Saggio sulla struttura della metafisica [2 ed.]

Un quadro sintetico della metafisica, dalla definizione problematica dell'argomento ai principi primi come quello d

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PUBBL C I AZIONI SCUOLA

DI

DELLA

PERFEZIONAMENTO

DELL'UNIVERSITÀ DI

--

--

----

-5

IN

FILOSOFIA

PADOVA

-------

SERIE: LEZIONI E CONFERENZE

PIETRO FAGGIOTTO

SAGGIO SULLA STRUTTURA DELLA METAFISICA Seconda edizione riveduta ed ampliata

P AD O VA CEDAM - CASA

EDITRICE DOTT. 1969

ANTONIO

MILANI

PROPRIETÀ LEITERARIA RISERVATA

@

Copy-right 1969 by CEDAM

P-rinted in ltaly

·

ISTITUTO POLIGRAPICO UMBRO

·

Padova

St11mpato in Italia



OTrÀ

DI CASTELLO

·

1969

A Umberto Antonio Padovani dedico questo mio lavoro inadeguata ma affettuosa testimonianza di quel «

«

vivente discorso

»

che egli ha

scritto nella mia anima

»

IN DI CE

Prefazione alia II edizione

pag.

11

Prefazione alla I edizione

»

B

pag.

21

»

21

PARTE PRIMA DEFINIZIONE

CAP. I -

E

FONDAZIONE

DELLA METAFISICA

'< ).

Esiste una profonda sproporzione tra conoscenza tematica e conoscenza atematica, nel senso che ciò che riusciamo a vedere con chiarezza è assolutamente inadeguato rispetto a tutto ciò che desideriamo conoscere , in quanto riusciamo oscuramente a in­ travedere. Noi cerchiamo tuttavia di colmare questa sproporzione e ina­ deguatezza in diversi modi . Anzitutto ci sforziamo di « guardare di più » , cioè di rivolgere la nostra attenzione ad un maggior numero di cose e di relazioni ; inoltre cerchiamo di « guardare meglio » , di osservare cioè più attentamente ciò che abbiamo già visto per cogliere aspetti e relazioni che prima erano rimasti (1) Per una ulteriore illustrazione del rapporto tra l'aspetto tematico e l'aspetto atematico dell'esperienza, cfr. Parte Il, Cap. l, § 2. (* ) Su questo tema si veda ancora Appendice II, pp. 286-289.

CAP .

1.

-

« DOMANDA

TOTALE »

E

SAPERE

METAFI SJCO

37

nell'ombra. Si tratta in fondo dei due processi di sintesi e di ana­ lisi mediante i quali riusciamo spesso ad estendere ed approfon­ dire la nostra visione delle cose. Esiste tuttavia anche un altro modo con cui la nostra intelli­ genza cerca di soddisfare in qualche maniera il suo bisogno di co­ noscere. Questo modo è l'interpretazione. L'interpretazione, nel significato che intendiamo attribuire a questo termine, non è pro­ priamente una « visione » , ma ne è, ci si perdoni il termine, un surrogato : chi vede veramente non ha più bisogno e possibilità di interpretare ciò che vede sotto l'aspetto per cui lo vede : l'in­ terpretazione si inserisce soltanto là dove la visione vien meno ; quest'ultima è per definizione sempre certa, mentre la prima è soltanto più o meno probabile . L'interpretazione è una costru­ zione del nostro pensiero, che non vuoi essere però un puro sfogo della fantasia fine a se stesso, ma la ipotetica ricostruzione di qual­ cosa di reale. Se il momento del conoscere è il momento della re­ cettività del pensiero, il momento dell'interpretazione è una delle forme in cui si esprime la produttività del pensiero stesso. L'interpretazione non è quindi propriamente un conoscere, anche se risponde ad una finalità conoscitiva , perchè non è un autentico « vedere » , ma un « vedere nell'immaginazione » , vale a dire un immaginare ciò che un intelletto più potente del nostro ( o il nostro stesso intelletto in condizioni diverse ) potrebbe vedere. Pur essendo per sua natura distinta dalla « visione » , l'in­ terpretazione si esercita a stretto contatto con essa, in quanto non è una operazione che possa esplicarsi in forma autonoma , ma è un atto che si inserisce nelle lacune del tessuto teoretico e deve perciò collegarsi il più possibile con questo tessuto stesso. Una interpretazione è tanto più fondata quanto più numerosi sono i punti di contatto e di sostegno nella « visione » vera e propria. Per questa ragione l'atto conoscitivo e l 'atto interpretativo sono spesso così strettamente intrecciati tra loro che non è sempre fa­ cile distinguere l'uno dall'altro. Spesso, molto di ciò che si giudica essere vera e propria « visione » è in effetti una interpretazione. E tuttavia, da un punto di vista critico, è quanto mai importante

38

PARTE

PRIMA

- DEFI NIZIONE E

FONDAZIONE

DELLA METAFISICA

saper riconoscere e distinguere i due atti, perchè soltanto nel primo caso si ha l'assoluta certezza, mentre nel secondo si rimane sempre sul piano di una maggiore o minore probabilità . Per assolvere efficacemente al suo intento conoscitivo, l 'inter­ pretazione deve dunque riconoscersi come tale . Se non si effettua tale riconoscimento, e la interpretazione è scambiata per visione , si è già, non fosse altro che per questo scambio, sul piano dell'er­ rore . Inoltre, in questo modo, si impedisce alla interpretazione di rinnovarsi, di farsi, come è sempre possibile, più adeguata , di cedere, al caso, il passo ad una vera , autentica visione . Le forme più note in cui l'atteggiamento interpretativo si con­ creta sono l'opinione volgare, l'ipotesi scientifica e il mito . Di queste forme si deve ripetere quello che s'è detto dell'atteggia­ mento generale di cui sono espressione, che esse cioè sono manife­ stazioni positive, quando sono accompagnate dalla consapevolezza della loro vera natura, sono invece manifestazioni negative; qu mdo intendono valere quali autentiche visioni . Uno dei compiti fon­ damentali dell'indagine fenomenologica è appunto quello di rico­ noscere ciò che si offre alla nostra diretta visione, indipendente­ mente da ogni successiva interpretazione, e che": in questo modo , costituisce, nel senso husserliano dell'espressione, un « comin­ ciamento assoluto » . La sospensione del giudizio , che in questo modo viene esercitata nei confronti di ciò che non è oggetto di una genuina visione , è solo apparentemente una riduzione del campo della conoscenza ; essa ne rappresenta al contrario una estensione : è infatti un saper vedere, da una parte, ciò che costi­ tuisce il puro vedere, dall'altra, ciò che costituisce la semplice interpretazione, la congettura, l'opinione. Ma, ci si può domandare, come è possibile che l'autentico vedere, con il suo carattere di assoluta certezza, possa andar con­ fuso con l'interpretazione, che ha invece soltanto un valore di probabilità ? Non dovrebbe esser proprio del vedere il sapersi ri­ conoscere per ciò che esso è, senza possibilità di equivoco e di incertezza ? Per rispondere a questa domanda dobbiamo richiamarci an-

CAP .

I.

-

« DOMANDA

TOTALE »

E

SAPERE

META FISICO

39

cora alla distinzione tra conoscenza tematica e conoscenza atema­ tica . Se la nostra visione fosse sempre chiara, consapevole, riflessa , se fosse sempre un « vedere d i vedere », non potrebbe certo essere scambiata con l'interpretazione. Il fatto è che la maggior parte del nostro vedere è invece qualcosa di irriflesso , atematico, privo quindi della consapevolezza di ciò che esso propriamente è : è un vedere questo o quell'oggetto, ma non è ancora un vedere se stesso . Da ciò la possibil ità della confusione , dello scambio. È solo anzi attraverso lo sforzo di distinguerlo da ciò che esso non è, che il vedere si delinea nelle sue caratteristiche, si fa tematico . La tema­ deità, in questo caso, non è una condizione iniziale, ma è frutto di riflessione e di confronto. Distinta dalla « visione », l 'interpretazione non va neppure confusa con la dimostrazione. Con l'interpretazione la dimostra­ zione ha in comune la caratteristica di essere un processo secon­ dario che si appoggia sul fatto primario della visione . Tuttavia la dimostrazione, quando è vera e rigorosa dimostrazione , si ri­ solve in visione : il dimostrare si conclude sempre con un « mo­ strare », e questo implica un correlativo « vedere » . La distinzione tra interpretazione e dimostrazione si riporta quindi alla distinzione tra interpretazione e visione . È però ne­ cessario avvertire che le tesi dimostrate costituiscono delle vere e proprie visioni solo quando sono inserite nell'attualità del processo dimostrativo . Avulse da questo, perdono il loro carat­ tere di visioni . Ecco perchè una indagine fenomenologica , ri­ volta a riconoscere le « visioni originariamente offerenti », deve cominciare con il sospendere il giudizio su tutte le dottrine filo­ sofiche . Infatti , costituendo queste il risultato di un procedi­ mento dimostrativo, assunte inizialmente e quindi fuori di questo procedimento, o perdono tutto il loro significato , o valgono al più come semplici opinioni od ipotesi ( 8).

(8) S i veda a tal proposito l'atteggiamento d i Husserl : > : ecco in sintesi le tappe attraverso le quali procede il discorso metafisica, che potremmo conclusivamente definire la

esplicitazione della struttura essenziale dell'esperienza integrale, secondo il metodo della problematizzazione radicale.

APPENDICE I

Avvertenza. - Riproduciamo in questa A ppendice l'articolo Introduzione ad una fenomenologia dell'esperienza integrale (Studia Patavina, 1959, fase. 2, pp . 287-384), perchè riteniamo sia utile a chiarire ulteriormente quel con­ « esperienza integrale » al quale il presente Saggio fa costante rife­

cetto di rimento.

Non vi è alcuna differenza d i pensiero (a parte il diverso grado di svi­ luppo) tra quanto si trova scritto nella Introduzione e quanto è detto nel Saggio, ma piuttosto qualche lieve diversità di linguaggio, che in genere non richiede neppure di venir segnalata. Su di un solo punto riteniamo di dover richiamare l'attenzione, e pre­ cisamente sul § 3 della Introduzione ( « Esper,ienza e giudizio » ), nel quale si faceva il tentativo di introdurre una nuova classificazione dei giudizi, in opposizione a quella kantiana, adottando una nuova terminologia. Nella seconda Parte del presente Saggio siamo ritornati sull'argomento (vedi in particolare Cap. I, § § 5 e 6; Cap. II, § l ) e, pur senza modificare nella sostanza la nostra posizione al riguardo, abbiamo creduto opportuno ritornare alla terminologia tradizionale (distinzione delle proposizioni in analitiche a priori e sintetiche a posteriori). Avendo infatti riconosciuta ancora valida questa terminologia, non abbiamo voluto privarci dal vantaggio of­ ferto dalla sua notorietà e familiarità, anche in relazione alla nostra polemica con l'empirismo e al nostro sforzo di operare un confronto critico tra empi­ rismo e kantismo sulla base di un linguaggio unificato.

INTRODUZIONE AD UNA FENOMENOLOGIA DELL'ESPERIENZA INTEGRALE

l.

-

L'ES PERIENZA COME ORIGINARIA MEDIAZIONE.

Mi trovo nel giardino della mia casa. Sono seduto su di una panchina . Di fronte a me c'è un cedro mosso leggermente dal vento. L'avvertimento di questa situazione complessiva chiamo esperienza; i singoli elementi inseriti in questa situazione ( il giar­ dino, la casa, il cedro, la panchina su cui sono seduto, me stesso che sto seduto osservando ) chiamo oggetti di esperienza. Ho enumerato alcuni oggetti soltanto di questa mia espeLa presente Introduzione è strettamente legata al volume EJperienza e Metafuica (Liviana, Padova, 195 9), nel quale, attraverso alcuni saggi critici sulla filosofia italiana contemporanea, siamo venuti chiarendo ed elaborando, in rapporto alla attuale problematica, un nostro personale punto di vista. Il nuovo saggio, che qui presentiamo, intende esserne una più approfondita ed organica formulazione. Perchè questa non risultasse eccessivamente appesan­ tita, abbiamo tralasciata la documentazione minuta e i riferimenti pr:ecisi a questo o a quell'Autore, !imitandoci in genere a qualche breve annotazione e a qualche rinvio al detto volume, dove quella documentazione e quei ri­ ferimenti sono contenuti. Ciò non significa che questa Introduzione, anche presa in se stessa, non possieda una sua autonomia. Questa le è oltrerurro assicurata dal carattere fenomenologico della ricerca stessa, che rifacendosi da principio al linguaggio comune (intendiamo sottolineare, ad evitare frainten­ dimenti, l'iniziale ricorso a questo linguaggio nella definizione dei termini), si richiama a dei dati originari disponibili a tutti, fa ricorso a degli stru­ menti di verifica che ognuno è in grado di usare per proprio conto.

194

APPENDI CE

l

rienza globale, i primi che hanno attratta la mia attenzione. Se mi soffermo �ncora ad osservare, vedo sullo sfondo, dietro il cedro, la cancellata del giardino, più in là, la strada e, più in là ancora, confuse tra gli alberi , alcune case. Mi giunge all'orecchio il cinguettio di alcuni uccelli , più lontano avverto i rumori del traffico. Anche questi sono oggetti della mia esperienza, ma non ne occupano il centro e rimangono come sullo sfondo. Mentre tuttavia sto facendo questa considerazione, m'accorgo che la mia attenzione s'è spostata. Il centro della mia esperienza è ora occupato proprio da ciò che prima era sullo sfondo, mentre ciò che prima era al centro s 'è spostato alla periferia . La mia at­ tenzione s'è concentrata proprio su ciò che vedo e sento meno distintamente; anzi, se penso alla città che si stende dietro a quelle ultime case e a cui il mio sguardo non giunge, m 'accorgo che il centro della mia esperienza è occupato da ciò che io, in questo istante, non vedo e non sento affatto. Questa esperienza di ciò che attualmente non vedo e non sento chiamo pensiero e i suoi oggetti idee ( 1 ), l'esperienza di ciò che vedo e sento chiamo percezione; e questo vedere e sen­ tire sensazione. L'attenzione che si dirige verso questo o quel punto della esperienza complessiva chiamo coscienza. La sfera della esperienza complessiva, nel duplice ordine

(1) Che il pensiero possa estendersi oltre l'orizzonte degli oggetti attuai· meme percepiti, a quelli cioè percepiti in passato o a quelli di una possibile percezione futura, ciò risulta dalla stessa esperienza ed è perciò fuori discus­ sione. Discutibile invece potrebbe apparire questo considerare il pensiero come una forma di esperienza. Una duplice considerazione ci ha convinti ad adottare, sull'esempio altrui, questa terminologia : in primo luogo, il fatto che nel pensiero si riscontra, sotto diverso aspetto, lo stesso carattere di at­ tualità che è proprio della percezione (ciò che è pensato, se non è attual­ mente percepito, è tuttavia, come è ovvio, attualmente pensato); in secondo luogo, il fatto che pensiero e percezione sono così strettamente legati tra loro, si condizionano reciprocamente in una forma così radicale (come ri­ sulterà dalla presente analisi), da costimire una unità inscindibile, che è ap­ punto l'esperienza integrale.

INTRODUZIONE

AD

UNA

FENOMENOLOGIA

DE LL'ESPERIENZA

INTEGRALE

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della percezione e del pensiero, risulta più ampia della sfera della coscienza. La coscienza è infatti per sua natura selettiva. Essendo attenzione verso un determinato oggetto è, per ciò stesso, disat­ tenzione verso gli altri. Questa disattenzione è tuttavia corre­ lativa all'attenzione : è cioè avvertimento oscuro di quei termini in riferimento ai quali l 'attenzione stessa si dirige verso il suo proprio oggetto. Questo avvertimento oscuro chiamo subconscio. Il subconscio non è la negazione assoluta della coscienza . Tra coscienza e subconscio vi è una differenza di grado. Si tratta di gradi diversi di quell'avvertimento che è l'esperienza in genere . Fa parte dunque dell'esperienza attuale anche ciò di cui non sono attualmente consapevole, ma di cui tuttavia ho un oscuro avvertimento e a cui successivamente la mia consapevolezza si estende con lo spostarsi del fuoco della mia attenzione. Se questo è occupato tutto dalla percezione del cedro, la sfera del subcon­ scio è occupata dalla percezione del giardino, da quella del quar­ tiere e, più in là ancora, dall'idea della città e, via via, della re­ gione, del mondo intero, della totalità stessa cioè in cui penso inseriti questi singoli oggetti . E la mia percezione del cedro non avrebbe esattamente lo stesso valore che essa in effetti ha, tolto questo riferimento alla totalità degli altri oggetti più o meno chiaramente percepiti o pensati . Per questo riferimento il cedro è colto non come una monade a sè stante, ma come parte di un intero variamente articolato, e questo intero costituisce la sfera dell'esperienza totale. Il riconoscimento del piano del subconscio come parte inte­ grante della sfera totale dell'esperienza è, a nostro avviso, di grande importanza per determinare l'autentica struttura di que­ sta. Molte concezioni inadeguate dell'esperienza trovano infatti la loro causa nella mancanza di tale riconoscimento. Se si tiene in­ vece presente l'organica connessione di ogni oggetto consapevol­ mente esperito con l'indefinita varietà degli altri oggetti incon­ sciamente percepiti o pensati, si potrà innanzi tutto comprendere in che senso si possa e in che senso non si possa parlare di espe­ rienza immediata.

1 96

APPENDICE I

L'esperienza è sempre mediazione, in quanto qualunque suo particolare oggetto è colto mediante il suo riferimento agli altri . Tuttavia il contesto intero dell'esperienza, in quanto non è me­ diato in rapporto ad altro, può dirsi immediato . La polemica sul carattere immedi ato o mediato dell'esperienza, mi sembra si possa risolvere riconoscendo l'esperienza come l'immediato, origi­

nario presentarsi di una mediazione. Il riconoscimento della struttura intrinsecamente mediata del­ l'esperienza giova ancora a chiarire il rapporto che intercorre tra esperienza e discorso. Se l'esperienza è per sua natura mediazione, il passaggio dall'esperienza al discorso non deve essere concepito come il passaggio dall'immediato alla sua mediazione, ma come il chiarirsi, l'esplicitarsi di una originaria mediazione. Non c' è adunque soluzione di continuità tra esperienza e discorso. Si tratta della distinzione tra due momenti di una stessa realtà : un momento in cui l'interna mediazione o articolazione è germinale ed implicita e un momento in cui la mediazione si sviluppa, si rende esplicita, si allarga a nuovi termini , senza che il nuovo distrugga la permanente identità di quella realtà originaria nella sua struttura essenziale; esattamente come un organismo vivente conserva la propria identità lungo tutto il suo sviluppo, così da potersi escludere una sostanziale eterogeneità tra l'embrione e l'adulto . L'esperienza sta appunto al discorso come l'embrione all'adulto: in essa già si profilano i lineamenti essenziali lungo i quali si articolerà il discorso. A chi intenda in questo modo il rapporto tra esperienza e discorso compete l'obbligo di risalire alla determinazione della struttura essenziale di quella esperienza integrale dalla quale il discorso procede . Abbi amo visto nella precedente analisi come la percezione consapevole del cedro fosse condizionata dall'avvertimento più o meno chiaro di una serie degradante di piani, l'ultimo dei quali era costituito dall 'idea della totalità. Tale idea, formalmente con­ siderata, non risulta dalla somma dei singoli oggetti attualmente percepiti o pensati , perchè la sua estensione non aumenta affatto

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AD

UNA

FENOMENOLOGIA

DELL'ESPERIENZA

INTEGRALE

197

con il sopraggiungere di nuovi oggetti : essa è sempre là, sullo sfondo, e in essa ogni nuovo oggetto sembra già trovar preparato il suo posto ; per quanto aumenti il numero degli oggetti, la sua capacità di contenerne ancora rimane assolutamente intatta : essa è la totalità dei possibili oggetti d'esperienza. E poichè ogni og­ getto, percepito o pensato, si presenta come un qualche cosa� come un essere, essa può anche dirsi la totalità degli esseri

possibili. Nella storia del pensiero tale idea è stata più volte ricono­ sciuta e variamente denominata . Per Tommaso è l'ente nel suo significato trascendentale, per Kant è l'ideale trascendentale della possibilità tutta ( gesamte Moglichkeit), per Rosmini è l'essere

possibile. In rapporto a questa idea gli oggetti dell'esperienza si pre­ sentano come particolari modi o determinazioni della possibilità tutta, dell'essere : non dunque semplicemente visti come lumi­ nosi, ad esempio, o come verdi , ma percepiti o pensati come es­ seri. Ciò adunque che realizza l'unità dell'esperienza e la sua permanente identità con il discorso è l'idea dell'essere . Per quanto infatti il discorso si sviluppi e proceda di oggetto in oggetto, non trascenderà mai l'orizzonte di una realtà originariamente, anche se oscuramente, colta fin dalla più germinale esperienza. L'idea dell'essere, condizione suprema dell'esperienza di qua­ lunque essere, non precede tuttavia mai completamente l'espe­ rienza dei singoli esseri. Nell 'esperienza non ci è mai data la sola idea dell'essere fuori di qualunque rapporto con gli esseri par­ ticolari, allo stesso modo che non ci è dato vedere un sfondo se non in rapporto a qualche oggetto che sullo sfondo si stagli. Poichè tuttavia noi ci siamo accorti che la nostra idea del­ l'essere precede l'esperienza di questo o quel determinato og­ getto, ci siamo talora illusi di poterla intuire per se stessa, im­ mediatamente, mentre la riflessione sulla concreta esperienza ci mostra che essa ci è sempre data in connessione con qualche og­ getto determinato, cioè mediatamente, così come mediatamente ci è dato qualunque altro oggetto, anche se essa è tra tutti il più

198

APPENDICE l

esteso e comprensivo. Immediatamente, nel senso in cui s'è detto, non ci è data che l'esperienza nella sua interezza . Questa, per quanto la nostra analisi ha fin qui messo in luce, è esperienza de­ gli esseri in rapporto all'essere ed esperienza dell'essere in rap­ porto agli esseri ; benchè , solitamente, l'idea dell'essere non oc­ cupi il centro della nostra attenzione, la quale è piuttosto at­ tratta dalla mutevole varietà dei singoli oggetti che non dal per­ manere dello stesso identico orizzonte . È della massima impor­ tanza tener presente questo carattere mediato dell'esperienza dell'essere: se si pretende di intuire l'idea dell'essere per se stessa, essa si tramuta subito in un nome vuoto, senza senso. La obiezione nominalistica contro l'idea dell'essere nasce dal fatto che si dimentica che la sua intelligibilità richiede il rapporto ai singoli esseri { 2 ). Di contro all'immutabile orizzonte costituito dalla totalità del­ l'essere possibile, la pluralità degli esseri percepiti presenta in­ vece il carattere della più grande mobilità . Oggetti sempre nuovi si presentano sul piano della percezione, inserendosi nella più ampia sfera dell'essere possibile, di cui vengono a determinare alcuni degli infiniti modi ; altri oggetti escono dal piano della per­ cezione, rimanendo tuttavia sul piano del pensiero o come idee determinate o riassorbiti nell'indeterminatezza dell'essere possi­ bile . La mutabilità degli oggetti di percezione è, accanto all'idea (2) L'aver considerata l'idea dell'essere come una nozione innata, data s.l nostro intelletto indipendentemente dalla esperienza di qualunque oggetto

particolare, in ciò consiste, a nostro avviso, l'equivoco della posizione rosmi­ niana. L'intelligibilità dell'essere universale indeterminato rich iede un rap­ porto con qualche determinazione particolare. II primo in ordine alla nostra conoscenza è ciò che Rosmini chiama percezione intellettiva, rispetto alla quale l'intuito dell'essere è una condizione interna e non un momento ante­ cedente. Verso questo superamento dell'equivoco rosmin iano mi sembra muo­ versi M. F. Sciacca, come abbiamo cercato di mettere in luce altrove (cfr. il saggio Il problema dell'esistenza di Dio nella filosofia di M. F. Sciacca, in Esperienza e Metafisica, ci t., pp. 1 7 1 - 173 ) .

I NTRODUZIONE

AD

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FENOMENOLOGIA

DELL'ESPERIENZA

INTEGRALE

199

dell'essere possibile, il secondo lineamento essenziale della strut­ tura dell'esperienza . Connesso con il mutamento degli oggetti della percezione, un terzo lineamento si manifesta. Esso si profila dietro alla stessa domanda che sorge in me di fronte alla percezione di un nuovo oggetto : donde questo oggetto ? donde il nuovo essere che prima non era ? La ricerca della fonte, del principio, della causa , del fonda­ mento di ciò che muta è una delle principali forme del discorso. Si noti bene che la domanda non è se ci sia un fondamento, ma quale sia il fondamento. Che ci debba essere un fondamento è già scontato nella stessa domanda. E si noti ancora che la domanda è una domanda totale , che punta già verso il fondamento ultimo , assoluto ; essa alimenta infatti il regresso continuo, indefinito, ol­ tre ogni forma di fondamento che si riveli a sua volta soggetto a mutamento e perciò bisognevole di una ulteriore giustificazione. È dunque l'esistenza, l'attualità di un fondamento ultimo, di un assoluto, quello che è il remoto presupposto di ogni domanda, anche la più banale, mentre è il presupposto prossimo della do­ manda metafisica più radicale. Tale presupposto è il terzo linea­ mento essenziale dell'esperienza integrale. Lo chiameremo espe­ rienza dell'Assoluto, usando appunto il termine esperienza, a sot­ tolineare il fatto che si tratta di un apprendimento originario, con­ dizione e non risultato del discorso. Il discorso potrà chiarire la natura dell'Assoluto, ma non dimostrarne l'esistenza, perchè è dalla certezza di questa che esso è perennemente sollecitato ( 3 ). e) Sull'espressione « esperienza dell'Assoluto » s'è svolta tra il Prof. Bon­ tadini e noi una discussione in uno scambio di note, raccolte poi nel volume

Esperienz.-z e Metafisica (vedi in particolare le pp. 1 5 - 16 ; 2 3-24, 26-27 ; 30-32 ; 3 9-40 ; 44-45 ; 56-57; 67-68 ; 83-86). In relazione al nostro concetto di esperienza dell'Assoluto, superato l'equi­ voco iniziale che esso sottintendesse una posizione immanentistica o che esso equivalesse alla visione beatifica o all'esperienza mistica, e chiarito che si intendeva parlare di « esperienza dell'Assoluto come certezza originaria della sua esistenza » (p. 32 ), il Bontadini ci concedeva che « l'idea dell'assoluto

200

APPENDICE I

Presupposto del discorso, l'esperienza dell'Assoluto non è tuttavia una nozione assolutamente immediata, che si offra per se stessa, al di fuori di ogni relazione con la restante esperienza . Essa infatti si manifesta soltanto in rapporto al mutare degli oggetti della percezione, dentro l'orizzonte dell'essere totale. Fuori di questo rapporto il termine stesso di Assoluto diviene insignifi­ cante. D'altro canto l'esperienza del mutamento, come effettiva­ mente ed integralmente si manifesta, con quella nota cioè di inverifica in sè la nota dell'immediatezza, che è nota propria dell'esperienza » , proponendo un accordo sulla formula « esperienza dell'idea dell'Assoluto »

(p. 5 7). Ciò che invece il Bontadini non ammetteva in alcun modo era la tesi di una « certezza originaria, indeducibile, che un assoluto non può non esserci

�>

(p.

68).

« Che cosa si oppone - si domanda il Bontadini -

a

chi negasse tale

certezza ? Il Faggiotto -- egli continua - accetta il modo da me proposto di esporla o formularla : l'Assoluto è reale, perchè, se lo togli via, quel che resta

è desso l'Assoluto. Dove il termine assoluto equivale, sintatticamente, a quello di

totctlità del reale. La totalità del reale è reale, perchè,

se non lo fosse, la

parte sarebbe il tutto. Da questa esposizione della certezza risulta che essa non è fondata sulla presenza dell'Assoluto o della totalità, ma sulla presenza della ragione (la predetta contraddizione in cui cadrei se negassi l'asserto) per cu i io affermo la realtà dell'Assoluto o della totalità. E questa è precisa­ mente la natura della conoscenza

mediata, in contrapposto all'esperienza. Se

la totalità del reale o l'Assoluto fosse presente come tale, non avrei bisogno

di ricorrere a nessuna considerazione discorsiva, e sia pur modestissima, come quel " se togli via " , o simili » (pp.

83-84).

Da parte nostra, se ci è permesso ritornare ancora su tale questione, diremo anzitutto che nella argomentazione « togli via l'Assoluto, quel che resta è lui l'Assoluto » , così come all'inizio (p. 27) era stata dal Bontadini formulata (la seconda formulazione ci piace meno perchè, oltretutto, po­ trebbe far pensare che si accettasse la soluzione immanentistica), il termine

assolt-tto non equivalente affatto a quello di totalità del reale, ma a quello di realtà incondizionata, autosufficient�, autofondantesi. Si diceva infatti che, se un tale assoluto non si riscontra in una determinata realtà, si dovrà riconoscerlo

al di !à di essa. La considerazione discorsiva esiste indubbiamente anche in questo caso, ma ciò che, a rigore, risulta dimostrato è la trascendenza del­ l'Assoluto, una volta che ne sia negata l'immanenza, non l'esistenza dell'Asso-

I NlRODUZIONE

AD

UNA

FENOMENOLOGIA

DELL'ESPERIENZA

INTEGRALE

201

sufficienza per cui non ci è dato di acquietarci in esso, è tale per il suo rapporto con l'esperienza dell'Assoluto. La domanda « donde ? » rivela questa originaria mediazione tra due piani di una indivisibile esperienza, la sola che, nella sua interezza, possa dirsi immediata. È questo, per quanto ci è dato finora di scorgere ( una più approfondita analisi potrà infatti mettere in evidenza altri ter­ mini ed ulteriori articolazioni ), il profilo essenziale dell'esperienza integrale : originaria mediazione tra quei termini nel cui ambito si svolgerà il successivo discorso, anzi , essa stessa, discorso in­ cipiente. 2.

-

E S PERIENZA

E

DI S COR S O .

Una delle esigenze che più spesso si ripresenta nella storia del pensiero e che è particolarmente avvertita nella cultura con­ temporanea, è quella di liberare il campo della coscienza da ogni presupposto ingiustificato, da ogni concetto non chiaramente fon­ dato, per rifarsi attraverso l' epochè ad una esperienza ingenua, 1uto che è evidentemente già presupposta. Infatti le due proposizioni : « l'As­

soluto è immanente » ,

«

l'Assoluto è trascendente » , sono contraddittorie (così

che dalla negazione dell'una l'altra risulta aHermata) solo se sia già stata esclusa una terza possibilità, che cioè l'Assoluto non si dia aHatto. Tuttavia, se la dimostrazione concerne la trascendenza dell'Assoluto, essa mette in evidenza la certezza originaria su cui si fonda. Riteniamo anzi che questa certezza non abbia modo di manifestarsi al di fuori di questa o di altra dimostrazione. Perciò dice bene il Bontadini che « se l'Assoluto fosse presente come tale, non avrei bisogno di ricorrere

a

nessuna considerazione

discorsiva » . La certezza infatti dell'esistenza dell'Assoluto è sì originaria, nel senso che non è il risultato di un discorso, ma non è immediata, cioè non

f: data al di fuori di ogni rapporto con altri termini dell'esperienza, al di fuori di un qualche discorso, almeno implicito. Potremmo anche dire che l'esistenza di un Assoluto, se non è r.ivelata dal discor.ro (nel senso che sia il discorso a fondarla), si rivela tuttavia nel discorso (nel senso in cui, ad es., si dice che la causa si rivela in occasione del manifestarsi dell'effetto).

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APPE NDICE l

scevra da ogni sovrastruttura metafisica, da ogni retaggio delle varie tradizioni scientifiche e filosofiche . Tornare all'esperienza primitiva per guardare con occhi puri alle cose e riconoscerle nella loro autentica fisionomia, è la parola d'ordine che da più parti si continua a ripetere. Questo sforzo di ritornare all'ingenuità primitiva rischia però di rivelarsi, esso, una grossa ingenuità . Se per ingenuità primitiva si intende una percezione immediata delle singole cose, una vi­ sione neutrale di esse, scevra da ogni esigenza metafisica, non è possibile ritornare ad essa, perchè una tale condizione non è mai esistita. Si tratta di un mito analogo a quello del selvaggio, del­ l'uomo allo stato di natura precedente lo stato sociale, una delle più artificiose finzioni dell'età illuministica. L 'esperienza originaria infatti , anche nella sua forma più ele­ mentare, presenta una struttura mediata in cui è la radice di tutte le successive mediazioni e delle stesse costruzioni metafisiche. Se così non fosse,._ come spiegare il passaggio che ad un certo punto si sarebbe prodotto dallo stadio di immediatezza allo stadio di mediazione? Il tentativo di risalire ad una esperienza assolutamente im­ mediata si risolve in effetti in una depauperazione dell'autentica esperienza integrale che, di sottrazione in sottrazione, rischia di venire completamente nullificata . Non si tratta adunque di risa­ lire ad una esperienza ingenua che escluda qualunque mediazione, ma di riconoscere il carattere di originaria mediazione proprio dell'esperienza , di descriverne la struttura nelle sue linee essen­ ziali, per trovare in essa la possibilità di verificare tutte le parti­ colari mediazioni operate dal discorso filosofico nel corso della storia ; nel modo stesso in cui , conservando il paragone tra l'inda­ gine gnoseologica e quella politica, la valutazione di determinate istituzioni sociali non si ottiene risalendo ad un fantastico stato di natura presociale , ma riconoscendo l'originaria natura politica dell'uomo per giudicare della corrispondenza di quelle a questa. D'altra parte, una volta che ci si accingesse all'impresa di puri­ ficare l'esperienza da un certo numero di termini che in essa non

INTRODUZIONE AD UNA FENOMENOLOGIA DELL'ESPERIENZA INTEGRALE

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troverebbero fondamento, resterebbe pur sempre da spiegare da quale parte essi si siano ad un certo punto introdotti. Se l'unica autentica fonte della nostra conoscenza è la pura esperienza , non dovrebbero presentarsi in nessun modo nel nostro discorso ter­ mini non empiricamente fondati . È la difficoltà principale del­ l'empirismo humiano : se l'esperienza non ci presenta mai una connessione necessaria tra i fenomeni (rapporto di causalità ), come avviene c9e ad un certo punto noi ci troviamo a pensare a tale connessione ? L'abitudine può sì generare l'equivoco tra la rappresentazione di un rapporto costante, ma tuttavia sempre contingente, e quella di un rapporto assolutamente necessario, ma non può da sola generare l'idea di un tale rapporto. Quel di più che c'è in questa idea, cioè la nozione di necessità, non può trovare adeguata spiegazione nei termini dell'empirismo humiano . Si comprende così il progresso compiuto da Kant su Hume nella soluzione di questo problema. La nozione di causa non de­ riva dall'esperienza ( intesa in senso humiano ), ma è a priori, è un concetto originario della ragione. Tale concetto tuttavia è per sè vuoto, è la sola condizione perchè il fenomeno sia pensato e da intuizione cieca si trasformi in vera e propria esperienza . Ma ecco allora che il concetto stesso di esperienza è venuto a mutare : essa non è più il fenomeno, come lo concepiva Hume, ma la sintesi di fenomeno e concetto puro, di senso e di pensiero, fuori della quale non esiste alcuna conoscenza . Nei confronti ài questo nuovo e più integrale concetto di esperienza, il concetto di causa ( come pure le altre categorie dell'intelletto) non potrebbe più dirsi a priori . Esso infatti ci è dato nel contesto dell'espe­ rienza , indissolubilmente congiunto con gli altri elementi di essa ; ed è solo per una ricaduta sul piano dell'empirismo humiano che Kant ne fa un concetto puro, indipendente dall'esperienza ( 4 ).

(4) Osserva a questo proposito il Dewey che Kant accettò dailo Hume il particolarismo dell'esperienza e procedette a supplirvi da fonti non em­ piriche . . . Il risultato netto avrebbe dovuto suggerire una nozione corretta dell'esperienza. Non dobbiamo infatti far altro che dimenticare l'apparato «

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APPENDICE

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Il nuovo punto di vista kantiano, al contrario, si esprime nel celebre enunciato che « pensare è giudicare » , vale a dire riferire i concetti alle intuizioni : questo riferimento è appunto la stessa esperienza. Il giudizio non può trascendere l'esperienza perchè è la stessa esperienza nel suo costituirsi. Anche il discorso in Kant non può uscire dall'orizzonte del­ l'esperienza, perchè anch'esso si esplica nel riferimento dei con­ cetti alle intuizioni. Le tre idee trascendentali dell'anima. del mondo e di Dio, e in particolare quest'ultima, si risolvono infatti nella categoria della totalità, tolto il diverso uso regolativo, an­ zichè costitutivo, di essa in rapporto agli oggetti di esperienza. È per questa idea che ogni singolo oggetto di esperienza rièeve la sua determinazione completa in rapporto al tutto, realizzandosi in tal modo quell'unità dell'esperienza, fuori della quale non si potrebbe istituire la trama delle relazioni tra i molteplici oggetti, in cui consiste lo stesso discorso. Questo non può adunque tra-

mediante il quale si è arrivati al risultato netto per avere davanti a noi l'esperienza dell'uomo comune, una diversità di cambiamenti incessanti con­ nessi in tutti i modi, statici e dinamici. Questa conclusione avr�bbe recato un colpo mortale sia all'empirismo che al razionalismo. Infatti, rendendo chiaro il concetto non empirico del sedicente molteplice di particolari irre­ lati, avrebbe reso non necessario l'appello a funzioni dell'intelletto per corre­ larli » (Intelligenza creativa, trad. di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze, 195 7, pp. 49-50). Si veda ancora la seguente osservazione dell'Abbagnano.