Possibilità. Dell’uomo e delle cose
 9788898694563, 9788885716117

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Antonio Branca (a cura di)

Possibilità. Dell’uomo e delle cose

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 9 - Proposte

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Antonio Branca, Massimo Donà, Francesco Pisano, Giuseppe Pintus, Caterina Resta, Simone Testa, Francesco Valagussa, Vincenzo Vitiello

Possibilità. Dell’uomo e delle cose a cura di Antonio Branca

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 9 - settembre 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694563 ISBN – E-book: 9788885716117 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Flying house © crescendo - Fotolia.com

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Introduzione

Prima di lasciare il lettore ai saggi qui raccolti, ritengo sia opportuno spendere qualche parola in merito all’occasione dalla quale sono sorti. Essi, infatti, nascono come testimonianza della prima edizione di Euphorika – Festival Jonico della Filosofia, organizzato a Savoca, dal 22 al 24 settembre 2016, dal Centro di ricerca in Metafisica e Filosofia delle Arti – Diaporein dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dall’IISS Caminiti-Trimarchi di S. Teresa di Riva (ME) e dall’Associazione Culturale Diánoia. Ora, questo volume non vuole riproporre “gli atti” dell’evento, bensì quei risultati (del tutto provvisori) raggiunti dai relatori. Delle tracce di pensiero, dunque, indirizzate e volte all’approfondimento del tema che, durante le conferenze, ci eravamo riproposti di comunicare a tutti: agli esperti e agli studiosi come al pubblico, per lo più composto da studenti e persone comuni. Il titolo di questo libro – Possibilità. Dell’uomo e delle cose – cerca di riassumere in breve proprio tale tema, delimitando, allo stesso tempo, il territorio nel quale questi saggi vanno tentando delle vie.

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La forma accademica dei lavori, detto questo, non va vista come la negazione dello scopo divulgativo che ci ha mosso per tutto il corso delle conferenze, quanto piuttosto come la volontà di approfondire il più possibile quelle tracce che oralmente avevamo delineato in maniera introduttiva, dando loro quel rigore e la struttura che sono necessari al continuo approfondirsi del pensiero. Questo vale non soltanto per i primi lavori della collettanea – i quali, venendo da dei giovani, rappresentano quasi dei “progetti”, dei “cantieri appena aperti” –, ma anche per quei lavori che, in uno splendido contrasto con i primi, lasciano risuonare in conclusione la semplicità e la voce dei “maestri”. A tutti i relatori vanno i miei più vivi ringraziamenti e quelli di tutta intera l’organizzazione. Come anche al Comune e all’Arcipretura di Savoca, agli sponsor e patrocinanti che hanno reso possibile la manifestazione. Alla prof.ssa Francesca Gullotta e a Giovanni Gullotta, ai prof. Massimo Donà e Francesco Valagussa e alla Casa Editrice Inschibboleth va poi la mia totale gratitudine. Senza i primi, il loro lavoro e la loro pazienza, l’evento non ci sarebbe stato. Senza gli ultimi, senza la loro guida e la loro infinita disponibilità, invece, non ci sarebbe stato questo volume. Ai miei genitori una menzione speciale per avermi sopportato e sostenuto. A Carla per essermi stata accanto durante la stesura del mio saggio e la pubblicazione. Al dott. Francesco Pisano, infine, per il cammino percorso insieme. Milano, 26 aprile 2017 Antonio Branca

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Determinazione e identità. Dal concetto aristotelico di potenza di Antonio Branca

Dopo tutto l’assolutamente concreto è ciò che non può mai essere compiuto. G. Scholem

1. Premessa Lo scopo del presente studio consiste nel riproporre il problema della determinazione in Aristotele, al fine di mostrare non soltanto com’esso rimanga sottinteso e presupposto alla non-contraddizione, quanto piuttosto come ne segni il limite. Il perché della scelta di Aristotele, da questo punto di vista, credo sia chiaro: ché con questo, infatti, voglio mettere in questione il comune e quotidiano modo di guardare all’esperienza. Quello per cui le cose hanno un essere e una consistenza tutta loro. Per il quale, ancora, ci sono delle sostanze alle quali ineriscono di volta a volta delle proprietà o relazioni che non sono mai determinanti per la cosa stessa, ma viceversa ne dipendono, predicandosi di essa. Per far questo, dividerò l’analisi in due momenti principali: un primo, in cui si mostra la presupposizione della determinazione al principio che rende possibile la scienza dell’ente in quanto tale; ed un secondo, invece, nel quale – a partire

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dalla comprensione dell’articolazione dell’essere (o dell’accadere) dell’ente stesso così per come è inteso da Aristotele – si dimostra l’impossibilità di sostenere in modo acritico la noncontraddizione e la necessità di definire in altro modo (e in altro senso?) il rapporto fra l’atto e la potenza – e quindi la determinazione stessa. Il progetto, così esposto, deve fare riferimento a due luoghi ben precisi degli scritti aristotelici: da una parte, il libro Γ (capp. 1-4), dall’altra il libro Θ della Metafisica; ai quali si accompagneranno sporadiche incursioni nella Fisica, nel De generatione et corruptione e, in conclusione, nel De Interpretazione.

2. Determinazione e non-contraddizione Cominciamo dunque dall’inizio. «Esiste una certa scienza, la quale conosce teoreticamente l’ente in quanto ente e gli attributi che gli appartengono di per se stesso»1. L’incipit del libro Γ della Metafisica conferma e contiene già la necessità della determinazione. L’esser determinato dell’essente è presupposto alla ricerca delle cause e dei principi2, ché essi fanno riferimento a una “natura” καθ’αὑτήν: a un qualcosa ch’è per sé. È necessaria la pianta

1. Aristotele, Metafisica, IV 1, 1003a 20-21; tr. it. di E. Berti, Laterza, RomaBari 2017, p. 127. 2. Ricerca che definisce, com’è noto, ciò ch’è proprio della scienza. Cfr. Metaph., I 1 sg. 981a 24-983a 23; tr. it. pp. 5-13 e Id., Etica Nicomachea, VI 3, 1039b 18-36; in particolare, ivi, 33 sg.; tr. it. di C. Natali, Laterza, RomaBari 20096, pp. 227-229.

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perché la causa possa esserne la causa3. La causa stessa, da questo punto di vista, è determinata – e determinata in quanto tale. Essa è causa di qualcosa4. – L’affermazione dell’assolutezza del principio di non-contraddizione comporta a tal punto la determinazione stessa che, prima che il principio possa essere enunciato, dev’essere mostrato l’esser uno della cosa: ché «nulla infatti è possibile intelligere, se non s’intellige un uno [qualcosa di determinato]»5. La comprensione dell’ente è possibile solo perché questo è di per se stesso un ente (ovvero è tale, ed è determinato in quanto tale): questo il primo punto. Si consideri pertanto l’ente in quanto tale. «Ebbene, l’ente si dice in molti modi, e tuttavia in riferimento a un uno (πρὸς ἓν) e ad una qualche natura unica»6. Per quanto l’ente possa avere molti sensi, è nel riferirsi a un uno che si mostra tale, e dunque conoscibile7. L’ἐπιστήμη dell’essente è simile alla medicina; ché come sano è sia l’uomo ch’è in salute, sia il farmaco che sana, «così anche l’ente si dice in molti modi, ma tutti in riferimento a un unico principio»8. Nonostante la ripetizione, il brano è importantissimo. Ché il tentativo di definire l’essenza della filosofia che ha occupato Aristotele sin qui perviene

3. Il senso di questa affermazione va visto non nell’idea per cui il causato deve precedere la causa (cosa del tutto falsa, per Aristotele), quanto piuttosto nella nota tesi della priorità dell’atto secondo il concetto e la sostanza. A tal proposito si veda Metaph., IX 8, 1049b 12-17; tr. it. p. 385 e ivi, 1050 a 4-14; tr. it. p. 387. 4. Cfr. Metaph., IV 1, 1003a 26-28; tr. it. p. 127. 5. οὐθὲν γὰρ ἐνδέχεται νοεῖν μὴ νοοῦντα ἕν (ivi, 4, 1006b 10; tr. it. p. 141, modificata). 6. Ivi, 2, 1003a 33 sg.; tr. it. p. 127 (leggermente modificata). 7. Cfr. L. Lugarini, Aristotele e l’idea della filosofia (= Ar), La Nuova Italia, Firenze 19722, pp. 242-248 – testo straordinario che sarà da qui innanzi quasi ovunque sottinteso. 8. Metaph., IV 2, 1003b 5 sg.; tr. it. p. 127, modificata (corsivo mio).

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infatti solo in esso a quell’ἀρχή che “le dà fondo”. La scienza è sempre «principalmente (κυρίως) di ciò ch’è primo»9; sicché, dice Aristotele, «se dunque questo è la sostanza, bisognerà che il filosofo possieda i princìpi e le cause delle sostanze»10. È a questo punto che la determinazione dell’essente raggiunge la tematizzazione esplicita del suo rapporto con quest’ultimo. Se l’ente e l’uno sono d’altronde lo stesso e una medesima natura [ταὐτὸν καὶ μία φύσις] per il conseguirsi reciprocamente [τῷ ἀκολουθεῖν ἀλλήλοις] allo stesso modo del principio e della causa, non lo sono, nondimeno, come se si mostrassero con un unico concetto [ὡς ἑνὶ λόγῳ δελούμενα] (ed anche se li concepissimo in tal modo non cambierebbe nulla, e anzi sarebbe di vantaggio [πρὸ ἔργου μᾶλλον]); sono lo stesso, infatti, “un uno uomo”, “essente uomo” e “uomo”, e non s’intende nulla di diverso raddoppiando con l’espressione “è un uno uomo” e “è un uno essente uomo”: è chiaro d’altra parte che non si distinguono né per la generazione, né per la corruzione, e allo stesso modo anche per l’uno. Di conseguenza, è chiaro che l’addizione [πρόσθεσις], in questi casi, indica lo stesso, e che l’uno, rispetto all’ente, non è niente di diverso; e ancora che la sostanza di ciascuna cosa è un uno non per accidente, ma allo stesso modo in cui anche l’ente, propriamente, è un qualcosa di determinato [ὁμοίως δέ καὶ ὅπερ ὄν τι]. – Pertanto, quanti sono gli aspetti [εἴδη] dell’uno, tanti sono anche quelli dell’ente11.

9. Ivi, 1003b 16; tr. it. p. 129. 10. 1003b 17-19; tr. it. ibidem. 11. Ivi, 1003b 22-34, tr. it. ibidem. Data la rilevanza di questo brano, ho preferito non fermarmi alla traduzione di Berti, ma ritradurlo per intero tenendo presenti anche quelle di G. Reale (Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 20087, pp. 133-135) e di M. Zanatta (Aristotele, Metafisica, BUR, Milano 20112, p. 605). Medesima prassi ho preferito seguire per tutti i passi principali che ho citato (cfr. infra note 47 e 74); motivo per cui, pur mantenendo sempre come traduzione di riferimento quella di Berti, indicherò, in questi casi, le pagine di tutte e tre.

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La parentesi ontologica rivela, spezzando l’unità tematica della trattazione, tutta la carica di presupposti che Aristotele si porta dietro per arrivare all’enunciazione della βεβαιοτάτη ἀρχὴ – ovvero a quel “principio”, a quella scaturigine saldissima dalla quale deve costantemente emergere (e su cui dunque dev’essere fondata) la scienza, l’ἐπιστήμη12. Ente ed uno, vi si dice infatti, sono ταὐτὸν καὶ μία φύσις, «lo stesso e una medesima natura», sebbene οὐχ ὡς ἑνὶ λόγῳ δηλούμενα «non come se si mostrassero con un unico concetto»13. Si tenga a mente che quello aristotelico è un orizzonte linguistico di manifestazione dell’essente14, e che pertanto il λόγος, il concetto va inteso pro12. Vi sono tre punti in quest’affermazione che meritano d’essere spiegati: 1. il principio, 2. la sua “costanza” e 3. la scienza. Per ciò che riguarda i primi due, il riferimento necessario è a M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, Β, 1, in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 20085, pp. 193-255, p. 201, dov’è detto che «ἀρχή significa innanzitutto ciò da cui qualcosa prende avvio e inizio; ma ἀρχή significa inoltre ciò che contemporaneamente, in quanto è questo avvio e questo inizio, si protende oltre ciò che d’altro da essa muove, e così lo ritiene e quindi domina». Ma cfr. inoltre Ar, p. 97: «che l’arché […] non sta disgiunta da ciò di cui e arché», e ancora Metaph., XI 5, 1061b 34; tr. it. p. 461, dove si legge che il principio (di non-contraddizione) è ἐν τοῖς οὖσιν. Ne viene che il principio non si limita ad essere l’avvio dell’ente, ma, tenendolo sospeso in sé, ne costituisce le disposizioni, e in quanto tale si continua e consiste nell’essere dell’ente stesso. È da vedere a questo punto cosa significhi ἐπιστήμη. Essa, come scrive E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 20103, p. 45, «indica la volontà di tenere aperto lo spazio immutabile al quale deve sotto-stare tutto ciò che, nel divenire, esce dal niente e vi ritorna». Sicché si presti attenzione al “voler tenere aperto lo spazio immutabile” e lo si riporti al senso dell’ἀρχή ora chiarito: il senso del principio di non-contraddizione si dimostra in ciò come quella disposizione originaria che determina l’apparire dell’essente e che, col suo consistere ed esser sottinteso in esso, lo mantiene e lo sostiene. 13. Metaph., IV 2, 1003b 22-25; tr. it. p. 129. 14. Cfr. L. Lugarini, L’orizzonte linguistico del sapere in Aristotele e la sua trasformazione stoica in «Il Pensiero», n. 3, 1963, pp. 327-351; e, più brevemente, Ar, pp. 233-235.

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priamente (ed hegelianamente) come la comprensione dell’essenza della cosa e del suo sviluppo interno: “l’e-nunciazione” – in greco ἀπόφανσις: la spiegazione nel senso dell’espressione del dispiegamento – del τὸ τί ἦν εἶναι. Ne viene che altra è “la dialettica” dell’uno, altra e ben diversa quella dell’ente. Tentiamo di comprendere cosa ciò significhi, e facciamolo muovendo dall’analogia che il testo ci presenta. Ente ed uno – dice Aristotele – si conseguono reciprocamente ὥσπερ ἀρχὴ καὶ αἴτιον: «come il principio e la causa». Il riferimento essenziale da fare al fine di un’adeguata comprensione è a Metafisica, Δ 1 e 2, dove se la causa è definita come τὸ ἐξ οὗ («il da cui»15), il principio è visto invece come τὸ πρῶτον εἶναι ὅθεν ἢ ἔστιν ἢ γίγνεται ἢ γιγνώσκεται: «l’essere il primo donde [l’ente] o è o si genera oppure è conosciuto»16. L’elenco dei significati del da cui elide l’identità apparente con il primo donde. Il da cui si dice infatti sia rispetto alla materia (per esempio, al bronzo della statua), sia rispetto ad una forma, al fine, al movimento (e al principio che gli è proprio)17. Nell’orizzonte della tematizzazione delle quattro cause offerta da Α 3, i sensi della causa delineati in Δ 2 vanno ad incrociarsi in quel significato più proprio di ragione – o di perché – che trova in Fisica, Β 3 l’espressione più precisa. Ivi si dice che «noi non conosciamo nessuna cosa prima di aver scoperto il “perché” [τὸ διὰ τί] di ogni cosa (e questo consiste appunto nell’impadronirsi della causa prima [τὴν πρώτην αἰτίαν])»18. Sicché si tenga a mente che il primo donde si dice anche (e forse soprattutto) nel senso del «primo donde il movimento (continuamente) si 15. Metaph., V 2, 1013a 24; tr. it. p. 185. 16. Ivi, 1, 1013a 18 sg.; tr. it. ibidem, leggermente modificata. 17. Cfr. ivi, 2, 1013a 24-1013b 3; tr. it. ibidem ss. 18. Id., Fisica, II 3, 194b 18-20; tr. it. di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995, p. 71. Cfr. inoltre ivi, 7, 198 a14-35; tr. it. pp. 91-93, dove si trova, più che in Metaph., I 3, l’effettiva esposizione della dottrina aristotelica delle cause.

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genera a iniziare e il mutamento»19 e che, s’è vero che «tutte le cause sono princìpi»20, non è vera la conversa. Ciò che ne viene è che «l’esser-arché è ciò per cui l’aítion dà risposta alla questione del διὰ τί e per cui è τὸ διὰ τί, ed è la modalità secondo la quale il fondamento fonda»21. – Un ultimo appunto è necessario. Ché Aristotele usa il verbo ἀκολουθεῖν, il quale rinvia a una “implicazione” ch’è prima ancora una consecuzione – in un senso nondimeno capovolto rispetto a quello in cui noi oggi l’intendiamo. Lo nota Heidegger: «ἀκολουθεῖν significa “esser conseguenza” nel senso di “venire costantemente come risultato”, “venire come qualcosa che si accompagna a…” […]. Questo ha un senso ben determinato, significa cioè che quel che sempre si accompagna è la condizione di possibilità per ciò cui esso si accompagna, per ciò di cui esso è conseguenza»22. Spostiamo la reciprocità dei termini sull’ente e l’uno. Il risultato è che quell’essere “un’unica natura” di cui dice Aristotele non è nient’altro – significando l’ἕν la determinazione, la conclusione d’ogni cosa in sé – che il reciproco esser-presenti di ente ed unità nel darsi dell’essente stesso, come dire: nella verità. Reciprocità che, dato il senso ora chiarito del verbo ἀκολουθεῖν, non è soltanto “di presenza”, ma di costituzione.

19. Ivi, V 1, 1013a 8; tr. it. p. 185, modificata; dov’è il caso che si faccia attenzione alla funzione stativa del πέφυκεν e all’infinito ἄρχεσθαι che quello regge. Cfr. supra nota 12. 20. Ivi, 1013a 17; tr. it. ibidem. 21. Ar, p. 15. In merito alla differenza tra principio e causa si veda inoltre M. Cacciari, Della Cosa Ultima, Adelphi, Milano 20042, pp. 28-31. 22. M. Heidegger, Aristotele Metafisica Θ 1-3 (= HGA XXXIII), tr. it. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1992, p. 110 (corsivo mio); la cosa si fa inequivocabile in Metaph., IX 2, 1046b 24-28; tr. it. p. 371 (passo che Heidegger commenta).

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Col che s’intende – ed è bene precisarlo – ch’entrambi i termini sono a priori l’uno all’altro. La differenza s’inserisce a questo punto – e non soltanto rispetto al conseguirsi di causa e di principio23. Si legga il corrispondente passo in Κ 3. Ente ed uno – vi si dice in modo esplicitò – μὴ ταὐτὸν ἄλλο δ’ ἐστίν: «non sono identici, ma diversi»24. L’analisi congiunta di Δ 6 e 7 e Ι 1 mostra questa differenza nel fatto che mentre l’ente è il semplicissimo che è – nei quattro sensi, e in primo luogo la sostanza25 –, l’uno, in sé, è la misura, il μέτρον da cui procedono come il numero, così i sensi d’intero e di continuo ai quali è ricondotto. L’uno è l’unità, nel senso di ciò di cui si dice che “è uno”. Una è la casa, una è la parola che ora scrivo. Ma in quanto tale, l’uno non è solo “numerico”. L’essere uno – ovverosia l’esser-misura26 – indica, nel senso più appropriato, l’esser-compiuto, la τελείωσις27: cioé il “contar-per-sé”. Sicché è l’uno in quanto intero (l’ὅλον) ad esprimere “di più” quell’unità. Il testo, a questo punto, dice che l’uno è μᾶλλον τὸ ὅλον καὶ ἔχον τινὰ μορφὴν καὶ εἶδος: «a maggior titolo ciò che è intero e dunque ciò che possiede una certa conformazione e una figura»28. Oltre al μᾶλλον, si presti attenzione al καὶ. Esso non esprime – come può sembrare – una mera congiunzione, ma dice piuttosto una consecuzione, un “e dunque” che specifica nell’avere una qual certa forma 23. Uno ed ente si implicano reciprocamente, ἀλλήλοις: non allo stesso modo i primi. 24. Ivi, XI 3, 1061a 17; tr. it. p. 457. 25. Cfr. ivi, VII 1, 1028a 10-31; tr. it. p. 269. 26. Cfr. ivi, X 1, 1052b 4-24; tr. it. pp. 407-409. 27. Cfr. ivi, V 16, 1021b 12-1022a 3; tr. it. pp. 225-227. Su questo capitolo, cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (= HGA XVIII), tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2017, pp. 113-124. 28. Metaph., X 1, 1052a 22 sg; tr. it. p. 407, leggermente modificata (corsivo mio).

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e una figura – un aspetto dato nel vedere – il carattere più proprio dell’intero. Si capisce adesso perché Aristotele passi subito dopo all’uno come ciò di cui ἡ νόησις μία, «è una l’intellezione»29. Ché l’unità, infatti, non è nient’altro che l’essere determinato in quanto un certo questo: un τι. Si torni al testo che stiamo commentando e si legga dov’è detto che, «di conseguenza, è chiaro […] che la sostanza di ciascuna cosa è un uno non per accidente, ma allo stesso modo in cui anche l’ente è propriamente un qualcosa di determinato (ὁμοίως δέ καὶ ὅπερ ὄν τι)»30. Ciò che ne viene è che l’avere una qual certa forma (e l’essere un’οὐσία) non è soltanto la condizione di quest’“unità di determinazione”, ma è anche ciò che immediatamente l’esser-uno indica. Sicché l’uno non è l’ente per il semplice motivo che sta piuttosto a indicare – in quanto uno – l’esser-ente dell’essente: la compiutezza di determinazione o l’entità dell’ente31. Sintetizziamo Γ 2. Ne viene che la reciprocità costitutiva e la differenza che caratterizza l’ente e l’uno può essere espressa nel “principio” per cui qualunque ente, perché si possa dare il suo che è, dev’essere già da sempre dato e ricompreso come un intero – un questo –, vale a dire un uno la cui unità, nell’atto stesso del suo essere, è determinata a partire dalla forma che gli è propria – ovverosia dalla sostanza. Evidente il legame fra il principio ora enunciato e quello di non-contraddizione. Lo si legga per esteso, prima in greco e solo dopo in italiano: τὸ γὰρ αὐτὸ ἅμα ὑπάρχειν τε καὶ 29. Ivi, 1052a 30; tr. it. ibidem. 30. Ivi, IV 2, 1003b 30-33; tr. it. p. 129. Cfr. inoltre ivi, 4, 1006b 25-27; tr. it. p. 143. 31. Sulla differenza fra l’uno e la sostanza, cfr. ivi, X 2, 1054a 7 sg., 10-12; tr. it. p. 415 e, al riguardo, E. Berti, Il problema della sostanzialità dell’essere e dell’uno, in Id., Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e ampliata (= SA), Morcelliana, Brescia 2012, pp. 221-252, in particolare pp. 234-243.

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μὴ ὑπάρχειν ἀδύνατον τῷ αὐτῷ καὶ κατὰ τὸ αὐτὸ, «è infatti impossibile che lo stesso appartenga e non appartenga allo stesso nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto»32. La parentesi ontologica in Γ 2 si dimostra presupposta non solo all’enunciazione, ma al principio stesso della scienza. Ché perché possa essere impossibile affermare di uno stesso lo stesso e il suo contrario33, è necessario prima di tutto che vi sia lo stesso: che l’ente non sia semplicemente tale, ma già da sempre un uno, un determinato. La cosa emerge chiaramente durante la fondazione (per contraddizione) del principio, dove s’afferma che chiunque voglia negare il principio deve pur sempre σημαίνειν τι, «significar qualcosa»34, e che «se invece qualcuno concede questo, vi sarà dimostrazione, poiché vi sarà già qualcosa di definito (ἤδη γάρ τι ἔσται ὡρισμένον)»35. Ritroviamo a questo punto una frase già citata: οὐθὲν γὰρ ἐνδέχεται νοεῖν μὴ νοοῦντα ἕν36. E ancora: τὸ γὰρ μὴ ἓν σημαίνειν οὐθὲν σημαίνειν ἐστιν, «il non significare un uno [qualcosa di determinato] è non significare nulla»37. – È il fatto38 che vi sia qualcosa di determinato che permette d’affer32. Metaph., 3, 1005b 19 sg; tr. it. p. 137. 33. Cfr. la formulazione del principio in Κ 5, 1061b 36-1062a 2; tr. it. p. 461. 34. Ivi, IV 4, 1006a 21; tr. it. p. 139. In merito alla differenza fra il σημαίνειν ἕν ed il σημαίνειν καθ’ ἑνὸς (sulla quale non è il caso ci si soffermi in questa sede), cfr. V. Vitiello, L’ethos della topologia. Un itinerario di pensiero (= ET), Le Lettere, Firenze 2013, pp. 84-86. 35. Metaph., IV 4, 1006a 24 sg.; tr. it. p. 139 (corsivo mio). 36. Ivi, 1006b 10; tr. it. p. 141. 37. Ivi, 1006b 7; tr. it. ibidem, leggermente modificata. 38. Cfr in merito Η 6, dove Aristotele, parlando dell’unità della ἐσχάτη ὕλη e della forma, dice che «il ricercare la causa di questa unità è simile al ricercare la causa dell’esser-uno (ὅμοιον τὸ ζητεῖν τοῦ ἑνός τί αἴτιον καὶ τοῦ ἓν εἶναι)» (ivi, 1045b 19 sg.; tr. it. p. 361, modificata), sottintendendo dunque che questo sia impossibile. È evidente, in tal modo, come dell’entità dell’ente non si dà perché. E nondimeno: in che modo questo può non incidere

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mare che del per sé non si può dire nulla che lo contraddica. Col che è raggiunto il primo punto del nostro studio39.

sulla possibilità stessa dell’ontologia, se la conoscenza non è solo del che, ma sempre anche del perché? Cfr. ivi, I 1, 981a 28-30; tr. it. p. 5; Id., L’anima, II 2, 413a 13-16; tr. it. di G. Movia, Bompiani, Milano 20146, p. 121, e, ancora, Phys., II 3, 194b 18-20; tr. it. p. 71. 39. È il caso, a questo punto, di aprire una parentesi riguardo al senso di questi ultimi tre capoversi. Si torni alla nota 12, dove s’è detto qual è il senso del termine “principio”: il motivo per cui parliamo adesso di un principio di determinazione è da intendersi come ontologico, e niente affatto logico. La critica è diretta in primo luogo al testo di G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze 19682, la cui tesi può essere riassunta nella convinzione per la quale coesistono, in Aristotele, due logiche in conflitto: l’una noetica, regolata dal principio (per l’appunto logico) di determinazione; e l’altra, dianoetica, della quale sarebbe proprio, invece, il principio di non-contraddizione. Ora, sorvolando sulla formulazione del principio di determinazione proposta da Calogero – che, proprio quando vuole differenziarsi da quello di non-contraddizione, lo riafferma dicendo che la determinazione non può valere «come altra da quella che è» (ivi, p. 38; ma d’accordo con questa è anche E. Berti, Il principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica, in SA, pp. 73-107, p. 87; cfr. invece, di contro, l’enunciazione del principio fatta supra, p. 19) –, il punto fondamentale mi sembra essere l’individuazione nell’attività noetica di una “logica” – individuazione che a un tempo esagera e sminuisce il ruolo della noesi. Se infatti questa è preposta all’immediata intellezione delle forme e dei princìpi (cfr. Id., Analitici secondi, II 19, 100b 5-17; tr. it. in Id., Organon, coordinamento generale di M. Migliori, Bompiani, Milano 2016, pp. 839-1077, p. 1077; ma la citazione sarebbe da spiegare), essa non s’estende in ogni caso a sufficienza da avere un’articolazione, una logica e un principio propri. Rimandando ad altro luogo un’analisi precisa di An. III e di Metaph. Θ 10 (cfr. in merito M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, tr. it. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 2015, pp. 85-130; e, più in breve, Id., Sull’essenza della libertà umana. Introduzione alla filosofia, tr. it. di M. Pietropaoli, Bompiani, Milano 2016, pp. 165-237), mi limito a rilevare in questa sede che la funzione dell’intelletto nell’articolazione aristotelica dell’esperienza consiste nel proporre quel “qualcosa” del quale poi s’affermano o si negano essenza ed accidenti. Citando: «dico intelletto ciò per cui l’anima pensa e apprende (λέγω δὲ νοῦν ᾧ διανοεῖται καὶ ὑπολαμβανει ἡ ψυχή)» (An., III 4, 429a 23 sg.; tr. it. p. 213, leggermen-

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3. Potenza e attività dell’ente Facciamo adesso un salto che si spiegherà da sé nel seguito, ed apriamo il libro Θ. Questo comincia con una breve sintesi dei libri precedenti, nei quali – dice Aristotele – s’è visto che c’è un primato della sostanza sulle altre categorie. Tutte quante, infatti, le si riferiscono, ed anzi ἕξει τὸν τῆς οὐσιας λόγον: «possiederanno in sé il concetto della sostanza»40. Il testo continua a questo punto con un’aggiunta che deve fungere non solo da premessa al prosieguo della nostra analisi, ma anche te modificata). Il legame indissolubile fra il νοῦς e la διάνοια si mostra in questo passo in maniera talmente indiscutibile, che ritengo abbia ragione E. Severino quando dice che «l’adeguazione intuitiva alla realtà è possibile solo come giudizio» (Id., Nota su «I fondamenti della logica aristotelica» di G. Calogero, in Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 143-173, p. 145); intendendo egli con questo che l’intellezione deve necessariamente svolgersi: risolversi e lasciarsi attraversare dal pensiero. L’esperienza: l’ente come concreto, necessita che la noesi e la dianoia siano sì scindibili (come momenti astratti), ma che allo stesso tempo la logica che ne descrive lo sviluppo sia soltanto una. Dal che ne viene che se da un lato, per l’immediatezza dell’intelletto, non ha senso che sia enunciato in modo esplicito il principio di determinazione (ch’è meramente il presupposto della scienza), dall’altra la non-contraddizione non è solo il principio nel senso su chiarito, ma anche assioma, ovverosia un principio in senso logico o “epistemologico”. Spiegata in tal modo l’unità della trattazione dei princìpi in Metaph. IV, la critica si rivolge a questo punto contro lo stesso Severino. Il quale, volendo in ogni modo elidere qualunque presupposto del principio di non-contraddizione, non soltanto isola il noema dalla dinamica dell’esperienza (considerandolo come un vuoto pensato: cfr. ivi pp. 145, 168), ma pretende anzi di ridurre a mero sviluppo e relazione dianoetica tutta intera l’esperienza (cfr. Id., Tautótēs, Adelphi, Milano 20092, pp. 102-111). Ciò che sfugge, in questo, è proprio la necessità della determinazione come principio non logico, ma ontologico: come condizione di possibilità dell’esperienza dell’ente in quanto tale. Che l’ente sia qualcosa – un puro questo – non può essere semplicemente mostrato nell’esperienza, giacché ne resta il presupposto: il principio nel senso della disposizione che accompagna e determina l’essere un’essenza – o l’entità – dell’ente. 40. Metaph., IX 1, 1045b 31; tr. it. p. 367, leggermente modificata.

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(e soprattutto) da introduzione a Θ. E cioè che «l’ente si dice da una parte per il questo o il quale o il quanto, dall’altra secondo la potenza e l’entelechia, e dunque secondo l’atto (κατὰ δύναμιν καὶ ἐντελέχειαν καὶ κατὰ τὸ ἔργον)»41. Per spiegare il riferimento all’ἔργον che conclude il passo, è forse il caso di tornare a Δ 7, dove Aristotele, per presentare l’ente in potenza, dice che ἔτι τὸ εἶναι σημαίνει καὶ τὸ ὂν τὸ μὲν δυνάμει ῥητὸν, τὸ δ’ ἐντελεχείᾳ τῶν εἰρημένων τούτων: ovverosia che «inoltre l’essere significa anche l’ente che può esser detto da una parte in potenza, dall’altra in entelechia di ciò di cui s’è detto [i.e. dei tre sensi precedenti]»42. Mettiamo da parte il fatto che Aristotele parli dell’essere. La prima cosa che ci colpisce a leggere queste righe e quelle che le seguono, è che in esse non ci si riferisce mai all’atto – all’ἔργον o all’ἐνέργεια (l’attività) –, ma sempre alla ἐντελέχεια. Come dire a quell’attività che s’è compiuta al punto tale da possedere in sé medesima il/la suo/a fine. Citiamo allora la definizione che Aristotele ci dà dell’atto in Θ 6: ἔστι δὴ ἐνέργεια τὸ ὑπάρχειν τὸ πρᾶγμα, «ebbene l’attività è il sussistere [si legga: “il procedere da sé dal principio che le è proprio”] della cosa»43. Ne viene che quel 41. Ivi, 33 sg; tr. it. ibidem, modificata. – Ritengo necessario un breve appunto relativo alla traduzione dei termini potenza, entelechia, atto e attività. Per quanto possa esser vero che essi sono per lo più equivalenti, mi è sembrato opportuno mantenermi più attinente possibile al testo greco, esplicitando, ogni volta che i traduttori usano la traduzione “atto”, l’originale corrispondente. Per quello che riguarda invece la parola δύναμις ed i contrari ἀδύνατον e ἀδυναμία, ho preferito renderli volta a volta con “potenza”, “impotente” e “impotenza”, o con delle specifiche perifrasi, al fine di evitare ogni utilizzo di “possibile” e “impossibile”. Ciò non soltanto perché mi sembra che Aristotele si sforzi, nel libro Θ, di ridurre la δύναμις al senso “fisico”, quanto perché, piuttosto, le parole “possibile” e “impossibile” hanno per noi, ormai, un senso squisitamente modale, che nel pensiero aristotelico è presente a tratti e quasi solo negli scritti “logici” (cfr. infra note 78-80). 42. Ivi, V 7, 1017a 35-1017b 2; tr. it. p. 205, modificata. 43. Ivi, IX 6, 1048a 30 sg.; tr. it. p. 379, modificata.

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καὶ κατὰ τὸ ἔργον che si stacca in modo tanto netto dalla frase non indica soltanto “un atto” della cosa – l’opera o l’operazione di un martello o d’un’accetta – quanto piuttosto quell’attività dell’ente in cui s’esercita il principio che gli è proprio. È certamente vero, allora, che l’attività dell’ente o del martello si riduce sempre all’essere quell’ente lì (all’essere nel τέλος del martello). Ma nondimeno “il puro atto” non può essere ridotto solamente a questo. Come vedremo a breve, tutto quanto il libro Θ si muove in un confronto costante e dichiarato con la Fisica; ma questo non significa che si possa ridurre l’atto cui qui Aristotele si riferisce all’essere ora in uso di un qualcosa44. Esso indica piuttosto, nel contesto dell’analisi ontologica, l’atto dell’ente, e dell’ente in quanto tale: meramente in quanto tale. Si capisce allora perché il τὸ εἶναι di Δ 7. – L’essere in potenza e entelechia non definisce semplicemente “un modo” nel quale si può dire l’ente, ma anzi il modo proprio in cui si dice l’essere dell’ente: l’accadere – o l’attuarsi.45 L’orizzonte problematico in cui si situa Θ nel contesto della Metafisica è dunque quello della comprensione dell’essere

44. Verso questa interpretazione inclina Heidegger. E lo fa non tanto nel già citato HGA XXXIII (dov’è giustificato dal voler prendere in considerazione i capitoli 1-3 del libro Θ), quanto piuttosto nelle interpretazioni fenomenologiche del periodo precedente Essere e Tempo. Cfr. a mo’ d’esempio Id., I concetti fondamentali della filosofia antica (= HGA XXII) tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2000, pp. 260-265, 425-427 e HGA XVIII, pp. 325-328, 346. 45. Sui sensi molteplici dell’atto, cfr. E. Berti, Il concetto di atto nella Metafisica di Aristotele, in Id., Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi (= ADF), Bompiani, Milano 2004, pp. 550-570, saggio nel quale si mette in evidenza anche come la diade potenza-entelechia e potenza-attività siano in un senso equivalenti. Resta il fatto, a mio parere, che i tre sensi dell’atto che individua Berti sia in realtà pur sempre uno. Non potendo trattare la cosa in questa sede, mi limito solo a questo breve accenno.

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qua talis. Cosa che spiega anche perché potenza e entelechia (i momenti in cui s’articola l’evento) si dicano dell’ente secondo l’accidente, le categorie e il vero o il falso. Essi significano l’essersi-compiuto o l’essere-in-potenza-di… dell’ente – inteso volta a volta per quello che gli accade, o in base alla consistenza e all’essere-svelato che gli è proprio46. Non si tratta soltanto di “modi del linguaggio”. Modi, per capirci, in cui si dice “ente”. Si tratta dei rispetti o degli aspetti (εἴδη) dell’ente in quanto tale: della struttura di qualunque cosa perché si possa dire ch’è un che è. E questo, credo, mostra a sufficienza il perché del salto. Dato infatti che s’è trovato un fatto alla base dell’ontologia – la determinazione –, è solo nell’articolazione aristotelica del fatto in quanto tale ch’è possibile verificare se il presupposto ha consistenza o meno. Si continui allora a leggere da Θ 1. Aristotele ci dice che poiché l’ente si dice in entrambi questi modi, è il caso che si diano delle definizioni anche riguardo la potenza e l’entelechia, e innanzitutto riguardo la potenza che si dice nel senso massimamente proprio (μάλιστα κυρίως), anche se questa non è di fatto la più utile rispetto a ciò che c’interessa adesso: la potenza e l’attività, infatti, sono di più (ἐπὶ πλέον) di quelle che si dicono secondo movimento (κατὰ κίνησιν). E tuttavia soltanto una volta detto di questa [la potenza in senso proprio], daremo dei chiarimenti anche riguardo le altre [la

46. Cfr. l’incipit di Δ 7. Va compreso in quest’ottica, infine, anche il capitolo di Θ sull’esser-vero o falso. Il quale, infatti, se inteso alla luce dell’articolazione dell’atto sulla quale ci soffermeremo a breve, non rappresenta soltanto un’appendice, ma anzi la necessaria conclusione del libro sull’essere dell’ente. Oltre agli studi di Heidegger citati nella nota 39, cfr. per un’altra prospettiva E. Berti, Intellezione e dialettica in Aristotele, Metaph. IX 10, in ADF, pp. 571-587.

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26 potenza e l’attività ἐπὶ πλέον], nelle definizioni che concernono l’attività (ἐν τοῖς περὶ τῆς ἐνεργείας διορισμοῖς)47.

Il passo merita che lo si spieghi. Esso comincia infatti – e lo si vede – col presentare due sensi differenti di potenza: un primo che Aristotele ci dice essere μάλιστα κυρίως, “massimamente proprio” (ch’è come dire: «nel significato secondo il quale per lo più questa parola propriamente si usa»48); ed un secondo il quale è invece, dice Aristotele, ἐπὶ πλέον o “di più”. Ci si soffermi su quest’ultimo al fine di tradurre l’espressione: ciò che ne viene è che un senso di potenza può essere “di più” di quello “massimamente proprio” soltanto a patto d’esprimere l’essenza della potenza stessa. Teniamo allora a mente che il senso μάλιστα κυρίως della potenza è quello κατὰ κίνησιν, “secondo movimento”: è a questo punto che s’inserisce e balza all’occhio quell’inciso per il quale questo senso più comune «non è in realtà il più utile rispetto a ciò che c’interessa adesso»49. Nel contesto della ricerca metafisica, la δύναμις in sé si definisce in modo del tutto indipendente da quella che si dice per lo più: da quella fisica. E nondimeno – nonostante questo – Aristotele le dedica ben la metà di tutto il libro, lasciando che dell’altra (ch’è quella più importante) si tratti unicamente e di sfuggita «nelle definizioni che concernono l’attività»50. La giustificazione di questa preferenza che vien data in Θ 6 (ovverosia che si dovevano chiarire i sensi più comuni per poter mostrare che ve n’è uno differente51), lungi dal nascondere la cosa, l’evidenzia.

47. Metaph., IX 1, 1045b 34-1046a 4; tr. Berti, p. 367; tr. Reale, p. 395; tr. Zanatta pp. 1235; modificata. 48. Così traduce l’espressione Heidegger: cfr. HGA XXXIII, p. 41. 49. Metaph., IX 1, 1045b 36-1046a 1; tr. it. p. 367. 50. Ivi, 1046a 3; tr. it. ibidem. 51. Cfr. ivi, IX 6, 1048a 25-30; tr. it. p. 379.

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Seguiamo infatti lo sviluppo dell’argomentazione. Aristotele comincia col dare la definizione della potenza secondo movimento, «la quale – viene detto – è il principio di mutamento in altro o [in se stesso] in quanto altro»52. Il che comporta subito che per poter essere un principio in altro o in se stesso in quanto altro, la potenza deve articolarsi da una parte in una potenza di fare (δύναμις τοῦ ποιεῖν), e dall’altra in potenza di patire (δύναμις τοῦ πάσχειν). Facciamo molta attenzione a quella nota per la quale φανερὸν οὖν ὅτι ἔστι μὲν ὡς μία δύναμις τοῦ ποιεῖν καὶ πάσχειν: «è evidente ch’è dunque come unica la potenza di agire e di patire»53, e procediamo subito innanzi. L’articolazione della potenza κατὰ κίνησιν abbisogna ancora che in essa sia distinta la potenza e l’impotenza, e che quest’ultima sia possibile soltanto per privazione54. L’ulteriore distinzione fra le potenze ἄλογοι (senza concetto) e quelle μετὰ λόγου (per un concetto) si sviluppa subito dalle considerazioni appena fatte. Ché se da un lato si devono distinguere quelle potenze irriflesse e naturali (come nel fuoco il riscaldare), dall’altro si devono porre invece quelle che seguono un concetto, un progetto o una ragione, e che sono potenze di se stesse e del contrario55. È a questo punto che il discorso “precipita”, e inevitabilmente. Ché per quanto infatti una potenza possa esser priva d’un concetto ad orientarla, nondimeno essa dev’essere determinata. Il fuoco non raffredda – può solo riscaldare. La comprensione fisica della potenza presuppone che questa (come la causa di cui sopra56) sia già determinata: sia potenza di un 52. Ivi, IX 1, 1046a 10 sg; tr. it. p. 367. 53. Ivi 19 sg.; tr. it. ibidem, leggermente modificata. 54. Ivi 29-34; tr. it. p. 369. 55. Cfr. ivi, IX 2, 1046a 36-1046b 24; tr. it. ibidem ss. 56. Cfr. supra nota 3.

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questo57 e non di un altro. O meglio: presuppone un atto, un ἔργον, un processo al quale corrispondere. L’esempio è semplice: nel seme è la potenza della pianta; ma questa è tale o ha potenza solo in quanto è contenuta nell’atto di quel seme, che la comprende come una potenzialità sua propria. Saltiamo allora alla κίνησις, secondo la quale si declina tale potenza. S’è vero che questa – il movimento – si definisce come «l’atto (ἐντελέχεια) di ciò che esiste in potenza, in quanto tale»58, e ch’è nondimeno ἐνέργεια ἀτελὲς, «attività imperfetta»59 (i. e. che non ha raggiunto il/la proprio/a fine), ciò può significare soltanto che esso è l’atto o l’attuarsi della potenza nel procedere verso il suo fine. Dove comunque il fine è presupposto! Spiegando la differenza fra atto e entelechia – e con questo il movimento – Lugarini si trova a scrivere che «diremo: il frutto è l’entelechia del fiore come il fiore lo è del seme; ma l’“opera” (ἔργον) del frutto sta nel fruttificare, ed è il suo ergon l’ultima pienezza del dispiegarsi dell’areté latente nel seme e ancora nel fiore»60. Ma con questo è totalmente eliso il ruolo della δύναμις nel movimento. Tant’è vero – e la cosa salta all’occhio – che la potenza, in questa spiegazione, non è nominata mai una volta. Muovendo dal suo senso secondo movimento, infatti, la potenza resta al più l’ἀόριστον del movimento stesso: l’indeterminazione – o il margine – dello sviluppo, che non 57. Cfr. ivi, IX 5, 1047b 35-1048a 1; tr. it. p. 377.: «poiché ciò ch’è in potenza è in potenza una certa cosa (τὶ δυνατὸν)». 58. Phys., III 1, 201a 11; tr. it. p. 111; ma anche, e meglio, ivi, 28 sg.; tr. it. pp. 113. 59. Cfr. ivi, III 2, 201b 32; tr. it. p. 115. Ma anche, e giusto per fare qualche riferimento in più, An., III 7, 431a 7 sg.; tr. it. p. 223, dove si dice anzi che ἡ γὰρ κίνησις τοῦ ἀτελοῦς ἐνέργεια: «il movimento è l’atto di ciò che è imperfetto». 60. Ar, p. 115.

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consente di collocarlo né nell’attività – ἐνέρvεια! –, né tanto meno nella potenza stessa61. Si legga in Θ 3, dove si dice che «potente è ciò che, se procede dal suo principio l’attività di cui è detto avere la potenza, non avrà nulla d’impotente (ἔστι δὲ δυνατὸν τοῦτο ᾧ ἐὰν ὑπάρξῃ ἡ ἐνέργεια οὗ λέΓεται ἔχειν τὴν δύναμιν, οὐθὲν ἔσται ἀδύνατον)»62: ciò che ne viene è che la semplice potenza non può essere per sé, ma sempre e solo per quell’atto in cui il suo essere è ridotto63. La potenza ch’è di più potenza, l’ἀόριστον o l’indeterminato che si risolve nella πρώτη ὕλη – la quale οὐ τόδε τι οὖσα, «non è “un certo questo”»64 –, viene neutralizzata da Aristotele ricomprendendola nel movimento, vedendola essa stessa come

61. Cfr. Phys., III 2, 201b 28 sg.; tr. it. p. 115. Ma si veda inoltre la definizione dell’attività citata sopra (nota 43), la quale continua dicendo che l’attività è il sussistere ma «non nel modo in cui diciamo che è in potenza» (Metaph., IX 6, 1048 a 31 sg.; tr. it. p. 379). 62. Ivi, 3, 1047a 24-26; tr. it. p. 373, modificata. 63. Conclusione finalmente espressa, in IX 8, 1049b 5; tr. it. p. 385, nel principio per il quale «è manifesto che l’atto è anteriore alla potenza». Cfr. in merito le straordinarie pagine di M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 20083, pp. 158 ss. 64. Metaph., IX 7, 1049a 27; tr. it. p. 383. Cfr. inoltre Id., De generatione et corruptione, I 3-5, II 1; tr. it. di M. Migliori rivista da L. Palpacelli, Bompiani, Milano 2013, rispettivamente pp. 27-59, 103-105. In particolare, ritengo interessanti ivi, I 3, 319a 32 sg.; tr. it. p. 39 – dove Aristotele ci dice che «il niente (τὸ δὲ μὴ ὂν) è la materia, quella della terra come anche quella del fuoco» (tr. leggermente modificata) – e ivi, II 9, 335a 32 sg.; tr. it. p. 15. Questa potenza di essere e non essere, quel niente ch’è la materia della materia stessa, degli elementi: è questa la “materia prima”, insensibile e inseparabile (cfr, ivi II 5, 332a 36-332b 1; tr. it. p. 125), scindibile dall’ente singolo soltanto per il concetto – τῷ λόγῳ, «nel discorso» (cfr. ivi, I 5, 320a 32-b 25; tr. it. p. 47. In merito al rapporto fra λόγος e discorso cfr. HGA XXXIII, p. 10). – Sulla presenza di questo concetto nella Metafisica, cfr, V. Vitiello, Elogio dello spazio. Ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano 1994, pp. 35 sg.

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un atto65. Dimostrato infatti ch’è necessaria quell’articolazione della potenza secondo movimento che s’è vista; dimostrato anzi che la potenza stessa si sviluppa secondo l’atto del quale è detta avere la potenza, com’è possibile non intendere come determinata la potenza stessa? Lo Stagirita vuole arrivare a quel punto in cui si sia costretti ad affermare che «non vi furono per un tempo indefinito Chaos e Notte, ma sempre le stesse cose, o ciclicamente o in altro modo, se l’atto è anteriore alla potenza»66; in cui persino la materia prima sia eterna (e eternamente innocua)67 – ma nella misura in cui mantiene l’εἴπερ, il “se”, ecco che si tradisce. La potenza metafisica incrina dall’interno quella fisica, e solo questo ci resta da mostrare. S’è visto sopra ch’è “come unica” la potenza di agire e di patire68. Ma se questo fatto si spiega facilmente considerando che la potenza è una dinamica, e non uno dei membri in cui s’articola – sicché perché io possa sollevare il foglio (agire) dev’esserci nell’atto il foglio stesso e il suo (poter) patire –, lo stesso non si può dire della distinzione

65. Sul rapporto fra atto e movimento cfr. Metaph., IX 3, 1047a 30-1047b 2; tr. it. pp. 373-375 e ivi, 6, 1048b 22-35; tr. it. p. 381. 66. Ivi, XII 6, 1072a 7-9; tr. it. p. 515, modificata (corsivo mio). Sul libro Λ come necessaria conclusione del principio di priorità dell’atto sono classici non solo gli studi di E. Berti, Da chi è amato il motore immobile? (Su Aristotele, Metaph. XII 6-7), in ADF, pp. 616-650 e Id., La struttura logica della dimostrazione dell’atto puro in Aristotele, in SA, pp. 177-194; ma anche le belle pagine di W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, tr. it. di G. Calogero, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 524-526, dove però è totalmente da rifiutare, a mio parere, l’idea di un “afflato religioso” al fondo del libro Λ (ivi, pp. 206-212, 427, 515 ss.); contro ciò HGA XXII, pp. 432-435. Cfr. infine, in merito a tutto intero il problema del possibile e dell’atto puro, F. Croci, Dell’uno e dei molti. Henologia e henofania da Platone a Schelling, Le Lettere, Firenze 2016, pp. 76-107. 67. Cfr. Phys., I 9, 192a 25-34; tr. it. p. 53-55. 68. Cfr. supra nota 53.

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fra la potenza e l’impotenza. Si legga il brano in cui questa è presentata: καὶ ἡ ἀδυναμία καὶ τὸ ἀδύνατον ἡ τῇ τοιαύτῃ δυνάμει ἐναντία στέρησίς ἐστιν, ὥστε τοῦ αὐτοῦ καὶ κατὰ τὸ αὐτὸ πᾶσα δύναμις ἀδυναμία, «sia l’impotenza che l’impotente sono la privazione contraria a questa potenza, al punto che ogni potenza è l’impotenza dello stesso per lo stesso»69; e ancora dove si dice che «ogni potenza è nello stesso tempo dei contraddittori (τῆς ἀντιφάσεώς)»70. Se inteso nel suo senso letterale, questo significa che la potenza è sempre – in quanto tale! – la potenza e l’impotenza di se stessa. Vale la pena di citare, di contro alla definizione del potente in Θ 3, quella che è data in Θ 8: τὸ ἄρα δυνατὸν εἶναι ἐνδέχεται καὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι, «infatti è potente ciò ch’è in grado sia di essere che di non essere»71 – e di tornare poi di nuovo a Θ 3. L’esempio per il quale, «se si ha potenza di sedere e si è capaci di sedersi, a questo, se procede l’esser seduto dal suo principio [ὑπάρξῃ], nulla sarà impotente (οὐθὲν ἔσται ἀδύνατον)»72, ci consente d’intendere quella potenza fisica ch’è definita sopra non soltanto in relazione all’atto, ma anche – e soprattutto – per il riferimento all’impotenza che comporta e che le è costitutivo. Per fare un esempio molto semplice, potremmo dire che per poter muovere la mano devo poterla anche non muovere; e non poterla non muovere, e non poterla muovere. La potenza fisica continua a riferirsi al proprio interno a una potenza altra, che non è più una potenza di…, ma potenza o

69. Metaph., IX 1, 1046 a 29-31; tr. it. p. 369, modificata. Sul dativo ad ἀδυναμία come una forzatura, cfr. HGA XXXIII, p. 79 sg. 70. Metaph., IX 8, 1050b 8 sg.; tr. it. p. 389. 71. Ivi, 11 sg.; tr. it. ibidem ss., modificata. Cfr. anche il già citato De gen. et cor., II 9, 335a 32 sg; tr. it. p. 149. 72. Metaph., IX 3, 1047a 26-28; tr. it. p. 373, modificata.

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possibilità assoluta, sciolta persino dalla potenza stessa. Dalla realtà, dall’impotenza: dalla necessità73. La prima metà di Θ 4, tanto oscura ed intricata, si scioglie nella maniera più limpida e lineare, se si considera quanto s’è detto. Leggiamo: Se la potenza in quanto consegue [ᾗ ἀκολουθεῖ] è ciò di cui s’è detto, è evidente che non può esser vero dire che da una parte questo qui è potente, ma dall’altra non sarà [φανερὸν ὅτι οὐκ ἐνδέχεται ἀληθὲς εἶναι τὸ εἰπεῖν ὅτι δυνατὸν μὲν τοδί, οὐκ ἔσται δέ], al punto che [ὥστε] proprio per questo sfuggirebbe ch’esiste ciò ch’è privo di potenza [τὰ ἀδύνατα εἶναι ταύτῃ διαφεύγειν]: faccio l’esempio di qualcuno che affermi che v’è potenza che la diagonale sia commisurata, e tuttavia non sarà mai commisurata (non ragionando costui che ciò ch’è privo di potenza esiste), perché nulla impedisce che un dato ente che abbia la potenza d’essere o di generarsi non sia o non sarà; ma da quello che s’è posto, se anche ipotizzassimo che sia o si generi ciò che non è, ma ha potenza, è necessario che nulla sia privo di potenza; il che all’inverso capita, ché non c’è potenza che [la diagonale] sia commisurata74.

Teniamo ora presente che il brano segue a Θ 3 e che, nel primo rigo, si fa riferimento alla definizione di cui sopra75. Che dalla negazione che una potenza si realizzi ne discenda la dimenticanza ch’esiste ciò ch’è privo di potenza, si può spiegare col tenere sottintesa in questo testo una potenza “altra” che non s’intende come questa o come un’altra, bensì come po-

73. In merito alla pura possibilità (modale) che si riflette su se stessa, cfr. le ancora insuperate le pagine di V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009, pp. 139-141 e il già citato ET, pp. 88-91. 74. Metaph., IX 4, 1047b Ivi, 3-12; tr. Berti, p. 375; tr. Reale, p. 405; tr. Zanatta, p. 1247., modificata. 75. Cfr. supra nota 62.

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tenza in assoluto (ἁπλῶς76) – come il possibile. Proprio questo viene affermato con la negazione e negato da Aristotele. Ché se in effetti, perché si possa realizzare, è necessario che il potente sia già determinato da quell’atto del quale deve avere la potenza, con l’affermare che vi sia un potente che può anche non esser realizzato si pretende una potenza che, scindendosi dall’atto, sia potenza di se stessa: una potenza di potenza che, come può essere potenza, può non essere potenza – pur essendolo nel suo non esserlo. La potenza nel suo senso fisico si deve realizzare – e se questo non accade è soltanto a causa degli accidenti, di quei fatti circostanti che non lo consentono77. Allo stesso modo, ciò ch’è privo di potenza, in questo quadro, non si deve realizzare, perché manca per l’appunto della forza di pervenire all’essere. – Ma si passi adesso alla potenza in senso lato: se la potenza in quanto tale può essere e non essere – ed essere e non essere potenza – si precipita per essa in un dominio dentro al quale mancano definizioni e negazioni. Un dominio costitutivo all’accadere, in cui – e proprio qui si gioca tutto – com’è possibile che non ci sia potenza che la diagonale sia commisurata al lato, così è possibile, allo stesso modo, che vi sia quella potenza che la commisurazione accada. Non è scontato a questo punto, per ritornare a Γ, fare riferimento a quel passo del De interpretazione dove si dice che comunemente si ritiene che «di possibile che sia (τοῦ δυνατὸν εἶναι) è negazione possibile che non sia (τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι), ma non non possibile che sia (τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι)»78 – opinio-

76. Ivi, IX 7, 1049a 21; tr. it. p. 383. Cfr. De gen. et cor., I 3, 317b 5 sg.; tr. it. p. 27. 77. Cfr. Metaph., IX 5, 1048a 13-24; tr. it. pp. 377-379 e IX 7, 1049a 5-8; tr. it. p. 383. 78. Aristotele, De interpretazione, 12, 21b 11 sg.; tr. it., con testo greco a fronte, di M. Zanatta, BUR, Milano 20015, p. 115. (Ho preferito servirmi di quest’edizione e non di quella più recente ed aggiornata a cura di L. Palpa-

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ne, questa, che Aristotele rifiuta col sostenere che se quella è l’apofasi dell’“essere possibile”, si dovrebbe dire dello stesso (del possibile) lo stesso e il suo contrario. «Ma è impossibile che della medesima cosa le enunciazioni opposte dicano il vero. Pertanto non è questa la negazione»79. La conclusione di Aristotele per cui l’apofasi è “non possibile che sia”80, oltre ad essere del tutto in linea col discorso appena letto in Θ 4, ci fa vedere in modo estremamente chiaro come il Filosofo, nonostante tutti gli sforzi in questa direzione, non riesca a togliere dal fondo dell’essente quel margine di contingenza che si mantiene come costitutivo dell’accadere stesso. Tutta intera l’argomentazione riposa infatti sullo spostamento della negazione dal verbo all’aggettivo. Ma nulla lo legittima in tal senso, se non il rilevare che in tale opposizione il principio di non-contraddizione sembra cedere. Il tentativo di estendere nel “luogo del possibile” il dominio della scienza si conclude allora nella presa di coscienza (mascherata e disperante) dell’incapacità di rendere ragione di quel fatto con il quale si giustifica la scienza stessa. Torniamo infine a Γ 4: non soltanto la confutazione di coloro che sostengono l’ἀόριστον viene a risolversi nella mera constatazione che «se infatti a qualcuno l’uomo sembra non essere trireme, è chiaro che non è trireme»81, ma la richiesta stessa di un perché del fatto è definita ἀπαιδευσία82. La vera conclusione del discorso aristotelico si dimostra in questo modo “ironica”: τὸ μὲν οὖν διὰ τί αὐτό ἐστιν αὐτό, οὐδέν ἐστι ζητεῖν, celli in Id., Organon, cit., pp. 207-271, unicamente per la maggiore fluidità della resa di Zanatta. La semplicità con cui riesce a riproporre il discorso di Aristotele in questi passaggi resta ancora, a mio parere, insuperata.) 79. Ivi, 17 sg.; tr. it. ibidem. 80. Cfr. ivi, 22-24; tr. it. ibidem. 81. Metaph., IV 4, 1007b 23 sg.; tr. it. p. 147. 82. «Mancanza di educazione» (ivi, 1006a 6; tr. it. p. 139).

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«il ricercare perché lo stesso sia lo stesso, significa non ricercare nulla»83. Ma questo può accadere solo in quanto «bisogna infatti che il che e l’essere sussistano come evidenti (δεῖ γὰρ τὸ ὅτι καὶ τὸ εἶναι ὑπάρχειν δῆλα ὄντα)»84. E nondimeno, quell’evidenza dell’essere dell’ente nel possibile è sospesa.

83. Ivi, VII 17, 1041a 14 sg.; tr. it. p. 327, leggermente modificata. 84. Cfr. ivi, 15; tr. it. ibidem, leggermente modificata.

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Eidos, fatto, possibilità. Aspetti del rapporto tra scienza e fatticità in Husserl di Francesco Pisano

I. Fenomenologia e ontologia reale L’idea di un’ontologia reale attraversa trasversalmente l’opera di Edmund Husserl. Essa si palesa, ad esempio, nelle ultime pagine della terza ricerca logica, Sulla teoria degli interi e delle parti. «Per ciò che concerne la natura con tutte le sue cosalità», scrive Husserl, «anch’essa ha sicuramente il suo a priori, la cui elaborazione e sviluppo sistematico è il compito ancora insoluto di un’ontologia della natura»1. Nel terzo libro di Idee, l’indagine sugli enti si risolve, relativamente alla sua componente a priori, nella fenomenologia trascendentale – pur restando, nel suo complesso, diversa da essa, in quanto condizionata dal presupposto della posizione d’essere del suo oggetto d’indagine2. Ancora nelle Meditazioni cartesiane leggiamo che Il sistema dell’a priori si può anche designare come sviluppo sistematico dell’a priori universale, […] [e] quest’a priori è 1. E. Husserl, Ricerche logiche. Volume secondo, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 79. 2. Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Volume II [d’ora in poi, Idee II], a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 448-463.

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38 l’universale logos di ogni essere possibile. In altri termini, la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata sarebbe per ciò stesso una vera e propria ontologia universale; non però una mera e vuota ontologia formale, ma anche tale da comprendere in sé tutte le possibilità regionali dell’essere secondo tutte le correlazioni che a queste appartengono.3

Il progetto di una tale dottrina presenta, di volta in volta, alcuni tratti costanti. Constatato il carattere dogmatico dell’ontologia classica, ingenuamente positiva4, al fenomenologo non resta infatti altro che compiere l’operazione critica di riduzione dell’ente all’ambito della coscienza trascendentale entro il quale esso si dà come tale5. È appunto il carattere riflessivo-trascendentale della ricerca fenomenologica a garantire che l’oggetto “ente” (e, in generale, ogni oggetto concepibile), rimanga, per essa, legittimamente tematizzabile: come «grande organo […] di ogni conoscenza in generale»6, la fenomenologia è, difatti, filosofia prima; e «la piena e concreta ontologia è», dunque, «nient’altro che l’autentica filosofia trascendentale»7.

3. Id., Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 2002, p. 170. 4. Cfr. Id., Idee II, cit., p. 452. 5. Cfr. ivi, p. 450. 6. Cfr. ibidem. 7. Id., Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil. Theorie der phänomenologische Reduktion, Husserliana, Bd. VIII, hrsg. von R. Boehm, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht 1996, S. 215. Si tratta di un passo non incluso nell’ed. italiana di riferimento (E. Husserl, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, a cura di V. Costa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007). La traduzione dal tedesco è mia. La seconda parte del corso del Wintersemester 1923/24 resta, probabilmente, il luogo dell’opera husserliana in cui è più radicalmente perseguito il tentativo di una “risoluzione” trascendentale dell’ontologia reale. Si veda anche, a questo proposito, nell’ed. it. cit., p. 141, nota 4. Nella misura in cui la nozione di “filosofia”, in Husserl,

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Quest’aspetto della questione rileva soprattutto in rapporto ad un problema implicato dalla definizione di ontologia reale come dottrina a priori della cosa naturale. La cifra del reale consiste, in prima approssimazione, nella collocazione spazio-temporale8. In altre parole, l’evento reale è un fatto (Faktum) localizzato: il suo accadere resta, cioè, un «prodigio (Wunder)»9, una determinazione individuale avvenuta accidentalmente, a dispetto degli infiniti altri possibili accadimenti definiti dall’ambito eidetico di legalità portato ad intuizione nella riflessione fenomenologica10. Dal punto di vista della fenomenologia, esso, come tale, rimane dunque irrazionale, cioè irrelato alle strutture a priori entro le quali pure è compreso11, giacché da esse non derivabile. Tale problema si presenta fin dalle Ricerche logiche. Le leggi del nostro mondo effettivo – le leggi della fisica, o della chimica – non possono appartenere, in quanto verità di fat-

indica la scienza dei fondamenti ultimi del sapere, la corrispondente nozione di “filosofia prima” incarna il nucleo di quest’idea, quale ricerca di quelle legalità originarie della conoscenza in generale che unificano i molteplici saperi determinati, conferendo loro scientificità. Su ciò, cfr. V. Costa, Filosofia prima e fenomenologia trascendentale, in E. Husserl, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, cit., pp. XI-XLVIII. Torneremo in seguito sulla definizione di “scienza”. 8. Cfr. E. Husserl, Idee II, cit., pp. 32-34. 9. Id., Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil. Kritische Ideengeschichte, Husserliana, Bd. VII, hrsg. von R. Boehm, Springer, Dordrecht 1956, S. 394. Anche questo passo non è incluso nell’ed. it. cit. La trad. dal tedesco è mia. 10. Un’introduzione al tema della fatticità in Husserl si trova in M. Vergani, Fatticità e genesi in Edmund Husserl. Un contributo dai manoscritti inediti, La Nuova Italia, Firenze 1998. 11. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 105.

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to12, all’ontologia della natura. Quest’ultima non può infatti dirci che cos’è la natura, come peculiare insieme di determinazioni individuali. Descrivibile a priori è soltanto l’oggetto “natura fattuale” in generale, in quanto molteplicità definita da elementi strutturali quali «fondazione empirica, intero empirico, indipendenze e non indipendenze empiriche»13. La «mathesis universalis»14, «scienza nomologica universale delle forme di molteplicità», mantiene, lungo tutto l’arco del lavoro di Husserl, la forma di una dottrina della molteplicità in generale: essa può, ad esempio, offrire una chiarificazione sistematica della struttura della varietà euclidea, ma non può descrivere l’effettivo spazio geometrico (che ne è una singolarizzazione)15. Essa è insomma possibile soltanto sotto la condizione di una formalizzazione, la quale, pur rendendo possibile, a differenza della mera generalizzazione del con-

12. La nozione di verità di fatto è, notoriamente, di matrice leibniziana. Cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza. II. Da Bacone a Kant, Einaudi, Torino 1978, pp. 160-169. A proposito dei diversi aspetti della ricezione husserliana di Leibniz, cfr. R. Cristin, Phänomenologie und Monadologie, in «Studia Leibnitiana», Bd. 22, H. 2, 1990, S. 163-174. 13. Id., Ricerche logiche. Volume secondo, cit., pp. 79-82. 14. Un’agile discussione circa la ricezione husserliana di questa nozione caratteristica della filosofia moderna è in D. Rabouin, Husserl et le projet leibnizien d’une mathesis universalis, in «Philosophie», n. 92, 2006, p. 13-28. 15. Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica [d’ora in poi, Logica formale e trascendentale], trad. it. di G. D. Neri, Mimesis, Milano 2009, pp. 107-110. Qui la nozione di “molteplicità” è definita come «l’idea formale di un campo oggettuale infinito, per il quale si dia l’unità di una spiegazione teoretica, o, ciò che è lo stesso, l’unità di una scienza nomologica». Husserl, poche pagine prima, ne riconduce scoperta e definizione al lavoro di B. Riemann sui fondamenti della geometria. Si veda, a questo riguardo, M. Kline, Mathematical thought from ancient to modern times. Volume 3, Oxford University Press, New York 1972, pp. 889-896.

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tenuto cosale16, il reperimento di legalità a priori rispetto a qualunque datità materiale, comporta la messa da parte del “questo qui”, dell’irrazionale fatticità del singolare che ogni volta resta fuori dalle sistemazioni configurate dalla dottrina a priori. L’idea di una formalizzabilità universale può giustificare il suo (apparente) sconfinamento nella questione dell’a priori materiale soltanto alla luce di una fondazione trascendentale della conoscenza. D’altro canto, l’intento descrittivo del fenomenologo può rimanere distinto da quello dell’idealista soggettivo solo a patto che l’effettiva esistenza del mondo resti a far da limite al discioglimento del reale nelle relazioni di conferimento di senso17. Questa problematica oscillazione definisce la caratteristica posizione, nel contesto del pensiero occidentale, della fenomenologia come più recente e più complessa istanza del progetto idealistico-trascendentale. Essa si rifrange attraverso la separazione tra il progetto di una metafisica fenomenologica, volto ad indagare la questione della fatticità e «tutti i problemi dell’esserci effettivo e causale»18, ed una ontologia della natura, intesa come definizione delle strutture trascendentali di conoscibilità di una natura in generale. Si tratta, tuttavia, di una duplicità asimmetrica: mentre infatti la metafisica fenomenologica, una volta rigettato il dogmatismo

16. Sulla basilare differenza tra “generalizzazione” e “formalizzazione”, cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Volume I [d’ora in poi, Idee I], ed. it. a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 33-36. 17. Cfr. ivi, pp. 139-141. Cfr. anche M. Vergani, Fatticità e genesi in Edmund Husserl. Un contributo dai manoscritti inediti, cit., pp. 14-19. 18. Id., Meditazioni cartesiane, cit., p. 171. Si veda anche Id., Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil. Kritische Ideengeschichte, cit., §. 394: «questa fatticità è il terreno non della fenomenologia, né della logica, ma piuttosto della metafisica». La trad. dal tedesco è mia.

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della tradizione, permane in una tensione centrifuga rispetto all’impostazione husserliana19, la ricerca di uno «stile del mondo» è perseguibile, ed effettivamente perseguita, all’interno del lavoro fenomenologico20.

II. Scienza e logica formale È interessante rilevare la paradossalità del gesto husserliano, che, di fronte alla crisi della cultura europea, ripropone una teoria a priori dell’esperienza della natura. Ciò che dell’ideale di una filosofia come scienza rigorosa è rimasto nella Crisi – il proposito di istituire una «filosofia universale» capace di rendere ragione di se stessa e, insieme, di tutta la conoscenza come di un’unità originaria21 – impone, infatti, che la fenomenologia trascendentale tenga conto degli sviluppi interni delle scienze positive, facendosi carico anche dei contraccolpi che, dal procedere di queste, ritornano a toccare gli aspetti fon-

19. Un’esposizione completa dei rapporti di Husserl con la nozione di “metafisica” è offerta in N. Ghigi, La metafisica in Edmund Husserl, FrancoAngeli, Milano 2007. 20. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 60-64 e 363-371. Va notato come la determinazione di strutture generali (spazio, tempo, causalità) entro le quali la variegata esperienza delle cose ritrova la sua unità avvenga attraverso le operazioni di formalizzazione e libera variazione caratteristiche della conoscenza fenomenologico-eidetica (sulle quali si veda Id., Idee I, cit., pp. 13-154). Sul rapporto tra la questione cosmologica in fenomenologia e la filosofia trascendentale, cfr. F. Masi, Monogramma e stile del mondo. Note su Husserl e Kant, in M.T. Catena, F. Masi, Fenomenologia e Critica della Ragione, Edizioni Partagées, Napoli 2008, pp. 55-125. 21. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp. 40-47.

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damentali della conoscenza. Nell’Europa dei primi decenni del Novecento, è soprattutto la fisica matematica a presentare un’istanza di tale portata – un’istanza critica, nel caso di specie, nei confronti di alcuni presupposti fondamentali della scienza moderna22. Nel 1927, Werner Heisenberg descrive un livello d’esperienza possibile entro il quale il principio di causalità risulta assente; egli conclude, in questo modo, una rivoluzione iniziata con il lavoro di Albert Einstein sulla teoria della relatività generale e proseguita attraverso le ricerche di Pauli, de

22. Schematicamente, potremmo inscrivere la cosiddetta “crisi dei fondamenti” entro due periodi distinti della storia della civiltà europea, a seconda che si tratti (per usare la nota partizione diltheyana) di Naturwissenschaften o di Geisteswissenschaften. Se il tratto comune ai due processi sta nel crollo dei quadri generali di riferimento, entro i quali erano state fondate ricerche specifiche (e proprio in virtù di ciò che da tali ricerche risultava), l’inizio della crisi delle scienze della natura potrebbe essere visto nella pubblicazione del cosiddetto Erlanger Programm (1872) da parte di F. Klein, mentre il suo ultimo esito potrebbe essere reperito nella radicale revisione della fisica quantistica da parte di Schrödinger e Heisenberg nella seconda metà degli anni Venti. L’inizio di una profonda rielaborazione delle scienze dello spirito andrebbe, invece, individuato nel primo dopoguerra, quale processo parallelo allo sfaldamento del modello di capitalismo liberale che aveva caratterizzato mercato e civiltà europea nella seconda metà dell’Ottocento. Cfr., su questa lettura di tale fase delle scienze europee, J. D. Bernal, Storia della scienza, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1969, in part. pp. 547-578, 589598, 899-917. Sul legame tra scienze positive, tecnica e filosofia mi limito a rimandare a A. Koyré, Sull’influenza della filosofia sullo sviluppo di teorie scientifiche, in Id., Filosofia e storia delle scienze, ed. it. a cura di A. Cavazzini, Mimesis, Milano 2003, pp. 25-39; a Id., Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, ed. it. a cura di P. Zambelli, Einaudi, Torino 2000; e a N. Russo, Il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo, in L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, a cura di N. Russo, Guida, Napoli 2007, pp. 13-40. Sul tema della crisi della cultura europea resta fondamentale M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976.

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Broglie e Schrödinger23. In una lettera del giugno 1932 all’amico Gustav Albrecht, Husserl descrive la situazione: Tutte le scienze si trovano in una crisi dei fondamenti e dell’autocomprensione del metodo necessaria alla scientificità. Tutto ciò, oggi, è divenuto chiacchiera sull’abbandono della legge di causalità, sul sovvertimento dei concetti di spaziotemporalità e così via. Il filosofare dello scienziato naturale, e di tutti gli altri scienziati, è di un’ingenuità infantile, e quello dei filosofi non è meno oscuro e permeato di un’ingenuità fondamentale – soltanto, in un modo diverso.24

La paradossalità di cui dicevamo si rivela consistere, a questo punto, nella tensione attivamente fronteggiata da Husserl tra la pretesa di elaborare una critica della ragione (intesa a ridefinire radicalmente l’intero patrimonio di conoscenze positive a nostra disposizione) e l’esigenza di non violare lo stile tendenzialmente costante dell’esperienza conoscitiva ingenua, ricollocandone i diversi aspetti all’interno del nuovo ordine sistematico, riflessivamente autofondato (giacché, in fenomenologia, a quell’ingenuità si tratta, appunto, di ritornare criticamente25). O, se vogliamo, nella tensione tra la vita nuova a

23. Cfr. W. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt quantentheoretischen Kinetik und Mechanik, in «Zeitschrift für Physik», XLIII, 1927, S. 172-198; A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, in Annalen der Physik, IV Folge, Bd. 49, S. 769-822. Si veda, sulla crisi della fisica classica e sulle sue conseguenze rispetto al principio di causalità, D. Bohm, Causality and chance in modern physics, Taylor & Francis, Abingdon 2005, pp.46-69. 24. Cfr. E. Husserl, Briefwechsel, Bd. IX, Familienbriefe, Husserliana, Dokumente, 3/9, hrsg. von K. Schuhmann, Springer, Dordrecht 1994, p. 83. La trad. it. è mia. 25. Cfr. E. Paci, Husserl sempre di nuovo, in Omaggio a Husserl, a cura di E. Paci, Il Saggiatore, Milano 1960, pp.7-27, e V. Vitiello, Filosofia teoretica. Le domande fondamentali: percorsi e interpretazioni, Mondadori, Milano 1997, pp. 147-160.

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cui la fenomenologia invita26 e la vita storica comune. Entro tale discrasia si genera l’intima vivacità di un’opera come La crisi delle scienze europee. Nel momento in cui questa dinamica si esplica come un tentativo di fondazione trascendentale della logica formale, anche il rapporto tra dottrina a priori dell’esperienza e fatticità è rimesso in gioco. Per far chiarezza in questa serie di relazioni, tuttavia, occorre anzitutto muovere dal più ampio tema del legame tra scienza e logica formale. La domanda su «che cosa si possa ancora aver di mira a priori sotto il titolo di scienza»27, sulla consistenza della scientificità che accomunerebbe filosofia prima e saperi positivi (consentendo così alla prima di criticare e rifondare su basi non estrinseche i secondi, anche a fronte dei risultati sperimentali più imprevisti), si dirime, infatti, in base ad un criterio di definitezza formale: la teoria scientifica è una molteplicità (una «idea formale di un campo oggettuale infinito») definita da un sistema di assiomi tale che ogni oggetto formale, costruibile a partire dalla computazione delle determinazioni implicate da questi assiomi, risulti o vero o falso in maniera puramente deduttiva28. L’idea della risoluzione della nozione di “teoria in generale” in quella di “molteplicità definita” è, come noto, un leitmotiv della riflessione husserliana – e la definizione di quest’ultimo concetto rimane, in più di quarant’anni di lavoro, grossomodo la stessa29. Il mondo naturale, per come si offre nell’esperienza, deve

26. Basti qui ricordare, oltre ai testi sopracitati di E. Paci e V. Vitiello, le suggestive pagine iniziali di E. Husserl, Filosofia prima, cit. (pp. 5-32). 27. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., p. 115. 28. Cfr. ivi, pp. 106-110. 29. Si confronti, a questo proposito, la definizione offerta in Id., Das Imaginäre in der Mathemathik, in Id., Philosophie der Arithmetik. Mit Ergänzenden Texten (1890-1901), Husserliana, Bd. XII, hsrg. von L. Eley, Mar-

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dunque essere descrivibile come una tale totalità formale30. Nel primo volume delle Ricerche logiche, alla logica formale («logica pura») è appunto affidato il compito di fissare il nesso sistematico delle verità, insieme al nesso sistematico delle cose che in esso si specchia, affinché i molteplici atti conoscitivi degli scienziati possano riferirsi ad una teoria in sé unitaria; e il lavoro del filosofo sta, essenzialmente, nella realizzazione di una tale logica (o, al limite, nella critica alle scienze positive in funzione di essa)31. All’altezza di Logica formale e trascendentale, tuttavia, la rigorosità della filosofia scientifica ha fatto ormai uno con la radicalità della filosofia prima32: entrambe sono la stessa fenomenologia trascendentale, dedita anzitutto a fondare e a giustificare ultimativamente la sua propria struttura formale33.

tinus Nijhoff, Den Haag 1970, S. 430-451, in part. S. 431 con quella, già indicata, presente in Logica formale e trascendentale, cit., p. 108. 30. Cfr. F. Masi, Metrica e profezia. Sulla conoscibilità della natura, in Id., L’arte della misura. Contributi su fenomenologia e conoscenza naturale, Giannini, Napoli 2012, pp. 149-178, in part. pp. 149-164. 31. Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche. Volume primo, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 235-263. 32. Con “rigore” di una dottrina s’intende la sua sistematicità, garantita dall’interna connessione di tutti i suoi elementi; con “radicalità” si indica la possibilità di mettere in luce determinazioni originarie, non ulteriormente risalibili. Cfr. C. Sini, Introduzione alla fenomenologia come scienza, Lampugnani Nigri, Milano 1965, pp. 123-126. 33. Cfr. L. Lugarini, La fondazione trascendentale della logica in Husserl, in Omaggio a Husserl, cit., pp. 163-194, in part. p. 172.

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III. La fondazione trascendentale della logica formale La definizione della fenomenologia come «scienza eidetica descrittiva dei vissuti trascendentalmente puri»34 restituisce una comprensione del gesto fenomenologico adatta alla tendenza sistematica interna al lavoro di Husserl. Essa s’impernia sui due momenti essenziali di tale gesto: la riduzione formalizzante e l’intuizione eidetica35. La filosofia prima è un’eidetica pura, sistematicamente ordinata, e fondata sulle determinazioni apodittiche dell’ego puro, poiché mediante questi principi il mero fatto vien ricondotto ai suoi fondamenti razionali, che son quelli della sua pura possibilità e pertanto viene scientifizzato (logificato). […] È così che la scienza delle pure possibilità precede la scienza in generale. […] In tutto ciò, l’eventuale dato di fatto, pur essendo irrazionale, non è tuttavia possibile se non nel sistema di forme dell’a priori che gli è proprio, in quanto è un fatto egologico. E [tuttavia] qui non bisognerà dimenticare che il factum e la sua stessa irrazionalità costituisce un concetto strutturale nel sistema dell’a priori concreto.36

Il valore dell’intuizione d’essenza sta appunto in questo: offrendo essa una datità diretta e confermante che riempia quegli aspetti dell’articolazione intenzionale miranti ai corrispondenti aspetti della datità per i quali essa ci si offre come messa in forma, ad un tempo fa luogo all’integrazione delle formalità

34. Cfr. E. Husserl, Idee I, cit., p. 177. 35. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 98. 36. Ivi, pp. 97-98 e p. 105. I corsivi sono miei. Va notato come il passo tedesco, qui tradotto con «è così che […] scienza in generale» sia, in effetti, più ampio. Una proposta di traduzione potrebbe essere: «in sé, la scienza delle pure possibilità precede quella delle effettualità, e così soltanto la rende possibile come scienza in generale». Cfr. Id., Cartesianische Meditationen und Parisier Vorträge, Husserliana, Bd. I, hrsg. von S. Strasser, Martinus Nijhoff, Den Haag 1973.

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ideali (stati di cose, numeri, sincategoremi e così via) tra gli oggetti dell’esperienza vissuta, colmando il baratro tra l’unità dei riferimenti logici e la molteplicità degli atti di pensiero37. L’ostensione riempiente è in essa costitutivamente implicata, ma in quanto esempio, in quanto “individuo in generale” che fa da sfondo all’emergenza della struttura eidetica che ne delimita le variazioni possibili38. L’indagine ne ricava un ambito di variazione vincolato da un’interna legalità: nient’altro che una molteplicità definita, sottoponibile a sua volta a libera variazione e riconducibile ad una molteplicità più estesa, fino all’istituzione della filosofia universale. Nella misura in cui questa descrive degli ambiti eidetici, vengono determinati a priori dei criteri di discernimento tra variazioni possibili legittime e variazioni possibili illegittime in rapporto a ciò di cui va definita l’essenza. Riferirsi all’essenza come ad una pura possibilità significa, quindi, riferirsi alla possibilità di determinarsi ulteriormente in diversi modi. La logica formale, potendo operare con variabili formalizzate, contenutisticamente indeterminate, dovrebbe altresì poter configurare la struttura generale della ragione, attraverso la libera variazione delle forme possibili di giudizio e di teoria. Fondate e riordinate a partire da essa, le scienze ingenue perderebbero, in questo modo, i loro caratteri di ingenuità e dogmatismo. Questa dottrina della scienza sarebbe, in quanto teoria deduttiva a priori, a sua volta scienza; sicché la disciplina di fatto praticata come logica formale si trova, nei suoi confronti, negli stessi rapporti in cui le altre scienze odierne si trovano con l’idea di una scienza futura, «fondata in modo universalmente apodittico» e dunque capace di dare vita ad

37. Cfr. Id., Ricerche logiche. Volume secondo, cit., pp. 444-447. 38. Cfr. C. Sini, Introduzione alla fenomenologia come scienza, cit., pp. 2829.

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una «autonomia umana personale e onnicomprensiva»39. Rispetto a quest’orizzonte, il nostro sapere resta infirmato dal secolare errore obiettivistico: è il «cattivo razionalismo» della naturalizzazione della coscienza e delle idee ad averci portato alla crisi delle scienze – non il razionalismo in quanto tale, né un’irrazionalità ad esso estrinseca, ma proprio la dimenticanza della funzione costitutiva della coscienza in virtù dell’accettazione immediata dell’esistenza, caratteristica dell’atteggiamento umano naturale40. In effetti, se la spaccatura della ragione teoretica tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale risale all’età moderna, i suoi prodromi sono di poco successivi alla nascita della filosofia. Socrate fu il primo ad avanzare la pretesa di «un metodo universale della ragione», tale da autochiarificarsi attraverso evidenze apodittiche ultime41; già Aristotele, padre dell’analitica formale, intese sviluppare logica del giudizio e del ragionamento scientifico a partire dal fatto dell’esistenza delle scienze, invertendo il procedimento platonico di fondazione del fatto a partire dall’indagine dell’idea della scienza possibile a priori42. L’acritico presupposto circa l’effettiva esistenza del mondo, radicandosi alla base della logica tradizionale (d’indubbia matrice aristotelica, piuttosto che platonica), ha radicalizzato, da un lato, il

39. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 287. 40. Cfr. G.D. Neri, L’ouverture della Crisi, in E. Husserl, L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, a cura di G.D. Neri, il Saggiatore, Milano 1961, pp. IX-LIV, in part. IXXXXXIII. Per la definizione di “obiettivismo” come “naturalizzazione della coscienza e delle idee”, cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, trad. it. di C. Sinigaglia, Laterza, Milano 2010, p. 14. 41. Cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, ed. it. a cura di G. Piana, Guerini e Associati, Milano 2013, pp. 31-32. 42. Cfr. L. Lugarini, La fondazione trascendentale della logica in Husserl, cit., pp. 170-171.

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processo di autonomizzazione delle scienze positive dalla logica – che, nel contesto della crisi delle scienze, si ritrova ad inseguirne le scoperte, piuttosto che a fondarle43; dall’altro, il processo di separazione tra filosofia e scienza, essendo la prima sempre più portata a risolversi in una ricerca metafisica del fondamento ontico degli enti44. Si intende, ora, in che modo un ripensamento della scienza a partire dalla fenomenologia trascendentale potrebbe intervenire nella crisi della cultura europea: riconvertendo questa duplice dinamica e ricollocando i precipitati storici dell’attività scientifica nell’orizzonte della realizzazione tendenziale dell’idea di filosofia, la fenomenologia riuscirebbe a superare criticamente le ingenuità alla base delle scienze positive senza essere costretta a rigettarne in toto l’immenso patrimonio di conoscenze45. L’esigenza di muovere dalla possibilità a priori della scienza comporta che tale progetto cominci proprio con la riforma della logica formale tradizionale in senso trascendentale. Nella questione della riconducibilità delle idealità formali della logica alle operazioni della soggettività trascendentale ne va, quindi, dell’intero progetto fenomenologico e del compito che esso si è autoassegnato nei confronti dell’umanità46. Quanto una tale logica [trascendentale] sia necessaria alle scienze […] lo mostra la disputa, che non manca in alcuna scienza per quanto esatta, sul vero senso dei propri fonda-

43. Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, ed. it. a cura di V. Costa, La Scuola 2016, p. 40. 44. Cfr. ivi, pp. 171-172. 45. Cfr. ivi, pp. 172-177. 46. Cfr. E. Husserl, Fenomenologia statica e genetica. Il mondo familiare e la comprensione degli estranei. La comprensione degli animali, in Id., Metodo fenomenologico statico e genetico, a cura di M. Vergani, il Saggiatore, Milano 2003, pp. 81-101.

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51 menti. […] Solo la logica trascendentale fa comprendere pienamente che le scienze positive possono mettere capo soltanto ad una razionalità relativa ed unilaterale, che lascia sussistere come sua necessaria controparte la più completa irrazionalità.47

Sin da Kant sappiamo che la conoscenza trascendentale ha carattere prettamente autoriflessivo48. All’inizio della logica trascendentale che il fenomenologo si propone di articolare, dunque, il pensiero mette a tema se stesso. Il linea generale, “pensiero” è qualunque vissuto di coscienza «costitutivo di senso», cioè riferito ad un’oggettualità inesistente intenzionalmente49. Il carattere intenzionale degli atti decorrenti nella vita di coscienza non comporta soltanto un riferimento-a: esso implica la funzionalità operante di un “io” differente dall’io dell’unità psichica di fatto. In ogni percezione è ostensibile, riflessivamente, un “io percepisco”; in ogni sentire un “io sento”, in ogni volere un “io voglio”. Esso non è effettivamente presente, in qualche modo, nella molteplicità dei vissuti – piuttosto, consiste in una tensione strutturale che permane identica nella vita di coscienza, conferendo all’oggettualità intenzionale una morfologia caratteristica: in essa saranno ogni volta reperibili aspetti di primo piano, direttamente afferrati dall’ego cogito, e aspetti di sfondo, inesistenti intenzionalmente ma non presi di mira dall’io desto. Non tutto ciò che si offre in un vissuto intenzionale è dunque investito dal senso. Non ogni manifestazione rispondente all’aver di mira strutturale al vissuto di coscienza è manifestazione per un ego desto. Basta rivolgersi alla propria esperienza quotidiana per reperire vissuti pulsionali, moti di volontà e idee sorti “all’improvviso”, 47. Id., Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 43. 48. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, ed. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Novara 2013, p. 90. 49. Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., pp. 50-51.

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oppure sogni50. Risulta evidente che il pensiero desto, il giudizio strutturato nel linguaggio e concatenato in un più ampio ragionamento, chiama in causa «un’operazione donatrice di senso […] altamente articolata e complessa»51 rispetto al mero aver di mira intenzionale. Se nella logica trascendentale si tratta di risalire quest’articolazione del pensiero per giungere alle “semplici” operazioni costitutive che ne sono condizioni di possibilità, occorrerà dunque indagare proprio la vita di quell’ampio sfondo di cui dicevamo – la vita «preteoretica» e «prelinguistica» dalla quale emerge la conoscenza eidetica52.

IV. Fondazione trascendentale e fatticità La vita della soggettività è una vita di associazioni, operanti in senso costitutivo in tutti i livelli dell’individuazione di oggettualità intenzionali53. L’autoriflessione (Selbstbesinnung) intrapresa dalla logica formale non mira soltanto a descrivere una derivazione delle forme del logos da tali associazioni inferiori. Essa intende piuttosto esplicitare come, ogni volta, ciascuna complessa donazione di senso emerga da un’articolazione originaria di operazioni costitutive. Così facendo, essa restituisce vita alla vuota armatura della logica tradizionale. Ogni vita di coscienza, in quanto finita, tende infatti da sé a disperdersi, ad obliare se stessa54. Persino la persistente idealità della scienza si ritma secondo questo errante procedere delle generazioni umane, opacizzandosi o chiarificandosi in funzio50. Cfr. ivi, pp. 52-57. 51. Ivi, p. 67. 52. Cfr. ivi, p. 68. 53. Cfr. ivi, p. 210. 54. Cfr. E. Paci, Husserl sempre di nuovo, cit., pp. 12-18.

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ne dell’operare degli studiosi55. La decisione della volontà e lo sforzo che l’autoriflessione fenomenologica richiede a colui che la intraprende sono dovuti appunto al tentativo di risalire tale corrente della vita, fino alla sorgente da cui “ricominciare”. L’esplicazione del senso è, in questo modo, anche costituzione o ricostituzione di esso56. Per questa ragione, la fatticità della vita trascendentale che l’autoriflessione tenta d’afferrare è insieme identica e differente rispetto a quella della vita naturale, mondana, dimentica di sé. Se infatti, da un lato, questa vita non è altro che una cristallizzazione delle associazioni che animano quella, dall’altro il Faktum come ineludibile componente della sintesi trascendentale esibisce una costituzione di senso ben più articolata rispetto alla positività fattuale irriflessivamente inscritta nel procedere della nostra esperienza quotidiana. In altre parole, natürliche Umwelt e Lebenswelt sono uno, ma soltanto in quanto la seconda comprende in sé la prima, lasciandone scorgere una nuova dimensione – la dimensione dell’operatività profonda da cui emerge il mondo costituito57. La vita ingenua è stata lasciata dal fenomenologo

55. Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, cit., p. 101. Lo stile dell’esperienza quotidiana è, di fatto, lo sfondo strutturale anche del processo di costituzione della conoscenza scientifica. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 150. 56. Cfr. L. Lugarini, La fondazione trascendentale della logica in Husserl, cit., p. 174. 57. Quest’aspetto del concetto di Lebenswelt è discusso, ad es., in U. Claesges, Zweideutigkeiten in Husserls Lebenswelt-Begriff, in U. Claeges, K. Held, Perspektiven transzendentalphänomenologischer Forschung, Martinus Nijhoff, Den Haag 1972, S. 85-101. L’espressione «natürliche Umwelt» si trova in E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Husserliana, Bd. 3.1, K. Schuhmann (hrsg.), Martinus Nijhoff, Den Haag 1976, S. 56-61 (pp. 61-67 dell’ed. it. cit.), e va qui intesa secondo il significato lì esposto – in considerazione dell’uso talvolta poco differenziato che Husserl fa di espressioni quali “Umwelt”, “Erfahrungswelt” e

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solo per poter poi essere ripresa alla luce di una nuova chiarezza. Resta da esaminare se l’idea di una fatticità operante e vivente, pienamente afferrata, trovi corrispondenza nell’elemento fattuale effettivamente reperito nell’autoesplicazione fenomenologica. L’indagine delle associazioni passive – non afferrate, ancorché afferrabili in un ego cogito – è, naturalmente, condotta con riguardo alla struttura eidetica delle diverse associazioni. Si tratta di «scoprire in modo realmente sistematico l’io concreto in generale secondo le sue determinazioni essenziali»58; d’intendere, cioè, tutte le configurazioni possibili a priori di quest’ego intenzionale che opera come donatore di senso. Non tutti i modi della Sinngebung sono infatti compossibili, cioè compatibili all’interno dell’associazione universale ed originaria che è l’ego: ne risulta che quest’attività non associa a caso, ma secondo una legalità essenziale. Lo sguardo genetico dovrà dunque fare perno sulla costituzione statica di quest’ego59. La tensione tra storia e forma che qui s’intravede può essere conciliata soltanto se il più radicale approfondimento del discioglimento dell’idealità nelle operazioni associative inferiori non esubera dalla forma più generale dell’ego; o, che è lo stesso, se la forma più generale dell’ego è flessibile al punto tale da poter accogliere l’apporto fattuale inevitabilmente implicato nella risoluzione genetica della Sinngebung. Se l’ego è essenzialmente associazione60, l’analisi genetica, passando attraverso relazioni sempre meno comprensive, dovrà infine “Lebenswelt”. Sulla lettura del concetto di Lebenswelt qui esposta – e sulle sue conseguenze relativamente al rapporto tra fatticità, scienza positiva e filosofia trascendentale – cfr., ad es., E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, il Saggiatore, Milano 1963, pp. 23-26. 58. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 99. 59. Cfr. ibidem. 60. Cfr. ivi, pp. 104-105.

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arrivare o ad un’associazione originaria, che preceda gli elementi associati, o ad una pluralità irrazionalmente irrelata. Dovrà decidere, in altri termini, della precedenza originaria tra unità formale e molteplicità materiale: è questo il problema della «prima infanzia»61, in una visione diacronica della vita di coscienza, o della πρώτη ὕλη62, in ciascuna sezione sincronica di essa. Il senso costituito esibisce un oggetto inesistente intenzionalmente. A ben guardare, l’attività intenzionale è appunto un costante afferramento di oggetti. In quanto tali oggetti sono forme finali possibili di processi di articolazione associativa, essi non soltanto ci sono noti fin da subito come sorti da una genesi, ma devono mostrare in sé stessi i rimandi a tale processo, le tracce mediante le quali ripercorrere all’inverso la storia delle associazioni intenzionali che li costituiscono – senza che la storia dei fatti psicofisici sembri entrare in gioco in questa ricostruzione63. Dall’associazione di oggetti individuali, parallelamente costituiti, nelle forme della coesistenza e della successione, alla sintesi della coscienza originaria del tempo, costituente questi stessi individui; dalla costituzione per omogeneità contenutistiche di oggettualità immanenti nello “ora” (Jetzt) del presente fluente, all’ordinamento dell’importo sen61. Ivi, p. 103. 62. Cfr. ibidem. Si tratta, com’è noto, di un termine tipicamente aristotelico. Sulle diverse definizioni di ὕλη in Aristotele, mi limito, qui, a rimandare ai testi: sulla materia come natura, cfr. Aristotele, Fisica, ed. it. a cura di M. Zanatta, UTET, Torino 1999, pp. 158-162; sulla materia come potenza, cfr. Aristotele, La metafisica, ed. it. a cura di C.A. Viano, UTET, Torino 1974, pp. 403-404; sulla materia come sostanza, cfr. ibidem; sulla materia come causa, cfr. Aristotele, La metafisica, cit., p. 298. Sulla storia del lemma nel contesto della filosofia classica, cfr. I. Gobry (a cura di), Vocabolario greco della filosofia, ed. it. a cura di T. Villani, Mondadori, Milano 2004, pp. 108111. 63. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 102.

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sibile immanente per mezzo degli interni contrasti fra contenuti e delle variazioni dell’intensità dell’affezione che questi, in quanto differenziati, comportano64: ciascuna di queste aggregazioni si svolge nell’orizzonte della costituzione trascendentale. E tuttavia, il sempre più rilevante ruolo dell’affezione sensibile in ciascuno dei livelli d’associazione pone una questione significativa: se l’afferramento nella forma dell’ego cogito, infatti, sottintende la polarizzazione di un io «come polo identico degli Erlebnisse»65, resta da capire quale più ampia unità possa invece sostenere l’attività associativa che opera negli atti costitutivi inferiori. A questa unità formale, coglibile eideticamente, spetterebbe infatti il compito di accogliere l’importo sensibile entro relazioni definite, superando così lo iato tra l’indefinito, irrazionale molteplice della fatticità e l’unità del senso costituito. Ebbene, quest’unità è proprio quella dell’ego concreto, effettivo, fattuale66. Quest’io ingenuo, preriflessivo, è uno con il suo mondo-ambiente continuativo, che è integralmente per lui; soltanto in quanto caratterizzato da una tale unità assoluta – l’unità di una monade – esso può elidere ogni tensione verso l’irrelato, verso l’esterno che si precipita evenzialmente nell’orizzonte di coscienza, guadagnando al contempo sufficiente vicinanza all’«intero vivere potenziale e attuale della coscienza»67. Husserl trarrà, in alcuni manoscritti degli anni successivi, le conseguenze di questo ritorno all’ego di fatto. «Tempo della vita» e «tempo del mondo» resteranno separati: la vita umana effettiva – che nasce, muore, s’addormenta – risalta in tutta la sua finitezza mentre indaga un mondo infinito e infinitamente

64. Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., pp. 209-267. 65. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 92. 66. Cfr. ivi, pp. 93-94. 67. Ibidem.

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vincolato al suo proprio stile. Questa infinità di sviluppi possibili resta, per ogni vita umana, essenzialmente potenziale, irrecuperabile all’attualità della vita di coscienza68. E ciò proprio perché la vita nasce. La nascita è appunto un fatto localizzato, un punto di vista limitato sulla connessione universale dell’esperienza mondana, non derivabile da essa e dunque nemmeno completamente reintegrabile in essa. Essa non avviene in virtù di nulla. Poteva, dunque, anche non avvenire affatto. E per questo motivo essa resta, come ogni fatto, essenzialmente contingente69.

68. Cfr. E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution. Die C-Manuskripte (1929-1934), Husserliana, Materialen, Bd. VIII, hrsg. von D. Lohmar, Springer, Dordrecht 2006, S. 154-166, 417-430. 69. Nell’impossibilità di ripercorrere, qui, storia e ruolo di questo lemma nell’ambito del pensiero occidentale, mi limito a rimandare ad alcuni riferimenti noti. Aristotele vede in τὸ ἐνδεχόμενον un termine plurivoco (Primi analitici, 25a 40, a p. 94 dell’ed. it. a cura di G. Colli, in Organon, Adelphi, Milano 2003, pp. 91-274). Esso può essere impiegato omonimicamente per denominare una relazione necessaria (32a 20-21, a p. 121 dell’ed. cit.); per denominare qualcosa che non è necessario che sia predicato o non predicato di una determinata sostanza (25b 4-14, p. 95); per denominare una relazione tale che, non essendo necessaria, è posta senza che da ciò risulti nulla di impossibile (32a 18-20, p. 121). Relazioni di quest’ultimo tipo possono dunque convertirsi in base ad un’antitesi (ivi, 32a 34). Da questa proprietà deriva la definizione di contingente come ciò che è, ma può non essere (Dell’espressione, 19a 10-12, a p. 68 dell’ed. cit., pp. 58-87). N. Abbagnano (cfr. Dizionario di filosofia, UTET, Torino 2006, pp. 206-207) ha sostenuto la rilevanza, nella successiva tradizione scolastica, della distinzione tra possibilis e contingens delineatasi tra Boezio ed Avicenna: contingente, in modo coerente rispetto ad alcuni passi aristotelici (ad es., Primi analitici 34a, pp. 128129 dell’ed. cit.), viene ad indicare ciò la cui posizione è possibile, ma dipendente da altro – da un altro dalla cui posizione la sua posizione consegue, sicché, data la sua causa, si pone necessariamente. In Leibniz, contingente è il fatto che non è necessario che ex hypothesi (cfr. G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, in Id., Scritti filosofici I. Scritti di metafisica, ed. it. a cura di D. O. Bianca, UTET, Torino 1967, pp. 63-110, in part. p. 76). È chiaro, così,

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V. Possibilità, potenzialità, contingenza La vita nuova della scienza passa, come abbiamo visto, attraverso l’autocritica più radicale – attraverso la sua restituzione alla fatticità, affinché possa emergerne con recuperata pienezza. La scienza eidetica delle pure possibilità, internamente organizzata secondo rapporti di generalità e particolarità, conserva un inscindibile rapporto con la fatticità, e non soltanto in quanto questa pertiene ad un “questo qui” in fondo liminare rispetto ai compiti della scienza: è infatti proprio il fondamento ultimo del sistema, l’ego concreto, ad essere fattivo. Non è più possibile, a questo punto, una pacifica divisione del lavoro tra metafisica e dottrina a priori dell’esperienza naturale. Il mondo, così come l’assoluta singolarità del questo qui, resta irrimediabilmente trascendente rispetto ad ogni afferramento riflessivo; e ciò perché entrambi, mondo e singolarità, non possono ritrovarsi nell’esplicitazione delle potenzialità implicite, delle pure possibilità di determinazione descrivibili a priori da una scienza eidetica. Formalizzazione e libera variazione sono, certo, in grado di offrirci un’intuizione della legalità entro cui si dà, per noi, qualsiasi potenziale esperienza delle cose della natura; ma tale intuizione resta sempre riferita ad una certa stilizzazione, più o meno ricca, di questa esperienza. In ciascuna delle due direzioni rimangono indefinitamente aperti orizzonti potenziali di indagine. Quest’infinito spazio di tematizzabilità a priori deriva, secondo un paradosso soltanto apparente, proprio dall’inesauribilità a priori di questi temi – cioè dalla fattualità implicita nel loro darsi, il quale, impossibile per un ego ridotto a relazione formale, è riferibile, piuttosto, soltanto ad un ego monadico, già nato come uno col suo mondo-ambiente.

entro quali termini la fenomenologia possa intendere il Faktum, nella sua contiguità con una molteplicità infinita, come essenzialmente Kontingent.

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Compreso fino in fondo a partire dal suo ruolo nell’esperienza, il mondo non è, infatti, una sorta di “orizzonte degli orizzonti”, una somma di tutte le prospettive potenziali la cui legalità non sarebbe altro che quella delle transizioni possibili a priori fra queste. Un tale conglomerato non solo non potrebbe mai darsi entro l’esperienza dell’ego finito; esso non avrebbe nemmeno una funzione costitutiva sul piano trascendentale, limitandosi a riunire oggettualità già istituite70. La forza dirompente del “questo qui” nei confronti del sistema della scienza prefigurato dalla fenomenologia consiste nella sua non aggirabile implicazione in ogni senso costituito. L’idea di un mondo come totalità chiusa, dal canto suo, è stata messa fuori gioco, per la filosofia trascendentale, fin dall’esposizione kantiana sull’antinomia della ragion pura71. Ciò che ci interessa, nel momento in cui tentiamo di definire uno stile del mondo, è piuttosto il mondo come «ciò a partire da cui ogni essere può venir compreso. […] [Esso] non può essere considerato come la “fine” dell’infinita apertura d’orizzonte di ciò che è, bensì come il suo fondamento e il suo inizio, come ciò in cui ogni essere è, e in base al quale ha un proprio senso. […] Esso è, in un certo senso, lo stile della nostra esperienza»72. E se la ricerca di questa struttura a priori è infine costretta a demandare il suo oggetto tematico all’irriducibile trascendenza dell’irrazionale, essa non potrà far altro che assumere un fondamento contingente per il suo ordine sistematico; la stessa dottrina fenomenologica della scienza, come dottrina formale delle molteplicità definite e delle operazioni associative corrispondenti, non può far altro che ammettere, nella Selbstbesinnung trascen-

70. Cfr. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, trad. it. di E. Filippini, Bompiani, Milano 1960, pp. 54-62. 71. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 352-461. 72. G, Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., pp. 58-59.

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dentale, l’ingerenza di un’acquisizione (Erwerb) puramente iletica nel sorgere delle associazioni più originarie73. L’infinito orizzonte di potenzialità che si dirama da ogni esperienza attuata non sta semplicemente di fronte all’io, inerte: le sue molte direzioni lo “chiamano”, gli chiedono di essere esplicitate, in quanto l’io è, in ultimo, una perpetua operatività costituente senso. È in questo modo che l’io è uno col suo mondo-ambiente: egli è «vita-che-esperisce-il-mondo», cioè unità originaria tra «il mondo [che] è soltanto “per” un io, e […] l’io [che] è soltanto in quanto proiettato in un’esperienza del mondo»74. Un io siffatto, unità di immanenza e trascendenza, di familiarità ed estraneità, può determinarsi in modi infinitamente diversi, seguendo il tracciato di possibilità designato, ed ogni volta rinnovato, dalle proprie motivazioni, dalle conferme e dai defalcamenti che egli reperisce in ciò che conosce. Ma può farlo solo perché è accaduto che egli nascesse come vita-che-esperisce-il-mondo, ed ogni volta accade che egli ritrovi presso di sé un mondo entro cui esperire. Di fronte allo scienziato – e di fronte a ciascuno di noi, in quanto uomini – resta una nozione di possibilità internamente spaccata. Si tratta, ancora una volta, di una dicotomia asimmetrica: soltanto la contingenza del fatto può aprire l’ambito di esplicazione delle potenzialità dell’ego, mentre l’ego, dall’altro lato, non dispone della potenzialità di attuare la sua stessa nascita75. Compreso questo rapporto, rimane da determinate

73. Ad es., E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution. Die C-Manuskripte (1929-1934), cit., §. 102. 74. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., p. 62. 75. Si tratta, com’è noto, di un aspetto della questione approfondito e radicalizzato da M. Heidegger. Basti qui il rimando alla questione della Geworfenheit in Essere e tempo (cfr. l’ed. it. a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2011, pp. 214-220). È certo che le ricerche perseguite in quell’opera ab-

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come effettivamente la forma logica emerga dalla ricettività dell’io: a questo tema saranno dedicate le indagini poi riunite in Esperienza e giudizio76.

biano influenzato gli interessi e le impostazioni husserliane a partire dalla fine degli anni Venti. Cfr., ad es., a questo proposito, e più in generale sui rapporti tra Husserl e Heidegger, E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, a cura di R. Cristin, Unicopli 1999; C. Sinigaglia, Saggio introduttivo, in E. Husserl, Glosse a Heidegger, a cura di C. Sinigaglia, Jaca Book, Milano 1997, pp. 9-53. 76. Cfr. E. Husserl, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica redatte e edite da Ludwig Landgrebe, trad. it. di F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 2007.

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Identità e metamorfosi nella Recherche di Proust. L’unità dell’opera letteraria di Simone Testa

Segni, indizi, presentimenti, si sa, attraversano giorno e notte, come ondate, il nostro organismo. La questione è: preannunciano o servono? Le due cose sono però inconciliabili. Viltà e inerzia consigliano la prima, lucidità e libertà la seconda. W. Benjamin, Einbahnstraße (1928)

1. Poche opere letterarie hanno impegnato e insieme mutato le capacità di comprensione della critica come ha fatto la Recherche proustiana1. L’ampiezza e la varietà dei materiali inseriti nella narrazione hanno spostato i confini della comprensione della critica tracciati in precedenza; quelli provengono dalle arti (musica, teatro, letteratura, architettura, etc.), dalle descrizioni della società nobiliare e borghese, oramai 1. Tutte le citazioni della Recherche fanno riferimento al testo nella seguente edizione: M. Proust, À la recherche du temps perdu, ediz. diretta da J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1987-1990, 4 voll; trad. it. di G. Raboni, Alla ricerca del tempo perduto, ediz. diretta da L. De Maria e annotata da A. Beretta Anguissola e D. Galateria, prefazione di C. Bo, Mondadori, Milano 19831993, 4 voll. Per i riferimenti alla Recherche, da qui in poi, si indicherà in nota il titolo dell’opera proustiana, l’anno della prima pubblicazione, seguito dal numero del volume e della pagina dell’edizione della traduzione italiana citata.

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fuse nella Parigi dell’ultimo secolo, prima e durante la Grande Guerra. Più in particolare, narrando la giovinezza del protagonista, racconta dei suoi amori, tentando di descrivere leggi generali del desiderio, di quel mondo che più di tutti compete alla poesia, integrando il tutto con delle originali trattazioni di temi filosofici, che vanno da una teoria della conoscenza e della memoria, a una teoria dell’arte (e della vita). Se, già dalla pubblicazione di Dalla parte di Swann, l’opera di Proust poteva apparire ai meno attenti come un disorganizzato insieme di tutti i materiali prima sommariamente citati, l’autore si è sempre impegnato a reagire a queste critiche, spesso superficiali, altre volte più sottili. Le risposte di Proust in merito sono indicative: già dalle prime interviste, rilasciate per far conoscere la sua opera al grande pubblico, egli sottolineava che quel primo volume non potesse costituire in alcun modo un’opera unica, ma che dovesse essere considerato come prologo di una vicenda più lunga, di un esperimento che aveva bisogno di una durata maggiore per mostrare dei risultati; soltanto alla fine dell’opera (nel ’13 erano previsti solo tre volumi) si sarebbero lette le considerazioni teoriche definitive dell’autore riguardo l’arte, l’amore, la vita, la morte. Non prima di questa parte teorica conclusiva, che fu scritta insieme ad alcuni capitoli del primo volume, si sarebbe mostrata l’unità tra i materiali prima elencati. Il Narratore, giunto alla fine del suo cammino, è sicuro di aver trovato – attraverso le riflessioni (non soltanto opera dell’intelligenza) sulle sue esperienze – le leggi generali che possono descrivere sia la vita sia l’arte, sia la società che l’amore. Vedremo nel corso di queste pagine in che modo questo rapporto tra esperienza e riflessione è narrato nell’opera; in particolare, ci concentreremo su un passaggio del secondo volume della Recherche che rinvia, in modo sufficientemente diretto, attraverso i fili del tessuto della narrazione, al cuore della struttura dell’opera.

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L’attenzione rivolta alle strategie narrative e non soltanto ai passaggi teorici, che pur sembrerebbero, per loro natura, più chiari e diretti in proposito, è conseguenza della convinzione che la sintesi di narrativa e saggistica sia uno dei particolari pregi della teoria del romanzo proustiano: scindere queste due parti, che costantemente s’intrecciano nel corso delle pagine, costituirebbe un errore fondamentale, poiché impedirebbe di comprendere la reale portata e posizione dell’opera nella storia della letteratura dell’ultimo secolo. Per questo motivo, per evidenziare il legame che sussiste tra il problema della struttura, del rapporto tra i frammenti e l’unità dell’opera, e quello narrativo, in riferimento alle metamorfosi dei personaggi, si tenterà di analizzare, nelle pagine che seguono, questi due percorsi interpretativi, ricongiungendo, poi, se si dimostreranno tali, le conclusioni finali di entrambi. La Recherche – più che un’immensa cattedrale, come amava chiamarla, per tante ragioni, il suo autore2 – è un tentativo di sistemare, lungo un cammino già immaginato e delineato attraverso delle «convinzioni intellettuali», un’infinita varietà di forme e frammenti di esperienze; questi possono rappresentare tanti piccoli sentieri solo apparentemente secondari rispetto al cammino principale. Soltanto per chi si preoccupa di guardare retrospettivamente il percorso compiuto, queste forme secondarie costituiscono la trama fondamentale e spesso necessaria del percorso. Ciò può essere compreso se si fa riferimento ai testi preparatori, alle rielaborazioni, alle soppres-

2. Per i numerosi riferimenti al tema della cattedrale come figura dell’opera all’interno della Recherche, si veda la voce Cathédrale di A. Beretta Anguissola, in Dictionnaire Marcel Proust, Champion, Paris 2004. Per una trattazione più ampia del tema, si veda G. Girimonti Greco, Cattedrali moribonde e monumenti quasi persiani: la riscrittura di un archetipo giovanile, in Non dimenticarsi di Proust: declinazioni di un mito nella cultura moderna, Firenze University Press, Firenze 2014, pp. 565-84.

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sioni, agli spostamenti che subisce ogni parte e frammento del materiale narrato. In altri termini, anche se soltanto provvisori, attraverso il fluire della narrazione si assiste alla battaglia tra l’irriducibile vitalità o autonomia dei frammenti e la rigidità dell’ordine o struttura del cammino stabilito. I frammenti, riuniti e legati da associazioni e rimandi interni all’opera, corrispondono, nella loro funzione ultima, al materiale proveniente dal fondo della memoria involontaria. L’espressione che Proust usava per definire «i suoi errori soggettivi» indica la necessità che essi siano inclusi nella narrazione, non soltanto per l’esposizione delle esperienze come sono avvenute, ma soprattutto per la consistenza della materia delle convinzioni intellettuali che si vogliono esprimere e sostenere. In questo senso – e in questo soltanto –, la teoria proustiana del romanzo dovrebbe valere e interessarci nel suo riferimento alla realtà3. La domanda circa l’unità e i frammenti della Recherche si sovrappone al dominio, che dovremo presto circoscrivere, del tema dell’identità e metamorfosi del Narratore e dei personaggi; come le forme e i nuclei narrativi si generano tra loro sullo sfondo dell’idea generale dell’opera, così i personaggi acquistano e mostrano i loro lati o facce seguendo il ritmo della stratificazione dei vari “io” del Narratore4. L’identità di 3. Per “realtà” qui si intende il campo dell’esperienza soggettiva dell’autore e del Narratore, punto di accesso e materiale per la ricerca che l’opera si impone. Cfr., G. Macchia, L’io del narratore e la lunga strada verso la Recherche, in Tutti gli scritti su Proust, Einaudi, Torino 1997, pp. 116-34. 4. Per comprendere meglio il tema e per legarlo al linguaggio del romanzo proustiano, si possono ricordare alcune interviste che l’autore rilasciò nel 1913 per la pubblicazione del primo volume dell’opera. A Le Miroir: «Ho tentato – così Proust – di seguire la vita, nella quale alcuni aspetti insospettati di una persona si rivelano improvvisamente ai nostri occhi. Viviamo accanto ad esseri che crediamo di conoscere. Manca soltanto l’avvenimento che li farà apparire d’un tratto del tutto diversi da come li conosciamo. […] I miei personaggi appariranno nei loro vari lati soltanto nel corso dei volumi, come nel tempo si rivelano a noi le diverse personalità di un medesimo individuo.»

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quest’ultimo dovrebbe essere in questo modo costudita dalla sovrapposizione mai completamente sedimentata dei vari strati, in accordo con la teoria della psicologia sperimentale di fine ’8005. In questo modo il Narratore, che attraversa i vari strati come se non appartenessero a lui, ma al dominio dell’esperienza esterna, può osservare e descrivere i multiformi aspetti della realtà che modificano il modo in cui ha esperienza, in riferimento a quella stratificazione che solitamente si definisce storia o identità del sé. Come il problema del “nome”, anche quello del riconoscimento di una persona o di un qualcosa in generale – che sia un atteggiamento politico di un salotto mondano, il viso di una fanciulla, il comportamento sessuale di un personaggio –, ha rispettivamente il suo primo e secondo modo di risolversi nell’osservare il mutamento della forma, come ciò che sfugge al controllo dello sguardo naturale e in-

(M. Proust, Cahiers Marcel Proust, 3: Textes retrouves, recueillis et présentés par Philippe Kolb, Gallimard, Paris 1971, pp. 292-295. La traduzione è mia.) Per le nostre considerazioni è importante notare il collegamento che Proust consapevolmente stabilisce tra il movimento disvelatore del tempo e il mostrarsi dei vari lati di un personaggio durante lo sviluppo della narrazione, così come accade nella vita. Invece, a Le Temps, qualche settimana prima: «Alcuni giovani scrittori, con i quali sono d’altronde in simpatia, auspicano al contrario un’azione breve con pochi personaggi. Questa non è la mia concezione del romanzo. Come devo spiegarvelo? Voi sapete che c’è una geometria piana e una geometria nello spazio. Bene, per me, il romanzo non è solo fatto da una psicologia piana, ma da una psicologia nel tempo. Questa sostanza invisibile del tempo, che ho tentato di isolare, necessitava, a tale scopo, che l’esperimento potesse durare. […] Poi, come una città che, mentre il treno compie il suo cammino contorto, ci appare ora alla nostra destra, poi alla nostra sinistra, così i diversi aspetti che un medesimo personaggio avrà acquistato agli occhi d’un altro – al punto che sia diventato quasi tanti personaggi successivi e differenti –, daranno, solo in questo modo, la sensazione del tempo trascorso. Tali personaggi si riveleranno più tardi diversi da come si presentano nell’attuale volume [Dalla parte di Swann], diversi da come li si credeva, proprio come, del resto, accade sovente nella vita.» (Ivi, pp. 285-91; qui, p. 288. La traduzione è mia.) 5. A. Contini, La biblioteca di Proust, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1998.

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tellettuale dell’osservatore, ormai sottomesso a quel dominio dell’esperienza intesa come potenza esterna e imprevedibile. In questo senso, il nocciolo della teoria dell’esperienza proustiana, con il diretto riferimento al titolo dell’opera maggiore, è un recupero dell’esperienza attraverso il controllo su di essa, cogliendone le leggi e, fallendo, rassegnarsi alle inconciliabili contraddizioni. Se si interpreta, invece, anche soltanto in modo parziale, il tentativo proustiano in riferimento al «tempo perduto», che va ritrovato come le ore e gli anni che scivolano via tra le dita nel periodo dell’infanzia e della prima giovinezza (la vera ricerca comincia quando il Narratore diviene consapevole di essere entrato nella vita, di aver cominciato la sua vita da adulto), è possibile interpretare quel perdere e quel ritrovare in relazione al campo dell’esperienza in generale, come modalità perduta dell’esperienza infantile; quest’ultima è caratterizzata dall’assenza di un controllo e forzatura su se stessa, tentando, invece, una sua ricomposizione autonoma in una seconda unità contenuta nella prima, in un altro mondo con leggi diverse, differenti dalle prima ma non in contrasto aperto con esse6. Questa è – detto sinteticamente – la ricerca dell’esperienza perduta attraverso il tempo passato7. La trama del racconto – la sua «tessitura»8 – è un’attenta sistemazione degli elementi dati dal piano della memoria

6. Per una visione simile ma, almeno in questo contesto, non riferita esplicitamente al mondo proustiano dell’infanzia, si veda W. Benjamin, Einbahnstraße (1928), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955, trad. it. Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983, pp. 11-2. 7. Riflessioni simili si trovano in K. R. Greffrath, Proust et Benjamin, in Walter Benjamin et Paris. Colloque international 27-29 juin 1983, a cura di H. Wismann, Cerf, Paris 1986, pp. 113-31. 8. Cfr. W. Benjamin, Zum Bilde Prousts (1929), in Id, Gesammelte Schriften, voll. I-VIII, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974-1989, vol. II/1, pp. 310-24; qui p. 311; tr. it., di A. Marietti Solmi, Per un ritratto di Proust, in Id., Opere

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involontaria attraverso l’opera di riflessione dell’intelletto. Il piano della narrazione è dunque un estremo tentativo di fondere i piani dell’esperienza, incluse le opere dell’intelligenza. Il carattere d’imitazione della vita da parte della narrazione è solo un espediente per spiegarne il funzionamento oppure si tratta del suo tratto fondamentale, ciò che conferisce l’unità all’insieme – e quindi, infine, ciò che ne rinsalda l’identità nei confronti del flusso non imprigionabile della vita?9

2. Molto si è scritto circa l’unità della Recherche: una teoria letteraria, o più in generale, estetica, che dovesse trascinare sin dall’inizio, come un sofisticato mulinello, tutti i fili o frammenti narrativi, saggistici e teorici che sono sparsi tra le migliaia di pagine dell’opera proustiana. Un’unità teorica di questo tipo si ritrova sicuramente espressa nel Il Tempo Ritrovato, l’ultimo volume dell’opera, in pagine scritte insieme alle primissi-

complete, a cura di E. Ganni, 9 voll., Einaudi, Torino 2000-2014, vol. III, Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 2010, pp. 285-97; qui pp. 286. 9. Il tema dell’identità tra leggi della vita (in particolare quelle del desiderio) e leggi della narrazione costituisce la base del tentativo teorico proustiano, la forma specifica della sua struttura dogmatica. Le leggi del desiderio saranno descritte nella narrazione degli avvenimenti dei personaggi e, più in generale, degli amori (in particolare, il personaggio inafferrabile per eccellenza, Albertine, l’«essere in fuga»). Le leggi così descritte corrispondono al “Tempo che scorre” (ciò che diverrà il Tempo perduto); la scoperta della possibilità della sua redenzione costituirà, invece, il tema fondamentale dell’opera, il motivo per iniziare la sua composizione. Per tale riferimento, si veda D. De Agostini, Albertine: “figura allegorica” dell’opera e “metafora” della scrittura, in «aut-aut», 193-4, 1984, pp. 43-72; ora in Proust oggi, a cura di L. De Maria, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1990, pp. 169-89.

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me dell’incipit di Dalla parte di Swann. Astraiamo, però, un frammento autonomo, tendendo fermo, inerte sullo sfondo, la chiusa teorica del Il Tempo Ritrovato, trattando il nucleo narrativo della comparsa della «piccola banda» contenuto in All’ombra delle fanciulle in fiore come un’esperienza che ha un riferimento e una dipendenza interna, invece che poggiare su un piano narrativo prestabilito. Alla fine del nostro percorso si potrebbe mostrare, in questo modo, che la teoria estetica che giunge in conclusione dell’opera non assorbe necessariamente ogni vitalità delle singole parti: nella scoperta vacuità dell’amore, della politica, della vita mondana, dell’amicizia, dei legami familiari, etc., sebbene sia l’arte che redime, la materia fornita dalla sensibilità e dalla memoria forza e rende arduo il tentativo di dare una compiuta fondazione autonoma all’opera d’arte. La posizione di Proust in merito, però, sembrerebbe confermare proprio questa tesi: che solo l’arte ha la capacità di dare valore e significato all’esperienza e alla vita nel suo complesso. Per comprendere la posizione di Proust, concentriamo le nostre analisi sulla famosa domanda che Gilles Deleuze pone in apertura al suo libro sullo scrittore francese: «In che cosa consiste l’unita di Alla ricerca del tempo perduto?»; la domanda, poi, si specifica: da cosa la Recherche «trae la sua unità, ed anche il suo straordinario pluralismo»?10 L’opera proustiana non è l’esposizione o rappresentazione della memoria, inclusa quella involontaria, o del tempo passato, ma è un’unità che si forma autonomamente intorno ad un’idea fondamentale – il punto teorico raggiunto che segna la distanza tra ciò che Proust aveva scritto prima della Recherche e ciò che si affretta 10. G. Deleuze, Marcel Proust et les signes, P.U.F., Paris 19641 (éd. augmentée, Proust et les signes, 1970, 1976); tr. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Id., Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 19671, ed. aumentata 1986, p. 5.

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a comporre, a terminare e rifinire nel tempo che gli sarebbe rimasto fino alla morte. Prima della Recherche, lo scrittore non era riuscito a comporre un’opera organicamente strutturata: che si trattasse di una raccolta di articoli o di piccoli racconti e novelle11. Ora, invece, l’idea fondamentale è quella di un mondo costituito da una fitta e sotterranea rete di rimandi, di figure, di segni. L’attenzione verso il «mondo segreto dei segni» corrisponde alla volontà di scoprire le nascoste somiglianze tra le cose apparentemente più diverse e distanti tra loro. L’idea dei segni, che rappresentano una realtà più profonda di quella immediata, si converte in una fittissima rete di riferimenti all’arte, alla storia, al clima politico e sociale del tempo, che impregna ogni pagina della narrazione e che ne spiega il senso nascosto, quello che non è possibile cogliere nell’immediatezza dell’esperienza; questa tensione continua verso il ricongiungimento delle differenze alla somiglianze e agli elementi comuni costituisce e dà forma concreta alla struttura dell’opera. A questo punto si lega il tema dell’identità: la conoscenza chiara di una qualche singolarità, attraverso una rete di rimandi che continua a segnare differenze invece che somiglianze, risulta impossibile, anche e soprattutto se ciò che si osserva con occhio da sperimentatore sembra essere una singolarità, un’unica persona, un unico personaggio, una singola città o paese, una cerchia sociale, etc. Il cammino del Narratore tra i molteplici mondi dei segni è ciò che Deleuze definisce «l’apprendistato del letterato»12, che si ricollega alla volontà di avventurarsi tra gli infiniti rimandi,

11. Il riferimento è a Proust, Jean Santeuil, Gallimard, Paris 1952 (trad. it. e introd. di F. Fortini, Jean Santeuil, Einaudi, Torino 1953), romanzo giovanile rimasto incompiuto e pubblicato postumo; e a Id., Pastiches et Mélanges, Gallimard, Paris 1919; per maggiori informazioni su queste opere, si rimanda alle rispettive introduzioni alle edizioni citate. 12. Cfr. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., pp. 26 ss.

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impegnato a decifrarli e a ricomporre le unità frammentarie e non comunicanti che formano l’apparenza del mondo immediato. Solo in questo modo il mondo potrà essere ricondotto alla verità ossia alle sue «essenze reali». L’intero cammino dell’apprendistato, che organizza in forma autonoma e spontanea il materiale della narrazione (i frammenti che costituiscono i nuclei narrativi dell’opera), non è semplicemente un discorrere, un riflettere sulle memorie del passato, ma costituisce la struttura superficiale, che può essere svolta come narrazione, dell’identità o della verità del soggetto con il suo oggetto (dei vari mondi a cui rimandano i segni) che sfugge, però, a ogni possibile conoscenza. Il principio che guida e impone il cammino, lo svolgimento e l’esposizione dell’identità dell’apprendista, è ciò da cui la Recherche trae la sua unità; il cammino si conclude con il raggiungimento delle essenze reali, che rappresentano, nei termini fin qui utilizzati, degli riferimenti stabili a oggetti prima oscuri: una mappa particolareggiata di tutti i rimandi possibili ai mondi che costituiscono il reale (il mondo immediato), ora emendato dagli errori, dalle illusioni, dalle contraddizioni, dai fraintendimenti. Il tratto essenziale, l’unità attraversata da quell’idea fondamentale dei segni, e insieme il vero soggetto dell’opera, è la storia della vocazione letteraria del Narratore. Si tratta, in ogni caso, di un cammino attraverso luoghi, persone incontrate, che porta ad una rivelazione finale13. Sebbene la trama sia generalmente nota, cerchiamo di riassumerla, fermandoci dove necessario per le nostre riflessioni, fino alla comparsa della «piccola banda» di fanciulle e di Albertine, colei che il Narratore sceglierà di amare tra esse.

13. Così riassume il tratto fondamentale dell’opera l’insigne critico (e curatore dell’ultima edizione francese della Recherche) J.-Y. Tadié nel suo Proust, le dossier, Belfond, Paris 1983; trad. it. Id., Proust, a cura di F. Sossi, Net, Milano 2003, p. 145.

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La storia narrata ha inizio con le famose osservazioni sull’altro mondo, quello che esperiamo in qualche modo quando ci addormentiamo e dal quale ritorniamo nello stato di veglia. Il Narratore ricorda i luoghi in cui ha dormito in vari momenti della sua vita. Tra questi è decisivo il ricordo del bacio della buona notte negato dalla mamma quando, da bambino, si trovò a passare la notte nella casa del nonno. Dopo questo breve riferimento ad un’esperienza particolare, la narrazione prosegue in una prima presentazione di alcuni personaggi. A questo punto il Narratore distrae la sua attenzione dalla presentazione e dai suoi ricordi per rivolgersi alla narrazione della storia dell’amore e del matrimonio di Swann, che rappresenta uno dei personaggi che segnano i caratteri attraverso i quali l’identità (e il futuro) del Narratore verrà definita. Swann, erudito e raffinato amante dell’arte, deluso e incapace di trovare la felicità in essa e più ancora nel “mondo” (quello dell’alta società), si innamora gelosamente di una stupida cocotte, che finirà per identificare o riassumere (in riferimento alla redenzione alla mondanità) tutti i sentimenti estetici delusi. Dopo questa lunga storia, che occupa quasi un intero volume, è narrato l’episodio del primo amore del Narratore, che ha come oggetto proprio il frutto del matrimonio di Swann, Gilberte. L’amore naufraga molto presto per motivi che saranno ancora più chiari nel corso della narrazione. È quasi a questo punto, dopo la prima vera delusione d’amore, che il Narratore parte per Balbec, una località marittima di villeggiatura. Qui, a questo punto del suo cammino, incontra la «piccola banda»: Attraversavo uno di quei periodi della giovinezza, privi d’un amore particolare, vacanti, nei quali si desidera, si cerca, si vede ovunque – come un innamorato la donna che ama – la Bellezza. Basta che un solo tratto reale – il poco che si distingue d’una donna vista da lontano, o di schiena – ci consenta di proiettare la Bellezza davanti a noi, e subito ci figuriamo d’averla ravvisata, ci batte il cuore, affrettiamo il passo, e resteremo sempre persuasi, almeno a metà, che fosse proprio

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74 lei, purché la donna sia sparita: solo se riusciamo a raggiungerla ci accorgiamo del nostro errore.14

In questo primo affresco di una scena è rappresentato il movimento o, se si preferisce, la legge, che descrive l’amore per Albertine nelle sue varie fasi. L’iniziale indistinzione dell’oggetto dell’amore; poi il riconoscimento soggettivo del tratto unico che serve da appoggio alla proiezione della Bellezza, cioè alla vera e propria creazione di un’identità che corrisponda al nostro desiderio d’amore; quando ci si ritrova l’oggetto reale di fronte, si resta in parte convinti che corrisponde a quello che si è costruito. Soltanto se si «raggiunge» l’oggetto, la nostra illusione, creata dal desiderio, si fa in qualche modo più chiara. L’apparizione della «piccola banda» rispetta questa legge e ne allarga le prospettive, inserendo delle figure simboliche che sono di estrema importanza per comprendere la trama sotterranea che descrive il ritmo e il significato delle vicende narrate: il mare e i gabbiani15. Da solo, me ne restai semplicemente ad aspettare davanti al GrandHôtel il momento di andare incontro alla nonna, quando, quasi ancora all’estremità della diga dove animavano, muovendosi, una macchia singolare, vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine, tanto diverse

14. All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), I, p. 955. 15. La descrizione del volo di uccelli (in questo caso di gabbiani sulla riva) costituisce un elemento ricorrente nel corso della narrazione; in altre forme esso ritorna nel primo avvistamento di un aeroplano nei cieli di Parigi, annuncio di morte (di Albertine della Recherche e di Agostinelli, autista, segretario e amante di Proust-scrittore) e rinvio alla guerra imminente. In riferimento alla centralità del tema del Tempo, il volo, l’elemento libero osservato e non imprigionabile, rappresenta in maniera magistrale la figura del desiderio e le sue leggi, con la sua tristezza e dolore, privo di ogni risoluzione, soddisfazione e redenzione finale. A questa legge infausta del desiderio si oppone il contenuto teorico del Tempo ritrovato. Per una delle tante ricorrenze del tema, si veda la visita delle Cambremer a Balbec in Sodoma e Gomorra (II) (1922), III, pp. 29-50; per l’episodio dell’aeroplano, cfr., ivi, pp. 273-4.

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75 per aspetto e comportamento da tutte le persone cui eravamo avvezzi a Balbec, quanto, sbarcato da chissà dove, uno stormo di gabbiani che avessero compiuto a piccoli passi sulla spiaggia – con i ritardatari intenti a raggiungere gli altri svolazzando – una passeggiata il cui scopo, chiaramente definito nella loro testa d’uccelli, fosse rimasto oscuro ai bagnanti, a loro volta del tutto ignorati dai volatili.16

Quando il Narratore scorge per la prima volta la «piccola banda», non esita a definirla come un gruppo che ad uno sguardo attento ben si distingue, per aspetto e comportamento, dagli altri frequentatori della spiaggia e della diga di Balbec. C’è qui un primo riconoscimento per differenza. Poi la caratterizzazione del piccolo gruppo come uno «stormo di gabbiani» segna il primo dei grandi ampliamenti della legge riportata sopra. Da un’iniziale distinzione del gruppo dal resto delle persone che il Narratore può catturare con lo sguardo, si passa a designare questo gruppo indistinto come uno «stormo di gabbiani», che rappresenta la libertà, il continuo movimento del mare – figura dell’eterno fluire e dell’impossibile distinzione, che permette all’immaginazione di non giungere mai alla fine del suo lavoro di ricostruzione dei vari lati e parti della realtà17. La stessa legge che, con la sua necessità, assume la stessa implacabilità del Tempo, descrive l’amore, ben rappresenta i motivi delle infinite metamorfosi attraversate dai personaggi, in maniera non indipendente dal Narratore, al quale quelle modificazioni sono legate. Ma queste metamorfosi non riguardano l’oggetto dell’amore, la persona reale, che rimane inafferrabile, ma la sua proiezione o composizione nell’immaginazione del Narratore messa in moto dal desiderio. Questo tentativo disperato di conoscere il gruppo si ripresenta quan-

16. All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), I, pp. 955-6. 17. D. De Agostini, Albertine: “figura allegorica” dell’opera e “metafora” della scrittura, cit., in part. pp. 173-4.

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do egli può osservarlo meglio, quando tenta di distinguere e conoscere le fanciulle che ne fanno parte: Ormai, non erano lontane da me. Benché ognuna rappresentasse un tipo completamente diverso dalle altre, tutte erano in qualche modo belle; ma, a dire il vero, le vedevo da così pochi istanti, e non osando guardarle fissamente, che non ne avevo ancora ben individuata nessuna. […] riuscivo a distinguerle soltanto, questa per un paio d’occhi duri, sfrontati e ridenti, quella per le guance il cui rosa aveva la sfumatura ramata che evoca l’idea del geranio; e persino questi erano tratti che non potevo ancora associare in modo indissolubile a una piuttosto che a un’altra di loro; e quando (nell’ordine secondo il quale veniva svolgendosi quell’insieme, meraviglioso perché vi coesistevano gli aspetti più eterogenei e tutte le gamme di colore vi figuravano accostate, ma confuso come una musica nella quale non avessi saputo isolare e riconoscere, via via che passavano, le singole frasi, percepite ma subito dimenticate) vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi, mi chiedevo se fossero gli stessi dai quali, un istante prima, ero già stato affascinato, non potevo attribuirli a una certa fanciulla, staccata dalle altre e identificata. E questa assenza, nella mia visione, di confini che ben presto avrei stabiliti, propagava per tutto il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua d’una bellezza fluida, mobile e collettiva.18

Il tentativo di distinguerle per delle proprietà individuali non va a buon fine. Ciò che interessa in questi passi è il persistente tentativo di conoscere più in fondo, negli elementi ultimi, il gruppo che richiama l’interesse del Narratore. Se egli non avesse potuto o non fosse riuscito a illudersi di conoscere qualcosa di ciò che osserva, si sarebbe subito arreso e il suo amore troncato sul nascere. Ma la “legge” che Proust annuncia qualche pagina prima, e che abbiamo già riportato, descri18. All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), I, pp. 957-8

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ve esattamente ciò che ci si aspetta da un qualcosa che non si lascia afferrare: che in qualche modo ci sia dato qualcosa, anche se ciò sia una proiezione del Narratore, del soggetto che desidera; e, soprattutto, si spera segretamente che l’oggetto dell’amore non si riveli per quello che non è, che distrugga l’illusione. Quando una singola fanciulla – Albertine – si distingue dalle altre, inizialmente anche soltanto perché ha ricambiato lo sguardo insistente del Narratore, l’immaginazione comincia a premere affinché si intercettino tutti i frammenti della realtà ai quali aggrapparsi per costruire con chiarezza l’unità dell’oggetto desiderato. Si parte dal nome, poi dalle linee generali del volto, dagli occhi e dalla loro profondità, dalle forme mutevoli della capigliatura per giungere (in realtà in ordine sparso e rapsodico) a voler conoscere il passato dell’amata, della sua famiglia, dei luoghi che ha frequentato e degli appuntamenti combinati per il pomeriggio. Il Narratore sente il nome e il cognome della “prescelta” e questo assume il carattere o il sigillo tipico del mascheramento e dell’illusione dell’identità19. I romanzi di Albertine hanno come asse portante della struttura il tema della gelosia, soprattutto quando il Narratore scopre le possibili tendenze omosessuali della giovane fanciulla in fiore; nel percorso dell’opera, Albertine è inserita nel secondo volume, poco prima dell’ingresso del protagonista nel gran mondo, dunque prima che egli scopra il mondo sotterraneo di Sodoma e Gomorra, scoperta che amplia il terreno della sua gelosia e allarga i mondi segreti e le possibilità dei quali avere paura. A questo nodo del tessuto o della struttura dell’opera si lega il tema dei segni, che annunciano i mondi segreti e impongono il compito di stabilire dei collegamenti trasversali tra essi, nell’impossibilità di conoscerli o esperirli direttamente, 19. Cfr., ivi., pp. 970-2.

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né rappresentarli con chiarezza. Albertine, come nucleo narrativo, attorno al quale si possono rintracciare tutti i fili del tessuto dell’opera, rappresenta nel romanzo questa metamorfosi estrema; nel suo continuo mutare nessuna identità regge autonomamente: quella della donna-uomo che nasconde il suo segreto, alimentando con la gelosia l’amore del Narratore, o l’ebreo che, in tempi di odio razziale e instabilità sociale, tenta di nascondere la sua vera identità20. Se la struttura generale dell’opera era già definita molti anni prima della guerra, si può notare dall’evoluzione dei contenuti dei quaderni preparatori come la sua trama si espanda per l’inserimento, sin dal secondo volume, del personaggio della fanciulla in fiore prescelta che farà innamorare il Narratore. Albertine assume un ruolo sempre maggiore nell’economia del romanzo, tanto che sia La prigioniera sia La fuggitiva (Albrtine scomparsa) sono incentrati su questo personaggio. Tutta la seconda parte dell’opera, che si apre con l’intermezzo di Sodoma e Gomorra (I), è un ampliamento del tema generale, metafora e insieme conseguenza dell’esperienza della scrittura: l’unità o struttura stabilita all’inizio comincia a mostrare delle evidenti crepe. L’unità o struttura dell’opera che l’autore 20. Cfr., J. Bem, Le juif et l’homosexuel dans «À la recherche du temps perdu» fonctionnements textuels, in «Littèrature», n° 37, Larousse, Paris 1980. La scoperta dell’omosessualità di un personaggio (la sua «inversione») viene sempre associata alla scoperta di un carattere “naturale” e nascosto, come avviene per l’appartenenza alla «razza maledetta» degli ebrei, spesso segnalata, per la prima, da una particolare nota della voce, per la seconda, da un tratto tipico del volto (spesso il naso). Il segno indica un carattere congenito, naturale ed ereditario, fissato e nascosto in tutte le metamorfosi attraversate: indica un frammento dell’identità (nascosta). Si vedano anche: A. Compagnon, Proust et le judaïsme, «Critique», n. 47, 1991, pp. 905-8 ; B. Brun, Brouillons et brouillages: Proust et l’antisémitisme in «Littérature», n. 70, 1988, pp. 110-28; Id., Les juifs dans «Sodome et Gomorrhe», in «Cahiers Textuel», n. 23, 2001, pp. 119-26; Id., Proust e la religione, tr. it. di M. Piazza, «Intersezioni», n. 2, 2004, pp. 227-37.

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ha in mente per comporre l’opera e disegnare i vari frammenti sparsi nei volumi pubblicati a distanza di anni l’uno dall’altro, e profondamente rivisti ed ampliati nella loro ultima stesura, mostra un fenomeno molto particolare che non appartiene solo alla scrittura. Una struttura è necessaria fin dall’inizio per la composizione dell’opera, per darle un significato preliminare e unitario, un senso e una direzione (verso l’illuminazione finale come conclusione dell’apprendistato). Questa struttura subisce importanti modifiche e sviluppi lungo il percorso della stesura, sia per influenze “esterne”, cioè per esperienze della vita dell’autore avvenute in quel tempo, sia a seguito di movimenti interni alla composizione dell’opera, che possono seguire, discostarsi e divergere dal senso stabilito all’inizio. La storia della struttura o forma dell’opera è osservabile, per analogia, nell’evoluzione di un organismo vivente21. 21. Come mostreremo nel paragrafo seguente, la traduzione del problema dell’unità dell’opera letteraria in termini di scienza dell’organismo vivente non è inusuale nell’estetica di fine ‘800. Cfr. A. Compagnon, Proust entre deux siècles, Seuil, Paris 1989, tr. it. Proust tra due secoli. Miti e «clichés» del decadentismo nella «Recherche», Einaudi, Torino 1992, pp. 5-37. La corrispondenza tra le due analisi fu fondata sul significato dello stile trascendente la sfera estetica o la mera tecnica di composizione. Questo ampio dibattito giunge a Proust attraverso le letture di P. Bourget su Baudelaire (Essais de psychologie contemporaine, Paris, 1883, vol. I, pp. 3-32; in part. le riflessioni sulla «théorie de la décadence», qui pp. 23 ss) e di Nietzsche, che utilizzerà le tesi del primo nel Caso Wagner (ed. or., Der Fall Wagner. Ein Musikanten-problem, C. G. Naumann, Lipsia 1888). Per un analisi aggiornata allo stato corrente della critica in merito, si veda: A. Beretta Anguissola, Philosophie nouvelle ou fin de la philosophie dans “Le Temps retrouvé”, in Proust et la philosophie aujourd’hui, atti del convegno svoltosi a Gargnano nel settembre 2006, a cura di M. Carbone e E. Sparvoli, ETS, Pisa 2008, pp. 323-39. A dimostrazione di questo intreccio, Proust citerà Wagner per ribaltare la tesi di Nietzsche e affermare l’importanza dell’unità retrospettiva dell’opera. Cfr., La Prigioniera (1923), III, pp. 555-9. Per ritornare all’analogia biologica, usando un’immagine che ci proviene dagli studi di morfologia di Goethe sul mondo vegetale (e animale) – riflessioni, eredità in parte kantiana, che giungono fino allo stesso Nietzsche –, possiamo così

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3. Il percorso narrato dall’opera descrive l’esperienza dal punto di vista del Narratore fino a giungere a leggi generali della vita e dell’arte. Se prendiamo in considerazione l’esperienza narrata nel secondo volume dell’opera, quella delle fanciulle in fiore, l’unità del gruppo che si dà all’inizio è un Tutto nebuloso e indistinto – che, proprio per questo tratto, ha il fascino delle cose sconosciute e piene di mistero, che riempiono insieme di aspettative e di paure. L’unità che si dà alla fine ha le caratteristiche di un Tutto disvelato delle sue individualità concrete e segreti rivelati, misteri risolti, legami trasversali ormai chiari, distinti e ben noti; ciò priva il Tutto, che viene inteso come il “medesimo” o l’identico, del suo fascino, dell’attrattiva che spinge alla scoperte, ma anche dell’angoscia del mistero, della gelosia, di tutte le possibili vite segrete che l’essere amato – il mondo misterioso – come Albertine può vivere lontano da noi, dalla nostra capacità di conoscere proprio quell’essenza individuale che riteniamo possa contenerle tutte. Così al Narratore è necessaria una definitiva conferma delle sue paure e angosce della gelosia per scegliere Albertine tra le altre – quando queste paure non sono confermate; poi, quando ciò accade per un’incauta e involontaria confessione, per decidersi a portarla con sé a Parigi, piuttosto che seguire il proposito di rompere

descrivere la legge del mutamento nel suo primo livello: ogni parte dell’organismo vivente che è la Recherche cresce e si sviluppa “l’una dopo l’altra, l’una dall’altra”. Cfr. J. W. Goethe, Die Metamorphose der Pflanzen, in Die Schriften zur Naturwissenschaft, Bd. 9, Bearbeitet von D. Kuhn, Wimar 1954, p. 23; trad. it. di S. Zecchi in La metamorfosi delle piante, Guanda, Parma 19831, 20137, p. 55: «Gli osservatori hanno da tempo riconosciuto in generale e studiato in particolare l’affinità segreta fra quelle parti esterne della pianta – le foglie, il calice, la corolla, gli stami – che si sviluppano l’una dopo l’altra e, per così dire, l’una dall’altra; e al processo mediante il quale un solo e medesimo organo si modifica con tanta varietà ai nostri occhi è stato dato il nome di metamorfosi delle piante.»

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ogni legame con lei. Si noti – ciò lega questa scelta con ciò che dicevamo prima riguardo alla disillusione – che la decisione imprevista giunge subito dopo che il Narratore ha “visto” chiara davanti a sé la figura del Tutto spaziale costituita, da un lato, dalla sfera della mondanità, dall’altro, dal mondo chiuso delle località vicine a Balbec – svelata la realtà ben poco affascinante e ormai divenuta abitudinaria e poco angosciosa delle relazione con i noiosi abitanti notabili del luogo. Ora, ritornando alle nostre considerazioni a proposito del gruppo (o serie) e le parti che lo costituiscono, tentiamo di svolgere, in riferimento alla «piccola banda», un’analisi più accurata dell’esperienza narrata, cercando di giungere a delle conclusioni sommarie circa il tema della metamorfosi e dell’identità in rapporto all’unità dell’opera letteraria. Il rapporto tra l’individuo e la serie, se si intende quest’ultima come gruppo ordinato soltanto temporalmente, ricorre al significato del rapporto tra individuo e specie vegetale e animale – in natura sono eliminate le differenze individuali pur mantenendo in vita le individualità concrete; nel mondo umano, invece, per assistere al manifestarsi di un’essenza del gruppo, di una proprietà semplice comune a più individui della stessa serie, è necessario l’intervento del tempo o delle sue conseguenze naturali ultime, come la morte: la disillusione della sfera mondana, nel disinnamoramento, etc., per scorgere le somiglianze con la serie alla quale appartiene un’individualità specifica. Questo è il significato dell’atteggiamento da “anatomista”, da “botanico”: classificare in base alle somiglianze generali, caratteri esteriori, descrizioni da osservatore esterno, nonostante l’incapacità di cogliere l’essenza individuale dell’oggetto o della persona nel momento in cui la si ha davanti, o di un circolo o di un salotto mondano (anche se si è faticato per esservi ammessi e che delude per la sua vanitas – ciò che rende tanto desiderabile entrare e assistere alle me-

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raviglie di un salotto mondano è proprio la sua inaccessibilità e nient’altro). Così l’ideale, il desiderio di trattare gli oggetti dell’esperienza nello stesso modo del botanico, tradisce la trama il o il tessuto sotterraneo che domina il movimento, le fluttuazioni dell’insieme: del gruppo delle fanciulle in fiore. Proust ci mostra con chiarezza il negativo, lo “sguardo scientifico del botanico”, affinché venga fuori la figura del positivo – o quel che di positivo è possibile in ogni conoscenza stabile a dispetto delle forze inarrestabili del tempo. Certo, i volti di tutte loro avevano assunto ben altro senso per me da quando il modo in cui bisognava leggerli mi era stato indicato, in qualche misura, dai loro discorsi, ai quali potevo annettere un valore tanto più grande in quanto, con le mie domande, li provocavo a mio piacimento, facendoli variare come uno sperimentatore che chiede a determinate controprove la verifica delle sue ipotesi. E, in definitiva, è un modo come un altro per risolvere il problema dell’esistenza quello di avvicinare cose e persone, che da lontano ci erano parse belle e misteriose, abbastanza per renderci conto che non hanno né mistero né bellezza; è una delle pratiche d’igiene fra cui si può scegliere, non delle più raccomandabili, forse, ma tale da assicurarci la calma occorrente per trascorrere la vita e anche – poiché ci esime da ogni rimpianto, persuadendoci che abbiamo avuto il meglio e che il meglio non è gran cosa – per rassegnarci alla morte.22

Che si tratti di una considerazione che poi verrà corretta nel corso dell’opera o che, invece, rimarrà inalterata nel corso del cammino del Narratore23, non può passare in secondo piano: 22. All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), I, pp. 1144-5. 23. Si veda quanto venga fatto per le ultime righe di Dalla parte di Swann, spiando Odette che passeggia lungo il Bois de Boulogne, che chiudevano alla possibilità di un recupero del tempo passato («è il contrario della conclusione», dice Proust nel ’14) e che descrivono il mutamento irreversibile dei tratti di una strada o di una persona ormai invecchiata o di un’epoca

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in ciò consiste la migliore descrizione di quella “consapevolezza intellettuale” che comporta la scoperta del tempo ritrovato alla fine del romanzo e che muta retrospettivamente la materia della narrazione, il racconto dell’apprendistato. Quelle righe, che segnano la fine dell’esperienza delle fanciulle in fiore, preannunciando anche una nuovo amore e illusione (per Oriane de Guermantes), hanno la capacità di chiudere il cerchio che avevamo tracciato con le considerazioni sulla «piccola banda» e sul significato del suo “apparire” e del distinguersi dei suoi elementi. Il cerchio è chiuso quando ci si arrende all’impossibilità di conoscere e di attraversare tutti i mondi dei segni, delle infinite metamorfosi, che nascondono verità insondabili e prodotte, nella maggior parte dei casi, dal Narratore stesso. La svalutazione dell’illusione come potenza della vita porta il Proust del 1908 a ritirarsi dal mondo; la fine dell’opera, che rappresenta il suo ritorno, seppur fuggevole, nel mondo, conferma tale svalutazione e la eleva a legge generale. Si associa il ritmo del desiderio alla legge del Tempo e della morte, dove tutto diventa irriconoscibile e impossibile da amare. La redenzione può avvenire soltanto quando si abbandona quasi completamente ogni pretesa di conoscenza totale dell’oggetto. Anche se, come dicevamo, quelle righe descrivono un errore che verrà più o meno corretto (e a ben vedere in questa correzione consiste la legge della narrazione), esse rappresentano il punto di svolta interno verso la conclusione, verso quella teoria del romanzo che Proust aveva in mente. Il romanzo che ci ha consegnato non è quello creduto e annunciato nel Tempo Ritrovato. Come accade nel rapporto tra il Narratore e i suoi personaggi, nello stesso modo Proust scrive un romanzo molto

ormai alla sua conclusione. Cfr., lettera di Proust a Jacques Rivière in Correspondance de Marcel Proust, a cura di P. Kolb, Plon, Paris 1970-1993, XIIL, pp. 98-100.

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diverso da quello cercato24, dalla realtà che voleva ricostruire a priori secondo una legge più desiderata che narrata (e ancor meno dimostrata). E sperimentavo, una volta di più, innanzitutto che il ricordo non è inventivo, che è impotente a desiderare qualcosa di diverso, qualcosa di meglio di ciò che abbiamo posseduto; in secondo luogo che è spirituale, così che la realtà non può fornirgli lo stato che cerca; infine che, derivando da una persona morta, la rinascita che incarna è meno quella del bisogno d’amare, cui fa credere, che quella del bisogno dell’assente. Anche la somiglianza con Albertine della donna che avevo scelta, la somiglianza, ammesso che riuscissi ad ottenerla, della sua tenerezza con quella di Albertine, non facevano così che rendermi più sensibile all’assenza di ciò che avevo cercato senza saperlo e che era indispensabile per la rinascita della mia felicità; ciò che avevo cercato, ossia la stessa Albertine, il tempo che avevamo vissuto insieme, il passato di cui senza saperlo ero alla ricerca.25

Come non notare una decisa affinità di fondo tra le due citazioni riportate, come la prima assuma un marcato carattere teorico retrospettivo in riferimento a tutta l’esperienza dell’incontro con le fanciulle in fiore? Se si tiene presente che tra la scrittura del primo volume (e quella più o meno contemporanea dell’ultima parte del Tempo ritrovato, che dovevano costituire la conclusione e spiegazione della legge che permette di congiungere vita e opera d’arte) s’interpone la scrittura dei Guermantes (l’altra parte di Swann) e soprattutto Sodoma e Gomorra come introduzione e viatico per il romanzo di Albertine, non è azzardato immaginare che la struttura dell’intera opera sia stata sottoposta alla stessa legge che tentava di dimostrare. In altri termini, l’unità dell’opera è concepita prima della stesura finale o giunge mentre avviene la com24. Cfr. A. Compagnon, Proust tra due secoli, cit., pp. 305-9. 25. Albertine scomparsa (1925), IV, p. 167.

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posizione? Questa contrapposizione è classica dell’estetica di fine secolo, tra organicismo e meccanicismo, che Proust non risolve26. Dalle nostre considerazioni è possibile concludere che il problema di questa dualità è che essa non tiene conto della stratificazione, dei successivi e continui inserimenti che l’opera subisce; non si tratta di un ampliamento che aggiunge elementi di contorno al nucleo o tema centrale dell’opera, ma che lo modifica, forse, più di quanto Proust si rendesse conto. Esiste un’unità che l’autore aveva pensato di dare all’opera nelle fasi iniziali di progettazione – e secondo questa prima unità essa fu composta. Ma nel processo di composizione l’opera subisce – a causa di quelle stratificazioni continue, che, come abbiano più volte sottolineato, si possono spiegare con le leggi delle metamorfosi dei personaggi e, in generale, delle leggi del tempo, materiale della narrazione sottoposto alla legge che vuole dimostrare – un mutamento dovuto all’aggiunta di un’unità successiva, quella retrospettiva della riflessione27. Ma questa seconda unità non giunge mai a compimento: è soltanto annunciata da segni, dalla singolarità dei frammenti; non si mostra con la stessa chiarezza e consapevolezza da parte del Narratore rispetto a quanto avviene per la prima unità, quella della redenzione attraverso le reminiscenze, la teoria della memoria che permette a Proust di iniziare a scrivere un romanzo che possegga fin dall’inizio un’unità e che non si perda, priva di struttura, nel suo sviluppo. Chi segue soltanto quella 26. Cfr. A. Compagnon, Proust tra due secoli, cit., pp. 33-37. Il dibattito sull’organismo – o più in generale, sul concetto di «vita» – nella filosofia naturale tra Seicento e Settecento ritorna in seguito con gli stessi termini in altri settori, anche non della scienza del vivente, come la letteratura o più in generale l’estetica, come modi per evidenziare e risolvere problemi analoghi. 27. Il Narratore discute la tesi dell’unità retrospettiva dell’opera d’arte in riferimento a Wagner, contro le tesi di Nietzsche e Bourget sulla «théorie de la décadence» già ricordate in precedenza, ne La Prigioniera (1923), III, pp. 555-9.

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serie di considerazioni teoriche riguardo la prima unità, non coglie ciò che nell’opera diverge da questa; l’unità prestabilita della Recherche viene superata dall’unità vitale dei frammenti. E, in se stesse, cos’erano Albertine e Andrée? Per saperlo, bisognerebbe immobilizzarvi, non vivere più in questa attesa perpetua di voi in cui voi passate sempre diverse; bisognerebbe non amarvi più per fermarvi, non conoscere più il vostro arrivo interminabile e sempre sconcertante, o fanciulle, o raggio successivo nel turbine in cui palpitiamo di vedervi riapparire, riconoscendovi appena nella velocità vertiginosa della luce. […] Lei, in sé, era piuttosto la prima o la seconda? Né l’una né l’altra, forse, ma capace d’accedere a tante possibilità diverse nello scorrere vertiginoso della vita.28

Se s’intende l’opera proustiana come la dimostrazione della possibilità di una redenzione della vita da parte dell’arte, attraverso le leggi delle reminiscenze che riconducono sotto queste tutti i materiali e le esperienze narrate, la formulazione finale rimane poco soddisfacente. Seguendo Proust, non è possibile una vera gerarchia organica e integrativa tra intelligenza e istinto, tra ricerca volontaria del passato – per una ricostruzione attraverso un senso – e abbandono ai meccanismi della memoria involontaria – per una ricerca del senso. La seconda unità, quella che si aggiunge retrospettivamente all’opera nelle sue parti e che ristabilisce quei legami inconoscibili attraverso la sola opera dell’intelligenza, segna la vera distanza che lo scrittore francese stabilisce tra sé e l’atmosfera culturale di fine ‘800. La descrizione della legge del desiderio come dimostrazione dell’impossibilità di immobilizzare in forme rigide la realtà attraverso l’intelligenza (la prima unità) è il segno della consapevolezza del continuo e irredimibile dinamismo del mondo sensibile. In questo modo la Recherche termina proprio nel momento del raggiungimento di questa 28. La Prigioniera (1923), III, pp. 450-1.

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consapevolezza e del tentativo di una dimostrazione della possibile soluzione, salvezza o redenzione (seconda unità compiuta). Il fallimento della dimostrazione, come accade per il disvelamento dell’illusione (del nome, dell’oggetto del desiderio, etc.) è, per Proust, la strategia peculiare della narrazione, che si scontra con le tesi sulla memoria involontaria contenute nella parte finale dell’opera: questo labirinto non ha via d’uscita, che si rimanga nell’immobilità del centro o nella ripetizione ininterrotta del percorso fatto. Nel primo caso si dovrebbe avere il romanzo del tempo immobile, della contemplazione della morte; nel secondo, si ha il romanzo della vita che il protagonista comincerà a scrivere e che, però, rimane allo stato di annuncio (di un libro «a venire»29). Soltanto la storia di questa decisione e del cammino verso la consapevolezza costituisce la narrazione della Recherche30. La frattura, aperta dall’incompiutezza essenziale all’opera, permette l’infinita ripetizione della sua intenzione; in questo modo essa non lascia sulla sua strada fallimenti infecondi. Il rapporto tra i personaggi e le varie forme che essi assumono agli occhi del Narratore è ciò che meglio descrive questo carattere aperto, privo di stabilità e identità. Qui, dove un’impossibilità genera infinite possibilità, l’elemento del nuovo proviene dal passato: inizialmente dalla memoria dell’autore, poi di ogni lettore che decide di intraprendere la propria ricerca seguendo lo stesso metodo. Ciò che si schiude a questo sguardo è un nuovo mondo, trasformato, trasfigurato. Ad essere cercata non è l’identità o l’essenza

29. Cfr. M. Blanchot, L’expérience de Proust, in Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959; trad. it. di G. Ceronetti e G. Neri, L’esperienza di Proust, in Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969, pp. 20-33. Si veda anche A. Contini, Marcel Proust: tempo, metafora, conoscenza, cit., pp. 63-4. 30. Cfr., G. Macchia, L’io del narratore e la lunga strada verso la Recherche, cit.

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atemporale della verità degli oggetti sensibili, come obiettivo della ricerca futura, ma un’intricata e mutevole struttura di relazioni31, nella figura di un passato in continuo divenire32.

31. Cfr. W. Benjamin, Zum Bilde Prousts (1929), cit., p. 320; tr. it. cit., pp. 293-4 (leggermente modificata): «L’eternità, di cui Proust dischiude alcuni aspetti, è il tempo intrecciato, non il tempo illimitato. Ciò che veramente gli importa è il corso del tempo nella sua forma più reale, e cioè intrecciata con lo spazio, che in nessun altro luogo domina così inalterata come nel ricordo, interiormente, e nella senescenza, esternamente. Seguire il contrappunto di senescenza e ricordo significa penetrare nel cuore del mondo di Proust, nell’universo dell’intreccio (Universum der Verschränkung). È il mondo nello stato dell’analogia, e in esso dominano le “corrispondenze”, che colse per primo il romanticismo e con la massima profondità Baudelaire, ma che Proust (l’unico) riuscì a portare alla luce nella vita vissuta.» 32. L’interpretazione di Benjamin sembra liberare il campo della teoria proustiana della memoria involontaria dai limiti dell’esperienza soggettiva (verso una filosofia della storia, ad un’etica verso il passato), motivo principale della contraddizione interna all’opera dello scrittore francese, che annuncia il romanzo che non potrà mai scrivere, né essere letto, ma solo rivissuto e ricreato da ogni lettore (un simile tentativo è intrapreso da Benjamin nel 1933-34 in Infanzia Berlinese). Sarebbe interessante condurre su questo punto un confronto tra l’interpretazione di Deleuze e le numerose altre tentate attraverso la lettura benjaminiana di Proust, spesso condotte in modo opposto alle intenzioni filosofiche di quest’ultimo. Il punto di accesso a questo confronto, a nostro avviso, è rappresentato dalla comune attenzione per il Barocco, attraverso la lettura di Leibniz; per questo tema si veda M. Lærke, The End of Melancholy. Deleuze and Benjamin on Leibniz and the Baroque, in Vorträge des X. Internationalen Leibniz-Kongresses, Hannover, 18. – 23. Juli 2016: “Für unser Glück oder das Glück anderer”, Georg Olms Verlag, Hildesheim; Zürich; New York 2016, Band 1, pp. 385-392. Per un confronto sul tema della monade si veda T. Flanagan, The Free and Indeterminate Accord of “The New Harmony”: The Significance of Benjamin’s Study of the Baroque for Deleuze, in Deleuze and The Fold: A Critical Reader, cur. da S. van Tuinen e N. McDonnell, Palgrave-Macmillan, Basingstoke 2010, pp. 46-64.

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Il dono impossibile e l’altro. Derrida e Marion di Giuseppe Pintus

Il presente contributo tenta di indagare il fenomeno del dono a partire dalla sua possibilità, o impossibilità, dalla sua aporeticità e si impegna soprattutto nella parte finale a mettere in risalto gli aspetti legati alla relazione con l’altro e alla libertà che tale fenomeno esige e genera. L’autore che si prende come punto di riferimento è principalmente Jean-Luc Marion, ma altri riferimenti saranno principalmente a Jacques Derrida e a Marcel Mauss. Il percorso che sarà seguito consisterà, in generale, nell’esporre dapprima la problematica inerente la possibilità della donazione e nel metterne in evidenza la sua aporeticità a partire dalle critiche mosse a Marion da parte di Derrida, per poi tentare di aprire una prospettiva in direzione del bello e dell’arte.

1. Il dono come contraddizione La donazione costituisce senz’altro il nucleo più esplicito della proposta filosofica di Jean-Luc Marion. Già nel primo libro della trilogia che l’autore dedica al tema, Reduction et

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donation1, si trattava di mettere in luce l’importanza fondamentale della “donazione” o della “datità” e di mostrare come fosse indissociabile da ogni fenomeno, anche a partire dalle tematizzazioni di Husserl e Heidegger. L’esito di questo primo momento consisteva nell’affermare che ogni fenomeno si mostra, ma mostrarsi equivale anche e soprattutto a d(on)arsi. Il problema di tale impostazione tuttavia si rende immediatamente esplicito soprattutto a partire dalla scelta del metodo da adottare, che si pretende rigorosamente fenomenologico e che dunque dovrebbe escludere una impostazione di tipo metafisico. Come si può però individuare nel dono un modello per una fenomenalità che si pretende non metafisica e senza rinvii? Cosa c’è di più metafisico di un dono? Cosa più del dono può alimentare una trama di rinvii? Occorre dunque chiedersi: si può pensare il concetto della donazione senza reintrodurre il modello metafisico della produzione e della causalità? O ancora: come deve essere intesa la donazione affinché permetta l’apparire puro del fenomeno, da se stesso, in persona, o comunque senza rimandi ad una origine altra, ossia senza trascendenza? Bisogna pensare il caso di un fenomeno che possa costituire il modello di una manifestazione senza rinvii, almeno senza cause, e sicuramente senza causa efficiente. Ora, l’ipotesi scelta da Marion è quella del fenomeno del dono. Si tratta dunque, nel secondo libro della sua trilogia, Dato che2, preso come punto di riferimento per questa trattazione, di argomentare le conclusioni circa il principio della fenomenalità raggiunto nel primo libro, e ciò dev’essere fatto anche alla luce di due critiche: una mossa da Dominique Janicaud,

1. Puf, Paris 2004; tr. it. di S. Cazzanelli, Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia, Marcianum Press, Venezia 2010. 2. Etant donné, Puf, Paris 1997; tr. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001.

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che ascrive Marion tra i componenti e gli artefici di un torunant theologique de la phenomenologie française; e l’altra, quella che qui considereremo, mossa da Jacques Derrida, il quale nel saggio Donare il tempo3 presenta il dono nella sua aporeticità, nella costante possibilità di diventare scambio, di generare economia e ed esclusione. La domanda con la quale potremmo sintetizzare la critica è: «il dono non si annulla da solo?»4. Si presti attenzione a questo passaggio di Derrida: Supponiamo che qualcuno voglia o desideri donare a qualcuno. Lo diciamo nella nostra logica e nella nostra lingua: qualcuno vuole o desidera donare, qualcuno ha l’intenzione-di-donare qualcosa a qualcuno. […] Supponiamo dunque una intenzione-di-donare: qualc-“uno” (quelqu’ “un”) vuole o desidera donare. Se l’intreccio di questa formula è già complesso, la nostra lingua o la nostra logica corrente ci porterà a intenderlo come incompleto. Lo completeremo dicendo: “qualc-‘uno’ (A) ha l’intenzione-di-donare B a C, qualc-“uno” ha l’intenzione-di-donare o dona “qualcosa” a “qualcun altro”. Questo “qualcosa” può non essere una cosa nel senso corrente, ma un oggetto simbolico; il donatario può essere un oggetto collettivo, come il donatore, ma in ogni caso A dona B a C5.

Considerazioni in qualche modo banali, o semplicemente di buon senso. La donazione comprende tre elementi: donatore, dono, donatario. Ciò che si afferma è che nella lingua comune di chi parla, o di chi scrive, esiste una certa familiarità e precomprensione di questi tre termini. Questa precomprensione autorizza un assioma: affinché ci sia dono, o donazione, uno 3. Donner le temps, Galilée, Paris 1991; tr. it. di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996. 4. Dato che, cit., p. 91. 5. Donare il tempo, cit., p. 12.

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o qualcuno, dona qualche cosa ad un altro. Considerazioni queste che sembrano andare nel senso dell’esplicitazione e della tautologia. Il seguito tuttavia aggiunge qualcosa: «Queste condizioni di possibilità del dono (che qualc-“uno” doni qualche “cosa” a quanc-“un altro”) designano infatti simultaneamente le condizioni dell’impossibilità del dono»6. La parola dono, con la stessa «pre-comprensione semantica» con cui mette in gioco una dinamica che comprende tre elementi, che inevitabilmente si rinviano vicendevolmente, include infatti un altro aspetto: un aspetto che chiameremo qui gratuità. Da ciò derivano una serie di condizioni ulteriori: «Affinché ci sia dono non deve esserci reciprocità»7. L’altro a cui si dona non deve ricambiare, né indebitarsi. Il dono cioè decade al rango di scambio tutte quelle volte in cui la sua messa in atto causa un contro-dono nei termini di restituzione o risarcimento, sia che esso si realizzi immediatamente sia che si calcoli un tempo differito di restituzione; sia che si tratti di circolazione di cose, che di circolazione di simboli. Segue che il dono per essere tale non deve costituire un circolo: «Affinché ci sia dono, bisogna che il donatario non restituisca, non ammortizzi, non rimborsi, non si sdebiti, non entri nel contratto, non abbia mai contratto un debito»8. Il dono dunque avrebbe un bisogno necessario di non restituzione. Il suo dovere dovrebbe liberare dal dovere stesso. Il dono, potremmo dire in altri termini, dovrebbe garantire la libertà e una certa giustizia. Inoltre, terza caratteristica o assioma che il dono dovrebbe avere: «l’oblio del dono deve essere radicale non solo dal lato del donatario ma anche – ed innanzitutto – dal lato del

6. Ibid., p. 14. 7. Ibidem. 8. Ibid., p. 15.

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donatore»9. Altrimenti il donatore riceve – o cerca – la sua ricompensa nella gratificante coscienza di sé come donatore. Quarto ed ultimo assioma: «al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire: né al donatario né al donatore»10, per non fissarsi in una res oggetto di scambio. Ma è possibile un dono che non si presenti come tale? La risposta di Derrida è senz’altro negativa e potrebbe essere riassunta come segue: ogni dono manifesta uno scambio, e ogni scambio è economia. «Ossessione anti-capitalista di Derrida: ogni economia è uno scambio, e ogni scambio dissolve la gratuità»11. Per evitarlo si dovrebbe impedire la restituzione, e il debito, anche quello di riconoscenza, ma per far questo occorrerebbe evitare che chi riceve il dono lo avverta come dono (sospensione del donatario). Ancor di più bisognerebbe evitare che il donatore si sappia tale (sospensione del donatore, o almeno del suo ego, nella sua coscienza di agente), se così non fosse infatti la gratificazione che ne avrebbe ripagherebbe il dono. Da ultimo se vi fosse un dono, un oggetto, o una res, riconosciuti come dono, non sarebbe possibile sospendere il donatario e il donatore: il dono, con il suo stesso apparire, istituirebbe immancabilmente e irrevocabilmente sia il donatore sia donatario. Per evitare questo rischio occorre che il dono, ma ciò vale anche per le altre figure della donazione, non appaia. Si chiude dunque il cerchio della donazione con un paradosso: se c’è dono non può esserci autenticamente donazione. Insomma, perché un dono sia tale, perché non rinvii, occorre eliminare o sospendere il donatario, il donatore e il dono stesso, occorre evitare che ciascuno di essi si mostri, si dia come

9. Ibid., p. 25. 10. Ibid., cit., p. 26. 11. Carmelo Meazza, Sulla soglia etica del pulchrum, Mimesis, Milano 2005, p. 38.

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fenomeno. Nei termini di Marion che legge la critica di Derrida: «O il dono si presenta nella presenza e sparisce dalla donazione per iscriversi nel sistema economico dello scambio; o il dono non si presenta, ma allora non appare più, chiudendo ogni fenomenalità alla donazione»12. Ecco che potremmo fissare questa critica di Derrida a Marion nel modo seguente: se appare non è un dono. Per Derrida, se un dono si mostra si abolisce come dono, se non si mostra, allo stesso modo non si può dire che sia un dono. In entrambi i casi il dono presenta un’aporeticità attraverso la quale non è possibile affermare la donazione, almeno non in fenomenologia dove il mostrarsi è fondamentale. Almeno non per le coerenze di Marion che vuole fare del dono il modello della fenomenalità. Per Marion dunque la possibilità di opporsi a questa strada dovrebbe consistere nell’affermare o nel mostrare che se appare è un dono, e lo è proprio per via del suo stesso apparire.

2. Marcel Mauss, il dono, lo scambio, il potere. La prospettiva del dono proposta da Derrida viene da Marion affiancata a quella di Marcel Mauss13. Per quest’ultimo il dono

12. Donare il tempo, cit., p. 16. 13. Marcel Mauss, «Essai sur le don», in L’année sociologique 1923-24, ripreso in Sociologie et antropologie, Puf, Paris 1950; tr. it. di F. Zannino, «Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche» in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. Per un approfondimento del tema del dono in Mauss e in un confronto con la lettura di Jacques Derrida, si segnalano: Alain Caillé, Le Tiers paradigme. Anthropologie philosophique du don, La Découverte, Paris 1998; tr. it. di A. Cinato, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998; Jacques T. Godbout, L’Esprit du don, La Découverte, Paris 1992; tr. it. di A. Salsano, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Tori-

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è totalmente determinato dall’obbligo di donare, di ricevere, di rendere i doni. Secondo la prospettiva di Mauss, dunque, il dono rientra perfettamente nel modello dello scambio del quale costituisce una forma particolare. Il riferimento è a quei «sistemi economici e giuridici che hanno preceduto i nostri» dove «le collettività si obbligano reciprocamente, effettuano scambi e contrattano». Così leggiamo nel Saggio sul dono: Ciò che essi si scambiano non consiste esclusivamente in beni e ricchezze, in mobili e in immobili, in cose utili economicamente. Si tratta, prima di tutto, di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere, di cui la contrattazione è solo un momento e in cui la circolazione delle ricchezze è solo uno dei termini di un contratto molto più generale e molto più durevole. Queste prestazioni e contro-prestazioni si intrecciano sotto una forma, a preferenza volontaria, con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica14.

Questo sistema dunque sembra negare o almeno non prevede doni gratuiti o meglio doni per i quali non sia prevista una restituzione o un rimborso, a qualunque titolo, del dono ricevuto. Chi riceve un dono deve sdebitarsi, in una qualche forma e possibilmente con qualcosa di simile a ciò che ha ricevuto, dunque con un dono pari o simile, anche se non identico15. Se così non fosse la relazione che si stabilirebbe tra chi fa il dono e chi lo riceve istituirebbe un rapporto di debito e quin-

no 1993; Id., Le Langage du don, Fides, Montréal 1996; tr. it. di A. Salsano, Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998. Per una critica della lettura marioniana di Mauss si veda Sergio Labate, La verità buona. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Cittadella editrice, Assisi 2004, pp. 174-181. 14. «Saggio sul dono», cit., p. 160 s. 15. Cfr. Stéphane Vinolo, Dieu n’a que faire de l’être, cit. 59 s.

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di, in fondo, di sudditanza o di subordinazione. Quest’esito è ripreso da Marion che cita Mauss, nelle conclusioni della sua opera. Riportiamo il brano citato da Marion: È attraverso i doni che si stabilisce la gerarchia tra capi e vassalli, tra vassalli e seguaci. Donare, equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso (minister)16.

Potremmo riassumere nel modo seguente: non solo il dono rinvia necessariamente, ma istituisce un modello in cui il debito che interviene stabilisce gerarchie, sudditanza ed esclusione. Questa visione non si limita ad escludere la possibilità di doni gratuiti, ma attesta che nella misura in cui si realizza un dono, si realizza anche un certo dovere di restituzione, dunque un indebitamento. A ciò segue che la restituzione rientra nella logica del dovere e della estinzione del debito, dunque del rimborso, pena la subordinazione o il permanere l’indebitamento. Tutto questo processo a sua volta rientra perfettamente nella logica della gestione del potere. Questo aspetto costituirebbe inoltre un tipico esempio di modello metafisico, in quanto: Il donatore dona il dono a titolo di causa efficiente, mobilitando una causa materiale (per definire, reificare il dono) e seguendo una causa finale (il bene del donatario e/o la gloria del donatore); queste quattro cause permettono alla donazione di soddisfare il principio di ragion sufficiente; la reciprocità ripete questa ragion sufficiente

16. «Saggio sul dono», cit. p. 281, parzialmente citato in Dato che, cit. p. 94.

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97 fino ad una perfetta applicazione del principio di identità riportando il dono a se stesso17.

Ognuno dei momenti della donazione stabilisce una relazione nei termini di una causalità: se il donatore dona o causa un dono per un donatario, il dono in sé, in quanto tale, è causato; il donatario appena costituito deve ricambiare, in qualche modo, per non permanere nel debito, eccetera. Questa struttura di cause è imposta dalla trascendenza che ognuno dei momenti o stazioni del dono manifesta in direzione degli altri momenti. Tale trascendenza è dunque la prima cosa da escludere per avere un dono che serva da modello per una donazione che a sua volta costituisca il paradigma di ogni fenomeno. Ciò che la proposta di Marion tenta di evitare è innanzitutto qui la trascendenza verso la causa che ripristinerebbe un’impostazione metafisica del discorso sul dono. Come fa notare Sergio Labate «schivare il ritorno di trascendenza non serve ad eliminare la trascendenza, ma piuttosto a liberarla dai malintesi metafisici (classicamente metafisici). Non è il ritorno della trascendenza a preoccupare, ma questo ritorno della trascendenza»18. 17. Dato che, cit., p. 92. 18. Sergio Labate, «Dono o abbandono: interrogando il libro II di Dato che», in Giovanni Ferretti (ed.), Fenomenologia della donazione. A proposito di Dato che di Jean-Luc Marion, Morlacchi, Perugia 2002, p. 67. Per una radicalizzazione critica rispetto a questa lettura ed alla scelta di Marion di utilizzare il modello di Mauss si veda in particolare a p. 79: «A ben vedere quelle parole scritte da Marion su Mauss avrebbero potuto anche essere di Marion su se stesso, o anche di Mauss su se stesso o su Marion (permettetemi qui il disprezzo della cronologia!); poco importa infatti chi le abbia scritte e a che riguardo; sia Mauss o sia Marion, entrambi hanno forse operato allo stesso modo: decriptando il mistero del dono con principi e logiche rigorose, ma altre, l’uno con la logica dell’economia (o dell’interesse), l’altro con la logica della donazione fenomenologica». Un altro aspetto importante, che va almeno citato, riguarda la possibilità della reciprocità, in particolare su una critica mossa alla lettura marioniana di Mauss da parte di Marcel Hénaff:

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3. Un capovolgimento prospettico. Le pretese impossibilità del dono diverrebbero, nelle repliche di Marion, le condizioni stesse di possibilità della sua riduzione alla donazione. La via a questa impresa è aperta dalla riduzione fenomenologica: si tratterebbe di prendere sul serio quanto affermato da Derrida, accettarlo, e seguirlo, mettendo tra parentesi o applicando l’epoché alle tre tappe della donazione. Si dovrebbero dunque sospendere le tre stazioni della donazione una alla volta, dimostrare che si conserva la donazione e che si attinge ad un concetto di dono puro come puro dato. 3.1. Prima replica Procediamo allora, seguendo Marion, con la messa tra parentesi o epoché del donatario19: è possibile? Il dono può sopportarla senza svanire? Sì, anzi: è la donazione stessa ad esigerla; se così non fosse infatti il donatario potrebbe intervenire come causa efficiente o finale, provocando con la supplica, meritando giustamente (per qualcosa che esige una ricompensa) o ancora indebitandosi, cioè istituendo il dovere di rendere, anche con la riconoscenza. I casi citati sono Lo sconosciuto, il nemico e l’ingrato. Dalla parte del donatario dunque si tratta inizialmente di dare un dono ad uno sconosciuto: dono fatto a non si

dono e contro-dono dovrebbero manifestarsi come non simmetrici e dunque in fondo nessuna resa è possibile, poiché la resa, tanto più è simmetrica tanto più nega il dono, dono e contro-dono dovrebbero dunque darsi come non dipendenti l’uno dall’altro. Cfr. Marcel Hénaff, Le don des philosophes, Seuil, Paris 2012, in particolare p. 195 s. Cfr. anche Le prix de la vérité, le don, l’argent, la philosophie, Seuil, Paris 2002, tr. it. di R. Cincotta e M. Baccianini, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, città aperta, Troina (EN) 2006. 19. Dato che, cit., pp. 105-115.

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sa chi, in modo che chi lo riceva non possa renderlo, in alcun modo. Quali sono i casi concreti? Le raccolte di fondi da parte di associazioni umanitarie, in cui in effetti chi dona non sa a chi dona. È chiaro che non dona all’associazione di beneficenza che si incarica della raccolta, o meglio dona all’associazione, ma questa non è che tramite, un tramite che cela il donatario rispetto al donatore e l’inverso. Per quanto sia possibile reinterpretare economicamente questo processo, per chi dona si tratta di un dono effettivo, reale e senza resa possibile. Si può essere più radicali con il caso del dono fatto al nemico. Il nemico è colui, per definizione, che non accetta il dovere di rendere. In questo caso dunque, ancora una volta, il dono è riconosciuto, ma non si accetta di restituirlo. D’altronde non accettando di restituire si salva il dono dallo scambio e dall’economia garantendolo come dono. Al limite potremmo dire «solo il nemico rende il dono possibile»20, permettendo al dono di mostrarsi senza reciprocità. L’ultima figura è il dono fatto all’ingrato. L’ingrato infatti non riconosce il dono, in vari modi: non lo riconosce come tale, lo rigetta o lo prende a forza oppure nemmeno lo nota. In ogni caso, il dono continua a darsi, in quanto è stato donato da un donatore che non è riconosciuto, ad un donatario o a un non-donatario che rifiuta e lo abbandona. Ciò che l’ingrato non sopporta è propriamente di aver ricevuto il dono, di aver contratto un debito, di essere entrato in una relazione di scambio. Il donatario ridotto, negando lo scambio, salva la donazione: donazione tanto più vera in quanto chi dona lo fa senza poterne ricevere alcunché. Queste tre figure psicologiche strutturano un modello di donazione del dono caratterizzato dal fatto che il dono appare al donatore, con ricevitori assenti, che cioè non ricevono.

20. Ibid., p. 109.

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Ma si è veramente risposto alla critica di Derrida? Tentiamo ora di abbozzare alcune considerazioni. Per la critica mossa si trattava di escludere ogni rimando ad altro, ogni causalità di tipo metafisico. Ora effettivamente nella sospensione del donatore si rispettano alcuni dei principi di Derrida: il dono fatto ad uno sconosciuto, al nemico, all’ingrato sono effettivamente doni in cui non si ha reciprocità alcuna (primo principio). Allo stesso modo il donatario non può restituire perché non saprà da chi ha ricevuto il dono e dunque non potrà mai renderglielo, né in termini di restituzione del valore ricevuto, anche per via dell’indigenza, né in termini di gratitudine. Dunque chi dona lo fa effettivamente senza attendersi nulla e nell’impossibilità che gli sia reso (secondo principio). Tuttavia sul terzo principio si pone un problema: come tutelarsi dall’autogratificazione di sé che potrebbe intervenire a titolo di ricompensa per il dono fatto? Anche se il donatario non può restituire, la ricompensa dell’autogratificazione può sempre intervenire come causa finale. Il problema riguarda, in questo caso, il bene fatto ad un altro: se questo bene fosse ricompensato, in qualsiasi modo, la ricompensa ne intaccherebbe la portata, soprattutto se questa ricompensa intervenisse a titolo di causa a determinare il dono. Se chi dona lo fa sapendo di fare un’opera buona e lodevole e quindi di essere buono e lodevole anche solo davanti a se stesso, non renderebbe con questa stessa coscienza il dono conveniente, dunque causato, conveniente anche solo per via dell’autogratificazione che il farlo comporterebbe? Autogratificazione tanto più grande quanto più quel dono si pretende gratuito e senza resa possibile. Sul quarto principio invece la messa tra parentesi del donatore sembra funzionare: in effetti l’assenza del donatario anche in presenza di un dono sembra salvaguardare, almeno grazie alla distanza, dall’istituzione dello scambio.

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3.2. Seconda replica. Si può sospendere il donatore, e conservare la donazione? Anche qui si danno tre casi: il donatore anonimo, il donatore incosciente, l’indebitamento. Il donatore anonimo si realizza nel caso concreto dell’eredità, in cui il donatore manca empiricamente, almeno nel momento in cui il dono si riceve, d’altronde prima di mancare non era donatore. Ora la donazione non costituisce scambio possibile, né possibilità di resa, il dono ricevuto rientra nell’economia, per chi lo accetta, solo nei termini di una somma da cedere a chi non ha donato il dono (tasse o parcella del notaio a seconda dei casi). Tuttavia chi riceve il dono non può rendere al donatario e deve qualcosa solo ad altri che non sono il donatario, in questo caso sì a titolo di compenso. Vi può essere poi il caso della donazione (in senso giuridico) ricevuta da un benefattore estraneo; caso raro e improbabile, ma pur sempre possibile. Nel caso dell’eredità, per quanto sia la morte a renderla effettiva, non si può escludere che una volontà del donatore, positivamente (disponendo il testamento) o negativamente (scegliendo di fatto di non disporlo), si è esercitata. In ogni caso il donatore scompare e la sua scomparsa è chiamata a salvare il dono nell’impossibilità della restituzione. Una radicalizzazione ulteriore, è quella di un donatore assente perché incosciente. Ma in quali casi un donatore può dirsi assente? In fondo quando dona non sapendo di donare, o almeno in parte. O ancora quando dona non sapendo cosa dona, o almeno non sapendolo esattamente. In effetti possono esistere casi in cui un dono è fatto, pur nella volontà di farlo, senza sapere che cosa esattamente si dona. I casi presentati sono quelli dello sportivo, dell’artista e dell’amante, i quali donano o possono donare la vittoria, l’effetto estetico, la gioia erotica. In tutti i casi, ciò che si produce è un “effetto” (parola importante nel vocabolario di Marion) del quale chi dona

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non conosce la portata in chi lo riceve, al limite non conosce, almeno nei primi due casi, chi gode di questo effetto. D’altronde, che lo conosca o meno, non conosce l’effetto, non può conoscerlo21. La terza figura della messa tra parentesi del donatore si ha nell’indebitamento. Si tratta di un caso particolare dell’indebitamento, o se vogliamo di un caso radicale, cioè di un caso in cui non sia possibile sdebitarsi, perché il donatore non c’è più. Il sé del donatario è definito dal dono o meglio dal debito, esso è determinato come “debitore”. Che cosa rende possibile il dono? Innanzitutto e proprio la riconoscenza: il dono dunque appare e si riconosce proprio per via della riconoscenza che si stabilisce. Marion allora arriva ad affermare che se manca il donatore il dono appare comunque per via del fatto che il donatario se ne assume interamente il carico, in quanto solo in lui si danno i vissuti del dono, nei termini di una riconoscenza. La riconoscenza a sua volta non può essere misconosciuta: se il donatore è ridotto, il donatario riconosce il dono per via della riconoscenza che ne ha, anche se nell’impossibilità di rendere e anche se volontariamente rinnega il dovere di rendere. In altri termini, anche la negazione della riconoscenza implica un certo suo riconoscimento. Il dono dunque va riconosciuto nei termini di un debito senza possibilità di resa, senza un mittente a cui poter corrispondere. Potremmo anche dire che il dono si riconosce qui nell’impossibilità di uno scambio. Il donatario è in debito, costretto in qualche modo a sospendere il principio «io non devo niente a nessuno» e, allo stesso tempo, questa situazione è permanente poiché il donatario si trova nell’impossibilità di rendere. Per riassumere dunque questa seconda replica potremmo dire che anche in questo caso basta

21. Cfr. Ibid., p. 119.

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che il dono si mostri al donatario, senza il donatore, affinché si realizzi la donazione. Riprendiamo dunque, alla luce della messa tra parentesi del donatore, le critiche di Derrida. In tutte e tre le epoché, in effetti, si esclude il terzo principio con la messa tra parentesi del donatore che era implicata nel principio stesso: «l’oblio del dono deve essere radicale innanzitutto dal lato del donatore»22. E non sarebbe neanche pensabile che il donatore riceva un’autogratificazione in quanto assente. La sua assenza allo stesso modo rende impossibile una qualunque reciprocità (primo principio). Per ciò che riguarda il secondo principio vi è qualche considerazione in più da fare. Nel caso dell’eredità chi dona non necessariamente sa di donare, lo sa nel caso in cui abbia disposto testamento e anche nel caso in cui non lo ha disposto pur potendolo fare, nel desiderio che i suoi beni andassero agli eredi naturali, quindi ha scelto effettivamente in entrambi i casi di donare. Potrebbe però anche non sapere di donare, sia nel caso in cui la legge preveda che per vari motivi non possa farlo (anche solo su una parte dei suoi beni sono per legge destinati a qualcuno senza che possa disporne liberamente), sia ancora perché una morte improvvisa gli ha impedito di farlo, quindi non effettivamente scelto di donare. Seppure si possa obiettare che nel caso in cui ha scelto di donare non si abbia effettivamente messa tra parentesi del donatore, almeno per i casi in cui non ha scelto, resta che il dono è stato fatto senza donatore ed il dono è attestato dal donatario. La reciprocità nei termini dello scambio non è possibile, non vi è nessuna autogratificazione possibile, almeno non negli ultimi due casi (terzo principio), non vi è rimborso possibile, eppure resta un debito, seppure di riconoscenza. Debito inestinguibile perché nei confronti di un assente (se-

22. Donare il tempo, cit., p. 25.

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condo principio) che l’apparire del dono come res determina necessariamente (quarto). Lo sportivo, l’artista e l’amante, che donano la vittoria, l’effetto estetico, la gioia erotica, sanno di donare qualcosa, ma non sanno quando quello che donano sortisce l’effetto, ignorano propriamente il godimento che donano, ignorano dunque totalmente ciò che è propriamente donato. Vogliono donare? Non è detto, potrebbero esserci casi in cui lo sportivo giochi per avere ricompensa, l’artista per vivere, per essere pagato per le sue opere, entrambi per la loro gloria. Ma in effetti dalla parte del donatario quello che riceve da essi non rientra nel motivo per cui questi donano. Lo stesso vale per l’amante che dona «gioia erotica»23, potrebbe farlo per riceverne, ma anche in questo caso ignora ciò che dona nella misura in cui non può essere al posto dell’altro, al posto della sua carne, non può provare l’emozione dell’altro, vale a dire l’effetto suscitato da sé sull’altro. Ognuno a suo modo dona forse anche volendo donare, ma non sapendo cosa dona. In ogni caso non possono avere, a rigore, alcuna gratificante coscienza di sé come donatori perché potrebbero non sapere nemmeno quando donano. Resta però il debito contratto, nella sua impossibilità di resa. Da ultimo il caso dell’indebitamento. Questo, definito dall’impossibilità a rendere, sembra radicalizzare e mettere in luce, affermandoli come voluti, i limiti dei primi due esempi. Dovremmo dunque dire che l’indebitamento di quest’ultimo caso è chiamato a salvare i limiti gli altri due esempi. Dovremmo dire, seguendo il metodo fin qui utilizzato, che l’indebitamento non annulla il dono. L’indebitamento di Derrida, nella prospettiva di Marion, introdurrebbe un problema nell’economia del dono solo nel caso in cui fosse la causa di uno sdebitamento, se producesse cioè il dovere di restituzione. Dovremmo 23. Dato che, cit., p. 119.

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dunque dire che se non produce una resa, e in questo caso non può produrla, il debito non può intaccare la manifestazione del dono come tale. Sul piano delle cause potremmo dire che il donatore non è entrato in gioco in quanto causa finale poiché propriamente non può aspettarsi di ricevere gratitudine: nell’eredità è morto; nel caso dello sportivo/artista/amante non si può aspettare gratitudine perché non sa nemmeno se il suo dono sortirà un qualche effetto; nel caso dell’indebitamento perché il donatario non potrà rendere alcunché, nemmeno la riconoscenza, a causa del fatto che manca il creditore. Non può nemmeno avere autogratificazione: in quanto si possono dare casi in cui non sa di donare. Allo stesso tempo non può essere causa efficiente, in quanto assente: nel caso dell’eredità perché non c’è al momento in cui il dono si realizza (il ritardo garantisce l’assenza); nel caso dello sportivo/artista/amante perché al limite si dovrebbe dire che non dona – non sa nemmeno di fare un dono o non sa se quello che fa è un dono, in quanto dona senza poter donare un qualcosa di definito a qualcuno, e una volontà che vuole qualcosa di indeterminato non vuole esattamente ciò che dona –; nel caso dell’indebitamento, ancora una volta, quando il dono si realizza e si istituisce il debito, lui non c’è più e la sua volontà non era quella di donare un dono, quello che ha dato è divenuto dono per chi lo ha ricevuto nel momento in cui era impossibile renderlo. 3.3. Terza replica Resta dunque da capire se sia possibile mettere tra parentesi il dono stesso. Se così non fosse, niente impedirebbe a quest’ultimo residuo di ricostituire il circolo delle cause qui messo in questione, proprio per l’ultimo argomento di Derrida. Anche qui Marion ritiene che questa riduzione sia non solo possibile, ma che si tratti effettivamente di un’esigenza fondamentale

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della donazione. Vediamo che, come nei casi precedenti, l’accettazione delle tesi di Derrida agisce in modo forte. Se è vero che quelli individuati da Derrida sono limiti effettivi della donazione che la portano ad essere contraddittoria, per questo stesso motivo devono essere posti a modello di una donazione pura. Se per Derrida la contraddizione sta nell’impossibilità del darsi di un dono che rispetti i paradigmi di una donazione che non annulli se stessa divenendo scambio, per Marion, allo stesso modo, i paradigmi sono corretti, ma esistono dei casi in cui, pur rispettandoli, si avrebbero dei doni e, proprio rispettandoli, sarebbero dei doni puri. Nell’ipotesi di Derrida si trattava di mostrare come un ente, che diventa oggetto nel circuito della donazione, costituisce inequivocabilmente lo scambio e trasforma la donazione in mero commercio. Marion, ancora una volta, accetta questa regola e si chiede se è possibile un dono in cui non si doni un ente. L’affermazione di questo principio permetterà ancora una volta di salvare la donazione e di consegnarcela in modo più puro. In quest’ultima riduzione o epoché si tratterà dunque di descrivere un venir meno del dono come ente che lasci intatta la donazione. Occorre dunque pensare una donazione in cui non si doni niente o in cui si doni un niente o ancora in cui non si doni un ente. Il venir meno di un dono è sostanzialmente inteso come il venir meno della sua oggettualità, del suo essere un ente. Gli esempi a questo proposito sono: il dono del potere, il donarsi in persona ad altri e il dare la propria parola. Nel primo caso il trasmettere il proprio potere ad un altro, ad un erede, non prevede il passaggio di un oggetto da una persona ad un’altra, nel senso che il potere non è un oggetto. Ciò che uno perde e l’altro acquisisce non è una cosa, ma un nuovo rapporto con le cose24. Il passaggio

24. Dato che, cit., p. 129.

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di oggetti che eventualmente si realizza non nega il principio, ma piuttosto lo conferma e lo conferma per il fatto che l’oggetto è puramente simbolico. Ciò che si trasferisce può essere anche un oggetto, ma ciò che il trasferimento dell’oggetto (corona, scettro…) mostra è, al massimo, lo scarto tra sé (oggetto corona o scettro) e quello che effettivamente si trova donato (il potere inoggettivabile). Stessa cosa vale per il «donarsi in persona ad altri»: donare il proprio corpo non è mai un donarsi se diventa oggetto di uno scambio o se c’è appropriazione. L’appropriazione trasforma o usa il corpo come oggetto, ma questo propriamente non lo è. Anche in questo caso si deve ricorrere ad oggetti per rendere visibile il dono, ma il dovervi ricorrere attesta che il dono donato non coincide con l’oggetto: un anello non corrisponde a ciò che si dona nel matrimonio. Si consideri poi il caso del dare la propria parola: non si dà niente, nessun oggetto, né si promette un oggetto, almeno quando si dà la parola, si dà solo una garanzia che un impegno rispetto ad un oggetto o una azione saranno realizzati così come è stato detto. Come nei casi precedenti tentiamo di mettere alla prova le situazioni in esempio. Vi è reciprocità nel dono del potere, nel donare se stessi o propria parola? Non necessariamente, nel caso del potere non è possibile, nel darsi in persona ad altri non è garantito, nel dare la propria parola non ha senso. Sembra anche possibile escludere una qualsiasi autogratificazione. D’altronde il donatario non contrae per questo un debito, né è possibile che si sdebiti: (1) nel caso del potere, perché spesso non si può rendere alcunché a colui da cui si è ricevuto e dunque nessuna reciprocità (eredità del potere) se non una riconoscenza verso un assente; (2) nel caso del donarsi ad altri, perché la ricompensa adeguata dovrebbe essere il fatto che altri si doni a me, ma se questo accadesse come esito di un debito non sarebbe un reale donarsi, vi può essere però ancora riconoscenza; (3) nel caso del dare la propria parola, propria-

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mente non avrebbe senso che l’altro a cui si dà corrisponda con la propria, accadrebbe solo in un impegno reciproco, ma non tutti gli impegni lo sono, resta sempre la riconoscenza.

4. Donabilità, accettabilità Riassumiamo brevemente. La donazione deve essere messa in luce a partire dal dono, questo è complesso per il fatto che il dono, nel momento in cui si realizza, sembra istituire un circolo economico: lo scambio (Mauss) sembra innescare una trama di rinvii, alimentare la trascendenza che si vorrebbe escludere, cioè sembra proporre un modello metafisico più che fenomenologico. Derrida ha colto questo aspetto mettendo in evidenza come tutto ciò che dovrebbe rendere il dono diverso dallo scambio in realtà lo impedisce: se un dono appare, nel momento in cui è avvertito come tale è già mancato, imperfetto o forse mai stato. Tanto più appare, tanto meno è un dono. Per Marion al contrario, occorre dimostrare che tanto più appare, tanto più è un dono. La strada è speculare a quella di Derrida, ma per Marion non c’è bisogno di sospendere tutte le stazioni della donazione: se si sospendono una alla volta le sue parti, stazioni o tappe, la donazione appare maggiormente come tale e ciò che rimane (i due elementi della donazione non sospesi) attesta che un dono si dà. Marion deve dunque offrire degli esempi di dono tali per cui, negli aspetti che ne segnano la loro differenza da uno scambio essi possano apparire senza annullarsi come doni. Sospende allora il donatario, il donatore e il dono ed in ciascuno dei casi gli altri due elementi attestano la donazione. Ma, si chiede Marion, se il dono non si mostra come un oggetto, da che cosa si può riconosce allora un dono in questo caso? Cosa decide di un dono? La questione si inspessisce e

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si complica ancor di più se si riflette sul fatto che in fondo, nella critica di Derrida, la decisione a donare non deve seguire una regola di ragion sufficiente. Affinché ci sia dono la sua decisione può essere presa solo a partire dalla gratuità. In altri termini potremmo dire: per essere un dono dev’essere senza ragione. Tuttavia se è senza ragione come si può essere sicuri che la decisione che lo mette in gioco non sia l’atto di un folle. Si tratta in fondo di comprendere in che misura una decisione può essere libera dalla ragion sufficiente, in che misura possa compiersi liberamente. Si faccia attenzione al fatto che per Marion il dono non consiste mai nell’oggetto, ma nella sua donabilità, la quale non è un predicato reale. Si tratta di un Io che deve donare, deve sospendere il principio “io non devo niente a nessuno”, almeno come eccezione. Questo dovere dipende a sua volta da un debito che si percepisce a partire da un dono ricevuto. Ciò non toglie che la decisione a donare dipenda dal donatore, ma a condizione di cedere ad una donabilità previa, nel riconoscimento del debito contratto per un dono ricevuto. Il dono dunque si dona da sé per il fatto che induce il donatore a donarlo. Allo stesso modo l’atto di ricevere non consiste nell’accettazione del trasferimento di una proprietà, che può non esserci in quanto può non esserci un oggetto donato, bensì nella “accettabilità” stessa del dono. Un dono viene porto, ma non lo si riconosce come dono, si tratta dunque di un dono non realizzato. Affinché lo sia occorre riconoscerlo, niente di più, riconoscerlo come tale, accettarne cioè la sua donabilità. È dunque nel vissuto immanente di questa umiliazione legata alla ricezione che «il dono si riduce, una volta messa tra parentesi la trascendenza del suo oggetto, al vissuto di ciò che va ricevuto e può non esserlo», cioè la sua accettabilità. Stessa cosa per il dono «rifiutato»: per essere tale un dono deve farsi

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accettare come dono25. Il dono si rende possibile nell’accettabilità e si compie nell’accettabilità per il fatto che può essere rifiutato. Il rifiuto non dipende neanche in questo caso semplicemente dalla volontà del donatario, ma è indotto dal dono. Scrive: «Il dono si mostra (fenomenalmente) in modo tale da conquistare (o imporre) la sua ricevibilità rispetto ad un donatario – si mostra al fine di donarsi»26. Infine, perché il dono si realizzi occorre «decidersi al dono» in entrambi i sensi, sia dalla parte del donatore, sia da quella del donatario. Sembrerebbe che i due vissuti tuttavia non convergano e che sia più semplice ricevere gratuitamente, piuttosto che dare gratuitamente. In realtà, afferma Marion, anche donare comporta una accettazione faticosa. Questo perché ricevere, nel senso della donazione, implica la possibilità di avere ciò che non era atteso, anzi qualcosa che può non far piacere, vuol dire dunque esporsi «alla contingenza pura dell’evento». La sospensione del principio dell’identità a sé da parte del donatore, nella forma della sospensione di «io non devo niente a nessuno», si ritrova anche nel donatario che deve accettare. Deve accettare di ricevere il dono, deve accettare di indebitarsi. In questo senso il dono, rendendosi accettabile, provoca la decisione, convince il donatario ad accettarlo rinunciando alla sua autarchia. La donazione a partire dal dono implicata dalla donabilità o dalla ricevibilità consiste sempre in una prima mossa da parte del dono che si consacra al donatore e al donatario, esso si dona per primo. Con la riduzione di ogni trascendenza, da parte del donatore, del donatario e del dono, risulta dunque il fenomeno “dono”, come pura immanenza nel vissuto di coscienza. In tal senso dunque il dono non può

25. Si ama solo nella libertà di non amare. Cfr. Dato che, cit., p. 135, nota 184. 26. Ibid., p. 136.

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essere interpretato come scambio. Contro Derrida allora Marion può dire che il dono non è considerabile come scambio, ma se ne separa e vi si oppone27. Occorre ora soffermarsi su alcune considerazioni. Innanzitutto l’operazione tende a mettere fuori gioco di volta in volta gli elementi costitutivi del dono. Ma è possibile escludere dalla donabilità il rimando al donatario, o dall’accettabilità quello al donatore? Si possono escludere i rimandi a donatore o donatario o dono rispetto al circuito interno della donazione, scardinare i rinvii dall’uno agli altri termini per eliminare lo scambio, ma sembra che tutti i pericoli non si possano scongiurare insieme: in ciascuna delle esclusioni, un pericolo rimane in agguato. Se si mette tra parentesi il donatario si elimina possibilità di restituzione dello scambio, ma l’autogratificazione compensa l’impossibilità della restituzione e dunque introduce una causa finale sul modello: “faccio questo per essere gratificato (da altri o da me stesso)”. Se si mette tra parentesi il donatore si impedisce ancora la restituzione, ma si istituisce un debito dal quale il donatario non può liberarsi, debito che resta e si alimenta dell’assenza. Ma l’accrescimento del debito in questo caso non rischia di ricambiarsi nella gratitudine perenne ad un assente, nella celebrazione, senza estinzione possibile, della sua memoria? Per contro in tal senso sarebbe più augurabile la garanzia della possibilità di rendere, pareggiare, in modo da poter estinguere la relazione di debito. D’altronde non potrebbe essere lo sdebitarsi un modo per salvare la relazione dal debito? E se così fosse, nella perfetta corrispondenza del rendere a ciò che si è avuto, non potrebbe essere la resa a risolvere il contratto economico pur lasciando intatta la relazione? Relazione altra dallo scambio.

27. Cfr. Ibid., p. 139 s.

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Un altro problema sorge sulla decisione stessa di donare, da Marion interpretata come dovere, dovere di negazione della formula «io non devo niente a nessuno», e l’istituzione di «io devo far qualcosa a…». Riconoscere di dovere qualcosa qualcuno è una decisione implicata da un debito. E tanto più si riconosce un debito, tanto più si riconosce di dovere qualcosa a…, tanto più la donazione realizzata in tal modo prende su di sé, per la volontà soggettiva, i tratti di un dovere. Tanto più si accresce il debito tanto più il dovere sarà assoluto: dovere che si accrescerebbe ancora una volta nell’impossibilità della restituzione di un donatario assente, o ignoto. Con la conseguenza che se un dovere è riconosciuto, tanto più cresce, tanto più tende a diventare assoluto, tanto più promuove la volontà nell’impossibilità di non volere. Come fa notare Carmelo Meazza: «un volere consegnato ad un dovere assoluto di riconoscenza non può liberamente e discrezionalmente donare un dono»28. Dovremmo dunque chiederci se è possibile donare perché si deve. Ciò che muove Marion in questo punto è il rispetto o la garanzia di una certa anti-economicità per cui un l’indebitamento sarebbe preferibile allo scambio. Al contrario occorrerebbe forse chiedersi se non sia più difficile da sopportare un debito indefinitamente obbligante piuttosto che uno scambio di equivalenti in cui sia possibile liberarsi dal debito. Il dono, allora, dovrebbe innanzitutto salvare dal debito, anche dalla riconoscenza di un già ricevuto29. Perché un dono sia gratuito dovrebbe cioè innanzitutto rendere possibile una certa

28. Sulla soglia etica del Pulchrum, p. 45. 29. Dato che, cit., p. 133: «Certo, il dono risiede nella decisione di donare presa dal donatore potenziale, ma quest’ultimo può decidere solo nel caso in cui cede alla donabilità, cioè riconosce che un altro dono lo ha già obbligato».

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estinzione del debito. Ancora più radicalmente non dovrebbe affatto istituire debito e se lo istituisce dovrebbe garantire la possibilità di estinguerlo. Marion sembra accennare a questo punto nel dire che il bene dev’essere fatto per niente30. Se il dono deve essere gratuito non deve avere una ragione che lo giustifichi e lo produca come causa, a questo punto nemmeno «un altro dono [che] lo ha già obbligato»31. Allo stesso tempo non basta dire per niente o senza ragione per definirlo, altrimenti cosa distinguerebbe un dono dallo sperpero o, come abbiamo già accennato, dal gesto di un folle? Solo un folle dona senza ragione, ma si può dire che un folle doni? Occorre precisare che il senza ragione dunque non è la follia e allo stesso tempo chiarire che il per niente qui esclude solo una ragione che può intervenire a titolo di causa. Potremmo dire che seppure il dono sia fatto per niente dovrebbe comunque essere fatto per altri. Il per niente non è un modo per escludere il per altri32; anzi l’opposto. In fondo il per niente che Marion cerca di sviluppare non solo non negherebbe questa possibilità, ma sarebbe strumentale ad affermarla. Il per niente a cui Marion si riferisce va letto alla luce delle considerazioni sull’autarchia o del ritorno a titolo di ricompensa. Allora per niente può diventare un nome oppositivo a per sé, a per un proprio vantaggio o guadagno, non a per altri. Estremizzando

30. Ibid., p. 109. 31. Ibid., p. 135. 32. Ci riferiamo qui alla considerazione critica di Sergio Labate: «La gratuità sarebbe il carattere finale di ogni azione compiuta per nulla, e, attraverso questo passaggio purificatore, dovrebbe evitare qualunque compromissione con l’interesse. […] Delle due l’una: o il Dio cristiano non rappresenta una raffigurazione simbolica degli eventi di gratuità, oppure vi si rivela un modello diverso di gratuità, nel quale si dona per l’altro, non per nulla». La verità buona, cit. p. 197 s.

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potremmo dire che l’unica modalità del dono per altri, è il dono per niente33. Ma se ciò è vero, come è possibile un dono per altri? Sicuramente la garanzia del fatto che quel dono non avrà ricompensa alcuna, nemmeno riconoscenza. Dovrebbe forse essere fatto per il bene dell’altro, ma allo stesso tempo dovrebbe garantire il bene fatto dall’esclusività del per l’altro e garantirlo soprattutto dal fatto che niente (nemmeno un Dio) possa intervenire a titolo di causa finale o efficiente per compensare del bene fatto a quell’altro. In tal senso un dono dovrebbe essere compreso nella luce della soglia atea e della immanenza assoluta del volto di Levinas. Un accenno, a questo proposito parrebbe venire, seppur non sviluppata, dallo stesso Marion quando parla della “interdonazione” come modello supremo di donazione34. Un passaggio più esplicito in questa direzione è però presente in un altro punto con un richiamo al passo evangelico in Mt, 25, 37-44. In questo esempio si rende evidente che il dono fatto a qualcuno, nei termini di un’azione di bene, risulta riuscito a partire dall’ignoranza di aver fatto quel dono. L’ignoranza a sua volta garantirebbe l’impossibilità che il dono sia fatto per la ricompensa che poi si riceve. In

33. D’altronde, pensare che per Marion la donazione escluda l’altro significa non cogliere la continuità tra Dato che e Dio senza essere, soprattutto in ciò che concerne la relazione tra dono e amore. Come fa notare Rosaria Caldarone: «Può sembrare strano che l’ultima parola del testo [Dato che] non sia il dono bensì l’amore, ma il lettore di Dio senza essere sa che l’amore offre la stessa condizione di pensabilità del dono», «Un dono per il pensiero. Donazione e individuazione d’altri», in Giovanni Ferretti (ed.), Fenomenologia della donazione, cit., pp. 139. 34. «Questa situazione, ancora inesplorata, non permette e non impone solo di riprendere la tematica dell’etica – del rispetto e del volto, dell’obbligazione e della sostituzione – e di confermare la piena legittimità fenomenale. Essa autorizzerebbe forse anche di accostare ciò che l’etica non può raggiungere: l’individuazione d’altri». Dato che, cit., p. 394 s.

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altri termini, nell’esempio citato il dono sarebbe garantito negativamente nella sua possibilità proprio dal non essere fatto per Dio e, positivamente, nell’essere fatto per l’altro senza la garanzia di un dio che possa ricompensare. L’esempio metterebbe inoltre in evidenza come la colpa e l’ingiustizia risiederebbero nel non aver fatto un dono, nell’aver escluso qualcuno dalla donazione. La donalità, la sua riuscita, dovrebbe dunque essere ricercata tenendo soprattutto presente un’esigenza di inconsapevolezza del dono, una certa inapparenza del suo realizzarsi, o un’apparenza discreta. Inconsapevolezza del fare il dono che salverebbe l’intenzione a donare da una ragion sufficiente, sia come sdebitamento proprio, sia come attesa di ricompensa o di sdebitamento da parte di altri. Allo stesso tempo il dono non deve essere rifiutato a qualcuno, nel senso che l’atto di donazione deve darsi a ciascuno senza generare esclusi. A partire da queste coerenze si potrebbe o si dovrebbe forse ricercare il modello della donazione e di una donazione nella sua relazione con la fenomenalità, nella pretesa di universalità dell’opera dell’arte. D’altronde Marion è estremamente sensibile al fenomeno dell’opera dell’arte, al punto che nel libro primo di Dato che il fenomeno del quadro è richiamato a titolo di esempio in difesa di una fenomenalità irriducibile. Lo sviluppo di questa tematizzazione porterà però l’autore a concentrarsi in particolare sulla questione dell’effetto del quadro. Ci si potrebbe invece chiedere se il fenomeno dell’arte non possa costituire, a partire dalla sua messa in visibilità piuttosto che a partire dal suo effetto, una coerenza più forte rispetto alle esigenze poste da Marion. L’opera dell’arte potrebbe cioè essere richiamata non solo come esempio di fenomeno autoridotto, ma anche come criterio per evitare i non pochi rischi che la donazione presenta. Il gesto dell’artista potrebbe e dovrebbe allora essere indagato, oltre che come messa tra parentesi del donatario, anche come gesto di una donazione non esclusiva,

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vale a dire come l’esempio, e forse come modello, in cui l’atto di bene può riuscire nella sua universalità.

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L’uomo senza possibilità. L’io rarefatto di Musil di Francesco Valagussa

Ci sono delle verità, ma non la verità. Musil, Tagebücher, 20 febbraio 1902

1. L’ammirazione suscitata dal technítes Nel primo libro della Metafisica, Aristotele scrive che il “technítes” è “sophóteros”1. Avendo già raccolto mediante il “logos” la molteplicità delle singole esperienze, avendo già posto in atto il movimento che dal singolare conduce all’universale, il “technítes” ha già compiuto ciò che Heidegger chiama «il passaggio dal se-allora al poiché-dunque»2. Così la tecnica giunge a prefigurare la “sophía”: quel “complesso di rimandi” che accade ancora nella forma “se questo-allora quello” tra-

1. Aristot. Metaph., I, 1, 981 b 13-15. Tr. it. Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20023, p. 7. 2. M. Heidegger, Sophistes, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1992. Tr. it. Il “Sofista” di Platone, a cura di N. Curcio, Adelphi, Milano 2013, p. 117. Cfr. anche Id., Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Ausarbeitung für Marburger und die Göttinger Fakultät (1922), a cura di G. Neumann, Stuttgart 2003. Tr. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, a cura di A.P. Ruoppo, Guida, Napoli, in particolare pp. 63-67. Più in generale, sul tema dell’effettività, cfr. ivi il saggio di G. Figal, La totalizzazione della filosofia pratica. Riflessioni sul rapporto tra etica ed ermeneutica a partire dal Natorp-Bericht, pp. 133-153.

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passa nella forma “poiché questo-allora quello”; in tal modo viene posto il problema dell’ “arché”, della provenienza da qualcosa che sempre è; la questione viene così proiettata su un orizzonte inesorabilmente metafisico. Ma perché il “technítes” è “sophóteros”? L’artefice, questo artigiano tremendamente esperto, «scopre qualcosa al di là di ciò che ciascuno vede»3, e perciò viene ammirato. Viene ammirato essenzialmente proprio perché scopre, nella misura in cui questa attività disvelante viene considerata nella sua valenza ontologica più radicale: «questo scoprire è un trascendere le possibilità più immediate che l’esistere possiede»4. Restando su questa linea, è chiaro che la “trascendenza” qui tematizzata – siamo nell’inverno tra il 1924 e il 1925 – anticipa già il nucleo centrale dell’esistenza come «essente nella maniera della comprensione dell’essere»5, secondo l’elaborazione che verrà offerta più tardi, nel 1927, in Essere e tempo. Torniamo al rapporto tra “technítes” è “sophóteros”, ossia tra la facoltà di produzione tecnica e la capacità di suscitare ammirazione: «Pertanto – scrive Heidegger – nell’ammirazione elargita dall’esistere quotidiano si annuncia il fatto che nell’esistere stesso è vivo un particolare apprezzamento dello 3. Così Heidegger traduce il passo di Aristotele (Metaph., 981 b 13), cfr. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 132. Per un’analisi circostanziata del primo libro della Metafisica cfr. W. Jaeger, Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Weidmann, Berlin 1923, tr. it. di G. Calogero, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, La Nuova Italia, Firenze 19643, pp. 230-233. 4. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 132. Di nuovo, su questo medesimo tema cfr. Id., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., pp. 63-67. 5. Id., Sein und Zeit, § 4, Max Niemeyer, Tübingen 200619, p. 12. Tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 200216, p. 28. Si rimanda a L. Scaravelli, Il problema speculativo di M. Heidegger, in “Studi germanici”, II, 1935, pp. 178-199.

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scoprire»6, e in maniera ancora più precisa si potrebbe dunque riassumere in modo quasi aforistico: «L’esistere ha in sé la tendenza a scoprire l’ente»7 – qui appare già contenuta, in nuce per così dire, l’intera problematica della differenza ontologica8. Il “technítes” non è solo “sophóteros”, avendo dunque già abbandonato la mera “praticaccia”, in vista di un saper-fare che pone in questione la trascendenza dell’esistere rispetto all’essente; il “technítes”, proprio in quanto “sophóteros”, è oggetto del “thaumàzein” e si distingue dagli altri, acquistando un ruolo eminente, proprio perché non soltanto segnala – per restare all’esempio aristotelico9 – che il fuoco è caldo, ma supera le comuni conoscenze sensibili, s’impossessa dell’arte e dunque risulta in grado di insegnarla. Si tratta della “sophía” intesa come facoltà di «trascendere la momentanea apertura offerta dall’aisthesis, rendendo accessibile l’ente in modo più esplicito»10. Qui non s’intende ripercorrere l’intero itinerario, che passerebbe dalla memoria per approdare infine alla sapienza: ci

6. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 132. Questo passo richiama immediatamente il tema della Sorge presente in Id., Sein und Zeit, § 12 cit., p. 57. Tr. it. Essere e tempo, cit., p. 81: «l’Essere dell’Esserci deve essere chiarito come cura». Per mostrare quali connessioni si aprano, inevitabilmente, tra questa trattazione dell’apprezzamento dello scoprire e l’intera tematizzazione della “Cura”, così come viene formulata in Essere e tempo si rimanda a A. Caracciolo, La struttura dell’essere nel mondo e il modo del “Besorgen” in “Sein und Zeit” di M. Heidegger, Bozzi, Genova 1960. 7. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 132. 8. Cfr. in particolare E. Severino, Heidegger e la metafisica originaria, Adelphi, Milano1981. E inoltre cfr. A. Guzzoni, Il movimento della differenza ontologica in Heidegger, in “Il Pensiero”, 1958, XI, pp. 193-199. 9. Cfr. Aristot. Metaph., I, 1, 981 b 15. Tr. it. Metafisica, cit., p. 7. 10. M. Heidegger, Il “Sofista” di Platone, cit., p. 133.

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proponiamo soltanto di sottolineare come il trascendimento accada a partire dall’ente e relativamente all’ente; la capacità di rintracciare all’interno di ciò che Heidegger chiama l’aspetto della cosa, ossia il suo “èidos”, ulteriori possibilità che non sono immediatamente evidenti nell’apparire della cosa stessa. Ciò distingue effettivamente il sapiente dagli altri uomini: la facoltà di rintracciare nell’aspetto immediato molto più di quanto comunemente ci si aspetti; la meraviglia sorge a motivo della capacità del sapiente di “accrescere” il novero di possibilità contenute nell’aspetto, ossia di aumentare letteralmente le aspettative che si producono attorno all’ente. Mentre solitamente si frequentano11 sempre le medesime possibilità riguardo ai diversi enti, mentre normalmente ci si aspetta dall’ente sempre la medesima prestazione, proprio in base all’idea che ce ne si è fatti, il “sophóteros” scopre di più: esplora proprio quelle possibilità eccezionali che normalmente vengono sorvegliate12 dalla medietà. Il “sophóteros” prende di mira proprio quei possibili implicitamente preclusi dal livellamento del “Si”: nella frequentazione abitudinaria delle “possibilità” già pacificate si è già ridotto l’aspetto dell’ente a quel che siamo soliti aspettarci da esso.

11. Il riferimento concerne la trattazione del “Si” come dittatura livellante dell’impersonale. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 27, cit., pp. 126-130. Tr. it. Essere e tempo, cit., pp. 163-167. Cfr. V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità, Argalia, Urbino 1976, in particolare pp. 335342. 12. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 27, cit., in particolare p. 126. Tr. it. p. 163. Chiaramente l’altro riferimento immediato, per restare alla filosofia novecentesca, concerne M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975. Tr. it. Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, a cura di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976.

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Ciò che Heidegger qualifica come mondo ambiente13 (Umwelt) effettivamente non ha un senso primariamente spaziale: il motivo autentico di ciò che in italiano possiamo tradurre con l’intorno, ossia lo Umherum, è piuttosto ciò che si apre nel salto mediante cui il fenomeno appare, per così dire già da sempre all’interno della mondità14. A caratterizzare questo “intorno”, tuttavia, non sono le grandi elucubrazioni metafisiche, ma dapprincipio possono essere solo e soltanto le abitudini e i modi di vedere le cose in cui siamo gettati. L’intorno è innanzitutto e principalmente l’insieme delle aspettative sui vari enti, ossia quel novero di possibilità che viene comunemente frequentato dalla chiacchiera15. Non è consentito dimenticare che tale chiacchiera, tale frequentazione assidua delle possibilità già addomesticate riguardo ai vari eventi, possiede il carattere dell’assoluta stabilità16: sebbene la chiacchiera si costituisca per diffusione e ripetizione, e dunque il suo fondamento si aggravi fino all’infondatezza, tuttavia diffondendosi nella “comprensione indifferente”, essa finisce per acquisire un carattere per il quale «non esiste più nulla di incerto»17. E infatti questo atteggiamento implica letteralmente una “chiusura”, vale a dire l’ostacolo più pervi-

13. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 14, cit., p. 66. Tr. it. p. 91. Su questo tema cfr. F. Volpi, La selvaggia chiarezza, Adelphi, Milano 2011. 14. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 14, cit., p. 65. Tr. it. p. 91. 15. Cfr. Id., Sophistes, cit., pp. 195-196. Tr. it., Sofista, cit., pp. 226-227. Sullo stesso tema, si rimanda a Id., Sein und Zeit, § 35, cit., pp. 167-170. Tr. it. Essere e tempo, cit., pp. 213-215. 16. Cfr. ibidem. Cfr. M.A. Wrathall, Social Constraints on Conversational. Content: Heidegger on Rede and Gerede, in “Philosophical Topics”, XXVII, 2, 1999, pp. 25-46. 17. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 35, cit., pp. 167-170. Tr. it. Essere e tempo, cit., pp. 213-215.

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cace al trascendimento, a quell’apertura che consente strutturalmente la scoperta di sempre nuove possibilità. Questo Umherum assomiglia terribilmente al concetto di verità presentato in esergo a un saggio musiliano del 1922, apparso sulla rivista “Ganymed. Jahrbuch für die Kunst”, dal titolo Das hilflose Europa: «Non sono solo convinto – scrive Musil che ciò che dico sia falso, ma che sia falso anche ciò che mi si obietterà. Ciononostante si deve cominciare a parlarne; riguardo a un tema del genere, la verità non sta al centro, bensì tutt’attorno (rund herum), come un sacco che, con ogni nuova opinione che ci si ficca dentro, modifica la propria forma, e però diventa sempre più saldo»18. Verità non è più considerata come “opinione fondata sulla ragione”, e nemmeno come coerenza rispetto a certi criteri di consistenza logica: verità qui assomiglia molto a quella chiacchiera che abbandona ogni principio di coerenza e diviene progressivamente sempre più salda in virtù della quantità di opinioni – della diffusione e della ripetizione, direbbe Heidegger – che la costituiscono e la alimentano di continuo. Il sacco che si gonfia è l’analogo della medietà che sorveglia le eccezioni: tutto ciò che rientra nel sacco, a prescindere dalla sua coerenza logica, quindi tutto e il suo contrario, finisce per gonfiare e dunque per stabilizzare l’insieme; all’opposto, il

18. R. Musil, Das hilflose Europa, in Gesammelte Werke, a cura di A. Frisè, Rowohlt, Hamburg 1978, vol. VIII, p. 1075. Tr. it. Europa inerme, a cura di V. Vitiello e F. Valagussa, Moretti&Vitali, Bergamo 2015, p. 11. Sul modo di intendere la verità da parte di Musil cfr. G. Morpurgo-Tagliabue, Gli orfani della metafisica, in La nevrosi austriaca, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 95: «Musil, diplomato in ingegneria e laureato in filosofia, era imbevuto della cultura epistemologica del suo tempo, e questa era prevalentemente una continuazione (anti-metafisica) e una revisione (antiidealistica) del pensiero kantiano».

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sacco funge proprio da pellicola, da membrana che distingue le possibilità già note dalle eccezioni escluse.

2. Possibilità e qualità Torniamo al technítes che rintraccia nuove possibilità, che trascende l’aspetto dell’ente suscitando nuove “aspettative”: le “possibilità” intraviste a parte objecti sono altrettanto bene identificabili come “qualità” a parte subjecti. In altri termini tra qualità e possibilità si potrebbe stabilire il medesimo rapporto che sussiste tra soggetto e oggetto: così come risulta impossibile parlare del soggetto a prescindere dall’oggetto, a motivo della loro profonda coimplicazione su un piano strettamente dialettico, allo stesso modo sarebbe difficile parlare di possibilità da parte dell’ente prescindendo dall’abilità, ossia dalla qualità, di suscitarle e di renderle manifeste – tale è esattamente il salto che immette il fenomeno nella mondità19, per tornare sull’espressione di Heidegger. In questo salto le “possibilità” risultano speculari rispetto alle “qualità” in grado di suscitarle: il riflesso in cui si esprime tale rapporto speculativo20 è esattamente l’èidos, inteso come l’aspetto. Possibilità, dunque, possiede quasi lo stesso significato di qualità, a patto di saper rovesciare la prospettiva di lettura. Il celebre romanzo di Musil porta in realtà alle estreme conseguenze questo rapporto simmetrico. «È sorto un mondo di

19. M. Heidegger, Sein und Zeit, § 14, cit., p. 65. Tr. it. p. 91. 20. Rispetto a tale rapporto di specularità cfr. la dicitura del “raddoppio trascendentale”, così come viene espressa in E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, il Mulino, Bologna 1968, p. 360.

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qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere nessuna esperienza privata, e il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati»21. L’uomo senza qualità viene suscitato letteralmente dall’insorgenza di un mondo di qualità senza l’uomo: «la personalità non sarà ben presto che un immaginario punto di incontro dell’impersonale»22. Nel susseguirsi delle epoche storiche a noi più vicine, è andata rafforzandosi la concezione che vede nell’uomo una sorta di «sovrano che compie atti di governo»23, e dunque un centro di raccolta di qualità capaci di porre in luce delle possibilità ancora nascoste negli enti. All’estremità di questo percorso le “qualità” si alleano segretamente con le “possibilità” in modo da escludere radicalmente quel salto che immette il fenomeno nella mondità, in maniera cioè da estromettere l’esistenza, quel centro di raccolta a partire dal quale era concepibile un “intorno”. Ciò comporta chiaramente la “perdita del centro”24, come avrebbe affermato un paio di decenni più tardi Sedlmayr, 21. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, in Gesammelte Werke, cit., vol. I, II, § 39, p. 150. Tr. it. L’uomo senza qualità, a cura di A. Frisé, Einaudi, Torino 19972, vol. I, p. 166. Su questo tema cfr. P. Legrenzi, L’uomo senza facoltà (modelli del comportamento in Musil), in AA.VV., Anima ed esattezza. Letteratura e scienza nella cultura austraica tra ‘800 e ‘900, a cura di R. Morello, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 98-108. 22. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. II, II, § 101, p. 474. Tr. it. L’uomo senza qualità, cit., vol. I, p. 538. Cfr. L. Forte, Da Broch a Musil: l’avventura dell’irrealtà, in AA.VV., Anima ed esattezza, cit., in particolare p. 203: «Musil ipotizza per la nostra epoca una “coscienza di transizione”». 23. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. II, II, § 101, p. 474. Tr. it. L’uomo senza qualità, cit., vol. I, p. 538. 24. H. Sedlmayr, Verlust der Mitte, Otto Müller Verlag, Salzburg 1948. Tr. it. Perdita del centro, a cura di M. Guarducci, Borla, Roma 1983.

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proiettando il problema su un piano irriducibile alla mera dimensione estetica. Una perdita che non dipende da una mera constatazione de facto, le cui ragioni devono essere individuate bensì de iure. Correlato per così dire oggettivo di questa perdita del centro è la scomparsa della verità, intesa come ciò che sta al centro: così come la verità si costituisce oggi nella forma di un sacco che si gonfia e si rinsalda, così l’uomo si riduce soltanto al crocevia di rapporti e relazioni tra oggetti25. L’assenza di centro equivale appunto all’assenza di forma: il Teorema dell’assenza di forma – nucleo fondamentale del saggio del 1923 pubblicato postumo dal titolo L’uomo tedesco come sintomo26 – può davvero essere considerato l’antesignano de L’uomo senza qualità27. Senza il riferimento da un lato alle teorie scientifiche che già circolavano in Germania e in Austria – e di cui Musil era pienamente consapevole, a partire dalla sua tesi di dottorato

25. Su questo tema cfr. M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano19772, p. 135, dove a proposito de L’uomo senza qualità si legge: «La sua vicenda è il farsi Konvention della Konversation. Il tema è la radicale perdita di “aura” del linguaggio – la perdita radicale […] la perdita del mondo come suo». Di qui la “disperata ironia” che costituisce e caratterizza l’intero romanzo. Cfr. F. Masini, Robert Musil ovvero l’ironia della ragione, in “Metaphorein”, VII, 1979, pp. 29-41. 26. Cfr. R. Musil, Der deutsche Mensch als Sympton, in Gesammelte Werke, cit., vol. VIII, pp. 1368-1375. Tr. it. L’uomo tedesco come sintomo, a cura di F. Valagussa, Pendragon, Bologna 2014, pp. 65-71. Sull’assenza di forma si veda M. Cacciari, L’uomo senza qualità, in AA.VV., Il romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino 2003, vol. 5, in particolare pp. 520-525. 27. Su questo tema mi permetto di rimandare a F. Valagussa, L’uomo di Musil. Il bilancio segreto di una cultura, in R. Musil, L’uomo tedesco come sintomo, cit., pp. 14-16. Tale teorema dev’essere collegato ad altri due corollari imprescindibili del pensiero musiliano, ossia il principio di ragione insufficiente e la disarmonia prestabilita. Cfr. ivi, pp. 28-29.

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su Mach28 – dall’altro lato alla cosiddetta Psicologia della Gestalt29, l’operazione di Musil rischia di risultare tremendamente criptica. Cercando di collocarla entro il suo contesto storico, al contrario, si notano immediatamente non solo le correlazioni con il mondo della ricerca fisico-matematica e psicologica, bensì soprattutto le “affinità elettive” che si possono instaurare con i lavori coevi, per esempio di Wittgenstein, come ha mostrato Aldo Gargani30. Il problema musiliano esemplificato nella locuzione “ohne Eigenschaften” concerne proprio lo statuto dell’umano di fronte a questa segreta alleanza tra qualità e possibilità che tende a escludere l’io come momento saliente o come luogo di raccordo: le cose parlano e s’intendono tra loro proprio eliminando l’interferenza prodotta dall’umano31. Chi sarà all’altezza di un mondo di qualità senza l’uomo?

28. Per una ricostruzione approfondita e analitica della formazione matematica e delle competenze tecniche di Musil in materia di statistica cfr. L. Kummer e W. Kummer, La formazione matematica, fisica e tecnica di R. Musil, in AA.VV., Anima ed esattezza, cit., pp. 109-127. 29. Cfr. in particolare W. Köhler, Gestalt Psychology, Liveright Publishing Corporation, New York 1947. Tr. it. La psicologia della Gestalt, a cura di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 19763. In realtà il testo inaugurale per questo indirizzo di studi è certamente C. von Ehrenfels, Über Gestaltqualitäten, pubblicato nel 1890. 30. Cfr. soprattutto A. Gargani, Musil e Wittgenstein: analisi della civiltà e illuminazioni intellettuali, in Freud Wittgenstein Musil, Shakespeare and Company, Milano 1982, pp. 84-105. Si rimanda ovviamente anche a M. Cacciari, Krisis, cit., pp. 91-92, dove si insiste sulla differenza tra oggetto e significato, dal momento che il significato è diventato la posizione formale dell’oggetto all’interno del gioco linguistico – in ciò consiste la disperazione del Tractatus, gemella della “disperata ironia” del Mann ohne Eigenschaften. 31. Si tratta chiaramente dello stesso problema svolto dalla riflessione del cosiddetto “secondo Wittgenstein”. Cfr. L. Wittgenstein, Libro blu, in Libro blu e libro marrone, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 20002, p. 10: «ma

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3. Ulrich e i cento talleri Nel suo saggio sugli orfani della metafisica Morpurgo-Tagliabue associa Ulrich alla quarta sezione del terzo capitolo delle inferenze dialettiche della ragione pura, ossia del secondo libro della dialettica trascendentale kantiana: nella sezione, dedicata all’impossibilità di una dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio, si trova il celebre esempio dei cento talleri, e Ulrich «personifica la perdita della categoria della modalità del reale e il prevalere della modalità del possibile»32. Nella quarta sezione Kant mostra come la realtà totale si trovi all’interno del concetto di un qualcosa di possibile33 – sottolineando in maniera particolare come la stessa esistenza si trovi inclusa nella realtà e dunque anche l’esistenza dipenda strettamente dal possibile. Da qui deriva l’affermazione immediatamente precedente l’esempio dei cento talleri: «E così il reale non contiene nulla di più che il semplice possibile»34.

se dovessimo nominare qualcosa che sia la vita del segno, dovremmo dire che ciò sia il suo uso». 32. G. Morpurgo-Tagliabue, La nevrosi austriaca, cit., pp. 96-97. L’altro testo kantiano per così dire imparentato con la parabola di Ulrich è il saggio precritico del 1762 dal titolo Der einzig mögliche Beweisung zu einer Demonstration des Daseins Gottes. 33. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 625 / A597, in Werke, a cura di W. Weischedel, Darmstadt 1983, vol. IV, p. 532. Tr. it. Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Milano 20013, p. 622. Sul concetto di possibilità in Kant cfr. M. Heidegger, Kants These über das Sein, in Wegmarken, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1976. Tr. it. La tesi di Kant sull’essere, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19943, pp. 393-427. Sulla prova ontologica si veda anche P. Martinetti, Kant, Bocca, Milano 1943, pp. 135-137. 34. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 627 / A 599, cit., p. 534. Tr. it. p. 624. Su questo punto cfr. V. Vitiello, La posizione di Kant nella logica hegeliana, in Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979, pp. 113-150.

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Forse però, ancora più rilevante, per stabilire un parallelo con Ulrich, è quanto si afferma nella sezione successiva, a proposito dell’impossibilità di una dimostrazione cosmologica dell’esistenza di Dio: «La necessità incondizionata, che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana»35. Nemmeno l’eternità assomiglia a un simile abisso: l’eternità dura, non sostiene. E di fronte alla domanda sull’origine dell’ente necessario: «tutto sprofonda sotto di noi, e tanto la massima perfezione, quanto la minima ondeggiano senza appoggio»36. Esattamente questa è la posizione di Ulrich: tutto sprofonda sotto di lui, tutto vacilla senza appoggio. Soggetto non è più colui che “sorregge”, bensì l’accorgersi che niente regge: per dirla heideggerianamente, soggetto è soltanto quel “ci” che non si riduce all’ente, anzi, che letteralmente “exsiste”, quando tutt’attorno le strutture di senso e i dispositivi abitudinari crollano. Tale linea conduce direttamente da Kant verso Musil: soggetto è avvertire questo abisso della ragione. Si può coglierne meglio la dinamica, anche sul piano di uno sviluppo storico e non soltanto da un punto di vista metafisico, tornando a una pagina illuminante di Simmel relativa al rapporto tra l’“io penso” e il mondo così come si delinea nella Critica della ragione pura: aver assunto il mondo oggettivo nell’autocoscienza significa che «viene tolta ogni impalcatura su cui si sosteneva l’edificio»37; l’intera obiettività del mondo 35. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 641 / A 613, cit., p. 543. Tr. it. p. 634. Sul rapporto tra ente necessario e abisso della ragione, con particolare riferimento a Kant, cfr. F. Tomatis, L’argomento ontologico. L’esistenza di Dio da Anselmo a Schelling, Città Nuova, Roma 20102, pp. 133-134. 36. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 642 / A 614, cit., p. 535. Tr. it. p. 635. 37. G. Simmel, Kant. Sechzehn Vorlesungen, gehaltenen an der Berliner Universität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1918, V, p. 64. Tr. it.

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perde la propria natura, per così dire, “sostanziale” e assume il carattere dinamico dell’unità rappresentativa prodotta dal pensiero. L’io cessa di essere un contenuto superiore o migliore rispetto al mondo: «In questo sviluppo della storia delle idee – riprende Simmel – il mondo doveva dunque anzitutto perdere tutta la propria realtà nell’io, affinché questo si sacrificasse a sua volta per lui e gli restituisse in tal modo la sua realtà a un più alto grado. Questa immagine del mondo esiste mediante l’io, ma l’io a sua volta esiste per l’immagine del mondo»38. Si potrebbe dire che Simmel ci conduce sino alla soglia, senza però riuscire a compiere il passo che caratterizzerà invece Heidegger e Musil, ma insieme con loro anche l’Husserl della Crisi39 e persino un certo Wittgenstein. Simmel vede lo “scambio fondazionale” attraverso cui io e mondo invertono i rispettivi ruoli: crollano le impalcature oggettive e l’io si accolla letteralmente il “peso” del mondo; unica garanzia di oggettività è l’unità della rappresentazione formulata dall’intelletto. Simmel scorge anche l’inevitabile conseguenza: l’io che assume su di sé la “croce del mondo”, in una dinamica palesemente “cristica”, si sacrifica a sua volta; tale sacrificio, però, sembra essere letto ancora da Simmel come funzionale a una restitutio in integrum.

Kant. Sedici lezioni berlinesi, a cura di A. Marini e A. Vigorelli, Unicopli, Milano 1986, p. 123. Cfr. F. Valagussa, Kant per Simmel, in G. Simmel, Che cos’è per noi Kant?, Castelvecchi, Roma 2016, pp. 11-19. 38. G. Simmel, Kant. Sechzehn Vorlesungen, gehaltenen an der Berliner Universität, cit., p. 64. Tr. it. p. 123. 39. Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie [1936], Martinus Nijhoff, Den Haag 1976. Tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 2002.

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L’inversione fondazionalistica dovrebbe servire alla riappropriazione del mondo a un livello più alto, ossia sul piano conoscitivo: l’io diviene Gesetzgeber in modo da dominare meglio la terra dell’esperienza. Proprio questa restitutio fallisce: lo stratagemma dell’io, anzi il sacrificio dell’io non basta, non è sufficiente per “conoscere” il mondo. Gli Anni venti del Novecento lamentano, a più voci, come le speranze riposte in questo sacrificio dell’io siano state disattese: il mondo degli oggetti si è chiuso in se stesso e la vittima sacrificale è rimasta esclusa. «Quella ridicola goccia dell’Io – scrive Musil – che si raffredda pian piano, che non vuole cedere il suo fuoco, il minuscolo nucleo rovente»40. Ridicola quella goccia, se ancora pensa di custodire gelosamente la propria fiamma, perché non si accorge che il mondo delle cose ha già messo in conto che il suo sacrificio sarà totale … ma non sarà sufficiente. Le cose hanno già costituito tra loro una neue Ordnung, una neue Sachlichkeit, e a questa vittima sacrificale sarà chiesto semplicemente di non interferire più in un intreccio così perfetto, così ben equilibrato e congegnato. Un servomeccanismo del tutto automatizzato, un mondo di qualità senza l’uomo. «Mit einem verdünnten Ich»41, con un io rarefatto, definitivamente diluito tra le cose: «la vita gira intorno all’uomo e pensa, e danzando intesse per lui le relazioni che egli a fatica, e assai meno caleidoscopiche, affastella quando si serve della ragione»42. Una trentina d’anni più tardi, Adorno tornerà 40. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. I, II, § 40, p. 152. Tr. it. vol. I, p. 170. Cfr. P. Legrenzi, L’uomo senza facoltà, cit., p. 108, dove si mostra quali profondi legami si possano subito instaurare tra il romanzo di Musil e le grandi scuole psicologiche del suo tempo. 41. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. II, III, § 90, p. 409. Tr. it. vol. I, p. 463. 42. Ibidem.

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sul tramonto del primato del soggetto in questi termini: «non si deve più costruire la realtà, perché si dovrebbe costruirla troppo a fondo»43. Tutte variazioni sul tema di un sacrificio – quello dell’io che con la sua ragione vuole sostituire le impalcature su cui si basava una supposta oggettività del mondo – che ha fallito il bersaglio: cielo e terra sono e rimangono non conciliati. In un mondo colmo di formule disumane44, in una civiltà che non è più dominata dallo spirito45, Ulrich «incominciò ad aver paura di quel sinistro non accadere»46. Escluso il “salto dell’esistenza” che introduce il fenomeno nella mondità, nulla più accade: questo lo strano effetto che la possibilità produce attorno al senso della realtà. Qui si radica il Fortwursteln47 asburgico, «wo eins das andere gibt»48: siamo in Cacania, dove una cosa tira l’altra. Ma proprio qui sfioriamo il Regno mil-

43. T.-W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966. Tr. it. Dialettica negativa, a cura di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970, p. 22. 44. Cfr. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. I, I, § 17, p. 66. Tr. it. vol. I, p. 71. Sul progressivo svanire dell’umano cfr. A. Brandalise, Robert Musil als Symptom. Note sul saperci fare degli inermi, in R. Musil, Europa inerme, cit., pp. 113-116. 45. Cfr. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. I, II, § 24, p. 103. Tr. it. vol. I, p. 112. Sul contrasto tra Kultur e Zivilisation cfr. V. Vitiello, Mathesis e Aisthesis. Musil, l’Europa ed altro ancora …, in R. Musil, Europa inerme, cit., pp. 77-78. 46. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. I, I, § 18, p. 73. Tr. it. vol. I, p. 79. Cfr. M. Cacciari, Krisis, cit., p. 138: «nulla può accadere oltre questo silenzio», un silenzio pieno di eventi, ma in cui nulla accade realmente. 47. Cfr. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. I, II, § 54, p. 216. Tr. it. vol. I, p. 243: «il tirare a campare», tipico del vecchio impero austroungarico. 48. Id., Das hilflose Europa, cit., p. 1078. Tr. it. Europa inerme, cit., p. 16.

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lenario – come all’inizio dei Dialoghi sacri – quando «il mio cuore era diventato senza fondo, il mio spirito senza forma, la mia natura senza materia»49: al di sopra dell’Io e al di sopra degli oggetti. Se il mondo è tutto ciò che accade, il puro “che” di Wittgenstein non accade, eppure vi capitano un sacco di fatti, situazioni, episodi.

49. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, cit., vol. III, III, § 11, p. 752. Tr. it. vol. II, p. 852.

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La possibilità dell’impossibile di Caterina Resta

Arriveremo mai a porre una domanda di questo genere: che cos’è l’impossibilità, questo non-potere diverso dalla semplice negazione del potere? M. Blanchot, L’infinito intrattenimento.

1. La possibilità dell’impossibilità: Heidegger La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. M. Heidegger, Essere e tempo.

La possibilità dell’impossibile, il possibile come impossibile: dalle pagine di Sein und Zeit1 – una delle opere “fondative”

1. Come è ormai ampiamente documentato dall’edizione della Gesamtausgabe, Essere e tempo non può essere considerato come un masso erratico, benché proprio a quest’opera si leghi indissolubilmente la notorietà del suo autore. Essa è piuttosto il punto di aggregazione e di confluenza di questioni che Heidegger aveva con insistenza affrontato in quel “laboratorio”, preparatorio all’opera maggiore, che sono i primi corsi universitari tenuti da Heidegger a Friburgo e a Marburgo negli anni Venti. Il suo carattere di «sentiero interrotto» e di opera rimasta incompiuta fa comprendere come essa, più che un “inizio”, segni un punto d’arrivo di una tappa fondamen-

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dell’intero Novecento – ci viene incontro «la figura enigmatica di questo accoppiamento mostruoso»2, di questo «paradosso sorprendente»3, che sfida il pensiero. Capovolgendo l’affermazione di Aristotele, secondo il quale «l’atto [energheia] è anteriore alla potenza [dynameos]» (libro IX della Metafisica, 1049 b, 4), Heidegger pone quasi ad epigrafe del suo capolavoro l’affermazione: «Più in alto della realtà si trova la possibilità [Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit]»4. Non si tratta tuttavia di una mera inversione. Questo capovolgimento implica anche una radicale acquisizione: il possibile non va pensato solo in rapporto alla sua attuazione, al suo trasformarsi in realtà, ma anche – e soprattutto – a partire dall’impossibile, da quello che non è semplicemente il suo opposto, il suo contrario, esterno ad esso, ma la sua interna contraddizione, il suo stesso estremo bordo, meglio ancora: la sua piega, poiché, giunto su questo suo limite interno, il possibile si rovescia e ripiega nel suo contrario. Possibilità del possibile fino al punto di comprendere in sé anche l’estrema possibilità dell’impossibile5.

tale del Denkweg heideggeriano, il quale proseguirà aprendosi altre strade nel tentativo di decostruzione dell’ontologia classica e di pensare l’essere altrimenti. 2. J. Derrida, Apories. Mourir – s’attendre aux «limites de la vérité», Galilée, Paris 1996; tr. it. di G. Berto, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, Bompiani, Milano 1999, p. 61. 3. Ivi, p. 59. 4. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 2, Klostermann, Fran­kfurt a.M. 1977; tr. it. di P. Chiodi, Es­se­re e tempo, Longanesi, Milano 1970, p. 70. 5. Come ha rilevato Vincenzo Vitiello: «Intesa come possibilità dell’impossibile, la possibilità non si rapporta ad altro che a sé. Ma proprio nel rapportarsi a sé, in questa assoluta riflessione su di sé, la possibilità non resta chiusa in sé. Com’è possibilità dell’impossibile, così è possibilità possibilitante. Come sia insieme le due […] questo è l’impensabile: la contraddizione assoluta

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Vedremo come, per Heidegger, la possibilità più «propria» del Dasein, la possibilità «autentica»6, è la possibilità di una radicale impossibilità, che si annuncia nella morte e che fa dell’esistente un essere per la propria morte, ossia un esistente che accede davvero a se stesso solo entrando in rapporto a quella morte che non soltanto alla fine, ma fin dall’inizio e in ogni momento, lo qualifica in quanto ex-sistente. Senza poter approfondire come meriterebbe, nell’economia di questo intervento, la categoria del possibile, che gioca un ruolo centrale e decisivo nelle pagine di Essere e tempo, ci limiteremo a soffermarci su quei passaggi fondamentali attraverso i quali, in pagine a buon diritto divenute ormai celebri, si annuncia l’impossibile, ossia la fine di tutte le possibilità, nella figura incombente della morte7. Che questo incontro risulti che non si può dirimere. Questo è il limite del pensiero che pensa l’una e l’altra […] ma non sa pensare l’“e” che le tiene insieme. […] Ed è la finitezza originaria» (V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 122). 6. È noto come nell’ormai “canonica” traduzione di Pietro Chiodi la dicotomia Eigentlichkeit / Uneigentlichkeit è stata resa – certo imprimendole una coloritura moralistica assente nelle intenzioni di Heidegger – con i termini autentico / inautentico (scelta di traduzione mantenuta anche da Marini: M. Heidegger, Essere e tempo, ed. a cura di A. Marini, Mondadori, Milano 2006). In effetti Eigentlichkeit e Uneigentlichkeit hanno piuttosto a che fare con quella costellazione del «proprio» [Eigen] che emerge come indice costante in tutta l’opera di Heidegger e che troverà il suo approdo nella tematizzazione dell’essere come Er-eignis / Ent-eignis: evento appropriante-dispropriante. Per un’analisi decostruttiva di quella che Derrida ha chiamato «metafisica del proprio», mi permetto di rinviare a C. Resta, Oikonomia. La Legge del proprio, in La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. 7. Per una più ampia trattazione del tema della morte nel complesso del Denkweg heideggeriano ci limitiamo a segnalare: J.M. Demske, Sein, Mensch und Tod. Das Todesproblem bei Martin Heidegger, Alber, Freiburg-München1963 e U.M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976. Di particolare interesse è l’analisi delle

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decisivo non solo nell’architettura dell’opera, ma anche per ciascuna esistenza, dipendendo da esso la sola e unica possibilità di una paradossale «appropriazione» di sé, va ricondotto al fatto che, fin dalle prime pagine di Sein und Zeit, se, per un verso, Heidegger rifiuta ogni definizione essenzialistica del Dasein (l’esser-ci), non volendo riconoscere all’uomo alcuna essenza immutabile e prefissata, d’altro canto – e conseguentemente – individua nella possibilità quel che, certo in modo non-sostanziale, qualifica l’esser-ci come modo di esistenza. Possibilità decisiva, dal momento che si tratterà sempre della propria possibilità di essere o non essere se stesso, di risvegliarsi ed appropriarsi di sé o di smarrirsi nell’improprietà del «Si» [Man]8. Questa possibilità decisiva è anche attestazione della sua libertà. Affermare che «l’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza»9 significa che essa va riconosciuta non in una «semplice presenza» che la immobilizza in una datità, ma in quel movimento per il quale questa “essenza” consiste piuttosto in uno Zu-Sein, in un «aver da essere»10, nell’apertura a possibili modi di essere, la scelta dei quali risulta decisiva per poter pervenire al più proprio essere. Da ciò discendono almeno due conseguenze: in primo luogo, se «l’Esserci è sempre la sua possibilità»11, se questo è il suo statuto ontoloascendenze cristiane del tema della morte nel primo Heidegger, a partire da Paolo, fino ad Agostino e Lutero, rintracciate da V. Surace, Per mortem ad vitam. La meditazione heideggeriana sulla morte nei corsi friburghesi, in «Quaderni di Inschibboleth», n. 2, 2013. Per il nesso tra morte e possibilità dell’impossibile, che stiamo esplorando, risulta imprescindibile il riferimento a J. Derrida, Aporie, cit. In questa prospettiva mi permetto di rinviare a C. Resta, La passione dell’impossibile, cit. (in particolare i saggi: Ospitare la morte e L’impossibile, il non potere). 8. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 32. 9. Ivi, p. 77. 10. Ivi, p. 76. 11. Ivi, p. 77.

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gico, ciò significa anche che la possibilità di essere se stesso lo concerne nel suo chi singolare: la possibilità di essere chi sono è «sempre mia» [Jemeinigkeit], riguarda solo me, perché solo io posso, a partire dalla mia costitutiva apertura al possibile, scegliere la possibilità di essere «propriamente» me stesso o scegliere l’altra possibilità, quella di perdermi, di smarrire me stesso nell’anonimato conformistico e spersonalizzante del «Si». Queste due fondamentali possibilità, quella che Heidegger chiama Eigentlichkeit e quella che viene designata con il termine Uneigentlichkeit, sono entrambe due possibilità di essere che discendono dalla determinazione dell’Esserci come essere la sua possibilità, sua nel senso della possibilità di essere se stesso, di assumere quella ipseità che è propria di ciascun chi. La Jemeinigkeit, l’essere ogni volta mia di questa possibilità, il suo riferirsi unicamente a me, indica, appunto, il riferimento obbligato all’insorgenza di una ipseità singolare. È attraverso la «cura» [Sorge], termine con il quale Heidegger designa il tratto specifico dell’essere del Dasein, che le possibilità di essere trovano i modi della loro attuazione, sia nel «prendersi cura» [Besorgen] in relazione al mondo e agli enti intramondani, che nell’«aver cura» [Fürsorge] degli altri Dasein, con i quali già da sempre co-esistiamo; attraverso queste modalità si attua sempre anche il modo di poter-essere in rapporto a se stesso. Se la possibilità di smarrirsi, di perdere se stessi, caratterizza la quotidianità dell’esistenza, che per lo più assume i tratti di un «Si» neutro e impersonale, che si traduce in una fuga davanti a se stessi e nell’oblio di sé, d’altro canto è anche possibile, secondo Heidegger, risvegliarsi dal torpore di questa dimenticanza, per “ritrovarsi” e assumersi il compito di essere propriamente se stessi. Se l’Esserci è essere-possibile, come pensare la possibilità che qui è in gioco? Non si tratta di una possibilità logica, né di

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pensare il possibile semplicemente come ciò che non è ancora reale. Neppure la possibilità, in quanto esistenziale, va intesa nel senso di un poter-essere [Seinkönnen] che, nella sua indeterminatezza, lascia aperte tutte le possibilità. A partire dalla gettatezza [Geworfenheit] che connota la sua esistenza, il Dasein è sempre situato, ossia insediato in determinate possibilità, il che comporta anche la preclusione di altre; pertanto «l’Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo. L’Esserci è la possibilità dell’esser-libero per il più proprio poter-essere»12. Attraverso la comprensione del proprio aver da essere, cioè delle possibilità che gli sono aperte, l’Esserci può dunque smarrirsi e disconoscersi, oppure può ritrovarsi. Benché già da sempre gettato nella sua quotidianità nella pubblicità del Si e della chiacchiera [Gerede], non è mai preclusa all’Esserci la possibilità di risollevarsi dalla propria deiezione [Verfallen]13. Essa non va intesa come la “caduta” da uno stato originario 12. Ivi, p. 226. 13. Il Verfallen non va inteso come un modo di non essere più nel mondo, bensì, piuttosto, come una specifica modalità, per quanto «inautentica», di essere nel mondo, a causa della quale l’Esserci è completamente «catturato», «irretito» [benommen ist; Chiodi traduce: «immedesimato»; Marini: «è preso»] nel mondo e nelle sue relazioni con gli altri (ivi, p. 273). È interessante notare come Benommenheit è il termine impiegato da Heidegger nel corso del 1929-1930 Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine per definire il modo di essere «povero di mondo» dell’animale, il suo relazionarsi ad esso nella forma del «comportamento» e non della «condotta», che è propria solo dell’uomo: «Noi definiamo lo specifico essere-presso-di-sé dell’animale, che non ha nulla dell’ipseità dell’uomo che ha una condotta in quanto persona, questo coinvolgimento in sé dell’animale in cui sono possibili tutti e ogni comportamento, col termine stordimento [Benommenheit]» (M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt - Endlich­keit - Einsamkeit, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 29/30, Klo­ster­mann, Frankfurt a.M. 1983; tr. it. di P. Co­riando, Concetti fondamentali della meta­fi­si­ca. Mondo - finitezza - solitudine, a cura di C. Angelino, il melan­go­lo, Genova 1992, p. 305).

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di purezza (di appropriatezza), ma come il costitutivo essergettato dell’Esserci nell’ottundimento dell’esistenza quotidiana, alla quale, tuttavia, ha la possibilità di sottrarsi, «ridestandosi» alla possibilità di essere se stesso: quest’ultima non andrebbe dunque intesa come una ri-appropriazione di una proprietà originaria, andata poi perduta, ma come l’individuazione «della più ampia e della più originale fra le possibilità di apertura dell’Esserci stesso»14 che, secondo Heidegger, si rende chiara solo nell’angoscia, quella Stimmung fondamentale chiamata a imprimere una svolta decisiva, una “conversione”: arrestare la fuga davanti a se stessi, schiudendo il varco per la possibilità più propria dell’Esserci. Contrariamente alla paura, che ha sempre un oggetto, l’angoscia spalanca l’abisso dell’indeterminato, in cui sprofondano gli enti intramondani, non più alla mano, inutilizzabili. Ma proprio questo «nulla di utilizzabile»15, che fa precipitare il mondo quotidiano nella più radicale insignificanza, proprio questo «nulla» che l’angoscia spalanca, nel dissolvere tutte le relazioni abituali di senso che lo orientano quotidianamente nel mondo, lungi dal provocare la fine del mondo, è piuttosto l’apertura del mondo in quanto tale e, per questo, anche, apertura, per l’Esserci, della sua possibilità più propria. Sottratto al suo appaesante e tranquillizzante sentirsi «a casa propria» nel mondo, l’Esserci scopre lo spaesamento [Unheimlichkeit] come la propria condizione originaria e fondamentale16, dalla quale per lo più fugge via, 14. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 283. 15. Ivi, p. 291. 16. «L’essere-nel-mondo, tranquillizzato e intimo al mondo, è un modo dello spaesamento dell’Esserci e non il contrario. Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non-sentirsi-a-casa-propria deve essere concepito come il fenomeno più originario» (ivi, p. 294). Per una trattazione più approfondita della Unheimlichkeit heideggeriana, anche in rapporto al perturbante [Das Unheimliche] di Freud, mi permetto di rinviare a C. Resta, L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il Melangolo, Genova 2008.

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occultandola. Ma non soltanto l’angoscia segna una rottura dei legami di senso con gli enti utilizzabili di cui il Dasein si prende cura; essa interrompe anche le relazioni abituali con gli altri di cui ha cura, consegnando il Dasein ad una radicale solitudine: «L’angoscia isola e apre l’Esserci come solus ipse»17. Tuttavia, proprio questa condizione di isolamento, lungi dal produrre una chiusura, favorisce piuttosto quell’apertura al possibile che nella quotidianità del «Si», della «pubblicità» e della «chiacchiera» era andata perduta: «L’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola»18. Poiché l’essere dell’Esserci in questione è sempre il mio proprio essere, l’angoscia, isolando, rinvia il Dasein a quel se stesso smarrito nell’omologante forma anonima del «Si», svincolandolo da ogni legame ovvio e convenzionale con il mondo entro il quale si era appaesato, e lo «libera» per il possibile, per il suo più proprio poter-essere [Seinkönnen]. Ciò può accadere solo verificando la possibilità, da parte dell’Esserci, di cogliere l’esistenza come un tutto: proprio questa possibilità, che costringe a misurarsi con la morte, rappresenta lo scoglio più arduo da superare. Essa si misura, infatti, con il paradosso per il quale solo la morte conferisce all’Esserci quella compiutezza che, finché è in vita, gli manca. Ma, d’altra parte, una volta raggiuntala, semplicemente l’Esser-ci non ci è più. Questo tentativo si scontra con un limite fenomenologicamente insuperabile: è possibile fare «esperienza» della morte? «Il passaggio al non Esser-ci-più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di concepirlo come esperibile. Un’esperienza siffatta è impossibile per ogni Esserci nei confronti di se stesso»19. Neppure è pos-

17. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 292. 18. Ivi, p. 295. 19. Ivi, p. 361.

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sibile fare esperienza della morte, attraverso la morte degli altri. La morte di altri ci è preclusa, allo stesso modo della nostra: «Noi non sperimentiamo mai veramente il morire degli altri; in realtà non facciamo altro che essere loro vicini»20. Così come la Jemeinigkeit indica che l’essere di cui «ne va» per l’Esserci è sempre mio, altrettanto si può dire della morte: la morte, quale estrema possibilità di accedere al nostro più proprio essere, è sempre solo la mia morte. Essa presuppone l’assoluta insostituibilità. Se è possibile morire per un altro, sacrificando per lui la nostra vita, non è possibile morire al posto di un altro, nel senso di sottrarlo per sempre alla sua morte, che prima o poi lo ghermirà21. Essere-per o alla morte, Sein zum Tode, dovrà allora essere inteso altrimenti. La morte non compie, non finisce, non porta a «maturazione» come fosse un frutto, né semplicemente annienta l’Esserci: in quanto apertura al possibile e al non-ancora, l’Esserci è anche sempre la possibilità della sua morte, sicché essa non lo aspetta alla fine della vita, ma incombe su di essa in ogni momento. Il «finire» della morte non è uno Zu-Ende-Sein, ma un Sein zum Ende, non un essere che giunge alla fine, ma un essere per la fine. Se l’esperienza della morte ci è negata, vi è però ancora una possibilità, per l’Esserci, di cogliersi come un tutto e di entrare in rapporto con la morte sempre incombente in ogni attimo della vita: quella di anticiparla, di pre‑correrla

20. Ivi, p. 363. 21. Vale la pena riportare questo importante passaggio, al quale faremo riferimento anche più avanti: «Nessuno può assumersi il morire di un altro. Ognuno può, sì, “morire per un altro”. Ma ciò significa sempre: sacrificarsi per un altro in una determinata cosa. Ma questo morire per… non può mai significare che all’altro sia così sottratta la propria morte. Ogni Esserci deve assumersi in proprio la morte. Nella misura in cui la morte “è”, essa è sempre essenzialmente la mia morte. […] Nel morire si fa chiaro che la morte è costituita ontologicamente dal carattere dell’esser-sempre-mio [Jemeinigkeit] e dall’esistenza» (ivi, p. 364).

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[Verlaufen] finché vive. Proprio in quanto «cura», l’esistenza è in primo luogo «cura» della propria morte, Sein zum Tode, dal momento che questa estrema possibilità, che non ci coglie alla fine della vita, ma che ne scandisce ogni istante, è quella del mio più proprio «io sono». La morte, in quanto sempre mia, è un principium individuationis, nomina quell’ipseità che io stesso più propriamente sono, non a partire dalla definizione cartesiana dell’ego cogito, ma a partire dalla certezza, di ben altra portata, dell’ego sum moribundus22. In quanto possibilità di poter non-esserci-più23, la morte è il suo poter-essere più proprio. Tocchiamo proprio qui quel «paradosso sorprendente»24, denunciato da Derrida, da cui, all’inizio, abbiamo preso le mosse, giacché la morte, in quanto possibilità la più propria, certa, incondizionata, insuperabile 22. «L’enunciato adeguato per cogliere l’esser-ci nel suo essere dovrebbe suonare: sum moribundus, […] nella misura in cui io sono, sono moribundus. Il termine moribundus dona al sum appunto il suo senso» (M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, hrsg. von P. Jaeger, Gesamtausgabe, Bd. 20, Klostermann, Frankfurt a.M. 1979; tr. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla sto­ria del concetto di tempo, il melangolo, Geno­va 1991, p. 393). La citazione è tratta dal corso universitario del 1925, nel quale vi è un’ampia trattazione del tema della morte che anticipa quella di Essere e tempo. 23. «Sein Tod ist die Möglichkeit des Nicht-mehr-dasein-könnens», nella traduzione di Chiodi: «La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poterpiù-esserci» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 379); Marini, più correttamente: «La sua morte è la possibilità del poter-non-‘esserci’-più» (M. Heidegger, Essere e tempo, ed. a cura di A. Marini, cit., p. 709). Così commenta Derrida questo importante passaggio: «Heidegger non dice la possibilità di non poter più essere Dasein, ma la possibilità di poter non esserci più o di non poter più esserci. È certo la possibilità di un potere-non o di un nonpoter-più, ma non è affatto l’impossibilità di un potere. La sfumatura è quasi inconsistente. Ma proprio la sua fragilità mi sembra insieme decisiva e significativa; agli occhi di Heidegger, essa ha sicuramente un ruolo essenziale» (J. Derrida, Aporie, cit., pp. 59-60). 24. J. Derrida, Aporie, cit., p. 59.

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ed estrema è altresì «la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci»25, in quanto fine di tutte le possibilità: per l’Esserci le possibilità sono finite. Essere-per-la-morte, d’altro canto, non significa «realizzare» questa possibilità dandosi la morte. Il suicidio, infatti, nel tentativo di padroneggiare il possibile, semplicemente lo annullerebbe, trasformandolo in reale: «la morte, in quanto possibilità, non offre niente “da realizzare” all’uomo e niente che esso possa essere come realtà attuale»26. Proprio perché sospende ogni realizzazione, il possibile della morte resta “sospeso” in quanto possibile, come una minaccia sempre incombente e, per quanto indeterminata, certa, possibile in ogni istante. Pertanto, «la possibilità deve essere compresa proprio come possibilità […], deve essere sopportata come possibilità»27. Si tratta allora non di un generico pensare alla morte, quanto, piuttosto, di precorrere questa possibilità [Verlaufen in die Möglichkeit], lasciandola essere tale, ossia «la possibilità in quanto impossibilità dell’esistenza in generale [die Möglichkeit als die der Unmöglichkeit der Exsistenz überhaupt]»28. La morte, dunque, «è la possibilità dell’impossibilità [die Möglichkeit der Unmöglichkeit]»29 e rivela al Dasein il suo essere più proprio in quanto esistenza finita. La possibilità di un’esistenza «autentica» implica dunque il precorrimento di questo impossibile pre‑annunciato dalla morte sempre incombente e imminente. Ma che cosa significa essere-per questa estrema possibilità che comporta la fine di tutte le possibilità? Come pensare ad una possibilità come, in quanto, dell’impossibilità? Una possibilità che, nel precorrimento della morte, «conferisce all’ente anticipante la 25. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 379. 26. Ivi, p. 395. 27. Ivi, p. 394. 28. Ivi, p. 395. 29. Ibidem.

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possibilità di assumere [übernehmen (corsivo nostro)] il suo essere più proprio da se stesso e a partire da se stesso»30, una possibilità estrema della sua esistenza che, paradossalmente, nel rivelargli il suo essere più proprio, il suo se stesso, al tempo stesso gli impone «la rinuncia a se stesso [Selbstaufgabe]»31. Si comprende allora fino in fondo perché Heidegger insista tanto sulla Jemeinigkeit, che caratterizza la relazione con la morte: essa è sempre-mia, nessuno può sottrarmela, mettendosi al mio posto, poiché solo a partire da essa è possibile pervenire «alla singolarità assoluta della propria effettiva esistenza»32. L’angoscia, mantenendo aperta la costante e certa, per quanto indeterminata, minaccia della morte incombente, è la Stimmung che Heidegger associa alla comprensione del proprio poter-essere-per-la-morte: «in essa l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità [vor dem Nichts der möglichen Unmöglichkeit] della propria esistenza»33, con ciò, al tempo stesso, offrendo all’Esserci, nel suo isolamento, la possibilità di essere se stesso. La risolutezza [Entschlossenheit] non è che l’aprirsi, nell’angoscia, di questa estrema possibilità dell’impossibile, che il Dasein è chiamato ad assumere se vuole pervenire al suo più proprio poter-essere. Ma in che cosa consisterebbe questa assunzione dell’inassumibile e questa attestazione [Bezeugung] che dovrebbe testimoniare di ciò di cui non è possibile testimoniare? Si tratta di comprendere e di assumere ciò che sfugge ad ogni possibile presa, il debito-

30. Ivi, p. 397. 31. Ibidem. Ciò viene ribadito poche righe più sotto: «L’anticipazione [Das Vorlaufen] dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa [Selbstaufgabe]» (ivi, p. 398). 32. Ivi, 398. 33. Ivi, p. 400.

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colpa [Schuld]34 originario del Dasein, il suo “peccato originale” sul piano non teologico, ma ontologico, sottinteso dal termine “cura”, attraverso il quale Heidegger nomina il particolare modo d’essere dell’Esserci. Alla luce della cura «l’essere dell’Esserci in quanto progetto gettato, significa: il (nullo) esser-fondamento di una nullità [Das (nichtige) Grund-sein einer Nichtgkeit]»35. È questa, dunque, la sua «colpa»: l’Esserci, in quanto gettato, non è all’origine di se stesso; non avendo lui stesso posto il fondamento di sé, l’appartenenza a sé non può configurarsi come una «proprietà» di sé [nicht als es selbst sich zu eigen gegeben hat]36 e perciò l’Esserci non può mai averlo in suo potere [kann dessen nie mächtig werden], non potrà mai risalire a prima di esso: «Esser fondamento vuol dire, quindi, non avere fondamentalmente mai in proprio potere l’essere più proprio [des eigensten Seins von Grund auf nie mächtig sein]»37. Non potendo mai appropriarsi dell’origine di sé, l’Esserci, in quanto «gettato», è costitutivamente in debito, e la «colpa» è appunto «esser fondamento di una nullità»38. L’esistenza poggia dunque sul nulla, su di una Nichtheit, il cui significato ontologico rimane oscuro [dunkel]39, su nessuna «proprietà» originaria cui l’Esserci possa risalire per appropriarsene, ma unicamente sulla possibilità, su di

34. La questione dell’essere-in-debito/colpa viene da Heidegger inserita all’interno della trattazione della coscienza (morale) [Gewissen], in quanto essere richiamati a se stessi. 35. Ivi, p. 429. 36. Ivi, p. 427. 37. Preferisco utilizzare, in questo caso, la traduzione di Marini, più funzionale alle mie scelte interpretative (M. Heidegger, Essere e tempo, ed. a cura di A. Marini, cit., p. 801; tr. it. di P. Chiodi, cit., p. 428). 38. Ivi, p. 429. 39. «Il senso ontologico della nullezza di questa nullità esistenziale resta ancora oscuro» (ibidem).

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un poter-essere chiamato ad assumere e a testimoniare la più propria costitutiva improprietà. L’essere-in-debito è un altro nome della «cura», che mostra come la Unheimlichkeit (il non-a-casa, lo spaesamento, l’Estraneo) sperimentata nell’angoscia, in quanto das Un-zuhause, un non-essere-a-casa originario40, trovi ora conferma ontologica nel contesto di una comprensione del poter-essere propriamente se stessi: «Nello spaesamento [Unheimlichkeit], l’Esserci è in rapporto originario con se stesso»41. Il poter-essere più proprio dell’Esserci, in quanto essere-perla-morte, comporterà, allora, assumere su di sé la possibilità dell’impossibile in un duplice senso: in quanto fine di tutte le possibilità, ma anche in quanto riconoscimento del carattere finito della propria esistenza, in ultima istanza, inappropriabile, poiché sempre in-debito di un fondamento di cui l’Esserci non è all’origine, già da sempre improprio, se lo spaesamento originario precede ogni possibile ritorno a casa presso di sé, per riappropriarsi di sé e così essere se stessi. Il poter-essere più proprio del Dasein, scontrandosi con questa duplice impossibilità, che altro può essere se non l’assunzione di un nonpotere, di un’impotenza originaria – la sua stessa finitezza – a partire dalla quale tutte le ulteriori possibilità traggono la loro irriducibile finitezza? Chi è propriamente l’Esserci, se non colui che è chiamato ad assumersi la propria radicale improprietà? In questa prospettiva, allora, la possibilità di un’esistenza inautentica, impropria, si differenzierebbe da quella autentica, appropriata, per il solo fatto che la prima, fuggendo-via dall’essere-per-la morte, si rifiuta di assumere la «colpa» ontologica della propria finitezza, del proprio debito originario, 40. «Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non-sentirsi-a-casa-propria [Das Un-zuhause] deve essere concepito come il fenomeno più originario [das ursprünglichere Phänomen]» (ivi, p. 294). 41. Ivi, p. 431.

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dell’impossibilità, per l’Esserci, di potersi appropriare di se stesso. L’essere propriamente se stessi e l’essere impropriamente se stessi, autenticità e inautenticità, pur essendo due opposte possibilità, non sarebbero allora che le due facce di una medesima impossibilità, di una medesima inappropriabilità, assunta nell’esistenza autentica come la più propria, e dall’esistenza inautentica semplicemente rimossa, dimenticata, esorcizzata, scacciata e allontanata via da sé, misconosciuta. Se questa sottile, ma fondamentale, distinzione può, nel precorrimento della morte, indicare due distinte possibilità di esistenza, essa non è forse destinata a essere travolta, a naufragare nel momento in cui la morte, pre‑corsa tutta una vita, alla fine sopraggiunge? Si può esistere, vivere propriamente, ma chi mai potrà, in fin dei conti, «essere capace» di morire propriamente [eigentilich sterben] e per ciò avere il privilegio di dirsi «mortale», a differenza di coloro che muoiono impropriamente? L’istante della morte non è precisamente la definitiva cancellazione di questa differenza? In Essere e tempo, com’è noto, Heidegger opera una netta distinzione, attraverso l’impiego di tre termini diversi, tra tre diversi modi di morire42: il Verenden, il semplice cessare di vivere da parte del vivente inteso dal punto di vista meramente biologico; lo Ableben, il lasciare la vita (decedere) da parte dell’Esserci dal punto di vista medico-legale, in quanto irriducibile a un semplice vivente, e lo Sterben, il morire propriamente di un Esserci che è per-la-sua-morte. Ma non vacillano queste distinzioni nell’istante in cui, al di là di ogni possibile anticipazione, la morte semplicemente “viene” ad un esistente che, nella inanticipabilità assoluta di questo evento, non ha più la possibilità e tanto meno il potere o la capacità di poterla accogliere, né tantomeno assumere? E tuttavia, per Heidegger, benché

42. Cfr. ivi, pp. 373-377.

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morire propriamente non si configuri come un “potere” nel senso della padronanza, rimane comunque una possibilità e una «capacità» di cui il Dasein dispone, dalla quale dipende, fino all’ultimo istante di vita, la possibilità e il potere di essere se stesso. Non è di poco conto, allora, almeno dal suo punto di vista, l’accusa che Heidegger rivolge nelle Conferenze di Brema, pronunciate nel 1949, a pochi anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, contro chi si era alacremente dedicato «alla fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio»43 e, annientando milioni di esseri umani, aveva, insieme alla vita, reso loro impossibile anche la possibilità di morire propriamente e, con ciò, di poter essere propriamente se stessi: Centinaia di migliaia muoiono [sterben] in massa. Muoiono [Sterben sie]? Periscono [Sie kommen um]. Sono uccisi. Muoiono [Sterben sie]? Diventano “pezzi di riserva” di una riserva della fabbricazione di cadaveri. Muoiono [Sterben sie]? Sono liquidati con discrezione nei campi di sterminio. E anche senza arrivare a tanto, in questo momento in Cina a milioni cadono in miseria e crepano [verenden] di fame. Morire [Sterben] però significa portare a conclusione [austragen] nella sua essenza la morte. Poter morire [Sterben können] significa essere capaci [vermögen] di tale conclusione [Austrag]. […] Tuttavia, nel mezzo delle innumerevoli morti l’essenza della morte rimane occultata. […] Essere capaci di morte nella sua essenza significa “poter morire” [sterben können]. Soltanto coloro che possono morire sono i mortali [die Sterblichen] nel senso fondamentale della parola. Ovunque si vedono travagli in massa di innumerevoli morti orribilmente non-morte [ungestorben] – eppure l’essenza della morte

43. M. Heidegger, Das Ge-Stell, in Bremer und Freiburger Vorträge, hrsg. von P. Jaeger, Gesamtausgabe, Bd. 79, Klostermann, Frankfurt a.M. 1994; tr. it. di G. Gurisatti, L’impianto, in Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, p. 50.

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149 è occultata all’uomo. L’uomo non è ancora il mortale [Der Mensch ist noch nicht der Sterbliche]44.

Nei campi di sterminio, come altrove, ovunque gli uomini vengono annientati in massa per mano di altri uomini che li riducono in condizioni in-umane, appare impossibile morire propriamente. L’uomo non può pervenire a se stesso e divenire il mortale che è chiamato a essere. Il suo poter-morire gli è impedito, negato. La morte è una non-morte. Non, certo, nel senso dell’immortalità, ma nel senso del verenden, di quel morire puramente biologico che Heidegger, nel 1927, aveva riservato al vivente in generale, escludendo che questo modo di “finire” potesse mai, in alcun modo, riguardare il Dasein: «Dasein verendet nie»45. Lo Sterminio sarebbe allora l’esemplare dimostrazione di come la biopolitica nazista abbia commesso il crimine di tutti più orrendo, quello di privare l’uomo, ridotto a nuda vita biologica, a mero vivente, ad animale cui non si può riconoscere lo statuto di Dasein, non solo della vita, ma della stessa possibilità di morire [sterben] e persino di quella di cessare di vivere [ableben] in quanto uomo. In-umano e perciò neppure «propriamente» morto, non-morto. Nei campi di sterminio si può semplicemente «crepare» [verenden] come un cane46.

44. M. Heidegger, Die Gefahr, in Bremer und Freiburger Vorträge, cit; tr. it. Il pericolo, in Conferenze di Brema e Friburgo, cit., pp. 83-84. 45. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 374. 46. Ben prima della Shoah, Kafka aveva compreso il carattere estraniante e dis-appropriante della morte: un’assurda, quanto oscena e vergognosa, esecuzione sommaria per una colpa che non abbiamo commesso: «Ma sulla gola di K. si erano già poggiate le mani d’uno dei due signori, mentre l’altro gli immergeva il coltello in cuore, facendolo girare due volte dentro la ferita. Con gli occhi esterrefatti egli vide ancora il viso dei due al di sopra del suo, guancia contro guancia, che spiavano la fine. “Come un cane!” mormorò, e gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta» (F. Kafka, Der Prozess, Schmiede, Berlin 1925; tr. it. di A. Spaini, Il processo, Mondadori,

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Per quanto nella forma di un’estrema disumanizzazione, la morte nei campi rivela forse qualcosa che attiene alla morte in quanto tale, alla sua potenza espropriante, all’in‑umano in quanto anch’esso “proprio” dell’uomo47. Benché sembri talvolta avvicinarsi a questo pensiero, Heidegger continua tuttavia a rimarcare il fatto che, nonostante tutto, sia possibile un «essere capaci» di morire, un «poter-morire», in base al quale poter-essere se stessi in quanto mortali. Ma se il poter-essere più proprio coincide con l’assunzione e la testimonianza del proprio essere-per-la- morte, in quanto possibilità dell’impossibile, questa paradossale possibilitàimpossibilità appropriante-dispropriante – come abbiamo tentato di mostrare attraverso e forse anche oltre lo stesso Heidegger – non diverrà, come ha notato Derrida, «la possibilità più impropria e più espropriante, la più inautenticante»48? In questo caso, il poter-non-esser-ci più, lungi dal lasciarsi intendere come un “potere”, risulterebbe in ultima analisi indiscernibile da un non-poter-esserci-più, da un non-potere più potere, nell’impossibilità di esercitare qualunque padronanza, in primo luogo su di sé? Alla luce dell’impossibile, il potermorire, possibilità dell’impossibile, finirebbe con il rovesciarsi nell’impossibilità del possibile.

Milano 1971). La stesura del testo, rimasto incompiuto e pubblicato postumo a cura di Max Brod, risale agli anni 1914-1917. 47. Cfr. M. Heidegger, L’impianto, cit., pp. 60-61: «l’inumano [das Unmenschliche] è pur sempre inumano [unmenschlich]». 48. J. Derrida, Aporie, cit., p. 67.

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2. L’impossibilità della possibilità: Levinas Heidegger chiama la possibilità estrema della morte, possibilità dell’impossibile. Senza voler fare giochi di parole, ho sempre pensato che la possibilità implica un potere umano mentre il morire è inassumibile: è piuttosto «un’impossibilità della possibilità». E. Levinas, Il filosofo e la morte.

Rovesciando la prospettiva heideggeriana della morte come poter-morire, possibilità dell’impossibile, Emmanuel Levinas interroga la morte nella direzione dell’impossibilità del possibile, come non-potere, in un confronto serrato con Heidegger, colui che «ha spinto più lontano il riferimento del pensiero filosofico alla morte»49, in quell’«opera geniale»50, Sein und Zeit, che, agli occhi di Levinas, «resta uno dei libri più grandi della storia della filosofia, anche per coloro che lo rifiutano o lo contestano»51.

49. E. Levinas, Le philosophe et la mort (1982), in Altérité et transcendance, Fata Morgana, Montpellier 1995; tr. it. di S. Regazzoni, Il filosofo e la morte, in Alterità e trascendenza, il nuovo melangolo, Genova 2006, p. 132. 50. E. Levinas, Diachronie et représentation (1985), in Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset & Fasquelle, Paris 1991; tr. it. di E. Baccarini, Diacronia e rappresentazione, in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 209. 51. E. Levinas, L’Autre, Utopie et Justice (1988), in Entre nous, cit.; tr. it. L’Altro, Utopia e Giustizia, in Tra noi, cit., p. 270. In ripetute occasioni, Levinas ha espresso il suo apprezzamento in particolare per «l’ammirevole analisi fenomenologica dell’affettività, proposta in Sein und Zeit, della Befindlichkeit» (E. Levinas, De l’Un à l’Autre. Transcendence et Temps (1983), in Entre nous, cit.; tr. it. Dall’Uno all’Altro. Trascendenza e tempo, in Tra noi, cit., p. 183).

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Non ci sarà possibile, in questa circostanza, mostrare come il tema della morte52, ricorrente in tutta l’opera levinassiana, fin dai suoi esordi, ricopra un ruolo decisivo nel pensiero di Levinas e implichi, oltre al confronto con Heidegger, anche quello, non meno rilevante, con Maurice Blanchot53; ci limiteremo a evidenziare quegli aspetti e quegli sviluppi che, pur partendo dall’analisi heideggeriana, si portano al di là di essa, al di là del

52. Tra i molti riferimenti bibliografici possibili, ci limitiamo a segnalare: J. Bailhache, Le sujet chez Emmanuel Levinas. Fragilité et subjectivité, PUF, Paris 1994; F.P. Ciglia, Morte, in Fenomenologie dell’umano. Sondaggi eccentrici sul pensiero di Levinas, Bulzoni, Roma 1996 e Id., La morte e l’altro, in Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Emmanuel Levinas, CEDAM, Padova 1988. Con particolare attenzione al confronto con Heidegger: J. Rolland, La mort en sa négativité, in Parcours de l’autrement. Lecture d’Emmanuel Lévinas, PUF, Paris 2000 e J.-L. Marion, La substitution et la sollicitude. Comment Levinas reprit Heidegger, in AA. VV., Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, sous la direction de D. Cohen-Levinas et B. Clément, PUF, Paris 2007. Più in generale, di particolare interesse per le questioni che stiamo affrontando R. Calin, Levinas et l’exception du soi, PUF, Paris 2005. 53. In una nota di Totalità e infinito Levinas ricorda come le sue riflessioni sulla morte, sviluppate a partire da Il tempo e l’Altro, «concordano profondamente con le belle analisi di Blanchot», di cui viene citato La Mort possible, in «Critique», n. 66, 1952 (E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dall’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, nota 4, p. 39). In effetti tutta l’opera di Blanchot si muove in un costante confronto con Heidegger e con Levinas a proposito di un pensiero dell’impossibile e del non-poter morire. Ci limitiamo ad alcuni fondamentali rinvii: M. Blanchot, L’Entretien infini, Gallimard, Paris 1969; tr. it. di R. Ferrara, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», Einaudi, Torino 1977, pp. 58-108; Id., Le pas au-delà, Gallimard, Paris 1973; tr. it. di L. Gabellone, Il passo al di là, Marietti, Genova 1989, pp. 74-90; Id., L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it. e cura di F. Sossi, La scrittura del disastro, SE, Milano1990.

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possibile54, in direzione di un pensiero dell’impossibile, che trova nella morte il suo nucleo originario. È infatti fin dalle pagine di Le Temps et l’Autre55, un testo pubblicato nel 1948, che raccoglie quattro conferenze pronunciate tra il 1946 e il 1947 al Collège Philosophique fondato da Jean Wahl, che la morte si annuncia come un tema centrale del pensiero di Levinas, in stretto rapporto con quello dell’alterità e dell’impossibile in quanto non-potere. Discostandosi dall’analisi heideggeriana, per Levinas la morte non è riconducibile al nulla, ma viene riconosciuta come «mistero che non può essere assunto»56, come «eventualità del tutt’altro»57, che mette in relazione con un Fuori assoluto. Pensata come caso estremo del dolore e di una sofferenza che non lascia scampo, che impedisce ogni distanza, la morte è esposizione all’ignoto, che comporta una passività58, da parte del soggetto, 54. Cfr. E. Levinas, Au-delà du possible, in Parole et Silence et autres conférences inédites au Collège philosophique. Œvres 2 (1948-1962), sous la resp. de R. Calin et C. Chalier, Grasset & Fasquelle/IMEC, Paris 2009; tr. it. di S. Facioni, Al di là del possibile, in Parola e Silenzio e altre conferenze inedite al Collège philosophique, ed. it. a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2012. Si tratta dei materiali preparatori di una conferenza tenuta al Collège philosophique il 27.1.1959, che saranno in parte ripresi e rielaborati in Totalità e infinito, in alcune pagine dedicate al tema della morte (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 238-245). 55. E. Levinas, Le Temps et l’Autre (1948), Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F. P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, il melangolo, Genova 1987. 56. Ivi, p. 13. 57. Ibidem. 58. Tra gli interpreti più autorevoli di Levinas, si deve alla sensibilità ermeneutica di Jacques Rolland l’aver particolarmente insistito sul tema della passività, anche attraverso il fondamentale confronto con Blanchot, e sul paradosso levinassiano della formulazione di un soggetto «passivo»: J. Rolland, Il soggetto sfinito, in AA. VV., Filosofia ’92. Alleggerimento come responsabilità, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1993 e Id., Parcours de l’autrement, cit.

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tale da impedirgli ogni possibile assunzione e da non potersi configurare neppure come «esperienza». È questo un punto di assoluta divergenza nei confronti delle celebri pagine dedicate da Heidegger all’essere-per-la-morte, che Levinas interpreta – a torto o a ragione – come caratterizzate da una «virilità suprema»59 e da un coraggio senza cedimenti di fronte all’estrema possibilità, quella di poter-morire, che, scontrandosi con all’assolutamente inconoscibile ed estraneo da cui siamo afferrati, «rende impossibile qualsiasi forma di assunzione di possibilità»60. La possibilità dell’impossibile, pensata da Heidegger come la fine di tutte le possibilità, tradirebbe ancora il suo essere una possibilità e un potere, mentre Levinas intende rovesciare questo assunto, mostrando come l’incontro con l’impossibile comporti anche un “resa”, una passività insormontabile, un non-più-potere. Quasi nascosta in una nota, Levinas annuncia la rilevanza di questa inversione: «La morte in Heidegger non è, come dice J. Wahl, “l’impossibilità della possibilità”, ma “la possibilità dell’impossibilità”. Questa distinzione, che sembra un bizantinismo, ha un’importanza fondamentale»61.

59. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, cit., p. 42. Rispetto a questa, come alle altre numerose divergenze, che Levinas intende rimarcare nei confronti del pensiero Heidegger, talvolta francamente poco condivisibili, non intendiamo entrare nel merito, anche perché ciò richiederebbe un’analisi accurata che qui non è possibile svolgere. È tuttavia nostra convinzione che, al di là dello scarto e della divergenza, soprattutto a proposito della questione della morte e dell’impossibile, Levinas ha l’indubbio merito di sviluppare una linea interpretativa che, a nostro avviso, potrebbe collocarsi, nonostante tutto, all’interno del pensiero heideggeriano, pur forzandolo in una direzione che Heidegger non ha inteso seguire (e ciò, sicuramente, rappresenta un limite non trascurabile del suo pensiero). È quanto stiamo tentando di mostrare in questo nostro contributo. 60. Ibidem. 61. Ivi, pp. 42-43.

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Che questa inversione rivesta per Levinas un’importanza cruciale, lo si deduce facilmente anche dall’insistenza con cui egli, in circostanze diverse, anche a distanza di tempo, torna a ribadirla. La questione è quella del potere e, da essa, dipende anche quella «de-posizione del soggetto sovrano», che è uno dei lasciti a tutt’oggi più fecondi della filosofia di Levinas, non solo sul piano squisitamente teoretico, ma anche per le sue implicazioni etiche e politiche62. Secondo Levinas, per Heidegger, la relazione con la morte è una relazione di potere, e resterebbe tale, pur nel paradosso di una possibilità dell’impossibile; al contrario, si tratterebbe di pensare la relazione con la morte a partire da una passività, da un im‑potere, da un non-poter-più-potere, da un impossibile che non solo mettono fine a ogni possibilità, ma che impediscono anche ogni possibile assunzione. È quanto Levinas ribadisce in numerose occasioni: Heidegger parla a tale proposito di un potere: io posso un potere imminente. Ora, la morte è una possibilità che il Dasein deve assumersi e che è incedibile. Ho qui un potere che è solo mio. (In Heidegger il termine “potere” si riferisce anche alla morte). […] Il potere, che è la modalità secondo la quale l’imminenza riguarda il Dasein, è la possibilità – o l’eventualità – di non essere più qui. […] Questa possibilità estrema, insuperabile, è imminenza del non-essere: la morte è la possibilità dell’impossibilità radicale d’esserci. […] È potere una possibilità segnata dal suo carattere incedibile, esclusivo, insuperabile63.

62. Sulla deposizione del soggetto sovrano e sui suoi risvolti etico-politici si veda l’interessante lavoro di R. Fulco, Essere insieme in un luogo. Etica, Politica, Diritto nel pensiero di Emmanuel Levinas, Mimesis, Milano-Udine 2013. 63. E. Levinas, Dieu, la Mort et le Temps (1975-1976), Grasset & Fasquelle, Paris 1993; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano 1996, p. 87.

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E ancora, contestando il fatto che la passività del morire possa dar luogo a una qualche assunzione o comprensione: «L’essere-per-la-morte o l’essere a morte, è ancora un poter-essere, e la morte, secondo una terminologia significativa, è possibilità dell’impossibile e non affatto istante estremo, sradicato da ogni assunzione, per niente un’impossibilità di potere [corsivo mio]»64. Accentuare l’inafferrabilità della morte e la passività cui è ricondotto il soggetto, per Levinas significa che la morte non solo segna «la fine della virilità e dell’eroismo del soggetto»65, ma anche della sua supposta padronanza, di sé come dell’altro: «La mia sovranità, la mia virilità, il mio eroismo di soggetto non possono essere virilità né eroismo di fronte alla morte»66. Contestando una lunga e tenace tradizione che, indubbiamente, giunge a lambire anche Heidegger, almeno con la sua retorica, la quale, a partire dal Socrate morente, stigmatizza il pianto delle donne, a fronte dell’imperturbabile compostezza del filosofo (maschio), “esercitato” a morire, Levinas insiste, invece, sulla passività e sulla vulnerabilità di un soggetto che, di fronte all’imprevedibile evento della morte, sperimenta – senza che questa esperienza possa essere in alcun modo «assunta» – la propria impotenza, la non padronanza di fronte a un evento che lo destituisce in quanto soggetto sovrano. È proprio la fine della virile sovranità del soggetto quel che l’incombere dell’evento inassumibile e impadroneggiabile della morte annuncia, smentendo che il morire sia ancora la possibilità o il potere di qualcuno: «nell’approssimarsi della morte, l’importante è che ad un certo momento non

64. E. Levinas, De la déficience sans souci au sens nouveau (1976), in De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; tr. it. di G. Zennaro, Sul bisogno senza cura inteso in senso nuovo, in Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 69. 65. E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, cit., p. 43. 66. Ibidem.

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possiamo più potere; ed è proprio per questo che il soggetto perde la sua stessa sovranità di soggetto»67. Poter-morire, per Levinas, non è la possibilità più propria per un Dasein che ha da assumerla e testimoniarla, ma l’impossibilità più impropria ed espropriante per un soggetto esposto, nella sua passività e vulnerabilità, al totalmente altro, ad una potenza misteriosa ed estraniante, che viene da un fuori irriducibile, «la cui esistenza stessa è fatta di alterità»68, senza possibile assunzione, di fronte alla quale non può che arrendersi, non può più potere, neppure quell’estremo potere che è il poter-morire. Tuttavia, una volta saggiato il non senso assoluto e l’assurdo di questa resa senza condizioni, Levinas – senza tuttavia in alcun modo neutralizzare lo «scandalo» della morte – imprime una significativa svolta alla sua argomentazione. Malgrado tutto, infatti, la relazione con la morte può significare ancora qualcosa: l’unico senso che da essa può scaturire è che solo a partire da essa «la relazione con l’altro diventa possibile»69. Se la morte è relazione con un altro [autre], di fronte al quale il soggetto è destinato a soccombere, alienandosi, senza che perciò possa in alcun modo, attraverso di essa, appropriarsi di sé e neppure poterla chiamare «mia», vi è però un altro tipo di alterità, entrando in relazione con la quale, «l’io potrà assumere la morte senza tuttavia assumerla nello stesso tempo come possibilità»70. Il non posso più potere, l’impossibile, non può assumere il volto estraniante e impersonale della morte, ma può accogliere quello di altri [autrui], dell’altro uomo: «L’altro

67. Ivi, p. 45. 68. Ibidem. 69. Ivi, p. 46. 70. Ivi, p. 47.

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“assunto” è altri [autrui]»71, senza che questa «assunzione» si trasformi in sovranità o in un «potere di potere»72. È nella direzione della relazione con quell’autre che è autrui che Levinas svilupperà la sua riflessione sulla morte, come mostrano una serie di saggi73, successivi a Il Tempo e l’Altro, preparatori alle tematiche svolte in Totalità e infinito, nei quali Levinas si sofferma con ossessiva insistenza sulla tentazione di negazione totale dell’altro attraverso l’omicidio. Se, certo, è sempre possibile annientare altri, tuttavia, nel faccia a faccia con altri ciò si rivela impossibile, a causa dell’infinita resistenza etica74 opposta dal suo «Volto», che esprime il comandamen-

71. Ivi, p. 48. 72. Ivi, p. 52. 73. Cfr. in particolare E. Levinas, L’ontologie est-elle fondamentale? (1951), in Entre nous, cit.; tr. it. L’ontologia è fondamentale?, in Tra noi, cit., pp. 3840; Id., Liberté et commandement (1953), Fata Morgana, Montpellier 1994; tr. it. di F. Ciaramelli, Libertà e comando, in E. Lévinas - A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini, Milano 1989, p. 26 e Id., La philosophie et l’idée de l’infini (1957), in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949 e 19672; tr. it. di F. Sossi, La filosofia e l’idea di infinito, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, pp. 198-199. 74. Così Levinas spiega questa impossibilità etica, clamorosamente smentita nei fatti in ogni momento: «Se l’impossibilità di uccidere fosse un’impossibilità reale, se l’alterità di altri fosse solo la resistenza di una forza, la sua alterità mi sarebbe esterna alla stessa stregua di quella della natura che resiste alle mie energie […]. L’impossibilità etica di uccidere è, al tempo stesso, una resistenza a me e una resistenza che non è violenta» (E. Levinas, Libertà e comando, cit., p. 26). Si tratta, insomma, della paradossale resistenza non di una forza, ma di una debolezza, la quale non può che comandare l’impossibile, ossia il non-potere. Si tratta di una «resistenza assoluta», la quale, «è sin da subito un no rispetto ai miei poteri. […] Il che non significa che i miei poteri siano troppo deboli […], ma che io non posso più potere» (E. Levinas, La filosofia e l’idea di infinito, cit., p. 198). Sulla «impossibilità etica» di uccidere, in relazione al potere, si veda la penetrante analisi di J.

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to, fondamentale per la socialità dell’umano, «non uccidere»75. È di fronte a questo imperioso comando, proveniente dalla vulnerabilità più indifesa, che il non-poter morire, l’impossibile della morte, si traduce in un non-poter uccidere l’altro, in un «non posso più potere»: «l’umano si offre soltanto ad una relazione che non è un potere»76. Ad una relazione con l’impossibile. Le brevi, ma intense, pagine di Totalità e infinito dedicate alla morte, «impossibilità di ogni possibilità, scossa di una passività totale»77, pazienza, riprendono, in gran parte, le analisi svolte in Il Tempo e l’Altro, ma è in un’altra direzione che l’impossibile offre la via d’uscita dall’alterità inassumibile della morte [autre], in quella che si volge all’alterità di altri [autrui] e che annuncia «l’impossibilità etica di ucciderlo […], la fine dei poteri»78. Il Volto dell’altro, sottraendosi al possesso e opponendo resistenza alla presa, sfida «il mio potere di potere»79 che, nell’omicidio, tenta vanamente di esercitare una padronanza su ciò che gli sfugge, esibendo come la violenza sia, al

De Greef, Le concept de pouvoir éthique chez Levinas, in «Revue philosophique de Lovain», n. 100, 1970. 75. Sul non potere uccidere il Volto e sulle conseguenze sul piano politico di questo non potere, cfr. J. Butler, Être en relation avec autrui face à face, c’est ne pas pouvoir tuer, in AA. VV., Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, sous la direction de D. Cohen-Levinas et B. Clément, PUF, Paris 2007. 76. E. Levinas, L’ontologia è fondamentale?, cit., p. 40. Come ha rimarcato Ciaramelli, per Levinas si tratta di pensare altrimenti il Soggetto, come vulnerabilità «esposta a quel che si sottrae al potere e alla potenza dell’io, cioè soggetta all’impossibile. […] L’impossibile è appunto l’inassumibilità di questo sconvolgimento del soggetto esposto all’altro» (F. Ciaramelli, Dal soggetto alla soggezione, in «aut aut», n. 209-210, 1985, pp. 122-123). 77. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 241. 78. Ivi, p. 86. 79. Ivi, p. 203.

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fondo, impotente, sebbene non ineffettuale. Ma, d’altra parte, e proprio per questo, «Altri è il solo essere che posso desiderare di uccidere»80. La resistenza etica del Volto, «resistenza di ciò che non ha resistenza»81, attesta dunque l’im‑possibilità – certo puramente etica – di questa tentazione. Ma è soprattutto nelle pagine degli ultimi due corsi della sua breve carriera universitaria, tenuti da Levinas alla Sorbona nell’anno 1975-1976, precisamente in quello intitolato La morte e il tempo82, che l’impossibile della morte emerge con particolare evidenza, attraverso un corpo a corpo ancora più serrato con il grande capolavoro di Heidegger. Senza poter seguire passo dopo passo le minuziose analisi che Levinas dedica all’essere-per-la-morte di Heidegger, né poter segnalare, volta per volta, i punti di convergenza e quelli, assai più marcati, di dissenso e di presa di distanza, ci limitiamo a osservare come Levinas, dopo aver ribadito ancora una volta che la morte non è semplice nulla, ma «dipartita verso l’ignoto»83, enigma, apertura al non senso, al non sapere e al senza-risposta e aver rimarcato come di essa non si possa fare esperienza, implicando un’assoluta passività, indica nella morte d’altri l’unico senso che ne contrasti l’assurdo. Poiché, se davanti al Volto dell’altro io mi sento chiamato ad una responsabilità incedibile per la sua stessa mortalità, la sua morte «mi intacca (affecte) nella mia stessa identità di io responsabile»84, facendomi sentire la colpa del sopravvissuto: «nella colpevolezza del sopravvissuto la morte dell’altro è affar mio»85. Mentre per Heidegger la

80. Ivi, p. 204. 81. Ibidem. 82. Cfr. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit. 83. Ivi, p. 50. 84. Ivi, p. 54. 85. Ivi, p. 82.

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morte è sempre-mia e il Dasein è unicamente preoccupato della propria morte, come la possibilità più propria, che deve assumere e attestare, per Levinas, «la mia morte è la mia parte nella morte d’altri»86; di più: «la morte dell’altro: è questa la morte prima»87. Se la legge dell’impossibile che viene dalla morte depone il soggetto sovrano e gli rivela la sua radicale passività e impotenza, se davanti al Volto dell’altro che mi comanda di non uccidere non posso più potere, la medesima legge ingiunge di fare l’impossibile per l’altro, assumendomi la responsabilità senza possibile misura della sua mortalità, del suo essere vulnerabile e senza difesa, «responsabilità di un mortale per un mortale»88, cui è impossibile sottrarsi – impossibilità anteriore alla possibilità della morte, alla possibilità dell’impossibilità89 – che, in primo luogo, mi impone di non lasciarlo solo davanti alla morte90 e che può giungere all’iper-

86. Ibidem. 87. Ivi, p. 86. 88. Ivi, p. 167. 89. Cfr. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 162. 90. «La morte significa nella concretezza dell’impossibilità di abbandonare l’altro alla sua solitudine. […] Impossibilità di lasciarlo solo davanti al mistero della morte» (E. Levinas, Notes sur le sens (1981), in De Dieu qui vient à l’idée, cit.; tr. it. Note sul senso, in Di Dio che viene all’idea, cit., p. 190). È un tema che ricorre con insistenza; cfr., ad es., E. Levinas, La mauvaise conscience et l’inexorable, in De Dieu qui vient à l’idée, cit.; tr. it. La cattiva coscienza e l’inesorabile, in Di Dio che viene all’idea, cit., pp. 202203: «obbligo di non lasciare l’altro uomo solo in faccia alla morte. Anche se […], all’estremo, il non-lasciar-solo-l’altro-uomo consiste solo, in questo confronto e in questo impotente accostamento, nel rispondere “eccomi” alla supplica che mi interpella». Cfr. anche E. Levinas, Il filosofo e la morte, cit., un’intensa intervista rilasciata da Levinas nel 1982, in cui ripercorre i motivi centrali della sua riflessione sulla morte.

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bole di temere per la sua vita più che per la mia91, fino all’estremo sacrificio di sé, «dono ultimo di morire per altri»92. Solo a partire dall’altro e per l’altro, non si stanca di ripetere Levinas, lo «scandalo» della morte può essere strappato all’assurdo del niente e avere un senso, lasciando intravedere l’impossibile di una possibilità che non è più potere.

91. Anche il motivo del timore per la morte dell’altro, piuttosto che per la propria, ricorre spesso nei testi levinassiani. Si veda ad es.: «Il timore per altri, timore per la morte del prossimo, è il mio timore, ma non è in nulla timore per me» (E. Levinas, La cattiva coscienza e l’inesorabile, cit., p. 203). Questo timore per l’altro, per la sua vulnerabilità che lo espone in ogni istante alla morte, mi riguarda anche nel senso di una preoccupazione per quella violenza che all’altro io stesso posso arrecare: «Timore per tutto ciò che il mio esistere, malgrado la sua innocenza intenzionale, rischia di commettere in termini di violenza e usurpazione» (E. Levinas, Philosophie et transcendance (1989), in Altérité et transcendance, cit.; tr. it. Filosofia e trascendenza, in Alterità e trascendenza, cit., p. 40). 92. E. Levinas, Note sul senso, cit., p. 190. Cfr. anche E. Levinas, «Mourir pour…» (1987), in Entre nous, cit.; tr. it. «Morire per…», in Tra noi, cit.

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Trinità e possibilità di Massimo Donà

Premessa Non ascoltando me, ma ascoltando il Logos, è bene riconoscere che tutto è uno, sentenziava Eraclito, all’alba di quello che sarebbe diventato il nostro Occidente. Dunque, fin dai suoi primi eroici vagiti, l’Occidente lo riconosce: quel che si deve dire, secondo il Logos, non è un prodotto del parlante, non è cioè una sua creazione… bensì qualcosa che può essere affermato solo in virtù di un “ascolto”; dell’ascolto, cioè, di qualcosa che viene a noi, e che a noi spetta dunque solamente decifrare. Il logos viene concepito, sin da subito, come un esercizio di ascolto… esso, insomma, va innanzitutto “ascoltato” e decifrato – il suo messaggio, infatti, è tutt’altro che semplice e facile da decifrarsi. Ci vuole un lungo esercizio, bisogna educarsi ai suoi enigmi. Lo avrebbe ribadito anche Platone. Che non a caso riteneva che ci si potesse dire filosofi solo a sessanta anni di età. Che sia così lo si può comunque capire facilmente; dovrebbe essere facile, infatti, capire che non si tratta di un messaggio facile, rivolto a tutti… questo sì, dovrebbe essere facile capirlo

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– là dove si rifletta sul suo dettato. Esso dice infatti che tutto è uno. Beh, un’affermazione tutt’altro che semplice – le cui implicazioni costituiscono e definiscono una serie di irrisolvibili aporie, con le quali anche Platone avrebbe fatto seriamente i conti – nel modo più esplicito e radicale, nel Parmenide. Infatti, cosa vuol dire che “tutto è uno”? Che i molti sono mera apparenza, ingannevole apparenza che va ‘risolta’ nello sfero parmenideo? Come dire che i molti non sarebbero e solo l’Uno, invece, sarebbe? Una cosa è certa, se le cose stessero in questi termini, diventerebbe impossibile distinguere Eraclito da Parmenide. Era infatti quest’ultimo che diceva che solo l’essere è; che esso è sempre identico a sé, e che, in rapporto al medesimo, i molti sono mera e ingannevole apparenza – che solo gli uomini dalla doppia testa (dikranoi) insistono a tener per veri, confondendo essere e non essere. Oppure ciò significa che, proprio nei distinti, concepiti ognuno nella propria distinzione (e in virtù di tale distinzione), a dirsi è comunque il medesimo? Come se quest’ultimo potesse dirsi come tale, ed essere ciò che è, solo in virtù dei molti che pur esistono, rendendosi capaci di dire il medesimo… “proprio” a partire dalla loro distinzione. Come se la differenza non fosse un semplice inganno, ma la prospettiva a partire dalla quale, solamente, il medesimo potesse dirsi come tale. Il quadro è quanto mai problematico. Sì, perché, anche se i molti non fossero, e si risolvessero in una semplice illusione priva di realtà – in quanto tale, dunque, immediatamente liquidabile –, resterebbe comunque da capire:

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1) come può l’Uno, essere veramente tale senza i molti? dato che quanto meno l’illusione dei molti viene a costituirsi, e che finanche la loro esclusione comporta per l’Uno il doversi dire “privo” dei molti, ossia di una natura sì fantasmatica, ma pur sempre capace di mettere in ombra (almeno, agli occhi dei comuni mortali) la perfetta unità dell’Uno… (al punto da imporci di escluderla dall’orizzonte dell’Uno)… ecco, per questa via, quel che si dovrà riconoscere è che l’Uno, pur essendo privo dei molti, risulterà tale solo in virtù della loro esclusione, e dunque verrà a costituirsi come pura unità solo mostrandosi in grado di vanificare il proprio “altro”, dicendosi cioè assolutamente altro dai molti, e facendosi per ciò stesso immediatamente catturare da ciò che vorrebbe disperatamente tener fuori dalla propria unità 2) come può l’Uno essere detto dai molti, anzi essere veramente detto da essi, senza assegnare ai molti – che, solo, sembrano poterlo dire come Uno – un ruolo essenziale e imprescindibile nel costituirsi della sua misteriosamente perfetta “unità”? Questi sono solo due dei moltissimi problemi con cui ci troveremmo a dover fare i conti là dove si volesse tentare di decifrare l’enigmatica affermazione eraclitea, anzi la misteriosa sentenza che il nostro filosofo dichiara essergli stata suggerita dal logos. Di tale complessità già Platone s’era dimostrato perfettamente consapevole; a mostrarci l’irrisolvibile aporeticità inscritta nel cuore dell’Uno avrebbe dedicato infatti un intero dialogo: il già citato Parmenide. Problema decisivo, questo, per la filosofia in quanto tale; o meglio, per il “conoscere” tout court. In quanto “conoscere” significa sì de-terminare (come sarebbe tornato a spiegarci Kant, dopo Cartesio – ribadendo il ruolo decisivo del distinguere, ossia del disegnare con precisione i contorni vocati a dire la vera determinatezza dell’essente che da sempre cer-

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chiamo disperatamente di conoscere), e dunque dividere, giudicare e tagliare, ma sempre anche, e forse innanzitutto, “unificare”… corrispondentemente ad un fatto inequivocabile e, in quanto tale, vero per chiunque: riconducibile all’evidenza costituita dal fatto che, qualsivoglia sia la molteplicità che ci si proponga di conoscere, si tratterà sempre e comunque di “una” molteplicità. Per questo, “conoscerla” significherà anzitutto capire cosa la costituisca come autentica espressione dell’uno… sì da renderla sempre e comunque “una”. Per quanto la medesima si configuri come un paesaggio fatto di molte e diversissime determinatezze, corrispondenti ad essenti ognuno rigorosamente altro (e dunque diverso) dal proprio altro. Conoscerla significherà cercare di capire cosa renda identiche (in quanto espressioni, tutte, di un medesimo mondo) le determinatezze che, manifestandosi, e dunque distinguendosi l’una dall’altra, rendono sempre manifesto anche il loro appartenere comunque ad un medesimo mondo. Un problema, questo – relativo all’unità e alla differenza di cui sembra fatto l’esistente che da sempre ci proponiamo di conoscere –, che sarebbe tornato al centro dell’attenzione anche in un altro gigante del pensiero come Hegel; e poi ancora in tutto l’idealismo italiano sviluppatosi tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo. Ad ogni modo, tale questione sarebbe rimasta centrale per qualsivoglia teologia degna del proprio nome. Insomma questo è il problema che il Cristianesimo avrebbe cercato di risolvere per il tramite del dogma trinitario. Quasi riconoscendo di non poter fare a meno di trarre le conseguenze di quella che era stata la questione centrale per ogni teologia fondata sull’idea di un Dio creatore.

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D’altronde, ricordiamolo: la teologia, oltre che riflessione filosofica condotta a partire da un testo rivelato, è sempre anche filosofia. Filosofia in sommo grado. Ma soprattutto filosofia consapevole del fatto che, potendo solo l’Uno fungere da ragione dei molti, sarà questo stesso Uno ad averli fatti essere, i molti, e dunque ad averli creati. Come dire che i molti vengono comunque dopo (anche se non in senso temporale!) l’Uno. Perciò il teologo avrebbe sin da subito cercato di capire cosa potesse significare che “l’Uno fa essere i molti”. Che esso fa essere ciò che, nell’Uno, in qualche modo “non-può-già-essere”. E dunque a crearli, i molti; portando all’essere quel che non-è, per parafrasare il Platone del Simposio. Un problema non da poco; sorto a partire dalla presa di coscienza del fatto che, se in verità tutto è uno (ciò che è provato dal semplicissimo fatto che il mondo, comunque, è “uno”, e che ogni molteplicità appare come “una” molteplicità), in ogni caso, quel che ci è dato vedere sono solo i molti. Quelli che, pur dicendo l’Uno, continuano a mostrarci determinatezze ognuna diversa dalle altre, ognuna perfettamente unica e irriducibile. Non a caso, amare una persona non significa mai, per nessuno di noi, amarle tutte – per quanto tutte le persone siano manifestazioni del medesimo mondo. Così come, essere catturati da un quadro di Matisse, da quel certo quadro di Matisse, dà luogo ad un’esperienza sostanzialmente irriducibile a quella che avremmo potuto o potremmo ancora fare in rapporto ad altre, non meno importanti, opere pittoriche. Perciò, quello che si tratta di capire è anzitutto come sia potuto accadere che l’Unità, cui tutti gli essenti rinviano, appaia nei molti (nei molti di cui essa dice appunto l’Unità) come ciò che questi ultimi, per l’appunto, non sono.

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Perché essa sì li “nega”, ma, come negazione (si tenga presente che proprio l’esser loro negazione impedisce, alla medesima, di apparire come uno dei molti), la medesima funge anche da loro vera e propria condizione di possibilità. Una cosa è certa, infatti: qualsivoglia molteplicità appare come tale solo in quanto tenuta insieme da un’unità che non è né un questo né un quello; da un’unità, cioè, che non si vede così come si vedono, invece, i “molti” dalla medesima per l’appunto uni-ficati – o meglio, si vede, ma solo nel riconoscimento del loro (dei molti) esser negati (negati dalla medesima… in quanto unità che, nello stesso tempo, li tiene insieme). Ecco, già qui il pensiero filosofico si scontra con un problema cruciale: che “negazione” sarà mai, infatti, quella che tiene insieme (i molti) e dunque non esclude – come farebbe invece qualsiasi negazione determinata (di quelle che convengono agli enti non in quanto unificati, ma in quanto semplicemente “diversi” l’uno dall’altro)? E come può una negazione far essere senza escludere? Insomma, che tipo di negazione è mai quella disegnata dall’Unità che tutto sembra tenere insieme e armonizzare? Ecco, proprio in rapporto a questa difficilissima domanda, il Cristianesimo doveva risolversi ad elaborare il potentissimo dogma trinitario; una grandissima risposta… che in ogni caso non parla della realtà – se per realtà intendiamo gli essenti molteplici di cui è fatto il mondo –, ma di una semplice “possibilità”… che, però, lungi dall’essere destinata all’atto (come ogni possibilità determinata – di quelle analizzate da Aristotele), vedremo, trasfigura l’atto. Quello che, ad ogni essente, consente appunto di distinguersi. Lo trasfigura riconsegnandolo all’Unità originaria. Quella stessa che, come abbiamo già visto, in senso proprio, non esiste (o meglio, non esiste così come esiste tutto quel che sempre determinatamente esiste).

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1. La “Trinità” come questione centrale della filosofia In genere si è ragionato intorno alla Trinità a partire dalla testimonianza di Gesù. L’ebreo nato a Betlemme che si proclamava sì Figlio di Dio – ma, è bene non dimenticarlo, anche Figlio dell’uomo. È già nei Vangeli, infatti, che, per bocca di Gesù, si allude ad un rapporto tra Padre e Figlio, o, più in generale, tra Dio e uomo (suo figlio, sua creatura, anch’esso) – che, proprio in Gesù Cristo, avrebbe saputo farsi perfetta relazione tra mortale e immortale. Resa possibile, appunto, solo dalla mediazione dello Spirito. Da uno Spirito che dice in primis “relazione”: e che consente al Padre e al Figlio di riconoscersi come Padre e come Figlio. Come ognuno fatto essere dal proprio altro, senza che ciò legittimi il ‘primato’ di questo o quello dei due. Questa, l’unica relazione in grado di farsi autenticamente rivelativa – nel consentirci di penetrare i misteri più intimi di quell’unico Dio di cui alla ragione è dato solo riconoscere che ‘deve’ esserci… ma non come Esso sia. In quanto capace, per dirla con Coda, di “svelarci qualcosa del mistero di Dio”1. Anche in Tommaso, ci dice ancora Coda, “la trattazione delle Persone divine in quanto oggetto della rivelazione che Dio ha fatto di sé, prelude alla conoscenza dell’essenza di Dio pienamente svelata in patria”2; rispetto alla quale quel che la ragione può dire, di Dio, può dirlo “solo in modo negativo, attraverso una sorta di purificazione della ragione che giunge a conoscerlo tamquam ignotum”3.

1. Piero Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011, p. 83. 2. Ivi, pp. 82-83. 3. Ivi, p. 82.

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Ma, eccoci al punto: davvero la ragione può giungere a Dio solo nel senso di doverne riconoscere la perfetta trascendenza? Dovendosi da ultimo affidare alla fede per poterne scorgere il volto, e dirlo “così com’Egli è”. Davvero le cose stanno così? Beh… se questo fosse l’unico esito possibile del discorso su Dio, allora, davvero, il mysterium trinitatis sarebbe qualcosa di assolutamente “inaccessibile” a chiunque non fosse dotato del dono della fede… della fede in un Figlio concepito come dono gratuito che il Padre avrebbe fatto, di se stesso, all’umanità, irrompendo liberamente nella storia. E invece noi pensiamo che quello ‘trinitario’ sia un problema della “filosofia in quanto tale”, a prescindere dalla fede eventualmente testimoniata da chi si proponga di ragionarne. Perciò, quel che vorremmo fare è, per l’appunto, mostrare le ragioni di questo nostro convincimento. Il problema, torniamo a ribadirlo, è sempre quello del rapporto tra l’Uno in quanto Principio e i Molti che, sempre a quel Principio, rinviano come a ciò che, solo, li avrebbe resi possibili. Che i Molti avrebbe cioè reso possibili, ma soprattutto riconoscibili, offrendoli ad un “unico” sguardo; e quindi ad un medesimo atto percettivo – il solo in grado di riconoscere il loro essere più d’uno (ossia, molti). Per quanto, a dire il vero, si possa anche dire il contrario: e cioè che lo stesso Uno non sarebbe né pensabile né riconoscibile come “negazione dei molti”, e dunque della loro differenza, se non fosse originariamente chiamato in causa – come sua negazione – dal realissimo differenziarsi di quel che Esso per l’appunto “non-sarebbe”.

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Certo, la lunga e complessa storia del neoplatonismo aveva posto la questione in termini molto netti: principio può essere solo l’Uno. Non v’è dubbio alcuno, per Plotino, per Porfirio e per gli altri (eccezion fatta, forse, per Damascio?): prima l’Uno, poi i Molti. L’Uno solo è “principio”, e i Molti derivano (per emanazione) da Lui. La subordinazione dei Molti all’Uno viene sancita con la massima perentorietà; lo sforzo dei neoplatonici sarà infatti tutto rivolto a risolvere le aporie connesse ad un Principio che, in quanto destinato a produrre il Molteplice, sarebbe stato difficilissimo continuare a concepire come semplicissimo, ossia, scevro da ogni forma di molteplicità. Neppure Platone era stato così perentorio e radicale; proprio dal Parmenide, infatti, si può evincere che, per il fondatore dell’Accademia, pur essendo vero che tutto è manifestazione di un “Uno” concepito come principio dello stesso essere, è anche vero (nello stesso tempo) che l’Uno in verità è e non è Uno; che l’Uno, cioè, è originariamente anche Molteplice; stante che ogni molteplicità si palesa come originaria manifestazione di qualcosa che non è mai quel che è, e dunque non è mai solo il distinto che dice di essere… ma sempre anzitutto “un” qualcosa – perciò non è mai quel distinto che a tutti sembra di poter riconoscere. Il fatto è che esso non è mai quel che è (ossia quel distinto che, mostrandosi, comunque dice di essere): ma lo stesso che si mostra nel mostrarsi da parte di ogni altro essente. Il fatto è che, in evidente contrasto con la pur mirabile potenza incarnata dalla prospettiva neoplatonica, il Cristianesimo appare molto più vicino a Platone che a Plotino. Il principio non può essere un astratto semplicissimo; ovvero, un’Unità priva dei molti (come una sorta di buio contrapposto alla luce) – ché questo è semplicemente impossibile sostenerlo (per quanto abbiamo, sia pur per brevi cenni, fugaci e assai vaghi, già visto).

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Certo, il Principio di tutto ha da esser uno; ma, se lo si vuole pensare come realmente “uno”, i molti non gli possono mancare; ossia, dei molti esso non potrà mai esser stato privo. Pur senza ritrovarsi mai costretto a rinunciare alla propria assoluta “unità”. Ecco perché il Principio deve anche dire, di sé, di non essere mai stato quel molteplice di cui pur appare custode; ma questo può dirlo, appunto, solo in quanto quel molteplice anche lo dice e lo pone (lo “afferma”) – e proprio nell’atto con cui lo nega. Certo, i Molti, in quanto negati, dovranno essere nell’Uno come distinti e insieme non-distinti dall’Uno medesimo. O meglio, come distinti che, distinguendosi dall’Uno, “negheranno” sub eodem questa stessa distinzione – sì che il distinguersi e il non distinguersi dall’Uno non siano neppure essi, nell’Uno, semplicemente “distinti”. Insomma, il distinguersi dei Molti dall’Uno è certamente presente, nell’Uno, ma, appunto, “in-uno” come sempre anche “negante” se medesimo. Nell’Uno, cioè, non abbiamo affatto quella che Hegel (riferendosi a Schelling) avrebbe ironicamente definito notte in cui tutte le vacche sono nere; quasi che i Molti, nell’Uno, si risolvessero in un’astratta e solamente semplice unità. Secondo quanto un certo concetto di Apocatastasi sembra effettivamente implicare. Il fatto è che il negarsi di ogni distinzione, nell’Uno (anche della distinzione tra il distinguersi e il non distinguersi), non rende affatto quest’ultimo semplicemente contrapposto (in quanto originario rispetto ad una subordinazione originariamente determinante la natura derivata dei molti) ai Molti, e semplicemente “padrone”, per dir così, della loro variegata esistenza – loro Dominus. Ossia, reggitore di quella che altrimenti avrebbe rischiato di costituirsi come anarchica e irregimentabile differenziazione.

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No, altrimenti l’Uno sarebbe già da sempre assoggettato a quella stessa Molteplicità di cui avrebbe voluto per altro verso riconoscersi Dominus; reggitore o Arché. Insomma, se precedesse (anche solo ‘logicamente’) i Molti, l’Uno non riuscirebbe a costituirsi come precedente i Molti. Paradosso radicale. Perciò i Molti devono venire in qualche modo concepiti come consustanziali all’Uno. Ecco un termine chiave; che avrebbe rivestito un ruolo assolutamente ‘centrale’ – e non a caso – nella definizione del simbolo niceno. Ossia, in quel disegno della struttura originaria da cui avrebbe preso il via la grande vicenda della Teologia Trinitaria – sviluppata in forma mirabile da Agostino e poi ulteriormente chiarita ed emendata da Tommaso; ma, come è noto, anche da moltissimi altri.

2. Sul simbolo niceno Il punto è sempre il medesimo: essenziale è non pensare il principio come sic et simpliciter molteplice – altrimenti non solo si contravverrebbe alla natura monoteistica della religione ebraico-cristiana, ma, soprattutto si destinerebbe tale molteplicità a non poter rendere ragione del fatto di costituire, in quanto tale, “un principio”. E poi, cosa farebbe essere tale molteplicità (un) principio? Il fatto è che essa, già in quanto molteplicità, è “una”… perciò, ostinarsi ad affermare che il principio sarebbe costituito dalla “molteplicità”, significa lasciare del tutto irrisolta la determinazione del senso e della ragione di tale unità – o, peggio ancora, significa smentire (sempre che tale molteplicità pos-

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sa davvero farsi astratta molteplicità) il suo stesso costituirsi come principio. Insomma, se il principio fosse semplicemente e astrattamente molteplice, non sarebbe principio. O anche; se all’origine vi fosse il molteplice, verrebbe immediatamente smentita la stessa natura principiale e originaria di questa molteplicità. Se le cose stessero in questi termini, insomma – se fosse davvero così –, non vi sarebbe alcun principio… o meglio la questione del principio rimarrebbe totalmente irrisolta. Perciò il principio non può lasciare fuori di sé il molteplice (ché, costituendosi come altro dalla molteplicità, il principio non riuscirebbe a costituirsi come veramente altro da questa stessa molteplicità… ossia, si ritroverebbe come momento di un “molteplice” costituito appunto dal principio-unico e dalla molteplicità), ma neppure può lasciarsi risolvere in un’astratta molteplicità. Ecco, tutti gli sforzi del Cristianesimo, fin dal suo inizio, sarebbero stati volti trovare una soluzione a tale complessissima questione. Il Concilio di Nicea ebbe un ruolo essenziale a questo proposito; decisivo fu infatti l’utilizzo del termine greco oumousias – che sta appunto a significare “consustanziale”. Cioè: della stessa sostanza. Un concetto elaborato per rispondere ad eresie come quella di Ario: insomma, Gesù, in quanto Figlio, doveva essere della stessa sostanza del Padre. Senza che la divinizzazione del bambino nato a Betlemme comportasse un’impropria moltiplicazione dell’unità divina. Non v’era insomma bisogno di dire che Gesù sarebbe stato solamente uomo, per salvaguardare l’unità di Dio. Certo, il fatto di essere della stessa sostanza del Padre, da parte del Figlio, non poteva autorizzare a pensare il Padre e il

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Figlio come due semplici manifestazioni dell’unico Dio (modalismo); ma neppure poteva autorizzare a pensare che vi fossero due ousiai, ossia due sostanze diverse (di-teismo). Il fatto è che si trattava di comprendere, per dirla sempre con Coda, che “Gesù è Dio come il Padre”4. Che il rapporto tra il Padre e il Figlio non indica cioè una semplice “somiglianza” (omoios), e neppure dà luogo a due divinità. Ma soprattutto, il Figlio non è subordinato al Padre (anche se, come ci ricorda sempre Coda, dopo il concilio di Nicea, sarebbero rimaste non poche difficoltà a questo proposito); così come non è subordinato al Padre – e neppure al Figlio – neppure lo Spirito Santo (la loro relazione). Certo, la vaghezza dei Vangeli, a proposito dello Spirito in quanto persona, avrebbe dato la stura a una serie non indifferente di declinazioni di natura binaria della divinità. Ad ogni modo, è già nel quarto Vangelo che lo Spirito viene affidato ad un’identità che dice distinzione personale – per quanto la cosa sia detta in termini molto più sfumati rispetto a quelli con cui sarebbe stata testimoniata la divinità personale del Figlio. È comunque solo con Atanasio, e soprattutto con Basilio di Cesarea (che scrisse un trattato intitolato: Sullo Spirito Santo), che la questione dello Spirito trova una soluzione finalmente priva di ambiguità. Secondo indicazioni poi riprese da Gregorio di Nazianzo, che, nel Concilio di Costantinopoli, insieme a Gregorio di Nissa, avrebbe finito per ricapitolare la pneumatologia di Basilio. Risolta la questione della divinità del Figlio e dello Spirito, comunque, rimaneva ancora tutto da chiarire il senso del rapporto tra natura umana e natura divina, in Cristo. 4. Ivi, p. 352.

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Ed è proprio a questo proposito che sarebbe emersa la rilevanza dell’ontologia trinitaria, chiamata appunto a rendere ragione di questa complessa, nonché aporetica struttura – vocata anzitutto a mostrare come e in che senso il “principio” potesse rimanere davvero e rigorosamente “uno” – per quanto in se stesso molteplice –; rendendoci edotti del fatto che esso sarebbe stato veramente “uno” solo se trinitariamente concepito. Insomma, Gesù era o non era vero uomo? Detto altrimenti: poteva il Figlio venire tutto risolto e assorbito nel divino (monofisismo)? O Gesù, in quanto uomo, doveva rimanere “altro” dal Logos/ Figlio di Dio (nestorianesimo)? Ad Antiochia si sarebbe preferita questa seconda versione; mentre ad Alessandria venne sviluppata la prima. Il fatto è che, in Gesù, vi sono due nature in una sola persona; a questo proposito, a Calcedonia si sarebbe cercato di mostrare in che senso, rispetto al suo essere insieme vero uomo e vero Dio, Gesù esprimesse un’essenziale vocazione a trascendere la natura umana – senza peraltro ridurre quest’ultima a mera “parvenza” in rapporto ad un’esistenza astrattamente e semplicemente divina. Con i Padri Cappadoci si era insomma cercato di venire a capo di questa complessa struttura ontologica. Di là, però, dalla questione relativa alla quanto mai difficile e intricata traduzione dal greco al latino (il termine Ypostasis, ad esempio, sarebbe diventato persona), vediamo di porre il problema che ormai la Cristianità si trovava costretta ad affrontare in tutta la sua radicalità. E rispetto al quale non ci si sarebbe più potuti tirare indietro, quasi si trattasse di una questione puramente lessicale.

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Il fatto è che pensare il principio come uno e insieme molteplice ci impone di comprendere come possano/debbano compenetrarsi l’orizzonte dell’umano (dominato e regolato appunto dal principio della molteplicità – detto anche principio di non contraddizione) e quello del divino (implicante invece la paradossale trascendenza di un’unità mai presente come uno dei molti, e pur tuttavia neppure concepibile come semplice e astratta unità, priva dei molti, e dunque semplicemente altra dai medesimi). D’altronde, finanche il semplice fatto che ogni essente manifesto palesi il proprio esser insieme uno e molteplice, cioè uno e momento di una molteplicità, nonché il suo costituirsi come originaria unità di un molteplice, e il fatto che ogni molteplicità appaia come il manifestarsi del suo esser ‘una’, e dunque del non esser solamente altri gli uni dagli altri da parte dei suoi momenti costitutivi, ecco… questi semplici fatti dicono che il “principio” di ogni esistenza (che è sempre una e molteplice insieme), reclama l’articolazione di un plesso semantico in ragione del quale, a darsi, sia sempre un’unità in se stessa molteplice. Ché, neppure si dà vera molteplicità se non come originariamente negata dall’unità – la quale, manifestandosi, apparirà appunto come ‘sua’ (di quel molteplice) unità. E solo “un” principio sarebbe stato in grado di farsi ragione dell’essente per quel che esso, in ogni caso, sembra destinato a mostrare, di se medesimo: quello trinitario, per l’appunto. Per questo riteniamo che la filosofia non possa più rapportarsi all’enigma trinitario solo in ragione del suo costituirsi come “mistero” incardinato nel cuore della fede in Gesù – concepito come colui il quale avrebbe avuto il compito redimere l’intera umanità.

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Certo, tale enigma è stato reso operante nella storia da Gesù e dalla vicenda salvifica di cui quest’uomo in carne ed ossa si sarebbe fatto tormentato protagonista; ma il medesimo doveva essere in grado di parlare anche all’intelletto – solo che ne si sapesse rilevare la stra-ordinaria potenza esplicativa. Anche perché, solo nella e dalla Trinità – per dirla con Basilio di Cesarea (o Basilio il Grande) –, si disegnano espressioni concettuali “capaci d’esprimere, al tempo stesso, la distinta identità di ciascuno dei Tre e la loro unità sostanziale”5. Ma soprattutto con Gregorio di Nazianzo, e poi con Gregorio di Nissa, questa vera e propria “struttura originaria” si sarebbe resa capace di fare, del distinguersi dell’unità, il momento “dinamico” della stessa vita intratrinitaria – capace di rendere ragione dell’ineffabilità di un “che cosa” (ti esti) in ogni caso vocato a custodire l’unità. Quella stessa che, in quanto assoluta, non si sarebbe certo lasciata contaminare dai modi connessi ad una successione di relazione che avrebbe fatto, del Figlio, il “generato” e, dello Spirito, colui che procede sempre dal Padre, portando ad unità – per dirla con Maspero – il circolo stesso della Gloria… concepito come vincolo assoluto tra il Padre e il Figlio. Insomma, ci si sarebbe dovuti impegnare a fondo per disegnare una “struttura” che fosse finalmente capace di rendere ragione del semplicissimo fatto che ogni essente è sempre uno e molteplice “senza confusione”. Uno e molteplice da punti di vista sì diversi, ma nello stesso tempo capaci di negare questa stessa loro diversità – stante che, proprio nel costituirsi secondo la propria specifica individualità (diversa da tutte le altre, e dunque unica e assolutamente insostituibile), ogni essente finisce per indicare il medesimo

5. Ivi, p. 365.

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mondo indicato da qualsivoglia altro essente (anch’esso unico e irripetibile nella propria differenza specifica, o meglio nella propria irriducibile identità) – e “non” da un altro punto di vista, di fatto astrattamente diverso da quello costituente la sua differenza specifica. Infatti, è proprio in quanto distinto che esso può dire il medesimo – negando la “differenza” che, sola, avrebbe comunque potuto legittimare il costituirsi di un’identità non destinata a dire un semplicemente altro (e dunque neppure un altro punto di vista) rispetto a quanto indicato dalla sua specificità. Certo, nell’orizzonte alla luce del quale, a lasciarsi riconoscere, è sempre un questo distinto da un quello – nella nostra prospettiva, infatti, anche l’individuazione dell’identità è resa possibile solo dal suo lasciarsi almeno concettualmente distinguere dalla differenza –, dire che il distinto mostra sempre anche il suo non esser distinto (o meglio, il negarsi della sua distinzione, o meglio ancora, della distinzione tout court), e quindi l’identità, significa produrre una contraddizione (ossia qualcosa di astrattamente contrapposto alla non-contraddizione), significa cioè dire l’impossibile. E dunque significa che il farsi testimone dell’identità, da parte del “distinto”, allude a una relazione che la ragione non può determinare… né definire, se non come rinviante ad una trascendenza rispetto a cui il conoscere sembra costretto a riconoscere la propria inguaribile impotenza. Da cui la grande chance offerta da una prospettiva come quella della fede – che, sola, sembra potersi fare carico di qualcosa che la necessità caratterizzante una “ragione” sempre determinante si sarebbe limitata ad espungere in quanto “impossibile”, affidandola all’eventualità di una fede che nulla avrebbe potuto chiedere alla ragione medesima, se non di riconoscere la sua stessa impotenza – riconoscendo cioè di non poter rendere ragione di una contraddizione per essa (per la ragione)

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costitutivamente “impossibile”. E di consegnare all’absurdum della fede il compito di farsene carico; ossia, di farsi carico – del tutto gratuitamente e dunque di là da ogni ragione – di un rinvio certamente ineludibile, ma nello stesso tempo risolutamente “inconcepibile” (anche solo in quanto in-determinabile). Sì, perché, nel molteplice dell’esperienza, ogni essente dice l’Uno e lo mostra (mostrandosi elemento di un’unità) proprio “in quanto distinto” – se è vero che l’unità che il molteplice in ogni caso dice e palesa è sempre l’unità di un “molteplice”. Ma tutto questo implica una radicale contraddizione, che il logos è costretto a rimuovere (in virtù della sua vocazione de-terminante); perché non riconducibile a quel modello determinante in virtù del quale, se fosse stato davvero altro dal Molteplice, l’Uno avrebbe dovuto lasciarsi logicamente de-terminare… così come si determinano, di fatto, tutte le esistenze che, del mondo molteplice, fanno appunto rigorosamente parte. Esiste, cioè – ecco il punto –, la possibilità di concepire un principio che non ci costringa a relegare nell’ambito dell’impossibile (cui si dovrebbe poter accedere solo per fede) il dirsi dallo stesso punto di vista e nello stesso tempo da parte dell’identico e del diverso? Questa, la sfida che l’ontologia trinitaria ha fatto propria; e di cui ogni autentica filosofia dovrebbe farsi carico, di là dalla fede che ognuno di noi può aver avuto in dono da quel principio medesimo.

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3. La svolta agostiniana Dopo le grandi riflessioni del Cristianesimo orientale elaborate dai Padri Cappadoci (di cui abbiamo ricordato solo alcuni tratti), sarebbe esploso, in Occidente, il caso “Agostino”. La cui riflessione, tra il 399 e il 421 dopo Cristo, confluisce nella stesura di un testo, il De Trinitate… destinato far guadagnare al suo autore un ruolo di assoluto primo piano nell’ambito della riflessione trinitaria. Innanzitutto, è bene ricordare che, quasi riprendendo l’impostazione eraclitea, Agostino rileva come sia stato Dio stesso a guidarlo e ad attrarlo a sé durante una ricerca volta a scandagliare anzitutto i misteri dell’anima. Essendosi messo in ascolto (come Eraclito), anche Agostino riesce a riconoscere e affermare l’unità di Dio (tutto è uno, infatti, in quanto espressione della potenza infinita di un unico Principio). Ma riconoscere l’unità del principio significa per il nostro – ecco uno dei motivi della straordinarietà della sua riflessione – riconoscere che, per dire la sua vera unità, è necessario rideterminare anzitutto il linguaggio della “relazione” – ché quella che lui definisce l’inseparabile eguaglianza in Dio di una sola e medesima sostanza non ci autorizza affatto a ritagliare, nel Principio, lo spazio “impersonale” di un’unica sostanza che sarebbe semplicemente distinta dalla distinzione dei tre (del Padre, del Figlio e dello Spirito). Agostino, infatti, per dirla ancora una volta con Coda, “afferma simultaneamente l’unità dell’essenza e la distinzione dei Tre: e quest’ultima con particolare forza, in base all’inoppugnabile testimonium Scripturae”6. Sottolinea giustamente il teologo piemontese, nel suo bellissimo e già citato Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, che qui Agostino ci fa fare i conti con una “negazione”

6. Ivi, p. 378.

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del tutto particolare, che ci impone di spezzare ogni legame con l’Uno al di là di ogni possibile predicazione di alterità evocato dal Parmenide platonico, ma soprattutto elaborato ancor più esplicitamente da Plotino. L’Unità del Dio trinitario non è “al di là” di nulla. Certo, esso è Principio, creatore e generatore, ma non come accade nella relazione padre-figlio propria di questo mondo; ossia, nel mondo molteplice di cui è fatta la nostra esperienza. Dove il generatore (il padre) è sempre “al di là” del figlio; rimanendo comunque un’altra persona, di fatto semplicemente diversa e irriducibile al figlio, concepito anch’egli come esistenza autonoma, ‘tenuta insieme’ al padre solo da un legame di sangue che potrebbe anche convivere con un’assoluta estraneità sentimentale ed esistenziale. Il Padre della Trinità, ci dice infatti Agostino, è lo stesso Dio che è anche il Figlio, benché l’uno “non sia” l’altro. Qui il Vescovo d’Ippona ci sta costringendo o quanto meno stimolando a rideterminare radicalmente il concetto di “negazione”… almeno in relazione al modo in cui il medesimo viene a costituirsi all’interno della paradossale struttura trinitaria. Ché, il fatto di non essere l’altro da parte dell’uno e viceversa non comporta (per il Padre e per il Figlio) il loro costituirsi come due sostanze individuali distinte e autonome (che si escluderebbero reciprocamente, in modo tale che, dove sia l’una, l’altra non possa essere). Perciò abbiamo ritenuto, da qualche tempo a questa parte, di dover cominciare a ragionare intorno a un altro senso della “negazione” (penso anzitutto al nostro volume intitolato “Sulla negazione”) – che proprio nella struttura relazionale inscritta nell’unità del Dio trinitario sembra trovare la propria espressione più radicale.

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D’altro canto, ci sembra che anche in Agostino (qui forse ci discostiamo in parte dalla lettura, peraltro grandiosa, di Coda) la non accidentalità della relazione gli impedisca di tener ferma la semplice non contraddittorietà del principio. Certo, una è la sostanza e diversi sono i modi del suo presentarsi; ma tali modi, come lo stesso Coda riconosce, non sono “accidentali” – in nessun senso. Ma, se non sono accidentali, non sono certo meno sostanziali della sostanza. È pur vero che Agostino precisa che non tutto ciò che si dice, di Dio, si predica in senso sostanziale; qui, insomma, è lui stesso a rendere possibile il fraintendimento. Ad ogni modo, una volta riconosciuta la non accidentalità della relazione, non ci resta che riconoscerne la sostanzialità. Quello che non è accidentale, infatti, non può che essere sostanziale. Anche la “relazione”, dunque, rientra nell’ambio del sostanziale. Perciò l’esser Uno e l’essere Molteplice del Dio trinitario non dicono affatto “unità” e “differenza” secondo diversi rispetti. D’altro canto, tertium non datur tra sostanzialità e accidentalità. Certo, insiste Coda, in Agostino “la distinzione è predicabile di Dio Uno secundum relativum, secondo la relazione”7; dunque, Dio non è semplicemente Sostanza, “o meglio l’Essentia assoluta, l’Essere-Uno che nega in sé ogni alterità e distinzione, appunto perché è Uno; ma è l’Essere-Uno che esprime la sua unità nelle relazioni reciproche di Tre distinti”8. Perciò si distingue in quanto Uno; ossia, manifesta la propria Uni-

7. Ivi, p. 380. 8. Ivi, p. 381.

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tà mostrandola nei Tre che, sia pur distintamente, “lo dicono perfettamente” (sempre lo stesso Dio). Ecco perché la sua sostanzialità è immediatamente molteplice, ossia originariamente “relazionale”. La sua relazionalità, dunque, non accade alla sostanza o sulla sostanza in seconda battuta rispetto alla sua Unità. D’altro canto, lo stesso Coda si chiede cosa possa essere una relazionalità non immediatamente riconducibile né alla sostanzialità né all’accidentalità. Leggiamo le sue parole: “il secundum relativum è forse un tertium quid? Sembra di sì – risponde implicitamente Agostino –, anche se poi è estremamente difficile, e forse addirittura impossibile, dire di che cosa in realtà si tratti”9. Ad ogni modo, Piero Coda sottolinea come sia stato lo stesso Agostino ad ammetterlo: che “se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza estrema dell’umano linguaggio. Certo, si risponde: “tre persone”, ma più per non restare senza dir nulla, che per esprimere quella realtà”. È vero, poi, che Agostino sposta il discorso sull’amore; vedendo proprio in questo dono divino, che riconosce come la realtà più alta possibile, l’esplicazione concreta, esperienziale, più forte ed esplicita, di quello che è il mistero costituito da una molteplicità concepita come espressione della vera unità secondo l’enigma trinitario. Ma la questione che abbiamo appena voluto riepilogare, cercando di render palese quanto meno la sua complessità, rimane da ultimo sostanzialmente irrisolta. Insomma, cosa sia quella molteplicità in Dio, per riuscire a non inficiare in nessun modo la perfezione e la purezza della 9. Ibidem (qui Coda cita il De Trinitate, V, 9).

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Sua unità, rimane tuttora oscuro. Ammesso che non la si riconduca alla sostanzialità caratterizzante l’Unità “del” e “nel” Principio.

4. Trinità come luogo del ‘possibile’ – da Riccardo di San Vittore a Tommaso d’Aquino Fiorito nello stimolante clima dell’abbazia di San Vittore, il pensiero teologico di Riccardo (non a caso passato alla storia con l’appellativo “di San Vittore”) si proponeva di tenere insieme due opposte tendenze come quella dialettica di Abelardo e quella mistica di Bernardo di Chiaravalle. Siamo ormai nel XII secolo, e Riccardo, pur ispirandosi ad Agostino, si propone in modo del tutto esplicito di “ricercare le rationes necessariae che rendono luminoso all’intelletto, per quanto possibile, il mistero trinitario trasmesso dalla fede”10. Il nostro Riccardo, cioè, si rende conto di una cosa fondamentale: del fatto che, a proposito del Dio Uno e Trino, abbondano le autorità, ma non altrettanto le esposizioni di prove… ossia, difettano gli argomenti. Tutto questo lo dice e lo riconosce nel suo De Trinitate (I, V). Coraggioso riconoscimento, va fin da subito rilevato; che giustifica il suo essersi assunto la responsabilità di proseguire nell’indagine… perché non gli bastava più avere a che fare con un “mistero”. Dopo aver cercato di cor-rispondere alla definizione giovannea di Dio come carità, e dopo aver mostrato che, essendo Dio puro amore, avrebbe dovuto esserci, in Lui, una pluralità di “persone”, Riccardo si chiede giustamente: perché le perso-

10. Ivi, p. 402.

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ne devono essere tre e non due? Non ne bastano due – chiosa Coda – affinché Dio sia amore? Certo, rileva il teologo piemontese: “l’intuizione del condilectus è senza dubbio profonda”11. Essendo la prima volta che, dopo lo squarcio aperto da Agostino, viene ripresa la questione dell’intersoggettività. Ma soprattutto, merita di essere sottolineata, secondo il teologo piemontese, la luminosa conclusione di Riccardo. Secondo la quale “è necessario che nella semplicità sovrana dell’essere e l’amare coincidano; per cui, in ognuna delle tre, la propria persona si identifica con il proprio amore. Di conseguenza, il fatto che in un’unica divinità vi siano più persone non ha altro significato che questo: una pluralità possiede una sola e medesima dilezione, quella suprema; anzi, per meglio dire, una pluralità è (questa dilezione), secondo proprietà differenti” (De Trinitate, V, XX, 205). Eccoci, dunque, al punto da noi appena sottolineato, e comunque riconosciuto con straordinaria lucidità già da Riccardo di San Vittore. Se nella semplicità divina l’essere e l’amare coincidono, è evidente che, allo stesso modo, coincideranno in Lui anche l’unità e la molteplicità relazionale – quelle che Agostino avrebbe continuato a concepire invece come distinte (distinguendo ancora, cioè, la sostanzialità dell’essere-Uno dalla relazionalità delle persone, che, certo, non si sarebbero rivelate accidentali… ma non avrebbero saputo dire cosa, nello specifico, impedisse alla relazionalità di dirsi identica alla sostanzialità). Amore dice infatti relazione, intersoggettività, rapporto tra distinti… tra coloro che si amano, appunto. Mentre Unità allude alla semplicità perfetta di quel che, per definizione, “non-èmolteplice”. Ma che, come poi viene specificato sempre da

11. Ivi, p. 403.

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Riccardo, si manifesta come “persona”… che esiste a partire da un’origine incomunicabile. Ogni persona è insomma per lui “un’esistenza incomunicabile della natura divina” (De Trinitate, IV, 22, 175). Identica è insomma la natura dei tre, diversa l’origine. Anche qui, dunque, l’intelligenza di Riccardo si rivela davvero straordinaria e sostenuta da grande lucidità: egli infatti capisce che diversa, nelle persone, è già la loro origine – ma la loro origine non può che rinviare alla stessa unità della natura divina. Che deve dunque farsi già in se stessa diversa, e proprio in quanto perfetta unità; che non manca dei molti, ma li dice come il suo stesso ex-sistere – quello che, facendosi esistente, si costituisce appunto come diverso “a partire da” se medesimo. Dicendo una distinzione che avrebbe dovuto essere già in Dio, ovvero, nella sua perfetta semplicità – in una semplicità che, quindi, sarebbe risultata perfetta proprio facendosi relazione in grado di “unificare distinguendo”… come fa appunto ogni relazione. Ma che, diversamente da ogni altra relazione, avrebbe riconosciuto, nel distinguersi dell’unità, non tanto il suo farsi semplicemente altra da sé (oltre che altra da altri, in quanto persona), quanto piuttosto il suo costituirsi come identità che, solo così, avrebbe potuto rimanere assolutamente identica a sé, o meglio non altra da “altro” (da un altro che essa medesima, dunque, avrebbe sì istituito, ma non tanto a partire da un’identità presupposta ed isolata… a monte di questo stesso distinguersi; quanto piuttosto a partire da se medesima “in quanto negante l’alterità venutasi così ad istituire”). Per questo, a differenza di quanto rilevato da Coda, non possiamo non affermare che la diversità dell’origine deve riguardare proprio la natura di Dio, senza che ciò comporti alcun triteismo.

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Ci si chieda, infatti: cos’altro è l’origine che specificherebbe ognuno dei Tre in modo unico e non comunicabile agli altri due, se non l’identica natura che proprio nei Tre esiste appunto come “negazione” della distinzione da essa medesima (dall’identica natura) fatta essere, e proprio nell’atto stesso di negarla… in quanto identica natura, per l’appunto? Su questa stessa linea speculativa si inscrive poi l’ancora più matura riflessione tomistica; l’Aquinate, infatti, sembra proprio non avere dubbi a questo proposito – dice infatti il grande Scolastico che, nelle Persone divine (ancora una volta, citiamo Piero Coda), “l’identità sussistente coincide con la relazione, l’essere-in-sé coincide con l’essere-per e nell’altro”12. Insomma, egli fa, della relazione non accidentale di Agostino, una vera e propria relatio subsistens. Così – sottolinea appunto il teologo piemontese – Tommaso mostra di aver fatta propria e di aver approfondito metafisicamente la nozione di persona come existentia di Riccardo di San Vittore. Perciò l’Unità divina attiene non solo al piano dell’essere, ma anche a quello della vita delle persone – in quanto unità essenziale e pericoretica. Quasi a ricongiungere idealmente la tradizione orientale e quella occidentale sulla Trinità. A questo proposito Tommaso si rifà a Giovanni Damasceno nel rilevare come la natura divina e quella dell’Amore che è Spirito Santo ci obblighino a riconoscere che “in Dio” l’unità è duplice. L’unità divina, quindi, non è altro dalla “relazione”; pur negando un’alterità che è essa medesima ad aver istituito – anche solo per poter riconoscere il suo stesso negarsi originario. L’alterità tra la propria perfetta unità sostanziale e la vita relazionale di persone che non sopraggiungono né come derivate

12. Ivi, p. 417.

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(che poi non si saprebbe bene come) dall’unità sostanziale, né a partire da qualcosa d’altro rispetto a quest’ultima. Eccolo, il punto centrale che ci consente di riconoscere, nella Trinità, l’unica possibile risposta ad una questione che da sempre sta a cuore alla filosofia, e che non a caso ci ha fatto faticare alquanto nel disperato tentativo di fornire una risposta minimamente convincente. Insomma, quale il principio, o meglio la condizione di possibilità delle cose tutte? Che tutte le cose, cioè, sia in grado di far essere – rendendo possibile il loro costituirsi così come le medesime già da sempre sono… quali diverse “determinatezze” che dicono tutte sempre il medesimo mondo. E lo dicono squadernando una differenza rispetto a cui l’identità non indica mai “un altro”, ma il loro stesso manifestarsi come determinatezze sempre della “medesima” mondità. Ecco, unico possibile principio di questo modo d’essere, che poi è anche il nostro – un modo d’essere di cui l’anima costituisce il vero e proprio archetipo –, è il Dio trinitario. Che crea, o meglio fa essere un mondo che in Dio non è, o, meglio ancora, di cui Dio è originaria negazione, pur essendo stato questo stesso Dio a rendere possibile, nonché realissima, l’alterità del mondo rispetto a Lui. Fermo restando che tale realissima alterità non ci impedisce di riconoscere che, nello stesso tempo, il Dio che tale “alterità” doveva istituire non si sarebbe mai potuto costruire come astrattamente trascendente rispetto alla medesima. Anzi, proprio istituendola come realissima e radicale alterità rispetto a sé (ossia, rendendo possibile la sua reale autonomia rispetto al proprio creatore), avrebbe potuto evitare di farsi astrattamente escludente rispetto alla medesima (così come si rapportano escludendosi, invece, le cose, le une rispetto alle altre – quelle che mai dicono “assoluta differenza”, ma danno luogo piuttosto ad una differenza relativa…

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che pur tuttavia destina ogni cosa ad escludere tutto quel che è diverso da essa). Assoluta può essere infatti solo quella differenza in cui, a dirsi, sia appunto la stessa identità originaria. Che, sola, può distinguersi facendo, dei ‘per essa’ distinguentisi, degli assoluti in grado di palesare la sua stessa assolutezza. Ed istituendo tale relazione di differenza assoluta come essa medesima assoluta, in quanto non istituente l’esser solo parzialmente differenti da parte dei differenti (destinandosi ad un’alterità che, se non sarà mai identica a quella che distingue i ‘per essa’ distinguentisi, non sarà mai neppure assolutamente diversa da quest’ultima). Per questo, secondo Tommaso, la creazione si colloca nel cuore stesso della vita trinitaria – o, come precisa Coda, “nell’interiorità delle relazioni d’amore delle tre Persone”13. Perché solo l’amore, in quanto totale affidamento al proprio altro – non fondato su ragioni determinate (riferibili ad una qualche identità tra gli amanti… che renda ragione del legame che li muove ognuno verso il proprio altro) –, dice un legame in grado di connettere ed unire l’uno all’altro degli “assolutamente diversi”. In virtù del quale si esisterà per l’altro senza che nulla giustifichi e renda in qualche modo ragionevole questo stesso legame. Ecco perché l’essente non può che esser stato fatto essere da tale Principio in forza di un originario atto d’amore come quello che, solo, avrebbe potuto condurre all’essere ciò di cui quello stesso Principio sarebbe rimasto negazione, senza che venisse ad istituirsi, tra il creato e il creatore, una differenza relativa condannata a sancire l’estraneità (in quanto reciprocamente escludentisi) dell’uno rispetto all’altro.

13. Ivi, p. 418.

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Assoluta differenza è infatti quella che tiene insieme Dio e il mondo, e che, solo in quanto “assoluta”, poteva farsi autentica “promessa di salvezza” – in quanto il Dio qui chiamato in causa è un Dio di vero amore. Di quel vero amore che solo degli assolutamente distinti avrebbe potuto tenere insieme. Almeno, agli occhi di chi – come ognuno di noi – non è Dio… in quanto, pur senza sentirci esclusi da quest’ultimo (come ci si sarebbe potuti sentire esclusi da un relativamente altro da noi), riconosciamo comunque, nell’abissale distanza che ci separa dal Principio, l’autentica garanzia di essere da sempre e per sempre momenti e voci della Divinità. La stessa che, solo facendosi abissalmente altra da sé, avrebbe potuto custodire un’identità in grado di non farci fraintendere il concetto di “trascendenza” – insegnandoci soprattutto a non viverlo come una qualsiasi determinazione dell’alterità relativa… di quelle che rendono ogni cosa estranea ad ogni altra. Insomma, è proprio l’esser stati creati ad immagine e somiglianza della forma trinitaria – ossia, il nostro costituirci come radicalizzazione di una distinzione che solo in noi avrebbe potuto sperimentare la morte come assolutamente altro rispetto a una vita… di per sé divina (fermo restando che proprio in quanto figura dell’alterità assoluta, la morte si dà al nostro intelletto sempre determinante… come “impossibile”, e dunque come vero e proprio buco nero della conoscenza) – ad offrire al pensiero una straordinaria chance. Costituita dalla possibilità di sperimentare il medesimo absurdum che già la dinamica intratrinitaria ci invita, per amore, a sperimentare (nella carne del Figlio), con l’obiettivo di portare a compimento nientemeno che il processo della creazione. Dunque, è solo il nostro essere stati posti in essere sul modello della struttura trinitaria (che caratterizza appunto l’originario) ad offrire al pensiero (e quindi anche alla nostra fragile crea-

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turalità) la possibilità di sperimentare un senso realmente inedito della “possibilità”. Sì, perché, proprio in quanto creature di un Dio quintessenzialmente trinitario, così come non siamo l’attualità che ci rende mortali e finiti, allo stesso modo non sappiamo (e mai potremo saperlo) cosa significhi di “diverso”, questo non esser né mortali né finiti, rispetto al nostro consustanziale riconoscerci comunque mortali e finiti. Ma non per una qualche deficienza caratterizzante l’umano. Il fatto è che, sapendolo, finiremmo per fare di quel “non essere” un’altra determinazione dell’attualità, analoga a quella che già siamo… e ci condanneremmo a perdere per sempre (come già era capitato ad Orfeo) l’Euridice costituita dal senso più autentico del nostro non esserla (tale attualità). Sapendolo, infatti, consegneremmo il mistero di quel “non-essere” al banalissimo esserci di un altro. Ossia, non faremmo altro che incrementare le forme della finitezza, impedendoci di riconoscere, nel volto finito che comunque ci costituisce nell’intimo, il segno di un “possibile” tutt’altro che risolvibile in una ennesima de-terminata figura dell’attualità. Che, certo, il nostro conoscere vorrebbe poter afferrare… anche solo per liberarsi dal peso sovrumano di una sfida volta a farci fare esperienza del “possibile” originario (quel non-essere divino che mai si risolve nel semplice esserci di un altro, e comunque, proprio dell’esserci di un altro, costituisce insieme l’intrascendibile negazione) che vive nel fondo del nostro animo, e che costituisce la prova inconfutabile del fatto che Dio vive in noi solo per speculum in aenigmate. E comunque nelle parole di un logos che, lungi dal prendere, afferrare e catturare (e dunque com-prendere), dovrebbe cominciare piuttosto ad “ascoltare”. E imparare a fare epoché… affidando ogni realtà e ogni esistenza (anche le più care) ad una negazione che potrebbe finanche liberarci dall’ossessione

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della comprensione e della significazione – ossia, dal giogo di una vita che rischia sempre di cristallizzarlo, un tale “possibile”. E soprattutto di farcelo concepire e vivere come semplice indicazione di un’altra, certamente diversa… e forse anche “possibile”, ma sicuramente escludente, esistenza.

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Peut-être. Salvezza, non redenzione, del finito di Vincenzo Vitiello

La filosofia sembra dotata di una capacità affatto particolare, quella di negare a se stessa ciò a cui massimamente aspira. Esordisce mettendosi radicalmente in questione: perché filosofare? Ma, come impaurita dal suo stesso domandare, subito si risponde: interrogarsi sulla filosofia è già filosofare1. Piegandosi su se stessa, nello sforzo estremo di porre tutto a partire da sé, se stessa come conseguenza di sé, la domanda filosofica approda al luogo sicuro, al fondamentum inconcussum, che nessuna domanda può mai mettere in dubbio: il fatto del domandare. Chiedere ragione del domandare è, infatti, stare già nella domanda. Per cui sembra sia dato sottrarsi a questa certezza che è di là d’ogni dubbio, se è essa che sostiene ogni dubbio, in un modo soltanto: cessando di domandare. L’asserita superiorità della domanda sulla risposta viene così a cadere, e l’elogio della criticità e problematicità del pensiero si rivela solo un esercizio retorico. Di fatto la domanda resiste all’urto della certezza, solo opponendo a questa una più salda e più sicura, più certa certezza. La certezza di sé del 1. Aristotele, Protreptico, ed. it. a cura di E. Berti, Il Tripode, Napoli 1994, 2.

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domandare. Prendendo atto di ciò, alcuni filosofi del nostro tempo, e non dei minori, han tratto questa conseguenza, che una domanda è sensata se ed in quanto ha, o almeno può avere, risposta. La domanda si giudica dalla risposta. La risposta è de jure “prima” della domanda. Riprendo in questa sede un tentativo più volte tentato2: sottrarre la domanda alla certezza di sé. Per coerenza al tema del Convegno, e in particolare all’enunciato che figura sin nel titolo – «Più in alto della realtà sta la possibilità» – inizio con Heidegger. Da Heidegger.

1 Nella Introduzione nella Metafisica Heidegger riprende la domanda fondamentale nella forma posta da Leibniz: Perché è in generale l’essente e non piuttosto il nulla?3 In questione è l’essente in generale. Quindi anche quell’essente che domanda, anzi la domanda stessa nella sua specifica modalità d’essere. Interrogato è l’interrogare, ma in un modo che non ripete se stesso. Il “perché” del perché il perché interrogante, non è pari al perché interrogato. È un altro “per2. L’ultima in: V. Vitiello, L’Ethos della topologia, Le Lettere, Firenze 2012, “Intermezzo, Dalla critica del sapere all’etica”, pp. 75-94; ma cfr. altresì, Id., Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009, “Conclusione. È – Sono – Sei. Logica e modalità”, pp.133-144. 3. M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (= EM), Niemeyer, Tübingen 1966, p. 1; trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1968, p. 13; G. W. Leibniz, Principes de la Nature et de la Grâce fondés en raison, in Id., Philosophische Schriften, voll. 8, ed. Gerhardt, Berlin 1880-1890, VI, p. 602; tr. it. in Id., Saggi filosofici e lettere, antologia a c. di V. Mathieu, Laterza, Bari 1963, p. 363.

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ché”. Interrogando sull’essente in generale, l’interrogazione si estranea da tutto. Anche da se stesso – in quanto essente. Heidegger dice infatti che la Grund-frage è un “salto”, Sprung4. Il salto si libra nel vuoto. Nel vuoto pur di se stesso. Nulla infatti sappiamo intorno alla stessa Grund-frage, se non che è un “salto”, e cioè un radicale estraniamento da ogni essente, dall’essente come tale. Non c’è più saldo terreno su cui la domanda possa poggiare. O non c’è più terreno affatto? Bisogna esser cauti nel rispondere. Heidegger dice: nel salto, Sprung, si rivela qualcosa come un “fondo”, Grund. Per questo il salto, Sprung, è Ur-spung, origine. Il giuoco di parole, che l’assonanza tra Sprung e Ursprung permette, è pericoloso. Può lasciar intendere che il salto come tale, se non è (come il cogito) il fondamento, su cui tutto riposa, ne è però la rivelazione. Heidegger infatti dice che l’Ursprung si dona – si origina: Sich-den-Grund-er-springt – il fondamento5. Invero si tratta d’altro: il Grund, il “fondo”, che il “salto originario” (Ur-Sprung) rivela, è il “vuoto”, e solo in quanto tale è il luogo d’ogni accadere. Luogo che è lo stesso accadere. Nell’UrSprung si rivela, e in questo senso “sorge” (er-springt), la medesimezza di movimento e spazio del movimento. Questa medesimezza di movimento e spazio, che sottrae allo spazio ogni determinatezza, ogni fissità, ogni stabilità, è il principio della dis-locazione dell’essente in quanto tale. È la Heimatlosigkeit dell’essente che “sente” – “avverte”, avebbe detto Vico – di non “essere-a-casa propria” (Zuhause-sein)6.

4. EM, p. 4 ss; it., p. 17 ss. 5. EM, p. 5; it. 18. 6. M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 197714, p. 188; tr. it. di P. Chiodi, riv. da F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 230.

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Freilich ist es seltsam, die Erde nicht mehr zu bewohnen.7

Heidegger, a partire in particolare dai Beiträge zur Philosophie, ha indicato la medesimezza di spazio e movimento col termine Ereignis. Non possiamo fermarci qui a riflettere – come pur sarebbe necessario – sul termine, la cosa ci porterebbe troppo lontano; ma neppure possiamo passare sotto silenzio il fatto che proprio nei citati Beiträge Heidegger mette in rilievo che ciò che intende con questo termine, e con gli altri ad esso affini (Wesung, Geschehen) è tutt’altro che ciò che Aristotele pensava sotto il titolo di kínesis e metabolè, e che non rientra punto nelle categorie fondamentali della filosofia aristotelica, quali “sostanza” (ousía), “potenza” (dúnamis), “atto” (enérgheia), che tanto profondamente hanno condizionato la tradizione del pensiero occidentale (op. cit., p. 280)8. Ereignis, lo spazio-movimento, è più che il luogo d’accoglienza dell’accadere e del non-accadere, più che l’accoglienza stessa. Dell’Ereignis possiamo dire quel che Jabès dirà dell’“ospitalità”, e cioè che essa è “au-delà”9. Meglio, invero, sarebbe dire “au-deça”, essendo entrambi, l’Ereignis come l’Hospitalité, prima degli uomini e della storia, degli dèi e del Dio al singolare, della natura e della cultura, dell’affermazione e della negazione. Richiamandosi a Platone, Derrida10 ha definito chôra questa “accoglienza” indeterminata, che pure è luogo d’ogni determinazione reale o anche solo possibile. E Platone, in un passaggio famoso, dice di essa che non è coglibile né col pensiero né 7. «Certo è strano non più abitare la terra»: R. M. Rilke, Duineser Elegien, I, Werke, Bde 6, Insel, Frankfurt/M 19822, 2, p. 443. 8. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt/M 1989, p. 280; tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 281. 9. E. Jabès, Le livre de l’Hospitalité, Gallimard, Paris 1991, p. 45 10. Cfr. J. Derrida, Khôra, Galilée, Paris 1993; e Id., “Foi et savoir” in AA. VV. La religion, Seuil, Paris 1996, pp.9-86, spec. pp. 29-32.

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con i sensi, ma solo mediante un nóthos logismós, un pensiero ibrido, più vicino al “sogno” che non al pensiero cosciente (pròs ho oneiropoloûmen blépontes)11. Ma come s’immagina questa accoglienza che è amicizia, philía per tutte le cose e gli essenti, amicizia prima dell’amicizia, se anche dell’odio essa è amica12? Questa “ospitalità” senza confini e limiti e discrimini, meraviglia e terrore per gli umani? Se come il luogo d’ogni luogo, il luogo che dà luogo ad ogni luogo, allora in che e per che si distingue questo nóthos logismós dal mito antico di Gea, la Madre Terra, che tutto partorisce e tutto accoglie in sé, nascita e morte? Mito fatto rivivere nel concetto romantico della Natura, quale appunto venne descritta in una composizione di stile – se non di pugno – goethiano13? E non è questo “pensiero ibrido” l’ultima securitas di un pensare incapace di accettare la sua radicale finitezza, la possibilità che pur la sua finitezza sia finita, e dubbio il suo dubbio, insecura la sua insecuritas? Di un pensare per il quale anche il “naufragar” è “dolce”? Ma, se invece...

2 Se invece nóthos logismós fosse quel pensiero capace davvero di uscire dal circolo del “perché” non certo abbandonando

11. Platone, Timeo, 52b; tr. it., con testo greco a fronte, di G. Reale, Rusconi, Milano 1994. 12. J. Derrida, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994; tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995. 13. J. W. Goethe, Schriften zur Naturwissenschaft, Reclam, Stuttgart 1977, pp. 28-33.

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con atto d’arbitrio il territorio della domanda, ma definendo dall’interno stesso di questo territorio, che è quello in cui da sempre abitiamo, i suoi limiti? Non si tratta di fare à rebours il cammino di Platone, di bruciare i testi di filosofia, semmai davanti alla statua di Socrate, e riprendere a scrivere “tragedie”, e, perché no?, “commedie”, così come era d’uso nella Grecia antica. Non si tratta di tornare a narrare abbandonando il pensiero interrogante. Bisogna pur chiedersi perché – ancora “perché” – il narrare stesso che è cresciuto nel territorio della domanda, è stato sempre un narrare interrogante. E non è certo necessario attendere il romanzo-saggio del Novecento per scoprirlo! Si tratta di interrogare il perché sino al limite. Non ripete il primo “perché?” solo quella domanda sulla domanda che è capace di interrogarsi sul limite dell’interrogare. Allora il narrare cui è costretto per indicare, alludere, per far segno all’altro del pensare interrogante, sarà critico e non ingenuamente immediato. Aperto non solo alla meraviglia dell’essente, ma anche al timore del non-essere. Ma quale domandare giunge al limite del domandare? Quale “salto” è da compiere, o, per esprimerci con maggior cautela, da tentare, per impedire che la certezza della domanda neghi il senso ultimo e primo del domandare? Quel salto che Heidegger ci indica e propone al termine dell’Introduzione di Essere e tempo, ove scrive il suo Grundsatz, la sua proposizione fondamentale, quella che ha segnato il suo cammino, dal primo inizio alla fine, e quindi il suo rapporto con la tradizione del pensiero occidentale: Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit14. Più in alto, più elevata della realtà è la possibilità – suona la pallida, insignificante tra-

14. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., p. 38.

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duzione italiana. Pallida e insignificante, non perché la nostra lingua sia incapace di rendere l’originale tedesco, tra l’altro di estrema semplicità. Ma perché l’originale è esso stesso una traduzione: la traduzione, ma rovesciata, della proposizione che esplicita il fondamento ed il senso della filosofia di Aristotele: próteron enérgheia dunámeos15. Ritradotto nella lingua di Aristotele il testo di Heidegger suona così: próteron dúnamis energhéias16. Quale il senso di questa inversione? Un’esplicita opposizione ad Aristotele ed all’intera tradizione del pensiero occidentale. In vista di che? Della vera comprensione della Grund-frage. Di quella comprensione che non porta alla negazione della domanda. Torniamo di nuovo su Aristotele, per ricordare brevemente come giunge a formulare la sua proposizione fondamentale: [...] sembra che tutto ciò che è in atto era in potenza, ma non tutto ciò che è in potenza passa in atto, sicché la potenza pare esser prima dell’atto. Ma se così fosse, nessun ente sarebbe: si deve ammettere infatti che ciò che può essere non sia. La medesima impossibilità se fossero, come dicono i teologi, gli enti nati dalla Notte, o se fossero, come affermano i fisici, “tutte le cose insieme”. Come potrebbe prodursi movimento senza una causa in atto? La materia, infatti, non si muove da sé, la muove l’arte del costruire, e così non il mestruo né la terra, ma lo sperma ed il seme.17

La priorità dell’atto dà ragione dell’essere dell’essente. Assicura l’essente nel suo fondamento assoluto. Toglie come la me-

15. Cfr. Aristotele, Metafisica (= Met.), IX, 1049b 5, e XII, 1072a 7-9; tr. it., con testo greco a fronte, di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. 16. Cfr. Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 35-48. 17. Met., XII, 1071b 23-31.

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raviglia, lo stupore dell’essere, così il timore del non-essere. Il sole sorge ancora perché ...; il fiore non appare più, perché ...; d’ogni cosa v’è un perché. La Grund-frage è la domanda di chi non sa. L’uomo di scienza non chiede il “perché”, lo ricerca. Sa che c’è, che ci deve essere. La priorità della potenza rimette tutto in questione. Nulla è più assicurato. Non il sorgere del sole, domani; ma neppure il nostro stesso essere presente. La meraviglia dell’essere non è separata dal timore del non-essere, al contrario fa tutt’uno con esso. Ché dove l’atto è prima della potenza, allora la potenza è finalizzata, già da sempre, all’atto. La non attuazione della potenza – dice espressamente Aristotele – è solo un symbebekós, un accidente, che si dà tra l’altro, solo per alcune potenze, quelle razionali, metà lógou18. Normalmente la potenza passa in atto. Ma dove la potenza è prima, allora essere e non-essere sono in perfetto equilibrio. Non basta. Dove la potenza non è orientata ad un atto, ove è potenza di tutto, allora com’è possibilità di essere e di non-essere, così è possibilità di sé e del suo opposto, possibilità dell’impossibilità. “Potenza prima dell’atto” significa: possibilità pura, non legata a niente, neppure a se stessa, non necessitata ad essere possibilità più che impossibilità. “Potenza prima dell’atto” dice: possibilità come possibilità della possibilità. La ripetizione indica che la possibilità è possibile anche in rapporto a sé, anzi primariamente in rapporto a sé. Pertanto la possibilità non “è”, e neppure “nonè”. Il possibile è sottratto all’alternativa dell’essere e del nonessere, è prima dell’alternativa stessa. Il possibile è-possibile. Separare l’“è” di “è-possibile” da “possibile” è l’errore logico in cui cade la comprensione del possibile a partire dal reale. In cui cade la tradizione del pensiero occidentale dominata dal próteron enérgheia dunámeos di Aristotele, per la quale la

18. Met., IX, 1046b 4-15.

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potenza ha una determinata struttura che è solo parzialmente opposta alla struttura della necessità: infatti la potenza aristotelica è la possibilità necessitata ad esser tale: possibilità e non necessità. Chiaro che, se “la potenza è prima dell’atto”, incerto è non solo il futuro, sì anche il presente, e pur il passato. L’ombra della Notte si estende su tutto il Giorno che da essa è sorto. Da essa, non però per, in forza, o in virtù di essa. La Notte è minaccia costante sul tutto. Essa è la totale inseparatezza, l’assoluta indecisione. Vero Dio prima di Dio. Prima della creazione? No, prim’ancora. Prima della decisione del bene dal male19. Warum das Seiende überhaupt und nicht das Nichts?La Grund-frage è la domanda che toglie ogni securitas. Che rende incerto anche il rendere incerto. Finito il finito. Che porta nella parola dell’uomo la contraddizione pura: la contraddizione della contraddizione. La Grund-frage è l’esperienza dell’essere come “tremito”: die Erzitterung des Seyns20. Ha ancora senso parlare di salvezza del finito?

19. «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattino: sesto giorno» Gn, 1.31. Dio ripete il suo giudizio sette volte (v. retro: 1.4, 1.10, 1.12, 1.18, 1.21, 1.25), l’ultima “salva” l’intera creazione, che solo allora è. Il dono dell’essere è sempre “futuro” – anche dell’essere “passato” (infra, § 4). 20. Esperienza caraterizzata da una “doppia” tonalità affettiva di fondo (Grundstimmung), il timore (Schrecken) e l’esaltazione (Begeisterung): cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit., p. 22; tr. it., p. 50: ove “Erzitterung” è reso con “vibrare” accentuando la Begeisterung; ma cfr. anche p. 266, tr. it. p. 268 , ove “vibrazione” rileva la non negatività di “Nichts”.

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3 La salvezza del finito è nell’attesa del tempo. Nell’attesa del futuro che dona tempo, e donando tempo è futuro. E donando tempo dona memoria. Memoria del passato, che è tale, passato, solo nella memoria. Herkunft bleibt stets Zukunft21, l’origine è sempre futuro, non dice che dall’origine si origina sempre futuro; dice che l’origine è anch’essa dono del futuro. La Grund-frage, la domanda che apre alla possibile impossibilità dell’essere in quanto tale, salva il finito dal tempo “oggettivo” della necessaria successione di passato – presente – futuro. Il tempo dono del futuro, che è futuro in quanto dona il tempo in cui viene a collocarsi, salva il finito, in quanto gli serba la memoria. La memoria dell’origine, che è tale solo per il futuro che dona tempo. La successione passato – presente – futuro resta, ma cambia il suo modo d’essere, non più necessario, ma solo possibile. Domani potrebbe non esserci domani22. E questo significa: domani potrebbe non esserci tempo. Potrebbe non esserci mai stato tempo. Herkunft bleibt stets Zukunft implica che anche l’affermazione che Aristotele riprendeva dal tragico Agatone: «di una sola cosa anche un dio è privato, / fare non fatto ciò che è stato fatto»23 – non è “necessaria”. Muore nel tempo il tempo? No, muore per l’assenza di futuro. Per la possibile assenza del futuro che dona tempo e memoria. Che dona presenza. Parousía. La presenza del presente: «il

21. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 19755, p. 96; tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 90. 22. Cfr. V. Vitiello, Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli 1983, V, “Nietzsche e Heidegger: un confronto”, pp. 89-122, spec. pp. 121-122. 23. «mónon gàr autoû kaì theòs sterísketai, / aghéneta poieîn háss’ àn pepragména.»: Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1139b 10-11; tr. it., con testo greco a fronte, di M. Zanatta, voll. 2, BUR, Milano 1986.

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giorno del signore che viene come un ladro nella notte»24. Il nûn kairós, l’“istante opportuno”, che apre alla Hóra, all’orizzonte del tempo. Érchetai hóra kaì nûn estin: viene l’ora ed è adesso25. L’orizzonte del tempo accade nell’“istante”, nell’exaíphnes26, nell’Augenbblick, nel colpo d’occhio, he ripè toû ophtalmoû27, del “presente” che esso, l’orizzonte, la Hóra con-tiene (tiene in sé, insieme con passato e futuro). Heméra kuríou, il giorno del Signore, è questo presente. Questa parousia del presente. Anch’essa sempre solo un’attesa, e una speranza. Fänden auch wir ein reines, verhaltenes, schmales Menschliches, einen unseren Streifen Fruchtlands zwischen Strom und Gestein.28

Fänden: trovassimo... : l’umana, pura, ristretta striscia di terra non è oggetto del trovare, è il trovare stesso, è non il trovare che trova, ma che cerca: fänden, trovassimo. Un ottativo che è speranza solo perché “senso” del pericolo che lo minaccia. Del duplice pericolo: del tempo-non-tempo dell’Uno che nella e per la sua perfezione nega il finito redimendolo dalla sua finitezza; e del tempo disperso, assente, della molteplicità infinita, del fluire che è mero svanire, Verschwinden, e svanire dello svanire, Verschwinden des Verschwindens.

24. «heméra kuríou hos kléptes en nuktì hoútos érchetai»: I Ts, 5.2. 25. Gv, 5.25. 26. Da Platone definito “átopon metaxú”, alla lettera: “frammezzo senza spazio” Platone, Parmenide, 156d 6-7; tr. it., con testo greco a fronte, di F. Ferrari, BUR, Milano 2004. 27. I Co, 15.52. 28. «Trovassimo anche noi qualcosa di umano, puro, contenuto, / ristretto, una striscia di terra feconda / tra fiume e roccia». (R. M. Rilke, Duineser Elegien, II, Werke, cit., 2, p. 448).

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Salvare è serbare. Salvezza del finito dice: serbare, custodire la memoria del duplice pericolo, della roccia parmenidea e del fiume eracliteo, che sempre lo sovrastano. Salvezza senza redenzione pertanto non è salvezza, ma possibilità di salvezza: salvezza sempre solo possibile. Ma soltanto nella possibilità possibile, nella possibilità non necessitata ad essere se stessa, il finito può serbare se stesso: salvarsi. Esser salvo nella insicurezza pur del suo esser-insicuro. Solo il possibile può sopportare il peso della finitezza. Può. Forse: peut-être.

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Indice

Introduzione

p. 9

Determinazione e identità. Dal concetto aristotelico di potenza di Antonio Branca

p. 11

Eidos, fatto, possibilità. Aspetti del rapporto tra scienza e fatticità in Husserl di Francesco Pisano

p. 37

Identità e metamorfosi nella Recherche di Proust. L’unità dell’opera letteraria di Simone Testa

p. 63

Il dono impossibile e l’altro. Derrida e Marion di Giuseppe Pintus

p. 89

L’uomo senza possibilità. L’io rarefatto di Musil di Francesco Valagussa

p. 117

La possibilità dell’impossibile di Caterina Resta

p. 133

Trinità e possibilità di Massimo Donà

p. 163

Peut-être. Salvezza, non redenzione, del finito di Vincenzo Vitiello

p. 195

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 9 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Meraviglia è il “trauma inquietante” da cui ha origine la filosofia: un mondo si dischiude di fronte a noi. Così sorge la riflessione, e insieme la scissione tra quel mondo che provoca meraviglia e chi ne è meravigliato. Un’intrinseca doppiezza che è, al contempo, come un’intima unità: è il medesimo essere a interrogarsi – a interrogare e ad essere interrogato. Si tratta della nostra essenza sottintesa: un sottofondo così tanto naturale e oscuro da passare inosservato. Rispetto a questo, perché rivolgersi alla “possibilità”? Perché piuttosto non alla “realtà”? Perché la possibilità corrisponde a questo rapporto guardando all’origine del rapporto stesso, laddove invece la realtà si limita ad esserlo. Possibilità, forse, sembra alludere a un principio: all’esigenza – ch’è sempre in dubbio, sempre in questione – d’un fondamento.

Con saggi di Antonio Branca, Massimo Donà, Giuseppe Pintus, Francesco Pisano, Caterina Resta, Simone Testa, Francesco Valagussa, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716117 € 9,00 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.