociale è l’umanità». L’umanità è possibile, dunque, solo nel rapporto socievole con gli altri, e una «beatitudine costumata» (gesittete Glückseligkeit) scaturisce dall’unione ben proporzionata di vita agiata (Wohlleben) e virtù (Tugend). Nelle notazioni seguenti Kant si fa concreto: la vita agiata include la musica, il ballo e il gioco e, soprattutto, un buon pasto, e di questo egli si occupa più in dettaglio. Occorre che questa sia organizzata bene. Vale la pena studiare più profondamente le regole di un banchetto di buon gusto, come le enuncia Kant, tanto più che in questa occasione viene alla luce un . I. Kant, Werke, hrsg. v. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt  (II ed.), vol. VI, p.  (trad. it. a cura di G. Vidari, riveduta da A. Guerra, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in I. Kant, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari , p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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“altro” Kant rispetto a quello che, generalmente, si riduce all’imperativo categorico. Queste regole si trovano nella sezione intitolata Didattica. Della facoltà appetitiva. «La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se possibile, anche varia) compagnia, della quale Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle Grazie né al di sopra di quello delle Muse». Una nota aggiunge: «Dieci a tavola, perché il padrone di casa, che riceve gli ospiti, non si conta». Ed ancora: “e non bisogna (come al ristorante) limitare timorosamente la libertà della conversazione, né come in una tavolata di operai (poiché ogni gruppo troppo ampio diventa plebe) nella gozzoviglia parlare a caso e senza nesso”. La conversazione, che dovrebbe trattare un argomento che interessa a tutti i presenti, non deve «essere un impegno, ma solo un gioco». Arroganza e seriosità, che si possono evitare intervenendo opportunamente in modo scherzoso, sono proibite. Rispetto e benevolenza reciproci devono prevalere, anche nel caso in cui sorgesse una lite seria – il che non è evitabile. Kant conclude il brano con queste significative parole: Per quanto queste regole della società civile possano sembrare insignificanti, principalmente quando le si paragonino con le pure leggi morali, pure tutto quello che promuove la socievolezza, quand’anche consista soltanto in massime o maniere garbate, è sempre un abito che s’addice bene alla virtù, e che le si può raccomandare anche nel modo più serio. Il purismo del cinico e la mortificazione della carne dell’anacoreta, senza il benessere della convivenza sociale, sono forme degenerate della virtù e non ammissibili da essa; e, private delle Grazie, non possono pretendere all’umanità.

Di qui dovrebbero nascere degli stimoli per l’attuale dibattito culturale. Si tratta nientemeno che – e qui devo tornare ancora una volta alle Lettere sull’educazione estetica di Schiller – della «rivoluzione totale» del modo di sentire dell’uomo per la costruzione di una personalità in relazione all’arte dell’ideale. Soltanto in questo modo egli raggiunge la libertà che distingue lo «stato estetico»: «Dare la libertà attraverso la libertà è la legge fondamentale di questo regno». Dunque: non esercitare il potere attraverso la violenza, e nemmeno attraverso le leggi. Le considerazioni conclusive di Schiller sullo stato estetico, spesso citate e spesso messe in discussione, hanno come scopo l’idea di una società che si caratterizza per le forme socievoli di comunicazione. Se società – come diciamo oggi – è la somma di tutte le . Ivi, p.  (trad. it. cit., pp.  ss.). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. ).

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comunicazioni, allora la comunicazione estetica, la «comunicazione bella» (schöne Mitteilung), assume una posizione molto importante; e questo, secondo me, si può assumere concretamente. Se nel mondo degli affari, della politica e delle scienze dominano l’ordine, la prescrizione e la frase assertiva (l’asserzione che non ammette nessuna contraddizione), esistono però in ogni società anche ambiti della solidarietà, del gioco e dell’arte e cultura «libere», che si realizzano in atti comunicativi basati sul libero scambio di opinioni, sulla capacità di ascoltare le parole dell’altro, sullo scambio scherzoso. Qui c’è solo una regola che non deve valere: il potere assoluto di un’opinione, di un metodo, di una regola: «nessun privilegio, nessun potere assoluto è tollerato quando domina il gusto e mentre si diffonde il regno della bella apparenza». Con una certa nostalgia, oggi che viviamo in una società differenziata funzionalmente (come dicono i sociologi), possiamo gettare uno sguardo indietro alle forme storiche della socievolezza. Tutti i tentativi di ridar vita alla comunità non rispondono alla situazione sociale nella quale ci troviamo. Oggi, questa è realizzabile solo privatamente in piccoli gruppi. Lo sapeva anche Schiller, che chiude la sua Educazione estetica con l’osservazione che un tale «Stato della bella apparenza» si può trovare solo in «pochi circoli scelti». Qui i limiti del modello vengono presto alla luce. Non c’è bisogno solo di condizioni borghesi-repubblicane, ma al tempo stesso di condizioni aristocratiche, soprattutto di ozio. C’è bisogno di competenze cognitive. Si deve essere capaci di ironia. Forse si deve essere perfino belli, qualsiasi cosa ciò significhi. Si tratta di un’élite interna a condizioni socioeconomiche garantite. Nonostante ciò, l’immagine ideale riguarda quello che vorrei chiamare «borghesia cosmopolita e colta». È un’eredità del classicismo tedesco. La vorrei difendere contro tutte le relativizzazioni interculturali – anche se provo talvolta il desiderio di essere un pellerossa.

. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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«Die Natur selbst ist nur eine Idee des Geistes, die nie in die Sinne fällt». Aporie e variazioni del concetto schilleriano di natura di Giovanna Pinna

 Introduzione Nel commento alla più recente edizione dell’epistolario schilleriano il curatore osserva che nelle lettere di Schiller due sono i temi la cui assenza colpisce: l’amore e la natura. In effetti, né l’amore né la natura vi compaiono come elementi rilevanti del suo orizzonte esistenziale, vale a dire, non vi sono lettere d’amore, descrizioni della bellezza della natura o manifestazioni del sentimento che da questa scaturisce. La circostanza non è priva di interesse, se si considera che amore e natura sono termini tutt’altro che marginali nell’opera schilleriana. Vi sono senz’altro ragioni biografiche e psicologiche, che qui non s’indagheranno, per l’esclusione del sentimento amoroso dall’epistolario di un autore così intensamente “dialogico” (mentre onnipresente è l’espressione dell’amicizia), le cui tragedie certo non mancano di motivi erotici più o meno sublimati. Per quel che riguarda invece la natura, oggetto di questo contributo, l’assenza di una dimensione esperienziale immediata dell’universo naturale, sia nelle lettere che in generale nell’opera di Schiller, è da ricondursi ad un’attitudine intellettuale essenzialmente orientata all’indagine dell’umano. Questa si congiunge ad un convincimento teorico di fondo riguardo all’impossibilità di cogliere la natura se non mediatamente, come concetto o come simbolo. A ciò rimanda la citazione che compare come titolo delle presenti considerazioni, tratta dall’ultimo dei suoi testi teorici, la Prefazione alla Braut von Messina: la natura è essenzialmente un’idea ed è dunque attingibile esclusivamente attraverso lo spirito, senza essere però prodotta da esso. Si può aggiungere che anche l’immaginazione produttiva, nella misura in cui trasforma simbolicamente la percezione degli oggetti naturali in “vera natura” o, kantianamente, in “seconda natura” produce questa necessaria mediazione conoscitiva. Infatti, anche dove la natura compare co. G. Kurscheid, Kommentar, in F. Schiller, Briefe -, in Id., Werke und Briefe, hrsg. v. O. Dann et al., Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M. , vol. XI, p. .

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me oggetto di contemplazione estetica, come paesaggio ad esempio, la mediazione riflessiva è ciò che rende possibile la percezione e la resa artistica degli oggetti naturali. Per ragioni analoghe, del resto, non vi è quasi traccia, in Schiller, di una poesia della natura come la troviamo in Goethe o nei romantici, in contrasto con i non sporadici riferimenti alla natura come armonia mundi nella Gedankenlyrik, ovvero con la frequentissima tematizzazione della naturalità, nelle sue diverse accezioni, nei testi teorici. È necessario innanzitutto delimitare il campo d’indagine sia in termini di cronologia che di metodo. Per quel che concerne la cronologia, le presenti considerazioni riguardano un arco temporale che va dagli scritti teorici del - (le Lettere sull’educazione estetica e la Poesia ingenua e sentimentale) alla Prefazione alla Braut von Messina () passando per lo scritto Über das Erhabene, che considero – voglio subito precisare – almeno nella seconda parte, di redazione tarda. Come è noto, la datazione di questo scritto, per la quale non ci sono argomenti esterni dirimenti, non è una questione puramente filologica, ma ha delle conseguenze per l’interpretazione della teoria estetica schilleriana. In specifico, esso mostra un’evoluzione concettuale che riguarda primariamente il rapporto tra natura e ragione. Quanto al metodo: è un fatto notorio che Schiller usi i concetti filosofici in modo spesso inconseguente e che vi siano notevoli variazioni nel significato di alcuni termini anche all’interno dello stesso testo. A ciò si aggiunge la difficoltà propria di una scrittura filosofica in cui l’esposizione concettuale, come osservava polemicamente Fichte, tende a risolversi in immagine persuasiva, intrecciando dimostrazione rigorosa e illustrazione metaforica. La terminologia schilleriana è stata indagata in tal senso, soprattutto in passato, nell’intento di catalogare i diversi significati di uno o più termini. Non è tuttavia questa la mia intenzione. Cercherò piuttosto di individuare solo i “macrosignificati”, per così dire, ossia i complessi concettuali che il termine “natura” designa, che appaiono rilevanti per l’interpretazione della fondazione schilleriana dell’esperienza estetica.  La natura come fondamento sensibile Negli scritti teorici posteriori allo studio della filosofia di Kant il concetto di natura compare sempre come elemento di una polarità che tende a risolversi in uno sviluppo dialettico. Esso si definisce di volta in volta diver. Un tentativo di classificazione di questo genere riguardo al concetto di natura è stato fatto da H. Lutz, Schillers Anschauungen von Kultur und Natur, Ebering, Berlin  e da K. K. Potyka, Naturvorstellungen in ausgewählten philosophischen Schriften Friedrich von Schillers, Lang, Frankfurt a.M.-Berlin-Bern .

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samente all’interno di opposizioni quali natura e ragione, natura e storia, natura e cultura, articolandosi essenzialmente su due piani, quello antropologico-morale e quello metafisico-estetico. Il confronto con il pensiero kantiano, oltre che, come vedremo più avanti, la riflessione sugli scritti di Rousseau, è determinante per la centralità della nozione di natura nel sistema concettuale schilleriano. Le annotazioni apposte in margine da Schiller sulla sua copia della Critica del Giudizio rappresentano una piccola testimonianza “esterna” della sua attenzione al problema dell’accordo tra natura e ragione. Dato l’interesse del tutto marginale che Schiller aveva per le questioni relative alla conoscenza scientifico-teoretica, punto di riferimento della sua riflessione non è tanto il concetto di natura come complesso dei fenomeni sensibili unificati dalle leggi della conoscenza teoretica, quanto da un lato l’idea “regolativa” di natura come contesto vitale finalisticamente ordinato e dall’altro il concetto metafisico di natura «sotto l’autonomia della ragion pura pratica». Per Kant il medesimo io è sottoposto alle «leggi di una natura a cui la volontà è soggetta e [a] quelle di una natura che è soggetta ad una volontà», è, cioè, «cittadino di due mondi», quello sensibile e quello intelligibile, le cui legislazioni sono indipendenti. Ora, questo dualismo rigido di natura e libertà costituisce per Schiller, come è noto, l’elemento problematico della filosofia kantiana, cui egli cerca di dare una soluzione sin dai Kallias-Briefe. Nell’Educazione estetica egli propone un modello di mediazione dialettica tra ragione e sensibilità che poggia su un’idea di natura come ordine sensibile-razionale in cui la ragione umana è inscritta e da cui essenzialmente deriva. Un ordine positivo della totalità, dunque, che non sta in un rapporto di alterità radicale con la ragione, ma di cui la ragione è in un certo senso uno sviluppo che alla natura come semplice costituzione sensibile deve opporsi per sua “naturale” determinazione. Tale significato costituisce il filo rosso che collega le considerazioni sul bello sviluppate nell’Educazione estetica e nella Poesia ingenua e sentimentale, e si alterna con un’accezione più ristretta del termine, quella di natura come cieco dominio della sensibilità. Questa viene tuttavia ricompresa nel concetto sovraordinato di natura (ordine sensibile-razionale) come termine del rapporto – conce. Cfr. F. Schiller, Vollständiges Verzeichnis der Randbemerkungen in seinem Exemplar der “Kritik der Urteilskraft”, in Materialien zu Kants “Kritik der Urteilskraft”, hrsg. v. J. Kulenkampff, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -. Le annotazioni di Schiller alla Critica del Giudizio riguardano soprattutto l’Introduzione. . I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Akademie-Ausgabe, V, pp.  ss. (trad. it., Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari , p. ). Sui diversi concetti di natura in Kant cfr. W. Schmied-Kowarzik, “Von der wirklichen, von der seyenden Natur”. Schillers Ringen um eine Naturphilosophie in Auseinandersetzung mit Kant, Fichte und Hegel, Frommann-Holzboog, Stuttgart , pp. -. . Kant, Kritik der praktischen Vernunft, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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pito secondo il modello dell’azione reciproca (Wechselwirkung) – tra sensibilità e ragione. Ciò non toglie che vi sia, nei testi di Schiller, un’ambiguità di fondo, per cui all’intento teorico di rivalutazione del sensibile – uno dei punti focali del progetto dell’educazione estetica, in polemica con Kant – fa da contraltare la subordinazione idealistica della sfera fisica a quella metafisica. È il portato, questo, di un impianto concettuale essenzialmente dualistico che resta una costante del suo pensiero sin dai primi scritti medici incentrati sulla ricerca di una Mittelkraft tra corpo e anima. Nell’Educazione estetica la genesi dell’attività della coscienza è descritta in termini antropologici come un processo di distacco dal dominio della necessità sensibile, in cui tuttavia è la legalità naturale a tracciare il percorso che conduce alla distinzione tra contenuto e forma dell’agire. La natura agisce per l’uomo «laddove egli non può ancora agire da sé come libera intelligenza. Ma quel che fa di lui un uomo è proprio il fatto che non si arresta a quel che la semplice natura ha fatto di lui, bensì possiede la capacità di riandare con la ragione i passi che essa ha anticipato per lui, di trasformare l’opera del bisogno in opera della sua libera scelta e di elevare la necessità fisica a necessità morale». Si afferma in tal modo una priorità della physis che si manifesta come anticipazione delle regole di interazione tra individuo e mondo (e tra individuo e individuo), che solo successivamente vengono riconosciute come tali, divenendo oggetto di riflessione in quanto forma. Questa, afferma Schiller nella prima lettera, è una forma di tutela «sotto cui la saggia natura pone l’uomo finché una chiara comprensione intellettuale non lo faccia uscire dallo stato di minorità». L’esplicito richiamo a Kant di questo passaggio non può ingannare sulle differenze di posizione. Per Schiller, infatti, vi è una sorta di continuità tra natura e ragione, tanto che quest’ultima – si legge nello scritto Sul sublime – si serve di mezzi sensibili per ricordare all’uomo di essere qualcosa di più che un essere meramente sensibile. Una priorità genetica della sfera sensibile è ri-

. In generale questi due significati principali sono di volta in volta distinti attraverso l’aggettivazione, per cui abbiamo, ad esempio, la “saggia natura” di contro alla “natura bruta”. Nell’interpretazione qui proposta si può parlare di una sorta di sussunzione del secondo termine nel primo. . Sugli studi medico-antropologici di Schiller cfr. W. Riedel, Die Anthropologie des jungen Schillers. Zur Ideengeschichte der medizinischen Schriften und der “Philosophischen Briefe”, Königshausen und Neumann, Würzburg . . F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. G. Fricke, H. G. Göpfert, Hanser, München  (IX ed.), vol. V, pp.  s., d’ora in poi SW seguito dall’indicazione del volume (trad. it. in L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ). . Schiller, Über die ästhetische Erziehung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. F. Schiller, Über das Erhabene, SW, V, p.  (trad. it., Sul sublime, a cura di L. Reitani, SE, Milano , p. ).

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badita nell’ambito della fondazione trascendentale, nella dottrina dell’azione reciproca tra i due impulsi: Ora, è realmente possibile indicare, sia nell’intero genere umano che nel singolo uomo, un momento in cui l’uomo non è ancora completo e in lui è attivo uno dei due impulsi in maniera esclusiva. Sappiamo che egli comincia con la pura vita per finire con la forma; che è prima individuo che persona, che procede dai limiti all’infinità. L’impulso sensibile comincia dunque ad agire prima di quello razionale, poiché la sensazione precede la coscienza, e in tale priorità dell’impulso sensibile troviamo la spiegazione dell’intera storia della libertà umana.

Tale concetto di natura come complesso delle forze sensibili che costituiscono l’universo umano, una costituzione sensibile, per così dire, che precede lo sviluppo della sua razionalità, fa da sfondo al discorso sviluppato nelle prime nove Lettere sull’educazione estetica, definite da Schiller come il suo credo politico. Politico, beninteso, non nel senso di una presa di posizione esplicita sugli accadimenti contemporanei (le conseguenze dirette, morali e istituzionali della Rivoluzione francese), quanto di una riflessione sull’abuso assolutistico ed utilitaristico dell’idea di ragione nel mondo moderno. È questo che richiede per Schiller una preliminare definizione del rapporto tra ragione e natura, propedeutica a sua volta alla fondazione dell’estetico condotta nella seconda parte dell’opera. Egli costruisce a partire da tale concezione uno schema di sviluppo dell’individuo e della specie secondo cui allo stato di natura, caratterizzato dal dominio delle forze in contrasto, segue una progressiva affermazione del principio di razionalità in cui dalla distinzione tra soggetto e oggetto, con la conseguente comprensione e sottomissione della natura, si giunge agli eccessi prodotti da una ragione esclusivamente utilitaristica, che reprime la naturale sensibilità dell’individuo. Questo schema, che implica al tempo stesso la necessità intrinseca del contrasto tra natura e ragione come motore del progresso umano e la critica della negatività della civilizzazione per l’individuo e la sua costituzione naturale, si completa nell’istanza utopica di una ricostituzione dell’unità di natura e ragione che includa in sé le conquiste della razionalità. A tale modello di sviluppo antropologico corrisponde un abbozzo di filosofia della storia che pone il mondo greco tra lo stato selvaggio e una modernità dominata dall’assolutismo della ragione. Nell’Educazione estetica il distacco dalla natura, determinato dal progressivo affermarsi della ragione, che agisce da un lato come istanza separatrice-analitica e dall’altro come tecnica, non è tuttavia concepito esclusivamente in termini negativi, come caduta, come invece accade in Rousseau. Esso appare piuttosto inscritto necessariamente nella dinamica del rap. Schiller, Über die ästhetische Erziehung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ).

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porto tra natura e ragione. Lo schema filosofico-storico cui accennavo sopra implica il riconoscimento del ruolo positivo della razionalità autocosciente (che può essere in un certo senso considerata “figlia della natura”) come motore dell’uscita da uno stato di semplice conflitto delle forze tra di loro. La condizione naturale (Naturzustand) e lo stato di natura (Naturstaat) non hanno in Schiller i tratti idilliaci che assumono in Rousseau, ma rappresentano piuttosto, in termini non storici ma di proiezione virtuale finalizzata ad una ricostruzione genetica dello sviluppo dell’umanità, il dominio della sensibilità che precede la chiara separazione tra io e mondo. Certamente in Schiller il confronto con Rousseau e con la sua concezione dello stato di natura non si riduce ad un rifiuto univoco dei principi che vi stanno a fondamento. Egli accoglie infatti nella sua ricostruzione antropologica del percorso della storia umana le critiche alla civilizzazione formulate nel primo e nel secondo dei Discours, ma sottolinea il carattere regressivo e sostanzialmente quietistico dell’equazione rigida tra sviluppo della cultura e decadenza morale, determinata dalla perdita della bonté naturelle. Contro Rousseau pesano per Schiller gli argomenti sviluppati da Fichte nella quinta delle Lezioni sulla missione del dotto, in particolare la contestazione del presupposto stesso della critica rousseauiana della civilizzazione, dell’idea cioè che la riflessione sia un fatto accidentale, che non pertiene essenzialmente alla natura dell’uomo. Schiller dal canto suo considera infatti la riflessione come ciò che nel processo di sviluppo dell’uomo (sia in termini ontogenetici che filogenetici) «crea una separazione tra lui e le cose, e gli oggetti finalmente si mostrano nel riflesso della coscienza», dunque un momento necessario del dispiegarsi della sua costituzione naturale. La condizione naturale originaria, invece, che precede l’affermarsi del principio razionale cosciente, è uno stato di bisogno, in cui «il mondo [per l’uomo] è semplicemente destino, non ancora oggetto; tutto ha per lui esistenza nella misura in cui assicura la sua esistenza, ciò che non gli dà né gli toglie nulla non è per lui presente». Il fondamento dinamico della stessa natura è ciò che costringe a tale oggettivazione e determina l’inarrestabile affermarsi del principio di individuazione e di distinzione. In base a tale assunzione Schiller sostituisce al modello rousseauiano della caduta da una condizione di naturalità buona un’idea di sviluppo in . B. Bräutigam, Rousseaus Kritik ästhetischer Versöhnung. Eine Problemvorgabe der Bildungsästhetik Schillers, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XXXI, , pp. -. . Cfr. J. G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (), GA, I, III, pp. - (trad. it., Sulla missione del dotto, a cura di V. E. Alfieri, Mursia, Milano ). Sulla posizione fichtiana rispetto a Rousseau cfr. W. Janke, Fichtes Bestimmung der Natur an ihr selbst. Anmerkungen zur idealistischen Rousseau-Debatte, in K. Gloy, P. Burger (hrsg.), Die Naturphilosophie im deutschen Idealismus, Frommann-Holzboog, Stuttgart , pp. -. . Schiller, Über die ästhetische Erziehung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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cui un ruolo di assoluta preminenza viene attribuito al mondo greco come acmè della storia della cultura umana. Esso rappresenta per Schiller il punto intermedio tra la condizione naturale e il dominio della razionalità astratta, che egli individua come caratteristica specifica del mondo moderno. La Grecia non è dunque identificabile in tale schema con lo stato di natura o con l’infanzia dell’umanità, giacché presuppone un lungo processo di distacco dalla originaria passività dell’esistenza puramente sensibile. La grecità si presenta infatti nell’Educazione estetica come un momento di conciliazione nel percorso conflittuale che caratterizza il rapporto fra natura e ragione, in cui la dimensione sensibile si integra positivamente con l’attività dell’intelletto. In tale interpretazione della grecità Schiller ha evidentemente rinunciato alla differenziazione storica, che pure è presente in altri suoi scritti, per privilegiare un’immagine astratta e teorica della civiltà greca, funzionale alla spiegazione del processo che ha condotto alle contraddizioni del presente: «la storia viene usata così come metafora per un procedimento logico». Nell’elegia Der Spaziergang (), una sorta di illustrazione poetica della concezione del rapporto tra storia e natura esposta nei grandi saggi estetici, il mondo greco è posto al centro del percorso simbolico che l’io lirico compie attraverso le fasi della civiltà umana. Le immagini cui Schiller ricorre in questo contesto non illustrano il motivo usato della bellezza armonica dell’arte greca, bensì sottolineano il sorgere della tecnica come mezzo di umanizzazione della natura. Significativamente, a fornire all’uomo gli strumenti per la trasformazione dell’universo naturale sono le divinità stesse, personificazioni della legalità naturale. Alla giustificazione dell’imposizione del dominio dell’uomo sulla natura attraverso la tecnica fa tuttavia da contraltare l’istanza di una armonica interazione con la natura stessa, nella duplice accezione di natura fenomenica nel suo complesso e di fondamento sensibile-naturale dell’uomo. La natura greca, afferma Schiller (e qui intende per natura l’indole naturale), «si è congiunta con tutte le attrattive dell’arte e con tutta la dignità della sapienza senza tuttavia, come la nostra, cadere vittima di esse». Tuttavia la condizione della Grecia classica non poteva rimanere immutata: l’affermarsi della razionalità come forza analitica sbilancia necessariamente l’equilibrio tra la sfera sensibile e quella intellettuale della bella civiltà dei . A. Meier, Der Grieche, die Natur und die Geschichte. Ein Motivzusammenhang in Schillers “Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen” und “Über naive und sentimentalische Dichtung”, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XXIX, , pp. -. . Su questo cfr. J. Golz, Individuum, Natur und Geschichte in Schillers “Spaziergang”, in H. Brandt (hrsg.), Friedrich Schiller/Angebot und Diskurs, Aufbau-Verlag, Berlin-Weimar , pp. - e l’Introduzione a F. Schiller, La passeggiata. Natura, poesia e storia, a cura di G. Pinna, Carocci, Roma , pp.  ss.

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Greci. Qui Schiller pensa in termini quasi hegeliani le ragioni del superamento e la collocazione filosofico-storica (geschichtphilosophisch) del mondo greco nello sviluppo della civiltà umana. I Greci avevano raggiunto tale grado e se volevano progredire verso uno sviluppo più alto dovevano, come noi, rinunciare alla totalità del loro essere e perseguire la verità per strade distinte. Per sviluppare nell’uomo le sue molteplici predisposizioni non vi era altro mezzo che contrapporle le une alle altre. Tale antagonismo delle forze è il grande strumento della civiltà, ma pur sempre soltanto lo strumento, poiché finché esso persiste non la si è ancora raggiunta.

Non vi è dunque esclusivamente progresso nel cammino della civiltà (e qui Schiller mostra un ripensamento rispetto all’ottimismo illuministico), ma il riconoscimento dell’interna necessità del processo di individuazione e specializzazione non consente d’altra parte di pensare la civilizzazione come semplice decadenza. Su questa analisi si innesta la critica della cultura che Schiller conduce nelle Lettere e che ne costituisce uno dei motivi principali. Il rapporto dinamico tra natura e ragione che determina il percorso della civiltà è pervenuto nel mondo moderno ad una fase in cui l’affermarsi unilaterale della razionalità coincide con la parcellizzazione del mondo della vita, con una divisione del lavoro che considera l’individuo esclusivamente secondo il suo ufficio e la sua funzione e con una conoscenza improntata al principio della finalità (Zweckmässigkeit). Il distacco dalla naturalità, che è un momento necessario nella costituzione della soggettività autocosciente, si trasforma in perdita dell’orizzonte naturale della sensibilità. Ciò ha conseguenze non solo sul piano morale, poiché l’intelletto posto al servizio dell’utile applica la sua azione generalizzante alla sfera dei bisogni sensibili, ma anche sul piano della conoscenza: Una delle cause principali per cui le nostre scienze naturali progrediscono così lentamente è evidentemente la generale e irrefrenabile tendenza ai giudizi teleologici, nei quali, non appena vengono usati come costitutivi, si sostituisce la facoltà determinante a quella ricettiva. Per quanto potentemente e variamente la natura possa agire sui nostri organi, tutta la sua molteplicità è perduta per noi perché non cerchiamo in essa null’altro se non ciò che vi abbiamo messo.

A quello che Schiller chiama «il sistema dell’egoismo» si accompagna dunque un irrigidimento della ragione trasformata in intelletto calcolante, che anche nella conoscenza dell’universo naturale tende ad anteporre un siste. Schiller, Über die ästhetische Erziehung, SW, V, pp.  ss. (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p. , nota (trad. it. cit., p. ).

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ma precostituito delle finalità umane alla ricerca del senso generale dell’universo fenomenico. Il telos sia dell’educazione che della politica dev’essere di conseguenza la ricostituzione dell’unità di natura e ragione ad un livello più alto, sulla base di un’azione reciproca che assume la naturalità come autonomia e non come mero altro da sé della ragione. La nostalgia per quell’autonomia della natura costituisce del resto per Schiller la forma dominante della riflessività moderna, il sentimentale. Il concetto di natura compare con grande prominenza, all’incipit, nello scritto Sulla poesia ingenua e sentimentale, che prosegue sul piano poetologico la riflessione sul fondamento del bello sviluppata nell’Educazione estetica. La natura verso cui noi proviamo «una sorta di amore e di commosso rispetto» è anche qui l’originaria totalità sensibile che precede la riflessione, ma che solo attraverso la riflessione è disponibile, come “natura ingenua” per l’individuo sentimentale: Da questo punto di vista la natura non è altro per noi se non la vita spontanea, il sussistere delle cose per se stesse, l’esistenza secondo leggi proprie e immutabili.

Schiller fa ricorso all’immagine del bambino e dell’infanzia per esemplificare l’idea di natura: essa è ciò che è dietro di noi in quanto fondamento ancora privo di realtà, potenza disgiunta dall’atto. Il bambino è natura come disposizione (Anlage) e come destinazione (Bestimmung), e la nostalgia dell’infanzia nasce esclusivamente dal riconoscimento dell’infinita possibilità che viene limitata dall’azione reale dell’individuo adulto. L’ingenuo è però natura dove non l’aspettiamo, cioè l’infinità che spontaneamente si manifesta in un finito, e non coincide dunque con l’infanzia tout court, che è invece pura indeterminatezza, infinità vuota. L’ingenuo è in realtà il sentimentale, come recita un saggio di Peter Szondi, perché la natura diviene oggetto estetico ed in generale oggetto di contemplazione solo dopo essere divenuta estranea all’individuo, svanendo dall’orizzonte dell’esperienza immediata. Ma proprio il sentimento di nostalgia che ne deriva, nostalgia dell’interezza e della perfezione, la proietta in una ideale sintesi di natura e riflessione che non ha la coloritura regressiva del recupero, bensì il senso utopico di una futuribile riappropriazione dell’originaria sensibilità alle condizioni date dal pensiero riflessivo.

. F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, SW, V, p.  (trad. it., Sulla poesia ingenua e sentimentale, a cura di E. Franzini e W. Scotti, SE, Milano , pp.  s.).

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 Intermezzo: la natura come paesaggio Schiller non è certamente un poeta della natura. Non vi è traccia nella sua lirica dell’intensità e della varietà con cui i contemporanei, da Goethe a Novalis, seppero dare voce al sentimento che essa ispira. Immagini della natura, essenzialmente di una natura sublime, sono da lui utilizzate come anticipazione e intensificazione simbolica di vicende tragiche, come nella Braut von Messina, ma, se si esclude l’uso programmatico di quadri naturali nell’elegia Der Spaziergang, la rappresentazione poetica della natura resta sostanzialmente estranea al suo universo poetico. Ciò nonostante, Schiller coglie sul piano teorico l’importanza della trasformazione della percezione della natura in epoca moderna e la costituzione della nozione stessa di paesaggio, anticipando una posizione resa canonica in anni abbastanza recenti da un saggio celebre di Joachim Ritter. Nella Poesia ingenua e sentimentale espone la ragione fondamentale del perché la natura in quanto tale entri a far parte dell’orizzonte del bello artistico: la natura è ormai scomparsa dall’umanità, e soltanto fuori di questa, nel mondo inanimato, nuovamente possiamo incontrarla nella sua verità.

Schiller affronta innanzitutto come tipologia filosofico-storica il problema della rappresentazione artistica della natura, opponendo alla nostalgia sentimentale dei moderni verso gli oggetti naturali l’indifferenza dei Greci, per i quali il paesaggio è solo sfondo di azioni umane, mai soggetto. La questione, che egli discute nella recensione alle poesie di Friedrich Matthisson, ha però una portata teorica più ampia, giacché riguarda il rapporto tra realtà e immaginazione. Il cuore del discorso schilleriano è il concetto di operazione simbolica (symbolische Operation) attraverso la quale l’artista trasforma la rappresentazione di oggetti naturali in riflessi dell’interiorità, in immagini della natura esterna, cioè, che rimandano all’intima natu. Cfr. su questo I. Graham, Schiller’s Drama. Talent and Integrity, Methuen, London , p. . . J. Ritter, Landschaft: Zur Funktion des Ästhetischen in der modernen Gesellschaft, in Id., Subjektivität. Sechs Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. - (trad. it. in Id., Soggettività, a cura di T. Griffero, Marietti, Genova ). . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Lo scritto, apparso nell’autunno del  nella “Allgemeine Literatur-Zeitung”, presenta un’importante prima parte di carattere teorico generale in cui Schiller espone, in riferimento alla poesia di paesaggio, genere praticato in prevalenza da Matthisson, una teoria dell’immaginazione poetica che integra le riflessioni svolte nei testi maggiori. Cfr. F. Schiller, Über Matthissons Gedichte, SW, V, pp. - (trad. it. in Schiller, La passeggiata. Natura, poesia e storia, cit., pp. -).

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ra dell’uomo. Ciò presuppone una relazione di tipo analogico fondata sull’accordo tra l’universo naturale sensibile e la struttura emozionale del soggetto, che viene sollecitata dalle immagini prodotte dall’immaginazione dell’artista. Il poeta modula le immagini della natura attraverso una scansione temporale, facendo della rappresentazione poetica del paesaggio una composizione di elementi astratti che commuovono l’animo come in una composizione musicale. Nel paesaggio pittorico il colore, l’ombreggiatura e la composizione delle masse visive corrispondono alla modulazione dei toni ed al ritmo di un pezzo musicale, così come nella sua rappresentazione poetica si può parlare di una tonalità emotiva. La musica rappresenta le sensazioni nella loro forma e dunque, «in quanto la pittura e la poesia di paesaggio risultano musicali, esse sono rappresentazione della capacità di sentire». Il mezzo verbale non è che un potenziamento della possibilità di stabilire un’analogia tra l’immagine rappresentata e il sentimento che essa suscita, in altre parole di orientare, attraverso il prodotto dell’immaginazione, l’immaginazione del fruitore, lasciandola però libera di agire. La rappresentazione di oggetti naturali deve dunque costituire una sorta di unità del sentimento, la cui interna necessità l’artista deve però ricavare dall’ordine reale della natura stessa. «L’immaginazione non obbedisce a nessuna legge e non sopporta nessun’altra costrizione se non quella che le prescrive la natura delle cose. In una poesia, però, niente può essere natura reale (storica), poiché tutta la realtà è in misura maggiore o minore una limitazione di quella universale verità naturale». Quest’ordine reale non si coglie ovviamente attraverso l’imitazione, ma attraverso l’intuizione dell’unità ideale che sottende alle forme della natura empirica: La necessità che l’artista non trova nel paesaggio, e che è la sola ad appagarlo, sta solo all’interno della natura umana, e per questo egli non troverà pace finché non avrà trasportato il suo oggetto in questo regno della somma bellezza. Certo cercherà di elevare il più possibile la natura come paesaggio di per se stessa, di trovarvi per quanto si può il carattere della necessità e rappresentarlo. Ma poiché per questa strada, nonostante tutti i suoi sforzi, non giungerà mai a porlo sullo stesso piano della natura umana, cerca infine di trasformarla, attraverso un’operazione simbolica, in natura umana e farla così partecipe di tutti i vantaggi artistici che sono propri di quest’ultima.

Il fondamento della dottrina schilleriana del simbolo è kantiano. Il simbolo è infatti per Kant la messa in opera di una regola analogica nella rappresentazione di idee, che non hanno un corrispettivo sensibile. Si tratta di un . Ivi, pp.  ss. (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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procedimento intuitivo che pone in relazione solo la regola conoscitiva, la struttura dell’idea con l’intuizione sensibile che la rappresenta simbolicamente. Su questa base Kant fonda la sua concezione della bellezza come simbolo della moralità. Il paesaggio, da cui Schiller muove per la sua definizione del simbolo, rappresenta un caso particolare come oggetto della poesia, giacché l’immaginazione costituisce delle unità di senso – ciò che viene detto verità oggettiva del paesaggio – che vengono percepite non attraverso contenuti discorsivi, ma per via emozionale. Ciò presuppone però che vi sia una forma di intuizione della natura che ha un carattere di universalità e che in quanto tale rende possibile l’accordo tra la legalità della natura e quella della sua rappresentazione poetica.  Sublime e natura Il modello della natura come totalità sensibile o positiva legalità originaria su cui si innesta l’attività della ragione, concepita in termini di contrasto dialettico con la sfera della sensibilità, domina le Lettere sull’educazione estetica. Anche nella Poesia ingenua e sentimentale Schiller declina poetologicamente, come relazione interna alla soggettività estetica, l’idea di una naturalità intesa come fondamento positivo dello sviluppo umano, ancorché inattingibile all’esperienza dell’uomo moderno. Tale concezione, che assume razionalisticamente il parallelismo tra natura e ragione, viene significativamente modificata nello scritto Sul sublime. Il mutamento di prospettiva deriva solo per un verso dal fatto che Schiller si confronta qui con la concezione kantiana della sublimità, in cui la natura fenomenica è di per sé oggetto di esperienza estetica. È infatti, almeno ad un primo livello di lettura, la natura violenta, grandiosa, terribile, incommensurabile alla ca. Su quest’aspetto della Matthisson-Rezension cfr. W. Ranke, Dichtung unter Bedingungen der Reflexion. Interpretationen zu Schillers philosophischer Poetik und ihren Auswirkungen im “Wallenstein”, Königshausen und Neumann, Würzburg , pp.  ss. . Lo scritto Über das Erhabene, che fu pubblicato da Schiller nel  nelle Kleinere Schriften, è, come accennato nell’Introduzione, di datazione incerta. Apparentemente si tratta della riproposizione di un testo di stretta osservanza kantiana, probabilmente redatto intorno al . Le differenze di tono e di impianto concettuale tra la prima e la seconda parte del testo hanno però sempre suscitato discussioni tra i critici. In mancanza di dati documentari dirimenti è possibile basarsi solo su elementi interpretativi ed intertestuali, come la menzione dell’educazione estetica, che farebbe pensare comunque ad una redazione successiva al , e l’accentuazione di elementi pessimistici, tra i quali rientra la concezione negativa della natura di cui qui si tratta. Sulla questione cfr. C. Zelle, Die Notstandgesetzgebung im ästhetischen Staat. Anthropologische Aporien in Schillers philosophischen Schriften, in H. J. Schings (hrsg.), Der ganze Mensch. Anthropologie und Literatur im . Jahrhundert, Metzler, Stuttgart-Weimar , pp. -, in particolare alle pp.  ss.

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pacità analitica dell’intelletto ad essere in questione, ed in effetti Schiller sottolinea la superiorità estetica del disordine naturale rispetto all’ordine utilitaristico imposto dall’uomo alla natura che lo circonda: Chi non indugia più volentieri nel geniale disordine di un paesaggio naturale piuttosto che nell’arida regolarità di un giardino alla francese? Chi non preferisce contemplare la meravigliosa lotta tra la fertilità e la distruzione nelle campagne siciliane, o rivolgere il suo sguardo alle selvagge cataratte o alle montagne nebbiose della Scozia, la grande natura di Ossian, piuttosto che contemplare la dura vittoria della pazienza sul più testardo degli elementi nella geometrica Olanda?

Una simile natura offre all’immaginazione, che è per Schiller, in quanto capacità di andare oltre la realtà concreta, la fonte della stessa libertà trascendentale dell’uomo, la possibilità di cogliere la propria indipendenza rispetto alle leggi della sensibilità, vale a dire alla legalità naturale che lo determina necessariamente come entità sensibile. Ma per lo Schiller di Über das Erhabene la percezione estetica del sublime naturale in realtà è un fenomeno residuale, che trova il suo vero significato nella traduzione simbolica di una seconda natura creata dall’arte. L’autentico luogo di manifestazione del sublime è infatti la tragedia, ed il caos sublime della realtà naturale è figura del fondamento naturale e inattingibile della ragione umana. La violenza e l’incommensurabile disordine della natura esterna rimandano all’impossibilità di imporre un ordine razionale alla sfera delle passioni e dei sentimenti. [...] è proprio quella assoluta mancanza di un nesso finalistico in questo caos di fenomeni, che li fa apparire sproporzionati e inutilizzabili all’intelletto, il quale deve pur attenersi a questo tipo di connessione, è ciò in cui la ragion pura scopre un elemento tanto più calzante, giacché vede rappresentata in questa selvaggia libertà (Ungebundenheit) della natura la propria indipendenza dalle condizioni naturali.

Schiller compie in Über das Erhabene una duplice operazione: da un lato, come è stato notato da più parti, vira in senso antropologico il discorso kantiano sull’immaginazione e di conseguenza la concezione del sublime, che viene connesso nella tragedia alla sfera morale, dall’altro sceglie una via negativa per la definizione della libertà umana, il che implica una diversa considerazione del concetto di natura. Non è più l’ordine positivo dell’u. Schiller, Über das Erhabene, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, pp.  ss. (trad. it. cit., modificata, p. ). . H. Feger, Die Macht der Einbildungskraft in der Ästhetik Kants und Schillers, Winter, Heidelberg , pp.  ss.; W. Düsing, Ästhetische Form als Darstellung der Subjektivität. Zur Rezeption Kantischer Begriffe in Schillers Ästhetik, in K. L. Berghahn (hrsg.), Schiller. Zur Geschichtlichkeit seines Werkes, Kronberg, Wiesbaden , pp. -.

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niverso, garante di un possibile accordo tra intelletto e sensibilità che si coagula nell’apparenza estetica, ad essere il fulcro del discorso, ma l’incommensurabilità tra il disordine caotico dei fenomeni naturali e le regolarità attraverso cui l’uomo cerca di unificare e comprendere la natura, «l’impossibilità di spiegare la natura con le leggi naturali». Lo schema dualistico natura-ragione è complicato dall’opposizione ragione-intelletto, laddove l’intelletto è la facoltà analitica preposta alla conoscenza scientificoteoretica. «L’uomo ha un’altra destinazione, oltre a quella di comprendere i fenomeni che lo circondano», – si legge in Über das Erhabene – comprensione per la quale ha a disposizione «l’esile fiamma dell’intelletto», inadeguata a cogliere la differenza tra la «natura reale» e la «vera natura», che è l’inattingibile fondamento della ragione. Paradossalmente, quell’assenza di nessi finalistici e di legami di interdipendenza tra i fenomeni che si osserva se si guarda alla «natura nella sua grandezza», una natura che «irride a tutte le regole che il nostro intelletto le prescrive [...] e nel suo capriccioso e libero incedere calpesta nella polvere le creazioni della saggezza e quelle del caso», ci rivela l’indipendenza della nostra ragione dalle leggi della natura sensibile. All’impotenza dell’intelletto fa riscontro il potere di una ragione pensata come libertà originaria, che «riassume in unità di pensiero ciò che l’intelletto non può collegare in unità della conoscenza». Schiller conferisce in tal modo alla distinzione tra intelletto e ragione e a quella tra idea come universale sintetico di contro a concetto come universale analitico una curvatura più idealistica che kantiana. D’altra parte pre-schellinghiana appare l’idea di una sostanziale continuità tra natura e ragione, di cui nelle Lettere sull’educazione estetica si presentava il modello antropologico, e ancora all’inizio di Über das Erhabene si afferma che «l’intera natura agisce razionalmente», e l’uomo è il culmine autocosciente di tale attività razionale. Tuttavia la figura che domina, in quest’ultimo scritto e in generale nella concezione schilleriana degli anni a cavallo del secolo, segnati dalla riflessione sulla tragedia, è quella di una natura che nella sua necessità «non stringe patti con l’uomo», che è il suo fondamento negativo e di cui egli può venire a capo solo con l’indipendenza di una ragione che si afferma senza pretendere di comprenderne realmente le leggi. L’ottimismo illuministico riguardo al progresso storico, che Schiller ha propugnato sin dall’epoca della prolusione jenese, seppure mitigato da una dura critica degli effetti della civilizzazione, risulta decisamente messo in crisi da tale concezione: . Cfr. su questo H.-G. Pott, Die schöne Freiheit. Eine Interpretation zu Schillers Schrift “Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen”, Fink, München , pp.  ss.

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La storia universale è ai miei occhi un oggetto sublime. Il mondo, come oggetto storico, in fondo non è altro che il conflitto delle forze della natura tra loro e con la libertà dell’uomo, e la storia ci riferisce l’esito di tale conflitto. Fino ad oggi la storia ha da raccontarci sulla natura (a cui si devono attribuire tutte le umane emozioni) gesta di gran lunga più grandi di quelle della ragione indipendente.

In luogo di un processo, utopicamente proiettato, di integrazione della natura nella storia, Schiller ci pone di fronte un antagonismo irresolubile tra natura e storia, in altre parole una tragica rassegnazione riguardo alla possibilità che l’ordine che l’uomo cerca di rintracciare negli eventi della storia universale coincida con il loro senso reale. È forse eccessivo partire da tale affermazione per rintracciare in Schiller una filosofia della storia in senso proprio, ma essa esprime certamente l’intuizione che sta alla base delle sue tragedie storiche, il Wallenstein in primo luogo. Il pensiero speculativo cede il passo all’arte tragica nello sforzo di cogliere il senso della dialettica tra natura e storia, e ciò non solo nella scelta dell’autore di abbandonare la filosofia a favore della poesia, ma nella stessa teoria. È infatti l’immaginazione produttiva, in quanto facoltà capace di accedere all’irrappresentabile, alla dimensione oscura e spaventosa del nostro fondamento naturale, a svolgere questo compito e a renderne visibili i risultati attraverso l’arte. Nell’ultimo dei suoi testi teorici, il saggio Sull’uso del coro nella tragedia () preposto alla Braut von Messina, una tragedia che è essa stessa una riflessione sul nesso tra natura e storia, Schiller esplicita il nesso tra natura, immaginazione e mondo sensibile: La natura stessa non è che un concetto dello spirito, che non cade mai sotto i sensi. Essa sta sotto il velame delle manifestazioni sensibili, ma essa stessa non si manifesta mai. Solo all’arte dell’ideale è concesso – dirò meglio: le è commesso – di afferrare questo spirito universale e di legarlo alla forma corporea. Anch’essa però, non può addurlo davanti ai sensi, ma grazie alla sua potenza creatrice può portarlo davanti alla fantasia, e così essere più vero che tutte le verità e più reale che tutte le esperienze.

Qui Schiller opera un’inversione tra natura vera e natura reale che corrisponde esattamente allo scambio dialettico su cui viene fondata l’apparen. Schiller, Über das Erhabene, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Sul superamento della concezione illuministica del rapporto tra storia e natura in Über das Erhabene, cfr. W. Riedel, “Weltgeschichte ein erhabenes Objekt”. Zur Modernität von Schillers Geschichtsdenkens, in P.-A. Alt et al. (hrsg.), Prägnanter Moment. Studien zur deutschen Literatur der Aufklärung und der Klassik, Festschrift für H. J. Schings, Königshausen und Neumann, Würzburg , pp. -. . F. Schiller, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie, SW, II, p.  (trad. it. di B. Allason, M. D. Ponti, in F. Schiller, Teatro, Einaudi, Torino , p. ).

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za estetica nella ventiseiesima delle Lettere sull’educazione estetica. La negazione della natura reale è la condizione per l’emergere positivo del suo fondamento, cioè della natura vera. Il discorso si orienta più decisamente verso una poetica dell’antinaturalismo che nei grandi saggi estetici era solo implicita. L’accordo dell’arte con la realtà è reso possibile unicamente dall’abbandono della realtà stessa nella sua configurazione concreta. Proprio «perché vuole raggiungere una realtà e un’obbiettività, l’arte vera non può appagarsi dell’apparenza della verità, sulla verità stessa, sulle salde, profonde basi della natura essa innalza il suo ideale edificio».  Conclusioni Il concetto di natura è per Schiller, al di là delle variazioni, un elemento costitutivo della teoria estetica. Si può affermare, semplificando un poco, che si trovino negli scritti considerati due accezioni principali del concetto di natura, due modelli concettuali che prevalgono di volta in volta a seconda che il contesto teorico sia orientato al superamento dell’opposizione fondamentale (sensibilità-ragione, natura-storia) in termini di conciliazione dialettica (il modello della Wechselwirkung operante nella teoria del bello) o che invece tematizzi, come accade nel sublime-tragico e nelle tragedie, lo scacco dell’intelletto di fronte al caos delle forze naturali. In quest’ultimo caso la natura non è soltanto il complesso delle forze sensibili da cui la ragione si emancipa e che essa può riconquistare ad un livello più alto, come ideale, ma un tutto dinamico che esercita violenza sulle forze razionali dell’uomo. Ciò non esclude però che la ragione, nella sua indipendenza, non cerchi per la sua stessa natura, di opporsi al caos, di imporre la propria legge nella singola scelta morale o di imprimere una direzione agli eventi. La questione, che è poi una delle questioni fondamentali dell’interpretazione dell’estetica schilleriana, è se prevalga il modello della conciliazione o quello della scissione tragica, oppure se questi rappresentino due dimensioni complementari di una medesima «considerazione antropologica complessiva» che fonda a sua volta il discorso sull’arte. Schiller stesso suggerisce la coesistenza dialettica, quando propone con il sublime di «perfezionare l’educazione estetica e ampliare la capacità di sentire del cuore umano anche oltre il mondo sensibile, in coerenza con la dimensione complessiva della nostra destinazione». L’estetica schilleriana resta anche in questo fedele alla struttura concettuale della mediazione della duplicità che . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Schiller, Über das Erhabene, SW, V, pp.  ss. (trad. it. cit., p. ).

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la caratterizza. Tuttavia, un sostanziale scetticismo di fronte alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, e con esso un modello negativo di natura, sembra prevalere negli anni in cui la produzione tragica sta al centro degli interessi del poeta-filosofo, mettendo parzialmente in ombra l’utopia di un’umanità in cui natura e ragione sono educatrici l’una dell’altra.

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La critica della morale e il martire della storia. Studi sui Briefe über Don Carlos di Luca Crescenzi

 Inattualità di Schiller Sappiamo oggi, meglio di un tempo, che l’inattualità può essere una virtù. Ma come molte altre è una virtù difficile, che si scontra con lo spirito dei tempi, e che costringe i suoi paladini a una marginalità riscattata solo rare volte dalla storia. Per questo l’inattualità – anche quando è espressione di sdegno nei confronti di una realtà quietisticamente accettata e di una cultura condivisa del tutto inaccettabile – è una virtù evitata con passione e di cui pochi vogliono fregiarsi. Friedrich Nietzsche ne fece un tratto distintivo della sua riflessione antifilistea e opposta alle formule troppo semplici di cui si serviva la sua epoca per descrivere una realtà infinitamente complessa che è ancora, per molti versi, la nostra. Ma è un caso molto raro. Per lo più si è – o si diventa – inattuali per caso. E il caso più temuto è quello che rende inattuale ciò che fu attuale o attualissimo. Capita, per solito, agli ultimi esponenti di un’epoca giunta alla sua fine. La loro gloria sorge e tramonta rapidamente sul confine del tempo. Come quella di cui parla un aneddoto di dubbia verità intorno all’ultimo grande castrato della tradizione del bel canto italiano, che assistendo al trionfo del primo vero tenore rossiniano si uccise per non dover finire ingloriosamente dimenticato. Una sorte postuma peggiore di questa è, forse, toccata a Schiller: che fu celebre – e mal ripagato dalla sua celebrità – in vita, prese a essere considerato grandissimo – il più grande della letteratura tedesca – poco dopo la morte e lo rimase, nella coscienza comune, per un secolo, finendo poi per diventare, nel Novecento, l’esempio prediletto da molti di tutto quanto uno scrittore non dovrebbe essere o almeno, non può più certamente, essere. Fu la cultura della simbiosi ebraico-tedesca a concedere a Schiller l’ultimo tributo dopo il secolo del trionfo. Poi vennero lo scetticismo delle avanguardie artistiche, i ripensamenti della critica militante prima e di quella accademica poi, l’incomprensione – la profonda incomprensione – da parte di quasi tutti i grandi scrittori del Novecento. I quali in gran numero con

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siderano inevitabile liquidare Schiller per regolare i conti con il canone classico della letteratura tedesca. A voler cercare il minimo comune denominatore delle loro prese di distanza si finirebbe per vedere come appaia insopportabile, a tutta la cultura del Novecento, la sensazione che Schiller persegua strenuamente un’immagine della verità attraverso uno strumento sommamente inadeguato a coglierla. In fondo, se Tonio Kröger, alla fine, implora Hans Hansen di non leggere il Don Carlos non è certo perché si sia arreso alla grazia spontanea della vita nel suo ingenuo candore, bensì perché pensa che rinvenire il difficile punto di mediazione tra arte e vita, cioè l’auspicabile porto d’approdo della sua ricerca, sia tanto superfluo per forme di esistenza decisamente impermeabili allo spirito, quanto impossibile per forme d’espressione – come le tragedie schilleriane – inesorabilmente estranee all’esistenza stessa. Serpeggia insomma dappertutto la convinzione che la vita, ovunque si trovi, sia ben lontana dal teatro, dalla poesia o, peggio ancora, dalla filosofia di Schiller; che l’intera opera schilleriana sia pervasa da un’astratta concettualità e che alla fine essa restituisca l’immagine di un mondo inesistente tenuto insieme da teoremi morali. A una cultura pervasa di umori nietzscheani nulla poteva apparire meno attraente. E del resto lo stesso Nietzsche aveva smesso ben presto di amare Schiller. L’aveva fatto più o meno all’epoca in cui aveva smesso di amare anche Wagner, che invece a Schiller doveva molto. Dopo la metà degli anni Settanta non si trova più, in Nietzsche, un solo riferimento che richiami l’incondizionata approvazione riservata all’interpretazione schilleriana del coro tragico nella Nascita della tragedia: l’inattuale Nietzsche ha preso le distanze dall’ancor attualissimo Schiller che così diventa «il trombettiere morale di Säckingen». Sono premesse eccellenti per fare di Schiller l’autore più lontano che si possa immaginare dalla sensibilità del Novecento. Ma il riferimento a Nietzsche sta qui apposta per suscitare dubbi e avanzare ipotesi. Poiché è ben vero – come ho detto – che Nietzsche non amava Schiller e che ne offrì un’immagine spietata ai suoi seguaci postumi. Ma è anche vero che gli appunti e le pagine che gli dedicò vanno letti soprattutto come una critica al culto ottocentesco dell’idealismo morale e sono quindi prese di posizione contro la canonizzazione dell’artista da parte di una società che pretendeva di veder rispecchiata nella sua opera la propria più alta immagine. C’è un appunto del  che rispecchia assai bene il convenziona. F. Nietzsche, Kritische Studienausgabe der Werke, hrsg. von G. Colli, M. Montinari, de Gruyter, Berlin-New York, , vol. VI, p. . Le citazioni tratte da questa edizione saranno in seguito indicate nel testo, i riferimenti saranno costituiti dalla sigla KSA seguita dal numero di volume e di pagina. Le traduzioni sono quelle dell’edizione italiana delle opere (Adelphi, Milano  ss.).

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lismo della critica nietzscheana a Schiller. In essa risuonano tutte le parole d’ordine del culto schilleriano ottocentesco: Schiller è uno di quei tedeschi che amavano le splendide parole e i magnifici gesti della virtù (anche il suo gusto per i toni di risoluto comando della morale kantiana va visto in questo contesto) (KSA, XI, ).

Se si confrontano queste righe con i giudizi che la critica e la storiografia letteraria tedesche facevano circolare intorno a quello stesso  c’è quasi da stupirsi della mancanza di originalità e autonomia di Nietzsche. Si prenda ad esempio quanto osserva Wilhelm Scherer nella sua celeberrima Geschichte der deutschen Literatur del , il capolavoro assoluto della storiografia letteraria ottocentesca in Germania, a proposito della drammaturgia del giovane Schiller: Il Don Carlos contiene, al pari dei suoi drammi giovanili, una critica del dispotismo. Schiller collegava sempre finalità politiche alla sua poesia. Se Lessing aveva usato il teatro come un pulpito, Schiller lo rese la tribuna di un oratore.

Non c’era dunque scampo per Schiller. L’univocità dei giudizi sulla retorica idealistica della sua opera e sul suo fondamento etico e civile datavano in anticipo la crisi del suo successo al momento in cui la realtà di un mondo abbandonato dalle illusioni si sarebbe imposta sulla tensione morale del suo teatro. Lo stesso Nietzsche contribuì non poco a far sì che un simile momento giungesse presto e Schiller diventasse un fenomeno completamente anacronistico. Già per lui Schiller era ormai un relitto inservibile. Poteva, magari, a commento della lettura di Taine, ammettere la grandezza del drammaturgo, ma non poteva non esprimere la sua riserva: «Schiller war ein Theater-Maestro: aber was geht uns das Theater an!» (KSA, XII, ). Al di là di ogni mezza accettazione dell’arte teatrale di Schiller restava ferma in Nietzsche la riprovazione per il suo idealismo. In nome del suo rifiuto si poteva rivalutare persino Schopenhauer: Che cosa devono i tedeschi al loro Schopenhauer? Il fatto di aver eliminato completamente il vitreo e luccicante idealismo, le nobili e generiche frasi, gli orgogliosi sentimenti che soprattutto Schiller e la sua cerchia avevano propagato e che si trovano espresse al meglio nel carteggio tra Wilhelm von Humboldt e lo stesso Schiller – quel falso “classicismo” che coltivava un odio profondo contro la nudità e la terribile bellezza delle cose e promuoveva con gesti contraffatti e nobili voci altrettanto contraffatte una grecità camuffata e solo apparentemente nuda in ogni . W. Scherer, Geschichte der deutschen Literatur, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin  (XIV ed.), p. .

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campo (caratteri, passioni, tempi, costumi), una specie di stile canoviano [...]. Il rozzo Schopenhauer ha reso nuovamente visibile la diabolicità del mondo – solo che egli non giunse a scoprire e svelare anche la diabolicità del buono e la bellezza e bontà della diabolicità (KSA, IX, -).

Il giudizio è chiaro, univoco. Manca a Schiller qualsiasi visione della verità nascosta dietro le apparenze dei valori morali e, conseguentemente, qualsiasi percezione del carattere duplice, ambiguo della realtà, presa invece alla lettera e riprodotta senza incertezze sulla scena. Il teatro – soprattutto il teatro – schilleriano è un’arte dell’apparenza ovvero della forma spinta fino alla visione ideale, ma priva di qualsiasi ancoraggio alla terra. È insomma drammaturgia di concetti astratti senza il correttivo di una prospettiva sugli strati profondi della realtà. Del resto non furono i giudizi nietzscheani, affidati a poche righe o ad appunti che nessuno lesse, a determinare il clamoroso abbandono di Schiller da parte della cultura del Novecento, ma il contesto filosofico che quei giudizi giustificava e che gli intellettuali tedeschi, da fine secolo in poi, condivisero senza eccezioni. È infatti nella prospettiva della diagnosi del nichilismo moderno e della filosofia della volontà di potenza che il teatro di Schiller si manifesta in tutta la sua inattualità; e dello scavo psicologico e genealogico della forma, che la realtà della volontà di potenza porta alla luce. Di tutto questo, come si è detto, Nietzsche non trovava alcuna traccia in Schiller. Ma era in errore come i molti che continuarono a leggere Schiller con lo sguardo rivolto alla sua interpretazione ottocentesca e che nonostante le clamorose evidenze contrarie non abbandonarono i consolidati pregiudizi. Schiller divenne inattuale e non in senso positivo. Autore di una cultura scomparsa e non più recuperabile, superato dal tempo e da una nuova, più difficile Weltanschauung; vecchio, insomma, e inservibile. Ma l’inattualità di Schiller è un problema più grande di quanto non appaia e che può essere posto in molti modi. E se Schiller, per tutto l’Ottocento, fosse soltanto apparso attuale a un pubblico letteralmente non in grado di coglierne la ben più radicale inattualità? Se dietro le maschere morali del suo teatro si svolgessero ben più profondi drammi psicologici? E se i suoi eroi senza macchia, le sue vittime, i suoi grandi idealisti fossero più o meno inconsapevoli simulatori, carnefici assetati di potere, geni tenuti a freno dalla brutale realtà del desiderio, della volontà di sopraffazione, del sesso? Per una volta, a proposito di Schiller, la critica accademica si è rivelata più acuta e lungimirante dei suoi detrattori. Per molto tempo, è vero, ha seguitato a diffondere la leggenda dello scrittore morale e dell’idealista. E ha creduto, a volte, di svolgere bene il suo compito mettendo in chiaro le debolezze della presunta poetica schilleriana. È stata la strada perseguita per decenni dalla critica italiana – da Croce a Mittner – fino a quando non ha 

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intrapreso una via diversa e sostanzialmente subordinata all’indagine filosofica. Schiller è allora diventato il grande kantiano, il filosofo dell’educazione estetica e dell’etica fondata sul potere liberatorio del bello: un maestro del teatro – come avrebbe detto Nietzsche – più portato per la riflessione filosofica che per l’arte scenica. I saggi sul patetico e sul sublime, sulla poesia ingenua e sentimentale o, magari, le sue liriche “filosofiche” sono apparsi più degni di considerazione dei suoi capolavori teatrali, fraintesi – questi – come esercitazioni pratiche sui motivi della sua riflessione teorica. Si è trattato, certo, di una via utile per riaprire il discorso su Schiller, per renderlo nuovamente attuale (appoggiandosi magari alla lettura dei Briefe über die ästhetische Erziehung consegnata da Marcuse a un suo libro celebre negli anni Sessanta e Settanta). Ma si è trattato – e si tratta –, anche, di una via pericolosa, che si scontra continuamente da un lato con le debolezze della speculazione schilleriana, dall’altro con la sostanziale incomprensione della sua opera teatrale. In Germania e anche in Italia la svolta è venuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando un ritorno di attenzione per il teatro di Schiller ha prodotto una nutrita serie di “controinterpretazioni” da parte di grandi studiosi del Settecento tedesco: cito, fra tutti, Gerhard Sauder e Hans Jürgen Schings in Germania (ma anche Dieter Borchmeyer) e Giuliano Baioni in Italia. Proprio quest’ultimo ha spesso insistito, in pubblico e in privato, sulle affinità evidenti tra Schiller e Nietzsche, ancor prima che a conclusioni analoghe giungesse, in Germania, Wolfgang Riedel. Ma purtroppo il solo saggio da lui dedicato a questo tema è rimasto allo stato di abbozzo e non ha potuto conoscere ampliamenti o continuazioni. In seguito Sauder ha abbandonato le sue ricerche schilleriane, mentre Schings – dopo aver letteralmente rivoluzionato la ricerca sui Räuber – ha preso a battere sentieri secondari e forse non più completamente condivisibili. La svolta è ancora in atto ed è sempre in cerca dei suoi interpreti; ma lo Schiller che conosciamo oggi non è più quello di prima. E certamente il suo teatro non ci appare più come il terreno di un conflitto matematicamente calcolato e geometricamente condotto tra ideali contrapposti, ma come lo spazio sperimentale entro cui proprio l’ordine perscrutabile dei concetti viene messo in crisi dall’affiorare di pulsioni profonde e passioni incontrollabili provenienti dagli strati più profondi dell’io. Gli esempi dell’inattesa modernità di un drammaturgo inattuale come Schiller potrebbero addursi in gran numero, senza difficoltà. E tutti porterebbero alla medesima conclusione: che una poetica profondamente radicata nell’antropologia settecentesca con la sua pionieristica attenzione alle relazioni tra corpo e anima finì presto per individuare nell’indagine dei moventi psicologici dell’azione individuale il suo oggetto d’elezione. Ma non è tutto. Questa disposizione radicata nella cultura contemporanea e assorbita da Schiller fin dal tempo dei suoi studi andò a combinarsi nel suo tea

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tro – e più in generale nella sua opera – con un’attitudine alla riflessione morale che trovò in Ferguson, Rousseau e, più tardi, in Kant i suoi punti di riferimento ricorrenti. E l’incontro tra etica e antropologia empirica produsse un effetto sensazionale che appare oggi come l’elemento di maggior interesse della drammaturgia schilleriana: la destrutturazione della morale per via psicologica e la scoperta delle fragili fondamenta su cui si regge il sistema della cultura occidentale. Questo ingrediente fondamentale della drammaturgia schilleriana ha il suo esempio eminente in un testo che è grave colpa della ricerca avere quasi del tutto trascurato e non aver saputo considerare in una prospettiva che gli rendesse giustizia. È senza alcun dubbio uno dei risultati più straordinari della scrittura schilleriana, di certo il più raffinato e, forse, quello che più lo avvicina a Nietzsche. Si tratta dei Briefe über Don Carlos, il saggio in dodici lettere pubblicato nel  a commento del dramma rappresentato e dato alle stampe meno di un anno prima.  Genealogia della morale nei Briefe über Don Carlos . Per capire la grandezza di questo saggio epistolare bisogna considerarlo senza enfasi. Che un autore apponesse un commentario a un proprio dramma non era un fatto eccezionale negli anni Settanta e Ottanta del Settecento. Per citare un esempio famoso – e altri se ne potrebbero aggiungere – Die Soldaten di Lenz furono presto corredati dall’autore di un saggio di critica sociale, Über die Soldatenehen, contenente una proposta di riforma della vita militare. E frequentissimo, per tutto il Settecento, è il coordinamento tra produzione drammatica e saggistica. I Briefe non sono dunque, nel loro genere, un testo sorprendente. Lo diventano in virtù del loro contenuto. Se infatti l’appendice in prosa a un pezzo teatrale non costituiva una rarità nella Germania del XVIII secolo, perlomeno insolita era la forma dell’autorecensione, soprattutto se non anonima. E i Briefe über Don Carlos sono, per l’appunto, un’autorecensione. Il cui fine esplicito sarebbe la difesa del dramma dal suo fraintendimento, ma il cui esito ben calcolato è quello di portare alla luce un altro dramma: che si svolge nella coscienza del pubblico e che i Briefe mettono in scena in modo pressoché spietato. Per giungere a questo risultato Schiller deve muovere da poche, brevi considerazioni di carattere ermeneutico che rappresentano, già da sole, uno degli aspetti più interessanti delle lettere. A motivarle è il tentativo di precisare in che modo l’autorecensione acquisti il valore di un’operazione critica e non di un’interpretazione autentica. E in quest’ottica Schiller deve subito affermare che l’azione interpretativa non può avere per oggetto le vere o presunte debolezze di un’opera, ma deve indagare l’efficacia degli strumenti rappresentativi utilizzati dall’autore per conferire la massima 

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evidenza possibile al suo argomento. In discussione non può essere infatti il miglior utilizzo ideale di una data materia, ma la rispondenza tra un tema e le strategie espressive utilizzate nel suo trattamento. È dunque possibile interpretare correttamente un’opera solo se se ne comprendono preventivamente l’intenzione, il progetto, la finalità. Laddove questi generalissimi presupposti della comprensione non si diano – come nel caso delle recensioni al Don Carlos che Schiller prende a bersaglio della sua ironia nei Briefe – è necessario capire quali ostacoli si frappongano al loro emergere. Questi ostacoli – osserva tuttavia Schiller – non possono derivare unicamente dalla diversità delle prospettive che l’autore e l’interprete assumono rispetto all’opera. Le due, anzi, tendono ad assimilarsi nel tempo, come Schiller osserva, descrivendo il punto di vista che informa la sua autorecensione: Il dramma mi si è fatto più estraneo. Mi trovo ora, per così dire, a mezza strada tra l’artista e il suo osservatore e ciò mi rende forse possibile unire l’intima conoscenza del primo con la spregiudicatezza dell’altro.

La critica è dunque mediana tra le posizioni del pubblico e dell’autore e ha senso in quanto presuppone un terreno di intesa tra le due. Il suo eventuale fallimento dipende dall’esistenza di elementi che impediscono questa intesa e che agiscono come fattori di disturbo nel processo di comprensione. Ma questi elementi – se si assume l’inesistenza di una differenza qualitativa sostanziale tra la posizione dell’autore e quella dell’interprete – devono essere interni ai codici culturali che l’uno e l’altro attivano rispettivamente nel processo di creazione e di interpretazione. E questa è, appunto, la premessa da cui Schiller muove nel suo saggio. Ma ammettere questa premessa significa dire che la critica – qualsiasi critica – tematizza sempre, insieme all’opera di cui si occupa, la cultura da cui scaturisce. E che la critica che non coglie il vero significato di un’opera porta almeno alla luce la forma della cultura dell’interprete. In questo senso deve interessare l’autore: tanto più se essa chiarisce come il suo fallimento derivi dal sussistere, al suo interno, di quegli atteggiamenti e pregiudizi morali che l’opera si occupava di smascherare e criticare. Date queste premesse è persino ovvio osservare che l’analisi cui Schiller sottopone i caratteri del suo dramma non ha finalità esplicative. E che il metodo psicologico di cui si avvale per mettere in luce i moventi profon. F. Schiller, Werke und Briefe in zwölf Bänden, hrsg. v. K. H. Hilzinger et al., Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M.  ss., vol. III, p. . Tutte le citazioni da Schiller provengono da questa edizione delle opere, cui si rinvia direttamente nel testo mediante la sola indicazione del numero di volume e di pagina. L’ottimo volume dedicato al Don Carlos e contenente anche i Briefe è a cura di Gerhard Kluge.

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di delle azioni dei suoi eroi non serve a chiarire alcunché. Serve invece a rivelare la trappola che il dramma nasconde. Mettendo Posa sotto la lente spietata della sua critica Schiller svela al suo pubblico come il personaggio più eroico e seducente, costruito letteralmente a tavolino per essere la più perfetta incarnazione degli ideali di libertà e uguaglianza settecenteschi, il più bell’esemplare dell’etica filantropica illuminista, sia in realtà mosso da impulsi tutt’altro che sublimi, ma proprio per questo assai più umani. E poiché Posa altro non è e non deve essere che lo specchio potenziato degli ideali morali dei suoi ammiratori – è un «eroe annunciato», osserva Schiller (III, ) –, è chiaro a cosa punti l’analisi capillarmente condotta da Schiller: a una critica dei «sentimenti morali» che colpisce direttamente il suo pubblico e solo strumentalmente la figura del marchese. . L’intreccio è ben chiaro fin dall’attacco della seconda lettera, in cui Schiller espone i Leitmotive del suo scritto. Il carattere del marchese Posa è stato ritenuto quasi unanimemente troppo ideale; in che misura questa affermazione abbia un fondamento lo si vedrà nel migliore dei modi quando la particolare maniera d’agire di quest’uomo sarà stata ricondotta al suo vero contenuto. Nel far questo [...] ho a che fare con due diversi partiti. A quelli che lo hanno direttamente escluso dalla classe degli esseri naturali si dovrà dimostrare che i suoi sentimenti, così come le sue azioni, scaturiscono da impulsi molto umani e sono determinati da una serie di circostanze esterne collegate tra loro; l’attenzione di quelli che lo ritengono un uomo divino sarà invece richiamata su alcune sue debolezze fin troppo umane (III, ).

Sottolineando subito come il contrasto tra le presunte motivazioni («ideali») dell’agire di Posa e il loro fondamento («fin troppo umano») costituisca il nodo del conflitto che divide l’autore dal pubblico, Schiller annuncia la vera natura del suo saggio: un lungo processo di demistificazione dei valori sublimi che nel suo eroe si rappresentano e nei quali gli spettatori del suo dramma si specchiano. Come più tardi a proposito della Pulzella d’Orléans, Schiller si preoccupa di chiarire che l’argomento del dramma va colto dietro le maschere rappresentate dai ruoli e dai principi e dentro l’essenza stessa degli uomini che quei ruoli e quei principi incarnano. L’intima natura dell’uomo è il movente e l’oggetto della tragedia moderna, non la rappresentazione eroica delle sue azioni o delle sue scelte ideali. Questa presa di posizione poetica fa appello alla cultura dello spettatore empfindsam attraverso il riferimento ai principi dell’estetica settecentesca del tragico. La quale, da Sulzer in poi – e soprattutto nell’ambito della riflessione sui caratteri dell’opera musicale –, concepisce la possibilità di una rappresentazione tragica tutta incentrata su un’azione interiore rispetto alla quale i fatti eroici o mitologici esibiti sulla scena non sono che se

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condari. Schiller è perciò sicuro di essere compreso dal suo lettore quando inizia la minuziosa analisi dei moventi delle azioni di Posa che percorre tutte le lettere; e può contare sulla complicità del suo pubblico quando inizia a delineare una sorta di subplot psicologico del Don Carlos che intende come la vera trama della sua tragedia. Ma questa trama appare come il perfetto capovolgimento e la smentita della vicenda rappresentata dal dramma. E se quest’ultima esaltava i valori di amicizia, dedizione e sacrificio come pilastri di una nuova e migliore umanità, l’altra li denuncia come illusioni o come maschere di ben più reali dinamiche di potere e di sopraffazione. In questo senso l’attacco della terza lettera parla chiaro: Di recente lei ha voluto scorgere nel Don Carlos la prova del fatto che l’amicizia appassionata può essere, per la tragedia, un soggetto tanto commovente quanto lo è l’amore appassionato, e quando le ho risposto che mi sarei riservato la rappresentazione di una simile amicizia per il futuro l’ho stupita. [...] Dunque anche lei, come la maggior parte dei miei lettori, considera un dato di fatto che io abbia voluto pormi come fine della rappresentazione di Carlos e del marchese Posa un’amicizia esaltata? E cosa accadrebbe, caro amico, se mi avesse fatto davvero troppo onore imputandomi questa amicizia? Se il carattere del marchese, per quanto discende dalla totalità delle sue azioni, non corrispondesse affatto a una simile amicizia, e se proprio dalle più belle azioni che gli si attribuiscono si potesse dedurre proprio il contrario? (III, ).

Considerata da vicino, l’amicizia tra Posa e Carlos è una lotta. I rapporti di forza, le differenze di rango, il calcolo dei vantaggi ottenibili e una nutrita serie di ideali astratti giocano in essa un ruolo ben più importante di quei sentimenti di «simpatia» (III, ) o «uguaglianza» (III, ) che l’amicizia dovrebbe prevedere. Posa è, tra i due, fin dall’inizio «il più freddo» (III, ) e il suo interesse per Carlos è in realtà determinato, fin dagli anni giovanili, dalla consapevolezza che una serie di ben calcolati comportamenti potrà contribuire prima o dopo a suscitare nell’altro gratitudine e «compassione» (III, ): due sentimenti utili, che alla lunga devono porre il principe in posizione subordinata rispetto al marchese. Quello che appare come un puro sentimento di affetto è in realtà la maschera di un gelido utilitarismo e, persino, di un istinto sopraffattore. Colui che sulla scena viene ammirato come il più nobile degli amici inizia a rivelarsi, nell’analisi di Schiller, come un individualista animato da doppi fini, concentrato unicamente sul sentimento della propria superiorità intellettuale e morale: «Ein Geist wie Posas – sottolinea Schiller – mußte seine Überlegenheit frühzeitig zu genießen streben, und der liebevolle Karl schmiegte sich so unterwürfig, so gelehrig an ihn an!» (III, ). Nel confronto tra i due adolescenti i rapporti di potere si capovolgono. Il risentimento di Posa per la propria oggettiva subordinazione gerarchica al futuro re lascia spazio all’intimo senso di 

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trionfo per la percezione di un riconoscibile – e riconosciuto – primato spirituale. Un primato spirituale – si badi bene – che scaturisce dalla negazione della sovranità dell’altro e si manifesta nell’adesione totale, assoluta e quasi ossessiva, maniacale agli ideali di libertà, democrazia e fratellanza che sono – di per sé – agli antipodi del riconoscimento del potere regale assoluto. In questo senso è significativo che Schiller sottolinei continuamente come l’umanesimo democratico di Posa scaturisca dal precoce legame con Carlos e che in Carlos egli non perda «mai di vista il figlio del re» (III, ). La «filantropia universale e infinita» (III, ) di Posa è nutrita anche dall’idea che essa rappresenta la leva per un reale sovvertimento delle gerarchie e degli ordini costituiti, dei valori riconosciuti e della sovranità regale. È insomma, anche, un’ideologia strumentalmente adottata e strumentalmente instillata nella mente del giovane e succube Carlos per indurlo, un giorno, a essere egli stesso – il figlio del re – l’artefice della fine della monarchia e del sistema di valori a essa legato. Non è possibile non vedere come in questa iniziale caratterizzazione di Posa Schiller celi appena una critica al culto pietista ed empfindsam dell’amicizia, dell’amore fraterno e della dedizione dimentica di sé, intesi come la base di un intero sistema di valori. Mettendo in evidenza lo sfondo oscuro delle azioni e dei sentimenti del suo eroe, Schiller denuncia la fragilità di una Weltanschauung che in quelle azioni e in quei sentimenti trova il suo riflesso sublimato. Ignara delle pulsioni negative e distruttrici nascoste dietro le virtù morali che esalta, essa diventa la giustificazione ideale di quelle stesse pulsioni. E si presta a diventare il potenziale strumento di legittimazione della “volontà di potenza” di un individuo che sappia servirsene come di una maschera etica gettata sopra la vera natura dei propri fini. Ma la critica schilleriana non si arresta nemmeno di fronte a quegli ideali politici di «libertà repubblicana» di cui Posa si erge a eroico rappresentante e di cui il pubblico si inebria. Anche questi ultimi, ben lungi dal rappresentare l’esito ideologico di una filantropia disinteressata, sono espressione, in Posa, di un individualismo spinto ai limiti del delirio di onnipotenza. Schiller lo dichiara a tutte lettere, citando il suo dramma: Così tante ricche e fiorenti province Un popolo forte e grande e Buono, ed esser padre di questo popolo Questo, pensavo, dev’essere divino! (III, ).

Anche le virtù democratiche di Posa derivano dal medesimo fondo oscuro da cui scaturisce la sua ambigua amicizia per Carlos. Schiller sottolinea, anzi, come esse – in quanto espressione di una sincera adesione agli ideali di fratellanza e solidarietà universali tra i popoli – scaturiscano dall’estensione all’intero genere umano di quello stesso sentimento di «benevo

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lenza» (III, ) provato un tempo per il giovane figlio del re. Fratellanza e solidarietà universali sono dunque ideali non meno ambigui e potenzialmente pericolosi, nella loro apparente autoevidenza, dell’amicizia che si mostra pura e disinteressata. Nel corso della sua puntigliosa autorecensione Schiller ne offre continue prove. E si può citare – a titolo di esempio significativo – quanto egli annota a proposito dei sentimenti di Posa nei confronti della passione di Carlos per Elisabeth. Dopo aver ottenuto l’appoggio della regina e, attraverso di lei, aver recuperato il principe alla causa delle Fiandre, infatti, il marchese inizia a temere per la «sensualità» che intravede nella passione dello stesso Carlos per la matrigna: «Nulla – osserva Schiller – potrebbe adattarsi meno ai suoi più alti progetti» (III, ). L’ideale non tollera compromessi con la realtà sensibile dell’uomo: le è ostile, la percepisce come ostacolo o come antagonista, e deve rimuoverla dal suo orizzonte per potersi serbare nella sua incontaminata purezza. Ma così operando si trasforma in una terribile minaccia proprio per quell’umanità al cui servizio vorrebbe porsi. Ancora una volta è evidente come la critica schilleriana attacchi le basi del sistema morale concepito dalla cultura del sentimento settecentesca. Ma c’è di più. Poiché qui appare anche chiaro come gli ideali filadelfici e democratici di Posa siano presi di mira non tanto o non solo per ciò che essi proclamano, quanto per la loro stessa natura di ideali. La contrapposizione, ribadita in tutte le lettere, di realtà interiore e atteggiamenti etici, istanze espansive dell’io e sentimenti filantropici, volontà di autoaffermazione e programma politico denuncia l’inconsistenza di ogni Weltanschauung fondata non sulla conoscenza della reale natura dell’uomo ma sulla posizione di principi astratti: un’evidenza certamente accolta da Schiller fin dall’epoca degli studi di antropologia alla «Karlsschule» di Stoccarda. Per cui risulta tanto più difficile comprendere come la leggenda di uno Schiller drammaturgo dell’imperativo categorico, delle certezze morali, dei grandi ideali, della fede nell’umanità, nella libertà e nella democrazia abbia potuto sopravvivere all’esistenza di un documento così esplicito e così evidentemente in contraddizione con essa come i Briefe über Don Carlos. Se c’è, infatti, un’istanza che le lettere avanzano continuamente è quella al superamento delle nobili apparenze e alla considerazione psicologica – e perciò critica – dei gesti sublimi, delle dichiarazioni solenni. Come in tutto il teatro di Schiller non c’è nel Don Carlos altro motore dell’azione che l’io dei protagonisti. E questo io conosce solo volontà di affermazione, di sopraffazione, di dominio o, anche – ora si può cominciare a usare questo termine in senso proprio – volontà di potenza. Naturalmente tutto questo vale per Posa. Ma Posa non è che la cavia da esperimento mediante la quale vengono messe alla prova – e mostrate nella loro inconsistenza – le parole d’ordine del XVIII secolo. I Briefe über Don Carlos aggiungono variazioni di pura bravura a un gioco che il dram

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ma aveva già condotto a livelli virtuosistici. Se se ne vuole un esempio tanto clamoroso quanto trascurato dalla ricerca basta gettare un’occhiata all’undicesima lettera – la più importante di tutte, come vedremo – dove un inciso recita: Agire senza rumore, senza aiuto, in quieta grandezza è l’ambizione esaltata del marchese [Geräuschlos, ohne Gehülfe, in stiller Größe zu wirken, ist des Marquis Schwärmerei (III, )].

La fuggevole citazione della formula del classicismo winckelmanniano come chiave interpretativa della Schwärmerei di Posa e del suo egocentrico delirio umanistico si legge anche come satira della moderna riscoperta dell’antico e come presa di distanza dai valori in essa affermati. L’uso del termine che l’antropologia settecentesca aveva adottato per denunciare le più pericolose patologie dell’immaginazione in connessione con l’espressione sintetica della quintessenza estetica e morale dell’antichità suona come uno sberleffo alla generazione degli intellettuali “grecomani”. E se poi si getta uno sguardo ai valori che Schiller, in questa geniale autorecensione, pone sotto la lente d’ingrandimento della sua critica psicologica, si vede bene come una precisa strategia demistificante guidi la sua argomentazione. Non è solo l’amicizia a vacillare sotto l’effetto della disamina schilleriana del personaggio Posa. Vacilla anche la compassione (il Mitleid!, III, , , ), presentata come una sorta di degnazione nei confronti dell’altro, come un affetto di grado minore che sembra assurdo concepire come il più alto sentimento dell’uomo o come la sola vera passione che ogni vera tragedia deve saper suscitare e purificare. E vacilla l’amore (III, , -, , ), considerato unicamente come appassionato slancio nei confronti di un oggetto qualsiasi, anche astratto, anche ideale, e non come il legante unico di quell’infinita catena dell’essere immaginata dall’intero Settecento che ha la sua origine e il suo punto d’arrivo in Dio e che unisce tutte le creature dell’universo (una rappresentazione che Schiller si era premurato di relativizzare e demistificare già all’epoca dei Räuber e dei Philosophische Briefe). Sono i pilastri della cultura moderna a venir colpiti. Come accade anche quando Schiller illustra un po’ più approfonditamente la figura di Carlos. Che è una sorta di “idiota” ante litteram, «un cuore delicato, pieno di benevolenza» dotato di «entusiasmo per ciò che è grande e bello, delicatezza, coraggio, saldezza, generosità disinteressata»; nel quale, tuttavia, la naturale «purezza» si scontra con una totale assenza di saggezza (III, ). Un contrasto fatale, del quale fa le spese uno dei valori centrali – la purezza, appunto – dell’etica pietista. Questi esempi mostrano chiaramente quale sia l’aspirazione generale dei Briefe: dischiudere una nuova visione dei sentimenti morali, offrirne una lettura in trasparenza, delinearne una genealogia psicologica. Un’aspi

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razione, del resto, espressamente dichiarata nell’incipit dell’ottava lettera, laddove Schiller lascia per un attimo la parola a un ideale lettore cui l’autorecensione toglie, una a una, le residue certezze: Ma, si chiederà lei, a che scopo tutta questa analisi? [...] A che serve questo prolungato sforzo di strappare il lettore a un errore che forse gli sarebbe più gradito della verità? Che ne sarebbe del fascino della maggior parte dei fenomeni morali se ogni volta si illuminassero le più intime profondità del cuore umano e le si dovesse veder, per così dire, divenire? (III, -).

La dottrina morale si infrange contro la realtà psicologica dell’individuo. L’etica dell’umanesimo settecentesco trova nell’impulso di sopraffazione, nell’ambizione e nel desiderio di espansione del dominio della propria esistenza i propri principali antagonisti. La verità ineludibile dell’uomo interiore, che Schiller ha imparato a conoscere già alla Scuola di Carl Friedrich Abel all’epoca della «Karlsschule» di Stoccarda, fa da argine all’idealismo morale di un intero secolo. E i Briefe über Don Carlos lo dichiarano nel più risoluto dei modi. . Se lo scritto di Schiller si limitasse a questo, a mostrare l’inconsistenza dei sentimenti morali e a portarne alla luce i moventi reconditi e inconfessabili per mezzo della sua critica psicologica, ci si troverebbe ancora dalle parti dell’illuminismo demistificante alla Diderot o alla Voltaire. Ma la sua riflessione mette capo a una visione genealogica di questi stessi sentimenti morali che si sviluppa del tutto consapevolmente in direzione di una critica assai più radicale ai fondamenti originari della cultura europea. Per cogliere tutta la portata di questa critica bisogna considerare la natura profondamente storica del Don Carlos. Il quale sviluppa, dietro le sue maschere cinquecentesche, un vasto tessuto di simboli e metafore, la cui trama risulta ben chiara nella ricostruzione offerta dai Briefe. Al centro di questa trama sta ancora la caratterizzazione psicologica di Posa, considerato, però, non più come individuo, ma come rappresentante di una costellazione archetipica della civiltà che nella sua vicenda si replica e si rende evidente. Schiller sottolinea più volte la natura storicamente esemplare del suo eroe, soprattutto laddove, nella seconda lettera, ne sottolinea l’eccezionale statura intellettuale e morale: «Nach dem Beispiel aller großen Köpfe entsteht er zwischen Finsternis und Licht, eine hervorragende isolierte Erscheinung» (III, ). Comprendere Posa significa dunque comprendere la psicologia di tutte le grandi personalità della storia e soprattutto la natura di tutti i grandi legislatori nel campo della morale. Non sarà per caso che Schiller addurrà, nel finale dei Briefe, l’esempio di Licurgo. Posa è infatti guidato nelle sue azioni da un’adesione spontanea e totale alle idee di libertà su cui vuole erigere una nuova umanità. Il suo spirito de

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mocratico, le sue «virtù repubblicane» (III, ) – come le chiama Schiller – sono quelle di un grande riformatore: non è un caso neanche che il riferimento alla Riforma luterana cada puntuale in questo contesto (III, ). In questo contesto cadono però osservazioni che dovrebbero far scattare un campanello d’allarme nella testa del lettore moderno: La sua anima si sente, tra queste idee, come in una nuova e bella regione che agisce su di lei con tutta la sua luce accecante e la porta all’estasi nel più amabile dei sogni. L’opposta miseria della schiavitù e della superstizione lo attrae e lo tiene sempre più saldamente in questo mondo prediletto; i più bei sogni di libertà vengono sognati in carcere (III, ).

Le aspirazioni di Posa sono, evidentemente, il prodotto di una ribellione. Una rivolta della «luce» delle idee contro l’«oscurità» della storia, della ragione filantropica contro il potere costituito. La scelta di assumere su di sé la causa del sottomesso popolo delle Fiandre significa per Posa acquisire la prospettiva degli umiliati; e la risoluzione di legare a questa causa politica l’affermazione dei valori di libertà e democrazia in cui crede è un chiaro indice della funzione eversiva che tali valori sono chiamati ad assolvere. La rivoluzione etico-politica che Posa persegue è una «rivolta degli schiavi nella morale»: una reazione all’etica del potere assoluto e della forza regale, l’affermazione di valori – per usare una formula nietzscheana – che sono valori del risentimento, dell’odio creatore di ideali e trasvalutatore, e sono espressione di rivalsa, di ritorsione, di vendetta (KSA, V, ). Considerati in questa prospettiva, i Briefe über Don Carlos rivelano il loro autentico fine. Non è una semplice demistificazione dei sentimenti morali che Schiller si propone di trarre dall’autorecensione al suo dramma, bensì la dimostrazione di quanto la tragedia già aveva delineato attraverso la figura di Posa: una controstoria della morale concepita a partire da una figura eroica che rechi i tratti sublimi della virtù redentrice. Che, appunto, Posa possegga tutte le caratteristiche del redentore non è difficile da dimostrare. È Schiller stesso a ribadirlo più volte nel corso dell’autorecensione, con riferimento sia alla sua missione politica sia al destino di Carlos. Posa percepisce sempre la sua azione come quella di un dio salvifico. In lui, scrive Schiller, si rappresenta niente di meno che «il futuro creatore dell’umana felicità» (III, ). E quando descrive il ruolo che il suo eroe vuole giocare nell’esistenza del principe ereditario, Schiller osserva espressamente: «Muto, come la cautela si prende cura di chi dorme, vuol riscattare il destino del suo amico, vuole salvarlo, come un Dio – e proprio per questo lo condanna. [...] Carlos cade in disgrazia perché il suo amico non si è accontentato di redimerlo in modo normale» (III, ). La redenzione della tirannia dai suoi misfatti, dell’umanità dai suoi mali, di Carlos dalla sua debolezza: sono queste le finalità che Posa si ripromette con la sua 

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azione rivoluzionaria. E in un delirio di onnipotenza interpreta il suo sogno a occhi aperti come un disegno divino di cui è artefice. Ma proprio questo rivela la Schwärmerei, che fa da sfondo ai gesti sublimi dell’azione redentrice. E se essa è, da un lato, sintomo delle passioni irrazionali e della volontà di dominio che si manifestano nelle virtù eroiche è anche, dall’altro, l’espressione più evidente del disumano nella morale. Poiché la Schwärmerei – osserva ancora Schiller – è slancio appassionato che spinge a imprese grandiose in nome di un ideale astratto intrinsecamente ostile alla vita e ignaro dei sentimenti naturali dell’uomo (III, ). E lo Schwärmer, trascinato dalla sua passione per il sublime, è incapace di capire come solo e unicamente la fedeltà a questi stessi sentimenti naturali possa generare un pensiero e un’azione salvifici. La completa dedizione a una pura idea finisce per trasformarlo in un mostro. E, aggiunge Schiller, se l’idea stessa si combina con quelle passioni «che si trovano più o meno in ogni cuore d’uomo; brama di potere [...] arroganza e orgoglio» (III, ) diventa ancora più pericolosa: lo strumento di una volontà di potenza senza più confini naturali o non limitata dalla percezione dell’individualità altrui, di un desiderio di dominio concepito come ideale, come dovere morale, come istanza religiosa. I medesimi lati oscuri messi in risalto da Schiller nel corso della sua disamina del carattere di Posa tornano, dunque, debitamente accresciuti, nelle ultime lettere: dove non è più in gioco la semplice critica dei sentimenti morali, ma la condanna del marchese come eroe dell’ideale, come redentore e come Schwärmer. Ma questa condanna colpisce Posa, come si è detto, essenzialmente in quanto rappresentante di un tipo umano che è prima di tutto storico. Schiller ne dà ampia dimostrazione nelle ultime due lettere: Sa nominarmi, caro amico – scegliendo un solo esempio tra gli innumerevoli esistenti – sa nominarmi un fondatore di ordini o la confraternita che – stanti i più puri fini e i più nobili impulsi – si sia tenuto mondo da arbitri pratici, da violenza contro la libertà altrui, dallo spirito della segretezza e dal desiderio di dominio? (III, ).

Hans Jürgen Schings ha voluto vedere qui un esplicito riferimento alla massoneria e alla sua lotta nel segreto per l’affermazione di ideali politici democratici. E certamente un simile riferimento è ben presente a Schiller, come dimostra anche il frammento del Geisterseher di poco precedente la realizzazione del Don Carlos. Dieter Borchmeyer, invece, ha voluto scorgere nell’eroe schilleriano la raffigurazione di un Robespierre ante portas. Ma Posa è ben altro. Egli non reca i caratteri di un eroe specifico, ma di un modello di eroismo ricorrente in tutte le epoche della storia dell’umanità e che si produce in circostanze sempre simili («Secondo l’esempio di tutti i gran

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di egli sorge fra tenebre e luce, un’apparizione grandiosa e isolata...»). La sua Schwärmerei lo fa sentire più simile a una divinità che a un agitatore politico. La sua natura è quella di un redentore. E il suo sacrificio finale lo rivela per ciò che è. Quando affronta l’ultimo atto di Posa, l’autosacrificio compiuto, apparentemente, per la salvezza di Carlos, Schiller non si limita a sollevare il velo sulle motivazioni riposte del gesto (e a smantellare l’ennesimo valore morale della cultura empfindsam, l’abnegazione totale, dimentica di sé). Si spinge invece fino a colpire, attraverso il suo personaggio, i miti fondativi della cultura europea, l’eredità morale del cristianesimo e, soprattutto, i suoi eroi: coloro che rappresentano veramente, per usare un’altra espressione di Nietzsche, il modello tramandato dell’eroismo europeo (KSA, VI, ). Posa non muore, infatti, per salvare Carlos (che, al contrario, porta con sé nella rovina), ma per tener fede a un esempio o, ancora una volta, a un ideale astratto: «perché molti grandi uomini sono morti per una verità che volevano fosse seguita e confortata da molti; per mostrare, col loro esempio, quale importanza avesse per loro che per essa si soffrisse ogni cosa» (III, ). Il suo gesto finale lo inserisce nella storia esemplare dell’eroismo europeo. Una lunga serie di martiri che riconducono fino al sacrificio originario di Gesù si rispecchiano nella morte di Posa. Schiller – che pure dissimula appena questa evidenza richiamando l’esempio di Licurgo e di altri eroi plutarchei – non manca di sottolineare questa pointe della sua autorecensione attraverso la citazione – vera o fittizia – di un suo recensore: Posa muore «per il martirio» (III, ) perché non può fare a meno, in quanto eroe, del martirio. Attraverso il suo esempio tutti i valori da lui esaltati e fanaticamente perseguiti acquisteranno ancor più grande potere di persuasione, così come altri valori e altre credenze hanno conquistato, nel corso della storia, le menti degli uomini in virtù del sacrificio dei loro eroi. Il filo che lega la cultura europea alle sue origini cristiane passa attraverso Posa. Ma la critica di Schiller all’individualismo egotistico del marchese, il disvelamento della sua Schwärmerei, la scoperta del nesso profondo che nel campione degli ideali democratici e umanitari si stabilisce con il desiderio di dominio, di prevaricazione, di potenza contiene al contempo una lettura tutta negativa della tradizione europea dell’eroismo e dei suoi antichi modelli. Questa è una tradizione che misura con il disprezzo della vita la qualità del valore, che giudica la forza degli ideali dai sacrifici che li hanno nutriti. La storia dell’eroismo europeo che Schiller rappresenta in Posa tramanda il racconto di una civiltà che ha coltivato ideali mortiferi. In fondo, scrive ancora Schiller, «capacità di sacrificio è l’essenza di tutte le virtù repubblicane» (III, ). La tragedia di Posa è dunque la tragedia della civiltà europea e dei suoi valori in quanto opposti alla vita. Un altro inizio è possibile per la moder

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nità definitivamente svincolata dai legami con il passato. Essa dovrà essere capace di dar forma ai propri ideali, muovendo dai «sentimenti naturali» dell’uomo e dalle leggi che ne derivano: «Nel suo agire morale l’uomo deve essere guidato da leggi pratiche non da artificiosi parti della ragione teoretica» (III, ). E l’agire morale potrà avere come unica fonte l’amore per la vita nelle sue espressioni più calde, intime e forti: un amore cui, non a caso, Posa dà voce tardivamente, solo poco prima di compiere il suo ultimo sacrificio. Un’inversione del percorso storico della civiltà europea implica, per Schiller, la conversione della morale del sacrificio nell’affermazione di valori che scaturiscano dalla realtà profonda dell’uomo, dai suoi impulsi vitali e dai suoi istinti: «poiché nulla conduce al bene – osserva ancora Schiller – che non sia naturale» (III, ). . Tutto questo non fa, forse, di Schiller un Nietzsche ante litteram, ma certamente apre la strada a Nietzsche. La critica psicologica delle virtù eroiche, l’analisi genealogica degli ideali morali, il rifiuto dell’etica del sacrificio e del martirio, la visione di un nuovo inizio della civiltà europea fondato sulla centralità dei sentimenti naturali dell’uomo e dell’istinto di vita sa, certo, anche di Rousseau, ma mostra la linea che congiunge direttamente la tradizione maggiore dell’illuminismo tedesco con la critica nietzscheana dei sentimenti morali. Fin nei dettagli – si potrebbe aggiungere. Non saranno sfuggiti, nel corso di questa esposizione, le osservazioni che guidano la riflessione psicologico-morale di Schiller: le virtù di Posa come conseguenza di una reazione al potere sovrano, di una ribellione alla miseria della schiavitù e dell’umiliazione (l’effetto di una vera e propria «morale del risentimento»); la centralità attribuita alla sete di potere e al desiderio di dominio e sopraffazione tra le pulsioni umane; il rifiuto dell’ideale in quanto negazione della vita forte e vigorosa. Assai più che a Kant – nel quale crederà di poter scorgere il filosofo di una morale desunta dalle facoltà naturali dell’uomo – questo Schiller rimanda ai grandi moralisti-psicologi da cui è letteralmente andato a scuola (da Hobbes a Ferguson, a Rousseau) e indica, appunto, verso Nietzsche. Il teatro di Schiller si può perciò vedere anche come un altro prodotto di quella tradizione autocritica dell’illuminismo che Horkheimer e Adorno hanno descritto nella dialettica della Aufklärung, che privilegia la critica sull’affermazione – anche la critica diretta contro le sue stesse conquiste, i suoi stessi ideali – che questa stessa critica richiama a una vitale Selbstbesinnung e che ha in Nietzsche il suo punto d’arrivo nel XIX secolo. Questa consapevole Aufklärung non è un’invenzione del XX secolo: è la parte più vitale dell’illuminismo tedesco e, forse, la posizione che caratterizza ogni fase maggiore della storia della cultura tedesca moderna. Di tale posizione il teatro di Schiller è l’espressione più chiara per tutta l’età di Goethe. 

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Ma di questo non si accorse mai il XIX secolo. E il XX secolo, ormai plasmato da Nietzsche, non è stato capace di riscoprire la critica della morale schilleriana e di considerarla nella sua originaria inattualità. I Briefe über Don Carlos invitano a farlo e a riconsiderare, attraverso di loro, lo sviluppo complessivo della produzione drammatica schilleriana.

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La scoperta della tragedia moderna. Wallenstein – La decisione* di Hans Feger

 Introduzione: arte idealizzante come sostegno morale Che la scoperta di una moderna esistenza tragica non proceda dalla filosofia morale o dalla filosofia della conoscenza, bensì dall’estetica, che si propone di trasferire tale esigenza morale all’ambito pratico e quindi a quello della vita quotidiana, appartiene ai caratteri tipici dell’idealismo tedesco. Tale punto di vista, essenzialmente critico rispetto a Kant, si basa sulla fondamentale concezione schilleriana secondo cui non saremmo in grado di percepire i presupposti immanenti al nostro agire se non attraverso la loro trasposizione scenica nella tragedia. Nella nozione schilleriana di estetica è contemplata una possibilità di condurre la realtà presente al di là di se stessa così che essa sia adatta per il concreto uomo singolo, che gli venga anzi addirittura carpita. Questo idealismo estetico acquisisce una dimensione utopica non già attraverso una presunta fuga dalla realtà, né attraverso un suo mero superamento o una compensazione di essa, bensì attraverso una visione nel profondo della realtà stessa. Ciò si evince particolarmente nel tentativo di mutare la forma della realtà storica intorno all’Ottocento. «Nella gravità di questa fine di secolo, in cui la realtà stessa si fa poesia» – come si legge nel Prologo del Wallenstein – è ancora la poesia a mostrare come un crudo realismo sia destinato a fallire sul piano della storia. Il cor* Traduzione di Luigi Perri. . «Buono è un metodo di insegnare in cui si procede dal noto all’ignoto; è bello, se è socratico, cioè fa scaturire la verità dalla testa e dal cuore dell’ascoltatore. Con il primo metodo si esigono dall’intelletto le sue convinzioni in forma, con il secondo le si trae da esso», F. Schiller, Kallias-Briefe, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. H. Fricke, H. G. Göpfert, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt  (IX ed.), vol. V, p. , in seguito SW (trad. it. in Lettere sull’educazione estetica, a cura di A. Negri, Armando, Roma , p. ). . F. Schiller, Wallenstein. Ein dramatisches Gedicht (trad. it. a cura di G. Piazza, Rizzoli, Milano , p. ). In seguito l’opera sarà citata con l’indicazione della parte (I. Il campo di Wallenstein; II. I Piccolomini; III. La morte di Wallenstein) e del numero dei versi.

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so della Rivoluzione francese aveva dimostrato come l’opposizione tra realtà storica e realtà morale avesse bisogno di un sostegno che rendesse possibile il divenire come passaggio attraverso la libertà. Di per sé i protagonisti politici non erano stati in grado di attuare le idee rivoluzionarie. Invece che in “libertà, uguaglianza e fraternità” esse sfociarono nello stato d’emergenza del Terrore organizzato e mostrarono ancora una volta che – come dice Schelling – «non esistono figli della Libertà». «La società libera da vincoli, invece di procedere speditamente in avanti verso la vita organizzata, ricade indietro nel mondo degli istinti» – si legge nella quinta delle Lettere sull’educazione estetica. Tale educazione estetica ad un’arte idealizzante dovrebbe essere in grado di attuare una rivoluzione senza dover rischiare gli eccessi della rivoluzione reale. L’evolversi di questa aveva ben mostrato come lo stato di ragione non generasse con i mezzi della politica uomini migliori, perché esso stesso era parte del male che si proponeva di sconfiggere. La rivoluzione aveva bisogno di un concetto di formazione che fungesse da sostegno alle possibilità morali. Per Schiller, perché l’identità fosse mantenuta e non sacrificata in tale passaggio, tale necessità doveva essere trasposta in un divenire o, per usare le sue parole, bisognava «superare il tempo nel tempo, [...] conciliare il divenire con l’essere assoluto, il mutamento con l’identità». Proprio nel fallimento della realizzazione della libertà e dello stato di ragione, la Rivoluzione francese aveva mostrato quegli elementi che potevano contribuire alla sua riuscita. Tutto ciò è pensato in maniera tragica e sostenuto dal momento del pentimento. La delusione per l’esito della Rivoluzione – che aveva fatto vedere come la sola liberazione dai vincoli esterni dell’ancien régime non avesse liberato affatto la libertà nell’uomo – appartiene alle esperienze chiave dell’idealismo tedesco. Con sintesi un po’ ardita, si potrebbe dire che è proprio questa perdita di libertà ad aver ispirato le linee sistematiche dell’idealismo e ad aver portato alla comparsa della certezza in una libertà completamente diversa, una libertà il cui valore si estende a tutto ciò che esiste. Come spiega . F. W. J. Schelling, Ideen zu einer Philosophie der Natur als Einleitung in das Studium dieser Wissenschaft, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. K. Schelling, Stuttgart-Augsburg , vol. II, p. . . L’osservazione di Schiller delle possibilità storiche della Rivoluzione francese rileva quel momento di pentimento che nasce dal superamento della temporalità della storia ma che è portato dalla consapevolezza di aver fallito nel superamento della sua (apparente) necessità. Tale pentimento intende superare la realtà e ricondurla allo stato di possibilità esistente prima del cambiamento del divenire. È in questo senso che Schiller vuole riproporre la Rivoluzione francese. . Cfr. M. Heidegger, Schelling. Vom Wesen der menschlichen Freiheit (), GA, Bd. , Klostermann, Frankfurt a.M. , p.  (trad. it., Schelling. Il trattato del  sull’essenza della libertà umana, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli , p. ).

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Walter Schulz, è propria dell’idealismo sin dall’inizio una corrente di pensiero «nella quale la soggettività, che intende assumere il controllo su di sé, raggiunge l’autocoscienza attraverso l’esperienza della propria impotenza». Quali sono le ragioni per cui si è potuto nascondere, dietro gli ideali rivoluzionari, il terrore di una tirannia che ha distrutto ogni fiducia in una «rigenerazione in ambito politico» sul lungo periodo? O, detto in termini moderni: per quali ragioni il tentativo di fare storia fallisce proprio sul piano della storia? Il fatto che le idee di pace e libertà non offrissero un grande controllo sulla realtà implicava perlomeno il sospetto che la normatività del fattuale avesse la precedenza nei confronti della storia. Schiller nella sua Storia della Guerra dei Trent’anni caratterizza Wallenstein come l’uomo «che voleva imporre il suo volere al cielo», che sembrava avere la possibilità fisica di tener fede a quanto l’Educazione estetica (quinta lettera) richiedeva quale grande esigenza del tempo: «porre sul trono la legge, onorare finalmente l’uomo come fine in sé e far della libertà il fondamento del legame politico». Wallenstein – a capo del suo esercito – è il «regolatore dei rapporti politici». Egli ha il potere di prendere le distanze dalla tradizione; è un eroe certamente privo di idealismo, ma anche un pragmatico della buona sorte con tutte le potenzialità. Lo storico Schiller non trova motivi validi per dare un giudizio su di lui, ma è sufficiente il ventaglio di opinioni su Wallenstein, da sublime principe della pace a disperato giocatore d’azzardo. «Non è stato ancora scoperto il documento che ci svela in maniera storicamente affidabile le molle segrete del suo agire e tra le sue azioni pubbliche [...] non ve n’è alcuna che in definitiva non potrebbe essere scaturita da una fonte innocente». Il documento che realizza questo desideratum è la tragedia schilleriana sulla figura di Wallenstein (). Essa permette uno sguardo disilluso su un momento decisivo di trasformazione storica, caratterizzato da una grande manifestazione di potere e al tempo stesso dalla sua perdita. È il realista Wallenstein e l’affare di Stato, non l’idealista Don Carlos e il dramma familiare, ad essere rappresentato dopo le grandi trattazioni estetiche degli . Cfr. la lettera di Schiller al duca di Augustenburg del  luglio  (in F. Schiller, Werke. Nationalausgabe, hrsg. v. S. Petersen, fortgef. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, S. Seidel, hrsg. v. N. Oellers, Böhlaus, Weimar  ss. (in seguito NA), vol. XXVI, p. : «Ja, ich bin soweit entfernt, an den Anfang einer Regeneration im Politischen zu glauben, daß mir die Ereignisse der Zeit vielmehr alle Hoffnungen dazu auf Jahrhunderte benehmen». . F. Schiller, Geschichte des dreißigjährigen Krieges, NA, XVII, p. . . Ivi, p. . Prosecuzione della citazione: «Molti dei suoi passi più biasimati dimostrano soltanto la sua inclinazione alla pace, gli altri per la maggior parte sono spiegati e giustificati da una giusta diffidenza verso l’imperatore e lo scusabile sforzo di affermare la propria importanza [...]. Se infine la necessità e la disperazione lo spingono a meritarsi il giudizio che era ingiusto quand’era innocente, ciò non è sufficiente a giustificare tale giudizio: Così Wallenstein cadde non perché era un ribelle, ma si ribellò perché era caduto».

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anni Novanta. «Un’opera raffazzonata come il Carlos oramai mi disgusta», scrive Schiller già nel  a Körner ( novembre ). Wallenstein diviene il prototipo di un personaggio della storia che in un momento decisivo intende «superare le condizioni dell’azione storica» e fallisce tale proposito. Se si interpreta la sua trilogia rilevando come il fondamentale conflitto tragico trattato da Schiller emerga nel momento della decisione, si accede ad una prospettiva che permette di valutare questo conflitto tragico alla base del dramma di Wallenstein come la scoperta della tragedia moderna. Secondo Peter Szondi «da Aristotele in poi» si ha «una poetica della tragedia, e solo da Schelling in poi una filosofia del tragico». La tarda concezione schilleriana della tragedia, cui Schelling fa riferimento in importanti riflessioni, rappresenta in questo caso una decisiva cesura.  Il campo di Wallenstein In totale contrapposizione alla rigida gerarchia del processo decisionale del mondo militare, l’azione non inizia con il comandante, il vertice della piramide del comando, o con gli ufficiali protagonisti dell’affare di Stato, bensì con coloro che nel campo ricevono gli ordini e cioè secondo un ordine contrario alla gerarchia di comando. Nel dispiegamento scenico dell’azione drammatica vengono presentate diverse idee di libertà che non trovano tutte insieme in sé la propria legittimità, ma sono invece ancorate ad un ordine al di sopra di tutte le divergenze e che regna su di loro proprio laddove tale fattore – come nel pro memoria – viene trasfigurato in maniera mitica: in Wallenstein. Le differenti posizioni riguardo la libertà si scontrano qui l’una con l’altra: agli archibugieri di Ottavio che vogliono intendere la libertà come un impegno comune («tutti noi [siamo] sudditi dell’imperatore») e agli orgogliosi corazzieri di Max Piccolomini che la proclamano quale autodeterminazione («Libero voglio vivere e poi morire») si contrappongono la libertà da ogni vincolo degli spavaldi cacciatori di Illo («Vi . La fine della «Kantkrise» condusse ad una fase di nuovo orientamento estetico che produsse risultati piuttosto originali: «In realtà è solo nell’arte in sé – riassume Schiller – che sento le mie energie, nella teoria debbo sempre tormentarmi coi principi» (lettera a Körner del  maggio ). Lo studio di Aristotele (attorno al ) portò ad un’approfondita analisi sulla differenza tra la tragedia classica e quella moderna (cfr. la lettera a Körner del  giugno ). . Questo aspetto è stato esaminato molto bene da M. Hofmann, Die unaufhebbare Ambivalenz historischer Praxis und die Poetik des Erhabenen in Friedrich Schillers “Wallenstein”Trilogie, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLIII, , pp. -, qui p. . . P. Szondi, Versuch über das Tragische, in Id., Schriften, vol. I, hrsg. v. J. Bollack, H. Beese, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , p.  (trad. it., P. Szondi, Saggio sul tragico, a cura di F. Vercellone, Einaudi, Torino , pp.  ss.).

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è libertà soltanto dov’è potere»), le posizioni «eudaimonistiche» degli ottusi croati di Isolani e dei carabinieri di Terzky («Ciò che non è vietato è permesso»), ma anche la libertà del «non decidere» dei volubili dragoni di Buttler. Sono, queste, posizioni che sarebbero adatte a relativizzarsi reciprocamente, se non vi fosse la guerra a tenerle insieme saldamente. Tali idee sulla libertà trovano il loro centro immaginario nella capovolta prospettiva del reale che regna nel campo, dove senso del proprio valore (Selbstwertgefühl) ed affermazione dell’esistenza (Existenzbehauptung) vengono identificate l’una con l’altra e viene espressa ostilità verso la vita borghese fuori dai confini del campo stesso. La sua logica parassitaria recita: «Sia il contadino ad offrire [...]. Lunga vita ai militari». La guerra è divenuta un mondo a sé, che non ha più bisogno di essere giustificato. Il contadino può sopravvivere soltanto rubando a sua volta i beni che gli sono stati depredati dai soldati, mentre ufficiali e generali lo fanno prendendo in prestito del denaro dal mercante che glielo ha prestato nella speranza di una futura vittoria. La vita, attraverso la prospettiva del campo, appare come un gioco di fortuna, un carpe diem di un’allegria stridente, una vanitas perversa che acquisisce la propria elegiaca coscienza di sé degradando la vita borghese a classe caratterizzata da limitatezza e ristrettezza esistenziale. Non v’è nulla di deciso qui: è il caso e non il destino a dominare l’azione. Ma dominano anche la quiete carica di tensione di un campo invernale, la consapevolezza del proprio potere assoluto da parte di Wallenstein («di fare la guerra o la pace») e la coscienza di una decisione che si approssimava. Il canto dei cavalieri (Reiterlied) riunisce tutte le idee sulla libertà di questa capovolta “soggettivazione” (Subjektwerdung) nel motto: «il soldato soltanto è uomo libero». Come un coro tragico, i soldati giunti da ogni parte d’Europa cantano il loro triste destino e lo trasfigurano pateticamente. Elemento comune a tutti è il delegare al loro condottiero, Wallenstein, l’effettivo atto di decisione (Akt der Entscheidung). Non si vede alcuna base stabile che possa portare alla vittoria della guerra. La trilogia di Wallenstein comincia con una «commedia di libertà», una «chiassosa commedia» (Goethe), alla cui testa è posta l’importanza esistenziale della libertà. Essa procede verso «una meta più importante» e, come spiega Schiller in Über naive und sentimentalische Dichtung, «se la raggiungesse renderebbe ogni tragedia superflua ed impossibile». Grazie a tale inizio ritardante e contrario viene messa in evidenza una mancanza che successivamente non farà che rinforzare l’«impressione tragica», e cioè che un eroe alla ricerca di una decisione sia soltanto un’eccezione e non abbia . «Komödie der Freiheit»: G. Kaiser, Von Arkadien nach Elysium. Schiller-Studien, Vandenhoeck, Göttingen , p. . . F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, NA, XX, p.  (trad. it. in F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale. Del Sublime. Sul Patetico. Sul Sublime, Fabbri, Milano , p. ).

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alcun sostegno nel campo. Solo il cappuccino nota: «Come le membra, così il capo! Nessuno sa a chi lui creda». Con un’estensione epica e poco spazio per l’azione, la prima parte della trilogia evidenzia i motivi di una possibile decisione senza giungere mai ad essa. Tutto lo spettro di giudizi sulla validità delle ragioni che determinano il comportamento di Wallenstein può essere così riassunto: vendetta, brama di onori, desiderio di possesso, bramosia di potere e nostalgia di pace. «Soltanto i suoi soldati spiegano il suo delitto», si dice nel Prologo. Il render comprensibile una decisione non sortisce lo stesso effetto. Quando Schiller scrive nella Geschichte des dreißigjährigen Krieges che «tutti i suoi calcoli fallirono per il senso del dovere delle sue [di Wallenstein] truppe», egli rovescia completamente, nel dramma, la situazione nel suo contrario: le truppe del campo mostrano come con esse non sia possibile intraprendere nulla di reale e che ogni azione spontanea è destinata a fallire per la loro prevedibilità. Da un lato il campo rappresenta la base del potere di Wallenstein mentre dall’altro costituisce nel processo di sviluppo drammatico il momento della physis, da cui non può originarsi alcun orientamento all’azione. Neanche in seguito si arriva alle circostanze empiriche dell’azione. Alla stregua dell’autoconsapevolezza nell’atto della libera decisione, queste rappresentano un mezzo per tale scopo solo in maniera negativa, perché dimostrano come la fortuna di Wallenstein non provenga dalla totalità delle situazioni che egli domina. Nel dramma l’azione va presa in esame in un senso molto più essenziale, quale strumento di comando e di presa di coscienza. L’analisi tragica dell’azione che inizia con i Piccolomini ha per obiettivo un «invisibile oggetto astratto» e cioè il momento della decisione, e non le circostanze che la spiegano e che derivano da un’origine già nota. «Trasformare l’arido affare di stato in un’azione umana» è il suo obiettivo, scrive lo stesso Schiller nel  all’amico Körner. All’arte viene dunque affidato il compito di evidenziare con mezzi realistici una differenza che la rappresentazione del processo storico è costretta a tralasciare: la considerazione della comprensione esistenziale di un atto o, detta più modernamente, la chiarificazione dell’esistenza. Se l’Edipo Re di Sofocle era ancora legato a una storia precedente caratterizzata dal desti. Lettera di Schiller a Körner del  novembre : «Ich brüte noch immer ernstlich über dem Wallenstein, aber noch immer liegt das unglückselige Werk formlos und endlos vor mir da [...]. Es ist im Grund eine Staatsaction und hat, in Rücksicht auf den poetischen Gebrauch, alle Unarten an sich, die eine politische Handlung nur haben kann, ein unsichtbares abstractes Objekt, kleine und viele Mittel, zerstreute Handlungen, einen furchtsamen Schritt, eine (für den Vortheil des Poeten) viel zu kalte und trockene Zweckmäßigkeit, ohne doch diese biß zur Vollendung und dadurch zu einer poetischen Größe zu treiben; denn am Ende mislingt der Entwurf doch durch Ungeschicklichkeit» (NA, XXIX, p. ). . Lettera di Schiller a Körner del  luglio  (NA, XXIX, p. ).

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no, la quale viene rilevata nell’«analisi tragica» (anagnorisis) e diviene un elemento di compensazione, nel Wallenstein di Schiller – dramma del moderno «Edipo Re di Boemia» – è l’azione stessa a diventare “fatale” in quanto deve fare i conti con il momento della decisione e dell’essere causa di sé (Selbstverursachung). Il punto di svolta della scelta – e non l’azione che «è già successa e dunque si situa al di là della tragedia» – dovrebbe essere considerato come l’avvenimento che si sottrae, in maniera tragica, al controllo razionale ed al calcolo nel momento della scelta. Tale avvenimento è di notevole carica tragica oltre che decisivo per la svolta verso la tragedia moderna «pura», ma dimostra anche, come rileva Schiller sul modello dell’Edipo, come «ciò che accade, in quanto immutabile, è per sua natura molto più terrificante e la paura che qualcosa possa essere accaduto colpisce l’animo in modo completamente diverso rispetto alla paura che qualcosa possa accadere». L’idealismo schilleriano svela qui un realismo profondo. Schiller scrive infatti, in riferimento alla situazione di Wallenstein nel momento della decisione, che questa deve essere resa comprensibile «per via puramente realistica» e «ricompensata per la carente idealità [...] con la semplice verità». Ciò risulta di interesse anche per lo storico Schiller. L’improvvisa e transitoria ascesa senza eguali di Wallenstein dal nulla al potere e, ana. Cfr. lettera a Goethe del  ottobre  (NA, XXIX, p. ). . Gerhard Schulz nel suo studio Wallenstein zwischen den Zeiten ha definito Wallenstein l’«Edipo Re di Boemia», «solo che al di fuori dell’eroe nessun dio parla più a lui attraverso un oracolo». Già il coro del canto dei cavalieri non è più reclutato tra i membri della società ma è un coro di guerrieri coinvolti essi stessi nell’azione. Per tale differenziazione Schulz fa riferimento a quei passi di una lettera di Schiller (del  giugno  indirizzata a Körner) in cui l’autore riconosce «l’incancellabile differenza tra nuova e vecchia tragedia» nel fatto che il vaticinio dell’oracolo, da cui scaturisce la «pura analisi tragica», nell’era moderna non può più avere luogo in quanto, con la predeterminazione di quanto accadrà, non sarebbero più possibili sin dall’inizio soggettività e libertà. Nella tragedia moderna il destino non può entrare in azione sotto forma di vaticinio prima degli eventi, prima dell’entrata in scena dell’azione, cosicché l’evento stesso non sia altro che l’avverarsi del responso dell’oracolo, bensì deve essere l’azione stessa ad apparire fatale. Tale azione deve apparire «come se il destino la dirigesse in modo immediato, sebbene – ed è questa la limitazione che esigono la spontaneità e la soggettività umana – l’incontro di ogni singola circostanza attraverso di esso debba essere sufficientemente motivato» (Polizeidramen, Die Kinder des Hauses). È colui che agisce a divenire destino con l’influsso delle sue contingenze. Il concetto di nemesi – originariamente significava “assegnazione” o “ripartizione del dovuto” – viene identificato con le circostanze. . Cfr. la lettera dell’ gennaio : «Ma ovviamente non è una tragedia greca e non può essere tale; e la nostra epoca, se anche avessi potuto farlo, non me ne sarabbe stata grata» (NA, XXIX, p. ). . A Goethe,  ottobre  (NA, XXIX, p. ). Schiller scrive il  maggio del  a Goethe: «Daß er [Aristoteles] bei der Tragödie das Hauptgewicht in die Verknüpfung der Begebenheiten legt, heißt recht den Nagel auf den Kopf getroffen» (NA, XXIX, p. ). Cfr., in riferimento ad Aristotele, in particolare H. Reinhardt, Schillers “Wallenstein” und Aristoteles, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XX, , pp. -. . Lettera di Schiller a W. von Humboldt del  marzo  (NA, XXVIII, p. ).

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logamente, la rapida caduta nell’insignificanza politica non può essere interpretata come un caso individuale, bensì va considerata come problema di una crisi generale. Ciò che non poteva mai riuscire all’elaborazione storica della Geschichte des dreißigjährigen Krieges – vale a dire rendere il momento della decisione «umanamente più vicino» – doveva riuscire alla riproposizione della fantasia poetica che, proprio grazie ad essa, garantisce uno sguardo «nel presente e nel futuro ricco di speranze» (Vorrede, trad. it. cit., pp.  ss.). Bisogna attualizzare il completo paradosso di questa impresa per capire per quale ragione lo storico Schiller scriva, in una minuta di lettera del novembre , in riferimento a questo momento della decisione di Wallenstein: «Mi viene quasi da dire che il soggetto [storico] non m’interessa affatto».  I Piccolomini La vera azione drammatica della trilogia di Wallenstein comincia con la seconda parte, Piccolomini. Nei confronti di quest’ultima il campo, con le sue scene di massa, è un espediente epico. La seconda parte della trilogia si sviluppa come affare di Stato, e cioè come un’azione che trova origine nella convinzione che le scelte politiche siano da pianificare. La cerchia attorno a Wallenstein si fa più stretta. Gli ufficiali, a cui sono sottoposti i singoli reparti del campo, hanno ora la parola. Questo mondo di ufficiali prenderà una decisione pro o contro Wallenstein. In tutti i personaggi predomina la consapevolezza di trovarsi davanti al momento della decisione che determinerà il «destino d’Europa». I reggimenti si sono radunati, i loro comandanti si riuniscono, è presente la famiglia di Wallenstein, vi è Questenberg – il messo dell’imperatore –, così come un rappresentante della controparte, il negoziatore svedese. Non si parla più di libertà ma di guerra, di visioni di potere e calcolo politico. La scena è caratterizzata da premonizioni, speculazioni mal condotte, illusioni e dissimulazioni. Il machiavellico codice comportamentale è onnipresente e determina il pensiero strategico. Max Piccolomini ha portato via la famiglia di Wallenstein dalla zona di influenza dell’imperatore e l’ha condotta a Pilsen; il negoziatore Sesin si aggira tra gli svedesi con pacchi e dispacci. Questo alimenta le speculazioni su un imminente patto con gli svedesi (Ottavio: «Il duca di Friedland ha fatto i suoi preparativi») (II, ). Perciò anche l’antagonista di Wallenstein, Questenberg, è in missione segreta in quanto rappresentante della fazione imperiale. Esteriormente egli ha ancora un rapporto non ostile con Wallenstein (lo sgombero della Boemia, la li. Cfr. la lettera di Schiller a Körner del  novembre del  (NA, XXIX, p. ).

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berazione di Regensburg, lo spostamento di otto reggimenti nei protestanti Paesi Bassi), ma, segretamente, prepara la presa del potere da parte di Ottavio. Il decreto imperiale di deposizione e allontanamento per insubordinazione è già emanato e il comando provvisorio è affidato ad Ottavio. Scoppia il conflitto: azione e reazione sembrano mantenere ancora l’equilibrio; l’azione reale ha luogo dietro le quinte, attraverso le tattiche, le manipolazioni e il temporeggiamento operati con i mezzi dell’intrigo politico, della calunnia, della strategia dell’illusione. Solo lo spettatore la domina completamente. Quanto maggiore diviene la premura di Wallenstein tanto più egli esita; quanto più le sue possibilità di azione svaniscono tanto più si fa titubante. Il piano di congiura dà vita ad una contro-congiura. La concatenazione di fatalità non manca; quando il mediatore di Wallenstein, Sesin, è fatto prigioniero essa si acuisce in catastrofe secondo una logica fatale. In una lettera a Goethe Schiller la chiama «precipitazione» degli eventi: l’azione assume sin dall’inizio una “inclinazione” tale da far sì «che essa si affretti con un costante e rapido movimento verso la propria fine». Non si tratta qui di una possibilità storica, piuttosto l’azione drammatica segue la logica della «trasformazione tragica dell’evento», attraverso la quale il «puro atto» si trasfigura, trasformando infine il suo autore in vittima. Wallenstein è tutt’altro che il centro del potere. Quanto più il dramma si avvicina al suo centro tanto più si comprende come tale centro sia un vuoto di potere. Già nella sua prima scena si parla della sua deposizione. La libertà decisionale di Wallenstein viene manipolata finanche nel momento in cui gli viene giurata fedeltà incondizionata. Allorché Terzky ed Illo durante una festosa gozzoviglia rendono nulla la formula di giuramento verso l’imperatore, ciò diviene occasione propizia per una contro-azione. Ma anche l’opposizione di Wallenstein innesca un meccanismo di azioni che alla fine sarà visto come un crimine dai suoi oppositori. Avendo egli cercato di nascondere la minaccia di una sua deposizione, si impelaga in modo sempre più profondo nella dialettica di una tattica alternante, finché questo non gli viene contestato da Ottavio come fatale insieme di colpe che egli stesso ha causato: Con passo leggero è andato quatto quatto per la malvagia via, altrettanto impercettibile e astuta la vendetta gli ha strisciato dietro. Non vista, truce è alle sue spalle, un passo soltanto e rabbrividendo la sentirà (II, vv. -).

La condizione di possibilità di questo gioco politico di azione e reazione consiste non solo nella natura del calcolo strategico o nell’errore relativo alla sua logica fatale, bensì nell’indeterminatezza di Wallenstein, grazie alla quale “l’incalzare degli eventi” (Illo) cresce fortemente. Il sistema di intri. Lettera di Schiller a Goethe del  ottobre  (NA, XXIX, p. ).

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ghi politici non è, da solo, né un automatismo né una sfera del destino, bensì un insieme di coinvolgimenti cagionato proprio dall’esitazione dello stesso Wallenstein. Si può sostenere che il patto con gli svedesi sarebbe riuscito se solo si fosse stati in grado di chiuderlo prima. Ma Wallenstein tentenna. «Giacché il carattere principale è ritardante, sono propriamente le circostanze a determinare la crisi e credo che questo aumenterà di molto l’impressione di tragicità»: così scrive Schiller a Goethe. Le trattative con gli svedesi vengono portate avanti da Wallenstein consapevolmente senza alcun piano (III, ), perché egli vuole lasciarsi aperte le varie possibilità («Me ne compiacevo unicamente nel mio pensiero», III, ); non si rende mai conto dell’effettiva gravità della situazione. La sua esitazione non è solo un tattico temporeggiamento ma anche un aggiramento della decisione, fondato sulla convinzione della calcolabilità e pianificabilità del futuro. Wallenstein: «Quando ho scrutato il centro dell’uomo, allora conosco anche il suo volere e il suo agire» (III,  ss.). Con questa esitazione egli viene a trovarsi progressivamente in un meccanismo di necessità. I suoi oppositori, Ottavio e Questenberg, non possono far altro, alla fine, che osservare l’evoluzione di questa fatale azione d’insieme: La situazione sta per evolversi e prima che tramonti il giorno che ora spunta funesto in cielo, il dado sarà tratto (II,  ss.).

Su questo sfondo non si può considerare Wallenstein un carattere tragico. Egli è imperscrutabile, volitivo, indifferente; un pragmatico che si può ammirare per il suo successo ma che non va compatito per il suo fallimento. Nel corso del dramma la sua immagine è mutevole. Egli ha un’autorità illimitata agli occhi delle sue truppe, perché il suo mito di mago è ancora molto radicato. Ma già tra gli ufficiali tale mito impallidisce: è troppo volitivo ed oscillante. Come padre di famiglia, infine, non è amico e confidente ma si rivela politico freddamente integerrimo che domina la questione del matrimonio politico (nel caso di Tekla) così come quella della lucida tattica calcolatrice (con la fiducia di Max). Il sobrio realista che qui Schiller rappresenta è caratterizzato da una «morale dell’azione» che non decide net. Lettera di Schiller a Goethe del  ottobre , NA, XXIX, p. . . «L’azione nella tragedia schilleriana è simile al crollo di una torre; è un crollo unico nei confronti del quale la contro-azione, nel caso in cui essa acceleri la caduta, appare troppo blanda. È come se ci scivolasse via la realtà da sotto i piedi» (R. Schneider, Wallensteins Verrat, ). . Questa è la posizione di Walter Müller-Seidel espressa in Die Idee des neuen Lebens: eine Betrachtung über Schillers “Wallenstein”, in F. Heuer, W. Keller (hrsg.), Schillers Wallenstein (Wege der Forschung, vol. ), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt , pp. -. . Cfr. Reinhardt, Schillers “Wallenstein” und Aristoteles, cit.

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tamente tra bene e male ma che esita, ritarda e intende mantenere le proprie libertà di movimento. Questa indeterminatezza fa sì che di lui si possa fare un colpevole, quand’anche non gli si possa assolutamente contestare alcun uso improprio del suo potere. Wallenstein definisce ciò «Doppelsinn des Lebens» («Ambiguità della vita», III, ). In una lettera a W. von Humboldt (del  marzo ), risalente a una precedente fase di lavoro al Wallenstein, Schiller scrive: Quel che ho detto a proposito del realismo nel mio ultimo saggio è vero in grande misura per il Wallenstein. Egli non ha nulla di nobile, non appare grande in nessun atto della sua esistenza, ha poca dignità o simili, ma spero cionondimeno di creare in lui un grande carattere drammatico che ha in sé un autentico principio [...]. Egli commisura tutto al successo, e questo non si verifica. Egli non può, come l’idealista, avvolgersi in se stesso e sollevarsi al di sopra della materia, vuole bensì sottomettere la materia e non ci riesce (NA, XXVIII, p. ).

A differenza della descrizione del Wallenstein storico nella Geschichte des dreißigjährigen Krieges, il dramma rinuncia completamente a una valutazione del suo carattere. Questi viene mostrato come moralmente indifferente, vale a dire come un politico che si serve di mezzi negativi bilanciati da scopi positivi. Anche il suo oppositore, Ottavio, deve riconoscere che i passi politici compiuti “pubblicamente” da Wallenstein permettono una «clemente interpretazione» (II,  ss.). Anche il giudizio delle sue visioni politiche risulta indifferente. Se Wallenstein prenda in considerazione realmente un cambio dei fronti o se questo rappresenti ancora una volta un me. Nella più antica ricerca sul Wallenstein predomina questa visione moraleggiante. Otto Ludwig scrive nel suo lavoro sull’opera del -: «Non conosco alcuna figura poetica e, nello specifico, alcuna figura drammatica che sia nella sua ideazione così casuale, così morbosamente individuale, e nella sua rappresentazione così lontano dalla realtà come il Wallenstein di Schiller [...]. Ma neanche alcuna in cui tale non-verità ed insita labilità siano celate con maggior destrezza. Dietro due veli: anzitutto quello del costume – del principe, del generale, i costumi tipici del luogo – quindi tra le pieghe più ricche di un’ampia e sontuosa dizione [...], questa fuga amletica innanzi all’azione e alla responsabilità [...]. L’armatura di Wallenstein si tramuta spesso nella camicia da notte di un professore tedesco, egli appare sovente come un consigliere di corte di Iffland, che ha l’idea fissa di essere stato il generale con questo nome nella Guerra dei Trent’anni»; anche Reinhold Schneider si esprime in questo senso: «La glorificazione del politico Wallenstein non potrà mai purificarsi dall’accusa che gli sia carente il senso della legge e dell’ordine e che in lui vi sia un certo spirito anarchico». Riguardo a I,  osserva: «Se fosse intesa la rappresentazione dell’auto-inganno, questa non potrebbe essere migliore. Non appena Wallenstein tocca la verità questa muta [...]. L’eroe della tragedia non è ancor più discutibile e pericoloso (rispetto al Wallenstein storico)? Egli vorrebbe tornare in sé ma non gli riesce. Un’incancellabile tendenza all’auto-idealizzazione è opposta alla conoscenza di sé [...]. Egli è, intenzionalmente e non, falso nei propri confronti e quindi – per rovesciare le parole di Polonio – falso verso chiunque [...]. Egli è, e non possiamo dire altrimenti, completamente al di fuori della verità».

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ro calcolo strategico, per attuare un’effettiva politica di pace, non è mai veramente oggetto di discussione. Egli è animato unicamente dalle presunte potenzialità della magia e non si muove all’azione. La valutazione morale di Wallenstein è strettamente condizionata dal calcolo politico che giudica soltanto tra ciò che è valido e ciò che non lo è. È a questo che fa riferimento Max Piccolomini quando dice che «la ragion di Stato» può rendere un uomo colpevole «giacché colpevole lo volete» (II,  ss.). Ma anche l’antagonista di Wallenstein Ottavio Piccolomini è moralmente indifferente in quanto agisce solamente come politico. Ciò si mette in evidenza già nella sua tendenza ad usare clemenza nei confronti della tirannia e a separare il volere di Wallenstein dal suo operato: Lungi dall’imperatore sono i modi tirannici! Non vuole punire la volontà, ma soltanto l’azione. Il principe tiene ancora in mano il proprio destino (II,  ss.). Non penso di servirmi di questo foglio prima che venga compiuta un’azione che dimostri in modo inconfutabile l’alto tradimento a sua condanna (ibid.).

La politica di Ottavio, basata sul rispetto dell’alleanza e sulla lealtà verso lo Stato, non rappresenta una reale alternativa alle opzioni di cui Wallenstein dispone, bensì porta avanti la tradizione e con essa la politica bellica e la logica dei generali. Innanzi alla sfida di una scelta Ottavio non si trova mai. Con lui la storia si ripete ugualmente in maniera tragica. Proprio Buttler nella scena finale del dramma porta all’attenzione di Ottavio questo concetto: «Voi avete seminato sangue e siete sgomento perché sangue è scorso» (III, ). Tale indifferentismo nel giudizio è presente in tutti i personaggi, anche nella contessa Terzky e in Buttler. Il solo Max Piccolomini rappresenta un’eccezione: per ragioni di integrità personale, che egli ritiene molto più elevata del comportamento orientato alla strategia di potere dei suoi due padri (dice ad Ottavio: «Il duca mi ha ingannato, tremendamente, ma tu non hai agito meglio», III, ), in lui predomina un senso del dovere (cfr. III, ) che crede di superare la contrapposizione tra morale e politica, tra volontà ed azione. Max, «allevato tra le armi» (II, ), è per un idealismo che possa negare completamente i limiti della realtà. Da quest’ultima si allontanano le sue fantasie idilliache che si autodistruggono contro i vincoli dell’agire della vita reale. L’idillio . Le immagini idilliache di Max vengono descritte da Schiller chiaramente come fantasie originate dallo stato di guerra. L’amore come «isola» e Wallenstein come «barca» che naviga verso le rive di una pace idilliaca e di una nuova era caratterizzano il rapporto di Max con Wallenstein (cfr. II,  ss.). Ciò che questi si propone di realizzare nella storia è già presente in Max come immagine fantastica (G. Sautermeister, Idyllik und Dramatik im Werk Friedrich Schillers. Zum geschichtlichen Ort seiner klassischen Dramen, Kohlhammer, Stuttgart ). Cfr. anche P. Böckmann: «Un’opposizione all’ambiguità d’ogni discorso ed azio-

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degli amanti Max e Tekla è spazzato via dal trascorrere del tempo. È questa «la sorte di ciò che è bello sulla terra» (III, ). La posizione radicalmente opposta a quella di Max è rappresentata da Buttler, che professa un fatalismo che non prevede alcuna libertà: «Invano l’uomo pensa di agire liberamente! Egli è soltanto il giocattolo della forza cieca: è lei a scegliere e a disporre rapida per lui la spaventosa necessità» (III,  ss.). Quale rotella del grande ingranaggio del destino egli è totalmente manipolabile. L’assassino di Wallenstein non è altro che l’elemento esecutivo di tale ingranaggio.  La morte di Wallenstein Nella terza parte della trilogia la crisi esterna si acuisce rapidamente. Sotto la massima pressione una decisione è ora necessaria. L’accordo con gli svedesi dovrebbe essere siglato immediatamente e gli ambasciatori inviati a Praga, Eger e agli altri reparti perché possano giurare fedeltà a Wallenstein per tempo, tanto più che i delegati di Ottavio sono già in viaggio da tempo. Ma Wallenstein esita. Isolato nella stanza della torre si dedica a pratiche astrologiche. Mentre il tempo per agire scorre via velocemente egli attende la costellazione favorevole e perde l’ora fatale. Si tratta di un fallimento senza sfondo idealistico e senza tragedia, un fallimento per insicurezza perché i suoi piani sono venuti alla luce con la cattura di Sesin («Ora hanno idea di tutto ciò che è accaduto»). Capisce ormai chiaramente che il controllo, il dominio sulla strategia gli è sfuggito di mano. Il desiderio di poter dominare il caso non appartiene alla quotidianità politica; unito alla credenza negli astri esso si fonda sulla fantasia di onnipotenza che ritiene dominabile la casualità e dunque, di fatto, la nega. Ponendo tutto in discussione sul piano politico, Wallenstein è in pratica condizionato al fatto che tutto rimanga immutato. La fede nelle stelle sottende il sospetto che il disegno politico possa ancora fallire. «Non c’è caso», dice caparbiamente Wallenstein a Illo quando la catastrofe non è ancora prevedibile, «e quel che a noi appare cieco accidente / proprio questo viene dalle fonti più profonde» (III,  ss.) – fonti, dobbiamo aggiungere, che dovrebbero essere leggibili nelle costellazioni astrali. Nel negare la casualità Walne che pervade il dramma è evidenziata dal solo Max Piccolomini che, ancora nella su caduta, è testimone della possibile unità tra pensiero, parola ed azione» (P. Böckmann, Gedanke, Wort und Tat, in “Jahrbuch der duetschen Schillergesellschaft”, IV, ). Di recente Wolfgang Ranke ha criticato i motivi mitici nelle reminiscenze idilliache dell’azione Max-Tekla in quanto «contributo alla demitizzazione degli orientamenti all’apparire (Schein-Orientierungen) della vita reale» (W. Ranke, Dichtung unter den Bedingungen der Reflexion, Königshausen und Neumann, Würzburg , p. ).

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lenstein si rende cieco nei confronti della politica reale. Ma, alla stregua di Edipo, egli è «cieco [pur vedendo]» (III, ): considera il suo assassino Buttler come «primo pegno di fortuna» (III, ), il traditore Ottavio quale suo «buon angelo» (III, ). La sua esitazione ha origine nel motivo ricorrente di eliminare ogni rischio. Egli non fallisce perché la sua azione è priva di un piano, bensì perché questa è troppo ambiziosa. «Chi chiede alle stelle cosa fare non ha certamente ben chiaro cosa si debba fare», dice Goethe circa tale cecità di Wallenstein nei confronti della realtà. Questi ammette sconcertato, finanche nel momento della catastrofe: «La cosa mi ha sorpreso [...]. È giunta troppo in fretta [...]. Non sono avvezzo a che il caso mi porti dove vuole, col suo fare, cieco e sinistro da padrone» (III, ). Proprio nell’agire politico il conflitto si realizza nel fatto che da un lato un controllo per quanto possibile totale su fattori e conseguenze di una decisione dovrebbe garantirne il buon esito, ma che, dall’altro, i motivi razionali che determinano l’agire non si rivelano mai sufficienti per la decisione stessa. «La ragione della situazione di decisione consiste proprio nel determinarsi all’azione sebbene manchino motivi sufficienti per agire in un modo anziché in un altro». Wallenstein «è non tanto combattuto e vinto da una forza esterna», sostiene Hegel, «quanto privato di ogni mezzo per la realizzazione del suo scopo». Il motivo astrologico in questa fase culminante assume lo stesso ruolo che aveva l’oracolo nella tragedia antica, ma non come oggettivo potere del destino bensì come sola e soggettiva mania di Wallenstein, che dovrebbe alleggerirlo dalla «paura delle cose terrene». Schiller ha elaborato tale differenza in maniera molto sottile: Wallenstein, nel tentativo di appropriarsi del messaggio delle stelle, non le riconosce. Quando Giove termina il suo passaggio nel regno di Saturno egli si decide all’azione. Ma Giove è piuttosto in posizione favorevole per l’imperatore suo oppositore. La tragica ironia di questa scena consiste nel fatto che le azioni di Wallenstein danno ragione al destino per come è “scritto” nelle stelle. Da soggetto dell’azione Wallenstein si trasforma momentaneamente in oggetto di un potere che muove all’azione e che – in maniera del tutto impersonale – si mette in evidenza come semplice accadimento. Il Marte portatore di sventura stretto tra Giove e Venere è lo stesso Wallenstein. Massima libertà decisionale e massima necessità si danno temporaneamente il cambio. Tutti i passi successivi avvengono sotto la necessità degli eventi e sono interpretabili come risultato di una libertà che è essa stessa destino. . J. W. Goethe, Sämtliche Werke, hrsg. v. E. Beutler, Artemis, Zürich  s., vol. , p. . . H. Lübbe, Zur Theorie der Entscheidung, in Collegium philosophicum, Festschrift für J. Ritter, Schwabe, Basel , pp.  ss.; cfr. anche Id., Dezisionismus in der Moral-Theorie Kants, in Epirrhosis, Festgabe C. Schmitt, Duncker und Humblot, Berlin , , pp.  ss. . G. W. F. Hegel, Ästhetik, in Id., Werke, vol. , p.  (trad. it., Estetica, a cura di N. Merker, N.Vaccaro, Einaudi, Torino , t. I, p. ).

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È sempre innanzi agli occhi la drammaticità che rappresenta il momento della decisione, finanche nelle indicazioni per la regia, come un evento assolutamente impersonale, che coinvolge tutti gli attori. Wallenstein dice, nel momento della decisione: È tempo di agire, prontamente, prima che questa felice configurazione scorra via sul mio capo. Sempre in mutamento è infatti la volta celeste [...] (Colpi alla porta) – si legge nelle indicazioni di regia e quindi segue la notizia dell’arresto di Sesin. Il piano è ormai svelato. ILLO: Non puoi che andare avanti, non puoi più far marcia indietro.

E di nuovo Wallenstein, dopo essersi ripreso: Attendi ancora un istante. È giunta troppo in fretta... Non sono avvezzo a che il caso mi porti dove vuole, col suo fare, cieco e sinistro da padrone (III,  s.).

La necessità di tale sua decisione consiste nel fatto che da lui si pretende una azione le cui condizioni egli non è in grado di formulare in modo teoricamente esauriente. Anche il sostegno cercato nelle stelle non è altro che l’espressione della sua (esistenziale) disperazione perché non vi è alcun calcolo affidabile, pragmatico o politico che possa garantire l’esito di una decisione. Nella situazione di decisione regna il primato della ragion pratica rispetto a quella speculativa. Quest’ultimo si compirebbe solo nel caso in cui Wallenstein si isolasse e, incondizionatamente e senza alcun controllo sul suo buon esito, lo realizzasse come esigenza morale rivolta verso se stesso. Il pragmatismo dell’esigenza morale – secondo il pensiero di base dell’etica kantiana – è il suo rigorismo. Ma questo significherebbe una rinuncia al potere e la sua sconfitta come generale. Wallenstein, però, ha paura di tutto ciò. Vuole mantenere il potere: poco prima del suo monologo finale si dice: . Mi rifaccio per questa riflessione allo studio dettagliato di Alfons Glück (A. Glück, Wallenstein, Fink, München ), che riconosce nell’attività astrologica di Wallenstein l’espressione di un dubbio circa la propria fortuna che lo colse dopo la sua caduta di Regensburg. Il «senso pratico del grande realista» viene «sostituito dalla mania astrologica» e la tragedia indica come Wallenstein perda «sempre più una visione oggettiva delle cose». . Cfr. Lübbe, Dezisionismus in der Moral-Theorie Kants, cit., pp. -, qui p. . «La teoria morale kantiana è la teoria di una morale il cui carattere decisionista protegge dalle delusioni cui sarebbe esposto chi fosse in grado di apprezzarla solo per gli auspicati effetti benefici sulla società» (ivi, p. ). . Si può dire qui in sintesi che Wallenstein non si abbandona alla sola potenzialità della libertà (in quanto semplice potere), bensì prende tutti gli accorgimenti che possano servire al mantenimento della sua posizione. Raduna un esercito davanti a Pilsen, esige da Illo incondizionatamente pieni poteri, riceve il pro memoria delle sue truppe, porta la sua famiglia

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«Dovrebbe accadere adesso, adesso che il potere è ancora nelle mie mani» (III, ). Pienezza del potere e libertà decisionale però si escludono a vicenda. È questa frattura tra potere e potenzialità, tra potere ed esercizio di esso che non può essere superata dalla decisione di un singolo. Se Wallenstein vuole rimanere generale e vigilare sullo stato d’emergenza deve separare volontà ed azione – segno, questo, inequivocabile secondo Kant del fatto che un’azione non è radicata nel carattere intelligibile dell’uomo – e abbandonare la sua libertà ad un destino che non può più controllare. Nell’evitare la decisione, però, egli non si garantisce delle possibilità bensì perde la realtà. Anche la presa di coscienza di tale differenza arriva troppo tardi. Quando Wallenstein si chiede, all’inizio del suo monologo: «Dovrei / compiere l’azione, perché l’ho pensata?», questa gli è già sfuggita nell’inconoscibilità della vita. Si chiude così il cerchio, come un «muro delle [proprie] azioni» (III, ); risolversi ad un’azione diretta alle cause di tutto ciò è ormai di fatto non più possibile; la libertà decisionale è sfuggita; il punto di non ritorno varcato. «La sventura», «l’ambiguità della vita», «l’urna misteriosa del destino», «le forze malvagie», «il nemico invisibile» sono ormai delle categorie interpretative con cui Wallenstein giustifica la sua condizione. Il grande monologo (III, atto I, ) è una notevole prova di come la separazione tra volontà e azione porti ad una maniera di agire segnata dalla massima impotenza. WALLENSTEIN: Possibile? Non potrei più fare com’era mia intenzione? Tornare indietro a mio piacimento? Dovrei compiere l’azione perché l’ho pensata? (III,  ss.).

Nel suo scritto Zum ewigen Frieden (), Kant deduce il primato della morale sulla politica dallo stato di necessità di una data situazione in cui si è obin un posto sicuro e cerca il contatto con il mediatore svedese. Tutte queste sono anche azioni, ma non azioni che lo vincolano (in maniera soggettiva). «Kühn war das Wort, weil es die Tat nicht war» («La parola fu ardita, giacché non lo era l’azione», trad. it. cit., p. ) – ammette contrito. L’indifferentismo morale ancora non lo condanna. «Blieb in der Brust mir nicht der Wille frei, / Und sah ich nicht den guten Weg zur Seite, / Der mir die Rückkehr offen stets bewahrte?» («Forse non rimaneva libera la volontà nel mio petto, e non vedevo accanto a me la giusta via, che sempre mi serbava la possibilità del ritorno?», trad. it. cit., p. ). . Con il carattere effettivo della causalità al di sopra delle leggi di natura – col fatto intelligibile – si accorda bene solo un «dovere» che non segue l’ordine delle cose ma che crea «in piena spontaneità un proprio ordine secondo le idee» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, Akademie-Ausgabe, hrsg. v. der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, Reimer, Berlin  ss., vol. III, p. . Se volontà ed azione nel «dovere» non fossero un’unica cosa i principi del dovere potrebbero essere seguiti anche da un criminale, cui basterebbe applicarli in maniera conseguente per comportarsi bene. Il dovere esprime la necessità di un’azione possibile. Ma questo è in realtà il «volere proprio e necessario [dell’uomo] in quanto strumento di un mondo intelligibile e viene pensato dall’uomo come “dovere” solo nella misura in cui egli stesso si considera strumento del mondo sensibile» (I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, Akademie-Ausgabe, vol. IV, p. ).

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bligati ad agire. Il politico, spiega Kant, ha il problema – se vuole creare un proprio campo di influenza di relativa prevedibilità – di dover essere in grado di «decidere con sicurezza e valutare con coerenza», ma non quello di sapere alla fine cosa scaturirà dalle sue azioni. Per l’agire puramente morale tale problema non sussiste, in quanto la morale ha già superato questo dilemma e non perché le risultino indifferenti gli esiti, bensì perché essa si riconosce sempre indipendente dal giogo delle possibili conseguenze. Kant tira le conclusioni: «La vera politica non può fare alcun progresso, se prima non ha reso omaggio alla morale; e, quantunque la politica per se stessa sia una difficile arte, l’unione però di essa con la morale non è affatto un’arte, poiché questa taglia i nodi che quella non può sciogliere non appena un contrasto sorge tra loro». La politica, secondo il pensiero kantiano, non deve essere una pratica bensì una prassi, attraverso la quale attuare i principi di un diritto pubblico nel «progredire della civiltà». «Il dio-limite della morale», secondo le celebri frasi del suo scritto Zum ewigen Frieden, «non la cede a Giove (diolimite della forza), poiché questo è ancora soggetto al fato, cioè la ragione non è abbastanza illuminata da abbracciare tutta la serie delle cause determinanti, le quali permettono di prevedere con sicurezza l’effetto buono o cattivo del fare o del non fare degli uomini secondo il meccanismo della natura». Nella visione kantiana la politica, che, alla stregua della ragione, non è di per sé sufficientemente illuminata, deve sempre essere comprovata da giudizi morali al fine di mantenere lo spazio d’azione di cui ha bisogno per non distruggersi. Ma è questa la prospettiva di Schiller? Non se. I. Kant, Zum ewigen Frieden, Akademie-Ausgabe, VIII, p.  (trad. it., Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Antologia degli scritti politici di Emanuele Kant, a cura di G. Sasso, il Mulino, Bologna , pp.  ss.). . Ibid.: «immer fortschreitende Kultur». . Kant, Zum ewigen Frieden, cit., VIII, p.  (trad. it. cit., p. ). Volker Gerhardt sottolinea decisamente questo rapporto di classe tra morale e politica: «Abbiamo dunque bisogno del pieno auto-concetto di uomo quale “essere razionale” al più tardi nel momento in cui vogliamo applicare tale concetto di persona capace di giudicare a noi stessi. Ciò però vuol dire: se noi rispettiamo davvero la legge dobbiamo anche essere morali. La morale quindi riguarda le conseguenze interne di esigenze rivolte verso l’esterno. È compito della politica non sottrarsi a tale logica» (V. Gerhardt, Immanuel Kants Entwurf “Zum ewigen Frieden”, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt , p. ). . È questo in Kant la figura del politico morale «che intende i principi dell’arte politica in modo che essi possano coesistere con la morale» e che dunque rende possibile «ogni progresso verso il meglio» al fine di non perpetuare «la violazione del diritto» (Zum ewigen Frieden, VIII, cit., p. ; trad. it. cit., p. ). . Nella trilogia di Wallenstein Schiller trasforma in vis tragica tale problema. La parte analitica della fabula mostra l’autodistruzione di un politico (Wallenstein come «Edipo Re di Boemia»), che non vuole sottoporsi alla verifica dei giudizi morali. Cfr. H. J. Schings, Das Haupt der Gorgone. Tragische Analysis und Politik in Schillers “Wallenstein”, in G. Buhr (hrsg.), Das Subjekt der Dichtung, Festschrift für Gerhard Kaiser, Königshausen und Neumann, Würzburg , pp. -.

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gue Schiller, con la sua estetica politica, un percorso diverso rispetto a Kant per risolvere la diatriba tra politica e morale? Laddove Kant esige dai politici un doppio ruolo – consistente nell’essere intelligenti come i serpenti ma, al contempo, con una limitante attitudine morale, «semplici come le colombe» –, Schiller sostiene per contro che si dovrebbe «per risolvere nell’esperienza quel problema politico [...] arrivarci attraverso il problema estetico», dando vita anzitutto a un fondamento razionale per la pratica del diritto grazie all’influsso di un’arte apparentemente apolitica. Wallenstein è un realista che vuole soggiogare a sé la materia, un esponente del machiavellismo politico. Tutti i suoi piani, scopi e visioni derivano da questo realismo; non va mai in maniera decisa al di fuori di essi. E nel momento in cui in tale nesso di necessità il politico senza scrupoli, che calcola ogni cosa, diviene egli stesso vittima dei suoi metodi e si rende colpevole del proprio declino, si può parlare di principio di giustizia livellatrice, di nemesi. Lo stesso Wallenstein mette in evidenza questo circolo diabolico: WALLENSTEIN: Ma come? Mi tocca ora dar serio compimento a tutto, perché ho con troppa libertà giocato col pensiero? Maledetto chi scherza col fuoco! ILLO: Se è solo stato un gioco, credimi, lo pagherai caro (III,  s.).

Per la moderna idea di nemesi del rielaborato modello di Edipo è fondamentale un intreccio in cui non vi sia il bene opposto al male, ma il male che attraverso il male stesso si distrugge; la giustizia livellatrice non porta ad un ripristino dell’ordine “positivo”, ma ad un (alternato) autoannientamento di quello “negativo”. La differenza tra esecutore e vittima viene a cadere. Anche la “vittoria” di Ottavio risulta alla fine una sconfitta. La svolta finale, Dem Fürsten Piccolomini, dimostra la sua responsabilità non solo per l’omicidio di Wallenstein ma anche per la morte di suo figlio. Il male distrugge se stesso: «Ogni empietà porta già nel suo cuore il proprio angelo vendicatore, la cattiva speranza» (III, ), dice Wallenstein. Proprio per tale giustizia livellatrice che si manifesta spontaneamente e fatalmente nell’intreccio dell’azione (non è dunque in alcun modo una forza trascendente, mitica) si può parlare di responsabilità del singolo, che consiste nella scelta tra bene e male. Mentre Kant spiega come con il suo concetto di morale venga meno ogni azione tragica (l’imperativo categorico formula una filosofia della morale atta ad impedire che nel modo di agire venga fraintesa o perduta la disposizione d’animo di colui che la compie), Schiller – in maniera quasi riduttiva – pone l’accento pro. Kant, Zum ewigen Frieden, cit., VIII, p. . . Cfr. F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, NA, XX, p.  (trad. it., L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ).

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prio sull’equivoco tragico che si situa prima della legge morale. Per lui la libertà di scelta, nel senso di una finita libertà del volere, presuppone ancor prima di ogni imperativo morale delle riflessioni, rilevanti sul piano pratico, circa le scelte da prendere di volta in volta – riflessioni che possono essere espresse solo esteticamente. Mentre in Kant la libertà è vincolata alla decisione per la legge morale, vale a dire che l’atto della decisione coincide con l’autoimporsi della norma, Schiller vuole che nella tragedia la libertà sia intesa come fenomeno esperibile, cioè come decisione, abbracciando così tutto l’orizzonte della questione: «Perché essere assolutamente morali?». Schelling contribuirà in maniera essenziale a questo problema del realismo nella visione della libertà nell’idealismo tedesco: infatti, se si considera – come Schiller fa nei suoi scritti tardi – il concetto di libertà in relazione alle sue possibilità reali ed effettive, non si può prendere in considerazione solo il “bene” del concetto categorico di moralità (Kant), ma si deve anche interpretare il “male” – in quanto avverso alla ragione e con esso l’assoluta indipendenza da tutte le istanze predeterminate – come un indipendente nucleo positivo, proprio come possibilità di corruzione. Esempi chiari in tal senso sono già Karl Moor, Fiesco, il marchese di Posa fino a Demetrio. In «ogni intensa manifestazione della libertà e della forza di volontà» il poeta trova «un oggetto adeguato ai fini della sua rappresentazione», si legge nello scritto Über das Pathetische. Nel contesto del dramma si evidenzia qui il primato della libertà esistenziale di volere sul concetto deontologico kantiano di libertà. Schiller è in questo caso – come Schelling – più critico di Kant che suo discepolo. Il concetto effettivo e reale di libertà umana non è soltanto una prerogativa del “bene” che si interpreta formalmente come esigenza di un corretto rapporto con se stessi, bensì una «facoltà del bene e del male». In maniera simile si esprime Kierkegaard in Der Begriff Angst: «Solo per e nella libertà sussiste la differenza tra Be. Käte Hamburger ha posto l’accento sul fondamento esistenziale di questo concetto di libertà: «Non possiamo essere consapevoli immediatamente della libertà, si legge nella Critica della ragion pratica, ma solo della legge morale “che si offre a noi”. [...] Ciò significa che il fenomeno di fatto esperibile della libertà, cioè la scelta, la decisione che può anche essere contro la legge, viene a cadere nel rigorismo normativo e, in una certa misura, relativamente al senso di libertà stessa, questa non si definisce “libera” ma “determinata”» (K. Hamburger, Zum Problem des Idealismus bei Schiller, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, IV, , pp. -, qui pp.  s.). . F. Schiller, Über das Pathetische, NA, XXI, p.  (trad. it., a cura di L. Reitani, in Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, cit., Fabbri, Milano , p. ). . Cfr. Hamburger, Zum Problem des Idealismus bei Schiller, cit., p. . . F. W. J. Schelling, Freiheitsschrift, in Id., Sämtliche Werke, cit., vol. VII, p.  (trad. it. di S. Drago Del Boca, L. Pareyson, V. Verra, Ricerche sulla libertà, in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano , p. ).

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ne e Male e tale differenza non è mai in astratto bensì solo in concreto». Il problema esistenziale di Wallenstein è qui d’interesse generale: Wallenstein cade «non perché fosse un ribelle, ma si ribella perché era caduto» – si legge già nello scritto storico schilleriano sull’agonia di Wallenstein. Quale medio fluttuante, “crisi” tra Dio e Diavolo, non può rimanere indeciso. Per citare ancora la Freiheitsschrift di Schelling (), egli è «posto su una vetta dove ha in sé ugualmente la possibilità di muoversi spontaneamente verso il bene come verso il male. In lui il vincolo dei principi non è necessario, ma libero. Egli sta nel punto di mezzo per decidere; qualunque cosa egli scelga, diviene la sua azione ma non può rimanere nell’indecisione». Ma Wallenstein non si decide! «Allora è un bene non avere scelta», ammette. Esita, calcola, pondera, vuole controllare sino all’ultima imponderabilità e ricade nella necessità. Nel regno della necessità è però esposto alla logica fatale dell’essere perseguitato dalla propria tattica e di essere spinto ad un declino che egli stesso ha cagionato. La rete del coinvolgimento colposo si fa tanto più stretta quanto più a lungo egli cerca di mantenersi aperte possibilità di strategia politica. Egli è colpevole ancor prima di una definitiva decisione di scendere a patti con gli svedesi. La necessità – «l’ignoto della vita» – diviene per lui destino. «È lui stesso a sollevare la testa della Gorgone», si legge nel frammento drammatico Die Kinder des Hauses in riferimento a tale modello di una nuova tragedia. Per usare l’espressione di Schelling: «L’eccitato Archeo» abbandona «la sua tranquilla abitazione nel centro» della natura per trasferirsi «nella circonferenza». Questo potere diabolico non va demonizzato. Il suo fondamento positivo consiste – secondo una definizione di Schelling – nel fatto che questo «senza essere di per sé negativo porta fuori il Male nascosto affinché questo non rimanga celato dal Bene». Buttler, assassino di Wallenstein e qui rappresentante della nemesi, emette il giudizio: «Non ha fatto che calcolare, e alla fine i conti non torneranno; in quel calcolo sarà compresa la sua stessa vita, e come altri cadrà nel proprio cerchio» (III,  ss.). «La malvagità del fato» consiste qui non in un’istanza metafisica punitiva o in una forza me. S. Kierkegaard, Der Begriff Angst, ivi,  Anm. (trad. it., Il concetto dell’angoscia, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze ). . Schiller, Geschichte des dreißigjährigen Krieges, NA, XVII, p. . . Schelling, Freiheitsschrift, cit., vol. VII, p.  (trad. it. cit., p. ). . In I,  alla contessa, in II,  a Max Piccolomini, in III,  dice: «Alles stürzt zusammen!» («Tutto precipita», trad. it. cit., p. ). . F. Schiller, Über das Erhabene, NA, XXI, p.  («Tuttavia le forze della natura si lasciano dominare o respingere solo fino a un certo punto, al di là del quale si sottraggono alla potenza dell’uomo e lo sottopongono alla propria», trad. it. in Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, cit., p. ). . Schelling, Freiheitsschrift, cit., vol. VII, p.  (trad. it. cit., p. ). . F. W. J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, in Id., Sämtliche Werke, cit., vol. XIV, p. .

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tafisica del destino, ma nel rimanere legati al terribile regno fisico della necessità, a cui non v’è alcun mezzo fisico realistico per sfuggire, vale a dire non poter decidere contro di esso. La giustizia livellatrice si realizza nel divenire vittima del proprio crudo realismo. Partendo da questa riflessione anche l’azione tra Max e Tekla non può ritenersi veramente “decisa”: «Egli è il fortunato. Ha concluso» – sentenzia Wallenstein sul defunto Max ed esclude se stesso da ciò: ma chi deve attendere l’ora propizia «è già caduto [dal cielo] nel profondo» (III, ). Max Piccolomini è coinvolto pur senza colpe in un conflitto. «Ma come capitammo noi, privi di colpa, in questo cerchio di sventura e crimine?», si chiede allibito nel tentativo di rimanere innocente. Ma con questo idealismo lontano dalla realtà è destinato a soccombere. Senza la negatività del male non sarebbe possibile un reale giudizio morale: questo va notato anche qui, nel caso dell’esangue idealismo di Max Piccolomini. La libertà del singolo è possibile nella realtà solo perché essa contiene nel suo nucleo più interno la possibilità della colpa, l’opzione del male: l’essenza dell’uomo è la sua propria azione. «L’Inferno è lastricato di volontà morte». Lo sguardo idealizzante di Max verso Wallenstein e le sue idilliache esaltazioni per le presunte visioni politiche di questi (cfr. la giustificazione della fede nelle stelle in II, III, , in cui Saturno e Marte, significativamente, non compaiono) sono certo poeticamente “giusti”, ma non considerano la realtà. Nel saggio Über das Erhabene si legge a tal proposito: «È una caratteristica delle anime buone e belle, ma sempre deboli, insistere con impazienza sull’esistenza delle loro idee morali ed essere dolorosamente colpite dagli ostacoli che poi incontrano». Questo vale anche per Max. Una moralità che vuole dimostrarsi adatta alla realtà «può affermarsi solo nella scuola dell’avversità», mentre la «costante felicità dell’idillio può facilmente diventare un ostacolo per la virtù» – come Schiller scrive nel suo Über die notwendigen Grenzen beim Gebrauch schöner Formen.  Dalla tragedia schilleriana alla filosofia del tragico Il progresso storico non giunge come «l’anima del mondo [...] a cavallo», come dice Hegel; «l’eroe non era un eroe», sentenzia Thomas Mann; era una «fantastica esistenza», secondo Goethe. Wallenstein non è un eroe . X. Tilliette, Schelling. Biographie, Klett-Cotta, Stuttgart , p. . . Schiller, Über das Erhabene, NA, XXI, p.  (trad. it. cit., p. ). . Lettera di Hegel a Niethammer del  ottobre  (trad. it., Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli , vol. I, p. ). . Th. Mann, Die Erzählungen, Fischer, Frankfurt a.M. , vol. , p. . . Goethe, Sämtliche Werke, cit., vol. XIV, p. .

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tragico che attraverso il superamento di sé dà prova di libertà sacrificandosi egli stesso. Interpretarlo come principe di pace o «regolatore dei rapporti politici», come è stato fatto da Hegel a Leopold von Ranke fino alla storiografia letteraria marxista, significa disconoscere tali rapporti in maniera grottesca. Ma non è neanche un antieroe. Mentre i suoi fiancheggiatori sono intenti a riflettere su come poter sopravvivere dopo la perdita del potere da parte di Wallenstein, quest’ultimo – in totale solitudine – fa i preparativi per il suo ritorno: «Solo nella notte le stelle di Friedland brillano». Ciò che gli si può rimproverare è che egli rimanga “normale”, vale a dire moralmente indifferente, in una situazione storica decisiva. Ma ha scelta? Se si decidesse realmente, egli dovrebbe diventare martire e perire in quanto – come ha notato Schelling – non appartiene al «genere dei titani». Wallenstein non ha vissuto la situazione di dover prendere una decisione che è responsabile dell’umana esistenza creatrice di storia. Chi non riesce a decidersi rimane però chiuso nella necessità fisica che ha le proprie leggi. Ciò risulta di grande interesse sia per lo storico che per il poeta Schiller: «Ci si accosti alla storia in trepida attesa di luce e conoscenza: come si rimarrà delusi!», riassume nel saggio Über das Erhabene. E prosegue: Il mondo, come oggetto storico, in fondo non è altro che il conflitto delle forze della natura tra loro e con la libertà dell’uomo, e la storia ci riferisce l’esito di tale conflitto. Fino ad oggi la storia ha da raccontarci sulla natura (a cui si devono attribuire tutte le umane emozioni) gesta di gran lunga più grandi di quelle della ragione indipendente. . Hegel, Ästhetik, cit., vol. , p.  (trad. it. cit., t. I, p. ). . Cfr. L. von Ranke, Geschichte der germanischen und romanischen Völker (). . H. G. Thalheim, Erläuterungen Klassik, Berlin , p. . «In quest’opera di realistico rispecchiamento del presente e del passato tedesco, della forma profeticamente anticipatrice di un’elevazione nazionale del popolo, entrano tutte le conquiste essenziali sul piano formale e su quello contenutistico della prima drammaturgia politica e storica dello “Sturm und Drang” schilleriano ed elevano il Wallenstein ad opera altamente artistica anche sotto il profilo della storia del genere». . Schelling varia questo pensiero nell’osservazione secondo cui il dogmatismo richiede un sistema di azione che «presuppone un genere titanico» e senza tale premessa porterebbe senza dubbio alla massima rovina dell’umanità (Schelling, Sämtliche Werke, cit., vol. I, p. ). . «Si può affermare che la Critica della capacità di giudizio di Kant, in cui viene rappresentata l’estetica, ha operato sinora esclusivamente sulla base di fraintendimenti [...]. Il solo Schiller ha inteso l’essenza della lezione kantiana sul Bello e sull’arte» (M. Heidegger, Nietzsche, vol. , Neske, Pfullingen , p. ). Ugualmente qui: «La definizione kantiana di comportamento estetico come “piacere della riflessione” giunge sino ad uno stato fondamentale dell’uomo in cui questi raggiunge la fondata pienezza della propria essenza. È quello stato che Schiller ha spiegato come condizione della possibilità della presenza storica, e creatrice di storia, dell’uomo» (ivi, p. ). . Schiller, Über das Erhabene, NA, XXI, p.  (trad. it. cit., p. ).

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La tragica ironia del momento della decisione di Wallenstein si fonda sul fatto che il suo intervento razionalizzante e calcolatore è destinato a giungere sempre troppo tardi. Questa necessità che si fa costantemente incontro a Wallenstein e che da questi è chiamata destino, non può essere vinta sul piano morale. Negli Ästhetische Briefe, Schiller definisce questo momento della decisione non come un atto (Tathandlung), bensì come lo stato di un atto (Tatzustand), caratterizzato da spinte in direzione opposta che si relativizzano rigorosamente l’una con l’altra: «Non basta iniziare qualcosa che ancora non c’è; bisogna prima terminare ciò che già esiste». Tale stato si sottrae di per sé a qualsivoglia disponibilità e può essere immaginato unicamente come un salto (esistenziale). Considerata dal punto di vista normativo una decisione «nasce sempre da un Nulla», afferma Carl Schmitt. Ma per quanto si possa accettare il fondamento decisionista di . O. Seidlin, Wallenstein: Sein und Zeit () «Wallenstein è presentato come un attore, un’esistenza estetica che si propone di preservare il tempo nel tempo – la sua colpa esistenziale, più che morale, è «che l’uomo vuole avere in pugno il tempo e sottrarsi così al declino nella storia». . Schiller, Über die ästhetische Erziehung, NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. ): «La bellezza è dunque per noi oggetto, poiché la riflessione è la condizione per avere una sensazione di essa; al tempo stesso è però uno stato della nostra soggettività, poiché il sentimento è la condizione per avere una sua rappresentazione. Essa è dunque forma, poiché la contempliamo, ma al tempo stesso è vita, poiché la sentiamo. In una parola: essa è il nostro stato e il nostro atto». . La condizione estetica come «concetto di mezzo» è concepita in questo modo: «Non basta dunque che abbia inizio qualcosa che non era ancora, prima deve cessare qualcosa che c’era [...]. Egli deve dunque, per sostituire la passività con l’attività, una determinazione passiva con una attiva, essere momentaneamente libero da ogni determinazione e passare per uno stato di pura determinabilità» (ivi, p. ; trad. it. cit., p. ). . «Attraverso la disposizione d’animo estetica si inaugura l’attività spontanea della ragione già sul terreno della sensibilità, la forza delle sensazioni è spezzata già all’interno dei propri confini, e l’uomo fisico è ingentilito al punto che oramai l’uomo spirituale deve soltanto svilupparsi da esso secondo le leggi della libertà» (ivi, pp.  ss.; trad. it. cit., p. ). . Questa posizione fa riferimento al romanticismo politico di Schmitt: C. Schmitt, Politische Theologie, Duncker und Humblot, Berlin  (II ed.), p. ; trad. it. in Id., Le categorie del politico, il Mulino, Bologna , pp. -. Il salto esistenziale rappresenta il pathos esistenziale della decisione senza esito certo ed è fondamentale per il decisionismo politico. Una moderna critica alla tesi di tale stato d’emergenza si trova in Albrecht Wellmer: in situazioni in cui un orientamento ad una azione mirata alle cause risulti non più possibile, non si può propriamente parlare di azione che necessita di una giustificazione o di decisioni (bensì solo, eventualmente, di comportamento da scusare), perché a colui che agisce moralmente manca la libertà d’azione. Una conclusione corrispondente – in riferimento alla discussione sull’etica del diritto e la filosofia politica – è tratta da Wellmer con la richiesta «che nessuna decisione debba potersi sottrarre a quella “costrizione non coercitiva” di una verifica discorsiva e di una critica [...] proprio nel senso di quel principio democratico di legittimità che richiede per la decisione giuridica la possibilità di una accettazione razionale di tutti quelli coinvolti. Il principio organizzatore di tale riallacciamento della decisione a questa discussione è il carattere pubblico della democrazia» (A. Wellmer, Menschenrechte und Demokra-

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quest’ultimo per la necessità della decisione, Schiller condanna – con riferimento alla teoria estetica del sublime – tutti quei teorici decisionisti che vedono la salvezza già nella crisi. La decisione diviene esperibile esclusivamente attraverso l’indipendenza radicale dei processi storici e naturali, cioè attraverso l’esperienza del tragico, o meglio del patetico, quale sventura artificiosa. Ciò che per lo storico è una perdita per il poeta del sublime diviene un guadagno. La storia non è sublime in quanto incarnazione di nature eroiche che essa anima con le proprie visioni ed idee; è sublime perché i suoi eventi – nei limiti dell’arte – assumono dignità tragica perché i suoi attori falliscono in essa. Il tiranno – come ha rilevato anche Benjamin in riferimento già al Trauerspiel barocco – non è un sovrano che può prendere una decisione in uno stato d’emergenza, in quanto di per sé incapace di decidere. Schiller qui argomenta da filosofo estetico contro lo storico per fare della storia ciò che questa dovrebbe essere: storia razionale e non quella di uno stato d’emergenza. In tal senso la tragedia di Wallenstein è un punto di svolta nel passaggio da una storia di natura ad una di ragione; quest’ultima realizza proprio ciò che la decisione esistenziale dell’arte deve esigere: «La vera arte non ha solo per scopo un gioco passeggero, essa si propone sul serio non di cullare l’uomo in un momentaneo sogno di libertà, ma di farlo realmente libero» – si dice a riguardo in Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie. Se con questa interpretazione si sposta l’attenzione dal lato dell’estetica dell’effetto a quello contenutistico della tragedia, si acquisisce anche la consapevolezza che la sola estetica dell’effetto del sublime non è più sufficiente a spiegare il tragico dell’Edipo Re schilleriano. Il sublime, che Kant pensa tie, in S. Gosepath, G. Lohmann, Philosophie der Menschenrechte, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -, qui p. ). . W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Id., Gesammelte Schriften I, , p.  (trad. it., Il dramma barocco tedesco, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino , p. ). Il concetto barocco di sovranità, scrive Benjamin in contrapposizione critica con Carl Schmitt, «si sviluppa sullo sfondo di una discussione sullo stato d’eccezione e implica che una delle principali funzioni del principe sia quella di evitarlo». . F. Schiller, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie, NA, XI, pp.  ss. (trad. it. in Schiller, Teatro, cit., p. ). . Per questo passaggio dall’estetica dell’effetto all’interpretazione contenutistica della tragedia è significativa l’osservazione di una lettera di Schiller del  luglio : «Es ist mir ein großer Trost von Dir zu hören, daß der Mangel an denjenigen Interessen welches der Held oder die Heldin einflößen, der Maria Stuart bei Dir nicht geschadet hat. Du sagst ganz recht, daß die Hauptpersonen das Herz nicht anziehen, und ich kann nicht läugnen, daß dieß der Punkt war, wo ich beim Wallenstein mit Dir dissentierte: denn in Deinem Urtheil über den letztern glaubte ich noch etwas zu sehr stoffartiges zu bemerken, weil Du mir auf dem Max Piccolomini ein zu großes Gewicht legtest [...]. Nach meiner Ueberzeugung hat das die Handlung allein, insofern sie sich auf ihn allein bezieht oder allein von ihm ausgeht. Der Held einer Tragödie bracht nur soviel moralischen Gehalt, als nöthig ist um Furcht und Mitleid zu erregen [...]. Freilich macht man schon längst andere Forderungen an den tragischen

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come esperienza della «determinazione soprasensibile» dell’uomo e cioè del bene morale, viene introdotto da Schiller nella teoria della tragedia sulla base dell’estetica dell’effetto. «Il fine ultimo dell’arte» – scrive nel suo saggio Über das Pathetische – «è la rappresentazione del sovrasensibile, e in particolare l’arte tragica raggiunge tal fine oggettivando nello stato degli affetti l’indipendenza morale dalle leggi della natura». Schiller trova lo specifico «fondamento del piacere degli oggetti tragici» non più nell’idea di catarsi e cioè nella «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose» (Lessing), bensì nel «piacere negativo» (Kant) del sublime, in quanto «piacere dal dispiacere». Decisivo è però l’allontanamento da Kant. L’idea di sublime, che in Kant in realtà compare solo negli oggetti della «natura brutale», dove si evidenzia il rapporto tra quest’ultima e la libertà, viene ampliata da Schiller in quella di «sublime patetico», perché la vera libertà può agire soltanto sugli oggetti dell’arte per il superamento della passione, in quanto il soggetto non vi è moralmente coinvolto. Ma modificando in tal senso il sublime di provenienza kantiana, Schiller osserva una differenza che Kant riteneva indistinguibile: l’atto e il contenuto dell’atto dell’azione morale. Schiller è qui – con qualche insicurezza nell’espressione filosofica – piacevolmente chiaro. Nel saggio Über das Pathetische questa differenziazione si trova nell’osservazione secondo la quale – considerati dal punto di vista estetico – noi «non siamo interessati alla moralità in se stessa, ma alla libertà», nella quale risiede la «possibilità di ciò che è morale» per l’immaginazione. Questa dimensione di libertà di cui l’uomo non può disporre e che riesce a vedere soltanto nella rappresentazione artistica è una libertà che precede ogni azione e senza la quale la libertà come semplice particolarità non potrebbe sussistere. È su questo piano che la libertà umana viene a trovarsi in un insieme di coinvolgimenti genuinamente tragico. «Vediamo dunque» – scrive Schelling nel  in Philosophie der Kunst – «che il conflitto tra libertà e necessità è vero soltanto laddove quest’ultima sotterra la volontà stessa e la libertà viene combattuta sul suo proprio terreno». Dichter, und uns allen ist es schwer, unsre Neigung und Abneigung bei Beurtheilung eines Kunstwerks aus dem Spiel zu lassen. Daß wir es aber sollten und daß es zum Vortheil der Kunst gereichen würde, wenn wir unser Subject mehr verläugnen könnten, wirst Du mir eingestehen. Da ich übrigens selbst, von alten Zeiten her, an solchen Stoffen hänge, die das Herz interessieren, so werde ich wenigstens suchen, das eine nicht ohne das andere zu leisten, obgleich es der wahren Tragödie vielleicht gemäßer wäre, wenn man die Gelegenheit vermiede, eine Stoffartige Wirkung zu thun», NA, XXX, p. . . Schiller, Über das Pathetische, NA, XX, p.  (trad. it. cit., p. ). . G. E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie (-), in Werke, hrsg. v. H. G. Göpfert, Hanser, München , p.  (trad. it., Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Bulzoni, Roma , p. ). . Schiller, Über das Pathetische, NA, XX, pp.  e  (trad. it. cit., pp.  e ). . F. W. J. Schelling, Philosophie der Kunst, in Sämtliche Werke, cit., vol. V, p. .

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Non soltanto nella filosofia del tragico di Schelling, ma già in Schiller si deve prestare attenzione non solo all’effetto della tragedia ma anche al fenomeno in sé, un problema paradossalmente contenutistico che viene evidenziato solo con l’estetica dell’effetto del sublime. Le differenti interpretazioni del destino di Edipo possono indicare proprio quel fato che l’impalpabilità dell’autonomia umana esalta, paradossalmente, subordinandosi ad esso. In primo luogo in Schelling, che ha analizzato tale caratteristica della tragedia moderna anzitutto nei Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kritizismus (). Indirizzandola ai fittizi destinatari delle sue lettere, l’autore espone la sua moderna interpretazione dell’Edipo Re: non è importante «sapere che vi è una forza obiettiva che minaccia l’annientamento della nostra libertà, e con questa salda e certa convinzione nel cuore combattere contro di essa, rischiare tutta intera la propria libertà e così soccombere», bensì trasformare l’avversa necessità, che nel momento della decisione si erge innanzi a noi come un muro di nostre proprie azioni, in una necessità interiore, che la nostra azione ha già in sé come condizione potenziale. Qui l’attenzione non si dirige più verso il processo tragico dell’Edipo ma al telos della tragedia. Ciò che si può rimproverare al dramma sofocleo è che la tragedia greca fa espiare al suo eroe colpe per un’azione che non è volontariamente a lui imputabile, ma che è rappresentata «come se questa fosse realmente voluta da lui e ne fosse così anche responsabile». «Ma il fatto che questo innocente colpevole accetti volontariamente la pena», continua Schelling, «ciò rappresenta il sublime nella tragedia, per mezzo del quale la libertà si trasforma in massima identità con la necessità». Il Wallenstein di Schiller non porta avanti questa battaglia per la libertà contro la necessità. La sua fine è sempre più non-tragica. Nel suo caso non si può parlare di una risoluta opposizione che fallisce per l’effettiva superiorità del mondo oggettivo. Il protagonista del suo dramma è in realtà «ri. Michaela Boenke ha interpretato la decisione fondamentale a favore o contro un sistema di dogmatismo o criticismo nella filosofia schellinghiana come uno schema di conflitti che non può essere risolto innanzi al «tribunale» della ragione teorica ma solo di quella pratica: «La battaglia per la libertà degli eroi greci continua nel progetto dell’Illuminismo, nella battaglia del filosofo per un sistema di libertà» (M. Boenke, “Wäre er, so wären wir nicht”. Zu Schellings Apologie der Freiheit im Horizont der Postulatenlehre Kants, in J. Jantzen (hrsg.), Die Realität des Wissens und das wirkliche Dasein. Erkenntnisbegründung und Philosophie des Tragischen beim frühen Schelling, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt , pp. -). . F. W. J. Schelling, Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, in Id., Sämtliche Werke, cit., p.  (trad. it., Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, a cura di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari , p. ). . Szondi, Versuch über das Tragische, cit., p.  (trad. it. cit., p. : «tragicità»). . L. Hühn, Die Philosophie des Tragischen. Schellings “Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus”, in Jantzen (hrsg.), Die Realität des Wissens, cit., p. . . Schelling, Philosophische Briefe, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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tardante», spiega Schiller. I «passi timorosi» di Wallenstein nel momento della decisione poggiano su «un invisibile oggetto astratto» (lettera a Körner del  novembre ) che è in conflitto con la libertà dell’uomo, che nel momento decisivo suscita in modo assolutamente impersonale la «perfidia del fato» e che è di dignità tragica; un evento che nella sua fatale logica travolge ugualmente il vincitore come il vinto. È questo quel che accade! Tale avvenimento supera la capacità di comprensione degli attori. Si può riferire tale conflitto alle azioni politiche ma ciò risulta irrilevante per il problema principale. Ciò che qui si mostra – così come nella tragedia, trasmesso solo sul piano estetico – è chiamato da Schiller assoluta contemplazione. Questo è forse il concetto decisivo che anticipa la successiva interpretazione speculativa del tragico nell’idealismo tedesco, che mette però in evidenza come il sublime non debba più essere inteso unicamente nel suo culmine morale, bensì che esso, nella sua messa in scena, «è la (necessariamente tragica) rappresentazione dell’irrappresentabile, dell’Assoluto stesso». Questa assoluta contemplazione conduce ad un’elevazione della libertà che – al di là di ogni negativa attitudine soggettiva, come il terrore, lo sgomento o la paura – dispiega la sua forza. Anche questo è di grandissimo interesse per lo storico perché questa forma di contemplazione può essere interpretata come uno specifico modo di intendere la storia del mondo «che dovrebbe porre fine a tutte quelle illusorie pretese della ragione di dominare, attraverso l’imperativo pratico, il corso del mondo». Fa parte delle posizioni fondamentali di Schiller intendere questa «rappresentazione dell’Assoluto» non come una calma contemplazione o un’elevazione contemplando il mondo, bensì come la contemplazione di una lacerazione esteriore e di una tragica dissonanza. La «pericolosa anarchia del mondo morale [...] dischiude [...] un piacere del tutto particolare» – scrive Schiller nel  nel saggio Über das Erhabene – ma questa non induce «a risolvere in armonia il suo audace disordine [...] con l’esile fiamma dell’intelletto», ma a cercare una diversa economia. Chi «desidererà [...] che il vasto processo del mondo sia ordinato come in ogni amministrazione oculata [...] non può sentirsi a suo agio in un mondo dove sembra regnare più il cieco caso che un piano previdente». E «non gli rimarrà altro che attendere da una futura esistenza e da un’altra natura quella soddisfazione che il . Cfr. sull’argomento J.-F. Courtine, Tragödie und Erhabenheit. Die spekulative Interpretation des “König Ödipus” an der Schwelle des deutschen Idealismus, in Jantzen (hrsg.), Die Realität des Wissens, cit., p. . . Con Schiller anche Schelling rileva questa doppia funzione del sublime: «La natura non è sublime solo nella sua inarrivabile grandezza per le nostre capacità o nel suo invincibile potere per la nostra forza fisica, essa lo è anche in generale nel caos o, come afferma Schiller, nel disordine dei suoi fenomeni» (Schelling, Philosophie der Kunst, cit., vol. V, p. ). . Courtine, Tragödie und Erhabenheit, cit., p. .

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tempo presente e il passato gli nega». Nietzsche ha descritto in maniera approfondita – sebbene non con l’elevazione idealistica di Schiller – questa funzione apotropaica della tragedia in Geburt der Tragödie, rilevando il paradosso dei limiti tra ragione e caos che tutto divora, tra apollineo e dionisiaco – paradosso che consiste nel fatto che la conoscenza crea sapere, delimitandone i confini con l’oscuro terreno dell’ignoto, cui però esso rimane sempre unito. La tragedia è da situare ai confini del sapere, proprio laddove l’uomo alla ricerca di un orientamento si arresta a fissare l’inesplicabile. Quando egli qui vede con orrore come la logica in questi limiti si torca intorno a se stessa e infine si morda la coda – ecco che irrompe la nuova forma di conoscenza, la conoscenza tragica, che, per essere sopportata, ha bisogno dell’arte come protezione e rimedio.

. Schiller, Über das Erhabene, NA, XXI, p.  (trad. it. cit., p. ). . F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Id., Kritische Schriften, DTV, München , vol. , p.  (trad. it. di U. Fadini in Nietzsche. Opere /, Newton Compton, Roma , p. ).

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Estetica del sacrificio. Le regine schilleriane* di Peter-André Alt

 Introduzione: estetica dell’effetto «Tragica gloria delle donne, ambigua gloria»: così si esprime Nicole Loraux sulle eroine della tragedia attica. Secondo la Loraux le donne nel dramma dell’antichità vengono sacrificate in nome dell’ethos matrimoniale. Solo nella morte esse adempiono al compito di compagne incondizionatamente devote all’uomo secondo i canoni del diritto greco. In maniera esemplare questo ruolo è rappresentato da Alcesti, figlia di Pelia re di Iolco, che muore per il consorte Admeto perché a questi venga risparmiato il destino di una morte precoce, predetta dalle dee del destino (sebbene alla fine intervenga Eracle a salvarla dal mondo dei morti e a riportarla tra le braccia del marito come riconoscimento del coraggio dimostrato). Nella tragedia Alcesti ( a.C.) di Euripide l’eroina che dà il nome all’opera si esprime così in punto di morte con i propri congiunti: «Addio, / Vi sia lieta la vita. E gloriare, / o mio sposo / ti potrai che la migliore / donna un giorno hai sposata, ed anche voi, / o miei figli, d’averla avuta madre». Tali forme di sacrificio, a differenza del caso di Alcesti, non assumono sempre un carattere volontario. Polissena, figlia di Ecuba, viene sacrificata dai greci presso la tomba del «divino eroe» Achille, Ifigenia è scelta in Aulide da Agamennone * Traduzione di Luigi Perri. . N. Loraux, Façons tragiques de tuer une femme, Hachette, Paris , p. . . Ivi, pp.  ss. . Euripide, Alcesti, vv.  ss. (trad. it. in Il teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di C. Diano, Sansoni, Firenze , p. ). . Così è definito («göttlicher Held») in Nänie di Schiller (). F. Schiller, Werke. Nationalausgabe, begr. v. J. Petersen, fortg. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, hrsg. v. N. Oellers im Auftrag der Stiftung Weimarer Klassik und des Schiller-Nationalmuseums Marbach, Böhlaus Nachfolger, Weimar  ss., vol. II, , p.  (trad. it. in F. Schiller, Poesie filosofiche, a cura di G. Pinna, Feltrinelli, Milano , p. ). Le citazioni dall’opera di Schiller saranno indicate nel testo sotto la sigla NA corredata delle indicazioni relative al volume e alle pagine; per i drammi saranno indicati rispettivamente atto, scena e verso.

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– su consiglio del veggente Calca – come vittima sacrificale per la dea Artemide, adirata con lui e che ne tiene bloccata la flotta nel porto. Indipendentemente dalla questione della volontà personale, ricade comunque su una donna – nel ruolo di moglie o figlia – il compito di portare, attraverso il sacrificio della vita, alla riconciliazione con gli dèi, il cui volere decide del destino degli uomini in ambito politico e bellico. Il senso del sacrificio consiste dunque nella stabilizzazione dello Stato ottenuta attraverso l’aggiramento dell’influsso delle forze divine che lo dominano. Che ruolo assume nella concezione della tragedia schilleriana la categoria del sacrificio? Per rispondere a questa domanda è opportuno anzitutto uno sguardo ai concetti guida con i quali lavora il teorico Schiller. La trattazione Über das Pathetische () determina come fine ultimo dell’arte tragica la rappresentazione dell’«indipendenza morale [nello stato degli affetti] dalle leggi della natura» (NA, XX, p. ). Ciò significa che la tragedia deve rappresentare allo spettatore la possibilità di una «resistenza morale alla sofferenza», laddove tale passione (il pathos aristotelico) può scaturire allo stesso modo da circostanze di dipendenza (eteronomia) sia fisica che psichica (NA, XX, p. ). Schiller conosce due forme in cui può esprimersi tale opposizione al pathos: una «passiva» che, attraverso «la padronanza» (Fassung), impedisce alla natura sensibile del pathos di avere un’influenza sulla libertà dello spirito, ed una «attiva» che, attraverso la capacità di dominare questa passione oltre le forze dell’intelligibile, la vince (NA, XX, p. ). La seconda categoria, più significativa per la tragedia in quanto permette l’azione e mantiene vivo l’interesse del pubblico, si divide a sua volta in due varianti. La prima si basa su un protagonista che, nell’assoluto adempimento dei propri doveri, viene a trovarsi in una condizione di pathos; idealmente è identificato nel topos del martire che, tuttavia, Schiller apprezza poco, perché questo suscita certamente ammirazione ma non tocca l’animo dello spettatore. «Una pura intelligenza» – così si legge già nel saggio Über die tragische Kunst () – «non . Euripide, Ecuba, vv.  ss.; Id., Ifigenia in Aulide, vv.  ss. . A tal riguardo (relativamente al ruolo della violenza nell’atto sacrificale), cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Hachette, Paris  (trad. it., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano ), in riferimento all’idea di sacrificio nella tragedia greca, pp.  ss. Per quanto riguarda l’evoluzione del concetto di sacrificio nella prima età moderna: P.-A. Alt, Der Tod der Königin. Frauenopfer und politische Souveränität im Trauerspiel des . Jahrhunderts, de Gruyter, Berlin-New York , pp.  ss. . Recentemente, in relazione al rapporto con la tragedia attica (pur senza alcun riferimento alla categoria del sacrificio): E.-R. Schwinge, Schillers Tragikkonzept und die Tragödie der Griechen, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLVII, , pp. -. . La traduzione italiana, qui e negli altri passi citati, è tratta da F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale. Del Sublime. Sul Patetico. Sul Sublime, Fabbri, Milano , p. .

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può soffrire, e un soggetto umano che si avvicina in grado eccezionale a questa pura intelligenza, perché trova nella sua natura morale una troppo rapida difesa contro le sofferenze di una debole sensibilità, non desterà mai un alto grado di pathos» (NA, , p. ). Più efficace è invece la seconda variante in cui l’eroe, in linea di principio consapevole dei propri doveri, si trova in una situazione tragica per una momentanea (o singola) mancanza ed espia ciò in maniera duplice, sul piano fisico e su quello spirituale (NA, XX, p. ). Il pensiero fondamentale della teoria schilleriana della tragedia – la rappresentazione estetica di un’opposizione individuale contro avverse circostanze esterne come segno di indipendenza morale – indica il modello di una libertà interiore che può dimostrarsi una possibilità di autonomia dell’uomo, soprattutto in circostanze critiche. Al centro dell’antropologia alla base della teoria schilleriana della tragedia non v’è la realtà della compiuta legge morale – che Kant ricollegava all’assoluta autonomia della volontà al di là delle aspirazioni soggettive –, bensì l’opzione su un agire morale (NA, XX, p. ). Il sublime rappresenta la prova di una libertà individuale sottoposta alle condizioni dell’eteronomia: la libertà come possibilità per l’uomo di conquistare anche (e soprattutto) in tempi bui l’indipendenza dai forti vincoli della natura. L’eroe sublime di Schiller deve dimostrare la propria grandezza in situazioni limite e pericolose, da lui stesso cagionate, che mettano a repentaglio la sua integrità fisica e spirituale. Negli scritti sul sublime non si parla della natura femminile di questo; “sublime” sembra essere per Schiller un attributo esclusivamente maschile: nessun esempio di azioni sublimi, tra quelli proposti dai suoi saggi, si riferisce ad una donna (Medea, nominata nel saggio Über das Erhabene, è utilizzata solo come paradigma della scarsa «sublimità» del «contegno»: Fassung; NA, XX, p. ). Ben più ampie prospettive offre invece la coppia di concetti Anmut e Würde (grazia e dignità) che Schiller illustra nel suo saggio apparso su “Thalia” nell’estate . Grazia è per lui – a modifica delle singole definizioni di Elements of Criticism () di Henry Home – il segno di quella libertà dell’anima che si esprime nel re. Ancora molto istruttivo per l’analisi dei concetti chiave schilleriani, K. L. Berghahn, Das “Pathetischerhabene”. Schillers Dramentheorie, in R. Grimm (hrsg.), Deutsche Dramentheorien. Beiträge zu einer historischen Poetik des Dramas in Deutschland, Athenaion, Wiesbaden  (III ed.), vol. I, pp. -. La traduzione italiana è tratta da F. Schiller, Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, UTET, Torino , p. . . I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Id., Werke, hrsg. v. W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. VII, pp.  ss. (§ ) (trad. it., Critica della ragione pratica, a cura di A. M. Marietti, Fabbri, Milano , p. ). . Si fa qui breve cenno a K. H. Bohrer, Ekstasen der Zeit. Augenblick, Gegenwart, Erinnerung, München , p. , che riduce il concetto schilleriano di «sublime» alla rappresentazione di una «superiorità morale» senza però considerare la qui implicita condizione di minaccia interiore per l’uomo.

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gno della natura attraverso il linguaggio dell’essere umano (NA, XX, p. ). Schiller considera la categoria della grazia, più che sotto l’aspetto dell’espressione fisica, come un mezzo per definire il proprio ideale di moralità auto-determinata. Alla monacale costrizione dell’imperativo categorico, che Kant teorizza come principio dell’azione morale nella Critica della ragion pratica (), Schiller contrappone una forma distesa di libertà morale, che individua nel corpo che agisce secondo grazia e nella «schöne Seele» («anima bella»). L’azione morale non nasce mai da un imperativo razionale bensì deve essere accompagnata dal momento del godimento del bene, in quanto la natura spirituale dell’uomo, perché il suo agire sia morale, deve essere in sintonia con il suo mondo dell’esperienza sensibile (motivo, questo, che mette in relazione il modello schilleriano con la filosofia del moral sense di Francis Hutcheson). «In un’anima bella dunque sensibilità e ragione, dovere e inclinazione sono in armonia» (NA, XX, p. ). Più rilevante per la comprensione della tragedia appare la definizione di dignità, categoria complementare alla grazia. La dignità, riassunta qui brevemente, è la grazia sostenuta anche in condizioni avverse. In situazioni di eteronomia, poiché la natura minaccia la libertà dell’animo, la ragione deve mantenere saldo il proprio valore assoluto – indipendente cioè dalle situazioni – e cercare quantomeno di “disarmare” l’istinto, dato che questa non potrà mai vincerlo in maniera duratura (NA, XX, p. ). «Dominio degli istinti per mezzo della forza morale è libertà di spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno» (NA, XX, p. ). Agire degnamente anche in «condizioni fisiche» che vanno contro le leggi della ragione (NA, XX, pp. , ) dà luogo ad un comportamento che scaturisce da un contesto spirituale simile a quello del momento del «sublime». Mentre la grazia rappresenta l’equilibrio organico tra dovere e inclinazione, la dignità rappresenta la sopportazione della differenza che li distingue; la grazia appare una opposizione tenue tra natura e ragione, la dignità rappresenta il medesimo contrasto in modo sostenuto. Nel distico Macht des Weibes del , Schiller spiega: «Kraft erwart’ ich vom Mann, des Gesetzes Würde behaupt’ er, / Aber durch Anmuth allein herrschet und herrsche das Weib» (NA, I, p. ). In contrasto con questa classificazione stereotipata, le argomentazioni del saggio apparso su “Thalia” tre anni più tardi si liberano tendenzialmente da una tale tipologia statica dei sessi. Idealmente, grazia e dignità, l’una complementare al. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, cit. pp.  ss. (§ ) (trad. it. cit., p. ). . Brevi e concise analisi delle due categorie in K. R. Brittnacher, “Über Anmut und Würde”, in H. Koopmann (hrsg.), Schiller-Handbuch, Kröner, Stuttgart , pp. -. . «Forza mi attendo dall’uomo, che affermi la dignità della legge, /ma la donna con la grazia soltanto regna e deve regnare». . L’unica espressione che fa riferimento ad una divisione dice: «Nel complesso la gra-

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l’altra, dovrebbero trovarsi in un unico individuo perché assolvono le loro specifiche funzioni in contesti differenti (NA, XX, p. ); la grazia si sviluppa in condizioni di libertà, la dignità invece in presenza di un’influenza di fattori eteronomi (minaccia per la sua identità) che producano per l’individuo quelle condizioni di difficoltà che la tragedia cerca di mettere in scena. L’osservazione di Schiller secondo la quale la grazia sarebbe richiesta «più nel comportamento» mentre la dignità «nella sofferenza» (NA, XX, p. ) rafforza la teoria secondo la quale esisterebbe una superiore unità delle due categorie fondata sulla loro complementarità. Il personaggio tragico ideale, indipendentemente dal sesso, unisce per conseguenza grazia e dignità; grazie alla prima questo esprime la propria “bella anima”, attraverso la seconda invece la propria libertà morale contro un’avversa forza esterna. La prospettiva metodica qui illustrata mette in rilievo anche lo sdoppiamento sentimentale, tipico in Schiller, del concetto di natura in bonam et malam partem: libertà e istinto, autonomia e costrizione sono ancorati in lui allo stesso modo. La protagonista schilleriana conquista la propria vera grandezza tragica attraverso la dignità con cui essa difende la propria libertà – che si manifesta come grazia in condizioni di non-costrizione – contro le tensioni, le pretese e i dinieghi delle contese in cui viene a trovarsi. Il concetto di vittima, per come lo intende il teatro attico, non emerge invece esplicitamente nella sua teoria della tragedia. Concettualmente l’autore rifiuta la drammaturgia del martirio, fondamentale per il dramma (Trauerspiel) del secolo XVII, nella quale l’antica immagine del sacrificio come santificazione della vita nell’atto di rinunciare ad essa assume dignità cristiana: ciò è dimostrato dalla sua presa di posizione contro il “tipo” della “intelligenza pura”. Uno sguardo alla realtà pratica mostra però come la categoria del sacrificio entri in gioco in Schiller per via indiretta. La tesi dalla quale mi lascerò guidare qui di seguito può essere così espressa: dietro la dignità dell’eroina nella tragedia schilleriana vi è la forza specifica di una legge morale, la quale – diversamente che in Kant – non si compie grazie alla volontà autonoma bensì soltanto attraverso una contrapposizione carica di tensione con il mondo dell’esperienza sensibile. A un livello più elevato la dignità si esprime laddove la libertà personale viene difesa dagli interessi della natura umana. In tal caso essa è soggetta all’economia della morte, al telos tragico della vita, all’agonia biologica; essa si trasforma dunque in un’etica del sacrificio che Schiller ha scelto di attribuire alla regina in punto di morte (o che rinuncia a sé). zia si può trovare maggiormente nel sesso femminile [...] e la ragione di ciò non è difficile da trovare» (NA, XX, p. ). Va però intesa come un’espressione generica e non teorica. . In merito alla relazione tra Schiller e Nietzsche sotto l’aspetto di una interpretazione sentimentale della natura è fondamentale W. Riedel, “Homo Natura”. Literatur und Anthropologie um , de Gruyter, Berlin-New York , pp.  ss.

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 Forme del sacrificio: Elisabetta di Valois L’Elisabetta di Valois di Schiller è un personaggio appartenente agli arsenali della letteratura. L’autore del Don Carlos () traccia il suo ritratto attenendosi a quello presentato in un romanzo di Abbé Saint-Réal che egli lesse nel dicembre , durante l’esilio a Bauerbach, su consiglio del direttore del teatro di Mannheim Dalberg. La storia di Don Carlo di SaintRéal, pubblicata per la prima volta nel , presentava la regina come un oggetto inerme della fredda politica matrimoniale. La sua morte precoce – morì nell’ottobre  a ventitré anni – veniva ricondotta da Saint-Réal, in ottica antispagnola, ad una cospirazione portata avanti dall’Inquisizione. Nel romanzo la regina si imbatte in una corte madrilena che tratta con sfiducia ed invidia la sua bellezza giovanile: «La Cour d’Espagne, qui avoit écouté les merveilles, qu’on disoit, de la beauté de la Reine, comme les exagérations ordinaires en faveur des Princes, fut étonée de voir que tout ce qu’on en disoit étoit aus dessous de la verité». In Saint-Réal la regina intrattiene un’intensa relazione amorosa con l’infante Don Carlos, a lei molto simile, relazione che viene contrastata dal monarca Filippo II che, furente di gelosia, manda a morte prima il figlio e poi la moglie. La verità storica diverge in svariati punti dal grottesco orrido-sentimentale di SaintRéal. L’infante, evidentemente cerebroleso a seguito di una caduta dalle scale e sotto stretta sorveglianza dopo diversi atti di pubblica disobbedienza nei confronti del padre, fu colpito nel luglio  da un forte catarro addominale che lo condusse alla morte in pochi giorni; la regina morì invece per una morte tipicamente femminile nella prima età moderna: perse la vita il  ottobre  per le conseguenze di un aborto. Se quindi Saint-Réal attribuì un carattere tragico al personaggio di Elisabetta di Valois ciò è da ricercarsi nella sua posizione antispagnola e non in fatti storici. Elisabetta, nata il  aprile  da Enrico II e Caterina de’ Medici, venne data in sposa per ragioni politiche, appena quindicenne, a Filippo, quindici anni più grande, che era già vedovo due volte (Maria del Portogallo morì di parto nel  alla nascita dell’infante, Maria d’Inghilterra la seguì nella tomba nel ). A differenza di quanto racconta SaintRéal, Elisabetta deve aver vissuto tutt’altro che da prigioniera in Spagna. Per questo era stato assunto il suo entourage francese costituito da oltre cinquanta servitori che le permettevano di continuare a godere del lusso quotidiano a lei abituale, a prescindere dalla rigida etichetta spagnola. Du. A. Saint-Réal, Dom Carlos Nouvelle Historique, Amsterdam , p. . . Cfr. R. Jorzick, Herrschaftssymbolik und Staat. Die Vermittlung königlicher Herrschaft im Spanien des frühen Neuzeit (-), Oldenbourg, Wien-München , pp.  ss. (in relazione all’entourage di Elisabetta).

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rante la stesura del Don Carlos, durata oltre cinque anni, Schiller ripulì minuziosamente l’immagine della Spagna storicamente dubbia proposta da Saint-Réal, rifacendosi alla rappresentazione più ponderata offerta da Robert Watson (The History of the Reign of Philipp the Second, King of Spain, ; traduzione tedesca del ); il dramma politico veniva posto in una prospettiva tale da eliminare contrasti netti “bianco-nero” (cosa che portava nei due atti finali ad una rappresentazione più ambigua di Filippo II). La caratterizzazione della regina resta però fortemente influenzata anche nella successiva fase di elaborazione dalle indicazioni di Saint-Réal, in quanto il dramma presenta puntualmente delle sfumature riconducibili al ritratto presentato nel romanzo. L’Elisabetta di Schiller è un’esiliata in Spagna che, circondata da crudeli spie e osservatori, soffre per la sfiducia ossessivamente crescente nei suoi confronti e non ultimo per un marito poco amorevole e sempre occupato in affari di Stato. Il dramma mostra la Valois, trasposta sul piano letterario, nel ruolo della regina sensibile, guidata dalla nostalgia per un’intimità privata che la corte viola con la sua rigida etichetta. Lamenta il fatto di non poter avere un contatto spontaneo con sua figlia così come la freddezza del rapporto con Filippo (I, , v. ; v. ) – motivi, questi, che appartengono sicuramente all’ambito della libera invenzione poetica e non al mondo politico della prima modernità, di cui anche Elisabetta era un prodotto, in quanto figlia di Caterina de’ Medici, donna pienamente consapevole delle logiche di potere. A tal proposito appare esemplare la prima scena in cui la principessa di Eboli confessa alla regina di non poter amare il conte Gómez suo promesso sposo. La replica di Elisabetta unisce alla comprensione per l’atteggiamento di rifiuto della Eboli una sensibile auto-compassione, quando dice: «È un destino crudele / essere sacrificata. Vi credo. Rialzatevi!» (I, , vv.  s.). Ciò che minaccia la Eboli è già capitato a Elisabetta. Ella appare come la vittima di intrighi politici, e anche il suo matrimonio con Fi. Recenti lavori sulla “sostanza politica” del Carlos: H. J. Schings, Die Brüder des Marquis Posa. Schiller und der Geheimbund der Illuminaten, Niemeyer, Tübingen ; N. Werber, Technologien der Macht. System- und medientheoretische Überlegungen zu Schillers Dramatik, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XL, , pp. -; Ch. Maillard (hrsg.), Friedrich Schiller: “Don Carlos”. Théâtre, psychologie et politique, Presses Universitaires de Strasbourg, Strasbourg ; P.-A. Alt., Schiller. Leben – Werk – Zeit, Beck, München , vol. I, pp.  ss. . A. Saint-Réal, Dom Carlos Nouvelle Historique, cit., pp.  ss. Su Filippo II si dice: «comme un homme dont elle ne possedoit que le corps, & dont l’ame, n’étoit remplie que des desseins de son ambition, & de la meditation de sa Politique» (ivi, p. ). . Gli eventi storici, che nel dramma vengono ricapitolati, vedono in realtà a questa altezza temporale Gómez come marito di Eboli; già in Saint-Réal, Dom Carlos Nouvelle Historique, cit., pp. ,  ss. . Le traduzioni dei passi del Don Carlos sono tratte da F. Schiller, Don Carlos, a cura di M. C. Foi, Marsilio, Venezia .

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lippo rappresenta il risultato di un mero calcolo strategico nell’ambito di quella diplomazia matrimoniale che fu un elemento di forte coesione nella prima età moderna. Poiché non può «amare» il re, ella cerca di «onorarlo», come spiega a Carlos (I, , vv.  s.). Il concetto principale che la sprona ad assumere un atteggiamento di contegno è quello di «dovere» (I, , v. ), col quale cerca di respingere l’intraprendente infante anche quando il suo «cuore» si protende verso di lui (I, , v. ). La regina di Schiller agisce in un contesto di idee che include necessariamente il concetto di sacrificio, in quanto subordina la propria volontà individuale alla imprescindibile ragione politica. Nel caso di Elisabetta, Schiller collega in maniera estremamente avvincente il pensiero assoluto del dovere, che porta all’annullamento delle inclinazioni personali, con un secondo livello dell’ambito politico. Mentre la regina si sottomette ufficialmente alla ragion di Stato sposando un uomo che non ama infatti, si sacrifica segretamente per un’idea rivoluzionaria rifiutando un uomo che ama. Nel prosieguo della vicenda diventa chiaro che Elisabetta è una simpatizzante dei ribelli olandesi che non desidera altro che un infante capace di sostenere praticamente – secondo i piani di Posa – la loro rivolta. Il sacrificio per Filippo e la ragion di Stato spagnola trova qui il perfetto contraltare nella disponibilità all’alto tradimento. Elisabetta trova il piano del marchese, secondo il quale Carlos avrebbe dovuto recarsi «segretamente» nella provincia olandese e lì «venire meno all’obbedienza al re» (IV, , vv.  s.), in un crescendo di entusiasmo «dreist», «kühn», «groß» e «schön» (IV, , vv.  s.). La volontà della regina, è ormai chiaro, mira ad una rivolta. Ella stessa si descrive ora significativamente non più come vittima bensì come ribelle osteggiata, che soffre, immedesimandosi, per l’inattività dell’infante: «Mi sento sprofondare sotto terra al suo posto, quando vedo la parte che è costretto a interpretare qui a Madrid» (IV, , v. ). Questa immagine di sé è coronata da un’espressione (riferita al futuro di Carlos) che doveva risultare, per il modo di intendere il potere nella prima età moderna, arrogante per una regina in possesso solo di poteri di rappresentanza: «La Francia gliela assicuro, la Savoia pure» (IV, , vv.  s.). Nei suoi pensieri Elisabetta si eleva a monarca sovrana che può liberamente decidere sulle alleanze politiche e sulle corone. Alla fine del dramma diventa anche evidente che la regina mette in relazione la propria missione politica per la libertà olandese con il Leitmotiv, per lei caratterizzante, del sacrificio. All’infante parla anzitutto del sacrificio di Posa che si consegna all’Inquisizione per difendere Carlos: «Lui si è sacrificato per voi!» (V, , vv.  s.). Nel passo successivo ella spiega in modo an. L’intesa politica tra Posa e la regina è già in Saint-Réal, Dom Carlos Nouvelle Historique, cit., pp.  ss.

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cor più evidente: «Mi ha eletto esecutrice delle sue ultime volontà e vi avverto: vigilerò perché quel giuramento si compia» (V, , vv.  s.). Quando Carlos guadagna la scena rinuncia all’amore per la regina e ammette la propria missione politica («Io corro a salvare il mio popolo oppresso dalla mano del tiranno»; V, , vv.  s.) per poi negare il concetto di sacrificio: «Non è un sacrificio, non mi [!] è costato lotta alcuna» (V, , vv.  s.). Chi compia il vero sacrificio si svela, al più tardi, nel momento in cui l’infante indica alla regina il proprio posto nel suo scenario. Volendo egli far scoppiare la rivolta all’estero, ella avrebbe dovuto adempiere al proprio ruolo di moglie di Filippo passivamente e in silenzio: «Siate di nuovo sua moglie: ha perduto un figlio. Tornate ai vostri doveri» (V, , vv.  s.). La logica del ruolo della vittima a lei negato viene espressa nella maniera più pregnante nel momento in cui dice: «Carlo! Che fate di me? [...] Non mi è dato innalzarmi alla vostra virile grandezza, ma vi comprendo e vi ammiro» (V, , vv.  s.). L’ambivalenza di queste frasi rispecchia l’ambiguità della situazione in cui Schiller alla fine colloca la regina. Elisabetta, in possesso di una visione politica più ampia rispetto a Carlos, deve limitarsi, per ragioni di difesa del ruolo specifico relativo al proprio sesso, all’ambito della rappresentanza del potere, giacché le spetta, secondo la teologia politica della prima età moderna, unicamente il ruolo di osservatrice muta, che può ammirare la «grandezza virile» ma che non può agire di propria iniziativa. Nella Theosophie des Julius, il nucleo più antico del testo dei Philosophische Briefe (), Schiller delinea il concetto di sacrificio alla luce di un sistema di pensiero altamente metafisico (NA, XX, p. ). Sacrificio è qui inteso come rinuncia a sé portata all’estremo, sino all’annientamento della propria vita, per un fine superiore. La Teosofia sottolinea chiaramente come né «l’aspettativa di una corona di martire» né il «piacere del momento che verrà» possano essere considerati il motivo di tale rinuncia a sé, bensì unicamente l’amore per un ideale o una persona (NA, XX, p. ). Elisabetta riunisce in sé entrambe le accezioni rinunciando come amante e al contempo come rappresentante di una visione politica al compimento di sé. Si trasforma quindi in una regina-fantoccio della libertà che si sottomette alla legge del sacrificio. Nella Fenomenologia dello spirito () Hegel definisce la volontà di immolarsi come indizio di una problematica attribuzione di valori che . Cfr. Th. Hobbes, Leviathan, parte II, cap.  (gli uomini sarebbero «per natura» più adatti al difficile compito del governo rispetto alle donne). . In generale bisogna tenere presente che il mondo delle idee teosofiche, e con esso il pathos del sacrificio che lo caratterizza nel contesto dell’analisi intellettuale portata avanti nel testo, andrebbe rifiutato con scetticismo; il carattere di “frammento” delle Lettere filosofiche infatti non permetteva più di rappresentare dettagliatamente la rinuncia alla filosofia metafisica della natura.

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soffoca la libera autodeterminazione perché sottomette il particolare all’universale: «Alla coscienza della virtù la legge è l’essenziale e l’individualità è ciò che deve esser tolto». Il rigorismo della virtù cerca di influenzare il processo storico verso il bene dando vita però ad una «verkehrte Gestalt und Bewegung des Allgemeinen» («figura invertita e [a] un invertito movimento dell’Universale»). Hegel spiega questo principio del fallimento attraverso l’errata impostazione di un programma che cerca lo scontro con il corso del mondo (Weltlauf), perché individua in esso il falso per eccellenza ma in tal modo si irrigidisce in un’entità astratta che distrugge insieme alla propria individualità anche i principi di ogni miglioramento. Il sacrificio non può portare ad una correzione positiva del «corso del mondo» perché include l’annullamento dell’individualità attraverso la quale soltanto è possibile un cambiamento degli eventi: «Con questa esperienza viene a cadere il mezzo di produrre il bene col sacrificio dell’individualità; ché l’individualità è per l’appunto l’attuazione di ciò che è in sé». Walter Benjamin, che era un cattivo conoscitore di Hegel, analizza il problema di tale minaccia mitica per la ragione da una prospettiva opposta quando scrive: «Dove c’è il destino, un pezzo di storia è diventato natura». La dialettica del sacrificio per Hegel consiste anzitutto nel fatto che questo non produce libertà – «l’Essere in sé» – bensì – come conseguenza della “cattiva universalità” – dipendenza e costrizione. La rinuncia dell’individuale a tale principio non può portare ad alcuna autonomia in quanto quest’ultima è pensabile solo nel particolare. Nel suo scritto Über das Pathetische Schiller fa riferimento ad una dialettica simile quando spiega – contro l’etica del dovere kantiana – che l’assoluto compimento di una legge morale nell’azione individuale non favorisce la nostra personale predisposizione all’emulazione dell’ideale morale, bensì la inibisce (NA, XX, p. ). Questo spiega già il meccanismo della distruzione del bene attraverso il sacrificio della libertà soggettiva che Hegel (a differenza di quanto dice Adorno nella sua Dialettica negativa) ha compreso molto bene. Nelle sue . G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke, hrsg. v. E. Moldenhauer, K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. III, p.  (trad. it., Fenomenologia dello spirito, a cura di E. De Negri, Fabbri, Milano , vol. I, p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . W. Benjamin, “El mayor monstruo, los celos” von Calderón und “Herodes und Mariamne” von Hebbel. Bemerkungen zum Problem des historischen Dramas, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. v. R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M.  ss., vol. II, pp. -, qui pp.  s. Per la conoscenza di Hegel dell’autore: W. Benjamin, Briefe, hrsg. und mit Anmerkungen versehen v. G. Scholem, Th. W. Adorno, vol. , Suhrkamp, Frankfurt a.M.  ( ed. ), vol. I, p.  («Hegel scheint fürchterlich zu sein!»), p.  («die Physiognomie eines intellektuellen Gewaltmenschen»). . Th. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp.  ss. (trad. it., Dialettica negativa, a cura di C. A. Donolo, Einaudi, Torino , pp.  ss.).

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Lettere su Don Carlos pubblicate nel , un grande resoconto sulla vivacità politica della figura del marchese Posa, Schiller descrive sotto l’immediata impressione del proprio materiale il problema della cattiva universalità derivante dal sacrificio con una formula che sottolinea la superiorità dell’esperienza individuale nei confronti del principio morale: «poiché nulla che non sia naturale conduce al bene» (NA, XXII, p. ). In riferimento alla rinuncia a sé di Posa si parla poi esplicitamente di «sacrificio» quando Schiller giustifica in linea di principio la decisione del marchese di morire per Carlos, senza però approvarla completamente, perché caratterizzata da «Schwärmerei»: «Er hüllt sich in die Größe seiner Tat, um keine Reue darüber zu empfinden» (NA, XXII, p. ). Ogni sacrificio di sé minaccia di trasformarsi in un «cattivo universale» perché distrugge l’individuale a vantaggio dell’idea. Al termine del dramma schilleriano non vince né il vecchio regime spagnolo personificato da Filippo né la voglia di libertà rivendicata da Elisabetta, ma l’Inquisizione, cui spetta il compito di giustiziare l’infante infedele. Sotto il profilo politico si tratta di una soluzione reazionaria, comunque moderna se considerata dal punto di vista storico: l’invisibile efficienza dell’istituzione prevale sull’aura della persona. I reali rapporti di potere sono messi in luce da Schiller nella scena finale di sicuro effetto. Il re manda suo figlio incontro ad una morte certa, la regina sviene, al grande inquisitore viene consegnato l’infante come ricompensa. Ciò corrisponde all’interpretazione di Hegel, secondo la quale la vittima rafforza il «cattivo universale» perché rinuncia a ciò che ha di più caro, l’individualità. Nella morte vince la natura eteronoma sulla libertà: un trionfo di cui solo Nietzsche invertirà i valori in una prospettiva sentimentale e che interpreterà come atto di rinnovamento della vita. Esiste però anche in Schiller e in Hegel già una prospettiva che permette di individuare un significato positivo nel sacrificio, visto quale manifestazione di un’individualità ormai dimenticata che l’arte solamente ha il compito di ricordare. È il momento di parlare di questa prospettiva.  La dignità della sacrificata: Maria Stuart Circa la questione relativa alla rappresentazione dei sovrani nel dramma, nelle teorie poetologiche della seconda metà del secolo XVIII vige la posizione unanime secondo la quale, a stare in primo piano nella trattazione, . F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie (), in Id., Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, hrsg. v. G. Colli, M. Montinari, de Gruyter, Berlin-New York , vol. I, pp.  ss. (trad. it. di U. Fadini, La nascita della tragedia, in Nietzsche. Opere /, a cura di F. Desideri, Newton Compton, Roma , p. ).

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non debba essere il capo di Stato bensì l’uomo. Christian Heinrich Schmid spiega nel : «Non il diadema, non l’onorificenza fa l’eroe. Anche nel dramma eroico i grandi ci interessano in gran parte solo in quanto uomini, e proprio per questo è la sua scuola ad insegnare loro che sono uomini». Christian Garve, nel , rileva polemicamente sulla tragedia: «Che importanza ha qui il nome del principe, se egli agisce o soffre solo in quanto uomo?». Nella Hamburgische Dramaturgie (-), Lessing afferma: «L’infelicità di coloro le cui condizioni si avvicinano maggiormente alle nostre, deve naturalmente colpirci in maniera più profonda, e se noi proviamo compassione per dei re, ciò accade perché sono degli uomini, e non perché sono dei re». Ciò che viene detto circa l’immagine del sovrano vale in maniera ancor più significativa per la rappresentazione della regina che si concentra, nella prassi drammatica del tardo illuminismo, soprattutto su particolari privati. Che però per la classe dei regnanti anche la sfera privata assuma una dimensione politica è indicato molto chiaramente dall’opera di Schiller – in maniera esemplare dalla Maria Stuart. Le incerte riflessioni della primavera del  sull’elaborazione del celebre soggetto, orientate sul modello della tragedia attica, non sembrano ancora individuare tali potenzialità. Egli cerca «[den] ganzen Gerichtsgang zugleich mit allem politischen auf die Seite zu bringen» secondo il «metodo euripideo», come si legge il  aprile  nella fase della prima programmazione dell’opera (NA, XXX, p. ). In primo piano per lui non c’è la regina bensì la persona che soffre in quanto «entità fisica», capace di suscitare «passioni veementi» ( giugno ; NA, XXX, p. ). Lo «scopo della rappresentazione» richiede un’effettività teatrale che viene raggiunta solo se si contrae l’azione principale – nonché quella politica che porta alla condanna e all’esecuzione di Maria Stuart – sul modello del «Kammerspiel» ( agosto ; NA, XXX, p. ); più avanti si parla di «cintura aderente» che stringe la stoffa in una forma classicista ( luglio ; NA, XXX, p. ). Tali espressioni nascondono il fatto che Maria Stuart – cosa che anche la critica ha per lo più ignorato – è un dramma politico con celati (ma del tutto evidenti) punti di contatto con la storia del tardo XVIII secolo. . Ch. H. Schmid, Über das bürgerliche Trauerspiel (), in Die Entwicklung des bürgerlichen Dramas im . Jahrhundert, Ausgewählte Texte, mit einem Nachwort hrsg. v. J. Mathes, Niemeyer, Tübingen , pp. -, qui p. . . Ch. Garve, Einige Gedanken über das Interessierende (), in Die Entstehung des bürgerlichen Dramas im . Jahrhundert, cit., pp. -, qui p. . . G. E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie (-), in Id., Werke, hrsg. v. H. G. Göpfert et al., Hanser, München  ss., vol. IV, p.  (trad. it., Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Bulzoni, Roma , p. ). . I motivi storici del dramma non sono stati finora analizzati a sufficienza. Relativamente alla recente letteratura secondaria: F. van Ingen, Macht und Gewissen. Schillers “Maria Stuart”, in W. Wittkowski (hrsg.), Verantwortung und Utopie. Zur Literatur der Goethezeit.

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Il dramma inizia, com’è noto, con una sgradevole visita in camera compiuta da Sir Paulet e dal suo taciturno servitore Drugeon Drury nel castello di Fotheringhay per impossessarsi di alcuni fogli segreti di Maria e del gioiello che tiene con sé. «Che cosa fate signore? una nuova impudenza! / Via da quello scrigno!» – grida indignata l’anziana nutrice di Maria (I,  vv.  s.). I lettori di allora dovettero aver intuito che Schiller con questa rappresentazione (del tutto rispondente ai particolari storici) non si richiamava soltanto al caso di Maria Stuart bensì anche al destino di un’altra regina, le cui vicende nell’estate del  – quando il dramma fu rappresentato per la prima volta a Weimar – erano ancora fresche nella memoria: si tratta della storia di Maria Antonietta, imprigionata il  agosto  nel Temple poi nella Conciergerie, quindi processata nell’autunno del  e infine il  ottobre , nove mesi dopo l’esecuzione di suo marito Luigi XVI, giustiziata sulla pubblica piazza. Rosalie Lamorlière, cameriera personale della regina durante i suoi ultimi mesi di vita nella Conciergerie, racconta di «perquisizioni accurate [...] ad ogni ora del giorno e della notte» (dettaglio, questo, confermato dalla principessa Marie-Thérèse Charlotte, in un primo momento imprigionata con sua madre). Anche in altri punti si riscontrano chiaramente dei parallelismi tra la Maria di Schiller e le vicende di Maria Antonietta. Il capo carceriere Lebeau, responsabile del carcere di La Force, viene descritto nelle memorie della Lamorlière in un modo tale che l’affinità con il ritratto dello storico Paulet proposto da Schiller sia evidente: sarebbe stato «rude e severo», ma in realtà «non un uomo cattivo». Circa l’angusta prigione in cui la regina francese dovette trascorrere gli ultimi mesi della propria vita, si dice che si caratterizzasse per essere «spaventosamente spoglia», così come spiega la nutrice Kennedy in Schiller: Ein Symposium, Niemeyer, Tübingen , pp. -; Th. Diecks, “Schuldige Unschuld”. Schillers “Maria Stuart” vor dem Hintergrund barocker Dramatisierungen des Stoffes, in A. Aurnhammer et al. (hrsg.), Schiller und die höfische Welt, Niemeyer, Tübingen , pp. ; A. Henkel, Wie Schiller Königinnen reden läßt. Zur Szene III,  in der “Maria Stuart”, in Aurnhammer et al. (hrsg.), Schiller und die höfische Welt, cit., pp. -; F. J. Lamport, Krise und Legitimitätsanspruch. “Maria Stuart” als Geschichtstragödie, in “Zeitschrift für deutsche Philologie”, , , Sonderheft, pp. -; K. Lokke, Schiller’s “Maria Stuart”. The Historical Sublime and the Aesthetics of Gender, in “Monatshefte”, , , pp. -; K. S. Guthke, Schillers Dramen. Idealismus und Skepsis, Francke, Tübingen-Basel , pp. -. . La traduzione italiana di questo e dei passi seguenti è tratta da F. Schiller, Maria Stuart, a cura di L. Crescenzi, Mondadori, Milano . . La ricerca su Schiller tende prevalentemente a ignorare questo parallelismo. Un breve contributo, certamente non valutabile come una dettagliata analisi testuale, si trova in O. W. Johnston, Schiller und die politische Welt, in Koopmann (hrsg.), Schiller-Handbuch, cit., p. . . Die Französische Revolution in Augenzeugenberichten, hrsg. v. G. Pernoud, S. Flaissier, mit einem Vorwort von A. Maurois, DTV, München , p. ; cfr. ivi, p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. .

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«Chi crederebbe, guardando queste pareti spoglie, / che qui dentro abita una regina?» (I, , vv.  s.). In entrambi i casi la confisca del gioiello reale come mezzo di corruzione appare la prassi corrente («ancora gioielli, ancora tesori segreti!» (I, , v. ); «Quando la regina arrivò dal Temple possedeva ancora due graziosi anelli di diamanti e la sua fede nuziale» [Lamorlière]). Il sospetto che la prigioniera avesse dei piani di fuga dà adito ad una stretta sorveglianza. La Maria di Schiller si lamenta: «La lunga onta del carcere ha spezzato / il nobile coraggio» (III, , vv.  s.); di Maria Antonietta si dice che a causa della pressione della quotidianità in carcere avesse perduto l’iniziale fiducia (la preoccupazione «Kummer» e gli «spaventi del  ottobre []» pare le avessero fatto diventare bianchi i capelli sulle tempie). Le memorie di Rosalie Lamorlière furono pubblicate postume nel  ma Schiller conosceva gli articoli del “Moniteur Universel” relativi alle vicende della famiglia reale nel Temple; lesse regolarmente la rivista, fondata nel , fino all’inverno del  («Vi si trovano in dettaglio tutte le trattative nella Convenzione nazionale e si imparano a conoscere i francesi nella loro forza e nella loro debolezza»; NA, XXVI, p. ). Grazie al “Moniteur” Schiller dovette ottenere informazioni relative alle personali condizioni di vita della regina prigioniera, sebbene successivamente l’autore negherà, per motivi strategici, di essere in possesso di conoscenze dettagliate sulla Rivoluzione a Parigi (NA, XXVIII, pp.  s.). Tali informazioni portarono, dal punto di vista formale, a un confronto col materiale della Maria Stuart che egli, nella primavera del  – cinque anni e mezzo dopo la morte di Maria Antonietta –, cominciava ad elaborare sul piano drammatico: perdita dello status di sovrana, prigionia, accusa di presunto alto tradimento e pubblica esecuzione capitale rappresentano in entrambi i casi le stazioni di una caduta tragica dalle vette dello splendore monarchico. Vi è poi un ulteriore motivo che Schiller utilizza: l’immagine della seduttrice che, come sostenevano i suoi contemporanei, avrebbe indiscriminatamente cercato e usato i propri amanti. Verso la fine della scena dello scontro, che si risolve retoricamente al centro del dramma, Elisabetta si esprime con astio circa la presunta promiscuità di Maria: «Per essere universale bellezza / è sufficiente diventare la bellezza di chiunque!» (III, , vv.  s.). Dalle parole di Elisabetta, Maria appare come una prostituta viziosa che concedeva il proprio corpo reale a chiunque ne avesse brama. Simili accuse erano rivolte, dapprima in maniera clandestina poi pubblicamente, contro la presunta bramosia sessuale . Ivi, p. . . Ivi, p. . La semantica politica porta Schiller a costruire una distinzione sessuale anche nell’ambito privato. Cfr. Lokke, Schiller’s “Maria Stuart”, cit., pp. -. . R. Lamorlière, Relation du séjour de Marie-Antoinette à la Conciergerie, Paris .

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della regina francese. I lavori dell’americana Lynn Hunt, studiosa di scienze culturali, hanno documentato la campagna pornografica condotta a Parigi contro la regina a partire dagli anni Settanta del XVIII secolo. In un primo momento tali diffamazioni si realizzavano attraverso disegni osceni e racconti erotici pubblicati anonimamente, mentre successivamente si trasformarono in attacchi polemici che dipingevano la figlia di Maria Teresa come una consigliera degenere del debole re, moglie infedele e donna di malaffare, capace di portare il proprio figlio all’incesto. Nel dramma di Ernst Carl Ludwig Ysenburg von Buri, pubblicato nel  e avente come tema gli ultimi giorni della regina, la prigioniera si lamenta per l’infame accusa rivoltale di incesto e promiscuità: «Non era abbastanza, che mi si riducesse al rango di una Messalina; ho dovuto essere una nuova Agrippina!». Gudrun Gersmann parla di «radikale Gegenöffentlichkeit», volta a screditare dalla metà degli anni Ottanta del XVIII secolo con accuse oscene la figura di Maria Antonietta esprimendo così anche quello spirito rivoluzionario che già alla vigilia dell’attacco alla Bastiglia andava costituendosi in un clima di grande tensione. Quando l’Elisabetta di Schiller apostrofa la propria rivale come «bellezza volgare», disponibile per tutti, tale accusa rimanda chiaramente alle pubbliche speculazioni relative alle presunte tendenze promiscue della regina francese. In un saggio pubblicato anonimo nell’agosto del  Germaine de Staël, figlia di Jacques Necker, ultimo ministro delle Finanze del re, afferma che il processo contro Maria Antonietta rappresenta l’espressione di un’invidia pubblica nei confronti di una sovrana capace di riunire in sé eleganza, gusto e bellezza. La de Staël, che visse sin dal  con suo padre nell’esilio di Ginevra, rifiuta espressamente ogni validità giuridica dell’accusa in quanto questa attribuirebbe al processo una legalità che questo non possiede. Per le stesse ragioni – con riferimento a vizi formali e al carattere ingiustificato del processo – la Maria Stuart di Schiller rifiuta, durante l’alterco con Burleigh, il “falco” tra i consiglieri di Elisabetta, una di. E. C. L. Y. von Buri, Marie Antonie von Österreich. Königinn in Frankreich, Neuwied , p.  (III, ). «Messalina»: si riferisce a Valeria Messalina terza moglie dell’imperatore romano Claudio (- d.C.), madre di Britannico, la quale alimentò fatalmente la tendenza del marito al desiderio smodato e a un comportamento disinibito. L’intero secondo atto del testo di Buri è nel segno dell’accusa alla regina sebbene l’accusa di incesto sia rivolta solo implicitamente, senza una diretta menzione. Cfr. ivi, pp.  s. (II, ). Su Buri cfr. N. O. Eke, Signaturen der Revolution. Frankreich – Deutschland: deutsche Zeitgenossenschaft und deutsches Drama zur Französischen Revolution um , Fink, München , pp.  ss. . G. Gersmann, Im Schatten der Bastille. Die Welt der Schriftsteller, Kolporteure und Buchhändler am Vorabend der Französischen Revolution, Klett-Cotta, Stuttgart , p. . . G. de Staël, Réflexions sur le procès de la reine (), in Ead., Œuvres complètes, t. I, Paris , pp. - e . Il testo apparve a Parigi senza l’indicazione dell’autrice ma venne presto riconosciuto come lavoro di Germaine de Staël. . Ivi, pp.  s.

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scussione sul giudizio pronunciato contro di lei (I, , vv.  s.). Quando Germaine de Staël definisce normalmente Maria Antonietta vittima della Rivoluzione («une nouvelle victime», «une malheureuse victime», «cette interessante victime», oppure, includendo anche i suoi figli, «victimes illustres»), ma la connota al contempo – in contrasto con lo status quo giuridico dell’agosto  – come regina, ciò sostiene la sua posizione secondo la quale tutto il processo equivarrebbe ad una dannazione della natura, del cielo e della civiltà. Anche la protagonista di Schiller presenta un’identità duplice, quella di regina e quella di vittima. Già nei confronti di Burleigh si esprime così: «Guai alla vittima se la stessa bocca / che promulga la legge pronuncia anche la sentenza!» (I, , vv.  s.). Poco più avanti, in riferimento alla differenza di livello che la divide da Elisabetta a causa della sua prigionia, dice: «Io sono debole, lei è potente... Bene! / Utilizzi la forza, mi uccida, / mi sacrifichi alla sua sicurezza. / Ma poi ammetta che ha fatto uso / del potere soltanto e non della giustizia» (I, , vv.  s.). Accanto alla sofferenza per il ruolo di vittima, in Maria emerge la consapevolezza del suo status di sovrana. Anzitutto si rimarca ancora la distinzione che ne consegue: «Non sono cittadina di questo Stato, / sono una libera regina straniera» (I, , vv.  s.). Nel diverbio con Elisabetta viene espresso un giudizio ancora più sfrontato: «Se regnasse il diritto sareste voi, ora, a giacere davanti a me / nella polvere, perché io sono la vostra sovrana» (euer König, lett.: «il vostro re») (III, , v. ). La forma maschile (ricorda l’«Ich bin euer gnäd’ger König» con cui Filippo II richiama entro i propri limiti il conte Lerma, III, , v. ) indica una legittimità dinastica che Elisabetta può rivendicare, invece, solo limitatamente. Certamente il diritto inglese dell’epoca dei Tudor (a partire dal ) vedeva, a differenza della monarchia francese e di quella degli Asburgo, il ruolo della regina in linea di principio non limitato unicamente a quello di madre dei figli del re e ovviamente Elisabetta soffrì per il fatto di non avere che una fragile base giuridica del proprio potere, quale figlia ripudiata di Enrico VIII poi riabilitata in maniera ambigua quale figlia di Anna Bolena. Quando Maria si definisce «vostro re» rivendica il ruolo di monarca garantitole de lege et natura. Il pronome possessivo “vostro” rimanda alla sua legittimità (de lege) che rivendica con la pretesa di essere sovrana di Scozia e Inghilterra, in quanto nipote di Enrico VIII. La forma maschile “re” sottolinea la funzione . Ivi, pp. -, . Il concetto di vittima diventa formalmente il motivo conduttore del testo da cui è permeata l’intera rappresentazione del destino della regina. . Ivi, p.  («la reine devait périr mille fois sous tant de coups redoublés: la nature, le ciel, en la sauvant, l’ont declarée sacrée»). Sulla interpretazione della de Staël relativa alla regina rappresentante di virtù ed amore, cfr. B. Vinken, Marie-Antoinette oder Das Ende der Zwei-Körper-Lehre, in U. Hebekus et al. (hrsg.), Das Politische. Figurenlehren des sozialen Körpers nach der Romantik, Fink, München , pp. -, qui pp.  ss.

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naturale (de natura) del monarca maschile, il quale, come indica la ricerca guida di Ernst Kantorowicz in I due corpi del re (), a differenza della regina (eccezion fatta per quella avente poteri di reggenza), dispone di un corpo duplice: un “corpo naturale”, che soggiace alle leggi della mortalità, e un “corpo politico” immortale, perché rappresenta il carattere duraturo del potere istituzionale del regno («Le roi ne meurt jamais» recita, com’è noto, la formula francese relativa al “corpo politico” del re che, alla sua morte, migra nel corpo del suo successore). Maria rivendica quella “sempiternità” («dignitas semper est») che Kantorowicz descrive come segno della continuità del potere monarchico al mutare delle personalità nel ruolo di comando. In tal modo ella appare come il sovrano naturale al cospetto del quale Elisabetta sembra un’usurpatrice senza alcun diritto giuridico effettivo sulla Corona. Attraverso il ductus grammaticale del verso Elisabetta si vede spodestata dal centro del potere e costretta nel ruolo di donna senza sovranità, di fronte ad un sovrano maschile dai due corpi. Diversamente da quello di Schiller, il dramma di Buri presenta Maria Antonietta come una prigioniera rassegnata e umiliata, che non avanza alcuna pretesa sul suo precedente titolo e perciò appare vittima di una congiura politica. Nel monologo la prigioniera giudica la sua precedente dignità come indizio di un’artificiosa illusione: «Antonie! du mußt nicht mehr zurück blicken in deine vorige Herrlichkeit. Sie ist verschwunden. Sie war Flittergold auf dem Gewande der Schauspielerin. Warst du etwas mehr als eine Operköniginn?». La Maria Antonietta di Buri alla fine deve morire perché il suo sangue è interpretato come simbolo che dà vita alla repubblica. La «Opernköniginn» ha rinunciato da tempo al suo ruolo pubblico con il suo atteggiamento passivo che implica una rinuncia alla rituale messa in scena di sé a favore di un ritorno all’intimità privata (perciò Maria Antonietta rifiuta con sdegno l’espressione del presidente del tribunale secondo cui l’ultima visita presso i suoi figli sarebbe stata una «cerimo. E. H. Kantorowicz, The King’s two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton University Press, Princeton  (trad. it., I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino , pp.  ss., ). Per la più recente ricezione di Kantorowicz, cfr. J. Woodward, The Theatre of Death. The Ritual Management of Royal Funerals in Renaissance England -, Boydell Press, Woodbridge , pp.  ss.; W. Ernst, C. Vismann (hrsg.), Geschichtskörper. Zur Aktualität von Ernst H. Kantorowicz, Fink, München  e F. Balke, Wie man einen König tötet oder: Majesty in Misery, in “Deutsche Vierteljahrsschrift für allgemeine Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”, , , pp. -. . A Kantorowicz fa breve riferimento anche N. Immer, Maria Stuart und der “Graf von Essex”, in “Deutsche Vierteljahrsschrift für allgemeine Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”, , , pp. -, senza però trarre conseguenze interpretative dalla sua analisi. . Buri, Marie Antonie von Österreich, cit., p.  (II, ). Il dramma di Buri ha in comune con il testo schilleriano la tendenza alla deduzione giuridica; l’intero secondo atto è caratterizzato dall’accusa alla regina.

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nia»). Il dramma di Buri presenta un’eroina borghese che, a differenza della Maria Stuart schilleriana, ha interiormente chiuso i propri rapporti con il mondo del potere. Proprio la rinuncia ad una immagine politica della propria persona costituisce la premessa per quell’effetto toccante che il dramma cerca di ricavare dalla rappresentazione dell’infelice destino della regina. La Maria di Schiller, invece, si presenta nel ruolo di maestà coronata il cui diritto al trono è fuori discussione, a prescindere da ogni interpretazione giuridica. Alla fine, l’ipertrofica rappresentazione di sé che ella mostra nel dialogo con la rivale si raffina nell’identità della sofferente, le cui strade conducono solo alla morte. Maria, consapevole delle sue precedenti mancanze, sopporta il proprio destino di vittima della ragion di Stato con un atteggiamento che ricorda il concetto schilleriano di “dignità”. La formula adeguata si trova già nel primo atto: «Possono trattarci bassamente / non umiliarci» (I, , vv.  s.). Maria dimostra dignità nella misura in cui riconosce di aver perduto la libertà di agire. Ciò si rispecchia in maniera piuttosto evidente nell’abbigliamento della condannata in attesa della scure del boia, per la cui descrizione Schiller si rifà come “fonte” soprattutto a William Robertson, del quale aveva letto la traduzione tedesca della Storia di Scozia () apparsa nel . La regina condotta al patibolo è così descritta nel testo di Robertson: «Il suo vestito era un grazioso e lussuoso abito da lutto che ella, ad eccezione di alcuni giorni festivi, non aveva più indossato da molto tempo. Un Agnus Dei pendeva da una collana di grani d’ambra; il rosario alla cintura; in mano teneva un crocefisso d’avorio». La Maria di Schiller, come si evince dalle indicazioni di regia, è «vestita solennemente di bianco. Al collo porta una collana di piccole perle con un Agnus Dei come pendaglio. Alla cintura porta appeso un rosario, in mano ha un crocefisso e un diadema tra i capelli. Il suo grande velo nero è tirato indietro» (NA, IX, p. ). Tutti gli elementi della descrizione schilleriana, che per essere un’indicazione di scena di un dramma classicista è eccezionalmente dettagliata, sono già presenti in Robertson – con l’eccezione del velo nero. Per cercare una spiegazione di tale complemento si è ricondotti nuovamente alla storia del tempo. Rosalie Lamorlière racconta che Maria Antonietta durante la prigionia si era preparata un’acconciatura con garza crespa e fasce da lutto – simbolo di vedovanza che in Schiller è trasfigurato nel velo nero, per il cui utilizzo come accessorio di scena non si è trovata sinora alcuna fonte di riferimento plausibile. Anche altri elementi della rappresentazione di Maria, indipendentemente dalla loro menzione in Ro. Ivi, p.  (III, ). . W. Robertson, Geschichte von Schottland unter den Regierungen der Königinn Maria und des Königs Jacobs, VI, Zwei Theile, Ulm-Leipzig , p. . . Die Französische Revolution in Augenzeugenberichten, cit., p. .

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bertson, corrispondono all’immagine della regina francese condannata a morte. Nella sua rivista “Les révolutions de Paris”, il giornalista Louis-Marie Prudhomme descrive la condannata al mattino dell’esecuzione: «Era già pronta, vale a dire vestita di bianco, esattamente come il marito nel giorno della sua esecuzione. Questo modo di adornarsi non passò inosservato e fece sorridere il popolo: il colore simbolico dell’innocenza non si addiceva a Maria Antonietta». Sul “Moniteur Universel” del  ottobre  si legge: «Alle undici Marie Antoinette, con una veste da camera di picché bianco, fu condotta al patibolo come gli altri delinquenti, accompagnata da un prete costituzionale in abito borghese e scortata da molti reparti di gendarmeria a piedi e a cavallo». Nel dramma di Buri il generale prussiano racconta alle truppe l’atto dell’esecuzione: «Maria Antonietta d’Austria è stata assassinata. L’hanno condotta al patibolo come l’ultima dei delinquenti». In un punto rilevante, però, differiscono la storia e il dramma. Mentre Maria Antonietta, infatti, viene condotta al patibolo certamente in abito bianco ma per il resto «come i criminali comuni», Schiller rappresenta il preludio all’esecuzione come un atto di investitura, come la ricostituzione della regina che, nella morte, raggiunge una nuova forma di sovranità, e cioè la libertà ottenuta attraverso la dignità morale. Laddove Maria Antonietta si trasforma in homo sacer – per utilizzare la nozione di Giorgio Agamben derivante dal diritto romano –, che incarna la vita pura (“sacra”) che non può essere sacrificata perché non rappresenta che se stessa, la Maria schilleriana va incontro alla morte nel segno della ricostituzione della propria dignità reale. L’homo sacer di Agamben è l’uomo senza diritti che – come schiavo, criminale o proscritto – viene ucciso ma non sacrificato, e diventa la trasfigurazione della vita pura, santa, senza significato trascendente. Il suo significato rimane limitato alla sola immanenza che non può mostrare altro che un corpo inerme che riceve la propria sacralità attraverso una for. Ivi, p. . . Ibid. . Buri, Marie Antonie von Österreich, cit., p.  (IV, ). La biografia sentimentale sulla vita e le passioni della regina francese di Stefan Zweig ha impreziosito questa scena con fantasia melodrammatica (S. Zweig, Maria Stuart, Reichner, Wien-Leipzig-Zürich , specialmente pp.  s., in riferimento all’abbigliamento nel giorno dell’esecuzione; trad. it., Maria Stuarda: la rivale di Elisabetta I di Inghilterra, a cura di L. Pampaloni, Bompiani, Milano ). . G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino ; cfr. Balke, Wie man einen König tötet oder: Majesty in Misery, cit. (tentativo di applicare la categoria di Agamben all’esecuzione di Luigi XVI: anche il sovrano francese non sarebbe morto da martire bensì da homo sacer; analogo il caso di Maria Antonietta, che viene giustiziata secondo il volere dei giudici come una comune criminale); in Balke manca in ogni caso una netta differenziazione tra il discorso letterario e quello storiografico. . Agamben, Homo sacer, cit., pp.  ss.

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za evocativa che rimanda a se stesso al di là di ogni trascendenza. Con Foucault, Agamben descrive la forza che uccide l’homo sacer come esempio della sovranità politica che ha bisogno della vita (bios) per mettersi alla prova ed affermarsi. L’uomo senza diritti che diventa vittima rappresenta, secondo Agamben, la sacralità della vita nell’attimo della sua distruzione. La giovane repubblica con l’uccisione dell’ex regina rivendica quell’assoluto diritto di decidere della vita e della morte che è segno di sovranità. La Maria Stuart di Schiller, invece, non muore da homo sacer, come indicano i dettagli del suo abbigliamento. La sua morte evidenzia quel momento di trasfigurazione della regina prigioniera che porta alla restituzione del suo ruolo precedente. L’eroina che va incontro alla condanna in maniera composta è inserita in un insieme di immagini che conferiscono alla sua morte una dimensione simbolica. Maria è una vera regnante solo nell’ultimo momento prima dell’esecuzione, allorché, in condizione di totale rinuncia, può asserire: «Sento nuovamente la corona sul capo / e un degno orgoglio nel mio nobile animo» (v, , v. ). È la corona da martire, quale segno del potere della superiorità morale, che Maria «sente sul proprio capo». Il motivo tardo-medievale della «triade delle corone», rappresentato in maniera esemplare da Andreas Gryphius nel suo dramma Carolus Stuardus (-), emerge qui rinnovato nella sua consecutiva logica di significati: alla “corona del mondo”, che il sovrano deposto deve abbandonare, fa seguito la “corona di spine” di colui che soffre per una causa ingiusta ma che, alla fine, riproponendo la passio Christi, può ricevere in un tempo infinito la “corona d’onore” del redento per la vita eterna. Il simbolo di questo tipo di potere sovrano – di cui si fregia Maria Stuart – è qui posto sotto il diktat dell’escatologia, perché solo da morente la regina può portare le insegne del monarca. Solo la morte le attribuisce titolo e dignità, la cui unità è intesa nel senso duplice della parola latina dignitas. La scena dell’esecuzione supera definitivamente i parallelismi tra Maria Stuart e Maria Antonietta. La morte di Maria, che già la fonte di Schiller, Robertson, definisce «tragica» , attualizza l’estetica di un sacrificio nel . Cfr. M. Foucault, Histoire de la sexualité, vol. , La volonté de savoir, Gallimard, Paris  (trad. it., Storia della sessualità, Feltrinelli, Milano ); Id., Il faut défendre la société (Lezioni al Collège de France, trad. it. a cura di M. Bertani, Ponte alle Grazie, Firenze ). . A. Gryphius, Ermordete Majestaet oder Carolus Stuardus Koenig von Gross Britanien (), in Id., Dramen, hrsg. v. E. Mannack, Deutscher Klassiken Verlag, Frankfurt a.M. , p. . . Si fa breve riferimento, qui, a quanto Rüdiger Safranski spiega in Schiller oder Die Erfindung des deutschen Idealismus, Hanser, München , p. : «Während Elisabeth das Persönliche im Politischen verhüllt, gewinnt Maria, indem sie ihrer königlichen Würde entkleidet wird, die persönliche Würde zurück». La differenza tra l’ambito politico e quello privato non è così marcata come viene sostenuto. . Robertson, Geschichte von Schottland, cit., p. .

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cui compimento la vita tende a un qualcosa di più alto, la dignità. Maria deve morire al di fuori della scena, come impone il dettame aristotelico sul «fatto orrendo», mentre Leicester, il mancato salvatore, diventa testimone uditivo dell’esecuzione. Questi si trova davanti alla porta serrata che lo separa dal piazzale del patibolo e descrive, basandosi sulle impressioni acustiche, ciò che l’occhio dello spettatore non può vedere: «Prega ad alta voce... / con voce ferma... si fa silenzio... silenzio totale! / Sento solo singhiozzi, e le donne che piangono... la spogliano... ascolta! Avvicinano lo sgabello... / Si inginocchia sul cuscino... appoggia il capo...» (V, , vv.  s.). La svestizione della regina – che la Storia di Scozia di Robertson aveva descritto dettagliatamente – in Schiller avviene nella parte esterna della scena dove lo sguardo del pubblico non può arrivare. La delicatezza classicista è difficile da superare: la regina, privata delle sue insegne reali, viene sottratta alla nostra immaginazione visuale perché Leicester non vede, ma sente soltanto come viene “svestita”. La rappresentazione schilleriana non fissa la nudità creaturale dell’eroina uccisa, ma piuttosto la dignità di colei che muore compostamente; invece della presenza di un’orrenda esecuzione si comunica allo spettatore il ricordo – evocato dal resoconto di Leicester – di quella «espressione di resistenza» che – con un rimando a Über Anmut und Würde – «lo spirito autonomo» contrappone «all’impulso naturale» (NA, XX, p. ). Walter Burkert ha notato, in riferimento ai riti dell’antica Grecia, come la «struttura del sacrificio» consista in un’unione tra «Verschuldung» e «Restitution». Tale formula – al di là del suo significato simbolico relativo alla tradizione greca – può applicarsi perfettamente alla protagonista schilleriana. La sua “colpa”, dovuta alla sua precedente vita immorale, viene espiata nell’atto del sacrificio cosicché, alla fine, possa avere luogo la “restituzione” alla regina di quel ruolo che Maria Stuart, in quanto morente in dignità, ha il pieno diritto di rivendicare. Con la doppia formula di “colpa e restituzione” si comprende anche perché Maria, quando sente nuovamente la corona sul suo capo, si riappropria – paradossalmente, proprio nel momento della sua uccisione – di quel “corpo politico” della monarchia che aveva perduto col suo coinvolgimento nel vizio e nel crimine. La regina di Schiller non si spegne quindi da homo sacer come Maria Antonietta, bensì come vittima cui la morte conferisce una di. Ivi, p. . . W. Burkert, Homo necans. Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, de Gruyter, Berlin-New York , p. . In riferimento allo studio guida di Burkert ci sarebbe anche da discutere la genealogia del concetto di «nuda vita» di Agamben. Questo è tanto evidente per il consolidamento biopolitico della sovranità nell’età contemporanea (e i suoi terribili scenari del XX secolo) quanto problematica rimane la sua derivazione dall’antica mitologia sacrificale. Burkert vede invece nel sacrificio, a differenza di Agamben, sempre il bios, la vita, santificata e trascesa (Burkert, Homo necans, cit., pp. ,  s.).

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gnità che ella stessa con i propri trascorsi aveva messo in discussione. La storia l’ha inserita in un contesto di memoria durevole per la quale il teatro trova le immagini adeguate. La Storia di Scozia di Robertson tramanda i punti chiave di questa estetica del ricordo quando spiega: Le sofferenze di Maria sopravanzano in grandezza e in durata quegli accadimenti tragici che l’immaginazione ha inventato per suscitare sgomento e compassione; e in quanto guardiamo a questo siamo inclini a trascurare le sue manchevolezze: i suoi errori non ci dispiacciono più tanto e approviamo le nostre lacrime, come se le avessimo versate per una persona che sia giunta assai più vicino ai confini di una pura virtù.

Questa sintesi – la cui attribuzione tipologica di colpa e dignità, mancanza e grandezza obbedisce ad una struttura antitetica – avrebbe potuto senza dubbio nascere anche dalla penna di Schiller. A differenza della sua critica al «cattivo universale» Hegel spiega in un passo successivo della Fenomenologia dello spirito che la vittima sacrificale rende possibile la presenza reale del divino, perché rappresenta un «segno» dei poteri superiori cui essa si immola nell’atto della rinuncia alla propria persona (come soggetto) e nell’azione santa (come oggetto). Tale riabilitazione è messa da Hegel espressamente in relazione al culto e al potenziale del suo significato religioso, ma appare legittimo verificare questa sua formulazione anche per l’ambito del sacrificio tragico, per come è messo in scena da Schiller nella Maria Stuart. Seguendo la posizione hegeliana si dovrebbe sostenere che la vittima non mostra una vita santa, bensì la realtà “superiore” di colui che si sacrifica, e cioè un elemento divino al di là della vita. In tal senso Walter Benjamin sottolinea come il sacrificio tragico sia «un primo e un ultimo al contempo» («ein erstes und letztes zugleich»): il rinnovamento dell’antico diritto di entrare in una storia pensata escatologicamente attraverso la conciliazione con gli dèi, e l’origine di un’azione in grado di generare una forma – certamente paradossale – di autonomia dell’uomo al cospetto di una morte volontaria. Il destino delle regine schilleriane che, per ragioni diverse (autonomamente o sotto costrizione), rinunciano alla propria libertà o alla vita, dimostra la logica di questo sacrificio ma riflette allo stesso tempo la problematica del concetto di autonomia che vi sta alla base. Si può dire con Hegel che, per

. Robertson, Geschichte von Schottland, cit., p. . . Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., vol. III, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ibid.; Agamben, Homo sacer, cit., pp.  ss. . W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, p.  (trad. it., Il dramma barocco tedesco, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino , p. ).

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Schiller, «l’operare e l’intraprendere dell’individualità» («das Tun und das Treiben der Individualität») siano «fine in sé», ma che attraverso il loro consolidamento nel sacrificio si può raggiungere la «realtà superiore dell’essenza di se stessi» «la più alta effettualità dell’essenza [...] di se stessa». In tal modo la storia diventa in Schiller un «oggetto sublime» (NA, XXI, p. ) – come si evince dalle sue ultime due trattazioni sull’estetica del tragico –, nel senso dell’immanenza per così dire “naturale” della sofferenza e della dignità dei suoi protagonisti che si palesa nel sacrificio: la possibilità di essere liberi in condizioni esterne di mancanza di libertà. La dialettica del sacrificio analizzata da Hegel, nella quale appaiono allo stesso modo il «cattivo universale» e la presenza dell’elemento divino, viene superata da Schiller con una prospettiva sentimentale che permette di conservare la dignità dell’individuo, simbolizzata dalla sofferenza, e di trasfigurarla in un segno di libertà nell’attimo della sua distruzione. Schiller lavora qui ad una mitologia estetica del dolore al cui progetto si rifarà, settant’anni dopo e in condizioni mutate, l’opera di Nietzsche sulla tragedia, che trasformerà ciò che in lui è immaginato come contributo per la salvezza dell’autonomia umana in un’arte dell’eccitazione e della vita che si rinnova attraverso lo sdoppiamento di sé.  Sintesi conclusiva Quelli di Schiller sono Endspiele – cioè rappresentazioni con un esito catastrofico al cui centro stanno le vittime, «die teuren Toten» (Durs Grünbein). Il cadavere nel teatro schilleriano diventa emblema del sublime, segno di una libertà che scaturisce solo dall’agone tragico. Così il dramma dà vita ad una propria mitologia estetica che comunica il principio secondo cui l’autonomia e la bellezza umana perdurano soltanto nei (poetici) depositi della memoria. Ai tempi dell’entusiasmo per la rivoluzione borghese, ciò è stato interpretato come un messaggio di rassegnazione e vi si è intravisto un invito a “svernare” in un umanesimo da poco apolitico. La concezione estetica del sacrificio viene però rivalutata nel contesto delle moderne esperienze culturali attraverso le forme della memoria. La riflessione letteraria sulla sofferenza è strettamente legata alla consapevolezza che la storia bagna l’individuo come un fiume impetuoso, dal cui corso travolgente questi salva solo la memoria postuma dell’arte. La vittima – al di là della sua maggiore o minore attendibilità storico-politica – diventa una figura di conservazione in grado di sostituire, per usare l’espressione di Hegel, «l’imme. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., vol. III, p.  (trad. it. cit., vol. II, p. ). . Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, cit., vol. I, pp.  s. (trad. it. cit., pp.  s.).

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diata effettualità dell’essenza con quella più alta, cioè con quella di se stessi». Nel sacrificio si palesa l’auto-riflessione della libertà, in condizioni di forzata rinuncia ad essa, su cui si basa la tragedia. «Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione». I morti del dramma sono i testimoni muti di un diritto all’individualità che si può sostenere ed apprezzare come possibilità solo – paradossalmente – nel momento della sua autodistruzione. Schiller non ha alcun dubbio che le forze eteronome siano determinate dall’uomo (e non dalla Provvidenza), ma rifiuta, da drammaturgo, l’idea (sostenuta ancora nei suoi scritti storiografici) di una dinamica teleologica dell’evoluzione capace di indirizzare il corso degli eventi sui binari della libertà. Lo Schiller autore teatrale rende la storia esteticamente esperibile mediante il dolore e il personaggio della vittima. La dignità con cui Elisabetta di Valois e Maria Stuart si sottomettono alla legge dell’eteronomia è il simbolo di un atto di rinuncia a sé nel quale – secondo le controverse indicazioni hegeliane – si può manifestare sia l’annullamento dell’individualità sia l’immagine paradossale di una superiore idea di libertà. Le regine sofferenti di Schiller rispecchiano su questo sfondo la sofferenza dissolta dal ricorso all’“autoinganno” di un illuminismo fondato sulle immanenti forze risanatrici della storia. Dal canto suo, in relazione dialettica con tale autoinganno – che può essere riconosciuto ma non superato da chi sogna l’autonomia dell’uomo –, Schiller è un “precursore” della modernità estetica.

. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., vol. III, p.  (trad. it. cit., vol. II, p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., vol. I, p. ).

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La storia del mondo come tribunale universale. Sul problema della storia in Schiller e nella filosofia classica tedesca* di Walter Jaeschke

 Riflessione e poesia . Ritengo sia alquanto indicativo per la valutazione di un poeta il fatto che un convegno organizzato in occasione dei duecento anni della sua morte si sviluppi entro il tema “Riflessione e poesia” – e che alla “riflessione” spetti addirittura il primo posto nella relazione tra i due termini. Entrambi questi concetti – riflessione e poesia – rappresentano anzi dei punti cruciali nell’opera di Schiller; punti cruciali, nel cui dualismo, così come nella loro correlazione, risiede il tratto caratteristico della sua creazione. L’opera schilleriana si distingue in ciò in maniera pregnante rispetto all’opera di altri poeti, anche se resta indubbiamente vero che l’unità di riflessione e poesia costituisce un elemento peculiare della sua epoca in generale. Ricordo in questa sede solo i nomi dei suoi contemporanei: Hölderlin e i primi romantici – Novalis, Friedrich Schlegel e August Wilhelm Schlegel – ma anche Friedrich Heinrich Jacobi – contemporanei che parimenti realizzano quest’unità nelle loro opere, anche se con finalità e forme di volta in volta differenti. In quell’epoca l’unità sopra menzionata viene persino richiesta in maniera programmatica – e non solamente in quel testo anonimo, criptico che il suo primo editore ha definito come il «Primo programma sistematico dell’idealismo tedesco» («das Älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus»): «Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo della fantasia e dell’arte: ecco ciò di cui abbiamo bisogno!». Le idee, solitamente scisse dalla poesia, si afferma in questo passo, dovrebbero essere costituite «esteticamente, vale a dire mitologicamente», e la mitologia dovrebbe essere attuata filosoficamente. Quest’istanza non si genera inoltre solamente da un esame meramente teorico rivolto alla correlazione tra riflessione e poesia, bensì da un interesse pratico diretto all’illuminazione delle menti e all’educazione pubblica, anzi, di più, al superamento delle barriere sociali e alla creazione di un’unità fraterna nella libera società bor* Traduzione di Andrea Benedetti.

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ghese; volto dunque ad una «educazione estetica» in vista dell’attuazione di una «libertà ed uguaglianza generale degli spiriti». . Per Schiller si tratta tuttavia meno di porre in accordo la “mitologia” con le “idee” – un programma del genere significherebbe oltretutto sempre porre in accordo solo in un secondo momento. Ciò che invece gli interessa è la “storia” (die Geschichte). Essa costituisce il punto di riferimento comune tanto del poeta quanto dello storico, tanto della “poesia” quanto della “riflessione”. E questo aspetto della “riflessione” è suddiviso in questo contesto ancora una volta in due parti. Da una parte, essa comprende la riflessione filosofica, che allora – giusto allora! – s’inizia a definire quale “filosofia della storia”. Dall’altra parte, essa abbraccia l’opera storica scientifica, vale a dire una narrazione storica (Historie) che non punta in prima istanza verso la storia letteraria – come accade invece grosso modo nella stessa epoca nel primo Friedrich Schlegel –, bensì in direzione della “storia del mondo” (Weltgeschichte) o, come allora si usava spesso dire, verso la Universalgeschichte. Con questo volgersi verso l’opera storica da parte di Schiller non viene tuttavia abbandonato l’ambito della mediazione estetica né si accede ad un campo completamente estraneo alla poesia. Per esprimersi ancora una volta nei termini del «Primo programma sistematico», con un’espressione che si potrebbe supporre riferirsi direttamente a Schiller, si potrebbe ricordare l’affermazione secondo la quale «sulla storia stessa non si può ragionare in maniera ingegnosa – senza senso estetico».  Sul concetto filosofico-trascendentale di storia del mondo (Weltgeschichte) . Ma a quale risultato si perviene se si ragiona in maniera intelligente sulla storia, se ci si pone dunque non nell’ottica dello spregevole Brotgelehrte, del dotto la cui sapienza non gli consenta di spaziare oltre l’angusto obiettivo di provvedersi il pane, del dotto il quale vuole solo ostentare le nozioni mnemoniche accumulate per poter con ciò in ultima istanza – ed in maniera non dissimile dal Tagelöhner, dal bracciante – guadagnare comunque solo il proprio pane quotidiano; a quale risultato si perviene, si diceva, se si . [Anonym.], Sogenanntes ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus, in G. W. F. Hegel, Gesammelte Werke, in Verbindung mit der deutschen Forschungsgemeinschaft hrsg. v. der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner, Hamburg  ss., vol. , pp.  ss. (trad. it. in A. Massolo, La storia della filosofia come problema e altri saggi, Vallecchi, Firenze , pp. , -). . Ibid.

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ragiona dunque su di essa, come Schiller, con senso estetico e come “mente filosofica”? Di fronte ad una considerazione di questo tipo la “storia” si palesa non tanto, in senso tipicamente illuministico, come “maestra”, la magistra vitae che presenta all’uomo grandi esempi ripresi dal passato e che tramite essi gli dice come deve condurre la propria vita per poter essere un uomo virtuoso. La “storia” è piuttosto uno “specchio” nel quale l’uomo è costretto a guardare per poterne ricavare un’immagine di sé – per giungere alla conoscenza di se stesso. La storia non punta ad un’utilità diretta; nel suo contributo alla conoscenza di sé da parte dell’essere umano, al «conosci te stesso» (gnothi seauton), sta invece in primo luogo l’utilità indiretta dell’impiego di tale specchio. La sua profondità di visione storica ci insegna che “noi eravamo così”. Allo stesso tempo essa ci conduce oltre anche alla domanda “che cosa siamo ora?”. La storia indica il cammino che conduce dal solitario abitante delle caverne all’«europeo raffinato», al «pensatore arguto, al colto uomo di mondo». In un simile sguardo di comparazione retrospettiva è sempre insito il pericolo di far proprio lo scialbo gesto di sazia soddisfazione di sé del Wagner goethiano, che si compiace di «a quanta altezza si sia giunti in seguito». Lo sguardo che Schiller getta all’indietro su questo lungo cammino sfugge a questo pericolo – tuttavia solo scontando il fatto che il riconoscimento di questo cammino risulta essere sempre al tempo stesso il riconoscimento dell’inadeguatezza dell’uomo, il quale procede lungo questo percorso senza tuttavia conoscere in fin dei conti né la modalità né la direzione. E, di nuovo, tale sguardo retrospettivo sfugge a questo pericolo solo a prezzo che si riconosca la circostanza che l’uomo deve la sua condizione attuale, del tutto dominante, in nessun modo a se stesso, bensì ad un destino fortunato, anzi immeritato. . In riferimento all’immagine della “storia” che Schiller concepisce in queste formulazioni della Prolusione accademica tenuta a Jena, dal titolo Che cos’è e a qual fine si studia la storia universale , vorrei sottolineare tre caratteristiche delle quali solo l’ultima mi sembra elaborata in maniera sufficientemente chiara nella letteratura critica. In primo luogo desidero tornare al tratto peculiare sopra menzionato, secondo il quale Schiller non ascrive al presente solo il carattere di risultato, bensì molto di più: esso è per lui risultato di uno sviluppo che non viene in alcun modo indotto e gui. J. W. Goethe, Faust. Eine Tragödie, . Teil, v.  (trad. it. a cura di F. Fortini, Faust, Mondadori, Milano  [v ed.], p. ). . Cfr. F. Schiller, Was heißt und zu welchem Ende studiert man Universalgeschichte? Eine akademische Antrittsrede, in Werke. Nationalausgabe, hrsg. v. J. Petersen, fortgef. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, S. Seidel, hrsg. v. N. Oellers, Böhlaus, Weimar  ss. (in seguito NA), vol. XVII, pp. -. Le citazioni presenti di seguito nel testo sono riprese da tale Prolusione.

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dato per mezzo della libertà, bensì per mano di una necessità cieca e, per questo, anche inspiegabile. Schiller in realtà non sceglie le espressioni qui da me utilizzate, forse un poco inopportune; egli descrive ad ogni modo un nesso causale degli eventi universali addirittura ferreo. E ciò non ha affatto per lui un che di inquietante, anzi viene considerato come una visione consolante del fatto che la «libertà prima facie errante senza regola viene guidata dal vincolo della necessità». Egli ammette senz’altro che l’essere umano si sia «rifugiato dalla cieca costrizione del caso e delle necessità [...] sotto il dominio più blando dei trattati» o che l’«intelletto umano» abbia portato «utilità» nell’eredità barbarica dei secoli precedenti. Detta fuga dalla cieca costrizione si attua tuttavia in ultima istanza proprio tramite questa stessa costrizione, anche se forse «per mezzo della benefica costrizione della necessità». La pace viene inibita per mezzo di una «guerra eternamente corazzata» e si impedisce – «speriamo»! – alla grande famiglia della società europea degli Stati di sbranarsi grazie agli intrecci e alle dipendenze reciproche; una speranza che, come è noto, è andata delusa immediatamente e completamente nelle guerre rivoluzionarie e che oggi noi, come ci si può permettere di ricordare particolarmente qui a Roma, abbiamo colto nuovamente – a maggior ragione e certamente anche con un esito migliore. La «lunga catena di eventi» dei quali parla Schiller non viene intrecciata ai suoi occhi in un bel vincolo per mano di atti di libertà, quanto semmai forgiata grazie ad un molteplice «così doveva». Nella Prolusione tenuta a Jena Schiller offre una concezione meccanicistica, anzi deterministica, degli «eventi del mondo» come una catena infinitamente lunga ed in sé molteplicemente intrecciata, modellata in maniera irrevocabilmente compatta. Una catena che ha condotto tuttavia – immeritatamente – ad una condizione i cui privilegi rispetto alle ere precedenti risultano tanto evidenti quanto inspiegabili. Schiller non offre ad ogni buon modo alcun elemento atto a riconoscere che cosa in realtà spinga in avanti e guidi questo processo. Egli non riprende neppure dallo scritto kantiano Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht la tesi secondo la quale un «antagonismo» immanente al corso degli eventi conduca detto processo in una direzione infine auspicata e favorevole e che l’essere al corrente di tale processo, la conoscenza di una dinamica insistente volta in modo per lo meno titubante e rudimentale in una direzione migliore, motivi l’uomo ad agire liberamente, rendendo con ciò possibile il «chiliasmo» della storia universale. Schiller non fa proprie queste considerazioni kantiane, a lui . Cfr. I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, Akademie-Ausgabe, vol. VIII, pp. -, in particolare pp. : “Antagonismus”, : “Chiliasmus” (trad. it., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari , in particolare “Quarta tesi”: “Antagonismo” e “Ottava tesi”: “Chiliasmo”, rispettivamente pp. - e ).

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senza dubbio ben note. Egli si limita a constatare la necessità del decorso degli eventi: «L’intollerabile miseria della barbarie doveva condurre i nostri progenitori dai cruenti “giudizi divini” ai tribunali umani»; le rivoluzioni statali e religiose «dovevano» coincidere e le guerre «dovevano» esser fatte. Tuttavia, perché tutto questo «doveva» aver luogo ed avvenire così come è avvenuto? Quel “doveva” è solamente una necessità esteriore e, come tale, altro non è che il caso stesso. L’espressione stereotipata “doveva succedere” non ha quindi nessun carattere teleologico; non vi è alcuna giustificazione volta verso una comprensione in senso finalistico dell’espressione “doveva succedere, affinché”, bensì essa significa null’altro se non “è successo in questa maniera” e proprio in base al fatto che è successo in questa maniera sta di volta in volta la condizione necessaria affinché tutti gli eventi successivi si verifichino e si verifichino in un certo modo. Schiller fa infine culminare questa interpretazione deterministica della concatenazione degli eventi universali in una frase, la cui localizzazione potrebbe esser senza problemi da noi trasferita in avanti dal punto di vista storico di duecento anni buoni e dal punto di vista geografico dall’aula universitaria jenese al Goethe Institut di Roma senza modificare il suo senso: «Il fatto stesso che noi ci siamo trovati qui riuniti in questo istante [...] è forse il risultato di tutti i precedenti eventi universali: la storia universale nel suo complesso sarebbe se non altro necessaria per spiegare questo singolo momento». A tal riguardo il lavoro dello storico consiste – almeno in primo luogo – nel mostrare questi condizionamenti, fondamentali per l’evoluzione degli eventi universali e per la configurazione del presente. . Nonostante tutto ciò, l’immagine meccanicistica che Schiller qui traccia non è, in senso stretto, un’immagine della storia. La proposizione da me appena menzionata, secondo la quale il momento attuale è «forse il risultato di tutti i precedenti eventi universali» e che per la sua decifrazione sarebbe se non altro necessaria la «storia universale nel suo complesso», consente ancora un ulteriore ed imprescindibile esame del discorso schilleriano sulla “storia”. Moltissimi tratti della sua opera relativi all’illuminismo e al XVIII secolo vogliono indicare che, a differenza dell’utilizzo incerto fatto da Kant dello stesso vocabolo, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, Schiller permane ancora fermamente nella tradizione del XVIII secolo. Detta tradizione utilizza difatti la parola “storia” o historia primariamente, anzi quasi esclusivamente, nel senso soggettivo di “resoconto” (Bericht) o “esposizione” (Darstellung) e non per designare uno sviluppo quasi oggettivo della storia. Ciò vale allo stesso modo anche per il neologismo “storia del mondo” (Weltgeschichte) o “storia dell’universo” (Universalgeschichte). La “storia del mondo” è opera dello storico – certamente non nel senso che egli ha costituito gli “eventi del mondo”, quanto invece nel senso che egli li rappresenta, che egli ne racconta una “storia”. Nella sua Prolusione Schil

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ler impiega il termine “storia” solo un’unica volta per la definizione di un’evoluzione oggettiva, vale a dire là dove ci si chiede se Roma avrebbe dato vita ad un Orazio, ad un Cicerone o ad un Virgilio «se non fosse prima venuta la storia nella sua interezza». Solo qui il vocabolo “storia” sta per una volta a contraddistinguere la serie degli eventi stessi. Schiller distingue rigorosamente persino a livello terminologico tra «il corso del mondo ed il corso della storia del mondo». Egli non intende il «corso del mondo» (Gang der Welt) come «storia del mondo» (Weltgeschichte). La «storia generale del mondo» (allgemeine Weltgeschichte) o la «storia universale» (Universalgeschichte), al contrario, circa la quale egli afferma che essa risponde alle questioni da lui sollevate in maniera retorica sulla necessità della serie di eventi e ne risolve gli enigmi, costituisce la “storia” narrata di volta in volta dallo storico filosofico. . Questo uso tradizionale della parola “storia” – e ciò costituisce il terzo punto che desidero rimarcare anzitutto in riferimento al concetto di storia della Prolusione jenese – ha delle conseguenze rilevanti per la determinazione del lavoro dello storico così come del filosofo della storia, per la sua ricostruzione del nesso causale degli eventi universali, per la sua indicazione della necessità del loro svolgimento, per il loro intreccio di condizioni. La totalità dell’intreccio vicendevole non si lascia certamente narrare nella forma di una “storia”; essa costituirebbe ad ogni buon conto l’oggetto di un “intelletto infinito” ma non di quello umano. Un tale intreccio non si lascia attestare tuttavia solo collettivamente; esso si mostra anche parzialmente in relazione a determinati scopi. Lo storico universale si pone ora lo scopo di estrapolare dalla somma di tutti gli eventi e di indicare nel loro intreccio quelli «che hanno avuto un influsso fondamentale, indiscutibile e semplice da seguire sulla formazione odierna del mondo e sulla condizione delle generazioni oggi viventi». Per quanto plausibile risulti una tale dichiarazione di intenti, Schiller è ben conscio delle difficoltà che si oppongono all’attuazione di tali eventi. Sono presenti delle “lacune” nella serie degli eventi universali che vengono superate dall’intelletto filosofico per mezzo di «elementi connettivi artificiosi», in vista di un «insieme ragionevolmente connesso»; sebbene questo «insieme» ragionevole esista solo nell’immaginazione dello storico, così come del filosofo della storia. Per rifarsi anticipatamente ad un’espressione hegeliana: «La ragione nella storia» è per Schiller solamente la ragione dell’autore della storia universale e non una ragione immanente al «corso del mondo». È in primo luogo lo storico ad illuminare con una «luce presa a prestito» l’opaca «necessità» e a portare in questa maniera «uno scopo ragionevole nel corso del mondo ed un principio teleologico nella storia universale». Schiller sostiene in questo passo in maniera molto decisa – ed in modo risolutamente più radicale di Kant – un concetto filosofico trascen

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dentale della storia. A suo avviso la «storia del mondo» non è mai una ricostruzione del corso del mondo determinato per via causale come tale; essa è sempre una costruzione di un nesso di senso fondato sulla conoscenza di rapporti necessari e, oltre a ciò, una costruzione determinata con un’intenzione pratica. La «storia del mondo» – vale a dire dunque la costruzione dello storico o del filosofo della storia – acquisisce con ciò un carattere ambivalente, tanto conciliante quanto di orientamento. Essa conduce l’essere umano alla conoscenza di sé e lo riappacifica con gli eventi universali: essa infatti «ci guarisce dall’ammirazione smodata dell’antichità e dalla nostalgia puerile nei confronti delle epoche passate», dunque anche dalla nostalgia del «mondo bello» invocato dallo stesso Schiller, e palesa in che maniera anche il perseguimento di scopi minori possa convertirsi nella realizzazione di scopi eccellenti. Un’osservazione, questa, che Schiller si lascia preconizzare da Kant senza tuttavia preoccuparsi di renderla plausibile e che solo Hegel rielaborerà nel suo teorema dell’«astuzia della ragione». La storia universale possiede tuttavia anche una funzione di orientamento; e ciò sia tramite il suo tacito verdetto, per mezzo del quale essa consegna una miriade di eventi all’oblio, sia attraverso il suo giudizio manifesto: per il suo tramite la storia universale mantiene «fresca la meritata corona verde oliva e annienta l’obelisco che sormontava la vanità» e con ciò «costituisce il vero criterio della felicità e del merito». . Si potrebbe far confluire senza problemi questa definizione della «storia universale» (Weltgeschichte) come istanza valutativa in una frase di pochi anni prima dello stesso Schiller – prima ancora della sua ricezione della filosofia kantiana della storia e per di più in un contesto di altra natura – nella poesia Resignation: «La storia del mondo è il tribunale universale» («Die Weltgeschichte ist das Weltgericht»). Qui, vale a dire nella poesia ora menzionata, questa proposizione ha tuttavia un altro quadro di riferimento: il corso degli eventi e, soprattutto, il limite temporale posto all’esistenza del singolo individuo costringono l’uomo a decidere tra la speranza e il piacere. Lo obbligano dunque alla scelta dell’una e alla rassegnazione nei confronti dell’altro e a portare nella tomba speranze eccessive, forse molto comprensibili, evidenti ma in ogni caso prive di fondamento. Nel quadro di riferimento di questa poesia la proposizione relativa alla storia . In un rapporto di tensione insopprimibile rispetto a questo approccio trascendentale della filosofia della storia sta l’affermazione schilleriana – che ricorda il disegno kantiano ma che anche in Schiller si presenta come problematica – secondo la quale “la storia” riconosce, nell’ingranaggio del mondo, «la mano silente della Natura» ed il suo effetto prestabilito. Se un tale effetto esistesse davvero, lo storico o il filosofo della storia non attingerebbe infatti da se stesso l’armonia per collocarla nell’ordine delle cose, bensì essa risiederebbe nelle cose stesse come elemento dato per natura. . F. Schiller, Resignation, NA, , pp. -.

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del mondo non è in realtà affatto una proposizione di filosofia della storia, quanto piuttosto una frase nella quale si esprime l’esperienza di un destino personale. Essa si può tuttavia slegare a buon diritto da questo contesto e riferire alla schilleriana concezione filosofica trascendentale della «storia del mondo», di poco successiva, e solo a partire da qui essa si trasforma in una proposizione di filosofia della storia. Lo storiografo filosoficamente orientato, con lo scegliere e porre in relazione, da un lato, rispetto alla totalità degli «eventi universali», quelli che sono adatti a spiegare la genesi della condizione presente del mondo, e, dall’altro, quelli che si adattano ad evidenziare il vero criterio della felicità e del merito, mette in atto egli stesso il «tribunale universale». Ciò che egli esclude dalle proprie costruzioni viene eliminato, consegnato all’oblio; ciò che egli accoglie viene nobilitato come elemento costitutivo del presente e rilevante per la moralità – a meno che non si tratti soltanto di un esempio inquietante.  La storia come “oggetto sublime” . Solo quattro anni dopo la sua Prolusione tenuta a Jena Schiller modifica totalmente la sua concezione nello scritto Sul sublime. In questa sede desidero lasciare sospesa la questione se questa revisione sia da attribuirsi ad una precisazione concettuale del rapporto tra natura e libertà o del bello nei confronti del sublime, o piuttosto ad un’esperienza storica; vale a dire se, con l’avvio delle guerre rivoluzionarie, il divario tra la visione schilleriana della società degli Stati europei, affratellata dalla benefica costrizione generata dalla necessità, ed i “fatti” da mettere in azione per contrapporvisi fosse diventato così profondo che la sua precedente concezione gli si fosse sfaldata, per così dire, sotto le mani. Anche per lo Schiller “trascendentale” c’è certamente bisogno di una conferma del principio teleologico collocato nella storia del mondo dallo «storico filosoficamente orientato» attraverso i «fenomeni» offerti dalla grande arena degli eventi universali. Egli tuttavia non valuta dapprima l’assenza di una conferma di questo tipo come obiezione convincente opposta alla propria concezione. Se si riescono invero a scovare fatti in favore e contrari e si perviene ad una sorta di “pareggio” tra conferma e smentita della concezione per mezzo dei fatti (e dove non si potrebbe inscenare questo?), allora è permesso far trionfare quel. In riferimento a questo scritto cfr. attualmente W. Riedel, Weltgeschichte ein erhabenes Object. Zur Modernität von Schillers Geschichtsdenken, in P.-A. Alt et al. (hrsg.), Prägnanter Moment. Studien zur deutschen Literatur der Aufklärung und Klassik, Festschrift für Hans Jürgen Schings, Königshausen und Neumann, Würzburg , pp. -. Cfr. inoltre P.-A. Alt, Schiller. Leben – Werk – Zeit,  voll., Beck, München , in particolare il vol. , pp. -.

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la concezione «che deve offrire all’intelletto la più elevata soddisfazione ed al cuore la più grande felicità». Secondo la sua concezione successiva, non gli pare tuttavia più possibile, di fronte al divario evidentemente profondo tra concezione e fatti, perseguire in maniera impassibile una visione che doveva «offrire all’intelletto la più elevata soddisfazione ed al cuore la più grande felicità». Ora tutto questo non gli pare neppure più possibile; al contrario ciò rappresenterebbe il passo sbagliato, quello che rinnega ragione e libertà. . Secondo la Prolusione di Jena, lo “spirito filosofico” tira fuori da sé «l’armonia e la colloca fuori di sé nell’ordine delle cose»; ora invece si dice che non si potrebbe illuminare «la grande casa della natura con l’esile fiamma dell’intelletto» e mirare sempre «a risolvere in armonia il suo audace disordine». Il «caos dei fenomeni» è contraddistinto da un’«assoluta mancanza di una relazione organica» e le esigenze del mondo morale, da una parte, e le espressioni di quello fisico, dall’altra, divergono ora al punto che ogni tentativo di mediazione deve essere definito come illusorio, oltre che problematico in quanto al risultato. Chi si attiene infatti alla precedente esigenza di accordo tra natura e libertà si vede costretto ad «attendere da una futura esistenza e da un’altra natura quella soddisfazione che il tempo presente e il passato gli nega». Una critica, quest’ultima, in realtà implicita ma non per questo meno chiara, dei postulati kantiani. Per questa concezione schilleriana la storia del mondo non sarebbe infatti più un tribunale universale, bensì sarebbe quest’ultimo a venirle appresso – a debita distanza e in un altro mondo. Invece di un rattrappito attenersi all’idea di una mediazione tra determinazione causale e finalità, tra natura e libertà, si richiede – di nuovo – un atto di “rassegnazione” (Resignation), un atto di rinuncia al tentativo in ogni caso mancato di «voler far confluire questo caos dei fenomeni privi di legge in un’unica unità della conoscenza». E Schiller spaccia questa rinuncia come una conquista, dal momento che la «ragion pura» «vede rappresentata in questa selvaggia libertà della natura la propria indipendenza dalle condizioni naturali» ed approda così anzitutto alla conoscenza della propria libertà. Ciò vale già per il rapporto con la natura e resta valido, a fortiori, per il mondo come oggetto della narrazione storica (Historie). Anch’essa «in fondo non è altro che il conflitto delle forze della natura tra loro e con la libertà dell’uomo». Il dissidio dell’uomo contro la natura che ne scaturisce viene ad. F. Schiller, Über das Erhabene, NA, XXI, p.  (trad. it. in F. Schiller, Del Sublime. Sul Patetico. Sul Sublime, a cura di L. Reitani, SE, Milano  [II ed.], pp. -). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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dirittura subito stilizzato da Schiller in una felice condizione preventiva per la conoscenza ed il dispiegamento della libertà e della ragion pura – paragonabile in questo senso alla felix culpa del peccato originale. Sulla base di queste condizioni teoriche il testo è quello di una filosofia della storia in breve – e certamente in forma anche troppo breve. La storia universale – nel senso del caos dei fenomeni – può allora essere «un oggetto sublime» e costituire certamente pure un materiale perfettamente adatto per una moltitudine di messe in scena drammatiche, anzi tragiche. Se tuttavia ragione e libertà si accordano anzitutto tra loro nell’atto della rassegnazione in vista dell’istanza della loro realizzazione storica, se non vi è più alcuna ragione nella storia e questa storia non è un prodotto della libertà, bensì un conflitto di forze della natura anonime e cieche, allora la storia non può più neppure essere oggetto della filosofia in quanto sapere razionale (Vernunftwissenschaft). Per questa ragione è indifferente se questo scontro è solamente un conflitto di forze naturali tra di loro oppure, oltre a ciò, anche il loro conflitto con la libertà umana. E altrettanto poco può la “storia del mondo” in queste condizioni essere «tribunale universale». Sarebbe anzi ben poco plausibile voler fare proprio di una baggianata teorica, un «conflitto delle forze naturali», l’oggetto di una sentenza giuridica.  La storia oggettiva come tribunale universale . «La storia del mondo è il tribunale universale»: non è compito della riflessione, bensì della poesia, coniare espressioni così profonde ed esplosive. Indipendentemente dal significato specifico che esse possono aver avuto nel loro contesto originario, la loro forza gnomica spinge la riflessione a sempre nuovi slanci volti a decifrare e a sviscerare compiutamente il senso in esse contenuto. A questa proposizione, che Schiller non formula nel contesto della filosofia della storia, che ignora nel successivo contesto della filosofia della storia – vale a dire nella sua Prolusione – ed alla quale sottrae infine il fondamento – nello scritto Sul sublime –; a questa proposizione Hegel conferisce un’importanza programmatica per la propria filosofia della storia. Nella sua Filosofia del diritto egli porta a compimento con essa il passaggio dall’analisi del «diritto statale esterno» (äußeren Staatsrechts) alla «storia del mondo» (Weltgeschichte), ed egli vi fa riferimento anche nel corso delle sue lezioni sulla filosofia della storia. . Cfr. G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Id., Gesammelte Werke, vol. , p.  (trad. it., Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari , pp. -). . Cfr. G. W. F. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte. Einleitung /, in Id., Gesammelte Werke, cit., vol. , p. .

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. Alla stessa maniera la hegeliana Filosofia della storia universale si muove – per un verso – nel solco della tradizione fondata da Kant, tradizione in cui rientra anche il concetto trascendentale della storia schilleriano. E già a partire di qui si delinea la grande affinità delle loro concezioni: la base delle considerazioni filosofiche non è costituita dai “fatti”, ma risiede piuttosto nella ragione stessa. La “storia” non è mai qualcosa di presente, bensì sempre qualcosa di costituito per mezzo di capacità intellettuali o, per dirla in breve, tramite la ragione. E solo questa “storia”, fondata grazie all’analisi razionale, può reclamare a buon diritto questo nobile appellativo. Hegel si trova, riguardo ad un aspetto ben preciso, addirittura più vicino allo Schiller della Prolusione rispetto allo stesso Kant, vale a dire nell’interpretazione della “storia” intesa come «storia dell’educazione» (Erziehungsgeschichte), per lo meno nel senso di una storia della progressiva conoscenza di sé da parte dell’uomo. Anche se gli accenni parzialmente distanziati di Hegel alla «perfettibilità» e all’«educazione del genere umano» (Erziehung des Menschengeschlechts) alludono in prima istanza a Lessing, già la sola esistenza di linee di collegamento tra le Lettere sull’educazione estetica di Schiller e la filosofia della storia potrebbe aver condotto Hegel a considerare anche Schiller tra coloro che «hanno intuito qualcosa della natura dello spirito, del suo avere per natura, come legge del suo essere, lo gnothi seauton; e poiché esso comprende quel che esso è, di essere una figura più alta di questa, che costituiva il suo essere». Per Hegel, così come per lo Schiller della Prolusione, il risultato del corso del mondo non è tanto uno Stato (Zustand) – neppure lo «Stato cosmopolitico» (weltbürgerliche Zustand), come per Kant – bensì un «sapere» (Wissen). Per Schiller si tratta ad ogni modo della conoscenza di sé da parte dell’uomo, fusa nella forma di una «storia del mondo»; per Hegel lo sviluppo (Verlauf) oggettivo in sé costituisce il cammino dello spirito, ci dice «come egli riesce a venire a conoscenza di ciò che egli è in sé» («wie er zum Wissen dessen zu kommen sich erarbeitet, was er an sich ist»). Questa conoscenza deve poi chiaramente essere anche espressa, vale a dire più o meno nella forma di una «storia universale» scritta; ma questa è solo una possibilità, per quanto privilegiata. Con ciò, credo, si configura, almeno a grandi linee, il rapporto tra le concezioni schilleriane ed hegeliane. Nonostante le sue esaustive opere storiche, Schiller accentua esclusivamente un approccio trascendentale nel contesto della filosofia della storia, un approccio applicato oltretutto in maniera molto radicale. In ciò egli si dimostra – per così dire – più kantiano dello stesso Kant, quel Kant la cui concezione della filosofia della storia non è particolarmente caratterizzata nel senso della filosofia trascendentale, an. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, §  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte. Einleitung /, cit., p. .

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che se questa stessa concezione appartiene all’epoca della “filosofia critica”, successiva alla Critica della ragion pura. La hegeliana filosofia della storia serba elementi filosofici trascendentali; essa ciò nonostante opera il tentativo – assieme a Kant – di cogliere la dinamica immanente alla catena degli eventi, di carpire l’“antagonismo” o la “dialettica” delle forze che muovono il corso della storia – un aspetto che Schiller non prende in considerazione o che cela sotto la vuota formula della «mano silente della Natura» o dell’espressione, tanto vuota quanto stereotipata, «doveva». Il «tutto armonico» che Schiller individua «solamente» nella «esposizione» dello storico filosoficamente orientato non è né per Kant né per Hegel presente solamente lì. Se esso si trovasse “solamente” lì, sarebbe un prodotto della fantasia. La lunga serie di eventi collegati attraverso una necessità inintelligibile non si può emendare a posteriori, per mano dell’interpretazione trascendentale dello storico, in un «tutto armonico». Il problema che sorge su questo punto nella concezione schilleriana della storia costituisce una delle problematiche di fondo dell’approccio filosofico trascendentale – e, più precisamente, il problema che in ultima istanza, visto dal punto di vista della storia della filosofia, lo ha spazzato via. . La differenza decisiva tra il discorso schilleriano e quello hegeliano sulla «storia» o sulla «storia universale» risiede con ciò, per un verso, nel fatto che Hegel rende complementare e supera il metodo filosofico trascendentale condotto in maniera rigida; per altro verso, essa consiste in uno spostamento di significato non legato specificamente all’opera di entrambi ma che si realizza, per così dire, “tra” Schiller ed Hegel. Per Schiller – ho più volte evidenziato questo aspetto – la «storia del mondo» significa quasi esclusivamente «storia soggettiva»: resoconto (Bericht), narrazione (Erzählung), esposizione (Darstellung). Per Hegel la «storia» ha invece un carattere doppio, difficile da cogliere e che irradia riflessi contrastanti: essa non è mai qualcosa che ci si trova semplicemente davanti (etwas bloß Vorfindliches), bensì sempre qualcosa di pensato; ma essa non è neppure qualche cosa di “solamente” pensato, quanto invece anche qualcosa che ci si trova davanti. Per dirla in termini più specifici: la storia è per Hegel, così come per la maggior parte dei suoi contemporanei – e fino ai nostri giorni – in prima istanza «storia oggettiva» una concatenazione di avvenimenti. Anche se questo nesso di avvenimenti è riconosciuto come costituito per mezzo dello storico o del filosofo della storia, esso mantiene tuttavia il suo significato «oggettivo». L’«evidente discrepanza» che la Prolusione schilleriana constata tra il «corso del mondo» ed il «corso della storia del mondo» – dal momento che la «storia del mondo» (come narrazione) illumina solo un’«onda» dell’ininterrotta corrente in moto degli eventi – viene con ciò eliminata: il «corso del mondo» è esso stesso il «corso della storia universale», anche se esso si muta in «storia» solo per mezzo del lavoro intel

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lettuale dello spirito storico o filosofico, vale a dire tramite la riflessione o la poesia. Questo spostamento di significato nel discorso inerente la «storia del mondo» muta inevitabilmente il senso della formula della «storia del mondo» come «tribunale universale»: non è più lo storico filosofico o il filosofo della storia che attua il giudizio nei confronti del «corso del mondo» attraverso la sua narrazione della «storia del mondo». Il «tribunale universale» non viene affidato al singolo storico; esso ricade piuttosto nella sfera della stessa storia «oggettiva». Lo spostamento di significato non ribalta tuttavia semplicemente il senso della formula nel proprio contrario; anche la «storia oggettiva» è anzi infatti – in quanto concatenazione di avvenimenti – sempre costituita da risultati dell’attività della conoscenza; anche il processo reale è sempre subordinato alla costituzione di una coscienza storica. Oltre a ciò, la stessa «storia oggettiva» tematizzata dall’osservatore consta già in buona parte di risultati conoscitivi – e con ciò anche risultati conoscitivi in cui è già anticipato il «tribunale universale» (Weltgericht). Il processo che viene da lui istruito, si potrebbe dire, viene sempre svolto di nuovo ed il giudizio nuovamente riaggiustato. . Solamente a partire dalla filosofia della storia di Hegel la proposizione schilleriana della storia del mondo come tribunale universale è divenuta un’espressione della filosofia della storia di natura programmatica e soddisfacente dal punto di vista teorico; essa si è ovviamente trasformata anche in un’espressione che provoca l’ira di taluni, a partire dal momento nel quale essa sorregge il peso teorico della filosofia della storia. L’espressione schilleriana non legittima ed adorna una concezione che lo scrittore non ha in realtà mai propugnato in questa maniera? Certamente sì; la verità di una proposizione siffatta si spinge tuttavia più in là di ciò che la sua prima formulazione poetica può far intuire. Non appena detta concezione viene espressa, si stacca dal suo ambito di riferimento originario; essa non si lascia racchiudere entro il cerchio di un progetto di vita privato. Una frase del genere libera una dinamica propria nella cui evoluzione il suo contenuto viene completamente sfruttato: la storia del mondo è il tribunale universale poiché essa costituisce il quadro di riferimento più elevato e più onnicomprensivo. Il «corso del mondo» (Gang der Welt) ed il «corso della storia universale» (Gang der Weltgeschichte) schilleriani sono in lui fusi l’uno con l’altro, in un’unità di eventi quasi oggettivi e di interpretazioni quasi soggettive. . Dal momento che la storia del mondo costituisce un siffatto quadro di riferimento, non ci si può appellare ad una revisione contro il suo giudizio e neppure ad un’istanza superiore. Se una tale istanza esistesse, il giudizio della storia del mondo sarebbe solamente provvisorio e non rappresente

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rebbe il «tribunale universale». Non ricade né nell’ambito dei compiti né in quello delle competenze della filosofia della storia portare avanti la dimostrazione atta a palesare che una tale istanza, superiore, anzi ultima, si trovi al di là della storia universale. Ciò non costituisce ad ogni modo una manchevolezza da parte della filosofia della storia. Quest’ultima si genera semmai solamente in una situazione legata alla storia della coscienza, nella quale l’incarico ricoperto una volta dal giudice universale è scaduto ad istanza anonima e spesso considerata come abbastanza ingiusta, e che inoltre non può esser chiamata a rispondere delle sue deliberazioni e delle sue decisioni errate, quand’anche il suo giudizio risultasse terribile nel caso singolo. Sarebbe tuttavia errato rigettare questa visione come se si trattasse di una legittimazione positivistica del risultato storico. Nessuno infatti sostiene che in questo momento sieda sul trono del mondo, nella figura della storia universale, un giudice per antonomasia saggio ed incorruttibile. Si dice, invece, semplicemente che ci si deve “rassegnare” all’attesa di un atto di giustizia trascendente successivo, posteriore rispetto alla storia universale. Tutto ciò proprio nel senso della poesia che enuncia per la prima volta questa proposizione: la storia universale è già il tribunale universale e non dobbiamo aspettarcene nessun altro nel quale verrebbero asciugate le lacrime dei giusti ma sofferenti. È esattamente questa conseguenza provocatoria a risiedere nell’espressione schilleriana; essa si ritrova anche nella concezione della filosofia della storia che Hegel ha fissato entro questa stessa proposizione, come se si trattasse di una massima. È indiscutibile che proprio per questa ragione essa abbia dato così spesso occasione per riflettere.

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 La retorica di Schiller è una retorica dopo la retorica. Certo, è del tutto evidente come la tradizione retorica abbia continuato ad agire in lui in varia maniera, sia a livello teorico che pratico; e tuttavia la produzione del «massimo oratore della nazione tedesca» cade in un’epoca nella quale la retorica classica aveva già perso il significato preminente di un tempo. Se si tenta di indicare le ragioni del declino della retorica nel XVIII secolo, viene generalmente addotto un insieme di ragioni. Si possono citare modificazioni riguardanti la storia dei mezzi utilizzati e mutate concezioni dell’autorialità. Si può far riferimento alla trasformazione delle condizioni politiche di base e all’indebolimento istituzionale della retorica di scuola. Possono essere infine indicate come ragioni anche la messa in dubbio filosofico-trascendentale di un modello di verità fondato su una teoria della adaequatio e la differenziazione dell’estetica dell’autonomia. Alcune di queste ragioni sostenute per spiegare la «morte della retorica» sarebbero senza dubbio bisognose di distinzioni ulteriori. In ogni caso almeno due punti sembrano non suscettibili di discussione alcuna: a) con la costituzione dell’estetica dell’autonomia, vale a dire con la chiara delimitazione di interessi direttamente sensibili e morali dal campo dell’arte, la retorica perse * Traduzione di Andrea Benedetti. ** Vorrei qui ringraziare Michael Gamper per alcune preziose indicazioni. Ho trattato più diffusamente l’arte del governare nel saggio “Schillers Pastoraltechnologie”. Individualisierung und Totalisierung im Konzept der ästhetischen Erziehung, in “Jahrbuch der Deutschen Schillergesellschaft”, L, . . Cfr. A. Müller, Zwölf Reden über die Beredsamkeit und deren Verfall in Deutschland, gehalten zu Wien im Frühling  (), in Id., Kritische, ästhetische und philosophische Schriften, hrsg. v. W. Schroeder, W. Siebert, vol. , Luchterhand, Neuwied-Berlin , pp. -, qui p. . . Cfr. a questo proposito J. Bender, D. E. Wellbery, Rhetoricality: on the Modernist Return of Rhetoric, in Idd., The Ends of Rhetoric. History, Theory, Practice, Stanford University Press, Stanford , pp. -. . R. Barthes, La retorica antica, trad. it. Bompiani, Milano  (II ed.), p. .

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completamente in questo ambito il suo valore una volta centrale. Si può osservare questa tendenza passando da Kant, attraverso Hegel, fino a Croce; b) nell’ultima decade del XVIII secolo la retorica, che era stata in passato una vera e propria scienza guida, si disgrega in numerosi settori specifici. L’arte dell’eloquenza ora non era più la prima e più estesa delle arti (nel senso ampio del concetto greco di technai), bensì si frammentò – anche istituzionalmente – in varie discipline particolari, e ciò che di essa ancora si conservò era al massimo paragonabile solo approssimativamente alla retorica del passato. Ad illustrazione del ruolo eminente svolto dalla retorica dall’antichità sino al XVIII secolo si potrebbe addurre una lunga serie di citazioni. In questa circostanza sarà senz’altro sufficiente limitarsi ad una testimonianza tarda, nella quale in particolare anche il significato una volta eminentemente politico e sociale della retorica viene nuovamente indicato con auspicabile chiarezza. Si tratta di una citazione dalla Teoria generale delle belle arti (Allgemeine Theorie der schönen Künste) del Sulzer, che fu pubblicata per la prima volta negli anni Settanta del secolo XVII: Non si può disconoscere all’eloquenza il primo posto tra le belle arti. Essa è manifestamente il mezzo più compiuto per rendere l’essere umano più comprensibile, più educato, migliore e più felice. Attraverso essa, gli antichi savi hanno riunito assieme gli uomini smarriti in una vita sociale, gli hanno fatto apprezzare i costumi e le leggi; [...]. Essa istruisce i singoli esseri umani e le società intere circa il proprio vero interesse. Per il suo tramite vengono destati negli animi i sentimenti dell’onore, dell’umanità e dell’amor di patria. [...] Nell’eloquenza la politica autentica trova il mezzo più rilevante per rendere felice lo Stato.

Da quell’arte socialmente e politicamente centrale che era, e come viene ancora descritta da Sulzer, la retorica subisce dunque un processo di decadimento al termine del XVIII secolo. Rimase tuttavia viva la necessità di un’arte deputata a fondare il senso della comunità e si potrebbe affermare in tal senso che i molteplici progetti teorici volti alla fondazione di un’arte di questo tipo, così come essi vennero sviluppati attorno al , miravano esattamente ad occupare il vuoto funzionale che si era creato mediante il crollo della retorica. Ciò vale non da ultimo anche per il progetto schilleriano dell’educazione estetica e per la sua teoria del gioco. In questa prospettiva si profila . Cfr. a tal proposito anche P. Schnyder, Rhetorik [Quellen- und Begriffsgeschichte ./. Jahrhundert], in G. Ueding (hrsg.), Historisches Wörterbuch der Rhetorik, vol. , Niemeyer, Tübingen , pp. - e -. . J. G. Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, ristampa della II ed. del -, vol. , Olms, Hildesheim , pp.  ss. . Cfr. a questo proposito anche D. Borchmeyer, Tragödie und Öffentlichkeit. Schillers Dramaturgie, Fink, München , pp. -.

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il particolare rapporto tra retorica e gioco che viene suggerito dal titolo di questo contributo. Nel prosieguo si cercherà, tramite questo rapporto, anche di dischiudere una nuova prospettiva relativa al progetto dell’educazione estetica. Se si dà uno sguardo schematico alle letture dell’Educazione estetica degli ultimi cinquant’anni, si evidenzia come queste, malgrado tutte le diversità di valutazione e nonostante le crescenti differenziazioni, si siano tuttavia mosse lungo delle linee guida molto simili. Tanto più che la questione sul rapporto tra politica ed estetica è stata in realtà sempre e nuovamente discussa a partire dal vecchio rimprovero risalente a Heine e Marx, secondo il quale l’intellighenzia tedesca si sarebbe sottratta alle sfide politiche dell’epoca e si sarebbe ritirata nello spazio autonomo della filosofia e dell’arte. Questa linea d’argomentazione è stata ripresa con grande efficacia nel XX secolo da parte del tardo Lukács marxista e – anche mediata attraverso l’aspra critica di Adorno (certamente posta in termini un poco diversi) nei confronti del «poeta di corte dell’idealismo tedesco» – ha svolto un ruolo importante nelle letture critico-ideologiche dell’opera schilleriana degli anni Settanta. Accanto ad essa si è sviluppata tuttavia, pure in questo caso nell’ambito della sinistra politica, al più tardi a partire dagli anni Cinquanta, anche una tradizione interpretativa che non denunciava la visione schilleriana di uno «stato estetico» come ideologema affermante in ultima istanza lo status quo, ma che credeva invece di poter rinvenire proprio nel carattere utopico di questo Stato un autentico potenziale social-rivoluzionario. È stato soprattutto Herbert Marcuse ad inaugurare questa lettura rivoluzionaria di Schiller; lettura che, non da ultimo filtrata da Jürgen Habermas, è continuata sino ai nostri giorni, anche se per lo più in . Il giudizio espresso da Koopmann, secondo il quale le lettere schilleriane sull’educazione estetica sono oramai state esaurientemente interpretate non può esser condiviso per varie ragioni, soprattutto per motivi metodico-teorici. Cfr. H. Koopmann, Forschungsgeschichte, in Id. (hrsg.), Schiller Handbuch, A. Kröner, Stuttgart , pp. -, qui p. . . Th. W. Adorno, Ist die Kunst heiter? (), in Id., Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -, qui p.  (trad. it. in Th. W. Adorno, Note per la letteratura, -, vol. , Einaudi, Torino , pp. -, qui p. ). Cfr. anche Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie (), Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp.  ss. (trad. it., Teoria estetica, Einaudi, Torino , pp. - e -). . F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Id., Sämtliche Werke [= SW], hrsg. v. G. Fricke, H. G. Göpfert, Hanser, München  (IX ed.), vol. V, pp. -, qui p.  (trad. it. in L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ). . Cfr. H. Marcuse, Eros and Civilization, Beacon Press, Boston , pp. - (trad. it., Eros e civiltà, Einaudi, Torino , pp. -). . Cfr. l’excursus sulle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller, in J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen (), Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. - (trad. it., Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari , pp. -).

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forma politicamente assai moderata. Muovendo dalla questione relativa a quale livello deve essere verificato il modo d’agire indirettamente criticosociale, sono emerse in questa tradizione e fino ad epoca recentissima ulteriori importanti differenziazioni, esaminando in profondità con quali «particolari strategie discorsive» Schiller avesse operato. Da tutto questo è risultato anche chiaro in quale misura le numerose metafore politiche presenti nell’Educazione estetica non siano – così come spesso ritenuto – solamente metafore, bensì indizi importanti di un’istanza politica e sociale che va presa sul serio. Questa istanza non viene perseguita da Schiller in maniera diretta, ma proprio ricorrendo alle vie traverse dell’arte, e questo modo d’agire indiretto è stato constatato ed analizzato dal versante politicamente conservatore; ciò con particolare evidenza nella famosa dissertazione Kritik und Krise di Reinhart Koselleck, pubblicata per la prima volta nel . In essa egli ricostruisce all’interno di una rete di coordinate storiografiche, a loro volta già esposte da Carl Schmitt, come la cultura borghese della critica e la sua nozione della dimensione pubblica nel corso del XVIII secolo si siano sviluppate in quelle sfere che erano state confinate ad ambiti privati, e con ciò non rilevanti dal punto di vista politico, da parte della dottrina assolutistica dello Stato sulle orme di Hobbes. Queste sfere non riguardavano il singolo in quanto suddito, bensì in quanto uomo privato, non concernevano l’ambito della politica ma quello della morale. E precisamente da questo ambito del non-politico, che concerneva l’uomo in quanto tale e non il suddito, si rese sempre più manifesta la critica al sistema assolutistico, fino a che questo non venne fatto saltare in aria nel segno della morale. Come è noto, Koselleck vede questo processo in maniera molto critica. A suo avviso con ciò la criti. Un buon esempio di questa linea interpretativa è fornito dalla Postfazione di Klaus Berghahn in Friedrich Schiller: Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen. Mit den Augustenburger Briefen, hrsg. v. K. L. Berghahn, Reclam, Stuttgart , pp. -. . Cfr. a tal proposito P.-A. Alt, “Arbeit für mehr als ein Jahrhundert”. Schillers Verständnis von Ästhetik und Politik in der Periode der Französischen Revolution (-), in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLVI, , pp. -, qui soprattutto pp.  e . Alt enuclea tre figure discorsive di base che servono al mascheramento delle istanze critico-sociali: «le figure dell’inversione, della chiusura e del rinvio» (p. ). . Cfr. il commento di Rolf-Peter Janz, in F. Schiller, Theoretische Schriften, hrsg. v. R.P. Janz, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M. , p. . . Cfr. Alt, “Arbeit für mehr als ein Jahrhundert”, cit., p. : «la fusione di estetica e politica [...] è un evento metaforico che destina gli scritti teorici di Schiller a divenire in egual misura teatri dell’estetizzazione della politica e della politicizzazione dell’elemento estetico». Cfr. anche P.-A. Alt, Schiller. Leben – Werk – Zeit, Beck, München , vol. , p. . . Cfr. R. Koselleck, Kritik und Krise. Zur Pathogenese der bürgerlichen Gesellschaft (), Suhrkamp, Frankfurt a.M.  (trad. it., Critica illuminista e crisi della società borghese, il Mulino, Bologna ).

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ca illuminista si volge in ipocrisia e con la colonizzazione della politica per mano della morale si assiste alla comparsa di un pericoloso utopismo nell’ambito della politica; un utopismo che egli crede di poter individuare in maniera esemplare esattamente in Schiller. Tanto da destra quanto da sinistra è stato attentamente analizzato il gesto colonizzatore dell’arte nella politica in Schiller. Le opinioni sono risultate e risultano divergenti solo in merito alla valutazione degli effetti di tale gesto. Come alternativa possibile a queste letture dell’opera schilleriana, sino ad oggi dominanti, sarà qui di seguito inaugurata una nuova prospettiva; una prospettiva che si può forse caratterizzare nella maniera più semplice attraverso due importanti differenze: per un verso, si tratta di intendere il progetto schilleriano di un’educazione estetica non a priori come utopia o politica dei mezzi apolitici, bensì come prosecuzione conseguente di tecnologie d’indirizzo effettive che sono state sviluppate nel secolo XVIII. La dicotomia tra morale e politica, tra suddito e uomo, messa in evidenza in maniera particolarmente chiara nella lettura interpretativa fornita da Koselleck, si può mantenere nella sua incisività se l’ambito del politico viene limitato a ciò che di esso è codificato giuridicamente. Ad ogni modo è assolutamente palese, come già non sfuggì ai grandi teorici e pratici dell’assolutismo, il fatto che i sudditi in fin dei conti potessero esser governati con successo solo se li si prendeva sul serio anche come esseri umani in quanto tali. Così nel XVII e XVIII secolo si sviluppò in certo qual modo accanto o al di sotto del governo e per mezzo di leggi esplicitamente costrittive un ampio quadro di tecnologie d’indirizzo grazie alle quali il potere statale estese in modo sempre più sottile il proprio controllo su ambiti che erano rimasti in precedenza esclusi dalla sfera della politica. Nacque il vasto campo della contabilità, dell’economia politica e della scienza della polizia, un campo del quale non si riesce a venire a capo adeguatamente rifacendosi alla dicotomia di morale e politica o di suddito e uomo. Si tratta dunque di volgere lo sguardo su questa zona grigia relativa alla storia posta tra politica e morale e collocare il progetto schilleriano dell’educazione estetica in questo contesto per nulla utopico. In questa maniera si imprime tuttavia – e ciò costituisce un secondo punto di analisi – un orientamento del tutto diverso al progetto schilleriano stesso. Esso con ciò non appare più come avanzamento nel campo della politica in nome dell’“uomo”, bensì si rende interpretabile come espansione dell’arte di go. Cfr. ivi, pp. - (trad. it. cit., pp. -). . Il presente testo è debitore di importanti impulsi tanto a J. Vogl, Staatsbegehren. Zur Epoche der Policey, in “Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”, , , pp. -, quanto a M. Gamper, Masse lesen, Masse schreiben. Eine Diskurs- und Imaginationsgeschichte der Menschenmenge -, tesi di abilitazione, Università di Zurigo , manoscritto, pp. -.

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vernare nell’ambito della morale e dell’estetica. Accentuando questa linea interpretativa si potrebbe affermare che ciò che interessa Schiller non è colonizzare la politica per mezzo della morale, quanto invece colonizzare l’essere umano per mano di una «tecnologia pastorale» (technologie pastorale); in questo contesto si tenterà proprio di leggere l’educazione estetica all’interno di una storia della governamentalità, vale a dire di una storia della «maniera tramite la quale si guida il comportamento degli uomini»; di una storia così come l’ha delineata Michel Foucault anzitutto in due cicli di lezioni pubblicate postume nel . Con ciò si è tratteggiato brevemente il quadro più vasto al cui interno dovrebbe esser posta la riflessione sulla retorica ed il gioco in Schiller. Muovendo un primo modesto passo in avanti verranno prima di tutto ricapitolati alcuni punti concernenti il concetto di gioco in Schiller. In seguito si indagherà il legame con la retorica, passando per il concetto dell’apparenza, prima di riaprire infine la prospettiva sul problema basilare delle tecnologie d’indirizzo.  Nelle prime lettere del trattato schilleriano il concetto centrale del gioco fa appena capolino. In esse interessa in primo luogo fornire una giustificazione nei confronti del proprio corrispondente fittizio; argomentando dal punto di vista della genealogia del testo in questione, si potrebbe affermare che detta giustificazione vale nei confronti del proprio mecenate, il principe di Augustenburg. Si tratta di una giustificazione per il fatto che lui, Schiller, non s’immischia direttamente, in quest’epoca politicamente movimentata, nel dibattito sugli avvenimenti in Francia, in particolare, e nella questione dell’emancipazione politica, in generale. Come egli assicura, le problematiche impellenti dell’epoca gli stanno a cuore esattamente tanto quanto avviene a tutti gli altri suoi contemporanei interessati; la soluzione di queste problematiche può esser tuttavia perseguita a suo avviso solo facendo ricorso alle presunte vie traverse dell’estetica, poiché manca infatti ancora la «possibilità morale» (p. ; trad. p. ) di una soluzione diret. Su questo concetto, cfr. M. Foucault, “Omnes et singulatim”: vers une critique de la raison politique”, in Id., Dits et écrits -, par D. Daniel, E. François, vol. IV, -, Gallimard, Paris , pp. -, qui p. . . Cfr. M. Foucault, Geschichte der Gouvernementalität (lezioni tenute al Collège de France nel periodo - e -), hrsg. v. M. Sennelart,  voll., trad. ted. di C. Brede-Konersmann, J. Schröder, Suhrkamp, Frankfurt a.M. ; cfr. per la citazione il vol. , p. . . Tutte le citazioni provenienti dall’edizione menzionata alla nota  verranno indicate da qui in poi nel testo con il numero di pagina dell’originale tedesco seguito dal numero di pagina della traduzione italiana citata.

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ta e per questa ragione è «la bellezza» il principio attraverso il quale si perviene «alla libertà» (p. ; trad. p. ). Se con formulazioni di questo tipo si evidenzia il fatto che «la bellezza» costituisce solo uno stadio di passaggio sulla via verso la ragione, nel prosieguo del testo schilleriano si chiarisce che la condizione estetica coappartiene al telos dell’educazione. Questo spostamento o ambivalenza di accenti, spesso oggetto di discussione nell’ambito della Schiller-Forschung, è in realtà già presente anche nella doppia interpretazione del concetto di “educazione estetica”: si intende con essa, dunque, un’educazione rivolta all’estetica o si tratta invece piuttosto di un’educazione alla razionalità per mezzo dell’estetica? Non è questa la sede per discutere i diversi tentativi interpretativi di questa ambivalenza tra educazione all’estetica ed educazione estetica alla moralità. In vista di un avvicinamento al concetto del gioco decisivo è solo il fatto che Schiller nella sua deduzione antropologico-trascendentale delle condizioni che rendono possibile l’armonizzazione di sensibilità e ragione stabilisce due impulsi, dei quali l’uno, come «impulso sensibile» (p. ; trad. p. ), guida l’uomo nella sua mutevole esistenza sensibile, mentre l’altro, come «istinto formale» (p. ; trad. p. ), motiva l’essere umano all’attuazione dell’immutabile legge razionale. Entrambi gli istinti esercitano una determinata costrizione, sia essa quella del bisogno o della legge morale. Se però essi si spingono l’uno verso l’altro in un’azione reciproca – intendendo questo concetto nella sua accezione fichtiana – si produce un terzo istinto armonizzante, l’«impulso al gioco» (p. ; trad. p. ), il cui nome, come afferma Schiller, è perfettamente giustificato dall’uso della lingua, «che suole designare con la parola gioco tutto ciò che non è soggettivo od oggettivo in senso contingente, e che tuttavia non è cogente né interiormente né esteriormente» (pp.  s.; trad. p. ). In questa maniera nella deduzione trascendentale della mediazione tra sensibilità e ragione il concetto ben più generale del gioco si è spinto improvvisamente al posto della bellezza e si pone con ciò la questione – anticipata dallo stesso Schiller (p. ; trad. p. ) – sul rapporto tra questi due stessi concetti. La bellezza è perciò ancora nulla più che un semplice gioco? Schiller affronta questa possibile obiezione critica ritrasponendo immediatamente il concetto del gioco, dopo averlo appena introdotto in riferimento all’“uso linguistico” generale, in direzione di un suo significato speciale e facendo ricorso ad una delimitazione di questo stesso uso linguistico. Infatti qui non interessano evidentemente i «frivoli oggetti che da sempre portano questo nome [gioco]» (p. ; trad. p. ). Si può semmai parlare di gioco in senso enfatico solo laddove esso si sia purificato nella . Sul rapporto tra Fichte e Schiller cfr. W. Hogrebe, Fichte und Schiller. Eine Skizze, in Schillers Briefe über die ästhetische Erziehung, hrsg. v. J. Bolten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -.

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forma di un gioco estetico. Per Schiller l’uomo difatti deve «giocare solo con la bellezza» (p. ; trad. p. ). Al più tardi a partire da tale affermazione si evidenzia quanto indebitamente venga citato in continuazione il passaggio immediatamente successivo in tutte le possibili circostanze sportive e agonistiche: «l’uomo [...] è interamente uomo solo laddove gioca» (p. ; trad. p. ). Schiller stesso favorisce indubbiamente un tale abuso, poiché, non appena ha delimitato il proprio concetto del gioco rispetto ai giochi della vita abituale, ciò nondimeno constata un’affinità particolare tra questi ultimi ed il «gioco estetico» (p. ; trad. p. ). Difatti i giochi abituali, che per la gran parte sono secondo Schiller nulla più che «giochi fisici» (p. ; trad. p. ), predispongono di già gli uomini ad un più elevato ideale del gioco. Anzi di più: nei giochi abituali di un uomo o di un popolo sono a suo avviso già riconoscibili i relativi giochi estetici e gli ideali di bellezza (p. ; trad. p. ). Rimane nondimeno problematica la maniera nella quale si attua il passaggio che conduce dai giochi fisici a quelli estetici. La spiegazione secondo la quale la liberazione dalle «catene dello stato fisico» possa realizzarsi solo per un «dono della natura» e attraverso «contingenze favorevoli» non è propriamente incoraggiante per il progetto dell’educazione estetica (p. ; trad. p. ). E anche se più in là nel testo si riprende il tema del passaggio, questo punto, di importanza autenticamente centrale per la possibilità di un’educazione estetica, resta indeterminato (pp.  s.; trad. pp.  s.). In questo secondo accostamento alla questione del passaggio, così come essa viene anzitutto prospettata nelle lettere che vanno dalla ventiquattresima alla ventiseiesima, Schiller elabora un’ipotetica storia del processo di civilizzazione. Si tratta di una storia nella quale il rapporto problematico tra l’istinto sensibile e quello estetico del gioco viene presentato come dispiegato in uno sviluppo diacronico che conduce dall’esistenza dei primi uomini, sottoposti al giogo del bisogno, verso un livello culturale nel quale gli uomini divengono capaci di esperienze estetiche. Egli abbozza dunque una storia del gioco o, per essere più precisi, una storia del gioco con l’apparenza, che parimenti diventa un concetto centrale nelle sezioni conclusive delle Lettere (pp. -; trad. pp. -). Ed è questo il concetto a partire dal quale si getta anche il ponte che conduce dal gioco alla retorica. Il crescente «piacere dell’apparenza» (p. ; trad. p. ) rappresenta, a parere di Schiller, l’indizio più sicuro dei primi accenni di una cultura estetica. Essa costituisce «un vero ampliamento della realtà ed un decisivo passo verso la cultura» (p. ; trad. p. ). Assieme all’apparenza, contemporaneamente anche l’illusione minaccia sempre tuttavia di comparire all’inter. Cfr. a tal proposito l’importante nota a p.  (trad. it. cit., p. ).

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no della cultura, così come ammonito dai grandi critici dell’apparenza, da Platone a Rousseau. Per questa ragione Schiller si vede spinto ad assicurare immediatamente che ciò che gli preme non è una riabilitazione dell’apparenza in genere, bensì unicamente una riabilitazione dell’«apparenza estetica»: «Si comprende da sé che qui si parla solo dell’apparenza estetica, che si distingue dalla realtà e dalla verità, non di quella logica, che si confonde con essa [...]. Solo la prima è gioco, mentre la seconda è solo inganno» (p. ; trad. p. ). Con tutto questo Schiller tenta in generale di intraprendere una chiara delimitazione dell’apparenza estetica, vale a dire dell’arte. Non bisogna tuttavia dimenticare che ciò che gli interessa in particolare è la problematica dell’apparenza nell’arte della parola. Questo si palesa ad esempio nel fatto che egli segnala esplicitamente in questo scritto un proprio saggio, Dei limiti necessari della bella apparenza (p. ; trad. p. ), che effettivamente comparve sempre nello stesso  sulla rivista “Die Horen” (in due parti e sotto altro titolo) e nel quale si trattava a livello generale la questione delle varie forme della comunicazione verbale, mentre sul piano specifico veniva anche affrontato il tema di una legittimazione del proprio stile di scrittura, del proprio gioco con l’apparenza. Al più tardi in questo passaggio delle Lettere le argomentazioni relative al gioco e all’apparenza subiscono nella propria forma una trasformazione autoriflessiva e, benché il concetto di retorica non venga nominato esplicitamente, è evidente che l’argomentazione schilleriana si ricollega su questo punto alla discussione sull’apparenza retorica risalente sino a Platone. Questo riferimento di ordine generale appare concretamente evidente nel fatto che Schiller – nei passaggi citati delle Lettere, e naturalmente anche nel trattato sui limiti delle forme belle – è ispirato direttamente dalla critica kantiana alla retorica della Critica del giudizio. Lo si può rilevare perfino nelle formulazioni. Kant sviluppa la sua critica dal confronto tra «eloquenza» e «poesia», in virtù del quale egli nota che un «oratore» esegue «qualcosa di serio [...] come se si trattasse d’un mero gioco di idee per divertire gli spettatori». Il . F. Schiller, Über die notwendigen Grenzen beim Gebrauch schöner Formen (Fassung von ), SW, V, pp. - (nota ) (trad. it. in Schiller, L’educazione estetica, cit., pp. ). . Su questo aspetto cfr. anche H. Meyer, Schillers philosophische Rhetorik, in “Euphorion”, , , pp. - e la sezione Die Form der Abhandlung, in E. M. Wilkinson, L. A. Willoughby, Schillers ästhetische Erziehung des Menschen. Eine Einführung, Beck, München  (I ed. ), pp. -. . Ueding ha analizzato le riflessioni schilleriane sulla bella apparenza sotto il segno della tradizione retorica. Egli non si è tuttavia addentrato, sulla scia di Kant, sugli elementi della critica alla retorica presenti in Schiller. Cfr. G. Ueding, Schillers Rhetorik. Idealistische Wirkungsästhetik und rhetorische Tradition, Niemeyer, Tübingen , pp. -, -. . I. Kant, Kritik der Urteilskraft (), hrsg. v. W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt

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«poeta» invece non annunzia che «un piacevole gioco di idee», ma ne deriva così tanto per l’intelletto, «come se il poeta non avesse avuto in mente che l’interesse di questo». La «poesia», così egli completa le sue riflessioni nel decisivo § , «giuoca con l’apparenza che produce a suo piacere, senza però ingannare; perché essa dichiara un semplice giuoco la sua stessa occupazione». «L’eloquenza [...] [invece], quando si intenda l’arte di persuadere, ossia di abbindolare con una bella apparenza [...] non si può [...] consigliare né pel tribunale né per la cattedra». Ed anche nella politica «l’arte oratoria [...], in quanto arte di servirsi delle debolezze degli uomini per i propri scopi [...] non merita alcun rispetto». Schiller non ha sottolineato questi passaggi nella sua copia personale della Critica del giudizio. È comunque evidente che le sue considerazioni sul gioco con l’apparenza ne sono state direttamente influenzate. Una differenza decisiva tra Kant e Schiller sta senza dubbio nel fatto che l’arte, e in particolare l’arte della parola – sebbene con Kant essa sia stata immunizzata contro tutti gli interessi sensibili e morali –, possa e debba avere in Schiller un ruolo centrale nella vita politico-sociale. Mentre in Kant il gioco con la bella apparenza verbale possiede un proprio valore estetico elevato, ma risulta depotenziato politicamente, anzi deve esserlo, la teoria schilleriana dell’educazione estetica può esser letta come un tentativo di inaugurare proprio il gioco con quest’apparenza come «il mezzo più rilevante per rendere felice lo Stato» (Sulzer). Come si è già accennato, si manifesta con ciò in maniera particolarmente chiara sullo sfondo delle formulazioni di Sulzer come Schiller intenda inscrivere la propria teoria nella lacuna funzionale prodottasi per via del disfacimento della retorica come arte e scienza guida. Naturalmente è solamente la funzione ciò che il gioco schilleriano della bella apparenza vuole ereditare dalla retorica; il modo di agire della sua educazione estetica è – almeno nell’intenzione – di tipo completamente dia.M. , p.  (trad. it., Critica del giudizio, a cura di A. Gargiulo, P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari , p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p. , nota (trad. it. cit., p. ). . Cfr. a tal proposito J. Kulenkampff, Friedrich Schiller; vollständiges Verzeichnis der Randbemerkungen in seinem Handexemplar der Kritik der Urteilskraft, in Id., Materialien zu Kants Kritik der Urteilskraft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -. Schiller ha letto la Critica del giudizio (almeno) due volte: cfr. le sue lettere a Körner del  marzo  e del  ottobre , in Schillers Werke. Nationalausgabe, begr. v. J. Petersen, fortgef. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, hrsg. v. N. Oellers, Böhlaus Nachfolger, Weimar , vol. XXVII, rispettivamente pp. - e -. . Cfr. il passaggio già citato di Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, cit., vol. , pp.  ss.

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verso. Mentre alla retorica, così come essa viene definita in Sulzer, è assegnato, insieme con la poesia, il compito di fornire contenuti direttamente politico-morali, questo programma in Schiller viene respinto nella maniera più risoluta. Per un verso egli si oppone – tra l’altro con esplicito riferimento a Sulzer – ad una funzionalizzazione contenutistica della letteratura, poiché – così si afferma nell’opera Sul patetico (Über das Pathetische) – «formare l’uomo moralmente e accendere nel cittadino sentimenti nazionali è un compito senz’altro onorevole per il poeta [...]. Ma ciò che la poesia compie così pregevolmente in modo indiretto, le riuscirebbe tuttavia assai male in modo diretto». Per altro verso, e questo è ancora più essenziale, secondo gli avanzati piani fisiologici ed antropologici schilleriani un siffatto trasferimento diretto di determinati contenuti attraverso determinate parole, di res specifiche tramite verba evidenti, non sarebbe assolutamente più possibile alla maniera di Sulzer. Tramite questo doppio sganciamento – tanto contenutistico quanto per così dire fisiologico – da nessi funzionali direttamente politici, il gioco della bella apparenza acquisisce in Schiller almeno potenzialmente un momento sovversivo. Diversamente da Sulzer, per il quale eloquenza e poesia sono ancora collegate strumentalmente entro la relazione di potere di un ordine gerarchico, qui l’ambito del gioco appare come un’oasi felice esente dalle costrizioni della vita di tipo politico e di altra natura presenti nello Stato assolutistico, come un’oasi di libertà che può trasformarsi in punto di cristallizzazione di uno «stato estetico» (p. ; trad. p. ) ideale. Come siffatto controprogetto, nel corso della lunga storia della sua recezione, l’educazione estetica schilleriana – come si è brevemente accennato all’inizio di questo contributo – è stata ora salutata come visione dotata di un’autentica dirompente forza rivoluzionaria, ora respinta come utopia escapista. In queste interpretazioni si partiva, tuttavia, sempre dal fatto che l’educazione estetica dovesse essere posta al di fuori della sfera del potere politico. Rispetto a tutto ciò si può in realtà schiudere una prospettiva completamente altra sul progetto schilleriano. Una prospettiva nella quale l’educazione estetica, intesa quale retorica sublimata, diventa inter. F. Schiller, Über das Pathetische, SW, V, pp.  ss. (trad. it. in F. Schiller, Del Sublime. Sul Patetico. Sul Sublime, a cura di L. Reitani, SE, Milano , p. ). Appena prima di queste proposizioni viene menzionato Sulzer: «Si è creduto a lungo di poter rendere un servizio alla poesia della nostra patria esortando i poeti all’elaborazione di soggetti nazionali. [...] È una fortuna che il vero genio non badi molto agli ammonimenti che ci si affanna ad impartirgli, più per saccenteria che per competenza; altrimenti Sulzer e i suoi seguaci avrebbero dato alla poesia tedesca un profilo assai ambiguo» (trad. it. cit., p. ). . Quest’argomentazione, per così dire fisiologica, contraria ad una strumentalizzazione diretta della poesia, risulta particolarmente chiara anche nella recensione schilleriana del  alle poesie di Gottfried August Bürger cfr. SW, V, pp. -.

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pretabile non come un controprogetto rispetto a contemporanei paradigmi della governamentalità, ma esattamente come la loro conseguente prosecuzione. Per chiarire tutto questo bisogna tuttavia, a questo punto, ampliare un poco la prospettiva.  Lo Stato assolutistico dell’era moderna si fonda sulla costruzione a livello di diritto naturale di un contratto originario. Per questo i relativi dibattiti sulla teoria dello Stato vertono soprattutto sulla legittimazione secolare del dominio politico e sulla rappresentazione e limitazione del potere sovrano. A partire al più tardi dalla seconda metà del XVII secolo, accanto a questo dibattito giuridico sullo Stato si sviluppa, nondimeno, anche una conoscenza empirica relativa allo stesso, incentrata non su norme fornite da sempre a priori ma su grandezze mutevoli. Fanno la loro comparsa nuovi oggetti dell’arte di governo, sono introdotte nuove variabili per la descrizione dello Stato: la popolazione nelle sue condizioni mutevoli, l’agricoltura, l’artigianato ed il commercio nel loro valore per la collettività politica, la quantità dei beni mobili e immobili, le condizioni etiche, la sanità. Tutti questi fattori vengono ora considerati all’interno di relazioni complesse; non riguardano lo status bensì i rapporti tra gli uomini e le cose, in ciò incluse le relazioni sociali nel loro insieme, e provocano – al di qua ed accanto alla potestas codificata giuridicamente – lo sviluppo del concetto di potenza sociale. In maniera analoga alla formula dei «due corpi del re», a partire dal XVII secolo si potrebbe dunque parlare dei due corpi dello Stato: di uno simbolico, vale a dire rappresentativo, che si legittima come configurazione di una volontà comune, incorpora e rende eterna questa volontà collettiva; e di uno fisico, che comprende il legame tra popolazione, individui e beni e che nel gioco delle passioni e degli interessi alla fine organizza le mutevoli forze e capacità in un complesso. Con la scoperta e l’apertura di questo vasto ambito del sapere rilevante per la sfera dello Stato si sviluppano però anche nuove scienze: la contabilità, la scienza di polizia e l’economia politica. In tutte queste branche spesso interconnesse di una nuova arte di governo ne va non solo della difesa dei sudditi per mezzo di misure coercitive negative e limitanti, ma anche sempre di una sollecitazione mirata dei sudditi, intesi come uomini, attraverso interventi positivi e stimolanti. Questo significa naturalmente an. Cfr. E. H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton University Press, Princeton  (trad. it., I due corpi del re. L’idea della regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino ). . Cfr. a tal proposito il capitolo Die Körper der Politik, in J. Vogl, Kalkül und Leidenschaft. Poetik des ökonomischen Menschen, Sequenzia Verlag, München , pp. -.

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zitutto che interessa incoraggiare la produttività economica della popolazione. La nozione di “Policey” (“polizia”) nel XVIII secolo presenta nondimeno un campo semantico talmente vasto che in fin dei conti tutti gli ambiti della vita umana – dall’agricoltura, passando per la politica sanitaria ed i trasporti, sino alla morale – debbono esser pensati come in essa inclusi. Si può chiarire questo aspetto rifacendoci, ad esempio, alla disposizione tematica del classico Traité de la Police di Nicolas Delamare, scritto nella prima parte del secolo XVIII. Così come esposto da Delamare (il cui nome viene riprodotto a volte anche come “de Lamare” o “de la Mare”), nella sua Introduzione, egli intende suddividere la propria materia in dodici libri, nei quali dovrebbero venir trattati in successione i temi seguenti: . Della polizia in generale; . Della religione; . Dei costumi; . Della salute; . Dei generi alimentari; . Degli edifici e delle strade; . Della pubblica sicurezza; . Delle scienze e delle arti liberali; . Del commercio; . Delle manifatture; . Dei servitori, dei domestici e dei braccianti; . Della povertà. Si può osservare quest’ampia determinazione dell’ambito poliziesco in maniera più o meno immutata attraverso la totalità della letteratura poliziesca del secolo XVIII, ad esempio anche nel caso di autori tedeschi come Justi. In virtù di tutto ciò si può fissare come tratto decisivo il fatto che l’arte di governo moderna che qui si delinea mira a sviluppare a tal punto gli elementi costitutivi dell’esistenza degli individui che il loro sviluppo favorisce anche quello della forza dello Stato. Quando Delamare afferma che compito della polizia è «condurre l’uomo alla più perfetta felicità della quale egli possa gioire in questa vita», egli muove dalla considerazione secondo la quale questa «felicità» si riflette in ultima istanza anche sul rafforzamento dello Stato. Grazie a tutto questo si può ben osservare in che modo ciò che Foucault ha definito il «potere pastorale» (pouvoir pastoral), vale a dire un . Cfr. N. Delamare, Traité de la Police. Preface, vol. , Paris  (senza paginazione). Delamare poté realizzare solo in parte il suo gigantesco progetto. . Cfr. J. H. G. von Justi, Grundsätze der Policeywissenschaft, Dritte Ausgabe mit Verbesserungen und Anmerkungen von J. Beckmann, Göttingen  ( ed., la cui ristampa è comparsa per i tipi della Sauer & Auvermann, Frankfurt a.M. ; I ed. ), p. : «In un senso ampio, si intende per polizia “ogni disposizione su questioni interne, con cui è possibile creare ed incrementare in modo durevole il patrimonio complessivo dello Stato, impiegarne le forze in modo migliore e soprattutto accrescere la felicità comune; in questo senso, il commercio, l’economia agraria, l’amministrazione delle miniere, la silvicoltura e simili, sono da annoverare nella policey, laddove il governo regoli questi settori tenendo conto del benessere dello Stato”» (trad. it. di L. Gaeta e P. Carnevale, con un capitolo finale di L. Gaeta e A. Viscomi, in G. A. Ritter, Storia dello stato sociale, Prefazione di P. Pombeni, Laterza, Roma-Bari , p. ). . Cfr. Delamare, Traité de la Police, cit., vol. : «J’ay commencé par prouver l’existance, & la necessité de la Police [...]; j’ay ensuite montré que son unique objet consiste à conduire l’homme à la plus parfaite felicité dont il puisse jouïr en cette vie».

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potere che agisce contemporaneamente sia in maniera totalizzante che individualizzante, entri a far parte delle tecnologie d’indirizzo dello Stato. La maniera nella quale si sperava di conseguire questo doppio effetto indubbiamente si modificò nel corso dell’illuminismo. Se infatti si era puntato dapprima a controllare e favorire il nuovo corpo sociale, nella sua accezione fisica, attraverso una rete molto ramificata e il più possibile fitta di norme e regolamenti, nell’ultima decade del XVIII secolo si venne configurando un nuovo paradigma d’indirizzo, che si potrebbe definire liberale nel senso più ampio del termine, nel cui ambito si puntò in maniera crescente su tecniche di controllo e di regolamentazione indirette e camuffate. Il corpo fisico dello Stato venne liberato dal suo fitto corsetto poliziesco di regole, in quanto si partiva dal presupposto che esso potesse meglio sviluppare la propria forza nello spazio delle libertà da poco concesse. Al posto di una pluralità di disposizioni particolareggiate, delle “libertà” concesse all’uopo dovevano adesso contribuire al rafforzamento dello Stato. Per mezzo di adeguati provvedimenti indiretti si dovette tuttavia assicurare che le nuove libertà venissero utilizzate anche nel senso dello Stato. I sudditi liberati dovevano venire condizionati nella giusta misura e, se il compito della polizia era consistito da sempre nell’ordinare e canalizzare il brulichio incontrollato di eventi, forze, passioni e affetti, che costituisce lo spazio del sociale, in riferimento alla forza della totalità dello Stato, ora invece si profilano diversi programmi d’indirizzo che mirano a trasferire questa difficoltosa mediazione tra corpo statale fisico e rappresentativo, per così dire, nel petto del cittadino. Ciò sta a significare che il processo della “poliziazione” non dovrebbe perciò limitarsi più solo, come nelle classiche dottrine poliziesche, all’elemento esteriore dell’uomo e alla sua attività manifesta, ma dovrebbe volgere lo sguardo anche verso la sua dimensione interiore. Se si riuscisse infatti a condizionare l’uomo in maniera tale che egli compisse già nella propria interiorità l’accordo tra la sostanza dinamica delle passioni individuali e la forma della comunità statale collettiva, dal punto di vista ideale non sarebbe assolutamente più necessaria alcuna costrizione poliziesca esterna. Tramite una «polizia del cuore» (Policey des Her. Cfr. Foucault, “Omnes et singulatim”, cit., soprattutto p. . . Cfr. su questo punto, Foucault, Geschichte der Gouvernementalität, cit., vol. , pp.  ss.: «Da qui deriva infine anche il fatto che la libertà è fatta valere non solo come diritto degli individui che si contrappone legittimamente al potere, di fronte alle violazioni ed agli abusi di potere del sovrano o del governo; essa si è infatti trasformata in una componente indispensabile della governamentalità stessa. Si può ancora ben governare solo a condizione che la libertà o determinate forme di libertà vengano effettivamente rispettate. Non rispettare la libertà significa non solo abusare del diritto rispetto alla legge, bensì soprattutto non essere in grado di governare come si deve. L’integrazione delle libertà e dei limiti che sono propri di questa libertà nell’ambito della prassi governamentale si è trasformata attualmente in un ordine».

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zens) appropriata – un’espressione, questa, derivante dal contesto della discussione sulla polizia degli anni Settanta del secolo XVII – il controllo della società si potrebbe sublimare a tal punto da non risultare neppure più percepibile. L’individuo si “polizierebbe” nel senso dello Stato e la “libertà” concessa si trasformerebbe indirettamente nel mezzo più sicuro del controllo d’indirizzo.  Ora, la contiguità del pensiero di Schiller nei confronti di simili forme della «tecnologia pastorale» e dell’indirizzo indiretto può esser osservata in una prima variante in maniera particolarmente evidente nelle sue considerazioni inerenti la questione espressa nello scritto Quali effetti può avere in realtà un buon teatro stabile? (Was kann eine gute stehende Schaubühne eigentlich wirken?) del -. È naturalmente consigliabile una certa cautela nei confronti di un simile balzo indietro dal periodo dell’educazione estetica verso la fase creativa per così dire pre-critica schilleriana. Questo sguardo rivolto all’indietro consente tuttavia di rivelare certe caratteristiche fondamentali che, nonostante tutti i mutamenti, sono peculiari anche di determinati tratti presenti nell’educazione estetica. Sin dalle prime pagine del suo discorso sul teatro Schiller ne pone in stretta relazione l’efficacia con gli obiettivi di una buona polizia: La pretesa ultima e più elevata che il filosofo ed il legislatore di un’istituzione pubblica possono avanzare consiste nell’impulso alla felicità generale. [...] Chi dunque riesce a dimostrare in maniera inoppugnabile che il teatro ha avuto efficacia sulla formazione degli esseri umani e del popolo ha definito il rango del teatro stesso come contiguo alle istituzioni prime dello Stato (p. ).

Schiller si prende l’impegno di fornire proprio questa prova e le sue spiegazioni mirano in ultima analisi alla conclusione secondo la quale il teatro è, addirittura «più di qualsiasi altra istituzione pubblica dello Stato, una scuola di saggezza pratica, una guida attraverso la vita borghese, una chiave infallibile ai passaggi più reconditi dell’animo umano» (p. ). E, secondo Schiller, il teatro deve consigliare al «legislatore saggio» proprio que. Cfr. “Christliches Intelligenz-Blatt” (). Citato da K. Zobel, Polizei: Geschichte und Bedeutungswandel des Wortes und seiner Zusammensetzungen, tesi di dottorato, München , vol. ,  (senza indicazione precisa della pagina). Vi si parla anche della «“poliziazione” interiore dell’uomo»: ivi, . . F. Schiller, Was kann eine gute stehende Schaubühne eigentlich wirken?, SW, V, pp. -. Tutte le citazioni compiute sulla base di questa edizione verranno qui di seguito introdotte direttamente nel testo con l’indicazione della pagina.

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sto passaggio verso la sfera più segreta e privata dell’uomo, poiché a questi viene con ciò concessa una potenza che altrimenti solo la religione conosce. Mentre le leggi mondane ruotavano solo attorno ai «doveri negativi», quell’opera sull’«agire concreto» (p. ). Mentre le leggi dominavano «solo sulle manifestazioni visibili della volontà», sulle «azioni», la religione «estende la sua giurisdizione fin negli angoli più celati del cuore» e persegue «il pensiero sino alla radice più intima» (p. ). E proprio questo potere d’«indirizzo della coscienza» (direction de conscience), come si potrebbe dire sulla scorta di Foucault, contraddistingue secondo Schiller anche l’effetto dello spettacolo teatrale. Nel teatro lo spettatore si trova, come Schiller crede, in una maniera che prelude all’educazione estetica, in uno «stato intermedio» tra le pretese della sensibilità e quelle dell’intelletto, ed in esso le «inclinazioni» dei cittadini possono esser mutate, per mezzo del legislatore, «in fonte di felicità» con l’ausilio del «senso estetico» (p. ). Il collegamento diretto dell’arte entro gli scopi dello Stato, come postulato dal discorso sul teatro stabile, si fa problematico con la svolta critica di Schiller nei confronti di Kant, avvenuta nei primi anni Novanta del XVII secolo. Grazie allo sviluppo della sua rigorosa autonomia l’arte – almeno teoricamente – viene sciolta da tutti gli ambiti d’interesse direttamente sensibili e morali e con ciò anche dal nesso funzionale della politica. In queste condizioni l’arte non è più in grado (o meglio ad essa non è più consentito) di trasmettere determinati contenuti giuridici e morali «nei meandri più nascosti del cuore umano». Ciò che essa può però fare ora come prima, secondo Schiller – ed in ciò egli scorge il compito peculiare dell’arte stessa – è nobilitare il carattere degli esseri umani nel senso di un accordo armonico. Essa non fornisce dunque contenuti particolari, ma certamente una forma generale di accordo ideale tra sensibilità e ragione che costituirebbe la condizione preliminare per un’esistenza politica libera. Ne . Cfr. Foucault, “Omnes et singulatim”, cit., pp.  passim. . Al più tardi a partire da questo punto si dimostra problematica l’interpretazione fornita da Koselleck su questo testo: cfr. Koselleck, Critica illuminista, cit., pp. -. Egli lo interpreta come se Schiller volesse delimitare nettamente la morale del teatro rispetto alla politica dello Stato e porre le due sfere l’una contro l’altra. Per Koselleck risulta decisiva l’asserzione: «La giurisdizione del teatro comincia là dove cessa il campo delle leggi mondane» (SW, V, p. ). È chiaro tuttavia come questa frase non sia da intendere in senso contrastivo. Ciò che invece interessa Schiller è piuttosto dimostrare come il teatro possa supportare effettivamente il legislatore politico, facendo sì che il primo possa trasporre i principi del secondo ben al di là del quadro giuridico, nei cuori dei sudditi. Schiller sviluppa la sua argomentazione in quattro momenti. Nel primo il teatro dà una mano nell’imposizione delle leggi codificate (ivi, p. ). Nel secondo esso è in grado di giudicare criminali che altrimenti potrebbero sottrarsi alla giurisdizione (ivi, p. ). Nel terzo il teatro si cura delle grandi offese contro la morale che la «giustizia mondana» a dire il vero «tollera impunemente» (ivi, p. ). Nel quarto trasforma in argomento di dibattito molti piccoli vizi che debbono essere collocati per così dire al di sotto della soglia della legge (ivi, p. ).

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deriva che all’arte spetta il compito di creare le condizioni preliminari per rendere possibile una vita siffatta. Per quanto mediata essa sia, l’arte resta quindi legata in maniera fondamentale allo Stato. Nonostante la detta importanza centrale dell’arte per lo Stato, a quest’ultimo mancano tuttavia, come Schiller espone nella nona lettera, i mezzi per la «nobilitazione del carattere» (p. ; trad. p. ) dei sudditi. L’arte gode di un’«assoluta immunità» (p. ; trad. p. ); per questa ragione il «legislatore politico» (p. ; trad. p. ) può chiudere il suo dominio, ma non può dominare in esso (p. ; trad. p. ). Lo può fare solo l’artista, cui spetta con ciò il compito, per così dire come uomo politico superiore, di educare gli esseri umani secondo criteri estetici. Anche nel prosieguo della nona lettera Schiller si rivolge quindi direttamente ad un artista fittizio per illustrargli il compito affidatogli. In questa maniera si produce un’interessante dissolvenza incrociata dell’effettivo destinatario politico, il principe di Augustenburg, con l’evidente natura apolitica rappresentata dal «giovane amico della verità e della bellezza» (p. ; trad. p. ), cui Schiller si rivolge qui in maniera particolare. Alla luce di tale dissolvenza incrociata diventa però evidente che il «legislatore politico» vorrebbe fondersi idealmente con l’artista, o che vorrebbe almeno far operare l’artista al proprio posto in quella zona al di sotto della legge nella quale si può agire sin nei labirinti più reconditi dei cuori. Ma dove dovrebbe iniziare l’artista la sua opera di nobilitazione degli uomini volta a sviluppare la loro “attitudine civile”? La risposta di Schiller anticipa di già in questo passo la teoria dell’istinto del gioco, così come essa viene sviluppata in realtà solo nella quattordicesima e quindicesima lettera, in quanto egli fa notare all’artista-uomo politico che questi non riuscirà a realizzare immediatamente il proprio programma educativo: La serietà dei tuoi principi li farà fuggire da te, ma nel gioco li sopportano ancora; [...]. Invano darai l’assalto alle loro massime, condannerai i loro atti, ma puoi cercare di agire, educando, sul loro ozio. Scaccia l’arbitrio, la frivolezza, la rozzezza dai loro divertimenti, li bandirai senza farti accorgere anche dalle loro azioni e dalle loro convinzioni (p. ; trad. p. ).

Nella terminologia schilleriana, sviluppata compiutamente solo nell’ultimissima lettera, tutto ciò significa che l’intervento educativo più efficace sulla «mera vita» (p. ; trad. p. ) deve avere luogo là ove in essa già si . Varrebbe la pena di analizzare più approfonditamente questa formulazione schilleriana alla luce delle riflessioni di Benjamin e Agamben sulla «nuda vita»: cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus novus: saggi e frammenti, trad. e introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino  (I ed. ), pp. -; G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino .

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agiti l’istinto del gioco, anche se solamente nella sua forma sensibile. A partire da questo l’artista-uomo politico può nobilitare questo istinto del gioco «sensibile» in «istinto del gioco estetico» (pp.  s.; trad. pp.  s.). Qui l’uomo può, senza che lui stesso se ne avveda, venir veramente “poliziato” nel senso proprio del termine. Anche dopo la svolta dell’estetica dell’autonomia è con ciò riconoscibile in Schiller una tecnologia d’indirizzo che permette chiaramente di riconoscerne la genealogia come derivante dalla logica della polizia. Una logica della quale Schiller si è tra l’altro occupato nei tardi anni Novanta del XVII secolo anche in rapporto al suo progetto di dramma restato a livello di frammento, La polizia (Die Polizey). La sua educazione estetica è in certo senso una prosecuzione coerente dei diversi mezzi governamentali che vennero trasformati nel corso del XVIII secolo in un impulso indiretto alla «felicità comune». Essa è posta lungo una linea evolutiva che porta da una condizione nella quale si regna per imposizione, passando attraverso uno stadio in cui si governa per influsso indiretto, sino ad una situazione in cui gli individui sembrano idealmente decidere da se stessi nell’intraprendere iniziative nell’interesse dello Stato. E questa linea di sviluppo si rende parallela ad una crescente sublimazione della retorica, che era stata da sempre intimamente intrecciata con lo sviluppo dell’arte di governo. Questo intreccio risulta manifesto sin dai primi testi sulla retorica nell’antichità e si dimostra ancora centrale nelle considerazioni sulzeriane, le quali elogiano l’arte oratoria anzitutto come un mezzo straordinariamente efficace di indirizzo del popolo. In Schiller la retorica viene tuttavia sublimata in certo qual modo in un’arte dell’autopersuasione ed in questa forma interiorizzata essa si trasforma nel più efficace strumento della governamentalità liberale. Per questa ragione Schiller scrive nell’opera Sulla grazia e la dignità (Über Anmut und Würde): «Se uno Stato monarchico viene governato in modo che, sebbene tutto proceda secondo la volontà di uno solo, il singolo cittadino possa tuttavia illudersi di vivere se-

. L’accentuazione di tale processo si ha allorquando l’uomo in questo modo “polizia” se stesso. Questa svolta viene così delineata da Schiller nelle Lettere: «già qui, sull’indifferente terreno della vita fisica, l’uomo può iniziare la sua vita morale; anche nella sua passività egli può incominciare la sua attività spontanea ed anche entro i suoi limiti fisici la sua libertà razionale» (p. ; trad. p. ). . Cfr. F. Schiller, Die Polizey, NA, XII, pp. - (trad. it. di B. Allason, M. D. Ponti, in F. Schiller, Teatro, prefazione di H. Mayer, Einaudi, Torino , pp. -. Sul tema cfr. anche Vogl, Staatsbegehren, cit., pp. -. . Citato da von Justi, Grundsätze der Policeywissenschaft, cit., p. . . Cfr. Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, cit., vol. , p. : «Neppure la violenza più illimitata riesce a giungere sempre al proprio scopo suscitando la paura; scopo che in molti casi può venir raggiunto solo per mezzo della libera volontà del popolo. Quest’ultima può esser mantenuta solo mediante la persuasione».

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condo il proprio intendimento e di ubbidire soltanto alla propria inclinazione, questo governo si chiama liberale». Questo passaggio si incontra in forma elaborata nell’Educazione estetica, nella cui quarta lettera viene parimenti tematizzata la tensione tra le richieste rivolte dallo Stato razionale all’individuo e viceversa. Anche qui la soluzione della tensione viene scorta nell’accordo armonizzante, per mezzo del quale la varietà degli individui non dovrebbe esser neutralizzata nell’unità dello Stato per mezzo di un atto forzoso. Una costituzione statale che riuscisse a garantire solo in tal maniera la sua compattezza sarebbe «ancora assai imperfetta» (p. ; trad. p. ). Lo Stato dovrebbe invece, come Schiller argomenta, «rispettare negli individui non soltanto il carattere oggettivo e generico, ma anche quello soggettivo e specifico» (p. ; trad. p. ). Solamente in questa maniera si può ottenere che l’individuo per così dire “convinca” se stesso sulla congruenza tra i suoi bisogni fisici nobilitati e le istanze dello Stato; solo in questo modo si può ottenere che, per dirla nei chiari ed auspicabili termini schilleriani, «l’individuo diventa lo Stato» (p. ; trad. p. ). È questo basilarmente lo scopo di un potere pastorale perfezionato. Questa fusione dell’individuo con lo Stato o, per meglio dire, questa neutralizzazione dell’individuo nello Stato costituisce il telos dell’educazione estetica, che con ciò diventa riconoscibile proprio come arte eminentemente politica. L’educazione per mezzo del «gioco con la bella apparenza» – questa retorica sublimata – corrisponde ad una strategia d’indirizzo dei soggetti più volte attuata. Come strategia d’indirizzo essa non si pone in nessun modo di per sé in opposizione alle tecniche di governo che si sono perfezionate verso la fine del XVIII secolo.

. F. Schiller, Über Anmut und Würde, SW, V, p.  (trad. it. in F. Schiller, Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, UTET, Torino , p. ).

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Progetto estetico e educazione politica in Schiller. La nona lettera e i giacobini tedeschi di Maria Carolina Foi

 Nell’epistolario di Schiller non mancano passi puntuali che documentano la sua reazione di fronte all’evoluzione o, meglio, alla degenerazione della situazione politica in Francia dopo gli eventi del . Un crescendo di delusione, costernazione, ripulsa, perché – come si legge ad esempio nelle lettere all’Augustenburg del  – il popolo francese non solo ha fallito il tentativo di instaurare i suoi sacri diritti umani, ma si è anche rivelato nella sua «incapacità e indegnità», rigettando indietro almeno di un secolo nella barbarie se stesso e parte dell’Europa. Ancora una volta dunque ne va di Schiller e la Rivoluzione francese, e quindi delle Lettere sulla educazione estetica, che germinano appunto dalla rielaborazione della corrispondenza con l’Augustenburg. Certo, è un tema che può apparire antiquato ed evocare correnti storiografiche ben note. Si tratta di quelle posizioni che nel Novecento, a cominciare da Lukács, hanno contribuito a costruire tutta una linea interpretativa che lega l’affermazione dello status quo politico da parte di Schiller alla funzione compensativa attribuita all’arte e alla letteratura, le quali sarebbero chiamate a mettere in scena il mondo della bella apparenza come consolazione della mancata o, rispettivamente, impraticabile trasformazione sociale. Ma questo . F. Schiller, Werke. Nationalausgabe, begr. v. J. Petersen, fortgef. v. L. Blumenthal, B. von Wiese, S. Seidel, hrsg. v. N. Oellers, Böhlau, Weimar  ss., vol. XXVI, p. . Da ora in poi citata come NA, seguita dal numero del volume e della pagina. Anche questo lavoro si inserisce in un progetto di ricerca reso possibile grazie al sostegno della Alexander von Humboldt-Stiftung, che qui desidero ancora una volta ringraziare. Tutte le traduzioni sono di chi scrive. . G. Lukács, Schillers Theorie der modernen Literatur, in Id., Gesammelte Werke, vol. , Neuwied-Berlin , pp. -. Rappresentativi per questa linea interpretativa: R. Grimm, J. Hermand (hrsg.), Die Klassik-Legende, Suhrkamp, Frankfurt a.M. ; R. Grimminger, Die ästhetische Versöhnung. Ideologiekritische Aspekte zum Autonomiebegriff am Beispiel Schillers, in “Über die ästhetische Erziehung des Menschen”, hrsg. v. J. Bolten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -; K. O. Konrady, in H. Laufhütte (hrsg.), Literaturgeschichte als Profession. Festschrift für Dietrich Jöns, Niemeyer, Tübingen . Per la critica della teoria della compensazione: B. Bräutigam, Konstitution und Destruktion ästhetischer Autonomie

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stesso tema può apparire oggi in un’altra luce se si interrogano diversamente le fonti (e non solo quelle dichiaratamente letterarie) indagando non i grandi nessi storiografici, gli avvenimenti in grande scala, il palcoscenico dove si rappresenta il grande racconto della storia universale, ma i fuori scena, le storie delle retrovie, i fatti e le vicende più immediati e vicini. Ciò significa abbandonare anche le storie disciplinari e la loro rigidità e prediligere piuttosto una ricostruzione storica che tenga conto delle costellazioni significative del tempo. In questa prospettiva, anche le Lettere sulla educazione estetica possono rivelare connotazioni finora rimaste in ombra e la loro metaforica politico-giuridica può essere intesa in modo più preciso, con acquisizioni anche filologiche senz’altro interessanti. Illuminante, in proposito, è la vicenda dell’amicizia di Schiller con Johann Benjamin Erhard. A Erhard è infatti indirizzata una lettera che parrebbe esemplare di quel disimpegno dichiarato dalle istanze politico-sociali della attualità, che sembra caratterizzare, fin dalla celebre Ankündigung delle “Horen” del dicembre , il programma del classicismo weimariano. Ecco quanto Schiller gli scrive da Jena il  maggio : Soprattutto seguite il mio consiglio e lasciate che questa povera, indegna e immatura umanità provveda da sola a se stessa. Rimanete nella regione serena e tranquilla delle idee, lasciate che sia il tempo a introdurle nella vita pratica. E se mai vi punge vaghezza di esplicare una attività che abbia un effetto concreto, allora iniziate dal fisico e curate dalla gotta e dalla febbre quei corpi, le cui anime sono incurabili (NA, XXVII, p. ).

Per intendere davvero di cosa ne va bisogna innanzitutto prendere in considerazione l’identità del destinatario. Su di lui così si era espresso Schiller in una lettera a Körner dell’aprile : È la persona più intelligente, più aperta e più dotata che io abbia mai conosciuto: non solo, a quanto dice Reinhold, conosce a fondo la filosofia kantiana, ma vi ha pure introdotto visioni autonome e originali; unisce una straordinaria erudizione a una forza intellettuale fuori dal comune. È matematico, medico antropologo, filo-

im Zeichen des Kompensationsverdachts, in W. Wittkowski (hrsg.), Revolution und Autonomie. Deutsche Autonomieästhetik im Zeit-alter der Französischen Revolution. Ein Symposium, Niemeyer, Tübingen , pp. -. . Per la nozione di “costellazione”: cfr. D. Henrich, Konstellationen. Probleme und Debatten am Ursprung der idealistischen Philosophie (-), Klett-Cotta, Stuttgart ; in ambito storico-letterario cfr. le importanti osservazioni di G. Oesterle, Der Streit um die Modernität der Kunst. Schiller und die Frühromantiker, in W. Hinderer (hrsg.), Schiller und der Weg in die Moderne, atti in corso di pubblicazione della Internationale interdisziplinäre Schiller-Konferenz, tenutasi a Princeton nell’ottobre .

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sofo, pieno di ardore per l’arte, disegna in modo eccellente e altrettanto bene suona: e non ha nemmeno venticinque anni (NA, XXVII, p. ).

Questo entusiasmo senza riserve non è affatto un caso isolato nelle testimonianze del tempo sul giovane medico di Norimberga. Kant, che riceve una visita di Erhard a Königsberg nell’estate del , gli scrive in seguito a quell’incontro: «Perché il destino non ha voluto portarmi più vicino l’uomo che fra tutti coloro che ci fanno visita mi augurerei di poter frequentare ogni giorno?». Reinhold, che a Erhard resterà affezionato per tutta la vita, dichiara in una lettera al poeta danese Baggesen, che pure fa parte del circolo dei suoi primi allievi: «Non mi era mai capitato di incontrare una simile ampiezza e profondità di vedute, e tanto meno un cuore così puro e così nobile accompagnato da un simile intelletto». Nel  Erhard frequenta a Jena quel gruppo di giovani filosofi e intellettuali che vedono in Reinhold l’esegeta e l’interprete più accreditato della filosofia kantiana: Niethammer, Baggesen, Forberg. Lì conosce anche Franz de Paula von Herbert, un industriale di Klagenfurt, appassionato kantiano, che sostiene da mecenate le ricerche dei filosofi jenesi. Inoltre, è amico di Novalis e di Sophie Mereau; gode della stima di Wieland e di Goethe; polemizza con Fichte e con Hufeland. Erhard deve essere stato senza dubbio una personalità carismatica, subito riconosciuta e apprezzata dagli amici per la sua autorevolezza morale e intellettuale. La sua attività pubblicistica come filosofo in senso stretto è concentrata in pochi anni decisivi, fra il  e il . Non si può certo dire una produzione amplissima: una pletora di recensioni, qualche breve saggio, un solo libro e numerose lettere – una produzione caduta in oblio per duecento anni. Solo da pochissimo il suo specifico ruolo nella storia della filosofia classica tedesca comincia a essere debitamente apprezzato. Ma a interrogare gli scritti di Erhard si scopre presto quello che egli considerava il senso vero di tutta la sua ricerca intellettuale, lo scopo della sua vita: costruire una teoria della legislazione, dedurre una ideale costituzione statale solamente dalla legge morale kantiana. Lo afferma, tra l’altro, anche nella lettera del  maggio , scritta in risposta a quella inviatagli da Schil. I. Kant, Werke, Akademie-Ausgabe, vol. IX, p.  (anche in K. A. Varnhagen von Ense, Denkwürdigkeiten des Philosophen und Arztes Johann Benjamin Erhard, Stuttgart-Tübingen , p. ). . J. Baggesen, Aus Baggesen’s Briefwechsel mit K. L. Reinhold und F. H. Jacobi, hrsg. v. seinen Söhnen, Teil I, Leipzig , pp. -. . Cfr. M. Frank, “Unendliche Annäherung”. Die Anfänge der philosophischen Frühromantik, Frankfurt a.M. , specialmente pp. -, -; D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich. Untersuchungen zur Vorgeschichte des Idealismus, Tübingen-Jena -, vol. II, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , specialmente pp. -. . Von Ense, Denkwürdigkeiten, cit., p. .

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ler, citata poco sopra. Al consiglio dell’amico replica: «Spero di poter rimanere senza preoccupazioni nella regione serena e tranquilla delle idee. Ma che possa negarmi di lavorare alla loro realizzazione, qualora sia in condizione di farlo – questo non lo credo proprio» (NA, XXXV, pp. -). La “realizzazione delle idee” non riguarda solo il suo lavoro intellettuale – in questo caso la elaborazione della sua teoria giuridica. In quello stesso anno, il , viene infatti diffuso un foglio volante anonimo intitolato Wiederholter Aufruf an die deutsche Nation (Rinnovato appello alla nazione tedesca). È un appello quasi certamente attribuibile alla mano di Erhard, un appello che ha tutti i tratti distintivi delle posizioni politiche propagandate dal movimento giacobino nella Germania meridionale. Johann Benjamin Erhard è dunque anche un giacobino, di più, dato strano e apparentemente paradossale date le posizioni legaliste del maestro, un giacobino coerentemente kantiano. Non a caso, ben prima delle recentissime indagini storico-filosofiche, Erhard era stato infatti “riscoperto” quale teorico della rivoluzione nella scia della Studentenbewegung, nell’ambito degli studi giuridico-politici, con una meritoria edizione del  del saggio Sul diritto del popolo alla rivoluzione unitamente ad altri suoi scritti giuridici. Sullo sfondo di quello specifico versante della ricezione veniva considerato, seppure obliquamente, il suo rapporto con Schiller. Il giudizio in merito suonava drastico: «Il poeta di corte diventato controrivoluzionario tenta di distogliere Erhard dal suo radicalismo politico». Un giudizio ribadito anche in contributi successivi: «Erhard non segue Schiller nella sterzata verso l’estetico». Ad accontentarsi di simili conclusioni, la vicenda specifica del rapporto di

. Su Erhard estensore dell’appello: N. Merker, Alle origini della ideologia tedesca. Rivoluzione e utopia nel giacobinismo, Laterza, Roma-Bari , p. . L’appello è ristampato in: J. B. Erhard, Über das Recht des Volkes zu einer Revolution und andere Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , pp. -. Cfr. la Bibliographie générale degli scritti nella ottima edizione commentata, Du droit du peuple à faire la révolution et autres écrits de philosophie politique (-), suivis de deux études par S. Colbois et H. G. Haasis, L’Age d’Homme, Lausanne , p. . . Erhard ha conosciuto una singolare ricezione proprio in Italia. Infatti, ben prima dell’articolo di H. G. Haasis, Una variante giacobina della filosofia kantiana: Giovanni Beniamino Erhard, in “Rivista Italiana di filosofia”, LX, , aprile-giugno , Erhard era stato riscoperto negli anni Venti dello scorso secolo dal filosofo del diritto Alfonso Ravà; per quella via aveva poi attirato l’attenzione di Benedetto Croce, che nel  ne traduceva per la casa editrice Laterza la Apologia del diavolo. Ancora nell’ambito della filosofia del diritto italiana si collocano le pagine dedicate a Erhard da A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico kantiano, Giuffrè, Milano . . H. G. Haasis, Nachwort, in Erhard, Über das Recht des Volkes, cit., p. . . W. Baum, Die Aufklärung in Jena und die Jakobiner in Österreich. Der Klagenfurter Herbert-Kreis, in M. Benedikt (hrsg.), Verdrängter Humanismus-verzögerte Aufklärung. Österreichische Philosophie zur Zeit der Revolution und Restauration (-), Turia und Kant, Wien , p. .

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Schiller con Erhard potrebbe essere vista come una ulteriore puntuale riprova della fuga dello scrittore nel mondo dell’ideale. Anche alla luce della raccomandazione data all’amico, la sua prassi estetico-letteraria in quel torno d’anni più che al «sogno della Rivoluzione francese» parrebbe assomigliare a una dissuasione mirata dal progetto di una rivoluzione tedesca. Sembrerebbero così rafforzate quelle posizioni della critica schilleriana che leggono la speculazione estetico-filosofica del decennio post-rivoluzionario nel segno della ritirata nella torre d’avorio di umanesimo apolitico e atemporale. Ma può davvero bastare una interpretazione letterale del consiglio dato da Schiller? Sarebbe questa la storia dell’amicizia fra un poeta che si vota al disimpegno e un giovane kantiano che si vota alla prassi rivoluzionaria? Forse le cose non stanno esattamente in questi termini. Probabilmente acquisizioni di questo genere sono il frutto di un equivoco, di una illusione ottica che rischia di riprodursi ogniqualvolta gli interessi conoscitivi delle storie disciplinari e separate finiscono per determinare troppo unilateralmente il loro oggetto, mettendo in luce aspetti che magari di per sé appaiono inconfutabili, ma che possono invece risultare parziali e devianti rispetto a un discorso culturale più articolato, a una rete di relazioni più complessa. Ora, la conoscenza fra Schiller ed Erhard risale al , le testimonianze più consistenti del loro scambio intellettuale si ricavano dalla loro corrispondenza, che si fa particolarmente intensa fra il  e il  per interrompersi poi definitivamente nel . Interpretare il carteggio significa non solo ricostruire il dialogo a distanza dei corrispondenti, ma anche metterlo in relazione coi loro percorsi paralleli (in primo luogo le Lettere sulla educazione estetica di Schiller e Sul diritto del popolo alla rivoluzione di Erhard) e quindi calare a sua volta quel dialogo in un fittissimo intreccio di relazioni, incontri, avvenimenti. La storia del loro rapporto appartiene infatti a pieno titolo a quella notevolissima costellazione culturale che inizia a delinearsi a Jena in quello che è stato definito il «prodigioso» , appartiene a quel contesto culturale, a quei nodi problematici. A sua volta quel contesto può apparire in una luce diversa se si considera pure il contesto in cui si muove Erhard, la sua speculazione filosofica, come la sua teoria giuridica e le sue aspirazioni politiche. Come si vedrà, gli esiti di questa operazione sono sorprendenti: si potrà infatti per la prima volta far luce su avvenimenti assai rilevanti nella elaborazione delle Lettere sulla educazione estetica e quindi capire meglio che cosa intendesse davvero Schiller, sostenendo che la sua «professione . T. Ziolkowski, Das Wunderjahr in Jena. Geist und Gesellschaft -, Klett-Cotta, Stuttgart , p. .

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di fede politica» era contenuta nelle prime nove lettere. Se è vero che in quel testo si mette in atto una «politicizzazione della estetica e una estetizzazione della politica», indagare il rapporto con Erhard può rivelarsi un’occasione propizia per ricostruire come si viene delineando quella strategia di Schiller e offrire qualche ragione in più per intenderne il significato.  Per comprendere in quali circostanze matura il consiglio dato da Schiller all’amico giacobino, è necessario fare un passo indietro rispetto alla data di composizione della lettera e considerare alcuni avvenimenti occorsi nel mese precedente, così come le loro più immediate e per certi versi fatali conseguenze nei mesi successivi. Il  maggio  Schiller aveva lasciato Stoccarda dopo un fruttuoso soggiorno di due mesi in Svevia. In carrozza da Stoccarda lo accompagna Erhard, che si congeda a Würzburg per raggiungere Norimberga. Schiller prosegue per Jena, da dove scrive all’amico la lettera citata in apertura. Difficile non pensare che il tono della lettera sia strettamente legato alle conversazioni che i due hanno avuto modo di fare durante il tragitto in comune. Di che cosa avranno parlato? Sicuramente di Fichte. A Zurigo, infatti, poche settimane prima, a fine aprile, Erhard ed Herbert, avevano fatto la conoscenza di Lavater e avevano quindi potuto assistere a casa sua alle ultime lezioni del privatissimum allora tenuto da Fichte. È una anteprima di alcuni temi della Wissenschaftslehre, che il filosofo approfondirà di lì a poco a Jena nel semestre estivo, quando succederà alla cattedra di Reinhold. E come tale viene intesa anche dai kantiani presenti. Erhard intuisce subito in che direzione si stia muovendo Fichte e quindi le insidie di una filosofia orientata sul modello di una deduzione da un principio superiore. Sono perplessità, dubbi, obiezioni che difficilmente avrà taciuto nelle conversazioni con Schiller e che, come si vedrà, saranno uno dei temi del loro successivo scambio epistolare. Anche senza azzardare troppo sul terreno della indagine psicologica, basta tener conto anche solo di alcune testimonianze di terzi per immaginarsi il rapporto di profonda stima e confidenza instauratosi fra Schiller ed Erhard. Baggesen, che tanto si era speso per procurare il sostegno dell’Augustenburg, scrive, ricordando alcuni giorni passati insieme a Norimberga . Cfr. l’importante contributo di P.-A. Alt, “Arbeit für mehr als ein Jahrhundert”. Schillers Verständnis von Ästhetik und Politik in der Periode der Französischen Revolution, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLVI, , pp. -. . «Schiller ti racconterà del nostro viaggio insieme»; cfr. la lettera di Erhard a Niethammer ( maggio ) in F. I. Niethammer, Korrespondenz mit dem Klagenfurter Herbert-Kreis, hrsg. v. W. Baum, unter Mitarbeit von U. Wiegele, C. Prainsack, Turia und Kant, Wien , p. .

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nell’agosto del : «Schiller ed Erhard sono molto legati e passano molto tempo insieme» (NA, XLII, p. ). Risale all’inverno - una lettera, molto eloquente in proposito, di Charlotte Schiller a Erhard: «Sarebbe una gioia grandissima per Schiller, se potesse avervi spesso accanto, ha bisogno di avere vicino a sé persone di valore, menti aperte, qualcuno che lo comprenda, che lo arricchisca attraverso lo scambio di idee, in breve: ha bisogno di qualcuno come voi. Spesso abbiamo pensato che sarebbe bellissimo, se poteste vivere a Jena. Potreste esercitare come medico». Nulla fa pensare che anche durante il viaggio in comune Erhard non si sia pienamente confidato con Schiller, che non gli abbia anche questa volta raccontato tutto, delle sue aspirazioni politiche, come di tutti i suoi recenti incontri. Fichte, in effetti, lo ha rivisto anche di passaggio a Stoccarda. Ma all’albergo Römischer Kaiser di Stoccarda Erhard ha fatto anche altri incontri, che presto si riveleranno fatali: ha incontrato, infatti, Andreas Riedel. Matematico, precettore a Firenze dei figli del futuro imperatore Leopoldo II e da lui assai stimato, Riedel sta compiendo un viaggio privato accompagnato dal giovane Leopold conte di Hohenwart. Appena rientrato a Vienna, nella notte del  luglio, Riedel viene denunciato e arrestato quale giacobino. Con lui numerosi suoi amici, Hohenwart compreso, in tutto trentasei persone. L’accusa è quella di alto tradimento e lesa maestà. Riedel è considerato l’anima e la mente del gruppo. Inizia così una violentissima campagna di repressione contro i gruppi radical-democratici da parte del governo di Vienna, una campagna che non avrà eguali in tutta la Mitteleuropa. Riedel rappresenta il caso forse più clamoroso, ma a Vienna e in altre regioni dell’impero se ne registrano altri analoghi: spesso ad alimentare i gruppi giacobini sono infatti i fedeli servitori dello Stato, gli ex funzionari, l’intelligenza critica ormai delusa che si era formata sul campo attraverso le riforme giuseppine e leopoldine. Nell’ottica del governo austriaco e del nuovo imperatore Francesco II e nella pubblicistica reazionaria del tempo (e questo vale in linea di massima anche per gli stati territoriali tedeschi), ogni tipo di opposizione viene senz’altro definita “giacobina”, cosicché vengono a confondersi tutte le differenziazioni, a volte rile. Von Ense, Denkwürdigkeiten, cit., p. . . Su Riedel: H. Reinalter in Neue Deutsche Biographie, vol. , Duncker und Humblot, Berlin , p. ; A. Körner, Andreas Riedel. Ein politisches Schicksal im Zeitalter der Französischen Revolution, Diss., Köln . . Merker, Alle origini della ideologia tedesca, cit., pp. , , . La maggior parte dei giacobini tedeschi emigrano o tacciono rassegnati, i viennesi vengono processati: Körner, Die Wiener Jakobiner, Metzler, Stuttgart , p. . . Cfr. H. Reinalter, Österreich und die französische Revolution, Österreichischer Bundesverlag, Wien , cita casi analoghi in Ungheria, Boemia, Stiria, Carinzia e Carnia, nell’alta Austria e in Tirolo (pp. -).

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vanti, fra le forze di ispirazione liberal-democratica. I processi ai giacobini viennesi durano un anno. Gli interrogatori degli arrestati iniziano il  agosto . Nei protocolli degli interrogatori il nome di Erhard ricorre parecchie volte. In una delle deposizioni di Riedel si legge tra l’altro: «A tavola Erhard non parlava tanto chiaramente, come dà a intendere Hohenwart, ma certo uscendo, per le scale o in strada, non mi ricordo, ma nel buio più pesto e nell’orecchio, mi ha detto di essere un seguace del più schietto giacobinismo». Avrebbe anche aggiunto di avere ottimi contatti in Austria, con il barone von Herbert a Klagenfurt, con altri amici ispirati dagli stessi ideali, e avrebbe pure annunciato l’intenzione di recarvisi presto. Così il nome di Erhard, insieme a quello di Herbert, finisce annotato sul taccuino di Riedel. La polizia imperiale apre una inchiesta su di lui. È stato giustamente osservato che nella monarchia absburgica non era stata la filosofia dell’illuminismo a invocare le riforme, ma al contrario era stata la prassi riformatrice dei sovrani illuminati a metterle in moto. Ma ora, in una prospettiva politica profondamente mutata, è la filosofia dell’illuminismo, in particolare quella di Kant, a destare sospetto. A Klagenfurt, il circolo intorno a Herbert in effetti era stato controllato dalla polizia fin dal . La notizia degli arresti a Vienna circola evidentemente con molta rapidità: già il  agosto, Erhard scrive da Norimberga in una lettera indirizzata a Niethammer a Jena: «Evito Vienna finché la crisi attuale non sarà superata». . La definizione del giacobinismo tedesco è stata questione assai controversa. Fra i testi tuttora di riferimento: H. Scheel, Süddeutsche Jakobiner. Klassenkämpfe und republikanische Bestrebungen im deutschen Süden am Ende des . Jahrhunderts, Akademie-Verlag, Berlin ; W. Grab, Leben und Werk norddeutscher Jakobiner, Metzler, Stuttgart ; I. Stephan, Literarischer Jakobinismus in Deutschland (-), Metzler, Stuttgart , specialmente pp. -. Fra i contributi più recenti: S. Tull, Die politischen Zielvorstellungen der Wiener Freimaurer und Wiener Jakobiner im . Jahrhundert, Lang, Frankfurt a.M.-BerlinBern , sull’influsso di Erhard sui giacobini viennesi: pp. -. Riprende le tesi di J. Droz (L’Allemagne et la révolution française, Paris ), tentando di distinguere le posizioni radicali da quelle liberali e criticando un concetto di giacobinismo ricalcato su quello francese, W. Reinbold, Mythenbildung und Nationalismus. Deutsche Jakobiner zwischen Revolution und Reaktion (-), Lang, Bern-Berlin-Frankfurt a.M. . Con una buona panoramica sulle diverse linee interpretative: O. Lamprecht, Das Streben nach Demokratie, Volkssouveränität und Menschenrechten in Deutschland am Ende des . Jahrhunderts. Zum Staats- und Verfassungsverständnis der deutschen Jakobiner, Duncker und Humblot, Berlin . Lamprecht valorizza l’eredità ideale del giacobinismo tedesco per le costituzioni del XX secolo. Anche in Italia, nel cosiddetto “triennio giacobino”, la definizione di giacobino è dettata dall’alto: cfr. E. Leso, Il lessico della Rivoluzione francese, Verona . . Cfr. i protocolli degli interrogatori riportati in Erhard, Über das Recht des Volkes, cit., p. . . Ivi, p. . . Baum, Die Aufklärung in Jena und die Jakobiner in Österreich, cit., p. . . Niethammer, Korrespondenz, cit., p. .

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 La più violenta campagna di repressione contro i gruppi radical-democratici messa in atto dal governo di Vienna, una campagna che ipotizza una rete ramificata in tutti i territori dell’impero: a guardare le persone che vi sono a vario titolo coinvolte, si va da Jena a Norimberga, da Stoccarda a Klagenfurt a Lubiana, fino a Trieste. È questo dunque lo sfondo sul quale interpretare il carteggio fra Schiller ed Erhard. Uno sfondo che Schiller non ignora affatto. Presumibilmente non ne è informato solo attraverso l’amico, ma deve disporre anche di altre fonti, visto che l’ settembre  scrive a Erhard a Norimberga: «Da poco ho saputo che siete ancora a Norimberga e lo spero con tutto il cuore perché la situazione attuale in Austria non è molto favorevole. Nutro grandi timori per lo stesso Herbert, perché un uomo come lui ovviamente deve essere una spina nel fianco per gli amici delle tenebre» (NA, XXVII, p. ). Insomma, il consiglio di rimanere nella «serena regione delle idee» è tutt’altro che genericamente legato al «rifiuto della attualità politica» (NA, XXI, p. ), come pure si legge nel commento della Nationalausgabe che lo cita a proposito delle Lettere sull’educazione estetica. È invece un avvertimento preoccupato, con connotazioni assai precise, pragmatiche, riferito a una specifica situazione. Ed è contenuto in una lettera in cui Schiller offre a Erhard anche l’occasione di intensificare il loro rapporto invitandolo a collaborare alla sua nuova rivista, le “Horen”. Erhard, il giacobino Erhard, non è però un collaboratore qualsiasi, ma diventa un interlocutore assolutamente prezioso, in qualche caso privilegiato, su alcune questioni cruciali per la ricerca intellettuale che Schiller allora sta svolgendo. Per capirlo basta rileggere il loro dialogo a distanza nelle lettere che si scambiano in quei mesi, tenendo ben presente in quali costellazioni esso si dispiega. Uno dei temi da cui prende avvio la corrispondenza pare una estemporanea disquisizione giuridica: il  ottobre , Schiller chiede a Erhard di giustificare meglio la sua posizione in merito al diritto di proprietà. Sembra una richiesta anodina, assolutamente occasionale. In realtà si tratta di un indicatore significativo del dialogo a tutto campo in corso fra i due corrispondenti e dei nessi strettissimi di quel dialogo con la riflessione politico-giuridica del momento. Non è questo il momento per approfondire gli spunti di una teoria dei diritti sociali in Erhard, né per valutare la loro importanza . Su Herbert: Neue Deutsche Biographie, vol. , Berlin , p. . Ulteriori informazioni (pure sui suoi contatti con Reinhold, Niethammer, Baggesen, Fernow, Pestalozzi) in W. Baum (hrsg.), Weimar – Jena – Klagenfurt. Der Herbert-Kreis und das Geistesleben Kärntens im Zeitalter der Französischen Revolution, Turia und Kant, Klagenfurt , pp. -; Manfred Frank lo nomina in relazione a Novalis: Frank, “Unendliche Annäherung”, cit., pp. . Su Herbert una testimonianza di Caroline von Beulwitz dell’inverno  (NA, XLII, p. ).

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per la successiva trattazione del diritto naturale da parte di Fichte. Per ora è ben più interessante notare che Schiller incalza su quel punto perché esso rientra a pieno titolo nel complessivo progetto giuridico-politico che Erhard sta portando avanti. La parte iniziale di quel progetto, Die Idee der Gerechtigkeit als Prinzip einer Gesetzgebung betrachtet (L’idea di giustizia come principio della legislazione), sarà pubblicata nel settimo fascicolo delle “Horen” del . Si sa che sono questi gli interessi primari di Erhard, interessi che, non solo, come ci si può immaginare, non possono non essere in qualche modo legati alla sua prassi politica, ma che sono pure inscindibili dalla sua riflessione filosofica. Una riflessione i cui esiti a Schiller premono molto. Da Jena, egli non manca di tener informato l’amico sull’evoluzione del dibattito filosofico: «Fichte svolgerà un ruolo decisivo nella filosofia, ma la sua strada costeggia un abisso. È necessaria ogni possibile vigilanza per non cadervi» (NA, XXVII, p. ). Il  ottobre Erhard risponde alle obiezioni di Schiller sul diritto di proprietà. Ma non si limita a questo: si tratta di una lettera estremamente densa, di recente giustamente riconosciuta come un documento importantissimo per comprendere il percorso intellettuale di Erhard, che qui va considerata anche in relazione al significato di quel percorso per Schiller: Nell’insieme il sistema di Fichte può anche non differire tanto dal mio, solo che io, come le antiche navi che non possedevano la bussola, mi oriento sempre, senza allontanarmene volentieri, guardando alle coste della storia e della esperienza e del mio sentimento. Dubito molto che la filosofia possa mai possedere una bussola. Credo che dobbiamo sempre tirare una linea meridiana dalla nostra natura morale e che non possiamo mai dispensarci da questa operazione. Sono convinto che la natura morale sia l’unico principio universalmente valido e che ci avviciniamo sempre solo alla verità sulla via della veracità. [...] la filosofia come guida nella vita non può essere requisita da un uomo solo. L’unica cosa che forse si può portare a compimento è una teoria della legislazione perché può essere interamente dedotta dalla natura morale dell’uomo, e se questo accade sarà creduto, solo in ciò che si crede, non in ciò che si sa, si può cercar la concordia (NA, XXXV, p. ). . Sulla deduzione del diritto di proprietà in Fichte, sull’influsso di Erhard in merito, così come sul significato del diritto di proprietà per lo sviluppo dei diritti sociali: S. Colbois, A. Perrinjaquet, Recht zur Aufklärung und Sozialrechte. Zu J. B. Erhards Theorie der Menschenrechte, in M. Buhr (hrsg.), Das geistige Erbe Europas, Vivarium, Napoli , pp. -; sull’influsso di Erhard nei Grundlagen des Naturrechts di Fichte: R. Schottky, Untersuchungen zur Geschichte der staatsphilosophischen Vertragstheorie im . und . Jahrhundert, Rodopi, Amsterdam-Atlanta , specialmente pp. -; A. Perrinjaquet, Il ruolo di G. B. Erhard nell’evoluzione della teoria della proprietà di Fichte dal  al , in J. G. Fichte, Pensiero trascendentale ed emergenze etiche, Napoli  (atti del Convegno organizzato nel novembre  dalla Università Federico II di Napoli e dall’Istituto italiano di studi filosofici).

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Erhard non ha mai nascosto lo scarso piacere, per non dire la sua difficoltà, ad argomentare per iscritto, ha sempre privilegiato la discussione e il contatto vivo con i suoi interlocutori. Non è del tutto agevole addentrarsi nel suo stile apodittico, ricostruire sistematicamente le sue posizioni filosofiche, perlopiù espresse in forma rapsodica in diverse recensioni e nell’epistolario. Secondo Erhard, e molti dei suoi sforzi fin dall’inizio della sua ricerca filosofica attraverso il confronto con Reinhold erano andati in questa direzione, il metodo della filosofia speculativa doveva essere l’analisi. Le idee, come spiegava poi a Niethammer, «sono da noi riconosciute come a priori in noi, ma noi non le conosciamo a priori, ma in modo analitico». Non si può partire da principi primi, le proposizioni della filosofia speculativa non possono essere scelte. Il rischio che si corre partendo da un fondamento dato a priori è quello di costruire un sistema, ma non di conoscere quello reale, di produrre una conoscenza all’apparenza rigorosa ma fantasmatica, di commettere insomma l’errore che sta commettendo Fichte. È l’illusione, come dirà in una lettera a Herbert, di poter arrivare alla verità semplicemente come «si tira il filo dipanandolo da un gomitolo». Se questo all’ingrosso è lo sfondo teorico-metodologico che si può ricostruire in base alle fonti, si capisce l’importanza delle affermazioni contenute nella lettera a Schiller. Così come, d’altra parte, si capisce bene quanto Erhard abbia condizionato e corroborato la resistenza di Schiller nei confronti delle speculazioni idealistiche. Non esiste la bussola nella filosofia, il compito del filosofo, ma anche di ogni uomo che voglia davvero comportarsi come tale, è tenere la rotta dell’esperienza orientandosi sulla legge morale, senza dimenticare quello che per Erhard rimane il significato autentico e complessivo dell’insegnamento di Platone e Kant, e cioè che la verità della filosofia sta nell’evidenza del principio morale. Lo statuto eccezionale, la inattaccabilità e il guadagno conoscitivo della teoria della legislazione sono dati dal fatto che il principio da cui essa viene derivata è il principio della natura morale dell’uomo – quel principio kantiano che non può essere né dimostrato, né confutato, né a rigore conosciuto, ma è solo una evidenza che va accettata. In realtà, Erhard concepisce in modo molto ampio la tesi per cui l’intera filosofia si deve orientare a quel principio. In una lettera scritta qualche mese dopo a Forberg, Erhard parla in questi termini di un suo progetto filosofico: «C’è una vera filosofia che non può essere spiegata in pubblico», e aggiunge che sarà . Henrich, Grundlegung aus dem Ich, vol. II, cit., pp. -. . Niethammer, Korrespondenz, cit., p. . . Molto dettagliato sul punto: Henrich, Grundlegung aus dem Ich, vol. II, cit., pp. -. . Erhard, Über das Recht des Volkes, cit., p. .

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un’opera in cui la filosofia kantiana non verrà presentata come sistema, ma come «incomprensibile accordo fra intimi amici».  È sicuramente un dialogo a distanza fra amici anche quello che si sta svolgendo fra Erhard e Schiller. Non si può dubitare dell’esistenza di una intesa profonda, leggendo ad esempio lo schizzo con cui si conclude la lettera del  ottobre. A Schiller, che gli annunciava di lavorare alle Lettere sulla educazione estetica, Erhard risponde infatti con alcune considerazioni che sembrano anticipare la visione dello stato estetico poi evocato nelle ultime pagine del trattato schilleriano. Ma il dato in assoluto più sorprendente è un altro: e cioè il modo in cui Schiller, il  ottobre , aveva parlato all’amico di quel suo lavoro: «Troverete nel primo numero della rivista [le “Horen”] un mio saggio sulla educazione estetica dell’uomo, in cui [...] c’è anche qualcosa che consegno al cuore del mio amico Erhard» (NA, XXVII, pp. -). Che il confronto con la Rivoluzione francese sia stato uno degli spunti essenziali nella genesi delle Lettere sull’educazione estetica è cosa fin troppo nota e innegabile. Così come è noto che le Lettere sono un testo estremamente complesso, con tutte le oscillazioni terminologiche e le ambiguità concettuali di un work in progress. Ma è ormai difficile accontentarsi delle interpretazioni che lo leggono come una estetica della compensazione, in cui il postulato della autonomia del bello, come modello di libertà, si riduce a un surrogato idealistico della rivoluzione. Una estetica fondata sul principio dell’autonomia dell’arte non per questo è impolitica, non così in questo testo di Schiller. Non solo, come è stato giustamente rilevato, tra il principio della autonomia politica e quello della autonomia estetica esiste una relazione di reciprocità, nel senso che la seconda è difficilmente pensabile senza il presupposto concettuale della prima. La insistita metaforica politica presente nelle Lettere rimanda a un orizzonte sociale, intenzionalmente sottaciuto, rispetto al quale si definisce il contrappeso costituito dal progetto estetico. E una modalità significativa per intendere questa relazione fra politica ed estetica; una modalità finora non indagata è rappresentata dal caso di Erhard. Non sono solo gli eventi rivoluzionari . Cfr. la lettera di Erhard a Friedrich Karl Forberg, anche lui conosciuto a Jena e frequentatore del circolo di Herbert a Klagenfurt, del  agosto . È citata in K. Forberg, Fragmente aus meinen Papieren, Jena , p. . . Cfr. P.-A. Alt, Schiller. Leben – Werk – Zeit, Beck, München , vol. , p. . . Cfr. Alt, “Arbeit für mehr als ein Jahrhundert”, cit. . Borchmeyer, Ästhetische und politische Autonomie: Schillers Ästhetische Briefe im Gegenlicht der Französischen Revolution, cit., pp. , .

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in Francia a rappresentare «la scena sulla quale si tiene il processo sull’uomo moderno e le sue prospettive di azione». Il progetto della educazione estetica, il confronto con la prassi rivoluzionaria e il suo contenuto ideale, conosce anche una occasione specifica, guarda a uno sfondo non esplicitato, ma molto prossimo e preciso, storicamente ricostruibile: l’attività politica e intellettuale di Erhard e il suo coinvolgimento nei processi ai giacobini di Vienna. Basta rileggere con attenzione le Lettere sull’educazione estetica, in particolare la nona, una lettera fondamentale nell’economia complessiva dello scritto, il culmine dialettico con cui si conclude la prima sezione del testo pubblicata sulle “Horen”. In quella unica lettera, ad un certo punto al posto del “voi” subentra il “tu”. Ad un tratto, il destinatario non è più il principe di Augustenburg, il nobile mecenate illuminato. Dandogli del tu, l’autore si rivolge adesso «a un giovane amico della verità e della bellezza». Ed ecco come quel giovane amico viene presentato: Troppo impetuoso per procedere attraverso questo mezzo tranquillo, il divino impulso formativo spesso si precipita senza indugio sul presente e sulla vita attiva, incaricandosi di trasformare l’informe materia del mondo morale. Incalzante parla all’uomo sensibile l’infelicità del genere umano; ancor più incalzante gli parla la sua degradazione; l’entusiasmo si infiamma e nelle anime forti l’anelito fervido tende, impaziente, all’azione. Ma egli si è chiesto se questi disordini nel mondo morale offendono la sua ragione, o non piuttosto il suo amor proprio ? Se ancora non sa darsi una risposta, la riconoscerà dallo zelo con cui egli preme per conseguire determinati e affrettati effetti (NA, XX, pp. -).

Non è difficile ricondurre questo passo al ritratto intellettuale del giovane medico e filosofo giacobino che con troppa precipitazione in un albergo di Stoccarda tradisce la sua voglia di cambiare il mondo, mettendo così in grave pericolo se stesso e i suoi amici in Austria. Senza dubbio si tratta di una fenomenologia psicologica e intellettuale che Schiller conosce bene, è la impazienza della «ragione che nella sua limitatezza si abbrevia la strada, semplifica il suo compito» (NA, XXII, p. ). È la stessa trappola in cui Schiller drammaturgo aveva fatto cadere il marchese di Posa, uno dei personaggi più affascinanti del suo teatro. Ma se Posa rimane un eroe tragico e nel dramma il suo sacrificio salva in negativo i suoi ideali, ora Schiller teorico individua anche altre soluzioni. «Come può nobilitarsi il carattere sotto le influenze di una barbarica costituzione politica?», con questo interrogativo si apre la nona lettera. Co. D. Borchmeyer, Schillers Idee der ästhetischen Erziehung, in H. Brackert, F. Wefelmeyer (hrsg.), Naturplan und Verfallskritik, Suhrkamp-Fischer, Frankfurt a.M. , pp. ; cfr. Alt, “Arbeit für mehr als ein Jahrhundert”, cit., p. .

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me preservare l’impulso a realizzare il proprio ideale, come nobilitarlo ed educarlo, come evitare che si dispieghi in modo assoluto e totalizzante, e pure – ed è anche questo il punto – come evitare che sia conculcato e represso dalle leggi di un ordine politico (una costituzione barbarica) che lo osteggia? «Per questo scopo si dovrebbe di conseguenza cercare uno strumento non fornito dallo Stato e scoprire fonti che restino pure e limpide nonostante tutta la corruzione politica. [...] Questo strumento è l’arte bella, queste fonti si schiudono nei suoi modelli immortali» (NA, XX, pp. -). Come si diceva, la nona è una lettera particolarmente significativa. In larga parte si distacca infatti dal tono saggistico e dalla esplicazione teoricofilosofica, conclude la critica della cultura della condizione dell’uomo moderno contenuta nella prima sezione, anticipando l’assunto fondamentale dello scritto, poi ampiamente sviluppato nelle altre due seguenti sezioni. Ma ora quell’assunto fondamentale è enunciato significativamente in termini che risentono dei diversi contesti, dei diversi interlocutori che Schiller in quella stessa lettera ha evocato. «L’arte, come la scienza, è dispensata da tutto quanto è positivo e introdotto da convenzioni umane; entrambe godono di una immunità assoluta dall’arbitrio degli uomini. Il legislatore politico può dichiarare bloccato il loro territorio, ma non può dominare al suo interno» (NA, XX, p. ). La tesi di fondo della autonomia dell’arte (e quindi in quanto tale della sua portata pedagogica e politica) viene espressa attraverso una metaforica politico-giuridica. Non si parla di autonomia, ma di immunità, quindi di garanzia, di tutela giuridica, di privilegio. Una scelta linguistica che non può non essere consapevole, dato che Schiller scrive la parola immunità in corsivo nel testo, una scelta che riverbera di particolari connotazioni l’assunto stesso. L’educazione estetica non punta a prevenire la rivoluzione, o a renderla superflua, vale a promuovere, e in primo luogo a proteggere, attraverso la sua immunità le aspirazioni e gli sforzi di chi auspicherebbe una trasformazione politica e perciò si trova in pericolo. Si capisce meglio ora il senso del consiglio che Schiller aveva a suo tempo impartito a Erhard. Si capisce ciò che intende mettergli nel cuore. In questo momento non si tratta semplicemente di astenersi dall’azione politica per rivolgersi alla serena regione delle idee. Ora si tratta piuttosto di come agire, di agire cioè nella unica sfera di libertà possibile, quella che deve essere garantita per privilegio esclusivo all’arte e alla scienza. La sfera in cui, a dispetto della «costituzione barbarica dello Stato», è possibile continuare ad agire senza correre alcun pericolo. La statuto di immunità dell’arte dagli interventi del potere politico viene ulteriormente rafforzato attraverso gli attributi che caratterizzano i compiti dell’artista. Descritto con un pathos che forse non è solo artificio retorico, il suo ritratto ideale precede nel testo quello intellettuale di 

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Erhard, ne è il modello, il correttivo. Il distacco dalla contemporaneità, la ricezione creativa dell’antico e dei suoi modelli, la prospettiva di lungo periodo, l’esclusività dell’arte, l’orientamento all’ideale, che si delineano in tutta la trattazione, si ritrovano anche in tutta la lettera nona. Ma qui il programma dell’autonomia della prassi estetica, la sua separatezza ostentata dallo spirito del tempo, la sua chiusura esclusiva rispetto all’attualità politico-sociale, lascia intendere una tensione rispetto a quella sfera, uno spirito di resistenza garantito dalla sua immunità che rimanda forse di nuovo indirettamente a contesti molto attuali e contingenti. La lettera infatti si conclude indirizzandosi a un destinatario finzionale che certamente non è l’Augustenburg. «A un giovane amico della verità e della bellezza che da me voglia sapere come appagare il nobile impulso vivo nel suo cuore nonostante tutta la resistenza del secolo, risponderò dunque: al mondo sul quale agisci imprimi la direzione verso il bene e il quieto ritmo del tempo porterà lo sviluppo» (NA, XX, p. ).  Ma come reagisce il «giovane amico della verità e della bellezza» agli inviti che gli sono rivolti? A leggere le lettere di Erhard a Schiller nei primi mesi del  parrebbe che la sua attività si configuri in una perfetta armonia di intenti e di realizzazioni con le proposte ricevute. In realtà, in quegli stessi mesi Erhard si è impegnato a fondo nella stesura di quello che resterà il suo unico libro, Über das Recht des Volkes zu einer Revolution. È un contributo, senz’altro il suo più originale, che rientra nel progetto complessivo della sua teoria del diritto. È vero che questa non è stata realizzata sistematicamente, ma alcuni dei suoi lineamenti essenziali si possono in parte ricavare indirettamente dai diversi articoli sparsi pubblicati da Erhard. La determinazione del principio formale della legislazione, presentata a Schiller anche come trattazione platonica, compare con il titolo L’idea di giustizia sulle “Horen”, integrata poi da una prosecuzione sul “Philosophisches Journal” edito da Niethammer, dove appare anche la discussione della legislazione nel principio materiale che le si contrappone con il titolo Apologia del diavolo. In un ritratto autobiografico del  Erhard stesso rivelava in parte i nessi fra alcuni dei suoi lavori, parlando proprio della Apologia del diavolo: . G. Seiderer, Formen der Aufklärung in fränkischen Städten. Ansbach, Bamberg und Nürnberg im Vergleich, Beck, München , p. ; Z. Batscha, Johann Benjamin Erhards politische Theorie, in “Jahrbuch des Instituts für Deutsche Geschichte”, , , pp. -; A. Perrinjaquet, Introduction, in Erhard, Du droit du peuple à faire la révolution et autres écrits de philosophie politique (-), cit., pp. -.

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Scelsi questo travestimento per vedere se i recensori sarebbero stati capaci di distinguere la confezione dal contenuto. Constatai che non lo erano stati. Sullo stesso Journal [di Niethammer] si legge la discussione sul principio materiale della legislazione e sulla innocenza. Al saggio sulla innocenza, ovvero sulla volontà soggetto attraverso la natura alla legislazione, doveva seguire un secondo sulla corruzione, ovvero sulla volontà indignata attraverso la natura contro la legislazione.

Non viene menzionato l’unico libro che ha scritto, una auto-censura certamente motivata da ragioni di prudenza. Ma visto il gusto del travestimento dichiarato da Erhard, non è improbabile che il pendant del saggio sulla innocenza sia costituito appunto dal Diritto del popolo alla rivoluzione. «La volontà indignata attraverso la natura contro la legislazione» può essere in effetti facilmente ricondotta alla natura morale dell’uomo, la cui offesa da parte dell’ordine giuridico vigente rende legittimo il rivolgimento del medesimo. E questa è infatti la tesi sostenuta da Erhard nel suo libro, l’esplicito fondamento teoretico di un diritto ultrapositivo, addirittura di un dovere morale a compiere una rivoluzione. Il suo è un contributo assai originale nel dibattito estremamente ampio e articolato sul diritto di resistenza in Germania. Il dibattito, che indirettamente affrontava il tema della rivoluzione, aveva preso avvio da un celebre intervento di Kant del , il quale aveva contestato la legittimità di ogni rivolta contro il potere statale. Evitando accuratamente ogni riferimento alle occasioni storico-politiche delle rivoluzioni, il testo di Erhard si muove ad un altissimo livello di astrazione, secondo una metodologia della fondazione analitica abbozzata nei suoi contributi strettamente filosofici. Rigettando lo schema tipico delle dottrine giusnaturalistiche moderne, i diritti umani non sono fatti discendere da un ipotetico contratto originario, ma vengono derivati attraverso un procedimento di deduzione logica dal postulato, kantiano, per cui l’uomo deve essere trattato come persona e il carattere della persona consiste nella Selbstbestimmung aus Einsicht. Il diritto naturale viene così interpretato come il punto di arrivo del diritto positivo e non viceversa. Certo, si possono pure ipotizzare situazioni in cui un progressivo processo di rischiaramento consenta al popolo di raggiungere la piena conoscenza dei diritti umani e quindi la capacità di farli valere. E questa precisazione può spiegare come Kant, che pure escludeva ogni rivolgimento dell’ordine giuridico vigente, abbia potuto ricordare Erhard nel Conflitto delle facoltà del . Von Ense, Denkwürdigkeiten, cit., p. . . Sul dibattito sempre fondamentale M. Stolleis, Staatsraison, Recht und Moral in philosophischen Texten des . Jahrhunderts, Meisenheim a.G. , p. . . Henrich, Grundlegung aus dem Ich, cit., pp. -. . Erhard, Über das Recht des Volkes, cit., p. .

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. Ma l’affermazione di fondo in tutta la sua radicalità resta: la rivoluzione è un diritto, anzi a volte un dovere. Il libro esce a Jena e a Lipsia nel febbraio ; a metà maggio viene confiscato in Kursachsen, in luglio in Baviera, in settembre in Austria. «Vedrete quanto concordiamo», aveva scritto Erhard a Schiller, dopo aver letto la prima sezione dei Briefe. Ma non pare che la lettera nona sia stata davvero recepita dal suo destinatario cifrato. L’impulso ad agire impazientemente sul presente non è venuto meno: il libro non esce anonimo, riporta il nome del suo autore e, per di più, doveva essere dedicato a Herbert. Che, date le circostanze, si tratti di una mossa estremamente azzardata, non ci vuole molto a capirlo. Lo fa intendere, tra l’altro, lo stesso Herbert, il quale solo due anni dopo si arrischia a chiederne conto all’amico: «Perché hai posto il tuo nome su uno dei tuoi scritti? Come mai non hai potuto prevedere che questo atto avrebbe compromesso i tuoi amici?» . L’azzardo è ancora più evidente alla luce dell’andamento dei processi a Vienna. Fin dall’inizio degli interrogatori, l’imperatore Francesco II aveva puntato a una punizione esemplare e insistito per la pena capitale, tentando di sottrarre gli imputati al tribunale ordinario. La posizione di uno degli imputati in quanto ufficiale dell’esercito viene stralciata dal procedimento e il giudizio demandato al tribunale militare. Hebenstreit, tale il suo nome, viene impiccato con una esecuzione pubblica, che vuole statuire un esempio deterrente, l’ gennaio . Intanto i processi proseguono. Alla fine di aprile, nel corso di una perquisizione compiuta a Klagenfurt in casa di Herbert vengono confiscate diverse lettere, fra le quali una di Schiller, che così finirà nell’archivio della polizia imperiale a Vienna. Nel corso di quelle indagini Herbert stesso verrà arrestato e interrogato. Il  maggio  Erhard informa anche Niethammer che Herbert lo ha pregato attraverso terzi di non scrivergli fino a nuovo avviso. I processi si concluderanno a luglio, le condanne saranno pesanti: lunghi anni di carcere per tutti, carcere a tempo indeterminato per il giovane Hohenwart, sessant’anni di carcere duro per Riedel.

. Entrambi escludono un diritto positivo alla rivoluzione. A. Perrinjaquet afferma, non senza ragione, che sul punto la distanza fra Kant ed Erhard è minore di quel che appare (Introduction, cit., p. ). . Von Ense, Denkwürdigkeiten, cit., p. . . Reinhalter, Österreich, cit., p. . . W. Goldinger, Kant und die österreichischen Jakobiner, in H. Fichtenau, E. Zöllner (hrsg.), Beiträge zur neueren Geschichte Österreichs, Böhlau, Wien-Köln-Graz , pp. ; W. Baum, Die Aufklärung in Jena und die Jakobiner in Österreich, cit., pp. -. . Niethammer, Korrespondenz, cit., p. . . Körner, Die Wiener Jakobiner, cit., pp. -.

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 Gli sviluppi dei processi ai giacobini viennesi non sono ignoti in Germania e nei circoli vicini a Schiller. In una lettera, ad esempio, Baggesen riferisce costernato della esecuzione di Hebenstreit. Il pericolo non è affatto cessato, anzi. Schiller non può non esserne consapevole. E nella lettera a Erhard del  maggio  si legge l’ultimo avvertimento di Schiller: Mi ha fatto molto piacere, carissimo, notare che il vostro modo di pensare si è intonato alle note moderate che i vostri recenti scritti indiscutibilmente dimostrano. Un poco alla volta, penso che dovreste ritirarvi del tutto dal campo del cosmopolitismo pratico per stringervi con il vostro cuore a coloro che vi stanno accanto, mentre vivete con il vostro spirito nel mondo dell’ideale. Acceso all’idea della umanità, buono e umano nei confronti della singola persona, e indifferente nei confronti del genere umano, come esso veramente è – questo è il mio motto (NA, XXVII, p. ).

Forse non si sbaglia ad avvertire una iniziale sfumatura ironica. Erhard glielo ha taciuto, ma è abbastanza improbabile che Schiller ignori la avvenuta pubblicazione del Diritto del popolo alla rivoluzione. E già solo il titolo del volume suona provocatorio. Se Schiller credesse davvero alla prudenza di Erhard non avrebbe poi bisogno di ribadire ancora una volta ciò che in sostanza gli ha già consigliato un anno prima, ciò che in termini analoghi ha pubblicamente cifrato nella nona lettera sull’educazione estetica e, soprattutto, di chiamare ora le cose con il loro nome: cosmopolitismo pratico nel linguaggio del tempo è un sinonimo di giacobinismo attivo. Ma si avverte un tono più distaccato. Ora il consiglio dato all’amico si è trasformato in un motto che Schiller riferisce innanzitutto a se stesso, e il medico filosofo giacobino comincia a scomparire dalla cerchia dei suoi interlocutori privilegiati. La vicenda personale e politica di Erhard ha offerto altri argomenti allo scetticismo di Schiller nei confronti di chi voglia sostituire alla tensione, irrinunciabile, verso il perfezionamento dell’esistente, la pretesa che l’esistente sia perfetto. Quella vicenda rappresenta per Schiller una conferma . Cfr. la lettera di Schiller a Herbert ( dicembre ), invitato a diffondere gli abbonamenti alle “Horen” in Austria, e la sua risposta ( gennaio ). Herbert è già sotto il controllo della polizia e si teme che le copie della rivista in Austria possano essere confiscate. . Schiller potrebbe ad esempio averlo saputo da Niethammer, ben informato sul libro: Korrespondenz, cit., pp. , -. . Cfr. M. C. Foi, Schiller und Erhard. Literatur und Politik in der Weimarer Klassik, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLI, , pp. -; sul più tardo confronto di Schiller con il trattato politico di Erhard, cfr. Ead., Schillers “Wilhelm Tell”. Menschenrechte, Menschenwürde und die Würde der Frauen, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLV, , pp. -.

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ulteriore, anche personale e privata, della diagnosi espressa nelle prime Lettere sulla educazione estetica sui limiti della cultura dell’intelletto e sulla necessità di parlare al cuore, una conferma dell’idea che l’educazione dell’impulso ad agire impazientemente sul presente possa avvenire attraverso il modello della esperienza estetica, nello spazio della autonomia, della immunità, della indifferenza ostentata nei confronti dell’«umanità come veramente è». Ma questo non comporta affatto una conciliazione con l’esistente, così come Schiller non ha mai consigliato a Erhard di rinunciare ai suoi ideali, piuttosto, di valutare come realizzarli. L’astensione dall’attività politica nel contesto dato non significa rassegnazione, ma autotutela. L’esclusione programmatica della attualità politico-sociale dalla prassi estetica garantisce la sua presenza nascosta nel discorso poetico. Le Lettere sulla educazione estetica sono un intreccio di soluzioni parziali e non una risposta sistematica al tema affrontato. E non è privo di suggestioni immaginare che anche la mancata trattazione della bellezza energica nella teoria del bello che Schiller ha elaborato nei mesi scanditi dal carteggio, con tutte le connotazioni che rimandano al sublime e quindi alla resistenza morale, abbia in qualche modo a che vedere con Erhard.

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Imitatio naturae e modèle idéal: il dialogo di Schiller con Diderot di Luca Zenobi

La traduzione del Neveu de Rameau, realizzata da Goethe con la collaborazione attiva e continua di Schiller e pubblicata nel , è soltanto il punto di arrivo di un dialogo costante della cultura tedesca del Settecento con i testi dell’autore francese. A sua volta la ricezione di Diderot in Germania costituisce una parte decisiva del rapporto per diversi aspetti problematico della cultura tedesca con quella francese in quest’epoca. In effetti, in Über naive und sentimentalische Dichtung, la riflessione di Schiller sui fondamenti che regolano il rapporto fra uomo e natura, innanzitutto nell’ambito della vita umana in genere, e poi, in particolare, nella dimensione dell’arte che ne è una parte imprescindibile, si muove e si sviluppa in conflitto con due poli: la cultura francese e la cultura greca. Se il legame con gli antichi costituisce il termine di confronto per quanto riguarda la questione del naiv, dell’arte naturale e spontanea, scaturita dall’imitazione della natura, la riflessione sulla “deriva” culturale dell’umanità, sul distacco dell’uomo dall’elemento naturale, sulla perdita dell’armonia primigenia con il mondo che lo circonda, non può non nascere per Schiller da una contrapposizione con le forme più affettate e d’altra parte culturalmente avanzate della civiltà umana, ovvero quelle francesi. Essendo stati i francesi il popolo che, più di ogni altro, si è distaccato dalla semplicità naturale delle forme antiche raggiungendo un livello culturale decisamente elevato, a loro si deve anche la prima riflessione teorica su questo fenomeno peculiare della modernità: «Quella nazione che si era spinta più lontano nella perdita della naturalezza e nella riflessione su una simile perdita, per prima doveva essere fortemente colpita dal fenomeno dell’ingenuo e assegnare ad esso un nome. Questa nazione fu, per quanto mi risulta, la Francia». La determinazione storica e geografica del concetto del naiv – non del . F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. P.-A. Alt, A. Meier, W. Riedel,  voll., DTV, München , vol. V, p.  [d’ora in avanti con la sigla SW seguita dal numero del volume e dall’indicazione della pagina (trad. it., Sulla poesia ingenua e sentimentale, a cura di E. Franzini, W. Scotti, SE, Milano , p. )]. Dove non altrimenti indicato le traduzioni sono a cura dell’autore. Fra parentesi quadre sono indicate eventuali modifiche delle traduzioni riportate.

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fenomeno, già presente nell’arte greca – è il punto di partenza della riflessione schilleriana sulle forme e le espressioni dell’arte moderna. Il percorso intrapreso in questi anni si conclude con la prefazione alla Braut von Messina; qui è ancora la differenza fra un’arte, quella greca, in simbiosi con l’elemento naturale, e un’arte, la moderna, che diviene essa stessa produttrice della natura, a fornire lo spunto per un’indagine sul teatro moderno. La critica al modello francese e alla sua interpretazione delle regole del teatro antico è, anche in questo caso, decisiva: «Così i francesi, che per primi hanno frainteso lo spirito degli antichi, hanno introdotto sulle scene una unità di luogo e di tempo obbedendo al più volgare empirismo, come se lì altro luogo esistesse che lo spazio ideale, altro tempo che il costante susseguirsi dell’azione». Nel confronto di Schiller con le teorie francesi e diderotiane mi pare dunque di poter individuare un filo rosso, costituito dalla riflessione sul concetto di natura e sulle sue modalità di riproduzione nell’opera d’arte. È il teatro la disciplina attraverso la quale i due autori danno vita nel corso degli anni ad un’idea di arte come rappresentazione, come Schein, che, proprio nel suo essere apparenza è in grado di rivelarsi come la più alta espressione della creatività umana. Una scelta in qualche modo obbligata, proprio perché nel teatro si ritrova la vita stessa con tutte le sue dinamiche sentimentali rappresentate nella maniera più autentica, simbolo della natura e del nostro confronto con essa; contemporaneamente, però, per esprimere ed offrire tutto ciò esso necessita di un testo, di una struttura, di una scena, di una rappresentazione organica e regolata. L’elaborazione, da parte di Schiller, di una drammaturgia che presenta aspetti sorprendentemente simili a quelli esposti da Diderot nel Paradoxe sur le comédien, costituisce la sintesi di questo prolungato dialogo con il teatro francese e con i suoi testi teorici. L’idea del palcoscenico concepito sempre più come spazio virtuale, in cui i personaggi si rivelano dei fantasmi prodotti dall’immaginazione poetica, delle figure ideali che nulla hanno a che fare col mondo reale – un’idea che Diderot esprime ed esplica con. F. Schiller, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie, SW, II, p.  (trad. it. di B. Alason, Sull’uso del coro nella tragedia, in F. Schiller, Teatro, Einaudi, Torino , pp. -, qui p. ). . Su questi temi cfr. E. Franzini, Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Aesthetica, Palermo , in particolare pp.  s. . Il primo abbozzo dell’opera è costituito da un lavoro per la “Correspondence littéraire”: si tratta in realtà di una recensione di un opuscolo – Garrick ou les acteurs anglois – affidata da Grimm a Diderot, traduzione di un originale inglese – The Actor or a Treatise of the Art of playing – a sua volta libero adattamento del Comédien () di R. de Sainte-Albine. La recensione di Diderot al breve trattato appare nel ; il philosophe riprenderà più volte in mano il testo rimaneggiandolo e facendo delle aggiunte sino a poco prima della sua morte. La prima pubblicazione del Paradoxe risale solo al , tuttavia, le argomentazioni diderotiane circolavano in modo cospicuo nel dibattito teatrale del Settecento europeo.

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cretamente sulla base delle modalità di recitazione di Garrick – si ritrova con accenti simili nelle considerazioni schilleriane sull’uso del coro nella tragedia greca, o anche nell’ultimo dei Kallias-Briefe, in quei passi in cui il drammaturgo schizza un ritratto dell’attore ideale sull’esempio delle performances di Ekhof e Schröder. In questi scritti il prodotto artistico è considerato come il risultato di una idealizzazione poetica della realtà comune prodotta esclusivamente dall’immaginazione dell’artista. Riflettete un momento su ciò che significa essere veri a teatro. Vuol dire mostrare le cose come sono in natura? Niente affatto. Il vero, in questo senso, non sarebbe altro che il consueto. Che cos’è dunque il vero sulla scena? È la conformità delle azioni, dei discorsi, dell’aspetto, della voce, del movimento, dei gesti a un modello ideale immaginato dal poeta, e spesso esagerato dall’attore.

In un passo appena precedente a quello riportato, riguardo ai personaggi teatrali Diderot afferma: «La Cleopatra, la Merope, l’Agrippina, il Cinna del teatro sono davvero personaggi storici? No. Sono i fantasmi immaginari della poesia; dirò di più: [sono degli spettri alla maniera particolare di questo o quel poeta]». Leggendo questi passi salta agli occhi la consonanza con le idee espresse da Schiller nella prefazione alla Braut, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie: «Persino i personaggi tragici [...] non sono creature reali [...] ma sono figure ideali, rappresentanti di una specie, che esprimono ciò che c’è di profondo nell’umanità». Dunque, qui mi interessa rilevare come la riflessione su testi e temi diderotiani, e in particolare la revisione del principio della imitatio naturae, si riveli uno snodo decisivo per lo sviluppo di un’estetica e di un’idea di teatro innovativa e caratteristica, un classicismo atipico che si contrappone in maniera decisa alle scelte goethiane cui pure Schiller credeva di essere vicino. Per far ciò mi sembra opportuno ricostruire brevemente alcuni momenti centrali della ricezione diderotiana da parte di Schiller. Si tratta, come accennato, di un rapporto che accompagna l’autore dagli inizi della propria attività letteraria fino alla sua morte. L’interesse non è sempre concentrato sugli stessi aspetti e, tuttavia, resta costante l’attenzione al rapporto . Per questi aspetti relativi alla teoria sulla recitazione e alle sue connessioni con la filosofia di Schiller, cfr. L. Zenobi, Genealogia dell’attore ideale: note sulla drammaturgia schilleriana, in “Prospero”, XI, , pp. -. . D. Diderot, Paradoxe sur le comédien, in Id., Œuvres, édition établie par L. Versini,  voll., Laffont, Paris  ss., vol. IV, p. , d’ora in avanti con la dicitura Œuvres, seguita dal numero del volume e dall’indicazione della pagina (trad. it., Paradosso sull’attore, a cura di R. Rossi, Abscondita, Milano , p. ). . Diderot, Paradoxe sur le comédien, Œuvres, IV, p.  (trad. it. cit., p. ). . Schiller, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie, SW, II, p.  (trad. it. cit., p. ).

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fra la concezione della natura e le modalità di rappresentare la natura stessa nelle diverse discipline artistiche. È, infatti, proprio sulla problematicità di questo nesso che Diderot incentra i suoi progetti di riforma teatrale e, più tardi, le sue critiche d’arte nei Salons, nonché le sue teorie sull’immaginazione e sulla recitazione. Gli esordi di Schiller, sia come narratore sia come drammaturgo, risentono in maniera evidente del pensiero diderotiano da un punto di vista che la critica ha sinora trattato in maniera abbastanza dettagliata. Si tratta prima di tutto di una ripresa di quei temi che Diderot aveva reso cari a tutto lo Sturm und Drang con la pubblicazione dei suoi racconti e in particolare di Les deux amis de Bourbonne (). La vicenda di Felix e Olivier, la loro contrapposizione radicale a un mondo civilizzato incapace di comprendere i veri fondamenti dell’agire umano, l’ambientazione sublime degli avvenimenti narrati, contribuiscono alla costruzione di una serie di topoi letterari tipici della letteratura stürmeriana. È in questi anni che nasce la leggenda del Diderot “germanico”, grazie proprio a un’intima affinità fra le rivendicazioni della giovane generazione di poeti e intellettuali tedeschi e le atmosfere oscure e selvagge delle narrazioni diderotiane: «Diderot ci era vicino e abbastanza affine; infatti in tutto ciò che i Francesi gli rimproverano egli è un vero tedesco», scrive Goethe in Dichtung und Wahrheit ricordando l’effetto delle opere del philosophe sulla scena letteraria tedesca dell’epoca. Così, tanto nei Räuber quanto nei brevi e giovanili racconti schilleriani, si ritrovano tematiche tipicamente diderotiane, mentre dal punto di vista stilistico Schiller resta lontano da certe innovazioni del contemporaneo francese, come è facilmente riscontrabile dalla lettura del breve racconto Merkwürdiges Beispiel einer weiblichen Rache (), frutto di una traduzione e rielaborazione del celebre episodio di M.me de la Pommeraye contenuto in Jacques le fataliste et son maître, che lo aveva colpito, non tanto per le novità formali, quanto soprattutto per «l’audace origina-

. J. W. Goethe, Dichtung und Wahrheit, in Id., Werke, Hamburger Ausgabe in  Bänden, DTV, München , vol. IX, pp.  s. [in seguito con la sigla HA seguita dal numero del volume e della pagina (trad. it., Dalla mia vita. Poesia e verità, a cura di A. Cori,  voll., UTET, Torino , vol. , p. )]. Con accenti ugualmente entusiasti si esprime F. M. Klinger: «Diderot ha mostrato ai tedeschi come si debba scrivere su argomenti di estetica. Egli ci spiega i segreti più profondi dell’arte in modo così chiaro e comprensibile che tutti possono capire e godere della propria. Il poeta e il filosofo procedono insieme in confidenza e nella più magnifica delle unioni, e nessuno danneggia l’altro», in Id., Werke, Gerhard Fleischer, Leipzig , vol. XI, p. . Mentre con toni ben più critici, sia in merito ai contenuti dei Moralische Erzählungen di Diderot, sia riguardo alla loro forma, si esprimeranno successivamente i rappresentanti della Aufklärung; si legga in proposito la recensione di Engel pubblicata fra il  e il  sulla rivista diretta, da C. F. Weiße, “Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und freyen Künste”. Il testo è reperibile in J. J. Engel, Über Handlung, Gespräch und Erzählung, hrsg. v. E. T. Voss (reprint), Stuttgart , pp. -.

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lità di questo intrigo, la verità inconfondibile della rappresentazione, l’eleganza senza fronzoli della descrizione». L’interesse di Schiller in questa fase giovanile, sulla base di un programma poetico che intende realizzare una copia fedele della natura, intesa più che altro come natura umana, mira per lo più alla rappresentazione di situazioni e personaggi straordinari e tutt’altro che naturali. L’intenzione morale e didattica che Schiller condivide in questo caso con il Diderot narratore è quella di offrire un quadro generale dell’agire umano, che includa anche quegli elementi per i quali la ragione comune non riesce a trovare una spiegazione. Insomma, l’idea è quella di realizzare una raffigurazione antropologica compiuta che metta in evidenza la lotta fra la società civile e civilizzata e una dimensione ferina e selvaggia in contrasto con essa. Il tentativo di conciliare questi due estremi, di raggiungere una situazione di equilibrio fra le due dimensioni è il tema del suo primo dramma, Die Räuber (). Lo Schiller di questi anni trova uno strumento ideale per la rappresentazione di tali tematiche in un linguaggio esasperato, fortemente metaforico, immediato, che non deve sottostare a nessun diktat teorico rispecchiando così il caos del mondo naturale. Il ruolo giocato da Diderot in questo momento della storia letteraria tedesca l’aveva intuito già Hegel, che ne fornisce un breve rendiconto nelle Vorlesungen über die Ästhetik: Nella poesia la comune vita domestica, che ha come sua sostanza la rettitudine, la saggezza mondana e la morale corrente, viene rappresentata nei soliti intrecci borghesi, in scene e figure tratte dalle classi medie ed inferiori. Presso i francesi specialmente Diderot ha insistito in questo senso sulla naturalità e sull’imitazione dell’esistente. Fra noi tedeschi, invece, sono stati Goethe e Schiller che hanno percorso, in un senso più alto, la medesima via nella gioventù, ma hanno cercato un contenuto più profondo e conflitti essenziali ricchi d’interesse entro questa viva naturalità e particolarità.

Al contrario di Goethe, che in Dichtung und Wahrheit cita il noto racconto diderotiano e i suoi effetti sulle giovani generazioni di autori tedeschi, Hegel si limita a notare la differenza fra la naturalità del dramma borghese diderotiano e quella dei primi testi di Schiller e Goethe; più avanti, nella sezione dedicata al linguaggio del dramma, il filosofo ritorna sulla derivazione diderotiana dell’approccio naturalistico dei due autori tedeschi negli anni giovanili della loro attività: «Diderot, Lessing, e anche Goethe e Schil-

. Schiller, SW, V, pp.  s. . G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, vol. II, in Id., Werke in zwanzig Bänden, hrsg. v. E. Moldenhauer, Suhrkamp, Frankfurt a.M.  ss., vol. XIV, p.  (trad. it., Estetica, a cura di N. Merker, N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano , pp.  s.). . Goethe, Dichtung und Wahrheit, HA, IX, p. .

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ler nella loro gioventù, si sono serviti, nell’epoca moderna, principalmente di una naturalità reale: Lessing appoggiandosi alla sua grande cultura e con forza di osservazioni, Schiller e Goethe con la preferenza accordata alla vitalità immediata di una forza rude e disadorna». Il Diderot drammaturgo, spesso disprezzato dagli stürmeriani per le sue tematiche piccolo-borghesi, costituisce invece un punto di riferimento fondamentale nella successiva operazione di “riduzione” operata da Schiller a partire da Kabale und Liebe (), ovvero nel suo tentativo di riportare lo sguardo titanico del primo dramma a una dimensione più intima e naturale, intendendo dare stavolta un senso più moderato a questo termine. Nel Père de famille () e nelle sue infinite riprese e plagi di vari autori tedeschi in questi anni, Schiller trova non solo uno spunto per la trama del suo dramma, ma il modo ideale di riuscire a rappresentare attraverso una vicenda borghese e familiare, temi in qualche modo universali. Per dirla con le parole della poetica del conte di Diderot espressa nel racconto Les deux amis de Bourbonne, si tratta di attenuare la forza dell’eloquenza poetica attraverso la rappresentazione del dettaglio, di lasciar intravedere il corso generale delle cose attraverso la descrizione di avvenimenti comuni, apparentemente poco significativi. Per Schiller: «Ma il poeta ci introduce dall’armonia del piccolo all’armonia del grande; dalla simmetria della parte alla simmetria del tutto e ci fa ammirare quest’ultima nella prima». Su questi stessi aspetti Schiller torna a riflettere alcuni anni più tardi con una prospettiva diversa. Le considerazioni sulla legittimità estetica del male nei testi teorici degli anni Novanta, che sembrano scritti quasi a fornire una giustificazione delle tematiche trattate nelle opere giovanili, hanno appunto un taglio decisamente più estetico che non antropologico. La scelta di temi e soggetti per le rappresentazioni artistiche viene motivata sulla base soprattutto dell’effetto sul pubblico. Anche questa svolta nasce, a mio avviso, dal confronto con Diderot, recepito non solo attraverso letture dirette, ma tramite Lessing, Mendelssohn, Sulzer e lo stesso Kant, autori che utilizzano spesso e volentieri come fonti primarie l’Encyclopédie e altri scritti teorici del philosophe. Il Salon de  è il primo testo del Settecento in cui giudizio estetico e giudizio morale vengono nettamente scissi: «Odio tutte queste piccole meschinità che non mostrano altro che un animo abietto, ma non odio i grandi crimini, prima di tutto perché se ne rica-

. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, III, cit., vol. XV, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr., ad esempio, l’affermazione di R. Lenz nelle Anmerkungen übers Theater (): «In nome di Dio, tenetevi i vostri drammi familiari, le vostre miniature e lasciateci il nostro mondo», in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. v. F. Blei, G. Müller, München-Leipzig -, vol. I, p. . . D. Diderot, Œuvres, II, pp. -. . F. Schiller, Über das gegenwärtige teutsche Theater, SW, V, p. .

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vano dei bei quadri e delle belle tragedie; e poi le azioni grandi e sublimi e i grandi crimini portano con sé la stessa espressione di energia». Si tratta di idee che Schiller riprende quasi letteralmente e che riutilizza nei Gedanken über den Gebrauch des Gemeinen und Niedrigen in der Kunst e, più tardi, nelle sue considerazioni sul patetico e sul sublime, nel tentativo di spiegare la ragione del piacere provocato dall’osservazione di avvenimenti drammatici, di indagare le motivazioni psicologiche, l’origine e l’effetto di tale piacere. La netta separazione fra giudizio morale e giudizio estetico, tuttavia, non ha lo stesso valore per tutte le arti. La pittura non permette la rappresentazione di soggetti che la poesia può invece trattare con una certa libertà. Questa differenziazione, fondamentale per il Laokoon () di Lessing, è senza dubbio un principio che ha origini francesi e, in particolare, diderotiane. Il philosophe, infatti, è il primo in questa epoca a proporre una classificazione dei temi dell’arte sulla base delle facoltà ricettive del fruitore dell’opera. Il fondamento delle concezioni del philosophe è uno soltanto: «la nostra immaginazione», afferma Diderot nelle Additions à la lettre sur les sourds et muets, «è meno scrupolosa dei nostri occhi». Le teorie estetiche di questi anni faranno un grande utilizzo di tale postulato che tende a privilegiare le arti in grado di stimolare in maniera maggiore l’immaginazione rispetto a quelle che, per struttura e strumenti utilizzati, prevedono un effetto per così dire più diretto sui sensi. Per capire l’importanza delle classificazioni che ne scaturiscono basti pensare alla differenza istituita da Schiller fra bildende Poesie (poesia plastica) e musikalische Poesie (poesia musicale) in Über naive und sentimentalische Dichtung. Proprio tenendo presente i fondamenti teorici di questa svolta verrà . D. Diderot, Salon de , Œuvres, IV, p. . . Per quanto riguarda lo scritto Gedanken über den Gebrauch des Gemeinen und Niedrigen in der Kunst, pubblicato nel , ma verosimilmente concluso nella primavera del , cfr. SW, V, p. . Considerazioni simili sulla giustificazione estetica del criminale anche in Über das Pathetische, SW, V, pp.  e , in Über den Grund des Vergnügens an tragischen Gegenständen, SW, V, p.  e in Über die tragische Kunst, SW, V, p. . Si tratta, dunque, di scritti “estetici” composti tutti agli inizi degli anni Novanta, nei quali Schiller fa i conti, sulla base degli studi kantiani compiuti, con le teorie di Lessing, Mendelssohn, Sulzer e dello stesso Kant. Per un’analisi del rapporto di questi ultimi autori con Diderot e gli esthéticiens francesi, mi permetto di rimandare al mio La natura e l’arte: estetica della rappresentazione in Diderot e Schiller, ETS, Pisa , e alla preziosa analisi di F. Bollino, Teoria e sistema delle belle arti. Batteux e gli esthéticiens del XVIII secolo, in “Studi di Estetica”, . . D. Diderot, Lettre sur les sourds et muets, Œuvres, IV, p.  (trad. it., Lettera sui sordi e muti, a cura di F. Bollino, Mucchi editore, Modena , p. ). . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, SW, V, pp.  s., nota . L’espressione di un’arte connotata con il termine musikalisch – riferita in questo caso a Klopstock, poeta musicale per eccellenza – rappresenta per Schiller il modello ideale di poesia in cui l’immaginazione non è delimitata da un oggetto reale come accade per quella poesia che, similmente alla scultura, imita un determinato oggetto e può dunque essere definita “bildend” (plastisch).

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rivisto, su basi per l’appunto estetiche e del tutto nuove, anche il principio di imitazione. La prima fase della ricezione diderotiana da parte di Schiller è caratterizzata da considerazioni in cui il richiamo alla sfera naturale è recepito come riproduzione totale di una dimensione caotica e barbarica e in cui il potere dell’immaginazione è inteso soprattutto nel senso di una libertà assoluta da regole retoriche avvertite come costrittive – e qui fondamentale è anche la critica diderotiana alle concezioni batteuxiane di natura e di belle arti. Schiller recepisce temi e atmosfere della produzione narrativa del philosophe, mentre del drammaturgo sfrutta, qualche anno dopo, sia i soggetti sia lo Insektenblick capace di descrivere l’universo attraverso il dettaglio. Il periodo successivo è segnato invece da una speculazione che tende a indagare i meccanismi secondo i quali l’immaginazione prima sceglie e poi rielabora nell’opera d’arte i dati della realtà immediata. In breve, nei primi anni c’è una ricezione conforme a certi stilemi stürmeriani in cui la naturalità selvaggia di paesaggi e protagonisti dei racconti diderotiani tende ad avere il sopravvento sulla naturalità delle situazioni familiari tipiche del drammaturgo francese, che viene invece riabilitato alcuni anni dopo in nome di una concezione della naturalità più mediata. La riflessione estetica e filosofica sui meccanismi che regolano la riproduzione della natura nei prodotti artistici determina dunque una revisione radicale del principio dell’imitatio naturae con una conseguente e decisiva riflessione sul ruolo dell’immaginazione. Uno dei testi schilleriani più interessanti da questo punto di vista è la recensione alle poesie di Matthisson. Si tratta in effetti di una sorta di breve trattato sull’immaginazione poetica e sulla sua funzione specifica nei processi di creazione artistica. Il punto di partenza è costituito da considerazioni su una disciplina artistica apparentemente di rango minore, quella appunto delle descrizioni paesaggistiche, che Matthisson realizza in forma di poesia. Anche in questo caso l’introduzione teorica si muove fra i due poli dell’arte greca e di quella francese. La questione della dignità artistica della «Landschaftmalerei» (pittura di paesaggio) e dunque della «Landschaft-Dichtung» (poesia di paesaggio) viene ulteriormente scissa in due differenti problemi: per prima cosa la descrizione di paesaggi semplicemente come «Lokal einer Handlung» (ambiente di un’azione); Omero è, in ciò, maestro irraggiungibile: «chi potrebbe mai raggiungere il grande pittore della natura per quel che concerne la verità, l’individualità e la vitalità con . Cfr. soprattutto la Lettre sur les sourds et muets, cit. . Schiller, Über das gegenwärtige teutsche Theater, SW, V, p. : «L’universo è un immenso edificio, il nostro sguardo da insetti indugia su questa ala e trova forse che queste colonne, queste statue sono disposte male; [...] Ma il poeta dipinge per occhi di formica e riporta in forma ridotta anche l’altra metà nel nostro orizzonte visivo».

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cui egli ci rende concreta l’ambientazione dei suoi quadri drammatici?»; in secondo luogo la rappresentazione della «natura inanimata di per sé» trova invece in Claude Lorrain – fra i pittori più amati da Diderot – e nel suo «pennello magico» il miglior rappresentante. Proprio alla capacità di Omero di saper raffigurare con la stessa forza soggetti quanto mai diversi, fa riferimento Diderot per porre sullo stesso piano la pittura di genere, ovvero la realizzazione di quadri naturali, e la pittura storica, bisognosa invece di una maggiore libertà di invenzione. Negli Essais sur la peinture, il philosophe afferma: «Omero, quando schiera delle rane in battaglia sui bordi di uno stagno, è forse poeta meno grande di quando insanguina i flutti del Simoènta e dello Scamandro, colmando di cadaveri il letto dei due fiumi?». La distinzione fra i due generi di pittura non implica alcun giudizio di valore, ciascuno dei due raggiunge i risultati più alti dell’espressione artistica purché utilizzi metodi di rappresentazione appropriati. La scelta del soggetto, che così tanta importanza aveva rivestito nella teoria dell’imitazione di Batteux – la cosiddetta belle nature contestata a più riprese da Diderot –, non ha più alcuna validità normativa né nella determinazione del genere né in quella della qualità estetica del prodotto artistico; per Schiller è ormai un’ovvietà che la grandezza poetica e artistica in genere dipende esclusivamente dalla «Behandlungsweise», dal modo di trattare la materia oggetto di rappresentazione. Qualsiasi argomento ha una propria dignità estetica purché si rispettino certe regole: questo è un fondamento che Schiller, e anche altri autori della sua epoca, devono senza dubbio alle teorie diderotiane e al loro deciso distacco dalle concezioni estetiche precedenti, soprattutto alla sua rivoluzionaria concezione della natura. Ma qual è il procedimento attraverso il quale l’immaginazione riesce a trasformare un oggetto naturale in un prodotto artistico? Il processo viene . F. Schiller, Über Matthissons Gedichte, SW, V, p.  (trad. it. in F. Schiller, La passeggiata. Natura, poesia e storia, a cura di G. Pinna, Carocci, Roma , p. ). . «Unbeseelte Natur für sich selbst» (ibid.). . «Zauberpinsel», ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Gli Essais erano apparsi sulla “Correspondence littéraire” di Grimm nel , mentre la prima edizione a stampa – quella utilizzata da Goethe per la sua traduzione – è del . La traduzione e l’interpretazione goethiana sono evidentemente viziate da un pregiudizio di fondo secondo il quale Diderot non distinguerebbe arte e natura, sovrapponendo due dimensioni che dovrebbero essere considerate indipendenti l’una dall’altra e ciascuna con regole e meccanismi peculiari. Su questo tema cfr. il recente e interessante saggio di J. F. Lehmann, Auf Leben und Tod: Goethe contra Diderots. Essais sur la peinture, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XLVIII, , pp. -. Poco efficace mi sembra, tuttavia, la connotazione del modèle idéal diderotiano come ideale specificamente ed esclusivamente nazionale (ivi, p. ). . D. Diderot, Essais sur la peinture, Œuvres, IV, pp.  s. (trad. it., Saggi sulla pittura, a cura di M. Modica, Aesthetica, Palermo , p. ). . Schiller, Über Matthissons Gedichte, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ).

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spiegato da Schiller nella recensione a Matthisson in maniera forse più chiara che in altri testi teorici: il poeta o il pittore deve essere in grado di stimolare l’immaginazione del lettore o dell’osservatore, contemporaneamente di stabilire per essa una via necessaria sulla quale muoversi, deve lasciar giocare la fantasia ma su dei binari prestabiliti che sono quelli determinati dal concetto di Gattung, non come genere artistico, ma riferito alla specie umana. Dunque l’artista deve essere in grado di portare il fruitore della sua opera a godere degli effetti di concetti universali che possano essere stimolo per un libero gioco della fantasia. Quest’ultima allora, e solo allora, verrà a coincidere con l’idea dell’artista. Ciò spiega la diversa idoneità dei soggetti della rappresentazione nelle varie arti, la possibilità per la poesia di trattare argomenti poco consoni alla pittura: la visione di scene cruente e volgari non lascia alcuno spazio all’immaginazione, mentre la descrizione in versi o in prosa, ad esempio dell’accecamento di Polifemo, permette al lettore di costruirsi una raffigurazione della scena priva di quegli elementi che la sensibilità non è in grado di tollerare: l’autore fornisce con la scrittura e il suo stile per così dire il disegno, il lettore gli dà il colore. Per Diderot, dunque, lo schizzo in pittura costituisce la forma più alta di espressione, non solo perché rappresenta il momento creativo spontaneo per antonomasia, ma proprio perché lascia maggior spazio all’immaginazione dell’osservatore; così nel Salon de : «Dunque più l’espressione delle arti è vaga, più l’immaginazione è a suo agio. Bisogna intendere nella musica vocale ciò che essa esprime». Allo stesso modo, anche la rappresentazione paesaggistica della natura presenta, secondo Schiller, vantaggi e svantaggi per il poeta e per il pittore, a seconda dell’esito che essa deve produrre sull’osservatore: come dimensione compiuta favorisce il pittore che basa tutto su un effetto simultaneo; come totalità, prodotto di momenti successivi, agevola il poeta e la sua rappresentazione genetica della natura. Il pittore per Diderot non ha che un istante da rappresentare, l’effetto della sua composizione deve però essere doppio: «Se la scena è unitaria, chiara, semplice, ben connessa, con una sola occhiata ne afferrerò l’insieme; ma ciò non basta. Occorre anche che sia varia; e lo sarà, se l’artista è uno scrupoloso osservatore della natura». Questa visione della natura come insieme compiuto e allo stesso tempo come organismo in continua mutazione e movimento determina dunque un cambiamento radicale nelle teorie che indagano i meccanismi legati alla riproduzione della natura stessa attraverso l’arte. Schiller lo afferma chiaramente in Über naive und sentimentalische Dichtung: «Considerata come un tutto, la natura è autonoma e infinita; è invece bisognosa e . Diderot, Salon de , Œuvres, IV, p. . . Diderot, Essais sur la peinture, ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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limitata in ogni azione isolata. Questo vale dunque anche per la natura del poeta». L’artista, poeta o pittore, deve riuscire a rappresentare entrambe le dimensioni per non scadere o al ruolo di semplice copista o a quello di Schwärmer. Ogni disciplina artistica non viene più classificata secondo modalità e temi delle sue rappresentazioni, ma secondo i sensi ai quali si rivolge; così Schiller nella ventiduesima lettera sull’educazione estetica assegna a ciascuno degli ambiti sensoriali un’arte di riferimento sottolineando poi come proprio nella loro Wirkung (effetto) sull’animo umano, le diverse discipline perdano le loro caratteristiche specifiche: «Tuttavia queste particolari affinità si perdono man mano che un’opera appartenente a questi tre generi raggiunge un grado più elevato, ed è una conseguenza necessaria e naturale del loro compimento che, senza spostamento dei loro confini oggettivi, nell’effetto che esercitano sull’animo le diverse arti diventino sempre più simili tra loro». La classificazione schilleriana sembra non solo riprendere la suddivisione operata da Diderot nella Lettre sur les sourds et muets o nel Prospectus dell’Encyclopédie, ma teorizza nella Wirkung quel principio unico alla base delle belle arti oggetto della ricerca filosofica di Diderot. È chiaro che un simile equilibrio dinamico tra la forza formatrice e la forza ricettiva è il fondamento della rivoluzione estetica di questa parte del secolo ed è altrettanto evidente che il ruolo primario in tale rivoluzione è giocato, oltre che dalla nuova concezione della natura, dalla conseguente revisione del concetto di immaginazione, dal suo ruolo attivo non solo per la parte che riguarda l’artista, ma anche per quella, decisiva, del fruitore. Questa reciprocità alla base della Wirkungsästhetik, che Gadamer individua come una conquista di Kant, e in particolare della dottrina kantiana sul genio, è in realtà un fondamento dell’estetica diderotiana a partire già dalla Lettre sur les sourds et muets e viene ribadita poi costantemente nei Salons. Alla genialità produttiva deve corrispondere una genialità di comprensione, solo attraverso uno scambio biunivoco l’opera d’arte può divenire espressione e rappresentazione completa della natura intesa sia come realtà naturale sia come natura umana. Probabilmente è proprio una simile reciprocità dell’immaginazione che Schiller vuole mettere in risalto affermando, nell’introduzione alla Braut, che «la natura stessa non è che un concetto dello spirito». . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, SW, V, pp.  s. (trad. it. cit., p. ). . F. Schiller, SW, V, p.  (trad. it., L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ). . Cfr. la lettera ventiseiesima sull’educazione estetica. . H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano , p. . . Schiller, Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie, SW, II, p.  (trad. it. cit., p. ).

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Faccio ancora un passo indietro per indagare su quali basi si sviluppa questo senso dell’immaginazione, anch’essa, secondo la mia opinione, scaturita dal dialogo costante di questi anni tra Francia e Germania. Diderot studia i meccanismi dell’immaginazione a partire dai suoi studi sulla fisiologia: si tratta di una serie di osservazioni che il philosophe raccoglie subito dopo le Pensées sur l’interprétation de la nature (), senza mai giungere a una pubblicazione definitiva, durante gli anni che lo vedono impegnato nella realizzazione di opere maggiori come Le rêve de d’Alembert e l’Encyclopédie. L’immaginazione viene descritta come la capacità di richiamare delle immagini, dunque una funzione della memoria. Tuttavia il semplice esercizio della memoria nell’accostare una serie di immagini – ciò che Voltaire definirà «immaginazione passiva», nell’articolo Imagination dell’Encyclopédie, contrapponendola all’immaginazione attiva necessaria all’esercizio di pittura e poesia – è solo una facoltà meccanica, automatica: «Ma in qual momento [l’uomo] cessa di esercitare la sua memoria, e comincia ad applicare l’immaginazione? In quello in cui, incalzandolo di domande, lo forzi a immaginare; cioè a passare da suoni astratti e generali, finché non sia arrivato a qualche rappresentazione sensibile, termine ultimo e riposo della ragione. Allora che diventa? Pittore o poeta». Il percorso descritto da Kant nel §  della Kritik der Urteilskraft conduce al medesimo risultato: Il poeta osa dare forma sensibile a idee della ragione di enti invisibili, il regno dei beati, l’inferno, l’eternità, la creazione, ecc., o anche, tramite un’immaginazione che emula il gioco in avanti della ragione nel raggiungimento di un massimo, rendere sensibile ciò di cui pur ci sono esempi nell’esperienza, per esempio la morte, l’invidia e tutti i vizi, come pure l’amore, la fama, ecc., con una compiutezza per la quale non si trova nella natura esempio alcuno.

L’immaginazione, o «l’oeil intérieur» («l’occhio interiore»), come l’aveva definita Diderot negli Éléments de physiologie, è dunque la facoltà di «attaccare un corpo a una parola astratta», di rendere sensibili le idee, i se. L’articolo viene pubblicato nel , con il titolo Imagination, Imaginer (Logique, Métaphysique, Littérature et Beaux-Arts). In proposito cfr. M. Modica, L’estetica dell’“Encyclopédie”, Editori Riuniti, Roma  (II ed.), pp.  s.; l’articolo di Voltaire è riportato alle pp. . Cfr. anche I. Zollna, Einbildungskraft (imagination) und Bild (image) in den Sprachtheorien um , Narr, Tübingen , pp. -. . D. Diderot, De la poésie dramatique, Œuvres, IV, pp.  s. (trad. it., Sulla poesia drammatica, a cura di M. Grilli, in Id., Teatro e scritti sul teatro, La Nuova Italia, Firenze , pp. -, qui pp.  s). . I. Kant, Kritik der Urteilskraft, in Id., Werke, Akademie-Textausgabe, Walter de Gruyter & Co., Berlin , vol. V, p.  (trad. it., Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso,  voll., Rizzoli, Milano , vol. I, pp. -). . D. Diderot, Élements de physiologie, Œuvres, I, p. .

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gni della memoria – facoltà che può conservare le parole ma non le immagini – che arrivano attraverso la percezione immediata degli oggetti naturali ai nostri sensi. È proprio questa la chiave decisiva, la peculiarità che determina in maniera imprescindibile tutte le teorie estetiche settecentesche: la priorità sistematica e storica delle sensations, delle Empfindungen rappresenta il principio costitutivo della soggettività estetica moderna. Se Schiller lo afferma nella ventesima lettera sull’educazione estetica – «L’impulso sensibile comincia dunque ad agire prima di quello razionale, poiché la sensazione precede la coscienza, e in tale priorità dell’impulso sensibile troviamo la spiegazione dell’intera storia della libertà umana» –, Diderot è forse ancor più radicale nel ricondurre a tale priorità anche le formulazioni teoriche utilizzate per la descrizione dei fenomeni estetici: «e quali che siano le espressioni sublimi», dice Diderot nel Traité du Beau (), «di cui ci si serve per designare le nozioni astratte di ordine, proporzione, rapporti, armonia, e che le si chiamino, se si vuole, “eterne, originali, sovrane regole essenziali del bello”, sono passate comunque attraverso i sensi per arrivare al nostro intelletto, nello stesso modo delle nozioni più vili, e altro non sono che astrazioni della nostra mente». Solo affermando l’imprescindibilità di questo presupposto antropologico è possibile giungere ad affermare la libertà estetica dell’uomo, che significa appunto la realizzazione di un equilibrio dinamico fra la percezione sensoriale della realtà e le sue rielaborazioni artistiche ad opera dell’immaginazione. È questo rapporto di equilibrio che contrassegna, sulla base della revisione delle teorie dell’imitazione della natura, i tentativi diderotiani di descrivere, soprattutto nel Salon de , il percorso artistico come un percorso di avvicinamento infinito a un modèle idéal o a una ligne vraie, dal terzo e più semplice grado dell’imitazione, a un secondo grado che lascia percepire nell’osservatore lo sforzo inesauribile dell’artista nel realizzare la sua composizione. La ricezione delle teorie diderotiane in questi anni è decisiva dunque su due punti fondamentali: da un lato l’elaborazione di una Wirkungs-ästhetik (estetica dell’effetto) sviluppatasi sulla scia di una “fisiologia dell’immaginazione” e sulla contemporanea nascita dell’estetica come «filosofia dell’arte» (Gadamer); dall’altro il carattere infinito sia del . Schiller, Über die ästhetische Erziehung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . D. Diderot, Traité du Beau, Œuvres, IV, p.  (trad. it., Ricerche filosofiche sull’origine e la natura del bello, a cura di M. Modica, Bibliotheca, Gaeta , p. ); in realtà la traduzione di Modica è condotta sulla base dell’articolo Beau pubblicato nel  nel secondo tomo dell’Encyclopédie e riedito a parte con il titolo di Traité du Beau vent’anni dopo. . Gadamer fa risalire a Kant la nascita dell’estetica come filosofia dell’arte, in particolare alla formulazione contenuta nella Kritik der Urteilskraft secondo cui «l’arte bella è arte del genio» (Gadamer, Verità e metodo, cit., p. ).

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processo di creazione, inteso come avvicinamento a un ideale che mai si compie, sia di quello di ricezione. Per questo aspetto risulta fondamentale il concetto di geroglifico elaborato da Diderot nella Lettre sur les sourds et muets (), nel quale il segno artistico viene definito come espressione simbolica inesauribile e intraducibile: Passa allora nelle parole del poeta uno spirito che ne muove e vivifica tutte le sillabe [...] che fa sì che le cose siano dette e rappresentate simultaneamente; che nello stesso momento in cui l’intelletto le coglie, l’anima ne è commossa, l’immaginazione le vede, e l’orecchio le sente; e che il discorso non è più soltanto un concatenamento di termini energici che espongono il pensiero con forza e nobiltà, ma è anche un tessuto di geroglifici ammassati gli uni sugli altri, che lo raffigurano. Potrei dire, in questo senso, che ogni poesia è emblematica.

Volendo tracciare un percorso ideale che parte dalla definizione diderotiana, si può senz’altro stabilire come seconda decisiva tappa di questo cammino, la descrizione kantiana di Geist (spirito) e di idea estetica contenuta sempre nel §  della Kritik der Urteilskraft: Spirito, in significato estetico, è detto il principio vivificante nell’animo. [...] Ora io affermo che questo principio non è altro che la facoltà di esibire idee estetiche; per idea estetica, poi, intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza però che qualche pensiero determinato, cioè qualche concetto, possa esserle adeguato, una rappresentazione, di conseguenza, che nessun linguaggio può raggiungere totalmente e rendere comprensibile.

La tappa conclusiva del tragitto ideale qui abbozzato è senz’altro costituita dall’idea schilleriana contenuta in Über naive und sentimentalische Dichtung, secondo cui la poesia è tale solo quando ha per oggetto (Gehalt) un infinito, o quando, come si afferma nella recensione a Matthisson, l’idea estetica fonda la sua capacità di attrazione sulla possibilità di farci guardare in una grundlose Tiefe (abisso senza fondo). Su queste basi è allora chiaro come i due autori siano giunti ad elaborare una drammaturgia dalle caratteristiche simili, pur non conoscendo Schiller il Paradoxe sur le comédien. I processi di astrazione e stilizzazione, fondati su una concezione dell’immaginazione sviluppatasi dalla commistione di studi fisiologici e tentativo di affermazione della dimensione produttiva dell’immaginazione stessa, nascono dall’esigenza di trovare nel prodotto artistico, nella rappresentazione, la dimensione capace di cogliere i rapporti che legano la realtà naturale al destino umano. Se la natura, come . Diderot, Lettre sur les sourds et muets, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., pp.  s. (trad. it. cit., pp. -). . Schiller, Über Matthissons Gedichte, SW, V, pp.  s. (trad. it. cit., p. ).

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hanno scoperto Diderot e Kant, è retta da leggi di necessità, l’uomo, e ancor di più l’artista, deve spogliare gli oggetti delle proprie rappresentazioni di tali nessi, creando una sfera ideale dotata di una «interna necessità» (innere Notwendigkeit) che le renda rappresentazioni nel senso più ampio del termine, ovvero Schein, apparenza, prodotto capace di trasformare in un infinito possibile il finito necessario della realtà sussistente. In questa radicale affermazione del ruolo fittivo dell’arte, basata su un protocollo, su una serie di formalizzazioni specifiche del suo ambito e differenti dalla natura seppur ad essa interne – mai al di fuori –, viene alla luce la grande contrapposizione che segna in modo radicale la cultura francese settecentesca e che ha risvolti decisivi per l’arte teorica e pratica in Germania. Se il teatro per Rousseau, come si legge nella lettera sugli spettacoli indirizzata a Voltaire, costituisce l’acme del processo di corruzione dell’umanità, proprio in quanto sostituisce l’apparenza all’essenza delle cose, e lo fa tenendo conto della forza inesauribile dell’immaginazione, per Diderot e poi per Schiller l’arte, e il teatro in particolare, proprio in quanto campo esclusivo della forza produttiva dell’immaginazione, diviene l’asse portante di una visione che concepisce la libertà, intesa perlopiù nel senso di libertà estetica, come unica via per affermare la soggettività nel corso naturale e imperscrutabile degli eventi storici. Questa via Schiller la costruisce sul paradosso che sta alla base di Über naive und sentimentalische Dichtung: «In una simile riduzione del limitato a un infinito consiste propriamente la trattazione poetica». Soltanto la pratica artistica, per l’appunto un’attività paradossalmente riduttiva, riesce a trasformare la realtà sussistente, limitata e improduttiva, in un infinito che sia espressione concreta della dimensione umana e del suo interagire con il mondo in cui essa si muove. Se è vero, come ha mostrato Bernd Bräutigam nelle sue finissime analisi, che probabilmente l’idea di educazione estetica non ci sarebbe stata senza la critica rousseauiana, senza la sua radicale e decisiva affermazione della soggettività moderna, si può d’altro canto affermare, con ragionevole certezza, che le concezioni diderotiane di natura e di arte risultano altrettanto decisive nel generare una contrapposizione drastica alle «voci» pur «degne d’attenzione» (achtung-

. Cfr. la lettera ventiduesima sull’educazione estetica, ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . La Lettre à d’Alembert sur les spectacles viene pubblicata nel . . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. in particolare, B. Bräutigam, Rousseaus Kritik ästhetischer Versöhnung. Eine Problemvorgabe der Bildungsästhetik Schillers, in “Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft”, XXXI, , pp. - e, più in generale, sulla questione dell’autonomia estetica, Id., Konstitution und Dekonstruktion ästhetischer Autonomie im Zeichen des Kompensationsverdachts, in W. Wittkowski (hrsg.), Revolution und Autonomie. Deutsche Autonomieästhetik im Zeitalter der Französischen Revolution. Ein Symposium, Niemeyer, Tübingen , pp. -.

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swürdige Stimme), in particolare a quella di Rousseau, quindi nell’elaborazione dell’idea di uno Schein come unica modalità di interpretazione del mondo. Il distacco dalla realtà sussistente, fondamento dell’estetica di questi anni, che è stato interpretato nei modi più diversi – in senso negativo come vera e propria fuga nell’utopia, in modo ancora vicino alle posizioni rousseauiane come estetica della compensazione –, questo distacco, dicevo, rivisto alla luce di un paradossale atto di riduzione artistica attraverso l’immaginazione può acquisire un significato nuovo: la necessità di idealizzare nasce certo anche da una contrapposizione nei confronti della realtà storica contemporanea avvertita come inadeguata o annichilente, ma non solo. Essa origina da una effettiva necessità estetica, quella cioè di trovare e di affermare una propria peculiare via d’accesso alla realtà riducendone la vastità su un palcoscenico o su una tela e contemporaneamente utilizzando processi di stilizzazione che ne accentuino il carattere inesauribile. Tutto ciò è la trasposizione diretta sul piano estetico di quella concezione della natura come totalità organica, metamorfica e quindi libera, prodotto, però, di singoli eventi regolati da leggi di causa-effetto e dunque dominati dalla necessità.

. Così nella lettera decima sull’educazione estetica, in SW, V, p.  (trad. it. cit., p. ). . In proposito cfr. soprattutto O. Marquard, Aesthetica und Anaesthetica: Philosophische Überlegungen, Schöningh, Padeborn-München-Wien-Zürich .

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Pensare la poesia. Da Schiller a Hölderlin di Andrea Mecacci

SCHILLER: Eh die Structuren der Gesellschaft sich verändern lassen muss erst der Mensch verändert werden HÖLDERLIN: Nein erst muss von Grund auf alles umgeworfen werden dass Neues enstehen kann

Peter Weiss, Hölderlin. Stück in zwei Akten, 

Forse ancora una volta dobbiamo ripartire da molto lontano, da quel «terreno solido», come lo ha definito Gadamer, che sono per noi i nomi di Platone e Aristotele, il binomio al quale siamo sempre rinviati. Anche un’approssimazione al problema del poetico infatti non può evitare le loro presenze. Sono proprio Platone e Aristotele a mio avviso a fornire quelle che sono le due frasi su cui si fonda ogni risposta alla domanda: che cos’è la poesia? C’è un antico dissidio tra la filosofia e la poesia (Repubblica, X, b). Compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quelle che sono possibili secondo verosimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi [...]; si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari (Poetica, a ).

Frasi famose, troppo famose e mai troppo meditate. A dirle quindi due greci. Un compito che sempre si ripropone ai nostri occhi è quello di vedere se nella modernità questa tensione tra poesia e filosofia da una parte e poesia e storia dall’altra provoca un incontro o uno scontro. Le concezioni poetologiche di Schiller e Hölderlin offrono questa possibilità proprio in un . SCHILLER: Prima che le strutture della società si lascino cambiare bisogna cambiare l’uomo. HÖLDERLIN: No prima che possa sorgere il nuovo tutto deve essere rovesciato dal profondo.

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momento storico nel quale la Grecia è il pretesto per pensare la poesia e la poesia la domanda con la quale pensare le differenze tra noi e l’antico. Punto nevralgico, almeno dalla prospettiva del mio contributo, di questo cortocircuito sono il saggio di Schiller Über naive und sentimentalische Dichtung e i frammenti poetologici di Hölderlin del periodo di Homburg. Ma il taglio della mia ricognizione sarà parziale, diretto a sondare la parola “modernità”: Schiller e Hölderlin allora diventano maschere da cui muovere per interrogare l’essenza del poetico nel moderno. Con una scansione molto scolastica parlerò prima di Schiller e poi di Hölderlin. Nello Schiller di Über naive und sentimentalische Dichtung l’approccio storicistico con l’indagine delle singole opere è molto attenuato o mai del tutto centrale in confronto ad altre opere della Goethezeit, nonostante i non pochi esempi di autori che vengono presentati. Ma non vi è nessuna reale archeologia del sapere. La Grecia di Schiller è da subito un’idea, incontro realizzato di estetica ed etica, Urbild delle possibilità dell’umano. Il passato quindi interessa a Schiller esclusivamente come prospettiva per il futuro. I contenuti dell’antico non sono precetti vincolanti o reperti da interpretare, ma valori simbolici. In questo quadro si può comprendere come il tema di fondo del saggio sia come il sentire diventi forma, il problema della produzione estetica. Lo sforzo è quello di combinare la riflessione storico-filosofica con la pensabilità stessa del poetico. All’interno di questa cornice le due polarità «ingenuo» e «sentimentale» appaiono più dimensioni diacroniche della poiesis, «modi di sentire» come afferma Schiller, che determinazioni storiche, ossia l’antico e il moderno. Non quindi categorie ipostatizzate o ipostatizzabili, ma concetti prospettici della poiesis che necessitano l’uno dell’altro, proporzionamenti reciproci. «Ingenuo» e «sentimentale» rappresentano le due modalità con cui la modernità cerca di ripensare il nodo della mimesis, ossia la trasfigurazione del mondo in qualcos’altro: «imitazione è la somiglianza formale di ciò che è materialmente diverso». La poesia è la tensione esemplare nella quale la cultura naturale si muta e si riconosce cultura artificiale. Come ha più volte ribadito nei suoi lavori Jauss, all’imitatio naturae subentra l’estetica dell’inventio, all’artista greco legato alla dimensione della techne subentra il genio così come è descritto da Kant nel paragrafo  della terza Critica, all’arte plastico-figurativa dei Greci quella dell’infinito, la poesia. È un passaggio fondamentale che non pone solo problemi teorico-estetici, ma pratico-poietici. La domanda su «cosa . F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, in Id., Werke und Briefe, hrsg. v. R.-P. Janz, vol. VIII (Theoretische Schriften), Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M.  (trad. it., Sulla poesia ingenua e sentimentale, a cura di E. Franzini, W. Scotti, SE, Milano ). . F. Schiller, Kallias, oder über die Schönheit, in Id., Werke und Briefe, cit. (trad. it., Kallias, o della bellezza, a cura di C. De Marchi, Mursia, Milano , p. ).

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sia la poesia» è sempre parallela alla domanda «come si scrive una poesia». La dottrina dei generi poetici diventa, proprio in quest’epoca, una sorta di mappa, un orientamento speculativo all’interno del testo letterario nel momento in cui l’imitazione della realtà è sostituita dalla rappresentazione dell’ideale. Che si tratti di un problema decisivo è lo stesso Schiller a comprenderlo. E vedremo come anche Hölderlin lo riformulerà. Il problema è questo: in che modo la dimensione astratta della poesia si traduce in immagini poetiche? Perché un contenuto di pensiero noi lo esperiamo come poesia? Non è un caso che questo interrogativo sorga proprio nel momento in cui si afferma la «rappresentazione dell’ideale» sull’«imitazione della realtà», in termini a noi più vicini si potrebbe dire nel momento in cui l’immaginario destituisce il bello. Cosa significa allora «rappresentare l’ideale»? Nell’ultima dei Kallias-Briefe Schiller afferma: Il mezzo del poeta sono le parole, ossia segni astratti indicanti generi e specie, mai individui [...]. Il poeta non ha, per rappresentare il particolare, altro strumento che l’artificiale combinazione dell’universale [...]. La natura del mezzo di cui si serve il poeta consiste dunque in una tendenza all’universale, e contrasta pertanto con la designazione dell’individuale (che è lo scopo). La lingua pone innanzi tutto all’intelletto, mentre il poeta deve portare (presentare) tutto innanzi alla capacità di immaginazione; la poesia vuole intuizioni, la lingua non porge che concetti.

Sembrerebbe una condizione ottimale per il poeta moderno che deve rappresentare l’ideale: lo scopo (l’ideale) è perfettamente identico al mezzo (le parole, ossia astrazioni). Ma Schiller coglie il pericolo di questa corrispondenza: la natura sensibile del rappresentato si dà nella natura astratta del rappresentante. Qui secondo Schiller interviene il genio del poeta che cerca sempre di individualizzare quella che è la natura astratta del linguaggio, perché quello che è rappresentato è sempre individuale: la poesia può essere il mondo, ma il mondo non è una poesia. Proprio nelle ultime righe dei Kallias-Briefe Schiller afferra il senso del baratro che la poesia moderna accoglie in sé: «La natura della lingua deve dissolversi interamente nella forma che le viene data [...]. Insomma la bellezza della rappresentazione poetica è libera azione autonoma della natura entro i vincoli della lingua». Il linguaggio, quindi, per essere «poetico» deve dissolversi, deve annullare quella dimensione di astrattezza che gli è propria, deve eliminare il suo logos, altrimenti sarebbe filosofia. Qui è già delineato in nuce lo stesso superamento dell’arte dell’estetica di Hegel. Ma questo procedimento è propriamente l’operazione tipica del poeta sentimentale, che infatti «non sen. Ivi, pp. - (trad. it. cit., pp. -). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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te naturalmente, ma sente il naturale», ossia esperisce solo l’idea della natura. Occorre allora interrogarci se questa «tendenza all’universale» contrassegna anche il poeta ingenuo. Dopotutto anche Omero e Pindaro usavano parole. A quanto pare tutto ciò non è valido per il poeta ingenuo. Ma già Peter Szondi ha dimostrato la complessità di questa dialettica nel suo saggio Das Naive ist Sentimentalische, e non credo sia il caso di ritornarci. Schiller afferma a proposito del poeta ingenuo che «egli è l’opera e l’opera è lui»; con toni simili Nietzsche, in Die Geburt der Tragödie, dirà che nell’ebbrezza dionisiaca «L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte». Anzi quella necessità all’individuazione sottolineata nei Kallias-Briefe viene identificata proprio con la nozione di «bellezza ingenua». Bellezza ingenua che funge da correttivo per il poeta sentimentale. Scrive Schiller a proposito di Haller, Kleist e Klopstock: Il carattere della loro poesia è sentimentale, essi ci commuovono in virtù delle idee e non della verità sensibile, non perché sono natura ma piuttosto perché sanno infonderci entusiasmo per la natura. Se ciò in generale è vero riguardo al carattere di questi poeti, come di ogni altro poeta sentimentale, non esclude affatto, naturalmente, che in casi particolari essi possano commuoverci attraverso la bellezza ingenua; senza questa capacità essi non sarebbero affatto poeti.

Proprio senza «la bellezza ingenua» essi non sarebbero quindi poeti. L’«ingenuo» sarebbe allora quel legame insito nel poeta sentimentale tra idea ed esperienza che fa sì che delle parole non siano solo pensieri, ma versi. È quella matrice poietica che rende possibile il mutamento di un’astrazione in un dettaglio. Se nell’antichità, maggiormente segnata dall’ingenuo che non è un contrassegno cronologico, ma un modo di sentire; se nell’antichità, come dire, la poiesis è già sempre presente, almeno a una lettura superficiale (Hölderlin metterà in discussione proprio questo assunto nelle lettere a Böhlendorff), nel moderno la facoltà poetica viene sempre in soccorso della ragione per rendere evidente e tangibile «quell’idea e realizzandola in un caso specifico». La poesia si scopre così presente solo nel momento in cui il pensiero sembrerebbe apparentemente non sufficiente a . P. Szondi, Das Naive ist Sentimentalische. Zur Begriffsdialektik in Schillers Abhandlung, in Id., Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. II, pp. - (trad. it., L’ingenuo è sentimentale. Dialettica concettuale del saggio schilleriano, in La poetica dell’idealismo tedesco, trad. it. di R. Buzzo Margari, Einaudi, Torino , pp. -). . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Id., Werke, de Gruyter, Berlin , vol. III, t. I, p.  (trad. it., La nascita della tragedia, in Id., Opere, a cura di G. Colli, M. Montanari, Adelphi, Milano , vol. III, t. I, p. ). . Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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se stesso. In realtà accade il contrario: è proprio lo spazio che il pensiero lascia aperto che fa sì che ci sia il poetico. Se Schiller infatti insiste sul carattere vincolante del contingente nel momento della rappresentazione poetica, tuttavia questa è pur sempre rappresentazione dell’ideale. Se quindi tecnicamente il poeta sentimentale deve attenersi a una sorta di fedeltà al mondo, finalisticamente deve al contrario elevarsi dall’accidentale. Il concetto di poetico, che non si esaurisce nelle declinazioni di «ingenuo» e «sentimentale», è allora la tensione elastica di sentire e pensare il mondo? Il poeta deve vincolarsi al dettaglio, alla commozione che una singola immagine può darci, e allo stesso tempo «rendere uno stato singolo simile al tutto umano», ricomprendere un sentire intimo in una dimensione condivisa, in un senso comune? La poesia di Schiller trionfa come pensiero proprio nel momento in cui fallisce come poesia. Schiller comprende come il poeta sentimentale sia attraversato da due negatività: da una parte la realtà che è esperita unicamente appunto ex negativo, dall’altra i suoi stessi mezzi, le parole, dai quali cerca in continuazione di non lasciarsi sopraffare. Questa consapevolezza è di fatto il problematico superamento della «bellezza ingenua», il bisogno di un’emozione mimetica (del resto anche nelle nuvole cerchiamo delle immagini, come ci ricorda Shakespeare nell’Amleto), e l’apertura al moderno come territorio di una mimesis del possibile nel quale anche, e soprattutto, l’astrazione è arte, un territorio nel quale gli oggetti da rappresentare sono «in se stessi del tutto indifferenti e divengono poetici solo grazie al modo in cui sono trattati». Una frase che, nonostante il collegamento possa sembrare bizzarro, Andy Warhol avrebbe certamente sottoscritto, ma dubito che l’abbia letta. L’eredità che Schiller lascia immediatamente dietro di sé, ancora in vita, è il rapporto tra il momento speculativo della poesia, la pensabilità del poetico e la sua possibile caratterizzazione storica, che si esplica nel confronto tra grecità e modernità. Indagando questo rapporto, Schiller tratteggia una sorta di antropologia in fieri dell’io poetico «sentimentale»: la poesia diviene pertanto la dimensione costitutiva di una soggettività costruibile e quindi di una comunità ipotetica, alter ego dell’utopico. La continua convinzione schilleriana che il poeta moderno sia ormai vincolato a una mediazione speculativa rispetto al suo compito di artista è accolta da Hölderlin. Si prefigura in Hölderlin il tema decisivo dell’estetica hegeliana: l’insufficienza dell’arte rispetto alla sua pensabilità, ma in un’altra direzione. L’opera di Hölderlin attua sempre uno sforzo metapoetico, di ricomprensione in un quadro extraestetico della stessa prassi poetica. Se infatti ogni opera d’arte è un’unità di senso che prima non c’era ed ora c’è, quali . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ).

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sono gli strumenti per afferrare questa nuova esistenza che ha mutato uno spazio bianco del reale in una nuova realtà? Il mito? La poesia diventa allora processo mitico, ossia adattabilità reciproca di sfere divergenti in quadri storici in continuo divenire. Da qui nasce il grande dialogo, il «colloquio» tra gli uomini e gli dèi che innerva la poesia hölderliniana. L’intuizione greca del divino, l’autocollocazione dell’uomo nel mondo attraverso il mito, si ribalta in Hölderlin nell’inchiesta circa l’identità nascente della contemporaneità. Il colloquio tra gli uomini e gli dèi allora diventa il mito dell’impossibilità del mito, ma anche la configurazione culturale del moderno e, quindi, paradossalmente dei suoi stessi miti. Come comprenderanno Nietzsche e, in direzioni tra loro opposte, Heidegger e Adorno. Ma questa è ancora una cornice vuota. Occorre mettere a fuoco un altro problema: il fatto che Hölderlin si sforzi in continuazione di definire il nesso che stabilisce contemporaneamente frattura e continuità tra l’esercizio speculativo e la prassi poetica, tra filosofia e poesia. Si può pensare la poesia? In qualche modo Schiller ci aveva provato. Il tentativo di dare un profilo concettuale alla fenomenologia della poiesis è l’indagine di fondo che Hölderlin svolge nel più lungo e intricato dei suoi frammenti, Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes. Nello spirito poetico Hölderlin individua la possibilità di un coordinamento delle strutture del mondo (spirito e materia) e dell’uomo (soggettività e linguaggio). La poesia esibisce allora l’esigenza di ripensare la relazione tra storia e poiesis, il progetto di una mimesis del possibile, il territorio del mito, la dimensione di una mitologia della ragione, che trova la sua proiezione simbolica nella figura del kommende Gott, il dio a venire. Ed è in questo quadro che sorge anche l’altra domanda, la domanda sulla soggettività poetica: chi è il poeta? Il poeta è il doppio assoluto dell’esistente: da una parte ne è la negazione, colui che spezza il positivo, l’abituale visione e interpretazione, dall’altra ne traduce il ritmo, cogliendo le dimensioni inedite del divenire. Questo statuto anfibio si configura nel poeta moderno nel precario equilibrio fra tradizione e innovazione, e da qui il tema della Grecia. Sono allora le stesse strutture paratattiche del linguaggio poetico hölderliniano, le sue interruzioni improvvise, che ripropongono la domanda se la globalità degli onoma corrisponda ancora al senso del mondo. Ora, vincolare una concezione “metaforica” della poiesis, il trasferimento dell’ideale nel sensibile, il possibile che diventa reale, a una prospettiva processuale del linguaggio, l’irriflesso che si muta in autocoscien. F. Hölderlin, Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes, in Id., Sämtliche Werke, hrsg. v. F. Beissner, Kohlhammer, Stuttgart , vol. IV, pp. - (trad. it., Sul procedimento dello spirito poetico, in Id., Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano , pp. -).

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za storica di un mondo, rappresenta per Hölderlin un nodo che è necessario sciogliere. Schiller del resto aveva già compreso questo problema attraverso la necessità di slegare il linguaggio dalla sua natura astratta. Occorre pensare idea e storia in un atto unico all’interno dell’orizzonte che il frammento Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes ribadisce più volte: la dialettica irrisolta, e quindi l’assunzione di una conflittualità originaria, il polemos eracliteo, tra la dimensione di pensabilità del compimento poetico e l’esperienza della sua realizzazione. Perché si può dire la natura solo attraverso un ascolto condiviso, e questo è propriamente lo spazio della storia, degli altri uomini. Nel poeta infatti agisce sempre una consapevolezza inaggirabile: «la vita non è l’idea, la quintessenza dell’essente non è l’essenza». Il faticoso percorso speculativo del frammento tenta di cogliere quell’equilibrio «dove spirito e vita sono eguali», laddove l’«infinito nell’infinito» diventa l’esatto pendant di un «mondo nel mondo». La risorsa di senso che lo spirito offre, il «mondo dei mondi», trova la sua corrispondenza mimetica in un prodotto determinato: il poeta che realizza la sua oggettività in una «infinità circoscritta», ossia scrivere una poesia. Il raggiungimento definitivo di questo statuto ossimorico della poiesis, un’infinità che vive di limiti e un limite che esperisce solo l’infinito, è una «riflessione creativa», è il linguaggio. Il linguaggio diviene così per Hölderlin non tanto l’esemplificazione di un modello del rapporto schematico tra ideale e reale (come in Platone o Schelling, che infatti non sono poeti), ma l’esigenza insita nell’uomo di far vivere il pensiero dentro le parole e nel pensiero la vita di queste parole, la poesia. Il linguaggio è quindi propriamente logos: parola detta che viene pensata e parola pensata che viene detta. Il prodotto di questa riflessione creativa è il linguaggio. Nel momento in cui il poeta, nella totalità della sua vita interiore ed esteriore si sente compreso nel puro tono della sua vita originaria e guarda intorno a sé nel suo mondo, questo mondo è per lui talmente nuovo e sconosciuto che la somma di tutte le esperienze, del suo sapere, del suo intuire, del suo pensare – arte e natura come si rappresentano in lui e fuori di lui –, tutto è per lui presente quasi fosse la prima volta, e proprio per questo è incompreso, indeterminato, dissolto in mera materia e vita.

L’autocoscienza del soggetto poetico è l’atto stesso di una metabolizzazione del mondo, la ricettività delle facoltà dell’io è la stessa messa a fuoco del-

. Th. W. Adorno, Parataxis. Zum späten Hölderlins Lyrik, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. v. R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. XI (trad. it. di E. De Angelis, Paratassi, in Id., Note sulla letteratura, Einaudi, Torino , p. ). . Hölderlin, Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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le sue potenzialità poetiche: vi è un equilibrio tra ciò che è esterno e interno al poeta, e questo punto precario d’incontro è lo sguardo che il poeta getta sul mondo: «il poeta non è il soggetto della rappresentazione del tutto, ma il luogo della visione del tutto in persona». L’io del poeta non è il poeta quale si delinea nel mondo, ma il mondo quale si delinea in lui. Dirà Ingeborg Bachmann che «l’io non è più nella storia, ma è la storia a essere nell’io». Davanti allo stupore della totalità delle sue Stimmungen e dei suoi pensieri, il poeta non può che riattestare la simultanea estraneità e appartenenza dell’uomo al mondo. È questa la dimensione kairologica più intima, il sorgere della consapevolezza del divenire nel trapassare, il transito “metaforico” da ciò che non è a ciò che è. È allora particolarmente importante che il poeta in questo momento non assuma nulla come dato, non muova da niente di positivo – che natura e arte, come ha imparato a conoscerle e a considerarle, non parlino prima che vi sia un linguaggio, vale a dire prima che tutto quanto vi è di sconosciuto e senza nome nel suo mondo divenga noto e assuma un nome per lui, proprio perché è stato paragonato e riconosciuto concordante con il suo stato d’animo.

La poesia poggia così su uno sfondo tragico, radicata nel trapasso che lei stessa esibisce dal positivo al nuovo; da questa condizione di sospensione si origina il suo carattere penultimo e di perenne inchiesta sull’uomo. È l’immagine della «sacra notte», il rimettere in discussione l’acquisito, e quindi anche i Greci, il possibile come continua ferita nel mondo degli uomini, non c’è mai un luogo ultimo, ed è qui che il possibile di Hölderlin si avvicina alla tensione verso l’ideale di Schiller. Il kairos poetico si profila come l’istante in cui si sovverte ogni datità, per questo l’istituire poetico prende l’avvio da un atto di destituzione sia del soggetto che del mondo al quale si è abituati: disimparare il mondo per rivederlo come la prima volta. È questa ulteriorità penultima che la parola cerca di attestare. In tal senso la dimensione kairologica del contingente si fa mito e, contemporaneamente, la dicibilità mitica, il riferimento normativo della poiesis, si riproietta nel tessuto in divenire delle trame dell’esistenza: il tragico sarà per Hölderlin l’espressione potenziata di questi rimandi che muterà l’esperienza del frammento nell’esperienza del margine, della cesura, l’incontroscontro tra mythos e poiesis.

. J.-L. Nancy, Calcolo del poeta, trad. it. di A. Moscati, in “Micromega”, , , p. . . I. Bachmann, Frankfurter Vorlesungen, in Id., Werke, hrsg. v. C. Koschel, I. von Weidenbaum, C. Münster, Piper, München-Zürich , vol. IV, p.  (trad. it. di V. Perretta, Letteratura come utopia, Adelphi, Milano , p. ). . Hölderlin, Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes, cit., pp. - (trad. it. cit., p. ).

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Dare l’addio a una prospettiva platonica dell’esistente significa per Hölderlin costruire una poesia capace di essere simultaneamente poesia del proprio tempo e poesia dei tempi, i tempi storici del mondo (la circolarità antico-moderno) e i tempi dell’uomo (le metà della vita). E tuttavia l’interrogazione sul linguaggio attraverso la parola poetica riporta Hölderlin al nodo di fondo del Cratilo: qual è il nesso tra logos e realtà? In che modo il linguaggio è un problema della conoscenza? Attraverso quali parole conosciamo il mondo? E in modo ancor più radicale: dove riposa il dissidio tra filosofia e poesia? Ma accanto alla coincidenza hölderliniana tra condizione dell’uomo e dimensione linguistica ve ne è un’altra. Non solo costruzione di sensi possibili, esperimenti linguistici come proiezioni delle aperture in fieri del soggetto e del mondo, ma interrogazione su ciò che origina tutto quello ciò e quello che segue un testo poetico. Più ci inoltriamo in Hölderlin più vediamo che ciò che precede una poesia e ciò che la segue – «le poesie hanno sempre grandi margini bianchi, grandi margini di silenzio», come scrive Paul Eluard in Physique de la poésie – sembrano divenire gli unici parametri possibili di ogni prassi, poetica ed esistenziale. Il poetico diviene allora la stessa modalità metamorfica della natura e degli uomini, ciò che può fermare per un istante il divenire e rendere perennemente processuale l’essere, facendolo così coincidere con la dimensione storica. Si origina il frammento («L’apriorità dell’individuale / rispetto all’intero»), il rinvio incompiuto, la cesura nel cuore del gesto creativo, l’identificazione così arcaica eppure moderna tra la parola che indica la cosa e la cosa che accoglie e respinge l’atto linguistico che la rende viva. Hölderlin ci ha insegnato che la poesia è la fine di una vita e l’inizio di un’altra che è uguale alla prima, ma allo stesso tempo diversa, che si inoltra fino a un punto estremo, ai confini degli opposti, laddove gioia e lutto nascono dalla stessa radice. Ci ha insegnato che la poesia è innanzitutto la prima scrittura delle cose, che la fatica del poeta è risalire in quel territorio primo, in cui noi tutti ci possiamo riconoscere e dal quale possiamo ripartire; Hölderlin ha chiamato questo risalire «procedimento dello spirito poetico». Alla fine dei Kallias-Briefe Schiller aveva intuito come il particolare sia necessario all’interno di un universale per realizzare quel qualcosa che chiamiamo arte. Hölderlin ritorna su questo punto in un momento di forte crisi del suo percorso poetico. È l’anno . La tragedia Der Tod des Empedokles si rivela un naufragio, decide allora di dedicarsi alla traduzione di Pindaro e contemporaneamente abbozza dei frammenti poetologici. In uno di questi scrive, ed è una sorta di autoritratto: non di rado siamo tentati di pensare che costui [il poeta], nel sentire lo spirito della totalità, tenga troppo poco conto del particolare, e dove gli altri vedono gli al-

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beri e non la foresta, egli dimentichi gli alberi per la foresta e, con tutta la sua spiritualità, egli sia poco comprensivo e quindi sia anche incomprensibile agli altri. Ci ripetiamo allora che nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo, che per aver un’esistenza e una coscienza nel mondo debba determinarsi per qualche cosa.

Come la poesia si dà solo in una singolarità mimetica, così l’uomo può esistere solo perché in quel momento è: l’apriorità dell’individuale sul tutto. C’è una lettera fondamentale che Hölderlin scrive a Schiller il  giugno . Schiller ha suggerito a Hölderlin di attenersi ai modelli più belli, ossia ai Greci. Hölderlin risponde: Proprio quest’ansia è la morte dell’arte, e pertanto capisco assai bene perché portare la natura a corretta espressione sia più difficile in un periodo in cui un uomo è già circondato da capolavori, che in un altro in cui l’artista si trova quasi da solo con il mondo vivente. Da tale mondo egli si distingue troppo poco, ha troppa fiducia in esso per doversi opporre alla sua autorità, o per consegnarglisi prigioniero.

Come fare arte quando non c’è che arte? Come scrivere qualcosa di nuovo? L’arte è forse l’impossibilità del nostro congedo da ciò che ci rassicura e che noi chiamiamo cultura? Oppure, come suggeriscono, in declinazioni diverse, Schiller e Hölderlin il nostro «proprio» non è l’origine, ma ciò verso cui andiamo. Ecco allora che la domanda acquista un altro significato: quante volte deve morire la poesia nel poeta prima che nel poeta nasca una poesia? E se Hegel parlerà pochi anni dopo di «morte dell’arte» nel suo complesso, forse Hölderlin comprende che il problema piuttosto è la morte di un’arte, la poesia: la poesia è ancora costitutiva al nostro esistere? Leggiamo ancora poesie perché ci sono necessarie? Paradossalmente, alla grande domanda di Hölderlin, «perché poeti?», si può rispondere con le parole di un pittore americano, forse non a caso di origine tedesca, Ad Reinhardt: perché «la fine dell’arte non è la fine».

. F. Hölderlin, Ein Wort über die Iliade, in Id., Sämtliche Werke, cit., pp. - (trad. it., Una parola sull’“Iliade”, in Hölderlin, Scritti di estetica, cit., pp. -). . F. Hölderlin, Briefe, in Id., Sämtliche Werke, cit., vol. VI, p. .

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Il destino dell’anima bella: Hegel interprete dei drammi di Schiller di Renato Caputo

Hegel ammirava nei drammi di Schiller il tentativo di riconquistare la vivente autonomia dei personaggi antichi all’interno della complessità moderna. La crescente parcellizzazione del lavoro e la burocratizzazione degli apparati statuali rendevano progressivamente arduo rappresentare dramatis personae in grado di agire liberamente, di riconoscersi nel risultato del proprio operare. Perciò sia Hegel che Schiller avvertivano una certa nostalgia per la totalità etica antica, sostanza della vivente autonomia dei personaggi classici. Entrambi, pur riconoscendo l’importanza dello sviluppo della società civile e della cultura moderna, non ne nascondevano le contraddizioni. Nei suoi corsi di estetica Hegel individuava l’importanza di Schiller per lo sforzo di comporre una tragedia moderna capace di riconquistare la sostanzialità dei personaggi antichi senza abiurare al fondamento della modernità: il soggetto, il particolare. Pur rivedendo profondamente la propria giovanile Weltanschauung – fondata sull’opposizione fra ragione del cuore e fredda razionalità del potere – Schiller conserverà la simpatia per i suoi personaggi “stürmeriani” che vivono nel mondo moderno quali stranieri e si scagliano con generosa superbia ed ingenua utopia contro le convenzioni della società civile, castigandone il filisteismo. L’artista è figlio del proprio tempo, ma il suo animo è con esso inconciliabile; la modernità ne è genitrice naturale, la grecità classica deve esserne levatrice, di modo che egli assolva la propria missione di vendicatore delle storture del proprio secolo e di messo di un mondo migliore. Al contrario, Hegel prenderà progressivamente le distanze dalla produzione giovanile schilleriana contrapponendo, nel conflitto critico con . Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, hrsg. v. E. Moldenhauer, K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , vol. XIII, p.  (trad. it. di N. Merker, N. Vaccaro, Estetica, Einaudi, Torino , p. ). . Cfr. F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefe, in Schillers Werke. Nationalausgabe, hrsg. v. Petersen et al., Böhlaus, Weimar  ., vol. XX, p.  [in seguito NA con l’indicazione del volume] (trad. it., F. Schiller, L’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo , p. ).

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l’estetica romantica, le opere “classiche” della maturità alle “stürmeriane”. La passione universale che muove i personaggi del giovane Schiller sana solo apparentemente la mancanza di sostanzialità delle dramatis personae moderne. Tali drammi giovanili non sono in grado di riprodurre l’autonomia dei personaggi antichi, mettendo piuttosto in scena la lacerante contraddizione fra necessità di inserirsi nella società moderna ed autonomia individuale, che produce una collisione fra opposti doveri. La riconquista della sostanzialità della soggettività agente avviene al prezzo della sua contrapposizione alla società civile. I protagonisti del giovane Schiller non si riconoscono nella società che hanno contribuito a creare, la considerano invertita. I mezzi che adoperano contro di essa sono inadeguati poiché incentrati sulla particolarità di un individuo che crede di poter mutare in profondità l’ordine costituito mediante oscure congiure. La loro virtù è priva di eticità e cerca vanamente di celare la propria vacuità dietro una verbosità priva di contenuto sostanziale. Una soggettività particolare si cela dietro i richiami alla purezza della natura ed ai diritti universali del genere, per il quale essa si immola senza incidere sul corso storico. Nella critica al giovane Schiller Hegel ha di mira la vulgata kantiana che ritiene l’ideale inconciliabile con il reale, tanto che ogni accordo con esso gli pare un tradimento dell’imperativo categorico. La realizzazione del proprio scopo diviene uno scendere a compromessi con il mondo storico, quasi fosse necessario «fare con avversione ciò che il dovere impone».  La rivolta della legge del cuore o il delirio della presunzione: I masnadieri Karl Moor, protagonista del primo dramma schilleriano, diviene brigante nel tentativo di ristabilire la reale autonomia della condizione eroica ed entra in conflitto con un ordinamento che avverte meschino ed opprimente delle sue alte aspirazioni. L’assalto all’ordine sociale del mondo moderno è condotto sotto le bandiere di un ideale eroico tanto astratto quanto enun-

. Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XIII, pp. - (trad. it. cit., pp. -). . Cfr. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Gesammelte Werke, in Verbindung mit der deutschen Forschungsgemeinschaft hrsg. v. der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner, Hamburg  ., vol. IX, p.  (trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Scandicci , p. ). . Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XV, p.  (trad. it. cit., p. ). . G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, hrsg. v. H. Klenner, Akademie Verlag, Berlin , p.  (trad. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari , p. ).

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ciato con retorico entusiasmo. Moor, angelo dell’apocalisse, si erge contro l’esistente seguendo un solo comandamento: fiat justitia pereat mundum. La Fenomenologia dello spirito dà brillante rappresentazione di tale personaggio nell’uomo della legge del cuore. Egli reagisce all’uomo del piacere di faustiana memoria che, pur disprezzando intelletto e scienza, nell’atto di perseguire uno scopo particolare va al di là dell’individualismo realizzando l’universale. La successiva figura prende coscienza di ciò e dà alla propria individualità una legge. L’universale non è più necessità incomprensibile, destino esteriore, ma mediante la riflessione viene interiorizzato: l’ideale è presente nel particolare, l’universale nella soggettività. Il desiderio di godere del mondo, di farlo proprio non è più vana protervia, ma acquisisce una necessità che sostanzializza l’individualità. Tuttavia la legalità che la coscienza dà alla sua brama di farsi mondo ha ancora la forma dell’immediatezza. Mera legge del cuore, è contrapposta nella sua purezza ad una realtà che gli rimane imperscrutabile, un negativo con cui entra in conflitto, cedendovi senza vera lotta come ad un cieco destino. Prodotto del suo operare è un effettuale contrapposto all’ideale astratto del movente: «violento ordine del mondo contraddicente alla legge del cuore; ed è, d’altra parte, un’umanità sofferente sotto di quello, la quale, invece di seguire la legge del cuore, sta soggetta ad una necessità estranea». Moor, uomo della legge del cuore, vive il contrasto lacerante fra volontà di attuare l’ideale e risultato della propria azione: nell’effettualità che realizza non può riconoscersi, considerando l’universale quale in sé essente. Karl reagisce ad un mondo dominato dall’uomo del piacere, al cui particulare è sacrificato ogni valore. Egli sa di avere in sé un movente universale che lo pone su di un piano superiore rispetto al mondo invertito. Diviene così masnadiero, sebbene la sua volontà pura gli impedisca il godimento dei misfatti. L’universalità della legge, che lo fa credere al di sopra del principio moderno della particolarità è, difatti, inestricabilmente connessa alla sua individualità. L’universale viene a coincidere contraddittoriamente con l’immediatezza del volere soggettivo il quale, una volta preso coscienza di ciò, se lo contrappone e lo rende astratto. Moor si batte coraggiosamente contro l’ingiustizia sociale, ma con una violenza nichilista incapace di dar corpo all’ideale, e alla dura lex del reale oppone l’indeterminatezza della legge del cuore. Il Kraftgenie si condanna alla perpetua esclusione dalla società civile, ad esser superuomo o demonio; contrasto apparente, dal momento che i due opposti trapassano inevitabilmente l’uno nell’altro. Il titanico scontro fra soggetto ed ordine costituito si conver-

. Cfr. F. Schiller, Die Räuber, atto I, scena II, NA, III, p.  (trad. it., I masnadieri, in F. Schiller, Teatro, Einaudi, Torino , p. ). . Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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te nella mefistofelica contrapposizione del particulare alla vita etica della società civile. L’alto fine pare giustificare ogni mezzo e Karl sacrifica al proprio ideale ogni determinatezza etica. La vendetta universale del cuore contro un ordine sociale estraneo diviene vendetta privata che, nonostante il pathos morale, si trasmuta nel suo opposto: il delitto, «in quanto racchiude in sé il torto che vuol distruggere». Pur disposto a sacrificare il proprio immediato godimento al benessere generale, Moor commette atti illeciti. L’universale è reso soggettivo dando parvenza di legalità anche alle azioni più basse e delittuose, in quanto portato della legge del cuore. Il risultato criminoso delle azioni di Karl non è voluto, è frutto di un tragico equivoco ma, d’altra parte, «solo dei giovinetti possono lasciarsi sedurre da questo ideale di masnadiero». Pur percorrendo sino in fondo il rovinoso destino del brigante, Moor mantiene tuttavia inalterati i tratti sublimi del suo carattere, volti a punire l’ingiustizia dei potenti ed a soccorrere gli umili. La sua condotta individuale si è liberata dei tratti edonisti propri della precedente figura della ragione attiva e ha di mira non il benessere del singolo, ma del genere. Il fine di Moor, a differenza dei personaggi del dramma moderno che muovono da scopi meramente individuali, riesce a fondere la soggettività agente con il fine di un completo rovesciamento dell’esistente. Nondimeno l’aspetto sostanziale del fine entra in contraddizione con l’individualità che se ne fa portatrice la quale, non disponendo di mezzi adeguati, tenta di servirsi di altri individui. Essi sono strumenti e non fini, cosicché i loro scopi divergono da quelli di Moor sino a rendergli impossibile ogni tentativo di ricomposizione. Nel suo titanico sforzo per rendere effettuale la legge del cuore, Karl entra in conflitto con l’eguale diritto degli altri a realizzare la propria legge. Egli, tuttavia, nel loro agire non vede che scopi particolari, dunque, malvagi; non può riconoscersi nel risultato del proprio operare, essendo prodotto dell’agire di tutti e nessuno, quindi viziato dal particolarismo che muove l’azione altrui. L’esito dell’agire individuale mantiene solo la forma dell’universale, mentre nel contenuto i singoli non trovano realizzata la legge dei propri cuori e, dunque, si rivoltano contro l’effettualità che considerano prodotto di fini estranei. Così, l’individualità agente esperisce il destino tragico di non potersi riconoscere nell’effettualità cui in realtà appartiene, poiché è anche prodotto del suo operare. Il suo agire è rivolto contro il corso del mondo del quale tuttavia, in tal modo, riconosce inconsa. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XIII, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, cit., pp. ,  (trad. it. cit., pp. , ). . Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XIII, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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pevolmente la sostanzialità, poiché il suo cuore mira inevitabilmente a farsi realtà. L’opera finisce per aver il sopravvento su chi la compie e, sebbene la coscienza non vi si riconosca, è prodotto della sua azione; essa «non è più la morta necessità, anzi la necessità in quanto vivificata dall’individualità universale». La realtà ora non è più in contraddizione con le volontà dei singoli in quanto è risultato del loro operare mosso da volontà razionale. Pur ostinandosi a non riconoscervisi la coscienza fa «l’esperienza che l’effettualità è un ordine vivificato» dall’agire secondo la legge di tutti i cuori. Il prodotto della tragica esperienza della rivolta dell’individualità è contraddittorio dal momento che l’ordine contro cui si scaglia è risultato dell’agire sulla base della legge del cuore, dunque un’oggettività invertita. La volontà agente di Moor, in sé volta al bene, precipita nel delirio della presunzione di conservarsi nel suo togliersi nella libera effettualità universale. L’uomo della legge del cuore proclama: «segua ognuno la propria coscienza e tutti parteciperanno immediatamente dell’universale», ma ciò è destinato a rivelarsi pia e vana intenzione poiché tale principio si deve compiere in un reale alla soggettività ostile. Vi è discrepanza fra intenzione del singolo cuore e suo realizzarsi nell’universale reale: è la tragedia dell’azione che deve sacrificare il proprio movente soggettivo ad un oggettivo, deve immolare l’individualità per ritrovarla nella cosa stessa. L’ideale che deve essere realizzato non è astratto universale essente in sé, ma prodotto della libertà soggettiva e della necessità del contesto in cui si dispiega. L’azione di Moor ha quale scopo la realizzazione dell’ideale ma, ostinandosi a ripudiarne il prodotto, precipita nella follia della presunzione: «il batticuore per il benessere dell’umanità passa nello smaniare della sconvolta presunzione, nella furia della coscienza per conservarsi contro la sua distruzione». Dal momento che l’individualità, la quale pretende di aver in sé immediatamente l’universale, è un che di contraddittorio, lo è egualmente il prodotto del suo operare, che essa misconosce e denuncia come inversione dell’universale. Per sottrarsi all’irrisolta contraddizione fra riconoscere o ripudiare il risultato del proprio agire, la coscienza precipita nel delirio della presunzione; rigetta tale contraddizione facendone un altro da sé. Tuttavia, il tragico destino di Moor lo condurrà a comprendere l’assurdità della sua pretesa di rendere migliore il mondo mediante il delitto e di salvaguardare la legge nella sua purezza con la rivolta. I rapporti etico-sociali che denuncia come arbitrari sono prodotto anche del suo operare. Il tragico de. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. Schiller, Die Räuber, atto V, scena II, NA, III, p.  (trad. it. cit., p. ). . Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, La Nuova Italia, Firenze , p. .

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stino di Karl rende evidente come in realtà il corso del mondo non sia in sé e per sé l’inversione della virtù, ma sia portato dei fini particolari che lo animano. Si arriva così alla catastrofe finale, prodotto di una doppia inversione: Moor non riconosce l’eticità sottesa al mondo in cui vive e sacrifica alla propria utopia il legame etico che lo lega al padre ed alla donna che ama. Al contempo, divenendo cosciente che tale rovesciamento è risultato del proprio agire necessariamente particolare, immola all’eticità statuale la propria persona. In tal modo, Karl intende ricostituire l’eticità violata con il sacrificio della propria particolarità, ma così consegna al boia con la sua soggettività il fondamento stesso della libertà dei moderni. L’intero portato della modernità è immolato in nome di un’eticità apparente che sussiste solo attraverso la negazione, il mancato riconoscimento del singolo. L’ordine costituito è invertito, realizzato mediante un’individualità deprivata di sostanzialità. L’eticità vigente è portato del conflitto delle soggettività agenti che tentano di rendere effettuale la legge del proprio cuore, entrando inevitabilmente fra loro in collisione. L’ordine positivo si rivela configurazione particolare del corso del mondo e della sua stabilità fittizia, in quanto muta secondo i rapporti di forza che regolano lo scontro fra differenti leggi del cuore. Così, nel destino tragico di Karl vi è un che di fatale, dovuto all’epoca in cui agisce, la quale racchiude in sé gli aspetti più deteriori del feudalesimo in decomposizione e della società borghese in gestazione. Il disperato tentativo di mantenere il potere da parte della classe feudale, portata ad assumere atteggiamenti sempre più dispotici, convive con l’egoistica prosaicità della società borghese. La ribellione di Moor ha di mira tanto la tirannide feudale quanto il filisteismo antieroico della società civile moderna. Dunque, la metamorfosi del giovane che pretende di essere un Bruto in un Catilina ha qualcosa di fatale che rende tragico e non orribile il suo destino; non è fallimento individuale, ma rovinoso precipitare di un’epoca della storia universale. Lo stesso destino tragico di Moor porta in sé la conciliazione. La propria sofferenza gli fa riconoscere l’unilateralità del proprio operare. Egli comprende la colpa tragica, si assume la responsabilità del risultato d’un agire inconsapevolmente delittuoso. In tal modo l’inversione non è più attributo del corso del mondo, ma si rovescia sulla moderna individualità che deve sacrificarsi. L’uomo della legge del cuore è trapassato nella superiore figura dell’uomo della virtù nel momento in cui prende coscienza che l’inversione è nella sua individualità e non nella realtà con la quale, tuttavia, la soggettività rimane inconciliabile. L’uomo della legge del cuore, nonostante il furore della lotta intrapresa contro l’eticità costituita, è costretto a riconoscere come essa conservi la propria legittimità. È anzi necessario preservarla dalla presunzione del singolo che si ostina a contrapporvi la propria norma individuale, poiché ha ricevuto la sua libera effettualità dagli in

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dividui che la innervano e solo in essa raggiungono consapevolezza di sé quali enti generici. Sebbene essi possano a tratti ribellarvisi, opponendogli le mere opinioni soggettive del proprio animo, «tuttavia col cuore loro sono attaccati a esso ordine come all’essenza loro; ché se quest’ordine viene tolto, o se essi se ne pongono fuori, perdono tutto». Nella prospettiva della virtù il corso del mondo è prodotto del conflitto fra singolarità, ma è insieme vivente sostanza effettuale, ragion per cui Moor finisce col riconoscere la legalità vigente, cui immola la propria individualità. La nuova figura ricorda il marchese di Posa – volendo liberare l’in sé della legge nella sua realizzazione fenomenica dal gioco delle soggettività – e finirà per confliggere con il corso del mondo, ineluttabilità vivificata dall’individualità universalizzatasi. La coscienza, pur riconoscendo al corso del mondo legalità e necessità, intende purificarlo dagli interessi particolaristici che vi si insinuano. Nella sua effettualità esso è preda di brame individuali e, dunque, di contro la coscienza erge la sua essenza, l’in sé buono che può realizzarsi solo a discapito della soggettività che se ne è fatta interprete.  Dal destino dell’anima bella alla tragedia socratica: il Wallenstein Fra i drammi del giovane Schiller e le opere mature intercorre una decade nella quale egli riconsidera profondamente la sua attività di drammaturgo, mediante lo studio approfondito della filosofia di Kant e Fichte, rielaborando produttivamente le loro concezioni morali ed estetiche. La trilogia Wallenstein (-) è l’opera della maturità di cui si è maggiormente occupato Hegel. In essa Schiller ritorna sulle problematiche dei lavori giovanili mediandone riflessivamente la trasbordante soggettività, sublimandola in un dramma compiutamente realista. Egli ha un rapporto più riflessivo con la materia che forma ed è in grado di vivificarla con il suo elevato pathos morale senza scadere nel retorico. Schiller ha approfondito lo studio dei tragici greci, nel tentativo di far rinascere in epoca moderna personaggi all’altezza del dramma classico. Tuttavia, se nei Masnadieri affrontava in modo immediato tale problematica – con un personaggio che è costretto a farsi brigante per riconquistare l’autonomia d’azione –, la questione è ora riconsiderata riflessivamente. Schiller mette in scena la tragedia stessa della . Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Cfr. F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano , pp. -. . Cfr. S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia, La Nuova Italia, Firenze , p. . . Cfr. Lettera di Schiller a Körner del  novembre , in Schiller, Schillers Werke, cit., vol. XXIX, p. .

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modernità, in cui gli uomini non agiscono più sulla base di doveri naturali, ma vivono al loro interno la lacerazione fra sostanza etica e soggettività. Considerate le difficoltà di rappresentare immediatamente l’intimità della tragedia vissuta da Wallenstein, Schiller nella prima parte della trilogia affida all’esercito il compito di introdurre la contraddizione in cui si dibatterà in seguito il protagonista. Se nel Prologo Schiller traccia lo sfondo, nella seconda parte analizza tutte le problematiche che rendono arduo nella modernità il prodursi di un’azione tragica e difficile il rappresentarla. Schiller illustra qui le difficoltà della rappresentazione moderna di tale tragedia, dal momento che essa non si esprime più nella forma immediata dell’azione, ma si svolge internamente al protagonista. Solo nella terza parte, La morte di Wallenstein, Schiller mette in scena una tragedia tradizionale, un’azione che produce un destino tragico. Hegel si occupò della trilogia immediatamente dopo la sua pubblicazione per poi ritornarvi nelle lezioni di estetica. L’opera «contiene un duplice destino di Wallenstein: l’uno, il destino del determinarsi di una decisione, l’altro, il destino di questa decisione e della reazione ad essa. E l’uno e l’altro può essere considerato per se stesso come un tragico tutto». Il primo mette in scena la struttura tragica dell’azione, componente essenziale della tragedia dell’assoluto, della sua necessità di abbandonare la mera sostanzialità metafisica. Il soggetto deve separarsi dall’identità immediata con sé, dall’astratta infinita possibilità del suo arbitrio per realizzarsi nell’effettuale, nella tragica lotta con l’altro sulla scena del mondo storico. La tragica lacerazione che anima la prima parte della trilogia è, dunque, quella fra volontà agente del soggetto (Wallenstein), che si muove nell’ambito tragicosublime della possibilità astratta, e mondo reale, in cui si viene attuando l’azione che ne influenza in maniera imprevedibile il risultato finale. Nella breve recensione al Wallenstein è possibile individuare una delle prime esposizioni della dialettica della volontà hegeliana, in cui l’astratta indeterminatezza dell’arbitrio si rivela progressivamente nella sua radicale finitezza. Si tratta di un destino tragico che si acuisce nel mondo moderno in cui l’uomo nel suo determinarsi, in ogni caso colpevole, non è più mosso come nell’antichità dalla sostanza etica. La scommessa dell’azione è divenuta più

. Osserva Schiller: «Ma, nelle schiere ardite che il suo comando guida e il suo spirito anima, incontrerete la sua ombra; finché fatta più ardita la timida Musa lo metterà dinanzi a voi vivo e parlante»: F. Schiller, Wallenstein, Prolog (trad. it. in Schiller, Teatro, cit., p. , Prologo). . Nei primi anni di Jena Hegel scrisse una breve e solo apparentemente marginale recensione Sul Wallenstein di Schiller; cfr. G. W. F. Hegel, Über Wallenstein, in Id., Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. I, pp. - (trad. it. di F. Valori in Sul Wallenstein. Chi pensa astrattamente?, Cadmo, Roma , pp. -). . Hegel, Über Wallenstein, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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ardita e rischia incessantemente di rimanere intrappolata nel conflitto dei doveri. Nel primo destino, dunque, Hegel analizza la lacerazione interiore di Wallenstein fra dovere di fedeltà all’imperatore e volontà di potenza finalizzata ad una radicale e progressiva trasformazione del mondo storico, che ne fa un personaggio moderno più vicino ad un Amleto che all’eroe della tragedia classica. Tale duplicità lo rende più complesso, in grado di raccogliere in sé le caratteristiche unilateralizzate nei personaggi della produzione giovanile, spesso immediate personificazioni di principi contrapposti. Nel carattere di Wallenstein convergono e si fondono pienamente elementi apollinei e dionisiaci che si ripresentano in forme opposte in diversi personaggi del dramma, risolvendone la contraddittoria complessità in una determinazione unilaterale. L’approfondimento degli studi storici consente a Schiller di rappresentare un personaggio maggiormente concreto, pienamente realista nella sua multilateralità, in cui è possibile ritrovare le figure della ragione attiva che abbiamo incontrato, riconsiderate all’interno del conflitto in cui è scisso Wallenstein fra uomo della virtù e del corso del mondo. Sin dal Prologo l’ombra di Wallenstein dominante sull’accampamento si presenta con un’aura demoniaca che ricorda il faustiano uomo del piacere. Il protagonista è prigioniero di una nefasta hybris che lo spinge non solo a trattare separatamente con i nemici, ma a considerare familiari ed amici meri strumenti al servizio della propria volontà di potenza. Wallenstein è personaggio emblematico del dramma moderno, in cui le dramatis personae non sono mosse da valori etici costituiti, ma dalla soggettività particolare. L’io ipertrofico di Wallenstein assolutizzando la propria finitezza tenderà a misconoscere la razionalità del reale, la ragionevolezza del corso del mondo, vedendovi un cieco fato. Al reale operare dei singoli che mirano alla realizzazione di bisogni particolari fa riscontro la mera formalità negativa dell’universale, l’astrazione della necessità. D’altra parte la personalità di Wallenstein va oltre la Begierde, esigenza immediata di soddisfazione degli istinti; uomo della legge del cuore, egli avverte la destinazione a divenire personaggio storico-universale. Il suo dominio sull’esercito, sui generali è dovuto non solo ai vantaggi che ha recato loro mediante il modo disinvolto con cui ha condotto la guerra, ma all’innegabile carisma che promana dalla sua personalità che pare destinata . Cfr. A. Caracciolo, Arte e linguaggio, Mursia, Milano , p. . . Cfr. Th. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano , p. . . Wallenstein: «Anche le azioni degli uomini sono una seminagione di fatalità sparse negli oscuri campi dell’avvenire, affidate fiduciosamente alle forze del destino». Schiller, Wallenstein, cit., Die Piccolomini, vv. - (trad. it. cit., p. , I Piccolomini, atto II, scena VI).

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a condurli ad obiettivi grandiosi. Gli scopi universali (pacificazione ed unificazione della Germania, superamento delle guerre di religione) sono immediatamente uniti alla sua individualità, servendosene in quanto utili ai suoi interessi particolari. Wallenstein concede alle truppe massima libertà di opinione, ma al contempo pretende cieca obbedienza. Egli avverte tanto intensamente la sua alta destinazione, pensa talmente in grande da precipitare nella rovinosa hybris della presunzione. La legge del cuore, un che di particolare, deve avere valore universale, il corso del mondo deve sottoporsi al suo arbitrio. Il delirio della presunzione è prodotto dei successi di Wallenstein: un patrimonio enorme investito nell’acquisto di terre in Boemia in cui batte moneta e l’impedimento dell’avanzata svedese con un esercito creato autonomamente lo fanno credere indispensabile all’impero. All’apice del potere, considera lo stesso imperatore alleato temporaneo con cui trattare, come faceva con gli altri sovrani e principi implicati nel conflitto, senza vincolarsi a nessuno. Il suo attendismo, volto a ricercare le condizioni per la fine d’una guerra che aveva sterminato oltre un terzo della popolazione dell’impero, suscitava notevoli preoccupazioni a corte. Quanto più a Vienna dubitano e tramano per metterlo da parte, tanto più Wallenstein si sente legittimato a muoversi autonomamente. Egli pare aver riconquistato la libertà d’azione dei personaggi tragici classici, sebbene permanga una differenza sostanziale: Wallenstein non segue la sostanza universale, ma è mosso dalla legge del cuore e, dunque, finisce necessariamente per scontrarsi violentemente con le norme etiche costituite, cui non riconosce validità. Non solo non ha scrupoli a trattare segretamente con i nemici, ma considera le lotte di religione che sconvolgono l’Europa da un punto di vista soggettivo, pronto a mutare confessione secondo le circostanze. Le diversità nazionali e di classe hanno per lui validità relativa; rifiutando di prender partito mira a mantenere intatto l’ambito potenzialmente illimitato del suo arbitrio, che ritiene al di sopra delle parti. Giunto all’apice il delirio della presunzione si rovescia nel suo contrario: ciò che ha considerato mera esteriorità, impaccio alla realizzazione dei propri scopi si rivela il fondamento della convivenza civile. Il corso del mondo è stato avversato dalla coscienza individuale, dal momento che non corrispondeva al suo ideale e tuttavia, nella sua universalità, esso è pur sempre attuazione delle soggettività che vi si oppongono. Wallenstein ha esperito come ciò cui si è contrapposto non sia meramente positivo, ma abbia una validità destinata a durare nei secoli: sono le consuetudini, la fedeltà ai valori costituiti. La volontà soggettiva che pretendeva di riconoscere uni. Cfr. F. Valori, Introduzione a Hegel, Sul Wallenstein, cit., p. . . Cfr. F. Schiller, Geschichte des Dreissigjährigen Krieges (trad. it. di L. Mazzucchetti, in F. Schiller, Scritti storici, Mondadori, Milano , pp. , ).

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camente quel che è conforme alla legge del cuore comprende che la propria legalità interiore se vuol esser riconosciuta all’esterno deve conformarsi a ciò che ha valore nel proprio tempo. Dal delirio della presunzione Wallenstein trapassa nell’uomo della virtù: non solo ha esperito la potenza dell’ordine costituito, ma ne ha interiorizzato la validità universale. Prendendo coscienza della sua annichilente astrattezza, la concezione negativa della soggettività assoluta precipita in un horror vacui che la spinge a ricercare un contenuto esteriore. Dopo averlo sussunto acriticamente dal mondo empirico, Wallenstein lo ipostatizza nel sovrasensibile. Egli ha una fede superstiziosa nella necessità universale del corso del mondo, sino a credere i destini degli uomini regolati secondo un saggio fine dagli astri. Per evitare di assumersi la responsabilità storica del suo determinarsi, si appella ad un ente sensibilmente sovrasensibile: il moto celeste, che dovrebbe sovradeterminare il corso degli eventi. La tragica scommessa dell’azione non può evitarsi a meno di non cadere nel destino egualmente tragico dell’anima bella che, non potendo prevedere sino in fondo se le conseguenze del proprio agire siano capaci di conformarsi alla propria destinazione morale, non si determina. La non azione è un agire che contravviene alla norma morale cui pretende di attenersi l’anima bella, ovvero che l’operare debba adeguarsi unicamente ai dettami della legge interiore. L’affidarsi agli astri di Wallenstein è un abbandonarsi alle determinazioni delle volontà agenti che lo circondano. Tuttavia l’universale, il bene in sé che deve essere realizzato liberando il corso del mondo da ogni arbitrio, permane opposto all’esistente, non si concretizza. La razionalità che si cela negli eventi è mero in sé opposto ai diversi tentativi di determinazione che ne danno i singoli. Così Wallenstein, nel momento in cui si decide ad enunciarla, non si sottrae alla verbosità parolaia che Hegel rimprovera all’uomo della virtù. L’universale resta un bene indeterminato che si manifesta negativamente nell’opposizione tanto alla concezione che ne hanno i singoli, quanto alla legalità vigente, all’eticità costituita. Gli scopi di Wallenstein sono tanto astratti che non solo egli non è in grado di realizzarli, ma neppure di concepirli per sé in forma concreta. Le sue azioni sono rivolte principalmente a vanificare ogni tentativo compiuto dagli amici per risolverlo alla determinazione o dai nemici che, con il loro operare, lo costringono all’azione. Tutto ciò gli appare una forzatura soggettiva in grado di contaminare il corso naturale delle cose. Wallenstein è sin troppo cosciente della colpa tragica che si lega alle conseguenze dell’agire, portando in sé l’esperienza dell’uomo della legge del cuore, e teme di sacrificare il regno indeterminato della possibilità, in cui si è baloccato, alla necessità della singola determinazione. Nel dualismo fra coscienza e corso del mondo, la volontà di Wallenstein non è scopo in sé del proprio operare, ma mera possibilità che non ha saggiato la sua capacità di farsi corso del mondo. La tragedia di Wallenstein è tragedia dell’anima bel

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la che, ponendo come assoluta la propria astratta soggettività, non può che temere ogni azione in quanto caduta nella colpa del determinato, trapasso nella finitezza. Wallenstein si condanna a tale impasse per la sua fede in un’essenza in sé buona che potrebbe affermarsi unicamente togliendo ogni influenza agli scopi individuali. Dunque, il suo stesso agire per imporre tale bene in sé al corso del mondo dovrebbe cessare, altrimenti l’operare della sua soggettività finirebbe per condizionarlo. Ma con il togliersi dell’individualità «si ottiene egualmente di far posto all’in sé del corso del mondo, per modo che esso può entrare nell’esistenza in sé e per se stesso». Sino al momento in cui Wallenstein rifiuta di assumersi la responsabilità dell’azione storica subisce in modo passivo le determinazioni esteriori in cui si imbatte. Wallenstein, forte dell’assoluta indeterminatezza della possibilità, si credeva invulnerabile dinanzi alle determinatezze; ora vede crollare la sua essenza sotto i colpi della loro effettualità. Sino a quando Wallenstein si pensava mosso da un’assoluta necessità, sconfiggere i nemici suoi e dell’imperatore pareva appartenere all’età eroica. Nel momento in cui la riflessione lo ha condotto a distinguere il proprio sé dall’impero non ha più avversari certi, né amici sicuri. Il suo è il destino del personaggio della tragedia moderna o, meglio, della difficoltà di un’azione tragica nella modernità. Il dubbio amletico-cartesiano gli impedisce di individuare nel suo interno, che ha assolutizzato, un movente reale in grado di giustificare il proprio ardito desiderio d’azione; esso gli si frantuma in una molteplicità di doveri etici determinati, egualmente universali ed in conflitto. Si pone dunque nella tormentata attesa d’una necessità esteriore che lo determini, ma quando ciò accade la sua condizione è radicalmente mutata: non essendo più lui l’artefice, essa è prodotto delle azioni dei nemici e di calcoli errati degli amici. L’attesa epifania della necessità gli si manifesta nel suo aspetto più crudo – destino spietato in cui non può riconoscersi –, nel realista della politica, Ottavio Piccolomini, uomo dell’ordine costituito. Wallenstein, che credeva con il suo temporeggiare di cogliere alle spalle il corso del mondo, finisce senza colpo ferire nella sua rete. Il suo dover fare di necessità virtù e risolversi all’azione gli pare annientamento dell’autonomia soggettiva, necessità contrastante tanto la propria libertà quanto la sua colpa reale. In realtà tale destino non è altro che conseguenza della volontà agente ancora inconsapevole di Wallenstein. Si manifesta, infine, l’agognato destino cui attribuire la responsabilità del determinarsi di quel suo contraddittorio volere che intendeva realizzare i propri scopi senza farsi carico della necessaria colpa di rottura del giuramen. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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to che lo legava all’imperatore. Certo, il risolversi del singolo all’azione non avviene nel vuoto – inevitabilmente condizionato dal mondo in cui si dispiega – ma ogni singolo rimane responsabile, in ultima istanza, del proprio destino. La colpa dell’azione di fronte a cui aveva indietreggiato gli si rivela una necessità. I suoi arditi piani volti a mutare radicalmente l’ordine esistente rimangono volgare lesione del diritto se permangono in potenza. Solo attuati con determinazione si fanno storia e, se riescono, la colpa da cui muovono verrà perdonata. Nella prospettiva assunta di uomo del corso del mondo i rapporti fra le persone non si fondano su doveri, sulla fedeltà propria dell’eticità del tempo, ma unicamente su rapporti di forza e sulle occasioni che si hanno per volgerli a proprio favore. Wallenstein è ora in grado di svincolarsi dalla vana rappresentazione di un bene in sé dietro le parvenze del corso del mondo, che gli impediva di passare all’azione, rendersi artefice e non vittima della storia. Pur consapevole della difficoltà di affrontare a viso aperto la tradizione, Wallenstein è oramai cosciente che l’uomo del corso del mondo è demiurgo della storia e dell’ordine morale, che esiste un bene in sé solo in quanto è stato anche per lui e, dunque, non può farsi soverchi scrupoli di valori etici consolidati, ma resi positivi dallo spirito del mondo che ha impartito al tempo l’ordine d’avanzare. Il possessore di fatto lo diviene di diritto e gli uomini, come hanno venerato e si sono attenuti all’ordine precedente, così faranno con il successivo. Wallenstein non teme più il giudizio del cavaliere della virtù, ora impersonato da Max Piccolomini, né le anime belle come la duchessa; ha fatto esperienza del loro destino di ignavia al quale si è in ultimo sottratto. Dinanzi a Max che lo rimprovera d’aver tradito le comuni convinzioni morali, Wallenstein controbatte insistendo sull’infantilismo e sull’impotente retorica di tale posizione. Il suo edificante appello a fini universali è vuota declamazione, dal momento che pretende di cogliere l’essenza del reale astraendo dalla concretezza. È vano pavoneggiarsi con un’essenza indeterminata, che cela unicamente l’alta considerazione di sé che ha chi la enuncia. I suoi entusiastici slanci sono incapaci di incidere sul reale, poiché non ne comprendono la dura legge che lo regola: «regna per tutto la lotta, e sola la forza vince». Di fronte all’uomo del corso del mondo, l’uomo della virtù nella sua irresolutezza è corresponsabile degli eventi che pomposamente critica. Nella prospettiva di Hegel tale confronto rappresenta la presa di coscienza da parte di Schiller dei limiti intrinseci all’uomo della virtù della filosofia kantiana e l’intuizione di quell’uomo del corso del mondo che ne costituirà il superamento nella Fenomenologia e nella filosofia della storia. Gli . Schiller, Wallenstein, cit., Wallensteins Tod, v.  (trad. it. cit., p. , La morte di Wallenstein, atto II, scena II).

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sforzi dell’uomo della virtù non sono stati vani: nella lotta ha sottoposto la propria individualità passionale alla rigida disciplina dell’universale. Tuttavia, si tratta d’un universale formale che opprime ogni forza vitale dell’uomo sotto il suo rigido dominio. Ciò pare corrispondere alla critica di Hegel al kantismo, cui rimprovera d’aver voluto rimuovere passioni ed amor proprio quali motori dell’azione per il mito d’una perfezione interiore che nasconde in sé l’anima bella. A parere di Hegel tanto le passioni quanto l’individualità non sono solo insopprimibili, ma costituiscono il fondamento necessario dell’operare umano e, dunque, la colpa della loro unilateralità può esser conciliata nell’opera. Il bene in sé diviene effettuale solo quando l’azione lo rende vivente nel per sé dell’individuo, diversamente rimane indeterminato e, quindi, è il contrario della pienezza di contenuto dell’essenza. L’estremo tentativo di difendere la purezza interiore crea nell’anima bella l’illusione che il tragico esempio del proprio immolarsi debba favorire la lotta che l’intima essenza del corso del mondo avrebbe segretamente condotto per affermarsi scevra di scopi particolari. Pia illusione, dal momento che l’uomo del corso del mondo riporta tutto al proprio per sé e, dunque, non può esser preso alle spalle da nessun bene in sé che al di fuori di lui è materia inerte. L’individualità rigettata dall’uomo della virtù è il principio stesso dell’agire, che consente all’in sé di passare dal vuoto dell’astrazione all’effettuale. Per Hegel, infatti, l’in sé non è altro che «immediatamente la presenza ed effettualità del processo dell’individualità». Hegel riconosce alla riflessione estetica e alla produzione drammaturgica di Schiller «il grande merito di aver infranto la soggettività e l’astrazione kantiana del pensiero e di aver avviato il tentativo di andare oltre e di concepire concettualmente l’unità e la conciliazione come il vero e di realizzarle artisticamente». Wallenstein si vede costretto ad abbandonare il punto di vista della coscienza, della scissione che costantemente riproduce fra soggetto ed oggetto. Egli assoggetta il bene in sé che lo aveva dominato, ponendo l’intera essenza nell’individualità agente. Mentre dal punto di vista teoretico la coscienza ha esperito una razionalità in sé universale che, indipendentemente dall’individuo, riceve dall’esterno i diversi contenuti con cui ha a che fare, l’uomo della ragione attiva determina se stesso e ciò gli dà potere sul mondo. Risolvendosi all’azione, Wallenstein porta a compimento il primo destino svincolandosi dall’impasse del dubbio interiore che dilania l’uomo moderno, il quale ha di contro all’astratta possibilità dell’arbitrio «nel termine una realtà, un qualitativo esser altro». Lo scontro cui si ri. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XIII, p.  (trad. it. cit., pp. -). . G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Die Lehre vom Sein (), in Id., Gesammelte Werke, cit., vol. XXI, p.  (trad. it. di A. Moni, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari , vol. I, p. ).

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solve richiede armi specifiche cui non può rinunciare se non vuol seguire Max nel destino tragico dell’anima bella. Riconciliandosi con il corso del mondo Wallenstein si determina a schierare le proprie forze con gli svedesi, che gli paiono maggiormente adeguati ai suoi scopi: pace per il paese e corona boema per sé. Sono ora ricompresi e superati nel suo per sé tanto l’uomo del piacere quanto la legge del cuore. L’azione secondo lo scopo individuale è immediatamente operare per la realizzazione dell’ordine assoluto che non riconosce più l’ordine vigente che gli si contrappone. Tale azione innesca, necessariamente, un nuovo destino tragico: il conflitto fra individualità agente e principi etici costituiti. L’esito del destino è quanto mai incerto: la soggettività può farsi volontà concreta solo togliendosi nella realizzazione del corso del mondo. Il suo svolgimento, tuttavia, non gli appartiene, è opera di tutti e ciascuno, e nessuno ne può prevedere sino in fondo gli incerti esiti. Wallenstein ha preso nelle sue mani il destino di personaggio storico-universale e la sua azione, dal punto di vista hegeliano, non può giudicarsi con il criterio dell’imperativo categorico, ma secondo la filosofia della storia. Hegel pare particolarmente interessato ai risvolti politici di tale azione, su cui Schiller aveva richiamato l’attenzione nel Prologo. Il poeta sembra stabilire un legame fra gli avvenimenti del dramma di Wallenstein e la situazione della Germania di fine Settecento, terreno dello scontro apertosi in Francia «fra due grandi principi umani: autorità e libertà». Come molti intellettuali tedeschi Schiller, acceso sostenitore della Rivoluzione francese, aveva assunto dopo il Terrore una posizione critica, accentuatasi con il progressivo mutarsi della guerra rivoluzionaria francese in guerra di conquista. Schiller non intendeva rinunciare agli ideali della Rivoluzione, ma ne temeva un’affermazione troppo radicale da parte di masse non ancora educate, che avrebbe travolto l’intero ordine costituito confondendo libertà ed arbitrio. La Guerra dei Trent’anni presentava notevoli analogie con tale situazione, consentendo di affrontarla in modo più mediato, evitando le insidie della censura. Anche in tal caso vi era stata una profonda rottura nel corso del mondo, la Riforma protestante, che prometteva un incremento degli spazi di libertà. Schiller, pur sostenendone lo spirito, ne coglieva i rischi: nelle mani di contadini rozzi essa diveniva rifiuto dell’intero ordine costituito. Inoltre, proprio durante la Guerra dei Trent’anni le esigenze restaurative dell’autorità avevano costretto i riformati ad invocare l’aiuto di potenze straniere, le cui truppe avevano permesso di salvaguardare importanti spazi di libertà contribuendo, al tempo stesso, a mettere a ferro e fuoco il paese senza nascondere mire di conquista territoriali. Dunque, anche in tal caso, intellettuali favorevoli alla Riforma quali Schiller si . Schiller, Wallenstein, Prolog (trad. it. cit., p. , Prologo).

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dovevano identificare con Wallenstein, lacerato dalla scissione tra fedeltà all’autorità costituita e adesione del proprio animo alla libertà di cui si erano fatti paladini i nemici della patria. Anche Hegel all’epoca della recensione Sul Wallenstein viveva un’analoga Trennung. I francesi, portatori di significative riforme strutturali che assicuravano alla Germania una rapida modernizzazione, univano immediatamente nel loro operare al fine universale uno particolare, in contraddizione con il primo. Al di là delle riforme liberali lo sviluppo del paese passava attraverso la sua riunificazione, contraria agli interessi francesi. Tali problematiche sono affrontate da Hegel in uno scritto quasi coevo alla recensione: La Costituzione della Germania. In esso egli individua le origini della tragedia tedesca del tempo proprio nella Guerra dei Trent’anni. Richelieu, prototipo dell’uomo del corso del mondo che si eleva a personaggio storico-universale, nella realizzazione del suo fine sostanziale – fare della Francia uno Stato moderno rafforzando lo Stato nazionale – porta avanti anche uno scopo particolare: l’indebolimento del paese confinante. Dunque Hegel, che condivide con Schiller e con molti intellettuali del tempo un forte scetticismo per l’iniziativa popolare, crede necessario anche per la Germania un personaggio simile, un moderno Teseo. Hegel doveva considerare con grande interesse la figura di Wallenstein che dapprima aveva mirato a fare della Germania uno Stato unitario sotto la guida dell’imperatore e in seguito, viste le difficoltà che impedivano tale progetto, aveva cercato di realizzarlo con un accordo tattico con gli svedesi. I suoi scopi particolari corrispondevano agli universali, i suoi mezzi illegali e violenti sono dunque perdonabili in quanto strumentali al porre fine ad una terribile guerra instaurando un nuovo assetto, più liberale del precedente. La condanna di Karl Moor si rovescia nel perdono dei peccati per Wallenstein, dal momento che il primo si era ribellato all’eticità costituita in nome di un principio astratto e meramente particolare quale la legge del cuore, mentre nel secondo l’attacco era volto a concretizzare l’universale nella singolarità. Tuttavia, nonostante Wallenstein non si fosse fatto scrupolo di servirsi di tutti i mezzi necessari, la sua azione innesca il secondo destino tragico della trilogia schilleriana. Esso non è prodotto d’un cieco fato, ma risultato della sua hamartia: «la punizione come destino è la reazione, eguale all’azione del reo, di una forza che egli stesso ha armato». Anche la colpa di Wallenstein ha un aspetto duplice: se per un verso egli ha troppo indugiato, lasciando il tempo ai nemici di preparare adeguatamente le contromosse, per l’altro la sua azione è troppo in anticipo rispetto alle condizioni sto. G. W. F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal, in Id., Werke, cit., vol.

I, p.  (trad. it., Scritti teologici giovanili, a cura di N. Vaccaro, E. Mirri, Guida, Napoli ,

p. ).

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riche. La sua forza è al tempo stesso la sua debolezza: avendo risolto nella sua individualità ogni bene in sé, si è appropriato della potenza del negativo «pel quale nulla è sussistente e nulla assolutamente sacro». L’uomo del corso del mondo non è un demiurgo, può elevarsi ad individuo storico-universale solo in quanto è in grado di orientare, anche inconsapevolmente, il proprio operare sulle linee di sviluppo fondamentali del tempo. Wallenstein è uomo del nuovo mondo, si è fatto da sé ed è cosciente di vivere un’epoca di trapasso; l’ambizione ed il geniale intuito gli fanno cogliere i profondi rivolgimenti che si aprono. Ha compreso appieno la portata storica della Riforma e non ritiene possibile né auspicabile il tentativo dell’imperatore di sopprimerla. Intuisce la necessità di superare i conflitti confessionali che infiammano ed insanguinano l’epoca attraverso la netta distinzione fra Stato e Chiesa. Se dapprima aveva tentato di fare dell’impero uno Stato moderno – accentrando il potere nelle mani dell’imperatore a discapito dei privilegi feudali –, si è ora convinto che le troppe nazioni che lo compongono rendono irrealizzabile il progetto e mira ad uno scopo solo apparentemente meno ambizioso: fare della Boemia uno Stato indipendente. Il destino tragico di Wallenstein non può esser unicamente imputato ad una colpa soggettiva, ma ha natura oggettiva, che rinvia all’epoca di lenta e contraddittoria transizione dal feudalesimo alla società borghese in cui si dispiega. Egli non è travolto da una potenza estranea, ma è lo stesso strumento che aveva predisposto per realizzare le proprie alte ambizioni a venir meno. Il suo esercito era composto di mercenari dei più diversi paesi, confessioni religiose e ceti sociali. La sua grandiosa personalità lo aveva creato dal nulla, ma il suo potere su di esso dipendeva anche dall’autorità dell’imperatore, supremo garante dell’ordine costituito e del pagamento del soldo. Wallenstein vive il destino tragico della scissione fra il suo spirito che si erge al di là delle contraddizioni del tempo e la positività di esso, che resiste ad ogni suo sforzo di razionalizzarlo. «La fine di questa tragedia sarebbe perciò il prendere decisione; l’altra tragedia sarebbe l’infrangersi di questa decisione nel suo opposto; e tanto grande è la prima, tanto poco soddisfacente è per me questa seconda». Nell’esito del secondo destino Hegel vede affermarsi l’orrido più che il tragico, proprio d’una visione del mondo nichilista ed incapace di cogliere la razionalità della storia, la conciliazione quale momento necessario della tragedia. Il concetto di destino tragico di Hegel, al contrario di quello di Schiller, necessita, come la dialettica di cui è l’origine, d’una soluzione. Per risolversi all’azione la soggettività deve porsi assolutamente

. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ). . Hegel, Über Wallenstein, cit., p.  (trad. it. cit., pp. -).

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per sé, rifiutando ogni verità non riconosciuta come tale dal soggetto. L’individualità si estrania dalla totalità del vivente, dalla sostanza etica generando così la colpa ed il destino tragico legati alla determinazione poiché, nel suo opporsi all’Uno-Tutto, si rivela a sua volta un finito. È il destino della finitezza che si deve necessariamente togliere giacché ha il proprio fondamento nell’altro da sé, rispetto al quale si determina negandolo. Il corso del mondo è il portato d’un agire intersoggettivo in cui ogni contributo individuale e la presunzione di assolutezza dell’esser per sé si superano. Il corso del mondo sorge proprio da tale destino tragico del reciproco togliersi dell’operare dei suoi rappresentanti. L’assoluto di cui si era appropriata l’autocoscienza si deve superare nell’altro da sé per potersi ritrovare quale infinito reale e non più apparente, in opposizione ad altro. Il porsi per sé di Wallenstein, il suo aver riassorbito nella propria individualità agente tutte le sostanze etiche, deve necessariamente tramontare come tale, non può sottrarsi al suo tragico destino se vuol vedere realizzato il proprio agire. Il risultato di tale movimento dialettico ha in sé il momento della conciliazione. Ciò non vuol dire che l’individualità come tale debba sopravvivere al suo togliersi per ritrovarsi nell’altro da sé, o che essa debba riconoscersi in esso. Wallenstein all’inizio non si ritrova nel risultato del proprio agire che gli pare prodotto d’una necessità esteriore e finisce per esser travolto in un destino di morte con il suo operare. Tuttavia, come l’atto cui si vedeva costretto era risultato del suo agire non pienamente consapevole, il suo portato per Hegel non va perduto, l’opera intrapresa ha una valenza tanto universale che dovrà imporsi quale corso del mondo. In tale risultato, con il togliersi dell’individualità si supera anche la sua colpa; la finitezza che ne segna il tramonto si ritrova in quanto tolta nell’infinitezza dell’opera cui ha contribuito: il corso del mondo. Mediante il sacrificio tragico dell’individualità l’infinito non è più contrapposto al finito, come nella tragedia senza redenzione dell’anima bella, che in tale opposizione si lacerava o immolava senza ritrovarsi. Nella trilogia di Schiller è dunque possibile rintracciare alcuni aspetti del concetto hegeliano di destino: sia quale portato dell’agire di un’autocoscienza non ancora consapevole del proprio operare, sia quale necessaria punizione della colpa inconsapevole che la determinazione in quanto tale produce. Assai più problematico è rinvenirvi la concezione del destino quale giudizio della storia, del corso del mondo che condanna le anime belle e perdona gli individui storico-universali. È solo parzialmente presente nella prima parte del dramma, mentre viene meno nella sua conclusione, l’accezione secondo cui il giudizio sull’azione del singolo spetta al corso del mondo ed esso non può che assolvere il suo uomo, che lo sostanzia e rende effettuale, dalla colpa di aver individualizzato l’universale. Il Wallenstein di Schiller sembra percorrere solo un tratto del tragico percorso fenomenologico che porta la concezione morale del mondo a togliersi nella filosofia del

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la storia. Nel dramma l’abbandono dell’astratto moralismo ed il riconoscimento del corso del mondo comportano, infatti, la completa perdita della propria identità nell’alterità in quanto tale; non solo al soggetto è precluso il ritrovarsi nella propria opera, ma la catastrofe finale nega anche al per noi dello spettatore, che dovrebbe incarnare l’areopago del corso del mondo, la conciliazione catartica. Il secondo destino assume così le sembianze di un ineluttabile ed incomprensibile fato che travolge il sofferto percorso compiuto dal protagonista. Il dramma non consente allo spettatore il superamento della contraddizione e produce il «mesto ammutolire dinanzi alla caduta di un uomo potente sotto un muto e sordo, cieco destino». Hegel rigetta la conclusione del dramma poiché il suo concetto di tragico è contrapposto alla concezione della tragedia della Reflexionsphilosophie che coglie nel destino unicamente il negativo, la punizione del colpevole e non la negazione della negazione, rosa che germina dalla croce. La Weltanschauung che traspare dalla conclusione del dramma è propria, a parere di Hegel, di quell’illuminismo che ipostatizza il momento della rinuncia, del negativo e non comprende come essa sia in realtà una mediazione necessaria in cui il «finito abbandona la sua inadeguatezza, per permettere allo spirito di giungere ad una più alta libertà e conciliazione con se stesso». In caso contrario si permane nel dualismo che contrappone l’universale al reale quale vuota astrazione dell’intelletto, che non coglie l’immanenza dell’assoluto, la sua conciliazione con il vivente: «Quando il dramma finisce, tutto è concluso; è il regno del nulla, della morte, che è restato vincitore; il dramma non termina come una teodicea». Non si tratta, tuttavia, d’una peculiarità del Wallenstein, ma d’una caratteristica dell’intera tradizione sentimentale moderna, romantica in senso lato. Al tragico della tradizione classica si viene progressivamente sostituendo l’orrido del Trauerspiel, prospettiva in cui la soggettività pare destinata a far getto di sé, a sacrificarsi sull’altare dell’universale: «Vita contro vita; ma contro la vita si leva soltanto la morte e – incredibile, insopportabile! – la morte vince la vita! Questo non è tragico, bensì è orribile! Lacera il cuore, e non ce ne se può levare con animo più leggero!». Con tale affermarsi della necessità storica sulla libertà soggettiva, Schiller pare reagire alla mancanza di sostanzialità del dramma moderno, in cui domina il principio della singolarità e della particolarità dei fini, che rende ardua la rappresentazione tragica. Tuttavia, tale soluzione lo conduce al completo sacrificio della soggettività moderna, ad un destino privo di redenzione: ci si arresta alla negazione indeterminata della negazione senza

. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ibid. . Ivi, pp. - (trad. it. cit., p. ).

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cogliere in essa la conciliazione reale. Il soggetto, che con il suo determinarsi ha negato la totalità della sostanza etica, non deve essere annullato per riconquistarla, altrimenti non vi sarebbe storia, sviluppo dell’eticità. Al contrario, a parere di Hegel la particolarità è conquista imprescindibile della modernità; essa nella rappresentazione tragica deve essere trascesa e non eliminata ad «opera di un superiore governo del mondo». Dunque, Schiller solo apparentemente è in grado di superare le contraddizioni insanabili dei drammi giovanili sulla base della concezione per cui «il tribunale della storia è il tribunale del mondo». Per Hegel il giudizio è della storia universale, opera di tutti e di ciascuno, e non quello particolare del singolo individuo come tale. Il soggetto separato dal risultato di tale operare universale non ha diritto di appello, ma senza il contributo e la tragica responsabilità delle soggettività agenti non si dà universalità. Al di fuori dell’universale che si fa reale nel corso del mondo vi sono solo astrazioni dell’intelletto o azioni meramente particolari, incapaci di incidere sullo sviluppo dell’idea, della libertà nella storia. Perciò, la scelta del soggetto del dramma schilleriano è valutata positivamente da Hegel in quanto mostra la necessità per l’individuo moderno di assumersi le proprie responsabilità nei confronti del corso del mondo e perché l’operare di Wallenstein è diretto ad uno scopo sostanziale attuale nell’epoca del dramma. Tuttavia l’esito dell’azione, preso per sé e nella rappresentazione di Schiller, pare mostrare l’irrealizzabilità di tale alto fine. Si tratterebbe dunque di far emergere le condizioni determinate che conducono alla sconfitta tale azione sostanziale, mostrandone al contempo la necessità e la realizzabilità in situazioni differenti. Il limite della tragedia pare dunque individuabile in un eccessivo rispetto del materiale storico. L’arte, in quanto prodotto della razionalità, per Hegel, è superiore alla narrazione storica, la quale ha necessariamente a che fare con l’altro da sé, con le condizioni determinate in cui la sua azione si dispiega, mentre la forma artistica ha la possibilità di liberarsene in misura maggiore plasmando più liberamente il proprio materiale. Se la sostanzialità del movente che spinge all’azione dipende dal suo risultato – che trascende la mesta fine di questo singolo e traluce in una visione universale del processo – l’artista avrebbe dovuto scegliere un materiale differente o assumere maggiore distacco dal proprio oggetto nella rappresentazione. In altri termini il poeta, decidendo di rappresentare un evento storico, ne deve trascendere i limiti strutturali se vuole condurre a compimento il destino tragico. La prospettiva . Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, cit., vol. XV, pp. - (trad. it. cit., p. ). . G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (), hrsg. v. F. Nicolin, O. Pöggeler, Meiner, Hamburg , p.  (trad. it. di A. Bosi: G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, , Filosofia dello spirito, UTET, Torino , p. ). . Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p.  (trad. it. cit., p. ).

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del sapere assoluto da cui l’artista forma la materia gli dà diritto e dovere di mostrare come, al di là del destino di morte che colpisce necessariamente il singolo nella sua finitezza, quest’ultimo ha la possibilità di trascendersi nel risultato complessivo cui il suo operare ha contribuito. Se le storie particolari permangono nella forma dell’esserci accidentale, l’artista deve trascenderle e rappresentarne la sostanzialità ed universalità. Schiller, tuttavia, condivide la concezione della superiorità dell’arte sulla determinatezza storica da cui muove e nell’elaborare il materiale per la trilogia lamenta tutti gli impacci e le accidentalità che gli impediscono di renderlo in una forma pienamente libera. La differenza fra le due soluzioni è da ricercare nella concezione schilleriana della tragedia in particolare, e della rappresentazione artistica del tragico nella storia, in generale. Nella nostra esposizione abbiamo sinora mostrato quasi esclusivamente le consonanze fra sviluppo del primo destino di Wallenstein e prospettiva hegeliana. In realtà, la concezione della tragedia e l’estetica di Schiller si trovano a metà strada fra filosofia della riflessione e filosofia hegeliana. In esse Hegel può riconoscersi, ritrovare la propria concezione del tragico e della storia sino ad un certo punto. Tale posizione intermedia di Schiller è evidente nella trilogia, che può solo parzialmente anticipare categorie hegeliane poiché al contempo, soprattutto nella conclusione, pare esporre la tragedia stessa della filosofia della riflessione. Nella prospettiva hegeliana il primo destino di Wallenstein rappresenta il tentativo di Schiller di svincolarsi dal kantismo. Nel risolversi all’azione di Wallenstein si è visto il superamento della posizione dell’anima bella e del conflitto dei doveri propri dei primi drammi schilleriani, il togliersi di una concezione del tragico improntata alla morale kantiana. La virtù muove dalla legge di contro all’individuo e non può che schiacciarlo. Tuttavia il secondo destino, movimento opposto dell’uomo del corso del mondo, individuo che muove verso la legge per appropriarsene, non perviene a compimento. Wallenstein, che aveva superato la posizione dell’anima bella pur di preservarne l’universalità, entra nel mondo fenomenico, ma non è in grado di realizzare una nuova legge e soccombe alla violenza ed all’inganno in esso dominanti. L’ambito storico dell’uomo del corso del mondo è meramente fenomenico, privo di essenza e di morale; vi dominano bassi istinti e calcoli politici e non vi è redenzione per chi vi opera. Il fallimento del secondo destino di Wallenstein implica un retrocedere rispetto alle posizioni conquistate con il primo. Il rifiuto di scendere a patti con il corso del mondo da parte dell’anima bella, il sacrificio dell’individualità alla purezza della virtù, assumono una valenza non più di mera sconfitta. Il risultato fallimentare dell’azione di Wallenstein rappresenta per Schiller il destino . Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino , vol. II, pp. -.

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inevitabile di tramonto del finito nella sua pretesa di porsi per sé. In tal modo, la finitezza non pare in grado di pervenire alla superiore consapevolezza che tale sia la conditio sine qua non dell’affermarsi dell’infinito, ma s’arresta all’orribile necessità d’un perire privo di redenzione. Il movimento che porta il finito a togliersi prelude all’assoluto e tuttavia, mancando la presa di coscienza del processo, ci si arresta ad una negazione semplice, indeterminata. Nella prima parte della sua opera Schiller aveva cercato di giustificare l’azione di Wallenstein di fronte al moralismo, ma nella seconda essa appare un tragico destino privo di soluzioni e dovuto alla cieca volontà di potenza della soggettività moderna. Non riconoscendo validità alla posizione dell’uomo della virtù, Wallenstein è precipitato nel corso del mondo in cui regna incontrastato l’arbitrio; il suo tentativo di affermarsi in esso lo ha costretto a travolgere le vite delle persone a lui care, a negare i valori eticomorali. Ma di contro a tale particolarità agente che pretende di assolutizzarsi si erge, necessariamente, un destino di morte privo di redenzione.

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Appendice Martin Heidegger. Le lettere di Schiller sull’educazione estetica dell’uomo a cura di Adriano Ardovino

. Nel Poscritto alla prima edizione del trattato inedito Besinnung (/), il curatore della Gesamtausgabe Friedrich-Wilhelm von Herrmann ha reso noto che in un prospetto sulla propria attività accademica Heidegger menzionava, «tra le “note seminariali” disponibili», anche quelle vertenti «“sulle Lettere sull’educazione estetica di Schiller”, che tuttavia non poterono essere rintracciate nel lascito manoscritto». Nel  sono state pubblicate in effetti soltanto alcune annotazioni relative al concetto schilleriano di apparenza (Schein) comprese nel Notizenkonvolut del seminario Nietzsches metaphysische Grundstellung (Sein und Schein). Il seminario fu tenuto nel semestre estivo  per un gruppo di lavoro ristretto in vista dell’integrazione e dell’approfondimento della contemporanea Vorlesung sull’Eterno ritorno dell’uguale, seguita a quella del / sulla Volontà di potenza come arte. Non è facile stabilire la provenienza e l’esatto contesto cronologico dei fogli dedicati a Schiller. Tuttavia, almeno in linea di principio, è plausibile che essi facessero parte delle «note seminariali» di cui Heidegger scriveva nel prospetto appena richiamato. Come che sia di ciò, di Heidegger sono largamente note, almeno fin dalla pubblicazione del Nietzsche nel , due valutazioni alquanto perentorie sul rigore essenziale – ma anche, indubbiamente, sulla produttività – dell’interpretazione schilleriana di Kant. Afferma Heidegger nella Volontà di potenza come arte: «Si può dire che l’incidenza della Critica del Giudizio di Kant [...] abbia finora avuto luogo solo sul fondamento di fraintendimenti, un processo, questo, che è parte della storia della filosofia. Schiller è stato l’unico a capire cose essenziali in riferimento alla dottrina kantiana del bello e dell’arte; anche la sua conoscenza fu però occultata dalle dottrine estetiche del XIX secolo». E ancora, poche pagine oltre: «L’interpre. M. Heidegger, Besinnung (/), GA Bd. , hrsg. v. F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. , p. . . Cfr. M. Heidegger, Nietzsche Seminare  und , GA Bd. , hrsg. v. P. von Ruckteschell, Klostermann, Frankfurt a.M. , pp.  ss. . M. Heidegger, Nietzsche I (-), GA Bd. ., hrsg. v. B. Schillbach, Klostermann, Frankfurt a.M. , p.  (trad. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano , p. ).

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tazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza. È quello stato che Schiller ha concepito come la condizione della possibilità dell’esistenza storica – fondatrice di storia – dell’uomo». . I due pronunciamenti citati forniscono spunti piuttosto notevoli sulla sostanza dell’interpretazione heideggeriana di Schiller. Tuttavia, risultano rilevanti anche nella misura in cui fanno di Schiller – il che non è affatto scontato – uno dei nomi che compongono la costellazione di riferimento della propria riflessione sull’arte, sul bello, sull’estetica. Anche questa riflessione, come tutto il suo pensiero, si regge su un’inesausta reinterpretazione della tradizione filosofica, talché l’emergere dell’uno o dell’altro autore in momenti specifici ha al tempo stesso conseguenze storiografiche – nel senso della restituzione della genesi e delle circostanze interne ed esterne di un pensiero –, ma anche, indisgiungibilmente, speculative. Com’è noto, oltretutto, sono questi gli anni in cui Heidegger espone pubblicamente e in più occasioni gli esiti della sua “filosofia dell’arte” e dalla sua critica dell’estetica filosofica. Operazione che rappresenta al contempo il riconoscimento del fatto che la nascita dell’estetica è un evento storicamente e filosoficamente non contingente, ma è invece un momento pregnante e per molti versi assolutamente paradigmatico di quella che Heidegger chiama la metafisica occidentale nel suo complesso. Il tutto si raccoglie in questi anni attorno al tema dell’«origine dell’opera d’arte», la cui esposizione è affidata alla forma della conferenza e alle sue risorse comunicative, in certo modo intermedie tra il libero scavo del seminario o della lezione accademica e la necessaria cristallizzazione del saggio o del trattato. In altra sede, si è proposto di datare il concepimento e il primo sviluppo del tema dell’«origine dell’opera d’arte» al principio degli anni Trenta, distinguendo un primo novero di autori e di ambiti speculativamente determinanti – in particolare la riflessione sulla poivhsi" e la tevcnh di Platone e Aristotele, la filosofia dell’arte di Hegel e la poesia di Hölderlin – da un secondo novero, più rilevante soprattutto a partire dalla metà degli anni Trenta, composto da Kant, Schiller, Nietzsche, Jünger e ancora una volta da Hölderlin, che, saldandosi dapprima all’impegno e poi alla lentissima disillusione filosofica nei confronti della “rivoluzione” nazionalsocialista, è dominato in misura crescente dal compito di una nuova fondazione storica da parte dell’arte, alternativa al predominio della tecnica moderna. Una fondazione in cui il rapporto tra estetica e politica – tra politicizzazione del. Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . A. Ardovino, Presentazione, in M. Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, “Aesthetica Preprint”, , Palermo , pp. -.

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l’arte ed estetizzazione della politica, verrebbe da dire con Walter Benjamin – si complica in forme che in questa sede non mette conto affrontare. . Heidegger espone per la prima volta le proprie tesi sull’arte durante il semestre estivo / – la contemporanea Vorlesung accademica verte su Kant e la questione della cosa –, nella forma di una conferenza singola tenuta dapprima a Friburgo il  novembre del  e poi ripetuta a Zurigo nel gennaio del . Sullo sfondo del semestre estivo del  – mentre la Vorlesung viene consacrata al problema della libertà in Schelling – si collocano la celebre conferenza romana su Hölderlin e l’essenza della poesia pronunciata il  aprile  e il seminario sulla Critica della facoltà di giudizio di Kant, di cui Heidegger, tra maggio e giugno, scrive sia a Karl Jaspers («Nelle esercitazioni la critica kantiana del giudizio estetico – lentamente mi sto avvicinando alla cosa e rimango sempre più meravigliato») che ad Elisabeth Blochmann («Così sono approdato a queste esercitazioni estive sulla Critica della facoltà di giudizio di Kant, per rimanere stupito ogni settimana di più di quel che da  anni in qua si è fatto di quest’opera»). Verosimilmente, parte dei materiali derivanti dal seminario kantiano – la cui pubblicazione è prevista nell’ambito del volume  della Gesamtausgabe – verranno ripresi poi nella Vorlesung nietzscheana del semestre successivo, quella appunto sulla Volontà di potenza come arte. Durante il semestre invernale /, infine, Heidegger espone il proprio pensiero sull’arte nella forma ampliata di tre conferenze tenute a Francoforte sul Meno il  e  novembre e il  dicembre del . La Vorlesung del / è dedicata, come abbiamo appena ricordato, al nesso tra arte e volontà di potenza in Nietzsche, mentre il seminario, svoltosi dal  novembre  al  febbraio , si intitola Brani scelti dagli scritti filosofici di Schiller sull’arte. In conclusione, è proprio il seminario su Schiller, insieme alla Vorlesung su Nietzsche, a risultare perfettamente contemporaneo all’ampliamento, alla rielaborazione e all’esposizione pubblica delle tre conferenze che formeranno la base del celebre saggio sull’Origine dell’opera d’arte. Nel caso di Schiller, inoltre, vi sono ulteriori documenti che suggeriscono una sua presenza ben definita nell’orizzonte speculativo di Heidegger già dalle primissime fasi della rielaborazione della strategia espositiva delle sue tesi sull’arte e del passaggio dalla conferenza singola del  alle tre conferenze del . Già il  dicembre , infatti, Heidegger scriveva ad Elisabeth Blochmann: «Mi rallegro insieme a Lei del fatto che ora stia scoprendo

. M. Heidegger, Briefwechsel mit Karl Jaspers (-), hsrg. v. W. Biemel, H. Saner, Piper-Klostermann, München-Frankfurt a.M. , p. . . M. Heidegger, Briefwechsel mit Elisabeth Blochmann (-), hrsg. v. J. Storck, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. , p.  (trad. it. a cura di R. Brusotti, Carteggio -, il melangolo, Genova , p. ).

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Schiller; quando siamo arrivati al punto di esser divenuti maturi per simili scoperte, solo allora nascono le scoperte veracemente spirituali, nelle quali ogni giorno si cresce e ogni cosa diventa nuova». Infine, il  giugno : «D’inverno vorrei fare per le matricole un corso sugli scritti di estetica di Schiller; può divenire cosa utile che i giovani ricevano di nuovo un orizzonte entro il quale possano discutere in ordine unitario le questioni sull’arte, senza cadere vittime di vuote parole d’ordine». . Sic stantibus rebus, è da salutare positivamente la pubblicazione del seminario su Schiller, nel , a cura di Ulrich von Bülow, direttore della sezione manoscritti del Deutsches Literaturarchiv di Marbach e della Deutsche Schillergesellschaft. Il testo che ci viene restituito, in realtà, non supplisce completamente allo smarrimento delle annotazioni di mano di Heidegger, in quanto si fonda sulla collazione degli appunti di alcuni uditori e dei protocolli seminariali raccolti in un apposito quaderno rinvenuto nel Nachlaß di Heidegger. Come ci informa lo stesso curatore, il testo è desunto quasi interamente dagli appunti di un solo uditore, il medico friburghese Wilhelm Hallwachs, che a partire dal / al / seguì, prendendone scrupolosamente nota, tutti i seminari e le lezioni di Heidegger, e che all’epoca del seminario su Schiller era ormai sessantaquattrenne. Alla formazione non filosofica di Wilhelm Hallwachs il curatore ascrive, condivisibilmente, la chiarezza “elementare” dei suoi appunti. Meno completi, e pertanto meno accurati e affidabili – ma sui dettagli si rimanda ovviamente al Poscritto all’edizione –, sono risultati gli appunti della storica dell’arte Ingeborg Schroth, del filosofo Karl Ulmer e di Siegfried Bröse. Il testo pubblicato si fonda integralmente su una Mitschrift, ossia su appunti redatti contemporaneamente all’esposizione orale di Heidegger. Ciò lo differenzia non solo dal manoscritto (Handschrift) e da qualsiasi scritto originale (Urschrift) di cui si effettui una copia (Abschrift), ma anche dai numerosi casi di vera e propria trascrizione (Nachschrift), redatti eventualmente già durante l’esposizione orale, ma basati spesso su appunti stenografici, che di norma, nel corso dell’edizione della Gesamtausgabe, hanno fornito preziose integrazioni ai manoscritti originali di Heidegger, soprattutto laddove, in particolare nelle lezioni accademiche, l’esposizione orale si distanziava anche di molto dal testo scritto. In questo caso, la Mitschrift dei partecipanti rappresentava una sorta di verbale (Niederschrift) basato . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . Ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . M. Heidegger, Übungen für Anfänger. Schillers Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen. Wintersemester / (Seminar-Mitschrift von Wilhelm Hallwachs), mit einem Essay von Odo Marquard, hrsg. v. U. von Bülow, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. , pp. -. . Ivi, pp. -.

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su annotazioni dirette (Notizen), che costituiva per lo più la base di un successivo protocollo (Seminarprotokoll), valido soprattutto ai fini di una delle due modalità principali di esercitazione seminariale (Seminararbeit), ovvero, oltre alla relazione orale (mündliches Referat), la redazione scritta (schriftliche Abfassung) di un elaborato rivisto e corretto dal docente. . Qui di seguito si anticipano le prime tre delle dodici sedute seminariali. In esse emergono già compiutamente il metodo di lavoro di Heidegger e alcune delle principali opzioni ermeneutiche che caratterizzano la sua interpretazione. Tra di esse, al di là dell’inserimento di Schiller nella scia del Kant reinterpretato metafisicamente e della messa in luce del debito teorico di Hegel, è opportuno segnalare almeno la risoluta elezione esegetica delle lettere dalla diciannovesima alla ventitreesima, la centralità della libertà umana come stato estetico, ossia come «determinabilità reale ed attiva», ed infine il ruolo centrale dell’arte, che nelle Lettere, non da ultimo anche a causa della loro incompiutezza, Schiller valorizza com’è noto in modo tutt’altro che esplicito. Nella scelta delle lettere citate, peraltro, Heidegger non fa che prendere sul serio l’autointerpretazione di Schiller, che in un abbozzo di lettera a Fichte del  agosto  afferma esattamente che nel blocco delle lettere appena citate «viene in luce in modo autentico il nervo della questione» e addirittura qualcosa come un proprio «sistema». Il nesso tra lo stato estetico, interpretato come replica e radicalizzazione dell’immaginazione trascendentale kantiana, e l’educazione estetica dell’uomo, letta a partire dal compito di una fondazione storica e progettuale dell’arte, rappresenta sostanzialmente il binario su cui procede, non senza alcuni excursus notevoli – come quello sulla logica del nominalismo – e più ovvie “sterzate” verso la propria concezione dell’arte, il seminario di Heidegger. Si ringraziano il Dr. Giandomenico Bonanni, il Dr. Ulrich von Bülow, il Prof. Friedrich-Wilhelm von Herrmann e il Dr. Hermann Heidegger che, d’intesa con la Deutsche Schillergesellschaft, ha autorizzato la presente pubblicazione. . La traduzione integrale, a cura di chi scrive, è in preparazione per i tipi di questa stessa casa editrice. . Sui temi appena menzionati cfr. A. Ardovino, Il sensibile e il razionale. Schiller e la mediazione estetica, “Aesthetica Preprint”, , Palermo , in part. pp.  ss.; G. Pinna, Presentazione, in F. Schiller, L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo , pp. - e P. Montani, A. Ardovino, D. Guastini, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari  (III ed.), pp.  ss. Cfr. anche P. Godani, L’abbandono della bellezza. Note su Heidegger e l’estetica, in “Rivista di Estetica”, , , pp. - e O. Marquard, Der Schritt in die Kunst. Über Schiller und Heidegger, in Heidegger, Übungen für Anfänger. Schillers Briefe, cit., pp. -.

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[Prima seduta,  novembre ]* [] .XI. Le lettere di Schiller sull’educazione estetica dell’uomo: rinunciamo innanzitutto ad inquadrare Schiller in ottica di storia delle idee, a raccontare cioè da dove viene e da che cosa è mosso. Piuttosto, vogliamo interrogare subito a fondo le lettere, non con un intento storico generale, al fine di sapere che cosa succedeva allora, bensì domandando per noi, il che significa: per il futuro. Nel far questo, è ovvio che leggiamo Schiller; ci muoviamo per così dire nel suo elemento, prendiamo in considerazione non soltanto le sue opere poetiche, bensì anche i suoi scritti sull’arte e in modo particolare il suo epistolario con Goethe. In base a queste lettere, Goethe poté dire a Schiller: «Esse mi hanno reso di nuovo poeta». Occorre tener conto anche dell’epistolario con Körner, soprattutto a partire dal , e altrettanto importante risulta l’epistolario con Humboldt. La posizione filosofica di Schiller, che avanza intimamente e di pari passo con quella poetica, è determinata in modo essenziale da Kant. Dobbiamo tentare pertanto di renderci chiara e di vedere la posizione di fondo della filosofia kantiana, il modo in cui Schiller trasforma Kant, ossia non lo assume alla stregua di una qualsiasi filosofia sussistente, ma si colloca al suo interno. Per la cosa stessa: «Lettere sull’educazione estetica dell’uomo» di Schiller. Di che cosa si tratta? Ciò potrebbe significare: educazione attraverso l’estetica, oppure educazione all’estetica, oppure l’educazione stessa è estetica. [] Non si intende nulla di tutto ciò, bensì «sull’educazione estetica * M. Heidegger, Übungen für Anfänger. Schillers Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen. Wintersemester  / (Seminar-Mitschrift von Wilhelm Hallwachs), mit einem Essay von Odo Marquard, hrsg. v. U. von Bülow, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a.N. , pp. -. Le note al testo, ove non diversamente segnalato, sono del curatore tedesco (N.d.T.). . Il titolo del seminario è trasmesso con alcune varianti. La presente edizione segue il titolo che Heidegger annotò di suo pugno sulla cartella del seminario (cfr. il frontespizio): «Esercitazioni per le matricole. Le lettere di Schiller sull’educazione estetica dell’uomo», che coincide in modo letterale con quello del prospetto delle lezioni, provvisto in questo caso dell’aggiunta seguente: «Classe inferiore, brani scelti dagli scritti sull’arte di Schiller» [cfr. W. Richardson, Heidegger Through Phenomenology to Thought, Nijhoff, Den Haag  (III ed.)]. . Johann Wolfgang von Goethe a Friedrich Schiller, lettera del  gennaio , in Werke, hrsg. im Auftrage der Großherzogin Sophie von Sachsen, Böhlaus, Weimar -, . Abteilung, Bd. , p. .

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dell’uomo». Di quale uomo? Chi è l’uomo? L’intera epoca è definita umanistica! A che cosa mira l’umanismo? Al perfezionamento spirituale dell’uomo? A tal fine si dovrebbe sapere che cos’è l’uomo e in che cosa consistano la sua perfezione e imperfezione. Sono singoli uomini quelli che tengono in considerazione l’essere educati esteticamente, le lettere sono scritte per loro? Si tratta magari degli esteti? L’uomo? L’uomo che deve evidenziare in sé l’idea dell’uomo? Diciannovesima lettera, ultimo capoverso: «affar suo è affermare l’umanità» [XIX, ; ]. Umanità non significa: l’umanità universale (tutti gli uomini), bensì l’essere-uomo. Nell’educazione estetica dell’uomo ne va del fatto che l’uomo affermi l’essere-uomo. Che cos’è l’essere-uomo? Divenire-razionale? In che cosa consiste la razionalità dell’uomo? All’incirca nella capacità di pensare? Si tratta di addestrare l’intelletto? Per far questo non serve alcuna educazione estetica. Ancora una volta: educazione di quale uomo? Del singolo? Di molti? In che cosa consiste l’essere-uomo? In forza di cosa gli uomini sono razionali? Chi è quest’uomo? L’uomo effettivamente sussistente! Il cui affare è «affermare l’umanità», realizzare l’essere-uomo in modo effettivo. [] L’uomo – non esiste! Schiller intende l’educazione dell’uomo al suo essere-uomo, l’educazione a ciò che costituisce la realtà effettiva dell’uomo. E che cos’è la realtà effettiva dell’uomo? L’uomo deve uscire fuori dalla natura! La mano della natura lo abbandona; affermare l’umanità è affar suo. In che cosa fa ingresso l’uomo, allor. I numeri delle pagine e delle lettere in parentesi quadre si riferiscono sempre, sia nel testo degli appunti che nelle note, a F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Id., Werke. Nationalausgabe, Bd. , Weimar . Heidegger utilizzò il testo della Horen-Ausgabe del  nella seguente edizione: F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen. Sonderausgabe aus: Schillers Philosophischen Schriften, hrsg. v. E. Kühnemann, Meiner-Leipzig (ca. ) (Taschenausgabe der “Philosophischen Bibliothek”, H. ). [D’ora in avanti, tutti i riferimenti bibliografici alle Lettere saranno integrati con la paginazione della traduzione italiana a cura di G. Pinna, assunta come traduzione di riferimento: F. Schiller, L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo , pp. -, (N.d.T.).]

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ché fuoriesce dalla natura? Che cosa significa: fuoriuscire dalla natura? Che cosa significa, qui, la natura dell’uomo? Nella realtà effettiva lo «stato di natura» dell’uomo non si dà mai! Lo si intende in senso animale, l’uomo in quanto animal. Se l’uomo perviene a se stesso laddove l’essere diventa affar suo, allora si chiama animal rationale. Kant si esprime in questi termini: «passare dall’animalità all’umanità». In che cosa fa ingresso l’uomo, allorché fuoriesce dalla natura? Che cos’altro c’è, ancora, oltre la natura? Si tratta dell’ingresso nella storia! Dov’è la storia, posto che l’uomo, uscendo dalla natura, entri in essa? La storia diviene attraverso l’uomo medesimo. L’uomo diviene per la prima volta tramite questa transizione dell’uomo dalla natura alla storia. Mentre comprende l’affar suo, l’uomo inizia ad affermare l’umanità, la storia comincia e l’uomo stesso comincia ad essere umano. Con ciò è dato ciò che si chiama anche cultura. Che cosa significa cultura? La cultura non è nulla di diverso dal fatto che l’uomo assume la sua umanità come affar suo, è allora che comincia la cultura e comincia la storia. Questa costruzione, questo fondare e consolidare l’affermar-si dell’uomo nella sua umanità racchiude in sé una serie di approntamenti, di attività, di produzioni [] e la facoltà di produrre qualcosa. Allorché qualcuno è in grado di produrre qualcosa, lo si chiama artista! Arte deriva da essere capace, e se qualcuno ne è in grado, allora è «un’arte». Schiller utilizza «artista» e «arte» in un senso talmente ampio che coincide con cultura. È arte ogni modalità di libera produzione di cui è responsabile l’uomo, in forza della quale egli si estrinseca rispetto alla natura, si pone al di fuori e al di là di essa. Seconda lettera, terzo capoverso. Qui si è già operata la distinzione tra un’arte a cui «queste ricerche» [II, ; ] si rivolgono e un’arte in generale. Analogamente, nella terza lettera, a metà di p. : «quando l’artigiano deve riparare un orologio...» [III, ; ]. Qui l’«artista» equivale all’artigiano. L’arte è pertanto la nostra «cultura» (in senso ampio). Schiller parla anche di un’«arte di vivere» [XV, ; ] e ancora, tra l’altro, di un’arte estetica, di un’arte meccanica, di un’arte politica, di un’arte pedagogica [IV, ; ]. Tutti questi artisti, che esercitano attivamente l’arte, ossia il poter-produrre dell’uomo – qui costoro vengono pensati-insieme all’interno di ciò che noi dobbiamo intendere come arte nel senso di cultura. Quando però noi parliamo dell’arte o dell’artista, intendiamo l’arte estetica o l’arte bella, ovvero l’arte che produce il bello. . Cfr., ad sensum, I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. , Reimer, Berlin , p. . . Recte: «le mie ricerche».

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Se qui il discorso è relativo all’arte bella, in esso risiede una delimitazione. Che cosa è successo, posto che noi oggi intendiamo con «arte» solo più l’arte bella? Originariamente, l’arte è tevcnh. Oggi è artista soltanto l’artista «bello». Con questo intendiamo magari in prima istanza l’arte plastico-figurativa. Dunque una restrizione del concetto! Dapprima una restrizione all’«arte bella» e poi ancora all’«arte plastico-figurativa». Che cosa è successo qui? [] Se l’arte bella rivendica il nome di arte soltanto per sé, ciò implica che il carattere-d’arte giochi un ruolo notevole e peculiare. Queste lettere costituirono l’occasione perché si giungesse a questa situazione. Qui si parla di educazione dell’uomo: di configurazione della storia in un senso tale che, per questa educazione, l’arte bella costituisce un centro e pertanto diventa l’arte. Queste lettere di Schiller, apparse nel  (ma concepite già in precedenza), sono la prima grande e consapevole replica alla Rivoluzione francese. Solamente se vediamo le lettere con questo sguardo scorgiamo il loro significato autentico. Senza queste lettere – senza questo sviluppo del concetto di bellezza e di arte – la meditazione fondamentale sull’arte dell’estetica di Hegel non sarebbe stata possibile; essa poggia integralmente su queste lettere. Proprio in riferimento alla questione se l’arte (l’arte bella), in un senso ancora da determinare come quello esposto da Schiller, costituisca in generale il medio storico – rispetto a tale domanda Hegel prende posizione in modo peculiare: «Noi non abbiamo più nessun bisogno assoluto di condurre a rappresentazione un contenuto nella forma dell’arte. L’arte (l’arte bella), dal lato della sua suprema destinazione (rappresentare l’assoluto), è sotto questo riguardo qualcosa di passato». Che cosa vuol dire Hegel con questo: «non abbiamo più nessun bisogno assoluto di condurre a rappresentazione un contenuto mediante l’arte»? Che cosa si intende con ciò? All’epoca di Hegel, certamente, l’arte esisteva ancora (Goethe, Hölderlin, i compositori musicali). Che cosa significa «bisogno assoluto»? Bisogno dell’assoluto e per l’assoluto – per la verità senz’altro. . Recte: . . Heidegger salda tra loro due frasi di Hegel: «Oggi non vi è nessuna materia che sia in sé e per sé al di sopra di questa relatività e, quando anche lo fosse, non v’è almeno alcun bisogno assoluto per cui debba essere l’arte a rappresentarlo»: G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Jubiläumsausgabe, Bd. , Fromman, Stuttgart , pp.  ss. (trad. it. a cura di N. Merker, Estetica, Feltrinelli, Milano , poi Einaudi, Torino , vol. I, p. ); «Per tutti questi riguardi l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato»: ivi, Bd. , p.  (trad. it. cit., vol. I, p. ). In un’edizione antologica dell’Estetica di Hegel, Heidegger ha segnato entrambi i passi (Hegels Ästhetik, unter einheitlichem Gesichtspunkte ausgew., eingel. und mit verbindenden Texten vers. von Alfred Baeumler, Beck, München , pp.  e ).

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[] Per i greci l’arte era assoluto bisogno – nell’arte stessa e in forza di essa si è configurato, per i greci, il loro esserci umano. Il loro rapporto con il divino è cofondato in via essenziale dall’arte. Lo Stato è codeterminato dall’arte, altrettanto la filosofia. Le determinazioni ultime dell’essere-uomo sono fondate e consolidate dall’arte. Dopo Hegel, noi non abbiamo più questo bisogno. Naturalmente si fa arte, vengono esposte opere d’arte, tuttavia non abbiamo più alcun bisogno assoluto, mediante le opere d’arte non viene esposto e rappresentato in modo immediatamente vincolante il fine e la verità del nostro esserci. Ciò viene detto per la prima volta da Hegel; vale ancora oggi. Di questa domanda su come stanno le cose nei confronti dell’arte entro la totalità dell’esserci umano si occupa la schilleriana educazione dell’uomo allo stato estetico, inteso come quello stato a partire dal quale ed entro il quale si configura veracemente la storia. Proprio l’immediato naufragio della Rivoluzione francese, il sorgere e il diffondersi del barbaro e del selvaggio, persuase Schiller che le leggi morali, le leggi razionali, le regole politiche non possono mai immediatamente, mai immediatamente essere inculcate nell’uomo, che è bensì necessaria una via dallo stato naturale (animale) allo stato morale – la via dello stato estetico. È innanzitutto questo l’orientamento generale con cui dobbiamo guardare a queste lettere. Per afferrarlo in dettaglio concettualmente e per porre le relative domande, dobbiamo impegnarci principalmente nel produrre da noi stessi e nell’appropriarci i concetti e le rappresentazioni fondamentali all’interno delle quali [] si muovono le lettere. Questa è la prima cosa. Innanzitutto non intendiamo leggere le lettere nella loro sequenza di fatto, bensì cominciare da un punto in cui abbiamo modo di assicurarci una determinata cerchia visuale entro cui vengano guadagnati i concetti che fanno da guida, ovvero i concetti e le supposizioni in base a cui riusciamo a scorgere meglio che cosa intende Schiller con estetica, bellezza, arte e umanità. Cominciamo con la diciannovesima e la ventesima lettera. Alla fine della ventesima lettera, Schiller ha aggiunto un’osservazione per i lettori ai quali non sia del tutto familiare il significato puro di questo termine, «estetico», assai frainteso per ignoranza [XX, ; ]. Ma prima dobbiamo discutere globalmente entrambe le lettere. Prima ancora, però, in fase di premessa, vogliamo fornire una spiegazione un po’ più completa dell’intitolazione (delle lettere). Che cosa significa «estetico»? La parola deriva da ai[sqhsi", che vuol dire percezione. Un esempio di percezione: odo un colpo di pistola. Esso esercita un’azione sui sensi. Nella percezione è coinvolta la sensibilità. L’estetico sarebbe dunque equivalente al sensibile. Allo sparo della pistola si mostra, nel nostro stato sensibile, la qualità fisica della cosa sensibile in questione? 

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(Heidegger batte sul tavolo). . Il tavolo si rapporta al mio stato sensibile. Il tavolo è duro. La specifica qualità fisica di questo stato di fatto è il tavolo duro. Se dico: schiocca, allora ciò che schiocca, di cui in questo caso non so nulla, è soltanto l’indeterminato. Non si può dire: «non è una cosa, bensì soltanto una sensazione». [] . Oppure, può rapportarsi all’intelletto e procurarci una conoscenza; il che sarebbe la qualità logica della cosa. Ho il tavolo – una conoscenza del tutto elementare relativa al tavolo sarebbe: «Il tavolo è diverso dall’orologio». Che cosa conosco qui? Viene stabilito che il tavolo non è un orologio. Viene conosciuto l’essere-diverso. Dov’è l’essere-diverso? È nel mettere in rapporto, nel logico. Quindi . qualità fisica . qualità logica Diversità, uguaglianza, unità e simili non le posso vedere. Ora abbiamo la cosa così come essa ci si mostra mediante i sensi e come ci si mostra mediante l’intelletto (che secondo Kant è conoscenza soltanto se può essere fondato mediante la percezione [intuizione]). . La cosa può rapportarsi al nostro volere. (Riflettere su questo per la prossima volta.) Oppure, la cosa può riferirsi all’intero delle nostre diverse facoltà (stato sensibile, intelletto, volontà), senza essere oggetto di una singola, bensì dell’intero delle diverse facoltà. Se una cosa è per noi oggetto in questo senso, allora ciò che si mostra è la sua qualità estetica. L’«estetico» in Schiller è dunque molto ampio e, secondo il suo senso, è fondamentale. Come si giunga a quest’uso della parola «estetico» possiamo chiarircelo ancora un po’ a partire dal concetto della parola. Ai[sqhsi" – percezione sensibile, sensatio. Abbiamo stabilito che nella percezione sensibile sono coinvolti i sensi. Per esempio, udiamo già ciò che schiocca; ovverosia, nel concetto abituale dell’udire non è compresa soltanto la sensazione sensibile, nondimeno l’udire viene inteso nel [] senso più ampio; all’udire, al toccare e simili appartiene bensì la cosa. La sensazione sensibile e il sentire restano incorporati in un più comprensivo apprendere le cose. Ma, ancora, poiché questo modo del prendere, del percepire, è incorporato, il sensibile, diciamo noi, è un cogliere sensibile. Se sentiamo soltanto (nel che non abbiamo mai sensazioni pure), allora sentiamo (oppure diciamo: abbiamo una sensazione). Nel sentire abbiamo soltanto una sensazione?

. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. , Reimer, Berlin , p.  (A ).

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Esempio: passiamo oltre l’Istituto di Chimica emana cattivo odore. In ciò vi è dunque: gradevole oppure sgradevole. Non è dato solamente qualcosa che ci sollecita mediante i sensi, bensì a questa sollecitazione del dato sensibile che viene sentito è collegato per noi un essere appreso in questo e in quest’altro modo. Ci coglie sempre uno stato, in questo o in quest’altro modo. Schiller: «Una cosa può rapportarsi direttamente al nostro stato sensibile (alla nostra esistenza e al nostro benessere)» [XX, ; ]. Siamo sempre codeterminati dall’avere sensazioni in questo o in quest’altro modo. In uno con l’avere sensazioni, ci troviamo sempre in questo o in quello stato, senza riflettere su di esso. Le sensazioni in senso ampio le designamo anche come sentimenti. Diciamo: «È duro al tatto». Quando sentiamo qualcosa, mentre la sentiamo, al contempo ci sentiamo noi stessi in uno stato. L’aver sentore di qualcosa è sempre un sentir-si. Nell’ai[sqhsi" non viene soltanto preso in carico, appreso qualcosa, bensì si attua al contempo un’apertura di noi stessi. Non solo il che cosa del dato, [] bensì anche il come del sentir-si lì, il sentir-ci-si-in-questo-e-quest’altro-modo. Questo punto di vista, in base al quale nel sentire qualcosa il senziente con-sente insieme se stesso ed è in tal modo collocato in uno stato – questo astante rientra nel senso più ampio dell’estetico, cosicché l’estetico non è la determinazione del sentito, della sensazione di ciò che è dato sensibilmente, bensì diventa la determinazione di uno stato dell’animo. È questa, in generale, la latitudine del significato di «estetico». Se qui si dice «estetico», non si intende una caratterizzazione di ciòche-è-dato-sensibilmente in quanto tale, bensì la caratterizzazione di uno stato dell’animo. Ma poiché ciascuno stato dell’animo resta riferito ad oggetti, gli oggetti debbono mostrarsi – e nel modo in cui si mostrano, è questo che determina poi la loro qualità estetica. L’estetica – caricando l’espressione – è la segnatura di uno stato dell’animo dell’uomo. Se quindi Schiller tratta dell’educazione estetica dell’uomo, tratta dell’educazione dell’uomo ad uno stato del tutto determinato di se stesso – ad uno stato che secondo Schiller ha un significato eminente per la conformazione dell’esserci storico dell’uomo, della cultura. Diciannovesima lettera, inizio: tratta di . determinazione e determinabilità . attiva e passiva Schiller prende le mosse (al secondo capoverso) dalla determinabilità dell’uomo in generale. Il tema è lo stato dello spirito umano. Esso viene considerato prima di ogni determinazione datagli mediante le impressioni dei sensi. Qui l’elemento determinante sono le impressioni dei sensi e [] il determinabile sono le facoltà sensibili, il poter-udire, il poter-vedere, il poter-annusare, il poter-toccare. La totalità di queste facoltà è la facoltà del 

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poter-recepire la sollecitazione delle impressioni; Kant dice: «La facoltà della recettività». Qui, questo essere-aperti mediante tutti i sensi viene assunto innanzitutto come un aprir-si, un tener-si-aperti perfettamente indeterminato; l’interminabile dello spazio e del tempo è offerto alla sua immaginazione per un libero uso – assenza-di-determinazione, infinità vuota. Ciò che qui Schiller espone, questo stato di pura indeterminatezza del determinabile, questo puro recepire ancora intatto sotto ogni riguardo, non è tuttavia inesistente? Poiché non esiste, si dice: è costruzione. Preso in senso positivo: viene affermato uno stato dell’uomo che non esiste – nondimeno, esso non è certo caduto dal cielo. Questa modalità di metodo, di costruzione, viene perseguita da Schiller attraverso l’intera serie delle lettere. Non si tratta di stabilire fatti sussistenti, bensì tutto è costruzione in un senso genuino. Questo va tenuto fermo. Il procedere più puntuale nella costruzione dell’essere-uomo fu mediato a Schiller da Fichte. Immediatamente prima di queste lettere e in contemporanea, apparvero la Dottrina della scienza del  e parimenti le Lezioni sulla destinazione del dotto. Questa modalità di determinazione risale al metodo di Kant, il metodo trascendentale. In questo metodo, che da Kant in poi non si può più rimuovere dalla filosofia e che noi da Kant in poi riconosciamo retrospettivamente, per esempio, in Leibniz e Platone e che [] appartiene alla filosofia in generale – di questa modalità del pensiero scientifico e del costruire, che non è discrezionale, bensì possiede la sua legge necessaria – di questo metodo ci impratichiremo, nel corso della nostra esercitazione, lavorando dal suo interno. Decima lettera, fine: «Certo, questa via trascendentale [...]» (ossia questo metodo della costruzione) – «chi non osa andare oltre la realtà, non conquisterà mai la verità». Qui il senso della filosofia kantiana è colto in una frase. Questo osare andar oltre il reale è la prima e l’unica via per fondare la verità nel senso della conoscenza, ma anche dell’arte. Da preparare: diciannovesima e ventesima lettera.

. Cfr. I. Kant, Logik, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. , Reimer, Berlin , p. . . J. G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie, Weimar . . J. G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, Jena . . «Certo, questa via trascendentale ci allontanerà per un certo tempo dalla cerchia familiare dei fenomeni e dalla viva presenza delle cose, facendoci indugiare nel terreno nudo dei concetti astratti, ma noi cerchiamo del resto un solido terreno della conoscenza, che nulla possa più scuotere, e chi non osa andare oltre la realtà non conquisterà mai la verità» [X, ; ].

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[Seconda seduta,  novembre ] .XI. Protocollo: Schiller Integrazioni: . La trasformazione del concetto di ai[sqhsi" avvenne con Baumgarten. Estetica vuol dire in primo luogo (analogamente alle espressioni logica, etica) teoria o scienza dell’ai[sqhsi". Da Baumgarten in poi l’estetica è teoria dell’avere-sentimento del bello, dello stato sentimentale, nell’esperire il bello. L’estetica doveva trovare le leggi della bellezza. Kant ha dapprima opposto resistenza contro il nuovo concetto, tuttavia, alla fine nella Critica della facoltà di giudizio, vi si è adeguato. . Aristotele tratta dell’ai[sqhsi" nel De anima (peri; yuch`"). Il De anima di Aristotele non è una «psicologia», bensì un trattato sul vivente, sui principi della vita. La «psicologia» esiste soltanto da Cartesio in poi. Nel De anima di Aristotele, [] nel contesto di una discussione dei differenti gradi della vita, viene trattata in dettaglio anche l’ai[sqhsi" (libro II e parte del III). . Sul concetto di sentimento. Al sentimento appartiene l’aver-sentore di qualcosa. Questo è in sé, contemporaneamente, un sentir-si. Tuttavia, non esiste un mero sentir-si, piuttosto vi è sempre e allo stesso tempo un rapporto con ciò che ci sta intorno. Il sentimento è sempre il riferimento unitario e ininterrotto al mondo e a noi stessi. . Anche Hölderlin ha ascoltato la prima lezione di Fichte a Jena sulla dottrina della scienza. All’epoca, Hölderlin aveva già pubblicato l’Iperione. Da Jena Hölderlin scrive a più riprese a Hegel, a Berlino, di questa lezione fichtiana. Schelling, ancora studente a Tubinga, si accende di entusiasmo per quanto accade a Jena. Egli compone già il suo scritto sull’io. Ha già colto (senza conoscerla) e condotto a nuova forma l’idea fichtiana. Tutto questo si svolge sotto l’influsso capitale di Kant. . Lo schiocco: qualcuno schiocca la frusta. Com’è il colpo, quando odo uno schiocco? Il mio rapporto col mondo non è fatto in modo tale che dapprima mi rapporto a delle sensazioni in me e poi traggo da esse una conclusione circa le loro cause fuori di me, bensì noi siamo già sempre fuori presso le cose. Non viene concluso nulla su una cosa qualsiasi a partire dalla sensazione dello schiocco, bensì lo schiocco viene innanzitutto riconosciuto a partire da ciò presso cui già sempre sono. Abbiamo detto che le lettere sull’educazione estetica del genere umano si . A. G. Baumgarten, Aesthetica,  Bd, Frankfurt a.d.O. -. . F. W. J. Schelling, Vom Ich als Princip der Philosophie oder über das Unbedingte im menschlichen Wissen, Tübingen .

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pongono il compito di educare l’uomo allo stato estetico. Ciò potrebbe essere frainteso [] ora nel senso che l’uomo debba essere educato all’«uomo estetico». E l’uomo «estetico», magari, potrebbe essere successivamente distinto dall’«uomo naturale», dall’«uomo etico», dall’«uomo religioso». Kierkegaard ha distinto in questo modo. In lui l’uomo estetico è lo stato estetico di Schiller, frainteso. In Kierkegaard scorgiamo per così dire la cattiva essenza dell’estetico. Passi da Aut Aut, Diapsalmata, di Kierkegaard. L’uomo estetico di Kierkegaard è quello che si pronuncia in favore di tutto ciò che è bello, che si lascia influenzare da qualsiasi cosa, ma la lascia subito perdere, sprofondandovi. Per Kierkegaard, estetica vuol dire uno stato a sé, esattamente ciò che non è per Schiller. Citazione: «Non mi va questo, non mi va quest’altro». Il fatto che Kierkegaard abbia escogitato la cosa in questa maniera non va preso soltanto negativamente (a partire da Schiller), si tratta bensì di un perfetto capovolgimento, che continua ad attuarsi in luoghi e momenti differenti del diciannovesimo secolo. Cominciamo con la diciannovesima e la ventesima lettera: su cosa verte qui il discorso? Sugli impulsi fondamentali dell’uomo e sulla collocazione del bello in quanto stato intermedio tra due stati differenti. Il discorso verte poi su tempo e spazio – più oltre, sulla libertà e su altro ancora. Qual è, visto in modo puramente esteriore, l’autentico tema? La questione è quella dell’origine della libertà. In che modo comprende Schiller (ovvero Kant) la libertà? Libertà è: dare a se stessi una legge. La libertà è in tal senso il concetto fondamentale per il determinare-se-stesso dell’uomo, per l’«esserepersona» e di conseguenza anche per la morale. [] Tuttavia, in queste due lettere si tratta senz’altro dello stato estetico! Dunque non di quello morale! Eppure, nel contesto di queste due lettere, si fa parola della libertà in un senso accentuato. Lo stato estetico è quello stato in cui l’uomo si rapporta alla bellezza. E la bellezza, per Schiller, è libertà nel fenomeno [XXIII, ; ]. Da ciò di. «Non mi va di far nulla. Non mi va di andare a cavallo, è un esercizio troppo violento; non mi va di camminare, mi stanca troppo; non mi va di sdraiarmi, perché o bisogna restare sdraiato, e questo non mi va, o bisognerebbe alzarsi, e nemmeno questo mi va», S. Kierkegaard, Entweder / Oder, Bd. I, Jena , p.  (trad. it. a cura di C. Fabro, Opere, Sansoni, Firenze , p. ). Bröse cita inoltre l’aforisma: «Io mi sento come dovrebbe sentirsi un pezzo del gioco di scacchi quando l’avversario dice: questo pezzo non si può toccare», ivi, p.  (trad. it. cit., p. ). . «[...] che cosa può esser dunque la libertà della volontà se non autonomia, cioè la proprietà della volontà di esser legge a se stessa?»: I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. , Reimer, Berlin , pp.  ss. (trad. it. a cura di P. Chiodi, Scritti morali, UTET, Torino , p. ).

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pende il fatto che qui, dove si deve dire che cosa sia lo stato estetico, si tratti in fondo autenticamente della libertà. Qui prendiamo nota di questo contesto soltanto in modo del tutto grossolano. In queste due lettere viene detto che cosa sia lo stato estetico. Per questo motivo incominciamo proprio da queste due lettere. Insieme, esse sono le lettere più difficili. Il tentativo di comprensione deve essere effettuato. In quale modo viene detto qui che cosa sia lo stato estetico, in quale modo procede qui Schiller? Come si svolge la cosa? Si inizia dallo stato della completa assenza-di-determinazione. Di contro ad essa, qualcosa deve accadere. Contro questo elemento privo di determinazione arriva qualcosa, viene posto alcunché di limitante. Contro questo elemento posto, che dapprima fu posto di contro all’elemento privo di determinazione, viene posto daccapo qualcosa. In questo porre e contrapporre Schiller procede «antiteticamente». Qual è il senso dell’antitetico? Qualcosa viene posto e qualcosa viene poi contrapposto. Con ciò sono posti ora due contrapposti che si escludono. Se questi due contrapposti che si escludono debbono in generale poter essere, adesso dev’essere posto qualcosa che colleghi entrambi i contrapposti. Questa nuova posizione è la sintesi. Quest’ultima, ciò che collega, che fonda [] e toglie in una superiore unità i due contrapposti, non viene per così dire scoperta, bensì c’è già da prima. È già posta in anticipo. Innanzitutto, viene apposta costruttivamente la tesi, poi l’antitesi, per poi rendere necessaria, a partire di qui, la sintesi. Se viene detto che lo stato estetico è quello intermedio, allora ciò significa che esso è la sintesi. Quando Schiller vuole dire che cosa sia lo stato estetico e vuole dirlo all’interno della costruzione antitetica, allora dimostra la necessità dello stato estetico. Mentre si mostra in che modo esso è necessario, viene al tempo stesso mostrato che cos’ è. Questa modalità del pensare, che ora abbiamo posto in rilievo nella sua impalcatura formale, dobbiamo seguirla nel suo movimento vitale. Questa modalità di costruzione di un pensiero – trascendentale – possiamo seguirla in Schiller nella sua forma conchiusa. Per la nostra propria educazione è essenziale che apprendiamo di nuovo questo pensiero costruttivo. Nell’epoca che ci precede, esso è andato perduto – non si fa che calcolare. Si tratta dunque di questo: che cos’è lo stato estetico? Nell’esposizione di Schiller è lo stato di «determinabilità reale e attiva» [XX, ; ]. Di primo acchito, non comprendiamo ancora niente di tutto ciò. Dobbiamo prima arrivarci. Lo stato estetico, detto in termini generali, è uno stato dell’uomo. È soltanto un simile, qualsivoglia stato? Accanto ad altri? Mentre svisceriamo che cosa sia, lo stato estetico verrà in luce come 

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qualcosa che non è uno stato tra gli altri, bensì è ciò che deve configurare lo stato situazionale dell’uomo in generale, nella misura in cui l’uomo è qualcuno che agisce storicamente. Ma che cos’è in generale uno stato? [] Quando l’acqua gela, essa ha un altro stato rispetto a quando è ancora liquida, è ghiaccio. Uno stato d’aggregazione. Ha stati, l’acqua? --Quando l’astore piomba sul pollaio, le galline si riparano al coperto, in ciò hanno «tutte degli stati». Il motore nell’automobile non ha stati. Esso è (per esempio) in buono stato. Un cane si muove da sé, un motore va anch’esso da sé. Qual è la differenza? Entrambi «sono in funzione». L’animale, in caso di pericolo, può scappare via correndo. Dispone di libera decisione? Abbiamo motivo di presumere (sebbene non possiamo saperlo) che esso non ne disponga, in caso contrario vorrebbe dire che è in grado di scegliere – non semplicemente che sussistono oggettivamente due possibilità contrapposte, bensì che l’animale si rappresenta entrambe le possibilità in quanto possibilità. Presumiamo che la gallina, al grido dell’astore, che essa conosce, fugga senza scegliere (naturalmente all’interno di uno stato). Perché la gallina ha un «interno» e il motore no? Essa ha un «interno» perché ha un «esterno» – nel senso di qualcosa di aperto in cui essa si trattiene e rispetto al quale si regola. Il motore non si rapporta al suo alloggiamento. Il vivente «è aperto per...». Questo significa già che esso possiede una certa possibilità di rapportarsi a se stesso (il che nell’animale è soltanto diverso che nell’uomo). Torniamo allo «stato». L’acqua è allo stato liquido oppure solido, tuttavia non ha alcuno stato! La gallina ha stati perché un «interno» è. E un «interno» è, perché un «esterno» è, ovvero perché un vivente è. Uno stato nel senso del sentirsi-[]situati-in-questo-e-in-quest’altro-modo, dell’essere-in-uno-stato, esiste soltanto là dove qualcosa può stare rispetto a se stesso e a qualcosa d’altro. Questo stare-rispetto-a-qualcosa e, in esso, stare-rispetto-a-qualcos’altro, stare rispetto a se stessi, è l’astanza. Che cosa significa allora lo stato estetico? Visto a partire da qui, esso è lo stato astante – il rapporto fondamentale dello stare rispetto a qualcosa e insieme rispetto a se stessi nel modo del sentire. Lettera diciannovesima, secondo capoverso: all’improvviso irrompe lo spirito umano! In precedenza, il discorso verteva solamente sull’uomo. Schiller si muove spesso su piani del pensiero completamente differenti, senza sapere dove autenticamente si stia muovendo. L’uomo in generale non è lo spirito umano, all’uomo in generale appartiene anche il corpo. Adesso Schiller parla improvvisamente dello spirito umano. Se si designa l’esterno come corpo, il discorso verte sull’interno. Intendiamo chiarirci, in una libera riflessione, i singoli passi di questo 

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procedimento antitetico, a partire dal quale si perviene ad una sintesi, in forza della quale diventa comprensibile l’essenza, e al tempo stesso la necessità, dello stato estetico per l’autentico essere-uomo. Schiller comincia con lo stato dell’uomo prima di ogni determinazione, lo stato della pura determinabilità senza limiti. Quando qualcosa è determinabile, è ancora indeterminato. Perché Schiller parla di «determinabilità»? Il foglio di carta è indeterminato e tuttavia non determinabile. Questo foglio di carta è scrivibile, dunque ancora determinabile mediante segni grafici. Ma il foglio di carta non fa nulla né a favore né contro. Il foglio fa resistenza allo scrivere? No! [] Esso non si rapporta a qualcos’altro. Nella «determinabilità», Schiller ha già di mira questo essere-aperti-per..., questo essere-determinabili in modo conforme al vivente. Determinabilità non significa che un’indeterminatezza preliminarmente data possa essere determinata come il foglio di carta tramite la scrittura, la determinatezza è bensì qualcosa che si mantiene in contrapposizione al determinabile stesso, cosa che solo un vivente può fare. L’inanimato dello spazio e del tempo è offerto al libero uso. Qui però si dice che lo spazio e il tempo sono determinabili. Dunque, ad essere determinabile è qualcosa che non è un essere vivente. Quindi la determinabilità sarebbe comunque intesa nel senso della determinabilità del foglio di carta mediante la scrittura? Volendo chiarire quest’obiezione, ci sarebbe da domandare: lo spazio e il tempo (nel senso di Kant) sono forme pure dell’intuizione? Lo spazio è il modo in cui i corpi, ciò che è esteso, mi viene incontro, oppure lo spazio è la modalità in cui io sono determinabile per il fuori-di-me? Noi, dunque, per il fatto che intuiamo all’interno dello spazio e del tempo, siamo determinabili, da noi stessi, da cima a fondo, aperti-nei-confronti-di...; e in questo spazio non è né posto né escluso nulla, ossia può succedere qualsiasi cosa in qualsivoglia punto dello spazio. Lo spazio stesso non prescrive niente – è un’«infinità vuota» [XIX, ; ]. Qual è la differenza tra infinità vuota e vuoto infinito? La prima cosa che dovrebbe determinare un vuoto sarebbe che esso riceve una determinabilità, e se ha una determinabilità, allora, non sarebbe vuoto infinito, bensì infinità vuota. Vuoto infinito non è qui né spazio né tempo. [] Il vuoto infinito equivale al nulla. L’infinità vuota è spazio e tempo. . «L’infinità dello spazio e del tempo è affidata alla sua immaginazione perché ne faccia libero uso» [XIX, ; ].

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La determinabilità è l’essere-aperto spazio-temporale dell’uomo. Per l’uomo è posto uno stato estremo. Adesso debbono essere toccati i suoi sensi. Che cosa significa senso? Dall’enunciato emerge che l’uomo è già presupposto come sensibile. Il senso viene toccato. L’occhio è toccato dalla luce. Possiamo dire: «lampeggia», se diciamo «il senso viene toccato»? Nell’ambito dell’infinità vuota dello spazio, mediante questa sensazione (luce), lo spazio, dapprima indeterminato e tuttavia determinabile, viene determinato. È successo all’incirca questo, che tramite l’irrompere di quest’impressione l’indeterminatezza viene rimossa, un certo qualcosa è via. L’indeterminatezza è via e il determinabile è determinato. Dapprima vi è semplicemente il togliere via. Non c’è ancora; la luminosità ancora non c’è – ancora non è posto nulla di positivo. La prima cosa è che, in generale, l’impressione venga posta di contro. L’incontrare non è solo qualcosa che rimuove l’infinita determinabilità, bensì qualcosa che si fa incontro allorché qualcosa contravviene ad essa, allorché c’è una contrapposizione. Dapprima è la pura determinabilità, poi un’impressione; che però rimuove soltanto la determinabilità, non essendo ancora nulla di oggettuale. Il sentito è un qualcosa di reale, una res, soltanto se qualcosa contravviene, si contrappone, si pone dinanzi ad esso, in quanto è ciò che elimina la determinabilità: una rappresentazione. Questa operazione dell’animo significa: giudicare o pensare [cfr. XIX, ; ]. [] In tal modo abbiamo già la posizione a cui Schiller mira, la posizione fondamentale dell’essere-aperto spazio-temporale. Tutto ciò è qualcosa, soltanto se, contemporaneamente, a questo determinante si contrappone qualcosa che di per sé è non solo determinabile, bensì si sa in quanto determinante se stesso – l’ipseità. Preparare le lettere dalla diciannovesima alla ventiduesima incluse. [Terza seduta,  novembre ] .XI. . Integrazione: abbiamo parlato dello stato di una gallina e dello stato di una macchina. Nel protocollo è riportato che la differenza tra i due stati riposa sul fatto che l’animale si rapporta anche a se stesso. Può un animale rapportarsi a se stesso? No! L’animale non ha un sé, non può dire «io». Cio. «Ora la sua sensibilità dev’essere toccata, e tra la massa infinita delle determinazioni possibili una sola può diventare reale» [XIX, ; ].

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nonostante l’animale ha un «interno». Dobbiamo distinguere: piante e animali hanno certamente un interno e si rapportano a qualcosa di esterno. Tuttavia non sussiste alcun rapporto dell’animale o delle piante a se stessi. Gli animali si rapportano senz’altro a qualcosa che è fuori di loro, tuttavia non hanno mondo. Le lettere dalla diciannovesima alla ventiduesima formano un blocco che occorre aver presente in quanto tale. Dobbiamo pertanto caratterizzare, brevemente, come si rapportano reciprocamente. Prima di tutto: come si distinguono le lettere diciannovesima e ventesima dalle lettere ventunesima e ventiduesima? Di che cosa si parla nelle ultime due? Della bellezza, della relazione tra bellezza e stato estetico. [] Quale carattere viene ascritto alla bellezza? La bellezza possiede il carattere della seconda natura, dell’altra creatrice dell’uomo («natura» rievoca qui la concezione goethiana). La natura dota l’uomo delle componenti costitutive dell’essere umano. L’uomo è animal rationale. Egli possiede pertanto due componenti costitutive, . l’animal, . la ratio, il pensiero in senso ampio, ovvero la ragione. Preso nelle sue componenti costitutive, l’uomo è un animale razionale. Ma ora Schiller va al di là della domanda sullo stato estetico dell’uomo per afferrare concettualmente proprio l’essere-uomo – l’effettivo essere dell’uomo in quanto storico. Per questo, l’umanità non dev’essere esaminata soltanto secondo le sue componenti costitutive, bensì occorre domandare: come perviene l’uomo all’effettivo essere-uomo nella sua autentica libertà? In questo transito nell’autentica realtà effettiva dell’uomo gioca un ruolo la bellezza, la seconda creatrice. Ciò che rende autenticamente possibile l’uomo in quanto storico è la bellezza. Fine della diciannovesima: «ora però la mano della natura lo abbandona» [XIX, ; ]. «Natura» possiede un duplice senso: . natura come noi la comprendiamo abitualmente, . natura come componente universale costitutiva dell’essenza. Essere animale ed essere razionale – queste componenti di cui è dotato, l’uomo le riceve dalla natura. L’uomo si costruisce a partire dalle componenti costruttive dell’animalità e del pensiero. Sentire è il titolo per l’animalità, e pensare il titolo per la ragione. Entrambe queste componenti costitutive vengono costruite come gli stati più estremi. Lettera ventesima: mira ad uno stato intermedio. Gli stati estremi, per sé soli, non possono sostenersi. L’[]uomo non può essere in quanto pura ragione o in quanto pura sensibilità. Dunque: la diciannovesima fornisce le componenti costitutive dell’uomo; la ventesima lo stato fondamentale in cui queste componenti costitutive in generale possono sussistere ed operano. 

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Fine della ventiquattresima: «l’uomo non deve essere né un animale razionale, né irrazionale, deve essere uomo» [XXIV, ; ]. Qui Schiller si spinge oltre la risposta abituale alla domanda sull’essenza dell’uomo (animal rationale), dal momento che per lui l’essere-uomo giunge al suo esito soltanto in base ad una seconda creazione – tramite la bellezza. Quindi, diciannovesima: le componenti costitutive. Ventesima: lo stato fondamentale in cui queste componenti costitutive stanno e soltanto sono quel che sono. Ventunesima: si dice che cosa renda possibile questo autentico essere. Ventiduesima: il discorso verte sull’opera d’arte. Col che, tutto quel che viene in questione si amplia nei suoi confini. Il che è dunque: «essere uomo». Uomo, bellezza e arte vengono mostrati adesso in un grande progetto unitario. Torniamo ai singoli punti. Diciannovesima: si tratta dunque non soltanto di accertare semplicemente le componenti costitutive, bensì di esporle in modo tale che, a partire dalla loro esposizione, si renda evidente la necessità del terzo. Animalità e ragione, sentire e pensare debbono essere concepiti in quanto estremi. Schiller comincia con il sentire e procede da esso. Abbiamo già caratterizzato l’assetto generale della determinabilità e definito quest’ultima non in quanto indeterminatezza della cosa, bensì nel senso di un peculiare tenersi-aperti. Qual è il passo ulteriore, a partire da questo assetto? Se Schiller sviluppa entrambe le componenti costitutive (sensibilità – pensiero, animal – ratio) in questo modo, ha di mira fin dal principio un avere-dinanzi-a-sé, un rap-presentare, un avere-dinanzi-a-sé la realtà. Tutto ciò, che appartiene alla dotazione dell’uomo dev’essere afferrato concettualmente nella sua necessità, nella sua possibilità essenziale. Infine, dunque, sorge la domanda: che cosa inerisce al fatto che un essere vivente rappresenta qualcosa? A ciò inerisce il fatto che la realtà effettiva ci viene data. L’opposto sarebbe che un essere si procurasse da se stesso la realtà effettiva, la ponesse in essere alla stregua del creatore. Il creatore non ha un essente da osservare e da assicurare; per lui l’essente è soltanto mentre egli lo trae fuori da se stesso. Ad ogni realtà effettiva a cui noi possiamo rapportarci appartiene il fatto che ci viene dato qualcosa, che siamo riguardati da qualcosa. . «[...] un essere fisico; con l’unica differenza che nel primo caso è un animale irrazionale, nel secondo razionale. Egli non deve essere però nessuno dei due, deve essere uomo» [XIV, ; ].

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ADRIANO ARDOVINO

Allorché veniamo investiti in tal modo, su di noi si esercita certamente un’impressione, qualche cosa ci viene incontro, tuttavia non sta di contro, non è un oggetto. Ciò che ci arriva addosso, che ci incalza, dev’essere condotto a stare. A tal fine, è necessario che noi, a partire da noi stessi, ci contrapponiamo all’affollarsi di stimoli. Una rappresentazione richiede: . datità di qualcosa di estraneo . il contrappor-si dell’io e del sé. Sentire e pensare, sensibilità e intelletto – entrambi questi momenti fondamentali, l’incontrare e il determinare ciò che viene incontro, sono infinitamente differenti l’uno dall’altro, ovvero differiscono nella loro essenza. Da nessun incremento della sensazione può sorgere il pensiero e da nessun decremento del pensiero la sensazione. [] Entrambi sono infinitamente differenti l’uno dall’altra e allo stesso tempo assegnati l’uno all’altra. Se l’uomo deve essere in quanto animal rationale, entrambi i momenti sono assegnati l’uno all’altro e necessari. Ad entrambi questi momenti dona tuttavia la loro possibilità e fa dell’uomo una realtà effettiva il terzo, lo stato estetico e la bellezza.

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