Prima lezione di relazioni internazionali

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Prima lezione di relazioni internazionali

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© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9323-7

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Il mappamondo

1. Un giro del mondo È presto detto: le relazioni internazionali sono tutto ciò che succede nel mondo e che interessa anche coloro che non ne sono direttamente coinvolti, come se qualsiasi evento, ovunque accaduto, dovesse per natura incidere sulle condizioni di tutto quanto il pianeta. Proprio questa è la ragione che mi spinge – ogni qual volta mi trovi ad affrontare un problema empirico delle relazioni internazionali (vedremo tra poco che quest’ultima espressione è tutt’altro che ingenua o neutra) – a gettare uno sguardo sul mappamondo, o meglio ancora su un atlante che sprigiona lo straordinario fascino del vagabondaggio, dello sconfinamento, dell’immensità del pianeta, delle sue condizioni di vita (nord e sud, est, ovest, e così via) e di pluralismo storico-politico-sociale (città, confini, Stati, civiltà, culture, monumenti), in cui tutto è collegato a tutto. In termini ben più suggestivi, ce lo aveva già detto Kant alla fine dell’analisi del Terzo articolo definitivo per la pace perpetua (1795): «la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti». Poco più di un secolo dopo (1929), lo attualizzò Valéry a modo suo: «Ormai, quando una battaglia scoppierà in qualche parte del mondo, nulla sarà

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più facile che farne sentire il cannone su tutta la terra» (1931, p. 942). Osservare un mappamondo o farlo ruotare sul suo asse per veder comparire pianure e montagne, mari, laghi e fiumi che da nulla sono separati se non dalla casualità delle loro contingenze telluriche, le quali tuttavia, nei secoli o nei millenni, hanno visto realizzarsi intorno a loro o dentro di loro straordinarie trasformazioni politico-sociali-organizzative: lo aveva ben capito già Erodoto! Ed è per questo che i miei occhi vagano quasi inavvertitamente sul planisfero che campeggia sulla parete del mio studio; ma è del 1870 e dunque non contiene nessuna delle indicazioni precise e aggiornate che si possono trovare invece nella più recente edizione di un atlante ricchissimo di informazioni e stampato su carta patinata multicolore. Nei più di cento anni che separano queste carte geografiche, quanti eventi hanno trasformato non tanto i loro profili materiali ma la loro collocazione «politica», i loro confini, cioè, ampliati o ristretti, i loro destini che non possono essere disgiunti dalla determinazione della posizione materiale, a nord o a sud, a est o a ovest – nulla di deterministico, sia ben chiaro, ma l’assunzione nel nostro quadro informativo dell’intreccio inestricabile tra la «natura della cosa» e la sua «storicità». Si intuisce facilmente che lo studio di tutto ciò che ha, di per sé, portata planetaria debba essere un qualche cosa di molto importante e nello stesso tempo di grande fascino e complessità. E quindi non può non stupire che, invece, nell’ambito della distribuzione e ripartizione dei saperi (ciò che normalmente viene formalizzato attraverso la determinazione delle discipline oggetto di studio nelle università), tale consapevolezza abbia tardato non poco ad affermarsi, al punto che – e lo vedremo più precisamente più avanti – il primo insegnamento di «re-

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lazioni internazionali» è stato impartito (da Alfred Zimmern) soltanto a partire dal 1919 presso la piccola Università di Aberystwyth, nel Galles. Ciò significa che la storia di questa disciplina è breve: neppure un secolo in effetti o, appunto, all’incirca tanto. Può essere davvero una buona occasione per un suo primo bilancio. Poiché una vita internazionale, in qualche misura e anche se con nomi variati, è sempre esistita, la sua tardiva affermazione non può non essere la testimonianza di una qualche specificità culturale, o di una qualche difficoltà storico-politica nel farla nascere. Com’è possibile che lo studio di ciò che avviene nel mondo, che ha al suo centro – tutti lo sanno – quella storica antichissima tradizione (un’abitudine, non una necessità) che si chiama guerra, sia stato tanto a lungo negletto o addirittura dimenticato o tralasciato a favore di altre prospettive o dimensioni della stessa realtà? Nel rispondere a questa domanda, potremmo trovarci ad affrontare un primissimo, semplice aspetto, tuttavia capace di conseguenze devastanti, che potremmo così riassumere. Se è vero che gli eventi internazionali riguardano gli Stati e se lo è anche che a questi ultimi succede di incontrarsi/scontrarsi per i motivi più vari, e di combattersi o di stringere armoniose e amichevoli alleanze, ebbene perché non accostarsi a tutto ciò proprio dal punto di vista degli Stati, i cui problemi saranno certamente tanti e staranno sicuramente alla base delle loro azioni, delle decisioni che i loro governanti prendono, cosicché la giustapposizione delle vicende di tutti e di ciascuno di essi possa darci la rappresentazione complessiva del mondo e dei suoi diversi «stati» (condizioni, modi di essere)? Questa domanda è rimasta lungamente senza risposta nel mondo scientifico e ha impedito allo studio specialistico delle relazioni internazionali di affermarsi,

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consolidarsi e svilupparsi, trascurando la condizione assolutamente unica, esclusiva e originale della loro esistenza. Diciamolo con le parole di Raymond Aron, quello che a me continua ad apparire il massimo rappresentante di una disciplina che tuttavia egli non ha mai insegnato all’università (eleggere quest’ultimo capoclassifica può sembrare una violazione, dato che la disciplina risulta essere praticamente dominata dalla cultura anglosassone, ma si vedrà più avanti che buone ragioni per questa scelta non mancano). Il grande studioso francese così definiva sinteticamente le relazioni internazionali: esse «si svolgono all’ombra della guerra o, per servirci di un’espressione più rigorosa, le relazioni tra Stati comportano per loro essenza l’alternativa della guerra e della pace» (Aron, 1962, p. 24 trad. it.). Non basta un’affermazione così perentoria a richiamarci immediatamente all’eccezionalità assoluta del caso (chi stentasse a collocare la guerra al centro delle vicende umane ricordi, ad esempio, che la sola seconda guerra mondiale fece morire cinquanta milioni di persone)? Scorderemo addirittura di occuparci delle questioni che attengono alla vita e alla morte degli Stati nonché di tutti quegli esseri umani che di tempo in tempo si trovano a calpestare il territorio di questo o quel paese? Trascureremo che ciascuno di essi abbia un regime politico, un disegno o una missione storica, una società e uno sviluppo intellettuale e ideale, che si interroghi sul bene e sul male, il giusto e l’ingiusto? E che cosa diremo dei diritti individuali dei loro cittadini, così frequentemente piegati alla volontà di potenti e prepotenti come canne al vento, senza che reali progressi democratici siano mai riusciti davvero a cambiare il mondo (Bobbio, 1991, ult. cap.)? È comprensibile, dunque, che il benvenuto che do all’inizio dell’anno accademico alle matricole che fre-

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quentano il mio corso consista proprio nell’informarli che stanno iniziando a studiare quella che è la materia (lo dico un po’ enfaticamente, ma il resto di questa nostra Lezione lo dimostrerà) più importante e affascinante che esista al mondo! E come negare che capire come funzioni politicamente il mondo, quali siano le ragioni che lo tengono in pace o in guerra (o in una di quelle situazioni intermedie che nella storia si danno), e che fanno sì che la ricchezza materiale così come la salute dei popoli e delle persone, delle masse oppure di ristrettissime élite, sia proprio quanto di più interessante (e gravido di conseguenze) esista al mondo? Non foss’altro che in termini di dimensioni materiali (l’intero pianeta) si tratta di un’affermazione ben difficilmente controvertibile. Potremmo ridirlo osservando che se non si introducono le dimensioni internazionali nella realtà complessiva che vogliamo comprendere e di cui vogliamo svelare i meccanismi e le caratteristiche non se ne capirà mai nulla, e che, addirittura, a trascurarle si rischia non soltanto di non capire, ma anche di causare dei danni, a noi stessi e a chiunque altro, per l’incapacità che denoteremmo di graduare l’importanza dei fatti che contraddistinguono le vicende degli abitanti della terra. Come si sarà intuito, le fasi iniziali della disciplina sono state tutt’altro che facili, il che mi suggerisce, in limine, di offrire alcuni rapidissimi scorci su ciò che essa avrebbe potuto essere, è stata e potrà in futuro essere. 2. Guide, maestri e modelli Senza eccedere in esoterismo, giustifico subito la ragione per cui ho fatto fin dall’inizio riferimento, invece che ad alcuni grandi e riconosciuti classici della disciplina, ad alcune personalità (e alle loro opere) che hanno avu-

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to un ruolo decisivo nella formazione di chi sta scrivendo queste note – ciò che sarebbe del tutto insignificante se non fosse che quelle sono anche tra le più rilevanti dell’intero ventesimo secolo e quindi sono ben note non soltanto a me ma a tutti – e possono testimoniare che la storia delle relazioni internazionali trascende, in se stessa, qualsiasi specializzazione, avendo a che fare (come ebbe a dire il filosofo austriaco Günther Anders) con «il ramo fine del mondo» (1959, p. 110 trad. it.). Si tratta di Paul Valéry (1871-1945), Raymond Aron (1905-1993) e Norberto Bobbio (1909-2004). Sento già il coro di proteste che potrebbe provenire non soltanto dagli Stati Uniti – la sola, unica, esclusiva e riconosciuta patria della disciplina – ma anche dall’Italia, dove nessun elenco dei classici delle relazioni internazionali comprende opere di questi tre autori. Ma, introduttivamente, si legga questo passo (e se ne coglierà immediatamente la straordinaria suggestione): Considerate un planisfero e, su questo planisfero, l’insieme delle terre abitabili. Questo insieme si divide in regioni e, in ogni regione, vi è una certa densità di abitanti, una certa quantità di uomini. A ciascuna di queste regioni corrisponde anche una certa ricchezza naturale, un suolo più o meno fertile, un sottosuolo più o meno ricco, un territorio più o meno irrigato, più o meno facile da attrezzare per i trasporti, ecc. Tutte queste caratteristiche permettono, in qualsiasi epoca, di classificare le regioni di cui ci occupiamo, in modo che, in qualsiasi epoca, lo stato della terra vivente possa essere definito attraverso un sistema di disuguaglianze fra le regioni abitate della sua superficie (Valéry, 1919, p. 35 trad. it.; corsivo aggiunto).

Pochi oramai sanno che nel 1931 il famosissimo poeta Paul Valéry pubblicava anche dei Regards sur le mon-

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de actuel che, letti oggi, ci direbbero sullo stato del mondo e in particolare sull’Europa e le sue vicende ben più di quanto gli studi attualmente correnti non dicano – un’ottica saggistica, certo, ma densa di suggestioni e di spunti di riflessione capaci di suscitare quella curiosità e quello spirito di investigazione che stanno alla base di ogni impresa scientifica. Valéry potrebbe essere una vera e propria «guida» nel viaggio tra le complessità e gli scogli dell’analisi internazionalistica, mentre nessuno più di Aron potrebbe essere considerato il nostro «modello» sia per la sistematicità dell’impianto interpretativo con cui affrontava l’analisi dei grandi problemi planetari, sia per l’incisività delle interpretazioni e la sua straordinaria capacità poligrafica (filosofo, sociologo, politologo, economista, editorialista, ecc.), che gli permise di toccare, della guerra e delle relazioni internazionali, tutti e ogni aspetto rilevante. Paix et guerre entre les nations è il più vasto, ampio, vario trattato di relazioni internazionali che sia stato finora scritto, capace di spaziare dalle condizioni demografiche delle società mondiali alle determinanti geografiche ed economiche, dalla teoria strategica alle questioni etiche sollevate dall’apparizione dell’arma atomica, dalla modernizzazione delle forme di sistema internazionale alla teoria delle alleanze come dei giochi. Tanto, e tanto a lungo, si è sporto sul problema della guerra che infine, quasi paradossalmente, conclude: «Se parliamo della guerra [...] ci troviamo dinanzi a un argomento fino a un certo punto scoraggiante, in quanto il fenomeno è endemico e conserva in ultima analisi qualcosa di misterioso» (Aron, 1967, p. 170 trad. it.), come ammonendoci sull’immensa difficoltà di penetrare a fondo in quello che rimane il fenomeno più importante e sconvolgente della storia umana, la guerra. Oggi l’opera risulta inevitabilmente

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datata dalla trasformazione radicale fortunatamente intervenuta nella politica nucleare delle grandi potenze, cosicché una certa parte dell’opera è obsoleta e superata, ciò che non succede invece al terzo dei nostri autori, Norberto Bobbio (un vero «maestro»), i cui scritti (quasi mai specificamente legati alla dimensione delle relazioni internazionali) sulla natura della guerra, sulla sua teoria, le sue giustificazioni e le sue cause offrono ancora oggi la più profonda e illuminante introduzione ai problemi della convivenza internazionale (Bobbio, 1979) a cui possiamo riferirci, di volta in volta, quando grandi e frequentemente drammatici avvenimenti incombono su noi, introducendo un innovativo nesso tra rifiuto della violenza e democrazia (anche internazionale): «Che cosa è la democrazia se non la prima introduzione del metodo nonviolento per risolvere i conflitti politici?» (Bobbio, 1981, p. 137). 3. Un’introduzione vera e propria Ben consapevole della trasgressione appena operata non collocando alcuno studioso anglosassone nello scaffale assegnato ai massimi specialisti della nostra disciplina, tornerò ora nei ranghi, più convenzionali ma tutt’altro che banali o fuorvianti, della ricerca dei fondamenti delle relazioni internazionali radicandoli nella loro stessa storia, muovendomi su due diversi e complementari piani: quello della storia vera e propria della disciplina, strettamente diacronica, interna alla disciplina, che ripercorre le sue fasi di sviluppo e di crisi (che in nessuna disciplina sono mai mancate); per poi affrontare invece quella sincronica, della collocazione di una disciplina nuova che irrompe in un ambito strutturato e ordinato di saperi consolidati e «normali» (come

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direbbe Thomas Kuhn, nel fare riferimento al patrimonio dato e condiviso delle conoscenze standard ritenute comuni ed essenziali per tutti coloro che si rifanno a un qualche determinato ambito del sapere), tra i quali non dovrebbe trovarsi alcuna lacuna che una volta scoperta destabilizzi la loro armonia prestabilita. Incominceremo da questa seconda dimensione, per affrontare la quale mi si dovrà concedere – come prima di un duello si fa con colui che appare fin dall’inizio il più fragile – la scelta delle armi: in tal caso chiederei di ricorrere, piuttosto che al fioretto, all’accetta! Non per sete di violenza né tanto meno per farmi giustizia da solo, ma per mettere bene in chiaro che non soltanto le origini ma anche lo sviluppo e le fasi mature della disciplina continuano a essere discusse e contestate sulla base di schematismi talmente rozzi e aprioristici che davvero l’esigenza di stabilire con chiarezza confini, competenze, limiti rispettivi, interdipendenze e incroci, accumulazioni o differenziazioni richiede prepotentemente di essere rispettata. Sarà utile, l’accetta, anche per districarsi nella selva delle specializzazioni disciplinari che – intorno alla nostra disciplina – si sono lungamente aggrovigliate. Due buone ragioni spiegano queste difficoltà iniziali. La prima è totalmente nominalistica: se davvero nomina sunt consequentia rerum (Giustiniano, Institutiones, II, 7, 3) si dovrà ammettere che la confusione iniziale abbia avuto un suo peso. Che cosa vuol dire in effetti l’espressione «relazioni internazionali»? Essa ha due diversi significati: fa riferimento in prima istanza a una «cosa», cioè all’insieme degli eventi della vita internazionale così come si succedono giorno per giorno o nei secoli – si tratta di fatti, insomma. Ma quando in una università, in qualsiasi parte del mondo, uno studente si

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accinge a sostenere un esame di «relazioni internazionali», egli sta invero muovendosi nell’ambito disciplinare del più ampio settore della scienza politica del quale le relazioni internazionali sono soltanto una parte! Ma il mistero è presto sciolto: convenzionalmente la «scienza politica» è un’etichetta, dato che essa ricomprende: a) lo studio della politica; b) quello delle amministrazioni pubbliche e delle burocrazie (oggi prevalentemente ci si riferisce ad esse con la formula «organizzazioni complesse»); c) le relazioni internazionali, rectius la politica internazionale. Storicamente le cose si sono stabilizzate di modo che il primo nome (sub a) è rimasto retaggio della prima sottodisciplina, diventata così «scienza politica» tout court; la seconda è diventata «scienza dell’amministrazione» e la terza – ecco l’equivoco – è rimasta con lo stesso nome, «relazioni internazionali», cosicché – ora appare chiaro a tutti – è proprio vero che uno stesso nome significa due cose sostanzialmente diverse: a) la «realtà materiale» che è, b) oggetto di «ricerca scientifica» (potremmo aggiungere: politologica). Le relazioni internazionali sono dunque nello stesso tempo la cosa e la disciplina che la studia! È un po’ come se la disciplina scientifica che studia la società si chiamasse... società e non sociologia, e quella che studia la politica si chiamasse politica e non scienza politica (o politologia). Non è il caso di insistere, ma a nessuno sfuggirà che la mancata chiarezza sul nome stesso della disciplina non poteva non aumentare le difficoltà di un settore di studio che per mille motivi (lo vedremo tra poco) già stentava a farsi largo tra gli altri e specialmente i più vicini. Si potrebbe tuttavia estendere la portata di questo equivoco fino a un punto estremo, simbolico di tutte queste difficoltà: non mancherebbe infatti (e nei secoli

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non mancò davvero) chi sostenesse che i rapporti tra entità statuali distinte siano talmente circoscritti alle contingenze della guerra e della pace che non ci sarebbe proprio nulla da studiare o da capire, cosicché non varrebbe neppure la pena scomodare altre più paludate e tradizionali discipline (come la storia o il diritto) per raccontare o spiegare tutto ciò. Ma chi ha creato ancor più confusione in tutto questo problema fu, involontariamente, il filosofo inglese Jeremy Bentham con il ricorso che fece, nell’Introduction to the Principles of Morals and Legislation (pubblicata nel 1789, lo stesso anno della rivoluzione francese), alla parola «internazionale» per distinguere la giurisprudenza «interna» da quella relativa a «membri di Stati diversi». Egli poi in una nota (che può esser considerata l’atto di nascita della parola) commenta: La parola internazionale, bisogna riconoscerlo, è nuova, per quanto, si spera, sufficientemente confacente ed intelligibile. È adatta ad esprimere in un modo più espressivo il ramo del diritto che va comunemente sotto il nome di diritto delle nazioni, un appellativo così poco indicativo, che, se non fosse per la forza dell’abitudine, sembrerebbe riferirsi piuttosto alla giurisprudenza interna. Leggo che il cancelliere D’Aguessau ha già fatto una simile osservazione, dicendo che quel che comunemente viene chiamato droit des gens, dovrebbe essere chiamato piuttosto droit entre les gens (Bentham, 1789, pp. 437-38 trad. it.).

È vero che Bentham si riferisce al diritto e non alla politica, ma la simmetria tra le due dimensioni, in questo caso, è assolutamente evidente. Grazie alle sue parole possiamo persino seguire il ragionamento che lo guidò. Fino ai suoi tempi, tutto ciò che riguardava i rapporti tra collettività distinte, tra popoli lontani e diffe-

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renti e poi, da quando se ne formeranno, tra Stati sovrani, veniva riportato sotto la formula latina dello ius gentium, e più raramente dello ius inter gentes. Ma è ovvio che, da un lato, con il passar del tempo il riferimento alle varie gentes perde di consistenza, perché sudditi e poi cittadini non sono sempre e soltanto persone nate nello stesso posto, come sarebbe secondo l’originaria formula latina (la gens è il gruppo sociale dal quale si discende), e, dall’altro, che quando una parola nuova tende ad affermarsi è, come in questo caso, per cogliere un aspetto nuovo e originale della realtà (o che quanto meno non era ancora stato sottoposto a una riflessione consapevole e attenta). Nomen omen, diremo con Plauto, ovvero il nome è un presagio, indica il destino di una cosa – ed è proprio ciò che successe con il dato dell’internazionalità, dove ciò che rileva massimamente è il prefisso «inter», che è quella intorno a cui si gioca tutta l’importanza della novità. Quando i rapporti tra collettività distinte si fanno tanto frequenti e costanti da poter essere considerati una delle cure principali degli statisti, ecco che balza al primo posto dell’attenzione il dato dell’inter-dipendenza tra gli Stati, fondato non soltanto sulla loro coesistenza ma sul gioco delle loro azioni reciproche costanti e continue. Cólto e compreso tutto ciò, è logico che tale dimensione relazionale non potesse più essere riferita semplicemente a non meglio identificate gentes, ma che ci volesse una sorta di nome collettivo che le rappresentasse tutte, cioè le «nazioni» – appellativo, come dice Bentham, certo poco indicativo, per la semplice ragione che le nazioni (si badi bene a questo snodo storico) stanno a quei tempi affacciandosi appena (la data che simbolicamente ne stabilisce la nascita è quella della battaglia di Valmy, 20 settembre 1792, vinta dalla Nation armée francese) nel dibattito

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pubblico (la formula «uno Stato-una nazione» ha dominato il dibattito anche se è ancora ben lontana dall’affermazione – e non ci chiederemo neppure se si tratti di un bene). Le traversie della parola sono dunque complesse ma anche suggestive per il semplice fatto che ci introducono a quelle che la disciplina delle relazioni internazionali, fin dal giorno della sua nascita, si troverà ad affrontare. Il circolo verrà comunque chiuso, inaspettatamente e forse inconsapevolmente, niente meno che da Auguste Comte il quale, senza sentirsi in dovere di giustificare la scelta (come abbiamo visto fare da Bentham, invece), utilizza di passaggio, in un suo ragionamento di filosofia della storia incardinato sull’evoluzione dei modelli di guerra (Lez. 57 del Cours de philosophie positive, 1842) l’espressione «relazioni internazionali», come se niente fosse. Già, ma il fatto è che tale fortunata formula contiene una fondamentale e quasi esiziale contraddizione: Comte dice nazione laddove probabilmente voleva dire (o credeva di dire) Stato, cioè un’entità geograficamente collocata e giuridicamente costituita – due caratteri che l’idea di nazione non può né potrebbe, e non deve, possedere. Ma non basta: quanto è più preciso parlare di «relazioni» tra tutte queste entità invece che di «politica»? Non sarebbe stato meglio, in altri termini, e più semplice, parlare di politica internazionale, se non addirittura di politica mondiale (come del resto nel gergo anglosassone sovente si dice; una delle prime e più prestigiose riviste del settore si chiama proprio «World Politics»), sfuggendo così anche alla clausola «nazionale»? Insomma, anche tenendo conto degli usi linguistici, avremmo potuto differenziare la cosa e la riflessione su di essa, chiamando la realtà della vita di rapporto tra gli

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Stati «politica internazionale» e la disciplina scientifica che studia tutto ciò «relazioni internazionali», corrispondendo così alle consuetudini universitarie planetarie. Uno spirito astrattamente sistematico potrebbe concludere tutta questa vicenda (la cui ricostruzione tuttavia non è sterile, perché ci sta introducendo sia ai contenuti della disciplina sia alla sua storia) proponendo di intendere con «relazioni internazionali» una specie di casa madre, occupata da una serie di famiglie formate da storia, diritto, economia, politica, geografia, fino alla sociologia internazionale, alle letterature comparate, e così via: che nel mondo d’oggi tutto sia internazionale o, come si dice fin troppo sovente, globale o globalizzato è arcinoto e non ci porterà mai in nessun luogo. Se non altro, sappiamo ora che la disciplina che ci interessa si chiama «relazioni internazionali» e che ciò che essa studia sono... le «relazioni internazionali»! Forti del chiarimento di questo piccolo paradosso, possiamo ora dedicarci ad altri due argomenti del tutto preliminari: la nascita accademica vera e propria della disciplina a cui – come piccola appendice – non potremo non collegare, al momento opportuno, la sua ben più modesta traiettoria italiana. 4. Una disciplina che fonda le sue radici nello Stato moderno Sgombriamo subito il campo da una notissima (tra gli specialisti) affermazione – essere le relazioni internazionali una «scienza sociale americana» – fatta da uno dei suoi più influenti e validi studiosi, Stanley Hoffmann (allievo di Aron a Parigi, dapprima, e poi professore ad Harvard), intendendo con ciò che la disciplina abbia conosciuto negli Stati Uniti il suo massimo sviluppo – ciò

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che è indubitabile – e che la ragione di questo primato vada cercata, per esser chiari e semplici, nel particolare ruolo internazionale di quel paese, ovvero: quanto più importante è la politica estera di uno Stato, tanto più sviluppati saranno i suoi studi internazionalistici? Ovviamente troppo schematica, questa correlazione richiama comunque l’attenzione sui rapporti tra politica e scienza politica, cioè tra pratica e ricerca scientifica, specie con riferimento agli Stati Uniti (che effettivamente hanno la politica estera più importante al mondo): Hans J. Morgenthau (il più importante tra tutti gli studiosi di relazioni internazionali, come vedremo) verso la fine della sua carriera riuscì finalmente a realizzare la sua aspirazione di partecipare all’elaborazione della politica estera americana, ma ebbe pessimi risultati, perché al suo consiglio – non lasciamoci «incastrare» in Vietnam – il Dipartimento di Stato rispose rinunciando alla sua collaborazione; ben più fortunato fu Henry A. Kissinger, che, ancora giovane e rampante professore ad Harvard, si ritrovò dapprima consigliere speciale di Richard Nixon e poi suo Segretario di Stato (non poté ambire a una carica per la quale avrebbe forse ottenuto voti a sufficienza, la Presidenza, non essendo nativo degli Stati Uniti). Ma anche la Gran Bretagna e la Francia hanno avuto, a loro volta, ruoli internazionali di grandissimo rilievo, seppure declinanti nella stessa misura in cui quello americano si incrementava; questi due paesi possono vantare grandi studiosi (due soli nomi, tanto per intendersi: Raymond Aron in Francia, Hedley Bull in Gran Bretagna), ma non proprio altrettanto grandi scuole. È ben vero che la disciplina accademica nasce nel 1919 nel Regno Unito, così come è vero che il francese Paix et guerre entre les nations è il libro più affascinante tra

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tutti quelli scritti nella disciplina, ma non per questo potremmo negare il superiore livello (non soltanto quantitativo) degli Stati Uniti negli studi internazionalistici (nel 1925 Parker Th. Moon pubblicava il primo Syllabus on International Relations, che conteneva schemi di lezioni per corsi da 85, 50 o 25 ore). Nulla di male in tutto ciò, purché non lo si coniughi in termini nazionalistici, dato che per la nostra disciplina le cose stanno esattamente come per la maggior parte delle altre: gli Stati Uniti hanno sempre saputo investire le loro migliori risorse nella ricerca scientifica – lo abbiamo tutti sotto gli occhi – e poi hanno utilizzato i frutti del sapere nella vita reale; nulla di più logico, e semplice. Del teorema di Hoffmann resta che qualsiasi dibattito internazionalistico conosce negli Stati Uniti la sua diffusione maggiore, che il numero di studenti universitari che seguono corsi di relazioni internazionali è il più alto al mondo, che tutti leggiamo i libri che provengono dagli Stati Uniti (per sintetizzare il punto, in termini semiseri, basterà dire che gli studiosi importanti americani sono tanti e di tale valore che se volessimo stilare una graduatoria non ci riusciremmo, tanti sarebbero gli ex aequo! Va poi aggiunto, a onor del vero, che effettivamente anche in Europa qualche cosa si muove, se a uno studioso tedesco, Jorg Friedrichs, è venuto in mente di scrivere persino un libro intitolato European Approaches to International Relations Theory, una cui parte è dedicata all’Italia). Ma veniamo ora, rapidamente, alla storia, rectius alla preistoria delle relazioni internazionali. Potremmo doverosamente dire che essa nasce nel momento in cui nasce il suo principale e per secoli quasi unico oggetto di analisi: lo Stato moderno. Ma le cose stanno soltanto entro certi limiti in termini così schematici. È indubita-

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bile che l’apparizione massiccia degli Stati «moderni» (quelli che hanno un potere politico consolidato al governo, che si avvale di una distribuzione di funzioni principali al suo interno in riferimento a finanze, giustizia e difesa), che nel 1648 sono 25 (azzardiamo: non è sempre facilissimo stabilire se determinate entità assurgessero effettivamente alle condizioni normalmente stabilite per il possesso di una soggettività internazionale – la sovranità), attira l’attenzione dei teorici politici, già impegnati nella riflessione sul contrattualismo (ovvero, sulle giustificazioni dell’obbligo politico, o delle ragioni per cui un sovrano, per di più assoluto, potesse pretendere, e nella maggior parte dei casi ottenere, obbedienza illimitata dai suoi sudditi) e sulle ragioni per cui nei loro rapporti reciproci gli Stati debbano «riconoscersi» rispettivamente. Quella che è stata una delle più straordinarie stagioni della storia della filosofia politica (tra diciassettesimo e diciottesimo secolo) vede personalità come Grozio, Hobbes, Pufendorf, Locke, Spinoza, Hume, Rousseau e Kant dibattere la nozione di «sovranità» (alla luce della ben nota formula che connota come sovrano esclusivamente quello Stato che si può proclamare superiorem non recognoscens), che contraddistingue in modo chiaro e semplice lo Stato al suo interno e spiega anche perché il sovrano possa godere assolutamente delle prerogative dell’assolutismo che lo rendono proprietario patrimonialistico di tutto ciò che rientra in determinati confini o meglio sotto la sua sovranità, mentre sul lato esterno di ciascuno di essi mette in evidenza come – mancando per natura un’autorità superiore (che non può, per definizione, esistere) a quella di ciascuno Stato – la condizione normale e costante degli Stati nei loro rapporti reciproci sarà dello stesso tipo di quella in cui gli individui si trovano (me-

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glio: si trovavano) quando ancora vivevano in quella immaginaria condizione rappresentata dalla formula dello «stato di natura». Sovranità vorrebbe dunque dire: tutto all’interno dello Stato, nulla al di fuori. Distinto e superato dalla situazione della «società civile», a cui gli individui pervengono nella consapevolezza dell’impossibilità di convivere privi di regole positive (così come è il diritto), lo stato di natura può essere idealizzato ottimisticamente, come nel pensiero di Grozio e di Rousseau (seppure con motivazioni diverse), o giudicato pessimisticamente, come icasticamente scrive Hobbes: «non si può negare che lo stato naturale degli uomini, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra, e non già di guerra semplicemente, ma di guerra di ciascuno contro tutti gli altri» (1642, I, 12). Esso permarrà immodificabile se non fuoriuscendone (come avrebbero fatto gli individui secondo la narrazione giusnaturalistica): questa è esattamente la condizione permanente e definitiva all’interno della quale gli Stati sono (per così dire) condannati o costretti a vivere in perpetuità. L’argomento è, in se stesso, cogente: a) se Stato è solamente quello che gode della sovranità, e b) se tra due Stati sovrani la decisione in un’eventuale controversia non può essere demandata ad alcuna autorità superiore, ne consegue che, c) la condizione permanente della convivenza sarà fondata sull’autodifesa di ciascuno e, d) la risoluzione dei contrasti non potrà avvenire se non tramite l’esito di una guerra. Ne discende che, fintanto che sovrano, lo Stato non può piegarsi ad alcuna legge altrui e quando ciò gli succeda non potrà essere che a seguito di una guerra perduta. Una parola magica compendia questo corpus teorico (che non deve essere preso sotto gamba, né considerato ingenuo, troppo schematico, parziale o provvisorio –

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si potrebbe addirittura dire che questa sia l’idea dominante di tutte le teorie delle relazioni internazionali!): si tratta dell’«anarchia» (in quanto espressione di quell’assenza di governo e controllo del sistema che renderebbe inevitabili e incoercibili le guerre), ovvero del concetto che racchiude in se stesso tutte le caratteristiche della vita di relazione tra gli Stati e ne offre addirittura la giustificazione, contenendo tanto una descrizione quanto un’interpretazione. L’anarchia è un fatto e in sostanza è anche la causa prima del fatto stesso! Lo Stato sovrano – si dice – non può che trovarsi in una condizione anarchica alla quale non può sfuggire; tanto una guerra vinta quanto una perduta non saranno altro che la celebrazione, inevitabile, ripetitiva e costante, della condizione esistenziale degli Stati: l’anarchia. Ma non è forse anche vero che l’esito delle guerre stende sul mondo (che le ha combattute) una sua strutturazione giuridica relativa all’accesso di ciascun combattente alla sovranità? Ecco che allora un mondo siffatto dovrebbe essere ordinatissimo: la sovranità giuridicamente intesa in che cosa consiste se non nell’assegnazione a ciascuno del suo ruolo? E se alcune parti sono sovrane e altre no, non vuol proprio ancora, e a maggior ragione, dire che altri principi giuridici (sulla negazione dell’accesso alla sovranità) sono in azione? Sempre un ordine è... Sono tanto perentorio e un po’ schematico su questo punto per una ragione ben precisa: non soltanto stiamo osservando il concetto-chiave di tutta la teoria delle relazioni internazionali, quello condiviso dalla stragrande maggioranza degli studiosi degli ultimi cinque secoli, ma nello stesso tempo ardirò dichiarare che questa non è l’unica concettualizzazione possibile delle relazioni internazionali, che essa è piena di manchevolezze e limiti teoretici, e che al suo posto si potrebbe

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proporre ben altro impianto teorico, dotato di potenzialità esplicative molto più soddisfacenti: in filigrana, si tratta di ciò che cercherò di far emergere nel corso di tutta questa presentazione. Ciò non toglie tuttavia che l’anarchia abbia dominato la teoria internazionalistica, al punto da rendere spontanea, in uno studioso inglese un tempo molto noto e ora spiacevolmente un po’ dimenticato (ma proprio un giovane studioso italiano gli ha recentemente dedicato un’intera monografia: cfr. Chiaruzzi, 2008), Martin Wight, la constatazione che una teoria delle relazioni internazionali non possa esistere, dato che (intesa «come tradizione di speculazione sulle relazioni tra gli Stati») essa è contraddistinta non soltanto dalla sua pochezza ma anche da «una povertà intellettuale e morale» tale che conseguentemente produce «una sorta di recalcitranza della politica internazionale a sottoporsi alla teorizzazione» (Wight, 1966, pp. 17, 20 e 33). Ma non si trattava di un semplice sfogo di fronte alle frustrazioni della realtà politica internazionale, perché più di un quarto di secolo prima (a mio personale modo di vedere, in termini ben più nobili) un altro e ancor più noto studioso inglese, Edward H. Carr (il conosciutissimo autore di un’imponente storia della rivoluzione russa), si era già interrogato sulla nascita di una «scienza della politica internazionale» (è il titolo della prima parte di The Twenty Years Crisis, 1939, dalle cui prime pagine sarà tratta la lettura che ora proporrò). L’impostazione merita un’attenta lettura. L’inizio è declaratorio: La scienza della politica internazionale è ancora nella sua infanzia. Fino al 1914, la conduzione delle relazioni internazionali concerneva soltanto delle persone che vi erano pro-

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fessionalmente impegnate. Nei paesi democratici, tradizionalmente si guardava alla politica estera come se fosse al fuori della sfera della politica partitica; e gli organi rappresentativi si sentivano incompetenti nell’esercizio di un qualsiasi stretto controllo nei confronti delle misteriose operazioni condotte dai Ministeri degli esteri. [...] La guerra era allora considerata come l’affare privato dei soldati; il corollario di tutto ciò era che la politica internazionale era affare dei diplomatici. Non esisteva alcun desiderio generale di sottrarre dalle mani dei professionisti la conduzione degli affari internazionali né di prestare una seria e sistematica attenzione a ciò che essi stavano facendo. [...] La scienza della politica internazionale è dunque stata messa in essere come risposta a una domanda popolare. È stata creata per servire a un fine, e da questo punto di vista ha seguito il modello di altre scienze. [...] L’aspetto finalistico della scienza della politica internazionale è stato cospicuo fin dal suo inizio. Prese spunto da una grande e disastrosa guerra; e lo scopo prevalente che dominò e ispirò i pionieri della nuova scienza era ovviare alla ricorrenza di questa malattia del corpo politico internazionale. [...] Il corso degli eventi successivi al 1931 rivelò chiaramente l’inadeguatezza della pura aspirazione come base per una scienza della politica internazionale e rese possibile per la prima volta l’avvio di una riflessione analitica seria e critica sui problemi internazionali (Carr, 1939, pp. 1-9 e passim).

La conclusione – appena avvertito che poi nel corso del libro Carr svolgerà un’impietosa arringa contro l’ingenuità utopistica dei padri fondatori della disciplina – è comunque un invito allo sviluppo della riflessione su una dimensione della vita associata che gli appare di massima importanza e non deve essere confinata al limbo dell’interpretazione storiografica, come Wight proponeva (la debolezza della sua posizione consisteva ovviamente nella rinuncia a cercare di capire che cosa potesse esserci sotto quella immaginata anarchia che do-

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veva dominare le relazioni internazionali). Carr non poteva saperlo, naturalmente, ma quel suo libro (di cui non mi stancherò mai di sottolineare la genialità dell’intuizione che lo reggeva: essere la sua età giunta al termine) era destinato a diventare la pietra miliare del principale e mai esausto dibattito metodologico e teorico all’interno di quella che era allora la nascente disciplina delle relazioni internazionali: il dibattito (come vedremo) tra idealismo e realismo. 5. La composizione delle squadre È così ora possibile ricostruire, sia pure molto sinteticamente, le circostanze – profondamente immerse in quell’esigenza finalistica che Carr evidenziava e che ora potremo ridefinire più esplicitamente come un forte impegno politico a favore della pace, che si impone nel primo ventennio del ventesimo secolo, sia prima sia dopo la Grande Guerra – nelle quali una disciplina accademica dedicata alle relazioni internazionali infine compare. Potremmo dire che si sia trattato di un movimento ideale di intellettuali prestigiosi, ma forse tale definizione sarebbe eccessiva per quel piccolo gruppo di progressisti formato dagli inglesi George Murray (18661957), Herbert G. Wells (1866-1946), Alfred Zimmern (1879-1957), Leonard Woolf (1880-1969), a cui aggiungeremo – per lo straordinario rilievo della sua carriera politica – Thomas W. Wilson, Presidente degli Stati Uniti tra il 1913 e il 1921, e prima brillante professore di diritto costituzionale. Accomunati dal desiderio di contribuire con progetti di tipo istituzionalistico alla soluzione dei grandi problemi posti dallo sviluppo della vita internazionale e precipitati nella tragedia della guerra mondiale, essi possono essere collocati tra i pa-

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dri fondatori o i costituenti di quello spirito che condurrà alla creazione della Società delle Nazioni nel 1919 come coronamento dei trattati di pace di Versailles. Non è questo il contesto nel quale commentare la difficile, faticosa e perdente vicenda di questa prima grandiosa (nelle sue intenzioni) istituzione internazionale (nel secondo dopoguerra ne sorgeranno a migliaia, testimoniando la validità del progetto), e osserveremo soltanto che il punto di arrivo sarà rappresentato dall’assegnazione della prima cattedra universitaria di relazioni internazionali, la disciplina nella quale si confidava affinché avviasse proprio quella riflessione scientifica che sola poteva presiedere a una consequenziale ricerca di applicazioni politico-istituzionali, capaci di donare al mondo la pace. Non c’è bisogno di sottolineare quanto quella speranza fosse mal fondata – meglio: ingenua. Ma a leggere la prolusione che Alfred Zimmern (il primo professore di relazioni internazionali, che fu chiamato a insegnarle ad Aberystwith, nel Galles, a partire dal 1919, prima di trasferirsi a Cornell, negli Stati Uniti, nel 1922) tenne all’Università di Oxford nel 1931, subito prima di diventare Segretario generale della Società delle Nazioni, sembra di ascoltare una sorta di nobile ripresa degli stimoli diffusi da Carr. Ascoltiamolo: Noi cerchiamo, in effetti, di comprendere il mondo moderno allo scopo di poter contribuire alla sua unità. Desideriamo – e chi non lo desidererebbe? – vedere il turbinante caos del presente far largo a qualcosa che meriti il nome di cosmos. Ma l’ordine che costituisce l’obiettivo cui tendono i nostri sforzi non è un semplice meccanismo di architettura politica, non è un palazzo delle nazioni con un piano per ogni continente e un ufficio per ogni popolo, non una semplice rete di contatti che unisca tutto il mondo. Si tratta di un ordi-

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ne intrinseco che deve emergere dal funzionamento armonioso delle relazioni internazionali; un miglioramento nel funzionamento delle sue istituzioni ne sarà la necessaria conseguenza. Tanto tempo fa si usava dire che non basta lavare l’esterno della tazza e il piattino. Soltanto quando l’intrinseco processo dei rapporti internazionali sarà purificato, il genere umano sarà finalmente immune dall’infezione della guerra (Zimmern, 1931, p. 67 trad. it.).

Lo sfondo ideale su cui si costituisce la prima «scuola» internazionalistica comporta alcuni presupposti: a) che la natura dell’uomo sia buona, b) che la pace sia un bene, c) e che sia anche desiderabile e conseguibile, sulla base dell’unicità dei principi morali, grazie al fatto che, d) la moralità dei gruppi non può discostarsi da quella degli individui. Chi accetti questi principi potrà essere identificato, d’ora in poi, come un idealista, nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali – nulla a che vedere con l’idealismo filosofico, tutto a che vedere con l’ingenuità sprecona di chi si illude che le buone intenzioni possano lastricare vie diverse da quelle dell’inferno. Ma è per noi decisivo fissare i dati minimi di questa prima impostazione perché, mutatis mutandis, essi saranno al centro di periodiche, ripetute nonché ripetitive dispute accademiche, con la scuola che le si contrapporrà, quella realista, ben più antica e blasonata (potendo vantare tra i suoi antesignani calibri grossi come Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Hegel), il cui caposcuola internazionalistico indiscusso e indiscutibile fu Hans J. Morgenthau (1904-1980), un tedesco immigrato negli Stati Uniti nel 1937 e autore dell’opera più nota e influente di tutta la storia della disciplina: si tratta di Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace (1948), infinite volte ristampato e (quel che più conta) studiato nel-

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le università statunitensi e letto negli ambienti politici di tutto il mondo (la traduzione italiana giungerà soltanto nel 1997, e in una versione ridotta). La struttura argomentativa del realismo di Morgenthau è uguale e contraria a quella idealistica: se per quest’ultima la natura umana è buona, per il realismo essa è aggressiva ed egoistica; se anche la pace potesse essere un bene, essa non è comunque conseguibile se non per intervalli tra una guerra e l’altra; se per l’idealismo fiducia e comprensione reciproca illuminano gli statisti, l’idea di interesse nazionale cui deve obbedire lo statista lo giustifica per qualsiasi cinica e brutale azione egli possa compiere per la maggior gloria o potenza dello Stato che rappresenta. Non soltanto la ricostruzione della teoria realistica nell’opera di Morgenthau è chiara e brillante, ma essa riceverà nei decenni successivi tali e tante ripresentazioni, riproposizioni, aggiunte, innovazioni, che non potremo neppure seguirle tutte. Valga fin d’ora il riferimento al massimo e più noto continuatore, Kenneth N. Waltz, che con Theory of International Politics (1979) occuperà largamente lo spazio di caposcuola dapprima detenuto da Morgenthau, specie grazie alla maggior attenzione che dedicherà agli aspetti metodologici della costruzione disciplinare, rispetto a cui Morgenthau fu invece sempre piuttosto indifferente. Ma così posti i termini della disputa, ci accorgiamo di trovarci di fronte a un problema non da poco. Ovvero: nella crescita di una disciplina vale maggiormente conseguire grandi risultati analitico-interpretativi che ci aiutino a spiegare la realtà, oppure tali risultati non possono aver alcun valore se non sono conseguiti alla luce di una corretta strategia di ricerca, neutrale, oggettiva e avalutativa? Rispondere che le due dimen-

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sioni sono tra loro intrecciate e coessenziali è tanto vero quanto sterile, perché nella pratica della ricerca la distinzione si ripropone continuamente. Nel caso della nostra disciplina, poi, l’argomento è esasperato da quell’altra alternativa che sembra aprirsi tra la vocazione largamente contemporaneistica delle relazioni internazionali (non a caso la parola inglese «current» ricorre sovente nel nostro linguaggio proprio per la sua collocazione nell’attualità) e la riflessione teorica che a partire da un impianto astratto e sistematico mira a spiegare ben più che a descrivere. L’operazione metodologica compiuta da Morgenthau può essere considerata esemplare: in un libro di 615 pagine fittissime, non più di 22 (i capp. 1 e 2 della Parte I) sono dedicate alla concettualizzazione, alla formulazione delle ipotesi e all’individuazione di alcune alternative: tutto il resto dell’opera non fa che applicare in termini di storiografia ed esemplificazione empirica quanto racchiuso in quelle prime pagine. L’esempio opposto che si può proporre riguarda un’opera molto più piccola di formato, ben più breve in numero di pagine (283) e in cui non c’è praticamente una sola parola dedicata a descrizioni, storiografia, narrazioni – System and Process In International Politics (1957), di Morton A. Kaplan – ma una brillantissima e originale tipologia di sistemi internazionali tutta teorica, astratta e sostanzialmente priva addirittura di riscontri storiografici (dei sei modelli che proponeva, ben quattro «non hanno mai avuto una contropartita storica», ovvero non hanno mai avuto applicazione nella realtà). Ma di che parleremo dunque? Di una disciplina teoretica che riflettendo su una realtà ma chiamandosene fuori – come abbiamo già osservato – si muove nell’ambito esclusivo e astratto della grande interpre-

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tazione? In tal modo lo studio finisce per collocarsi sul piano della filosofia della storia, come quando Kaplan, che è stato uno più importanti e interessanti studiosi di relazioni internazionali di tutto il ventesimo secolo, sosteneva che soltanto il principio di equilibrio potesse governare il funzionamento di un sistema (il quale a sua volta non è una realtà ma una visione complessa che ricollega tra loro una serie di realtà empiriche), senza poter ovviamente portare alcuna prova materiale della sua asserzione, che pur tuttavia aprì al mondo degli studi internazionalistici un filone di ricerca straordinariamente interessante sulla natura dei sistemi internazionali, sulla loro concettualizzazione, sui margini di affidabilità che ciascun modello possedeva, sulle indicazioni che se ne potevano trarre con riferimento alle possibili evoluzioni della politica internazionale. Ma è ovvio che, in quello stesso istante, la scientificità empiricamente costruita dal metodo di Kaplan lascia il posto a un approccio di tutt’altro tipo, tutt’altro che ingiustificato: siamo sicuri che la neutralità descrittiva e induttiva sia sempre ed esclusivamente la sola via alla scienza? Dall’analisi di Kaplan potremmo persino far discendere una graduatoria dei modelli di sistema e scoprire (ipotizzare) che essi non abbiano tutti gli stessi pregi e che alcuni – se proposti e promossi – possano persino modificare l’andamento della politica internazionale: come dire che, al termine di una ricerca scientifica che può essere tanto astratta e teorica quanto descrittiva ed empirica, possiamo veder emergere degli indirizzi di tipo normativo (che ovviamente esulano dalla dimensione della ricerca scientifica, per entrare in quella di tipo filosofico o più specificamente morale, che naturalmente rendono tanto più interessanti e fecondi i loro sviluppi).

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Non soltanto siamo di fronte a un dilemma comune alla riflessione metateorica di ogni disciplina umanistica, ma tale divaricazione è destinata a tracciare addirittura le linee degli sviluppi successivi della nostra disciplina che, forse più giovanilisticamente di altre, ha voluto ingenuamente ripercorrere (e sperimentare su se stessa) le dispute già sviluppatesi in altri ambiti, le polemiche già divampate e poi sopite – prevalentemente a favore di un pluralismo metodologico che quasi sempre ha saggiamente messo termine a dibattiti troppo astratti per essere utilizzabili. Potremmo riassumere tutto ciò osservando che questo non è altro che l’ambiente all’interno del quale l’intera vicenda della scienza politica (si ricorderà: etichetta che si riferisce a politica interna, scienza dell’amministrazione, relazioni internazionali) si è sviluppata lungo il ventesimo secolo. Si profilano così sul nostro orizzonte due nuovi panorami: da una parte abbiamo, infatti, la discussione sulla collocazione delle relazioni internazionali nell’ambito politologico e umanistico (che affronteremo subito); ma dovremo affrontare poi anche la serie di dibattiti interni alla disciplina che, una volta costruita la sua autonomia, si è dilacerata in dibattiti continui (almeno tre grandi dibattiti; li discuterò più avanti: cap. IV, § 2). Vale la pena annunciare subito che – una volta esaurite queste due questioni esistenziali, ciascuna a modo suo e al momento opportuno – potremo finalmente calarci nel settore specifico delle relazioni internazionali e studiarle direttamente, senza più dover giustificare il nostro buon diritto a occuparci della tematica più importante al mondo, nonché (mi si lasci dire, ingenuamente) coinvolgente e assorbente come è, nei suoi vari risvolti, per la comunità planetaria degli esseri umani di ogni tempo.

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6. Il campo di gioco Chi potesse sentirsi infastidito dai miei frequenti riferimenti al gioco deve sapere che non sto che insistendo nell’omaggio all’opera di Raymond Aron, Paix et guerre entre les nations, che ho già citato, e che nel secondo paragrafo della sua Introduzione utilizza proprio il gioco del calcio in chiave metaforica per affrontare i primi elementi della disciplina. Nel nostro caso, la delimitazione del campo è, comunque, un passo di estrema importanza, che equivale a cercare di dare risposta a domande come: ma di che cosa ci occupiamo, quale è la specialità di questa disciplina, quale la sua specificità, che dunque ne giustifica uno statuto autonomo? Noi sappiamo per certo, all’inizio, che il nostro oggetto di studio prevalente è lo Stato (le cose stanno in modo più complicato, ma lo vedremo più avanti, e lo Stato resta comunque il più preciso e solido punto di partenza), riguardo al quale possiamo predicare alcune caratteristiche: a) che abbia avuto e abbia una sua storia, b) che possa essere studiato da prospettive molteplici. Dal primo punto di vista discenderà la riflessione sullo «Stato moderno», quell’istituzione cioè che, a partire più o meno dal sedicesimo secolo, ha incominciato a svolgere la funzione di massimo organizzatore della vita planetaria suddividendo gli esseri umani in collettività differenziate, con una processualità non uguale in ogni parte del mondo e non contestuale. Si tratta di un fenomeno di immensa portata, al quale possiamo accollare tutto il bene e tutto il male della storia politica degli ultimi cinque/sei secoli. Gli Stati si sono formati e dissolti, hanno scatenato guerre e si sono rappacificati, si sono sviluppati o sono declinati, si sono unificati oppure separati. Le loro relazioni – diciamolo

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così alla buona – sono oggetto di intrecci di immensa e straordinaria portata, che vanno dalle loro rispettive espressioni artistiche allo sviluppo della ricerca medica, dagli avanzamenti delle tecnologie e della produzione industriale ai danni causati all’ambiente dall’incuria e dalla «maleducazione» umana, su su fino agli scontri tra diverse ideologie telluricamente radicate, alla pluralità delle religioni e ai loro conflitti (tanto passati quanto attuali). Insomma, la storia del processo di conquista, organizzazione e gestione di tutti i diversi aspetti della vita associativa dell’umanità è materialmente collocata all’interno degli Stati. È quindi più che logico che le relazioni internazionali (percepiamo allora una volta di più la stonatura prodotta da quello scambio linguistico originario: proprio di Stati, parliamo, e non di nazioni) siano diventate un oggetto di conoscenza immensamente ampio e capiente, perché in sostanza tutto è mediato dallo Stato, che però esiste in una molteplicità di forme e di conformazioni materiali tali da veder convergere verso di sé interessi disciplinari provenienti da molti diversi punti di vista. Che le relazioni internazionali siano, infatti, scienza politica, non deve farci dimenticare che il problema è non tanto «chi sei» ma «in che cosa ti distingui», ovvero, nel caso nostro almeno, in quale modo le diverse discipline che hanno un connotato oggettivamente planetario/universale si collochino rispetto alla nostra. Due tra queste hanno, per motivi che espliciterò tra un attimo, particolare rilevanza: la storia e il diritto – si potrebbe anche aggiungere che le loro ragioni sono simmetriche: uguali e contrarie (le riprenderemo con maggiore cognizione di causa: cap. IV, §2). La storia (intendendo specialmente la storiografia, cioè il lavoro vero e proprio che gli storici fanno) ha a lungo, per mil-

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lenni addirittura, svolto una funzione pressoché analoga a quella delle relazioni internazionali: basta fare l’esempio di Tucidide e della sua Guerra del Peloponneso per considerare esaurito il punto. La storia è stata molto sovente, specie in passato, principalmente storia di guerre, al punto che le conoscenze su di esse si sono accumulate nei secoli quasi soltanto o esclusivamente grazie al lavoro storiografico, così imponente da aver costruito intorno a sé un pregiudizio tanto comprensibile quanto nocivo: praticamente tutto quel che delle guerre sappiamo (e quindi di coloro che le guerre le fanno, gli Stati appunto) proviene dalla storia. Se ne dedusse non esserci alcun bisogno di altro e tanto meno di altre discipline specialistiche (accademiche), alla luce poi del pregiudizio (già evocato) dell’anarchia, che suggeriva e suggerisce che di ciò che succede in un ambiente anarchico non c’è proprio nulla da cercar di capire e tanto meno da studiare, mancando un principio regolatore degli eventi e delle azioni: al massimo tutto ciò si può descrivere – ecco che la storia occupa (usurpa?) lo spazio delle relazioni internazionali. D’altro canto, non ci possiamo nascondere che – nonostante tutte le difficoltà intuibili, i suoi limiti e le particolari condizioni in cui agisce – di contro alla sufficienza con cui la storia (e quindi, per noi: la storia diplomatica, come si diceva una volta, o come preferiamo oggi, la storia delle relazioni internazionali) ha liquidato gli intrattabili problemi dell’anarchia internazionale, si staglia con altrettanta vigoria il diritto che si sforza invece di ridurre gli spazi dell’anarchia, di trovare forme e formule per limitare l’assolutezza della sovranità statuale, e offrire ai poteri pubblici strumenti (almeno parziali, almeno provvisori) per ricondurre le vertenze internazionali a una qualche forma di compo-

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sizione compromissoria e/o preventivamente codificata. Anche qui il discorso parte da lontano, addirittura dallo ius gentium latino e poi dai principi organizzativi della Respublica christiana costituita all’interno del Sacro Romano Impero. Si tratta di una vicenda complessa e imponente che non può essere, a sua volta, qui riassunta; ma basti per noi ricordare che lo sviluppo del diritto accompagna quello delle società e che in particolare accanto alla formazione dello Stato moderno si colloca quella del diritto pubblico, sul quale, più lentamente e più limitatamente, si innesterà separandosene una dimensione internazionalistica, facendo sorgere così un nuovo problema. Se e quando ogni Stato si è dato un suo diritto costituzionale costituito a partire dalla prerogativa sacrosanta della sovranità, che ne sarà di ciascuno di questi quando si troverà a confrontarsi e comporsi con tutti gli altri sistemi giuridici che con quello andranno a costruire il diritto internazionale, quello che ai tempi di Bentham – come abbiamo visto – si chiamava giustappunto ius inter gentes? Si apre qui un problema di fondamento del diritto internazionale e di gerarchia tra sistemi giuridici interni e sistema giuridico internazionale (per l’impostazione più illuminante del quale rimando a Kelsen, 1920), di enorme importanza ai fini della possibilità o meno di riconoscere al diritto internazionale la propria prevalenza normativa e anche sanzionatoria (uno e uguale per tutti consociati) su quello interno di ciascuno Stato, o se invece ciascuno di questi ultimi possa rifugiarsi nel suo «riservato dominio», nella sfera della «non interferenza» e dell’indipendenza insomma, per ritenere il proprio diritto prevalente sullo stesso diritto internazionale (la non ancora soddisfacente soluzione trovata per la costituzione del Tribunale Penale Internazionale, vara-

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to a Roma nel 1998, mostra la difficoltà di superare tale limite). La politica internazionale è anarchia incoercibile, dicono gli storici; essa deve ricondotta al diritto e sottoposta alle sue regolamentazioni, replicano i giuristi. Tra queste due posizioni estreme si colloca, comunque, quella enorme parte di realtà materiale che è fatta di coesistenza tra gli Stati e di guerre, di scambi commerciali e di conquiste di mercati o tra mercati, di alleanze e di ostilità, di confusione delle razze oppure di scontro di civiltà: che succederà tra anarchia e ordine, tra potenza pura e duro diritto? Se questo è il quadro complessivo all’interno del quale le relazioni internazionali comparvero sulle scene accademiche mondiali e se questi sono i problemi fondativi elementari che dovettero affrontare, possiamo ora cercare di dar loro una sistematizzazione complessiva, non traumatica per nessuna delle discipline coinvolte, e allo stesso tempo sufficientemente rigorosa da consentire alla nuova disciplina, una volta costituita, di darsi i suoi metodi, le sue tecniche, le teorie e le interpretazioni che ne determineranno l’interesse pubblico e l’utilità. Risulterà così subito evidente che non può esistere una disciplina come quella delle relazioni internazionali che non sia fortissimamente incardinata nella realtà storica effettuale. Tralasciando il (pre)giudizio anarchico, vedremo come comunque i fatti internazionali siano la base empirica assolutamente imprescindibile per ogni ragionamento internazionalistico. Senza conoscenze storiche certo, ma non solo, non capiremmo nulla delle vicende internazionali che hanno portato alle guerre e poi fuori da esse, chi le abbia volute e perché, e chi dalla sconfitta abbia tratto lo spirito per prendersi la sua vendetta. Potremmo addirittura dire che non esista storia che non

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sia anche internazionale, cosicché tracciar steccati (che è invece uno sport molto diffuso in tutte le discipline universitarie) è in se stessa un’operazione insensata oltre che inutile. All’internazionalista servirà infatti tutto ciò che lo aiuti a capire e a spiegare, senza chiedersi se provenga dal suo stesso ambito disciplinare o da un altro. La distinzione che normalmente si traccia tra la storiografia e le altre scienze sociali sta nella tensione che queste ultime hanno verso la costruzione di modelli, più o meno complessi, attraverso i quali intendono giungere al disvelamento delle strutture profonde delle istituzioni, alle regole delle azioni umane, ai modelli astratti a cui tutto ciò possa essere ricondotto. È noto che gli storici revocano in dubbio l’utilità di questo tipo di imprese, stante la natura spontaneamente e irresistibilmente irripetibile della storia umana, eccependo che poiché due fatti uguali nella storia non si danno, non se ne potranno mai cogliere le strutture comuni. Così potremo avere chi, scrivendo una storia della Guerra dei trent’anni di cinquecento pagine, sarà convinto di aver messo in evidenza tutto ciò che serve per capirla e collocarla nell’evoluzione storica delle relazioni internazionali, ma non mancherà dall’altra parte chi eccepirà che quella guerra (pur «unica» nella storia delle guerre) non potrà essere compresa se non inquadrandola nei modelli di guerra disponibili in disciplina e nell’emergente formazione di un sistema di potenze internazionali di fondamentale importanza per le età successive. L’obiezione che gli scienziati sociali (tra cui gli internazionalistici) muovono è un po’ dello stesso genere di quella che si potrebbe muovere a un virologo, al corrente di molti e già classificati virus, e che di fronte al ritrovamento di uno a lui non ancora noto si ritenga as-

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solutamente costretto a classificarlo come nuovo senza minimamente preoccuparsi di verificare se le sue caratteristiche non lo rendano omogeneo o uguale a uno o ad altri, o se la conoscenza di questi ultimi non lo aiuti nell’analisi di quello nuovo. Allo storico mancherebbe insomma quello spirito generalizzante che, sulla base dei connotati presenti in più casi, si propone di individuare una spiegazione comune per tutti quelli passati e – ciò che più interessa e affascina – di fare previsioni su quelli futuri. Ancora, del tutto opposta la prospettiva giusinternazionalistica, la quale tende per natura alla generalità e all’astrattezza, trovandosi quindi perfettamente a suo agio nella ricerca di una modellizzazione capace di definire e classificare fattispecie precise e specifiche, proiettabili su uno schermo normativo mirante a stabilire la congruità o l’invalidità dei comportamenti tenuti. Naturalmente l’impegno del giurista non è tanto spiegare quanto inquadrare, meglio, verificare la corrispondenza tra il fatto e il diritto, tra ciò che effettivamente è successo e ciò che le norme prevedevano, sia in termini direttivi e preventivi sia in termini sanzionatori e repressivi. Concettualizzazioni come quelle che riguardano la sovranità, le alleanze, la diplomazia, eccetera, accomunano fortemente lo spirito politologico e quello giuridico, che si separano però nel momento in cui quest’ultimo è interessato all’analisi dei fatti soltanto in termini causali, per quanto riguarda il loro rapporto con la normativa, appunto, e per nulla interessato alle ragioni politiche, ideologiche, culturali, economiche, eccetera, che stanno invece in cima all’attenzione del politologo. Il problema del diritto rispetto alle altre scienze sociali, insomma, è questa sorta di doppio binario, o di raddoppiamento che in ogni istante si rea-

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lizza, come se fatti e norme corressero in parallelo e di tanto in tanto i primi si scontrassero con le seconde: il fatto che è che queste ultime non possono fare alcunché per evitare di essere infrante e il loro compito è quindi sempre soltanto quello di verificare e (se possibile) reprimere il fatto illecito. Ma certo non si può chiedere al diritto di risolvere problemi politici che millenni di lotta hanno sì costantemente riproposto, ma per i quali non hanno in realtà mai offerto soluzioni alternative: è chiaro che fino a quando il mondo non si sarà dato un’organizzazione unitaria capace di far applicare coercitivamente le sue norme non se ne troverà effettivamente alcuna. Tanto la storiografia quanto la scienza giuridica internazionale si sono ormai abituate a condividere il campo di ricerca con le relazioni internazionali. L’accordo si è logicamente trovato nella diversità degli approcci – vedere, giudicare, spiegare – proponendosi nella maggior parte dei casi un’accumulazione di forze e di prodotti scientifici utili per tutti. Si pensi a una vicenda come quella delle presunte armi di distruzione di massa che (se esistenti) avrebbero dovuto scatenare la reazione del mondo occidentale (come avvenne – ma non è l’evento che qui ci interessa) nei confronti dell’Iraq di Saddam Hussein. Bene, in quel caso la politica officiò lo scontro tra Stati Uniti e Iraq, le dichiarazioni del governo statunitense e le risposte o i silenzi di quello iracheno (dimensione politica), che acquistavano un senso chiaro soltanto sulla base della ricostruzione dell’invasione del Kuwait che, almeno a partire dall’estate-autunno del 1990, aveva contraddistinto la politica estera di Saddam Hussein (dimensione storica). Il tutto venne sottoposto alla valutazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, una struttura certamente di natura politica

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che agisce sulla base di una regolamentazione giuridica estremamente precisa e notoria (dimensione giuridica). Tutti sappiamo come andò a finire quella storia e che il Segretario di Stato americano Colin Powell si trovò a mentire spudoratamente a proposito delle informazioni di cui il suo governo disponeva e in base alle quali decise di dichiarare guerra all’Iraq: siamo di nuovo in piena ricostruzione storiografica, la quale tuttavia si arricchisce di una dimensione politica estremamente importante che riguarda il programma statunitense di costruzione di una coalizione internazionale di Stati che, per intervenire concordemente in Iraq, abbisognavano tuttavia di una legittimazione giuridica che soltanto le Nazioni Unite potevano loro dare. Storici, giuristi e internazionalisti non taglieranno a fette la realtà né se ne strapperanno i brandelli dalle mani: ciascuno considererà l’apporto degli altri come sussidiario o complementare al suo, senza che ne risultino inutili guerre di confine. Ma aggiungiamo ancora alcune variazioni disciplinari. Le relazioni internazionali sono tutt’uno (si può ben dire) con la geografia politica ed economica, la quale studia, in differente prospettiva, esattamente le stesse cose (anche se non tutte): tutto ciò che succede sulla terra, dovunque sia dislocato, è in qualche misura di pertinenza di entrambe le discipline (cfr. Harvey, 2009). E ancora: come potrà mai uno studioso di relazioni internazionali non sapere di strategia militare? Potrebbe mai ignorare tutto sulla natura delle armi atomiche, sulle loro caratteristiche, non saper nulla di che cosa significhino (nei fatti) guerriglia o guerra di popolo, quale portata abbiano le alleanze militari, eccetera? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e coinvolgere anche l’economia, non soltanto nella sua classica formulazione della politica economica o dell’economia

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internazionale, ma anche nella più sofisticata ma oggi in grande sviluppo politica economica internazionale (cfr. Gilpin, 2001), specie in riferimento ai beni pubblici internazionali (aria, acqua, risorse naturali, ecc.). Dove tracciare le linee di confine? Sembra largamente accettabile l’idea che non ce ne debbano essere e che un grandioso principio di reciprocità, per cui ciascuna disciplina è ancella di un’altra nella stessa misura in cui quest’ultima lo è della prima, dovrebbe trionfare su tutti gli steccati disciplinari a favore di una pura e semplice crescita della conoscenza – che non appartiene a nessuno ma è di tutti. Più ovvia e semplice (ancorché tecnicamente opportuna) la soluzione per quanto riguarda la collocazione delle relazioni internazionali all’interno della scienza politica (mentre con storia e diritto il problema si poneva all’esterno della disciplina). Propose una brillante distinzione Stanley Hoffmann, più di mezzo secolo fa, definendo la scienza politica (ovvero, politica interna) come «scienza del potere» e le relazioni internazionali come «scienza dell’assenza di potere o della molteplicità di poteri (che è la stessa cosa)» (Hoffmann, 1961, p. 425). Mi si potrà concedere (spero), in quanto vecchio del mestiere, di concludere questa parte del nostro programma introduttivo con un brevissimo ricordo personale. Appena laureato e in attesa della prima borsa di studio, stesi entusiasticamente un saggio sulla definizione delle relazioni internazionali (giustappunto) e lo portai a leggere a Norberto Bobbio, il quale qualche giorno dopo me lo restituì più o meno con queste parole: «Non c’è nulla di sbagliato in quel che scrivi; soltanto, non serve a nulla. Invece di dire che cosa sono le relazioni internazionali scrivi qualche cosa di relazioni internazionali», una «lezione» che non ho mai dimenticato.

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7. Il caso Italia Giacché ci siamo, possiamo affrontare il caso italiano, ovvero la storia del radicamento della disciplina in un tessuto storicamente e culturalmente non del tutto incline ad accoglierla (non staremo a riprendere il dibattito sull’influenza del crocianesimo nella cultura italiana della prima metà del ventesimo secolo). Trattandosi di vicende che coinvolgono, oltre che l’autore di queste pagine, anche altri suoi colleghi più anziani («accademicamente parlando») basterà qui dire che le relazioni internazionali vengono introdotte in Italia quasi surrettiziamente, facendole comparire nei corsi che una volta si chiamavano Storia dei trattati e politica internazionale (disciplina puramente e totalmente storiografica, illustrata da grandi studiosi, uno per tutti Rodolfo Mosca, oggi riproposta in tutti gli atenei come Storia delle relazioni internazionali), sussumendo la «politica internazionale» ad appendice della storia dei trattati, a sua volta oggetto prevalente di studi giuridici, cosicché il risultato netto di tutto ciò era che i corsi impartiti in quell’ambito avevano contenuti prettamente giusinternazionalistici. Ma la diffusione internazionale delle relazioni internazionali aveva ormai raggiunto anche l’Italia, e a partire dal 1969 la prestigiosa e allora unica Facoltà di Scienze politiche italiana, la «Cesare Alfieri» di Firenze, attivò il primo insegnamento di questa materia che fu affidato a Umberto Gori. In poco tempo fu raggiunto da Antonio Papisca a Padova e da me a Torino (in modo abbastanza dettagliato ho raccontato questa storia, con i doverosi riferimenti bibliografici, in Bonanate, 1990); gli anni successivi videro una lenta e stentata crescita della disciplina: i primi studenti incuriositi più che in-

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teressati incominciavano a frequentare le nostre aule, poi sempre più numerosi, fino a quando, oggi come oggi, i corsi di questa materia e di diversi altri accessori o simili hanno costituito un corpus compatto che dà vita addirittura a dei corsi di studi (come si dice oggi, con il che si intende quel che una volta erano i corsi di laurea e ora sono delle piccole Facoltà). Non per questo il significato di questa disciplina apparve a tutti sufficientemente esplicito e la possibilità di immettere sul mercato dei libri che di questi argomenti parlassero era piuttosto remota, anche per la difficoltà che il classico meccanismo virtuoso delle traduzioni da lingue più ricche nel settore (si pensi al caso delle traduzioni dei classici della sociologia in Italia e al ruolo promozionale che esse ebbero per quella disciplina) venisse adottato anche nel nostro caso. Il gap culturale tra quella che poteva essere una manualistica introduttiva per un corso di relazioni internazionali in una università americana e quella che sarebbe stata necessaria per degli studenti che poco sapevano di scienza politica e nulla di politica internazionale era talmente grande da scoraggiare anche le traduzioni. Basti dire che l’edizione italiana di Politics among Nations (alla quale già abbiamo fatto cenno) uscì in Italia soltanto cinquant’anni dopo l’edizione originale (a mia cura e in versione ridotta). Ma lo stato della bibliografia disponibile per gli studenti o per le persone interessate continuò a essere precario e – se posso, per fatto personale, essere critico – scientificamente poco autonomo e indipendente (stavo per dire: originale), o meglio poco autoriflessivo rispetto alla dominante variante statunitense. Nello stesso mondo anglosassone, le analisi metadisciplinari nonché quelle ricollegabili a ciò che potremmo chiamare una genealogia della disciplina sono piuttosto rare, e prevalente-

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mente recenti, come se fino a poco tempo fa non se ne fosse sentita l’esigenza (senza preoccupazione di completezza, si potranno vedere Booth, Smith, 1995; Schmidt, 1998; Carlsnaes, Risse, Simmons, 2002; ReusSmit, Snidal, 2008). Ma i quarti di nobiltà di una scienza non stanno proprio anche nella capacità di esibire un lungo e glorioso passato?

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1. Soggetti, oggetti e metodi Dire che le relazioni internazionali (d’ora in poi non preciserò più che questa espressione si riferisce, salvo indicazioni contrarie, esclusivamente al settore scientifico accademico) siano in sostanza l’analisi dei rapporti tra gli Stati è – nonostante la volgarità della reductio, o la sua banalizzazione – sostanzialmente vero (ancorché insufficiente). O meglio, lo è stato per secoli mentre ora, a partire dal secondo dopoguerra, la società internazionale vede aggirarsi per i suoi meandri una quantità di altri soggetti: organismi internazionali, innanzi tutto, che vanno dall’Onu, che ha ormai tante agenzie specializzate, tante sedi decentrate, tanti funzionari e tanti impiegati da poter essere considerata a una sua volta un piccolo Stato, fino alle migliaia di organizzazioni internazionali governative e non governative che hanno occupato, con il loro quasi sempre meritorio lavoro, ogni tassello delle attività associative umane; imprese multinazionali o grandi cartelli economico-finanziari (grandi imprese che agiscono ormai senza confini). Abbiamo imparato a conoscere persino, da alcuni anni a questa parte, le cosiddette «Compagnie private militari» (veri e propri eserciti privati, che si affiancano, o sostituisco-

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no, o si oppongono a quelli legittimamente rappresentativi di autorità statuali – un fenomeno preoccupante, insomma). La soggettività internazionale è dunque oggi estremamente varia e rappresenta un arricchimento ma anche una complicazione del quadro. Un posto di tutto rilievo dovrebbe essere allora essere assegnato ai diversi soggetti agenti, cioè a quegli statisti (e a tutti gli altri rappresentanti ufficiali) che agiscono in nome del loro Stato nei confronti degli altri, in termini di amicizia od ostilità, di pace o di guerra – occupando dunque un ruolo cerniera nella realtà della vita internazionale. Più in generale ancora guarderemo alle popolazioni o agli esseri umani, cioè a coloro che sono interessati all’esito delle decisioni che a qualche livello (democratico o elitario) vengono prese (politologicamente parlando, a questo riguardo, è opportuno fare un collegamento con il modello, e poi la tecnica, del decisionmaking, inventato da Richard C. Snyder ai tempi della guerra di Corea, mirante proprio all’approfondimento dei passaggi decisionali che avvengono nel processo politico, Snyder, Bruck, Sapin, 1954). Che le decisioni che riguardano l’umanità siano prese da esseri umani non sempre del tutto consapevoli delle loro responsabilità o abilitati a ciò non soltanto dalla superiorità dei propri muscoli o dal denaro, dalla fortuna, dalla nascita, dagli intrighi o da quant’altro, ma anche dall’investitura popolare, è tanto vero quanto dimenticato. Diciamo più facilmente «Stalin» che «Unione Sovietica» o «Hitler» invece di «Germania nazista», «Reagan» o «Bush» o «Obama» in quanto rappresentanti, certo, ma anche in quanto protagonisti esclusivi della vita internazionale. E ciò corrisponde raramente alla verità, perché ciascuno di essi – pur con tutte le proprie caratteristiche idiosincratiche – non agisce nel vuo-

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to o in solitudine, ma è circondato da gruppi, da un ceto politico, da una classe dirigente, che ne nutrono le aspettative e ne condizionano le decisioni. Si poteva ben dire (anche se i significati delle parole si sono diversificati nei secoli) che ad Atene il popolo democratico poteva decidere «della guerra e della pace, della finanza, dei trattati», eccetera (Finley, 1972, p. 19 trad. it.), ma poi effettivamente le decisioni erano prese da pochissimi maggiorenti (forse oggi le cose non stanno molto diversamente). Non c’è alcun dubbio, in ogni caso, che i meccanismi attraverso i quali un governo perviene a una decisione destinata a valere per i destini di un paese (e sovente anche di molti altri) siano estremamente complessi, e che possa venire da dire che, come ad Atene, non è per nulla vero che siano i cittadini a decidere, ma dei gruppi ben più ristretti, degli esperti oppure delle persone non sempre ispirate ai principi della democrazia, neppure nei paesi democratici. La responsabilità del politico in effetti non è soltanto la ricerca della miglior soluzione, ma di quella che – attraverso la catena della rappresentanza – i cittadini prenderebbero autonomamente se potessero (questa è in sostanza la grande differenza tra la democrazia antica e moderna). Basta riflettere sulla portata delle grandi decisioni politiche internazionali per rendersi conto dell’immenso peso di responsabilità che grava sulle spalle degli statisti: si pensi ai tanto vituperati primi ministri inglese, Arthur Chamberlain, e francese, Édouard Daladier, di fronte a Hitler: certo indecisi, forse timorosi, probabilmente anche consapevoli dell’enormità dl rischio; chi avrebbe preso a cuor leggero una decisione che avrebbe aperto il capitolo di una guerra che avrebbe prodotto cinquanta milioni di morti? Non è soltanto in discussione l’ingenua operazione

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antropomorfica che facciamo guardando agli statisti invece che alle istituzioni statuali che essi rappresentano, perché «è chiaro che un approccio esclusivamente concentrato sui motivi e sulle azioni di attori individuali è inadeguato e fuorviante» (Wolfers, 1962, p. 8 – si tratta di un’opera classica, molto più citata che letta), mentre non si dovrà scordare d’altra parte che nelle grandi decisioni internazionali (specie quelle rivolte alla pace e alla guerra) intervengono dimensioni di psicologia di massa di enorme importanza, la gestione delle quali può essere centrale per le sorti dei vari paesi (si pensi alla costruzione del consenso cui seppe dar vita il nazismo in Germania). Di ciò incominciò ad accorgersi uno dei massimi politologi del ventesimo secolo, Harold Lasswell (tutti coloro che hanno dato un esame di scienza politica, nel mondo, si saranno imbattuti nella sua celebre formula, che è anche il titolo di una sua opera del 1936: Politics: Who Gets What, When and How), il quale in World Politics and Personal Insecurity metteva per primo sotto osservazione la dimensione sociale e umana delle relazioni internazionali, seguito nel secondo dopoguerra da un intensificato interesse legato alla straordinaria innovazione che conseguì alla comparsa dell’arma atomica sulla scena del mondo. Essa infatti divenne lo strumento di un rapporto comunicativo (la cosiddetta «dissuasione nucleare») in cui l’equilibrio del terrore (indotto appunto dal pericolo nucleare) doveva rassicurare (paradossalmente) l’opinione pubblica mondiale dell’improbabilità di una guerra che tuttavia gli statisti tutti i giorni minacciavano di far scoppiare. In termini squisitamente psicologici (come Klineberg, 1964), o più ampiamente sociopsicologici (come recita il sottotitolo di un’opera collettiva curata da Singer, 1965), questa tematica tocca comunque una questione

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metodologica di immensa importanza, perché sfocia inevitabilmente nel dibattito relativo al nesso tra gli individui (latamente intesi, come abbiamo visto) e le istituzioni nelle quali essi (individualmente o per rappresentanza) agiscono, o in nome delle quali prendono decisioni. Il passaggio che stiamo affrontando ha sia una valenza conoscitiva pura e semplice (potremmo ridire: chi fa che cosa, quando e come), un’altra di tipo metodologico (come vedremo tra poco, ma ne annuncio già il nome, affinché il punto sia chiaro: la questione verterà sui «livelli analitici», nel § 3 di questo capitolo) e un’ultima, metateorica e per questo ancora più importante. La domanda che ci dobbiamo porre ora infatti è: qual è il fuoco principale dell’analisi internazionalistica? Quali devono essere gli oggetti principali da osservare? Che cosa vogliamo capire e spiegare (meglio: capire per spiegare)? Per realizzare i fini implicati in queste domande è necessario dotarsi di un metodo di lavoro, ovviamente, ma esso stesso dipende dal ruolo che debbono avere gli strumenti con cui condurremo le nostre analisi. In altri termini: la realtà internazionale è lì, davanti ai nostri occhi e ciascuno, avendola guardata, ne darà una sua spiegazione/giustificazione o è necessario che tutte le eventuali proposte siano accomunate dal loro adeguamento a una serie di regole procedurali? Per offrire un’interpretazione della seconda guerra mondiale dovrò dapprima chiedermi che cosa significhi la parola «guerra» oppure andrò direttamente all’evento e lo interpreterò in se stesso, a mani nude (per così dire)? Affinché questa impostazione non appaia o ingenua o provocatoria farò un esempio relativo all’opera più celebre e importante di tutta la disciplina, che è come ho già detto Politics among Nations di Morgenthau. Ora, in

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questo libro Morgenthau espone in poche righe un principio di giudizio (relativo alla natura dell’uomo, e via discorrendo) in base al quale interpreta le componenti della vita internazionale senza più sottoporre a verifica il punto di partenza: con il suo unico e molto semplice maglio Morgenthau, compiendo un’operazione in sé titanica, ha a disposizione una risposta sicura per ogni domanda. Adottato tale modello, non esistono più difficoltà se non applicative, ma mai teoretiche e men che meno metateoriche: non c’è bisogno di alcun metodo particolare per operazioni di questo tipo. Questa impostazione comprende la risposta alle domande che ponevo poco sopra: conoscere è spiegare, ciò che si osserva sprigiona il suo significato; ne risulta che, a parte le applicazioni di tipo specificamente storiografico, le relazioni internazionali saranno una disciplina fondamentalmente contemporaneistica, cioè sempre all’attacco degli eventi che riconducono alla loro pista di lettura. Potremmo dire che tale tensione sulla contemporaneità è una caratteristica tipica di tutte le scienze sociali che, addirittura, dalla contemporaneità cercano di sbirciare sul futuro, ma nessuna sarebbe più delle relazioni internazionali intrecciata con gli eventi, giorno per giorno, con l’attualità pura: attività diplomatica, determinazione di politiche estere, scelta tra amici e nemici, intervento su ogni nuova questione che sorga all’orizzonte internazionale, eccetera. Diciamolo con una parola sola: le relazioni internazionali sono una tecnica o una scienza? Non è ovviamente in discussione il valore dell’una o dell’altra scelta, ma l’insieme delle conseguenze che ne derivano: se in Morgenthau le interpretazioni risultano «scontate» (non perché insignificanti, ma perché implicitamente già ricomprese nella chiave di lettura), in

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System and Process in International Politics, invece, Kaplan ci mette a disposizione degli strumenti di analisi astratti, trasformati in modelli applicabili, che direttamente nulla ci dicono sull’interpretazione della realtà, ma ci danno degli strumenti per giungervi. Potremmo ridire tutto ciò osservando che la prima logica rientra nel mondo dell’induzione, quell’operazione cioè attraverso la quale l’osservazione di casi specifici ci consentirà di formulare delle generalizzazioni empiriche, del tipo: gli Stati mostrano di essere attenti al proprio interesse nazionale, dunque, l’interesse nazionale è la chiave esplicativa del loro comportamento (Morgenthau); mentre la seconda è deduttiva e applica alcune ipotesi di portata più o meno ampia alla realtà e controlla se quest’ultima si adegui alle ipotesi formulate (Kaplan). In questo secondo caso la teoria spinge l’analisi empirica; nel primo l’analisi empirica produce verifiche di eventi ripetuti. Quest’ultima sarà certamente solida e scevra da falle, dubbi e incompletezze, mentre quella deduttiva (molto più indeterministica) metterà ogni volta in gioco la sua capacità di ipotizzare correttamente le ragioni di ciascun comportamento, che si sarà inquadrato in determinate condizioni dell’ambiente internazionale, in certe novità strategiche o in determinate innovazioni negli armamenti, nella logica delle alleanze o nell’ordine internazionale del tempo. Nel caso dell’induzione, la realtà è la scienza, in quello deduttivo, la scienza è l’ipotesi; nel primo caso realtà e spiegazione sono coessenziali e fin tautologiche; nel secondo caso la spiegazione è altro rispetto alla realtà con la quale interagisce per scoprire se le sue ipotesi la illuminino e la spieghino.

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2. Lo statuto logico della disciplina Possiamo ricondurre a unità le precedenti affermazioni osservando che la nostra disciplina (una specie di scienza politica, abbiamo visto) si caratterizza rispetto a quelle affini perché «si serve di una differente metodologia e deve impiegare differenti tecniche di ricerca» al fine di svolgere uno «studio empirico e generalizzante dei fenomeni politici» (Bobbio, 1969, pp. 15, 17). Ma allora, quale la metodologia, quali le tecniche di ricerca? Una volta dichiarato che delle due strade che la disciplina delle relazioni internazionali può prendere – quella empirico-induttiva; quella logico-deduttiva – sarà qui adottata la seconda (dirlo è importante non tanto per convincere il lettore della bontà degli argomenti a favore quanto per non fuorviarlo dalle aspettative che può essersi formato) per la sua particolare propensione verso la metateoria intesa come una riflessione sul metodo prima ancora e piuttosto che un applicarsi alle analisi interpretative. Anche in questo caso – e lo verificheremo ancora – la divisione tra induttori e deduttori (se così si può dire) corrisponde tanto a quella tra realisti e idealisti, tra pessimisti e ottimisti, quanto a quella tra difensori di una disciplina scarnamente empiricodescrittiva e quelli che vanno invece alla ricerca di ipotesi con cui costruirsi delle teorie, tra chi pensa che ogni evento abbia (meccanicisticamente) una sua propria ed esclusiva spiegazione e chi invece si muove tra un dubbio e l’altro e vuole testardamente sfuggire a ogni forma di determinismo. Non si tratta naturalmente di una scelta indolore perché ne discendono altre, che restringono inevitabilmente il campo delle possibilità, ma questa è una circostanza che inerisce a qualsiasi forma di ricerca che si voglia progressiva, capace cioè di produrre

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spiegazioni o soluzioni nuove o innovative, il che non può avvenire che considerando superate certe indicazioni e favorendone altre, ben consapevoli che il progresso scientifico non potrà sempre trascinarsi tutto il patrimonio di conoscenze accumulato, ma soltanto ciò che quest’ultimo ancora può utilizzare. In termini più formali, si può argomentare che lo statuto logico di una disciplina (ovvero l’individuazione del suo fondamento teorico, della sua natura, delle sue caratteristiche, delle competenze e i limiti entro i quali un certo settore di ricerca può muoversi) comporta a sua volta un ragionamento metateorico necessario al fine di organizzare le conoscenze: sappiamo che cosa ci interessa, vogliamo capire come accostarlo e studiarlo; necessitiamo di un metodo per farlo. Diremo allora che il modo per fare tutto ciò consiste in null’altro che nel progetto di fare ordine nella massa enorme delle conoscenze (o delle informazioni di cui disponiamo) che dovremo organizzare secondo determinati criteri, come quando facciamo ordine in un armadio oppure dobbiamo regolare il traffico in una città o organizzare i movimenti dei treni in una stazione ferroviaria: non potremo non essere costretti a limitare e/o a ridurre la massa dei dati, o meglio, anch’essi dovranno essere messi in ordine. Possiamo capire ora che cosa significhi «ordine» tra dati della conoscenza: infatti, per ordinarli dovremo dare loro differenti valori, sulla base dei quali potremo graduarli. Metterli in ordine significa quindi imparare a distinguere l’importanza rispettiva di ciascun dato. Da una parte avremo una massa di informazioni di cui disponiamo (specie oggi) a piene mani, dall’altra dei problemi da spiegare: in mezzo – a collegare gli uni e gli altri – un metodo di lavoro. Nella stragrande maggioranza dei manuali di relazioni internazionali presenti nelle migliori biblioteche

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specialistiche al mondo non troverete che poche pagine (quando ci sono) dedicate a problemi di metodo; vi si parlerà di scienza, di neutralità e avalutatività, di distinzioni tra approcci, di fattori ambientali e rarissimamente di metodi di analisi. I metodi di ricerca saranno quantitativi, statistici, sociologici, ma non sapremo perché. Il più importante reading su cui generazioni di studiosi hanno fatto le loro prime decisive letture è stato pubblicato da James N. Rosenau (uno dei pionieri della disciplina nel secondo dopoguerra) – International Politics and Foreign Policy – in due successive edizioni (tra loro completamente diverse e quindi complementari) nel 1961 e poi nel 1969. La voce Theory and Method, in entrambe le edizioni, occupa non più una trentina di pagine, per lo più estremamente convenzionali. Nel più fresco e recente grande manuale sulla disciplina – di quelli che leggono più i professori che gli studenti: The Oxford Handbook of International Relations, curato da Christian Reus-Smit e Duncan Snidal – alla voce The Question of Method compare una serie di contributi dedicati ai diversi approcci (psicologico, sociologico, quantitativo, storiografico) che appartengono non al piano metodologico ma a quello delle sue applicazioni. Pochi anni prima, nell’altrettanto ampio e prestigioso Handbook of International Relations (quasi 600 pagine su due colonne in corpo piccolo) un solo contributo (Philosophy of Social Sciences and International Relations di Colin Wight) può essere ricondotto ad argomenti metodologici. Non è andata meglio nel 1995 con International Relations Theory Today (a cura di Ken Booth e Steve Smith) in cui non una riga era dedicata alle metodologie, né poi nel 2001 con il primo sistematico tentativo di presentare la disciplina in Italia (quello curato da G. John Ikenberry e Vittorio E. Parsi), fatto salvo il contributo di Fabio Ar-

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mao. Rosenau, infine, nel 2006, nella raccolta dei suoi scritti (a testimonianza della sua straordinaria carriera scientifica), che reca un sottotitolo come «Theoretical and Methodological Challenges», vi dedica non più di una ventina di pagine (che parlano d’altro, oltre tutto, su un totale di 500). Il più attento alle dimensioni metodologiche risulta infine, apprezzabilmente, Rodolfo Ragionieri in Pace e guerre nelle relazioni internazionali (2008), dato che vi intitola tutta una parte (seppure poi il contenuto non sia innovativo). Se volessimo studiare scientificamente la guerra – tanto per fare un esempio (che ovviamente non è scelto a caso) – non dovremo forse dotarci di un metodo di ricerca, che sarà a sua volta ricompreso all’interno di una complessiva metodologia di ricerca? Facciamoci guidare dal più famoso (e grande) primo studioso moderno (cioè scientifico) della guerra, Quincy Wright, e leggiamo una pagina tratta dal monumentale (1637 pagine!) A Study of War (1942), esemplare anche nell’incedere: L’analisi della guerra che verrà tentata [in questa sezione] non ha mire di realizzazione estetica e non vuole offrire indicazioni di tipo morale, ma di comprensione scientifica. La storia sviluppa generalizzazioni che sono vere per particolari periodi e luoghi del passato. La pratica assume vere generalizzazioni come guida per particolari scopi nel futuro. La scienza si batte per generalizzazioni che non soltanto corrispondono alle osservazioni sulle quali esse sono basate, ma anche su tutte le generalizzazioni future e passate sconosciute nel momento in cui la generalizzazione era stata fatta. Si è spesso detto che la guerra è un qualche cosa che lascia poche possibilità predittive. Le circostanze di una guerra, i suoi antecedenti e le sue conseguenze, potranno venir registrati, ma secondo questa opinione ogni guerra è unica. L’archivio delle guerre costituisce dunque una storia, ma non

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può diventar scienza. È vero che ci sono principi e regole di guerra che hanno per scopo di regolare l’inizio e la condotta di guerra o di guidare i generali alla vittoria. Ma questi sono aspetti giuridici o regole pratiche che stabiliscono norme che possono essere seguite oppure no a seconda dell’efficacia delle sanzioni internazionali o del giudizio dei rappresentanti ufficiali. Esistono anche delle leggi che possano mettere lo studioso in grado di fare delle predizioni sull’incidenza e le manifestazioni della guerra sulla base delle caratteristiche e delle interrelazioni tra popolazioni, nazioni, Stati ed eserciti? La differenza tra le leggi storiche, quelle normative, e le leggi scientifiche non va esagerata. In realtà, l’espressione «legge naturale» di tanto in tanto è stata applicata a casi di ogni tipo. La natura biologica dell’uomo come ha funzionato nelle epoche storiche del passato differisce ben poco da come funziona oggi e funzionerà in futuro. Le sanzioni che provengono dalle regole giuridiche e la ragione che sostiene principi tecnici e strategici sono caratteristiche delle società umane, che saranno non meno «naturali» che qualsiasi altra loro caratteristica. Gli eventi della storia umana e le norme delle leggi umane e dei comportamenti possono essere visti come la dimostrazione che queste leggi della società umana non saranno meno applicabili in futuro di quanto lo siano state in passato. [...] Appare così del tutto prematuro negare la possibilità di valide generalizzazioni a cui il futuro della guerra possa tendere a conformarsi. Suffragare tali generalizzazioni comporta l’applicazione di un metodo scientifico. Quando è applicato all’attività sociale, che mira essenzialmente alla soluzione delle difficoltà, il metodo scientifico differisce per alcuni aspetti da quando lo si applica ai fenomeni fisici e dà risultati che ne sono molto meno precisi. Con riferimento all’attività sociale, il tempo storico non può mai essere eliminato in quanto fattore non misurabile, le relazioni di causa-effetto non possono essere completamente separate da quelle che corrono tra mezzi e fini, le costanti non possono essere separate in modo chiaro dalle variabili, e non è facile ripartire gli argomenti tra disci-

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pline che hanno i loro preferiti metodi specialistici. L’esistenza delle contingenze, di fini, di mutamenti di carattere universale, universalmente intrecciati tra loro, provenienti dal numero, da soggettività, instabilità, complessità, e dal carattere problematico dei fattori implicati, tutto ciò rende estremamente difficoltosa e sovente improduttiva l’applicazione del metodo scientifico ai problemi umani e sociali. L’isolamento dei problemi e delle discipline, la determinazione di standard di misurazione e di schemi di riferimento, l’eliminazione delle preferenze personali devono essere realizzati al meglio in tutte le scienze, ma nelle scienze fisiche questa attività è guidata dall’osservazione della natura. Rappresentazioni fittizie, solo talvolta necessarie nelle scienze naturali, sono essenziali nelle scienze sociali. Lo scienziato sociale deve crearsi una struttura di assunti e utilizzare un linguaggio che siano allo stesso tempo simbolici ed emotivi. Se non riesce a costituire i suoi assunti presentandoli in modo suggestivo, gli servirà a poco costruirsi delle ipotesi o investigare sulla loro validità. Per il problema della guerra, ciò significa che lo scienziato ricorrerà alla sua propria convinzione di ciò che la natura della guerra dovrebbe essere come uno degli assunti per la predizione di ciò che essa diventerà. E dovrà ammettere che altri, analogamente, ricorreranno alle loro convinzioni. Riflessioni fiduciose sulla guerra formano uno degli elementi più importanti nella ricerca scientifica sulla guerra. Valutare le credenze è una chiave indispensabile per il futuro. Lo studioso della guerra dovrà ammettere che i desideri, le opinioni, i valori, inclusi i suoi stessi, sono tra i fenomeni con cui ha a che fare. Non può escluderli dalle sue formulazioni predittive come può fare un fisico. Con tutta la loro intangibilità, imponderabilità, mutevolezza, deve fare del suo meglio per ricondurli all’ordine. Non può riuscirci se non combinando tra loro persuasione e analisi. Deve sforzarsi di perpetuare nella società quei valori che costituiscono il postulato su cui poggia il suo studio, o la sua ricerca sarà indebolita (Wright, 1942, pp. 681-84).

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L’insegnamento fondamentale che da questa pagina (che si applichi alla guerra o qualsiasi altra tematica scientifica) discende è quello di costruirsi un quadro concettuale complessivo, sistematico e autosufficiente, che possa essere utilizzato per analizzare ogni e qualsiasi evenienza tipica di un certo ambito di studi, che sia appunto una guerra, un trattato, un tipo di alleanza, un modello interpretativo, un giudizio sulla natura dello Stato, sulle caratteristiche idiosincratiche degli statisti, eccetera. Compito immenso, ma che le relazioni internazionali sono in grado di assolvere molto più facilmente di quanto non possa a prima vista apparire, e che stupefacentemente non è stato mai oggetto di attenta utilizzazione. 3. I livelli di comprensione Qualsiasi disciplina deve confrontare tra loro fatti (realtà, eventi) e concetti (ipotesi interpretative, modelli di spiegazione) – allo stesso modo in cui un chirurgo, di fronte alla necessità di operare un determinato taglio (realtà), dovrà avvalersi delle conoscenze che ha accumulato e che gli fanno presumere (modello di spiegazione) che quello che farà avrà buon esito. Dovrà quindi collocare le prime su un piano molto ampio e, per così dire, orizzontale, come se tutti i dati della conoscenza che ha a disposizione fossero, a priori, tutti dello stesso valore. Alla fine del lavoro le cose non saranno più tutte uguali; se tutto avesse lo stesso valore ne risulterebbe un sovraccarico, disordine o confusione, e certo non quell’ordine che stiamo cercando. Sarà dunque necessario un secondo asse lungo il quale disporre le stesse conoscenze già raccolte e differenziarle per importanza, ovvero: per capacità di spiegarci ciò che voglia-

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mo capire. La dimensione non sarà più, qui, orizzontale, bensì verticale. Con l’incrocio tra i due assi cartesiani dell’ascissa e dell’ordinata ce la caveremmo opportunamente, se non fosse che il nostro impianto, che deve dirci quale sarà la costituzione vera e propria della disciplina (cioè: in quale modo sia composta la nostra materia, quali ne siano le caratteristiche e le proprietà, e in quale modo siano rappresentabili) non può prescindere da una terza dimensione, la profondità (capacità esplicativa), alla quale spetta proprio la graduazione finale, fondata sull’addensamento delle conoscenze più importanti, sulla loro quantità, costanza, devianza, indeterminazione o determinazione, regolarità o eccezioni, prevedibilità o imponderabilità. Ma procediamo per gradi, rectius per livelli. Ci aiuta in una prima fase la storia della ricerca nella nostra disciplina, grazie alle proposte, parziali ma importanti avanzate da Kenneth N. Waltz, dapprima, e da Raymond Aron, poco dopo. L’antesignano, in un certo senso involontario, del dibattito sui cosiddetti livelli di analisi è Waltz che, nel suo famosissimo Man, the State and War (1959), propone le tre differenti «immagini» della realtà internazionale che ciascuno di noi può farsi con riferimento al tema della guerra. Potremmo infatti trovare che essa origina a livello dell’individuo, a quello dello Stato o, ancora, a quello dell’anarchia internazionale (in linguaggio più attuale distingueremmo: individuo, Stato, sistema internazionale) – proposta che non soltanto darà origine a quello che potremmo considerare l’unico e solo dibattito teorico in tutta la storia della disciplina, ma che sembra rientrare, almeno a prima vista, in una sistematizzazione fondata sostanzialmente sul buon senso. La guerra scoppia a causa della folle volontà di un individuo (Napoleone); oppure essa è lo

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sbocco della politica di potenza tedesca tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo; è infine la conseguenza inevitabile dell’anarchia assoluta che contraddistingue l’Europa nel 1618, più o meno al momento in cui l’impero che era stato creato da Carlo V ha concluso la sua parabola dissolutiva. Non mette conto, per noi qui, ricostruire in tutti i passaggi il dibattito che l’impostazione di Waltz suscitò. Ricorderemo soltanto che il primo a comprenderne la portata metodologica fu J. David Singer (un autore che ritroveremo più avanti, quando parleremo di teoria della guerra, settore nel quale ha avuto un ruolo importantissimo), che però in sostanza ridusse le prospettive da tre a due, accomunando individuo e Stato (Singer, 1961). Mi limiterò a rimandare a una presentazione sintetica del tema proposta da Barry Buzan (uno degli studiosi oggi maggiormente reputati nel mondo delle relazioni internazionali) nel 1995 e alla notizia che tra le tante proposte spiccava quella formulata da Rosenau che, di livelli, ne trovava ben cinque: idiosincratico, di ruolo, governativo, societario e sistemico (Rosenau, 1966). Ma né Buzan, né Marco Cesa, nel presentare l’edizione italiana del libro di Waltz (1998), né Andrea Locatelli, in una scheda redatta per il già citato manuale di relazioni internazionali curato da Ikenberry e Parsi, né Corrado Stefanachi (in una scheda redatta per il manuale di Andreatta, Clementi, Colombo, Koenig-Archibugi, Parsi, 2007) colgono, e per un verso, il limite concettuale della proposta che rilanciano e che ancora una volta sclerotizza le relazioni internazionali in un semplicismo davvero patetico, e per un altro approfittano di un’analoga proposta, coniugata sul piano concettuale, di Aron, il quale in Paix et guerre entre les nations (1962, quindi poco dopo l’idea di Waltz) conce-

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piva le relazioni internazionali secondo quattro altri livelli – di concettualizzazione, e non di analisi. Per intenderci: è come se i livelli analitici di Waltz funzionassero sul piano orizzontale che abbiamo prima definito, mentre ora quelli che Aron propone si collocheranno sul piano verticale, al quale toccherà discutere «lo schematismo dei concetti e dei sistemi, le cause generali degli avvenimenti, [...] i giudizi pragmatici o etici» (Aron, 1962, p. 29 trad. it.). Si tratta dei livelli: teorico, storico, sociologico, valutativo (o prasseologico), che sono poi le stesse quattro parti in cui l’opera è distinta. Anche qui, molto rapidamente, ricorderemo che il primo livello si occuperà della definizione dei concetti e della natura del caso a cui si riferiscono; il secondo, storico, riguarderà le modalità di svolgimento degli avvenimenti antecedenti; il terzo verterà sulla trasformazione dei dati storici in modelli sociologici formatisi appunto sulla base delle ripetizioni, delle costanti o delle innovazioni intervenute proprio nel tempo storico. Il quarto e ultimo livello si pone su un piano un po’ eterogeneo rispetto agli altri tre, perché si propone di offrire gli strumenti, e creare le condizioni, per la formulazione dei giudizi su tutto ciò a cui si erano applicati gli altri livelli (essendo la prasseologia la riflessione che valuta i comportamenti tenuti). Questa tassonomia è migliore, peggiore o differente da quella waltziana? Rispondere sarebbe sostanzialmente irrilevante, per il semplice fatto che esse si occupano di problemi differenti; ma stupisce che non si sia mai pensato di integrare i due tipi di contributo che – muti in se stessi – si possono rivelare estremamente fecondi se integrati e incrociati in una tavola a doppia entrata, di modo che se sull’ordinata avremo tre livelli di analisi e sull’ascissa quattro livelli di concettualizzazione, otterremo così una serie di caselle (12; ma volendo il discorso po-

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trebbe articolarsi maggiormente; cfr. a questo riguardo Bonanate, 1973, 1994), all’interno di ciascuna delle quali sistemeremo (facendo ordine) i diversi dati della conoscenza che ci interessano. Qualche esempio. Incrociando livello analitico statuale e livello concettuale storico, avremo la possibilità di approfondire la tematica del ruolo dello Stato (tema sul quale ci siamo già soffermati: cap. I, § 6) nella vicenda internazionalistica; all’incrocio tra Stato e sociologia troveremo il modello della «palla da biliardo» con la quale Arnold Wolfers ha offerto una delle più suggestive (ancorché insufficienti) razionalizzazioni dei moventi delle politiche estere degli Stati (Wolfers, 1962, p. 19); se volessimo infine discutere del concetto di anarchia (tanto importante nell’analisi internazionalistica, come abbiamo visto: cap. I, § 4) ci muoveremmo all’incrocio tra il livello analitico del sistema internazionale (proprio quello che Waltz chiamava «anarchico») e il livello concettuale teorico. Si daranno ovviamente mille altre possibilità, sia incrocio per incrocio sia all’interno delle singole caselle formate da ciascun incrocio; ma ciò che nobilita maggiormente questo strumento che integra le due logiche ricordate – una analitico-descrittiva, l’altra concettuale-ipotetica – è la potenzialità che esprime, innanzi tutto, in termini teorici, perché ai quattro livelli proposti da Aron se ne potrebbero aggiungere diversi altri, da uno attento all’economia a uno dedicato a una prospettiva direttamente politica, a uno giuridico, uno strategico – come se con un microscopio decidessimo di osservare una certa realtà invece che un’altra. Anche sul piano analitico, ai tre livelli principali se ne potrebbe aggiungere almeno un quarto, inteso a rendere conto della complessificazione del mondo intervenuta negli ultimi decenni e a cui di solito ormai si dà il nome di globalizzazione.

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I due tipi di livello ci dicono quanto possiamo approfondire le nostre ricerche, sia a priori, sia sinteticamente. Potremo infatti sviluppare una riflessione di carattere generale e molto ampia sul rapporto tra individui e guerra: l’incrocio tra livello analitico individuale e livello concettuale teorico ci aiuterà a sviluppare, ad esempio, le conoscenze disponibili sull’interpretazione psicoanalitica di questo tema, in generale e senza prendere necessariamente le mosse da fatti ed eventi realmente accaduti. Ma lo stesso tipo di ricerca potrà essere sviluppato con una riflessione che muova dalla paura della guerra atomica e ci mostri – come fece Franco Fornari (1964) – le difficoltà che gli esseri umani incontrano nell’elaborare quel particolare tipo di lutto che ha a che fare con un evento addirittura non accaduto. In questo secondo caso, un’analisi sintetica affronterà le domande valendosi naturalmente anche delle acquisizioni avvenute in termini più generali al livello analitico di riferimento. La teoria dei cicli della storia (praticata da tantissimi storici e filosofi con grande interesse) è l’oggetto di importantissime e suggestive riflessioni teoriche e ipotetiche, e nello stesso tempo può essere verificata e testata sulla base dell’andamento della storia nei secoli. E così via. 4. Il fondamento teoretico della disciplina Potremmo riassumere il ragionamento fatto attorno ai livelli concettuali osservando che la disciplina delle relazioni internazionali è, ad un tempo, oggettivamente contemporaneistica e vocazionalmente teoretica. L’organizzazione per livelli analitici ci aiuta a muoverci in modo sistematico e coerente nella ricerca di informazioni sugli eventi che ci interessano. Ma la ricerca è teo-

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retica, nel senso che i suoi maggiori temi sono, più che empirico-descrittivi, problematico-ipotetici – i livelli concettuali la guidano proprio nel più arduo e complesso ambito della teoria. In un certo paradossale modo potremmo addirittura dire che, senza quest’ultima dimensione, di una disciplina specifica non ci sarebbe neppure bisogno: basterebbero i giornalisti per l’attualità e gli storici per il passato. Il fatto è invece che i problemi internazionali non possono essere capiti direttamente ma soltanto attraverso la mediazione di un apparato concettuale e di un sistema ipotetico-interpretativo, cioè di una teoria vera e propria che sia in grado di rispondere a ogni tipo di domanda in modo costante, chiaro e soddisfacente (tutta un’altra questione sarà poi quella delle anomalie, dei limiti, dei dubbi e del superamento di teorie ormai consolidate ma inapplicabili). La ragione di questa non immediatezza non è difficile da capire e non è neppure ingiustificata: la vita internazionale non appartiene alla nostra quotidianità materiale; viviamo in una città, abbiamo rapporti giornalieri con altri come noi (anche frequentemente stranieri), condividiamo usi e costumi, obbediamo a uno stesso governo, nazionale e locale. Insomma, non ci occupiamo tutti i giorni dei grandi problemi del mondo, che sono anzi talmente grandi che se ne occupano soltanto i Grandi della terra. Se non ci vengono fornite nozioni aggiuntive, ivi comprese delle ipotesi di spiegazione e delle interpretazioni, l’evento dell’8 dicembre 1987 – la firma congiunta del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e del Primo Segretario del Partito comunista dell’Urss Michail Gorbacˇëv del trattato Inf, che comportò l’abolizione dei cosiddetti «euromissili» – è una contingenza qualsiasi, che rientra nella prassi degli accordi internazionali tanto sovente sottoscritti quanto

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altrettanto frequentemente disattesi. Ma l’8 dicembre 1987 è il giorno in cui – simbolicamente, sia ben chiaro – finisce la guerra fredda, e l’Urss di Gorbacˇëv getta la spugna rinunciando a proseguire la corsa agli armamenti con gli Stati Uniti: ciò che succederà il 9 novembre 1989 non sarà altro che la manifestazione clamorosa e definitiva di ciò che già si era verificato due anni prima. Ma se oggi è relativamente facile per noi cogliere la portata di quell’evento, molto più importante e significativo era o sarebbe stato coglierlo allora, in contemporanea (ecco la natura intrinsecamente contemporaneistica della disciplina). Ma ciò poteva riuscire soltanto a chi avesse una cultura specialistica già ben formata e dotata di quegli strumenti di analisi (guerra fredda, bipolarismo, corsa agli armamenti, natura degli armamenti e armi nucleari, strategia militare, guerra e rischi di guerra, spesa militare, scudo spaziale e guerre stellari, alleanze e politiche di alleanza, ecc.) che sono importanti in tanto in quanto ci danno strumenti interpretativi specifici e specialistici teoreticamente e aprioristicamente costruiti. Ancora una volta, un esempio di portata generale chiarirà il problema: chiediamoci quale sia la forma migliore che i rapporti internazionali possano assumere, poniamo, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, e ammettiamo anche che sia importante saperlo per poter confidare in un periodo di pace e anche per svolgere politiche sapientemente ispirate a tale fine. Dovremo innanzi tutto, naturalmente, ammettere che siano possibili diverse configurazioni, ciò che sappiamo ormai tutti essendo noto che esse sono state rappresentate, nella storia, da forme di tipo bipolare e altre di tipo multipolare. Ciò implica – è chiaro – una prima almeno parziale presa di distanza dalla teoria anarchica, che po-

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trebbe ammettere soltanto non troppo precise forme di equilibrio (a pena di disperdere il connotato dell’uguaglianza naturale delle parti, così negando il senso dell’anarchia). Superato questo primo scoglio (che come noi sappiamo è dotato di un retaggio storico immenso e quindi non può essere bypassato se non con circospezione e prudenza), avremo da operare una seconda grande distinzione, tra configurazioni bipolari (a due Stati dominanti, che si circondano di alleati fedeli e obbedienti – volentieri o a malincuore che ciò sia avvenuto) e altre pluripolari, di cui la storia (come anche delle prime) è piena. Abbiamo casi di bipolarismo tra Atene e Sparta, come tra Roma e Cartagine, tra Carlo V e Francesco I, su su fino, naturalmente, al più grandioso (per la sua portata totalizzante) e noto esempio del bipolarismo nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma abbiamo conosciuto altrettanti periodi multipolari, dei quali sono esemplificazioni evidenti l’Europa post-westfaliana, l’Europa post-napoleonica, ancora l’Europa fin de siècle con lo scontro tra Germania e Francia, circondate da Gran Bretagna, Russia e, poco dopo, Stati Uniti. Forse anche per l’oggi la diagnosi può essere multipolare (forse sarebbe meglio immaginare un caso di de-polarizzazione – ma non è questo il momento di discuterne) (Cesa, 2007, è autore di uno dei pochissimi lavori sistematici sul concetto di alleanza). Vale la pena comunque ricordare che alcuni dei più influenti e importanti studiosi statunitensi si contrastarono nel sostenere tesi diametralmente opposte: che il bipolarismo fosse più bellicoso del multipolarismo e che il multipolarismo fosse più bellicoso del bipolarismo (per la prima versione, cfr. Deutsch, Singer, 1964, per la seconda Waltz, 1964). All’interno di questa dicotomia dovremo andare poi alla ricerca di criteri di stabilità o solidità: per de-

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finire questa variabile utilizzeremo il livello di conflittualità (numero delle guerre, gravità e intensità degli scontri) commisurato alla durata, al passar del tempo (la Guerra dei sei giorni è la più «violenta» della storia, quanto a intensità degli atti compiuti in un così ristretto spazio di tempo), nonché il tasso di concordia interna al singolo blocco (gruppo, o polo) o la sua litigiosità. Una volta dotatici anche di questi elementi incominceremo il confronto tra i due modelli, prescindendo, almeno per ora, dalle variazioni interne, che possono produrre delle contabilità persino grottesche, non mancando chi scopre addirittura che uno stesso sistema internazionale possa essere sia bipolare sia multipolare (Rosecrance, 1966; Kissinger, 1969), avendo in vista l’individuazione del modello che sembra presentare maggior solidità, maggiore stabilità, maggiore durata, minore conflittualità infra- e intra-statuale. Al termine di tutto questo lavoro, tipico della disciplina delle relazioni internazionali (che specie negli anni più intensi della guerra fredda vi si è sbizzarrita) dovremmo aver trovato la nostra risposta, ma – più che altro – ci saremo continuamente mossi all’interno della rete di variabili racchiuse nei livelli di comprensione! Dopo di ciò, infine, trovandoci su un piano post-scientifico, per così dire, ciascuno sosterrà le proprie ragioni di preferenza di questo o quel modello, fondate su argomenti empirico-descrittivi: veri o falsi, corretti o scorretti, suggestivi o veritieri, oggettivi o soggettivi? La ricerca scientifica serve esattamente a ciò: impedire che superficialità e propaganda ci condizionino – funzione assolutamente vitale in riferimento a una disciplina che ha a che fare con la guerra e la pace, il benessere e la sofferenza, la vita e la morte.

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5. La specificità internazionale Nell’arena internazionale, ogni Stato è attore per sé (e in nome dei suoi cittadini) e spettatore per gli altri. Hobbes direbbe che mentre nella condizione originaria dello stato di natura umano tutti gli individui hanno diritto a tutto, nello stato di natura internazionale nessuno Stato ha diritto a nulla. Il diritto dei primi e l’assenza di diritto per i secondi deriva dal fatto che gli esseri umani esistono in quanto tali indipendentemente dal luogo in cui siano nati e in quale congiuntura si vengano a trovare, mentre gli Stati non esistono in natura, non sono entità necessarie, ma il puro e semplice frutto della volontà politica umana. Sono un mezzo, potremmo dire, e non un fine, ma una volta costituiti diventano estremamente importanti e addirittura sono in grado di condizionare la vita dei propri cittadini. È importante riflettere con grande attenzione ma anche senza alcun preconcetto su questo dato originario. Succede sovente che antropomorfizziamo ciò di cui non ci sappiamo fare una ragione intrinseca: nel nostro caso pensiamo che gli Stati non siano che degli uomini in grande. Ma accanto a un’antropologia non abbiamo una statologia (può esistere una statolatria, ma è tutt’altra cosa; la teoria dello Stato, a sua volta, lo guarda in quanto tale, dall’interno e non nella pluralità) per il semplice fatto che lo Stato è una creazione di secondo grado che, una volta costituita, incomincia a vivere una sorta di vita autonoma che lo abilita a interloquire con i suoi simili in quanto rappresentanti-portatori della volontà di milioni e milioni di esseri umani. Non esiste un radicamento naturale della politica internazionale (= relazioni internazionali), ma possiamo dire che storicamente lo sviluppo di questa istituzione è risultato dal-

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l’esigenza organizzativa di gestire e contemperare i contatti e i rapporti tra gruppi umani differenziati. Non riguarda il nostro tema spiegarci perché ciò sia successo, ma è importantissimo che ci rendiamo conto di come devono essere andate le cose (in teoria). Possiamo anche in questo caso riprendere il modello hobbesiano e dire che così come ogni Stato («società civile» in Hobbes) è prodotto dall’intenzione degli esseri umani di fuoriuscire da uno stato originario insostenibile, analogamente ciascuno Stato si è costituito e si è dato quei limiti (confini) che le circostanze storiche gli consentivano di occupare e controllare. La loro pluralità farà sì, per un verso, che una nuova forma di stato di natura (interstatuale) si venga a costituire, e cioè quella che gli scrittori antichi, e Hobbes tra questi, chiamavano anarchia, appunto, e che la sua caratteristica elementare sia di essere regolata da null’altro che dalla forza (le cose non stanno poi tanto diversamente nello Stato, ma questa sarebbe un’altra vicenda). Questa specie di divagazione preistorica ha una funzione importantissima: deve consentirci di guardare allo Stato (il soggetto artificiale normalmente e prevalentemente titolare, sopra tutti gli altri, delle relazioni internazionali, almeno fino ai giorni nostri) in quanto soggetto casuale e frutto di circostanze occasionali invece che di una vera e propria volontà costituente, gettando a mare quindi la retorica dello Stato «naturale». Dobbiamo dirci una cosa molto chiara in modo forse un po’ brutale: uno Stato che si chiama Italia o Francia o Iran esiste soltanto perché la nostra intenzione è stata quella di dargli vita. Non sto parlando di nomi, ma di consistenza tellurica: non è inscritto nella natura delle cose che tra due territori passi quel certo confine; che il Reno abbia separato Francia e Germania è assolutamente

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privo di significato, benché le sue rive abbiano assistito a sanguinose e costituenti battaglie. Ma nulla di simile è successo al Danubio o al Rio delle Amazzoni. Il Danubio, per non fare che un esempio, bagna 11 Stati e non ne divide neppure uno dall’altro. Ciascuno Stato è definito da tutti gli altri e tutti insieme – quelli di momento in momento esistenti: nel 1648 sono meno di 30; nel 2009 sono quasi 200 – si riconoscono reciprocamente. Tanta insistenza su questa caratteristica non può essere senza un motivo forte: non basta, infatti, dal nostro punto di vista, dire che è «Stato» quel territorio su cui insiste una certa popolazione perché, se è vero che ciascuna popolazione compare sulla scena storica con una identità, delle caratteristiche antropologiche sia fisiche sia culturali che la distinguono da ogni altra, eccetera, ancora di più lo è, per così dire, il fatto che queste persone calchino un determinato territorio, le caratteristiche del quale – questa è la chiave di volta di tutto il ragionamento – non sono irrilevanti, ma determinate nella misura in cui dalla loro casuale posizione e consistenza geografica discendono conseguenze di immensa portata, nonché determinanti ai fini delle condizioni di vita di ciascuno. Anche senza sconfinare nella geopolitica (ciò che consiglierei a chiunque di non fare, non essendo la geopolitica una disciplina, ma una dottrina, con tutte le differenze che ne discendono), nessuno dubiterà che per uno Stato essere insulare o continentale, grande o piccolo, ricco o povero, e così via, sia tutt’altro che irrilevante. Se nel sottosuolo dell’Arabia Saudita non ci fosse l’enorme quantità di petrolio che c’è, il ruolo internazionale di quel paese sarebbe del tutto differente. Il gas e il petrolio che riempiono il Kazakistan ne fanno uno dei più ambiti oggetti del desiderio di tutti gli altri paesi del mondo. Gli

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esempi sono un’infinità, ricordarli ci spinge ad aggiungere una considerazione di carattere più sistematico a questa presentazione. Lo Stato agisce sulla scena internazionale portandovi la sua fisionomia tellurica, il che introduce un’ovvia, incontestabile e immodificabile conclusione: gli Stati sono tutti disuguali tra loro per natura (fisica e storica). Per intenderci: gli esseri umani nascono uguali e la società li differenzia; gli Stati nascono differenti, e la storia li accomuna (in parte). Se noi ora immaginiamo un qualsiasi momento di qualsiasi epoca storica (compresa negli ultimi cinque secoli), e cerchiamo di osservare le condizioni in cui le relazioni internazionali vi si svolgono, in un periodo pacifico, ad esempio, constateremo – e non chiediamocene per ora il motivo – che le differenze che passano tra gli Stati (estensione, popolazione, ricchezze naturali, ricchezze produttive, industriali, finanziarie, culturali, artistiche, ecc.) orientano, indirizzano, condizionano il modo che ciascuno di essi ha di porsi nei confronti di tutti gli altri. Nessuno di essi avrà merito (se non in casi marginalissimi) originario per trovarsi dalla parte dei più fortunati o di quelli deboli e abituati a subire abusi o ingerenze. Ma se tutto ciò, di partenza, è naturale, ciò che ne discende non lo è più. Non chiediamoci (anche se storiograficamente la domanda è tutt’altro che insensata) quale sia la stata la storia plurisecolare della formazione di uno Stato di nome Messico. Limitiamoci a considerare che, al termine della guerra mossagli dagli Stati Uniti, a partire dal 1848 il Messico sconfitto cede agli Stati Uniti vincitori i territori che oggi corrispondono a California, New Mexico, Arizona, Utah. Uno si è dimostrato più forte dell’altro. Le ragioni difficilmente consisteranno in una maggiore o minore volontà di combattere, o in qualche improbabile dimo-

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strazione antropologica, ma piuttosto e prevalentemente in una superiore disponibilità di risorse. Il modo in cui noi normalmente e schematicamente consideriamo gli Stati (Messico o Stati Uniti che siano) implica che li vediamo come entità date, consolidate e in loro stesse complete e conchiuse. Ma come abbiamo appena visto, ciò non è per nulla vero, perché la vicenda storica di ciascuno Stato può essere molto diversificata nel tempo ma anche molto complessa nello spazio, cioè nei confronti di altri paesi. In altri termini, quali i rapporti logici tra la soggettività dei comportamenti reali degli Stati e quella che dovrebbe essere l’oggettività delle strutture interpretative? Potremo soltanto conoscere la storia, e alla luce di questa comprendere perché alcuni Stati siano cresciuti e altri declinati, ciò che comunque ci costringe in una sorta di passiva obbedienza alla natura delle cose che si muovono senza che ne possiamo spiegare le ragioni? Ducunt volentem fata, nolentem trahunt – supponeva Seneca (Epistulae, 107, 9). Diremo allora che non esiste una somma di soggettività (degli Stati), ciascuna delle quali sarebbe autonoma, spontanea e indifferente a quella di tutti gli altri, ma un reciproco e costituente riconoscimento di tutti e tra tutti, che ci porterà a guardare alle relazioni internazionali alla luce di una ipotesi strutturale relativa all’appartenenza di tutti gli Stati (ma anche di altri soggetti – ho fatto riferimento fin qui soltanto allo Stato perché è il più consolidato e noto, non l’unico) a un’unica società, per così dire, che può essere analizzata come se i rapporti di tutti con tutti funzionassero come all’interno di un sistema concettuale. Il rapporto reciproco tra tutti gli Stati non è la stessa cosa (ma molto di più e di diverso) del rapporto di uno Stato con tutti gli altri. Ciò significa che anche la più semplice decisione o azione di uno Stato rivolta a un altro non ri-

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guarderà essi soltanto ma inciderà sulla struttura data del sistema internazionale e quindi avrà potenzialmente coinvolto tutti quanti i soggetti. Nessun rapporto bilaterale, in altri termini, resterà mai confinato ai suoi soggetti perché influirà anche su tutti gli altri che esistono nel mondo in quello stesso momento. 6. Il sistema internazionale come oggetto e come concetto Di fronte alla brutalità e alla semplicità di certi eventi internazionali – una soperchieria, un’aggressione, una invasione (cose che sono sempre successe) – si potrebbe commentare che non serva proprio a nulla riflettere e teorizzare su tutto ciò perché basta guardare per capire che la forza si giustifica da sola, con la sua pura e semplice superiorità. Ma perché gli Stati Uniti, oggi, detenendo un’enorme superiorità strategica su ogni altro paese al mondo, possedendo l’unico veramente efficiente e potentissimo arsenale nucleare, tale che nessun altro Stato (o coalizione) al mondo potrebbe contrastare, spendono circa la metà dell’intera cifra che nel mondo ogni anno si spende in armamenti, ma (per fortuna) non dichiarano una guerra al mondo intero, che potrebbero disarmare in poche ore? Seppure paradossalmente, emerge dunque un dato tutt’altro che irrilevante: la forza non è tutto. Basterebbe ricordare la definizione aroniana esposta nel I capitolo – «le relazioni internazionali si svolgono all’ombra della guerra» – per cogliere quella che potrebbe essere una pregiudiziale aporia, capace di smantellare tutto un programma di ricerca: quale tipo di razionalità o ragionevolezza può darsi tra attori che sono sempre pronti a farsi la guerra?

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Incominciamo con il dirci, una volta per tutte, che comunque la guerra è il fenomeno umano di carattere sociale e collettivo più importante che sia mai esistito e possa mai esistere: esseri umani che si uccidono reciprocamente – un qualche cosa di assolutamente inspiegabile (al punto che l’etologia ha dimostrato che la specie umana è l’unica capace di tale violenza assurda, cioè infra-specifica, che si scatena all’interno della stessa specie). Tralasciamo per un attimo di domandarci perché lo facciano; e cerchiamo di farci una ragione semplicemente del fatto che esseri umani, uguali per natura, dignità, principi, diritti preferiscano uccidersi reciprocamente piuttosto che trovare una composizione delle loro divergenze. Quale che sia il contenuto di queste ultime, è evidente che siamo di fronte a un atto estremo: nulla nella vita umana può essere più parossistico e illimitato. Non ci aiuteranno forse, questi iniziali connotati della realtà-guerra, a capire che il ruolo che essa ha nella disciplina (oltre che nella vita reale, ovviamente) deve essere assolutamente centrale, decisivo e determinante ai fini di ogni e qualsiasi comprensione? Se non si rischiasse un fraintendimento, si potrebbe dire che studiare le relazioni internazionali e studiare la guerra sia una sola e stessa cosa. Ma è comunque certamente vero che quest’ultima ispira, forma, deforma e conforma la politica degli Stati i quali, come enfaticamente ci spiegavano già più di un secolo fa autori come Leopold von Ranke e Friedrich Meinecke, hanno come prima e fondamentale preoccupazione l’attenzione verso ciò che succede al di fuori dei loro confini, con la conseguenza che la politica estera (e di difesa) rappresenta la cura più importante per degli statisti, tanto più che essi avrebbero, al di là di ogni altra ragione politica o ideologica, una naturale propensione a imporre all’esterno la propria

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volontà o i propri interessi – in termini di autotutela, difesa, sicurezza – anche, se del caso, con la guerra. Questa impostazione tradizionale e ormai desueta smaschera però ogni sovrastruttura con cui si possa trascurare l’esigenza di capire la guerra: abbiamo visto infatti che per gli Stati l’attenzione verso l’esterno è non soltanto una cautela ma una parte (essenziale) della loro politica, e che la difesa dei propri interessi non può conoscere limitazioni ma può condurre fino alla guerra. È un altro modo per dire quanto la guerra sia al centro della politica internazionale e debba dunque esserlo anche nell’ambito di ogni e qualsiasi riflessione teorica sulle relazioni internazionali. Se non spieghi la guerra, non hai spiegato nulla... – potremmo concludere. Riduttiva risulta quindi l’affermazione aroniana se consideriamo che la guerra è il dato strutturante delle relazioni internazionali: non è soltanto un pericolo o una possibilità che purtroppo, ogni tanto, scade in guerra. Essa è ciò che determina la posizione reciproca di tutti gli Stati che, a seconda dell’esito che da essa hanno tratto, si troveranno in una qualche specifica posizione. Possiamo incrociare a questo punto il dato strumentale, rappresentato dal concetto di sistema, e quello sostanziale, offerto dalla originarietà della guerra, e diremo che il sistema internazionale si organizza e sviluppa intorno alla guerra, ai suoi esiti e alle sue prospettive. In altri termini, ciascun evento politico internazionale ha a che fare con la guerra, che è la possibilità sempre presente (in quest’altro senso, la proposizione di Aron, dunque, conserva invece un suo profondo significato) e che frequentemente si traduce in realtà. Ma non precorriamo i tempi (della spiegazione). Analisi e comprensione devono sviluppare ancora moltissimi legami tra loro prima che possiamo sfidare i misteri della natu-

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ra umana. Si ritorni con la memoria alla pagina dello stupro etnico praticato durante la guerra di Bosnia (1991-1995): nessuna ragione strategica lo giustificava, neppure alcuna ragione storica veniva riportata; nella sua idea di modificare la composizione etnica di una società, che va al di là di qualsiasi ragione di tipo politico, non sembra esserci altra spiegazione che la follia, l’esaltazione malata di esseri in guerra nei quali la sete di violenza vince su qualsiasi ragionamento. Ora, come inquadreremo episodi come questo in una teoria formalizzata e neutrale delle relazioni internazionali che si svolgono all’ombra della guerra e il cui scopo è quello di costruire nuovi sistemi di ordine internazionale? Dobbiamo limitarci a concludere che la guerra è in fondo insensata, una prova della follia umana, e dunque qualche cosa di inspiegabile? Nessuno potrebbe azzardarsi a escludere perentoriamente quest’ultima possibilità. Tanto nel modo in cui è stata ora esposta quanto in altre formulazioni, come quelle teologiche, ad esempio, oppure altre pantoclastiche o catastrofistiche, se ne troverebbero infinite applicazioni, cosicché se da una parte non possono essere sottoposte a verifiche, ma soltanto ad adesioni o rifiuti, dall’altra il nostro problema è invece quello di condurre a razionalità quell’evento eccezionale (non per rarità ma per importanza) che è la guerra. Se non è manifestazione della follia umana, la razionalità della guerra non potrà consistere in altro che nell’esito dello scontro tra due concezioni dell’ordine internazionale, tra due progetti di organizzazione dei rapporti tra gli Stati (parliamo qui della guerra assoluta, e non di una qualsiasi delle sue manifestazioni minori, non prive di significato, ma inadatte a farci comprendere la ragione profonda di questo ricorso alla violenza). Non è questo

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neppure il luogo per una tipologia delle guerre, in termini di intensità, vastità, durata, distruzioni: ci limiteremo – seguendo un’opzione metodologica estremamente impegnativa ma affascinante – al suo tipo ideale ben sapendo che le manifestazioni materiali possono diversificarsi moltissimo: ce lo faceva già osservare Carl von Clausewitz con una delle sue formule più icastiche: «Le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all’estremo» (1832, I, 1, 10). Né potremo mai chiedere ai valori di spiegarci la guerra: a questi competerà la discussione sull’interesse nazionale, sull’egemonia, sulla supremazia e sulla potenza, sul desiderio di affermazione, sulla sete di ricchezza e di sviluppo (qualcuno potrebbe anche considerare la guerra come un piacere, altri come una malattia, ecc.). Potremmo considerare tutte queste come variabili che possono correttamente essere affrontate soltanto all’interno di una teoria generale, che abbia prima costruito una teoria razionale della guerra che ce ne faccia conoscere il posto nella realtà e di cui quindi, dopo, potremo studiare le manifestazioni reali. Se noi immaginiamo lo studio delle relazioni internazionali come se fosse un sistema, avremo che la sua struttura sia costituita dall’insieme dei rapporti internazionali, non considerati a coppie o in quanto azioni reciproche tra due o più Stati o coalizioni, e non limitatamente alla durata del loro intercorso, ma in una contestualità totalmente atemporale, che dura tanto quanto esistono gli Stati agenti (dunque: non soltanto quando agiscono, ma finché esistono). Strutturati in modo inevitabile, i rapporti tra gli Stati non saranno mai fondati su un piede di parità (come ci vorrebbe far credere il principio di sovranità), ma di fondamentale e comprensibile diseguaglianza, che ha la sua scaturigine naturale

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nella casuale e caotica formazione (materiale) dei singoli Stati e la sua giustificazione politica nell’esito delle relazioni cui ciascuno Stato ha partecipato. Ciascuno di essi porterà nel grande gioco delle relazioni internazionali i suoi interessi, i principi e i valori per i quali la sua cittadinanza sarebbe disposta a morire, o gli interessi che riterrà irrinunciabili: ciò avverrà pacificamente (che non vuol dire: equanimemente) fin tanto che i rapporti tra gli Stati sono sufficientemente sbilanciati (diseguali, appunto) e violentemente nel momento in cui, per uno o più di essi, il mantenimento dell’assetto dato risulti insostenibile o inaccettabile. La guerra che ne discenderà non sarà il puro e semplice riflesso dell’iniziale sbilanciamento delle forze, perché essa vedrà invece le parti dare sfogo e fondo a tutte le loro forze e risorse per la vittoria; ma non per questo l’esito potrà essere previsto o predetto. Facciamolo dire da una pagina dello studioso che, dopo Quincy Wright, ha maggiormente illustrato con il suo lavoro gli studi sulla guerra. Dice J. David Singer (insieme al più giovane allievo Melvin Small): Pur riconoscendo che i fattori che spingono un governo a iniziare le ostilità militari siano miriadi e vadano ovviamente al di là delle iniziali aspettative di vittoria, è tuttavia probabile che le aspettative iniziali (e i relativi costi) della vittoria o della sconfitta avranno un ruolo centrale in tale decisione. Se accettiamo tale premessa chiediamoci: come si sono comportati gli Stati iniziatori negli ultimi 165 anni [tale data non è casuale ma quella a partire dalla quale secondo gli autori era possibile raccogliere informazioni statistiche sufficientemente corrette e comparabili, essendo l’anno iniziale il 1816, N.d.A.]? In primo luogo, le forze iniziatrici risultarono vittoriose in 42 (ossia, il 68%) dei 62 casi risultando quindi sconfitte 20 volte. Modello che varia poco se suddividiamo i nostri 165 anni in periodi più brevi. Nel periodo 1816-1871, gli

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iniziatori vinsero 14 su 20 volte, ossia nel 70% dei casi; tra il 1872 e il 1919, vinsero 13 volte su 19 (68%); e nel periodo 1920-1980 gli iniziatori risultarono vittoriosi 15 su 23 volte, ossia nel 65% dei casi. Anche se restringiamo il nostro centro di osservazione alle guerre in cui a iniziarle era una grande potenza (22 su 30 volte vittoriose, ossia 73%), il quadro rimane essenzialmente lo stesso. Tuttavia alcuni sotto-gruppi di queste guerre delle grandi potenze evidenziano un differente modello. Abbiamo avuto 22 guerre iniziate da grandi potenze contro piccole, e i grandi hanno sempre vinto salvo in due casi (91%). Ma quando una guerra era iniziata da una grande potenza contro un’altra, l’iniziatore risultava vincitore soltanto in 3 casi su 9, ossia nel 33% dei casi. Le 28 guerre che furono combattute soltanto tra potenze minori evidenziano anch’esse una bassa percentuale di vittorie per gli iniziatori: le iniziatrici vinsero 17 guerre, ossia nel 61% dei casi (Small, Singer, 1982, p. 195).

Non tutti concordano con i dati di Singer e Small: altri tipi di riflessione possono essere fatti con riferimento a casi diversi (dunque, si potrebbe eccepire che la tipologia esposta non sia corretta), come per esempio se si confrontano gli esiti quando la differenza tra le parti riguardi non soltanto dimensioni materiali, ma siano di tipo ideologico, storico o nazionale, mettendo in evidenza che in questi altri casi si realizzano esiti anche molto diversi, al punto che si potrebbe dimostrare che (nel secondo dopoguerra) la parte entrata in guerra come più debole è poi risultata alla fine vincitrice nel 55% dei casi (cfr. Arreguin-Tofts, 2005)! La guerra diventa così uno straordinario principio di organizzazione e classificazione degli eventi internazionali: che essi si svolgano all’ombra della guerra non sarà quindi una formulazione retorica, bensì la vera e più profonda cifra della nostra disciplina. La guerra ci ser-

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virà: per scandire la storia delle relazioni internazionali, essendo il più efficiente ed evidente strumento di periodizzazione che si possa immaginare; per costruire delle tipologie, essendo la guerra un avvenimento che può assumere una grande molteplicità di forme, non soltanto per essere un camaleonte come diceva von Clausewitz, 1832, I, 1, 28), ma anche per i suoi livelli di intensità (guerra mondiale, guerra di confine, per fare alcuni esempi), di organizzazione (tra Stati o tra Stati e insorgenti), di struttura (guerra in forma o guerriglia; guerra nucleare o guerra classica); per ricostruire la piramide del potere internazionale e la fonte delle diseguaglianze istituzionali che separano tra loro gli Stati (distinguendo leader da alleati minori, ad esempio, o la logica e le strutture delle alleanze); per comprendere le condizioni dell’ordine internazionale e la ricerca della sicurezza attraverso gli armamenti, eccetera. Grazie al punto di vista della guerra potremo studiarne il rapporto con i regimi politici, più o meno democratici a seconda del rapporto in cui si vengono a trovare con la guerra; gli studi sulla pace muoveranno dall’analisi delle possibilità di creare alternative alla guerra. La guerra è, in se stessa, il centro aggregatore e organizzatore di tutte le conoscenze internazionalistiche; essa è tanto centrale nella realtà umana quanto in quella degli studi internazionali. Potremo concludere allora che la guerra scrive la costituzione di ciascun sistema internazionale, sia storico, sia concettuale: storico perché tutti noi possiamo considerarlo e constatarne le dure leggi; concettuale perché ci aiuterà a comprenderne la giustificazione e la provenienza.

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Alla ricerca di una società internazionale

1. Statocentrismo o centralità dello Stato? Alla fine del capitolo precedente abbiamo introdotto una formula – «sistema internazionale» – che ha un ruolo importantissimo negli studi internazionalistici. Il suo uso si basa (come abbiamo visto) su un ragionamento ipotetico relativo alla strutturazione dei rapporti tra i soggetti della vita internazionale e non va a descrivere nulla di materialmente esistente (altro sarebbe parlare di «comunità internazionale», espressione con la quale ci si riferisce normalmente ai destinatari del diritto internazionale, cioè a un insieme di consociati). Il concetto di sistema offre lo schema strutturale che consente di inserire al suo interno, di momento in momento, gli eventi reali che vogliamo capire. Sia ben chiaro: non si sta ora suggerendo un sinonimo o un’alternativa all’espressione «società internazionale», ma qualche cosa di logicamente precedente, che intende mettere ordine (ordine concettuale e non storico) nei nostri dati. Poiché non possiamo vedere gli Stati agire in un sistema internazionale (per il semplice fatto che i sistemi non esistono, sono dei modi per organizzare conoscenze), ma soltanto «agire» tout court, materialmente, a seconda dei loro interessi, delle loro possibilità, dei loro timori o

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speranze, il rischio è di ricavarne uno sfilacciatissimo canovaccio nel quale ciascun soggetto agisce per sé senza nulla sapere o conoscere degli altri. Neppure se potessimo cumulare tutte le politiche estere di tutti gli Stati otterremmo un «sistema interpretativo», ma soltanto una massa, ingestibile, di dati empirici. La vita internazionale è invece, in quanto tale, un’immensa struttura nella quale i partecipanti non possono non coinvolgere e non essere coinvolti gli uni dagli altri. Ciascuno Stato esiste in quanto si distingue da tutti gli altri, per sottrazione, e si pone in riferimento a tutti gli altri. Ma del resto non dobbiamo dimenticare che la realtà passa dagli Stati, essi stessi protagonisti della storia, e non da un «inesistente» sistema internazionale! Da tanta complessità trarremo una conseguenza applicativa di grande utilità: guardando in questo modo agli Stati (e agli altri soggetti della vita internazionale) ci renderemo agevolmente conto che essi danno vita, in qualche modo, a una vera e propria società, la cui esistenza implica evidentemente un qualche principio di socievolezza (anche se ciò non implica ovviamente alcun necessario riferimento a condizioni di stabilità, quiete, immobilità). Solo se così fosse, del resto, la spiegazione anarchica avrebbe una sua validità: posto che la forza bruta decida tutto, non ci sarebbe altro da fare che da accumularne più di chiunque altro – e per quale fine sarebbe addirittura irrilevante. Nella sua paradossalità, tale ipotesi ci fa capire che la politica internazionale è qualche cosa di estremamente complesso i cui limiti estremi, effettivamente, si trovano, da un lato, nella superiorità della potenza, la quale però viene messa in gioco (e in discussione) soltanto nel momento estremo dello scontro bellico; d’altro canto, nel resto del tempo essa è temperata dalle condizioni reali della vita asso-

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ciata, dai compromessi, dagli interessi e da altri tipi di convenienza. Quello della guerra, poi, è un tempo minore di quello che il mondo trascorre in pace, anche se essa può essere non condivisa, o consensuale e soddisfacente. Diremo allora che il progetto esistenziale di ogni Stato è trovarsi in una condizione in cui sicurezza, benessere e pace siano fuse e convergano nel determinare la sua potenza o le sue fortune. Ma ancora, se guardiamo alla vita politica internazionale soltanto in questi termini «unilaterali» – Stato per Stato – rischiamo di confinarci in una concezione parcellizzata (oltre che un po’ ovvia), frammentata e incardinata sulla sola, unica ed esclusiva volontà politica degli Stati. Ma revocheremo ora in dubbio, dopo aver mostrato la centralità costituente del sistema internazionale, la soggettività dello Stato che si ritroverebbe diminuita, svalutata e fin disprezzata, mentre sappiamo che chi agisce è pur sempre (e quasi esclusivamente) lo Stato? Waltz (uno degli autori che abbiamo già incontrato più volte) distingue teorie che chiama «riduzionistiche» (che guardano appunto prevalentemente allo Stato e alla politica estera come chiave esplicativa) e teorie «sistemiche», alle quali spetterebbe, nella sua concezione, la capacità di fare ordine nella realtà e di dare le maggiori e le migliori spiegazioni. Ma Waltz stesso (del quale si vedrà il libro del 1979) non riesce a superare il limite realistico (più esattamente: neorealistico – ma per noi la precisazione non è vitale) della concezione anarchica delle relazioni internazionali fondata sul concetto di equilibrio, una prospettiva nella quale un meccanico movimento degli Stati, da un piatto all’altro della bilancia (il balance of power), dovrebbe spiegare sia la pace, che si avrebbe quando l’equilibrio immobilizza le parti, sia la guerra, scoppiata quando l’equilibrio si sia rotto,

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come se una «mano invisibile» (proprio la stessa di Adam Smith) decidesse le oscillazioni, i ritmi, gli inceppamenti, le crisi e i crolli. Troppo banale, d’altra parte, affidarsi a una soggettività incontrollata e casuale, dominata allora dalle passioni e dai desideri, priva di razionalità. Questa considerazione di Hans J. Morgenthau dimostra quanta banalizzazione possa essere nascosta in quel principio: Ad ogni effetto, tutte le nazioni che sono attivamente impegnate nella lotta per il potere, in realtà devono tendere non a un bilanciamento di potere – cioè all’eguaglianza – ma al conseguimento di una superiorità a proprio favore. E dato che nessuna nazione può prevedere di quanto possa sbagliarsi nei calcoli previsionali, tutte quante alla fin fine dovranno tendere alla potenza massima conseguibile in ciascun caso (Morgenthau, 1948, p. 202; questo passo non è stato ricompreso nella trad. it.).

Lapalissiano. Ma è sufficiente che noi osserviamo anche solo sinteticamente periodi storici come quello dell’ottennato della presidenza degli Stati Uniti di Bill Clinton (1993-2000), lo confrontiamo con quello successivo di George W. Bush (2001-2008) nonché con la successiva presidenza di Barack Obama per verificare con assoluta incontrovertibilità che le tre presidenze non hanno seguito lo stesso precetto, e che sono tra loro radicalmente differenti, persino al netto delle differenze partitiche: non soltanto la presidenza del repubblicano Bush è qualitativamente opposta a quelle dei democratici Clinton e Obama, ma quella di quest’ultimo appare a sua volta già sostanzialmente distinta anche da quella di Clinton – il che prova che la soggettività statuale pur esiste e deve pur avere un certo peso. Potremmo chiamarlo «il punto di vista dello Stato».

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Disponiamo di una storica impostazione dottrinaria, quella realista classica, secondo la quale ogni Stato non ha che da perseguire il proprio interesse nazionale (la formulazione più nobile e classica è di Tucidide, secondo il quale gli Stati sono mossi da gloria, paura e utile, La guerra del Peloponneso, I. 76.2). Nella sua incontrovertibilità abbiamo però la prova della sua inconcludenza: è ben vero che nessuno Stato (o statista) farebbe alcunché contro il proprio interesse, ma ciò non spiega perché certi Stati perseguano l’interesse secondo determinate linee e altri seguendone di completamente differenti. Con ciò non concluderemo che non ci si dovrà neppure soffermare sulle singolarità delle politiche estere storicamente succedutesi nel tempo. Tutt’altro che irrilevante è che l’Inghilterra abbia costruito la sua potenza e realizzato il suo lungo dominio sviluppando abili e opportunistiche politiche di alleanze ben più che di aggressività pura, e la Germania nel ventesimo secolo abbia per due volte consecutive tentato violentemente l’assalto al potere mondiale. Queste (e altre) storie di politica estera saranno invece il materiale empirico (quel «laboratorio» che noi non possiamo avere come un chimico o un fisico) riflettendo sul quale potremo costruire modelli di politica estera applicabili anche ad altri casi. Intanto, abbiamo intuito che gli Stati non sono tutti uguali e non si comportano allo stesso modo, cosicché dovremo ricercare, al loro interno, la giustificazione di ciò. Ci sforzeremo quindi in questo capitolo, più che di offrire una sistemazione definitiva della problematica che, in termini accademici, va sotto la formula «interno/esterno», di esporre i suoi gradi di complessità, con l’intenzione, soltanto malcelata, di vederne sgorgare i fondamenti su cui poi costruire una visione delle relazioni internazionali più sistematica e soddisfacente. A dire chiaro quale sia la ragione di que-

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sta acribia, va aggiunto che il problema metodologico, a questo riguardo, è finora sempre stato soltanto quello dell’integrazione tra rapporti internazionali e politiche estere, ovvero tra il momento collettivo (per così dire) e quello soggettivo: il primo è la pura e semplice somma delle seconde? È lecito revocare in dubbio tale conclusione. La ricerca scientifica muove da una realtà complessa, informe, indistinta e ha per scopo separare, distinguere, classificare: l’osservazione empirica ci dice che uno stesso Stato può condurre politiche estere difformi, e che Stati differenti invece possono avere una politica estera simile. La teoria politica liberaldemocratica classica (quella che fonda le sue radici nel pensiero dei Padri fondatori degli Stati Uniti, gli autori del The Federalist, 1788), ad esempio, ritiene che gli Stati – ancorché diversi – non possano avere politiche estere altrettanto differenti, perché le leggi della politica estera sono talmente cogenti che quale che sia lo Stato (e dunque, la sua ideologia, il suo regime politico, ecc.) la sua politica estera non potrà che essere sempre la stessa: addirittura, semmai, l’ammonimento che sulla loro scia darà Alexis de Tocqueville è che un certo regime – quello democratico – è decisamente inferiore agli altri: «La politica estera non esige l’uso di quasi nessuna delle qualità che sono proprie alla democrazia, e comanda invece lo sviluppo di quasi tutte quelle che le mancano» (1835-1840, I, p. 272). Ma gli Stati Uniti democratici possono fare politica estera democratica quando combattono contro il nazismo, ne fanno una non democratica quando combattono contro il Vietnam o occupano l’Iraq. La giovane Russia sovietica staliniana segue per quasi un decennio una politica estera consensuale, costruttiva e collaborativa con gli altri paesi (potremmo dire: democratica),

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benché il regime sia tutt’altro che democratico, ma poi anche una cinica diplomazia di potenza quando firma il patto Ribbentrop-Molotov con la Germania nazista (23 agosto 1939). 2. Uscire dall’impasse Di fronte a tanta incertezza, il mondo degli studi ha proposto diverse teorie di medio raggio (che cercano di risolvere un problema che è incastonato in un altro più grande) sulla politica estera, muovendo dalla solida circostanza che il dato centrale debba essere la soggettività dello Stato. Ci si chiederà quindi: chi decide, in primo luogo (Allison, 1971); come lo fa, in secondo (Jervis, 1976); quando, in terzo luogo (Brecher, 1993); e infine, dove (Putnam, 1988). Dal primo punto di vista, si individueranno le componenti della razionalità dell’attore che decide, il quale sarà sovente legato a informazioni, preferenze, costanti espresse dall’apparato burocratico dello Stato, ciò che logicamente inerisce a quel tipo di Stato nel quale la formazione delle decisioni avrà un certo livello di elaborazione e di discussione e non sia la pura e semplice imposizione della volontà del «capo». Ma se la razionalità burocratica è certamente decisiva fin tanto che la politica estera sta seguendo una strada nota (o una normale routine), le cose ovviamente cambiano quando la raccolta di informazioni, specie dall’interno dello Stato, possa essere soggetta a difficoltà interpretative o addirittura a fraintendimenti o inganni; ma anche nello stesso apparato decisionale possono emergere spinte contrapposte o contrastanti che possono fare del fuorviamento delle informazioni o della loro inesattezza, incompletezza, opacità, elementi centrali e drammatici di

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un processo decisionale, che può dover affrontare anche situazioni difficili o, per essere più precisi, di crisi. Ed è proprio sulla definizione di questo particolare momento della vita di uno Stato che gli studi internazionalistici si sono lungamente soffermati, non riuscendo in sostanza ad accordarsi su una definizione che consentisse di categorizzare precisamente a quali determinate congiunture inerisca la definizione di «crisi», una variabile che, specie nel secondo dopoguerra, assurse a un ruolo centrale nell’interpretazione storiografica, dato che l’irruzione delle armi atomiche sulla scena mondiale aveva reso le crisi, appunto, tanto temibili da poter persino far pensare che, attraverso una escalation, un contrasto anche non particolarmente grave avrebbe potuto causare una grande guerra. Tra tutte, la proposta di Michael Brecher sembra la più equilibrata e tecnicamente applicabile; essa richiede il verificarsi contemporaneo di tre condizioni: a) la minaccia ai valori fondamentali di uno Stato; b) con un’alta probabilità che lo Stato si trovi coinvolto in ostilità militari; c) disponendo di un periodo di tempo limitato per reagire alla minaccia esterna. Non è ingeneroso dire che queste indicazioni, per quanto interessanti e certamente utili nello svolgimento di una ricerca empirica, toccano soltanto la parte più esteriore del problema – la politica internazionale si spiega a partire dalla soggettività statuale? – senza assicurarci che altre più importanti variabili non risultino trascurate. Secondo Theodore Lowi, uno dei più rispettati quanto meno letti politologi contemporanei, si tratta di affrontare due questioni: 1) in quale misura i fattori di politica interna influenzano la formazione della politica estera, ovvero, altrimenti, in qua-

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le misura la nostra politica muta quando gli interessi dell’intero paese sono coinvolti? 2) più normativamente, fino a che punto le nostre istituzioni facilitano od ostacolano l’uso più razionale delle risorse di un paese in vista della realizzazione dei suoi interessi vitali? (Lowi, 1967, p. 299).

Domande che restano senza risposta tuttavia, a cui ha cercato di far fronte Robert D. Putnam con una proposta – il «gioco a due livelli» – che nella sua semplicità ha comunque la virtù di sfuggire alle difficoltà appena dette. Essendo i due livelli quello della politica interna e quello della politica internazionale, sarà necessario tener conto che i soggetti agenti (rappresentanti ufficiali dello Stato) partecipano al gioco della politica interna anche quando debbano ottenere una decisione che dovranno far valere a livello internazionale e, al contrario, quando partecipano al gioco politico internazionale devono riuscire a ottenere decisioni che possano essere ben accolte all’interno del loro paese. La posizione in cui si trova un governo come quello statunitense, ai tempi nostri, esemplifica brillantemente il punto: si pensi alla politica estera relativa alla questione israelopalestinese e all’esigenza che il governo americano ha sempre avuto di prendere posizioni che, aiutando Israele, fossero ben accette alla potente lobby ebraica negli Stati Uniti, ma nello stesso tempo consentissero di perseguire quella politica di apertura, pacificazione e ricostruzione che una parte della società americana e una ancora maggiore nei paesi occidentali vanno chiedendo; siamo proprio di fronte a un’esigenza di politica estera che dobbiamo far accogliere nella politica interna, e a un’altra esigenza (di politica interna) che necessita un sostegno e un’implementazione sul piano internazionale.

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Queste considerazioni ci conducono a un’affermazione di portata generale della massima importanza, ad un tempo metodologica e sostanziale: emerge infatti che la politica interna e la politica estera di uno Stato sono in sostanza (per dirla in termini un po’ provocatori, ma tutt’altro che insostenibili) un tutt’uno, sono la stessa cosa. Infatti coloro che prendono le decisioni nei due ambiti sono gli stessi personaggi (come fa notare Putnam); essi, quindi, hanno bisogno di sostegno sia per le une sia per le altre, ma è necessario che tali decisioni siano tra loro coerenti (uno Stato che va chiedendo al mondo di abbassare le emissioni di gas-serra non può fare all’interno una politica industriale di indiscriminata deregolamentazione). Infine – e principalmente – non esiste decisione di politica interna che non abbia rilevanza internazionale. La politica italiana dell’immigrazione incide non soltanto sui flussi migratori considerati compatibili, ma anche sui rapporti tra Italia e Libia, Marocco o Nigeria, e poi anche su quelli con gli altri membri dell’Unione Europea. L’applicazione più vistosa, ma trascurata, di questo intreccio si ritrova nelle politiche pubbliche dell’Unione Europea, che prende decisioni (specie sotto forma di «Regolamenti») che hanno direttamente e immediatamente forza di legge nei paesi membri, la politica interna dei quali è dunque fortemente limitata. Ancora più facile mostrare che le decisioni di politica estera che uno Stato prende abbiano influenza sulla vita politica interna: la decisione del governo italiano di inviare truppe in Afghanistan o in Iraq a sostegno delle iniziative statunitensi influisce sulla spesa pubblica, sull’organizzazione del Ministero della Difesa e sulla dislocazione delle sue forze armate, nonché, naturalmente, e talvolta in modo drammatico, sulla vita o la morte dei soldati.

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Nella stessa misura in cui il mondo va globalizzandosi – come si dice – perché le interdipendenze economiche, finanziarie, sociali, culturali, sanitarie, eccetera, vanno arricchendosi, è chiaro che tende a una sorta di «unificazione» (che forse sarebbe meglio chiamare «mescolamento») che non ha in sé nulla di ideale (non è il prodotto di uno strisciante e benevolo automatismo federalistico), ma che tuttavia è ben lungi dall’aver abbattuto la soggettività degli Stati, il loro orgoglio, la loro esclusività, la loro presunzione di poter esercitare un determinato ruolo nella vita internazionale. È a tutti ben nota la formula secondo cui agli statisti, di momento in momento, succede di dichiarare che il loro paese deve «contare» di più, o «conta» tout court, nel senso che vorrebbe imporre o proprio vi riesce le sue preferenze. Siamo ancora una volta – ognun vede – di fronte alla dimensione individuale in cui lo Stato intende intraprendere politiche che producano degli effetti positivi, che siano vantaggiose per la sua popolazione. Sembrerebbe trattarsi di una posizione assolutamente corretta e ineccepibile, che tuttavia sconta il dubbio che il vantaggio di uno Stato finisca per produrre il danno di un altro. Non è una questione moralistica quella che vado qui illustrando, ma la conseguenza metodologica che discende dalle impostazioni statocentriche, secondo le quali ogni Stato agisce all’interno di una comunità internazionale nella quale ha intrecciato rapporti storici ed effettivi, molto stretti con alcuni, meno con altri, ma sostanzialmente con tutti gli altri Stati. Ecco allora la domanda: la politica estera di ogni Stato dovrà mirare a modificare a proprio vantaggio l’assetto dei rapporti interni a quella comunità, oppure, al contrario, dovrà agire a favore della conservazione dell’assetto dato in fun-

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zione della stabilità che produce? Escluderei dalla discussione che si apre a questo punto – ancora una volta – la risposta anarchica che vorrebbe che, essendo in sostanza tutti gli Stati tra loro potenziali nemici, l’unica risposta possibile fosse che quanto più si avvantaggia il mio Stato tanti meno vantaggi resteranno per gli altri (e ciò sarà per il meglio!). Il problema ha una natura più profonda: in discussione è infatti la concezione della politica estera che ciascuno Stato ha e del ruolo che deve svolgere nella comunità a cui appartiene. Machiavelli aveva forse già visto più chiaro dei politologi: non c’è cosa alcuna che minore convenienza abbia con un’altra, né che sia tanto dissimile, quanto la vita civile dalla militare (Arte della guerra, Proemio).

Nel linguaggio di Machiavelli la distinzione tra politica militare e politica estera è praticamente inesistente (indicazioni preziose sul lessico di Machiavelli dà Descendre, 2008). Ed ecco, nel capitolo XIX del Principe, l’indicazione metodologica più perentoria: Uno principe debbe avere due paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura; e, quando quelle di fuora movessino, s’elli è ordinato e vissuto come ho detto, quando non si abbandoni, sempre sosterrà ogni impeto.

Lo sforzo di sistematizzare questa complessa ma informe problematica è stato l’oggetto principale degli

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studi politologici americani negli anni Sessanta. Quello straordinario organizzatore culturale che è stato James N. Rosenau organizzò e curò diverse raccolte di saggi composti da tutti i più noti esponenti della disciplina (cfr. ad esempio Rosenau, 1967). Il suo tentativo più ambizioso può essere riletto in Linkage Politics (1969) – il cui significativo sottotitolo recita: «Essays on the Convergence of National and International Systems» – e nel suo saggio specificamente dedicato allo studio dei collegamenti tra «interno» e «internazionale». Rosenau incardina la sua analisi sui rapporti inter-penetrativi (se così si può dire) che vanno nelle due direzioni e identifica sostanzialmente tre tipi di collegamento: penetrativo («quando i membri di uno Stato rientrano tra coloro che partecipano ai processi politici di un altro»); reattivo («è il contrario di quello penetrativo: dipende dall’esistenza di reazioni interstatali ricorrenti piuttosto che da una spartizione dell’autorità»); emulativo («si verifica quando le azioni politiche di uno Stato sono percepite ed emulate in un altro») (Rosenau, 1969, pp. 26869 trad. it.). Nessuno potrà adombrarsi per l’evidenziazione, in parole povere e chiare, della banalità della notazione: che in un rapporto tra due soggetti sia possibile che uno influisca sull’altro, che l’altro cerchi di reagire, oppure che essi si sentano in competizione è tutt’altro che strano o imprevisto. Varrebbe la pena osservare comunque che Rosenau non pensò di elencare anche un linkage di tipo paritario e collaborativo, come se comportamenti positivi non fossero neppure immaginabili, ciò che invece non può essere escluso e che anzi può servirci ora per illuminare una dimensione della politica estera che ci permette finalmente, almeno, di muovere verso una prima tipologizzazione di questo momento politico, del quale abbiamo comunque capi-

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to – attraverso la frustrante presentazione dei tentativi (poco soddisfacenti) compiuti nella disciplina di costruire una teoria della politica estera – che non possiede alcuna capacità di illustrare e, tanto meno, illuminare la complessità delle vicende internazionali. Basterebbe osservare che la guerra si fa in due, per capire che i punti di vista soggettivi risultano sempre in qualche modo insoddisfacenti, essendo parziali – solo una parte dell’intera storia. 3. ...eppur si muove... Eppure, il momento materiale e sensibile delle relazioni internazionali è costituito proprio da comportamenti che si incanalano nella dimensione della politica estera – che è quella con cui ogni Stato comunica con tutti gli altri – che quindi non può essere considerata un puro e semplice residuo di politiche interne o politiche internazionali che di essa possano fare a meno – in un certo paradossale senso potremmo dire che sia le prime sia le seconde sarebbero mute se non avessero il collegamento rappresentato appunto dalla politica estera, specialmente nella sua dimensione economica, al punto che si può parlare oggi di politica estera economica come aspetto della politica economica internazionale, intesa come l’insieme delle azioni di politica estera rivolte verso l’esterno che un governo compie per favorire la propria economia e, viceversa, per sostenere le proprie posizioni politiche grazie alla forza della propria economia. Il caso dell’economia statunitense nel secondo dopoguerra evidenzia in modo chiarissimo il primo tipo di azione (quando l’economia statunitense penetrò tutto il sistema economico europeo proprio grazie alla vittoria ottenuta sui campi di battaglia); quello dell’e-

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conomia tedesca che, grazie al suo maggior sviluppo economico, poté condizionare le scelte di politica comunitaria europea, dagli anni Sessanta del Novecento fino alla caduta del Muro di Berlino, evidenzia il secondo caso (Robert Gilpin è stato tra i primi a cogliere l’importanza di questi fenomeni; cfr. il suo Global Political Economy, 2001). Questa nuova prospettiva non è senza interesse: ci guida all’osservazione di un’altra circostanza. Gli Stati che sono consapevoli di tale condizione dello sviluppo economico potrebbero muovere alla conquista dei mercati in ordine sparso e verosimilmente molto conflittuale, oppure potrebbero dare vita a coalizioni (un po’ come nelle alleanze politico-militari) e proporsi di agire di concerto. Esempio preclaro di tutto ciò è la vicenda di formazione di quella che oggi si chiama Unione Europea, nella quale beni e merci poterono circolare liberamente ben prima che ciò fosse permesso agli esseri umani. Che così sia successo ci consente di cogliere dunque una funzione specifica e caratteristica di ciò che chiamiamo politica estera. Abbiamo ormai capito che nessuno Stato agisce in un vuoto ambientale, e quindi possiamo cercare di contraddistinguere i modelli cui ciascuno di essi può uniformarsi. La distinzione prevalente e più elementare che compare negli studi riguarda l’alternativa multilateralismo/unilateralismo che, come dicono le parole, separa appunto quelle politiche estere che cercano di svilupparsi di concerto e in armonia con quelle di altri Stati (cumulativamente, si potrebbe dire) da quelle che invece preferiscono agire per conto proprio, confidando (normalmente è così) sulla propria capacità di «cavarsela da soli», se non addirittura di imporre la propria volontà anche ad altri Stati, amici e alleati o meno. Nel primo caso avremo politiche estere consensuali o quan-

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to meno prodotte da preliminari e attente trattative; nel secondo, e persino in un sistema di alleanze gerarchiche, avremo invece politiche autoritarie e/o imposte: mentre la politica estera degli Stati Uniti inaugurata da Barack Obama simboleggia vigorosamente la prima via, quella del suo predecessore, George W. Bush, con la decisione di attaccare l’Afghanistan prima e l’Iraq poi, non negoziando la sua intenzione con gli alleati, rientra nella seconda. Nella tradizione di questo linguaggio compare anche – in una chiave esplicitamente economica – il modello intermedio del «bilateralismo» che, riguardando ovviamente coppie di Stati, li vede interagire nell’interscambio economico, quando una determinata questione li veda strettamente collegati e reciprocamente avvantaggiati (moltissimi trattati commerciali nascono su questa base, e possono poi anche essere alla base di innovative forme di multilateralismo). Ma ancora una volta, in questo modo, vediamo come rapidamente si inaridisca la vena problematica e interpretativa a favore di una pura e semplice individuazione di comportamenti tipici: alleanza o meno, comprensione reciproca od ostilità – sembra che non possa esistere altro nei rapporti internazionali. Giungiamo così al cuore del problema: gli Stati sono tendenzialmente inclini alla concordia oppure sono per natura ostili l’un l’altro? Domanda ingenua e banale – chiunque ne conosce la risposta. Meno ovvio e facile sarebbe tuttavia dare una giustificazione razionale di ciò. Non sarà forse un caso che la risposta non venga neppur tentata – e il punto di partenza della logica statalistica sia affermato senza alcun tentennamento: Un concetto centrale nella teoria delle relazioni internazionali che tuttavia è ancora tra i meno studiati empirica-

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mente è costituito dal «dilemma della sicurezza». [...] La teoria afferma che anche se nessuno tra gli Stati ha intenzione di attaccare gli altri, tuttavia nessuno può essere sicuro che le intenzioni altrui siano pacifiche e tali rimangano; quindi ciascuno è costretto ad accumulare potenza per la difesa. Dal momento che nessuno Stato può sapere se l’accumulazione di potenza sia indirizzata unicamente alla difesa, ciascuno deve presupporre che essa possa essere finalizzata all’attacco. Ne consegue che l’incremento di potenza di ognuna delle parti provoca il corrispondente aumento delle altre. Alla fine il livello di sicurezza rimarrà quello che era all’inizio del circolo vizioso, mentre si dovranno sostenere i costi necessari all’acquisto e al mantenimento della rispettiva potenza (Snyder, 1984, p. 343 trad. it.).

L’applicazione pedissequa di questa pur suggestiva direttrice della politica estera di ogni Stato è evidentemente autodistruttiva: tutti gli Stati del mondo dovrebbero vivere sempre in una condizione di preparazione bellica, di militarizzazione e addestramento all’attacco, tale da impedir loro qualsiasi altro sviluppo. Tuttavia, non è tanto la sindrome ansiosa intravista negli Stati ciò che merita una riflessione approfondita, quanto piuttosto la circostanza che, in ciascuno dei casi e degli esempi fatti sopra, la dimensione esclusiva è quella della soggettività o del primato dell’intenzionalità (più o meno ragionevole, o razionale – ma questo sarebbe un altro paio di maniche), come se la vita internazionale fosse costituita esclusivamente di comportamenti soggettivi e individuali, che possono quindi anche non incontrarsi, non cumularsi, non corrispondersi. L’immagine della «palla da biliardo» sembra riassumere significativamente il punto (e molti in effetti vi hanno fatto ricorso, tra cui Wolfers, 1962, e Krasner, 1982): ogni Stato, che di per sé vivrebbe pacificamente e silenziosamente la

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sua vicenda statuale, non fa altro che reagire agli stimoli (alle provocazioni) o agli urti (agli attacchi) che non possono provenire che dall’esterno, come quando una palla da biliardo ne urta un’altra la quale, a sua volta, potrà urtarne un’altra e poi un’altra ancora e così via, facendoci cadere nell’altra tipica metafora di questa impostazione, quella della reazione a catena, a sua volta riconducibile all’automatismo comportamentistico «stimolo-risposta», frequentemente utilizzato in diverse discipline behavioristiche per giustificare la reazione/risposta di individui o gruppi a stimoli/provocazioni provenienti dall’esterno. Ma proprio questo «esterno» è ciò che fa problema: se è ciò che decide – stavo per dire «determina» – i comportamenti del singolo Stato, il quale altrimenti resterebbe in quiete, è evidente che non possiamo accontentarci di considerarlo come un qualche dato «di sfondo», come un semplice scenario su cui si dipana la storia. Se l’esterno influisce a tal punto sull’interno, ciò implica che ogni «interno» partecipa in qualche misura di un «esterno»; ma che cosa sarà ciò che tutti questi «interni» condividono? Si consideri con quanta perentorietà un «dilettante» concluda sul punto: «è abbastanza spaventoso notare con quale precisione gli uomini di Stato compiano quelle mosse sulla scacchiera che sono loro suggerite [dai] mutamenti strutturali nei rapporti tra gli Stati» (Elias, 1985, p. 87 trad. it.). Siamo al punto di svolta. L’«esterno» di tutti non può che essere un qualche cosa che li accomuna, che essi condividono; non esiste un «delegato» a dare risposte specifiche a ogni Stato! Ma se tanti «interni» (ovvero: tante soggettività statuali) agiscono in un solo e stesso «contesto» (ambiente) ne risulta che essi si trovano inevitabilmente a interagire continuamente tra loro, co-

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me se facendo capo allo stesso contesto tutti vi si ritrovassero e discutessero tra loro. (Lungi da me l’idea di escludere i soggetti non-Stati dalla nostra riflessione; ma gli elementi strutturali che sto cercando di far emergere accoglieranno senza alcuna difficoltà concettuale anche tutti i soggetti non-Stati che vivono nel «contesto» internazionale). Si staglia così sulla scena un protagonista imprevisto, il nostro deus ex machina (ma questa volta tutt’altro che divino o miracoloso), e cioè quella struttura fondamentale all’interno della quale tutti gli «interni» si dispongono, che chiameremo «società internazionale». Ma non senza un certo numero di precisazioni, la prima delle quali riguarda l’imbarazzo, se non il dispetto, con cui gli internazionalisti sentono usare questa espressione. Diciamo intanto che non si potrà parlare di sociologia internazionale là dove non si sia rinvenuta una società – e questo è un problema non da poco, che accantoniamo per ora, e sul quale ritorneremo. Dunque: per quel che la storia ci dice, il primo ad accoppiare sociologia e relazioni internazionali è stato Luther L. Bernard (1881-1951), un noto psicologo sociale, con Sociology and the Study of International Relations nel 1934; la sua opera resta totalmente senza seguito fino a Marcel Merle, Sociologie des relations internationales (1974), e a Ralph Pettman, State and Class: a Sociology of International Affairs (1979). Alcuni anni dopo, nel 1994, due giovani studiosi italiani, Riccardo Scartezzini e Paolo Rosa, sottotitolavano un loro Le relazioni internazionali «Lineamenti di indagine sociologica», facendo riferimento a quella dimensione che lo studio delle relazioni politico-istituzionali fra gli Stati lasciava fuori della loro prospettiva, ovvero quei «processi transnazionali, che comprendono tutti quei rapporti che si svolgono su scala mondiale senza il suppor-

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to degli Stati» (p. 50). Le cose non stanno esattamente così, dal momento che anche la teoria classica delle relazioni internazionali si è mostrata consapevole di tale dimensione non-statuale, specialmente quando si è preoccupata di introdurre nel suo quadro problematico le dimensioni dell’etica, che a loro volta ricomprendono ovviamente non soltanto (o meglio: più che) gli Stati, ma anche gli esseri umani. Da quando Stanley Hoffmann pubblicò il suo Duties beyond Borders (1981) per dimostrare che l’argomento non esisteva, molti altri si sono invece impegnati a dimostrare il contrario, ovvero l’assoluta necessità di far posto al giudizio morale nella politica internazionale come in quella interna (Linklater, 1982, e in Italia io stesso, in Etica e politica internazionale, abbiamo molto insistito su ciò). Ma vale la pena segnalare, proprio per la sua efficacia immaginifica e direi didascalica, la proposta sfortunatamente poco seguita di Lea Brilmayer, che individuava un incrocio strutturale tra ciascuno Stato, gli altri Stati, i propri cittadini e quelli di tutti gli altri Stati, come in un rettangolo di forze che si sostengono le une le altre e si richiedono: ciascuno Stato in relazione con tutti gli altri Stati, con i propri cittadini, e con quelli degli altri Stati: una vera e propria immensa società internazionale. 4. Società, non anarchia Uno dei più interessanti e brillanti studiosi anglosassoni, Hedley Bull (che, scomparso giovane nel 1985, in un incidente d’auto, resterà come uno dei capifila dell’«english school» delle relazioni internazionali, come vedremo più avanti), pubblica nel 1977 quello che sarà destinato a essere uno dei più citati (forse non altrettanto letti) libri di teoria delle relazioni internazio-

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nali: si tratta di The Anarchical Society, al quale pone un sottotitolo stupefacente: «A Study of Order in World Politics», che contraddice palesemente il titolo (già, a sua volta, in sé contraddittorio). Come può l’anarchia contemperare l’ordine? Anarchia e società formano un ossimoro, al quale Bull sperava si potesse sfuggire immaginando che la storia fosse quella di un andamento dalla prima alla seconda; non è un caso che a lungo, insieme ad Adam Watson, abbia lavorato alla realizzazione di The Expansion of International Society (1984), un’ampia e raffinata ricostruzione dello sviluppo plurisecolare della società internazionale. Ma emerge così quello che, teoreticamente parlando, potrebbe essere considerato il massimo problema della nostra disciplina: si può studiare un qualche cosa che non ha alcuna consistenza e interna coerenza? La risposta sembra essere razionalmente no, ma questo è proprio ciò che per quasi un secolo la maggioranza degli studiosi ha fatto, cercando di comporre un mosaico le cui tessere sembravano non appartenere a uno stesso disegno, ma a tanti, diversi e incompatibili. Ora, il fatto è che forse quelle tessere del mosaico non venivano correttamente giustapposte e non si completava dunque il disegno complessivo. Le relazioni internazionali si svolgono tra soggetti (prevalentemente Stati) ciascuno dei quali ha una sua politica (preferenze, aspirazioni, timori, ecc.) che entra (in quanto tessera) in un quadro internazionale (il mosaico) all’interno del quale andrà a posizionarsi in qualche modo. Proseguendo in modo un po’ immaginifico, possiamo pensare che ciascuna politica estera possa adottare o una posizione confortevole, di accoglienza e accettazione delle altre politiche estere, oppure di contrapposizione, rifiuto, ostilità, aggressività:

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come dire, pace e guerra, ordine e disordine. Che cosa origina tutto questo coacervo, che se riguardasse degli individui chiameremmo «società»? Nella vita internazionale esiste un diritto pubblico, larghissimamente effettivo (le violazioni sono quantitativamente poche, anche se ovviamente possono avere conseguenze gravissime), un diritto privato (specie degli scambi) enormemente diffuso, al quale l’economia di nessuno Stato e di nessuna impresa al mondo possono sottrarsi; il diritto penale (per Stati come per individui) sta crescendo, almeno a partire da alcune grandi convenzioni che stanno progressivamente incidendo su costumi e comportamenti (si pensi alle campagne contro la pena di morte); una quantità infine di diritti specializzati che ormai regolano ogni istante della vita della società internazionale. Uno stupefacente esempio chiarirà il punto: il flusso della prostituzione femminile proveniente dalla Nigeria verso l’Italia ha subito immense modificazioni e ampliamenti di spazio d’azione e di sfruttamento... a seguito della caduta del Muro di Berlino; si leggano i racconti delle ragazze di Benin City (Maragnani, Aikpitanyi, 2007) o le analisi comprese nel volume curato da Richard Poulin (2005) e si coglierà non soltanto (come ritualmente e banalmente si ripete) il senso della globalizzazione imperante nel mondo contemporaneo, ma il riflesso diretto e immediato di un evento politico su un comportamento sociale che incide sui flussi migratori e sui destini di persone che né sapevano della caduta del Muro né dove fosse Berlino: quale prova migliore dell’esistenza di un tessuto connettivo sociale che unifica (ma attenzione: ha sempre unificato, anche se era più sottile, fragile ed evanescente) il mondo? La mafia russa (per fare un altro esempio) non era tanto diffusa in Unione Sovietica

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quanto le fu possibile dopo la caduta del Muro di Berlino: non un merito del regime sovietico, sia ben chiaro, quanto un’opportunità offerta proprio dalla dissoluzione della potenza sovietica. Possiamo spiegarci ora le ragioni della difficile introduzione della sociologia negli studi internazionalistici: se non si supera l’immagine anarchica, non si «trova» la società, e se non si trova la società non si può sviluppare una sociologia. Il grande sociologo statunitense Talcott Parsons ben se ne accorse e in un saggio estremamente suggestivo già coglieva le potenzialità (non sviluppate) del ricorso alla sociologia: Nella teoria sociologica attuale, l’ordine è concepito sulla base dell’esistenza di un controllo normativo nei confronti della sfera d’azione delle unità agenti, siano queste individui o collettività [...]. Le componenti normative essenziali possono essere concepite come valori, che riguardano il livello più generale di concettualizzazione di un tipo di sistema sociale desiderabile, ma senza alcun riferimento né alla differenziazione funzionale interna né alle particolarità della situazione; e come norme, che sono formulazioni generalizzate – più o meno esplicite – delle aspettative di azione conforme da parte di unità differenziate in situazioni relativamente specifiche. [...] A un estremo c’è l’hobbesiano stato di guerra di tutti contro tutti, individui o Stati nazionali che siano le unità in guerra. All’altro c’è uno stato di integrazione completa, in cui un’azione deviante nei confronti dell’ordine normativo, che si presume assolutamente coerente ed esplicito, è inimmaginabile. [...] A questo proposito, ad ogni modo, è importante sottolineare che il crollo dell’ordine e la guerra conseguente non implicano sul piano analitico che non esistano forze che intendono difendere l’ordine, ma piuttosto che esse non state sufficientemente forti per prevenire una crisi specifica in una particolare situazione (Parsons, 1969, pp. 31-33 e passim trad. it.).

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È dunque possibile argomentare che esista anche una sociologia delle relazioni internazionali, a condizione naturalmente di ammettere che la natura di queste ultime non sia anarchica e, più che altro, che una distinzione andrà sempre tracciata tra lo studio specifico delle relazioni internazionali (id est, come abbiamo visto nel I capitolo, della politica internazionale), che si muove al livello del sistema internazionale e si occupa del rapporto di tutti gli Stati con tutti gli altri, e quello della sociologia internazionale intesa come lo studio dei comportamenti che soggettivamente gli Stati (tutti e ciascuno) tengono nei confronti della società internazionale. Cerca di offrire un’impostazione limpida della questione Marcel Merle, il più importante e noto «classico» francese della nostra disciplina (Aron non avendola mai insegnata): L’approccio alle relazioni internazionali dal lato della sociologia può contribuire a collocarle sotto una nuova luce e a mettere in rilievo alcune delle loro caratteristiche che sarebbero sfuggite agli altri specialisti. Non si capisce del resto perché la scienza che si occupa dei problemi della società dovrebbe arrestarsi alle frontiere degli Stati e impedirsi di attraversarle per timore delle relazioni sociali che si inscrivono nell’ambito della globalità. Al contrario, l’esplorazione di questa parte del campo della società può contribuire a rinnovare la tematica e la problematica di una «sociologia» che è rimasta a lungo e rimane ancora troppo sovente tributaria della semplice contemplazione dello stesso oggetto. A fronte all’accumularsi dei lavori consacrati allo Stato o al potere, non ci si può impedire di essere sorpresi dello svuotamento quasi sistematico della dimensione internazionale dei fenomeni che si studiano, come se la costruzione e il funzionamento di una società politica potessero essere percepiti e compresi al di fuori del contesto e dell’ambiente nel quale sono nati e si sono evoluti (Merle, 1974, p. 3).

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Una conseguenza di questo ampliamento di prospettiva ne chiarirà immediatamente l’importanza: mentre non potremmo mai cercare di costruire una teoria morale delle relazioni internazionali in quanto puro e semplice flusso di collegamenti (cosicché verrebbe a determinarsi una specie di mancanza di «materia prima», potremmo dire: le relazioni internazionali non giudicano, spiegano), una teoria morale della politica estera invece (che si muove nell’ambito della società internazionale fatta appunto di politiche estere) è assolutamente legittima e anzi particolarmente interessante: sarà il comportamento dello Stato, qui, a essere in discussione, insieme alla società di cui è portatore, dei suoi principi e dei suoi valori, e ciò è ovviamente del tutto compatibile con le regole del giudizio morale. Guai, anzi, a quello Stato che non ne fosse consapevole (ma anche la Germania hitleriana, purtroppo, aveva una sua concezione del bene e del giusto...), e se i paesi occidentali nella politica estera avessero saputo cogliere la differenza che correva tra la loro e quella hitleriana – invece di accontentarsi di cercare dei compromessi (ma forse proprio questa scelta indicava la loro stessa fragilità morale) – avrebbero forse saputo opporglisi prima che fosse troppo tardi, ovvero con la guerra. Questa distinzione apre una breccia irreparabile nella difesa classica del realismo, che ritiene che tutte le politiche estere siano uguali, non giudicabili in quanto null’altro che una risposta all’ambiente circostante: ma non è proprio di questo tipo di situazione che abbiamo or ora constatato l’inconsistenza? Non è assolutamente vero che ogni Stato non faccia altro che rispondere agli stimoli dell’ambiente: anzi, ciascuno di essi ne produce, cosicché l’ambiente nel quale ciò avviene non è altro che quella società internazionale che la teoria anarchica

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non può vedere, avendo respinto l’idea che gli Stati abbiano svariate possibilità di scelta, nelle loro azioni, continuando a ritenere che le suddette scelte siano determinate dalle dure e immodificabili leggi dello Stato di natura internazionale. Più interessante sarà invece allora ammettere che ogni Stato (posto naturalmente che lo voglia, che cioè partecipi alla vita della società internazionale: la Cina della Muraglia se ne era esclusa) abbia una sua politica estera che esprime valori, giudizi e progetti, sulla base dei quali sceglierà di avvicinarsi ad alcuni altri Stati e di collaborare con quelli che possano dargli affidamento in vista del loro conseguimento. Con ciò, non si intende trascurare la preoccupazione realistica secondo cui ogni Stato persegue il suo interesse passando sopra qualsiasi principio: quando l’Unione Sovietica di Stalin decise di firmare il (cinico e opportunistico) patto con la Germania nazista (il patto Ribbentrop-Molotov, 23 agosto 1939) che doveva servirle per procrastinare l’attacco tedesco, nonché per ottenere alcuni vantaggi territoriali, non c’è alcun dubbio che quell’azione vada considerata, più che per il suo significato tattico, per la sua portata politico-internazionale, per il messaggio pubblico che trasmise al mondo, così come era successo pochissimi anni prima quando – durante la guerra di Spagna – l’Unione Sovietica aveva sostenuto molto meno di quanto il mondo non si aspettasse la lotta comunista antifranchista, temendo che altrimenti avrebbe finito per favorire la linea scissionista controllata dai movimenti anarchici. Oseremo dire che queste erano scelte dettate da null’altro che dalla necessità e che alternative moralmente preferibili non esistessero? Molto più importante – e complesso – il programma di ricerca che si propone di classificare le politiche

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estere, almeno secondo una prima schematica distinzione: avremo politiche estere democratiche, come quando gli Stati Uniti decisero di contribuire allo sforzo di guerra antihitleriano durante la seconda guerra mondiale (senza scordare che uno stesso paese può adottarne di diverse in momenti diversi, come quando lo stesso paese decise di invadere senza giustificazioni l’Iraq nel 2003); avremo invece vere e proprie politiche estere autoritarie nel caso di paesi come l’Italia del ventennio fascista o del periodo di Pinochet in Cile (19731990), dei Colonnelli in Grecia (1967-1974) o dei Generali in Argentina (1976-1982). In altri termini, ogni Stato può adottare politiche democratiche o autoritarie, politiche che incontrano il favore della popolazione e dell’opinione pubblica internazionale, oppure, al contrario, che nuocciono al proprio stesso paese (l’Italia pagò un prezzo davvero immenso per la dissennata politica estera mussoliniana) o che sono foriere di crisi o di sommovimenti dell’ordine internazionale. Ma se vogliamo uscire dalle angustie di queste semplicistiche distinzioni dobbiamo allora introdurre un ulteriore elemento nel quadro, che non soltanto arricchisce la tematica delle relazioni internazionali (latamente intese: politica internazionale e sociologia internazionale) ma offre un elemento aggiuntivo alla nostra analisi: si tratta dell’immensa trasformazione che la società internazionale ha subito negli anni (più esattamente, nel corso del ventesimo secolo) a seguito del fenomeno dell’organizzazione internazionale, prodotto di una civiltà giuridica che seppe incarnare proprio il superamento del «pregiudizio anarchico», mostrando (quanto meno) la non impossibilità di costruire un sistema giuridico internazionale (una sorta di «terzo assente», come avrebbe detto Bobbio, che sotto questo nome intravvedeva

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un’Organizzazione delle Nazioni Unite purtroppo non ancora in grado di governare l’ordine internazionale) (cfr. Bobbio, 1989). Al di là delle sue valenze strettamente giuridiche (tutt’altro che irrilevanti, ma per noi marginali), la crescita dell’idea di organizzazione internazionale, ricorrendo al diritto, ha regolamentato quasi totalmente il flusso di interazioni e interscambi che si sviluppano nel pianeta sia sul piano economico (è certo il primo settore nel quale l’innovazione fu percepita) sia su quello politico, sociale, culturale, eccetera, regolamentando i comportamenti delle parti, definendo le fattispecie oggetto di normazione, stabilendo limiti e confini delle interazioni legali e delle violazioni del diritto. Su tutto ciò si è sviluppato anche un vero proprio sistema specializzato di organismi direttamente finalizzati alla messa sotto controllo di ogni determinato settore di interscambi. Mentre nel 1909 nel mondo esistevano 37 organizzazioni intergovernative (come l’Unione Postale Universale o l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), oggi ve ne sono più di 250, mentre quelle non governative erano 176 e ora sono quasi 6000 (cfr. Caffarena, 2009), e se tutti gli associati (Stati, imprese, cittadini) seguissero le regole prodotte nel mondo l’ordine internazionale crescerebbe immensamente in quantità, anche se non ancora in qualità, restando tuttavia impregiudicato se le dette regole saranno capaci di garantire equanimemente i diritti di tutti oppure se – del resto esattamente allo stesso modo che dentro gli Stati – forme di ingiustizia, prevaricazione, sfruttamento continueranno a perpetuarsi, sulla base di eredità storiche che si fondano soltanto sull’autorità del passato e certo non su quella del diritto (esempi come quelli del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale, per non

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dire del Gatt – General Agreement on Tariffs and Trade – e della successiva Organizzazione Mondiale per il Commercio ne sono riprove clamorose). Non c’è comunque dubbio che il progresso del principio di organizzazione internazionale e l’ampliamento progressivo e ormai illimitato delle organizzazioni specializzate (basterebbe il solo caso delle varie emanazioni del sistema Onu per offrire un esempio estremamente significativo) abbiano innovato radicalmente la società internazionale: non saranno esse a condurre l’umanità al di là dell’era delle guerre, ma rappresentano comunque il più nobile tentativo di portata universale mai esperito finora nella storia per realizzare una condizione di convivenza pacifica tra Stati e individui. L’importanza ad un tempo metodologica e valutativa di tutto ciò consiste proprio in questa integrazione cui si è giunti tra persone artificiali, quali gli Stati, e persone fisiche quali gli esseri umani, che mostrano come, seppure a diverso titolo, entrambe le forme di persona convivono, interagiscono, collaborano e si combattono utilizzando le prime come strumenti delle seconde – gli Stati per realizzare i fini degli esseri umani. Per difficile che sia trovare fini assolutamente condivisi, sarà sempre meglio che se accadesse il contrario e gli individui fossero al servizio dello Stato. Ma ci resta infine, dopo il viaggio che abbiamo svolto all’interno della problematica della soggettività internazionale, da rispondere a una domanda, posta nel titolo del primo paragrafo di questo capitolo, per rispondere alla quale abbiamo dovuto chiarire una serie di aspetti: di fronte alla difficoltà di cumulare esperienze soggettive, dunque unidirezionali, incardinate sugli Stati in modo sistematico, di fronte al rischio che le due dimensioni della soggettività e dell’oggettività restassero

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separate (facendo fallire il programma di offrire una logica complessiva al modo in cui gli Stati interagiscono), siamo giunti alla constatazione che la loro unificazione (non materiale, ma concettuale) avviene sul terreno di quella società internazionale di cui possiamo predicare l’esistenza proprio perché abbiamo scoperto come si ricomponga la pluralità delle soggettività che al suo interno interagiscono, grazie a quel corpo intermedio in continua evoluzione e crescita che sono le organizzazioni internazionali, una specie di trait d’union tra la somma delle politiche estere e la politica internazionale.

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La disciplina nei suoi diversi «stati»

1. Una disciplina che cresce su se stessa Ancorché nata tra le ultime, la disciplina delle relazioni internazionali non si è privata di alcuno dei passaggi tipici nelle vicende di tutte le discipline scientifiche: dibattiti, polemiche, scuole, separazioni e lacerazioni. Si potrebbe riassumere la storia interna delle relazioni internazionali con queste parole: «2 scuole, 3 approcci, 4 dibattiti, 8 (o forse più) modelli di analisi e teorie»! Cercheremo ora di districarci all’interno di questa selva, se non oscura, certo intricata, non senza esserci soffermati a riflettere un attimo sulla natura profonda della disciplina, nata con il commendevole programma di «far luce» sui grandi problemi internazionali (così si esprimeva Leonard Woolf, marito della più famosa Virginia, nel 1916), ma che finì ben presto per avventurarsi in veri e propri programmi «post-illuministici», al punto da ritrovarsi (come vedremo tra poco) a discutere di complessissime formule matematiche, di modelli stocastici, alla ricerca di spiegazioni che forse (lo dico con discrezione e un pizzico di imbarazzo) si gioverebbero di una migliore conoscenza della storia piuttosto che della teoria delle catastrofi di René Thom. Per noi, la storia non ha il compito di spiegare, quindi resterà

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sempre una scienza «sussidiaria» rispetto alle relazioni internazionali senza che se ne sminuisca l’intrinseca importanza; ma i livelli di astrattezza che la disciplina delle relazioni internazionali raggiungerà negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso riuscirono involontariamente a scoraggiare molti ricercatori, a deludere i fruitori di ricerche troppo astruse, a rallentare lo sviluppo della disciplina. Basterebbe scorrere il sommario di molte delle opere introduttivo-sistematiche alla nostra disciplina per scoprire, con stupore, che alle vicende formative non è dedicato che pochissimo, se non alcuno spazio, come se lo studio delle relazioni internazionali fosse un campo assolutamente vergine, forse sconosciuto, nel quale soltanto pochi iniziati possano aggirarsi, costretti in rigide ed esoteriche regole. Non si troverà che pochissimo di tutto ciò nel peraltro splendido Handbook of International Relations (Carlsnaes, Risse, Simmons, 2002), nulla nell’ancor più apprezzabile The Oxford Handbook of International Relations (Reus-Smit, Snidal, 2008); ma già prima in un’altra raccolta introduttiva e propedeutica allo studio della disciplina – International Relations Theory Today (Booth, Smith, 1995) – non ve n’è traccia alcuna, così come nel più recente e accreditato manuale italiano, Relazioni internazionali (Andreatta, Clementi, Colombo, Koenig-Archibugi, Parsi, 2007). Ad impostazioni rigidamente didascaliche si contrappone invece, di tanto in tanto, una furiosa catalogazione di modelli astratti, sovente sull’orlo di filosofismi del tutto irrealistici, come mostrano i tentativi di ricondurre alle relazioni internazionali il pensiero, in sé lontano le mille miglia, di personalità come Michel Foucault o Jacques Derrida, perdendosi in esegesi che nulla hanno a che vedere con l’interpretazione degli eventi internazionali, e discettano sull’esistenza o meno di una

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«english school», contraddistinta essenzialmente dall’essere... inglese (e non americana), o di una branca internazionalistica del pensiero post-moderno oppure della «teoria critica» (tra loro separate dall’impostazione tendenzialmente conservatrice e pessimistica, la prima, ottimistica sulla possibilità di cambiare il mondo, la seconda). Diverso è invece il caso con alcuni, pochissimi, studiosi (come Robert Cox, o James Der Derian o Richard K. Ashley), i quali hanno fatto fare un triplo salto mortale alla disciplina riuscendo per un verso ad arricchirne la problematicità, la complessità e lo spessore critico, ma per un altro finendo per segregarsi rispetto a una concezione che guarda alla ricerca scientifica come a un qualche cosa di praticabile, utile e applicabile. Vedremo invece nella prossime pagine come la disciplina, inizialmente mossa dal puro e semplice desiderio di contribuire con la ricerca alla realizzazione della pace nel mondo (nulla di più concreto e fattivo, dunque), sia giunta a momenti di totale sradicamento dal contesto empirico storico dei problemi internazionali, pur fondati su importanti riflessioni di teoria della conoscenza, ma troppo facilmente vittime di quelle filosofie post-moderne che, senza nulla toglier loro, non possono «mordere» nella realtà della guerra e della pace, se non nelle dimensioni della filosofia della storia, tutt’altro che «proibita» agli internazionalisti, ma inevitabilmente non autosufficiente nella costruzione di un corpus disciplinare compatto, coerente e (per quanto possibile) completo di tutta la sua possibile strumentazione. 2. Scuole, approcci e dibattiti Quando, nel I capitolo, ai §§ 4 e 5, abbiamo discusso delle origini storiche della nostra disciplina, stavamo in realtà preparando il terreno per l’affermazione, invero

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un po’ perentoria (ma che potrebbe essere vittoriosamente difesa di fronte a qualsiasi approfondito contraddittorio), secondo la quale nel periodo compreso tra il 1919 e il 1939 si andava costituendo nei suoi elementi fondamentali il quadro complessivo di quella che poi sarebbe stata la disciplina delle relazioni internazionali: le due scuole che allora si formarono – quella idealistica e quella realistica – vivono oggi dello stesso identico vigore che avevano allora. Non esiste studioso così come non esiste proposizione internazionalistica che non possano essere ascritti all’una o all’altra scuola, mostrando per un verso la limitatezza problematica (e vi torneremo tra poco) della disciplina, ma anche dall’altro la nitidezza degli schieramenti e l’evidenza delle posizioni – diametralmente opposte – che vengono sostenute dai due lati. Ricorderemo in una parola che entrambe le Scuole (questa volta almeno con l’iniziale maiuscola a tipizzarle) muovono da un pregiudizio di tipo antropologico. Secondo gli idealisti, la natura dell’uomo è fondamentalmente buona, nonché socievole e tendenzialmente pacifica: ne deriva una concezione delle relazioni internazionali alla luce della quale le guerre, che pur si combattono, non sono altro che la conseguenza dell’ancora lento o arretrato sviluppo delle istituzioni statuali, alle quali gli esseri umani si sono dapprima dedicati; le guerre scoppiano per le loro incomprensioni reciproche che vengono esaltate ed esasperate da statualità non ancora sufficientemente consapevoli e raffinate. Volessimo dare un nume tutelare all’idealismo potremmo fare il nome di Immanuel Kant, il cui federalismo muove dalla concezione democratica che egli per primo applicò ai rapporti internazionali (più precisamente: al giudizio sulla guerra), ma che era addirittura più radicale di quello idealistico, dato che non

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riteneva sufficiente, in ultima istanza, la riforma dello Stato e ne preferiva l’abolizione. Parallelamente, alla Scuola opposta, quella del realismo internazionalistico, potrebbe iscriversi Machiavelli, ma prima di lui Tucidide e, forse al primissimo posto, dovrebbe sedere Thomas Hobbes, per il quale i rapporti internazionali non avrebbero mai e poi mai potuto liberarsi dalla condanna allo stato di natura (ovvero, al bellum omnium contra omnes). La ragione – per questi grandi antesignani come poi per Morgenthau, Waltz e tutti i loro seguaci (ché, nell’una come nell’altra scuola non manca qualche misura di proselitismo e di agonismo) – sta nel motivo esattamente opposto a quello espresso dagli idealisti, ovvero che la natura dell’uomo sia, invece che tendenzialmente buona e socievole, egoista e semmai aggressiva, cosicché nessuno Stato potrebbe mai imbarcarsi in politiche estere che non consistano esclusivamente nell’affermazione del proprio «interesse nazionale» (questa è la formula magica del realismo internazionalistico), cosicché i periodi di pace nella storia non saranno mai altro che momenti di tregua tra un tentativo e l’altro, di questo o quello Stato, di affermare il proprio predominio. Su questa alternativa si sono versati veri e propri fiumi di inchiostro, senza che nessuno potesse concludere che gli uni avevano ragione e gli altri torto; si delineò semmai, fin dal primo dopoguerra e sulla scia del grande successo di Politics among Nations, la percezione della preferenza indiscussa per il realismo sull’idealismo; in tutti i libri introduttivi se ne parla, nella maggior parte dei casi l’idealismo è rappresentato come un commendevole ma ingenuo e vano tentativo di incidere su una realtà troppo monolitica, schematica e rigida per poter essere scalfita da qualche buona parola. L’ideali-

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smo diventava così una specie di corrente carsica nella storia disciplinare, mai morta e mai doma, ma mai trionfante, seppur ripescata nei momenti in cui qualche significativa evoluzione storica sembrava adeguarsi alle sue belle speranze: così, in special modo dopo la fine della guerra fredda, quando parve che una rinascita, sotto le spoglie del neoliberalismo o neoistituzionalismo, potesse riportare i principi dell’idealismo all’onor del mondo. Non è questo il luogo per esprimere una preferenza, ma al massimo per ribadire che idealismo e realismo sono ben più che due scuole, perché chi aderisce all’una o all’altra ha un profilo antropologico ben preciso e distinto: in una parola, gli idealisti sono normalmente degli ottimisti (degli illusi, per i realisti), mentre normalmente i realisti sono un po’ cinici secondo gli idealisti. I realisti hanno molto sovente la prova dei fatti dalla loro; gli idealisti, la speranza che il mondo possa cambiare e che il progresso morale dell’umanità non sia impossibile, ciò che i realisti escludono irrevocabilmente. La superiorità socioculturale nonché accademica di questi ultimi è tanto vistosa che essi non si preoccupano neppure più di ricorrere a discipline ausiliarie che potrebbero suffragare (da altri punti di vista) le loro valutazioni. Come succede alle discipline più deboli, invece, quella idealistica si rifugia sovente nelle braccia di scienze sorelle o viciniori dalle quali può ottenere qualche contributo. È così giunto il momento di passare all’aspetto grazie al quale dovremmo poter sfuggire a giudizi e pregiudizi e procedere invece a un’accumulazione originaria neutrale e utile a chiunque. È quindi il momento degli approcci: storiografico, giuridico, politologico, eco-

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nomico, filosofico. Di questi, soltanto i primi tre sono normalmente accolti nella cittadella delle relazioni internazionali e su essi ci soffermeremo dapprima, non senza sfiorare poi, almeno fugacemente, gli altri due, probabilmente non meno importanti o fecondi. Se ne potrebbero suggerire anche altri, come quello strategico, quello culturale, o ancora quello geografico; ma un principio di economia della ricerca ci consiglia di limitarci a questi. La storia (meglio, per noi: la storiografia) è non soltanto accumulazione di eventi o di racconti, ma riflessione sul metodo e sulla sua applicazione: basti pensare che affermazioni come quella ciceroniana – historia magistra vitae – vengono metodicamente sconfessate dall’affermazione secondo cui gli avvenimenti storici non si ripetono mai allo stesso modo. Il compito storiografico dovrebbe essere allora l’accertamento della verità materiale o fattuale, che è, a sua volta, un’impresa impervia perché anche la ricerca storica comporta il fascino della scoperta, della formulazione delle ipotesi, delle interpretazioni coraggiose e controvertibili, dell’incertezza o insicurezza sui dati, della verifica delle fonti – tutti impieghi che saranno assolutamente necessari anche per studiare le relazioni internazionali, anzi tanto più importanti a causa della carenza di riflessione storiografica sui grandi problemi internazionali. E dire che non si potrebbe concludere che non esista storia delle relazioni internazionali (su questo punto, del tutto terminologico, si potrebbe aprire una vertenza accademica, che non è qui il caso approfondire), anzi: la storia evenemenziale, la cosiddetta histoire-bataille (per riprendere una definizione polemica sorta in seno al movimento delle «Annales» francesi), ha addirittura inondato nei decenni le nostre biblioteche soffermandosi

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sulle grandi guerre, narrando imprese, avventure, vittorie e sconfitte, con il limite però di uno scarso collegamento con quella dimensione della continuità (o anche della rottura o della discontinuità) che è uno degli strumenti di conoscenza più suggestivi di cui disponga lo storico: la periodizzazione, infatti, altro non è che uno straordinario e flessibile strumento per «fare ordine» nella realtà, per individuare punti alti o periodi eccezionali o anomali in una certa continuità, oppure al contrario per evidenziare la sostanziale tenuta, la continuità, di un determinato periodo storico al di là di apparenti o appariscenti turbolenze. Si tratta di lavori che hanno una funzione «ancillare» (una disciplina nei confronti dell’altra, a rotazione, o reciprocamente) di estrema importanza per le relazioni internazionali, tanto che si potrebbe addirittura immaginare che, accanto alla classica storia delle relazioni internazionali, si affermasse una diversa dimensione dell’internazionalità della storia, dando vita a una «storia internazionale» nel senso della ricerca sulle dinamiche degli andamenti storici della vita degli Stati (Bonanate, 2010). Altro è una storiografia che guardi agli Stati i quali hanno anche una vita esterna e possano giungere a combattersi, allearsi, rappacificarsi, altro sarebbe invece una storiografia che facesse perno sull’internazionalità, sullo sviluppo dei rapporti tra queste entità territoriali guardando alla storia nazionale soltanto come a una variabile dipendente rispetto alla quale l’internazionalità sarebbe quella indipendente, esplicativa. Non è che manchino tentativi in questa direzione (specialmente alcuni grandi studiosi, particolarmente attenti allo sviluppo storico dell’economia, hanno saputo coniugare internazionalità e andamento storico, come Fernand Braudel, Immanuel Wallerstein o Giovanni Ar-

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righi), ma nella maggior parte dei casi restano intitolazioni puramente declamatorie, come quella, ad esempio, di William R. Keylor il quale, a un titolo estremamente accattivante, The Twentieth-Century World. An International History, faceva poi seguire la più cronistica e manualistica ricostruzione storiografica day-by-day. Modelli invece di grande narrazione capace di trasformare il racconto in momento interpretativo sono quelli di Paul Kennedy o di Eric Hobsbawm, che hanno del resto avuto grande successo. Senza conoscenza storica non si possono comprendere le relazioni internazionali (la stessa cosa va detta della geografia: non per nulla Erodoto fu maestro di entrambe): la perorazione a favore della sua integrazione e interconnessione con la disciplina delle relazioni internazionali deve essere dunque intensa e insistente, così come dovrà esserlo, subito dopo, quella a favore del diritto internazionale. Con il riferimento a quest’ultimo non intenderemo qui tanto il corpus ricco ed estremamente consolidato del diritto internazionale, pubblico e privato, positivo, cioè in vigore a seguito di un lungo e tanto importante quanto tortuoso processo, quanto piuttosto le ragioni di uno specifico settore di studi dedicato principalmente alla riflessione sulle condizioni di giuridificazione (più semplicemente: di formalizzazione di norme come conseguenza di atti e di accordi internazionali) di un ambito considerato dai più e quasi da sempre (come già abbiamo visto) del tutto refrattario a ogni forma di regolamentazione, in quanto anarchico. Ma la stessa incontrovertibile esistenza di questa tematica è a sua volta una prima prova, per quanto estrinseca, dell’inadeguatezza della concezione anarchica in quanto interpretazione della vita internazionale; prove più importanti so-

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no costituite dall’andamento storico della sensibilità giuridico-internazionale, dapprima in quanto ius gentium o ius inter gentes, destinato a regolamentare (parliamo di un millennio fa, all’incirca) i rapporti tra le collettività racchiuse nella Respublica christiana, ovvero il Sacro Romano Impero comprendente in sostanza l’intera Europa in via di progressiva statualizzazione, e poi in quanto percezione progressiva di una crescente società internazionale che si andava dotando di un sistema infrastrutturale di organizzazioni internazionali (cfr. cap. III, § 4) intese proprio a guidare il mondo degli Stati verso un sistema di cooperazione internazionale. La storia dello sviluppo degli ideali giuridici dell’umanità si intreccia indissolubilmente con quella delle oscillazioni di potere degli Stati nei diversi stadi di sviluppo. Siamo di fronte al decisivo fenomeno della formazione, modifica, abolizione e/o ricostituzione degli Stati, quelle ripartizioni territoriali che, come abbiamo visto nel I capitolo, non esistono in se stesse ma in quanto artificiali costruzioni umane (ovvero politiche) che, di tempo in tempo, hanno attribuito ad alcune di queste parti del pianeta la possibilità di esistere a scapito o a danno di altre che, in ragione di diversi tassi di sviluppo storico, si trovavano ad essere soggette alle prime. È naturalmente una storia di sopraffazioni, disuguaglianze e sfruttamento che ben conosciamo, ma rispetto alla quale sovente trascuriamo di mettere in luce una conseguenza di estrema importanza: il diritto internazionale che si andava costruendo non era altro che il prodotto della volontà delle grandi potenze dominanti momento per momento: le nuove norme venivano stabilite al termine dei grandi conflitti, e ovviamente erano i vincitori a dettarle ai vinti. Ma con il passar del tempo, i vincitori si sono trovati a esser vinti (si pensi al diver-

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so rango internazionale tra la Francia di Napoleone I e quella di Napoleone III), e i vinti si sono trasformati in vincitori, interessati quindi a cancellare, correggere, innovare le norme che erano state formate quando ancora era loro negato di diritto di formarle. La conseguenza evolutiva di questo «diritto vivente» è logicamente legata alle dinamiche delle relazioni internazionali politiche (alle quali ora ci rivolgeremo in termini politologici), le quali hanno dunque una funzione creativa nei confronti di quel diritto che poi gli Stati stessi, nella maggior parte dei casi, si ritroveranno a calpestare. Ma sarebbe del tutto inaccettabile che, per questo, trascurassimo o peggio scordassimo la straordinaria cultura filosofico-giuridica che da san Tommaso a Francisco de Vitoria, da Grozio a Kant, e su su fino ai giorni nostri a Kelsen, a Bobbio o Walzer, si è occupata del fondamento del diritto internazionale e della sua giustificazione filosofica. In questa sottoclasse affronteremo ora non soltanto la dimensione politologica delle relazioni internazionali, ma anche le connessioni che si determinano tra queste ultime e l’economia o la filosofia (o la teoria politica). L’importanza della dimensione politologica è presto evidenziata, se accettiamo – come sembra inevitabile – che l’aspetto determinante della vita di relazione tra gli Stati sia quello politico: non tanto o non soltanto nei termini della superiorità relativa dell’uno o dell’altro aspetto (non proveremo neppure a sfiorare la problematica della superiorità dell’economia sulla politica o viceversa), quanto piuttosto della prevalente centralità del livello politologico come punto di osservazione del ricchissimo complesso delle interrelazioni che uniscono tra loro gli Stati, anche in termini di linguaggio formale e diplomatico. E basterebbe aggiungere che anche la

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guerra è politica o che è quest’ultima che provoca le guerre, per comprendere l’importanza di questa dimensione, cosicché potremo dire che le relazioni internazionali come disciplina non sono altro che scienza politica a pieno titolo, a cui poi si aggiungeranno altre competenze, come la teoria strategica, ad esempio, decisiva per la comprensione del ventesimo secolo. Ma se la scienza politica strettamente intesa può essere sinteticamente e introduttivamente considerata come ricerca empirica e generalizzante sui fenomeni politici, le relazioni internazionali se ne distinguono, in parte, per la loro più scarsa propensione nei confronti della ricerca empirica, specie se quantitativa, che è invece elettiva negli studi sulla politica interna (addirittura, le più importanti riviste scientifiche internazionali non accettano scritti che non esibiscano una solida base matematico-statistica!). La politica interna è, per così dire, una politica continua, quella internazionale è intermittente. La politica interna ha una sua quotidianità routinistica che non inerisce a quella internazionale, che conosce momenti tanto più significativi e importanti quanto più sono rari e preoccupanti. Nessun conflitto dunque tra le due sottodiscipline, ma una opportuna e reciprocamente vantaggiosa divisione dei compiti, che può essere un buon modello anche per quanto riguarda l’intricatissima materia dei rapporti tra politica ed economia sul piano internazionale. Basta ricordare la tacitiana formula «pecunia belli nervi» per cogliere l’inscindibilità tra le due dimensioni; quante volte abbiamo sentito dire che la spesa militare era il volano dell’economia capitalistica, oppure che l’economia di guerra era lo strumento di sopravvivenza di certi regimi autoritari, e quante altre volte abbiamo temuto «guerre del petrolio» o per altre risorse naturali? Insomma, guerra

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ed economia sembrano strettissimamente collegate, ma non più di quanto lo siano i commerci e la politica internazionale, la finanza mondiale e la competizione internazionale, la ricerca e la conquista dei mercati con l’impegno dello Stato di bandiera che cerca di sostenere l’espansionismo delle sue imprese. Potremo accettare allora che l’analisi delle relazioni internazionali appaia tanto complessa da spingerci nel rifugio dell’anarchia? Sarebbe la stessa cosa se, pur sapendo che all’interno di uno Stato esistono poteri forti, gruppi di potere, organizzazioni più o meno legali o ufficiali, o addirittura gruppi criminali o mafiosi, ne concludessimo che allora lo Stato è in preda all’anarchia: forse sarebbe vero, ma soltanto come scollamento e allontanamento da una situazione che strutturalmente non è o non dovrebbe essere tale. Ne trarremo semplicemente che l’analisi delle relazioni internazionali è un’operazione complessa e che piuttosto che di anarchia è necessario dotarsi di strumenti di analisi, di approcci e di punti di vista che ci consentano di accumulare quei blocchi tematici di conoscenze che, integrati, potrebbero condurci a una migliore comprensione della realtà. Tale intenzionalità ci convincerà a inserire nel nostro orizzonte anche una dimensione quasi universalmente esclusa nel nostro settore, quella dell’etica, in base alla banale, ma tutt’altro che fondata, osservazione che nella vita internazionale non si può dare alcuno spazio alla distinzione tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto. Certamente le drammatiche esperienze del ventesimo secolo non sono fatte per rassicurarci sulla forza morale del genere umano e sulle sue capacità di discernimento: i gas nella prima guerra mondiale, l’olocausto e la bomba atomica nella seconda sembrano proprio suggerire che al degrado morale non ci sia limite (è ciò che

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in sostanza pensa la filosofia post-moderna); ma non dobbiamo dimenticare, per restare negli stessi ambiti, che la prima guerra mondiale officiò anche il crollo di imperi secolari e brutali (della stessa rivoluzione russa non può essere condannata la dimensione liberatoria nei confronti dell’impero zarista), che la seconda guerra mondiale poté davvero essere ricondotta a uno scontro mortale tra il bene e il male e diffuse in un’ampia parte del mondo la democrazia, e che da tutte queste vicende (seppure in modo non ancora soddisfacente) discese un netto miglioramento delle condizioni di vita di una parte considerevole dell’umanità. Non dobbiamo neppure sottovalutare l’immensità dei problemi morali che il mondo (contemporaneo, ma non soltanto questo) ci impone di affrontare: basta fare riferimento alla problematica della «guerra giusta» per comprendere quanto arduo sia il compito – ma chi di noi preferirebbe accontentarsi della conclusione che le guerre non si prestano a giudizi di bene o male, ma soltanto di vittoria e sconfitta? Chi altrimenti avrebbe la forza (morale) di ritenere che ogni guerra sia forzatamente ingiusta e dunque saprebbe agire coerentemente e conseguentemente nella sua lotta politica pacifistica? L’alternativa tra il tutto e il nulla – che fu ad esempio quella che spingeva grandi filosofi, come Karl Jaspers, a perorare la preferibilità della morte in difesa della libertà piuttosto che quella della vita in cattività (Jaspers, 1958) – è sterile perché nella vita reale affrontiamo sempre scelte reali, praticabili ed effettive, e non soltanto grandi e categoriche alternative assolute: proprio per questo possiamo pensare che anche il male e le ingiustizie che continuano a contraddistinguere le relazioni internazionali possano essere progressivamente, seppur lentamente, ridotti, contenuti e contrastati in vista di una migliore,

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più equa e democratica, società internazionale. Si potrebbe addirittura concludere che mai come ai giorni nostri la possibilità di sviluppare la dimensione etica negli studi di relazioni internazionali è stata alla nostra portata, se solo pensiamo che il cammino dei diritti umani, della democratizzazione, delle politiche redistributive non ha mai fatto altrettanti progressi: troppo poco, lo sappiamo tutti benissimo e non ci nasconderemo neppure tutti i nostri recenti fallimenti ma – come dice il proverbio – il meglio è nemico del bene... Che una disciplina scientifica conosca al suo interno una successione di dibattiti metodologici è naturale e sano per il suo sviluppo. Anche le relazioni internazionali hanno seguito la tradizione e i dibattiti interni – anche accesi – sono stati almeno tre; c’è chi ne conta quattro, ma forse si tratta di due soltanto! Incominciamo con il nominarli: nei registri (cioè nei nostri manuali) ne vengono ricordati essenzialmente tre: idealismo-realismo; tradizione-scienza; post-positivismo o pluralismo. Un quarto potrebbe essere quello introdotto dal cosiddetto «costruttivismo», che mi pare però meglio classificare tra le varie teorie interpretative che costellano (come vedremo) l’andamento più recente della disciplina. E così, da quattro dibattiti, possiamo rapidamente scendere a due, sol che derubrichiamo il primo – idealismo-realismo – perché, come abbiamo visto, esso occupa uno spazio tematico ben maggiore che quello di un dibattito, coinvolgendo valori, giudizi e pregiudizi, approcci alla realtà e quant’altro. Il terzo dibattito, a sua volta, consisterà in un momento di pura e semplice liberazione dalla cappa che aveva appesantito le riflessioni internazionalistiche negli anni precedenti. Quali anni? Il dibattito tradizione-scienza ha date

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precise, protagonisti noti e notori, posizioni, passaggi e sviluppi assolutamente condivisi e accettati. I termini di questo così chiaro problema sono i seguenti. A partire dalla fine degli anni Cinquanta (e cioè quelli in cui una certa impostazione delle relazioni internazionali fu imposta dai fatti: fatti politico-internazionali, come la guerra fredda e il pericolo dell’olocausto nucleare, che trasformarono gli studiosi di relazioni internazionali in teorici di strategia nucleare), le relazioni internazionali poterono incominciare a sdoganare riflessioni scientifiche che non fossero il puro e semplice riflesso della politica di potenza o delle intenzioni aggressive dell’uno o dell’altro blocco militare che dominavano il mondo. Per sfuggire alla presa dei ricatti ideologici e dei coinvolgimenti operativi, una buona parte degli studiosi si avviarono a ricerche che dovevano, nelle loro intenzioni, essere realmente e chiaramente «scientifiche», e dunque libere da ideologie, narrazioni storiografiche o filosofiche, da sofismi giuridici. Ci si rivolse così al numero, alla quantificazione, alla matematica, che (nelle intenzioni) potevano contribuire a costruire un nuovo linguaggio scientifico, fondato sulle acquisizioni recenti della cibernetica, a vantaggio di una disciplina che soffriva appunto di povertà sia terminologica sia di conoscenze empiriche, di prove e di verifiche. Contro questa rampante impostazione si erse un allora giovane studioso australiano (al quale abbiamo già fatto riferimento: cap. III, § 4), Hedley Bull, il cui polemico scritto non soltanto fece scalpore ma causò un dibattito accesissimo, fin sull’orlo (e talvolta anche di là) dell’ingiuria e della rottura di amicizie. Ascoltiamo come egli dipingesse il nemico (la scuola scientifica o scientistica):

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L’approccio scientifico alla teoria delle relazioni internazionali è presente nella teoria dei sistemi internazionali, secondo gli sviluppi proposti da Morton A. Kaplan, e altri, nelle molteplici estrapolazioni internazionali della teoria dei giochi di John von Neumann e Oskar Morgenstern, nella teoria della contrattazione di Thomas Schelling, nel lavoro di Karl Deutsch sulla comunicazione sociale, nello studio di William Riker sulle coalizioni politiche, nei modelli di formazione della politica estera prodotti da George Modelski e altri, negli studi matematici sulle corse agli armamenti e sulle contese mortali di Lewis Richardson, e nelle teorie del conflitto sviluppate da Kenneth Boulding (Bull, 1966, p. 362).

Avendo così puntigliosamente elencato i suoi avversari, Bull passava poi a indicare, altrettanto minuziosamente, in sette punti, le ragioni del fallimento di questa nuova «scuola scientifica» (che poteva contare nei suoi ranghi sia idealisti sia realisti, indifferentemente). Le riassumiamo in due categorie: quel che gli «scienziati» non fanno (e non saprebbero fare) e ciò che invece fanno (purtroppo) male. Sotto il primo profilo, essi risulterebbero incapaci di giudicare la portata relativa dei problemi, appiattirebbero ogni valutazione su una pretesa di oggettività dei dati empirici, non essendo in grado che di occuparsi di problemi marginali, che vengono analizzati perché operazionalizzabili e non perché ricchi di significati! Significati che poi – e così passiamo al secondo profilo – essi presentano in modalità talmente astruse, incomprensibili e incomunicabili che, se anche avessero un interesse, lo perderebbero nelle pastoie di un’impossibile comunicazione, a cui seguirebbe una altrettanto inesistente accumulazione delle conoscenze, che è invece uno dei programmi di ricerca più importanti in ogni disciplina. Un fallimento a tutto campo, dunque, e senza possibilità di mediazione; ma la replica dei contestati

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«scienziati» non si fa proprio attendere ed è orchestrata da uno dei suoi massimi esponenti mondiali: Morton A. Kaplan, il quale in The New Great Debate. Traditionalism versus Science in International Relations, che esce nel fascicolo di «World Politics» successivo a quello che aveva ospitato l’intervento di Bull, rovescia i termini del problema e modificando la nobile autodefinizione di Bull a proposito degli studi «classici» li derubrica a puro e semplice tradizionalismo, condito di spirito reazionario e conservatore, incapace di accogliere le innovazioni scientifiche, di dibatterne, di trarne i fruttuosi risultati. Se la disputa idealismo-realismo verteva sui valori primi, sui principi, quest’altra riguarda invece il metodo, e quindi un momento fondamentale di ogni disciplina scientifica: scientifica non in quanto non-tradizionalista o non-classica, ma in quanto spassionata, libera da coinvolgimenti ideologici o morali, autocritica, riflessiva, cumulativa. Proprio alla luce di queste «garanzie» (e dopo la stanchezza indotta dalle sterili polemiche or ora riassunte) si sviluppava quindi nella disciplina un più sano «terzo dibattito», che si proponeva di superare la specificità e la ristrettezza dei precedenti dibattiti, a favore (ecco la novità) dell’affermazione di un nuovo principio di pluralismo scientifico inteso a liberare gli studiosi dai vincoli di scuola, dagli obblighi di lealtà ideologica, insomma da qualsiasi pregiudizio (si potrebbe persino azzardare che quel nuovo clima fosse dello stesso tipo di quello che andava affermandosi negli stessi anni – fine Settanta-inizio Ottanta – con riferimento a una sostanziale distensione dei rapporti internazionali). Saggia ed equilibrata proposta, accolta così unanimemente da non aver provocato alcuna polemica né aver visto emergere capifila e rappresentanti ufficia-

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li (l’unico nome da fare al riguardo è quello di Yosef Lapid, per essere stato lo studioso che ha presentato per primo questo nuovo stadio di sviluppo della disciplina). Semmai, e giustamente, attraverso questa nuova pausa riflessiva emergeva una consapevolezza destinata a rafforzare la disciplina: il mondo stava cambiando e la disciplina che più di ogni altra avrebbe dovuto essere capace di aggiornarsi e di aggiornarci sembrava essere ancora legata a discussioni parrocchiali e a polemiche ideologiche. Ma gli anni Ottanta del Novecento consistettero in una straordinaria e sempre più accelerata corsa verso la fine di un mondo – quello del bipolarismo e dell’equilibrio del terrore – per capire la quale erano necessari strumenti nuovi, adeguati all’importanza delle innovazioni in corso. In quel momento, giustamente e per la fortuna della disciplina, si sviluppò finalmente una riflessione di tipo epistemologico, che prese le mosse, in particolare, dalla revisione del rapporto tra soggetto osservante e oggetto osservato (tra osservatori e osservazione), in una chiave logicamente tratta dalla teoria della conoscenza che diffuse tra gli studiosi la «scoperta» del relativismo e del soggettivismo, ai quali si potrà successivamente porre rimedio soltanto attraverso il dibattito e il pluralismo problematico e interpretativo. Scoprendo che non basta guardare per capire (e tanto meno spiegare), si imponeva l’ammissione dell’incompletezza di ogni forma di conoscenza e la rinuncia a ogni certezza di conoscenza oggettiva e incontrovertibile, a favore di uno spirito autocritico e meno presuntuoso, ma capace di evidenziare di volta in volta le caratteristiche della propria «narrazione» (un termine assurto a valore simbolico nel segnalare che le nostre capacità intellettuali non possono andare al di là, appunto, di narrazioni, resoconti, approssimazioni) che

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non può essere, a sua volta, altro che il prodotto della nostra costruzione del mondo. La realtà è non ciò che essa oggettivamente e realisticamente è (crediamo sia), ma semplicemente quello che noi ci siamo costruiti su di essa. Per intenderci: potremmo dire che la presentazione dei problemi fondamentali fatta in questa Prima lezione non è altro che il modo in cui l’autore si è costruito un’immagine della disciplina e poi, in perfetta buona fede, sulla base di quella immagine, ha narrato come egli la veda, come se fosse oggettiva. Il titolo di un ormai notissimo articolo di uno dei primi sostenitori di questa rivoluzione epistemologica nelle relazioni internazionali – Anarchy Is What States Make of It: the Social Construction of Power Politics di Alexander Wendt – autodefinitasi subito «costruttivismo» e della quale è ormai impossibile fornire una presentazione sintetica, a causa del grandissimo sviluppo che ha avuto (ma va dato merito a Friedrich V. Kratochwil di essere stato un po’ l’antesignano di questo passaggio, con il suo Rules, Norms and Decisions: on the Conditions of Practical and Legal Reasoning in International Relations and Domestic Affairs del 1989) è emblematico ed esplicito. Con queste considerazioni sul costruttivismo (per altri, strutturazionismo, teoria critica, ed altro) abbiamo concluso la rassegna sugli approcci, le scuole e i dibattiti, e possiamo rivolgerci all’ultimo aspetto – le teorie sul tappeto – di questa introduttiva ricognizione sugli aspetti costitutivi delle relazioni internazionali in quanto disciplina. 3. Molte (ma povere) teorie? Molte opere sistematiche organizzano il loro sommario attraverso l’elencazione e la presentazione delle teorie

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dominanti. Il prestigioso e utilissimo (oltre che molto recente) The Oxford Handbook of International Relations elenca ben 9 «Major Theoretical Perspectives», che sono le stesse (con in più l’approccio ecologistico dei movimenti verdi) che un’altra raccolta (Burchill et al., 1996) presentava già diversi anni prima, e cioè: realismo; liberalismo; scuola inglese (un misto tra realismo e liberalismo); marxismo; teoria critica (un misto tra scuola di Francoforte e post-modernità); post-modernismo; costruttivismo; femminismo; politica verde. In un’altra grande opera introduttiva (Schmidt, 2002, p. 3) si elencano: idealismo; realismo; comportamentismo; post-comportamentismo; pluralismo; neorealismo; razionalismo; post-positivismo; costruttivismo. Al lordo di sovrapposizioni, omonimie o possibili precisazioni, nessuno dubiterà che in questi diversi casi il risultato della presentazione sia straordinariamente eterogeneo, come se lo sforzo di classificazione fosse consistito nel tenere insieme conoscenze che invece appartengono ad ambiti diversi. Lasciato agli specialisti (e agli interessati) di approfondire i contenuti tecnici delle diverse etichette qui ricordate (i testi citati danno loro amplissimo spazio), resta largamente imprecisato (per non fare che un esempio) che cosa il realismo e il post-positivismo possano condividere in quanto approcci paralleli e alternativi alla conoscenza internazionalistica (di realismo e post-positivismo, del resto, abbiamo parlato poco sopra), o quanto la teoria femminista delle relazioni internazionali (per altro ormai notevolmente sviluppata) possa suggerire interpretazioni della realtà internazionale alla luce di significative differenze di genere (tutt’altra questione è quando il punto di vista di genere ci aiuta a smascherare le relazioni di potere e a demistificare i miti sulla superiorità ma-

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schile). Ciò di cui in realtà, a questo punto, vorremmo disporre è piuttosto un corpus di teorie solide, ben costruite, ovviamente alternative e competitive, ma capaci – ciascuna per sé – di offrirci un modello di spiegazione della realtà applicabile a ogni possibile caso reale – esattamente ciò che alla teoria, in quanto tale, chiediamo (merita di essere segnalato, a questo proposito, lo sforzo contenuto in Nicholson, 1998, di introdurre una riflessione, per quanto un po’ troppo frettolosa, sull’importanza della teoria). Teoria significa formulare una o più ipotesi, tra loro logicamente e di solito gerarchicamente collegate, dalle quali sia possibile trarre delle deduzioni applicabili alla realtà che si vuole spiegare (l’impostazione contraria – induttiva – dalla realtà trae il suo impulso e nella realtà trova in suo punto d’arrivo, cosicché non è ciò che stiamo cercando). La teoria è «fuori» della realtà, la osserva (così come ci ricorda l’etimologia greca: teoréin equivale a «guardare per spiegare») e cerca di costruire sistemi ipotetici da applicare ai casi empirici per mezzo di modelli interpretativi. In altri termini, non sono i fatti a spiegare i fatti, ma le ipotesi che a loro riguardo possiamo formulare. Ma facciamoci guidare, ancora una volta, dal nostro più famoso classico, nel giustificare la presenza della teoria (tanto sovente contestata dai politologi puri, come uno sconfinamento indebito, una fuga nell’irreale e nell’ipotetico, poetico più che scientifico) nella disciplina delle relazioni internazionali, tanto a lungo considerate incapaci di sfornarne: Il test in base al quale la teoria va giudicata non è a priori e astratto ma empirico e pragmatico. La teoria, in altre parole, va giudicata non attraverso qualche preconcetto principio astratto sganciato dalla realtà, ma attraverso il suo fine: por-

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tare ordine e dare senso a una massa di fenomeni che in sua mancanza resterebbero sconnessi e incomprensibili. La teoria deve superare un doppio test, uno empirico e uno logico. I fatti così come effettivamente stanno si prestano all’interpretazione che la teoria ne ha proposto; le conclusioni a cui la teoria giunge conseguono con una necessità logica dalle premesse? In breve, la teoria è coerente con i fatti e lo è anche in se stessa? (Morgenthau, 1948, p. 5 trad. it.).

Non sottoporremo Morgenthau alla verifica dell’adeguatezza della sua teoria alla luce dei requisiti che egli stesso poneva, ed esemplificheremo il punto riassumendo quella che sembra essere una delle pochissime (ancorché ormai obsoleta e inadeguata al mondo attuale) teorie disponibili, quella marxista dell’imperialismo che, insieme a quella che si concentra sulla politica di potenza, consiste effettivamente tanto in un’utilizzazione dei fatti come prova delle ipotesi quanto in una sistematica e coerente costruzione logica. In una parola, la teoria dell’imperialismo elaborata da Lenin (1917), sulla base degli studi di John A. Hobson (1902), ipotizza che quando le grandi industrie degli Stati più sviluppati al mondo non riescono più a far assorbire i loro prodotti al mercato interno (perché già saturato o perché troppo povero) si determina la necessità di trovare nuovi mercati; a questa rincorsa ai mercati partecipano gli Stati più industrializzati, più ricchi, più potenti, lo scontro tra i quali quindi non potrà che dare vita a delle guerre. E ciò sarebbe tanto inevitabile e strutturale per il capitalismo giunto alla sua fase suprema, che con il loro scontro i paesi imperialisti causerebbero addirittura la dissoluzione (in una guerra suicida) del sistema capitalistico mondiale. (Per quanto drasticamente differente da questa, la teoria della politica di potenza, maestro moderno della quale fu Martin Wight, il pre-

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cursore della cosiddetta «english School», esibisce un impianto logico del tutto analogo). Sembra difficile trovare una più diretta corrispondenza tra la proposta leniniana e i requisiti che Robert Cox assegna alla teoria: Ogni teoria ha una sua prospettiva. Le prospettive discendono da una posizione nel tempo e nello spazio, e precisamente da uno spazio e tempo sociale e politico. Il mondo è visto da un punto di vista che è definibile in termini di nazione o di classe sociale, di dominazione o di subordinazione, di potere crescente o declinante, di un senso di immobilità o di crisi in atto, di esperienza del passato, di speranze e di aspettative per il futuro. [...] La teoria può servire a due diversi scopi. Il primo consiste in una risposta semplice: fungere da guida nella soluzione dei problemi posti nei termini di una particolare prospettiva che era il punto di partenza. Il secondo riflette maggiormente sul processo stesso di teorizzazione [...]. Il primo scopo dà origine alla teoria-come-soluzione-dei-problemi. [...] Il secondo conduce alla teoria critica. [...] La teoria critica è teoria della storia nel senso che è connessa non soltanto al passato ma con un processo continuo di mutamento storico (Cox, 1986, pp. 207-9 e passim).

Il punto non è ideologico, ovviamente, ma teoretico: quanto le relazioni internazionali possono muoversi nell’ambito della costruzione di teorie, quanto possono sfondare i limiti di una politologia empirica, neutrale e avalutativa, per introdurre nella disciplina prospettive o problematiche che per natura non possono essere neutrali (a meno che dissimulino la loro sostanza), come quando parleremo di cosmopolitismo oppure di globalizzazione – due parole che non possono esser «neutralizzate», perché ricorrervi implica riferirsi a una qualche concezione del mondo? Giungiamo così al punto più tipico, unico e originale della nostra disciplina: non si

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può capire che cosa siano le relazioni internazionali se non ci si rende conto che il loro studio implica sempre necessariamente una prospettiva teorica estremamente forte. Parlare di guerra e di pace, discutere di armi che saprebbero in pochi minuti causare la fine della vita umana sulla terra, osservare grandi movimenti economici che possono determinare la felicità o l’indigenza per miliardi di persone, interrogarsi sul ruolo progressivo dell’educazione nel mondo o sulla cura di imprevedibili pandemie o di carestie che affamano milioni di esseri umani... È talmente alta (per la sua stessa natura) la prospettiva ideale dei problemi centrali della disciplina che non è possibile muoversi al loro interno senza una consapevolezza adeguata. 4. Mettere ordine? Ma la cifra esistenziale di questa disciplina – strettamente intrecciata alla vocazione teoretica resa necessaria dalla natura della tematica (tanto più importante è un evento internazionale quanto più è raro, e quanto più lo è tante maggiori implicazioni racchiude in sé) – consiste nella riflessione per ipotesi piuttosto che per esperimenti, esperienze o verifiche empiriche. Ma ciò che sbarra la strada a questo programma è l’abitudine che abbiamo a pensare che comunque nessuna teoria ci eviterà i confronti violenti che contraddistinguono le guerre. Finché c’è vita c’è guerra, e finché c’è guerra c’è violenza. Sarebbe difficile battere in breccia in modo definitivo questa amara constatazione fondata sull’esperienza di millenni (gli specialisti contano, negli ultimi duemila anni, almeno 2000 guerre!), ma nello stesso tempo né possiamo rassegnarci a credere che il passato debba ripetersi per sempre, né che la storia dell’uma-

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nità sia soltanto stata una storia di guerre. Se così stessero le cose, del resto, il senso di sconfitta, di vanità del tutto e della sua insensatezza non potrebbe che costringerci al silenzio o all’abbandono. È dunque giunto il momento di esplicitare il senso di tutto questo affannarsi intorno alle relazioni internazionali, che potremo scoprire se riconosciamo che la storia internazionale non è esclusivamente storia di male, dolore, violenza, ma anche di pace, di progresso, di impegno sociale. La nostra è una storia di contrasti, certamente, di guerre, ma anche di fuoriuscita dalle guerre e di tentativi di dare vita a grandi imperi, a dominazioni, immaginate imperiture e poi svanite nel corso di lunghe e atroci guerre. Una grande storia universale degli imperi avrebbe moltissimo da insegnarci e dimostrerebbe in modo perentorio quanto la realtà sia oggettivamente internazionale, planetaria, universale, condivisa. Questa constatazione ne comporta un’altra, relativa al tentativo (tutto specifico della nostra disciplina) di dare un senso o una direzione a tutto ciò, di intravvedervi, se non un disegno sovrannaturale o sovraumano, una filosofia della storia, un segno del destino, una tendenza oggettiva. Al tentativo di rivelare quale sia il fondamento di tutto ciò dedicheremo ora le riflessioni conclusive di questa Lezione, consapevoli che a esse dovremmo poter affidare il senso di tutta quanta la nostra riflessione sulla storia e sul destino dell’umanità. Tale senso non può esser riposto che in un’ipotesi, per seguire il costrutto metodologico proposto: e se la guerra è l’evento centrale di tutta questa problematica, non potremo non considerarla come la chiave di volta di tutto il nostro sistema interpretativo. Ci chiederemo allora a che cosa servano le guerre e ipotizzeremo che esse mirino a dar vita, con il loro esito, a una trasforma-

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zione dei rapporti di potere tra tutti coloro che quella guerra hanno combattuto (volenti o nolenti che fossero). Nulla di particolarmente nuovo: che cosa se non una guerra può modificare quelli che, a un determinato momento, sono i rapporti di potere (vogliamo dire: gerarchici?) tra gli Stati? Potremmo dire dunque, con un linguaggio più idoneo, che le guerre determinano il mutamento tra un certo sistema internazionale e un altro, quello successivo, forse sulla base di un certo ritmo (Gilpin, 1981; Ikenberry, 2001, risistematizza l’argomento riprendendo però ipotesi e concezioni già ben diffuse negli studi specialistici). Sia il vecchio sistema sia il nuovo sono costruiti sull’esito di quella guerra alla quale daremo il ruolo di «guerra costituente», perché essa determinerà con i suoi risultati la struttura di ordine che il nuovo sistema internazionale andrà ad assumere. Potremmo immaginare che la storia dei sistemi internazionali e della loro successione si dipani in questo modo. Si dia un certo ordine internazionale, come quello del Concerto europeo ottocentesco (ad esempio), imperniato per un canto sulla costruzione degli Stati nazionali e per un altro sulla divisione colonialistica del mondo: in quel sistema operavano paesi emergenti come la Germania (ma anche l’Italia) e più in generale quei paesi il cui sviluppo economico stava facendo grandi balzi in avanti (Stati Uniti), mentre altri incappavano in pericolosi scivoloni all’indietro (Francia, Gran Bretagna). Che si trattasse di un ordine, non c’è alcun dubbio: non un ordine «giusto», ma pur sempre un insieme di regole e principi di cui tutti i soggetti internazionali erano a conoscenza e alla determinazione del quale partecipavano, di volta in volta, sulla base delle loro risorse, possibilità, speranze, alleanze. C’erano i difensori di quell’ordine e c’erano i contestatori: tutti

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sappiamo come andò a finire, ma dobbiamo aggiungere che la prima guerra mondiale rimise a posto oppure diede un nuovo assetto a tutti gli aspetti costitutivi della vita politica internazionale. Felici, ingenui o ingannevoli che fossero, i 13 principi di Wilson erano un insieme di regole costitutive (trasferite nei trattati di pace di Versailles, che a loro volta dettavano una vera e propria costituzione a tutti i consociati, intesa a valere perpetuamente). La transizione tra il mondo della belle époque e della regina Vittoria e quello di Mussolini e della Repubblica di Weimar non avrebbe mai potuto avvenire se non attraverso la guerra, una «grande guerra» (come fin da allora l’immaginario popolare la definì). Il principio fondamentale della teoria delle relazioni internazionali è dunque individuato: la storia delle relazioni internazionali è caratterizzata da tanti mutamenti quante guerre ha conosciuto (naturalmente, il punto meriterebbe delle precisazioni: tale prerogativa non inerisce a ogni e qualsiasi piccolo scontro di frontiera, ma riguarda quei conflitti nei quali vengono messi in gioco i principi vecchi e da cui ne provengono di nuovi). Che cosa succeda tra una guerra e l’altra, quale sia la solidità del nuovo ordine imposto, quali sfide subisca e affronti o alle quali soccomba, ebbene, questo è il contenuto di quella disciplina che abbiamo chiamato relazioni internazionali, e che avrà una vera e propria storia, corredata di un suo diritto internazionale al servizio del governo, saldamente detenuto dai vincitori in guerra. Tutto questo periodo sarà occupato da alleanze e da ostilità, da desideri di rivincita e oppressioni, da situazioni di egemonia odiosa o da periodi di distensione, da interdipendenze crescenti o forme di conflittualità locale e periferica oppure da forme di stabilizzazione, da sviluppi economici oppure da tracolli, da grandi inno-

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vazioni scientifiche e tecnologiche oppure da scoperte militari capaci di sovvertire l’equilibrio militare – da sistemi internazionali tendenzialmente pacifici e favorevoli allo sviluppo di forme di democratizzazione dei rapporti internazionali ad altri intrinsecamente autoritari e dispotici, sordi a ogni ipotesi di mutamento. Tra due guerre è ricompreso tutto ciò che costituisce la vita degli Stati, delle loro istituzioni, dei loro cittadini. Per quel che ne sappiamo, essi hanno sempre dovuto la loro vita a una guerra la quale si è sempre conclusa con una nuova guerra. Non si darà un’intonazione pessimistica e catastrofistica con questa conclusione, per la semplice ragione che il destino dell’umanità non è deterministicamente pre-scritto né inscritto in un qualche statuto: è nelle nostre mani. Ma si provi ad applicare, rapidissimamente, a questo punto, il modello teorico dell’ordine-fondatosulla-guerra all’oggi (nel momento in cui questa Lezione viene stesa): il mondo è uscito, vent’anni fa, da uno dei più grandi e straordinari eventi dell’intera storia delle relazioni internazionali, la fine della guerra fredda, la sconfitta pacifica dell’Unione Sovietica, a cui ha fatto seguito (e forse non è ancora terminato) un periodo di ottimistica e caotica strutturazione di un mondo nuovo, tuttavia gestita da chi continuava a ragionare secondo le vecchie logiche del bipolarismo. Si potrebbe ipotizzare che questa svolta storica non sia stata colta nella sua grandiosa importanza (specie ai fini della riflessione sul futuro di un mondo democratico) perché purtroppo una serie di eventi, che vanno dalla dissoluzione della Jugoslavia e la guerra di Bosnia, a quella del Kossovo, all’11 settembre, all’Afghanistan e alla guerra in Iraq, lo hanno impedito: tutto ciò sembra illuminare un periodo di crisi e di instabilità, ben più che di consolida-

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mento e riequilibrio. Attualmente molti segni creano perplessità negli osservatori: la contrapposizione (in se stessa del tutto artificiale e artificiosa) tra Occidente e Islam ne è la manifestazione più clamorosa e ingiustificata; la competizione sulle risorse (dal petrolio ai gas, all’acqua, all’aria pulita) va facendosi sempre più affannosa e nevrotica. Chi negherebbe che una maggior riflessione su tutto ciò non potrebbe che migliorare le prospettive del futuro nostro e delle generazioni che verranno? E come nasconderci che le prospettive dipenderanno, a loro volta, dalla nostra capacità di allontanarci dall’era delle guerre?

Considerazioni conclusive

Dopo tanti anni di lavoro, due sono gli atteggiamenti aprioristici che ho sempre verificato nell’interlocutore che mi chiedeva: ma che sono queste relazioni internazionali? Il primo le riteneva un oggetto perfettamente inutile, che non serve a nulla specialmente perché i nostri desideri individuali non possono avere alcuna presa su questioni così lontane o complicate; il secondo andava invece direttamente al cuore del problema e sottolineava immediatamente il dato della violenza estrema che lo caratterizza. Due deduzioni: da un lato, se ne potrebbe concludere che ancora non si è ben capita la consistenza di questa disciplina; dall’altro si dovrebbe però anche ammettere che le due risposte – irrilevanza, estremismo della violenza – colgono due dimensioni centrali delle relazioni internazionali. Non ce ne interessiamo tutti i giorni, ma lo scoppio di una guerra o un terribile attentato possono catturare la nostra attenzione e non liberarla più per giorni o mesi e anni. Ecco dunque a che cosa dovrebbe servire l’insegnamento delle relazioni internazionali: a creare una sensibilità diffusa e condivisa nei confronti della portata dei problemi che affronta. Allo stesso tempo, però, la disciplina ha un obbligo: farsi capire, produrre conoscen-

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ze e strumenti di conoscenza di cui chiunque possa usufruire nel suo sforzo di capire il mondo. Se dovessi dare un giudizio sullo stato delle relazioni internazionali come disciplina scientifica, a quasi un secolo dalla loro nascita, direi che la lentezza della loro affermazione, il ritardo nello sviluppo, sono stati in larga parte conseguenza di una ingenuità: non aver capito che esse richiedono tanta umiltà scientifica quanto coraggio propositivo e progetti adeguati. Del resto, come potrebbe, ad esempio, lavorare su una tematica come quella dell’Onu uno studioso che avesse in totale disprezzo i principi dell’organizzazione internazionale? Chi credesse – è proprio il caso di riprendere qui, per l’ultima volta, il ritornello che si è sentito più volte in queste pagine – che la vita internazionale sia irrimediabilmente ed eternamente condannata alla condizione anarchica potrà mai cogliere l’evoluzione dell’ordine internazionale? A queste prime conclusioni dovrà tuttavia accompagnarsi un ammonimento: come si è cercato in più punti di questa Lezione di mettere in evidenza, il maggior difetto metodologico della disciplina (prodotto probabilmente dal troppo scarso dibattito metateorico al suo interno) è rappresentato dall’automatico e ingenuo ricorso alla chiave interpretativa del meccanicismo che vede ogni azione, da qualsiasi soggetto compiuta, come null’altro che la risposta necessaria a un evento esterno, a sua volta conseguito da un altro. L’importanza della riflessione sulla vita e la morte dei popoli, sulla presenza della guerra nella storia, sui progressi della pace nel mondo non può essere umiliata da considerazioni tanto banali. Le relazioni internazionali non sono fatte di mere mosse e contromosse, di botte e risposte, ma di profondi e strutturali movimenti umani, di riflessioni ideali che producono delle politiche, di

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confronto tra volontà e modelli di società... Detto in modo un po’ enfatico, non possiamo non renderci conto che ciò di cui si occupano le relazioni internazionali è l’insieme delle cure e delle preoccupazioni più importanti che l’umanità possa trovarsi ad affrontare. Nate per cambiare il mondo, le relazioni internazionali riescono a malapena a descriverlo, talvolta a discuterlo, raramente a spiegarlo. Esse hanno accompagnato il mondo in una serie di vicende, nel ventesimo secolo, che ne hanno segnato per sempre l’eccezionalità – il ventesimo secolo è stato quello delle guerre mondiali, dello sterminio degli ebrei, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, della guerra fredda e delle minacce di distruzione universale scambiate tra due gruppi di Stati divisi da opposte ideologie. È stato quello delle più grandi tensioni internazionali, così come quello del crollo pacifico dell’impero sovietico, la cui scomparsa sembrava poter far nascere l’era della pace perpetua, purtroppo presto scacciata dalla ricomparsa delle guerre nei Balcani e dall’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre, a cui succedettero le guerre all’Afghanistan e all’Iraq. Non si potrebbe concludere una Prima lezione di relazioni internazionali se non mettendo in evidenza, dunque, la strettissima connessione che esse hanno con la violenza e i conflitti: come molti hanno sostenuto, si potrebbe concludere che le relazioni internazionali siano puramente e semplicemente la disciplina che studia le guerre. Si è cercato di far vedere, nelle pagine precedenti, quanto questa visione sia angusta e limitativa, ma con altrettanta chiarezza va evidenziato il nesso strutturale che – tuttora – intercorre tra guerra e politica e che trova l’anello di congiunzione negli studi strategici che, non a caso, per decine di anni, dopo la fine della secon-

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da guerra mondiale, occuparono l’intero spazio delle relazioni internazionali, facendo di ciascun cultore di queste uno specialista di strategia: studi estremamente raffinati furono prodotti, a migliaia, per discutere le eventualità della guerra atomica e le condizioni di un’auspicabile ma inverosimile pace: «pace impossibile, guerra improbabile» (secondo la celeberrima formula aroniana, contenuta nelle prime pagine di Le grand schisme, 1948). La politica internazionale diventò così lo studio delle strategie per evitare, in primo luogo, ma anche per vincere, se necessario, la guerra. Si trattò di un incontro tra teoria politica e teoria strategica che non poteva non segnare indelebilmente le relazioni internazionali, facendole frequentemente (ma ingenerosamente) apparire come una disciplina meramente intesa a fornire «consigli al principe». Anzi, lo studio della guerra possibile e delle dottrine strategiche si rivelò ben presto anche un punto di vista straordinariamente suggestivo per sviluppare la critica di politiche estere o di programmi di alleanze (tanto da una quanto dall’altra parte del mondo) che facevano della «politica sull’orlo dell’abisso» uno strumento di controllo sociale internazionale estremamente rigido. E quando fortunatamente parve che, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della contrapposizione tra i blocchi, la guerra stessa avesse preso a ritrarsi e scomparire dalla scena internazionale, la teoria strategica trovò invece nuovo respiro e nuovi spazi di ricerca nell’apparizione delle cosiddette «nuove guerre» (dando il titolo a un libro di Mary Kaldor, più di successo che di valore) che andavano a sostituirsi, moltiplicando le loro fattispecie, alla grande guerra diventata impossibile e vedendola rinascere nelle forme paradossali e patologiche degli attentati terroristici, così come delle guerre etniche o ancora

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di quelle intese ad esportare principi e valori che non possono giovarsi della punta del fucile. Che la teoria strategica sia recentemente rinata, anche alla luce della cosiddetta «rivoluzione negli affari militari» prodotta da innovazioni tecnologiche, informatiche e organizzative, tali da spostare il limite della mortalità in guerra verso il modello «zero morti», è dunque il segno che la guerra non scompare, ma si trasforma e potrà dunque influire ancora immensamente sulle relazioni internazionali del futuro. Il futuro: quante filosofie della storia hanno già annunciato declini (dell’Occidente: Spengler, 19181922), scontri di civiltà (Huntington, 1993) o fine della storia (Fukuyama, 1989). Altri hanno tratto dalla storia dei conflitti segni premonitori di future non lontanissime guerre mondiali (Goldstein, 1988); il consumo delle risorse energetiche potrebbe esserne causa, così come il sommovimento di popoli che, dopo secoli di arretratezza, potrebbero cercare di ribaltare l’asse della storia. Nulla di particolarmente nuovo o di maggiormente preoccupante: la storia dell’umanità è sempre stata contraddistinta da tali ondeggiamenti e di fronte ai pericoli di estinzione si è sovente saputa raffrenare. Non solo guerre ci aspetteranno, naturalmente, perché l’umanità potrebbe intraprendere anche il cammino del cosmopolitismo kantiano o anche più modestamente quello della democratizzazione delle istituzioni statuali e internazionali – compiti immensi: ma non ne varrebbe la pena? Per suffragare la risposta positiva che implicitamente ho proposto a una domanda tanto importante, concluderò suggerendo un indirizzo di ricerca che riunifica esemplarmente le due facce della moneta (pacifica) che vorremmo poter spendere: si tratta della politica in-

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terna e della politica internazionale (tra le quali ho lungamente cercato, in queste pagine, di ricostruire una continuità) che hanno scoperto, da qualche tempo, di condividere una problematica fondamentale per il mondo contemporaneo, l’attenzione alla quale potrebbe suggerirci un’idea grandiosa. Si tratta della democrazia, che è il migliore (per quel che ne sappiamo) dei regimi politici disponibili sulla terra, la cui diffusione (ormai più della metà dei paesi del mondo la coltivano, seppur non sempre brillantemente) si avvale di una caratteristica straordinaria: la democrazia è per natura e per definizione pacifica e nonviolenta – esattamente ciò che è mancato finora alle relazioni internazionali. Ne possiamo trarre un’ipotesi (che in questo caso è anche una speranza e un augurio): quanto più la democrazia nel mondo crescerà, altrettanto la violenza e la guerra se ne dovrebbero ritrarre e la pace invece diffondersi. Ecco un’ottima ragione per invitare i giovani a studiare con sempre maggior interesse – in una prospettiva che sarebbe tutta a loro vantaggio – i misteri delle relazioni internazionali.

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Indici

Indice dei nomi

Aguessau, Henri-François d’, 13. Aikpitanyi, Isoke, 101. Allison, Graham T., 86. Andreatta, Filippo, 59, 111. Armao, Fabio, 53-54. Aron, Raymond, 6, 8-9, 16-17, 31, 58-61, 74, 103. Arreguin-Tofts, Ivan, 78. Arrighi, Giovanni, 117-18. Ashley, Richard K., 112. Bentham, Jeremy, 13-15, 34. Bernard, Luther L., 98. Bobbio, Norberto, 6, 8, 10, 40, 51, 106-7, 120. Bonanate, Luigi, 41, 61, 117. Booth, Ken, 43, 53, 111. Boulding, Kenneth, 126. Braudel, Fernand, 117. Brecher, Michael, 86-87. Brilmayer, Lea, 99. Bruck, H.W., 45. Bull, Hedley, 17, 99-100, 125-27. Burchill, Scott, 130. Bush, George W., 45, 83, 95. Buzan, Barry, 59. Caffarena, Anna, 107. Carlo V d’Asburgo, imperatore, 59, 65. Carlsnaes, Walter, 43, 111.

Carr, Edward H., 22-25. Cesa, Marco, 59, 65. Chamberlain, Arthur, 46. Chiaruzzi, Michele, 22. Clausewitz, Carl von, 76, 79. Clementi, Marco, 59, 111. Clinton, Bill, 83. Colombo, Alessandro, 59, 111. Comte, Auguste, 15. Cox, Robert, 112, 133. Daladier, Édouard, 46. Der Derian, James, 112. Derrida, Jacques, 111. Descendre, Romain, 91. Deutsch, Karl W., 65, 126. Elias, Norbert, 97. Erodoto, 4, 118. Finley, Moses, 46. Fornari, Franco, 62. Foucault, Michel, 111. Francesco I di Valois, re di Francia, 65. Francisco de Vitoria, 120. Friedrichs, Jorg, 18. Fukuyama, Francis, 144. Gilpin, Robert, 40, 94, 136.

160 Giustiniano I, imperatore d’Oriente, 11. Goldstein, Joshua S., 144. Gorbaˇcëv, Michail, 63-64. Gori, Umberto, 41. Grozio, Ugo, 19-20, 120. Harvey, David, 39. Hegel, Georg W.F., 26. Hitler, Adolf, 45-46. Hobbes, Thomas, 19-20, 26, 6768, 114. Hobsbawm, Eric, 118. Hobson, John A., 132. Hoffmann, Stanley, 16, 18, 40, 99. Hume, David, 19. Huntington, Samuel P., 144. Hussein, Saddam, 38. Ikenberry, G. John, 53, 59, 136. Jaspers, Karl, 123. Jervis, Robert, 86. Kaldor, Mary, 143. Kant, Immanuel, 3, 19, 113, 120. Kaplan, Morton A., 28-29, 50, 126-27. Kelsen, Hans, 34, 120. Kennedy, Paul, 118. Keylor, William R., 118. Kissinger, Henry A., 17, 66. Klineberg, Otto, 47. Koenig-Archibugi, Mathias, 59, 111. Krasner, Stephen D., 96. Kratochwil, Friedrich V., 129. Kuhn, Thomas, 11. Lapid, Yosef, 127-28. Lasswell, Harold, 47. Lenin, Vladimir I., 132. Linklater, Andrew, 99. Locatelli, Andrea, 59.

Indice dei nomi Locke, John, 19. Lowi, Theodore, 87-88. Machiavelli, Niccolò, 26, 91, 114. Maragnani, Laura, 101. Meinecke, Friedrich, 73. Merle, Marcel, 98, 103. Modelski, George, 126. Moon, Parker Th., 18. Morgenstern, Oskar, 126. Morgenthau, Hans J., 17, 26-28, 48-50, 83, 114, 132. Mosca, Rodolfo, 41. Murray, George, 24. Mussolini, Benito, 137. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei Francesi, 120. Napoleone III Bonaparte, imperatore dei Francesi, 58, 120. Neumann, John von, 126. Nicholson, Michael, 131. Nixon, Richard, 17. Obama, Barack, 45, 83, 95. Papisca, Antonio, 41. Parsi, Vittorio E., 53, 59, 111. Parsons, Talcott, 102. Pettman, Ralph, 98. Pinochet, Augusto, 106. Plauto, 14. Poulin, Richard, 101. Powell, Colin, 39. Pufendorf, Samuel, 19. Putnam, Robert D., 86, 88-89. Ragionieri, Rodolfo, 54. Ranke, Leopold von, 73. Reagan, Ronald, 45, 63. Reus-Smit, Christian, 43, 53, 111. Richardson, Lewis, 126. Riker, William, 126. Risse, Thomas, 43, 111. Rosa, Paolo, 98.

161

Indice dei nomi Rosecrance, Richard, 66. Rosenau, James N., 53-54, 59, 92. Rousseau, Jean-Jacques, 19-20.

Tocqueville, Alexis de, 85. Tommaso d’Aquino, santo, 120. Tucidide, 26, 33, 84, 114.

Sapin, Burton, 45. Scartezzini, Riccardo, 98. Schelling, Thomas, 126. Schmidt, Brian C., 43, 130. Seneca, Lucio Anneo, 71. Simmons, Beth A., 43, 111. Singer, J. David, 47, 59, 65, 77-78. Small, Melvin, 77-78. Smith, Adam, 83. Smith, Steve, 43, 53, 111. Snidal, Duncan, 43, 53, 111. Snyder, Glenn H., 96. Snyder, Richard C., 45. Spengler, Oswald, 144. Spinoza, Baruch, 19. Stalin, Iosif V., 45, 105. Stefanachi, Corrado, 59.

Valéry, Paul, 3, 8-9. Vittoria, regina del Regno Unito, 137.

Thom, René, 110.

Zimmern, Alfred, 5, 24-26.

Wallerstein, Immanuel, 117. Waltz, Kenneth N., 27, 58-61, 65, 82, 114. Walzer, Michael, 120. Watson, Adam, 100. Wells, Herbert G., 24. Wendt, Alexander, 129. Wight, Colin, 53. Wight, Martin, 22-23, 132. Wilson, Thomas W., 24, 137. Wolfers, Arnold, 47, 61, 96. Woolf, Leonard, 24, 110. Wright, Quincy, 54, 56, 77.

Indice analitico

Alleanze, 65, 95, 136. Anarchia internazionale, 20-23, 33, 35, 58, 61, 64, 81-82, 99, 100, 104, 118, 122, 141. Aspetti epistemologici, 28-29, 55, 72, 74, 76, 81, 85, 97, 100, 112, 128-34. Aspetti metodologici, 28, 30-31, 35, 47-53, 85, 127.

Globalizzazione, 16, 61, 90, 101, 133. Guerra, 5-7, 20, 33, 35, 54-56, 58, 62, 64, 66, 78-79, 113, 121, 123, 134-37, 142-45; – atomica, 5-6, 9; – fredda, 64, 66, 115, 125, 139, 142; – giusta, 10, 123.

Contrattualismo, 19.

Idealismo, 5-7, 113-15, 124, 127, 130. Imperialismo, teoria dell’, 132. «Interno/esterno», 84, 92, 97-98, 144-45.

Democrazia, 10, 46, 106, 113, 124, 138, 144-45. Determinismo interpretativo, 4, 97-98. Diritto, 3, 13-14, 101, 137; – diritto internazionale, 25, 34, 37-38, 107-8, 118-20. Economia internazionale, 39-40, 62, 93, 101, 116, 120-22. Equilibrio, 29, 65, 82-83; – equilibrio del terrore, 47, 128. Federalismo, 113. Geografia, 3-4, 16, 39, 68-71, 116, 122. Giusnaturalismo, 20, 67, 68.

Livelli di analisi, 48, 57-63, 66. Modelli, 29, 36, 45-47, 60, 65, 9596, 99, 115-24, 131. Modellistica, 37, 84, 118. Nazione, 14-15, 32. Normativismo, 27, 37, 55, 88, 99, 102, 107, 120, 122-24. Onu, 38, 44, 107-8, 141. Opinione pubblica, 47, 106. Ordine internazionale, 21, 2526, 75, 79, 100-1, 106-7, 13639, 141.

164 Organizzazione internazionale, 25, 38-39, 44, 107-9, 119, 141. Pace, 24-25, 27-28, 64, 79, 82, 101, 112, 114, 134, 141-42. Politica estera, 17, 23, 38, 61, 73, 82, 84-96, 104-6, 126. Realismo, 24, 27-28, 83-84, 1045, 114, 116, 124, 127, 130. Relazioni internazionali: – approcci e aspetti metodologici delle, 39-40, 49-60, 73, 100, 111, 115-24, 141-43; – definizioni delle, 11-18, 40, 49; – storia della disciplina, 5, 1011, 16-18, 22-25, 41-42, 58-59, 110-12; – teoria/e delle, 20-22, 28, 35, 50, 58, 62-63, 74, 124-34. Scienza politica, 12, 16, 18, 2223, 30, 40, 42, 51, 121. Sistema internazionale, 9, 29, 36, 58, 64-66, 71-82, 103, 136.

Indice analitico Società civile, 68, 100. Società delle Nazioni, 25. Società internazionale, 20, 44, 68, 80-81, 98-106, 109, 124. Sociologia delle relazioni internazionali, 99-104. Sovranità, 19-21, 34, 37, 76, 90. Stato, 15, 19-20, 31-32, 34-35, 45, 57-58, 61, 67-71, 77, 80-94, 9699, 104-6, 114, 122; – Stato moderno, 16, 18-19, 31, 34. Stato di natura, 20, 67, 105, 114. Storia, 9-10, 14-15, 29, 32-33, 3536, 40-41, 62, 65, 71, 81, 110, 112, 116-18, 135, 137-39, 144. Strategia, 27, 39, 61, 64, 72, 121, 142-43; – teoria strategica, 9, 50, 55, 96, 121, 125, 142-44. Unione Europea, 89, 94. Violenza, 10-11, 73, 75, 134-35, 140, 142-45.

Indice del volume

I.

Il mappamondo

3

1. Un giro del mondo, p. 3 - 2. Guide, maestri e modelli, p. 7 - 3. Un’introduzione vera e propria, p. 10 - 4. Una disciplina che fonda le sue radici nello Stato moderno, p. 16 - 5. La composizione delle squadre, p. 24 - 6. Il campo di gioco, p. 31 - 7. Il caso Italia, p. 41

II. La costituzione della disciplina

44

1. Soggetti, oggetti e metodi, p. 44 - 2. Lo statuto logico della disciplina, p. 51 - 3. I livelli di comprensione, p. 57 - 4. Il fondamento teoretico della disciplina, p. 62 - 5. La specificità internazionale, p. 67 - 6. Il sistema internazionale come oggetto e come concetto, p. 72

III. Alla ricerca di una società internazionale

80

1. Statocentrismo o centralità dello Stato?, p. 80 - 2. Uscire dall’impasse, p. 86 - 3. ...eppur si muove..., p. 93 - 4. Società, non anarchia, p. 99

IV. La disciplina nei suoi diversi «stati»

110

1. Una disciplina che cresce su se stessa, p. 110 - 2. Scuole, approcci e dibattiti, p. 112 - 3. Molte (ma povere) teorie?, p. 129 - 4. Mettere ordine?, p. 134

Considerazioni conclusive

140

Bibliografia

147

Indice dei nomi

159

Indice analitico

163