Prima lezione di sociologia del diritto

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Prima lezione di sociologia del diritto

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9195-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Margherita, la nipotina appena nata

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Se l’obiettivo di questa “prima lezione” è aprire una finestra su un ramo del sapere, secondo un punto di vista soggettivo, credo di poter iniziare dicendo che la sociologia del diritto è stata per me un clima culturale, prima che una scienza con i suoi apparati d’oggetto e di metodo. Un clima – dirò così – di scoperta illuminata dal dubbio. All’inizio degli anni Sessanta, quando ne sentii parlare per la prima volta, la sociologia del diritto semplicemente non esisteva nel nostro orizzonte di pensiero, ove a malapena aveva fatto capolino – nelle pieghe più riposte dei manuali liceali di filosofia – la stessa sociologia. I grandi autori che avevano affrontato il diritto dalla prospettiva sociologica, come Émile Durkheim, Eugen Ehrlich o Max Weber, erano ignorati dalla cultura italiana, tanto che nel 1960, alla fine del corso di sociologia che Renato Treves teneva all’Università di Milano accanto a quello di filosofia del diritto, non avevamo testi ufficiali su cui prepararci e all’esame rispondemmo delle ricerche svolte durante l’anno (io mi ero occupato degli effetti della riforma agraria sui comportamenti elettorali, ispirandomi soprattutto a un libro pionieristico1) e del contenuto degli appunti presi a lezione. 1

Mazzaferro (1956). Questo libro del Mulino, la casa editrice bo-

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A sua volta il diritto era concepito, praticato e insegnato non solo in forme dogmatiche, cosa inevitabile, ma come se la dogmatica fosse l’unico modo di guardare alle regole, se non addirittura alla condotta umana. Ed era in se stesso – sottolineo – un discorso affascinante, sia per la radice storica dei concetti (come dimenticare le lezioni di Giovanni Pugliese sulla lex Aquilia?), sia per l’esercizio di logica imposto dalla concatenazione normativa. Non per nulla, dopo aver ascoltato maestri come Enrico Tullio Liebman, Giacomo Delitala, Cesare Grassetti, e pensando al mio futuro professionale, lasciai una tesi appena abbozzata in filosofia del diritto per scriverne una in diritto processuale civile. Eppure una inquietudine non mi abbandonava. La pratica forense appena iniziata metteva in luce una visibile distanza fra norme e prassi soprattutto nel mio campo preferito, quello del processo, mentre sotto la coltre rassicurante della dogmatica continuava a lavorare il tarlo sottile della critica insinuatosi nelle nostre menti con i corsi di Treves. Fu naturale capire che quella distanza era un fatto non patologico, da valutare solo sul piano formale o su quello etico, ma fisiologico, che consentiva, anzi imponeva, un’indagine scientifica. Un’indagine – accennavo sopra – guidata dal dubbio e dal suo fascino sottile. Il dubbio è il motore della ricerca. Si cerca perché non si sa; e più si cerca, più s’allarga, accanto alle poche conoscenze acquisite, lo spazio di ciò che resta ignoto, ovvero, in senso letterale, la consapevolezza della propria ignoranza di fronte all’ulognese che, con le Edizioni di Comunità delle Industrie Olivetti, ebbe il grande merito di rilanciare le scienze sociali in Italia, rappresenta simbolicamente l’inizio della mia avventura nella ricerca.

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niverso infinito delle cose conoscibili, per non parlare di quelle inconoscibili. Di dubbio, Treves era maestro impareggiabile, come riconoscono i suoi allievi2. La sua insistenza sul carattere parziale, relativo e prospettico della conoscenza era anzitutto una lezione di umiltà. Quando nel 1974, col Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, fondò «Sociologia del Diritto», la rivista che ci ha lasciato in eredità, aveva alle spalle decenni di insegnamento, ricerche e politica della cultura di alto impegno. Con tutto ciò, presentò la nuova pubblicazione sollecitando critiche al programma che esponeva. Naturalmente le ottenne, rispose, e così fece di «Sociologia del Diritto» un foro di aperto dibattito fra altri studiosi mossi dalla passione per il dubbio, come Uberto Scarpelli, col suo solenne richiamo al rigore metodologico, Giovanni Tarello, col suo corrosivo spirito realistico, Vittorio Denti, processualista insofferente, e Vincenzo Tomeo, la cui poliedrica cultura sconfinava nello scetticismo sulle capacità esplicative della scienza stessa – per citare i soli membri della direzione. Il clima non era diverso in altri paesi. In Francia un civilista di alto rango, Jean Carbonnier, apriva alla sociologia del diritto le porte della Sorbonne, vincendo le resistenze di una cultura giuridica formalistica, legata al dato normativo e alla sua analisi esegetica. Incaricato dal governo di scrivere le norme del nuovo diritto di famiglia, fece svolgere indagini empiriche sul costume familiare: un anatema, in quella cultura e ancor oggi, soprattutto in Italia, cosa molto rara. In Germania, era la stes2 Vedi fra gli altri Morris L. Ghezzi che, ispirandosi soprattutto a Treves, ha intitolato il suo ultimo libro di sociologia del diritto La scienza del dubbio (Milano, Mimesis, 2009).

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sa divisione del paese a stimolare ricerche sul sistema giuridico, all’Est e all’Ovest, con speciale attenzione verso il sistema giudiziario in via di riorganizzazione. Negli Stati Uniti erano soprattutto giuristi e storici del diritto a scoprire le potenzialità della sociologia empirica, a moltiplicare le ricerche sul campo e a spianare la via a quella che sarebbe diventata la Law and Society Association, ispiratrice dagli anni Settanta in poi della maggiore rivista della disciplina, la «Law and Society Review». Nei paesi scandinavi erano già in corso dalla fine della guerra indagini che spaziavano dalle funzioni simboliche della legislazione al diritto consuetudinario delle popolazioni dell’estremo nord. In Gran Bretagna, con qualche anno di ritardo, fu la politica di welfare a stimolare indagini socio-giuridiche sugli strumenti del cd. legal aid, volti ad agevolare l’accesso alla giustizia delle classi meno abbienti. Nell’Europa dell’Est, soprattutto in Polonia, una generazione di giuristi antiformalisti aveva preso l’avvio dalla destalinizzazione iniziata nel 1956 e prodotto ricerche su una varietà di temi, per esempio sul prestigio del diritto, mal tollerate dai governi per i loro spunti critici. In Giappone, infine, già dal 1946 esistevano corsi ufficiali di sociologia del diritto, estese ricerche empiriche e una rivista, «Hoshakaigaku», che le raccoglieva e diffondeva. Così, già all’inizio degli anni Sessanta si era avvertito il bisogno di un coordinamento di tutti questi sforzi con la creazione della prima associazione internazionale di sociologia del diritto3 e pochi 3 È il Research Committee on Sociology of Law della International Sociological Association, fondato a Washington nel 1962 per iniziativa di William M. Evan, dell’Università di Philadelphia, e Adam Podgórecki, dell’Università di Varsavia. Questo organismo fu presieduto da Renato Treves sino al 1974 e oggi raccoglie circa 400 aderenti dei più vari paesi. Più ampia numericamente (circa 2000 soci), ma

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anni dopo si era già tracciato un bilancio della sua diffusione (Treves 1966; Treves, Glastra van Loon 1968). La sociologia del diritto appariva dunque un luogo di scoperte e di sfide. I campi in cui sperimentare la fertilità del metodo sociologico coincidevano con l’intera area del diritto, cioè con l’azione umana in tutta la sua estensione. Un immenso terreno, che ambivamo a coltivare, combinando teoria e osservazione empirica, svelando la realtà soggiacente alle norme regolatrici. Era poi importante misurarsi con gli ambienti culturali vicini, seppure di diversa ispirazione metodologica. La “criminologia critica”, rappresentata in Italia soprattutto da Alessandro Baratta, affermava le ragioni di una critica – appunto – soprattutto assiologica e politica della repressione penale, riunendosi dal 1974 in poi attorno a «La Questione criminale», battagliera rivista di analisi scientifica e testimonianza civile4. Altri rivendicavano con forza la necessità di costruire una teoria generale sociologico-giuridica indipendente dalla ricerca empirica, sul modello delle allgemeine Theorien della tradizione germanica e del grand theorizing della sociologia americana, come nel caso della complessa visione sistemica di Niklas Luhmann, influentissima in Italia. Poche cose sono state tanto fertili come il confronto con questi ambienti culturali, da cui proveniva una visione parzialmente diversa, ma complementare, dalla nascente (o rinascente) disciplina sociologico-giuridica. Non meno rilevante era poi il confronto con le discipline affini, soprattutto la filosofia del diritto, da cui più composita scientificamente e concentrata soprattutto negli Stati Uniti, è invece la Law and Society Association. Queste due associazioni organizzano congressi annuali, a volte insieme. 4 Cui hanno fatto seguito, dopo la sua chiusura nel 1981, «Dei Delitti e delle Pene» e «Studi sulla Questione criminale».

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provenivano molti dei fondatori della sociologia del diritto post-bellica. La distanza fra norme e prassi, che soprattutto attirava allora l’attenzione, è infatti implicita nelle grandi teorie filosofico-giuridiche, come quella di Hans Kelsen, fondata sulla distinzione fra l’essere (Sein) dei fatti e il dover essere (Sollen) delle norme, o quella realistica nelle due versioni principali, scandinava e americana, diverse nell’impostazione teorica, ma concordi nel concentrare l’attenzione sulla concreta applicazione sociale, specialmente giudiziale, delle norme giuridiche. Non per caso fu un grande gius-realista americano, Roscoe Pound, a sintetizzare la distanza fra norme e prassi con una formula destinata a diventare famosa – «law in the books vs. law in action» (Pound 1910) – e a configurarsi quasi come la ragion d’essere della sociologia del diritto nella sua versione moderna o, per dir meglio, ufficiale: perché va ricordato che nel corso dei secoli si incontrano molte grandi pagine di sociologia del diritto sotto altro nome – dai retori greci e romani ai glossatori medioevali, da Muratori a Beccaria e Filangieri, da Locke a Bentham e Stuart Mill, da Kant a Marx, da Montesquieu a Rousseau e via dicendo – in tutte le più importanti culture. Il fascino della scoperta, che ha accompagnato le prime fasi del mio impegno nella sociologia del diritto, non è mai venuto meno, benché la materia si estendesse e si consolidasse. Intanto è stato molto stimolante assistere e partecipare a questa crescita. Nei decenni sono nate altre riviste specializzate nei più diversi paesi, fra cui ricordo soprattutto la britannica «Journal of Law and Society»5, la francese «Droit et Société» e la tedesca «Zeitschrift für Rechtssoziologie». Non meno significativo è 5

Fino al 1983 «British Journal of Law and Society».

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stato l’influsso di tematiche e metodi socio-giuridici su una moltitudine di pubblicazioni di settore: dalle professioni giuridiche ai diritti umani, dalla litigiosità in giudizio agli strumenti alternativi di soluzione dei conflitti, dal consumo all’ambiente. Soprattutto è stato impressionante l’aumento della produzione scientifica. Negli anni Sessanta le bibliografie internazionali della materia si riducevano a un migliaio di titoli (Pocar, Losano, s.d., ma 1970). Alla fine degli anni Ottanta una ricerca bibliografica da me coordinata ne segnalava altrettanti nei soli Paesi Bassi (Ferrari 1990). Oggi la biblioteca dell’International Institute for the Sociology of Law di Oñati (País Vasco, Spagna)6 contiene circa 18.000 volumi, 500 titoli di riviste rilevanti per la materia (di cui 19 di sociologia del diritto in senso stretto) e un data base di circa 70.000 documenti bibliografici, fra volumi, articoli di riviste e contributi congressuali. La stessa presenza di questo istituto scientifico, che ha pochi riscontri al mondo, è un simbolo visibile del grado di sviluppo raggiunto da una materia che, a parte i precursori, era sconosciuta pochi decenni fa nei circuiti accademici. Ma a preservare intatta la sensazione originaria di aprire una via, ha contribuito soprattutto l’evoluzione, o l’involuzione, del diritto stesso, anche sotto il profilo di quella distanza fra diritto nei libri e diritto in azione che all’inizio ha dato linfa alla nostra disciplina. L’immagine di un diritto rigido nella sua struttura normativa generale, certo e razionale per quanto possibile, mu6 L’International Institute for the Sociology of Law, creato nel 1989 dal governo della Comunità autonoma basca, che lo dirige insieme al Research Committee on Sociology of Law, ogni anno ospita numerosi seminari internazionali e organizza un corso di master in sociologia del diritto assieme alla Universidad del País Vasco e all’Università di Milano.

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tevole attraverso procedure prefissate e garantite, che ci ha accompagnato dal Settecento in poi, sembra dissolta. L’erosione dei confini statuali e l’intreccio tra fonti di varia provenienza ne hanno modificato a fondo il quadro di riferimento. Ma non è solo questo. Negli anni, con la rivoluzione nelle comunicazioni, il diritto si è fatto sempre più sfuggente, contingente, occasionale. La miriade di norme effimere che ci avvolge dipende visibilmente dalle esigenze della rappresentazione politica. Mentre l’efficacia della legge, anche penale, è diventata casuale, è cresciuto a dismisura l’uso strumentale, mediatico, dei simboli giuridici, spesso ridotti a mere apparenze, da parte di un potere politico incapace ormai di controllare la realtà che fugge attraverso i meccanismi consueti della produzione giuridica. In Italia questi fenomeni appaiono ingigantiti: non per caso da noi si parla di «nichilismo giuridico» (Irti 2004), di «ceneri del diritto» (Ghezzi 2007) e di «fine del diritto» (Rossi 2009). Ma in altri paesi, qual più qual meno, la situazione non è tanto diversa. Oggi dunque non solo appare amplissima la distanza fra norme e prassi, ma gli stessi termini della comparazione compaiono in una luce sfuggente, complicando ma al contempo esaltando il compito del sociologo del diritto. Possiamo dunque dire che la sociologia del diritto è lo studio scientifico del “diritto in azione”? Una simile definizione avrebbe un pregio, quello di riferirsi al concetto di azione, centrale nella sociologia a partire dalla grande lezione del maggiore fra tutti i sociologi del diritto, il tedesco Max Weber (1864-1920), autore di quella Economia e società, uscito postumo nel 1922, che pone le basi teoriche essenziali della nostra disciplina. Infatti la sociologia, cui si rapporta la sociologia del diritto, è rappresentata da Weber precisamente come scien-

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za dell’azione sociale (1974b). La società è un campo di azioni umane fra loro interconnesse. Gli esseri umani agiscono – dice la tradizione weberiana – “teleologicamente”, in quanto mirano più o meno lucidamente al conseguimento di obiettivi che soddisfino le loro aspettative. La loro azione può coordinarsi con l’azione altrui oppure opporvisi, ma in ogni caso vi influisce. E si svolge – come vedremo – soprattutto attraverso lo scambio di messaggi comunicativi, la cui comprensibilità dipende anzitutto dall’adozione di codici comuni da parte dei membri di un gruppo sociale. Che cosa vuol dire, tuttavia, “diritto in azione”? In realtà non è il diritto ciò che “agisce”. Anche assumendo la prospettiva filosofica più formalistica, che presenta il diritto come un’entità autonoma, vivente di vita propria, non può sfuggire che ogni singola azione o decisione, pur se ispirata, espressa, giustificata, motivata, spiegata in nome del diritto, proviene da esseri umani, persone che orientano il proprio agire secondo il diritto, cioè secondo le norme di un ordinamento riconosciuto come “diritto” da loro o da altri. Non necessariamente per rispettarle, ma anche per cambiarle o persino violarle: secondo un famoso esempio ancora di Weber (1974b, I, p. 29), anche il ladro che fugge con la refurtiva orienta la sua azione secondo il diritto, che in questo caso teme. In breve, nella prospettiva sociologica il diritto compare non come soggetto dell’azione, ma semmai come strumento d’azione o come motivazione all’azione. È un modo – fra altri – di agire socialmente. Per questo, definendo la nostra disciplina, uso dire che la sociologia del diritto «studia il diritto come modalità d’azione sociale» (Ferrari 2006, p. 56; 2008, p. 3). Naturalmente questa definizione riflette un modo personale di guardare al diritto, alla società e conse-

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guentemente alla sociologia. Partendo da altre premesse si adotteranno definizioni diverse: “lo studio dei rapporti fra diritto e società”, “lo studio del sistema giuridico come sottosistema del sistema sociale globale”, e altre ancora. Ma andando sotto la coltre delle parole, si vedrà che alla fine vi è molta concordanza sull’oggetto della materia. La posta in gioco sono sempre azioni, ciò che le produce e ciò che ne consegue. Con le azioni si studiano gli “attori”, o i loro ruoli, quelle maschere che s’indossano agendo giuridicamente: avvocato, giudice, contraente, testatore, convenuto in un giudizio. Oppure le opinioni sociali sul diritto, che inducono all’azione giuridica. E sempre, comunque, ci imbattiamo in quella distanza fra norme e prassi, che dipende dalla fissità delle prime contro la mutevolezza della seconda e che per questo, maggiore o minore che sia, appare inevitabile.

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1. LA SOCIETÀ UMANA FRA COOPERAZIONE E CONFLITTO Punto di partenza dell’analisi socio-giuridica sono alcune fondamentali assunzioni teoriche, comuni ad altre scienze sociali: non solo la sociologia con le sue varie branche specialistiche, ma anche l’economia politica, la scienza politica, la psicologia sociale (alla cui base sta la psicologia individuale), l’antropologia sociale e via dicendo. Vediamo quelle più essenziali. La più naturale di queste assunzioni è che gli esseri umani vivono comunemente in società o, se si preferisce, in gruppi, mantenendo rapporti caratterizzati da un apprezzabile grado di costanza, regolarità e prevedibilità. Questo è il presupposto di ogni ragionamento nelle scienze sociali e, se non possiamo evitarlo, possiamo però darlo per scontato e sorvolare sui problemi teorici che esso pone e che del resto verranno in luce più avanti. Mi limito, sul punto, a tre brevi precisazioni preliminari. In primo luogo, uso qui la parola “società” riferendomi genericamente all’aggregazione fra esseri umani e ignorando di proposito il dibattito circa la natura di questa aggregazione, che la teoria sociologica, nel suo procedere storico, ha descritto via via come un insieme

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coordinato di relazioni, poi di azioni, poi di mere comunicazioni. Non sottovaluto l’importanza di queste variazioni d’opinione (e di lessico). Solo, non mi sembrano cruciali a questo stadio del discorso. In secondo luogo, nel parlare genericamente di ‘società’ non entro nel merito dei criteri di identificazione di ogni singola società. Infatti gli aggregati che gli esseri umani formano, e in cui vivono, non sono fissi ma mutevoli; inoltre, la loro definizione, o identificazione, è un fatto di percezione e di convenzioni sociali, aperto a differenti punti di vista, interni ed esterni ai diversi aggregati umani di cui capiti di discutere. In terzo luogo, parlare di (relativa) costanza, regolarità e prevedibilità dei rapporti non significa assumere alcuna posizione circa il grado di socievolezza e di cooperazione fra i membri di una qualsiasi società. Significa solo che gli esseri umani vivono in relazione fra loro, volenti o nolenti, in linea con la loro natura, che nel suo Per la pace perpetua Immanuel Kant (1996) ben descrisse come «socievole insocievolezza»: una condizione psicologica che li induce a cooperare o a combattersi a seconda delle necessità e delle circostanze. Proprio questa immagine kantiana apre la via a un’altra assunzione teorica, di primaria importanza: tutte le società umane conosciute presentano in forma più o meno evidente un problema di scarsità di risorse. A prima vista questo concetto può sembrare criticabile. Vi si potrebbe opporre, da un lato, che esistono anche ai nostri giorni società opulente per le quali parlare di scarsità sembra assurdo: per esempio i nostri paesi occidentali, definiti “First World” nel comune lessico politico. Dall’altro lato, si potrebbe opporre che in epoche passate sono esistite e forse ancora esistono società, magari semplici e povere rispetto ai nostri parametri, e tut-

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tavia autosufficienti e capaci di garantire ai loro membri cicli regolari di vita e di riproduzione. Ma si tratterebbe di argomenti fuorvianti. Il primo è facilmente smontabile con due osservazioni. Da un lato, le società cosiddette opulente, come le descrisse (criticamente) un noto saggista americano (Galbraith 1965), presentano al loro interno una distribuzione di risorse così ineguale, da far agevolmente comprendere che la scarsità è un concetto non assoluto ma relativo, com’è relativo, infatti, il sentimento umano di privazione che alla scarsità è strettamente legato (Runciman 1972). Si avverte una privazione non solo quando manca per tutti un bene essenziale, ma anche quando manca un bene, magari meno essenziale, che però è appannaggio pacifico di altri membri del nostro stesso gruppo sociale. Non vi è dunque bisogno di molto ingegno per scoprire che le risorse sono, se non scarse in assoluto, almeno percepite come scarse anche nelle società più fortunate. Dall’altro lato, queste società, nelle quali abbiamo la ventura di vivere – la mia generazione in pace per oltre mezzo secolo, caso unico nella storia europea – devono la loro opulenza materiale e anche gran parte della loro vivacità culturale a uno sviluppo storico accelerato, che ha permesso loro di importare gratuitamente o a prezzi sviliti, con le buone o con le cattive, imponenti quote di ricchezza da altri paesi che, pur definiti come “Third World”, possedevano (e posseggono) gran parte di quelle risorse primarie da cui dipende l’alto grado di benessere dei paesi più ricchi. I quali – si dice – consumano quasi i nove decimi delle ricchezze mondiali. E credo basti questa considerazione per convincere che, semmai potessimo nutrire dubbi sulla scarsità “assoluta”, guardando a questo o quel paese dell’OCSE o del

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G8, essi svanirebbero se guardassimo alla società umana tutta intera e riflettessimo sulla durata media della vita di un italiano e di un abitante della Bolivia o del Lesotho. Ovvio che questi fatti possano essere letti in diverse chiavi, ma sono fatti, appunto. Il secondo argomento è più insinuante. Fra il Seicento e il Settecento molti viaggiatori occidentali hanno cercato a lungo la società perfetta e incontaminata, non solo per conquistarla alla “civiltà” o alla “vera religione”, cosa che gli europei hanno fatto con grande spargimento di sangue, ma anche per scoprire se il loro ideale astratto avesse un riscontro concreto e potesse giustificare la speranza di un ritorno alla perduta età dell’oro, come auspicarono Jean-Jacques Rousseau o, più tardi, Friedrich Engels. Oltre alle relazioni scientifiche vi sono mirabili pagine letterarie di autori che non nascondono l’amarezza per gli effetti della colonizzazione europea in ambienti “primitivi”, inconsapevoli della loro stessa povertà: penso a Typee di Herman Melville che, descrivendo in forma romanzata una tribù delle Isole Marchesi, provocatoriamente si chiese se le devastazioni europee non fossero peggio perfino dell’antropofagia praticata in casi estremi e in forme simboliche sui nemici vinti in battaglia (Melville 1973). Ancor oggi, per esempio in Amazzonia, vi sono tribù che resistono all’invasione occidentale. Che vi siano dunque stati, o esistano tuttora, gruppi sociali che non hanno percezione della scarsità non si può escludere. Ma ciò non inficia la considerazione che nelle società passate e presenti, di cui si ha conoscenza sufficiente, tale percezione esiste e che pertanto quello della scarsità può essere un presupposto per l’analisi scientifica – appunto – di tali ambienti sociali. La scarsità di risorse – come noto – è il presupposto di molte scienze sociali. L’economia politica, per esem-

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pio, si occupa di quei beni e servizi che non essendo infinitamente disponibili hanno un prezzo variabile precisamente in funzione della loro maggiore o minore rarità. La scienza politica incentra l’attenzione, in una singola società o in più società collegate, sull’accesso alle posizioni di comando o d’autorità, scarse per definizione rispetto a coloro che vi ambiscono. Infine la sociologia, nelle sue diverse partizioni (dalla sociologia economica alla sociologia dei consumi), si occupa soprattutto di azioni umane, razionali o irrazionali, indirizzate al soddisfacimento di aspettative volte all’acquisizione non solo di beni materiali, teoricamente moltiplicabili finché esistono le risorse necessarie (il cibo, i medicinali), ma anche di beni “posizionali” (Hirsch 1981), il cui valore è essenzialmente connaturato con la loro rarità (la residenza privilegiata, la visibilità sociale, gli status symbols, ecc.). Che la scarsità sia un presupposto anche per la sociologia del diritto appare intuibile. Infatti, senza anticipare i tempi del discorso, possiamo dire sin d’ora che tutti i beni cui tendono gli esseri umani, di qualsiasi genere, sono o possono essere oggetto di regolamentazione giuridica, tanto più cogente – di solito – quanto più sono oggetto di appetiti rari o addirittura, come la vita, insostituibili. Forse non vi è legge alcuna che direttamente o indirettamente non si occupi di beni o posizioni appetibili. E infatti uno dei più influenti sociologi del diritto, Lawrence Friedman, ritiene che il diritto sia soprattutto un sistema di «allocazione delle risorse» (Friedman 1978, pp. 62 sgg.). In quanto scarse, appunto. Che le risorse siano scarse significa che esistono più pretendenti, o attori sociali, che vogliono accedervi, appropriarsene, utilizzarle. E ciò, a sua volta, significa che fra costoro esistono conflitti, se non reali almeno po-

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tenziali, se non manifesti almeno latenti. Questo è il banco di prova della kantiana «socievole insocievolezza» dell’uomo. Come già detto, gli esseri umani – come pure gli «animali non umani» (Pocar 2005) – possono cooperare o combattersi per l’accesso alle risorse. L’una o l’altra scelta dipende da diversi fattori. Dal grado di scarsità, innanzitutto, che può anche indurre a drastiche forme di autoselezione1. Oppure dall’incertezza sull’esito della lotta, quando i potenziali contendenti non conoscano la forza degli avversari e si trovino davanti a quello che John Rawls ha chiamato con felice espressione «il velo di ignoranza», condizione che a parer suo induce a suddividere equamente la posta in gioco (Rawls 1982, pp. 125 sgg.). Oppure, ancora, dalla certezza che la lotta, portata all’estremo, pregiudicherebbe gravemente tutti i contendenti: è questa la (funerea ma provvidenziale) filosofia che ha permesso di governare il mondo durante la cosiddetta guerra fredda. E infine, può dipendere dall’esistenza di regole comuni al campo dei contendenti: l’etica, la religione, i tabù, il diritto. E queste regole, che secondo il parlar comune indurrebbero solo alla cooperazione, possono invece apportare pace o guerra, essere ireniche o polemogene. Dipende da quanto sono condivise e quanto lo sono i valori che vi sono incorporati. La religione solitamente unisce, ma gli scontri religiosi (anche fra sette della stessa religione) sono tra i più sanguinosi della storia umana, spesso miranti anche alla cancellazione del nemico “infedele” dalla faccia della terra. 1 Il fenomeno è oggetto di studio in etologia animale. Fra gli umani, a parte i casi di antropofagia accertata in condizioni di estrema mancanza di cibo, non è priva di significato, tra altri fenomeni, la tragica abitudine di abortire i feti di sesso femminile a scopo di selezione delle nascite, in alcuni paesi asiatici.

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Cooperazione e conflitto sono due opposti, ma in realtà connessi in relazione mutevole. Salvo i casi estremi di annientamento del nemico, anche fra i contendenti di una guerra armata si istituiscono forme di cooperazione. Greci e Troiani interrompono la battaglia per seppellire i morti. Ambasciatori di eserciti in lotta si incontrano per parlamentare. E per contro, una semplice osservazione delle dinamiche dei gruppi politici – partiti, sindacati – rivela che il conflitto si sviluppa anzitutto al loro interno per l’acquisizione di influenza, posizioni, autorità, potere, fino al punto che fazioni o diramazioni di un gruppo possono attuare strategie diverse in vista del confronto con l’avversario esterno. Senza dire che l’istituzione umana per definizione più cooperativa, l’unione fra uomo e donna, può essere altamente conflittuale, anche perdurando la convivenza e neppure – per paradosso – una convivenza infelice. Ma se cooperazione e conflitto s’intrecciano, ciò dipende dal fatto che il conflitto è sempre almeno latente nelle relazioni umane. Ovvero, la categoria del conflitto è talmente centrale per ogni scienza sociale, in particolare la sociologia, che nessun autore serio si sognerebbe di negarne l’importanza e molti autori lo concepiscono addirittura come una sorta di motore immobile, di prius di ogni spiegazione scientifica della socialità. È significativo che due importanti concezioni politiche contemporanee come il liberalismo e il socialismo concepiscano entrambe la società umana come un campo d’azione conflittuale. L’uno – il liberalismo – come un dato storico ineliminabile, benché controllabile attraverso regole socialmente condivise; l’altro – il socialismo – come un dato storico radicato, derivante dall’alienazione della classe lavoratrice dal controllo dei mezzi di produzione e, a seconda delle visioni, attenuabile attraver-

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so riforme sociali egualitarie o estirpabile attraverso un mutamento rivoluzionario dei rapporti di produzione2. Sulla centralità del conflitto si fonda anche la sociologia del diritto. Anche un autore come Talcott Parsons, massimo teorico del funzionalismo sociologico, che vede la società umana come un corpo in tendenziale equilibrio, capace di reagire automaticamente ai fattori di perturbazione, prende atto della conflittualità immanente nei rapporti sociali, controllabile nell’interesse generale anche per l’operare di un sistema giuridico equo ed efficiente (Parsons 1983). Ancor meglio il rapporto inestricabile fra conflitto e diritto è stato espresso da Vincenzo Tomeo, secondo cui il diritto è nient’altro che «la struttura del conflitto», giacché «rappresenta lo schema strutturale del conflitto tra gli interessi e tra i gruppi», la via, dunque, nella quale i conflitti si incanalano (Tomeo 1981, p. 85). Un campo di rapporti conflittuali può essere descritto come un luogo di incontro/scontro fra aspettative incompatibili. Tizio pretende da Caio l’adempimento di un’obbligazione in denaro, ma Caio respinge la pretesa adducendo – per esempio – che Tizio è stato il primo a non adempiere: inadimplenti non est adimplendum, eccepisce, citando un famoso brocardo. Oppure, Mevio dice a Simplicia «io ti amo», ma Simplicia risponde «mi spiace, io no». Queste relazioni umane ele2 Di fatto il socialismo riformista e il liberalismo sociale convergono, o quasi, sia nelle misure materiali, sia nell’adozione delle procedure formali della democrazia. Non è un caso che il welfare state britannico sia stato programmato da un politico liberale come William Beveridge (1947). È da sottolineare come nella sua versione rivoluzionaria il movimento socialista (riecheggiando il pensiero di Rousseau) preveda, al termine di una fase di transizione, l’avvento di una società senza classi e senza conflitti.

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mentari, esempi della vita d’ogni giorno, contengono importanti insegnamenti sociologici. In primo luogo, in entrambi i casi abbiamo un sovraccarico di aspettative, cioè un eccesso di complessità, come dice la sociologia contemporanea, in quanto esistono in ciascuno di essi «più possibilità di quelle che sono attuabili» (Luhmann 1977, p. 40)3. È impossibile che le parti vengano entrambe pienamente soddisfatte. Eppure devono uscire dall’impasse, assumere una decisione, operando una selezione4. Qualcosa dunque, se non tutto, dovrà essere sacrificato dall’una o dall’altra, oppure da entrambe, se possibile (nel secondo caso non lo è). Tizio otterrà una sentenza favorevole e Caio dovrà pagare il debito, in tutto o in parte; Mevio rinuncerà a conquistare il cuore di Simplicia. In tal modo la situazione sociale, eccessivamente complessa, si sarà semplificata. La complessità sarà stata “ridotta”. In secondo luogo, quando inizia la relazione entrambi i soggetti non sanno come essa si dipanerà. Ignorano, infatti, la reazione dell’altro e tanto più quella di un terzo che fosse chiamato a decidere: per esempio, un giudice. Agiscono quindi entrambi dinanzi a quel velo di ignoranza di cui si è parlato, giacché l’esito della relazione può «realizzarsi in modo diverso dalle attese»: ovvero affrontano una condizione di contingenza (Luh3 Questa la più complessa definizione proposta successivamente dall’autore: «qualificheremo come insieme complesso un insieme di elementi fra loro connessi se, a causa di limitazioni intrinseche della capacità di collegamento fra gli elementi, risulta impossibile collegare ogni elemento in qualsiasi momento con ognuno degli altri» (Luhmann 1990b, p. 95). 4 ‘De-cidere’ evoca l’idea di ‘separare’ operando un taglio netto, come indica l’etimo di tutti i verbi italiani di origine latina che escono in ‘-cid®re’ (‘in-cidere’, ‘uc-cidere’, ‘circon-cidere’).

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mann 1977, p. 40), come dice sempre la sociologia contemporanea, attingendo a un concetto che risale ad Aristotele. E pertanto agiscono in condizioni di rischio (Luhmann 1996), che esiste all’inizio del rapporto e può accrescersi nel corso della relazione, mettendo in gioco interessi materiali, sentimenti affettivi, valori. In terzo luogo, l’azione dei soggetti coinvolti dipende dalla natura della relazione che – se ben si osserva – nei due casi citati è diversa almeno a prima vista. Nel primo, infatti, Tizio avanza una pretesa “forte”, perché sorretta da una norma giuridica, pertanto istituzionalizzata, cioè stabilmente riconosciuta in un ambiente sociale, invocabile davanti a un giudice. In condizioni normali, pertanto, non sarà disposto ad abbandonarla: ovvero, la sua è una aspettativa normativa. Mevio invece esprime un desiderio, una speranza, non una pretesa. Se la sua aspettativa verrà delusa, la sua reazione sarà più facilmente di rinuncia, sempre in condizioni normali. La sua è una aspettativa cognitiva, che normalmente si abbandona in caso di delusione. Questa distinzione fra aspettative normative e cognitive5 è netta in linea teorica, ma molto meno nella realtà. Nel primo caso, infatti, Tizio potrebbe nutrire sfiducia circa l’esito di un giudizio, perché troppo lungo e costoso rispetto ai valori economici in gioco, e pertanto decidere di non correre il rischio e abbandonare la pretesa: evento comunissimo nella pratica giuridica. Per contro, nel secondo caso, Mevio potrebbe insistere nella pretesa, anche irragionevolmente, magari trincerandosi dietro un’istituzione. Il matrimonio, per esempio. 5 Questa distinzione risale a Johan Galtung (1959), come ricorda Luhmann che ne fa un punto cruciale delle sue analisi (Luhmann 1977, pp. 50 sgg.).

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Ho chiara memoria di un caso di separazione giudiziale risalente agli anni Sessanta (non la preistoria). La moglie chiese la separazione per colpa del marito il quale, reagendo “normativamente” alla delusione dell’abbandono, si limitò a negare la propria colpevolezza e a chiedere il rigetto della domanda. Il tribunale gli diede ragione e, dopo tre anni di separazione temporanea, obbligò la moglie a tornare sotto il tetto coniugale6. Oggi per la separazione basta che la comunione fisica e spirituale fra i coniugi sia divenuta impossibile e un caso del genere sarebbe inimmaginabile. Infatti le separazioni in Italia sono quasi tutte consensuali. Ebbene in termini sociologici ciò significa che in quest’ambito di rapporti, potenzialmente conflittuali ed esposti a rischi e delusioni, le aspettative sociali hanno subito un vero mutamento qualitativo, passando in grande maggioranza dal campo normativo al campo cognitivo. L’esempio appena fatto mostra chiaramente il peso che sulle aspettative sociali possono avere le istituzioni. In sociologia si definisce ‘istituzione’ precisamente un complesso normativo di qualsiasi genere (non necessariamente giuridico) che struttura durevolmente un campo d’azione sociale7. Ogni prassi sociale che sia ri-

6 La moglie impugnò la sentenza, che non era provvisoriamente esecutiva, e fortunatamente la Corte d’appello le diede ragione. Questo caso è sociologicamente esemplare. Infatti secondo la legge del tempo la separazione, in mancanza di accordo fra i coniugi, poteva essere concessa solo in presenza di gravi violazioni dell’obbligo coniugale (oltre all’adulterio della moglie, ma non del marito, «eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi», come diceva il vecchio testo dell’art. 151 del codice civile). Così l’aspettativa d’amore, fisico e spirituale, veniva rivestita di una forza istituzionale che favoriva la reazione normativa contro la delusione dell’abbandono. 7 Questa definizione, già proposta in Ferrari (2008, p. 20) cerca

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petuta nell’ambito di un gruppo perché ritenuta obbligatoria, utile o anche solo gradevole, è in questo senso una istituzione. La sua esistenza e il suo rispetto da parte del gruppo rafforzano le aspettative comportamentali fino talvolta a irrigidirle e a emarginare chi si sottrae alle previsioni, “deviando” dalla norma. Così è ritenuto deviante non solo chi viola la legge penale o chi rifiuta di votare alle elezioni, ma anche chi, per dire, non partecipa alle riunioni di famiglia nelle feste comandate. Ovvero, in termini sociologici, è deviante chi fuoriesce dall’ambito dei poteri che la società riconosce come propri del suo status e non rispetta le aspettative sociali connesse al suo ruolo. Questi concetti sono di fondamentale importanza, perché mettono in luce la forza della pressione sociale sull’individuo. Lo ‘status’ coincide di fatto con la posizione sociale di un soggetto, definendone lo spazio di libera determinazione. Per ‘ruolo’ s’intende un complesso di aspettative normative che dalla società convergono su un soggetto in relazione al suo status (Dahrendorf 1966). Status e ruolo contribuiscono così a definire l’identità sociale di ogni individuo. Ciò che “siamo” non dipende solo dalla nostra percezione di noi stessi e dalle nostre decisioni, ma anche, e in misura rilevante, dalla percezione e dalle decisioni altrui. Agendo socialmente indossiamo maschere – si noterà che il termine ‘ruolo’ è mutuato dal linguaggio teatrale – che in parte scegliamo, ma che per altra parte ci sono attribuite o di cui ci sono attribuiti i caratteri. L’ampiezza della libertà di scelta degli individui varia a seconda dei tempi e dei luoghi (Dahrendorf 1981). Vi sono società che vincoladi esprimere succintamente un concetto più articolato (cfr. Gallino 2006, p. 392).

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no l’individuo sin dalla nascita, irrigidendolo in ruoli che possono mutare solo in circostanze eccezionali: libero o servo, nobile o plebeo, con o senza casta. Le società occidentali contemporanee concedono agli individui maggiore libertà, almeno formale, nella scelta dei ruoli (Friedman 1990), ma anche attribuiscono agli individui più ruoli, spesso in conflitto fra loro: coniuge, genitore e lavoratore, oppure cittadino, contribuente e consumatore. Non sfuggirà l’importanza che i concetti di status e di ruolo assumono in sociologia del diritto. Il diritto, infatti, è un potente meccanismo istitutivo o rafforzativo di ruoli sociali tendenzialmente rigidi. Si pensi al processo penale. I soggetti vi intervengono attraverso ruoli predefiniti (pubblico ministero, imputato, difensore, giudice) cui competono azioni ugualmente predefinite (requisitoria, dichiarazioni, arringa, sentenza), da svolgersi entro un quadro rituale, scandito nei tempi e marcato da simboli che segnano le differenze – appunto – di status e di ruolo: la toga, lo scranno, la fascia tricolore dei giurati italiani, il recinto delle giurie nel trial americano, la barriera che separa le parti dal giudice (Garapon 2007; Chase 2005, pp. 114 sgg.). E non solo. Status e ruoli contribuiscono a determinare la struttura di una società (Parsons 1965, pp. 45 sgg.). Più sono numerosi e differenziati, più una società si definisce complessa. Più ampie sono le differenze di status e ruolo, più una società è stratificata, inegualitaria. Più queste differenze sono rigide, più arduo è passare da un ruolo all’altro, più ridotta è la mobilità sociale e più una società tende a cristallizzarsi, a resistere al cambiamento. Dal modo con cui il diritto definisce gli status e i ruoli sociali, spesso in modo cogente, dipendono quindi anche effetti generali di lungo periodo.

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Le maschere sociali dei soggetti ne qualificano l’azione. Essi infatti sono “attori sociali”, nella visione sociologica, ovvero, secondo il diritto, “persone”, fisiche o giuridiche, cioè personaggi8. L’azione sociale, che risulta dall’interazione fra più individui, si svolge su un palcoscenico ideale, dove gli attori, coscientemente o meno, si esibiscono davanti a un pubblico che osserva, a sua volta recitando: i vicini di casa, i compagni di scuola, di partito o di strada, i testimoni di un evento, la stampa, la televisione, oggi Facebook e i blogs. Che la vita sociale sia una commedia (l’umana commedia, per parafrasare padre Dante) lo insegna una letteratura bimillenaria, da Aristofane a Luigi Pirandello. La sociologia ne ha preso atto talora fino a limiti estremi. Erving Goffman – per esempio – ha costruito una visione «drammaturgica» dell’azione sociale, in cui gli esseri umani si autorappresentano, mutando caratteri a seconda del “teatro” in cui compaiono (Goffman 1969). L’interazione umana cosciente non è altro che uno scambio di atti di comunicazione provvisti di un senso. Questo concetto fu espresso in forma precisa da Max Weber, secondo cui – infatti – la sociologia, prima di spiegare l’azione sociale nel suo svolgimento, deve capirla, comprenderla: ovvero, è una «scienza comprendente», prima che esplicativa (Weber 1974a, pp. 259 sgg.). Ora è parte del corredo comune di tutta la sociologia contemporanea. Ma gli atti di comunicazione sono fatti di segni e di simboli, cioè di materiale comprensibile attraverso il riferimento a codici di significazione. Se i parlanti non condividono questi codici, la co8 Dramatis personae è, infatti, l’espressione latina per denotare i personaggi di un dramma teatrale. Per una lettura dell’azione giuridica in termini di status e ruoli vedi Arnaud (2005).

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municazione fallisce o (spesso è peggio) si presta a dubbi e fraintendimenti, magari gravidi di conseguenze. Da qualche anno ormai traccio sulla lavagna per i miei studenti, all’inizio del corso, un semplice segno – per esempio una ‘P’ – facendo osservare che, a seconda del codice alfabetico di riferimento, la comunicazione può riuscire o fallire. La ‘P’ dell’alfabeto latino si legge ‘erre’ in quello greco. Un turista ellenico poco intelligente, leggendolo su un segnale stradale, potrebbe non capire che può posteggiare la macchina. E così via, verso atti di comunicazione più complessi. La parola ‘viola’ può indicare un fiore, uno strumento musicale o un nome di donna: per capire di che si parla bisogna attingere, oltre ai codici alfabetici, al contesto della conversazione. Figuriamoci quando segni e simboli si moltiplicano, formando parole, frasi, discorsi; o quando i segni sono iconici, magari disegni astratti (espressioni artistiche o semplici sgorbi?); e soprattutto quando gli attori che interagiscono sono divisi da valori o interessi contrapposti: in questo caso è facile che “non vogliano capirsi”, come si dice, e diano alle stesse espressioni diverso significato. Naturalmente gli esseri umani cercano solitamente di capirsi (e soprattutto di capire) anche quando sono pronti a combattersi. Perciò si sono dotati – appunto – di codici condivisi e di complessi sistemi di significazione, come le lingue codificate con regole morfologiche, grammaticali, sintattiche e semantiche. Queste forniscono all’azione sociale il materiale più elementare, cioè una chiave di comprensione9, un significato condi9 Non l’unica, naturalmente. Capita spesso che “i fatti parlino da sé”, come si usa dire: ma se quei fatti “parlano” è perché convogliano con sé un significato percepibile da chi agisce e, si suppone, da chi

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viso. In questo senso sono sistemi sociali, come lo sono altri sistemi d’azione umana: l’economia, la politica, la morale, la religione, la scienza e, naturalmente, il diritto. Questi sistemi svolgono funzioni differenti, spesso in concorrenza fra loro: si pensi a diritto, morale e religione. Ma al di là della loro funzione primaria essi conferiscono all’azione anzitutto un significato, o un “senso”, se si preferisce. Come dice Hans Kelsen: «Un uomo in toga pronuncia da un seggio elevato determinate parole a un uomo che gli sta dinanzi. Questo accadimento esteriore significa una sentenza» (Kelsen 1956, p. 26, corsivo mio). Il diritto verrà dunque visto, in seguito, come un sistema sociale di significazione oltre che, come detto all’inizio, d’azione sociale. Potremmo quasi dire: d’azione sociale attraverso la significazione. La sua rappresentazione in termini di sistema sociale è in sintonia con le altre scienze. Il cd. paradigma sistemico, che suggerisce di guardare alle connessioni più o meno stabili e regolari fra gli elementi di un tutto, è un punto fermo dell’epistemologia odierna. Naturalmente esistono diversi modi di fare scienza “sistemica”, a seconda anzitutto delle diversità fra i sistemi stessi. I sistemi sociali, che l’uomo ha creato artificialmente per organizzare la convivenza umana sulla terra, hanno natura simbolica e dipendono dall’azione umana. I sistemi naturali, come le stelle, le rocce o gli organismi viventi, esistevano prima che l’uomo li “leggesse” per comprendersubisce l’azione. Anche i fatti che non esibiscono un significato deliberatamente attribuito dall’agente o addirittura non provengono da un agente cosciente – si pensi all’azione involontaria di un soggetto o a un evento naturale – non cadono fuori dall’ambito della significazione: ad essi infatti viene comunemente attribuito un significato già codificato secondo uno o più codici di significazione.

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ne i meccanismi ed eventualmente, nei limiti delle sue ridotte capacità, modificarne la struttura o il corso. Il diritto appartiene alla prima categoria, non alla seconda. Nella sua struttura e nelle sue funzioni esso dipende dalle strategie dell’uomo, capricciose ma limitate. E, come detto all’inizio, è una potente modalità, o mezzo, d’azione sociale. L’essere umano è “un animale teleologico”, come si suole dire, cioè agisce solitamente in vista di uno scopo, scegliendo i mezzi che gli paiono appropriati per raggiungerlo. Non sempre questi scopi sono chiari, neppure a chi agisce. Spesso anzi sono così oscuri che l’agente li razionalizza solo a posteriori. E spesso altresì l’agente li conosce ma non li dichiara, anzi li occulta con spiegazioni di comodo. Né, inoltre, i fini sono sempre razionali. È notissima la distinzione di Weber (1974b, I, pp. 21 sgg.; 1974a, pp. 239 sgg.) fra azione razionale, ispirata da finalità materiali o da valori morali, e azione irrazionale, ispirata dall’affetto o dal rispetto della tradizione. Lo stesso può dirsi dei mezzi, non sempre appropriati rispetto ai fini prescelti. L’azione non intelligente (che può avere effetti sociali rilevantissimi) consiste proprio nel perseguire fini irraggiungibili o nell’adottare mezzi inadatti a raggiungerli. E naturalmente anche l’azione intelligente può non condurre ai risultati sperati per l’interferenza di altri fattori più o meno ponderabili. Tutte queste precisazioni corrispondono a chiari limiti dell’azione umana e suggeriscono cautela nell’interpretarla scientificamente sulla base della sua apparente teleologia. Ma non inficiano il fatto che nella sua struttura elementare l’agire umano volontario – intelligente o stupido, «logico o non logico»10 – presenti una struttura elementare teleologica. 10

Che la sociologia, a differenza dell’economia, si estenda all’a-

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L’indagine sulle caratteristiche del diritto mostra come questo importante elemento del sistema sociale – meglio, questo sottosistema sociale – possa ritenersi utile per conseguire risultati attesi o quanto meno per giustificarli.

2. IL DIRITTO 2.1. Premesse terminologiche e metodologiche Per indagare su come si agisce attraverso il diritto occorre preliminarmente chiarirsi le idee su che cosa sia il diritto nella prospettiva sociologica e, a tal fine, precisare anzitutto che l’oggetto di cui si parla è il diritto com’è, non il diritto come dovrebbe essere o come ci piacerebbe che fosse. Questa precisazione è necessaria perché, sfortunatamente, anche nel linguaggio scientifico si usa la parola ‘diritto’ per designare l’una e l’altra cosa, con l’ulteriore aggravante che in tutte le lingue occidentali, eccetto l’inglese11, la stessa parola è usata anche per designare una pretesa soggettiva fondata su una norma giuridica, ovvero la facoltà di agire socialmente (in particolare dinanzi a un giudice) in base a quella nalisi delle «azioni non logiche» è l’assunzione fondamentale della concezione di Vilfredo Pareto (1978). 11 È noto che in inglese si usano rispettivamente law e right per indicare il diritto oggettivo e il diritto soggettivo. Linguisticamente, tuttavia, questa distinzione non è così netta come si può credere, dato che la parola right, prima che ‘diritto soggettivo’, indica ‘ciò che è giusto’, ‘ diritto’ o ‘retto’. Non per nulla i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, in cui si analizza il concetto di diritto secondo un’ispirazione soggettivistica, si intitolano in inglese Elements of the Philosophy of Right. Sull’ambiguità della tradizionale distinzione fra law e right vedi ora Pattaro (2005).

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norma: ciò che usualmente si chiama ‘diritto soggettivo’. Si ingenerano in questo modo confusioni che dal terreno terminologico si diffondono su quello analitico e su quello etico-ideologico, fino a provocare scontri d’opinione che non esisterebbero se le parole fossero diverse o i contendenti ammettessero che stanno parlando di cose diverse (Williams 1976). Questo risultato però non è facile da ottenere, per ragioni che posseggono una cruciale importanza anche per l’analisi sociologica del diritto. Infatti la parola ‘diritto’, sia per il suo significato letterale (ciò che è ‘diritto’ non è ‘storto’ né ‘rovescio’), sia per l’immagine di giustizia che porta con sé (tanto come sentimento quanto come organizzazione, cioè giudici, tribunali, carceri ecc.), fornisce un potente argomento d’azione, dibattito e anche lotta. Giustificare un’azione ricorrendo alla parola ‘diritto’ o ai suoi correlati (‘legge’, ‘giustizia’ ecc.) significa rafforzarla – per essere più precisi, legittimarla – dinanzi all’interlocutore e dinanzi al pubblico che assiste all’interazione. Si tratta cioè di un forte argomento retorico volto a convincere il prossimo che la propria azione è inoppugnabile. È questa la ragione essenziale per cui è frequente nelle discussioni scientifiche e filosofiche la confusione fra il diritto com’è nel nostro mondo imperfetto e il diritto come dovrebbe essere nel migliore dei mondi pensabili. La posta in gioco in tali discussioni può essere altissima anche sul terreno pratico. Infatti, quando si usa la parola ‘diritto’ per indicare il ‘buon diritto’ si implica che ogni ordine giuridico diverso da quello non sia, appunto, neppure ‘diritto’, non meriti questo appellativo: per usare una famosa espressione di Tommaso d’Aquino, non sia lex, ma legis corruptio. E su ciò nulla vi sarebbe da obiettare se gli esseri umani avessero tutti la

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stessa idea di ciò che è un “buon” diritto. Ma non è così. Trascurando le perversioni estreme (di chi per esempio ritiene giusto eliminare o asservire le “razze inferiori”12) e pur ammettendo in ipotesi che tutti gli uomini di buona volontà condividano alcuni precetti morali fondamentali (non uccidere senza gravi ragioni, aiutare il prossimo, non tradire l’amico, accogliere l’ospite13), è ben visibile la differenza di opinioni riscontrabile fra i sistemi etici più diffusi: alcuni considerano il matrimonio indissolubile, altri ammettono il divorzio, altri ancora la poligamia; alcuni vietano l’aborto in assoluto, altri lo ammettono come “male minore” in casi eccezionali (pericolo di vita della madre, malformazione del feto, stupro ecc.), altri ancora come libera determinazione della donna; alcuni condannano l’omicidio senza eccezioni, altri lo ammettono solo per legittima difesa, altri ancora lo giustificano per la difesa della patria, altri infine lo raccomandano o perfino lo impongono per diffondere un’idea politica o una fede religiosa. E via dicendo. Il guaio è che, in tutti questi casi, ognuno presenta la propria concezione come quella moralmente giusta, quindi (e la derivazione non dovrebbe essere automatica) da tradurre in legge positiva, squalificando automaticamente come ‘non-diritto’ ogni legge diversa da quella. 12 La perversione qui non è solo morale, ma anche scientifica, essendo ormai noto che esistono maggiori differenze genetiche fra i singoli rappresentanti di un gruppo etnico che fra i diversi gruppi etnici: questi stessi, fra l’altro, difficilmente distinguibili se non per caratteri morfologici molto superficiali. Tutti gli esseri umani (per fortuna) hanno “sangue misto”. 13 L’ospitalità è un discrimine fondamentale nell’etica, come rivela nell’Odissea la contrapposizione fra la (non)-società dei Ciclopi e la (perfetta) società dei Feaci (Mittica 1996, pp. 53 sgg.).

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I sistemi etici, la loro diversità, i loro effetti sul diritto, sono argomenti di grande importanza non solo filosofica, ma anche sociologica. In particolare vi hanno riflettuto a fondo i padri fondatori della sociologia del diritto. Émile Durkheim (1962) coglieva uno stretto legame fra religione, morale e diritto. Max Weber (1965) individuò nell’etica protestante, specialmente calvinista, l’ispirazione fondamentale delle regole dell’economia capitalistica. Qui però non affronteremo un tale argomento. Ci limiteremo a trattare del diritto com’è, buono o cattivo che sia, cioè del diritto positivo, avvertendo che neppure questa espressione possiede un significato univoco. Nella sua accezione più ristretta, ‘diritto positivo’ indica il diritto “posto” o, meglio, imposto d’autorità da un potere legiferante sovrano a una popolazione determinata. In questo senso, ‘diritto positivo’ viene solitamente a coincidere con la legge intesa in senso formale, come norma scritta, approvata e promulgata secondo procedure prestabilite, vista come fonte di diritto superiore a ogni altro tipo di norma giuridica, per esempio consuetudinaria. Questa concezione del diritto, che risale alla filosofia illuministica ed è tipica della modernità, ha raggiunto il suo apogeo con lo statalismo ottocentesco e novecentesco, secondo cui allo Stato come ente sovrano compete il monopolio della creazione e della dissoluzione del diritto, cioè di quelle norme “poste” di cui esso si compone secondo questa visione. In un’accezione più vasta, ‘diritto positivo’ coincide semplicemente col diritto effettivamente vigente in un certo tempo e luogo, contrapposto ad altri sistemi normativi che seppure indicati col nome di ‘diritto’ non sono vigenti, nel senso che non vengono osservati o fatti osservare dall’autorità costituita in un territorio determi-

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nato. Fra questi, soprattutto il diritto cd. naturale, cioè quel complesso di norme che, a seconda delle dottrine, trovano la loro fonte in un’autorità superiore all’uomo e alla società: la natura in senso fisico-cosmologico, la divinità, la stessa ragione umana che, per la sua auto-evidenza, dovrebbe imporsi alla (spesso irrazionale) volontà contingente degli uomini. In questo più ampio senso, il diritto positivo comprende anche quegli ordinamenti, o sistemi, giuridici che non si fondano sul primato della legge scritta, promanante da un’autorità dotata di “sovrani” poteri di comando, ma per esempio si basano su una tradizione non scritta eppure comunemente osservata da una popolazione, o sulle opinioni di un ceto di giuristi, come nel caso del diritto giurisprudenziale romano, oppure sulle sentenze di giudici, come nella common law inglese e nord-americana14. È in questa più ampia accezione che parliamo qui di diritto positivo. Infatti, ciò che interessa è capire come nel loro agire gli attori sociali si orientino secondo norme aventi certi caratteri strutturali, che enunceremo in seguito, indipendentemente dalla loro forma orale o scritta o dalla loro fonte di provenienza. E parliamo di diritto positivo senza assumere alcuna posizione preordinata di ordine filosofico-giuridico, né sulla storica e sempre rinascente contrapposizione fra giusnaturalismo e positivismo giuridico, né sulle diverse versioni in cui quest’ultima dottrina ha fatto la sua comparsa (Bobbio 1965; Scarpelli 1965). Di diritto positivo dunque 14 Va ricordato che né il diritto romano, né la common law, pur consistendo primariamente di materiale extra-legislativo, ignorano la legge posta dall’autorità politica. In Inghilterra e negli Stati Uniti, in particolare, la legge formale di origine parlamentare è venuta progressivamente affiancandosi al diritto giudiziale fino a sostituirsi ad esso in molti campi.

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parliamo solo in senso sociologico, riferendoci peraltro a tutte le categorie concettuali entro cui il diritto vigente in un tempo e in un luogo può essere inquadrato. Credo qui opportuno un excursus metodologico. Max Weber (1974b, II, p. 16) distinse queste categorie concettuali, combinando fra loro due classi di opposti, che sono alla base non solo della sua concezione del diritto, ma di tutta la sua costruzione sociologica, incentrata sull’interpretazione dell’agire sociale: formalità/materialità e razionalità/irrazionalità. Ne ottenne pertanto quattro tipi di diritto, o di ordine giuridico: diritto formale-irrazionale diritto materiale-irrazionale

diritto formale-razionale diritto materiale-razionale

Questo classico esempio è importante per due ragioni. In primo luogo, queste quattro categorie sociologiche includono in un solo campo semantico tutte le forme immaginabili di diritto positivo, identificate dall’autore attraverso le figure del legislatore e del giudice, quali decisori dotati di autorità socialmente riconosciuta. E così – dice Weber – abbiamo un diritto formale e irrazionale quando le decisioni giuridiche (legislative o giudiziali) si basano prevalentemente su fonti normative che sfuggono alla ragione umana, come gli oracoli e i libri sacri; materiale e irrazionale, quando esse si fondano prevalentemente sul sentimento istintivo di giustizia del decisore; formale e razionale quando a base delle decisioni si pongono prevalentemente caratteristiche esteriori (una parola pronunciata, una firma) o deduzioni logiche da norme generali e astratte; e infine materiale e razionale, quando la decisione può essere influenzata anche da elementi estranei alla mera deduzione logica, per esempio etici, utilitaristici o politici.

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In secondo luogo, l’esempio fatto è rilevante perché mostra chiaramente il modo con cui Weber ritiene che si possa pervenire alla comprensione scientifica del materiale sociale, passo prioritario rispetto alla spiegazione dell’azione umana. Le categorie indicate infatti sono tipi astratti, «ideali» come dice lo stesso Weber, ovvero costrutti mentali artificialmente elaborati per organizzare l’osservazione dei casi concreti (Weber 1974c, pp. 55 sgg.). Questi ultimi, infatti, non rientrano mai perfettamente in uno dei tipi, ma si accostano all’uno o all’altro più o meno da vicino, spesso manifestando caratteri misti. A volte paiono anche sfuggire alla classificazione: Weber stesso trovava arduo riportare a questa tipologia i sistemi di common law, fondati sulla reiterazione dei precedenti giudiziali, i quali presentano caratteri bensì razionali, ma ora formali ora materiali. A dispetto di questi limiti va però sottolineato che senza questo artificio concettuale ci mancherebbe uno strumento essenziale per operare distinzioni, cosa essenziale per la conoscenza soprattutto quando abbiamo a che fare con oggetti non materiali, ma simbolici, come sono le istituzioni umane e giuridiche in particolare. Dunque, molti concetti che compariranno nel corso della discussione avranno questa stessa natura, cosa che non sorprenderà chi abbia già nozioni di giurisprudenza. Infatti si agisce giuridicamente proprio attraverso dei modelli che quel particolare sistema di significazione e d’azione, che chiamiamo ‘diritto’, predefinisce in forma astratta, “idealtipica” appunto. È tale il concetto di legge in senso formale, con cui, a seconda delle dottrine, i detentori del potere politico traducono in norma giuridica la loro volontà o la “volontà generale” di una cittadinanza. Così pure lo è il contratto, con cui singoli attori sociali, individuali o collettivi, definiscono le

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norme che regoleranno i loro rapporti; e lo sono pure i singoli “tipi” di contratto elaborati dai giuristi o regolati da un codice. La sentenza di un giudice, con cui si definisce un giudizio, ha lo stesso carattere. Ciò che caratterizza questi concetti tecnico-giuridici è la loro tendenziale rigidezza teorica. Il diritto è uno strumento pratico, non solo teorico, e inoltre prescrittivo, cioè destinato sia a comprendere scientificamente l’azione, sia a guidarla, in modi spesso cogenti. Non desta quindi meraviglia che, per conseguire le finalità sociali cui esso si presta, coloro che possono operare su questo strumento, o attraverso di esso, cerchino di disegnare questi modelli con confini il più possibile netti, in modo da stabilire senza equivoci che cosa vi sta dentro e che cosa fuori, limitando al massimo l’ambito di incertezza delle parole. Ma che si tratti di astrazioni idealtipiche si capisce subito non appena si osserva come, per dir così, la realtà sfidi continuamente il loro apparente rigore. Sappiamo come la legge serva a molteplici scopi oltre a quello di consacrare normativamente una volontà politica e, per contro, come la volontà politica possa non assumere la forma della legge, troppo rigida e perciò, entro certi limiti, vincolante anche per il legislatore. Così pure, ogni buon giurista in formazione sa già fin dal primo anno di corso che esistono anche contratti ‘atipici’, questi ultimi nati dalla fantasia costruttiva degli attori sociali, spesso ispirata proprio dalla necessità di sfuggire alle maglie della tipizzazione. A sua volta, la sentenza del giudice può arrivare in tempi incompatibili con l’interesse concreto delle parti, ed ecco che si inventano i provvedimenti provvisori con cui si anticipa il risultato finale di un giudizio in modi spesso irreversibili. Per rendersi conto del rapporto fra concetti e realtà sociale, dunque, non vi è di meglio che il diritto e la giu-

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risprudenza. Un grande giurista e storico del diritto, Friedrich Carl von Savigny, che esercitò un’influenza formidabile sulla scienza giuridica ottocentesca dell’Europa continentale, descrisse questo rapporto con parole semplici in un suo famoso scritto. Il diritto – disse – ha radici nello «spirito del popolo», ma evolvendosi assume «una doppia vita». Da un lato il popolo continua a crearlo, fornendovi l’essenziale «elemento politico», ma dall’altro un ceto di studiosi, i giuristi, si occupa di ordinare concettualmente questa realtà grezza, fornendo al diritto il suo «elemento tecnico» (Savigny 1994). Ovvero, dei soggetti scambiano un oggetto con una somma di denaro e il giurista interviene a definire questa interazione “compravendita” o “locazione”, a seconda che l’oggetto sia destinato a rimanere o meno per sempre nella disponibilità di chi lo riceve, così creando concetti utili a racchiudere in futuro ogni altro simile rapporto. Capiterà tuttavia più avanti che altri soggetti si accordino affinché quell’oggetto non esca del tutto dalla sfera di chi lo cede ed entri definitivamente nella sfera di chi lo riceve solo dopo trascorso un certo tempo. Ecco allora che il giurista inventerà un nuovo concetto: e sarà “vendita con patto di riscatto” o “vendita con riserva della proprietà”, o infine “leasing”, un contratto agile e fiscalmente conveniente, che con questa denominazione era ancora sconosciuto in Italia fino a pochi decenni fa. Tutti “tipi”, dunque, che sebbene servano non solo per conoscere, ma anche per orientare e guidare l’azione sociale, non sono molto diversi dai tipi ideali attraverso cui, secondo Weber, è possibile la conoscenza sociologica dell’azione stessa. Ho detto tutto ciò per sottolineare sin d’ora, iniziando il discorso sul diritto, un punto importante. Gli

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attori sociali agiscono giuridicamente in varie direzioni, dal basso verso l’alto attraverso elezioni, ricorsi, petizioni, suppliche, cioè atti che invocano l’intervento di un’autorità. Oppure dall’alto verso il basso, emanando leggi, emettendo sentenze, decreti, ordini, atti amministrativi. Oppure ancora orizzontalmente, su un piano formale di parità (che può essere, come noto, di sostanziale ineguaglianza), come avviene quando si stipulano contratti. In tutti questi casi gli attori sociali orientano l’azione propria e l’aspettativa di quella altrui secondo norme giuridiche, ispirandosi a qualche modello normativo. Tuttavia questi modelli, questi punti di riferimento, anche nel più rigido dei sistemi giuridici, non sono fissi ma, almeno in senso probabilistico, mutevoli. Sono fissi quando si prestano perfettamente alla bisogna. Se questo non è, se ne adotteranno altri, o si inventeranno se non esistono, mantenendo però fermo il riferimento al “diritto”, perché come già detto la parola stessa induce consenso sull’azione, la “legittima”. Aperto così il discorso sul diritto, cercheremo di “leggerlo” sociologicamente e ne presenteremo brevemente la struttura e la funzione. In sociologia questo binomio è tanto classico da aver ispirato un’intera corrente di pensiero, appunto lo struttural-funzionalismo. Di questa corrente peraltro accoglieremo soprattutto i concetti e, entro limiti, la potenzialità metodologica. Ce ne distaccheremo invece sotto il profilo sia teorico, sia e soprattutto ideologico, proprio per rispetto alla natura sempre mutevole del diritto e dei rapporti umani in genere. Infatti anche nelle sue voci più innovative, come quella di Luhmann, tale corrente non è mai interamente riuscita ad abbandonare una fondamentale adesione a un modello stabile di società, minimizzando i conflitti che caratterizzano gli aggregati umani e gli ef-

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fetti non solo stabilizzanti, ma anche destabilizzanti, che l’azione giuridica può provocare su di essi. 2.2. Il diritto come sistema normativo Anche in senso sociologico si può rappresentare il diritto come un insieme strutturato di norme. Questa affermazione può sembrare scontata al giurista dell’Europa continentale, abituato al primato della legge statuita, ai codici che la consacrano in raccolte sistematiche, all’idea che le norme generali e astratte offrano una risposta a ogni quesito su ciò che è lecito o illecito. In realtà, scontata non è affatto, non solo dal punto di vista della sociologia del diritto, ma anche da quello della scienza giuridica e della teoria del diritto. Cominciando da quest’ultimo, basta ricordare che la concezione normativa del diritto non è universalmente condivisa, soprattutto in chiave storica. Già molti anni fa Norberto Bobbio (1958, 1993) classificò le principali teorie generali del diritto in tre gruppi, che rispettivamente concepiscono il diritto stesso come norma, come istituzione e come rapporto o relazione. La teoria normativa, o normativistica, cui l’autore aderiva sulle orme di Kelsen, identifica il diritto con un ordinamento particolare (fra altri) di proposizioni prescrittive generali indirizzate a regolare la condotta umana: una costituzione, un codice, una legge. La teoria istituzionalistica, di cui Bobbio citava il più illustre rappresentante italiano, Santi Romano, concepisce il diritto come organizzazione complessa volta a creare e mantenere l’ordine sociale. La teoria relazionistica – «vecchissima e periodicamente ricorrente», annotava Bobbio (1993, p. 15) – individua il nucleo del diritto nel rapporto fra il titolare di un diritto soggettivo e il titolare dell’obbligo cor-

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relativo e vede quindi il diritto come una forma di coordinamento delle libertà individuali, secondo le notissime parole di Kant15: come rappresentanti italiani, Bobbio citava altri studiosi di alto profilo come Giorgio Del Vecchio e Alessandro Levi16. Sia questi ultimi autori, sia per altro verso Santi Romano, erano critici della concezione normativa, ritenuta, se non scorretta, quanto meno riduttiva, perché incapace a parer loro di cogliere il nucleo più profondo del diritto e dell’esperienza giuridica. E il dibattito non si è fermato lì. Rimanendo in Italia, ricordiamo che se da un lato la concezione normativa ha incontrato grande successo per lungo tempo, soprattutto grazie alla rielaborazione della teoria kelseniana da parte di Bobbio e di altri studiosi, fra cui primariamente Uberto Scarpelli, dall’altro lato, e limitandoci ai teorici d’ispirazione giuspositivistica, non sono state poche le voci difformi. Due scuole, a Genova e a Bologna, hanno abbracciato decisamente un’altra posizione, quella del realismo giuridico, che si distanzia dal normativismo per guardare non tanto alle proposizioni prescrittive generali regolanti la condotta umana in astratto, quanto alla loro radice psico-sociologica e alla loro applicazione concreta, da parte soprattutto dei tribunali (Tarello 1980; Pattaro 2005; Guastini 2009). Secondo queste visioni, fra loro peraltro diverse, il diritto 15 Secondo cui – come ricorda Bobbio (1993, p. 16) – il diritto è «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi coll’arbitrio d’un altro secondo una legge universale di libertà» (Kant 1956, p. 407). 16 E non solo loro: gli studenti milanesi della mia generazione ben ricordano la decisa posizione del loro professore di istituzioni di diritto privato, Aurelio Candian, che nel suo manuale offriva una ricostruzione sistematica della materia tutta incentrata sul concetto di rapporto giuridico (Candian 1960).

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non è dunque né norma generale, né istituzione, né rapporto, ma regolarità comportamentale socialmente seguita perché ritenuta doverosa, empiricamente accertabile mediante un’indagine sulla condotta di soggetti titolari di un potere normativo, in particolare giudici, e sulle fonti della loro ispirazione17. Passando al versante della sociologia le cose non cambiano, almeno in apparenza. Infatti i sociologi tendono a guardare ai fenomeni sociali in termini sistemici, come già ricordato. E questi a loro volta sono visti come reti di relazioni, o azioni, o comunicazioni: entità non fisse, come a prima vista può sembrare la raffigurazione del diritto in termini di norme, ma al contrario mutevoli, mobili, interattive. Così avviene anche con il diritto. Facciamo alcuni esempi. Quando Parsons dedica al diritto un saggio specifico (che non è, detto incidentalmente, il migliore dei suoi lavori), descrive in effetti un sistema d’azione sociale di cui le norme giuridiche sono solo un elemento fra gli altri: esse infatti – osserva l’autore – vanno accettate come legittime da una popolazione, nonché interpretate e applicate attraverso l’attività di operatori a ciò deputati (Parsons 1983). Altrettanto si legge in William Evan, uno dei fondatori della sociologia del diritto contemporanea, secondo cui il «sistema giuridico» (legal system) si compone di «valori, norme, ruoli e or17 Così si esprime uno dei massimi esponenti del gius-realismo americano: «Le profezie di ciò che le corti faranno effettivamente, e niente di più pretenzioso, sono ciò che io intendo per diritto» (Holmes 1897, p. 461). A sua volta Alf Ross, giurista danese ed esponente di spicco del realismo scandinavo, così definisce il ‘diritto valido’: «Un sistema giuridico nazionale, considerato come un sistema valido di norme, può quindi essere definito come l’insieme delle norme effettivamente operanti nella mente del giudice poiché egli le sente come socialmente vincolanti e perciò le osserva» (Ross 1965, p. 34).

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ganizzazioni» (Evan 1990, p. 47). E ancora Lawrence Friedman, giurista e storico del diritto, in una notissima opera sociologica descrive il «sistema giuridico» (legal system) come un insieme organizzato, composto sia di una «sostanza», costituita dalle norme, sia di una «struttura», costituita dagli apparati decisionali: in particolare, dice l’autore, le corti di giustizia (Friedman 1978, p. 54). E ancora. Il sociologo francese Pierre Bourdieu descrive il mondo sociale come una moltitudine di «campi» (champs), cioè microcosmi relativamente autonomi in cui si aggregano attori sociali accomunati da interessi particolari, ognuno definito da una logica specifica che viene assunta come un dato indiscusso nel corso dell’interazione sociale: nel caso del diritto, il comune riferimento degli attori alla legge (Bourdieu 1986). Più tipica fra tutte è la posizione di Niklas Luhmann e della sua scuola. Lo studioso tedesco descrive il sistema giuridico (das Rechtssystem) come un insieme strutturato di «comunicazioni sociali che vengono formulate con riferimento al diritto» (Luhmann 1990a, p. 43). In sintesi dunque, i sociologi affrontano il tema del diritto riferendosi a un’entità complessa che, se comprende anche le norme, tuttavia non si riduce ad esse. Una posizione come questa conduce Gunther Teubner, uno dei seguaci più accreditati di Luhmann, a definire il diritto (law) come un sistema sociale i cui elementi di base «sono comunicazioni, non norme» (Teubner 1989, p. 739). Da quanto precede dunque si potrebbe dedurre che effettivamente la rappresentazione del diritto in termini normativi sia riduttiva, nel senso di ignorare tutto quanto – per così dire – concorre alla vita concreta delle norme. Sennonché alla base di tutto ciò vi è un equivoco di natura terminologica e analitica che va chiarito

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sin dalla “prima lezione” di sociologia del diritto (oltre che di giurisprudenza). ‘Diritto’ è anzitutto una parola. Ed è una parola che, come già visto, viene usata in diversi contesti discorsivi con significati diversi. Non ha infatti un referente reale, visibile e tangibile, su cui tutti i parlanti convengano senza eccezioni, come usualmente si conviene su parole come ‘gatto’ o ‘alluminio’. Piuttosto, essa evoca concetti, idee, immagini, sentimenti che differiscono da persona a persona. Pertanto ciò che conta nella comunicazione sociale è scegliere un significato, o meglio quel significato che rende la comunicazione più facile, meno equivoca. A tal fine, un metodo fertile è quello di adottare il significato su cui conviene la maggioranza entro una comunità di parlanti, nella fattispecie la comunità scientifica di coloro che, sia pure a diverso titolo, si occupano dell’organizzazione giuridica di una società. E pertanto accogliere una definizione «esplicativa» di diritto (Scarpelli 1965; Jori 1976). Ora, se si guarda ai significati della parola ‘diritto’ (e dei suoi equivalenti nelle altre lingue: law, droit, derecho, direito, Recht e via via fino al giapponese h≥ e all’arabo kπn∂n), è facile constatare che, sebbene la sua estensione semantica possa variare, un elemento compare pressoché sempre, da solo o con altri, quando si parla di ‘diritto’ o si definisce il ‘diritto’: e questo elemento sono appunto le norme. Ciò appare chiaramente anche dagli esempi fatti in precedenza, sia nel campo della giurisprudenza sia in quello della sociologia. Riguardo al primo, è facile notare che i critici del normativismo, da qualunque sponda provengano (istituzionalistica, relazionistica, realistica e via dicendo), non negano che il mondo del diritto consista anzitutto di norme, o regole. Ciò che essi suggeriscono è di allargare

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il concetto anche ad altri elementi (per esempio le agenzie decisionali), di volgere lo sguardo all’organizzazione complessiva di una società che si autoregola, o, come nel caso delle concezioni realistiche, di vedere le norme in una prospettiva non formale, generale e astratta, ma sostanziale, individuale e concreta (Pattaro 2005). Senza dire che, se si interrogano i giuristi puri, i comuni operatori del diritto, gli studiosi delle singole branche di un ordinamento giuridico, il loro abituale uso della parola ‘diritto’ è precisamente, e anzitutto, nel senso di un complesso di norme. Riguardo ai contributi sociologici, si può dire la stessa cosa. Nessuna delle voci sopra citate infatti ignora o sottovaluta le norme. Per Parsons, Evan e Friedman esse sono parte del sistema giuridico (legal system). A sua volta Luhmann, che alle norme dedica un lucido saggio (Luhmann 1983), sembra far coincidere il diritto (Recht) precisamente con le norme (Normen) e distinguerlo invece dal sistema giuridico (Rechtssystem) quando, come già ricordato, descrive quest’ultimo come l’insieme di tutte le comunicazioni «riferite al diritto»: se il diritto non coincidesse con le norme giuridiche questa definizione sarebbe circolare e quindi errata. Dunque ciò che si desume da questi autori è che occorre collegare il ‘diritto’, ovvero proprio le norme, alle azioni sociali, o alle comunicazioni sociali, che il diritto stesso regola o che ad esso appunto si ispirano. Infatti si tratta di sistemi d’azione sociale diversi e distinti. Le norme di un ordinamento giuridico sono un sistema sociale in se stesse, in quanto azioni comunicative fra loro collegate o collegabili secondo un senso, una logica, dei meccanismi referenziali: tant’è che l’opera dei giuristi, che su di esse operano, è tipicamente “sistematica”, volta precisamente a ordinarle e riordinarle inces-

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santemente (Losano 2002). E così pure, sono sistemi d’azione sociale anche i complessi di azioni, o comunicazioni, ispirati, organizzati o regolati secondo le norme giuridiche: per esempio il sistema giudiziario, il sistema del professionismo giuridico privato, il sistema legislativo e via dicendo. Anche questi complessi di azioni o comunicazioni sono, infatti, collegati fra loro nonché alle norme, e acquisiscono un senso secondo riferimenti (in gran parte normativi) comuni agli attori interagenti. Non credo sia difficile cogliere le ragioni per cui questi sistemi d’azione sociale, pur fra loro collegati, devono essere tenuti ben distinti in sociologia del diritto. Vi è anzitutto un argomento di carattere banalmente comunicativo. Se è costume maggioritario fra i giuristi e gli operatori giuridici definire il diritto come un insieme di norme, una diversa definizione sociologica che relegasse le norme stesse in secondo piano, o addirittura le escludesse dal panorama, renderebbe più ardua – appunto – la comunicazione fra sociologi del diritto e giuristi, che condividono lo stesso oggetto di indagine (Hydén, Svensson 2008). Vi è poi, ancor più cogente, un argomento di natura prettamente sociologica. Fra le norme e le azioni ad esse ispirate esiste una relazione biunivoca, di reciproco condizionamento, poiché le norme, circolando fra attori sociali, ne influenzano l’azione e questa, a sua volta, retroagisce continuamente sul mondo normativo, modificandolo. Solo tenendo separati i termini della relazione è possibile – o quanto meno più facile – scoprire i fattori che entro ciascun sistema la strutturano. Ciò detto, naturalmente, occorre intendersi sulle norme di cui stiamo parlando. Bisogna intanto parlare in generale del concetto di norma, il cui significato si trae dall’etimo della parola la-

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tina che designa, come noto, la ‘squadra’, cioè uno strumento che simultaneamente guida e misura un’azione. Questo è precisamente quanto fa anche la norma concernente la condotta umana. Che la norma così intesa sia diretta a “guidare” un’azione (o un tipo d’azione) appare ovvio, ma non meno ovvia è anche la sua funzione di “misura”, che possiamo scorgere in quel “giudizio” che una norma effettivamente contiene in sé. Ogni norma infatti, qualunque sia il sistema cui appartiene, anche quella norma effimera che eventualmente non faccia parte di alcun sistema (è difficile immaginarne una), appartiene all’universo dei discorsi prescrittivi, non descrittivi, nel senso che è indirizzata a indicare a qualcuno un modello d’azione che si deve o si può osservare in un futuro più o meno prossimo. Tale modello può avere un grado maggiore o minore di cogenza e natura generale o speciale. Al vertice della cogenza normativa troveremo le perentorie norme militari, generali («Si deve salutare il superiore») o speciali («At-tenti!»), collegate a sanzioni precise e solitamente inflitte senza eccezioni in caso di disobbedienza. Al vertice opposto della minima cogenza, passando per tutta una gamma di posizioni intermedie, troveremo semplici raccomandazioni, anch’esse generali («Quando fa freddo è opportuno coprirsi») o speciali («Indossa una sciarpa oggi, perché fa freddo»). In tutti i casi, si è di fronte all’indicazione di un modello d’azione che, beninteso, può anche essere rivolto dal singolo soggetto a se stesso («È opportuno che oggi io indossi una sciarpa, perché fa freddo»): ciò che, come diremo subito, non ne pregiudica necessariamente la natura sociale. Non c’è bisogno di segnalare che il mondo delle norme, che copre una lunga scala dalla sfera del dovere a quella della pura opportunità, o anche della semplice

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piacevolezza, rappresenta una quota di tutto rilievo nella vita comune di un essere umano. Si può dire, infatti, che buona parte della nostra vita consista precisamente nel seguire dei modelli d’azione, non necessariamente ricevuti, ma anche liberamente scelti in quanto creduti obbligatori o opportuni. E si può aggiungere che persino l’interazione umana apparentemente non normativa – l’informazione, lo scambio di vedute, gli slanci affettivi – presenta spesso, magari non dichiarato, un sottofondo normativo. L’informazione per esempio, come rivela la separazione del prefisso dal sostantivo (“in-formazione”), induce di per sé un cambiamento nella persona che la riceve. Se conscio di ciò, anche il più neutro e obiettivo degli informatori – diciamo il modello del perfetto giornalista – difficilmente parla senza l’intenzione recondita di provocare quel cambiamento: e questa è già, almeno in nuce, un’azione normativa. Così dicasi per lo scambio di opinioni, che comunemente non avviene come tra i grandi filosofi nel limbo dantesco, i quali sanno ormai di non sapere e non hanno ragione di convincersi a vicenda, ma in contesti concreti, nei quali abitualmente si cerca di convincere l’interlocutore anche di cose banali: l’asserzione apparentemente descrittiva «sai che è proprio bella, la città di San Diego» comunica la (magari tenue) raccomandazione di visitarla, se si ha occasione di andare in California. Quanto agli slanci affettivi, la cosa non è meno evidente. Lasciando perdere il classico “ti amo”, fin troppo ovvio, anche il più platonico “ti voglio bene” non è quasi mai una semplice asserzione, in quanto comunica l’aspettativa di essere almeno rispettati, se non proprio ricambiati, ovvero convoglia silenziosamente verso l’interlocutore/interlocutrice un modello d’azione che si auspica venga osservato. E lo è anche se il sentimento viene espres-

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so senza parole. Dunque, scendendo ad analizzare il mondo normativo, di cui il mondo giuridico è parte, non affrontiamo affatto un aspetto secondario della vita umana, ma probabilmente quello più comune e abituale. Il mondo sociale, proprio in quanto rete di aspettative reciproche fra attori sociali, è in misura rilevante un mondo di norme. Una seconda specificazione ha ancora carattere generale e costituisce un apporto specifico delle scienze sociali, in particolare della sociologia della comunicazione, alla comprensione di qualsiasi fenomeno normativo, compreso quello giuridico. Le norme sono esse stesse azioni sociali o, per dir meglio, atti di comunicazione sociale. Questa asserzione – sappiamo – può prestare il fianco a una critica spontanea, segnalante l’esistenza di regole comportamentali che (come appena ricordato) non fuoriescono dalla sfera intima di ciascun soggetto. In termini di psicologia sociale, a questa critica si potrebbe rispondere che in realtà anche quelle regole che paiono disciplinare l’ambito prettamente individuale della vita di ognuno, quello per così dire invisibile, sono state apprese socialmente e nel corso della vita vengono altresì trasmesse, persino inavvertitamente, per esempio ai discendenti. Sono anch’esse, cioè, atti di comunicazione. Ma, anche data per ammessa l’esistenza di regole di tal natura, vale il fatto che il materiale normativo di cui parliamo in sociologia è per definizione sociale, anche se sui meccanismi di comprensione, accettazione o rifiuto di una regola possono giocare aspetti che attengono alla psicologia del profondo. Ciò di cui si occupa la sociologia dei fenomeni normativi (giuridici o non giuridici) è essenzialmente materiale sociale, cioè oggetto di comunicazione fra attori sociali.

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In una parola, le norme di cui si occupa la sociologia, e fra esse anche le norme giuridiche, sono messaggi. Ebbene ricordiamo che per definizione i messaggi, in quanto atti di comunicazione, si dirigono da una o più fonti verso uno o più destinatari, passando attraverso uno o più media, cioè filtri che si interpongono nello spazio fisico o virtuale che separa le fonti dai destinatari, e che recepiscono, interpretano e ritrasmettono il messaggio, secondo questo schema (Eco 1987, pp. 49-50): F1, F2, F3 → M1 – M2 – M3 → D1, D2, D3 Sottolineo che lo schema vale anche nel caso più semplice ed elementare di una interazione diretta e immediata tra la “fonte” e il “destinatario” del messaggio, come sono due persone che si parlano in presenza l’una dell’altra. Anche fra questi due soggetti infatti si interpongono comunque dei media, in particolare il linguaggio – parole, immagini, mimica facciale – con cui il messaggio viene formulato e che costituisce già un filtro assai complesso tra la fonte e il destinatario. Come già ricordato, un atto di comunicazione si compone di elementi di base – segnali, o impulsi, se si preferisce – che diventano “segni” nel momento in cui, mediante il riferimento dell’emittente a un codice, contengono un significato, cioè indicano qualcosa cui il segnale si riferisce o “rinvia”. Richiamando l’esempio fatto allora, il segno ‘P’ scritto in bianco entro un quadrato blu collocato al margine di una strada e a una certa altezza dal manto stradale, è un atto di comunicazione che “indica” fruttuosamente la facoltà dell’automobilista di parcheggiare la vettura soltanto a quei destinatari che siano in grado di decodificarlo mediante il riferimento ad alcuni codici, cioè strutture concettuali che

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permettono di comprenderlo: il codice dell’alfabeto latino, il codice che chiameremo giuridico in senso lato, il quale informa dell’esistenza di regole disciplinanti un certo tipo di azioni umane, la sua specificazione temporale e spaziale (cioè il diritto europeo e/o italiano di questo momento storico), la sua ulteriore specificazione relativa alla circolazione stradale (il codice della strada), e infine quei codici ancor più specifici che nel codice della strada attribuiscono ai segni d’un alfabeto e ai diversi colori un significato convenzionale valevole per quel particolare sottosistema di comunicazione sociale che attiene alla circolazione. Questa analisi, che vale per la comunicazione in genere, può essere applicata a qualsiasi norma, di qualunque sistema normativo, di galateo («Non si mettono i gomiti sulla tavola»)18, deontologico («Il medico non può fornire i farmaci necessari alla cura a titolo oneroso»19), morale («Rispetta l’opinione altrui»), religioso («Ricordati di santificare le feste») o giuridico («Le spese del pagamento sono a carico del debitore»20). Ognuno di questi enunciati linguistici contiene una serie di segni che acquistano significato mediante l’applicazione di regole grammaticali, sintattiche e semantiche, nonché 18 Non cito la norma di un galateo ufficiale, ma quel «Tegnì giò i gumbet», che in La nomina del cappellan di Carlo Porta il maggiordomo dice, fra molte altre cose, agli aspiranti al posto di cappellano nella casa di una marchesa. Questa poesia, purtroppo accessibile solo ai pochi ancora in grado di comprendere il milanese in via di estinzione come tutte le lingue regionali, contiene la più buffa e completa elencazione delle regole più spicciole dell’educazione che si possa ritrovare nella letteratura italica, a mia memoria. Auspico uno sforzo linguistico dei miei lettori affinché la decifrino e ne traggano godimento (Porta 1999, pp. 151 sgg., e il glossario alle pp. 487 sgg.). 19 Art. 29 del codice deontologico della professione medica. 20 Art. 1196 del codice civile.

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mediante il riferimento a codici che permettono di collegare gli elementi che li compongono, non solo fra loro, ma anche con elementi esterni tanto all’enunciato stesso quanto al sistema normativo cui appartiene: per esempio l’idea di pranzare in compagnia, contenuta nella succitata regola di galateo, non compare nell’enunciato e preesiste al galateo, che la implica. È essenziale osservare che la comunicazione di messaggi di questo tipo – e d’ogni altro, del resto – è tanto più complessa quanti più sono i soggetti coinvolti nell’interazione, i linguaggi da loro usati e le intenzioni che li muovono a comunicare. Infatti ogni soggetto che comunica è simultaneamente recettore, interprete e di solito anche ritrasmettitore di un messaggio. Opera in sostanza come un filtro, attraversando il quale il messaggio può cambiare connotazione, impatto e anche significato letterale. Questo punto è di fondamentale importanza per la comprensione sociologica del diritto. Bastino poche considerazioni. Anzitutto il diritto, nelle società letterate, è oggetto sia di comunicazione ordinaria, sia di una comunicazione specialistica, che si avvale di un linguaggio in buona misura artificiale. Non solo parole “tecniche” come ‘decadenza’, ‘transazione’, ‘rescissione’, che si distaccano dal linguaggio ordinario o addirittura ne sono estranee, ma anche parole “naturali” come ‘tempo’, ‘luogo’, ‘causa’ e perfino ‘vita’ o ‘morte’, acquistano un significato giuridico in rapporto a scelte semantiche operate entro una comunità particolare di attori sociali, i giuristi appunto. È ben vero che tali scelte, spesso di derivazione secolare, sono indirizzate a dare un certo grado di stabilità al linguaggio tecnico-giuridico, ma è anche vero che esse, oltre a distanziarsi dal linguaggio comune, so-

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no a loro volta soggette a variazioni, giacché anche il lessico giuridico non è fisso ma mutevole, sia per le sollecitazioni esterne, sia per l’evoluzione interna della stessa scienza giuridica. Né d’altronde si tratta solo di singole parole, ma anche e soprattutto del loro collegamento reciproco in enunciati complessi, che a loro volta si combinano con altri fino a comporre opinioni, teorie, rappresentazioni del mondo. Prendiamo un enunciato giuridico come il seguente: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (art. 2043 del codice civile). Anche se nel corso del tempo queste parole, quasi tutte “tecniche”, non hanno cambiato significato letterale, la loro interpretazione (e l’interpretazione complessiva dell’enunciato) è mutata eccome: basti dire che da quando il codice fu emanato nel 1942 fino agli anni Settanta non si riteneva che nel concetto di ‘danno’ rientrasse anche il ‘danno biologico’, punto fermo dell’odierna dottrina italiana in tema di responsabilità civile per fatto illecito. Inoltre, il diritto è un sistema di comunicazione normativa particolarmente “forte” in quanto sostenuto da sanzioni e soprattutto, come già ricordato, strettamente connesso a rapporti sociali di natura conflittuale. È uso dire che senza conflitti non vi sarebbe bisogno di diritto. Ora, l’interazione conflittuale è caratterizzata da divergenze di interessi fra i soggetti interagenti e tali divergenze si traducono facilmente in contrasti d’opinione non solo sui fatti della vita, ma anche sulle parole con cui i fatti vengono giuridicamente trattati. Ciò è particolarmente visibile nelle relazioni interindividuali, come un contratto o un processo giudiziario: qui il conflitto sulle parole, tecniche o naturali che siano, è sovente l’essenza della contesa. Ma la cosa è ben visibile anche nelle rela-

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zioni sociali generali, come quella che si sviluppa fra il legislatore e i cittadini con l’emanazione di leggi. Per definizione, infatti, le norme di legge disciplinano interessi divergenti. Spesso scelgono fra gli uni e gli altri, spostando il peso da una parte o dall’altra – creditore o debitore, venditore o compratore, lavoratore o datore di lavoro – e in tal caso è ovvia la ragione per cui si disputa sul significato degli enunciati normativi. Ma anche quando cercano di bilanciare gli interessi in conflitto non è detto che le parti interessate, per così dire, apprezzino lo sforzo. Anzi, accade spesso che lamentino di non essere state adeguatamente avvantaggiate dalla legge. Una semplice osservazione dell’oppressiva legislazione tributaria italiana e della connessa evasione fiscale, altissima nel paese21, lo conferma con immediatezza. Ancora, nella comunicazione giuridica, in particolare nella comunicazione fra il mondo del diritto e la società esterna, giocano un ruolo sempre più essenziale i mass media. La potenzialità persuasiva del diritto, la sua capacità di orientare scelte, aspettative, comportamenti, opinioni, è sufficientemente forte (anche in un paese scettico e incline alla devianza, come l’Italia) da indurre gli attori sociali a utilizzare massicciamente i media per legittimare attraverso la simbologia giuridica pretese, interessi e soprattutto potere. Ebbene, per definizione i media traducono fatti in notizie, il che significa 21 Il livello prodigioso dell’evasione fiscale italiana spiega come mai nel nostro paese, ove i salari medi sono più bassi che negli altri paesi sviluppati, i prezzi siano invece in linea con quelli francesi, tedeschi o britannici. Vi è infatti in Italia un immenso fiume di denaro non tassato (oltre a quello di origine criminale) che, riversandosi su alcuni mercati, soprattutto quello immobiliare, mantiene alto il livello dei prezzi. Negli ultimi anni questo meccanismo ha provocato colossali trasferimenti di ricchezza a favore degli evasori, irrigidendo la stratificazione sociale italiana.

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non solo interpretare ciò che accade, ma anche tradurlo e narrarlo secondo tecniche appropriate, il cui possesso caratterizza i gestori dell’informazione, cioè i giornalisti, ancor più e prima della competenza sui contenuti specifici delle questioni trattate. In tal modo i media deformano il materiale informativo, senza dire con ciò che lo facciano intenzionalmente e ingannevolmente. Anche il buon giornalista, infatti, esprime una sua visione delle cose e necessariamente lo fa con linguaggio adatto al pubblico ed entro limiti spazio-temporali precostituiti che impongono di usare più o meno parole, alcune e non altre. Incidentalmente, è proprio per questa natura deformatrice dei media che una democrazia ha bisogno del massimo pluralismo informativo, affinché il pubblico possa attingere a più fonti, ognuna delle quali inevitabilmente unilaterale, per farsi un’idea non parziale delle cose (Marzo 2006). Il diritto dunque, come insieme strutturato di norme, è un fenomeno comunicativo particolarmente complesso, in cui numerosi attori intervengono ricoprendo diversi ruoli, ognuno agendo secondo prospettive determinate dai propri progetti d’azione. Sulla base di quanto sin qui detto, dobbiamo ora specificare, anche se ben noto, che non tutte le norme di cui è costellato l’universo normativo di una società umana sono convenzionalmente considerate giuridiche, e circoscrivere l’ambito di queste ultime. Ridurremo questo compito al minimo indispensabile, per riprendere da un lato nozioni essenziali che gli studenti di diritto apprendono all’inizio dei loro studi e peraltro compiere, dall’altro lato, alcune precisazioni meno scontate, ma non meno importanti. In linea generale, anche dal punto di vista sociologico è possibile caratterizzare le norme giuridiche, entro

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il più vasto ambito delle norme sociali, attraverso alcuni caratteri spesso riconosciuti dalla dottrina giuridica, quali l’istituzionalità, la sanzionabilità, l’eteronomia, il collegamento con strutture di potere politico, la pretesa di completezza22. In altre parole, possiamo accettare che il diritto si componga di norme: a) solidamente radicate nella pratica sociale in quanto osservate con relativa regolarità da una maggioranza di consociati; b) sorrette e rinforzate da un apparato sanzionatorio volto a favorirne l’osservanza attraverso l’attribuzione di svantaggi o vantaggi, cioè sanzioni cd. negative o positive, collegate alla loro inosservanza o osservanza, e applicate secondo procedure predeterminate; c) non arbitrariamente scelte da ciascun individuo nell’ambito di una illimitata autonomia, ma derivanti da un’azione coordinatrice delle autonomie individuali; d) collegate al potere di individui o enti cui spetta il compito di “amministrarle”, cioè riconoscerle, disporle, interpretarle, farle osservare, applicarle (e dunque giudici, giuristi, legislatori, funzionari); e infine e) tese a disciplinare interi ambiti di interazione sociale, se non addirittura tutta l’interazione sociale di una popolazione individuabile. Si tratta, come si vede, di elementi consuetamente riconosciuti al diritto anche dai giuristi puri. In sociologia peraltro non vengono assunti come dati formali inoppugnabili, come se il sociologo del diritto dovesse delegare al giurista la definizione dell’oggetto della sua 22 Ritroviamo questi caratteri anche nella più celebre delle definizioni sociologiche di diritto: «Un ordinamento deve essere chiamato [...] diritto, quando la sua validità è garantita dall’esterno mediante la possibilità di una coercizione (fisica o psichica) da parte dell’agire, diretto a ottenerne l’osservanza o a punire l’infrazione, di un apparato di uomini espressamente disposto a tale scopo» (Weber 1974b, I, p. 31, corsivi nel testo).

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scienza. Infatti, già dalle definizioni appena proposte dovrebbero risultare chiare alcune non trascurabili differenze fra i punti di vista rispettivamente giuridico puro e sociologico-giuridico. Il concetto di istituzionalità, per cominciare, è attinto dalla sociologia più che dalla teoria giuridica, giacché con esso non si pongono alla base della giuridicità decisioni sovrane da cui il diritto scaturirebbe – il fiat di un legislatore – ma piuttosto pratiche sociali regolarmente seguite da una popolazione. In mancanza di questo elemento si può non solo dubitare dell’esistenza sociale di norme giuridiche emanate secondo procedimenti formali, ma costantemente inosservate e quindi desuete; ma anche ritenere che esistano norme alternative rispetto a quelle formalmente emanate e riconosciute, eppure seguite con un certo grado di costanza dalla popolazione interessata o da suoi settori. È soprattutto così, del resto, che il diritto cambia storicamente: soprattutto in certi ambiti – la famiglia, il lavoro, l’innovazione tecnologica – il legislatore non fa altro, molto spesso, che formalizzare norme già praticate nell’interazione sociale. Riferendosi al carattere sanzionatorio delle norme giuridiche, la teoria sociologica vuol riferirsi non solo all’attitudine di tali norme di condizionare, secondo i classici meccanismi di premio e punizione, la condotta umana, ma anche al fatto che nel diritto, così come viene comunemente concepito, esiste uno iato fra condotta e sanzione corrispondente: un distacco temporale coincidente con l’intervallo necessario per deliberare sulla condotta, ricostruendola, e conseguentemente sulla sanzione, che dovrà o non dovrà discenderne. È questo l’intervallo in cui opera, prima fra tutte, la figura di un giudice, individuale o collettivo, che dubita e decide. Ed è questa,

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infatti, fra le altre, una figura centrale nella rappresentazione sociologica del diritto. Dove non vi sia un “giudice” nel senso ampio della parola, cioè uno spazio deliberativo occupato da un decisore (si pensi al linciaggio praticato da una folla in tumulto), si può ritenere che non si possa parlare di “diritto” in senso sociologico. Ancora, il carattere eteronomo delle norme giuridiche non viene inteso sociologicamente nel senso kantiano dell’espressione, come se il diritto scendesse comunque dall’alto in basso, sotto forma di comando di un’autorità, ma come il riflesso della naturale contrapposizione reciproca fra soggetti dotati di diverso potere e, conseguentemente, di diversa capacità di influire sui contenuti delle norme. Ovvio che i detentori del potere politico, i quali dispongono fra l’altro dello strumento legislativo, possano maggiormente influire sul diritto; ma esercita un potere anche chi li sceglie col voto o ne influenza le decisioni (si pensi alle lobbies), così come lo esercitano due parti che stipulano un contratto ottenendo dalla controparte concessioni proporzionali al potere negoziale di cui dispongono. E si tratta sempre di potere “politico” nel senso ampio dell’espressione. Con il collegamento fra diritto e potere si incentra l’attenzione sui ruoli professionali connessi alla vita concreta del diritto. La presenza simultanea di molti ruoli indica, ancora una volta, che il diritto non è monopolio del legislatore, come suggerisce la tradizionale teoria statalistica, ma che nella “amministrazione” delle norme giuridiche intervengono vari soggetti investiti istituzionalmente del compito di creare e applicare norme giuridiche, fungendo da media istituzionali nella elaborazione e trasmissione di messaggi: giacché sono tali, e sono dunque “norme” in senso proprio, non solo quegli enunciati che troviamo stampati in un codice o

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in una legge, ma anche ogni loro concretizzazione (la sentenza di un giudice) e ogni loro interpretazione capace di orientare aspettative e comportamenti. E infine, riferendosi alla pretesa di completezza, ci si vuol riferire alla tendenza monopolizzatrice di ogni sistema giuridico, e cioè tanto alla sua aspirazione a ricomprendere ogni tipo di relazione sociale, offrendo soluzione a ogni dilemma comportamentale che possa presentarsi in un certo spazio territoriale, quanto, vorrei aggiungere, alla sua tendenza a estendersi fuori dei confini originari per i quali è stato concepito. Questa tendenza espansiva accomuna gli ordinamenti statali tradizionali, generali per loro natura, ad altri ufficialmente parziali, come quello delle diverse chiese, che tendono a occupare lo spazio della vita civile, o come quello europeo, che dalla sua nascita negli anni Cinquanta ha progressivamente esteso a dismisura il suo raggio d’azione, o infine quello dei diritti umani, che dalle origini nei secoli XVII e XVIII è venuto ampliandosi indefinitamente fino a comprendere una moltitudine sempre più vasta di pretese ritenute incoercibili. Resta ora da chiedersi, sociologicamente, quale funzione, o quali funzioni, il diritto adempia in un contesto sociale. Questo è un tema complesso per alcune ardue implicazioni analitiche e terminologiche che comporta, anzitutto circa il concetto di ‘funzione’, che viene usato in diversi contesti con significati diversi almeno in apparenza («x è funzione di y», «funzione dello stomaco è digerire i cibi», «in chiesa si sta svolgendo una funzione»23 23 È significativo che nella lingua neogreca la parola ‘funzione’, in senso sociologico, si traduca con ‘leitourgía’, letteralmente corrispondente al termine (‘liturgia’) con cui si definisce in italiano la funzione religiosa.

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e via dicendo). Non è il caso di affrontarle qui, se non per dire che nelle scienze sociali si adotta comunemente il concetto di ‘funzione’ per indicare l’apporto conferito da un elemento a un sistema. Questo apporto però, a sua volta, può essere visto sia come contributo allo stato oggettivo di quel sistema, sia come contributo al progetto d’azione di attori sociali che operano su quel sistema o attraverso di esso (Ferrari 1992). Parlando del diritto, inteso come sistema strutturato di norme, l’adozione dell’uno o dell’altro di questi due punti di vista conduce a conclusioni alquanto diverse. Assumendo il primo punto di vista, per esempio, Talcott Parsons può dire che il diritto adempie a una funzione «integrativa», cioè aiuta un aggregato sociale a mantenersi coeso e solidale: e infatti, secondo questa visione il diritto svolgerebbe la “funzione” – fra altre – di comporre i conflitti attraverso l’applicazione di norme sostanziali e procedurali predeterminate (Parsons 1983). Assumendo il secondo punto di vista, l’orizzonte cambia radicalmente. Infatti un progetto d’azione può non essere affatto “funzionale” allo stato attuale di un aggregato sociale e tanto meno al suo “buono” stato, ma anzi, al contrario, mirare al suo cambiamento anche radicale. E, infatti, il diritto ben si presta anche a tal fine. Una legge, una sentenza, una novità contrattuale che si diffonde nel mondo (si pensi, fra tante altre, al franchising, che ha avuto effetti dirompenti per la produzione internazionale di merci) possono modificare radicalmente uno stato di cose e rendere degli aggregati sociali, anziché più coesi e solidali, più conflittuali e internamente divisi. Dalle parole che precedono si può intuire che la mia preferenza vada alla seconda concezione dell’analisi funzionale in sociologia, piuttosto che alla prima.

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Infatti, mentre da un lato vedo nel sistema del diritto positivo un potente mezzo o modalità d’azione sociale, indirizzabile verso finalità di ogni tipo, ritengo sommamente difficile, dall’altro lato, stabilire a priori quale sia non solo “il buono stato” di un sistema sociale, cosa che dipende dalle preferenze di ognuno, ma perfino quale sia “quello stato”, nel senso di disporre di un numero sufficiente di indici oggettivi che permettano di definirlo senza far giocare, ancora, le preferenze dell’osservatore. E ritengo in conclusione che, se è vero – per esempio – che il diritto svolge la funzione di orientare aspettative e comportamenti, non è affatto detto che li orienti in modo chiaro e conveniente per il benessere generale; se è vero che il diritto offre meccanismi di trattamento dei conflitti, è anche vero che esso può non solo comporli pacificamente, ma anche acuirli e fomentarli; se è vero che il diritto offre un potente argomento di legittimazione dell’azione, è anche vero che questo stesso argomento delegittima, ovvero squalifica, ogni azione contraria, irrigidendo una contrapposizione originaria. Queste tre prestazioni, lette in questa chiave, mi sono parse a suo tempo le “funzioni” più generali assegnate o assegnabili al diritto dagli attori sociali che operano attraverso di esso (Ferrari 1992). E credo che ciò sia verificabile nei fatti attraverso lo studio della storia del diritto, nel cui corso molte volte il diritto si è presentato, anziché nella sua veste irenica, apportatrice di pace, anche nella sue veste polemogena, apportatrice di conflitti. Non a caso ho sottolineato nei fatti: perché se dal terreno dei fatti passiamo al ben diverso terreno dei valori, allora è ovvio dire che ognuno di noi ambisce a un buon diritto e alla massima possibile pace sociale: sennonché, come già detto, è difficile trovare un solo set-

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tore del diritto sulla cui “bontà” concordi non solo l’unanimità, ma persino una chiara maggioranza dei membri di un aggregato sociale. Una ricerca sui diritti fondamentali, che svolsi con i miei allievi bolognesi circa vent’anni fa, mise in luce che proprio sugli argomenti più delicati – la persona umana, la sua integrità – era più facile che i gruppi di intervistati (essi pure studenti) si dividessero drasticamente (Ferrari 1995). Il che ovviamente non significa che i conflitti derivanti da tali divisioni non possano trovare soluzione pacifica attraverso il diritto: ma è meglio cercare questa soluzione sapendo a priori che esistono opinioni diverse e confrontandole liberamente, senza squalificarne alcuna prima di mettersi a discutere. E negoziare una soluzione giuridica, anziché imporla con l’inganno o con la forza. Ma tutto ciò attiene ai valori, non ai fatti, appunto. 2.3. L’azione attraverso il diritto Si è detto poco fa che il diritto, come sistema strutturato di norme, va distinto dall’interazione sociale che ad esso si riferisce e che può essere anch’essa rappresentata in termini sistemici, come riconosce la teoria sociogiuridica contemporanea. Per affrontare il discorso, ripropongo con qualche variazione alcuni schemi grafici che già in passato mi hanno aiutato a semplificarlo (Ferrari 1992). Iniziamo da uno schema in cui si mostra che gli attori sociali (A, B, C) operano comunicativamente attraverso il diritto (D) con l’obiettivo di influenzare i propri rapporti reciproci: per esempio A, B e C decidono di dar vita a un’associazione privata (si pensi a un partito politico) sottoscrivono un atto costitutivo con relativo statuto secondo le norme del codice civile e da lì in poi si suppone

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che, attraverso tale strumento giuridico, i loro rapporti reciproci cambieranno. A B C

D

A-B A-C B-C A-B-C

Figura 1

La semplicità dello schema non deve trarre in inganno, perché l’azione sociale che esso sintetizza è abbastanza complessa. In primo luogo, come vuol significare l’uso di tre diversi tipi di linea di connessione, A, B e C sono soggetti diversi, i quali entrano in relazione recandovi ognuno un retroterra culturale, uno status sociale, una condizione economica, un grado di influenza sugli altri. Non c’è bisogno di spiegare come questa diversità possa influire decisivamente sulla regolamentazione dei loro rapporti24 e neppure che la cultura d’origine dei tre soggetti può influenzarne la decisione: senza rendersene conto essi possono anche indicare nello statuto uno scopo sociale vietato dalla legge. In secondo luogo, la decisione assunta da A, B e C, ove seguita da atti concreti, non esaurisce i suoi effetti nel microsistema delle loro relazioni, ma, cambiando la 24 Per verificare come il diverso grado di potere influenzi i rapporti giuridici privati basta esaminare in una polizza assicurativa tutte quelle clausole limitative degli obblighi dell’assicuratore, molto analitiche e scritte in caratteri quasi invisibili, che l’assicurato deve approvare «specificatamente» (artt. 1341-1342 del codice civile) senza però alcuna possibilità di negoziarle e neppure di cambiare assicuratore, perché gli assicuratori operano in regime di oligopolio e impongono quindi gli stessi moduli contrattuali.

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vita dei protagonisti, si riverbera anche su altri sistemi di relazioni: famiglie, lavoro, associazioni concorrenti e via dicendo. In terzo luogo, il nuovo regime di rapporti sociali fra i nostri tre soggetti modificherà le aspettative reciproche in modo non solo atteso, ma anche inatteso. Per esempio – ho in mente un caso concreto – A e B, alleandosi, possono emendare lo statuto ed escludere C, per qualche specifica ragione (età, sesso, ruolo professionale ecc.), dall’accesso alle cariche sociali. A questo punto C potrà sottostare alla decisione, oppure dimettersi, oltre che naturalmente rivolgersi a un giudice: nel qual caso però il rapporto sociale, come vedremo subito, diverrà più complesso e cambierà natura. Dunque l’azione giuridica, come ogni altra azione sociale, non è un processo chiuso, ma aperto. Nasce da qualcosa che già esiste, si sviluppa e dispiega effetti potenzialmente illimitati e ad ampio raggio. Questo va tenuto in debito conto soprattutto quando si aggiungano al quadro altri soggetti in posizione di intermediari. Infatti, l’azione di cui parliamo si concreta facilmente in una comunicazione non diretta, come nel caso indicato, ma indiretta. Così accade per esempio se A, per obbligare B e C, debitori solidali, a pagare il loro debito, si rivolge a un avvocato, il quale stende un atto di citazione e conviene B e C davanti a un tribunale che, istruito il caso, emetterà una decisione. Lo stesso accade se i nostri soggetti pianificano la fusione di due società quotate in borsa, per cui si apre in entrambe un procedimento interno al cui termine gli amministratori otterranno un mandato dall’assemblea, incaricheranno un notaio di redigere l’atto, che sarà poi sottoscritto e trasmesso al tribunale per l’omologazione. E non diversamente avviene a livello più generale se gli stessi sog-

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getti, reputandosi sacrificati da una legge vigente (che, per fare un esempio fra mille, limita troppo severamente l’accesso alla procreazione assistita), formano un gruppo di pressione, il quale sollecita un partito politico che a sua volta fa presentare dai propri rappresentanti in Parlamento una proposta di legge e questa, una volta approvata, modificherà sia le relazioni sociali dei primi attori, sia un intero sistema di relazioni sociali. Per presentare graficamente la comunicazione giuridica indiretta basterà aggiungere allo schema originario la figura degli attori sociali che intervengono nel processo quali intermediari, o media (M), che indichiamo unitariamente, ma che potrebbero ovviamente essere più d’uno. A B C

M

D

A-B A-C B-C A-B-C

Figura 2

A loro volta gli intermediari possono intervenire non solo quali individui – si pensi a un mediatore occasionale che aiuta a comporre una lite – ma anche quali esponenti di gruppi sociali, istituzioni, corporazioni, partiti. O agire su questi sollecitandone l’intervento. In tal caso la comunicazione originaria penetra in un distinto sistema d’azione sociale che svolgerà la sua funzione di filtro attraverso modalità peculiari, dipendenti in gran misura dalla propria organizzazione interna. Nel suo libro sul sistema giuridico, già citato, Friedman rappresenta un tale sistema – possiamo dire – come una sorta di box che riceve degli input dalla società esterna e li “tratta” attraverso l’azione di «strutture» (per esem-

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pio i tribunali) le quali, ispirandosi alle norme giuridiche (la «sostanza» del sistema), emettono degli output. Questi, a loro volta, retroagiscono sui rapporti originari e sulla società esterna con un effetto di feedback (Friedman 1978, pp. 50 sgg.). Integrando lo schema originario, possiamo quindi descrivere questo modello d’azione col seguente grafico. A Società esterna

B C

M

SA

A-B A-C B-C A-B-C

Figura 3

Poniamo che A, B e C siano in lite e che il sistema d’azione (SA) che funge da intermediario sia il sistema giudiziario, alla cui decisione – ipotizziamolo per ora – tutti si affidino. Questo sistema riceve dall’esterno in forma di domande degli input fra loro incompatibili. Abbiamo cioè un eccesso di aspettative o, come direbbe Luhmann, di complessità, che il sistema è chiamato a “ridurre”, selezionando le aspettative (domande) accettabili ed emettendo una decisione che scioglierà il dilemma. Un meccanismo semplice e semplificatorio, a prima vista. Se osserviamo le cose più da vicino, tuttavia, constatiamo che questo meccanismo decisionale è assai complesso e capace non solo di semplificare le cose, ma anche di complicarle. Anzitutto, supponendo di trovarci di fronte a un sistema giudiziario evoluto, autonomo rispetto al contesto sociale e gestito da giuristi specializzati, la comunicazione sociale di cui stiamo trattando subirà un pro-

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fondo cambiamento a cominciare dal piano linguistico e concettuale. Infatti i professionisti del diritto sono portatori di una specifica cultura giuridica – «interna», come la definisce ancora Friedman (1978, p. 371) – cui le parti originarie dovranno adattarsi prima ancora di accedere al sistema. Così, gli avvocati cui si rivolgono in primo luogo aggiungeranno la loro voce a quella dei protagonisti, in secondo luogo compiranno un’opera preliminare di selezione e di traduzione delle istanze dei loro clienti e in terzo luogo, rappresentando interessi contrapposti, assumeranno posizioni distinte sia nella prospettazione dei fatti, sia nel loro inquadramento giuridico, cioè nell’individuazione e interpretazione delle norme di riferimento. Già questa fase preliminare dunque apporta nella comunicazione un elemento non solo di complessità – perché più e diverse sono ormai le voci – ma anche di artificialità. Infatti a questo stadio della comunicazione si discute di cose passate e i difensori delle parti, dopo aver recepito dai clienti una versione dei fatti che è già da questi ri-costruita, procedono a ri-costruirli ulteriormente per inserirli nella fattispecie giuridica più conveniente (Amsterdam, Bruner 2000, pp. 143 sgg.; Taruffo 2009). Un compito analogo, di ulteriore ri-costruzione artificiale della realtà, spesso attuata dopo anni e guidata da formali regole probatorie25, e conseguente “sussunzione” di questa realtà in un quadro normativo, sarà poi svolto dal giudice, la cui voce pure si aggiungerà alle altre con effetti che posso25 Basta che una prova non sia stata introdotta in giudizio entro i termini previsti dalla legge o non sia formalmente proponibile, perché la “realtà” processuale si allontani decisivamente da quella originaria. Sull’artificiosità della “costruzione” giudiziaria dei fatti, equiparata a una narrazione romanzesca, vedi Di Donato (2008).

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no essere tanto semplificanti quanto complicanti, giacché questo “terzo” potrà bensì decidere secondo aspettative consolidate, ma anche assumere una decisione innovativa e perfino imprevedibile (Luhmann 1982). Che il giudice possa innovare il diritto, anche in un sistema che non riconosce ai precedenti valore vincolante, è ben noto e riconosciuto in teoria del diritto. Per l’Italia, basti ricordare l’esempio del danno biologico, già citato in precedenza. Questa sostanziale innovazione nel sistema della responsabilità civile per fatto illecito fu prodotta negli anni Settanta da due innovative sentenze delle corti genovesi26, da cui si è sviluppata una giurisprudenza variabile nei dettagli ma costante sul principio, integrata dall’adozione di tabelle per la liquidazione di questo tipo di danno, anch’esse di origine giurisprudenziale e non legislativa. Tutto ciò ha prodotto effetti sociali di grande ampiezza sia nelle aspettative delle persone, sia nei loro rapporti – per esempio – con le compagnie di assicurazione, le quali ne hanno ovviamente tenuto conto nelle loro politiche. Ma, come detto, l’innovazione può anche essere imprevedibile. Ho ben fisso nella memoria il caso di un giudice che, dimenticatosi dell’esistenza di due cause riunite, ne decise solo una e, non potendo rettificare il dispositivo della sentenza già solennemente pronunciato, dovette scrivere una motivazione cosidetta “apparente” che, pur facilitando la riforma in appello, si trasformò in un precedente citato nelle riviste giuridiche in virtù della sua dissonanza rispetto alla giurisprudenza dominante. E ancora, ho perfetta memoria di una decisione della Corte di Cassazione che annullò con rinvio 26 Trib. Genova, 25 maggio 1974; App. Genova, 17 luglio 1975, su cui vedi Alpa (1987, in Appendice 1 e 2).

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una sentenza d’appello, affermando in astratto che un grafico che ordina immagini fotografiche secondo un “senso” ben può svolgere attività di narrazione “giornalistica” riportabile all’omonimo contratto collettivo, senza peraltro aver potuto accedere alla documentazione perduta nel viaggio del fascicolo di parte fra Milano e Roma. Il quadro che stiamo descrivendo si complica ulteriormente se consideriamo che coloro i quali intervengono nel corso della comunicazione giuridica operano spesso non da soli, ma nel quadro di strutture complesse. Un giudice, anche se monocratico, opera quale membro di un’organizzazione formale nel cui ambito le azioni sociali e le aspettative d’azione sono preordinate nel contenuto e nel metodo. Ora, per definizione, una organizzazione persegue degli obiettivi e su questi impegna chi ne fa parte. Obiettivi e procedure possono bensì essere indicati da normative esterne come sono, nel caso della magistratura, la legge e la Costituzione. Tuttavia, anche in presenza di un tale disegno normativo esistono ampi spazi entro cui l’organizzazione agisce in libertà, dandosi obiettivi ulteriori rispetto a quelli ufficiali, secondo indicazioni più o meno esplicite dei suoi vertici formali o informali27. Fra questi obiettivi spicca anzitutto quello della difesa e, se possibile, dell’estensione delle prerogative dell’organizzazione medesima. L’osservazione del sistema giudiziario è rivelatrice. Basta ripercorrere le fasi del conflitto che da quasi trent’anni oppone in Italia la magistratura alla classe politica. In questo lungo periodo abbiamo assistito a una 27 La cosiddetta “coalizione dominante”, come la chiama uno dei massimi teorici dell’organizzazione (Thompson 1988).

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tenace lotta dei magistrati e della loro organizzazione, volta a mantenere quanto meno intatto l’ambito di potere che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio seguente la stessa classe politica aveva ampliato, concedendo alla magistratura strumenti eccezionali di contrasto alla criminalità. Si pensi all’estensione allora quasi illimitata della carcerazione preventiva (oggi ‘custodia cautelare’) e soprattutto alla legislazione sul cosiddetto pentitismo che permetteva di attingere con grande discrezionalità alle dichiarazioni dei cd. collaboratori di giustizia. Di fronte all’evidenza che questi strumenti, certamente utili alle indagini benché spesso viziati, potevano essere rivolti contro esponenti di spicco della vita politica, la classe politica ha reagito duramente nel tentativo di riportare l’attività giurisdizionale nell’alveo della pura e meccanica applicazione delle leggi “sovranamente” emanate dal Parlamento. In tutta questa fase storica la lotta fra magistratura e sistema politico per il controllo della giurisdizione ha potentemente influito anche sulla comunicazione giuridica sia all’interno del mondo giuridico-giudiziario, sia nei suoi rapporti col mondo esterno. Si pensi che l’utilizzo dei collaboratori di giustizia fu ammesso e regolato da leggi che quando furono emanate riguardavano esclusivamente i reati connessi con la lotta armata di gruppi politici organizzati. In realtà, diffusasi in pochi mesi attraverso i media la “cultura del pentitismo”, dilagò l’utilizzo dei “pentiti” anche fuori dall’area per cui la legge lo ammetteva. In un processo per gravi reati comuni, svoltosi negli anni Ottanta con una preponderante presenza di “pentiti”, cui era stato riservato durante l’istruttoria un trattamento di straordinario favore malgrado le contraddizioni in cui incorrevano, i difensori degli imputati dovettero spendere

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parole, paradossalmente, per dire alla Corte d’assise che non esisteva nessuna legge speciale che legittimasse quel trattamento. Ma di questa legge inesistente i protagonisti del processo, oltre alla stampa, avevano parlato per molti mesi. E per anni ancora la stampa ha continuato a parlarne. Che l’organizzazione giudiziaria possa influire sulla qualità della comunicazione giuridica, modificandone il corso, può apparire perfino ovvio. Ma esistono anche altri sistemi d’azione, il cui ruolo merita osservazioni similari. Pensiamo al mondo degli studi giuridici, il quale opera secondo il meccanismo di input-output sopra ricordato, ma secondo regole proprie, ispirate non solo a finalità di conoscenza scientifica, ma anche alle esigenze strategiche dei suoi protagonisti. Raramente si riflette su un sottile paradosso, specialmente visibile nelle raffinate scuole di diritto italiane. Al giovane studioso di diritto che inizia la carriera accademica si chiede istituzionalmente di fornire contributi originali alla conoscenza – si perdoni il bisticcio – di istituti giuridici. Ora, un contributo è originale solo se presenta novità nell’interpretazione, sistematizzazione o comparazione di uno o più enunciati normativi, cioè norme di legge, precedenti giurisprudenziali o opinioni dottrinali già diffuse. Spesso quest’opera prende avvio da fatti sociali imprevisti, ma altrettanto spesso scaturisce dalla libera scelta dello studioso (o dai suggerimenti del suo maestro) di indagare su aspetti del diritto non ancora abbastanza approfonditi. In tal modo si immetteranno nella comunicazione giuridica nuovi messaggi normativi che, aggiungendosi ai precedenti, ancora una volta contribuiranno a renderlo più complesso, il che significa, in termini semiotici, più disordinato o, con altra parola, più

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entropico, paradossalmente come effetto di un’attività concepita come semplificatrice e ordinatrice in quanto volta a conferire agli enunciati normativi il significato “più corretto”. Altrettanto può dirsi del sistema del professionismo giuridico privato. Interfacciandosi con la società esterna e interpretandone le esigenze, questi attori sociali contribuiscono spesso ad arricchire il sistema delle comunicazioni giuridiche con innovazioni significative che possono renderlo più complesso almeno al primo impatto. Questo ruolo è oggi soprattutto visibile su una scala transnazionale, caratterizzata da una circolazione sempre più frequente, da un sistema normativo all’altro, di modelli giuridici capaci di produrre effetti di grande rilievo anche fuori dalla cerchia delle relazioni giuridiche (Ferrarese 2006). Un esempio assai calzante è quello già ricordato del franchising che, scindendo il rapporto formale tra detentore del marchio di produzione e produttore materiale, ha modificato l’organizzazione multinazionale delle grandi aziende, con profonde conseguenze economiche e sociali: per esempio, i dipendenti del franchisee che produce in un paese in via di sviluppo hanno perso ogni possibilità, anche politica, di rivolgere delle istanze al franchisor operante in un paese sviluppato, il quale pur gode indirettamente dei frutti del loro lavoro. A tutto ciò aggiungiamo che il confine fra il mondo esterno e il mondo del diritto – nelle parole di Friedman, fra cultura giuridica esterna e interna – non è rigido, ma mutevole, giacché nella comunicazione giuridica non intervengono solo intermediari specializzati come gli operatori giuridici istituzionali, ma anche numerosi altri soggetti. Si pensi alla socializzazione primaria fornita dalle famiglie, dalle scuole, dalle chiese: tutti

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ambienti che trasmettono notizie sul diritto, sulla giustizia, su singole regole e, cosa ancor più rilevante, sul concetto stesso di regola nonché sugli spazi aperti alla discrezionalità e alla devianza. E si pensi soprattutto all’azione dei mass media, che svolgono un’attività di ricezione-trasmissione di messaggi fortemente influenzata dalla loro specifica cultura e dalle regole di quel tipo di comunicazione, incidendo in modo spesso peculiare sulla qualità degli scambi fra quei mondi. Si pensi a una parola come mobbing, che appartiene al lessico inglese comune, eppure è diventata moneta corrente nel dibattito giuridico in tutta Europa. Il termine mobbing, participio presente del verbo to mobb, che indica l’azione di una folla che ti spinge o ti circonda, anche per acclamarti28 (e quindi non è un modello di chiarezza e univocità), è stato adottato dalla psicologia del lavoro per indicare il comportamento persecutorio operato sistematicamente da una o più persone nei confronti di uno o più lavoratori di un’impresa, di lì è passato nel mondo dei media per approdare infine come tale, senza essere stato tradotto, nel linguaggio giuridico italiano (Greco 2009). Il risultato è che nel breve volgere di un decennio si è diffusa una giurisprudenza sul mobbing, di mobbing parlano i contratti collettivi di lavoro, sono sorti “centri antimobbing” e si sono moltiplicati i casi di coloro che lamentano di essere “mobbizzati” e reclamano una tutela per mobbing anche quando potrebbero fondare le loro pretese su norme speci28 Il Pocket Oxford Dictionary del 1942 dà i seguenti significati di to mobb: «Crowd upon & hustle or ill-treat». Lievemente diversi i significati dell’Oxford Handy Dictionary del 1989 che, rinviando al sostantivo mob (che significa ‘folla’, ‘calca’, ma anche, in slang, ‘associazione di persone’) dice: «(Of mob) attack; crowd round and molest or acclaim» (corsivo mio).

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fiche e concetti giuridici più consolidati29. Dunque una parola altamente connotativa ha espresso sentimenti già diffusi a livello inconscio e, per il suo forte potenziale evocativo e retorico, li ha tradotti in cultura giuridica, non solo “esterna”, ma anche “interna”. Fenomeni come questi dunque contribuiscono a rendere il sistema comunicativo più complesso e le sue “risposte” meno prevedibili, anche per il moltiplicarsi di equivoci lessicali non sempre facili da dissipare. Due esempi fra tutti. I mass media parlano spesso di ‘rescissione’ in luogo di ‘risoluzione’: due concetti la cui radicale diversità è ben nota sin dal primo anno di giurisprudenza. Ebbene vi è in Italia, ormai, una moltitudine di contratti, per esempio di lavoro autonomo, redatti dalle parti senza l’intervento di un legale, in cui si parla di ‘rescissione’ come rimedio all’inadempimento contrattuale. Così pure, i mass media usano sempre più insistentemente l’orribile espressione ‘reato penale’, la quale implica assurdamente l’esistenza di reati che non sono, appunto, materia di legge penale. Eppure questa espressione si sta infiltrando pian piano anche nella cultura giuridica “interna” e potrebbe alla fine aver ragione delle resistenze culturali, magari come conseguenza indiretta del processo di depenalizzazione di molte fattispecie di reato. Fino a quel momento essa rimane in circolo come un elemento di incertezza e di confusione, che accresce il disordine sistemico. Il quadro che stiamo tracciando è destinato a divenire ancor più complesso se assumiamo che i nostri soggetti, A, B e C, non concordino sul sistema d’azione cui 29 Come per esempio il cd. demansionamento, vietato dall’art. 2103 del codice civile. Per un caso significativo vedi Di Donato (2008, pp. 169 sgg.).

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affidare la decisione sulla loro interazione o addirittura sul sistema normativo di riferimento. Possiamo rappresentare graficamente quest’ultima eventualità. A-B Società esterna

A

D1

SA1

B

D2

SA2

C

D3

SA3

A-C B-C A-B-C

Figura 4

Poniamo che A e B, rispettivamente islamico e cattolico-romana, siano due coniugi in crisi e che C sia la loro figlia, che non pratica nessuna religione. Qui è possibile che ognuna delle parti solleciti presso un’autorità diversa una decisione differentemente ispirata sulla base di diversi regimi giuridici. A può pretendere presso il giudice islamico di ripudiare la moglie, B chiedere l’annullamento del matrimonio davanti a un tribunale ecclesiastico e C sciogliersi dall’autorità parentale, magari vivere non sposata col proprio partner e peraltro chiedere a un tribunale civile l’assistenza economica di uno o di entrambi i genitori. Così può capitare che in questo microsistema di rapporti si assommino ben tre diverse decisioni mutuamente repulsive e che, ancora una volta, non solo un microsistema di relazioni familiari, ma anche più vasti sistemi di comunicazione giuridica ne siano influenzati e divengano più complessi. E naturalmente basta che anche una sola delle parti sia persona nota – un “vip” – perché i media facciano da cassa di risonanza e il puzzle comunicativo si diffonda, indirizzando la cultura giuridica generale in senso pluralistico.

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Prima di parlare di pluralismo giuridico dobbiamo però dire che abbiamo raggiunto un punto di cruciale importanza per la sociologia del diritto. Un sistema, e in particolare un sistema di comunicazione, è tanto più disordinato – non sembri una contraddizione – quanto maggiore è il numero di informazioni che fornisce (Eco 1994, p. 25). Più sono le informazioni, infatti, più si rende necessaria l’opera selezionatrice e ordinatrice di chi le riceve: basti pensare al sovraccarico di messaggi che circolano in internet per rendersene conto. In particolare, un alto grado di disordine si manifesta quando il sistema, avendo recepito più input, fornisce più “risposte” diverse o addirittura incompatibili allo stesso quesito. Se applichiamo questo ragionamento al sistema della comunicazione giuridica, osserviamo che esso subisce in effetti un continuo bombardamento di input. Non solo i giudici con i precedenti, i giuristi con le innovazioni teoriche, le parti private con le invenzioni pratiche, ma anche, naturalmente, i parlamenti nazionali e locali che emanano leggi a getto continuo, spesso oscure, incomprensibili o perfino vuote di contenuto, perché varate sull’onda emotiva di qualche avvenimento o di qualche emergenza vera o supposta e miranti solo a procurare immediato consenso ai governanti per via mediatica: tutti questi soggetti concorrono a rendere quel sistema più complesso e, appunto, disordinato. Quando la comunicazione giuridica, a cominciare dai significati delle norme e delle parole stesse, raggiunge il massimo della complessità interna, ovvero del disordine sistemico, è chiaro che il diritto stesso fallisce nella sua funzione di orientamento delle azioni e delle aspettative sociali. “Orientando” in modo equivoco in realtà disorienta, incentivando la devianza sociale: se

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non è chiaro ciò che lecito o illecito, ogni azione può pretendere di autogiustificarsi. Si sottolinea che questa tendenza del diritto al disordine è incontrastabile perché naturale. Gli attori giuridici istituzionali operano perché sollecitati da ciò che accade nella società estesa. Le innovazioni tecnologiche, la crescita o la crisi delle economie, le mode culturali, i conflitti sociali, tutto ciò si riflette sul diritto, modificandolo e rendendolo più complesso e meno affidabile, perché meno certo. Tuttavia, proprio per questo accade spesso nella storia del diritto che nel momento del massimo disordine si dia luogo a operazioni di semplificazione e riordino. Giustiniano chiede ai suoi giuristi di fare ordine nella moltitudine della fonti classiche romane e di aggiornarle30. I glossatori bolognesi inventano anch’essi un metodo per selezionare tra le fonti giustinianee, adattandole alle esigenze di una rinascente economia di scambi. L’Illuminismo sei-settecentesco reclama una semplificazione totale del diritto, quasi un azzeramento, promovendo l’idea di codici che includano un intero universo normativo per permettere soprattutto agli attori economici di calcolare razionalmente i rischi del loro agire. Il modello del codice francese del 1804, esportato dalle armate napoleoniche, verrà adottato nell’Europa continentale e in molti altri luoghi. Anche in Inghilterra, patria della common law basata sui precedenti, Jeremy Bentham conduce una battaglia dello stesso tipo, influenzando autorevolmente la legislazione britannica oltre che la cultura giuridica di altri paesi europei. La formazione in tempi recen30 Come dice Dante: «Cesare fui, e son Iustinïano / che, per voler del primo amor ch’i’ sento / d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano» (Paradiso, VI, 10-12).

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ti della cd. lex mercatoria, di cui parleremo in seguito, sembra andare nella stessa direzione (Gessner 2009). Nel diritto, dunque, a fasi di grande disordine succedono spesso fasi di riordino, che però non fermano la tendenza continua al cambiamento, quindi nuovamente al disordine. Fra le varie chiavi di interpretazione storica del diritto, questo continuo succedersi di cicli fra ordine e disordine è probabilmente una delle più significative. 2.4. Ordine e disordine nel diritto attuale Quale fase sta attraversando il mondo del diritto nelle società contemporanee? Il tema è amplissimo e meriterebbe una trattazione a sé, ma possiamo cercare di sintetizzarlo prendendo come punto di riferimento iniziale l’Europa e distinguendo almeno due grandi fasi a partire dall’inizio dell’Ottocento, con cui si fa comunemente coincidere la cosidetta contemporaneità. Nell’Ottocento, come già ricordato, l’ideologia giuridica dominante individuava nello Stato l’inizio e la fine del diritto. Il diritto era visto e studiato essenzialmente come un ordine normativo nazionale, dipendente dalla sovranità statale e unitario in quanto coincidente con le sole norme ufficialmente riconosciute come vigenti in ciascuno Stato. Di questo corpo di leggi, che nei paesi dell’Europa continentale si faceva coincidere pressoché interamente con la legge formale, possibilmente raccolta in codici, si pretendeva che fosse “completo”, cioè esaurisse l’intero ambito della regolamentazione giuridica, offrendo per tutti i casi pensabili una soluzione almeno implicita e “certa”, cioè scientificamente corretta dal punto di vista della logica interna dell’ordinamento. Questa era naturalmente l’ideologia ufficiale, solo in parte collimante con la realtà delle cose.

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Che lo Stato sovrano, impostosi come entità politica dominante dopo la crisi delle due grandi entità sopranazionali del Medioevo – Impero e Chiesa – svolgesse allora un ruolo cruciale, non è dubbio. Anche se le sue leggi si diffondevano in altre aree della Terra, ciò avveniva attraverso la colonizzazione oppure la ricezione spontanea dei modelli giuridici europei da parte di altri stati, dalla Turchia all’Etiopia, dall’America Latina al Giappone, sempre facendo salvo il principio primo della sovranità statale. E tuttavia già allora erano visibili fenomeni di diverso segno. In primo luogo, l’idea che il diritto positivo fosse semplice, completo e certo appariva già utopica a metà dell’Ottocento. Quel secolo, come sappiamo, portò grandi innovazioni tecnologiche ed economiche, accompagnate da altrettanto grandi rivolgimenti sociali e politici. Masse sempre più ampie di persone pretesero e gradualmente ottennero diritti sempre più articolati nella sfera politica come in quella economica. Prese allora avvio quella stagione che avrebbe raggiunto l’apogeo poco dopo la metà del secolo XX dando vita alla produzione massiccia di leggi speciali che pian piano hanno affiancato i codici fino a soffocarli e a produrre nei sistemi un alto livello di ipertrofia normativa, quasi un caos nei paesi, come l’Italia, più esposti alle pressioni settoriali e corporative, e meno capaci di razionalizzare l’uso delle risorse. Non è un caso che sia stato un giurista italiano a parlare, trent’anni fa, di “decodificazione” (Irti 1979). Ma le radici storiche del fenomeno erano molto profonde. In secondo luogo, già al tempo dello statalismo dominante erano ben vivi fenomeni sociali che trascendevano i confini degli Stati. Questi interagivano fra loro secondo i principi di sovranità e reciprocità tipici del di-

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ritto internazionale classico, ma quei confini, chiaramente delimitati nelle cartine della geografia politica, non lo erano altrettanto soprattutto dal punto di vista economico. Che merci e capitali avessero una proiezione internazionale non è una scoperta di Marx ed Engels, i quali proprio per questo reclamano nel Manifesto del 1848 l’unione universale dei lavoratori, ma era insito nei geni dell’economia industriale, per non dire di ogni economia sviluppata. La ricerca di mercati da conquistare e di manodopera a basso costo era già allora ben avviata e, se pareva rispettare i confini politici, ciò dipendeva essenzialmente dal fatto che nell’Ottocento e fino a metà del Novecento il mondo era suddiviso in grandi imperi entro i quali la circolazione era relativamente libera e garantita da strumenti concepiti precisamente per superare le frontiere. Le Compagnie delle Indie, di cui si dotarono le grandi potenze, contarono più degli eserciti e delle guardie confinarie, tanto che gli inglesi si permisero di non spodestare i monarchi dei tanti staterelli in cui era suddiviso il subcontinente indiano, purché riconoscessero l’Impero britannico e la sua mitica regina Vittoria. In terzo luogo, anche all’interno degli Stati europei, il principio del monopolio statale del diritto non era tanto solido da non suscitare dubbi, soprattutto negli Stati multietnici come l’Impero austro-ungarico. Non è un caso che la prima opera che propone apertamente, o meglio ripropone, l’idea del pluralismo giuridico, appaia nel 1913 a Czernowitz nella Bucovina, una regione di quell’impero. E non è un caso neppure che il suo autore, Eugen Ehrlich, fosse originariamente di religione israelita, cioè membro di una comunità dai tratti di autonomia culturale ben marcati. Il suo I fondamenti della sociologia del diritto (Ehrlich 1976) è un classico del-

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la nostra disciplina non solo perché sostiene che il diritto è un fenomeno sociale da studiare con metodo sociologico, osservandolo come un fatto sociale, e dunque risolve la scienza giuridica stessa nella sociologia del diritto, ma anche perché confuta l’idea che il diritto promani esclusivamente dallo Stato. Il diritto per Ehrlich nasce e vive anzitutto nei gruppi sociali, ognuno dei quali, come egli dice con riferimento alla sua Bucovina, «osserva regole completamente diverse nei rapporti giuridici della vita di tutti i giorni» (Ehrlich 1967, cit. in Febbrajo 1976, p. XVIII). È dunque anzitutto «diritto vivente», prima che lo Stato intervenga (eventualmente) a riconoscerlo e a farlo proprio. Negli stessi anni Santi Romano, costituzionalista siciliano di alto prestigio che, per una sottile ma frequente ironia della storia, diverrà presidente del Consiglio di Stato nell’Italia fascista, dedica la seconda parte del suo notissimo L’ordinamento giuridico alla «pluralità degli ordinamenti giuridici», confutando la dottrina statalista e sostenendo che ogni istituzione sociale, superiore o inferiore allo Stato per dimensione, anche se «ignorata» o «illecita» secondo le leggi statali, è un ordinamento giuridico (Romano 1977, spec. pp. 122-25). Si può dire che la seconda fase della contemporaneità inizi proprio con l’aperto riconoscimento teorico di questi limiti della dottrina giuridica ottocentesca. È un riconoscimento graduale, imposto dalla cogenza dei grandi eventi storici del Novecento, in parte terribili e spesso contraddittori. La Prima guerra mondiale sembra infatti consacrare, con la crisi degli imperi multietnici (austro-ungarico, ottomano, russo), il trionfo della sovranità statale e dello Stato-nazione: questa è la filosofia che guida la mano delle potenze vincitrici riunite a Versailles fra gennaio e giugno 1919. Ma proprio que-

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sta filosofia nazionalista, portata all’estremo, può ben annoverarsi fra le cause della Seconda guerra mondiale (Hobsbawm 1991, p. 158), da cui il mondo esce profondamente cambiato, nell’economia e nella cultura ancor più che nella geografia politica. Nel secondo dopoguerra si diffonde una visione internazionalista, condivisa inizialmente da tutte le potenze vincitrici che danno vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite e successivamente adottata, durante la guerra fredda, da entrambi i blocchi contrapposti, il Patto Atlantico e il Patto di Varsavia, ognuno impegnato a estendere il suo raggio d’azione e ispirato, di fatto se non ufficialmente, al principio che la sovranità statale non è assoluta, ma “limitata”, come disse esplicitamente Leonid Brežnev, leader dell’Unione Sovietica, per giustificare nel 1968 l’invasione della Cecoslovacchia. Nel frattempo le economie si integrano dando vita a forme istituzionali di cooperazione come le Comunità europee, il cui modello sarebbe stato riprodotto in altre aree del pianeta. Con la crisi dei regimi comunisti nell’Europa orientale, la trasformazione della Cina in una economia capitalista e l’irruzione nei mercati di altri paesi emergenti, come il Brasile e l’India, si afferma alla fine del secolo XIX quell’economia cosiddetta globalizzata che tuttora sembra dominare la scena malgrado le crescenti critiche non solo politiche, ma anche teorico-analitiche, vertenti sulla potenzialità esplicativa del concetto stesso di ‘globalizzazione’ (Twining 2009)31. A questi rivolgimenti si associano cambiamenti di rilievo nel campo giuridico. Il più vistoso di questi è l’in31 Il noto giurista inglese suggerire ai suoi studenti di avere bensì una visione globale, ma vieta loro di usare i g-words, cioè le parole che contengono riferimenti alla globalizzazione.

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treccio sempre più complesso tra le fonti del diritto. Con la crisi graduale della sovranità statale, anche i confini vengono sempre più attraversati da modelli giuridici di diversa provenienza. In primo luogo si sono moltiplicati gli enti politici o para-politici di livello sovranazionale dotati di potere normativo: l’ONU, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione degli Stati americani, la Lega Araba, l’Unione Europea e le altre organizzazioni cosiddette regionali (NAFTA – North American Free Trade Agreement –, ASEAN – Association of Southeast Asian Nations –, Mercosur, Comunità Andina), il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), la Banca Mondiale. La normativa che proviene da queste fonti penetra ufficialmente, di solito tramite ricezione, nella legislazione dei singoli Stati. In particolare la legislazione dei paesi dell’Unione Europea ha subito profondi cambiamenti attraverso l’emanazione, anno per anno, delle cosiddette leggi comunitarie con cui vengono trasfuse nei singoli ordinamenti le disposizioni concordate a Bruxelles. In secondo luogo penetra nel diritto statale una moltitudine di modelli giuridici di formazione privata e di dimensione transnazionale. La cd. lex mercatoria, complesso di norme che disciplina il commercio internazionale, viene considerata ormai come un ordinamento normativo a sé stante (Boschiero 2005) e «originario» (Pannarale 2005), anche se non universalistico, perché limitato al sistema dei rapporti economici e collegato inoltre ad altre fonti normative nazionali, internazionali e locali. Sull’origine di questi modelli è aperta la discussione. È certo che su di essi influiscono organismi istituzionali stabili come le Camere arbitrali internazionali, le cui decisioni forniscono la maggiore fonte di co-

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gnizione di questo sistema normativo (Marrella 2003). Così pure si ritiene che influisca l’attività spontanea di operatori economici internazionali assistiti da potenti uffici legali interni ed esterni. E influisce pure l’opera di giuristi che si raccolgono spontaneamente attorno a progetti di riordino e sistematizzazione dei concetti e delle norme, come nel caso dei cd. Principi Unidroit. Anche questa normativa finisce per essere recepita nei sistemi giuridici statali, spesso sotto forma di contratti atipici teorizzati dalla dottrina, disciplinati dalla giurisprudenza e successivamente tipizzati dalla legislazione. Così è avvenuto con modelli contrattuali che hanno avuto un grande impatto sulla vita economica, come il factoring o il franchising; e gli esempi, soprattutto nel campo societario, bancario e borsistico, potrebbero moltiplicarsi. A queste fonti possiamo infine aggiungere quella, di crescente importanza, delle organizzazioni non governative (NGO). Se si considera che, oltre a questa normativa che piove sugli Stati dall’alto, la legislazione statale è continuamente integrata anche dalle fonti secondarie di ogni paese – Regioni, Province, Comuni, associazioni private – e soprattutto che gli Stati continuano a legiferare senza posa, rispondendo alle più varie sollecitazioni sociali e politiche, è facile intendere che il mondo del diritto è oggi estremamente complesso e arduo anche solo da conoscere. E infatti la figura del giurista a tutto tondo, esperto di ogni branca del diritto, ha lasciato il campo a figure di specialisti esperti in settori sempre più minuscoli della giurisprudenza. Questo complesso panorama normativo rilancia la teoria del pluralismo giuridico che, a partire dagli anni Ottanta, si rafforza ulteriormente – per paradosso – anche a causa di un fenomeno di grande ampiezza e di

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opposto segno rispetto all’internazionalismo postbellico: l’esplosione del problema etnico, la moltiplicazione delle istanze cosiddette identitarie e, a fine secolo, la rinascita di scontri religiosi che, a seguito delle migrazioni di massa, insinuano forti elementi di divisione anche nei paesi più sviluppati, in particolare occidentali. In questo clima culturale, per certi aspetti paragonabile al Medioevo europeo, l’idea pluralista subisce un cambiamento profondo rispetto alle opere di Ehrlich e di Romano. Si afferma infatti una concezione, in parte influenzata da studi antropologici, che vede non solo dei gruppi sociali ben definiti, ma anche i singoli individui, immersi in una sorta di foresta normativa ove operano simultaneamente molte fonti ora integrabili, ora in conflitto (Merry 1988). Il diritto diviene così un fatto di scelta à la carte. Può capitare che lo stesso soggetto che applica pacificamente il diritto italiano nei suoi acquisti quotidiani, si rivolga all’ordinamento lussemburghese per gli investimenti bancari, stipuli con un partner estero un contratto di “stabilimento chiavi in mano” (turn-key), tipico esempio di lex mercatoria, con clausole tratte da diversi sistemi normativi, lo porti davanti al Collegio arbitrale di Ginevra, e infine, come già detto, si ispiri nei suoi rapporti familiari alla Shar∞-a, entrando in conflitto con la moglie cristiana fedele alla Chiesa di Roma e con la figlia laica che, in nome del diritto fondamentale alla libertà di pensiero e di religione, riconosciuto dai trattati internazionali, pretende di convivere col suo compagno senza contrarre matrimonio. Dunque il mondo, non più diviso in una moltitudine di Stati ben delimitati e sovrani usque ad sidera et usque ad infera, come i Romani dicevano del loro modello di proprietà perfetta, sembra piuttosto solcato da

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“reti di interlegalità” (Santos 1995) in cui ogni soggetto si trova immerso. O se si preferisce, con altre parole e altra ispirazione teorica, il mondo sembra una “Bucovina globale” (Teubner 1997). Così accade che la dimensione globale e la dimensione locale, nel senso fisico e culturale delle espressioni, convergano nel definire il panorama normativo dell’inizio del XXI secolo: e infatti già da due decenni, con parola inelegante ma efficace, si parla apertamente di “glocalismo”. Naturalmente questa visione è un po’ eccessiva, benché da molti condivisa. Infatti uno dei suoi cardini, la crisi della sovranità statale, è molto meno sicuro di quanto comunemente si pensi e si dica. Lo Stato rimane sempre un protagonista essenziale sulla scena politica. Esso legifera a getto continuo e, più o meno efficacemente, applica le leggi attingendo a una forza materiale “legittima” di cui non dispongono i privati e nemmeno le organizzazioni internazionali. Queste poi sono “stataliste” per definizione, in quanto composte da Stati, e giustamente è stato osservato che anche le grandi decisioni economiche che ne promanano passano attraverso le decisioni statali, come rilevabile anche da dati empirici (Santa Maria 2008). Ogni buon giurista tradizionale, inoltre, sarebbe in grado di riportare a una spiegazione statalistica l’esempio fatto poco sopra. La stessa lex mercatoria, che nelle descrizioni di alcuni studiosi sembra aleggiare in una stratosfera lontana e irridere ai confini degli Stati, a un certo punto deve fare i conti con queste entità terrestri: quello “stabilimento chiavi in mano”, per la cui disciplina le parti hanno applicato numerose e diverse leggi, fisicamente esisterà in un luogo preciso e lì cadrà sotto il dominio materiale di un ordinamento, con i suoi giudici che, per esempio, renderanno esecutivo il lodo arbitrale ginevrino e sor-

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veglieranno in loco l’esecuzione forzata a istanza del vincitore. Non vi è però dubbio che il quadro che abbiamo descritto si riverberi decisivamente sulla comunicazione giuridica, aumentando il tasso di complessità e di contingenza dei sistemi giuridici, fra loro interconnessi ma non necessariamente integrati, anzi coinvolti in continui conflitti aperti o latenti. L’eccesso di riferimenti normativi, unito alla loro frequente inaffidabilità, produce un certo grado di incomunicabilità e di smarrimento, cioè di anomia: troppe norme finiscono per equivalere a nessuna norma. I confini fra lecito e illecito si confondono sino a divenire impalpabili e la distanza fra norme e prassi non solo e non tanto aumenta, quanto rischia perfino di perdere di significato, rivelando impietosamente la relatività del concetto di efficacia del diritto, con cui si designa comunemente la corrispondenza fra gli effetti prodotti da un atto normativo e le intenzioni di chi l’ha emanato (Friedman 1978, p. 101). Se non è chiaro quale sia la norma o vi sono dubbi insolubili sulla sua interpretazione, l’efficacia diventa una questione di punti di vista (Ferrari 1992, pp. 145 sgg.). Il quesito finale che ci si pone è dunque se siano all’opera anche oggi, o almeno visibili, meccanismi volti a rimettere ordine in un sistema giuridico mondiale apparentemente tanto disordinato. Si tratta del resto di una necessità diffusamente avvertita di fronte ad alcuni squilibri che aumentano insopportabilmente il carico di rischi gravanti sulla società umana. Si pensi all’incapacità strutturale dei sistemi di repressione penale, in cui la cooperazione internazionale è ancora embrionale, di opporsi alla criminalità organizzata che opera indisturbata su scala transnazionale in campi delicatissimi come la pedofilia, il commercio di organi umani o il contrab-

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bando di armi. Oppure si pensi alla crisi ecologica, contro la quale non è stato finora possibile adottare una qualunque normativa ufficiale, internazionale o locale, capace di arginarla. Per rispondere al nostro quesito occorre indagare su alcune apparenti contraddizioni del diritto contemporaneo. Si può notare per esempio una differenza fra la normativa statale, che risponde alle esigenze più contingenti della lotta politica ed è quindi più orientata a convogliare consenso mediatico sui governi che a regolamentare i comportamenti, e la normativa internazionale, di formazione pubblica o privata, che nascendo in sedi meno esposte alle emozioni e alle rivendicazioni quotidiane, sembra invece tendere alla chiarezza e alla semplificazione (Ferrari 1993). E si nota anche, con insistenza, che in alcuni settori fondamentali, come quello del commercio e dell’economia, i sistemi giuridici tendono a convergere verso un modello unitario (Friedman 2001). I modelli contrattuali nati prevalentemente nei sistemi di common law (leasing, leaseback, factoring, franchising, performance bonds), gli istituti del diritto industriale e della proprietà intellettuale (marchi, brevetti, copyright), gli strumenti di garanzia nel diritto societario (due diligence), le clausole dei trasporti internazionali, le polizze assicurative, tutto ciò pare sempre più simile in ogni parte del mondo, anche se diversi sono gli stili di contrattazione nei diversi paesi. E questa somiglianza viene esaltata dalla diffusione dei modelli giuridici di common law (Ferrarese 2002, 2006) e dall’uso praticamente universale della lingua inglese, dominante non solo per ragioni politiche, ma anche per la sua plasticità. Che siano all’opera esperimenti di riordino nel diritto contemporaneo è dunque almeno una ipotesi. Se poi

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il riordino sia opera di attori sociali più influenti di altri e torni a vantaggio di alcuni e non di tutti, se cioè la convergenza dei sistemi giuridici sia il segno di un nuovo imperialismo, come suggerisce un noto libro (Hardt, Negri 2002) e come afferma con forza il movimento noglobal, è ovviamente un altro problema, che coinvolge non solo la teoria, ma anche le ideologie e le preferenze di ognuno.

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1. PREMESSE Introducendo questo volumetto, ho ricordato il clima di «scoperta illuminata dal dubbio» che in anni lontani sollecitò nei giovani studiosi di allora l’interesse per la sociologia del diritto. Per parlare ora di metodo, non posso che ricominciare appunto dal dubbio, che è il motore della ricerca, della scienza e della conoscenza umana. Il dubbio accomuna epistemologie diverse, che la tradizione filosofica usa opporre, come il razionalismo e l’empirismo. Cartesio ha incentrato sul dubbio assoluto – salvo che sul pensiero autocosciente, il cogito ergo sum – la ricerca della verità. Bacone, e poi Locke, Berkeley e Hume hanno puntato sul dubbio congetturale, da rimuovere attraverso l’osservazione. È sorprendente e perfino doloroso, in questi tempi, ascoltare voci che suggeriscono anche allo studioso di abbandonare il dubbio, abbracciare una verità definita una volta per tutte d’autorità e limitare la ricerca all’interno di questo quadro precostituito. Non voglio qui discutere se questo richiamo alla verità assoluta abbia un fondamento per quanto attiene alla dimensione ultra-

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terrena, anche se la storia rivela chiaramente che non solo fra l’una e l’altra delle dottrine religiose presentate come assolutamente vere, ma anche all’interno di ognuna di esse, la libera ricerca ha prodotto una gran diversità di opinioni fra loro incompatibili, tanto da far concludere che ognuna di queste concorrenti verità di fede sia non assoluta, ma relativa all’autorità che l’ha proclamata, al suo tempo, al suo retroterra culturale, per non dire ai suoi concreti disegni d’azione umana. Una constatazione, questa, che segnala come esistano molti assolutismi, l’un contro l’altro armati, e per converso un solo relativismo, disarmato per definizione. Qui però non parliamo della dimensione ultraterrena, né di fede, ma di ricerca sulle cose visibili ed esperibili. Cose umane, nel caso delle scienze sociali. In questo campo, che si possa respingere il dubbio come principio gnoseologico primario è ancora più sorprendente. Eppure accade. Un modo per fare della scienza dogmatica, molto diffuso nella seconda metà del secolo XX, è stato l’uso improprio del concetto di paradigma, che Thomas S. Kuhn elabora nel suo notissimo La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1999) Per ‘paradigma’, l’autore intende un sistema di asserzioni teoriche riconosciute valide da una comunità scientifica. La storia delle scienze, secondo lui, procede per fasi, nel cui corso un paradigma si forma, si confronta con i problemi e con i fatti, si consolida, entra in crisi e viene infine abbandonato con la formazione di un nuovo paradigma, di solito a opera di una più giovane comunità di scienziati. Questa concezione storico-epistemologica può prestarsi a diverse letture, anche in chiave di estremo relativismo, come se l’autore volesse intendere che la scienza non è ricerca volta alla scoperta di ciò che “esiste”, ma solo opinione

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sociale, contingente e caduca. Ma la chiave di lettura di Kuhn, che si è spesso affacciata nelle scienze sociali a fine Novecento, è stata ben diversa, associando l’elemento sociale e comunicativo della concezione “paradigmatica” con una visione fideistica della teoria scientifica di riferimento. Se questa è indiscutibilmente vera, allora si dovrà escludere dalla comunità scientifica e quasi privare del diritto di ricerca e di parola chiunque metta in discussione qualsiasi pur piccolo corollario della teoria. In questo senso si sono mossi per lungo tempo alcuni circoli marxisti, in palese contraddizione con lo spirito critico che anima le opere scientifiche di Marx, ma gli echi di una concezione dogmatica della scienza, che esilia dalla comunità scientifica le voci dissonanti, si sono udite anche fuori da quelle cerchie. Spesso ho segnalato che l’utilizzo della sociologia sistemica di Luhmann da parte di alcuni fra i suoi seguaci correva precisamente questo rischio, sempre contro lo spirito critico e ricostruttivo del sociologo tedesco, il quale ha cercato di rifondare il funzionalismo sociologico su nuove basi, sottraendolo alle critiche che ne avevano investito le voci più autorevoli, come quella di Parsons, e avendo cura di ammonire i suoi lettori a non prendere la sua teoria come un articolo di fede. Sul dubbio bisogna intendersi. Come detto all’inizio del nostro discorso, si cerca perché non si sa o, per meglio dire, si cerca qualcosa che non si sa, ma che si intuisce alla luce di conoscenze già acquisite, da altri o da noi. L’Ulisse dantesco si proietta oltre le colonne d’Ercole perché, esperto del mondo, immagina che anche là vi sia appunto un mondo, sebbene «senza gente», e, forte di questo, sfida il divieto. Cristoforo Colombo viaggia verso ovest – si dice – per andare nelle Indie, in

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quanto sa che la terra è sferica e che pertanto, qualunque direzione si prenda, là si dovrà pur approdare. Che sul suo cammino trovi un altro continente, non è frutto di errore, ma semplicemente quell’evento inatteso, non raro nella scienza, che si usa chiamare serendipity. Si cerca qualcosa e si trova qualcos’altro, che può smentire le conoscenze acquisite, o accrescerle, come nel caso di Colombo, la cui intuizione primaria era corretta: dall’Europa si può andare nelle Indie orientali anche viaggiando verso ovest. Dire che si cerca qualcosa che non si sa, ma si intuisce, significa dire che si pensa che quel qualcosa “esiste”. Le “Indie orientali” esistevano al tempo di Colombo, così come esistono anche oggi, sebbene vengano comunemente indicate con altri nomi (‘Cambogia’, ‘Thailandia’ e via dicendo). Che qualcosa “esista” e se ne cerchi conferma attraverso la ricerca significa ipotizzare che quella cosa è “reale” o “vera” e che la supposizione della sua esistenza – che chiamiamo ipotesi – sia, appunto, “verificabile” attraverso l’esperienza. Occorre dissipare il luogo comune per cui chi è mosso dal dubbio non cerchi la “verità”, beninteso in senso fisico e fattuale, non in senso morale che è altro problema. E occorre anche dissipare il luogo comune per cui nessuna ipotesi fisica e fattuale può essere confermata dall’esperienza. La possibilità di raggiungere quelle terre emerse, che convenzionalmente si possono chiamare ‘Indie orientali’, anche viaggiando verso ovest è un fatto certo. Così pure, che la terra ruoti attorno al sole e non viceversa, grazie ai calcoli di Niccolò Copernico e alle osservazioni di Galileo Galilei può ritenersi “vero”. Non è immaginabile tornare alla concezione geocentrica, perché significherebbe contraddire un fatto assodato e confermato.

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Lo stesso può dirsi nel campo delle scienze sociali. Che negli ultimi cent’anni il numero di esseri umani viventi sul pianeta sia aumentato esponenzialmente rispetto a tutta la storia umana precedente è un fatto certo. È anche certo che dagli anni Sessanta in poi è diminuito l’indice di fertilità della popolazione italiana. Ed è certo altresì che negli ultimi trent’anni è cresciuta in Italia la percentuale di avvocati rispetto alla popolazione residente ed è anche cresciuta la quota di matrimoni civili rispetto a quelli celebrati con rito religioso. Questi fatti sono indubbi, precisamente nel senso che allo stato delle conoscenze non sembrano investibili dal dubbio. Ciò che distingue la metodologia del dubbio dunque non è lo scetticismo estremo rispetto a quanto ci circonda, ma la rivendicazione della libertà di affermare pubblicamente – per dire – che il calcolo matematico e l’osservazione empirica rivelano che la terra ruota attorno al sole, senza incorrere in sanzioni. È rifiuto della verità imposta d’autorità, anche se in nome di un principio superiore e di una teoria assunta come inoppugnabilmente vera. Sottolineo una teoria, che è qualcosa di più complesso della singola ipotesi controllabile. Una teoria, come noto, è un insieme di asserzioni che cercano di dare ragione di una serie di fenomeni fra loro correlati. Che la terra ruoti attorno al sole è un’ipotesi confermata. Ma con questo non si è esaurito il compito dell’astrofisica. A partire da Copernico e da Galileo la teoria eliocentrica ha subito importanti variazioni al proprio interno (già Giovanni Keplero scoprì che le orbite dei pianeti sono ellittiche e non circolari) e probabilmente ne subirà ancora; e soprattutto è stata coordinata con altre teorie, da Isaac Newton a Albert Einstein sino alle ipo-

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tesi teoriche sull’universo in espansione, o in accelerazione, o in retroazione, o sull’esistenza di altri universi. Di fronte a sistemi complessi di asserzioni il dubbio, rimosso dalla verifica di uno o più fenomeni, o frammenti della teoria, risorge con tutto il suo potenziale critico. Quanto più una teoria è articolata, tanto più si presta a correzioni e smentite ovvero, nelle famose parole di Karl Popper (1972), appare congetturale e confutabile. È dunque non vera, ma verosimile. Resiste finché una prova logica, un calcolo matematico, un’osservazione non la falsifica. Se la falsificazione è parziale la teoria si autocorreggerà; se è totale, verrà abbandonata. In entrambi i casi i suoi sostenitori avranno imparato dai propri errori. Perché errare humanum est. Nessun essere umano possiede una conoscenza infinita e inconfutabile. Nella scienza dunque si procede per tentativi ed errori o, detto diversamente, si procede all’infinito di ipotesi in ipotesi, giacché anche l’ipotesi confermata non chiude il procedimento, ma apre la strada ad altre congetture, cioè restringe l’area del dubbio, ma al tempo stesso la amplia, verso l’alto e verso il basso, per parlare metaforicamente. Le scoperte in fisica hanno aperto spazi imprevedibili e insondabili tanto sull’infinitamente grande quanto sull’infinitamente piccolo, mettendo in luce che la stessa idea di grandezza e di piccolezza non è assoluta, ma relativa alla limitata percezione umana. È “relativismo”, questa concezione? Anche su questa parola, bersaglio preferito di chi predica verità assolute, è necessario intendersi. Popper, che ha fondato una epistemologia fallibilista e ha ricordato che la scienza è «ricerca senza fine» (Popper 1978), ha tuttavia criticato il relativismo se inteso come impossibilità radica-

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le di conoscere qualsiasi cosa nella sua oggettività: in effetti, se questa è la nostra sorte, se nessuna percezione è certa, quindi universalizzabile e comunicabile, perché affannarsi a cercare? Non possiamo qui addentrarci su questo terreno, affrontando le critiche mosse allo stesso Popper da chi ha portato sino alle estreme conseguenze, relativiste appunto, il suo fallibilismo. Limitiamoci a far parlare il senso comune, che suggerisce cautela nell’uso dei concetti e delle parole. Saggiamente Giovanni Fornero ha distinto fra un relativismo “forte” e un relativismo “debole”, a seconda che si neghi ogni possibilità di convenire, comunicando socialmente, sulla realtà delle cose o, semplicemente, si consideri che ognuno, guardando le cose da un punto di vista soggettivo, le descrive come le vede e le sente, eppure credendole “vere” e comunicandole come tali nell’aspettativa che su di esse il prossimo possa convenire (Fornero 1998, pp. 914-16)1. Che ognuno di noi abbia una percezione limitata delle cose è innegabile e non solo alla luce del fallibilismo popperiano. Chi ha fatto ricerca empirica sa bene che ciò che si osserva non è la realtà, ma frammenti di realtà. Guardare in una direzione significa escludere la direzione opposta; esaminare un oggetto implica trascurarne altri; trarre conclusioni dall’esame di quell’oggetto non autorizza a ritenerle estensibili ad altri simili e perfino a tutti gli oggetti della stessa classe o categoria. Le nostre ricerche sono limitate dal tempo e dalle ri1 Come disse un noto filosofo cattolico, la regola della veracità «investe la forma della comunicazione del pensiero, non il suo contenuto, imponendo a chiunque di dire non già la cosiddetta verità oggettiva e nemmeno la verità degli altri, ma sempre e solo la propria verità, quella che cioè ciascuno crede verità» (Cotta 1953, p. 208, corsivi nel testo).

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sorse a disposizione, ma anzitutto dall’unilateralità della nostra prospettiva e dalla nostra condizione umana, esposta al rischio dell’errore. Di ciò dobbiamo essere coscienti in ogni campo del sapere, sia quando studiamo oggetti che esistono indipendentemente dall’azione umana, sia quando studiamo l’azione umana, che crea e modifica incessantemente l’oggetto studiato. Le scienze umane posseggono caratteri specifici, che inducono a non minore cautela delle scienze naturali circa la nostra fallibilità. Sbaglieremmo se pensassimo di conoscerne l’oggetto solo perché contribuiamo a crearlo. Certo, l’esperienza vivente è fondamentale, come presto vedremo: aveva ragione Giambattista Vico a dire «verum et ipsum factum convertuntur», ovvero conosciamo ciò che facciamo. Ma il cammino della conoscenza di questo factum umano è irto di difficoltà. Anzitutto, vi sono fatti e fatti. Come dice un noto filosofo americano, per comprendere la realtà sociale occorre distinguere tra «fatti bruti» e «fatti istituzionali» (Searle 2006). I primi sono innegabili. Possono essere fatti naturali (per esempio, dice Searle, l’altezza di una montagna), come possono anche essere fatti umani – per esempio l’essere nati – che condizionano la comprensione o l’azione indipendentemente dalle intenzioni del soggetto comprendente o agente. I secondi dipendono da convenzioni sociali e specificamente da sistemi di regole con cui vengono «costruiti», cioè istituiti e disciplinati: pensiamo a un gioco (il baseball, dice Searle da buon americano) o a qualunque altra istituzione sociale, come il denaro. Questo elemento di “costruttività” artificiale non impedisce a Searle di proclamarsi realista e di affermare che la realtà sociale “esiste” di per sé, cioè non è solo un costrutto pensato e artificiale. Ma vi è chi va molto oltre questo costruzionismo “debole” di Searle.

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Abbiamo ricordato in precedenza che un conto è il fatto e un conto il suo significato. Vi è tra l’uno e l’altro un filtro che può facilitare la comunicazione intersoggettiva, oppure ostacolarla, a seconda che i parlanti condividano o meno i codici che permettono di discernere, appunto, il significato dei fatti. Seguendo questa via si può giungere a ritenere convenzionali, dunque discutibili, anche i fatti cosiddetti bruti. Anche a questi diamo convenzionalmente un nome e un significato. Certo, il ripetersi della stessa convenzione nel corso degli anni, da una generazione all’altra, contribuisce a dare oggettività alla nostra conoscenza: soprattutto per questo esistono le istituzioni (Berger, Luckmann 1997). Ma un elemento di soggettività rimane comunque sul terreno e può investire le convenzioni stesse. L’altezza di una montagna può avere diverso significato per il geografo, l’alpinista o il sacerdote di una religione naturalista. Che un individuo sia vivente può essere certo, eppure viene sempre in mente l’esempio offerto da Franco Cordero (1985, p. 245) quando osserva che una legge potrebbe benissimo equiparare la morte del corpo e la morte dell’anima e dichiarare che un individuo, in quanto peccatore inemendabile, “non è più vivente”. Per fare un altro esempio, si pensi all’identità sociale di un soggetto individuale o collettivo. Anch’essa è chiaramente oggetto di convenzione. Infatti l’autoidentificazione del soggetto può divergere dalla sua identificazione sociale. Che un certo gruppo di individui dichiari di “esistere”, nel senso di possedere una distinta identità culturale, etnica, linguistica, nazionale, non basta affinché questa identità sia socialmente riconosciuta. Per fare questo passo occorre che altri la riconoscano, attraverso una convenzione. In diritto internaziona-

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le uno Stato “esiste” se la comunità degli Stati, almeno informalmente, ammette che esista. In questa luce la sfera dei fatti istituzionali chiaramente si amplia a detrimento dei fatti bruti, fino a far ritenere che la realtà sociale sia essa stessa una costruzione artificiale, dipendente non solo da convenzioni, ma da quel che “si dice” intorno ai fatti da cui esse prendono spunto. E non solo, ma questa costruzione si fonda su fatti noti, che sono una infinitesima minoranza di quelli che accadono ma non vengono riferiti, “narrati”. Così la realtà sociale va oltre la convenzione per diventare narrazione, illusione (Bruner 2006). C’è bisogno di attingere al costruzionismo filosofico e sociologico per pensarlo, o basta scomodare l’ombra di Pirandello? Inoltre la costruzione sociale è continua, non si ferma nel momento in cui la studiamo. Nelle parole di un grande sociologo tedesco, Georg Simmel, la società non è una Gesellschaft, come direbbe un comune dizionario, ma una Vergesellschaftung, un farsi continuo che al tempo stesso precede l’analisi scientifica e fugge, subendo cambiamenti, davanti all’osservatore (Simmel 1998). Qui incontriamo un altro nodo problematico delle scienze sociali, che non si può ignorare. Lo scienziato sociale, in particolare il sociologo, per definizione studia pratiche sociali già esistenti e quindi, si può supporre, conosciute da chi – si perdoni il bisticcio – appunto le “pratica”. Farò due esempi tratti dalla mia esperienza, come potrei farne molti altri. Nel mio primo lavoro empirico, destinato all’istituto del testamento, “scoprii” (assieme agli studenti che con me analizzavano i testamenti uno per uno: e ne vedemmo più di mille, con infinita pazienza) che nell’area rurale che studiavamo accanto a un’area urbana molti testamenti erano indirizzati da piccoli proprietari agri-

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coli a escludere le figlie dalla comunione ereditaria, conferendo loro un legato in sostituzione di legittima di valore simbolico, imparagonabile alla legittima che andava perduta (Ferrari 1972). Ebbene, di una siffatta pratica, pur avendo qualche conoscenza della cultura contadina (se non altro perché svolgevo funzioni di magistrato onorario nello stesso luogo) io non ero a conoscenza. Ma non “scoprii” proprio nulla: lasciando perdere i testatori, il notaio che solitamente ne indirizzava o raccoglieva le volontà certamente ben conosceva questa pratica e chiaramente continuava a suggerirla. La stessa esperienza feci molti anni dopo invitando un’allieva, come me appassionata dell’Alto Adige, a studiare sul campo il Geschlossener Hof, il cd. maso chiuso, quella forma di proprietà agricola perfetta e indivisibile che da secoli è un bastione della cultura rurale tirolese. La ricerca, accuratamente svolta su quel mirabile strumento austro-ungarico che sono i libri tavolari, rivelò che, contrariamente a quanto si riteneva, da tempo i masi non passano più in successione al primogenito maschio alla morte del proprietario, ma vengono ceduti inter vivos al figlio prescelto per gestire la proprietà in futuro, non necessariamente il primogenito maschio, il quale figlio spesso simula di pagare l’intero prezzo al padre mentre di fatto – a quel che sembra – liquida le pretese degli altri legittimari esclusi (Frati 2001). Anche quella pratica, ovviamente, era nota ai notai altoatesini i quali, chiaramente, avevano inventato un equilibrio fra due principi contrapposti: da un lato l’indivisibilità del maso, dall’altro l’uguaglianza (relativa) dei coeredi. Qual è dunque l’apporto del sociologo? La domanda non è oziosa, perché anzi è una di quelle che più sovente vengono ripetute, anche in modo provocatorio, dai critici della sociologia. Deve forse il sociologo ras-

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segnarsi a lavorare duramente per scoprire quel che è già noto? O rinunciare a ricercare e inventarsi altro ruolo? Naturalmente questi interrogativi sono retorici, nel senso che la sociologia e la scienza sociale in genere hanno certamente dei compiti che ne giustificano l’esistenza. Li vedremo subito. Ma prima occorre dire che tutto il discorso metodologico fatto sin qui vuol essere, se non altro, un invito pressante all’umiltà. Indagare sul mondo sociale arricchisce il ricercatore prima del pubblico che forse conoscerà i risultati della sua ricerca. La ricerca sociale è anzitutto apprendimento. Risponderemo alla domanda sui compiti della sociologia sintetizzandoli in cinque verbi: a) accertare, b) capire, c) spiegare, d) teorizzare, e) predire. Anzitutto accertare, che significa ovviamente osservare, e anche misurare. L’entità quantificabile di un fenomeno e la sua ricorrenza sono dati ineliminabili, anche se non manca fra i sociologi chi guarda alla misurazione con altezzosità, quasi si trattasse di una forma meno nobile di lavoro sociologico. Essa infatti rivela se una pratica sociale è consolidata e non occasionale: il significato delle osservazioni sulla successione testamentaria nell’area rurale e sul maso chiuso sud-tirolese, appena citate, non è consistito nell’avere “scoperto” il fenomeno, ma nell’averlo potuto configurare come una prassi ripetuta, rivelatrice nell’un caso di una resistenza culturale, nell’altro di un cambiamento sociale in corso. È vero che i dati numerici spesso ingannano e si prestano a diverse letture, ma certo non sono irrilevanti. Nel dialogo sociale, anche scientifico, circola una miriade di notizie spesso inaffidabili. Anche se credute e propagate, sono a volte solo luoghi comuni che il ricercatore è tenuto a controllare e, se del caso, smentire. Farò un esempio.

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Per circa un ventennio, negli studi sociologici sulla litigiosità civile giudiziale si è dato per certo che tutti i paesi sviluppati fossero oppressi da una “esplosione di litigiosità” (litigation explosion), capace di mettere a soqquadro i rispettivi sistemi giudiziari, effettivamente in visibile affanno un po’ ovunque. Ebbene uno sguardo più approfondito ha condotto, non già a negare il fenomeno, ma a circoscriverlo. Uno studio comparativo europeo ha rivelato, fra altre cose, che in due paesi confinanti e simili quanto a sviluppo, ordinamento giuridico e sistema economico, come la Germania e i Paesi Bassi, i tassi di litigiosità erano molto diversi (Wollschläger 1989; Blankenburg, Verwoerd 1989), tanto da far discutere ancora a lungo sulle cause di tale diversità (Blankenburg 1994). Indirizzata l’attenzione sull’Italia con una analisi di lunghissimo periodo (circa 100 anni), si è constatato che sì, un aumento della litigiosità civile vi era stato negli ultimi decenni, peraltro compensato dalla diminuzione vertiginosa delle controversie di minor valore, ma che, in primo luogo, relativizzando il dato in rapporto alla crescita demografica e all’aumento della ricchezza, non si poteva parlare a stretto rigore di “esplosione”; che, in secondo luogo, tale aumento era correlabile soprattutto con un evento specifico, la riforma del processo del lavoro attuata nel 1973, che aveva accelerato e reso meno costose le relative procedure, conseguendo un effetto bensì inflativo, ma voluto dal legislatore stesso; che infine, in terzo luogo, anche l’aumento della litigiosità nel campo del lavoro era dovuto in gran parte all’afflusso contingente di cause previdenziali volte a ottenere sussidi da parte dello Stato. Il tutto fece pensare che l’affanno del sistema giudiziario italiano fosse dovuto più a fattori interni, eminentemente di disorganiz-

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zazione, che alla pressione esterna (Pellegrini 1997), tanto che anche una volta diminuito il carico delle cause previdenziali e rimasto più o meno simile il flusso delle altre controversie, la capacità di assorbimento dell’arretrato è migliorata solo marginalmente, come accertato grazie a un aggiornamento dei dati dopo un altro decennio (Pellegrini 2008). Capire il fenomeno accertato è un altro importante compito del sociologo. Questo punto sembra ovvio, ma non lo è. Come già ricordato, Weber ha presentato la sociologia come scienza «comprendente» (verstehende Soziologie), ritenendo che questo compito fosse prioritario rispetto alla spiegazione, che pure compete al sociologo. Capire, o comprendere, un fenomeno osservabile significa per Weber (1974a, 1974c) riportarlo a categorie concettuali astratte e preliminarmente stabilite dal ricercatore, quei «tipi ideali» che sono già stati menzionati: in certo modo classificarlo, ma dopo averne decifrato il «senso». Ora, il senso delle pratiche sociali non è facile da percepire. Infatti, non è detto che tutti i partecipanti alla stessa pratica vi conferiscano lo stesso senso giacché la percezione del senso del loro agire dipende dal codice di interpretazione cui essi stessi attingono. Vi è naturalmente, oltre al senso soggettivo dell’azione, anche un senso oggettivo attribuito da codici di significazione che si suppongono comuni ai protagonisti, ma possono anche non esserlo. Il diritto è uno di questi codici: ma parlando di pluralismo giuridico, abbiamo già visto che anche su di esso può esservi radicale dissenso. Vi è poi il codice interpretativo del ricercatore stesso, che a sua volta può differire profondamente da quello degli attori osservati. Questo punto, notissimo agli antropologi soprattutto quando studiano società non

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letterate, è di particolare delicatezza. Sempre si riferisce in sociologia il famoso esempio delle osservazioni di Robert K. Merton (1970, I, pp. 192 sgg.), uno dei massimi sociologi del Novecento, sul significato del rito della pioggia presso gli Indiani Hopi. La spiegazione di questi – come del resto avverrebbe con i partecipanti a un triduo di messe cattoliche per scongiurare la siccità – era naturalmente che il rito servisse a propiziare la pioggia. La spiegazione di Merton, dato per scontato che non vi fosse relazione eziologica fra il rito e la pioggia e purtuttavia, malgrado il fallimento di questa «funzione manifesta», il rito persisteva nella vita del gruppo, fu che esso non era pura superstizione, in quanto esplicava una «funzione latente» cementando la coesione sociale del gruppo stesso davanti al pericolo. Questa spiegazione di Merton è una pietra miliare nella storia della sociologia e dal punto di vista della psicologia sociale è probabilmente ineccepibile. È però un esempio di come i codici interpretativi delle pratiche sociali possano divergere e come il ricercatore possa sovrapporre il proprio codice a quello del gruppo sociale studiato, correndo quel rischio che si definisce ‘etnocentrismo’ e che consiste appunto nell’applicare la propria cultura nell’interpretazione di fenomeni tipici di altre culture. Spiegare, altro compito del sociologo, consiste in quel procedimento che possiamo indicare in latino col mirabile motto della London School of Economics: «rerum cognoscere causas». Ovviamente parliamo di ‘cause’ al plurale, essendo scontata, ai fini di una spiegazione scientifica, l’esistenza fra gli eventi umani di correlazioni multiple che vanno ben oltre il campo di quegli accadimenti senza i quali un fatto non sarebbe accaduto: per intendersi fra giuristi, quel “nesso eziologico” fra azione ed evento che il giudice deve accertare prima di con-

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dannare. Il campo delle correlazioni che interessa al sociologo investe ogni azione o pratica sociale che può avere influito anche alla lontana sul piano economico, politico, mediatico, culturale, su ciò che sta studiando. Prendiamo un esempio dal campo sempre suggestivo della politica penale. In Europa si parla oggi frequentemente di «costruzione sociale del nemico» per dar conto di quelle politiche penali e amministrative che discriminano il diverso, l’immigrato, lo straniero (De Lucas 2004; Jakobs, Cancio Meliá 2006). Che fra l’adozione di queste misure, alcune ufficiali (severità nell’inflizione discrezionale delle pene), altre non ufficiali (detenzione illegale, per esempio nei cd. “centri di accoglienza”), sia collegabile in questo momento storico con l’incremento dei flussi migratori dai paesi meno sviluppati e con l’indice di devianza specifico degli immigrati, è ovviamente probabile. Ma sbaglierebbe lo studioso che non si domandasse anche quanto influisca su tali prassi il sentimento sociale di insicurezza e quanto tale sentimento venga costruito artificialmente, come spesso osservato (Pitch 2006; Mosconi 2006). Per rispondere a questo quesito, il sociologo farà dunque bene a riscontrare se non vi sia una corrispondenza temporale fra queste politiche discriminatorie, certe campagne mediatiche e, infine, le scadenze politiche ed elettorali. Infatti la paura – come insegnano mille esempi storici di persecuzione delle minoranze – è un potente argomento politico soprattutto se sfruttato in un breve periodo, come sono le campagne elettorali. La teorizzazione è un altro contributo essenziale che la sociologia dovrebbe offrire alla conoscenza, tanto che la letteratura sociologica è ricchissima di studi esclusivamente teorici che a volte sfruttano ricerche svolte da altri studiosi, ma spesso elaborano sistemi di pensiero

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del tutto indipendenti dall’osservazione. Due punti sono fondamentali a questo riguardo. Da un lato, la scienza è per definizione teorica, nel senso che, come già detto, mira alla costruzione di sistemi di asserzioni capaci di dar conto di una serie di fenomeni tra loro correlati. Perciò non esiste ricerca empirica senza teoria, anche per una semplice considerazione: che non si può cominciare a ricercare senza avere prioritariamente stabilito un campo di ricerca e posto delle ipotesi, cosa impossibile senza attingere a conoscenze già acquisite e coordinate in forma di teoria. Che, dall’altro lato, possa esistere teoria pura senza ricerca, è un problema più complesso. A parte il caso della teoria che si avvale delle ricerche altrui, che è ovvio, la questione riguarda le teorie che dichiaratamente prescindono dalla ricerca sul terreno e soprattutto le teorie che non si prestano all’osservazione empirica in quanto non possono articolarsi in proposizioni suscettibili di controllo empirico. Nel primo caso siamo di fronte a una presa di posizione metateorica, che diffida del potenziale esplicativo dell’indagine sul terreno, perché troppo frammentaria e occasionale, ma non dell’osservazione in sé, che ognuno compie guardandosi attorno e apprendendo dalla propria vita. Niklas Luhmann, fra gli altri, sembra scindere queste due attività. Rimane quindi aperta la possibilità, per chi crede nella ricerca sul terreno, di fondarla sulle ipotesi teoriche di chi invece la rifiuta. Nel caso di Luhmann, per esempio, non vi è ragione di escludere che sia possibile svolgere ricerche basate sull’ipotesi teorica, avanzata da lui stesso, che l’intervento del giudice nelle controversie possa accrescere la complessità anziché ridurla (Luhmann 1982, p. 14). È questa un’ipotesi intuitiva giacché il giudice aggiunge la sua voce a quella delle parti e soprat-

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tutto, in un sistema di diritto improntato a incertezza, l’esito del suo intervento può essere ritenuto un rischio difficilmente calcolabile. Nel secondo caso, siamo invece di fronte a teorie che Popper riterrebbe infalsificabili, quindi non scientifiche, e che Merton (1970, I, pp. 67 sgg.) respingerebbe in quanto a parer suo il campo d’azione della scienza sociale non può andar oltre quello che egli definisce il livello di «medio raggio» (middle range): quello appunto che si limita a porre sul tappeto soltanto ipotesi confermabili o smentibili attraverso l’osservazione condotta secondo tecniche accreditate. Su questo tema molto complesso, oso solo dire che è difficile prendere posizione sia perché è arduo tracciare un confine chiaro – per usare le parole di Merton – fra alto e medio raggio, sia perché anche riflessioni a prima vista insuscettibili di controllo empirico possono tuttavia illuminare la comprensione delle umane cose e fornire una chiave di interpretazione del dato empirico. Penso fra altri esempi al libro di Eligio Resta, Le stelle e le masserizie (1997), che riprende nel titolo parole famose di Giacomo Leopardi e, in contrapposto all’uomo che trasferisce nelle sue povere cose l’osservazione dell’universo, propone un «paradigma dell’osservatore» basato sull’immersione – per dir così – nel mondo degli altri e delle loro esigenze. Difficile poter tradurre questa concezione in ipotesi empiriche, anche per la sua natura prescrittiva più che descrittiva. Ma sarebbe altrettanto difficile negare che essa possa giovare alla comprensione della condizione umana e alla stessa osservazione, base della sociologia. Come avviene – lo vedremo – con molte fonti letterarie. Infine, un compito non secondario del sociologo è quello della previsione. Dar conto di una serie di fenomeni fra loro correlati, che è quanto caratterizza una

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teoria scientifica, significa asserire che in presenza di alcuni fenomeni altri accadranno o potranno accadere in futuro, nelle medesime circostanze. Questo è un tema appassionante soprattutto se ci si chiede quanta potenzialità previsiva abbiano le scienze sociali rispetto alle scienze naturali. Queste ultime infatti – si dice – trattano di relazioni invariabili fra elementi, sulle quali l’osservatore non influisce. Se si lascia cadere un grave dall’alto della torre di Pisa, esso subirà l’accelerazione che Galilei si preoccupò di misurare. Se si lancia un’astronave verso Marte e nulla interviene a intralciarne il cammino, essa raggiungerà l’obiettivo nel tempo previsto in base alla velocità e alla distanza. Attraverso il DNA si può stabilire la paternità di una persona con una probabilità di errore prossima allo zero. E via dicendo. Le relazioni causa-effetto nelle scienze naturali sono, o almeno sembrano, certe e ripetibili, e così le previsioni: basta non sbagliare l’esperimento. Le scienze umane – si dice ancora – non hanno questa proprietà per tre motivi principali: primo, gli esseri umani possono sottrarsi alla previsione dell’osservatore; secondo, è l’osservatore stesso che col suo lavoro ne influenza il comportamento, modificando il corso degli eventi; terzo, a differenza della natura e anche del mondo animale, l’essere umano opera spesso in modo irrazionale e – appunto – imprevedibile. In sintesi, i fenomeni sociali, per usare una classica espressione, non sono necessariamente ripetibili come sono, o sembrano essere, i fenomeni naturali. Su questi punti si può essere d’accordo in via di principio. La realtà sociale è il prodotto dell’azione incessante di milioni di individui e muta continuamente. La ricerca di oggi potrà essere già storica quando sarà ultimata. Inoltre la vita sociale è un campo di aspettative

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semplici e complesse, cioè riflessive (io mi aspetto che tu ti aspetti che io mi aspetti che tu faccia...). Questo gioco di specchi diventa facilmente un gioco a rimpiattino: io mi sottraggo alla tua previsione nella previsione che tu agisca secondo la previsione che io, invece, non mi ci sottrarrò. E via dicendo. Esaminando il sistema politico possiamo facilmente sperimentare questo gioco. Possiamo anzi dire – ma non voglio rubare il mestiere ai politologi – che fra i personaggi politici, i quali indossano maschere ora fisse ora mutevoli a seconda delle convenienze e dei suggerimenti dei loro esperti pubblicitari, vi sono sia coloro che amano aderire alle previsioni (o apparire tali), sia coloro che amano tradirle (o apparire tali), dando mostra di fare il contrario di quanto da loro si aspetta, per “stupire”; e lascio ai lettori il gusto di collocare persone concrete in questi due idealtipi. È chiaro dunque che una previsione precisa, come avviene col grave che cade dalla torre di Pisa, in queste condizioni non è possibile. Non meno noto è il secondo argomento. È stato ancora Merton (1970, II, pp. 765 sgg.) a parlare in sociologia della «profezia che si autoadempie» (self-fulfilling prophecy). Se il governatore della Banca europea esprime pubblicamente il dubbio che l’euro possa perdere valore, anche se ha parlato dopo aver dormito male e vede tutto nero, si può prevedere che domani l’euro perderà valore, perché gli investitori correranno a vendere euro e comprare dollari o yen, per poi ricomprare euro quando avrà perduto valore. Così pure accade con la Borsa: la previsione sull’andamento di un titolo lo fa salire o scendere; non per nulla l’aggiotaggio è punito come reato. Ancora, se in campagna elettorale un partito politico fa diffondere un sondaggio che lo dà sicuro vincente, è prevedibile che un gruppo di elettori se

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ne sentirà attratto. Veri o falsi, i sondaggi elettorali spostano voti. Da tutto ciò sembrerebbe doversi dedurre che le profezie sul futuro lo condizionino in modo tale da renderlo prevedibile. Ma sarebbe una deduzione errata. Infatti, proprio in quanto modificano il corso degli eventi, cioè creano nuove realtà, esse provocano effetti a catena, magari prevedibili a breve, ma non nel medio e nel lungo periodo. Quanto meno in questa dimensione, dunque, accrescono il margine di imprevedibilità. Il terzo argomento è il più ricorrente. Si può ben ritenere, con Weber e con molti altri studiosi, che l’uomo medio orienti la sua azione “razionalmente”, cioè miri a raggiungere delle finalità scegliendo mezzi che ritiene adeguati: sia cioè «un animale teleologico», come disse Bobbio (1984, p. 24). Ciò però non significa che la sua strada sia libera da ostacoli, perché molti fattori, a cominciare dall’azione altrui, possono interferire nel cammino. E soprattutto non significa che agisca in modo appropriato. L’uomo, infatti, può sbagliare nell’individuazione dei fini come dei mezzi. La sua azione, come ricordava ancora Weber, può essere non solo razionale, ma anche irrazionale, dettata da affettività, imitazione, indolenza, avversione, simpatia, futilità e anche, molto spesso, stupidità: non mi stanco mai di ripetere che l’azione stupida può avere conseguenze straordinarie nella vita umana. Ovvero l’azione umana può essere «non logica», come diceva Vilfredo Pareto (1978). Qual è dunque la capacità previsiva delle scienze sociali e della sociologia in specie? A questa domanda i sociologi hanno dato da tempo delle risposte importanti. La prima e più fondamentale è che la previsione nelle scienze sociali non è certa, ma probabilistica. Questo può considerarsi un punto fermo e, infatti, lo scienzia-

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to sociale si avvale comunemente di metodi statistici per formulare previsioni sulla base di misurazioni passate. Resta però da chiedersi quanto ampio sia il margine di errore di questo tipo di previsione: cioè quanto sia ampia la “forbice”, come usano dire i sondaggisti. E qui credo si debbano dire alcune cose semplici, ma di non secondaria importanza. Il raggio d’azione dell’essere umano non è infinito. L’uomo può ben giocare a rimpiattino con la riflessività delle aspettative, ma le sue opportunità d’azione sono limitate. Certo si può dire che alla fine ciascun dilemma pratico pone l’uomo di fronte all’alternativa binaria tra fare e non fare una cosa, ma ciò non significa che la previsione di quel che farà abbia un margine di errore del 50 per cento. La scelta dell’azione, infatti, dipende da alcune variabili che, se possono complicare la previsione, in quanto impongono di immettere nel modello altre incognite (gli econometrici adottano modelli matematici con moltissime variabili), possono anche facilitarla quando convergono in una sola direzione. E spesso così accade, infatti. Nell’azione umana vi sono alcune regole “auree”. Nel sistema politico è per esempio sperimentabile che gli attori mirano pressoché tutti e sempre a mantenere o ad accrescere la loro quota di potere. Nel sistema economico, l’attore tipico (l’homo oeconomicus della tradizione liberale) si muove per conseguire profitti e non perdite. Nella vita di coppia, la maggioranza tende a conservare il rapporto e non a scioglierlo, anche se in tempi e luoghi diversi gli indici di divorzialità variano sensibilmente. E in ogni caso l’essere umano medio, non meno degli «animali non umani», è decisivamente condizionato da bisogni elementari connessi alla sua vita fisica – aria, acqua, cibo – e confinato nei limiti sempre fisici della propria vita e della

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propria natura. Ovvero, metaforicamente parlando, cammina entro binari il cui scartamento non conosciamo appieno, ma che comunque è molto limitato: non sappiamo di quanto potrà ancora scendere il record mondiale dei 100 metri piani, ma certo non arriverà mai a eguagliare quello di un jet. Su tutto ciò si può far conto nelle previsioni soprattutto se, come avviene in sociologia, si abbia a che fare non già con un singolo soggetto (che può sempre deviare dalla norma), ma su più soggetti, basandosi sui comportamenti dell’uomo medio. E se le previsioni si fondano, come devono, su conoscenze già acquisite nello stesso ambito d’azione o in ambiti analoghi, esse hanno buona probabilità di trovare conferma. Per fare un tipico esempio nel nostro campo, se i legislatori del 1978, che emanarono la famosa legge n. 392, cd. dell’equo canone, fissando un prezzo politico per le locazioni abitative e lasciando libero il mercato delle locazioni a uso ufficio, avessero semplicemente ricordato il fenomeno della borsa nera durante l’ultima guerra mondiale, avrebbero potuto prevedere con sufficiente certezza che quella legge avrebbe ottenuto l’effetto tipico di tutte le leggi di calmiere, cioè avrebbe fatto scomparire dal mercato la merce calmierata. E, infatti, a detrimento delle classi meno abbienti che si dichiarava di tutelare, scomparvero le locazioni abitative legali, nacque un mercato nero che incentivò forme di estorsione e fece aumentare l’evasione fiscale, molti centri urbani si svuotarono degli abitanti diventando centri di affari, i cittadini corsero all’acquisto di appartamenti, facendo crescere a dismisura i prezzi delle vendite immobiliari e contraendo mutui con gran vantaggio del sistema bancario. Naturalmente, è probabilissimo che questi effetti fossero non solo previsti, ma anche

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voluti almeno da una parte del ceto politico che votò quella legge a larga maggioranza. Si può anzi ipotizzare, come fece un noto sociologo norvegese in un saggio pionieristico dell’immediato dopoguerra, dedicato proprio a una legge sul controllo dei prezzi (Aubert 1950), che una parte politica abbia votato quella legge per esibirla come simbolo davanti al suo elettorato, che insisteva perché i canoni locatizi fossero più equi, e l’altra l’abbia votata pensando alle molte fruttuose speculazioni che avrebbe reso possibili. Tuttavia questo argomento non inficia quanto detto sulla prevedibilità di quegli effetti, ma anzi lo conferma. Che anche i fatti sociali siano prevedibili, dunque, può dirsi con una certa tranquillità. Che lo siano più o meno dei fatti naturali, a sua volta, è un problema più arduo di quanto si può pensare a prima vista. Un buon epistemologo sarebbe tentato di ricordare che la scienza contemporanea ha, se non abbandonato, certo delimitato assai l’ambito della ripetitività dei fenomeni naturali. Anche la natura, cambiando, si sottrae alle previsioni, che sono sempre – sottolineo – previsioni umane. E potremmo aggiungere che l’uomo stesso – come nella self-fulfilling prophecy – è capace di incidere anche sui fenomeni naturali. Non voglio scomodare qui il principio di indeterminazione in meccanica quantistica, su cui gli esperti ammoniscono da tempo di procedere con cautela. Più banalmente dirò che l’uomo stesso è in grado di provocare effetti che non sempre è capace di calcolare: basti l’esempio del riscaldamento globale. Perché questo è il punto. Un conto è che la natura, per dir così, non sbaglia, nel senso che gli eventi naturali sono frutto di combinazioni meccaniche da cui non possono che scaturire certi effetti. Un altro e ben diverso conto è la conoscenza umana di queste combinazioni, che è

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lungi dall’essere completa. I vulcanologi sanno che i vulcani eruttano a causa dell’eccesso di pressione interna, ma non sono tuttora in grado di prevedere con precisione quando e come erutterà quel vulcano, anche se costantemente monitorato. La scienza naturale, del resto, è “naturale” quanto ai fenomeni che studia, ma è pur sempre “umana” quanto al soggetto che li studia. E di fronte alla grande complessità della natura anche il più brillante degli scienziati può trovarsi più disarmato del sociologo che – per dirla ancora con Leopardi e con Resta – ha da guardare non tanto alle stelle, quanto alle sue povere masserizie, poche e ben conosciute. Tutto ciò naturalmente non significa potersi abbandonare alle previsioni, persino quando si adottino i metodi d’indagine più sofisticati, i modelli econometrici o sociometrici elaborati dagli esperti di tecniche quantitative. Anche qui l’esperienza suggerisce molta umiltà. Come spiegarsi altrimenti che, pur essendo da tempo noto a ogni funzionario di banca americano e a ogni persona ragionevole che il sistema dei cd. subprime era pericolosissimo, nessuna voce autorevole nel campo della scienza economica si sia levata a prevedere la crisi dell’autunno 2008, che sta ancora opprimendo il mondo? O c’è da pensare che quelle voci vi fossero ma non potessero farsi udire dall’opinione pubblica, che perfino a livello specialistico sembra formarsi sempre più sulle notizie filtrate dai media?

2. FONTI La prima fonte di conoscenza scientifica è l’osservazione. Il motto di un ricercatore dovrebbe essere: “osservare, osservare, osservare”. Non parlo per ora del-

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l’osservazione organizzata secondo metodi elaborati e prescritti, ma in generale della capacità di guardarsi in giro, anche dalla finestra. Per esempio, dal finestrino di un taxi. Non dimenticherò mai che, tornato da un viaggio una sera molto tardi, presi un taxi dal terminal del “Malpensa Express” sino a casa e il tassista, furioso contro la tendenza italiana all’illegalità, mi invitò a contare le infrazioni cui avremmo assistito: nel volgere di dieci minuti e con le strade praticamente deserte ne contammo una quindicina, ovvero la maggioranza dei veicoli che avevamo incontrato. Pensando che agli albori della sociologia del diritto post-bellica uno degli obiettivi era verificare la tendenza a obbedire alla legge nei vari paesi2, quel piccolo frammento di indagine (contare significava già ricercare) fu un utile insegnamento. L’osservazione procede con la vita, vi penetra in forma di memoria fissandosi in parole, immagini, odori, suoni, ambienti, cui si attinge anche inconsciamente finché la memoria ci sorregge. L’esperienza vissuta, attivamente o passivamente, è la base ineliminabile della conoscenza, anche nella sua forma scientifica. Nessuna ricerca sul terreno, per quanto vasta e rigorosa, potrà mai eguagliare quella acquisita vivendo, che fornisce un patrimonio incalcolabile di dati e li inserisce in un contesto, definendo la nostra prospettiva, quel punto di vista parziale da cui guardiamo e “sentiamo” le cose, prima di interpretarle. 2 Cfr. Podgórecki (1991, pp. 21 sgg.), che sulla base di ricerche risalenti agli anni Sessanta e Settanta riferiva come gli indici più alti di legalismo si riscontrassero in Germania e in Giappone: cioè due stereotipi storici come quello dell’illegalismo italiano confermato dalla mia notturna osservazione milanese.

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Essere cresciuto in una minuscola città di mare cinta da antiche mura e da montagne ha contato enormemente nella mia vita, e altrettanto aver trascorso anni della primissima infanzia da “sfollato” in un’altra cittadina, pure antica fra colline appenniniche, immerso nella guerra: non potrei separarmi da quelle sensazioni pur avendo trascorso il resto della vita in una metropoli. Quando nella maturità ho letto del village approach, quel metodo tipico degli antropologi che consiste nell’osservare quotidianamente la vita di una piccola comunità isolata, avevo già avuto coscienza di luoghi in cui tutti si conoscono, non si usano nomi ma soprannomi che a volte accompagnano le famiglie per generazioni, dove amicizie, inimicizie e giudizi sociali si solidificano diventando clichés, e l’ambiente ti avvolge fin quasi a soffocarti, ma anche ti assiste e alla fine ti richiama, come dice Hermann Hesse (1980) nel suo Peter Camenzind. Dell’esperienza conta ciò che si riceve e naturalmente ciò che si fa. Qui viene in gioco per il sociologo del diritto il tema dell’attività professionale da giurista. Questa non è indispensabile, ma per chi la svolge è una fonte straordinaria di osservazione. È, infatti, un’osservazione partecipante continua, cioè un metodo riconosciuto e codificato di osservazione sociologica, per giunta svolta in vivo, su problemi concreti. Il processo, in particolare, si conosce soprattutto partecipandovi. L’osservazione esterna, anche se aiutata da una precisa conoscenza dei fatti e delle norme, ostacola la conoscenza di dettagli che, secondo la logica dell’infinitamente piccolo, si ingigantiscono quando li guardi “dall’interno”. L’interazione fra giudici, avvocati, parti e testimoni alterna formalità e informalità. Le parole dette sono spesso diverse da quelle trascritte nei verbali, e prima di es-

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ser dette sono a volte il frutto di scambi impercettibili, neppure sempre coscienti. Il linguaggio gestuale si confonde con quello parlato e questo, a sua volta, deve essere decodificato e ricodificato secondo le regole del lessico giuridico, affinché il giudice possa motivare la decisione, rispettando un ruolo che lo vuole, appunto, soggetto alle regole. E in questa serie di filtri, prima delle regole, passa quello che nel linguaggio curiale si definisce ‘il fatto’, cioè una serie di eventi già accaduti e selezionati dalla memoria, dalle sensazioni, dai precedenti contatti e dagli interessi dei protagonisti e, non ultimo, dalle regole stesse con le loro preclusioni e i loro limiti formali e sostanziali. Nulla come un’osservazione partecipante rivela l’alto grado di artificiosità del “fatto” su cui il giudice deciderà “secondo diritto” e come, infine, la distinzione stessa tra “fatto” e “diritto” sia essenzialmente un (nobile) artificio retorico imposto ai dialoganti – parti e giudice – come struttura obbligata del loro dialogo. Dunque l’esperienza vivente è nient’altro che una continua ricerca sul campo. Per trarne occasione di riflessione scientifica tuttavia occorre distanziarsene emotivamente e affrontarla con lo spirito del ricercatore, incanalarla nelle regole del metodo sociologico, affinché non si disperda o sfumi nelle pure sensazioni, risponda a dei quesiti, si raccordi ad altre conoscenze già note e acquisti un senso teorico. L’esperienza personale è una fonte tra le altre, da affrontare criticamente, o per meglio dire autocriticamente. La ricerca è un cammino intrapreso secondo una direzione che il ricercatore, posti dei quesiti sul terreno, deve aver già tracciato nelle linee fondamentali. I quesiti, infatti, si traducono in risposte ipotetiche che, metaforicamente parlando, rappresentano la stazione ver-

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so cui si è diretti. Ciò significa già restringere il campo visuale, non tanto da impedire di guardare il paesaggio attorno, ma abbastanza da vincolare il cammino, come lo vincola qualunque strada. Imbocchiamo una via e non un’altra, sapendo a priori che se avremo sbagliato sarà faticoso tornare indietro. In via di principio le fonti devono essere scelte in ragione di questo cammino, anche se vi sono fattori esterni che limitano la libertà di scelta e che il ricercatore non può ignorare. Se opta per la ricerca sul terreno, che significa osservare dei fatti mentre accadono o ricostruire fatti già accaduti, deve sapere che questa impresa costa in termini di risorse personali e finanziarie. Queste, possiamo dire, sono variabili indipendenti, nel senso che la ricerca sociologica si fa dove esistono, non solo, come ovvio, i fatti sociali che interessano, ma anche i ricercatori che li osservano e i mezzi per farla. Questi punti non sembrino banali, perché corrispondono anche a precise regole deontologiche3. La ricerca non si può improvvisare e tanto meno inventare, come non di rado purtroppo avviene. Solo una volta superati questi problemi preliminari, è possibile passare alla scelta delle tecniche di ricerca. A questo proposito è ben nota e discussa in tutti i libri di metodologia della ricerca sociale (Corbetta 1999; Bou3 Vedi per esempio il Code of Ethics dell’International Sociological Association (http://www.isa-sociology.org/about/isa_code_of_ ethics.htm). Art. 2.2.2: «In a situation where sociologists are bidding competitively on projects, they should not agree to carry on research projects which are not sufficiently funded or compete with other bidders by the use of further unfair tactics not consistent with appropriate scientific standards». Art. 4.2: «Researchers should refrain from claiming expertise on fields where they do not have the necessary depth of research knowledge, especially when contributing to public discussion or public debate».

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don 2003) la distinzione fra ricerca “quantitativa” e ricerca “qualitativa”, su cui non si possono evitare alcune considerazioni di fondo. La ricerca quantitativa prende in considerazione insiemi predefiniti e statisticamente significativi di oggetti da studiare e misura le ricorrenze numeriche delle diverse variabili e delle loro relazioni reciproche. Stabilito l’ambito temporale che gli interessa, possibilmente lungo, il ricercatore si chiederà – per dire – quante notitiae criminis pervengono ogni anno in Italia alle procure della Repubblica, da quante di esse scaturisce un processo penale, che rapporto percentuale esiste fra la durata dei processi, il numero dei magistrati in servizio, il loro carico di lavoro pro capite, la loro dislocazione sul territorio, e infine quale proporzione esiste fra processi celebrati, assoluzioni e condanne. Da tutto ciò trarrà conclusioni sull’efficienza del sistema della repressione penale e potrà tentare una comparazione con dati analoghi raccolti in altri paesi più o meno simili al nostro per sistema giuridico, economico e sociale. La ricerca qualitativa rinuncia a priori a stabilire correlazioni numeriche fra variabili. Il ricercatore si cala nella realtà che studia, la “vive” osservandola da una o più prospettive, ne cerca i significati (il “senso” weberiano) distinguendo fra le significazioni dei soggetti osservati e il proprio codice di significazione, raccoglie pazientemente i materiali e li interpreta. Entrerà dunque fisicamente in una procura della Repubblica e nel tribunale corrispondente, parlerà con magistrati e funzionari, ricostruirà le regole organizzative effettive comparandole con quelle formali, seguirà il percorso di alcuni procedimenti e trarrà da tutto ciò delle conclusioni, ancora sull’efficienza del sistema della repressione penale, visto da vicino e non da lontano, attraverso esempi

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significativi. Ciò non precluderà del tutto una comparazione con altri sistemi, ma questa comparazione verrà fatta ad sensum, dando peso alla percezione del ricercatore e dei suoi interlocutori e andando a cercare altrove percezioni analoghe suggerite da altri contesti. Non ho fatto a caso questi esempi. Ciò che m’interessa dire, infatti, è che, se non si può negare la differenza fra questi due «diversi modi di conoscere la realtà sociale» (Corbetta 1999, pp. 73-76), essi tuttavia non sempre si contrappongono e anzi si integrano (o dovrebbero integrarsi) più spesso di quanto si crede. Occorre intanto evitare gli equivoci terminologici. La ricerca quantitativa presuppone delle scelte qualitative nel momento in cui si fissano le ipotesi della ricerca e si scelgono le variabili da misurare. Non solo, ma i suoi risultati esprimono in grandezze numeriche dei concetti, a loro volta, qualitativi. Si pensi all’efficienza di un sistema penale, appena richiamata. Qual è la sua “misura”? La brevità del processo o la ponderazione con cui si perviene alla sentenza? Qual è la funzione di equilibrio ottimale fra queste due contrapposte esigenze? La misura dell’efficienza è la stessa per il piccolo processo di furto con un solo imputato e per un grande processo di criminalità organizzata con centinaia di imputati e di parti civili? Ha senso, in nome dell’efficienza, sopprimere un tribunale di provincia con poco lavoro anche se si rende ipoteticamente meno efficiente la protezione dei cittadini di quella provincia? In breve, occorre definire a priori degli indici di efficienza e su questi influiscono scelte concettuali e di valore altamente qualitative. A sua volta la ricerca qualitativa, pur se concentrata su un solo ambiente sociale, oppure su un solo o pochi casi di relazioni umane, difficilmente può fare a meno

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di riferimenti quantitativi. Qualunque ambiente o caso non è isolabile da un contesto definibile anche in grandezze numeriche. Raccogliere informazioni presso una procura della Repubblica acquista significato anche alla luce dei dati generali sul flusso del lavoro in quello specifico ufficio, possibilmente comparati con quelli di altri uffici analoghi. Solo con questo metodo, che colloca l’analisi qualitativa in un contesto quantificato, si può giungere ragionevolmente a dire che, per esempio, l’adozione di criteri organizzativi basati sulla selezione preventiva delle notitiae criminis secondo il contenuto e l’importanza (col rischio, ovvio, di rinunciare a priori a perseguire tutti i reati denunciati) sembra decisiva per rendere più efficiente e al contempo equo questo tipo di servizio (Sarzotti 2007). Anche per il ricercatore che adotti il già ricordato village approach avranno rilievo dati come la distanza del “villaggio” dal centro più vicino, il numero di abitanti suddivisi fra maschi e femmine, gli indici di natalità e di mortalità, gli indici di produzione e di sviluppo economico. Non solo: essendo per definizione interessato alla ricostruzione di pratiche sociali, questo ricercatore non potrà evitare di annotare se alcune siano più ricorrenti di altre, quanto concordino le testimonianze, e via dicendo. L’importante quindi è non tracciare un confine troppo rigido fra questi due modi di conoscenza, come se fossero due mondi, non comunicanti. E aver chiaro che entrambi hanno pregi e limiti. Dalla ricostruzione quantitativa di un fenomeno di ampie dimensioni non è facile trarre conclusioni sulle sue particolarità: se analizzando un ufficio giudiziario si vuol dare un senso alla proporzione riscontrabile fra assoluzioni e condanne penali, sarà necessario immergersi nella lettura dei fa-

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scicoli, ipotizzare differenze di atteggiamento fra giudici donne e giudici uomini, o risalenti alle loro ideologie. Più si scende in profondità, più diventano preziose notizie anche frammentarie che illuminano il dato quantitativo. Dal canto loro, come già detto, le osservazioni puramente qualitative mal si prestano alla generalizzazione: da questo tipo di osservazioni focalizzate su un mondo ristretto, attente ai dettagli e alle eccezioni oltre alle regolarità, non è possibile indurre che altri mondi si comportino allo stesso modo ed è quindi più difficile elevare i dati raccolti al livello di una teoria. Le fonti dell’osservazione possono ulteriormente distinguersi a seconda che siano già esistenti oppure costruite dal ricercatore. Da un lato abbiamo i documenti scritti, iconici, fonografici, preconfezionati da qualcuno in tempi trascorsi e con finalità diverse dalla ricerca. Dall’altro abbiamo gli esperimenti del ricercatore: interviste, questionari, conversazioni, focus groups, testimonianze dirette, visualizzazioni di eventi cui si assiste o si partecipa. Tutte queste fonti vanno affrontate sapendo che esse parlano un linguaggio proprio, più o meno compatibile con quello del ricercatore, ma comunque diverso. Fra il ricercatore e la sua fonte c’è sempre una interlocuzione anche se l’interlocutore non è “fisicamente” presente, come accade nel caso dei documenti. E come l’interlocutore può ingannare, così il ricercatore può ingannarsi, fraintendendo. I documenti hanno una loro oggettività, nel senso che esistono e su di essi il ricercatore non può influire. Ovviamente possono essere incompleti, oscuri e anche falsi perché apocrifi o menzogneri: di ciò bisogna avere chiara coscienza. Ma in sociologia del diritto essi rappresentano una fonte d’osservazione di primaria importanza, siano essi documenti di diritto, oppure sul diritto.

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Fra i primi – documenti di diritto – abbiamo contratti, testamenti, convenzioni, trattati, sentenze, decreti, lodi arbitrali, che singolarmente registrano storie di rapporti e, una volta riuniti e ordinati secondo adeguati criteri di classificazione, forniscono attraverso la ricorrenza dei vari elementi di cui si compongono (attori, clausole, valori in gioco, artifizi retorici, contrapposizioni, motivazioni) e dalla loro relazione con macrovariabili significative (genere, età, educazione, opinione politica, ceto sociale dei soggetti menzionati) autentici spaccati di storia sociale e giuridica. Basta andarli a cercare negli archivi che sono moltissimi, ricchi e, curiosamente, poco sfruttati dai sociologi del diritto, forse perché, rispetto agli storici, più amanti dell’aria fresca e meno inclini a rovistare nella polvere4. Ma sono lo specchio principale della vita giuridica, perché redatti con l’intenzione di produrre effetti, appunto, giuridici e valutabili in rapporto a quegli effetti. Ho già citato casi di ricerche documentarie sulle successioni. Lo stesso si può dire dell’attività contrattuale privata o di quella giurisdizionale. Per definizione i contratti rappresentano il diritto in azione, nella sua vita – si diceva un tempo – fisiologica. Dovrebbero quindi essere una fonte essenziale della conoscenza sociologica sul diritto. Purtroppo non è così, anche per la difficoltà di acquisire questo tipo di documenti in quantità sufficiente a ricostruire attraverso campioni significativi le prassi sociali più ricorrenti. Ma occorre superare questa lacuna: c’è da domandarsi per esempio se le tante discussioni di questi anni sulla lex 4 «Non guardate in cielo, ma andate nelle cantine» – perché le cantine ospitano gli archivi – è il monito tipico rivolto da Lawrence Friedman ai suoi studenti di sociologia del diritto.

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mercatoria non siano viziate in quanto attingono soprattutto ai lodi arbitrali – cioè una minoranza di rapporti patologici – ignorando la maggioranza di rapporti che scorrono pacificamente senza dar luogo a controversie. Dell’attività giurisdizionale parlano spesso i media, riferendosi però a singole decisioni significative e, salvo eccezioni, ignorando l’attività ordinaria dei tribunali. Ma questa, a differenza dei contratti, è facilmente ricostruibile e, attraverso la raccolta ragionata di provvedimenti, letti attraverso adeguati schemi interpretativi, offre informazioni straordinarie di storia sociale e giuridica, mettendo in luce le tendenze di fondo non solo di una giurisdizione, ma anche della cultura professionale e della litigiosità sociale. Una ricerca svolta negli anni Settanta sul tema allora caldo dell’assenteismo sul luogo di lavoro anche attraverso la giurisprudenza edita permise di rilevare un alto grado di discrezionalità creativa dei giudici e forti scostamenti fra l’immagine pubblica del problema e la sua realtà meno apparente (Ferrari, Boniardi, Gridelli Velicogna 1979). Recenti indagini sulla giurisprudenza comunitaria hanno permesso non solo di confermare tendenze di fondo già riscontrate nell’attività dei giudici di Lussemburgo, molto attenti al rafforzamento della propria giurisdizione, ma anche di individuare i settori del diritto nazionale che più contrastano con i principi del diritto europeo e di accertare che la conoscenza di questo ordinamento da parte di giudici e avvocati italiani è tuttora molto frammentaria (Reale 2000; Reale, Borraccetti 2008). Fra i documenti sul diritto, abbiamo il grande oceano della comunicazione ordinaria, informale, privata e pubblica. Giornali, radio, televisione, internet, diari, epistolari, biografie, libri scolastici, romanzi, film, tutto questo materiale è tanto ricco di riferimenti al mondo

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normativo in genere e al diritto in particolare, quanto lo è – come già detto – la vita stessa. La rarità di studi socio-giuridici sulla rappresentazione del diritto da parte dei mass media è sorprendente se si considera che questi costituiscono la principale fonte di informazione sul diritto per il cittadino comune. Ed è una fonte che, come già accennato, risponde a logiche e regole narrative tecnicamente diverse da quelle formali del diritto. Un fatto deve “fare notizia” per catturare l’opinione pubblica, cosa più facile quando esce dalla normalità, e la notizia, così selezionata, viene data entro limiti di spazio predeterminati, per rispettare i quali viene amputata di dettagli anche essenziali oppure amplificata e a volte arricchita con dettagli fantasiosi. Sul suo contenuto poi incide la conoscenza tecnica dell’informatore, che spesso sbaglia. Così, per fare esempi concreti di gaffe giornalistiche, l’opinione pubblica comune può essere indotta a confondere la prescrizione del reato con l’assoluzione dell’imputato, l’amnistia con l’indulto, il codice di procedura civile col codice civile, la Corte europea dei diritti dell’uomo con la Corte di giustizia delle Comunità europee, o credere che – come si è udito da un politico intervistato in un telegiornale, avvocato per giunta – un’ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale disposta da un tribunale, provvedimento ineccepibile per definizione5, sia «un atto eversivo»: senza precisazioni 5 Cfr. art. 134 Cost.: «La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni»; art. 1 legge 9 febbraio 1948, n. 1: «La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte co-

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da parte dell’intervistatore. Quanto tutto ciò contribuisca a creare falsa coscienza sul diritto, non c’è bisogno di dirlo. Una grande ricchezza offre poi la letteratura, tanto che esiste un movimento culturale già affermato, appunto di «diritto e letteratura» (law and literature), assai prossimo alla sociologia del diritto (Sansone 2001; Mittica 2009). Questo tema meriterebbe una “prima lezione” a sé. Non posso diffondermi, ma neppure tacere che le fonti letterarie sono preziose e spesso anticipano anche largamente la riflessione scientifica. L’Orestea di Eschilo precede di secoli la ricerca socio-antropologica sulla nascita della regolazione giurisdizionale dei conflitti nelle società arcaiche (Ost 2004; Mittica 2006). Il processo di Kafka descrive l’estraniazione angosciosa dell’uomo dall’esoterica procedura giudiziaria che lo schiaccia, in modo più immediato delle ricerche sull’interazione nelle aule di giustizia. Che Pirandello anticipi Goffman nel riflettere sulla problematica identità dell’uomo chiuso nella sua maschera sociale, è un’osservazione ricorrente. E ancora, chi vuol capire il concetto di contingenza, cruciale in sociologia, può attingere a L’uomo senza qualità6 di Robert Musil (1972), incentrato sulla contrapposizione fra “senso della realtà” e “senso della possibilità”, per cui ciò che accade potrebbe non accadere o, per avventura, non essere neppure accaduto. Nulla o quasi infatti accade in quel romanzo. È un mondo illusorio come il suo ambiente austriaco, quella «Castituzionale per la sua decisione». Ringrazio Enzo Marzo che mi ha segnalato l’incredibile episodio. 6 Il titolo italiano non è felice. Der Mann ohne Eigenschaften indica infatti l’uomo (il protagonista Ulrich) privo di caratteri che ne definiscano l’identità. L’identità che si compone e scompone è infatti uno dei nuclei di questa mirabile opera, come osserva Resta (2006).

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cania» – combinazione del complicato intreccio fra l’imperiale e il regio («kaiserlich-königlich») – che nella nostalgica ironia di Musil rappresenta il centro indefinibile del grande impero multietnico ormai svanito: parole che rivelano come proprio lassù sia potuto nascere, con Eugen Ehrlich, il moderno pluralismo giuridico. Vi sono poi le fonti che il sociologo costruisce, secondo procedure quantitative e qualitative consolidate da decenni di ricerche sul campo. Qui il rapporto fra l’osservatore e la sua fonte è più immediato e il condizionamento reciproco più forte. Vi sono, infatti, dei soggetti che s’incontrano, dando vita a una relazione che non può mai essere completamente neutrale, anche se il ricercatore non si fa riconoscere: cosa questa che fra l’altro si presta a obiezioni dal punto di vista etico, tranne in casi estremi7. Sottolineo che questa relazione sussiste anche se l’incontro fra il ricercatore e i soggetti coinvolti nella ricerca è solo indiretto, come accade con l’uso di questionari postali o di altri mezzi, telefonici o informatici, di acquisizione di informazioni. Anche questi metodi, infatti, sollecitano reazioni di vario segno nella persona che viene raggiunta. Un questionario è solitamente prestrutturato e composto di domande chiuse, a risposta obbligata, cosa che può provocare fastidio nell’intervistato, che spesso vorrebbe scegliere modalità di risposta non previste; è nota inoltre la riluttanza dell’intervistato medio a compilare e restituire il questionario postale. Se poi, per l’uso di una tecnologia infor7 Vedi l’art. 2.3.4 del Code of Ethics dell’International Sociological Association (supra, nota 3): «The consent of research subjects and informants should be obtained in advance. Covert research should be avoided in principle, unless it is the only method by which information can be gathered, and/or when access to the usual sources of information is obstructed by those in power».

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matica o telefonica, tipica dei sondaggi d’opinione, è necessario identificare a priori i soggetti da intervistare e ottenerne il consenso, può nascere il dubbio che quel campione, anche se accuratamente estratto e ciclicamente rinnovato, non rappresenti perfettamente l’universo che si vuole studiare: non tutti, infatti, amano essere intervistati, soprattutto su temi “sensibili” come l’opinione morale o politica con cui la ricerca socio-giuridica facilmente va a coincidere. In questo rapporto personale col suo “pubblico” il ricercatore deve cercare di non farsi coinvolgere, cosa difficile soprattutto se si usano metodologie qualitative basate sul contatto prolungato e informale, come avviene con le interviste in profondità, con lo studio di storie di vita o con i cd. focus groups, ovvero gruppi di persone che sotto la guida di un moderatore si scambiano opinioni sul tema oggetto di ricerca, eventualmente dopo aver assistito a un esperimento, come può essere la proiezione di un film (Corrao 2000). Questi metodi posseggono il grande pregio di acquisire materiale “fresco”, non prestrutturato, più ricco di dettagli, su cui il ricercatore lavorerà liberamente a posteriori. Ma questo materiale, su cui il ricercatore influisce forse meno di quanto accade con un questionario asettico, è più fortemente influenzato dall’intervistatore e dalla sua maschera sociale. A differenza del soggetto che assieme ad altri mille riceve un questionario e rimane anonimo, questa persona è fisicamente presente. Così le sue risposte sono fatalmente un’autorappresentazione. In sociologia del diritto è spesso indispensabile, anche nelle ricerche quantitative, acquisire i primi dati attraverso interviste focalizzate con operatori giuridici, avvocati, giudici, funzionari di tribunale o di polizia. Ma si tratta spesso di dati carichi anche inconsciamente di percezioni det-

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tate dal ruolo sociale che si ricopre e si sente, di fronte a una ricerca, messo in gioco. È ovvio che un’indagine sulla crisi di efficienza della giustizia italiana, se non può prescindere dalle notizie acquisibili attraverso questi osservatori privilegiati, i quali possono rivelare dettagli essenziali per la comprensione dei fenomeni, deve anche scontare a priori che, salvo eccezioni, ognuno di questi testimoni possa offrire le spiegazioni meno compromettenti per la categoria cui appartiene. L’oggetto delle ricerche sociologiche sono, infatti, “soggetti” umani, i quali reagiscono all’indagine in modi, appunto, soggettivi. Anche se cooperano possono sviarla, così come possono ingannare il ricercatore o anche rifiutarsi, opporre resistenza o perfino una rivolta, la «rivolta dell’oggetto», come disse un antropologo sardo (Pira 1978). Ciò che si vuol dire, in sintesi, è che il ricercatore deve procedere con molto discernimento critico e molta cautela, due doti imprescindibili se si vuol fare ricerca sul terreno. Il discernimento critico deve investire, prima che le informazioni raccolte, gli strumenti concettuali con cui si intende raccoglierle, anche sul piano linguistico e narrativo. Si pensi alle ricerche vertenti sulla normatività giuridica nelle società che non producono diritto scritto oppure praticano forme di diritto orale alternativo a quello scritto che ufficialmente le regola, come nel caso delle popolazioni cosiddette zingare (Mancini 2004). In questi contesti i codici linguistici del ricercatore e della società osservata divergono radicalmente, costringendo il ricercatore a trarre informazioni non solo dalle descrizioni ma anche attraverso il linguaggio muto dei fatti. È questa la ragione per cui, raccogliendo la grande intuizione di Durkheim (1962), secondo cui il diritto – per dir così – può essere studiato da rovescio, guar-

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dando alle sanzioni che una società infligge quando le norme sono violate, molti socio-antropologi del diritto si dedicano a ricostruire le regole giuridiche attraverso l’osservazione del modo in cui in piccoli ambienti sociali (village approach) vengono trattate le dispute, ritenute un fatto endemico in tutte le società (Nader, Todd 1978). Ma anche allora il ricercatore deve stare attento a non sovrapporre il proprio codice culturale a quello della società studiata: può essere difficile cogliere il confine tra un conflitto reale e un conflitto ritualizzato o perfino simulato. Una forma importante di cautela è la costanza dell’osservazione e la ripetizione degli esperimenti. Almeno in teoria, la ricerca qualitativa impone tempi lunghi. Le interviste in profondità devono scavare nelle parole dell’intervistato, mettendone a nudo, se ci sono, le contraddizioni. L’osservazione di una comunità non può dunque risolversi in poche ore o in pochi giorni. La ricerca quantitativa, anche se esige una lunga preparazione, si svolge in tempi solitamente brevi e fotografa un ambiente particolare in un momento temporale ristretto. Altri ambienti possono reagire diversamente e passato quel momento le cose potranno essere cambiate. Per questo è raccomandabile non concentrarsi – per esempio – su un solo campione di popolazione e, inoltre, riproporre la stessa indagine entro un tempo non lungo. Questi accorgimenti permettono, se non di azzerare il rischio della soggettività, che caratterizza ogni ricerca sociologica, almeno di elevare l’indice di affidabilità delle osservazioni sul terreno. Il succedersi di risultati simili, o con differenze spiegabili, permette di accantonare dubbi e accumulare conoscenze che serviranno a formulare nuove ipotesi e confermare o correggere le teorie di riferimento.

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3. OSSERVAZIONI All’inizio ho scritto che la sociologia del diritto studia il diritto come modalità d’azione sociale, cercando di esprimere con parole attuali, compatibili con la teorizzazione sociologica, anche il senso più profondo delle famose parole di Roscoe Pound che da buon realista segnalò la distanza sussistente fra «il diritto nei libri» e il «diritto in azione». Ora dunque seguirò questa semplice chiave di lettura per illustrare brevemente la fertilità del metodo sociologico applicato allo studio del diritto. Si agisce – ho detto in precedenza – “attraverso” il diritto. Ciò significa assumere dei riferimenti normativi giuridici come guida delle proprie azioni e delle aspettative d’azione dei soggetti che entrano in relazione con noi. Il diritto cioè compare nell’interazione sociale sotto forma di modello che orienta e legittima azioni e aspettative. Tuttavia, in un mondo di risorse scarse, materiali o simboliche, questa interazione è sempre conflittuale almeno in potenza e questa conflittualità è insita nelle stesse norme giuridiche. Ho già ricordato che ogni norma che discrimina fra lecito e illecito – fra Recht e Unrecht, diceva nella sua lingua Luhmann – sceglie fra concrete aspettative d’azione, cioè enuncia un criterio distributivo che simultaneamente avvantaggia e svantaggia. Anche il criterio più equo, che attribuisce a ciascuno dei concorrenti una uguale porzione di risorse, possiede questa logica discriminante. Può avvenire, infatti, che la risorsa divisa in parti uguali non serva a nessuno dei contendenti, ma più spesso accade che i contendenti non condividano il criterio della suddivisione egualitaria. Spesso per protervia, come rivela una storia infinita di sopraffazioni. Ma non necessariamente. Che la donna, la ragazza-madre, il mi-

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nore, l’anziano, la vittima di catastrofi naturali, il profugo, il perseguitato politico e via dicendo, abbiano diritto a una quota privilegiata di alcune risorse, che possa compensare almeno minimamente la loro condizione di svantaggio, è il fondamento della cosiddetta terza generazione dei diritti umani, cioè i diritti economici e sociali, o del welfare state, se si preferisce. Rawls, come noto, ritiene nella sua Teoria della giustizia che questa sia l’unica eccezione ammissibile al principio generale di uguaglianza nel godimento delle libertà e sintetizza il concetto con la formula del ‘maximin’: dare di più a chi ha di meno (Rawls 1982). Ma anche questa minima forma di redistribuzione “diseguagliante” sollecita obiezioni da parte di chi s’ispira ad altri principi: il merito, l’abilità, il lignaggio, l’appartenenza etnica, fino alla forza bruta. Questo piccolo excursus su un tema che da Aristotele in poi impegna i cultori di filosofia morale vale qui solo a confermare, se ce ne fosse bisogno, che il conflitto sociale investe direttamente le norme giuridiche, dividendo il campo fra chi ne è avvantaggiato e chi ne è svantaggiato, fra chi condivide e chi non condivide i principi che le ispirano, fra chi ne rivendica l’applicazione letterale e chi resiste in nome del suo “spirito”, di un’altra lettura del testo normativo, di un’altra norma, di un altro principio, di un altro ordinamento giuridico: tutti argomenti che – come noto – possono essere invocati tanto sinceramente quanto strumentalmente, per nobilitare in forme legali il puro arbitrio. In questo senso, nella sostanza o nell’apparenza, il conflitto sociale è anche, e forse sempre, «lotta per il diritto», come dice il titolo di un libro fra i più celebrati di tutta la scienza giuridica (Jhering 1989). Il conflitto può sfidare la norma perché questa non è fissa, ma variabile. Lo è anzitutto in quanto enuncia-

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to linguistico. Non solo la norma generale, ma anche la norma individuale – la clausola contrattuale, la sentenza o l’ordine del giudice, il decreto amministrativo – presenta margini di incertezza o, come dice Kelsen, di «indeterminatezza»8, più o meno ampi che aprono corrispondenti spazi alla creatività di chi legge, interpreta o “applica” la norma stessa. L’ampiezza di questi spazi poi varia a seconda di come la norma è nata. Se una legge esce dal negoziato di diversi gruppi parlamentari, ognuno dei quali la “trascina” dalla sua parte, è probabile che il suo contenuto sia oscuro, vago, contraddittorio. Se una sentenza è il frutto di un confronto serrato fra più giudici in una camera di consiglio, e per avventura il suo estensore è stato messo in minoranza, facilmente conterrà il germe del dubbio e aprirà spazi alla discussione. Si può anzi dire che per paradosso – uno dei tanti paradossi del diritto – la norma più chiara è spesso (non sempre, per fortuna) quella che consacra la volontà di uno solo, che può crearla e sopprimerla a suo piacimento, e che uno dei costi della democrazia, da pagare senza esitazioni in nome della libertà, è proprio quello di un certo minor grado di certezza del diritto e di prevedibilità delle decisioni giuridiche. La norma è poi variabile perché, come ovvio, può essere cambiata. Nel diritto si proiettano simbolicamente delle volontà politiche. Esso le consacra, le nobilita e le legittima, conferendo loro la forza di un argomento ineccepibile da spendere soprattutto nei confronti di chi quelle volontà è costretto a subire. Ma la politicità del diritto significa conflitto, confronto, convincimento, persuasione, negoziato, imposizione, devianza, resistenza. Tutti questi eventi premono sulle norme, mu8

Kelsen (1956, pp. 93 sgg.; 1966, pp. 381 sgg.).

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tandole secondo le circostanze anch’esse mutevoli. Non c’è bisogno di un’analisi approfondita per verificare quanto del sistema giuridico italiano sia cambiato negli anni seguiti alla crisi della cosiddetta Prima Repubblica sotto le spinte esercitate dai vertici del sistema politico, anche con leggi retroattive e in dissonanza con altri paesi analoghi al nostro. Dunque, anche se concepita per durare a lungo, la norma nasce oggi, in contesti che domani saranno mutati. E la cambiano non solo la politica, con le sue contingenze spesso imprevedibili, ma anche l’economia con le sue oscillazioni, la tecnologia con la sua evoluzione, la cultura che reagisce variamente alla circolazione dei modelli di vita, ora recependoli, ora respingendoli. Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta il mondo è stato investito da un’autentica rivoluzione economica col trasferimento di una miriade di attività produttive dai paesi sviluppati nei paesi emergenti, che offrivano manodopera a costi imbattibili. Questa spinta è stata in parte bilanciata dalla diffusione di tecnologie informatiche raffinate da cui le piccole e medie imprese occidentali hanno tratto innegabili vantaggi, ma ha pur sempre prodotto cambiamenti profondi anche nei sistemi giuridici. Un recente libro di Robert Reich, già ministro del lavoro nell’amministrazione Clinton, li descrive con crudezza (Reich 2008). La concorrenza su scala globale – egli dice – ha indotto le grandi imprese a investire sul capitale fisso, a contenere sempre più i salari per i lavoratori comuni e a demolire le garanzie che un secolo di lotte sindacali avevano conquistato; ai manager delle grandi aziende sono stati indicati obiettivi cogenti di breve e medio termine sotto minaccia di licenziamento ma in cambio di altissimi compensi e benefici economi-

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ci; è così aumentata enormemente la stratificazione fra diverse categorie di cittadini; i dividendi sono stati azzerati e gli azionisti hanno cercato soddisfazione giocando su un mercato borsistico sempre più artificiale e gonfiato. La società attuale – insiste Reich – non è più il metaforico luogo d’incontro fra cittadini, imprenditori e lavoratori, i cui conflitti erano mediati dal ceto politico, ma un luogo in cui, nell’assenza crescente della mediazione politica e nell’emarginazione delle maggioranze, investitori e consumatori, divenuti i veri protagonisti, camminano sempre sull’orlo di un precipizio. Difficile negare che la crisi esplosa nell’autunno 2008 abbia dimostrato la consistenza di questa analisi. Dal canto suo l’avanzamento tecnologico può sovvertire regimi normativi consolidati. In un brevissimo arco di tempo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio seguente, nel mondo dei giornali stampati si è passati dalla linotype alla fotocomposizione. Mentre prima gli articoli venivano scritti a macchina o inoltrati al dittafono e poi composti e impaginati in tipografia dall’operaio “poligrafico”, quasi di colpo il giornalista, fornito di computer, ha iniziato a scrivere e impaginare direttamente i suoi pezzi. Ciò ha comportato, in Italia, una riorganizzazione del lavoro nelle redazioni anche in termini di qualifiche, mansioni e turni di lavoro, la riduzione al minimo della categoria dei poligrafici, la moltiplicazione dei centri di stampa esterni alle redazioni e delle edizioni locali dei grandi giornali e, non ultimo, la crisi del sindacato giornalistico, ben dimostrata dal fatto che il penultimo contratto collettivo di categoria è sopravvissuto alla sua scadenza per quattro anni prima che le parti ne stipulassero uno nuovo, fatalmente limitativo di alcune prerogative di cui la professione giornalistica aveva goduto per decenni.

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La cultura – di cui secondo Treves (1989) il diritto è una proiezione – non è meno minacciosa per la fissità delle norme. Qui soprattutto la famiglia e la persona sono un campo privilegiato per osservare come il costume preceda spesso il riconoscimento normativo ufficiale, a volte con la mediazione di provvedimenti giudiziari innovativi, altre volte perché le prassi sociali s’impongono travolgendo le norme. Per il primo caso, valgano gli esempi dell’abolizione dei reati di adulterio e di relazione adulterina o della prima decisione ammissiva dell’aborto, dovuti a interventi della Corte costituzionale9; in tempi più recenti, le decisioni della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Milano nel caso Englaro10, in cui si è detta una parola impegnativa sulla fine della vita, e ancora l’ordinanza di rinvio del Tribunale di Venezia alla Corte costituzionale per sospetta illegittimità delle norme del codice civile che non contemplano il matrimonio fra omosessuali11. Per il secondo caso, si pensi in passato alla crisi della famiglia estesa e dell’autorità patriarcale in favore del modello cosiddetto nucleare e all’inarrestabile, benché sempre ostacolata, emancipazione della donna; più recentemente, all’esplosione delle convivenze di fatto che, soprattutto nelle grandi città occidentali, italiane in particolare, stanno soppiantando i matrimoni civili e religiosi (Pocar, Ronfani 2008). Parole e fatti dotati sempre di un grande impatto sul diritto, anche se giudicati diversamente a seconda dei punti di vista e quindi, a loro volta, forieri almeno in potenza di altri conflitti. 9 Per l’adulterio e la relazione adulterina, vedi Cort. cost., sentenze 16 dicembre 1968, n. 126 e 3 dicembre 1969, n. 147; per l’aborto, sent. 18 febbraio 1975, n. 27. 10 Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748 e C. App. Milano, 9 luglio 2008. 11 Trib. Venezia, ord. 3 aprile 2009.

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Infatti anche il campo delle scelte individuali e familiari non procede sempre pacificamente in una sola direzione. In Italia, la legge 19 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione assistita e il progetto di legge sul testamento biologico, sotto l’influenza della concezione cattolica della famiglia e della persona, rispondono a principi etici ben diversi da quelli che hanno ispirato i mutamenti appena descritti. Nella stessa direzione, anche più decisamente, vanno i modelli di vita privata proposti dalla religione islamica e imposti per legge in alcuni paesi musulmani. Se questi movimenti avranno successo è anche materia di ipotesi socio-giuridiche giacché si tratta di stabilire se innovazioni legislative, che apparentemente contraddicono un costume sociale consolidato, sono il frutto di resistenze o di nuovi cambiamenti già avvenuti presso gruppi sociali consistenti; in caso contrario, se esse saranno in grado di orientare diversamente il costume o rimarranno lettera morta. Analizzando le opinioni in materia, non mancano segnali contrastanti: una ricerca sui giudici dei tribunali per i minorenni italiani, volta ad accertare la loro idea di famiglia, di diritti del minore e di giustizia minorile, non ha potuto individuare un modello etico nettamente prevalente fra gli intervistati, oscillanti fra “legalismo” e “familismo”, fra una concezione dinamica e una concezione statica della compagine familiare (Ronfani 2006). D’altronde una ripresa delle religioni tradizionali nelle società di fine millennio era stata da tempo autorevolmente osservata (Beckford 1991). Lo studio del distacco fra norme e prassi deve sempre partire da una constatazione: che una disposizione giuridica, specialmente se generale come la legge, esplica effetti fuori dall’ambito giuridico strettamente inteso. In altri termini, va a “impattare” sulla società – co-

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me dice Friedman (1978, pp. 101 sgg.) – o, se si preferisce, su altri sottosistemi sociali, economico, politico, culturale, familiare – veicolando nuovi modelli d’azione. Ciò è visibile soprattutto nelle misure cosiddette promozionali volte a conseguire effetti sociali su larga scala: rimozione di disuguaglianze, attribuzione di benefici, pianificazioni economiche e urbanistiche, aiuti di Stato alle attività culturali, tutela dell’ambiente, fino ai cambiamenti di costume privato, come nel caso delle azioni dirette a estirpare la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Soprattutto queste politiche, o “azioni positive”, che esigono grande dispendio di mezzi economici e organizzativi, inevitabilmente producono reazioni. Gunther Teubner, sociologo del diritto d’ispirazione funzionalista, le ha descritte con toni scettici parlando di un «trilemma regolativo». L’impatto fra il sottosistema giuridico e un altro sottosistema sociale – egli dice – può non produrre alcun effetto, oppure danneggiare a seconda dei casi l’uno o l’altro dei due sistemi che collidono. L’autore quindi approva la tendenza delle società attuali a seguire modelli di regolazione non centralizzata, ma indiretta, o «riflessiva», lasciata all’autonomia di corpi sociali intermedi – enti, associazioni, organizzazioni – i quali sono sollecitati dal potere politico ad autoriformarsi, a riformare e, al contempo, a fare da cuscinetto intersistemico fra il potere politico e i cittadini (Teubner 1987a, 1987b, 1996, pp. 93 sgg.). Fra le cause più rilevanti del fallimento di una regolamentazione giuridica sono certamente l’impotenza, l’inefficienza o la resistenza degli apparati burocratici cui spetta di metterla in atto. In mancanza di strumenti applicativi – informazione, mezzi economici, strutture organizzative – una disposizione normativa non può essere implementata, come si usa dire, o “messa in moto”

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(Blankenburg 1995), cioè produrre gli effetti previsti ed essere “efficace”, secondo la più comune nozione sociogiuridica di efficacia del diritto. I mezzi a disposizione e la volontà effettiva di usarli da variabile dipendente divengono una variabile indipendente, la cui carenza può far sì che la disposizione resti lettera morta, un puro “manifesto” politico secondo una felice espressione (Bettini 1983, 1990), capace solo di operare a un livello simbolico, specialmente mediatico, per attirare consenso sul ceto politico finché non si scopre l’inganno. Ma un intervento normativo può fallire per motivi ancor più seri degli ostacoli burocratici. La sproporzione fra gli obiettivi delle norme e i mezzi per implementarle può essere talmente grave da rendere le norme inapplicabili, con conseguenze di grande rilievo sia sul sistema giuridico, sia su altri sistemi d’azione sociale, in particolare politico ed economico. Un esempio tipico è certamente quello dei sistemi di giustizia, su cui mi soffermo brevemente se non altro perché l’Italia soffre in questo campo di una crisi secolare che nessun intervento legislativo, sia processuale sia ordinamentale, è mai riuscito non solo a risolvere, ma anche ad attutire in qualche modo, come mostrano soprattutto i dati sulla proverbiale lunghezza dei giudizi presso tutte o quasi le giurisdizioni: civili, penali, amministrative, contabili. Che il nostro paese presenti una situazione particolarmente grave è certo, tanto che nei decenni la crisi della giustizia italiana è stata studiata da un’immensa letteratura e da una gran varietà di punti di vista, compreso quello socio-giuridico. Negli anni Sessanta Treves diresse una ricerca interdisciplinare del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale su L’amministrazione della giustizia nella società italiana in trasformazione, da cui

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uscirono undici volumi12. A quarant’anni di distanza, il Consiglio Superiore della Magistratura commissionò alla stessa istituzione il progetto di fattibilità di una nuova ricerca che ebbe poi luogo con fondi ministeriali fra il 2002 e il 2005, dando vita ad altri dodici volumi, di cui nove già apparsi. Ma anche da questi e dalla miriade di altri studi sarebbe difficile trarre conclusioni veramente affidabili sulle cause di un fenomeno che vulnera l’immagine del sistema giudiziario, della magistratura e del diritto stesso del nostro paese (Ghezzi, Quiroz Vitale 2006), anche all’estero, essendo universalmente nota – fra le altre cose – la moltitudine di sentenze di condanna che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto all’Italia per violazione del principio del «ragionevole ritardo» nella celebrazione dei processi (Pannarale 2002; Sanna, Nascimbene 2007). Una vera trattazione del tema è qui impossibile. Un punto però va sottolineato, ed è il sospetto che una crisi di così drammatiche proporzioni nasca da una discrasia incolmabile tra finalità della giurisdizione e mezzi a disposizione per realizzarle. Mezzi non solo economici, benché sia notorio che il bilancio della giustizia in Italia è fra i più sacrificati e la sua insufficienza ha gravi conseguenze, ma anche e soprattutto organizzativi nel senso ampio della parola, riferito cioè al personale, alla sua dislocazione nelle strutture e nel territorio, alle procedure: il tutto, appunto, se rapportato agli obiettivi istituzionali, che sono etici e politici innanzitutto. Che la discrasia di cui parliamo abbia profonde radici lo dimostra una constatazione non frequente ma necessaria. Il caso italiano sarà anche tra i più gravi, ma non è isolato. Sono decenni ormai che in molti paesi si 12

Vedi la sintesi in Treves (1972).

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discute della crisi del modello formale di giustizia nato con l’illuminismo giuridico, il primato della legislazione e la codificazione. Non perché i suoi principi siano sbagliati, ma perché la sua realizzazione pratica li tradisce sistematicamente. Il diritto “certo”, fondato su poche chiare regole, aveva bisogno di una giustizia certa, rapida, prevedibile ed efficace. Lo esigeva la necessità squisitamente moderna della minimizzazione dei rischi, funzionale al miglior impiego e alla circolazione delle risorse. Ebbene, se il diritto sostanziale è andato in direzione opposta rispetto a questo modello, il processo non è stato da meno. Di esplosione della litigiosità e di sovraffollamento dei sistemi giudiziari – come già ricordato – si parla in tutti i paesi da decenni, e ovunque si è cercata invano una soluzione ordinamentale o, in mancanza, extra-ordinamentale. Proprio a causa della difficile riformabilità della giustizia tradizionale si sono moltiplicate le proposte di una giustizia alternativa, più prossima al cittadino, informale, adattabile alla varietà dei conflitti, troppo diversi per essere riportati a un unico modello di trattazione. La letteratura socio-giuridica abbonda di questi temi. Negli Stati Uniti un «Civil Litigation Research Project» ha occupato dei numeri speciali della «Law and Society Review» già negli anni Settanta e sui suoi risultati si è continuato a discutere per altri due decenni. In Canada esiste un annuario specializzato, il «Windsor Yearbook of Access to Justice», giunto ormai alla trentesima edizione. Con la stessa etichetta e sotto la guida di Mauro Cappelletti si svolse negli anni Settanta e Ottanta presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole un progetto di indagine esteso a una pluralità di paesi, a riprova della dimensione globale del problema. All’inizio del nuovo secolo, un convegno svoltosi a Tokyo nel 2001

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comparò sei situazioni nazionali (Cina, Francia, Germania, Giappone, Inghilterra e Stati Uniti), ben diverse per tradizione, culture e sistemi giuridici, ma convergenti per quanto riguardava lo stato di sofferenza dei rispettivi sistemi di giustizia tradizionale (AA.VV. 2001). Ma la conferma più vistosa della natura endogena e strutturale della crisi doveva provenire nuovamente dagli Stati Uniti. Nell’autunno del 2004 un numero speciale del «Journal of Empirical Legal Studies», aperto da Marc Galanter, uno dei massimi studiosi di disputing, e ricco dei contributi di altri studiosi, rivelava con dovizia di dati che il modello formale di processo adversarial civile e penale, quello che a seconda dei livelli di giurisdizione e dei diversi stati, dopo una istruttoria pre-dibattimentale, finisce davanti a una giuria o davanti al giudice, simbolo della giustizia americana diffuso da mille film e telefilm, è «una specie a rischio di estinzione»13 (Galanter 2004). Che esso presentasse dei limiti e dei problemi era naturalmente noto (Kagan 2001) e del resto è sempre stato minoranza rispetto ad altri sistemi di trattamento delle dispute (Friedman 2004). Ma questa minoranza si è fatta negli ultimi anni così esigua (percentuali medie ormai sotto il 2% nel campo civile e il 5% in quello penale, nei circuiti federali; solo un po’ più alte nelle giurisdizioni statali) da non potersi neppure definire marginale, ma semmai sporadica. Come si tratti la quantità enorme di dispute negli Stati Uniti è presto detto: le questioni civili soprattutto attraverso meccanismi di negoziazione privata prima o durante il giudizio; i processi penali soprattutto attraverso la preselezione dei public prosecutors 13

Refo.

Sono le parole iniziali della curatrice del volume, Patricia Lee

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non obbligati a esercitare l’azione penale e successivamente attraverso il patteggiamento (plea bargaining). Qui non importa chiedersi se questo sistema di smaltimento del lavoro giudiziario sia equo o iniquo rispetto al sacro principio del due process of law. Ciò che preme dire è che l’intero sistema processuale americano collasserebbe senza l’esistenza di queste valvole di sfogo, gradite anche alle parti perché molto più rapide e meno costose e rischiose del processo, in particolare con giuria, considerando anche la durezza delle sanzioni, soprattutto penali, e lo sfavore istituzionale per le impugnazioni. Dunque il collasso del sistema italiano può spiegarsi almeno parzialmente col fatto che questi meccanismi deflativi, quando esistono, operano qui molto più blandamente. La giustizia formale è straordinariamente ingombra fino ai gradi più alti (in Italia si impugnano anche le sentenze di condanna patteggiate, confidando nella prescrizione del reato), mentre sono ancora allo stato embrionale le vie alternative di risoluzione dei conflitti, le cd. ADR (alternative dispute resolution), altrove apparentemente in relativo rigoglio (Pupolizio 2005; Cominelli, De Palo 2006). Premesso che la litigiosità è endemica soprattutto in una società mobile a mercato libero e che il problema non è soffocarla, ma incanalarla entro vie istituzionali che l’assorbano, evitando che erompa in conflitti perpetui (si pensi alle faide nelle società “chiuse”), va detto che la via del giudizio formale, benché cruciale per una società, non è l’unica, ma soltanto l’estremo di una tassonomia che solitamente indico con l’acronimo ANMAAG: abbandono, negoziato, mediazione, arbitrato, amministrazione, giudizio (vedi per esempio Felstiner 1974). Si tratta di una linea che va dalla minore

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alla maggiore formalità, idealmente spezzata fra “negoziato” e “mediazione” perché fino a quel punto il rapporto dialettico è diadico, impegnando solo le parti, e oltre quel punto diventa triadico in quanto interviene un terzo nel rapporto. Un terzo che suggerisce una soluzione (mediatore), la detta secondo criteri scelti dalle parti (arbitro), la impone scegliendola d’autorità (amministratore: si pensi a un capo d’azienda) o ancora la impone applicando una regola che lo accomuna alle parti (giudice)14. Si è già ricordato che la presenza di questo terzo può “ridurre la complessità”, ma anche accrescerla giacché porta con sé una dose a volte difficilmente calcolabile di rischio. E il rischio, in effetti, è uno degli elementi che più influenzano le scelte delle parti fra i vari metodi indicati. Occorre però che tutte le vie siano aperte: se, come in Italia, ciò non accade e l’unica effettivamente disponibile è la via formale del giudizio, per giunta ostruita da una moltitudine di strettoie burocratiche, è ovvio che essa si ingombri irreparabilmente e collassi. Che il rischio sia un fattore importante nelle scelte giuridiche (Steele 2004) è chiarissimo quando si abbia a che fare con norme che non sono tanto inapplicabili, come paiono ormai quelle relative al modello “perfetto” di giustizia formale dei tribunali, quanto pericolose per i loro effetti perversi (Boudon 1981): quegli effetti, cioè, che tradiscono le aspettative con cui le norme sono state concepite. Il processo con giuria nei paesi di common law è un buon esempio perché le decisioni, so14 A queste modalità di trattamento delle dispute alcuni autori aggiungono la conciliazione, se il “terzo” è chiamato ad aiutare le parti a superare col dialogo il dissidio che le divide. Tuttavia questa modalità, da un lato, è spuria rispetto alle altre perché definita attraverso il risultato cui si mira più che attraverso il metodo, e dall’altro è riportabile alla mediazione, latamente intesa.

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litamente gravide di pesanti conseguenze, sono il risultato di dinamiche di gruppo in cui giocano fattori psicologici imponderabili. Tralasciando il campo penale fin troppo ovvio, si pensi alla grande polemica americana sui cd. danni punitivi, quelle somme di imprevedibile entità che le giurie o i giudici liquidano in aggiunta ai danni materiali in ragione della gravità intrinseca del comportamento dannoso. Il rischio legato a queste decisioni imponderabili ha naturalmente sollevato la fiera protesta delle compagnie di assicurazione, con conseguente crisi di questo settore economico, durissime polemiche politiche e proposte di interventi calmieratori. È bensì probabile che quella protesta fosse in parte strumentale e il rischio paventato dalle compagnie fosse stato strumentalmente amplificato, come rilevato con dati empirici significativi (AA.VV. 1998). Ma il divario fra modello e realtà del diritto può anche essere l’effetto di una ben orchestrata messa in scena. E comunque la percezione, anche se amplificata, di tali rischi ha certamente incentivato quella fuga dalla giustizia formale di cui si è appena parlato. Il fatto è che ogni modello, in quanto azione, suscita una reazione, a volte assai resistente. E anche la resistenza incide fortemente su quel divario e sull’efficacia del modello. Fra la moltitudine di esempi ne scelgo uno che spesso ripropongo proprio perché poco dibattuto, eppure di grande interesse storico e sociologico. A partire dalla fine del secolo XVI, in nome del libero mercato, della libera circolazione dei beni e dell’individualismo proprietario (Macpherson 1973), i governi hanno dettato regole ferree per la cosiddetta liquidazione delle forme di proprietà collettiva e di uso comune delle ricchezze. Già Marx descrisse gli effetti degli enclosures acts che, disponendo la recinzione dei

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terreni, provocarono l’impoverimento del ceto contadino. Ridotti in miseria – si legge nel Capitale – i contadini lasciarono le terre e, colpiti anche dalle leggi contro l’accattonaggio, si incanalarono verso la nascente manifattura, formando la base di quello che nel XIX secolo sarebbe diventato il proletariato industriale (Marx 1975b, I, pp. 879 sgg.). E molti anni prima sempre Marx aveva denunciato sulla «Neue Rheinische Zeitung» la soppressione del secolare diritto collettivo della “povera gente” di raccogliere la legna caduta nei boschi (Marx 1975a). Qui non possiamo discutere queste tesi marxiane, peraltro condivise da autori di diversa ideologia, ammiratori di quel complesso intreccio fra pubblico e privato, fra proprietà e controllo delle risorse, che fu tipico del Medioevo europeo. Ciò che va segnalato è che contro le leggi abolitrici dei diritti di sfruttamento comunitario delle risorse fondamentali (acqua, terra), la resistenza è stata così tenace da produrre effetti visibili a distanza di secoli. Nella sola Italia – ma il discorso è universale e sempre più vivo15 – esistono ancora, ben vive, forme di “uso civico” e soprattutto di proprietà collettive che nessuna legge o sentenza è riuscita a sradicare: basta seguire i lavori di una conferenza che si tiene ogni anno presso l’Università di Trento, dove esiste un centro di studi specializzato in materia16, per rendersi conto della vastità del fenomeno. Ed è, sia detto per chia15 Soprattutto a partire da una nota denuncia apparsa nel 1968, che segnalava come l’appropriazione privata di risorse comuni ne comportasse la distruzione a danno di tutti (Hardin 2000). 16 È il Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive, diretto da Pietro Nervi, economista e promotore anche dell’«Archivio Scialoja-Bolla. Annali di Studio sulla proprietà collettiva».

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rezza, un fenomeno complesso, non riducibile allo schema semplicistico di un residuo del tempo andato. È anche quello, ma non solo e sempre meno. Infatti le forme di comunitarismo, per esempio agropastorale, non negano radicalmente il diritto di proprietà perfetta, ma parzialmente vi si integrano. Il maso chiuso tirolese di cui abbiamo già parlato è bensì proprietà perfetta e indivisibile intestata a un solo soggetto, ma coordinato con gli altri abitanti di una valle, in particolare degli altri masi, nello sfruttamento di risorse comuni: le malghe, i boschi, i pascoli, l’acqua libera dei torrenti e quella incanalata in chilometri di fosse e rogge sapientemente scavate lungo i sentieri secolari. In secondo luogo, va detto che anche il comunitarismo, non meno della proprietà individuale, include ed esclude (Ferrari, Masia 2003). Il territorio della Magnifica Comunità di Fiemme, appartenente agli abitanti degli “undici comuni”, purché residenti da almeno sette anni, è a questi riservato. Così i territori di Cortina d’Ampezzo appartenenti alle storiche famiglie dei “Regolieri”. Così ancora i diritti di pesca nelle Valli di Comacchio e quelli dello stagno di Cabras presso Oristano, riservati alle popolazioni locali benché indeboliti da quando l’economia esterna ha virato verso il turismo e, per giunta, ha cominciato a scarseggiare la materia prima, cioè rispettivamente le anguille e il muggine. A parte i contrasti al proprio interno, sempre possibili, anche queste comunità vivono dunque un conflitto con l’esterno, e non solo contro le ricorrenti leggi abolitrici, sempre all’opera in un’economia che trascende ogni confine, ma anche contro i continui tentativi di appropriazione individuale di ciò che era comune: è stato riscontrato che casi di pluridecennale violenza locale hanno probabilmente origine da tali invasioni (Masia 1997).

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In questa condizione di endemico conflitto le comunità hanno resistito non solo opponendo al modello nuovo, imposto dalla legge, il vecchio inalterabile modello, ma anche inserendo il nuovo nel vecchio, oppure adattando il vecchio al nuovo sino a cambiarlo radicalmente. La già citata ricerca sui masi chiusi ha accertato per esempio che soprattutto in Val Venosta, di tradizione reto-romanica benché germanizzata, molti masi sono stati creati in tempi recenti per fruire della legislazione masale tenuta in vita (e rinnovata) come simbolo della cultura rurale sud-tirolese (Frati 2001). E per un esempio di adattamento storico, che si presenta come un’autentica eterogenesi dei fini, si pensi alla straordinaria vicenda delle Partecipanze agrarie dell’Emilia. Queste nacquero nel profondo Medioevo mediante concessioni di terreni incolti a folti gruppi di braccianti affinché li bonificassero. Divenuti “proprietari” collettivi di queste terre, essi le divisero in tanti appezzamenti assegnati pro tempore (cinque, sei, nove anni) alle diverse famiglie mediante sorteggio. Le generazioni si sono succedute, l’economia è mutata, ma tuttora le stesse famiglie condividono l’antica proprietà comune. Non necessariamente però coltivano gli appezzamenti sorteggiati, anzi più facilmente li affittano a famiglie esterne, così che i comuni in cui vivono presentano una composizione demografica particolare, divisa fra “partecipanti” e “non partecipanti”. Proprio la peculiarità di questo istituto, non riportabile ad alcun preciso modello giuridico, ha permesso alle Partecipanze di vincere i tentativi di abolizione particolarmente insistenti fino alla metà del Novecento e, al tempo stesso, fa pensare a una forma di collettivismo capitalistico, o di capitalismo collettivistico, di grande interesse teorico per la sociologia del diritto.

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Sarebbe, infatti, difficile non riconoscere in questa forma di collettivismo proprietario i segni, appunto, della proprietà intesa come controllo esclusivo di risorse economiche, se non di un individuo, di un gruppo sociale. La spinta verso l’appropriazione, in questo caso mediata da una socialità plurisecolare, è sempre viva ed è sempre forte, altresì, la potenza simbolica del concetto giuridico di proprietà, il fascino di un istituto che funge da scudo protettivo contro l’invasione altrui. Un grande giurista austriaco, Karl Renner, che fu cancelliere della neonata Repubblica austriaca dopo la Prima guerra mondiale e presidente dopo la Seconda, scrisse un famoso libro – una delle pietre miliari della sociologia del diritto – in cui mise in luce come l’istituto proprietario sia rimasto quasi integro nella forma giuridica benché nel tempo il controllo della ricchezza mutasse assumendo caratteri sempre più astratti (Renner 1981): dalla proprietà “fisica” di una casa o di un campo alla titolarità delle quote o delle azioni di una società commerciale sino – aggiungiamo – alla proprietà intellettuale di un’opera dell’ingegno, alla titolarità di un marchio o di un brevetto. Dall’apparizione di quest’opera nel 1929 sono trascorsi molti anni, eppure oggi si può spiegare in termini di lotta per l’appropriazione delle ricchezze anche la tendenza a monopolizzare l’accesso all’infinito spazio collettivo della comunicazione telematica: la battaglia contro gli hackers da parte dei gestori della rete (Poier 2009). A questo punto credo che risulti chiara la profonda inerenza fra diritto e conflitto, da cui siamo partiti. Il divario fra norma e prassi, fra modello e realtà, è dovuto anche e soprattutto a una lotta per l’accesso alle risorse, materiali o simboliche. Qui insorgerà qualcuno accusandomi di proporre una visione troppo materiale, per

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non dire materialistica, della convivenza umana e del diritto. Ma la risposta non è difficile. Intanto, ciò per cui si lotta non sono solo le ricchezze materiali. La lotta per l’autonomia decisionale o contro la pretesa di obbedienza ingiustificata è squisitamente morale. Inoltre, come vi sono coloro che lottano per rafforzare la propria posizione di privilegio e di dominio anche a costo di privare il prossimo dell’essenziale, vi sono anche coloro che lottano per sottrarsi o sottrarre il prossimo agli effetti del privilegio altrui. Ma soprattutto va ricordato che quando la lotta abbandona le vie della forza bruta per prendere quelle della regola, cioè del diritto, acquista già una sua nobiltà, se non altro perché ogni regola, anche la più antiegualitaria (ne abbiamo quotidianamente degli esempi), ha in sé il germe dell’uguaglianza grazie al principio kantiano dell’universalizzabilità: ovvero una regola si dovrebbe applicare imparzialmente a tutti quelli che ricadono sotto la sua previsione. È per questo che i capi politici hanno spesso paura del diritto. La lotta che prende le vie del diritto è dunque lotta per il diritto, come disse Rudolf Jhering (1989), il che significa lotta per il riconoscimento normativo di rights, o entitlements, cioè di diritti soggettivi. Questo tema, cui la sociologia del diritto dedica attenzione solo da pochi anni, è in realtà ineludibile per la nostra disciplina. Osserviamo sociologicamente come nasce un right. Prima si avverte una privazione e, come si disse all’inizio del nostro discorso, questa sensazione può essere particolarmente acuta quando l’oggetto desiderato che ci manca è da altri pacificamente goduto o perfino monopolizzato. Se non si rinuncia alla lotta, si apre allora un processo sociale sintetizzabile con tre participi presi liberamente a prestito da un noto articolo dedicato alle

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fasi del processo: «naming, blaming, claiming» (Felstiner, Abel, Sarat 1980-81). Anzitutto si dà un nome a ciò che ci manca. Spesso quel nome c’è già, si tratta solo di farlo proprio e sottrarlo al monopolio altrui: è lo schiavo che vuole essere libero, la donna che reclama il diritto di voto. Indi, possibilmente unendo coloro che condividono questa condizione deteriore e dando vita a un gruppo di pressione, poi a un gruppo di conflitto (Dahrendorf 1970, pp. 253 sgg., 325 sgg.), si passa a “biasimare” pubblicamente quella condizione. I sindacati, i partiti, i movimenti femministi, e poi i gruppi di tutela degli omosessuali, dei minori, degli invalidi, dell’ambiente e via dicendo, sono nati così, per rendere pubblica una condizione percepita come ingiusta. E infine si agisce, si indirizza un claim, un’istanza, nella sede opportuna, che può essere un parlamento come pure una corte di giustizia nazionale o internazionale: molti claims italiani, per esempio, son dovuti passare per la Corte costituzionale, per la Corte europea dei diritti dell’uomo o per la Corte di giustizia delle Comunità europee, prima di essere accolti contro la resistenza a volte accanita delle nostre istituzioni politiche. Il claim, ovviamente, può avere successo o fallire: habent sua sidera lites, come si diceva quando per esprimersi si usavano ancora le frasi latine. Ma se osserviamo la storia umana degli ultimi secoli, constatiamo un fenomeno straordinario, che sempre in latino possiamo chiamare di vis espansiva del movimento dei diritti. Un diritto riconosciuto ne trascina altri con sé, com’è stato osservato a proposito dei paesi ex comunisti (Kurczewski 1993). In tre secoli i diritti soggettivi ritenuti incoercibili in quanto appartenenti per nascita agli esseri umani, singolarmente o collettivamente presi, si sono moltiplicati e gradualmente sono stati assorbiti e positi-

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vizzati nei testi costituzionali, fino a divenire lo scheletro che permette ai sistemi politici di mantenere un apprezzabile grado di resistenza interna (Luhmann 2002). Ed è uno scheletro sempre più complesso, con mille ramificazioni. Un tema dominante degli ultimi decenni, osservato lucidamente da Bobbio (1992), è quello della “specificazione” dei diritti, rivendicati non solo in nome dell’uguaglianza, ma anche in nome della diversità, con esplosione di rivendicazioni sempre più particolari e atomistiche. Non più uomini e donne come tali, ma uomini e donne in virtù della loro speciale condizione, del loro ruolo, della loro libertà di scelta. Non più popoli considerati collettivamente, ma gruppi sociali rivendicanti ognuno la propria distinta identità. Quindi, non più solo il diritto di fruire della stessa libertà di cui altri fruisce in base a una norma, ma anche il diritto – sacrosanto in molti casi – di deviare dalla norma: perché dev’essere imposto alla studentessa islamica di togliersi il velo a scuola? e perché, ugualmente, deve esserle imposto dalla famiglia quel medesimo velo contro la sua volontà? È evidente che questo movimento espansivo, in cui Benedetto Croce individuerebbe una prova dell’incoercibile tendenza umana alla libertà, non è storicamente a senso unico. Nella storia umana le libertà sono sempre a rischio e non sono pochi gli esempi anche recentissimi che potremmo addurre a riprova. Non sempre vincono le maggioranze meno avvantaggiate sulle minoranze privilegiate. E non sempre le maggioranze si rendono conto dei loro svantaggi e dei rischi che corrono, e sono sempre all’opera i tentativi di addomesticarle con divertimenti e illusioni (Cheli 1992, pp. 173 sgg.), di ridurle a “massa” (Ortega y Gasset 1984). I diritti sono sempre in pericolo e libertà conquistate con secoli di

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lotte possono andar perdute con l’emanazione di una sola legge, magari retroattiva. Tuttavia la lotta prosegue e il diritto l’accompagna, perché perfino il dittatore sente il bisogno di legittimare il suo agire attraverso la potenza simbolica di una norma giuridica che convoglia con sé un’immagine di giustizia anche quando è palesemente ingiusta secondo il comune senso morale. Non credo quindi che in futuro il diritto sia destinato a scomparire o a perdere efficacia, come talvolta si dice, a pro di altri sistemi di controllo sociale o perfino di una condizione sociale in cui ognuno sceglie liberamente la propria regola, come un fatto «estetico» (Ghezzi 2009, p. 387). Ora, che nella società allignino soggetti che eleggono il proprio arbitrio a norma di vita sociale, è cosa nota, ma per fortuna non generalizzabile. Una tale visione sembra dunque a tutta prima una contraddizione in termini. Per impedire gli scontri agli incroci sono state inventate le rotatorie, più agibili dei semafori, ma è difficile immaginare che anche quelle vengano soppresse e non esista più una regola che disciplina la precedenza. E così via, potremmo addurre un’infinità di altri esempi lungo la piramide kelseniana delle norme, fino a quelle costituzionali, che garantiscono i diritti civili e proteggono le persone comuni da chi – appunto – vuol fare legge del proprio mero arbitrio. È questo, direbbe Treves, il fine ultimo del diritto.

Per concludere

Giunto alla fine di questa “prima lezione” so bene che non tutte le curiosità eventuali dei miei lettori sono state appagate. Se la sociologia del diritto segue il diritto «come se fosse la sua ombra» (Bobbio 1971, p. 273) e il diritto “copre” tutti gli aspetti della vita umana, è ben chiaro che la nostra disciplina tocca una miriade di problemi che per forza di cose non ho considerato in queste pagine. Per affrontarli tutti non basterebbe neppure un intero corso, anzi un’intera vita di ricerche. Ho detto all’inizio che l’Istituto internazionale di sociologia del diritto di Oñati raccoglie oggi circa 18.000 volumi e 70.000 documenti nel data base. Ebbene confesso che ogni volta che visito quella biblioteca, da cui ormai può prendere le mosse ogni ricerca socio-giuridica, provo un senso di sottile inquietudine, avvertendo l’impossibilità di tenere il passo con lo sviluppo incessante di questo discorso scientifico. Così pure, quando prendo in mano i tre volumi dell’Encyclopedia of Law and Society, frutto della cooperazione di molte decine di specialisti coordinati da David Clark, storico e sociologo del diritto americano (Clark 2007). Resisto all’inquietudine solo pensando a due cose, l’una generale, l’altra particolare.

Per concludere

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La prima – già detta – è la consapevolezza che più si procede con la conoscenza, più si allarga il campo di ciò sappiamo di non conoscere: e questa produzione offre un significativo riscontro empirico di questa convinzione socratica. La seconda, più banale, è che, se ogni giurista puro coltiva un orticello nell’ambito della sua stessa specialità, allora anche quell’«ombra» di cui parlava Bobbio non può che corrispondervi per dimensioni. Ovviamente il buon giurista deve impadronirsi di strumenti concettuali e metodologici che permettono di affrontare ogni aspetto del diritto e lo stesso è richiesto al sociologo del diritto circa i suoi concetti e metodi. Ma l’universalismo è impossibile o è praticabile solo a dispetto della profondità. È quindi naturale che la sociologia del diritto si suddivida anch’essa in tante ramificazioni specialistiche. Dunque non sorprenderà che, per la vastità della materia o per non averne approfondito qualche sua parte nel corso della mia vita, in queste pagine abbia trascurato molti temi di sicuro interesse. Penso agli ordinamenti giuridici parziali, autonomi o semi-autonomi, fra cui primariamente la famiglia, su cui converge l’attenzione di una moltitudine di studiosi in ogni parte del mondo e che offre un campo di osservazione straordinario, se non altro perché sfugge a quel processo di omologazione culturale che si può osservare in altri campi del diritto. Penso anche alle professioni legali, la cui importanza per la sociologia del diritto non ho bisogno di dimostrare dopo aver sostenuto a lungo l’idea che il diritto è una modalità d’azione sociale: i principali attori, sebbene non gli unici, sono proprio loro, i giudici, gli avvocati, i giuristi accademici, i notai là dove esistono, i funzionari di polizia e via dicendo. E penso altresì a tutti quei settori del diritto penale che stimolano studi

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sconfinanti nella criminologia, nella sociologia della devianza e nello studio di quelle “istituzioni totali”, carceri e ospedali psichiatrici, cui Erving Goffman (1968) e Michel Foucault (1993) dedicarono fondamentali lavori. Infine – ma l’elenco non è tassativo – penso all’immensa quantità di ricerche dedicate alla condizione sociale della donna, ai cosiddetti gender studies, che si moltiplicano in tutto il mondo, spesso inseriti nel quadro di un settore di indagine a me caro, quello dei diritti fondamentali. Nulla come lo studio del femminismo permette di capire i meccanismi che sovrintendono a quella forza espansiva del movimento dei diritti umani di cui ho parlato. E potrei continuare. Vi sono i campi del commercio, della proprietà intellettuale, dell’amministrazione, dei rapporti non solo internazionali ma anche transnazionali, che superano i confini tradizionali degli Stati. Mi fermo dunque, per necessità. Il compito che mi sono prefisso in questo libro è stato solo quello di esporre alcuni essenziali concetti della sociologia del diritto o, per dir meglio, quelli che a me paiono tali dopo molti anni di impegno in questo campo di studi. Ho cercato di indicare alcune strutture di base entro cui credo si possa lavorare senza sacrificio di nessuna opzione teorico-generale e con quell’unico limite metodologico che corrisponde alla natura prospettica, provvisoria e ipotetica della scienza, che incrollabilmente vedo procedere per tentativi ed errori, incompatibile con l’arroganza di chi, dal suo ristretto punto di vista, pensa di possedere verità indiscutibili. Nel mondo della scienza queste “verità” sono sempre esposte a dure lezioni della storia. Sintetizzando, posso dire che ho cercato di proporre un modello di sociologia del diritto come scienza cri-

Per concludere

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tica. Ma su questa parola dobbiamo intenderci. Critica significa anzitutto analisi accurata e minuziosa di testi, immagini, fatti, opinioni, teorie, sistemi di idee. Operare criticamente significa entrare in questi microcosmi o macrocosmi culturali e verificarne anzitutto le connessioni interne. La critica è infatti anzitutto “interna”, cosa che impone di entrare in un discorso, immedesimarvisi, cercare di farlo ipoteticamente proprio presumendone la fondatezza sino a prova contraria. Solo dopo aver compiuto questo sforzo di immedesimazione e dopo aver scoperto le eventuali contraddizioni di ciò che si analizza, si può tornare “all’esterno” di quel discorso e contrapporvi il nostro. Anche su questo però si deve compiere lo stesso esercizio, che costa ancora maggior fatica. L’autocritica deve fare i conti con sentimenti profondi, radicati dalla prima infanzia, che devono essere messi da parte, eppure spesso non si percepiscono nemmeno a un livello razionale sufficiente. Ma è fondamentale. Senza autocritica, che significa disposizione costante alla ridiscussione delle proprie idee, la critica è impossibile o ingannevole, diventa contrapposizione, squalificazione, condanna in nome di formule semplicistiche e semplificatrici. Per questo, pur sostenendo da una vita il metodo critico, devo dire che occorre almeno fermarsi a dubitare un attimo quando taluno usa questa etichetta per autodefinirsi. Ciò avviene anche nella sociologia del diritto. Un’importante corrente di studi principalmente americani si è per anni definita «critical legal studies» (Kelman 1987; Pupolizio 2009). Ne sono usciti eccellenti lavori indirizzati soprattutto a svelare il potenziale discriminatorio delle diverse leggi e a rivelare l’intrinseca politicità del diritto, la sua manipolabilità a opera del potere, su cui non si può che essere d’accordo. Tuttavia, la linea

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prevalente della maggioranza di quegli studi è stata troppo spesso quella di una contrapposizione frontale fra l’ideologia ufficiale e l’ideologia alternativa dei suoi critici. Ideologica, dunque, per definizione. Ho fatto l’esempio di studi col cui contenuto politico io stesso simpatizzo e potrei naturalmente farne altri di opposto segno. Ma sarebbe superfluo. Per esercitare la critica sociologica sul diritto non bastano però lo spirito autocritico e l’attitudine allo studio analitico. Occorre, non sembri banale dirlo, essere al contempo giuristi e sociologi. Questo obiettivo non è affatto facile né in Italia né altrove. La formazione dei giuristi rimane ovunque essenzialmente logica e dogmatica, impegnata nell’analisi degli enunciati normativi, ‘positivistica’ nel senso ristretto della parola – io preferisco dire ‘formalistica’ – anche laddove si sono sviluppati approcci teorici più attenti alla realtà sociale sottostante alle norme generali. Ho ricordato a suo tempo che negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi hanno avuto successo per lunghi anni teorie realistiche del diritto che hanno messo in discussione il formalismo dominante. Le figure di Oliver Wendell Holmes, Roscoe Pound, Karl Llewellyn da un lato, e dall’altro quelle di Karl Olivecrona, Axel Hägerström, Alf Ross, sono notissime per l’alta qualità dei loro lavori, indirizzati a segnalare che la giurisprudenza non si esaurisce nelle norme generali e astratte e nel metodo logico-deduttivo. Malgrado ciò, non si può dire che il loro insegnamento sia universalmente seguito. Negli Stati Uniti, in verità, rimangono vive alcune tracce importanti della giurisprudenza realistica e sociologica in varie law schools di alto livello e da queste scuole è nato quell’ambiente di «Law and Society» che raccoglie, oltre ai sociologi del diritto in senso stretto, anche una mag-

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gioranza di giuristi aperti all’adozione di metodologie sociologiche. Ma si tratta pur sempre di un discorso che si sviluppa parallelamente rispetto al legal positivism imperante nella maggioranza delle scuole di diritto. In Scandinavia, sembra che il realismo giuridico sia stato puramente e semplicemente abbandonato a favore di un quieto ritorno alla concezione formalistica degli studi giuridici. A rigor di termini non è detto che se fra i giuristi predomina il formalismo non debba esserci spazio, nelle scuole di diritto, per la sociologia del diritto. Anzi, da certi punti di vista, una netta differenza di compiti fra i due ambiti può favorire, da parte dei giuristi, atteggiamenti di apertura verso una disciplina che fornisce conoscenze sulla vita concreta delle norme che essi studiano in astratto. Ma questo accade solo raramente. Più frequentemente, la chiusura metodologica dei giuristi puri si traduce in chiusura culturale verso ogni accostamento al diritto che non sia quello che essi praticano. Così, malgrado l’insegnamento di Jean Carbonnier e la presenza di un combattivo gruppo di studiosi attorno alla rivista di settore, «Droit et Société», avviene per esempio in Francia, dove il codicismo esegetico è talmente soverchiante da non lasciare spazio negli studi giuridici neppure alla filosofia del diritto e alla storia del diritto. E va riconosciuto che in Italia, dove storia e filosofia del diritto hanno ben maggiore fortuna, la sociologia del diritto ha trovato ambienti assai più ricettivi anche fra i giuristi più rigorosi nel difendere il loro tradizionale metodo di studio e di formazione degli allievi. La situazione degli studi sociologici non è migliore. I sociologi puri sono di regola più aperti verso le novità e anche più autocritici verso la loro disciplina: il che è

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certamente positivo. Tuttavia tendono a relegare sullo sfondo il fenomeno giuridico, che considerano sovrastrutturale se non addirittura metafisico. Così capita che osservino il diritto bensì “dall’esterno”, e nulla vi sarebbe da dire, ma talmente da lontano che riesce loro difficile discernervi, non si dice i dettagli, ma anche aspetti evidenti: come se per studiare una città non ci vivessimo e neppure la osservassimo dall’alto, usando Google Earth, ma la guardassimo dalla luna. E quando il sociologo del diritto incontra i sociologi puri, i quali pur sempre vivono immersi in un universo di regole, capita che i linguaggi siano tanto diversi da pregiudicare la mutua comprensione. Naturalmente vi sono molte eccezioni, ma lunghi anni di esperienza anche di associazionismo sociologico non hanno mai sradicato in me questa impressione. Come fare dunque per formare i sociologi del diritto? La risposta non può che essere lapalissiana: con la sociologia del diritto stessa, intesa come convergenza fra i due universi di discorso. Convergenza, sottolineo. Qui vorrei chiarire un punto. Quando nel 1974 Treves inaugurò le pubblicazioni di «Sociologia del Diritto», prendendo a prestito una notissima metafora di Herbert Hart (1965) espresse l’idea che la sociologia del diritto guarda il diritto «dall’esterno» (Treves 1974, p. 3). Niente di particolarmente ardito o di peregrino, si noterà. Anche secondo Carbonnier, che svolse in Francia lo stesso ruolo propositivo svolto da Treves in Italia (Andrini, Arnaud 1995), disse la stessa cosa con le stesse parole (Carbonnier 1974, p. 17). E soprattutto, questa visione della nostra disciplina aderiva non solo alla concezione kelseniana che Treves accettava in gran misura, ma soprattutto alla concezione esposta e praticata da Weber, il più importante sociologo del diritto di

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ogni tempo. Giurista di formazione, Weber distinse, infatti, con «particolare rigore» i compiti del giurista puro, cui spetta dire «quale senso normativo si debba attribuire, in modo logicamente corretto, a una formazione linguistica che si presenta come norma giuridica», da quelli del sociologo del diritto, cui spetta comprendere e spiegare «che cosa accada di fatto nell’ambito di una comunità, data l’esistenza della possibilità che individui partecipanti all’agire di una comunità [...] considerino soggettivamente e trattino praticamente determinati ordinamenti come validi, e quindi orientino in vista di essi il proprio agire» (Weber 1974b, I, p. 309, corsivi nel testo). Come accennai a suo tempo, questa concezione incontrò consensi e critiche. Fra queste, spiccava quella di Giovanni Tarello, fine giurista e storico del pensiero giuridico, il quale, pur contestando l’uso della metafora hartiana “esterno-interno”, rivendicò un modello di sociologia del diritto tipicamente “interno” al lavoro del giurista, giacché solo il giurista, disse, può conoscere a fondo questo oggetto di studi (Tarello 1974). Questa discussione, che proseguì per alcuni anni con sporadici contributi per poi assopirsi, è rinata recentemente sulle pagine dei «Materiali per una Storia della Cultura giuridica», la rivista fondata da Tarello, con un articolo che sembra volerla riprendere (Marra 2009, pp. 15 sgg.). Ora, fra i requisiti della nostra disciplina vi è inequivocabilmente la conoscenza non superficiale, anzi approfondita, degli apparati concettuali del diritto e delle discipline giuridiche fondamentali, possibilmente non solo quei bread and butter courses, i corsi di base (diritto costituzionale, privato, penale, amministrativo, commerciale, internazionale, del lavoro, procedure), che forniscono l’intelaiatura della formazione giuridica e

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che secondo i giuristi più conservatori dovrebbero addirittura esaurirla, come sostiene il giudice Antonin Scalia della Corte suprema federale degli Stati Uniti, il quale invita gli studenti di diritto a «non perdere tempo» con discorsi estranei ai testi normativi1. Credo infatti che anche altre discipline, sia giuridiche pure (diritto industriale, tributario, canonico, comparato), sia interdisciplinari come la storia e la filosofia del diritto, siano per il sociologo del diritto – non solo per il giurista – altrettanto fondamentali. In breve, non si può fare della sociologia del diritto senza diritto. Un discorso analogo però vale anche per la sociologia. Fare della sociologia del diritto significa applicare all’osservazione del diritto, inteso come fatto sociale o come sistema sociale, gli apparati teorici e i metodi della sociologia. E ciò esige un confronto non episodico, ma anzi serrato, non solo con la sociologia generale e le sue branche specialistiche, ma anche con altre scienze sociali come l’economia politica, la statistica, la scienza politica e la filosofia politica. E comunque non si può fare della sociologia del diritto senza sociologia, come rischiano le riflessioni socio-giuridiche svolte esclusivamente “all’interno” dell’universo concettuale della giurisprudenza. Naturalmente una duplice formazione come quella appena descritta, che a onor del vero è raccomandabile per molte altre materie (si può fare della sociologia economica senza economia o del diritto urbanistico senza urbanistica?) non è offerta da nessuna facoltà universi1 Riportato da A.M. Pallasch sul «Chicago Sun-Times» del 18 settembre 2008 e reperibile in http://blogs.wsj.com/law/2008/09/17/ scalia-u-of-chicago-law-lost-its-conservative-cred/.

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taria e difficilmente lo sarà in futuro. Del resto nessuno di noi – intendo la generazione che cominciò il cammino negli anni Sessanta o Settanta – l’ha potuta avere. E certo ne risentono le nostre opere. Io stesso mi rendo conto di riflettere nei miei lavori la formazione giuridica, i decenni di professione legale e l’impianto filosofico-giuridico della sociologia del diritto prevalente in Italia, a cominciare dalla scuola di Treves. Vi sono però dei modi, oggi, per sopperire a questa lacuna. Vi è rispetto al passato una molto maggiore libertà di muoversi fuori dai confini nazionali. Vi sono corsi di laurea magistrale o specialistica, master di primo e secondo livello e soprattutto dottorati di ricerca. Questi percorsi possono essere fra loro collegati: il master in sociologia del diritto che l’Istituto di Oñati offre con l’Università di Milano e con la Universidad del País Vasco è parte integrante dei programmi dottorali in sociologia del diritto di questi due atenei, in special modo quello del dottorato internazionale in «Law and Society» intitolato a Renato Treves, cui contribuiscono dieci fra università e istituzioni scientifiche di vari paesi2. È quindi possibile acquisire, se non le due lauree, certo le competenze tipiche dei due campi e farle convergere in un discorso armonico. Questo è il compito forse più difficile delle generazioni più giovani. Ma alle nuove generazioni di sociologi del diritto spetta anche – a mio parere – un altro compito, quello di mantenere un equilibrio fra teoria e ricerca. Molti

2 È proprio in quanto “gradino” di un programma dottorale, che quel master è ritenuto un esempio di good practice a livello internazionale: vedi League of European Research Universities, Doctoral Studies in Europe. Excellence in Researcher Training, 2007, p. 10, consultabile sul sito http://www.leru.org/?cGFnZT00.

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giovani che si accostano alla disciplina avvertono soprattutto il fascino della grande teoria, che aspira a cogliere l’essenziale del fenomeno giuridico e a esprimerlo in una sola seducente visione unitaria. Questa tendenza è particolarmente marcata in Italia, dove l’idealismo tedesco ottocentesco ha lasciato tracce più profonde di quanto si potrebbe pensare a tanti anni dalla scomparsa di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile che decretarono l’ostracismo della promettente sociologia italiana e del positivismo filosofico nel cui solco era nata. Per contro, sono viste sempre con diffidenza le correnti empiristiche, utilitaristiche e neo-positivistiche cui pure s’ispira la maggioranza degli studi sociologici a livello mondiale. Lo dimostrano la disattenzione verso autori come Bentham, Stuart Mill, Merton e, sul piano filosofico-giuridico (da noi strettamente connesso a quello socio-giuridico), i continui equivoci su dottrine fondamentali di analoga ispirazione come quelle di Kelsen, di Hart e dei gius-realisti. Non meno, lo dimostra la tendenza apparentemente inestirpabile a confondere la sfera dei fatti con quella dei valori – due campi che, pur comunicanti, vanno tenuti distinti sul piano metodologico e anche su quello etico – e così a costruire teorie sociologiche che sconfinano nel wishful thinking, come dicono gli inglesi. Soprattutto non ha mai veramente attecchito da noi la grande lezione del fallibilismo popperiano. L’ansia di comprendere tutto in una sola, grande, rassicurante visione delle cose contrasta con quella inevitabile tensione che accompagna chi sa di muovere per tentativi ed errori a cogliere dei meri frammenti di realtà. Benché sappia che queste radici della cultura italiana, su cui gioca certamente anche la versione cattolicoromana del cristianesimo, sono molto profonde, auspi-

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co che le nuove generazioni riescano a scavare sotto la brillante superficie di molte grandi teorie cogliendone le debolezze e, al contempo, ad avvertire il fascino della ricerca di medio raggio che, facendo luce su fenomeni poco conosciuti, è fonte continua di informazione, di riflessione teorica e di ricostruzione della teoria.

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Indici

Indice dei nomi

Abel, R.L., 141. Alpa, G., 58n. Amsterdam, A.G., 57. Andrini, S., 150. Aristofane, 16. Aristotele, 12, 122. Arnaud, A.-J., 16n, 150. Aubert, V., 103. Bacone, F., 80. Baratta, A., XI. Beccaria, C., XII. Beckford, J.A., 127. Bentham, J., XII, 67, 154. Berger, P.L., 88. Berkeley, G., 80. Bettini, R., 129. Beveridge, Lord W., 10n. Blankenburg, E., 92, 129. Bobbio, N., 24, 30, 31 e n, 100, 142, 144, 145. Boniardi, R., 114. Borraccetti, M., 114. Boschiero, N., 73. Boudon, R., 108, 109, 134. Bourdieu, P., 33. Brežnev, L., 72. Bruner, J.S., 57, 89. Cancio Meliá, M., 95. Candian, A., 31n.

Cappelletti, M., 131. Carbonnier, J., IX, 149, 150. Cartesio (René Descartes), R., 80. Chase, O.G., 15. Cheli, E., 142. Clark, D., 144. Clinton, W.J., 124. Colombo, C., 82, 83. Cominelli, L., 133. Copernico, N., 83, 84. Corbetta, P., 108, 110. Cordero, F., 88. Corrao, S., 118. Cotta, S., 86n. Croce, B., 142, 154. Dahrendorf, R., 14, 141. Dante Alighieri, 16, 67n. Delitala, G., VIII. De Lucas, M.J., 95. Del Vecchio, G., 31. Denti, V., IX. De Palo, G., 133. Di Donato, F., 57n, 64n. Durkheim, É., VII, 23, 119. Eco, U., 40, 66. Ehrlich, E., VII, 70, 71, 75, 117. Einstein, A., 84. Engels, F., 6, 70.

176

Indice dei nomi

Englaro, E., 126. Eschilo, 116. Evan, W.M., Xn, 32, 33, 35.

Hydén, H., 36.

Febbrajo, A., 71. Felstiner, W.L.F., 133, 141. Ferrarese, M.R., 62, 78. Ferrari, V., XIII, XV, 13n, 50, 51, 52, 77, 78, 90, 114, 137. Filangieri, G., XII. Fornero, G., 86. Foucault, M., 146. Frati, S., 90, 138. Friedman, L.M., 7, 15, 33, 35, 55, 56, 57, 62, 77, 78, 113n, 128, 132.

Jakobs, G., 95. Jhering, R. von, 122, 140. Jori, M., 34.

Galanter, M., 132. Galbraith, J.K., 5. Galilei, G., 83, 98. Gallino, L., 14n. Galtung, J., 12n. Garapon, A., 15. Gentile, G., 154. Gessner, V., 68. Ghezzi, M.L., IXn, XIV, 130, 143. Giustiniano I, imperatore d’Oriente, 67. Glastra van Loon, J.F., XI. Goffman, E., 16, 116, 146. Grassetti, C., VIII. Greco, T., 63. Gridelli Velicogna, N., 114. Guastini, R., 31. Hägerström, A., 148. Hardin, G., 136n. Hardt, M., 79. Hart, H.L.A., 150, 154. Hegel, G.W.F., 20n. Hesse, H., 106. Hirsch, F., 7. Hobsbawm, E.J., 72. Holmes, O.W., 32n, 148. Hume, D., 80.

Irti, N., XIV, 69.

Kagan, R.A., 132. Kafka, F., 116. Kant, I., XII, 4, 31 e n. Kelman, M., 147. Kelsen, H., XII, 18, 30, 123 e n, 154. Keplero, G., 84. Kuhn, T.S., 81, 82. Kurczewski, J., 141. Leopardi, G., 97, 104. Levi, A., 31. Liebman, E.T., VIII. Llewellyn, K., 148. Locke, J., XII, 80. Losano, M.G., XIII, 36. Luckmann, T., 88. Luhmann, N., XI, 11 e n, 12 e n, 29, 33, 35, 56, 58, 82, 96, 121, 142. Macpherson, C.B., 135. Mancini, L., 119. Marra, R., 151. Marrella, F., 74. Marx, K., XII, 70, 82, 135, 136. Marzo, E., 45, 116n. Masia, M., 137. Mazzaferro, L., VIIn. Melville, H., 6. Merry, S.E., 75. Merton, R.K., 94, 97, 99, 154. Mill, J.S., XII, 154. Mittica, M.P., 22n, 116. Montesquieu, Ch.-L. de Secondat, barone di La Brède e di, XII.

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Indice dei nomi Mosconi, G., 95. Musil, R., 116, 117. Muratori, L.A., XII. Nader, L., 120. Nascimbene, B., 130. Negri, A., 79. Nervi, P., 136n. Newton, I., 84. Olivecrona, K., 148. Ortega y Gasset, J., 142. Ost, F., 116. Pallasch, A.M., 152n. Pannarale, L., 73, 130. Pareto, V., 20n, 100. Parsons, T., 10, 15, 32, 35, 50, 82. Pattaro, E., 20n, 31, 35. Pellegrini, S., 93. Pirandello, L., 16, 89, 116. Pira, M., 119. Pitch, T., 95. Pocar, V., XIII, 8, 126. Podgórecki, A., Xn, 105n. Poier, S., 139. Popper, K.R., 85, 86, 97. Porta, C., 41n. Pound, R., XII, 121, 148. Pugliese, G., VIII. Pupolizio, I., 133, 147. Quiroz Vitale, M., 130. Rawls, J., 8, 122. Reale, M.C., 114. Refo, P.L., 132n. Reich, R., 124, 125. Renner, K., 139. Resta, E., 97, 104, 116n. Romano, S., 30, 31, 71, 75.

Ronfani, P., 126, 127. Ross, A., 32n, 148. Rossi, P., XIV. Rousseau, J.-J., XII, 6, 10n. Runciman, W.G., 5. Sanna, C., 130. Sansone, A., 116. Santa Maria, A., 76. Santos, B. de Sousa, 76. Sarat, A., 141. Sarzotti, C., 111. Savigny, F.C. von, 28. Scalia, A., 152. Scarpelli, U., IX, 24, 31, 34. Searle, J.R., 87. Simmel, G., 89. Steele, J., 134. Svensson, M., 36. Tarello, G., IX, 31, 151. Taruffo, M., 57. Teubner, G., 33, 76, 128. Thompson, J.D., 59n. Todd, H.F., 120. Tomeo, V., IX, 10. Tommaso d’Aquino, 21. Treves, R., VII, VIII, IX e n, Xn, XI, 126, 129, 130n, 143, 150, 153. Twining, W., 72. Verwoerd, J.R.A., 92. Vico, G., 87. Vittoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, 70. Weber, M., VII, XIV-XV, 16, 19, 23, 25, 26, 28, 46n, 93, 100, 150, 151. Williams, G., 21. Wollschläger, C., 92.

Indice del volume

Introduzione L’oggetto

VII

3

1. La società umana fra cooperazione e conflitto, p. 3 2. Il diritto, p. 20 2.1. Premesse terminologiche e metodologiche, p. 20 2.2. Il diritto come sistema normativo, p. 30 - 2.3. L’azione attraverso il diritto, p. 52 - 2.4. Ordine e disordine nel diritto attuale, p. 68

Il metodo

80

1. Premesse, p. 80 2. Fonti, p. 104 3. Osservazioni, p. 121

Per concludere

144

Riferimenti bibliografici

157

Indice dei nomi

175